J.A. JANCE L'OTTAVO ERRORE (Tombstone Courage, 1994) PROLOGO Sassi gli piovvero addosso come un fuoco di mitraglia conti...
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J.A. JANCE L'OTTAVO ERRORE (Tombstone Courage, 1994) PROLOGO Sassi gli piovvero addosso come un fuoco di mitraglia continuo e letale, dapprima piccoli, poi sempre più grossi. All'inizio, lui riuscì a spostarsi di qua e di là, strisciando sul ventre, con le mani e con le braccia sollevate a proteggere la testa. «Basta...» implorò, con la voce soffocata dalla terra e dalle pietre su cui premeva il viso. «Basta, per favore! Giuro che non lo farò mai più! Mai più!» Ma i sassi continuarono a piovere brutalmente, percuotendogli le gambe, le braccia, la base della schiena, e lui non poté fare altro che strillare per il dolore, senz'alcuna via di fuga, senz'alcun nascondiglio. L'aggressione non durò più di cinque minuti in tutto, ma per lui, che ne fu la vittima, sembrò protrarsi all'infinito. E in un certo senso fu proprio così, perché alla fine si trovò semisepolto e privo di vita sul fondo della fossa cosparso di sassi, con il cranio parzialmente sfondato da una pietra di quattro chili. CAPITOLO 1 Harold Lamm Patterson si sforzava di vedere attraverso il parabrezza inondato di pioggia. Attento al traffico, varcò il cancello del Rocking P Ranch e s'immise sulla strada principale con il suo vecchio camioncino International Scout. La pioggia cadeva così fitta da ridurre enormemente la visibilità, ma il problema era dovuto anche, in parte, alla sua vista. Sua figlia, Ivy, lo tormentava, ricordandoglielo in continuazione, e probabilmente aveva ragione. Però, grazie a Dio, il suo udito era ancora perfetto. A ottantaquattro anni, persino con i nuovi occhiali trifocali, i suoi occhi non erano più acuti come un tempo. Ma Harold pensava che il vero problema fossero quei dannati tergicristalli, ormai vecchi e consumati. Stridevano sul parabrezza incrostato di polvere e cosparso d'insetti spiaccicati senza aderire perfettamente, lasciando scie di acqua melmosa. Sembrava che nell'Arizona meridionale ci si accorgesse che i tergicristalli erano ormai da sostituire soltanto quando se ne aveva bisogno, e
quando si era troppo impegnati a guidare alla cieca per poter rimediare. La prossima volta che si fosse fermato alla A & A Autoricambi per bere un caffè e per chiacchierare con Gene Radovich, il commesso, Harold si sarebbe sicuramente dimenticato di dover cambiare i tergicristalli, se non fosse stata una giornata piovosa. Ciò gli ricordò le parole di una vecchia canzone intitolata Manana. Perché riparare un tetto che perde in un giorno di sole? Era la stessa cosa. Ma quel giorno, una mattina d'inizio novembre insolitamente fredda, pioveva maledettamente. Una tempesta invernale proveniente dal Pacifico si era spostata sul deserto di Sonora, inondando gli alvei normalmente asciutti dei torrenti e gettando sulle Mule Mountains un grigio manto di umidità che era freddo quasi quanto il vecchio cuore ostinato di Harold Patterson. La causa per danni personali che sua figlia gli aveva intentato sarebbe stata la prima a essere discussa alla Corte Superiore di Cochise County quello stesso mercoledì, ossia l'indomani mattina alle nove, se lui non avesse escogitato un modo per impedirlo, cioè se non fosse riuscito in qualche modo, con un bluff, a convincere Holly a parlare con lui, e poi a concludere un accordo e a ritirare la denuncia. Aveva cercato di parlarle diverse volte, da quando era arrivata in città, ma inutilmente. Il suo difensore, un dannato avvocato di successo, duro e aggressivo, aveva risposto con un chiaro e irrevocabile no, a meno che Harold decidesse, come minimo, di andare da lei col cappello in mano. Sua figlia rifiutava di vederlo, anzi, non voleva neppure fargli sapere dove si trovava. Sua figlia... Quel solo pensiero bastò per indurre Harold a stringere il volante liscio e consunto in una morsa con le mani artritiche e nodose: le stesse mani con cui aveva torto il collo a innumerevoli galline destinate al pranzo domenicale. Continuò a pensare a Holly e alla sua maledetta causa per tutto il tempo in cui viaggiò, alla guida del giallo Scout ansimante, sulla Highway 80 spazzata dalla pioggia, su per il valico montano che gli abitanti della zona chiamavano Divide, e giù per la strada tortuosa di Tombstone Canyon fino a Old Bisbee. Holly era nata il Quattro Luglio. Lui avrebbe voluto chiamarla Linda, abbreviato in Indy per onorare il Giorno dell'Indipendenza, ma Emily non aveva voluto saperne. Aveva sempre detto che, se mai avesse avuto una o due figlie, avrebbero preso il nome dalla canzone di Natale preferita di sua nonna, The Holly and the Ivy, e quindi si sarebbero chiamate come l'agri-
foglio e l'edera, anche se non fossero nate intorno a Natale. Così la prima figlia si era chiamata Holly, e talvolta Harold si chiedeva se, anche con un nome diverso, sarebbe stata spinosa come l'agrifoglio. Holly Patterson era venuta alla luce dopo le gare che si disputavano tradizionalmente a Bisbee per festeggiare il Giorno dell'Indipendenza, ma prima della parata del Quattro Luglio, che ogni anno percorreva Tombstone Canyon. Era nata in una mattina d'estate terribilmente calda, all'Old Copper Queen Hospital, quello in mattoni, a Old Bisbee, e non quello nuovo, color albicocca, giù a Warren. A quell'epoca non era stata ancora installata l'aria condizionata, perciò le infermiere avevano spalancato le finestre della sala parto nella speranza che entrasse un po' di brezzolina. Emily aveva strillato fin quasi a staccarsi la testa, e per diverse ore di seguito, o almeno così era parso al povero padre ansioso che aspettava fuori. Harold ricordava vividamente ogni cosa di quella mattina, come se tutto fosse accaduto il giorno prima. Lasciato solo con se stesso in sala d'attesa, era fuggito dall'ospedale quando non era più riuscito a sopportare le grida di sofferenza della moglie. Con le tutte le finestre aperte, però, era stato impossibile non sentire gli strilli di Emily, e non soltanto per lui, ma anche per tutti coloro che si trovavano nei dintorni, inclusa la folla di chi assisteva alle corse o aspettava la parata. Le urla incessanti erano rimbombate fra le colline vicine ed erano rimbalzate su e giù per i canyon, e la gente stipata lungo i marciapiedi si era chiesta che cosa diavolo stessero mai facendo a quella povera donna: la stavano forse massacrando o torturando? Nel passeggiare avanti e indietro sul praticello fra l'ospedale e l'edificio che ospitava la sede della compagnia mineraria Phelps Dodge, anche Harold si era domandato che cosa le stessero facendo. E quando il vecchio Doc Winters aveva finalmente praticato l'epidurale che aveva zittito sua moglie, era sprofondato in una disperazione assoluta. Nel momento in cui Emily aveva smesso di urlare, si era convinto che fosse finita, che lei fosse morta. Naturalmente, non era stato affatto così. Emily stava benissimo, e così pure la bambina. Gli uomini non dimenticavano sofferenze del genere, ma le donne sì. Se fosse stato per lui, quella prima figlia sarebbe rimasta l'unica, per sempre. In seguito, tenendo in braccio la bella bimba per allattarla, Emily gli aveva sorriso e gli aveva detto che ne era valsa la pena, per Holly. Allora Harold non ne era stato tanto sicuro, né lo era stato dieci anni più tardi, alla nascita di Ivy, e di certo non lo era adesso.
Le cose cambiano. La sala parto in cui erano nate Holly e Ivy era diventata l'aula della scuola domenicale della chiesa presbiteriana che si trovava dall'altra parte della strada. Uno studio legale, anzi, il più grande della città, occupava il piano basso che era stato del dispensario e della farmacia. Aveva l'ufficio là anche Burton Kimball, nipote e avvocato di Harold. E l'irascibile, permalosa Holly? Harold scosse la testa e serrò le mascelle. Ancora una volta le sue dita si strinsero come una morsa intorno al volante dello Scout. Holly era Holly. Se avesse avuto il potere di cambiarle la vita, Harold lo avrebbe sicuramente fatto. Holly era cresciuta dura, ostinata, intrattabile. Aveva cominciato a scappare di casa durante l'adolescenza. Comunque era tornata a Bisbee, alla fine, e alloggiava Dio soltanto sapeva dove. Harold aveva sentito dire che Holly e la sua amica giravano per la città con la Allanté rossa sgargiante di qualcuno, dandosi arie con tutti. Era perplesso a proposito dell'auto. Poteva anche essere di Holly, ma ne dubitava. Se aveva abbastanza soldi per comprare una macchina del genere, perché era tornata a casa con l'intenzione di portargli via il ranch? No, doveva essere completamente al verde, o quasi. Altrimenti perché, dopo trentaquattro anni senza neppure una lettera né una telefonata, sarebbe improvvisamente tornata a casa, in una città che disprezzava? A sedici anni, molto precoce, aveva giudicato peggiore della prigione la vita al Rocking P. Quale motivo, se non la più nera miseria, poteva averla indotta al ritorno, a cinquant'anni, per esigere la propria parte del patrimonio di famiglia? Holly era la sua primogenita. Se avesse avuto bisogno di aiuto e se glielo avesse chiesto, Harold sarebbe stato felice di assisterla, nonostante i dispiaceri e i dissidi di un tempo. Ma Holly si era rifatta viva intentandogli causa per mezzo di un grosso avvocato della California, il quale si aspettava che Harold si limitasse a cedere, chinando la testa. Per giunta l'attacco aveva mirato con precisione a ciò che rendeva Harold più vulnerabile, e per cui si sentiva colpevole. Naturalmente, Harold aveva respinto le accuse di Holly, e quando una cronista di «People» era arrivata al Rocking P per dirgli che stava scrivendo un articolo sui «ricordi rimossi», Harold aveva fatto del proprio meglio per evitare di raccontare la propria versione della storia. Ma la giornalista, una donna di provincia dall'occhio acuto e dalla lingua tagliente, lo aveva messo alle strette, anche se lui non riusciva più a ricordare con precisione come ci fosse riuscita. D'altronde, benché non ricordasse le parole esatte, ne rammentava abba-
stanza bene il senso, e si chiedeva se l'argomento le fosse stato suggerito da Holly, oppure da Amy Baxter, la sua cosiddetta ipnoterapista. In sostanza aveva chiesto velatamente quale fosse stata la sorte della figlia che era rimasta al ranch, visto che l'altra era stata costretta a fuggire di casa per sottrarsi alle molestie sessuali. La figlia che era rimasta, Ivy, la vecchia zitella, era stata forse consenziente? La giornalista aveva dato grande importanza al fatto che Harold e Ivy vivevano soli al Rocking P, come se tale situazione fosse, in se stessa, sufficiente a suscitare sospetti. Con un incredibile sforzo di autocontrollo, Harold si era trattenuto dall'afferrare la donna e buttarla letteralmente fuori di casa. Non era certo sorprendente, se l'articolo ricavato dall'intervista lo descriveva come una sorta di mostro lussurioso che, imponendo loro rapporti incestuosi, aveva rovinato la vita a entrambe le figlie. La stessa Ivy, solitamente molto calma, era impallidita, leggendo l'articolo, e ne aveva incolpato Holly. Aveva esortato Harold a querelarla e a incaricare Burton Kimball di denunciare la rivista per diffamazione. Dato che aveva avuto le sue buone ragioni per farlo, Harold aveva rifiutato, provocando così un violento litigio. Da settimane, ormai, lui e Ivy quasi non si parlavano più. Ciascuno continuava a sbrigare le proprie faccende al ranch, ma senza più la consueta armonia. Tentando di non litigare con una delle figlie, Harold aveva finito inevitabilmente per litigare con l'altra. Deciso a risolvere il problema limitando al massimo ulteriori danni a tutte le parti interessate, Harold aveva riposto tutte le proprie speranze nella partecipazione di Holly all'udienza. Aveva pensato di riuscire in qualche modo a riunire le figlie e a seppellire finalmente il passato, una volta per tutte. Ma ciò non era stato possibile. Nella settimana che era seguita al suo ritorno a Bisbee, Holly aveva insistito per avere rapporti coi famigliari soltanto attraverso i rispettivi legali. Harold non aveva potuto neppure parlarle al telefono e non era riuscito a sapere da nessuno dove alloggiava. Quel giorno, comunque, la situazione sarebbe finalmente cambiata. Aveva escogitato un modo per cambiarla, un modo per aggirare le difese di Holly. Harold si stava recando in città con l'intenzione di offrire quella che avrebbe dovuto sembrare un'esca allettante. Era disposto a proporre a Holly un risarcimento totale, capitolando senza condizioni e concedendole tutto quello che voleva. Per una come Holly, sarebbe stata un'esca irresistibile, ma anche una trappola, perché quando si fosse arrivati al dunque, Harold avrebbe posto la propria condizione, che sarebbe stata quella di eliminare
la mediazione degli avvocati per discutere in privato, soltanto lui e le figlie, senza nessun altro. Finalmente e definitivamente, avrebbe rivelato la verità a entrambe. Di sicuro, una volta svelata la verità, sarebbero riusciti a trovare, tutti e tre insieme, un'intesa, un modo per riconciliarsi. Escogitato il piano, Harold aveva concesso a se stesso la speranza del successo. Forse, se avesse saputo tutto, Holly avrebbe ritirato la denuncia e avrebbe richiamato quei cani dei suoi legali. Harold Patterson non riusciva a immaginare niente di peggio che essere costretto a sopportare l'umiliazione di un pubblico processo. Poteva ben prevedere come si sarebbe sentito, seduto in un'aula afosa del tribunale di Cochise County, affollata di amici e di vicini che conosceva da tutta la vita. Sarebbe stato costretto a lasciarsi mettere completamente a nudo e ad ascoltare la testimonianza della figlia sulla natura esatta dei suoi presunti crimini e sugli atti orribili che si supponeva l'avesse obbligata a compiere. Forse Holly era riuscita davvero a ricordare, e in tal caso... Pensando a quella eventualità, Harold si agitò sul sedile dello Scout come se fosse seduto sui carboni ardenti. Un dolore improvviso e violento gli partì dallo sterno e si diffuse a entrambe le spalle, per poi scendere fino agli avambracci contratti. E se Holly ricordava davvero? Quali sarebbero state le conseguenze? Harold rammentava il detto secondo cui la verità rende liberi. Sarebbe stato così anche per lui? Ne dubitava. Nel suo caso, la verità sembrava piuttosto qualcosa di simile a un genio malvagio. Il suo timore era che, una volta strofinata la lampada e liberato il genio, le cose sarebbero cambiate per sempre. Dire la verità avrebbe significato infrangere promesse antiche, trasformare per sempre le esistenze di persone innocenti. D'altronde, gli innocenti finivano sempre per soffrire. Era così che andava il mondo. CAPITOLO 2 In accappatoio, con i capelli bagnati avvolti in un asciugamano, Joanna Brady sostò sulla soglia della cucina a osservare la figlia di nove anni, Jenny, che mescolava svogliatamente col cucchiaio i cereali freddi nella tazza, senza riuscire a finirli. «Avevi detto che volevi l'avena, se non sbaglio», scattò Joanna, irritata. «Se non la vuoi, benissimo. Dalla pure ai cani. Però smettila di rimestarla così», aggiunse, rammaricandosene nel momento stesso in cui lo diceva. Jennifer non aveva mangiato quasi niente negli ultimi giorni, dando alla
madre un ulteriore motivo di preoccupazione che si aggiungeva alla sua già profonda sofferenza. «Mi dispiace», si affrettò subito a scusarsi Joanna, cercando di scherzare. «Sembro proprio nonna Lathrop, eh?» Era vero. Era esattamente così che si sarebbe espressa Eleanor Lathrop, anzi, era così che si esprimeva sempre, soprattutto quando soffriva. Criticare era sempre stato il suo asso nella manica. Ma perché Joanna si comportava allo stesso modo con la figlia, quando in realtà avrebbe voluto soltanto prenderla fra le braccia, stringerla e confortarla? Invece di essere severa, Joanna aveva bisogno di condividere la propria sofferenza con Jenny. Dopotutto, Joanna Lathrop Brady capiva fin troppo bene come si sentiva una figlia che aveva perso il padre, perché la stessa cosa era successa a lei. Tuttavia, il dolore di essere vedova da poco tempo le impediva in qualche modo di consolare Jennifer, rimasta a sua volta orfana. Joanna era sempre stata orgogliosa del rapporto speciale che aveva con Jenny, ma nelle sei brevi settimane che erano trascorse da quando un sicario del cartello della droga aveva assassinato suo marito, Andrew Brady, vicesceriffo di Cochise County, sembrava che un insolito muro di silenzio e d'incomprensione si fosse innalzato in casa Brady. La confidenza fra madre e figlia, che era sempre stata completa e reciproca, era turbata da silenzi inquieti, punteggiati di parole rabbiose e di occasionali crisi di pianto. Senza neppure un'occhiata alla madre, Jenny prese la tazza, lasciò silenziosamente il tavolo e si diresse alla veranda posteriore. Sempre interessati agli avanzi, i due cani, cioè Tigro, un buffo incrocio fra un pit bull e un golden retriever, adottato di recente, e Sadie, una slanciata bluetick coonhound, si alzarono di scatto dai posti dove riposavano di solito, accanto alla porta, e corsero incontro alla bambina. Joanna srotolò l'asciugamano e scrollò la testa per sciogliere i capelli rossi. Si stava servendo il caffè, quando Jenny rientrò in cucina per lavare la tazza. Aveva negli occhi azzurri un'espressione turbata, depressa e sembrava in procinto di piangere. Anche quando la tazza fu ormai completamente pulita, Jenny non smise di risciacquarla. Resistendo all'impulso di dirle di chiudere il rubinetto e di non sprecare acqua, Joanna tentò ancora una volta di rimettere le cose a posto. «Scusa se sono tanto impaziente», disse. «Oggi ci sono le elezioni, perciò ho fretta e sono un po' nervosa. Dovremo uscire prima del solito, così potrò passare a votare prima di andare al lavoro.» Dinanzi all'acquaio, Jenny girò la testa a guardare la madre. «Vuoi vota-
re per te stessa?» chiese. «Votare per me stessa? Certo. Perché me lo chiedi?» Jenny abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle. «Non so... Pensavo che, se sei sportiva, voti sempre per il tuo avversario, nelle gare e cose così...» Joanna si avvicinò a Jenny, le posò le mani sulle spalle per un momento, poi le prese il mento e le fece sollevare la testa per poterla guardare negli occhi. «È una cosa che devo fare, Jenny», disse Joanna. «Per noi e per tuo padre. Non è un gioco. E se io non votassi per me stessa e finissi per perdere per un solo voto? Non avrebbe senso votare per uno dei miei avversari. Giusto?» «Beh, no...» mormorò Jenny, prima di sottrarsi alle mani della madre. «Adesso devo vestirmi.» Mentre Jenny correva via, Joanna batté le palpebre per scacciare le lacrime. Sembrava impossibile che Andy fosse morto da meno di due mesi. Sembrava che fosse trascorso molto più tempo, anzi, una vita intera. Com'era possibile che tutto il suo mondo fosse stato sconvolto in così breve tempo? In apparenza non erano cambiate molte cose. Abitava ancora con la figlia nella stessa casa, lo stesso comodo prefabbricato Sears che lei stessa e Andy avevano comprato anni prima dai genitori di lui. Eppure la casa non era più la stessa. Senza la presenza di Andy, era di gran lunga troppo quieta e silenziosa, proprio come lo era Jenny. La bimba allegra, sorridente e affettuosa che il 1° settembre era stata tanto contenta d'incominciare il terzo anno di scuola... non esisteva più. In meno di due mesi si era trasformata nell'ombra pallida e triste di quella che era stata un tempo. Era diventata una specie di malinconica adulta in miniatura che viveva all'interno di un guscio duro e insieme fragile. E Joanna condivideva dolorosamente la sua sofferenza, capiva che cosa stava succedendo a sua figlia... Ma perché il dolore comune le separava, anziché unirle? Scuotendo la testa, Joanna ritornò in camera da letto a vestirsi. Avvilita, rimase immobile davanti all'armadio, da cui non aveva ancora trovato il coraggio di togliere gli indumenti di Andy. Col profumo del marito che ancora indugiava nell'aria, cercò di decidere che cosa mettere. Quale poteva essere l'abbigliamento più adeguato alla circostanza? Non esistevano manuali di comportamento per le donne candidate alla carica di sceriffo, le quali, per giunta, erano rimaste vedove di recente. Come se non bastasse, il
problema di cosa indossare aveva a che fare anche con tutti gli altri problemi, più profondi. Tanto per cominciare, perché aveva deciso di candidarsi? Perché stava passando tutto questo? E perché lo stava facendo passare anche a Jenny? Era sembrata una buona idea, durante il funerale di Andy, e anche dopo, quando tutti erano molto commossi. Gli amici, i vicini, persino molti perfetti sconosciuti di ogni parte della contea, l'avevano esortata a candidarsi, l'avevano incoraggiata a prendere il posto di Andy. Allora persino Jennifer era stata favorevole. E quando Joanna aveva acconsentito, seppure con riluttanza, lo aveva fatto, in parte, perché aveva creduto che Jenny l'avrebbe aiutata, che si sarebbero impegnate insieme, che la meta comune le avrebbe unite, aiutandole a occupare tempo ed energie. Aveva creduto che le elezioni avrebbero fornito loro l'obiettivo di cui avevano bisogno, impedendo alle loro vite di concentrarsi esclusivamente sulla morte di Andy. Invece non era andata per niente così, anzi, la campagna elettorale aveva provocato rivalità e ostilità. Jenny aveva perso interesse quasi subito e aveva ostacolato la madre, anziché aiutarla, innalzando costantemente barriere infantili di lamenti e di piagnistei. Quanto a Joanna, l'esperienza che aveva accumulato partecipando alle campagne elettorali del padre e di Andy non le era stata così d'aiuto come aveva sperato, perché in quei casi era stata soltanto una rotella dell'ingranaggio, un membro della squadra, non la candidata. Costretta a fare tutto da sola, senza il sostegno di Andy, ne era rimasta soverchiata. Come candidata, era stata costretta a occuparsi personalmente di quelle attività di propaganda che non aveva potuto delegare ad altri, cioè partecipare alle riunioni, tenere discorsi, suonare alle porte degli elettori. Al tempo stesso non aveva potuto delegare neppure i propri compiti di madre vedova, né le esigenze del suo lavoro, che era rimasto l'unica fonte di reddito della famiglia. La sola cosa buona, in tutto questo, era che talvolta, di notte, quando si lasciava cadere sul letto, era così stanca che si addormentava senza difficoltà, anziché rigirarsi a lungo, incapace di prendere sonno. Alla fine, Joanna prese due grucce dall'armadio, una con un blazer grigio, di lana non molto pesante, l'altra con una camicetta grigio perla. Si accingeva a stenderli sul letto, quando squillò il telefono. Allora li lasciò cadere e corse a rispondere. «Ciao», disse Eleanor Lathrop alla figlia. «Come va stamane?» Non molto bene, pensò Joanna. Però disse: «Benissimo, mamma. E tu?» «Che cosa vuoi metterti, oggi?»
«È strano che tu me lo chieda», rispose Joanna. «Ero proprio qui, in sottoveste, a chiedermi la stessa cosa.» «Beh, indossa qualcosa di bello», ordinò Eleanor. «Ho guardato il telegiornale di Tucson, e stavano giusto parlando di te e del fatto che sei l'unica donna in tutto lo Stato a essersi candidata alla carica di sceriffo. Dicono che, se sarai eletta, sarà una novità importante. Pensano di mandare quaggiù una troupe televisiva per seguire le elezioni in diretta.» Alle parole «troupe televisiva», Joanna si lasciò cadere sul letto. «Vogliono riprendere me?» riuscì a dire. «Che ne dici di quel tuo nuovo blazer grigio e di quella camicetta perla?» continuò Eleanor. «Andrebbero bene. A proposito... Che fai dopo il lavoro?» «Dopo il lavoro?» «Ho chiamato Helen Barco e ti ho fissato un appuntamento al suo salone di bellezza per le quattro.» «Mamma...» iniziò Joanna. Ma Eleanor, spietatamente, travolse l'obiezione sul nascere. «Ascolta, Joanna... So che non ti piace tanto andare dalla parrucchiera, ma ci sarà la televisione. La gente ti vedrà. È importante che il tuo aspetto sia al meglio. E poi ho detto a Helen che pago io. Non capita tutti i giorni di avere una figlia che viene eletta sceriffo. Giusto?» L'opposizione iniziale di Eleanor alla candidatura di Joanna si era trasformata a poco a poco, dapprima in un'accettazione riluttante, poi in un appoggio molto partigiano e molto attivo. E dire alla propria madre di andare a buttarsi nel lago era ben diverso che insultare una fedele sostenitrice e propagandista elettorale. Soltanto Marianne Maculyea, la migliore amica di Joanna, nonché coordinatrice della sua campagna elettorale, aveva dedicato a sostenere la sua candidatura più ore di lavoro di sua madre, Eleanor Lathrop. «E va bene...» cedette Joanna. «Alle quattro, hai detto?» «Giusto. Shampoo, casco, trucco e manicure.» «Anche la manicure?» «Non ti farà mica male», disse Eleanor. «Potrebbe persino piacerti. E cosa mi dici di Jenny? Verrà o non verrà anche lei alla festa al centro convegni, dopo la chiusura dei seggi?» «Non ne abbiamo nemmeno parlato. Domani dovrà andare a scuola, quindi non potrà fare tardi, ammesso che abbia voglia di venire.» «Beh, sono sicura che i Brady saranno felici di accompagnarla a casa
quando comincerà a stancarsi. Ascolta quello che ti dico... Jim Bob ed Eva Lou Brady non rimarranno granché alla festa. Non sono molto socievoli.» Quella definizione era sicuramente esagerata per difetto. La concezione che i suoceri di Joanna avevano dei rapporti sociali era limitata a trattenersi in chiesa per un caffè dopo la funzione e dopo il sermone, una o due volte al mese, oppure partecipare di quando in quando a una cena sociale. «Glielo chiederò», disse Joanna, lanciando un'occhiata all'orologio. Il tempo stava volando. «Adesso devo andare, mamma», aggiunse. «Okay», rispose Eleanor. «Ma non dimenticarti di votare. Io vado alla centrale telefoni appena finiamo di parlare.» Le conversazioni telefoniche erano l'elemento naturale di Eleanor Lathrop, e la coordinatrice della campagna di Joanna ne aveva saggiamente approfittato, traendone il massimo vantaggio a beneficio della campagna stessa. «Non lo dimenticherò», assicurò Joanna. «E grazie per l'appuntamento da Helen. Sei stata molto premurosa.» Interrotta la comunicazione, Joanna tornò all'armadio e si affrettò a rimettere a posto il blazer e la camicetta, sostituendoli con una robe-manteau blu con due file di grossi bottoni dorati. Avrebbe preferito il blazer, ma dato che l'aveva scelto anche sua madre, non l'avrebbe indossato per niente al mondo. Quando Joanna stava finendo di asciugarsi i capelli, Jenny bussò alla porta del bagno, già vestita e accompagnata dai due cani. Pòi si lasciò cadere mestamente sul letto matrimoniale, mentre Sadie e Tigro si accucciavano sul pavimento vicino a lei. «Era nonna Lathrop al telefono», disse Joanna. «Voleva sapere se verrai alla festa di stasera, su in città.» «Devo proprio?» Guardando oltre il riflesso del proprio vestito blu nello specchio, Joanna vide che Jenny, bionda, con gli occhi azzurri, assomigliava molto al padre nell'aspetto ma che, per quanto riguardava la personalità, aveva preso decisamente dalla madre. «Naturalmente non sei obbligata», ribatté Joanna. «Però sei mia figlia, e mi piacerebbe che tu ci fossi.» «Anche se perdi?» Joanna sedette sul letto per infilarsi le scarpe. «Non credo che perderemo», disse, cercando di sembrare molto più fiduciosa di quanto si sentisse. I suoi due avversari, Frank Montoya, marshal cittadino di Willcox, e Al
Freeman, vicecapo della polizia di Sierra Vista, non le avevano dato tregua e non le avevano lasciato nessun vantaggio. Il risultato elettorale non era affatto garantito. «Ma anche se perderemo», continuò, «dovremo andare lo stesso alla festa. Comunque vada, dobbiamo ringraziare chi ci ha sostenuto.» Allora, nel breve silenzio che seguì, Joanna divenne tardivamente consapevole di qualcosa che pure aveva percepito nella voce di Jenny, forse un tono dubbioso, e si volse alla figlia. «Tu vuoi che vinciamo... vero, Jenny?» «Credo di sì...» sussurrò Jenny. «Bene.» Joanna si alzò, facendo alzare anche la bambina. Per un lungo momento rimasero là, accanto al letto, nella cameretta di Joanna, strette l'una all'altra in un forte abbraccio protettivo. Eleanor Lathrop aveva sempre sostenuto di avere gli occhi anche nella nuca, ma Joanna non aveva tali pretese, perciò, nell'abbracciare la figlia, non si accorse che quest'ultima, Jennifer Ann Brady, incrociava strettamente le dita dietro la schiena. Con entrambe le mani. CAPITOLO 3 Nel percorrere Tombstone Canyon, Harold fu tentato di tirare dritto senza sostare alla chiesa metodista, ma all'ultimo momento svoltò nel parcheggio. Dopotutto, era il giorno delle elezioni e lui, da quando ne aveva l'età, non aveva mai mancato di esercitare quello che era un suo diritto e un suo dovere. Mai, neanche una volta. Tuttavia, col processo imminente e la fabbrica dei pettegolezzi di Bisbee che produceva senza posa dicerie sulla sua famiglia, Harold avrebbe preferito astenersi e lasciare che quelle elezioni relativamente prive d'importanza si svolgessero senza il suo contributo. D'altronde, un tale comportamento sarebbe stato giudicato vigliacco. E Harold Lamm Patterson non era affatto un codardo. Si tolse lo Stetson bagnato di pioggia, poi, scrollandolo, varcò la soglia della sala di ritrovo nel seminterrato della chiesa, dove gli elettori della sua circoscrizione si recavano a votare da trentadue anni. Aveva sperato di trovarla quasi vuota, a parte gli addetti al seggio, ma non fu così. Era possibile che gli elettori avessero fame, quindi le intraprendenti si-
gnore dell'Associazione di Preghiera dell'Unione delle Donne Cristiane avevano allestito un banchetto per la vendita delle vivande. Alcune delle donne più in vista della città erano radunate a ridere e a chiacchierare intorno a una grossa macchina per il caffè. Poiché le conosceva tutte, Harold fece del suo meglio per evitarle. Una in particolare, Tottie Galbraith, lo aveva ignorato l'ultima volta che si erano incrociati all'ufficio postale, subito dopo la pubblicazione dell'articolo su «People». Nella smania di schivarlo, aveva sbattuto contro la porta girevole, rischiando di farsi male. Anche là, nel seggio, Tottie non rinunciò a manifestare la sua disapprovazione, seppure in maniera meno plateale. Di sicuro intravide Harold con la coda dell'occhio, tuttavia non accennò a salutarlo, anzi, inarcò un sopracciglio e si girò per continuare a mostrargli la schiena. Intanto, l'energico vocio del gruppetto femminile si abbassò a un mormorio udibile a malapena. Harold non ebbe bisogno di sentire quello che dicevano per sapere che stavano sparlando di lui. Pur arrossendo fino alle orecchie, non si diede alla fuga. Intanto si disse, con perversa soddisfazione, che qualunque cosa gli risparmiasse di parlare con Tottie Galbraith non poteva essere tanto negativa. Aveva quasi superato il gruppetto, quando, all'ultimo momento, Marliss Shackleford si allontanò dalle altre e lo inseguì con una mano protesa e un finto sorriso di benvenuto. «Ehi! Harold Patterson!» chiamò la donna. «Poverino! Come fai a sopportare tutto questo?» Benché avesse terminato le superiori da una cinquantina d'anni, Marliss continuava a comportarsi come una smorfiosa ragazza pon-pon. Aveva dedicato venticinque anni all'opera della sua vita, cioè scrivere ogni settimana un articolo per il «Ronzio di Bisbee», la presunta rubrica di «colore locale» del «Bisbee Bee», ovvero l'«Ape di Bisbee», il quotidiano cittadino che sopravviveva a stento. Nulla riusciva ad attenuare l'entusiasmo che Marliss Shackleford ricavava dall'essere un pesce grosso in uno stagno molto piccolo. «Benissimo, Marliss», assicurò Harold. Evitarla era ormai impossibile, perciò la tattica migliore sarebbe stata quella d'indurla a parlare d'altro. «Io me la cavo benissimo», disse. «E i tuoi nipotini?» «Oh, i gemelli stanno a meraviglia», rispose Marliss, raggiante. «Come sei gentile a chiederlo! Ti va un po' di caffè?»
«No, grazie. Sono passato soltanto a votare. Sai com'è... Troppe cose da fare e mai abbastanza tempo...» Marliss annuì, affiancandosi a lui. «È sempre così, vero? Il tempo non è mai abbastanza! Però volevo parlarti comunque, Harold, almeno per farti sapere che molti di noi, qua in città, pensano che quello che Holly sta facendo sia una vera e propria vergogna. A suo padre, per giunta! È un autentico crimine, se vuoi sapere come la penso!» «Grazie, Marliss», disse Harold, senza rinunciare alla speranza di farla tacere. «Lo apprezzo davvero molto.» Tuttavia Marliss insistette senza scoraggiarsi, anzi, senza curarsi minimamente dell'interruzione. «Non farsi più viva per tanti anni, e poi tornare così, adesso, a suscitare tutto questo pandemonio! Non capisco proprio... Assolutamente non capisco! E tu?» «Neanch'io, ti assicuro», convenne Harold, allontanandosi nel tentativo di giungere alla relativa sicurezza del tavolo al quale Barbara Wentworth sedeva con espressione severa dietro al registro degli elettori. Come se fosse incollata a lui, Marliss continuò a seguirlo. «Ho letto tutto l'articolo su "People"», continuò. «Puoi starne certo! E non vedo proprio come possano pubblicare impunemente cose così tremende! Si chiamava giornalismo scandalistico, ai miei tempi, ed è proprio quello che è! Dopo tutta questa terribile pubblicità, dove potrà mai trovarla, il giudice Moore, una giuria imparziale? Voglio dire, non l'hanno letto tutti, quell'articolo? E con tutte quelle cose terribili che dice su Bisbee... Bontà divina! Se io fossi il giudice Moore, darei a quella ragazza la lezione che si merita e la rimanderei in California, dov'è giusto che stia!» Marliss sembrava capace di parlare senza doversi interrompere neppure per prendere fiato. Ma proprio quando Harold aveva ormai deciso di non poterle sfuggire e di essere quindi destinato a restare intrappolato in eterno, il reverendo Marianne Maculyea, pastore della chiesa metodista di Canyon, arrivò in suo soccorso. Insinuandosi abilmente fra Marliss e la sua vittima indifesa, Marianne afferrò la mano di Harold e la scosse vigorosamente. «Ehi! Salve, Harold!» disse Marianne, salutando e al tempo stesso allontanando Marliss Shackleford con un cenno cortese della testa. «C'è anche Ivy con te?» Per un attimo Harold parve incapace di rispondere. «Ehm... N-no...» balbettò finalmente. «Sono venuto da solo. Non so dove sia.» Non lo sapeva davvero, non con certezza. Molto probabilmente Ivy era
ancora a casa, ma ultimamente proprio lei, che solitamente era sempre stata equilibrata e abitudinaria, era diventata imprevedibile. In verità, la sera prima, subito dopo avere finito i suoi soliti lavori, era uscita, per rientrare soltanto al sorgere del sole. E questa era un'altra cosa che turbava Harold, un altro segno di dissenso, un comportamento che Ivy non aveva mai avuto prima. Da quando Holly era tornata a dare scandalo, Ivy aveva cominciato improvvisamente a sparire senza prendersi la briga di dire al padre dove andasse, né quando prevedesse di tornare. D'altronde, aveva smesso completamente di parlargli. E tutto ciò ricordava a Harold il comportamento vagabondo che aveva avuto Holly da adolescente. Tuttavia, Ivy non era più un'adolescente. A quarant'anni, poteva fare tutte le dannate sciocchezze che voleva, senza essere tenuta a chiedere il permesso del genitore. E anche di quell'ultima stranezza era responsabile Holly, agli occhi di Harold. «Capisco...» disse Marianne. Nel riprendersi dalla sua momentanea distrazione, Harold si accorse che Marianne Maculyea lo scrutava e si chiese che cosa vedesse in lui. Si domandò anche che cos'avesse voluto dire esattamente con quel «Capisco...» Era mai possibile che il reverendo Maculyea sapesse, a proposito di quello che stava realmente succedendo al Rocking P, più di quanto lo stesso Harold avrebbe voluto? «Tutta questa faccenda del processo dev'essere dura per lei quasi quanto lo è per te», continuò Marianne, in un tono pacato, sincero e premuroso, molto diverso da quello stridulo e impiccione di Marliss Shackleford. Abbassando lo sguardo, Harold si fissò gli stivali infangati. «Sì», ammise, con riluttanza. «Credo di sì...» Marianne gli strinse di nuovo la mano. «Abbiti cura, Harold...» Poi si volse a Marliss e si mise a chiacchierare, permettendo finalmente a Harold di liberarsene e di andare a votare. Senza perdere altro tempo, Harold si recò dinanzi a Barbara Wentworth e fu ben lieto d'immergersi nella procedura di voto. In altri tempi, lui e Barb Wentworth avrebbero scambiato qualche parola, mentre lei cercava il suo nome sul registro, gl'indicava dove firmare e gli consegnava le schede. Ma in quel momento Barbara sembrò non avere la minima voglia di chiacchierare. Harold si chiese se persino una donna pratica e concreta come lei leggesse «People». Poco dopo, con un sospiro di sollievo, Harold si ritirò nella relativa intimità della cabina elettorale e osservò attentamente le schede. Non era u-
n'elezione molto entusiasmante. I soliti candidati si presentavano per le solite cariche, e nessuno si sarebbe sorpreso granché se i politici uscenti fossero stati riconfermati nei loro incarichi. Per quanto riguardava la contea, Harold Patterson s'interessò soltanto a coloro che si disputavano la carica di sceriffo. Due mesi prima, subito dopo le primarie, quando le schede per le elezioni generali erano ormai stampate, l'inferno si era scatenato a Cochise County. I due candidati, i cui nomi comparivano ancora sulla scheda, erano periti in seguito a una terribile serie di eventi che aveva sgomentato l'intera popolazione dello Stato. Il precedente sceriffo, Walter V. McFadden, e il suo avversario elettorale, il vicesceriffo Andrew Brady, erano stati uccisi a colpi di pistola a pochi giorni l'uno dall'altro. Le successive indagini avevano rivelato, sconvolgendo la comunità, che alcuni esperti funzionari del Dipartimento dello Sceriffo erano stati coinvolti per un lungo periodo nel traffico di droga. Quando il polverone si era dissolto, Joanna Brady, vedova del vicesceriffo assassinato, aveva accettato di candidarsi al posto del marito. Negli ultimi due mesi, gli omicidi, le indagini e la successiva campagna elettorale, avevano occupato le prime pagine dei giornali. Soltanto la battaglia legale che Holly Patterson aveva ingaggiato col padre aveva finalmente scalzato il Dipartimento dello Sceriffo dalla sua posizione dominante nella cronaca del «Bisbee Bee». Harold Patterson ricordava Joanna Brady come l'esuberante e irascibile figlia di un altro sceriffo di Cochise County, defunto ormai da molti anni: D.H. Lathrop, detto Big Hank, con cui lo stesso Harold, un tempo, aveva giocato regolarmente a poker. Quanto agli altri due candidati, quello che veniva da Willcox e il tizio di Sierra Vista, Harold non li conosceva personalmente. In verità, chiuso nella cabina elettorale, ne ricordava appena i nomi. Il ricordo più nitido che aveva di Joanna Lathrop Brady era quello di una vivace monella dai capelli rossi in uniforme da scout stirata di fresco davanti a un negozio della Phelps Dodge Company. Era sempre stata una donna d'affari molto in gamba, fin d'allora, quando vendeva i dolci delle ragazze scout e contava meticolosamente il resto agli acquirenti. Ebbene, colei che nel suo ricordo era ancora una bimba senza incisivi meritava carte di gran lunga migliori di quelle, pessime, che la vita le aveva distribuito con inquietante assiduità. All'epoca in cui frequentava la seconda superiore, Joanna aveva perduto il padre, morto in un tragico incidente automobilistico, poi, di recente, non
ancora trentenne, era rimasta vedova di un poliziotto assassinato. Eppure non era disposta a cedere e a passare la mano. Accettando di candidarsi al posto del marito, aveva dimostrato di avere grinta e determinazione in abbondanza, qualità che Harold Patterson possedeva e che ammirava negli altri. Secondo il modo di pensare di Harold, votare per Joanna Brady significava votare per la continuità, per contribuire a far sì che le cose continuassero ad andare come avrebbero dovuto. Così, col mozzicone di matita che gli era stato consegnato, Harold scrisse nello spazio apposito il nome di Joanna Brady. Poi, raddrizzate le spalle, uscì dalla cabina elettorale e infilò la scheda nell'urna. Avere votato per Joanna Brady lo faceva sentire bene. Per questo era quasi valsa la pena fermarsi al seggio e sopportare gente come Tottie Galbraith e Marliss Shackleford. Quasi, ma non del tutto. Harold uscì dalla chiesa prima che qualcun altro avesse la possibilità di bloccarlo a conversare. Di sicuro non aveva nessuna voglia di trattenersi nel seggio abbastanza a lungo da rischiare d'incontrare Ivy, quando vi si fosse recata per votare. Dopotutto, era già abbastanza brutto che Harold fosse costretto a sottoporsi in pubblico alle accuse di una delle due figlie. Temeva che Ivy, incontrandolo al seggio, si limitasse semplicemente a ignorarlo. Sarebbe stato quasi altrettanto grave, se non peggio, di un litigio in pubblico con Holly. Le signore dell'Associazione di Preghiera avrebbero avuto tanto di cui sparlare, che non avrebbero chiuso la bocca per almeno una settimana. Harold Lamm Patterson, benché ormai vecchio, era pur sempre un duro, capace di sopportare qualsiasi avversità, o quasi, tranne la prospettiva di essere disprezzato pubblicamente da Ivy, che era sempre stata la sua prediletta. CAPITOLO 4 L'attuale Bisbee fu creata negli anni Cinquanta, quando alcuni villaggi, inclusa Old Bisbee, vennero fusi in un'unica comunità, e benché da allora siano trascorsi quarant'anni, i vecchi confini non sono scomparsi. La mattina delle elezioni, nella zona commerciale di Warren, non vi fu molto lavoro alla Davis Insurance Agency, su Arizona Street. Al suo arrivo, Joanna trovò sulla propria scrivania i mazzi di fiori di «buon augurio»
che due clienti le avevano lasciato. Un vassoio di ciambelle glassate e una caffettiera occupavano gran parte della scrivania della segretaria, una giovane donna di nome Lisa Connors, che in quel momento stava rispondendo alla telefonata di un cliente, e intanto serviva caffè e ciambelle a tutti gli elettori che passavano per manifestare il loro sostegno alla candidata. Milo Davis era tutto rosso di contentezza, dal collo, sopra lo scorpione imprigionato nella resina della sua bola tie, al lustro cocuzzolo della testa calva. Sorrideva, stringeva la mano e distribuiva pacche sulle spalle a tutti, assicurando che non stava per perdere una preziosa collaboratrice, bensì stava per acquistare uno sceriffo. E la battuta di Milo, sebbene pronunciata con le migliori intenzioni, non mancava di preoccupare Joanna. Da quando si era diplomata, quell'ufficio di tre stanze era l'unico luogo di lavoro che lei avesse mai conosciuto, e l'unico capo che avesse mai avuto era Milo Davis. La vittoria alle elezioni, però, avrebbe cambiato tutto, e Joanna si sentiva come un uccellino riluttante che stesse per essere allontanato dal nido e non fosse sicuro di riuscire a volare. Eppure voleva vincere, vero? Alle nove, Milo uscì perché aveva un appuntamento alle nove e mezzo. Subito dopo telefonò da Tucson una cronista dell'«Arizona Sun». Quando Lisa ebbe passato la comunicazione a Joanna, la giornalista spiegò di avere chiamato per chiedere un commento sulle elezioni a colei che forse sarebbe stata, in Arizona, la prima donna a diventare sceriffo di contea. Insomma, Joanna fu costretta a rispondere proprio a quel tipo di domande che maggiormente aveva temuto durante la campagna elettorale. I media erano interessati alla elezione dello sceriffo di Cochise County soprattutto perché uno dei tre candidati, Joanna Brady, era una donna, e quali che fossero le sue dichiarazioni, gli articoli di solito descrivevano Joanna come una femminista aggressiva e agguerrita, una specie d'improbabile incrocio fra l'ispettore Callaghan e Gloria Steinem. Terminata l'intervista, Joanna si dedicò a esaminare un mucchio di contratti e di corrispondenza. Poco dopo, Harold Lamm Patterson si presentò alla scrivania di Lisa. Tenendo educatamente in mano lo Stetson umido e ammaccato, chiese di poter parlare subito con Milo. Mentre Lisa rispondeva che Milo era uscito e che non aveva lasciato detto quando sarebbe rientrato, Joanna notò l'espressione di grave delusione che passava sul volto abbronzato del vecchio. Come tutti i suoi concittadini, Joanna sapeva che quella bisbetica della figlia lo aveva ficcato in grossi guai, perciò decise che non c'era motivo di aggravare le sue pene, si alzò e si recò alla scriva-
nia di Lisa. «Se si tratta di una cosa urgente, signor Patterson», suggerì Joanna, «forse posso esserle d'aiuto...» «Lo apprezzerei molto, signora», disse sinceramente Harold Patterson. «Davvero!» Quando Joanna, dopo averlo condotto nel proprio ufficio, lo invitò con un cenno ad accomodarsi, Harold si appollaiò sul bordo della sedia come un vecchio uccello diffidente pronto a spiccare il volo all'improvviso. Si posò il cappello in equilibrio precario sopra un ginocchio, poi, socchiudendo gli occhi sottili, dalle palpebre pesanti, scrutò Joanna. «Lei è la bambina di Hank Lathrop, vero? Quella che si è candidata a sceriffo?» Senza commenti, Joanna annuì. Bambina? pensò. Tutt'altro. Eppure agli occhi di Harold, che aveva più di ottant'anni, doveva sembrare tremendamente giovane per una responsabilità del genere. «Credo che suo padre sarebbe davvero fiero di lei, oggi, se potesse vederla», continuò Harold. «A proposito, mi sono fermato al seggio, nel venire in città, e ho votato per lei.» Joanna si sentì arrossire. «Grazie, signor Patterson. Lo apprezzo molto. Ma mi dica... Che cosa posso fare per lei?» «Sono sempre stato abituato a trattare con Milo», tergiversò Harold, «e prim'ancora con suo padre...» «Non tema, signor Patterson. Se non vuole che mi occupi del suo problema, quale che sia, va benissimo. Purtroppo non sono in grado di dirle quando tornerà Milo, perché non ne ho la minima idea. Può anche darsi che torni dopo pranzo. Comunque, io ho accesso a tutte le pratiche, perciò...» Harold si curvò in avanti e abbassò la voce. «È una faccenda molto personale, signora», sussurrò, in modo che Lisa non sentisse. «Personale e confidenziale.» Cogliendo l'allusione, Joanna si alzò per andare a chiudere la porta che separava il suo ufficio da quello di Lisa. «Ecco...» disse, rimettendosi a sedere. «Va meglio, così?» Harold annuì. «Che cosa devo fare per cambiare i beneficiari delle mie polizze?» chiese. «Devo portare qui le polizze, o cosa? Credo che siano in banca...» «Oh, no. Se si tratta soltanto di questo, posso occuparmene subito io. Non ci vorrà molto. Dovrà soltanto riempire un modulo.» «Uno soltanto per tutte le polizze?»
«No, uno per ognuna. Però, mi occorrono i numeri delle polizze.» «Dannazione! Non li ho con me, e non me li ricordo!» Joanna sorrise. «Nessun problema, signor Patterson. Mi dia la sua data di nascita...» «20 novembre 1910.» Joanna accese il computer. Una volta inseriti nel database nome, cognome e data di nascita di Harold Patterson, sullo schermo apparve la lista delle sue polizze. Nato in un'epoca in cui le automobili erano rare, Harold Patterson osservò con un certo interesse le operazioni informatiche. «Lei ha stipulato con noi cinque polizze, signor Patterson», disse Joanna, dopo un momento. «Vuole che gliele stampi tutte?» «Può farlo?» «Certo.» Appena Joanna ebbe digitato una serie di comandi, in pochi istanti la stampante che si trovava alle sue spalle iniziò rumorosamente a produrre una strisciata. Strappate le perforazioni e separati i fogli, Joanna consegnò le polizze a Harold, che rimase seduto per un po' a esaminarle una per una. «È tutto in ordine?» chiese Joanna. Lui la guardò trasalendo, come se la sua voce lo avesse spaventato. «Oh, sì... Sembra che sia tutto perfetto...» Joanna si curvò ad aprire il cassetto di fondo, cercò fra i documenti e prese alcuni moduli per il cambiamento dei beneficiari. «Non è necessario che li compili qui, però dovrà firmarli alla presenza di testimoni. Vuole cambiare i beneficiari a tutte le polizze?» Dapprima Harold annuì, poi scosse la testa. «Sì... anzi, no... non ne sono sicuro...» Infine, gettò i documenti sulla scrivania di Joanna. «Come faccio a dirlo?» si chiese, con disgusto. «Ci vedo così dannatamente poco che quasi non riesco a leggere queste maledette carte!» Joanna raccolse le polizze e le esaminò rapidamente. «Sua figlia Ivy è l'unica beneficiaria di tutte», spiegò. «Se alla scadenza non dovesse essere più in vita, le liquidazioni sarebbero divise in parti uguali fra suo nipote, Burton Kimball, e sua figlia, Holly. Se desidera cambiare queste disposizioni, signor Patterson, sarò lieta di compilare i moduli per lei...» Con sorpresa di Joanna, gli occhi di Harold Patterson si riempirono all'improvviso di lacrime, che minacciarono di traboccare, nonostante il tentativo con cui il vecchio cercava di trattenerle battendo le palpebre. «Mi sono sempre considerato una specie di custode...» mormorò, con voce rauca. «Credevo che avrei custodito l'eredità lasciatami da mio padre
e che l'avrei trasmessa ai miei figli e ai miei nipoti... E invece la mia famiglia si estinguerà con le mie figlie, che si disputeranno il Rocking P e quello a cui ho dedicato tutta la mia vita, anziché considerarli preziosi...» Scosse mestamente la testa. «Mi ricordano una coppia di cani che avevo molti anni fa... Un vecchio e un cucciolo... Il vecchio aveva la sua coperta e ci dormiva nella stalla. Era la vecchia coperta consunta di un cavallo. Beh, cominciò a piacere anche al cucciolo, e in effetti era abbastanza grande per tutti e due. Eppure se la disputarono, tirando e strappando, finché la fecero a pezzi. E alla fine non rimase niente a nessuno dei due.» Harold tacque e guardò Joanna. «Capisce cosa intendo, vero?» Joanna annuì. «Sì, credo di sì... Le sue figlie?» Lui annuì stancamente. «E la coperta è il Rocking P... O forse sono io. Un padre vuole che le sue figlie, crescendo, imparino ad amarsi, o almeno ad andare d'accordo, e invece sembra che nella maggior parte dei casi non vada affatto a finire così...» «Signor Patterson...» disse gentilmente Joanna. «Mi rendo conto che oggi lei deve sopportare una tensione notevole. È più che comprensibile. Perché non prende tutti i documenti e non concede a se stesso un po' di tempo per pensarci su e per decidere che cosa sia meglio fare?» Parlando, Joanna piegò separatamente le polizze e i moduli, quindi li infilò in una busta capiente. «Ne parli con le sue figlie e con suo nipote, se pensa che questo possa esserle d'aiuto, oppure aspetti domani o dopodomani e torni qui per consigliarsi con Milo. Insomma, non abbia fretta di decidere. Se poi, una volta cambiati i beneficiari, ci ripensasse, non dovrebbe fare altro che compilare altri moduli.» Sorrise. «Compilare documenti ci piace, signor Patterson. È il nostro lavoro. È così che ci guadagniamo da vivere!» Per la prima volta, da quando Harold Patterson era entrato nel suo ufficio, Joanna vide lo spettro di un sorriso apparire agli angoli della bocca del vecchio. «Grazie», disse lui, prendendo la busta e intascandola. «Le sono molto grato. Mi sembra davvero un buon consiglio.» Si appoggiò al bracciolo della sedia e si alzò in piedi a fatica. «Mi sento tanto indolenzito...» disse. «Sto diventando vecchio... Dovrei vergognarmi a comportarmi come un dannato stupido in pubblico... Non sopporto di dare tanto disturbo.» In piedi di fronte a lei parve rimpicciolire un po', come se parlarle dei suoi problemi lo avesse privato parzialmente della sua vitalità. Sembrava molto più fragile di quanto fosse stato quando era entrato nell'ufficio, poco prima.
«Nessun disturbo», assicurò Joanna, soffrendo nel vedere quel vecchio fiero, che, ridotto quasi alle lacrime, ringraziava e si scusava, sottovoce, goffamente. Quando Harold Patterson le offrì la mano nodosa, Joanna la strinse cordialmente, sperando che il proprio viso non lasciasse trasparire il groppo che sentiva in gola. Non voleva che lui si rendesse conto di quanto le sue preoccupazioni l'avevano commossa. Anche se era stato lui a ringraziare lei, Joanna Lathrop Brady aveva molti motivi per essergli grata, a cominciare da tutti i dolci che lui aveva comprato da lei quando era una piccola scout. Anche se aveva scoperto la verità soltanto molto tempo dopo, erano state le sue raccomandazioni e la sua opera di persuasione a fare in modo, l'anno dopo la morte di suo padre, che ottenesse la candidatura al prestigioso programma Girl's State, che offriva alle studentesse l'opportunità di studiare i processi politici ed elettorali a livello locale e statale. E quando si era diplomata alla Bisbee High School, l'anno successivo, alla cerimonia per la consegna del diploma, Harold aveva pronunciato parole semplici, ma molto incoraggianti. Così, mentre si stringevano la mano, Joanna ricordò la stretta di mano di molto tempo prima, in una calda notte di maggio, sotto i riflettori dello stadio di baseball. Il preside aveva chiamato il suo nome e Joanna era salita sul palco, dove Harold Patterson, presidente del comitato scolastico, distribuiva gli ambiti diplomi rossi e grigi. Come tutti i diplomati che l'avevano preceduta e che l'avrebbero seguita, Joanna aveva ricevuto una franca stretta di mano. Ma subito dopo, prima di lasciarla scendere dal palco, Harold l'aveva presa per le spalle e l'aveva trattenuta per un momento. Guardandola dritto negli occhi, le aveva detto: «Tuo padre sarebbe molto fiero di te». Infine le aveva strizzato l'occhio e l'aveva allontanata con una spinta gentile. Altre persone le avevano detto più o meno la stessa cosa, quella notte, ma le parole di Harold erano state le uniche a imprimersi indelebilmente nella sua memoria. Il tempestivo incoraggiamento e la buffa strizzata d'occhio da parte di un vecchio compagno di poker di suo padre le avevano dato un incitamento di cui aveva avuto molto bisogno. La sua gentilezza l'aveva aiutata ad attraversare il palco e in qualche modo le aveva accordato il permesso di lanciare in aria il berretto rosso con la nappa grigia insieme a tutti gli altri studenti, quando la lunga cerimonia si era finalmente conclusa. Ma ora che i ruoli si erano improvvisamente invertiti, quale conforto a-
vrebbe potuto offrire lei, al vecchio, nel momento del bisogno? «Siamo qui per assistere i nostri clienti, signor Patterson», disse sottovoce. «In qualsiasi momento. Non è mai un disturbo.» Harold Lamm Patterson annuì e si avviò alla porta, quindi si fermò, con la mano sulla maniglia. «Come farà Milo Davis senza di lei, se sarà eletta e se ne andrà?» chiese. Joanna se lo era domandato a sua volta, ma non ne aveva parlato con nessuno, di certo non con Lisa, e men che meno con Milo. Era come se parlare di quello che avrebbe potuto succedere in caso di vittoria potesse portare sfortuna, come credere che calpestare le commessure del lastricato fosse di malaugurio. Rise. «Nessuno è indispensabile, signor Patterson. Sono certa che Milo e Lisa se la caveranno benissimo anche senza di me.» «Beh...» disse Harold Patterson. «Forse ci saranno costretti...» Quando lui finalmente uscì zoppicando dall'ufficio, Joanna si recò alla finestra. Lo Scout imbrattato di fango era parcheggiato nel posto solitamente riservato a una delle Buick di Milo Davis. Con sorpresa, Joanna vide il vecchio superare il camioncino e attraversare diagonalmente Arizona Street senza camminare sulle strisce pedonali, in direzione della banca. «Poveraccio», disse Lisa, osservando a sua volta Harold che attraversava la strada. «A causa delle sue figlie, vuoi dire?» chiese Joanna. Lisa annuì. «Che brutto guaio... Quanti anni ha?» «Ottantaquattro, credo...» «Gesù... ed è costretto ad assistere alla distruzione totale della sua vita sotto gli occhi di tutti... Come fa a sopportare quello che gli stanno facendo? Chi potrebbe mai sopportarlo? Sembra impossibile...» Lisa aveva ventitré anni, era fidanzata da poco e, insieme al suo ragazzo, intendeva organizzare per l'estate successiva, senza badare a spese, un gran matrimonio. I suoi genitori erano vivi e in buona salute. Nell'ascoltarla, Joanna si stupì di quanto sembrasse giovane e inesperta. «Nella maggior parte dei casi», rispose pacatamente, «ci riesci perché è necessario, perché Dio non ti lascia nessuna scelta.» E anche perché, aggiunse silenziosamente a se stessa, non scopri mai quanto le persone che ami siano capaci di farti soffrire, finché non è troppo tardi. CAPITOLO 5
Per tutta la vita Harold Patterson era stato il tipo d'uomo che affrontava i compiti particolarmente gravosi organizzando tutto il lavoro in maniera molto ordinata, e poi lo eseguiva metodicamente, completando una fase prima di passare alla successiva. In tal modo Harold agì anche quel giorno. Prim'ancora di recarsi in città, infatti, aveva pianificato in ogni dettaglio ciò che si proponeva di fare. Così, dopo essersi procurato i documenti dell'assicurazione, andò subito in banca. Appena diplomata, Sandra Rose Henning avrebbe dovuto ottenere una borsa di studio con la massima facilità, dati i suoi risultati scolastici, ma le offerte che in effetti aveva ricevuto non erano state sufficienti. Costretta ad affrontare la dura realtà di due genitori invalidi da assistere, aveva rinunciato all'idea d'iscriversi al college. In giugno, mentre le sue compagne già si preparavano a trasferirsi altrove per iniziare gli studi universitari in autunno, Sandy si era affrettata a farsi assumere come cassiera alla filiale locale della First Merchant's Bank. Trentadue anni e venticinque chili più tardi, lavorava ancora nella stessa banca, però era la direttrice della filiale di Warren. Nel corso degli anni, infatti, la First Merchant si era trasformata, e correva voce che fosse in procinto di essere assorbita da una grossa società. Secondo i pettegolezzi locali, tutte le filiali della zona di Bisbee, dislocate per dieci miglia lungo quella che era stata una linea di autobus, sarebbero state chiuse entro breve tempo per essere sostituite da un'unica filiale situata a Don Luis. Quella che un tempo era stata una zona depressa, abitata prevalentemente da messicani, vantava già un nuovo centro commerciale, con l'unico punto vendita della catena Safeway Food and Drug presente in città, e presto, forse, avrebbe avuto anche l'unica banca. Sandy Henning non era particolarmente preoccupata per la fusione imminente perché era sicura che avrebbe conservato il lavoro, qualunque cosa fosse accaduta. Se ciò avesse comportato essere retrocessa a «consulente personale», o persino a cassiera, le sarebbe stato pressoché indifferente. Sandy aveva simpatia per la gente, e la gente aveva simpatia per lei. Era seduta alla sua scrivania quando Harold Patterson entrò risolutamente nella filiale. Era «consulente personale» di Harold da molto tempo prima che le banche in crisi inventassero quella definizione. Quando era stata promossa e trasferita dalla filiale di città a quella di Warren, i conti e gli affari di Harold l'avevano seguita, anche se, da un punto di vista pratico, la
filiale di Old Bisbee sarebbe stata più conveniente in quanto era sette miglia più vicina al Rocking P. La differenza era che la filiale cittadina non aveva Sandy. Appena lo vide, Sandy si preoccupò per Harold. Nonostante l'età avanzata, aveva sempre camminato con la schiena e le spalle dritte. In quel momento, invece, aveva le spalle curve, come se stesse trasportando un fardello troppo pesante per la sua vecchia schiena. E il suo passo, anche se di certo non vacillava, era un po' più lento, più esitante. Sandy si alzò ad accoglierlo. «Buongiorno, signor Patterson. Come sta, oggi?» «Abbastanza bene», rispose lui. «Non posso lamentarmi.» In verità, potrebbe lamentarsi eccome, pensò Sandy. E probabilmente dovrebbe. Lei e Holly Patterson si sarebbero diplomate lo stesso anno, se Holly si fosse presa la briga di restare abbastanza a lungo. Al terzo anno delle scuole superiori, invece, Holly era scappata con un ambizioso agente immobiliare dalla parlantina sciolta venuto dalla California. Il matrimonio non era durato più di tre mesi, ma quando era finito, Holly Patterson non era tornata in quella che aveva spesso definito l'«arretrata» Bisbee. Sandy Henning aveva sempre considerato la brusca partenza di Holly come un colpo di fortuna. E in quel momento, appena una settimana dopo il suo ritorno, di cui tanto si era parlato, le bastò un'occhiata al volto sofferente di Harold Patterson per convincersi che non aveva motivo di cambiare parere. «Che cosa posso fare per lei, signor Patterson?» chiese. Lui frugò in una tasca della giacca, ne trasse il portachiavi e dall'anello sfilò una piccola chiave. «Ho bisogno della mia cassetta», disse. «Devo dare un'occhiata ad alcune cose.» Dopo essersi accomodato a un tavolo parzialmente isolato da un divisorio, si tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi stanchi, in attesa che Sandy scendesse nella camera blindata a prendere la sua cassetta di sicurezza. Le richieste di Holly erano così esagerate che avrebbe dovuto essere capace di riderne. La figlia esigeva dal padre una confessione pubblica delle sue presunte colpe, nonché, come risarcimento, metà del Rocking P. Quest'ultima richiesta era quella che più preoccupava Harold, perché correva voce che Holly intendesse aprire, in società con la sua presunta ipnoterapista, un centro di recupero per coloro che scoprivano in età adulta di essere stati vittime, durante l'infanzia, di abusi sessuali da parte di consanguinei. Quelle erano le condizioni dell'accordo. Se la causa fosse andata in giu-
dizio, l'avvocato di Holly aveva dichiarato a Burton che avrebbe mirato senza esclusione di colpi a ottenere il massimo, ovvero tutto il ranch. Ciò non sarebbe accaduto perché la causa non sarebbe andata in giudizio. Perché Harold Patterson stesso l'avrebbe evitato. Era stato facile, per Ivy e Burton Kimball, dirgli che cosa avrebbe dovuto fare. Loro non si trovavano fra l'incudine e il martello, e non conoscevano tutta la storia. Per giunta, non avevano le due profonde motivazioni di Harold. La prima era che desiderava vivere abbastanza a lungo da vedere le figlie riconciliate e unite, almeno una volta nella vita. E la seconda? Tranne un'eccezione importante, Harold aveva vissuto sempre in modo retto, onesto e rispettoso della legge. Prima che Norm Higgins lo seppellisse all'Evergreen Cemetery, Harold Patterson voleva riacquistare la propria reputazione. Aveva considerato tutte le possibilità. Se avesse affrontato Holly in tribunale, avrebbe rischiato di essere sconfitto e di perdere tutto. Se avesse accettato l'accordo, avrebbe ceduto metà del ranch a Holly, la figliola prodiga che aveva voltato le spalle a tutti per più di trent'anni. In tal modo avrebbe privato di ciò che le spettava la figliola non prodiga, Ivy, che si era sempre sacrificata per gli altri, era sempre rimasta ad aiutarlo a mandare avanti il ranch e aveva assistito la madre invalida per tutti gli anni del lento e progressivo declino che l'aveva condotto alla follia. Che ne sarebbe stato di Ivy se il Rocking P fosse stato diviso, o se fosse stato interamente trasformato? Come il bambino che re Salomone aveva minacciato di tagliare in due, un ranch delle dimensioni di quello di Patterson sarebbe morto, se fosse stato diviso in due parti. Era necessario che restasse integro, affinché se ne potesse ricavare di che vivere. Ritornata al tavolo con la cassetta di sicurezza, Sandra Henning ruotò facilmente la chiave nella serratura. Con mano tremante, Harold cercò d'inserire la propria, ma ci riuscì soltanto al terzo tentativo, rumorosamente. Il lungo coperchio metallico si aprì di scatto e il vecchio si afflosciò contro lo schienale della sedia. Alle undici, Harold finì di riordinare tutti i documenti contenuti nella cassetta. Quelli destinati a rimanervi - le polizze d'assicurazione, di cui non aveva bisogno per cambiare i beneficiari, e le poche lettere, raccolte con un nastro, che lui ed Emily si erano scambiati nei rari periodi in cui lui era stato lontano da casa - furono separati da quelli che avrebbe dovuto portare in ufficio a Burton Kimball, cioè il proprio testamento e la scrittura legale che concerneva il Rocking P.
