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ALAN FURST L'OMBRA DELLE STELLE (Dark Star, 1991) Voi potete anche non essere interessati alla guerra ma è la guerra a essere interessata a voi. Lev Bronstein, noto come Lev Trockij, giugno 1919
Silenzio a Praga Nel tardo autunno del 1937, sotto il diluvio insistente del Mare del Nord che in quella stagione giunge sempre con l'alba, la nave cargo Nicaea era ancorata al largo della città belga di Ostenda. In lontananza, un rimorchiatore avanzava lentamente sull'onda lunga del porto; il ritmo del suo motore si udiva chiaramente sopra l'acqua, e le sue luci di posizione ambrate erano
due chiazze confuse nel buio. La Nicaea, 6320 tonnellate di stazza lorda, di nazionalità maltese, aveva trascorso i suoi primi trent'anni come piroscafo costiero nel Mediterraneo orientale, trasportando ogni carico immaginabile da Latakia a Famagosta, di nuovo a Iskenderun, giù a Beirut, su a Smirne, poi verso sud a Sidone e a Giaffa: trent'anni di estati roventi e inverni sgocciolanti, commerciando e contrabbandando in proporzioni uguali, di quando in quando arricchendo ma più spesso rovinando una successione di cartelli che ne detenevano la proprietà, mentre veniva distrutta dal sale, dalla ruggine e da una lunga serie di motoristi il cui entusiasmo era molto superiore all'abilità. Ora, durante i suoi ultimi anni di servizio, era stata noleggiata dall'Eksportchleb, il dipartimento sovietico per il commercio del grano, e scricchiolava e gemeva per la sofferenza di essere alla fonda in mari così freddi e nordici. Navigava bassa e reggeva con poca grazia il proprio carico, per la maggior parte frumento dell'Anatolia diretto verso il porto di Odessa sul Mar Nero, una città che non vedeva grano importato da più di un secolo. Trasportava anche altre merci di piccola entità: semi di lino caricati a Istanbul, fichi secchi da Limassol, un bidone di Ammonal (un esplosivo minerario composto da tritolo e polvere di alluminio) in viaggio verso una cellula di sabotatori ad Amburgo, un baule metallico di cianografie per la costruzione di un siluro per un sottomarino italiano abilmente copiate in un centro di ricerca navale di Brindisi, e due passeggeri: un alto ufficiale del Comintern dotato di passaporto olandese intestato a un certo Van Doorn e un corrispondente estero della «Pravda» che viaggiava con il suo vero nome, André Szara. Szara, le mani infilate nelle tasche, i capelli scompigliati dal forte vento di terra, si fermò al riparo di un corridoio e maledisse in silenzio il capitano del rimorchiatore belga che, a giudicare dallo scoppiettio regolare del suo motore, se la stava prendendo comoda con le operazioni di recupero della Nicaea. Conosceva i portuali di quell'angolo del mondo: fumatori di pipa flemmatici e riflessivi che non erano mai lontani dalla cuccuma del caffè e dal giornale della sera. Incrollabili nelle situazioni di crisi, passavano i loro giorni a mettere il resto del mondo al servizio dei loro piaceri. Szara spostò il peso da una gamba all'altra seguendo il rollio della nave, rivolse le spalle al vento e si accese una sigaretta. Si era imbarcato sul mercantile diciannove giorni prima, al Pireo, con il compito di scrivere un articolo sulla «lotta degli scaricatori di porto belgi». Quello era un incarico, ma ne aveva anche un altro. Seduto in una taverna
sui dock mentre la Nicaea era impegnata nelle operazioni di ormeggio, era stato avvicinato dall'Uomo più insignificante del mondo. "Dove li trovavano?" si era chiesto. La Russia segnava gli individui: per la maggior parte li deformava, alcuni li affinava ma, come minimo, ne marchiava a fuoco gli sguardi. Ma non quell'uomo. Sua madre era acqua, suo padre un muro. «Un piccolo favore» aveva detto l'Uomo più insignificante del mondo. «Avrà un compagno di viaggio, in missione per il Comintern. Forse sarà in grado di scoprire dove alloggerà a Ostenda.» «Se posso» aveva risposto Szara. In realtà la parola «se» non poteva essere usata fra loro, ma Szara aveva fatto finta del contrario e l'uomo del NKVD, del GRU o di qualsiasi organizzazione fosse, gli aveva gentilmente concesso il diritto a suggerire che aveva una scelta. Szara, dopotutto, era un giornalista importante. «Sì. Se può» aveva ripetuto. «Ci lasci un biglietto al banco del suo albergo. Per Monsieur Brun.» Szara aveva compitato il nome per sincerarsi di aver capito bene. Per quel giorno, le sfide erano terminate. «Esatto» aveva detto l'uomo. Aveva tutto il tempo per fare il piccolo favore; la Nicaea era stata in navigazione per diciannove giorni, un'eternità di spruzzi d'acqua ghiacciata, di merluzzo sotto sale per cena e delle esalazioni di carbone che fuoriuscivano dal fumaiolo arrugginito mentre la nave si faceva largo a cornate nel mare di ottobre. Aguzzando la vista nel buio verso le luci ondeggianti del rimorchiatore, Szara sentì una gran voglia di qualcosa di dolce, di un po' di zucchero dopo tutto quel sale, di una torta alla crema, di pioggia in una pineta, di un profumo di donna. Era stato, pensò, troppo tempo in mare. Era un ironista, e avvertendo l'eco teatrale della sua frase sorrise in segreto. La mélancolie des paquebots esprimeva meglio il concetto. Aveva letto la definizione in un libro di Flaubert e gli era rimasta impressa; era tutto in quelle quattro parole, la cabina angusta con una lampadina che dondolava appesa a un filo, il tanfo di alghe dei porti, le piogge oblique, una colonna di fumo nero che si levava da un fumaiolo all'orizzonte. La campana della nave diede un rintocco. Le quattro e mezza. Le luci ambrate del rimorchiatore divennero più brillanti. L'uomo del Comintern che si faceva chiamare Van Doorn uscì dalla sua cabina con una valigia di pelle e si affiancò a Szara davanti al parapetto. Era imbacuccato come un bambino vestito per una giornata invernale, sciarpa di lana chiusa con precisione sulla gola, berretto calato sulla fronte,
soprabito abbottonato fino al bavero. «Un'ora, eh? E scenderemo dalla passerella. Lei che ne pensa, André Aronovič?» Van Doorn mostrava come sempre un ironico rispetto per il «famoso giornalista Szara». «Se il capitano di porto non farà difficoltà, sono d'accordo con lei» disse Szara. «Non succederà. Lui è naš.» Il termine significava «nostro, sotto il nostro controllo», e il tono suggeriva che Szara era fortunato ad avere duri come Van Doorn che lo proteggevano nel «mondo reale». «Bene, allora...» disse Szara, riconoscendo una forza superiore. Si dava il caso che Szara sapesse chi era Van Doorn; uno dei suoi amici dell'Ufficio esteri del NKVD glielo aveva indicato con un ghigno di disprezzo durante una serata moscovita. Gli amici di Szara nel NKVD erano, come lui stesso, ebrei polacchi russificati, lettoni, ucraini, tedeschi, individui di ogni provenienza e tipicamente intellettuali. Formavano la sua khvost, termine a metà strada fra cricca e banda. Van Doorn, in realtà Grigorij Khelidze, apparteneva a un gruppo diverso: georgiani, armeni, greci e turchi russificati, una khvost con radici nell'angolo sudorientale dell'impero governato da Berija, Dekanozov e Aleksej Agayan. Era un gruppo più ristretto di quello formato dai polacchi e dagli ucraini, ma aveva probabilmente altrettanto potere. Stalin proveniva da lì; quegli uomini sapevano che cosa gli piaceva e come ragionava. Dalla sagoma del rimorchiatore, un'ombra alta che si stagliava sul bagliore della città attenuato dalla pioggia, provenne una luce segnaletica intermittente. Era un passo avanti. Khelidze si strofinò le mani per riscaldarle. «Non manca molto, ormai» disse allegramente. Scoccò a Szara un sorriso da satiro; fra pochissimo sarebbe stato con la sua «perfetta bamboletta». Sia lodato il cielo per la bamboletta, pensò Szara. Senza di lei, forse non sarebbe mai riuscito a fare il piccolo favore. Khelidze non era una bellezza, un uomo grassoccio sulla quarantina dai capelli chiari sempre spazzolati e impomatati. Le sue mani erano piccole e carnose, e armeggiavano costantemente con un paio di occhiali dalla montatura argentata di cui andava molto fiero. Ciò nonostante, si considerava un seduttore. «La invidio, André Aronovič» aveva detto una sera dopo cena quando erano rimasti soli nel quadrato ufficiali. «Lei frequenta ambienti altolocati. Con il mio lavoro, il massimo in cui posso sperare è la Frau di un delegato di fabbrica, una grossa Inge dalle mani arrossate, e in quel caso tutto quello che si ottiene è
una patata in più e un abbraccio furtivo in cucina. Ah, ma un uomo nella sua posizione... per lei ci sono figlie di professori e mogli di avvocati, quelle magre baldracche in calore che non riescono a togliere le mani di dosso a un giornalista. Non è così?» Szara aveva portato vodka e brandy al festino. Il vasto oceano verde faceva rollare la Nicaea, i cui motori tossivano e brontolavano. Khelidze aveva appoggiato i gomiti sulla tovaglia stinta d'incerata e si era sporto in avanti nell'attesa di sentire ogni dettaglio. E Szara l'aveva accontentato. La sua dialettica, accesa dall'alcol, aveva bruciato e fiammeggiato. Una certa signora a... a Budapest. Orecchini d'oro da zingara, ma lei non era affatto zingara, era un'aristocratica che sfoggiava tweed inglesi e una sciarpa di seta color nuvola annodata al collo. Capelli rosso scuro come l'autunno, zigomi magiari, dita lunghe e delicate. Szara, da buon affabulatore, se l'era presa comoda. Aveva cercato un nome e aveva pescato Magda, reputandolo comune ma non riuscendo a fare di meglio. Magda, allora. Il marito era un tanghero, un ignorante, nye kulturni: un uomo di nessuna cultura che esportava lana. E così Szara si era preso la moglie. Dove? Nelle stalle? Sulla paglia? No, nell'appartamento, un cinq-à-sept affaire a lume di lampada. Il marito era... a caccia di cinghiali. Szara teneva d'occhio il livello del brandy sul tavolo. Più scendeva, più calavano i pantaloni. Ed eccolo, il più delicato dei triangoli, anch'esso rosso scuro come l'autunno. E sottili vene azzurre sotto la pelle lattea. Il divano di seta verde era rovinato. Le orecchie di Khelidze erano scarlatte. In seguito, Szara si era reso conto di aver descritto le sue fantasie private su una particolare segretaria che a volte incontrava al ministero delle Poste e Telegrafi jugoslavo. Khelidze era ubriaco. Aveva pulito gli occhiali con il fazzoletto, gli occhi umidi e vaghi. Ebbene sì, aveva detto, uno a volte immaginava. Per quanto lo riguardava, be', era tutta una questione di gusti, giusto? In via confidenziale, a Ostenda aveva una «perfetta bamboletta» che abitava all'Hotel Groenendaal, nella strada omonima. «Una piccoletta grassottella. La vestono da bambina, con un fiocco e un vestitino della festa di raso bianco. Mio Dio, André Aronovič, come ci diamo dentro! È una tale attrice! Fa la boccuccia, mette il broncio, agita i ricci, chiede latte e biscotti. Ma non li può avere. No, assolutamente no! Perché prima deve fare una cosetta. Oh, no, geme. Oh, sì.» Khelidze si era abbandonato sulla sedia, si era rimesso gli occhiali e aveva sospirato. «Una meraviglia» aveva detto. «È capace di succhiarti via dieci anni di vita.»
Quando erano andati a letto, cantando e reggendosi a vicenda lungo il corridoio che rollava insieme al resto della nave, la superficie scura del mare cominciava a essere tinta di grigio dall'alba. L'albergo di Szara a Ostenda era tutto un fiore: sulla carta da parati, grandi rose centifoglie su uno sfondo scuro; sul copriletto, una giungla di rampicanti e gerani; e nel parco sotto la sua finestra aster congelati viola scuro e rosa chiaro. E si chiamava Hotel Blommen. "Ignorate questa luce severa, nordica, fiamminga, qui siamo pieni di fiori." Davanti alla finestra, Szara ascoltava le sirene da nebbia del porto e il fruscio delle foglie secche mosse dal vento nel parco deserto. Ripiegò il biglietto e passò l'indice e il pollice sulla piega: M. Van Doorn si recherà all'Hotel Groenendaal Lo infilò in una busta, che sigillò umettandola con la lingua, e scrisse M. Brun sul davanti. Non sapeva che cosa significasse, perché si chiedesse a un giornalista di seguire i movimenti di un membro del Comintern. Ma c'era una ragione, una singola ragione che negli ultimi tempi spiegava qualsiasi cosa potesse essere spiegata: la purga si era arrestata con uno scossone nel '36, e adesso ne era cominciata un'altra. La prima aveva eliminato i politici, l'opposizione di Stalin, e non pochi giornalisti. Questa, si diceva, stava coinvolgendo gli stessi servizi segreti. Szara, a cominciare dal 1934, aveva imparato a conviverci: stava attento a cosa scriveva, a cosa diceva, a chi frequentava. Non ancora a ciò che pensava: "non ancora" si ripeteva di quando in quando, come se ci fosse bisogno di dirlo. Portò il biglietto al pianterreno e lo consegnò al vecchio dietro il banco. I colpi alla porta furono discreti, due con una nocca sola. Szara si era addormentato ancora vestito sopra il copriletto. Si drizzò a sedere e si staccò la camicia fradicia dalla schiena. Fuori dalla finestra l'alba era grigia, e la nebbia aleggiava fra i rami degli alberi. Controllò l'ora: le sei passate da poco. I colpetti educati si ripeterono e Szara sentì accelerare il cuore nel petto. Qualcuno che bussava alla porta significava troppo; a Mosca non lo facevano più, prima telefonavano. «Sì, un attimo» disse. In qualche angolo della sua coscienza, una vocina pressante gli suggeriva: "esci dalla finestra". Prese fiato, si alzò barcollando e aprì la porta. Era il vecchio dell'albergo, con un caffè e un giornale. Aveva lasciato detto di essere svegliato? No. «Buongiorno, buongiorno» disse il vecchio in tono caustico. Non lo era mai, in realtà, ma bisognava fingere di sì. «Il suo amico è stato così gentile
da lasciarle il giornale» soggiunse posandolo ai piedi del letto. Szara annaspò alla ricerca di spiccioli e diede qualcosa al vecchio. Dracme, pensava. Aveva acquistato dei franchi belgi ad Atene; dov'erano finiti? Ma il vecchio sembrava soddisfatto; lo ringraziò e se ne andò. Il caffè era più freddo di quanto Szara gradisse, il latte bollito un po' acidulo, ma ne fu comunque grato. La prima pagina del giornale era dedicata a una sommossa antiebraica esplosa a Danzica, con una foto di nazisti urlanti in camicia nera. In Spagna il governo repubblicano, incalzato dalle colonne di Franco, si era ritirato da Valencia e Barcellona. A pagina 6, le sventure della squadra di calcio di Ostenda. Scritte a penna lungo il margine in un elegante cirillico c'erano le istruzioni dettagliate per un incontro a mezzogiorno. Il «piccolo favore» stava cominciando a crescere. Szara percorse il corridoio, chiuse a chiave la porta del bagno e cominciò a lavarsi. Le istruzioni sul giornale lo spaventavano; temeva che l'avrebbero fatto salire su un'auto con la forza e l'avrebbero portato via. Le purghe a volte funzionavano così: l'apparat della sicurezza operava con discrezione quando catturava personaggi pubblici. Alti ufficiali del NKVD venivano convocati per riunioni in cittadine alle porte di Mosca e arrestati quando scendevano dal treno, una tattica che impediva agli amici e ai famigliari di intervenire. Un paese straniero, ragionò Szara, sarebbe stato ancora più comodo. Doveva fuggire? Era arrivato il momento? Una parte di lui lo pensava. "Va' al consolato britannico" gli diceva. "Scappa per sopravvivere. Chiama gli amici che ti proteggono a Mosca. Comprati una pistola." Nel frattempo, si radeva. Poi andò a sedersi nel parco, dove una bambinaia con una carrozzina civettò con lui. "Va' con lei" si disse "nasconditi nel suo letto. Farà tutto quello che vorrai." Forse era vero. All'età di quarant'anni, abbandonate le illusioni, sapeva molto bene che cosa vedeva la ragazza. I capelli neri alquanto lunghi che pettinava all'indietro con le dita, la linea ferma della mascella, un concentrato di personalità negli occhi. Erano occhi socchiusi, scaltri, di un colore verdemare che dava sul grigio, che le donne avevano più di una volta definito «strano» e che spesso vedevano come speranzosi e al tempo stesso dolenti, simili a quelli di un cane. I suoi lineamenti erano delicati, la sua carnagione incolore e resa apparentemente pallida dall'ombra permanente della barba. La sua era nel complesso una presenza triste e sollecita, ansiosa di trovare la felicità e sicura di ricevere delusioni. Si ve-
stiva da intellettuale mondano, con indumenti preferibilmente soffici: camicie di spesso cotone grigio, cravatte monocromatiche dalle tinte scure e di base. Era, nello specchio del mondo, un uomo che potevi prendere sul serio, almeno per qualche tempo. In seguito sarebbe sorto l'affetto oppure una profonda antipatia, una reazione forte in entrambi i casi. La bambinaia, un tipo semplice con una cuffia inamidata, la mano che faceva distrattamente oscillare la carrozzina in cui dormiva il figlio di un'altra donna, non aveva alcun dubbio. Lui doveva soltanto salvarla, dalla noia, dalla servitù, dalle mani screpolate, e lei avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse necessaria. Sotto l'ampia fronte, i suoi occhi erano schietti. "Non avere paura. Posso sistemare tutto." Appena prima delle dieci e mezza Szara si alzò, si strinse l'impermeabile al petto e si allontanò. Guardandosi indietro riuscì facilmente a decifrare l'espressione della donna: "No, allora? Stupido". Una serie di tram lo condusse in un quartiere di abitazioni operaie; le strette stradine puzzavano di pesce, di urina, di cipolla fritta. All'ombra degli edifici la giornata novembrina era fredda. Qualcuno l'aveva seguito? Non lo pensava. Avevano qualcosa di meglio, una sorta di cavo invisibile, il metodo che il fisiologo Pavlov usava con gli animali da laboratorio. Era chiamato... Szara dovette cercare la parola... «condizionamento». Il suo ultimo giorno di vita, eppure faceva quello che gli era stato detto di fare. La sua mente si staccò e osservò la scena: un uomo intelligente e indipendente che si consegnava all'apparat. Pietoso. Spregevole. Szara controllò l'ora. Non voleva essere in ritardo. Si fermò a un mercatino e comprò della frutta, pagando qualcosa in più per un sacchetto di carta. La fruttivendola portava uno scialle sul capo; il suo sguardo era sospettoso. Che cosa ci faceva uno straniero in quella zona della città? Szara percorse un altro isolato, si assicurò che nessuno lo vedesse e lasciò quasi tutta la frutta in un vicolo. Controllò la strada alle sue spalle nella vetrina di un negozio che vendeva soldatini di legno. Poi riprese il cammino, entrando in una piccola piazza bordata da platani cimati per l'inverno. Un taxista dormiva a bordo della sua auto parcheggiata, un uomo in bleu de trovail era seduto su una panchina e si fissava i piedi, la fontana del monumento ai caduti era asciutta: la piazza alla fine del mondo. La terrasse coperta di una piccola brasserie, Le Terminus, era completamente deserta. Szara, sempre più il cronista del proprio stesso rapimento, rimase colpito
dalla normalità della scena. Che luogo placido e ordinario avevano scelto. Forse avevano apprezzato il nome della brasserie, Le Terminus, il termine, la fine della linea. Era una scelta ironica? Erano così ingegnosi? Forse non era Pavlov lo spirito guida del giorno; forse il privilegio toccava a Čechov, o a Gor'kij. Szara cercò un capolinea dei tram o della ferrovia, ma non vide nulla. L'interno della brasserie era vasto e silenzioso. Szara si fermò nell'atrio mentre la porta dietro di lui oscillava avanti e indietro fino a fermarsi. Dietro il banco zincato del locale un uomo in camicia bianca con i polsini arrotolati mescolava distrattamente un caffè, qualche avventore sedeva in silenzio con un bicchiere di birra e altri due o tre pranzavano. Szara si sentì folgorato da un'intuizione, un senso di perdita, la convinzione che quella natura morta in una brasserie di Ostenda era l'immagine pietrificata di ciò che era stato e che ora sarebbe svanito per sempre: pareti ambrate, tavolini di marmo, un ventilatore di legno che ruotava lentamente sul soffitto scurito dal fumo, un uomo dal volto florido e dai baffi a manubrio che faceva crepitare il giornale, il verso di un gabbiano proveniente dalla piazza, la sirena di una nave nel porto. Appeso a un muro c'era un vecchio barometro, e sotto sedeva una donna che indossava un impermeabile marrone con la cintura e due spalline con i bottoni. Scoccò un'occhiata a Szara e poi tornò a dedicarsi al suo piatto di anguilla e pommes frites; Szara poteva sentire l'odore del grasso di cavallo che i belgi usavano per friggere. Una sciarpa rossa di lana era arrotolata sullo schienale di una sedia accanto. Il barometro e la sciarpa erano i segnali convenuti descritti sul margine del giornale. La donna poteva avere poco meno di quarant'anni. Aveva mani forti e dita lunghe: il coltello e la forchetta si muovevano con grazia mentre mangiava. Portava capelli castani tagliati corti su cui, quando si muoveva, qualche ciocca grigia attirava la luce. La sua carnagione era pallida, con il lieve rossore sulle guance di una pelle delicata screpolata dalla brezza marina. "Un'aristocratica" pensò Szara. "Un tempo lo è stata." Qualcosa di fine ed elegante in lei era stato scoraggiato; desiderava essere semplice, e quasi ci riusciva. Russa non era, si disse. Forse tedesca, oppure ceca. Quando si sedette davanti a lei vide che i suoi occhi erano grigi e seri, con chiazze scure di stanchezza appena sotto. Si scambiarono gli assurdi saluti della parol, le parole d'ordine, e lei abbassò il bordo del sacchetto di carta per sincerarsi che Szara avesse portato un'arancia. "Non è assurdo tutto questo, intendo dire le arance e le sciarpe rosse e..."
Ma quelle furono parole che lui non riuscì a dire. Proprio mentre si sporgeva verso di lei per stabilire un contatto, per farle capire che erano persone che avrebbero potuto facilmente superare le assurdità imposte da un mondo stupido, lei lo fermò con un'occhiata che lo fece deglutire. «Il mio nome è Renate Braun» disse. Che cosa significava? Era falso? O magari era semplicemente un'espressione formale. «So chi è lei» soggiunse. Il concetto «ed è sufficiente» era inespresso ma chiaro. A Szara le donne piacevano, e loro lo sapevano. Tutto quello che avrebbe desiderato fare, a mano a mano che la tensione lo abbandonava, era chiacchierare, magari farla ridere. Erano soltanto due individui, un uomo e una donna, ma lei non stava abboccando. Qualunque cosa fosse quell'incontro, pensò Szara, non era un arresto. Molto bene, dunque era una continuazione di ciò che occasionalmente aveva fatto per il NKVD. Ogni giornalista, ogni cittadino fuori dall'Unione Sovietica doveva farlo. Ma perché trasformarlo in un funerale? Dentro di sé si strinse nelle spalle. Quella donna era tedesca, si disse. O svizzera, o austriaca: uno di quei luoghi in cui la posizione, il rango escludevano l'informalità. Lei posò qualche franco sul piattino del cameriere, riprese la sciarpa e insieme uscirono in un cielo freddo e sereno e in un vento teso. Una berlina Simca squadrata era ferma accanto alla brasserie. Szara era sicuro di non averla vista al suo ingresso. La donna gli indicò il sedile del passeggero e prese posto direttamente dietro di lui. Se gli avesse sparato un colpo alla nuca, si disse Szara, le sue ultime parole sarebbero state: "Perché darsi tutta questa pena?". Sfortunatamente, quella forma di esecuzione non concedeva ultime parole, e Szara, che durante la guerra civile seguita alla rivoluzione era stato sui campi di battaglia, lo sapeva. Tutto ciò che sarebbe riuscito a dire sarebbe stato: "Perché? Za chto? Per quale ragione?". Ma questo lo dicevano tutti, tutte le vittime delle purghe. L'autista mise in moto e la Simca si allontanò dalla piazza. «Heshel» disse la donna alle spalle di Szara «ha...?» «Sì, signora» rispose l'autista. Szara lo guardò mentre serpeggiavano per le strade di ciottoli della città. Conosceva il tipo: lo si trovava fra i vicoli fangosi della Polonia o della Russia. Corpo da gnomo, non molto più alto di un metro e cinquanta, labbra carnose, naso pronunciato, occhietti piccoli e intelligenti. Portava un berretto da operaio di tweed con una visiera corta calata su un sopracciglio, e il bavero della giacca era sollevato. Era un uomo senza età, e Szara comprendeva perfettamente la sua espressione a un tempo fredda e spiritosa.
Era il volto del sopravvissuto, qualunque cosa significasse la sopravvivenza in quei giorni: invisibilità, astuzia, umiliazione, brutalità e tutto il resto. Proseguirono per una quindicina di minuti, poi si fermarono in una strada tortuosa in cui piccoli alberghi erano incastonati uno dopo l'altro e donne con calze a rete fumavano pigramente negli androni. Renate Braun scese dall'auto, Heshel attese. «Venga con me» disse lei. Szara la seguì in un albergo. Non c'era alcun addetto al banco, e l'ingresso era deserto con l'eccezione di un marinaio belga seduto sulle scale con la testa fra le mani e il berretto in bilico su un ginocchio. Le scale erano ripide e strette, gli scalini di legno cosparsi di bruciature di sigaretta. Percorsero un lungo corridoio e si fermarono davanti a una porta su cui era stato scritto il numero 26 a matita. Szara notò un piccolo sbaffo di gesso azzurro sul montante all'altezza dell'occhio. La donna aprì la propria borsa a tracolla e ne estrasse un mazzo di chiavi, e mentre la richiudeva Szara credette di scorgere la trama incrociata dell'impugnatura di una pistola automatica. Le chiavi erano passe-partout, dotate di cannelli lunghi su cui far leva quando non si adattavano perfettamente alla serratura. La donna fece scattare il meccanismo e aprì la porta con una spinta. L'aria della stanza odorava di frutta troppo matura mista ad ammoniaca. Khelidze li fissava dal letto, la schiena appoggiata alla testata, i pantaloni e le mutande arrotolati attorno alle ginocchia. Il suo volto era chiazzato di giallo e la sua bocca era immobilizzata in uno sbadiglio lascivo. Avvolta nelle lenzuola c'era una massa voluminosa e ingobbita. Una gamba cerea ne sbucava fuori; il piede, rigido come se stesse danzando sulle punte, aveva le unghie dipinte di rosa. Szara poté udire il ronzio di una mosca che sbatteva contro la finestra e il tintinnio dei campanelli di alcune biciclette in strada. «Conferma che è l'uomo della nave?» chiese la donna. «Sì.» Era un'esecuzione del NKVD, si disse lui; ne rivelava la firma. Le chiazze gialle indicavano uno spray di acido cianidrico, un metodo notoriamente usato dai servizi sovietici. La donna aprì la sua borsa, vi infilò le chiavi e ne estrasse un fazzoletto bianco di cotone profumato di acqua di colonia. Coprendosi naso e bocca, scostò un lembo del lenzuolo e guardò sotto. Szara poté scorgere dei ricci biondi e parte di un fiocco. La donna lasciò cadere il lenzuolo e si strofinò la mano sul lato dell'impermeabile. Poi ripose il fazzoletto e cominciò a perlustrare le tasche dei
pantaloni di Khelidze, gettandone il contenuto in fondo al letto: monete, banconote spiegazzate di varie valute, il tubetto spremuto di un medicinale, lo straccetto che usava per pulirsi gli occhiali e un passaporto olandese. Passò al cappotto e alla giacca, appesi ordinatamente in un armadio malridotto, trovando una matita e una piccola rubrica che aggiunse alla pila. Impugnò la matita e rovistò fra gli articoli ai piedi del letto, si lasciò sfuggire un sospiro irritato e pescò dalla borsa una lametta da rasoio protetta su entrambi i lati da pezzi di nastro adesivo. Ne staccò uno e si mise al lavoro sulla giacca e sul cappotto, scucendola e sventrando le spalline. Trovò un passaporto sovietico, che mise nella borsa. Afferrandoli per i risvolti, sfilò i pantaloni al cadavere e li scucì metodicamente. Il secondo risvolto rivelò un foglietto di carta ripiegato. La donna lo spiegò e lo porse a Szara. «Che cos'è, prego?» «È ceco. Un modulo di qualche tipo.» «Sì?» Szara esaminò il documento per un istante. «Credo sia la ricevuta di un bagaglio emessa da una ditta di spedizioni. No, è della stazione ferroviaria. Di Praga.» La donna si guardò attorno con attenzione, poi si avvicinò al piccolo lavandino ingiallito in un angolo e cominciò a lavarsi le mani. «Sarà lei a ritirarlo» disse asciugandole nel suo fazzoletto. «È per lei.» Uscirono insieme dalla stanza, e la donna non si prese la briga di chiudere la porta a chiave. Nell'atrio si volse verso di lui e disse: «Ovviamente, lascerà subito Ostenda». Szara annuì. «Il suo lavoro è apprezzato.» La seguì fuori dall'albergo e la vide risalire sulla Simca. Attraversò la stradina e si voltò. Heshel lo stava osservando attraverso il finestrino dell'auto, e quando i loro sguardi si incrociarono gli rivolse un velato sorriso. "Questo è il mondo" diceva il sorriso "e questi siamo noi che ci viviamo." Arrivò ad Anversa al crepuscolo e, dopo aver aggiunto due ore per calcolare quella di Mosca, chiamò il suo caporedattore. Da Neženko, che gestiva i corrispondenti esteri, non si aspettava alcun problema. Normalmente non sarebbe stato così, considerata la pausa di tre settimane nelle comunicazioni, ma quando gli veniva chiesto un favore per l'apparat qualcuno passava dalla «Pravda» per una tazza di tè. «Quell'André Aronovič, che ottimo lavoro il suo! Deve prendersi un'infinità di tempo e di disturbo per
scrivere i suoi dispacci. La sua pazienza è ammirevole.» Non c'era bisogno di aggiungere altro. Ed era meglio così, perché Viktor Neženko fumava sessanta sigarette al giorno e aveva un caratteraccio feroce; era in grado, se lo voleva, di rovinare la vita ai suoi collaboratori. Szara prenotò la telefonata da una camera d'albergo, e ottenne il collegamento un'ora dopo. Fu la moglie di Neženko a rispondere, con la voce resa allegra e stridula dalla finta noncuranza. Quando Neženko rispose non offrì né patronimici né saluti, ma soltanto un: «Dove sei stato?». «Sono ad Anversa.» «Dove?» Szara ripeté. Qualcosa era andato storto: Neženko non era stato «avvertito» del suo incarico. «Sei stato gentile a chiamare» disse. Szara si mise alla disperata ricerca dell'acqua con cui spegnere il fuoco. «Sto preparando un pezzo sugli scaricatori di porto.» «Ah sì? Sarà interessante.» «Te lo invio domani.» «Spediscilo, se preferisci. Terza classe.» «Pavel Michailovič mi ha sostituito?» «Pavel Michailovič non è più qui.» Szara era sbalordito. «Non è più qui» era un'espressione in codice. Quando la si udiva uscire dalle labbra degli amici, dei famigliari, delle padrone di casa, significava che la persona era stata portata via. E Pavel Michailovič era, era stato, un ometto rispettabile privo di nemici. Ma nessuna delle reazioni di Szara, fare domande, perfino manifestare il dolore più educato, era ammissibile al telefono. «E hanno chiesto di te» soggiunse Neženko. Anche questa era una frase in codice e significava che l'apparat lo stava cercando. Szara si sentiva come se fosse andato a sbattere contro un muro. Perché lo stavano cercando? Sapevano benissimo dov'era e che cosa stava facendo: l'Uomo più insignificante del mondo non era stato un miraggio, e Renate Braun e il suo aiutante erano ancora più reali. «È tutto un malinteso» disse dopo un attimo. «La mano destra che non informa la sinistra...» «Senza dubbio» disse Neženko. Szara lo udì accendere una sigaretta. «Dopo che ho finito il pezzo sugli scaricatori di porto voglio andare a Praga. Ci sono le reazioni al Patto Anticomintern, le opinioni sui Sudeti, un bel po' di cose. Che ne pensi?»
«Che ne penso?» «Sì.» «Fa' come vuoi, André Aronovič. Devi fare sempre quello che ti piace.» «Domani ti invierò il pezzo sugli scaricatori di porto» disse Szara. Neženko riagganciò. Scrivere l'articolo sugli scaricatori di porto belgi fu come mangiare sabbia. Un tempo Szara si era convinto che l'abilità tecnica fosse di per sé una soddisfazione: una frase che inneggiava al raggiungimento degli obiettivi nella produzione di carbone del bacino di Doneck era comunque una frase, e poteva essere scritta bene. La responsabilità dello scrittore in una società progressista era informare ed elevare le masse lavoratrici (gli era giunta addirittura voce che il numero uno dei lavoratori avesse un occhio di riguardo per la sua firma), e così, quando un demone interiore provava il desiderio di scrivere favole oscure su un universo assurdo, lui aveva il buonsenso di tenere il folletto bene imbottigliato. Per restare in vita, Szara aveva insegnato a se stesso la discrezione ben prima che l'apparat avesse avuto la possibilità di farlo. E se per puro caso una penna intransigente si ostinava a creare commissari lupi che facevano la guardia a greggi di lavoratori pecorelle o a ragazze parigine con indumenti intimi di seta, ebbene, la grande caratteristica della carta era la facilità con cui bruciava. E quelli erano, dovevano essere, fuochi privati. Il mondo non desiderava avere notizie della tua anima, ti prendeva per quello che dicevi di essere. I lavoratori nel piccolo, buio ufficio dei dock di Anversa rimasero colpiti dal fatto che qualcuno pensasse a loro al punto da venire a informarsi su ciò che provavano. «Stalin è la nostra grande speranza» disse uno di loro, e Szara diffuse la sua voce per il mondo. Si sedette nell'ennesima camera d'albergo mentre la nebbia della Schelda risaliva a spirale le strade e inserì quegli uomini nel dramma brutale che si stava compiendo in Europa. Catturò la forza espressa dalle loro spalle arrotondate e dalle loro mani rissose, il modo in cui badavano silenziosamente uno all'altro, la loro granitica rispettabilità. Ma per le mogli e i figli che dipendevano da loro avrebbero combattuto in Spagna (alcuni dei più giovani, infatti, erano già lì), avrebbero combattuto nei sobborghi proletari di Berlino, avrebbero combattuto addirittura, famiglie o no, dalle gru e dai capannoni dei loro stessi dock. Era vero, e Szara trovò il modo di renderlo vero sulla pagina. Stalin era la loro grande speranza. E se Khelidze si prendeva gioco di
ciò con lo sbadiglio sul suo volto chiazzato di giallo, era un problema di Szara. E se il «piccolo favore» era diventato grande, anche questo era un problema di Szara. E se tutto ciò rendeva difficile scrivere, faceva sì che redigere l'articolo fosse come mangiare sabbia, a chi poteva rinfacciarlo? Poteva sempre dire no e poi affrontarne le conseguenze. Aveva ragione il proverbio russo: «Hai detto che eri un fungo, adesso salta nel cesto». «E hanno chiesto di te.» La frase di Neženko seguiva la cadenza del treno sulle rotaie da Anversa fino a Parigi. Era molto meglio, calcolò Szara, gettarsi fra le loro braccia e scoprire che cosa volevano. Non aveva il coraggio di tenersi freddamente in disparte dalla faccenda, qualunque essa fosse, e così scelse la migliore alternativa. Si presentò all'importante ufficio parigino della «Pravda» e chiese alla segretaria di prenotargli un posto sull'espresso Parigi-Praga del giorno dopo. La guardò negli occhi e vide due cuscinetti a sfera, e avrebbe giurato di averla sentita sollevare il telefono prima ancora che la porta si chiudesse alle sue spalle. Quella sera ripassò, ritirò il biglietto, lo stipendio e il fondo spese, e il giorno dopo si recò di buon'ora alla Gare d'Austerlitz nel caso avessero voluto parlargli. Non temeva esattamente un rapimento, si sentiva semplicemente più a suo agio in un luogo pubblico, aperto e pieno di gente. Si attardò in un caffè accanto alla banchina delle partenze, fissò distrattamente il cielo torvo di Parigi al di là del soffitto di vetro retto dalla vasta struttura di ferro battuto, lesse «Le Temps», si ritrovò citato dal quotidiano comunista «L'Humanité» («come ha osservato il corrispondente della "Pravda" André Szara, le relazioni bilaterali tra Francia e URSS potranno procedere soltanto quando la questione cecoslovacca sarà...») e osservò le appetitose donne francesi che gli passavano davanti picchiettando i tacchi sul cemento, la loro animazione apparentemente ispirata da un grave senso del dovere. Szara si era reso disponibile, ma non fu stabilito alcun contatto. Quando venne annunciato il suo treno e la locomotiva soffiò sbuffi di vapore sulla banchina, salì a bordo e si ritrovò solo in uno scompartimento di prima classe. La «Pravda» non riservava interi scompartimenti; lo faceva soltanto l'apparat. Era chiaro che c'era sotto qualcosa. "Forse a Nancy" si disse. Si sbagliava. Passò il pomeriggio a fissare le basse colline della Francia orientale attraverso la pioggia e a osservare nomi di campi di battaglia passargli davanti di stazione in stazione. Al confine di Strasburgo, sulla spon-
da opposta del Reno, un trio di tedeschi entrò nello scompartimento per controllargli il passaporto. Erano due soldati e un civile con impermeabili di gomma sgocciolanti; freddi e cortesi, non tradirono reazioni evidenti alla vista del suo passaporto sovietico. Gli fecero una domanda o due, apparentemente soltanto per udire la sua voce. Il tedesco di Szara era quello di chi da bambino parlava l'yiddish, e il civile, il classico esponente delle forze di sicurezza, fece chiaramente capire che sapeva che Szara era un ebreo, un ebreo polacco, un ebreo bolscevico sovietico di origini polacche. Rovistò con efficienza nella borsa da viaggio di Szara senza sfilarsi i guanti neri, esaminò i documenti giornalistici e di viaggio e alla fine impresse sul passaporto una grossa svastica in un cerchio e glielo restituì educatamente. I loro sguardi s'incrociarono per un istante: la questione che era rimasta in sospeso sarebbe stata affrontata più avanti, su questo erano d'accordo. Ma Szara viaggiava troppo per lasciarsi ferire dall'ostilità della polizia doganale, e mentre il treno prendeva velocità lasciando la stazione di Stoccarda si fece assorbire dal ritmo dei binari e dal denso crepuscolo tedesco: fabbriche che fumavano in lontananza, campi abbandonati al gelo di novembre. Per la decima volta quel giorno tastò la ricevuta del bagaglio nella tasca della giacca; avrebbe anche potuto darvi un'altra occhiata, ma il rombo del treno venne improvvisamente amplificato dall'apertura della porta del suo scompartimento. A prima vista gli parve un normale uomo d'affari dell'Europa centrale, con un soprabito scuro, un cappello dalla tesa floscia e una cartella con le fibbie del tipo che si regge sottobraccio. Poi lo riconobbe. Era un uomo che gli era stato brevemente presentato, forse un anno prima, a Mosca in un contesto ufficiale che non riusciva a ricordare. Si chiamava Bloch, era un tenente generale del GRU, i servizi segreti militari, e di recente, a giudicare dalle voci, il rezident illegale e clandestino che dirigeva le reti del GRU e del NKVD con base a Tarragona. In altre parole, un quadro sovietico molto importante coinvolto nella guerra civile spagnola. Szara si mise immediatamente in guardia; a Mosca c'erano uomini importanti che temevano quell'individuo. Non c'era un motivo particolare. Quelli che conoscevano i dettagli non narravano le sue gesta, ma cambiavano discorso ogni volta che veniva fatto il suo nome, si guardavano intorno per controllare se qualcuno stava ascoltando e adottavano una certa espressione facciale che significava "sta' alla larga". Quel poco che si di-
ceva di Bloch insinuava un'implacabile fame di successo, appetito soddisfatto grazie a una feroce tirannia. Per coloro che avevano l'ordine di lavorare per lui, si diceva che la vita fosse un incubo. Yaschyeritsa, lo chiamavano a sua insaputa, una specie di lucertola. Perché aveva l'aspetto del basilisco: un volto duro e triangolare, capelli rigidi pettinati all'indietro dalla fronte, sopracciglia sottili inclinate di netto verso gli angoli interni di due occhi lunghi e sottili che campeggiavano sopra zigomi forti e rivolti verso l'alto. André Szara, come tutti coloro che frequentavano i circoli conosciuti come la nomenklatura, l'élite, era un abile lettore di volti. Bisognava sapere con chi si aveva a che fare. Un bielorusso? Un armeno? Un nativo russo? Con gli ebrei era spesso difficile dirlo, poiché per secoli le donne ebree avevano messo al mondo i figli dei loro torturatori e per questo portavano i geni di molte razze. Dio solo sapeva, pensò Szara, quale brutale banda di predoni avesse violentato l'antenata di Bloch per dargli l'aspetto che aveva. "Anche il male" si chiese "viene trasmesso con il sangue?" Bloch lo salutò con un cenno del capo, gli si sedette di fronte, si sporse verso la porta dello scompartimento, la chiuse e poi spense le lampade attorno al finestrino. Il treno stava attraversando lentamente un villaggio, e dallo scompartimento oscurato videro che vi si stava svolgendo una festa locale; un falò in piazza, il bestiame inghirlandato, la Gioventù Hitleriana in pantaloncini corti che reggeva, come fasci dell'antica Roma, bandiere con la svastica appese per il lungo sulle aste. Bloch fissò attentamente la scena. «Finalmente» disse in tono pensoso «sono tornati al Medioevo.» Spostò la sua attenzione su Szara. «Mi perdoni, compagno giornalista, sono il generale Y.I. Bloch. Non credo che ci siamo mai rivolti la parola, ma quando ne ho il tempo leggo i suoi articoli, dunque so chi è. Ho bisogno di dirle chi sono io?» «No, compagno generale. So che lavora con i servizi speciali.» Bloch prese la consapevolezza di Szara come un complimento: un sorriso scaltro, una breve inclinazione del capo, "al suo servizio". «Mi dica» riprese quindi «è vero che è da molto che manca da Mosca? Diversi mesi?» «Da agosto» disse Szara. «Non è una vita facile. Treni e camere d'albergo. Lenti mercantili. Ma le capitali estere sono certamente più divertenti di Mosca, dunque ci sono compensazioni, no?» Era una trappola. C'era una risposta dottrinale, qualcosa che coinvolgeva
l'espressione "costruire il socialismo", ma Bloch non era uno stupido e Szara sospettava che una replica bigotta li avrebbe messi entrambi in imbarazzo. «È vero» disse. «Anche se ci si stanca di essere l'eterno straniero» soggiunse poi per ogni eventualità. «Ha sentito i pettegolezzi moscoviti?» «Ne so molto poco» disse. Era un solitario, e tendeva a evitare i colleghi della Tass e della «Pravda» nel circuito delle capitali europee. Bloch si fece scuro in volto. «È stato un autunno difficile per i servizi, di sicuro questo l'avrà saputo.» «Leggo i giornali, naturalmente.» «C'è di più, molto di più. Abbiamo subito defezioni, e gravi. Nelle ultime settimane, il colonnello "Aleksandr Orlov" e il colonnello Walter Krivitskij, che viene chiamato generale dalla stampa europea, hanno lasciato il servizio e chiesto asilo in Occidente. Il caso Krivitskij è stato reso pubblico, come la fuga dell'agente "Reiss". Per quanto riguarda Orlov, lo terremo per noi.» Szara annuì obbediente. Era rapidamente diventata una conversazione molto delicata. Orlov (il nome era una copertura usata all'interno dei servizi, in realtà si trattava di Leon Lazarevič Feldbin) e Krivitskij (Samuel Ginsberg) erano uomini importanti, ufficiali di alto grado rispettivamente del NKVD e del GRU. Il caso Ignace Reiss l'aveva colpito quando aveva letto la notizia. Reiss, assassinato in Svizzera mentre cercava di fuggire, era stato un appassionato idealista, marxista-leninista fino al midollo. «Amici?» Bloch inarcò un sopracciglio. «Conoscevo Reiss abbastanza da salutarlo. Niente di più.» «E a lei, come va?» Il tono di Bloch era preoccupato, quasi paterno. Szara avrebbe voluto ridere: i servizi erano talmente in preda al panico da essere diventati gentili? «Il mio lavoro è difficile, compagno generale, ma meno di molti altri, e sono soddisfatto di ciò che sono.» Bloch assorbì la risposta e annuì fra sé. «E così continua a marciare» disse. «Ci sono alcuni» soggiunse pensieroso «che si sentono profondamente turbati dagli arresti e dai processi. Non possiamo negarlo.» "Ma davvero?" «Abbiamo sempre avuto dei nemici, dentro e fuori. Dal 1918 al 1920 ho servito durante la guerra civile, e ho combattuto contro i polacchi. Non spetta a me giudicare le operazioni delle forze di sicurezza.» Bloch si rilassò sullo schienale. «Ben detto» decretò dopo qualche istante. Poi la sua voce si affievolì, superando appena il rombo regolare del
treno. «E se arrivasse il suo turno? Che cosa farebbe?» Szara non riusciva a scorgere il volto di Bloch nella penombra del posto di fronte a lui; la campagna era immersa nel buio, la luce del corridoio era fioca. «Sarà quel che sarà» disse. «Lei è un fatalista.» «Che altro potrei essere?» Il silenzio si protrasse un istante di troppo per i suoi gusti. «Non ho famiglia» soggiunse. Bloch sembrò annuire a quella frase, come se avesse colto nel segno o confermato un sospetto. «Non sposato» rifletté. «Avrei detto il contrario.» «Sono vedovo, compagno generale. Mia moglie è morta durante la guerra civile. Era infermiera a Berdicev.» «Sicché è solo» disse Bloch. «Certi uomini, in circostanze del genere, mettono a repentaglio la propria vita, visto che non c'è nulla che li leghi al mondo. Senza preoccuparsi delle conseguenze sfruttano l'occasione per sacrificarsi, magari per curare il loro paese da un grande male. E a quel punto abbiamo... perché non dirlo? Un eroe! Ho indovinato? È così che la pensa?» Un uomo e una donna passarono in corridoio. Lui stava ridendo di qualcosa che lei aveva appena detto. Szara attese che si allontanassero. «Sono come chiunque altro» disse. «No» ribatté Bloch. «Non lo è.» Si sporse in avanti, il volto teso, concentrato. «Per fare lo scrittore c'è bisogno di impegno. Impegno e sacrificio. E la determinazione a seguire una certa strada, ovunque ti possa condurre. Se ne ricordi, compagno giornalista, qualsiasi cosa accada nei giorni a venire.» Szara fece per replicare, per schivare una versione di se stesso che trovava retorica, ma Bloch gli impose il silenzio sollevando una mano. Era un gesto abbastanza noncurante, ma Szara ammutolì. Il generale si alzò, aprì la porta, fissò Szara per un istante con un'occhiata apertamente calcolatrice e all'improvviso uscì dallo scompartimento, richiudendo la porta dietro di sé e scomparendo in fondo al corridoio. Più tardi il treno si fermò a Ulma. La banchina della stazione era merlettata dalle ombre, e le gocce di pioggia che colavano sul finestrino del vagone riflettevano scie di luce. Una figura con un cappello e una cartella sottobraccio attraversò rapidamente il marciapiede e salì a bordo di una Mercedes Grosser nera (un'automobile usata spesso dagli ufficiali del Reich) che partì di gran carriera dalla stazione e presto scomparve nel buio.
"Un eroe?" No, si disse Szara. Aveva abbastanza buon senso. Era una lezione che aveva imparato in guerra. All'età di ventitré anni, nel 1920, aveva combattuto con il generale Tuchačevskij, scrivendo dispacci e storie ispiratrici per il fronte interno così come lo scrittore Isaak Babel', un ebreo al seguito della cavalleria cosacca, aveva combattuto agli ordini del generale Budënnyj. In piena guerra contro la Polonia, le forze sovietiche erano state respinte da Varsavia lungo le rive della Vistola da un esercito ai comandi del maresciallo Pilsudski e del suo consigliere, il generale francese Weygand. Durante la ritirata, lo squadrone di Szara era stato assalito dai banditi ucraini, i resti dell'esercito di Petljura che aveva occupato Kiev. Attaccati dalla cresta di una collina e in inferiorità numerica, avevano combattuto come forsennati, dal primo all'ultimo: cuochi, funzionari, addetti ai vagoni e corrispondenti di guerra. Perché il giorno prima avevano trovato il corpo di un colonnello polacco, denudato, appeso per un piede al ramo di un albero e con un palo che gli fuoriusciva dall'inguine. Le bande ucraine combattevano contro entrambi gli schieramenti, polacchi e russi, e che Dio aiutasse coloro che catturavano vivi. In groppa al suo cavallo, Szara aveva travolto un avversario e ne aveva abbattuto un altro a colpi di sciabola. L'istante successivo lui e la sua cavalcatura erano a terra, e il cavallo nitriva in preda al terrore e alla sofferenza, agitando le zampe nel vuoto. Szara era rotolato via dalla bestia e aveva visto un uomo sorridente che gli si faceva sotto brandendo un piccolo pugnale. I cavalli sfrecciavano al galoppo accanto a loro, gli spari e le grida e gli ordini inutili risuonavano nell'aria, ma quell'uomo, vestito con un berretto e un soprabito, non aveva mai smesso di sorridere. Szara si era trascinato su gambe e braccia, un cavallo l'aveva superato con un balzo e il cavaliere aveva imprecato, ma lui non era riuscito a guadagnare terreno. La battaglia che infuriava tutt'intorno non aveva importanza né per Szara né, a quanto sembrava, per il suo allegro inseguitore. Il sorriso aveva lo scopo di rassicurarlo, come se fosse un maiale in un porcile. Avvicinandosi, l'uomo gli aveva rivolto un verso come per blandirlo, e d'un tratto Szara era tornato in sé, aveva estratto goffamente la rivoltella dalla fondina e aveva sparato alla cieca. Non era successo nulla. Il sorriso si era allargato. Poi Szara aveva ripreso il controllo della sua paura, come se avesse potuto stringerla fra le dita a pugno, aveva preso la mira come un tiratore scelto in un poligono e aveva centrato l'uomo in un occhio.
Ciò che ricordava non era di aver combattuto con coraggio; aveva semplicemente deciso che la vita era più importante di qualsiasi altra cosa al mondo e vi si era aggrappato. In quegli anni aveva visto gli eroi, il modo in cui si dedicavano alle loro imprese, il modo in cui facevano ciò che andava fatto, e sapeva di non essere uno di loro. L'espresso arrivò in ritardo a Praga. Una famiglia di ebrei aveva cercato di salire sul treno a Norimberga, l'ultima fermata sul suolo tedesco. Gli ebrei erano stati vigorosamente «incoraggiati» a emigrare dalla Germania (in larga misura da centotrentacinque decreti razziali, denominati complessivamente «legge per la protezione del sangue e dell'onore tedeschi») verso qualsiasi paese li avesse accolti. Ma la situazione, Szara lo sapeva, non era diversa da quella che vigeva sotto lo zar: una tela di ragno burocratica. Mentre riuscivi a farti timbrare il documento A dalla stazione di polizia del luogo, il timbro sul documento B ottenuto dal ministero dell'Economia era ormai scaduto e doveva essere richiesto di nuovo. Nel frattempo, il documento A esauriva la propria validità e veniva automaticamente revocato. La famiglia di ebrei aveva semplicemente tentato di salire sul treno a Norimberga, un gesto inutile e disperato. La conseguenza era stata il fuggi fuggi terrorizzato dei bambini, dei nonni, della madre e del padre per tutta la stazione mentre i poliziotti con i cappotti di pelle li rincorrevano sbraitando e soffiando nei fischietti. Durante l'operazione, i passeggeri sbirciavano incuriositi dai finestrini. Alcuni, eccitati dalla caccia, avevano cercato di rendersi utili: «Laggiù, sotto lo scompartimento bagagli!» gridavano, oppure: «Ha attraversato i binari!». Subito dopo la mezzanotte, a Praga faceva freddo; sulle lastre di pietra sbocciavano fiori di brina, ma l'albergo non distava molto dalla stazione e presto Szara si ritrovò in camera. Rimase sveglio per ore, fumando, scrivendo appuntì sui margini di «Le Temps», studiando la ricevuta del bagaglio che gli era stata consegnata. Lo stavano attirando in qualcosa che non capiva, ma intuiva nettamente che cosa lo aspettasse alla fine. Quell'avventura extraconiugale con i servizi era stata semplice agli inizi, cinque o sei anni prima, perché l'avevano usato come un intellettuale, una figura influente, e Szara aveva trovato piacevole e lusinghiero che si fidassero di lui. Ma ora si era lasciato coinvolgere troppo, e non aveva alcun dubbio che ci avrebbe rimesso la vita. Lo stavano usando per qualcosa di importante, un'operazione ufficiale dell'apparat oppure, ed era quella la condanna a morte, un complotto al suo interno. Sapeva soltanto che era
qualcosa di molto oscuro e molto grave. I generali sovietici dei servizi segreti militari non salivano sui treni tedeschi per fare conversazione con gli scrittori. Ciò nonostante, Szara rifiutava di chiudere gli occhi di fronte alle possibili vie d'uscita. Sarebbe morto, si disse, ma non voleva scoprire in fin di vita che dopotutto c'era una via di scampo. "È questa la differenza, compagno generale, fra l'eroe e colui che sopravvive." Le ore di riflessione non rivelarono nulla, ma ottennero lo scopo di dissipare la tensione e stancarlo. Szara si trascinò sul letto e dormì senza sognare. Si svegliò in una giornata praghese di neve leggera e sottile terrore. Non vedeva nulla, ma percepiva tutto. Il 5 novembre, Hitler aveva tenuto un discorso in cui ribadiva l'urgenza del Lebensraum, letteralmente lo «spazio vitale», l'acquisizione da parte della Germania di nuovi territori per la sua crescita ed espansione. Il giorno dopo, come un tenore lirico che faceva da contrappunto al basso di Hider, Henlein, il rappresentante dei tedeschi dei Sudeti, aveva pubblicamente implorato, in una lettera aperta pubblicata dai giornali cechi, la fine delle «persecuzioni» ceche ai danni delle minoranze tedesche nei Sudeti, l'area che confinava con la Germania meridionale. Il 12 novembre il controtenore, il ministro degli Interni del Reich Wilhelm Frick, aveva dichiarato alla radio: «La razza e la nazionalità, il sangue e la terra sono i principi del pensiero nazionalsocialista; se cercassimo di assimilare una nazionalità straniera con la forza agiremmo in contraddizione con essi». Il concetto poteva suonare cordiale e consolante in Francia, ma secondo le definizioni diplomatiche del Reich i tedeschi dei Sudeti non erano una nazionalità straniera, e nemmeno gli austriaci. Subito dopo, i rappresentanti tedeschi dei Sudeti organizzarono un esodo in massa dal parlamento, informando i giornalisti in attesa all'esterno di aver subito sevizie fisiche da parte della polizia ceca. Tutti a Praga conoscevano quel gioco di incidenti, provocazioni e discorsi. Significava che le divisioni di carri armati tedeschi ferme al confine sarebbero entrate in azione. Oggi? Domani? Quando? Presto. In superficie non c'era nulla da vedere. Ma ciò che la gente provava si manifestava in modi sottili: le occhiate che si scambiavano, una nota nella voce, una frase lasciata inconclusa. Szara si recò alla stazione centrale con la ricevuta che gli era stata consegnata a Ostenda. L'impiegato scosse la
testa: era stata emessa da una stazione più piccola, disse gesticolando verso il limitare della città. Szara prese un taxi, ma quando arrivò alla lontana stazione il deposito bagagli era chiuso per l'ora di pranzo. Si ritrovò in uno strano quartiere silenzioso con cartelli in polacco e ucraino, finestre sigillate, gruppi di uomini senza cravatta e con i colletti abbottonati agli angoli delle strade. Percorse le vie vuote spazzate da un vento che sollevava vortici di polvere. Le donne si nascondevano dietro scialli neri, i bambini si tenevano per mano e camminavano rasenti agli edifici. Szara udì una campana, guardò in fondo a un vicolo ripido e vide un venditore ambulante ebreo con un cavallo gobbo e malnutrito che soffiava nuvole di vapore dalle narici sforzandosi di trainare un carro in cima alla collina. Trovò un piccolo caffè. Quando vi fece il suo ingresso, le conversazioni si interruppero. Bevve una tazza di tè. Il locale era sprovvisto di zucchero. Sentì il ticchettio di un orologio dietro il vano di una porta riparato da una tenda. Che cosa c'era in quel posto? Vi abitava un demone. Szara cercò di respirare; la sua facciata si dileguò come nebbia, lasciando un uomo apatico e preoccupato seduto a un tavolino. L'orologio dietro la tenda segnò le tre, e Szara si diresse a passo rapido in stazione. L'impiegato del deposito bagagli zoppicava dolorosamente e indossava l'uniforme blu dei ferrovieri con una medaglia al valore appuntata sul risvolto. Scomparve per un po', poi tornò con una borsa di pelle a tracolla. Szara chiese se fosse possibile chiamare un taxi. «No» rispose l'uomo. Szara attese che aggiungesse qualcosa, che gli offrisse una spiegazione, ma non vi fu altro. No. E così camminò. Per chilometri, lungo strade serpeggianti intasate dalla vita del sabato, dove ogni vecchia pietra era storta o cedevole; passando davanti a gruppi di ebrei ortodossi con caffetani neri e riccioli sui lati del capo che spettegolavano davanti a piccole sinagoghe; a massaie ceche nei loro abitini stampati che portavano a casa forme di pane nero e salsicce all'aglio dai mercati all'aperto; a bambini e cani che giocavano a calcio sui ciottoli e a vecchi che appoggiavano i gomiti sui davanzali delle finestre fumando la pipa e guardando la vita nelle strade sotto di loro. Era un quartiere qualsiasi di una qualsiasi città europea nei giorni freddi e fumosi di novembre, ma per Szara fu come ritrovarsi intrappolato in un sogno in cui qualcosa di terribile stava accadendo mentre il mondo lo ignorava, dedicandosi ciecamente alle proprie faccende. Raggiunto l'albergo, arrancò in camera e gettò la borsa sul letto. Poi crollò su una sedia e chiuse gli occhi per concentrarsi. Un certo istinto si
accese con una fiammata: doveva scrivere di ciò che aveva provato, doveva descrivere la malia di quel posto. Se scritti bene, lo sapeva, pezzi simili si diffondevano, assumevano vita propria. I politici avrebbero continuato per la loro strada, ma la gente, i lettori, avrebbero capito, avrebbero provato qualcosa, sarebbero stati spinti dalla pietà a pronunciarsi a favore della Repubblica Ceca. Come ottenere ciò? Che cosa scegliere? Quale fatto avrebbe veramente parlato, facendo sì che l'autore si traesse in disparte e concedesse alla storia di raccontarsi da sola? E se anche il suo dispaccio non fosse comparso negli altri paesi, di sicuro sarebbe stato pubblicato dai giornali dei partiti comunisti, in diverse lingue, e i giornalisti che gettavano un'occhiata a simili giornali erano più numerosi di quanto gradissero ammettere. La linea editoriale diceva «qualsiasi cosa pur di mantenere la pace», ma che i corrispondenti andassero a vedere con i propri occhi. Poi la borsa gli rammentò la sua presenza. Szara la esaminò e si rese conto di non averne mai vista una uguale: il cuoio era spesso, martellato, la pelle di un animale potente e sconosciuto. Era coperta da un generoso strato di polvere sottile, e Szara si umettò il dito indice e vi tracciò una linea, rivelando un colore che un tempo era stato quello del cioccolato amaro ma che era ormai sbiadito dal sole e dal tempo. Subito dopo notò che le cuciture erano fatte a mano; un lavoro preciso e resistente, realizzato con un filo che sembrava avere anch'esso origini artigianali. Era una borsa a scomparti; come quelli di una cartella da dottore, entrambi i lati si aprivano ed erano chiusi da una serratura di ottone. Usando un asciugamano inumidito, Szara pulì la chiusura e scoprì un intaglio rossastro sulla superficie di metallo. Gli era vagamente familiare: dove l'aveva visto? Dopo un istante se ne ricordò: erano le decorazioni tipiche delle ciotole e dei vasi di ottone fatti in Asia occidentale e centrale, in India, in Afghanistan, nel Turkestan. Cercò di abbassare la levetta sulla parte inferiore della serratura, ma era bloccata. Alla maniglia era attaccata una mezza etichetta con una cordicella. Studiandola con attenzione riuscì a distinguere la data in cui la sacca era stata depositata alla stazione: l'8 febbraio 1935. Imprecò sommessamente per la sorpresa. Quasi tre anni. Posò un dito sulla serratura. Era un meccanismo ingegnoso, con un'apertura perfettamente circolare che non suggeriva la forma della chiave. La sondò delicatamente con un fiammifero: sembrava richiedere un cannello cilindrico con increspature squadrate all'estremità. Agitò speranzoso il fiammifero, ma ovviamente non successe nulla. Da un'altra età il fabbro,
probabilmente un artigiano seduto a gambe incrociate nella bancarella di qualche suk, rise di lui. Il meccanismo che aveva creato non si sarebbe arreso a uno stecchino di legno. Szara scese nell'atrio e spiegò il problema al giovane impiegato di turno: una chiave smarrita, una sacca che non riusciva ad aprire, documenti importanti per la riunione di lunedì, che cosa si poteva fare? L'impiegato annuì comprensivo e gli rispose in tono consolante. Non doveva preoccuparsi. Cose come queste erano all'ordine del giorno. Un ragazzino venne spedito in missione e tornò un'ora dopo con un fabbro. In camera l'artigiano, un uomo serio che parlava tedesco e indossava un abito rigido e formale, si schiarì educatamente la gola. Non aveva mai visto quel genere di meccanismo. Ma Szara era troppo impaziente per inventare risposte a domande inespresse, e si limitò a incitarlo a procedere. Dopo alcuni minuti di riflessione, il fabbro richiuse con fare riluttante la borsa di pelle per gli attrezzi, e arrossendo leggermente estrasse dalla tasca della giacca una serie di raffinati strumenti da scasso. E la battaglia fra i due artigiani ebbe inizio. Non è che il tagico, il kirghiso, l'artigiano del mercato di Bukhara - chiunque fosse stato - non oppose resistenza: lo fece, ma in quell'occasione nulla poté contro il ceco moderno e i suoi scintillanti attrezzi da scasso. La serratura scattò con l'enfatico snick del meccanismo ben fatto e il fabbro si ritrasse e si passò un panno grigio pulitissimo sulla fronte sudata. «Un meccanismo così bello» disse, rivolto più che altro a se stesso. Anche un conto così bello, ma Szara lo pagò e vi aggiunse anche una mancia generosa, poiché sapeva che l'apparat avrebbe potuto scoprire tutto, e lui aveva forse firmato la condanna a morte di quell'uomo. Al crepuscolo, André Szara sedeva nella stanza buia circondato dai resti della vita di un uomo. Non c'era scrittore al mondo che avrebbe potuto resistere alla tentazione di attribuire un'aura di romantica malinconia a quegli oggetti, ma ciò, rispose Szara al suo lato più critico, non diminuiva la loro eloquenza. Poiché se la borsa in sé parlava di Bukhara, di Samarcanda o delle città nelle oasi del deserto di Kara Rum, il suo contenuto diceva qualcosa di molto diverso su un europeo, un russo europeo che aveva viaggiato (che aveva servito? si era nascosto? era morto?) in quelle regioni, sul genere d'uomo che era stato e sull'orgoglio in generale. Gli oggetti sparsi sullo scrittoio e sul cassettone dell'albergo costituivano un patrimonio. Qualche indumento, alcuni libri, una rivoltella e gli umili
strumenti di un uomo in fuga: ago e filo, tè digestivo, carte geografiche dalle pieghe affilate. In fuga, perché c'era altrettanta chiarezza, altrettanta eloquenza, negli oggetti che non c'erano. Nessuna rubrica, nessun diario di viaggio. Quello era stato un uomo che conosceva coloro da cui fuggiva e che proteggeva la vulnerabilità di coloro che potevano averlo amato. Gli indumenti erano stati messi in cima, piegati mollemente ma in modo perfetto come se il loro proprietario avesse una dimestichezza di lunga data con un passato militare, il passato di qualcuno per cui la pulizia ordinata di un armadietto era una seconda natura. Erano indumenti di qualità, conservati con cura, spesso rammendati ma terribilmente logori, risultato di ripetuti lavaggi e di un uso in terre inclementi. Mutande lunghe di cotone e camicie di lana, un grosso maglione da marinaio rammendato sui gomiti, pesanti calzettoni di lana dai talloni praticamente trasparenti. La rivoltella di ordinanza risaliva ai tempi prerivoluzionari; era una Nagant, il modello automatico da ufficiale, 7,62 millimetri di calibro, modello del 1895. Era ben lubrificata e carica. Da certe caratteristiche, Szara capì che aveva avuto un'esistenza lunga e molto attiva. L'anello per la cordellina alla base dell'impugnatura era stato tolto e la superficie limata, cosicché il metallo sui bordi affilati, sulla bocca di fuoco, sul tamburo e sullo stesso grilletto era liscio e argentato. L'interno della canna era immacolato, pulito non con la solita polvere di mattoni (un'ossessione quasi religiosa, e di conseguenza rovinosa, della fanteria contadina della Grande Guerra) ma con una spazzola abrasiva prodotta in Inghilterra e protetta da un foglio di carta. Non di giornale, che avrebbe rivelato dov'eri stato e quando. Carta bianca. Un uomo prudente. Anche i libri risalivano a prima della rivoluzione, l'ultima data di stampa il 1915; e Szara li trattò con profondo rispetto, poiché non era più consentito possederli. I deliziosi saggi di Dobrilov sulle proprietà nobiliari, le Poesie alla messe di Ivan Krug, le storie di viaggio fra i Khivani di Gletkhin, naturalmente Puškin, e una raccolta di un certo Churnenskij, Lettere da un villaggio lontano, di cui Szara non aveva mai sentito parlare. Erano compagni di viaggio, volumi da leggere e rileggere, volumi per un uomo che viveva in luoghi in cui non si trovavano libri. Szara li sfogliò con impazienza alla ricerca di un commento, di un brano sottolineato, ma come c'era da aspettarsi non vide alcun segno. Ma il dono più curioso della borsa aperta fu il suo odore. Szara non era in grado di riconoscerlo, nemmeno accostandosi il maglione al volto e annusandolo. Poteva identificare una traccia di muffa, di fumo di legna, l'o-
dore dolciastro delle bestie da soma e qualcos'altro, forse una spezia, chiodo di garofano o cardamomo, che suggeriva i mercati dell'Asia centrale. Aveva viaggiato a lungo nella sacca, poiché la sua presenza aveva contagiato i libri, gli indumenti e il cuoio stesso. Per quale ragione? Forse per rendere più appetibile il cibo guasto, forse per aggiungere un ingrediente civilizzato alla vita in generale. Su quell'argomento non era in grado di giungere ad alcuna conclusione. Szara aveva una sufficiente familiarità con le pratiche dei servizi segreti per sapere che la cronologia era tutto. «Che Dio protegga e salvaguardi lo zar» alla fine di una lettera significava una cosa nel 1916 e un'altra nel 1918. Riguardo al periodo dell'«ufficiale», come si sorprese a chiamarlo, la borsa offriva una carta geografica austriaca dei confini meridionali del Mar Caspio datata 1919. La ricerca cartografica aveva sicuramente avuto inizio prima (i nomi onorari bolscevichi erano assenti), ma la data di stampa permise a Szara di scrivere su un foglio di carta da lettera dell'albergo vivo nel 1919. Tornando a controllare l'etichetta del deposito, annotò data ipotetica di morte: 8 febbraio 1935. Una data curiosa, successiva di due mesi e qualche giorno all'assassinio di Sergej Kirov presso l'Istituto Smolny di Leningrado avvenuto il 1° dicembre 1934, che aveva portato alla prima purga agli ordini di Jagoda. Una data di morte? "Sì" pensò Szara. "Quest'uomo è morto." Lo sapeva e basta. E aveva la sensazione che fosse avvenuto molto prima del 1935. In qualche modo, qualcun altro aveva recuperato la borsa e quell'inverno l'aveva depositata in una remota stazione ferroviaria di Praga. Erano ovviamente possibili infinite combinazioni, ma Szara sospettava che una vita vissuta all'estremità meridionale dell'impero sovietico si fosse conclusa laggiù. Nel 1923 l'Armata Rossa aveva represso la rivolta dei pascià. Se l'ufficiale, magari un consigliere militare di uno dei governanti locali, era sopravvissuto a quelle guerre, non aveva abbandonato la regione. Nella borsa, considerò Szara, sembrava non esserci nulla di europeo posteriore al 1920. Il fatto stesso che questa fosse sopravvissuta era una specie di miracolo, anche se subito dopo Szara scoprì una possibilità decisamente più concreta: le cuciture sul fondo della fodera interna. Non erano state realizzate dalla stessa mano esperta e amorevole che aveva cucito l'esterno. Qualcuno le aveva riapplicate come meglio poteva, con un filo impeciato e un punto crociforme che fissava ogni angolo. Dunque l'ufficiale non portava soltanto libri e indumenti. Szara ricordò quello che aveva detto Renate
Braun nell'atrio dell'albergo di Khelidze: «È per lei». Di sicuro non stava parlando di vecchie carte geografiche, libri e vestiti, e nemmeno di una pistola Nagant. Quello che adesso era «suo» giaceva sotto il doppio fondo della borsa, in uno scomparto segreto. Szara ordinò una bottiglia di vodka. Aveva la sensazione che lo aspettasse una notte lunga e difficile: la situazione a Praga era già abbastanza dura, e l'inutile tentativo dell'ufficiale di sopravvivere alla storia non migliorava certo le cose. Doveva essere stato, ragionò Szara, un leale soldato al servizio dello zar, e dunque un fuggitivo dopo la rivoluzione del 1917. Forse aveva combattuto a fianco della Guardia Bianca nella guerra civile. Poi la fuga, sempre verso sud-est, nell'Asia centrale, mentre l'Armata Rossa avanzava. La storia di quei luoghi e quei giorni era quanto di più crudele Szara conoscesse: i basmatchi, i banditi e saccheggiatori della regione, il barone von Ungern-Sternberg, un sadico e un folle, il generale Ma e il suo esercito musulmano; stupri, omicidi, saccheggi, prigionieri gettati a morire nelle caldaie delle locomotive. Sospettava che quell'uomo, che si portava dietro una piccola biblioteca della civiltà e rammendava i gomiti del proprio maglione, fosse morto nel corso di un dimenticato scontro minore nel corso di quegli anni. C'erano momenti in cui una pallottola era la soluzione migliore. Szara si sorprese a sperare che per l'ufficiale fosse stato così. La vodka gli diede una mano. Quando estrasse il rasoio e cominciò a recidere lo spesso spago intrecciato, Szara stava canticchiando una canzone. L'ufficiale non era uno stupido. Chi credeva di ingannare con quel doppio fondo fin troppo evidente? Forse l'agente doganale più idiota del distaccamento più ottuso. I laboratori del NKVD facevano ottimi lavori, lasciando soltanto il più sottile dei margini per celare i documenti e nascondendo il doppio fondo così bene che non riuscivi a distinguerlo. D'altra parte, l'ufficiale aveva probabilmente fatto ciò che poteva, usando l'unico nascondiglio disponibile e sperando che tutto andasse per il meglio. Sì, Szara ormai lo capiva sempre meglio; gli angoli cuciti rivelavano una sorta di determinazione malgrado le circostanze disperate, qualità che lui ammirava più di ogni altra cosa. Quando ebbe scucito l'ultimo angolo, dovette usare una lima per sollevare il lembo di cuoio. Che cosa aveva sperato di trovare? Non questo. Una grossa pila di fogli grigiastri dai bordi consumati, coperti da ordinate frasi in russo scritte a penna: la poesia dei burocrati. Erano documenti ufficiali: un'intestazione rozzamente stampigliata annunciava che provenivano dall'«Ufficio Infor-
mazioni, Terza Sezione, Dipartimento della Protezione di Stato, Ministero degli Interni, Distretto Transcaucasico», e riportava un indirizzo di Tbilisi, la città georgiana di Tiflis. Szara sentì una lenta, cupa delusione rannuvolare il proprio umore. Andò alla finestra con la bottiglia di vodka e guardò un treno merci allontanarsi lentamente dalla stazione, facendo sferragliare i giunti a mano a mano che i vagoni partivano sobbalzando. L'ufficiale non era un colonnello nobile né un capitano di cavalleria bensì un lento poliziotto, senza dubbio un ingranaggio della vasta ma inefficiente polizia segreta dello zar, l'Ochrana, e il miserabile fascio di documenti sullo scrittoio dell'albergo rappresentava apparentemente una successione di casi, un elenco di agenti provocatori, di pagamenti a insignificanti informatori, di solenni descrizioni fisiche di attivisti del partito socialista rivoluzionario nei primi anni del secolo. Szara aveva avuto modo di vedere rapporti come quelli: erano cose che abbrutivano, l'umanità osservata attraverso una finestra alla luce fioca di un lampione, triste e malvagia e ossessionata da infiniti complotti. Il solo pensiero faceva venir voglia di ritirarsi in campagna con una mucca da latte e un orticello. Non un ufficiale dell'esercito, ma della polizia. Il poveraccio si era portato dietro quel catalogo di piccoli inganni per monti e deserti, apparentemente sicuro del suo valore una volta che la controrivoluzione avesse vinto e una progenie sopravvissuta dei Romanov fosse tornata a sedersi sul Trono di tutte le Russie. In preda più al dolore che alla rabbia, Szara confortò la sua immaginazione frustrata con altre due impennate della bottiglia di vodka. "Una creatura di carta" pensò. "Un'uniforme con un uomo al suo interno." Tornò alla scrivania e regolò lo stelo flessibile della lampada. L'organizzazione Messame Dassy (Terzo Gruppo) era stata fondata nel 1893, su basi e propositi socialdemocratici, in opposizione al Meori Dassy (Secondo Gruppo), e diffondeva le proprie opinioni tramite opuscoli e il giornale «Evali» (Il Solco). La grottesca pedanteria strappò un sospiro a Szara. Gli esponenti di spicco dell'organizzazione includevano N.K. Jordania, K.K. Muridze, G.M. Tseretelli. L'informatore «Dubok» (la parola significava «piccola quercia» ed era giunta a indicare qualsiasi consegna di comunicazioni clandestine) si era iscritto ed era divenuto attivo nel 1898, all'età di diciannove anni. Szara sfogliò le pagine facendo cadere l'occhio a caso su riassunti di interrogatori, comunicazioni, cambi di calligrafia quando altri ufficiali ave-
vano dato il loro contributo, ricevute di versamenti agli informatori firmati con nomi di copertura (non in codice come Dubok; nessuno conosceva il proprio nome in codice, che apparteneva ai responsabili dell'Archivio), il passaggio alla macchina per scrivere quando il caso si era protratto nel corso degli anni e i rapporti venivano inoltrati sempre più in alto, dal distretto alla regione all'ufficio centrale al ministero allo zar Nicola e forse a Dio stesso. Szara si sentiva pulsare le tempie. "Ben ti sta." Che cosa si aspettava, in nome del cielo? Timbri svizzeri? Forse sì, nel profondo del cuore. Quei passaporti squisitamente stampati per qualsiasi luogo e qualsiasi occasione. "Idiota!" Monete d'oro, forse? I rubini rosso fuoco dei libri per ragazzi? O magari una rosa pressata dal profumo appena percettibile? "Sì, sì, sì. Una cosa qualsiasi, o tutte quante." Il suo sguardo cadde tristemente sulla lingua di cuoio che giaceva a terra in un groviglio di fili recisi. Da bambino a Odessa aveva imparato a cucire, ma quello non era il genere di lavoro che era in grado di fare. Come poteva rimettere tutto a posto? Assoldando la sarta dell'albergo? "L'ospite della stanza 35 chiede che il doppio fondo della sua valigia venga ricucito: sbrigati, donna, deve varcare stasera stessa il confine polacco!" Vittima dell'immaginazione tradita, Szara imprecò e invocò mentalmente l'apparat come se si stesse rivolgendo a degli spiriti maligni. Voleva che Heshel con il suo sorrisetto triste, Renate Braun con la sua borsa piena di chiavi o uno qualunque di loro, figure grigie o intellettuali dagli occhi glaciali, venissero a togliergli di mano quell'assurdo rompicapo prima che lo gettasse dalla finestra. A proposito, dov'erano finiti? Szara rivolse un'occhiata alla base della porta, aspettandosi che un foglietto vi scivolasse sotto in quel preciso momento, ma tutto ciò che vide fu il tappeto consumato. Il mondo gli parve improvvisamente silenzioso, e un'altra visita alla bottiglia di vodka non fece migliorare le cose. In preda alla disperazione, scostò i documenti e li rimpiazzò con i fogli di carta da lettera dell'albergo estratti dal cassetto. Se in ultima analisi l'ufficiale non meritava quella tempesta scatenata dalla vodka sulle sue latitudini emotive, l'angosciata popolazione di Praga di sicuro se l'era guadagnata. Quando finì era mezzanotte, e la schiena gli faceva un male del diavolo. Ma ce l'aveva fatta. Il lettore vi si sarebbe ritrovato; la sua strada, il suo
quartiere, il suo paese. E l'isteria, l'incubo, era al posto giusto, appena sotto l'orizzonte, avvertito più che visto. Per bilanciare un articolo sul «popolo» avrebbe dovuto scriverne un altro sull'«amministrazione»: una frase di Benes, una del generale Vlasy, qualcosa di crudele da parte di Henlein, e l'impostazione (visto che il paese era stato creato come una democrazia parlamentare nel 1918 e non mostrava alcun desiderio di diventare una repubblica socialista) avrebbe dovuto servire gli interessi della diplomazia sovietica grazie al suo acceso anti-hitlerismo. Nessun problema. Szara poteva scrivere articoli sui governi con un occhio chiuso e la matita dietro l'orecchio senza che ciò significasse un granché. I politici erano come cani parlanti in un circo: il fatto stesso che esistessero era insolitamente interessante, ma nessun individuo sano di mente avrebbe davvero creduto a ciò che dicevano. Poi, come sempre accadeva dopo che aveva scritto qualcosa che gli piaceva, la stanza cominciò a rimpicciolire. Szara si cacciò in tasca un po' di soldi, si strinse il nodo della cravatta, indossò la giacca ed evase. Provò a camminare, ma il vento proveniente dalla Polonia era teso e l'aria profumava di inverno, e così fermò un taxi e diede l'indirizzo del Luxuria, un Nachtlokal in cui il cabaret era terribile e il pubblico anche peggiore, e che perciò in quel momento era il posto che più si confaceva al suo umore. E non ne rimase deluso. Seduto da solo a un minuscolo tavolino, un bicchiere di champagne che aveva ormai perso la sua effervescenza accanto al gomito, fumò una sigaretta dopo l'altra e si immerse nella nebbia torpida del locale, soddisfatto sotto il lurido ritaglio di carta gialla che, appeso a un sipario di velluto, fungeva da luna. Una fetta sottile, una luna vecchia e stanca per notti in cui nulla aveva importanza. Momo Tsipler e i suoi Compari del Wienerwald. Erano in cinque, fra cui il violoncellista più vecchio in cattività, un batterista dallo sguardo spento di nome Rex e lo stesso Momo, uno di quegli ungheresi di Vienna in smoking verde con una voce gravida di lacrime che né lui né altri avevano mai versato. «Noch einmal zum Abschied dein Händchen mir gib» cantava Momo mentre il violoncello singhiozzava. «Addio, dammi solo un'altra volta la tua mano da stringere.» Lo Szara interiore era al settimo cielo: quell'orrida melassa era deliziosa, una crudele parodia di se stessa, un inno all'amore viennese andato in malora. Il titolo della canzone era perfetto: «Queste sono cose che tutti dobbiamo scordare». Il violinista aveva vaporosi capelli
bianchi che sporgevano ai lati del capo, e suonando sorrideva come Satana in persona. I Compari del Wienerwald si lanciarono all'improvviso in una sorta di «tema dell'elefante ubriaco» per l'attrazione principale della serata: l'enorme Mottel Motkevič, che barcollò sul palco al suono di una serie di colpi di rullante e cominciò il suo famoso numero di una sola parola. Sulle prime fu il suo corpo a raccontare la storia: mi sono appena svegliato nel Ietto della cameriera con il peggior doposbornia della mia vita e qualcuno mi ha spinto sul palco di un locale notturno di Praga. Che ci faccio qui? Che ci fate qui? La sua faccia molliccia sudava sotto i faretti viola: erano vent'anni che dava l'impressione di avere una sola settimana di vita. Poi si schermò gli occhi e perlustrò il locale con lo sguardo. Sapeva che genere di maiali erano venuti nel Nachtlokal quella sera, ah sì, li conosceva fin troppo bene. «Ja» disse, confermando il peggio, serrando le labbra carnose in una smorfia di cupa disapprovazione. Cominciò ad annuire, confermando la sua osservazione: ubriaconi e pervertiti, dissoluzione e depravazione. Si piantò le mani sui fianchi larghi e fissò un colonnello jugoslavo accompagnato da una ragazza imbellettata con un cappello piumato e lucente che si prese la testa fra le braccia. «Ja!» ripeté Mottel Motkevič. Non ci sono dubbi su voi due. Lo stesso valeva per un paio di graziosi maschietti inglesi con i calzoni alla zuava, nonché per un capitano d'industria sorpreso a sbaciucchiare una specie di lattaia adolescente al suo fianco. D'un tratto, una voce sorse dalla penombra in fondo al locale: «Ma Mottel, perché no?». Subito il pubblico prese a controbattere al comico in un miscuglio di lingue europee: «È un male?», «Perché non dovremmo?», «Che cosa può esserci di male?». Il grassone indietreggiò, afferrò il sipario di velluto con una mano e spalancò occhi e bocca per l'illuminazione. «Ja?» Volete dire che davvero non c'è problema? Che possiamo fare tutto ciò che conosciamo e anche certe cose che non abbiamo ancora scoperto? Era giunto il momento di gloria del pubblico. «Ja!» gridarono tutti a ripetizione; e perfino i camerieri si unirono al coro. Il povero Mottel crollò letteralmente sotto l'assalto. Un mondo che credeva di amare, un mondo di ordine e rettitudine, era stato fatto a pezzi davanti ai suoi occhi, e ora la verità era stata svelata. Rammaricato, diede l'addio a tutte quelle sciocche, vecchie assurdità. «Ja, ja», ammise in tono
dolente, è stato sempre così, sarà sempre così, e soprattutto lo sarà questa sera. In quel preciso istante qualcosa di estremamente interessante attirò la sua attenzione, qualcosa che stava accadendo dietro il sipario alla sua destra, e mentre gli occhi gli brillavano come quelli di un satiro folle d'amore lasciò in eredità al suo pubblico un ultimo «Jaaa» prolungato e abbandonò il palco a passi pesanti accompagnato dagli applausi mentre i Compari si lanciavano in una melodia circense e le zebre uscivano al galoppo da dietro il sipario, impennandosi, nitrendo e raspando il vuoto con i loro minuscoli zoccoli anteriori. Ragazze nude con maschere da zebra di cartapesta, a dire il vero. Saltellavano e scuotevano le membra fra i tavoli, fermandosi di quando in quando per sculettare verso i clienti e subito ripartendo con un balzo. Dopo qualche minuto si allontanarono al galoppo dietro le quinte, i Compari intonarono un valzer lento e le ballerine ricomparvero, senza maschere e vestite in abiti da sera, nei panni di Animierdamen che dovevano civettare con i clienti, sederglisi in grembo e convincerli a ordinare champagne. Quella di Szara aveva fianchi larghi e capelli tinti di un nero lucente e sinistro. «Riesci a indovinare quale zebra ero? Ti sono venuta così vicina!» Più tardi se ne andò con lei. In una stanza segreta all'ultimo piano di una casa gelida in cui si salivano delle scale, se ne scendevano delle altre, si attraversavano due cortili abitati dai gatti e finalmente ci si riarrampicava, oltrepassando svolte alla cieca e passaggi scuri fino a giungere in un corridoio basso sotto i timpani del tetto. «Zebra», la chiamava; rendeva le cose più facili. Dubitava che l'idea fosse nata con lui, poiché la ragazza sembrò adattarvisi senza problemi. Galoppò, nitrì e fece tremare il piccolo ventre bianco, soltanto per lui. Il suo umore migliorò vertiginosamente: finalmente aveva trovato un'isola di piacere nel proprio particolare mare di guai. Alcuni, lo sapeva, avrebbero trovato un tale passatempo triste e malvagio, ma che furie conoscevano? Che cosa li aspettava al di là della porta? La Zebra possedeva una radiolina; trasmetteva scariche statiche, nonché una stazione che rimase in onda tutta la notte suonando stridenti registrazioni di Schumann e Chopin da qualche angolo oscuro dell'Europa centrale, dove l'insonnia era diventata una sorta di religione. Con quell'accompagnamento fecero grandi progressi. E si divertirono fingendosi sconvolti dall'essere precipitati in un baratro in cui avrebbero potuto trovare di tutto. «Ah sì?» gridò la Zebra, come se fossero incappati
in un divertimento nuovo e complesso, mai tentato prima nelle stanze segrete di quelle città, come se osando giocare la partita stessa del diavolo potessero riuscire a trattenerlo dal fare ciò che, grazie a chissà quale oscura preveggenza, sapevano avrebbe voluto fare a tutti loro. Finalmente riscaldati ed esausti, sonnecchiarono nella stanza fumosa mentre la radio gracchiava, svaniva e poi riprendeva, bisbigliando a volte in lingue sconosciute. I capi della khvost georgiana del NKVD s'incontravano di solito per un'ora o due la domenica mattina nell'appartamento di Aleksej Agayan in via Tverskaja. Berija non veniva mai di persona, ma rendeva noti i suoi desideri tramite Deršani, Agayan o uno degli altri. Normalmente erano soltanto gli ufficiali di base a Mosca a frequentare gli incontri, anche se di quando in quando passava anche qualche compagno delle repubbliche sudorientali. Si riunirono nella cucina di Agayan, ampia, decrepita e ben riscaldata, alle undici e mezza del mattino del 21 novembre. Agayan, un uomo piccolo dalla carnagione scura con una testa di folti ricci grigi e un paio di baffi ribelli, indossava un vecchio cardigan intonato all'atmosfera di informalità. Ismailov, un turco russificato, e Dzachalev, un osseta (la tribù di lingua parsi del Caucaso settentrionale da cui si diceva discendesse la madre di Stalin) avevano gli occhi arrossati ed erano leggermente indeboliti dagli eccessi del sabato sera. Terounian, proveniente dalla città armena di Yerevan, offrì un sacchetto di tela pieno di pere mature che gli aveva portato suo cugino, un macchinista ferroviere. Vennero disposte sul tavolo da Stasia, la giovane moglie russa di Agayan, insieme a ciotole di mandorle salate e zuccherate e di pinoli e a un piatto di uva passa di Smirne. Nel corso dell'incontro la moglie di Arayan servì inoltre un'infinita successione di minuscole tazzine di caffè turco, sekerli, la varietà più dolce. Deršani, un georgiano, il più importante fra i pari, fu anche l'ultimo ad arrivare. Tradizioni simili erano importanti per la khvost, e venivano osservate scrupolosamente. Fu nel complesso un incontro di tipo tradizionale, come se si fossero trovati in un caffè di Baku o di Taškent. Seduti in maniche di camicia, fumavano, mangiavano, sorseggiavano i loro caffè e parlavano a turno (in russo, la loro sola lingua in comune) mostrando rispetto e cortesia. Ciò che veniva detto era importante, lo sapevano tutti, e tutti avrebbero dovuto tenervi fede.
Agayan, socchiudendo gli occhi nel pennacchio di fumo della sigaretta al centro delle sue labbra, parlò solennemente dei compagni scomparsi nelle purghe. Gli zhid ucraini e polacchi, ammise, stavano avendo la peggio, ma molti georgiani e armeni e i loro alleati provenienti da ogni dove (alcuni di loro zhid, se era per quello) erano scomparsi nella Lubjanka e nel carcere di Lefortovo. Al termine del suo rapporto fece un sospiro dolente, l'elogio funebre di cui molti di loro si sarebbero dovuti accontentare. «Ci si può solo chiedere...» disse Dzachalev. La scrollata di spalle di Agayan fu eloquente. «È quello che lui vuole. Per quanto mi riguarda, non me l'hanno chiesto.» Il lui senza nome, in conversazioni come questa, era sempre Stalin. «Eppure» disse Dzachalev «Yassim Ferimovič era un ottimo ufficiale.» «E leale» aggiunse Terounian. Con i suoi trentacinque anni, era di gran lunga il più giovane nella stanza. Agayan accese un'altra sigaretta con il mozzicone dell'ultima. «Nondimeno» disse. «Avete sentito quello che ha detto a Yežov riguardo agli interrogatori? "Picchiate e picchiate e picchiate."» Terounian fece una pausa per lasciare che l'efficacia dell'espressione aleggiasse nell'aria, per assicurarsi che tutti capissero che lui la rispettava. «In questo modo chiunque ammetterà qualsiasi cosa, arriverà perfino a fare il nome di sua madre.» «E della tua» disse Ismailov. Deršani sollevò la mano destra di qualche centimetro dal tavolo; il suo gesto significava "ora basta", e Ismailov si fermò bruscamente. Deršani aveva un volto aquilino: becco appuntito, occhi scintillanti ma senza vita, labbra sottili, fronte alta, capelli che gli si erano incanutiti da giovane, alcuni dicevano in una sola notte quando era stato condannato a morte. Ma era sopravvissuto. Era cambiato. Diventando qualcosa di diverso da un uomo. Uno specialista nell'ottenere confessioni, un individuo la cui mano si diceva avesse «impugnato le pinze». Il tono di voce di Ismailov non era chiaramente di suo gusto. «Il suo pensiero è di vasta portata» disse. «Non è previsto che noi lo comprendiamo. Non è previsto che noi lo commentiamo.» Fece una pausa per il caffè, per permettere all'atmosfera della stanza di giungere al suo livello, poi prese qualche pinolo. «Sono deliziosi» disse. «Se considerate la nostra storia, e parlo della storia del nostro servizio, potete vedere che lui ha preso il timone proprio nel momento cruciale. Abbiamo cominciato con Dzeržinskij, un polacco di origini nobili di Vilna. Cattolico di nascita, mo-
stra fin da giovane un profondo affetto per gli ebrei. Impara a parlare perfettamente lo yiddish, e la sua prima amante è una certa Il'ja Goldman, sorella del suo migliore amico. Lei muore di tubercolosi in Svizzera, dove lui l'aveva fatta ricoverare in un sanatorio, e il suo dolore è lenito da una relazione con una compagna di nome Sabina Feinstein. Alla fine sposa un'ebrea polacca dell'intelligencija di Varsavia, Sophie Mushkat. Il suo vice, l'uomo su cui fa affidamento, è Unshlikht, anche lui un ebreo polacco di Mlawa. «Alla morte di Dzeržinskij, il suo altro vice, Menžinskij, prende il suo posto. Non è un ebreo, Menžinskij, ma un artiste. Un uomo che parla il cinese, il persiano, il giapponese, dodici lingue in tutto, che mentre lavora per noi a Parigi un giorno è poeta e il giorno dopo è pittore, e che se ne sta sdraiato nel suo pigiama di seta fumando sigarette profumate con un bocchino di avorio, il titolare di un... di un salotto. Lenin muore. Il nostro giovane stato, inquieto e gravemente minacciato, si getta fra le braccia del nostro leader, e lui accetta di caricarsene il peso sulle spalle. Vorrebbe soltanto proseguire l'opera di Lenin, ma nel 1934 la centrale trotckijsta comincia ad acquistare potere. Bisogna fare qualcosa. Seguendo la tradizione leninista si rivolge a Jagoda, un ebreo polacco di Lódź, un avvelenatore, che elimina lo scrittore Gor'kij con mezzi apparentemente naturali. Ma Jagoda è troppo furbo, fa di testa sua e nel 1936 non è ormai più l'uomo giusto per quel tipo di lavoro. Ora, qual è la risposta? Forse il nano, Yežov, chiamato confidenzialmente "la Mora", come suggerisce il suo nome. Ma nemmeno lui è meglio dell'altro: non è un ebreo ma un vero e proprio pazzo, e malvagio come un bambino dei bassifondi che immerge le code dei gatti nella paraffina e poi vi dà fuoco.» Deršani si interruppe di botto, tamburellando con quattro dita sul tavolo. Un'occhiata alla moglie di Agayan, in piedi accanto ai fornelli sul lato più lontano della cucina, fu sufficiente a farla avvicinare immediatamente con una tazzina di caffè. «Ci dica, Efim Aleksandrovič, adesso che accadrà?» In questo modo Ismailov ammise il proprio sbaglio e chiese simbolicamente il perdono di Deršani per la sua momentanea impertinenza. Deršani chiuse educatamente gli occhi sorseggiando il caffè e schioccò educatamente le labbra per esprimere il suo apprezzamento. «Stasia Marievna, lei è un gioiello» disse. La donna annuì in silenzio per ringraziarlo del complimento. «Le cose evolvono, evolvono» soggiunse Deršani. «La storia è bella,
dopotutto, e ora è guidata dal genio. Ma lui deve muoversi alla velocità giusta, a certe cose deve essere concesso di risolversi da sole. E ve lo dico in confidenza, ci sono molte considerazioni che potrebbero sfuggire alla nostra visione. Questi zhid polacchi non possono essere semplicemente spazzati via all'ingrosso. Una tale pulizia, per quanto appropriata, attirerebbe attenzioni sgradite e potrebbe addirittura alienarci gli ebrei d'America, che sono dei grandi idealisti e svolgono il nostro lavoro speciale nel loro paese. I russi e gli ucraini, sì, e perfino i georgiani e gli armeni devono abbandonare la scena insieme agli altri. È una necessità, una necessità storica, uno stratagemma degno di Lenin.» «Ma allora ci dica, Efim Aleksandrovič» intervenne Agayan imitando consapevolmente il modo di esprimersi di Ismailov «oggi non abbiamo il privilegio di conoscere le posizioni del nostro compagno a Tbilisi?» Si riferiva a Lavrentij Pavlovič Berija, al momento primo segretario del partito comunista georgiano ed ex responsabile del NKVD per la Georgia. L'accenno di mordacità nella domanda suggeriva che forse Deršani non avrebbe dovuto definire sua moglie un gioiello di fronte ai suoi colleghi. Deršani si limitò a fare il più piccolo dei passi indietro. «Lavrentij Pavlovič potrebbe non dissentire dal senso generale di ciò che ho detto. Crediamo entrambi, posso dirlo, che vinceremo questa battaglia... anche se per farlo sarà necessario intraprendere certe azioni. La cosa più importante, tuttavia, è intuire i suoi, i suoi desideri e agire di conseguenza con tutti i mezzi necessari.» Quella dichiarazione aprì una porta. Agayan picchiettò la tazzina sul piatto e sua moglie gli servì un altro caffè. Deršani aveva parlato di «tutti i mezzi necessari», e l'etichetta stabiliva che ora Agayan dovesse cercare di scoprire quali erano. Una volta descritti, tali mezzi dovevano essere usati. Deršani controllò l'ora, e Agayan prese al volo l'occasione. «La prego, Efim Aleksandrovič, non ci permetta di trattenerla se il dovere la chiama altrove.» «No, no» tagliò corto Deršani «mi stavo solo chiedendo che fine abbia fatto Grigorij Petrovič. Aveva specifiche istruzioni di presentarsi qui stamattina.» «Si riferisce a Khelidze?» domandò Ismailov. «Sì.» «Lo chiamerò a casa sua» disse Agayan affrettandosi ad alzarsi, lieto dell'interruzione. «Sua moglie saprà dov'è finito.» Dzachalev fece una breve risatina. «Poco probabile» disse.
Lunedì mattina, avanzando in una nebbiolina umida che rendeva le strade di Praga ancora più grigie del solito, Szara si recò di buon'ora al SovPressBuro, che trasmetteva tutti i dispacci sovietici, e inoltrò il pezzo che aveva scritto sabato sera. Gli ci erano voluti ben ventotto tentativi prima di giungere a un titolo appropriato. Il suo istinto iniziale l'aveva condotto sul sentiero di «Praga, città in...». Aveva provato «pericolo», «lutto», «attesa», «preda alla disperazione» e alla fine, temendo che non avrebbe funzionato, «Cecoslovacchia». Quando aveva ormai esaurito la pazienza, era stato il quasi banale «Silenzio a Praga» ad accaparrarsi il premio - un titolo, a ripensarci, che si rivelava in realtà un messaggio dalle profondità interiori nelle quali in realtà si svolgeva tutto il lavoro. Per coloro che leggevano usando entrambi gli occhi l'espressione melodrammatica avrebbe implicato una sottile alterazione di preposizioni, cosicché il messaggio più tagliente e più vero avrebbe riguardato il silenzio su Praga: non il mutismo angosciato di una città sotto assedio politico bensì il silenzio codardo degli statisti europei, gonfio di una millanteria diplomatica che nessuno prendeva sul serio, che poteva essere spezzato soltanto dal crepitio dei motori dei carri armati che si accendevano mentre le colonne corazzate si muovevano per riprendere posizione lungo i confini della Germania. In realtà c'era un'altra zona di silenzio riguardo a Praga, a est della Cecoslovacchia, dove il patto franco-russo di Stalin specificava che l'URSS sarebbe giunta in aiuto dei cechi se Hitler li avesse attaccati, ma soltanto dopo i francesi. In questo modo, l'URSS si era messa nella posizione di nascondersi dietro le promesse di un regime che a Parigi scendeva a compromessi su ogni questione e che barcollava da uno scandalo a una catastrofe a un nuovo scandalo. Certo, l'Armata Rossa di Stalin era in preda a un sanguinoso scompiglio dopo le purghe del giugno '37, ma era triste, pensò Szara, che a pagare fossero i cechi. E a sua insaputa era in arrivo un ulteriore silenzio. L'addetta alle trasmissioni dell'ufficio nei pressi del ponte di Jiraskuv, una matrona severa e pettoruta con una montagna di capelli grigi raccolti da uno spillone, lesse «Silenzio a Praga» seduta alla sua macchina per scrivere. «Sì, compagno Szara» sospirò «ha detto la verità, è proprio ciò che prova questa città.» Szara accettò il complimento, e una dose non indifferente di adorazione nei suoi occhi, con un borbottio inteso a sviarla. Non sarebbe stato il caso di rivelarle quanto significavano per lui certe lodi. Seguì l'invio dell'articolo, poi vagò per le strade che seguivano il cor-
so della Moldava e guardò le chiatte risalire lentamente il fiume color acciaio. Szara tornò all'ufficio stampa martedì mattina con l'intenzione di comunicare a Mosca il suo programma di andare a Parigi. Era sempre possibile trovare una storia a Parigi, e Szara aveva un gran bisogno di respirare l'aria malsana eppure così salutare di quella città. Quello che invece ottenne quando varcò la soglia dell'ufficio fu un'occhiata pietosa da parte della materna impiegata delle trasmissioni. «Un messaggio per il compagno» disse lei scuotendo il capo solidale. Gli porse un telegramma, arrivato un'ora prima da Mosca. NON POSSO ACCETTARE SILENZIO/PRAGA NELLA FORMA ATTUALE STOP ENTRO 25 NOVEMBRE ACQUISISCI INFORMAZIONI PER PROFILO DOTTOR JULIUS BAUMANN, SALZBRUNNER 8, BERLINO, INDUSTRIALE DI SUCCESSO STOP INOLTRA MATERIALE DIRETTAMENTE A SUPERVISORE SOVPRESS BERLINO STOP NEŽENKO Vide che l'impiegata si aspettava un'esplosione, ma represse immediatamente le proprie emozioni. Era un adulto, si disse, e i cambi di linea nel partito non erano una novità. Il suo successo come corrispondente, e la considerevole libertà di cui godeva, erano basati in ugual misura sull'abilità e sulla percezione di quello che in un dato momento si poteva e non si poteva scrivere. Il fatto di essersi sbagliato lo irritava, ma a Mosca bolliva qualcosa in pentola e non era il momento giusto per l'indignazione; era il momento di capire che gli sviluppi politici escludevano articoli su Praga. A beneficio dell'impiegata fece un cenno rassegnato con la testa: il lavoratore giornalista sovietico accetta le critiche e procede alla costruzione del socialismo. Sì, ai suoi piedi c'era un cestino stracolmo di carta, e sì, aveva una gran voglia di sferrargli un calcione facendogli percorrere tutta la parete, ma no, non poteva farlo. «E Berlino sia» disse con calma. Ripiegò il telegramma e lo fece scivolare nella tasca della giacca, salutò l'impiegata, fece un sorriso radioso e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle con tale delicatezza da non produrre alcun suono.
Quella sera, in anticipo sulla partenza dell'espresso per Berlino, decise di concedersi un panino e un caffè al ristorante della stazione. Notò un gruppo di uomini raccolti attorno a una radio in un angolo del locale e si avvicinò per scoprire che cosa ci fosse di tanto interessante. Era, come aveva immaginato, un discorso politico, ma in tedesco, non in ceco. Szara riconobbe immediatamente la voce: Adolf Hitler era nato per parlare alla radio. Tanto per cominciare era un oratore brillante, e in qualche modo le dinamiche della trasmissione radio (le scariche statiche, il sibilo leggero del silenzio) aggiungevano potere alla sua voce. Hitler stuzzicava il suo pubblico, arrivando in punta di piedi a un vertice drammatico e poi battendo il chiodo con insistenza. Il pubblico, decine di migliaia di persone a giudicare dal chiasso, lo acclamava fino a perdere la voce, travolto dall'estasi politica, pronto a morire per difendere l'onore tedesco. Szara si trattenne ai margini del capannello e ascoltò senza tradire alcuna espressione o reazione, ignorando apertamente l'occhiata di avvertimento di uno dei cechi (o degli slovacchi? o dei tedeschi dei Sudeti?) raccolti attorno alla radio. La voce, che stava giungendo alla conclusione del discorso, era per prima cosa pacata e sensata: L'obiettivo finale del nostro partito è quindi chiaro a tutti. Ciò di cui mi preoccupo costantemente è di non fare un passo da cui dovrò retrocedere, e non fare alcun passo che ci possa danneggiare. Ve lo dico, io mi spingo sempre fino al limite estremo del rischio, ma mai oltre. Per fare questo c'è bisogno di un naso (risate; Szara immaginò il gesto), un naso per fiutare più o meno questo: «Cosa posso ancora fare?». Inoltre, nella lotta contro un nemico io non intimo a un nemico sorretto da una forza militare, non gli intimo di combattere soltanto perché voglio combattere. Gli dico invece: «Ti distruggerò» (un boato, ma Hitler riesce a farsi sentire comunque). E adesso, saggezza, aiutami. Aiutami a costringerti in un angolo dal quale non potrai controbattere. E poi subisci il colpo in pieno cuore. Proprio così! La folla emise un ruggito trionfale e Szara si sentì gelare il sangue nelle vene. Mentre si voltava per andarsene scorse un movimento confuso alla sua destra, si sentì esplodere il lato del cranio e si ritrovò disteso sulle luride piastrelle del ristorante. Alzando gli occhi vide un uomo con le labbra atteggiate a una smorfia, la parte superiore del corpo tesa come una molla,
il pugno destro sollevato sopra la spalla sinistra per colpirlo una seconda volta. L'uomo parlò in tedesco. «Merda ebrea» disse. Szara fece per alzarsi, ma quando l'uomo fece un passo verso di lui rimase dov'era, a quattro zampe. Si guardò intorno nel ristorante; gli avventori stavano mangiando la zuppa, soffiando sui cucchiai prima di sorseggiarla. Alla radio, un commentatore parlava con voce seria e misurata. Gli altri uomini attorno all'apparecchio non lo guardarono; a farlo era soltanto quello con il pugno pronto a colpire, giovane, ordinario, corpulento, con un abito dozzinale e una cravatta chiassosa. La posizione di Szara sembrò placarlo; trasse a sé una sedia e riprese posto tra gli amici. Posò una saliera di metallo accanto alla pepaiola. Szara si rialzò lentamente. L'orecchio gli bruciava, pulsando e ronzando, e da quel lato era completamente sordo. La sua vista era leggermente confusa; batté le palpebre per schiarirla. Mentre si allontanava si accorse che i suoi occhi erano velati di lacrime. "È una reazione fisica, fisica" si disse; ma provava diversi tipi di dolore, e non era affatto in grado di distinguerli. L'espresso della notte da Praga a Berlino lasciò la stazione alle 21.03; l'arrivo alla Bahnhof am Zoo di Berlino era previsto per le 11.51, e l'unica fermata sarebbe stata alla dogana di Aussig, sulla riva orientale dell'Elba. Szara viaggiava con due borse, la sua e quella ritirata dal deposito bagagli. Il treno era freddo, affollato e pieno di fumo. Szara condivideva uno scompartimento con due donne di mezz'età che immaginava fossero sorelle e due ragazzi i cui volti bruciati dal vento e i cui calzoncini color cachi suggerivano che fossero andati a fare una gita in montagna in Cecoslovacchia e si fossero trattenuti fino al martedì prima di tornare a scuola in Germania. Szara nutriva qualche preoccupazione per l'ispezione doganale tedesca, ma la rivoltella dell'ufficiale giaceva ormai sul fondale della Moldava e dubitava che un dossier in russo (cosa che per lui sarebbe stato normale possedere) avrebbe causato difficoltà. Le ispezioni doganali si concentravano sulle pistole, sugli esplosivi, sulle grandi quantità di valuta e sulla letteratura sediziosa: gli attrezzi del rivoluzionario. Al di là di ciò, gli ispettori non mostravano particolare interesse. Forse avrebbe corso un piccolo rischio, qualora fosse presente un ufficiale della Gestapo (non improbabile) e che questi conoscesse il russo a sufficienza da riconoscere quello che stava leggendo (molto improbabile). In realtà, Szara si rendeva conto di non avere molta scelta: il dossier era «suo», ma non poteva sbarazzarse-
ne. Prima o poi loro avrebbero voluto sapere che fine aveva fatto. Mentre il treno serpeggiava attraverso le foreste di pini della Cecoslovacchia del nord, la mano di Szara continuava a risalire fino all'orecchio, leggermente arrossato, gonfio e caldo al tatto. Era stato colpito, a quanto sembrava, con l'estremità di una saliera stretta in un pugno. Per quanto riguardava gli altri danni (all'animo, allo spirito, alla dignità: aveva molti nomi) riuscì finalmente a fare un passo indietro e riprendere il controllo. "No" si ripeté più volte "non avresti dovuto restituire il colpo." Gli uomini che ascoltavano la radio avrebbero fatto ben di peggio. I controlli doganali ad Aussig si svolsero senza intoppi. Il treno riprese lentamente velocità, seguì brevemente il corso dell'Elba, tranquillo e poco profondo nel tardo autunno, e poco dopo oltrepassò le fabbriche di porcellana di Dresda, edifici di mattoni da cui le ombre rosse delle fornaci si riflettevano sui finestrini del treno. I binari scendevano gradualmente dagli altipiani della Cecoslovacchia alle pianure a livello del mare della Germania, attraversando campi e piccole, ordinate cittadine in cui il capostazione se ne stava piantato sulla banchina con la sua lanterna. Il treno rallentò fin quasi a fermarsi (Szara controllò l'ora e vide che erano le dieci passate da pochi minuti) e poi si arrestò con il sibilo sonoro della decompressione. I passeggeri del suo scompartimento si agitarono irritati, uscendosene con un: «Wuss?» e scrutando fuori dal finestrino; ma non c'era niente da vedere, soltanto campi fiancheggiati dai boschi. Poco dopo, un controllore comparve sulla soglia dello scompartimento. Era un vecchio con un cappello di una taglia troppo grande; si umettò nervosamente le labbra e chiese: «Herr Szara?». Il suo sguardo passò in rassegna i passeggeri, ma c'era un solo candidato possibile. «Sì?» disse Szara. "E adesso che succede?" «Vorrebbe essere così gentile da seguirmi, è soltanto...» Il suo tono era del tutto privo di minaccia. Szara pensò di fare l'indignato, ma poi avvertì il peso della burocrazia ferroviaria teutonica dietro la richiesta, si lasciò sfuggire un sospiro irritato e si alzò. «La prego, i suoi bagagli» disse il controllore. Szara afferrò le borse e seguì l'uomo in corridoio fino all'estremità del vagone, dove trovò un capotreno in attesa. «Sono spiacente, Herr Szara, ma deve abbandonare il treno.» Szara s'irrigidì. «Non lo farò» rispose. «La prego» insistette l'altro in tono nervoso.
Szara lo fissò per un istante, in preda alla confusione più totale. Oltre la porta aperta c'erano soltanto i campi immersi nel buio. «Pretendo una spiegazione» disse. Il capotreno spostò lo sguardo dietro le sue spalle e Szara si voltò. Due uomini in giacca e cravatta si trattenevano in fondo al corridoio. «Devo proseguire a piedi fino a Berlino?» chiese Szara. Rise, invitandoli a considerare l'assurdità della situazione, ma la sua ilarità sembrava falsa e stridente. Il capostazione gli posò timidamente una mano sul gomito, e Szara lo ritrasse. «Tenga giù le mani» scattò. Il capotreno assunse un tono profondamente formale. «Deve scendere.» Szara si rese conto che se non si fosse mosso sarebbe stato gettato giù dal treno, e così afferrò i bagagli e scese gli scalini di ferro fino al letto di scorie su cui erano posati i binari. Il capotreno si sporse dal vagone, prese una lanterna rossa che qualcuno gli passò dall'interno e la fece ondeggiare due volte verso il locomotore. Szara indietreggiò mentre il treno si rimetteva in moto con un sobbalzo. Lo guardò prendere velocità a mano a mano che gli scorreva davanti, una serie di volti bianchi incorniciati dai finestrini, e infine lo vide scomparire in lontananza, due lampade rosse sul retro del carro di servizio che si affievolivano lentamente fino a svanire nel buio. Il cambiamento fu repentino e assoluto. La civiltà era semplicemente scomparsa. Szara sentiva un vento leggero sul volto, un lieve strato di brina su un campo arato brillava al chiarore di un quarto di luna e il silenzio era ripetutamente interrotto dal verso di un uccello notturno, un richiamo modulato che sembrava provenire da molto lontano. Rimase fermo in silenzio per qualche istante, osservando la falce di luna che si offuscava e si rischiarava al ritmo dei banchi di foschia che vi passavano davanti nel cielo privo di stelle. Poi dal bosco che formava l'orizzonte più vicino una coppia di fari si mosse molto lentamente verso un punto cinquanta metri più in là lungo la strada. Szara scorse fili di nebbia che si levavano nei fasci di luce. "Ah." Con un sospiro afferrò le due borse e arrancò verso le luci, scoprendo a mano a mano che i suoi occhi si abituavano al buio una stretta stradina di campagna che attraversava i binari. "Il tenente generale Bloch" si disse. "Che organizza i suoi imbrogli con le ferrovie tedesche." L'auto raggiunse l'incrocio prima di lui e si fermò dolcemente. In qualche modo, pensò Szara, si era lasciato sfuggire un segnale: quell'incontro
aveva tutte le apparenze di un ripiego improvvisato. Tutto considerato, ne era sollevato. Il cuore dell'apparat aveva perso un colpo, ma ora era di nuovo in forma e pretendeva la consegna del pacco da Praga. Be', grazie a Dio lui ce l'aveva. A mano a mano che vi si avvicinava, l'automobile prendeva forma nel bagliore diffuso dai fari. Non era la stessa Mercedes Grosser con cui il generale Bloch si era allontanato dalla stazione di Ulma, ma i monarchi dell'apparat cambiavano macchina con la stessa noncuranza con cui cambiavano amante, e quella sera avevano scelto qualcosa di piccolo e anonimo per il Treff, l'incontro clandestino in un campo di barbabietole tedesco. Le sorelle di mezz'età nello scompartimento che Szara aveva recentemente occupato erano divertite, in un modo alquanto sentimentale, dal diverbio che era scoppiato fra i due studenti di ritorno dalla loro escursione sui Tatra. Il sentimento era ispirato dal ricordo dei loro figli; giovani nordici e sani simili a questi due, che di quando in quando si intestardivano su una sciocchezza piuttosto che su un'altra, come facevano tutti i ragazzi, e per poco non venivano alle mani. Le sorelle riuscivano a stento a trattenersi dal sorridere. La disputa era cominciata in modo alquanto allegro, una discussione sulla qualità dei fiammiferi cechi prodotti per i taglialegna e coloro che dovevano accendere fuochi all'aperto. Uno dei ragazzi era chiaramente soddisfatto della marca che avevano acquistato, mentre l'altro aveva qualche riserva. Sì, ammetteva che si accendevano con una certa regolarità, anche quand'erano bagnati, ma bruciavano soltanto per pochi secondi e poi si spegnevano: e quando le frasche per accendere il fuoco erano umide, questo era un inconveniente. L'altro ragazzo era deciso nella sua difesa. Il suo amico era forse cieco e ammattito? I fiammiferi bruciavano a lungo. No, non era vero. Sì che era vero. Erano proprio versioni in miniatura dei loro papà, intenti a discutere di politica, di motori o di cani. Mentre il treno si avvicinava alla minuscola stazione di Feldhausen, dove la ferrovia attraversava un ponte e si allontanava con una curva dal fiume Elster, venne scommesso qualche Groschen e intrapreso un esperimento. Il difensore dei fiammiferi ne accese uno e lo tenne sollevato mentre l'altro contava i secondi. Le sorelle finsero di non badarvi, ma erano state inesorabilmente catturate dalla disputa e presero silenziosamente a contare. Il primo ragazzo vinse senza problemi e i Groschen gli vennero doverosamente consegnati: offerti con allegria e accettati con umiltà, notarono approvando le sorelle. Il fiammifero aveva continuato a bruciare per più di
trentotto secondi, da un punto appena fuori Feldhausen all'estremità opposta della stazione e addirittura per un tratto della campagna. L'argomento era chiuso: erano fiammiferi eccellenti, l'ideale per boscaioli, rocciatori e chiunque avesse bisogno di accendere un fuoco. Mentre Szara si avvicinava all'auto, l'uomo accanto all'autista ne discese, gli tenne aperta la portiera posteriore e disse: «Cambio di programma» con un sorriso dispiaciuto. Il suo russo era elementare ma chiaro, pronunciato con la cadenza lenta caratteristica delle estremità sudorientali del paese, nei pressi del confine turco. «Non sarà così disagevole.» Era un uomo scuro con un ventre enorme; Szara poté distinguere un paio di baffi quasi canuti e radi capelli grigi disposti con cura sul cranio calvo. L'autista era giovane; un parente, forse addirittura il figlio del passeggero. Per il momento era tozzo e corpulento, con un inizio di doppio mento e i capelli alla sommità del capo che stavano cominciando a diradarsi. Szara prese posto sul sedile posteriore e l'auto ripartì con cautela nella nebbia della sera. «Avete cercato di contattarmi a Praga?» domandò. «Non siamo riusciti ad attirare la sua attenzione, ma non importa. Qual è quella che vogliamo?» Fece passare la borsa al di là del sedile. «Un bell'oggetto, non è vero?» disse l'uomo facendo scorrere una mano sul cuoio martellato con fare ammirato. «Sì» disse Szara. «Tutto qui?» «Tranne una pistola. Non ho osato farle passare la dogana. È in fondo al fiume.» «Non importa. Non è di pistole che abbiamo bisogno.» Szara si rilassò. Si chiese quando e come gli avrebbero fatto riprendere il viaggio per Berlino, ma era abbastanza pratico di simili Treffs da non disturbarsi a chiederlo. La Grande Mano manovrava tutti a suo piacimento. «Bisogna rispettare il protocollo» disse l'uomo infilando la mano sotto il cappotto. Estrasse un paio di manette e le porse a Szara da sopra lo schienale. L'auto entrò in un villaggio rurale, una serie di finestre buie e granai di pietra dai tetti di paglia, poi si ritrovò di nuovo fra i campi. Szara sentiva che il cuore gli batteva all'impazzata; impedì alla propria mano di sollevarsi e premere sul petto. «Come?» domandò.
«Regole, regole» rispose il grassone in tono sconsolato. Poi, leggermente infastidito: «C'è sempre qualcosa». Scosse le manette spazientito. «Bene, coraggio...» «Per cosa?» Za chto? «Non è per qualcosa, compagno.» Succhiò la saliva fra i denti. Gettò le manette in grembo a Szara. «Su, non mi faccia innervosire.» Szara sollevò le manette. Il metallo era grezzo, leggermente oleoso. «Le conviene fare come dice» lo minacciò il giovane autista in un tono di voce querulo e incerto. Era chiaro che desiderava dare ordini ma temeva che nessuno gli obbedisse. «Sono in arresto?» «In arresto? In arresto?» Il grassone si fece una gran risata. «Crede che lo stiamo arrestando!» L'autista cercò di imitarlo, ma non ne aveva la voce. Il grassone puntò un tozzo dito indice contro Szara e socchiuse un occhio. «Se le metta subito, abbiamo discusso a sufficienza.» Szara sollevò i polsi al chiaro di luna che penetrava dal parabrezza posteriore. «Dietro la schiena. Ma non sa proprio niente?» Il grassone fece un gran sospiro e scosse il capo. «Non si preoccupi, non le succederà niente. È soltanto una di quelle cose che bisogna fare... sarà di certo al corrente, caro compagno, della quantità di cose che tutti dobbiamo fare. Dunque mi accontenti, le dispiace?» Tornò a girarsi sul sedile con fare sdegnoso e aguzzò lo sguardo nella nebbia che si levava dalla strada. Quando si mosse, Szara poté udire il fruscio del suo cappotto di lana sui rivestimenti dei sedili. Fece scattare la manetta sul polso sinistro e lo portò dietro la schiena, reggendo l'altra manetta nella destra. Per qualche istante, i due uomini sul sedile anteriore rimasero in silenzio. La strada risaliva in un bosco in cui regnava un buio profondo. Il grassone si sporse in avanti e scrutò attraverso il parabrezza. «Fa' attenzione» disse. «Non vorrei investire un animale.» Poi, senza voltarsi, soggiunse: «Sto aspettando». Szara fece scattare la manetta attorno al polso destro. L'auto uscì dalla foresta e cominciò a scendere una collina. «Fermati qui» disse il grassone. «Accendi la luce.» L'autista fissò il cruscotto e ruotò una manopola; un tergicristallo raschiò il parabrezza. I due uomini risero e l'autista lo spense. Un altro tasto non produsse alcun risultato. Poi la luce dell'abitacolo si accese. Il grassone si sporse in avanti e rovistò nella borsa ai suoi piedi. Ne e-
strasse un foglio di carta e lo studiò socchiudendo gli occhi. «Dicono che lei sia furbo come un serpente» soggiunse rivolto a Szara. «Non sta nascondendo niente, vero?» «No» rispose Szara. «Se necessario, la farò confessare.» «È tutto lì.» «Non sia così depresso. Mi farà scoppiare a piangere.» Szara non disse nulla. Si mosse sul sedile per sistemare meglio le mani e guardò la sagoma nebulosa della luna fuori dal finestrino. «Bene» disse alla fine il grassone «è la vita.» Un lamento acuto li raggiunse da dietro una curva, e subito dopo apparve il faro di una motocicletta. Sfrecciò loro accanto a gran velocità, con un passeggero aggrappato alla vita del conducente. «Stupidi pazzi» disse il giovane. «Questi tedeschi adorano le loro macchine» osservò il grassone. «Proseguiamo.» Superarono la curva da cui era sbucata la motocicletta. Szara vide altri boschi all'orizzonte. «Rallenta» disse il grassone. Tese la mano e spense la luce nell'abitacolo, poi prese a scrutare attentamente fuori dal suo finestrino. «Mi chiedo se non sia arrivato il momento di mettere gli occhiali.» «Non sei tu» disse l'autista. «È la nebbia.» Avanzarono con grande lentezza. Un sentiero sterrato per i mezzi agricoli partiva dalla strada inoltrandosi in un campo ridotto a una distesa di stoppia dalla mietitura. «Ah» esclamò il grassone. «Faresti meglio a tornare indietro.» Mentre l'auto arretrava si voltò verso Szara. «Vediamo le mani.» Szara si girò e gliele mostrò. «Non sono troppo strette, vero?» «No.» «Ancora quanto?» chiese l'autista. «Poco. Non ho intenzione di spingere se questa baracca rimane bloccata in una buca.» L'auto avanzò lentamente sul sentiero sterrato. «Bene» disse il grassone. «Basta così.» Scese a fatica dall'auto, fece qualche passo, si girò e orinò. Abbottonandosi la patta si avvicinò alla portiera di Szara e la aprì. «La prego» disse indicandogli di scendere. Poi, rivolto all'autista: «Tu resta qui e tieni acceso il motore». Szara scivolò sul sedile, fece ruotare le gambe fuori dall'auto, si piegò in avanti e riuscì ad alzarsi. «Facciamo due passi» disse il grassone, prendendo posizione appena
dietro di lui e leggermente alla sua destra. Szara percorse qualche metro. Dal suono del motore capì che uno dei cilindri era difettoso e fuori tempo. «Molto bene» soggiunse il grassone. Estrasse una piccola pistola automatica dalla tasca della giacca. «C'è qualcosa che vorrebbe dire? Magari una preghiera?» Szara non rispose. «Gli ebrei hanno preghiere per ogni cosa, di sicuro anche per questo.» «C'è del denaro» disse Szara. «Soldi e gioielli d'oro.» «Nella sua borsa?» «No. In Russia.» «Ah» disse afflitto il grassone «ma non siamo in Russia.» Armò l'automatica con mano esperta, e un refolo improvviso di vento gli alzò qualche ciocca di capelli dal cranio. Se le lisciò con cura. «Allora...» disse. Il lamento della motocicletta tornò a farsi udire, aumentando rapidamente di volume. Il grassone imprecò sottovoce in una lingua che Szara non conosceva e abbassò la pistola lungo la coscia cosicché fosse invisibile dalla strada. Giunto quasi alla loro altezza, il motociclista scalò facendo grattare la marcia e imboccò il sentiero nel campo sollevando una nuvola di terra. La luce del suo faro percorse Szara e il grassone, che spalancò la bocca per la sorpresa. Dalle vicinanze della macchina una voce chiamò in tono urgente. «Ismailov?» Il grassone era sbalordito, momentaneamente ammutolito. «Che succede? Chi siete?» disse quindi. La fiammata dello sparo fu come un lampo arancione: trasformò il grassone in un negativo fotografico, le braccia spalancate come le ali di un uccello sollevato dal vento mentre più in basso una scarpa volava via. Atterrò come un sacco e mugolò come se si fosse schiacciato il pollice con un martello. Szara si gettò a terra. Dall'auto, il giovane autista chiamò suo padre fra i secchi spari di una pistola. «È ferito?» Szara alzò lo sguardo. Il piccolo gnomo chiamato Heshel lo sovrastava, e i suoi occhi scintillavano al chiaro di luna sopra il naso adunco e il sorriso scaltro. Il suo berretto era abbassato in modo ridicolo sulle orecchie e un'ampia sciarpa gli fasciava il collo ed era infilata sotto la giacca abbottonata. Fra le dita della mano destra stringeva tre cartucce da caccia. Fece scattare la canna della doppietta e la caricò. «Chi è che mugola?» chiese una voce nei pressi dell'auto. «Ismailov.»