In fondo alla cassetta, Harold trovò la busta ingiallita che lui ed Emily avevano solennemente sigillato insieme, molti anni prima. Era stata Emily a insistere per apporre il sigillo in cera. Ormai, però, come se le parole bramassero di evadere dalla loro prigione di carta, s'intravedeva il testo della lettera, scritto in calligrafia sinuosa e antiquata. Harold non ruppe il sigillo e non aprì la busta, anche se avrebbe potuto. Non era necessario. Conosceva a memoria le parole ormai sbiadite scritte a matita, impresse nel suo cuore ancora più nitidamente che nella sua mente. Le rammentava tutte, incapace di dimenticarne anche soltanto una. Seduto con la busta in mano, si chiese che cosa convenisse farne. L'aveva conservata tanto a lungo perché aveva promesso a Emily di farlo, perché lei lo aveva implorato di farlo e perché lui stesso aveva temuto di poterne avere bisogno, un giorno. Tuttavia, se il suo stratagemma avesse funzionato, se fosse riuscito a incontrare Holly e a convincerla a sentire le sue ragioni, forse avrebbe potuto finalmente distruggere la lettera e farla finita. Forse avrebbe potuto scendere nella tomba portando con sé quel terribile segreto. Infine, dopo lunghi e strazianti momenti d'indecisione, pose la fragile busta sigillata sopra le polizze e rimise tutto nella cassetta. Se Holly e Ivy non avessero creduto alla sua parola e non avessero accettato la sua versione dell'accaduto, allora avrebbe avuto il tempo di prelevare la lettera dal nascondiglio in cui era custodita per mostrarla alle figlie, oppure per bruciarla e distruggerla per sempre. Spingendo indietro la sedia, Harold si alzò e con un gesto richiamò Sandy Henning. «Ho finito», disse. Quando si recò a riprendere in custodia la cassetta, Sandy si soffermò a scrutare Harold attraverso gli occhiali bifocali dalla montatura rossa. «È sicuro di sentirsi bene, signor Patterson? Ha un colorito tutt'altro che buono...» Harold raccolse il cappello. «Sto benissimo, signora Henning», disse, rimettendo meticolosamente la piccola chiave nella taschina dei jeans. «Sono soltanto un po' stanco. Non si preoccupi per me.» Lasciata la banca, Harold si recò in automobile all'Evergreen Cemetery, che per lungo tempo era stato l'unico cimitero della città. Nella prima metà del XX secolo era stato verde, lussureggiante, ben curato, irrigato gratuitamente con gli scarichi delle miniere. Poi, sul finire degli anni Cinquanta, quando la Phelps Dodge aveva iniziato un'opera di lisciviazione delle discariche, la circolazione delle acque era stata sottratta alla comunità e resti-
tuita all'uso esclusivamente industriale. Così i giardinieri dilettanti di Bisbee erano rimasti letteralmente all'asciutto. Avrebbero potuto attingere all'acquedotto municipale che pompava l'acqua dal sottosuolo nei pressi di Naco, ma la limpida acqua potabile sarebbe stata del tutto inadatta, in quanto presentava due grossi svantaggi. Oltre a essere scandalosamente costosa, era priva di quell'abbondanza di minerali che aveva permesso di prosperare ai prati, agli alberi e ai giardini di Bisbee, nonché, quanto a questo, ai cimiteri. Nei decenni successivi, l'Evergreen Cemetery era diventato talmente polveroso, o fangoso, che l'appellativo di «sempreverde» sembrava ormai poco più che uno scherzo crudele. Quando Emily Patterson era morta, cinque anni prima, il cimitero si trovava in un degrado tale, che Harold si era vergognato di seppellirvela. Ma l'altro cimitero della città, che risaliva agli anni Sessanta e dunque era relativamente nuovo, non era stato in condizioni migliori Così Harold, ingoiando il rospo, aveva acquistato all'Evergreen, a un prezzo più vantaggioso, un posto doppio e due lapidi. Nel recarsi alla tomba della moglie, Harold scoprì con sorpresa che il cimitero appariva tenuto un po' meglio del solito, benché il viottolo fosse sempre sconnesso. Forse era stato nominato un nuovo direttore, che rispettava veramente i parenti dei defunti. Parcheggiato lo Scout, Harold smontò a fatica, mentre la pioggia finalmente scemava, e s'incamminò verso la tomba che ben conosceva. Si tolse lo Stetson e rimase a testa nuda a fissare la lapide in granito rosso, dove i nomi e le date di nascita, suoi e di Emily, erano già incisi a caratteri armoniosi ed eleganti, come pure la data di morte di Emily. Mancava soltanto la sua data di morte. Ogni volta che guardava la lapide, Harold si sentiva rizzare i capelli sulla nuca, non perché avesse paura di morire, ma perché la vista dei due nomi associati gli faceva sentire di essere ancora sposato con la vecchia Emily, come se la donna che aveva amato lo avesse semplicemente preceduto. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto raggiungerla presto, e le cose fra loro due si sarebbero finalmente sistemate. «Questa volta siamo davvero alla resa dei conti, Em», disse, parlando alla moglie defunta com'era solito fare quando si recava a visitarne la tomba. In passato, prima di parlare così con lei, avrebbe guardato attorno per accertarsi che nessuno lo vedesse o lo sentisse, ma ormai non se ne preoccupava più. Dopotutto, era un vecchio. Se qualcuno si fosse accorto che parlava alla tomba della moglie, o che si comportava in qualche altra ma-
niera strana, avrebbe pensato semplicemente che fosse un vecchio pazzo, o rincitrullito, o l'una e l'altra cosa, e non ci avrebbe fatto caso. «Forse possiamo ancora farcela», continuò. «Sai bene che ho mantenuto la promessa, per tutti questi anni. Il prezzo, però, continua sempre a salire. Forse abbiamo sbagliato fin dall'inizio a voler mantenere il segreto. Forse è per questo che Dio mi ha cacciato in questo guaio, in modo che abbia un'ultima possibilità di fare qualcosa, un'altra carta da giocare. Spero proprio di farcela, ma se mi andrà male, credo che questa volta accetterò da uomo la mia punizione. Volevo soltanto che lo sapessi prima, ecco tutto.» Chiuse gli occhi e chinò la testa per un attimo a mormorare in silenzio una preghiera, poi si calcò di nuovo in testa lo Stetson, girò sui tacchi e tornò zoppicando allo Scout, sentendosi veramente deciso. Parlare con Emily lo confortava sempre e gli permetteva sempre di orientarsi. Al cancello del cimitero sostò per lasciar passare il vecchio Norm Higgins, della Higgins Funeral Chapel and Mortuary, che senza dubbio stava andando a ispezionare un luogo di sepoltura destinato a essere occupato entro breve tempo. Harold immaginò che Norm e i suoi ragazzi, alle pompe funebri, avessero messo al fresco il cadavere di qualche povero vecchio bastardo, in modo che si conservasse fino all'arrivo dei parenti lontani, che vivevano sparsi chissà dove. Allora il lugubre processo delle esequie avrebbe potuto avere inizio. Mentre la luccicante Cadillac grigia di Norm incrociava il vecchio Scout, Harold si disse che se non altro non si accingeva a seppellire lui. Aveva già scelto e pagato la bara, oltre che il posto, tuttavia non era arrivato il suo momento. Non ancora. Norm Higgins e Harold Lamm Patterson si conoscevano da più di sessant'anni, perciò si salutarono con un gesto noncurante, tipico dei vecchi conoscenti che non volevano ignorarsi, ma non volevano neppure fermarsi a scambiare qualche parola. Ciascuno salutò con un cenno della mano e della testa, passando oltre. Harold rientrò in città, superò Lowell Traffic Circle e risalì a Old Bisbee. Parlare con Em l'aveva davvero aiutato a prepararsi per quello che sapeva sarebbe stato uno scontro duro e prolungato con Burton Kimball, suo nipote e suo avvocato. Alcuni cittadini avevano scarsa stima di Burtie perché lo consideravano sostanzialmente un avversario facile. Harold Patterson, invece, non la pensava affatto così. L'uomo che aveva cresciuto Burton Kimball da quando era bambino, lo zio affettuoso che lo aveva accolto nella propria famiglia
quando era rimasto orfano, sapeva bene che sarebbe stato un grosso errore sottovalutare le capacità e la tenacia del giovane. Sì, Harold avrebbe potuto servirsi di Burtie per i propri scopi. Ma sottovalutarlo...? No. Se fosse stato un codardo, Harold avrebbe portato a termine il suo piano senza prima avvertire Burtie. Tuttavia, Harold Lamm Patterson non si era mai sottratto a uno scontro in tutta la sua vita. E aveva decìso che, a ottantaquattro anni, sarebbe stato decisamente tardi per cominciare. CAPITOLO 6 Come previsto, Burton Kimball reagì con un misto di sgomento e d'incredulità. «Che cosa vuoi fare...?!» «Mi hai sentito. Intendo concedere a Holly tutto quello che diavolo vuole. In cambio, però, lei dovrà accettare d'incontrarmi, da sola, senza gli avvocati di entrambe le parti, incluso te.» Disgustato, Kimball scosse la testa. «Zio Harold... Permettimi di farti notare che mi hai già versato un sacco di soldi affinché ti assista in questa causa. Perché, a un tratto, e proprio all'ultimo momento, vuoi fare tutto da solo? E perché diavolo sei improvvisamente disposto ad accordarti con quella maledetta strega? Ti prego, zio Harold... Andiamo al processo. Qui nella contea ti conoscono tutti, e questo per noi sarà un vantaggio. Quante volte hai fatto parte del comitato scolastico? Cinque? Sei? Tu hai vissuto qui tutta la vita, mentre Holly se ne andò trent'anni fa, per tornare soltanto adesso a suscitare un pandemonio. A chi pensi che sceglieranno di credere, i giurati?» «È proprio quello che sto cercando di dirti», rispose Harold. «Non voglio nessuna giuria.» Ma Burton Kimball, senza lasciarsi scoraggiare, continuò: «Nessuno, qui, si berrà la sciocchezza dei "ricordi rimossi". Si ridurrà tutto alla sua parola contro la tua, e Holly non vincerà. Può darsi che le persone come lei facciano notizia su "People", o a New York e in California, ma Bisbee fa parte del mondo reale. Perciò ti dico, zio Harold, che qui non funzionerà. Se ti accorderai, Holly otterrà tutto quello che vuole, ma se vincerai, se la giuria ti darà ragione, non dovrai pagarle neanche un centesimo. Quale delle due soluzioni ti sembra preferibile?» «Sono sempre deciso a fare come ho detto», rispose Harold. «Chiamala e dille che voglio incontrarla. Sai dove trovarla, vero?»
«Lo so», disse Burton. «E tu sai che il tribunale mi ha imposto di non rivelarlo. In ogni modo, il mio consiglio resta lo stesso: accetta il rischio di andare in giudizio.» «Non sei tanto vecchio da essere diventato completamente sordo, Burtie», interloquì pacatamente Harold. «Forse dovresti farti controllare le orecchie... Te l'ho già detto una volta, e non lo ripeterò. Io non andrò in tribunale, domani, e non ci andrai neanche tu. Sistemeremo questa faccenda subito. Oggi stesso!» Burton Kimball si vantava di essere un uomo paziente e ragionevole. In verità, sua moglie Linda lo rimproverava di essere fin troppo paziente per il suo stesso bene e sosteneva che era colpa del suo carattere eccessivamente tollerante se i loro due figli, un maschio di dieci anni e una femmina di undici, erano inguaribilmente viziati. In quel momento, però, dinanzi all'ostinazione dello zio, la sua pazienza cominciò a sfilacciarsi come una fune troppo tesa. «Chiama il suo avvocato e digli che voglio incontrarla stasera», ripeté Harold. Poi tacque per un lungo momento, accigliandosi. «Aspetta un momento... Dove potremmo vederci? Non posso dirle di venire a casa...» «Potreste incontrarvi qui nel mio ufficio, suppongo», suggerì Burton con riluttanza, prendendo una penna per annotare rapidamente alcuni appunti sopra un taccuino giallo. Ma Harold scosse la testa. «No, non va bene. Dobbiamo vederci da qualche altra parte, in un posto neutrale...» Burton Kimball sospirò. «E va bene... Che ne dici del ristorante del Copper Queen, anche se non sarete soli? E comunque, che cosa ti fa credere che accetterà, soprattutto se dovrà fidarsi della mia parola?» «Conosco Holly», disse Harold. «Appena si renderà conto che la vittoria è sua, non riuscirà a resistere. Fissale un appuntamento, là, alle sei.» Allora fu Burton Kimball a scuotere la testa. «Alle sei è troppo tardi. Se fai sul serio e intendi accordarti, allora devi concludere nel primo pomeriggio, in modo che il giudice Moore possa annullare l'udienza di domani.» «Faccio sul serio», rispose risolutamente Harold Patterson. Separati dalla scrivania ingombra di documenti, i due uomini si scrutarono negli occhi, e Burton fu il primo a distogliere lo sguardo. «Okay, okay...» disse. «Fai sul serio... Ma è meglio che tu mi faccia capire che cos'hai in mente, così, quando lo chiamerò, l'avvocato di Holly potrà decidere se alla sua cliente convenga incontrarti.» «Te l'ho già detto. Intendo accettare tutte le sue richieste. Dillo pure al
suo avvocato.» «Zio Harold...» obiettò Burton. «Sai bene che non ti conviene. Non si comincia una trattativa accettando tutte le richieste della controparte. E poi, lei chiede metà del ranch...» Harold Patterson parve improvvisamente molto interessato alla pulizia delle proprie unghie. «Davvero?» chiese, con candore. «E cosa ne sarà di Ivy?» domandò Burton all'improvviso, gli occhi sfavillanti di collera. «Non pensi alla figlia che non è scappata di casa? Quella che è rimasta e ti ha aiutato a mandare avanti il ranch? Quella che ha accudito la madre invalida? È così che intendi ringraziarla?» Sempre più arrabbiato, Burton non si trattenne dall'alzare la voce. «E a cosa diavolo servirebbe la dannata metà di un ranch come il Rocking P? Non basterebbe neanche a permettere a voi due di sopravvivere, anzi, non basterebbe nemmeno se Ivy ci abitasse da sola. E quale metà avrebbe? Quella con la casa e il pozzo, in modo che continui ad avere un dannato tetto sopra la testa? Oppure Holly si aspetta che sua sorella pianti una stramaledetta tenda da qualche parte a Juniper Flats?» Uno dei pochi piaceri che Harold Patterson ricavava dalla vecchiaia era la capacità di distrarsi dalle conversazioni spiacevoli abbandonandosi alle reminiscenze. Talvolta, quando il presente diventava insopportabile, con le sue luci troppo intense, i suoi colori troppo vivaci, i suoi suoni fastidiosi, Harold s'immergeva nelle ombre fresche e tenui del passato. Così fece in quel momento. Nel guardare Burton che sedeva alla scrivania di fronte a lui, non vide un irato avvocato quarantacinquenne, con la cravatta di seta malamente annodata e i gemelli col monogramma ai bianchi polsini inamidati. Vide invece un bambino di sette anni, biondo e scalzo, che indossava soltanto una tuta con i calzoni tagliati all'altezza delle ginocchia... Tutt'e due le ginocchia erano scorticate, e sanguinavano come il naso. Il mento aveva un taglio profondo, che secondo Harold avrebbe avuto bisogno di qualche punto e avrebbe lasciato una cicatrice indelebile. Era estate. Il bambino e lo zio erano nella penombra fresca della stalla e si guardavano in silenzio, mentre una nube di granelli di polvere danzava allegramente nella luce del sole intorno a loro. L'uomo impugnava una cinghia di cuoio, grossa e flessibile. Il bambino aveva i pugni serrati, il mento tremante, gli occhi colmi di lacrime, ma non chinava la testa. «Burtie... tua zia Emily dice che non vuoi scusarti con Holly per averla
picchiata con quel sasso...» «Perché è vero», dichiarò fieramente Burton Kimball, tirando su col naso e tergendosi il sangue che colava dal labbro superiore livido e gonfio. «Se lo fa un'altra volta, la picchio ancora più forte.» Harold Patterson emise un sospiro profondo. Voleva disperatamente impartire al bambino la lezione di cui aveva bisogno, e fare in modo che non la dimenticasse. Com'era suo dovere di cristiano, aveva accolto nella propria casa il figlio della sorella, orfano e abbandonato, e si era assunto l'impegno di educarlo. Ed era deciso a fare in modo che non diventasse come quel fannullone buono a nulla di suo padre. «Ascolta, figliolo...» spiegò pazientemente Harold. «È una cosa importante. Devi capirla e impararla una volta per tutte. Gli uomini non vanno in giro a picchiare le donne. Mai, per nessun motivo.» «Holly stava facendo il solletico a Ivy», ribatté Burtie. «Le faceva il solletico e non ha voluto smettere, anche se gliel'ho chiesto gentilmente.» «Fare il solletico non è una brutta cosa», disse Harold. «Non voleva essere cattiva.» «E invece sì», insistette Burton. «Holly ha continuato fino a farle male, finché Ivy ha pianto e si è pisciata nei pantaloni!» Arrossì, imbarazzato di sapere che Ivy se l'era fatta addosso, umiliato per essere stato costretto a dirlo allo zio Harold, offeso e sdegnato dal fatto che Holly avesse riso di Ivy, indicando i vestiti bagnati e dicendole che era una stupida piagnona. Poi tirò di nuovo su col naso, ma raddrizzò le spalle. «Picchiami pure, zio Harold», disse deglutendo a fatica. «Ma ti prego... non obbligarmi a dire che mi dispiace...» «Il vecchio Doc Winters fece davvero un buon lavoro, quando ti ricucì quel mento», disse all'improvviso Harold, ritornando al presente. «La cicatrice non si vede quasi più. Sembra quasi una fossetta. Chi è quell'attore, quel bel tipo con la fossetta?» «Kirk Douglas», rispose Burton. «Ma non cambiare argomento, zio Harold. Voglio che tu mi dica esattamente che cosa credi che succederà a Ivy, se farai davvero la follia che hai in mente.» «Ricordi quella volta che fui costretto a punirti con la cinghia, nella stalla, perché avevi picchiato Holly sulla testa, con un sasso?» «Ricordo», rispose trucemente Burton Kimball. «Avevi ragione quella volta, sai?» disse Harold. «Avrei dovuto punire Holly. Usai la cinghia soltanto perché tua zia Emily aveva insistito, e non
ci misi troppa forza... Non tutta quella che avrei potuto metterci... Ed ecco che tu, dopo tutti questi anni, sei ancora qui a prendere le parti di Ivy...» «Non credo, però», disse Burton Kimball, «che dovrebbe essere compito mio. Occuparsi di lei spetterebbe a suo padre, non a suo cugino.» Seguì un'altra breve pausa nella conversazione. «Questo significa, credo, che dovrò cambiare il mio testamento», azzardò Harold. «Ho già parlato con la ragazza di Milo Davis per cambiare il beneficiario della mia assicurazione sulla vita...» Nel frattempo, forse, anche Burton Kimball ricordò fugacemente quello che era avvenuto tanto tempo prima nella stalla, e rammentò il bambino che aveva difeso risolutamente la propria posizione, senza mai pentirsi di quello che aveva fatto. «Vuoi cambiare anche l'assicurazione sulla vita?! Dio del cielo! Non posso crederci... Ma che cosa ti ha preso?» «Ho due figlie», disse Harold. «Non è giusto lasciare tutto a una e niente all'altra. Ci ho pensato per tutta la settimana. Parlerò con Holly per sistemare questa faccenda. Lei avrà una metà del ranch, e Ivy l'altra metà. Farò in modo che ciascuna abbia anche la metà di tutto il resto, com'è giusto.» Ruotando la sedia, Burton Kimball si alzò e si recò alla finestra, dove rimase a guardare fuori in silenzio, scrutando un improvviso riflesso di sole, accecante e argenteo, sul marciapiede ancora umido di Main Street. Il rapporto fra Harold Patterson e Burton Kimball era di gran lunga più complicato di quello fra zio e nipote, o fra cliente e avvocato. Harold era l'unico padre che Burton avesse mai conosciuto. L'incrollabile gentilezza di quel vecchio ostinato lo aveva aiutato a crescere e gli aveva permesso di completare gli studi. Senza il suo sostegno finanziario non avrebbe mai potuto diventare avvocato. Alla generosità di quell'uomo apparentemente duro e spietato doveva tutto quello che era e tutto quello che aveva. D'altronde, Burton Kimball aveva trascorso gran parte dei suoi quarantacinque anni a proteggere e a difendere Ivy Patterson. I genitori adottivi lo avevano allevato insieme alle due bambine in maniera tale, che le aveva sempre considerate più come sorelle che come cugine. Nonostante le differenze di età, dato che Holly aveva cinque anni più di lui e dieci più di Ivy, la dinamica dei loro rapporti era sempre stata la stessa. Lui e Ivy, più piccoli, ma risoluti, si erano alleati per resistere insieme alle sopraffazioni e ai tormenti che Holly aveva continuamente imposto e inflitto loro. Sempre, fin da quando Burton Kimball aveva memoria, Holly Patterson era stata perfida come un serpente. E dopo quarant'anni era tornata, più cattiva che mai, a fare del suo peggio.
Così, in piedi dinanzi alla finestra, Burton Kimball era dilaniato dal proprio eterno conflitto interiore fra due lealtà opposte, sconvolto dalla delusione e dal tradimento. Come avrebbe potuto perdonare un padre che si volgeva contro la propria figlia? Come avrebbe potuto aiutare Harold Patterson a privare Ivy di ciò che le spettava di diritto? La risposta, per Burton, era semplice: non avrebbe potuto, non poteva. Così decise di compiere un ultimo tentativo. «Non c'è niente di giusto in tutto questo», disse. «Non farlo. Non rovinare Ivy. Holly vuole il Rocking P, ma non ne ha bisogno, perché ha la sua carriera. Per Ivy è diverso. Ha trascorso tutta la sua vita al ranch, lavorando come una schiava, e tu lo sai benissimo. Non ha mai avuto un lavoro regolare, e io so per certo che tu non le hai mai pagato un solo centesimo di salario, né di contributi.» «Holly è completamente al verde», dichiarò Harold Patterson. Burton interruppe la sua piccola arringa. «Ne sei sicuro?» «Ha sempre odiato Bisbee», rispose il vecchio. «Se è tornata, lo ha fatto soltanto perché non ha avuto altra scelta.» «Zio Harold...» disse Burton, in tono pacato. «Stai forse dicendo che dovrei essere dispiaciuto per Holly?» «Tu non sai che cosa le è successo», rispose Harold sottovoce. «Non ne sai niente.» «No», convenne Burton. «Hai ragione. Non lo so, perché non me lo hai mai detto, anche se sono il tuo avvocato. Ma se c'è qualcuno che dovrebbe saperlo, quello sono io. Ebbene, che cosa è successo a Holly, zio Harold?» chiese Burton, con voce di nuovo controllata. «Dimmi la verità. Lascia che ti aiuti...» Ma Harold non disse niente. Per più di un minuto, nessuno dei due pronunciò una sola parola. «Non vuoi dirmelo?» domandò finalmente Burton. «Non c'è niente da dire.» Allora Burton si scostò bruscamente dalla finestra e si girò a scrutare il vecchio che continuava a esaminarsi, con la massima concentrazione e un'affettata noncuranza, i dorsi chiazzati delle vecchie mani. E mentre fissava lo zio, si sviluppò lentamente in lui una comprensione terribile, che lo travolse e lo fece impallidire. «Non è vero...» disse freddamente. «Che cosa non è vero?» chiese Harold. «Che non c'è niente da dire.» Harold alzò gli occhi verso Burton. Sul viso aveva un'espressione di finta innocenza che non avrebbe ingannato neppure il più ingenuo dei giurati.
«Mio Dio...» sussurrò Burton. «È successo, vero? Holly sta dicendo la verità! Ecco perché non vuoi andare al processo! Ecco perché all'improvviso hai deciso di accordarti! Hai paura che la gente, i tuoi amici e i tuoi vicini, le persone che considerano Harold Patterson il sale della terra, ti vedano finalmente per quello che sei!» Senza preavviso, gli occhi tradirono Harold Patterson. Ancora una volta, com'era già accaduto diverse volte quel giorno, si colmarono di lacrime inaspettate e sgradite. Quando cercò di scacciare il pianto rivelatore, Harold non ci riuscì, non prima che il nipote vedesse le lacrime e ne sospettasse il significato. Con un groppo allo stomaco, Burton Kimball si rese conto che Holly Patterson stava dicendo la verità e ne fu sbigottito. «Se le cose stanno così», disse l'avvocato con circospezione, «allora forse ti conviene davvero accordarti... Ma io non ti aiuterò. Non voglio avere niente a che fare con questa faccenda. Il fatto è, zio Harold, che mi fai schifo. Non sopporto neppure di stare nella stessa stanza con te.» E si avviò alla porta. «Vuoi dire che intendi rinunciare?» chiese Harold. Presso la porta, Burton si fermò, ma rispose senza girarsi, e senza alzare la voce. «Sì, è proprio quello che voglio dire», annunciò lentamente. «Visto come mi sento in questo momento, non credo di poterti rappresentare in maniera adeguata. Ti andrà meglio se sarai assistito da qualcun altro, magari uno dei miei soci...» «Ti prego, Burtie...» implorò Harold. «I tuoi soci non sanno niente di questo caso. Non abbandonarmi proprio adesso, quando ho bisogno di te per poter contattare Holly o il suo avvocato. Nessun altro può farlo. Soltanto tu.» Burton sentì che un'onda di furia gelida gli sorgeva nel petto, minacciando di travolgerlo, di privarlo della parola. L'unica cosa che riuscì a fare, con un supremo sforzo di autocontrollo, fu parlare con un'esile parvenza di normalità nella voce. «Holly alloggia a Casa Vieja», disse. «E al diavolo l'ordinanza del tribunale! Dovrai sbrigare personalmente il lavoro sporco, zio Harold, perché io non sarò di certo così bastardo da aiutarti!» Ciò detto, Burton Kimball uscì e se ne andò sbattendo la porta. Harold rimase seduto per qualche minuto, solo nella stanza vuota, a riacquistare la propria compostezza e ad accettare il fatto che aveva avuto quello che desiderava, ma non nel modo in cui avrebbe voluto, e a un prezzo troppo alto. Non aveva mai pensato di poter perdere anche Burtie. Mai. Scoraggiato da quell'ultima sofferenza, impiegò un certo tempo a radu-
nare le forze e a uscire dall'ufficio del nipote. Poi si recò alla scrivania di Maxine Smith, la segretaria di Burton. «Quando Burtie torna», chiese Harold, «può riferirle un messaggio da parte mia, per favore? Gli dica che mi dispiace, e che lo ringrazio.» «Ma certo, signor Patterson», disse Maxine, prendendo rapidamente nota su un taccuino. «Posso fare altro per lei?» «No», disse Harold Patterson, scuotendo la testa. «È tutto.» CAPITOLO 7 Holly Patterson sedeva davanti alla finestra della camera da letto sul retro, al piano superiore di Casa Vieja, a fissare la scarpata fulva di roccia e di residui minerari, alta una sessantina di metri, dove nulla di verde cresceva. Il morto deserto della discarica le ricordava la luna, e se stessa. La sedia a dondolo con il rigido schienale in cuoio e i larghi braccioli piatti cigolava a ogni oscillazione sul pavimento di legno duro. Il rumore le ricordava una porta che si chiudesse scricchiolando. La porta del suo cuore. Dondolava e dondolava. Il fuoco crepitava allegramente nel piccolo caminetto in pietra, ma nulla poteva riscaldare Holly. Non il fuoco, e nemmeno i due maglioni di lana che indossava. Aveva freddo, era spaventata. Aveva avvisato Rex Rogers, il suo avvocato, che tornare lì sarebbe stato tremendo per lei, ma Amy aveva insistito sulla necessità di battersi nel territorio di suo padre, e Rex l'aveva spalleggiata. Avevano detto che sarebbe stato molto più vantaggioso sfidare il leone nella sua tana. Amy Baxter, la sua ipnoterapista, le aveva assicurato che tornare a Bisbee non sarebbe stato poi così difficile. Le aveva garantito che sarebbe stata benissimo. Forse, dal punto di vista pubblicitario e legale, Rex e Amy avevano ragione, e Bisbee era davvero il posto adatto. Dopotutto, erano loro gli esperti, e avevano già affrontato casi simili in altre località grandi e piccole sparse per tutto il paese. Ma per Holly, essere lì era sbagliato. Per trent'anni, con l'aiuto dell'alcol e della droga, aveva cercato di cancellare dalla memoria il ricordo di Bisbee e di tutti i suoi abitanti. E adesso che era tornata, tutto ciò che l'aveva tormentata era riemerso. A nessuno, lì, importava un accidente di niente, che lei si fosse trasferita in una grande città e che avesse avuto successo, per un certo tempo. Anche ammesso che qualcuno ne fosse al corrente, nessuno, a Bisbee, accennava
all'Oscar per la sceneggiatura che in quel momento si trovava in un armadio nella sua rimessa, a Studio City. E sempre ammesso che qualcuno lo sapesse, nessuno accennava al fatto che aveva raggiunto l'apice del successo soltanto per poi precipitare nel baratro della droga ed essere ricoverata più volte in una serie d'istituti d'igiene mentale e di riabilitazione. A nessuno importava niente dei suoi successi e dei suoi fallimenti. Non contavano niente. La gente di Bisbee la odiava comunque. E la odiava perché era Holly Patterson. Questa era una ragione sufficiente. Si strinse nei maglioni e abbassò lo sguardo. Sul terrazzo, Amy, in tuta, stava facendo ginnastica. Accortasi che Holly la guardava dalla finestra, le sorrise e la salutò con la mano. Holly non rispose al saluto. Ora che la pioggia era cessata e il debole sole novembrino faceva capolino di quando in quando fra le nubi che coprivano il cielo, Amy Baxter era insopportabilmente energica per Holly. Era troppo energica e troppo positiva. Holly, invece, assomigliava all'esile pino dagli aghi rinsecchiti che moriva di sete in cima a quello che restava del giardino un tempo lussureggiante di Casa Vieja. Holly conosceva il giardino perché ci era andata con Billy Corbett, una volta che avevano saltato insieme la scuola. Si erano spogliati, si erano sdraiati sull'edera e ci erano rimasti tanto a lungo che avevano cominciato ad avere prurito e si erano trovati tutti coperti di afidi. Billy si era vantato coi compagni di averlo già fatto per ben due volte, ma Holly gli aveva dato del bugiardo e lo aveva sfidato a dimostrarlo. Così avevano deciso di andare nel giardino dietro Casa Vieja, una meravigliosa villa di fine secolo in cima a Vista Park. In una vita precedente, con un nome diverso, la dimora marrone in stile coloniale spagnolo era stata quella che uno dei primi signori del rame di Bisbee era stato fiero di chiamare casa. Sul finire degli anni Cinquanta, all'epoca in cui la villa aveva assunto il nuovo nome di Casa Vieja, la discarica aveva già incominciato a espandersi nel deserto e ad avvicinarsi lentamente al giardino lussureggiante. Allora, però, non era stata né così vicina né così alta. Alimentata dai convogli rumorosi, la discarica ormai si allargava ogni giorno di più, e il continuo bombardamento di rumore e di polvere stava già cominciando a danneggiare gravemente la vecchia dimora bellissima. La ricca vedova che ci aveva vissuto per vent'anni l'aveva venduta a uno speculatore dall'occhio lungo, che l'aveva ristrutturata, ricavandone una serie di appartamenti da affittare a prezzo contenuto agli sposini novelli bramosi di sesso, a cui non importava niente di essere svegliati a tutte le ore
del giorno e della notte dal ruggito degli autocarri e dal fragore dei detriti che franavano. Per ordine del successivo proprietario, il giardino, che per lungo tempo era stato amorevolmente accudito da un giardiniere a tempo pieno, era stato interamente trascurato. Abbandonati a se stessi, gli alberi si erano seccati e inselvatichiti. In assenza di ogni intervento umano, soltanto l'edera e il pino erano riusciti a resistere al clima arido del Sud Ovest. Il nuovo giardiniere, Jaime Gonzales, aveva ricominciato ad accudire le piante sui terrazzi superiori, ma laggiù, su quelli inferiori, rimaneva soltanto il vecchio pino morente. Holly ricordava di averlo visto, quel pomeriggio di primavera, stagliarsi alto, verde e vivo sullo sfondo del caldo cielo azzurro. Undicenne precoce, Holly Patterson era rimasta sdraiata sulla schiena, nuda, ad aspettare che il povero e sfortunato Billy Corbett trovasse il modo di far funzionare il suo piccolo e inutile «coso». Alla fine ci era riuscito, dopo che Holly gli aveva insegnato a massaggiarle goffamente i piccoli capezzoli turgidi. Poi, quando lei, ridendo, lo aveva preso in giro perché non sapeva neanche dove metterlo, Billy l'aveva schiaffeggiata con violenza, lasciandole sulla guancia l'impronta rossa della mano, che quel pomeriggio, al ritorno da scuola, lei era riuscita a spiegare alla madre soltanto con parecchia difficoltà. Rammentando quell'episodio, Holly si mise a dondolare più in fretta e si strinse ancor più nei maglioni. Billy Corbett era morto in Vietnam. Il suo nome era uno dei primi sulla lapide commemorativa presso la nuova scuola. Trentanove anni dopo quel pomeriggio primaverile, Holly Patterson pensò che Billy Corbett l'aveva meritato. Quale che fosse stata la sua sorte, l'aveva meritata. Nel momento in cui sentì bussare alla porta, Holly trasalì, sorprendendosi del suo stesso nervosismo. Avrebbe dovuto ricordarsi di descrivere ad Amy il proprio stato d'animo e di chiederle di spiegarle che cosa significasse, d'ipnotizzarla e di calmarla, di scacciare il tormento. Più tardi, forse, avrebbero potuto andare insieme a fare un giro con la Allanté di Rex Rogers, rossa fiammante. Forse Amy le avrebbe persino permesso di guidare. In un articolo, Holly aveva letto che Marliss Taldeitali, la vecchia pettegola che teneva una rubrica settimanale sul «Bisbee Bee», credeva davvero che l'auto appartenesse a lei. Era tutta da ridere. Quando era stata sfrattata dall'ultimo nido di scarafaggi in cui aveva alloggiato, Holly Patterson non aveva avuto quasi più niente da poter considerare suo. Amy l'aveva aiutata
a salvare le poche miserabili cose che le restavano e a chiuderle in una rimessa, in California. Avrebbe potuto conservarle soltanto finché avesse continuato a pagare, mese per mese, l'affitto della rimessa. Quando bussarono di nuovo, Holly si rese conto di non avere risposto. «Chi è?» «Sono Isobel.» «Entra pure.» Isobel Gonzales, la moglie del giardiniere, che svolgeva le mansioni di cuoca e di domestica, irruppe nella stanza e subito si bloccò alla vista della colazione sul vassoio, che Holly non aveva neppure toccato. «Non le piace la mia cucina?» «Non ho fame.» Isobel scosse la testa e schioccò la lingua. «Fa male a non mangiare. Finirà per ammalarsi.» Allora Holly pensò che sarebbe stato quel posto a farla ammalare, e non soltanto a causa di Billy Corbett, anche se sulle prime aveva pensato, e sperato, che fosse così. No, si trattava di qualcos'altro, di qualcosa di molto più grave, forse di qualcosa che aveva a che fare con la discarica. Qualunque cosa fosse, però, restava al di fuori della sua portata, o meglio, al di fuori della portata della sua consapevolezza. L'aveva sentito subito il primo giorno, appena aveva messo piede nella casa. Naturalmente Paul Enders, per gli amici Pauli, era stato gentile a prestare il suo «capanno sul lago» agli amici, quando aveva saputo che dovevano recarsi a Bisbee per affari. Ovviamente, non c'era nessun lago nella zona di Bisbee. Ma per chi, come lui, lavorava come costumista a Hollywood e viveva sottoposto alle continue tensioni del mondo cinematografico, era importante avere un rifugio in cui ritirarsi a creare. E poi, Casa Vieja era stata un'occasione tale, che non aveva potuto permettersi di lasciarsela sfuggire. Infatti, Paul Enders era soltanto l'ultimo di una lunga serie di presunti salvatori di Casa Vieja. In conseguenza dell'esodo dei minatori alla fine degli anni Settanta e della concomitante saturazione del mercato immobiliare, persino le case meno costose erano rimaste sfitte, scivolando nell'abbandono e nel degrado. Nel bel mezzo della depressione economica era arrivato inaspettatamente un afflusso di capitali che probabilmente erano derivati dal riciclaggio dei proventi del traffico di droga del cartello colombiano. Così, la cocaina aveva finanziato il restauro di Casa Vieja, che era tornata a essere una villa.
Con il presunto denaro sporco era stato possibile restaurare l'edificio, rifare l'impianto idraulico e quello elettrico, ripulire e ripiantare alcune zone del giardino. Poi, quando i lavori erano soltanto in parte conclusi, erano intervenuti i federali. Era stato così che, alla fine degli anni Ottanta, Pauli Enders aveva potuto acquistare la villa pagandola al prezzo di una cantina. Enders aveva spiegato che Casa Vieja gli era sembrata intima e confortevole, adatta per lavorare senza che visite inaspettate interrompessero le sue esplosioni di creatività. Sosteneva che lavorare in una stanza che guardava la selvaggia e cupa discarica gli dava l'impressione di essere appollaiato proprio sotto il Grand Canyon. Ma quello che era gradevole per Pauli era sgradevole per Holly, anche se lei stessa non riusciva a capire perché. Che cos'aveva quella discarica? Perché la turbava tanto? Perché la sua vicinanza incombente le impediva di dormire, di mangiare, di pensare? «Allora», stava dicendo Isobel, «viene o no?» Holly ebbe l'impressione che fosse quasi spazientita, come se le avesse già ripetuto la domanda più volte, e lei non avesse sentito. «Venire?» ripeté ottusamente. «E dove?» «Di sotto, c'è suo padre. La sta aspettando.» «Mio padre?! Qui?!» disse Holly, con sgomento, prima di addossarsi di nuovo allo schienale e ricominciare a dondolarsi disperatamente. «Non voglio vederlo... Non posso...» «La signorina Baxter ha detto che dovrebbe scendere.» «No. Dille che non scendo.» «E va bene...» rispose Isobel, prima di uscire e richiudere la porta. Pochi istanti più tardi l'uscio fu aperto nuovamente ed Amy si precipitò nella stanza. «Cosa significa che non vuoi venire?» «Non voglio vederlo. Non posso.» Amy si avvicinò e s'inginocchiò davanti alla sedia a dondolo. «Sì che puoi, Holly. Devi. Vuole risolvere la faccenda. È disposto ad accordarsi. Ma tu devi parlargli di persona.» «No... ti prego...» «Forza, Holly! Dopo tutto quello che abbiamo fatto, non puoi fare marcia indietro proprio adesso...» «Perché no?» «Perché sei già arrivata fin qui, e per riuscirci hai dovuto fare un lavoro dannatamente duro», insistette Amy. «Questa è l'ultima cosa che devi fare per riacquistare il rispetto di te stessa e per riprendere il controllo della tua vita. Hai finalmente la possibilità di farla pagare a tuo padre. È riuscito a
farla franca con quello che ti ha fatto per tutti questi anni. Non permettere che lo faccia di nuovo. Lui è in debito con te, e tu sei in debito con te stessa.» «Non può parlargli Rex?» «Oggi Rex è in California. Ricordi? Tornerà stasera, in tempo per andare in tribunale domani, se sarà necessario. Ora dipende tutto da te, Holly. So che puoi farcela. Fai un respiro profondo, adesso... Rilassati...» Holly annuì, poi, distrattamente, si passò le dita fra i capelli impastati di sudore. «Ma sono un disastro...» disse. «Non posso presentarmi a lui così. Devo farmi la doccia, lavarmi i capelli, truccarmi...» «Oh, per l'amor d'Iddio!» «Ti prego...» Alla fine, Amy cedette. «E va bene...» disse, con un sorriso. «Vai a fare la doccia. Io torno giù a dirgli di ripassare fra un po'.» «Davvero posso farcela? Ne sei sicura?» Amy si avvicinò maggiormente a Holly. «Ricordi quello che ti dissi quando venisti a chiedere il mio aiuto, dopo il nostro primo incontro a quella proiezione?» Holly annuì, e la sua risposta sembrò quasi la recitazione di una formula di catechismo. «Che dovevo avere fiducia in te, ma che l'unico modo per imparare ad avere fiducia negli altri consiste nell'avere fiducia in se stessi.» «Pensa a quanta strada hai fatto da allora, Holly. Pensa a quante cose sei riuscita a fare. I molestatori di bambini sono sostanzialmente vigliacchi, e tu hai scoperto il suo bluff. Ecco perché è qui. Ecco perché è venuto a offrirti un accordo. Non devi più avere paura di lui. La situazione si è rovesciata. Adesso è lui che ha paura di te.» «Non mi sembra possibile...» «Invece è così. Adesso vai a fare la doccia. Io gli dico di tornare fra un'ora.» «No, non fra un'ora», disse Holly, dura. «È troppo presto. Può sembrare che abbia fretta d'incontrarlo. Digli di tornare alle quattro.» «Va bene», disse Amy. «Alle quattro, allora.» Per lungo tempo, quando la porta si fu richiusa, Holly indugiò sulla sedia a dondolo senza muoversi. Se questo era quello che voleva, se questo era quello che sarebbe dovuto succedere, allora perché mai si sentiva tanto male? Se aveva ottenuto una vittoria, perché tremava tanto, e al tempo stesso sudava? Perché la prospettiva di rivedere suo padre dopo tanti anni
le appariva così terrificante? Finalmente, dopo circa mezz'ora, riuscì a riprendersi abbastanza per alzarsi dalla sedia e trasferirsi in bagno. Se Amy continuava a credere in lei, allora, forse, Holly Patterson poteva trovare in qualche modo la via per credere in se stessa. Doveva riuscirci. Amy aveva detto che era l'unico modo per vincere. E si supponeva che di vincere valesse la pena. CAPITOLO 8 Al Blue Moon Saloon di Bisbee, nella relativa quiete prima dell'ora di pranzo, Angie Kellogg studiava il manuale d'esame per la patente di guida nello Stato dell'Arizona come se da esso dipendesse la sua stessa vita. Studiare, studiare seriamente, era qualcosa che aveva fatto così di rado nella sua breve vita, che risultava sorprendente, persino per lei. Dopo essere stata prostituta a Los Angeles, Angie era arrivata a Bisbee due mesi prima con il suo amante, un sicario del cartello della droga, dal quale era successivamente fuggita. In seguito a circostanze che continuavano a sbalordirla, era stata accolta sotto l'ala protettiva di un improbabile trio di soccorritori composto da Joanna Brady, dal reverendo Marianne Maculyea e da Bobo Jenkins, uno dei pochi afroamericani di Bisbee, il quale, in quanto proprietario e gestore del Blue Moon, le aveva offerto il suo primo lavoro lecito. Decisa a non tornare mai più a «fare la vita», Angie stava rigando diritto per la prima volta nella sua breve esistenza. Anche se aveva cambiato il proprio stile di vita, non aveva sentito la necessità di modificare il proprio modo di vestire. Con i suoi jeans estremamente attillati, con le scarpe con la zeppa e con la sua figura voluttuosa, continuava ad attirare l'attenzione e a provocare commenti all'ufficio postale e al Safeway. Per questo, d'altronde, era anche, e di gran lunga, la più bella barista della città. Bobo, che negli affari sapeva il fatto suo, aveva considerato il possibile rapporto fra la bellezza di Angie e l'incasso giornaliero, e non aveva tardato a constatare che quest'ultimo aumentava notevolmente ogni volta che Angie Kellogg era di turno. Scherzando, diceva che lei era la sua dipendente più preziosa. Dato che era anche la sua unica dipendente, Angie non prendeva troppo sul serio quel complimento. Tuttavia, in una cittadina come Bisbee, dove l'esigua popolazione implicava un proporzionale numero di bevitori, tutto ciò che
poteva innalzare la soglia minima di profitto in un'attività che era in grado di assicurare soltanto un limitato margine di utile era una risorsa da accogliere a braccia aperte. Sulle prime Angie Kellogg non badò granché all'uomo ben vestito che, dopo essere entrato precipitosamente attraverso la porta girevole del Blue Moon, andò a stravaccarsi nel séparé più lontano. Mancava poco alle undici e mezzo, quando l'uomo si accomodò sulla panca, con la schiena rivolta all'entrata. Irritata di dover interrompere lo studio prima del normale flusso di clienti all'ora di pranzo, Angie posò il manuale e si affrettò ad andare a ricevere l'ordinazione. «Che cosa prende?» domandò. «Un Bloody Mary», rispose lui. «Doppio.» Angie capì subito che l'uomo era probabilmente un avvocato, anche se di un calibro molto superiore a quello dei legali che i suoi vari ruffiani di Los Angeles avevano assoldato di solito per pagare la cauzione alle ragazze e farle uscire di prigione. «Caldo oppure no?» chiese Angie. Era stato Bobo a dirle di porre la domanda proprio in quel modo, spiegandole che a certi clienti il Bloody Mary piaceva leggero, mentre altri lo volevano così pieno di tabasco da aver bisogno di berci dietro parecchia acqua. Quando Bobo, un nero di corporatura atletica, faceva quella domanda, nessuno gli rompeva scatole. Quando la faceva Angie, di solito le cose andavano rapidamente di male in peggio. Nel momento in cui l'avvocato la guardò con occhi di una vacuità inquietante, Angie si preparò al solito, inevitabile commento volgare. Se il cliente fosse stato troppo volgare, però, non avrebbe esitato a spiegargli che cosa avrebbe potuto farci, col sedano del cocktail. «Mi scusi...» rispose finalmente lui. «Come ha detto?» «Il cocktail...» spiegò lei. «Come lo vuole? Caldo oppure no?» «Non molto», disse lui. Angie si allontanò ancheggiando e scuotendo i capelli biondi. Forse quel tipo non frequentava granché i bar. Si comportava come se non conoscesse neppure il gergo, come se venisse da un paese straniero, o qualcosa del genere. Ma almeno non le aveva fatto proposte oscene. Bobo aveva detto chiaro e tondo ad Angie che, se avesse voluto conservare il suo lavoro part-time come barista del turno di giorno, non avrebbe dovuto assolutamente «fraternizzare» con i clienti. In verità, non c'erano molti uomini che apparissero neanche lontanamente interessanti ai suoi occhi, in quei giorni,
e sicuramente non gratis. Per quanto riguardava quel tipo di lavoro, Angie Kellogg era in vacanza permanente. Mentre Angie serviva il cocktail all'avvocato e incassava il conto, arrivarono i primi clienti abituali dell'ora di pranzo. Già impegnati a discutere fra loro, Archie McBride e Willy Haskins varcarono la soglia del locale e occuparono i loro soliti posti all'estremità del bancone, vicino all'entrata. Senza prendersi la briga di chiedere cosa volessero, Angie portò loro due bicchieri di vodka e due birre Coors per sciacquare. Ordinavano sempre le stesse cose, e comunque era troppo scocciante stare ad aspettare che interrompessero le loro incessanti diatribe abbastanza a lungo da permettere a qualcun altro d'interloquire. I due vecchi, ex minatori della Phelps Dodge in pensione da almeno vent'anni, erano bevitori abituali relativamente innocui che mantenevano nei loro organismi una quantità di alcol sufficiente a impedire il delirium tremens. Le loro continue discussioni non procuravano mai guai, anche se Angie sperava sempre che la smettessero di parlare di politica o di religione. Se ci fossero stati soltanto loro due, Angie avrebbe forse cercato di dedicare allo studio qualche altro minuto, ma non tardò a entrare, dopo il suo solito vagabondaggio nei dintorni, un altro bevitore incallito, Don Frost, che si accomodò sul suo solito sgabello. Membro della comunità artistica di Bisbee, Don era uno scultore specializzato in quella che definiva «arte povera con materiali eterogenei». Le sue opere erano composte di rottami incollati o saldati insieme. Qualche volta, quando era in giornata buona, arrivava persino a verniciarle. Anche se erano vistosamente esposte nelle gallerie cittadine, di rado venivano vendute. Perciò Don viveva dell'assegno mensile che riceveva da qualche fondo, con cui poteva bere e mangiare, dato che alloggiava in un appartamento da 150 dollari al mese sopra un emporio abbandonato, a Tombstone Canyon. Talvolta, verso la fine del mese, e quella del suo mensile, Don Frost andava al Blue Moon a chiedere un prestito a Bobo, che glielo concedeva perché potesse tirare avanti, però badando sempre a chiederne la restituzione all'inizio del mese successivo. «È un affare vantaggioso», aveva spiegato Bobo ad Angie, con un sorriso astuto. «Certo che gli presto sempre un po' di soldi! E lui me li restituisce sempre appena incassa il nuovo assegno. Così resta tutto in famiglia: qui chiede prestiti, e qui beve.»
Angie, che aveva ventitré anni, era contenta di lavorare come barista per Bobo, dato che era la prima volta in assoluto che si guadagnava da vivere senza prostituirsi. Era un impiego onesto, che le permetteva di abitare in una modesta casetta con due camere, che un tempo era stata un alloggio per minatori, e le consentiva inoltre di dedicarsi al suo nuovo hobby, le mangiatoie per gli uccelli. Al tempo stesso le permetteva di conservare la maggior parte del gruzzolo che, con l'aiuto di Joanna Brady, aveva potuto tenere per sé, anziché doverlo consegnare all'agente Adam York e alla Drug Enforcement Agency. Anche se il lavoro le piaceva quasi sempre, Angie non sopportava certi clienti. In particolare non sopportava Don Frost, un odioso chiacchierone che si autodefiniva esperto di qualsiasi materia, le dispensava senza ritegno il suo sapere enciclopedico e le offriva sempre consigli non richiesti, mentre lei s'impegnava per apprendere le sottigliezze del nuovo lavoro. Per giunta, Don Frost s'illudeva di essere un buon partito, alludeva continuamente al fatto che dal fondo da cui riceveva l'assegno mensile avrebbe potuto attingere un sacco di altri soldi, e suggeriva che qualunque donna che fosse stata tanto fortunata da mettersi con lui non sarebbe certo rimasta delusa. Poiché Angie era letteralmente la «nuova ragazza in città», Frost la bombardava in continuazione di quelle che considerava battute di corteggiamento. Era arrivato persino a portarle un'opera d'arte che aveva finito di recente per chiederle il suo parere. In fatto di arte, i gusti di Angie Kellogg erano decisamente poco sofisticati, così, quando Don le aveva assicurato che si trattava di un'opera da cinquemila dollari, lei non era riuscita neppure a immaginare perché mai qualcuno avrebbe dovuto spendere tanti soldi per un rottame verniciato. Se fosse stata ancora a battere le strade, una dose di Don Frost sarebbe stata più che sufficiente, per lei. Purtroppo, era uno dei clienti abituali di Bobo, e con la sua presenza quotidiana contribuiva sia al salario sia alle mance. Dunque Angie faceva del suo meglio per tollerarlo. Con un sospiro, Angie smise di leggere, ma mentre infilava il manuale nella borsa, sotto il bancone, Don se ne accorse. «Allora, quando ce l'hai, l'esame?» chiese. «Quanto manca, ancora, prima che le strade smettano di essere sicure per l'umanità intera?» «Giovedì», rispose Angie. «Che cosa prendi?» Frost sorrise. «Una botta di mezzogiorno?» chiese, speranzoso. In quel momento, l'avvocato nel séparé intercettò lo sguardo di Angie e la chiamò con un cenno. «Un altro, per favore!» ordinò.
Lasciando Don Frost seduto al bar, Angie andò a preparare il Bloody Mary. «Appena hai deciso», disse, girando la testa, «fammelo sapere.» Quando Angie tornò, dopo avere servito il cocktail, Frost fu pronto a ordinare il suo primo Kahlua e caffè di quel mese. Verso la fine del mese, e dei soldi, si sarebbe limitato a una birra, magari corretta con uno sorso di tequila. «Perché credi che il signor Burton Kimball sia sceso nei bassifondi?» domandò Frost di malumore, accennando con la testa all'avvocato nel séparé, mentre Angie gli serviva il caffè in una tazza scheggiata. «Non lo avevo mai visto mettere piede qui a Gulch.» «Chi è Burton Kimball?» «Se a Bisbee fosse mai arrivata una Mayflower, a bordo ci sarebbe stata la famiglia di Burton Kimball. È la causa di suo zio, quella che dovrebbe cominciare domani nell'aula del giudice Moore. Probabilmente ne hai sentito parlare... La figlia sostiene che al suo vecchio piaceva giocare con lei a nascondere il salamino, quando era piccola. Adesso ha assunto un avvocato, gli ha fatto causa e lo ha costretto a portare le chiappe in tribunale.» «Buon per lei», disse Angie, affrettandosi ad allontanarsi lungo il bancone per andare a servire un altro paio di birre a Willy e ad Archie. «Hai qualcosa contro gli uomini?» chiese Don Frost, appena la ragazza gli si avvicinò nuovamente. «Soltanto contro quelli che abusano delle figlie», ribatté Angie. «Non sarai mica una di quelle "femminaziste", vero?» «Una che?» «Non ascolti mai Rush Limbaugh?» «E chi è?» «Quell'idiota della radio. Non lo ascolto mica neanch'io. Mi fa vomitare», disse Don Frost, allontanando la tazza. «Dammene un altro.» Nel preparare il caffè per lo scultore, Angie ne versò una tazza anche per sé. «Lascia che ti dia un consiglio per la prova pratica dell'esame di guida», riprese Frost. «Segnala tutte le manovre e guarda sempre nello specchietto retrovisore. Ci fanno caso, se non controlli abbastanza spesso. L'hai studiato tutto, il manuale?» Angie scosse la testa. «Avrei dovuto dedicarci più tempo nel fine settimana, ma sono stata impegnata al centro telefonico.» «Centro sessotonico?» chiese Archie McBride, perplesso, dall'estremità opposta del bancone. Era rimasto molto duro d'orecchi, dopo avere trascor-
so tanti anni a far esplodere la dinamite e a caricare i minerali sui carrelli, e quando il suo apparecchio acustico si era definitivamente guastato, dopo ventisei anni di onorato servizio, lui si era rifiutato di comprarne un altro. «E come diavolo funziona un centro sessotonico?» domandò a voce alta. «Dove possiamo iscriverci? Che ne dici, Willy?» Mentre i due vecchi si abbandonavano a un fragoroso scoppio di risate, appoggiandosi l'uno all'altro, Angie, accigliata, scosse la testa. «Centro telefonico», ripeté, a voce più alta, scandendo le sillabe. «Per Joanna Brady, per le elezioni.» «Oh...» disse Archie. «Giusto... le elezioni... Sono oggi, vero? Avete già votato?» Tutti coloro che si trovavano nella sala scossero la testa. Per la prima volta nella sua vita, Angie Kellogg desiderava davvero di poter votare. Aveva persino trovato una candidata che le piaceva, ma sfortunatamente si era trasferita in città troppo tardi per potersi iscrivere alle liste elettorali. Il tizio nel séparé la chiamò di nuovo con un cenno e lei si recò al suo tavolo, aspettandosi un'altra ordinazione. «È possibile usare il telefono?» chiese lui. Scrutando l'uomo che Don Frost aveva chiamato Burton Kimball, Angie Kellogg fu lieta di constatare che la sua impressione era stata corretta. Era davvero un avvocato. Sulle prime aveva pensato che fosse migliore di quelli che aveva conosciuto, assoldati dai ruffiani o dai trafficanti di droga e specializzati nel pagare le cauzioni e nell'ottenere la scarcerazione delle prostitute. Invece si era sbagliata. Se difendeva un molestatore di bambine, un uomo che aveva abusato della sua stessa figlia, allora Burton Kimball non era migliore degli avvocati che aveva conosciuto in passato, anzi, forse era persino peggiore. «Chiamata urbana?» chiese lei. «Sì», disse lui. Le chiamate in uscita potevano essere fatte soltanto dall'apparecchio nel retro. Il primo istinto di Angie fu quello di dire a quel bastardo di alzare i tacchi e di andarsene a fare la sua preziosa telefonata da qualche telefono pubblico, preferibilmente in mezzo a una strada affollata. Poi pensò un'altra cosa. Non le aveva forse detto, Don Frost, che l'importante processo dell'avvocato sarebbe incominciato il giorno successivo? E che cosa sarebbe accaduto se il rappresentante della difesa fosse stato troppo ubriaco per tenere gli occhi aperti? Angie pensò che probabilmente
non sarebbe stato realistico illudersi di riuscire a impedirgli di recarsi in aula, ma forse sarebbe stato possibile fargli desiderare di restarsene a casa. Persino una barista inesperta era capace d'infliggere un danno di quel genere. «Puoi usare il telefono nel retro», gli disse, con un sorriso seducente. «C'è il numero sopra, se hai bisogno di farti richiamare da qualcuno. A proposito, come ti chiami?» chiese, pur conoscendo già la risposta. «Non credo di averti mai visto da queste parti...» «Burton Kimball», disse lui, abbassando la voce come se in realtà non gli piacesse affatto l'idea di essere ascoltato da altre persone. Angie gli offrì la mano. «Io sono Angie. Lieta di conoscerti, Burton. Benvenuto al Blue Moon. Ti va un altro bicchiere? Offre la casa, per festeggiare un nuovo cliente.» «Certo», disse Kimball. «Prima, però, devo telefonare...» Quando tornò, Burton trovò un altro Bloody Mary che lo aspettava sul tavolo, nel séparé. Gli sembrò un po' più forte dei precedenti, più caldo. Angie Kellogg osservò con soddisfazione mentre Burton Kimball mescolava il cocktail con il sedano e lo assaggiava. Inarcò le sopracciglia e fece una smorfia, come se fosse sorpreso per la dose extra di tabasco, ma invece di lamentarsi perché era troppo forte, giacché in effetti era triplo, anziché doppio, ringraziò con un cenno della testa. Angie gli sorrise, prima di tornare a occuparsi degli altri clienti, e attese con un certo piacere il momento in cui Burton Kimball sarebbe stato tanto ubriaco da fornirle una valida giustificazione per cacciarlo in strada. Con un po' di fortuna, avrebbe dovuto andarsene da Brewery Gulch strisciando carponi. CAPITOLO 9 Nel tornare in auto al Rocking P, Harold Patterson si sentì speranzoso fin quasi all'euforia. Stava funzionando. Holly aveva accettato d'incontrarlo. Quella donna, Amy, la terapista di Holly, o l'infermiera, o quello che era, aveva collaborato sinceramente, e questa era una cosa che lui non si era aspettato, perché l'aveva immaginata come una specie di mostro. Eppure, anziché scacciarlo appena aveva saputo chi era, Amy Baxter lo aveva accolto quasi cordialmente. Nel lungo soggiorno di Casa Vieja, sotto le travi del soffitto, Harold aveva aspettato nervosamente che Amy tornasse dalla stanza al piano di so-
pra a riferirgli se sua figlia fosse o meno disposta a incontrarlo. Quando gli aveva detto che Holly non sarebbe scesa, si era sentito come annientato, ma apprendere subito dopo che lo avrebbe incontrato nel pomeriggio lo aveva reso quasi estatico. Parlare con Amy gli aveva fornito qualche indizio sullo stato d'animo di Holly. «Non dovrà sorprendersi, se la vedrà comportarsi in modo un po' strano», aveva detto Amy. «Le capita, in certi momenti, di quando in quando. Talvolta va un po' meglio, talaltra peggio.» Senza dubbio, se ci fosse stato l'avvocato, se fosse stato presente uno qualsiasi dei due avvocati, le cose sarebbero andate in maniera molto diversa. Harold ne era sicuro. Aveva fatto bene ad agire di propria iniziativa. Tuttavia, dato che poteva finalmente affrontare Holly e che mancava un'ora all'incontro, doveva avvertire Ivy. Aveva due figlie, e se avessero dovuto dividersi il Rocking P, se avessero dovuto vivere l'una accanto all'altra, allora il terribile segreto avrebbe dovuto essere rivelato a entrambe. Entrando nel cortile, Harold fu sollevato nel vedere parcheggiato vicino al cancello principale il pick-up di Ivy, un Luv rosso sbiadito. Sua figlia era in casa. Restava soltanto un dubbio: sarebbe stata disposta ad ascoltarlo? Gli avrebbe dato la possibilità di parlare? Con movimenti lenti e rigidi, Harold scese dallo Scout proprio mentre la controporta si apriva sbattendo e un certo Yuri Malakov usciva dalla casa portando una pigna di scatole. «Ehi!» disse Harold. «Che sta succedendo? Che stai facendo?» Harold sapeva che Yuri, un immigrato russo arrivato da poco in città, era amico di Ivy. Marianne Maculyea, pastore della chiesa metodista di Canyon, aveva incastrato Ivy con una specie di iniziativa educativa. Da qualche settimana, la sera, il russo grande e grosso, con il suo mucchio di libri, era diventato un ospite fisso al tavolo di cucina dei Patterson. Di giorno, Malakov lavorava come bracciante dai Robertson, sulla Highway 80, in direzione di Tombstone. Di notte, Ivy lo aiutava a studiare inglese. Yuri si bloccò, incontrando Harold nella veranda. Pochi istanti più tardi la porta si riaprì e Ivy uscì, con una valigia piena in ogni mano. «Che stai facendo?» ripeté Harold. Ivy gli passò davanti, scostandolo. «Andiamo, Yuri. Carichiamo prima le scatole. Vai a prendere quelle che sono rimaste in cucina.» Ubbidiente, Yuri sistemò le scatole nello spazio ancora libero sul camioncino già quasi completamente carico, poi, senza dire una parola a Harold, si girò e rientrò in casa.
Ivy era bassa e tarchiata, di corporatura solida: una copia esatta della madre. In anni e anni di duro lavoro fisico, riparando i recinti e governando il bestiame, Ivy Patterson era diventata molto più forte di quanto sembrasse. Senza sforzo, gettò le valigie a bordo del camioncino. «Te ne stai andando?» chiese Harold, incapace di credere a quello che stava vedendo. «Puoi dirlo forte», rispose Ivy, senza guardarlo, ripassandogli rapidamente davanti per tornare nella veranda a prendere le scatole che Yuri nel frattempo aveva portato. «Ma che sta succedendo? Dove stai andando?» «Non credo che siano affari tuoi.» «Non sono affari miei?!» fece eco lui. «Ma come puoi dire una cosa del genere? Sono tuo padre...» «Beh, buon per te!» La gelida asprezza della voce di Ivy, che solitamente era gentile, colpì Harold come uno schiaffo in faccia. «Ivy... ti prego... devo parlarti...» «Non disturbarti. So già tutto. Burtie mi ha telefonato per annunciarmi la notizia.» «Non avrebbe dovuto...» «Beh, lo ha fatto. E se credi che io sia disposta a restare qui e a condividere la mia casa con quella donna, allora sei pazzo.» «Ma... Ivy... è tua sorella, e tu non hai la minima idea di quello che ha passato. Ha avuto sfortuna, momenti difficili...» «Come tutti. Prendi il telone, Yuri», disse Ivy, girando la schiena al padre. «Dubito che pioverà ancora, ma sistemiamolo lo stesso, per precauzione, così durante il viaggio non cadrà niente.» Insieme, stesero il telone sul carico. Mentre Ivy cominciava ad assicurarlo con perizia, Harold si recò zoppicando fino al bordo della veranda. La porta della veranda era incorniciata da due grossi glicini che Harold stesso aveva piantato quando erano ancora dei virgulti. Erano sempre stati l'orgoglio e la gioia di Emily, che li aveva portati con sé quando, sposa novella, si era trasferita in quella casa. E lui l'aveva sempre presa in giro, dicendole che, con l'ombra generosa che gettavano in estate e con i loro fiori dal profumo dolce, rappresentavano il meglio della sua dote. In verità, erano stati l'unica dote di Emily Whittaker Patterson. Lentamente, sforzandosi di controllare il respiro, Harold si appoggiò al tronco di un glicine e alzò lo sguardo ai rami intrecciati, privi di foglie e di fiori all'appressarsi dell'inverno. La pianta contorta appariva antica, debole,
senza vita, come se fosse in procinto di sfracellarsi ai colpi violenti del vento. Era proprio così che si sentiva Harold. «Appena avremo scaricato questa roba, torneremo a prendere i cavalli. Natasha Robertson mi ha detto che Bimbo e Sam potranno stare da loro, finché avrò trovato un'altra sistemazione. Di sicuro non potranno stare con me in città, in un appartamento. Quando non potrò occuparmene io, li accudirà Yuri.» «Ivy... ascoltami, ti prego... cerca di essere ragionevole... Non c'è bisogno che tu te ne vada. Non è così. Devi capire...» Lasciando che Yuri terminasse di legare il telone, Ivy Patterson si recò risolutamente ai gradini della veranda. «Che cosa dovrei capire?» «Beh, sto facendo quello che sto facendo, e ho bisogno di parlarti, in privato. Non posso dirti quello che devo davanti a qualcuno che non sia della famiglia.» Ivy guardò freddamente il padre. «Yuri è di famiglia», rispose. «Ci sposeremo appena possibile. Guarda...» E sollevò la mano sinistra. Sbalordito, Harold fissò l'anello che la figlia aveva infilato a un dito che non era mai stato adorno di nessun gioiello. «Non lo riconosci?» chiese Ivy. «È della mamma. È quello che mi diede prima di morire. Col poco che guadagna, Yuri non poteva permettersi di comprarmi un anello. Ma guarda caso, io, per fortuna, ne avevo uno.» Harold Patterson era stupefatto. «Com'è possibile? Perché non ne sapevo niente?» «Perché non eri interessato», rispose Ivy. «Perché eri talmente preoccupato per quello che sarebbe successo con Holly, che non riuscivi neanche a vedere quello che ti stava sotto il naso.» Harold lanciò un'occhiata a Yuri, che stava in piedi vicino al camioncino e li guardava interrogativamente, con le grosse mani che gli pendevano goffamente lungo i fianchi. «Però non lo conosci da molto, vero?» obiettò Harold. «Come puoi essere certa...?» «E tu, da quanto tempo conoscevi la mamma?» ribatté Ivy. «Beh, io sono molto più vecchia di quanto eravate voi due quando vi siete sposati. A quarant'anni, mi si presenta finalmente l'opportunità di avere un po' di felicità prima che sia troppo tardi, e io, perdio, non me la lascerò sfuggire.» «E Burton lo sa? Gliene hai parlato?» chiese Harold. «No, non ho detto niente a Burton. Perché avrei dovuto? Non siamo più
ai vecchi tempi, papà. Non ho bisogno di chiedere il permesso a tutti i miei parenti maschi prima di prendere le mie decisioni. È la mia vita. Ho speso tutti questi anni pensando prima di tutto agli altri, e... beh, ho imparato la lezione. Non ho più intenzione di farlo.» «Ma... E il ranch? E il Rocking P?» «E allora?» s'infuriò Ivy. «Che se ne occupi Holly!» «Non può. È malata. Da molto tempo è malata.» «Certo che è malata», ritorse Ivy. «Holly è una drogata, papà. Fattene una ragione. Forse un tempo aveva un po' di talento, ma ormai si è devastata il cervello con gli alcolici, con la cocaina e con Dio sa cos'altro.» «Una drogata? Ne sei sicura7» «È stata in terapia cinque o sei volte in periodi diversi. Questa è una delle ragioni per cui Burton non vuole che ti accordi con lei. Se si arriverà alla tua parola contro la sua, chi mai le crederà?» Senza rispondere, Harold si appoggiò al glicine e chiuse gli occhi. «Sei andato da lei, vero?» s'infervorò Ivy. «Hai discusso l'accordo, vero?» «Non ancora...» mormorò Harold. «Ma lo farò, più tardi, oggi stesso...» «Perché?» «Perché non ha accettato di ricevermi subito.» «Non me ne importa un accidente di niente di quando andrai da lei! Quello che voglio sapere è perché hai deciso di comportarti così! Burton mi ha detto cosa pensa, ma io voglio sentirlo da te, dalle tue stesse labbra.» Allora Yuri, che era oltre mezzo metro più alto di lei, si avvicinò a Ivy e le posò protettivamente una mano sopra una spalla. Per anni Harold Patterson aveva desiderato che qualcuno entrasse nella vita della sua figlia minore, qualcuno che la onorasse e l'amasse come meritava. Eppure, ora che Yuri era comparso sulla scena, gli sembrava che fosse un nemico, più che un amico. Harold fu contento che la lettera fosse ancora in banca, nella cassetta di sicurezza. Dopo tanti anni, quando aveva finalmente deciso di condividere il terribile segreto con le sue figlie, Ivy esigeva condizioni irragionevoli. Lui, infatti, non se la sentiva di vuotare il sacco, dopo tanto tempo, alla presenza di un estraneo che capiva a malapena l'inglese. Scoraggiato, scosse la testa e non rispose. Ivy si liberò della mano di Yuri con una scrollata di spalle, si avvicinò maggiormente al padre e si curvò ad accostare il proprio viso al suo, a pochi centimetri di distanza. «Allora è vero?» domandò. «È così?»
«No», protestò lui, sollevando un braccio come per proteggersi da un'aggressione fisica. «Non è affatto così. Devi credermi.» «Beh, non ti credo. E non ti crederà neanche nessun altro, se ti accorderai. Se tu fossi innocente, andresti in tribunale a dimostrarlo. Nel frattempo, non prenderti la briga di dividere il ranch. Torna da Holly e dille pure che può tenerselo tutto, questo dannato ranch! Io non voglio niente. Quanto a lei, può anche tornare qui a occuparsi di te, come feci io con la mamma. Così potrà pensare lei a chiudere a chiave tutte le porte per impedirti di uscire senza esserti ricordato di vestirti, proprio come faceva la mamma.» «Ivy... ti prego...» Ma Ivy non tacque. «E quando arriverai al punto che non sarai più in grado di mangiare da solo, che sia la tua preziosa Holly a imboccarti, a cambiarti le lenzuola sporche e a vuotarti la dannata padella! Dille che io l'ho già fatto una volta. Dille che la mia parte l'ho già fatta, e che Dio mi fulmini se mai rifarò una vita del genere! Vieni, Yuri, andiamo.» Nel caldo sole pomeridiano, mentre Harold rimaneva seduto senza muoversi, il Luv si allontanò ruggendo e facendo scappare in tutte le direzioni, spaventati e schiamazzanti, il pavone, le due pavoncelle e le galline che avevano attraversato il cortile bagnato per andare a razzolare nella terra umida al di là del recinto. Soltanto dopo che il pick-up fu del tutto scomparso alla vista, Harold si alzò ed entrò in casa. Immobile al centro del soggiorno, guardò attorno con occhi disperati alla ricerca degli oggetti scomparsi, che Ivy aveva portato via: fotografie, libri e soprammobili che probabilmente erano tanto suoi quanto di lei. Incespicando, raggiunse la poltrona dinanzi al caminetto, dove ardeva ancora un fuocherello. Era stato un vero peccato non portare la lettera. Avrebbe potuto semplicemente rinunciare e bruciarla, quella maledetta lettera. Il fuoco sarebbe stato fin troppo contento di consumare la vecchia carta ingiallita e la cera del sigillo. Tuttavia, rinunciare sarebbe stato troppo facile, e non sarebbe stato nel suo stile. Barcollando, Harold si rialzò, quindi attraversò speditamente la casa. In camera da letto, si curvò sul vecchio specchio sciupato e si pettinò i capelli radi. Era vecchio e malmesso, certo, ma era ancora in grado di badare a se stesso, almeno per il momento. Dopo essersi dato una spruzzatina di Old Spice, Harold Patterson rimontò faticosamente a bordo dello Scout e ripartì per ripresentarsi a Casa Vieja.
CAPITOLO 10 Più tardi, quando cercò di ricostruire la sequenza esatta degli eventi, Burton Kimball ebbe difficoltà a ricordare quello che era successo nel corso di quel lungo pomeriggio inquietante. Di sicuro sapeva che intorno a mezzogiorno era entrato al Blue Moon Saloon, incapace di pensare ad altro che a Ivy, la povera Ivy. Che cos'avrebbe potuto fare per aiutarla? Che ne sarebbe stato di lei, se avesse perso il Rocking P? Dove avrebbe potuto andare a cercare lavoro? L'allevamento del bestiame era tutto ciò che conosceva o che era interessata a conoscere. Il lavoro al ranch insieme al padre era stato tutta la sua vita. Ma se i mandriani erano una razza in estinzione, le mandriane erano ancor meno numerose. Quando Trigger, il vecchio cavallo di Roy Rogers, era salito ai grandi pascoli del cielo, qualcuno si era preso la briga di chiamare un imbalsamatore per farlo impagliare. Cupamente, Burton si chiese che cosa ne fosse stato del cavallo della sua compagna, Dale Evans. Visto come andava il mondo, probabilmente Buttermilk era stato scuoiato e la sua pelle era stata usata per rivestire un divano. La barista del Blue Moon, una giovane bionda snella che Burton Kimball non ricordava di avere mai visto in città, lasciò il bancone per venire a ricevere la sua ordinazione. Allora Burton riemerse dalla palude delle proprie riflessioni quel tanto che bastava per ordinare un Bloody Mary. Poi, appena la barista si fu allontanata, tornò a contemplare il fosco futuro di Ivy Patterson e il tradimento di Holly. Era così che lo considerava Burton, infatti: un puro e semplice tradimento. Le accuse di stupro, che Holly aveva avanzato nei confronti del padre senza fornire alcuna prova, corrispondevano fin troppo a un mito della psicologia di massa che era ormai molto in voga: un sistema di credenze che tendeva a far derivare dal comodo spauracchio degli abusi sessuali subiti nell'infanzia ogni disagio o disgrazia, dalle unghie incarnite al russare. La presenza di Amy Baxter, una ipnoterapista che affermava di essere un'autorità internazionale in quel campo, mirava a convalidare le asserzioni di Holly. Tuttavia Burton Kimball non sarebbe caduto in quella trappola. La consulenza di Amy Baxter non lo impressionava più della strategia di Rex Rogers, l'avvocato californiano. Nonostante le candide smentite di Rogers, il confronto in aula col padre era stato voluto ed enfatizzato in quanto ne-
cessario al recupero di Holly. Anche se avessero insistito in eterno che l'unico obiettivo di Holly era Harold Patterson, Burton Kimball sapeva che non era affatto così. La distruzione di Harold era soltanto un mezzo per ottenere un fine diverso. Il vero bersaglio di Holly era Ivy. Era sempre stato così, fin dall'inizio, sin quasi dal momento stesso della nascita di Ivy. Molto tempo prima che Ivy fosse in grado di parlare o di difendersi, come Burton ben ricordava, Holly aveva cominciato a tormentare di nascosto la sorellina per il puro gusto di farla piangere. Quando Burton aveva cercato di avvertirla, zia Emily aveva creduto che si fosse inventato tutto per danneggiare la cugina, e lo aveva punito. E se aveva detestato Ivy già allora, Holly aveva ormai motivi ben più gravi per odiarla. Dopotutto, Ivy era ancora «la più piccola», era ancora la prediletta, la figlia brava e docile che si comportava sempre bene e che era sempre pronta a rendersi utile. Per Holly, che era una piantagrane nata e che, andandosene di casa a sedici anni, aveva procurato soltanto un gran sollievo alla famiglia, doveva essere tuttora insopportabile avere una sorella che non era mai stata respinta dai genitori e che, a quarant'anni, viveva ancora felicemente nella casa di famiglia, col padre. Non aveva molta importanza, se Holly aveva cercato di farsi strada nel mondo e aveva trovato il successo, per poi perderlo. Per quanto Burton poteva capire, il suo ruolo preferito era sempre stato quello della guastafeste, di una persona molto più interessata a distruggere la felicità altrui che a cercare la propria. Era dunque perfettamente comprensibile che Holly, se Ivy non avesse accettato di abbandonare il suo comodo nido al Rocking P e se Harold non si fosse lasciato convincere a scacciarla, si sarebbe proposta semplicemente di demolire il ranch, di fare in modo che diventasse inutilizzabile per tutti gli interessati. In apparenza, era sempre stata questa la sua intenzione, e Burton Kimball era sempre stato interessato soltanto a impedire che la realizzasse. Nel tentativo di riuscirci, aveva scoperto la realtà di ciò che soltanto adesso Harold Patterson sospettava. Il tanto vantato successo di Holly era soltanto un'impostura. Sì, aveva un Oscar, o almeno ne aveva vinto uno, una volta, ma poi era scivolata giù dalla vetta, precipitando molto lontano, nell'abisso. Nel preparare la difesa dello zio, Burton aveva scoperto quanto Holly fosse diventata dipendente dall'alcol e dalla droga, e come fosse sempre ricaduta nella tossicodipendenza o nell'alcolismo dopo ognuno dei numerosi trattamenti di disintossicazione ai quali si era sottoposta.
Finalmente Burton si rendeva conto di avere sbagliato a non informare il suo cliente. D'altronde, lo aveva fatto deliberatamente perché conosceva Harold fin troppo bene: non era affatto il duro che sembrava. Perciò Burton aveva temuto che, se avesse anche soltanto immaginato la disperazione di Holly, avrebbe semplicemente ceduto su tutta la linea. E infatti, nonostante i tentativi che Burton aveva compiuto per impedirlo, era esattamente quello che aveva finito per fare. Burton aveva puntato sul dibattimento e sulla capacità di Harold di non cedere, di riuscire a dimostrare esattamente alla giuria che tipo di persona era. Ma purtroppo si stava rendendo conto della terribile verità: era stato surclassato dall'avversario. Senza farci gran caso, bevve un cocktail e ne ordinò un altro. Al momento, il problema principale era quello di trovare il modo per riacquistare il controllo. Suo zio aveva deciso di accordarsi, e quando Harold Patterson prendeva una decisione qualsiasi, fargliela cambiare era difficile. Il problema più grosso, con un tipo come lui, era che considerava vincolanti la parola e la stretta di mano. Se prendeva un impegno, lo manteneva, a dispetto di qualunque circostanza. Viceversa, i viscidi bastardi come Rex Rogers non facevano mai una mossa se prima non erano redatti, firmati e convalidati tutti i contratti, possibili e immaginabili. All'improvviso, seduto da solo nel séparé, Burton Kimball si chiese se Ivy sapesse della catastrofe che stava per travolgerla, se avesse la minima idea di quello che suo padre intendeva farle. Dal punto di vista etico, Burton non aveva ragioni per agire, ma gli sembrava ingiusto che Ivy non fosse preavvisata. Con un cenno, chiamò la barista, poi le chiese se fosse possibile usare il telefono. Per un attimo ebbe l'impressione che la ragazza fosse sul punto di rifiutare, ma alla fine acconsentì. All'apparecchio telefonico installato nel retro, Burton compose il numero del Rocking P, ma il telefono dei Patterson squillò ripetutamente senza che nessuno rispondesse. Quando ritornò al séparé, un po' alticcio, Burton trovò sul tavolo un altro Bloody Mary che lo aspettava. Giacché aveva deciso di farlo, d'informare Ivy, era quasi incapace di contenersi. Bevve, accorgendosi a malapena che il terzo cocktail era molto più caldo dei due che lo avevano preceduto, e molto più forte. Appena lo ebbe terminato, ritornò al telefono, poi ne ordinò un altro ancora. Alla fine del quarto cocktail, Burton Kimball era ormai ubriaco e molto preoccupato. Non avrebbe mai dovuto dire a Harold che rinunciava a rappresentarlo. Era stata una stupidaggine. Come avrebbe potuto favorire Ivy
se non avesse partecipato alla difesa di Harold? Probabilmente avrebbe dovuto rintracciare lo zio e revocare le proprie dimissioni, ammesso che «dimissioni» fosse il termine giusto. Ce n'erano altri? Sicuramente qualche parola adatta a esprimere con precisione la sua intenzione esisteva, ma lui non riusciva a rammentarla. Forse bevve altri cocktail, dopo il quarto. Gli sembrava di ricordare di essersi messo a cantare canzonette con un vecchio minatore sdentato seduto all'estremità del bancone. Quando finalmente Ivy rispose al telefono, Burton era a stento in grado di parlare. Fu con un blaterio incoerente che le annunciò quello che stava per accadere. Il silenzio mortale all'altro capo della linea lo fece tornare istantaneamente sobrio. «Ivy...» riprese, dato che il silenzio si prolungava. «Di' qualcosa... ti senti bene?» «Sto benissimo», disse lei, anche se non sembrava. «Vuoi che venga da te? Posso fare qualcosa per aiutarti?» «Hai già fatto abbastanza», disse lei. Interrotta la comunicazione, Burton Kimball, sorprendentemente sobrio, pagò il conto e, dato che la barista era stata molto gentile, le lasciò una mancia cospicua. Purtroppo, nel momento stesso in cui uscì all'aperto e fu accecato dalla luce del sole, ritornò subito sbronzo. Barcollando, Burton percorse la strada senza incontrare nessuno che conosceva. Trovò la propria auto e riuscì, al quinto tentativo, a inserire la chiave nell'avviamento. Accomodato sul sedile, con la nuca contro il poggiatesta, Burton Kimball disse a se stesso di avere bisogno di un pisolino, e perse conoscenza. Per un attimo fugace, quando si risvegliò nella semioscurità, Harold pensò che fosse tutto un sogno, lo stesso che faceva sempre, l'incubo terribile che da più tempo di quanto volesse ricordare lo tormentava nel sonno, l'obbligava a svegliarsi e ad alzarsi nel cuore della notte. Il sogno era sempre lo stesso. Harold si trovava intrappolato in un pozzo, uno di quei vecchi pozzi minerari ormai abbandonati che erano sparsi per tutto il pascolo sassoso del Rocking P. Ed era sempre lo stesso pozzo, il più profondo, quello vicino alla sommità delle Mule Mountains, sull'altopiano di roccia rossa cosparso di querce chiamato Juniper Hate. Nel sonno, la prigione d'incubo di Harold era identica a quella reale, quasi due metri e mezzo di diametro e circa nove di profondità, con le pa-
reti scabre e pressoché perpendicolari, il fondo cosparso di pozzanghere, la ghiaia ammassata intorno all'imboccatura. Non soltanto i sassi e le pozzanghere, ma anche altre cose, cose ripugnanti e fetide a cui lui non voleva pensare, rendevano insidioso il fondo. Nella vita reale, un solido recinto di filo spinato circondava il mucchio di ghiaia e l'imboccatura, distinguendo quel pozzo da altri simili. Il recinto serviva a dissuadere e a salvare il bestiame assetato, che altrimenti avrebbe potuto essere attirato alla morte dall'allettante odore dell'acqua. Nel sogno di Harold, il recinto non svolgeva mai la sua funzione, perché non gl'impediva mai di precipitare nel pozzo e di restarvi intrappolato. Ogni volta che l'incubo aveva inizio, Harold si trovava carponi a palpare e ad artigliare disperatamente le pareti ripide alla ricerca di qualche solida presa che gli permettesse di arrampicarsi e di uscire, ma ogni movimento, ogni esplorazione, gli facevano franare addosso terra, sassi e ciottoli che gli coprivano gli occhi colmi di lacrime, gli riempivano la bocca piagnucolante e lo schiacciavano al suolo, lapidato come una meretrice biblica colma di vergogna. Nel suo terrore, chiamava sempre Emily: «Aiutami, Em! Ti prego! Aiutami!» Naturalmente, Emily non rispondeva mai alle sue urla di panico. E perché mai avrebbe dovuto? Era morta da cinque anni, ormai, e prim'ancora era stata incapace d'intendere e di volere per molti anni. Emily Patterson era defunta da molto tempo, anche se non era dimenticata. Quel giorno, però, quando riprese conoscenza, appena la sua mente non fu più ottenebrata, Harold si rese conto che non si trattava di un incubo. Invece di essere sotto le lenzuola fradicie di sudore, giaceva sopra i sassi, veri sassi, freddi e aguzzi, soprattutto quello che gli pungeva dolorosamente una spalla. Questa volta era davvero intrappolato nelle fetide profondità del pozzo, lo stesso che evitava sempre, ogni volta che poteva. Sdraiato sulla schiena, cercò di scrutare nell'oscurità per intravedere l'azzurro del cielo lontano, in alto, sopra di lui. Il cielo avrebbe dovuto essere visibile, eppure, benché non ne fosse del tutto sicuro, non riusciva a vederlo. Aveva perso in qualche modo gli occhiali durante la caduta. Doveva essere caduto, infatti, anche se non riusciva a ricordarlo. E senza i suoi fidi occhiali, Harold Patterson era come cieco. Tuttavia si disse risolutamente che essere cieco non significava essere indifeso, o invalido. Cercò di spostarsi, per rimuovere il sasso che gli feriva la spalla, ma persino quel piccolo movimento fu eccessivo per le sue
forze. Una sofferenza insopportabile gli attraversò tutto il corpo, talmente violenta da privarlo delle forze e del respiro. Confuso, ma cosciente, si disse che dovevano essere le costole. Doveva essersi rotto le costole. Impossibile dire quali avrebbero potuto essere le conseguenze se avesse tentato nuovamente di muoversi. Le ossa spezzate avrebbero potuto perforare qualche organo vitale: un polmone, o magari il cuore, che batteva selvaggiamente. Così, giacque immobile e cercò di riflettere, tentò d'immaginare che cosa avrebbe potuto fare per salvarsi. Il pozzo che da anni tormentava i suoi sonni distava parecchie miglia dalla casa, perciò chiamare aiuto sarebbe stato del tutto inutile. Nessuno lo avrebbe sentito, a meno che qualcuno si fosse recato nei dintorni deliberatamente, magari proprio a cercare lui. Per prima cosa si sforzò di ricordare come gli fosse capitato di avvicinarsi tanto al pozzo. Era uscito a sbrigare qualche lavoro, come nutrire il bestiame o riparare un recinto? Per quanto si sforzasse, non riuscì a riordinare i ricordi. Qualunque cosa gli fosse successa quel giorno, prima di cadere nel pozzo, restava per lui un mistero assoluto, come pure i giorni immediatamente precedenti. Era come se il ricordo dei pochi giorni che avevano preceduto quel terribile risveglio fosse stato cancellato dalla sua mente. Aveva detto a qualcuno della sua intenzione di recarsi a lavorare in quella zona del ranch? Qualcuno avrebbe saputo dove cominciare a cercarlo, quando si fosse scoperta la sua scomparsa? Se lui stesso era incapace di rammentare come e perché si era recato lì, era mai possibile che qualcun altro lo sapesse, o potesse capirlo? Ivy avrebbe sospettato che era ferito e avrebbe organizzato le ricerche, oppure se ne sarebbe semplicemente infischiata, con una scrollata di spalle, irritata dal fatto che suo padre era di nuovo in ritardo per la cena? Sulle prime lo shock attenuò il dolore, poi l'effetto degli analgesici naturali scomparve, e una sofferenza straziante aumentò la consapevolezza. Anche nell'assoluta immobilità, le costole spezzate pulsavano e pungevano tanto da rendere ardua e dolorosa la respirazione. Harold si rese conto che alcune schegge ossee lo schiacciavano e lo trafiggevano dove non avrebbero dovuto esserci ossa d'alcun genere. Al dolore si aggiunse la crescente consapevolezza di un fetore familiare, ma Harold impiegò un certo tempo a riconoscerlo. Quel puzzo raccapricciante di urina e di escrementi umani era il suo. La vescica e gli intestini dovevano essersi rilassati contemporaneamente. Non aveva più alcun con-
trollo sulle proprie funzioni corporee. Harold Lamm Patterson era un allevatore esperto, quindi era in grado d'interpretare correttamente quei segnali. Se giaceva nelle proprie feci, incapace di controllo muscolare e privo di sensibilità dalle costole fratturate in giù, allora aveva la spina dorsale spezzata, e ciò significava che la morte era inevitabile. Tale comprensione fu troppo per lui. Misericordiosamente, perse conoscenza di nuovo e la sua sofferenza fisica cessò. Tuttavia non cessò il suo tormento mentale, perché in breve tempo riprese a sognare, e questa volta il sogno, in qualche modo, si confuse con l'incubo della realtà. La parte di lui che riconobbe il sogno come tale ne fu lieta, anche se esso fu più vivido e più terrificante che mai. Subito dopo avere cominciato a muoversi a tentoni nello sforzo di arrampicarsi, fu percosso da una tempesta di sassi che aveva qualcosa di orribilmente metodico. Dapprima gli piovvero addosso soltanto ciottoli di piccole dimensioni, poi sassi sempre più grossi e più pesanti. Invano cercò di evitarli. Non aveva spazio, né nascondigli, né vie di fuga. «Em... aiutami! Ti prego... ti prego...» CAPITOLO 11 Quel giorno si rivelò il più lungo dell'intera esistenza di Joanna Brady. Quando Harold Patterson ebbe lasciato l'ufficio, il resto della mattinata sembrò trascorrere molto lentamente. All'ora di pranzo, Joanna guidò da Warren a Old Bisbee per celebrare la fine della campagna elettorale pranzando con Jeff Daniels e con Marianne Maculyea. Jeff, che era il marito casalingo a tempo pieno di Marianne, aveva organizzato il pranzo da settimane, a prescindere da quello che sarebbe stato il risultato elettorale: vittoria, sconfitta o ballottaggio. Con la fine della campagna, Jeff sperava che la sua vita con la moglie, che da ministro metodista si era trasformata in organizzatrice politica, avrebbe riacquistato una parvenza di normalità. La loro parrocchia, solitamente ordinata, si era trasformata in un caos nel periodo in cui Marianne aveva diretto le operazioni, e Jeff si era installato nello studio di lei per sbrigare l'enorme quantità di corrispondenza. Fu un gran pranzo, suggellato da un'appropriata serie di brindisi. Tuttavia più tardi, nel pomeriggio, Joanna cominciò a subire i contraccolpi della stanchezza accumulata durante la campagna elettorale, e a stento riuscì a
non addormentarsi alla scrivania. Per quanto odiasse recarsi nei saloni di bellezza, quando arrivò il momento di lasciare l'ufficio per recarsi da Helene's, ne fu lieta. Il negozio sembrava esattamente quello che era, ossia un garage per due automobili convertito in un salone di bellezza dal molto creativo fai da te del marito di Helen Barco, tuttofare in pensione, che aveva installato l'impianto idraulico e quello elettrico. Quando Joanna sedette sulla poltrona, Helen Barco le lanciò una lunga occhiata, scosse la testa e schioccò mestamente la lingua. «Oh, santo cielo... No...» disse. «Così non potrà mai andare. Tua madre mi ha detto che apparirai in TV, stasera... Beh, non vogliamo mica che una delle nostre ragazze abbia l'aspetto di un cucciolo randagio, vero?» Certamente no! E un'ora e mezzo più tardi, Joanna non sembrava affatto un cucciolo randagio. Forse il processo di restauro fu amatoriale, ma il risultato, la Joanna Brady che alle cinque e mezzo uscì da Helene's, fu assolutamente professionale, in stile classico. I capelli rossi avevano un taglio corto ma elegante. Il trucco era applicato alla perfezione, con il rossetto dello stesso colore dello smalto per le unghie, che Joanna solitamente non usava. Avrebbe dovuto ricordare di servirsi più spesso della matita per le labbra, che aveva accettato di tenere perché Helen aveva insistito. «Buona fortuna», disse Helen Barco, mentre Joanna si dirigeva all'uscita. «Spero che tu vinca. Eleanor è molto fiera di te, sai?» Che Eleanor Lathrop potesse essere fiera di lei per una qualsiasi ragione, era qualcosa di completamente estraneo, per Joanna. Non sembrava minimamente probabile. In tutta la sua vita, si contavano sulle dita di una mano le rare occasioni in cui Eleanor si era sentita fiera di lei, o aveva detto qualcosa del genere. Seduta nella sua Eagle, la nuca contro il poggiatesta, Joanna chiuse gli occhi. Non aveva bisogno di correre a casa perché il suo vicino, Clayton Rhodes, continuava a occuparsi della fattoria ogni sera. Ed era una fortuna, perché lavorando senza sosta per settimane, Joanna era arrivata alle soglie dello sfinimento. La contea di Cochise misurava ottantacinque miglia quadrate, e lei, nella lotta per vìncere le elezioni, era stata costretta a percorrerne quasi ogni metro. Si era dedicata instancabilmente alla campagna elettorale, con ogni fibra del suo essere, eppure, quando mancava ormai poco alla fine, continuava a non sapere se voleva davvero vincere. Ed era una follia, so-
prattutto perché ormai non restava altro da fare che aspettare. Mancavano ventìcinque minuti alle sei, ora di chiusura dei seggi. Poi sarebbe stata soltanto questione di tempo. I voti sarebbero stati scrutinati e infine sarebbe stato annunciato il vincitore, chiunque fosse stato. Improvvisamente, Jim Bob Brady bussò al finestrino, accanto a lei, e Joanna si svegliò di soprassalto. Imbarazzata, raddrizzò la schiena e abbassò il cristallo. «Volevo soltanto star seduta qui a pensare per un po'», disse. «Devo essermi appisolata...» «Ci sono quasi cascato», ribatté suo suocero, appoggiandosi con entrambe le mani al bordo del finestrino. «Eri completamente tagliata fuori dal mondo e russavi così forte, che è un miracolo se il vetro non si è spezzato. Per giunta, a startene seduta qui, così, con questo freddo, hai rischiato di morire assiderata.» Joanna si curvò ad accendere il motore, ma l'aria che provenne dall'impianto di riscaldamento dell'automobile sembrò più fredda di quella esterna. «Che ore sono?» chiese. «Le sei e mezzo. La cena è servita e si sta raffreddando. E tua madre si sta strappando i capelli.» «E così hai dovuto venire a cercarmi... Mi dispiace di avere dato tanto disturbo... Andiamo pure, adesso», concluse Joanna. Nondimeno, Jim Bob Brady non si mosse. «Continui a dormire male, vero?» chiese in tono di rimprovero. Joanna sbadigliò e si sgranchì. Si sentiva tutta intirizzita. «Soltanto quando non dovrei», replicò, con un sorriso sarcastico. «Ho difficoltà a chiudere gli occhi e a tenerli chiusi, di notte, quando sono a letto. Eppure sono rimasta seduta qua, in macchina, al freddo, a dormire come una bambina per un'ora intera. I vicini di Helen Barco penseranno che sono impazzita...» «I vicini di Helen Barco sono maledettamente impiccioni», mormorò Jim Bob Brady, scostandosi finalmente dal finestrino per tornare alla propria auto. Eleanor Lathrop li ricevette alla porta dell'appartamento su due piani dove abitavano i Brady, a Oliver Circle. «Dove diavolo sei stata?» chiese alla figlia. «Ho cercato di chiamare Helen, ma aveva già chiuso. Mi ha risposto soltanto la segreteria telefonica.» «Mi spiace», disse Joanna. «Mi sono addormentata. In macchina.» «In macchina?!» fece eco Eleanor. «Con questo freddo? E la cena già in
tavola!» Eva Lou Brady pose fine alla discussione. «Non preoccuparti, Eleanor. Non è successo niente. Vai pure a lavarti, Joanna. E già che ci sei, guarda se riesci ad allontanare Jenny dalla TV abbastanza perché venga a mangiare. Ci vorrà poco a scaldare tutto nel microonde.» La cena era composta dai migliori piatti di Eva Lou Brady, quelli che suo marito chiamava «squisiti cibi all'antica», cioè polpettone, purè di patate, i fagiolini che coltivava lei stessa nell'orto, gelatina di frutta alla ciliegia con banane, e infine, per dessert, torta di zucca fatta in casa. Jim Bob ed Eva Lou stavano ancora lottando per accettare la perdita del figlio Andy, per la quale continuavano a soffrire moltissimo, eppure sembrava che aiutare Joanna a sopravvivere desse un senso anche alla loro vita. Joanna era più che grata per il sostegno incrollabile che riceveva da loro. Con sua madre, invece, era tutto diverso. Mentre Eleanor mangiava poco e di malavoglia, sbuffando sdegnosamente, Joanna cenò con un appetito e una soddisfazione che non avrebbe mai creduto possibili. Apprezzare il cibo che Eleanor disapprovava era, inoltre, un modo per perpetuare il contrasto fra madre e figlia che era in corso da anni nella famiglia Lathrop. Anche se le loro ostilità potevano vantare occasionali periodi di tregua, nessuno di tali periodi si era mai trasformato in una pace duratura. «Credevo che avresti indossato il blazer grigio», disse Eleanor, reggendo saldamente la forchetta, con un pezzo di gelatina che tremava delicatamente sui rebbi. «Aveva una macchia», mentì Joanna, prima di volgersi al suocero. «Si sa niente dei risultati?» chiese, osando infine affrontare direttamente l'argomento elezioni. «Sta andando meglio del previsto», rispose Jim Bob. «È diventato un vero e proprio testa a testa.» Jennifer fece una smorfia. «Non possiamo parlare di qualcos'altro?» «Jenny, cara... perché non vuoi parlare delle elezioni?» chiese pacatamente Eva Lou Brady. «Non vuoi che la tua mamma vinca?» «No!» Era fatta. La sala da pranzo divenne silenziosa, mentre la risposta che Jennifer si era lasciata sfuggire restava sospesa nell'aria come un palloncino sgonfio. «Non può essere vero, Jenny», disse Jim Bob Brady. «Sicuramente vuoi che vinca. Lo sta facendo per tutti noi, perché abbiamo bisogno di lei. Lo
sta facendo per te.» Gli occhi della bambina ebbero un lampo di sfida. «No! Lo sta facendo per se stessa!» Ciò detto, Jennifer gettò il tovagliolo di carta appallottolato nel piatto, spinse indietro la sedia con tanta violenza da urtare il muro, e scappò via. «Che diavolo è successo?» domandò Eleanor Lathrop. «Che cosa le è preso?» Joanna piegò meticolosamente il proprio tovagliolo. «È meglio che vada a parlare con lei...» disse. Jennifer si era chiusa in camera da letto. Joanna bussò e attese. «Avanti», disse finalmente Jenny, con riluttanza. I nonni avevano arredato una camera apposta per lei, in modo che potesse sentircisi come a casa, quando soggiornava da loro: un luogo che fosse sempre accogliente. Un divano letto di seconda mano, comodo e robusto, era collocato in un angolo. Sul copriletto, che era una trapunta confezionata a mano, era sparsa una collezione di cuscini intonati. Sdraiata, Jennifer piangeva, con la testa nascosta sotto un orsacchiotto marrone. Joanna rimase sulla soglia, con una mano sulla maniglia, indecisa se entrare o meno. Sembrava che un baratro insidioso la separasse dalla figlia. Si chiese se fosse mai successa una cosa del genere anche a sua madre. Era mai capitato, a Eleanor, di trovarsi come paralizzata sulla soglia di una porta, a chiedersi come confortare la figlia che stava crescendo, ma senza sapere che cosa fare? Joanna notò un'ombra sul pavimento. Sembrava una fune tesa fra la soglia e il letto, fra lei e la disperata bambina singhiozzante. Col cuore in gola, si chiese che cosa sarebbe successo se avesse preso la decisione sbagliata, se in qualche modo avesse fallito nel tentativo di colmare la distanza che le separava. Stava forse distruggendo il rapporto che era esistito un tempo fra lei e la figlia? La storia era forse destinata a ripetersi? «Per favore...» chiese Joanna. «Posso parlarti?» Jenny si schiacciò maggiormente l'orsacchiotto sulla testa e non rispose. «Ho bisogno di sapere che cosa non va», continuò Joanna, sottovoce. «Ho bisogno di sapere perché non vuoi che io vinca.» Jenny si rotolò, spostando l'orsacchiotto, e così permise alla madre d'intravedere il suo faccino desolato e rigato di lacrime. «Ho paura...» sussurrò. Joanna resistette alla tentazione di avvicinarsi. Era un momento decisi-
vo. Aveva bisogno di conoscere la risposta di Jennifer, di ascoltare quello che la bambina aveva da dire, senza stringerla in un abbraccio che avrebbe rischiato di soffocare tutto. «Di cosa hai paura?» chiese Joanna. Il mento di Jennifer tremò. «Che morirai anche tu», sussurrò. «Che qualcuno ammazzerà anche te, com'è successo a papà. Se succederà, sarò sola.» Finalmente la bambina aveva parlato, e la risposta era stata di una semplicità accecante, talmente logica che Joanna si sentì mozzare il fiato. Era ovvio! Perché non lo aveva intuito? Se fosse stata una madre migliore, più perspicace e più ricettiva, forse lo avrebbe capito tempestivamente. «Se sarò eletta e diventerò sceriffo, non significa che qualcuno cercherà di uccidermi.» «Ma anche lo sceriffo McFadden è stato ucciso», ribatté Jennifer, con inflessibile logica fanciullesca. «E anche papà, e il nonno...» «Nonno Lathrop morì per un incidente mentre stava aiutando qualcuno, non perché era sceriffo», sottolineò Joanna. Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, Joanna si rese conto di avere sbagliato, evitando di affrontare la più che fondata preoccupazione di Jennifer Brady e non rendendo giustizia alla sua sincera preoccupazione. Era vero che D.H. Lathrop era morto in seguito a un incidente, ammesso che quelli che erano provocati dagli autisti ubriachi potessero essere considerati «incidenti», ma gli altri due no. Walter McFadden e Andrew Brady erano morti di morte violenta, soldati coinvolti nell'interminabile guerra fra il bene e il male, fra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. E le preoccupazioni di Jenny non erano affatto ingiustificate. Se avesse vinto le elezioni, Joanna Brady si sarebbe trovata a partecipare ih prima linea alla stessa guerra. Come nell'attraversare un campo minato, Joanna si avvicinò prudentemente al letto, sedette sul bordo e incrociò le mani in grembo, sempre senza tentare di toccare la figlia. «Certe volte bisogna prendere posizione...» disse sottovoce. «Che cosa vuoi dire?» «Tuo padre ha visto le cose terribili che la droga e il traffico di droga stavano facendo fare alla gente che gli stava intorno, e ha deciso che doveva cercare d'impedire che continuasse così. Allora...» «Allora lo hanno ucciso», concluse Jenny. La camera da letto divenne silenziosa. Dalla sala da pranzo giungeva il
mormorio attutito di una conversazione soffocata. «Tutti devono morire, prima o poi, Jenny», disse finalmente Joanna. «Il nonno e la nonna Brady, nonna Lathrop, tu, io...» «Ma il nonno e la nonna sono vecchi», obiettò Jennifer. «Papà non lo era.» Di nuovo la stanza divenne silenziosa, mentre Joanna si sforzava di trovare le parole giuste. «Ricordi la sera dei funerali di papà?» Jenny annuì, senza parlare. «Abbiamo preso una decisione, quella notte, noi due insieme. Abbiamo deciso che mi sarei candidata per prendere il posto di papà. È vero?» «Sì.» «E quando lo abbiamo detto, la gente ha creduto che facessimo sul serio: gente come Jeff e Marianne, Angie Kellogg, i tuoi nonni, e anche un sacco di altre persone. Tutti quanti hanno lavorato sodo per fare in modo che quello che abbiamo deciso quella sera si avverasse...» «Ma...» «No, aspetta un momento... lasciami finire... Non sei l'unica ad avere paura, Jenny. È questo il motivo per cui sono arrivata tardi a cena. Mentre me ne stavo seduta in macchina, davanti al negozio di Helen Barco, preoccupata, a chiedermi se volevo o non volevo davvero vincere le elezioni, mi sono addormentata...» Jenny sgranò gli occhi. «Sei preoccupata anche tu?» Joanna annuì. «E per gli stessi motivi per cui lo sei tu... Che cosa succederà, se vinco? Forse hai ragione tu... forse i cattivi che hanno ucciso papà se la prenderanno anche con me. Ma io ho promesso di presentarmi alle elezioni per diventare sceriffo, e questo significa che ho promesso anche di fare il mio lavoro, se vinco. Anche se ho una paura da morire...» Strisciando sul letto, Jennifer si avvicinò, si rannicchiò accanto alla madre e le posò la testa in grembo. «Non voglio essere sola», sussurrò, prendendo una mano della madre e stringendola forte. Joanna si sentì riempire gli occhi di lacrime calde. «Lo so», disse. «Neanch'io voglio che tu lo sia. Cercherò di essere prudente.» «Promesso?» Con la mano libera, senza lasciare con l'altra quella della figlia, Joanna scostò una ciocca umida dalla guancia di Jennifer, ancora bagnata di pianto. Incapace di parlare, annuì. «Parola di scout?» insistette Jennifer. «Parola di scout», le sussurrò la madre, senza accorgersi che il mascara
applicato da Helen Barco le imbrattava il viso, sciolto dalle lacrime. CAPITOLO 12 Di nuovo Harold riprese conoscenza, travolto dal gorgo della turbolenza tra sogno e realtà, tra noto e ignoto. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso, ma il cielo, in alto sopra di lui, era ormai buio. L'oscurità lo avvolgeva interamente come un sudario malvagio. Soffriva tanto disperatamente il freddo che, per un attimo, si chiese se non fosse già morto e deposto nella bara che aveva comprato a prezzo scontato da Norm Higgins. Alla fine, però, riuscì a orientarsi di nuovo e a ricordare dove si trovava, se non come ci era arrivato. Rammentò di avere la spina dorsale spezzata e di essere intrappolato, incapace di muoversi. Mentre giaceva immobile, cercando di escogitare razionalmente un modo per evadere dalla propria prigione, udì il familiare rumore del motore del suo vecchio Scout, che aveva già fatto revisionare fin troppe volte. Stava salendo faticosamente il ripido sentiero verso il pozzo. Subito pensò che fosse Ivy. Doveva essere lei, che era uscita a cercarlo. Chi altri se ne sarebbe mai preso la briga? E chi altri avrebbe mai pensato di andare a cercarlo proprio lassù? A un tratto gli si colmarono gli occhi di lacrime, però non pianse di autocommiserazione, bensì per la figlia, per Ivy. Che cosa ne sarebbe stato di lei, adesso? Dopo essersi presa cura della madre per tanti anni, avrebbe dovuto trascorrerne altri a occuparsi di lui? Con fervore, all'improvviso, rimpianse di non essere morto nella caduta e si rimproverò per non essersi impegnato maggiormente a morire. Avrebbe dovuto concentrarsi su questo, anziché sul tentativo di trovare una via d'uscita. Mentre Ivy si avvicinava sempre più, provò un bisogno disperato di abbandonare subito il proprio corpo martoriato, presto, prima che Ivy lo trovasse, prima che avesse la possibilità di andare a chiamare aiuto, prima che potesse affidarlo alle cure dei medici, i quali allora avrebbero tentato di rimettere insieme i pezzi del suo corpo. Sapeva già che non avrebbe funzionato. Una spina dorsale spezzata non guariva come per magia. Conclusi tutti gli interventi chirurgici con parcelle astronomiche, il peggiore incubo di sua figlia si sarebbe materializzato: Ivy avrebbe dovuto assistere un altro genitore invalido. Freneticamente Harold decise che, se Ivy lo avesse chiamato, non a-
vrebbe risposto. Avrebbe finto di essere già morto, così forse lei se ne sarebbe andata senza soccorrerlo. Poi, durante la notte, si sarebbe semplicemente lasciato morire. Aveva visto suo padre fare la stessa cosa, dopo essere rimasto ferito in seguito a un incidente in miniera. Sapeva che era possibile, e il freddo lo avrebbe aiutato. Nel frattempo, il motore borbottante si avvicinò sempre più, mentre affrontava l'ultimo tratto della salita. Con l'appressarsi dello Scout, un lampo illuminò la ghiaia ammassata intorno all'imboccatura del pozzo. Quasi esattamente sopra di sé, Harold sentì il motore spegnersi tossicchiando, la portiera aprirsi con il familiare cigolio delle cerniere arrugginite, uno scricchiolare di suole di cuoio sulla ghiaia, una pausa silenziosa mentre la persona che aveva guidato l'auto scavalcava il recinto, oppure s'insinuava tra il filo spinato per passare oltre, e infine una cosa pesante, forse una cassa, che veniva trascinata. Harold serrò le labbra, imponendosi di restare in silenzio, deciso a non rispondere, qualunque cosa succedesse. Aspettandosi che Ivy gli parlasse, rimase sorpreso quando lei non lo fece. Invece fu accesa una torcia elettrica. Un raggio d'intensa luce gialla scivolò lungo le pareti buie del pozzo, frugando qua e là, a destra e a sinistra, prima di soffermarsi sul suo corpo. Il silenzio, tuttavia, rimase assoluto. Nessuna parola fu pronunciata. Allora Harold fu tentato di parlare, ma proprio in quel momento la torcia fu spenta. Nell'oscurità improvvisa, l'immobilità fu completa finché il primo sasso di fiume, che pesava almeno due chili, precipitò verso Harold con una precisione casuale, ma letale. Molto prima che lo colpisse, Harold lo sentì rimbalzare sulle pareti e capì. In quell'attimo rammentò ogni cosa, però era ormai, e di gran lunga, troppo tardi. Il sasso lo colpì in pieno petto, schiacciando una costola spezzata, che gli si conficcò nel cuore. Così, Harold Patterson morì all'istante, nello stesso identico modo di cui aveva sognato nei propri incubi, sotto il castigo di una pioggia di sassi. Il bombardamento continuò senza interruzione nell'oscurità. Alcuni sassi lo colpirono, ma la maggior parte, rimbalzando contro le pareti, lo mancò. Finalmente, quando le munizioni furono esaurite, la torcia venne riaccesa. Questa volta la mano che la reggeva fu scossa da tremiti violenti, così che il raggio luminoso oscillò follemente, zigzagando giù per le pareti del pozzo, nell'esplorare l'oscurità alla ricerca del cadavere. Allorché la luce si posò sul corpo inerte di Harold, con gli occhi aperti e
fissi, si udirono un respiro bruscamente interrotto e un sospiro di sollievo, quindi la torcia cadde, ancora accesa, nello spaventevole silenzio che tutto avvolgeva, sbatté sul petto schiantato di Harold, rimbalzò una volta e rotolò nell'acqua. Subito dopo il motore dello Scout si riaccese tossendo, a fatica. Mentre il pick-up si allontanava verso Juniper Flats e Bisbee, la torcia elettrica, una delle migliori di Harold, continuò a spandere una luce fioca e tremolante, che indugiò nell'oscurità del pozzo. Sebbene completamente immersa nell'acqua fangosa, rimase accesa per molto tempo, dopo che lo Scout fu scomparso nella notte nuvolosa. CAPITOLO 13 Jim Bob ed Eva Lou Brady non erano esattamente tipi festaioli. Ci volle una notevole opera di persuasione per convincerli a partecipare alla festa dopo la chiusura dei seggi. Infine acconsentirono, ma soltanto a condizione che Jenny andasse in macchina con loro. Joanna sospettò che fosse uno stratagemma per potersene poi andare presto, con la scusa di riaccompagnare a casa la bambina che non poteva fare tardi per via della scuola l'indomani Comunque, Jenny scelse di andare coi Brady, e Eleanor Lathrop invece con alcuni amici. Così, Joanna Brady si recò in automobile da sola al centro convegni. Nonostante le parole coraggiose che aveva detto alla figlia, Joanna fu piena di apprensioni e di cattivi presentimenti per tutto il viaggio. In precedenza aveva partecipato a un'elezione soltanto una volta, quando si era candidata come tesoriera del corpo studentesco alla Bisbee High School. Rammentava ancora di essere rimasta seduta nell'aula di biologia della signorina Applewhite che, per l'occasione, era stata la sede elettorale, mentre il signor Bailes, il preside, leggeva all'interfono i nomi dei vincitori. Con l'odore acuto della formaldeide nelle narici, aveva ascoltato attentamente, trattenendo il fiato per tutto il tempo, mentre il preside scandiva con voce monotona l'elenco dei vincitori. Dopo quella che era parsa un'eternità, quando era arrivato finalmente alla carica di tesoriere, il signor Bailes aveva letto un nome diverso da quello di Joanna Lathrop. Joanna non ricordava più chi dei suoi compagni avesse vinto, perché una vittoria altrui non era così importante come una sconfitta personale. Infatti
il ricordo di quella sconfitta le ritornò alla memoria così limpidamente e dolorosamente come se fosse avvenuta il giorno prima. Rammentò di essersi sentita arrossire e ardere per l'imbarazzo e di avere lottato per trattenere le lacrime di delusione, mentre i compagni cercavano di rincuorarla esprimendole la loro solidarietà e dicendole che avrebbe avuto miglior fortuna la prossima volta. Allora Joanna aveva giurato a se stessa che non ci sarebbe mai stata una «prossima volta». Eppure non era stato affatto così. Erano passati dodici anni, e lei si era candidata per diventare sceriffo. «Fai quello che vuoi, ma non piangere», disse severamente a se stessa, ripetendo le parole che Marianne le aveva detto e ridetto per settimane. «Comunque vada, vittoria, sconfitta o ballottaggio, non piangere.» Anche se trovò due posti comodi e disponibili per parcheggiare davanti all'entrata del centro, Joanna li ignorò. Proseguì invece lungo la strada per lasciare l'auto in fondo al parcheggio vicino all'ufficio postale. Dopo aver chiuso a chiave la portiera, s'incamminò verso la piazza, dove contò tre furgoni di altrettante stazioni televisive di Tucson, nonché uno di una stazione di Phoenix. Di solito le elezioni di Cochise County non avevano tanta importanza al di fuori di Bisbee, ma quell'anno era diverso, per quanto riguardava la carica di sceriffo, perché la morte di entrambi i precedenti candidati aveva suscitato un interesse insolito nei media, a livello statale e nazionale. Il fatto che Joanna fosse una candidata, e al tempo stesso la vedova di uno dei deceduti, aveva contribuito a mantenere viva l'attenzione nei confronti delle elezioni, che erano sempre rimaste sotto i riflettori. Come se non bastasse, gli esperti avevano continuato a sottolineare il fatto che, se avesse vinto, Joanna Brady sarebbe stata la prima donna nello stato dell'Arizona a diventare sceriffo di contea. Anziché recarsi direttamente nella sala ed esporsi alle luci delle telecamere in attesa, Joanna ritardò l'arrivo attraversando la strada e avvicinandosi al fabbricato con la prudenza di un esploratore in ricognizione in territorio nemico. Sostando nel parcheggio, osservò l'edificio verde chiaro, che nella luce serale appariva di un grigio spettrale. In un certo senso, il fabbricato era davvero un fantasma, perché prima di diventare il Bisbee Convention Center era stato un grande magazzino della Phelps Dodge Mercantile, il ramo commerciale della compagnia mineraria, nell'epoca che aveva preceduto il trasferimento di gran parte dell'industria dell'estrazione del rame in Messico e in Sud America.