«Heshie, per favore.» Heshel riarmò la doppietta e si avvicinò al grassone. Sparò con entrambe le canne e il mugolio cessò. Tornò davanti a Szara, tese un braccio verso di lui, gli infilò una piccola mano sotto l'ascella e tirò. «Coraggio» disse «si alzi.» Szara si rimise in piedi a fatica. Davanti alla macchina, l'altro uomo stava trascinando fuori l'autista per le caviglie. Il corpo si afflosciò a terra. «Guarda» disse l'uomo. «È suo figlio.» «Il figlio di Ismailov?» chiese Heshel. «Credo di sì.» Heshel si avvicinò e guardò il corpo. «E ti basta questo per capirlo?» L'altro non rispose. «Forse è meglio che tu faccia partire la moto.» Mentre Heshel recuperava la chiave delle manette e liberava Szara, l'altro prese una manovella da dietro il sedile del passeggero e la collegò a un dado su un lato del motore. L'abbassò con forza un paio di volte e la motocicletta tossì e si avviò sputacchiando. Heshel gli fece cenno di affrettarsi e l'uomo montò sulla moto e partì. Quando il suono del motore cominciò a dileguarsi, poterono udire i latrati dei cani. Heshel fissò per qualche istante il sedile anteriore dell'auto. «Guardi nel bagagliaio» disse a Szara. «Di solito c'è uno straccio.» A Berlino pioveva e avrebbe continuato a piovere, una pioggia lenta, triste e insistente che scintillava nera sugli alberi spogli e lucidava le tegole dei tetti scurite dalla fuliggine. Szara guardava fuori da una finestra ai piani alti, osservando gli ombrelli che in strada si muovevano come fantasmi. Gli sembrava il tempo privato di quella città: i berlinesi, lo si poteva percepire, vivevano nel profondo di se stessi, dove covavano vecchi insulti e ambizioni frustrate di ogni sorta, che li imprigionavano dentro una cortesia simile a ferro battuto e uno spirito acidulo che non sembrava mai avere l'intenzione di ferire ma che lasciava, in modo apparentemente casuale, un piccolo livido. Martedì notte, Heshel aveva accompagnato Szara al capolinea di una tratta ferroviaria locale, da cui lui aveva preso il treno del mattino per Berlino. Una volta salito si era spinto a passi pesanti fino in bagno e, intontito dalla rassegnazione, si era costretto a guardarsi allo specchio. Ma i suoi capelli erano gli stessi di sempre, e Szara aveva latrato una risata priva di allegria rivolto alla propria immagine. "Ancora e sempre vanità, malgrado
tutto." Ciò che temeva era qualcosa che aveva visto, e più di una volta, durante la guerra civile e la campagna contro la Polonia: uomini di tutte le età, anche adolescenti, condannati a morte di sera e il mattino seguente condotti davanti al muro di una scuola o di un ufficio postale con i capelli di un bianco grigiastro. Szara aveva preso un taxi e si era fatto portare a un indirizzo fornitogli da Heshel, una casa privata alta e stretta sulla Nollendorfplatz nella parte occidentale di Berlino, non lontano dalla Holländische Taverne dove gli avevano detto che avrebbe potuto consumare i pasti. Una donna silenziosa vestita di seta nera gli aveva aperto la porta, l'aveva accompagnato in una soffitta a due spioventi con una brandina e l'aveva lasciato solo. Szara supponeva che fosse una casa sicura usata dalla fazione di Renate Braun, ma il tragitto a bordo dell'auto di Ismailov e i pochi istanti apparentemente finali in un campo di stoppie gli impedivano una normale percezione del mondo: non era più sicuro di quello che provava di preciso. Heshel, guidando a gran velocità e scrutando la strada attraverso il volante (il lato sinistro del parabrezza era crivellato di proiettili, e attorno a ciascun foro si era formata una merlettatura smerigliata), aveva rivolto un segnale con i fari ad altre due auto e a una seconda motocicletta che sfrecciavano sulla strada. E così Szara si era fatto quanto meno un'idea della portata dell'operazione. Ciò nonostante, Heshel non sembrava sapere né curarsi del perché Szara fosse diretto a Berlino, e quando lui gli aveva offerto la borsa, era semplicemente scoppiato a ridere. «Io?» aveva detto facendo sbandare l'auto in una doppia S. «Io non prendo niente. Quello che è suo è suo.» Che cosa volevano? Usare il materiale nella borsa che giaceva ai suoi piedi. Screditare i georgiani (Ismailov e Khelidze avevano soltanto quel collegamento, per quanto ne sapeva). E chi erano? Non i suoi amici all'Ufficio esteri. Chi, allora? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che gli avevano rifilato la patata bollente. I ragazzini delle cittadine ebraiche della Polonia e della Russia facevano quel gioco con un sasso. Se te lo ritrovavi in mano quando la conta arrivava a cinquanta, peggio per te. Ti sarebbe toccato mangiare un boccone di terra, o di cacca di cavallo. La penitenza cambiava ma il principio non mutava mai. E c'era sempre qualche piccolo bastardo dalla scorza dura come Heshel a farlo rispettare. Heshel era un tipo che Szara conosceva da sempre, quello che in yiddish
si chiamava un luftmentsh. Questi luftmentshen, uomini dell'aria o uomini privi di sostanza, li si vedeva ogni mattina eccetto quella del sabato, in piedi davanti alla sinagoga locale con le mani in tasca, in attesa di un impiego giornaliero, di una commissione, di qualsiasi opportunità si presentasse. Erano uomini che sembravano non avere famiglia né villaggio, una popolazione irrequieta di lavoratori a giornata che vagava per la Polonia orientale, l'Ucraina, la Bielorussia, per tutti i distretti ebraici, disponibile per chiunque avesse qualche copeco da elargire. La parola aveva un secondo significato ironico che, come in molte altre espressioni yiddish, infiorava la traduzione letterale. Luftmentshen significava anche eterni studenti, anime perdute, giovani che passavano la vita a discutere di politica nei caffè e vagando fra le comunità studentesche d'Europa: dotati, intelligenti ma mai capaci di trovare veramente se stessi. Eppure Szara sapeva che lui e Heshel erano forse più simili di quanto fosse disposto ad ammettere. Erano entrambi cittadini di un paese mitico, un luogo che non era segnato sulle carte geografiche, i cui confini si espandevano e si contraevano senza cambiare nulla. Un mondo in cui ognuno era un luftmentsh di un tipo o di un altro. I Territori, quindici province nella Russia sudoccidentale (fino al 1918, anno in cui la Polonia era tornata a essere una nazione), si estendevano da Kovno a nord, quasi sulle coste del Baltico, a Odessa e Simferopol' a sud, sul Mar Nero; e da Poltava a est, nella Russia storica, a Czestochowa e Varsavia a ovest, nella Polonia storica. Bisognava anche includere Cracovia, L'vov, Ternopol' e luoghi simili, che fino al 1918 avevano fatto parte dell'impero austro-ungarico. Aggiungendovi le città di altri paesi dall'esistenza precaria (Vilna in Lituania e Jelgava in Lettonia) e il fatto che la gente era convinta di appartenere a questa o quella regione, la Bessarabia, la Galizia (che prendeva il nome dalla Galizia spagnola dalla quale gli ebrei erano stati espulsi nel 1492), la Curlandia o la Volinia, che cosa ottenevi? Ottenevi un paesaggio politico che era compreso al meglio dai servizi segreti e dai gruppi rivoluzionari, terreno fertile per entrambi gli schieramenti, spesso nello stesso tempo; e perché no? Che cosa può esserci di male in un nome falso o in un nom de révolution se il tuo non ha mai significato molto? Nel Diciannovesimo secolo, la burocrazia austro-ungarica aveva concesso agli ebrei il diritto di chiamarsi come volevano. Molti avevano scelto nomi tedeschi, credendo di accattivarsi le simpatie dei loro vicini di lingua germanica. Quei nomi venivano poi spesso traslitterati nella lingua d'origine, per esempio il polacco. E così
una versione della traduzione tedesca di «compartecipe» (e perché mai? Nessuno lo sapeva) era diventata Szara, con la sz polacca al posto della s tedesca che veniva pronunciata sch. In seguito, con il passare del tempo, dei mutamenti politici e delle migrazioni, era cambiata di nuovo, questa volta nella III russa. E alla nascita di Szara, sua madre aveva voluto sottolineare il quieto orgoglio di una parentela francese e aveva scelto il nome André invece che il polacco Andrej o il russo Andrei. Un uomo inventato. Un uomo dell'aria. Come si poteva determinare la fedeltà di un uomo simile? In una terra in cui nel migliore dei casi le alleanze politiche mutavano di continuo, spesso pervase dai fumi del misticismo chassidico, una terra in cui molti credevano che il nome Polonia fosse una versione dell'ebraico polen, che significava «qui resterete» e veniva pertanto interpretato come una buona notizia proveniente dal cielo. L'Ochrana dello zar reclutava nei Territori fin dal 1878, alla ricerca di infiltrati (poiché era vero che gli ebrei vagavano, rispuntando da qualsiasi parte nei panni di venditori ambulanti, mercanti, compratori alle aste e simili figure) durante la guerra contro la Turchia. E così, quando dopo il 1903 gli uomini dell'Ochrana e la fazione bolscevica avevano cominciato a scontrarsi, spesso c'erano ebrei in entrambi gli schieramenti: uomini di due mondi e di nessuno, sempre stranieri e pertanto mai sospettati di esserlo. Tendevano a presentarsi in un luogo portandosi dietro la loro specialità. Il padre di Szara era cresciuto nella Ternopol' austro-ungarica, dove aveva imparato il mestiere di orologiaio, e con il passare del tempo era diventato quasi cieco a causa del lavoro di precisione svolto con una luce insufficiente. Da giovane, alla ricerca di un clima economico migliore in cui allevare i suoi figli, si era trasferito nella città di Kišinëv, dove era sopravvissuto al pogrom del 1903 e da dove era fuggito a Odessa appena in tempo per il pogrom del 1905, al quale non era sopravvissuto. A quel punto, tutto ciò che riusciva a vedere erano ombre grigie, e forse per un attimo era rimasto sorpreso dalla forza dei pugni e dei calci sferrati dalle ombre. Alla sua morte, André, sua madre, un fratello e una sorella maggiori avevano dovuto cavarsela come meglio potevano. Nel 1905, André aveva otto anni. Aveva più o meno imparato a cucire, così come suo fratello e sua sorella, e ce l'avevano fatta. Cucire era una tradizione ebraica. Richiedeva pazienza, disciplina e una sorta di autoipnosi, e forniva denaro sufficiente a consumare un pasto al giorno e a riscaldare una casa per parte dell'inverno. In seguito Szara aveva imparato a rubare, e poco dopo a vendere la refurtiva, dapprima al mercato della Moldavanka a Odessa, quindi nel
porto commerciale dove ormeggiavano le navi straniere. Odessa era famosa per i suoi ladri ebrei, nonché per i marinai di passaggio. Szara aveva imparato a vendere le merci rubate ai marinai, e con il passare del tempo aveva cominciato ad apprezzare i loro racconti più di qualsiasi altra cosa. Nel 1917, quando ormai aveva vent'anni e frequentava il terzo anno all'università di Cracovia, era definitivamente uno scrittore, uno dei molti che venivano da Odessa. Ciò aveva qualcosa a che fare con i porti di mare: strane lingue, viaggiatori esotici, campane notturne nel porto, onde che schiumavano sugli scogli, e sempre distanza, orizzonte, la linea in cui il cielo incontrava l'acqua, e appena al di là della tua visione genti che facevano cose che non potevi immaginare. Quando lasciò Cracovia era già stato un socialista, un socialista radicale, un comunista, un bolscevico e un rivoluzionario in tutto: qualsiasi cosa potesse diventare per opporsi allo zar, perché era quello che importava più di ogni altra cosa. Dopo Kišinëv, dove all'età di sei anni aveva udito gli abitanti del luogo percuotere i ciottoli con i manici delle fruste per preparare le loro vittime al pogrom, dopo Odessa, dove aveva trovato suo padre semisepolto in una strada di fango con una coda di maiale infilata in bocca ("così trattiamo gli ebrei troppo virtuosi per mangiare maiale"), che cos'altro poteva fare? Perché i pogrom erano il regalo dello zar ai suoi contadini. Poteva dar loro poco altro, e così, quando la miseria esercitava una pressione troppo forte, quando non riuscivano più a sopportare il loro destino nei villaggi fangosi e nelle cittadine ai logori confini dell'impero, venivano incoraggiati a stanare gli assassini di Cristo e ricambiare uccidendone qualcuno. I pogrom venivano annunciati da manifesti; la polizia pagava le spese di stampa e il denaro proveniva dal ministero degli Interni, che agiva seguendo le direttive dello zar. Un pogrom allentava la tensione e, in generale, sistemava le cose: era una ridistribuzione della ricchezza, un primitivo esercizio di controllo demografico. E così i Territori avevano prodotto una gran quantità di Szara. Intellettuali che conoscevano le capitali d'Europa e parlavano le loro lingue, che scrivevano bene e con passione, che avevano un gran gusto e un talento per la vita clandestina. Per sopravvivere in quanto ebrei in un mondo ostile avevano imparato la doppiezza e il travestimento: non mostrare rabbia, che faceva infuriare i persecutori di ebrei, e ancora meno gioia, che li rendeva ancora più furiosi. Nascondevano il successo in modo che non li si vedesse prosperare, e avevano imparato abbastanza in fretta a non farsi vedere del
tutto: a camminare in pieno giorno per una strada - la strada sbagliata nella zona sbagliata - risultando invisibili. Lo zar aveva molti più problemi di quanto avesse mai immaginato. E quando era giunto il suo momento, a capo di una squadra della Ceka c'era un certo Yakov Yukovskij, un ebreo di Tomsk. Yukosvkij che, rifugiato politico a Berlino, si era dichiarato luterano, anche se lo zar non era nelle condizioni di apprezzare una simile ironia. Vissuti in un paese mitico, un luogo che non era segnato sulle carte geografiche, quegli intellettuali di Vilna e Gomel' avevano contribuito a crearne un altro e l'avevano chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Che nome! Non era affatto un'unione. I Soviet (i consigli dei lavoratori) l'avevano governata più o meno per sei settimane; il socialismo aveva impoverito tutti quanti, e soltanto le mitragliatrici impedivano alle repubbliche di trasformarsi in nazioni. Ma per Szara e per gli altri come lui non aveva importanza. Aveva messo a repentaglio la sua vita, preferendo morire trovandosi all'estremità sbagliata di un fucile piuttosto che a quella di un bastone, e per dodici anni (fino al 1929, quando Stalin era giunto al potere) aveva vissuto in una sorta di mondo dei sogni, un paese mitico in cui gli ebrei idealisti e intellettuali reggevano le fila, letteralmente un paese della mente. Le teorie fallivano, i contadini morivano, la terra stessa si inaridiva per la disperazione. Eppure loro lavoravano venti ore al giorno e giuravano di possedere le risposte. Non poteva durare. Chi era quella gente? Chi erano quei polacchi e lituani, lettoni e ucraini, quegli individui con barbette corte, grossi nasi e occhiali che parlavano in francese con aria di superiorità e leggevano libri? Stalin lo aveva chiesto. E tutti i piccoli Stalin avevano risposto. "Ci chiedevamo la stessa cosa anche noi, ma nessuno aveva il coraggio di dirlo apertamente.'' La pioggia insistente si abbatteva su Berlino; da qualche angolo della casa la radio della proprietaria trasmetteva un'opera tedesca, le tende pendevano flosce alla finestra e odoravano dell'aria viziata di una soffitta in disuso. Szara si infilò l'impermeabile con la cintura e percorse le strade bagnate finché trovò una cabina telefonica. Chiamò il dottor Julius Baumann e riuscì a farsi invitare a cena. Baumann sembrava sospettoso e distante, ma il telegramma di Neženko era stato preciso: l'informazione era richiesta entro il 25 novembre. A Berlino non c'era alcun ufficio stampa sovietico, avrebbe dovuto inoltrarla usando quello dell'ambasciata, e il 25
novembre era l'indomani. E così aveva dato una spintarella a Baumann: a volte il tatto era un lusso. Szara tornò lentamente alla casa alta e trascorse il pomeriggio in compagnia dell'Ochrana, di Dubok, della Compagnia petrolifera del Caspio e di Treffs organizzati trent'anni prima nei bassifondi di Tbilisi, Baku e Batum. Volevano che facesse l'agente segreto, e lui lo fece. Temerario, eroico, la mascella contratta dalla determinazione, per cinque ore lesse rapporti in un'anonima stanzetta sotto una pioggia martellante senza mai assopirsi. Villa Baumann si ergeva dietro un alto muro al limitare dei sobborghi occidentali della città, in un quartiere in cui i giardinieri potavano le siepi fino a creare pareti lisce e superfici piatte e gli architetti stupivano la loro clientela con torrette e timpani e ornamenti grazie ai quali le ville sembravano colossali case di bambola. Uno strattone alla corda di una campana di bordo all'ingresso fece accorrere un domestico, un uomo tozzo dalle immense mani rosse e dalle spalle pendenti che indossava una giacca da casa di velluto verde. Borbottando in un dialetto che Szara riusciva a malapena a comprendere, gli fece strada lungo un sentiero che fiancheggiava Villa Baumann e terminava davanti alla dépendance della servitù sul retro della proprietà e si allontanò, lasciandolo solo a bussare alla porta. «Presumo che Manfred le abbia fatto strada» disse Baumann in tono secco. «Questo era il suo alloggio, ovviamente.» L'edificio era piccolo e semplice, alquanto gradevole per un domestico. «Ma il nuovo regime ha adottato un approccio più... più equo alla domiciliazione.» Baumann era alto e magro, con labbra sottili e incolori e il volto ascetico e privo di senso dell'umorismo di un principe medievale o di uno studioso monastico. La sua carnagione era bianca, come se il vento o il sole non l'avessero mai sfiorata. Poteva essere sulla cinquantina, ed era calvo dalla fronte alla sommità del capo, cosa che inevitabilmente faceva ricadere l'attenzione sugli occhi freddi e verdi, gli occhi di un uomo che vedeva ciò che gli altri non scorgevano ma che sceglieva di non rivelare ciò che aveva visto. Qualunque cosa fosse, tuttavia, lo infastidiva leggermente: questo lo lasciava trasparire. Per Szara, ebreo tedesco significava soprattutto tedesco, una posizione di significativa altezzosità nel disegno dell'Europa centrale, una cultura in cui precise cortesie, raffinatezze intellettuali e discrete ricchezze concorrevano a creare un'enorme distanza dagli ebrei russi e, sebbene ciò non fosse mai dichiarato esplicitamente, anche da gran parte dei cristiani.
Ciò nonostante, a Szara piaceva. Malgrado l'occhiata da medusa che questi gli scoccava dall'alto di un naso lungo, delicato e principesco: "e lei chi è?". A cena erano in quattro: Herr Doktor e Frau Baumann, Szara e una giovane donna che gli venne presentata come Fräulein Haecht. Mangiarono in cucina, in mancanza di una sala da pranzo, seduti a un tavolo traballante coperto da un'abbagliante tovaglia bianca di damasco con ricami azzurri e argento. Il servizio di porcellana mostrava principi indiani e principesse dalle labbra carnose e dagli orecchini d'oro durante una gita in barca su un lago di montagna, ed era colorato di rosso e di un nero lucente con bordi dorati. A un certo punto, i denti della forchetta di Szara raschiarono la scena e Frau Baumann chiuse gli occhi per esorcizzare il suono. Era una donnina grassoccia e laboriosa. Una principessa con una dote? Szara immaginava di sì. Mangiarono filetti di salmone in camicia e un timballo di riso e funghi circondato da un anello di gelatina. «Il mio vecchio negozio mi serve ancora» spiegò Frau Baumann, e il tacito naturalmente fu perfettamente udibile. «Nell'orario di chiusura, capisce, Herr Szara, dalla porta sul vicolo. Ma lo fanno ancora. Preparano le cose più deliziose, e io sono abbastanza donna di casa da riuscire a riscaldarle.» «Ciò richiede una piccola gratifica» aggiunse Baumann. Aveva una voce sorda e profonda che sarebbe stata appropriata per un sermone. «Naturalmente» ammise Frau Baumann «ma la nostra cuoca...» «Una patriota rara» disse Baumann. «E un'uscita di scena memorabile. Nessuno avrebbe immaginato che Hertha fosse capace di tenere un discorso.» «Eravamo stati così buoni con lei» disse Frau Baumann. Szara avvertì l'inizio di un'alluvione emotiva e si affrettò a troncarla sul nascere. «Ma ve la state cavando molto bene, non mangiavo in questo modo...» «Non ha torto» convenne Baumann in tono sommesso. «Ci sono dei brutti momenti, troppi, e uno sente la mancanza degli amici. Più di ogni altra cosa. Ma noi, la mia famiglia intendo, è venuta in Germania trecento anni fa, prima che esistesse una cosa chiamata Germania, e ha sempre vissuto qui, nei momenti belli e in quelli brutti. Siamo tedeschi, questo è il fatto, e ne siamo orgogliosi. Ne abbiamo dato prova in pace e in guerra. Sicché questa gente può renderci le cose difficili, a noi ebrei e anche agli altri, ma non può spezzare il nostro spirito.»
«Proprio così» disse Szara. Ci credevano? Forse Frau Baumann. Avevano mai visto uno spirito spezzato? «La vostra decisione di restare è, se posso dirlo, coraggiosa.» Baumann rise soffiando aria dal naso, la bocca sfigurata dall'ironia. «A dire il vero non abbiamo scelta. Lei si trova alla presenza della Gesellschaft Baumann, dichiarata un'impresa strategicamente necessaria.» L'interesse di Szara era esplicito, ma Baumann rifiutò con un gesto la discussione di simili argomenti. «Verrà a trovarci domani. Farà una visita completa.» «Grazie» disse Szara. Poteva dire addio all'idea di inoltrare il pezzo in tempo. «La direzione della "Pravda" ha richiesto materiale per un articolo. È consigliabile che un ebreo attiri l'attenzione in questo modo? In una pubblicazione sovietica?» Baumann rifletté per un istante. «Lei è franco, Herr Szara, e io lo apprezzo. Forse mi concederà di rimandare la risposta a domani.» "Perché sono qui?" «Naturalmente, capisco.» Frau Baumann era trepidante. «Siamo costretti a restare, capisce, Herr Szara. E la nostra posizione è già abbastanza difficile. Si sentono cose terribili, e si vedono scene in strada...» Baumann interruppe sua moglie. «Herr Szara ha gentilmente acconsentito a fare ciò che desideriamo.» Szara capì perché Baumann gli piaceva: era sempre stato attratto dal coraggio. «Herr Szara, di certo gradirà ancora un po' di timballo.» La frase proveniva dal posto alla sua sinistra, da Fräulein Haecht, ovviamente invitata per bilanciare il tavolo. Sulle prime, in quel piccolo vortice di agitazione che circonda l'ingresso di un ospite, la sua presenza l'aveva soltanto sfiorato: una stretta di mano, un saluto educato. Non era evidentemente una persona interessante: una giovane donna dagli occhi timidi il cui ruolo era quello di occupare la quarta sedia e offrirgli il timballo di riso e funghi. I capelli raccolti in una cipolla da zitella, un orrido vestito blu di lana a maniche lunghe che riusciva in qualche modo a essere informe e rigido al tempo stesso, con un minuscolo colletto di pizzo attorno alla gola, era l'eterna nipote o cugina, una presenza invisibile. Ma ora Szara si accorse che la ragazza aveva due occhi, grandi e dolci e castani, liquidi e intensi. Riconobbe il suo sguardo interrogativo come un trucco provato e riprovato davanti allo specchio di una toeletta, l'unico istante della serata che lei avrebbe reclamato come suo.
«Oh sì, la prego» esclamò Frau Baumann. Szara prese il vassoio, retto delicatamente da una piccola mano dalle unghie mangiucchiate, lo posò accanto al suo piatto e si servì del cibo che non voleva. Quando alzò gli occhi lei era scomparsa, di nuovo dietro la maschera. La sua era la sorta di carnagione olivastra che non arrossiva nel vero senso della parola, ma Szara credette di vedere un'ombra scura appena sopra il colletto di pizzo. «... proprio l'altro giorno... i giornali inglesi... non si può continuare così... amici in Olanda.» Frau Baumann si era lanciata in una valutazione emotiva della situazione politica tedesca. "Quanti anni hai?" pensò Szara nel frattempo. "Venticinque?" Non riusciva a ricordare il suo nome. «Mmm» mugolò, annuendo vigorosamente rivolto alla padrona di casa. Com'era vero. «E si sentono notizie così belle dalla Russia, di come sia costruita dai lavoratori. La guerra sarebbe un tale spreco.» «Mmm.» Szara sorrise entusiasta. «I lavoratori...» Terminato di mangiare, Fräulein Haecht giunse le piccole mani in grembo e prese a fissare il suo piatto. «Non si può permettere che accada, non di nuovo» disse Herr Doktor. «Credo che l'appoggio al regime attuale negli alti gradi dell'amministrazione civile e dell'esercito non sia affatto solido, e che quell'uomo non sia necessariamente il portavoce di tutta la Germania, eppure la stampa europea sembra sorda alla possibilità che...» «E ora» annunciò Frau Baumann battendo le mani «la crème bavaroise!» La ragazza si affrettò ad alzarsi e aiutò a sparecchiare la tavola e a preparare il caffè mentre Herr Doktor proseguiva a tuonare. Il vestito blu arrivava fino a metà polpaccio, e un paio di calze bianche a coste risaliva a incontrarlo. Szara vide che le scarpe con le stringhe si erano infradiciate sotto la pioggia della sera. «Anche in Austria la situazione è difficile, molto complessa. Se non sarà affrontata con delicatezza, potrebbe diventare instabile...» Accanto a un armadietto in un angolo della cucina, Frau Baumann fece una risata teatrale per mascherare l'imbarazzo. «Ma no, Marta cara, la fantasia di salici per il nostro ospite!» "Marta." «... deve esserci una riconciliazione e deve esserci la pace. Siamo vicini, tutti noi, non lo si può negare. I polacchi, i cechi, i serbi desiderano soltan-
to la pace. È possibile che le democrazie occidentali non lo vedano? Eppure cedono alla prima occasione.» Herr Baumann scosse il capo con fare dolente. «Hitler ha rioccupato la Renania nel 1936, e i francesi sono rimasti dietro la loro linea Maginot senza fare nulla. Perché? Non riusciamo a capirlo. La singola, decisa avanzata di una divisione di fanteria francese: non ci sarebbe voluto altro. Eppure non è accaduto. Credo... no, francamente so... che i nostri generali sono rimasti a bocca aperta. Hitler aveva previsto come sarebbe andata, ed è finita proprio così, e all'improvviso loro hanno cominciato a credere ai miracoli.» «Ma adesso la terribile politica dev'essere accantonata, Herr Szara» disse Frau Baumann «perché è arrivato il momento di fare i birichini.» La crema bavarese, un tremante stagno vellutato color caffè in una coppetta, apparve davanti a Szara. Con il lento trascorrere della serata, sorseggiando il cognac nell'angusto soggiorno, il dottor Julius Baumann divenne riflessivo e nostalgico. Rievocò i tempi in cui studiava a Tubinga, dove le organizzazioni studentesche ebraiche si dedicavano entusiasticamente al consumo di birra e alla scherma, seguendo la moda del momento. «Divenni un buono spadaccino. Riesce a immaginare una cosa simile, Herr Szara? Ma eravamo ossessionati dall'onore, e così ci allenavamo finché riuscivamo a reggerci in piedi, ma almeno potevamo rispondere a un insulto con una sfida a duello, come facevano tutti gli altri studenti. Io ero alto, e così il nostro presidente - ora è in Argentina, e Dio solo sa come vive - mi convinse a dedicarmi alla sciabola. Ma io ci rinunciai. Non volevo certo una di queste!» Si tracciò la classica cicatrice da sciabola sul volto. «No, portavo il panciotto imbottito e la maschera intera, non quella che lascia scoperta la guancia, e mi esercitavo nell'arte della spada. Affondo! In guardia. Affondo! In guardia. Un giorno d'inverno riuscii a toccare due volte il grande Kiko Bettendorf in persona, che l'anno successivo andò alle Olimpiadi! Ach, quelli sì che erano bei tempi.» Baumann raccontò anche di come aveva studiato, spesso da mezzanotte all'alba, per mantenere alto l'onore della famiglia e prepararsi ad assumere le responsabilità che avrebbe ereditato da suo padre, proprietario della Ferriera Baumann. Laureatosi in ingegneria siderurgica, quando suo padre era andato in pensione aveva convertito l'azienda di famiglia in una trafileria. «Ero dell'opinione che l'industria tedesca dovesse specializzarsi per essere competitiva, e così ho accettato la sfida.»
Aveva sempre visto la sua vita come una sfida, e Szara se ne rese conto. Dapprima a Tubinga, poi come tenente d'artiglieria sul fronte occidentale, ferito nei pressi di Ypres e decorato al valore, poi nella conversione dell'azienda di famiglia e nella sopravvivenza durante la spaventosa inflazione del periodo di Weimar («Pagavamo i nostri operai con le patate; il mio ingegnere capo e io andavamo a prenderle in Olanda con i camion!») e ora nella sfida di restare in Germania quando così tanti, centocinquantamila ebrei su un totale di cinquecentomila, avevano abbandonato tutto e avevano ricominciato come immigrati in terre lontane. «Così tanti dei nostri amici se ne sono andati» disse in tono dolente. «Siamo così isolati, ormai.» Frau Baumann rimase seduta, attenta e silenziosa, durante il discorso, e con il passare del tempo il suo sorriso si irrigidì leggermente: "Julius, marito carissimo, ti amo e ti rispetto, ma quanto la fai lunga". Ma Szara udì ciò che a lei sfuggiva. Ascoltò con grande attenzione e studiò ogni gesto, ogni tono di voce. E vide emergere un certo profilo, come inchiostro simpatico su un foglio bianco trattato con sostanze chimiche. Un uomo coraggioso e indipendente, un uomo con una certa posizione e influenza, un patriota, si ritrova all'improvviso a contrastare duramente il proprio governo in un momento di crisi politica; un uomo la cui azienda, qualunque essa sia in realtà, è stata ufficialmente definita "impresa strategicamente necessaria" che dichiara, a un rappresentante semiufficiale del nemico giurato del suo paese, di essere "così isolato". Tutto ciò poteva significare soltanto una cosa, Szara lo sapeva, e l'equivoco telegramma con cui Neženko gli aveva affidato quell'incarico cominciava ad assumere un senso. Quella che Szara aveva giudicato una manifestazione di una nuova, contorta linea politica moscovita ora raccontava un'altra storia. Il momento della rivelazione sarebbe giunto, ne era praticamente certo, durante la «visita completa» della trafileria Baumann. La danza dei saluti cominciò alle dieci precise, quando Frau Baumann accettò con cortese disperazione l'inevitabilità del ritorno di Szara al suo alloggio e ordinò al marito di riaccompagnare Fräulein Haecht a casa dei suoi genitori. Ah, ma no, ribatté Szara, Herr Doktor non doveva assolutamente scomodarsi, era un obbligo che intendeva assumersi lui stesso. Come? No, era impensabile, non potevano permettergli di fare una cosa simile. Perché no? Certo che dovevano permettergli di farlo. No, sì, no, sì, andò avanti così con la ragazza seduta in silenzio a fissarsi le ginocchia mentre loro se la disputavano. Alla fine fu Szara ad avere la meglio, diventan-
do nel mentre emotivo e profondamente russo. Cenare così splendidamente per poi costringere il padrone di casa a uscire in piena notte? Mai! Quello di cui aveva bisogno era una lunga passeggiata per sottolineare i piaceri della cena. L'attacco si dimostrò irrefutabile e lo condusse alla vittoria. Vennero presi i debiti accordi per l'incontro del giorno dopo, e Szara e Fruälein Haecht vennero cerimoniosamente accompagnati al cancello e consegnati alla notte. La notte si era trasformata in qualcosa di molto diverso. Dopo il crepuscolo, la pioggia del pomeriggio era diventata neve: una neve soffice e lieve, notturna, che cadeva lentamente da un cielo basso e senza vento. Rimasero sorpresi: semplicemente non era la stessa città di prima, e risero sbalorditi. La neve scricchiolava sotto le loro scarpe, copriva i rami degli alberi, i tetti e le siepi, trasformava le strade in campi bianchi o in cristalli argentati in cui i lampioni spezzavano il buio. All'improvviso la notte era immensamente silenziosa, immensamente riservata; la neve restava attaccata ai loro capelli e trasformava in nebbia i loro respiri, li circondava, attutiva il mondo, lo ripuliva, lo seppelliva. Szara non aveva idea di dove vivesse la ragazza e lei non suggerì alcuna direzione, e così si limitarono a vagare. Camminare fianco a fianco rendeva facile conversare, confidarsi, dire quello che passava per la testa, perché il silenzio e la neve facevano sembrare vuote le frasi circospette. In un momento simile non si poteva essere feriti, prometteva la nevicata. Alcune delle cose che lei disse lo sorpresero. Per esempio, non era una cugina o una nipote come aveva pensato. Era la figlia dell'ingegnere capo e vecchio amico di Baumann. Szara si era chiesto come mai fosse rimasta in Germania, ma la risposta era semplice: non era ebrea. Per questo, spiegò, suo padre sarebbe quasi certamente diventato il proprietario ariano dell'azienda, come decretavano le nuove leggi; ma lui aveva già provveduto a far sì che gli interessi di Baumann venissero segretamente protetti fino al giorno in cui gli eventi li avrebbero riportati alla ragionevolezza. Suo padre era dunque un progressista? Un uomo di sinistra? No, per niente. Semplicemente un uomo di profonda correttezza. E sua madre? Distante e sognatrice, viveva in un mondo tutto suo, e chi poteva fargliene una colpa, visti i tempi che correvano? Era austriaca, cattolica, del Sud Tirolo al confine con l'Italia; forse in passato la sua famiglia era stata italiana. Lei stessa sembrava un po' italiana. Lui che ne pensava? Sì, lo pensava anche lui. Lei ne era lieta: le piaceva avere i capelli così
neri e la carnagione così olivastra in un paese che si considerava spaventosamente nordico e biondo. Apparteneva alla parte italiana della Germania, forse, dove il romanticismo aveva più a che fare con Puccini che con Wagner, dove significava sentimento e delicatezza e non il feroce Walhalla. Erano riflessioni così personali... sperava che a lui non dispiacessero le sue chiacchiere. No, no, niente affatto. Lei sapeva chi era lui, naturalmente. Quando Frau Baumann le aveva chiesto di essere la quarta a cena non gliel'aveva rivelato, ma lei aveva letto alcuni dei suoi articoli quando erano stati tradotti in tedesco. Provava un gran desiderio di conoscere la persona che aveva scritto quelle cose, ma era sicura che ciò non sarebbe mai accaduto, che la cena sarebbe stata annullata, che qualcosa sarebbe andato male all'ultimo istante. Generalmente lei non aveva quel tipo di fortuna. Erano quelli a cui le cose importavano poco a essere fortunati, pensava. Aveva ventotto anni, anche se sapeva di sembrare più giovane. I Baumann l'avevano conosciuta da bambina e per loro non era mai cresciuta, ma lo era, dopotutto. Si cresceva, e ci si ritrovava a lavorare per pochi Pfennig come assistente del caporedattore di una piccola rivista. Di quei tempi pubblicava cose terribili, ma o lo faceva oppure chiudeva. Non come lui. Sì, era un po' invidiosa del modo in cui lui girava il mondo, scriveva delle persone che incontrava e raccontava le loro storie. Lo prese per mano, guanto nel guanto in una strada deserta in cui una crosta di neve scintillava su un muretto. In quel momento, Szara avrebbe voluto gridare che aveva quarant'anni, che era rimasto ferito al punto che non provava più nulla e che la neve si scioglieva o tornava a diventare pioggia, ma lui no. Conosceva ogni aspetto deteriore degli Szara di questo mondo, i loro impermeabili e le loro reputazioni, e il loro bisogno di saccheggiare l'innocenza di ragazze come lei. Perché, che avesse ventotto anni o che stesse mentendo, lei era innocente. Camminarono all'infinito, per chilometri sotto la neve, e quando lui credette di riconoscere una strada nei pressi della casa in cui alloggiava, lo disse. Lei lo guardò per la prima volta in diversi minuti, il suo volto acceso dalla passeggiata notturna, ciuffi di capelli sfuggiti alla terribile cipolla, e si sfilò un guanto. Lui fece lo stesso, e per toccarsi si gelarono. Lei gli disse che non doveva preoccuparsi, i suoi genitori pensavano che dormisse da un'amica. Poi si baciarono, le labbra asciutte e fredde, e sotto la lana umida del suo cappotto lui percepì una schiena rigida.
In camera, lei divenne all'improvviso controllata, quasi timida. Forse era la stanza in se stessa, pensò Szara. Forse le sembrava modesta e anonima, non l'ambiente che avrebbe immaginato per lui. Szara sorrise comprensivo e si strinse nelle spalle: "Sì, è così che vivo la mia vita, non chiedo scusa". Appese i cappotti e accostò le scarpe inzuppate al calorifero sibilante. La stanza era buia, illuminata soltanto da una piccola lampada; si sedettero sul bordo del letto, parlarono a voce bassa e con il passare del tempo ricatturarono parte della grazia sconosciuta che avevano scoperto sotto la neve cadente. Lui le prese le mani nelle sue e disse che le loro esistenze erano diverse, molto diverse. Sarebbe ripartito quasi immediatamente da Berlino, non si tratteneva mai a lungo in un luogo e forse non sarebbe tornato per molto tempo. Presto, per uno come lui sarebbe stato difficile anche soltanto scrivere a qualcuno in Germania. Sì, era una serata magica, non l'avrebbe mai dimenticata, ma l'avevano rubata a un mondo al crepuscolo, e presto sarebbe calato il buio. Intendeva dire... Ora l'avrebbe accompagnata a casa. Forse era meglio così. Lei scosse il capo ostinata, evitando il suo sguardo, e gli strinse le mani. Nel silenzio potevano udire la neve che cadeva. «C'è un posto in cui mi posso spogliare?» domandò. «Solo in fondo al corridoio.» Annuì, gli lasciò andare le mani e si allontanò di qualche passo dal letto. Szara distolse lo sguardo. La udì sbottonarsi, sentì lo scivolare della lana sulla seta quando lei si sfilò il vestito dalla testa, e della seta sulla seta quando si tolse la sottoveste. La udì arrotolare le calze bianche, spostare il peso da un piede all'altro, slacciarsi il reggiseno, far scivolare in basso le mutande e liberarsene. A quel punto non riuscì più a non guardarla. Lei si sciolse i capelli che le ricaddero attorno al volto, increspati nei punti in cui li aveva fissati. Aveva una vita sottile e seni pallidi e pieni che si sollevavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro, fianchi larghi e gambe forti. Szara si lasciò sfuggire un sospiro inconsapevole. Lei era ferma al centro della stanza, impacciata, la pelle olivastra una mezzatinta nella luce soffusa, il capo inclinato con fare incerto, quasi di sfida. Era desiderabile? Szara si alzò e ripiegò di alto il lenzuolo e lei gli passò accanto a passi lenti e pesanti sul pavimento di legno e scivolò nel letto con cautela, fissando il soffitto mentre lui si spogliava. Szara le si coricò accanto su un fianco, la testa appoggiata su una mano. Lei si voltò verso di lui e fece per dirgli qualcosa, ma lui aveva già capito e la fermò. Quando, in modo quasi speculativo, le toccò i capezzoli con il palmo della mano, lei trasse un sec-
co respiro fra i denti serrati e chiuse gli occhi con forza, e se lui non fosse stato quello che era, se non avesse fatto tutto ciò che aveva fatto, sarebbe stato tanto stupido da chiederle se le aveva fatto male. Era troppo eccitato per essere abile come avrebbe desiderato; era la natura di lei, il miscuglio di generosità e brama, calore e tepore al tempo stesso, i punti gonfi e lisci, i contorni pallidi e scuri, l'esitazione di sorpresa nel suo respiro e il modo in cui abbandonava non l'innocenza (si era sbagliato; lei non era mai stata innocente) ma il pudore, il modo in cui superava le proprie barriere. «Sollevati leggermente» disse. Per un po' ebbe paura di muoversi, sentendo le mani di lei che tremavano sulla propria schiena; poi, quando lo fece, quando finì, se ne angustiò. Poco dopo lei scese dal letto e andò in fondo al corridoio senza preoccuparsi di indossare qualcosa, un grazioso ondeggiare nel suo passo, "so che stai guardando". Quando fece ritorno in camera, gli prese la sigaretta e la spense nel posacenere. Erano così tante le cose a cui pensava da tempo. Il mattino di giovedì era freddo e ventoso, con un cielo sporcato da brandelli di nubi grigie. Le strade che conducevano alla zona industriale all'estremità settentrionale della città erano fiancheggiate da colline di neve chiazzata di fuliggine. Al volante del taxi di Szara c'era un gigante color carne con due bandierine con la svastica incrociate e fissate alla visiera parasole con del nastro; mentre attraversavano il distretto di Neukölln, dove chilometri di fabbriche si mescolavano agli alloggi dei lavoratori, canticchiava canzoni da birreria e ciarlava sulle virtù della Nuova Germania. La trafileria Baumann si dimostrò difficile da trovare. Alte mura di mattoni marroni, un nome annunciato da un piccolo cartello scolorito, come se quelli che contavano dovessero già sapere dov'era. Szara guardava divertito il taxista, il cui volto era distorto dallo sforzo miope di trovare il cancello d'ingresso. Un Baumann in versione lavorativa lo attendeva in un ufficio stipato che si affacciava sulle linee di produzione. Szara lo trovò teso, iperattivo, lo sguardo che guizzava da ogni parte e per nulla elegante con un maglione verde dal collo a V indossato sotto la giacca per combattere il gelo della fabbrica. La visita venne illustrata con grida che superavano a stento il fracasso dei macchinari.
Szara si sentiva leggermente frastornato. Era arrivato ancora in preda a uno stato mentale da amante, sensuale ed eccitato, e i fuochi ruggenti dei forni e lo sferragliare delle cinghie gli martellavano le tempie. L'acciaio era l'ultima cosa al mondo alla quale aveva voglia di pensare. Un brutto momento: venne presentato a Herr Haecht, un uomo arcigno in grembiule che distolse l'attenzione dai fogli di riscontro su una lavagnetta quando Baumann gridò il suo nome. Szara riuscì a rivolgergli un sorriso e una molle stretta di mano. In ufficio vennero serviti panini al pollo e caffè bollente. Quando Baumann sbatté la porta a vetri, il fracasso diminuì abbastanza da consentire una conversazione a tonalità quasi normali. «Che ne pensa?» domandò, desideroso di aver fatto colpo sul suo visitatore. Szara fece del suo meglio. «Così tanti operai...» «Centootto.» «Davvero un'impresa su vasta scala.» «Ai tempi di mio padre, che riposi in pace, non era che un laboratorio. Quello che lui non faceva, non valeva la pena di menzionarlo. Inferriate ornamentali, padelle, soldatini di piombo...» Szara seguì Baumann fino a un ritratto appeso al muro, un uomo dall'aria severa con due sottili baffetti. «E tutto a mano, cose che non si vedono più.» «Posso soltanto immaginare.» «Naturalmente, i sistemi non si possono paragonare» disse Baumann con fare diplomatico. «Nemmeno le nostre fabbriche più grandi sono maestose come le acciaierie sovietiche di Magnitogorsk. Diecimila uomini, si dice. Straordinario.» «Ogni nazione ha il suo approccio» osservò Szara. «Naturalmente, qui ci specializziamo. Siamo tutti sul Nichtrostend.» «Chiedo scusa?» «Lo si esprime meglio in inglese: austenite. Quello che è conosciuto come acciaio inossidabile.» «Ah.» «Quando avrà finito il suo panino, vedrà il meglio.» Baumann fece un sorriso da cospiratore. Il meglio venne raggiunto attraverso due porte massicce sorvegliate da un vecchio seduto su una sedia da cucina. «Ernest è il nostro uomo più anziano» disse Baumann. «Dai tempi di mio padre.» Ernest annuì rispettosamente.
Entrarono in un ampio locale in cui alcuni operai lavoravano a due linee di produzione. La sala era molto più silenziosa e fredda del resto della fabbrica. «Qui non si forgia nulla» spiegò Baumann sorridendo del gelo che aveva sorpreso Szara. «Qui produciamo solo cavi stampati.» Szara annuì, estraendo una matita e un taccuino dalla tasca. Baumann sillabò il termine. «È un processo di stampo, barre di acciaio fatte passare attraverso un blocco scanalato sotto un'enorme pressione che produce cavi stampati a freddo.» Baumann lo fece avvicinare a una delle linee di produzione. «Vede? Avanti, lo prenda in mano.» Szara afferrò il cavo metallico. «Quello che stringe in mano è il 302, probabilmente il migliore che esista. Resiste agli agenti atmosferici, non si corrode, ed è molto più forte di un cavo realizzato con acciaio fuso. Si fonde soltanto a millequattrocento gradi centigradi, e ha una resistenza alla rottura superiore di circa un terzo a quella di un cavo temprato. La sua durezza può essere calcolata sui duecentoquaranta gradi della scala Brinell, contro gli ottantacinque di un cavo temprato. Nel complesso una bella differenza, ne converrà.» «Oh, sì.» «E non si allunga, è questo l'aspetto fondamentale.» «A cosa serve?» «Lo inviamo alla Rheinmetall sotto forma di fili multipli intrecciati a formare un cavo, processo che ne aumenta considerevolmente la resistenza ma lo fa rimanere flessibile per poter passare sotto o attorno a diverse barriere e restare estremamente sensibile ai comandi, anche a distanze considerevoli. È la qualità fondamentale dei cavi di comando.» «Cavi di comando?» «Sì, per gli aeroplani. Per esempio, quando il pilota regola i flap dalla cabina di comando, sono i cavi stampali Baumann che li fanno abbassare. Lo stesso vale per il timone di direzione sulla coda e per gli alettoni sulle ali. Si tratta di aerei da guerra! Devono virare e tuffarsi, scendere in picchiata all'improvviso. La risposta è tutto, e la risposta dipende dai migliori cavi di comando.» «Sicché giocate un ruolo importante nel riarmo della Luftwaffe.» «Per quanto riguarda la nostra specialità, lo si potrebbe definire preminente. Il nostro contratto con la Rheinmetall, che installa i cavi di comando su tutti i bombardieri pesanti, il Dornier 17, lo Heinkel 111 e lo Junkers 86, è esclusivo.» «Tutti i cavi stampati.»
«Esatto. È prevista una terza linea di produzione. Qualcosa che si aggira sui 145 metri per aeroplano... be', è una domanda alquanto ingente.» Szara esitò. Erano giunti sul ciglio; era come avvertire la tensione del tuffatore appena precedente il salto nel vuoto. Baumann restava animato da una suprema energia, espansivo, l'uomo d'affari fiero di ciò che aveva ottenuto. Capiva che cosa stava per succedere? Per forza. Aveva quasi certamente provocato quell'incontro, perciò doveva sapere quello che faceva. «È una storia interessante» disse Szara, arretrando dal ciglio. «Qualsiasi giornalista sarebbe lieto di conoscerla, naturalmente. Ma può essere raccontata?» "Una porta" pensò. "La varcherai?" «Sul giornale?» Baumann era perplesso. «Sì.» «Direi proprio di no.» Fece una risata allegra. "Amen." «Il mio caporedattore a Mosca mi ha informato male. Di solito non sono così ottuso.» Baumann fece schioccare la lingua. «Ma no, Herr Szara, lei non è affatto ottuso. Fra i cittadini sovietici che possono presentarsi in Germania, al di fuori dei membri del corpo diplomatico o delle missioni commerciali, la sua presenza è alquanto irrilevante. Di sicuro non apprezzata dai nazisti, ma non insolita.» Szara rimase leggermente ferito. "Sicché sai qualcosa della clandestinità, non è vero?" «Be', è difficile immaginare che i dati mensili sulla vostra produzione vengano pubblicati dalle riviste specializzate.» «Improbabile.» «Saranno considerevoli.» «Lo sono. In ottobre, per esempio, abbiamo inviato alla Rheinmetall circa 4500 metri di cavo 302.» Dividendo quella cifra per 145, calcolò Szara, si otteneva il numero di bombardieri prodotti mensilmente dal Reich. Anche se i carri armati sarebbero stati di grande interesse, nessuna cifra avrebbe potuto informare meglio gli strateghi militari sovietici sulle intenzioni e le capacità belliche dei tedeschi. Szara annotò la cifra come se stesse prendendo appunti per un articolo: "il nostro motto è sempre stato l'eccellenza, dichiara Baumann". «Notevole» osservò picchiettando con la matita sul numero. «I suoi sforzi saranno sicuramente apprezzati.» «In certi ministeri è così.» "Ma non in altri." Szara rimise in tasca matita e taccuino. «È raro che un
giornalista incontri tanta sincerità.» «Ci sono tempi in cui la sincerità è necessaria.» «Forse ci rivedremo.» Baumann annuì con un piccolo, rigido inchino: un uomo di dignità e cultura aveva preso una decisione, aveva tenuto conto dell'onore e aveva dato la precedenza a considerazioni più ampie. Tornarono in ufficio e chiacchierarono per qualche minuto. Szara ribadì la sua gratitudine per la deliziosa serata. Baumann fu cortese, lo accompagnò al taxi quando l'auto arrivò, sorrise, gli strinse la mano e gli augurò buon viaggio. Il taxi si allontanò sferragliando lungo i muri marroni delle fabbriche. Szara chiuse gli occhi. Lei era ferma al centro della stanza, la sua pelle olivastra una mezzatinta nella luce soffusa, i seni pallidi che si sollevavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro. "Marta Haecht" pensò. Il fato governa le nostre vite. Così sembravano credere gli slavi, e Szara aveva vissuto fra loro abbastanza a lungo da riconoscere il senso del loro pensiero. Si doveva semplicemente ammirare il tocco delicato del destino, il modo in cui intrecciava una vita, legava il desiderio al tradimento, l'ambizione all'invidia, vi aggiungeva idealismo, amore, falsi dei, treni mancati, tirava i fili con decisione, ed ecco che un essere umano danzava e lottava. In questo caso, si disse, si era verificata quella squisita manifestazione del fato nota come coincidenza. Un uomo va in Germania e si vede offrire simultaneamente la salvezza per la propria anima sofferente e una garanzia di sopravvivenza. Straordinario. Che cosa dovrebbe credere quest'uomo? Poiché riesce a capire che un rapporto clandestino con il dottor Baumann e i suoi cavi magici lo renderà talmente appetitoso per i servizi speciali che questi lo terranno in vita anche qualora il diavolo in persona cercasse di ghermirgli la caviglia. Per quanto riguarda la sua anima, ebbene, negli ultimi tempi gli aveva dato qualche problema. Un uomo i cui amici scompaiono quotidianamente deve imparare ad accoccolarsi accanto alla morte se non vuole impazzire: non si finisce sempre per sviluppare una sorta di affetto nato dalla vicinanza? Si tratta di un uomo in difficoltà. Un uomo che, seduto in un parco di Ostenda, si vede offrire quanto meno una possibilità di salvezza, ma poi si alza e si allontana per rispettare un appuntamento con coloro che ha ogni ragione di credere lo vogliano rapire, quest'uomo ha bisogno di una ragione per vivere. E se la ragione per vivere si trovasse a Berlino? Legata a doppio
filo ai mezzi stessi che gli garantiranno la sopravvivenza? Oh, una gloriosa coincidenza. In un universo vasto e cangiante, dove le stelle scintillano e muoiono nella notte eterna, si può scegliere di accettare ogni sorta di coincidenza. Szara lo fece. Restava, in mezzo a tali congetture, una grave difficoltà concreta, il documento dell'Ochrana, e il bisogno di soddisfare quello che ora vedeva come un secondo gruppo di padroni all'interno dell'apparat dei servizi segreti: Renate Braun, il generale Bloch. Poiché l'incarico di incontrare Baumann proveniva, ne era quasi sicuro, dai suoi tradizionali, vecchi amici del NKVD, quelli dell'Ufficio esteri, Abramov e altri, alcuni conosciuti, altri perennemente nell'ombra. Ora, per restare in vita, Szara avrebbe dovuto diventare un agente segreto: un NKVD individuale. Il mattino del 26 novembre, Szara inoltrò le informazioni come gli era stato ordinato, tramite l'ambasciata sovietica a Berlino. Non un rapporto, ma l'elaborazione delle informazioni che il telegramma di Neženko aveva richiesto: l'età e l'aspetto di Baumann, sua moglie, come vivevano, la fabbrica, la sua storia orgogliosa. Non una parola sui cavi stampati, soltanto «gioca un ruolo fondamentale nel riarmo tedesco». E a cena erano soltanto in tre. Di Marta Haecht non aveva intenzione di parlare. Se l'apparat avesse saputo in anticipo che cosa avrebbe ottenuto, ragionò Szara, avrebbe inviato un vero funzionario. No, si trattava di qualcuno che era stato informato di una potenziale opportunità a Berlino, di qualcuno che aveva detto al suo assistente: "Oh, mandaci Szara" immaginando che se fosse incappato in qualcosa di utile, lui li avrebbe informati. Era questa la natura del panorama spionistico come lo vedeva Szara: in un mondo di notte perpetua, mille segnali baluginavano nel buio, alcuni dei quali insignificanti o addirittura pericolosi. Nemmeno un'organizzazione delle dimensioni del NKVD era in grado di esaminarli tutti, e così di tanto in tanto si rivolgeva a un amico perspicace. Quelli dell'ambasciata lo stavano aspettando, e accettarono il suo rapporto senza fare commenti. Poi lo informarono che sarebbe dovuto rientrare a Mosca. Con la nave mercantile Kolstroi, in partenza da Rostock, sulla baia di Meclemburgo, alle cinque del pomeriggio del 30 novembre. Mancavano quattro giorni. "Richiamato a Mosca." Szara dovette fare uno sforzo per
non perdere l'equilibrio. La frase a volte significava arresto; la richiesta di ritorno era abbastanza educata, ma una volta che ti avevano fatto rientrare in patria... "No." Non lui, e non adesso. Poteva prevedere alcuni spiacevoli interrogatori. Da parte di «amici» che si sarebbero presentati a casa sua portando vodka e cibo. Quello era, quanto meno, il metodo consueto: "Siamo così felici di riaverti fra noi, devi raccontarci tutto del tuo viaggio". Devi proprio. Szara si calmò, decise di non pensarci e lasciò l'ambasciata con le tasche piene di denaro e un animo determinato, i due pilastri dello spionaggio. Lo stavano osservando? Il gruppo dell'Ufficio esteri? Il gruppo di Renate Braun? Immaginava di sì: grazie a Dio, di certo erano stati con lui durante il viaggio da Praga a Berlino. Molti di loro. Pensava di essere abbastanza esperto per poter seminare dei pedinatori. Ci impiegò tre ore: musei, stazioni ferroviarie, grandi magazzini, taxi, tram e ristoranti con uscite secondarie. Arrivò finalmente solo, almeno così gli sembrava, in un negozio di antiquariato. Qui acquistò un dipinto a olio del 1909 con una grossa cornice dorata. Di un certo professor Ebendorfer dell'università di Heidelberg, lo informò altezzosamente il proprietario. Un rettangolo di un metro e venti per uno realizzato in stile romantico: un giovinetto greco, un pastore, sedeva a gambe incrociate ai piedi di una colonna in rovina e suonava il flauto mentre il suo gregge pascolava nei paraggi, sotto un cielo di un azzurro intenso punteggiato di nubi fioccose da cui in lontananza si stagliavano montagne dalle cime innevate. Huldigung an Naxos, era intitolato, Omaggio a Naxos; e il professor Ebendorfer aveva abilmente apposto la sua firma nell'angolo inferiore destro, su un cespuglio di alloro brucato da un ariete. Rientrato in camera sua, Szara si mise seriamente al lavoro come avrebbe dovuto fare fin dall'inizio. E poiché non stava cercando niente di particolare, ma semplicemente svolgendo un compito meccanico grazie al quale la sua mente restava in uno stato indifferente e neutrale, alla fine scoprì tutto. E se ne pentì immediatamente. Quello che aveva trovato era puro veleno: la conoscenza che uccide. Ma era lì, davanti a lui. La sua intenzione era stata di lasciare a Berlino l'originale del dossier, che non avrebbe mai passato un'ispezione doganale russa, e portare con sé a Mosca un compendio, redatto con una stenografia personale, di fatti e circostanze. Usando un codice di date contemporanee e città insignificanti al posto di quelle del dossier, credeva di
poterli far passare come «appunti giornalistici» di fronte alle guardie doganali del NKVD. Quegli uomini erano molto diversi dagli agenti del NKVD che si occupavano di politica estera: erano scrupolosi, incorruttibili e ottusi. Erano alla sua portata. Il compito che si era prefisso era simile alla stesura di colonne di cifre, ma fu proprio quell'esercizio di tediosa trasposizione a far sorgere la risposta oltre l'orizzonte. Szara era abituato al modo di pensare dello scrittore: il lampo intuitivo o la prospettiva rivelatrice prodotti da una mente tenace. Copiare, pensava, era un lavoro da idioti. E così imparò una lezione. Per dare ordine all'impresa cominciò dall'inizio e procedette a elencare gli eventi settimana per settimana, mese per mese. Senza volerlo, aveva creato quella che i funzionari dei servizi segreti chiamavano una «cron», abbreviazione di cronologia. Poiché in quella disciplina il cosa e il chi erano di grande interesse, ma era spesso il quando a fornire informazioni utili. Prima della rivoluzione, i contatti fra i bolscevichi e l'Ochrana erano abbastanza comuni. Fra i rivoluzionari e i servizi speciali di un governo c'è quasi sempre un rapporto, a volte segreto, altre volte no. Si potrebbe dire che passano tanto di quel tempo a complottare gli uni contro gli altri che incontrarsi diventa per loro un destino inevitabile, ed entrambi spacciano tali collegamenti come raccolta di informazioni. In tal modo viene mantenuta un'illusione di verginità. Ma Dubok superava di molto i confini della normalità nei suoi rapporti con i servizi, comprava la propria salvezza con le vite dei suoi compagni e veniva coltivato dall'Ochrana come il germoglio più delicato che si potesse immaginare. Per lui, i servizi avevano duplicato la triste realtà dell'esperienza rivoluzionaria badando bene ad attenuarla, a cavarne i denti. Dubok era finito in prigione come tutti gli agenti clandestini, e come molti di questi era fuggito. Ma era la sua durata a rivelare la verità. L'avevano rinchiuso nella prigione di Bailov, a Baku (dove aveva trascorso il tempo a imparare il tedesco), ma l'avevano liberato quattro mesi dopo. Aveva dovuto subire anche l'esilio, ma era stato mandato a Solvychegodsk, nel nord della Russia europea, e non in Siberia. E da lì era «fuggito» dopo soli quattro mesi. Fortunato, Dubok. Due anni dopo era stato nuovamente «catturato» e rimandato a scontare la pena a Solvychegodsk, ma dopo sei mesi ne aveva avuto abbastanza: un tempo sufficiente a sentire che cosa avevano da dire gli altri esuli, e a mantenere la propria credibilità di bolscevico; poi, come un uomo legato a un filo, era tornato a casa. Dubok, questo stava diventando chiaro, era un criminale, dotato di una
mente criminale. Il suo metodo non variava mai: logorava la resistenza di coloro che lo circondavano dicendo quello che essi volevano udire (aveva un superbo intuito nel capire cosa fosse) e poi li sacrificava come vittime necessarie. Sfruttava la debolezza, fiaccava la forza e non esitava mai a soddisfare la propria sostanziale codardia. L'ufficiale dell'Ochrana, si rese conto Szara, lo manipolava senza problemi a causa di una vita trascorsa accanto ai criminali. Li capiva, li capiva così bene che era giunto a provare per loro una sorta di affetto dolente. Con il passare del tempo aveva sviluppato gli istinti di un prete: il male esisteva, la missione era operare produttivamente entro i suoi confini. L'ufficiale, se si leggeva fra le righe, appariva profondamente interessato all'effetto che Dubok esercitava sugli intellettuali bolscevichi. Erano uomini e donne spesso brillanti, che conoscevano le scienze, le lingue, la poesia, la filosofia. Dubok per loro era una sorta di simbolo, un'adorata creatura dei bassifondi, un delinquente illuminato, e il loro cameratismo nei suoi confronti confermava la loro condizione di membri di una società nuova. Uno studioso di scienze politiche, un filosofo, un economista, un poeta potevano fare la rivoluzione soltanto condividendo il proprio destino con un criminale. Dubok era il rappresentante ufficiale del mondo reale. E così loro sfruttavano qualsiasi occasione per aiutare la sua ascesa. E lui lo sapeva. E li odiava per questo. Comprendendo perfettamente la condiscendenza, vendicandosi con comodo, provando mentre li cancellava dalla faccia della terra che l'uguaglianza era nelle loro menti, non nella sua. Ora, Szara aveva capito fin dall'inizio di avere per le mani un georgiano, e quando la sua mente perfettamente capace si prese il disturbo di fare qualche calcolo, un georgiano di almeno cinquantacinque anni con un passato da rivoluzionario a Tbilisi e Baku. Avrebbe potuto essere uno qualsiasi di una serie di candidati, fra cui i capi della khvost georgiana, ma a mano a mano che Szara si addentrava laboriosamente nel dossier, questi venivano eliminati dallo stesso Dubok. A beneficio dell'Ochrana, Dubok aveva scritto una descrizione del suo amico Ordjonikidze. Diciotto mesi dopo aveva menzionato il terrorista armeno Vartan, sorpreso mentre partecipava all'«espropriazione» di una banca di Baku; qualche pagina dopo faceva riferimento all'amabile Abel Yenukidze; e parlava male del suo odiato nemico Mdivani. Nel maggio del 1913 aveva subito pressioni per compromettere il rivoluzionario Berija, ma non era mai riuscito a fare altro che parlarne. Dopo un giorno e mezzo, André Szara non poteva più sfuggire alla veri-
tà: si trattava di Koba in persona, di Iosif Vissarionovič Džugašvili, figlio di un ciabattino violento e ubriacone di Gori, del sublime condottiero Stalin. Per undici anni, dal 1906 al 1917, era stato il maiale preferito dell'Ochrana, per cui aveva dissotterrato i tartufi più rari e deliziosi che la lotta clandestina nascondeva in modo così sconsiderato ai suoi nemici. "Questa stanza" si disse Szara fissando il cielo grigio sopra Berlino. "Vi accadono troppe cose." Si alzò dalla scrivania, si stirò la schiena, accese una sigaretta e andò alla finestra. La signora vestita di seta frusciava al piano di sotto, svolgendo le azioni misteriose che occupavano la sua giornata. Più in basso, sul marciapiede, un vecchio reggeva il guinzaglio di un pastore tedesco brizzolato mentre il cane annaffiava la base di un lampione. Szara trascorse parte del mattino di domenica a rimuovere il lurido panno di cotone che sigillava il retro di Huldigung an Naxos, a distribuire i fogli del dossier dell'Ochrana sul retro del dipinto e ad assicurarli con dello spago legato alle capocchie di minuscoli chiodi fissati con un martelletto. Rimise a posto il panno con cura, riposizionando i chiodi piegati nei fori e nelle scanalature arrugginite che essi avevano formato nel corso degli anni. Il peso della cornice dorata nascondeva la presenza del documento, e "fra cent'anni un restauratore...". Lunedì calcò per la prima volta le scene nei panni di un tedesco, parlando in modo lento e riflessivo, eliminando la cadenza yiddish dal suo accento nella speranza di passare per un individuo un po' strano nato lontano da Berlino. Scoprì che pettinandosi i capelli all'indietro, stringendo il nodo della cravatta e tenendo il mento in una posizione che a lui sembrava particolarmente alta, il travestimento era credibile. Assunse il nome di Grawenske, a suggerire lontane origini slave o sassoni, niente affatto rare in Germania. Chiamò l'ufficio di un banditore d'aste e si fece dare il numero di un magazzino specializzato in arte («L'umidità è il suo nemico!» gli disse il banditore). Herr Grawenske vi si presentò alle undici in punto, spiegò che era stato assunto come contabile da una piccola azienda chimica austriaca in Cile, borbottò qualcosa sulla sorella di sua moglie che avrebbe occupato la sua residenza e affidò al magazzino il capolavoro del professor Ebendorfer perché lo imballasse e lo conservasse. Pagò per due anni, una cifra sorprendentemente ragionevole, fornì un indirizzo falso di Berlino e ritirò la ricevuta. Il resto degli effetti personali dell'ufficiale e la bella borsa venne-
ro distribuiti a negozi che sostenevano opere di carità. Marta Haecht gli aveva dato il numero di telefono della piccola rivista presso la quale era «assistente del caporedattore». Szara cercò di chiamarla diverse volte, infreddolito fino al midollo mentre il piatto crepuscolo berlinese calava sulla città. La prima volta era andata a fare una commissione dallo stampatore. La seconda qualcuno ridacchiò e disse che non sapeva dov'era. Al terzo tentativo, ormai prossimo alla fine della giornata lavorativa, Marta giunse al telefono. «Parto domani» disse Szara. «Posso vederti stasera?» «C'è una cena. L'anniversario di matrimonio dei miei genitori.» «Più tardi, allora.» Marta esitò. «Tornerò a casa...» "Come?" Poi Szara capì che doveva esserci qualcuno accanto al telefono. «A casa dal ristorante?» «No, non si tratta di questo.» «A casa a dormire.» «Sarebbe meglio.» «A che ora finisce la cena?» «Non posso andarmene subito. Spero che tu capisca. È un avvenimento, una festa...» «Ah.» «Devi proprio partire domani?» «Non posso evitarlo.» «Allora non vedo come...» «Ti aspetto. Forse c'è un modo.» «Ci proverò.» Il campanello suonò appena dopo le undici. Szara si precipitò al pianterreno, oltrepassò la porta socchiusa della padrona di casa e fece entrare Marta. Giunta nella piccola stanza, lei si tolse il soprabito. Un alone di freddo notturno le era rimasto incollato alla pelle, e Szara lo avvertì. Indossava un vestito da sera blu di taffetà increspato. La schiena era un profluvio di gancetti e occhielli. «Fa' attenzione» gli disse mentre lui annaspava per slacciarli. «Non posso restare troppo. Qui da noi non è corretto abbandonare una festa.» «Che cosa hai raccontato?» «Che un amico partiva.» Non fu una serata magica. Fecero l'amore, ma la tensione in lei non si
spezzò. Dopo, ne fu rattristata. «Forse non sarei dovuta venire. Era più dolce conservare il ricordo della neve.» Con la punta delle dita, lui le scostò i capelli dalla fronte. «Non ti rivedrò più» disse Marta. Si morse il labbro per impedirsi di piangere. Lui l'accompagnò a casa, fin quasi sulla soglia. Si diedero un bacio d'addio freddo e asciutto, e non ci fu nient'altro da dire. Alla fine di novembre del 1937, la nave mercantile sovietica Kolstroi levò l'ancora dal porto di Rostock, risalì lentamente l'insenatura di Warnemünde, entrò nella baia di Lubecca e, virando a nord nel Baltico, fece rotta a nord-est fiancheggiando la penisola di Sassnitz e passando a sud dell'isola danese di Bornholm, diretta al porto di Leningrado a circa ottocentoquaranta miglia marine di distanza. La Kolstroi, carica di macchine utensili, pneumatici per camion e sbarre di alluminio caricate nel porto francese di Boulogne, aveva attraccato a Rostock soltanto per completare l'effettivo dei suoi undici passeggeri diretti a Leningrado. Risalendo l'insenatura di Warnemünde nel buio incipiente, la Kolstroi continuò a suonare la sirena da nebbia, unendosi a un coro di mercantili in entrata e in uscita da Lubecca, dove i banchi di nebbia del Baltico venivano sospinti verso terra dal forte vento del nord. André Szara e gli altri passeggeri sarebbero stati liberi di salire in coperta soltanto una volta che la nave avesse oltrepassato i confini territoriali tedeschi. Quando Szara riuscì finalmente a prendere una boccata d'aria, dopo gli spazi angusti della sala in cui avevano cenato, la visibilità era scarsa; non si scorgevano le luci della costa tedesca ma soltanto l'acqua nera che gonfiava l'onda lunga di novembre e un vento sempre più forte che sferzava il ponte di metallo con spruzzi gelidi, formando una lastra di ghiaccio color piombo. Szara resistette finché poté, lo sguardo perso nella nebbia che sfilava attorno alle luci della nave, senza mai scorgere la terraferma. La Kolstroi era territorio sovietico; Szara aveva sentito di essere sotto il suo enorme peso ancora prima che salpasse, i suoi averi sparsi su un tavolo sotto lo sguardo glaciale di un ufficiale della sicurezza. Per quell'individuo "il giornalista Szara" non significava nulla; era un Homo Staliens, un orologio travestito da essere umano. Szara era lieto di essersi sbarazzato del dossier dell'Ochrana prima di lasciare Berlino: nell'atmosfera che regnava a bordo del mercantile, il solo ricordo gli metteva paura. I passeggeri formavano un gruppo variegato. C'erano tre universitari in-
glesi, con carnagioni color crema e sguardi luminosi, giovani terribilmente seri in un viaggio da sogno verso quella che credevano fosse la loro patria spirituale. C'era un rappresentante di commercio di mezz'età che aveva contratto una malattia (tentativo di fuga, immaginò Szara) ed era giunto a bordo trascinato da agenti del NKVD. Le punte delle sue scarpe raschiavano la passerella di legno mentre i due lo trasportavano sulla nave: era stato evidentemente narcotizzato. Non era l'unico passeggero che tornava in patria a morire. Formavano una strana confraternita, silenziosa, riservata, essendosi abbandonati a un destino che consideravano inevitabile; l'uomo che era stato trascinato a bordo provava l'inutilità della fuga. Dormivano di rado, bramosi di godersi le ultime ore di introspezione, passeggiando in coperta quando riuscivano a sopportare il freddo, muovendo le labbra mentre provavano immaginari colloqui con i loro inquisitori. Più che altro si evitavano l'un l'altro. Una conversazione con un diplomatico o uno scienziato in disgrazia sarebbe stata segnalata dagli attenti agenti della sicurezza e, chi poteva saperlo?, sarebbe magari diventata una prova a carico, una prova rivelatrice scoperta soltanto nelle ultime ore del viaggio verso casa ("Credevamo che fossi pulito finché non ti abbiamo visto parlare con Petrov") e pericolosamente attraente per il gusto dell'ironia letale che caratterizzava il NKVD. Szara parlò con uno di loro, Kuscinas, ai suoi tempi un ufficiale delle brigate lettoni di fucilieri che avevano appoggiato Lenin quando questi aveva rovesciato il governo Kerenskij, ora un vecchio con il cranio rasato e un volto simile a un teschio. Eppure in Kuscinas c'era ancora una gran forza; i suoi occhi brillavano dal profondo delle orbite, e la sua voce era abbastanza sonora da farsi udire malgrado la burrasca. Mentre la Kolstroi s'innalzava e si abbatteva sul mare mosso al largo del golfo di Riga, Szara trovò rifugio sotto una rampa di scale dove potevano fumare e ripararsi dal vento sferzante. Kuscinas non disse mai esattamente che cosa aveva fatto; si limitò ad agitare la mano quando Szara glielo chiese, come a dire che non aveva importanza. Riguardo a ciò che stava per succedergli, sembrava aver smesso di preoccuparsene. «Mi dispiace per mia moglie, ma questo è tutto. Una donna sciocca, e testarda. Sfortunatamente mi ama e questo le spezzerà il cuore, ma non c'è nulla da fare. I miei figli li hanno trasformati in serpenti, tanto meglio per loro, credo, e mia figlia ha sposato un idiota che finge di dirigere una fabbrica a Kursk. Troveranno il modo di rinnegarmi, se non l'hanno già fatto. Sono sicuro che firmeranno qualsiasi cosa gli metteranno di fronte. Ma mia moglie...»
«Dovrà rivolgersi agli amici» disse Szara. Il vecchio fece una smorfia. «Amici» ripeté. Le lastre di acciaio della Kolstroi cigolarono quando la nave fece un'impennata particolarmente violenta e poi si schiantò nel ventre dell'onda, sollevando un'enorme esplosione di spruzzi. «E vaffanculo anche a te» disse Kuscinas rivolto al Baltico. Szara si resse alla parete di ferro e chiuse gli occhi per un istante. «Non si arrenderà, vero?» Lanciò lontano la sua sigaretta. «No» disse. «Sono un marinaio.» «L'arresteranno?» «Forse. Ma non credo.» «Allora ha gli amici giusti.» Annuì. «Fortunato. O forse no» disse Kuscinas. «Il tempo di arrivare a Mosca e potrebbero essere diventati quelli sbagliati. Di questi tempi, non si può mai dire.» Rimase zitto per qualche istante, lo sguardo rivolto dentro di sé, verso qualche episodio della sua vita. «Lei è uguale a me, suppongo. Uno dei fedeli, fa' quello che bisogna fare, non chiede di capirne il senso. La disciplina innanzi tutto.» Scosse il capo con aria afflitta. «E alla fine, quando arriva il nostro turno, e qualcun altro sta facendo quello che bisogna fare, qualcun altro che non chiede di capirne il senso, la disciplina del carnefice, tutto quello che riusciamo a dire è za chto? Perché? Per quale motivo?» Fece una risata. «Una domanda meschina» soggiunse. «Per quanto mi riguarda, non ho intenzione di farla.» Quella notte, Szara non riuscì a dormire. Rimase disteso sulla sua cuccetta a fumare, mentre l'uomo di fronte a lui borbottava incessantemente nel sonno. Szara conosceva la storia di quella domanda. Za chto? Se ne attribuiva l'uso iniziale al vecchio bolscevico Jacov Lifschutz, un vicecommissario del popolo. La sua ultima parola. Szara lo ricordava come un ometto con sopracciglia incolte, il pizzetto d'obbligo e uno sguardo luminoso. Strascicando i piedi lungo il corridoio piastrellato nei sotterranei della Lubjanka (venivi eliminato durante il tragitto, nessuno raggiungeva mai la fine di quel corridoio) si era fermato un istante, si era rivolto al suo boia, un ufficiale che aveva conosciuto da bambino, e aveva chiesto: «Za chto?». Insieme alla purga, la domanda si era diffusa ovunque; era stata scarabocchiata sulle pareti dei bagni, incisa sulle panche di legno dei «vagoni
Stolypin» che portavano via i prigionieri, scalfita sulle assi dei campi di transito. Erano quasi sempre le prime parole rivolte alla polizia che si presentava nel cuore della notte, e in seguito quelle di un uomo o una donna che entravano in una cella affollata. «Ma perché? Perché?» "Siamo tutti uguali" pensò Szara. "Non offriamo scuse o alibi, non lottiamo contro la polizia, non cerchiamo compassione, non imploriamo nemmeno. Non temiamo la morte; l'abbiamo sempre tenuta in conto, durante la rivoluzione come durante la guerra civile. Tutto ciò che chiediamo, da uomini razionali quali siamo, è di capirne il senso, il significato. Poi ce ne andremo. Soltanto una spiegazione. È chiedere troppo?" Sì. La ferocia delle purghe, Szara lo sapeva, dava loro ogni motivo di credere che ci fosse, che ci dovesse essere una ragione. Quando un certo ufficiale del NKVD veniva portato via, sua moglie piangeva. E così veniva accusata di resistenza all'arresto. Eventi simili, comuni, quotidiani, implicavano un disegno, un piano di base. Loro volevano soltanto venirne messi a conoscenza (di sicuro le loro stesse morti garantivano il diritto a una risposta), dopodiché avrebbero lasciato che le cose procedessero. Che cos'era un rivolo di sangue in più su un pavimento di pietra per coloro che l'avevano visto scorrere a fiumi sulle strade polverose di una nazione? L'unico insulto era l'ignoranza, una cosa che non avevano mai tollerato, una cosa che nemmeno ora riuscivano a sopportare. Con il passare del tempo, il culto di Za chto aveva cominciato a originare una teoria. In particolare con gli eventi del giugno 1937, quando l'unica alternativa rimasta al dominio del dittatore era stata fatta a pezzi. Quel giugno era giunto il turno dell'Armata Rossa, e quando il fumo si era diradato si era visto che era stata decapitata ma continuava a camminare. Il maresciallo Tuchačevskij, riconosciuto come il più grande soldato di Russia, era scomparso insieme a due dei quattro restanti marescialli, a quattordici dei sedici comandanti militari, a tutti gli otto ammiragli, a sessanta dei sessantasette comandanti dei corpi d'armata e così via. Tutti e undici i vicecommissari della difesa, settantacinque degli ottanta membri del Soviet supremo militare. Tutto questo, si erano detti (le fucilazioni, i campi minerari isolati dalla neve, un esercito praticamente distrutto dal suo stesso paese) poteva rivelare una sola intenzione: Stalin cercava semplicemente di cancellare qualsiasi potenziale opposizione al suo potere. Era il sistema dei tiranni: prima eliminare i nemici, poi gli amici. Era una manovra di consolidamento. Su scala gigantesca, stimabile in milioni di individui, ma che
cos'era la Russia se non una scala gigantesca? Che cos'era la Russia se non un luogo in cui un uomo poteva dire, nel corso dei secoli, che i tempi e gli uomini sono malvagi ed è per questo che sanguiniamo? Questo, per alcuni, chiudeva la faccenda. I vecchi bolscevichi, i membri della Ceka, i corpi ufficiali dell'Armata Rossa: quegli individui erano la rivoluzione, ma ora dovevano essere sacrificati perché il Grande Condottiero potesse regnare intatto e supremo. La schiena della Russia era spezzata, il suo spirito rinnegato, ma se non altro per molti la domanda aveva ottenuto una risposta, consentendo loro di proseguire nella propria banale attività esecutiva con rassegnazione e buona intesa. Un gesto finale da parte del partito. Ma si sbagliavano, non era così semplice. C'erano coloro che lo capivano; erano in pochi, e presto morivano, e con il passare del tempo anche i loro carnefici, e in seguito anche i loro. Il giorno seguente, Szara non vide Kuscinas. Poi, mentre la Kolstroi risaliva il golfo di Finlandia, mentre i primi ghiacci stagionali crepitavano contro lo scafo e le luci della fortezza di Kronštadt baluginavano nel buio, gli uomini della sicurezza e i marinai si lanciarono in una frenetica ricerca, passando la nave al setaccio; ma Kuscinas era scomparso, e non riuscirono a trovarlo. Rue Delesseux, 8 La rete OPAL - 1938 - Bruxelles/Parigi/Berlino DIRETTORE - CENTRO DI MOSCA YVES Rezidmt Bruxelles Capitano IJ. Goldman JEAN MARC Vicedirettore
ELLI Vicedirettore Parigi
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STERNA L. Brozina BIRRAIO A. Krafic
PERGOLA L. Húber «André Aronovič! Quaggiù!» Una voce femminile dal tono pressante si fece udire nel fracasso dell'affollatissimo salotto di un appartamento della zona della Mochovaja. Szara scrutò attraverso il fumo e scorse una mano che lo salutava. «Permesso» disse. «Chiedo scusa.» Scelse un percorso indiretto verso la mano e la voce, compiendo il giro largo per evitare i gomiti di coloro che erano riusciti ad arrivare al buffet. Mosca era devastata da carenze di quasi tutti i generi alimentari, ma lì c'era Sevruga nero, agnello alla griglia, pirožki, piselli sotto sale, pile di blini caldi e vassoi di salmone affumicato. Il risultato era la disperazione: una stanza piena di apparatchik, mandarini dell'agricoltura e della pianificazione stradale, del legname e della politica estera che, insieme a quelli dei servizi di sicurezza, cercavano di rimpinzarsi per la settimana a venire. Più di una tasca era rigonfia di carne, pesce affumicato e
SULTA F. Scheu
perfino burro: qualsiasi cosa riuscissero a trafugare. Per un attimo, Szara intravide un volto vagamente familiare che fece capolino sopra la spalla di un ufficiale della marina e poi scomparve. Una donna sofisticata, leggermente truccata, con un'acconciatura semplice ma elegante e ciondoli d'argento alle orecchie. La riconobbe più o meno nell'istante in cui si incontrarono: una Renate Braun curiosamente trasformata, che sfoggiava una camicia di seta color limetta e il sorriso timido e civettuolo che si vedeva nei cocktail al cinema. «Cielo, che folla!» esclamò sfiorandogli la guancia con la sua: una cara amica che semplicemente non vedeva abbastanza spesso. Vista per l'ultima volta mentre scuciva i risvolti dei pantaloni di un morto con una lametta da barba in un albergo equivoco di Ostenda, questa era una versione completamente diversa. «Deve conoscere il signor Herbert Hull» proruppe in un inglese dall'accento tedesco. Szara notò che aveva al seguito un uomo alto dai capelli biondo rossicci, con un volto segnato dalle intemperie e foltissime sopracciglia. Doveva avere circa quarantotto anni e, a giudicare dal portamento rilassato e dinoccolato, era evidentemente americano. Stava fumando, con una certa difficoltà, una sigaretta di makhorka arrotolata in modo approssimativo, un timido tentativo, giudicò Szara, di sentirsi parte della scena locale. «Herb Hull» disse. Aveva una stretta di mano energica, e quando strinse quella di Szara cercò qualcosa nei suoi occhi. «Herb era così ansioso di conoscerla» disse Renate Braun. «Conosciamo tutti André Szara» spiegò Hull. «Sono un grande ammiratore del suo lavoro, signor Szara.» «Oh, lo chiami André.» «Sì, la prego.» L'inglese di Szara era nel migliore dei casi incerto. Avrebbe fatto un'impressione terribile, esitante e in qualche modo importuna, cosa che succedeva spesso quando uno slavo parlava inglese. Sentiva già insinuarsi sul proprio volto un odioso sorriso suadente. «Herb è il direttore di una nuova rivista americana. Un'impresa molto importante. Se lo ricorderà, naturalmente, dai tempi in cui scriveva per "The Nation" e "The New Republic".» «Ah, sì.» Szara conosceva i nomi, ma sperava di non essere interpellato sugli specifici articoli. Il sorriso ansioso si allargò. «Ma certo. Considerevolmente.»
Vide che Renate Braun trasaliva, ma si lanciò. «Russia le sta piacendo?» «Non resto mai due giorni nello stesso posto, le cose vanno male, ma nel popolo c'è una forza irresistibile.» «Ach!» Finto orrore da parte di Renate Braun. «Ci conosce troppo bene.» Hull sorrise e scrollò le spalle. «Cerco di imparare, in ogni caso. È quello di cui abbiamo bisogno. Una conoscenza di prima mano, il senso della vera Russia.» «Sono sicura che André potrà aiutarla, Herb. Sicurissima.» «Sì?» disse Szara. «Perché no?» Hull inarcò le sopracciglia. «Dopotutto, io sono un direttore e lei è uno scrittore. Per una nuova rivista, be', un autore russo che parla dell'URSS sarebbe qualcosa di diverso, di meglio. Sono incline a crederlo. No?» «Ah, ma il mio inglese...» «Nessun problema, André. Saremo lieti di occuparci della traduzione, oppure potrebbe essere fatta qui. Non sarà perfetta, ma le garantisco che conserveremo il senso del suo pezzo.» «Ne sono onorato» disse Szara. Lo era. L'idea di apparire in un periodico di prestigio al cospetto del pubblico americano, e non dei soliti lettori del «Daily Worker», era immensamente piacevole. Il'ja Erenburg, il corrispondente numero uno della «Pravda», ci era riuscito, occupando il territorio giornalistico della guerra civile spagnola con tale efficacia che Szara era stato virtualmente confinato ad altre parti dell'Europa. Hull lasciò che la sua offerta venisse assorbita, quindi proseguì. «Renate mi ha detto che sta lavorando a un pezzo storico che potrebbe fare al caso nostro. Sarò sincero, pubblicare una cosa simile ci procurerebbe l'attenzione di cui abbiamo bisogno. E la pagheremo. Non saranno cifre da Hollywood, ovviamente, ma credo che ci troverà competitivi sul mercato di New York.» Renate Braun sembrava alquanto eccitata all'idea. «Ne abbiamo addirittura parlato, André Aronovič.» Szara la fissò. Che cosa stava dicendo? «Soltanto parlato» s'intromise Hull. Sapeva che cosa significava una certa espressione sul volto di uno scrittore. «Si tratta solo di un titolo provvisorio, ma posso già dirle che ha catturato la mia attenzione.» «Titolo?» «Il pezzo dovrà essere eccitante» disse Renate Braun. «Temo che le
norme per la realizzazione dei piani economici non saranno sufficienti. Dovrà avere...» Guardò Hull perché le suggerisse la parola. «Un intreccio?» «Sì. Proprio così. Un intreccio! Una storia del passato rivoluzionario della Russia, la sua storia segreta. Non sappiamo di sicuro su cosa lei stia lavorando, voi scrittori siete molto riservati sulle vostre idee, ma abbiamo pensato che fosse qualcosa tipo "Il misterioso uomo dell'Ochrana".» Si volse verso Hull. «Sì? È un buon inglese?» «Certamente. Abbastanza da guadagnare la copertina, direi.» Szara ripeté il titolo in russo, e Renate Braun annuì vigorosamente. «Il suo inglese è migliore di quanto creda, André Aronovič.» «Naturalmente» disse Hull «se vuole può sempre usare uno pseudonimo, non sono ignaro di quanto sia facile finire nei pasticci di questi tempi. Preferiremmo avere il suo nome, è ovvio, ma proteggeremo la sua identità, se questo la mette più a suo agio.» Szara si limitò a fissarlo. Quanto sapeva quell'uomo? Aveva la minima idea di cosa succedeva a coloro che facevano certi giochetti? Era coraggioso? Stupido? Entrambe le cose? «Allora, André, ci penserà?» domandò Hull scoccandogli un'occhiata intensa, la testa inclinata di lato a soppesare la sua preda. «Come può non farlo?» disse Renate Braun. «Un'occasione simile!» Quella sera, Szara camminò a lungo. Il suo minuscolo appartamento nel vicolo Volnitzkij non era distante dalla casa in cui si era tenuto il ricevimento, e così girò intorno al centro della città attraversando il fiume ghiacciato, una solitaria figura invernale imbacuccata in un cappello di pelliccia e un cappotto. Tenne gli occhi aperti per i besprizorniye, le bande di orfani delle purghe che aggredivano i passanti solitari rubando loro denaro e vestiti (i malcapitati, se non rimanevano uccisi da un colpo alla testa, potevano altrettanto facilmente morire assiderati), ma faceva evidentemente troppo freddo per la caccia. "Prima o poi" pensò "ogni ingranaggio va al suo posto, e il più delle volte preferiresti che non l'avesse fatto." Ora la libertà di azione che gli avevano lasciato a Praga e Berlino aveva trovato una spiegazione. Gli stavano dando il tempo di studiare il dossier, contando sul fatto che ci avrebbe ficcato il suo curioso naso di scrittore. Visto dall'esterno, un noto giornalista aveva scoperto una notizia che in circostanze normali avrebbe riferito al mondo intero. L'avevano protetto quando gli agenti della khvost georgiana l'avevano fatto scendere dal treno, e poi l'avevano lasciato libero di lavora-
re. E adesso gli stavano tranquillamente chiedendo di suicidarsi. Era pretendere troppo? Che una vita dovesse essere sacrificata perché centinaia, forse migliaia di altri potessero sopravvivere? Tutto quello che doveva fare era esercitare la sua attività naturale. Chi era il misterioso uomo dell'Ochrana? Ebbene, conosciamo qualche piccolo dettaglio. A, B, C e D. Un enigma nuovo e stimolante dall'enigmatica Russia. Forse un giorno scopriremo la sua vera identità. Cordiali saluti, André Szara. (Si prega di non inviare fiori.) Oppure, oh sì, lo pseudonimo. "Boris Ivanov ha prestato servizio presso il corpo diplomatico sovietico." Questo sì che avrebbe messo il NKVD su una falsa pista. Forse per un mese. O magari un anno. Non molto di più. Tuttavia, avrebbe di certo comunicato un punto di vista. Sappiamo quello che hai fatto e possiamo provarlo, ora smettila di ucciderci o ti rovineremo. Ricatto. La semplice politica all'antica. Vecchia come il mondo. Szara ammirava il piano, pur sentendosi non poco umiliato dalla propria illimitata capacità di illusione. Certe cose ora acquistavano un senso. Sul treno per Praga, il generale Bloch gli aveva anticipato, per quanto in modo indiretto, quello che avevano in programma per lui. Szara l'aveva trionfalmente frainteso, naturalmente, scambiando delle informazioni delicatamente enunciate per una sorta di pomposa filosofia, per una predica. Con qualche difficoltà, Szara strappò alla memoria le dichiarazioni del generale: «Certi uomini, in circostanze del genere, mettono a repentaglio la propria vita. Senza preoccuparsi delle conseguenze sfruttano l'occasione per sacrificarsi. E a quel punto abbiamo... un eroe!». In una strada deserta ricoperta di ghiaccio grigio, Szara si fece una sonora risata. Bloch aveva detto qualcosa sul suo atteggiamento verso se stesso dopo aver messo in evidenza, in modo alquanto abile, che non aveva moglie né figli. Cos'altro? Ah, sì. «Per fare lo scrittore c'è bisogno di impegno e sacrificio, la determinazione a seguire una certa strada, ovunque ti possa condurre.» Già. Be', ora si sapeva dove conduceva. Così come uno lo sapeva nel 1917, quando aveva vent'anni e che importanza aveva la morte? Fin dall'inizio, nel parco di Ostenda, Szara aveva intuito il suo destino. L'aveva schivato una volta o due, ma adesso se lo ritrovava davanti. Lo Szara che Bloch aveva trovato sul treno era, come i suoi fratelli rivoluzionari, un uomo che non aveva alcuna ragione di essere vivo, un uomo che era sfuggito già abbastanza a lungo all'inevitabile.
All'improvviso, le pareti dell'ironia crollarono e la vera angoscia gli invase il cuore. Si fermò di botto, il volto distorto dal dolore e dalla rabbia; un singhiozzo sorse in fondo alla gola e vi rimase incastrato, e Szara dovette mordersi il labbro per impedirsi di gridare la temuta domanda direttamente a Dio e alle strade di Mosca: "Perché adesso?". Perché adesso era tutto diverso. Sul treno per Praga Bloch aveva incontrato un certo tipo di uomo, ma adesso lui non era quell'uomo. Era l'uomo che preme il volto contro la pelle di una donna per inspirare un profumo tale che gli fa venir voglia di gridare dalla gioia. Era l'uomo che vortica fra la tenerezza e la furibonda lussuria come una trottola impotente, che ogni mattina si sveglia eccitato, che trascorre le sue ore a pensare a una cosa sola... ma con quanto talento ci pensa! Szara tornò in sé. Si riprese, trasse un respiro profondo, ricominciò a camminare. Non doveva aprire brecce nel muro dentro di sé: teneva fuori certe cose, ne teneva dentro altre. Ne aveva bisogno per sopravvivere. Si rese conto che il gelo aveva cancellato ogni sensazione dal suo volto e si diresse rapidamente verso casa. Più tardi si ustionò la bocca con il tè, seduto con il cappotto e il cappello di pelliccia al tavolo che sua moglie, soltanto pochi mesi prima di morire, gli aveva fatto spostare accanto alla finestra della cucina. Un tempo era stato un bel tavolo, un mobile di ciliegio assurdamente ornamentale con pesanti gambe decorate da volute. Usandolo in cucina, naturalmente l'avevano rovinato. Ora era un luogo da cui guardare l'alba bianca sorgere sopra i comignoli di Mosca, da cui sottili fili di fumo si ergevano immobili nell'aria ghiacciata e senza vita. L'interrogatorio di Szara (una forma di rapporto per coloro che collaboravano con i servizi speciali) era competenza del suo «amico» ufficiale a Mosca, Abramov. Ciò nonostante, era pur sempre un interrogatorio. E il fatto che venisse effettuato con la supervisione di un amico, nelle intenzioni dell'apparat lo rendeva peggiore, non migliore: un sistema che trasformava gli amici in ostaggi trattenuti a garanzia dell'onestà del soggetto. Se mentivi, se il tuo interrogatore ti credeva e se la tua menzogna veniva smascherata, eravate entrambi rovinati: cospiratori de facto. Poteva anche non importarti di salvare la tua miserabile pelle, ma forse ci avresti pensato due volte prima di assassinare un amico. Szara mentì. Sergej Abramov abitava ai piani alti dell'Ufficio esteri del NKVD, confidente delle divinità minori Shpigelglas e Slutskij se non ufficialmente al
loro stesso livello. Si presentava all'appartamento di Szara ogni mattina intorno alle undici con panini alle uova avvolti nella carta di giornale, una bustina di tè, a volte della vodka, di quando in quando tortine alle mandorle con uno strato appiccicoso di miele che ti costringeva a leccarti le dita mentre rispondevi alle domande. Era un uomo tarchiato e corpulento, attraente nella sua mole, con uno sciupato gessato blu la cui giacca era abbottonata sul ventre sopra un panciotto raggrinzito attraversato da tasca a tasca dalla catenella d'oro dell'orologio. Abramov aveva uno sguardo tagliente che catturava la luce, il naso rotto, una lobbia nera che non si toglieva mai e una folta barba nera che gli dava l'aspetto di un baritono di successo, di un artista abituato a essere accontentato e deciso a scatenare l'inferno in caso contrario. Si sedeva in cucina con le ginocchia divaricate, si infilava una sigaretta fra le labbra, l'accendeva con un lungo fiammifero di legno e poi socchiudeva gli occhi e ti ascoltava, apparentemente sull'orlo del sonno. Spesso faceva un lieve verso, un grugnito che poteva significare qualsiasi cosa: comprensione ("quanti guai hai passato") o incredulità, forse il riconoscimento che ciò che avevi detto era vero, forse il gemito di un uomo ingannato troppo spesso. In realtà era uno stratagemma, non significava nulla, e Szara lo sapeva. Abramov parlava in un rombo basso e rauco, una voce gravida di dolore per aver scoperto che l'umanità è la più assurda collezione di bugiardi e farabutti. Quando formulava una domanda, il suo volto era incupito dalla tristezza. Come un insegnante che sa che i suoi incurabili alunni daranno soltanto risposte errate, era un interrogatore le cui controparti non dicevano mai la verità. Il suo metodo era ingegnoso. Szara lo capiva e lo ammirava, ma ne sentiva comunque la forte risacca: si ritrovava a desiderare di soddisfarlo, di offrirgli dichiarazioni così oneste che la sua amara visione del mondo sarebbe stata spazzata via da un rinato idealismo. Conscio del pericoloso dono di Abramov, l'abilità di stimolare il fondamentale desiderio umano di riuscire graditi, Szara schierò con cura le sue difese. Tanto per cominciare, resistenza. Poi una sottomissione strategica, rivelando tutto tranne quello che contava di più: Marta Haecht e tutti i segnali che indicavano la sua esistenza. E così la sua descrizione della cena alla Villa Baumann divenne sovraccarica di dettagli, mentre i personaggi si ridussero a tre. Durante la visita alla trafileria aveva conosciuto l'ingegnere capo, un certo Haecht, colui che sarebbe forse diventato il proprietario nominale della fabbrica. Un tecnico, disse Szara, non certo qualcuno con cui avrebbero potuto lavorare. Abramov fece un grugnito ma lasciò corre-
re. Bloch e Renate Braun li assegnò alla seconda fase, quella confessionale, restringendo così la parte iniziale dell'interrogatorio all'articolo sugli scaricatori di porto di Anversa, a un tranquillo viaggio a Praga, alle condizioni di quella città e al suo rapporto respinto sul possibile abbandono della Cecoslovacchia. Le rivelazioni di Baumann sulla produzione di cavi stampati le riferì in ogni dettaglio, e venne premiato da una serie di grugniti di apprezzamento. Quello stesso argomento venne poi affrontato una seconda volta: le domande di Abramov erano astute, ingegnose, una serie di specchi che rivelavano ogni possibile superficie della conversazione. Per quanto riguardava Khelidze, Szara descrisse le conversazioni a bordo della Nicaea ma omise il loro ultimo incontro a Ostenda. Fino al lunedì della seconda settimana, quando Abramov cominciò a manifestare segni di inquietudine. Gli interrogatori rivelavano sempre qualcosa, qualcosa di meglio di una piccola orgia con l'animateurse di un locale notturno. E allora? Dov'era il resto? Aveva finalmente incontrato un vero santo? Szara cedette, avvertendo in modo ermetico che a quel punto doveva dire cose che non potevano essere dette in un appartamento moscovita. Abramov annuì con fare dolente, come un medico che giungeva finalmente alla diagnosi temuta, e si toccò le labbra con l'indice. «Oggi sei stato bravo, André Aronovič» disse a beneficio degli ascoltatori. «Trasferiamoci al Metropol per un cambio di panorama.» Ma camminando sulla neve fresca e scricchiolante di Kusnetzki Most oltrepassarono l'Hotel Metropol e il suo popolare caffè (dove c'era un'abbondanza di agenti dell'apparat) ed entrarono invece in un lurido bugigattolo in una strada laterale. Abramov ordinò viesni, semifreddi, serviti in tazze da caffè grigie e sbeccate ma mondati di panna fresca. Szara raccontò la fase due: il cadavere nell'albergo, la ricevuta, la borsa, il generale Bloch, il dossier e il direttore della rivista americana. Abramov era il ritratto del disagio più acuto. Ogni parola di Szara lo coinvolgeva sempre più a fondo nella faccenda e lui lo sapeva: aggrottò il volto con fare sofferto, sostituì i grugniti di incoraggiamento con gemiti di orrore, ordinò altri viesni con un cenno della mano, imprecò in yiddish, tamburellò con le grosse dita sul tavolo. Quando Szara giunse alla fine, sospirò. «André Aronovič, cos'hai combinato.» Szara scrollò le spalle. Come faceva a sapere che gli ordini non provenivano da Abramov o dai suoi colleghi? Il secondo gruppo aveva basato il suo gioco proprio su quello stesso presupposto.
«Ti assolvo» brontolò Abramov. «Ma io sono il minore dei tuoi mali. Dubito che i georgiani ti sparino a Mosca, ma sarebbe il caso di fare attenzione a quello che mangi e tenerti alla larga dalle finestre ai piani alti. È un nostro luogo comune: chiunque può commettere un omicidio, ma il suicidio richiede un artista. E loro li hanno. Tuttavia, il fatto che ti abbiano lasciato in pace così a lungo significa che stanno tramando qualcosa. E anche in questo sono degli esperti. Dopotutto sono i nostri siciliani, gente del sud, e i loro contrasti finiscono in un modo solo. A quanto pare hanno un piano per il materiale dell'Ochrana, e non hanno ancora informato il Grande Condottiero o i suoi leccapiedi. Ecco perché sei ancora vivo. Ovviamente, se dovessi pubblicare quell'articolo...» «Che cosa bisogna fare, allora?» Abramov si lasciò sfuggire un brontolio. «Niente?» Rifletté un istante, poi prese un'ultima cucchiaiata di viesni dalla sua tazzina. «La questione della khvost è un po' più complicata di quello che sembra. Sì, sono successe certe cose, ma... Esempio: due anni fa, al processo di Lev Rosenfeld e Grigorij Radomilskij, "Kamenev" e "Zinov'ev", nella sua ricapitolazione il procuratore Višinskij disse una strana cosa ai giudici, una cosa che rimane impressa. Li chiamò "uomini senza patria". Avrebbe poi dichiarato che intendeva dire che in quanto trotckijsti avevano tradito il loro paese. Ma è una frase che abbiamo già sentito, e sappiamo cosa significa, per come viene pronunciata molto apertamente in Germania, non così discretamente in Polonia e da moltissimo tempo in qualsiasi parte del mondo. «Ma se qualcuno volesse semplicemente credere a Višinskij, e certe persone esistono, allora consideri il caso del diplomatico Rosengolts. Giocarono con lui come il gatto con il topo: lo dispensarono da ogni incarico ufficiale e lasciarono che si angosciasse per settimane. Lui sapeva cosa stava per arrivare, ne era certo, ma l'apparat lasciò suppurare la piaga finché ogni giorno durava cento ore. A subire le conseguenze peggiori fu sua moglie, una persona allegra, poco esperta delle cose del mondo, non troppo istruita, proveniente da un tipico shtetl di qualche angolo dei Territori. Nel giro di qualche mese l'attesa la distrusse, e quando il NKVD perquisì Rosengolts dopo averlo finalmente arrestato, scoprì che la donna aveva preparato un talismano contro la sfortuna, trascrivendo il sessantottesimo e il novantunesimo salmo e nascondendoli in un pezzo di pane secco avvolto in un panno e cucito nella tasca del marito.
«Al processo, Višinskij si prese gioco di quel patetico foglietto. Lesse un passo dai Salmi: "Egli ti libererà dal laccio dell'uccellatore, dalla peste sterminatrice. Con le sue penne ti colpirà, sotto le sue ali avrai rifugio: la sua fedeltà ti sarà scudo e armatura, non temerai pericolo notturno né saetta volante di giorno". Hai capito cos'aveva fatto quella donna? Višinskij pronunciò queste parole in un tono di feroce disprezzo, poi domandò a Rosengolts come quel pezzo di carta fosse finito nella sua tasca. Lui ammise che era stata la moglie a infilarlo e disse che era un portafortuna. Višinskij lo incalzò su quel punto, continuando a ripetere "portafortuna" finché il pubblico in aula non si sbellicò dalle risa, e a quel punto si voltò verso di esso e ammiccò. «Bene, dirai tu, il caso è chiuso. La purga è in realtà un pogrom. Ma lo è? È davvero così? Forse no. La Sezione affari straordinari è diretta da LI. Shapiro: se gli ebrei sono vittime della purga, la purga stessa è spesso condotta dagli ebrei. E ora arriviamo agli individui che ti hanno coinvolto in questa operazione. Il generale Bloch è un ebreo, lo ammetto, anche se bisognerebbe dire che fa parte del servizio segreto militare, il GRU, e non del NKVD... un fatto che forse dovresti tenere presente. Renate Braun è una tedesca, probabilmente di una delle sette protestanti, e non ha niente a che fare con il NKVD. È una spez, una specialista straniera, un'impiegata della Meždunarodnaya Kniga, la casa editrice statale, dove lavora alla pubblicazione di testi tedeschi da infiltrare in Germania. Ciò la collega chiaramente al Comintern. «Quello che sto dicendo è questo: considera i servizi segreti come un oceano. Ora considera le correnti che vi si possono trovare, alcune che vanno in una direzione, altre in un'altra, procedendo fianco a fianco per qualche tempo per poi dividersi. È così una novità? Non c'è niente di nuovo. Sarebbe la stessa cosa alla U.S. Steel o alla compagnia telefonica inglese. Sul lavoro c'è competizione, ci sono alleanze, tradimenti. Sfortunatamente, quando entra in gioco un servizio segreto i suoi strumenti sono molto affilati, la sua esperienza è vasta e concreta e il livello dello scontro può essere spaventoso. Un giornalista, qualsiasi normale cittadino ne verrebbe semplicemente divorato vivo. Cos'abbiamo in questo caso? Una battaglia politica fra interessi nazionalistici? Oppure un pogrom? Non sono la stessa cosa. «Se è un pogrom, è molto discreto. È ovvio che politicamente Stalin non può permettersi di inimicarsi gli ebrei del resto del mondo, perché fra di loro abbiamo molti amici. Conosci il vecchio detto: "Si accodano all'ideo-
logia". E ora, con la nascita di un orribile mostro in Germania, non vedono l'ora di entrare in azione, di qualsiasi azione si tratti, contro il fascismo. Si tratta, capisci, di una circostanza utile per quelli della mia professione. Uno può chiedere dei favori. Stalin è capace di guidare un pogrom segreto? Sì. E nel clima politico attuale dovrebbe farlo proprio in quel modo. Pertanto non è così facile da individuare. «Nel frattempo, eccoti qui. Coinvolto in un'operazione a cui non puoi sopravvivere, anche se mi sembra di capire che ti augureresti di farlo. Sembri diverso, aggiungerei. Cambiato. Non sei più il cinico bastardo che conoscevo da anni. Qual è la ragione? D'accordo, te la sei vista brutta; il turco, Ismailov, ti ha quasi fatto fuori. È per questo? Hai visto la morte in faccia e sei diventato un uomo nuovo? Può succedere, André Aronovič, ma lo si vede di rado, a volte durante una grave malattia, quando un uomo può essere portato a chiedere un favore al proprio Dio, ma meno spesso nel caso di un'esecuzione. Eppure è successo. Io sono tuo amico. Non ti chiedo perché. Quello che chiedo è, cosa si può fare per il povero André Aronovič? «Ora, la cosa normale sarebbe consegnare Baumann a uno dei nostri agenti in Germania: ci sono migliaia di modi in cui può essere gestito, anche con le attuali restrizioni contro gli ebrei. Ha una storia d'amore, si fa visitare dal dentista, va allo shul, fa una passeggiata in campagna e una consegna, visita la tomba del padre. Credimi, siamo in grado di provvedere a lui. «D'altra parte, si potrebbe obiettare che è volubile, nervoso, che il suo non è un vero impegno, il che comporta esigenze speciali nella selezione di un agente incaricato. Quali sono le sue motivazioni, in realtà? Potrei farmi un dovere di formulare questo interrogativo. Vuole danneggiare Hitler? Oppure ha intenzione di arricchirsi disonestamente nel caso le cose si mettano al peggio per la Germania? Vuole aiutare la classe operaia? Diventare ricco? La parola "spie" ha quattro lettere, si dice: s per soldi, p per potere, i per ideologia ed e per egotismo. Qual è quella di Baumann? Oppure dobbiamo chiederci se per caso non ci sia una quinta lettera? «Provami che non è un burattino dell'Abwehr, o peggio del Referat VI C del Reichsicherheitshauptamt, l'Ufficio centrale di sicurezza del Reich diretto da quell'insopportabile cazzone di Heydrich. Il Referat VI C è il controspionaggio della Gestapo, sia all'interno che all'esterno dei confini tedeschi, la piccola bottega di Walter Schellenberg, e Schellenberg è perfettamente in grado di predisporre un'esca del genere: afferrerebbe un'e-
stremità del filo e tirerebbe in modo così dolce e lento che vedresti disfarsi un'intera rete. Anni di lavoro sprecati! E a Mosca, carriere stroncate. E così sono sospettoso. Ne va del mio lavoro. Farò sicuramente notare che da Szara non ci si può aspettare che sappia se questa faccenda è valida oppure è un'esca dell'Ufficio centrale. Che cosa sappiamo? Che al segretario di un sottosegretario è stato infilato un foglietto di carta nella tasca del soprabito mentre questo si trovava nel guardaroba del teatro dell'opera e lui si stava sorbendo tre ore di Wagner. Che un giornalista è stato invitato a cena, ha sentito una proposta e ha visto un pezzo di cavo. Cosa significa? Niente. Noi russi abbiamo sempre avuto un debole nei riguardi dell'agent provocateur, la storia dei nostri servizi segreti ne è piena, e la Ceka ha imparato il trucco sulla propria pelle, dall'Ochrana. Azef, Malinovskij, magari anche tu-sai-chi. E naturalmente lo temiamo più di ogni altra cosa perché ne conosciamo l'efficacia, il modo in cui solletica la nostra grande vulnerabilità: gli agenti segreti sono come uomini innamorati, vogliono credere. «Qual è la risposta? Che fare? Abramov è brillante! "Facciamo sì che sia Szara a svolgere il compito" dice. Rendiamolo veramente naš, nostro. È stato un giornalista che ha svolto il suo dovere di patriota e di tanto in tanto ha intrapreso missioni speciali; ora sarà uno di noi, e di tanto in tanto scriverà qualcosa. Kolt'sev, il direttore della "Pravda", è finito (mi dispiace dirtelo, André Aronovič) e Neženko, il caporedattore degli esteri, non è un problema. Metteremo in contatto Szara con una delle reti dell'Europa occidentale e lasceremo che giochi a fare la grande spia.» Abramov si rilassò sulla sedia, si infilò una sigaretta in bocca e l'accese con un altro fiammifero. «Vuoi dire che in Europa non mi troveranno?» «Ti troverebbero all'inferno. No, non è questo che voglio dire. Diventeremo noi la tua protezione, non questa o quella khvost: il servizio stesso. La tua posizione verrà modificata e accuratamente divulgata. Vedo Deršani ogni giorno, il suo ufficio è sullo stesso corridoio del mio; siamo entrambi cittadini sovietici, svolgiamo la stessa professione e non ci prendiamo a pistolettate. Gli farò sapere, per vie indirette, che stai svolgendo un lavoro importante per noi. Pertanto, giù le mani. A proposito, ciò comporta l'implicita promessa da parte mia che farai il bravo e non ti farai coinvolgere in complotti e scherzi vari. Capito?» Szara aveva capito. D'un tratto si ritrovava sulla soglia di una nuova vita. Un'esistenza in cui avrebbe dovuto obbedire agli ordini, rinunciare alla libertà in cambio della sopravvivenza e vivere in un modo completamente
diverso. Sì, aveva intravisto quella breccia dopo aver ricevuto le informazioni da Baumann, e quanto se ne era sentito compiaciuto! Ma la realtà aveva un sapore orribile, e Abramov rise di quell'evidente disagio. «È una ragnatela in cui ti sei cacciato da solo, amico mio; adesso non maledire il ragno.» «E potrò scrivere l'articolo per la rivista americana?» «Dopo che io ti ho protetto? Questa sì che sarebbe gratitudine, vero? Non c'è buona azione che resti impunita, Abramov, ecco la tua coltellata alla schiena. André Aronovič, hai quarant'anni, forse è arrivato il momento di crescere. Chiediti una cosa: perché questa gente ha scelto te per svolgere il suo lavoro sporco? Che risultato otterrà? Se il gioco avrà successo e Soso, Giuseppe, si getterà da una finestra del Cremlino, quale sarà il vantaggio? Chi prenderà il suo posto? Ti aspetti forse che spunti fuori una sorta di George Washington russo? Guardati nell'animo. No, lascia perdere l'animo, concentrati sulla tua mente! Vuoi fare felice Adolf Hitler? Per quale ragione credi che succederà qualcosa? Molotov dirà "altre menzogne imperialiste" e il mondo sbadiglierà, tutti eccetto un giornalista che galleggerà a faccia in giù in una palude in modo tale che nessuno potrà vedere che sorriso nobile e superiore aveva mentre moriva.» Szara era avvilito. Abramov sospirò. «Per il momento» disse in tono gentile «perché non fai quello che fanno tutti? Cerca di tirare avanti, fa' del tuo meglio, spera in un po' di felicità.» Si sporse sul tavolo e gli diede un buffetto rassicurante sulla guancia. «Mettiti al lavoro, André Aronovič. Sii uomo.» Marzo 1938. L'inverno non se ne voleva andare. Di notte l'aria ghiacciava e le stelle non brillavano, ma se ne stavano come luci fredde e fisse in lontananza. Al vento gli occhi lacrimavano e le lacrime congelavano. Al chiuso non andava molto meglio: quando Szara si svegliava la mattina, il suo fiato era un pennacchio bianco sulla coperta scura. In Europa centrale faceva meno freddo: Hitler invase l'Austria; la Francia e la Gran Bretagna protestarono, le folle festeggiarono nelle strade di Vienna, gli ebrei vennero trascinati fuori dai loro nascondigli, umiliati e picchiati. A volte morivano per le percosse, a volte per l'umiliazione. A Mosca, un nuovo processo: Piatakov, «Radek» (Sobelsohn), Krestinskij,Jagoda e Bukharin. Accusati di aver cospirato con i servizi segreti nazisti, di aver stretto accordi segreti con il governo tedesco. La sentenza
finale della ricapitolazione di Višinskij era uguale da tre anni: «Fuciliamo i cani rabbiosi!». E così fecero. Szara trascinava le sue giornate e beveva tutta la vodka che riusciva a trovare, alla ricerca di un'anestesia che gli sfuggiva; soltanto il corpo diventava insensibile. Avrebbe voluto chiamare Berlino ma era impossibile: le parole non potevano uscire da Mosca. Lentamente, le immagini della soffitta della casa stretta, troppo spesso rievocate, persero realtà. Erano diventate troppo perfette, come miraggi di fonti d'acqua nel deserto. Solo, astioso, Szara decise di fare l'amore con qualsiasi donna incontrasse, ma quando le conosceva il suo sistema di riferimenti impazziva e non succedeva nulla. Seguendo le direttive di Abramov, frequentò una serie di corsi di addestramento: un'infinita ripetizione di operazioni di consegna, codici e cifre, contraffazione e costruzione di false identità. Era tutta una questione di carte, si rese conto, un mondo cartaceo. Carte d'identità, passaporti, dispacci d'ambasciata, mappe di postazioni difensive, ordini di battaglia. L'immagine riflessa di una vita precedente in cui aveva già vissuto fra le carte. A volte scriveva per Neženko; Abramov aveva insistito che lo facesse. Articoli sul progresso, sempre progresso; la vita migliorava costantemente. Qual era l'effetto di un lavoro così ingrato sullo spirito segreto che Szara immaginava vivesse nel profondo di sé? Curiosamente nullo. Per un'ora o due lo spirito fece quello che doveva fare, ma poi se ne tornò nel suo nascondiglio. Szara provò a scrivere una versione del «Misterioso uomo dell'Ochrana» e si sorprese nel vedere che era incendiaria. La bruciò. Di quando in quando vedeva qualche amico, quelli che erano rimasti, ma non era possibile dire nulla di sincero e l'accumulo di cautela e riservatezza soffocava l'affetto. Malgrado ciò, si incontravano. A volte, trovandosi soli e inosservati, parlavano di ciò che avevano visto e sentito. Racconti dell'orrore: separazioni, scomparse, crolli nervosi. La luce si era spenta, a quanto sembrava, l'idea stessa di eroismo era stata recisa, e il mondo era ormai pieno di individui mollicci, ammaccati, spaventati che tramavano per un mucchietto di carbone o un cucchiaio di zucchero. Gli amici si attaccavano la paura a vicenda come una malattia e la prendevano l'uno dall'altro, e nessuno suggeriva una cura. Abramov era una roccia, e Szara vi si tenne aggrappato come se stesse per annegare. Si sedevano in un ufficio riscaldato di piazza Džerzinskij e il dirigente gli insegnava quello che doveva sapere. I principi del lavoro non
potevano essere illustrati di preciso, bisognava ascoltare gli aneddoti finché non si otteneva una percezione intuitiva di ciò che era valido e di ciò che non lo era. Parlarono di città: alcune operazioni in Germania venivano condotte dai paesi vicini, il che significava luoghi come Ginevra, Parigi, Lussemburgo, Amsterdam, Bruxelles. Praga non era più possibile. Varsavia era estremamente pericolosa; i servizi polacchi erano abili e potenti, e avevano una sagace familiarità con le abitudini operative sovietiche. Bruxelles era il luogo migliore: a patto che non fosse diretto contro il governo belga, lo spionaggio non era nemmeno illegale. A volte Abramov gli presentava qualcuno; erano occasioni momentanee e superficiali, una stretta di mano, pochi minuti di conversazione. A Szara sembravano individui che sapevano all'istante chi e cosa eri. Conobbe Deršani nel suo ufficio: una semplice scrivania, schedari, un fiore appassito in un bicchiere. Deršani stesso fu straordinariamente educato; le sue labbra sottili sorridevano. «Molto lieto di conoscerla» disse. Più tardi Szara ci ripensò. Il volto era memorabile: come quando si guarda un falco, erano gli occhi a catturare l'attenzione, suggerendo un mondo in cui avevano visto cose che i più ignoravano. Durante il giorno si teneva occupato, ma le notti non erano piacevoli. Quando la neve ghiacciata di marzo picchiettava alla finestra, Szara si seppelliva sotto le coperte e gli indumenti; a volte la moglie defunta gli faceva visita, e lui le parlava. Ad alta voce. Parlava a una stanza vuota, in un linguaggio sommesso e preciso di loro invenzione, un linguaggio inteso a escludere il mondo dalla fortezza di equilibrio che avevano eretto per proteggersi. Erano stati sposati (si sarebbe potuto usare quel termine) da un maggiore dell'Armata Rossa nel 1918. «Siate una cosa sola con il nuovo ordine» erano le parole con cui aveva benedetto l'unione. Tre anni dopo lei era morta, e in quel periodo erano spesso stati separati dalle esigenze della guerra civile. Lavorando come infermiera nella città bielorussa di Berdicev, lei gli aveva scritto ogni giorno, frasi scarabocchiate su fogli di giornale o pezzetti di carta, inviando i suoi pacchi quando il sistema postale funzionava. La Bielorussia e l'Ucraina erano a quei tempi, come sempre, i centri della tempesta di follia. Berdicev era stata conquistata quattordici volte, dall'esercito di Pedyura, da quello di Denikin, dalle unità bolsceviche, dagli irregolari galiziani, dalla fanteria polacca, dalle bande di Tutnik, dai ribelli di Maroussia, dagli anarchici agli ordini del folle Nestor Makhno, la cui cavalleria usava tallitim ebraici come gualdrappe, e da quello
che lo scrittore Grossman aveva definito «il 9° reggimento di nessuno». Alla fine qualcuno l'aveva uccisa, ma Szara non aveva mai saputo chi fosse stato né in quali circostanze ciò fosse avvenuto. Malgrado le lunghe separazioni, fra loro c'era un legame ferreo, come se fossero gemelli. Non c'era niente al mondo che lui temesse di dirle, e nulla che lei non capisse. Nelle notti moscovite di quel marzo, Szara ne aveva un bisogno disperato. Era una follia parlare ad alta voce nel minuscolo appartamento deserto (Szara temeva che i vicini lo denunciassero, e così lo faceva nel modo più sommesso possibile) ma non riusciva a evitarlo. Le chiese che cosa doveva fare. Lei gli consigliò di vivere alla giornata, e di essere gentile. In qualche modo ciò alleggerì il suo animo e gli permise di prendere sonno. Quel mese accadde qualcosa che in futuro avrebbe significato molto per lui, anche se al momento non parve particolarmente significativo. Sembrava soltanto l'ennesima manifestazione dell'Inesplicabile che covava nel cuore della Russia, qualcosa a cui dovevi abituarti se intendevi restare sano di mente. Neženko lo invitò a una serata semiufficiale presso il Café Sport di via Tverskaja. Si trattava fondamentalmente di una riunione della comunità straniera di Mosca, dunque c'erano cibo e bevande in abbondanza. Al culmine della serata, le conversazioni vennero interrotte da qualcuno che picchiettava un cucchiaio contro un bicchiere, e subito dopo un noto attore si alzò per recitare qualcosa. Szara lo conosceva vagamente: si chiamava Poziny, un uomo dal torace prominente e dal volto profondamente segnato che interpretava parti brillanti per il Teatro d'Arte di Mosca. Szara lo aveva visto interpretare un magnifico Zio Vanja che aveva fatto scattare in piedi il pubblico per la chiamata alla ribalta. Al grido di «Ooop-la!» un sorridente Poziny venne issato su un tavolo lungo la parete. Si schiarì la gola, chiamò a sé il pubblico e annunciò che avrebbe recitato una poesia di Aleksandr Blok scritta ai primi tempi della rivoluzione intitolata Gli Sciti. Gli sciti, spiegò a beneficio degli ospiti stranieri, erano la prima tribù russa, uno dei popoli più antichi della Terra, noti per la loro complessa oreficeria e per l'esemplare abilità di cavalieri, che occupavano una regione a nord del Mar Nero. Mentre Poziny presentava la poesia, alcuni giovani distribuivano traduzioni in francese, inglese e tedesco affinché gli invitati potessero seguirla sulla pagina. Poziny non si risparmiò, e fin dal primo verso la sua voce potente ardeva di convinzione:
Voi siete milioni. E noi miriadi miriadi miriadi. Provateci a combattere con noi! Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici, Dagli occhi avidi e obliqui! ... O, vecchio mondo!... La Russia è la Sfinge. Esultando e piangendo, E coprendosi di nero sangue, Essa guarda, guarda a te, Con odio e con amore!... Sì, amare così come ama il nostro sangue Nessuno di voi sa amare da tempo! Avete dimenticato che al mondo c'è l'amore, Che brucia e che distrugge! ... Venite a noi! Dagli orrori della guerra Venite ai nostri pacifici abbracci! Finché non è tardi - la vecchia spada nel fodero, Compagni, diverremo fratelli! E se no, non abbiamo nulla da perdere, Anche a noi è accessibile la slealtà! E per secoli e secoli vi maledirà La tarda discendenza malata! Largamente per fratte e burroni Davanti alla bella Europa Ci faremo largo! Volteremo verso voi Il nostro asiatico ceffo! ... Ma noi stessi non saremo più lo scudo, Non entreremo più in battaglia. Guarderemo ribollire la battaglia mortale, Con i nostri stretti occhi. E non ci muoveremo quando l'infuriato Unno
Frugherà nelle tasche dei cadaveri, Brucerà le città, e spingerà gli armenti nelle chiese, E arrostirà la carne dei bianchi fratelli!... Per l'ultima volta ripensaci, vecchio mondo! Al festino fraterno del lavoro e di pace, Per l'ultima volta al fraterno festino luminoso Ti chiama la barbara lira. Vi furono alcuni lunghi istanti di silenzio; soltanto il garbato cenno del capo di Poziny sollecitò un applauso che sciolse la tensione nella stanza. Tutti i presenti sapevano che cosa significava la poesia, ai primi tempi della rivoluzione come nel marzo del 1938. O credevano di saperlo. L'ingegnere chimico austriaco H.J. Brandt arrivò a Copenhagen a bordo del traghetto del Baltico Krøn Lindblad salpato da Tallinn, in Estonia, il 4 aprile 1938. L'insegnante E. Roberts di Edimburgo prese il treno da Copenhagen ad Amsterdam e giunse alla stazione centrale di Amsterdam nelle prime ore della sera del 6 aprile. Il cittadino naturalizzato belga Stefan Leib, di origine rumena, scese dal treno da Amsterdam a Bruxelles verso le dodici del 7 aprile, recandosi immediatamente al negozio chiamato Cartes du Monde (mappe del mondo antiche, vecchie e nuove) che possedeva in rue de Juyssens, nelle stradine tortuose del vecchio quartiere degli affari. Un uomo serio, Monsieur Leib, sulla trentina, silenzioso, un aspetto da studioso con la sua giacca di tweed e i suoi pantaloni di flanella, e particolarmente industrioso. La maggior parte delle sere lo si poteva trovare nel piccolo ufficio sul retro del negozio, seduto a un'ampia scrivania di quercia invasa da cataste di vecchie carte geografiche (magari dell'Olanda del Diciassettesimo secolo, decorate da cherubini ricciuti che soffiavano nuvolette di vento dai punti cardinali) nonché di pratiche carte stradali dei Paesi Bassi, della Francia e della Germania, di guide Michelin e Baedeker o delle più recenti rappresentazioni dell'Abissinia (importanti se avevi seguito le fortune dei corpi di spedizione italiani), del Tanganika o dell'Africa Equatoriale francese. Qualsiasi cosa si desiderasse in fatto di cartografia, quasi certamente la si sarebbe trovata nella bottega di Monsieur Leib. La sera del 12 aprile, chi avesse avuto occhio per i giornalisti di discreta
fama avrebbe potuto vedere Monsieur Lieb a cena con A.A. Szara, recentemente assegnato alla redazione parigina della «Pravda». Li avrebbe visti, beninteso, se gli fosse capitato di visitare un buio e appartato ristorante cinese dalla dubbia reputazione nel quartiere asiatico di Bruxelles. Alla fine non erano stati Abramov e i suoi colleghi a scegliere la città o la rete per l'agente responsabile del dottor Baumann. La vita e le circostanze erano intervenute e avevano deciso per loro. Nemmeno le molteplici reti europee della Rote Kapelle (l'Orchestra Rossa, come li avevano soprannominati i servizi di sicurezza tedeschi) erano immuni alle vicissitudini e alle tragedie quotidiane che il resto del mondo doveva affrontare. In quel caso, un vicedirettore della rete OPAL di base a Parigi, nome di lavoro Guillaume, era in ritardo per un incontro clandestino fissato a Lione (uno dei dirigenti dei gruppi di Berlino sarebbe arrivato in treno sotto falso nome) e aveva guidato come un pazzo per evitare di attendere tre giorni per l'appuntamento di ripiego. La sua berlina Renault era uscita di strada su una curva della N6 appena fuori Macon ed era andata a sbattere di traverso contro un platano sul bordo della strada. Guillaume era stato sbalzato fuori dall'auto ed era morto il giorno dopo all'ospedale di Macon. Il capitano I.J. Goldman, rezident dell'OPAL sotto la copertura accuratamente confezionata di Stefan Leib, venne fatto tornare a Mosca seguendo un percorso tortuoso («usando passaporti come se fossero carta straccia» brontolò uno dei «ciabattini» che confezionavano o modificavano i documenti d'identità presso l'Ufficio esteri del NKVD) per una serie di approfondite consultazioni. Goldman, figlio di un avvocato marxista di Bucarest, si era offerto volontario per il reclutamento nel 1934 e, dopo aver prestato servizio con successo in Spagna, era considerato un astro nascente. Come tutti i rezident, Goldman detestava i problemi di personale. Accettava il complicato fardello della segretezza, una religione i cui rituali richiedevano un gran dispendio di tempo, denaro e ingegno, nonché l'occasionale disfatta provocata dalla polizia e dalle forze del controspionaggio che lo combattevano, ma i disastri naturali come gli incidenti stradali o i guasti dei radiotelegrafi gli parevano punizioni divine particolarmente crudeli. Quando un agente clandestino come Guillaume incappava in una morte accidentale, la prima cosa che la polizia faceva era informare, o cercare di farlo, una famiglia che non esisteva. Se Goldman non si fosse messo personalmente in contatto con gli ospedali, la polizia e le imprese di pompe funebri della regione, Guillaume avrebbe potuto essere schedato
come disertore o fuggiasco, causando enormi impedimenti all'intero sistema e costringendolo a un'affrettata riorganizzazione protettiva. Subito dopo, Goldman dovette assicurarsi, e assicurare al Direttorato a Mosca, che l'incidente era stato davvero un incidente, indagine complicata dalla necessità di operare segretamente e a distanza. Per accertarsene, bruciando una copertura per costruire la quale erano stati spesi migliaia di rubli, assunse un avvocato di Mâcon. Quando finalmente giunse a Mosca, fu in grado di difendersi da tutte le accuse tranne una: la sua supervisione era stata manchevole al punto che un membro del suo gruppo aveva guidato in modo imprudente. Su questo punto Goldman fece autocritica di fronte ai suoi superiori e poi descrisse le contromisure (predicozzi, divulgazione dei risultati dell'autopsia ottenuti dall'avvocato di Macon) che sarebbero state adottate per evitare eventi simili in futuro. Dietro i loro volti di pietra, gli uomini e le donne che dirigevano l'OPAL risero del suo disagio: conoscevano la vita, le storie d'amore, le bizzarre aberrazioni sessuali, le chiavi smarrite, il gioco d'azzardo, le meschine gelosie, tutte le assurde miserie umane con cui i rezident dovevano avere a che fare. Loro avevano imparato a improvvisare, ora toccava a lui. Quando ebbero finito di aggrottare la fronte, gli offrirono una scelta: promuovere alla posizione di Guillaume il responsabile del gruppo di Parigi oppure accettare un nuovo vice. In realtà non era affatto una scelta, poiché i responsabili dei gruppi erano notoriamente difficili da sostituire. Tutto dipendeva dalla loro abilità di colpire e confortare, blandire, tormentare e minacciare. Poteva invece accettare un nuovo vice, il giornalista Szara, un dilettante «che aveva fatto alcune cose con buon successo». Goldman avrebbe preferito un collaboratore esperto, magari trasferito da quelle che lui considerava reti meno importanti, visto che l'OPAL gestiva qualcosa come quattordici agenti in Francia e in Germania e che ora ne avrebbe aggiunto un quindicesimo (Baumann, nome ufficiale «Lontra»), ma le purghe avevano decimato l'apparat a partire dall'alto e, semplicemente, uomini preparati dal punto di vista operativo non erano disponibili. Venne organizzato un incontro con Szara, che nell'OPAL avrebbe lavorato con un altro vicedirettore ma avrebbe essenzialmente agito da solo a Parigi mentre Goldman, in qualità di rezident «illegale», operava nell'isolamento protetto di Bruxelles. Goldman finì per fare buon viso a cattivo gioco e fece capire di essere soddisfatto dalla soluzione. Da qualche parte, nel profondo del sottobosco del comitato, c'era uno spione importante che voleva piazzare Szara a Parigi, e Goldman l'aveva fiutato.
D'altra parte gli conveniva mostrarsi disponibile; negli ultimi tempi la sua stella era stata leggermente offuscata, anche se non per colpa sua, da una nube scura all'orizzonte. Il suo corso di addestramento, la Confraternita del 1934 (in realtà una combriccola ribelle arruolata ai quattro angoli dei Balcani) non stava dando i risultati che i pezzi grossi dell'apparat avevano immaginato. Un numero preoccupante di «fratelli» aveva abbandonato la patria; alcuni avevano disertato, dimostrando un affetto molto meno fraterno di quanto avesse immaginato la loro famiglia russa. Il capo indiscusso del gruppo, un bulgaro, era svanito da Barcellona ed era ricomparso a Parigi, dove si era lasciato coinvolgere dai rifugiati politici e nel luglio del 1937 era stato arrestato dagli agenti della sicurezza interna francese. Un serbo era scomparso fra le montagne della sua terra d'origine dopo una complicatissima rimozione da un carcere spagnolo: un terribile gesto di ingratitudine, anche se in origine era stato il NKVD a consegnarlo ai servizi segreti militari di Franco allo scopo di neutralizzarlo dopo che si era rifiutato di purgare i membri del POUM della sua unità di guerriglia. E un ungherese di Esztergom, fin dal primo giorno di nessun valore per l'apparat, era finito anch'egli a Parigi dove, mentre si nascondeva in un albergo di Montmartre, era stato assassinato, apparentemente dal marinaio di una nave mercantile. In quali faccende era coinvolto? Nessuno lo sapeva. Considerata quella stanza degli orrori, in un futuro immediato Goldman avrebbe continuato a rispondere «sissignore» ai suoi superiori. Privatamente, André Szara lo metteva in seria apprensione. Il giornalista sembrava sia arrogante sia insicuro: era una combinazione alquanto normale, ma potenzialmente letale quando si era sottoposti alla tensione del lavoro clandestino. Goldman conosceva i suoi scritti, e li trovava a volte formidabili e sempre informativi. Ma esercitava la sua attività da un tempo sufficiente a temere le personalità creative. Aveva sviluppato una predilezione per i tipi bruschi e imperturbabili, privi di emozioni, che lavoravano giorno e notte senza farsi mai venire la febbre, uomini e donne che non nutrivano rancori, che preferivano la verifica all'intuizione, che erano perennemente fidati e presenti quando ne avevi bisogno, che riuscivano a ragionare nei momenti di crisi, che riconoscevano una crisi quando si scatenava e che avevano il buonsenso di chiederti cosa dovevano fare quando non ne erano sicuri. Le carriere si costruivano con individui simili, non con gli André Szara. Ma Goldman era nei guai, non si trovava nella posizione di discutere, e pertanto avrebbe fatto quello che poteva.