Nel periodo di maggiore prosperità, i grandi magazzini della P.D., situati in una decina di diverse comunità minerarie, erano stati veri e propri centri commerciali in cui, semplicemente firmando una nota, i dipendenti della compagnia potevano acquistare di tutto, dagli alimenti ai mobili, dalle lavatrici agli abiti, con la detrazione automatica del conto dalla busta paga. Anche se non lo rammentava, sicuramente da bambina Joanna ci aveva accompagnato Eleanor a fare spese, qualche volta. Aveva soltanto il ricordo vago, ma persistente e traumatico, di essere rimasta sola in ascensore una volta, e poi di essersi smarrita nel frenetico tentativo di ritrovare la madre. Era stata ritrovata soltanto dopo parecchio tempo, sperduta fra le vetrine. Eleanor si era infuriata con lei per essersi allontanata da sola. Ai bei vecchi tempi, Bisbee poteva vantare un totale di tre ascensori soltanto, quindi vi erano buone probabilità che l'incidente di cui Joanna aveva un ricordo nebuloso fosse avvenuto davvero in quel centro commerciale, soprattutto perché era stato il posto preferito di Eleanor per andare a far compere. Prima che quel grande magazzino relativamente aristocratico chiudesse, Eleanor Lathrop non sarebbe mai andata, neanche morta, da J.C. Penney. Dato che il centro commerciale era chiuso da oltre vent'anni, Joanna ne ricordava il fulgore ormai sbiadito soltanto indirettamente, attraverso i racconti della madre, che era solita celebrare con insistenza la gloria dei bei vecchi tempi andati. A quell'epoca, il grande magazzino della P.D. era stato davvero il migliore, perché aveva offerto molto, molto di più di quello che proponeva il suo misero successore, cioè il banalissimo emporio che si ostinava a sopravvivere a poche miglia di distanza, nella zona commerciale di Warren. Con l'interno modestamente restaurato e un piano trasformato in una sala convegni dal pavimento in marmo, il Bisbee Convention Center ospitava ogni anno numerosi incontri di studenti e altri eventi. Un'eco dello splendore commerciale di un tempo restava nella frangia di negozi che orlava la sala convegni, dove intraprendenti commercianti vendevano gioielli di turchese, curiosità assortite e chincaglieria ai turisti a cui capitava di avventurarsi all'interno dell'edificio. Un ristorante di un certo lusso occupava un angolo del fabbricato e di solito forniva catering a chiunque ne avesse bisogno. Joanna Brady conosceva abbastanza intimamente quasi tutti quei commercianti e aveva giocato nella stessa squadra di tennis con la proprietaria del ristorante. Tutto considerato, il Bisbee Convention Center non avrebbe
dovuto incuterle alcun timore, eppure, quella sera, la spaventava in modo incredibile. Preferiva di gran lunga restare fuori, sola, al freddo, a guardare gli altri che arrivavano e si affrettavano a entrare, piuttosto che varcarne la soglia. «Vedo che neanche tu sei tanto ansiosa di entrare», disse scherzosamente, alle sue spalle, una voce maschile che le era familiare. Joanna si girò a salutare Frank Montoya, il marshal cittadino di Willcox, uno dei suoi due avversari alle elezioni. Aveva conosciuto Frank, un ispanoamericano di trentacinque anni, alto, magro, coi capelli corti, durante una serie di incontri congiunti che i candidati avevano avuto con le associazioni, e lo trovava simpatico, perché la sua arguzia e il suo eccentrico senso dell'umorismo celavano un'autentica dedizione al lavoro e una severa determinazione. Frank Montoya discendeva da una famiglia di contadini immigrati che aveva finito per stabilirsi definitivamente a Willcox ed era entrato nelle forze dell'ordine dopo esser stato nella polizia militare durante un periodo di ferma e dopo essersi laureato in scienze criminali al Cochise College. In una zona del paese in cui gli ispanoamericani erano ancora considerati cittadini di seconda classe, gli abitanti di Willcox avevano sorpreso se stessi, e anche Frank, eleggendolo marshal cittadino, benché continuasse a fare il pendolare per laurearsi in legge all'università di Tucson. «Ciao, Frank», rispose allegramente Joanna. «Sì, hai ragione... Non ho una gran voglia di entrare là dentro. Preferirei andare dal dentista a farmi cavare un dente.» «Anch'io!» convenne Montoya, con una risata. «Il pezzo grosso è arrivato poco fa. L'ho visto entrare. Era al settimo cielo, con una telecamera che seguiva ogni sua mossa e due microfoni davanti alla faccia. Così gli riesce più facile parlare da tutti e due i lati della bocca.» Joanna non poté fare a meno di ridere. Al Freeman, il tarchiato ex capo della polizia di Sierra Vista, era il terzo e ultimo candidato alla carica di sceriffo. Nelle apparizioni in pubblico e nelle fotografie, Freeman si era boriosamente presentato come l'«unico vero professionista della legge» fra i tre, inducendo così Joanna Brady e Frank Montoya a stringere un'incerta alleanza che, con sorpresa di entrambi, non aveva tardato a trasformarsi in una improbabile amicizia. Per allentare la tensione, Joanna sorrise a Frank. «Non so che cosa sia peggio... Se essere costretti a camminare zoppicando con i piedi coperti di vesciche, oppure dover stare seduti ad ascoltare gli interminabili discorsi
presuntuosi e razzisti di Al Freeman...» «Per quanto mi riguarda, non ci sono dubbi», disse Frank Montoya. «I discorsi di Al Freeman vincono a man bassa.» Risero entrambi. Poi Frank offrì la mano e sorrise. «Che vinca il migliore, Joanna», disse solennemente. «Spero proprio che uno di noi due riesca a umiliare quel bastardo fanfarone.» E si strinsero la mano. «A proposito...» aggiunse Frank. «Mi piace il tuo taglio di capelli... è merito di tua madre?» «Come lo sai?» «Ho tirato a indovinare», disse Frank, passandosi una mano sui capelli appena tagliati. «Le nostre madri sono di origine molto diversa, Joanna. A parte, questo, però, devono essere gemelle.» CAPITOLO 14 Solitamente mite e accomodante, Linda Kimball era inferocita, quella sera. La festa elettorale nel nuovo centro convegni di Bisbee, organizzata per offrire agli avversari politici l'occasione di seppellire l'ascia di guerra e socializzare, era anche la più importante manifestazione per la raccolta di fondi a favore di un importante gruppo artistico locale chiamato Bisbee Betterment Society. Dato che era stata fra i promotori e gli organizzatori dell'evento annuale, Linda faceva il suo dovere di padrona di casa accogliendo i visitatori con un bicchiere di punch alla frutta e un sorriso impeccabile, ma intanto cercava il marito, e con le fiamme di un furore autentico nello sguardo. Erano trascorse tre ore da quando avrebbe dovuto rincasare e due ore da quando avrebbe dovuto arrivare con lei al centro, eppure Burton non si era visto, e non aveva neppure chiamato. Di solito, Linda non se ne sarebbe preoccupata. Capiva perfettamente che nel suo lavoro gli imprevisti erano frequenti, soprattutto subito prima di un'udienza per una causa importante. E infatti, se suo marito fosse stato effettivamente al lavoro, non se ne sarebbe preoccupata minimamente, né avrebbe detto una sola parola. Dopotutto, era proprio il lavoro di Burton che consentiva alla famiglia di avere un alto tenore di vita. In verità, era una vita molto più agiata di quella che Linda aveva mai sognato di avere durante la sua infanzia a Cottonwood, figlia di una cameriera e di un venditore di auto usate di scarso successo. Tuttavia, il ritardo di Burtie non aveva nulla a che fare con il lavoro. Il problema era appunto quello. Linda aveva già saputo da diverse fonti che
aveva più a che fare col bere che con la professione legale. Le era giunta voce che Burton aveva trascorso gran parte del pomeriggio al Blue Moon Saloon, in Brewery Gulch. Nei bassifondi! Se aveva avuto intenzione di ubriacarsi, perché Burtie non aveva scelto almeno un posto più rispettabile, per bere? Un'«amica» di Linda era riuscita a stento a contenere la propria gioia perversa quando era passata a riferirle la notizia che aveva saputo da un'amica di Don Frost, che era il classico ubriacone, se mai ne era esistito uno. Insomma, non soltanto Burton si era ubriacato in un bar, ma, come se non bastasse, era evidente che ormai lo sapeva tutta la città. L'ultima volta che Burton Kimball si era ubriacato davvero era stato dodici anni prima, alla sua festa di addio al celibato. Il pomeriggio successivo si era recato in chiesa ancora sbronzo, come dimostravano le foto di un intero album di matrimonio. Allora Linda aveva detto a Burtie che, se avesse voluto sposarsi e restare sposato, gli sarebbe convenuto smettere di bere. E lui lo aveva fatto, almeno fino a quel giorno. Senza Burton ad aiutarla, Linda era stata costretta a controllare personalmente l'installazione dei due monitor per la diffusione dei risultati elettorali locali e statali, che sarebbero stati comunicati rispettivamente dal canale municipale di Bisbee e dalle stazioni di Tucson. Alla trasmissione dei risultati si sarebbero alternate quelle di annunci civici e pubblicitari. Dopo essere riuscita in qualche modo a sbrigare la faccenda dei monitor, Linda era rimasta intrappolata in una controversia dell'ultimo minuto fra i due fornitori di catering di Bisbee, solitamente in competizione fra loro. Anche se per quella notte erano stati costretti a collaborare, era scoppiata una sorta di contesa territoriale, che Linda era comunque riuscita a risolvere. Col passare, delle ore, costretta a occuparsi di una serie di problemi, Linda si era infuriata sempre più, e così, parallelamente, il valore delle azioni coniugali di Burton Kimball era crollato, fino a precipitare rovinosamente. Come usava a Bisbee, non si poteva mancare alla festa elettorale della Bisbee Betterment Society, così la sala convegni intensamente illuminata non aveva tardato a diventare affollata e fumosa, mentre un gruppo locale di musica country & western suonava in sottofondo. Impegnata a spostarsi fra i vari gruppi di visitatori in tutta la sala, Linda si trovava proprio vicino all'entrata quando Joanna Brady e Frank Montoya varcarono insieme la soglia. Appena Frank distolse lo sguardo, Linda, con molta discrezione, fece un cenno di vittoria a Joanna.
Negli anni Settanta, Linda era cresciuta con un padre fanatico della serie televisiva Agente Pepper, con Angie Dickinson, che era stata molto criticata dalle femministe. Poi era diventata una casalinga che cuoceva il proprio pane, inscatolava le proprie verdure e confezionava i propri indumenti. Quindi sarebbe stata l'ultima persona al mondo a considerarsi appartenente al «movimento di liberazione delle donne». Tuttavia era stata una bella soddisfazione, per lei, poter votare come sceriffo, una volta tanto, una donna, soprattutto preferendola a quel fanfarone bigotto di Al Freeman. Mentre Linda si accingeva a salutarla, Joanna fu intercettata da una cronista televisiva di Tucson che si era appostata proprio vicino all'entrata. Insinuandosi fra i due candidati ed escludendo Frank dall'inquadratura, protese il microfono in direzione di Joanna. «Signora Brady... Non la entusiasma la possibilità di essere la prima donna, in Arizona, a diventare sceriffo?» chiese. Linda ebbe l'impressione di cogliere una sfumatura d'irritazione nella sua voce, quando Joanna rispose: «Essere una donna non c'entra niente. L'unica cosa che conta è la capacità di far rispettare la legge». «Capisco...» rispose la cronista. «E cosa può dirci della campagna elettorale? È stata difficile per lei?» Linda provò orrore e imbarazzo per la grossolanità della domanda. In città sapevano tutti quanto la morte del marito fosse stata devastante per Joanna. Quella giornalista era forse idiota? Se in circostanze simili avesse fatto a lei la stessa domanda, Linda Kimball l'avrebbe afferrata per le spalle imbottite della sua elegante giacca sportiva e le avrebbe dato una tale scrollata da farle battere i denti. Invece Joanna tacque per un lungo momento, come per concentrarsi e riflettere. «Le campagne elettorali sono sempre difficili», rispose infine, pacatamente. «Chiunque vinca, sono ben contenta che sia finita.» Linda avrebbe voluto gridare: Brava! Ma non lo fece. «Se stanotte sarà lei a vincere», continuò la cronista, «quando conta di mettersi al lavoro?» «Che cosa intende dire? Tutti i funzionari appena eletti prestano giuramento all'inizio di gennaio...» La cronista parve perplessa. «Ma... io pensavo...» «Che cosa pensava?» «Ho parlato col signor Freeman, poco fa, e lui mi ha detto di avere saputo da un consigliere che il consiglio comunale intende assegnare subito la carica vacante, cioè subito dopo le elezioni, senza aspettare fino a gen-
naio.» Joanna arrossì. «Non ne sapevo niente», rispose freddamente. Alle sue spalle la porta si aprì, e Jim Bob ed Eva Lou Brady entrarono insieme alla nipotina, che camminava stoicamente fra loro. «Non è sua figlia, quella?» chiese la cronista, appena li vide. «È proprio una bella bambina. Vorrei che la telecamera v'inquadrasse tutte e due insieme.» «Prima dovrà chiedere a Jenny se è disposta ad apparire in TV. Spetta a lei decidere.» La cronista guardò interrogativamente Jenny, che scosse risolutamente la testa. «È deciso, allora», disse Joanna. «Adesso, se vuole scusarmi...» Mentre Joanna le passava rapidamente davanti, Linda Kimball si allungò a stringerle la mano. «Congratulazioni, Joanna. Buon lavoro», disse. Linda avrebbe potuto riferirsi soltanto alle elezioni, ma in realtà intendeva molto di più. Durante la breve intervista con la giornalista televisiva, aveva percepito la sincerità e la determinazione di Joanna Brady. E quelle erano qualità che Linda Kimball non avrebbe potuto mancare di riconoscere, visto che lei stessa era abbondantemente dotata di entrambe. Ancora irritata dall'incontro con la cronista, Joanna si diresse con Jenny verso la zona della sala dove aveva visto il gruppetto formato da Milo Davis, Jeff Daniels, e sua moglie, il reverendo Marianne Maculyea. «E così», stava dicendo Jeff a Milo, «oggi ci siamo riappropriati dello studio e abbiamo portato via tutta la corrispondenza, disseppellendo la scrivania di Marianne...» «Ho persino passato l'aspirapolvere!» cinguettò fieramente Marianne. «Hai passato l'aspirapolvere?» disse Joanna in tono scherzoso, inserendosi nella conversazione. «Non ci credo! Succede soltanto una volta ogni morte di papa! Vero, Jeff?» chiese. «Allora segnati la data sul calendario», rispose lui, «perché lo ha fatto davvero. E non stiamo parlando soltanto del suo studio. L'ha passato in tutta la casa!» Marianne accettò la presa in giro con un sorriso allegro. «Non aspettarti che succeda sempre. L'ho fatto soltanto per sfogare la tensione. Dopo la campagna, avevo bisogno di dedicarmi a qualche lavoro manuale.» Intanto, Jenny si avvicinò spontaneamente a Jeff, che la prese per mano e la condusse al tavolo dei rinfreschi. «Che succede?» chiese Marianne, scrutando il volto di Joanna. «Mi sembri turbata...»
Joanna girò la testa a lanciare un'occhiata alla cronista, ancora appostata presso l'entrata. «Quella giornalista mi ha appena detto che, secondo Al Freeman, il consiglio municipale vuole che il nuovo sceriffo entri subito in carica... È mai possibile?» Tenendo in equilibrio un bicchiere di vino e un piattino di antipasti, Milo masticò pensosamente una carota cosparsa di salsa. «L'hai saputo soltanto adesso?» Marianne si accigliò. «Quello schifoso...» disse. Quando si trattava di Al Freeman, la partecipazione alla campagna elettorale aveva privato il reverendo Maculyea di parte della sua carità cristiana. «Ha sempre sostenuto di avere agganci alla contea...» «Non è mica un'idea così cattiva...» disse Milo Davis. «Dopotutto, la carica è vacante. Se farà prestare subito giuramento al vincitore, la nuova amministrazione partirà avvantaggiata nell'affrontare i problemi del dipartimento. Dick Voland se l'è cavata bene come sostituto, ma il consiglio avrebbe tutta l'autorità per insediare immediatamente il nuovo sceriffo.» «E se vincessi io?» obiettò Joanna. Milo la guardò con espressione sconvolta. «Come "se"?! Ti è forse venuta una crisi di fiducia? Certo che vincerai tu!» «Ma io non potrei mollarti così, da un giorno all'altro, senza nessun preavviso...» «Ne ho avuto a sufficienza, di preavviso», disse ragionevolmente Milo. «Non sarà un problema. Appena hai annunciato la tua candidatura, ho cominciato a cercare una sostituta.» Per tentare di nascondere una trafittura di dolore, Joanna distolse lo sguardo. Undici anni prima, appena terminati gli studi, aveva iniziato a lavorare alla Davis Insurance Agency come segretaria, poi, col tempo, era diventata direttrice d'agenzia, e Milo, poco prima che Andy morisse, aveva cominciato a prepararla, nell'intento di affidarle anche buona parte del settore vendite. Davvero gli sarebbe stato così facile sostituirla? «Dunque hai già trovato qualcuno?» osò chiedere, con esitazione, temendo la risposta. L'allegro sorriso di Milo la ferì nell'anima. «Sì», disse lui, apparentemente fiero, quasi entusiasta. «Proprio la settimana scorsa Lisa ha dato l'ultimo esame per la licenza e oggi sono arrivati per posta i risultati. Però non potrò cominciare a portarla con me finché non avrò trovato un'altra segretaria, e forse questo sarà molto più difficile.» Joanna era confusa, quasi stordita. «Capisco...» mormorò.
Milo annuì. «Non è stato facile, per Lisa, studiare per gli esami senza restare indietro col solito lavoro.» Soprattutto perché ha dovuto farlo alle mie spalle, pensò amaramente Joanna. «E che cosa succederà se non vinco, Milo?» chiese. «Vuoi dire che rimarrei senza lavoro?» «Stai scherzando?! Avremmo comunque bisogno di assumere una nuova segretaria. Se avessi alle mie dipendenze due agenti a tempo pieno, potrei finalmente cominciare a prendermi un po' di tempo libero, anzi, non mi sorprenderebbe affatto se oggi, proprio per questa ragione, mia moglie avesse votato contro di te. Vuole a tutti i costi che andiamo a fare una crociera di due settimane ai Caraibi, in gennaio. Ma forse, se tu vincessi, sarebbe impossibile.» In quel momento arrivò uno dei compagni di golf di Milo, e Marianne prese a braccetto Joanna. «Sembra che la candidata abbia bisogno di prendere un po' d'aria fresca... Andiamo!» Linda Kimball avvistò Burton nel momento stesso in cui questi varcò la soglia della sala. Era decisamente ubriaco. Aveva lo stesso colorito verdastro che aveva nelle foto di matrimonio e nel video di lui e dei ragazzi che lei stessa aveva girato appena erano scesi dalle montagne russe, a Disneyland. Aveva i capelli arruffati e gli abiti stazzonati, come se avesse dormito senza spogliarsi. Linda gli fu accanto prima che riuscisse a fare tre metri nella sala. «Dove diavolo sei stato?» chiese, in un sussurro carico di tensione. «Sto cercando zio Harold», rispose debolmente Burton. «Lo hai visto? Il suo Scout è nel parcheggio, quindi anche lui dev'essere qui, da qualche parte.» «Credimi», ribatté gelidamente Linda. «Se zio Harold fosse qui, lo avrei visto, anche perché stavo sorvegliando la porta come un falco. E adesso, caro mio, dimmi che cosa diavolo hai combinato! Ho saputo che corrono un sacco di voci sul tuo conto, e non me ne piace nessuna. Anzi, mi accorgo proprio adesso che non mi piace granché neanche il tuo odore...» «Linda... ti prego...» disse Burton, guardando ansiosamente attorno, nella sala affollata. «Dobbiamo parlarne proprio ora? Non possiamo discuterne più tardi?» «Ne stiamo già discutendo!» replicò Linda, alzando la voce. «In questo stesso momento!» Burton la prese per un braccio e ritornò con lei all'entrata. «Vieni...» dis-
se. «La gente ci sta ascoltando...» «Non si è limitata ad ascoltare», ribatté Linda. «Ha parlato molto di te. In città lo sanno tutti, ormai, che ti sei ubriacato. Come mai sei andato a Brewery Gulch, a passare il pomeriggio al Blue Moon?» Burton Kimball curvò le spalle. «Lo sai?!» «Puoi ben dirlo, dannazione! Lo so, eccome! Quindi ti conviene spiegarmi subito che cosa ci sei andato a fare!» All'improvviso, qualcosa, nel volto angosciato e desolato di Burton, placò parzialmente l'ira di Linda. «Che cos'è successo?» chiese, in tono più pacato, appena furono usciti. Burton si appoggiò al muro dell'edificio. «Ho rinunciato ad assistere zio Harold», rispose. «Ha deciso di accordarsi con Holly senza andare in tribunale.» «E perché diavolo vuol fare una sciocchezza del genere?» Burton scrollò disperatamente le spalle. «Chi lo sa? Ha deciso di dividere in due parti il ranch, e quando lo avrà fatto, Ivy non sarà più in grado di guadagnarsi da vivere, con la sua metà.» Ecco! Di nuovo Ivy! Linda si rimproverò per non avere intuito subito che si trattava ancora una volta di Ivy! Conosceva Burton da quattordici anni, era sua moglie da dodici e non aveva mai dubitato, neanche per un solo istante, che Burton amasse lei e i loro due figli. Però aveva sempre saputo, fin dall'inizio, che Ivy Patterson, per lui, veniva prima di ogni altra cosa. «E poi ho fatto una cosa tremenda...» continuò Burton. «Se volesse, zio Harold potrebbe farmi radiare dall'albo...» Linda si sentì afferrare nella morsa dell'angoscia. «Che cos'hai fatto?» «Ho riferito a Ivy la decisione di zio Harold», disse Burton. «Ho fatto il pieno, ho chiamato Ivy e ho tradito il segreto professionale. Eppure non riesco ancora a credere di avere fatto una cosa del genere... Ecco perché sto cercando zio Harold... Devo trovarlo, e cercare di rimettere a posto le cose.» «Sai bene che zio Harold non ti denuncerebbe mai», disse Linda, fiduciosa. «Neanche fra un milione di anni.» «Invece dovrebbe», rispose cupamente Burton Kimball. «Di sicuro, lo meriterei.» «No, niente affatto.» Allora Linda gli si avvicinò e lo avvolse in un abbraccio confortante, ignorando il puzzo di liquore che lo avvolgeva come una fetida nube, e Burton Kimball si sentì sciogliere per la gratitudine. Linda era sempre stata
assennata e fidata. Anche lei, come zio Harold, era il sale della terra. Era fortunato ad avere una donna come lei nella propria vita. Appoggiandosi a lei, chiuse gli occhi e respirò la fragranza dei suoi capelli puliti. Non vide arrivare l'automobile, se non quando fu troppo tardi. Se non fosse stato per Joanna Brady, i coniugi Kimball, Burton e Linda, stretti nel loro abbraccio e appoggiati al muro, sarebbero stati schiacciati contro l'edificio. Inoltre, senza il tempestivo intervento di Joanna, l'automobile lanciata a tutta velocità non soltanto avrebbe spiaccicato Burton e Linda Kimball, bensì avrebbe fatto fare esattamente la stessa fine anche al reverendo Marianne Maculyea. CAPITOLO 15 Quando Marianne e Joanna uscirono dall'affollata e surriscaldata sala convegni, la limpida aria notturna fu un sollievo. Ancora addolorata da quello che considerava un comportamento sleale da parte di Milo, e ansiosa di parlarne, Joanna desiderava tuttavia un po' d'intimità. Sul marciapiede, vicino all'entrata, le due amiche incontrarono un uomo e una donna che, abbracciati, sembravano avere bisogno a loro volta di restare soli. Così Joanna condusse Marianne dall'altra parte della strada. «Non credi di essertela presa un po' troppo?» chiese Marianne, dopo aver ascoltato le preoccupazioni di Joanna. «A me sembra che Milo abbia pensato che tu avessi già abbastanza preoccupazioni, senza dovere anche aiutare Lisa a studiare e a superare gli esami per la licenza» Ma Joanna non si lasciò convincere del tutto. «Dunque credi che sia stato premuroso e non subdolo?» «Questa è la mia opinione», rispose Marianne. «È vero che le opinioni valgono per quello che sono, cioè poco, ma perché non accordargli il beneficio del dubbio?» Nel frattempo, camminando, attraversarono il parcheggio fino alla base della gradinata che saliva al Copper Queen Hotel, e là continuarono a parlare. Infine il freddo autunnale le indusse a ritornare verso il centro convegni. Poiché gli eventi degli ultimi mesi avevano suscitato in lei una diffidenza senza precedenti, adesso Joanna Brady osservava con maggiore attenzione ciò che le stava intorno, soffermandosi su molti particolari che in passato le sarebbero sfuggiti.
Durante la sosta alla base della gradinata, Joanna rimase di fronte a Main Street, mentre Marianne dava le spalle alla strada. Così si accorse che la stessa auto rossa era passata due volte in cinque minuti, e qualcosa attirò la sua attenzione e il suo interesse. Forse fu la velocità, o meglio l'eccessiva lentezza. Forse furono la marca e il modello, dato che la Allanté avrebbe spiccato ovunque e comunque. O forse fu il colore rosso sgargiante, che alla luce dei lampioni alogeni incupiva, diventando quasi purpureo. Mentre attraversavano insieme la strada sul passaggio pedonale per rientrare nel centro, infreddolite, Marianne disse a Joanna qualcosa che, in seguito, nessuna delle due avrebbe rammentato. Proprio nel momento in cui Marianne, col viso girato a guardare Joanna, saliva sul marciapiede, l'automobile rossa accelerò all'improvviso con uno stridio di pneumatici, scattando in avanti da meno di mezzo isolato di distanza e montando parzialmente sul marciapiede. Allora Joanna intuì tutto in un battibaleno: l'automobile che si avvicinava a gran velocità; la coppia unita nell'abbraccio e del tutto inconsapevole del pericolo; Marianne che continuava a chiacchierare spensieratamente. Sfruttando il microsecondo che aveva per reagire, Joanna gridò: «Attenti!» Intanto, afferrò Marianne per una spalla e la spinse in avanti, verso la sicurezza dell'androne dell'ingresso. Stupiti dal grido, l'uomo e la donna si raddrizzarono e si separarono. Mentre l'uomo indietreggiava verso l'entrata, la donna rimase dove si trovava, proprio sul tragitto dell'automobile. Joanna capì che l'uomo era ormai al sicuro, ma che la donna, paralizzata dalla paura, non avrebbe avuto scampo, se l'auto non fosse smontata dal marciapiede per ritornare in carreggiata. Senza riflettere, Joanna afferrò la donna per un polso, nel passare, e se la tirò dietro con uno strattone tanto violento che sentì lo schiocco di una spalla slogata, accompagnato da uno strillo di dolore. Poi entrambe si lanciarono nell'androne, e insieme caddero addosso a Marianne che, scossa dai tremiti, si stava rialzando a fatica. Crollarono tutte e tre in una confusione di braccia e di gambe. Joanna sbatté lo zigomo contro qualcosa di duro, in un'esplosione di dolore che le fece vedere le stelle. Così, impiegò qualche secondo a schiarirsi la vista e la mente. Allora scoprì di essere schiacciata fra le altre due donne. Sotto di lei, Marianne aveva un'immobilità innaturale, mentre sopra di lei l'altra gemeva: «Il mio braccio... il mìo braccio... credo che sia rotto...» «Linda...» disse Burton Kimball, curvandosi sulla moglie. «Stai bene?
Mio Dio! Hanno cercato di ammazzarci! Qualcuno chiami la polizia!» Intanto, coloro che stavano cercando di uscire dalla sala non ci riuscivano, perché Marianne e Joanna bloccavano le porte. Disorientata dal capogiro, Joanna riuscì a rotolare via, così qualcuno poté aprire la porta quel tanto che bastava per uscire sul marciapiede. Non fu sorprendente scoprire che fra loro c'era Jeff Daniels. Lo seguiva un cameraman televisivo. Mentre Jeff s'inginocchiava accanto a lei, Marianne batté le palpebre e aprì gli occhi. «Che cos'è successo?» sussurrò. Qualcuno, molto probabilmente il cameraman, si affrettò ad aiutare Joanna a rialzarsi. Aveva il vestito strappato e aveva perso tre dei quattro bottoni dorati. Il vicesceriffo Richard Voland sembrò sbucare dal nulla. «Che sta succedendo?» chiese, volgendosi a Joanna. «Un'automobile...» balbettò lei, indicando la direzione in cui la vettura era scesa dai gradini all'estremità del marciapiede ed era scomparsa a tutta velocità. «Una Cadillac rossa... sul marciapiede... ha cercato di travolgerci...» Voland guardò nella direzione indicata, senza scorgere alcun veicolo. «Una macchina sul marciapiede?» chiese, in tono sorpreso, come se il racconto fosse troppo esagerato per poter risultare minimamente credibile. «E che cosa ci faceva un'auto sul marciapiede?» «Ha cercato di ucciderci!» rispose Burton Kimball. «Qualcuno chiami un'ambulanza! Ci sono feriti!» Il tono di Burton Kimball indusse Dick Voland ad agire senza esitazioni. Mentre il vicesceriffo iniziava a impartire ordini, Joanna s'inginocchiò accanto a Jeff. «Come sta Marianne? Sta bene?» Jeff scosse la testa, poi obbligò la moglie, che stava cercando di alzarsi a sedere, a rimanere sdraiata sul marciapiede, e la coprì con la giacca che qualcuno gli aveva consegnato. «Non muoverti, Marianne», raccomandò in un sussurro. «Resta distesa.» Dato che non poteva aiutare l'amica, Joanna si avvicinò a Linda e a Burton Kimball. Seduta sul marciapiede, Linda tremava tutta, col braccio slogato in grembo. Le lacrime le scorrevano sul volto, nonostante si sforzasse di non piangere, perché la sofferenza era troppo intensa. Quando Burton cercò di coprirle le spalle con la propria giacca, si scostò. «No», disse. «Non mettermi niente addosso. Fa troppo male.» Joanna provò nausea, rendendosi conto di essere stata lei, e non l'auto, a ferire Linda Kimball. «Mi spiace...» si scusò, angosciata. «Non volevo...»
Linda Kimball alzò la testa a guardarla con gli occhi colmi di lacrime e di dolore. «Mio Dio, Joanna... non scusarti! Il braccio mi fa un male del diavolo, ma se non fosse stato per te, adesso saremmo morti tutti quanti!» Allora accadde qualcosa di strano. Linda Kimball cominciò a ridere. «Hai sentito, Burton?» disse, ridendo. «Joanna sta... sta cercando di scusarsi... perché... perché mi ha fatto male al braccio! Mio Dio! È la cosa più... divertente che abbia mai sentito!» La sua risata, acuta e isterica, rimbombò in strada anche se già si udivano echeggiare fra le pareti del canyon le sirene dell'ambulanza e delle autopattuglie in arrivo. «Calmati», esortò Burton Kimball. «Così rischi di farti male ancor di più.» Tuttavia Linda continuò a ridacchiare. «Lo so...» riuscì a dire. «Fa male soltanto... quando rido!» In qualche modo, Jenny riuscì a farsi largo tra la folla degli adulti e andò ad abbracciare Joanna, stringendola con forza intorno alla vita. «Mamma...» piagnucolò, con una vocina spaventata. «Va tutto bene? Stai sanguinando...» Stordita, Joanna sollevò una mano a toccarsi il viso, scoprendo di essersi ferita quando aveva sbattuto lo zigomo contro la testa di Marianne. Era un taglio, ma non sanguinava molto. «Non è niente», assicurò a Jenny. «Sono un po' scossa, ma sto bene.» Abbassando lo sguardo verso la figlia, Joanna si accorse all'improvviso che, ormai privo di tre bottoni, il suo vestito blu era aperto a rivelare il reggiseno bianco a chiunque avesse voglia di guardare. Tenendo una mano sulla spalla di Jenny, cercò di richiudere la robe-manteau con l'altra. Intorno a loro l'andirivieni era continuo. Anche se entro i confini della città la contea non aveva giurisdizione, Dick Voland aveva assunto il comando delle operazioni, ordinando agli agenti di pattuglia che avevano risposto alla chiamata di scortare l'ambulanza per accelerarne l'arrivo. Joanna sapeva benissimo che Dick Voland aveva sostenuto attivamente in tutta la contea la candidatura di Al Freeman. Il vicesceriffo non era mai andato molto d'accordo con Andrew Brady, e ancor meno con lei. Joanna era irritata dall'incredulità con cui aveva immediatamente reagito a quello che lei aveva detto, soltanto per poi accettare subito e senza esitazione la stessa cosa, quando era stato Burton Kimball a dirla. Se si comportava così adesso, che cosa sarebbe successo se mai avessero dovuto lavorare insieme?
Anche se Marianne insistette di sentirsi benissimo, i paramedici, con l'aiuto di Jeff, la persuasero a lasciarsi caricare sopra una lettiga. Quando l'unica ambulanza della città partì col suo carico per l'ospedale, Linda Kimball, che era in grado di camminare, montò insieme al marito sul sedile posteriore di un'auto della polizia in attesa. «Joanna...» sibilò Eleanor, che si trovava ai margini della folla. «Vieni qui! Presto!» aggiunse, gesticolando disperatamente. L'espressione sul viso di Eleanor era così addolorata, che per un attimo Joanna ebbe timore che anche sua madre si fosse trovata nei dintorni, al momento dell'incidente, e che fosse rimasta in qualche modo coinvolta, forse ferita. «Che succede?» chiese Joanna, preoccupata, affrettandosi ad avvicinarsi alla madre, insieme a Jenny. «Non sei ferita, vero?» Eleanor Lathrop scosse la testa. «Per l'amor del cielo, Joanna! Non ti sei accorta delle telecamere?» Joanna girò la testa a guardare indietro e constatò che, in effetti, tre cameraman televisivi erano intenti, fianco a fianco, a riprendere con le loro telecamere ronzanti tutto quello che stava succedendo. «E allora?» «Beh, il tuo vestito, tanto per cominciare!» gemette Eleanor, in tono lacrimoso. «Ti si vede il reggiseno! Ho cercato i tuoi bottoni dappertutto senza riuscire a trovarli. Ecco l'unica cosa che avevo nella borsa... Vai nella toilette e usala.» Disperatamente, Eleanor mise una spilla di sicurezza in mano a Joanna. Guardando la spilla, Joanna fu tentata di scoppiare a sua volta in una risata quasi isterica, ma non lo fece, perché in realtà non c'era proprio niente da ridere. In quella spilla si concretizzava tutta la differenza fra Joanna e la madre, fra chi partecipava attivamente e chi rimaneva in disparte ad assistere. Quando aveva visto l'automobile arrivare a tutta velocità, Joanna si era preoccupata per prima cosa dell'incolumità altrui. La principale preoccupazione di Eleanor, invece, era sempre e comunque quella di mantenere le apparenze. In un lampo di comprensione, Joanna si rese conto che la stessa differenza aveva sempre diviso sua madre da suo padre. Ecco perché suo padre era morto. Era stato fisicamente incapace di proseguire nel suo viaggio ignorando una donna sola che era rimasta con l'auto in panne, e nell'aiutarla a cambiare la ruota forata, era rimasto ucciso. D.H. Lathrop aveva offerto il proprio aiuto perché quella era la sua natu-
ra, una parte di sé che non sarebbe mai stato in grado di cambiare. E quando aveva perduto la vita in conseguenza della sua stessa gentilezza, Big Hank Lathrop era stato considerato da tutti un eroe. Nessuno aveva cercato di cambiarlo, o di farlo diventare qualcosa di diverso da quello che era. A essere sinceri, se qualcuno aveva il diritto di essere portato all'azione e all'eroismo, non avevano forse lo stesso diritto coloro che invece erano portati ad assistere passivamente agli eventi? Sì, Eleanor si preoccupava soltanto delle apparenze, ma che cosa c'era di male in questo? E se c'era qualcosa di male, non era più o meno equivalente a fermarsi per cambiare una ruota e rimanere uccisi? Lentamente, Joanna chiuse la mano intorno alla spilla, poi guardò Eleanor, che continuava a scrutare il marciapiede alla ricerca dei bottoni strappati. D'improvviso, Joanna ebbe una stretta al cuore, uno spasmo di comprensione, paragonabile alla prima volta che una donna incinta sente muovere il feto nel proprio grembo. Fu così che, a ventinove anni di età, con le luci di emergenza che lampeggiavano intorno, le telecamere che ronzavano, e i risultati elettorali che stavano incominciando ad arrivare a poco a poco, ancora parziali, Joanna Brady imparò qualcosa d'importante sul conto della madre, e anche qualcosa d'essenziale su se stessa. Era una scheggia del vecchio ceppo. Era decisamente la figlia di suo padre. Però era anche figlia di sua madre. «Jenny...» disse, abbassando lo sguardo alla bambina, e nel contempo tenendo chiusa la propria robe-manteau strappata. «Saresti così gentile da aiutare la nonna a cercare i miei bottoni?» «E tu dove vai?» chiese Jenny. «Nella toilette delle donne, a cercare di sistemarmi il vestito. Appena trovi un bottone, vieni a portarmelo. E portami anche ago e filo. Chiedi a nonna Brady. Scommetto che li ha nella borsa.» Appena Joanna entrò nell'edificio, Dick Voland la seguì risolutamente. «Aspetta un momento! Dove credi di andare?» «In bagno», rispose pacatamente Joanna. «Tutti gli altri sono andati all'ospedale. Ho bisogno di qualcuno che rilasci una dichiarazione preliminare agli agenti, spiegando esattamente che cosa è successo.» «Posso farlo io», disse Joanna. «Però dovrai aspettare un po'...» Dick Voland apparteneva alla vecchia scuola: maschio, ostinato, abituato a veder scattare tutti ogni volta che dava un ordine. «Aspettare? E cosa?» domandò.
«Che io mi sistemi il vestito», rispose Joanna. Poi gli girò la schiena ed entrò nella toilette delle donne, dove nessun maschio della vecchia scuola che fosse sano di mente avrebbe osato seguirla. CAPITOLO 16 «I graffi non si vedono poi tanto...» Così Eva Lou Brady espresse il suo pratico e tranquillo giudizio sull'aspetto della nuora dopo aver visto alla televisione il discorso che Joanna aveva pronunciato a tarda notte per celebrare la propria vittoria. «Però l'occhio ha davvero un aspetto buffo...» «Beh, io non me lo sento affatto buffo», ribatté Joanna. La caduta della notte precedente non era stata priva di conseguenze. Dopo aver inghiottito un analgesico per i muscoli contratti e doloranti, Joanna si era recata zoppicando alla casa dei suoceri, quella mattina, e aveva accettato con gratitudine la succulenta colazione: uova e bacon, pastìccio di carne con purè di patate e biscotti al latte fatti in casa, ancora caldi. Non aveva nessuna fretta. Milo le aveva ordinato di prendersi un'intera giornata libera, pagata. Ricorrendo a tutte le risorse cosmetiche a sua disposizione, Joanna aveva fatto del proprio meglio per camuffare i danni al viso, ma neppure le notevoli capacità di Helen Barco nell'applicazione del fondo tinta e del belletto avrebbero potuto celare completamente il livido purpureo che le si era vistosamente gonfiato sullo zigomo destro, sotto l'occhio. Portando la giacca e i libri di scuola, Jennifer si fermò dinanzi alla madre e la scrutò in viso con un serio sguardo di rimprovero. «Avevi promesso di essere prudente», disse. «Parola di scout, avevi detto.» Quelle parole di accusa furono anche le prime che Jennifer disse alla madre quel mattino. «C'erano persone in pericolo», rispose Joanna. «Ho avuto paura che qualcuno si facesse male.» «Potevi farti male tu», ribatté Jennifer. «Avresti potuto», corresse istintivamente Joanna. «Avresti potuto», ripeté Jennifer, accigliata, con voce dura. «Jenny... sei pronta?» chiamò il nonno dalla porta principale. «Non voglio fare tardi...» «Dove deve andare?» chiese Joanna. «Stamattina ha chiamato la protezione civile», disse Eva Lou. «Sembra che Harold Patterson sia scomparso. Con tutto il trambusto della notte
scorsa, c'è voluto un po' perché qualcuno si accorgesse che il suo camioncino era nel parcheggio del centro convegni. Lui, però, non è stato trovato da nessuna parte. Dato che non era neppure in casa, si sta discutendo di organizzare le squadre di soccorso. Jim Bob vuole andare alla riunione, dato che ormai è molto più bravo coi discorsi che con le ricerche.» «Da dove intendono cominciare?» «Dal ranch, suppongo, anche se a me sembra che si dovrebbe iniziare in città, dato che il suo camioncino era in quel parcheggio.» Eva Lou sorseggiò il caffè. «A quanto pare, i problemi non mancano, ai Patterson, vero?» «Già...» convenne la nuora di Eva Lou. Joanna aveva visto l'automobile soltanto mentre procedeva sbandando a tutta velocità verso di loro, ma Burton Kimball, che era stato il primo a mettersi al riparo, aveva insistito, nella sua dichiarazione, che la vettura in questione, una Allanté, apparteneva a Rex Rogers, l'avvocato californiano di sua cugina, e che l'aveva guidata nientemeno che Holly in persona. Pur essendo non poco curiosa su quello che stava succedendo, Joanna non aveva ancora l'autorità per intervenire personalmente, e non intendeva telefonare a Dick Voland per informarsi. Mentre Joanna cominciava la colazione, Eva Lou Brady versò altre due tazze di caffè e sedette al tavolo di fronte a lei. «Com'è che Jenny era così arrabbiata?» chiese. «Ricordi che ieri sera ha detto di non volere che vincessi le elezioni?» «Sì.» «Beh, è preoccupata per me, ha paura che mi succeda qualcosa di brutto, com'è capitato ad Andy.» «Ha ragione», disse Eva Lou. «E con la faccia che ti ritrovi, capisco perché si è preoccupata.» «Eva Lou...» obiettò Joanna. «Quello che è accaduto la notte scorsa avrebbe potuto accadere a chiunque. Quando c'è un'emergenza del genere, fai quello che devi perché sei una persona, perché ti sta a cuore quello che succede agli altri. Non ha niente a che vedere col fatto che sei o non sei stata eletta sceriffo.» «Suppongo che sia abbastanza vero...» convenne Eva Lou. «Voglio dire: se un ministro metodista finisce all'ospedale con una commozione cerebrale, immagino che possa davvero capitare a chiunque... A proposito, come sta Marianne?» «L'hanno ricoverata soltanto per tenerla sotto osservazione. Jeff dice che molto probabilmente la dimetteranno oggi.»
Poi, un insolito silenzio imbarazzato sembrò frapporsi fra le due donne. Infine, fu Eva Lou Brady a romperlo. «Lo sa Iddio che non ho nessuna intenzione di ficcare il naso nelle tue faccende, Joanna, però devo proprio chiedertelo... Hai pensato a fare qualcosa per Jenny? Voglio dire... con questo nuovo lavoro e tutto il resto, qualcosa di terribile potrebbe davvero succedere, e allora... Jim Bob e io potremmo occuparci di Jenny, se necessario, però non dovrebbe essere così, perché alla lunga non sarebbe un bene per lei. Ha bisogno di una persona più giovane, qualcuno come te...» Joanna abbassò lo sguardo senza replicare, e quella fu una risposta sufficiente. Non aveva pensato a nulla del genere, benché si rendesse conto fin troppo bene delle conseguenze. Redigere un nuovo testamento e nominare un tutore che all'occorrenza si occupasse di Jennifer erano due dei problemi irrisolti, spiacevoli ma ineludibili, che la tormentavano. E nel periodo tremendo che era seguito alla morte di Andy, non aveva ancora trovato il coraggio sufficiente per affrontarli. «Forse», continuò Eva Lou, non senza gentilezza, «quando avrai trovato una soluzione, dovrai parlarne con Jenny... È una bambina molto intelligente. Credo che il solo fatto di sapere che hai considerato la peggiore delle eventualità e che hai provveduto in qualche modo la farebbe sentire più sollevata, meno sola. Dopotutto, avete vissuto un'esperienza tremenda tutt'e due. Non posso certo biasimarla, se ha paura...» «No», disse Joanna, scuotendo mestamente la testa. «Neppure io la biasimo...» Il telefono squillò, ed Eva Lou si affrettò a rispondere. Era nientemeno che Marianne Maculyea, che cercava Joanna. «Non eri a casa, così ho pensato che fossi dai Brady. Come sta la candidata... oh, scusa: come sta lo sceriffo, stamani?» «Lo sceriffo eletto è rigido come una tavola», rispose Joanna. «Rotolarmi sui marciapiedi non mi fa molto bene. Ho male in posti che non sapevo neppure di avere. E sullo zigomo, dove mi hai dato una testata, ho un grosso livido che quasi mi chiude un occhio. Tu come stai?» Marianne rise, sembrando molto più vivace di quanto avrebbe dovuto. «Annoiata a morte e pronta ad andarmene di qui. Se fosse una gara a chi ha la testa più dura, dovremmo risolverla col lancio della monetina. Tu hai soltanto un occhio nero. Quanto a me, pensavano che avessi una commozione cerebrale.» «Dichiariamo il pareggio», disse Joanna, ridendo, e cominciando a sen-
tirsi un po' meglio. Forse i sedativi stavano facendo effetto, come pure, naturalmente, la robusta colazione. «Che impegni hai, per oggi?» chiese. «Il dottore dice che mi dimetterà a mezzogiorno. È ora che smetta di essere un'organizzatrice elettorale per tornare a essere semplicemente il pastore Maculyea», rispose Marianne. «Comunque, non avrei perso queste elezioni per niente al mondo. È stato divertente, vero?» «Non sono sicura che "divertente" sia la parola adatta... Come sta Linda Kimball?» «Benissimo. Non l'hanno neanche ricoverata. Le hanno sistemato la spalla e l'hanno rimandata a casa col braccio al collo», rispose Marianne. «A proposito del clan dei Patterson...» aggiunse, dopo una pausa. «Hai saputo nient'altro di Harold?» «Soltanto che non l'hanno ancora trovato. Nonno Brady è uscito poco fa per collaborare all'organizzazione delle ricerche.» «È morto, vero?» dichiarò pacatamente Marianne. Joanna era stata così presa dai propri problemi per pensare granché alla misteriosa scomparsa di Harold Patterson. Tuttavia il franco parere di Marianne la colpì. «Perché dici questo?» «Ho parlato con Ivy, poco fa. Neanche lei era a casa, ieri sera. Non sono sicura di cosa stia succedendo, perché ha accennato al fatto di essersi trasferita in un appartamento. Comunque, ha detto anche di essere tornata al Rocking P, stamattina presto. Per evitare una multa, ha portato a casa lo Scout di Harold, e ha scoperto che lui non aveva sbrigato nessuno dei soliti lavori. È bastato questo a Burton Kimball per convincere il giudice Moore a concedere un rinvio.» «Oh...» disse Joanna. I contadini e gli allevatori erano forse gli ultimi esseri umani al mondo a regolare ciclicamente la loro esistenza, che dunque avrebbe potuto essere paragonata a uno yo-yo, il cui elastico potesse allungarsi soltanto fino ai due opposti estremi dei lavori mattutini e serali. Se Harold Patterson non aveva sbrigato né quelli serali né quelli mattutini, allora la faccenda era grave. «Hai ragione», convenne Joanna. «Se non è morto, è gravemente ferito. E dato che era ancora un duro, ci dev'essere voluto qualcosa di grave per abbatterlo...» «Magari un attacco di cuore?» suggerì Marianne. «L'ho visto ieri mattina, in ufficio», disse Joanna. «Anzi, adesso che mi ci fai pensare, sembrava tremendamente turbato...»
«Credo che non resti altro da fare che sperare per il meglio», disse Marianne. «Cosa mi dici di te? Che progetti hai?» «Milo mi ha dato la giornata libera. Credo che non voglia nessuno con una faccia come la mia ad abbellirgli l'ufficio. Più tardi dovrò andare da Dick Voland. Ho rilasciato la mia deposizione a un vicesceriffo. Stamane dovrebbero batterla a macchina, e io dovrò firmarla.» «Perché un vicesceriffo, anziché un agente della polizia municipale?» chiese Marianne. «Dopotutto, è successo in città...» «La confusione, suppongo. Qualcuno ha chiamato la polizia municipale, qualcun altro ha chiamato l'ufficio dello sceriffo...» «A proposito dell'ufficio dello sceriffo... Hai parlato con Dick Voland, dopo l'annuncio dei risultati definitivi?» chiese Marianne. «Hai avuto una tale valanga di voti, che probabilmente lui non sarà molto felice, stamane...» «Non l'ho più visto, dopo la festa. Lui e Al se la sono squagliata appena hanno visto come stava andando, e hanno capito che per Freeman non c'era più nessuna possibilità di farcela. Invece Frank Montoya è rimasto abbastanza a lungo per riconoscere la sconfitta e stringermi la mano.» «Avrei voluto vedere la faccia di Dick Voland, quando ha finalmente capito che avresti vinto... Credi che rassegnerà le dimissioni prima del tuo insediamento, o che dovrai essere tu a licenziarlo?» «Licenziarlo? E perché dovrei?» «Joanna...» disse severamente Marianne. «Non hai sentito tutte le cose che ha detto quell'uomo sul tuo conto durante la campagna elettorale? Beh, io sì, e temo che cercherà di ostacolarti a ogni passo.» Anche Joanna aveva sentito, però aveva pensato che la maggior parte delle cose che il vicesceriffo capo Dick Voland aveva detto nelle sei settimane precedenti fosse da ascrivere alla retorica elettorale. Voland aveva lavorato per anni sotto l'amministrazione precedente, in gran parte come secondo in comando, e fino a quel momento le indagini sulla corruzione all'interno dell'ufficio dello sceriffo non avevano individuato nessuna connessione fra lui e il traffico di droga, anzi, era stato giudicato abbastanza pulito perché il consiglio della contea lo incaricasse di dirigere l'ufficio ad interim, fino all'elezione del nuovo sceriffo. Personalmente, Joanna non aveva nessuna simpatia per Richard Voland. Ufficialmente e in sua presenza, il vicesceriffo capo veniva chiamato col grado che aveva, ma ufficiosamente e dietro le spalle era soprannominato «Razzista Capo». La sua mentalità da «uomo all'antica», che aveva fun-
zionato con Walter V. McFadden e che sarebbe stata del tutto compatibile con Al Freeman, non sarebbe andata per niente bene con Joanna Brady. «Dick non darà problemi», rispose Joanna, fiduciosa, sorvolando sulla preoccupazione di Marianne, nonché sulla propria. «È al dipartimento dai tempi di mio padre. Aspettiamo, e vediamo come si comporta.» Joanna e Marianne avrebbero continuato a conversare, se non fosse arrivata un'infermiera con un termometro e un apparecchio per misurare la pressione sanguigna. Allora Marianne fu costretta a interrompere la comunicazione con una sfumatura di malagrazia. Così andavano le cose in ospedale. Appena Joanna ebbe posato il telefono, Eva Lou riempì di nuovo le tazze di caffè. «Ho avuto una grande soddisfazione da tua madre», disse pensosamente Eva Lou. «Eleanor ha telefonato stamattina presto, eccitata come una ragazzina, per chiedermi come penso che dovresti vestirti per il giuramento...» Joanna rise. «È così che è fatta mia madre!» disse. Ma in un istante perse ogni traccia di allegria. «Da qui a gennaio avremmo avuto tutto il tempo per scegliere cos'avrei dovuto mettermi. Ieri la mamma era tremendamente preoccupata perché voleva che avessi un aspetto magnifico davanti alle telecamere, e si è presa la briga di pagarmi un trattamento di lusso. Eppure io sono riuscita a presentarmi ai giornalisti come se fossi reduce da una catastrofe. Non credi che alla fine si convincerà che sono un caso disperato e si deciderà a dichiararsi sconfitta?» Eva Lou Brady scosse la testa. «No, Joanna, le madri non si dichiarano sconfitte», disse. «Non l'hai ancora capito? Qualunque cosa succeda, non lo facciamo mai. Mai e poi mai.» CAPITOLO 17 Continuando a sentirsi viziata per la colazione che Eva Lou le aveva offerto, Joanna percorse in automobile la Warren Cutoff e superò la grande discarica mineraria Lavender Pit. Era diretta al complesso del nuovo Palazzo di Giustizia di Cochise County, situato due miglia a est della città, sulla Highway 80. Costruiti e arredati con la quota del denaro confiscato ai trafficanti di droga che era stata devoluta alla contea, gli edifici rossicci, annidati in una gola tra le colline ferrose, si stagliavano sullo sfondo grigio cupo della catena di ripidi monti calcarei che s'innalzava all'orizzonte. Il nuovo complesso era stato inaugurato quando Andy era vicesceriffo e
le difficoltà nella gestione del nuovo carcere erano state uno dei temi più ardentemente dibattuti della campagna elettorale. Nella mente di Joanna, comunque, le parole «ufficio dello sceriffo» erano tuttora associate a quello in cui aveva lavorato suo padre: un ambiente angusto e trasandato, arredato in stile art déco, situato nel palazzo di giustizia della contea, nella zona residenziale della città. Là, seduto a una scrivania in legno graffiata e scheggiata, suo padre aveva regnato supremo, dirigendo un Dipartimento molto più piccolo, ma in apparenza molto più efficiente, di quello attuale. Dal punto di vista statistico, la gestione di Hank Lathrop era stata tale da far vergognare tutte le gestioni successive. Dopo aver lasciato l'autostrada per deviare verso il complesso del Palazzo di Giustizia, Joanna, per pura curiosità, si comportò come una turista, girando intorno alla prigione, con i suoi cortili e i suoi recinti, e anche intorno al tribunale della contea, per giungere infine al parcheggio, al quale, come annunciava un grande cartello, potevano accedere esclusivamente i dipendenti. Tranne i posti riservati all'ombra della tettoia a ridosso dell'edificio, che erano tutti occupati, il parcheggio era in gran parte libero. Il Blazer della contea che Dick Voland usava di solito occupava il posto contrassegnato dalla targa VICESCERIFFO. La sua auto privata, invece, una Buick Regal ultimo modello, quello contrassegnato dalla targa SCERIFFO, da cui un vialetto pedonale riservato conduceva a una porta posteriore che consentiva l'accesso immediato al retro del palazzo che ospitava gli uffici. Osservandola, Joanna pensò che probabilmente era giusto che Dick Voland lasciasse la propria auto in quel posto, dato che, dopotutto, era ancora sceriffo ad interim. Eppure, qualcosa, nel modo in cui la vettura era parcheggiata, suscitava in lei un turbamento e una preoccupazione indefinibili. Scacciando quella fugace ombra di dubbio, Joanna tornò indietro e si recò nel parcheggio per i visitatori, dinanzi alla facciata dell'edificio. Infine, entrò. Quando le comunicò il proprio nome, la giovane segretaria che occupava la scrivania nell'atrio non sembrò riconoscerla, o forse non rimase particolarmente impressionata. Di sicuro nessun impiegato era stato avvisato della possibile visita del nuovo sceriffo. Nonostante la cortesia e le attenzioni che ricevette, Joanna Brady avrebbe potuto essere una venditrice di penne a sfera che avesse deciso sul momento di presentarsi senza appuntamento dopo aver visto il Palazzo di Giustizia dall'autostrada.
La segretaria suggerì a Joanna di accomodarsi, spiegandole poi che in quel momento il signor Voland era impegnato al telefono, ma che l'avrebbe ricevuta appena possibile. Trascorsi i primi cinque minuti di attesa, che non tardarono a diventare dieci e poi quindici, Joanna si domandò quando sarebbe stato «appena possibile». Mentre Joanna aspettava con sempre maggiore inquietudine, gli impiegati alle scrivanie continuarono i loro lavori, a malapena consapevoli della sua presenza, quasi come se fosse invisibile. Finalmente spazientita e incapace di continuare a restare seduta, Joanna iniziò a passeggiare per l'atrio, quindi si soffermò dinanzi alla grande bacheca illuminata che ornava la parete di fondo. Là, fra le numerose foto risalenti ai tempi in cui l'Arizona, prima di diventare uno Stato, era ancora un territorio, Joanna trovò il ritratto ufficiale di suo padre, lo sceriffo D.H. Lathrop, soprannominato Big Hank. Non era la prima volta che osservava quella bacheca, tuttavia rimase colpita nel vedere la foto del genitore fra le altre, e si chiese come avrebbe reagito suo padre se avesse visto lei in quel momento. Sarebbe stato fiero di lei, per essersi candidata e per avere infine vinto le elezioni? Avrebbe capito perché lo aveva fatto? Oppure ne sarebbe rimasto perplesso, o turbato, o persino deluso e scontento? Dato che non aveva avuto l'opportunità di conoscerlo da adulta, la figlia non aveva modo di supporre quali avrebbero potuto essere le sue reazioni. Timorosa di tradire i propri tumultuosi sentimenti, non tornò a sedere, bensì rimase a osservare l'intero contenuto della bacheca, leggendo tutte le didascalie e scrutando tutte le fotografie che componevano la storia ufficiale dell'ufficio dello sceriffo di Cochise County. L'ultima foto in fondo a destra, che era anche la più recente, era un ritratto di Walter V. McFadden. Il posto accanto era vuoto. Con un groppo in gola, Joanna si rese conto che, se le cose fossero andate diversamente, quel posto vuoto sarebbe stato occupato molto probabilmente dal ritratto di Andy. Invece era destinato ad accogliere una sua fotografia, quasi sicuramente quella che era comparsa sul pieghevole della campagna elettorale. La consapevolezza che alla fine il suo ritratto sarebbe stato esposto nella bacheca insieme a quello di suo padre ebbe l'effetto immediato di ravvivare e rafforzare la sua determinazione. Molti dei precedenti sceriffi di Cochise County erano stati cittadini capaci e onesti, che avevano fatto del loro meglio per affrontare le difficoltà in cui si erano trovati.