«Sia un giornalista!» gli disse Goldman mentre consumavano l'agghiacciante chop suey a Bruxelles. "Cosa?" «Be', lo è già, certamente, benissimo, ma ora deve fare uno sforzo speciale per vivere la vita che ci si aspetterebbe da lei, e farsi vedere mentre la vive. Si faccia notare in giro, cerchi la compagnia dei suoi colleghi, frequenti i caffè giusti. Non sia furtivo, intendo dire. Naturalmente ne capirà la necessità, dico bene?» L'osservazione di Goldman mandò Szara su tutte le furie. Era vero, abitualmente evitava i luoghi di ritrovo e le feste dei giornalisti e procedeva per la sua strada. Tanto per cominciare, non conveniva essere in rapporti troppo amichevoli con i cittadini dell'Europa occidentale: la prima diva dell'Opera di Mosca era stata spedita in un campo di lavoro per aver danzato con l'ambasciatore giapponese a un ricevimento. In secondo luogo, era costantemente impegnato a svolgere qualche piccolo incarico per l'apparat. Certe cose richiedevano tempo, attenzione, pazienza. E quando le facevi era meglio non avere attorno i tuoi colleghi. «Sicché, generale Vlasy, il problema dei cingoli del nuovo carro armato R20 si è rivelato un finto problema?» e domande simili non potevano certo essere formulate con un sagace collega giornalista che reprimeva una risatina in sottofondo. Szara non diede una vera e propria risposta all'ordine di Goldman. Guardò per un istante i grigi tagliolini nel proprio piatto, poi riprese la conversazione. Nel profondo stava friggendo. Non era già abbastanza infelice per aver ipotecato la propria anima ad Abramov e segretamente abbandonato la sua professione? A quanto pareva, no. Ora stavano versandogli sul cuore un'abbondante dose di ironia russa, ordinandogli di comportarsi come quello che non era più. E a dirglielo era un altezzoso piccolo rumeno che era convinto di parlare un russo idiomatico, era molto più giovane di lui e aveva le fattezze (e probabilmente il comportamento) di una specie di roditore. Occhietti scintillanti, orecchie leggermente troppo grandi, lineamenti ravvicinati. Come un topo furbo. Forse troppo furbo. Ma chi diavolo credeva di essere? Di ritorno a Parigi il giorno successivo, tuttavia, Szara tenne le sue opinioni per sé. «Ha conosciuto Yves» disse l'altra vice sua collega, usando il nome di lavoro di Goldman. «Che ne pensa?» Szara finse di riflettere. Non voleva sbilanciarsi, ma nemmeno desiderava passare per un idiota privo di spina dorsale: avrebbe dovuto lavorare
fianco a fianco con quella donna. Era il genere di persona che in un ufficio normale sarebbe stata definita «un terrore». Abramov l'aveva messo in guardia su di lei: nome di lavoro Elli, vero nome Annique Schau-Wehrli, reputazione leonessa. Di persona si rivelò una donna sulla cinquantina, piccola, robusta, con un seno sporgente come quello di un piccione impettito e un paio di occhiali appesi a una catenella attorno al collo. Portava una scarpa ortopedica a un piede e camminava con un bastone, essendo nata con una gamba più corta dell'altra. Szara se ne sentiva attratto: era magnetica, intuitiva oltre che piuttosto graziosa, con una carnagione rosea, capelli chiari e ricci, ciglia lunghe da sirena dello schermo e occhi onniscienti accesi da un odio vivace e allegro. Era una marxista appassionata e feroce, un'ex colonna del partito comunista svizzero proveniente da una ricca famiglia della borghesia di Lucerna, che l'aveva da tempo ripudiata. Possedeva una parlantina affilata come una spada, conosceva sei lingue e non aveva paura di niente. A Parigi lavorava come direttrice e santa locale di un ufficio satellite della Società delle Nazioni, l'Istituto Giuridico Internazionale, che pubblicava una marea di studi nel tentativo di incoraggiare i paesi del mondo a normalizzare e unificare i loro codici giuridici. Alla resa dei conti, il furto dell'anima di un'antenata a Niassa e una truffa finanziaria in Svezia non erano forse la stessa cosa? «Allora?» insistette. «Non mi dica che non se n'è fatto un'opinione. Non le credo.» Si trovavano nel suo salotto, un miscuglio tipicamente parigino di sontuose tende rosse, cuscini di seta, donne nude e dorate che reggevano lampade dai paralumi color avorio e piccoli oggetti (posaceneri, calamai di onice, scatolette di avorio, bottiglie di Gallé e bull-terrier di porcellana) su ogni singolo scaffale o tavolino. Szara teneva i gomiti stretti ai fianchi. «Giovane» disse. «Più giovane di lei.» «Sì.» «Brillante, caro compagno.» «Disinvolto.» «Buf!» fece lei, un'esplosione svizzera di incredulità. «Ma come si può essere così? In qualunque modo lo si consideri, è brillante. Ma paragonato alla media? Un genio. Si ricordi dell'agente russo che giunse a Londra l'anno scorso con le tasche piene di sterline. È arrivato da due giorni, e si avventura per la prima volta fuori dall'albergo. Persuaso dalla propaganda
sovietica, è veramente convinto che le classi lavoratrici inglesi siano talmente povere da calzare scarpe di carta. D'un tratto vede una vetrina piena di scarpe di cuoio, niente affatto costose. "Ah-ha" si dice "è il mio giorno fortunato" e ne compra dieci paia. Poi, in un altro negozio: "Ma guarda, oggi hanno scarpe anche qui!". Crede che la sua cara madre defunta gli stia inviando doni dal cielo. Altre dieci paia. E così via, finché il poveraccio si ritrova con cento paia di scarpe e neanche un soldo per l'attività politica e la squadra di sorveglianza dell'MI5 si sta praticamente rotolando per terra dalle risate. Aspetti di vedere quello che sono in grado di fare alcuni dei nostri, e a quel punto cambierà opinione.» Szara si finse imbarazzato. Era il ragazzo nuovo dell'ufficio e doveva fare una buona impressione, ma aveva già incontrato tipi come Goldman: era sicuramente un genio, ma un genio dell'autopromozione. «Suppongo che abbia ragione lei» disse in tono amabile. Venerdì, l'ultimo giorno di aprile, sotto una pioggia leggera che scintillava sulle foglie primaverili degli alberi sul viale, Szara prenotò una telefonata all'ufficio di Marta Haecht a Berlino. Venti minuti più tardi la cancellò. Il vangelo secondo Abramov: «Ascolta, non puoi mai essere sicuro di cosa sappiano di te, così come loro non possono mai essere sicuri di quello che sappiamo di loro. In tempo di pace, i servizi fanno soprattutto due cose: osservano e aspettano. Questa è una guerra di invisibilità, combattuta con armi invisibili: informazioni, numeri, trasmissioni radiotelegrafiche, contatti mondani, influenze politiche, accesso a certi circoli, conoscenze delle produzioni industriali o del morale delle truppe. Bene, mostrami il morale delle truppe. Non puoi. È intangibile. «Le operazioni di controspionaggio sono le più invisibili di tutte. Coloro che le svolgono non puntano a neutralizzare i nemici. Non subito. Un capo strilla: "Fermateli! fermateli!'', ma i suoi agenti implorano di no. "Vogliamo vedere cosa fanno." Per te significa questo: devi far conto di avere la febbre tifoide, di essere contagioso, e di contagiare chiunque incontri o conosci. Che l'incontro sia innocente oppure no, se altri stanno osservando questo qualcuno viene per forza sospettato. Ti chiedi perché reclutiamo amici, famigliari, amanti? Tanto vale farlo, perché in ogni caso verranno considerati colpevoli». A Parigi, il seme piantato da Abramov a Mosca divenne uno spaventoso giardino. Crebbe nell'immaginazione di Szara, dove prese le sembianze di
una voce: una voce tranquilla e piena di risorse, colta, sicura di sé, tedesca. Era la voce della presunta sorveglianza, e quando Szara progettava qualcosa di stupido come una telefonata in Germania, gli parlava. "28 aprile. Ore 16.25. Szara" (la formula piatta e ufficiale sarebbe stata simile al rapporto su Dubok, e Szara immaginava che l'agente tedesco non sarebbe stato molto diverso dall'autore del dossier dell'Ochrana) "telefona a Marta Haecht a Berlino, numero 45633; conversazione registrata e attualmente sottoposta ad analisi per decifrazione di codice o linguaggio simulatorio". Linguaggio simulatorio suggeriva una realtà con simbolismi o implicazioni. Stai ancora studiando il francese? Ti ho mandato una cartolina da Parigi, l'hai ricevuta? Sto scrivendo un articolo sui lavoratori che hanno costruito la Gare du Nord. Come fugge il tempo, devo finire il pezzo entro le dodici del 4 di maggio. Non ingannava nessuno. Anche se «la voce» non parlava ancora, Szara temeva di essere scoperto. Nel 1938, la Germania si era ormai trasformata in uno stato controspionistico. Ogni buon tedesco considerava proprio dovere informare le autorità di qualsiasi comportamento sospetto, la denuncia era diventata una mania nazionale: "Hanno ricevuto la visita di sconosciuti, uno strano suono dal loro scantinato, forse una pressa da stampa?". Ovviamente gli venne in mente di usare la rete per comunicare. La cosa avrebbe eluso ogni sospetto oppure sarebbe finita nella tragedia più assoluta. Una scelta d'amore, nyet? Passione o morte. Gli avevano descritto nei dettagli quello che faceva la Gestapo, kaschumbo, fruste immerse in secchi d'acqua. Il pensiero di esporla a ciò... Szara lavorava. La primavera parigina sbocciò all'improvviso: un mattino tiepido e tutte le donne erano vestite di giallo e verde, sulle terrazze dei caffè la gente rideva di niente in particolare, gli aromi si diffondevano dalle porte aperte dei bistrò in cui il cane del proprietario era accucciato accanto alla cassa con una zampa sul muso, facendo sogni agitati di ossi in brodo e croste di formaggio. La rete dell'OPAL veniva gestita in un edificio a due piani nei pressi dei quais del canal Saint-Martin e del canal de l'Ourcq, lungo il confine irregolare del XIX arrondissement dove le vie intorno alla Porte de Pantin diventavano strette strade che conducevano ai villaggi di Pantin e Bobigny. Un quartier pulsante e febbrile, sede dei macelli cittadini così come dei risto-
ranti eleganti dell'avenue Jean-Jaurès in cui spesso i bellimbusti gozzoviglianti si avventuravano all'alba per mangiare filetto di manzo cotto al forno nel miele e per evitare i turisti e i taxisti di Les Halles. Da quelle parti Parigi sistemava le cose che non era sicura di volere: l'Hippodrome in cui si tenevano corse ciclistiche e incontri di pugilato, una famigerata maison dose in cui si potevano organizzare elaborate esibizioni. In primavera e in autunno, di sera la nebbia si levava dal canale e l'insegna al neon azzurra dell'Hotel du Nord rifulgeva misteriosa mentre i lavoratori dei macelli e barcaioli bevevano marc nei caffè. In breve, un quartier che lavorava tutta la notte e non faceva domande, un luogo in cui l'infaticabile curiosità del parigino medio non era particolarmente benvenuta. La casa in rue Delesseux 8 era un edificio di mattoni sgretolati come il resto del quartiere, sporco, buio e puzzolente come un pissoir. Ma vi si poteva accedere da una porta che dava sulla strada, da un ingresso sul retro del tabac che occupava il suo minuscolo spazio commerciale o da un vicolo disseminato di stracci e vetri rotti che s'immetteva obliquo in rue des Ardennes. Era vicino alle chiatte, a un cimitero, a un parco, alle anonime stradine dei villaggi, a un'arena sportiva, a ristoranti pieni di gente: più o meno tutti i luoghi che agli agenti piaceva frequentare. L'ultimo piano della casa forniva un alloggio e un luogo di lavoro al cifrista e operatore del radiotelegrafo dell'OPAL, nome di lavoro «François», vero nome M.K. Kranov, un «illegale» con passaporto danese sospettato di essere un ufficiale del NKVD e probabilmente la spia dell'apparat che informava segretamente Mosca sulle attività e sul personale della rete. Al primo piano viveva «Odile», Jeanne de Kouvens, il corriere della rete che teneva i contatti sia con Goldman a Bruxelles che con le reti in Germania, in quest'ultimo caso recandosi due volte al mese a Berlino con la scusa di badare a una madre inesistente. Odile era belga, una diciannovenne dalla scorza dura con due figli e un marito donnaiolo, per niente bella ma violentemente sexy, i capelli tagliati alla maschietta come un ragazzo di strada, la fossetta sul mento, il labbro superiore carnoso, il naso dalla punta all'insù e due occhi indomabili che lanciavano una sfida a qualsiasi uomo nelle immediate vicinanze. Suo marito, un damerino della classe operaia con due folti favoriti fin de siecle, operava una giostra ambulante che circolava per le piazze dei quartieri parigini. Il tabac al pianterreno era gestito dal fratello di Odile, di vent'anni più vecchio di lei, che era stato ferito a Ypres e camminava aiutandosi con due bastoni. Trascorreva le sue giornate su uno sgabello dietro il banco, vendendo Gitanes e Gauloises,
biglietti del metrò e francobolli, numeri della lotteria, matite, portachiavi commemorativi e altro, uno sbalorditivo assortimento di cose a un continuo stillicidio di clienti che creavano una copertura per gli agenti in entrata e in uscita dalla casa. Il Direttorato di Mosca aveva rimaneggiato gli incarichi per rendere la vita più facile a Szara, assegnando alla Schau-Wehrli le tre reti tedesche, Henri, Moca e Corvo e lasciandogli Silo, il cui obiettivo erano gli esponenti della comunità tedesca di Parigi, e il dottor Julius Baumann. Quell'anno la primavera morì presto; piogge leggere andavano e venivano, il cielo si tingeva dell'acceso blu francese soltanto di rado, e al crepuscolo arrivava un venticello cattivo che soffiava cartacce per le strade di ciottoli. La fine di aprile era generalmente riconosciuta come triste, soltanto i surrealisti amavano un tempo così infelice, e l'estate arrivò quando ancora nessuno era pronto. La temperatura in aumento sembrava allontanare ancora di più i politici dalla ragionevolezza. Nessuno riusciva ad accordarsi su nulla: in marzo i socialisti avevano bloccato il programma di riarmo, dopodiché il ministero degli Esteri aveva dichiarato che l'impegno francese nei confronti della Cecoslovacchia era «indiscutibile e sacro». Un senatore si appellò al pacifismo al mattino, invocò la salvaguardia dell'onore nazionale nel pomeriggio e poi fece causa al giornale che l'aveva descritto come ambivalente. Nel frattempo, i pubblici funzionari di rango chiedevano alle loro amanti cose che facevano loro inarcare le sopracciglia. Nessuno era a proprio agio: i ricchi trovavano che le loro lenzuola fossero pruriginose e mal stirate, i poveri pensavano che le loro frites sapessero di olio di pesce. All'ultimo piano della casa di rue Delesseux 8, i pomeriggi diventavano sempre più caldi sotto il sole che martellava il tetto; le polverose tende avvolgibili non venivano mai sollevate, l'aria ristagnava e Kranov lavorava a torso nudo a un ampio tavolo. Era un ometto basso e ombroso con capelli ricci e fattezze slave, e a Szara dava l'impressione di non fare altro che lavorare. Tutte le trasmissioni dell'OPAL, quelle ricevute come quelle inviate, erano basate su blocchi singoli trasformati in gruppi numerici di cinque cifre a cui poi veniva aggiunta una seconda crittografia basata su una chiave matematica sempre diversa e su una «falsa» addizione (5 + 0 = 0). Brevi trasmissioni pro forma venivano rimpolpate con gruppi non validi per evitare il tipo di messaggio che aveva sempre rappresentato la prima offensiva di qualsiasi criptoanalista. Dai tempi degli egizi a quelli attuali,
la frase usata per decifrare i codici non era mai cambiata: "Oggi niente di nuovo". Di solito Szara penetrava nella casa di sera. Nella sala trasmissioni di Kranov una coperta era appesa alla finestra e una minuscola lampada fungeva da illuminazione. Volute di fumo di sigaretta aleggiavano nell'aria. Le dita di Kranov danzavano sul tasto del telegrafo, e i punti e le linee viaggiavano nell'etere fino a un decifratore in piazza Dzeržinskij a Mosca: 91464 22571 83840 75819 11501... Su altre frequenze, un capitano francese della sezione dei servizi segreti della marina a Sfax, sulla costa della Tunisia, chiedeva a Parigi di approvare lo stanziamento di ulteriori fondi per l'informatore 22, l'assistente del sottosegretario dell'ambasciata cecoslovacca di Vienna riferiva di incontri riservati fra il leader dei Sudeti Henlein e alcuni diplomatici tedeschi nella cittadina termale di Karlsbad, il servizio polacco di Varsavia chiedeva a un agente a Sofia di verificare l'ubicazione del prete Josef. Gli operatori del radiotelegrafo suonavano i loro pianoforti tutta la notte, non solo per la Rote Kapelle ma in centinaia di orchestre diverse che si esibivano per decine di Konzertmeisters dello spionaggio di una dozzina di paesi. Szara poteva sentirli. Kranov gli concedeva di sistemarsi le cuffie sulle orecchie e ruotare la manopola. Era un teatro di suoni, acuti o bassi, rapidi o calcolati, un ordine di liquidare un informatore o una richiesta delle previsioni meteorologiche locali. A volte gracchiante per una tempesta elettrica sulle Dolomiti o sui Carpazi, a volte chiara come campane di cristallo, la sinfonia notturna di numeri volava nel cielo buio. Se non c'era alcun segnale critico immediato, Kranov decifrava le trasmissioni da Mosca dopo aver dormito qualche ora. Szara se l'immaginava come un albeggiare cruciale che seguiva inevitabilmente i misteri cifrati della notte. Lentamente, mentre maggio diventava giugno e il sudore inzuppava la canottiera di Kranov nel caldo mattutino, Szara cominciò a sviluppare una comprensione più acuta dell'interazione fra l'OPAL e i suoi padroni, e le semplici richieste di informazioni e le succinte risposte divennero un dialogo da cui si poteva decifrare l'umore del Direttorato. Mosca era inquieta. Lo era stata fin dall'inizio. Abramov, sacrificando le informazioni nella speranza di ottenere disciplina, aveva rivelato a Szara né più né meno di ciò di cui avrebbe dovuto preoccuparsi. Assolutamente non di Neženko, né di qualsiasi altro caporedattore. Sia Abramov che il suo rivale della khvost, Deršani, facevano parte del Direttorato dell'OPAL,
così come Ljuba Kurova, brillante studentessa di neuropatologia negli anni precedenti la rivoluzione, spietata cekista durante la campagna del terrore di Lenin e adesso, superati i quarant'anni, amica di Poskrebyshev, il segretario personale di Stalin, nonché Boris Grund, un apparatchik, un tecnico esperto e uno che votava per la maggioranza in qualsiasi circostanza, e Vitalij Mežin, a trentasei anni alquanto giovane per quel tipo di lavoro, un membro della generazione di «piccoli Stalin» che aveva approfittato in modo strisciante del vuoto di potere creato dalle purghe, esattamente come il grande Stalin intendeva che facesse. «Se disobbedirai volontariamente a un ordine» aveva detto Abramov, «sarà a costoro che disobbedirai.» Szara era giunto a capire che il dottor Baumann li metteva a disagio. Primo, era un ebreo in Germania, e il suo futuro era profondamente insicuro. Secondo, le sue motivazioni erano ignote. Terzo, le sue informazioni erano importantissime. Szara se li immaginava seduti attorno a un tavolo coperto da una tovaglia di tela verde, veline di messaggi decifrati sistemate in ogni angolo, intenti a fumare nervosamente le loro tozze sigarette Trojka, a parlare con grande cautela, consapevoli delle sfumature nelle loro parole e in quelle degli altri, ad annaspare verso un consenso protettivo. Dati sulla produzione di cavi stampati di gennaio, febbraio e aprile ricevuti, proiezioni sulla base degli ordini in arrivo entro maggio. Agente incaricato di ottenere elenco del personale, specialmente nell'ufficio contabile. Specificare: età, fede politica, livello culturale. Volevano chiaramente che Baumann si mettesse al lavoro per individuare il proprio stesso sostituto. Toccava a Szara trovare il miele con cui fargli ingoiare la pillola. Ovviamente volevano più di questo: Deršani in particolare pensava che Baumann andasse spremuto il più rapidamente possibile. Doveva per forza conoscere altri subappaltatori: chi erano? Si potevano interpellare? Se sì, come? Quali erano i loro lati vulnerabili? Ma allora, interveniva Mežin, che non voleva fare la figura del fiorellino appassito, che cosa ne pensavano dei suoi rapporti con i pezzi grossi della Rheinmetall? Non se ne poteva cavare qualcosa? Boris Grund la giudicava una linea di pensiero produttiva. E quanto pagava Baumann l'acciaio inossidabile? I suoi amici giù all'Ufficio economico erano affamati di informazioni simili, forse avrebbero dovuto gettargli un osso. Alla Kurova non piaceva il luogo di consegna. Avevano fatto comprare un cane ai Baumann, uno schnauzer di un anno chiamato Ludwig in modo che Baumann potesse uscire di sera e usare un muretto di pietra vicino a casa come cassetta delle lettere. Ciò comportava che Odile, vestita con
un'uniforme da domestica, visitasse il quartiere due o tre volte al mese per consegnare la posta e ritirare le risposte. Un chiodo piegato in un palo del telefono era il segnale: la capocchia verso l'alto avvertiva Baumann di ritirare, la capocchia verso il basso confermava che il suo plico era stato preso. Tutto secondo la norma e l'esperienza, ammetteva la Kurova. Ma i tedeschi erano curiosi per natura, guardavano dalle loro finestre e avevano una fame insaziabile di dettagli. "Perché Herr Baumann infila la mano dietro una pietra del muretto di Herr Bleiwert? Guarda, il povero piccolo Ludwig vuole soltanto giocare." Alla Kurova non piaceva. Entrambi gli agenti erano troppo allo scoperto. Deršani era d'accordo. Che ne pensavano di un ristorante, un luogo nel quartiere industriale in cui si trovava la trafileria? Abramov pensava che non fosse il caso. Baumann era ebreo, e le sue attività erano limitate. Non poteva entrare in un ristorante come se niente fosse. Sarebbe stato notato. La fabbrica, allora, proponeva Mežin. Meglio ancora, avrebbero potuto stabilire un contatto con l'ingegner Haecht, che secondo Szara sarebbe diventato il proprietario nominale dell'azienda non appena fossero state promulgate le nuove leggi razziali. Controllavano nei loro fascicoli. Avevano una fotografia sfocata di Haecht, scattata da un ufficiale dell'ambasciata di Berlino. Documenti universitari. Esemplare di calligrafia. Inventario dei famigliari: moglie Ilse, figlio Albert, rappresentante di prodotti farmaceutici, figlia Hedwig sposata con un ingegnere di Dortmund, figlia Marta assistente del caporedattore di una rivista letteraria. Rivista letteraria? Forse filosovietica, ipotizzava distrattamente Deršani. Forse, ammetteva la Kurova, ma le ragazze tedesche di buona famiglia non vanno in fabbrica. Andiamoci piano, suggeriva Abramov, non vogliamo scatenare il panico. Non c'è tempo per la cautela, ribatteva Deršani. Era vero. Le informazioni di Baumann erano fondamentali. Esistevano altre fonti sull'industria aeronautica tedesca, ma nessuna che potesse indicare cifre così esatte. Il Direttorato che gestiva le informazioni provenienti da Burgess, da Philby e da altri agenti in Gran Bretagna aveva confermato le ipotesi di quello dell'OPAL, così come avevano fatto altre fonti nei servizi francesi. La macchina industriale tedesca stava costruendo un incubo.
In ottobre, Baumann aveva inviato 4523 metri di cavi stampati; ciò significava una produzione media di 31 bombardieri al mese. Da quei dati potevano fare proiezioni, usando fattori relativi all'autonomia e al carico già in loro possesso. I bombardieri tedeschi prodotti in un mese teorico (il maggio del 1939, per esempio) erano in grado di effettuare 720 missioni in un solo giorno contro obiettivi europei, sganciando 945 tonnellate di bombe e provocando 50 vittime previste a tonnellata: un totale di quasi 50.000 vittime nell'arco di ventiquattro ore. Un milione di morti ogni tre settimane. E URSS, Gran Bretagna e Francia erano assolutamente d'accordo su un presupposto di base: il bombardiere sarebbe sempre riuscito a passare. Sì, l'antiaerea e i caccia avrebbero provocato i loro danni, ma semplicemente non potevano causarne a sufficienza da modificare di molto le stime. I russi, usando le loro spie inglesi, avevano seguito con interesse gli sviluppi delle dottrine strategiche britanniche nell'ultimo mese del 1937. Gli esperti della RAF avevano esortato a incrementare la produzione di bombardieri pesanti allo scopo di pareggiare i conti con la Germania creando in ultima analisi un contrappeso del terrore: voi distruggete le nostre città, noi distruggeremo le vostre. Ma il governo aveva respinto i loro appelli. Sir Thomas Inskip aveva dichiarato: «Il ruolo delle nostre forze aeree non è quello di sferrare prematuramente un colpo da k.o., ma di evitare che i tedeschi ci mettano fuori combattimento». Non era la dottrina consueta, ma alla fine il governo aveva deciso che la difesa era l'opzione preferibile e l'industria bellica inglese aveva cominciato a costruire caccia invece che bombardieri. Anche in Germania era stata presa una decisione strategica, ma questa si fondava tutta sul potere di Hitler. Quando il Reich aveva invaso la Renania nel 1936 senza incontrare alcuna opposizione, lo stato maggiore tedesco aveva perso credibilità. Hitler aveva ragione. Era stato dimostrato. Poco dopo, il Führer aveva rivolto la sua attenzione alla Luftwaffe di Hermann Goering. "Dove sono i miei aeroplani?", aveva voluto sapere. Goering aveva avvertito la pressione e aveva preso contromisure per proteggersi. La Germania aveva cessato la produzione dei bombardieri quadrimotori, il Domier Do-19 e lo Junkers Su-89. Tali velivoli erano in grado di operare su distanze maggiori, in Inghilterra o in URSS, e di trattenersi più a lungo sull'obiettivo, così come di estendere la copertura aerea alle flotte di Uboat prese di mira dai cacciasommergibili o dai cacciatorpediniere, ma non sarebbero stati costruiti. Spinto dall'impazienza di Hitler, Goering aveva
ordinato all'industria aeronautica di costruire bombardieri bimotori. «Il Führer» aveva detto «non mi chiede quali bombardieri abbiamo. Vuole soltanto sapere quanti.» Si riteneva che il suo fosse un commento privato. Non lo era. E il nocciolo della questione era proprio questo. Il Direttorato di Mosca doveva sapere che cosa aveva detto Goering, e che cosa pensava il governo di Londra, e doveva fare di tutto, di tutto, per scoprirlo. Nello stesso complesso edilizio nel quale si riuniva il Direttorato dell'OPAL, altri gruppi si industriavano per evitare che la Gran Bretagna e la Germania scoprissero che cosa diceva Stalin o che cosa pensava il Politburo. Quel lavoro, tuttavia, non li riguardava. Quello che li riguardava era il milione di vittime ogni tre settimane. Con una minaccia di quelle dimensioni, con quanta cautela poteva essere trattato il dottor Julius Baumann? Dovevano assumersi i loro rischi, come consigliava Deršani, e se Baumann si afflosciava per il terrore o s'irrigidiva per la rabbia, gestirlo era compito di Szara. Se Szara non fosse stato in grado di farlo, avrebbero trovato qualcuno che ne era capace. Non erano nelle condizioni di essere troppo cortesi con le spie, e ancora meno con gli agenti. «Allora siamo d'accordo» disse la Kurova. Gravi cenni di assenso percorsero il tavolo. Quella notte, l'operatore del radiotelegrafo di piazza Dzeržinskij si regolò sulla sua frequenza all'1.33 ora di Mosca, com'era stato previsto per quella data. Scoprì che un vicino, un lentissimo idiota al lavoro chissà dove, stava inviando gruppi di codici a cinque cifre come se avesse l'eternità intera a sua disposizione. L'operatore imprecò sottovoce per l'irritazione, carezzò la manopola fino a trovare una striscia di aria silenziosa tutta per sé e poi cominciò a trasmettere un lungo segnale al suo collega di Parigi, privo di un nome e di un volto eppure molto familiare. "Parigi" pensò "una città che non vedrò mai." Ma quello era il destino. E così mise un po' della sua anima nella trasmissione, facendola volare come uno spettro attraverso il continente addormentato insieme ai suoi numeri segreti. Goldman gli aveva detto di essere un giornalista e Szara lo accontentò, ma la cosa non gli piaceva. Trovò una camera ampia e cupa in rue du Cherche-Midi (letteTalmente la strada che cercava il sole, trovandolo di rado), a metà strada fra il chiassoso Montparnasse e l'artistico e modaiolo Saint-Germain; uscendo dal suo portone girava a destra per acquistare un pollo, a sinistra per comprare una camicia. Beveva vino e mangiava ostri-
che al Dòme, un rumoroso cortile pieno di artisti, di coloro che andavano a vederli e dei predatori che fiutavano il denaro di coloro che andavano a vederli. Petits-bourgeois che festeggiavano il loro anniversario ed esclamavano «Ah!» quando il cibo veniva servito e un numero sorprendentemente folto, di cui Szara si accorse soltanto con il passare del tempo, di individui ragionevolmente attraenti e benvestiti di cui si poteva dire soltanto che andavano a mangiare al Dôme. Semplici parigini. Szara assisteva di quando in quando a una sessione del senato, faceva un salto al processo dell'assassino della settimana, passava in rassegna le donne nelle librerie e si faceva vedere in certi salons. Dove c'erano giornalisti c'era anche André Szara. Di tanto in tanto passava dagli uffici della «Pravda», raccoglieva un messaggio telefonico o due, e se di frequente scompariva per un giorno o due, be', lo stesso facevano molti altri a Parigi. Szara si stava occupando di una rete spionistica, Dio solo sapeva che cosa stavano facendo tutti gli altri. Nei giorni in cui Il'ja Erenburg non era in città, André Szara era il giornalista sovietico più importante. Le padrone di casa glielo dimostravano chiaramente («È terribilmente tardi, lo so, ma potrebbe venire? Ci piacerebbe tanto averla fra noi!»). Lui ci andava, ed Erenburg non era mai presente. Szara era stato convocato come sostituto dell'ultimo istante, il Giornalista Sovietico del salotto, accanto alla Tragica Ballerina, al Ricco Zuccone Americano, all'Avvocato Canaglia, all'Aristocratico Sessualmente Bizzarro, al Politico Cinico e a tutti gli altri: come un mazzo di tarocchi, pensava Szara. Preferiva di gran lunga le serate rilassate a casa di amici, raduni spontanei con un'abbondanza di combattive discussioni sulla politica, l'arte e la vita, dai Malraux in rue du Bac, a volte a casa di André Gide in rue Vaneau, occasionalmente nell'appartamento di Erenburg in rue Cotentin. Era geloso di Erenburg, che occupava una posizione superiore alla sua nel mondo letterario e sociale, e quando si conobbero la gentilezza e la cortesia del collega non fecero che peggiorare le cose. Una componente tutt'altro che minore del problema era il modo di scrivere di Erenburg: non tanto il suo stile, quanto l'occhio acuto per il dettaglio che raccontava la storia. Scrivendo della guerra civile spagnola, Erenburg aveva descritto le diverse reazioni di cani e gatti ai bombardamenti: i cani cercavano di salvarsi avvicinandosi il più possibile ai loro padroni, mentre i gatti scappavano dalle finestre e si allontanavano quanto più potevano degli esseri umani. Erenburg sapeva come catturare le emozioni del lettore meglio di
lui, e ora che Szara aveva effettivamente abbandonato la tenzone, vedere che Erenburg pubblicava una simile quantità di buon materiale lo deprimeva. Girava voce che Erenburg facesse favori all'apparat, ma se era così Szara non ne aveva alcuna prova; e sospettava che i contatti di Erenburg fossero all'interno del Comitato Centrale, ben al di là della sua portata. Un giovedì sera di maggio, Szara passò dall'appartamento di Erenburg e vi trovò André Gide lanciato in un lungo discorso su un argomento di filosofia letteraria. Per illustrare la sua tesi, Gide prese un biscotto per cani da un piatto in cucina e lo usò per tracciare delle linee nel vuoto. Il cane di Erenburg, un incrocio fra un terrier e un cocker spaniel chiamato Bouzou, studiò per qualche istante i movimenti del biscotto, poi fece un balzo e lo staccò con un morso dalle dita dello scrittore. Imperterrito, Gide prese un altro biscotto e proseguì la sua lezioncina. Bouzou, altrettanto imperturbabile, si ripeté. Una ragazza seduta accanto a Szara si sporse verso di lui e bisbigliò: «C'est drôle, n'est-ce pas?». Oh sì. Molto divertente. "Eclissato dal cane di Erenburg" si disse Szara, e immediatamente si detestò per aver pensato una cosa simile. "Ingrato! Ascolta quello di cui sta parlando Gide, di come l'umanità si dibatta tra le futilità della vita; di come il suo destino tragicomico possa essere descritto, lo sia sempre stato e sempre lo sarà con... una parola francese che non conosco. Ah, ma tutti sorridono saggiamente e annuiscono, dunque è evidentemente un'osservazione acutissima." Che serate. Vino e ostriche. Torte glassate. Donne aromatiche che ti si avvicinavano per dirti qualcosa di quasi intimo e ti sfioravano la spalla. Il vecchio Szara sarebbe rimasto stordito dall'estasi. Non erano tutte rose e fiori, naturalmente. La città era celebre per le sue magistrali, meschine umiliazioni (Balzac non aveva forse modellato una carriera su una simile offensiva sociale?) e Szara sapeva di essere il genere di individuo che certe cose se le prendeva a cuore, lasciando che gli entrassero nel sangue dove davano vita ad anticorpi maligni. Ciò nonostante, si disse, era fortunato. Due terzi degli scrittori russi erano stati eliminati dalle purghe, e lui si trovava a Parigi. Che il mondo intero potesse avere problemi come l'invidia di un collega e l'obbligo di lavorare di notte! Szara controllò l'ora, si alzò, sorrise e fece per andarsene. «L'ora delle streghe, e il misterioso Szara ci lascia» disse una voce. Lui si voltò e fece un gesto di resa. «Domani devo svegliarmi presto» disse. «Una scena osservata all'alba.»
Un coro di «Buonanotte» e almeno una risatina scettica lo accompagnarono alla porta. Camminò per qualche isolato verso il confine del VII arrondissement, bighellonando, attraversando e riattraversando un viale, poi fermò un taxi dalla coda alla fermata del metrò di Duroc e raggiunse di gran fretta la Gare Saint-Lazare. Qui attraversò di corsa la stazione, in ritardo per un treno, poi prese un altro taxi all'uscita di rue de Rome e si fece portare alla Gare d'Austerlitz. «Senza fretta» disse al conducente. «Se ci aggiunge qualche giro a caso c'è un piccolo extra per lei.» Un'istruzione originale ma rispettata, e mentre il taxi vagava verso est Szara si abbandonò sul sedile posteriore in una posizione che gli concedeva di osservare la strada alle loro spalle nello specchietto retrovisore del taxista. Alla Gare d'Austerlitz cambiò auto un'altra volta, poi pagò il nuovo taxista sul boulevard de la Gare e attraversò la Senna, portandosi sul versante occidentale di Parigi dove la ferrovia procedeva verso sud-est fra la Gare du Lyon e i magazzini dei commerçants di vino di Bercy. Era diventato, nel corso di questi esercizi clandestini, quello che vedeva come l'altro Szara, una versione notturna, una figura con l'impermeabile su un ponte sopra gli scali di smistamento di Bercy, intenta a evitare il bagliore giallo di un lampione. "E qui" pensò "Monsieur Gide, Monsieur Erenburg, signorino Bouzou, abbiamo un antidoto di ben altro genere alla futilità dell'esistenza." Un treno merci sbuffava lentamente sotto il ponte, e al suo passaggio il getto di vapore bianco si riversò sul terrapieno. A Szara piacevano l'odore di bruciato degli scali ferroviari, i cozzi lontani dei ganci di trazione, il lucente labirinto di acciaio dei binari che si univano, si separavano e tornavano a congiungersi, il sibilo di decompressione di una locomotiva ferma con il motore acceso. Controllò l'ora, l'una e venti, si diresse alla fine del ponte con l'aria noncurante dell'uomo pensieroso che sta riflettendo. Raggiunse la strada proprio mentre una Renault squadrata si fermava con uno scoppiettio. La portiera destra si aprì, Szara salì agevolmente a bordo e l'auto accelerò sul viale deserto mentre lui chiudeva la portiera. Era tutto ben calcolato, si disse, a suo modo alquanto artistico. «Et bonsoir, mon cher» disse allegramente il conducente. Era il responsabile del gruppo Silo, Robert Sénéschal, il perfetto esempio del giovane avvocato comunista francese. Come molti uomini francesi, sembrava teatralmente adatto a svolgere quel ruolo: i capelli aguzzi, il sorriso asprigno, i guanti di cinghiale e il bavero dell'impermeabile alzato avrebbero fatto felice un regista cinematografico. A Szara piaceva. Il suo fascino, il suo
coraggio noncurante gli rammentavano il proprio stesso stile dieci anni prima: appassionato, sicuro di sé, divertito dal melodramma della clandestinità eppure pronto a rispettarne scrupolosamente le esigenze. Szara infilò la mano nel vano portaoggetti del cruscotto e ne estrasse una spessa busta marroncina. Slacciò lo spago e diede una scorsa a un fascio di fogli, strizzando gli occhi per distinguerne il contenuto nel bagliore dei lampioni stradali. Sollevò una pagina con una dozzina di parole, lettere enormi scarabocchiate a fatica. Cercò lentamente di decifrare il tedesco. «Riesci a capirci qualcosa?» «Una lettera della sorella, a quanto pare.» «Ruba qualsiasi cosa.» «Sì, povero "Alto''. Prende tutto quello che gli sembra importante.» «Che cos'è Kra... Krai...» «Kraft, penso. Kraft durch Freude. "Forza attraverso la gioia", i club ricreativi nazisti per i lavoratori.» «Che cosa c'entra con il resto?» «Sono riuscito a ricostruire la faccenda. La sorella che vive a Lubecca farà una crociera a Lisbona su una delle navi che il club ha noleggiato, le costerà solo qualche Reichsmark, ne ha tanta voglia dopo le difficoltà del suo lavoro. Alto ci offre anche i numeri di telefono degli specialisti di approvvigionamenti presso l'ufficio dell'addetto militare.» «Quelli li apprezzeranno. Per quanto riguarda la lettera...» «Sono solo il postino» disse Sénéschal. Si immise nel rond-point di place Nation. Malgrado la notte di maggio fosse fredda, le terrazze delle brasseries erano piene di gente che beveva e mangiava e chiacchierava, una chiazza bianca e confusa di volti e luci ambrate al passaggio della Renault. Sénéschal si avvicinò al paraurti di un malconcio camion del mercato che li precedeva, impedendo di inserirsi a un'aggressiva Citroen. «Ben ti sta» disse in tono trionfale. Alto era un sedicenne conosciuto come Dolek, un soprannome slovacco. Sua madre, che Sénéschal aveva segretamente osservato e definiva «incantevole», viveva con un maggiore tedesco che lavorava nell'ufficio dell'addetto militare. La loro relazione era cominciata quando il maggiore era assegnato a Bratislava, ed erano rimasti insieme quando lui era stato trasferito a Parigi. Dolek, figlio di una relazione precedente, soffriva di una malattia del sistema nervoso: aveva qualche difetto di pronuncia e la sua parlata era difficile da capire, zoppicava con un braccio piegato sul petto e la testa appoggiata alla clavicola. La madre e il suo amante, ebbri della perfe-
zione fisica dei loro corpi, erano nauseati dalla sua condizione, se ne vergognavano e lo tenevano il più possibile nascosto. Lo trattavano come un ritardato mentale, come se non capisse quello che dicevano di lui. Ma Dolek non era ritardato, capiva tutto, e alla fine una rabbia disperata l'aveva portato a perseguire la vendetta. Lasciato solo nell'appartamento, copiava al meglio delle sue possibilità e con sforzi immani le carte che il maggiore portava a casa e lasciava in un cassetto della scrivania. Non faceva distinzioni, il che spiegava la lettera della sorella: se il maggiore trattava un documento come qualcosa di riservato, lui lo copiava. Qualche mese dopo il trasloco a Parigi, era stato chiuso in casa mentre sua madre e il maggiore passavano il fine settimana in campagna. Era riuscito ad aprire la porta e si era trascinato fino al quartier generale del partito comunista, dove una giovane infermiera, impegnata a preparare gli striscioni per un corteo operaio, l'aveva ascoltato con comprensione. Sénéschal era venuto a conoscenza della situazione e aveva fatto visita al ragazzo mentre la madre e il suo amante erano al lavoro. Szara sospirò e ricacciò i fogli nella busta. La Renault svoltò in una buia strada laterale e lui poté vedere l'interno di un appartamento dietro una finestra dalle tende aperte, illuminato in modo da sembrare inondato di luce dorata. «Hai ancora intenzione di portare la Hüber in Normandia?» domandò. «Il programma è questo» rispose Sénéschal. «A fare l'amore e mangiare mele con la crema.» Szara infilò la mano in una tasca interna e allungò un fascio di banconote da cinquanta franchi oltre la leva del cambio. «Andate in un bel ristorante» disse. Sénéschal prese il fascio di denaro. «Ti rigrazio» disse in tono indifferente. «Vogliamo che tu sappia che il tuo lavoro è apprezzato.» Szara esitò. «Non proverai un granché per lei, immagino.» «È curieux, se vuoi sapere la verità. La grassoccia fanciulla nazista che si dimena... uno finisce per chiudere gli occhi per la passione.» Szara sorrise. Era chiaro che a Sénéschal non dispiaceva poi tanto, eppure nella sua voce c'era una nota di martirio: "Che il mondo sia arrivato a questo...". «Le masse balzano in piedi e ti applaudono mentre costruisci il socialismo.» Sénéschal scoppiò a ridere e Szara provò soddisfazione per l'efficacia della battuta. Essere spiritoso era di gran lunga la cosa più difficile quando
parlavi una lingua straniera; a volte i francesi si limitavano a fissarlo in preda a un'evidente perplessità: "Cosa avrà voluto dire?". Lotte Hüber era una grassoccia impiegata della missione commerciale tedesca. Con la collaborazione del suo amico avvocato Valais, che aiutava diverse imprese tedesche a ottenere permessi di soggiorno e a districarsi nelle infinite complessità della burocrazia francese, Sénéschal aveva «incontrato» la Hüber quando si era ritrovato seduto accanto a lei e a un'amica a teatro. Durante l'intervallo i quattro avevano cominciato a chiacchierare, e dopo lo spettacolo erano andati a bere qualcosa. Sénéschal si era presentato come il rampollo di una famiglia ricca e aristocratica, aveva sedotto l'impiegata ed era arrivato a proporle di sposarlo. Con sua grande rabbia, i suoi invisibili «genitori» avevano categoricamente respinto l'unione. A quel punto lui si era allontanato dalla sua famiglia, abbandonando l'enorme eredità che gli spettava e sacrificando tutto per la sua adorata Lotte. Era deciso, una volta che il polverone si fosse posato, a farsi strada nella vita, presumibilmente facendosi assumere come funzionario di basso rango presso il ministero degli Esteri francese. Ma, le aveva spiegato, potevano sposarsi soltanto se fosse stato in grado di fare carriera, cosa che sarebbe successa se lei gli avesse fornito informazioni utili sulla missione commerciale tedesca e sul suo personale. Innamorata, lei gli diceva di tutto, più di quanto fosse in grado di capire, poiché l'SD, il servizio segreto della Gestapo, usava la missione come copertura per i suoi agenti, individui che si reputava avessero contatti ben più importanti del settore commerciale. Aggiungendo queste informazioni a quelle fornite da Valais sui nuovi arrivati che avevano bisogno di cartes de séjour, l'apparat era in grado di tenere d'occhio gli agenti segreti tedeschi con notevole efficacia, arrivando a conoscere nomi di traditori francesi, operazioni effettuate contro altri paesi e rivelazioni su obiettivi tedeschi sia in Francia che altrove in Europa. Sénéschal si era più che meritato il suo fine settimana in Normandia. Il denaro non era una lusinga (Sénéschal era motivato dall'idealismo), ma l'ammissione che il responsabile di un gruppo non aveva il tempo per guadagnarsi da vivere. Sénéschal abbassò il finestrino della Renault e si accese una sigaretta. Szara chiuse la busta e controllò i cartelli agli angoli degli edifici per vedere dove si trovavano: qualsiasi zona tranne quella della base di rue Delesseux sarebbe andata bene. Sénéschal era essenzialmente la valvola di collegamento; quelli con cui lavorava non sapevano dell'esistenza di Szara, e lui stesso lo conosceva soltanto come «Jean Marc», non sapeva come si
chiamava in realtà, dove viveva o dov'erano situati i radiotelegrafi o le case sicure. Gli incontri si tenevano ogni volta in luoghi diversi, con soluzioni di riserva se uno o l'altro non si presentava. Se la rete fosse stata chiusa, Sénéschal si sarebbe presentato tre volte in diversi punti senza trovare nessuno e la faccenda sarebbe finita lì. Ovviamente, se avesse voluto l'apparat avrebbe potuto ritrovarlo. «C'è qualcosa che desideri o di cui hai bisogno?» chiese Szara preparandosi ad andarsene. Sénéschal scosse il capo. In quel momento a Szara parve perfettamente soddisfatto, un uomo che faceva ciò che voleva fare senza riserve anche se non poteva condividere questo lato della sua esistenza con qualcuno senza correre rischi. A volte Szara sospettava che molti idealisti conquistati dal comunismo fossero in realtà individui con una forte attrazione per la vita clandestina. «La situazione "Lichene" non è cambiata?» domandò. Lichene era una prostituta, una donna bruna e bellissima di origini basche fuggita al nord dalla guerra civile spagnola. L'intenzione era quella di usarla per coinvolgere il personale di base tedesco in situazioni compromettenti, ma Lichene doveva ancora produrre risultati che andassero al di là della fornitura gratuita di svaghi sessuali a qualche autista nazista. «No. Madame ha lo scolo e non vuole lavorare.» «Si fa vedere da un dottore?» «Viene pagata per farlo. Ma non ho idea se lo faccia o no. Le puttane agiscono a modo loro. Una dose occasionale le rimette in piedi per un po', e Lichene non sembra badarci.» «Nient'altro?» «Nel mio studio legale hanno lasciato un messaggio per te. È insieme ai rapporti.» «Per me?» «Sulla busta c'è scritto Jean Marc.» Era strano, ma Szara non aveva intenzione di rovistare alla ricerca del messaggio davanti a Sénéschal. Proseguirono in silenzio per qualche minuto, risalendo il boulevard Beaumarchais deserto e oltrepassando l'enorme costruzione simile a una torta nuziale che ospitava il Circo d'Inverno. Sénéschal gettò la sigaretta dal finestrino e sbadigliò. Il semaforo scattò sul rosso e la Renault si fermò accanto a un taxi vuoto. Szara consegnò all'agente un foglietto con il luogo, l'ora e la data dell'incontro successivo. «Goditi il fine settimana» disse; scese dalla Renault e scivolò abilmente a
bordo del taxi, facendo sussultare il conducente. «Svolti a destra» disse mentre il semaforo diventava verde, e guardò l'auto di Sénéschal scomparire in lontananza lungo il viale. Quando Szara entrò nella casa di rue Delesseux e salì al secondo piano, erano le tre del mattino appena passate. Kranov aveva terminato i suoi compiti serali al radiotelegrafo, e Szara aveva la stanza tutta per sé. Come prima cosa recuperò la busta intestata a Jean Marc. All'interno c'era un quadrato di carta mimeografato con il disegno di un uomo barbuto vestito con un'armatura da antico romano che reggeva uno scudo con una stella a sei punte e brandiva un pugnale. Il biglietto garantiva al portatore il posto 46 del teatro nel seminterrato della sinagoga di rue Muret, alle 19.30 del diciottesimo giorno del mese di Iyyar, anno 5698, per l'annuale recita del Lag b'Omer da parte del gruppo giovanile della sinagoga. L'indirizzo si trovava nel cuore del Marais, il quartier ebraico di Parigi. Per coloro che avevano bisogno di seguire il calendario giuliano, la data del 18 maggio era stata scritta a malincuore in un angolo inferiore. Szara se lo infilò in tasca. Che cosa avrebbero inventato la prossima volta? Una comunicazione che viaggiava dal basso verso l'alto, da un agente a un vicedirettore, era una cosa di cui non aveva mai sentito parlare, e pensava che Abramov sarebbe impallidito se ne fosse giunto a conoscenza; ma con il passare del tempo Szara si stava abituando alle stranezze, e non aveva intenzione di tormentarsi a causa di questa. Aveva un biglietto per una recita in una sinagoga, e sarebbe andato a una recita in una sinagoga. Lo attendeva un foglio sottile con le decrittazioni dei messaggi da Mosca della notte precedente, e quelle sì che lo turbarono. Il problema non era la rete Silo (alcune delle risposte alle domande del Direttorato erano probabilmente nella busta marroncina che aveva ritirato da Sénéschal), ma la trasmissione che riguardava Lontra, il dottor Baumann, era preoccupante. Mosca voleva che lo si spremesse. Energicamente. E subito. Era impossibile fraintendere le loro intenzioni, malgrado il linguaggio smorzato e attenuato dei messaggi decodificati. A prima vista sembrava che volessero trasformare la Ferriera Baumann in quello che i russi chiamavano un centro spionistico: per quale altra ragione mostrare tanto interesse per il personale? Perché, se ci riflettevi per un istante, si aspettavano una conflagrazione. I dirigenti dei servizi segreti sovietici non erano tipi impressionabili. I disastri non facevano che renderli ancora più freddi, Szara l'aveva visto di persona. L'Ufficio esteri del NKVD, ora chiamato Primo Direttorato
Principale, aveva centinaia di finestre sulla Germania. Che cosa vedeva all'orizzonte? Qualunque cosa fosse, non credeva che Baumann sarebbe sopravvissuto. Szara riprese faticosamente il controllo dei propri pensieri e si costrinse a mettersi al lavoro, svuotando la busta marroncina sul tavolo. L'elenco di Valais delle richieste tedesche di permessi di soggiorno non presentava alcun problema, e Szara si limitò a ricopiarlo. Il materiale di Sénéschal proveniente da «Pergola», Lotte Hüber, era breve e concreto. L'avvocato aveva essenzialmente riassunto ciò che aveva ottenuto, svolgendo in pratica il lavoro di Szara: la missione commerciale tedesca stava sondando i mercati francesi alla ricerca di bauxite (il che significava alluminio, il che a sua volta significava cellule di aeroplani), fosforo (razzi segnaletici, proiettili d'artiglieria e traccianti), cadmio (che a Szara non diceva nulla) e prodotti domestici assortiti, soprattutto caffè e cioccolato. Di Alto, Dolek, avrebbe inoltrato l'elenco telefonico modificato dell'ufficio dell'addetto militare, ma avrebbe eliminato la lettera da Lubecca della sorella del maggiore. Dal canto suo, informò il Direttorato che aveva incontrato il responsabile della rete Silo, che gli aveva erogato del denaro e che aveva saputo che lichene era inattiva per motivi di salute. A quel punto strappò gli originali della rete Silo, li bruciò in un posacenere di ceramica, andò in fondo al corridoio e scaricò le ceneri nel gabinetto. A quasi tutti coloro che entravano in contatto con il mondo dello spionaggio veniva raccontata la storia del principiante che aveva l'ordine di bruciare i suoi documenti oppure farli a pezzetti e gettarli nel gabinetto. Il giovane, un tipo ansioso, si era confuso, aveva fatto un grosso cartoccio di carta, l'aveva gettato nella tazza del gabinetto, vi aveva dato fuoco ed era rimasto a guardare inorridito l'asse che s'incendiava. Rientrato nell'ufficio del radiotelegrafo, Szara vide che la grossa sveglia accanto all'area di lavoro di Kranov segnava le quattro e un quarto del mattino. Si sedette al tavolo e accese una sigaretta; la finestra oscurata nascondeva ogni mutamento di luce, ma all'esterno si udiva il cinguettio di un uccello. Szara pensò alle centinaia di agenti in tutta Europa che avevano terminato il loro lavoro notturno come lui e che ora, appena prima dell'alba, erano preda dello stesso malessere: un'inutile, vuota energia, la sensazione tormentosa di aver tralasciato qualcosa di misterioso, un cervello che rifiutava di mettersi a riposo. Il sonno era fuori questione. Raddrizzò il blocco di carta sottile e cominciò a scarabocchiarvi sopra. Il ricordo della calligrafia di Dolek, quelle enormi lettere scolpite penosa-
mente sulla carta con scatti successivi della matita, non voleva saperne di lasciarlo. E nemmeno la sostanza della lettera, specialmente la crociera della «Forza attraverso la gioia». La sua immaginazione vagò, tratteggiando il ritratto del tipo di lavoratrice tedesca che sarebbe salpata per Lisbona. Carissima Schätzchen, scrisse. Tesoruccio. Vorrei invitarti a una gita speciale organizzata dal mio club Kraft durch Freude. Si dilungò ancora un po', sdolcinato e spavaldo, e infine firmò Hans. Cambiò la firma in Hansi. Provò con il tuo dolce Hansi. No, troppo. Hansi sarebbe bastato. Che cosa avrebbe fatto Marta se avesse ricevuto una lettera simile? Sulle prime avrebbe pensato a uno scherzo di cattivo gusto, e ne sarebbe rimasta turbata. Ma se lui l'avesse scritta in modo da farle chiaramente capire da chi proveniva? Odile avrebbe potuto imbucarla ad Amburgo, evitando in tal modo gli ispettori postali che esaminavano tutta la posta proveniente dall'estero. Avrebbe potuto indirizzarla personalmente a lei e firmarla con uno pseudonimo significativo. E lei sarebbe potuta andare a Lisbona in crociera. Doveva pensarci bene, molte cose potevano andare storte. Ma in linea di principio, perché no? La sera del 18 maggio era fresca e nuvolosa, ma nel seminterrato della sinagoga di rue Muret faceva così caldo che le signore fra il pubblico arrivarono a estrarre fazzoletti profumati dalle loro lucide borsette di pelle. Non era, scoprì Szara, una sinagoga estremamente ortodossa, né era povera come poteva sembrare a prima vista. Sepolto nel buio di una stradina serpeggiante del Marais, l'edificio sembrava cedere in ogni direzione possibile, e il profilo del suo tetto era frastagliato come se fosse stato scarabocchiato sulla carta. Ma il seminterrato era affollato da uomini e donne benvestiti, probabilmente genitori dei bambini sul palco, parenti e amici. Le donne sembravano più francesi che ebree, e malgrado Szara avesse preso la precauzione di acquistare uno yarmulke (che il Direttorato di Mosca lo rimborsasse per quello), fra il pubblico c'erano uno o due uomini con il capo scoperto. Le targhe di alcune automobili parcheggiate all'esterno, per metà sulla stradina, indicavano a Szara che certi membri della congregazione stavano abbastanza bene da vivere fuori Parigi ma erano rimasti fedeli alla vecchia sinagoga di rue Muret, una strada che conservava un deciso sapore, nonché un aroma, delle sue origini medievali. Szara si era aspettato di riconoscere lo spettatore del posto 47 o 45, ma la sedia alla sua destra era più che occupata da una corpulenta matrona con
anelli di diamanti alle dita mentre alla sua sinistra, lungo il passaggio centrale, sedeva un'adolescente scura con un vestito stampato. Szara era arrivato presto, aveva accettato il programma di sala e si era messo nella paziente attesa di un contatto. Ma non si presentò nessuno. Alla fine due tendoni flosci si scostarono cigolando a rivelare il decenne Pierre Berger in un'armatura di cartone nei panni di Bar Kochba, il ribelle ebreo nella Giudea del 132 dopo Cristo nell'atto di reclutare il suo amico Lazar alla lotta contro le legioni dell'imperatore Adriano. BAR KOCHBA (indicando il soffitto): Guarda, Lazar! Laggiù, a est. Eccola! LAZAR: Che cosa vedi, Simon Bar Kochba? BAR KOCHBA: Vedo una stella. Più radiosa di tutte le altre. Una stella da Giacobbe. LAZAR: Come nella Torah? «Una stella da Giacobbe, uno scettro da Israele»? BAR KOCHBA: Sì, Lazar. Riesci a vederla? Significa che ci libereremo del tiranno. LAZAR: Sogni sempre, tu! Come possiamo riuscirci? BAR KOCHBA: Con la nostra fede, con la nostra saggezza e con la forza della nostra mano destra. E tu, Lazar, sarai la mia prima recluta, ma dovrai superare una prova. LAZAR: Una prova? BAR KOCHBA: Sì. Vedi quel cedro laggiù? Dovrai sradicarlo dal terreno e dimostrare di essere abbastanza forte da unirti alla nostra ribellione. Mentre Lazar attraversava a grandi passi il palcoscenico verso un cedro di carta fissato a un attaccapanni, il commento di una nonna venne zittito da un sonoro: «Shh!». Lazar, un bambino tozzo e paonazzo in tunica blu (la truccatrice aveva un po' esagerato con il belletto), prese a lottare ansimando con l'attaccapanni. Finalmente lo sollevò in aria, lo agitò in direzione di Bar Kochba e lo posò su un fianco con cautela. Lo spettacolo, intitolato Una stella da Giacobbe, proseguiva come Szara, memore dei suoi stessi heder di Kišinëv e Odessa, sapeva dovesse fare. Una curiosa festività il Lag b'Omer, per come commemorava una moltitudine di eventi dell'intera tradizione ebraica e li celebrava in una varietà di modi. A volte era la Festa degli Studiosi, che ricordava la morte degli stu-
denti del Rabbi Akiva falciati da un'epidemia, o quella del primo giorno della caduta della manna descritta nel Libro dell'Esodo. Era il giorno in cui i figli di tre anni degli ebrei ortodossi ricevevano il primo taglio di capelli, oppure il giorno dei matrimoni. Ma nei ricordi della Polonia orientale di Szara era soprattutto il giorno in cui i bambini ebrei giocavano con le armi. Molto tempo addietro archi e frecce, poi, durante la sua infanzia, fucili di legno. Szara ricordava perfettamente la carabina del Lag b'Omer che lui e suo padre avevano ricavato dal ramo spezzato di un olmo. Lui e i suoi amici avevano giocato a rincorrersi nei vicoli fangosi dei loro quartieri, combattendo nelle strade, sbirciando da dietro gli angoli e gridando: «Kra, kra!» quando sparavano, un'imitazione abbastanza accurata da parte di bambini che avevano sentito gli spari veri e propri. Questi bambini erano diversi, si disse, più sofisticati, parigini in miniatura dai nomi parigini: Pierre Berger, Moïse Franckel, Yves Nachmann e, a spiccare nettamente su tutti, l'incantevole Nina Perlemère nei panni di Hannah, l'ispiratrice dei ribelli di Bar Kochba riluttanti a strisciare nei passaggi sotterranei di Gerusalemme per attaccare i legionari, che agitava la spada di cartone nel cielo e sopraffaceva Szara con il suo coraggio. HANNAH: Che non vi sia disperazione. Dapprima pregheremo, poi faremo ciò che dobbiamo fare. Per graziosa che fosse, la guerriera era lei: le sue battute risonanti produssero qualche sparso applauso che spinse un centurione romano a sbirciare da dietro le quinte e un paio di occhiali dalla montatura azzurra. Alla sinistra di Szara vi fu un istante di agitazione quando la ragazza scura con il vestito stampato si spostò un po' più avanti lungo il passaggio centrale e al suo posto si sedette il generale Yadomir Bloch. Tese la mano e strinse la sinistra di Szara nella sua per un istante, poi sussurrò: «Spiacente per il ritardo, parleremo dopo lo spettacolo». Ciò provocò un sonoro «Shh!» dalla fila dietro. Percorrendo le strade buie del Marais, Bloch lo condusse in un ristorante polacco al primo piano di un edificio tenuto in piedi da vecchissime travi di legno piantate sull'asfalto. Il minuscolo locale era illuminato da candele, non per creare atmosfera ma per la mancanza di corrente elettrica nello stabile: Szara poteva sentire l'odore della paraffina usata per la stufa. Strizzando gli occhi per leggere il menu scritto con il gesso sul muro, ordinaro-
no una mezza bottiglia di vodka polacca, due tschav (zuppa di acetosella), ravanelli, pane, burro e caffè. «La bambina che interpretava Hannah» disse Bloch scuotendo il capo ammirato. «Ce n'era una uguale a Vilna quand'ero piccolo, aveva undici anni e attirava tutti gli sguardi. Non le è dispiaciuto assistere allo spettacolo?» «Oh, no. Mi ha ricordato il passato. Il Lag b'Omer, i fucili giocattolo.» «Sì, perfetto, proprio quello che intendevo. Uomo sovietico qua, uomo sovietico là, ma non dobbiamo scordare chi siamo.» «Non credo di dimenticarlo mai, compagno generale.» Bloch strappò una striscia di crosta dalla pagnotta scura, la intinse nella zuppa e si sporse sopra la ciotola per mangiarla. «No? Bene» disse. «Sono in troppi a farlo. Una sfumatura di orgoglio per le proprie radici e subito qualcuno si mette a gridare: "Nazionalismo borghese, portate via il sionista!".» Terminato il pane, si pulì la bocca con un tovagliolino di stoffa e si lanciò in una spedizione all'interno delle proprie tasche, recuperando finalmente una pagina strappata da un giornale che spiegò con cautela. «Lei conosce il Birobidžan?» «Sì.» Szara fece un sorriso triste. «La patria ebraica in Siberia, o così dicevano. La versione leninista della Palestina, per tenere i sionisti in Russia. Credo che migliaia di poveracci vi siano andati.» «È vero. Un luogo triste, certo, ma una propaganda efficace. Ecco, per esempio, che cosa scrive un ebreo tedesco sull'argomento: "Gli ebrei sono entrati nelle foreste siberiane. Se chiedete loro della Palestina, si mettono a ridere. Il sogno della Palestina sarà retrocesso da tempo nei ricordi quando nel Birobidžan ci saranno automobili, ferrovie e navi a vapore, enormi fabbriche che erutteranno i loro fumi... Questi coloni stanno fondando una patria nelle taighe della Siberia non soltanto per loro stessi, ma per milioni di altri... L'anno prossimo a Gerusalemme? Che cos'è Gerusalemme per il proletario ebreo? L'anno prossimo nel Birobidžan!".» Szara levò il bicchiere nella parodia di un brindisi per il Seder e scolò la vodka. Bloch ripiegò il foglio e se lo rimise in tasca. «Sarebbe più divertente se la gente non ci credesse» disse. Szara scrollò le spalle. «Bundisti, comunisti, socialisti in ogni angolo, tre tipi di sionismo e soprattutto, alla resa dei conti, gli abitanti degli shtetl dei Territori che sostengono di non fare nulla e aspettare il Messia. Potremmo anche non possedere niente che sia degno di nota, ma quando si tratta di opinioni siamo ricchi.»
«Dunque ne avrà una anche lei.» Szara rifletté per un istante. «Per secoli siamo fuggiti per l'Europa come topi in preda al terrore, forse è arrivato il momento di pensare quanto meno a una breccia nel muro. In particolar modo negli ultimi tempi, con la popolazione dei gatti che sembra in aumento.» Bloch parve soddisfatto. «Capisco. Ora passiamo a un argomento delicato. Lei ha, mi è stato detto, una magnifica occasione per scrivere un pezzo per una rivista americana, ma non esce nulla. Forse altri le hanno consigliato di non farlo. Forse uno come Abramov, un uomo che lei ammira... un uomo che io stesso ammiro, se è per questo... la convince che non ne vale la pena. La prende sotto la sua protezione, risolve i suoi problemi con i georgiani, le rende la vita possibile. Se è così, ebbene, lei ha preso una decisione e io non posso farci nulla. D'altro canto, forse c'è qualcosa di cui ha bisogno, magari posso esserle d'aiuto. Oppure no. Nella peggiore delle ipotesi, uno spettacolino dei bambini della sinagoga e un piatto di ottima tschav. non è una serata sprecata, in ogni caso.» «Compagno generale, posso farle una domanda franca?» «Naturalmente.» «Qual è la vera natura del suo lavoro?» «Ottima domanda, cercherò di risponderle. La verità è che ho diverse attività. Come lei, come noi tutti, mi occupavo del paradiso. Ci siamo sbarazzati dello zar e dei suoi pogrom per creare un mondo in cui gli ebrei, in cui tutti, potessero vivere come esseri umani e non come schiavi e bestie: è una definizione di paradiso, e niente affatto scadente. Questo paradiso, abbiamo visto abbastanza presto, aveva bisogno di alcune anime disponibili che fungessero da guardiani. Non è sempre così, con il paradiso? E così ho offerto i miei umili servigi. E il mio secondo lavoro, si potrebbe dire, è diventato il GRU, il servizio segreto militare. In questa scelta sono stato guidato dall'esempio di Trotckij, che quando ha dovuto è diventato un soldato e si è comportato discretamente bene. Ciò nonostante, il paradiso ci è sfuggito. Perché adesso abbiamo un nuovo pogrom, condotto, come tanti altri nel corso della storia, da un contadino astuto che sa cos'è l'odio, che ne conosce il vero valore e sa come usarlo. «C'è un imbroglio, André Aronovič, che ci è stato propinato nei secoli e che ci viene propinato anche adesso: l'ebreo è accusato di essere astuto da qualcuno che è mille volte più astuto di quanto sia mai stato qualsiasi ebreo. E così, tristemente, questo problema è diventato il mio terzo lavoro, e stasera l'ho portata a teatro e a una cena di lavoro cercando di convincerla
ad associarsi. Che cosa offro ai miei associati? La possibilità di salvare la vita a qualche ebreo, mai una merce di grande valore, ma d'altra parte gli ebrei hanno sempre trovato il modo di occuparsi di simili imprese: commerciano in articoli a buon mercato, vecchi stracci, ferraglie, ossa e cartilagini, tutto quello che, come loro stessi, la gente non vuole. E questo, francamente, è tutto ciò che posso offrirle. È pericoloso? Oh sì. Potrebbe morirne? È probabile. Il suo eroismo passerà alla storia? Ne dubito seriamente. Bene, sono riuscito a convincerla a gettare alle ortiche tutto ciò che apprezza della vita e a seguire quest'uomo strano e brutto oltre l'orizzonte più vicino verso un destino spaventoso?» Il generale Bloch rovesciò la testa all'indietro e rise: una risata franca, contagiosa. Szara si unì a lui e presto non riuscì più a smettere. Gli avventori agli altri tavoli si voltarono a guardarli sorridendo nervosi, leggermente spaventati all'idea di essere intrappolati con due matti in un angusto ristorante polacco. Nessuno dei due sarebbe riuscito a spiegare la ragione di tanta ilarità. In qualche modo, all'interno di quello strano edificio nascosto e ferito, avevano afferrato la coda dell'assurdo, e il modo in cui questa si dimenava li faceva ridere. «Che Dio mi perdoni» disse Bloch asciugandosi gli occhi con la mano «per godere così tanto di una simile vita.» Una bella risata. Una risata che ebbe successo. Poiché permise a Szara di non rispondere alla domanda di Bloch, di non dirgli immediatamente «No». Più tardi camminarono insieme fino al metrò. Bloch continuava a parlare dello spettacolo. Ah, la ragazzina che interpretava la parte di Hannah, come si chiamava? Perlemère? Sì, era sicuro che Szara avesse ragione, pochi mesi in prima linea e già aveva la memoria allenata dell'agente operativo. Perlemère, madreperla, come Perlmutter in tedesco. Dove li prendevano certi nomi, gli ebrei? Ma qualsiasi nome avesse, non era un tesoro? Non lo erano tutti? Persino quelli in Russia. Non così svegli e intelligenti come questi, forse, ma radiosi ed entusiasti, dei piccoli ottimisti, gettali a terra e loro rimbalzano. Szara di sicuro li aveva visti: i figli e le figlie degli ebrei nelle università, negli uffici statali e nei corpi diplomatici, e sì, anche nei servizi segreti. Quei bambini. Quelli che non avevano più case o genitori. Quelli che si cibavano frugando nei bidoni dell'immondizia nel buio. Anche dopo che Bloch se ne fu andato, Szara continuò a lungo la con-
versazione con se stesso. Di nuovo scrittore, a mezzogiorno Szara era seduto al tavolo in cucina; dalla finestra aperta penetrava il profumo dei pranzi cucinati negli altri appartamenti affacciati sul cortile. Quando venivano serviti, udiva il tintinnio dei coltelli e delle forchette sulla porcellana e la cantilena solenne delle conversazioni che accompagnavano sempre il pasto di mezzogiorno. Avrebbe scritto l'articolo. Poi sarebbe dovuto scomparire. Perché sotto lo scrutinio del NKVD, uno pseudonimo non l'avrebbe protetto a lungo. Bene, dove si scompariva di questi tempi? In America. A Shanghai? A Zanzibar? In Messico? No, in America. A Mosca ogni tanto si incontrava qualcuno che era andato in America: erano quelli che erano tornati in Russia. Quel piccoletto che lavorava in una fabbrica di cravatte. Come si chiamava? Erano stati presentati a una serata da qualche parte. Szara rammentava un volto inacidito dalla disperazione. «Deferenza» aveva detto l'ometto. «Sempre deferenza.» Szara era tormentato da quell'immagine, che ora colorava la sua visione del futuro. Si vedeva con Marta Haecht, mano nella mano come i fuggitivi di una fiaba. La folle fuga a mezzanotte da Parigi, la nave a vapore presa a Le Havre. Dieci giorni in terza classe, la Statua della Libertà, Ellis Island, New York! Enorme confusione, alla deriva in un mare di sogni e speranze, i marciapiedi affollati dai suoi compagni di avventura, ognuno poteva diventare milionario se ci provava. I centesimi racimolati per il vestito nuovo, gli uffici, i direttori, i pranzi, gli incoraggiamenti, le grandi speranze, e poi, alla fine... un custode. Un custode con una falsa identità. La ricerca di un nome di copertura. La caricatura di un capitalista completo di sigaro gli si parò davanti: «Ehi, Cohen, secondo lei questo pavimento è pulito? Guardi qui! E qui!». Deferenza, sempre deferenza. L'immigrato ossequioso, che sorride sempre mentre il sudore gli cola dalle ascelle. Ma che cosa avrebbe potuto fare a Shanghai? O a Zanzibar? E a proposito, dov'era Zanzibar? Non esisteva soltanto nei film di pirati? Sul tavolo davanti a lui c'era una Underwood di seconda mano, comprata da un robivecchi, senza dubbio il vitello d'oro di qualche romanziere scomparso. Poveretta, sarebbe stata per forza abbandonata in qualche angolo; avrebbe dovuto fuggire anche lei, dopo aver scritto parole proibite
nella sua riconoscibilissima calligrafia. Szara premeva pigramente i tasti con gli indici, scrivendo in polacco e aggiungendo gli accenti a matita. Con l'accompagnamento musicale del cicaleccio in cortile, André Szara scrisse un articolo per un periodico. Chi era il misterioso uomo dell'Ochrana? Si dice esistano certi documenti... il periodo rivoluzionario a Baku... intrighi... voci che non si sopiscono... forse oggi un'alta carica nel governo sovietico... la tradizione dell'agente provocatore: Roman Malinovskij, che fece carriera fino a diventare il capo del partito bolscevico nella Duma russa, era noto per essere stato un agente dell'Ochrana, e così l'ingegnere Azef, che aveva addirittura capeggiato l'organizzazione bellica del partito socialista rivoluzionario e che progettò personalmente l'attentato dinamitardo in cui nel 1904 perse la vita il ministro degli Interni Plehve... esiliato in Siberia... si dice che le testimonianze scritte siano andate perdute in un incendio nel 1917, ma sono state eliminate proprio tutte? Sapremo mai con certezza... i segreti hanno un loro modo... una volta che l'identità sarà nota... che il corso della storia venga nuovamente alterato, forse in modo violento, dal misterioso uomo dell'Ochrana. Szara aveva l'indirizzo segnato in un codice personale su un taccuino. Trovò una busta e vi batté a macchina il nome di Mr Herbert Hull, Direttore, e il resto. Avrebbe potuto spedirla il mattino seguente. Era sempre preferibile lasciar sedimentare quel genere di articolo, controllare più tardi, con occhi nuovi, se vi fosse bisogno di cambiare qualcosa. Quella sera fece una lunga passeggiata. Se non altro doveva a se stesso qualche seria riflessione. Forse stava lasciando che fosse il fato a decidere, ma se era così, aveva già deciso. Parigi aveva scelto quella sera per trasformarsi in una versione cinematografica di se stessa. Un vecchio suonava una concertina, e alcuni aristocratici danzavano in mezzo alla strada. I francesi erano tesi come corde di violino finché non decidevano di lasciarsi andare, e a quel punto potevano diventare dei deliziosi mattacchioni. O forse era una giornata dedicata a un piccolo rito speciale (si verificavano di frequente, e Szara non sapeva mai di preciso che cosa stava succedendo) in cui tutti avrebbero dovuto fare la stessa cosa: mangiare una certa torta, comprare un certo mazzo di fiori, unirsi alle danze nei boulevard. Alcuni
duri di quartiere, con giacche larghe, camicie nere, cravatte bianche, le spalle ingobbite in un certo modo, lo chiamarono fra loro e gli offrirono una birra belga in un bar d'angolo. Una ragazza con capelli biondi che fluivano come il vento gli passò accanto e disse qualcosa di deliziosamente indecifrabile. Gli scatenò il desiderio della ragazza di Berlino: vivere una serata simile senza condividerla era una tragedia. La luce si tratteneva in eterno, uno stormo di passeri prese il volo dal campanile di una chiesa e si diresse verso nord oltre le nubi chiazzate di rosso di un cielo sempre più fioco. Era tutto così bello che faceva male. Szara oltrepassò la prigione della Santé, alzò gli occhi sulle finestre e si chiese chi stesse guardando quello stesso cielo, gustando il sapore della propria vita. Si fermò a una bancarella e prese una salsiccia in un filoncino di pane. La vecchia della bancarella lo guardò: conosceva la vita e aveva capito tutto di lui, sapeva che avrebbe fatto la cosa giusta. Odile rientrò dal suo giro di ritiri e consegne il 12 giugno. Le informazioni generate dalle reti di Berlino e il «materiale Lontra» proveniente dal dottor Baumann erano stati fotografati su microfilm nello scantinato di una macelleria di Berlino, e la bobina era stata poi cucita nella spallina della giacca di Odile perché potesse superare la dogana tedesca e il viaggio in treno fino a Parigi. La mattina del 13 giugno il microfilm era stato sviluppato, e Szara, al lavoro nella casa in rue Delesseux, aveva una risposta alla sua cauta richiesta («dati secondari» gli era stato detto di definirli, come se non importassero a nessuno) di informazioni sulle identità e sui tratti caratteriali degli impiegati degli uffici della Baumann. La risposta di Baumann era secca: Produzione finale maggio: 17.715. Proiezioni per giugno sulla base dei prossimi ordini: 20.588. Gli altri dati da lei richiesti non sono previsti nel nostro accordo. Lontra Szara non era lieto del rifiuto, ma nemmeno sorpreso. Una settimana prima si era recato a Bruxelles e aveva avuto con Goldman un colloquio che l'aveva preparato a ciò che il rezident sospettava sarebbe successo. Preparò la sua risposta scrivendola su un foglio di carta che sarebbe giunto a Baumann con il viaggio successivo di Odile:
Abbiamo ricevuto i dati relativi a maggio-giugno e le siamo grati come sempre. Abbiamo tutti a cuore la sua salute e il suo benessere. La lista annotata è necessaria per garantirle sicurezza, la esortiamo a esaudire la nostra richiesta. Possiamo proteggerla soltanto se lei ci fornisce i mezzi per farlo. Jean Marc Falso, ma convincente. Come aveva detto Goldman: «Dire a qualcuno che lo si vuole proteggere è più o meno il modo più sicuro per fargli capire che è in pericolo». Szara aveva alzato gli occhi dal suo piatto di tagliolini e aveva chiesto se in realtà non fosse vero che Baumann era in pericolo. Goldman aveva scrollato le spalle. «E chi non lo è?» Szara prese un altro foglio e scrisse il rapporto per Goldman, che a sua volta sarebbe stato ritrasmesso a Mosca. Supponeva che Goldman avrebbe, per usare il suo particolare modo di esprimersi, protetto se stesso, lui e Baumann, in quell'ordine. Il messaggio per Goldman venne consegnato a Kranov perché lo cifrasse e lo trasmettesse quella notte. Szara controllò il calendario e prese nota della missione di Odile del 19 giugno, della trasmissione in arrivo da Mosca e del suo prossimo incontro con Sénéschal: quello stesso pomeriggio, guarda caso. Spense una sigaretta e se ne accese un'altra. Si fece scorrere le dita fra i capelli. Scosse il capo per chiarirsi le idee. Ore, giorni, numeri, codici, tabelle, e se commettevi uno sbaglio qualcuno poteva morire. Un nuovo foglio. Dalle autorità portuali di Lisbona si era fatto comunicare la data prevista di arrivo di una crociera della «Forza attraverso la gioia» in partenza da Amburgo: il 10 luglio. Partendo dalla missione di Odile del 19 giugno, calcolò che Marta avrebbe avuto appena il tempo di farcela, se avesse trovato posto sulla nave. Per un'ora si dedicò alla lettera. Doveva essere sincera: lei aveva un profondo rispetto per un certo tipo di onestà, ma Szara sapeva che non doveva esagerare con il sentimento. Lei l'avrebbe detestato. Cercò di fare il disinvolto: "Divertiamoci", e allo stesso tempo il romantico: "Ho davvero bisogno di stare con te". Difficile. All'improvviso si drizzò a sedere. Come diavolo poteva trovare un francobollo tedesco a Parigi? Avrebbe dovuto chiedere a Odile di comprarne uno quando fosse scesa dal treno a Berlino. Doveva confidarsi con lei? No, meglio di no. Era
il vicedirettore della rete, e questa era semplicemente un'altra forma di comunicazione con un agente. Perfino l'amore era diventato spionaggio, pensò, oppure erano soltanto i tempi in cui viveva? A parte questo, quand'era il suo incontro con Sénéschal? Ne aveva preso nota da qualche parte? Dove? Buon Dio. Le quattro e venti del pomeriggio. L'ippodromo di Auteuil. Lungo la balaustra, davanti all'ingresso della Sezione D. Un'ottima scelta per un Treff (gente sempre in movimento, volti anonimi) eccetto quando pioveva, come quel giorno. Szara si rese immediatamente conto che lui e Sénéschal sarebbero rimasti soli, isolati, perfettamente visibili alle migliaia di persone dotate di sufficiente buonsenso da essersi rifugiate nella tribuna coperta. "Che padronanza del mestiere" si disse fischiettando sonoramente per attirare l'attenzione di Sénéschal quando questi sbucò dal cancello d'ingresso. Salirono in silenzio fino all'ultima fila della tribuna coperta mentre alcuni cavalli sollevavano schizzi di fango percorrendo la curva più lontana del circuito. «Allez, testa di cazzo» disse un vecchio scoraggiato seduto lungo il passaggio centrale. Szara era per sua natura profondamente sensibile ai mutamenti d'umore, e avvertì immediatamente il disagio di Sénéschal. I capelli scarmigliati dell'avvocato erano fradici, e una sigaretta bagnata gli penzolava dalle labbra: a nessuno piaceva bagnarsi, ma nel suo caso c'era dell'altro. Il suo volto era pallido e teso, come se qualcosa avesse penetrato la sua noncuranza difensiva e avesse prosciugato il suo ottimismo. Per qualche minuto guardarono i cavalli al galoppo mentre un primitivo sistema di altoparlanti gracchiava e schioccava facendo udire a malapena la voce attutita di un francese che commentava eccitato la corsa. «Un fine settimana difficile con la Fruälein?» domandò Szara in tono comprensivo. Aveva il sospetto che la gita romantica in Normandia fosse andata male. Una gallica scrollata di spalle, poi: «No, non così male. Si concede come una donna innamorata: farebbe di tutto, visto che fra due innamorati non può esserci niente di male. Se avverte che non sono abbastanza passionale, usa i suoi trucchi. Sei un uomo, Jean Marc, sai di cosa parlo». «Non è sempre facile» disse Szara. «Gli esseri umani non sono di acciaio, comunisti compresi.» Sénéschal osservò otto nuovi cavalli che venivano condotti sotto la pioggia.
«Vuoi che ti concediamo un po' di respiro? Magari una trasferta di studio, qualcosa che ha a che fare con il ministero degli Esteri. La crisi in Grecia.» «C'è una crisi?» «Di solito sì.» Sénéschal diede un grugnito non particolarmente interessato. «Vuole che ci sposiamo. Immediatamente.» «Non riesco a credere che tu non abbia usato...» «No, non per quello. Crede che stiano per licenziarla, screditarla e rispedirla in Germania. Lo scorso fine settimaria, quando abbiamo finito con gli strilli e i gemiti, sono arrivate le lacrime. Un'alluvione. È diventata paonazza e si è gonfiata tutta. E fuori c'era una pioggia bastarda. L'acqua ha continuato a colare lungo le finestre per tutto il fine settimana. E lei piangeva. Ho cercato di consolarla, ma è stato inutile. Adesso, dice, soltanto il matrimonio può farla restare in Francia con me. Per quanto riguarda il mio lavoro al ministero degli Esteri e le informazioni che mi ha fornito, un vero peccato. Vivremo d'amore, sostiene.» «Ha spiegato il perché?» «Starnazzava come un'oca. Da quello che ho capito, il suo capo, Herr Stollenbauer, è sotto pressione. Lotte ha passato tutta la settimana perlustrando Parigi in taxi (e sostiene di essere terrorizzata dai taxisti parigini) perché la missione non aveva auto disponibili. Dice di essere entrata in ogni negozio di gastronomia della città, Fauchon, Vigneau, Rollet, i migliori traiteurs, alla ricerca di quella che ha chiamato Rote Grütze. Sai di che si tratta? Io no.» «Una specie di gelatina di fragola» disse Szara. «E stanno cercando di affittare una casa appena fuori Parigi. A Suresnes o a Maison-Laffitte, posti del genere. A sentire lei sono più che disposti a pagare, ma i propriétaires francesi se la prendono comoda, vogliono documenti firmati, garanzie bancarie, prima questo, poi quello. È un rito, e fa impazzire i tedeschi dalla rabbia; loro vorrebbero semplicemente agitare i loro soldi e ottenere quello che desiderano. Credono che i francesi siano venali, e non si sbagliano, ma non capiscono le eccessive preoccupazioni nei confronti delle loro proprietà. Dai racconti di Lotte ho capito più o meno che le cose stanno così. E più peggiorano, più Stollenbauer avverte la pressione, più se la prende con lei. Lotte non è abituata, e così adesso la risposta è sposarci, restare in Francia e immagino mandare a quel paese Stollenbauer.»
«Qualcuno sta per arrivare a Parigi.» «Évidemment.» «Qualcuno con un assistente che telefona in anticipo. "Ah sì, si assicuri che abbia a disposizione la Rote Grütze per quando vorrà mangiare i suoi Pfannkuchen."» «Bisognerà andare nel bosco a raccogliere fragole?» Con orrore di Szara, il tono di Sénéschal non era affatto sarcastico. «Non ti preoccupare» disse serio. Il giovane avvocato stava palesemente avvizzendo. Era fisicamente coraggioso, Szara lo sapeva per certo, ma la prospettiva di una vita coniugale con la Hüber l'aveva snervato. Szara gli si rivolse in tono autoritario: «È la donna francese dei tuoi sogni che sposerai, non la Fräulein. Consideralo un ordine». Le nuove informazioni erano interessanti. L'antico istinto di Szara, quello del giornalista che incappa in una notizia, era stato bruscamente destato. All'improvviso i cavalli che facevano ribollire il fango sembravano immagini trionfali di vittoria: le narici allargate, i fianchi lucenti di schizzi. La faccenda della salsa Rote Grütze era curiosa, ma la ricerca di una casa sicura, quella sì che era interessante. Le missioni commerciali non fornivano case sicure. Questo era compito delle ambasciate, e veniva svolto dagli agenti segreti distaccati sul luogo. Ma in quel caso l'ambasciata era stata elusa, il che significava un segreto importante, e un segreto importante significava un pesce grosso, e indovina un po' chi c'era ad aspettarlo con il retino? "Macchine fotografiche" pensò Szara "ogni sorta di macchina fotografica." Prese una decisione. «La Hüber non verrà licenziata» disse. «Al contrario, Stollenbauer le striscerà ai piedi. E per quanto ti riguarda, il tuo unico problema sarà avere una donna famosa, una stella del palcoscenico, dello schermo e della radio, una principessa. Impegnativo, credo, ma non al di fuori della tua portata.» Mobilitata a tutti i livelli, la rete di contatti di Szara ottenne una risposta nel giro di pochi giorni. Venne individuato un traiteur alsaziano, e una sorridente Lotte Hüber lasciò il suo negozio seguita da un taxista che lottava sotto il peso di due casse di salsa Rote Grütze confezionata in vasetti di terracotta disegnati appositamente dall'alsaziano. Il traiteur era anche pronto a offrire Weisswurst, Jägerwurst, Sauerkraut preparati di fresco e leggermente insaporiti con bacche di ginepro (e a questo punto sporse le guance rosa sul banco e
cominciò a parlare in tedesco con squisita cortesia): «Perché un uomo che apprezza la Rote Grütze, madame, vorrà sempre, sempre una punta di ginepro nel suoi Sauerkraut. È una predilezione per i sapori piccanti, ed è una predilezione che noi comprendiamo». La Schau-Wehrli minimizzò il dilemma immobiliare con un gesto della mano imperiosamente svizzero. I suoi amici e colleghi progressisti dell'Istituto giuridico internazionale vennero consultati e presto venne individuata una proprietà adatta. Si trovava a Puteaux, a un passo o due dal confine della città, un dignitoso quartiere operaio nei pressi dei bacini di carico della Citroen sulla curva sudoccidentale della Senna: su ogni superficie si stendeva un cupo strato marrone di fuliggine, ma cassette di fiori stavano di sentinella sui davanzali delle finestre dei salotti e il gradino davanti a ogni porta veniva spazzato ogni mattina alle otto. Al confine più lontano del quartiere si ergeva una villa di mattoni a due piani completa di timpani, residenza di un dottore ormai defunto e oggetto di un'interminabile azione legale, protetta da un alto muro ricoperto d'edera e da un portone massiccio bordato di ferro battuto. Era un orrore, ma il muro nascondeva un ampio giardino all'italiana. Le lenzuola che coprivano i mobili vennero tolte, e fu chiamata una squadra di domestiche per dare una rinfrescata. Vasi di terracotta vennero sistemati all'ingresso e riempiti fino ai bordi di gerani di color rosso vivo. Stollenbauer venne, come Szara aveva previsto, magicamente alleggerito di gran parte del suo fardello. La visita imminente lo innervosiva ancora, molte cose potevano andare storte, ma adesso quanto meno sentiva di «avere un po' di aiuto». E nientemeno che dalla grassoccia Lotte Hüber! Non aveva sempre detto che un giorno la sua luce avrebbe brillato? Non ne aveva sempre percepito il talento nascosto e lo spirito d'iniziativa? Era stata così abile a trovare la casa: mentre i suoi pomposi assistenti avevano sbraitato il loro gutturale francese al telefono, la furba Lotte aveva adottato un approccio femminile, passando il fine settimana a gironzolare per i quartieri e chiedendo alle donne al mercato se sapevano di qualcuno che voleva affittare una casa senza perdere troppo tempo con i cavilli legali. Nel frattempo, Szara schierò le proprie forze e mise in opera le sue macchinazioni interne. Oh, Goldman venne informato, era necessario, ma il messaggio fu nel suo genere un capolavoro: Missione commerciale attende apparentemente visitatore importante nel prossimo futuro, ottava voce su un totale di diciassette, nemmeno una possibilità al mondo che una frase simile potesse far calare da Bruxelles l'ingordo rezident per accaparrarsi il
merito della cosa. Usando una copia della chiave di casa, una sera Szara e Sénéschal visitarono il luogo di persona. Szara avrebbe senz'altro preferito ottenere delle intercettazioni, ma affidare le registrazioni a un agente nascosto sarebbe stato troppo pericoloso. Inoltre, di solito i visitatori importanti si portavano dietro le loro squadre di sicurezza, gente che inorridiva alla vista di misteriose linee in rilievo sotto i tappeti, di miscugli di cavi e perfino di tinteggiature recenti. Si rivolsero invece a una vecchietta simile a un uccellino, la vedova di un caporale di artiglieria che viveva all'ultimo piano della casa di fronte e la cui finestra del salotto dava sul giardino. «Un affare seccante» le dissero. «Una moglie ribelle, un ministro del governo, la più assoluta discrezione.» Le mostrarono documenti d'identità dall'aspetto molto ufficiale con strisce rosse diagonali e le consegnarono una busta croccante imbottita di franchi. Lei annuì con fare grave: poteva anche essere anziana, ma forse era più donna di mondo di quanto sospettassero. Erano i benvenuti alla sua finestra; il fatto che succedesse qualcosa in quella strada vecchia e noiosa era una bella novità. E volevano anche sapere una cosetta o due sulla moglie del macellaio? Stollenbauer chiamò Lotte Hüber nel suo ufficio, la fece sedere su una sedia piccola e sottile, le posò delicatamente le lunghe dita sul ginocchio e le disse in gran segreto che il loro visitatore era addirittura un collega di Heydrich. Sénéschal aveva condotto per mano Lotte Hüber alla «scoperta» della casa sicura e della Rote Grütze e le aveva consigliato come spiegare quei successi. E come venne ringraziato? L'orgoglio e la soddisfazione della giovane donna la portarono a chiudersi a riccio. Seguendo le istruzioni di Szara, Sénéschal fece pressioni in tutti i modi. Le disse che al ministero degli Esteri si era liberato il posto ambito: l'avrebbe ottenuto lui o il suo nemico giurato? Soltanto lei avrebbe potuto aiutarlo. La portò a cena da Fouquet's e la rimpinzò di triangoli di pane tostato carichi di paté di fegato d'oca accompagnati da una bottiglia di Pomerol. Il vino la fece diventare brillante, spiritosa e romantica, ma non le sciolse la lingua. Alla fine bisticciarono. «Che interesse potevano avere al ministero degli Esteri francese al fatto che un collega di Heydrich stesse per giungere in città per un incontro importante?» volle sapere lei. Era proprio il genere di cosa che li interessava, replicò lui. Il pezzo grosso del suo ufficio era un
segreto ammiratore di Hitler, e si poteva contare su di lui per un aiuto discreto se ci fossero stati altri problemi relativi all'incontro. Ma lui doveva sapere esattamente ciò che succedeva. «No» fece lei «smettila, stai cominciando a parlare come una spia.» Ciò fece impallidire Sénéschal, e ancora di più Szara quando la conversazione gli venne riferita. «Chiedile scusa» disse Szara. «Dille che eri agitato e regalale un gioiello» soggiunse pescando dei franchi dalla tasca. Szara accettò l'inevitabile. Non avrebbero ottenuto la data dell'incontro né i nomi degli altri partecipanti, e la sorveglianza era la loro unica alternativa. Non poteva rischiare di esercitare troppe pressioni sulla Hüber e perdere una fonte. Era la prima volta che una traccia di rimorso attraversava la sua visione dell'operazione... e non sarebbe stata l'ultima. Si recarono a Puteaux con l'auto di Sénéschal, parcheggiarono nella strada stretta e osservarono la casa. La sorveglianza durò esattamente un'ora e dodici minuti, probabilmente un record di brevità. I bambini li fissavano, le giovani donne facevano finta di niente, uno spazzino rabbioso graffiò il coprimozzo con la sua scopa di saggina e un ubriaco chiese l'elemosina. La parola disagio non riusciva nemmeno lontanamente a spiegare ciò che provarono; semplicemente, quello non era un quartiere in cui si potesse fare una cosa simile. Il 22 giugno Odile fece ritorno dalla sua missione a Berlino (Baumann non cedeva), e lei, Sénéschal e Szara si diedero il cambio nel salotto della vecchietta. La traccia di rimorso era ormai diventata una foschia fumosa che non ne voleva sapere di dissiparsi. Goldman aveva il personale per svolgere quel genere di lavoro; Szara doveva improvvisare con le risorse a sua disposizione. Per quanto riguardava la sorveglianza dall'appartamento di fronte, la teoria era una cosa, la realtà un'altra. L'edificio, a un primo sguardo di fredda pietra, era in realtà una cosa viva, pieno di vicini curiosi che era impossibile evitare sulle scale. Szara raddrizzava le spalle e aggrottava la fronte ("Sono un poliziotto"), lasciando che fosse la vecchia a vedersela con le inevitabili lingue lunghe. Dal canto suo, l'anziana donna sembrava lieta di essere al centro dell'attenzione. Ciò di cui non era lieta, tuttavia, era la loro compagnia. Erano, insomma, lì. Se uno leggeva il giornale, la carta crepitava; se lei voleva pulire il tappeto, loro dovevano sollevare i piedi. Alla fine fu Odile a salvare la situazione, scoprendo che la vecchia aveva una passione per il gioco di carte chiamato «bazzica», una forma di pinnacolo. E così la sorveglianza finì per trasformarsi in una partita a carte più o meno eterna, in cui
i tre sorveglianti si sforzavano di giocare abbastanza male da perdere qualche franco. La foschia fumosa del rimorso divenne una nebbia. Che senso c'era nel far sorvegliare la casa a Sénéschal e a Odile se Szara non poteva essere raggiunto quando finalmente fosse successo qualcosa? Quella era la sua operazione, ma le regole escludevano categoricamente ogni contatto con un agente operativo a casa sua o, Dio non volesse, alla base. E così Szara prese una camera ammobilitata a Suresnes con un telefono in corridoio, diede alla proprietaria un mese di affitto e un nome falso e cominciò a passarvi il suo tempo quando non era a Puteaux, aspettando che Odile o Sénéschal usassero il telefono di un caffè poco distante dall'edificio in cui abitava la vecchietta. Aspettando. La grande maledizione dello spionaggio: Padre Tempo con i suoi stivali di piombo, lo scheletro avvolto dalle ragnatele insieme al telefono... ciascuna di quelle immagini era pertinente. Se eri bravo e fortunato, ti si presentava un'occasione. E poi aspettavi. Luglio arrivò. Parigi arrostiva sotto il sole, potevi sentire l'odore delle macellerie a mezzo isolato di distanza. Szara sudava seduto in una lurida stanzetta dalla cui finestra non entrava un filo d'aria; leggeva scadenti romanzi francesi e fissava la strada. "Ho osato penetrare nel mondo delle spie" si disse "e sono finito come il classico pensionato solitario in una stanza di un racconto di Gogol'." C'era una donna che abitava in una camera vicina, sulla quarantina, tinta di biondo e carnosa. Carnosa la prima settimana, sontuosa la seconda e successivamente degna di un Rubens. Anche lei sembrava in attesa di qualcosa, sebbene Szara non riuscisse a immaginare cosa. A dire il vero ci riusciva, e lo fece. La sua presenza in corridoio veniva annunciata da una scia di profumo chiamato Cri de la Nuit, dozzinale, rozzo, dolce, che condusse la sua immaginazione a eccessi assurdi. Così come la sua bocca amara, contratta in un ghigno permanente che diceva al mondo intero, e soprattutto a lui: "E allora?". Prima che Szara si potesse rispondere, il telefono squillò. «Puoi venire a cena?» chiese Odile. Con il cuore che gli martellava nel petto, Szara trovò un taxi vecchio e malconcio al municipio di Suresnes e in pochi minuti raggiunse la casa di Puteaux. Odile si teneva lontana dalla finestra, osservando la villa con un binocolo da teatro. Glielo consegnò con un piccolo sorriso di trionfo. «Primo piano» annunciò. «A sinistra del-
l'ingresso.» Ora che Szara ebbe messo a fuoco le lenti, non erano più dove aveva detto Odile ma si erano spostati al piano superiore: due uomini incolori in abito scuro intravisti attraverso la tendina di garza alla finestra. Svanirono, quindi riapparvero per un istante quando scostarono le tende della stanza accanto. «Un controllo di sicurezza» disse Szara. «Sì» confermò Odile. «La loro auto è parcheggiata in strada.» «Che modello?» «Non ne sono sicura.» «Grande?» «Oh, sì. E scintillante.» Szara sentì il sangue accelerargli nelle vene. Il pomeriggio seguente, l'8 luglio, tornarono. Questa volta di turno c'era Szara. Aveva spostato il tavolo della bazzica davanti alla finestra, aveva chiesto scusa alla vecchietta e si era tolto la camicia, mostrandosi in canottiera, con una sigaretta infilata fra le labbra, una mano di carte davanti a sé e un'espressione imbronciata sul volto. Un uomo corpulento con un farfallino accompagnava gli altri due, e alzò gli occhi su Szara dall'ingresso della villa. Szara ricambiò l'occhiata. "Un Brassaï vivente" si disse. "Giocatore di carte a Puteaux." Gli mancava soltanto una bandana al collo. L'uomo con il farfallino interruppe la sfida degli sguardi e chiuse lentamente il portone che nascondeva il giardino alla strada. Il 9 luglio fu il grande giorno. Alle due del pomeriggio precise, due lustre Panhard nere si fermarono davanti al portone. Uno degli agenti di sicurezza scese dalla prima auto e lo aprì, e il suo collega ripartì. La posizione della seconda vettura consentì a Szara di riconoscerne l'autista: era l'uomo con il farfallino. Riuscì anche a intravedere il passeggero seduto direttamente dietro il conducente quando questi lanciò una rapida occhiata fuori dal finestrino, appena prima che la Panhard varcasse il portone e l'agente di sicurezza lo richiudesse. Il passeggero era sulla quarantina, immaginò Szara. L'angolo visuale poteva essere ingannevole, ma ebbe l'impressione che fosse basso e corpulento. Aveva una folta capigliatura nera con una scriminatura netta, un volto scuro e rugoso e occhi piccoli e scuri. Per l'occasione indossava un doppiopetto, una camicia con un rigido colletto alto e una cravatta grigia di seta. "Gestapo" si disse Szara; era travestito da diplomatico, ma il volto diceva poliziotto e criminale al tempo stesso, con una convinzione nel proprio
potere che Szara aveva visto in certi volti tedeschi, specialmente quelli (per quanto venisse esaltato l'ideale nordico) degli uomini di carnagione scura che governavano il paese. Un personaggio importante, concluse. La rapida occhiata dal finestrino aveva formulato la domanda: "Sono soddisfatto?". «Dieci di fiori» annunciò la vecchietta. Quindici minuti dopo, una Peugeot grigia rallentò fino a fermarsi davanti alla casa. Un uomo dal volto aquilino ne scese dal lato opposto a quello di Szara, e l'auto ripartì immediatamente. L'uomo si guardò intorno per un istante, si controllò il nodo della cravatta e quindi premette il campanello in una nicchia del portone. Deršani. Sénéschal bussò due volte e poi entrò nell'appartamento. «Cristo, che caldo» esclamò. Crollò a sedere in poltrona, posò con cautela una Leica tra le fotografie incorniciate su un tavolo traballante. Il suo abito era irrimediabilmente stazzonato, chiazzato da cerchi scuri alle ascelle, e un'ombra di inchiostro di stampa gli oscurava il davanti della camicia. Aveva trascorso le ultime due ore coricato su fogli di giornale in una grondaia piombata ai piedi del tetto a spiovente. Le volute dell'edificio fornivano un comodo accesso fotografico. Sénéschal si asciugò il volto con un fazzoletto. «Ho preso tutte le automobili» disse. «L'agente di sicurezza di guardia al portone, diverse volte. Ho provato con l'altro, ma temo di non avere ottenuto un granché, forse un profilo di un quarto, ed era in movimento. Per quanto riguarda il volto sul sedile posteriore della Panhard, sono riuscito a fare due scatti, ma dubito che verrà fuori qualcosa.» Szara annuì in silenzio. «Be'? Che ne pensi?» Szara indicò con gli occhi la vecchietta, che attendeva non proprio pazientemente di riprendere la partita. «È troppo presto per dirlo» rispose. «Aspetteremo che escano in giardino.» «E se piove?» Alzò gli occhi verso un cielo di un grigio screziato nell'umidità parigina. «Non prima di stasera» rispose. Apparvero poco prima delle cinque: una pausa nei negoziati. Odile era arrivata alla solita ora, e Szara usò il suo binocolo indietreggiando dalla
finestra. L'uomo che aveva classificato come un ufficiale dei servizi segreti tedeschi era basso e massiccio come aveva immaginato. L'ingrandimento rivelò una sottile cicatrice bianca che gli attraversava il sopracciglio sinistro, la medaglia d'onore di un teppista. I due uomini si fermarono un istante al limitare del giardino, le portefinestre aperte alle loro spalle. Il tedesco disse qualcosa, Deršani annuì e insieme si diressero in giardino. Erano il ritratto della diplomazia, intenti a passeggiare pensierosi con le mani giunte dietro la schiena, proseguendo una conversazione molto studiata, scegliendo con gran cura le parole. Szara osservò le loro labbra con l'ausilio del binocolo ma non riuscì, con sua sorpresa, a capire se parlassero tedesco o russo. A un certo punto scoppiarono in una risata. Szara immaginò di averla udita, lieve, trasportata dall'aria riscaldata del tardo pomeriggio fra i cinguettii dei passeri sugli alberi del giardino. Percorsero una volta il vialetto di ghiaia, fermandosi quando il tedesco indicò un melo, poi rientrarono in casa. Ciascuno dei due invitò l'altro a precederlo; poi Deršani rise, diede una manata sulla spalla al tedesco ed entrò per primo. Deršani se ne andò alle sette e venti. Giunto in strada, s'incamminò nella direzione in cui si era allontanata la sua auto e scomparve. Pochi minuti dopo, l'agente di sicurezza aprì il portone, lasciò passare l'auto e lo richiuse. Salì a bordo accanto all'autista e la Panhard partì di gran carriera. In giardino, il sole al tramonto proiettava lunghe ombre sull'erba, gli uccelli cantavano e nulla si muoveva nell'aria serena dell'estate. «Tiens» disse la vecchietta. «Domani cadrà il governo?» Sénéschal assunse un tono grave. «No, madame, posso dirle con certezza che, grazie alla sua gentilezza e pazienza, il governo reggerà.» «Oh, che peccato» fece lei. Odile se ne andò per prima, camminando fino alla stazione del metrò di Neuilly. Sénéschal scomparve nell'armadio a muro della vecchietta e ne riemerse qualche minuto dopo con un leggero odore di naftalina. Porse a Szara un rullino fotografico. Szara ringraziò la padrona di casa, le disse che forse sarebbero tornati il giorno dopo, le diede un nuovo pacchetto di banconote e uscì nel crepuscolo umido. L'auto di Sénéschal era parcheggiata diversi isolati più in là. Percorsero a piedi strade rese deserte dall'arrivo dell'ora di cena; dalle finestre aperte fuoriuscivano aromi di cipolle e patate fritte.
«Domani ci riproviamo?» domandò Sénéschal. Szara ci rifletté. «Ho la sensazione che abbiano fatto quello che dovevano fare.» «Non possiamo esserne sicuri.» «No. Ti chiamerò in ufficio, se non ti dispiace.» «Niente affatto.» «Ufficialmente dovrei esprimere la nostra gratitudine... magnifiche, le espressioni che si usano in questi casi. Personalmente, ti ringrazio di tutto, e mi dispiace che ti sia rovinato la camicia.» Sénéschal la esaminò. «No, la mia amichetta fa miracoli. Qualsiasi cosa combini, trova sempre il modo di aggiustarla. Non si butta via niente, può sempre durare "un po' di più".» «Sa della tua... "relazione"?» «Lo sanno sempre, Jean Marc, ma qui fa parte della vita. È l'argomento di tutte quelle tristi canzoni nei caffè.» «Ne sei innamorato, allora.» «Oh, quella parola. Forse sì, forse no. Ma è la mia consolazione, sempre, e lei lo sa benissimo. L'amour abbraccia un territorio molto ampio, specialmente a Parigi.» «Me l'immagino.» «E tu, hai un'amichetta?» «Sì. O dovrei dire "forse".» «Si comporta bene con te?» «Mi fa bene.» «Et alors!» Szara rise. «Ed è anche bella, ci scommetterei.» «E vinceresti, credo, ma non ha il genere di fascino che attira immediatamente l'attenzione. È qualcosa di speciale.» Giunsero all'auto; quando Sénéschal aprì la portiera, ne fuoriuscì un forte odore di rivestimenti surriscaldati. «Andiamo a bere una birra» disse. «Hai tutto il tempo che vuoi per scomparire.» «Grazie» rispose Szara. Sénéschal ruotò la chiavetta nel cruscotto e la Renault si accese di malavoglia mentre lui armeggiava da esperto con l'aria. «Questa baldracca beve come una spugna» disse stizzito imballando il motore. Vagarono per le strade serpeggianti di Puteaux, attraversarono la Senna sul Pont de Suresnes, sotto il quale c'erano chiatte ormeggiate con vasi di
fiori e il bucato steso ad asciugare, e poi il Bois de Boulogne apparve alla loro destra, percorso da qualche coppietta, da alcuni uomini con le giacche sottobraccio, da un suonatore di organetto. Sénéschal si fermò davanti a un gelataio ambulante. «Che gusto?» «Cioccolato.» «Doppio?» «Naturalmente. Ecco qualche franco.» «Tienili.» «Insisto.» Sénéschal rifiutò il denaro con un cenno della mano e pagò i coni. Risalì al volante dell'auto e ripartì lentamente, guidando con una mano sola. «Sta' a vedere, ora rovino davvero la camicia.» Szara trovava che il suo doppio cono fosse un capolavoro. Mangiò il gelato guardando le ragazze nei loro vestitini estivi. Ma non riusciva a scordare ciò che aveva visto quel pomeriggio. La sua mente svolazzava in tutte le direzioni come una falena intrappolata in una lampada. Non capiva ciò a cui aveva assistito, non sapeva cosa significava né cosa fare, e neppure se fosse il caso di agire. Aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, questo lo sapeva. Forse non significava nulla: i servizi segreti si parlavano quand'era nell'interesse di entrambi, e Parigi era un ottimo terreno neutrale. «Se hai tempo, possiamo trovare una brasserie» disse Sénéschal. «Buona idea. C'è un posto dove vai di solito?» Szara desiderava compagnia. Sénéschal lo guardò in modo strano, e lui si rese conto del suo errore: non potevano andare in un locale in cui Sénéschal era conosciuto. «Ne sceglieremo una che ci sembri buona» soggiunse. «In questa città non ci si può sbagliare di molto.» Erano arrivati al XV arrondissement, diretti a est lungo il boulevard Lefebvre. «Siamo nella zona giusta» osservò Sénéschal. «Ce ne sono di enormi frequentate da intere famiglie, bambini e cani compresi. In una serata come questa...» La Renault brontolava a un semaforo rosso, un grassone con le bretelle passava in rassegna i libri su una bancarella. «... le terrazze saranno...» La Panhard si arrestò dolcemente sul lato di Sénéschal. Dalla finestra dell'appartamento della vecchietta era sembrato un uomo incolore in giacca e cravatta. Ora, attraverso il finestrino di destra della Panhard, era molto più reale. Era giovane, aveva meno di trent'anni, ed era radioso e azzimato. I suoi capelli erano pettinati alla perfezione, e forma-
vano una rigida onda alta sopra la fronte bianca. «Per favore» disse in un cauto francese «possiamo parlare?» Sorrise. "Che occhi allegri" pensò Szara. Per un istante non riuscì a respirare. Sénéschal si voltò verso di lui in cerca di aiuto. Le sue nocche sul volante erano sbiancate. «Per favore? Sì?» ripeté l'uomo. L'autista era più anziano, il suo volto una sagoma alla luce dei negozi. «Non essere così maledettamente educato» brontolò in tedesco. Si voltò a guardare Sénéschal. La sua era la faccia di un lavoratore tedesco, ottuso e imperturbabile, con capelli rasati sopra le orecchie. Stava fumando un sigaro, e quando aspirò la brace si accese di rosso. Il semaforo scattò sul verde. Un clacson suonò dietro di loro. «Parti» disse Szara. Sénéschal rilasciò di scatto la frizione e il motore si spense. Imprecando sottovoce, ruotò la chiavetta e armeggiò con l'aria. L'autista della Panhard rise, il suo collega continuò a sorridere. "Come un pagliaccio in un incubo" pensò Szara. Il motore si avviò e la Renault partì con un rombo. Sénéschal svoltò in una strada obliqua rispetto al viale, imboccò a gran velocità uno stretto vicolo di ciottoli fra due muri alti, facendo sobbalzare e ondeggiare la macchina, e cercò di immettersi nuovamente nel traffico del boulevard; ma il semaforo era scattato di nuovo sul rosso e non c'era alcuna via d'uscita. La Panhard si affiancò alla Renault. L'uomo sorridente fece un fischio. «Che sballottamento!» «Ascoltate» disse l'autista in francese reggendo il sigaro fra pollice e indice «non costringeteci a rincorrervi per tutta la notte...» Il traffico riprese a muoversi e Sénéschal si inserì fra due auto. La Panhard cercò di seguirlo, ma il conducente di una piccola Fiat le tagliò la strada con un'occhiataccia di disprezzo. «Dammi istruzioni» disse Sénéschal. Szara cercò di pensare a qualcosa, come se sapesse cosa fare. «Resta nel traffico» disse. Sénéschal annuì con forza: avrebbe meticolosamente seguito il piano di Szara. Si inserì nel flusso del traffico, che si stava notevolmente diradando a mano a mano che si avvicinavano ai confini orientali della città. Al semaforo successivo, Szara si sporse per controllare nello specchietto retrovisore. La Panhard li seguiva a due auto di distanza, sulla corsia accanto. Il passeggero lo vide, allungò il braccio fuori dal finestrino e salutò. Quando giunse il verde, Sénéschal calò il piede sull'acceleratore, superò l'auto che li precedeva, cambiò corsia, spense i fari e tagliò la strada
al traffico proveniente dalla carreggiata opposta svoltando in una trasversale. Szara si girò, ma della Panhard non c'era traccia. Sénéschal cominciò a svoltare a destra e a sinistra, sfrecciando nel buio di stradine deserte mentre Szara controllava che non rispuntasse la Panhard. «Hai idea di dove siamo?» chiese. «Nel XIII.» Un quartiere malfamato e buio. Serrande di legno scrostato proteggevano le facciate dei negozi. Davanti a loro apparve un ampio viale; Sénéschal accostò e lasciò il motore acceso mentre entrambi si accendevano una sigaretta. A Szara tremavano le mani. «Il passeggero era nella casa» disse Sénéschal. «Hai la sua foto. Ma l'altro, quello con il sigaro, da dove veniva?» «Mai visto.» «Nazisti» disse Sénéschal. «Ma li hai visti?» «Sì.» «Che cosa volevano?» «Parlare, hanno detto.» «Ma certo! E io ci credo!» Soffiò rabbiosamente il fumo e scosse il capo. «Merda.» «Arriverà il loro momento» disse Szara. «Ma l'hai sentito? Quel frodo? "Per favore, possiamo parlare?"» Sénéschal pronunciò la frase in tono effeminato e lezioso. «È stata una buona idea, svoltare a sinistra.» Scrollò le spalle. «L'ho fatto e basta.» Proiettò la sigaretta fuori dal finestrino e inserì la prima, riaccendendo i fari. Poi svoltò a sinistra nel viale deserto. «Una brutta zona» disse. «Nessuno viene da queste parti di sera.» Proseguirono per altri cinque minuti, poi Szara vide una stazione del metrò a un incrocio. «Mi metterò in contatto per telefono, dopodiché i nostri incontri riprenderanno come al solito.» «Resterò in attesa» disse Sénéschal in tono teso e cattivo. Il breve incontro con i tedeschi l'aveva spaventato, e adesso era infuriato. Si fermò a metà isolato, e Szara scese dall'auto e richiuse la portiera. Si infilò le mani in tasca, stringendo il rullino fotografico per sincerarsi che fosse ancora lì, e s'incamminò a passo rapido verso l'ingresso del metrò. Raggiunse l'arco reticolato che sovrastava le scale, vide che era la stazione di Tolbiac e si arrestò di colpo quando un'esplosione metallica riecheggiò dagli edifici seguita da una pioggia di vetri infranti sull'asfalto. Fissò la fonte del suono. Due isolati più in là, la Renault era accartocciata attorno al
muso di un'auto che aveva sfondato la portiera sinistra. Quella destra era spalancata, e qualcosa giaceva in mezzo alla strada a poche decine di centimetri di distanza. Szara si mise a correre. Due uomini scesero dall'auto nera che aveva investito la Renault. Uno dei due si sedette per terra stringendosi la testa fra le mani. L'altro raggiunse di corsa la cosa in mezzo alla strada e vi si chinò sopra. Szara si arrestò e si nascose all'ombra di un edificio. Alcune luci si accesero, alcune teste apparvero alle finestre. Il bagliore dei lampioni stradali si rifletteva sul liquido che scorreva sull'asfalto dalle due automobili, e Szara avvertì una zaffata di benzina. L'uomo che si era chinato sulla cosa in mezzo alla strada si accovacciò, parve cercare qualcosa e poi si rialzò di scatto e sferrò un calcio violento alla sagoma indistinta che giaceva davanti a lui. La gente cominciò a uscire dai portoni, rivolgendosi la parola in toni agitati. L'uomo accanto alla Renault si voltò, prese sottobraccio il suo compagno, lo fece alzare e gli diede una spinta, riuscendo a rimetterlo in marcia. Scomparvero in una trasversale sul lato opposto del viale. Szara si avvicinò a passi rapidi alle auto, ritrovandosi circondato da una piccola folla. Il parabrezza della Panhard era incrinato sulla destra, e la portiera sinistra della Renault era stata talmente deformata dall'impatto che invadeva metà del sedile. Sénéschal giaceva bocconi accanto alla portiera destra dell'auto, la giacca sollevata a coprirgli la testa, la camicia mezza fuori dai pantaloni. Un gruppo di uomini lo circondava; uno di loro si chinò per guardare meglio, sollevò la giacca e si raddrizzò chiudendo gli occhi per non vedere ciò che aveva già visto. «Non guardate» disse percorrendo il corpo con un andirivieni conclusivo della mano. «L'avete visto prenderlo a calci!» disse un altro uomo con voce tremante. «Ha preso a calci un morto. È vero, l'ho visto con i miei occhi.» Trasmissione 11 luglio 1938 ore 22.30 Per Jean Marc: Direttorato si unisce al suo rammarico per perdita del compagno Silo. Inchiesta dovrà essere svolta da Yves con aiuto di Etti, e rapporto sulle circostanze di incidente, con particolare attenzione a precedente incidente di ex vicedirettore, dovrà essere inoltrato al più presto a Direttorato. Essenziale per determinare esatte circostanze di entrambi incidenti in relazione alle loro possibili origini premeditate. Dovranno essere prese in considerazione le possibilità più remote.
Tutto il personale OPAL dovrà essere in stato di massima allerta riguardo ad azioni ostili ai danni di rete. Ci sono gravi preoccupazioni per la continuità del prodotto Pergola. Visto che Hector era presidente al momento del contatto iniziale fra Pergola e Silo, e visto che è stato presentato come amico di Silo, è possibile che sostituisca Silo in questa relazione? Hector dovrà mostrarsi sollecito in quanto amico di famiglia e fornire conforto per quanto sia in grado di farlo. Si suggerisce che il funerale di Silo sia la situazione più logica per il contatto fra Hector e Pergola. In alternativa, nel caso venga rivelata la vera fede politica di Silo, possono essere fatte pressioni su Pergola? In questo contesto, Pergola accetterà di collaborare? Rispondere entro 14 luglio. Lontra deve essere convinto ad ampliare i suoi rapporti. Si raccomanda di adottare nuove misure entro 48 ore. Conto N. 414-223-8/74 presso Banque Suisse dovrà essere chiuso. Nuovo conto N. 609-846 DX 12 presso Credit Lemans operativo dal 15 luglio a nome Compagnie Romailles con credito 50.000 franchi francesi. 10.000 franchi da consegnare a Yves via corriere. Direttore Seduto nella stanza torrida e sporca in cui Kranov trasmetteva e decodificava, Szara gettò da parte il messaggio. Trovava vagamente deprimente il frenetico finale di partita tentato dal Direttorato, il suo tono stridulo e la certezza di un fallimento. Rammentava alla perfezione l'André Szara che si sarebbe infuriato per l'atteggiamento calcolatore del Direttorato, un uomo che non molto tempo prima nutriva l'appassionata convinzione che l'unico peccato imperdonabile di un individuo fosse l'indifferenza. Ora non era più quell'uomo. Capiva ciò che volevano, e conosceva il risultato: Lotte Hüber era perduta. L'amico di Sénéschal, Valais o «Hector», anche lui un avvocato ex militante del partito comunista francese, era con Sénéschal la sera in cui avevano «incontrato» la Hüber e la sua amica a teatro, ed era stato introdotto sulla scena nelle vesti di confidente («Lotte, è così teso e preoccupato, devi aiutarlo») per far procedere l'operazione. Ma la Hüber non l'avrebbe mai accettato come amante; era un'idea da analista, un piano creato
a grande distanza dagli eventi e con un'ignoranza delle personalità coinvolte che toglieva il fiato. Valais era un uomo noioso e riflessivo, un normanno dalla carnagione chiara a cui mancavano completamente il fascino e l'intensità mediterranea di Sénéschal. E il ricatto era assurdo. La Hüber sarebbe crollata e avrebbe attirato su di loro la polizia francese. Mosca era chiaramente sconcertata: prima aveva perso in un incidente stradale l'agente che Szara aveva rimpiazzato, e adesso Sénéschal in quello che era stato presentato come un secondo tragico incidente, opera di un pirata della strada. Perché Szara non aveva riferito loro altrimenti. Una pedina dei giochi di potere delle khvost era diventata attiva. Avrebbe dovuto informare il Direttorato, e quindi Deršani, delle fotografie scattate nel giardino di Puteaux? Un incontro segreto fra due dirigenti dei servizi segreti sovietico e tedesco, forse di importanza diplomatica, e dopotutto non così segreto. Infiltrato. Fotografato. Forse il Direttorato era al corrente dei contatti fra Deršani e il servizio segreto nazista. O forse no. Di certo i tedeschi volevano mantenerli segreti: per quella ragione avevano assassinato Sénéschal. E a Szara, il NKVD che cosa avrebbe riservato? Szara aveva deciso di non volerlo sapere e aveva invece intrapreso un programma di controllo danni individuale, dicendo alla Schau-Wehrli che secondo l'ultimo rapporto della Hüber a Sénéschal il grande incontro non si era ancora tenuto, e informandone sia Goldman che Mosca. Odile presentava ovviamente un problema molto diverso, e Szara aveva dovuto affrontarla direttamente. Le aveva parlato a quattr'occhi e aveva messo la propria vita nelle sue mani: ci sarà un'indagine, non dovrai dire al rezident di Bruxelles né a nessun altro quello che hai fatto il 9 luglio e i giorni precedenti. L'aveva osservata, una ragazza forte proveniente dalle cittadine minerarie del Belgio, diciannovenne e fedele fino alla morte una volta che aveva capito come stavano le cose. Lei ci aveva riflettuto a lungo. Il suo volto, solitamente impertinente, sexy e ombroso al tempo stesso, era chiuso, immobile, impossibile da decifrare. E finalmente aveva accettato. Si fidava istintivamente di lui, e forse temeva che fosse già troppo tardi per dire la verità. Sapeva anche, essendo cresciuta a contatto con gli intrighi del partito comunista, che per tutti loro il complotto era la routine: sceglievi uno schieramento e accettavi il risultato. Le fotografie si erano rivelate soddisfacenti. Szara le aveva fatte sviluppare scegliendo un negozietto a caso, presupponendo che il tecnico non
avrebbe capito un granché dei soggetti. Le aveva ritirate a metà pomeriggio, aveva trovato un séparé in un caffè deserto e aveva trascorso un'ora a rigirarsele fra le mani, bianchi e neri scattati dall'alto, undici stampe pagate con una vita. Il giovane azzimato della sicurezza che apriva un portone. La testa e le spalle di un uomo al volante di un'auto. Un finestrino con una vaga sagoma appena dietro. Deršani e l'ufficiale della Gestapo in un giardino, il tedesco nel bel mezzo di una frase titubante, la mano destra rivolta verso l'alto a sottolineare un punto. Non c'erano fotografie dell'uomo con il sigaro al volante della Panhard: Sénéschal non era riuscito a immortalare il proprio assassino. Ora, che farne? Szara ci aveva riflettuto a lungo, e infine aveva deciso che se Bloch non si fosse messo in contatto con lui le avrebbe consegnate ad Abramov non appena se ne fosse presentata l'occasione. Non ufficialmente, non attraverso il sistema: da amico ad amico. Fino ad allora, le avrebbe tenute nascoste nel suo appartamento. Mentre ripensava alle foto, la stanza oscurata cominciò a sembrargli claustrofobica. Poche decine di centimetri più in là, Kranov lavorava come un automa fronteggiando la parete opposta. Innervosito dal ticchettio ritmato del tasto del radiotelegrafo, Szara ripose il messaggio di Mosca in una scatola di metallo e uscì dalla casa, addentrandosi nell'aria immobile della sera e incamminandosi verso i canali. I lavoratori dei macelli si davano da fare sulle piattaforme di carico, caricandosi in spalla quarti di bue sanguinolenti e passandoli ai macellai in attesa sul retro dei loro camioncini. Imprecavano e ridevano mentre lavoravano, asciugandosi il sudore dagli occhi e scacciando le mosche dai grembiuli chiazzati. In un caffè pieno di luci, un cieco suonava il violino e una puttana ballava su un tavolo mentre gli avventori scatenati provocavano il musicista con vivide descrizioni di ciò che si perdeva, e lui sorrideva e suonava in modo da far capire che vedeva più di loro. Szara percorse il sentiero di ciottoli lungo il canale, poi si fermò a guardare i riflessi delle insegne al neon che si piegavano e si curvavano seguendo i movimenti dell'acqua scura. A Sénéschal, morto a causa dell'ignoranza e dell'inesperienza del suo capo, poteva soltanto offrire un posto nel suo cuore. Si chiese se sarebbe mai stato in grado di capire come i tedeschi ci fossero riusciti: la scoperta della loro sorveglianza, il pedinamento invisibile della Renault. Tecnicamente erano stati soltanto più bravi di lui (solo la decisione casuale di prendere il metrò gli aveva salvato la vita); per questo Sénéschal era morto, ed era lui quello che fissava le acque morte di un canale pensando alla
vita. La sua condanna era capirlo, e ricordarlo. Ricordare anche, e per sempre, l'autista della Panhard, una vaga sagoma vista in lontananza, di forma a malapena umana, e poi il calcio violento, uno spasmo di inutile rabbia. Improvviso, non prevedibile; come il colpo che l'aveva fatto crollare sul pavimento di un ristorante della stazione di Praga. Szara guardò le insegne rosse e blu che ondeggiavano sull'acqua e rammentò quello che Sénéschal aveva detto della sua ragazza, quella che non gettava via mai niente, quella per cui si poteva far durare tutto «un po' di più». 18 luglio. Szara prese il treno della notte per Lisbona. Rimase seduto in seconda classe, risparmiando, prevedendo il costo dei banchetti d'amore: gamberetti con la maionese, una bottiglia di Barca Vehla fresca di cantina nella taberna. Inoltre, non aveva voglia di dormire. Da qualche parte sull'oceano, immaginò, anche Marta Haecht era sveglia. Evitando gli agghiaccianti festeggiamenti di fine crociera era probabilmente affacciata sul parapetto, intenta a perlustrare l'orizzonte alla ricerca del bagliore della terraferma, vagamente consapevole dei festaioli della «Forza attraverso la gioia» che ragliavano canti nazisti nella sala da ballo della nave. Nella sua borsetta avrebbe avuto la lettera attentamente ripiegata, qualcosa di cui ridere in Portogallo. Niente di meglio per un innamorato di un viaggio notturno in treno, dello schioccare incessante dei binari, della locomotiva che a volte, quando percorreva una lunga curva, compariva al chiaro di luna. Per tutta la notte Szara rievocò ricordi: «C'è un posto in cui mi posso spogliare?». All'alba il treno sferragliò attraverso i vigneti della Guascogna. In piedi nell'alcova in fondo al vagone, Szara osservò i binari che sfrecciavano sotto il giunto e aspirò l'odore di scorie di carbone nell'aria. Sulle colline ai piedi dei Pirenei faceva freddo; l'odore di resina di pino si fece più pungente a mano a mano che il sole risaliva i pendii. Al confine di Hendaye le guardie falangiste dai berretti di pelle controllarono i passaporti, e per tutto il giorno il treno viaggiò nella Spagna di Franco. Sfrecciarono davanti a un carro armato carbonizzato e a un patibolo di tronchi d'albero eretto al limitare di una cittadina. La foschia luccicava sulle colline a nord di Lisbona. La città stessa era stordita, esausta alla fioca luce della serata estiva. I cavalli delle carrozze davanti alla stazione agitavano a malapena la coda. Szara trovò un albergo chiamato Mirador, con torrette e balconi moreschi, e prese una stanza af-
facciata su una corte in cui una fontana riversava un getto d'acqua rugginosa su un fondo di piastrelle incrinate e grandi rose giacevano apatiche al caldo. Infilò lo spazzolino da denti in un bicchiere e uscì a fare una lunga passeggiata, finendo per comprare un paio di pantaloni di lino, una camicia bianca leggera e un panama. Si cambiò nel negozio, e sulla via del ritorno verso l'albergo una coppia di spagnoli gli chiese indicazioni. In un'edicola trovò un giornale degli esuli politici russi e passò la serata a leggerlo accompagnato dal frinire delle cicale e dal gorgoglio della fontana incrinata. «Stalin l'assassino!», «Il principe Čeyalevskij offre una donazione alla Lega degli Orfani», «M.me Tsoutskaja apre un negozio di modisteria». All'alba chiuse a fatica le vecchie imposte, ma non riuscì a prendere sonno. Non aveva chiesto a Goldman il permesso di lasciare Parigi (dubitava che glielo avrebbe concesso; la morte di Sénéschal aveva innervosito un po' tutti), né aveva avvertito la Schau-Wehrli. Nessuno sapeva dove si trovava, e una simile libertà rendeva impossibile il sonno. Non era disperso nel vero senso della parola, non ancora. Per quello si concedeva una settimana; solo allora si sarebbero lasciati prendere dal panico, cominciando a chiamare l'obitorio e gli ospedali. Mentre rientrava in albergo aveva incrociato una famiglia di ebrei: i volti cinerei, gli sguardi abbassati, scendevano dalla collina trascinando verso il porto ciò che restava dei loro averi. Dalla Polonia, sospettava Szara. Avevano fatto molta strada, e adesso dov'erano diretti? In Sudamerica? Oppure negli Stati Uniti? Lei sarebbe andata? Sì, alla fine sì. Non sulle prime, non subito: una donna non poteva semplicemente abbandonare la propria vita. Ma in seguito, dopo aver fatto l'amore, averlo fatto veramente, allora l'avrebbe seguito. La poteva vedere: la testa appoggiata su una mano, il sudore fra i seni, gli occhi castani liquidi e intensi; poteva udire le cicale e le imposte che cigolavano nella brezza notturna. Il denaro l'aveva. Appena sufficiente, ma ce l'aveva. Si sarebbero rivolti al consolato americano e avrebbero richiesto due visti turistici. Poi sarebbero scomparsi. Che cos'era l'America, se non la terra degli scomparsi? Alle dieci del mattino dopo assistette all'attracco della nave di linea Hermann Krieg. Un martire nazista, senza dubbio. Una folla di lavoratori tedeschi si riversò giù dalla passerella, sorridendo al sole bianco e brutale che era venuta a venerare. Gli uomini scoccarono occhiate lascive alle scure portoghesi con i loro scialli neri, le mogli serrarono la presa alle braccia dei mariti.