Suo padre, Big Hank Lathrop, era stato un uomo retto che aveva saputo tirare diritto. Secondo la sua versione del codice di comportamento di uno sceriffo, gli appuntamenti avevano sempre avuto la precedenza su ogni altra cosa, incluse le conversazioni telefoniche impreviste. Tale ricordo le rammentò a sua volta gli aneddoti che Andy le aveva riferito sull'inclinazione di Dick Voland a esercitare pressioni col peso considerevole della sua autorità. Più di una volta il vicesceriffo si era vantato di avere lasciato in attesa tanto a lungo quanto aveva voluto persone con cui aveva avuto appuntamento, per pura scortesia, oppure per puro divertimento, o per capriccio, semplicemente perché aveva potuto permettersi di farlo. Quando Joanna volse le spalle alla bacheca, venti minuti erano passati e il suo malumore era notevolmente aumentato. Più di centoquaranta persone lavoravano nell'ufficio dello sceriffo di Cochise County. Una volta prestato giuramento, entro una settimana, oppure trascorsi i due mesi consueti, tutte quelle persone sarebbero state alle sue dipendenze. Lei sarebbe stata il loro capo. E che a loro piacesse o meno, certe cose sarebbero cambiate, nel Dipartimento dello Sceriffo. All'esatto scadere del ventitreesimo minuto di attesa, Joanna si allontanò dalla bacheca e si avviò all'uscita, proprio mentre Dick Voland entrava in sala d'aspetto, con una tazza brutta e sporca, appena riempita di caffè nero. «Mi spiace di averti fatta aspettare», disse con noncuranza. «Ero al telefono e non potevo interrompere la conversazione.» «Nessun problema», rispose gelidamente Joanna. «Sono certa che sei molto occupato.» Nel sorseggiare rumorosamente il caffè, Dick Voland annuì saggiamente, senza accennare a invitare Joanna ad accomodarsi nel suo ufficio per conversare in privato. «Con tutto quello che è successo la notte scorsa, siamo rimasti un po' indietro con le scartoffie, temo», disse. «Ho appena parlato con la dattilografa. Non è ancora riuscita a trascrivere le deposizioni. Dice che probabilmente ci vorranno ancora quindici o venti minuti, se non ti dispiace aspettare tanto...» Non tenendo conto della sua altezza, Dick Voland si tradì. Così, Joanna Brady scoprì il sorrisino malizioso e compiaciuto che la tazza del caffè avrebbe dovuto celarle alla perfezione, e allora si rese conto che Marianne Maculyea aveva ragione, mentre lei stessa sbagliava. Il fatto che Dick Voland fosse un esperto professionista non aveva alcuna importanza. La sua vettura privata nel parcheggio riservato allo sceriffo,
anziché in quello per il vicesceriffo, era in realtà un'aperta dichiarazione di guerra. Lo sapeva lui, lo sapeva lei, e lo sapevano tutti i dipendenti dell'ufficio. Per lo stesso motivo Dick Voland l'aveva lasciata a lungo in attesa. «È un vero peccato», disse Joanna, senza alzare la voce. «In tutta sincerità, non avrei potuto permettermi di star qua mezz'ora neanche quando sono arrivata, ventiquattro minuti fa. E adesso ho ancor meno tempo da perdere. Sono venuta qui a firmare la deposizione per pura cortesia. Se per caso ci sarò ancora quando la trascrizione sarà finita, sarò lieta di firmarla. Altrimenti dovrai mandare qualcuno a portarmela.» La gelida risposta non fu quella che Dick Voland si sarebbe aspettato, così il suo sorrisetto soddisfatto sbiadì. «Comunque posso trattenermi ancora un paio di minuti», continuò Joanna, senza concedergli l'opportunità di replicare. «Se non è un disturbo, mi piacerebbe dare un'occhiata in anticipo al mio ufficio.» Sicuramente Dick Voland aveva saputo dei risultati elettorali definitivi dal giornale o dalla televisione, ma Joanna Brady, osservando il suo viso, si rese conto che la realtà di quello che i risultati comportavano gli s'impose davvero soltanto in quel momento, in cui comprese il significato esatto delle sue parole. I muscoli delle sue guance si contrassero. «Vuoi dire... adesso?» Fino a un attimo prima, nessun dipendente aveva mostrato il minimo interesse per Joanna Brady. In quell'istante, tuttavia, sembrò che una scarica elettrica pervadesse l'intero ambiente. Ogni occhio e ogni orecchio si orientarono nella loro direzione, ogni respiro fu trattenuto nell'attesa del prossimo gesto e della prossima parola. Era uno scontro di volontà, un primo, critico passo che Joanna Brady non poteva permettersi di sbagliare. Lei sorrise. «Adesso, certo.» Senza muoversi, Dick Voland la fissò. Joanna rimase immobile ad aspettare. «E va bene...» brontolò lui con irritazione, posando una mano sul pesante portachiavi che portava appeso alla cintura. «Da questa parte...» Accigliato, Voland girò la chiave nella serratura, aprì la porta e si fece da parte, tenendola aperta, affinché Joanna potesse entrare. «Dopo di te», disse, con un inchino lievemente esagerato e fin troppo cortese. Joanna riconobbe subito le implicazioni di quel comportamento. Era un modo non troppo dissimulato per far capire chi aveva il controllo, chi comandava e chi no. Una donna che non fosse cresciuta come figlia di uno sceriffo avrebbe potuto non prestarvi attenzione, avrebbe potuto non capire
Invece Joanna lo notò e capì. Nel mondo delle forze dell'ordine, i detenuti precedevano e le guardie seguivano, i sospetti precedevano e gli agenti seguivano. Chi seguiva aveva il potere e comandava. Nessuno lo dimenticava mai, neanche per un momento. «No», disse lei, sempre sorridendo, e intanto facendosi da parte. «Prima tu.» Trascorsero alcuni secondi che avrebbero potuto essere secoli, mentre nessuno dei due si muoveva e tutto l'ufficio aspettava. Infine, scuotendo la testa con disgusto, Dick Voland cedette e varcò la soglia con passo pesante, prima di lei. Non osando abbassare la guardia, Joanna lo seguì nel corridoio tenendo le spalle e la schiena ben diritte. Forse aveva vinto la prima scaramuccia, e senza dubbio i dipendenti avrebbero continuato a parlarne per giorni, ma era ancora maledettamente lontana dall'aver vinto la guerra. E anche se aveva vinto le elezioni, aveva ancora molto da fare per guadagnarsi il rispetto di tutti. Così, Joanna seguì Dick Voland in fondo al corridoio che conduceva a una sala d'attesa intorno alla quale erano dislocati alcuni comodi uffici. Alcune poltrone e un divano imbottiti avevano la tappezzeria rosa cupo, marrone e turchese. I tavolini in vetro e in ottone creavano un'atmosfera da lussuoso studio legale. Era tutto di gran lunga diverso dal vecchio arredamento industriale del Palazzo di Giustizia ai tempi di D.H. Lathrop, che Joanna ricordava. Allora erano state all'ordine del giorno le sedie in legno scheggiato e le scrivanie in metallo grigio ammaccato. Una bionda snella sedeva alla spaziosa scrivania in sala d'aspetto, impegnata a digitare a un terminale, curvandosi di quando in quando con la fronte corrugata a fissare lo schermo con occhi miopi. Joanna sospettò che avesse bisogno di occhiali, ma che fosse troppo vanitosa per portarne. La signorina Imogene Wyatt, la segretaria tuttofare di D.H. Lathrop, con i suoi occhiali dalle lenti spesse come bottiglie di Coca-Cola, era stata tanto pratica, efficiente e robusta, quanto l'arredamento del vecchio Palazzo di Giustizia. Accorgendosi che qualcuno era entrato nella sala, la giovane donna distolse lo sguardo dallo schermo, vide Dick Voland varcare la soglia, e gli dedicò un sorrise complice. «Allora?» chiese, inarcando un sopracciglio. «Com'è andata con la dragonessa?»
Joanna riuscì a cogliere il movimento quasi impercettibile della testa di Dick Voland. Forse il gesto di avvertimento era stato preceduto da una strizzata d'occhio, ma in tal caso a Joanna era sfuggita, e anche alla segretaria, evidentemente. «Kristin...» si affrettò a dire Dick Voland. «Vorrei presentarti Joanna Brady, che è il nuovo sceriffo o, almeno, lo sarà.» Subito il sorriso scomparve dal volto impeccabilmente truccato di Kristin. «Oh...» disse, alzandosi goffamente in piedi alla vista di Joanna. «Sono felice di conoscerla...» Ci scommetto, pensò Joanna. Quando la giovane donna dalle gambe lunghe si alzò, l'orlo della sua minigonna in pelle, così corta da far schizzare gli occhi dalle orbite a qualunque maschio, arrivò a malapena a sfiorare il piano della scrivania. Comunque, Joanna indossava talvolta calzoncini non più lunghi di quella gonna quasi inesistente. Lasciando esplicitamente che fosse soltanto l'attenzione di Dick Voland a essere catturata dalla minigonna, Joanna offrì la mano. Per un istante un'espressione di confusione assoluta passò sul volto sorpreso della giovane donna. Evidentemente non si era aspettata che la «dragonessa» si avventurasse in fondo al corridoio senza essere invitata. Quando recuperò finalmente il controllo di se stessa, Kristin ebbe sufficiente presenza di spirito per stringere la mano a Joanna. Durante le settimane della campagna elettorale, Joanna aveva fatto abbastanza esercizio ed esperienza per sviluppare considerevoli abilità nella stretta di mano. Così provò non poca soddisfazione nell'afferrare saldamente le flaccide dita di Kristin e nello stritolarle con un sorriso allegro, fingendo di non sentire il gradevole scricchiolio e di non accorgersi del trasalimento di sorpresa e di dolore che guizzava sul volto petulante della giovane donna. «Come ha detto di chiamarsi?» chiese Joanna. «Kristin Marsten.» «E da quanto tempo lavora qui, signorina Marsten?» domandò formalmente Joanna. «Ho cominciato come semplice impiegata l'estate scorsa», rispose Kristin. «Quando la precedente segretaria si è licenziata, qualche settimana fa, il signor Voland mi ha offerto il posto temporaneamente.» «Capisco», disse Joanna. E, in effetti, capiva. Guardando attorno, registrò in un attimo tutti i dettagli. Le porte degli
uffici si aprivano sulla sala d'attesa. Una luce era accesa in quello all'angolo opposto, lo stesso cui si accedeva dalla porta alla quale si arrivava dal parcheggio dello sceriffo percorrendo il vialetto riservato. Senza bisogno di spiegazioni, Joanna capì che l'ufficio che cercava era proprio quello. Comunque, per pura cortesia, lo chiese. «Qual è il mio ufficio?» «Da questa parte...» mormorò Dick Voland, avviandosi proprio in quella direzione. L'ufficio situato nell'angolo nordoccidentale del palazzo era spazioso e luminoso, con un paio di finestre in ognuna delle pareti esterne, dalle quali si poteva ammirare senza impedimento alcuno il meraviglioso paesaggio del deserto circostante. Joanna notò che l'arredamento portava la nitida impronta mascolina di Walter McFadden. Un lungo divano in cuoio occupava una parete intera, mentre una poltrona dello stesso tipo stava casualmente in disparte. Il parcheggio di Walter McFadden non era l'unica cosa di cui Dick Voland si era appropriato. Accanto alla poltrona stava un portacenere quasi traboccante di fetidi mozziconi di sigaro. Le belle venature della scrivania in ciliegio e della credenza dello stesso legno si scorgevano con difficoltà, nascoste da un guazzabuglio di documenti coperto da uno strato traballante di quotidiani aperti. Spiccavano ammucchiati contro la parete accanto alla credenza alcuni cartelli elettorali inutilizzati di Al Freeman. Joanna si fermò al centro della stanza e girò lentamente su se stessa, esaminando ogni cosa, mentre Voland restava, con apprensione, accanto alla scrivania. «Bene», disse, quando ebbe terminato la sua rotazione di trecentosessanta gradi. «È tutto quello che volevo vedere, per ora.» Senza aspettare di essere scortata fuori dell'ufficio e ignorando sia Kristin sia il vicesceriffo, Joanna riattraversò risolutamente la sala d'attesa, ripercorse il corridoio e ritornò nell'atrio. Quella mattina si era recata all'ufficio dello sceriffo senza nessun'altra intenzione che quella di firmare la dannata deposizione. Nel visitarlo di persona, tuttavia, aveva appreso cose di gran lunga più importanti, nonché preoccupanti. Com'era prevedibile, la trascrizione della deposizione non era ancora disponibile per essere firmata. La produttività dei dipendenti era un'altra spinosa questione del diparamento che, per il momento, restava un problema di Dick Voland, ma che alla fine sarebbe diventato di Joanna.
CAPITOLO 18 Lasciato il Palazzo di Giustizia, Joanna si recò direttamente ai nuovi uffici dell'amministrazione di contea, in Melody Lane, dove il suo arrivo ricevette un'accoglienza molto diversa da quella che aveva avuto all'ufficio dello sceriffo. Anche se Joanna Brady si presentò all'ufficio del presidente della contea per chiedere di essere ricevuta senza aver fissato un appuntamento, appena la sua segretaria l'ebbe annunciata attraverso l'interfono, Norbert DeLeon in persona uscì dal proprio ufficio ad accoglierla con un sorriso radioso, caldo e cordiale, offrendole la mano in segno di benvenuto. «Credo che le congratulazioni siano più che appropriate», disse, conducendo Joanna nella propria stanza. «Posso offrirle una tazza di caffè?» «No, grazie. Per questa mattina ho già preso abbastanza caffeina.» «Allora che cosa posso fare per lei?» chiese DeLeon, accomodandosi dietro la scrivania in quercia chiara, che non poteva minimamente competere con quella in ciliegio massello che abbelliva l'ufficio occupato fino a pochi mesi prima dallo sceriffo McFadden. «Sono venuta a chiederle di confermare o smentire una voce che ho sentito.» Alcune rughe di preoccupazione incresparono la fronte di Norbert. «Sono corse molte voci da queste parti, negli ultimi mesi... Spero che non sia niente di grave...» «La notte scorsa qualcuno mi ha riferito che il consiglio della contea ha preso in considerazione l'opportunità d'insediare il nuovo sceriffo subito dopo le elezioni, dato che la carica è vacante...» «Oh, si tratta di questo!» disse Norbert DeLeon, come se fosse una questione di nessuna importanza. «Beh, sì, se n'è parlato un po', ma adesso che le elezioni sono finite nessuno vuole metterla sotto pressione. Siamo tutti ben consapevoli di quello che ha passato negli ultimi mesi. Alla fine abbiamo deciso di darle la possibilità di riposare un po' e di riprendere fiato, prima di entrare in carica, a gennaio.» «In altre parole, se le elezioni fossero state vinte da Al Freeman, o da Frank Montoya, il consiglio avrebbe fatto prestare giuramento al nuovo sceriffo subito. Ma dato che ho vinto io, non sarà così...» DeLeon annuì. «Credo che sia più o meno così...» «E questo non le sembra discriminatorio?» Il presidente della contea parve sconcertato. «Beh...» esitò. «Suppongo
che la cosa possa essere interpretata così... Però, mi creda, nessuno aveva cattive intenzioni. Erano tutti preoccupati per lei. Voglio dire, ha passato un periodo così difficile, con la morte di Andy e tutto il resto...» «Norbert...» interruppe risolutamente Joanna. «Forse i consiglieri si sono preoccupati per il mio bene, ma io dubito che questa decisione sia vantaggiosa per la popolazione di Cochise County.» «Che cosa intende dire?» domandò lui. «Sono stata eletta per risolvere i problemi che attualmente esistono all'interno del Dipartimento dello Sceriffo. Ebbene, questo è esattamente quello che intendo fare, e mi piacerebbe cominciare al più presto possibile.» DeLeon unì le punte delle dita sotto il mento e la scrutò. «Quando vorrebbe mettersi al lavoro?» «Prima sarà, meglio sarà.» «Capisco. Oggi stesso?» «Mi sta benissimo.» «E Milo Davis? Lavora per lui da molto tempo... Non vuole dargli un po' di preavviso?» «Milo ha già attivato un piano di emergenza», rispose Joanna. «Mi creda, questo non sarà un problema.» «Benissimo, allora...» disse Norbert, annuendo e allungandosi subito per prendere il telefono. «Aspetti qua per un po', Joanna. Faccio qualche telefonata e vedo cosa posso fare.» In conseguenza di quelle telefonate, Joanna Lee Lathrop Brady prestò giuramento come prima donna sceriffo di Cochise County alle due del pomeriggio di quello stesso mercoledì, 7 novembre, il giorno successivo alle elezioni. La cerimonia, organizzata frettolosamente, ebbe luogo nell'aula della Corte Superiore del giudice Cameron Moore, con Jennifer Ann Brady che reggeva la vecchia Bibbia della madre, e Joanna, che indossava un vecchio blazer blu, rimase sorpresa di vedere le lacrime negli occhi della madre, mentre Eleanor le appuntava a sinistra, sul taschino, il distintivo, vecchio ma appena lustrato, che era appartenuto a Hank Lathrop. Eleanor rimase delusa perché nessun quotidiano e nessuna stazione televisiva di Tucson mandarono fotografi e operatori a Bisbee per la cerimonia, ma Joanna non se ne curò affatto, visto che ormai il livido che aveva sotto l'occhio non era più purpureo: era diventato nero. Dopo il giuramento, l'intero gruppo, tranne il giudice Moore, si recò a
Warren, alla Davis Insurance Agency, per festeggiare sorseggiando champagne e divorando una torta, decorata appositamente e frettolosamente per l'occasione con un distintivo di sceriffo di cioccolato. Un raggiante Milo Davis propose il primo brindisi. «Tutto quello che posso dire», affermò, levando il bicchiere, «è che di sicuro so riconoscere un vincente!» Joanna guardò attorno nei locali affollati. Vincere era una gran bella cosa, ma la prospettiva di lasciare quell'ufficio accogliente la rattristava un po'. Lì era diventata adulta, lì una frivola studentessa al suo primo impiego part-time si era trasformata a poco a poco in una professionista responsabile e sicura di sé. Con l'aiuto e il sostegno di Milo aveva potuto lavorare e contemporaneamente frequentare l'università, facendo la pendolare fra Bisbee e Tucson, a cento miglia l'una dall'altra, fino a laurearsi. L'allegro gruppo di sostenitori che affollava l'ufficio era composto di parenti e amici: Eleanor Lathrop e Jenny, Marianne Maculyea e Jeff Daniels, Eva Lou e Jim Bob Brady, Angie Kellogg, Milo Davis e Lisa Connors. Nonostante la degenza notturna in ospedale, Marianne sembrava in ottima salute. A differenza di Joanna, non aveva nessun occhio nero. In veste di maestro di cerimonia non ufficiale, Milo esortò tutti i presenti a brindare, riuscendo persino a persuadere con le lusinghe Eleanor Lathrop a lasciarsi andare abbastanza da bere un altro mezzo bicchiere di champagne. Jenny, che sedeva a gambe incrociate, un po' in disparte, a sorseggiare sidro da un bicchiere da champagne, fu l'ultima persona alla quale Milo chiese di parlare. «E tu, Jenny?» chiese. «Ti piacerebbe proporre un brindisi?» Improvvisamente intimidita, Jennifer si alzò in piedi e sollevò il bicchiere come aveva visto fare agli altri. «Anche se sei lo sceriffo», disse, «sono contenta che sei sempre la mia mamma.» Tutti risero o sorrisero, gridando: «Brava! Brava!» e Joanna si sforzò d'inghiottire il groppo che aveva in gola, in modo da poter brindare con lo champagne. «Grazie, Jenny...» mormorò. Quando iniziarono le pulizie dopo i festeggiamenti, Joanna si recò alla propria scrivania per vuotarla e riordinarla. Nello scegliere gli oggetti da portare via, rimase colpita dallo stravagante assortimento di ricordi che in qualche modo si era raccolto nel suo spazio di lavoro. Ogni oggetto faceva risuonare nella sua memoria un'eco del passato, distinta, e talvolta lieta e triste insieme.
Ad esempio, perché aveva lasciato sulla credenza dietro la scrivania la minuscola impronta arancione e verde della mano di Jenny? Perché il disegnino a gessetto che Jenny aveva fatto durante una breve vacanza era, agli occhi di sua madre, più importante e più degno di essere mostrato, che non uno di quelli, più recenti, che aveva fatto a scuola? E il vecchio nichelino con la testa di bisonte che Andy, per scherzo, le aveva infilato nel reggiseno la sera del loro primo appuntamento? Perennemente rimasta nell'angolo destro del cassettino portamatite, la moneta da cinque centesimi era sempre stata, per lei, un talismano, che aveva avuto l'abitudine di prendere e di accarezzare di quando in quando. Ormai era così consunta che la testa di bisonte si distingueva a malapena. Poi c'era la penna stilografica Montblanc che Milo Davis le aveva regalato l'estate precedente, nel decimo anniversario del giorno in cui aveva iniziato a lavorare per lui. Quando l'aveva avuta, si era aspettata di continuare a lavorare per la Davis Insurance Agency finché una Davis Insurance Agency fosse esistita. Eppure, nei mesi che erano trascorsi dall'estate precedente, era come se l'intera vita di Joanna fosse stata gettata in un frullatore. Alzò lo sguardo mentre Jim Bob Brady si avvicinava zoppicando alla scrivania per lasciarsi cadere, contento, sopra una sedia. «Questo mal di piedi mi sta uccidendo», disse. «Ti spiace se mi tolgo le scarpe e mi riposo un po'?» «Fai pure. In effetti, sembri molto stanco...» Il suocero annuì. «Non sono più giovane come un tempo. La passeggiatina sulle colline di oggi pomeriggio è bastata a stremarmi. Una volta ero capace di stare in piedi per tutto il giorno senza neanche accorgermene...» «Non si sa ancora niente di Harold?» «No, o almeno, non si sapeva ancora niente quando me ne sono andato», rispose Jim Bob. «Abbiamo perlustrato soprattutto i pascoli bassi, perché, secondo Ivy, è più probabile che sia andato là, a riparare un recinto o qualcosa del genere. Se non si riuscirà a trovarlo nel frattempo, credo che domani le ricerche proseguiranno verso Juniper Flats. Quanto a me, credo proprio che non ci andrò. È una zona troppo impervia. E poi, se non lo hanno ancora trovato...» Senza terminare la frase, Jim Bob Brady si curvò in avanti per cominciare a massaggiarsi i piedi. «Dunque credi che Harold Patterson sia morto?» chiese Joanna. «E tu no?» Joanna annuì. «Credo di sì. Se è rimasto all'aperto per tutto questo tem-
po, col freddo che c'è stato, suppongo che non ce l'abbia fatta.» «Sì», convenne Jim Bob. «Molto probabilmente gli è venuto un colpo mentre era sul pascolo, da qualche parte. E se fosse per me, non riuscirei a immaginare un modo migliore di andarmene. Potendo scegliere, farei la stessa dannata cosa: morire con gli stivali ai piedi. Lo dico sempre, a Eva Lou... Non voglio che un dottore mi metta le mani addosso e mi mantenga in vita con tutte quelle maledette macchine, quando arriverà il mio momento di andare al Creatore.» Alzandosi bruscamente in piedi, Jim Bob Brady scrutò Joanna da sopra gli occhiali con la montatura in acciaio. «Tu come te la cavi, Joanna? Riesci a tener duro?» «Sto benissimo, nonno Jim», disse lei. «Sono soltanto stanca, e un po' preoccupata...» «Come mai?» Lei scrollò le spalle. «Avevo pensato di dedicare i prossimi due mesi a studiare le norme e le procedure per poter cominciare il lavoro senza incertezze. Invece non sono riuscita a tenere la bocca chiusa e adesso sono costretta a indossare il distintivo con due mesi di anticipo.» «Non è troppo presto. Te la caverai a meraviglia. Devi soltanto prendere le cose come vengono, una alla volta. E non lasciarti mettere sotto.» «Farò del mio meglio», rispose lei. Erano le sei del pomeriggio, quando Joanna e Jenny caricarono le scatole a bordo della Eagle per tornare a casa, a High Lonesome. Durante la campagna elettorale, un vicino, il vecchio Clayton Rhodes, si era autonominato tuttofare e si era occupato del ranch, passando ogni mattina e ogni sera a sbrigare tutti i lavori e ad assicurarsi che nulla fosse trascurato. Joanna aveva dovuto insistere molto per convincerlo finalmente ad accettare un compenso. Quando Joanna e Jenny arrivarono alla svolta per il ranch, il vecchio camioncino Ford di Clayton stava passando fragorosamente sulla barriera per il bestiame. Dato che non era mai tipo da indulgere a conversazioni superflue, il vecchio si limitò a toccarsi la falda del cappello da cowboy con un dito, salutando con un cenno della testa, e proseguì per la sua strada. Arrivate al ranch, madre e figlia entrarono in casa accolte dal felice pandemonio dei cani. Jenny si mise subito a giocare con Sadie e Tigro, mentre Joanna controllava la segreteria telefonica, che, come annunciava la spia luminosa, aveva registrato parecchi messaggi. A otto smise di contare e cominciò ad ascoltare. Si trattava in gran parte di congratulazioni da parte dei sostenitori, alcuni
dei quali erano ex compagni di scuola con cui non aveva più parlato dopo il diploma. Fortunatamente, non fu necessario rispondere, tranne in un caso. Si trattava di Adam York, l'agente che dirigeva l'ufficio della DEA a Tucson. Anche se, a suo tempo, York aveva sospettato che Joanna fosse implicata nel traffico di droga fra Sud America e Stati Uniti, i loro rapporti erano diventati cordiali, anzi, era stato proprio Adam York uno dei primi a incoraggiare Joanna a candidarsi al posto di Andy Brady. Benché fosse contenta che l'agente federale le avesse telefonato, Joanna lo richiamò soltanto quando Jenny si fu coricata e addormentata. «Congratulazioni», disse Adam York, ripetendo il ritornello ormai familiare. «Sei andata forte.» «Grazie», rispose lei. E con un po' d'incertezza aggiunse: «Credo...» «Credi?! Che significa? Ho letto i giornali. Hai condotto una buona campagna elettorale e ti sei conquistata un solido sostegno. Ho persino sentito dire che forse ti faranno prestare giuramento prima di gennaio...» «Hai sentito bene», disse Joanna, «ma non sei aggiornato. È già cosa fatta. Ho prestato giuramento oggi pomeriggio, alle due.» «E allora perché questa evidente mancanza di entusiasmo? Nervosa?» Joanna rise. «Come l'hai capito? Questo è uno dei motivi per cui ti ho chiamato tanto tardi. Ho aspettato che Jenny andasse a dormire. È davvero molto preoccupata per me, Adam. Ha paura che mi succeda qualcosa, proprio com'è capitato a suo padre. Dunque ti ho chiamato anche per sentire il tuo parere...» «A che proposito?» «Ti ho aiutata a infliggere un duro colpo alla corruzione e al traffico di droga, e sono stata eletta per continuare questa lotta. Quante probabilità ci sono che mandino un sicario ad assassinare anche me?» Il silenzio che seguì durò a lungo, tanto che Joanna pensò che fosse caduta la linea. «Adam?» «Un istante... sono ancora qui... e lascia che ti faccia a mia volta una domanda... Quante probabilità ci sono di essere colpiti da un fulmine?» «Non tante, però succede. Dipende da dove ti trovi quando si scatena la tempesta. Se ti trovi allo scoperto, oppure se indossi o tieni in mano qualcosa che sia un conduttore naturale, allora sei in un grosso guaio.» «Molto giusto», convenne Adam York. «Che cosa vuoi dire con "molto giusto"?» «Attualmente, tu sei in mezzo a un campo, allo scoperto, senza riparo.
Tutt'intorno a te infuria la tempesta, e il distintivo che ti hanno dato oggi serve soltanto da parafulmine.» «Oh...» ansimò Joanna. «Capisco; qualche suggerimento?» «L'APOA, per prima cosa.» L'Arizona Police Officers Academy, con sede a Peoria, nei pressi di Phoenix, era un istituto autofinanziato che teneva corsi di addestramento per agenti di polizia provenienti da tutta l'Arizona. Ogni corso durava sei settimane e comprendeva lezioni teoriche, prove di laboratorio, esercitazioni pratiche, fornendo una preparazione di base alle reclute di tutto lo stato, che poi ritornavano ai loro dipartimenti per una preparazione più specifica. «Vuoi dire che dovrei iscrivermi al corso come se fossi una recluta?» «E non lo sei?» chiese francamente Adam York. Joanna non rispose. «Che altro?» «Tiro al bersaglio», rispose Adam York. «E molto. Da quello che so di te, sai già sparare molto bene, ma il tiro al bersaglio non ha mai fatto male a nessuno. E porta un dannato giubbotto antiproiettile. Procuratene uno che ti stia alla perfezione e indossalo sempre.» «Sembri serio...» «Mai stato più serio in vita mia.» «Se la situazione è davvero tanto grave, perché mi hai telefonato per farmi le congratulazioni?» «Perché le meriti. Quello che hai fatto è sbalorditivo, e non mi riferisco soltanto alla vittoria elettorale. Hai salvato la vita a quella donna.» «Se ti sentisse parlare così, Jenny si spaventerebbe a morte. Da come parli, si direbbe che ho una gran voglia di farmi sparare addosso...» «Quello che ti sto dicendo è soltanto puro buon senso. Qualunque altro poliziotto ti direbbe esattamente le stesse cose. I profani potranno anche farsi beffe della "guerra alla droga", e dire che si tratta soltanto di propaganda politica o altre sciocchezze del genere, ma tu e io sappiamo che è davvero una guerra, combattuta con armi e munizioni vere, che uccidono davvero la gente. Io ti ho vista in azione, sceriffo Joanna Brady, e in questa guerra tutta maschile, sei un soldato che sono molto felice di avere dalla mia parte.» «Grazie», disse Joanna. «Non ci pensare... A proposito, ho il catalogo di un negozio specializzato della California, dove le agenti federali comprano l'equipaggiamento, inclusi i giubbotti antiproiettile. Te ne mando una copia domani. E c'è an-
che un altro libro che dovresti avere... Dove vuoi che te li spedisca?» «Al Palazzo di Giustizia di Cochise County, Highway 80, Bisbee, Arizona. Dovrei insediarmi nel mio ufficio domattina.» «Bene», disse Adam York. «È troppo tardi perché riesca a spedirteli domani mattina, ma dovresti riceverli dopodomani al più tardi.» «Grazie, Adam», disse Joanna, con gratitudine. «Grazie molte.» Andò a letto e cercò di dormire, ma non ci riuscì. Alla fine si alzò, accese la luce e prese l'elenco del telefono. Bisbee si era talmente modernizzata, dopo generazioni di numeri telefonici a cinque cifre, che per le chiamate urbane era diventata necessaria quella che sembrava un'inutile e irritante perdita di tempo, cioè comporre numeri a sette cifre. Tuttavia, qualche abbonato aveva conservato il suo vecchio numero telefonico. Quello privato di Alvin Bernard, capo della polizia di Bisbee, era ancora sull'elenco, e Joanna decise che non era troppo tardi per chiamarlo. Dopo essersi diplomato, Alvin non aveva superato la visita medica e non era stato assunto alla Phelps Dodge, così, quando era diventato agente di polizia a Bisbee, i suoi ex compagni di scuola lo avevano guardato dall'alto in basso. In seguito, però, quando avevano perduto i loro lavori ben remunerati alle miniere, il loro atteggiamento nei suoi confronti era cambiato: erano diventati rispettosi, e al tempo stesso invidiosi. Oltre ad avere conservato il suo lavoro, Alvin aveva resistito allo stress e a due attacchi di cuore, e aveva fatto carriera, diventando capo della polizia. «Congratulazioni, Joanna», disse con entusiasmo. «Benvenuta a bordo, e tutto il solito blablabla... Scusa... Che cosa posso fare per te?» «Ti ho chiamato per avere informazioni sull'incidente della notte scorsa...» «Chiedi pure. Le lettere di collaborazione reciproca ci escono dalle orecchie. Di cosa hai bisogno?» «Puoi dirmi come stanno andando le indagini?» «Certo. I miei ragazzi hanno parlato con quel maiale dell'avvocato di Holly Patterson. Secondo lui non è successo niente. Semplicemente, le è scivolato il piede sull'acceleratore, o qualcosa del genere. Poi, quando è riuscita a riprendere il controllo della macchina, Holly era troppo sconvolta per tornare indietro.» «Come no...» «Quello che dico anch'io. Ma abbiamo avuto un'altra dritta da qualcun altro. La zia di un mio agente, Isobel Gonzales, lavora con suo marito a
Casa Vieja, per il nuovo proprietario. Lei fa la cuoca, lui il giardiniere. Beh, Isobel ha detto a sua sorella che Holly Patterson è completamente fuori di testa da quando è tornata in città. Sembra quasi che le stia succedendo proprio quello che successe a sua madre. Da quello che ho potuto capire, Burton era convinto che Harold Patterson avesse intenzione di proporre un accordo a Holly, ieri. Harold è andato da lei, ma non sono riusciti a concludere, così Holly ha perso completamente le staffe. Dice che suo cugino, Burton Kimball, ha convinto suo padre a non fare nessun accordo.» «E Burton cosa dice?» «Lo nega assolutamente. Dice che ha cercato di convincere Harold a non accordarsi, ma che è stato tutto inutile. Stamattina, quando Harold non si è presentato in aula, ha ottenuto un rinvio dal vecchio giudice Moore. Se ho ben capito, l'avvocato forestiero ha strillato come un indiano sotto tortura.» Joanna ripensò brevemente a tutta la faccenda. «Ci scommetto... Dunque ci sono testimonianze discordanti... Burton dice che Harold intendeva accordarsi, Holly sostiene invece che non ne aveva nessuna intenzione... Chi ha ragione? Tu che cosa pensi che stia succedendo?» «Beh», rispose allegramente Alvin Bernard, «direi che sicuramente qualcuno sta mentendo, ma che è ancora troppo presto per poter stabilire chi. Comunque, non è proprio per questo che tu e io siamo pagati, e cioè per scoprire chi racconta balle?» «Sì», rispose Joanna Brady. «Suppongo di sì...» CAPITOLO 19 Benché si fosse aspettata, dopo quelle due inquietanti telefonate, di restare a smaniare e a rigirarsi nel letto senza riuscire a chiudere occhio, Joanna si addormentò all'istante. Posò la testa sul cuscino, abbassò le palpebre e cadde in un sonno profondo e privo di sogni. Cominciò a sognare verso mattina, però. Un sogno dapprima insolitamente lieto, che la riportò nel passato, quando Andy era ancora vivo. Joanna e Jenny erano sedute sul pianale di un pick-up in movimento. Jenny teneva in grembo un vecchio cestino per la merenda, e tutt'e due ridevano e cantavano canzoni con tutto il fiato che avevano in corpo. Stavano percorrendo un'impervia strada bianca, e soltanto dopo qualche tempo Joanna si rese conto che erano a bordo del vecchio Chevrolet di Hank Lathrop, il venerabile camioncino da mezza tonnellata che un gior-
no, quando Joanna avesse avuto la patente, sarebbe dovuto diventare suo, come le aveva promesso il padre: lo stesso camioncino che sua madre aveva venduto a un contadino della Sulphur Springs Valley la settimana successiva al funerale di Hank. La collocazione temporale del sogno era incoerente e confusa, i dettagli erano discordanti in maniera inquietante. Due cani correvano accanto al furgone, ma non erano Liz e Pearl, le due vecchie black and tan di Hank Lathrop, bensì Sadie e Tigro, quelli che Joanna aveva attualmente. Alla fine, Joanna si girò a guardare nell'abitacolo e vide l'autista. Sbalordita, riconobbe nientemeno che Hank Lathrop in persona, mentre Andrew Brady sedeva accanto a lui sul sedile del passeggero. I due uomini parlavano e ridevano, divertiti da qualche battuta che si erano scambiati. Come la presenza anacronistica dei due cani, quell'aspetto del sogno non aveva alcun rapporto con la vita reale. Era possibile, infatti, che D.H. Lathrop avesse conosciuto Andy Brady da bambino, almeno di nome, ma di sicuro non lo aveva conosciuto come genero, perché era morto prima che Andy tornasse dal servizio militare e cominciasse a frequentare Joanna. D'altronde, quello era un sogno, e nel mondo onirico gli eventi di quel tipo erano assolutamente possibili. Dunque i due uomini erano seduti l'uno accanto all'altro e si conoscevano. E Joanna Lathrop Brady, seduta sul pianale del Cheyenne argentato, era travolta dalla gioia di vederli insieme. Bussò al finestrino per attirare la loro attenzione. Dato che nell'abitacolo c'era posto in abbondanza, avrebbe voluto viaggiare accanto a loro, ascoltare i loro racconti e i loro scherzi, ma erano troppo intenti a ridere e a divertirsi per sentirla. Bussò di nuovo al finestrino, ripetutamente, sempre senza riuscire ad attirare la loro attenzione. D'improvviso, sembrò che le nubi oscurassero il sole e il cielo. Alzando lo sguardo, Joanna scoprì che un temporale stava procedendo sulla valle nella loro direzione. Era uno di quei violenti temporali estivi che sollevavano turbini di polvere a precedere la pioggia fitta. Dato che non voleva bagnarsi, si volse di nuovo per bussare al finestrino dell'abitacolo, e non vide più nessuno. Il camioncino continuava a correre a tutta velocità sulla strada, ma nessuno lo stava guidando. Le portiere erano spalancate. Il padre e il marito di Joanna erano scomparsi. Il volante senza controllo ruotava violentemente da una parte all'altra, facendo sbandare come un ubriaco il camioncino sulla strada stretta, a velocità sempre maggiore. Joanna si destò fradicia di sudore. Si liberò freneticamente delle coperte
e rimase sdraiata col cuore che martellava in petto, ad aspettare che la paura passasse. A poco a poco il battito del suo cuore rallentò fino alla normalità e una sorta di quieto torpore si diffuse in tutto il suo corpo. Disse a se stessa che non era necessaria una laurea in psicologia per interpretare il sogno. In esso, come nella realtà, era rimasta senza la guida e l'aiuto del marito e del padre, che l'avevano abbandonata, lasciandola sola a combattere dalla parte dei buoni, bloccata sul pianale del camioncino della vita lanciato a tutta velocità, senz'alcuna possibilità di accedere al posto di guida per manovrare il volante o premere il pedale del freno. Come non aveva dubitato che sarebbe accaduto, alla fine il ricordo limpido del sogno si offuscò fino a scomparire con il suo finale terrificante e con il suo inizio allegro e spensierato. Era proprio quello il problema, coi sogni. Di solito, dimenticare l'angoscia comportava dimenticare anche la gioia. Joanna guardò la sveglia sul comodino, che segnava le 4:45. Era troppo tardi per tornare a dormire, ma di gran lunga troppo presto per alzarsi. Allora si rese conto di dov'era coricata. Le abitudini decennali erano difficili da rompere. Dopo quasi due mesi, il suo corpo, nel sonno, non si era ancora adattato alle mutate circostanze della sua esistenza. Quando il freddo autunnale penetrava nella camera da letto, oppure quando i sogni del primo mattino si trasformavano in incubi terrificanti, la forza dell'abitudine induceva Joanna a rifugiarsi nella parte del letto che era sempre stata quella di Andy. Il suo corpo infreddolito o spaventato continuava a cercare conforto e rifugio dove il profumo di lui, sebbene quasi svanito, indugiava ancora sulla collinetta gibbosa di quello che era stato il suo cuscino di piume. Con un sospiro, sicura di non poter più riuscire a dormire, Joanna si alzò, indossò la sua pesante vestaglia di spugna e si recò in cucina a riscaldare l'acqua per prepararsi una tazza di cioccolata solubile. Non era la cioccolata in tazza tradizionale che era la preferita di Jim Bob Brady, ma soltanto un accettabile surrogato per scacciare il freddo. Con la tazza fumante, Joanna si trasferì nel soggiorno buio senza bisogno di accendere alcuna luce. Conosceva il percorso alla perfezione. Seduta sul divano, si coprì i piedi gelidi con una delle pesanti coperte di lana che Eva Lou confezionava ai ferri. Pochi istanti più tardi, Sadie, la grossa bluetick, uscì dalla stanza di Jenny e andò a posarle in grembo il suo caldo muso liscio.
«Non volevo svegliarti, bella», si scusò Joanna, accarezzando la testa piatta della cagna. Non la turbava più scoprirsi a parlare con l'animale. Nelle settimane precedenti, molto spesso, a tarda notte, Sadie aveva offerto abbondante conforto all'addolorata Joanna Brady. Quanto a Tigro, un brutto e improbabile incrocio fra un pitbull e una golden retriever, era stato adottato da Jenny subito dopo la morte del suo precedente proprietario, e così si era affezionato a lei senza riserve. Sadie, invece, elargiva il proprio affetto con mani più imparziali, anzi, con zampe più imparziali, si corresse Joanna, sorridendo tra sé. Con un sospiro, Sadie si afflosciò sul pavimento accanto ai piedi di Joanna. Nelle prime ore del mattino, la sua compagnia rendeva la casa meno silenziosa, meno estranea, e Joanna le era grata. Ai vecchi tempi, avrebbe acceso la radio, sintonizzandola su qualche lontana stazione country. Di recente, però, non commetteva più quell'errore. Con i loro racconti di amanti e di amori, tutte quelle canzoni risultavano sempre troppo dolorose, e rendevano la solitudine di gran lunga peggiore. Così, Joanna rimase seduta ad ascoltare la casa vuota, lieta del russare di Sadie, sdraiata col muso allungato sul pavimento. Per quanto si sforzasse, Joanna non riusciva a liberarsi della sensazione che l'abitazione fosse deserta. E non era soltanto a causa del fatto che Jenny perdurava nei suoi mesti silenzi. La casetta sembrava deserta e abbandonata perché Andrew Brady non c'era, e non sarebbe tornato mai più. Da vivo, per lavoro o durante le trasferte in città, aveva pernottato altrove, qualche volta. In alcune occasioni era rimasto assente persino per brevi periodi. Allora Joanna e Jenny erano rimaste sole a High Lonesome Ranch, ma non era mai stato un problema. A quei tempi il ranch, nonostante il suo nome di «estremamente solitario», non era mai stato solitario né deserto, perché il ritorno di Andy era sempre stato atteso e sicuro, e non era mai mancata la certezza che ancora una volta voci, risa e rumori avrebbero risuonato in tutta la casa. Tuttavia, ormai che tale attesa non era più possibile, High Lonesome era diventato davvero solitario. A volte Joanna pensava di chiudere a chiave tutte le porte, di appendere al cancello un cartello con la scritta IN VENDITA, e di andarsene per sempre, semplicemente. Dopotutto, lei e Andy avevano comprato il ranch prevedendo di viverci insieme, non in solitudine. Anche se aveva pensato più volte di andarsene, non lo aveva mai fatto.
Naturalmente, gli approfittatori erano arrivati subito. Due agenti immobiliari di Tucson, squallidi speculatori che evidentemente leggevano sempre con avidità i necrologi, si erano presentati alla porta poco dopo il funerale, offrendosi di acquistare High Lonesome a un prezzo ridicolmente basso. Poiché si erano detti intenzionati a «sollevarla dalla preoccupazione della proprietà», nessuno dei due aveva neppure sospettato che lei potesse avere qualche risorsa. Invece, grazie all'assicurazione sulla vita del marito, Joanna aveva potuto estinguere l'ipoteca, e non per questo era rimasta senza mezzi economici. Sicuro come l'inferno, Joanna Brady non aveva bisogno di vendere High Lonesome Ranch per sopravvivere. D'altra parte, non era nemmeno del tutto certa di volerci restare. Per prima cosa, situato a sette miglia dalla città e a due miglia dalla più vicina strada lastricata, High Lonesome era molto isolato. Il vicino più prossimo era Clayton Rhodes, un ottuagenario sdentato e sordo che viveva a un miglio abbondante di distanza. Bill e Charlene Harris stavano a un miglio da Rhodes. In caso di difficoltà, se mai il fulmine avesse colpito, una o due miglia sarebbero state troppe per correre a cercare aiuto, come aveva già dimostrato quello che era successo ad Andy. Quando quel pensiero le attraversò la mente, l'istinto suggerì per prima cosa a Joanna di accendere la luce, di sollevare il telefono e di chiamare subito Adam York per chiedergli qualche altro consiglio. Tuttavia resistette alla tentazione. Decise di non farlo quando rivide se stessa, Joanna Brady, la candidata, che viaggiava fino all'inferno e ritorno, chiedendo agli ottantamila residenti di Cochise County di votare per lei. Aveva vinto le elezioni, perdio! Gli elettori che avevano scritto il suo nome sulla scheda erano molto più numerosi di quelli che avevano votato per Frank Montoya e per Al Freeman messi insieme. E tutta quella gente non l'aveva votata perché era la povera orfana di Hank Lathrop o la povera vedova del vicesceriffo Andrew Brady distrutta dal dolore. La compassione arrivava soltanto fino a un certo punto. Gli elettori avevano scelto Joanna Brady perché l'avevano giudicata la persona adatta per quell'incarico. E adesso che aveva prestato giuramento ed era diventata sceriffo dell'intera contea, avrebbe fatto meglio a non correre a nascondersi al profilarsi delle prime difficoltà, senza contare che Adam York le aveva già suggerito cosa fare. Finalmente Joanna si alzò dal divano, disturbando ancora una volta il sonno di Sadie, che tuttavia non la seguì mentre attraversava la casa buia
per tornare in camera da letto. Accesa la luce, si diresse alla scrivania a saracinesca di Andy, aprì il cassetto chiuso a chiave dove teneva la sua nuova semiautomatica, una Colt 2000 calibro 9, che aveva comprato con una parte dei soldi dell'assicurazione sulla vita di Andy. Aveva detto a se stessa di averla acquistata per protezione, perché, vivendo sola, ne avrebbe avuto bisogno comunque, anche se avesse perduto le elezioni. Ma adesso che aveva vinto... Maneggiando l'arma con la prudenza e con il rispetto che meritava, la portò in cucina, dove si preparò un'altra tazza di cioccolata e sedette al tavolo. Meticolosamente, smontò, pulì e rimontò la pistola. Senza badare a spese, aveva concesso a se stessa il lusso di un modello First Edition per poter godere della sensazione della liscia impugnatura in legno. Era una pistola nuova, e apparteneva a lei. Non l'aveva ereditata dal padre o dal marito. Dopo aver pulito la semiautomatica, Joanna indossò abiti caldi e uscì nella fredda mattina di novembre. Anche se rimase sorpreso di essere svegliato e nutrito prima dell'alba, il bestiame non espresse obiezioni. Quando, a oriente, le cime buie delle Qiiricahua Mountains si tinsero di una morbida luminosità color lavanda, tutti e dieci i bovini erano nel corral, a ruminare il fieno, contenti. Allora, con la Colt nella fondina, Joanna Brady uscì sul pascolo dietro la casa per allenarsi nel tiro al bersaglio. Acquistata meno di due settimane prima, la semiautomatica le sembrava ancora nuova e poco familiare, perciò, anche senza il consiglio di Adam York, avrebbe deciso comunque di esercitarsi nel tiro appena ne avesse avuto il tempo. Appoggiò a una balla di fieno un bersaglio in bianco e nero della forma e delle dimensioni di uomo, e cominciò a fare fuoco. Continuò ad avere una certa difficoltà col grilletto sensibile nello sparare in successione, ma a poco a poco incominciò a migliorare. E ogni volta i fori dei proiettili sul bersaglio risultarono più raggruppati, come dovevano essere per garantire una precisione letale. Non aveva bisogno di chiedersi che tipo di danno avrebbe inflitto un tiro del genere a un corpo umano. Lo sapeva già, e per esperienza. Alle sette meno dieci, col freddo nelle ossa, si tolse la cuffia e udì il suono acuto del fischietto da arbitro di calcio che lei e Jenny usavano al ranch per chiamarsi l'un l'altra, quando erano troppo lontane per gridare. Inquietata dalla frequenza frenetica dei fischi, Joanna rinfoderò la pistola e si affrettò a ritornare verso casa, accompagnata da un sinistro presentimento. Con sollievo, vide Jenny e i cani che l'aspettavano nella veranda
posteriore. Appena fu abbastanza vicina da poter vedere l'espressione di Jenny, però, Joanna capì che era successo qualcosa di terribile. La bambina era pallidissima, con le labbra cupamente serrate e assottigliate. «Che succede?» chiese Joanna, affrettandosi ad avvicinarsi alla figlia. «Ha chiamato Marianne», disse Jenny. «Vuole che la richiami subito.» «Perché? Cos'è successo?» «Dice che hanno trovato il signor Patterson... È morto!» Così dicendo, Jennifer Ann Brady gettò le braccine al collo della madre e si abbandonò al pianto, scossa dai singhiozzi in tutto il corpo. Era come se fosse in qualche modo uscita dal bozzolo protettivo dell'infanzia per entrare nel terribile mondo degli adulti, della vita e della morte. Joanna abbracciò Jenny e la strinse a sé, mormorando le parole di conforto che riuscì a trovare. Tuttavia, il dolore della bambina, l'angoscia soverchiante, erano immensamente più grandi delle minuscole parole della madre, e travalicavano anche la telefonata di Marianne. Jenny non stava piangendo per Harold Patterson, un vecchio che aveva conosciuto appena. No, stava piangendo per suo padre. Che tu sia maledetto, Tony Vargas! pensò Joanna, rammentando colui che aveva assassinato il padre di Jenny. Che tu sia maledetto, e condannato a marcire per sempre all'inferno! CAPITOLO 20 Finalmente, quando Jenny si fu calmata abbastanza per andare a fare la doccia, Joanna si recò al telefono e trovò tre nuovi messaggi in segreteria, lasciati da tre diversi cronisti, ognuno dei quali chiedeva appuntamento per un'intervista. Al Palazzo di Giustizia, tuttavia, nessuno si era preso la briga di chiamare il nuovo sceriffo per avvisare di ciò che stava succedendo al Rocking P Ranch. Se il dipartimento disponeva di un canale di avvertimento riservato, il nome dello sceriffo Joanna Brady non era ancora stato incluso nella lista. Nonostante la tentazione, rinunciò a chiamare il centro operativo per chiedere che cosa diavolo stesse succedendo. Sparare alla cieca sarebbe stato stupido. Prima di agire in qualsiasi modo, aveva bisogno di avere da una fonte affidabile un quadro esatto della situazione. Così, invece di chiamare il dipartimento, compose il numero di Marianne Maculyea. «Che cosa è successo?» chiese a Jeff Daniels, quando questi rispose al
telefono. «Marianne è sotto la doccia. Mi ha detto di dirti che partirà per andare al ranch appena si sarà vestita. Ivy ha chiamato poco fa. Hanno trovato suo padre in un vecchio pozzo minerario, a Juniper Flats. Harold Patterson è morto.» «Infarto?» «No. Un sasso gli ha spaccato la testa, o almeno, così ha detto Ivy. Forse è stato un crollo. Al telefono, Ivy era isterica, e adesso Marianne è sotto la doccia. Vuoi parlare con lei?» «Non occorre. Dille che la ringrazio per avermi informata e che sto per partire anch'io. Sarò là appena possibile.» Jenny uscì dalla doccia avvolta in un asciugamano. «Dove vai?» chiese. «Al ranch dei Patterson. Sbrigati a vestirti», le disse Joanna. «Dobbiamo partire un po' prima del solito. Chiedo a nonna Brady se puoi fare colazione da lei.» Dopo aver rapidamente preso accordi con la suocera, Joanna compose il numero dell'ufficio dello sceriffo e si fece passare il centro operativo. «Sono Joanna Brady», dichiarò, allorché fu in comunicazione con un operatore che, a giudicare dalla voce, era giovane. «Voglio parlare con il supervisore.» «Chi ha detto di essere?» «Sceriffo Joanna Brady», disse lei, risolutamente. «E lei chi è?» «Larry, Larry Kendrick. Ma... pensavo...» «Che cosa pensava?» «Mi scusi, signora. È stata eletta soltanto l'altro giorno... come fa a essere già sceriffo?» «Succede, Larry, e lei avrebbe dovuto essere aggiornato. Comunque, ho bisogno di parlare con il supervisore.» «Non è possibile in questo momento. Il supervisore non è qui. Qualcosa non va? Posso esserle d'aiuto?» «Quando è arrivata la chiamata su Harold Patterson?» chiese Joanna. «Circa un'ora fa.» «Chi l'ha ricevuta?» «Tica Romero.» «E chi l'ha fatta?» «Mi lasci controllare...» Seguì un breve intervallo, prima che l'operatore riprendesse. «Ivy Patterson. Credo che sia una delle figlie di Harold.» «E chi si è recato sul posto?»
«Il vicesceriffo Dave Hollicker. La sua auto era la più vicina, in quel momento. A quanto ne so, è ancora là. Dopo il sopralluogo, Hollicker ha chiesto rinforzi. Dick Voland ed Ernie Carpenter sono partiti subito.» Ernie Carpenter era l'investigatore capo della squadra omicidi di Cochise County, ma il fatto che fosse stato convocato non significava necessariamente che si trattasse di omicidio. Di solito veniva avvertito ogni volta che si verificava un decesso di cui non era possibile stabilire immediatamente le cause. Era naturale che anche Dick Voland, in quanto sceriffo ad interim, si fosse recato sul posto. Il problema era che Dick Voland non era più sceriffo ad interim, e nessuno si era preso la briga di avvertire lo sceriffo, o meglio, il nuovo sceriffo. «Capisco...» disse Joanna, in tono pacato, privo di ogni traccia di rancore. Era più che possibile che Tica Romero e Larry Kendrick si fossero limitati a rispettare le disposizioni ricevute. Il giuramento di Joanna e l'avvicendamento ufficiale avrebbero dovuto avere la massima priorità in tutte le riunioni di aggiornamento per i funzionari in procinto di prendere servizio, però era evidente che pochi erano stati informati, ammesso che qualcuno lo fosse stato. Joanna sospettava che la responsabilità di quella trascuratezza risalisse molto in alto nella catena di comando, ma avrebbe dovuto accertarlo, prima di porre la questione, e avrebbe dovuto affrontare direttamente il responsabile. «Kristin Marsten non è ancora arrivata, vero?» «No, signora. Non arriva prima delle otto, più o meno.» «Le lasci detto che sarò al Rocking P e che arriverò in ufficio soltanto più tardi. E sappia, Larry, che a partire da questo momento le cose andranno diversamente. Se viene scoperto un cadavere in qualsiasi zona della contea, voglio essere informata, a qualunque ora del giorno o della notte. E voglio esserlo subito dopo che gli agenti di pattuglia e i soccorsi sono stati inviati sul posto. È chiaro?» «Sì, signora. Assolutamente.» «Bene.» «Ehm... sceriffo Brady?» «Sì?» «Posso farle le mie congratulazioni?» «Ma certo.» Appena conclusa la telefonata, Joanna corse in camera da letto e in bagno per farsi rapidamente la doccia e vestirsi. Sotto il getto d'acqua calda,
si sentì sciocca a lavarsi i capelli poco prima di recarsi a ispezionare una scena del minine, ma lo fece comunque. Dopo essersi concessa la doccia, però, non perse tempo a truccarsi e non si preoccupò di nascondere il livido sullo zigomo. Ancora una volta il vero problema che le si pose fu quello dell'abbigliamento. Avevano lo stesso problema anche gli uomini? Di sicuro non lo avevano allo stesso modo delle donne. A qualunque scelta sarebbe stato attribuito un significato particolare, e dato che Joanna stava operando in un ambito che veniva considerato quasi esclusivamente maschile, sarebbe stata scrutata e giudicata ogni volta che si fosse mostrata in pubblico. Appena fu davanti allo specchio dell'armadio, in sottoveste, Joanna escluse ogni tipo di gonna. Per recarsi in ufficio da Milo, la scelta era sempre stata relativamente semplice: scarpe coi tacchi, calze, gonna, camicetta, giacca. Ma sarebbe stato assurdo vestirsi così per andare a ispezionare un pozzo minerario a Juniper Flats. Alla fine decise per i jeans consunti e gli scarponi che aveva indossato quello stesso mattino quando era uscita a esercitarsi nel tiro con la pistola, ma eliminò la vecchia e comoda camicia di flanella a scacchi con le pezze ai gomiti, perché non sarebbe stata adatta. Vincendo la propria naturale riluttanza, si volse finalmente alla parte dell'armadio che conteneva gli indumenti di Andy. Durante tutta la campagna elettorale aveva sempre rimandato a dopo le elezioni, quando si sarebbe sentita più forte, tutti i compiti più dolorosi, inclusi quello di esaminare le cose di Andy e quello di scegliere eventuali tutori per la figlia. Comunque aveva pensato di donare quasi tutti gli abiti di Andy a un'organizzazione assistenziale della chiesa metodista, che aveva avviato una raccolta d'indumenti. Frugando nel piano superiore dell'armadio, trovò il giubbotto antiproiettile in Kevlar che Andy aveva sistemato lassù per tenerlo di riserva, sostenendo che era troppo piccolo e scomodo per portarlo abitualmente. Appena lo ebbe indossato sopra il reggiseno, Joanna pensò che, a proposito della scomodità, Andy aveva sicuramente avuto ragione. Il giubbotto antiproiettile non teneva minimamente conto delle caratteristiche dell'anatomia femminile, per non parlare del fatto che era sorprendentemente pesante e provocava uno sfregamento fastidioso sotto le ascelle. Per un attimo, Joanna fu sul punto di rinunciare a indossarlo, ma subito dopo ricordò il saggio consiglio che Adam York era stato così gentile da offrirle: un consiglio che avrebbe potuto salvarle la vita e che sarebbe stato
insensato ignorare. Joanna era sicura che, secondo Adam York, sarebbe stato preferibile indossare un giubbotto antiproiettile scomodo, anziché nessuno. Con un sospiro, si tolse il giubbotto, e poi, prima di rimetterlo, infilò una maglia di Andy, che, come strato protettivo, risultò abbastanza efficace. Infine si abbottonò una delle camicie cachi dell'uniforme di Andy, arrotolò le maniche a scoprire le mani, e sul taschino, dove Andy aveva portato il suo distintivo, appuntò quello che le aveva dato sua madre. Era il distintivo di Hank Lathrop, che ora apparteneva a lei. Col distintivo sul petto, si osservò un momento allo specchio prima d'infilare i jeans e gli stivali. Nell'allacciarsi il cinturone con la semiautomatica nella fondina, si sentì sollevata di sapere che almeno un elemento del suo equipaggiamento apparteneva davvero a lei. Infine indossò la pesante giacca di denim con l'interno di montone che era stata di Andy e che aveva ancora una tasca forata da una pallottola calibro 44. Il colpo era partito dall'interno, ed era stata lei stessa a premere il grilletto della rivoltella, impugnata con la mano nella tasca. Aveva sparato con l'intento di uccidere, e questo era esattamente quello che aveva fatto. Finalmente vestita, Joanna osservò di nuovo il proprio costume allo specchio, e decise che era davvero un costume. Ebbe l'impressione di essere una ragazzina travestita con gli abiti del padre per la notte di Halloween. Gli indumenti troppo grandi e male assortiti non avrebbero mai superato l'ispezione di Eleanor Lathrop, e perciò, se non altro, Joanna ne fu quasi contenta. Era ancora davanti allo specchio, quando Jenny entrò in camera da letto. A parte gli occhi ancora un po' gonfi, non si vedeva più che poco prima la bambina aveva pianto disperatamente. Joanna girò su se stessa affinché Jenny potesse osservarla. «Beh», chiese, «che cosa ne pensi?» Jennifer arricciò il naso e scosse la testa. «I vestiti di papà sono troppo grandi per te», disse. Con una scrollata di spalle Joanna manifestò la propria noncuranza per lo scoraggiante commento della figlia. «Credo che uno di questi giorni», disse, «dovrò andare a comprare vestiti che mi vadano bene... Sei pronta? Hai lasciato cibo e acqua per i cani?» Più tardi, dopo aver parcheggiato davanti all'appartamento dei Brady, tirò il fréno a mano e smontò dall'auto, mentre Jenny stava già correndo sul vialetto di mattoni.
«Ehi! Jennifer Ann Brady! Aspetta un momento!» disse severamente Joanna. «Da quando in qua non ci abbracciamo più?» Avvilita, Jenny si girò e tornò indietro a passi strascicati. Quando Joanna l'abbracciò, la bambina urtò con la testa la superficie dura del giubbotto in Kevlar, e capì subito di che cosa si trattava, perché ricordava bene che suo padre ne aveva sempre portato uno simile. Contrariata, si scostò. «A papà non è servito portare uno di questi», disse, in tono sprezzante, prima di fuggire di corsa sul vialetto. Sgomenta, Joanna rimontò a bordo della Eagle, che era rimasta col motore acceso. Il suo primo giorno come sceriffo di Cochise County non si stava affatto svolgendo come aveva immaginato. Anziché assaporare un trionfo, le sembrava di perdere terreno in continuazione. Se vincere era così, perdere doveva essere un autentico inferno. In seguito, le cose non migliorarono. Quando Joanna arrivò alla svolta per il Rocking P Ranch, un'autopattuglia dell'ufficio dello sceriffo di Cochise County era parcheggiata di traverso subito al di là della barriera per il bestiame, bloccando completamente il passaggio. Il Maggiolino verdemare di Marianne Maculyea sostava a lato della strada, e il reverendo Maculyea in persona, gesticolando violentemente, stava discutendo con un vicesceriffo impassibile che Joanna non riconobbe, ma che immaginò fosse Hollicker, quello di cui le aveva riferito l'operatore. Parcheggiando dietro il Maggiolino, Joanna rimase sorpresa nel sentire Marianne che quasi strillava, sdegnata, anziché parlare in tono pacato come al solito. «Che vuol dire che a nessuno è permesso passare? Mi ha chiamata Ivy Patterson, e mi ha chiesto espressamente di venire! Sono il suo pastore, e sono sicura che mi ha chiamata perché vuole che l'aiuti a organizzare il funerale!» Affrettandosi verso il luogo della disputa, Joanna udì la risposta spassionata del vice. «Mi spiace, signora. Gli ordini sono ordini.» «Gli ordini di chi?» chiese Joanna. Insieme, Marianne e il vice si volsero a guardarla. Sebbene conoscesse Marianne Maculyea da anni, Joanna non l'aveva mai vista tanto furibonda. Due vivide macchie rosse le colorivano le guance, mentre i suoi occhi neri sfolgoravano di collera. «Dice che nessuno può andare al ranch!» accusò Marianne. «Ti sembra mai possibile?» Il vice scrutò rapidamente Joanna da capo a piedi, prima di soffermare stancamente lo sguardo sulla Colt nella fondina, che spuntava dall'orlo del-
la giacca foderata di montone. «Chi è lei?» domandò, offrendo a Joanna la possibilità d'identificarsi. «Che ci fa qui?» Si scrutarono negli occhi. «Il nome Joanna Brady significa qualcosa per lei, vicesceriffo Hollìcker?» chiese lei, scostando la giacca quel tanto che bastava a rivelare il distintivo. «Quando ne ho sentito parlare l'ultima volta, qualcuno mi ha detto che sono il nuovo sceriffo della contea, e che questa è la mia giurisdizione.» Hollicker rimase a bocca aperta. «Oh, sì...» disse, rilassandosi. «Credo che alla radio abbiano detto qualcosa in proposito, poco fa...» Joanna sorrise, senza nessuna allegria. «Non ne sarei sorpresa. E adesso, quali sono questi ordini?» «Li ho ricevuti direttamente dal vicesceriffo capo Dick Voland. Ha detto di sorvegliare il cancello e di non lasciar passare nessuno.» «Capisco...» disse Joanna. «Date le circostanze, è un ordine assolutamente sensato, ma lo annullo temporaneamente e la prego di spostare la sua vettura in modo da permettere al reverendo Maculyea e a me di passare. Poi farà più che bene a impedire l'accesso a chiunque altro.» «Okay...» disse Hollicker, incerto, ma muovendosi subito per ubbidire. «Certo...» Marianne e Joanna tornarono alle loro auto. Il reverendo Maculyea era ancora infuriato. «Che cosa gli ha preso, a quel tizio? Sembrava che fosse completamente sorpreso del fatto che sei lo sceriffo, come se lo avesse saputo soltanto pochi minuti fa...» «Sembrava proprio così», convenne Joanna. «Sarò anche lo sceriffo, ma qualcuno, a quanto pare, sta cercando di non farlo sapere.» «Come se tenendoti alla larga potessero indurti a rinunciare?» «Bel tentativo, ma fuori tempo», rispose risolutamente Joanna, nel gergo antico e rispettato del rodeo. «Dovranno fare di meglio.» Intanto, Dave Hollicker accese il motore della sua Ford Taurus e la spostò quel tanto che bastava per permettere a Joanna e a Marianne di attraversare la barriera per il bestiame. Poi la parcheggiò di nuovo in maniera tale da bloccare il cancello. Mentre Marianne proseguiva sulla strada verso la casa del Rocking P, Joanna fermò il furgone e tornò a piedi fino alla Taurus, dove Dave Hollicker stava parlando animatamente al microfono che teneva in mano. Appena si accorse che Joanna lo guardava attraverso il finestrino, si affrettò a
spegnere il microfono e ad abbassare il cristallo. «Le occorre altro?» chiese. «Sì. Dov'è questo pozzo? Come ci arrivo?» «Il capo Voland mi ha detto di riferirle di aspettare qui. Scenderà lui a prenderla.» «Vicesceriffo Hollicker... non credo che lei abbia capito quello che le ho detto poco fa: io sono quella che impartisce gli ordini, non quella che li riceve, e non ho nessuna intenzione di rimanere qua ad aspettare che il vicesceriffo Voland scenda a prendermi. È chiaro?» Nel pronunciare tali parole, Joanna si rese conto che non era giusto coinvolgere Dave Hollicker nella lotta di potere fra lei e Dick Voland. D'altronde, era costretta ad agire con decisione per poter ottenere l'attenzione del vicesceriffo capo. Hollicker esitò soltanto pochi secondi prima di prendere la propria decisione. «Prosegua come per andare alla casa», spiegò, «ma quando arriva al corral, continui diritto, anziché svoltare. Dopo circa mezzo miglio troverà un cancello. Lo superi, e al bivio prenda a sinistra. Poi, alla prima svolta, giri di nuovo a sinistra. Sono circa tre miglia.» «Grazie.» Joanna si girò per tornare alla Eagle. «È una strada molto impervia», aggiunse Hollicker. «Ecco perché il vicesceriffo capo Voland voleva che aspettasse qui. Ha detto che sarebbe arrivato con il suo Blazer.» «Lo richiami e gli dica di non disturbarsi», rispose Joanna, girando la testa. «La mìa Eagle può arrivare ovunque arrivi il Blazer di Dick Voland.» «Oh...» mormorò Dave Hollicker tra sé, nella nube di polvere sollevata dalla Eagle che si allontanava. «Glielo dirò sicuramente, e lui sarà contento di sentirlo. Poi mi farà un mazzo così...» CAPITOLO 21 Anche senza indicazioni, Joanna non avrebbe avuto alcuna difficoltà a giungere al pozzo, perché il sentiero, sebbene fosse in gran parte sassoso, conservava nei tratti fangosi e polverosi le tracce recenti lasciate da diverse serie di pneumatici. Ogni volta che ne incontrò, Joanna prese la precauzione di girare intorno alle tracce. Restringendosi gradualmente, il sentiero saliva verso le ripide sommità della montagna di roccia rossa. Nell'attraversare il ranch in cui Harold Patterson aveva trascorso tutta la sua vita, Joanna si concesse un momento
privato di sofferenza. Non aveva ancora riflettuto su quell'aspetto del suo nuovo lavoro, cioè sulla necessità d'indagare sulla morte di qualcuno che aveva conosciuto e per il quale aveva provato stima o affetto. Eppure Cochise County era una comunità relativamente piccola, quindi le sarebbe capitato inevitabilmente di dover indagare sulla morte di qualche conoscente, se non di qualche amico. Guardando attorno, si augurò che Jim Bob avesse ragione e che Harold fosse «morto con gli stivali ai piedi», intento a fare il lavoro che amava. Al contempo, provò una vaga preoccupazione, una inquietudine indefinibile, che non si spense nonostante i suoi sforzi per soffocarla. L'ultima volta che Joanna lo aveva visto, due giorni prima, quando si era recato da lei, all'agenzia, per informarsi sulla procedura necessaria per cambiare i beneficiari delle sue polizze, Harold Patterson era parso ansioso e turbato. Aveva dichiarato l'intenzione di nominare beneficiario qualcun altro, oltre a Ivy, che già lo era. Di solito, i provvedimenti di quel genere non si prendevano senza validi motivi, come, ad esempio, un matrimonio, un decesso, oppure, com'era sembrato nel caso di Harold, un cambiamento negli affetti. Tutte insieme, le polizze di Harold Patterson non avrebbero garantito una liquidazione particolarmente cospicua, tuttavia un quarto di milione di dollari, o anche soltanto la metà di un simile ammontare, non poteva essere trascurato come possibile movente per un omicidio, sempre ammesso che Harold Patterson fosse stato realmente assassinato. Per quanto si sforzasse, Joanna non riuscì a ricordare le sue esatte parole, comunque il vecchio le aveva raccontato una storia sulle sue figlie, una specie di parabola, paragonandole a due cani che avevano preferito fare a pezzi una vecchia coperta, anziché dividersela. Aveva forse voluto alludere alla propria intenzione di nominare beneficiaria delle polizze anche Holly, in modo che le due sorelle fossero obbligate a dividere a metà l'ammontare delle liquidazioni? Sarebbe stato importante per le indagini appurare se i moduli fossero stati correttamente firmati alla presenza di testimoni, e dove si trovassero in quel momento. Per scoprirlo sarebbe bastata una telefonata a Milo Davis o a Lisa, ma Joanna si trovava nella propria auto, senza radio e senza altri strumenti di comunicazione. Così si chiese quanto tempo sarebbe trascorso prima che il nuovo sceriffo potesse disporre di una propria vettura ufficiale, adeguatamente equipaggiata, e come, avrebbe dovuto procedere per averne una. Il vicesceriffo Hollicker aveva detto che il pozzo distava circa tre miglia
dal cancello del ranch, ma il Blazer di Dick Voland bloccava il passaggio a due miglia e mezzo, dove il sentiero serpeggiava fra due macigni immensi. Avvicinatosi alla Eagle, Voland si curvò in avanti come se si aspettasse che lei abbassasse il cristallo del finestrino in modo da permettergli di parlarle. Invece Joanna spense il motore, aprì la portiera e smontò. «Che sta succedendo?» chiese. Voland si strinse nelle spalle, lanciando un'occhiata torva alla Eagle di Joanna. «Niente di speciale», rispose, in tono sarcastico. «Ernie Carpenter mi ha chiesto di limitare l'accesso all'area fino a quando avrà finito di prendere i calchi di tutte le tracce di pneumatici. Come puoi vedere, siamo passati al centro del sentiero, sul dosso fra i solchi, oppure lo abbiamo costeggiato, per evitare di confondere o cancellare tracce importanti.» «L'ho fatto anch'io», rispose Joanna, in tono tagliente. «Conosco l'importanza dei calchi, e so come si prendono.» Un'ombra di delusione apparve sul viso di Dick Voland, tanto fugacemente che Joanna rischiò di non percepirla. Era evidente che il vicesceriffo capo si era aspettato che lei commettesse errori grossolani al suo primo incarico, ma Joanna lo aveva fregato, almeno per il momento, aggiudicandosi il primo round. «Perché non sono stata avvertita della scoperta del cadavere di Harold Patterson?» chiese, prendendo l'offensiva. «Perché non sono stata convocata?» «Era già morto», rispose Voland. «Il vicesceriffo Hollicker, il detective Carpenter e io stesso avevamo già preso in mano la situazione, nel pieno rispetto delle procedure e della gerarchia.» «Allora dimmi, vicesceriffo capo Voland... sapevi o non sapevi che avevo prestato giuramento alle due del pomeriggio?» «Lo sapevo», rispose lui, con riluttanza. «Ma non mi è sembrato che ci fosse motivo di tirarti giù dal letto... Non si presentava come una faccenda importante...» «Per tua informazione, ero già in piedi e al lavoro, quando è arrivata la chiamata. Non ho ancora avuto il tempo di studiare tutte le norme e tutte le procedure, ma spiegami una cosa: come sarebbe stata affrontata una situazione del genere sotto l'amministrazione di Walter McFadden? Non sarebbe stato avvertito, lui, oppure lo sarebbe stato, e al diavolo la gerarchia?» «Lo sarebbe stato», ammise Voland, a malincuore. «Per pura cortesia.» «Allora mi aspetto di ricevere la stessa cortesia.» «Ma di sicuro tu...» incominciò Voland, subito interrompendosi.
«Di sicuro... cosa?» «Non vorrai essere svegliata a ogni chiamata e convocata su ogni scena del crimine?» «Non mi sono candidata per diventare una scaldasedie», disse Joanna. «Credi che mi sia data tanto da fare, negli ultimi due mesi, soltanto per avere il dubbio privilegio di supervisionare i bilanci e di assegnare le ferie? Sono qui per svolgere tutte le funzioni che il mio incarico comporta. Può darsi che la mia presenza sul posto non sia necessaria ogni volta che si verifica un crimine nella contea, ma per il momento intendo essere io a decidere volta per volta. Sono stata chiara?» «Perfettamente.» La risposta di Voland fu brusca e risentita. «C'è altro?» «Sono qui per ispezionare il pozzo», disse Joanna. Il vicesceriffo capo girò sui tacchi e si avviò su per la montagna. «Da questa parte...» brontolò. «Da qui in poi si cammina. Resta sul bordo del sentiero.» «Allora, qual è la situazione?» «Ernie ha quasi finito con quello che può fare lassù. Sta installando un verricello. Vuole calarsi nel pozzo per scattare fotografie e per raccogliere tutte le eventuali prove prima di rimuovere il corpo.» «Che cosa è successo?» «Dovrai chiederlo a Ernie. Non è molto incline a parlare di quello che trova. Vuole essere l'unico protagonista dello spettacolo.» «Chi ha trovato il corpo?» «Ivy, credo.» «E come mai? Siamo lontani dalla casa...» «Come ho detto», brontolò Dick Voland, «dovrai parlarne con Ernie...» Sul ripido sentiero, il tutt'altro che atletico Richard Voland non tardò ad affaticarsi tanto che il fiatone l'obbligò a smettere di parlare. Quanto a Joanna, fu presto costretta a rammaricarsi di aver indossato la giacca, perciò la tolse, e continuò a camminare sul bordo sassoso del sentiero tenendola appesa a una spalla. Giunti in cima alla salita, entrarono in una valletta, dove, al centro di una zona recintata, stava il pozzo, con i residui minerari ammassati intorno all'imboccatura. Nelle vicinanze erano parcheggiati il camioncino a quattro porte di Ernie Carpenter e il vecchio Scout di Harold Patterson. In disparte, accanto a un serbatoio metallico collegato con un tubo flessibile al rubinetto della sua cisterna, era collocata una vecchia autopompa in disuso. Joanna immaginò che l'autopompa venisse utilizzata, all'occorrenza, per distri-
buire l'acqua al bestiame assetato sui pascoli alti del Rocking P. Osservando i vecchi escrementi bovini essiccati sparsi nella zona, aveva già capito che il bestiame non pascolava più lassù da qualche tempo. Sulla pedana della vecchia autopompa era seduto il gigante, rosso di capelli e di barba, che Joanna riconobbe come Yuri Malakov. Lo aveva visto due settimane prima, quando aveva accompagnato Ivy in chiesa, e aveva saputo qualcosa di lui da Marianne, però non lo aveva conosciuto personalmente. Quella domenica, invece di trattenersi dopo la funzione a bere il caffè e a socializzare, infatti, aveva dovuto andarsene in fretta per tenere un discorso elettorale a Double Adobe. Appena lo vide dal crinale, Joanna pensò che il russo indossasse una camicia azzurra da lavoro, ma nell'avvicinarsi si accorse che era a torso nudo e che l'azzurro non era tessuto, ma inchiostro. Al di sopra della cintura con la fibbia in argento e turchese, il torace poderoso di Yuri era coperto da un bizzarro assortimento di tatuaggi. Era appoggiato a una sponda dell'autopompa, appisolato, con gli occhi chiusi. Joanna non aveva mai visto una simile esposizione di arte del tatuaggio, e così indugiò per alcuni lunghi momenti a osservare quelle figure sorprendentemente dettagliate. Molte immagini erano realizzate con un'abilità artistica notevole, ma i soggetti erano tutt'altro che russi. Il petto era coperto in gran parte da un cowboy che faceva impennare il cavallo agitando lo Stetson, sopra la didascalia in inglese «Cowboy Sam». Sui grossi bicipiti erano tatuati due diversi crotali con le code arrotolate, mentre i due avambracci erano ornati rispettivamente da un cappio e da una rosa col lungo stelo sopra la scritta «Yellow Rose of Texas». Nonostante i suoi cieli azzurri, il mese di novembre era considerato invernale dagli abitanti del Sud Ovest, e non certo adatto per crogiolarsi seminudi al sole. Per Yuri Malakov, invece, che era originario di un paese con un clima ben diverso, era decisamente balsamico quello che gli arizoniani consideravano freddo. Anche se Joanna non si accorse di fare rumore, Yuri aprì improvvisamente gli occhi, e appena la vide a pochi metri di distanza, si affrettò ad afferrare la propria camicia e a indossarla, per poi alzarsi in piedi, arrossendo per l'imbarazzo. «Mi dispiace tanto», mormorò, nel suo inglese sgrammaticato, allacciandosi goffamente i bottoni, il più rapidamente possibile. «Mi dispiace tanto, molto. Non sapevo una donna veniva qui. Scusa, prego.»
«Va tutto bene, Yuri. Ho saputo che è stata Ivy a trovare il signor Patterson...» «No... sì... ma mi dice, venire qui a vedere, e lei sta al ranch, a casa. Poi mi chiede, portare qui la polizia.» «Sapeva dove cercarlo senza essere salita quassù?» chiese Joanna. «E come mai?» «Quelli», disse Yuri, accennando con la testa al cielo. «Dice, seguire gli uccelli. Così trovare anche il padre.» Joanna guardò nella direzione indicata. In alto, nel cielo, tre grossi avvoltoi, araldi di morte, volavano lentamente e pigramente in cerchio sopra la cima della montagna. Tuttavia, l'oggetto della loro attenzione avrebbe potuto essere anche un coniglio, oppure un coyote, e non necessariamente il cadavere del padre di Ivy Patterson. «A che ora avete telefonato?» Yuri scrollò le spalle. «Presto», disse. «Cinque, o forse quattro.» «Avvoltoi mattinieri...» disse Joanna. «Dovevano essere fuori a caccia di vermi...» Yuri si accigliò, perplesso. «Scusa?» Joanna scosse la testa. «Niente», disse. «Una vecchia battuta.» Intanto, le si rizzarono i capelli sulla nuca. Non disse a Yuri Malakov di avere capito che aveva mentito, o che era stata Ivy a mentire. Anche se gli avvoltoi fossero stati in volo tanto presto, quel mattino, non sarebbe stato possibile vederli al buio, o almeno, non da giù nella valle, a tre miglia di distanza. Joanna lanciò un'occhiata al pozzo. Durante la breve conversazione con Yuri, aveva osservato Dick Voland aiutare Ernie a calarsi nel pozzo mediante un'imbracatura e un cavo assicurato a un verricello, e poi a risalire. In quel momento, i due uomini cominciarono a parlare animatamente, ma sottovoce, in modo che dall'autopompa fosse impossibile sentire ciò che si dicevano. «Aspetta qui», disse Joanna a Yuri. Si recò al recinto, s'insinuò tra il filo spinato, e si avvicinò ai due uomini presso i sassi ammucchiati. «Che c'è?» chiese. «Abbiamo un problema», disse lentamente Ernie. «È stato un incidente o no?» chiese Joanna, abbandonando ogni speranza che Harold Patterson fosse deceduto per cause naturali. «Non è stato un incidente», dichiarò risolutamente Ernie. «E non c'è stato nessun crollo. Qualcuno gli ha spaccato la testa con un sasso di fiume
che pesa almeno due chili.» «Un sasso di fiume?» ripeté Joanna, lanciando un'occhiata al rosso suolo scistoso tutt'intorno. «Qui non ci sono sassi di fiume.» «Esatto. Il posto più vicino dove se ne trovano è l'ultimo guado di Mule Mountain Creek, ad almeno mezzo miglio da qui», rispose Ernie. «Ma non è questo il problema più grosso...» «Allora quale?» «Venite a vedere», disse lui. Insieme, si recarono tutti e tre al bordo del pozzo a guardare giù. Il fetore della putrefazione, che aveva attirato gli avvoltoi da miglia di distanza, salì alle narici di Joanna, che ne fu nauseata e fu costretta a trattenere il fiato per soffocare un conato. «Tieni», disse Ernie, porgendole una torcia elettrica. «Usa questa.» Sforzandosi di resistere alla nausea e anche alla vertigine, Joanna si avvicinò maggiormente al bordo e puntò la torcia nel pozzo nero come la pece. I suoi occhi impiegarono un po' di tempo per abituarsi all'oscurità, e nel frattempo non riuscì a scorgere nulla nella debole luce artificiale. Alla fine, però, il pallido raggio giallo illuminò qualcosa: gli occhi vacui, spalancati e fissi di Harold Patterson. «Che c'è?» chiese Joanna, non ancora sicura di quello che avrebbe dovuto vedere. «Guarda sotto la spalla», disse Ernie Carpenter. «Sotto la spalla destra.» Ormai, la vista di Joanna si era sufficientemente adattata al buio da rivelarle i sassi di fiume sparsi sul fondo del pozzo. Sulle prime, l'oggetto biancastro che sporgeva da sotto una spalla di Harold Patterson le sembrò appunto uno di quei sassi. «È un sasso, vero?» chiese, sforzandosi di controllare la voce affinché suonasse calma e ferma. «Vorrei che lo fosse», disse Ernie Carpenter, sottovoce. «Vorrei davvero che lo fosse... Invece è un teschio, sceriffo Brady. Un teschio umano. E sembra che il resto dello scheletro sia sotto Harold. Appartiene a qualcuno che è rimasto laggiù in fondo al pozzo maledettamente a lungo. Molto più a lungo di quanto ci sia rimasto Harold Patterson...» «Ma chi era?» chiese Joanna. «Suppongo che adesso dovremo scoprirlo», disse Dick Voland. «Giusto?» Forse Joanna sbagliò, tuttavia ebbe l'impressione che il vicesceriffo capo sorridesse tra sé nel pronunciare quella frase. Comunque l'occhiata che i
due uomini si scambiarono fu abbastanza eloquente da non richiedere alcuna interpretazione. Quali che fossero le direttive federali, Ernie Carpenter e Dick Voland erano convinti che le indagini in un caso di omicidio fossero prerogativa maschile. Si erano aspettati che il blocco posto da Dave Hollicker fosse sufficiente a far capire a Joanna che le donne non erano bene accette sulla scena del crimine, ma lei aveva ignorato l'avvertimento. Sarebbe stato facile, per Joanna, scegliere la via d'uscita più facile, cioè allontanarsi barcollando, ritornare a passi malfermi fino all'autopompa, lasciarsi cadere sulla pedana e aspettare che la vertigine svanisse. Invece, resistendo al richiamo della vigliaccheria, rimase dove si trovava e mantenne la vista perfettamente a fuoco sul viso di Harold Patterson. «Sì, noi dovremo scoprirlo», mormorò, pronunciando con enfasi il pronome. «E adesso, perché non mi dite esattamente come intendete procedere?» CAPITOLO 22 Joanna tornò da Yuri Malakov, il quale, seduto sulla pedana dell'autopompa, si spostò abbastanza per farle posto. Lasciandosi cadere accanto a lui, Joanna si terse la fronte madida con una manica della giacca e abbassò le palpebre, cercando di cancellare il ricordo degli occhi spaventosamente vacui di Harold Patterson. Voleva dimenticare l'opacità con cui, riflettendo la luce della torcia di Ernie Carpenter, erano parsi fissarla nell'oscurità. Yuri sbirciò Joanna con una certa simpatia e sembrò entrare in sintonia con la sua reazione. «Brutta cosa», mormorò. «Molto brutta cosa.» Joanna scrutò il viso largo del russo, con le sopracciglia folte sugli occhi socchiusi, e si rese conto che, sebbene da lontano sembrasse rilassato e sonnacchioso, in realtà osservava con estremo interesse tutto ciò che gli stava intorno. Allontanatosi temporaneamente dal pozzo, Ernie Carpenter prelevò un'ingombrante valigia di equipaggiamento dal minilaboratorio scientifico del suo camioncino e la trasportò presso una pozzanghera che si era asciugata da poco sulla strada. Là si mise carponi per tentare di prendere calchi in gesso delle impronte lasciate dalle ruote nel fango essiccato. Nel frattempo, Dick Voland rimase accanto al camioncino di Ernie, parlando al microfono della radio che teneva con una mano e gesticolando con l'altra. «Il detective Voland sta cercando di procurarsi una pompa di drenag-
gio», spiegò Joanna. «Una... cosa?» «Una pompa di emergenza e un generatore per azionarla. Bisogna togliere l'acqua dal fondo del pozzo prima di cercare di recuperare i corpi, quello di Patterson e l'altro.» Di scatto, Yuri Malakov smise di poltrire sull'autopompa per alzarsi a torreggiare su Joanna. Anche Voland sembrava minuscolo in confronto a lui. «Due persone?» chiese, scrutando Joanna con ardenti occhi neri. «Non una? Non solo il signor Patterson?» Joanna capì subito di avere parlato troppo, commettendo così un errore grossolano. Le informazioni di quel genere, relative a un'indagine in corso, non avrebbero dovuto essere inavvertitamente riferite a qualcuno che si conosceva appena e che si trovava per caso sulla scena del crimine. Tuttavia, era ormai troppo tardi per rimediare, e non sembrava esservi alcun motivo di mentire in proposito. Joanna annuì. «Sembra che il detective Carpenter abbia trovato un altro cadavere, uno scheletro, sotto quello di Harold Patterson, che ci era caduto proprio sopra.» «Chi è?» chiese Yuri. «Non lo sappiamo», rispose Joanna. «L'altra vittima è morta da molto tempo, probabilmente da anni. Impossibile dirlo prima di avere esaminato il pozzo e raccolto le prove.» Yuri Malakov avanzò di un passo, barcollando. «Ivy deve saperlo», dichiarò. «No», obiettò Joanna. «Le informazioni di questo genere devono essere comunicate ufficialmente dagli investigatori che si occupano del caso.» Yuri scosse con impazienza la testa irsuta. «Investigatori occupati. Io no. Lo dico a Ivy.» Ciò detto, si diresse a passi pesanti verso lo Scout. Così, Joanna non ebbe altra scelta che seguirlo. Era un uomo grande e grosso, quindi illudersi di poterlo bloccare fisicamente sarebbe stato ridicolo. Joanna si girò a guardare Dick Voland, che continuava a parlare alla radio, dunque non poteva aiutarla. Comunque, non voleva avvertirlo dell'accaduto, perché ciò avrebbe significato ammettere un errore dilettantesco. «Aspetta», disse Joanna. «Se mi accompagni giù alla mia macchina, ti seguo e lo dico io stessa a Ivy.» Yuri si fermò accanto allo Scout, con una mano posata sulla maniglia. «Okay», acconsentì subito. «Io guido. Tu lo dici.»
Mentre giravano intorno alla pozzanghera dove Ernie Carpenter stava prendendo i calchi, Joanna ordinò a Yuri di fermarsi. «Devo dire al detective Carpenter dove sto andando...» Come se fosse necessario, pensò, subito dopo. Ernie alzò a malapena lo sguardo, quando lei gli parlò, ascoltando l'annuncio della sua partenza con accigliata disattenzione. Ormai il detective della omicidi era del tutto concentrato nel compito solitario della raccolta delle prove. Se gli osservatori che potevano distrarlo se ne fossero andati, per qualsiasi motivo, sarebbe stato un vantaggio, non un ostacolo. «Benissimo», disse Ernie, con un gesto di congedo. «Di' alla gente giù alla casa di non entrare nella camera di Harold. E questo vale per tutti. Non ci deve entrare assolutamente nessuno, prima che io abbia il tempo di esaminarla.» «Bene», disse Joanna. «Riferirò.» Quando giunsero alla svolta dove il Blazer di Dick Voland bloccava il passaggio, furono costretti ad abbandonare lo Scout per prendere la Eagle di Joanna. Il russo gigantesco fu costretto a chinare la testa e a curvare le spalle per occupare il sedile del passeggero, ma lo fece senza lagnarsi. Mentre Joanna guidava, rimase seduto con le braccia ostinatamente incrociate sul petto ampio, lo sguardo fisso innanzi, le sopracciglia aggrottate, senza dire nulla. Di quando in quando Joanna lo sbirciò nel tentativo di decifrare l'espressione preoccupata del suo viso. Era rimasta sorpresa del totale cambiamento nel suo contegno. In quel momento Yuri Malakov aveva un aspetto completamente diverso da quello che aveva avuto poco prima, quando lei lo aveva visto seduto sulla pedana dell'autopompa, rilassato, forse appisolato. Per giunta, il cambiamento non era stato graduale, bensì istantaneo, appena Joanna aveva accennato alla presenza di un secondo cadavere. A quanto pareva, l'annuncio lo aveva turbato troppo, rispetto ai rapporti presumibilmente superficiali che aveva con la famiglia Patterson e con i problemi che la concernevano. «Che succede?» chiese Joanna. «Qualcosa ti turba?» Yuri la guardò sospettosamente. «Cosa vuol dire "turba"?» «È come "preoccupa"», spiegò Joanna. «Qualcosa ti preoccupa?» «Nyet», rispose lui. «Niente.» Tuttavia, il cupo e silenzioso Yuri Malakov di sicuro non sembrava spensierato. Riflettendo sulla sua situazione, Joanna si rese conto che per lui doveva essere sconcertante rimanere coinvolto in un evento luttuoso che compor-
tava un'indagine per omicidio in un paese il cui sistema giudiziario gli era del tutto estraneo, senza contare che per riuscire a comprendere tutto ciò disponeva soltanto di una conoscenza incerta ed elementare della lingua. Dopo avere studiato lo spagnolo per quattro anni, due alla scuola superiore e due al college, Joanna ne aveva ancora una padronanza così scarsa che si trovava in difficoltà persino con le ordinazioni nei ristoranti messicani della zona del confine. Se fosse stata tanto sciocca da viaggiare in Spagna o nell'interno del Messico, sarebbe probabilmente riuscita a capire e a farsi capire, e quindi a cavarsela, per quanto riguardava il cibo e le necessità fondamentali, ma per il resto non si faceva nessuna illusione sulle proprie capacità di comunicare. A differenza di lei, Yuri Malakov era in grado di conversare a un livello elementare, senza dubbio grazie a qualche corso che aveva frequentato, come rivelava il suo modo di parlare, formale e privo di espressioni idiomatiche. Nonostante questo, doveva essere terribilmente difficile, per lui, vivere e affrontare le necessità quotidiane in un paese straniero in cui, molto probabilmente, quasi nessuno parlava una qualche versione della sua lingua, tranne forse pochi minatori slavi di seconda generazione. Dato che aveva trascorso tutta la vita nella cittadina dell'Arizona in cui era nata, Joanna trovava molto affascinante un individuo come Yuri Malakov. Cosa poteva averlo indotto a voltare le spalle a tutto quello che gli era familiare, abbandonando i parenti e gli amici? Quali lavori aveva svolto prima di trasferirsi negli Stati Uniti? Quale carriera aveva abbandonato per lavorare come bracciante o uomo di fatica per qualche estraneo in un isolato ranch dell'Arizona? Che cosa poteva avere indotto un uomo di circa quarantacinque anni a imporsi l'arduo compito di inserirsi in una cultura che gli era del tutto aliena? Era possibile, pensò Joanna, che si trattasse proprio di questo. Forse la preoccupazione di Yuri per Ivy Patterson era motivata soprattutto dal fatto che lei lo stava aiutando a compiere quella difficile transizione. Era cioè gratitudine per il ruolo inestimabile che lei stava svolgendo nella sua vita come insegnante d'inglese. Per alcuni istanti, Joanna fu tentata di chiederglielo, poi vi rinunciò. Seduto immobile a guardare fuori attraverso il finestrino, Yuri manifestava chiaramente di non essere disponibile a nessuna forma di conversazione. D'altronde, non sembrava che valesse la pena sforzarsi di superare le barriere comunicative per discutere di qualcosa di così ineffabile come le motivazioni personali. Perciò, il resto del viaggio fino alla casa del Rocking P si svolse in silenzio.
Quando svoltarono nel cortile, il luogo apparve assolutamente idilliaco. Con un pennacchio di fumo invitante che s'innalzava dal camino, la casa e i dintorni sembravano l'ambiente meno adatto a due morti misteriose. Alcune galline razzolavano nella polvere e un pavone faceva la ruota nell'atmosfera limpida e soleggiata di novembre. La Volkswagen di Marianne era parcheggiata nei pressi del cancello, accanto alla Chevy Luv di Ivy Patterson. Un prato di erba ingiallita dall'inverno, recintato da una palizzata bianca, circondava la casa a un piano col tetto spiovente, che risaliva agli inizi del XX secolo. Il tetto metallico era stato dipinto di recente, come pure le imposte e le finiture. Tutto sembrava ordinato, pulito e perfettamente conservato. Con la sua ombra, la veranda ampia due metri e mezzo che correva tutt'intorno proteggeva la casa dal torrido calore estivo dell'Arizona, contribuendo a rinfrescarla. Benché dovesse avere quasi novant'anni, il tavolato della veranda non mostrava il minimo segno di cedimento, nessuna colonnetta della lunga balaustrata mancava o appariva danneggiata, e se alcune erano state sostituite, risultavano indistinguibili da quelle originali, tanta era l'abilità con cui era stato eseguito ogni intervento di manutenzione. Due vetusti glicini dal grosso tronco vigilavano ai lati dell'entrata principale, avvolgendo con l'intrico dei loro spogli rami grigi il tetto e le gronde sporgenti della veranda, che a primavera doveva essere interamente oscurata da cortine di verzura lussureggiante e da cascate di fiori di lavanda. Subito Joanna notò che il suolo del Rocking P era sorprendentemente sgombro di oggetti in disuso. Le dipendenze erano dipinte di fresco e conservate alla perfezione, proprio come la casa. Nessuna carcassa di automobile o di macchina agricola era stata abbandonata ad arrugginire nei dintorni. L'High Lonesome di Joanna sarebbe stato nettamente surclassato se si fosse confrontato con il Rocking P. Prima che le ruote della Eagle fossero completamente ferme, Yuri Malakov spalancò la portiera, e sarebbe subito smontato al volo per correre via, se Joanna non lo avesse fermato. «Lascia che sia io a dirlo a Ivy», disse. «È meglio così.» Yuri le lanciò un'occhiataccia, però rimase seduto. «Dillo tu, allora», rispose. Proprio in quel momento, la porta principale della casa fu aperta e Ivy Patterson e Marianne Maculyea uscirono insieme nella veranda. Il viso solitamente allegro di Ivy era cupo di sofferenza, com'era prevedibile. Tutta-
via anche quello di Marianne era contratto in una maschera lugubre, del tutto atipica. Joanna aprì il cancello e s'incamminò sul vialetto. Con sua sorpresa, Ivy lasciò Marianne nella veranda e le corse incontro. Poi, invece di fermarsi davanti a lei, proseguì per andare a gettarsi singhiozzando sul torace poderoso di Yuri, che l'avvolse in un abbraccio, posandole il mento sui capelli. «È okay...» Yuri schioccò la lingua per calmarla. «Yuri è qui..» Quei piccoli gesti affettuosi vanificarono tutte le congetture di Joanna. Anche se si conoscevano soltanto da poche settimane, Yuri e Ivy erano evidentemente legati da un rapporto molto più intimo di quello fra insegnante e allievo. Erano innamorati. Quando Ivy si abbandonò al conforto delle braccia di Yuri, persino la desolazione del lutto non riuscì a nascondere del tutto la luce che le illuminava il viso. Joanna si schiarì la gola. «Scusami, Ivy, ma ho bisogno di parlarti. C'è qualcosa che devi sapere.» Invece di guardare lei, Ivy alzò gli occhi al viso largo e impassibile di Yuri, come se vi fosse chiaramente scritto tutto quello che poteva avere bisogno di sapere. Yuri scosse la testa. «Lo dice lei», disse, accennando con la testa a Joanna. «Dirmi cosa?» chiese Ivy. «Che cosa è successo, ancora?» Per la prima volta, Joanna si trovò a dover comunicare cattive notizie nella propria veste ufficiale di sceriffo. Come una bambina spinta all'improvviso sotto le luci del palcoscenico durante la recita scolastica, si trovò subito a disagio, senza sapere cosa dire, né da dove cominciare. «Forse dovremmo entrare e sederci...» suggerì, con esitazione. Yuri le lanciò un'occhiataccia, però montò sulla veranda ed entrò in casa con Ivy, tenendola saldamente per mano. «E io?» chiese Marianne, mentre Joanna li seguiva. «Entra pure anche tu, se vuoi», disse Joanna. Quando Joanna e Marianne giunsero in soggiorno, Yuri e Ivy erano già seduti l'uno accanto all'altra sull'antiquato divano in cuoio consunto, con un lungo braccio di lui allungato a cingere le spalle di lei. Anche se come donna era alta e robusta, vicino al russo gigantesco Ivy Patterson appariva piccola, quasi minuta. Lo sguardo fieramente protettivo di lui era ingiustificato, a meno che i due amanti sapessero, sul modo in cui Harold Patterson era finito nel pozzo, molto di più di quanto lo stesso Yuri avesse ammesso.
Comunque, Joanna aveva innanzitutto il dovere d'informare Ivy della presenza del secondo cadavere. In quel momento, il soggiorno confortevolmente riscaldato dal caminetto non le sembrò meno adatto a comunicare una notizia del genere di quanto le fossero apparsi poco prima la veranda e il cortile. «Di che si tratta?» chiese Ivy. Sentendosi un'intrusa indesiderata, Joanna si avvicinò goffamente a una sedia e per qualche istante quasi si rammaricò di non essere un uomo e di non portare lo Stetson che caratterizzava l'immagine tipica dello sceriffo, perché se fosse stato così avrebbe avuto qualcosa da fare. Avrebbe potuto togliersi il cappello e posarselo in grembo, usandolo come scudo per proteggersi in qualche modo dalla sofferenza già profonda che Ivy Patterson provava, e da quella che la notizia che stava per ricevere le avrebbe ulteriormente inflitto. «Mi dispiace per tuo padre», cominciò, con esitazione. «Harold Patterson era un uomo meraviglioso, e tutti sentiranno molto la sua mancanza.» Ivy Patterson annuì. Era sul punto di piangere, ma riuscì a trattenere le lacrime. «Grazie...» mormorò. «Come sai, Yuri e io siamo appena scesi dalla montagna», continuò Joanna. «Eravamo al pozzo. Ha potuto dirti che cosa sta succedendo lassù?» «Soltanto che non gli hanno permesso di portare giù lo Scout di papà.» Joanna annuì. «C'è un posto di blocco, vicino alla cima. Finché non verrà tolto, lo Scout non potrà scendere.» Ivy scrollò le spalle. «Non importa. Potremo andare a prenderlo più tardi, come abbiamo fatto ieri, quando era rimasto nel parcheggio del centro convegni. È questo che sei venuta a dirmi?» «No», disse Joanna. «C'è qualcos'altro.» Tacque un momento, alla ricerca delle parole giuste. «Ero lassù con Dick Voland ed Ernie Carpenter, il detective della omicidi...» «Omicidi?» ripeté Ivy. «Come per un assassinio? Vuoi dire che papà non è caduto nel pozzo? Che non è stato un incidente?» «No», disse Joanna. «Temo che per il momento non sembri affatto un incidente. Ma non è tutto. C'è qualcos'altro che devi sapere...» «Cos'altro?» domandò Ivy, con impazienza, curvandosi in avanti. «Cos'altro ci può essere?» Joanna sospirò profondamente. «Il corpo di tuo padre non era l'unico in fondo al pozzo, Ivy», disse. «Laggiù, insieme a lui, Ernie Carpenter ha trovato uno scheletro umano, che è rimasto nel pozzo per moltissimo tem-
po. Per anni.» Ivy Patterson sgranò gli occhi per lo sgomento, portandosi una mano sulla bocca. «Oh, mio Dio!» esclamò. «Allora era vero!» «Cosa era vero?» chiese Joanna. D'improvviso, torrenti di lacrime inondarono le guance di Ivy Patterson, che subito si coprì il volto con le mani, mentre singhiozzi convulsi la scuotevano in tutto il corpo. Per un lungo momento, nel soggiorno, si udirono soltanto il suo pianto disperato e lo scoppiettare della legna che ardeva nel caminetto. Nessun altro aveva nulla da dire. Alla fine, Ivy raddrizzò la schiena, e il suo viso apparve più costernato che afflitto. «La mamma ha sempre detto che c'era un cadavere nel pozzo...» mormorò. «Lo ha sempre detto, e io non le ho mai creduto...» Joanna rimase a sua volta costernata. «Vuoi dire che tua madre sapeva qualcosa di questa faccenda?» Ivy annuì. «Ne sono sicura.» «E tuo padre?» Un'espressione strana passò sul viso di Ivy. La sua carne sembrò indurirsi. La contrazione delle mascelle rivelò la sua collera. «Quel figlio di puttana...» mormorò. «Lurido, schifoso figlio di puttana... Deve avere sempre saputo che era vero!» «Chi deve avere sempre saputo che era vero?» chiese Joanna, confusa dal mutamento improvviso nel contegno di Ivy Patterson. «Mio padre. Deve avere sempre saputo che c'era un cadavere, lassù. Quando mia madre me lo diceva, lui insisteva che era impazzita. Ogni volta che lei ne parlava, lui sosteneva che sragionava. Fu in quel periodo che cominciò a farla sorvegliare costantemente, ogni minuto del giorno e della notte. Diceva che se lei era capace d'inventare storie tanto bizzarre e d'indurre la gente a crederle, allora dovevamo essere prudenti, altrimenti l'avrebbero fatta rinchiudere in qualche manicomio di Phoenix.» «Un momento...» disse Marianne. «Se tua madre diceva la verità, se davvero c'è sempre stato un cadavere nel pozzo... Allora, forse, non era pazza, dopotutto...» «Proprio così... forse non lo era...» convenne cupamente Ivy, con una ferocia raggelante a udirsi. «O almeno, non lo era all'inizio, anche se poi lo è diventata... E perché no? Papà cominciò a chiuderla a chiave nella sua stanza, di notte. Allora, quando lui smise di avere fiducia in lei, peggiorò rapidamente. Non passò molto tempo prima che lui cominciasse a pretendere che lei non si allontanasse mai dalla sua vista, o dalla mia. Allora lei
impazzì, e forse fu proprio lui a farla diventare matta... Che sia maledetto, comunque! Come può averle fatto una cosa del genere? Come può averlo fatto?» Ivy crollò contro una spalla di Yuri, scossa convulsamente in tutto il corpo da un nuovo parossismo di singhiozzi disperati. Seduta di fronte a lei, Joanna percepì qualcosa di strano. Prima di essere informata della presenza del secondo cadavere, Ivy Patterson aveva reagito alla morte del padre in maniera del tutto adeguata e comprensibile. Ma quella nuova tempesta di lacrime era qualcosa di completamente diverso. La donna che piangeva inconsolabilmente sulla spalla di Yuri Malakov non era soltanto una figlia afflitta per la morte del padre. Era invece la figlia tradita di una madre tradita, una figlia che ora, finalmente, e forse per la prima volta, era costretta a guardare con occhi nuovi il genitore nel quale un tempo aveva avuto fiducia. La rivelazione di Joanna aveva obbligato Ivy ad attribuire a Harold la responsabilità di numerosi peccati del passato, reali o immaginari che fossero. E la delusione di Ivy, la sua profonda angoscia, derivava evidentemente dalla scoperta di due cadaveri in fondo al pozzo di Juniper Flats. Due cadaveri, non soltanto uno. Nell'aspettare che il pianto sfrenato di Ivy Patterson si placasse, Joanna pensò con inquietudine che tuttavia non poteva essere semplicemente così. Doveva esserci molto di più. Se Harold Patterson aveva tradito e deluso la moglie e la figlia, se in qualche modo le aveva indotte con l'inganno a credere di essere diverso da quello che era, non era forse possibile che avesse ingannato allo stesso modo tutti gli altri? Dopotutto, un uomo capace d'ingannare la famiglia era abbastanza intelligente, anzi, molto più che abbastanza, per ingannare una semplice assicuratrice. O magari una donna che era appena diventata sceriffo. CAPITOLO 23 Con un certo sforzo, Ivy si calmò e sollevò lo sguardo a Marianne. «Questo risolve tutto», disse. «Ho cambiato idea. Voglio andare fino in fondo, proprio come avevo detto all'inizio.» «Ma... Ivy...» protestò Marianne. «No!» interruppe Ivy, con veemenza. «Ho deciso, e non cambierò più
parere. Ho trascorso tutta la mia vita a occuparmi degli altri. Adesso non ho più nessuna intenzione di farlo.» In quel momento, la porta principale si aprì sbattendo, e subito dopo, senza essere invitato, Burton Kimball irruppe nella stanza. «È vero?» chiese. «Lo hanno trovato? È morto?» Gli occhi ormai privi di lacrime di Ivy sfavillarono all'improvviso di un furore gelido. «Certo che è morto», disse. Burton Kimball chiuse gli occhi e scosse la testa. «Ivy...» disse. «Mi dispiace tanto... Ma sono cose che succedono... Andrà tutto bene, vedrai...» «Non va bene niente!» ribatté Ivy. «E non andrà mai tutto bene! Non capisci? Papà mi ha sempre mentito!» Un'espressione afflitta apparve sul volto di Burton Kimball. «Se si tratta del testamento, Ivy, allora non dovrebbe esserci nessun problema. Ha detto di volerlo cambiare, e forse lo avrebbe fatto davvero, ma io ho rifiutato di assecondarlo, quando me lo ha chiesto, e dubito che in così poco tempo sia riuscito a trovare qualcun altro. Quindi il ranch dovrebbe restare a te, come avevamo deciso in origine. E anche se Holly tentasse d'impugnare il testamento o di portare avanti la causa, non vedo come potrebbe vincere.» «Non sto parlando del testamento di papà», intervenne gelidamente Ivy. «È peggio, molto peggio. La mamma ha sempre avuto ragione, Burtie, a proposito di quel pozzo. Ci hanno appena trovato un altro cadavere.» Sgomento, Burton Kimball rimase immobile. «Che significa... un altro cadavere?» «Esattamente quello che ho detto. Laggiù in fondo al pozzo, con papà, c'è un altro morto», rispose lei. Sconvolto, Burton Kimball si avvicinò barcollando a una sedia. «Com'è possibile? È una follia...» «Questo era proprio quello che papà diceva sempre alla mamma, e cioè che non era possibile che ci fosse un cadavere, laggiù, e che era folle anche soltanto pensarlo... Ricordi? Papà si è servito di noi, Burtie», aggiunse amaramente Ivy. «Si è servito di noi per spiarla e per controllarla, mentre lei ha sempre detto la verità. Dev'essere stato sempre vero.» A ogni parola Ivy alzò un poco la voce, sempre più furente e sdegnata, così Yuri, per calmarla, le accarezzò una spalla. «Tranquilla», mormorò. «Niente rabbia.» Sempre cinta dal suo braccio, Ivy si appoggiò a lui, non come un cucciolo spaurito alla ricerca della calda sicurezza del nido, bensì come un'orsa ferita che si rifugiasse nella propria tana. Per un momento Burton fulminò
Yuri Malakov con un'occhiata interrogativa, ma subito dopo dedicò di nuovo tutta la propria attenzione a Ivy. «Chi è l'altro morto?» chiese. «Qualcuno lo sa?» «È impossibile stabilirne l'identità prima di averlo estratto dal pozzo», disse Joanna. «A giudicare da quanto si è potuto vedere, si tratta di uno scheletro, più che di un cadavere, quindi dev'essere laggiù da molto tempo.» «Hai sentito, Burtìe?» domandò Ivy. «Non ricordi? La mamma fece promettere a tutti e due di non avvicinarci mai a quel pozzo. A me lo fece persino giurare sulla Bibbia di famiglia.» Burton Kimball annuì. «Fino alla morte di tuo padre...» aggiunse. «Sì, ricordo. Allora pensai che fosse soltanto uno dei suoi soliti vaneggiamenti, anzi, fu proprio questo, fra l'altro, a convincermi che zio Harold aveva ragione e che zia Emily era completamente impazzita. A volte parlava di quel pozzo ininterrottamente, per ore, insistendo che un giorno o l'altro sarebbe stato la morte di tuo padre...» «Beh, aveva ragione», disse recisamente Ivy Patterson. «È andata proprio così.» E sospirò profondamente. «Per quanto mi riguarda», aggiunse, «ho mantenuto la promessa fatta alla mamma. Sono sempre stata alla larga da quel pozzo... fino alla notte scorsa...» Allora Yuri la strinse a sé come per ammonirla di non parlare di quell'argomento, ma Joanna aveva già colto la piccola discrepanza nella storia che i due amanti avevano raccontato. «Sei salita lassù la notte scorsa?» chiese, lanciando un'occhiata significativa a Yuri Malakov, in modo che si rendesse conto che la sua menzogna sulla scoperta del cadavere era stata smascherata. «Dunque non è vero che hai visto gli avvoltoi?» «Sì, è vero», disse Ivy. «Li ho visti ieri, nel tardo pomeriggio, poco prima che le ricerche venissero sospese per la notte. Ho voluto andare lassù di persona a controllare, e l'ho fatto appena ho potuto.» «Allora stai dicendo di averlo trovato ieri pomeriggio?» Ivy annuì. «Poco prima del tramonto.» «Ma non lo hai annunciato fino a stamattina... Perché?» «Perché non me la sono sentita. C'era una cosa che dovevo fare, prima», rispose Ivy Patterson. «Una cosa importante.» «E cosa?» Ivy cercò un ginocchio di Yuri Malakov e vi posò lievemente una mano, tuttavia, nel rispondere alla domanda, fissò Joanna in viso con sguardo di
sfida. «Yuri e io abbiamo trascorso la notte sopra un materasso gonfiabile, sul pianale dello Scout. Non è stato molto romantico, però è stato okay.» «Cos'hai fatto?!» esplose Burton. Ivy lo guardò. «Hai sentito benissimo.» «Ma perché diavolo hai fatto una pazzia del genere?» «Per dimostrare che potevo», disse lei, in tono di sfida. «Perché volevo. E perché no? Papà si era messo contro di me, e non dirmi che non era così. Dal mio punto di vista, la rivalsa è giusta. L'ho fatto per pareggiare il conto e per dimostrare qualcosa. L'ho fatto perché è stato quasi come ballare sulla tomba di mio padre. Quella della mamma è accanto alla sua, al cimitero Evergreen, quindi là non avrei potuto farlo.» Burton Kimball era evidentemente sconvolto. «Mi stai dicendo... che tu... tu e questo... questo... idiota...» Sputò finalmente l'insulto con una sincera occhiata di disprezzo a Yuri. «Avete trascorso la notte insieme, vicino al pozzo in fondo al quale c'era il cadavere di tuo padre, e non ti sei presa il disturbo di riferire che lo avevi trovato se non la mattina dopo? Che razza di follia è mai questa, Ivy? Cosa diavolo ti ha preso?» «Mi credi pazza, vero? Beh, può darsi che lo sia... Forse la pazzia è una tara di famiglia... Ma io credo piuttosto di essermi semplicemente stancata di essere una brava ragazza, di fare il mio dovere ottenendo nulla in cambio, e di sentirmi sempre dire dagli altri quello che devo fare.» Burton sollevò le mani, come per proteggersi dal calore della collera di Ivy, e cercare intanto di riuscire a scorgere attraverso le fiamme un po' di ragionevolezza. «Aspetta un momento...» disse. «Cerchiamo di essere razionali, tanto per cambiare. Questo è un periodo duro per tutti noi, Ivy. Io sono passato soltanto perché Marliss Shackleford, del "Bisbee Bee", mi ha detto che stava succedendo qualcosa. Volevo chiederti se c'è qualcosa che Linda e io possiamo fare per aiutarti. Vuoi che parli io con Norm Higgins? Potrei organizzare il funerale, informare i parenti e cose del genere. Di che cosa hai bisogno, esattamente? Credo che la prima cosa da fare sia sapere quando potremo avere la salma...» E guardò Joanna. «È possibile saperlo, sceriffo Brady?» «Questo dipende esclusivamente da Ernie Carpenter», rispose Joanna. «È lui che si occupa delle indagini. Sarà lui a dirvelo.» «Quando potrò chiederglielo?» «Forse più tardi, nel pomeriggio.» Burton si volse di nuovo a Ivy. «Vuoi che chiami Norm e gli chieda se può venire qui per un consulto? Magari in serata. Diciamo... intorno alle
otto?» «No», rispose risolutamente Ivy Patterson al cugino, ma fissando Marianne Maculyea. «Stasera no. Sono impegnata. Yuri e io ci sposeremo alle sette.» Kimball rimase a bocca aperta. «Cosa farete?!» «Ci sposeremo. Alla chiesa metodista di Canyon, alle sette.» Burton guardò Marianne Maculyea. «È sicuramente una specie di scherzo...» disse, come chiedendo aiuto. Marianne scosse la testa. «Non è affatto uno scherzo. Ho trascorso tutta la mattina a cercare di convincerla a non farlo, e ci ero riuscita, ma proprio poco fa ha cambiato di nuovo idea.» «Ma... suo padre non è ancora...» «Non dire una parola di più su mio padre», ammonì Ivy. «Non voglio sentire altro. Mi hai già detto abbastanza l'altro giorno.» «Ivy... ti ho già detto quanto mi dispiace per questo... Ero ubriaco, non capivo niente... Rivelandoti tutto ho commesso una terribile violazione dell'etica professionale. Non avrei dovuto dire assolutamente niente.» «Però l'hai fatto. Così mi sono detta che se papà aveva intenzione di cedere la metà di tutto quello per cui ho sempre lavorato, allora non dovevo più aspettare. Yuri e io abbiamo cominciato a organizzarci subito, quello stesso giorno. Il preavviso è stato così breve, che non abbiamo ancora trovato nessuno che accudisca il bestiame. Trascorreremo la notte a Tombstone, e probabilmente il motel avrà un'insegna sulla porta: BENVENUTE VECCHIE ZITELLE D'AMERICA. Comunque, non hai bisogno di me, per parlare con Norm Higgins. Puoi farlo tu, o magari Holly.» «Ma... Ivy...» insistette Burton. «Sposarsi così non è giusto. Non è... decoroso. Pensa a quello che dirà la gente...» «Non me ne frega niente di quello che dirà la gente. Può dire tutto quello che vuole.» «Ma è appena morto tuo padre... A quelli che vivono da queste parti, e soprattutto a quelli che conoscevano zio Harold, non piacerà per niente. Dimostra una terribile mancanza di rispetto e di decenza.» «E tu pretendi che io rispetti quell'uomo?» s'infuriò Ivy. «Dopo tutto quello che ha fatto? Non t'illudere. L'ho rispettato per quarant'anni, e tu stesso hai visto che cosa ne ho ricavato. Quando ha deciso di gettarmi ai lupi per dividere questo posto fra Holly e me, non ha esitato neanche un momento. Può darsi che non abbia cambiato il testamento, ma soltanto perché non ne ha avuto il tempo. Non glien'è fregato un accidente di niente
di tutti gli anni che ho lavorato qui. Ho dedicato tutta la mia vita a questo posto. Ma se la mia parte fosse esattamente uguale a quella di Holly, allora quello che ho fatto per lui e con lui in tutti questi anni non significherebbe più niente.» «Ivy... sei troppo dura con lui...» «Dura? No, per niente. Non soltanto si è messo contro di me, Burton, ma ha anche distrutto la mamma. Forse tu non vedi le cose dal mio stesso punto di vista, ma io sono stata sempre qui a occuparmi di lei, ogni giorno. Mi ha persino indotta ad aiutarlo a rovinarla, dannazione! Questa è una cosa che non gli perdonerò mai. Mai!» Ivy s'interruppe per tirare un sospiro lacero, poi una strana espressione passò sul suo viso: un'espressione di terribile comprensione. «È così, vero?» «Che c'è adesso?» chiese Burton, con voce stanca, come se fosse troppo esasperato per preoccuparsi ulteriormente. «Non capisci? Dev'essere per questo che lui insisteva che la mamma mentiva, e sempre per questo lei insisteva invece che dovevamo stare lontani dal pozzo.» «Di che stai parlando, Ivy?» «L'altro cadavere, lo scheletro... Adesso so chi ha ucciso quell'altra persona...» «Chi?» chiese Joanna. «Mio padre, naturalmente», disse Ivy Patterson, senza esitazioni. «Non capisci? Altrimenti, perché lo avrebbe nascosto per tutti questi anni?» Già... Perché? si chiese Joanna, con una stretta al cuore. Per quale altro motivo lo avrebbe fatto? In quel momento, Ivy troncò ogni ulteriore discussione alzandosi, prendendo Yuri per mano affinché si alzasse a sua volta, e conducendolo fuori. Gli altri tre rimasero in soggiorno, intrappolati nel loro silenzio stordito. «Non capisco che cosa sia successo a quella donna...» mormorò Burton, quando la porta principale della casa si fu chiusa alle spalle di Yuri e di Ivy. «Chi diavolo è quel tizio? Da dove viene?» «È Yuri Malakov», rispose Marianne. «Viene da qualche parte della Russia, naturalmente, o da qualche posto di quella che un tempo era la Russia. Vuoi forse dire che non lo conosci?» «Non lo avevo mai visto in vita mia. Eppure Ivy dice che sono fidanzati e che stanno per sposarsi? Che razza di follia è mai questa?» «Stando a quello che mi ha detto stamane, Ivy aveva già deciso tutto da molto tempo. Non avrei mai pensato che non ne sapessi niente.»
«Beh, invece non ne sapevo proprio niente di niente.» Burton scosse la testa. «Come hai detto che si chiama? Malakov? Che razza di nome è mai questo? E cosa diavolo ci fa nel nostro paese? Come ci è arrivato? E come ha incontrato Ivy?» «È un immigrato», spiegò Marianne. «È una persona molto gentile. Uno dei compiti della nostra chiesa, a livello nazionale, è quello di aiutare gli immigrati a inserirsi nella nostra società. Jeff e io lo abbiamo aiutato a sistemarsi presso Hale e Natasha Robertson, che abitano nei dintorni.» «Tu e tuo marito lo avete portato qui?» chiese Burton, in tono di rimprovero. Marianne annuì. «A dire la verità, Jeff è molto più impegnato di me in questo progetto. Conosci Natasha Robertson, no?» Burton annuì. «La conobbi anni fa. Ricordo che Hale la portò qui come sposa di guerra, poco dopo la fine del conflitto, negli anni Quaranta. Si stabilirono in un ranch a poche miglia da qui.» «Adesso Hale è su una sedia a rotelle», continuò Marianne. «Anni fa rimase vittima di un incidente automobilistico e per poter continuare a lavorare diventò commercialista. Adesso tiene la contabilità di diversi allevatori. Per molto tempo Natasha ha mandato avanti il loro ranch da sola, ma anche lei, ormai, è avanti con gli anni, e da qualche tempo non ce la fa più. Così Jeff ha avuto l'idea di presentarle Yuri. Beh, è una combinazione perfetta. Natasha parla il russo e aveva bisogno di qualcuno che l'aiutasse nel lavoro, mentre Yuri aveva bisogno di un lavoro e di un alloggio, e parla male l'inglese. È sembrato un connubio voluto dal cielo.» «Non mi hai ancora detto come ha conosciuto Ivy», obiettò Kimball. «E poi, che tipo di uomo è? Puoi anche startene lì seduta tutta contenta a dirmi che è una gran brava persona, ma per quello che ne sai potrebbe anche voler sposare Ivy soltanto per interesse.» «Non si tratta di niente del genere», assicurò Marianne. «Yuri è assolutamente onesto. Ivy ha cominciato a dargli lezioni d'inglese, e semplicemente si sono piaciuti, fin dall'inizio. A dire la verità», aggiunse Marianne, «credo che stiano molto bene insieme. Sono molto dolci.» «Allora spero che tu sia contenta di quello che stanno per fare», disse Burton in tono sarcastico. «Immagino che l'idea di celebrare il matrimonio stasera sia stata tua...» «Assolutamente no. Sposarsi adesso è un'idea terribile. Come ti ho già detto, ho fatto del mio meglio per cercare di convincere Ivy a rinunciare, ma tu stesso hai potuto constatare che ormai ha deciso.»