Di Marta Haecht non c'era traccia. Quell'estate, il caldo non risparmiava nessuno. E mentre i giardini londinesi avvizzivano e i cani parigini sonnecchiavano sotto i tavoli, New York bolliva. «Un'altra canicola» strillava il «Daily Mirror», mentre il «New York Times» annunciava: «Si prevede che oggi la temperatura raggiungerà i 37 gradi». Di notte era impossibile dormire. Alcuni si ritrovavano sui gradini delle case e conversavano a bassa voce, altri se ne stavano seduti al buio, ascoltando l'orchestra di Benny Goodman alla radio e scolando litri di tè freddo. La settimana lavorativa era pesante, ma l'ondata di calore di agosto sembrava conservare i suoi diabolici eccessi per i fine settimana. Si poteva prendere la metropolitana per Coney Island o il tram per Jones Beach, ma c'era una tale quantità di gente che si riusciva a malapena a intravedere la sabbia, men che meno a trovare un punto in cui stendere il proprio telo. L'oceano stesso sembrava tiepido e appiccicoso, e una scottatura solare non faceva che peggiorare le cose. Il meglio che potevi sperare per il fine settimana era avere una casetta in campagna o, in mancanza di quella, ricevere un invito da qualcuno che la possedeva. Per questo Herb Hull, direttore della rivista che stava cercando di ritagliarsi uno spazio fra «The Nation» e «The New Republic», fu lietissimo di ricevere, quel martedì mattina, una telefonata da Elizabeth May, che gli proponeva di partire insieme a loro venerdì sera per la contea di Bucks. Jack May dirigeva uno dei botteghini del Teatro Schubert nella zona intorno alla 40a Ovest, Elizabeth lavorava in un centro di assistenza sociale del Lower East Side. Non erano amici intimi di Hull, ma nemmeno semplici conoscenti. Il loro rapporto stava nel mezzo, una sorta di noncurante intimità in cui spesso i newyorkesi si adagiavano. Dopo le consuete disavventure (un ingorgo nell'Holland Tunnel, un problema di surriscaldamento alla Ford del '32 dei May alle porte di Somerville, nel New Jersey) giunsero a una solida casetta di pietra grezza sulla riva di un piccolo stagno. La casa era tipica: minuscole camere da letto raggiunte tramite una scala con un gradino cigolante, mobili malconci, una libreria piena di gialli lasciati dai precedenti invitati e un letto nella camera degli ospiti che odorava di muffa. Non lontana da Filadelfia, la contea di Bucks aveva case di villeggiatura e studi di artisti lungo ogni strada sterrata. Scrittori, pittori, drammaturghi, direttori di giornale e agenti letterari tendevano a raggrupparsi da quelle parti, così come coloro che svolgevano
una gran varietà di mestieri ma le cui serate erano dedicate ai libri, al teatro e alla Carnegie Hall. Arrivavano il venerdì sera, scaricavano la spesa (pannocchie di granturco, pomodori e fragole venivano acquistati alle bancarelle lungo la strada), mangiavano un panino e andavano a letto presto. Il sabato mattina veniva trascorso dedicandosi a progetti che non venivano mai portati a termine (non potevi dire di goderti la vita in campagna se non «aggiustavi» qualcosa), mentre il resto del fine settimana veniva placidamente speso parlando, bevendo e leggendo in tutte le combinazioni possibili. Alle feste del sabato vedevi le stesse persone che vedevi a Manhattan durante la settimana. Herb Hull era felicissimo di passare il fine settimana con i May. Erano molto intelligenti e colti, il rye e il bourbon scorrevano liberamente ed Elizabeth era un'ottima cuoca, famosa per le sue frittelle di mais e il suo stufato di selvaggina. E quello fu ciò che mangiarono sabato sera. Dopo cena decisero di tralasciare la solita festa e rimasero a casa a sorseggiare i loro drink mentre Jack suonava dischi di Ellington sul Victrola. I May erano abbonati fin dal primo numero alla rivista di Hull e appassionati sostenitori delle cause che questa abbracciava. Non erano membri del partito ma erano illuminati e progressisti, abbastanza fedeli a Roosevelt pur avendo votato per Debs nel '32. Quella sera l'argomento di conversazione della contea di Bucks era la politica, e il salotto di casa May non faceva eccezione. I tre si lamentarono all'unisono degli isolazionisti, che non volevano saperne di «quel pasticcio in Europa» e del Bund tedescoamericano, che li sosteneva e di fatto incoraggiava Hider. Convennero tristemente che salvare i Sudeti era impossibile; Hider li avrebbe arraffati come aveva fatto con l'Austria. Alla fine sarebbe scoppiata la guerra, ma l'America se ne sarebbe tenuta fuori. Era un comportamento vergognoso, vigliacco e in definitiva spaventoso. Che fine aveva fatto l'idealismo americano? La povertà opprimente della Depressione aveva forse distrutto i valori della nazione? Il paese sarebbe davvero stato governato da Westbrook Pegler e da padre Coughlin? Il popolo americano odiava la Russia al punto da permettere che Hitler facesse ciò che voleva in Europa? «È questo il nodo della questione» disse rabbiosamente Jack May scuotendo la testa per la frustrazione. Hull era d'accordo. Era una triste faccenda: Henry Ford e i suoi amici antisemiti, un sacco di gente giù a Washington che non voleva saperne dell'Europa, i gruppi di fomentatori che sostenevano che Roosevelt fosse in realtà «Rosenfeld», un ebreo bolscevico. «Ma capisci,» disse «Stalin
non sta certo migliorando le cose. Alcune delle dichiarazioni di Mosca sono alquanto scipite, e Litvinov, il suo ministro degli Esteri, sta girando l'Europa in lungo e in largo cercando di fare lo stesso gioco diplomatico di Inghilterra e Francia. Tutto ciò non fermerà Hitler, che conosce la differenza fra i trattati e i carri armati.» «Ah, per l'amor del cielo» esclamò Jack May. «Conosci la situazione in Russia. Stalin deve sfamare duecento milioni di contadini. Cosa dovrebbe fare?» «Herb, non sei stato lì quest'anno?» domandò Elizabeth. «L'inverno scorso.» «Come l'hai trovata?» «Oh, strana e misteriosa. Hai sempre la sensazione che qualcuno stia origliando dietro le tende. Povera. Quello che c'è non basta proprio per tirare avanti. Appassionata di idee e letteratura. Uno scrittore laggiù è davvero importante, non soltanto un cane al guinzaglio che abbaia. Se dovessi usare due parole per descriverla, una sarebbe scomoda. Non so perché, ma tutto, e intendo proprio tutto, sembra maledettamente difficile. Ma l'altra parola dovrebbe essere qualcosa come entusiasmante. Stanno davvero cercando di far funzionare le cose, e questo lo avverti, come un componente dell'aria.» Jack May guardò sua moglie con espressione scherzosa. «Si è divertito?» Elizabeth rise. «È stato affascinante, non posso negarlo.» «E Stalin? Di lui cosa pensano?» May prese il bicchiere di Hull dal tavolino e versò del bourbon su un nuovo cubetto di ghiaccio. «Di certo stanno attenti a ciò che dicono. Non si sa mai chi sta ascoltando. Ma allo stesso tempo sono slavi, non anglosassoni, e se sei un amico si vogliono confidare con te. E così senti qualche storia.» «Pettegolezzi?» chiese May. «O realtà?» «La cosa strana è che non spettegolano, non nel vero senso della parola, come facciamo noi. Sulle storie d'amore e cose simili sono istintivamente riservati. Per quanto riguarda la "realtà", sì, a volte. Ho conosciuto un tizio che racconta di come Stalin fosse in combutta con l'Ochrana. Bella storia, in realtà: vivace, concreta. Credo che la pubblicheremo intorno a Natale.» «Oh, quella vecchia falsa pista» disse Elizabeth in tono di scherno. «Sono anni che circola.»
Hull ridacchiò. «Be', i periodici sono fatti così. Gli stalinisti si arrabbieranno di brutto, ma non cancelleranno i loro abbonamenti, si limiteranno a scrivere lettere. A quel punto i socialisti e i trotckijsti risponderanno, ancora più infuriati. Venderemo qualche copia nelle edicole del Village. Alla fine non è altro che un dialogo, una tribuna aperta in cui tutti hanno il loro turno alla battuta.» «Ma questa persona è davvero in grado di sapere una cosa simile?» Elizabeth era vagamente sbalordita dalla possibilità. Hull ci rifletté per qualche istante. «Forse sì, forse no. Ammetteremo implicitamente di non saperlo per certo. "Chi può dire che cosa accade dietro le mura del Cremlino?" Niente di così esplicito, ma la direzione generale è questa.» «Che cosa siete, il "Time"?» May si stava preparando a litigare. Hull vi passò sopra. «Vorrei avere i soldi dei Luces. Ma vi dirò una cosa, anche se non dovrà varcare queste quattro mura. Siamo tutti, "Time" compreso, sulla stessa barca. I punti di vista editoriali sono diversi, più diversi di così non potrebbero essere, ma senza i lettori non siamo un bel niente, e ogni tanto dobbiamo uscire con qualcosa di succulento. Ma non vi allarmate, il resto del numero sarà come al solito: un sacco di capitalisti polemici e ringhiosi e di coraggiosi lavoratori, un appello natalizio alla giustizia. Credo che vi piacerà.» «A me sembra maledettamente cinico» brontolò May. Elizabeth s'intromise. «Ma dai! Pensa agli spettacoli che mettono in scena al tuo teatro. Stai soltanto facendo l'ipercritico, Jack, ammettilo.» May fece un mesto sorriso. «La democrazia in azione» disse. «Fa arrabbiare un po' tutti.» Di certo faceva arrabbiare qualcuno. La notte del 14 settembre, la redazione della rivista di Hull venne data alle fiamme, e «Chi era il misterioso uomo dell'Ochrana?» finì carbonizzato insieme a tutte le altre carte, o così almeno si presumeva: tutto ciò che rimase fu una montagna di cenere umida che finì nell'East River insieme alle sedie, alle scrivanie, alle macchine per scrivere e di fatto alla rivista stessa. Di sicuro non era stato un incidente: la lattina di carburante era stata lasciata sul pavimento dell'ufficio del caporedattore, dove gli investigatori della squadra antincendi la trovarono durante le operazioni di recupero fra i resti dell'incendio. Alcuni dei cronisti di nera chiesero al tenente della
squadra chi era stato, ma tutto ciò che lui offrì come risposta fu un eloquente sorriso da irlandese: con queste piccole organizzazioni rosse come diavolo si faceva a capire cos'era successo? Forse un rivale, forse non avevano pagato lo stampatore, la lista era troppo lunga. Sulle prime, il consiglio d'amministrazione della rivista pensò di insistere coraggiosamente, ma alla fine prevalse la saggezza. L'impresa aveva già prosciugato un fondo fiduciario e rovinato un matrimonio, forse avrebbero fatto meglio a lasciare il campo alla concorrenza. Herb Hull rimase senza lavoro per tre settimane esatte, dopo le quali firmò un contratto con un periodico patinato a grande distribuzione. Il suo nuovo compito era sfidare il «Collier's» e il «Saturday Evening Post», il che significava dover conoscere un nuovo genere di autori, ma Hull apprezzava gli scrittori, e presto cominciò a ricevere gli articoli («Amelia Earhart: ancora viva?») e la sua vita tornò alla normalità. Aveva un'idea abbastanza precisa del perché gli uffici della rivista fossero bruciati, ma la tenne per sé, poiché il martirio non era il suo destino; a volte, tuttavia, si metteva a giocherellare con quattro o cinque nomi che se avesse voluto avrebbe potuto trascrivere. André Szara venne a saperlo qualche giorno più tardi. In piedi al banco zincato di un bar sulla rue du Cherche-Midi, sorseggiando il suo caffè mattutino, sfogliando uno dei giornali ufficiali della sinistra francese lesse dell'incendio, ovviamente provocato, sosteneva il corrispondente americano, dall'FBI di J. Edgar Hoover o dai suoi scagnozzi fascisti, nell'ambito della loro campagna d'odio nei riguardi dei lavoratori progressisti e pacifisti di tutti i paesi. Leggendolo, Szara provò ben poco al di là di un senso di accettazione. Soppesò mentalmente l'evento per qualche minuto, osservando la strada. La purga si stava lentamente esaurendo, come un incendio che ha consumato ogni cosa sul suo cammino e alla fine consuma se stesso: una settimana prima, durante un incontro a Bruxelles, Goldman l'aveva informato con discrezione che Yežov stava perdendo popolarità. Che cosa era successo in realtà? Il NKVD aveva sicuramente saputo dell'articolo e ne aveva impedito la pubblicazione. Ma altrettanto sicuramente Stalin ne era stato informato o l'aveva addirittura letto, visto che probabilmente l'avevano trafugato prima di appiccare il fuoco. Ne era stato influenzato? Ne era rimasto abbastanza scosso, in un certo modo e in un certo momento, al punto che mettere fine alla purga gli era sembrato meglio che proseguire? Oppure era una semplice coincidenza, una confluenza di eventi? O magari la
storia aveva dei retroscena che Szara ignorava? C'era un'ottima possibilità che lui non fosse stato l'unico a essere mobilitato contro la purga; le operazioni segrete non funzionavano in quel modo, un uomo coraggioso contro il mondo intero. Le probabilità che un singolo individuo aveva di fallire erano troppo alte perché un abile agente non predisponesse diverse offensive in un colpo solo. Alla resa dei conti, Szara non poteva essere sicuro di nulla. "Forse stamattina ho davvero vinto" pensò. Non riusciva a immaginare un'assenza più assoluta di fanfare, e non gliene importava. Dalla morte di Sénéschal e dal suo ritorno da Lisbona aveva scoperto che non c'era più molto di cui gli importasse, e che ciò rendeva la vita, o quanto meno la sua vita, più semplice. Finì di bere il caffè, lasciò qualche moneta sul banco e si diresse a una conferenza stampa dell'ambasciatore svedese, ma non prima di aver aperto l'ombrello, poiché aveva cominciato a piovere. Il Mercato del ferro 10 ottobre 1938. André Szara avrebbe rivisto quel giorno come un quadro per il resto della sua vita. Uno strano quadro. Alquanto prosaico, nello stile di fine Ottocento, eppure sfiorato da una contraddizione, da qualcosa di storto, che suggeriva il surrealismo a venire. Il soggetto era una spiaggia lunga e deserta nei pressi della cittadina danese di Ǻrhus, sulle coste dello Jŭdand; l'ora era preserale, sotto il cielo grigio sgombro dell'autunno scandinavo percorso lentamente da file di nubi che avanzavano verso un pallido orizzonte. A est si stendevano le acque piatte e scure, e un banco di nubi nascondeva l'isola di Samsø. Piccole onde lambivano la spiaggia di sabbia scura e ciottolosa con una linea di marea contrassegnata dai detriti di conchiglie. I gabbiani si cibavano lungo la riva, e sulle dune che sorgevano dietro la spiaggia l'erba rigida ondeggiava alla brezza di terra. Un paesaggio marino comune e senza tempo catturato in un momento comune e senza tempo. Ma le figure umane erano estranee alla scena. Sergej Abramov, con il suo completo blu scuro, il suo panciotto con l'orologio, la sua lobbia nera, la sua barba nera e il suo ombrello nero: ecco dov'era la contraddizione del quadro. In un uomo di città, che apparteneva a luoghi urbani, a ristoranti, a teatri: la sua presenza sulla spiaggia rinnegava in qualche modo la natura. Né gli era da meno il suo compagno, il giornalista A.A. Szara, con un im-
permeabile sgualcito e un giornale francese arrotolato in una tasca. Il tocco finale, che perfezionava il contrasto, era la pila di undici fotografie che Abramov reggeva in mano, esaminandole come fanno tutti, facendo scivolare in fondo la prima quando aveva finito di osservarla, andando avanti fino a ritrovarla e ripetendo il processo. Sarebbe stato in grado l'artista di catturare lo stato d'animo di Abramov? Secondo Szara, soltanto un pittore molto abile ci sarebbe riuscito. C'erano troppi elementi da ritrarre. Chiuso in se stesso, indifferente alle strida dei gabbiani e alle raffiche di vento che si trastullavano con la sua barba, Abramov sfoggiava l'espressione di un uomo la cui brutale opinione del genere umano era stata nuovamente confermata. Ma nel sopracciglio inarcato, nell'accenno di un sorriso all'angolo della bocca c'era la prova che non si era aspettato nulla di meno, che era stato tradito così spesso che eventi di questo genere gli sembravano poco più di un inconveniente. Pareggiò con grande lentezza la pila di fotografie, le rimise nella busta e se le fece scivolare nella tasca interna della giacca. «Naturalmente» disse a Szara. L'espressione di Szara mostrò che non aveva capito. «Naturalmente è accaduto, naturalmente è stato Deršani a farlo accadere, naturalmente la prova arriva troppo tardi.» Abramov fece un cupo sorriso e scrollò le spalle, il suo modo di dire «Udari sud'bi», i colpi del fato, non era così che andava il mondo? «E i negativi?» «Bruciati.» «Saggio.» «Brucerai anche queste?» Abramov rifletté un istante. «No» disse quindi. «No, lo affronterò.» «E lui che farà?» «Deršani? Sorriderà. Ci sorrideremo a vicenda: fratelli, nemici, cospiratori, lupi. Quando avremo finito, lui mi chiederà come sono giunto in possesso di tali fotografie.» «E tu glielo dirai?» Scosse il capo. «Gli racconterò una fantasiosa, palese menzogna. Alla quale lui risponderà con una delle sue occhiate da predatore. Io la ricambierò, anche se lui capirà che sto bluffando, e la cosa finirà lì. Poi, più tardi, come dal nulla, potrebbe succedermi qualcosa. O forse no. Potrebbe succedere qualcosa a Deršani, magari: la fortuna politica sale e scende come qualsiasi altra. In ogni caso, le fotografie dimostrano che è stato abbastanza maldestro da farsi sorprendere, un margine di vulnerabilità che forse mi terrà in vita un po' più a lungo. O forse no.»
«Non ne avevo idea» si scusò Szara. «Credevo che l'avremmo sorpreso con le mani nel sacco.» «Quale sacco?» «Collaborazionismo.» Abramov sorrise dolcemente della sua innocenza. «Un incontro come questo può avere mille spiegazioni. Per esempio, si potrebbe sostenere che Herr Joseph Uhlrich è manovrato dalle autorità sovietiche.» «Sai già chi è.» «Oh sì, il mondo è piccolo. L'Obersturmbannführer delle SS, per concedergli il suo vero grado, l'equivalente di un tenente colonnello in Russia, è una vecchia conoscenza. Coraggioso teppista del partito comunista in gioventù, poi gorilla delle Camicie Brune, infine spia della fazione hitleriana, le Camicie Nere, ai danni di Ernst Röhm. Ha preso parte alle esecuzioni delle Camicie Brune del 1934 e ora è uno degli assistenti di Heydrich nel Sicherheitsdienst, l'SD, il servizio segreto per gli esteri della Gestapo. Lavora nella sezione, che si occupa dei servizi segreti sovietici. Forse è Deršani a essere manovrato dall'SD e non il contrario.» «Uhlrich aveva i suoi agenti di sicurezza, i tedeschi hanno organizzato tutto e Deršani era sostanzialmente solo e privo di protezione. A me è sembrato il cortese benvenuto a un traditore.» Abramov scrollò le spalle. «Lo scoprirò.» Voltò la schiena al vento, accese una sigaretta e s'infilò il fiammifero spento in tasca. «Ma se anche fosse, intervenire potrebbe rivelarsi impossibile. Deršani è diventato il presidente del Direttorato dell'OPAL. Sono stato retrocesso, diventando un semplice membro. Potrei essere retrocesso ancora di più, molto di più, capisci, e Yežov non è più il superiore di Deršani. Quella posizione ora appartiene al georgiano Berija, e così la khvost dei georgiani ha vinto. E sta facendo piazza pulita. È stato smascherato un complotto di scrittori: Babel', troppo amico della moglie di Yežov, è scomparso, e lo stesso è capitato a Kolt'sev. La "Pravda" avrà presto un nuovo direttore. E ce ne sono stati altri, molti altri: scrittori, poeti, drammaturghi, nonché tutti i colleghi di Yežov, dal primo all'ultimo, settanta persone secondo gli ultimi calcoli.» «E Yežov?» Abramov annuì. «Ah, sì, Yežov. Ebbene, ti posso comunicare che il compagno Yežov si è rivelato una spia inglese. Pensa un po'! Ma pover'uomo, forse non si rendeva del tutto conto di quello che faceva.» Chiuse un occhio e si picchiettò la tempia con l'indice. «A quanto pare, Nikolaj Ivanovič è impazzito. Perché una notte è comparsa un'ambulanza nel suo iso-
lato, e due infermieri, due tipacci robusti, sono stati visti mentre lo portavano via con la camicia di forza. È stato ricoverato all'istituto psichiatrico Serbsy, dove è stato deplorevolmente lasciato solo in cella ed è riuscito a impiccarsi alle sbarre della finestra trasformando ingegnosamente i propri mutandoni in un cappio. Ciò avrebbe richiesto una straordinaria prodezza acrobatica, e il "nano maledetto" non è mai stato un atleta, ma chissà, magari la follia gli ha regalato un'imprevista abilità fisica. Ci piace pensarlo, in ogni caso.» «Mi avevano detto che Yežov era in declino» commentò Szara «ma non fino a questo punto.» «Declino potrebbe essere una buona descrizione, suppongo. Nel frattempo, bratets» disse Abramov usando un termine affettuoso che significava «fratellino», «ora più che mai devi tenerti lontano dai guai. Non so cosa sia veramente successo al tuo agente Silo a Parigi, ma queste foto mi dicono che hai ficcato il naso negli affari dei tedeschi, e non ci vuole un genio per fare due più due.» «Ma è stato...» «Non dirmelo» lo interruppe Abramov. «Non voglio saperlo. Cerca solo di capire che ancora una volta è meglio che gli ebrei si rendano invisibili, anche a Parigi. Berija non è certo uno shabbos goy, uno di quegli amici degli ebrei ortodossi che il sabato accendono e spengono le luci in modo che loro possano rispettare il divieto di lavorare. Tutt'altro. La sua esperienza più recente ha coinvolto un uomo che potresti aver conosciuto, Griša Kaminskij, già commissario del popolo per la Salute. Si è presentato al plenum di febbraio e ha fatto un discorso molto interessante, sostenendo che un tempo Berija lavorava per i musulmani della Transcaucasia, i nazionalisti del Mussavat, nel periodo in cui erano controllati dagli inglesi durante l'intervento a Baku, subito dopo la Rivoluzione. Secondo Kaminskij, Berija dirigeva una rete di controspionaggio del Mussavat, e ciò lo rendeva una spia inglese. Non c'è bisogno di dire che dopo il plenum Kaminskij si è volatilizzato. Dunque capisci che non ho la minima fretta di correre da Berija con la notizia, anche se è una notizia illustrata, che il suo compagno di hhvost Deršani è in contatto con il nemico fascista.» Abramov fece una pausa perché le sue parole venissero assorbite, e per qualche minuto i due rimasero in silenzio sulla spiaggia. Nell'interpretazione di Szara, l'ascesa di Berija nonostante l'offensiva quasi suicida di Kaminskij confermava quello che Bloch aveva detto cinque mesi prima: la purga, opprimente, premeditata, in qualche modo effi-
cace e al tempo stesso occasionale, era a tutti gli effetti un pogrom. Dubitava che Abramov, per quanto fosse forte e intelligente, sarebbe sopravvissuto. E se gli alleati di Yežov erano stati assassinati, al momento opportuno gli amici di Abramov non sarebbero stati trattati in modo diverso. «Forse, Sergej Jakobovič» disse in tono esitante «dovresti pensare alla tua salvezza. Dalla Danimarca, per esempio, si può andare praticamente ovunque.» «Io? Fuggire? No, mai. Per il momento sono stato semplicemente retrocesso, e ho subito come un bravo zhid del ghetto: occhi a terra, muto come un topo, nessun problema, Gospodin, signore. No, quello che mi salva è che con Hitler nei Sudeti la Germania guadagna tre milioni e mezzo di cittadini, di cui soltanto settecentomila non sono di etnia tedesca. Più che sufficienti per quattro divisioni dell'esercito, secondo il nostro modo di ragionare, a cui devi aggiungere capacità industriali, materie prime, risorse alimentari e cose simili. Il risultato è un altro enorme grattacapo strategico per la Russia, e alla resa dei conti è la mia specialità, me ne occupo dal 1917, è quello che so fare. Per questo vorranno tenermi buono, quanto meno per il momento.» «E vorranno tenere buono anche me.» «Oh, decisamente. Dopo tutto gestisci una miniera importante per noi: senza te e i tuoi fratelli, il Direttorato non può produrre un bel niente. Creiamo strumenti di precisione, o almeno ci proviamo, ma dove saremmo senza il ferro? Il che mi porta alla ragione della mia visita, non mi sono trascinato su una spiaggia danese soltanto per dare un'occhiata a qualche foto compromettente. «Lo sfondo è questo: Hitler ha i Sudeti, sappiamo che cercherà di accaparrarsi l'intera Cecoslovacchia e crediamo che voglia di più, molto di più. Se prima il materiale di Lontra era significativo, ora è fondamentale, e il Direttorato intende averla vinta con lui, che gli piaccia o no. A tale scopo abbiamo deciso di mandarti a Berlino. O riuscirai a convincere Lontra ad assumere un atteggiamento più... generoso, oppure useremo le maniere forti. In altre parole, le riserve di pazienza sono esaurite. Ci siamo capiti?» «Sì.» «Inoltre vogliamo che tu consegni del denaro alla rete Corvo, a Corvo in persona. Osservala con attenzione; al tuo rientro a Parigi ti verrà chiesta la tua opinione. Il Direttorato si fida della Schau-Wehrli, ti prego di non fraintendere, ma gradiremmo un secondo parere.» «Goldman mi procurerà i passaporti per il viaggio?»
«Quali passaporti? Non essere sciocco. Ci andrai nella tua vera veste, scrivendo per la "Pravda" di qualsiasi cosa ti colpisca. Discuterai con Goldman gli approcci a Lontra e Corvo e lavorerai con lui su alcuni questionari: vogliamo guidare Lontra su aree molto specifiche. Domande?» «Una.» «Solo una?» «Perché sei stato mandato qui? Di solito gli incontri in un "terzo paese" sono riservati a circostanze speciali, me l'hai insegnato tu stesso, e non ho sentito niente, niente di ufficiale intendo dire, che non avreste potuto comunicarmi via radiotelegrafo. Mi sfugge qualcosa?» Abramov trasse un respiro profondo e riconobbe l'impatto della domanda con un sospiro che significava: "Guarda come sta diventando brillante". «Per farla breve, hanno qualche dubbio su di te. Non hai fatto progressi con Lontra, hai perso un agente (anche se non è stata colpa tua, il Direttorato non perdona la sfortuna) e il tuo unico trionfo, che ora tengo in tasca, è a loro ignoto. A essere sinceri, il tuo credito è scarso. E così mi hanno incaricato di dare un'occhiata e decidere se sia il caso che tu continui oppure no.» «E se non lo è?» «Ho deciso altrimenti, quindi non essere curioso. Ora, io sono venuto in macchina, ma voglio che tu te ne vada per primo. Avrai una mezz'ora di cammino per Ǻrhus, sicché mi dovrai perdonare se ti supero come se non ti avessi mai visto. Un'ultima cosa: ancora una volta, fa' molta attenzione a Berlino. La tua condizione di corrispondente ti protegge, ma non cercare di scoprire fino a che punto. Quando ti metti in contatto con gli agenti, segui la procedura alla lettera. E per quanto riguarda il caos a Mosca, non lasciare che ti deprima. Nessuna situazione è disperata come sembra, André Aronovič. Ricorda il vecchio proverbio: nessuno ha mai trovato uno scheletro di gatto su un albero.» Si salutarono e Szara s'incamminò a fatica sulla sabbia soffice risalendo le dune. Quando si guardò indietro, provò ancora una volta la sensazione che la scena fosse un quadro. Sergej Abramov, l'ombrello sottobraccio, le mani infilate nelle tasche, osservava la distesa d'acqua. La scena marina e autunnale lo circondava (i gabbiani stridenti, le onde che si riversavano sulla spiaggia, l'erba che frusciava, il cielo pallido), ma lui le era estraneo. O meglio, era la scena a essergli estranea, come se l'idea del quadro fosse che la solitaria figura sulla spiaggia non facesse più parte della vita terrena.
27 ottobre 1938. Visioni come quella continuarono a tenergli compagnia. Un frammento di linguaggio burocratico, «data di scadenza», il genere di frase che si leggeva sui passaporti, sui visti, sui permessi di qualsiasi genere, divenne il suo simbolo privato di quella che era essenzialmente una sensazione impossibile da descrivere. "L'Europa sta morendo" pensava. Il più banale degli arrivederci nascondeva in se stesso un addio. Era nelle canzoni, nei volti per la strada, nei violenti mutamenti d'umore (assurda allegria un momento, desolazione il successivo) che riconosceva negli amici e in se stesso. Il vagone ristorante del Nord Express per Berlino era quasi deserto, e le vibrazioni delle posate e dei servizi di porcellana sui tavoli erano troppo chiassose senza il normale chiacchiericcio. Un anziano cameriere sonnecchiava all'impiedi, il tovagliolo drappeggiato su un braccio, mentre Szara si sforzava di mangiare una braciola di vitello tiepida. Quando il treno si avvicinò al confine, un facchino invadente percorse la carrozza abbassando le tende dei finestrini, presumibilmente nascondendo a Szara e a un'altra coppia la vista delle fortificazioni militari francesi. E il controllo dei passaporti in Germania fu più penoso del solito. Non c'era nulla che Szara riuscisse a definire, il procedimento era lo stesso. Forse c'erano più poliziotti, e le loro armi da fuoco erano più visibili. O forse era il modo in cui si muovevano, andando a sbattere contro le cose, alzando la voce più del solito, usando intonazioni meno educate, con un che di quasi esultante nei modi. Oppure erano gli uomini in borghese con la loro sublime noncuranza, che diedero a malapena un'occhiata ai suoi documenti. O magari era lui stesso, si chiese Szara, che stava semplicemente perdendo il proprio sangue freddo? A Bruxelles non c'era stata alcuna orrenda cena cinese. Aveva trascorso ore nel retro del negozio di cartografia di Stefan Leib, dove Goldman gli aveva inflitto una serie di stancanti e ripetitive istruzioni che spesso si protraevano fino a notte fonda. Era un Goldman diverso, quello che si sporgeva sopra la scrivania ingombra di carte alla luce di una singola lampada, la voce tesa e forzata, l'alito reso pungente dall'alcol, tracciando righe a matita su una carta stradale di Berlino o spiegando i nauseanti dettagli della situazione in cui si trovava il dottor Baumann. Le condizioni degli ebrei tedeschi erano peggiorate, ma la cosa più grave era la forma che aveva assunto quel peggioramento. C'era qualcosa di ter-
ribilmente cadenzato nel processo, come una grancassa che scandiva la comparsa di un nuovo decreto ogni mese, ciascuno leggermente peggiore del precedente e ciascuno inteso a ispirare nelle sue vittime la terrificante consapevolezza di un'orchestrazione, cosa che faceva con successo. Qualunque cosa fosse quella che regolava il loro destino, si rifiutava semplicemente di lasciarsi placare. Non importava con quanta precisione e sollecitudine gli ebrei si conformassero alle minuzie delle sue regole, la cosa diventava sempre più rabbiosa ed esigente. Più loro la nutrivano, più diventava famelica. Nell'aprile del 1938, in Germania erano rimaste soltanto quarantamila aziende ebraiche; tutte le altre erano passate a proprietari ariani, a volte con il pagamento di una somma simbolica, altre volte a titolo gratuito. Le attività ancora controllate dagli ebrei portavano valuta estera, di cui la Germania aveva un disperato bisogno per l'acquisto del materiale bellico, oppure, come nel caso della Baumann, erano direttamente collegate con il programma di riarmo. In giugno, gli ebrei avevano dovuto fornire un inventario di tutto ciò che possedevano, con l'eccezione dei beni personali e domestici. In luglio un barlume di speranza, una conferenza sull'emigrazione ebraica tenutasi nella cittadina termale francese di Evian, dove i rappresentanti dei paesi di tutto il mondo si erano incontrati per riflettere sul problema. Ma si erano rifiutati di accogliere gli ebrei tedeschi. Gli Stati Uniti ne avrebbero accettati soltanto ventottomila, appartenenti a ristrettissime categorie. L'Australia non desiderava importare «un problema razziale». I paesi dell'America del Sud e Centrale volevano soltanto agricoltori, non commercianti o intellettuali. La Francia aveva già accolto fin troppi rifugiati. La Gran Bretagna sosteneva di non avere posto, e l'immigrazione verso la Palestina da essa controllata era stata drasticamente ridotta a poche centinaia di certificati al mese da quando le sommosse e le imboscate degli arabi, cominciate nel 1936, avevano creato difficoltà politiche per coloro che appoggiavano l'ingresso degli ebrei nel territorio. In più, l'accesso inglese al petrolio del Medio Oriente si basava sui buoni rapporti con gli sceiccati arabi, che erano in generale contrari all'insediamento degli ebrei in Palestina. Fra tutti i paesi che si erano riuniti a Evian, soltanto l'Olanda e la Danimarca avrebbero accettato i rifugiati ebrei provenienti dalla Germania. Al termine della conferenza, la maggioranza degli ebrei tedeschi aveva ormai capito di essere in trappola. I decreti non si arrestarono. Il 23 luglio, a tutti gli ebrei venne imposto di
richiedere una speciale tessera di riconoscimento. Il 17 agosto giunse l'ordine che gli ebrei tedeschi cambiassero nome: gli uomini avrebbero dovuto chiamarsi Israel, le donne Sarah. Il 5 ottobre, tutti gli ebrei vennero costretti a consegnare i loro passaporti. Sarebbero stati restituiti, venne loro spiegato, con una voce che li identificava come ebrei. Mentre il treno sfrecciava attraverso la valle del Reno verso Dusseldorf, Szara sollevò la tendina e guardò passare i piccoli grappoli di luci dei villaggi. Cercò deliberatamente di scordare le istruzioni di Goldman e concentrarsi sulle probabilità di rivedere Marta Haecht durante la sua permanenza a Berlino. Ma anche nella sua immaginazione, Marta viveva all'ombra della propria città, era una Marta molto diversa da quella che lui aveva creduto si sarebbe precipitata a Lisbona per vederlo. Forse lei non somigliava affatto all'immagine che lui se n'era fatto. Era possibile che esistesse soltanto in un suo mondo di fantasia? Non aveva importanza, si rese conto appoggiando la testa al vetro freddo del finestrino. Qualunque cosa fosse, lui desiderava la sua presenza, e quel bisogno era l'unica fonte di calore che era sopravvissuta dai tempi in cui credeva che il mondo vivesse per il desiderio. Il resto era soltanto ghiaccio. Il giornalista Szara scese dal treno alla stazione di Potsdam qualche minuto prima delle tre del mattino, svegliò un taxista e si fece portare all'Adlon, dove alloggiavano tutti i giornalisti e le delegazioni commerciali provenienti dalla Russia. L'albergo, ammuffito e cigolante e magnificamente confortevole, si trovava nella Pariser Platz ai piedi del grandioso viale Unter den Linden, accanto all'ambasciata britannica e a tre portoni di distanza da quella russa. Seguendo un facchino assonnato nel lungo corridoio che conduceva alla sua camera, Szara udì delle grida esuberanti in russo e il fracasso di una lampada che andava in frantumi. "Finalmente a casa" si disse. Il vecchio che trasportava la sua borsa si limitò a scuotere la testa con mestizia. Il mattino dopo li vide, intenti a brancolare verso il caffè nell'elegante sala da pranzo. Ufficialmente erano corrispondenti della Tass, una gamma di individui che andava da quelli con le spalle larghe, i capelli biondi e gli occhi chiari a quelli piccoli e intensi con gli occhiali, la barba e i capelli arruffati. Nessuno di sua conoscenza, o così credeva finché Vainštok non si materializzò al suo tavolo con un piatto di fichi cotti. «Bene, Szara è con noi. Saranno in arrivo notizie scottanti.» Vainštok, figlio di un mercante di legname di Kiev, era un tipo notoriamente graffiante. Aveva due occhi vaghissimi dietro le lenti rotonde e un labbro superiore perennemente ar-
ricciato per il disprezzo. «Comunque sia, benvenuto a Berlino.» «Salve, Vainštok» rispose Szara. «Sono così lieto che tu abbia deciso di farci questo onore. Devo scrivere di tutto, passo metà della notte in bianco. Ora che ci sei tu, magari ogni tanto mi potrò riposare.» Szara indicò gli inviati della Tass con un gesto interrogativo. «Loro? Ah!» esclamò Vainštok. «In realtà non scrivono un bel niente. Siamo io e te, Szara, a fare tutto il lavoro.» Dopo pranzo, Szara cercò di telefonare a Marta Haecht. Seppe che da due mesi non lavorava più alla rivista. Provò a chiamarla a casa, ma non rispose nessuno. Il giorno prima di partire da Parigi, Kranov gli aveva consegnato un messaggio personale da Bruxelles: I preparativi per la sua missione sono stati svolti. Le auguro un buon viaggio e dei risultati soddisfacenti. Rezident A Berlino, la sera del 28 ottobre, André Szara capì che cosa significava veramente quel messaggio. Di coloro che avevano svolto i «preparativi» conosceva soltanto Odile, la cui consegna del 26 ottobre aveva avvertito Lontra della «visita di un amico» che sarebbe arrivato «di sera». La maggior parte dei preparativi, tuttavia, era stata affidata ad agenti senza nome e senza volto presumibilmente operanti a Berlino, anche se non poteva esserne sicuro. Forse alcuni degli inviati della Tass che aveva visto barcollare verso il caffè mattutino all'Adlon, forse una squadra fatta arrivare da Budapest; non era previsto che lui lo sapesse. Ancora una volta, la mano invisibile. Ma l'André Szara che si stava recando a un incontro clandestino nel territorio della Gestapo era più che grato del loro lavoro. Entrò nel quartiere di Grunewald al crepuscolo, allontanandosi dalla stazione del tram della Bingbahn insieme a un gruppo di impiegati e professionisti muniti di valigette e da loro indistinguibile. Molti dei residenti di Grunewald si spostavano in macchina, in diversi casi con l'autista. Ma l'ora del ritorno serale dal lavoro era il massimo della copertura che gli agenti erano riusciti a creare, e Szara era grato anche di quel minimo mascheramento.
La villa dei Baumann si affacciava su Salzbrunner Strasse, ma Szara vi si stava avvicinando dal retro. Percorse a passo rapido Charlottenbrunner Strasse, rallentò per consentire a un ultimo uomo d'affari di trovare la via di casa, attraversò un vicolo e prese a contare i passi finché non vide un sasso rovesciato. Giunto al punto cieco che gli agenti avevano individuato, invisibile dalle case vicine, penetrò in un bosco di pini ben curato, trovò il sentiero e lo seguì fino alla base di un muro di stucco che circondava la villa accanto a quella dei Baumann. Attese. Il clima a Berlino era freddo e umido, il bosco era buio e il tempo rallentò fino a strisciare, ma lo avevano nascosto lì per consentirgli l'ingresso al crepuscolo nel quartiere e adesso lo avrebbero tenuto in ghiaccio fino all'ora magica, le nove di sera, in cui la coppia di domestici che occupava la residenza principale era solita addormentarsi, o quanto meno spegnere la luce. Alle nove e dieci si rimise in moto, avanzando a tentoni lungo il muro e contando i passi finché, proprio dove avevano detto che sarebbe stato, trovò un punto d'appoggio per il piede che un agente aveva scavato nella facciata di stucco. Inserì il piede sinistro nella piccola nicchia, si diede una spinta verso l'alto e si aggrappò alla sommità di tegole del muro. Gli avevano raccomandato di calzare scarpe con la suola di gomma, e l'aderenza lo aiutò ad arrampicarsi sulla superficie liscia. Non fu una manovra aggraziata, ma alla fine si ritrovò appiattito nell'angolo formato dal muro che aveva scavalcato e quello che divideva le due proprietà. Abbassando lo sguardo alla sua sinistra vide una donna con una vestaglia a fiori che leggeva seduta su una sedia alla finestra. Alla sua destra, la dépendance della servitù aveva le imposte chiuse. Appena sotto di lui c'era un capanno degli attrezzi rasente il muro. Si calò con cautela sul tetto di assicelle, che s'imbarcò sgradevolmente sotto il suo peso ma lo resse finché non saltò giù. Dalla dépendance giunsero i latrati acuti di un cagnolino, che venne quasi immediatamente calmato. Doveva essere Ludwig, la scusa architettata dall'apparat per far uscire Baumann durante la sera. Tenendosi fuori dal raggio visivo della villa, Szara trovò la porta di servizio della dépendance e vi diede tre colpi leggeri: non un segnale, ma uno stile consigliato da Goldman in quanto «informale» e «cordiale». La porta si aprì subito e il dottor Baumann lo fece entrare. Gli agenti l'avevano fatto arrivare sano e salvo. Qualcuno, rabbrividendo nella foschia di un'alba berlinese, aveva scavato un buco nel muro con un coltello a serramanico (o in qualunque altro modo: per quanto ne sapeva,
poteva anche essere stata una banda di dodicenni). In ogni caso, ce l'aveva fatta. Lo avevano condotto come un'arma in una posizione nella quale la sua luce - che fosse creata dal suo intelletto, dal suo ascendente, dalla sua abilità o da quant'altro - avrebbe potuto brillare. Avevano fatto il loro lavoro. Peccato che lui non fosse in grado di fare il suo. Oh, ci aveva provato. «Deve dominarlo» aveva detto Goldman. «Può essere cortese, se vuole, o amabile. Le minacce a volte funzionano. Sia solenne, patriottico o semplicemente noioso (è stato fatto anche questo); l'importante è che lo domini.» Ma Szara non ci riusciva. Il dottor Baumann era grigio. Nel suo caso, la pressione brutale e incessante orchestrata dalla burocrazia del Reich stava ottenendo un buon successo. Il suo volto era distrutto dalla tensione e dall'insonnia; era diventato magro, curvo, vecchio. «Lei non può sapere come si vive qui.» Lo ripeteva di continuo, e Szara non riusciva a trovare il modo di superare quella barriera. «Possiamo esserle d'aiuto?» domandava. «Ha bisogno di qualcosa?» Baumann si limitava a scuotere il capo, chiuso dietro un muro in cui nessuna offerta poteva far breccia. «Sia positivo» aveva detto Goldman. «Lei rappresenta la forza. Gli faccia sentire il potere che incarna, gli faccia sapere che lo sostiene.» Szara ci provò: «Sono poche le cose che non siamo in grado di fare. Il suo conto con noi è praticamente illimitato, ma lei deve sfruttarlo». «Cosa potrei desiderare?» disse Baumann in tono rabbioso. «Quello che mi hanno preso, non potete restituirmelo. Nessuno può farlo.» «Il regime si sta indebolendo. Forse lei non riesce a vederlo, ma noi sì. Ci sono motivi di speranza, ragioni per resistere.» «Sì» disse Baumann nel tono di chi si dichiara d'accordo su qualsiasi cosa perché è troppo annoiato. «Ci proviamo» soggiunse. "Ma non ci riusciamo" diceva il suo sguardo. Frau Baumann era cambiata in modo diverso. Era diventata più Hausfrau che Frau Doktor. Se era stata veramente la sua ambizione (il desiderio di affermazione sociale e il bisogno di mostrarsi condiscendente) a provocare la furia cieca di una nazione di cinquanta milioni di persone, di certo ne era stata curata. Adesso era costantemente affaccendata, e le sue mani non si fermavano mai. Aveva ridotto la propria esistenza a una serie di piccole crisi domestiche, trasformando la paura in un'esasperazione della vita casalinga: ditali, scope, patate. Forse era la sua versione del mondo in cui viveva la massaia tedesca, forse credeva che unendosi al nemico
avrebbe potuto conservare, le avrebbero concesso di conservare ciò che restava della sua vita. Quando uscì dalla stanza, Baumann la seguì con lo sguardo. «Ha visto?» bisbigliò a Szara come se ci fosse bisogno di provare qualcosa. Szara annuì con fare dolente; capiva. «E il lavoro?» chiese. «Come vanno le cose in azienda? Come si comportano con lei, i suoi dipendenti? Sono ancora fedeli? Oppure seguono la linea del partito?» «Badano a se stessi. Lo fanno tutti, ormai.» «Nessuna gentilezza? Nemmeno un'anima buona?» Forse Baumann vacillò per un istante, ma poi capì che cosa sarebbe seguito (e chi sarebbe quest'anima buona?) e rispose: «Quello che pensano non importa». Szara sospirò. «Lei si rifiuta di aiutarci. E di aiutare se stesso.» Qualcosa balenò negli occhi di Baumann (uno strano genere di solidarietà?), ma subito scomparve. «La prego» disse «non deve chiedermi troppo. Ogni giorno che passa ho meno coraggio. Andare al muretto di pietra per i messaggi è una tortura, mi capisce? Mi costringo a farlo. Io...» Il telefono squillò. Baumann rimase paralizzato. Fissava la cucina attraverso il vano della porta mentre l'apparecchio insisteva a squillare. Finalmente Frau Baumann sollevò la cornetta. «Sì?» disse. Poi: «Sì». Rimase in ascolto per qualche istante, fece per esclamare qualcosa ma venne evidentemente interrotta dalla persona all'altro capo del filo. «Puoi aspettare un attimo?» chiese. Szara e Baumann la udirono posare con cautela la cornetta su una mensola di legno. Quando entrò in salotto, si era portata entrambe le mani al volto. «Julius, caro, abbiamo denaro in casa?» Parlava con calma, come se stesse facendo appello a una riserva di forza interiore, ma le tremavano le mani e le sue guance erano paonazze. «Chi è?» «Natalya. Ha chiamato per dirci che deve tornare in Polonia. Stanotte stessa.» «Ma perché dovrebbe...?» «Gliel'hanno ordinato, Julius. La polizia è a casa sua, e la caricherà su un treno dopo la mezzanotte. Sono molto gentili, dice, e sono disposti ad accompagnarla qui sulla strada per la stazione.» Baumann non reagì, limitandosi a fissare la moglie. «Julius?» ripeté Frau Baumann. «Natalya sta aspettando di sapere se la possiamo aiutare.»
«Nel cassetto» disse Baumann. Si voltò verso Szara. «Natalya è sua cugina. È arrivata da Lublino sei anni fa.» «Nel cassetto non c'è molto» disse Frau Baumann. Szara estrasse di tasca una grossa manciata di Reichsmark. «Le dia questi» disse porgendoli a Baumann. Frau Baumann tornò al telefono. «Sì, va bene. Quando vieni?» Attese la risposta. «Bene, a dopo. Sono sicura che si risolverà tutto. Non scordarti i maglioni, gli alberghi polacchi... Sì... Lo so... Venti minuti.» Riagganciò la cornetta e tornò in salotto. «Tutti gli immigrati ebrei dalla Polonia devono lasciare la Germania» annunciò. «Verranno deportati.» «Deportati?» esclamò Baumann. Sua moglie annuì. «In un posto chiamato Zbaszyń.» «Deportati» ripeté Baumann. «Una donna di sessantatré anni, deportata. Che cosa farà in Polonia, per l'amor del cielo?» Si alzò di scatto, raggiunse uno scaffale accanto alla finestra, prese un grosso volume e cominciò a sfogliarlo. «Come si chiama quel posto?» «Zbaszyń.» Mise l'atlante sotto una lampada e studiò la pagina socchiudendo le palpebre. «Se fosse stato Varsavia l'avrei capito» disse. «Non lo trovo.» Alzò gli occhi sulla moglie. «Ha pensato di prenotare una stanza, quanto meno?» Szara si alzò. «Meglio che vada» disse. «La polizia...» Baumann staccò gli occhi dal libro. «Penso che dovreste fuggire» soggiunse Szara. «Un'operazione simile coinvolgerà migliaia di persone. Decine di migliaia. La prossima volta troveranno un posto dove mandare anche voi. È possibile.» «Ma noi non siamo polacchi» disse Frau Baumann. «Siamo tedeschi.» «Vi faremo uscire noi» disse Szara. «Vi porteremo in Francia o in Olanda.» Baumann sembrava dubbioso. «Non risponda subito. Ci rifletta. La farò contattare e ci rivedremo fra qualche giorno.» S'infilò l'impermeabile. «Prenderà in considerazione l'idea?» «Non ne sono sicuro» rispose Baumann, evidentemente confuso. «Quanto meno ne discuteremo» concluse Szara. Controllando l'ora, si diresse verso la porta. Fuori, la sera era ancora fredda e umida. Una scala traballante lo fece arrivare sul tetto del capanno; da lì montò a cavalcioni sul muro, si calò te-
nendosi aggrappato alla sommità e si lasciò cadere a terra. La sua uscita era prevista alle 22.08, ma l'imminente arrivo della polizia l'aveva costretto ad anticiparla, e così dovette aspettare nel bosco come aveva fatto in precedenza. Nel silenzio del quartiere di Grunewald udì quella che immaginò fosse la breve visita della cugina: portiere d'auto che si aprivano e si chiudevano, un motore al minimo, voci attutite, ancora portiere, un'auto che ripartiva. Non vi fu altro. 29 ottobre. Szara decise che telefonare a Marta Haecht non era una buona idea; una conversazione necessariamente impacciata, difficile. Invece le scrisse, sulla carta intestata dell'Adlon. Sono tornato a Berlino per il mio giornale. Mi piacerebbe, più di quanto possa esprimere in questa lettera, passare con te tutto il tempo possibile. Naturalmente capirò se la tua vita è cambiata, e se riterrai che sia meglio non vederci. In ogni caso ti rimango amico. André Passò una giornata svogliata, cercando di non pensare ai Baumann. Non esisteva alcun piano del Direttorato per farli uscire dalla Germania, e lui non era autorizzato a fare una simile proposta, ma non aveva importanza. "Quel che è troppo è troppo" si disse. Il mattino seguente ricevette una risposta alla sua lettera, sotto forma di un messaggio telefonico lasciato alla reception dell'Adlon. Un indirizzo, un numero di ufficio, una data e un'ora. Da parte di Fruälein H. 31 ottobre. In piedi davanti alla finestra aperta, Szara guardava la Bischofstrasse, scintillante nella pioggia di metà pomeriggio, cosparsa di foglie marroni e gialle appiattite sull'asfalto. L'aria umida era gradevole. Udì i passi pesanti di Marta che attraversavano la stanza, poi il tocco della sua pelle calda quando si nascose dietro di lui. «Ti prego, non stare alla finestra» sussurrò. «Il mondo intero vedrà che c'è un uomo nudo in camera.» «Cosa mi dai?» «Ti darò quello che non osi chiedere, ma che vuoi più di ogni altra cosa
al mondo.» «E sarebbe?» «Una tazza di tè.» Si allontanarono insieme dalla finestra, e Szara si sedette a un tavolo coperto da un tessuto indiano e la guardò mentre preparava il tè. La stanza era un sottotetto all'ultimo piano di un palazzo per uffici, con grandi finestre e un soffitto alto che lo rendeva il perfetto studio per un artista. «Benno Ault». Era quello il nome sulla targa nell'ampio, echeggiante atrio di marmo, traccia di una grandezza perduta. «Herr Benno Ault, Stanza 709». E lui chi era? A sentire Marta, «un amico dell'università. Un caro ragazzo, dolce, smarrito». Un artista che viveva altrove e le aveva dato in affitto il suo studio come appartamento. La sua presenza era rimasta. Fissata alle pareti, che molti anni prima erano state dipinte di un beige industriale e che ora erano scrostate e chiazzate di umidità, c'era quella che Szara immaginava fosse l'opera di Benno Ault. Poteva anche essere caro, dolce e smarrito, ma a giudicare dalle sue tele, era anche matto come un cavallo. Pulsavano di colori, di gialli e verdi abbaglianti. Erano ritratti di naufraghi e dannati, volti rosa che gridavano da ogni parete mentre oceani color zafferano li inghiottivano e le loro mani grottesche artigliavano l'aria. Marta gli portò una tazza di tè fumante, fermandosi accanto alla sedia e aggiungendovi cucchiaiate di zucchero finché lui le disse basta, la curva del fianco premuta contro il lato della sua schiena. «È dolce come piace a te?» gli chiese, innocente come l'alba. «Perfetto.» «Bene» disse in tono fermo sistemandosi su una poltrona vicina, un'enorme orfana di velluto che aveva visto giorni migliori. Si stese un tovagliolo sul ventre nudo in una parodia del decoro, come un nudo di Goya che badava all'etichetta. Sorseggiando il tè chiuse gli occhi, poi agitò le dita dei piedi per il piacere. Il sottofondo alla sua esibizione era fornito da una gigantesca radio con l'indicatore delle stazioni illuminato da una luce ambrata che trasmetteva Lieder di Schubert fin da quando Szara era entrato dalla porta. Marta cominciò a condurre, agitando un dito severo nell'aria. «Sono come mi ricordavi?» domandò all'improvviso. «E io?» chiese lui. «A dire il vero, tu sei molto diverso.» «Anche tu.» «È il mondo» disse Marta. «Ma non m'importa. La tua lettera era dolce, anche se un po' sconsolata. Dicevi sul serio? O era solo per facilitare le
cose? Va bene in entrambi i casi, sono solo curiosa.» «Dicevo sul serio.» «È quello che ho pensato. Poi mi sono detta: vedremo dopo un'ora.» «L'ora è scaduta. La lettera vale ancora.» «Fra poco dovrò tornare al lavoro. Ti rivedrò? Oppure aspetteremo un altro anno?» «Domani.» «Non ho detto che avrei accettato.» «Accetterai?» «Sì.» Quando gli aveva aperto la porta, indossava una corta vestaglia di seta mollemente allacciata in vita (l'aveva acquistata di recente: l'aroma dell'indumento nuovo aleggiava appena sotto il suo profumo), capelli sciolti e spazzolati, rossetto sulle labbra. Una donna di mondo desiderosa del suo intrallazzo pomeridiano. Vederla così, incorniciata dal vano della porta, l'aveva lasciato senza parole. Era troppo bello per essere vero. Quando lei aveva sollevato il volto verso il suo e chiuso gli occhi, si era sentito come se la luce del sole l'avesse improvvisamente e inaspettatamente riscaldato. Mentre si abbracciavano, per un istante aveva addirittura avvertito la bocca di lei sorridere di piacere. Ma dopo quell'istante, ogni cosa (lei che lo conduceva per mano verso un divano, i cuscini allontanati a calci, la vestaglia gettata via) era accaduta troppo in fretta. Ciò che lui si era immaginato come elegante e seducente non lo era stato affatto. Non erano più loro, davvero. Erano due persone diverse, individui affamati, bisognosi, egoisti. Dopo ne avevano riso, ma le cose erano cambiate e lo sapevano entrambi. A un certo punto Marta aveva sollevato la testa dal divano e gli aveva bisbigliato dolcemente all'orecchio. Le parole erano familiari, la richiesta di un'amante, ma l'avevano sconvolto: perché erano parole tedesche, e il loro suono aveva liberato qualcosa in lui, qualcosa di freddo e forte e quasi violento. Qualunque cosa fosse, lei l'aveva avvertita. E le era piaciuta. Era un luogo molto pericoloso in cui avventurarsi, Szara lo sentiva, ma vi si erano avventurati comunque. Più tardi, sorseggiando il tè, Szara si chiese quanto lei avesse capito di ciò che era successo. Era «l'eterno femminino», che accettava e assorbiva? Oppure era diventata per un attimo la sua compagna di decadenza, facendo la sua parte in una versione leggermente malvagia di un gioco d'amore? Szara non poteva chiederglielo. Lei sembrava felice, scherzava, agitava le dita dei piedi, soddisfatta di sé e del pomeriggio.
Poi si rivestì. E anche questo fu diverso. Divenne gradualmente una donna con un lavoro, una tipica berlinese: la Marta ingenua e vagamente bohémien che adorava i giornalisti russi era scomparsa. Reggicalze, calze di seta, una camicia fresca dal colletto tondeggiante, un completo di tweed color ruggine dalla gonna fino a metà polpaccio e un cappellino con la piuma, un perfetto travestimento rovinato all'ultimo momento quando gli rivolse un'espressione da monella, quello che lì chiamavano Schnauze, letteralmente muso, un modo di mandare al diavolo il mondo intero. Uscendo gli offrì una guancia fresca da baciare per non rovinare il rossetto e gli arruffò i capelli. Dopo che Marta se ne fu andata Szara si trattenne ancora un po', sorseggiando il tè, guardando fuori dalla finestra una nube di storni che scartava nel cielo piovoso. Il programma radio cambiò, passando apparentemente a Beethoven: a qualcosa di cupo e pensoso, in ogni caso. La città lo attirò nel proprio stato d'animo, e Szara trovò quasi impossibile resistervi; divenne autunnale e riflessivo, si fece domande che in realtà non avevano risposta. Marta Haecht, per esempio: era diventata così sofisticata grazie ad altri amanti? Ne era sicuro. "Chi?" si chiese. Secondo la sua esperienza, la risposta era sempre una sorpresa. Lui? Con una ragazza russa avrebbe saputo tutto. Ogni singolo pensiero segreto sarebbe stato sputato fuori, con un bel po' di lacrime per mandarlo giù e poi perdono, tenerezza e un sesso sfrenato e probabilmente ubriaco per rimettere tutto a posto. Polacchi e russi sapevano che i sentimenti nascosti rovinavano la vita; in ultima analisi, la vodka fungeva da semplice catalizzatore. Ma lei non era russa né polacca, era tedesca come quella maledetta musica dolente. La realtà gli si era fatta chiara mentre erano sul divano. "Cosa sta accadendo?" si era chiesto. Il conquistatore orientale che prende la principessa teutonica? Qualunque cosa fosse, non era un gioco. In preda all'agitazione, rimpiangendo che Marta fosse tornata al lavoro, Szara si rivestì aggirandosi per la stanza, fronteggiato dai folli dipinti di Ault. "Strana gente" pensò. "Fanno dell'angoscia una virtù." Ciò nonostante, cominciò a contare le ore che lo separavano dal prossimo incontro e cercò di scacciare la sensazione opprimente che sentiva crescere nel cuore. Forse era l'influenza del palazzo. Risaliva ai primi anni del secolo, e i suoi lunghi corridoi dalle piccole piastrelle ottagonali bianche e nere rimandavano l'eco di ogni singolo passo e vivevano in un eterno crepuscolo,
una luce grigiastra che penetrava dai pannelli di vetro smerigliato delle porte su cui campeggiavano numeri a caratteri gotici. Si chiamava Das Eisenbörse Haus, la casa del Mercato del ferro, ed era stato di sicuro il sogno di un costruttore. Per quanto ne sapeva Szara, non esisteva alcun Mercato del ferro. Ne era stata prevista la creazione, forse nelle vicinanze? In ogni caso, era stata eretta soltanto la sua appendice, sette piani di elaborata costruzione in mattoni con una scritta in corsivo dorato sul pannello di vetro sopra l'ingresso. L'ascensore doveva essere stato installato in seguito, si disse Szara. Era un palazzo enorme, un formicaio inteso a ospitare ogni sorta di commercio rispettabile. Ma il suo creatore aveva scelto il posto sbagliato. La Bischofstrasse si trovava dalla parte opposta del fiume Sprea rispetto alla parte migliore di Berlino, ed era servita dal ponte Kaiser Wilhelm, ai confini dell'antico quartiere ebraico. Si prevedeva forse di creare una zona commerciale da quelle parti? Il costruttore dell'edificio evidentemente lo pensava, erigendolo appena a ovest di Judenstrasse, di fronte al Neue Markt, fra la Pandawer e la Steinweg. Ma le cose non erano andate come aveva previsto. Il palazzo sorgeva maestoso fra abitazioni e squallidi negozietti, e la targa nell'atrio rivelava la realtà: maestri di piano, agenti teatrali, un investigatore privato, un club velistico e uno per cuori solitari, un'astrologa, un inventore e «Grommelink, dentiere a basso costo». Szara chiamò l'ascensore, che ansimò pesantemente fino all'ultimo piano. La porta scorrevole di metallo si aprì, e un lercio guanto bianco scostò lentamente il cancelletto. L'operatore era un uomo anziano dai capelli flosci con la scriminatura nel mezzo pettinati dietro le orecchie, una pelle delicata e quasi trasparente e un volto segnato dalla tragedia. Si chiamava Albert, a sentire Martha, che lo vedeva come un personaggio originale e divertente, il troll che dettava legge nel Castello del Pericolo, il suo custode del fossato. Szara, tuttavia, non ne fu divertito; quando salì sull'ascensore Albert lo fissò con torva e intensa antipatia, quindi arricciò rumorosamente il naso mentre richiudeva con violenza il cancelletto. "Sento puzza di ebreo" voleva dire. Sulla parete sopra la leva di controllo erano fissate due fotografie dai bordi accartocciati che ritraevano altrettanti giovani dall'aria seria nelle uniformi della Landwehr. Figli morti in guerra? Szara pensava di sì. Mentre l'ascensore scendeva sobbalzando di piano in piano, represse un brivido. Non avrebbe mai immaginato che Marta Haecht potesse vivere in un luogo simile.
D'altra parte, c'erano molte cose nuove riguardo a Marta. Aggirandosi per l'appartamento, Szara aveva trovato uno scaffale con altri dipinti di Ault, evidentemente indegni di essere esibiti. Spinto da una pigra curiosità, li aveva passati in rassegna ed era incappato in un nudo roseo che campeggiava pensieroso e quasi impacciato fra vortici deliranti di verdi e gialli. Qualcosa di familiare aveva stuzzicato il suo interesse, e subito dopo si era reso conto che conosceva la modella, che l'aveva vista in quella stessa posa. C'erano molte cose nuove, riguardo a Marta. L'ascensore si fermò. Albert aprì il cancelletto e la porta esterna. «Piano terra» disse in tono ruvido. «Ora se ne vada.» Di ritorno nella sua stanza all'Adlon, Szara tirò le grosse tende per non lasciar entrare la luce del crepuscolo, chiuse la porta a chiave e s'immerse nel suo cifrario. Usando l'orario ferroviario che gli aveva dato Goldman, una scoperta molto banale se fosse stato perquisito, convertì i suoi testi in gruppi numerici. Nel rapporto al Direttorato era stato estremamente prudente, e in realtà ingannevole: l'uomo distrutto di Grunewald, descritto per quello che era, avrebbe fatto scattare allarmi e scorrerie per tutta piazza Dzeržinskij. Il dottor Baumann non rispondeva ad alcun controllo, compreso il suo, e Szara poteva soltanto immaginare che cosa avrebbe ordinato il Direttorato se l'avesse scoperto, specialmente un Direttorato agli ordini di Deršani. Il rapporto descriveva un agente sottoposto a gravi tensioni ma efficiente. Ostinato, con motivazioni tutte sue, un uomo d'affari importante e di successo e quindi non certo qualcuno che si poteva tiranneggiare. Szara rafforzò l'inganno insinuando con delicatezza che il Direttorato avrebbe dovuto mitigare il proprio istinto per il controllo burocratico e capire di avere a che fare con un uomo per cui l'indipendenza, anche come ebreo in Germania, era un fatto istintivo e abituale. Baumann doveva credere di avere il controllo della situazione, suggerì Szara, e percepire l'apparat come se fosse al suo servizio. Ma se Baumann era solido, proseguì Szara, la situazione che lui stesso aveva trovato in Germania era estremamente instabile. Descrisse la telefonata della cugina costretta a tornare in Polonia, annotò l'esborso di fondi di emergenza e proseguì suggerendo che a Lontra venisse offerta una via d'uscita («se mai arrivasse il momento») e la sistemazione in un'altra città europea. In previsione di quel giorno, la Baumann avrebbe dovuto assumere un nuovo dipendente, designato dal responsabile dell'operazione, che
sarebbe rimasto segreto finché non fosse stato attivato. Szara concluse annunciando che si sarebbe trattenuto a Berlino almeno altri sette giorni e richiedendo un appoggio operativo per l'organizzazione di un secondo incontro. Raggruppò i suoi numeri, eseguì le false addizioni e per sicurezza confrontò una seconda volta le lettere con l'orario ferroviario. Le trasmissioni difettose facevano infuriare Mosca ("Che cos'è un turbo? E perché chiede un armento?"), e se Szara voleva che la sua analisi venisse accettata, aveva urgente bisogno di fiducia. Percorse il mezzo isolato che lo separava dall'ambasciata, un luogo che in quanto giornalista ci si poteva aspettare che visitasse, trovò il suo contatto, un sottosegretario di nome Varin, e consegnò il cablogramma. Poi scomparve nella sera berlinese. Aveva compagnia, a quanto sembrava. Niente di grave. Nulla che non fosse in grado di risolvere da solo. Parola di Goldman: «Ci sono due situazioni di cui se fossi nei suoi panni mi preoccuperei: la prima è se si scopre sorvegliato su tutti i lati, magari con una gabbia mobile (un uomo davanti a lei, uno dietro, due a ore tre e ore nove) e se quando imbocca un vicolo l'intero apparato si muove con lei. O magari ci sono uomini a bordo di auto parcheggiate in una strada deserta, o donne davanti ai portoni delle case. In tutti questi casi, non hanno intenzione di perderla di vista un istante. O vogliono a tutti i costi sapere chi è e cosa sta facendo, oppure stanno cercando di spaventarla per vedere la sua reazione. Lei dovrà interrompere il pedinamento, ovviamente. Rientri in albergo e usi il suo contatto telefonico, il numero 4088. Non avrà risposta, ma uno squillo sarà sufficiente. «Oppure dovrebbe preoccuparsi se non vede alcun segno di sorveglianza. Un giornalista sovietico a Berlino deve, deve offrire qualche motivo di interesse al controspionaggio. La situazione normale sarebbe una sorveglianza periodica, uno o due uomini, probabilmente investigatori che avranno l'aspetto di quello che sono. La seguiranno a una distanza media. L'ideale sarebbe non dimostrare un'eccessiva abilità: se è troppo abile, stuzzicherà la loro curiosità. Se non riesce a sbarazzarsene con una manovra o due di quelle semplici, ci rinunci e ci riprovi più tardi. Il metodo normale dei tedeschi sarebbe pedinarla di sera e lasciarla in pace durante il giorno. Ma se invece è il Sahara, faccia attenzione. Potrebbe significare che stanno facendo sul serio, che le hanno messo alle costole qualcuno di
veramente bravo, e che lui, o lei, se è per questo, la surclassa in abilità. In questo caso si rivolga al sottosegretario dell'ambasciata e le verremo in aiuto.» Molto bene: stavolta il genietto di Bruxelles sapeva di cosa parlava. Passeggiando, Szara si accese una sigaretta in Kanonierstrasse, fermandosi di fronte alla vasta, cupa facciata della Deutsche Bank; poi, "straniero nella vostra città", si guardò intorno come se fosse leggermente smarrito. L'altro uomo che si accendeva una sigaretta, una quarantina di metri alle sue spalle, visibile soltanto come un cappello e un soprabito, era la sua compagnia. Non era una buona serata per avere compagnia. Con un rotolo di diecimila Reichsmark in tasca, Szara era diretto verso il teatro Reichshallen per incontrare Nadia Tščerova, attrice, rifugiata politica, «Corvo» nonché responsabile dell'omonima rete. La Tščerova sarebbe stata a sua disposizione dietro le quinte (non del grandioso Reichshallen, bensì di un teatrino di repertorio in uno stretto vicolo chiamato passaggio Rosenhain) dopo le 22.40. Szara non volle affrettarsi, vagando per qualche minuto e aspettando di giungere in Kraussenstrasse prima di verificare che lo stavano pedinando. Se quella sera non fosse riuscito a rispettare il Treff, la Tščerova sarebbe stata disponibile per le tre sere successive. Gestita con mano ferma dalla Schau-Wehrli, Corvo era nota per essere obbediente, e così Szara si rilassò godendosi gli angoli interessanti della città, un uomo privo di una destinazione particolare e con tutto il tempo che voleva per arrivarci. La Tščerova lo incuriosiva. La Schau-Wehrli la trattava con squisito disprezzo svizzero, chiamandola stukach, informatrice, il grado più infimo di agente sovietico che si limitava a fornire informazioni in cambio di denaro. Goldman aveva un'opinione diversa. Aveva usato il termine vliyaniya, compagna di viaggio. Era una parola tradizionalmente riservata agli agenti con una certa influenza, spesso volontari che credevano nel sogno sovietico: accademici, impiegati statali, artisti di ogni risma e di quando in quando un uomo d'affari progressista. Szara supponeva che la Tščerova fosse una vliyaniya nel senso che frequentava i livelli più alti della società nazista; ciò nonostante veniva pagata, così come Brozin e sua sorella Brozina e il maestro di danza classica ceco Anton Krafic, il resto della rete Corvo. Per quanto riguardava gli agenti di livello più alto, i proniknoveniya (specialisti dell'infiltrazione che agivano sotto un controllo diretto e praticamente militare), Szara non aveva il permesso di avvicinarli, malgrado sospettasse che il gruppo Moca della Schau-Wehrli appartenesse a quella categoria, e sebbene si dicesse che Goldman gestiva personalmente un
agente infiltrato nel cuore stesso della Gestapo. Naturalmente il sistema variava a seconda del punto di vista nazionale. Per i francesi, gli agenti di livello più basso si chiamavano dupeurs, ingannatori, e si occupavano più che altro delle istituzioni militari dei diversi paesi. I moutons, le pecore, gestivano lo spionaggio industriale, mentre i baladeurs, i suonatori ambulanti, lavoravano come indipendenti. Il corrispondente francese del proniknoveniya, l'agente infiltrato ai piani alti e strettamente controllato, si chiamava agent fixe, mentre il trafiquant gestiva come la Tščerova una rete di subagenti. Szara si fermò all'angolo di Kraussenstrasse, controllò i cartelli stradali e attraversò di buona lena l'incrocio, senza correre ma in modo che due Daimler lanciate a gran velocità sfrecciassero appena dietro di lui. Una rapida occhiata nella vetrina di un tabaccaio rivelò il suo accompagnatore che scrutava ansioso dal marciapiede opposto e poi attraversava la strada. Szara accelerò leggermente il passo, salì gli scalini dell'Hotel Kempinski, attraversò l'atrio elegante e si sedette a un tavolo del bar. Quella era la Berlino sofisticata; superfici lucide nere e bianche con rilievi cromati, palme, un uomo in smoking bianco che suonava canzoni romantiche a un pianoforte bianco, un pugno di persone ben vestite e il ronzio tranquillizzante e melodico delle conversazioni. Szara ordinò uno Schnaps, si rilassò in una poltrona di pelle e concentrò la sua attenzione su una donna seduta da sola a un tavolo vicino. Era una donna senza età, attraente, intenta a badare ai fatti suoi: nella fattispecie, un drink con una ciliegina appesa su un bordo del bicchiere alto. Dieci minuti dopo, Szara aveva di nuovo compagnia. Un tipo sudato, preoccupato, con una faccia di luna piena; un investigatore sovraccarico di lavoro che si era evidentemente sistemato in poltrona nell'atrio ma poi si era impensierito per la lontananza del suo sorvegliato. Si fermò al banco, ordinò una birra e contò le monete per pagarla. Szara ne provò compassione. Nel frattempo, la donna che aveva prescelto faceva costanti progressi con il suo drink. Szara le si avvicinò e, dando la schiena all'investigatore, si sporse su di lei e le chiese l'ora. Lei rispose educatamente che non lo sapeva, ma che pensava fossero quasi le dieci. Szara rise, drizzò la schiena, fece per girarsi verso il suo tavolo, ci ripensò, controllò il suo orologio, disse sottovoce qualcosa come: «Temo che il mio orologio si sia fermato» fece un sorriso complice e tornò alla sua poltrona. Quindici minuti dopo, la donna se ne andò. Szara controllò l'ora, le concesse cinque minuti perché
arrivasse a destinazione, poi gettò una banconota sul tavolo e si allontanò. Giunto nell'atrio, salì su un ascensore appena prima che la porta si richiudesse e chiese di andare al quarto piano. Percorse il corridoio con passo deciso, udì la porta dell'ascensore che si chiudeva dietro di lui, trovò le scale e tornò al pianterreno. L'investigatore era seduto in poltrona e teneva d'occhio l'ascensore come un falco, in attesa che Szara facesse ritorno dal suo intrallazzo. Szara uscì da una porta laterale dell'albergo, si sincerò di non avere altra compagnia e poi fermò un taxi. Il passaggio Rosenhain era medievale, un vicolo tortuoso con un fondo di pietre incrinate. Edifici di legno e muratura dallo stucco ingrigito dagli anni si ergevano inclinati all'indietro, e un freddo odore di acque di scarico aleggiava nell'aria stantia. Che cosa era successo in quel luogo? Si udiva lo sgocciolio delle tubature rotte, tutte le imposte erano chiuse e la stradina era inerte, senza vita. Non c'era anima viva. Nel mezzo di tutto ciò si ergeva il teatro Das Schmuckkästchen, il Portagioie, come se una commissione culturale cittadina avesse ricevuto l'ordine di «fare qualcosa per il passaggio Rosenhain» e quella fosse la loro soluzione, un modo di ravvivare il paesaggio. Una locandina scritta a mano penzolava dal manico di una vecchia tromba da corriera, annunciando la messinscena del Dilemma del capitano di Hans-Peter Mütchler. A metà di un vicolo accanto al teatro, una porta era tenuta aperta da un ferro da stiro. Szara lo allontanò con il piede e lasciò che la porta si chiudesse e la serratura scattasse. Al di là di un tendone poteva udire le battute dello spettacolo, un uomo e una donna che si scambiavano insulti domestici nello stile declamatorio riservato ai drammi storici: "Ascoltate attentamente, quest'opera è stata scritta molto tempo fa". Gli insulti avrebbero dovuto essere divertenti, lo rivelava l'impostazione delle voci, e qualcuno fra il pubblico fece una risata, ma Szara poteva avvertire un disagio quasi palpabile (i movimenti, i colpi di tosse, i sospiri repressi) di una platea sottoposta a una serata stupida e noiosa. Come aveva promesso Goldman, l'ingresso era deserto. Szara aguzzò la vista nel buio, trovò una serie di porte e bussò leggermente alla C. «Sì? Avanti.» Si ritrovò in un minuscolo camerino: specchi, costumi, disordine. Una donna con un libro in mano, un indice a segnare la pagina, si era drizzata a sedere su una chaise longue, il volto teso e ansioso. Goldman gli aveva mostrato una fotografia. Un'attrice. Ma la realtà lo costrinse a fissarla. For-
se era Berlino, il peso grottesco di quel luogo, la sua aria pesante, la sua gente corpulenta, la densità brutale della sua vita, ma quella donna gli sembrava quasi trasparente, come se avesse potuto fluttuare via da un momento all'altro. La Tščerova inclinò la testa su una spalla e lo esaminò con occhio clinico. «Lei è diverso» disse in russo. La sua voce era rauca, e in quelle due sole parole Szara poté udire il disprezzo. «Diverso?» «Di solito mi mandano una specie di cinghiale peloso.» Era alta e magra, e si era arrotolata le maniche di un maglione pesante rivelando due polsi delicati. I suoi occhi erano enormi, di un azzurro così chiaro e fragile che gli ricordavano quelli di una cieca, e i suoi capelli lunghi e sciolti avevano il colore di un guscio di mandorla. Erano capelli sottilissimi, di quelli che si muovevano al minimo gesto. Aveva bevuto; Szara sentiva odore di vino. «Si sieda» soggiunse in tono sommesso, cambiando atteggiamento. Szara prese posto in una poltrona simile a un trono, chiaramente un arredo di scena. «Recita anche lei?» La Tščerova indossava pantaloni e scarpe con la cinghia dal tacco basso, abbigliamento che non si intonava alle escandescenze provenienti dal palco. «Per stasera ho finito.» La sua voce suggerì le virgolette quando aggiunse: «Beatrice, una domestica». Scrollò le spalle, uno sdegnoso gesto russo. «È colpa del mio pessimo tedesco. A volte faccio la parte della straniera, ma più che altro sono la cameriera. In costume. Piacciono a tutti, i costumi da domestica. Quando mi piego, mi si può quasi vedere il sedere. Quasi.» «Che testo è?» «Come, non conosce Il dilemma del capitano? Credevo che lo conoscessero tutti.» «No. Spiacente.» «Mütchler va bene per i gusti correnti, vale a dire i gusti di Goebbels. Si dice che lui lo consideri eccellente. Il capitano torna a casa dieci anni dopo un naufragio; trova la moglie che vive al di sopra dei propri mezzi, schiava delle mode, perseguitata da leccapiedi e usurai. Lui, dal canto suo, è un tipico Volk: gagliardo, schietto, onesto, un uomo semplice di Rostock con i piaceri di un uomo semplice. Piaceri semplici, capisce: lo dipingiamo come una testa di rapa. E così abbiamo un conflitto, e una specie di commedia da salotto, con ogni sorta di parti comiche: gli ipocriti, i damerini, gli ebrei untuosi.» «E il dilemma?»
«Il dilemma è come mai il commediografo non sia stato strangolato alla nascita.» Szara rise. «E lei cos'è? Uno scrittore? A parte l'altra cosa, intendo dire.» «Come fa a sapere che sono l'altra cosa?» «Tempi duri per Nadia, se non lo è.» «E perché uno scrittore?» «Oh, conosco gli scrittori. Li ho in famiglia, o li avevo. Vuole del vino? Faccia attenzione, è un esame.» «Solo un goccio.» «Bocciato.» La Tščerova tese la mano dietro un séparé, versò il vino in un bicchiere per l'acqua, lo porse a Szara e poi riprese il suo, nascosto dietro una gamba della chaise longue. «Naždrov'ya.» «Naždrov'ya.» «Che schifo.» Arricciò il naso guardando il bicchiere. «Alla sua graziosa nipotina, che senza dubbio muore dalla voglia di fare l'attrice, dica che si basa tutto sulla tolleranza del peggior vino bianco.» «Lei è di Mosca?» domandò Szara. «No, Piter, San Pietroburgo. Mi perdoni, volevo dire Leningrado. Una vecchia, vecchissima famiglia. Tščerova è il mio nome da sposata.» «E Tščherov? È a Berlino?» «Pfft» fece lei, alzando gli occhi al cielo e facendo scattare quattro dita da sotto il pollice per proiettare in paradiso l'anima di Tščherov. «Novembre 1917.» «Tempi difficili» disse Szara a mo' di condoglianze. «Un menscevico, un brav'uomo. Mi sposò quando avevo sedici anni, e io gli feci passare le pene dell'inferno. Anche negli ultimi otto mesi della sua vita. Povero Tščherov.» Le brillarono gli occhi per un istante, e distolse lo sguardo. «Se non altro è sopravvissuta.» «Ce l'abbiamo fatta tutti. La mia è una famiglia di aristocratici e artisti, tutti matti come cavalli. La rivoluzione era quello che faceva al caso nostro. Ho un fratello che lavora nel suo settore. O forse dovrei dire avevo. È scomparso. Saša.» Rise al suo ricordo, una risatina roca, poi si portò le dita alla bocca come se avesse emesso un verso da ubriaca e ne fosse imbarazzata. «Chiedo scusa. Il colonnello Aleksandr Vonets, lo conosceva?» «No.» «Peccato. Un bastardo affascinante. Ah, gli eleganti Vonets... ma guardi
un po' come si sono ridotti. Miserabili stukachi che trafficano in sporchi segreti nazisti. "Oh, mio caro generale, quant'è affascinante!"» Ridacchiò della sua stessa esibizione, poi si sporse verso Szara. «Ha presente cosa dicono a Parigi, che una donna che partecipa a una soirée ha bisogno di due sole parole per fare la figura della conversatrice elegante? Formidable e fantastique. Be', qui è lo stesso. Li guardi dal basso verso l'alto. Se sono dei nanerottoli ti devi sedere, ma gli occhi devono essere sollevati verso di loro. Loro parlano e parlano, e tu dici, naturalmente in tedesco, formidable dopo una frase e fantastique dopo l'altra. "Che donna brillante", commentano loro a fine serata.» «Sicché non sono altro che conversazioni» disse Szara. La Tščerova lo studiò per un istante. «Lei è un gran maleducato» disse. «Mi perdoni. È soltanto curiosità. Quello che fa non mi interessa.» «Be', sono sicura che lo saprà, ma questa non è stata una mia idea.» «No?» «Per niente. Quando hanno scoperto che ero fuggita dalla Russia e mi trovavo a Berlino, hanno mandato certi individui, non come lei.» Scrollò le spalle rievocando il momento. «Fra la morte e i soldi, ho scelto i soldi.» Szara annuì comprensivo. «Frequentiamo... le feste, io e la mia piccola compagnia. Feste di un certo tipo, capisce. Siamo considerati un gran divertimento. La gente beve, perde le inibizioni. Vuole sentire il resto?» «Naturalmente no.» La Tščerova sorrise. «Non è tremendo come pensa. Io evito il peggio, ma i miei colleghi, be'... Non che io sia innocente, badi bene. Alcuni di loro li ho conosciuti meglio di quanto avrei dovuto.» Fece una pausa. Lo guardò con espressione critica chiudendo un occhio. «Lei dev'essere per forza uno scrittore: è così serio. Ogni cosa ha un significato, ma per noi... A teatro, capisce, siamo come bambini cattivi, come fratelli e sorelle che giocano dietro il capanno. E così queste cose non significano molto, è un modo per scordare te stesso, tutto qui. Una sera sei questa persona, la sera dopo sei quella e così a volte non sei nessuno. Questa professione... deforma il cuore. Forse. Non lo so.» Per un istante sembrò smarrita, seduta sul bordo della chaise, tutto il peso sui gomiti piantati sulle ginocchia, il bicchiere stretto fra le mani. «Per quanto concerne i nazisti, in realtà se ci pensa somigliano più a maiali che a esseri umani. Gli uomini, e anche le donne, sono proprio come maiali, squittiscono addirittura come loro. Non è un insulto, lo intendo in senso
letterale. Non sto pensando al loro "Schweine", ma ai maiali veri e propri: rosei, grassi, alquanto intelligenti se li conosci, di sicuro più intelligenti dei cani, ma molto inclini all'appetito, da questo punto di vista il senso comune non sbaglia. Vogliono quello che vogliono, e in grandi quantità, e immediatamente, e quando lo ottengono sono felici. Beati.» «Mi sembrava che avesse detto che l'uomo che veniva a trovarla era simile a un cinghiale.» «Ho detto così, vero? Ma sono sicura che c'è una differenza. Per vederla, tuttavia, lei dovrà essere molto più intelligente di me.» Dal palcoscenico provenivano i toni squillanti di un monologo, una sorta di rabbia trionfale venata di rovente rettitudine. Poi una pausa, seguita da un applauso discontinuo e dal cigolio del meccanismo non oliato del sipario. Quest'ultimo lasciò il posto a una serie di passi pesanti in corridoio, a un'aspra voce maschile che imprecava («Scheiss!») e al botto enfatico di una porta sbattuta. «Ecco» disse la Tščerova in tedesco «questo è il capitano. Un semplice Volk.» Szara infilò le mani in tasca e ne estrasse i grossi rotoli di denaro. Lei annuì, li prese, si alzò e li infilò nelle tasche di un lungo cappotto di lana appeso a un piolo. Szara immaginava che a quel punto la loro conversazione fosse perfettamente udibile dal camerino del «capitano». «Abbia cura della sua... salute. Spero proprio che lo farà.» «Oh, sì.» Si alzò per andarsene; nell'angusto stanzino erano leggermente più vicini di quanto normalmente sarebbero stati due estranei. «È meglio» soggiunse a voce bassa «non scoprire come potrebbe andare. Giusto?» La Tščerova fece un sorriso malizioso, divertita dal fatto che la loro vicinanza lo mettesse a disagio. «Lei è diverso, sa. E non deve preoccuparsi troppo.» La sua mano sfiorò la cintura dei pantaloni e sollevò una minuscola fialetta di liquido giallo. Il suo sopracciglio s'inarcò: "Ha visto come sono furba?". «Fine della storia» disse. «Sipario.» Nascose la fialetta dietro la schiena, come se non esistesse. Si piegò verso di lui, lo baciò lievemente sulla bocca, un contatto caldo e brevissimo, gli accostò le labbra all'orecchio e gli sussurrò addio in russo. Szara si allontanò dal teatro verso est, nella direzione opposta a quella dell'Adlon, seguendo inconsciamente le istruzioni. Fermato dal canale di
Neu-Kolln, deviò verso sud fino al ponte di Gertraudten, si accese una sigaretta e osservò le scorze d'arancia e i pezzi di legno che scivolavano sulle acque nere. Il freddo era aumentato, e i lampioni creavano pallidi aloni nella nebbia che si levava dal canale. Il Direttorato non conosceva mai di persona i suoi agenti, e adesso Szara ne capiva la ragione. Non riusciva a togliersi dalla testa la vulnerabilità della Tščerova. In trappola fra la Gestapo e il NKVD, fra la Germania e la Russia, viveva grazie alla sua intelligenza, al suo aspetto, alla sua conversazione brillante. Ma prima o poi, forse presto, sarebbe stata costretta a bere il liquido giallo, e il pensiero che tanta vitalità, che tutte le tempeste emotive che le spazzavano il cuore si riducessero a un mucchietto informe in un angolo lo tormentava. Era possibile che una donna fosse troppo bella per morire? Mosca non avrebbe gradito la sua risposta a un quesito simile. Si era vagamente innamorato di lei? E allora? Le sue frivolezze, il modo in cui se l'era lavorato con gli occhi avevano lo scopo di sedurlo? Szara ne era sicuro. E cosa poteva esserci di male? Quella donna avrebbe dovuto bere il liquido perché gli agenti non sopravvivevano. Il risultato delle elaborate difese, della segretezza, dei codici, dei metodi clandestini era soltanto un po' di tempo strappato a un destino noto. Le cose andavano male. Alla fine, le cose andavano sempre male. Il mondo era imprevedibile, illogico, volubile, in ultima analisi un manicomio di eventi bizzarri. Gli agenti venivano presi. Quasi sempre. E tu li rimpiazzavi. Era quello che l'apparat si aspettava da te: che riorganizzassi il caos, che riparassi il danno e così via. Sotto certi aspetti Szara lo accettava, ma quando nell'equazione entrava una donna, non ce la faceva. Il suo bisogno era di proteggere le donne, non di sacrificarle, e non poteva né voleva cambiare. Era molto semplice: l'antico istinto di pararsi fra la donna e il pericolo fiaccava la sua volontà di dirigere le operazioni come dovevano essere dirette e lo rendeva un pessimo agente segreto. E la cosa peggiore era che il liquido giallo non faceva parte di un corredo spionistico: il NKVD non credeva in certe cose. No, la Tščerova se l'era procurato da sola, perché conosceva tanto quanto lui il destino degli agenti, e voleva farla finita quando fosse giunto il momento. L'idea stessa gli dava la nausea, il mondo non poteva andare avanti così. Ma alla fine di Bruderstrasse, dove Szara svoltò verso nord, avevano preso un ebreo: un branco di Hiderjugend ubriachi, adolescenti con le loro uniformi eleganti che costringevano un poveraccio a quattro zampe a bere l'acqua nera di un canale di scolo, gridando e ridendo e cantando e diver-
tendosi un mondo. Szara scomparve in un androne. Per un attimo temette di aver avuto un colpo apoplettico: la vista gli si annebbiò e una forza terribile gli colpì le tempie come un pugno. Si appoggiò al muro per riprendere l'equilibrio e capì che non era stato un colpo ma un accesso di rabbia, e si sforzò di reprimerla. Per un istante credette di impazzire, chiudendo gli occhi per combattere contro il sangue pulsante e implorando Dio che gli desse una mitragliatrice, una bomba a mano, una pistola, un'arma qualsiasi, ma la sua preghiera non venne esaudita. Più tardi scoprì di essersi scheggiato un incisivo. A mezzanotte passata, dopo essersi allontanato nel buio, mentre percorreva le strade deserte verso il suo albergo tracciò l'inevitabile collegamento: la Tščerova, grazie a ciò che faceva, poteva aiutarlo a distruggere quella gente, quei giovani con il loro giocattolo ebreo. Poteva indebolirli in modi che loro non riuscivano a capire, era più di una mitragliatrice o di una pistola, un'arma ben più micidiale di quelle che lui avrebbe potuto sperare di impugnare. La consapevolezza lo straziava, unendosi a ciò che aveva visto, e il suo volto era rigato di lacrime che dovette asciugarsi con la manica dell'impermeabile. Il pomeriggio seguente raccontò quello che aveva visto a Marta Haecht. Lei tese istintivamente la mano verso di lui, ma quando lo toccò lui non fece altro che permetterglielo, non volendo respingere un gesto d'amore ma nemmeno esserne consolato. Era un dolore che intendeva tenersi stretto. Per mantenere la sua copertura, doveva scrivere qualcosa. «Niente di politico» l'aveva messo in guardia Goldman. «Lasci che sia la Tass a occuparsi degli sviluppi diplomatici; lei si trovi qualcosa di superfluo, un riempitivo. Faccia finta che un ambizioso caporedattore si sia messo in testa che il punto di vista della "Pravda" sulla Germania ha bisogno del tocco di Szara. Malgrado il cattivo sangue e l'ostilità politica, la vita continua. Un brutto incarico, ma lei fa buon viso a cattivo gioco; è questo che vuole far credere all'ufficio stampa del Reich, una punta del loro squisito disprezzo teutonico è esattamente ciò che ci vuole. Per il momento, li lasci sogghignare.» A metà mattinata, nella sala da pranzo dell'Adlon, Szara si mise alla mercé di Vainštok. Il piccoletto si fece scorrere le dita fra i capelli e studiò la lista di possibili articoli. «Uno Szara che ha bisogno dell'aiuto di un
Vainštok?» disse. «Sapevo che il mondo stava finendo sottosopra, che stava arrivando Armageddon, ma questo!» «Che cos'hai?» chiese Szara. Attirò l'attenzione di un cameriere di passaggio: «Una Linzer Torte per il mio amico, con molta Schlagsahne». Vainštok inarcò le sopracciglia. «Sei nei guai, questo l'ho capito. La mia mamma me lo diceva sempre: "Figlio caro, quando mettono la panna montata sulla Linzer Torte, fa' attenzione". Di che si tratta, André Aronovič? Alla fine sei caduto in disgrazia? Una ragazza che ti sta dando dei problemi? Stai invecchiando?» «Non riesco a sopportare Berlino, Vainštok. Non riesco a riflettere, in questo posto.» «Oh, non sopporta Berlino. L'anno scorso mi hanno mandato nel Madagascar. Ho mangiato, credo davvero di aver mangiato una lucertola. Non hai sentito le stoviglie che andavano in frantumi, ovunque ti trovassi? Undici generazioni di rabbini Vainštok si stavano scatenando in paradiso, rompendo i piatti kosher di Dio: "Gott in Himmel! Il piccolo Asher Moisevič sta mangiando una lucertola!". Ah, ecco qui, che ne dici delle condizioni meteorologiche?» «Che dovrei dirne?» «Sono una notizia quotidiana.» «E...?» «Be', non fa né particolarmente freddo né particolarmente caldo. Ma è molto probabile che una notizia simile non faccia insorgere i ministri del Reich. D'altro canto, potrebbe anche farlo. "Che intendete dire con normale? Il tempo tedesco è pulito e puro, come nessun altro tempo!"» Szara sospirò. Non aveva la forza di combattere. «E va bene, va bene» soggiunse Vainštok mentre arrivava il suo dolce immerso nella panna. «Mi farai scoppiare a piangere. Prenditi Frau Kummel, su a Lubecca. A dire il vero la chiamano Mutter Kummel, madre Kummel. È un pezzo che sei in grado di scrivere, e potrai passare la giornata fuori da Berlino.» «Mutter Kummel?» «Ti trascrivo l'indirizzo. Ieri ha compiuto cent'anni. Nata il 1° novembre del 1838. Immagina le cose eccitanti che ha visto. Nel 1838, lo SchleswigHolstein apparteneva ancora ai danesi, e Lubecca faceva parte dello stato indipendente del Meclemburgo. La Germania... ovviamente dovrai dire "la Germania come la conosciamo ora"... non esisteva. C'è da invidiarti, Szara. Che periodo eccitante, e Mutter Kummel l'ha vissuto dal primo all'ultimo
minuto.» Szara prese il treno del pomeriggio, un cupo viaggio attraverso la pianura di Lüneburg, terreni paludosi dove folate di vento appiattivano le canne sotto un cielo freddo e grigio. Evitò Amburgo prendendo la linea che attraversava Schwerin, e alle porte di un villaggio vicino al mare vide un cartello stradale prima di una curva a gomito: «Attenzione! Curva a gomito! Ebrei 120 km orari!». Mutter Kummel viveva con la figlia ottantunenne in una pacchiana casetta nel centro di Lubecca. «Un altro giornalista, cara mamma» annunciò la figlia quando Szara bussò alla porta. La casa odorava di aceto, e il caldo che vi regnava lo faceva sudare mentre prendeva appunti sul suo taccuino. Mutter Kummel ricordava molte cose di Lubecca: dove si trovava la vecchia macelleria, il giorno in cui la corda si era spezzata e la campana della chiesa era precipitata a terra e rotolando aveva sfondato la porta del campanile e spiaccicato il diacono. Szara riusciva a malapena a immaginare che cosa se ne sarebbe fatto Neženko di tutto ciò, per non parlare di un minatore del Donbass, che avrebbe usato il giornale per avvolgervi la sua patata per il pranzo. Ma si impegnò e svolse il lavoro come meglio poteva. Verso la fine dell'intervista la vecchia si sporse in avanti, il volto placido incoronato da una cipolla di capelli bianchi, e gli disse che die Juden erano scomparsi da Lubecca: un altro cambiamento a cui aveva assistito nel corso dei molti anni passati in città. Gente educata quando la si incontrava per strada, doveva ammetterlo, ma non le dispiaceva che se ne fossero andati. «Quegli ebrei» confidò «per troppo tempo hanno rubato le nostre anime.» L'espressione di Szara doveva essere stata interrogativa. «Oh, sì, giovanotto. È quello che facevano, e qui a Lubecca lo sapevamo bene» soggiunse in tono furtivo. Per un attimo Szara provò la tentazione di chiederle spiegazioni sul meccanismo di una simile impresa, poiché aveva la sensazione che lei ci avesse ragionato: come venisse realizzata, dove gli ebrei nascondessero le anime rubate e che cosa ci facessero. Ma non lo fece. Ringraziò le signore e riprese il treno verso Berlino e una serata con Marta Haecht, prospettiva che l'aveva mantenuto più o meno sano di mente per un altro giorno. In seguito avrebbe avuto ragione di ricordare quel pomeriggio. In seguito, quando tutto era ormai cambiato, si sarebbe domandato che cosa sarebbe potuto succedere se avesse perso il treno per Berlino, se avesse dovuto trascorrere la notte a Lubecca. Ma nel profondo lo sapeva, sape-
va che avrebbe trovato il modo di passare quella sera con Marta Haecht. Si considerava uno studioso del destino, forse addirittura un connoisseur (odiosa parola) dei suoi trucchi e delle sue svolte: di come cacciava, di come si nutriva. Si sarebbe rivisto sul treno per Berlino, un uomo che si era fatto strada attraverso un pomeriggio senza vita accumulando pensieri sulla sera. E sebbene i marroni e i grigi di quel novembre tedesco scorressero oltre il finestrino del treno, lui non era lì a vederli; era perso nella pregustazione, perso nella cupidigia dell'amante. In realtà, si sarebbe chiesto, che cosa non desiderava? Di sicuro desiderava lei, la desiderava alla maniera di un romanzo vittoriano conservato nel cassetto di un comodino: che magnifiche fantasie si era creato su quel treno! Ma non era tutto lì. Voleva affetto, gentilezza, conforto. Voleva trascorrere la notte con la sua innamorata. Voleva giocare. Il gioco delle tentazioni e delle rese, dei no e dei sì. E poi voleva parlare, parlare nel buio in cui poteva dire ciò che voleva, e dormire abbracciato e intrecciato a lei in un letto caldo. Voleva addirittura la colazione. Qualcosa di delizioso. E quello che voleva, lo ottenne. In un modo diabolico, il destino soddisfò ogni suo desiderio. Ma vi aggiunse qualcosa, qualcosa che lui non si aspettava, sepolto nel bel mezzo dei suoi piaceri dove sarebbe stato sicuro di trovarlo. Di sera, il palazzo del Mercato del ferro era ancora più strano: i lunghi corridoi piastrellati immersi nella penombra, i vetri smerigliati delle porte opachi e reticenti, il silenzio rotto soltanto da una penosa lezione di pianoforte al piano inferiore e dall'eco dei passi di Szara. Ma alla luce fioca lo studio del pittore Benno Ault era piacevolmente addolcito. Le grida e i tormenti appesi al muro si stemperavano in sospiri, e Marta Haecht apparve al centro della scena indossando la corta vestaglietta di seta e un profumo parigino, scivolò con grazia fra le sue braccia e gli diede ogni motivo di credere che i suoi pensieri ferroviari non fossero stati soltanto futili fantasie. Vissero il loro romanzo vittoriano, a livello emotivo se non formale, e si ritrovarono distesi sul divano, momentaneamente storditi. Poi Marta spense la lampada e per un po' rimasero al buio, appiccicosi, doloranti, assolutamente compiaciuti e legati da profonda amicizia. «Cos'era quello che hai detto?» domandò lei in tono ozioso. «Era russo?» «Sì.»
«Non ne ero sicura, mi era sembrato polacco.» «No, russo. Decisamente russo.» «Era una cosa dolce?» «No, una cosa rude. Molto comune. Un ordine.» «Ah, un ordine. E io ho obbedito?» Stava sorridendo nel buio. «Sì. In qualche modo hai capito.» «E a te è piaciuto.» «Non te ne sei accorta?» «Sì. Naturalmente.» Rifletté per qualche istante. «Siamo così diversi» disse quindi. «In realtà no.» «Non dirlo. Una simile differenza per me è un... un piacere.» «Oh. Come il giorno e la notte, allora.» Gli posò una mano sul petto. «Smettila» disse. Rimasero immobili per qualche minuto. Szara alzò gli occhi sulla grande finestra illuminata dal pallido cielo notturno della città. Qualche fiocco di neve si posava sul vetro e si scioglieva. «Nevica» disse. Marta si voltò parzialmente a guardare. «È un segno» disse. «Intendi una replica della sera in cui ci siamo conosciuti.» «Proprio così. Ti vedo ancora mentre chiacchieri del più e del meno nella cucina del dottor Baumann. Non mi avevi nemmeno notata. Ma io sapevo già cosa sarebbe successo.» «Davvero?» Annuì. «Sapevo che mi avresti portata da qualche parte, un albergo, una stanza. "Un uomo come te può sempre avere una donna come me" ho pensato. Quel pensiero mi ha colpita, ero così sorpresa da me stessa. Perché ero una "brava ragazza". C'erano sempre stati ragazzi che mi volevano, all'università e così via, ma ero una tale Mädchen che li rifiutavo. Arrossivo e li allontanavo: erano così seri! E all'improvviso... queste cose succedono sempre quando meno te le aspetti... i Baumann, i noiosi vecchi Baumann, mi invitano a casa loro.» Rise. «E io non ci volevo andare. È stato mio padre a costringermi.» «Ma avevi detto che sapevi chi ero, che volevi conoscermi.» «Lo so. Ho mentito. Volevo compiacerti.» «Ach!» Szara si finse offeso. «Ma no, dovresti essere lusingato da una simile bugia, perché nell'istante in cui ti ho visto ho desiderato tutto, che tu mi facessi fare di tutto. La tua camicia scura, i tuoi capelli scuri, il modo in cui mi guardavi dentro, era
tutto così... russo. Non riesco a descriverlo. C'era qualcosa, in te, di non educato come nei tedeschi, ma forte, intenso.» Gli lisciò i capelli sopra l'orecchio; il gesto sembrò durare a lungo, e lui poté avvertire il tepore della sua mano. «Non è quello che i tedeschi pensano sempre dei russi, quando non li odiano?» «È vero. Alcuni odiano, e sono odiosi. Ma per il resto di noi è una cosa complicata. Siamo chiusi in noi stessi, quasi imbarazzati di essere al mondo. È la nostra cultura, credo, e vediamo i russi, gli ebrei, gli slavi, tutte le popolazioni dell'Est, come gente passionale e romantica, esplicita nell'esprimere i propri sentimenti, e nel profondo dei nostri cuori ne proviamo invidia perché avvertiamo che loro sentono, mentre noi non facciamo che pensare, pensare, pensare.» «E il dottor Baumann? Passionale e romantico?» «Oh, non lui.» L'idea la fece ridere. «Ma è un ebreo.» «Naturalmente. Ma qui in Germania somigliano più a noi che a chiunque altro, sono tutti chiusi e freddi, impacciati. È proprio questo il problema della Germania: gli ebrei sono diventati tedeschi, si considerano tedeschi, allo stesso livello degli altri, e ci sono molti tedeschi che lo trovano presuntuoso. Che non lo gradiscono. Poi, dopo la rivoluzione del 1917, a Berlino sono arrivati gli ebrei russi e polacchi, e quelli sì che sono diversissimi da noi. Forse la parola giusta è incolti, ignoranti. Più che altro se ne stanno per i fatti loro, ma quando li incontri in giro, per esempio su un tram affollato, ti fissano, e tu senti l'odore delle cipolle di cui si cibano.» «Gli ebrei polacchi sono stati rimandati indietro.» «Sì, lo so, e mi dispiace per loro. Ma ce n'erano alcuni che volevano tornare e la Polonia non li rivoleva, e c'è gente che si chiede perché mai questo debba essere sempre un problema della Germania. E così adesso devono tornare tutti, e per loro mi dispiace.» «E il dottor Baumann? Lui dove può andare?» «Perché dovrebbe andarsene? Per molti ebrei è terribile, una tragedia, perdono tutto ciò che hanno, ma per lui non è così. Quelli come il dottor Baumann trovano sempre il modo di cavarsela.» «Te l'ha detto tuo padre?» «No, lo so per averlo visto con i miei occhi.» «Lo frequenti?» «Socialmente? Certo che no. Ma lavoro per un certo Herr Hanau, un
uomo di Greifswald, una cittadina sul Baltico. Herr Hanau ha una piccola ditta di spedizioni, una nave grande e tre piccole, e per essere preso in considerazione per i contratti governativi ha trasferito l'ufficio a Berlino. Io sono la sua assistente. Qualche settimana fa ci è stata affidata una piccola spedizione di macchine utensili per la Svezia, una grande vittoria per noi, e così Herr Hanau mi ha invitata a pranzo al Kaiserhof per festeggiare. Ed ecco il dottor Baumann in carne e ossa, seduto a mangiare una cotoletta e sorseggiare vino del Reno. La sua vita non può essere così terribile, tutto considerato.» Perplesso, Szara fissò fuori dalla finestra, osservando i fiocchi di neve che cadevano lenti nell'aria inerte. «Come ha fatto?» domandò. «Un ebreo come il dottor Baumann può pranzare in uno dei migliori alberghi di Berlino?» «Credo di no. Quei camerieri hanno il senso del decoro, se fosse stato solo non avrebbe potuto farsi servire senza che qualcuno facesse una scenata. Ma era con il suo protettore, capisci, e così ogni cosa è filata liscia come se niente fosse.» «Protettore?» «Naturalmente. Anche se mio padre è pronto ad assumere la proprietà dello stabilimento, il dottor Baumann è ancora il padrone. La Baumann produce materiale bellico, come avrai immaginato, e così il dottor Baumann è protetto.» «Da chi?» «Mi è sembrato strano, vederli pranzare insieme. Il dottor Baumann e un tizio molto alto e sottile, quasi calvo, con piccoli ciuffi di capelli biondi. Un aristocratico, ho pensato subito, ne aveva il tipico aspetto: sui trentotto anni, senza mento e con quel sorrisetto esitante, come se qualcuno fosse sul punto di rompere un vaso dal valore inestimabile e lui temesse di mostrarsi addolorato.» Szara spostò il proprio peso sul divano. «Spero che tu non mi descriva a nessuno» disse con finto orrore. Marta schioccò la lingua. «Io non rivelo i segreti, Liebchen.» «Chi era, secondo te?» «L'ho chiesto a Herr Hanau. "Non s'intrometta" fa lui. "Quello è von Polanyi del ministero degli Esteri, un uomo intelligente ma che non le conviene conoscere."» «Sembrerebbe ungherese» osservò Szara. La sentì scrollare le spalle. «Ai tempi dell'Impero austro-ungarico le fa-
miglie nobili si spostavano di continuo, in Germania ne abbiamo di ogni genere. In ogni caso, non essere troppo in pensiero per Herr Doktor Julius Baumann: a quanto pare è sistemato piuttosto bene.» Rimase a lungo in silenzio. «Dormi?» «No, sogno.» «Sogni me?» Le si avvicinò. «Dammi la mano» disse lei. E al mattino, quando la luce li svegliò dopo il romanzo vittoriano, l'affetto, i discorsi sinceri al buio e uno stato di assenza che quanto meno imitava il sonno, Marta Haecht si allacciò la vestaglietta di seta, andò ai fornelli e preparò blini sottili come crêpes francesi, vi spalmò sopra la marniellata di fragole del miglior negozio di Berlino, li piegò con cura e li servì su dei graziosissimi piatti, e fu più o meno allora che Szara si rese conto che se fosse stato in grado di assaporare qualcosa li avrebbe trovati, come aveva immaginato sul treno per Berlino, deliziosi. 5 novembre. Un messaggio telefonico al banco dell'Adlon chiedeva che passasse dall'ufficio stampa dell'ambasciata. Sull'Unter den Linden, sotto una neve asciutta e leggera che vorticava come polvere, migliaia di nazisti in camicia nera stavano marciando verso la Porta di Brandeburgo. Cantavano con voci profonde, ruggivano i loro slogan e tendevano le braccia al cielo nel saluto fascista. Nel mare nero c'erano striscioni che denunciavano il Comintern e l'Unione Sovietica, e gli uomini marciavano pestando gli stivali sull'asfalto; Szara poteva sentirlo tremare ritmicamente sotto i suoi piedi. Si avvolse nell'impermeabile e finse di ignorare i dimostranti. Era quello che faceva la maggior parte dei berlinesi: rivolgevano un'occhiata agli uomini che cantavano e poi si allontanavano per badare ai loro affari, e Szara seguì il loro esempio. L'ambasciata pullulava di attività. La gente si affrettava in ogni direzione, gli impiegati correvano carichi di incartamenti e la tensione era evidente. Il sottosegretario Varin lo stava aspettando nell'ufficio stampa, evitando apertamente di guardare la manifestazione sotto la sua finestra. Era un ometto piccolo e serio, determinato e non incline alla conversazione. Consegnò a Szara una busta, nella quale si poteva sentire la carta velina ripiegata. Nell'ufficio stampa c'era una radio accesa, e quando a mezzogiorno
cominciò il notiziario ogni conversazione si interruppe. «È successo un grosso pasticcio a Zbaszyń» spiegò Varin quando il commentatore ebbe finito. «Quindicimila ebrei polacchi al confine, chiusi in un recinto protetto dal filo spinato. La Germania li ha espulsi, ma la Polonia non li lascia entrare. L'acqua non basta, non esiste praticamente alcun riparo e fa sempre più freddo. Tutti aspettano di vedere chi cederà per primo.» «Forse dovrei andarci» disse Szara il giornalista. Varin chiuse gli occhi per un istante e mosse appena la testa per indicare che non era il caso. «È questo il motivo del corteo?» Varin si strinse nelle spalle con fare indifferente. «Gli piace marciare, lasciamoli marciare. È il clima: si sentono sempre più vivaci quando arriva l'inverno.» Szara si alzò per togliere il disturbo. «Faccia attenzione» disse Varin in tono sommesso. Per un istante, Szara aveva avuto la tentazione di confidare i suoi problemi a Varin, ma l'aveva accantonata facilmente. Ciò nonostante, mentre feceva ritorno all'Adlon, la parola Funkspiele tambureggiava senza tregua nella sua mente. A livello di radiotrasmissioni, significava rappresentazione. In generale, indicava l'operato di un agente che faceva il doppio gioco. Poteva esserci una spiegazione innocente dell'incontro fra Baumann e un uomo del ministero degli Esteri, ma Szara non ci credeva. Il Direttorato era in apprensione rispetto a Baumann fin dal primo momento, e adesso capiva che aveva ragione. Individui come Abramov avevano dedicato gran parte della loro vita al lavoro clandestino, contro l'Ochrana prima del 1917, e in seguito contro il mondo intero. Avevano affinato i loro istinti; certe notti, gli animali sono riluttanti ad avvicinarsi allo stagno. Di colpo Szara non aveva più scelta, doveva fare l'agente segreto che lo gradisse o no. Se Baumann era manovrato dai tedeschi, tutti i classici interrogativi giungevano in superficie. Fin dall'inizio? Catturato e poi convertito? In che modo? Con la forza, chiaramente. Non certo per denaro, per amor proprio e men che meno per ideologia. Un ebreo terrorizzato era utile ai loro scopi. Che erano? Ingannevoli. In che modo, con quali intenzioni? Se i dati sulla produzione di cavi stampati erano superiori alla realtà, significava che volevano spaventare l'URSS facendole pensare che la Germania avesse più bombardieri di quelli che possedeva in realtà, una tattica politica, lo stesso metodo che si era rivelato fatale per la Cecoslovacchia. Se
erano inferiori, era un tentativo di indurre l'URSS a trarre conclusioni strategiche errate. E ciò voleva dire guerra. Giunto all'Adlon, Szara bussò alla porta di Vainštok con più forza di quanta intendesse. L'ometto era in maniche di camicia, una nube di fumo di sigaretta aleggiava nell'aria e un foglio di carta spuntava da una macchina per scrivere sulla scrivania. «Szara? Spero per te che sia importante. Hai fatto cacare sotto la mia musa.» «Posso entrare?» Vainštok gli fece cenno di accomodarsi e chiuse la porta. «Non bussare in quel modo, ti spiace? Chiamami dall'atrio. Di questi tempi, dei colpi alla porta...» «Grazie per l'articolo su Mutter Kummel.» «Figurati. Mi sono detto, ha bisogno di tutte le emozioni che riesce a trovare.» «Sai niente del ministero degli Esteri del Reich?» Sospirò. Raggiunse una valigetta aperta, vi rovistò all'interno per qualche istante e ne riemerse con un sottile elenco telefonico ciclostilato. «Ah, le cose proibite che abbiamo qui all'Adlon. Immagino che la Gestapo gli darà fuoco, uno di questi giorni. Sarà un bello spettacolo: cento vigili del fuoco, tutti con gli occhiali.» L'idea lo fece ridacchiare. «Cosa vuoi sapere?» «C'è un uomo chiamato von Polanyi?» Ci volle un solo istante. «Von Polanyi, Herbert K.L. Amt 9.» «Che cos'è?» «Non lo so. D'altra parte, il fatto è di per sé istruttivo.» «In che senso?» «Quando non sai, è molto probabile che loro non vogliano che tu sappia. Dunque non sono quelli che seguono il raccolto dei fagioli bulgari.» Rientrato nella sua stanza, Szara chiuse le tende, preparò carta e matite, appoggiò l'orario ferroviario alla parte posteriore della scrivania, stese la velina cifrata sotto la lampada e la decifrò. Trasmissione 5 novembre 1938 ore 4.30 Per Jean Marc Un secondo incontro con Lontra è approvato per il 10 novembre alle ore 1.15 all'8 di Kleinerstrasse, Wittenau. Verrà trasferito in auto nella cittadina di Wittenau, a circa 30 minuti da Berlino. Alle 12.40 si trovi al Köln Fischmarkt, all'incrocio tra Fischerstrasse e Muhlen-
damm, con l'incarico di scrivere un articolo sul mercato del pesce visitato di notte dai turisti. Un uomo con una sciarpa scozzese l'avvicinerà. La parola d'ordine sarà: «Può dirmi che ore sono?». La risposta sarà: «Spiacente, il mio orologio si è fermato giovedì». L'8 di Kleinerstrasse è un vecchio edificio di legno rivolto verso nord, all'estremità orientale della strada che costeggia Prinzallee. Un cartello sopra la porta lo identifica come Beth Midrash, una sinagoga. Si avvicini al soggetto dalla porta alla fine della navata sinistra. Dovrà passare non più di trenta minuti con il soggetto, quindi tornerà a Berlino in auto previo appuntamento con l'autista. Non dovrà essere fatta alcuna offerta di futura uscita o risistemazione. Direttore 7 novembre. Arrivò alla mansarda appena dopo le nove, leggermente senza fiato, il volto gelato dall'aria della sera, con una bottiglia di vino pregiato incartata. Una Marta diversa: capelli raccolti con cura sul capo, orecchini rossi di bachelite, rossetto in tinta, maglioncino e gonna aderenti. Gli porse una scatoletta di pelle che conteneva un paio di gemelli d'oro su cui erano incastonati minuscoli citrini di un pallido color limone. La camicia di Szara aveva i bottoni, e così Marta prese una delle sue da una cassettiera per fargli vedere come stavano; lui li trovò quasi impossibili da allacciare e vi armeggiò rabbiosamente finché lei non gli venne in aiuto, sorridendo dei suoi sforzi. Sorseggiarono il vino e mangiarono biscotti da una scatola con un centrino di carta. Szara sintonizzò la radio su una stazione diversa, leggere insulsaggini viennesi che provocarono la smorfia beffarda di Marta; ma lui era giunto a identificare i seri compositori tedeschi con l'atmosfera della città e non voleva una cosa simile nel suo rifugio. Parlarono del più e del meno, perfettamente a loro agio; Marta staccò le ciliegine candite dai biscotti e le mise in un posacenere. Avrebbero cenato più tardi, dopo aver fatto l'amore. Ma stasera non avevano fretta. Era diventata, nel giro di pochi giorni, una relazione con regole tutte sue, una vita che irradiava da un vecchio divano verde bulbiforme, una relazione con alti e bassi, momenti tempestosi placati, menzogne trascurabili e cortesi. Una cosa fra adulti. Marta, una donna che lavorava, una berlinese sofisticata con una sua vita, lo accettava per quello che credeva che fosse:
un giornalista sovietico perennemente in viaggio, un uomo per cui provava una profonda attrazione sessuale, un uomo che aveva incontrato negli ultimi giorni della sua giovinezza e che ora l'amava come donna. Era un peccato che non potessero andare al ristorante o ai concerti, ma la realtà del momento era incerta ed entrambi convenivano senza discussioni che non fosse il caso di cacciarsi in situazioni in cui sarebbe potuto accadere qualcosa di spiacevole: la vita era troppo breve per inquietarsi inutilmente, era meglio lasciarsi trasportare dalla corrente. Szara non accennò alla lettera in codice né al viaggio a Lisbona. Dubitava che lei avesse capito che l'aveva scritta lui. Se l'aveva capito, anche lei aveva deciso che non valeva la pena di parlarne. Avevano negoziato un trattato, e ora lo rispettavano. La radio suonò Barcarole da I racconti di Hoffman. Marta si sedette in grembo a Szara. «Questa è graziosa» disse. «Due innamorati su una barca che scivola lungo un canale.» Lui le infilò una mano sotto il maglioncino; lei chiuse gli occhi, gli posò la testa sulla spalla e sorrise. La canzone terminò e l'annunciatore, facendo crepitare un foglio di carta nel microfono, disse che sarebbe seguito un comunicato speciale del dottor Joseph Goebbels. «Oh, quell'uomo orribile!» esclamò Marta. La dizione di Goebbels era professionale, ma il piagnucolio nasale della sua personalità era più che evidente. A mano a mano che leggeva da un editoriale che sarebbe apparso il giorno dopo sul «Völkischer Beobachter», una sorta di rabbia repressa gli addensò la voce. Queste notizie, insinuava il suo tono, richiedevano ben altro che grida. Ernst vom Rath, vicesottosegretario dell'ambasciata tedesca a Parigi, era stato gravemente ferito a colpi d'arma da fuoco da un ebreo polacco diciassettenne di nome Herschel Grynszpan, uno studente i cui genitori erano stati deportati dalla Germania alla Polonia e trattenuti nella cittadina di frontiera di Zbaszyń. Il senso del discorso di Goebbels era chiaro: cerchiamo di aiutare questa gente allontanandola da un paese che non la vuole in un luogo in cui si sentirà più a suo agio, e guardate cosa ci combinano: sparano ai diplomatici tedeschi. E fino a che punto dovremo sopportare questi insulti, noi tedeschi? Il comunicato terminò e venne seguito da un valzer di Strauss. «Che mondo» disse Marta in tono triste, tornando a chiudere gli occhi e mettendosi comoda. «Dobbiamo essere dolci l'uno con l'altra» soggiunse posando la mano calda su quella di Szara. 10 novembre.
I tedeschi amano molto il pesce. Fingendo di fare il giornalista, Szara prendeva appunti su un taccuino tascabile. Aringhe e bianchetti, scrisse. Sogliole e merluzzi. Dopo la mezzanotte le bancarelle del Köln Fischmarkt cominciavano a riempirsi del pesce fresco in arrivo dalla costa: luccicanti anguille grigie e rosa su letti di ghiaccio tritato, cesti di buccini e ostriche con code di alghe, gamberi che galleggiavano in una vasca di piombo colma di opaca acqua salmastra. La segatura sparsa per terra era fradicia di sangue e acqua di mare, e l'aria, malgrado il freddo di novembre, era fetida. L'odore di iodio dei bacini di marea, scrisse Szara, barili pieni di teste di pesce. Gatti randagi. C'era una gran quantità di gente. I venditori strillavano vivaci barzellette sul pesce alla loro clientela (un trucco psicologico: la conversazione brillante suggeriva pesce fresco). Alcuni damerini del luogo con le loro ragazze, i volti accesi dall'alcol, giravano disinvolti reggendo in mano un mezzo sgombro gocciolante. C'era perfino uno sconcertato turista britannico che faceva domande in un inglese lento e chiassoso, perplesso dall'impossibilità di ottenere una risposta. L'agente era in perfetto orario, un uomo corpulento con un unico sopracciglio, due guance rosse e un taglio alla militare. Quando si furono scambiati la parola d'ordine procedettero in silenzio fino all'auto, una Humboldt nera parcheggiata a breve distanza lungo Muhlendamm. L'agente era un autista esperto e prudente; percorse gli isolati seguendo una griglia e tornando continuamente sui suoi passi per sincerarsi di non essere seguito. Attraversarono il Grunewald diretti a ovest e alla fine svoltarono a nord sul versante più vicino dell'Havel, seguendo una successione di stradine per evitare i controlli di polizia su quelle principali. «Mi hanno detto di avvertirla che ci sono dei fermenti» disse l'autista. «Di che genere?» «Aktionen. Azioni contro gli ebrei. Un'unità di intercettazione dell'ambasciata ha diffuso un messaggio via telescrivente proprio mentre uscivo. Proveniva dall'ufficio di Müller, ed era destinato a tutti i quartieri generali della Gestapo. Veniva specificato di agire "rapidamente". Probabilmente se la caverà senza problemi, ma non si trattenga.» «Il Treff si svolgerà in una sinagoga.» «So bene dove si svolge. Il punto è che non ci sarà nessuno nei paraggi, ed è meglio così per il suo contatto, che viene da est senza passare per la città. L'abbiamo accompagnato alla funzione del venerdì sera ed è rimasto in zona.» Giunsero alle porte di Wittenau e l'auto rallentò. La strada si allontanava
con una curva dall'Havel, e su entrambi i lati comparvero i capannoni e gli edifici bassi di piccole fabbriche. L'autista accostò e spense il motore. La notte era silenziosa, e l'aria odorava leggermente di fumo di carbone. L'apparat aveva un vero talento, si disse Szara, per scovare posti simili: zone morte, deserti notturni ai margini delle città. «Questa è Prinzallee» disse l'autista. «Là davanti, a una cinquantina di passi, inizia Kleinerstrasse. La sua sinagoga è sull'angolo. Che ore fa?» «L'una e otto minuti.» «A piedi non impiegherà più di un minuto.» Szara cambiò posizione sul sedile. Un uccello prese il volo nelle vicinanze; per il resto, il silenzio era opprimente. «Non ci vive nessuno, da queste parti?» domandò. «Non più. Trent'anni fa era un ghetto, poi è stato trasformato in un quartiere industriale. Sono rimasti solo la sinagoga e qualche casamento abitato da anziani ebrei. Molti dei giovani se ne sono andati dopo il '33.» Szara continuava a guardare l'ora. «Bene» soggiunse l'autista. «Non chiuda la portiera, è un suono che conoscono tutti. E per favore, non si dilunghi.» Szara scese dall'auto. La lampadina era stata rimossa dal tettuccio, e l'abitacolo rimase immerso nel buio. Avanzò rasente una palizzata lungo un sentiero di terra battuta che attutiva i suoi passi, ma la notte era così silenziosa che udiva il proprio respiro. La sinagoga era vetusta, una costruzione di legno a due piani con un tetto a spiovente, costruita probabilmente un secolo prima perché fungesse da laboratorio, forse di falegnameria vista la vicinanza di un deposito di legname. Un cartello in ebraico sopra la porta diceva «Beth Midrash», Casa del culto. Da ciò Szara capì che era usata dagli immigrati ebrei provenienti dalla Polonia e dalla Russia: tutte le sinagoghe dei Territori erano identificate in quel modo. In Francia usavano il nome della strada, mentre i ricchi ebrei tedeschi spesso davano alle loro sinagoghe il nome di un membro influente della comunità: la sinagoga Adler, per esempio. Erano templi grandiosi e carichi di gloria, molto diversi da quello a cui si stava avvicinando. Alla luce della luna calante, la sinagoga di Prinzallee si sarebbe potuta trovare nelle vie di Lódź o di Cracovia, e sembrava provenire da altri tempi e altri luoghi. L'impressione non svanì. La porta d'ingresso non era chiusa a chiave, ma il montante era deformato e Szara dovette tirare con forza per aprirla. L'in-
terno lo riportò a Kišinëv: un tanfo di sudore e urina nell'aria stantia, come se le finestre non fossero mai state aperte. Dietro l'altare, sopra l'arca dal doppio sportello che conservava i rotoli della Torah, c'era una minuscola lampada, la luce eterna, e Szara riusciva appena a distinguere due strette corsie fra schiere di sedie di legno di stili diversi. Prese quella di sinistra e la percorse, facendo scricchiolare sommessamente le assi sotto i piedi. La porta su un lato dell'altare era socchiusa; le diede una lieve spinta e vide un uomo scompostamente seduto a un tavolo spoglio. La stanza era stretta, e forse un tempo serviva da studio per il rabbino: una serie di scaffali vuoti percorreva una parete. «Dottor Baumann» disse Szara. Baumann alzò gli occhi su di lui, ma la sua posizione afflosciata non mutò. «Sì» rispose con un filo di voce. C'era una sedia direttamente di fronte a quella di Baumann, e Szara vi prese posto. «Sta poco bene?» «Stanco» disse Baumann. Intendeva in entrambi i sensi: esausto e stanco di vivere. «Abbiamo alcune cose da discutere rapidamente, poi ce ne potremo andare. Ha modo di rientrare a casa sano e salvo?» «Sì. Non è un problema.» Forse aveva un autista in attesa, forse aveva guidato lui; Szara non lo sapeva. «Prima di tutto, vogliamo sapere se si è deciso ad agire perché ha subito pressioni da uno dei ministeri del Reich. Non sto parlando della consegna del passaporto né delle altre leggi contro gli ebrei in generale. Intendo lei in particolare. In altre parole, si sono rivolti a lei in qualsiasi modo?» Credette di aver colto nel segno. La stanza era buia, e la reazione fu molto breve, non più di un'esitazione, ma ci fu. Subito dopo, però, Baumann scosse la testa spazientito, come se Szara stesse perdendo tempo con simili sciocchezze: non era una cosa di cui intendeva parlare. Si sporse invece in avanti e bisbigliò in tono impellente: «Accetterò la sua offerta. L'offerta di farci uscire, me e mia moglie. E il cane, se è possibile». «Naturalmente» disse Szara. «Presto. Magari anche subito.» «Devo chiedere...» «Vogliamo andare ad Amsterdam. Non dovrebbe essere troppo difficile; i nostri amici dicono che gli olandesi ci lasceranno entrare senza fare domande. L'unica difficoltà sarebbe uscire dalla Germania. Prenderemo una
valigia e il cane, nient'altro, possono tenersi tutto.» «Avremo bisogno di...» Szara si bloccò e inclinò la testa da una parte. Baumann si drizzò a sedere come se avesse subito una scossa elettrica. «Mio Dio» esclamò. «Sono canti?» Annuì. Szara controllò istintivamente l'orologio. «All'una e mezza del mattino?» «Quando cantano in quel modo...» cominciò Baumann; poi si fermò, e la sua voce si spense nel silenzio mentre si concentrava sul suono. Szara rammentò il corteo sull'Unter den Linden. Erano le stesse voci, profonde e vibranti. Entrambi rimasero immobili mentre il volume aumentava, ma alla fine Baumann balzò in piedi. «Non devono vederci.» Nella sua voce cominciava a serpeggiare il panico. «Crede che saremmo più al sicuro in strada?» «Stanno venendo qui. Qui.» Szara si alzò. Ripensò alla strada per Wittenau: da quella parte non c'era rifugio. Le parole della canzone erano ormai chiaramente udibili. Era una cosetta che cantavano nei Ratskeller bevendo birra: «Wenn's Judenblut vom Messer spritzt / Danti geht's nochmal so gut, dann geht's nochmal so gut». «Quando il sangue giudeo scorre sotto i coltelli / Allora tutto va bene, tutto va bene.» Baumann rivolse la schiena alla porta e i due si fissarono, entrambi spaventati, indecisi sul da farsi e improvvisamente uguali. «Nascondiamoci.» Baumann pronunciò la parola in un bisbiglio spezzato, la voce di un bambino in preda al terrore. Szara lottò per dominarsi. Si era già trovato ad affrontare un pogrom, tanto a Kišinëv quanto a Odessa. Attaccavano sempre la sinagoga. «Usciremo di qui» disse. Era un ordine. Qualunque cosa fosse accaduta, non avrebbe finito i suoi giorni stordito e sconvolto come un animale che sa di morire. Uscì a passi rapidi dallo stanzino e aveva fatto due passi lungo la corsia quando una delle finestre buie che fiancheggiavano la porta d'ingresso s'illuminò all'improvviso; una sagoma dorata vi vacillò contro, e subito dopo una pioggia di vetri si riversò sul pavimento. Gli uomini all'esterno lanciarono un evviva, e in quello stesso istante Baumann gridò. Szara ruotò sui tacchi e gli tappò la bocca con la mano; avvertì la saliva sul palmo ma la trattenne finché Baumann non gli fece cenno che sarebbe stato in grado di controllarsi. Dietro di loro esplose l'altra finestra. Szara accostò il volto a quello di Baumann. «Le scale» sussurrò. «Ci devono essere delle scale.»