«E cos'era quello che ho visto spuntare dalla sua camicia?» «La sua camicia?» chiese Marianne. «Di che stai parlando?» «Aveva la camicia sbottonata, in alto, perciò ho potuto notare quello che assomigliava a un tatuaggio.» Marianne sembrò perplessa. «Non ho idea di che cosa possa essere...» «Io sì», disse Joanna. «È proprio un tatuaggio. Perché?» «Joanna!» disse Marianne. «Come hai...?» «Ho letto un articolo che parlava dei russi tatuati», riprese Burton Kimball. «Era sul "Wall Street Journal".» «E cosa diceva?» chiese Joanna. «Era un articolo sulle prigioni russe. Parlava dei detenuti russi che si coprono di tatuaggi per manifestare la loro sfida all'autorità. Ogni sorta di autorità. È una variazione sul tema del "Segno rosso del coraggio".» Infervorandosi, Burton Kimball raddrizzò la schiena e proseguì. «E se quest'uomo fosse un ex detenuto, oppure un evaso, o magari un membro della mafia russa? Ho letto qualcosa anche a proposito di questi delinquenti. Ormai ce ne sono in tutti gli Stati Uniti e sono implicati in tutti i generi di affari illeciti, dallo spaccio di droga al riciclaggio di denaro sporco, al contrabbando d'armi... E se Ivy finisse per trovarsi coinvolta in qualcosa del genere?» Kimball si alzò e si avviò alla porta. «Aspetta un momento, Burton», disse Marianne. «Ti rendi ridicolo, saltando così alle conclusioni più assurde.» Burton si fermò presso la porta. «Può darsi», disse. «Però tu non conosci Ivy come la conosco io. È totalmente ingenua. E lui probabilmente... Un momento! Forse è proprio così che è successo...» «Che cosa?» domandò Joanna. «Forse Yuri era qui, quando ho chiamato per dire a Ivy quello che Harold aveva in mente di fare... Forse lei gli ha detto che cosa stava succedendo, e lui ha deciso di rimediare in qualche modo...» «Esattamente, che cos'hai detto a Ivy?» Burton si strinse nelle spalle. «Che zio Harold aveva deciso di patteggiare con Holly. Quella stessa mattina mi aveva detto di voler concedere a Holly tutto quello che voleva. Temevo che Ivy, nonostante tutto quello che aveva fatto, rimanesse con poco o niente, e senza nessuno che si curasse di lei... Beh, adesso è tutto chiaro... Quell'avido bastardo ha avuto lo stesso timore, così ha ucciso zio Harold prima che avesse l'opportunità di cambiare il testamento.» «Niente affatto», obiettò Marianne. «Sono sicura che ti sbagli di grosso
su tutta la linea. Sono tutti e due seri, onesti e degni di stima.» Ma Burton Kimball era ormai inarrestabile. «Ah sì?» ringhiò. «Che cosa sai di lui, in realtà? Sai da dove viene? Conosci il suo passato? Se vuoi sapere la mia opinione, è soltanto un clandestino che ha trovato una soluzione comoda e facile per sistemarsi. Lo sanno tutti che il matrimonio è un modo sicuro per ottenere la carta verde e la cittadinanza. Con l'eredità di suo padre, Ivy è sicuramente un ottimo partito.» Nell'ascoltare quelle accuse, Marianne Maculyea si offese e si arrabbiò non meno di Burton. «Torno a dirti, caro signor Kimball, che ti sbagli di grosso sul conto di Yuri», insistette. «Sono pronta a garantire personalmente per lui. È una bravissima persona, e Ivy, con lui, sarà molto felice.» «Un accidente!» ribatté Harold. «Voi stramaledetti predicatori siete tutti uguali! Buoni, bravi e fiduciosi! Beh, dovresti scendere dal pulpito e razzolare un po' nel mondo reale, tanto per cambiare. Vieni a fare un giro in tribunale, uno di questi giorni, reverendo Maculyea. Forse tu puoi permetterti il lusso di fidarti sempre delle apparenze, ma noi comuni mortali non possiamo. Io non posso. E farò del mio meglio per convincere Ivy a non sposare quel tìzio fino a quando non saremo riusciti a scoprire qualcosa di più sul suo conto!» Ciò detto, Burton Kimball uscì tempestosamente dalla casa. Rimaste sole nel soggiorno altrui, Joanna Brady e Marianne Maculyea si guardarono in silenzio. «Credo che sia meglio che vada», disse Marianne. «Se dovremo celebrare un matrimonio, stasera, in parrocchia, forse Jeff avrà bisogno di aiuto per i preparativi. È un bene che io abbia pulito con l'aspirapolvere prima che tu mi spaccassi la testa.» Joanna ignorò quel piccolo tentativo di fare dell'umorismo da parte di Marianne. «Non ti sembra strano», chiese, «che Ivy si sposi così, tanto in fretta?» Marianne indugiò a meditare sulla domanda. «A dire la verità, più divento vecchia, e più le cose strane cominciano a sembrarmi normali...» «È il mondo, che sta diventando sempre più bizzarro, oppure siamo noi?» «Forse tutt'e due le cose», rispose Marianne. «Sì, molto probabilmente tutt'e due le cose...» Uscirono nella veranda appena in tempo per assistere alla conclusione di una violenta lite fra Burton Kimball e Ivy Patterson. Finalmente, Burton sbatté la portiera della sua Cherokee e se ne andò a tutta velocità dal corti-
le, facendo scappare in tutte le direzioni le galline e i pavoni. «Ho l'impressione», osservò Marianne, «che la dolce voce della ragione non abbia prevalso, e che si debba proseguire con la marcia nuziale...» Joanna scosse la testa. «Forse tutta quanta la famiglia è impazzita... A proposito, sai se qualcuno ha chiamato Holly per dirle che cosa è successo? Anche lei è figlia di Harold, dopotutto, e non ha meno diritto a essere informata di chiunque altro...» «Nessuno me ne ha accennato, che io ricordi», rispose Marianne. Joanna scosse la testa. «Allora forse farei bene a occuparmi anche di questo... Meglio io, che Marliss Shackleford.» «Al cento per cento», convenne Marianne. «Però ti conviene sbrigarti, perché se conosco Marliss, non si lascerà sfuggire l'occasione. Anzi, può darsi che ormai sia già da Holly...» CAPITOLO 24 Nel guidare verso Casa Vieja, Joanna ridiventò consapevole della disperata inadeguatezza del proprio abbigliamento. Gli indumenti che erano adatti a ispezionare la scena del crimine non si addicevano a una visita ufficiale. Sua madre si sarebbe sentita male al solo pensiero che la figlia si recasse malvestita in un luogo come Casa Vieja. Di tutte le ville della città, quella vecchia e venerabile in cima a Vista Park era di gran lunga la più pomposa. A due piarti e solidamente costruita, era ornata con stucco marrone e modanature in legno scolpite a mano. Gli oleandri alti quattro o cinque metri lungo tutto il muretto che cingeva il corale le conferivano un aspetto misterioso e impenetrabile. Decisamente troppo di classe per me, pensò Joanna, nel fermare la Eagle davanti al cancello. Non era sempre stato così. All'epoca in cui Casa Vieja era stata suddivisa in appartamenti, ad esempio, ci aveva abitato il miglior insegnante di educazione fisica che Joanna avesse avuto alle superiori, e lei stessa, al secondo anno, aveva partecipato a una grigliata del tennis club nell'ampia veranda su Vista Park. Ma era successo molto tempo prima che il restauro riportasse Casa Vieja ai suoi antichi splendori. Da allora, secondo Eleanor Lathrop, pochissimi residenti della zona, inclusi i più altolocati, erano stati invitati alla villa, sia dai precedenti proprietari, presunti trafficanti di droga, sia dal proprietario attuale, che si diceva fosse un importante personaggio di Hollywood. Ri-
cordando i pettegolezzi della madre, Joanna sorrise. Per lei, rutti coloro che vivevano a Hollywood, sebbene poco o per niente conosciuti, erano importanti. Quando Joanna ebbe suonato il campanello, una voce chiese: «Chi è?» «Joanna Brady», rispose lei. «Sceriffo Joanna Brady. Vorrei vedere Holly Patterson.» Per tutta risposta, il cancello in ferro battuto si aprì silenziosamente, e Joanna lo varcò. Sul retro della villa un garage aperto conteneva una enorme limousine e la Allanté rossa con un parafango danneggiato. La mente di Joanna fu attraversata dal pensiero che almeno una delle ragazze Patterson sembrava essere riuscita a fare fortuna. Una Allanté rossa era molto, ma molto meglio della vecchia Chevy di Ivy. Nella zona lastricata sul lato occidentale della villa erano segnati alcuni posti auto. Joanna ne occupò uno. Prima che avesse il tempo di decidere verso quale ingresso della casa dirigersi, una porta si aprì. Un'anziana donna ispanica uscì nel portichetto e iniziò a scuotere vigorosamente una scopa. Joanna avanzò di qualche passo nella sua direzione prima di riconoscere Isobel Gonzales, la nonna di una compagna di classe di Jenny. «Oh, salve, signora Gonzales», disse Joanna. «Avevo sentito dire che lavora qui...» La donna sorrise e annuì. «Io, e anche mio marito. Lui lavorava al Dipartimento di Polizia di Morenci, e quando è andato in pensione siamo tornati a Bisbee. Ma io diventavo matta ad averlo in giro per casa tutto il giorno, così ci siamo rimessi a lavorare tutti e due, e adesso va molto meglio.» «È fortunata ad averlo sempre intorno, anche se la fa diventare matta», disse Joanna, sperando che la fitta di nostalgia non sembrasse invidia o rancore. «Lo so», disse Isobel, annuendo e appoggiandosi alla scopa. «È proprio quello che continuo a ripetermi. Beh, la signorina Baxter è là, sul davanti...» Joanna si affrettò a incamminarsi nella direzione indicata. Il patio anteriore, soleggiato, caldo e protetto dal vento, era molto diverso da come lo ricordava. Per prima cosa, le sembrò più piccolo e più bello. Il bordo della terrazza era protetto da una fila di grandi vasi con piante esotiche che non aveva mai visto prima e di cui poteva soltanto a stento immaginare la provenienza. I semplici tavolini da picnic e la griglia improvvisata di un tempo erano stati sostituiti da arredi speciali che sembravano troppo costosi
perché li si potesse lasciare esposti alle intemperie. A un tavolino sedeva una donna con un ampio cappello di paglia sopra i capelli alla paggetto, intenta a leggere un libro. «La signorina Baxter?» chiese Joanna. La donna alzò lo sguardo senza chiudere il libro. «Sì, Amy Baxter», disse bruscamente. «Devo informarla, sceriffo Brady, che l'avvocato di Holly ha dovuto assentarsi stamane, e dato che non si trova in città e non può assisterla, temo che lei non potrà incontrare Holly. Semplicemente non sarebbe responsabile, da parte mia, permetterle di parlare con lei, date le circostanze.» «Posso sedere?» chiese Joanna, lasciando cadere una mano sullo schienale di una sedia. «Certo. Mi scusi. Non intendevo essere scortese. Posso offrirle qualcosa? Caffè, tè...» «No, grazie. A quali circostanze si riferisce, signorina Baxter? Può dirmi esattamente qual è secondo lei il motivo per cui vorrei incontrare Holly Patterson?» «Quello che è successo l'altra notte, naturalmente. Ho letto l'articolo sul giornale, quindi so benissimo che parte ha avuto lei nell'evitare una tragedia terribile. Nonostante questo, con la possibilità che si apra una controversia legale...» «Non sono qui per quello che è successo l'altra notte», interruppe Joanna. «Sono qui per parlare a Holly di suo padre. Harold Lamm Patterson è stato ritrovato.» Amy Baxter emise un sospiro di sollievo. «Davvero? Non può immaginare quanto sia felice di sentirlo. Holly è perennemente sconvolta da quando suo padre è scomparso.» «Temo che non sia una buona notìzia», si affrettò ad aggiungere Joanna. «È morto. Sono qui per informare ufficialmente Holly.» Il viso di Amy Baxter parve afflosciarsi. «Oh, mio Dio! È terribile... Holly ne sarà devastata... Si considerava in qualche modo responsabile della sua scomparsa, e adesso temo che... Che cosa è successo? Un incidente? Un attacco di cuore? Che cosa?» «Se potessi parlarne con Holly, per favore...» «Ma certo! Vado subito a chiamarla...» Amy Baxter accennò alla casa. «Anzi, se non le dispiace, forse sarebbe meglio se salissimo insieme in camera sua. È piuttosto instabile, attualmente, perciò temo che...» «Nessun problema», disse Joanna.
Amy Baxter si alzò. «Da questa parte...» L'interno della villa era magnifico. Tranne che nelle fotografie sulle riviste di arredamento, Joanna non aveva mai visto una casa più bella, con i lustri pavimenti in legno, folti tappeti orientali sparsi qua e là e comodi sedili in cuoio che si armonizzavano perfettamente ai dettagli dell'architettura ispirata a quella delle antiche missioni spagnole, creando un'atmosfera elegante e al tempo stesso confortevole. Le lampade installate sui soffitti alti tre metri e mezzo illuminavano delicatamente i quadri a olio che riproducevano fiori sgargianti, spesso simili a quelli delle piante in vaso nel patio. «Pauli è davvero molto bravo, vero?» disse Amy Baxter, quando Joanna indugiò ad ammirare un quadro dai colori particolarmente vivaci, collocato in cima alla scala a spirale. «Pauli?» ripeté scioccamente Joanna, pensando che fosse il nome di un artista abbastanza famoso perché lei dovesse almeno averne sentito parlare. Amy rise. «Paul Enders, il pittore! In realtà è un costumista. Dipinge soltanto per hobby. Lo chiamiamo tutti Pauli. Questa casa è sua», continuò. «Ci ha permesso di restare fino a quando la situazione sarà risolta. Come non tarderà a constatare lei stessa, l'intimità di cui abbiamo beneficiato è stata una vera benedizione.» Girando a destra, Amy imboccò un lungo corridoio che conduceva sul retro della villa. «Ci sono camere più belle che Holly avrebbe potuto scegliere», spiegò Amy in tono di scusa, «ma per qualche strana ragione ha preferito questa...» Sostò dinanzi a una porta chiusa e bussò. «Holly!» chiamò. «Ci sei? Possiamo entrare?» Anche se Joanna non udì alcuna risposta, Amy provò a girare la maniglia antiquata della porta, che si aprì senza proteste. La stanza buia, in cui il caldo, rispetto al resto della casa, era soffocante, aveva l'aspetto e l'odore di quella di una malata. Vicino alle finestre dirimpetto alla porta, chiuse dalle tende, una sedia a dondolo dall'alto schienale cigolava lentamente avanti e indietro. «Holly..,» chiamò di nuovo Amy, con esitazione. «C'è una persona che vuole vederti...» «Dille di andarsene», mormorò Holly. «Non voglio vedere nessuno. Lasciami sola.» «È lo sceriffo Brady», spiegò Amy. «È venuta a parlarti di tuo padre.» Bruscamente il dondolio cessò e Holly balzò in piedi all'improvviso. Gli
occhi profondamente angosciati nel viso pallidissimo fissarono Joanna. «Dov'è?» chiese Holly. «Mi dica dov'è! Devo vederlo! Avremmo dovuto discutere un accordo. Lo aveva promesso. Ma poi è scomparso, e nessuno sa più dove sia.» «Temo che suo padre non potrà mantenere nessuna promessa», disse pacatamente Joanna. «È morto. Fra martedì sera e oggi ha perso la vita. Con l'autopsia sarà possibile stabilire il momento esatto della morte.» «Mio padre è morto?» ripeté lentamente Holly Patterson, afflosciandosi di nuovo sulla sedia a dondolo, come se non fosse più in grado di reggersi in piedi. «È morto?» «Sì...» Singhiozzando, Holly Patterson si curvò in avanti comprimendosi l'addome come per un improvviso attacco di appendicite. «Noooooo! Non può essere morto... Non glielo permetterò! Non ho mai voluto che morisse! Mai!» Amy Baxter si affrettò ad attraversare la stanza per inginocchiarsi accanto alla sedia a dondolo. «È tutto okay, Holly. Calmati, adesso. Lo sanno tutti che non è colpa tua.» «Invece lo è», gemette Holly. «Non capisci? È colpa mia! È tutta colpa mia! Non volevo che morisse. Volevo soltanto che mi dicesse di persona che gli dispiaceva per quello che mi aveva fatto, e basta. Non avrei mai dovuto tornare in questo posto orribile! Mai!» «Ti prego, Holly...» implorò Amy. «Non addossarti tutta la colpa. Non sei stata tu.» «Com'è morto?» chiese Holly, con la voce soffocata da una mano premuta sulla bocca. «La prego... Non mi dica che si è suicidato... Posso sopportare tutto, tranne questo...» Joanna pensò che attenuare la verità sarebbe stato inutile. Molto meglio sarebbe stato riferire subito tutte le cattive notizie e offrire a Holly l'opportunità di assimilarle, fin tanto che aveva l'aiuto di una persona come Amy Baxter. «Stiamo investigando sulla sua morte come un possibile omicidio», rispose prudentemente Joanna. «Ho voluto che ne fosse informata ufficialmente...» «Allora vuol dire che non si è ucciso?» chiese Holly, raddrizzando la schiena di scatto e abbassando la mano dal viso. «Vuol dire che è stato qualcun altro a ucciderlo?» «Così sembra, allo stato attuale...»
Holly Patterson emise un lungo sospiro. «Grazie a Dio... Non lo avrei sopportato, se si fosse suicidato. Sarei impazzita. Ma se è stato qualcun altro...» «Suvvia, cara», disse Amy, massaggiandole il collo come per allentare almeno parzialmente la tensione. «Non ci pensare, adesso, cerca di rilassarti...» Holly Patterson chiuse gli occhi e si abbandonò al massaggio. «Dovrei andare a parlarne con la mamma...» sussurrò. «La mamma saprà cosa fare...» Amy intercettò lo sguardo di Joanna, scosse la testa, e sollevò una mano posando l'indice di traverso sulle labbra. Intanto, con l'altra, continuò a massaggiare il collo di Holly. «Non puoi andare da tua madre, Holly. Te l'ho già spiegato. Tua madre è morta. Ricordi? È morta cinque anni fa. Siamo state al cimitero, a visitare la sua tomba.» «Ma io l'ho vista... l'altro giorno, in città... ricordi?» «Quella era tua sorella Ivy. Assomiglia molto a com'era tua madre all'epoca in cui la vedesti per l'ultima volta.» «Quella non può essere mia sorella... Ivy è una ragazzina, una bambina...» «Certo», disse Amy, in tono calmo, per tranquilli zzarla. «È una bambina... Perché adesso non riposi un po', Holly? Più tardi, quando ti sveglierai, forse potremo riparlarne...» Holly annuì, ma senza dire niente. Seguì un silenzio di circa un minuto, durante il quale Holly si addormentò profondamente. Amy si volse a Joanna. «Potrei chiamare la signora Gonzales, ma, se non le dispiace... Potrebbe aiutarmi a rimetterla a letto? Ha mangiato male, e durante la notte ha dormito pochissimo. Adesso, però, dopo quello che è successo, dormirà almeno per qualche ora.» Insieme, Amy e Joanna sollevarono l'addormentata Holly e la trasportarono sul letto, poi uscirono dalla stanza, ripercorsero il corridoio e scesero di nuovo la scala. «Che cos'ha?» chiese Joanna. «Probabilmente sarebbe più giusto chiedere che cosa non ha», rispose Amy Baxter. «È proprio come temevo: ritornare qui è stato troppo duro, per lei. Holly è un caso da manuale. Cominci con un po' d'incesto, aggiunga notevoli disfunzioni famigliari, mescoli con un po' di droga per evadere dalla realtà, più una manciata di odio per se stessa, e otterrà una donna molto disturbata.»
«Ernie Carpenter è il detective della omicidi che indaga sul caso di suo padre. Forse avrà bisogno di parlare con lei. Crede che sia in grado di sostenere un interrogatorio?» Amy scrollò le spalle. «Chi può dirlo? Se vuole provarci, non ho niente in contrario, ma non so che cosa potrà ricavarne. Comunque, ci sono momenti in cui sta abbastanza bene. Gli dica di chiamare, prima, per sentire come sta Holly.» «Sembra drogata...» osservò pensierosamente Joanna. «Sembra», rispose Amy Baxter con un cenno della testa. «Però non lo è più da qualche tempo. Di tanto in tanto ha ancora le allucinazioni, residuo dell'abuso di LSD durante la gioventù.» In fondo alla scala, Amy Baxter si fermò, con una mano sulla lucida balaustra in mogano. «Grazie dell'aiuto», disse. «Nessun disturbo», rispose Joanna, fermandosi a sua volta. «Non mi consideri troppo ingrata se lo dico, ma spero che non scopriate mai chi è stato. Sono felice che quel bastardo di suo padre sia morto e mi auguro che chi l'ha ammazzato, chiunque sia, la passi liscia, perché qualunque cosa gli sia capitata, quel vecchio depravato se la meritava!» «Che cosa le ha fatto, esattamente?» chiese Joanna, sempre pensosa. Anche se non era costretta a farlo, Amy Baxter rispose. «Ha stuprato la figlia», disse, con parole dure e gelide come schegge di ghiaccio. «Cominciò ad abusare di lei quando aveva soltanto due anni, capisce! Perciò, qualunque cosa sia successa a Harold Patterson, io ne sono contentissima. Anche se non può più farle niente, adesso che è morto ha visto lei stessa in quali condizioni è Holly. Emotivamente è devastata, e per tutto il resto della sua vita subirà le conseguenze delle violenze che le sono state inflitte.» Senza accompagnare lo sceriffo alla porta, Amy si girò e risalì in fretta la scala. Nel varcare di nuovo, con la Eagle, il cancello in ferro battuto di Casa Vieja, Joanna pensò a quello che aveva detto Amy sull'uso di droghe da parte di Holly. Le allucinazioni di cui Holly soffriva erano davvero la conseguenza dell'abuso di droghe nel passato, oppure i suoi problemi mentali avevano cause del tutto diverse, magari affini a quelle che avevano provocato la pazzia di Emily Patterson? Era possibile che la malattia mentale avesse cause genetiche e che la madre l'avesse trasmessa alla figlia? In verità, stando a quello che Joanna aveva potuto vedere e sentire personalmente negli ultimi giorni, tutte le donne della famiglia Patterson sembravano essere mentalmente disturbate.
Soltanto dopo aver imboccato Cole Avenue in direzione della Warren Cutoff, Joanna rammentò quello che aveva dimenticato di riferire. Holly Patterson era rimasta tanto sconvolta dalla notizia della morte del padre, che non le aveva parlato del secondo defunto. Quale poteva essere esattamente la connessione fra i due cadaveri? Di sicuro non era per pura e semplice coincidenza che erano finiti tutti e due nello stesso pozzo. Ma per scoprire il collegamento sarebbe stato necessario comprendere le relazioni fra tutti gli altri pezzi disposti sulla scacchiera. Joanna avrebbe potuto semplicemente lasciar perdere. Dopotutto, il caso era di Ernie Carpenter. Lei avrebbe potuto limitarsi a restare tranquillamente seduta nel suo ufficio a cercare di capire quale fosse la situazione dei fondi stanziati per l'anno venturo. Oppure avrebbe potuto cercare di ficcare il naso dove non necessariamente avrebbe dovuto. Questa era l'alternativa. All'incrocio fra Cole Avenue e Arizona Street, arrivò il momento di decidere. Imboccando la Warren Cutoff dalla Highway 80 avrebbe potuto tornare a casa, oppure andare in ufficio, o ancora proseguire diritto per Cole Avenue e continuare a non farsi gli affari suoi. Dopo un'esitazione di un solo momento, accese l'indicatore di direzione sinistro e si diresse al rifugio preferito di Eleanor Lathrop, ossia l'Helene's Salon of Hair and Beauty. CAPITOLO 25 Quando Joanna entrò nel salone di bellezza, Helen Barco era impegnata, dietro l'unica poltrona della bottega, ad arrotolare i capelli di una cliente intorno ai bigodini in plastica rosa, mentre la cliente stessa le passava, uno alla volta, involucri di carta velina. Entrambe alzarono lo sguardo con sorpresa nel momento in cui Joanna entrò. «Santo cielo, ragazza mia!» sbottò Helen. «Che cosa ti è successo alla faccia?» Quel mattino, nella fretta di vestirsi e uscire, Joanna non si era quasi guardata allo specchio, così, in quel momento, vedendo la propria immagine riflessa, rimase quasi sconcertata nel constatare quanto risaltasse il livido. In parole povere, lo sceriffo Joanna Brady aveva un aspetto schifoso. «Niente di che», rispose, con una scrollata di spalle. «Soltanto un occhio nero.»
«Niente di che, dici?» Helen roteò gli occhi. «Certa gente appena uscita dal pronto soccorso avrebbe un aspetto migliore del tuo. So che non hai fissato un appuntamento, ma se puoi aspettare qualche minuto, mentre finisco con la signora Owens, forse posso occuparmi di te prima della prossima cliente. Sicuramente dobbiamo fare qualcosa per il tuo occhio. Che cosa ne direbbe tua madre?» «Ti ringrazio molto, Helen», rispose Joanna, astenendosi da un commento che altrimenti sarebbe stato di sicuro riferito a sua madre, «ma oggi non ho proprio tempo. Sono venuta per chiederti un favore.» «Che genere di favore? Ho appena offerto una permanente e una manicure gratis all'assistenza per gli anziani, se questo è quello che volevi chiedermi.» «No, niente del genere. Qua in negozio tieni "People", vero?» Helen annuì. «"People", "Good Housekeeping" e "Ladies' Home Journal". Per qualche mese ho provato a tenere anche "New Woman", ma alle mie clienti non è piaciuto granché. Hanno quasi tutte una certa età, come sai, e non apprezzano certe novità.» «Conservi anche qualche arretrato?» «Qualcuno... perché?» «Per caso, hai ancora quello con l'articolo su Holly Patterson?» «Assolutamente sì!» rispose Helen. «Non lo perderei mai di vista, quello! Non capita tutti i giorni che si parli così di Bisbee, grazie al cielo! Naturalmente, tutti gli edicolanti della città hanno esaurito subito quel numero di "People". Per fortuna, io sono abbonata.» «Potresti prestarmelo?» chiese Joanna. «Non ho ancora avuto occasione di leggerlo, ma adesso credo proprio di doverlo fare...» «Sicuro», disse Helen. «Però devi promettermi di restituirmelo. Comunque, perché hai bisogno di leggerlo proprio adesso? È uscito qualche settimana fa... Che sta succedendo?» In base a quello che sua madre le aveva riferito nel corso degli anni, Joanna sapeva che nel negozio di Helen le acconciature e i trattamenti di bellezza passavano molto spesso in secondo piano rispetto ai pettegolezzi cittadini. Ebbene, non sarebbe stato un gran danno se, tanto per cambiare, Helen avesse potuto fare un vero scoop. Anzi, era possibile che il flusso d'informazioni utili non viaggiasse soltanto a senso unico, senza contare che rutti i parenti erano già stati informati. «Abbiamo trovato Harold Patterson», disse Joanna. «È morto.» «No! Un attacco di cuore? Un colpo?»
«Non possiamo rilasciare informazioni sulle cause della morte, al momento», rispose Joanna, con una evasività che senza dubbio Helen considerò deliziosamente stuzzicante. Helen sgranò gli occhi. «Davvero? Ma è una cosa dell'altro mondo! Chi l'avrebbe mai pensato! A quanto pare, il cuore del vecchiaccio non ha retto alla tensione! Aspetta qui, Joanna, vado a prenderti la rivista...» Dato che i terreni pianeggianti erano rari a Bisbee, la casa di Helen Barco era costruita su una collina, e il negozio, ricavato da un'ex rimessa, era nel seminterrato sotto l'alloggio. Ansimante per la fatica di salire e scendere le scale, Helen tornò poco dopo per consegnare a Joanna una rivista con le pagine piene di orecchie. Sulla copertina era scritto evidenziato in rosso NON BUTTARE. «Davvero non ti dispiace se la prendo in prestito?» chiese Joanna. «Come ti ho già detto, Joanna cara», rispose Helen, «puoi prendere quello che vuoi, purché lo riporti. Dopotutto, adesso sei lo sceriffo, vero? Insomma, se non ci si può fidare dello sceriffo...» Allora Joanna rimase confusa e senza parole, pensando che, senza dubbio, Walter V. McFadden non era stato tanto affidabile quanto era sembrato. «Beh, comunque», continuò Helen, «mi piacerebbe riaverla, quando non ti servirà più. Un giorno, forse, questo numero diventerà un pezzo da collezione. Sei sicura che non vuoi che cerchi di risistemarti la faccia?» «No», disse Joanna, avviandosi alla porta. «Non oggi. Ho troppa fretta.» Era ormai l'una passata da un pezzo e il suo stomaco, brontolando, si lagnava di essere stato trascurato tanto a lungo. Così, Joanna resistette alla tentazione di andare subito in ufficio. In fin dei conti, anche lo sceriffo aveva il diritto di pranzare. Guidando alla massima velocità consentita, tornò a High Lonesome, si spogliò, fece una delle docce più veloci del mondo e si preparò un panino con burro di arachidi e marmellata. Finendo di trangugiarlo, ripartì per il Palazzo di Giustizia di Cochise County, dopo aver indossato uno dei suoi vecchi completi da assicuratrice. Il problema di cosa indossare o non indossare stava diventando a dir poco scocciante. Giunta a destinazione, notò alcuni veicoli della stampa nel parcheggio anteriore del complesso. Si recò in quello posteriore, dove occupò il posto riservato allo sceriffo, che era sgombro. Le sarebbe piaciuto usare l'ingresso privato, ma nessuno le aveva ancora comunicato il codice, così fu costretta a suonare perché le fosse aperto
quello che era riservato al personale. Arrivò in sala d'attesa proprio mentre Dick Voland inveiva contro la sfortunata Kristin. «Non chiedere a me che cosa bisogna dire a tutti i giornalisti accampati nell'atrio! Non è più un mio problema! Chiedilo allo sceriffo Brady!» «Chiedermi che cosa?» Voland si girò a concentrare su Joanna la propria irritazione. «C'è uno sciame di api assassine dei media, giù nell'atrio, e tutti quanti vogliono sapere che cosa diavolo sta succedendo! Qualcuno avrebbe dovuto organizzare una conferenza stampa!» «È una buona idea», disse amabilmente Joanna. «Perché non te ne occupi tu?» «Io?!» obiettò Dick Voland. «Perché io?» «Perché non tu? Non ti occupavi dei rapporti coi media, quando c'era Walter McFadden?» «Sì, ma...» «Quindi puoi farlo anche adesso», interruppe Joanna. «Con un caso così importante, è molto meglio che questo aspetto delle indagini sia seguito da una persona esperta. Kristin, provveda ad avvertire i giornalisti che ci sarà una conferenza stampa fra quindici minuti. A proposito... dov'è Ernie? Non è ancora tornato?» «È nel suo ufficio», intervenne Kristin. «Ha detto che non voleva essere disturbato. Penso che stia redigendo il rapporto.» «Comunque, dica a Ernie di venire subito nel mio ufficio. Non ci vorrà molto, ma voglio parlargli prima della conferenza stampa del vicesceriffo capo Voland. Voglio che sia presente anche tu, Dick. Prima di affrontare i giornalisti, noi tre dobbiamo consultarci.» Senza attendere le repliche di nessuno dei due, Joanna si diresse all'ufficio dello sceriffo, che adesso era il suo ufficio. Si aspettava, quasi, di trovarvi ancora gli oggetti personali e la confusione di Dick Voland, ma sbagliava. Durante la notte i mucchi di scartoffie e tutto il resto erano scomparsi, inclusa la collezione di cartelli di Al Freeman. Tutte le superfici della scrivania, dell'armadietto e del tavolino erano così perfettamente pulite da luccicare. Il portacenere metallico stracolmo era stato sostituito con uno di marmo, pesante, col fondo di velluto, che troneggiava in lindo e solitario splendore all'angolo destro della scrivania. Sulla soglia, Joanna si fermò e si volse alla scrivania della segretaria, dove Dick Voland e Kristin Marsten erano rimasti immobili, come conge-
lati. «Ancora una cosa, Kristin...» aggiunse. «Quando avrà riferito il mio messaggio a Ernie, mi servirà una provvista di blocchi per appunti, penne e matite.» Quindi attese abbastanza a lungo per accertarsi che la giovane donna ubbidisse. Con la fronte corrugata in un'espressione di sfida, scuotendo i folti capelli, Kristin si girò verso il telefono. «Detective Carpenter...» disse un momento dopo. «Lo sceriffo vuole vederla nel suo ufficio. Subito.» Lasciando la porta aperta, Joanna si recò alla scrivania e sedette sulla massiccia poltrona in cuoio, di gran lunga troppo grande per lei. Lo schienale era tanto alto da farla sentire minuscola e insignificante. Com'era prevedibile, l'ufficio aveva la desolazione di un appartamento disabitato, ma Joanna, in quel momento, non aveva il tempo di portarci le sue poche cose e di pensare a come personalizzarlo. Se ne sarebbe occupata in seguito. Pochi istanti più tardi, Kristin varcò la soglia dimenando la minigonna ultracorta e senza tante cerimonie lasciò cadere sulla scrivania alcuni taccuini e tre penne. «Abbiamo finito le matite», biascicò, masticando una gomma. «Chi si occupa della cancelleria?» chiese Joanna. «Io.» «Bene. Allora le ordini. Voglio anche le matite.» «Nient'altro?» «Sì. Voglio che lei parli con chiunque ne sia responsabile affinché provveda a fornirmi una vettura dotata di radio.» «Cos'altro?» Joanna scrutò la giovane segretaria, che poteva avere al massimo ventidue o ventitré anni. Kristin Marsten nutriva nei suoi confronti una malcelata ostilità, e fino a un certo punto Joanna la capiva. Era così che andavano le cose in politica. Quando un nuovo eletto entrava in carica, ci voleva sempre un po' di tempo per entrare in sintonia col personale e perché le alleanze cambiassero. Intanto, però, il lavoro doveva andare avanti comunque. «Ha mai lavorato per una donna, prima d'ora?» chiese Joanna. Stupita, Kristin abbassò lo sguardo e strascicò i piedi. «No davvero... perché?» «Semplice curiosità», disse Joanna. «Lavorare per il signor Voland le piaceva, vero?» «Sì», disse Kristin. «Molto.»
«Allora lasci che le faccia una domanda... Quando era lui a occupare questo ufficio, gli ha mai portato il caffè?» «Sì, qualche volta... gli piace nero.» «Ed Ernie Carpenter?» «Anche lui lo preferisce nero.» «Capisco...» Joanna si addossò allo schienale. «Allora siamo in tre. A tutti noi piace nero, quindi continueremo la tradizione, se non le dispiace. E dato che noi tre abbiamo già avuto una mattinata molto lunga, perché non ci porta tre tazze di caffè nero, appena arrivano Ernie e Dick?» Kristin si avviò alla porta. «È tutto?» «Ancora una domanda. Esattamente, perché ha voluto lavorare qui?» Kristin scrollò le spalle. «Era un lavoro come un altro, credo... ma ho pensato che sarebbe stato interessante, lavorare per le forze dell'ordine...» «E lo è?» «Sì.» «Ha mai pensato a fare qualcosa di più che la segretaria? Magari diventare vicesceriffo o passare al centro operativo, o comunque un incarico di maggiore responsabilità, che comporti anche uno stipendio migliore?» Kristin scosse la folta capigliatura. «Non credo», disse. «Cioè, lavorare al centro operativo è una cosa seria, ma... nessuno mi prende mai sul serio... non sono per niente stupida, eppure... sa, tutte quelle battute sulle bionde, e io...» «È difficile che gli uomini la prendano seriamente, se sono sempre impegnati a guardarle nella scollatura o sotto la gonna», rispose Joanna. «A proposito, la biancheria intima che indossa oggi è bellissima. Mi piace molto la sfumatura turchese di reggiseno e mutandine. Sono sicura che piace molto anche ai ragazzi che lavorano qui. Ho notato come la guardano. Ma se vuole che gli uomini la prendano sul serio, forse una gonna più lunga le sarebbe d'aiuto.» Sconvolta, Kristin aprì la bocca, ma senza riuscire a parlare. Arrossendo violentemente, girò sui tacchi e uscì quasi di corsa, rischiando, nella fretta di fuggire dall'ufficio e di sottrarsi allo sguardo calmo e critico di Joanna, di scontrarsi con Dick Voland. «Che è successo a Kristin?» chiese Dick, entrando con andatura dinoccolata, prima di afflosciarsi sopra una poltrona. «Credo che si possa definire "shock culturale"», rispose Joanna. «Dov'è Ernie?» «Sarà qui fra poco.»
«Grazie per avermi già liberato l'ufficio, Dick», disse Joanna. «È stato gentile da parte tua. Non so come tu sia riuscito a trovare il tempo di farlo...» Il vicesceriffo capo si strinse nelle spalle con riluttanza. «Niente di che», disse, anche se Joanna sapeva che non era stato affatto così. Subito dopo arrivò Ernie, il quale, sebbene avesse trascorso l'intera mattinata malvestito, a ispezionare la scena del crimine, in quel momento indossava un completo perfettamente stirato, con camicia bianca inamidata e cravatta, per non parlare delle scarpe lucidissime. Guardandolo, Joanna fu lieta di essersi presa il tempo di tornare a casa per lavarsi e cambiarsi. «Che succede?» chiese Ernie, con irritazione. «Sono molto impegnato.» «Non ne dubito, ma fra poco daremo una conferenza stampa», disse Joanna. «E da quando?» «Da quando l'ho deciso. È un caso grosso, e dobbiamo trattarlo in modo che la stampa non ci faccia a pezzi. Sarà Dick a occuparsi dello spettacolo, ma io voglio che ci sia pieno accordo fra tutti noi su quello che dirà e non dirà.» Allora entrò Kristin con tre tazze di caffè. Senza una parola, posò sulla scrivania quella di Joanna, poi si girò, si fermò un momento davanti al basso tavolino, e si sforzò di trovare un modo per posarvi le altre due tazze senza essere costretta a curvarsi. Alla fine risolse il problema consegnandole direttamente ai due uomini. «Allora...» chiese Joanna, appena Kristin fu uscita. «A che punto siamo?» «Due cadaveri al prezzo di uno», rispose Ernie Carpenter. «Ho recuperato quello di Harold Patterson e l'ho consegnato al Coroner. Quello che abbiamo potuto raccogliere dello scheletro è dentro un sacco. L'idrovora sta facendo il suo lavoro, ma c'è ancora troppa acqua, laggiù, perché si possa finire d'ispezionare il fondo del pozzo.» «Qualche possibile identificazione per lo scheletro?» «Nessuna.» «Cause della morte?» «A me sembra che il cranio sia stato fracassato con un sasso, ma è soltanto una pura e semplice supposizione.» «Hai raccolto qualche indizio?» «No, ma... Come avrei potuto? Santo cielo! Sono rimasto per tutta la mattina a rimestare nel fango in fondo a quel dannato pozzo!»
Joanna si volse al vicesceriffo capo. «Bene, Dick. Ecco quello che dovrai dire alla stampa.» «Cioè, cosa?» «Due diversi omicidi. Una vittima identificata, l'altra ancora sconosciuta. Al momento, nessun indizio su nessuno dei due casi.» «Tutto qui? Convochi una conferenza stampa per non dire praticamente niente? Mi faranno a pezzi...» «Qualcosa, anche se poco, è sempre meglio di niente», ribatté Joanna. «Dovranno accontentarsi. Di' loro che appena ne sapremo di più, li aggiorneremo.» Scuotendo la testa, scontento, Dick Voland uscì dall'ufficio con la sua tazza di caffè. Quando Ernie Carpenter si accinse a seguirlo, Joanna lo fermò. «Aspetta un momento, Ernie...» Il detective sospirò e con riluttanza si rimise a sedere. «Che c'è, adesso?» «Stamane, al Rocking P, ho raccolto qualche informazione utile», disse lei. «Utile?» chiese lui, scrollando le spalle con disinteresse. «Ad esempio?» Joanna si alzò, si recò alla porta e la chiuse. «Ad esempio, chi potrebbe avere ucciso Harold Patterson», rispose risolutamente, «e perché.» CAPITOLO 26 Ernie Carpenter rimase nell'ufficio di Joanna per più di un'ora. Appena lei cominciò a riferirgli tutto quello che aveva scoperto al ranch dei Patterson e durante la visita a Casa Vieja, Ernie prese uno dei suoi blocchi, una delle sue penne, e cominciò a scribacchiare appunti. Quando lei tacque, dopo avergli detto tutto quello che riusciva a ricordare, Ernie studiò in silenzio i propri appunti per alcuni istanti. «Sai una cosa?» disse pensosamente, masticando un'estremità della penna. «Quello che mi hai detto collima con alcuni degli elementi che ho raccolto...» «Ad esempio?» «Ad esempio», rispose lui, «ho potuto stabilire, per ora, in base alle tracce, che negli ultimi giorni c'è stato parecchio andirivieni, lassù al pozzo. Il guaio è che le tracce appartengono tutte allo stesso veicolo.» «Quale?» «Lo Scout di Harold Patterson.» «È logico.» «Soltanto fino a un certo punto», disse Ernie. «Può averlo guidato lui
l'ultima volta che è salito lassù, ma poi è sicuro come l'inferno che non può essersene andato. Secondo l'esame preliminare del Coroner, la morte è avvenuta presumibilmente martedì o mercoledì, ma Burton Kimball dice di essere andato a cercare lo zio, la notte delle elezioni, perché aveva visto il suo pick-up nel parcheggio del centro convegni. Dunque la prima domanda è questa: com'è arrivato, lo Scout, dal pozzo al parcheggio?» «È impossibile dirlo, ma presumibilmente è stato guidato dall'assassino.» Ernie scosse pensosamente la testa. «Quello che non combina con tutto il resto è che Ivy e il suo amante hanno trascorso la notte sullo Scout, mentre Harold giaceva morto a breve distanza. Questo è decisamente il colmo!» «Sì, è perverso», convenne Joanna. «E quei due si sposeranno stasera?» Joanna annuì. «Così hanno detto. Alle sette, alla chiesa metodista di Canyon, Marianne Maculyea li sposerà.» «Mi sembra piuttosto affrettato», disse Ernie, accigliato. «Voglio dire... il cadavere del vecchio non è ancora freddo, e la figlia si fa scaldare dal suo amante nel camioncino del padre, poi, in men che non si dica, si sposa. Non poteva almeno rimandare la cerimonia a dopo il funerale? Per giunta, tu hai detto che Burton Kimball ha saputo del matrimonio soltanto oggi...?» «Così pare. Sembrava che non avesse mai neanche sentito parlare di Yuri Malakov», disse Joanna. «E così, il russo e Ivy erano già fidanzati, ma nessun parente, a quanto sembra, ne sapeva niente, incluso il vecchio...» «Perché mantenere segreto il fidanzamento?» chiese Joanna. «Per le prevedibili obiezioni di qualcuno», rispose Ernie. «Dunque la seconda domanda è questa: perché mai qualcuno avrebbe dovuto opporsi al matrimonio?» Joanna annuì pensierosamente. «Secondo Marianne, Yuri intende chiedere la cittadinanza... Sono necessarie le impronte digitali, per l'immigrazione?» «E anche la fedina penale», disse Ernie. «Possiamo averne una copia?» Ernie rise. «Teoricamente sì, ma quelli dell'Immigrazione non si fanno mettere fretta da nessuno. Ho già fatto richieste del genere, in passato, ma potrebbero volerci alcuni mesi soltanto per avere una risposta, anche con la
collaborazione dei ragazzi della FM.» La Forza Multigiurisdizionale era una task force istituita di recente per contrastare le attività criminali nella zona lungo il confine col Messico, incluse quelle che spesso travalicavano i confini giurisdizionali. Una squadra della FM aveva sede proprio al Palazzo di Giustizia di Cochise County, ma Joanna ne era informata soltanto vagamente. Era uno di quegli argomenti connessi al suo nuovo lavoro su cui si era aspettata di avere il tempo d'informarsi nel periodo successivo alle elezioni, prima di prestare giuramento a gennaio. «Forse potresti chiedere a qualcuno di loro di esercitare qualche pressione», suggerì. «Non trattenere il fiato, nel frattempo», disse amaramente Ernie, alzandosi. «Comunque ci proverò.» Il detective era già alla porta, quando Joanna ricordò la rivista. «Per caso, tu non leggi mica "People", vero?» Ernie scosse la testa. «No. Sono piuttosto un tipo da "Smithsonian" e "Home Mechanics"», rispose lui. «Il mese scorso c'era uno splendido articolo sulla costruzione delle barche... Ma perché me lo chiedi?» Joanna si curvò per sfilare dalla borsa la rivista che Helen Barco le aveva prestato, ma subito ci ripensò. «Non importa», disse. «C'è un articolo, in un numero della rivista, che credo dovresti leggere, ma sicuramente hai già fin troppe cose da fare. Cercherò di darci un'occhiata, stasera, e se avrò l'impressione che possa risultare utile alle indagini, te la farò avere subito, domattina.» «Bene», disse Ernie, aprendo la porta. «Non ho certo bisogno di un'altra cosa da fare entro stasera.» In quel momento ronzò l'interfono sulla scrivania di Joanna, che non riuscì a capire come fare a rispondere, dato che nessuno le aveva spiegato come funzionava. Alla fine rinunciò, si recò alla porta e l'aprì. «Sì?» «C'è qualcuno che desidera vederla.» «Di chi si tratta?» Prima che Kristin potesse rispondere, una giovane donna si alzò da una poltrona e si affrettò ad avvicinarsi, offrendo la mano. Bassa, tarchiata e ben vestita, molto pratica e decisa, aveva qualcosa di vagamente familiare, anche se Joanna non riusciva a ricordare chi fosse. «Sue Rolles», disse la donna, con un sorriso affascinante. «Sono cronista dell'"Arizona Daily Sun".» «Una cronista... Temo che dovrà parlare col vicesceriffo capo Voland. È
lui che si occupa delle relazioni con la stampa a proposito del caso del pozzo.» «Non si tratta di questo», disse Sue Rolles, «ma di qualcosa di completamente diverso.» Joanna precedette la giornalista nel proprio ufficio, poi con un cenno la invitò ad accomodarsi. «Ci siamo già conosciute, per caso?» chiese. «Mi sembra che lei abbia un aspetto familiare...» «Non esattamente», rispose Sue Rolles. «Ci siamo incontrate nel settembre scorso, a Tucson, nell'atrio dell'University Hospital, ma non ci siamo presentate. Da allora ho trascorso parecchio tempo qui, a Cochise County, per un incarico speciale.» «E che cosa riguarda, questo suo incarico?» «La competizione elettorale per la mansione di sceriffo.» Joanna Brady era in carica da un solo giorno, ma conosceva abbastanza bene il mestiere del poliziotto per diffidare dei giornalisti e delle loro imboscate. «Strano...» disse. «Non ricordo che abbia mai neanche chiesto d'intervistarmi...» «Non sto lavorando a niente del genere», si affrettò a dire Sue Rolles. «Capisco... E allora a che cosa sta lavorando, esattamente?» Sue Rolles scrollò le spalle. «Sa com'è, prima delle elezioni, la gente è libera di dire quello che non può o non vuole dire dopo... I miei capi mi hanno chiesto di seguire alcuni di quelli che lavorano qui per scoprire dall'interno come avrebbero reagito i dipendenti, a seconda del candidato che fosse stato eletto...» «In altre parole», intervenne Joanna, senza nessun divertimento, «è andata in giro a mettere zizzania prima che io prendessi servizio...» «Oh, no! Niente affatto!» «E allora, cosa?» «Dato che lei è la prima donna a occupare questa carica nello stato dell'Arizona, l'interesse è enorme, soprattutto perché molti di coloro che ora sono alle sue dipendenze sono uomini.» «Ebbene?» chiese Joanna con circospezione. «Le sembra che questo comporti qualche problema?» «Non direi. Mi sono occupata spesso dell'argomento, durante la campagna elettorale. Il problema è il crimine, non l'appartenenza al sesso maschile o femminile.» «Anche se alcuni dei suoi collaboratori si sono espressi criticamente nei confronti delle sue... competenze per questo genere di lavoro?»
«Gli elettori della contea non si aspettavano che sapessi già tutto al primo giorno di lavoro», ribatté Joanna. «Come sappiamo entrambe, quando s'inizia un nuovo lavoro c'è sempre da imparare, e io credo che i miei elettori esigano da me il massimo impegno. Vogliono che identifichi gli eventuali problemi all'interno del dipartimento e che trovi il modo di risolverli. Questo è quello che la gente vuole, e questo è quello che cercherò di fare.» «Crede che la sua elezione e ciò ch'è successo al suo predecessore facciano sì che continui a esistere un problema etico all'interno del dipartimento?» Joanna Brady non aveva nessuna voglia di discutere di Walter V. McFadden, né del ruolo che lei stessa aveva avuto nella sua morte. «Qualunque avvicendamento implica un potenziale problema "etico", sia nel settore privato, sia nel settore pubblico. Non ho nessuna intenzione di avviare una specie di caccia alle streghe, ma soltanto di offrire a tutti i funzionari un'equa opportunità di dimostrare quello che sanno fare. E presumo che loro mi useranno la stessa cortesia,» «Allora sa delle dimissioni di Martin Sanders?» Vicecapo amministrativo, Martin Sanders era, nel suo settore, l'equivalente di Dick Voland, e aveva sempre agito dietro le quinte. Mentre Dick aveva appoggiato pubblicamente e attivamente Al Freeman durante la campagna elettorale, Martin Sanders si era limitato a continuare il suo lavoro. Per Joanna sarebbe stato del tutto naturale incontrarlo subito, durante il suo primo giorno di lavoro come sceriffo, se due omicidi non avessero avuto la precedenza su tutto il resto. «Si è dimesso?» chiese Joanna, sorpresa. «E quando?» Anche Sue Rolles sembrò sbalordita. «Credevo che ne fosse già al corrente... A quanto ne so, Sanders avrebbe dovuto consegnarle la lettera di dimissioni stamattina presto. Mi chiedo se sarebbe giusto considerare la sua decisione come un voto di sfiducia...» Joanna represse a stento la propria irritazione. «Dato che non ho ancora ricevuto nessuna lettera», sbottò, «non credo che sia giusto considerare niente! La mia risposta in proposito è nessun commento, punto e basta!» «E il vicesceriffo capo Richard Voland?» «A cosa allude?» «Ha già scelto un sostituto?» «Un sostituto? Chi dice che se ne va?» Sue Rolles si strinse nelle spalle. «Beh...» disse, con falso candore, «la sua nomina e quella di Martin sono politiche, e tutti e due dipendono dallo
sceriffo... e dato che Voland ha attivamente sostenuto il suo avversario...» Joanna interruppe la cronista. «Signora Rolles», disse, «ha assistito alla conferenza stampa di Dick Voland, nel pomeriggio?» «Sì, ma...» «Allora è perfettamente al corrente del fatto che questo dipartimento si sta occupando, non di uno, bensì di due omicidi, oltre che di tutto il lavoro che deve sbrigare normalmente...» «Sì, certo.» «Dal tenore delle sue domande, mi sembra che questa intervista stia andando in una direzione che non mi piace granché, e credo che miri a screditare la mia amministrazione, a suscitare dissapori e contrasti, mentre tutti abbiamo bisogno della massima collaborazione per poter svolgere il nostro lavoro. Quindi non ho più niente da dirle.» «Ma...» Con impazienza, Joanna premette un tasto dell'interfono, e fortunatamente scelse quello giusto. «Sì?» rispose Kristin. «Signorina Marsten...» disse Joanna. «La signora Rolles se ne sta andando. Le dispiacerebbe accompagnarla all'uscita? E poi sarebbe così gentile da consegnarmi la posta, per favore? Mi è stato detto che dovrebbe esserci qualche lettera urgente.» In attesa che Sue Rolles se ne andasse e che Kristin le portasse la corrispondenza, Joanna si girò verso la finestra a guardare fuori. Non erano molti, nel palazzo, gli uffici che potevano vantare finestre private. Erano le quattro passate. Il sole del tardo autunno stava già scomparendo rapidamente dietro le Mule Mountains, a ponente. I versanti delle colline erano irte di grigi e spinosi ocotillos, che a una prima occhiata sembravano morti o morenti, ma che, nella radente luce pomeridiana, rivelavano una sfumatura verde. Anche se l'inverno si avvicinava rapidamente, le pallide foglie novelle spuntavano fra le spine. Per sopravvivere nell'aspro clima desertico, gli ocotillos assumevano un aspetto rinsecchito e sterile per la maggior parte dell'anno ma, ogniqualvolta le radici poco profonde ricevevano la benedizione della pioggia, le foglie dalla vita breve spuntavano dai rami apparentemente morti, e tale processo poteva avere luogo diverse volte nel corso di uno stesso anno. Perché gli esseri umani non possono essere un po' più simili a quelle piante?, si chiese Joanna, invidiando alle coraggiose e robuste piante del deserto la loro naturale capacità di adattamento. Non necessariamente le
persone possedevano lo stesso tipo di resistenza, la medesima capacità di sopportare i terribili periodi di siccità, e di tornare poi a fiorire. Holly Patterson si era trasferita a Hollywood e si era creata una carriera, ma la sofferenza di ciò che le era accaduto da bambina l'aveva in qualche modo derubata di ogni capacità di godere delle soddisfazioni della vita. Stava seduta in una stanza buia a dondolarsi avanti e indietro, odiando il padre e al tempo stesso biasimando se stessa per la sua morte. Anche Ivy Patterson era stata traumatizzata dai problemi famigliari. La sua esistenza di devozione filiale, un tempo apparentemente placida, era esplosa in un'eruzione di collera che forse aveva reso possibile l'omicidio. La tardiva ribellione al padre aveva conferito sfumature sinistre e innaturali persino a eventi normali e naturali come l'amore e il matrimonio. Ma prima di cominciare a scagliare troppe pietre, Joanna Brady s'interrogò a proposito di se stessa, e si disse che, senza più Andy, non si aspettava che sui rami del suo cuore spuntassero di nuovo le foglie del rigoglio primaverile. Verso sera, Isobel Gonzales entrò nella stanza buia per ritirare il vassoio della cena e per rassettare il letto. Holly Patterson era di nuovo sulla sedia a dondolarsi avanti e indietro, fissando, attraverso un varco fra le tende, la torreggiante ombra nera della discarica. «Che c'è lassù?» chiese. Allora Isobel trasalì violentemente. Per giorni era entrata nella stanza a portare e a ritirare il cibo, a rifare il letto, senza che la sua unica occupante parlasse, se non molto di rado, e senza che mostrasse in qualsiasi altro modo di accorgersi della sua presenza. «Lassù?» chiese a sua volta Isobel. «Sulla discarica... è liscia, oppure ruvida?» Isobel si avvicinò alla finestra e scostò una tenda. Quando fosse finalmente sorta la luna, le ombre dei mesquite e delle querce, le uniche piante che erano abbastanza robuste per crescere su quella desolata collina creata dall'uomo, sarebbero spiccate sullo sfondo di quelle, meno dense, delle rocce e della terra, ma per il momento era tutto nero come l'inchiostro e nessun dettaglio si scorgeva. «È strano...» disse Isobel. «Per anni, dopo che ci eravamo sposati, mio marito Jaime ha guidato uno dei camion che portavano scorie alla discarica. Io ero sempre preoccupata per lui, perché doveva scendere nella miniera, caricare sul camion tutti quei grossi macigni e poi trasportarli qui, alla
discarica. Avevo sempre paura che si avvicinasse troppo al bordo e che cadesse giù. Però non gli è mai successo. Ha guidato il camion per anni, e io non gli ho mai chiesto che cosa ci fosse lassù. Forse non ho mai voluto saperlo...» Una volta tanto, Holly distolse il magro viso dalla finestra a scrutare i lineamenti risoluti della domestica. «E adesso», chiese, «non ti piacerebbe sapere che cosa c'è lassù?» Isobel Gonzales sorrise saggiamente e scosse la testa. «Jaime non guida più i camion carichi di scorie», disse. «E se non era tanto importante per me allora, di sicuro non lo è adesso... Ha finito, col vassoio? A quanto pare non le piace la mia cucina, visto che non ha mangiato quasi niente...» «Ho finito», disse Holly Patterson. «E la tua cucina è ottima. Semplicemente, non ho fame.» CAPITOLO 27 Senza tante cerimonie, Kristin gettò la corrispondenza sulla scrivania di Joanna. «C'è qualcun altro che vuole vederla», disse. Con tutte queste interruzioni, come diavolo si fa a finire un qualsiasi lavoro? si chiese Joanna. «Chi è questa volta?» domandò. «Linda qualcosa», rispose Kristin. Ancora offesa, evidentemente, per i commenti a proposito della sua biancheria intima, Kristin stava facendo del proprio meglio per pareggiare il conto. Joanna sapeva come funzionavano i rapporti negli ambienti di lavoro. Trasmettere al capo informazioni incomplete o imprecise era una delle tattiche più morbide del repertorio vendicativo delle segretarie arrabbiate. «Linda chi?» insistette Joanna. «Non so...» Kristin si strinse nelle spalle con fare petulante. «Non lo ha detto.» Joanna contò mentalmente fino a dieci. «Kristin...» disse poi. «Anche se il visitatore non lo dichiara spontaneamente, la segretaria ha il compito di accertare chi è che chiede di essere ricevuto. Insomma, bisogna che lei sia sempre in grado di dirmi chi è che chiede di me e aspetta qua fuori, in modo che io possa decidere se ricevere o meno quella certa persona. È chiaro?» «Che cosa vuole che faccia?» «Vada a chiedere a quella donna chi è, e me lo riferisca.»
Sempre stizzita, Kristin uscì dall'ufficio a passi strascicati. Qualche istante più tardi l'interfono ronzò. «Linda Kimball desidera vederla, sceriffo Brady», annunciò Kristin, con cristalli di ghiaccio che pendevano da ogni parola. «Molte grazie, Kristin. La faccia entrare.» Pochi attimi dopo la porta fu aperta e Linda Kimball irruppe nella stanza. Bassa, paffuta e per nulla preoccupata di esserlo, la moglie di Burton Kimball vestiva in modo semplice, comodo e pratico, dalle calze all'acconciatura. Di solito le mogli degli avvocati di Bisbee indossavano jeans firmati e dedicavano il loro tempo a giocare interminabili partite di bridge, evitando ogni rapporto con coloro che consideravano socialmente inferiori. Invece Linda Kimball, per nulla elegante, era conosciuta e apprezzata in tutta la comunità per la sua inesauribile energia e per il suo instancabile lavoro a beneficio di coloro che erano meno fortunati di lei. Si offriva spesso come volontaria per prestare assistenza in ospedale, aveva raccolto fondi per sovvenzionare la mensa dei poveri e tutti i giorni assicurava alla propria famiglia sani pasti casalinghi. I suoi due figli erano intelligenti e beneducati. E ogni autunno le verdure che coltivava nell'orto dietro casa tornavano con una collezione di nastri rossi e blu dalla Fiera di Cochise County, che si teneva ogni anno a Douglas. Per giunta, la moglie di Burton Kimball aveva reputazione di essere virtualmente imperturbabile. Quel pomeriggio, tuttavia, entrò nell'ufficio di Joanna con un braccio al collo e il viso corrucciato che lasciava trapelare una certa sofferenza. Comunque, non era lì per discutere del proprio braccio ferito. «Volevo parlare con Ernie Carpenter, ma mi hanno detto che è uscito. Spero che non ti dispiaccia se mi presento così, senza preavviso...» «Non mi dispiace affatto, Linda. Che cosa posso fare per te?» «Ho una certa fretta perché ho lasciato i ragazzi su a Old Bisbee, approfittando del fatto che hanno lezione di piano. Devo tornare a prenderli entro mezz'ora, ma prima ho bisogno di parlare con qualcuno a proposito di quello che è successo oggi al ranch.» «Di che cosa si tratta?» Linda Kimball si lasciò cadere pesantemente sopra una delle poltrone riservate ai visitatori e sospirò profondamente. «Burton mi ha chiamato all'ora di pranzo per parlarmene. Suppongo che avrei dovuto dirgli subito quello che pensavo; ma lui era così turbato che non ci sono riuscita.» «Che cosa pensavi a proposito di cosa?» chiese Joanna.