«Dietro la tenda.» Risalirono di corsa i tre gradini che portavano all'altare. Szara udì l'ostinata porta d'ingresso cigolare nel preciso istante in cui Baumann scostava la tenda e insieme scomparivano dietro l'arca. Le scale non avevano ringhiera, erano soltanto dei gradini fissati al muro. Szara li risalì di corsa seguito da Baumann e provò ad aprire la porta. Dal lato opposto della tenda giungevano i suoni delle sedie che venivano prese a calci e delle altre finestre che venivano sfondate provocando un coro di risate e incitamenti. «Ebrei uscite!» ruggì una voce ubriaca. Szara spalancò la porta con una mano e con l'altra afferrò Baumann per la manica, trascinandolo nella stanza, quindi si voltò e richiuse la porta con un calcio. Il primo piano era inutilizzato: una catasta di tendaggi, ragnatele negli angoli, sedie sfondate, l'odore di legno vecchio... e di qualcos'altro. Di bruciato. Szara si girò verso Baumann; aveva spalancato la bocca, boccheggiava e si premeva la mano al petto. «No!» sbottò Szara. Baumann lo guardò in modo strano, poi si afflosciò sulle ginocchia. Szara corse alla finestra più vicina, ma in basso vide fiaccole e sagome confuse che percorrevano il lato della sinagoga che dava sul vicolo. Si portò davanti alla finestra sul versante opposto della stanza e vide che il primo piano sovrastava di poco il tetto del capannone per il legname. Era una finestra vecchissima, piccoli pannelli di vetro divisi da strisce di legno, e non veniva aperta da anni. Per qualche istante provò a spingere, poi ritrasse il piede e sferrò un calcio contro il vetro e la struttura di legno, insistendo a colpirla con furia malgrado sentisse che i pantaloni si laceravano e vedesse gocce di sangue comparire sullo spesso strato di polvere del davanzale. Quando ebbe ottenuto un varco sufficientemente ampio, corse da Baumann e gli infilò le mani sotto le ascelle. «Si alzi» disse. «Si alzi.» Baumann aveva il volto rigato di lacrime. Non si mosse. Szara cominciò a trascinarlo finché finalmente Baumann non prese ad avanzare strisciando sulle ginocchia. Gli si rivolse come a un bambino: «Sì, così, bravo». Da un punto vicino a loro provenne il suono di una porta che veniva scardinata; Szara si voltò inorridito verso le scale, ma poi si rese conto che il rumore proveniva dal piano inferiore, che l'obiettivo degli assalitori erano i rotoli della Torah nell'arca. L'odore di bruciato si stava intensificando, e una voluta di fumo si fece strada fra le assi in un angolo della stanza. Szara fece appoggiare Baumann contro la parete accanto alla finestra e gli sussurrò all'orecchio: «Vada avanti lei, l'aiuto io, non è lontano, presto saremo al sicuro». Baumann mormorò qualcosa; Szara non capì
le sue parole, ma il senso era che voleva essere lasciato lì a morire. Infuriato, lo scostò e si infilò nel cerchio dentellato di vetri infranti e legno, atterrando sulle mani sulla superficie di ghiaia catramata del tetto del capannone. Si rimise in piedi e tese le mani attraverso il foro, afferrando Baumann per il risvolto della giacca e tirando. Quando il suo peso cominciò a sbilanciarlo fuori dalla finestra, Baumann allungò istintivamente le braccia davanti a sé e ruzzolò insieme a Szara. Szara rimase disteso per un istante, stordito. Era caduto di schiena, e il peso di Baumann gli aveva tolto il fiato. Riprese a respirare e, a contatto con l'aria fredda, si accorse che una delle sue calze era bagnata. Si liberò di Baumann e si drizzò a sedere per controllarsi la caviglia. Il sangue sgorgava deciso da uno squarcio lungo lo stinco. Per un istante si premette i lembi della ferita, poi si rammentò che poteva essere visto e si tuffò bocconi. Il respiro di Baumann lo preoccupava: era rauco e sonoro come un sospiro. Gli scostò la mano, che giaceva flaccida sul petto, e gli auscultò il cuore. Quello che udì lo sconvolse: un battito di tale forza e rapidità che lo spaventò. «Come va?» domandò. «Dio del cielo» rantolò Baumann. «Se la caverà» disse Szara. «Le offrirò una cena ad Amsterdam.» Baumann, i capelli agitati dal vento, un lato del volto premuto sulla superficie nera del tetto, fece un debole sorriso e annuì: sì, era quello che avrebbero fatto. Szara cominciò a pensare all'agente e all'auto e decise di provare a dare un'occhiata dal bordo del tetto. Avanzò con grande cautela, graffiandosi la guancia contro la ghiaia, appiattendosi il più possibile, guadagnando un centimetro per volta finché non riuscì a gettare uno sguardo al di là del deposito. L'angolazione gli impediva di scorgere il sentiero lungo lo steccato dove era sceso dalla macchina. Ma si trovava abbastanza in alto per dominare una parte di Wittenau, l'Havel e un vecchio ponte di pietra che attraversava il fiume. I suoi occhi iniziavano a lacrimare per il fumo - le fiamme stavano cominciando ad attecchire, e il legno vecchio schioccava ed esplodeva prendendo fuoco - ma vide quello che c'era da vedere: un gruppo di uomini armati di fiaccole che si muovevano nervosi in mezzo al ponte, un movimento fugace nel buio. Poi ci fu un grido che attraversò senza ostacoli l'aria della notte, una chiazza bianca di schiuma sull'acqua alla base del ponte, una richiesta strozzata di aiuto, l'arco giallastro di una fiaccola che veniva gettata nel fiume, infine risate e acclamazioni mentre gli uomini sul ponte tornavano verso Wittenau. Alcuni di loro si rimisero a
cantare. Risalendo la facciata della sinagoga le fiamme illuminarono il capannone, e Szara si ritrasse precipitosamente per paura di essere visto. Il tetto catramato era cosparso di tizzoni ardenti, che per il momento producevano soltanto un fumo nero e oleoso. Szara si rese conto che di lì a qualche minuto il capannone e l'intero deposito di legname avrebbero preso fuoco. Appena prima di arretrare scorse sagome infuocate che volavano sulla strada provenienti dall'ingresso della sinagoga: spesse pergamene gialle alle estremità delle quali sbucavano lunghi perni di legno. Non paghi di bruciare la sinagoga, i nazisti stavano facendo un falò speciale con i rotoli della Torah provenienti dall'arca, strappando per prima cosa i rivestimenti cerimoniali di raso. "Ora dovranno essere seppelliti" si disse Szara. Si chiese come facesse a ricordarselo, ma era vero, era la legge: una Torah bruciata doveva essere seppellita nel cimitero come un defunto, esisteva una cerimonia specifica. Era uno degli aspetti di un'infanzia vissuta nei Territori, la conoscenza di tradizioni che andavano dai rituali per le donne stuprate a ogni sorta di nozione utile, poiché quelle cose erano già accadute molte volte. Passò un'altra mezz'ora prima che se ne andassero. Dopo aver osservato l'incendio per qualche minuto, la folla si allontanò alla ricerca di altri divertimenti. Szara e Baumann restarono dov'erano, appiattiti sul tetto, allontanando i tizzoni ardenti dai vestiti con le maniche delle giacche. Dalla loro postazione potevano scorgere le ombre danzanti arancione di altri incendi che si stagliavano nel cielo scuro, potevano udire le cascate di vetri rotti, le grida occasionali, ma nessuna sirena. Il deposito di legname prese fuoco per primo - e questo era pericoloso per le esalazioni di creosoto -, poi le fiamme avvolsero il capannone, come spinte da un ripensamento. Szara e Baumann arretrarono dal tetto, lasciandosi cadere a terra sul lato opposto a quello che dava sulla strada. Aggirarono la sinagoga, ormai crollata attorno a una colonna di fiamme che ruggivano come il vento, e scattarono verso la Humboldt. Videro una sola persona nel buio: un agente della polizia municipale con il tradizionale elmetto alto dalle decorazioni in ottone e dalla visiera corta (simile alla vecchia Pickelhaube con la punta della Grande Guerra), la cui cinghia era stretta con ferocia sotto il mento. Alla luce delle fiamme, Szara scorse il suo volto e rimase colpito dal suo tormento. Non era dolore per gli ebrei o per le sinagoghe. Aveva più a che fare con un'esistenza dedicata
all'ordine assoluto, in cui nessun crimine sarebbe dovuto restare impunito: un omicidio o un pezzo di carta gettato in strada, per quel volto erano la stessa cosa. Ma quella sera il poliziotto aveva sicuramente assistito a un incendio doloso (e forse a un omicidio, se aveva guardato in direzione del fiume) e non aveva fatto niente perché gli era stato detto di non fare niente. Non sapendo evidentemente come agire, aveva preso posizione sul lato opposto della strada rispetto all'incendio, la sera in cui i pompieri non erano arrivati, e lì era rimasto, rigido, tormentato, in un certo senso rovinato e consapevole di esserlo. L'auto era vuota, la portiera destra ancora aperta. Se non altro sarebbe stato un nascondiglio, si disse Szara, e ordinò a Baumann di sdraiarsi sotto il sedile posteriore mentre lui avrebbe fatto lo stesso sul davanti. Stavano salendo sull'auto quando l'agente si materializzò, scivolando verso di loro dalle ombre in cui si era nascosto mentre la folla vagava per le strade. In realtà non era affatto una folla, rivelò più tardi a Szara. Erano membri del partito e SS in uniforme, un attacco organizzato e diretto dallo stato tedesco. Non erano le fiamme e il caos a turbare l'agente, che era ragionevolmente abituato agli incendi e ai disordini; era il dottor Julius Baumann, Lontra, che non avrebbe dovuto conoscere, meno ancora vedere e men che meno caricare sull'auto insieme al suo responsabile. Tutto ciò infrangeva ogni sorta di regola intoccabile, e scatenò sul suo volto un balletto di orrore burocratico. Il poveretto fece del suo meglio, considerate le circostanze: nascose Baumann nel bagagliaio dopo aver forzato una sezione del montante per far passare l'aria. Prendendo posto sul sedile anteriore, Szara protestò con calma. «Quello che ho fatto è già tanto» rispose l'agente. «Potrebbe aver avuto un attacco di cuore» disse Szara. L'agente scrollò le spalle. «Verrà curato.» Ripartirono in direzione di Berlino, attraversarono l'Havel su un ponte stretto e deserto, poi svoltarono a nord aggirando Wittenau e procedendo verso est attraverso le zone più lontane dei sobborghi di Berlino. Era un percorso da esperti, evidentemente ripescato dalla memoria, un'avanzata lenta ma regolare attraverso le strade serpeggianti di Hermsdorf, di Lubans, di Blankenfelde e di Niederschonhausen, dove le ville e le officine cedevano progressivamente il terreno ai campi coltivati o alle foreste. Quando giunsero a Pankow erano quasi le quattro del mattino. A quel punto, l'agente seguì un complicato percorso che li portò alla Bahnhof. Scom-
parve all'interno della stazione per qualche minuto e usò il telefono pubblico in sala d'attesa. Poi ripartirono verso est, giunsero a Weissensee e finalmente a Lichtenberg, dove attraversarono una zona molto aristocratica della città e d'un tratto s'immisero nel cortile alberato di un ospedale privato mentre il cancello si richiudeva automaticamente dietro di loro. L'agente aprì il bagagliaio e aiutò Baumann a entrare in ospedale. Avrebbe ricevuto assistenza medica, spiegò a Szara, ma avevano deciso di nasconderlo lì anche se non ne avesse avuto bisogno. Il messaggio via telescrivente di Heinrich Müller aveva ordinato, oltre agli attacchi contro le sinagoghe e i negozi degli ebrei in tutta la Germania, fra i venti e i trentamila arresti: «Dovranno essere scelti in particolare gli ebrei benestanti». Ciò significava denaro, che i nazisti apprezzavano in modo particolare. E così, spiegò l'agente mentre ripartivano dall'ospedale, dovevano nascondere Lontra dove non sarebbero riusciti a trovarlo; in caso contrario, sarebbe stato condotto a Buchenwald o a Dachau, privato di tutti i suoi beni e alla fine deportato. Facendo ritorno a Berlino percorsero strade che brillavano di vetri infranti: Szara avrebbe in seguito scoperto che era stato distrutto il cinquanta per cento della produzione annuale di lastre di cristallo del Belgio, dove veniva fabbricato il vetro tedesco. Di quando in quando la polizia stradale, dopo aver controllato i loro documenti russi, li guidava gentilmente attorno alle rovine. Qua e là scorsero alcune scene: uomini e bambini ebrei che avanzavano a quattro zampe in mezzo alla strada o si tuffavano nei laghetti, incitati da soldati delle SS e dai nazisti del luogo. Szara li conosceva bene: bulli da cortile, grassoni da birreria, ometti sgradevoli dai volti offesi, la stessa spazzatura che potevi trovare in qualsiasi città russa o in qualsiasi altro angolo del mondo. L'agente non era un ebreo. Dal suo accento, Szara immaginava che avesse origini bielorusse, dove i pogrom erano stati un modo di vita per secoli, ma gli eventi del 10 novembre lo facevano infuriare. Imprecava. Stringeva rabbiosamente il volante nelle grosse mani, il volto rosso come una barbabietola, e non smetteva un attimo di imprecare. Lunghe, volgari, feroci imprecazioni russe, la lingua di una terra in cui i persecutori erano sempre rimasti in qualche modo oltre la portata dei perseguitati, che ti lasciava parolacce e poco altro. Finalmente, mentre un'alba grigia rischiarava Berlino e le ceneri si posavano dolcemente sulle strade immacolate, giunsero all'Adlon, dove a Szara venne detto di usare l'ingresso della servitù e le scale di servizio.
A quel punto l'agente aveva detto tutto il dicibile, praticamente senza ripetersi: aveva nominato Hitler, Himmler, Göring e Heydrich, i nazisti, i tedeschi tutti, le loro mogli e i loro bambini, nonni e antenati fino alle tribù teutoniche, le loro Weisswürste e le loro Kartoffeln, i loro Dachshunde e i loro schnauzer, i loro maiali, le loro oche e la terra stessa sulla quale si trovava la Germania: incitandola a seminare i suoi fottuti campi a sale e a restare incolta per l'eternità. 11 novembre. Al crepuscolo il clima era diventato freddissimo, e nello studio di Benno Ault si gelava. Di notte, il palazzo del Mercato del ferro era poco riscaldato; i proprietari mantenevano una sorta di illusione commerciale, fingendo che al calar della sera i loro inquilini tornassero a casa, al tepore delle loro dimore e delle loro famiglie. Ma Szara sospettava che il cieco accordatore di pianoforti, l'astrologa e gran parte degli inquilini fantasma vivessero e lavorassero nei loro studi. Marta Haecht dormiva nel letto inserito in un'alcova a un'estremità dello studio, al calduccio sotto una montagna di trapunte di piuma che si sollevava e si riabbassava al ritmo del suo respiro. Un sonno senza sogni, sospettava Szara. Serena. Quand'era arrivato, appena dopo il crepuscolo, gli spazzini erano ancora al lavoro in Bischofstrasse; li aveva uditi raccogliere i vetri rotti e gettarli nei bidoni di metallo. Era seduto sul divano verde con una coperta sulle spalle, fumando e guardando fuori dalla finestra. La caviglia gli bruciava sotto il fazzoletto che si era annodato per coprire il taglio, ma non era quello a togliergli il sonno. Era un gelo che non aveva niente a che fare con il palazzo. L'aveva visto quel mattino, nella sua stanza all'Adlon, quando si era guardato allo specchio. Il suo volto gli era sembrato bianco e informe, quasi morto, l'espressione di un uomo che aveva smesso di preoccuparsi di ciò che il mondo avrebbe potuto pensare osservandolo. Il respiro di Marta cambiò, la trapunta si mosse, poi tutto tornò tranquillo. "Un animaletto in salute" pensò Szara. Aveva tradito soltanto un breve turbamento per gli eventi di quella che chiamavano Kristallnacht. La Notte dei cristalli. Un nome brillante, come la Notte dei lunghi coltelli, quando Röhm e le sue Camicie Brune erano stati assassinati nel 1934. Non semplici coltelli, quella era roba da marinai rissosi e da ladri: lunghi coltelli. Una dimensione mitica. «È opera di Goebbels» aveva detto Marta, scuotendo la testa per la misera brutalità dei cattivi soggetti. Poi aveva chiuso la porta della sua coscienza,
attirandolo a sé a forza di blandizie, avviluppandosi a lui, rifiutando l'idea che il veleno potesse raggiungerli. Ma era la Tščerova, l'attrice, a occupare i pensieri di Szara. Il sottosegretario Varin e l'agente senza nome. La guerra che loro combattevano. All'Adlon gli era arrivato l'ordine tassativo di lasciare la Germania e rientrare a Parigi. Il treno partiva il mattino dopo, e lui l'avrebbe preso. Controllò l'ora. Erano le due e mezza passate. Era già mattino: fra sette ore sarebbe stato lontano. Non l'aveva detto a Marta, non ancora, non sapeva perché. Non sarebbe stato in grado di darle una spiegazione convincente, ma non era tutto lì. Desiderava conservarla nella propria mente in un certo modo, senza lacrime, o peggio ancora fredda e controllata. Aveva caro il ricordo di lei com'era un tempo, la ragazza che nel profondo credeva di essere italiana, mediterranea, più delicata e fine della gente rigida e nordica in mezzo a cui viveva. La ragazza della nevicata. Si alzò e si portò davanti alla finestra. Alla luce dei lampioni stradali poteva vedere una vetrina sigillata da assi di legno in Bischofstrasse; ieri era un negozio di giocattoli, evidentemente il negozio di giocattoli di un ebreo. In un androne vicino comparve un puntino rosso. Una sigaretta. Era per lui? Un poveraccio che si congelava in una lunga nottata di sorveglianza? Un agente dell'SD? Forse qualcuno dell'Amt 9 di von Polanyi. Intento a sincerarsi che la loro linea segreta di comunicazione con piazza Dzeržinskij non corresse pericoli, affinché Mosca continuasse a credere ciò che Berlino voleva farle credere. Oppure era un russo, o un tedesco descritto con la parola naš: un agente incaricato di assicurarsi che non gli succedesse nulla a Berlino. "Lascia che se la scopi, domattina se ne andrà." O magari era soltanto un uomo che fumava una sigaretta in un androne. «Non riesci a dormire?» Marta si era sollevata su un gomito, i capelli folti e arruffati. «Vieni a riscaldarti» soggiunse facendo boccuccia e sollevando la trapunta a mo' di invito. «Fra un minuto» rispose Szara. Non voleva riscaldarsi, avvilupparsi alle dolci curve della sua schiena; non voleva fare l'amore. Voleva pensare. Da quell'egoista che sapeva di essere, voleva restare al freddo e pensare. Rammentò la bambinaia nel piccolo parco di Ostenda. "Fuggi con me." Marta si girò su un fianco brontolando e tirando su le lenzuola. Poco dopo, il suo respiro assunse il ritmo del sonno. Szara non voleva che sapesse che se ne stava andando: era meglio scomparire. Vide un pezzetto di carta che Marta usava per tenere il segno nel libro che stava leggendo (Saint-Exupéry, per l'amor del cielo; no, era
giusto così) e prese una penna dalla tasca della giacca. Caro amore, scrisse, stamattina sono dovuto partire. Lo firmò André. Dubitava che l'avrebbe rivista, non finché la guerra fra Mosca e Berlino fosse proseguita. Quella sera stessa si era sorpreso nel bel mezzo di una congettura: "Il suo principale, Herr Hanau, possiede delle navi. Che carichi trasportano, e per dove?". No, si disse; non avrebbe permesso che si arrivasse a quello. Era già abbastanza difficile riferire la verità su Baumann a Goldman o ad Abramov senza fare il suo nome. Sarebbe stato veramente difficile, ma avrebbe trovato il modo di farlo. Che si amassero o no erano amanti, e lui non avrebbe mai permesso che Marta venisse risucchiata in quella realtà brutale. «Cosa stai scrivendo?» «Un promemoria» disse, e rimise il pezzetto di carta nel libro nascondendo le mani dietro un vaso di fiori sul tavolo. «Credevo che ti fossi riaddormentata» soggiunse. «Ti ho ingannato» disse lei. 11 novembre. Strasburgo. Erano le undici passate da un pezzo (il momento ufficiale dell'armistizio della Grande Guerra, l'Undicesima ora dell'undicesimo giorno dell'undicesimo mese) quando il treno di Szara varcò il confine, ma il macchinista, da buon francese, non permetteva che gli orologi interferissero con l'onore. Molti dei passeggeri scesero dal treno quando i controllori li informarono che sarebbero stati osservati tre minuti di silenzio sul suolo francese. Szara scese con loro, si fermò sotto un cielo di un azzurro intenso rinfrescato dalla brezza e si portò la mano al cuore con vero trasporto. Pochi chilometri di alberi e campi, eppure era un altro mondo: il profumo del burro che friggeva, lo scoppiettio delle automobili, gli sguardi delle donne; la Francia, in una parola. Mentalmente si stava inginocchiando ai piedi di un tricolore frustato dal vento e stava baciando il terreno. Era come se il passaggio della frontiera avesse tranciato un nodo nel suo cuore, consentendogli di riprendere a respirare. Quando aprì le imposte del suo appartamento ammuffito e si diede il benvenuto nel suo cortile, pieno di attività, di rumori e di odori come sempre, la Germania pareva ormai una terra di apparizioni, un sogno, una messinscena. Era illogico (Szara credeva davvero che le persone fossero persone), ma le sue sensazioni istintive gli raccontavano una storia diversa. Si sporse sul davanzale, chiuse gli occhi e si lasciò sommergere da Parigi.
L'apparat non lo abbandonò a lungo ai suoi piaceri: un'ora dopo Odile si presentò per dirgli che quella sera stessa era atteso al negozio di Bruxelles di Stefan Leib. Obbediente, Szara prese il treno per il Belgio. Goldman gli strinse la mano, gli diede un benvenuto da eroe, chiuse la porta a chiave e abbassò le tendine. Se gli avessero concesso un minimo di respiro, forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Avrebbe potuto costruire una menzogna funzionale e rivelare la parte di verità che avevano bisogno di conoscere: il fatto che il loro agente a Berlino era compromesso. Non necessariamente: forse al Kaiserhof Baumann e von Polanyi avevano parlato del prezzo delle pere, o magari l'Amt 9 era la sezione del ministero degli Esteri che ordinava gli appendiabiti di metallo. Ma di regola ciò che scorgevi nel lavoro di spionaggio era un angolo sporgente, quasi mai l'intera immagine. Quest'ultima la dovevi quasi sempre indovinare. In quel caso era un angolo più che sufficiente, e Szara lo sapeva. Von Polanyi era un ufficiale dei servizi segreti; Herr Hanau l'aveva apparentemente suggerito, Vainštok l'aveva più o meno confermato e ciò bastava sicuramente a sguinzagliare i cani. Sarebbero state consultate altre fonti: tu avevi l'angolo, qualcun altro aveva la parte superiore dell'immagine, una cartella conteneva già il nome dell'artista e un critico locale sarebbe stato inviato a rubare i colori ormai asciutti dalla tavolozza. Risultato: ritratto completo con provenienza. Funkspiele. Rappresentazione. A dire il vero, Szara possedeva molti elementi. Per esempio, i tedeschi stavano manovrando il dottor Baumann con grande efficacia. Non lo mandavano a curiosare attorno ai posti di consegna a mezzanotte, non gli facevano ospitare giornalisti che scavalcavano le mura del suo giardino; lo portavano a pranzo nel migliore albergo di Berlino. C'era davvero molto che Szara avrebbe potuto rivelare; il materiale era più che sufficiente. A partire da lì, avrebbero potuto giudicare Baumann innocente oppure rivoltare il gioco ai danni dei tedeschi. Ma Szara non avrebbe nominato Marta Haecht, non si sarebbe compromesso, non avrebbe permesso loro di controllarlo in modo così completo. Se avevi intenzione di riferire le confidenze fra le lenzuola, perché era proprio così che le chiamavano ed era proprio questo che erano, dovevi dare un nome a chi aveva giaciuto fra quelle lenzuola. E così Szara mentì. Una menzogna per omissione, il tipo difficile da smascherare. E in un certo senso Goldman si rese complice dell'inganno. Con la morte di Sénéschal, una delle reti parigine non era più particolar-
mente produttiva, poiché non c'era realisticamente alcun modo di riprendere il controllo su Lotte Hüber, che ne era stata la protagonista principale. Ciò aveva fatto aumentare l'importanza di Baumann fino a portarlo allo stesso livello della rete stessa, e Goldman, in quanto rezident, era né più né meno importante della rete che dirigeva. La competizione era ovunque gettasse lo sguardo; centinaia di reti in Europa, in Asia e in America, ognuna delle quali era gestita da un ufficiale del GRU o del NKVD in cerca di successo e promozione, i soliti premi. E così Goldman voleva sapere tutto, specialmente ciò che era utile a Goldman. Szara tracciò un ritratto veritiero di Baumann: grigio, improvvisamente vecchio, sottoposto a una spaventosa tensione. «Non potrebbe essere altrimenti» osservò Goldman in tono comprensivo. «Durante il secondo incontro ha rischiato di morire» gli fece notare Szara. «Lo sa per certo?» «No. È stata una mia impressione.» «Ah.» Quell'informazione produsse in Goldman un ricordo spagnolo. Un poveraccio era stato infiltrato tra i falangisti nel 1936, quando i repubblicani avevano ancora qualche possibilità di vittoria. «Anche lui era grigio» rifletté a voce alta. «Anche lui soffriva. Le pressioni della doppia vita lo consumarono sotto gli occhi dell'agente responsabile bulgaro. Morì un anno dopo a Parigi.» Di cosa? Nessuno lo sapeva di sicuro. Ma Goldman e altri erano convinti che a finirlo fossero stati la tensione e il pericolo costante della doppiezza. E Baumann non era proniknoveniya, un agente nel cuore del campo nemico, come lo era stato l'uomo in Spagna. «Capisco il problema, davvero» disse Goldman. «Badare a un posto di consegna è sufficiente a far tremare di paura certe persone. Il coraggio è un'eterna variabile da un individuo all'altro, ma il nostro compito, André Aronovič, è fare di loro degli eroi, infondergli coraggio.» Parola di Goldman. Atteggiamento bruscamente confermato quando Szara fornì buone notizie sulla Tščerova. «È fedele alla causa» disse. «So che all'inizio è stata forzata... indotta, minacciata, pagata, come preferisce. Ma le cose sono cambiate. Potrà anche essere un'esule politica, ma non è certo un'esule dall'umana decenza. E gli stessi nazisti, essendo quelli che sono, ci hanno concesso in dono la sua anima.»
«Che aspetto aveva, esattamente?» chiese Goldman. Ma Szara non ci cascò. «Alta e magra. Ordinaria, per essere un'attrice. Suppongo che il cerone e le luci di scena possano farla sembrare attraente dalla platea, ma da vicino è un altro paio di maniche.» «Interpreta parti romantiche?» «No. Ruoli minori.» «Al di là del suo lavoro, crede che sia promiscua?» «Non penso, non è il tipo. Sostiene di aver avuto un amante o due a Berlino, ma credo che gran parte di quell'attività venga svolta dalle sue colleghe. Lei vi partecipa, e non è certo una santa, ma nemmeno la diavolessa che finge di essere. Se fossi in lei, direi alla Schau-Wehrli di manovrarla con delicatezza e assicurarsi che non le accada niente di male. È preziosa e merita certamente la nostra protezione, costi quel che costi.» Goldman annuì soddisfatto. Con il passare del tempo, si disse Szara, somigliava sempre più a Stefan Leib: capelli leggermente troppo lunghi, giacca di velluto sformata e scolorita, l'aspetto del cartografo introverso circondato dalle sue vecchie mappe sbrindellate. «E la Germania?» domandò. «In una parola?» «Se crede.» «Un abominio.» La maschera di Goldman scivolò via per un istante, e Szara riuscì momentaneamente a scorgere l'uomo che si celeva sotto. «Stavolta regoleremo i conti, e in un modo che non dimenticheranno» disse piano. «Il mondo ringrazierà il cielo per l'esistenza di Iosif Stalin.» Con la Kristallnacht, una specie di brivido attraversò Parigi. I francesi avevano i loro problemi: i comunisti e il Comintern, i fascisti della Croix de Feu, complotti e azioni politiche fra i vari gruppi di rifugiati politici, scioperi e sommosse, banche che fallivano e scandali... il tutto sullo sfondo del tambureggiare assordante del senato e dei ministeri. Spogliato di ogni retorica, il succo era questo: problemi in Germania e in Russia, e adesso? Non avevano ancora superato la Grande Guerra: secondo un diffuso sofisma politico, i francesi non erano bravi a morire, amavano la vita un po' più intensamente del dovuto. Ma nella guerra del '14 - '18 erano morti in ogni caso, e in gran numero. E per cosa? Perché ora, trent'anni dopo, il problema si ripresentasse, cinquecento chilometri a est di Parigi. I problemi con l'est non erano niente di nuovo. L'esperimento di Napo-
leone in Russia non era andato affatto bene e, dopo la disfatta di Waterloo del 1815, gli squadroni russi, fra cui la Guardia Preobajanskij, avevano occupato Parigi. I francesi, tuttavia, erano sempre meno sconfitti di quanto si credesse; i russi avevano finito per tornare in patria portandosi dietro varie malattie galliche, di cui due si erano rivelate croniche: un desiderio inestinguibile di champagne e una voglia altrettanto forte di libertà, che alla fine aveva portato alla rivolta dei Decabristi del 1825... la prima di una serie di rivoluzioni che si sarebbe conclusa nel 1917. Ma gli attuali problemi da est erano problemi tedeschi, e i francesi non riuscivano a pensare a niente di peggio. Scottati nel 1870 e bruciati nel 1914, pregavano che scomparissero. Hitler era un tale cul, con i suoi baffetti e il suo incedere tronfio; nessuno voleva prenderlo sul serio. Ma la Kristallnacht era una faccenda seria, vetri rotti e teste sfondate, e i francesi sentivano nelle budella che cosa significava, checché ne dicessero i politici. Avevano provato una manovra diplomatica con Stalin, dicendosi che un'alleanza su entrambi i lati della Germania avrebbe potuto schiacciare quel verme schifoso. Ma quando avevi a che fare con Stalin... eri convinto di aver raggiunto un accordo e all'improvviso qualcosa sembrava sempre andare storto. Le giornate divennero più brevi e più buie, ma i bistrò non divennero più luminosi. Non quest'anno. Volute di nebbia percorrevano rue du ChercheMidi e Szara a volte rientrava a casa con le spensierate ragazze dei caffè, ma ciò non lo rendeva poi così felice. Ogni volta credeva che sarebbe accaduto (ah, quei capelli biondo rossiccio e quelle lentiggini), ma poi succedevano soltanto le solite cose. Sentirsi innamorato gli mancava, gli mancava molto, ma l'inverno del 1938 non sembrava la stagione giusta. Così almeno si ripeteva. La vita arrancava. Baumann inviava obbediente i suoi rapporti, producendo di mese in mese sempre più cavi stampati mentre i bombardieri venivano sfornati dalle fabbriche del Reich. O forse no. O forse più rapidamente di quanto Mosca credesse. L'avvocato Valais, Hector, trovò un nuovo agente, un caporale bavarese prezzolato di nome Gettig che faceva da assistente a uno degli addetti militari tedeschi. Il marito di Odile fuggì con una ragazzina irlandese che lavorava come cucitrice in una modisteria. Nella gelida stanza all'ultimo piano in rue Delesseux, Kranov indossava un maglione pesante e batteva imper-
turbabile il tasto del radiotelegrafo: l'eterno contadino russo nell'era tecnologica. Per Szara divenne un simbolo, mentre il giornalista che era in lui vedeva per la prima volta l'OPAL per quello che era: un'istituzione burocratica la cui attività era rubare e trasmettere informazioni. Fu Kranov a porgergli la velina decodificata che annunciava la nomina di Lavrentij Berija a capo del NKVD. In quel momento, il trionfo ufficiale della khvost georgiana significava poco per Szara; era semplicemente l'ennesima manifestazione di un'oscurità sanguinosa che era calata sul mondo. Quando Berija fece piazza pulita degli ultimi vecchi bolscevichi dai posti di comando dell'apparat dei servizi segreti, la purga si concluse. A metà dicembre si rifecero vivi, stavolta da una direzione diversa. E stavolta facevano sul serio. Una rigida busta color crema indirizzata a lui, a mano, presso l'ufficio della «Pravda»; il genere di busta che i giornalisti ricevevano di tanto in tanto. Il club Renaissance la invita... Un quadrato di cellofan trasparente scivolò fuori dal cartoncino e cadde fluttuando ai suoi piedi. Szara non abboccò al primo colpo e loro ci riprovarono: appena prima di Natale, quando a Parigi gli inviti non bastano a nessuno, qualcuno prese una Mont Blanc e scrisse Verrà, per cortesia? sotto i caratteri incisi. Significava il barbiere, significava la tintoria e significava una camicia bianca lavata a secco fino a farla diventare rigida come tek: costosi oltraggi a cui Szara si sottopose nella vana speranza che l'invito fosse esattamente ciò che diceva di essere. Controllò l'organizzazione, il club Renaissance; esisteva veramente, ed era molto esclusivo. Uno degli esclusi, incontrato all'inaugurazione di una galleria d'arte, inarcò un sopracciglio nell'udirne il nome. «Lei è molto fortunato a essere stato invitato» disse con un odio sincero e palese dipinto sul volto. Era un indirizzo di Neuilly, sede di alcuni dei patrimoni più vecchi e discreti di tutta la Francia. La strada, quando l'agitatissimo taxista riuscì a trovarla, ospitava una sola fila di eleganti ville a tre piani protette da palizzate di ferro battuto, ombreggiate anche in dicembre da discrete masse di fogliame e inondate dalla luce satinata dei lampioni in stile vittoriano. L'altro lato della strada era occupato da un parco privato, per accedere al quale i residenti ricevevano una chiave, e al di là del parco scorreva la Senna. Un maggiordomo ritirò l'ombrello sgocciolante di Szara e lo condusse in una piccola biblioteca in cima a tre rampe di scale. Comparve un cameriere, che posò su un tavolino un vassoio con un Cinzano e un piattino di noccioline. Abbandonato in un profondo silenzio spezzato soltanto da un
occasionale, misterioso cigolio, Szara vagò lungo gli scaffali, estraendo volumi a caso. La collezione era esclusivamente di argomento ferroviario, ed era magnificamente conservata; quasi tutti i libri erano stati rilegati ex novo. Alcuni erano edizioni private, molti erano illustrati con stampe e dagherrotipi color seppia commentati da didascalie: Sul marciapiede di Ebenfurth, il capostazione Hofmann attende il passaggio del postale Vienna-Budapest. Vagoni merci carichi di legname attraversano un alto ponte a traliccio sulle montagne della Bosnia. Il treno delle 7.03 da Ginevra passa sotto il cavalcavia di rue Lamartine. «Sono così lieto che sia venuto» disse una voce dalla soglia. Era un uomo senza età, forse intorno ai cinquantotto anni, con sbiaditi capelli color acciaio appiattiti ai lati del cranio. Alto e garbatamente curvo, indossava uno smoking e una farfalla che si era leggermente storiata. Aveva evidentemente percorso un breve tragitto sotto la pioggia senza ombrello o soprabito, e si stava tamponando il volto con un fazzoletto piegato. «Sono Joseph de Montfried» soggiunse. Articolò con cura il proprio nome, pronunciando la t dura, separando le due sillabe e calcando leggermente l'accento sull'ultima come se fosse un nome difficile e venisse spesso pronunciato male. Szara ne fu divertito: un francese colto avrebbe sbagliato altrettanto facilmente il nome del barone de Rothschild. Anche quella famiglia, lo sapeva, aveva un barone, ma credeva fosse il padre o lo zio. «Le piace la collezione?» Una domanda sincera, come se l'apprezzamento di Szara fosse importante. «È sua?» «È una parte. La maggioranza dei volumi è a casa, su questa stessa strada, e ne tengo qualcuno in campagna. Ma il club è stato indulgente nei miei confronti, e io gli ho risparmiato pareti di Racine rilegati in pelle che nessuno ha mai letto.» Fece una risata imbarazzata. «Cos'ha in mano?» Si fece mostrare la costa del volume. «Ah sì, Karl Borns. Un matto, Borns, organizzò il proprio corteo funebre sul locale di Zurigo. Il locale!» Rise di nuovo. «Prego» soggiunse indicando a Szara di sedersi a un'estremità del divano e prendendo posto su una poltroncina.
«Faremo uno spuntino qui, se non le dispiace. È un problema?» «Certo che no.» «Bene. Tramezzini e qualcosa da bere. Devo incontrare mia moglie per un'abominevole serata di beneficenza alle dieci, e temo che siano finiti i tempi in cui potevo cenare due volte.» In realtà, Szara era dispiaciuto. Salendo le scale, aveva intravisto una sala da pranzo e uno scintillante spiegamento di porcellane e cristalli. Tutto quel denaro investito nel barbiere e nella tintoria per uno spuntino a base di tramezzini. Cercò di sorridere come un uomo in grado di godersi tutte le cene elaborate che desiderava. «Vogliamo continuare in francese?» domandò de Montfried. «Posso cercare di cavarmela in russo, ma ho paura di dire qualcosa di terribile.» «Lei parla russo?» «Sono cresciuto parlando francese en famille e russo con la servitù. Mio padre e mio zio hanno costruito gran parte del sistema ferroviario russo, ma poi è arrivata la rivoluzione e la guerra civile e gran parte della loro opera è andata perduta. Un luogo molto imprenditoriale, quanto meno un tempo. Come si diceva? "Zucchero di Brodskij, tè di Vysotskij e rivoluzione di Trotckij." Immagino che fosse una punzecchiatura ai danni degli ebrei, ma è una versione piuttosto veritiera di ciò che è successo. Bene.» Premette un interruttore sul muro e un cameriere apparve quasi all'istante. De Montfried ordinò tramezzini e vino, limitandosi a menzionare l'annata, il '27. Il cameriere annuì e chiuse la porta dietro di sé. Per qualche minuto parlarono del più e del meno. De Montfried scoprì molte cose di Szara, nel modo tipico di quegli aristocratici che lo facevano senza sembrare curiosi. Il trucco, pensava Szara, era nella sincerità della voce e dello sguardo: "Sono così interessato a lei". Quell'uomo sembrava trovare le sue affermazioni affascinanti, divertenti o brillanti. Presto Szara si sorprese a sforzarsi di renderle tali. Non aveva alcun bisogno di scoprire chi era de Montfried. Conosceva il profilo di base: una famiglia ebrea titolata, con ramificazioni a Londra, a Parigi e in Svizzera. Enormemente ricca, adeguatamente caritatevole, eccezionalmente riservata e praticamente esente da scandali. Abbastanza vecchia da far sì che il suo denaro fosse ben frollato, come la selvaggina. Szara si sorprese a cercare qualcosa di ebraico nell'uomo seduto di fronte a lui, ma nei lineamenti e nella voce non c'era nulla di identificabile; le uniche caratteristiche degne di nota erano il cranio sottile e le orecchie piccole che gli aristocratici erano giunti a condividere con i loro cani da caccia.
I tramezzini, Szara dovette ammetterlo, erano ottimi. Scoperti, a base di anatra o salmone affumicato, con vasetti di maionese agli aromi e cetriolini per renderli interessanti. Il vino, a giudicare dall'etichetta, era un Beaume prémier cru chiamato Château de Montfried, ed era probabilmente il migliore che Szara avesse mai bevuto. «Dobbiamo ringraziare mio padre per questo» disse de Montfried sollevando la bottiglia alla luce. «Dopo che fummo espulsi dalla Russia cominciò a interessarsi ai vigneti, e più o meno si ritirò laggiù. Per lui c'era qualcosa di biblico: "Coltiva la tua vite". Non so se la Bibbia lo dica veramente, ma lui ne era convinto.» Era esitante nella sua malinconia; capiva che il mondo non si sarebbe lasciato commuovere dalle piccole tragedie di una famiglia come la sua. «È straordinario» disse Szara. De Montfried si sporse leggermente verso di lui, segnale di un cambio di direzione nella conversazione. «Il suo nome mi è stato suggerito, Monsieur Szara, da un conoscente di nome Bloch.» «Sì?» Fece una pausa, ma Szara non offrì ulteriori commenti. Infilò la mano nella tasca interna della giacca del suo smoking, ne estrasse un documento dall'aspetto ufficiale con timbri e firme sul lato inferiore e lo porse a Szara. «Sa cos'è questo?» Il documento era in inglese, e Szara cominciò a decifrarlo. «È un certificato di emigrazione per la Palestina britannica» spiegò de Montfried. «O Eretz Israel, un nome che preferisco. È prezioso, raro e difficile da trovare, ed è quello di cui le volevo parlare.» Esitò un istante, poi riprese. «La prego di essere tanto cortese da interrompermi all'istante se trova che stia oltrepassando un limite. Se procederemo, sarò costretto a chiederle la massima discrezione.» «Capisco» disse Szara. «Nessuna esitazione? Sarebbe sicuramente comprensibile, se avesse la sensazione che ascoltare ciò che ho da dirle comporterebbe troppe complicazioni.» Szara attese in silenzio. «Monsieur Bloch sostiene che lei è stato testimone degli eventi del mese scorso a Berlino. Sembra credere che su quella base potrebbe essere disposto a fornire la sua assistenza in un progetto per cui nutro un profondo interesse.» «Di che progetto si tratta?»
«Posso versarle altro vino?» Szara gli porse il suo bicchiere. «La prego di perdonarmi se arrivo a modo mio a un'effettiva descrizione della cosa. Non voglio annoiarla, e non voglio che mi consideri un ingenuo senza speranza; ma il fatto è che ho esperienza delle discussioni sul ritorno degli ebrei in Palestina, e so che possono essere difficili e addirittura sgradevoli come qualsiasi altro dibattito politico. Le persone educate evitano certi argomenti, e l'esperienza dimostra che è una scelta saggia. Come nel caso dei propri sogni o delle proprie condizioni di salute, è meglio trovare qualche altro argomento di conversazione. Sfortunatamente, il mondo si sta comportando in modo tale da eliminare questa cortesia, insieme a molte altre, e così posso soltanto chiederle di avere pazienza.» Il sorriso di Szara era triste e complice, con il genere di comprensione che proviene dalla vita quotidiana. Era l'ascoltatore a cui si può dire di tutto senza doverne temere le critiche, poiché ha udito e visto cose peggiori di tutto ciò che gli può essere raccontato. Estrasse dalla tasca un pacchetto di Gitanes, se ne accese una ed esalò il fumo. "Niente mi può offendere" diceva il suo gesto. «All'inizio della Grande Guerra, nel 1914, la Gran Bretagna si ritrovò a combattere contro la Turchia in Medio Oriente. Gli ebrei della Palestina vennero coinvolti nello sforzo bellico turco, ridotti all'indigenza dalle tasse, arruolati a forza nell'esercito turco. Un certo gruppo di ebrei della città di Zichron Yaakov, nei pressi di Haifa, pensava che la Gran Bretagna dovesse vincere la guerra in Medio Oriente, ma cosa poteva fare? Ebbene, per un gruppo ristretto e determinato di individui che si oppongono a una grande potenza esiste tradizionalmente una sola risposta al di là della preghiera, e questa risposta è lo spionaggio. E così un botanico di nome Aaron Aaronson, sua sorella Sarah, un suo assistente chiamato Avshalom Feinberg e altri formarono una rete che chiamarono NILI. Il nome deriva da un passo del Libro di Samuele, è l'acronimo delle iniziali ebraiche della frase "l'Eterno d'Israele non si dimostrerà falso". Il gruppo faceva base presso l'osservatorio sperimentale di Atlit ed era facilitato dalla posizione di Aaron Aaronson, che dirigeva l'Unità controllo locuste. Aaronson poteva presentarsi ovunque, per esempio nelle postazioni militari turche, senza destare sospetti. Nel frattempo Sarah Aaronson, che era una bellissima donna, divenne un punto fermo dei ricevimenti frequentati dagli alti ufficiali turchi. Sulle prime gli inglesi li guardarono con sospetto, poiché gli Aaronson non chiedevano denaro; ma alla fine, nel 1917, le infotmazioni
della rete NILI cominciarono a essere accettate dagli ufficiali britannici sulle navi da guerra posizionate al largo della Palestina. Vi furono dei problemi di comunicazione (è un guaio tipico, mi sembra di capire), e Avshalom Feinberg cercò di attraversare il deserto del Sinai per stabilire un contatto con gli inglesi. Cadde in un'imboscata dei predoni arabi e venne ucciso nei pressi di Rafah, sulla striscia di Gaza. La leggenda locale dice che venne seppellito nella sabbia ai confini della città e che dai suoi resti crebbe una palma, nata dai datteri che aveva in tasca. Poi la rete spionistica venne smascherata (troppa gente era al corrente della sua esistenza); Sarah Aaronson venne arrestata dai turchi e torturata per quattro giorni di fila. A quel punto riuscì a convincere i suoi custodi a lasciarla sola in bagno e si tolse la vita con una rivoltella che vi aveva nascosto. Tutti gli altri membri della rete vennero catturati, torturati e giustiziati dai turchi, a eccezione di Aaron Aaronson, che sopravvisse alla guerra per poi morire nel 1919 in un disastro aereo sulla Manica. «Naturalmente anche gli arabi combatterono a fianco degli inglesi, poiché anche loro desideravano porre fine all'occupazione turca. La loro rivolta venne guidata da abili ufficiali dei servizi segreti inglesi come T.E. Lawrence e Richard Meinertžagen. Gli arabi credevano di combattere per l'indipendenza, ma le cose non andarono esattamente così. Quando il fumo si diradò, quando Allenby conquistò Gerusalemme, gli inglesi governavano la Palestina sotto mandato e i francesi la Siria e il Libano. «Ma la rete NILI non fu l'unica iniziativa degli ebrei a favore degli inglesi. Molto più importante, complessivamente, fu il contributo del dottor Chaim Weizmann. Weizmann è noto per essere un sionista, un uomo loquace e persuasivo, ma a coloro che nutrono interessi in quel campo è noto anche come biochimico. Mentre insegnava e svolgeva ricerche all'università di Manchester, Weizmann scoprì un sistema per produrre acetone sintetico grazie a un processo di fermentazione naturale. Con l'intensificarsi dello sforzo bellico contro la Germania, la Gran Bretagna si accorse che stava per finire le scorte di acetone, il solvente usato nella produzione della cordite, che è parte integrante dei normali proiettili e di quelli di artiglieria. Nel 1916, Weizmann venne convocato da Winston Churchill, a quei tempi ministro della marina. "Bene, dottor Weizmann" disse Churchill "abbiamo bisogno di trentamila tonnellate di acetone. È in grado di produrle?" Weizmann non ebbe riposo finché non ci riuscì, assumendo il controllo di gran parte delle distillerie inglesi di whisky sino a quando non vennero costruiti gli impianti.
«Fu la sua azione a produrre la Dichiarazione di Balfour? Di sicuro non la ostacolò. Nel 1917 Balfour, in qualità di ministro degli Esteri, promise che il governo britannico avrebbe "fatto ogni sforzo per facilitare la fondazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico". La Società delle Nazioni e altri paesi appoggiarono quella presa di posizione. Sarebbe bello pensare che Weizmann ci avesse messo lo zampino, ma gli inglesi sono un popolo meravigliosamente concreto, e quello che volevano in quel momento era l'entrata in guerra dell'America contro la Germania, e la sensazione era che la dichiarazione di Lord Balfour avrebbe mobilitato in quella direzione l'opinione pubblica degli ebrei americani. Ma Weizmann svolse il suo ruolo.» De Montfried fece una pausa, riempì di nuovo il bicchiere di Szara e quindi il proprio. «A questo punto, Monsieur Szara, probabilmente avrà capito dove sto andando a parare.» «Sì e no» disse Szara. «E la storia non è finita.» «È vero, continua. Ma una cosa la si può dire: la sopravvivenza della Palestina ebraica dipende dall'atteggiamento degli inglesi, e da questo punto di vista il governo Chamberlain è stato disastroso.» «I cechi sarebbero sicuramente d'accordo con lei.» «Senza dubbio. Quando Chamberlain, dopo essersi arreso a Hider in settembre, chiese per quale ragione la Gran Bretagna avrebbe dovuto rischiare una guerra per quello che definì "un paese lontano di cui sappiamo molto poco e di cui non comprendiamo la lingua", coloro che condividono le mie posizioni rimasero inorriditi. Se vedeva i cechi a quel modo, che cosa poteva pensare degli ebrei?» «Sicché lei considera Monaco un fallimento morale.» De Montfried pencolò sull'orlo dell'indignazione, poi domandò piano: «Lei no?». Non era esattamente infuriato, si disse Szara. Aveva semplicemente incontrato un ostacolo momentaneo. E non era abituato. La sua esistenza era organizzata allo scopo di tenerlo lontano da qualsiasi tipo di incertezza, e Szara, in via alquanto sperimentale, aveva detto qualcosa di inaspettato. Per uno come de Montfried era come se gli avessero servito caffè freddo a colazione: non era sbagliato, era semplicemente impensabile. «Sì, anch'io» ammise infine Szara. «Ma bisognerebbe chiedersi ad alta voce che cosa Chamberlain avesse udito dall'altra parte del tavolo, dov'erano seduti i generali e i riservati gentiluomini in abito scuro. Ma a quel punto, dopo aver ascoltato il loro punto di vista, poteva scegliere se cre-
derci o no. E se agire o no. Posso teorizzare che ciò che ha udito riguardava la possibile sorte delle città inglesi, particolarmente di Londra, se avesse dichiarato guerra alla Germania: bombardieri, tonnellate di bombe e la fine che ha fatto Guernica. La gente soffre, in guerra.» «La gente soffre in pace» ribatté de Montfried. «In Palestina, a partire dal 1920, bande di arabi hanno ucciso centinaia di coloni ebrei, e la polizia britannica non si è dimostrata particolarmente interessata a fermarle.» «La Gran Bretagna va avanti a petrolio, che è nelle mani degli arabi e non nelle sue.» «È vero, Monsieur Szara, ma c'è dell'altro. Come Lawrence, molti fra gli ufficiali britannici all'estero idealizzano gli arabi: la feroce, terribile purezza del deserto e cose simili. Mentre gli ebrei, be', non sono altro che un mucchio di ebrei.» Szara fece una risata di apprezzamento e de Montfried si raddolcì. «Per un attimo» soggiunse «ho temuto che vedessimo le cose in modi molto diversi.» «No. Non credo. Ma il suo Château de Montfried stimola una visione elevata dell'esistenza, perciò temo che dovrà essere molto schietto con me.» Attese per vedere che reazione avrebbe provocato. De Montfried rifletté per qualche istante, poi riprese: «Gli arabi hanno messo in chiaro che non vogliono insediamenti ebraici nel Medio Oriente. Alcuni sono più ostili di altri: diversi diplomatici, a quattr'occhi, sono più che disposti a capire i nostri problemi e niente affatto insensibili alle nostre offerte. La migrazione tedesca ha portato in Palestina una riserva di informazioni tecniche nel campo della medicina, dell'ingegneria, dell'orticoltura, e per gente come loro la condivisione delle conoscenze è una seconda natura. Ma Rashid Ali in Iraq è una creatura dei nazisti, così come il mufti di Gerusalemme. Hanno scelto di schierarsi con la Germania, e altri arabi potrebbero unirsi a loro se non otterranno ciò che vogliono. L'Inghilterra si trova in una posizione difficile: come conservare il favore delle nazioni arabe senza inimicarsi l'America e gli altri paesi liberali? E così ha adottato, sulla questione ebraica, un regime di conferenze su conferenze. Invece di fare qualcosa, si è rifugiata nella fase decisionale. Ammetto che si tratta di una legittima manovra diplomatica, un modo di evitare i problemi: e così abbiamo avuto il Rapporto Peel, la Commissione Woodhead e la Conferenza di Evian, e in febbraio avremo la Conferenza di St James, dopo la quale verrà pubblicato un Libro Bianco. E nel frattempo, la Kristallnacht...». «Che non è stata una conferenza» disse Szara.
«Hitler ha parlato al mondo intero: "Gli ebrei non potranno più vivere in Germania, questo è il modo in cui intendiamo trattarli". Cento morti, migliaia di vittime di pestaggi, decine di migliaia di internati nei campi di Dachau e Buchenwald. Gli ebrei tedeschi e austriaci hanno sicuramente capito, e infatti stanno cercando di andarsene con qualsiasi mezzo. Ma il problema è che non possono semplicemente uscire dal paese, devono rifugiarsi da qualche parte, e non hanno nessun posto in cui andare. Si dà il caso che io abbia ottenuto un'anteprima alquanto accurata del Libro Bianco che sarà redatto dopo la Conferenza di St James. Voi... voi giornalisti saprete come si può entrare in possesso di certe informazioni.» «Un uomo non è mai completamente privo di amicizie. È meglio che non lo sia, in ogni caso.» «Proprio così. Ci è giunta voce che l'emigrazione in Palestina sarà limitata a quindicimila ebrei all'anno per cinque anni, dopodiché si arresterà del tutto. Al momento, in Germania ci sono ancora trecentomila ebrei, più altri sessantacinquemila in Austria, e soltanto quindicimila di loro potranno andare in Palestina. Se questa situazione dovesse estendersi alla Polonia, e i toni con cui Hitler parla della Polonia sono gli stessi che usava per i Sudetì, cosa succederà? Ce ne saranno altri tre milioni e trecentomila.» «Che cosa si sta facendo?» De Montfried si appoggiò all'indietro sulla sedia e lo fissò. I suoi occhi erano scuri e difficili da decifrare, ma Szara avvertì un conflitto fra una naturale, salutare sfiducia e il bisogno di fidarsi. «Ci si sta muovendo» disse finalmente. «In ogni angolo del quadrante politico, le organizzazioni riconosciute stanno combattendo questa battaglia da anni: i sindacati dell'Histadrut, i nuovi sionisti di Vladimir Jabotinskij e l'organizzazione che chiamano Betar. David Ben-Gurion e l'Agenzia Ebraica. E altri, molti altri, stanno facendo ciò che possono. È uno sforzo politico: lettere scritte, favori riscossi, donazioni versate, risoluzioni approvate. Contribuisce a creare una sorta di presenza. Inoltre, in Palestina c'è l'Haganah, un'organizzazione militare, e il suo servizio segreto conosciuto come Sherut Yediot ma generalmente chiamato con l'acronimo Shai. Ma riescono a malapena a tenere in vita gli ebrei della Palestina. «E di recente è comparso qualcosa di nuovo. Come lei sa, l'emigrazione verso la Palestina viene chiamata Aliyah, nel senso di "ritorno". I certificati di emigrazione britannici lasciano entrare poche migliaia di persone all'anno, e c'è un'organizzazione ebraica che si occupa dei dettagli: il viaggio, l'accoglienza e così via. Ma all'interno di quel gruppo, alla sua ombra,
ne esiste un altro. Al momento è formato soltanto da dieci persone, nove uomini e una giovanissima donna, e si fa chiamare Mossad Aliyah Bet. Significa Istituto Aliyah B, laddove la B indica l'emigrazione illegale per differenziarla da quella legale. Questo gruppo è ora impegnato a noleggiare navi, qualsiasi derelitta carcassa si trovi nei porti dell'Europa meridionale, con le quali intende imbarcare ebrei e portarli in salvo, facendoli approdare clandestinamente sulle coste della Palestina.» «Ci riusciranno?» «Ci proveranno. E io simpatizzo con loro. Arriva il momento in cui, se vuoi considerarti un essere umano, devi entrare in azione. In caso contrario, puoi leggere i giornali e congratularti con te stesso per la tua fortuna. Weizmann, tuttavia, ha detto una cosa interessante. Dopo la Kristallnacht, ha dichiarato ad Anthony Eden che gli incendi delle sinagoghe tedesche si sarebbero potuti facilmente diffondere fino all'abbazia di Westminster. Dunque anche gli animi compiaciuti potrebbero avere il loro giorno del giudizio, staremo a vedere.» «E lei, Monsieur de Montfried, cosa fa di preciso?» «La invito al club Renaissance di Neuilly, fra le altre cose. Incontro Monsieur Bloch. Ho qualche amico sparso qua e là; cerchiamo di spendere il nostro denaro con giudizio, nei posti giusti. Quando posso, dico a persone importanti le cose che credo dovrebbero sapere.» «Un gruppo di amici. Ha forse un nome?» «No.» «Davvero?» «Crediamo sia meglio essere il meno ufficiali possibile. Si può essere privi di una struttura e dare comunque un enorme contributo.» «Che genere di contributo, Monsieur de Montfried?» «Ci sono due aree alle quali siamo particolarmente interessati. La prima è semplice: la legittimazione di certificati di emigrazione al di là delle cifre pubblicamente dichiarate dal ministero degli Esteri inglese. Ognuno rappresenta diverse vite salvate, perché possono essere usati da intere famiglie. La seconda area non è semplice, ma potrebbe avere un impatto molto maggiore. Vogliamo chiamarla una dimostrazione? È un termine valido come tanti altri. Una dimostrazione che i gruppi favorevoli all'insediamento ebraico in Palestina sono una fonte di aiuto che gli inglesi non possono ignorare. È un modo di guadagnare voce in capitolo, come fece il NILI e come fece Weizmann, servendo gli interessi del paese governante. In ultima analisi, è quello che gli inglesi capiscono. Quid pro quo. Il Libro Bian-
co verrà discusso in parlamento, dove ci sono coloro che vogliono aiutarci; e noi vorremmo facilitare loro le cose. L'unico modo in cui ci si può riuscire è con azioni concrete, qualcosa a cui possano fare riferimento. Non in pubblico. Niente accade in pubblico. Ma nei corridoi, nei guardaroba, nei club per gentiluomini, nelle residenze di campagna: è lì che vengono conclusi gli affari importanti. Ed è lì che dobbiamo essere rappresentati.» «I certificati di emigrazione possono essere prodotti in privato?» «Contraffatti, intende dire.» «Sì.» «Naturalmente ci si prova, e se si può essere fieri dei falsari, i falsari ebrei sono fra i migliori, anche se alcuni sono noti per essersi messi in proprio e aver sfornato un Rembrandt o due. «Sfortunatamente, gli inglesi hanno la tendenza a contare. E la loro burocrazia coloniale è efficiente. L'anello debole della catena è formato dagli impiegati statali degli uffici passaporti; sono sottopagati, e ciò conduce a un solo risultato. Bustarelle sono state offerte e accettate. Nonché scoperte. La stessa situazione vale per molte ambasciate: l'argentina, la liberiana, la guatemalteca. Ci sono cittadini ebrei che spuntano in ogni angolo del mondo. Ci sono anche situazioni in cui gli impiegati degli uffici passaporti cedono semplicemente alla compassione di fronte alle condizioni insostenibili di certi postulanti: più la si osserva, più la situazione rivela i suoi orrori. Ma la contraffazione di documenti, la corruzione e qualsiasi altra cosa possa succedere non arrivano nemmeno a sfiorare le cifre di cui abbiamo bisogno. Quello che abbiamo in mente è molto diverso, un accordo privato che produca veri certificati.» «Difficile. E delicato.» De Montfried sorrise. «Monsieur Bloch ha grande fiducia in lei.» «E un giornalista sovietico, teoricamente parlando, in che modo potrebbe contribuire?» «Chi può dirlo? La vita mi ha insegnato che non si può cercare di controllare le persone influenti. Si può soltanto illustrare la propria posizione e sperare che tutto vada per il meglio. Se riflettendoci si troverà d'accordo su quanto è stato detto questa sera, penso che troverà il modo di far pesare le sue capacità. Da parte mia non conosco la soluzione, e così mi limito a trovare le persone e sottoporre loro il problema. Ma se potessi credere che lei stasera tornerà a casa e rifletterà su questi argomenti, ne sarei francamente felicissimo.» Delicatamente, e con il consenso di entrambi, venne concesso alla con-
versazione di perdersi in facezie, e l'incontro si concluse appena in tempo perché de Montfried potesse recarsi all'«abominevole serata di beneficenza». Fuori dalla piccola biblioteca, un membro del club dal volto paonazzo e dai capelli bianchi salutò calorosamente de Montfried, fingendo di tirare la corda del macchinista ed emettendo il corrispettivo francese del fischio del treno. De Montfried rise di gusto, l'uomo più amabile che si potesse immaginare. «Ci conosciamo da una vita» spiegò a Szara. Si strinsero la mano nell'atrio al pianterreno e il maggiordomo riportò a Szara l'ombrello, che apparentemente era stato asciugato con un panno. Gennaio 1939. 08942 57661 44898... Il messaggio questa volta era un freddo e formale «S novym godom» e «S novym schastyem», buon anno e auguri a tutti dal Grande Padre Stalin. Nel corso della sua settimana a Berlino, Szara si era ritrovato nelle vicinanze del magazzino in cui era chiuso il quadro con il fascicolo Dubok nascosto dietro la tela. Gli era parso remoto, e molto poco pertinente. "È una lezione sul tempo" si era detto. Dopo che l'ondata tedesca aveva travolto l'Austria e la Cecoslovacchia, la Russia aveva assunto il ruolo di contrappeso, e se Stalin era stato vulnerabile mentre decimava l'esercito e i servizi segreti, ora non lo era più. Hider stava portando il mondo fra le sue braccia. I delitti di Stalin venivano commessi negli scantinati; l'operato di Hitler veniva fotografato dai giornali. La Russia era debole, piena di contadini affamati; la Germania costruiva magnifiche locomotive. Era meglio che il fascicolo dell'Ochrana restasse dov'era. All'inizio di gennaio, Szara cadde improvvisamente preda di un febbrone. Giaceva fra le lenzuola fradice; quando chiudeva gli occhi vedeva gli spruzzi nell'Havel rischiarato dalla luna e udiva, ripetuto all'infinito, il grido che implorava pietà. Non era delirio, era un ricordo nauseante che rifiutava di rimarginarsi. Vide Marta Haecht danzare nel cortile di una casetta con il tetto di paglia in un villaggio dei ghetti ucraini. Vide gli occhi di coloro che l'avevano fissato a Berlino, un lungo corridoio piastrellato, il volto alterato di un poliziotto di Wittenau, la stanza nella casa stretta. Non aveva nome, quella malattia; era questo, pensava Szara, il suo segreto. Si alimentava nel profondo, dove le parole e le idee non penetravano. Provò con la venerabile cura dello scrittore: la scrittura. La barba lunga, il pigiama spiegazzato, vi dedicò alcune mattinate, producendo racconti
giornalistici alla ricerca del carattere tedesco. Roba brutale, cattiva. Attaccò l'ipocrisia, la crudeltà, l'invidia fulminea, l'ossessiva sensazione di avere subito un torto atroce e di essere eternamente fraintesi. Rileggendosi ne rimase tanto inorridito quanto soddisfatto, rammentò la meravigliosa scaltrezza della dichiarazione leniniana secondo la quale «la carta tollera qualsiasi cosa vi si scriva» e per un attimo cullò l'idea di far pubblicare il materiale. Ma non era quello, si rese conto, il colpo che aveva bisogno di sferrare. Non avrebbe fatto che scatenare la loro rabbia. E rabbiosi lo erano già, per la maggior parte del tempo. Non era una delle sue accuse, eppure in un certo senso la vedeva come la loro caratteristica dominante: ma non aveva veramente idea del perché. Una mattina, mentre una cascata di fiocchi di neve grossi e bagnati riduceva al silenzio la città, Szara strappò i suoi scritti. La Schau-Wehrli fu il suo angelo di gennaio; incrociava per le strade ghiacciate di Parigi e rispettava i suoi Treffs con Valais, pagava la portinaia perché gli portasse zuppiere di una minestra densa e ambrata e quando aveva un momento libero si sedeva sul bordo del suo letto. Alla fine Szara comprese che la possibilità di un delirio febbrile li metteva in apprensione, e che non volevano che finisse in ospedale. Nessuno lo disse mai apertamente, ma all'improvviso un dottore della facoltà di medicina della Sorbona, un simpatizzante, cominciò a visitare a domicilio un uomo con la febbre alta. Era un professore con una gran barba, e lo scrutava dalle vette delle sue conquiste professionali decretando: «Si riposi, resti al caldo e beva molto tè bollente». Quando la Schau-Wehrli si fermava da lui, spettegolavano insieme: come Szara, anche lei era priva di confidenti. Dopo l'incontro nel teatro di Berlino, gli riferì, la Tščerova aveva apparentemente raddoppiato i suoi sforzi, unendosi alla cerchia alquanto vivace degli intellettuali del partito nazista e facendo sì che i suoi subagenti sviluppassero relazioni estremamente produttive. «Cosa le hai fatto?» gli chiedeva la Schau-Wehrli, prendendosi gioco delle sue doti di grande seduttore. Szara rispondeva con un debole sorriso. «Niente, in realtà. È semplicemente così... così russa. Un pizzico di comprensione, una parola gentile ed ecco che a un tratto sboccia un fiore.» La febbre calò dopo dieci giorni, e Szara riprese lentamente a lavorare. L'ultima settimana di gennaio, Abramov lo convocò all'estero per parlare di alcuni dettagli relativi alla riorganizzazione della rete OPAL. Questa volta era il turno della Svizzera, nei pressi della cittadina di Sion, a un paio
d'ore da Ginevra lungo la valle del Rodano, la sera del 7 febbraio. La trasmissione fu lenta ad arrivare, e Kranov reagì con fastidio. «Hanno cambiato di nuovo operatore» disse accendendosi una sigaretta e abbandonandosi sullo schienale della sedia. «Questo è lento come la fame.» Goldman telegrafò il giorno dopo, affidando a Szara, come quando si era recato a Berlino, una consegna manuale. Il giorno dopo il suo incontro con Abramov avrebbe dovuto portare sessantamila franchi francesi a Losanna e consegnarli, usando una complicata procedura di identificazione e parole d'ordine, a un individuo sconosciuto. Si trattava di molto denaro, e rappresentava un problema. I corrieri potevano maneggiare i fondi soltanto fino a un certo livello, dopodiché Mosca, temendo evidentemente che cedessero alle tentazioni, imponeva la presenza di un secondo corriere, specificamente un diplomatico o un dirigente dei servizi segreti e non un semplice agente come Odile. O almeno così gli disse Maltsaev. Szara stava cenando nel suo bistrò di zona, la copia di «Le Temps» piegata in due e appoggiata contro il vasetto della senape, quando un uomo si materializzò sull'altro lato del tavolo e si presentò. «Si metta in contatto con Il'ja Goldman» disse per dimostrare la propria buona fede. «Lui le confermerà chi sono. Eravamo insieme a Madrid. All'ambasciata.» Si trovava a Parigi, proseguì, in missione temporanea da Belgrado, dove lavorava da un anno circa come funzionario dell'ufficio politico. Szara ne provò un'immediata antipatia. Maltsaev era un giovane scuro e stempiato con una brutta carnagione e un'indole irritabile, un uomo dedito a sinistre affettazioni, che parlava sempre come se stesse dicendo una piccola frazione di ciò che sapeva in realtà. Portava occhiali dalle lenti sfumate e un voluminoso cappotto nero di ottima qualità. Mise subito in chiaro che trovava il lavoro di corriere noioso e profondamente indegno di lui: l'ordine di accompagnare Szara in Svizzera lo offendeva a diversi livelli. «Quei piccoli zar di Mosca» disse con una smorfia «spargono rubli a destra e a manca come se il mondo dovesse finire domani.» Aveva un'idea abbastanza precisa di quello che stava succedendo a Losanna, confidò: era tipico dei compagni che se ne stavano seduti alle loro scrivanie cercare di risolvere un problema con i soldi. Era anche tipico che un invisibile ispettore dell'apparat di piazza Dzeržinskij stesse approfittando dell'occasione per rovinargli la vita, fregandolo con uno stupido incarico che poteva essere svolto da qualsiasi idiota di un agente. «Un altro nemico» brontolò. Qualcuno geloso delle sue promozioni o della sua mis-
sione a Parigi. «Ma staremo a vedere se la passerà liscia. Forse no, eh?» Indicò il piatto di Szara. «Cos'è quella?» «Andouillette» rispose Szara. «E cosa sarebbe? Una salsiccia? Cosa c'è dentro?» «Se glielo dico, non la vorrà più.» «Probabilmente l'amante dello chef» disse Maltsaev con una risata. «Mi ordini una bistecca. Ben cotta. Niente sangue, se non vogliono che torni al mittente.» I suoi occhi erano agitati dietro le lenti sfumate, dardeggiando per il locale e fissando gli altri avventori. Si sporse verso Szara con fare confidenziale. «Chi è questo Abramov che incontrerà?» Aveva un'aria trionfale e soddisfatta: "Sorpreso che lo sappia?". «Un capo. Uno di loro, in ogni caso.» «Pezzo grosso?» «Di sicuro fa parte di un Direttorato. Forse anche di altri, non lo so.» «Vecchio amico, scommetto. Di questi tempi non si dura molto senza un protettore, vero?» Szara si strinse nelle spalle. «Ciascuno ha la sua storia, e la mia non è di questo genere. Con Abramov è puramente un rapporto di lavoro.» «Davvero?» «Già.» «Ehi!» gridò Maltsaev quando un cameriere gli passò accanto ignorandolo. La notte del 6 febbraio nevicò, e quando la mattina del 7 Szara e Maltsaev partirono dalla Gare de Lyon, i campi e i villaggi della Francia erano bianchi e silenziosi. "Il Diciannovesimo secolo" pensò Szara con nostalgia: una coppia di cavalli da tiro ricoperti di brina che trainava un carro lungo una strada, una ragazza con un berretto a calza che pattinava su uno stagno ghiacciato nei pressi di Melun. Il cielo era denso e rigonfio, e di quando in quando uno stormo di corvi volteggiava sopra i campi innevati. Se non fosse stato per la presenza di Maltsaev, sarebbe stato il momento giusto per sognare. Il mondo ghiacciato oltre il finestrino del treno era immobile, freddo e pacifico, e il fumo che fuoriusciva dai comignoli delle fattorie era l'unico segno di vita umana. Seguendo le regole avevano prenotato l'intero scompartimento, e così erano soli. Szara teneva una mano e un piede a perenne contatto con la valigetta che conteneva i sessantamila franchi, divisi in mazzette di banconote da cento legate da una striscia di carta con alcune iniziali in cirillico.
Malgrado fossero soli, tuttavia, Maltsaev usava espressioni ambigue: «il suo amico a Sion», «l'uomo a Bruxelles». Una gran fame di pettegolezzi, si disse Szara. Chi conosce? Quali sono gli schieramenti? Qual è la verità? Maltsaev era il classico opportunista, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse tornargli utile. Szara parò ogni singolo colpo, ma sentiva che alla fine l'entità stessa dell'attacco avrebbe potuto farlo cedere. Per sfuggirvi finse di sonnecchiare. Maltsaev sogghignò deliziato: «Se ne va nel mondo dei sogni con il nostro caro oro in grembo?». Erano partiti all'alba, e quando giunsero a Ginevra era di nuovo buio. Percorsero a piedi tre isolati dalla stazione e trovarono l'Opel Olympia che era stata lasciata davanti a un albergo per commessi viaggiatori con la chiavetta dell'accensione fissata alla base del piantone dello sterzo. Szara si mise al volante e Maltsaev gli si sedette accanto, fumando le sue Belomor dal filtro di cartone e sistemandosi una carta stradale in grembo. Aggirarono la riva settentrionale del lago Lemano su ottime strade sotto una nevicata intermittente, oltrepassarono Villeneuve e cominciarono a salire verso i passi montani. Il cielo divenne sereno, e una luna brillante e dai contorni netti scintillava sui cristalli di neve dei mucchi ai margini della strada. A volte, sulle curve, riuscivano a vedere le valli che si stendevano più in basso: gruppi di villaggi di pietra, fiumi ghiacciati, strade deserte. Il profondo silenzio e le grandi distanze contagiarono finalmente anche Maltsaev, che smise di parlare e prese a fissare fuori dal finestrino. Alle dieci erano giunti a Martigny e avevano svoltato a nord sulla stretta pianura del Rodano, che lì non era più di un ampio torrente di montagna. Le strade erano coperte da uno strato di neve battuta, e Szara avanzò prudente ma deciso, incontrando soltanto un paio di automobili lungo il tragitto. Sion era immersa nel buio più assoluto, che li costrinse a girare per qualche minuto prima di trovare la strada di ghiaia che si arrampicava sul versante della montagna. Cinque minuti dopo il terreno ridivenne pianeggiante e l'auto si fermò davanti a un vecchio albergo, facendo scricchiolare le gomme sulla neve fresca. L'albergo (su un'insegna di legno sopra l'ingresso ad arco era intagliata la scritta Hôtel du Vaz) era un edificio di stucco e tronchi di legno sovrastato da un ripido tetto di ardesia da cui pendevano i ghiaccioli. Si ergeva a monte della strada, sul bordo di una distesa luccicante di neve che declinava dolcemente verso una foresta di sempreverdi. Le imposte al pianterreno erano chiuse; dietro si scorgeva un fioco bagliore, forse una singola lampada in quella che Szara presumeva fosse la
reception. Quando spense il motore e scese dalla Opel, poté udire il vento che sibilava oltre l'angolo dell'edificio. Non c'era traccia di altre automobili; forse era un albergo estivo, si disse, dove la gente si fermava per fare escursioni in montagna. Maltsaev scese dall'auto e chiuse la portiera con cautela. Da una finestra ai piani superiori giunse la voce di Abramov. «André Aronovič?». «Sì» rispose Szara. «Scendi e facci entrare. Si gela.» «Chi c'è con te?» Alzando lo sguardo, vide un'imposta scostata. Prima che potesse rispondere, Maltsaev sussurrò: «Non gli dica il mio nome». Szara lo fissò confuso. «Gli risponda» soggiunse Maltsaev in tono pressante, afferrandolo con forza per un gomito. Abramov doveva aver notato il gesto, pensò Szara. Perché un attimo dopo udirono il suono, stranamente forte nell'aria fredda e silenziosa, di un uomo pesante che scendeva una scala esterna, forse sul retro dell'albergo. Un uomo che andava di fretta. Maltsaev si mise a correre, facendo sbattere al vento i lembi del cappotto, e non sapendo che altro fare Szara lo seguì. Dovettero rallentare non appena superarono l'angolo dell'albergo, poiché la neve era più alta, arrivando fin quasi alle ginocchia e rendendo quasi impossibile la corsa. Maltsaev imprecò avanzando con passo malfermo. Udirono un grido dal bosco alla loro sinistra. Venne ripetuto in tono pressante. Una minaccia, si rese conto Szara, pronunciata in russo. Sbucarono oltre l'angolo posteriore dell'albergo e si fermarono. Abramov, in abito scuro e lobbia, stava cercando di fuggire attraverso il campo innevato. Era una scena assurda, quasi comica. Lottava, si dibatteva e scivolava, cadeva su una mano, si rialzava, sollevava le ginocchia per qualche passo, ricadeva e si lanciava in avanti nel tentativo di raggiungere la foresta, lasciandosi dietro un'irregolare scia bianca. La lobbia scivolò improvvisamente di lato e Abramov l'afferrò di scatto, istintivamente, stringendo la tesa mentre correva come se fosse in ritardo per il lavoro e stesse cercando di prendere il tram in una strada cittadina. I cecchini appostati nella foresta lasciarono quasi che raggiungesse gli alberi. Il primo colpo lo fece barcollare; Abramov proseguì più lentamente, ma il secondo sparo lo abbatté. Gli scoppi echeggiarono sul versante della montagna e vennero inghiottiti dal silenzio. Maltsaev s'incamminò nel campo, seguito da Szara lungo il sentiero spezzato. Il terreno era scivoloso e difficile, e presto cominciarono ad ansimare. Appena prima che lo raggiungessero, Abramov riuscì a girarsi su un fianco. Il suo cappello era ro-
tolato via, e la barba era incrostata di neve. Maltsaev si fermò senza dire nulla, cercando di riprendere fiato. Szara s'inginocchiò. Abramov aveva intriso la neve di sangue. Teneva gli occhi chiusi, poi li aprì per un istante e forse vide Szara. Emise un verso, un sospiro gutturale, un «Ach» di stanchezza, di irritazione e di ripulsa, e poi morì. Il club Renaissance Alla Brasserie Heininger, al tavolo nell'angolo più lontano da cui vedevi tutti e tutti ti vedevano, seduto sotto il foro di proiettile scrupolosamente preservato nel vasto specchio dorato, André Szara si sforzava di riuscire affascinante e cercava di zittire una certa voce interiore che gli diceva di chiudere la bocca e tornarsene a casa. Era un novizio fra gli avventori regolari del tavolo d'angolo, e pertanto al centro dell'attenzione. Propose un brindisi: «Vorrei che bevessimo all'amore... agli amori impossibili... della nostra infanzia». Vi fu una frazione di secondo di esitazione (oddio, non si metterà a piangere?) prima del coro di adesioni? Ma lui non pianse; si scostò con le dita una ciocca di capelli neri dalla fronte e fece un sorriso vulnerabile. E a quel punto tutti capirono quant'era giusto quel brindisi, quanto aveva ragione lui, il russo emotivo a mezzanotte ormai passata, con la sua cravatta grigia e la sua morbida camicia rossiccia, non tanto ubriaco quanto amichevole e coraggioso. E lo era. Sotto la tovaglia, la sua mano calda era posata sulla coscia di Lady Angela Hope, colonna delle notti parigine e donna che gli era stato espressamente raccomandato di evitare. Con l'altra mano sorseggiava Roederer Cristal da un flûte bordato d'oro che, grazie alle attenzioni di un cameriere lungimirante, si rivelava pieno ogni volta che lui faceva per afferrarlo. Sorrideva, rideva, diceva spiritosaggini, e tutti lo trovavano meraviglioso, tutti quanti: Voyschinkowskij, il «Leone della Borsa»; Ginger Pudakis, la moglie inglese del re delle carni di Chicago; la Contessa K, polacca, che, per ispirazione o sfida mondana, creava ingegnosi giardini per i suoi amici; il terribile Roddy Fitzware, «matto, cattivo e pericoloso». In realtà l'intero branco, dieci l'ultima volta che li aveva contati, pendeva dalle sue labbra. I suoi modi erano forse leggermente più slavi del necessario? Possibile. Ma a Szara non importava. Fumava e beveva come un affabile demonio, declamava: «A un ubriaco il mare arriva soltanto alle ginocchia» e altri proverbi russi a mano a mano che gli venivano in mente, e in gene-
rale faceva la figura del grandioso, dolce idiota. Eppure, poiché era più slavo di quanto sapessero, la voce interiore non lo lasciava in pace. "Fermati" diceva. "Non ti conviene farlo; soffrirai, te ne pentirai, ti prenderanno." Lui la ignorava. Non che la voce si sbagliasse, poiché in realtà sapeva che aveva ragione; la ignorava e basta. Voyschinkowskij, ispirato dal brindisi, stava raccontando una storia: «Fu mio padre a portarmi all'accampamento degli zingari. Immaginatevi, uscire così tardi e andare in un posto simile! Non dovevo avere più di dodici anni, ma quando lei cominciò a ballare...». La gamba di Lady Angela premette contro la sua sotto il tavolo, una mano apparve nell'aria fumosa e un rivolo di pallido Cristal spumeggiò nel bicchiere di Szara. «Quale altro vino si può conoscere?» qualcuno aveva detto dello champagne. Come Lady Angela Hope, la Brasserie Heininger era famigerata. Nella primavera del '37 era stata la sede di «une affaire bizarre», come dicevano i parigini: la sala principale aveva subito una sventagliata di mitra, il maitre bulgaro era stato assassinato nel bagno delle signore e poco dopo un misterioso cameriere di nome Nick era sparito. Violenze balcaniche di quel genere avevano reso molto popolare il locale, il cui tavolo più richiesto era quello direttamente sotto lo specchio dorato con il foro di proiettile, in realtà l'unico specchio sopravvissuto al fattaccio. Per il resto, la Heininger era una brasserie come tante altre, dove camerieri baffuti correvano fra i divanetti rossi imbottiti con vassoi di gamberetti e salsicce alla griglia, un assaggio di diavoleria fin de siècle mentre fuori la neve di febbraio cadeva lenta sulle strade di Parigi e i taxisti cercavano di scaldarsi. Lady Angela Hope, dal canto suo, era famigerata in due ambienti molto diversi: quello notturno degli aristocratici e dei nuovi ricchi di tutte le nazionalità e di nessuna che frequentavano certe brasseries e locali notturni, e un altro, forse più oscuro, che seguiva la sua carriera con un interesse simile se non superiore. Il suo nome era stato fatto a Szara in una delle prime riunioni con Goldman, preso da una cartella conservata in cassaforte nel negozio di Stefan Leib a Bruxelles. Sia il predecessore di Szara che Annique Schau-Wehrli erano stati «scandagliati» da Lady Angela, che era «nota per avere collegamenti informali con i servizi segreti inglesi a Parigi». Come gli era stato promesso era una donna sulla quarantina, sexy, ricca, sboccata, promiscua e in generale molto accessibile; un'ospite infaticabile che conosceva tutti. «La incontrerà di certo» aveva detto Goldman in tono compassato «ma quella donna ha gli amici sbagliati. Se ne tenga alla larga.»
D'altra parte, a dirlo era stato Goldman. Szara sorrise fra sé. Peccato che Goldman non potesse vederlo in quel momento, con la proibita Lady Angela al suo fianco. Ebbene, pensò, questo è il destino. Doveva succedere, e adesso stava accadendo. Sì, forse c'era un'alternativa, ma l'unica persona nella sua vita che capiva veramente le alternative, che sapeva dove si nascondevano e come trovarle, era scomparsa. Si trattava di Abramov, naturalmente. E il 7 febbraio, in un campo dietro l'Hotel du Vaz di Sion, Abramov si era dimesso dal servizio. Come fosse successo di preciso Szara non lo sapeva, ma era riuscito a sbrogliare la matassa fino a farsi un'idea abbastanza chiara di come si erano svolte le cose. Abramov, sospettava, aveva cercato di fare pressioni su Deršani usando le fotografie scattate nel giardino della casa di Puteaux. Ma non aveva funzionato. Rendendosi conto di avere i giorni contati, aveva finalmente seguito il consiglio che Szara gli aveva dato sulla spiaggia di Ǻrhus e aveva programmato un'ultima operazione: la propria stessa scomparsa. Aveva organizzato l'incontro all'Hôtel du Vaz di Sion (di proprietà, Szara aveva saputo quella sera, di una società di facciata gestita dall'Ufficio esteri del NKVD), che gli aveva fornito una ragione legittima per andarsene da Mosca. A quel punto aveva creato un agente fittizio a Losanna che aveva bisogno di sessantamila franchi francesi. Ciò rendeva Goldman una fonte legittima e il viaggio di Szara a Sion un comodo sistema di consegna. Il denaro aveva lo scopo di concedere ad Abramov una partenza lanciata nella sua nuova esistenza; l'operazione era semplice e perfettamente combinata, ma non aveva funzionato. Perché? Szara era in grado di scorgere due possibilità: Kranov, già sospettato di spiare la rete OPAL per conto del Direttorato, poteva aver avvertito la sicurezza quando aveva notato che una mano inesperta e indecisa stava trasmettendo da Mosca. Ogni operatore aveva un suo stile, e Kranov, addestrato perché si accorgesse di qualsiasi tipo di cambiamento, aveva probabilmente reagito all'impacciata trasmissione di Abramov. Per Szara, tuttavia, la possibilità più interessante era Goldman. I pettegolezzi della rete suggerivano che il rezident in passato fosse stato coinvolto in un'operazione speciale, che andava molto al di là della portata delle attività regolari dell'OPAL, nella quale una giovane donna era stata rapita da una camera ammobiliata di Parigi. E quando Szara aveva descritto alla
Schau-Wehrli gli agenti che quella notte aveva incontrato all'Hôtel du Vaz (specialmente quello che usava il nome di lavoro Dodin, un omaccione corpulento, tozzo e grosso, con la faccia e le mani rosse di un macellaio) lei aveva tradito una reazione. L'istante successivo aveva fatto finta di non sapere niente, ma Szara aveva avvertito l'ombra che la sfiorava. Attraverso Kranov, Goldman o entrambi, la sezione speciale dell'Ufficio esteri era stata chiamata in causa, aveva inviato Maltsaev a Parigi perché tenesse d'occhio Szara mentre si recava all'appuntamento con Abramov e scoprisse se era suo complice o addirittura compagno di fuga. Szara si rendeva conto che la sua istintiva antipatia per Maltsaev aveva provocato in lui una reazione vacua e fredda alle sue offensive punzecchiature, e che era stata questa, probabilmente, a salvargli la vita. Avevano seppellito Abramov al limitare del campo, sotto i rami carichi di neve di un abete, frantumando il ghiaccio sul terreno con le pale e sudando nel gelido chiaro di luna. Erano in quattro oltre a Maltsaev; si erano tolti i cappotti e avevano lavorato nei loro ampi abiti di lana, imprecando mentre scavavano, i fucili da caccia svizzeri appoggiati contro un albero. Avevano sparso la neve sopra la terra ed erano rientrati nell'albergo deserto, accendendo un fuoco nel caminetto al pianterreno, sedendosi sulle sedie di pino fatte a mano, fumando le Belomor di Maltsaev e parlando fra loro. Szara aveva preso parte alle attività, svolgendo il suo turno con la pala, lottando con la mole di Abramov quando l'avevano calato nel terreno. Non aveva scelta; era diventato un membro temporaneo della squadra. Parlavano degli acquisti che avrebbero fatto a Ginevra prima di tornare a Kiev, parlavano di altre operazioni; qualcosa in Lituania, qualcosa in Svezia, anche se si tenevano sul vago per la presenza di uno sconosciuto. L'unica cerimonia per Abramov era stata la silenziosa preghiera di Szara, che aveva badato a non muovere le labbra nel recitarla. Tuttavia, già allora su quel campo buio stava programmando altri monumenti. Di primo mattino, mentre attendevano il treno per Parigi sulla banchina della stazione ferroviaria di Ginevra, Maltsaev era stato franco: «Di solito, in queste faccende, si fa partire il complice per lo stesso viaggio, che sia colpevole o no. Ma per il momento qualcuno crede che valga la pena tenerla in vita. Personalmente non sono d'accordo, nell'animo lei è un traditore, ma faccio quello che mi dicono. Ora che ci penso, Szara, questa è un'ottima lezione per lei. Fare il furbo forse non è furbo come crede: ha visto dove ha condotto Abramov. La colpa è dei genitori, avrebbero dovuto fargli studiare il violino come tutti gli altri». Il treno era entrato in sta-
zione, e Maltsaev, dopo un inchino sprezzante e un rapido gesto della mano verso la porta dello scompartimento, si era girato e se n'era andato. Fissando Voyschinkowskij sul lato opposto del tavolo, fingendo di ascoltarlo mentre raccontava un aneddoto della sua infanzia, Szara comprese per la prima volta la serie di eventi che aveva portato alla notte del 7 febbraio. Era cominciata con la relazione fra Lotte Hüber e Sénéschal e da lì aveva viaggiato, apparentemente pilotata dal fato, verso la conclusione. "Inevitabile" si disse. Lo champagne era astuto, l'opposto della vodka: non intorpidiva, ma rivelava. Si poteva dire, si rese conto, che la predilezione di un ufficiale nazista per la gelatina di fragola aveva portato, due anni dopo, alla morte di un ufficiale dei servizi segreti russi in un campo della Svizzera. Scosse il capo per scacciare quei pensieri. "Ricorda" si disse in silenzio "bisogna agire con freddezza." Voyschinkowskij s'interruppe per bere un sorso di champagne. Il «Leone della Borsa» era sulla sessantina, e aveva un volto lungo e dolente segnato dagli occhi cronicamente arrossati e dalle borse scure dell'eterno insonne. Lo si reputava uno degli uomini più ricchi di Parigi. «Chissà che ne è stato di lei?» disse. Aveva un pesante accento ungherese e un vocione rauco che sembrava risalire dal fondo di un pozzo. «Ma Bibi» chiese Ginger Pudakis «avete fatto l'amore?» «Avevo dodici anni, cara.» «E allora che avete fatto?» Un lato della bocca di Voyschinkowskij si torse brevemente in un sorrisetto caustico. «Le ho visto i seni.» «Fine della storia?» «Lascia che te lo dica uno che ha avuto una ricca, variegata esistenza cosmopolita come la mia: non c'è mai più stato un momento come quello.» «Oh, Bibi» sospirò la Pudakis. «Che triste!» «Dica qualcosa di brillante, ci riesce?» bisbigliò Lady Angela all'orecchio di Szara. «Non triste. Dolceamaro» disse lui. «Non è la stessa cosa. Lo trovo un racconto perfetto.» «Bravo!» esclamò Roddy Fitzware. Andarono in un locale notturno a vedere uno spettacolo di danze apache. Una giovane ballerina, la gonna arrotolata intorno alla vita, scivolò sul pavimento lucidato, finì in mezzo al pubblico e affondò involontariamente un tacco a spillo nella caviglia di Szara. Lui fece una smorfia di dolore e
scorse un moto di orrore sul volto della ragazza sotto il trucco nero e viola; ma subito dopo il suo partner, vestito con una camicia alla marinara, accorse e la portò via. "Sono stato ferito in servizio" pensò Szara. "Dovrei ricevere una medaglia, ma non c'è alcun paese che me la possa conferire." Era molto ubriaco, e il pensiero lo fece ridere. «È stato pugnalato?» domandò piano Lady Angela, palesemente divertita. «Non è nulla.» «Che uomo gentile.» «Ah-ah.» «È vero. La settimana prossima cenerà con me. Un tête-à-tête. Ci sarà?» «Ne sarei onorato, mia cara signora.» «Potrebbero accadere cose misteriose.» «La ragione stessa per cui vivo.» «Lo immaginavo.» «E aveva ragione. Ci sarà un violinista?» «Buon Dio, no!» «Allora verrò.» La cena si svolse da Fouquet's, in una saletta privata dalle tende verde scuro. Cupidi dorati sorridevano dagli angoli del soffitto. C'erano due vini diversi, aragostine con carciofi e rombo. Lady Angela Hope era in rosso, una lunga guaina di seta lucente, e i suoi capelli raccolti sul capo, di un colore simile a quello dell'ottone lucidato, erano tenuti in posizione da due farfalle di diamanti. Era un modo di presentarsi ingegnoso, pensò Szara: era elegantissima, seducente e assolutamente intoccabile. Il culmine della cena privata sarebbe stato... il fatto stesso che stavano cenando in privato. «Che cosa ne farò della mia casetta in Scozia?» esclamò. «Deve darmi un consiglio.» «C'è qualcosa che non va?» «Se c'è qualcosa che non va? Tanto vale chiedersi se c'è qualcosa che va! Quest'uomo terribile, un certo signor MacConnachie se proprio vuole saperlo, mi scrive che il cornicione nordoccidentale è completamente deteriorato, e...» In un certo senso, Szara era deluso. Era rimasto incuriosito, e il monello di Odessa che albergava in lui avrebbe gradito la conquista di una nobildonna inglese in una saletta privata di Fouquet's. Ma aveva capito fin dal primo istante che la serata era dedicata agli affari e non all'amore. Mentre
si attardavano sorseggiando caffè, qualcuno bussò delicatamente allo stipite su un lato della tenda. Lady Angela schiuse scherzosamente le dita sul petto. «Chi potrà mai essere?» «Suo marito» disse Szara in tono acido. Lei represse una risatina. «Bastardo» disse in inglese. Il suo tono da alta società trasformò la parola in una poesia, e Szara si rese conto che era in assoluto la cosa più sinceramente affettuosa che lei gli avesse, e probabilmente gli avrebbe, mai detto. Sotto sotto, la trovava davvero splendida. Roger Fitzware scivolò fra le tende. Qualcosa, nel suo modo di muoversi, indicava che non era più il Roddy leggermente effeminato e terribilmente spiritoso che i frequentatori della Brasserie Heininger adoravano. Piccolo e alquanto attraente, con folti capelli rossicci che attraversavano una fronte nobile, indossava uno smoking e fumava un piccolo sigaro. «Sono de trop?» domandò. Szara si alzò e gli strinse la mano. «Lieto di vederla» disse in inglese. «Mmm» fece Fitzware. «Siediti con noi, caro» disse Lady Angela. «Devo chiedere una sedia?» chiese Fitzware per educazione. «Niente affatto» rispose Lady Angela. Fece il giro del tavolo e baciò Szara sulla guancia. «Un uomo molto, molto gentile» disse. «Mi deve telefonare... molto presto» soggiunse alzando la voce mentre scompariva al di là della tenda. Fitzware ordinò del cognac Biscuit, e per qualche minuto chiacchierarono del più e del meno. Szara, uno studioso della tecnica, provò una notevole soddisfazione professionale nell'osservare Fitzware al lavoro; gli uomini dei servizi segreti, quali che fossero le loro origini nazionali, avevano sempre molte cose in comune, come i collezionisti di francobolli o gli impiegati di banca. Ma l'approccio, quando giunse, non fu una sorpresa: era quello prediletto dai servizi russi, un'impostazione che creava una motivazione accettabile e allo stesso tempo istigava al tradimento. Fitzware condusse la conversazione come un direttore d'orchestra. La situazione delle portinerie parigine (e qui fu alquanto divertente: il suo palazzo gemeva sotto i tacchi di una feroce tiranna, un vrai dragon pluriottantenne con una volontà di ferro) condusse in modo leggiadro alla situazione politica a Parigi (e qui Fitzware riconobbe implicitamente le preoccupazioni del suo invitato citando con espressione torva lo slogan fascista tracciato con il gesso sui muri e sui ponti, «Vaut mieux Hitler que
Blum», meglio Hitler che Léon Blum, l'ebreo socialista che un anno prima era stato a capo del governo). Poi giunse il momento della situazione politica in Francia, seguita a ruota dalla situazione politica in Europa. A quel punto la tavola era imbandita, restava soltanto da servire la cena. «Crede che si potrà ottenere la pace?» domandò Fitzware. Si accese un piccolo sigaro e ne offrì un altro a Szara, che preferì una delle sue Gitanes. «Certo, se gli uomini di buona volontà si mostreranno pronti a collaborare.» E non ci fu bisogno d'altro. Fitzware aveva issato una bandiera segnaletica per sondare il terreno, e Szara aveva risposto. Fitzware si concesse un istante per far roteare il suo cognac nel bicchiere e soffiare un lungo, soddisfatto pennacchio di fumo. Szara lo lasciò esultare; per quelli che facevano il loro lavoro, il reclutamento era la vittoria più grande, forse l'unica. Ora che la cosa era stata sistemata, avrebbero «lavorato insieme per la pace». E chi non lo avrebbe fatto? Entrambi sapevano che, come il sole sorgeva al mattino, così sarebbe scoppiata la guerra, ma questo non c'entrava. «Siamo in alto mare, sa, noi inglesi» disse Fitzware rispettando il copione. «Non abbiamo idea, temo, di quali siano le intenzioni dell'Unione Sovietica riguardo alla Polonia, o al Baltico, o alla Turchia. La situazione è complicata, una polveriera in attesa di esplodere. Non sarebbe terribile se gli eserciti dell'Europa cominciassero a marciare a causa di un semplice malinteso?» «Bisogna evitarlo» convenne Szara. «A tutti i costi. Il 1914 dovrebbe averci insegnato qual è il prezzo dell'ignoranza.» «Purtroppo il mondo non impara.» «No, ha ragione. A quanto sembra, siamo destinati a ripetere i nostri errori.» «A meno che, naturalmente, non riuscissimo a ottenere le informazioni necessarie per appianare i contrasti a livello diplomatico. Presso la Società delle Nazioni, per esempio.» «In termini ideali, è la risposta giusta.» «Bene» esclamò Fitzware rischiarandosi in volto. «Io credo che ci sia ancora una possibilità, e lei?» «Anch'io» disse Szara. «Personalmente, penso che in questa fase le informazioni più importanti dovrebbero riguardare gli sviluppi in Germania. Ne conviene?» Fitzware non rispose subito, limitandosi a fissarlo come se fosse rimasto
ipnotizzato. Aveva imboccato da solo una pista sbagliata, dando per scontato che le informazioni di Szara avrebbero riguardato le operazioni sovietiche, politiche o di qualsiasi altro tipo. Ora doveva sconfinare su un territorio completamente diverso. Si rese rapidamente conto che ciò che gli era stato offerto era in ultima analisi meglio di quanto aveva previsto. Le offerte di segreti russi erano in molti casi provocazioni o esche, tentativi di portare un servizio rivale a illudersi o a rivelare le proprie stesse risorse. Casi simili bisognava trattarli con i guanti antincendio. Al contrario, l'offerta di segreti tedeschi da parte di un russo si traduceva molto probabilmente in valuta forte. Fitzware si schiarì la gola. «Decisamente» disse. «A mio modo di vedere, la chiave di una soluzione pacifica delle difficoltà attuali potrebbe essere una conoscenza comune degli armamenti, in particolare dei velivoli da combattimento. Che ne dice?» Szara intravide una momentanea luce di esultanza negli occhi di Fitzware, come se una voce interiore avesse gridato: "Cazzo, ballerei nudo sulla mia torta di compleanno!". In realtà, Fitzware si concesse soltanto un grugnito educato. «Mmm, be', sì, naturalmente, sono d'accordo.» «Con la dovuta discrezione, signor Fitzware, la cosa è decisamente possibile.» Una domanda inespressa aveva trovato una risposta: Fitzware non era in contatto con l'URSS, non stava per essere attirato nell'affollato labirinto delle iniziative diplomatiche ottenute grazie al lavoro spionistico. Era in comunicazione con André Szara, un giornalista sovietico che operava in modo autonomo. Era questo il significato della parola «discrezione». Fitzware vi rifletté attentamente; la questione aveva raggiunto un punto delicato. «Le sue condizioni» disse. «Sono molto preoccupato dalla questione della Palestina, specialmente con la Conferenza di St James in pieno svolgimento.» Nell'udire ciò, l'umore trionfale di Fitzware si ridimensionò leggermente. Szara non avrebbe potuto sollevare un problema più difficile. «Esistono aree più semplici in cui potremmo impegnarci» obiettò. Szara annuì senza andargli in aiuto. «Può essere più preciso?» chiese finalmente Fitzware. «Certificati di emigrazione.» «Veri?» «Sì.» «Oltre il limite legale, ovviamente.» «Ovviamente.»
«E in cambio?» «Indicazioni sulla produzione mensile di bombardieri del Reich. Basate sulla produzione totale dei cavi stampati a freddo che azionano certi comandi non elettronici a bordo dei velivoli.» «I miei direttori vorranno sapere perché ha detto "totale".» «I miei direttori sono convinti che lo sia. E qualsiasi altra cosa si possa dire, signor Fitzware, si tratta di direttori molto bravi ed efficienti.» Fitzware assentì con un sospiro. «Immagino che non prenderebbe in considerazione l'offerta di qualcosa di semplice come il denaro.» «No.» «Un altro cognac, allora.» «Con piacere.» «Abbiamo ancora molto da fare, e non posso prometterle niente. Le solite cose, capisce» disse Fitzware premendo l'interruttore sul muro per chiamare un cameriere. «Capisco perfettamente» rispose Szara. Fece una pausa per finire il suo cognac. «Ma lei deve capire che per noi il tempo è fondamentale. La gente muore, la Gran Bretagna ha bisogno di amici, in qualche modo dobbiamo far sì che la cosa funzioni. Se voi salverete vite per noi, noi le salveremo per voi. È la pace mondiale, o qualcosa che le somiglia molto.» «Quel tanto che basta» convenne Fitzware. Nel clima impetuoso e mutevole dell'inizio di marzo, Szara e Fitzware cominciarono le vere e proprie trattative. «Le chiami come vuole» Szara avrebbe in seguito detto a de Montfried «ma in realtà abbiamo mercanteggiato come due venditori.» Fitzware suonò tutte le classiche melodie: erano i suoi direttori che volevano qualcosa in cambio di niente; i mandarini di Whitehall erano un branco di idioti ciechi; lui, Fitzware, era dalla parte di Szara, ma fare progressi nel sottobosco burocratico era incredibilmente difficile. Gran parte del negoziato venne condotta alla Brasserie Heininger. Fitzware sedeva con Lady Angela Hope, Voyschinkowskij e il resto della truppa. A volte Szara si univa a loro, altre portava fuori a cena una delle ragazze dei caffè. Incontrava Fitzware nei bagni degli uomini, dove si scambiavano bisbigli rapidi, oppure uscivano insieme a prendere una boccata d'aria. In un paio di occasioni si parlarono in un angolo durante una serata in questo o quell'appartamento. Nel corso della trattativa, Szara si rese conto che la sua condizione di ebreo la rendeva difficile. Fitzware era
sempre educatissimo, ma c'erano momenti in cui a Szara sembrava di percepire una zaffata del tipico atteggiamento: perché voi siete sempre così difficili, così esosi, così testardi? E naturalmente i direttori di Fitzware cercavano di fare a lui ciò che il suo Direttorato aveva fatto al dottor Julius Baumann. Con chi abbiamo veramente a che fare? volevano sapere. Abbiamo bisogno di farci un'idea del processo: da dove provengono le informazioni? Di più, ce ne dia di più! (E perché siete così esosi, voi?) Ma Szara era una roccia. Sorrideva a Fitzware con fare tollerante e virtuoso a mano a mano che l'inglese lo sondava alla ricerca di nuove informazioni, un sorriso che diceva: "Operiamo nello stesso campo, amico mio". E alla fine fece ricorso a un'argomentazione convincente: questo negoziato non è nulla, ammise a malincuore, a confronto di quelli con la Francia, che aveva le sue comunità ebraiche a Beirut e Damasco. La cosa sembrò sortire il suo effetto. Niente di meglio di un rivale, in amore e negli affari, per stimolare il desiderio. Raggiunsero un accordo e si strinsero la mano. I dati di Baumann dal primo gennaio del 1937 al febbraio del 1939 portarono a un primo pagamento di cinquecento certificati di emigrazione, più dei duecento offerti da Fitzware e meno dei settecento richiesti da Szara. In seguito, il flusso di informazioni avrebbe garantito centosettantacinque certificati al mese. Il Libro Bianco avrebbe prodotto settantacinquemila ammissioni legali entro il 1944, quindicimila all'anno, milleduecentocinquanta al mese. Il passaggio delle informazioni sulla Germania da parte di Szara avrebbe incrementato quella cifra del quattordici per cento. "L'aritmetica delle vite ebree" si disse Szara. Continuava a ripetersi che l'operazione doveva essere condotta con freddezza, a ripetersi di accettare una piccola vittoria, a ripetersi qualsiasi cosa gli venisse in mente, ma non riusciva a evitare la consapevolezza che le sue visite al tabac d'angolo sembravano molto più frequenti, che i suoi posaceneri traboccavano di mozziconi, che i vuoti di bottiglia nel bidone della spazzatura in cortile aumentavano, che i conti dei bistrò s'impennavano e che al mattino doveva imbottirsi di aspirina e spruzzarsi litri d'acqua sugli occhi. C'erano così tante cose a cui pensare: in primo luogo, l'inosservato lavoro del controspionaggio sovietico il cui scopo era impedire che individui come lui facessero esattamente quello che stava facendo; in secondo luogo, la possibilità di subire un ricatto il giorno in cui Fitzware avesse preteso un
quadro delle operazioni sovietiche a Parigi e avesse minacciato di denunciarlo se lui si fosse rifiutato di collaborare; in terzo luogo, la concreta possibilità che le informazioni di Baumann provenissero in realtà dal servizio segreto del ministero degli Esteri del Reich e con il passare del tempo compromettessero la stima britannica dell'arsenale bellico tedesco. "Che cosa dicevano in merito le loro altre fonti d'informazione?" si chiedeva Szara. L'avrebbe scoperto prima del previsto. In quel periodo trovò consolazione nei luoghi più improbabili. Marzo, scoprì, era un buon mese per lo spionaggio. C'era qualcosa, nei cieli rabbiosi pieni di nubi che si rincorrevano e nelle piogge primaverili che cadevano oblique oltre la sua finestra, che gli infondeva coraggio: in un clima turbolento, si potevano accantonare le preoccupazioni sulle conseguenze. I partiti politici della sinistra e della destra si mostravano ogni giorno sui boulevard, sbraitando i loro slogan e agitando i loro striscioni, e i giornali, agitatissimi, pubblicavano titoloni a caratteri cubitali ogni mattina. I parigini tradivano una certa espressione facciale: labbra premute, testa inclinata leggermente di lato, sopracciglia inarcate. "Dove andremo a finire?" chiedeva. "Non certo in un bel posto" insinuava. A Parigi, nella primavera del 1939, la si incontrava di continuo. De Montfried, nel frattempo, si era autonominato agente responsabile. Non era né un Abramov né un Bloch, ma aveva una lunga esperienza nel commercio ed era convinto di possedere una conoscenza intuitiva di come andavano gestiti gli agenti. Tale convinzione causò, nella tranquilla biblioteca ferroviaria del club Renaissance, alcuni momenti straordinari. De Montfried che offriva denaro («La prego di non fare l'eccentrico, è soltanto un mezzo per ottenere un fine») che Szara non intendeva accettare. De Montfried che, sollecito come una madre ebrea, insisteva a offrire tramezzini al salmone affumicato a un uomo che a stento riusciva a bere una tazza di caffè. De Montfried che si vedeva consegnare cinquecento certificati di emigrazione e si schiariva la gola fingendosi imperturbabile con gli occhi velati da lacrime di gioia. Ma non aveva importanza. I tempi di Abramov e di Bloch erano finiti; Szara dirigeva le operazioni dell'OPAL da troppo tempo per non essere in grado di gestirne una tutta sua al momento opportuno. Ciò includeva sincerarsi di non conoscere troppo a fondo dettagli che non lo riguardavano direttamente. Ma de Montfried diceva abbastanza da far sì che l'immaginazione di Szara potesse dipingersi il resto. Li poteva vedere, un chirurgo oculistico di Lipsia con la sua famiglia o un vecchio, traballante rabbino della comu-
nità chassidica di Berlino, li poteva vedere mentre salivano a bordo di una nave a vapore e osservavano la costa della Germania che scompariva oltre l'orizzonte. La loro vita in Palestina sarebbe stata difficile, più che difficile. Ciò che i nazisti avevano cominciato, le bande di predoni arabi avrebbero potuto terminare; ma se non altro c'era una possibilità, e ciò era meglio della disperazione. Gli agenti britannici gli fornirono il solito apparato: un nome in codice, «Curato», un segnale per gli incontri di emergenza (la stessa telefonata «al numero sbagliato» che usavano a volte anche i russi) e un contatto conosciuto con il nome di lavoro di «Evans». Era un gentiluomo magro come un chiodo sulla sessantina, a giudicare dal portamento quasi sicuramente un ex ufficiale delle forze armate, molto probabilmente nelle colonie, che indossava gessati blu, girava con un ombrello arrotolato, coltivava un elegante paio di baffetti bianchi e stava dritto come un fuso. S'incontravano nel pomeriggio, nei grandiosi cinema del quartiere degli Champs-Elysées: scambi silenziosi di due copie ripiegate di «Le Temps» posate su un sedile vuoto fra lui e Szara. Silenziosi tranne che in un'occasione, quando Evans pronunciò una singola frase opportunamente attutita dal chiasso dei ballerini di tip-tap del film di Busby Berkeley: «Il nostro amico le fa sapere che i suoi dati sono stati confermati, e che gliene è grato». Szara non l'avrebbe mai più sentito parlare. Confermati? Significava che Baumann stava dicendo la verità, che le sue informazioni erano state autenticate da altre fonti dei servizi britannici. E questo, che cosa significava? Che il dottor Baumann stava tradendo un'operazione tedesca di Funkspiele, da solo e soltanto perché gli andava di farlo? Che il principale di Marta Haecht si era sbagliato, e che non era von Polanyi l'uomo che pranzava al Kaiserhof con Baumann? Szara avrebbe potuto proseguire all'infinito; dal messaggio di Fitzware si potevano trarre intere opere liriche di possibilità. Ma non ne aveva il tempo. Doveva rientrare di corsa nel suo appartamento, nascondere centosettantacinque certificati sotto il tappeto prima di consegnarli quella sera stessa a de Montfried, presentarsi a un incontro alle cinque nel III arrondissement, il Marais, e infine recarsi poco dopo le sette in place d'Italie per un Treff con Valais, il nuovo responsabile della rete Silo. L'incontro nel Marais si svolse in un minuscolo alberghetto, a un tavolo
coperto da una tovaglia di tela cerata in una stanza buia. Una settimana prima, Szara si era visto offrire il proprio stesso certificato di emigrazione per la Palestina. «È una porta di servizio per uscire dall'Europa» aveva detto de Montfried. «Potrebbe arrivare il momento in cui non avrà altra scelta.» Szara aveva declinato l'offerta con educata fermezza. C'era senza dubbio una ragione per cui faceva ciò che faceva, ma non aveva intenzione di rivelarla. Ciò che aveva chiesto a de Montfried era una seconda identità valida, con un regolare passaporto che potesse fargli varcare qualsiasi confine. La sua intenzione non era la fuga. Piuttosto, come qualsiasi buon predatore, desiderava semplicemente ampliare il proprio raggio d'azione. De Montfried, dopo essersi visto respingere favore su favore, era stato più che lieto di accontentarlo. «Il nostro ciabattino» aveva detto usando il nome in gergo con cui si indicavano i falsari «è il migliore d'Europa. E mi occuperò io di pagarlo, senza discussioni.» Il ciabattino non aveva un nome; era un uomo grasso e oleoso con radi capelli ricci pettinati all'indietro da un'attaccatura molto alta. Vestito con una lurida camicia bianca dai polsini abbottonati, percorreva lentamente la stanza, parlando francese con un accento in cui Szara riusciva a riconoscere soltanto un vago sentore di Europa centrale. «Ha portato una fotografia?» domandò. Szara gli porse quattro fototessere realizzate in uno studio. Il ciabattino ridacchiò, ne prese una e gli restituì le altre. «Io non tengo un archivio. Per quello dovrà rivolgersi alla polizia.» Sollevò un passaporto francese reggendolo fra due grosse dita. «Questo, questo, non lo si vede tutti i giorni.» Si sedette, appiattì il passaporto sul tavolo e cominciò a staccarne la fotografia strofinandovi sopra un solvente chimico con una spugnetta. Quando ebbe finito, porse la fotografia umida a Szara. «Jean Bonotte» disse. L'uomo che guardava Szara dalla foto era vanesio, con occhi scuri e spiritosi che catturavano la luce e una barbetta diabolica e sottile che dalle basette gli percorreva la mascella e poi risaliva a unirsi ai baffi, il genere di barba che va curata e regolata ogni giorno. «Ha l'aria del furbetto, no?» «Già.» «Meno furbo di quanto pensava.» «Italiano?» Il ciabattino fece un'eloquente scrollata di spalle. «Nato a Marsiglia. Potrebbe significare qualsiasi cosa. Ma era un cittadino francese, questo è l'importante. Se proviene da laggiù può sempre dire di essere italiano, o corso, o libanese. Qualsiasi cosa dici va bene, da quelle parti.»
«Come mai è un documento così buono?» «Perché è vero. Perché Monsieur Bonotte non attirerà l'attenzione della Guardia spagnola proprio mentre lei scenderà dal traghetto ad Algeciras. Perché Monsieur Bonotte non attirerà l'attenzione di nessuno, eccetto quella di Satana, ma la polizia non lo sa. Legalmente è vivo. Questo documento è legalmente vivo, capisce?» «Ma lui è morto.» «Molto. Parlarne è inutile, ma può star certo che ci ha lasciati, e che non verrà riportato alla luce da qualche contadino francese. Per questo sostengo che è così buono.» Il ciabattino riprese la fotografia, diede fuoco a un angolo con un fiammifero e osservò la fiamma bluastra consumare la carta prima di lasciarla cadere su un piattino. «Nato nel 1902. Trentasette anni. Le va bene? Meno cose cambio, meglio è.» «Lei che ne dice?» chiese Szara. Il ciabattino ritrasse leggermente la testa con gesto da presbite e lo esaminò. «Ma certo, perché no? A volte la vita è dura, e le nostre facce lo rivelano.» «Allora lasci tutto com'è.» Il ciabattino cominciò a incollare la fotografia di Szara sul documento. Quando ebbe finito si diresse ondeggiando verso una scrivania e ne fece ritorno con una bollatrice che creava lettere in rilievo sulla carta. «L'originale» disse orgoglioso. Sistemò l'apparecchio a un'angolazione precisa rispetto alla foto, poi fece scivolare un cartoncino sopra la parte della pagina già incisa. Premette con forza per qualche istante, quindi lasciò la presa. «Questo impedisce la falsificazione» soggiunse con l'accenno di un sorriso. Riportò la macchina sulla scrivania e tornò con un timbro di gomma, un cuscinetto, una penna e una boccetta di inchiostro verde. «Inchiostro governativo» spiegò. «Gratuito per loro, costoso per me.» Si concentrò, quindi timbrò con decisione il lato della pagina. «Glielo sto rinnovando» disse. Intinse la penna nell'inchiostro e firmò lo spazio all'interno del timbro. «Il prefetto Cormier in persona.» Premette un tampone di carta assorbente sulla firma, poi la esaminò con occhio critico e soffiò sull'inchiostro per assicurarsi che si asciugasse. Infine consegnò il passaporto a Szara. «Ora è un cittadino francese, se già non lo era.» Szara sfogliò le pagine del passaporto. Era stato usato spesso, e riportava numerosi ingressi in Francia e visite a Tangeri, Orano, Istanbul, Bucarest, Sofia e Atene. L'indirizzo di casa era in rue Paradis a Marsiglia. Controllò
la nuova data di scadenza: marzo 1942. «Quando arriverà il momento di fare un altro rinnovo, si presentì in qualsiasi stazione di polizia di Francia e dica che ha vissuto all'estero. Ancora meglio sarebbe un'ambasciata francese in un paese straniero. Conosce l'uomo che l'ha mandata da me?» «No» disse Szara. Sapeva che de Montfried non avrebbe stabilito direttamente un contatto simile. «Meglio così» disse il ciabattino. «Lei è un gentiluomo, direi. È contento?» «Sì.» «Le auguro di usarlo in salute. Fossi in lei mi procurerei anche una carta d'identità, dicendo che ha perso la sua, un tesserino sanitario e tutto il resto, ma dipende da lei. E non infili la mano in tasca, è già stato regolato tutto.» Erano le sei passate quando Szara lasciò l'alberghetto. La banchina del metrò di St-Paul era strapiena. Quando il treno arrivò, Szara dovette usare la forza per entrare, incastrandosi dietro una giovane donna che poteva essere, a giudicare da com'era vestita, una commessa o una segretaria. Mentre il treno ripartiva gli disse qualcosa di sgradevole che lui non capì, ma gli fece sentire un'abbondante alitata della salsiccia che aveva mangiato a colazione. Sul collo si poteva vedere il punto in cui aveva smesso di incipriarsi. «Chiedo scusa» mormorò Szara. Lei gli diede una risposta in gergo che lui non comprese. Quando la folla si mosse alla stazione Hôtelde-Ville, Szara venne premuto contro di lei con ancora più forza; gli ispidi capelli ricci della donna gli sfioravano il naso. «Presto saremo sposati» disse cercando di alleggerire la situazione. Lei non ne fu divertita e lo ignorò apertamente. Dopo un cambio di treno Szara raggiunse la sua stazione, SèvresBabylone, e percorse con passo veloce rue du Cherche-Midi verso il suo appartamento. Per quanto fosse oberato di impegni, non poteva incontrare Valais con un secondo passaporto in tasca. La portinaia gli diede la buonasera dalla finestrella mentre lui si affrettava verso il suo ingresso nel cortile. Salì di corsa i tre piani di scale, aprì la porta dalla serratura difettosa, nascose il passaporto e i certificati sotto il tappeto e si lanciò di nuovo verso il pianterreno. La portinaia lo guardò passare inarcando un sopracciglio: erano pochissime le cose che la infastidivano o la sorprendevano, ma in generale non approvava la fretta.
Di nuovo verso la stazione di Sèvres, schivando massaie che tornavano dai mercati e saltando un guinzaglio teso fra un aristocratico e il suo levriero italiano che faceva i suoi bisogni sul marciapiede. La folla che stipava il metrò era addirittura aumentata con l'avvicinarsi delle sette. Valais aveva il divieto di aspettarlo per più di dieci minuti; se Szara fosse arrivato più tardi, avrebbero dovuto rinviare l'incontro all'indomani. Il primo treno che si fermò rivelò un muro impenetrabile di cappotti scuri all'apertura delle porte, ma Szara riuscì a salire sul successivo. Dopo un cambio a Montparnasse, senza quasi avere il tempo di assicurarsi che nessuno lo seguisse, uscì dalla stazione alle sette e un minuto, svoltò dietro il primo angolo e tornò di corsa nella direzione da cui era venuto. Era un sistema primitivo, ma non aveva il tempo per fare di meglio. Mancavano trenta secondi alla scadenza quando entrò in un negozio di abbigliamento femminile (lunghi stenditoi di vestiti da due soldi e una densa nube di profumo) nei pressi di place d'Italie. Il negozio era di proprietà della compagna di Valais, una donna bassa e pettoruta con una permanente tinta con l'henné e un rossetto cremisi. Valais era un avvocato dall'aria contemplativa con la pipa sempre in bocca; che cosa lui e quella donna vedessero l'uno nell'altra, Szara non riusciva a immaginarlo. Lei aveva qualche anno più di Valais, ed era dura come l'acciaio. Ansimando, Szara percorse il negozio verso il retro. La tenda all'ingresso del camerino era aperta, e una donna in sottoveste stava lottando per infilarsi un vestito verde pisello che le si era aggrovigliato attorno alla testa e alle spalle. Valais attendeva nello stanzino in cui venivano effettuate le modifiche. Quando Szara arrivò stava per andarsene, e si era già infilato il cappotto e i guanti. Alzò gli occhi dall'orologio, strinse la pipa fra i denti e gli diede la mano. Szara crollò su una sedia davanti a una macchina per cucire e posò i piedi sul pedale. Valais si lanciò in una lunga, decisa, guardinga descrizione dei suoi ultimi dieci giorni di attività. Szara finse di ascoltarlo, tornando con il pensiero a ciò che aveva detto Evans quel pomeriggio, quindi si ritrovò a pensare alla donna in metrò. Gli si era appoggiata? No, non gli sembrava. «E poi c'è Lichene» concluse Valais, attendendo la replica di Szara. "E chi diavolo è Lichene?" Szara provò un orribile vuoto di memoria. Finalmente ricordò: la giovane prostituta basca, Hélène Cauxa, praticamente inattiva per gli ultimi due anni ma stipendiata settimanalmente. «Adesso cos'ha combinato?» domandò. Valais posò una valigetta nera sul tavolino della macchina per cucire.
«Ha... be', conosciuto un gentiluomo tedesco nel bar di un certo hotel in cui a volte va a bere. Lui le ha fatto una proposta, e lei ha accettato. Sono andati nell'albergo più a buon mercato dei paraggi, dove lei riceve di quando in quando i suoi clienti. Il gentiluomo ha scordato la sua valigetta, e lei me l'ha portata.» Szara la aprì: era riempita da un pacco di libretti grandi come opuscoli, forse duecento, legati con lo spago. Fissato con una graffetta alla copertina del primo c'era un foglio di carta con la parola «Weiss» scritta in stampatello a matita. Szara sfilò uno dei libelli dalla confezione e lo aprì. Sul lato sinistro della pagina c'erano alcune frasi in tedesco, su quello destro le loro traduzioni in polacco: Dov'è il sindaco (capo) del villaggio? Mi dica il nome del capo della polizia. C'è dell'acqua potabile in questo pozzo? Oggi sono passati dei soldati? Mani in alto o sparo! Arrendetevi! «Ha chiesto altri soldi» disse Valais. Szara si portò automaticamente la mano alla tasca. Valais gli disse quanto e lui contò la cifra, dicendosi che se la sarebbe sicuramente ricordata e dimenticandosela quasi all'istante. «Il nome dell'operazione dovrà essere Weiss» disse a Valais. Significava «bianco». «L'invasione della Polonia» disse Valais. Aspirò una rumorosa boccata dalla sua pipa e una nuvola di fumo si levò verso il soffitto. Dal negozio provenne il tintinnio della cassa. La donna in sottoveste aveva comprato il vestito verde pisello? «Sì» disse Szara. «Questi opuscoli sono destinati agli ufficiali della Wehrmacht che in attesa dell'offensiva verranno trasferiti dai loro incarichi di addetti militari a Parigi, quanto meno in alcuni casi, alle loro unità in Germania. Gli altri sono per l'Abwehr, il servizio segreto militare. Ma sembrano comunque un po' tanti. Forse era diretto in altre città, dopo Parigi.» «Altre sofferenze per i polacchi» disse Valais. «E Hitler si ritroverà ai confini dell'Unione Sovietica.» «Se avrà successo» obiettò Szara. «Non sottovaluti i polacchi. E la Francia e l'Inghilterra hanno garantito la difesa dei confini della Polonia. Se i tedeschi non fanno attenzione, finiranno per scontrarsi con il mondo intero,
come nel 1914.» «Sono sicuri di sé» disse Valais. «Hanno un'incrollabile fiducia in se stessi.» Fumò la sua pipa per qualche istante. «Ha letto Sallustio, lo storico romano? Quando parla delle tribù germaniche, usa toni sgomenti. I finnici, racconta, in inverno dormono all'interno di tronchi cavi, ma i germani si sdraiano nudi sulla neve.» Scosse la testa al pensiero. «Forse non lo sa, ma io sono un ufficiale della riserva. Faccio parte di un'unità di artiglieria.» Szara si accese una sigaretta e imprecò silenziosamente in polacco: «Psia krew», sangue di cane. Stava andando tutto in malora. Di nuovo in metrò con la valigetta. Di corsa sulle scale della casa in rue du Cherche-Midi. Guardandosi allo specchio e pettinandosi con le dita vide una striscia bianca di intonaco sulla spallina dell'impermeabile: doveva aver strisciato contro un muro. Cercò di pulirla, ci rinunciò, chiuse la valigetta in fondo all'armadio e uscì. Scese di corsa le scale, giunse a metà strada, fece dietrofront e tornò al suo piano. Rientrò nell'appartamento, prese la pila di certificati di emigrazione da sotto il tappeto, li mise nella sua valigetta e uscì di nuovo. Le strade erano affollate: coppiette che uscivano a cena, gente che tornava a casa dal lavoro. Il vento soffiava feroce, facendo vorticare la polvere e le carte. I passanti si premevano il cappello sulla testa con una smorfia, e nel cielo buio viaggiavano ondate di nubi color gesso. Szara avrebbe preso il metrò fino a Concorde, dove avrebbe proseguito con la linea per Neuilly. Da lì, se non avesse trovato un taxi avrebbe avuto un'altra mezz'ora di cammino. Si sarebbe sicuramente messo a piovere. Il suo ombrello era nell'armadio. Sarebbe arrivato in ritardo al club Renaissance, con l'aspetto di un ratto affogato e con uno sbaffo bianco sulla spalla. Serrò le dita sulla valigetta con i centosettantacinque certificati. Si era appoggiata a lui? Leggermente? Quando Szara fece il suo ingresso in biblioteca, de Montfried stava leggendo il giornale. Alzò il volto paonazzo di rabbia. «Sta per invadere la Polonia» disse. «Ha idea di cosa significhi?» «Credo di sì.» Szara si sedette senza essere stato invitato a farlo. De Montfried chiuse enfaticamente il giornale e si tolse gli occhiali da lettura. Nella penombra della stanzetta, i suoi occhi avevano il colore del fango. «Tutti quei discorsi sulle poveri, sofferenti minoranze tedesche di Danzica: ecco cosa significano.»
«Sì.» «Mio Dio, in Polonia gli ebrei vivono ancora nel Nono secolo. Lo sa? Sono... quando i chassidim vengono a sapere di una possibile invasione danzano di gioia: peggio vanno le cose, più sono sicuri che stia arrivando il Messia. Nel frattempo è già cominciata, ci hanno pensato i polacchi stessi a cominciare. Non è ancora un pogrom, ma ci sono stati pestaggi e accoltellamenti. Le bande a Varsavia fanno il bello e il cattivo tempo.» Scoccò un'occhiataccia a Szara. Aveva il volto contorto dalla rabbia, ma allo stesso tempo era un uomo importante che aveva il diritto di pretendere spiegazioni. «Sono nato in Polonia» rispose Szara. «So cosa significa.» «Ma perché quest'uomo è ancora vivo, questo Adolf Hitler? Perché gli viene concesso di vivere?» Piegò il giornale e lo posò su un tavolino intarsiato. L'ora di cena si stava avvicinando, e Szara poteva sentire il profumo della carne che arrostiva. «Non lo so.» «Non si può fare niente?» Szara rimase in silenzio. «Un'organizzazione come la vostra, con le sue capacità, le sue risorse in questo campo... Non capisco.» Aprì la valigetta e porse la pila di certificati a de Montfried, che li tenne in mano fissandoli con espressione vacua. «Ho un altro impegno» disse Szara il più gentilmente possibile. De Montfried scosse la testa per schiarirsi le idee. «Mi perdoni» disse. «Quello che sento è come una malattia. Non se ne andrà.» «Lo so» rispose Szara alzandosi per togliere il disturbo. Di nuovo in rue du Cherche-Midi. Cambio di valigette. Szara uscì di nuovo nel vento della sera e raggiunse a passi lenti la casa in rue Delesseux. Il Direttorato, si disse, avrebbe voluto mettere fisicamente le mani sugli opuscoli, incaricando un corriere speciale di portarli a Mosca. Comunque, credeva che fosse meglio trasmetterne i contenuti e il nome in codice Weiss il più presto possibile. Prese il metrò e cominciò a passare di linea in linea, seguendo attentamente le procedure: era vietato recarsi direttamente in rue Delesseux. Alla stazione di La Chapelle era scoppiata una rissa. Forse fra comunisti e fascisti, era difficile capirlo. Un gran miscuglio di lavoratori con i loro berretti, tre o quattro dei quali erano a terra con i volti insanguinati mentre altri due avevano bloccato un terzo contro un
muro e un quarto lo malmenava. Il macchinista non si fermò. Il treno percorse lentamente la stazione con i volti bianchi dei passeggeri che osservavano dai finestrini. Potevano udire le grida e le imprecazioni che sovrastavano lo sferragliare delle ruote; un uomo venne scagliato con violenza contro la fiancata di un vagone, e l'urto fece trasalire e gridare i passeggeri. Poi il treno tornò nel buio della galleria. La Schau-Wehrli era al lavoro in rue Delesseux. Szara le porse un opuscolo e le si fermò accanto mentre lo leggeva. «Sì» disse lei in tono riflessivo «ogni elemento punta in questa direzione. I miei uomini a Berlino, che lavorano per il sistema ferroviario tedesco, mi hanno detto la stessa cosa. Hanno sentito parlare di richieste di analisi sulle linee che raggiungono il confine polacco. Questo significa treni per il trasporto delle truppe.» «Quando?» «Nessuno lo sa.» «È un bluff?» «No, non penso. Di sicuro lo è stato con i cechi, ma non adesso. La produzione industriale del Reich sta rispettando le quote stabilite, la macchina bellica è praticamente pronta.» «E noi che faremo?» «Lo sa soltanto Stalin» rispose la Schau-Wehrli. «E a me non lo dice.» La mezzanotte era passata da un pezzo quando Szara fece finalmente ritorno a casa. Non era riuscito a cenare ma la fame era svanita da tempo, rimpiazzata dalle sigarette e dall'adrenalina. Ora invece si sentiva semplicemente infreddolito, sporco e sfinito. Aprì il rubinetto dell'acqua calda della grossa vasca di stagno in cucina per controllare se ce n'era ancora. Sì, quella notte c'era qualcosa di bello al mondo, un bagno caldo, e lui l'avrebbe fatto. Si spogliò e gettò gli abiti su una sedia, si versò un bicchiere di vino rosso e ruotò la manopola della radio fino a trovare del jazz americano. Quando la vasca fu piena vi entrò e si rilassò, bevve un sorso di vino, posò il bicchiere sulla parte più ampia del bordo e chiuse gli occhi. "Povero de Montfried" pensò. Tutto quel denaro, eppure era in grado di fare ben poco, o almeno così pensava. Aveva praticamente umiliato Szara in biblioteca, era così infuriato che i certificati, pagati un prezzo che lui non poteva nemmeno immaginare, erano sembrati un gesto di poco conto, insufficiente. Ah, i ricchi. Sarebbe ancora riuscito a trovare una delle ra-
gazze dei caffè? No, era impossibile. Ce n'era una a cui avrebbe potuto telefonare: traboccava di comprensione, quella ragazza adorava quelle che chiamava «le avventure della notte». "No, dormi" si disse. La musica cessò e un uomo cominciò ad annunciare le notizie. Szara tese il braccio sgocciolante verso la manopola, ma la radio era leggermente troppo lontana. E così fu costretto a sentire che i minatori di Lille erano in sciopero, che il ministro delle Finanze aveva negato le accuse infondate, che la ragazzina scomparsa nei Vosgi era stata ritrovata, che Madrid continuava a resistere mentre le fazioni combattevano nella città assediata. Stalin aveva emesso un'importante dichiarazione politica, riferendosi alla crisi attuale come alla «Seconda guerra imperialistica». Sosteneva che non «avrebbe permesso alla Russia sovietica di farsi trascinare in un conflitto da guerrafondai abituati a farsi levare le castagne dal fuoco da qualcun altro», e attaccava quei paesi che volevano «scatenare la rabbia sovietica contro la Germania, avvelenare l'atmosfera e provocare un conflitto con la Germania senza ragioni evidenti». Poi tornò la musica, sassofoni e trombe da una sala da ballo di Long Island. Szara posò la nuca sul bordo della vasca e chiuse gli occhi. Stalin sosteneva che Inghilterra e Francia stessero tramando alle sue spalle, inducendolo a combattere Hitler e aspettando di scagliarsi sul vincitore indebolito. E forse era vero. A comandare quei paesi c'erano aristocratici, intellettuali e ministri dello stato, laureati delle migliori università. Stalin e Hitler erano la feccia dei canali di scolo d'Europa che era riuscita a giungere a galla. Ebbene, in un modo o nell'altro sarebbe scoppiata la guerra. E Szara sarebbe rimasto ucciso. E Marta Haecht con lui. E i Baumann, Kranov, l'agente che l'aveva fatto fuggire da Wittenau durante la Kristallnacht, Valais, la Schau-Wehrli, Goldman, Nadia Tščerova. Tutti quanti. L'acqua del bagno si stava raffreddando troppo in fretta. Szara tolse il tappo, ne lasciò scendere una parte, riaprì l'acqua calda e si distese sotto il getto. A Londra, al quarto piano del numero 54 di Broadway (apparentemente la direzione della Società Estintori Minimaz) gli agenti dell'MI6 analizzavano le informazioni di Curato, le univano a quelle provenienti da una varietà di altre fonti e le inviavano ai destinatari sparsi nei piccoli, tranquilli uffici della città. I plichi viaggiavano in auto e in bicicletta, tramite fattorini o tubi pneumatici, a volte percorrendo lunghi corridoi umidi, altre volte penetrando in locali rivestiti di pannelli e riscaldati da fuochi di legna. Erano informazioni raccomandate. I dati che confermavano la produzione tedesca di cavi stampati erano disponibili grazie a fonti indipendenti, e le
cifre relative alla produzione tedesca di bombardieri erano ulteriormente confermate dalle ordinazioni, ricevute dalle stesse aziende britanniche, di tecnologia per la protezione delle candele d'accensione dei velivoli e dagli ingegneri e uomini d'affari che avevano rapporti legittimi con l'industria tedesca. Il materiale giungeva per esempio al centro Spionaggio industriale, che svolgeva un ruolo chiave nell'analisi delle potenzialità belliche della Germania. Il centro era diventato molto importante ed era collegato con i sottocomitati congiunti per la Pianificazione e le Informazioni segrete, con quello per le Pressioni economiche contro la Germania e con la commissione Obiettivi aerei. La storia di Curato giungeva anche più in alto, a volte per vie non ufficiali, nelle vicinanze di Whitehall e del ministero degli Esteri, e da lì andava ancora più in là. C'era sempre qualcun altro che doveva esserne informato; conoscenza significava potere, e alcuni gradivano far sapere che possedevano informazioni segrete perché ciò li faceva sembrare importanti: segrete sì, ma non per loro. Simultaneamente, in un'area molto diversa dell'amministrazione pubblica, l'ufficio che si occupava delle questioni coloniali era diventato un vespaio quando le spie avevano cominciato a cacciare di frodo nel suo territorio. La Palestina britannica era il loro regno, e che si amassero gli arabi o gli ebrei o che li si odiasse tutti quanti, la rissa attorno ai certificati legittimi di emigrazione era stata violenta e sanguinosa. E aveva fatto discutere. E così la gente era a conoscenza di quella storia, di quel Curato, un russo che da Parigi forniva qualche sporadico bocconcino al leone britannico in cambio di un discreto spostamento della zampa. E alcuni di coloro che ne erano a conoscenza ne erano segretamente indignati. Tanto per cominciare, le loro vere inclinazioni erano altre. Fin dai loro primi anni a Cambridge si erano uniti agli idealisti, ai progressisti, agli uomini di coscienza e buona volontà del Cremlino. Era difficile capire chi svolgesse veramente il lavoro fra Anthony Blunt, Guy Burgess, Donald MacLean, H.A.R. Philby o gli altri sconosciuti. Tutti approfittavano degli scambi di informazioni fra le burocrazie dei servizi segreti e diplomatici, ma uno o più di loro avevano reputato che valesse la pena di informarne qualcuno, e così lo facevano. Nominato a cena in un club privato o depositato in un luogo di consegna lungo il muretto di un cimitero, il nome in codice Curato e il profilo generale di ciò che esso significava cominciarono così a viaggiare verso est. Non si muoveva da solo (c'erano molti altri fatti e pettegolezzi da riferire) e non si muoveva a gran velocità; non venne dato alcun allarme. Ma
alla fine giunse a Mosca, e poco più tardi all'ufficio giusto del dipartimento giusto. Finì fra individui circospetti, reduci della purga che vivevano in un pericoloso crepuscolo sottomarino di predatori e prede, individui che si muovevano con cautela, che avevano troppo buon senso per catturare pesci troppo grossi per le loro reti, poiché facendo ciò si poteva finire sul fondo dell'oceano, com'era già accaduto. Sulle prime si accontentarono della pura ricerca, del tentativo di scoprire il chi, il dove e il perché. L'azione sarebbe arrivata a tempo debito e nel modo più appropriato. È stato detto che gli agenti del controspionaggio sono per natura dei guardoni. Amano starsene a osservare ciò che accade poiché quando finalmente arriva il momento di uscire dall'ombra e sfondare la porta il divertimento è finito, gli incartamenti vengono portati via, gli ingranaggi cominciano a girare e poi arriva il momento di ricominciare da capo. Un mattino dei primi giorni di maggio, i giornali parigini riportarono in toni sobri la notizia di un cambio al ministero degli Esteri dell'Unione Sovietica: M.M. Litvinov era stato rimpiazzato da V.M. Molotov. Alcuni proseguirono a leggere l'articolo sotto il titolo, altri no. Era il momento di redenzione della primavera: Parigi era verdeggiante, dolce e piena di ragazze, la vita sarebbe andata avanti in eterno, la luce del mattino danzava sulla tazza di caffè e sul vaso di germogli, e i raggi di sole che entravano nella stanza la trasformavano in un dipinto fiammingo. I diplomatici russi andavano e venivano. Chi ci badava veramente? André Szara, tenendo fede alla sua anima eternamente divisa, fece entrambe le cose: proseguì a leggere e non ci badò. Giudicò l'articolo alquanto incompleto, ma ciò non era nulla di nuovo. M.M. Litvinov era in realtà Maksim Maksimovič Wallach, un tozzo, casalingo gentiluomo ebreo della vecchia scuola, un vero intellettuale, miope e pedante. Come diavolo aveva fatto a durare così a lungo? V.M. Molotov, in realtà Vjacheslav Michajlovič Skrjabin, aveva cambiato nome per una ragione alquanto diversa. Come Džugašvili era diventato Stalin, «l'Uomo di Acciaio», così Skrjabin era divenuto Molotov, il «Martello». "E così" si disse Szara "insieme forgeranno una spada." Quel commento insolente si sarebbe rivelato veritiero, ma quel giorno Szara aveva già molto a cui pensare. Aveva in programma un buon numero di affannate commissioni e non era meno sensibile alle brezze primaverili di chiunque altro a Parigi, e così non si rese conto fino in fondo della gravità della notizia, non udì lo scatto dell'ultimo ingranaggio di un com-
plesso macchinario. Sentì il cinguettio degli uccelli, la vicina che scuoteva le lenzuola prima di appenderle oltre il davanzale, l'arrotino che suonava il suo campanello in rue du Cherche-Midi, ma nient'altro. Adolf Hitler lo sentì di sicuro, quello scatto, ma d'altra parte aveva un udito finissimo. «L'allontanamento di Litvinov è stato decisivo» avrebbe dichiarato in seguito. «Mi è giunto come una cannonata, come il segno che l'atteggiamento di Mosca nei riguardi delle potenze occidentali era cambiato.» I servizi segreti francesi lo udirono, anche se probabilmente non come una cannonata, e il 7 maggio riferirono che, a meno di un enorme sforzo diplomatico da parte di Francia e Inghilterra, entro la fine dell'estate la Germania e l'URSS avrebbero firmato un trattato di non aggressione. Il 10 maggio, Szara venne convocato a Bruxelles. «Dovremo stringere un accordo con Hitler» disse Goldman in tono addolorato e disgustato. «È colpa di Stalin: le purghe hanno indebolito le forze armate al punto che non siamo in grado di combattere con qualche prospettiva di vittoria. Non adesso. Dobbiamo prendere tempo, e l'unico modo di farlo è firmare un trattato.» «Buon Dio» esclamò Szara. «Non possiamo farci niente.» «Stalin e Hitler.» «I partiti comunisti europei non ne saranno felici, ai nostri amici americani non piacerà, ma è arrivato il momento che imparino un pizzico di Realpolitik. Gli apprensivi e i piagnoni protesteranno come matti. Saremo costretti a scaricarli, e tanto di guadagnato. Quelli che derideranno di restare fedeli saranno i veri amici, gente su cui potremo contare perché veda le cose come le vediamo noi, sicché forse andrà tutto bene. È dal 1917 che sudiamo e sanguiniamo per costruire uno stato socialista; non possiamo permettere che vada tutto a rotoli nel nome del sogno idealista. Le fabbriche, le miniere e le fattorie collettive: è questa la realtà. E per proteggere l'investimento dovremo fare un patto con il diavolo in persona.» «Stiamo evidentemente per farlo.» «Inevitabile. Molti dei servizi segreti l'hanno già capito, e la gente lo saprà quest'estate, entro luglio o agosto. Abbiamo qualche settimana per svolgere il nostro lavoro.» «Non è molto.» «È quello che abbiamo, ce lo faremo bastare. La prima cosa, la più im-
portante, sono le reti stesse. Non perda tempo con i mercenari, lavori sui sostenitori. Sta offrendo loro rivelazioni sulla vita ai vertici, dove vengono prese le decisioni strategiche. I nazisti non saranno mai amici di nessuno, men che meno nostri, ma abbiamo bisogno di tempo per armarci e questo è il modo di guadagnarlo. Se qualcuno non accetterà questa linea, lei me ne dovrà informare. Siamo intesi?» «Sì.» «Con i nostri informatori tedeschi non cambia nulla. In guerra combattiamo contro i nostri nemici, in pace contro i nostri amici. Ora avremo una sorta di pace, ma le operazioni proseguiranno come prima. Ora più che mai vogliamo sapere cosa succede in Germania: cosa pensano, cosa programmano, che capacità hanno e come schierano le loro forze militari. I tempi sono pericolosi e instabili, André Aronovič, ed è in queste situazioni che le reti devono operare al massimo delle loro capacità.» «Se si verificasse una disgrazia, se qualcuno venisse smascherato, che cosa accadrebbe?» «Dio non voglia. Ma non credo che il Referat VI C rimanderà tutti a casa a occuparsi dei loro roseti, perciò non lo faremo nemmeno noi. Il modo di affrontare quella che lei definisce "disgrazia" è assicurarsi che non accada. Ho risposto al suo interrogativo?» Szara fece una smorfia sarcastica. «Secondo, si dia da fare con i suoi contatti personali. Oh, il mondo è proprio terribile, che cosa possiamo fare? Come possiamo ottenere la pace? Bisogna trovare un compromesso, qualcuno deve essere disposto a concedere un centimetro per mostrare all'altro che non ha cattive intenzioni. Soltanto l'URSS è abbastanza forte da poterlo fare. Che gli inglesi e i francesi agitino pure le loro spade, che mettano pure in movimento i loro cannoni; noi vogliamo alleviare la pressione lungo il confine orientale di Hider, intendiamo firmare accordi commerciali e organizzare scambi culturali. Lasciamo che siano le compagnie di danze folkloristiche a risolvere la questione fra loro: noi intendiamo trovare il modo di convivere in un mondo in cui non tutto è come vorremmo che fosse. Niente più mobilitazioni! Niente più 1914!» «Urrà!» «Non faccia lo spiritoso. Se non ci crede lei, non ci crederà nessun altro. Dunque trovi il modo.» «E i polacchi?» «Troppo testardi per sopravvivere, come al solito e come sempre sarà.
Difenderanno il loro onore, faranno tanti bei discorsi e un bel mattino si sveglieranno parlando tedesco. Non c'è nulla da fare per i polacchi. Hanno scelto di andare per la loro strada? Bene, che vadano pure.» «Dovrebbero consegnare Danzica?» «Consegni sua sorella. Io e lei, seduti in questa bottega, sappiamo che quando i bombardieri tedeschi entreranno in azione Varsavia si trasformerà in un inferno. È la realtà. Bene, come terza cosa lei dovrà impugnare la sua penna fantasiosa e mettersi al lavoro. Provi con uno di quei giornali francesi per intellettuali che fanno venire il mal di testa e cominci a plasmare il dibattito. Se esistesse un modo di cooptare l'argomento direttamente, formulando gli interrogativi iniziali, la vita sarebbe perfetta. Ma a questo non possiamo aspirare; ogni scrittore al mondo finirà per dire la sua, ma quanto meno lei potrà dargli una spintarella. Per esempio: che cosa deve fare il socialismo mondiale per sopravvivere? Dobbiamo morire tutti quanti, oppure c'è un'alternativa? La diplomazia è veramente finita? Si sarebbe potuto evitare il bagno di sangue spagnolo se tutti fossero stati più disponibili al negoziato? «Verrà crocifisso dai marxisti dogmatici, ovviamente, ma che importa? L'importante è mettere in moto il dibattito reclamando una posizione. Ci sarà sicuramente qualcuno che si precipiterà a difenderla: c'è sempre, qualsiasi cosa uno dica. E in caso contrario, quando la gente le si parerà davanti alle serate e le rinfaccerà che Lenin si sta rivoltando nella sua bacheca, lei avrà le risposte giuste: non dimenticate che l'URSS è la speranza dell'umanità progressista e l'unico rimedio esistente al fascismo, ma che deve sopravvivere. Stalin è un genio, e questo patto sarà qualcosa di geniale, una finta diplomatica per evitare il colpo fatale. E l'istante in cui il patto viene reso noto al pubblico, è questo che voglio leggere sotto la sua firma, senza essere costretto a convocarla in Belgio. È tutto chiaro?» «Oh sì» rispose Szara. «Inghilterra e Francia vogliono la guerra per soddisfare le loro mire imperialistiche, la Russia è la sola a volere la pace. Tra le righe, con una strizzata d'occhio e una gomitata fra le costole, si leggerà: "Quel vecchio volpone del Caucaso sta facendo quello che deve fare per guadagnare tempo. Con Hitler regoleremo i conti quando saremo pronti a farlo". È questo il succo?» «Esattamente. Non sarà il solo, ovviamente. Tutti gli scrittori sovietici daranno una mano: nel giro di tre mesi, a Mosca probabilmente ci sarà uno spettacolo teatrale sul tema. A proposito, la sua partecipazione è stata un ordine diretto: "Laggiù avete Szara, mettetelo al lavoro!" sono state le loro
testuali parole. È un grosso sforzo: nel caso se lo stesse domandando, hanno nominato Molotov perché tratti con Ribbentrop, il ministro degli Esteri tedesco. Non possiamo inviare un ebreo grassottelle a negoziare con i nazisti, non trova?» «La Realpolitik, come ha detto lei.» «Giusto. A proposito, le suggerisco di preparare una borsa e tenerla sempre accanto alla porta. Se la situazione si evolverà come crediamo, c'è la possibilità che presto si debba mettere in viaggio.» «Per l'OPAL?» «No, no. Nelle vesti del giornalista Szara, la voce della Russia che si fa sentire dai paesi stranieri. Dovrebbe concedersi un cenone, André Aronovič, vedo un grande passo avanti nel suo futuro professionale.» La nomina di Molotov (in apparenza niente più di una faccenda diplomatica in un periodo in cui ce n'era già un profluvio) produsse un cambiamento di atmosfera, tanto a Parigi quanto ovviamente in altre capitali europee. André Szara si ritrovò a fare cose che non capiva fino in fondo ma che si sentiva comunque spinto a fare. Come gli aveva suggerito Goldman, si preparò a una partenza affrettata. Montò su una sedia, prese la sua valigia da sopra l'armadio, soffiò via parte della polvere che la ricopriva e decise che aveva bisogno di qualcos'altro. La valigia di cuoio martellato color ocra con una striscia marrone rossiccia aveva sulle spalle dodici anni di duro servizio per la «Pravda». Era intaccata e graffiata e scolorita, e lo faceva sembrare un rifugiato. Le mancava soltanto lo spago annodato. Szara visitò le valigerie, ma quello che vide non gli piacque: era troppo alla moda oppure troppo fragile. Un giorno passò davanti a un negozio di articoli in pelle su ordinazione nel VII arrondissement, vide le selle e gli stivali da equitazione in vetrina ed entrò d'impulso. Il proprietario era ungherese, un serio artigiano in camice con due mani indurite e irruvidite dagli anni passati a tagliare e cucire il cuoio. Szara gli spiegò quello che cercava, una sorta di valigia o di borsa da dottore, una forma antiquata ma durevole, fatta di pelle resistente. L'ungherese annuì, gli mostrò qualche campione e sparò una cifra sbalorditiva. Szara accettò comunque. Era da tempo che non desiderava così tanto un oggetto. Ah, un'ultima cosa: di quando in quando trasportava documenti d'affari riservati, e con il genere di individui che ormai lavoravano negli alberghi... L'ungherese si mostrò profondamente comprensivo e gli fece
capire che non era l'unico cliente a mostrare simili preoccupazioni. Il doppio fondo tradizionale era vecchio come il mondo, vero, ma quand'era realizzato nel modo giusto era ancora efficace. Avrebbe creato un secondo pannello che combaciava perfettamente con il fondo, e i documenti avrebbero potuto essere sistemati fra i due strati. «Naturalmente, signore, sarebbe più sicuro se lo facesse cucire. Non tanto per il personale degli alberghi, capisce, poiché la borsa avrà un'eccellente chiusura, quanto per un problema di, come dire, frontiere.» La delicata parola aleggiò nell'aria per un istante, passato il quale Szara lasciò una caparra e promise di tornare in giugno. Una settimana dopo decise che se doveva viaggiare, non voleva lasciare nell'appartamento il passaporto di Jean Bonotte. I furti in casa erano rari ma accadevano, specialmente quando gli occupanti restavano assenti per lunghi periodi. E di tanto in tanto il NKVD avrebbe potuto inviare una coppia di specialisti, giusto per vedere quello che c'era da vedere. E così Szara aprì un conto a nome di Bonotte, usando il passaporto come documento d'identità, presso una filiale della Banque du Nord sul boulevard Haussmann, e poi mise il passaporto in una cassetta di sicurezza. Tre giorni dopo, in una perfetta mattina di giugno, tornò in banca e posò sopra il passaporto una busta con dodicimila franchi. "Che cosa stai facendo?" si chiese. Ma non lo sapeva; si rendeva soltanto conto di provare un disagio vagamente indefinibile, come un cane che ulula alla vigilia di una tragedia. Qualcosa, da qualche parte, lo stava mettendo sull'avviso. Le sue origini, forse. Seicento anni di vita ebraica in Polonia, di presagi, segni, portenti, istinti. La sua stessa esistenza provava una discendenza da generazioni che a differenza di altre erano sopravvissute, forse grazie all'innata consapevolezza di quando stava per scorrere il sangue. "Nascondi del denaro" gli aveva detto una voce. "Armati" soggiunse la stessa voce qualche sera dopo. Ma quello, per il momento, Szara non lo fece. Strano mese, quel giugno. Accadde di tutto. La Schau-Wehrli venne contattata da un gruppo di rifugiati politici cechi che vivevano nella cittadina di Saint-Denis, nella cosiddetta Zona Rossa a nord di Parigi. Erano comunisti fuggiti in marzo, quando Hitler aveva invaso il resto della Cecoslovacchia, e il contatto con l'OPAL venne stabilito tramite l'apparato clandestino del partito comunista francese. Il gruppo riceveva informazioni segrete scritte con inchiostro simpatico sul retro di buste bancarie contenenti le ricevute dei fondi spediti ai parenti che vivevano a Praga e a Brno. L'inchiostro che usavano veniva creato nel laboratorio di chimica di un'u-
niversità. Come nei casi classici, in cui venivano usati l'urina e il succo di limone, il messaggio veniva portato alla luce con l'applicazione di un ferro da stiro caldo. Le informazioni erano abbondanti, e andavano dagli ordini di battaglia della Wehrmacht, ai dati numerici sulle unità tedesche, ai dati finanziari, apparentemente trafugati dalle stesse impiegate di banca che preparavano le buste, alle informazioni industriali (quasi tutte le rinomate officine meccaniche ceche lavoravano ormai per l'industria bellica del Reich). Il gruppo richiedeva molte attenzioni. Erano in otto, tutti consanguinei o sposati, e malgrado fossero spinti da un sincero odio per i nazisti consideravano il loro contributo come una questione d'affari e sapevano esattamente quanto valeva quel genere di informazioni. Tre dei membri del gruppo di Saint-Denis avevano dei trascorsi nei servizi segreti; quando Hitler aveva conquistato i Sudeti, avevano creato una rete in Cecoslovacchia con l'obiettivo di mantenere se stessi e le loro famiglie quando si fossero trasferiti in Francia. Le due impiegate di banca erano figlie di due sorelle, cugine di primo grado, e i loro mariti raccoglievano informazioni tramite amicizie presso i centri sportivi per soli uomini. Una simile rete locale già attiva era quasi troppo bella per essere vera, e per questo il Direttorato di Mosca era avido di informazioni e al tempo stesso timoroso che fosse una trappola del Referat VI C. L'ambivalenza diede origine a un flusso enorme di comunicazioni e a un gran dispendio di tempo da parte della Schau-Wehrli, e alla fine Goldman fu costretto a ordinare che la rete Corvo venisse affidata a Szara. Il quale, nel ricevere l'incarico, annuì con aria grave, sebbene l'idea di lavorare con Nadia Tščerova non gli dispiacesse. Nel modo più assoluto. In rue Delesseux lesse tutto il dossier Corvo, compresi i rapporti più recenti della Tščerova nella loro forma originaria: un russo aristocratico e letterario scritto a lettere minuscole su microfilm che erano stati trasportati oltre confine nelle spalline di Odile e poi sviluppati nella camera oscura di una mansarda. I rapporti precedenti erano stati ribattuti testualmente a macchina e archiviati in sequenza. Szara lesse in preda allo sbalordimento più assoluto. Dopo l'ansiosa aridità del dottor Baumann e la precisione da avvocato di Valais, era come trascorrere una serata a teatro. Che occhio aveva quella donna! Penetrante, malizioso, ironico, come se Balzac fosse rinato nelle vesti di una rifugiata politica russa nella Berlino del 1939. Letti di seguito, i rapporti di Corvo formavano un romanzo di denuncia sociale. La sua vita era una successio-
ne di ruoli minori in brutte commedie, cenette intime, feste movimentate e fine settimana nella foresta bavarese, caccia al cinghiale durante il giorno e un gran girotondo di letti durante la notte. Szara provava qualcosa per quella donna, malgrado sospettasse che fosse una specialista nel far provare quel qualcosa, e si era aspettato di seguire con animo greve le sue liaisons intimes mai consumate fino in fondo. Ma non fu così. Quella sera nel suo camerino gli aveva detto la verità: si proteggeva dal peggio e non si faceva turbare da quanto accadeva intorno a lei. Quell'invulnerabilità noncurante era presente in ogni riga dei suoi rapporti, e Szara se ne sentì soprattutto divertito. In quel campo la Tščerova aveva una mentalità quasi maschile, e ritraeva i suoi goffi, ubriachi pretendenti e le loro complicate richieste con una delicata brutalità che lo faceva ridere ad alta voce. Per Dio, si disse, lei non è migliore di me. E non risparmiava nemmeno i suoi subagenti. Lara Brozina era autrice di «quel tipo di poesia agghiacciante e malinconica che i tedeschi di un certo livello adorano». Il fratello della Brozina, Viktor Brozin, attore radiofonico, aveva «la testa di un leone e il cuore di un pappagallino». E il maestro di danza Anton Krafic «ogni mattina era condannato a vivere un altro giorno». Szara riusciva a vederli: il languido Krafic, il leonino Brozin, la Brozina così terribilmente sensibile, ridicoli impostori che facevano regolari progressi nel ventre oscuro della società nazista. E la Tščerova non risparmiava dettagli. Durante un fine settimana in un castello nei pressi della cittadina di Traunstein, era entrata in bagno dopo la mezzanotte e vi aveva trovato «B. ("Birraio'', il nome in codice di Krafic) che sorseggiava champagne immerso nella vasca da bagno con l'Hauptsturmführer delle SS Bruckmann, il quale indossava un cappello a cloche con un velo e un rossetto color carminio». E di questo, si chiese Szara, che cosa aveva pensato il Direttorato? Scoprì la risposta consultando la cartella dei rapporti inoltrati a Mosca: la Schau-Wehrli aveva rimaneggiato il materiale per renderlo più accettabile. Il suo dispaccio che riportava la descrizione dell'allegro bagnetto diceva soltanto: «Birraio riferisce che l'Hauptsturmführer delle SS Bruckmann è stato recentemente coinvolto con il suo reggimento in manovre nella zona paludosa prossima ai Laghi Masuri, nella Prussia orientale». Un'altra indicazione, si disse Szara, dell'imminente invasione della Polonia, dove le truppe avrebbero potuto incontrare condizioni simili. Un dossier ricco e soddisfacente. Finì di esaminarlo nel pomeriggio del solstizio d'estate, "il giorno in cui
si dice che il sole faccia una pausa" pensò. Un'idea piacevole. Aveva in sé qualcosa di russo. Come se l'universo si fermasse un istante a riflettere, si concedesse un giorno di vacanza. Lo si poteva avvertire, il tempo che rallentava: il clima lieve e soleggiato, alquanto vago, un uccellino che cinguettava sul balcone accanto, Kranov che cifrava messaggi alla sua scrivania canticchiando una melodia russa, il campanello sulla porta del tabac al pianterreno che tintinnava all'ingresso di un cliente. All'improvviso il cicalino d'allarme accanto al tavolo di Kranov diede un ronzio. Era un segnale che veniva dato da un pulsante sotto il banco del tabac. Subito dopo venne seguito da un colpo alla porta in fondo alle scale, una porta riparata da una tenda sulla parete posteriore del negozio. Szara non sapeva assolutamente cosa fare, e nemmeno Kranov. S'immobilizzarono entrambi, come due lepri sorprese in mezzo a un campo innevato. Erano letteralmente circondati da materiale incriminante: cartelle, veline, documenti rubati e il radiotelegrafo stesso, la cui antenna veniva ingegnosamente fatta passare per il camino in disuso attraverso la soffitta. Non avevano modo di sbarazzarsi di nulla. Si sarebbero potuti lanciare giù dalle scale e fuori dalla porta di servizio, o tuffare dalla finestra rompendosi le caviglie, ma non fecero nessuna delle due cose. Erano le tre e mezza di un assolato pomeriggio estivo, e non c'era un filo di oscurità che potesse coprire la loro fuga. Rimasero seduti ai loro posti e subito dopo udirono un secondo colpo alla porta, forse leggermente più insistente del primo. Szara, non sapendo cos'altro fare, scese le scale e la aprì. Si trovò davanti due educati francesi. Erano francesi di una certa classe, indossavano leggeri abiti beige dal taglio tradizionale, camicie fresche, cravatte di seta non terribilmente alla moda ma nemmeno troppo fuori moda. Le tese dei loro cappelli erano abbassate alla stessa precisa angolazione. "Mio Dio, sono arrivati gli uomini col cappello" pensò Szara in russo. I due uomini tradivano il particolare colorito che i francesi privilegiati assumevano dopo pranzo, un lieve rossore sulle guance che indicava ai bene informati che la carne era buona e il vino niente male. Si presentarono e gli porsero i loro biglietti da visita. Erano ispettori dei vigili del fuoco. Avrebbero dato una breve occhiata, se non era troppo disturbo. Non erano affatto ispettori dei vigili del fuoco, ma Szara fu costretto a stare al gioco e farli entrare. Quando giunsero al secondo piano, Kranov era riuscito a togliere la coperta dalla finestra e a gettarla sul radiotelegrafo, trasformandolo in una curiosa gobba scura su un vecchio tavolo dal
quale un cavo risaliva lungo l'angolo del muro e scompariva nel solaio attraverso un foro irregolare nel soffitto. Personalmente, Kranov si era rifugiato in un armadio o sotto il letto dell'appartamento di Odile al primo piano (uno di quei nascondigli ispirati che si trovano quando si è in preda al panico), ma in ogni caso passò inosservato. I francesi non si guardarono intorno, non tolsero la coperta da sopra il radiotelegrafo, non si presero nemmeno il disturbo di entrare nell'appartamento di Odile. Uno di loro disse: «Quanta carta, in una stanza così piccola. Deve fare attenzione con le sue sigarette. Forse dovrebbe sistemare un secchio di sabbia in un angolo». Si sfiorarono le tese dei cappelli con la punta delle dita e se ne andarono. Szara, le ascelle della camicia intrise di sudore, si afflosciò su una sedia. Dal piano inferiore provenne il tonfo e l'imprecazione di Kranov, intento a districarsi dal nascondiglio in cui si era infilato. "Una commedia" si disse Szara, "una commedia." Si premette i palmi delle mani sulle tempie. Kranov, imprecando sottovoce, gettò la coperta in un angolo e segnalò il disastro a Goldman. Per le due ore successive vi fu un andirivieni di messaggi, e la matita di Kranov segnò colonne di cifre a mano a mano che rispondeva alle precise domande di Goldman. Da qualche parte, Szara ne era sicuro, i francesi avevano un ricevitore e stavano prendendo nota dei numeri che gracchiavano nell'aria estiva. Alla fine del botta e risposta, Szara si rese conto che la partita non si era conclusa, che la rete non era stata smascherata. Non esattamente. Erano stati evidentemente avvertiti, probabilmente dal Servizio d'informazioni militare tramite due agenti della prefettura di Parigi e della DST, la Direzione della Sorveglianza del Territorio, l'equivalente francese dell'FBI americano. L'avvertimento era articolato in due parti. Sappiamo che cosa state facendo, diceva la prima. Non era una gran sorpresa, se Szara si soffermava un istante a rifletterci. La polizia francese ci aveva sempre tenuto, fin dai tempi in cui Fouché era al servizio di Napoleone, a sapere che cosa succedeva nel paese e in particolare nella capitale. Che poi facesse qualcosa in merito era un problema molto diverso, poiché potevano entrare in gioco decisioni di carattere politico; ma le autorità erano scrupolose nell'osservare ciò che accadeva di quartiere in quartiere, di sobborgo in sobborgo. Sicché, in ultima analisi, il fatto che fossero al corrente dell'esistenza dell'OPAL non era una gran sorpresa. Dal loro punto di vista, il fatto che i russi spiassero la Germania, il ne-
mico tradizionale della Francia, non li danneggiava. Forse potevano aver ricevuto, ad altissimi livelli, un risarcimento per la libertà d'azione concessa all'OPAL, risarcimento sotto forma di informazioni segrete selezionate. C'erano sempre accordi che andavano al di là delle apparenze. Ma la seconda parte dell'avvertimento era alquanto seria: se intendete davvero diventare alleati della Germania avete i giorni contati, poiché ciò danneggerebbe gli interessi della Francia e noi non possiamo permetterlo. E così, signori, ecco a voi due ispettori dei vigili del fuoco, inviati nel modo più cortese e premuroso, e cioè prima che le cose s'infiammino sul serio. Siamo sicuri che capirete. In luglio, l'operazione Lontra ebbe termine. Dal dottor Baumann non avrebbero più ricevuto notizie, pertanto il baratto fra informazioni e certificati di emigrazione di quel mese era l'ultimo. Szara richiese un incontro con de Montfried, e questi rispose immediatamente. Giunse dalla sua residenza di campagna, un castello nei pressi di Tours. Indossava un abito color panna, una camicia azzurro pallido e un papillon. Posò con cautela il cappello di paglia sul tavolino intarsiato della biblioteca, intrecciò le mani e guardò Szara con grande aspettativa. Quando si sentì dire che l'operazione era conclusa, si portò le mani al volto come se fosse sopraffatto dalla stanchezza. Rimasero seduti in silenzio per qualche minuto. Fuori regnava un silenzio oppressivo; un lungo, vuoto pomeriggio d'estate. Szara era dispiaciuto per de Montfried, ma non sapeva come consolarlo. Che cosa c'era da dire? Quell'uomo aveva scoperto di essere meno potente di quanto credesse. Eppure, si rese conto Szara, per lui sarebbe cambiato ben poco. Al mondo avrebbe presentato la stessa immagine di sempre, avrebbe vissuto alla grande, si sarebbe mosso con disinvoltura nei quartieri alti della società francese; nell'altezzoso club Renaissance sarebbe sempre stata conservata una biblioteca ferroviaria per accontentarlo. Era certamente da invidiare. Aveva semplicemente scoperto, e alquanto tardi nella vita, i limiti del proprio potere. Vedendosi come un uomo ricco e importante, aveva cercato di esercitare la sua influenza sugli eventi politici, e sulla base di ciò che Szara capiva del mondo ci era riuscito. Ma non si rendeva conto del successo che avevano ottenuto. Non si rendeva conto di essere riuscito a farsi valere in un mondo in cui sarebbe stato difficile udire la parola vittoria.
Insieme, lui e Szara erano riusciti a distribuire 1375 certificati di emigrazione per la Palestina. Dato che tali certificati erano validi per intere famiglie, ed erano così preziosi che matrimoni e adozioni erano stati organizzati da un giorno all'altro, il numero di vite salvate saliva probabilmente a circa tremila. "Che cosa poteva dire?" si chiese Szara. "Maledetto idiota, vuole salvare il mondo? Ora sa cosa ci vuole a salvare tremila vite!" No, non poteva dire una cosa simile. E se l'avesse fatto, avrebbe avuto torto. Il vero prezzo di quelle esistenze doveva ancora essere pagato e sarebbe stato più alto, tanto per Szara quanto per altri, di quello che ciascuno di loro avrebbe potuto immaginare in quel momento. De Montfried lasciò cadere le mani sui braccioli della poltrona e si abbandonò contro lo schienale, il volto distrutto dal fallimento. «Allora è finita» disse. «Sì» rispose Szara. «Non si può fare qualcosa? Qualsiasi cosa?» «No.» Certo, Szara ci aveva pensato... ma pensato non era la parola giusta: la sua mente aveva dipanato infiniti scenari, annaspando disperatamente alla ricerca di una soluzione qualsiasi. Ma era stato tutto inutile. Szara era convinto che quel pomeriggio al cinema Evans gli aveva detto la verità: i servizi segreti britannici erano effettivamente in grado di confermare i dati grazie ad altre fonti. Ciò significava che non poteva mentire, offrendo cifre apparentemente sensate. Se ne sarebbero accorti. Non subito: per un mese o due ce l'avrebbe fatta, e un mese o due significavano altri trecentocinquanta certificati, almeno settecento vite. Settecento vite valevano una menzogna, per Szara senz'altro; ma la faccenda era più complicata. Quando si era rivolto agli inglesi, credeva che i dati in suo possesso fossero falsi, parte di un'offensiva del controspionaggio tedesco. In quel momento non aveva importanza. Ma il mondo si era mosso sotto i suoi piedi; la Germania avrebbe invaso la Polonia, e la Russia avrebbe firmato un trattato che avrebbe isolato l'Inghilterra e la Francia. Dati falsi trasmessi in quella fase avrebbero potuto sviare la corsa al riarmo inglese in modi imprevisti, avrebbero potuto causare migliaia, decine di migliaia di morti quando i bombardieri della Luftwaffe avessero preso il volo. E così, quelle settecento vite sarebbero andate perdute. «Li ha informati?» chiese de Montfried. «Non ancora.»
«Perché?» «In base alla possibilità che io e lei saremmo riusciti a inventare qualcosa, a scoprire qualcosa, a trovare un altro sistema. In base alla possibilità che lei non mi abbia detto tutto, che abbia risorse di cui non sono al corrente, magari informazioni con cui rimpiazzare le mie.» De Montfried scosse il capo. Per qualche istante rimasero in silenzio. «Che cosa gli dirà?» domandò infine de Montfried. «Che c'è stata un'interruzione alla fonte, e che vorremmo continuare finché non verrà escogitato un nuovo sistema.» «E loro accetteranno?» «No.» «Nemmeno per un mese?» «No.» Szara esitò un istante. «So che è difficile da capire, ma è come non avere denaro. Lenin disse che il grano era "la moneta delle monete". Lo disse nel 1917. Per noi, si potrebbe dire che la moneta delle monete è l'informazione.» «Ma lei saprà certamente altre cose, cose interessanti.» «Per quelli con cui ho direttamente a che fare potrebbero essere sufficienti. Ma noi stiamo chiedendo qualcosa per cui sono certo che l'MI6 ha dovuto combattere, e soltanto l'importanza di ciò che offrivamo gli ha reso possibile vincere quella battaglia. Non credo che sia disposto a riprendere la guerra per dell'altro materiale. Anzi, sono certo di no. In caso contrario ci proverei, mi creda.» Lentamente, de Montfried si ricompose per affrontare l'inevitabile. «Mi riesce molto difficile ammettere il fallimento, ma è quello che è accaduto, abbiamo fallito.» «Ci siamo fermati, sì.» Estrasse un astuccio di pelle e una penna stilografica dalla tasca interna della giacca, svitò il cappuccio della penna e cominciò a scrivere una serie di numeri di telefono sul retro di un biglietto da visita. «A uno di questi mi troverà» disse. «Mi tengo quasi sempre in contatto con il mio ufficio, il numero che lei ha usato finora, ma gliene ho aggiunti degli altri, posti in cui mi potrà rintracciare. In caso contrario faremo come abbiamo fatto finora, un semplice "Monsieur B. al telefono". Darò istruzioni di passarmi direttamente la chiamata. Giorno e notte, a qualsiasi ora. Tutto ciò che possiedo è a sua disposizione, in caso di bisogno.» Szara si mise in tasca il biglietto da visita. «Non si può mai sapere che
cosa accadrà. Bisogna sperare che tutto vada per il meglio.» De Montfried annuì tristemente. Szara si alzò e gli tese la mano. «Arrivederci» disse. «Sì» rispose de Montfried alzandosi per salutarlo. «Buona fortuna.» «Grazie» disse Szara. Quel pomeriggio, il biglietto da visita raggiunse il denaro e il passaporto di Jean Bonotte. L'operazione Lontra era finita male e in modo precipitoso. Odile doveva aver attivato un segnale d'allarme da Berlino, poiché Goldman indisse una riunione speciale da tenersi non appena fosse scesa dal treno. Szara e la Schau-Wehrli vennero convocati in un luogo chiamato Arion, in Belgio, una cittadina mineraria appena oltre il confine con il Lussemburgo, pochi chilometri a nord della città francese di Longwy. Arion era calda e sporca. Il fumo di carbone delle fabbriche aleggiava nelle strade annerite dalla fuliggine, il tramonto era tinto di un arancione scuro e tetro e l'aria della sera era ferma. La riunione si tenne nell'appartamento di un operaio vicino al centro della città, l'abitazione di un membro del partito, un minatore a cui era stato chiesto di trascorrere la notte con dei parenti. Si sedettero nel salottino stipato con le imposte chiuse, circondati dal tanfo di indumenti sudati e cibo bollito. Odile era scossa, con un volto di un pallore innaturale, ma determinata. Era scesa da un treno locale proveniente dal confine tedesco soltanto pochi minuti prima dell'arrivo degli altri. Goldman si era presentato con un altro individuo che Szara non conosceva: un russo tozzo e grasso di mezz'età, con capelli chiari ondulati e occhiali dalle lenti spessissime che gli distorcevano gli occhi. Sulle prime, Szara pensò che fosse asmatico: il suo respiro gracchiava in modo percettibile nella piccola stanza. Dopo che si furono sistemati, notò che lo stava fissando. Ricambiò l'occhiata, ma l'altro non distolse lo sguardo. Si mise una sigaretta sottile fra le labbra, strofinò l'unghia del pollice sulla capocchia di un fiammifero di legno e l'accese. Soltanto a quel punto si voltò verso Odile. Quando agitò il fiammifero per spegnerlo, Szara notò che portava un grosso orologio d'oro al polso. Quando Szara e la Schau-Wehrli arrivarono, Odile aveva già fatto rapporto a Goldman e all'altro uomo e aveva consegnato il messaggio di Baumann. Goldman lo porse a Szara. «Dia un'occhiata» disse. Szara prese il foglietto di carta, diede una rapida scorsa ai dati di produzione e poi scoprì una frase asciutta scarabocchiata sul lato inferiore: Do-
vreste sapere che le voci di un riavvicinamento fra la Germania e l'URSS hanno irritato membri della classe diplomatica e militare. «Qual è la sua opinione?» chiese Goldman. «La mia opinione?» ripeté Szara. «Sembra che stia cercando di fornire informazioni supplementari. Sono mesi che insistiamo perché lo faccia. Girano effettivamente queste voci?» «Può darsi. Nell'ambiente a cui si riferisce, potrebbero facilmente essere più che voci» rispose Goldman. «Ma come fa a sapere certe cose? Con chi sta parlando?» Szara disse che non lo sapeva. Goldman si rivolse a Odile. «La prego, ci ripeta com'è andata.» «Ritiro sempre la corrispondenza al mattino presto» disse Odile «quando le donne di servizio della zona vanno al lavoro. Ho raggiunto il muricciolo nei pressi del bosco, mi sono assicurata che nessuno mi osservasse, ho cercato a tastoni la pietra non fissata sul lato opposto, ho preso il foglio e me lo sono infilato nella tasca dell'impermeabile. Non c'era nessun messaggio da parte della rete, e così ho fatto per dirigermi verso il palo del telefono per confermare il ritiro ruotando il chiodo piegato verso il basso. Avevo fatto dieci passi quando una donna è sbucata dagli alberi. Era sulla cinquantina, indossava una veste da casa ed era estremamente agitata e nervosa. "L'hanno preso" mi ha detto in tedesco. Ho finto di non capire. "È rinchiuso in un campo, a Sachsenhausen" ha aggiunto lei "e i suoi amici non possono aiutarlo." Io l'ho fissata e ho fatto per allontanarmi. "Gli dica che devono aiutarlo" mi ha gridato dietro. Me ne sono andata di gran fretta. Mi ha seguita per qualche metro, poi si è fermata ed è tornata nel bosco. Non gliel'ho visto fare, ma dopo qualche secondo mi sono voltata e lei era scomparsa. Ho sentito il latrato di un cane, di un cagnolino, proveniente dagli alberi. Ho raggiunto la stazione della Ringbahn di HohenzollernDamm, sono entrata nei bagni pubblici e mi sono infilata il messaggio nella spallina dell'impermeabile. Circa un'ora dopo sono partita da Berlino con un locale. Sul treno non ho visto nessuno di strano, e non ho avuto altre esperienze fuori dell'ordinario.» «Amici?» disse la Schau-Wehrli. «I suoi amici non possono aiutarlo? Parlava della comunità ebraica? Avvocati, gente simile?» «Oppure colleghi di lavoro» rifletté Szara. «Esponenti delle aziende tedesche con cui tratta.» «Il punto è un altro» intervenne Goldman. «È stato arrestato in quanto ebreo? Oppure in quanto spia?»
«Se l'avessero sorpreso a spiare, avrebbero arrestato anche lei» disse la Schau-Wehrli. «E sarebbe nelle mani della Gestapo. Il che significa la Columbia Haus, non Sachsenhausen.» «Forse» disse Goldman. «È difficile saperlo.» «Lo si può aiutare?» chiese Szara. «È una questione da sottoporre al Direttorato, ma sì, è stato fatto. Per il momento, gli agenti di Berlino cercheranno di mettersi in contatto con lui nel campo e fargli sapere che siamo al corrente dell'accaduto e che lo tireremo fuori di lì. Cercheremo di aiutarlo a resistere agli interrogatori. Crede che ce la possa fare?» Szara avvertì che la vita di Baumann dipendeva dalla sua risposta. «Se esiste qualcuno in grado di farcela, questo è lui. Psicologicamente, è un uomo forte. Le sue condizioni fisiche sono un altro paio di maniche. Se l'interrogatorio sarà duro, potrebbe anche morire.» Goldman annuì. «Durante il vostro incontro a Berlino è stato detto qualcosa che possa spiegare il suo messaggio, i "membri della classe diplomatica e militare", o il riferimento agli "amici" di sua moglie? Sono forse le stesse persone?» «Potrebbero esserlo» mentì Szara. «Non saprei.» «È questa la sua risposta?» domandò l'uomo con gli occhiali. Szara lo fronteggiò. Gli occhi dietro le spesse lenti erano liquidi e privi di vita. «La mia risposta è no. Non è stato detto nulla che possa spiegare quelle due frasi.» Tornando a Parigi con una successione di treni locali, dovettero sedersi in scompartimenti separati. Ciò diede a Szara il tempo di riflettere mentre le tristi cittadine della Francia nordorientale scorrevano fuori dal finestrino. Si sentiva vecchio. Era quello che gli era successo con Nadia Tščerova, ma adesso era peggio. Si sentiva tormentato da ciò che era accaduto a Baumann, e dalla parte che lui stesso aveva svolto nella sua rovina, eppure quello che aveva visto durante la Kristallnacht riusciva quasi a giustificare ciò che avevano fatto insieme. Un sacrificio di guerra. Un mitragliere lasciato a ritardare l'avanzata del nemico su una strada mentre la retroguardia si ritira. Va tutto bene, si disse, finché quel mitragliere non sei tu. Segretamente, ma non più di tanto, pensava che sarebbe stato meglio se Baumann fosse morto. In pace. Una morte misericordiosa. Ma il suo istinto gli diceva che non sarebbe accaduto. Baumann era spaventato, esausto,
abbattuto e umiliato, ma era anche forte. In quell'uomo vecchio e grigio dimorava un animo tenace. Ovviamente, il trattato russo-tedesco spiegava ogni cosa. Era stata l'unità spionistica di von Polanyi presso il ministero degli Esteri tedesco a dare origine all'abboccamento fra Baumann e l'apparat sovietico, aprendo così un canale di comunicazione. I dati sulla produzione di Baumann venivano probabilmente scambiati con informazioni che provenivano dall'altra parte seguendo un percorso completamente diverso. In quello stesso istante, ipotizzò Szara, un russo a Leningrado riceveva l'ordine di interrompere ogni contatto con il capitano di un traghetto finlandese. Era così che si facevano certe cose, che certi accordi venivano raggiunti e osservati. "Noi vi terremo informati sulla nostra produzione di bombardieri" qualcuno aveva detto a qualcun altro nel 1937. Segretamente, a livello spionistico, perché né i nostri paesi né i nostri leader Hider e Stalin possono mostrare al mondo di accettare la loro reciproca esistenza. Ufficialmente siamo nemici mortali, ma a entrambi conviene stringere certi accordi. Per questo, si rese conto Szara, le cifre di Baumann erano state confermate dagli inglesi: perché Baumann non era manovrato dal controspionaggio nazista, dall'ufficio di Schellenberg presso il Referat VI C. Di lì a un mese, il patto fra Hitler e Stalin sarebbe stato reso noto al mondo intero. E così l'operazione Baumann era stata chiusa poiché non c'era più bisogno di comunicare in quel modo. D'ora in avanti quei dati avrebbero viaggiato via telex da un ministero degli Esteri all'altro. E nel frattempo qualcuno (non von Polanyi, a giudicare da ciò che Frau Baumann aveva detto a Odile) aveva deciso di rinchiudere Baumann a Sachsenhausen. Era il loro modo di ringraziare, evidentemente. No, si ammonì Szara, non devi pensare questo. I tedeschi agiscono sempre per qualche ragione. Era più probabilmente il loro modo di dire: «E adesso vattene dalla Germania, ebreo». Eccoti un assaggio di qualcosa di sgradevole per ricordarti di tenere la bocca chiusa. Forse, si disse Szara. Forse. C'era un che di speranzoso, in quello che Goldman aveva detto di Sachsenhausen, come se la liberazione di Baumann fosse fattibile e lui lo sapesse. Ah, ma quant'era furbo quel piccolo bastardo! Si era avvicinato alla verità. Il fatto cioè che gli «amici» e i «diplomatici» fossero le stesse persone e che il «voi» indicasse Szara e nessun altro. Che cosa intendeva veramente dire Baumann? Valeva la pena di rifletterci, ma in quelle parole formali c'era una pepita nascosta, qualcosa che lui aveva voluto regalare a Szara,
un dono al suo agente responsabile. Perché? Perché lo conosceva, e perché Szara, malgrado i continui ordini e le incalzanti richieste di ulteriori informazioni (richieste inascoltate, ordini ignorati) , non l'aveva abbandonato né minacciato. "Mi aiuti" diceva ora "e io aiuterò lei." Nel frattempo, chi era l'altro, quello con gli occhiali? "Oh Russia" si disse Szara "come sono strani gli esseri umani che allevi." E adesso avrebbe dovuto obbedire agli ordini di Goldman, gli ordini che gli aveva dato in maggio a Bruxelles e che aveva ribadito alla sua partenza da Arion: «Scriva qualcosa». Adesso avrebbe dovuto tornare a casa e farlo. E fra tutte le cose al mondo che non voleva fare, quella era quasi in cima alla lista. "In questi tempi turbolenti, gli uomini di buona volontà dovrebbero porsi alcune difficili domande. Dovrebbero chiudere la finestra, non lasciar entrare i rumori delle masse che marciano in strada e affrontare il problema direttamente e senza emozioni: quale può essere il futuro del socialismo nel mondo attuale? Come potrà sopravvivere al meglio?" A una soirée intellettuale a casa di qualcuno, aveva conosciuto un direttore. Come si chiamava? Un galletto orgoglioso che cantava in cima a quel piccolo letamaio della sua rivista. «Venga a trovarmi, André Aronovič» aveva cinguettato. "Sei proprio furbo" aveva pensato Szara al momento "a usare il mio patronimico, untuoso seccatore che non sei altro." E invece, guarda un po', ora il destino gli avrebbe dato un bel calcio nel didietro: il galletto avrebbe ottenuto quello che voleva, una bella manciata di grano gettata nella sua aia. E Szara sarebbe stato pagato, forse? Ah! Un pranzetto miserabile, magari: "Qui ordino sempre il piatto speciale del giorno, André Aronovič, glielo consiglio". Davvero? Be', mi sa che prenderò il pavone in salsa d'oro. Tanto valeva farlo e non pensarci più, pensò. Poi avrebbe ritirato la borsa dall'ungherese del VII arrondissement e avrebbe aspettato l'ordine di mettersi in viaggio. Chissà dove l'avrebbero mandato, si chiese. Si destò come in sogno. Per un attimo non si trovava da nessuna parte, era alla deriva in un luogo sconosciuto, ma come in un sogno ciò non aveva importanza, non c'era nulla da temere. Giaceva sul suo impermeabile in un fienile, e il profumo del fieno sotto di lui era dolce e fresco. A grande distanza sopra di lui c'era il tetto di legno, argenteo e ammorbidito dagli anni, e la luminosità del primo mattino s'intravedeva nelle fessure fra le assi. Szara si drizzò a sedere e si ritrovò di fronte a un'ampia finestra aper-
ta. Era quella che i contadini usavano per stivare il fieno, salendo in piedi sui carri e gettandolo all'interno con i loro forconi. Szara avanzò a carponi sul letto di fieno per guardare fuori e vide che era l'alba appena passata: un raggio di sole percorreva un campo mietuto da cui si levavano fili di nebbia. Accanto a una strada stretta di terra arenosa si ergeva una grande quercia, le cui foglie crepitavano leggermente alla brezza del primo mattino. Sulla strada c'erano tre uomini. Uomini provenienti da un sogno. Indossavano scarpe nere, gambali neri, lunghi cappotti neri e cappelli neri a tesa larga. Erano barbuti, e avevano lunghe treccine che scendevano sotto i cappelli lungo i lati del capo. Chassidim, si disse Szara, diretti verso lo shul. I loro volti erano bianchi come gesso. Uno di loro si voltò a guardarlo, un'occhiata priva di curiosità o di sfida: prese nota di un uomo affacciato alla finestra di un fienile, poi tornò a girarsi verso la strada. Gli uomini camminavano senza produrre alcun suono; poi, come fantasmi bianchi e neri in un sogno, svanirono. Polonia. La mente di Szara si stava risvegliando con grande lentezza. Il giorno prima, quando cercò di rammentarlo, si era ridotto in frammenti, sfocate immagini di viaggio. Era atterrato nei pressi di Varsavia a bordo di un velivolo a otto posti che aveva percorso sobbalzando una pista di asfalto irregolare. La pista era circondata su tre lati da una fitta foresta, e Szara si era chiesto se quello fosse l'aeroporto principale della città. Per tutto il giorno non aveva mai saputo di preciso dove si trovava. C'era stato un taxi. Un treno. No, due treni. Un tragitto a bordo di un carro sotto il solleone. Un cane che ringhiava dal profondo della gola ma al tempo stesso scodinzolava. Un venditore ambulante incrociato per strada. La lenta percezione che per un bel pezzo non sarebbe arrivato da nessuna parte in particolare, che si trovava dove si trovava, che i viaggiatori dormivano nei fienili. Una vecchia con un fazzoletto legato attorno al volto rugoso gli aveva dato il benvenuto. Poi c'erano stati un topo, la luna, i sogni lunghi e vertiginosi di sonni in luoghi sconosciuti. Si appoggiò al legno consunto del fienile e guardò nascere il giorno. C'era ancora un quarto di luna, bianco nel cielo blu scuro del mattino. Un gruppo di nubi temporalesche si muoveva verso est, i bordi tinti di rosso dal sole nascente. Qua e là i raggi sbucavano dalle nubi, una pineta comparve all'orizzonte, un campo di segale si colorò di un verde intenso sotto i suoi occhi. Quella luce spettrale e cangiante, quell'odore umido della terra
al mattino, quei corvi che gracchiavano volando bassi lungo la curva di un campo, li ricordava. Un tempo aveva vissuto in quella parte del mondo, molti anni prima, e a volte si era avventurato al di là delle strade serpeggianti di Kišinëv e aveva assistito ad albe come quella, quand'era piccolo e si svegliava molto prima degli altri per non farsi sfuggire alcun miracolo. Si rivedeva in ginocchio su un letto davanti a una finestra, con una coperta sulle spalle. Rivedeva il sole salire lungo una collina in un mattino di tarda estate. «Ehi lassù, pan, dorme ancora?» Szara si sporse oltre la finestra e vide la vecchia che lo guardava dal cortile. Si reggeva in piedi con l'aiuto di un bastone come una piccola, solida piramide, indossando maglioni e giubbotti sopra e ampie gonne sotto. I suoi cani, uno grosso dal pelo marrone e un altro piccoletto bianco e nero, la fiancheggiavano osservandolo. «Venga in casa» gli gridò la vecchia. «Le farò un caffè.» Se ne andò barcollando senza attendere la sua risposta mentre i cani le correvano attorno annusando i cespugli, sollevando le zampe posteriori, tendendo quelle anteriori e premendole sul terreno per stiracchiarsi. Mentre si dirigeva alla fattoria, Szara vide che la vecchia aveva lasciato due grossi secchi di legno accanto al pozzo e che si aspettava che lui, come ogni vagabondo che si rispetti, portasse l'acqua in casa. Prima di farlo, Szara si tolse la camicia con cui era partito da Parigi, azionò la leva cigolante della pompa e si lavò con il getto d'acqua ghiacciata. Rabbrividì nell'aria del mattino, si asciugò con la camicia, se la rimise e si pettinò i capelli bagnati con le dita. Quando si sciacquò la bocca, l'acqua fredda gli provocò una fitta ai denti. Alla fine riempì i due secchi ed entrò barcollando in cucina, assolutamente deciso a non versare acqua sul pavimento. La fattoria era una vecchia costruzione di pietra con un soffitto basso, una stufa di maiolica sovrastata da un grosso crocifisso appeso al muro e vetri alle finestre. Nell'aria viziata della cucina aleggiava un forte odore di caffè. La vecchia glielo servì in una tazza di porcellana (a quanto pareva, il piattino non esisteva più) che doveva avere cent'anni. «Grazie, maruška» disse Szara bevendone un sorso. «Il caffè è buonissimo.» «Lo bevo sempre, ogni mattina» disse lei con orgoglio. «Tranne quando c'è una guerra. In quei periodi non riesci a trovarlo per nessuna cifra. Non da queste partì, quanto meno.» «Dove mi trovo di preciso?» «Dove si trova? Ma a Podalki, ecco dove!» Ridacchiò scuotendo il capo
per la domanda, si portò davanti al forno e ne estrasse una teglia di pane usando la sua stessa gonna come presina. Posò la teglia accanto alla tazza di Szara, andò nella dispensa e tornò con una scodella di formaggio bianco coperto da un panno. Sistemò un piatto e un coltello davanti a Szara e poi si piazzò davanti alla stufa mentre lui mangiava. Szara avrebbe voluto chiederle di sedersi con lui, ma sapeva che una richiesta simile avrebbe offeso il suo senso del decoro. Lei avrebbe mangiato dopo. Szara tagliò l'estremità della pagnotta e coprì la fetta fumante con il formaggio. «È buonissimo» disse. «Dev'essere diretto in città» fece lei. «A Czestochowa.» «Sono diretto a Leopoli.» «A L'vov!» «Esatto.» «Madre benedetta, a L'vov. È molto lontana» disse, sbalordita dalla distanza che lui intendeva percorrere. «È una città ucraina, sa» lo informò. «Sì, lo so.» «Dicono che sia in Polonia, ma io non lo penso. Faccia attenzione al suo denaro, da quelle parti.» «Lei ci è mai stata, maruška?» «Io?» L'idea la fece ridere. «No» rispose. «La gente di Podalki non ci va.» Quando ebbe finito la colazione, Szara mise qualche zloty sotto il bordo del piatto. Rientrato nel fienile spiegò la sua mappa sul fieno, ma non riuscì a trovare il villaggio di Podalki. Uno degli inviati della Tass di Parigi che era in aereo con lui aveva una mappa molto più dettagliata, ma le loro strade si erano divise alla stazione ferroviaria di Varsavia. Szara non ebbe problemi a trovare Czestochowa. Se era la successiva cittadina di una certa importanza, significava che il giorno prima aveva attraversato il fiume Warta. Il conducente del carro l'aveva chiamato con un altro nome, e alla fine dell'estate il fiume in sé non era che un'ampia distesa d'acqua indolente e poco profonda. Il conducente del carro aveva risalito uno stretto sentiero e Szara era stato traghettato sull'altra riva da un vecchio ebreo con un occhio bendato. Manovrava una zattera collegata a una puleggia, tirando una corda fino alla riva opposta. Gli aveva detto che se fosse stato paziente e fortunato, la stradina l'avrebbe condotto a Cracovia. «Da lì potrà andare ovunque, se vorrà» aveva soggiunto intascando la modesta tariffa con una scrollata di spalle che si chiedeva perché mai la gente si prendesse il disturbo di andare da qualsiasi parte.
Szara ripiegò la mappa, la rimise nella borsa, si calò sul capo il morbido cappello di feltro e si gettò la giacca su una spalla. Quando uscì dal fienile vide che la vecchia e i suoi cani stavano conducendo la vacca al pascolo. La ringraziò di nuovo. Lei gli augurò buon viaggio e fece il segno della croce per proteggerlo e lui s'incamminò sulla stretta strada arenosa verso il villaggio di Podalki. Lo raggiunse venti minuti dopo. Non c'era molto: poche case di tronchi d'albero affacciate ai due lati di una strada sterrata, un uomo con il cranio rasato e baffi da cavalleggero che si parava sulla soglia di quello che Szara immaginava fosse l'emporio del villaggio con le maniche arrotolate e i pollici infilati sotto le bretelle. Sul lato opposto del villaggio c'era un minuscolo ghetto ebraico: donne con le parrucche, un chassidim con lo yarmulke fissato ai capelli che tagliava la legna nel piccolo cortile di casa, bambini pallidi con le treccine che lo guardavano di sottecchi, evitando di fissarlo. Poi Podalki cessò di esistere, e Szara si ritrovò di nuovo solo nell'ampia steppa polacca, nel mezzo di campi infiniti che si allungavano verso la foresta all'orizzonte. Camminò e camminò; il sole divenne più caldo, la borsa più pesante, e Szara cominciò a sudare. I campi su entrambi i lati della stradina erano vivi; gli insetti ronzavano e frinivano, la terra nera e umida emanava un odore speciale, marcio e fecondo, dolce e rancido al tempo stesso. Di quando in quando, una macchia di betulle bianche si stagliava sulla riva di un torrentello, e un filo di brezza faceva tremolare le foglie delicate. Da quella prospettiva, la vita cittadina di Szara sembrava frenetica e assurda. L'intensità del suo lavoro, l'ansietà stridente e nervosa parevano totalmente superficiali. Che strano preoccuparsi tanto di simili idiozie: codici e documenti, scambi di pacchetti al cinema, chi aveva pranzato con chi in un albergo di Berlino. Era una follia. Giravano in tondo come il prescelto bendato in un gioco fra bambini. Ai primi di agosto, qualcuno era penetrato in uno stabilimento per la pulitura a secco alle porte di Parigi e aveva rubato le uniformi del personale dell'addetto militare polacco. Ciò aveva provocato un gran baccano; riunioni, messaggi radiotelegrafati, domande senza risposte, risposte senza domande. Ma questo non era niente, a paragone di ciò che era seguito: il 23 agosto era stato annunciato il patto fra Hitler e Stalin. Oh, e non l'avevano pagata cara un po' tutti? Pianti, gemiti e digrignar di denti. Era andata esattamente come aveva previsto Goldman: gli idealisti avevano preso a torcersi le mani e a percuotersi il petto. Alcuni erano rimasti letteralmente a bocca aper-
ta. Vagavano per le strade di Parigi e facevano dolenti e solenni dichiarazioni: «Ho deciso di rompere con il partito». C'erano stati perfino dei suicidi. "A cosa credevano di giocare?" si domandava Szara. "A fare i filosofi?" Udì alle proprie spalle il cigolio delle ruote di un carro e il suono degli zoccoli di un cavallo. Un carro condotto da un ragazzino lo superò trasportando un'enorme montagna di fieno. Szara gli fece strada, fermandosi fra i solchi al limitare di un campo. «Buongiorno, pan» disse il ragazzino quando il carro gli passò accanto. Szara ricambiò il saluto. L'odore del vecchio cavallo era intensificato dal caldo. «Un bel mattino» soggiunse il ragazzino. «Vuole un passaggio?» Il carro non si fermò, ma Szara vi montò al volo e si sedette sul bordo di legno accanto al conducente. Il cavallo rallentò palesemente il passo. «Ah, Gniady, non fare così» disse il ragazzo schioccando la lingua e agitando le redini. Proseguirono per qualche minuto in silenzio, finché fra i campi comparve un minuscolo sentiero delimitato soltanto da due solchi e il ragazzo tirò la briglia sinistra per far deviare il cavallo. Szara lo ringraziò e scese a terra. "Questo è il lavoro che fa per me" pensò quando riprese a camminare. Di quando in quando vedeva uomini e donne al lavoro nei campi. La mietitura era soltanto agli inizi, ma ogni tanto la lama di una falce catturava la luce. Le donne mietevano con le gonne rimboccate, e le loro gambe nude si stagliavano bianche tra gli steli di segale e frumento. Alcuni, si rese conto Szara, avrebbero provato una profonda irritazione per la sua scomparsa, ma tanto peggio per loro. Che andassero al diavolo e imprecassero pure. Era stanco delle loro minacce: si dava il caso che lui fosse tornato con i piedi per terra, e loro avrebbero dovuto continuare a vivere meglio che potevano nel loro mondo dei sogni. Sopra di lui il cielo si allungava fino al paradiso, e l'azzurro del mattino si faceva sempre più pallido e opaco con l'avanzare delle ore. A sud, in lontananza, sorgeva una sagoma bassa e scura, una catena montuosa sovrastata da nubi bianche che si addensavano lentamente, annunciando un temporale per la serata umida. Questo era ciò che esisteva: la steppa, il cielo vasto, il frumento, la terra battuta della stradina. Per un attimo Szara fu parte di tutto ciò, un semplice elemento della natura, niente di più e niente di meno. Non sapeva neanche che giorno fosse. Era partito da Parigi il 30 di agosto, anche se lo considerava il 29 poiché erano le tre del mattino, ancora «ieri sera», quando aveva preso il taxi per l'aeroporto Le Bourget. La lunga giornata trascorsa vagando per la Polonia orientale era quella del 30. La fine dell'estate.
L'estate sarebbe in realtà continuata per un pezzo, fino a settembre inoltrato, quando la mietitura avrebbe impegnato quasi tutti gli abitanti delle campagne, quando la gente avrebbe dormito nei campi per poter cominciare a lavorare alle prime luci del giorno. La sera si sarebbero seduti in circolo e avrebbero parlato a bassa voce, avrebbero addirittura acceso un piccolo fuoco una volta che il terreno fosse stato dissodato, e le coppiette si sarebbero ritirate nel buio a fare l'amore. Ciò nonostante, per Szara l'estate aveva più o meno esaurito il suo corso. Aveva il senso del tempo di uno scolaretto, e la fine di agosto era la fine della libertà, com'era stato durante l'infanzia e come immaginava sarebbe sempre stato. Strano, pensò, ritrovarsi di nuovo libero mentre l'estate finiva. Il 31 agosto 1939 era la data ufficiale. Rifece il calcolo per esserne sicuro. Sì, era giusto. L'indomani sarebbe probabilmente tornato a essere «se stesso», la versione ufficiale, il giornalista André Szara che viaggiava in treno, prendeva appunti e faceva ciò che tutti si aspettavano che facesse. Ma per il momento era un viaggiatore solitario sulla stradina per Czestochowa, intento a godersi una perfetta libertà nell'ultimo giorno d'estate. Giunse a Czestochowa nel tardo pomeriggio grazie a un passaggio su un vecchissimo autocarro che trasportava cetrioli per i mercati della città. Prese il tram per la stazione ferroviaria e acquistò un biglietto per Cracovia, dove avrebbe preso il treno per L'vov. «Lo chiamiamo il treno della mezzanotte per L'vov» disse il solenne bigliettaio. «Ma diciamo anche che l'alba nella città di L'vov è bellissima.» Szara apprezzò con un sorriso la mordacità tipicamente polacca dell'uomo. Le due città distavano duecentonovanta chilometri. Ciò significava che nessuno si aspettava che il treno da Cracovia partisse in orario, che la locomotiva era molto lenta o entrambe le cose. Al ristorante di fronte alla stazione si preparò per il viaggio con una cena a base di zuppa fredda di barbabietole, pane di segale con burro dolce, carne alla griglia accompagnata da un rafano fresco e rosso che rendeva inevitabili le lacrime e diversi bicchieri di tè. Era indolenzito per la notte passata nel fienile e i chilometri di marcia ed era ricoperto da uno strato di polvere sottile, ma dopo la cena si sentì meglio e riuscì ad appisolarsi nello scompartimento di prima classe finché il treno delle 18.40 per Cracovia partì sbuffando poco dopo le otto. Mentre il crepuscolo si stendeva sulla campagna di Czestochowa vide una tempesta di lampi, tre o quattro enormi saette bianche che si abbatterono una dopo l'altra sull'orizzonte meri-
dionale. Due ore dopo arrivarono a Cracovia. Molto tempo prima, Szara aveva studiato all'università locale, ma quella sera decise di trattenersi in stazione fino alla partenza reale del «treno di mezzanotte per L'vov». Il bigliettaio di Czestochowa gli aveva detto la verità: il treno partì con notevole ritardo, e alcuni dei suoi compagni di scompartimento vi salirono addirittura dopo le due del mattino. Szara osservò scorrere le strade notturne di Cracovia sotto il luccichio dei lampioni a gas, il cimitero ebraico, il ponte ferroviario sulla Vistola, poi si riassopì finché non fu destato dai borbottii dei suoi compagni di viaggio. Avanzavano a malapena su quella che sembrava una diramazione; i passeggeri dello scompartimento stavano cercando di sbirciare fuori dal finestrino quando il treno si arrestò bruscamente. A quanto pareva, una fermata simile era molto insolita. Si udirono uno o due gemiti di rabbia, mentre altri cercarono di risolvere il mistero abbassando il finestrino e scrutando nel buio. Un uomo con l'uniforme delle ferrovie percorreva il binario reggendo una lanterna; i passeggeri lo interpellavano, chiedendogli quale fosse il problema, ma lui li ignorava. Lo scompartimento era buio; Szara accese una sigaretta, si rilassò sul logoro sedile imbottito e si dispose ad attendere. Qualche altro passeggero seguì il suo esempio. Un foglio di giornale crepitò mentre un panino veniva scartato, una giovane coppia si confidò qualcosa a bassa voce. Dalla carrozza di terza classe giunsero le note di un violino. Qualche minuto dopo, un convoglio militare sfilò lentamente sul binario accanto. Si potevano vedere i soldati che si sporgevano dai finestrini, si trattenevano nei corridoi, dondolavano i piedi dalle porte aperte dei vagoni. Szara riconobbe le braci delle loro sigarette. «Vanno a nord» disse la giovane donna davanti a lui. «Si allontanano dal confine. Forse la crisi con Hitler si è risolta.» Un uomo seduto accanto a lei accese un fiammifero e indicò la prima pagina del giornale. «A Danzica si spara» disse. «Vede? Direi che sono diretti lassù.» Il controllore si avvicinò lungo il corridoio, aprì la porta dello scompartimento e annunciò: «Signore e signori, temo di dovervi chiedere di scendere dal treno». La frase suscitò l'indignazione generale. «Sì, sì» disse il controllore in tono comprensivo «ma cosa possiamo farci? Se lo sapessi vi direi qual è il problema, ma sono sicuro che verrà risolto al più presto.» Aveva un paio di baffi spioventi e due occhi tristi che lo facevano somigliare a uno spaniel. Proseguì verso lo scompartimento successivo e un giovane gli gridò
dietro: «Dobbiamo scendere con i bagagli?». «Ma no» rispose il controllore. «O forse sì. Non ne sono sicuro. Lascio la decisione a voi, signore e signori.» Szara prese la sua borsa dal portabagagli sopra il finestrino e aiutò gli altri passeggeri con le loro valigie. «Io dico...» sbottò con forza l'uomo con il giornale, ma poi sembrò non avere niente da dire. Il treno si svuotò lentamente e i passeggeri scesero, per metà scivolando e per metà saltellando, lungo un terrapieno erboso fino ai margini di un terreno incolto. «E adesso?» chiese Szara all'uomo con il giornale. «Non ne ho idea» rispose questi. Subito dopo fece un leggero inchino e gli tese la mano. «Goletzkij» disse. «Lavoro nei saponi.» «Szara. Giornalista.» «Ah, bene. Ecco uno che sa cosa sta succedendo.» «Per niente» disse Szara. «Scrive per i giornali di Cracovia?» «No. Gli ultimi mesi sono stato a Parigi.» «È un uomo fortunato, allora. Da parte mia, è già tanto se riesco ad andare una volta l'anno a Varsavia. Più che altro giro le province del sud: saponi profumati per le famiglie più ricche, la vecchia saponetta gialla per i contadini e la formula speciale del dottor Grudzen per le ragazze. Non c'è molto che non sia in grado di offrire.» «Che ne sarà di noi?» domandò Szara. Controllò l'ora. «Sono le quattro passate.» Guardò a est, vide un pallido bagliore all'orizzonte e sbadigliò. Più avanti lungo i binari la locomotiva liberò un lungo sibilo di vapore, e subito dopo si allontanò con un lento movimento di pistoni. Un grido si levò dal gruppo di passeggeri: «Oh no! Se ne va!». Alcuni cominciarono a risalire sui vagoni, ma poi ci si accorse che il convoglio era rimasto fermo, e che era solo la locomotiva ad allontanarsi. «Be', davvero gentili» disse rabbiosamente Goletzkij. «Adesso hanno staccato la locomotiva e ci lasciano qui al buio, fra Cracovia e chissà dove!» I passeggeri cominciarono a rendersi conto che le cose non sarebbero cambiate nel giro di qualche minuto e si sedettero sfiduciati sui loro bagagli in attesa che qualcuno delle ferrovie si ricordasse di loro. Un quarto d'ora dopo la locomotiva riapparve (il controllore assicurò che era la loro) trainando il treno carico di soldati nella direzione opposta. Il macchinista agitò il berretto, un gesto interpretato come indice di crudeltà, di compassione o di un arcano segnale noto soltanto ai ferrovieri; i soldati cantavano,
facendo squillare le loro voci nell'aria del primo mattino. Da ultima apparve la locomotiva originale del convoglio militare, ignominosamente trainata all'indietro. «Sicché sono state le manovre militari a metterci nei pasticci» commentò Goletzkij. Szara non gradiva ciò che aveva visto, ma non sapeva perché. Imputò la sensazione alla vaga irritazione che accompagna la stanchezza. Alcuni dei passeggeri tornarono sui vagoni, e il controllore non fece grandi sforzi per fermarli. «Insomma, signore e signori» disse in tono triste, scuotendo il capo di fronte all'anarchia della situazione. Altri rimasero fuori, cercando di trasformare la sosta in una gita. Qualcuno accese un fuoco, e nell'aria si diffuse l'aroma carico d'aglio delle salsicce arrosto. Un gruppo si raccolse attorno al violinista. Altri passeggiavano nei campi, alla ricerca di un po' di tranquillità o per esplorare la campagna. Il ronzio di un aeroplano attirò l'attenzione generale. Volava da qualche parte nel buio sopra di loro, forse in circolo. All'improvviso il rumore del motore aumentò, un prolungato lamento meccanico che divenne sempre più acuto e contemporaneamente più sonoro. «Precipiterà» disse la giovane donna dello scompartimento di Szara; la sua voce era resa stridula dalla paura, il suo volto era rivolto ansiosamente al cielo. Mosse le labbra e si fece il segno della croce. Goletzkij e Szara balzarono in piedi nel medesimo istante, come se fossero stati mossi da una forza invisibile. Qualcuno strillò. «Dobbiamo scappare?» chiese Goletzkij. Ma all'improvviso fu troppo tardi per fuggire: il rumore divenne uno strido travolgente che immobilizzò i passeggeri. L'aereo si materializzò dal buio per non più di una frazione di secondo. Szara vide le svastiche sulle ali. Qualcosa lo fece indietreggiare, poi la bomba esplose. L'onda d'urto lo sollevò da terra, proiettandolo nel vuoto per un istante e scaraventandolo contro il terrapieno. Sentì la forza dell'impatto riassettargli i denti e le ossa su un lato del volto e non udì più nulla, soltanto un silenzio sibilante. Quando riaprì gli occhi, si accorse che non funzionavano più: la metà destra del mondo era più alta della sinistra, come se una fotografia fosse stata tagliata in due e le metà fossero stare riattaccate senza che combaciassero. Ne rimase terrorizzato, e stava battendo freneticamente le palpebre, cercando di riacquistare la vista, quando si sentì colpire da una pioggia di detriti e si protesse istintivamente la testa con un avambraccio. Poi qualcosa si mosse all'interno del suo volto e i suoi occhi ripresero a funzionare. Si costrinse a drizzarsi a sedere, tastando i propri indumenti terrorizzato da ciò che avrebbe potuto scoprire ma incapace di fermarsi.
Trovò soltanto terra, brandelli di tessuto e foglie, e una macchia sul risvolto della giacca. Vicino a lui, Goletzkij sedeva con la testa fra le mani. In fondo al terrapieno, il controllore giaceva bocconi sul terreno. Era scalzo, e un rivolo rosso gli percorreva un tallone. Szara si guardò intorno alla ricerca della giovane donna, ma non la vide. Una donna più anziana che non riconobbe, i capelli arruffati, il volto rigato di lacrime, il vestito lacero, gridava rivolta al cielo. Szara poteva capire che stava urlando dal modo in cui muoveva le labbra e dalla rabbia nauseata che era dipinta sul suo volto, ma non udiva alcun suono. Venne ricoverato in un ospedale di Tarnów, dove rimase seduto in corridoio mentre le infermiere medicavano i feriti. A quel punto, il suo udito aveva ripreso a funzionare quasi del tutto e la sua borsa era miracolosamente ricomparsa nelle mani di un soldato che percorreva il corridoio chiedendo a chi apparteneva. A quel punto, Szara aveva saputo che la Germania aveva attaccato la Polonia dopo le quattro del mattino. Dei soldati polacchi, sostenevano i tedeschi, avevano invaso una stazione radio tedesca di Gleiwitz, uccidendo alcuni soldati tedeschi e trasmettendo un comunicato incendiario. Non era che una classica provocazione, Szara ne era convinto. Ora capiva che ne era stato delle uniformi polacche rubate a Parigi. Quando giunse finalmente il suo turno, venne visitato da un dottore che lo informò che probabilmente aveva subito una commozione cerebrale. Se gli fosse venuta la nausea avrebbe dovuto rivolgersi a un medico. In caso contrario, era libero di continuare il suo viaggio. Ma non era esattamente così. In corridoio, un giovane tenente lo informò educatamente che certe autorità di Nowy Sacz volevano parlargli. Era in arresto? Assolutamente no, rispose il tenente. Era solo che qualcuno dell'ospedale aveva informato l'esercito che un giornalista sovietico era rimasto ferito nell'attacco alla linea ferroviaria Cracovia-L'vov. E ora un certo colonnello Vyborg era ansioso di affrontare alcune questioni con lui al quartier generale di Nowy Sacz. Il giovane tenente avrebbe avuto l'onore di scortarlo. Szara sapeva che resistere era inutile, e il tenente lo condusse a una vecchia ma funzionale automobile cecoslovacca e un'ora dopo lo fece arrivare sano e salvo a Nowy Sacz. Il tenente colonnello Anton Vyborg, malgrado il cognome scandinavo, sembrava un residuo della vecchia nobiltà polacca. Szara immaginava che il nome risalisse alle guerre medievali fra la Polonia e la Svezia, quando
come in tutte le guerre le famiglie si erano ritrovate a vivere dalla parte sbagliata del confine. Qualunque fosse la sua storia, in Vyborg c'era una traccia del cavaliere baltico; era alto, magro, apparentemente sulla quarantina, con labbra sottili, ragnatele di rughe agli angoli degli occhi sottili e capelli chiari tagliati cortissimi nello stile degli ufficiali di cavalleria. Come un ufficiale di cavalleria indossava alti stivali di morbida pelle e calzoni militari alla cavallerizza. A differenza di un ufficiale di cavalleria, tuttavia, aveva appeso la giacca dell'uniforme allo schienale della sedia, si era slacciato il colletto della camicia, allentato il nodo della cravatta e arrotolato le maniche. Quando Szara entrò nel suo ufficio stava fumando un sigaro, e in un grosso posacenere di metallo giacevano numerosi altri mozziconi. Aveva una stretta di mano dura come l'acciaio, e quando si presentarono scrutò Szara con i suoi gelidi occhi azzurri. Poi, avendo formulato un giudizio rapido e intuitivo, divenne cortese, spedì il suo attendente alla ricerca di caffè e panini e ostentò quella che Szara reputava fosse la metà gioviale di una personalità divisa nettamente in due. Mentre aspettava il ritorno del suo attendente continuò a fumare soddisfatto fissando nel vuoto, apparentemente in pace col mondo. Era il solo a esserlo, visto che gli altri ufficiali saettavano davanti alla porta con fasci di incartamenti, i telefoni squillavano di continuo e la sensazione generale che regnava al quartier generale era quella di un movimento frenetico appena al di sotto del livello di panico. A un certo punto, un giovane ufficiale fece capolino oltre la soglia e annunciò: «Obidza», che poteva essere soltanto il nome di una cittadina. Il colonnello Vyborg rispose con il più piccolo dei gesti di riconoscimento, una lieve, quasi ironica inclinazione della testa, e l'ufficiale ruotò sui tacchi e si allontanò a passo rapido. Szara lo udì riferire la notizia a qualcun altro in fondo al corridoio: «Obidza». Vyborg soffiò una lunga boccata di fumo, si alzò di scatto, andò alla finestra e abbassò lo sguardo sul cortile. Il suo ufficio (palesemente temporaneo, visto che il cartello sulla porta diceva «Agente delle Imposte») si trovava nel municipio di Nowy Sacz, un'imponente mostruosità che risaliva ai tempi dell'Impero austro-ungarico, quando la Galizia era una provincia dell'Austria. Vyborg continuò a fissare a lungo il cortile. «Ora bruciamo gli archivi» disse. Rivolse un'occhiata significativa a Szara e inarcò un sopracciglio, ma non sembrava desideroso di conoscere l'opinione di un giornalista. Tornò a sedersi dietro la scrivania e soggiunse: «Forse dovremo cominciare la nostra discussione senza il caffè. Oggi non andrà liscio niente, nemmeno l'in-
vio in pasticceria del mio attendente. Le dispiace?». «Si figuri» rispose Szara. «Ora, un giornalista sovietico che ha superato indenne gli ultimi due anni non può essere uno stupido. Saprà di certo con chi sta parlando.» Szara aveva dato per scontato fin dall'inizio che Vyborg fosse il direttore o il vicedirettore di un'unità del servizio segreto militare. «Con, ehm, un ufficio informazioni» disse. «Esatto. Dalla scorsa settimana, dal 23 agosto, signor Szara, lei è legalmente neutrale. In quanto cittadino sovietico, ufficialmente non è né un amico né un nemico della Polonia, e così le propongo un accordo nell'interesse comune. Da parte nostra, gradiremmo sapere cosa sta facendo da queste parti. I suoi documenti sono in ordine, pertanto riteniamo che le sia stato assegnato un compito preciso. Vorremmo sapere cosa possa essere così interessante per la "Pravda" da inviarla qui una settimana dopo che l'URSS ha firmato un trattato che sarà il necrologio per questo paese. In cambio, mi assicurerò che lei lasci questa regione... a proposito, ci troviamo sessantacinque chilometri a nord del confine... e che arrivi a L'vov, se è lì che è diretto. «Questa è la mia offerta. Lei può certamente rifiutarla. La promessa di non aggressione della Germania comprende sicuramente anche la sua persona, e lei potrebbe decidere di avvalersene. In quel caso non avrà bisogno di muoversi, potrà restare a Nowy Sacz: saranno qui nel giro di due o tre giorni. Magari anche prima. D'altro canto, forse preferirebbe andarsene subito. In quel caso la farò accompagnare dal mio aiutante alla stazione, per quanto la folla glielo permetterà. Laggiù ci sono migliaia di persone che cercano di andarsene in qualsiasi modo, e sembra che i treni non funzionino. Ma se crede può provarci. Allora, cosa sceglie?» «Sembra un'offerta ragionevole» disse Szara. «Dunque mi rivelerà la natura del suo incarico a L'vov.» «Vogliono sapere qualcosa sulla vita quotidiana delle minoranze nella Polonia orientale: i bielorussi, gli ucraini, gli ebrei, i lituani.» «Delle minoranze perseguitate, intende dire. In un'ex provincia della Russia.» «L'incarico non riguarda questo, colonnello Vyborg. Vorrei farle notare che mi è stato chiesto di fare questo viaggio alcune settimane prima che venisse annunciato qualsiasi patto fra l'URSS e la Germania. In altre parole, non mi hanno spedito nel bel mezzo di una guerra perché scrivessi un articolo sulle vite dei sarti e dei contadini. In realtà non so cosa avessero in
mente i miei caporedattori: loro mi mandano da qualche parte e io faccio quello che mi dicono di fare. Forse non progettavano niente di particolare.» «La cara, vecchia, anarchica Russia: la mano destra non sa mai cosa sta combinando la sinistra. Qualcosa del genere?» «Cosa non si può dire della Russia? Alla resa dei conti è tutto vero.» «Lei è in realtà un polacco.» «Famiglia ebrea polacca, in Russia fin da quand'ero ragazzo.» «In tal caso riformulo la frase: un tipico polacco.» «Alcuni direbbero di no.» «Ne sono sicuro. Ma altri risponderebbero che sono stronzate.» Vyborg tamburellò con le dita sul tavolo. Un uomo dall'aspetto libresco e dall'uniforme straordinariamente sgualcita, una sorta di dinoccolato professore occhialuto, fece capolino sulla soglia, si fermò con aria esitante e si schiarì la gola. «Anton, perdonami, ma sono arrivati a Obidza.» «Me l'hanno detto» rispose Vyborg. «Be', sarà il caso di...» «Caricare i codificatori e partire? Già, suppongo di sì. Ho chiesto a Olensko di pensarci lui. Digli pure di cominciare, ti dispiace?» «Al tuo comando?» «Vi raggiungerò a Cracovia. Prima porterò il nostro corrispondente di guerra russo a visitare il fronte.» «Corrispondente di guerra russo?» ripeté l'altro sbalordito. «Così presto?» Fissò Szara senza capire. «Pubblicheranno un dispaccio da questa guerra?» domandò alla fine in tono incredulo. «"Cinquanta divisioni tedesche attaccano la Polonia"? No, no, perbacco. Magari così: "Alcune unità tedesche difendono eroicamente i loro confini cinquanta chilometri all'interno di quelli polacchi".» Vyborg fece un'amara risata di assenso. «Chi lo sa» disse in tono rassegnato «questo potrebbe far riflettere il vecchio Kinto.» Il nome che usò per Stalin indicava una sorta di bandito canterino, un'allegra figura del folklore georgiano. Szara accolse l'osservazione con un gran sorriso. «Hai visto?» soggiunse Vyborg con aria trionfale. «È dalla nostra parte.» Sfrecciando in direzione sud-ovest a bordo di una jeep militare scoperta, Szara e Vyborg occupavano il sedile posteriore con espressioni cupe. L'autista di Vyborg era un grosso sergente con i capelli a spazzola, un paio di baffi da domatore di leoni e un naso gibboso, venoso e violaceo. Impreca-
va sottovoce di continuo, facendo serpeggiare la grossa auto fra gli ostacoli, uscendo di strada quand'era necessario, abbattendo le distese di frumento. La strada era un incubo. I profughi avanzavano a piedi verso nord, trasportando i loro averi sulle spalle o su piccoli carretti. Alcuni sospingevano gli animali delle loro fattorie o li trascinavano con cavezze di corda. Quattro persone trasportavano un malato coricato su un letto. Allo stesso tempo, le unità militari polacche (la fanteria, l'artiglieria trainata dai cavalli e i carri delle munizioni) cercavano di dirigersi verso sud. L'auto passò accanto a un carro carbonizzato con due cavalli morti ancora attaccati ai finimenti. «Gli Stuka» disse freddamente Vyborg. «Un incubo.» «Lo so» rispose Szara. Stavano risalendo decisi la strada sterrata e segnata dai solchi attraverso le colline che conducevano al versante polacco dei Carpazi. L'aria si rinfrescò e la campagna ondulata si ammorbidì a mano a mano che la luce del giorno si spegneva. Szara aveva un terribile mal di testa; i sobbalzi della jeep sulle sue sospensioni rigide erano una tortura. Il bombardamento l'aveva danneggiato più di quanto avesse creduto. Aveva un sapore di ottone in bocca, e gli sembrava che un lato del volto fosse stato infilzato da una serie di minuscoli spilli. L'auto sterzò in direzione ovest, verso un tramonto tinto di rosso sangue dal fumo e dalla foschia, il tipo di cielo che si vedeva alla fine dell'estate quando le foreste bruciavano. La strada seguiva il corso di un fiume, a sentire il colonnello Vyborg il Dunajec. «Teniamo ancora la riva occidentale» disse. «O almeno la tenevamo quando siamo partiti da Nowy Sacz.» Estrasse un grosso orologio da taschino e lo guardò. «Forse non più» soggiunse. «Dal punto di vista militare non abbiamo molte speranze. Forse diplomaticamente si può fare qualcosa, anche a questo punto. Fronteggiamo un milione e mezzo di tedeschi, più i carri armati e gli aerei, con forse due terzi di quel contingente, e in pratica non abbiamo un'aviazione. Piloti coraggiosi, questo sì, ma gli aerei...» «Potete resistere?» «Dobbiamo. I francesi e gli inglesi potrebbero accorrere in nostro aiuto: se non altro, hanno dichiarato guerra. Tempo, ecco di cosa abbiamo bisogno. E qualunque altra cosa succeda, è necessario che questa storia venga raccontata. È quello che si dice sempre quando una popolazione viene schiacciata nella polvere, non è vero? Che "la storia dev'essere raccontata".» «Farò quello che posso» disse Szara con un filo di voce. Nella gente lungo la strada scorgeva a volte il dolore, la paura o la rabbia, ma più che
altro gli sembrava stordita, smarrita, e negli sguardi poteva distinguere soltanto perplessità e una stanchezza che andava al di là di qualsiasi sensazione. Non aveva alcuna immunità nei confronti di quei profughi. I suoi occhi li fissavano al passaggio dell'auto, passandoli in rassegna uno dopo l'altro. «Uno sforzo» riprese Vyborg. «È tutto quello che le chiedo.» Rimase in silenzio mentre passavano accanto a un prete che impartiva l'estrema unzione sul ciglio della strada. «Ma più probabilmente riuscirò soltanto a farci uccidere entrambi. E per cosa? La Russia non sarà dispiaciuta nell'assistere alla fine della Polonia.» «Non era possibile un trattato?» «In realtà no. Come hanno detto i nostri governanti, "con i tedeschi rischiamo di perdere la libertà, con i russi perderemo la nostra anima". Ciò nonostante, richiamare l'attenzione su quello che stanno facendo i tedeschi potrebbe essere nell'interesse del Politburo. Non è impossibile.» Nell'udire il ronzio dell'aeroplano, Szara serrò i pugni. Vyborg perlustrò il cielo con lo sguardo, poi si piegò in avanti e posò una mano sulla spalla dell'autista. «Rallenti, sergente» disse. «Se vede una jeep dello stato maggiore, attaccherà.» Lo Stuka sbucò fuori da una nuvola squarciata dal sole, e nell'udire il gemito del motore che accelerava Szara sentì che il cuore gli batteva a perdifiato. «Si fermi» ordinò Vyborg. L'autista frenò di botto. Si lanciarono giù dalla jeep e raggiunsero di corsa il fossato sul lato della strada. Szara si appiattì a terra mentre l'aereo si avvicinava. "Dio salvami" pregò. Il rumore della picchiata diventò uno strepito, e Szara udì dei nitriti di terrore, delle grida, le raffiche delle mitragliatrici, uno schiocco sopra la sua testa; poi il terreno ondeggiò per l'esplosione della bomba. Quando il suono del motore si spense in lontananza, si drizzò a sedere. I suoi palmi erano segnati di rosso nei punti in cui le unghie erano affondate nella carne. Vyborg imprecò, estraendo i sigari spezzati dal taschino. Sulla strada, una donna era impazzita dal terrore; fuggiva nei campi, e alcuni la stavano rincorrendo gridandole di fermarsi. Al crepuscolo la colonna di profughi si diradò, poi terminò del tutto. Il paesaggio era deserto. La jeep sfrecciò attraverso un villaggio. Alcune delle case erano state bruciate, altre si ergevano ancora con le porte spalancate. Un cane si mise a latrare come un forsennato al loro passaggio. Szara aprì la borsa, ne estrasse un piccolo taccuino e cominciò a prendere appunti. L'autista aggirò il cratere creato da una bomba e lo maledisse ad
alta voce. «Silenzio!» gli ordinò Vyborg. Szara apprezzò il gesto, ma in realtà non aveva importanza. I tedeschi bombardano i civili, scrisse. No, non l'avrebbero mai pubblicato. I polacchi soffrono dopo che il governo rifiuta il compromesso. Si affrettò a coprire le parole di scarabocchi, temendo che Vyborg vedesse ciò che stava scrivendo. Un nuovo tipo di guerra in Polonia: la Luftwaffe attacca obiettivi non militari. No. Era un'impresa disperata. La futilità di quel viaggio lo rattristava. Tipico, in qualche modo. Ucciso sul suolo polacco mentre compiva un gesto inutile: un necrologio veritiero. D'un tratto capì chi era veramente Vyborg: un polacco uscito dalle pagine di Balzac. Lo guardò di sfuggita. Si era acceso il mozzicone spezzato di un sigaro e fingeva di essere assorto nei propri pensieri mentre il suo autore scriveva e insieme si dirigevano verso le linee. Sì, l'insolente romantico. Puro coraggio, insensibile ai pericoli di qualsiasi passione avesse scambiato quel momento per la propria occasione. Uomini come lui (e le donne erano ancora peggio) avevano distrutto fin troppo spesso la Polonia. E l'avevano salvata. Era vero in entrambi i casi, a seconda dell'anno che si sceglieva. E il grande segreto che Balzac non aveva mai intuito, si disse Szara, era che gli ebrei polacchi erano altrettanto nocivi, inamovibili nella loro fede qualsiasi forma assumesse: chassidismo, sionismo, comunismo. Bruciavano tutti di passione, ed era questo che condividevano con i polacchi, questo che li accomunava a loro. "E tu?" Io no, si rispose. L'autista frenò all'improvviso e svoltò a destra, infilandosi in una stradina. Un convoglio di tre ambulanze trainate da cavalli avanzava lentamente nella direzione opposta. «Ci stiamo avvicinando» disse Vyborg. La jeep risalì il fianco boscoso di una montagna. Szara sentiva l'odore della resina, un aroma pungente e dolce dopo la calura della lunga giornata. L'aria della sera si stava rapidamente rinfrescando, e un muro di alti pini sorgeva su entrambi i lati della strada. I fari dell'auto erano stati mascherati e ridotti a due fessure, e proiettavano poca luce. Il sergente aguzzava la vista nel buio e frenava con forza quando la strada scompariva a una curva o a una svolta improvvisa. Malgrado ciò, la loro avanzata veniva osservata. In due occasioni una vedetta di artiglieria della Wehrmacht individuò la luce che si muoveva su una strada di montagna e ci provò: un ronzio basso e sospiroso, un lampo nella foresta, uno scoppio attutito seguito dal rimbombo smorzato del cannone che rimbalzava fra le colline.
«Mancati» disse Vyborg in tono acido mentre l'eco svaniva. Ancora una volta, all'alba Szara era già sveglio. Giaceva avvolto in una coperta sul pavimento di terra battuta del rifugio di un pastore, con il collo, i polsi e le caviglie bagnati di kerosene per tenere lontani i pidocchi. Dal rifugio, la postazione di una vedetta di artiglieria in appoggio al battaglione che resisteva sulla riva occidentale del Dunajec, si poteva scorgere una stretta valle fra l'acqua e i versanti boscosi della collina, un villaggio distrutto e bruciato dai bombardamenti tedeschi, una sezione del fiume, i piloni di legno di un ponte abbattuto e due fortini di calcestruzzo costruiti per difendere il guado. La vedetta non doveva avere più di diciott'anni, un tenentino che era stato mobilitato soltanto tre giorni prima e che indossava ancora l'abito che aveva nell'ufficio assicurativo di Cracovia. Era riuscito a recuperare un berretto da ufficiale e portava le mostrine del suo grado sulle spalle di una lercia camicia bianca. La sua giacca giaceva ordinatamente piegata in un angolo dello stanzino. Si chiamava Mierczek. Alto, biondo e serio, era il bravo figliolo di qualcuno, senza dubbio un chierichetto, e adesso un soldato. Sulle prime leggermente in soggezione per la presenza di un colonnello e un corrispondente di guerra, aveva fatto il possibile per metterli a loro agio. Un esausto maggiore di fanteria li aveva accolti la sera prima e li aveva accompagnati alla postazione. Szara l'aveva così descritto sul suo taccuino: Reliquia della guerra del 1914 o ancora prima; faccia paonazza e feroce; si lamenta di non avere sufficienti munizioni, cannoni ecc. Ci ha offerto pane, lardo e tè e un pezzo di una densa torta all'uva passa preparata dalla moglie prima che lui partisse per il fronte. Porta un anello dall'aria complicata: massone? Nobile? Non è lieto di vederci. «Non si può sapere cosa succederà. Dovrete confidare nella buona sorte.» Stanno fronteggiando elementi del 18° corpo della 14a armata della Wehrmacht ai comandi del Generaloberst List. Truppe sono avanzate dalla Slovacchia attraverso i passi Jablunkov e Dukla. Il primo giorno, alcune unità tedesche hanno coperto più di venti chilometri. Comunque vadano le cose in questo luogo, potremmo essere tagliati fuori. Prospettiva deliziosa. A sentire il colonnello V., l'aviazione polacca è stata bombardata prima ancora che decollasse durante le prime ore della guerra.
All'alba, la piccola valle dei Carpazi era una delizia. Un cielo rigato di rosso, banchi di foschia che scorrevano sul versante delle montagne, una luce morbida sul fiume color ardesia. Ma nemmeno un uccello. Gli uccelli se n'erano andati. Al loro posto un silenzio profondo e il rombo basso e regolare della lontana artiglieria. Mierczek scrutò a lungo il cielo attraverso una sezione mancante del tetto sul retro del rifugio, perlustrandolo alla ricerca di nubi e pregando silenziosamente per la pioggia. Ma il tempismo di Hitler era stato perfetto: i campi tedeschi erano stati mietuti, e la popolazione non avrebbe sofferto la fame per la chiamata alle armi dei braccianti. Le famigerate strade polacche, che con l'arrivo delle piogge autunnali si trasformano in un fango di una consistenza diabolica, erano asciutte, e i fiumi, l'unica difesa naturale del paese, erano lenti e pigri. L'attacco tedesco cominciò alle 5.00. Sia Szara che Vyborg consultarono i loro orologi quando i primi proiettili di artiglieria colpirono il villaggio. Mierczek caricò il telefono da campo e si mise in contatto con la controbatteria polacca al limitare della foresta a monte del paese. Con l'ausilio del binocolo individuò le fiammate in un punto fra gli alberi sulla riva opposta del fiume, quindi consultò una mappa tracciata a mano con alcune coordinate segnate a matita. «Buongiorno, signor capitano» disse in tono formale al telefono. Szara udì il ricevitore che gracchiava mentre una voce vi gridava qualcosa. «Sono in posizione L per Lódź ventiquattro, signore» rispose Mierczek. Continuò a scrutare il bosco con il binocolo, poi ricontrollò la sua mappa. «Nella sezione sudorientale della griglia, credo, signore.» Vyborg porse il suo binocolo a Szara, che lo mise a fuoco sul villaggio. Una fontana di terra si levò nell'aria. Poi la facciata di una casa crollò sulla stradina, seguita da una nuvola di polvere e fumo. Qualche fiammella danzò lungo una trave spezzata. Szara spostò il binocolo verso il fiume, poi sulla riva tedesca, ma poté vedere ben poco. I cannoni polacchi cominciarono a sparare. Le esplosioni lasciavano pennacchi di fumo marrone fra le cime degli alberi. Szara vide una lingua di fuoco arancione nel bosco occupato dai tedeschi. «Due gradi a sinistra» disse Mierczek al telefono. Attesero ma non accadde nulla. Mierczek ripeté l'istruzione. Szara poté udire una voce furiosa fra le scariche statiche. Mierczek si premette il ricevitore contro il petto e spiegò in confidenza: «Alcuni dei nostri proiettili non esplodono». Quando i cannoni tedeschi ripresero il fuoco, Szara rivide la fiammata arancione, ma in un punto diverso. Mierczek lo comunicò. Nel villaggio, due uomini in camicia nera con le maniche arrotolate correvano di casa in casa. Scomparvero per
qualche istante, quindi riemersero da una porta posteriore con una sagoma grigia su una barella. Szara faceva sempre più fatica a distinguere qualcosa; la coltre di fumo si era addensata al punto che gli oggetti solidi non erano che sagome e ombre. Le fiammate dell'artiglieria tedesca sembravano cambiare posizione: non potevano esserci così tanti cannoni nella foresta, decise Szara. Poi una mitragliatrice polacca aprì il fuoco da uno dei fortini. Szara spostò il binocolo verso la riva più lontana del fiume e vide centinaia di sagome grigie, uomini che correvano tenendosi bassi, uscire dal bosco e tuffarsi a terra bocconi. I fucilieri polacchi cominciarono a sparare dalle case del villaggio. Una polveriera polacca venne colpita da un proiettile d'artiglieria; si udì un botto spezzato, un'enorme nube si gonfiò e vorticò verso l'alto e stelle lucenti tracciarono archi sul fiume lasciandosi dietro scie di fumo. Mierczek non smise mai di fare rapporto, ma il fuoco di risposta polacco sembrava inefficace. Alla fine il colonnello Vyborg si fece sentire. «Tenente, credo che stia cercando di localizzare una batteria di carri armati. Sembra che abbiano creato dei varchi per far passare i mezzi pesanti fra gli alberi.» «Penso che abbia ragione, signore» replicò Mierczek. Mentre comunicava l'informazione il suo volto divenne teso, ma riuscì ad arrivare alla fine. Poi, senza rendersene conto, si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi un istante. «La batteria è stata colpita» riferì. Szara percorse con il binocolo il bosco sul versante polacco, ma riuscì a vedere ben poco attraverso il fumo. Vyborg stava scrutando fuori attraverso il rettangolo irregolare che fungeva da finestra sulla parete di tronchi. «Mi dia il binocolo» disse a Szara. Guardò per qualche istante, poi glielo restituì. «Pionieri» disse. Le truppe tedesche avevano raggiunto il fiume, riparate dai piloni di legno del ponte, e sparavano con le loro pistole mitragliatrici contro gli ingressi dei fortini. Il pioniere tedesco più vicino al versante polacco era a torso nudo, e il suo corpo roseo risaltava nell'acqua grigia del fiume. All'improvviso si lanciò a nuoto dal pilone stringendo una corda fra i denti. Fece qualche lunga, potente bracciata e poi lasciò andare la corda, che si allontanò quando il soldato si girò sulla schiena e venne trasportato via dalla corrente. Dietro di lui, i soldati avanzarono aggrappati alla corda fino al pilone. Alcuni di loro vennero trasportati via come il primo, ed erano subito rimpiazzati da altri. «Pronto? Capitano? Pronto?» gridò Mierczek al telefono. Ruotò la manovella e riprovò. Szara non riusciva più a udire il gracchiare delle scari-
che statiche. «Credo che il cavo sia stato tagliato» disse Mierczek. Prese una pinza da elettricista da una sacca di tela, raggiunse rapidamente l'uscita bassa del rifugio e scomparve. Il suo compito, Szara lo sapeva, era seguire il cavo fino a localizzare il danno, ripararlo e rientrare alla base. La camicia bianca baluginò alla sinistra di Szara, verso la batteria, ma subito dopo venne inghiottita dal fumo denso che aleggiava fra gli alberi. Szara spostò il binocolo sul villaggio. Molte delle case erano ormai in fiamme. Vide un uomo correre da un edificio verso il bosco, poi cadere in ginocchio e crollare in avanti dopo qualche passo. Nel fiume, i pionieri erano avanzati di altri due piloni, e gruppi di soldati tedeschi sparavano da quelli che avevano conquistato. I polacchi rispondevano al fuoco. Scheggiature bianche comparivano magicamente sul vecchio legno catramato, e di tanto in tanto un soldato tedesco cadeva all'indietro, ma veniva immediatamente sostituito dall'avanzata di un altro. Poco più a valle lungo il corso del fiume si scorgevano fiammate al limitare del bosco, e aguzzando lo sguardo Szara distinse la sagoma di una lunga canna stagliarsi lungo il tronco di un pino abbattuto. Sì, pensò, Vyborg aveva indovinato: era un carro armato. Una squadra della fanteria polacca uscì dalla foresta sotto di lui, tre degli uomini reggendo una mitragliatrice e i nastri delle munizioni. Stavano cercando di assumere una posizione da cui prendere d'infilata i piloni del ponte. Correvano chini in avanti, a passi rapidi; uno dei tre perse l'elmetto, ma finalmente giunsero in una depressione sabbiosa fra la riva del fiume e una macchia di ontani. Szara vide la fiammata della mitragliatrice che apriva il fuoco; spostò il binocolo sul ponte e riconobbe il panico che si diffondeva fra i tedeschi a mano a mano che i soldati precipitavano dai piloni. Provò un impeto di esultanza, avrebbe voluto gridare il suo incoraggiamento ai mitraglieri polacchi. Ma quando tornò a controllare la loro postazione, a sparare era rimasto un solo soldato, e sotto lo sguardo di Szara questi lasciò la presa sulla mitragliatrice, si coprì il volto con le mani e si afflosciò sulla schiena. Riuscì lentamente a girarsi e prese a strisciare verso il limitare del bosco. Il telefono da campo si rimise improvvisamente a funzionare con un gracchiare di scariche statiche. Vyborg lo afferrò e disse: «Postazione di vedetta». Dall'altro capo del filo provenivano le grida di un'altra voce. «Non so dove si trovi» disse Vyborg. «Ma ha riparato la linea, e finché non sarà di ritorno dirigerò io il vostro fuoco. C'è un ufficiale, con lei?» Szara udì il no di risposta. «Bene, caporale, il comando passa a lei. Ci sono carri armati fra gli alberi a nord rispetto a voi, al limitare della foresta. Può
sparare un singolo colpo corto? Andrà bene anche nel fiume.» Vi fu una risposta, quindi Vyborg studiò la mappa lasciata da Mierczek. «Bene, caporale» riprese. «Il mio consiglio è il quadrante M28.» Szara spostò il binocolo per vedere l'impatto del colpo suggerito da Vyborg, ma la sua attenzione venne catturata da un gruppo di tedeschi che aveva raggiunto la riva occidentale del fiume e stava correndo nel bosco. «Hanno attraversato» annunciò. «Troppo corto, alzi la mira di un paio di gradi» disse Vyborg. Szara rivolse un'occhiata all'ingresso chiedendosi dov'era Mierczek, ma poi si rese conto che non sarebbe più tornato. Poteva scorgere le fiammate dalle postazioni dentro e sopra il villaggio da cui i polacchi sparavano ai tedeschi che stavano sferrando un attacco laterale dal bosco. Cinque Panzer uscirono dagli alberi e raggiunsero la riva sabbiosa del fiume, avanzando con un rombo fino al bordo dell'acqua e assumendo una posizione che permetteva loro di sparare direttamente sul villaggio. Il binocolo di Szara trovò il mitragliere polacco che aveva cercato di allontanarsi strisciando dalla spiaggia. Giaceva immobile a terra. «Caporale?» disse Vyborg al telefono. Nel tardo pomeriggio si trovavano nei pressi della città di Laskowa, non lontana dal fiume Tososina. Erano incerti sulla loro prossima destinazione, probabilmente isolati dall'accerchiamento della Wehrmacht, ma erano vivi, anche se per miracolo. Erano fuggiti dal teatro della testa di ponte tedesca sul Dunajec, ma era stata una questione di minuti. Il colonnello Vyborg aveva preso la precauzione di lasciare la jeep con il sergente di guardia a monte del villaggio. Se fosse stata nel villaggio stesso, a quel punto sarebbero stati catturati o più probabilmente morti. Con il cedimento della resistenza polacca, la fanteria tedesca aveva attraversato il fiume a bordo di zattere di legno, aveva isolato le restanti postazioni polacche all'estremità del villaggio e aveva ordinato la resa. I polacchi, a quanto sembrava, l'avevano rifiutata. Vyborg aveva osservato con il binocolo l'inizio dell'attacco decisivo; poi, riluttante ad assistere fino alla fine, l'aveva rimesso diligentemente nella custodia di pelle e aveva chiuso con decisione i due automatici. Mentre attraversavano la macchia sul versante della collina si erano ritrovati diverse volte sotto il fuoco tedesco, proiettili che sibilavano fra i rami, ma la foresta stessa li aveva protetti dai tiratori scelti. Per un po' non trovarono ostacoli lungo la strada che attraversava le col-
line pedemontane dei Carpazi; poi incontrarono i resti di un reggimento polacco in ritirata dal confine: soldati esausti, volti e uniformi grigi di polvere, carri di uomini bendati e silenziosi, feriti che camminavano aiutandosi con i fucili o sorretti dagli amici, ufficiali che non davano alcun ordine. Per Szara e palesemente anche per Vyborg fu peggio della battaglia sul Dunajec. Lì avevano visto il coraggio al cospetto di una forza superiore; questa invece era la disfatta di un esercito nazionale. Alcuni contadini che mietevano frumento in un campo interruppero il lavoro, si tolsero i berretti e osservarono in silenzio il passaggio delle truppe. Per un po' il sergente avanzò lentamente, alla stessa andatura del reggimento. Poi, a mezzogiorno circa, le unità avanzate vennero attaccate. A sentire un tenente interrogato da Vyborg, un corpo d'armata tedesco che si era fatto largo attraverso uno dei passi sui Carpazi provenendo dalla Slovacchia si era diretto verso est (con una velocità straordinaria e inaudita, una forza completamente motorizzata che si spostava a bordo di autocarri e carri armati) per isolare le forze polacche che cercavano di battere in ritirata lungo la strada. Quando i mortai e le mitragliatrici cominciarono a sparare e il reggimento si mise a organizzare la resistenza, Vyborg ordinò al sergente di svoltare in un piccolo sentiero per carri, due semplici solchi nel terreno che attraversavano un campo di frumento. E così trascorsero la giornata. «La porteremo a un telefono o a un telegrafo» disse Vyborg, pensando all'articolo che presumeva Szara avrebbe inviato alla «Pravda». Ma il sentiero serpeggiava per le colline senza alcuna fretta, sovrastando innumerevoli ruscelli dove andava ad abbeverarsi il bestiame, oltrepassando di tanto in tanto i piccoli insediamenti contadini nel profondo delle campagne polacche, a enorme distanza dai fili del telegrafo o da qualsiasi altra cosa. Sprofondando sempre più nel Quattordicesimo secolo, si disse Szara: una terra di carri per il fieno dalle fiancate alte e dalle enormi ruote di legno create a colpi d'ascia, di contadine in grembiule, di odori di terra secca settembrina in cui si percepivano tracce di letame di maiale, fieno dolce e fumo di legna. «Vede cosa abbiamo perduto» disse Vyborg. A metà pomeriggio si fermarono nel cortile polveroso di una fattoria e comprarono pane, salsiccia e birra appena fatta da un contadino spaventato che ripeteva pan, signore, ogni volta che apriva bocca. Un uomo nel cui sangue scorreva il terrore nei confronti degli eserciti: per fargli accettare del denaro dovettero quasi ricorrere all'uso della forza. "Andatevene e basta" dicevano i suoi occhi mentre sorrideva ossequioso. "Andatevene e
basta. Avete già preso i miei figli: lasciatemi mia moglie e le mie figlie, risparmiatemi la vita, vi abbiamo sempre dato ciò che chiedevate. Prendete nota che sono un uomo umile, stupido e per niente interessante. E poi andatevene." Si fermarono a mangiare in un bosco. Il sergente penetrò con la jeep nel folto degli alberi per impedire che venisse individuata dagli aerei da ricognizione tedeschi. Quando spense il motore calò un silenzio profondo, spezzato soltanto dalle tre note basse di un uccello solitario. A Szara la foresta faceva pensare a una cattedrale; erano seduti ai piedi di alte querce che filtravano e oscuravano la luce fino a trasformarla nella penombra fresca di una chiesa di cui si era praticanti semplicemente grazie alla propria presenza. Ma a Vyborg sembrava fare più male che bene; il suo stato d'animo divenne sempre più cupo, e il sergente terminò la sua porzione di pane e salsiccia, raggiunse la jeep con la sua borraccia di birra, aprì il cofano e cominciò ad armeggiare intorno al motore. «Disapprova» spiegò Vyborg. «E lo dimostra a suo modo.» Se non fosse stato per un fatto di cortesia, Szara si sarebbe unito al sergente. Conosceva quelle profondità oscure che albergavano nell'animo polacco, e le temeva: quella discesa in un inferno privato in cui nulla poteva essere mai sistemato, migliorato o riparato finiva spesso male. Lui ne era stato testimone. Aveva notato che il lembo della fondina di Vyborg era sbottonato. Un dettaglio apparentemente insignificante, ma Vyborg non era il tipo di ufficiale che avrebbe mostrato noncuranza riguardo a certe cose. Szara sapeva che se il colonnello avesse deciso che il suo onore poggiava su un colpo di pistola nel mezzo di un bosco, lui non avrebbe potuto dire o fare nulla per fermarlo. «Non può addossarsene la colpa, colonnello» disse finalmente per spezzare il silenzio. Vyborg fu lento a rispondere. Pensò di non aprire bocca, ma poi finalmente si decise: «E di chi altri sarebbe, allora?». «Dei politici. E soprattutto di Adolf Hitler.» Vyborg lo fissò incredulo, chiedendosi se per caso non avesse cooptato l'uomo più stupido del mondo per raccontare il destino del suo paese. «Signore» rispose «crede che quello che ha visto conquistare il Dunajec fosse il partito nazista? Mi è sfuggito qualcosa? Se ci sono stati canti di ubriachi e pisciate sui lampioni, mi devono essere sfuggiti. Quella che ho visto io era la Germania, l'eterno nemico della Polonia. Ho visto i tedeschi. "Coraggio, ragazzi, c'è un lavoretto da fare e noi siamo quelli che devono svolgerlo, mettiamoci d'impegno." Ho visto la Wehrmacht, e come qualsi-
asi altro ufficiale degno di questo nome sarei stato orgoglioso di comandarla. Lei crede che una masnada di droghieri di merda e di studentelli cattivi ai comandi di Himmler l'allevatore di polli e di Ribbentrop il commerciante di vini sarebbe riuscita a sconfiggere un battaglione polacco? Lo crede?» «No. Naturalmente no.» «E allora?» Vyborg aveva alzato la voce. Il sergente, al lavoro sul motore della jeep con le maniche arrotolate fino ai gomiti, cominciò a fischiettare. «Ebbene sì» riprese Vyborg in tono nuovamente controllato «me ne addosso la colpa. C'è forse, in qualche armadietto di Varsavia, un rapporto firmato dal tenente colonnello A.S. Vyborg in cui si dice che i bombardieri Stuka avrebbero potuto fare questo e quest'altro? Che la Wehrmacht è in grado di percorrere più di venti chilometri di campagna al giorno, usando i carri armati e la fanteria motorizzata? No, non c'è. Perderemo questa guerra, verremo soggiogati, e lei non si sbaglia del tutto: la colpa è della diplomazia, ma è anche mia e dei miei colleghi. Quando un paese viene conquistato, o sottomesso con mezzi politici, la responsabilità è sempre dei servizi segreti. Loro, che in teoria possono fare qualsiasi cosa, avrebbero dovuto fare qualcosa. In politica è l'equazione più crudele che esista, ma noi l'accettiamo. Se non l'accettassimo, non potremmo continuare il nostro lavoro.» Fece una pausa, bevve l'ultimo sorso di birra dalla sua borraccia e si pulì delicatamente le labbra con le dita. Il sergente aveva smesso di fischiettare e l'uccello aveva ripreso la sua canzone di tre note, bassa e triste. Vyborg appoggiò la schiena al tronco di un albero e chiuse gli occhi. Era molto pallido, si accorse Szara, stanco, forse esausto. La forza della sua personalità era ingannevole. La luce perduta della foresta smorzava il colore della sua uniforme: ora sembrava un abito di lana pesante fatto su misura da un sarto, e la sua pistola era diventata qualcosa di ingombrante su una cintura. Il colonnello si sforzò di tornare dal luogo in cui la sua mente aveva vagato, si sporse in avanti, cercò un sigaro nel taschino della giacca e tradì un breve accesso di rabbia nel non trovarlo. Quando riprese a parlare, la sua voce era tranquilla e risoluta. «Ogni professione determina i propri fallimenti, amico mio. Il paziente del dottore non guarisce, il mercante chiude il negozio, il politico abbandona la sua carica, l'ufficiale dei servizi segreti vede il proprio paese assoggettato. Di sicuro lo saprà, al livello in cui ha vissuto in Russia. Avrà almeno avuto, per così dire, contatti con i vostri
servizi.» «Di rado» disse Szara. «Che io sappia, quanto meno. Ovviamente si riferisce a coloro che si occupano di questioni internazionali, non alla polizia segreta: quella, in un modo o nell'altro, la vediamo quotidianamente.» «Esatto. Ebbene, le dirò una cosa: si è fatto sfuggire un'era storica, fenomenale. Noi conosciamo i servizi sovietici, facciamo bene a conoscerli visto che li combattiamo, e quello che ognuno di noi prova, insieme alla giusta rabbia patriottica, è forse una punta di invidia. Considerato nel suo insieme, è un gruppo curioso: Theodor Maly, l'ex cappellano militare ungherese, Eitingon, Slutskij, Artuzov, Trilisser, il generale Shtern, Abramov, il generale Berzin, Ursula Kuczynski alias Sonia, quel bastardo di Bloch, tutti i lituani e gli ebrei e compagnia bella... sono, o forse in certi casi si dovrebbe dire erano, i migliori del settore. Non parlo della loro moralità, della loro vita personale o della loro devozione a una causa in cui non credo, no, non li si può vedere in quella luce. Ma nel mondo dello spionaggio non c'è mai stato nessuno migliore di loro, e probabilmente mai ci sarà. Suppongo che lo si possa considerare un peccato: tutti massacrati in base a uno strano, enigmatico proposito noto soltanto a Stalin. Quanto meno, è un peccato che lei non abbia mai potuto assaporare le loro personalità.» «Lei li ha conosciuti?» «Non in carne e ossa, no. Sono uomini di carta che vivono nei dossier, ma forse questa è la loro manifestazione più vera. Dopotutto, che cosa c'è da vedere? Un ometto con gli occhiali che legge il giornale in un caffè. Un grasso gentiluomo ebreo che sceglie una cravatta facendo il galante con la commessa. Un uomo in maniche di camicia e bretelle rampognato dalla moglie per qualche stupida faccenda domestica.» Rise al pensiero della sua galleria di tipacci che arrancavano nella vita quotidiana. «Ah, ma sulla carta è un altro paio di maniche. Qui viene compromesso un ambasciatore, lì un potente gruppo di esuli politici si disintegra come se niente fosse, i piani di un'ingegnosa macchina codificatrice vengono copiati senza che nessuno lo sappia. Un incidente a Bruxelles, una sparizione a Praga: se ne deve dedurre che al lavoro c'è una mano molto abile. Come dice il prestigiatore: ora lo vedete, ora non più. Ma dovete perdonarmi, signore e signori, non posso rivelarvi il trucco.» Il rumore di un aereo in avvicinamento gli fece alzare gli occhi al cielo. Per qualche istante, mentre il velivolo vagava invisibile fra le nubi sopra la foresta, nessuno dei due parlò. Finalmente il suono si spense in lontananza.
Vyborg si alzò e si spazzolò l'uniforme. «Una cosa la sappiamo di certo: non è dei nostri.» Szara lo imitò, e Vyborg tornò a guardare il cielo. «Ci conviene muoverci» disse «se non vogliamo che la Wehrmacht ci circondi con una delle sue abili manovre a tenaglia e ci faccia prigionieri. Nell'ultima guerra gli ufficiali rispettavano il codice cavalleresco, ma questa volta non ne sono sicuro.» Ripartirono attraverso una campagna rilucente di migliaia di sfumature verdi e oro nella foschia del tardo pomeriggio. Quando giunsero tre carri nella direzione opposta, Vyborg ordinò al sergente di accostare per cedere loro il passo. Ebrei polacchi, uomini, donne e bambini, gli occhi a terra al cospetto di ufficiali dell'esercito, diretti a est, in fuga dall'avanzata tedesca. «Per loro non vale alcun codice cavalleresco, a quanto pare» disse Szara a Vyborg quando la jeep si fu rimessa in marcia. «Temo di no. Se noi dovremo occuparci delle forze armate tedesche, ho paura che i nostri ebrei ne soffriranno. Quelli che abbiamo appena incrociato ne sono convinti, e io devo dar loro ragione. Ma sono diretti a est. La Russia li accoglierà?» «La Russia fa ciò che deve fare» disse Szara. «Laggiù la vita non sarà facile, ma alcuni di loro sopravviveranno. Alla fine Stalin saprà come impiegarli.» «Nei campi?» «Forse nei battaglioni di lavoratori. Non gli sarà permesso di sistemarsi e vivere le loro vite.» «Lei non ama la sua terra adottiva, signor Szara?» «È la mia terra che non mi ama, colonnello, e in qualsiasi relazione ciò tende a complicare la vita.» «Ma potrebbe andarsene e non lo fa.» «Chi non ci ha pensato? E io sono un essere umano come tutti gli altri. Ma c'è qualcosa, in questa parte del mondo, che rende difficile lasciarla. Non si può spiegare in termini normali, e l'attaccamento poetico ai cieli e alle terre sembra poca cosa quando arrivano i cekisti. Eppure ci rimani. Decidi di partire, rimandi di una settimana, poi succede qualcosa e allora pensi: giovedì di sicuro, ma giovedì non puoi, e all'improvviso è lunedì ma i treni non funzionano. E così aspetti marzo, e un nuovo decreto ti ridà qualche speranza, poi in aprile arriva la primavera e il tuo cuore è d'un tratto abbastanza forte da sopportare qualsiasi cosa. O almeno così pensi.» Szara scrollò le spalle, poi soggiunse: «Una mattina ti svegli e sei troppo vecchio per cambiare, troppo vecchio per ricominciare. Poi la donna nel
tuo letto ti si stringe addosso perché ha i piedi freddi e ti rendi conto di non essere davvero così vecchio, e subito dopo cominci a chiederti quale terribile orrore o quale strano piacere il resto della giornata potrebbe procurarti, e per Dio il tuo cuore è diventato russo senza che tu te ne sia accorto». Vyborg sorrise. «Dovrei leggere i suoi scritti» disse. «Ma che russo è quello che dice cose simili vivendo a Parigi? Oppure mi sbaglio?» «No, non si sbaglia. In mia difesa posso dire solo questo: che poeta è quello che non celebra l'amore che ama da lontano?» Vyborg rise, dapprima in modo educato, poi lasciandosi andare a mano a mano che il concetto lo solleticava. «Che vergogna» concluse «perdere questo nostro meraviglioso, commovente paese. Se non fosse così, signor Szara, le assicuro che la farei venire con me fino all'angolo più lontano dell'inferno per il solo piacere della sua compagnia.» Quella notte Szara si coricò su una coperta accanto alla jeep e cercò di costringersi a dormire. Era la medicina di cui aveva bisogno (un farmaco per la stanchezza, per lo spirito dolente, per la sopravvivenza), ma quando sopraggiungeva, per qualche minuto alla volta, non era un sonno guaritore. L'area attorno alla sua tempia destra pulsava con insistenza e sembrava gonfia e sensibile, e Szara temeva che i danni subiti fossero molto peggiori di quanto avesse immaginato. La notte era fresca e priva di stelle. Avevano proseguito a lungo, coprendo soltanto pochi chilometri all'ora sui solchi del sentiero, e si erano arresi agli ultimi istanti del crepuscolo. Lasciando la foresta di querce si erano avventurati in un campo di frumento apparentemente infinito che si stendeva per chilometri senza alcuna interruzione. Non c'erano villaggi né esseri umani, soltanto frumento maturo che frusciava e bisbigliava al vento insistente della sera. L'ultima latta di benzina era stata versata nel serbatoio della jeep; in un modo o nell'altro avrebbero dovuto trovare altro carburante. Szara era tormentato da sogni spaventosi (l'ironia gioviale che aveva tenuto alto il loro morale durante il giorno era svanita con il buio) e non appena riusciva a prendere sonno si ritrovava inseguito e impossibilitato a correre. Il terreno sotto di lui era duro come la roccia, ma girandosi sul fianco opposto la sua testa veniva sommersa da un'ondata di dolore, costringendolo a riprendere la posizione originaria. Molto prima dell'alba venne destato da un rombo di tuono, poi vide all'orizzonte che non era affatto un tuono: un bagliore arancione pulsante colorava il bordo orientale del cielo. Per qualche minuto rimase l'unico a essersi svegliato; posò la testa sul braccio e osservò quella che, lo
sapeva, era una città in fiamme sotto il fuoco di fila dell'artiglieria. Quando il sergente e il colonnello si destarono, guardarono anche loro l'orizzonte. Per un lungo momento nessuno aprì bocca; poi il sergente prese le due borracce e si allontanò alla ricerca di un po' d'acqua. Non mangiavano né bevevano dal pomeriggio del giorno prima, e la sete stava diventando qualcosa a cui era difficile non pensare. Vyborg accese un fiammifero e cercò di studiare la mappa, niente affatto sicuro di dove si trovassero. «Potrebbe essere Cracovia in fiamme?» domandò Szara. Vyborg scosse la testa per indicare che non lo sapeva e accese un altro fiammifero. «Il nostro sentiero non è segnato sulla mappa» disse. «Ma ho calcolato che dovremmo incrociare uno scalo di smistamento della ferrovia a nord-est di dove ci troviamo.» Szara estrasse l'ultima ammaccata Gitane da un pacchetto malridotto. Ne aveva altri due nella sua borsa, avvolti in una camicia pulita. Rifletté se fosse il caso di cambiarsi. Il sudore gli si era asciugato addosso così tante volte che era ormai ricoperto da una polvere sottile che gli dava il prurito e lo faceva sentire sudicio. Troppi lussi parigini, si disse. Bagni e sigarette e caffè e acqua fredda e dolce quando aprivi il rubinetto. Dalla sua attuale prospettiva, sembrava il sogno di un mondo perduto. La Francia aveva dichiarato guerra, a sentire il colonnello, e lo stesso aveva fatto l'Inghilterra. I bombardieri tedeschi stavano volando anche sopra le loro città? Forse Parigi era un bagliore arancione nel cielo. Vyborg consultò il suo orologio. «Non ci sarà acqua nei paraggi» disse. Szara appoggiò la schiena a una ruota della jeep e fumò la sua sigaretta. Un'ora dopo il sergente non era ancora tornato, e si era ormai fatto giorno. Il colonnello Vyborg si era incamminato due volte sul sentiero, ma senza alcun risultato. Finalmente sembrò prendere una decisione; aprì il bagagliaio e ne estrasse un fucile automatico. Liberò il caricatore dal suo alloggiamento subito dopo il ponticello e controllò le cartucce, poi lo fece scattare al suo posto e porse il fucile a Szara. A giudicare dalle scritte era un Model ZH 29 prodotto a Brno, in Cecoslovacchia, un'arma lunga e pesante non proprio malfatta; l'impugnatura appena dietro la canna era protetta da una lega metallica scanalata per evitare che le dita si riempissero di vesciche quando l'arma sparava in automatico. «Ci sono venticinque colpi» spiegò Vyborg «e uno nella camera di scoppio. È predisposto per colpi singoli, ma può spostare sull'automatico la levetta dietro il caricatore.» Tese la mano e fece scattare l'otturatore. «Ora è armato» disse. Estrasse la
sua pistola, un'automatica a canna corta, dalla fondina e la esaminò come aveva fatto con il fucile. «Sarà meglio se ci teniamo a qualche metro di distanza uno dall'altro ma alla stessa altezza. Un campo è un brutto posto per andarsene in giro con armi da fuoco pronte a sparare.» Per un po' seguirono il sentiero, con il colonnello che si fermava di quando in quando e chiamava il sergente a bassa voce. Ma non vi fu risposta. Il sentiero curvava risalendo una bassa collina, e mentre il sole spuntava all'orizzonte trovarono il sergente sul versante opposto, a circa trecento metri dalla jeep, in un punto in cui gli steli di frumento erano calpestati e spezzati. Gli avevano tagliato la gola. Giaceva bocconi, gli occhi spalancati, un'espressione di feroce preoccupazione dipinta sul volto. In ciascuno dei pugni stringeva una manciata di terra. Vyborg s'inginocchiò e scacciò le mosche. Gli stivali del sergente erano scomparsi, le sue tasche erano rovesciate e, quando Vyborg infilò la mano sotto la giubba dell'uniforme, ne estrasse una fondina ascellare ormai vuota. Non c'era alcuna traccia delle borracce. Per qualche istante, Szara e Vyborg rimasero dov'erano: Szara in piedi, il fucile pesante tra le mani, Vyborg inginocchiato accanto al corpo il cui sangue aveva intriso il terreno. Il silenzio era assoluto, disturbato soltanto dal rombo lontano e dal fruscio degli steli di frumento. Vyborg borbottò un'oscenità sottovoce e fece per sfilare una medaglietta religiosa dal collo del sergente, ma se questi la portava era stata rubata insieme al resto. Finalmente il colonnello si alzò, reggendo mollemente la pistola in mano. Provò a dare un calcio al terreno con la punta dello stivale, ma vide che era duro come la pietra. «Non abbiamo badili» disse. Si voltò e si allontanò. «Da queste parti succede sempre, in tempo di guerra» disse quando Szara lo raggiunse. Il suo tono era amaro, disgustato e freddo. «Sono i contadini. Hanno deciso di badare a se stessi.» «Come facevano a sapere che eravamo qui?» «Lo sanno.» Alla luce del giorno si vedevano colonne di fumo nero levarsi dalla città in fiamme, e i suoni del fuoco di fila si erano fatti più riconoscibili, scoppiettando come legna bagnata in un fuoco. Vyborg era al volante, con Szara seduto alla sua destra. Per un bel pezzo non dissero nulla. Szara osservava la lancetta dell'indicatore del carburante tremolare appena sotto il segno della metà. Quando giungevano su un dosso o una collinetta, Vyborg fermava la jeep appena prima della cima, prendeva il binocolo e proseguiva a piedi. Szara stava di guardia con il fucile in mano, la schiena
protetta dalla fiancata della jeep. Alla quarta o quinta spedizione esplorativa, Vyborg ricomparve appena sotto la cima della collina e fece segno a Szara di raggiungerlo. «Sono sull'altro versante» lo informò quando Szara gli fu accanto. «Avanzi lentamente, si tenga il più basso possibile e non parli; se proprio deve, si esprima a gesti. La gente nota i movimenti e riconosce i suoni umani.» Il sole splendeva. Szara avanzò carponi, respirando polvere e reggendo il fucile di traverso sulle braccia. Il sudore formava goccioline lungo l'attaccatura dei capelli e gli colava lungo i lati del volto. Quando superarono la cresta della collina, Vyborg gli porse il binocolo malgrado Szara potesse vedere la valle anche senza. Avevano raggiunto lo scalo di smistamento ferroviario, come Vyborg aveva previsto: si trovava accanto a una strada sterrata ai piedi di un lungo, lieve pendio. Una coppia di binari curvava verso ovest, incrociando altre due linee che correvano da nord a sud. Su un lato di due piazzole di sosta c'erano il casotto dello scambista e alcuni lunghi bracci di ferro raccolti in una struttura di legno: porzioni di binari su cui si poteva far sostare un treno mentre un altro sfruttava la precedenza. La piccola valle, coperta principalmente di erbacce e boscaglia, pullulava del grigio della Wehrmacht. Il casotto e l'apparato di smistamento erano protetti da una mitragliatrice dietro una barriera di sacchetti di sabbia, e numerosi ufficiali ferroviari della Wehrmacht, che Szara riconobbe grazie alle spalline quando puntò il binocolo, si aggiravano reggendo in mano bandierine verdi. Dalla posizione della lunga fila di carri merci ferma sui binari che portavano a ovest, Szara concluse che il convoglio militare era arrivato direttamente dalla Germania. Altri elementi lo confermavano. Sulle assi di legno di uno dei vagoni c'era una scritta in gesso: «Wir fahrer nach Polen um Juden zu versohlen», stiamo andando in Polonia a suonarle agli ebrei. Le mostrine indicavano che Szara stava assistendo all'arrivo di elementi della 17a divisione di fanteria; un migliaio di soldati si erano già messi in riga mentre centinaia di altri continuavano a saltar giù dai vagoni. Grazie al binocolo, Szara poté osservare i loro volti nei dettagli. Li vide attraverso la caligine fumosa che aleggiava sulla valle, con le erbacce in primo piano che invadevano il suo campo visivo e con lo strano distacco di un'osservazione a distanza in cui le bocche si muovono senza che si possa udire alcun suono, ma poté rendersi conto di chi erano. Braccianti, sfaccendati e meccanici, teppisti e impiegati, operai e studenti: un esercito di giovani volti, scuri e chiari, alcuni ridenti e altri ansiosi, alcuni spocchiosi e altri silenziosi e introversi, alcuni belli, altri brutti, altri ancora del tutto
insignificanti. Un esercito come tutti gli altri. Un gruppo di ufficiali, generalmente fra i trenta e i quarant'anni (mentre i soldati erano sulla ventina e anche più giovani), se ne stava in disparte e fumare e conversare a bassa voce formando diversi capannelli, mentre l'inevitabile confusione di una forza militare in movimento veniva affrontata dai sottufficiali. Szara osservò con interesse il gruppo di sergenti e caporali. Erano tutti dello stesso tipo: grossi e forti, competenti, traboccanti di tranquilla autorità ma senza tracotanza. Erano, lo sapeva, l'anima di un esercito, supervisori e caposquadra più che dirigenti, e sulle loro abilità avrebbe alla fine poggiato la sconfitta o la vittoria. Lavoravano con le loro unità in modo quasi noncurante, a volte afferrando un soldato smarrito per l'uniforme e guidandolo verso il suo gruppo di appartenenza, di solito senza fare commenti, limitandosi a indicargli la direzione e dargli una spintarella. Da una serie di vagoni per il bestiame più in là lungo i binari, i cavalli della divisione venivano condotti nella zona di attestamento. Erano animali possenti e muscolosi, allevati per la vita militare nelle fattorie della Prussia orientale. Avrebbero trainato l'artiglieria della divisione e i carri delle provviste e delle munizioni, e i migliori sarebbero stati cavalcati dagli ufficiali: l'esercito tedesco, come gran parte degli eserciti europei, si spostava a cavallo. Ci sarebbero state alcune jeep scoperte come quella che stavano usando Szara e il colonnello per gli ufficiali di grado più elevato e per il personale medico, ma erano i cavalli a svolgere il lavoro pesante, quattromila bestie per ogni divisione di diecimila soldati. I reparti d'assalto dell'offensiva tedesca erano formati dalle divisioni corazzate di carri armati e autocarri, la cui velocità aveva finora sgominato le difese polacche, ma le unità che si mobilitavano a quel punto avrebbero tenuto i territori conquistati. Szara spostò il binocolo sulla strada che portava verso nord, dove diverse compagnie si erano già mosse. Non era una parata: camminavano invece di marciare, stringendo le armi con noncuranza (come sempre, i giganti reggevano i fucili mentre gli uomini più piccoli e magri trascinavano mitragliatrici montate sui treppiedi e mortai) in una formazione irregolare ma funzionale. Per il momento, la macchina bellica aveva inserito una marcia bassa. Szara vide che un cannone era finito in un fossato e che i cavalli, intrappolati dalle briglie, tentavano di riprendere l'equilibrio con movimenti convulsi. L'incidente doveva essere appena accaduto, e la situazione venne risolta rapidamente: un sergente gridò degli ordini, alcuni soldati calmarono i cavalli, altri sganciarono le redini, un gruppo si organizzò per
riportare il cannone sulla strada. Ci impiegarono un attimo, uno strattone di molte mani volonterose e l'impresa si concluse, consentendo di riprendere l'avanzata. Vyborg attirò l'attenzione di Szara sfiorandogli la spalla e indicò con un cenno della mano che avevano spiato a sufficienza. Szara strisciò all'indietro per qualche istante, poi si rialzò e tornò camminando verso la jeep insieme al colonnello. Vyborg parlava sottovoce: pur essendo molto lontani dai tedeschi, qualcosa della loro presenza era rimasto. «Quella» spiegò «era la strada per Cracovia. I nostri calcoli erano corretti. Ma come ha visto, al momento la strada è occupata.» «Cosa possiamo fare?» «Aggirarli da dietro o cercare di sgusciare fra le loro linee con il favore della notte.» «Dunque siamo isolati?» «Sì. Per il momento. Che impressione le ha fatto la Wehrmacht?» Giunsero alla jeep; Vyborg avviò il motore e arretrò lentamente lungo il sentiero finché una curva li nascose alla vista dalla collina. «La mia impressione» rispose Szara quando Vyborg ebbe portato la jeep in mezzo al frumento e spento il motore «è che non voglio entrare in guerra con la Germania.» «Potrebbe non avere scelta» disse Vyborg. «Crede che Hitler attaccherà la Russia?» «Prima o poi lo farà. Non sarà in grado di resistere alla tentazione. Terreni coltivati, petrolio, ferro: è quello che i tedeschi amano di più. A proposito, ha notato i cavalli?» «Magnifici» disse Szara. «Inutili.» «Non me ne intendo, ma mi sono sembrati in salute. Grossi e forti.» «Troppo grossi. I russi hanno cavalli piccoli e resistenti chiamati panje che possono cibarsi di erbaccia. Questi bestioni tedeschi verranno inghiottiti dal fango russo: è ciò che accadde a Napoleone, fra le altre cose. Sono forti, potenti, ma troppo pesanti. E provi a nutrirli.» «Immaginavo che Hitler sapesse tutto di Napoleone.» «Si crederà migliore. Napoleone tornò dalla Russia con poche centinaia di uomini. Gli altri vi rimasero come fertilizzante. Centinaia di migliaia.» «Sì, lo so. Fu quello che i russi chiamano il Generale Inverno a sconfiggerli.» «Non esattamente. Più che altro li indebolì e poi terminò il lavoro. Quel-
la che li sconfisse fu la febbre tifoidea. Il che equivale a dire i pidocchi. La Russia si difende in modi che ad altri non vengono in mente. Il contadino ha vissuto tutta la sua vita in mezzo ai pidocchi, ne è immune. Ma l'abitante dell'Europa centrale, vale a dire il tedesco, non lo è. Lungi da me intromettermi nell'apparat spionistico del vecchio Kinto, ma se Hitler cominciasse ad alzare la voce qualcuno dovrebbe controllare che tipo di linimenti e farmaci profilattici stanno producendo le compagnie farmaceutiche tedesche. In prospettiva, potrebbe essere molto importante. Naturalmente, è inutile che le dica queste cose. Difficile che vadano bene per la "Pravda". Tuttavia, se mai dovesse uscire vivo di qui e incontrare qualcuno degli agenti che non ha mai conosciuto, è un buon consiglio da bisbigliargli all'orecchio.» La notte era magnifica, le stelle erano una brillante coloritura argentata sul nero del cielo. Disteso supino, Szara le osservava con le mani intrecciate dietro la nuca, simultaneamente incantato dall'universo e disperatamente bisognoso di un sorso d'acqua. Parlare era ormai diventato troppo doloroso; la sua voce era rauca e bassa. Subito dopo il calare del buio avevano nuovamente raggiunto il loro punto di osservazione, avvertendo come animali assetati che nei pressi del casotto dello scambista c'era un ruscello o un pozzo. Ma sulle rotaie dirette a ovest era fermo un altro treno, e le unità militari si organizzavano e partivano verso nord alla luce di alcuni falò. A mezzanotte presero una decisione: abbandonarono la jeep e si diressero a piedi verso sud attraversando i campi, trasportando le armi, le borracce e le borse. Le prime due ore furono un'agonia; brancolavano inciampando fra i folti cespugli che fiancheggiavano i campi di frumento, arrestandosi a ogni suono della notte. Ad aiutarli, alla fine, fu una pattuglia ferroviaria tedesca; una locomotiva avanzava circospetta verso sud, illuminando le rotaie con un netto cono di luce gialla e trainando un vagone senza sponde protetto da alcuni soldati armati di pistole mitragliatrici. Seguendo la luce, Szara e Vyborg camminarono per un'altra ora, scorsero la sagoma che cercavano e aspettarono che la locomotiva scomparisse oltre l'orizzonte. La minuscola stazione ferroviaria aveva una cisterna d'acqua. Aprirono il rubinetto sul lato inferiore e bevvero avidamente a turno dal getto d'acqua. Era cattiva, puzzolente e stantia, e Szara poteva sentire un sapore di terra, legno marcio e chissà cos'altro, ma la sorseggiò con ingordigia, bevendo dalle mani a coppa senza curarsi del fatto che il getto gli bagnava la
camicia e i pantaloni. Un uomo e una donna uscirono da una casetta il cui lato posteriore era addossato alla stazione; lui doveva essere una sorta di capostazione, di segnalatore, di scambista o di quant'altro potesse essere necessario. Vyborg salutò educatamente la coppia e disse all'uomo che avrebbe avuto bisogno di indumenti nuovi, qualunque cosa fosse disponibile. La donna si allontanò e fece ritorno con una camicia e un paio di pantaloni scoloriti, due scarpe sfondate, una giacca lisa e un berretto. Vyborg estrasse un portafogli dalla tasca della giubba e offrì all'uomo un fascio di zloty. L'uomo non alzò gli occhi da terra, ma la donna fece un passo avanti e accettò il denaro in silenzio. «E adesso che ne sarà di noi?» domandò il marito. «Possiamo solo aspettare e vedere» rispose Vyborg. Fece un fagotto degli indumenti, prese il fucile e le borracce e soggiunse: «Vado a seppellire questa roba». L'uomo gli procurò una pala per il carbone, e Vyborg scomparve nei campi immersi nel buio. «Seppellire dei begli stivali come quelli...» commentò la donna. «Meglio che se ne dimentichi» le disse Szara. «I tedeschi sanno cosa sono e chi li porta.» «Sì, ma comunque...» protestò la donna. «È brutto assistere a una cosa simile» disse l'uomo in tono brusco, infuriato perché la donna vedeva soltanto un paio di stivali di qualità. «Un ufficiale polacco che seppellisce la sua uniforme.» «C'è un treno?» chiese Szara. «Forse tra qualche giorno» rispose l'uomo. «Da qui si va a Cracovia oppure a Zakopane, sulle montagne a sud. In condizioni normali, ogni martedì alle quattro del pomeriggio.» Si trattennero per qualche minuto in preda al disagio, poi un lavoratore giunse dai campi e attraversò le rotaie. «Fatto» annunciò Vyborg. Non c'era alcun treno. Szara e Vyborg decisero di procedere verso est su una strada che passava un bel po' a sud della stazione ferroviaria, costeggiava il confine slovacco e serpeggiava attraverso le valli fluviali dei Carpazi. Si unirono a una carovana infinita di profughi, a piedi, su carri trainati dai cavalli delle fattorie, su rare automobili. Agli incroci erano appostate unità tedesche, ma i soldati non interferivano con la migrazione; sembravano annoiati, disinteressati, e se ne stavano scompostamente appoggiati ai muretti di pietra o alle spalle dei ponti, osservando senza alcuna espressione il fiume di umanità che scorreva davanti ai loro occhi. Non venne ri-
chiesto alcun documento, nessuno venne chiamato a uscire dalla folla e perquisito. Szara notò nella colonna quelli che gli parvero altri soldati che, come Vyborg, si erano sbarazzati delle uniformi e avevano ottenuto indumenti da civili. Fra i profughi circolavano diversi punti di vista sull'atteggiamento dei tedeschi, che spaziavano da un'attribuzione di benevolenza («I Fritz vogliono guadagnare la nostra fiducia») al pragmatismo («Meno polacchi ci saranno in Polonia, meglio per loro. Ora saremo un problema della Russia»). La strada verso est divenne una città: bambini nascevano e vecchi morivano, amici venivano trovati e perduti, il denaro veniva guadagnato, speso, rubato. «È la quarta volta che mi ritrovo su questa strada» confidò a Szara un vecchio ebreo con una barba lunga fino alla vita e un sacco pieno di pentole e padelle caricato sulla schiena. «Nel 1905 venimmo a ovest per sfuggire ai pogrom, nel 1916 tornammo a est in fuga dai tedeschi, e nel 1920 di nuovo a ovest con i bolscevichi alle calcagna. Bene, eccoci di nuovo qui. Non mi preoccupo più, la faccenda si risolverà da sola.» Impiegarono sei giorni per raggiungere la cittadina di Krosno, circa centotrenta chilometri a est della linea Cracovia-Zakopane. Szara rimase sbalordito nel vedere che la bandiera polacca era ancora orgogliosamente appesa all'ingresso della stazione ferroviaria. In qualche modo erano riusciti a distanziare l'avanzata tedesca. La Wehrmacht aveva forse concesso alla colonna di profughi di raggiungere il territorio controllato dai polacchi allo scopo di sovraccaricare il sistema degli approvvigionamenti e dei trasporti? Non riusciva a pensare a nessun'altra ragione, eppure anche quella gli sembrava nella migliore delle ipotesi discutibile. Vyborg lo lasciò alla stazione e andò alla ricerca di un'unità dei servizi segreti e di un radiotelegrafo presso le forze che difendevano Krosno. Szara pensava che non l'avrebbe più rivisto, ma due ore dopo il colonnello ricomparve, ancora nelle vesti di un lavoratore dignitoso e dai lineamenti fini. Si fermarono accanto a un pilone che reggeva la tettoia di legno della stazione, circondati dal continuo movimento di una folla di individui esausti e disperati. Il fracasso era insopportabile: gente che gridava e litigava, bambini che piangevano, un altoparlante che blaterava messaggi incomprensibili li costringevano ad alzare la voce per farsi udire. «Finalmente» gridò Vyborg «sono riuscito a mettermi in contatto con i miei superiori.» «Sanno cosa sta succedendo?» «Fino a un certo punto. Per quanto la riguarda, L'vov non è stata ancora attaccata, ma la situazione potrebbe cambiare in fretta. Per quanto riguarda
me, si sa che la mia unità ha raggiunto Cracovia, ma a quel punto è sparita. Le comunicazioni sono pessime: diverse divisioni polacche sono isolate, e stanno cercando di crearsi un varco e di avanzare con la forza fino a Varsavia. La capitale verrà difesa, e ci si aspetta che resista. Personalmente le do un mese, probabilmente ancora meno. Temo che per noi non ci siano molte speranze. In questo paese facciamo miracoli, è vero, ogni tanto anche militari, ma la sensazione è che non si possa fare molto. Ci siamo appellati al mondo perché ci aiuti, naturalmente. Dal canto mio, ho una nuova missione.» «Fuori del paese?» Per un istante, la bocca sottile di Vyborg tracciò un sorriso a labbra strette. «Non posso dirle niente. Ma se vuole, può augurarmi buona fortuna.» «Gliela auguro, colonnello.» «Le chiederei, signor Szara, di scrivere di ciò che ha visto, se riesce a trovare il modo di farlo. Dicendo che siamo stati coraggiosi, che li abbiamo fronteggiati, che non ci siamo arresi. Ma direi che se non ci riesce, la cosa migliore per noi è il silenzio. Mi riferisco al suo incarico per la "Pravda". Articoli sulle nostre minoranze nazionali sono già apparsi a Londra, a Parigi, perfino in America. Forse vorrà rifiutarsi di aggiungere la sua voce al coro di latrati.» «Troverò il modo di farlo.» «Io posso soltanto chiederglielo. È tutto ciò che sono in grado di fare gli ufficiali degli eserciti sconfitti: appellarsi alla coscienza altrui. Ma io glielo chiedo ugualmente. Forse, nel profondo, lei si sente ancora un polacco. La gente di questo paese è sparsa ovunque, ma spesso pensa a noi. Non sarebbe fuori luogo se si unisse anche lei. Nel frattempo, per quanto riguarda i dettagli tecnici, mi hanno detto che un treno per L'vov arriverà nel giro di un'ora. Mi piacerebbe pensare che lei riuscirà a salirci. Non sarà facile, me ne rendo conto, ma in quel modo se non altro sentirò di aver mantenuto la parola, anche se seguendo un percorso inaspettato.» «I giornalisti sono bravissimi a salire a forza sui treni, colonnello.» «Forse ci rivedremo» disse Vyborg. «Lo spero.» La sua stretta di mano era decisa. «Buona fortuna» disse, e poi scomparve tra la folla di profughi. Szara riuscì a salire sul treno, anche se non vi entrò. Si fece largo fino alla fiancata di una carrozza, poi avanzò di traverso fino a giungere agli scalini di ferro. Sul gradino inferiore c'era già un passeggero, ma Szara attese
che il treno partisse con un sobbalzo e poi montò deciso sulla scaletta e si infilò accanto a lui. Il suo compagno di viaggio era un uomo scuro e rabbioso che stringeva un cesto di vimini fra le braccia, e cercò di far cadere Szara con una spallata: il gradino era suo, era il suo posto nello schema generale delle cose. Ma Szara sfruttò un metodo consacrato dal tempo: afferrò il risvolto della giacca del suo avversario con la mano libera, in modo che più questi spingeva, più rischiava di cadere insieme a lui. Il treno non riuscì mai a prendere velocità; c'era gente appesa ai finestrini, sdraiata sul tetto e in equilibrio sui giunti fra i vagoni, e la locomotiva sembrava a malapena in grado di spostare tutto quel peso. Per diversi minuti Szara e il suo compagno di viaggio si fronteggiarono torvi; l'uomo spingeva e Szara restava aggrappato, i loro volti separati soltanto da pochi centimetri. Poi, finalmente, la lotta cessò ed entrambi appoggiarono la schiena ai corpi di coloro che occupavano il gradino superiore. Il treno percorse i centotrenta chilometri per L'vov in sei terribili ore, e se la stazione di Krosno era stata un inferno di folla agitata, L'vov si rivelò ancora peggio. Per attraversare la banchina, Szara dovette letteralmente combattere. Soffocato dal calore della folla, allontanò corpi, inciampò in una gabbia di polli, cadde faccia a terra sul cemento e cercò disperatamente di alzarsi fra una foresta di gambe prima di venire calpestato a morte. Qualcuno gli sferrò un gran pugno alla schiena: non riuscì a vedere chi era stato, si limitò a sentire il colpo. Raggiunta la sala d'aspetto, si allineò a una falange decisa a sfruttare il proprio peso globale per avanzare verso le porte. Le avevano quasi raggiunte quando una folla frenetica e terrorizzata arretrò travolgendoli. Szara sentì che i piedi si sollevavano da terra e temette che la pressione potesse sfondargli le costole; agitò una mano, colpì qualcosa di umido che liberò un guaito rabbioso e con uno sforzo enorme riuscì a rimettere i piedi a terra. Da qualche parte, ai margini lontani della sua coscienza, udiva un ronzio, ma non fece alcun tentativo di collegarlo al mondo reale: c'era e basta. Procedette di traverso per qualche secondo, poi una misteriosa controcorrente lo afferrò e lo proiettò attraverso le porte della stazione. Szara riuscì a mantenere l'equilibrio soltanto tendendo una mano verso terra, e quando si liberò della folla trasse un respiro affannoso. Non si trovava nella piazza principale di L'vov, ma davanti a un'uscita laterale della stazione. La gente correva e gridava, non aveva idea del perché. Numerosi carri erano stati abbandonati dai loro conducenti, e i cavalli
terrorizzati risalivano al galoppo la strada di ciottoli per sfuggire al pericolo, ovunque esso fosse, seminando una scia di verdure e sacchi di iuta. L'aria era invasa da minuscole piume bianche provenienti non si sapeva da dove, che riempivano la strada come una tormenta di neve. Il ronzio divenne insistente, e Szara alzò gli occhi al cielo. Per un istante rimase ipnotizzato. Da qualche parte, in uno dei dossier nella casa di rue Delesseux, c'era una sagoma vista dal basso, identificata come quella di un Heinkel 111 da un'ordinata scritta in cirillico; e quella che adesso vedeva sopra di sé era una copia perfetta del disegno fra le pagine di quello che, se ne rese conto all'improvviso, era il dossier Baumann. Si trattava di uno dei bombardieri pilotati con i cavi stampati prodotti alla periferia di Berlino. Ce n'era un secondo stormo in avvicinamento, almeno una mezza dozzina fra le nubi che sovrastavano la città, e Szara rammentò, se non i dati e le cifre precise, quanto meno la conclusione certa: erano noti per causare con le loro bombe la virtuale distruzione di qualsiasi cosa o essere vivente. Mentre gli aerei volavano lenti in formazione, numerosi cilindri neri e oblunghi si staccarono dai loro ventri e precipitarono verso terra seguendo una traiettoria obliqua. La prima esplosione lo fece trasalire, raggiungendolo come un tremore sotto i piedi e un botto lontano; poi ne giunsero delle altre, ogni volta più vicine. Szara si mise a correre. Alla cieca e senza una meta, in preda al panico, finché non inciampò e cadde ai piedi di un androne. Tese la mano verso la porta, che si aprì, e strisciò precipitosamente in una stanza. Sentiva odore di segatura e gommalacca, vide un grezzo banco da lavoro macchiato e vi rotolò sotto. Solo allora si rese conto di non essere solo: c'era un volto vicino al suo, un uomo con una barba irregolare, occhialini a mezzaluna e un mozzicone di matita infilato fra la tempia e l'orlo del copricapo. I suoi occhi erano enormi e bianchi, accecati dal terrore. Szara si raggomitolò su se stesso mentre un boato tremendo scuoteva il tavolo sopra di lui. Forse gridò, forse fu l'uomo al suo fianco a farlo: non sapeva più chi era né dove si trovava, sentì il mondo esplodergli nella testa e si costrinse a chiudere gli occhi finché cominciò a scorgere colori brillanti nel buio. Il pavimento sobbalzò e stridette con l'esplosione successiva, e Szara lo graffiò nel tentativo di scavare, cercando rifugio nella terra al di sotto. Ci fu un altro botto, poi un altro, sempre più lontani, e finalmente un silenzio che gli fece fischiare le orecchie prima che potesse capire che cosa significava. «È finita?» domandò l'uomo in yiddish. L'aria era densa di fumo e polvere, e li faceva tossire. La gola di Szara
bruciava come se avesse preso fuoco. «Sì» rispose. «Se ne sono andati.» Insieme, molto lentamente, uscirono da sotto il tavolo. Szara vide che si trovava in una falegnameria, e che l'uomo con gli occhiali a mezzaluna era probabilmente il falegname. Dei vetri alle finestre non c'era più traccia, e soltanto dopo un lungo esame la parete posteriore rivelò lo scintillio di minuscole schegge che vi si erano conficcate. Ma apparentemente non c'erano altri danni. La forza che aveva dissolto le finestre aveva anche sbattuto la porta, e il falegname dovette tirare con forza prima di riuscire ad aprirla. Si affacciarono con estrema cautela sulla strada. Alla loro sinistra c'era uno spazio vuoto dove prima si trovava una casa, di cui restava soltanto un cumulo di assi e mattoni; la costruzione accanto era in fiamme, con nuvole nere che ribollivano fuori dalle finestre al primo piano. «Aiuto!» gridò qualcuno nei paraggi, forse una voce di donna. «Mein Gott!» esclamò il falegname premendosi il volto fra le mani. All'altra estremità della strada rispetto alla casa in fiamme si era formato un vasto cratere. Szara e il falegname vi si avvicinarono e scrutarono oltre l'orlo. L'estremità frastagliata di una tubatura rotta emetteva un fiotto d'acqua. «Aiuto!» ripeté la voce. Proveniva da un negozio direttamente al di là della voragine. «È Madame Kulska» disse il falegname. La porta del negozio era scomparsa e l'interno, un laboratorio di sartoria, era stato travolto da un tifone che aveva sparso brandelli di tessuto da ogni parte. «Chi è?» chiese la voce. «Nachman» rispose il falegname. «Sono qui sotto» disse la voce. Qui sotto significava sotto uno strato caotico di mattoni. Szara e il falegname si apprestarono a sgombrare i detriti, rivelando il retro polveroso di un enorme armadio che imprigionava a terra una piccola donna. Szara afferrò un angolo del mobile, il falegname l'altro. «Ein, zwei, drei» recitò l'uomo, e insieme sollevarono l'armadio fino a rovesciarlo sui resti del muro di mattoni. L'anta si aprì rivelando una serie di vestiti femminili di varie forme e colori appesi a grucce di legno. «Mi dia la mano, signor Nachman» disse la donna. Insieme l'aiutarono a drizzarsi a sedere. Szara non vedeva alcuna traccia di sangue. La donna si guardò la mano con espressione incuriosita, poi mosse le dita. «È ferita?» le chiese il falegname. «No» rispose lei con voce timida e stordita dallo sbalordimento. «No, non credo. Cos'è successo?» Szara udì uno scampanellio. Lasciò il falegname con la donna e si affacciò sulla soglia del negozio. Un'autopompa aveva raggiunto l'edificio in fiamme, e i pompieri stavano srotolando una manichetta collegata al serba-
toio d'acqua. Szara uscì dal negozio e si avventurò in strada. Due uomini gli passarono accanto di corsa, reggendo un bambino ferito su una barella improvvisata con una trapunta. Szara provava una nausea profonda. Che senso aveva bombardare un quartiere? Volevano uccidere? Soltanto quello? Un uomo su una scala stava aiutando una giovane donna a uscire da una finestra da cui si levava un pallido velo di fumo. La ragazza era in preda a un pianto isterico. Alcuni vicini che avevano fatto gruppo ai piedi della scala cercavano di calmarla con parole gentili. La strada successiva era rimasta intatta. E lo stesso quella dopo. Un uomo corse verso Szara. «È terribile» disse. «Terribile.» Poi si allontanò per comunicarlo a qualcun altro. Passò un'altra autopompa. Il conducente era un rabbino con un fazzoletto insanguinato legato sulla fronte; seduto accanto a lui, un bambino suonava coscienzioso il campanello tirando una corda. Szara si lasciò cadere al suolo. Abbassò lo sguardo e vide che la sua mano stringeva ancora la borsa. Dovette usare la mano libera per staccare le dita dalla maniglia. La gente vagava senza meta, stordita, sconvolta. Szara si mise la borsa fra i piedi e si prese la testa fra le mani. "Non è umano" pensò "fare una cosa simile non è umano." Ma nella sua mente c'era qualcos'altro, il fantasma di un pensiero imprigionato fra tutto ciò che provava. La città di L'vov era stata bombardata da uno stormo di Heinkel 111. C'erano stati morti, case abbattute, e c'erano incendi da estinguere e feriti da curare. Ma la città era ancora in piedi. Non era stata ridotta a un cumulo di ceneri fumanti, tutt'altro. All'improvviso si rese conto che una sagoma scura che aveva scorto semisepolta in un vicolo vicino era una bomba inesplosa. Altre erano cadute nelle strade, fra le case, nei cortili e nei parchi, altre ancora avevano sfondato i tetti degli edifici risparmiando miracolosamente gli abitanti. La comprensione si fece lentamente strada nella sua mente. Sulle prime non riuscì a crederci, e dovette pronunciare le parole ad alta voce. «Mio Dio» disse. «Si sbagliavano.» Fermoposta Nel crepuscolo screziato e acquoso della sala per l'idroterapia, il giornalista Vainštok si puliva gli occhiali con un fazzoletto sporco. Strizzava gli occhi e arricciava il naso, producendosi nel feroce cipiglio dell'intellettuale momentaneamente separato dai suoi strumenti ottici. «Chornaya gryaz» disse in tono di spregio, controllando prima una lente e poi l'altra. «Tutto
qui.» Era una tipica espressione gergale dei giornalisti; letteralmente significava «fango nero», e descriveva una forma di propaganda intesa a nascondere una questione particolare e a coprire la realtà. «"Le patetiche condizioni delle minoranze nazionali in Polonia"» si citò con un ghigno. «Commovente.» «Perché?» chiese Szara. Vainštok si rimise gli occhiali sul naso e rifletté un istante. «Be', qualunque fosse la ragione lo desideravano fortemente: mi hanno dato la prima pagina e la firma in grassetto.» Si trovavano a una decina di chilometri da Leopoli, a Krynica-Zdrój, uno dei centri termali più eleganti di tutta la Polonia, dove i privilegiati si erano sempre ritrovati per farsi curare i fegati stanchi, le perniciose lombaggini e le malinconie croniche con immersioni e docce, bagni e ingestioni dell'acqua odorosa di zolfo che ribolliva in superficie dal profondo della terra. E se contemporaneamente capitava che facessero qualche affare, che trovassero marito o moglie, che consumassero una breve relazione, tanto di guadagnato. Al momento, la clientela delle terme era limitata a una manciata di giornalisti sovietici e a un'orda di diplomatici stranieri fuggiti a est con le famiglie dai combattimenti di Varsavia. «La ragione, quella vera» proseguì Vainštok «mi sembra abbastanza ovvia.» Inclinò la testa e agitò uno dei sopraccigli cespugliosi con fare da cospiratore. Szara scoppiò quasi a ridere. Vainštok era una di quelle persone perennemente indifferenti alla loro presenza fisica, ma in quel momento aveva un aspetto straordinariamente curioso. Tinto di verdino dalla penombra piovosa della piscina del seminterrato, si agitava scomodamente sullo scheletro di una sedia a sdraio (i cui cuscini erano scomparsi insieme agli addetti in camice bianco che li sistemavano ogni mattina) e portava una fondina ascellare con l'impugnatura di un'automatica che ne spuntava fuori e una cinghia che schiacciava una cravatta dipinta a mano. Sulla parete alle sue spalle, il verdemare delle piastrelle cedeva il passo a un Nettuno in groppa a un cavalluccio marino realizzato in ocra e blu oltremare. «Di certo non è la verità» soggiunse Vainštok. «Mentre noi ce ne stiamo seduti in questa grotta dimenticata da Dio, quegli ucraini affamati e quei bielorussi perseguitati che gemono sotto il giogo della tirannia polacca stanno attaccando unità dell'esercito mentre queste tentano di erigere postazioni di difesa nelle paludi. Si tratta delle stesse bande di fuorilegge ucraini che si comportano allo stesso modo di sempre, eppure Mosca pretende un punto di vista comprensivo. A quale scopo? Dimmelo tu.»
«Stanno preparando un'azione contro la Polonia.» «Che altro?» Szara fissò l'acqua della piscina. Era verde e immobile. Alle due estremità si ergevano imponenti macchinari, mostri nichelati con indicatori circolari, manopole di ceramica e manichette di gomma che pendevano flosce da ruote di ferro. Si dipinse una lunga fila di aristocratici nudi e barbuti in attesa del trattamento: c'era un che di Diciannovesimo secolo, di leggermente sinistro in quel congegno, come se il suo scopo fosse quello di riportare alla ragione i matti con un bello spavento. «Nel frattempo» riprese Vainštok «lo stimatissimo Szara si reca in visita sui campi di battaglia della Polonia orientale, si lascia sfuggire l'occasione di scrivere l'importante articolo sulle minoranze nazionali e in generale causa una profonda costernazione.» Szara sorrise della punzecchiatura. «Costernazione, dici. Che parola. Perché non "allarmi ed escursioni", come dicono gli inglesi? A dire il vero, in tutto questo caos dubito che se ne sia accorto qualcuno.» «Se ne sono accorti.» Un certo tono nella voce di Vainštok destò l'attenzione di Szara. «Davvero?» «Sì.» Di nuovo quella nota, stavolta in un monosillabo. Niente affatto tipico di Vainštok. Szara esitò, poi si sporse in avanti come un uomo in procinto di formulare domande schiette, difficili e possibilmente pericolose. «Oh, sai come sono fatti» si affrettò ad aggiungere Vainštok. «Basta poco per farli diventare paonazzi e fargli fare i salti mortali, come i servitori del re di un libro per bambini.» Fece una risatina. «C'è qualcuno di loro, qui?» La domanda venne accantonata con una scrollata di spalle e un'occhiataccia. «Tre ebrei s'incontrano in paradiso. Il primo dice...» «Vainštok...» «"Il giorno della mia morte, l'intera città di Pinsk..."» «Chi te l'ha chiesto?» Vainštok sospirò e annuì fra sé. «Chi. I soliti chi.» Szara attese. «Non gli ho chiesto il suo nome. Lui conosceva già il mio, come senza dubbio conosceva la lunghezza del mio schvontz e la levatrice che mi ha tirato fuori da mia madre. Chi, mi chiede! Un cosacco con un soprabito. Con gli occhi di una carpa morta. Ascolta, André Aronovič: ti saresti do-
vuto presentare a L'vov, ma non ti sei fatto vedere. Credevi che nessuno l'avrebbe notato? E così vengono a cercarti. Cosa dovrei dire? Szara è il mio migliore amico, mi dice tutto, si è soltanto fermato a Cracovia per comprare qualche dolcetto, non state in pensiero per lui. Insomma, è stato quasi comico... se non fosse stato quello che è stato, sarebbe stato divertente. Bada bene, è successo il giorno stesso in cui i tedeschi hanno fatto irruzione a L'vov: edifici in fiamme, gente che piange per strada, carri armati sulla piazza del mercato, quella cazzo di svastica che sventola sul municipio, qualche irriducibile che spara dalle finestre. E all'improvviso un... un figuro dell'apparat sbuca fuori dal nulla e tutto quello che vuole sapere è dove si trova Szara. Stavo quasi per dirgli: "Mi scusi, sta invadendo la mia guerra", ma non l'ho fatto, sai che non l'ho fatto. Ho strisciato ai suoi piedi finché non se n'è andato. Che cosa vuoi? Rimorso? Lacrime? In realtà non so un bel niente di te, e così non gli ho detto niente. Ci è soltanto voluto un po' di tempo per dirlo.» Szara si rilassò sulla sedia a sdraio. «Non ti preoccupare» disse. «E quel giorno ero in città. Ho visto le stesse cose che hai visto tu.» «Allora sai» disse Vainštok. Si tolse gli occhiali, li guardò e se li rimise. «Voglio soltanto restare vivo. Ebbene sì, sono un codardo. E allora?» Szara si accorse che al suo collega tremavano le mani. Estrasse una sigaretta dal pacchetto e gliela offrì in silenzio, poi accese un fiammifero e lo resse mentre Vainštok aspirava. «I tedeschi sono passati di qui?» domandò. Vainštok soffiò il fumo dalle narici. «Soltanto un capitano. Si è presentato il giorno dopo che hanno preso la città. Un paio degli ambasciatori gli sono andati incontro, si sono consultati e poi lui è entrato e ha bevuto un tè nell'atrio. È stata sventata una crisi diplomatica, come dice il vecchio adagio, e le SS non si sono mai fatte vedere. Da parte mia, non ho voluto correre rischi.» Diede qualche colpetto affettuoso all'automatica. «Chissà come, ho la sensazione che in certe situazioni il patto di non aggressione non si estenda fino a uno con il mio aspetto. "Ooops! Mi dispiace. Era un ebreo russo, quello? Oh, che peccato."» «Come te la sei procurata?» «Hai conosciuto Tomasz, il custode? Folte sopracciglia bianche, ampio stomaco, gran sorriso, una specie di Babbo Natale polacco?» «Al mio arrivo. Mi ha indicato dove trovarti.» «Per una cifra modesta, Tomasz ti procura ciò che vuoi.» Vainštok estrasse la pistola dalla fondina e la porse a Szara. Era un'automatica Steyr
di acciaio sbozzato, un'arma austriaca, tozza e pesante. «Ci puoi giocare per tre minuti» soggiunse Vainštok. «Ma mi devi cinque biglie e una caramella.» Szara gliela restituì. «C'è qualcosa da mangiare, in questo posto?» Vainštok consultò l'orologio. «Fra un'ora circa servono barbabietole bollite. Poi, a cena, le servono di nuovo. D'altro canto i servizi di porcellana sono magnifici, e si tratta di ottime barbabietole.» Szara dormiva su un divano di vimini in veranda. L'albergo era pieno di gente, ed era stata una fortuna trovare qualcosa su cui coricarsi. Ad angolo retto rispetto a lui, il divanetto a dondolo della veranda era stato reclamato da un membro del consolato spagnolo, mentre un addetto commerciale danese, uno degli ultimi ad arrivare da Varsavia, si era raggomitolato sul pavimento accanto a una rastrelliera di mazze da croquet. I tre erano riusciti a conversare in francese, parlando a bassa voce dopo la mezzanotte, facendo brillare le braci delle sigarette nel buio e in generale cercando di mettere ordine fra le voci che circolavano. Era il principale argomento di conversazione alle terme. Si diceva che alcune componenti dell'esercito polacco si fossero ritirate nelle paludi del Pripjat' con l'idea di resistere per sei mesi mentre veniva organizzato l'intervento dei corpi di spedizione francesi e inglesi. Si credeva che un diplomatico norvegese fosse stato internato. Era strano, visto che la Norvegia si era dichiarata neutrale, ma forse i tedeschi intendevano l'«errore» come un avvertimento. O forse non era nemmeno accaduto. Gli Stati Uniti, il danese ne era sicuro, si erano dichiarati neutrali. Un treno speciale sarebbe stato predisposto per far uscire i diplomatici dalla Polonia. Ma molti diplomatici di Varsavia, che si erano rifugiati nella città di Krzemieniec nella Polonia dell'ovest, erano rimasti vittime di un pesante bombardamento della Luftwaffe. Il governo polacco era fuggito in Romania. Varsavia si era arresa; Varsavia resisteva; Varsavia era stata distrutta dalle bombe al punto che non restava più nulla da consegnare al nemico. La Società delle Nazioni sarebbe intervenuta. Szara si assopì senza rendersene conto; le voci sommesse e il lieve picchiettio della pioggia sul tetto gli fecero da ninnananna. Fu una giornata particolarmente dorata a svegliarlo. La foresta lontana vibrava di luce. Com'era dura a morire l'estate da quelle parti, si disse Szara. Si chiese che giorno era. Il 17 settembre, immaginò cercando di districarsi nella confusione di giorni e notti che aveva trascorso. I prati e i sentieri di ghiaia bagnati di pioggia scintillavano al sorgere del sole, e se si
eccettuava un lieve ronzio di scariche statiche proveniente dall'interno dell'albergo, regnava una quiete assoluta. Un gallo cominciò a cantare; forse sul versante opposto della foresta c'era un villaggio. Szara consultò il suo orologio: erano le cinque e qualche minuto. Lo spagnolo era disteso supino sul divanetto a dondolo, il cappotto steso sopra di sé come una coperta e rincalzato decorosamente sotto il mento. Sotto un paio di baffi sontuosi la sua bocca era leggermente aperta, e il suo respiro sibilava delicatamente al ritmo del sonno. Szara avvertì per un istante un vago profumo di caffè nell'aria. Era possibile? Un'illusione. No, lo sentiva. Si liberò della giacca che lo avviluppava e si drizzò a sedere ("Ah, le ossa") controllando che la borsa fosse ancora sotto il divano, dove l'aveva messa la sera prima. La barba gli prudeva. Oggi avrebbe trovato il modo di scaldare un pentolino d'acqua e radersi. Che gran combattente si era rivelato! Non più. Ora era un animale da albergo. Qualcuno stava preparando del caffè, ne era sicuro. Si alzò e si stiracchiò, quindi entrò nell'atrio. Anarchia. Corpi ovunque. Una donna con due menti russava in una poltrona con una valigia Vuitton legata al dito con la stringa di una scarpa. "Che cos'aveva lì dentro?" si chiese Szara. "Il servizio d'argento di un'ambasciata? Prosciutto polacco? Mazzette di zloty?" Le sarebbero serviti a ben poco; i tedeschi avevano senza dubbio della cartamoneta d'occupazione già stampata e pronta per essere spesa. Szara avanzò verso le scale, perse la traccia del caffè e tornò sui suoi passi nella sala da pranzo. Spinse con cautela una delle porte oscillanti che davano sulla cucina. C'era solo un gatto che dormiva su una stufa. Ma le scariche statiche erano più sonore, e il caffè più vicino. A un'estremità della cucina, un'altra porta oscillante si apriva su una piccola dispensa. Due donne alzarono gli occhi di scatto, spaventate dalla sua improvvisa comparsa. Erano cameriere d'albergo, immaginò Szara, ragazze graziose con il naso all'insù e la fossetta sul mento, una scura e l'altra bionda, con pesanti gonne e camicette di cotone e mani arrossate a furia di pulire pavimenti. Una caffettiera di zinco campeggiava su un piccolo fornello da salotto in un angolo, e su uno scaffale era appoggiata una vecchia radio dalla linea tondeggiante che trasmetteva della musica sinfonica fra un disturbo e l'altro. Le due cameriere stavano usando le tazzine dell'albergo. Szara diede loro il buongiorno e chiese un caffè. «Ditemi quanto vi devo» disse. «Sarei lieto di pagarvi.» La bionda arrossì e abbassò gli occhi a terra. La scura gli trovò una tazzina e la riempì di caffè, aggiungendovi un grumo informe di zucchero
pescato da un sacchetto di carta. Gli offrì un legnetto per mescolare. «Hanno nascosto i cucchiaini» spiegò. «E naturalmente non deve darci niente. Lo dividiamo con lei.» «Siete molto gentili» disse Szara. Il caffè era caldo, intenso, forte. «Ne resta poco» riprese la scura. «Non lo dirà a nessuno, vero?» «Mai. È il nostro segreto.» Szara si tracciò una X sul cuore con un dito, e la ragazza sorrise. La musica sinfonica si spense, rimpiazzata da una voce che parlava russo: «Buongiorno, questo è il notiziario mondiale di Radio Mosca». Szara controllò l'ora. Erano le cinque e mezza precise, le sette e mezza ora di Mosca. La voce dell'annunciatore era bassa, calma e ragionevole: non ci si doveva preoccupare troppo delle notizie che riferiva, al Cremlino era tutto sotto controllo. Citò un comunicato, un incontro del Comitato Centrale, quindi diede la notizia che circa quaranta divisioni dell'Armata Rossa avevano fatto ingresso in Polonia lungo un fronte di ottocento chilometri. In generale erano state ben accolte, non c'erano stati scontri degni di nota e ci si aspettava una scarsa resistenza. Il ministro degli Esteri Molotov aveva dichiarato che «gli eventi causati dalla guerra fra Polonia e Germania hanno rivelato la passività interna e l'evidente impotenza dello stato polacco». C'era il grosso timore che «circostanze inaspettate» potessero «creare una minaccia per l'Unione Sovietica». Molotov aveva proseguito dicendo che il governo sovietico «non poteva restare indifferente alla sorte dei suoi fratelli di sangue, gli ucraini e i bielorussi che abitavano in Polonia». L'annunciatore proseguì per qualche minuto; le sue parole erano precise, attente. Ogni cosa era stata soppesata. La guerra e l'instabilità in un paese confinante presentavano certi rischi; l'esercito si stava semplicemente mobilitando fino al punto in cui l'occupazione di territori contesi avrebbe protetto i cittadini sovietici dagli scontri e dai disordini civili. L'annunciatore passò quindi a dare altre notizie di politica estera, quelle locali e la temperatura di Mosca: nove gradi. Più tardi, quel mattino, giunse voce che i tedeschi si preparavano ad abbandonare L'vov. Una grande ondata di eccitazione e sollievo travolse la popolazione di Krynica-Zdrój, e venne stabilito che sarebbe stata formata una colonna per andare in città: le bande ucraine continuavano a imperversare, e si sapeva che diversi viaggiatori erano scomparsi. Una pioggia leggera ma costante non venne giudicata importante; la stazione termale aveva una scorta abbondante di ombrelli neri, che vennero distribuiti da To-
masz, il custode sorridente. Il corpo diplomatico fece il possibile per apparire al proprio meglio: gli uomini si rasarono e s'incipriarono, le donne si raccolsero i capelli sulla testa, gli abiti da cerimonia vennero tirati fuori dai bauli e dalle valigie. La processione era guidata da Tomasz, che indossava un piccolo, elegante cappello con un ciuffo di penne da alpino nella fascia, e dal consigliere commerciale presso l'ambasciata belga di Varsavia, che reggeva un manico di scopa con un tovagliolo di lino bianco legato in cima. Era una lunga fila di uomini e donne quella che avanzava sotto gli ombrelli ballonzolanti sulla strada arenosa per L'vov. I campi erano di un verde brillante, e il profumo di terra scura e fieno falciato aleggiava dolce e forte nell'aria fresca. Lo spirito del gruppo era estremamente ottimistico. Il punto di vista prevalente si concentrava tanto sulla possibilità di una soluzione diplomatica della crisi polacca quanto sulle sigarette, sul caffè, sul sapone, magari addirittura sul pollo arrosto o sulla torta alla crema: qualsiasi cosa fosse possibile trovare nella L'vov liberata. Szara marciava verso la fine della colonna. Coloro che lo circondavano nutrivano le più diverse opinioni sull'avanzata sovietica, la notizia della quale si era diffusa come un incendio violento. La maggior parte la considerava una buona notizia: Stalin che informava Hitler che malgrado il loro patto vantaggioso, quel che era troppo era troppo. La sensazione generale era che sarebbe seguito un periodo di intense trattative diplomatiche, e che qualunque fosse stato il risultato finale dell'invasione tedesca, loro avrebbero potuto far ritorno a casa. Per Szara la scena aveva un che di profondamente polacco, quella gente in abito scuro che marciava lungo una stradina sotto la pioggia e una foresta di ombrelli. Verso la fine dei dieci chilometri alcuni dei diplomatici cominciarono a mostrare segni di stanchezza, e venne deciso che si dovesse cantare La Marsigliese, l'unica canzone che conoscevano tutti. Vero, era l'inno nazionale di una nazione belligerante, ma il gruppo avanzava battendo bandiera bianca, e per rallegrare gli animi in una giornata di pioggia non c'era semplicemente nulla di meglio. Vainštok e Szara marciavano insieme; il primo, che per quel viaggio aveva abbandonato la fondina, sollevò il pugno al cielo e cantò come una piccola furia con una vocetta acuta e tremolante. Szara non cantava. Era troppo occupato a riflettere. A cercare di classificare una serie di immagini mentali che, se ne avesse trovato il principio ordinante, avrebbero potuto formare un singolo, nitido quadro. L'ascesa di Berija, l'assassinio di Abramov, il suicidio di Kuscinas, il dossier dell'O-
chrana, l'arresto di Baumann: tutto portava a quaranta divisioni russe che marciavano in Polonia. "È stato Stalin" pensò. A fare cosa? Szara non riusciva a darvi un nome, e ciò lo faceva infuriare. Non era forse abbastanza intelligente da capire cos'era stato fatto? "Forse no." Ciò che sapeva era che vi aveva giocato un ruolo e ne era stato testimone, anche se in gran parte per caso. Le coincidenze non gli piacevano, la vita gli aveva insegnato a guardarle con sospetto, ma era in grado di ricordare ogni momento in cui aveva visto e sentito, in cui aveva capito (spesso dai margini, ma era pur sempre un capire) che cosa stava succedendo. "Perché io, allora?" si domandò. La risposta era dolorosa: perché nessuno ti prendeva troppo sul serio. Perché eri visto come una specie di idiota istruito. Tornavi utile a un livello minore e non particolarmente importante, e così ti è stato concesso di vedere e scoprire certe cose allo stesso modo in cui una cameriera particolare viene messa a conoscenza di un intrallazzo: qualsiasi cosa ne possa pensare, non ha importanza. Quello di cui aveva bisogno, pensò Szara, era di parlarne. Di pronunciare le parole a voce alta. Ma l'unico individuo di cui poteva fidarsi, il tenente generale Bloch, era scomparso dalla sua esistenza. Morto? In fuga? Non lo sapeva. «"Aux armes, citoyens!"» Accanto a lui, Vainštok rivolgeva il suo canto appassionato al nuvoloso cielo polacco. "No" si disse Szara. "Lascialo perdere." In città, la gente occupava con aria grave la piazza davanti alla stazione in rovina e osservava in silenzio la Wehrmacht che marciava in direzione ovest, verso la Germania. Il silenzio era tale che il risuonare degli stivali e degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli, lo scricchiolio del cuoio e lo sbatacchiare degli armamenti sembravano innaturalmente chiassosi. Alcuni dei fanti rivolgevano rapide occhiate alla folla mentre passavano, ma i loro volti mostravano poco più di una curiosità impersonale. I diplomatici se ne stavano sotto i loro ombrelli accanto ai polacchi e osservavano la processione. A Szara sembravano leggermente smarriti. Non c'era nessuno a cui far visita, nessuno a cui consegnare un breve messaggio; per il momento erano stati privati del loro elemento naturale. Il progresso regolare della ritirata venne spezzato soltanto da uno strano interludio nel grigio ordine di marcia: i tedeschi avevano requisito i carrozzoni di un circo e li stavano portando con sé. I carri, decorati con volute e svolazzi dorati su un campo rosso scuro, riportavano la scritta «Circo
Goldenstein», e a reggere le redini erano seri uomini della Wehrmacht che creavano un quadro leggermente assurdo dietro ai cavalli ornati di piume. Szara si chiese dove fossero finiti i pagliacci e gli acrobati. Non ve n'era traccia, si vedevano soltanto gli animali. Dietro le sbarre di una gabbia trainata da un cavallo si scorgeva una tigre assonnata, il muso sprofondato tra zampe anteriori, gli occhi verdi ridotti a due fessure mentre passava davanti alla folla lungo la strada. Verso sera, i diplomatici si rimisero in cammino verso la stazione termale. Due giorni dopo, in città giunse una colonna di carri armati russi. Al seguito dei carri armati arrivò l'amministrazione civile: il NKVD, i commissari politici e i loro cancellieri. I cancellieri avevano delle liste. In esse figuravano i membri di tutti i partiti politici, specialmente socialisti: polacchi, ucraini, bielorussi ed ebrei. I cancellieri avevano anche i nomi dei membri dei sindacati, degli impiegati statali, dei poliziotti, dei dipendenti dei servizi forestali, degli ingegneri, degli avvocati, degli universitari, dei contadini che possedevano più di qualche animale, dei profughi politici provenienti da altri paesi, dei proprietari terrieri, degli insegnanti, dei commercianti e di decine di altre categorie, in particolare di coloro che, come i mercanti e i collezionisti di francobolli, intrattenevano una corrispondenza regolare con cittadini di altri paesi. Grazie a queste liste, il giorno del loro arrivo i cancellieri sapevano già chi volevano e si misero immediatamente al lavoro per trovare il resto, sequestrando tutti gli archivi civili, fiscali, scolastici e commerciali. Gli individui i cui nomi figuravano sulle liste dovevano essere deportati in Unione Sovietica insieme alle loro famiglie e arruolati a forza nei battaglioni di lavoratori. Le fabbriche dovevano essere smantellate e inviate nei centri industriali dell'URSS, i negozi svuotati delle loro merci, le fattorie del loro bestiame. Giunsero anche le unità speciali dell'Ufficio esteri del NKVD, e alcune di loro si presentarono alle terme a bordo di Pobeda nere infangate fino alle maniglie delle portiere. I diplomatici avrebbero dovuto essere smistati e rispediti a casa non appena la metà occidentale della Polonia avesse ammesso la sconfitta. «State tranquilli» dissero i responsabili nel NKVD. «Varsavia si arrenderà da un giorno all'altro, i polacchi non possono resistere oltre.» I russi erano suadenti e rassicuranti. Gran parte dei diplomatici se ne sentì rincuorata. In sala da pranzo venne sistemato un tavolo per le registrazioni dietro cui sedettero due uomini educati in abiti civili. Szara e Vainštok attesero le cinque prima di mettersi in coda. Vainštok
ostentava rassegnazione. «Si torna alla cara, vecchia Berlino.» Sospirò. «E alle conferenze stampa del caro, vecchio dottor Goebbels. Non so come ho fatto a vivere senza di loro. Ma se non altro ci sarà qualcos'altro da mangiare oltre alle barbabietole.» Vainštok era magro, con il petto incavato e braccia e gambe sottili e pelose. A Szara rammentava un ragno. «Il cibo ti interessa davvero tanto?» chiese Szara. La coda fece un passo avanti. «Di sicuro non ingrassi.» «Terrore» spiegò Vainštok. «È quello che mi mantiene magro. Mangio molto, ma brucio tutto.» L'uomo davanti a loro, un esponente della piccola nobiltà ungherese, si presentò davanti al tavolo, scattò sull'attenti, annunciò il proprio nome e titolo e presentò le credenziali diplomatiche. Szara guardò meglio i due uomini del servizio seduti al tavolo. Uno era giovane, sveglio e molto efficiente. Teneva un registro aperto davanti a sé e trascriveva i dati dai documenti e dai passaporti. Il secondo sembrava più che altro un osservatore, presente nell'eventualità che si verificassero circostanze che esulavano dall'esperienza del suo collega. Era un uomo tozzo e grasso, di mezz'età, con capelli biondi ondulati e occhiali dalle lenti molto spesse. Mentre il suo subalterno interrogava l'ungherese in un francese diplomatico («Posso chiederle, signore, come ha fatto a giungere in questa zona?») si mise una sigaretta sottile tra le labbra, strofinò la capocchia di un fiammifero di legno con l'unghia del pollice e l'accese. "Dove?" si domandò Szara. Il francese dell'ungherese era rudimentale. «Partito da Varsavia su ultimo treno. Notte di 8 settembre...» "Dove?" L'osservatore rivolse un'occhiata a Szara, ma non sembrò notarlo. «Fermato a Lublino...» continuò l'ungherese. «Non mi sento bene» disse Szara sottovoce. «Va' avanti tu.» Si voltò e uscì dalla sala da pranzo. Si fece largo nell'atrio affollato, chiedendo scusa quando andava a sbattere contro qualcuno, e imboccò il passaggio che portava alla piscina dell'idroterapia e alla zona delle cure nel seminterrato. La scala a chiocciola era di un metallo sottile, e i suoi passi risuonarono echeggianti nella tromba. Prese la prima uscita, percorrendo a passo rapido un labirinto di lunghi corridoi piastrellati e provando a spingere le porte a mano a mano che avanzava. Finalmente una si aprì. Era una saletta destinata a qualche cura con le acque; pavimento, soffitto e pareti erano ricoperti di piastrelle verde pallido, alcune manichette pendevano da impianti
di ottone e un paravento di tela riparava alcuni tavoli metallici. Il paravento aveva una serie di aperture bordate di gomma: per poter spruzzare acqua sulfurea sulle caviglie degli artritici? Szara si mise a sedere su uno dei tavoli, trasse un respiro profondo e cercò di calmarsi. Ora ricordava dove: in una sperduta cittadina mineraria del Belgio, la sera in cui Odile era stata interrogata dopo essere scesa dal treno dalla Germania. L'osservatore era l'uomo con l'orologio d'oro; Szara rammentava di averlo visto accendersi la sigaretta con un fiammifero, ricordava l'unica domanda che gli aveva rivolto: «E questa è la sua risposta?». O qualcosa di simile. Un'intimidazione. Uno sguardo freddo e smorto. E allora? D'accordo, era ricomparso a Krynica-Zdrój, seduto dietro un tavolo con un registro. E allora? Probabilmente era ciò che faceva per vivere. Szara soppresse un brivido. La saletta era umida, l'aria fin troppo inerte, una caverna sepolta sotto terra. Che cosa gli aveva preso, a scappare come un bambino spaventato? Bastava quello a mettergli paura, due uomini dei servizi segreti seduti dietro un tavolo? Ora sarebbe dovuto risalire e rimettersi in coda: l'avevano visto andarsene, e questo forse li avrebbe insospettiti. "Visto come ti incrimini da solo?" No, non c'era nulla da temere. Che cosa potevano fare, circondati da diplomatici? Szara balzò giù dal tavolo e uscì dalla saletta. Ora, qual era il corridoio giusto? Fece qualche passo verso il punto in cui gli sembrava che si trovasse l'uscita, ma si arrestò nell'udire dei passi sulla scala. Chi era? Una discesa normale, lenta. Poi la voce di Vainštok, nasale e lamentosa: «André Aronovič? André Aronovič?». A giudicare dal suono, stava percorrendo il corridoio perpendicolare rispetto a quello in cui si trovava Szara. «Sono qui.» Superando l'angolo, Vainštok gli fece capire con un'occhiata e un cenno del capo che qualcuno lo seguiva, ma Szara non vide anima viva. «Sono venuto a salutarti» disse Vainštok; poi tese le braccia di scatto e trasse Szara a sé in un energico abbraccio alla russa. Szara ne rimase sorpreso, si ritrovò a contatto con il petto di Vainštok e cercò di ricambiare la stretta, ma Vainštok si ritrasse. Due uomini svoltarono l'angolo e si fermarono educatamente ad attendere la fine dei saluti. «Bene» soggiunse Vainštok «che siano quelli che possono a fare ciò che devono, eh?» Ammiccò. Szara sentì il pesante rigonfiamento fra il fianco e la cintura dei suoi calzoni e capì. Vainštok notò l'espressione sul suo volto e inarcò le sopracciglia come un comico. «Lo sai, Szara, dopotutto non sei così snob. Mi verrai a trovare quando tornerai a Mosca?»
«Niente Berlino?» «Nah. Basta!» «Sei fortunato.» «Già.» Gli luccicavano gli occhi. Si voltò di scatto e si allontanò. Giunto alla fine del corridoio deviò verso le scale, seguito da uno degli uomini. Un attimo dopo, Szara li udì salire. Quando il secondo uomo gli si avvicinò, vide che era Maltsaev, scuro e stempiato, con gli occhiali dalle lenti sfumate e lo stesso voluminoso soprabito, le mani infilate in fondo alle tasche. Rivolse a Szara un cenno di evidente soddisfazione. «Il trovatore errante... finalmente!» esclamò con allegria. Szara lo guardò perplesso. «Ha fatto venire un colpo a Mosca» spiegò Maltsaev. «Un momento atterra all'aeroporto di Varsavia, quello dopo svanisce nel nulla.» «Una deviazione» disse Szara. «Sono stato, come dire, accompagnato dal servizio segreto militare polacco. Mi hanno preso in un ospedale di Tarnów dopo un bombardamento sulla linea ferroviaria e mi hanno portato a Nowy Sacz. A quel punto, non siamo più stati in grado di penetrare le linee tedesche. Alla fine sono riuscito a salire sulla piattaforma di un treno per L'vov. Quando ci sono arrivato, un poliziotto mi ha mandato qui alle terme con i diplomatici.» Maltsaev annuì con fare comprensivo. «Be', ora è tutto a posto. Sono qui per un incarico di collegamento con l'apparat ucraino, ma mi hanno telegrafato a Belgrado chiedendomi di aguzzare la vista alla ricerca del misterioso Szara. Temo che dovrà andare in città a raccontare la saga a un idiota di colonnello, ma la cosa non dovrebbe recarle troppo disturbo.» «Non c'è problema» disse Szara. «Il suo amico Vainštok tornerà a Mosca. Lei probabilmente non sarà costretto a farlo, immagino che preferirebbe restare a Parigi.» «Se posso, sì, mi piacerebbe.» «Fortunato. O favorito. Un giorno mi rivelerà il suo segreto.» Szara rise. L'atteggiamento di Maltsaev cambiò all'improvviso, è la sua voce si abbassò. «Ascolti, spero che non se la sia presa, l'ultima volta che ci siamo parlati alla stazione di Ginevra...» Szara rammentava benissimo, un'osservazione su Abramov: «I suoi genitori avrebbero dovuto fargli studiare il violino come tutti gli altri». «Capisco perfettamente» disse. «Un momento difficile.»
«Nessuno di noi è fatto di ferro. Quello che è successo con Abramov, be', noi volevamo soltanto parlargli. Certo, eravamo preparati a fare di più, ma se non avesse cercato di fuggire non si sarebbe mai arrivati a quello. Non potevamo, lei capisce, non potevamo lasciare che scomparisse. Dal canto mio, mi sono preso una bella strigliata per l'intera faccenda. Addio a qualsiasi speranza di lasciare l'ambasciata di Belgrado. In ogni caso, quello che le ho detto alla stazione... non avevo chiuso occhio, e sapevo di essere nei pasticci, forse gravi. Ma non me la sarei dovuta prendere con lei.» Szara alzò una mano. «La prego. Non nutro rancore.» Maltsaev parve sollevato. «Possiamo tornare di sopra? Potrei offrirle una cena decente a L'vov prima che lei debba incontrare il colonnello. Preferisco non avventurarmi di sera sulle strade polacche, se posso scegliere. Attraversare l'Ucraina in macchina è stato già abbastanza difficile, specialmente con i mezzi corazzati sovietici lungo la strada.» «Andiamo.» «C'è un odore terribile, qua sotto.» Maltsaev arricciò il naso come un ragazzino. «Zolfo. Come all'inferno.» Sbuffò divertito. «È così che ti curano? Peccatore, desisti dal bere e dalle depravazioni se non vuoi finire così.» S'incamminarono insieme verso le scale. «I suoi amici ci stanno aspettando?» chiese Szara. «Fortunatamente no. Quella gente mi rende nervoso.» Giunsero alla scala a chiocciola. «Uno scantinato?» domandò Maltsaev guardando in basso. «Sì. C'è una piscina, e dovrebbero esserci anche le sorgenti.» «Tutto quello che si potrebbe desiderare. Ah, la vita dei ricchi oziosi.» Indicò a Szara di precederlo sulle scale. «Prego» disse Szara facendo un passo indietro. «Insisto» fece Maltsaev in una parodia della cortesia aristocratica. Esitarono entrambi. Per Szara fu un lungo momento. Attese che Maltsaev salisse le scale, ma questi si tratteneva davanti a lui con un sorriso educato; a quanto sembrava, aveva tutto il tempo che voleva. Szara estrasse la pistola e gli sparò. Si era aspettato un'esplosione assordante nello spazio angusto della tromba delle scale, ma non fu così. La pistola emise uno scatto, qualcosa sibilò (fu come se fosse possibile avvertire il percorso del proiettile) e si diffuse un odore di aria bruciata.
Maltsaev era furente. «No, non l'ha fatto» disse. Fece per estrarre una mano dalla tasca, ma Szara lo afferrò per il polso. Era stranamente debole, facile da controllare. Si morse il labbro, aggrottando la fronte per il disagio. Szara sparò di nuovo e Maltsaev crollò improvvisamente a sedere, addossandosi con tutto il suo peso contro un gradino di ferro. Pochi istanti dopo morì. A quel punto, la sua espressione era di pura malinconia. Szara fissò la pistola. Era la Steyr di Vainštok. Perché vi aveva rinunciato? Perché non si era difeso? Trovò la sicura e infilò l'arma in una tasca laterale della giacca. Tese le orecchie, ma sopra di lui non udì alcun trambusto. Nessuno aveva sentito gli spari. Forse la polvere nei proiettili era ridotta al minimo; non riusciva davvero a capire. Tirò fuori la mano di Maltsaev dalla tasca del soprabito e cercò l'arma che sapeva di trovare, ma non la trovò. Né in quella tasca, né altrove. Ciò significava che la squadra di Maltsaev, forse la stessa che aveva fatto fuori Abramov, era nei paraggi. Maltsaev non era un assassino, si rammentò: era un organizzatore di assassinii. In una tasca interna trovò una chiave e una serie di documenti d'identità. Facendo scorrere le dita sul soprabito scoprì un risvolto cucito sulla manica che nascondeva una spilla con la spada e lo scudo del NKVD in una morbida bustina di pelle di cinghiale chiusa da un laccetto. C'era anche un portafogli gonfio di rubli, zloty e Reichsmark. Szara si mise tutto in tasca, poi afferrò Maltsaev per le caviglie e tirò. Fu difficile, dovette usare tutte le sue forze, ma una volta che riuscì a smuovere il corpo il soprabito di lana liscia prese a scivolare facilmente sul pavimento. Ci vollero almeno due minuti per trascinare Maltsaev fino alla saletta aperta, e il tragitto lasciò una scia rossiccia sulle piastrelle. La serratura della porta era semplice, azionata da una levetta. Szara l'abbassò e tirò la porta finché la udì scattare. Si fermò ai piedi della scala a chiocciola, raccolse i bossoli da terra e poi salì, reggendo le scarpe in una mano e la pistola nell'altra. Sul pianerottolo non trovò nessuno ad aspettarlo; lasciò cadere la pistola in tasca e prese a saltellare su un piede e poi sull'altro per infilarsi le scarpe. L'atrio era uguale a come l'aveva lasciato; gente che si aggirava senza meta, un'affabile confusione, una fila che arrivava fino al tavolo. «Bene» disse lo spagnolo che aveva condiviso la veranda con Szara «il suo amico è finalmente riuscito ad andarsene. Ci ha riempiti di speranza.» «È noto per essere furbo e fortunato» rispose Szara con una punta di esplicita invidia. Lo spagnolo sospirò. «Prima o poi tornerò a Varsavia. Come lei sa, la
Germania è notevolmente comprensiva nei riguardi della nostra neutralità. Forse non ci vorrà molto.» «Spero di no» disse Szara. «Un disordine simile non serve a niente.» «Quanto ha ragione.» «Stasera potremmo cenare insieme.» Lo spagnolo inclinò il capo in un gesto di informale approvazione. Szara controllò in uno specchio appeso al muro che l'osservatore fosse ancora seduto dietro al tavolo, poi si tolse dal suo campo visivo uscendo da una porta sul retro e proseguendo dietro le cucine in cui le due giovani polacche stavano pulendo le barbabietole sopra un catino di legno, conservando le bucce in un tegame di metallo. Al suo passaggio sorrisero entrambe, perfino la timida. Szara raggiunse la veranda da una porta laterale e guardò fuori attraverso la zanzariera. Nel semicerchio di ghiaia erano parcheggiate due Pobeda. Una era ricoperta di polvere e sporcizia, l'altra era schizzata di fango e argilla. Rammentando le parole di Maltsaev circa i mezzi corazzati sovietici sulle strade, decise di provare la seconda. Raccolse la sua borsa, trasse un profondo respiro e uscì sul prato. Rivolse un cenno di saluto ai diplomatici che passeggiavano sui sentieri, quindi scivolò al posto di guida della Pobeda infangata come se fosse la cosa più naturale del mondo. L'abitacolo dell'auto emanava un forte miscuglio di odori: pomata, sudore, sigarette, vodka, rivestimenti ammuffiti e benzina. Szara infilò la chiavetta di Maltsaev nel blocchetto dell'accensione e la ruotò. Il motorino d'avviamento gemette, si fermò, fece un altro gemito più acuto, produsse uno scoppio isolato, si abbassò fino a un sussurro, diede due colpi improvvisi e finalmente fece partire il motore. Szara lottò con la leva del cambio montata sul piantone dello sterzo finché riuscì a inserire la marcia. Attraverso il finestrino infangato alla sua sinistra vide che i diplomatici lo stavano fissando: chi era lui per montare al volante di un'auto con la borsa in mano e andarsene come se niente fosse? Uno di loro fece per avvicinarsi. Szara rilasciò il pedale della frizione, e l'auto fece un sobbalzo di una trentina di centimetri e si spense. Il diplomatico, un uomo attraente e dignitoso con ricci di capelli grigi che andavano a posarsi sulle orecchie, aveva sollevato il dito indice in segno interrogativo: "Ah, solo un momento". Szara ruotò di nuovo la chiavetta e il motorino d'avviamento gemette percorrendo la scala musicale come aveva fatto poco prima. Quando finalmente il motore si riaccese, Szara batté gli occhi per liberarsi del sudore che vi era colato. «Un moment, s'il vous plaît» gridò il diplomatico a poche decine di
centimetri di distanza. Szara gli rivolse un sorriso teso e un'alzata di spalle. La marcia ingranò e l'auto partì con uno scricchiolio di ghiaia. Szara controllò nello specchietto retrovisore. Il diplomatico era fermo con le mani piantate sui fianchi, la caricatura di un uomo offeso da una maleducazione semplicemente indescrivibile. In Polonia non era rimasto in piedi nemmeno un cartello stradale; ci avevano pensato i colleghi di Vyborg a rimuoverli, lasciando soltanto un dedalo di strade sterrate che si allungavano in ogni direzione. Ma Szara era andato a piedi a L'vov, e sapeva che quella era l'unica direzione che doveva evitare. Gli assistenti di Maltsaev potevano benissimo essere in attesa lungo quella strada, appena fuori dalla portata degli sguardi dei corpi diplomatici alle terme. Tra i sedili dell'auto c'era una logora mappa della Polonia orientale, e il sole, alle sei e venti di un pomeriggio verso la fine di settembre, era basso nel cielo. Quello era l'ovest. Szara mantenne il sole alla sua sinistra e puntò verso nord, riuscendo a percorrere una quindicina di chilometri prima che calasse il crepuscolo. A quel punto abbandonò quella che reputava fosse la strada principale, arretrò in una stradina secondaria e spense il motore. Subito dopo fece un approfondito inventario di ciò che possedeva: un'abbondanza di denaro, niente acqua né cibo, un serbatoio quasi pieno di benzina, sei proiettili nella Steyr. Era, si accorse, una M12, dunque una SteyrHahn (Steyr con cane) con uno «08» impresso sul lato sinistro del cursore: un ritocco meccanico che aveva qualcosa a che fare con l'assorbimento dell'esercito austriaco da parte di quello tedesco dopo il 1938. Di che cosa si trattasse di preciso, Szara non si ricordava; una circolare accantonata in rue Delesseux, lui non badava alle pistole. Aveva anche tre serie di documenti d'identità: i suoi, quelli di Maltsaev e il passaporto di Jean Bonotte nel doppio fondo della borsa, legato con un elastico a un fascio di franchi francesi e a un biglietto da visita con alcuni numeri di telefono scritti a penna. Nel bagagliaio della Pobeda c'erano una latta piena di benzina e una coperta. Era abbastanza per cominciare una nuova vita. Molti avevano cominciato con molto meno. Il vento e le stelle. Di chi era, quel verso? Non se lo ricordava. Ma descriveva la notte alla perfezione. Szara era seduto sulla coperta ai piedi di un vecchissimo tiglio. Fiancheggiavano la strada, e formavano un viale che senza dubbio conduceva a qualche grandioso possedimento polacco. La temperatura era rigida, ma stringendosi la giacca al petto Szara riusciva a
riscaldarsi a sufficienza. Aveva pensato di dormire nell'auto, ma l'odore che vi regnava lo nauseava. Non che non fosse abituato a quelli che immaginava fossero i suoi singoli elementi. Non c'era nulla di nuovo nella vodka o nelle sigarette, il suo sudore non era meglio di quello di chiunque altro e tutte le auto russe puzzavano di benzina e rivestimenti umidi. Ma c'era dell'altro. Aveva a che fare con l'uso che avevano fatto della Pobeda, o forse era una traccia persistente di chi era stato preso, catturato. O magari era il tanfo dei carnefici. Secondo il folklore russo, l'omicidio lasciava un segno: la ruga verticale accanto alla bocca, il marchio dell'assassino. Non avrebbe potuto cambiare anche l'odore di un uomo? Lo Szara di un tempo avrebbe rivolto una simile luce indagatrice su se stesso, ma non ora. Aveva fatto quello che doveva fare. «Che siano quelli che possono a fare ciò che devono». E così Vainštok gli aveva salvato la vita. Perché non voleva o non poteva usare lui stesso la pistola? No, era assurdo. Szara si rifiutava di crederlo. C'era qualche altra ragione, e doveva accettare la possibilità che non l'avrebbe mai scoperta. C'erano molte cose che non capiva. Perché, per esempio, gli avevano sguinzagliato dietro Maltsaev? Perché era scomparso per alcuni giorni? Avevano scoperto ciò che aveva fatto a Parigi con gli inglesi? No, era impossibile. Fra tutti i servizi segreti al mondo, quello che i sovietici temevano sul serio era l'inglese. Lo spiegamento del loro controspionaggio (Scodand Yard, l'MI5) era estremamente efficiente; gli agenti del Comintern che cercavano di penetrare in Gran Bretagna sotto mentite spoglie venivano ripetutamente scoperti, poiché gli inglesi aggiornavano e usavano i loro archivi con grande efficacia. E l'MI6, a suo modo, era un'organizzazione dotata di uno speciale sangue freddo da predatrice. Era una conseguenza del carattere nazionale britannico, con la sua predilezione tanto per l'educazione quanto per l'avventura, una combinazione letale a livello di servizi segreti. Szara non poteva immaginare che il problema risiedesse lì. Fitzware, con tutte le sue stranezze, era un agente serio e scrupoloso. Il corriere, allora, Evans. No. Era qualcos'altro, qualcosa in Russia, qualcosa che aveva a che fare con Abramov, con Bloch, con la khvost ebraica. Forse un bel mattino Berija o i suoi amici avevano semplicemente deciso che André Szara aveva vissuto abbastanza. Ma anche André Szara a un certo punto aveva preso una decisione: non sarebbe stato uno di quelli che si lasciavano catturare con mansuetudine, incidendo «Za chto?» sulla pietra di una cella. E ora un singolo atto, la pressione su un grilletto, l'aveva liberato.
Ora era un ebreo, un polacco, un russo, e non aveva più una patria. Il vento e le stelle. Strano, come non riusciva a smettere di pensarci. Si chiese quanto a lungo sarebbe vissuto. Probabilmente soltanto per poco. Subito dopo il calare del buio, un'auto era passata con un rombo sulla strada che lui aveva abbandonato. Poi, un'ora dopo, una seconda. Erano loro? Di sicuro lo stavano cercando. E non avrebbero smesso finché non l'avessero trovato; erano le regole del gioco, le conoscevano tutti. Ah, ma se questa si fosse rivelata la sua ultima notte sulla terra, quanto gelosamente l'avrebbe custodita. Una lieve brezza che soffiava sulle campagne polacche, il cielo grandioso, quel mistero immenso e perfetto e scintillante. Le rane gracidavano nel buio, la vita lo circondava. Non aveva un piano speciale: avrebbe semplicemente cercato di varcare il confine settentrionale con la Lituania. "Poi si vedrà" pensò. Forse la Svezia, oppure la Danimarca. Finora aveva rubato sette ore di vita; ogni ora era una vittoria, e non aveva intenzione di dormire. In seguito si sarebbe espresso in questi termini: Se mai sono stato guidato dalla mano di Dio è stato nei giorni dal 20 al 23 settembre 1939, quando dalla Polonia del sud ho raggiunto la cittadina di Kovno, in Lituania, al volante di un'auto rubata del NKVD. Era chiaro che in Polonia era in atto una tragedia; ne vedevo i segni, avanzavo nei suoi solchi e temo che abbia contribuito alla mia fuga, assorbendo tutte le energie delle forze di sicurezza sovietiche. In ultima analisi non lo so per certo, e posso soltanto dire che sono scampato. Allo stesso modo, è stato un puro caso geografico. Se mi fossi trovato cinquanta chilometri più a ovest, gli agenti del NKVD o i commissari politici in prima linea mi avrebbero sicuramente arrestato. Credo che sapessero chi ero e cosa avevo fatto, e che avessero una descrizione dell'auto di cui ero alla guida. E se mi fossi trovato cinquanta chilometri più a est, sarei stato arrestato dal NKVD dell'Ucraina sovietica o ucciso dai banditi, che in quei giorni erano molto attivi. Invece mi trovavo nel mezzo, in una zona dietro le linee ma non ancora controllata dall'apparat. Quelli che hanno avuto esperienza di una zona in cui le truppe sovietiche stanno manovrando ma non combattendo sanno di cosa parlo. Sono avanzato fra unità disperse intralciate dalle scarse comunicazioni, fra errori, confusione e inefficienza, ed è stato come se fossi invisibile.
Era la verità, certo, ma non era affatto tutto lì. Szara fu in grado, per esempio, di scegliere l'identità adatta alle circostanze. Al cospetto di una pattuglia sovietica all'alba del 22 mostrò il distintivo del NKVD di Maltsaev, e l'ufficiale gli fece cenno di passare maledicendo i suoi soldati per non essersi scostati abbastanza in fretta dalla strada. Ma in uno shtetl nel bel mezzo del nulla divenne Szara l'ebreo polacco, ottenne una panca su cui dormire nella sala di studio e venne sfamato dalla moglie del rabbino. Nel frattempo, l'insolita presenza della Pobeda venne ignorata dagli abitanti del villaggio. Szara la portò in un cortile non recintato, fangoso e pullulante di galline e lì rimase, al sicuro e invisibile dalla strada, mentre lui riposava. In seguito, quando l'occasione lo richiese, si presentò come André Szara, giornalista sovietico, e come Jean Bonotte, cittadino francese di Marsiglia. Gli ci vollero circa venti ore per percorrere i quasi cinquecento chilometri fino a un punto nei pressi del confine con la Lituania. La prima sera, mosso da un istinto oscuro ma molto potente ("la mano di Dio?") abbandonò il suo rifugio a mezzanotte e continuò a viaggiare lungo la stessa strada, sperava in direzione nord, per sei ore. Temeva di non essere in grado di varcare i molti fiumi che avrebbe incontrato, ma a quanto pareva i polacchi non avevano fatto saltare i ponti. E così la Pobeda fece sbatacchiare le assi allentate delle piccole strutture che attraversavano prima la Beresina, quindi il Belaja. Appena dopo il primo dei due fiumi incrociò una strada di ciottoli fiancheggiata da betulle che correva da est a ovest. In quel momento capì dove si trovava, poiché quei ciottoli erano stati posati dai corsi dell'imperatore Napoleone nel 1812, una base solida per il trasporto dei cannoni e delle munizioni, e la strada si perdeva nella direzione di Mosca. Szara l'attraversò diretto a nord. Nei pressi di Chelm, appena prima dell'alba, la sua avanzata venne interrotta da un treno di carri bestiame fermo a un passaggio a livello. Soldati con le uniformi del NKVD facevano la guardia al convoglio, e nel buio Szara intravide la canna di una mitragliatrice montata sul tetto di un vagone ruotare verso la Pobeda. Una delle sentinelle si tolse il fucile di tracolla e si avvicinò per chiedergli chi fosse e cosa ci facesse lì. Szara fece per allungare la mano verso il distintivo, ma poi si fermò. Qualcosa gli disse di lasciarlo dov'era. Era solo un polacco, disse. Sua moglie aveva le doglie e lui stava andando a chiamare la levatrice. Il soldato lo fissò. Szara poteva udire delle voci provenire dall'interno dei carri bestiame, voci polacche che chiedevano un po' d'acqua. Senza aggiungere altro, inserì la retromarcia e
indietreggiò con il cuore che gli martellava nel petto mentre il soldato lo guardava senza fare nulla: un potenziale problema si stava eliminando da solo. Giunto fuori dal campo visivo dei soldati, Szara posò la testa sul volante per qualche istante, poi invertì la direzione, percorse qualche chilometro, imboccò una strada a caso e un'ora più tardi, dopo diverse svolte, superò un passaggio a livello deserto. Di primo mattino, passando accanto a una fattoria, udì i muggiti prolungati delle vacche che non erano state munte e i latrati frenetici dei cani abbandonati alla catena. A un altro passaggio a livello la strada era bloccata da un cancello di legno per il bestiame. Quando Szara scese dall'auto per aprirlo, scorse qualcosa di giallo per terra e si chinò per vedere meglio. Era un pezzetto di carta avvolto attorno a un sasso e assicurato con del filo di lana gialla, forse proveniente da uno scialle. Svolgendo la lana, Szara trovò un biglietto: Per favore, dite a Franciszka Kodowicz che Krysia e Wladzia sono state portate via su un treno. Grazie. Il vento gli agitò il foglietto fra le dita. Szara rimase a lungo in piedi accanto all'auto, quindi riavvolse con cura il sasso nel foglio di carta, lo assicurò con il filo di lana e lo rimise nel punto in cui era atterrato quando le ragazze l'avevano gettato dal treno in corsa. Ormai, notò in modo spassionato, si era lasciato dietro voti e risoluzioni. Si rimise al volante dell'auto, trattenendo il fiato quando il tanfo muschiato di pomata e sudore lo assalì, abbassò con forza la leva del cambio e ripartì verso nord. Era questa la sua risoluzione, era questo il suo voto: esistere. La terza sera, dopo aver deviato verso ovest per evitare il mercato di Grodno, controllando sulla mappa vide che era penetrato nella zona delle paludi del Pripjat'. Sospettava che l'avanzata sovietica non fosse ancora giunta in quell'area: il suo fianco settentrionale doveva essere stato trattenuto da qualcosa, dato che non c'era alcuna traccia di una forza di occupazione. Szara si fermò e attese che albeggiasse, ammonendosi di restare sveglio e allerta. Si destò ripetutamente ogni volta che il mento gli toccava il petto, e finì per sprofondare nel sonno vacuo della stanchezza. Riaprì gli occhi allo spuntare del giorno e vide che era circondato da paludi che si estendevano fino a un orizzonte piatto, una pianura di canne ondeggianti e lunghe distese d'acqua stagnante colorate da un cielo grigio e spazzato dal vento. Camminò per qualche minuto, cercando di orientarsi e lavandosi le mani e la faccia con l'acqua fredda e scura della palude. Perlustrò il cielo ma non vide il sole: non aveva idea di dove si trovasse, né di dove fosse il nord. E
non gliene importava. Era questa la cosa peggiore: non gliene importava nulla. La forza di volontà l'aveva abbandonato come sabbia trascinata via dalla marea. Si sedette sul predellino della Pobeda, si afflosciò contro la portiera e fissò gli stagni grigi e le canne mosse dal vento. Era giunto in qualche modo alla fine del viaggio, il futuro che aveva offerto a se stesso non era stato che il trucco dell'illusionista, del sopravvissuto illuso. Sul vasto sfondo della terra deserta, la sua irrilevanza si stagliava fin troppo chiaramente: un uomo presuntuoso e meschino, invidioso e intrigante, un opportunista, un impostore. Perché sarebbe dovuto sopravvivere? "Sali in macchina" si disse. Ma quell'ostinata voce interiore lo nauseava: tutto ciò che conosceva era la cupidigia, tutto ciò che faceva era volere. Perfino lì alla fine del mondo cantava la sua canzoncina, e ogni gesto, per assurdo che fosse, l'avrebbe soddisfatta. Ma l'unico gesto che Szara riusciva a immaginare richiedeva l'estrazione della Steyr da sotto il sedile dell'auto e la liberazione del mondo da una presenza inutile: se non altro, un atto di pietà. Aveva il coraggio di farlo? Sorprendentemente, sì. Che cosa aveva fatto nella sua vita, oltre a cercare una pace transitoria fra le gambe delle donne? Per poter vivere un altro giorno, e poi un altro ancora, aveva servito coloro che ora facevano quello che facevano e che, ne era sicuro, avrebbero continuato ad agire allo stesso modo. E per dare il tocco finale alla storia particolare della sua esistenza, il luogo e il momento erano perfetti: per ironia della sorte, era soltanto a pochi chilometri dalla salvezza del confine lituano. Consultò il suo orologio e vide che erano le 9.16. Il cielo attraversò il suo campo visivo, un centinaio di sfumature di grigio che scivolavano e rotolavano come fumo di una battaglia sospinto da un vento dal mare. A salvarlo (poiché giunse molto, molto vicino a perdersi) fu una visione. Non avrebbe dovuto metterla per iscritto: non era pertinente, e forse c'erano anche altre ragioni. In lontananza, sulla strada lunga e diritta davanti a lui, apparve la sagoma di un cacciatore; un uomo emerse dalle canne con un fucile da caccia, la canna sganciata dal calcio, drappeggiato sull'avambraccio. Lo seguiva uno spaniel, che gli si affiancò e si scrollò, facendo schizzare una nebbiolina di acqua di palude dal manto. Poi l'uomo s'incamminò per la strada, il cane trotterellò davanti a lui ed entrambi svanirono. E Szara, quasi senza accorgersi di come c'era arrivato, si ritrovò al volante. Percorreva un labirinto di strade e sentieri che avrebbero potuto condurre ovunque o in nessun luogo. A volte, gli occhi velati dalle lacrime,
avanzava in una foschia indistinta, ma non staccò mai il piede dall'acceleratore. Avanzava con ferocia, con rabbia, verso il vento. Imboccava qualsiasi strada sopra la quale le nubi in cielo ribollivano verso di lui, la loro velocità accresciuta da quella dell'auto che sfrecciava nella direzione opposta. Superò senza quasi notarla una torre di guardia abbandonata con il filo spinato che si allungava in entrambe le direzioni e un cancello di rete metallica appeso per miracolo a un cardine come se fosse stato spalancato da un gigante. Finalmente vide un vecchio su un lato della strada, intento ad affondare pigramente una rudimentale zappa nella terra di un orto. Szara premette il freno. «Dove mi trovo, in nome di Dio?» gridò. «Was?» rispose l'uomo. Szara ci riprovò e ottenne la medesima risposta. Si fissarono a vicenda, giunti a un punto morto; Szara era furioso, il vecchio più confuso che spaventato. «Che le prende, signore, per gridare a quel modo?» domandò alla fine quest'ultimo in un tono di irritazione educatamente controllata. All'improvviso, Szara si rese conto che parlava tedesco, la seconda lingua di quel paese. Liberò una singola, sonora, assurda risata, reinserì la marcia con violenza ed entrò rombando in Lituania. Arrivò a Kovno come un fuggiasco. E vi rimase come un rifugiato politico. Due città, Kovno e Odessa, erano punti estremi dei Territori a nord e a sud. Szara, cresciuto nella seconda, imparò presto a capire la prima. Erano città di frontiera, Odessa sul versante opposto del Mar Nero rispetto a Istanbul, Kovno alla congiunzione fra Russia, Polonia e Lituania, e le città di frontiera vivevano sulla base di istinti speciali: sapevano, per esempio, quand'era in arrivo la guerra, perché in caso di guerra non venivano risparmiate. Conoscevano la gente che si presentava prima delle guerre. Immigrati, profughi, in qualsiasi modo li chiamassi, avevano un modo tutto loro di arrivare appena prima degli eserciti e venivano visti come presagi di tempi difficili, allo stesso modo in cui gli uccelli migratori preannunciano l'inverno. Ma la lunga e complicata storia di Kovno aveva segnato i suoi cittadini con le stesse caratteristiche che consentivano loro di uscirne vivi. A dire il vero, quando Szara giunse alla città che nella sua infanzia conosceva come Kovno, questa veniva chiamata con il nome lituano di Kaunas. La città vicina, tuttavia, era ancora Wilno, essendo stata dichiarata territorio polacco, e non Vilna, il suo nome russo prima del 1917. I lituani preferivano
Vilnius, ma al momento quell'alternativa arrancava in terza posizione. Gli abitanti di Kovno, ora Kaunas, parlavano ovviamente una moltitudine di lingue. Prima ancora di passarvi la prima notte, Szara si era già espresso in tedesco, polacco e yiddish. Erano anche praticamente immuni alla politica, cosa niente affatto strana per una città che aveva conosciuto i cavalieri teutonici, gli avvocati bolscevichi e tutto ciò che c'era in mezzo. Ed erano, con una discrezione tutta loro, profondamente ostinati. In tutte le cose, ma particolarmente nelle questioni di nazionalità. I lituani sapevano di essere a casa propria, i polacchi sapevano di trovarsi sul suolo polacco checché ne dicessero gli altri, gli ebrei si trovavano lì da centinaia di anni, passandosela né meglio né peggio che da qualsiasi altra parte, mentre la maggior parte della popolazione tedesca guardava a ovest, alla madrepatria, con il desiderio nel cuore e qualche occasionale canzone. Malgrado tutto ciò, e per quanto ostinati fossero i cittadini di Kovno, nell'autunno del 1939 sembrava che molti di loro provassero il fermo desiderio di essere altrove. Szara prese un terzo di una stanza in una pensione, in realtà un appartamento, in cima a sette rampe di scale, dividendo lo spazio con due ebrei polacchi, operatori dell'industria cinematografica che erano fuggiti in motocicletta da Varsavia. Uno dei due lavorava come spazzino notturno alla stazione ferroviaria, e Szara poteva usarne il letto fino al suo rientro alle sei e mezza del mattino. Per questa ragione, si alzava di buon'ora. Dopo colazione bazzicava gli uffici delle linee marittime, disposto a partire da uno qualsiasi dei porti sul Baltico: Liepāja, Riga, Tallinn. Ma c'era semplicemente troppa gente che aveva avuto la sua stessa idea. Le navi e i traghetti per la Danimarca (la sua prima scelta), e in realtà per qualsiasi altra destinazione, erano prenotati fino al 1940 inoltrato. Cabine, posti ponte, ogni centimetro disponibile. Imperterrito, Szara prese il treno per Liepāja e cercò di comprarsi un posto a bordo di un mercantile norvegese, ma soltanto una fuga precipitosa da un caffè sul fronte del porto lo salvò dall'arresto. E l'incidente ebbe i suoi testimoni: nello stesso caffè c'erano due volti vagamente familiari, forse già visti negli uffici delle linee marittime. Era sempre la stessa storia, ovunque andasse o qualsiasi cosa provasse. Perfino al mercato dei ladri, dove la Pobeda provocò fischi sommessi di apprezzamento ma scarsissimo interesse commerciale. Erano sublimi realisti, i ladri di Kovno: dove si poteva andare in macchina? A sud c'era la Polonia occupata, a nord il Baltico, a est l'URSS. A ovest, il porto di Memel in marzo era diventato territorio del Reich, Königsberg era tedesca e
adesso anche Danzica. Szara prese quello che gli offrivano per la Pobeda e si affrettò ad allontanarsi. Si poteva contare sul fatto che il NKVD avesse occhi e orecchie al mercato dei ladri di Kovno. I tentativi di convertire la valuta non approdarono a nulla. Non poteva vendere gli zloty: in Polonia stavano introducendo i marchi tedeschi, e in ogni caso non ci andava nessuno. I rubli non si sarebbero dovuti trovare al di fuori dell'URSS, e Szara li bruciò. I franchi francesi, la parte nettamente più abbondante del suo piccolo tesoro, sarebbero andati a ruba sul mercato valutario della strada, ma Szara non se ne voleva separare; potevano essere usati ovunque, e tutti avevano le sue stesse ragioni per volerli. Durante i primi giorni agì con estrema cautela; sapeva che l'apparat dei servizi segreti sovietici in Lituania era radicato e molto aggressivo. Ma con il passare del tempo abbandonò i dettami della clandestinità e divenne semplicemente una delle tante anime senza nome la cui occupazione principale era l'attesa. Sedeva nei parchi e osservava le partite a scacchi insieme a tutti gli altri esuli mentre le foglie si tingevano d'oro con il lento inizio dell'autunno. Frequentava i locali più a buon mercato, ciondolando in eterno sul suo caffè, e presto la gente cominciò a salutarlo con un cenno del capo: faceva parte della loro giornata, sempre seduto al tavolo d'angolo. Si fece un improbabile amico, un gentiluomo conosciuto come il signor Wiggins, che lavorava presso gli uffici della linea marittina Thomas Cook. Il signor Wiggins proveniva dritto dritto dalle pagine di Kipling; aveva un paio di baffi impomatati, si pettinava con la scriminatura nel mezzo e portava un colletto all'antica, formale, scomodo e rassicurante. Era, a suo modo, un uomo terribilmente corretto che serviva la Thomas Cook con convinzione e che nell'alluvione di rifugiati politici che si abbatteva dall'alba al tramonto sul suo ufficio vedeva non tanto i relitti dell'Europa, quanto un flusso continuo di clienti. Szara sembrava essere uno dei suoi preferiti. «Sono così spiacente» ripeteva in tono di sincero rammarico. «Oggi niente cancellazioni. Ma riproverà domani, spero. Non si può mai dire. La gente cambia idea, è una cosa che ho imparato nel mio lavoro.» Il signor Wiggins, come chiunque altro, sapeva che la guerra stava per arrivare in Lituania; o se non proprio la guerra, quanto meno l'occupazione. Il paese era stato liberato dal dominio russo nel 1918 (in riferimento alla massima di Lenin, «due passi avanti e uno indietro», quello era stato un passo indietro) e aveva imparato ad apprezzare la propria condizione di paese libero. Ma aveva i giorni contati, e non ci si poteva fare niente. Sza-
ra, incontrando come al solito volti familiari, comprava i giornali locali ed esteri di primo mattino e li portava nella sua tana, nella cucina comune dell'appartamento, per studiarli con attenzione, comunicando le brutte notizie ai suoi coinquilini mentre sorseggiavano caffè lungo riscaldato e cercavano di non dire nulla di compromettente. Con il passare dei giorni il futuro divenne più chiaro: un ingente avvicendamento di popolazioni si sarebbe verificato in Estonia e in Lettonia e simultaneamente in Germania. Gli slavi a est, i tedeschi a ovest: era davvero così semplice. Più di centomila tedeschi sarebbero stati caricati a bordo di piroscafi in servizio sul Baltico e riportati in Germania, da dove i loro bis-bisnonni erano emigrati centinaia di anni prima. Nel contempo, diverse nazionalità slave residenti in Germania erano dirette a est per ricongiungersi con i loro fratelli in Unione Sovietica. Questo scambio di popolazioni aveva lo scopo di ristabilire la purezza razziale della Germania e alleviare le pressioni sui coloni tedeschi nell'Europa dell'Est. Questi ultimi soffrivano le pene dell'inferno, a sentire Goebbels, poiché avevano conservato la loro lingua, i loro costumi e il loro abbigliamento nel bel mezzo di altre culture che non li apprezzavano principalmente perché erano invidiose dei loro successi. "Li si potrebbe definire ebrei biondi" pensò Szara. Ma il dato concreto della migrazione gravava sul tavolo della colazione come un drappo funebre: se i tedeschi se ne stavano andando dagli stati sul Baltico, chi era in arrivo? C'era soltanto un paese candidato, e non era la Francia. Per Szara, educato fin dal 1937 a un certo modo di pensare, tutto ciò aveva una risonanza ancora più profonda: se la spartizione della Polonia era uno dei protocolli segreti del patto Hider-Stalin, quali erano gli altri? «Terribilmente spiacente» ripeteva il signor Wiggins. «Non c'è proprio niente.» Come tutti i profughi, Szara aveva troppo tempo a disposizione per pensare. Seduto sulle panchine, fumava le sue sigarette mentre le foglie cadevano lente. Fuggendo dalla Polonia aveva immaginato che in attesa ci fossero la morte o la gloria, e così aveva corso i suoi rischi. Dopo l'omicidio di Maltsaev, non aveva più niente da perdere. Ma nemmeno per un istante aveva immaginato che tutto si sarebbe ridotto a una meschina esistenza trascorsa fra cupi caffè e appartamenti trasandati nell'attesa che l'Armata Rossa giungesse alle porte della città. Soppesò l'idea di fare una telefonata a de Montfried, ma che genere di aiuto avrebbe potuto offrirgli? Denaro? Altro denaro con cui non sarebbe riuscito a comprare ciò di cui aveva bisogno? Alcuni degli ebrei ricchi di Kovno stavano letteralmente spenden-
do fortune per andarsene prima dell'arrivo dei russi, e giravano voci che alcuni di loro avessero perduto tutto, che fossero stati fermati prima dell'imbarco da commissari di bordo dallo sguardo glaciale affiancati da marinai armati. Altre voci (e Szara sapeva che almeno una di esse era vera) riferivano di profughi disperati che prendevano il mare a bordo di barche a remi, a volte guidati da sedicenti contrabbandieri, per poi svanire nel nulla. Annegati? Uccisi? Chi lo sapeva. Ma le cartoline di conferma non arrivavano mai a Kovno, e amici e complici potevano trarre una sola conclusione. Alla fine Szara si rese conto che la botola si apriva in una direzione sola, e decise di provarci. «Da Amburgo? Per Copenhagen da Amburgo, ha detto?» Per un breve istante, il signor Wiggins si concesse un moto di sorpresa. Poi si schiarì la gola, di nuovo al servizio del viaggiatore. «Nessun problema, direi. Un sacco di spazio. Cabina di prima classe, se vuole. Prenoto?» Avrebbe dovuto funzionare. Vi fu naturalmente qualche doverosa improvvisazione, ma Szara riuscì a gestirla bene, e in ultima analisi non fu colpa sua se non funzionò. Le vicende della guerra, si sarebbe potuto dire. Cominciò dagli ospedali. Wiggins gli diede una mano: i membri più abbienti della comunità tedesca andavano qui, quelli con mezzi più scarsi andavano lì. Szara andò lì. Un triste edificio di mattoni scuri, a giudicare dal nome un istituto luterano, in un quartiere anonimo lontano dal centro. Nel giro di un giorno o due aveva capito come funzionava l'ospedale. Bisognosi di caffè o di qualcosa di più forte, i dottori, in conformità alla loro posizione, frequentavano il Vienna, un dignitoso ristorante-pasticceria. Gli inservienti, i custodi, gli impiegati e qualche occasionale infermiera usavano agli stessi scopi un Ratskeller vicino. Szara scelse il Ratskeller. Il turno di giorno finiva alle quattro del pomeriggio, il che significava che al ristorante la fascia oraria feconda proseguiva per un'altra ora o due. Szara vi trascorse le ore di punta per tre giorni, osservando, e individuò i solitari. Il quarto giorno scelse il suo uomo: imbronciato, scialbo, non più giovane, con grandi orecchie e capelli lisciati all'indietro, sempre uno degli ultimi a lasciare il locale, senza una famiglia da cui tornare. Szara gli offrì una birra e attaccò discorso. L'uomo era lituano, ma sapeva il tedesco. Szara scoprì quasi subito come mai beveva da solo: in quell'uomo c'era un che di malvagio, qualcosa che lui dissimulava adottando un tono beffardo e insinuan-
te teso a suggerire che vi fosse un che di malvagio in tutti quanti. Quando chiese a Szara che cosa faceva, lui ammise di essere un commerciante di carta. Comprava e vendeva carta, disse, aggiungendo un'occhiata maliziosa per dimostrargli quanto lo trovasse sveglio. L'uomo, un inserviente, capì all'istante. Era al corrente di certe questioni. Giunse addirittura ad ammiccare. Aveva visto l'interno di una prigione, si disse Szara; forse per molto tempo, forse per qualcosa di molto sgradevole. E che genere di carta stava acquistando di questi tempi? Carta tedesca. Perché? Chi poteva dirlo? Un cliente voleva carta tedesca. Non dalla Germania, badi bene, e non dalla Lituania. Dalla Polonia o dall'Ungheria sarebbe andata bene. Dalla Jugoslavia ancora meglio. L'inserviente conosceva l'uomo giusto. Il vecchio Kringen. Dopo che Szara ebbe ordinato un altro giro della birra migliore della casa, seguì una discussione finanziaria. Un accenno di trattativa. Szara si finse sconvolto, fece resistenza, non guadagnò nemmeno un centimetro e si arrese brontolando. Il vecchio Kringen, volle sapere, sarebbe diventato molto più vecchio? No. Era finito ma se la stava prendendo comoda, non sembrava avere una gran fretta. Szara lo capiva, ma il suo cliente non poteva permettersi alcun, ehm, motivo di imbarazzo. L'inserviente ridacchiò, un suono orribile. Il vecchio Kringen non sarebbe andato da nessuna parte. E lì dov'era non aveva bisogno del passaporto, che veniva conservato nell'ufficio registri dell'ospedale. L'inserviente aveva un amico, tuttavia, e l'amico avrebbe provveduto per lui. Ma sarebbe costato qualcosina di più. Szara si arrese per la seconda volta. E per la terza, tornando nel Ratskeller due giorni dopo. Ma ottenne quello di cui aveva bisogno. Il vecchio Kringen era un Siebenburger, proveniente dal distretto di Siebenburgen (Sette Colli) della Romania, un'area da tempo occupata dai coloni tedeschi. Szara non aveva idea del perché fosse andato a Kovno; forse per sfruttare l'offerta di emigrazione nella vicina Lettonia, forse per altre ragioni. Era molto più vecchio di Szara, a giudicare dalla foto sul documento un tipo scontroso e testardo, e la sua professione dichiarata era quella di allevatore di maiali. Szara comprò il necessario e trovò una camera a ore in un albergo della zona delle case popolari in cui
avrebbe potuto godere di un minimo di riservatezza. Cancellò la data di nascita con del succo di limone, la sostituì con una che poteva andare bene per lui, cosparse la pagina di polvere per nascondere il danno che aveva recato alla carta, sostituì la fotografia e vi aggiunse una firma illeggibile su un angolo. Poi sollevò il passaporto alla luce. Il nuovo Kringen. I documenti di Maltsaev li aveva eliminati in Polonia; ora toccava a quelli di Szara. Le pareti della minuscola camera erano sottili, e i gemiti e le grida che provenivano da entrambi i lati gli fecero capire che i venerdì sera di Kovno erano uguali a tutti gli altri. Oltre il muro c'era una donna (se la dipingeva come immensamente grassa) con una risata portentosa. Qualcosa produsse un tonfo e lei emise uno strillo d'ilarità, gridando incitamenti e fermandosi soltanto, immaginava Szara, per asciugarsi gli occhi lacrimanti. Fu con quell'accompagnamento che André Szara morì. Si sedette su un materasso di paglia coperto da un lurido lenzuolo, illuminato soltanto da una candela, e si grattò la caviglia, morsicata da chissà quale insetto. Usò come caminetto la tazza che aveva preso in prestito nel suo caffè pomeridiano, strappando una pagina per volta dal passaporto, accostando la fiamma a un angolo e osservando scomparire i timbri d'ingresso e di uscita a mano a mano che la carta si arricciava e si anneriva. La copertina rossa oppose resistenza, costringendolo a ridurla a striscioline e a strofinare fiammiferi su fiammiferi, ma finalmente anch'essa venne gettata, con le sue fiamme gialle e blu, nella tazza di ceneri. Addio. Szara si meravigliò della pena che covava nel profondo, ma non poteva negare ciò che sentiva. Era come se André Szara, con il suo impermeabile, il suo sorriso e le sue uscite intelligenti, avesse cessato di esistere. "Malgrado tutto, un fastidioso bastardo" si disse mescolando le ceneri con il dito e rovesciandole fuori dalla finestra in un cortile pieno di gatti. In quella zona di Kovno scorreva un piccolo canale. Il distintivo del NKVD affondò come un sasso, e lo stesso fece la Steyr. La banchina di Riga era invasa dai tedeschi: dai loro bagagli, dai loro orologi, dai loro cani e da una banda che suonava mentre loro marciavano su per la passerella. Gli operatori dei cinegiornali tedeschi erano in grande evidenza, e Szara nascose il volto ai loro obiettivi. Per una strana magia tribale che non aveva previsto, la folla si era organizzata in caste: gli individui importanti e abbienti salivano per primi, seguiti dagli agricoltori con
la pipa in bocca e infine dai lavoratori e da altri personaggi assortiti. Tutti sembravano soddisfatti. I documenti di Szara avevano ricevuto il più superficiale dei controlli: chi, nel nome di Dio, avrebbe desiderato intrufolarsi sotto il tendone di quel circo? In realtà, anche se Szara non se ne rese conto, il NKVD stava approfittando della migrazione sul Baltico per infiltrare i suoi agenti in Germania: simili ritorni alla madrepatria avevano sempre suggerito possibilità interessanti ai servizi segreti. Szara era preparato a essere smascherato. Un qualsiasi risoluto ufficiale della Gestapo avrebbe notato le rudimentali modifiche sul passaporto, e sarebbero bastati cinque minuti di interrogatorio per avere la certezza che il suo titolare era un impostore. Szara programmava di ammetterlo ancora prima che si mettessero al lavoro su di lui. Il passaporto di Jean Bonotte era cucito nella sua giacca e i franchi francesi nascosti nel doppio fondo della borsa, proprio dove un tipo come Bonotte, uno di Marsiglia, senza dubbio un corso e senza dubbio un criminale, li avrebbe nascosti. Germania e Francia erano ufficialmente in guerra, anche se ciò non aveva ancora provocato scontri seri. Più che altro chiacchiere. La diplomazia tedesca stava ancora cercando di appianare i contrasti con gli inglesi e i francesi: perché mettere il mondo a ferro e fuoco per un mucchio di polacchi? Szara sospettava che, nel caso fosse stato scoperto, sarebbe stato internato come cittadino francese. Nella peggiore delle ipotesi, una guerra trascorsa nella noia più terribile in qualche campo di prigionia, nella migliore uno scambio con un cittadino tedesco che si era ritrovato dalla parte sbagliata quando era stato sparato il primo colpo di cannone. Il vantaggio era che un campo di prigionia tedesco sarebbe stato l'ultimo posto al mondo in cui il NKVD avrebbe pensato di cercare André Szara. Ciò nonostante, Szara non si augurava che lo prendessero. Non era un tedesco, nemmeno un allevatore di maiali dei Sette Colli, e non desiderava essere maltrattato da quella gente. In loro albergava una rabbia profonda e paziente. Per le cineprese dei notiziari erano felici di «andare a casa», ma fra loro si promettevano a vicenda che presto sarebbero «tornati». A quel punto, ovviamente, certi conti sarebbero stati definitivamente saldati. E la cosa peggiore, Szara lo sapeva, era che se avessero avuto motivo di osservarlo attentamente e concentrarsi sui suoi lineamenti, quasi certamente avrebbero deciso di controllare che non fosse ebreo. No, non desiderava essere preso, e aveva deciso di evitare in tutti i modi qualsiasi contatto diretto.
A questo scopo interpretava il ruolo dell'uomo distrutto dal dolore, vittima dell'ostilità nei riguardi dei tedeschi. Si era esercitato a ripetere una singola frase nell'accento da Volksdeutsche tipico di un uomo come Kringen: «Hanno preso... tutto». Dovette usarla quasi subito, sulla banchina. Un uomo corpulento al suo fianco, desideroso di fare conversazione, gli rivolse un saluto. Szara lo fissò come se si stesse intromettendo in un mondo di angoscia privata, e pronunciò la sua battuta. Funzionò. Sotto i suoi occhi, l'espressione dell'uomo passò dalla sorpresa alla dolente comprensione, poi s'irrigidì per la rabbia. Szara si morse il labbro; non poteva aggiungere altro senza perdere il controllo. Distolse il volto mentre l'uomo gli posava una zampa enorme sulla spalla, e il sincero calore umano di quel gesto rischiò di farlo piangere per la vergogna. Una giornata radiosa. Un mare calmo. La vita a bordo del piroscafo era organizzata con rigore. C'erano molti funzionari pronti a intervenire, ma a Szara sembravano benevoli, intesi a facilitare la transizione degli emigranti nella vita tedesca. Venne registrato (una questione di sì e di no), gli venne consegnata una carta d'identità temporanea e gli venne detto di presentarsi alle autorità preposte all'emissione dei documenti definitivi non appena avesse stabilito una residenza. Aveva idea di dove desiderava vivere? Famigliari in Germania? Amici? Szara si nascose al riparo della sua catastrofe. «Non si preoccupi, vecchio mio, adesso è in buone mani» disse un funzionario. Il sistema di altoparlanti era costantemente in funzione: uno schnauzer trovato negli alloggi dell'equipaggio, un incoraggiante messaggio di benvenuto da parte del dottor Goebbels, l'opera di carità Winterhilfe occupava un tavolo sul ponte di poppa, coloro i cui cognomi cominciavano con le lettere dalla A alla M avrebbero dovuto presentarsi in sala da pranzo all'una precisa, dalla P alla Z alle due e mezza. Per stimolare l'appetito, fra quindici minuti sul ponte di prua sarebbero cominciati i canti popolari, condotti dal noto contralto Irmtrud von Qualcosa della compagnia dell'Opera Statale di Monaco e dal noto controtenore nonché Untersturmführer delle SS Gerhard Qualcos'altro del coro dei Soldati Bavaresi, due brillanti artisti che si erano offerti volontari per accompagnare i viaggiatori e unirsi al loro Volk intonando alcuni dei grandiosi vecchi canti. Per un agghiacciante secondo Szara credette di dover cantare, ma poi vide con sollievo che il numero di persone che si tenevano in disparte gli permetteva di evitarlo. Si alzò per la travolgente esecuzione di Deu-
tschland über alles che diede inizio al programma, guardò il petto del contralto gonfiarsi di possente patriottismo e poi si avvicinò al parapetto e si mescolò allo scarso pubblico. Quasi tutti i passeggeri cantavano, e ne erano profondamente commossi; piangevano senza vergogna, e i loro volti palesavano una sorta di gioiosa agonia mentre le voci si levavano all'unisono. La versione di massa di Bianco Natale (gli inni natalizi erano noti a tutti) fu straordinaria, intonata con profondo sentimento mentre la nave solcava rombando le acque calme del Baltico. Szara mantenne la sua copertura, muovendo la testa a tempo e apparentemente borbottando le parole fra sé, ma la sua reazione interiore all'esibizione fu qualcosa di molto prossimo al terrore. Era l'istintiva, appassionata unità dei cantori a spaventarlo: la loro pura e semplice intensità era travolgente. In tutto il mondo, pensò, era impossibile trovare tre ebrei che fossero d'accordo su cosa significava essere ebrei; eppure, a quanto sembrava, c'erano cinquanta milioni di tedeschi che sapevano perfettamente cosa voleva dire essere tedeschi, anche se molti di quelli che si trovavano su quel ponte non avevano mai messo piede in Germania. C'era qualcosa che non quadrava, ma che cos'era? Era evidente che avevano subito un'infinità d'ingiustizie: quella certa espressione era chiaramente percettibile sui loro volti. Ondeggiavano e cantavano, apparentemente ipnotizzati, si tenevano per mano, molti piangendo, e tutti insieme formavano un muro di emozioni comuni, un muro di nostalgia, rimpianto, autocommiserazione, sentimentalismo, risentimento, odio e ferocia. Le parole rimbalzavano nella mente di Szara senza che nessuna fosse giusta, o sbagliata, o contasse qualcosa. Ciò che sapeva di sicuro in quel momento era che quella gente era avvelenata da se stessa. E che sarebbe stato il resto del mondo a soffrirne. Saltò il pranzo, sapendo che sarebbe stato impossibile evitare una conversazione attorno a una tavola imbandita. Una donna bassa e bene in carne, con due minuscoli occhietti di pura cattiveria, lo puntò (Szara si rese conto che l'aveva osservato) e gli offrì silenziosamente una grossa fetta di torta su un tovagliolino. Il gruppo l'aveva capito e accettato; era un bene avariato, un individuo da lasciare in pace ma da non abbandonare. La donna si girò e se ne andò lasciandogli mangiare la sua torta in santa pace, e Szara represse un brivido violento che parve provenire dal centro stesso del suo essere. Al calare del sole, la voce diffusa dagli altoparlanti si fece improvvisa-
mente sommessa per il rispetto e la soggezione. Un fortunato cambio di programma: ad aspettare la nave ad Amburgo ci sarebbe stato un treno di carrozze di prima classe sul quale i passeggeri avrebbero proseguito fino a Berlino, dove sarebbero stati accolti dal Führer in persona. Non preoccupatevi per gli amici e i famigliari che verranno a prendervi al porto, ci sarà posto per tutti. Heil Hitler! E se Szara aveva nutrito la vaga idea di poter sgattaiolare via approfittando della confusione dell'approdo e trovare il traghetto per Copenhagen, la realtà dell'arrivo, due giorni dopo, mise definitivamente un freno a simili sciocchezze. Un muro di tedeschi festanti si ergeva su entrambi i lati dei passeggeri che sbarcavano, un corridoio di benvenuto efficace come filo spinato che conduceva fino alla stazione ferroviaria. E così Szara andò a Berlino. La città gli parve buia e solenne. Rigida. Tormentata. Qualsiasi cosa fosse, ciò che respirava nelle strade era peggio, molto peggio della Kristallnacht del novembre 1938. Ora il paese era in pericolo; non si trattava più di una semplice manovra politica del partito nazista. Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra (la faccia tosta, la presunzione!) e la gente si era unita al cospetto di un simile, sbalorditivo sviluppo. Il fatto che paesi civili (quanto meno gli inglesi: non certo i francesi, che non si lavavano) si sarebbero schierati con i polacchi, gli ebrei e il resto della spazzatura slava era semplicemente incomprensibile, ma era un dato di fatto e andava fronteggiato. E loro erano pronti a farlo. Alla stazione di Potsdam, una serie di corriere attendeva di trasportare i Volksdeutschen appena arrivati allo Stadio Olimpico, dove una folla di settantacinquemila persone li stava aspettando. Una sezione speciale sul davanti era riservata agli emigranti dal Baltico, a cui Adolf Hitler si sarebbe rivolto più tardi quella sera. Szara non aveva la minima intenzione di avvicinarsi a quel luogo; le misure di sicurezza sarebbero state intensificate per l'intervento di un capo di stato, e in quel caso avrebbero coinvolto la Gestapo, i detective in borghese della polizia di Berlino e una serie di controlli dei documenti: l'incubo di qualsiasi impostore. Malgrado la sua debole copertura avesse funzionato sulle banchine della Lettonia, non avrebbe mai retto a un simile esame. Ma la gente saliva a bordo delle corriere con un'esecrabile assenza di confusione; i Volksdeutschen erano pazienti e malleabili in modo irritante, disposti su file ordinate (chi, cercò di rammentare Szara, aveva definito i
tedeschi pecore carnivore?), e quando Szara cercò di allontanarsi fra due corriere una giovane donna con una fascia sul braccio lo rincorse e lo riportò cortesemente nella giusta direzione. In preda alla disperazione, Szara si piegò in avanti stringendosi il ventre con la mano libera e tornò gemendo in stazione. Quello lo capirono, e lo lasciarono andare. Szara trovò un'uscita diversa, un semplice passeggero con una borsa. Scorse il cartello del tram 24, la linea di Dahlem che l'avrebbe portato alla Lehrter Bahnhof, da dove avrebbe potuto prendere il treno della sera per Amburgo. Le cose si stavano mettendo per il meglio. Ma non era destino. Szara vagò per mezz'ora nelle strade attorno alla stazione di Potsdam, concedendo alle corriere cariche di Volksdeutschen tutto il tempo di partire, quindi rientrò nell'edificio. Ma vide che a ognuno degli accessi alle linee tranviarie un poliziotto in uniforme e un funzionario della Gestapo controllavano i documenti, e si rese conto che senza la coloratura protettiva degli altri emigranti avrebbe avuto qualche problema. Aveva la netta sensazione di venire notato. Chi era quell'uomo dall'aspetto aristocratico con gli indumenti lerci e un morbido cappello di feltro calato sugli occhi? Perché reggeva una bella borsa da viaggio di pelle? Reprimendo un attacco di panico, si allontanò a piedi dalla stazione e si ritrovò subito in una situazione ancora peggiore. Perché ora era solo nelle strade deserte. La Berlino che aveva conosciuto un anno prima aveva ancora il suo popolo della notte, coloro che apprezzavano il buio e i piaceri che implicava. Ora non più. La città era desolata, la gente se ne stava a casa e andava a letto presto; Hitler aveva ricacciato la decadenza negli interni. Szara sapeva di non potersi trattenere in strada. Avvertiva che era questione di minuti. Affrettò il passo in direzione ovest, verso la Leipzigerplatz dove sapeva che avrebbe trovato un telefono pubblico. Aveva imparato a memoria diversi numeri nel caso avesse smarrito la borsa, e stava già reggendo in mano la cornetta quando si rese conto di non avere monete tedesche. Aveva acquistato dei Reichsmark da alcuni polacchi che si erano rifugiati in Lituania, sufficienti ad acquistare un biglietto del piroscafo per Copenhagen, ma non aveva previsto che avrebbe avuto bisogno di usare il telefono. "Non così, non per uno stupido errore di calcolo" pregò in silenzio. Vide un taxi e lo fermò. Il conducente fece l'offeso e dichiarò di non essere «un borsellino ambulante», ma Szara gli diede cinquanta Reichsmark per due monete da dieci e il suo atteggiamento si trasformò istantaneamente in un
solenne decoro. «Può aspettare?» gli chiese Szara sfogliando le sue restanti banconote. Il taxista annuì educatamente. Qualsiasi cosa, per un gentiluomo. Il telefono squillò per quella che a Szara parve un'eternità, poi fu un uomo, inaspettatamente, a rispondere. Szara fece un nome. La voce dell'uomo era terribilmente languida e stanca di vivere. «Oh, lei non è qui» disse. Poi: «Immagino che voglia il numero». Szara rispose di sì, rovistando nelle tasche alla ricerca di una matita e una scatola di fiammiferi. L'uomo gli diede il numero e Szara riagganciò. Con la coda dell'occhio vide il taxista che consultava imbronciato il suo orologio. Sul versante opposto della piazza scorse un'auto della polizia. «Ancora un minuto» gridò. Il taxista notò lo strano accento del suo tedesco e lo fissò. Szara compose il nuovo numero e si sentì rispondere da una domestica. Chiese di «Madame Nadia Tščerova». Quando udì la sua voce, si sentì sommergere da un'ondata di sollievo. «Mi trovo a Berlino» disse. «Le sarebbe terribilmente d'incomodo se...?» «Come? Chi parla?» «Un amico del retroscena. Ricorda? La terribile commedia? Le avevo portato un... regalo.» «Mio Dio.» «Posso vederla?» «Be'...» disse lei. «La prego.» «Suppongo di sì.» «Forse vuole dirmi dove.» «Come fa a non saperlo?» «Il fatto è che non lo so.» «Ah. Be', è una villa. Di fronte al Tiergarten, ai confini di Charlottenburg, sulla Schillerstrasse. La terza dalla fine della strada. C'è una... Farò accendere le luci esterne. Quando verrà?» «Ho un taxi che mi aspetta.» «Presto, allora» disse la Tščerova, e riagganciò. Szara salì sul taxi e diede le indicazioni al conducente. «Da quale parte della Germania viene?» domandò questi. «Dall'Italia» rispose Szara. «Dal Tirolo. A dire il vero, parliamo di rado il tedesco.» «Sicché è italiano.» «Sì.»
«Per essere un italiano, non parla così male.» «Grazie.» Il taxista rise e partì mentre l'auto della polizia cominciava ad aggirare lentamente la Leipzigerplatz. «Carissimo!» gridò lei in russo. Era una Nadia diversa: affettata, fredda. Gli gettò un braccio attorno alle spalle (con l'altra mano reggeva un bicchiere), lo attirò a sé e lo baciò sulle labbra. Il bacio sapeva di vino. «"Quale ingegnoso demonio ti ha scaraventato alla mia porta?"» La domestica che l'aveva fatto entrare s'inchinò con un fruscio dell'uniforme inamidata e uscì dalla sala. «E sparati» le mormorò dietro la Tščerova mentre questa si chiudeva dietro l'alta porta. «Quale demonio?» domandò Szara. «È una battuta di Kostennikov. La moglie del mercante, atto terzo.» Szara inarcò un sopracciglio. «Venga di sopra» disse lei. La seguì attraverso stanze piene di mobili di noce lucidato e torreggianti tendaggi color smeraldo e su una scalinata curva di marmo dalle balaustrate indorate. «Be', avrà di certo...» «Zitto» si affrettò a sussurrare la Tščerova. «Ascoltano.» «La servitù?» «Sì.» Si lanciò su per le scale facendo svolazzare il suo ampio pigiama di seta bianco ghiaccio e gridò: «L'ultimo che arriva è uno scimmione!». «Non lo sta rendendo un po' troppo lampante?» chiese Szara sottovoce. Con uno sbuffo, lei superò danzando gli ultimi gradini. Le sue pantofole dorate erano decorate da pompon, e le suole schiaffeggiavano il marmo. Si fermò per bere un sorso di vino, poi lo prese per mano, lo trascinò in una camera da letto e richiuse la porta con un calcio. Un fuoco ardeva in un caminetto di marmo, la carta da parati era blu scuro con una fantasia di bucaneve bianchi, il vasto copriletto aveva lo stesso blu e lo stesso bianco e il tappeto era di folta lana azzurra. «Oh, Serjoža» esclamò la Tščerova in tono dolente. Un levriere russo scese con aria colpevole da un divano blu e bianco e si allontanò furtivo fino al caminetto, abbandonandosi su un fianco con il sospiro doloroso di chi è stato appena spodestato e un singolo ondeggiamento della coda pelosa. Poi sbadigliò, spalancando le fauci lunghe e aggraziate e richiudendole
di scatto con un breve gemito. «Non sospetteranno che sia il suo amante?» chiese Szara. «Facciano pure.» La guardò confuso. «Posso avere tutti gli amanti e gli strani ospiti che voglio. Quelle che non posso avere sono le spie.» «Conoscono il russo?» «Chi lo sa cosa conoscono? Dai miei amici rifugiati politici si aspettano conversazioni in russo, grida e risate. Per le opinioni politiche o le confidenze, tenga la voce bassa o suoni il Victrola.» «Tutto questo è suo?» «Le dirò tutto, mio caro, ma procediamo con ordine. Mi perdoni, ma non so come si chiama. Vuole che mi inventi qualcosa?» «André» disse Szara. «Scritto alla francese.» «Bene. Ora devo chiederle, André scritto alla francese, se ha la minima idea dell'odore che emana.» «Chiedo scusa.» «In Russia ho passato momenti difficili: stanzette anguste, inverni lunghi, terrore generale e nessuna riservatezza. Non sono schizzinosa, mi creda, ma...» Aprì una porta con uno specchio intero e indicò la vasca da bagno con i piedi a zampa di leone. «Non mi manca nulla. Troverà una spugna, dei sali da bagno, sapone alla lavanda o alla mandorla, guanto di spugna, spazzola per la schiena, shampoo parigino. Potrà farsi un massaggio facciale, se lo desidera, o incipriarsi come un pasticcino viennese. Sì? Non si è offeso?» «Un lungo viaggio» disse Szara entrando in bagno. Si spogliò, inorridito dallo stato dei suoi indumenti. In confronto all'atmosfera profumata della stanza da bagno, la sua condizione divenne fin troppo evidente. Tuttavia, quando si specchiò vide che era sopravvissuto. La barba di un giorno (un lato del suo volto tradiva ancora un lieve gonfiore: eredità del bombardamento?), capelli lunghi, nuove chiazze di grigio qui, e qui, e qui, occhi giallastri per la stanchezza. Non vecchio. Non ancora. E molto snello e angoloso, molto determinato. Riempì la vasca di acqua fumante e vi entrò. Il calore risvegliò i vari tagli, graffi e lividi che aveva guadagnato nei suoi viaggi, provocandogli una smorfia. Gli sembrava di avere cento punti dolenti, e dolevano ciascuno a suo modo. Osservò l'acqua che si scuriva, vi aggiunse una manciata di cristalli da un barattolo e mescolò. «Bravo!» gli gridò la Tščerova attraverso
la porta aperta nel sentire il profumo dei sali. Canticchiando fra sé stappò una bottiglia di vino (Szara udì lo scricchiolio del turacciolo che veniva estratto) e mise un disco sul Victrola. Un'opera italiana, dolce e solare:... giorno di mercato... i contadini si ritrovano nella piazza del villaggio... «Mi piace ascoltarla quando faccio il bagno, e a lei?» disse dalla camera da letto. «Sì. È perfetta.» Cantò qualche battuta, cercando senza vergogna le note giuste con la sua voce lievemente rauca. «Potrei avere una sigaretta?» Un attimo dopo, la sua mano comparve da dietro la porta con una sigaretta accesa. Szara l'accettò con gratitudine. «Fumare nella vasca da bagno» disse lei. «Lei è proprio russo.» Il levriere entrò in bagno e prese a lappare entusiasticamente l'acqua della vasca. «Serjoža!» esclamò la Tščerova. Szara strofinò la fronte del cane con il dito indice. Il levriere sollevò il muso e lo guardò mentre l'acqua saponata gli colava dalle fauci bagnate. «Vattene, Serjoža» disse. Con sua sorpresa, il cane si girò e uscì. «Bravo» disse la Tščerova al cane. «Quando avrò finito... temo di non avere niente di pulito da indossare.» «Le prenderò una delle vestaglie del generale. Non il vecchio straccio che indossa sempre. Sua figlia gliene ha regalata una nuova per il suo compleanno. È ancora nella scatola. Di raso rosso. Sembrerà Cary Grant.» «È il suo amante?» «Cary Grant? Credevo fossimo stati discreti.» Szara attese. «No. Non esattamente. Nessuno è il mio amante. Quando il generale e io siamo insieme il mondo la pensa diversamente, ma noi non inganniamo noi stessi né ci prendiamo in giro a vicenda. Ci sono molte cose da spiegare, ma immagino che per stanotte lei non andrà da nessuna parte, dunque c'è tempo. Una cosa non può aspettare, però. Mi deve proprio dire perché è qui. Se dovrà chiedermi di fare cose terribili, tanto vale che io lo sappia subito e non ci pensi più.» Girò il disco. Nel suo tono di voce c'era una certa rassegnazione, pensò Szara, come quella di una donna che teme un battibecco con il macellaio ma sa che è inevitabile. «La verità?» «Sì, perché no?»
«Ho... be', che ho fatto? Non ho disertato. Immagino di essere scappato.» «Non dice sul serio. Davvero?» «Sì.» Lei rimase in silenzio per un istante, riflettendoci. «Scappato a Berlino? È qui che la gente si rifugia, generalmente?» «Mi sono trovato in un labirinto. Ho imboccato il passaggio aperto.» «Se lo dice lei.» Sembrava dubbiosa. Szara spense la sigaretta nell'acqua della vasca, posò il mozzicone sul bordo della vasca, tolse il tappo e osservò l'acqua grigia vorticare sopra lo scarico. «Dovrò riempire un'altra vasca» disse. «Se vuole le porto un bicchiere di vino. E lei potrà parlarmi dei suoi viaggi. Sempre che sia consentito.» «Tutto è consentito, a questo punto.» Scoppiò a ridere. «Che c'è?» «Niente, davvero.» Rise di nuovo. Era come se un genio fosse uscito dalla lampada. La mezzanotte era passata da tempo quando scesero le scale in punta di piedi e andarono in cucina, un locale stretto dal soffitto alto e dalle porcellane consumate da anni di pulizie. Prepararono altissimi tramezzini con formaggio, burro e cetrioli e riattraversarono di soppiatto i tappeti Baluchi come due ladri. Szara si adocchiò di sfuggita in uno specchio: rasato, pettinato, con una vestaglia di raso rosso dal bavero a scialle e un gigantesco tramezzino in bilico su un piatto. Era come se, precipitando a testa in giù, avesse imboccato una porta aperta e fosse atterrato in paradiso. Di ritorno nel rifugio di Nadia, si sedettero sul tappeto vicino al fuoco morente mentre Serjoža riposava sulle zampe incrociate nella vigile attesa di una porzione della preda. Szara guardò Nadia avventarsi sul suo tramezzino come una seria mangiatrice russa, sporgendo la testa sul piatto finché i capelli le nascosero il volto. Non riusciva proprio a smettere di guardarla. Lei apparentemente lo ignorava, forse per abitudine (dopotutto, il lavoro di un'attrice era quello di farsi guardare); ma Szara non voleva fare la figura dello stupido guardone adolescente. Cercò di essere più sottile, ma era una causa persa e lo sapeva. "È un'opera divina" pensò: gli ondivaghi capelli color guscio di mandorla, il fragile azzurro degli occhi, i lineamenti, le superfici, la luminosità. Si rese conto che non esistevano parole adatte. Soltanto ciò che lui provava e l'impulso di assicurarsi continuamente di
aver visto ciò che aveva visto. D'un tratto lei alzò gli occhi e lo guardò con espressione vacua, masticando, finché Szara si rese conto che aveva atteggiato il volto a una ragionevole imitazione della sua stessa espressione. Distolse lo sguardo. «Sì?» chiese lei inarcando un sopracciglio. «Niente.» Gli versò il vino nel bicchiere. «Il generale arriverà da un momento all'altro?» domandò Szara. «Dovrò nascondermi in un armadio?» «Il generale è in Polonia» rispose lei. E anche se fosse qui, lei non dovrebbe nascondersi. Krafic viene a trovarmi con i suoi amichetti, Lara Brozina con suo fratello. Li conosce, in quello che potremmo definire uno scenario diverso. Ce ne sono altri. Una piccola colonia russa, capisce: intellettuali rifugiati, liberi pensatori, pittori mattoidi e simili. Il generale ci chiama "un antidoto a Frau Lumplich".» «Chi sarebbe?» «Un personaggio di sua invenzione. "Madame Moltitudine", si potrebbe dire in russo.» «Un generale illuminato. Un generale tedesco illuminato.» «Ne esistono» disse. Si spazzolò via le briciole dalle mani e allungò un pezzo di tramezzino a Serjoža, che inarcò il collo in avanti, lo prese educatamente fra le piccole zanne anteriori e poi lo deglutì. Nadia si alzò e prese una fotografia incorniciata dal comodino accanto al letto. «Il generale Walter Boden» disse. Un uomo alle soglie dei settant'anni, valutò Szara. Un volto scarno e ascetico sotto un cranio pelato, segnato da profonde rughe di preoccupazione, la bocca ridotta a un'unica, breve linea. A un certo punto, in una vita che aveva trasformato in pietra il suo volto, qualcosa l'aveva divertito. In modo permanente. «Straordinario» disse Szara. «Mi fa piacere che l'abbia notato» disse Nadia in tono sentito. «Unendo questa foto a ciò che lei mi ha detto, ne devo arguire che non sia molto amato dai nazisti.» «No. Sanno quello che lui pensa di loro; nel mondo del generale, l'espressione "indegno del mio disprezzo" è presa alquanto alla lettera. Tuttavia è un uomo ricco, molto, molto ricco, e per questo lo rispettano. E la sua posizione presso lo stato maggiore non è secondaria, anche se lui la definisce "la stanzetta della domestica nella tana del leone". I suoi amici fanno parte della vecchia aristocrazia, sono i Metternich e i Bismarck, principi e
conti, proprietari terrieri prussiani. Hitler li odia, ha la bava alla bocca perché non può toccarli; occupano due potenti fortezze tedesche, l'esercito e il ministero degli Esteri.» «Fortezze. Resisteranno, se prese d'assalto?» «Staremo a vedere.» "Non devi più pensare a certe cose" si rammentò Szara. «C'è un altro ceppo per il fuoco?» chiese. Le braci erano rosso scuro. «No. Non prima di domattina. Si è prigionieri della servitù, sotto certi aspetti.» «Ma ha fatto molta strada dal passaggio Rosenhain e da quel terribile teatrino.» Nadia fece segno di sì con la testa. Szara la fissò, poi si costrinse a distogliere lo sguardo. Lei sbadigliò, sfilò un piede dalla pantofola e lo incastrò sotto il ginocchio dell'altra gamba. «Come vi siete conosciuti?» chiese Szara. «A un ricevimento. Siamo usciti a cena alcune volte. Abbiamo chiacchierato fino a notte fonda. Lui parla russo in modo passabile, lei sa bene cosa significa, soprattutto quando non hai un paese in cui tornare. Una strana storia d'amore. Mi aspettavo l'inevitabile proposta, "un fine settimana rilassante in campagna", ma non è mai arrivata. Una sera, al ristorante, mi ha semplicemente detto: "Nadia, ragazza mia, i generali e le attrici non sono una novità a Berlino. Un cliché dei locali notturni. Ma vieni lo stesso a casa mia, e vedi se ti piace". Io l'ho fatto. E qui dentro ho domandato: "Di chi è questa camera?". Perché avevo già visto la sua, e ogni cosa era palesemente nuova. "Credo che sia tua, se ti piace" mi ha risposto. Non era quello che mi aspettavo, e sono rimasta senza parole. Quel tappeto persiano lungo e stretto, quello accanto alla sua mano, era per Serjoža. All'improvviso mi sono messa a piangere... nel profondo, non volevo che mi vedesse. E la discussione è finita lì. Sono venuta a vivere in questa casa, ed è stata una specie di salvezza; ho smesso di fare quelle altre cose, di frequentare quella gente disgustosa. E adesso la mia vita è questa. Quando lui mi vuole vedere, io sono qui. Mi siedo di fronte a lui a cena, conversiamo, il mio compito è essere esattamente ciò che sono. Qualsiasi affettazione, qualsiasi tentativo di diventare quella che immagino desideri, gli spezzerebbe il cuore. Abbiamo una nostra vita, andiamo... come si dice?... usciamo in società. Dai suoi amici. A volte in campagna, in grandi tenute. In Germania la vita civile prosegue in luoghi simili, più o meno come fa negli scantinati di Mosca. Ma ovunque andiamo, io sono sempre al suo fianco.
Al suo braccio. Ora, potrei (e naturalmente lo farei, non ci sarebbe nulla di più facile) far credere al mondo che sia stato un amante sublime. Qualche piccolo segnale, e la gente comincerebbe a parlare. Se lui lo desiderasse, non sarebbe chiedere troppo. Ma non lo desidera. Non gli interessa quello che pensa la gente. Non sono qui per la sua vanità, per la sua reputazione. Sono qui perché gli fa piacere avermi qui.» Era arrossita in volto; bevve l'ultimo sorso di vino nel bicchiere. Quando Szara incrociò il suo sguardo vi scorse rabbia e dispiacere, e tutto il coraggio e il senso di sfida che era stata in grado di chiamare a raccolta. Non che fosse travolgente, non lo era; ma era tutto quello che possedeva. «E che Dio la maledica se è venuto per rimettermi al lavoro, qualsiasi cosa abbia raccontato. Perché non lo farò. Non tradirò quest'uomo nel modo in cui volete. Andrò dove nemmeno il vostro potere mi potrà raggiungere. E sappiamo entrambi di cosa sto parlando.» Szara trasse un respiro profondo e lasciò che l'aria fra loro si calmasse. «Le sto dicendo la verità» disse quindi consultando il suo orologio «dalle dieci e mezza di ieri sera. Da quasi sei ore. Per come mi stanno andando le cose negli ultimi tempi, ho il diritto di essere fiero anche di così poco.» Nadia abbassò gli occhi. Szara si alzò e attraversò a piedi nudi il soffice tappeto fino a un armadietto ricoperto di specchi su cui erano posati dei bicchieri e un secchiello d'argento per il ghiaccio. Aprì l'antina, prese una bottiglia di Saint-Estèphe, afferrò un cavaturaccioli, stappò il vino e riempì i loro bicchieri. Nadia, nel frattempo, aveva trovato un giornale, che stava accartocciando e gettando nel fuoco. «Se non altro, sembra caldo» disse. «Mi stavo chiedendo» disse Szara «che ne è stato di quelli a Parigi. Perché se lei li avesse informati di una relazione intima con un ufficiale dello stato maggiore, sarebbero diventati... curiosi. Come minimo.» «E sarebbe successo qualcosa di terribile. Perché anche se avessi cercato di nascondere ogni cosa, non mi fido dei miei amichetti qui a Berlino. Sono costretti a improvvisare da troppo tempo, e non tutti gli esseri umani ne escono rafforzati.» «Pochissimi.» «Be', per me c'è solo una via di fuga, ed ero pronta a imboccarla. Mi ero rassegnata all'idea. All'inizio, quando riuscii a fuggire dalla Russia e venni a vivere a Berlino, quella gente si mise in contatto con me. Mi minacciarono, ma io diedi loro molto poco, soltanto qualche pettegolezzo e quello che volendo avrebbero potuto leggere sui giornali. Ma poi calarono una seconda carta. "Suo fratello Saša è in un campo di lavoro" dissero "dove merita
di essere. Ma considerate le circostanze, gode di tutti gli agi possibili: lavora come impiegato in un locale riscaldato. Se vuole che questa situazione continui, dev'essere produttiva. Dipende da lei."» «E lei fece il suo dovere.» «Sì. Lo feci. In esilio non badavo molto a ciò che combinavo con la mia vita, poiché avevo scoperto che la cosa non mi sfiorava. Forse la Russia c'entrava in qualche modo: essere sensibili ma niente affatto delicati è una strana forza, o debolezza, o comunque la voglia chiamare. Ma poi ho conosciuto quest'uomo, e all'improvviso è stato come se mi fossi destata dopo un lungo sonno. Ogni piccola cosa era importante: il tempo, la posizione di un vaso su un tavolo, un incontro con qualcuno e il desiderio di riuscire gradita. Avevo eretto dei muri, e adesso crollavano. E a questo, lo sapevo, non sarei sopravvissuta. Non per molto. Non potevo più fare ciò che avevo fatto per coloro che mi pagavano, e una volta che avessero cominciato a mettermi alle strette sapevo che avrei avuto una sola via d'uscita. E così, per come la vedevo allora, non mi restava molto da vivere. Eppure ogni giorno era intenso, e io fremevo di vita. Dicono che sia l'unico dono che esista, e io sono giunta a capirlo con tutto il mio cuore. Non ho mai pianto così a dirotto o riso così tanto come in quelle settimane. Forse era una forma di preghiera, perché quello che è accaduto in seguito è stato un miracolo. Non conosco altro modo di descriverlo. «È successo agli inizi di agosto. Un uomo è venuto a trovarmi. Non qui. A teatro, come fece anche lei. Era chiaro che non sapeva nulla del generale. Un uomo spaventoso. Capelli biondi ondulati, occhiali spessi, un ometto tozzo e malvagio, privo di qualsiasi pietà. E più che altro voleva parlare di lei. Qualcosa era andato storto, qualcosa di molto grave, perché da allora non è successo più niente. Niente soldi, nessuna pretesa, nessun corriere, nulla.» Fece ruotare il bicchiere fra le mani, osservando la luce dei giornali in fiamme riflessa sulla superficie rossa del vino. «Non ho idea di cosa sia accaduto» soggiunse. «So soltanto che mi ha salvato la vita. E che lei sembrava esserne la causa.» Szara si destò in una sorta di paradiso. Non aveva idea di come fosse arrivato sul letto di Nadia ma era proprio lì, il volto adagiato sul morbido copriletto, il fianco leggermente dolorante per aver dormito sul nodo della cintura della vestaglia. Era in paradiso, decise, perché il letto profumava esattamente come il paradiso, o quanto meno il suo paradiso, sarebbe do-
vuto profumare: l'essenza usata da lei, che gli ricordava la cannella, unita a sapone, vino, fumo di sigaretta, alle ceneri di un fuoco ormai spento e all'odore dolciastro di un levriere russo ben lavato. Szara credeva di poter distinguere quello della stessa Nadia, dolce in un modo diverso, umano. Per un po' rimase disteso immobile, sospeso nel buio più assoluto, e inspirò. Quando si sentì scivolare di nuovo nel sonno, si costrinse a riaprire gli occhi. Una trapunta lavorata a maglia era ammonticchiata sul divano: dunque era lì che lei aveva dormito. L'abito di Szara, apparentemente lavato dalle domestiche, era appeso a una gruccia sulla manopola della porta del bagno, e i suoi altri indumenti erano ordinatamente impilati su un cassettone. Miracolosamente puliti e asciutti. Szara si drizzò faticosamente a sedere. Un ritorno dal regno dei morti, ecco quello che sembrava. Tutte quelle notti in Polonia passate su una coperta stesa a terra, seguite da ore inquiete su un sottile materasso nell'appartamento di Kovno, circondato da gente che tossiva, che parlava a mezza voce. Ne sentiva ogni singolo minuto nelle ossa. Sganciò la chiusura dell'imposta bianca che copriva la metà inferiore della finestra e l'aprì. Un giardino autunnale. Circondato da alte mura. Le foglie morte avevano attraversato i sentieri e si erano accumulate ai piedi di una siepe. Nadia era seduta a un tavolino di ferro eroso dalle intemperie. Stava leggendo, il volto nascosto alla vista di Szara, una mano che penzolava sopra il cane coricato al suo fianco. "Sono in Russia?" Intabarrata in un lungo cappotto nero e una sciarpa di lana rossa, Nadia era assorta nella sua lettura. Il vento sollevava i suoi capelli color autunno, le foglie cadevano vorticando dagli alberi e crepitavano sui sentieri di ghiaia; il cielo era in guerra, e torri spezzate di nubi grigie, malconce e sfilacciate dal vento, sfilavano davanti a un sole pallido. Avrebbe piovuto di sicuro. Il suo cuore si struggeva per lei. Più tardi, Szara le si sedette davanti e vide che stava leggendo L'armata a cavallo di Babel'. Il vento era fresco e umido, e lo costrinse a stringersi la giacca sul petto. Rimasero a lungo così, senza dire nulla. E lei non distolse lo sguardo, non gli negò i suoi occhi: "Se è questo che desideri" sembrava dire "poserò per te". Non toccò nulla, non cambiò nulla, non si difese. Il vento le soffiava i capelli sul volto, Serjoža sospirava, la luce mutava mentre le nubi attraversavano il sole, ma lei non si mosse. E lui cominciò a capire di averla fraintesa. Quell'immobilità non era sempli-
ce padronanza di sé: quello che le leggeva negli occhi era precisamente ciò che c'era nei suoi. Era davvero illusa fino a quel punto? Al punto di desiderare un individuo così smarrito, così inutile? Era cieca? No. Lui se n'era innamorato l'istante in cui era entrato in quel camerino. Il pensiero che potesse essere lo stesso anche per lei non l'aveva mai sfiorato, non gli era mai passato per la mente. Ma forse le cose andavano in quel modo: le donne lo sapevano sempre, gli uomini mai. O forse no, forse funzionava tutto in qualche altro modo. In realtà non gli importava. Ora capiva che tutto era cambiato. E ora capiva che cosa, di preciso, gli era stato offerto. Peccato, si disse, che non avrebbe potuto accettare. Erano entrambi dei reietti, abbandonati insieme su un'isola deserta: in quel caso, il giardino di una villa in stile fiorentino in Schillerstrasse. Ma da qualche parte, al di là di quelle alte mura, una banda militare stava suonando una marcia, e il generale, si disse Szara, sarebbe presto rientrato dalla guerra. Soltanto per un istante immaginò una storia d'amore in fuga: le detestabili camere d'albergo, la polizia segreta, i predatori. No. Lei apparteneva alla sua immaginazione, non alla sua vita. Un ricordo. Conosciuta nel modo sbagliato, nel posto sbagliato, nell'anno sbagliato, in tempi in cui l'amore non era possibile. Un ricordo, ed è tutto. Un'altra cosa che non accadeva in quei giorni. «Quando te ne andrai?» chiese lei. «Oggi?» «Domani.» Per un rapido istante, Szara divenne un veggente: poté distinguere la domanda mentre prendeva forma nella mente di Nadia. Lei si sporse sul tavolino finché il suo volto gli giunse vicinissimo, e lui vide che aveva le labbra screpolate dal vento e un segno rosso sulla linea della mandibola... e all'improvviso le prospettive si confusero, i lineamenti divennero troppo vicini per essere belli. E quando parlò, la sua era una voce che lui non conosceva, così sommessa che riusciva a malapena a udire ciò che diceva. «Perché è successo?» «Non lo so» rispose Szara. «Davvero.» Lei strinse le labbra e annuì leggermente. Era d'accordo. Non c'era risposta. «Nessuno ci costringe a fare nulla, sai» disse lui. Il volto di Nadia mutò, con grazia ma completamente, finché Szara si ritrovò a fronteggiare l'occhiata più interrogativa della sua intera esistenza. «No?»
In tutta la sua vita non era mai stato l'amante che fu per lei. Attesero il tramonto, e fu soltanto il primo di una serie di consensi che fluirono spontanei. Szara non poteva uscire in strada e Nadia lo sapeva, pertanto era inutile parlarne. Si limitarono a trascorrere una giornata da Diciannovesimo secolo, leggendo, parlando, tagliando grappoli di bacche autunnali da un cespuglio per farne un ornamento da tavolo, evitando la servitù, giocando con il cane, toccandosi soltanto per caso e di rado, senza che nessuno dei due rivelasse la propria commozione. Se vivere in tempi di guerra imponeva che una storia d'amore venisse misurata in ore e non in mesi, scoprirono che una storia d'amore era qualcosa che poteva essere compresso in quel modo. Avrebbero potuto guardare il Tiergarten da una qualsiasi delle finestre sul davanti della villa a due piani, osservando la vita quotidiana di Berlino: gente che passeggiava e si attardava, ufficiali e coppiette, vecchi che leggevano il giornale sulle panchine. Ma non lo fecero. Il mondo privato era più adatto a loro. Però non eressero castelli di sabbia, non finsero che il presente fosse diverso da quello che era, e cercarono di parlare del futuro. Era difficile, tuttavia. I piani di Szara si concentravano vagamente sulla Danimarca; da lì avrebbe improvvisato. Non aveva idea di come si sarebbe potuto guadagnare da vivere; non riusciva a pensare a un luogo in cui le lingue in cui scriveva, il russo e il polacco, gli sarebbero servite a qualcosa. Gli intellettuali rifugiati vivevano nella penuria: a volte la piccola rivista pagava, altre volte no. Gli ex aristocratici davano feste, tutti si ingozzavano più che potevano. Ma a lui era negata persino quell'incerta esistenza: era un fuggitivo, e le comunità dei rifugiati politici erano le prime in cui l'avrebbero cercato. Ovviamente non poteva tornare a Parigi, era troppo pericoloso. Triste, perché essere lì con lei... Triste, perché il fatto stesso di conoscerlo la metteva in pericolo. Questo, Szara non lo disse. Ma lei lo sapeva. Aveva visto abbastanza della vita sovietica per percepire la vulnerabilità in tutte le sue forme conosciute. E così capiva che una persona agiva come doveva agire. La Realpolitik era qualcosa di alchemico. Cominciava con i politici e i loro intellettuali, quell'idea di fare quello che si doveva fare, ma aveva una tendenza migratoria, e prima di rendertene conto la ritrovavi a letto insieme a te. Tuttavia, convennero, non bisognava perdere le speranze. Gli esseri umani sopravvivevano alle più tremende catastrofi: si allontanavano dall'incendio con i capelli bruciacchiati, perdevano il treno che precipitava nello strapiombo. Entrambi sentivano che la divina agenzia che teneva quei regi-
stri doveva loro un po' di fortuna. C'erano ancora luoghi al mondo in cui si potevano far perdere le proprie tracce, bisognava soltanto trovarne uno. E come si faceva di preciso a condurre un branco di pecore? Era poi così difficile? Alla fine si rifiutarono di permettere al futuro di rovinare la loro giornata, decisione che li rese due eroi, di basso rango ma nondimeno eroi. E avevano il passato in cui rifugiarsi, rendendosi conto quasi all'istante che le esistenze che avevano vissuto creavano, in mancanza d'altro, aneddoti lunghi e ridondanti. Scoprirono che in diverse occasioni non si erano incontrati per pochi minuti: a Mosca, a Leningrado. Che erano stati negli stessi appartamenti, che avevano conosciuto alcune delle medesime persone; i loro sentieri attraverso la foresta innevata s'intersecavano di continuo. Che cosa sarebbe accaduto se si fossero incontrati? Tutto? Niente? Qualcosa di sicuro, decisero. Non avevano molta fame mentre il pomeriggio scivolava lentamente verso la sera, e appena dopo il calare del buio piluccarono una cena leggera. Nella sala da pranzo, in compagnia di un ticchettante orologio a pendolo che caricava ogni silenzio di melodramma, la loro conversazione fu alquanto forzata e leggermente tesa. «Se non temessi di ferire il generale, avrei versato della zuppa in quel mostro già da tempo» disse Nadia. Si ritirarono presto. Szara, per salvare le apparenze, in una camera degli ospiti, Nadia nel suo rifugio blu e bianco. Quando i rumori in cucina si spensero e la casa divenne silenziosa, Szara salì la scalinata di marmo. Accesero un fuoco, spensero le luci, suonarono dischi sul Victrola, bevvero vino. Nadia lo sorprese. Il modo in cui si muoveva nell'universo quotidiano, delicata e aerea, la faceva sembrare incorporea, da stringere con estrema delicatezza. Ma non era così. Tendendo l'alluce come una ballerina, proiettò con un calcio i pantaloni del pigiama di seta sul lato opposto della stanza, poi scivolò fuori dalla camicia e posò per lui. Era morbida e incantevole e formosa, con una carnagione liscia e tesa colorata dal fuoco. Per un attimo, Szara si limitò a guardarla. Aveva immaginato che unendosi le loro anime si sarebbero levate fino a chissà quale romantica altitudine, invece le saltò addosso come un lupo e lei strillò come un'adolescente. E come se la spassarono. Molto più tardi, quando non avevano semplicemente più la forza di proseguire, si abbandonarono a un sonno profondo, ancora premuti uno all'al-
tra, le lenzuola ingarbugliate fra le gambe, chiudendo gli occhi nel bel mezzo della più incantevole e sconcia delle conversazioni. Quando si svegliarono non era ancora l'alba. Lui allungò la mano verso di lei, e lei fletté i muscoli in preda al piacere, lentamente, come se si stesse stiracchiando, e liberò un sospiro. Szara la guardò di nascosto, una forma pallida nel buio, gli occhi chiusi, la bocca aperta, i seni che si sollevavano e riabbassavano. All'improvviso capì che a volte era impossibile soddisfare il desiderio fino in fondo. Si rese conto che non ne avrebbero mai avuto abbastanza l'uno dell'altra. Ciò nonostante, si disse, potevano sperare che tutto andasse per il meglio. Potevano provarci. Potevano creare un inizio. Szara avrebbe potuto strisciare fuori dal letto all'alba e uscire nel gelo del mondo, ma non lo fece. Rubarono un altro giorno, e stavolta non attesero il tramonto. Scomparvero nel bel mezzo del pomeriggio. Alle otto di sera una domestica posò una zuppiera sul lungo tavolo della sala da pranzo con l'orologio a pendolo. Ma non si presentò nessuno e alle otto e mezza la riportò in cucina. Szara se ne andò il pomeriggio del giorno dopo. Chiamarono un taxi e lo aspettarono nell'atrio. «Ti prego, non piangere» disse lui. «Non piangerò» promise lei mentre le lacrime le scendevano sul viso. Il taxi diede due colpi di clacson, e Szara uscì. La Gestapo lo catturò un'ora dopo. Non riuscì nemmeno a uscire da Berlino. A suo onore, Szara se lo sentiva. Non entrò subito alla Lehrter Bahnhof ma vagò per qualche minuto in strada, cercando di calmarsi: un viaggiatore come tanti, leggermente annoiato, leggermente infastidito, un uomo che doveva prendere il treno per Amburgo per svolgere una commissione prosaica e profondamente banale. Ma gli addetti al controllo passaporti sulle scale che conducevano al binario non gradirono il suo aspetto. Un poliziotto di Berlino prese i documenti d'identità di Kringen, cercò il nome su un elenco dattiloscritto, guardò dietro le spalle di Szara, fece un cenno con gli occhi e con il capo e due uomini in borghese gli si affiancarono. Furono molto corretti: «Potrebbe seguirci un istante, per favore?». Soltanto la forza di volontà e l'orgoglio impedirono a Szara di afflosciarsi sulle ginocchia mentre il sudore gli sprizzava dalle radici dei capelli. Uno degli uomini gli tolse di mano la
borsa, l'altro lo perquisì; poi lo fecero marciare, sotto gli sguardi curiosi dei passanti, verso la postazione di polizia della stazione. Quando barcollò, uno dei detective lo afferrò per un braccio. Lo condussero alla fine di un lungo corridoio e oltre una porta priva di contrassegni. Un ufficiale delle SS era seduto dietro una scrivania con una cartella aperta davanti a sé. Leggendo a rovescio, Szara riuscì a distinguere un lungo elenco di nomi e paragrafi di descrizioni su un foglio giallo di carta per telescrivente. «Sull'attenti» disse l'uomo in tono glaciale. Szara obbedì. L'ufficiale si concentrò sui documenti di Kringen lasciandolo sui carboni ardenti, seguendo la procedura tipica. «Herr Kringen?» disse finalmente. «Sì.» «Sì, signore.» «Sì, signore.» «Cos'ha usato per cancellare la data di nascita? Limone? Acido ossalico? Non urina. Spero per il suo bene di non aver toccato il suo piscio.» «Limone, signore» disse Szara. L'ufficiale annuì. Picchettò sul nome di Kringen con la piccola gomma di una matita. «Il vero Herr Kringen era andato all'ospedale luterano per farsi rimuovere un callo dal piede. E mentre quel pover'uomo giaceva in un letto d'ospedale, un ladruncolo gli ha rubato i documenti. È stato lei?» «No, signore. Non sono stato io. Ho comprato il passaporto da un inserviente dell'ospedale.» L'ufficiale annuì. «E lei sarebbe?» «Mi chiamo Bonotte, Jean Bonotte. Sono di nazionalità francese. Il mio passaporto è nascosto nella fodera della giacca.» «Me lo dia.» Szara si tolse la giacca e cercò di strappare le cuciture con mani tremanti. Ci volle del tempo, ma alla fine il grosso filo cedette. Szara posò il passaporto sulla scrivania e si rimise la giacca, da cui il lembo scucito della fodera penzolava in modo ridicolo sul retro della coscia. Uno dei detective alle sue spalle ridacchiò. L'ufficiale sollevò la cornetta del telefono e chiese che gli chiamassero un numero. Voltò le pagine del passaporto di Bonotte con la gomma della matita. Mentre aspettava che la chiamata venisse effettuata, domandò: «Che ragione aveva di venire in Germania? Un impulso di follia?». Il detective rise. «Sono fuggito dalla Polonia, ma non riuscivo a trovare il modo di lasciare la Lituania.»
«E così ha ottenuto il passaporto di Kringen ed è venuto con i Volksdeutschen da Riga?» «Sì, signore.» «Ma guarda un po' che furbo» commentò l'ufficiale. Osservava attentamente Szara per la prima volta da quando era entrato, e diceva sul serio. Lo portarono alla Columbia Haus, il quartier generale della Gestapo a Berlino, e lo rinchiusero in isolamento. Era una cella piccola ma pulita, con una brandina e un secchio, una finestra con una pesante griglia di ferro a tre metri d'altezza e una lampadina appesa al soffitto. Szara immaginava che non fossero del tutto sicuri di ciò che avevano in mano; non il genere di pesce piccolo a cui si gridava: «Spia! Verrai giustiziato!», ma forse l'articolo genuino, che doveva essere affrontato con calma e in modo molto diverso. Forse con delicatezza, forse no. Se la decisione era «no», il passo successivo non era un segreto. Szara poteva udire le urla provenienti da altre parti dell'edificio; lo nauseavano e indebolivano la sua volontà di resistenza, ottenendo precisamente il loro scopo. Abramov aveva illustrato, con palese disgusto, quella possibilità durante l'addestramento di Szara: «Nessuno resiste alla tortura, non provarci nemmeno. Di' loro quello che devi dire, è compito nostro impedire che tu sappia troppo. Ci sono due obiettivi che devi cercare di raggiungere. Primo: meno dici nelle prime quarantotto ore, meglio è, poiché così facendo ci concedi del tempo; ma in ogni caso, fornisci loro il materiale meno importante che hai. Sei soltanto un opportunista di infimo ordine costretto a lavorare per il governo: disprezzabile, ma non importante. Secondo: cerca di segnalarci che sei stato catturato. È importantissimo. Possiamo proteggere una rete dai danni più gravi, chiudere tutto quello che hai toccato e salvare i tuoi collaboratori mentre cerchiamo di sfruttare i canali giusti per liberarti, o quanto meno per evitare che ti torturino. I segni cambieranno a seconda delle circostanze: una variazione tecnica nelle trasmissioni radiotelegrafiche, o un'improvvisa scomparsa mentre sei in missione in un territorio ostile. Ma ci sarà certamente un segnale stabilito e un modo appropriato per farlo arrivare a destinazione. Non dimenticare che in questa organizzazione c'è sempre una possibilità, che possiamo fare quasi tutto. Se vieni catturato devi aggrapparti alla speranza come un marinaio finito in mare si aggrappa a un pennone». Szara chiuse gli occhi e appoggiò la nuca alla fredda parete di cemento. "No, Sergej Jakobovič" si rivolse all'anima del defunto Abramov "questa
volta no." Speranza, disperazione: tutte quelle fantasie non erano più pertinenti. Alla fine aveva commesso l'errore a cui non si poteva ovviare. Non aveva compreso fino in fondo le capacità, la grandezza dei sistemi di sicurezza tedeschi: non finché aveva visto il foglio giallo per telescrivente con il nome «Kringen» scritto sulla colonna sinistra. L'identità che si era procurato a Parigi non avrebbe retto al loro esame approfondito. Ricapitolando gli ultimi due anni della sua vita (Khelidze, Renate Braun, Abramov, la rete OPAL, de Montfried e gli inglesi per finire con l'incarico nella Polonia orientale) Szara si vedeva come un uomo disposto a fare quasi di tutto pur di restare vivo. Non se l'era cavata male, aveva resistito a lungo in confronto degli altri: gli intellettuali, i vecchi bolscevichi, gli ebrei, i comunisti stranieri. Era vissuto più a lungo di quasi tutti gli altri, si era divincolato, aveva mentito e macchinato, ed era sopravvissuto. Ma non era destino che ciò continuasse, e questa era la prospettiva che Szara fronteggiò. Sospettava che ciò che era stato sul punto di fare a se stesso nelle paludi del Pripjat' il giorno in cui aveva varcato il confine con la Lituania avesse adombrato il suo futuro: in qualche modo, aveva percepito che stava vivendo i suoi ultimi giorni. Ma aveva leggermente frainteso il cattivo presagio; non era lui a essere stanco della vita. Era la vita a essersi stancata di lui. E nel profondo del cuore, Szara si chiese se non fosse venuto a Berlino sapendo che avrebbe trovato il modo di arrivare fino alla Tščerova, un inconscio appello al fato perché gli lasciasse amare appassionatamente un'altra donna prima di abbandonare questa terra. Se era così, il suo desiderio era stato esaudito, e ora era giunto il momento di pagare il costo inevitabile del baratto. Szara si meravigliò della freddezza del suo cuore. Erano finiti i tempi dei sogni e delle illusioni: ora vedeva il mondo e se stesso con assoluta chiarezza. Restavano certi obblighi (proteggere la Tščerova, principalmente), ma ne sorgevano degli altri, e ora avrebbe pensato a come sacrificarsi nel modo più efficace. "La forza" pensò "arriva troppo tardi per certi uomini." L'interrogatore si chiamava Hartmann. Era un Obersturmbannführer, un maggiore, un uomo ben nutrito dal volto pallido e dalle mani piccole e curate, che gli si rivolgeva in toni educati. Hartmann non era, si rese conto Szara, che la valvola d'aspirazione del macchinario dell'informazione. Esisteva per acquisire notizie: prima di essere chiamato al dovere dal partito nazista doveva essere stato un avvocato o un funzionario di qualche siste-
ma giudiziario. Non elaborava le informazioni. Quello accadeva altrove, molto al di sopra di lui nell'ordine gerarchico, in un consiglio amministrativo o un direttorato che prendeva le decisioni. Tanto per cominciare, Hartmann mise in chiaro che se fossero stati sinceri l'uno con l'altro tutto sarebbe andato per il meglio. Insinuò, senza dirlo esplicitamente, che il suo lavoro sarebbe stato facilitato se Szara non fosse stato condotto nei sotterranei; erano entrambi in grado di tener fede ai propri doveri (la confessione per Szara, la verifica di tale confessione per Hartmann) restando al di fuori di certe misure. Quelle cose appartenevano a un altro genere di persone. Szara non oppose resistenza. Collaborò. Entro il pomeriggio del primo giorno fu costretto ad ammettere che non si chiamava Jean Bonotte. Hartmann gli aveva fornito carta e matita e gli aveva chiesto di scrivere un'autobiografia, cominciando dall'infanzia a Marsiglia: nomi e luoghi, scuole e insegnanti. «Non posso scriverla perché non sono cresciuto a Marsiglia» disse Szara. «E non mi chiamo Jean Bonotte.» «Dunque il passaporto è falso» disse Hartmann. «Sì, Herr Obersturmbannführer.» «Allora mi dirà il suo vero nome? E la sua nazionalità, se non è francese?» «Lo farò» rispose Szara. «Il mio vero nome è André Aronovič Szara. Per quanto riguarda la mia nazionalità, sono un ebreo polacco nato quando la Polonia era una provincia della Russia. Nel 1918 vivevo a Odessa, e così sono diventato un cittadino dell'Unione Sovietica e in seguito un giornalista della "Pravda".» Hartmann era perplesso. «È stato un giornale a mandarla a Berlino sotto falso nome? Potrebbe chiarirmi questo punto?» «Sì. Mi sono procurato la falsa identità di mia iniziativa, e il giornale non sa più nulla di me da quando ho lasciato la Polonia.» Hartmann esitò, e Szara percepì il suo disagio. Lo vide rifugiarsi nei suoi appunti, ma questi erano ormai completamente sbagliati. Il francese intrappolato dalla parte sbagliata del fronte era scomparso. Al suo posto c'era un russo, un individuo di cui intuiva l'importanza, catturato mentre fuggiva dall'URSS, sulla carta un paese alleato della Germania. Hartmann si schiarì la gola, un gesto che in lui tradiva irritazione. Doveva domandarsi se toccasse a lui occuparsi di una simile questione. All'improvviso avvertiva la presenza di una serie di preoccupanti problemi: la colpevolezza del prigioniero ai sensi delle leggi tedesche, la sua possibile estradizione, altri che
non riusciva nemmeno a immaginare. Tutti gravi, difficili, complessi, e in ultima analisi da risolvere in sede politica e non giudiziaria. Quello non sarebbe stato evidentemente un caso che gli avrebbero concesso di seguire; poteva mettersi in buona luce soltanto presentando le informazioni più precise ai suoi superiori. Afferrò la sua penna e voltò la pagina del taccuino. «Lentamente e con chiarezza» disse «a cominciare dal suo cognome. La prego di dirmi come si scrive.» Quella notte piovve a dirotto, e per Szara fu una benedizione. Gli ricordò che c'era un mondo al di fuori della sua cella, e gli spruzzi regolari alla finestra alta e sbarrata attutivano, pur non riuscendo a cancellarli del tutto, i suoni di una prigione della Gestapo. Il suo piano aveva avuto successo; Hartmann aveva concluso l'interrogatorio nella più assoluta correttezza. Szara sospettava che non si sarebbero più rivisti, e in effetti fu così. La sua strategia di rivelazioni senza sfide nasceva da un presupposto di base: non poteva essere sicuro di resistere a quelli che venivano eufemisticamente chiamati interrogatori intensivi. Temeva che avrebbe rivelato l'esistenza della rete OPAL, e che ciò avrebbe condotto inesorabilmente allo smascheramento di Nadia Tščerova. Doveva evitare i seminterrati di Berlino, e nel caso vi fosse arrivato anche quelli di Mosca. I tratti convenzionali del carattere tedesco comprendevano in primo luogo l'efficienza, ed ecco che l'avevano arrestato. Ma una componente fondamentale di quell'efficienza era l'accuratezza, e Szara avvertiva che questa si sarebbe potuta rivelare una possibile alleata. Ora che sapevano chi era, immaginava che avrebbero voluto da lui tutto ciò che fossero stati in grado di ottenere, essenzialmente informazioni politiche. Chi conosceva? Che tipo di persone erano? Come veniva stabilita di preciso la linea politica della «Pravda»? Quali personalità entravano in gioco? Da parte sua, Szara intendeva fare uso di quella che chiamava la difesa di Shāhrazād: finché li avesse incantati con i suoi racconti, non l'avrebbero giustiziato né rispedito in Russia. In un normale interrogatorio, in cui ogni dichiarazione suscitava domande, un soggetto disponibile a collaborare poteva portare avanti la discussione per mesi. Le speranze di Szara poggiavano sul fatto che la Germania era in guerra, e che in guerra accadevano imprevisti, fra cui catastrofi di ogni genere: invasioni, incursioni aeree, bombardamenti, fughe di massa, perfino negoziati e trattati di pace. Uno qualsiasi o tutti questi accadimenti avrebbero potuto avvantaggiarlo. E se ne avessero avuto abbastanza di lui e l'avessero rimandato in Russia, a quel punto gli re-
stava un'ultima mossa: avrebbe potuto farsi uccidere durante un tentativo di fuga dai tedeschi o dai russi, dai primi che gli avessero concesso la minima opportunità. Non era un gran piano, lo sapeva, ma nelle sue circostanze era tutto ciò che aveva. E forse avrebbe funzionato. Ma Szara non l'avrebbe mai scoperto, poiché c'era un tratto convenzionale del carattere tedesco che aveva tralasciato di inserire nell'equazione. Vennero a prenderlo dopo la mezzanotte, quando era impossibile non udire i suoni degli interrogatori della Gestapo e il sonno era fuori questione. Dapprima vi fu lo scatto di un cancello, poi dei passi che si avvicinavano in corridoio. Szara strinse il telaio della brandina con tutte le sue forze, ma i passi si arrestarono davanti alla sua cella e la porta si spalancò di colpo. Due agenti delle SS si ergevano nel fascio di luce accecante, due SS da manifesto, alti e biondi e pallidi nelle loro uniformi nere. Poi arrivarono i Raus! e tutto il resto, i sorrisi a trentadue denti, la condivisione silenziosa della grande barzelletta che soltanto loro capivano. Reggendosi con le mani i pantaloni privi di cintura, Szara si affrettò lungo il corridoio al meglio delle sue possibilità, strisciando i piedi poiché gli avevano tolto anche le stringhe delle scarpe. La sua mente era intorpidita, eppure i suoi sensi sembravano funzionare in modo indipendente: le due SS odoravano di palestra, un uomo chiuso in una cella di isolamento gemeva come se stesse sognando. Scesero diverse rampe di scale, arrivando finalmente in un ufficio bene illuminato e pieno di scrivanie, le cui pareti erano tappezzate di grafici e tabelle magnificamente disegnati. Un piccolo gnomo lo aspettava accanto a una balaustra; stringeva in mano un cappello bagnato che sgocciolava sul linoleum. Tenendo gli occhi bassi, Szara credette di distinguere l'orlo del pigiama che spuntava da una gamba dei pantaloni. «Ah» disse l'uomo in tono sommesso. «Herr Szara.» «Dovrà firmare per lui» disse l'SS più alto. «È quello che faccio» rispose l'uomo quasi fra sé. Alcune carte vennero estratte e posate su una scrivania. Lo gnomo svitò con cautela il cappuccio di una penna stilografica d'argento e cominciò ad apporre la sua firma piena di svolazzi in fondo a ogni pagina. «Abbiamo tutte le sue cose?» chiese mentre scriveva. L'uomo delle SS indicò la porta, accanto alla quale era stata posata la borsa da viaggio di Szara sovrastata da alcune buste. «Bene, venga con me» disse lo gnomo quando ebbe terminato di firmare. Szara si mise le
buste sottobraccio, afferrò la borsa e usò la mano libera per reggersi i pantaloni. «Avete per caso un ombrello?» domandò lo gnomo all'SS. «Le porgiamo le nostre scuse, mein Herr, ma ne siamo sprovvisti.» Lo gnomo sospirò rassegnato. «Buonanotte, allora. Heil Hitler. Grazie dell'assistenza.» Nel cortile illuminato a giorno, una piccola Opel verde attendeva sotto la pioggia con il cofano fumante. L'ometto aprì la portiera e Szara salì a bordo e si abbandonò sul sedile di pelle. L'acqua scorreva sul parabrezza e trasformava i raggi dei proiettori in fiumicelli dorati. L'ometto si mise al volante, accese il motore, chiese scusa, si sporse al di là di Szara e prese una Luger dal vano portaoggetti del cruscotto. «Se si astiene dal prendermi a pugni, gliene sarò profondamente grato» disse in tono formale. «E la prego di non gettarsi fuori dalla macchina: è dall'infanzia che non corro. A dire la verità, non correvo neanche allora.» «Posso chiederle dove siamo diretti?» Szara aprì le buste e si mise la cintura e le stringhe delle scarpe. «Certo che può» rispose lo gnomo scrutando nella pioggia «ma anche se glielo rivelassi non le direbbe nulla.» Con fare indeciso condusse la Opel attraverso l'ampio cortile, aprì con uno scatto del pollice un portatessera di cuoio, lo mostrò a una guardia e proseguì quando il cancello di ferro venne aperto. Alle loro spalle si udì un grido. «Cos'hanno da sbraitare?» «Dicono di azionare i tergicristalli.» «E va bene, va bene» brontolò lo gnomo mettendoli in funzione. «Sbatti un poveraccio giù dal letto a mezzanotte e cosa ti aspetti?» La Opel svoltò da Prinz-Albrechtstrasse in Saarlandstrasse. «Allora» soggiunse l'ometto «lei è quello che lavorava a Parigi. Lei sa cosa diciamo noi tedeschi, vero? "Dio vive in Francia." Un giorno o l'altro mi piacerebbe andarci.» «Sono sicuro che lo farà» disse Szara. «Devo proprio insistere, vorrei sapere dove siamo diretti.» Che lo gnomo gli sparasse pure. Le sue dita sfioravano la maniglia della portiera. «Siamo diretti in un posto vicino ad Altenburg. Ecco, il segreto è stato svelato.» «E lì cosa c'è?» «Lei fa troppe domande, se mi permette. Forse in Francia si fa così, ma non qui. Posso solo dirle che sono sicuro che ogni cosa verrà chiarita. È sempre così. Dopotutto lei non è ammanettato, e ha appena lasciato il posto peggiore in cui potesse trovarsi: questo non le dice nulla? È stato libe-
rato, dunque faccia il signore, se ne stia seduto tranquillo e pensi a qualche storiella divertente su Parigi. Ne avremo per qualche ora.» Procedettero, a giudicare dai cartelli stradali, verso sud, attraversando Lipsia nella direzione generale di Praga. Alla fine l'auto penetrò in un dedalo di stradine secondarie, e il motore cominciò a gemere sulle salite. In cima a una collina, la Opel s'immise nel cortile di una piccola locanda circondata dai boschi. C'era una sola luce che illuminava una stanza gialla appena sotto il tetto spiovente. L'uomo che aprì la porta della stanza gialla non era qualcuno che avesse già incontrato, Szara ne era certo. Eppure aveva un che di stranamente familiare. Era alto ed esile, sui trentotto anni, con pochi ciuffi di fragili capelli biondi pettinati con cura su un lato del cranio. Era sventuratamente privo di mento, e aveva un sorrisetto esitante, quasi di scuse, che suggeriva un'antica famiglia e un'educazione molto rigida: come se un ospite avesse appena rotto un vaso di enorme valore e il padrone di casa, temendo soltanto di tradire il suo scortese dolore, sorridesse giurando che non aveva importanza. «Prego, si accomodi» disse. La sua voce era forte e intelligente, e contrastava profondamente con l'aspetto fisico. Porse la mano a Szara e si presentò: «Sono Herbert von Polanyi». Ora Szara capiva, se non altro, la strana sensazione di averlo riconosciuto: Marta Haecht, descrivendo il commensale del dottor Julius Baumann al Kaiserhof, ne aveva tracciato un perfetto ritratto verbale. Szara lo stava evidentemente fissando, poiché von Polanyi inclinò leggermente la testa e disse: «Lei non sa chi sono, naturalmente». Non era del tutto sicuro di ciò che diceva: un tributo, immaginò Szara, alla favoleggiata onniscienza del NKVD. «No» rispose. «Ma le sono profondamente debitore, chiunque lei sia, per avermi fatto uscire da quel luogo orribile. A quanto pare, lei sa chi sono io.» «Sì, in effetti lo so. Lei è il giornalista sovietico Szara, André Szara. Collegato, o credo un tempo collegato, con una certa organizzazione sovietica a Parigi.» Von Polanyi lo guardò per qualche istante. «Strano, conoscerla di persona. Lei non può immaginare quanto l'abbia studiata, cercando di capire la sua personalità, di prevedere cosa lei e i suoi direttori avreste fatto in determinate circostanze. A volte temevo che avreste avuto successo, altre volte avevo il terrore che falliste. Il tempo che si spreca! Ma lei naturalmente lo sa. Eravamo collegati tramite il dottor Julius Baumann; io
ero il suo agente responsabile, come lo era lei. Due schieramenti nello stesso gioco.» Szara annuì, assorbendo la notizia come una rivelazione. «Non lo sapeva?» «No.» Il volto di von Polanyi avvampò di orgoglio. «Non è nulla.» Accantonò la vittoria con un gesto della mano. «Venga, per l'amor di Dio. Mettiamoci comodi: c'è del caffè pronto.» Era una stanza spaziosa con pochi mobili vecchi e solidi. Due divani erano sistemati perpendicolarmente rispetto alla finestra, e si fronteggiavano divisi da un tavolino. Von Polanyi, leggermente goffo e simile a una cicogna, si sistemò su uno dei divani. Indossava indumenti da campagna, pantaloni di lana e giacca di flanella con una cravatta larga e sobria. Un servizio da caffè era posato sul tavolino, e von Polanyi eseguì i vari rituali con piacere, armeggiando con le zollette di zucchero e il latte tiepido. «Questa è un'occasione eccezionale» spiegò. «È raro che due persone come noi s'incontrino. Le sue condizioni di salute sono buone, spero.» Il suo volto mostrava una sincera preoccupazione. «Non le hanno... fatto niente, vero?» «No. Sono stati molto corretti.» «Non sempre è così.» Distolse lo sguardo, un uomo che sapeva più di quanto gli conveniva sapere. «Posso chiederle» disse Szara «che ne è stato del dottor Baumann e di sua moglie?» Von Polanyi dimostrò la sua approvazione con un cenno del capo: era una questione che doveva essere chiarita immediatamente. «Il dottor Baumann, contro la volontà del ministero degli Esteri che, ehm, sosteneva il suo rapporto con l'URSS, è stato rinchiuso nel campo di Sachsenhausen. Certi individui hanno insistito perché ciò avvenisse, e non abbiamo potuto farci nulla. Vi ha trascorso due mesi prima che trovassimo il modo di intercedere. È stato maltrattato, ma è sopravvissuto. Fisicamente e, ne sono certo, psicologicamente. Oggi non lo troverebbe cambiato. Lui e sua moglie sono stati espulsi dalla Germania dopo la confisca dei loro beni, fra cui lo stabilimento Baumann, che ora appartiene al suo ex ingegnere capo. Ma se non altro sono al sicuro, e si sono stabiliti ad Amsterdam. Come ormai sa, le informazioni che il dottor Baumann vi forniva erano controllate da un ufficio del ministero degli Esteri. Erano tuttavia, e scenderò nei dettagli fra un momento, informazioni corrette. Al centimetro. Sicché, in ultima analisi, non siete stati ingannati. Sospettavate di esserlo?»
Szara rispose in tono meditativo: «I russi, Herr von Polanyi, sospettano sempre di tutti, a maggior ragione nell'ambiente spionistico. Posso dire che la buona fede di Baumann era messa costantemente in dubbio, ma mai seriamente contestata». «Be', significa soltanto che abbiamo fatto bene il nostro lavoro. Ovviamente, Baumann non aveva scelta: doveva collaborare. In un primo tempo siamo stati in grado di garantirgli in cambio la proprietà della fabbrica. In seguito, dopo la conquista della Cecoslovacchia, il partito nazista ha preso confidenza: gli eserciti del mondo non avevano marciato, ispirandosi alla legge americana sulla neutralità. A quel punto, l'obiettivo è diventato la sopravvivenza stessa di Baumann. Io non sono un sentimentale, Herr Szara, ma la coercizione a quel livello è sgradevole e alla fine sospetto che porti al tradimento, anche se Baumann, a sentir lei, ha sempre mantenuto fede ai suoi impegni.» «È vero» disse Szara. "A patto che" pensò "non si conti l'allusione contenuta nella sua ultima trasmissione e l'appello di Frau Baumann a Odile." «Un uomo d'onore. Riguardo agli ebrei, i nazisti sono come cani idrofobi. Non sentono ragioni, e una tale cecità alla fine sarà la nostra rovina. Credo che questo possa veramente succedere.» Quelle parole erano puro e semplice tradimento. Szara sentì la propria guardia abbassarsi leggermente. «A questo proposito, devo dirle che è stata una fortuna che lei abbia ammesso la sua vera identità... anche se immagino non abbia confessato la sua professione. Quando l'informazione è stata diffusa ai vari uffici dei servizi segreti, abbiamo preso le immediate contromisure per ottenere il suo rilascio. Siamo un piccolo ufficio del ministero degli Esteri, un semplice gruppo di colti gentiluomini tedeschi, ma abbiamo il diritto di leggere ogni cosa. Credevo che la Gestapo l'avrebbe usata contro di noi, ed è questa la ragione per cui abbiamo accettato di riscuotere diversi favori per ottenere il suo rilascio. In termini burocratici, è stata una manovra alquanto costosa.» «Ma ci sono altre ragioni» disse Szara. «Sì. È vero. Molte altre. Spero che mi concederà di arrivarci a mio modo.» Von Polanyi controllò l'ora. «Lei dovrà essere accompagnato oltreconfine, ma abbiamo qualche ora da trascorrere insieme. È da molto tempo che desidero raccontare una certa storia, e questa potrebbe essere l'unica occasione della mia vita. Allora, ho il suo permesso di continuare?» «Sì, naturalmente. Sono curioso di sentirla.»
«Finché il caffè è ancora caldo...» disse von Polanyi riempiendo la tazza di Szara e poi la sua. Si abbandonò all'indietro e si mise comodo sul divano. La stanza, si rese conto Szara, era quasi un set teatrale, e non per caso. L'illuminazione era fioca e confidenziale; nei boschi fuori dalla finestra c'erano soltanto buio, silenzio e lo sgocciolio regolare della pioggia. L'uomo con la Opel verde se n'era andato; la sensazione di intimità era assoluta. «Questa» cominciò von Polanyi «è la storia di una relazione amorosa. Una relazione amorosa vissuta a distanza, in un lungo arco di tempo: finora sono sei anni, e continua. Una relazione radicata nei tratti di due paesi molto diversi, nella quale sia lei che io siamo stati intimamente coinvolti, e che, guarda caso, si svolge fra due uomini di potere. Il riferimento le è chiaro?» «Direi di sì.» «Relazione amorosa è un'espressione forte, ma come altrimenti possiamo chiamare un rapporto basato su una comprensione profonda e sentita, sulla condivisa passione per certi ideali, su una comune visione del genere umano? Relazione amorosa lo descrive bene. Specialmente quando entrano in gioco elementi come la segretezza. C'è sempre segretezza, nelle questioni d'amore. Magari uno degli amanti è il promesso sposo di qualcun altro, o magari la famiglia non approva. Oppure il perché non importa: i due amanti si vogliono incontrare ma trovano continui ostacoli; sono fraintesi, perfino odiati, e tutto ciò che vogliono è unirsi, diventare una cosa sola. È tutto così ingiusto.» Von Polanyi fece una pausa, prese un pacchetto di Gitanes da una scatola di legno sul tavolino e ne offrì una a Szara. La stessa marca che fumava quando aveva fatto visita al dottor Baumann, naturalmente. Dopo avergliela accesa con un accendino d'argento, von Polanyi riprese il suo racconto. «Ora, se stessimo scrivendo un'opera teatrale, la logica conclusione di una tale relazione clandestina sarebbe funesta. Ma se lasciamo il teatro ed entriamo nel mondo della politica, la fine tragica potrebbe essere quella del mondo, non dei due amanti. Immagini che Shakespeare abbia riscritto l'ultimo atto di Romeo e Giulietta: gli amanti avvelenano i pozzi di Verona e nella scena finale rimangono soli e vivranno per sempre felici e contenti. «Bene, suppongo che questa sia la fine della mia carriera letteraria. Perché temo che la realtà non sia così divertente. Gli amanti, ovviamente, sono Iosif Stalin e Adolf Hitler. In agosto, la loro relazione clandestina si è conclusa con l'annuncio di un fidanzamento, il patto di non aggressione, e
con un generoso regalo, la Polonia. E questo non è che il fidanzamento. Faremmo bene a chiederci quali splendori sono programmati per il matrimonio. «Ma quello è il futuro. Stanotte, nelle poche ore che abbiamo, voglio parlare del passato. Ma da dove cominciare? Perché questa passione, questo idillio, non si limita ai due amanti, comincia nei villaggi in cui vivono e comincia molto tempo fa. La Germania ha sempre avuto bisogno di quello che la Russia possiede: il suo petrolio, il suo ferro, i suoi metalli rari e il suo grano. E la Russia ha sempre avuto bisogno di quello che la Germania possiede: la nostra scienza e tecnologia, la nostra perizia, la pura e semplice abilità di realizzare le cose. Un tedesco vede un lavoro da svolgere, ci riflette un minuto, si arrotola le maniche, si sputa sulle mani ed è fatta. Quando cerchiamo di fare tutto da soli, quando escludiamo il mondo al di fuori dei nostri confini, ahimè, le cose non vanno troppo bene. Un esempio: la nostra ultima campagna è tesa a convincere la gente a mangiare pane di segale, di un grano che possiamo coltivare noi stessi, e a questo scopo il ministero della Propaganda sostiene che il pane bianco abbia indebolito i nostri soldati nella guerra del 1914. Ovviamente, nessuno ci crede. «Ora, si tratta di due paesi come questi, e praticamente confinanti: la loro non è un'unione che chiede a gran voce di essere sancita? Sono già stati fatti dei tentativi, ma in qualche modo la cosa non ha mai fatto presa. Caterina la Grande importò tedeschi a vagonate; qualcosa fecero, ma le cose non cambiarono sul serio. Un esempio più recente: nel 1917, lo stato maggiore tedesco mise il vecchio Lenin su un treno blindato, e così facendo distrusse la Russia imperiale. Ciò nonostante, l'istante in cui il mondo si calmò, nel 1922, ci stavano riprovando con il trattato di Rapallo. I due stati più disprezzati d'Europa che correvano uno nelle braccia dell'altro: se nessun altro vuole amarmi, questo brutto vecchiaccio almeno lo farà! «Povera Rapallo. Un altro trattato, un'altra data con cui tormentare lo studente che soffre sul suo libro di storia. Ma se si sbircia sotto le coperte, questo matrimonio è un po' più interessante. Il ministero della Guerra tedesco fonda una società di sfruttamento chiamata GEFO e la finanzia con settantacinque milioni di Reichsmark d'oro. Ciò consente alla Junkers di costruire trecento caccia in una cittadina russa chiamata Fili, alle porte di Mosca. La Germania ne riceve duecentoquaranta, l'URSS sessanta più la tecnologia. Poi è il turno di una società per azioni di nome Bersol: a questo punto, al nostro povero studente girerà sicuramente la testa. E forse a ra-
gione, visto che la Bersol produce gas tossici presso Trotsk, nella provincia di Samara. Nel 1925, nella provincia di Tambov, nei pressi della città di Lipetsk, nasce la Scuola di Volo Privata di Lipetsk. Un'istituzione alquanto nebulosa, anche se oggi è nota con il nome di Luftwaffe. Entro il settembre del 1926, le navi cargo russe hanno già consegnato alla Germania trecentomila proiettili di artiglieria più la polvere da sparo e i detonatori, sotto le mentite spoglie di carichi di ghisa e alluminio. Riesce a resistere, il povero studente? Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che la Stazione sperimentazione e collaudo Veicoli Pesanti vicina alla cittadina di Kazan è in realtà uno stabilimento in cui la Krupp, la Daimler e la Rheinmetall costruiscono trattori leggeri, o per meglio dire carri armati, probabilmente no. È tutto così noioso, a meno che, naturalmente, lo studente non vada a scuola a Praga. La cosa va avanti per dodici anni. La Germania si riarma; i due eserciti si scambiano ufficiali, installandosi tanto a Berlino quanto a Mosca. E questa è soltanto la parte segreta del trattato di Rapallo. Sotto gli occhi del mondo intero, le navi russe cariche di frumento e di minerali utili salpano verso l'ovest mentre i tecnici tedeschi preparano le loro piccole borse nere e vanno all'est. «Ma quando, nel 1933, Hitler prese il potere, tutto ciò dovette finire. La Germania mostrava il suo volto malvagio, e l'idealistica Unione Sovietica e i suoi amici sparsi per il mondo dovevano far mostra di volgerle le spalle. Peccato, perché andava tutto così bene. «Qualsiasi diplomatico direbbe che un simile momento, se non si può fare altro, è quello giusto per mantenere vivo il dialogo, ma Hider e Stalin condividevano un tratto speciale: credevano entrambi che il linguaggio fosse il dono di Dio ai bugiardi, che le parole esistessero soltanto per manipolare coloro che la pensavano in modo diverso. Entrambi provenivano dai bassifondi dell'Europa (e a questo proposito sono molto affezionato a un detto russo: il potere è come una scogliera alta e ripida, soltanto le aquile e i rettili vi possono arrivare), ed erano convinti che la diplomazia fosse lo strumento di coloro che li avevano storicamente frenati, l'intelligencija, i professori, gli ebrei e gente simile. Ma a quel punto sorgeva un problema: come si poteva arrivare a stabilire una comunicazione? Soluzione: soltanto con i fatti, con i gesti, con azioni irrevocabili che mettevano in chiaro le intenzioni di ciascuno. Di sicuro non hanno escogitato loro questo metodo. Fin dall'invenzione del giornale le nazioni comunicano così: in terza pagina, in seconda pagina, in prima pagina. Ma bisogna ammettere che Hitler e Stalin ci hanno messo un estro speciale.
«Nel 1933, Stalin non riusciva bene a capire con chi aveva a che fare a Berlino. Aveva letto le traduzioni dei discorsi di Hider, magari anche il suo libro, ma come ho già detto, che cosa significavano? Poi, nel 1934, ecco qualcosa che perfino Stalin poteva capire. La Notte dei lunghi coltelli. Hider aveva un rivale, Ernst Röhm, il capo delle Camicie Brune. E come risolse il problema? Li assassinò. Tutti gli uomini più importanti, e tutti in una notte. Niente più rivali. Ebbene, a quanto pare Stalin provò i primi moti di passione, poiché entro il dicembre di quello stesso anno rispose con la stessa moneta. Venne organizzato l'assassinio di Kirov, e gli avversari politici di Stalin vennero eliminati in una purga che proseguì fino al 1936. «Poi fu di nuovo il turno di Hitler. Nel 1936 marciò sulla Renania. Conquistò territori. Ancora una volta, Stalin si drizzò a sedere e prese nota. Poi trovò il modo di esprimere una sorta di approvazione con il processo dimostrativo a Kamenev e Zinov'ev. Il loro essere ebrei è meno importante del fatto che durante il processo Višinskij dichiarò che erano ebrei. E qui vediamo Stalin alle prese con il suo vero problema, che era semplicemente questo: i quattordici anni seguiti a Rapallo avevano insegnato a entrambi i paesi che potevano collaborare; come si poteva ristabilire tale collaborazione? Perché con Hitler al potere, se avessero lavorato insieme quei due paesi avrebbero potuto dominare il mondo. Erano fatti l'uno per l'altro come due amanti, e di conseguenza erano invincibili. «Ma Stalin aveva un grave cruccio, il fatto che il comunismo era tradizionalmente una fede idealistica. Da una parte aveva Tuchačevskij, il protetto di Trotckij e la figura più potente dell'Armata Rossa. Tuchačevskij era giovane, bello, brillante, di un coraggio provato in battaglia, adorato dai suoi ufficiali. In un processo dimostrativo avrebbe fatto a pezzi un untuoso opportunista come Višinskij, e Stalin lo sapeva. Aveva bisogno di aiuto, e l'aiuto era a portata di mano. Ricorda gli scambi di ufficiali che venivano effettuati durante il periodo di Rapallo? Negli archivi tedeschi esistevano ancora lettere, ordini, comunicazioni. Su richiesta di Stalin, di sicuro tramite fidatissimi intermediari del NKVD, Reinhard Heydrich e l'SD, il servizio segreto della Gestapo, trovarono le comunicazioni di Tuchačevskij e le falsificarono, trasformandole nelle prove che Tuchačevskij e altri quattro marescialli sovietici (due dei quali erano ebrei!) avevano cospirato con Hider per rovesciare il governo sovietico con un colpo di stato. Addio ai marescialli e a gran parte degli alti comandi dell'Armata Rossa. E cosa concluse il mondo, il mondo informato dei dipendenti statali
e dei giornalisti? Che il complotto era nato in Germania, una brillante manovra dei servizi segreti per indebolire i comandi militari dell'URSS. Certo, se si tralasciava il fatto che Stalin era alla base di tutto, poteva sembrare che fosse andata così. «A questo punto, a Stalin restava una sola difficoltà, ma molto grossa: gli stessi servizi segreti, le vere leve del suo potere. Nel NKVD e nel GRU figuravano centinaia di vecchi bolscevichi e di comunisti stranieri, molti dei quali ebrei e tutti, dal primo all'ultimo, ideologi. Questi individui erano concentrati nelle posizioni cruciali, fra cui gli Uffici esteri di entrambi i servizi, e gestivano le missioni più segrete e sofisticate. Erano quelli che avevano versato il loro sangue durante la rivoluzione, quelli che credevano che sebbene tutto stesse andando storto, quanto meno l'Unione Sovietica opponeva resistenza agli hitleriani bulli e torturatori di ebrei. Un riavvicinamento con la Germania nazista? Impensabile. «Ma come immagino lei sappia, un uomo innamorato farebbe praticamente di tutto, e Stalin bramava Hitler come alleato, complice e amico. Forse i suoi pensieri erano questi: "C'è un unico uomo al mondo con cui potrei avere una completa armonia, ma ci sono tutti questi ostinati romantici a intralciarmi la strada. Nessuno riuscirà mai a sbarazzarmi di questi intriganti...", be', non si può dire preti, ma non si andrebbe poi così lontani dalla verità. E ci fu, come quasi sempre c'è, qualcuno a portata di mano e pronto a entrare in azione. A un certo livello, la purga dal 1936 al 1938 è stata vista come l'eliminazione di quelli che sapevano troppo, che sapevano dov'erano sepolti i corpi, l'atto finale di un criminale che copre il suo crimine. Ma agli iniziati è parsa soprattutto una lotta di potere all'interno dei servizi segreti: la cosiddetta khvost ucraina, formata da ebrei, polacchi e lettoni, contro quella georgiana, composta principalmente da personaggi della Transcaucasia: georgiani, armeni, turchi più qualche alleato ebreo tanto per confondere le acque. In realtà si è trattato di un pogrom esteso condotto da Berija, e quando si è concluso la scena era pronta per la consumazione della relazione amorosa. «Hitler sapeva di certo cosa stava succedendo, perché alla fine del 1938 ha dato via libera alla Kristallnacht, il primo vero assaggio di ciò che i tedeschi avevano in mente per gli ebrei di tutta Europa. Gli ex dirigenti del NKVD l'avrebbero assassinato senza esitazioni, ma ormai erano morti o stavano scavando in fondo a una miniera d'oro in Siberia e presto lo sarebbero stati. Stalin, eternamente sagace, lasciò in vita qualche oggetto da esposizione per anticipare l'accusa di aver fatto ciò che aveva effettiva-
mente fatto: Lazar Kaganovič e Maksim Litvinov, tanto per fare qualche esempio, alcuni dei dirigenti delle reti europee e alcuni giornalisti di punta come Il'ja Erenburg e André Szara.» Von Polanyi fece una pausa, forse aspettandosi che Szara avrebbe cominciato a farfugliare e imprecare, e in modo alquanto studiato scelse proprio quel momento per capire che aveva voglia di un'altra tazza di caffè. Szara si scoprì distaccato, intento ad annuire educatamente ("Sì, potrebbe essere andata così"), ma in realtà in quel momento aveva scoperto più cose sulla propria stessa situazione che su Iosif Stalin. Non provava alcuna rabbia. La sua mente, si accorse, era ormai governata dalla sospensione del giudizio tipica dell'agente segreto. Per necessità era diventato quello che un tempo fingeva di essere, poiché la sua reazione alle rivelazioni di von Polanyi fu un "forse". Potevano essere vere. Ma c'era una domanda che era ancora più pertinente: perché gliele stava facendo? Che ruolo gli stava assegnando? Doveva essercene uno. Von Polanyi sapeva da molto della sua esistenza, fin dal 1937, quando era andato a Berlino a reclutare il dottor Baumann: quando il NKVD aveva accettato, molto al di sopra di lui, di ricevere informazioni strategiche tramite una rete clandestina. Senza saperlo, Szara era stato un agente dei servizi segreti del ministero degli Esteri del Reich («un piccolo ufficio... un semplice gruppo di colti gentiluomini tedeschi») e non aveva alcuna ragione di credere che von Polanyi volesse porre fine a quel rapporto. «Per quanto ne sappia» disse con cautela «tutto ciò che ha detto è vero. Si può fare qualcosa?» «Non nell'immediato» rispose von Polanyi. «Al momento attuale, il centro dell'Europa percorre una linea in mezzo alla Polonia, e credo che l'intenzione sia quella di creare un impero russo-tedesco sui due lati. Per la Germania c'è l'Europa occidentale: la Francia, la Scandinavia, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna; Spagna e Portogallo si uniranno non appena vedranno come stanno le cose, l'Italia rimane un alleato minore. Stalin si aspetterà di guadagnare una grossa parte dei Balcani, la Lituania, la Lettonia, l'Estonia, la Turchia, l'Iran e l'India: in prospettiva, un confine comune con un impero giapponese nel Pacifico. Gli Stati Uniti dovranno essere isolati, spremuti lentamente oppure invasi da mille divisioni. Sia Hitler che Stalin preferiscono le conquiste politiche alle guerre vere e proprie, dunque la prima alternativa è la più probabile.» «Per me» disse Szara «sarebbe un mondo in cui non potrei vivere. Ma lei è tedesco, Herr von Polanyi, un patriota tedesco. È possibile che la sua
avversione per il suo attuale capo di stato sia tale da portarla a danneggiare il paese?» «Sono un tedesco, e certamente un patriota. Da questa prospettiva, le dirò che il danno è già stato fatto, e che è già stato creato un mondo in cui mi rifiuto di vivere. Se la Germania perderà questa guerra sarà devastante, quasi la cosa peggiore che possa capitare, ma non sarebbe il peggio del peggio. Il peggio del peggio sarebbe se Adolf Hider e Iosif Stalin e la gente che li circonda dovessero vincerla. E questo non posso permetterlo.» L'arroganza di von Polanyi era sbalorditiva; Szara si costrinse a ostentare un'espressione perplessa e vagamente smarrita. «Dunque ha in mente qualcosa di preciso.» «In questo momento, francamente, non so cosa fare. Non nello specifico. So tuttavia che è necessario costruire una struttura, una struttura con la quale si possa minare il potere di Hitler e forse addirittura distruggerlo quando se ne presenti l'occasione. Perché dovrei voler creare una simile struttura? Posso risponderle in un solo modo: chi lo farà, se non io? Non la voglio annoiare con la storia della famiglia von Polanyi: in un certo senso la conosce già. Una vecchia famiglia, con centinaia d'anni di storia. Mai pacifica. Una famiglia guerresca, se vuole, ma sempre onorevole. Ossessionata dall'onore. E così moriamo giovani. Ma procreiamo anche da giovani, e così la stirpe continua malgrado le inevitabilità di un simile retaggio. Per me l'onore risiede nel genere di azione che sto proponendo. So bene che alcuni disprezzano questa spina nel fianco del carattere tedesco, ma confido che lei riesca a vedere la sua utilità.» «Naturalmente» disse Szara. «Ma la mia situazione...» Non sapeva da dove cominciare. Von Polanyi si sporse in avanti. «Per fare quello che ho in mente di fare, Herr Szara, ho bisogno di un uomo fuori dalla Germania, un uomo non soltanto in un paese neutrale ma in uno stato d'animo neutrale. Un uomo che non appartiene ad alcuno schieramento, che non ha obblighi verso alcuna fede nazionale o politica, che capisce il valore dell'informazione, che è in grado di dirigere questa informazione dove potrà causare il maggior bene possibile (e cioè dove potrà recare i danni peggiori) e che è abile a stabilire i contatti giusti, senza esporre le fonti. Un uomo con l'abilità tecnica sufficiente a sostenere un'azione ispirata dall'etica, dall'onore, lo chiami come preferisce. In breve, ho bisogno di un uomo che può fare qualcosa di buono senza farsi scoprire.» "Così mi si descrive" si disse Szara, e al contempo veniva proposto uno
strano complotto: un ebreo polacco e un aristocratico tedesco avrebbero lavorato insieme per spingere Adolf Hitler dal bordo di un precipizio ancora invisibile. La presunzione di una simile idea! Il fatto che due uomini abbastanza ordinari in una locanda nei paraggi di Altenburg osassero addirittura sognare di opporsi a uno stato della grandezza della Germania nazista, con la sua Gestapo, la sua Abwehr, le sue divisioni delle SS, i suoi Panzer e la sua Luftwaffe... Eppure era possibile, e Szara lo sapeva: il potere dell'intelligenza era tale che usandolo bene, due uomini ordinari in una locanda nei paraggi di Altenburg sarebbero stati in grado di distruggere una nazione. «L'idea l'attira» disse von Polanyi tradendo una punta di eccitazione nel tono di voce. «Sì» ammise Szara. «Forse si può fare. Ma io sono ufficialmente un traditore dell'Unione Sovietica, un dirigente di una rete dei servizi segreti in fuga, pertanto le mie aspettative di vita sono molto limitate. Settimane, probabilmente. E questo niente può cambiarlo.» «Herr Szara.» Von Polanyi era chiaramente ferito. «La prego, provi ad avere un po' più di considerazione nei miei confronti. Abbiamo un amico nell'SD che è, segretamente, un amico del NKVD. Con il suo permesso, le faremo dire addio a questo mondo inquieto stanotte stessa, uno dei tanti che non sono sopravvissuti agli interrogatori della Gestapo. Se tutto andrà liscio, potrà leggere il suo stesso necrologio, sempre che i russi decidano di pubblicarlo. Ma non ci dovrà tradire, non dovrà rinascere con il suo nome in fondo a una colonna di giornale. Può darmi la sua parola che sarà così per sempre?» «Ha la mia parola» disse Szara. «Ma non può essere così semplice.» Von Polanyi sospirò con aria esasperata. «Certo che no. Niente è così semplice. Vivrà nel terrore mortale che qualcuno la riconosca per caso. Ma credo che una certa inerzia la terrà al sicuro. Un ufficiale sovietico ci penserebbe molto bene, prima di insistere che un nemico dichiarato morto dal NKVD è ancora fra noi. Screditare la dirigenza della sua stessa organizzazione è qualcosa che non farà a cuor leggero. Meglio convincersi di aver visto un fantasma, e che Mosca resta infallibile.» «Vorranno delle prove.» «La prova sarà il fatto stesso che scopriranno l'accaduto per vie segrete, e che quando tasteranno il terreno ("Avete visto il nostro Szara da qualche parte?") noi negheremo di averla mai sentita nominare. A quel punto crederanno alla sua morte. Il vero pericolo per lei è il pettegolezzo: un gruppo
di rifugiati politici, per esempio, che cianciano di un francese che parla russo e che si ingozza di blini quando crede che nessuno stia guardando. Secondo il dispaccio della Gestapo, lei ha un passaporto francese. Lo descrivono come valido. Lo usi. Sia quel francese. Ma dovrà alterare il più possibile il suo aspetto e condurre un'esistenza da francese: un francese a cui conviene non rientrare in Francia, un ebreo di Marsiglia coinvolto in chissà quali loschi affari. Si faccia crescere un paio di volgari baffetti, si metta la brillantina sui capelli, ingrassi. Non ingannerà i francesi: capiranno che è un impostore l'istante in cui aprirà bocca. Ma con un po' di fortuna la prenderanno per una semplice creatura dei bassifondi... soltanto, non dei loro bassifondi. Sparga la voce che ha vissuto al Cairo e che ha venduto le azioni sbagliate al capo della polizia. C'è un mondo brulicante, ai margini della società; sono sicuro che lei lo sa. Nasconde ogni sorta di individui, è possibile che riesca a nascondere anche lei. Bene, che ne pensa?» Szara non rispose subito. Fissò le proprie mani, poi finalmente disse: «Forse». «L'inganno migliore è quello a cui noi stessi crediamo, ed è sempre il genere di inganno che ci salva la vita» riprese von Polanyi, lo sguardo acceso dalla scintilla del filosofo. «Sopravviva, Herr Szara. Penso che sia il suo dono in questa vita. Confidi nel fatto che molti non sono mai del tutto sicuri di se stessi. "Oh, ma lei mi ricorda tanto...", diranno. Dovrà tuttavia diventare la leggenda che creerà per se stesso, e non potrà concedersi alcuna vacanza. Forse un lavoretto qualsiasi potrebbe fare la differenza. Qualcosa di non completamente legale.» Szara si voltò e guardò fuori dalla finestra, ma non era cambiato nulla; una notte senza stelle, il ritmo regolare della pioggia in una foresta. «Come comunicheremo?» chiese alla fine. Von Polanyi lasciò che il silenzio si stiracchiasse per qualche istante; significava che avevano raggiunto un accordo, il tipo di accordo che non ha bisogno di parole. Poi passò a illustrare le procedure: una cartolina spedita a un certo negozio di tessuti, un mittente fermoposta, il contatto. Il suo tono era rilassato, quasi noncurante, a insinuare che era il genere di cosa che Szara aveva già fatto mille volte. «E se scompaio?» domandò Szara quando ebbe concluso. «In questa storia siamo pari» rispose von Polanyi con disinvoltura. «Se lei non vuole noi, Herr Szara, noi non vogliamo lei. È molto semplice.»
Lo condussero fuori dalla Germania in grande stile, con una Mercedes verde scuro al volante della quale c'era un giovane poco più che adolescente, un ufficiale della marina dalle gote rosee, allampanato e infinitamente sollecito. Più o meno ogni ora si fermava, aspettava che la via fosse libera, bussava delicatamente sul bagagliaio e sussurrava abbastanza forte da farsi sentire: «Va tutto bene?». Andava tutto abbastanza bene. Szara giaceva su una coperta da sella, la borsa da viaggio accanto a lui, circondato da finimenti assortiti che emanavano un intenso odore di cavallo e cuoio invecchiato. Alla locanda gli avevano offerto una colazione sontuosa, un vassoio di uova in camicia, pane imburrato e paste alla marmellata lasciato davanti alla sua porta. E a un certo punto (nei dintorni di Vienna, immaginava Szara) l'ufficiale della marina gli allungò un pezzo di anatra arrosto fredda su un tovagliolino e una bottiglia di birra. Nell'oscurità odorosa di cavallo Szara soffriva leggermente le curve della strada, ma piluccò l'anatra per educazione e bevve la birra. Fecero tre fermate. Ogni volta Szara immaginava la consegna di documenti accompagnata da un saluto hitleriano, una rude battuta e una risata. Al tramonto percorsero i viali in salita di una città, e Szara venne fatto uscire in una strada buia di un grazioso quartiere. «Benvenuto a Budapest» disse il giovane ufficiale. «Il suo passaporto è già timbrato. Buona fortuna.» E se ne andò. In un certo senso, era libero. Jean Bonotte circolava e viveva più o meno come von Polanyi aveva suggerito che vivesse: in squallidi alberghetti nei pressi delle stazioni ferroviarie o nelle stradine portuali, dove l'aria odorava di pesce morto e gasolio. Non si tratteneva mai troppo a lungo. Si unì a un inquieto esercito di anime perdute, uomini e donne senza patria, non molto diverso da quello che aveva incontrato a Kovno. Si metteva in coda con loro per la registrazione alle stazioni di polizia («Un'altra settimana, signore, poi fuori di qui»), mangiava agli stessi ristoranti a buon mercato, si sedeva insieme a loro nei parchi quando il pallido sole invernale illuminava la statua dell'eroe nazionale. Cambiò. Furono gli specchi incrinati delle innumerevoli camere d'albergo a rivelarlo. Non era ingrassato, come aveva suggerito von Polanyi. Era dimagrito, il suo volto era diventato scarno e tormentato sotto il maldestro taglio di capelli da esule. Si fece crescere un paio di eleganti baffetti che regolava con cura, l'ultima traccia di amor proprio in un mondo che gli aveva sottratto qualsiasi altra cosa. Un paio di occhiali dalle
lenti leggermente scurite gli davano l'aria di un uomo che se avesse osato sarebbe stato sinistro, un uomo debole e spaventato che si esibiva in una miserabile simulazione di forza. Il messaggio non sfuggì ai predatori. In diverse città la polizia gli prese il poco denaro che aveva in tasca, e in due occasioni lo picchiò. Il secondo giorno a Budapest, quando ancora non aveva capito come funzionava la vita di strada, un omuncolo con un berretto calato sugli occhi e una sigaretta fra le labbra gli chiese il pedaggio per entrare in un certo quartiere... o almeno così Szara interpretò i suoi gesti, visto che non capiva una parola di ungherese. Szara scostò rabbiosamente la mano che gli sbarrava il passo, e prima ancora che si rendesse conto di cosa stava succedendo ricevette un colpo di una violenza inaudita. Lo vide a malapena: era un cane che non ringhiava prima di mordere. Si ritrovò semplicemente a terra, con le orecchie che gli fischiavano e il sangue che gli colava in bocca, intento ad annaspare alla ricerca di denaro da offrire al suo aggressore. Per fortuna aveva lasciato la borsa in albergo: se l'avesse avuta con sé, sarebbe scomparsa per sempre. La ferita, quando la vide, era orribile. Entrambe le labbra erano squarciate a un angolo della bocca, così come la pelle sopra e sotto. Si rimarginò male, lasciandogli una cicatrice rosso scuro. Con la sua giacca e i suoi pantaloni male assortiti, con la camicia che aveva acquistato di una taglia troppo grande affinché gli creasse uno sbuffo attorno al collo, sembrava già un uomo la cui fortuna, se mai ne aveva avuta, era finita ormai da tempo. La cicatrice attirava l'attenzione, confermando quell'immagine. Se il NKVD era ancora a caccia di André Szara, e lui doveva presumere che lo fosse, non l'avrebbe cercato dietro la facciata di quell'uomo triste e malconcio. Budapest. Belgrado. Il porto rumeno di Costanza. Salonicco, dove vendette biglietti della lotteria nelle strade della nutrita, ricca comunità ebraica. Atene. Istanbul. Festeggiò l'arrivo del 1940 a Sofia, fissando una lampadina appesa al soffitto e pensando a Nadia Tščerova. Come faceva ogni giorno, a volte ogni ora. Alla casa in Schillerstrasse inviava cartoline. Firmate B. A. avrebbe significato André, B. era quello che era diventato. Nadia l'avrebbe capito immediatamente, lo sapeva. Questo B. era un vagabondo facoltoso che percorreva l'Europa meridionale per affari e che di quando in quando rivolgeva un pensiero alla sua vecchia fiamma Nadia che viveva in Germania. Il mare è delizioso, scriveva B. da una città sulla costa turca del Mar Nero. A Bucarest era finalmente guarito da un tremendo raffreddore. A Zagabria, dove lavorava al mercato per due
vecchi fratelli ebrei che possedevano una bancarella di pentole e padelle, B. aveva sentito tracce di primavera nell'aria. "Sono vivo" le stava dicendo. "Non sono in Germania, non sono in Russia, sono libero." Ma conduceva una vita, a Varna, a Corfù, a Debrecen, che lei non avrebbe mai potuto condividere. Quello che significava «con amore», le diecimila parole che nascondeva, poteva soltanto sperare che lei lo capisse. Nei letti in rovina di un centinaio di camere sparse per gli angoli più sperduti dell'Europa, il suo fantasma giaceva ogni notte accanto a lui. Quando lavorava, usava quasi sempre l'yiddish. Perfino nelle comunità sefardite in cui si parlava il dialetto giudeo-spagnolo c'era qualcuno che lo conosceva. Nei mercati all'aperto, nelle strade secondarie di quasi tutte le città trovò degli ebrei, e quasi sempre avevano bisogno di qualche lavoretto. Lui non chiedeva molto, e loro annuivano serrando le labbra: "Probabilmente mi deruberai". Non era esattamente carità; era soltanto una componente del loro carattere a cui non piaceva dire di no. Forse era la sua aria affamata. Non sembrava abbastanza forte da caricare e scaricare i carri, ma in un paio di occasioni lo fece. Più che altro puliva, o svolgeva commissioni, o vendeva. Pentole e padelle ammaccate e annerite a Zagabria. Abiti di seconda mano a Bucarest. Piatti, lenzuola, attrezzi, libri usati, e perfino occhiali. «No?» diceva. «Allora provi questi. Riesce a vedere quella ragazza laggiù? Perfetto! C'è dell'argento in quella montatura: sembra più giovane di una decina d'anni.» Imparò facilmente, tanto che dovette chiedersi se non ne avesse sempre avuto l'istinto, ed era qualcosa di doveroso, un omaggio alla clientela. Chi avrebbe avuto voglia di comprare qualcosa da una pietra? In quelle strade, il denaro veniva guadagnato e speso nella moneta più a buon mercato che c'era, un dinaro, un lek o un lev, che non vedevi mai. Ma la vita costava poco. Szara si nutriva di pane e tè, di patate e cipolle, di cavolo e aglio. Un pezzetto di carne secca era una festa. Se aveva un bordo di grasso, un banchetto. La sua pelle divenne ruvida e arrossata per tutto il tempo passato all'aria aperta durante l'inverno, le sue mani dure come il cuoio. Attirava un acquirente con fare confidenziale, si guardava intorno per sincerarsi che non lo ascoltasse nessuno, faceva scivolare un dito sotto il risvolto di una giacca e diceva: «Ascolti, oggi deve comprare da me, non andrà da nessun altro. Faccia lei il prezzo, non m'interessa, sono un uomo disperato». A Costanza, il proprietario di una bancarella di mercerie gli disse: «David, sei il miglior luftmentsh che abbia mai avuto. Vuoi trattenerti un po'?». David, perché era così che si chiamava quella
settimana. Quella primavera divenne anche l'altro tipo di luftmentsh, l'uomo invisibile come l'aria, l'agente segreto. Dapprima in privato, nel modo in cui cominciò a rammentare il suo passato. Gli tornò in mente come una vecchia storia d'amore, le ceneri della sua vita passata leggermente più calde di quanto avesse immaginato. Si ritrovò a Izmir, la vecchia città greca di Smirne che ora faceva parte della Turchia. Nei pressi del vecchio bazar, in via Kutuphane, c'era un ristorante di proprietà di una piccola, scura signora sefardita con due lucenti occhi neri. Szara lavava le sue pentole. Le mani e le braccia gli diventavano color cremisi e la paga era quasi inesistente, ma la proprietaria lo nutriva in modo generoso, a base di agnello, pinoli, fiocchi d'avena, albicocche e fichi secchi, e aveva una stanza libera nello scantinato con un polveroso materasso di pagliericcio posato su una vecchia porta. C'era perfino un tavolo nella stanza, i bordi marchiati da sigarette ormai dimenticate, e una lampada alla paraffina. Attraverso una finestrella a livello della strada si vedeva la Kadifakele, la Fortezza di Velluto, appollaiata in cima alla sua collina. Szara provava una sensazione forte, intuitiva, rispetto a quella stanza: ci aveva lavorato uno scrittore. Il figlio della vecchia ricopriva una carica piuttosto che un'altra nella sezione amministrativa della polizia di Izmir, e per la prima volta nel corso dei suoi spostamenti Jean Bonotte ottenne un permesso di lavoro, anche se non con quel nome. «Scrivi qui» gli aveva detto la vecchia. E lui aveva laboriosamente scarabocchiato un nome inventato su un foglietto. Una settimana dopo, un permesso di lavoro. «Mio figlio!» disse lei per spiegare il miracolo. La fortuna gli arrideva. Izmir non era un brutto posto: un forte vento soffiava sui pontili dall'Egeo, e il porto era pieno di navi mercantili. La gente era riservata, leggermente introversa, forse perché non molto tempo prima il sangue aveva letteralmente bagnato le strade, sangue di greci massacrati dai turchi, e la cittadina non riusciva a dimenticarselo del tutto. Con i suoi miseri guadagni Szara acquistò un taccuino e alcune matite e, quando le enormi pentole di ferro erano ormai asciutte e messe a posto, cominciò a scrivere. Scriveva di notte, per se stesso, senza pensare a un pubblico. Era marzo, un buon mese per la scrittura, poiché gli scrittori amano il tempo movimentato, i tuoni e i fulmini, il vento e la pioggia, i ribollenti cieli primaverili: non ha importanza se è bello o brutto, basta che ci sia molta attività. Scrisse della sua vita, della sua vita recente. Era difficile, e le sofferenze emotive che gli causava lo sorpresero, ma evidente-
mente voleva farlo, dato che non si fermò. Al nuovo orizzonte c'era quello che von Polanyi aveva detto sulle esecuzioni della purga del 1936 e sul segreto corteggiamento fra Hitler e Stalin. Ma era di vita che scriveva, non tanto di politica. Aveva la sensazione che Izmir non fosse il genere di posto in cui desideravi scrivere di politica. Era quasi troppo antica, aveva visto troppe cose, aveva vissuto al di là di quel genere di spiegazioni: qua e là, lo spigolo marmoreo di una rovina era stato arrotondato dal passaggio incessante degli indumenti di coloro che vi avevano abitato per secoli. In un luogo simile, la cosa giusta da fare era l'archeologia. E l'archeologia, scoprì Szara, non doveva necessariamente riguardare il mondo antico: potevi raschiare via la terra e setacciare la sabbia di tempi più recenti. Il punto era preservare, non perdere ciò che era accaduto. Ripercorrendo la propria vita, sotto la normale anarchia dell'esistenza, le disavventure, i sogni e le passioni Szara individuò un tracciato. O meglio, due tracciati. Se ogni vita è un romanzo, il suo aveva due trame. Scoprì che aveva, spesso allo stesso tempo, aiutato e combattuto l'affaire HutlerStalin, che aveva lavorato per due padroni, entrambi nei servizi segreti sovietici: Bloch e Abramov. Ciò che il tenente generale Bloch aveva fatto era sia audace che ingegnoso, e Szara giunse a credere che fosse stato dettato dalla disperazione. Sapeva che cosa stava succedendo e l'aveva combattuto. E in questa guerra, André Szara era stato uno dei suoi soldati. La profondità dell'operazione e il ruolo che lui vi aveva giocato gli divennero chiari soltanto quando vi applicò la dottrina cronologica, in un esercizio non dissimile da quello che aveva svolto in una camera d'albergo di Praga quando aveva decifrato la storia dei tradimenti di Dubok, Stalin. Bloch aveva saputo dell'avvicinamento di Stalin a Hitler prima del 1937 e aveva deciso di prevenire l'alleanza smascherando il passato di agente dell'Ochrana di Stalin. In qualche modo era riuscito a inserirsi nel sistema di comunicazioni di Abramov e aveva ordinato a Szara di imbarcarsi sul piroscafo che stava portando Grigorij Khelidze dal Pireo a Ostenda. Khelidze era in viaggio per la Cecoslovacchia allo scopo di recuperare il dossier dell'Ochrana precedentemente depositato nel deposito bagagli di una stazione ferroviaria di Praga. Szara l'aveva indotto a rivelargli dove avrebbe alloggiato a Ostenda, e Bloch aveva ordinato il suo assassinio. Poi aveva usato Szara come sostituto del corriere, l'aveva usato per smascherare i crimini staliniani nel sottobosco bolscevico, l'aveva usato per pubblicare la storia di quel tradimento su una rivista americana. Aveva quasi funzionato.
La khvost georgiana, tuttavia, era giunta in qualche modo a conoscenza dell'operazione e aveva impedito la pubblicazione dell'articolo. Qui la cronologia era utile, poiché rivelava un'immagine speculare dei fatti. Mentre si trovava a Praga, Szara aveva scritto un articolo per la «Pravda» sull'agonia del popolo ceco mentre Hitler si preparava a dare la zampata finale. A Hider non conveniva che l'articolo venisse pubblicato, ed evidentemente non conveniva neppure a Stalin. Alla fine la colpa per la perdita della Cecoslovacchia a Monaco era stata addossata a Gran Bretagna e Francia, ma al contempo Stalin e l'Armata Rossa si erano tenuti in disparte e avevano permesso che succedesse. A quel punto Abramov aveva protetto Szara, il suo vecchio amico nonché agente occasionale, assorbendolo direttamente nell'apparat dei servizi segreti: quale posto migliore di un angolo dell'inferno, quando cerchi di sfuggire al demonio? A Parigi, Szara era diventato l'agente responsabile di Baumann, in realtà nient'altro che una delle due estremità di un canale di comunicazione fra Hitler e Stalin. Poi, un evento casuale che né la Gestapo né il NKVD avrebbero potuto prevedere. La rete OPAL di Parigi era riuscita a penetrare lo schermo di segretezza che nascondeva la loro operazione. Tramite l'ignara agente di Sénéschal, la segretaria Lotte Hüber, Szara aveva scoperto un incontro fra Deršani, il superiore di Khelidze nella khvost dei georgiani, e Uhlrich, un noto ufficiale dell'SD, e l'aveva fotografato. Sénéschal era stato assassinato quasi immediatamente a causa di ciò, e Abramov era morto meno di un anno dopo. Abramov, credeva ora Szara, era passato dall'altra parte e aveva cercato di usare le foto per far leva su Deršani, e loro l'avevano eliminato mentre tentava la fuga. C'era dell'altro: la sostituzione di Litvinov con Molotov quando il corteggiamento fra Hitler e Stalin si era avvicinato al momento della rivelazione, e la pubblica approvazione da parte di Hitler. Perfino la poesia Gli Sciti di Aleksandr Blok sembrava aver giocato un ruolo nell'operazione. In questo caso, l'analisi dipendeva dal pubblico. Se la sera della recita dell'attore Poziny il messaggio era rivolto ai diplomatici inglesi e francesi, il significato della poesia era quello di un appello e di un avvertimento, e cioè quello che aveva originariamente inteso Blok: Ma noi stessi non saremo più lo scudo, / Non entreremo più in battaglia... / E non ci muoveremo quando l'infuriato Unno / Frugherà nelle tasche dei cadaveri, / Brucerà le
città... Per un tedesco, tuttavia, in quel particolare momento storico, avrebbe potuto significare qualcosa di molto diverso, qualcosa di simile a un invito rivolto da Stalin a Hitler perché facesse proprio questo. Piegare la poesia di Blok a un tale proposito era per Szara un gesto particolarmente spregevole, e lo inorridì più di qualsiasi altra cosa. Aveva abbastanza buon senso da capire che in confronto ad altri mali l'abuso delle parole di un poeta non avrebbe dovuto avere tanta importanza, eppure ne aveva. In qualche modo aveva aperto la porta a ciò che ora accadeva in Europa, dove, con il consenso di Stalin, le parole diventavano realtà. Dove l'orrore aveva luogo. Nella notte fonda di Izmir, mentre il vento primaverile soffiava deciso dall'Egeo, André Szara guardava assorto fuori dalla finestrella sopra il suo tavolo. Non avrebbe mai capito i misteri che quei due popoli, il russo e il tedesco, condividevano. Blok ci aveva provato come soltanto un poeta può fare, usando le immagini, la chimica inesplicabile ai confini del linguaggio. Szara non avrebbe osato andare più a fondo. Riusciva a capire dove potevano celarsi le risposte: in ciò che era successo fra lui e Marta Haecht, in ciò che c'era fra Nadia Tščerova e il suo generale tedesco, in ciò che univa Hider e Stalin, perfino in ciò che c'era stato fra lui e von Polanyi. Fiducia e sospetto, odio e amore, attrazione e repulsione. C'era una formula magica che raccoglieva tutto ciò? Lui non riusciva a trovarla, non quella notte a Izmir. Forse non ci sarebbe mai riuscito. Poteva soltanto pensare all'atto finale di Bloch in quel dramma, con il quale aveva condotto Szara nel raggio d'azione di de Montfried. Era come se, di fronte alla certezza di un fallimento (l'ascesa di Berija, gli assassini al potere, un patto con il diavolo) avesse inviato un ultimo messaggio: "Salvi delle vite". Szara aveva fatto del suo meglio. Ma poi era intervenuta la realtà dei fatti. E presto la realtà dei fatti gli rivelò che bisognava fare delle scelte. Quando finì di scrivere, Szara aveva riempito una ventina di taccuini: disordinati e gonfi, le pagine coperte su entrambi i lati, e senza badare alle righe, da scarabocchi in russo a matita, cancellature, parole scribacchiate di fretta nei momenti di maggiore impazienza. Col passare del tempo cominciò a vivere in funzione delle notti, delle ore in cui le persone della sua esistenza prendevano vita e parlavano. La sua memoria lo sbalordiva: ricordava ciò che aveva detto Abramov, il modo in cui Marta si esprimeva, il sarcasmo di Vainštok... e quello che poteva essere stato il gesto finale
della sua vita, che Szara non riuscì mai a capire davvero. Il lavoro di lavapentole si faceva sentire. La pelle delle sue mani era secca, spaccata, e a volte sanguinava: di quando in quando lasciava una traccia di sangue nel punto in cui si posava sulla pagina. "Che cerchino pure di capire da dove viene!" pensò. Ma chi? Non sapeva chi avrebbe letto le sue parole. I russi erano diventati scrittori segreti, nei campi, negli scantinati, nelle celle e in migliaia di forme di esilio, e potevano soltanto immaginare lettori segreti. E lui non era diverso. Per il resto, il mondo era irragionevolmente gentile con lui. La vecchia sviluppò la teoria che le sue capacità andassero al di là della pulizia delle pentole incrostate di grano saraceno e insistette, nello yiddish rudimentale che usavano fra loro pronunciando una parola per volta, perché lui l'accompagnasse nelle sue spedizioni quotidiane al mercato. Per spiegarsi si lanciò in una fluida pantomima, reggendo un peso invisibile e sbuffando per la fatica; e quando giunsero al mercato fu come essere a scuola. Le cipolle dovevano essere oblunghe e dure. I meloni li si annusava in questo punto. Con quel ladro bisognava contare due volte il resto. Lei aveva dei progetti, per lui, e Szara percepì un mutamento della fortuna, una possibile soluzione. Non era l'unico, quella primavera, alla ricerca di soluzioni. Molto più a nord, al confine occidentale della Germania, gli ufficiali dei servizi segreti militari si stavano chiedendo come penetrare la linea Maginot francese, oppure, se non fossero stati in grado di sfondarla, come aggirarla. Sulle prime, l'impresa sembrava impossibile. Anche se la Wehrmacht avesse violato la neutralità del Belgio, com'era possibile far penetrare i Panzer, così importanti per la strategia d'attacco tedesca, nella fitta foresta delle Ardenne? Per rispondere a questa domanda, gli ufficiali applicarono tubi di metallo sui cofani delle loro automobili fino a renderle della stessa larghezza dei carri armati e si avventurarono nella foresta. Scoprirono che bisognava avanzare lentamente, serpeggiare fra gli alberi e magari abbatterne qualcuno, ma che si poteva fare. Venne fatto il 10 maggio. In contemporanea con un'offensiva di motoscafi a chiglia piatta e paracadutisti per conquistare i ponti e le fortificazioni sul territorio belga. Nella dolce luce serale sul lungomare di Izmir, Szara incontrò un gruppo di francesi (forse commessi viaggiatori o impiegati di società francesi) raccolto attorno a una copia di «Le Temps». A quell'ora il vento soffiava con forza, e gli uomini si premevano i cappelli sulla testa con una mano e con l'altra reggevano le pagine svolazzanti del
giornale. Il volto di una delle donne era rigato di lacrime. Szara si fermò al limitare del capannello e sbirciò. Comprese all'istante l'accaduto: l'aveva già visto succedere in Polonia. Uno degli uomini portava una paglietta dalla tesa piatta. Lasciò la presa sul cappello per appiattire una pagina recalcitrante, e il vento glielo strappò immediatamente dal capo e lo fece rotolare e scivolare lungo la passeggiata. Quella notte Szara fece un pacco dei taccuini, avvolgendoli con cura nella carta marrone e legandoli con dello spago. Un vecchio maglione, qualche romanzo (Balzac, Stendhal, Conrad in francese), una camicia e un paio di calze di riserva, una fotografia di un bistrò parigino strappata da una rivista, una carta stradale di Sofia; tutto questo venne messo nella borsa sopra il pacco. Era giunto il momento che il rifugiato scomparisse, e un bagaglio con un doppio fondo non serviva più ai suoi scopi. Nelle prime ore del mattino successivo, pallido e insonne, Szara si unì alla lunga coda all'ufficio centrale delle poste. Quando raggiunse lo sportello consegnò un cablogramma da inviare all'ufficio di Parigi di de Montfried. Ventiquattro ore dopo ricevette la risposta: gli si fornivano indicazioni per raggiungere una via di banche private dove, sotto un vasto soffitto a cupola che assicurava una perpetua, fresca penombra, un gruppo di uomini dai pantaloni a righe contò e gli consegnò alcune migliaia di franchi francesi. Di nuovo in strada, Szara batté le palpebre al sole e si diresse agli uffici della Denizcilik Bankasi, le linee marittime turche, una venerabile istituzione che da più di un secolo faceva scalo nei porti del Mediterraneo. Gli impiegati furono profondamente comprensivi. Quel patriota francese sarebbe rientrato nel suo paese, viaggiando in una cabina di prima classe per affrontare il suo destino in guerra. Uno dopo l'altro gli strinsero la mano e lo guardarono negli occhi, poi indicarono un corridoio che conduceva al deposito bagagli. E anche lì Szara trovò comprensione. Un supervisore osservava, standosene in piedi con le mani dietro la schiena, il suo giovane assistente che compilava la ricevuta. Con cura rituale una targhetta venne applicata alla maniglia della borsa, dopodiché il supervisore suonò una campanella e un uomo in uniforme blu apparve e portò via la borsa. Szara vide di sfuggita il deposito bagagli quando questi aprì la porta: solidi scaffali di legno si arrampicavano fino al soffitto. Vide vecchie valigette da viaggio, bauli, valigie armadio, casse di legno, perfino alcune valigie diplomatiche di metallo dalle scritte stampigliate. Il supervisore si schiarì la gola. «Non si preoccupi» disse. «La fiducia dei nostri clienti è sacra, anche nei momenti più difficili.» Poi aggiunse: «Buona fortuna e
buon viaggio». La notizia dell'offensiva tedesca contro la Francia si era diffusa per la città come una corrente: la guerra era ormai certa, e sarebbe sicuramente stata peggiore di quella del 1914. Tutti i cittadini di Izmir che Szara incrociò quel giorno si comportavano in modo molto formale e dignitoso; era il loro modo di affrontare la tragedia. Salpò il 14 maggio e giunse a Marsiglia cinque giorni più tardi. Durante il viaggio si trattenne in cabina, facendosi portare i pasti dal cameriere di bordo. Malgrado le partenze delle navi fossero state sospese per il futuro, a bordo c'erano pochi passeggeri: soltanto quelli che sentivano di dover tornare in un paese in guerra. Quando attraccarono Anversa era già stata presa, e la Wehrmacht si era impadronita di Amiens. Il cameriere di bordo di Szara gli confidò che alcuni dei passeggeri avevano la sensazione che fosse già troppo tardi, e che avevano deciso di non sbarcare in Francia. I funzionari della dogana controllarono i passaporti dei passeggeri di prima classe direttamente nelle loro cabine. Non fecero domande a Jean Bonotte: poteva esserci una sola ragione per cui rientrava in Francia. Il giorno dopo Szara era a Ginevra, al volante di un'auto a noleggio poiché i treni erano diventati impossibili e molti dei locomotori e dei vagoni letto erano stati smistati verso nord sotto il controllo delle forze armate francesi. Jean Bonotte ottenne un visto di ingresso in Svizzera valido cinque giorni, il tempo di sbrigare alcune pratiche bancarie che richiedevano la sua presenza. Telegrafò di nuovo a de Montfried, de Montfried rispose di nuovo immediatamente e di nuovo gli diede istruzioni per recarsi in una via di banche private. In questo caso, al posto dei banchieri c'erano degli avvocati in un salotto dall'arredamento elaborato. Vennero sussurrate le presentazioni, venne fatto un accenno al bel tempo e poi venne introdotto nella conversazione il concetto di «intervento»: un'espressione dolce, sottile, addirittura aggraziata se mormorata in francese, una sillaba per volta. Evidentemente significava che certi pubblici funzionari avrebbero deciso di intervenire a favore di Jean Bonotte, poiché non c'era discussione sul fatto che lui fosse il classico gentiluomo che avrebbe dovuto risiedere in Svizzera. Szara non disse quasi nulla. Il Bonotte seduto al tavolo venne praticamente ignorato; era il Bonotte in quanto soggetto legale che interessava a quegli uomini. Erano abili avvocati con voci come violoncelli, e non facevano domande, non esattamente: si limitavano a fornire le risposte, usando per amor di cortesia la forma interrogativa. «Non sarebbe una buona idea informare la prefettura che...» Szara li seguì meglio che poté. Cullato dal ticchettio lontano delle macchine per scrivere e riscaldato dal
sole che si riversava dalla finestra di vetro piombato, si sarebbe addormentato se di quando in quando qualcuno non gli avesse presentato con uno svolazzo un documento da firmare. "È in questo modo" si disse "che si scavalca il filo spinato senza ferirsi le mani." E così ricominciò. Una professione eterna, si rese conto Szara, in quella città temperata, grigia, placida dove il Rodano fluttuava dolcemente sotto i ponti di pietra. Le concessioni venivano accordate, il denaro guadagnato, gli interessi accumulati, i comunicati spediti in buste scritte a mano e le informazioni acquistate, vendute, scambiate o semplicemente messe in cassaforte per un uso futuro. La realtà di quella città non era la segretezza, ma la riservatezza. I colletti dei soprabiti si portavano abbassati. Szara trovò la solita villetta nel solito quartiere insipido, sul chemin de Saussac nella zona meridionale della città, e si mise aggressivamente a badare ai fatti suoi, scomparendo presto nelle ombre del quotidiano e del prevedibile. Con i suoi vicini usava un cenno di saluto secco e inflessibile: niente di più, niente di meno. Comprò tre abiti marroni, diversi fra loro di quel tanto che bastava per far capire al mondo che ne aveva più di uno. Aprì un conto corrente, pagò i suoi conti, svanì. Una città ordinatissima e dignitosa scrisse il fantasmatico B. da Zurigo. Qualcosa di non dissimile dalla nostalgia accompagnò le ore in treno di Szara: tutti quegli sforzi per evitare il timbro postale di Ginevra e al tempo stesso farle sapere che era al sicuro in Svizzera. «Al sicuro» era naturalmente un'espressione relativa. Era pur sempre un fuggitivo. Ma in qualche punto della sua lunga odissea attraverso le strade secondarie dell'Europa meridionale, Szara aveva imparato ad accantonare la sua paura di un castigo inevitabile. Ora sperava soltanto che, se il NKVD l'avesse scovato, non lo rapisse e interrogasse. Se avevano intenzione di ucciderlo, che lo facessero in fretta. Szara aveva conservato alcuni elementi del suo travestimento precedente, più che altro per evitare di essere casualmente riconosciuto da qualcuno. Un giorno una giornalista che conosceva, una belga, prese a fissarlo in mezzo alla strada. Szara si comportò come se avesse ricevuto una lusinga sessuale imprevista ma tutt'altro che sgradita, e lei si allontanò a passo rapido. In un'altra occasione, uno sconosciuto gli si rivolse in un russo esitante. Szara si mostrò perplesso e gli chiese in francese se avesse bisogno di aiuto. L'uomo si scusò con un piccolo inchino e gli diede le spalle. Ciò che contribuiva a proteggerlo, avvertì Szara, era l'atteggiamento del
governo svizzero nei riguardi del NKVD. Nel 1937, il disertore Ignace Reiss era stato abbattuto a pistolettate sotto gli occhi di tutti da alcuni agenti del NKVD. Erano cose che agli svizzeri non piacevano. Ciò che i russi avevano mantenuto, immaginava Szara, erano soltanto alcuni discreti contatti diplomatici e poche reti simili all'OPAL in cui usavano ex membri del partito comunista. Mosca reputava che la cosa migliore fosse rispettare i limiti della pazienza svizzera, da cui era scomparsa ormai da tempo qualsiasi tolleranza per le attività rivoluzionarie. I giovani ebrei in fuga dai Territori non passavano più le nottate nei caffè ginevrini a discutere: chassidismo! Socialismo! Bolscevismo! Sionismo! Lenin, lasciando l'esilio svizzero nel 1917, non si era lasciato dietro alcuna statua, e gli svizzeri non sembravano avere fretta di erigergliene. Ora sarebbe dovuto scendere sul piede di guerra. Era il suo impegno, la sua eredità, non necessitava di alcuna giustificazione. «Ho bisogno di un uomo che può fare qualcosa di buono senza farsi scoprire» aveva detto von Polanyi. Ebbene, Szara era quell'uomo. Nel cassetto della sua scrivania c'era l'indirizzo di un certo negozio di tessuti di Francoforte. Per completare il collegamento aveva soltanto bisogno di un indirizzo fermoposta; lo stabilì a Thonon, dopo una piacevole corsa in treno lungo la riva meridionale del lago Lemano. La linea di comunicazione con la Germania era stata stabilita. Per quanto riguardava la direzione che avrebbero preso le informazioni di von Polanyi, ciò dipendeva da quello che Szara gli avrebbe fornito, la scelta era sua: Ginevra abbondava di possibilità. Discretamente, con cautela, Szara fece un inventario dei candidati. Quelli ovvi (i funzionari politici francesi e inglesi) e quelli meno ovvi. Prese contatto con organizzazioni politiche progressiste. Usò la biblioteca, lesse vecchi giornali, identificò giornalisti dai solidi contatti con la comunità diplomatica. Tramite uno dei legali di de Montfried riuscì a conoscerne uno, una firma ormai in pensione che aveva scritto del mondo politico svizzero in modo straordinariamente penetrante. Si presentò a casa sua con una torta alla vaniglia e una bottiglia di Kirschwasser, e trascorsero il pomeriggio a conversare. Sì, in Svizzera le informazioni erano considerate una risorsa importante, e se ne faceva un'abbondante compravendita. Un certo uomo d'affari svedese, un dirigente del settore petrolifero francese, un professore universitario di linguistica. Szara si finse sorpreso, e il vecchio giornalista fece un gran sorriso. «Ai vecchi tempi era un tremendo comunista, ma immagino abbia avuto un'illuminazione.» L'espressione cinica e divertita che si era dipinta
sul volto del vecchio rivelò a Szara tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Aveva sollevato l'angolo di una rete. Parigi cadde il 14 giugno. Szara vide la famosa fotografia della Wehrmacht che marciava oltre l'Arco di Trionfo. Aveva disperatamente sperato in un miracolo, un miracolo inglese, un miracolo americano, ma non si era verificato. Poiché tutti gli sguardi erano puntati sulla Francia, l'URSS approfittò di quel momento per occupare la Lettonia e l'Estonia, quindi, il 28 giugno, conquistò i territori rumeni della Bessarabia e della Bucovina del nord. Szara spedì una cartolina a un negozio di tessuti di Francoforte. Mia moglie e io programmiamo di tornare a casa il 3 luglio. Le nuove tende saranno pronte per quella data? Tre settimane dopo, una lettera per M.Jean Bonotte, Fermoposta, Thonon. In risposta alla sua richiesta, Herr Doktor Bruckmann sarebbe giunto all'Hotel Belvedere il 10 settembre. I pazienti che desideravano consultare il dottore riguardo a disturbi neurologici avrebbero dovuto prendere appuntamento tramite i loro medici curanti. «Mio Dio» disse l'ometto che aveva accompagnato Szara alla locanda nei pressi di Altenburg. «A quanto pare ha avuto un periodo difficile.» Szara si toccò la cicatrice ormai sbiancata. «Poteva andare peggio» rispose. «Presumiamo che sia pronto a collaborare.» «Sono a vostra disposizione» disse, e illustrò a grandi linee le sue intenzioni, soprattutto riguardo ai corrieri. Insinuò che una certa persona a Berlino avrebbe svolto regolarmente tali servizi, ma giunto a quel punto fu ingannevole. Quella certa persona, giurò a se stesso, una volta giunta in Svizzera non se ne sarebbe più andata finché fosse proseguita la guerra. "Quanto meno salverò quella vita" pensò. Che lo scrivessero pure sulla sua tomba. Von Polanyi avrebbe dovuto trovare altre soluzioni per il futuro. «Come vuole» disse l'ometto accettando la sua scelta. «Ora, credo che questo dimostrerà che siamo sinceri.» Gli consegnò una busta marroncina. «Ah sì, un'altra cosa. Herbert mi ha chiesto di dirle, quando le avrei consegnato il documento, questa frase: "Ora gli amanti bisticciano". Confido che per lei abbia un senso.» Fino al momento in cui Szara quella sera aprì la busta, non ce l'aveva. Poi gli tolse il fiato. In mano reggeva due pagine di comune carta bianca dattiloscritte. La prima comunicazione riguardava lo studio fotografico di un certo Hoffmann sull'Unter den Linden. Herr Hoffmann era il fotografo
preferito di Hider; realizzava ritratti di Eva Braun, l'amante di Hider, e di altri dignitari nazisti. Il mese prima che Hider attaccasse la Polonia, Hoffmann aveva decorato la vetrina del suo negozio con una grande mappa di quel paese. Nell'aprile del 1940 aveva esposto le mappe dell'Olanda e della Scandinavia. Soltanto una settimana prima, il 3 settembre, in vetrina erano state appese mappe dell'Ucraina, della Bielorussia e dei paesi baltici. La seconda comunicazione informava che il ministero dei Trasporti tedesco aveva ricevuto l'ordine di valutare le capacità delle linee ferroviarie da est a ovest che portavano al confine orientale della Germania. Il ministero avrebbe dovuto mettere in conto di trasportare più di un milione di uomini, a cui andavano aggiunti l'artiglieria e i cavalli. La terza comunicazione riportava le richieste di carburante e di manutenzione per gli aerei da ricognizione della Luftwaffe che operavano su Liepāja, su Tallinn, sull'isola di Ösel, sull'arcipelago delle Moonzund e sulla rete stradale che conduceva a Odessa, sul Mar Nero. La quarta comunicazione descriveva il programma dello stato maggiore tedesco di rimpiazzare le unità delle guardie di frontiera nella regione del fiume Bug, la linea divisoria in Polonia tra le forze tedesche e quelle russe, con divisioni d'attacco. Era stato sollecitato uno studio sull'evacuazione dei civili nell'area. I direttori civili di tutti gli ospedali avrebbero dovuto essere sostituiti da militari. L'ultima comunicazione rivelava semplicemente che l'operazione si chiamava Barbarossa: un attacco globale contro l'Unione Sovietica, dal Baltico al Mar Nero, che avrebbe dovuto aver luogo nella tarda primavera o all'inizio dell'estate del 1941. Szara dovette uscire all'aria aperta. Aprì con cautela la porta, ma vide che le case della via erano immerse nel buio e che dormivano tutti. Era una notte nuvolosa e tiepida, terribilmente silenziosa. Szara si sentiva come se fosse immerso nell'ambra, come se il tempo si fosse arrestato su una collina boscosa che sovrastava Ginevra. Mai nella sua vita, si rese conto, aveva provato un simile desiderio di camminare. Ma non poteva. Non era possibile. Vagare senza meta per quelle strade deserte significava attirare l'attenzione, e le pagine che giacevano sulla tovaglia cerata gialla che copriva il suo tavolo in cucina glielo impedivano: ora più che mai non poteva compromettere la signorilità che lo rendeva invisibile. Ma una semplice camminata... sembrava così innocua. In realtà Szara desiderava molto, molto di più. Desiderava quella cosa che chiamava vita, e con vita inten-
deva Parigi, una folla di persone in una stradina, il crepuscolo, il profumo, i corpi non lavati, gli odori pungenti del tabacco delle Gauloises e delle pommes frites. Desiderava la gente di ogni genere, gente che rideva e litigava e si atteggiava e amoreggiava, toccandosi i capelli senza rendersene conto. La desiderava ardentemente. Un bisticcio fra amanti, l'aveva definito von Polanyi. Così, con noncuranza. No, la sua era saggezza. Era un modo per non fronteggiare fino in fondo ciò che significava. Significava che sarebbero morti milioni di persone, e nessuno, nessuno al mondo poteva impedirlo. "Follia" pensò Szara. Ma poi si corresse. Aveva visto un cinegiornale che mostrava Hitler mentre ballava una giga davanti a una vettura ferroviaria a Compiègne, dove i francesi erano stati costretti a firmare un trattato di pace. Uno strano balletto saltellante, come quello di un pazzo. Era la linea delle democrazie occidentali: quell'uomo doveva essere rinchiuso. Szara aveva rivisto il cinegiornale una seconda volta, poi una terza. Il filmato era stato alterato, ne era sicuro. Un passo di giga era stato trasformato in un delirio folle, e Szara aveva avvertito lo zampino di un servizio segreto. Ma Hitler non era pazzo, era malvagio. E quella era un'idea che le persone istruite non gradivano, poiché minava la loro percezione del mondo razionale. Eppure era vero. Ed era altrettanto vero nel caso della sua immagine riflessa, Stalin. Dio solo sapeva quanti milioni di persone aveva assassinato. Un individuo normale si sarebbe ritratto in preda alla nausea al cospetto di uno qualsiasi di quei mostri. Ma non Szara, non adesso. Il lusso della condanna non gli apparteneva. Gli accidenti dei tempi e delle circostanze gli imponevano di accorrere al fianco di uno degli assassini e porgergli un'ascia affilata. Perché in quel momento bisognava fingere che i suoi crimini non avessero importanza, e Szara, conoscendo la verità molto prima di altri, avrebbe dovuto essere uno dei primi a fingere. Fece ciò che doveva esser fatto. Il professore di linguistica era un ometto rabbioso con pochi capelli imbrillantinati su un cranio roseo. Szara lo capiva molto bene: combattivo, sicuro di sé, vanesio, immerso nell'arroganza delle sue teorie. E a onor del vero alquanto brillante, in un suo modo ambiguo. Il partito comunista aveva sempre attratto tipi simili, conferendo loro un'importanza che veniva negata dai loro simili. Quell'uomo aveva uno sguardo acceso da un senso di missione, ed era, Szara doveva ammetterlo, terribilmente scaltro rispetto a ciò che faceva. Ma Szara era l'erede di una grande tradizione; era l'erede di Abramov e Bloch, di una stirpe che risaliva fino all'ufficiale dell'Ochrana e ancora
prima, ed era in grado di tenere testa al professore. Prese ad aggirarsi fra gli scaffali della biblioteca universitaria, seguendo la sua preda. La mancò la prima volta, ma non la seconda. Un rapido struscio con una donna sulla quarantina con un completo scuro di maglia. Szara, scostando dal proprio campo visivo uno studio vittoriano sui fonemi, vide una scatola di fiammiferi che cambiava di mano, e ciò gli bastò. Quando il professore tornò nel proprio ufficio, vi trovò una busta infilata sotto la porta. Il secondo fascicolo di von Polanyi sarebbe arrivato in ottobre, e Szara sapeva che ce ne sarebbero stati altri. Provava una soddisfazione alquanto maligna per tutte le varianti che avrebbe usato con il professore. Forse la prossima volta gli avrebbe spedito la chiave di un armadietto. Ma il professore avrebbe svolto il suo lavoro, di questo Szara era certo. Avrebbe passato le informazioni alla rete fino a farle arrivare a un Kranov, che le avrebbe picchiettate sul suo radiotelegrafo nel mezzo della notte. E così sarebbero arrivate a Mosca. Nella sua immaginazione, Szara si figurava il tipo di benvenuto che veniva approntato per la Wehrmacht: le unità dell'Armata Rossa che venivano segretamente trasportate sul confine a bordo di vagoni merci e autocarri coperti, le trappole per i carri armati che venivano scavate nelle ore buie in cui la Luftwaffe era cieca, le casematte che venivano rinforzate, il cemento che veniva versato. Finché il male minore non avesse sconfitto il peggiore, consentendo al mondo di andare avanti. 18 ottobre 1940. Fra gli alberi colorati dall'autunno di una foresta ai piedi delle Alpi, André Szara osservava le acque del Reno schiumare attorno ai piloni di un ponte. Sulla riva opposta del fiume poteva scorgere il villaggio tedesco di Hohentengen; sopra il municipio, la bandiera rossa e nera sventolava leggera al vento. Un posto grazioso, all'estremità meridionale della Foresta Nera, e tranquillo. Sul versante di Szara, a pochi chilometri di distanza, c'era il villaggio svizzero di Kaiserstuhl, anch'esso grazioso, anch'esso tranquillo. Era un confine pacifico; vi accadeva ben poco. All'estremità tedesca del fiume, due sentinelle erano di guardia a un cancello di legno. Qualche barriera di filo spinato era stata eretta al limitare del villaggio per impedire fughe in auto, ma non era stato fatto altro. Szara consultò l'orologio e vide che non erano ancora le quattro. Spostò il peso per appoggiarsi al tronco di una quercia, facendo frusciare le foglie secche sotto i piedi. Quel luogo era un deserto. Distava poco più di venti
chilometri da Zurigo, eppure era un altro mondo. Rifece mentalmente il percorso del corriere: da Berlino verso Monaco, attraverso il Danubio nella provincia del Württemberg, avanti in direzione del lago di Costanza, poi verso Basilea dove il Reno curvava verso nord, una svolta a sinistra a Hohentengen per imboccare il ponte. Tornò a controllare l'ora: la lancetta dei minuti non si era mossa. Un filo di fumo si levava dal comignolo della baracca da taglialegna che ospitava le guardie doganali svizzere. Loro, a differenza della controparte tedesca sul versante opposto del ponte, non erano costrette a montare di guardia nell'aria gelida di montagna. Eccola. Quando la vide, Szara s'irrigidì. Era un'enorme, scintillante auto nera con lunghi parafanghi curvi e bandierine con la svastica sopra i fanali. Superò lentamente la barriera e si fermò al cancello. Una delle guardie si chinò sul finestrino del conducente, poi scattò sull'attenti e fece un saluto militare. L'altra guardia sollevò il gancio del cancello e lo aprì camminando fino alla balaustra del ponte. L'auto ripartì, e Szara la udì sobbalzare sulle assi irregolari del ponte. La porta della baracca si aprì, e una guardia sbucò fuori e accolse l'auto in Svizzera con un gesto noncurante della mano. Szara, le mani in tasca, s'incamminò su un sentiero che percorreva il versante della collina e scendeva a incontrare la strada in un punto nascosto alla vista delle guardie doganali. Aveva esaminato tutti i ponticelli su quel tratto del Reno finendo per scegliere quello di Hohentengen, e una settimana prima aveva provato l'operazione passo per passo. Era sicuro che l'incontro sarebbe passato inosservato. Scivolando sulle foglie bagnate, raggiunse la strada e proseguì verso l'auto, ferma con il motore acceso accanto a una pietra miliare che mostrava la distanza da Kaiserstuhl. La luce d'ottobre stava rapidamente calando, e l'angolazione obliqua del sole gli impediva di vedere, ma attraverso il parabrezza riuscì a distinguere la sagoma di un autista con un'uniforme e un berretto militare. I finestrini dell'auto erano scuriti per offrire riservatezza ai passeggeri. Szara scorse soltanto la collina riflessa e poi la sua immagine, una mano che si tendeva ad aprire la portiera posteriore e un volto freddo e distaccato, completamente in contrasto con ciò che provava nel profondo. La portiera si aprì senza opporre resistenza, ma Szara non vide quello che si aspettava. Batté le palpebre per la sorpresa. Quelli non erano occhi azzurro pallido, e in loro non c'era affetto. Curiosità, forse; ma nemmeno troppa. Erano gli occhi di un cacciatore, di un predatore. Si limitavano a ricambiare il suo sguardo in modo spassionato e indifferente, come se lui
non fosse che una forma in movimento in un mondo di forme in movimento. «Oh, Serjoža!» esclamò lei dando uno strattone alla catena d'argento del levriere. Szara doveva aver tradito la sua sorpresa, e Nadia soggiunse: «Perché mi guardi così? Non potevo certo lasciarlo a Berlino, non trovi?». Si sporsero al di sopra del cane per abbracciarsi. Szara si sentì avvampare il cuore. La presenza di Serjoža significava che Nadia non aveva alcuna intenzione di tornare a Berlino. Per lei, la vita fra le ombre era finita. Di questo era assolutamente certo. Postfazione Questo romanzo è basato su una conversazione che si tenne nel febbraio del 1937 in una clinica privata di Parigi. In convalescenza dopo un incidente stradale, l'agente segreto sovietico L.L. Feldbin (alias Aleksandr Orlov) ricevette la visita di suo cugino Zinovy Katsnelson, un commissario statale del controspionaggio per l'Ucraina. Katsnelson gli disse che membri del gruppo ucraino all'interno dei servizi segreti, di origini prevalentemente ebraiche, avevano in programma di rovesciare Stalin denunciandolo al partito per il suo ruolo di ex agente dell'Ochrana. Le prove di tale legame erano contenute in tre copie di un dossier dell'Ochrana in possesso del gruppo. Entro il marzo del 1937, Katsnelson era già stato richiamato a Mosca e fucilato. Feldbin disertò durante una missione in Spagna nel luglio del 1938 e riuscì a raggiungere gli Stati Uniti. Molti anni dopo, nel corso del suo interrogatorio, riferì quello che gli aveva detto Katsnelson. Alcuni dei personaggi di questo libro compaiono anche nel romanzo Night Soldiers. Ho cercato di far sì che i nomi, gli incarichi e le località corrispondessero, con un'eccezione: in Night Soldiers, il rezident Yadomir Ivanovič Bloch (Yaschyeritsa) è un generale di corpo d'armata, un grado di tale visibilità che non gli avrebbe permesso di operare come fa in L'ombra delle stelle. Pertanto, in questo romanzo, Bloch è stato retrocesso a tenente generale. Ringraziamenti Sono grato a molte persone per l'aiuto che mi hanno fornito nella stesura di L'ombra delle stelle: storici del periodo, bibliotecari, librai e amici. Sono troppi per poterli nominare in questa sede. Vorrei tuttavia ringraziare
Abner Stein e Anne Sibbald per il loro generoso sostegno e incoraggiamento; la redattrice Luise Erdmann per la sua ricerca di chiarezza e precisione in un mondo caotico; e specialmente Joe Kanon, in particolare per la sua fiducia nella mia opera e in generale perché rende possibile che gli scrittori più diversi continuino a fare ciò che sanno far meglio. FINE