Il doppio mento di Linda tremò. «Che cosa pensavo dello scheletro», rispose risolutamente. «Chi credo che sia, o meglio, che fosse.» «Vuoi dire che lo sai?» chiese Joanna, curvandosi innanzi. Linda annuì mestamente. «Sì, lo so», rispose. «O almeno, ho una teoria in proposito...» «Dimmi tutto», esortò Joanna. Linda sospirò, come se non sapesse da dove cominciare. «Burton ha detto che quel poveraccio è rimasto là sotto per parecchio tempo...» «Esatto. Resta soltanto lo scheletro.» «Sai qualcosa di mio marito?» chiese Linda Kimball. «Voglio dire, della sua storia?» Joanna rifletté brevemente. Bisbee aveva soltanto seimila abitanti, quindi quasi tutti si conoscevano, almeno superficialmente, anche se non necessariamente si frequentavano. «Qualcosa credo di sapere», rispose. «Non è stato allevato dai Patterson? Mi sembra di ricordare qualcosa del genere...» Linda annuì. «Harold Patterson era lo zio di Burt, fratello maggiore di sua madre. Quando fu congedato, dopo la seconda guerra mondiale, Thornton, il padre di Burt, visse per qualche tempo al Rocking P con sua moglie, Bonnie, e quando Bonnie rimase incinta, la lasciò presso il fratello per andare in California a cercare lavoro. Era inteso che Thornton l'avrebbe mandata a chiamare appena avesse trovato un lavoro e una casa, ma lui non lo fece mai. Nessuno ebbe mai più sue notizie, e pochi mesi più tardi Bonnie Patterson Kimball morì di parto. Così, zia Emily e zio Harold si presero cura di Burton fin dalla nascita.» Linda s'interruppe, come se raccontare la triste storia del marito fosse molto penoso per lei. «Comunque la si consideri, sembra che sia stata una situazione molto difficile», disse Joanna, per incoraggiarla. «Tuo marito è stato fortunato ad avere qualcuno che si occupasse di lui.» Linda annuì e continuò: «Furono meravigliosi con lui. Lo trattarono proprio come un figlio. Tutte queste vecchie vicende famigliari continuano a turbare mio marito, anche se preferisce non parlarne. Voglio dire, essere abbandonati così non è senza conseguenze. Gli sono rimaste le cicatrici, anche se è successo prima della sua nascita e non ne ha un vero ricordo». Benché non riuscisse a capire dove Linda volesse andare a parare, Joanna capì che conveniva tenere la bocca chiusa e la lasciò continuare. «È questo uno dei motivi per cui la famiglia è tanto importante per lui», riprese Linda. «Ecco perché è rimasto tanto turbato dalla cosa terribile che
è successa fra zio Harold e Holly. Anche se non lo ammetterebbe mai, Burton amava come un padre quel vecchio iracondo. È rimasto straziato quando Holly è tornata dal nulla col suo costoso avvocato, la sua terapista e tutte quelle storie orrende.» Linda s'interruppe di nuovo e rischiò di non riuscire a continuare il discorso, come se fosse rimasta priva di energie. «Ecco perché si è sempre tanto preoccupato per Ivy...» aggiunse. «Burton è preoccupato per Ivy?» chiese Joanna. «E tu non lo saresti?» ribatté Linda. «A me sembra che sia completamente impazzita. Volersi sposare a poche ore dalla morte del padre, e senza neanche averne accennato a Burton... Tutto questo gli sta spezzando il cuore. Noi non ci saremmo certo andati, ma lei non si è neanche presa la briga d'invitarci al matrimonio.» «Perché Burton è tanto turbato?» chiese Joanna. «Mi rendo conto che la scelta di Ivy è stata poco ortodossa, e che ha fatto inarcare le sopracciglia a qualcuno, ma penso che lui dovrebbe essere felice che lei, dopo tanto tempo, abbia finalmente trovato qualcuno...» «Tu non capisci», disse Linda. «Quando erano bambini tutti e tre, Holly e loro due, Burton ha sempre considerato Ivy come una sorella minore. Per tutta la vita ha cercato di aiutarla e di consigliarla, come avrebbe fatto un fratello maggiore. Forse ha fatto persino più di quanto avrebbe dovuto...» Linda s'interruppe di nuovo, come se non sapesse bene in che modo continuare. Resistendo alla tentazione di esortarla, Joanna rimase in silenzio. «Per tornare alle vicende della sua famiglia... Sapevo fin dall'inizio che ne era molto turbato. Io avevo tutti e due i genitori, e li ho ancora, mentre lui non aveva mai conosciuto il suo vero padre e la sua vera madre. Per parecchio tempo non ne parlammo mai, poi, quando finalmente decise di confidarsi con me, lui confessò di avere sempre sperato di avere, un giorno, l'occasione di conoscere suo padre. Disse che avrebbe voluto chiedergli perché avesse lasciato la città, perché fosse scappato e perché non fosse mai tornato, perché non avesse mai neppure riconosciuto il proprio figlio. Da quando era bambino porta nel cuore il sogno di poter, un giorno, incontrare il padre. Quando me ne parlò, mi sembrò che mi si spezzasse il cuore. Era così triste, così ingiusto...» Linda sospirò di nuovo. «Lo amo, sai? E alla fine ho deciso che dovevo fare qualcosa...» «A che proposito?» «Fare in modo che il suo sogno si avverasse. Decisi di cercare Thornton Kimball per conto mio, senza dire niente a Burt. Volevo fargli una sorpresa. Pensavo che, se finalmente avesse avuto l'occasione di conoscere suo
padre, di parlargli, forse alcuni dei suoi demoni avrebbero smesso di tormentarlo. È tutta la vita che biasima se stesso, non soltanto per la morte di sua madre, ma anche per la fuga di suo padre.» «Sei riuscita a trovare suo padre?» «No», rispose Linda. «Niente affatto. Le ho provate tutte... l'Esercito della Salvezza, l'Ente di assistenza agli ex combattenti, l'archivio genealogico di Salt Lake City... Ovunque ho trovato soltanto il vuoto. Sembrava che, un bel giorno, Thornton Kimball avesse lasciato il Rocking P, e poi fosse scomparso nel nulla.» Come se una lampadina si accendesse nella mente di uno stupido personaggio dei fumetti, Joanna finalmente collegò e capì. «Credi che lo scheletro trovato in fondo al pozzo sia quello di Thornton Kimball?» Linda annuì. «Appena Burt mi ha detto dello scheletro, ho provato questa terribile sensazione di certezza. Non so spiegarla, non so che cosa la provochi... Tutto quello che so è che da quando Thornton Kimball se ne andò, nel 1945, nessuno ha mai più saputo niente di lui. E forse il motivo è proprio questo: in realtà non se ne andò mai.» Joanna provò un entusiasmo improvviso. La teoria di Linda Kimball era perfettamente plausibile. Sollevò il telefono. «Devo informare subito Ernie Carpenter...» «Aspetta», disse Linda. «Non subito.» «Perché no?» disse Joanna. «Con questa informazione, forse potremo ottenere qualche aiuto dal laboratorio della polizia di stato e usufruire delle loro nuove tecniche per l'analisi del DNA.» «Non credo che sarà necessario», disse pacatamente Linda Kimball. Joanna posò il telefono. «Perché no?» Inquieta, Linda cambiò posizione sulla poltrona. «Promettimi che non dirai a Burton come lo hai scoperto. È imbarazzante... si arrabbierebbe tanto, se mai lo venisse a sapere...» Anche se aveva creduto di essere riuscita a cogliere tutte le sfumature di quella vicenda complessa e tortuosa, Joanna si sentì all'improvviso smarrita. «Se scoprisse... cosa?» domandò. Linda Kimball si morse il labbro inferiore, mentre due grosse lacrime le spuntavano dagli occhi e le scivolavano giù, sulle guance, lasciando tracce scure e quasi identiche di mascara. Con una mano sola, Linda frugò nella sua grossa borsa fino a estrarne un pacchetto di fazzolettini. Dopo essersi asciugata gli occhi e soffiata il naso, riuscì finalmente a riprendere il discorso. «Ti capita mai di andare ai mercatini di cortile?» chiese.
«Non spesso», rispose Joanna. «Di solito non ne ho il tempo, oppure non ho abbastanza soldi.» «Io invece ci vado anche se non dovrei», disse Linda. «È una di quelle cose che fanno impazzire Burton. Lo disapprova, davvero. Lui dice che non è dignitoso, per gente della nostra posizione, andare a comprare la roba di cui gli altri vogliono sbarazzarsi. Io, però, non posso farne a meno. Uno dei miei passatempi è il restauro di mobili antichi, ed è proprio andando alle vendite private che ho trovato alcuni dei miei pezzi migliori. Ricordi quando morì Grace Luther?» Joanna annuì. Quando la novantaseienne Grace Luther era passata a miglior vita, tutta la città aveva parlato della sua morte. Dato che era successo all'epoca in cui Hank Lathrop era ancora sceriffo, Joanna conosceva probabilmente più dettagli macabri di quanto avrebbe dovuto. Tutti avevano creduto che Grace fosse a Tucson, in visita alla nipote, ma poi si era scoperto che la nipote l'aveva riaccompagnata a Bisbee e l'aveva lasciata a casa, anche se, per qualche motivo, la sua governante non ne era stata informata. Mentre tutti, a Bisbee, avevano continuato a credere che fosse ancora fuori città, la vecchia Grace era morta, sdraiata supina sul proprio letto, col termostato guasto, bloccato a quasi trenta gradi. A tre settimane dal decesso, il cadavere era ormai praticamente cotto quando qualcuno si era reso conto che qualcosa non andava e aveva forzato la serratura per entrare in casa. Non era stato un gran bello spettacolo, e neanche un gran profumo. Dopo il sopralluogo, Hank Lathrop era tornato a casa e aveva bruciato l'intera uniforme. Era seguita una lunga battaglia legale fra i diversi eredi, inclusa quella sbadata della nipote, che aveva scaricato la vecchia a casa sua senza avvertire nessuno. Per anni l'abitazione, sigillata, era rimasta abbandonata, ma ancora stipata di vecchi mobili. «Andai alla svendita della proprietà», continuò Linda Kimball. «La casa era zeppa di cianfrusaglie dal pavimento al tetto, ma in tutta quella confusione era sepolto qualche tesoro, anzi, ci trovai quel meraviglioso tavolo intarsiato in avorio che ho ancora in soggiorno. E giù, nella cantina, trovai tutto quello che suo marito aveva tenuto in ambulatorio.» «Sì», disse Joanna. «Ricordo, il dottor Luther era dentista, vero? Se non sbaglio, aveva lo studio da qualche parte, a Upper Lowell...» Linda annuì. «Proprio dove adesso c'è la miniera a cielo aperto. Doc Luther era già morto, nei primi anni Cinquanta, quando abbatterono quell'edi-
ficio per fare posto a Lavender Pit. Ebbene, Grace si fece portare dalla Phelps Dodge, nella propria casa di Warren, tutto quello che era appartenuto a suo marito. Tutto fu scaricato nella rimessa e nella cantina: le poltrone, gli strumenti, tutto quanto, e là rimase ogni cosa. Credo che quella donna non abbia mai buttato via niente in tutta la sua vita.» Di nuovo Linda Kimball frugò nella borsa, questa volta per estrarne una bustina bianca. «Questa è la parte che è tanto imbarazzante», disse. «Non riesco ancora a credere di averlo fatto... Promettimi di non dirlo a Burton, perché altrimenti gli verrebbe un colpo...» «Dirgli cosa?» «Ero giù in cantina, quel giorno, cioè il giorno della vendita, e stavo cercando pezzi antichi, quando mi capitò di trovare un vecchio schedario del dottor Luther, finito là chissà come. Sapevo che Burton era stato suo cliente, da ragazzino, e pensai che sarebbe stato divertente avere le sue lastre odontoiatriche, così, per ricordo. Ma nel cercarle trovai questa, e la rubai...» Con dita visibilmente tremanti, Linda Kimball porse la busta a Joanna, che esitò soltanto un istante prima di aprirla. Conteneva un cartoncino di sette centimetri per dodici, rigido e fragile, con i bordi ingialliti. Su entrambi i lati erano applicate vecchie lastre odontoiatriche, accanto ai disegni schematici della dentatura umana. A margine erano stati scritti a mano alcuni commenti e tracciate le freccette che indicavano le carie e le otturazioni. Nell'osservare la scheda, Joanna tardò un momento a notare il nome scritto nell'intestazione. «Le lastre odontoiatriche di Thornton W. Kimball!» esclamò. «So che non sono come le lastre moderne o roba del genere», disse Linda Kimball, in tono quasi di scusa, «ma ho pensato che potessero essere utili...» «Lo saranno, eccome! Se non ti dispiace, comincio subito a lavorarci.» Joanna si allungò a premere un tasto dell'interfono. «Sì?» chiese Kristin, sempre con voce gelida. «Dica al centro operativo di chiamare Ernie Carpenter alla radio. Si faccia dire dove si trova e gli dica di restarci. Gli riferisca che vado a portargli qualcosa d'importante.» Quando si girò, convinta che la conversazione fosse finita, scoprì che Linda Kimball non si era mossa. «C'è altro?» domandò. Linda annuì. «È tutto il pomeriggio che cerco di mettermi nei panni di
Burton... Cosa credi che sia peggio?» chiese. «Peggio? A cosa ti riferisci?» replicò Joanna. «Sapere o non sapere? Starà meglio, se continuerà a pensare che suo padre è vivo, da qualche parte, dopo avere abbandonato la moglie e il figlio non ancora nato? Oppure starà meglio se avrà la certezza che suo padre non è più in vita, e che, dopo averlo lasciato, non è più tornato perché non ha avuto nessuna scelta, ma è morto in fondo a un pozzo, nel ranch di Harold Patterson?» Joanna ponderò seriamente il dilemma prima di rispondere. «È difficile prevederlo», disse infine, «ma credo che quasi tutti preferirebbero conoscere la verità, per quanto dolorosa possa essere.» Linda Kimball prese goffamente la borsa e se la mise in grembo. «È quello che ho deciso anch'io», disse. «Proprio oggi. Ecco perché ho voluto portare subito la busta. Volevo consegnarla a qualcun altro, prima di avere l'occasione di cambiare idea.» Mentre Lmda lasciava l'ufficio, l'interfono ronzò. «Ernie è al ranch dei Patterson e sta ispezionando il fondo del pozzo. Vuole sapere se questa faccenda può aspettare...» «Non può aspettare. Gli dica di continuare a fare quello che sta facendo. Andrò da lui. Ah, Kristin... Che mi dice di quella macchina che avevo chiesto? Me l'ha procurata?» «Oggi è disponibile soltanto un Blazer che ha già cinque anni. La carrozzeria è a posto, ma il motore ha qualche noia. Così dice Danny, dell'officina.» «Voglio sapere soltanto due cose, e cioè se corre e se ha una radio che funziona.» «Danny dice di sì.» «Bene. Gli dica di portarmela il più presto possibile. Vorrei averla entro cinque minuti, col motore acceso e il serbatoio pieno. Ah... Kristin...» «Sì?» «Grazie per avermi procurato un mezzo», disse Joanna. «Ha fatto un buon lavoro.» CAPITOLO 28 Prima di uscire frettolosamente dall'ufficio per andare a raggiungere Ernie Carpenter, Joanna afferrò le buste non ancora aperte della corrispondenza per portarle con sé. Il Blazer con le insegne del Dipartimento
dello Sceriffo sulle portiere era tutt'altro che nuovo, ma questo non la preoccupava. Dopotutto, aveva pur sempre qualche anno meno della sua vecchia Eagle. Giunta al Rocking P, si recò subito al pozzo anziché svoltare in direzione della casa, ma nel passare intravide la Luv di Ivy parcheggiata presso il cancello principale e si chiese se intendesse davvero realizzare i suoi progetti matrimoniali. Sposandosi a pochi giorni dalla morte del padre, Ivy avrebbe commesso una di quelle violazioni del codice della comunità che venivano raccontate e ripetute all'infinito, fino a diventare leggenda. Quanto al matrimonio precipitoso, Joanna Brady era proprio una delle poche persone in città che fossero disposte a concedere il beneficio del dubbio alla turbinosa e tardiva storia d'amore fra Yuri Malakov e Ivy Patterson. In fondo, anche il suo matrimonio con Andy era stato piuttosto affrettato e aveva suscitato pettegolezzi, anche se la loro unione aveva sicuramente dimostrato, alla lunga, di essere solida. Probabilmente non c'era niente di sbagliato dietro l'improvvisa decisione di sposarsi, ma la possibilità dell'omicidio era tutta un'altra cosa. Personalmente, Joanna voleva credere che due persone potessero vivere insieme per sempre felici e contente, ma se gli sposi novelli potessero partire per una romantica luna di miele oppure dovessero essere rinchiusi nel carcere di Florence, era una decisione che preferiva affidare alle mani capaci di Ernie Carpenter. Spettava al detective, nonché al giudice e alla giuria. Quando Joanna arrivò per la seconda volta al pozzo, un'intera collezione di veicoli era parcheggiata tutt'intorno, così fu costretta a lasciare il Blazer abbastanza lontano e a camminare in punta di piedi sui sassi, visto che indossava scarpe coi tacchi adatte alla città, già poco sicure sui marciapiedi lisci, ma decisamente pericolose in pendenza, sul suolo impervio e franoso. Tre giovani vicesceriffi oziavano intorno al pozzo. Avrebbero dovuto occuparsi dei fari e delle funi, ma se ne stavano appoggiati ai pali del recinto, con le mani in tasca, a chiacchierare. Appena videro arrivare Joanna, si affrettarono tutti a fingersi indaffarati. «Ehi! Detective Carpenter!» gridò uno, curvandosi sul pozzo. «C'è lo sceriffo Brady!» «E allora che state aspettando?» rispose Ernie, irritato. «Tiratemi su, così posso parlarle e farla finita!» Sotto gli occhi di Joanna, uno spettro sporco e incrostato di fango risalì dal fondo del pozzo. L'elegante detective che soltanto poche ore prima era
rimasto seduto nell'ufficio dello sceriffo a prendere appunti aveva l'aspetto e l'odore di un soldato di fanteria in uniforme mimetica dopo una dura battaglia. Liberatosi dell'imbracatura, si recò subito al camioncino, dove un catino pieno d'acqua aspettava sul pianale. Maledicendo le scarpe inadatte, Joanna lo seguì incespicando. «Come ci riesci?» chiese lei, con irritazione. «A fare cosa?» domandò a sua volta lui, prima di chinarsi per insaponarsi meticolosamente le mani e lavarsi il viso infangato. «Una volta sembri appena uscito da una rivista di moda, la volta dopo hai l'aspetto di uno che non si cambia da anni.» «Ah, quello...» disse Ernie Carpenter, con una breve risata. «L'ho imparato da mia moglie. Quando era incinta, teneva sempre una valigia pronta accanto alla porta. Così, tengo sempre due cambi d'abito in macchina, perché quando si fa questo lavoro non si sa mai che cosa può succedere. A proposito, se ho ben capito, è successo qualcosa...» Joanna annuì e sfilò di tasca la busta bianca. «Ecco che cosa mi hanno portato in ufficio poco fa. Ho pensato che volessi vederla...» Dopo essersi asciugato le mani con una salvietta di carta, Ernie prese la busta, l'aprì, sfilò la scheda, la esaminò in silenzio, la imbustò di nuovo. «Ottimo», disse, senza manifestare il minimo interesse. «Sicuramente faciliterà l'identificazione al Coroner.» «Credi che sia lui, allora?» chiese Joanna, delusa nel constatare che Ernie si dimostrava molto meno entusiasta di lei. «Ne sono sicuro», rispose lui, aprendo il marsupio che portava alla cintura. «Appena ho visto queste, ho avuto la certezza che fosse lui.» Prese alcuni oggettini dal marsupio, li sciacquò e li asciugò. «Guarda qua...» disse, prima di lasciarli cadere nella mano aperta di Joanna. Sulle prime, Joanna pensò che fosse la catenina ossidata di una vecchia lampada, ancora infangata nonostante il risciacquo, poi si rese conto che le catenine erano due, una più grossa dell'altra, la più sottile infilata nella più grossa. A ognuna era appesa una targhetta metallica rettangolare, una delle quali era intaccata. «Cosa sono?» chiese Joanna. «Guarda meglio», disse Ernie. Avvicinando le targhette ossidate agli occhi, Joanna riuscì a leggere a stento i caratteri incisi: THORNTON WILLIAM KIMBALL, e una serie di numeri. «Sono le sue piastrine di riconoscimento della guerra?» domandò.
Abbassò di nuovo lo sguardo alle piastrine infangate, poi, mestamente, accarezzò l'intaccatura che, in tempo di guerra, avrebbe permesso d'infilare la piastrina fra gli incisivi inferiori del defunto per consentire l'immediata identificazione. Proprio come aveva temuto Linda Kimball, così periva miseramente l'antìco sogno di Burton Kimball: poter incontrare, un giorno, il padre che lo aveva abbandonato. «Che intendi fare?» chiese lei. Ernie si massaggiò pensosamente il mento. «Non si può escludere che qualcun altro avesse le piastrine di Thornton Kimball, ma io ne dubito. Con le lastre odontoiatriche, comunque, sarà facilissimo confermare l'identificazione.» Si girò verso il pozzo, dove i vicesceriffi stavano cominciando a smontare il verricello e i fari. «Qui ho quasi finito», riprese. «Vuoi che vada io, appena mi sarò ripulito, a informare Burton Kimball di quello che sta succedendo, oppure preferisci farlo tu?» Erano accadute tante cose in così poco tempo, che Joanna cominciava a esaurire le energie. «No», disse, «fallo tu.» Sentendosi improvvisamente stanca, s'incamminò per tornare al Blazer. «A proposito...» aggiunse Ernie. «Ho fatto come hai suggerito. Ho cercato di avere informazioni su Yuri Malakov dalla Forza Multigiurisdizionale e dall'Immigrazione, che hanno computer favolosi...» «E hanno qualcosa?» «Ovviamente sì, ma si tratta d'informazioni riservate. E questo mi sembra molto interessante...» «Che significa "interessante"?» «Significa che per qualche ragione Yuri Malakov è nelle loro stramaledette banche dati, ma che nessuno può avere accesso alle informazioni che lo riguardano. Insomma, non si può sapere niente di preciso.» Joanna si accigliò. «Non ha senso... non siamo tutti dalla stessa parte della barricata?» Ernie Carpenter chinò la testa a guardarla e scosse mestamente la testa, come se fosse sorpreso dalla sua ingenuità. «Nossignore», disse. «Io non arriverei a fare un'affermazione del genere, anzi, direi che non siamo neanche riusciti a fare una ricognizione del terreno, figurarsi costruire la barricata e stabilire chi deve stare da quale parte.» Joanna non riuscì a decidere se la risposta indiretta di Ernie fosse una predica o una presa in giro, ma la giudicò comunque irritante. «Vieni al punto», disse dunque, in tono tagliente. «Il punto è», rispose Ernie, «che se il nome di Yuri Malakov è inserito in
quei computer, ma nessuno vuole parlare di lui, o dire perché si trova là, allora io, sicuro come l'inferno, non vorrei certo che mia figlia sposasse quel figlio di buona donna. E sono pronto a scommettere un bel po' di soldi che neanche Harold Patterson voleva che Ivy si legasse a lui.» Assorto in cupe meditazioni, Burton Kimball sedeva nel proprio ufficio buio e deserto. Tutti gli altri erano già andati a casa. Persino Maxine, sempre fedele e sempre vigile, aveva finalmente abbandonato la nave alle sei. Linda aveva chiamato due volte per chiedergli quando sarebbe rincasato e lui le aveva ripetuto che non avrebbe più tardato molto, ma che stava lavorando a un caso importante che avrebbe dovuto essere discusso in tribunale il giorno successivo. Era una bugia pura e semplice. La superficie della scrivania era sgombra, a parte un luccichio di vacua disperazione. Burton aveva l'impressione che la sua vita stesse sfuggendo turbinosamente a ogni controllo. Mentre le lancette d'oro del suo orologio si avvicinavano a poco a poco alle sette, la sua depressione divenne sempre più profonda. Era rimasto in ufficio tutto il pomeriggio, deliberatamente, nella speranza che Ivy lo chiamasse per invitarlo al matrimonio, ma lei non lo aveva fatto, e ormai era troppo tardi. Ancora pochi minuti e Ivy Patterson avrebbe sposato quella nullità del russo, senza che Burton Kimball fosse presente. Come si fa a perdere la propria migliore amica? si chiese Burton. Le cose erano cambiate quando lui e Linda, dopo il loro matrimonio, erano tornati a Bisbee, vi si erano stabiliti, e lui aveva iniziato la carriera. Zia Emily era già del tutto invalida e Ivy aveva il dovere di assisterla perennemente. Lui e Linda avevano cercato di darle una mano, ma non avevano potuto fare molto. La vecchia, affettuosa zia Emily si era trasformata in una sconosciuta irascibile e tirannica che gridava ordini dal suo letto, e insieme agli insulti lanciava oggetti di ogni genere, vasi, libri, bicchieri, a chiunque fosse così stolto da osare avvicinarsi a lei. Ivy aveva sopportato tutto quel fardello e ne era stata logorata, trasformata, invecchiata. E finalmente Burton sentiva tutto il peso della propria responsabilità nei suoi confronti. Avrebbe dovuto aiutarla maggiormente, essere più sollecito con lei. Burton aveva sofferto durante la malattia di zia Emily e si era rallegrato quando finalmente la morte l'aveva liberata della sua terribile infermità, fisica e mentale. Aveva pensato che in qualche modo, visto che tutto era fi-
nito, lui e Ivy sarebbero stati di nuovo amici, l'uno il migliore amico dell'altra e viceversa, come un tempo. Tuttavia non era successo. Erano andati avanti per anni senza problemi e senza contrasti, tutto era andato bene, ma non avevano ritrovato l'intimità che li aveva uniti in passato. Poi ogni cosa era cambiata quando Holly Patterson era ricomparsa sulla scena. Sembrava che Ivy, per qualche ragione, logica o illogica che fosse, ritenesse Burton responsabile del ritorno improvviso della sorella. Dapprima Ivy e Burton si erano di nuovo uniti. Avevano discusso confidenzialmente con Harold il modo migliore per affrontare la complessa situazione creata da Holly, e Ivy era parsa soddisfatta della strategia di Burton fino a due giorni prima, quando tutto era andato a rotoli e Harold aveva deciso di fare la sua fatale offerta. Ormai, Burton aveva l'impressione che Ivy attribuisse a lui l'intera responsabilità di quello che era successo. Di tutto. Quando sentì bussare con discrezione alla finestra, Burton trasalì. Girandosi a guardare attraverso il vetro scuro, vide Ernie Carpenter che, con un cenno, gli chiese di entrare. «Che succede?» domandò Burton, aprendo la porta d'ingresso. «Ho appena parlato con tua moglie», spiegò Ernie. «Mi ha detto che stavi ancora lavorando. Spero di non disturbarti...» Burton lo condusse nel proprio ufficio e accese la luce, rivelando la scrivania vuota. Era evidente che in quel momento non stava affatto lavorando e che non aveva lavorato neanche prima. «A dire la verità, ho appena finito e stavo per tornare a casa», disse, con imbarazzo, prima di raddrizzarsi la cravatta e di prendere la giacca dall'attaccapanni. «Comunque, posso trattenermi ancora per un po'... Che cosa posso fare per te?» «Lo sceriffo Brady mi ha detto che sei stato al Rocking P, oggi», disse Ernie. Burton annuì. «Sì. Perché?» «Sai già dell'altro cadavere che abbiamo trovato nel pozzo?» «Sì, purtroppo sì. Credo che Ivy ne sia rimasta sconvolta. Probabilmente era qualche povero vecchio immigrante clandestino, caduto nel pozzo prima che zio Harold si decidesse a recintarlo...» «Dubito che fosse un immigrato clandestino», disse fermamente Ernie Carpenter. «Anzi, credo che entro pochi giorni riusciremo a identificarlo con assoluta certezza.» Burton Kimball batté le palpebre per la sorpresa. «Non starai mica scherzando? Beh, avete fatto proprio un buon lavoro... Posso sapere chi e-
ra?» Ignorando i gesti con cui Burton aveva suggerito di volersene andare al più presto, Ernie Carpenter si accomodò sopra una poltrona. «Quanti anni avevi quando tuo padre se ne andò di casa?» chiese. Kimball parve colto del tutto alla sprovvista dalla domanda diretta del detective. Un'espressione di dolore gli balenò sul viso. «Io? Non ero ancora nato... Mia madre era incinta di me, quando mio padre partì per andare a cercare lavoro in California. E non è mai più tornato.» «Chi te lo ha raccontato? Che tuo padre partì per la California, intendo...» «Zio Harold e zia Emily, credo. Non capisco... Perché mi stai chiedendo di mio padre? Che sta succedendo?» Lasciando cadere la giacca sulla scrivania, Burton Kimball si afflosciò sulla propria poltrona. «Temo di avere cattive notizie per te, Burt», disse gentilmente Ernie. «Tuo padre non arrivò mai in California, oppure, se mai ci andò, in seguito tornò qui, a casa...» «Tornò qui...!?» cominciò Burton, prima che la comprensione si facesse strada a poco a poco nella sua mente. «Non dirai sul serio! Di sicuro non stai per dirmi che è lui! Lo scheletro in fondo al pozzo è mio padre?» Ernie Carpenter annuì. «Mi dispiace di dovertelo dire così.» Il volto rubizzo di Burton impallidì. «Ma come puoi saperlo? Come puoi esserne certo?» Ernie sfilò di tasca le piastrine di riconoscimento, perfettamente ripulite, e le posò sulla scrivania dinanzi a Burton Kimball. Per un lungo momento l'altro le fissò senza muoversi, poi, con circospezione, come se il metallo potesse essere rovente, prese le catenine e le sollevò alla luce. «Abbiamo anche le lastre odontoiatriche», disse Ernie. «Quelle dovrebbero garantirci la certezza assoluta. Ho pensato che volessi saperlo...» Di scatto, Burton ruotò la poltrona per volgere la schiena a Ernie Carpenter. Fissando l'acquarello che raffigurava un placido giardino, regalatogli da Linda il Natale precedente affinché lo appendesse alla parete vuota dietro la scrivania, cercò senza successo di trattenere le lacrime. Ernie attese in silenzio che finisse di piangere. «Avevo sempre segretamente sperato che fosse morto», disse finalmente Burton Kimball, con voce rotta. «Soltanto così sono riuscito a sopportarlo, quando ero bambino. Sapevo che la morte era la sola cosa che potesse giustificare il fatto che mi avesse abbandonato. Mi chiedevo che cosa ci fosse di sbagliato in me per averlo indotto a fare una cosa del genere. Come po-
teva avere capito, prim'ancora che nascessi, che in me c'era qualcosa di sbagliato?» «Burton...» cominciò Ernie. Ma l'avvocato, più giovane del poliziotto, continuò, ignorando l'interruzione. «Nel cuore della notte raccontavo a me stesso storie su di lui, su come era stato investito da un treno, chissà dove, o era annegato nell'oceano e il suo corpo non era mai stato ritrovato... Ma dentro di me, nel profondo, ho sempre immaginato che fosse ancora vivo da qualche parte, e che vivesse con una nuova moglie, molto bella, e che avesse altri figli. Ho sempre sperato che tornasse da me, un giorno, come un cavaliere in sella a un cavallo bianco, e che mi portasse a vivere con la sua nuova famiglia. Invece non lo ha mai fatto.» Burton Kimball tacque. Trascorse molto tempo prima che Ernie Carpenter parlasse di nuovo. «C'è mai stato cattivo sangue fra tuo padre e tuo zio Harold?» «Cattivo sangue?» ripeté Burton. «E questo che cosa vorrebbe dire? Perché mai avrebbe dovuto esserci cattivo sangue? Zio Harold era fratello di mia madre. Dopo la morte di mia madre, da quando ero neonato, lui e zia Emily si sono sempre presi cura di me. Per quanto ne so, non è mai successo nient'altro.» Burton si girò di nuovo a fronteggiare il detective, col viso corrugato in un'espressione di profonda preoccupazione. «Perché me lo stai chiedendo?» «Perché», rispose semplicemente Ernie, «hanno fatto tutti e due la stessa fine, in fondo a un pozzo. Da quello che ho potuto vedere oggi, direi che sono stati assassinati tutti e due, a cinquant'anni di distanza, ma nello stesso modo. L'assassino, o gli assassini, li hanno schiacciati lanciando sassi dall'alto.» «Tutto questo non ha senso», disse Burton Kimball. «E quale sarebbe la connessione?» La stanza divenne molto silenziosa. «Tu», mormorò Ernie Carpenter. «Io?!» «Ho saputo da diverse persone che tu e tuo zio avete litigato, martedì, poco prima di mezzogiorno. So che quel pomeriggio eri sconvolto, quando sei uscito dal tuo ufficio, e che sei ricomparso soltanto la sera delle elezioni, al centro convegni, per cercare Harold Patterson.» «Esatto. Ho visto la sua auto nel parcheggio, e...»
«Dove sei andato, dopo avere lasciato l'ufficio?» Burton Kimball s'irrigidì, sotto lo sguardo improvvisamente gelido di Ernie Carpenter. «Perché vuoi saperlo?» «Rispondi alla domanda.» «Sono andato a bere.» «Dove?» «A Gulch, al Blue Moon.» «Quanto ci sei rimasto?» «Per un po'... Non so esattamente quanto. Non ricordo.» «E dopo dove sei andato?» Appena si rese conto di essere sospettato, Burton Kimball scattò. «Dannazione Ernie! Questi non sono affari tuoi! E adesso vattene al diavolo fuori di qui! E la prossima volta che apri la tua grossa bocca per parlare di me, ti conviene che sia per scusarti, oppure per leggermi i miei dannati diritti! Chiaro?» Senza una sola parola, Ernie Carpenter raccolse le piastrine di riconoscimento e si recò all'uscita. Burton rimase come paralizzato alla scrivania finché la pesante porta esterna si richiuse rumorosamente alle spalle del detective. Soltanto allora si alzò, girò intorno alla scrivania, barcollando, e andò a bloccare la porta del proprio ufficio dall'interno. Poi, intontito come un sonnambulo, tornò indietro a tentoni, si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona e rimase seduto con lo sguardo fisso dinanzi a sé, le mani disperatamente strette al bordo lucido della scrivania. Era quasi come se quella presa, talmente violenta da sbiancare le nocche, fosse tutto ciò che gl'impediva di precipitare nelle remote profondità di uno spazio senza vita e senza tempo. Alla fine, il pianto fanciullesco capace di sopraffare ogni cosa, che aveva tentato disperatamente di reprimere, riuscì a emergere. Dopo quarantacinque anni, il bambino che non aveva mai pianto una sola volta per l'abbandono del padre, né per la morte della madre, piegò le braccia sulla scrivania, posò la testa sulle braccia e singhiozzò. Più tardi, rimase seduto là, con gli occhi asciutti, senza muoversi, del tutto inconsapevole del trascorrere del tempo. Finalmente fu strappato al suo doloroso sogno a occhi aperti da qualcuno che, inaspettatamente, bussò alla porta. «Vattene, Maxine», brontolò. «Non voglio parlare con nessuno.» «Sono io», rispose Linda Kimball, con incertezza. «Maxine ha chiamato a casa per sapere se fossi tornato. Ha detto di avere avuto l'impressione che
qualcosa non andasse, così ho deciso di venire a vedere io stessa. Posso entrare?» «Entra pure.» «Non posso. La porta è chiusa a chiave.» Burton si alzò e girò intorno alla scrivania, incespicando. Anche se non aveva più bevuto una sola goccia di alcol da quando aveva lasciato il Blue Moon, il martedì precedente, si sentiva come se fosse completamente sbronzo. Quando vide il volto devastato del marito, Linda Kimball si portò una mano alla bocca. «Burton!» esclamò. «Cos'hai? Cosa è successo?» Burton scosse la testa e tornò vacillando alla scrivania. «Non ci crederai mai», disse. «Neanche fra un milione di anni.» «Invece sì», insistette Linda. «Raccontami tutto.» CAPITOLO 29 Alle sei Joanna passò dai Brady a prendere Jenny, poi guidò dritto verso casa. Non vedeva l'ora di togliersi gli abiti eleganti e l'ingombrante giubbotto antiproiettile che le aveva scorticato le ascelle. Mentre Jenny faceva i compiti in camera sua, Joanna si accinse a cucinare la cena. La prospettiva di trascorrere a casa un'intera serata le sembrava strana. Sarebbe stata una serata senza dover scrivere o pronunciare discorsi, senza dover discutere e coordinare la strategia per la campagna elettorale. L'improvvisa sensazione di rilassamento fu quasi palpabile. Per la prima volta da mesi, Joanna Brady non doveva fare due lavori, bensì soltanto uno. Nel cercare in frigorifero le verdure rimaste, che intendeva usare come contorno per il polpettone, ritrovò due contenitori che aveva collocato in fondo all'ultimo scaffale e che aveva dimenticato, uno con un po' di piselli essiccati, non più verdi, e l'altro con qualcosa di misterioso, che era coperto da uno strato brillante color fucsia ed emanava un odore intenso che in qualche modo le ricordò il pozzo. Ma in quel momento non voleva pensare affatto al pozzo, né a Harold Patterson, né a Thornton Kimball. Dopo averli nuovamente sigillati, Joanna gettò i contenitori nell'acquaio, promettendo a se stessa di lavarli subito dopo cena, e di pulire anche il frigorifero. Era tempo di ricominciare a dedicarsi alle piccole cose e di sbrigare le faccende domestiche che erano rimaste in sospeso, vittime del disinteresse e della trascuratezza, con tutto quello che era successo dopo la morte di Andy.
Appena fu chiamata, Jenny si presentò a cena e sedette in silenzio al suo solito posto. «Com'è andata la scuola, oggi?» chiese allegramente Joanna nel riempire il piatto della figlia, tentando di scongiurare il silenzio che ormai era diventato abituale durante i pasti. «Okay, credo», rispose Jenny, chinando la testa ed evitando lo sguardo interrogativo della madre. «Com'è andato il lavoro?» Allora Joanna non seppe che cosa rispondere. Doveva parlare del ritrovamento del cadavere di Harold Patterson? Doveva dire a Jenny che molto probabilmente il vecchio era stato assassinato? Oppure doveva tacere per proteggerla? Ogni volta che Jenny aveva venduto i dolci al banchetto allestito dalle Girl Scout davanti all'ufficio postale, Harold era sempre stato così gentile da comprarne, ma ora non avrebbe più potuto farlo: mai più. Era abbastanza forte, Jennifer Brady, per conoscere i tremendi dettagli della morte violenta di un'altra delle persone che facevano parte della sua limitata cerchia di conoscenze di bambina? «Okay anche per me», rispose finalmente Joanna, con voce soffocata, nell'intento di proteggere la figlia dalle proprie esperienze. Addolorata dal distacco e dalla tensione che ormai caratterizzavano i loro dialoghi, si chiese se lei e Jennifer sarebbero mai riuscite a ritrovare la confidenza di un tempo. Tutt'e due mangiarono con scarso appetito. Quando cominciò a masticare il polpettone, che poco prima, mentre lo cucinava, le era sembrato di una fragranza appetitosa, Joanna ebbe l'impressione che fosse privo di sapore, come sabbia. Alla fine rinunciò e posò la forchetta. «Ho pensato a quello che hai detto», si azzardò a dire, con imbarazzo. «Quando mi hai chiesto che cosa ti succederebbe se mi accadesse qualcosa...» Anche Jenny posò la forchetta, e fissò la madre con gli occhi azzurri come porcellana, senza battere le palpebre. «Vuoi dire... se tu morissi?» Benché sgomentata dalla franchezza della bambina, Joanna si sforzò di proseguire. «Se hai due occhi, non devi preoccuparti troppo di diventare cieca, ma se ne perdi uno, allora cominci a chiederti che cosa accadrebbe se perdessi anche l'altro. Ma se ti preoccupi troppo, se lasci che la paura di perdere completamente la vista diventi il centro della tua vita, rischi di non riuscire più a essere contenta di tutto quello che puoi ancora vedere con l'occhio che ti resta, e finisci per dimenticare che, se anche succedesse il peggio, se anche tu dovessi perdere il secondo occhio, non per questo la tua vita sarebbe finita...» «Potresti sempre comprarti un cane che ti faccia da guida», suggerì spe-
ranzosamente Jenny. «Erin Wallace, che è in classe con me, ne sta addestrando uno. È un cucciolo di golden retriever. Fa parte del suo programma di cooperazione.» Joanna sorrise. «Beh, per noi è la stessa cosa», continuò. «Tu sei tanto spaventata da quello che potrebbe succedere, da quello che potrebbe accadermi, che non riesci più a essere contenta di quello che ti sta intorno. Ma non credo che saresti tanto preoccupata per me e per il mio nuovo lavoro, se avessi ancora tutti e due i genitori. Purtroppo non è così. Te ne resta soltanto uno. E questo è un problema, vero?» «Sì», convenne Jenny, quasi in un sussurro. «Già... E così, ho cercato di trovare una soluzione, per fare in modo che, nel caso che davvero mi succeda qualcosa, tu possa avere un posto dove andare e persone fidate che si occupino di te...» «Nonna Lathrop no», protestò subito Jenny, scuotendo i lunghi capelli biondi in un gesto di sfida. «Mi tratta come una bambina. È convinta che devo ancora andare a letto alle sette.» «No, lei no. E neanche i nonni Brady», aggiunse Joanna. «Sono meravigliosi e ti amano, ma hanno già allevato un figlio, hanno già fatto abbastanza. Non è una cosa facile, quindi non sarebbe giusto se dovessero farlo ancora.» Jenny annuì in segno di assenso, e rispose con un altro commento sorprendentemente appropriato. «Sono buoni, ma sono troppo vecchi.» «Tu che cosa ne diresti di Jeff e di Marianne?» chiese prudentemente Joanna. «Con loro non ne ho ancora parlato perché volevo sentire prima il tuo parere...» «Ma a loro piacerebbe avere bambini?» chiese Jenny. «Sono sicura di sì.» «Allora perché non ne hanno nessuno?» «Forse non possono averne», rispose Joanna, sapendo, da certe confidenze di Marianne, che era proprio così. «Forse hanno provato, e semplicemente non possono averne.» «Potresti chiederglielo», suggerì Jenny. «No, questa è una cosa privata, che riguarda soltanto loro.» Jenny riprese la forchetta e cominciò a spezzettare i resti del polpettone, che si stavano trasformando in una crosta coperta di ketchup. Per una volta, Joanna riuscì a dominare la smania impellente di ordinare a Jenny di non rimestare il cibo. «Allora, che cosa ne pensi?» domandò Joanna. «Farei bene a chiederlo a
Jeff e a Marianne?» «Mi lascerebbero tenere i cani?» «Non lo so. Questo si vedrà, se mai andrai a vivere con loro. È una cosa che dovrete discutere e decidere voi tre.» Per un po', Jenny rimase seduta a pensare, poi, finalmente, scrollò le spalle. «Credo che sarebbe okay. Così, io avrei i genitori, e loro avrebbero una figlia, anche se non sono proprio figlia loro. Sarebbero per me come il cane per un cieco, e io lo sarei per loro. Giusto?» «Giusto», annuì Joanna. In quel momento, Sadie, la bluetick, balzò in piedi e corse alla porta, ringhiando, col pelo ritto sul collo, e Tigro, il pitbull, che non aveva l'udito altrettanto fine, si affrettò a seguirla. Trascorse qualche minuto prima che un veicolo, evidentemente lo stesso che Sadie aveva sentito, attraversasse rumorosamente la barriera per il bestiame per entrare nel cortile. Joanna aspettava nella veranda posteriore, quando la Cherokee di Linda Kimball si fermò dinanzi al cancello. Con le scarpe dai tacchi alti, Linda smontò dalla vettura e camminò sul suolo impervio in direzione di Joanna. «Scusami se mi presento così, ma non ho potuto telefonare prima di uscire», disse Linda, mentre Joanna la faceva entrare. «Ho detto a Burt che sarei andata a una riunione di genitori e insegnanti.» Un'ironia della casa di Joanna, e non l'unica, era che quasi tutti i visitatori, inclusi gli sconosciuti, arrivavano nel cortile sul retro ed entravano dalla veranda posteriore, mentre il cortile anteriore e l'entrata principale restavano pressoché inutilizzati. Imbarazzata dai mucchi d'indumenti non lavati, Joanna guidò Linda attraverso la lavanderia e la cucina, fino al soggiorno. «Posso offrirti qualcosa?» domandò Joanna. «Un caffè?» «Non hai per caso un po' di Postum, vero?» «No», rispose Joanna, sorpresa dalla richiesta di quel vecchio sostituto del caffè. «Beh, allora niente, grazie. Ho soltanto bisogno di parlarti. Ho bisogno di parlare con qualcuno.» «A che proposito?» «A proposito di Burton. Hai idea di quello che sta passando?» «Che cosa vuoi dire?» «Ernie Carpenter è andato da lui, in ufficio, a mostrargli le piastrine di riconoscimento di suo padre. Ha detto che le hanno trovate in fondo al pozzo con lo scheletro. Credo che Ernie abbia accennato anche alle lastre odontoiatriche, benché non ci abbia dato troppa importanza...»
«Allora qual è il problema?» chiese Joanna. «Credevo che fosse quello che volevi, cioè accertare che quelli fossero davvero i resti del padre di Burton, e che tuo marito ne fosse informato, ma senza dirgli che tu stessa hai contribuito all'identificazione...» «È vero, ma non è tutto», disse Linda. Sedette sul divano, restando però con la schiena eretta, rigida, continuando a rassettarsi nervosamente la gonna già perfettamente liscia. «Che altro c'è?» chiese Joanna. Linda Kimball sospirò profondamente. «A quanto pare, Ernie Carpenter pensa che Burt abbia qualcosa a che fare con la morte di zio Harold. Gli ha chiesto dov'era martedì pomeriggio. Lo sapevi che hanno litigato?» «Chi?» «Burt e zio Harold, proprio quel giorno, a proposito dell'accordo che il vecchio voleva proporre a Holly.» «Ebbene, dov'era Burt? Te lo ha detto?» Linda sospirò. «Era in un bar. Non lo faceva da anni. Non beveva più dalla notte prima del nostro matrimonio. Dice di esserci rimasto per quasi tutto il pomeriggio.» «In quale bar?» «Il Blue Moon, su a Gulch. Ma adesso me lo stai chiedendo anche tu! Beh, ti dico che Burton Kimball non ha ucciso suo zio Harold! E tu sicuramente mi credi, vero?» «Linda...» avvertì Joanna. «Quello che io credo o non credo non ha nessuna importanza. I detective della omicidi, come Ernie, fanno sempre domande di questo genere. È il loro lavoro. Il semplice fatto che chiedano qualcosa non significa necessariamente che la persona interrogata sia sospettata di un crimine. Parlando con molte persone, interrogandole, arrivano a poco a poco a scoprire quello che è successo davvero.» «Questo è esattamente quello che voglio che faccia Ernie», dichiarò Linda Kimball. «Voglio che vada in fondo alla questione e scopra quello che è successo davvero. Altrimenti...» Singhiozzando, s'interruppe, poi, incapace di continuare, cercò nella borsetta il pacchetto di fazzolettini, proprio come aveva fatto nel pomeriggio. «Linda...» riprese gentilmente Joanna. «Non capisco... Cosa c'è che non va?» Linda scosse la testa. «Sono sposata con Burton Kimball da molto tempo. Lo conosco bene, quasi come conosco me stessa, ma non lo avevo mai visto com'era stasera. E non sopporto di vederlo così...»
«Così... come?» «Spaventato.» «Spaventato da cosa?» «Da se stesso», rispose Linda. «Ha paura di essere stato lui.» «A fare cosa?» «Crede di aver assassinato zio Harold e di essersene dimenticato perché era ubriaco. Naturalmente, tutto questo è ridicolo. Burton non avrebbe mai fatto una cosa del genere. È l'uomo più gentile del mondo. E non sopporto di vederlo così turbato.» «Turbato a causa di suo padre, oppure perché teme di essere sospettato in un'indagine per omicidio?» «Per tutt'e due le cose, ne sono sicura», ammise Linda. «Scoprire che cosa è successo davvero a suo padre è stato terribilmente sconvolgente, ma non credo che sia questo il vero problema.» «Allora quale?» Il doppio mento di Linda Kimball tremò pericolosamente. «Temo che stia stravolgendo tutto, che voglia attribuire la colpa a se stesso per salvare Ivy.» «Come e perché dovrebbe fare una cosa del genere?» domandò Joanna. Linda rimase con gli occhi vacui e fissi per alcuni lunghi istanti. «Ci siamo conosciuti quando Burt studiava legge, e io non ero ancora laureata. Lui rifiutò di sposarmi prima di avere finito gli studi e di essere avviato nella professione. Il nostro è stato un ottimo matrimonio, ma io sono sempre stata consapevole di avere una rivale.» «Una rivale?» Joanna si accigliò, indignata all'idea che un uomo apparentemente onesto come Burton Kimball potesse essere infedele alla moglie. «Ivy», rispose semplicemente Linda Kimball. «Si è sempre preoccupato per lei più che per chiunque altro al mondo. Cerca sempre di prendersi cura di lei, di proteggerla...» «Non vorrai dire che...?» «Oh, no!» si affrettò a rispondere Linda. «Non è niente di perverso o d'indecente! Niente del genere. Se non fosse stato tanto preoccupato per lei, sono sicura che non le avrebbe rivelato che Harold intendeva proporre un accordo. E poi, all'improvviso... Abracadabra! Prima di poter concludere l'accordo, prima di poter modificare tutte le sue precedenti disposizioni, Harold Patterson viene assassinato. E chi beneficia del fatto che nulla è cambiato? Ivy, ecco chi! Soltanto, esclusivamente Ivy!»
«Credi che tuo marito stia mentendo su quello che è successo? Credi che stia cercando deliberatamente di farsi accusare per proteggere lei?» «No», replicò cupamente Linda Kimball. «Credo che sia davvero convinto di essere stato lui. Era ubriaco e non ricorda niente, così adesso pensa di avere agito inconsapevolmente, anzi, è assolutamente convinto della propria colpevolezza. Se fossi stata più sveglia, lo avrei previsto con abbondante anticipo.» «Che cosa avresti previsto?» chiese Joanna, che continuava a non capire. «Non ti rendi conto?» implorò Linda Kimball, con voce rotta per i sentimenti repressi. «Ho paura! Sono spaventata a morte! E non so che cosa fare...» «Ti prego, Linda», disse Joanna, scuotendo la testa. «Sicuramente c'è qualcosa che non mi hai detto, perché non riesco a capire di cosa tu stia parlando, di che cosa hai paura...» «Ho paura che, se mai arriverà al punto di dover scegliere fra Ivy e me, Burt sceglierà lei!» «Suvvia, sii seria! È ridicolo! Sei sposata con quell'uomo, per l'amor d'Iddio! Sei la madre dei suoi figli! Ivy, invece, è soltanto sua cugina. Com'è possibile che possa scegliere lei?» «Se Ernie lo arresta, e se Burt... Com'è che dicono nei telefilm? Adesso non ricordo, ma insomma... Se Burt si prende la colpa, Ivy è libera. E se si arrivasse a questo, credo proprio che Burt non alzerebbe un dito per difendersi. Praticamente, è come se me lo avesse detto, stasera, in ufficio. E allora che cosa succederebbe? Il vero assassino, chiunque sia, la farebbe franca, e tutto perché Burton si preoccupa tanto della sua cara Ivy!» «Linda...» incominciò Joanna. «Credimi, questo non succederà.» «Ah sì? Beh, posso anche dirti come andrà esattamente... Burton dice che siccome era ubriaco fradicio, al momento dell'omicidio, qualsiasi giudice dello Stato lo condannerebbe, nel peggiore dei casi, per omicidio di secondo grado, e lui è sicuro che, se patteggiasse, potrebbe anche cavarsela con omicidio colposo.» «Allora dici sul serio, vero?» chiese Joanna, improvvisamente consapevole della gravità della situazione. Linda annuì. «Certo, e anche Burt. Ama i ragazzi e me, ne sono sicura. È stato abbandonato, è rimasto orfano. Si è sempre sentito solo al mondo, a parte Ivy Patterson, e quello che gli è successo da bambino lo influenza ancora terribilmente. Perciò temo che, se si trattasse di salvare lei, sacrificherebbe Chris, Kim e me senza esitazione. Non credo che moriremmo di
fame. Io potrei sempre tornare a insegnare e la chiesa ci aiuterebbe, ma comunque...» Le due donne rimasero sedute in silenzio per alcuni lunghi momenti, nel rumore della lavastoviglie che proveniva dalla cucina. Jennifer l'aveva riempita, l'aveva accesa e si era ritirata nella sua camera. «.Perché sei venuta a raccontare tutto questo proprio a me?» chiese finalmente Joanna. «Ernie Carpenter è il detective incaricato delle indagini... Perché non sei andata direttamente da lui?» Linda scrollò le spalle. «Non lo so... Avevo già parlato con te nel pomeriggio, quindi mi è sembrato più facile... Ho pensato che forse una donna mi avrebbe capita di più, mentre un uomo avrebbe potuto saltare subito alle conclusioni sbagliate e pensare che ci fosse qualcosa di terribile fra Ivy e Burton. Semplicemente, non è così. Mio marito è un uomo onesto. Dopo quello che è successo con zio Harold e Holly, non sopporterebbe che si pensasse qualcosa del genere sul suo conto.» Linda guardò l'orologio e si affrettò ad alzarsi. «Adesso è meglio che vada», disse. «È difficile che quelle riunioni durino molto più di un'ora. Non voglio che Burt s'insospettisca.» «Non mi hai ancora detto che cosa ti aspetti da me...» «Ho pensato che se fossi riuscita a farti capire che cosa sta succedendo veramente, forse avresti potuto impedire a Ernie di prendere una pista sbagliata. Mi chiedo se il fidanzato di Ivy non abbia qualcosa a che fare con questa storia... Forse hanno tanta fretta di sposarsi per non essere costretti a testimoniare l'uno contro l'altra...» «A questo non avevo pensato», disse Joanna. «Beh, io sì», ribatté duramente Linda Kimball. «E che io sia dannata se me ne starò in disparte a lasciare che la facciano franca!» «Ernie Carpenter è un professionista», disse Joanna, per rassicurarla. «Un vero professionista. Se c'è qualcuno capace di scoprire che cosa è successo veramente, quello è Ernie.» Linda Kimball raddrizzò le spalle. «Bene», disse, un po' rincuorata, almeno in apparenza. «Adesso è proprio meglio che vada.» Quando Linda se ne fu andata, Joanna dimenticò di avere avuto intenzione di pulire il frigorifero. Invece, ritornò in soggiorno e vi rimase seduta in solitudine per un po' di tempo, a meditare sul complesso rapporto fra Burton Kimball e sua cugina Ivy. Che legame poteva essere quello che induceva Linda a temere che suo marito fosse disposto a sacrificare la carriera e la famiglia, tutta la sua vita, per proteggere Ivy Patterson? Davvero
non era altro che un innocente affetto di tipo fraterno? Oppure si trattava di qualcosa di perverso? Verso le nove, Jenny uscì dalla propria stanza e andò a sedersi sul divano accanto alla madre. Indossava la vestaglia di flanella che nonna Brady aveva confezionato apposta per lei il Natale precedente. Allora era stata così lunga da sfiorare il pavimento a ogni passo, ma ormai copriva a malapena le caviglie ossute. Notandolo, Joanna rimase sconvolta, rendendosi conto di quanto fosse cresciuta la figlia in così breve tempo. Per la prima volta da settimane, Jenny si accoccolò accanto alla madre e si lasciò abbracciare. «Chi era quella signora?» chiese. «Abita in città», rispose Joanna, attirando Jenny più vicino. «Si chiama Linda Kimball.» «Che cosa voleva?» «È preoccupata per suo marito. Ha paura che dica di aver fatto qualcosa che non ha fatto, soltanto per impedire che qualcun altro si metta nei guai.» «Ma perché è venuta qui?» chiese Jenny. «Credo che sia venuta a parlare con me perché non voleva parlare con Ernie Carpenter. Doveva dire cose che la turbavano, di cui voleva parlare con un'altra donna, invece che con un uomo.» «Voleva un detective donna invece che uomo?» chiese Jenny. Joanna sorrise. «Per ora, Cochise County non ha nessun detective donna.» «Però ha uno sceriffo donna...» commentò pensosamente Jenny. «Già», confermò Joanna. «Lo sceriffo di Cochise County è una donna.» Jenny annuì e si alzò. «È tardi. È meglio che vada a letto. Buonanotte, mamma.» E si curvò a baciare la madre su una guancia. «Dormi bene», riuscì a rispondere Joanna. Jenny non si girò a guardarla dalla soglia della camera da letto, e lei ne fu contenta. Fu contenta che la bambina non si fosse accorta che gli occhi di sua madre si erano riempiti di lacrime. E lacrime di gratitudine, tanto per cambiare. Era un cambiamento molto bello. CAPITOLO 30 Erano ormai le dieci quando Joanna sedette al tavolo della sala da pranzo per esaminare la corrispondenza che Kristin Marsten le aveva scaricato sulla scrivania nel pomeriggio.
Uno dei primi documenti che trovò fu proprio la trascrizione dattiloscritta della sua deposizione sull'incidente automobilistico avvenuto la notte delle elezioni, la stessa per firmare la quale si era recata al Palazzo di Giustizia la mattina di mercoledì. Erano successe tante cose, da allora, che sembrava passato moltissimo tempo. Era come se fosse qualcosa di antico, per non dire inutile. Alvin Bernard, il capo della polizia di Bisbee, le aveva lasciato un messaggio nel pomeriggio per informarla che si era deciso di procedere contro Holly Patterson soltanto per guida pericolosa e senza patente. Joanna non capì i motivi di quella scelta, dato che gli investigatori non avevano considerato la sua deposizione, ma decise che non era un suo problema, accantonò il messaggio, e riprese a esaminare la corrispondenza. Come Sue Rolles aveva detto, Martin Sanders le aveva inviato una lettera di dimissioni, che trovò fra un memorandum interno in cui erano elencati i menu della mensa carceraria della settimana successiva e una nota che comunicava la data della prossima riunione del consiglio di contea, a cui anche lei stessa, in quanto amministratore, avrebbe dovuto partecipare. Per due volte lesse interamente la lettera, che diceva molto poco, e cioè che Sanders sì dimetteva dal proprio incarico con effetto immediato per motivi personali e che per la successiva settimana e mezzo avrebbe usufruito delle ferie arretrate che gli spettavano. «Grazie infinite, Martin...» mormorò Joanna. «Forse una di queste volte potrò renderti il favore...» Prese il calendario per annotarvi la data e l'ora della riunione del consiglio. Sulla nota, a penna, il nome R. VOLAND era stato cancellato con un tratto e sostituito con J. BRADY. L'ultimo involucro era un pacchetto col timbro postale di Washington, privo di mittente, che era stato recapitato mediante corriere espresso. Strappandolo, Joanna lo aprì. All'interno trovò il catalogo illustrato a colori di una ditta californiana che vendeva equipaggiamento e accessori obbligatori per le donne che lavoravano in polizia, ovvero Women Officers' Mandatory Accessories and Notions di Santa Monica in California, il cui acronimo era WOMAN, «donna». Carino... Le modelle erano strepitose, senza un filo di grasso, senza smagliature, con unghie e denti perfetti. Sembrava che nessuna di loro avesse mai lavorato un solo giorno in vita sua, eppure erano completamente equipaggiate, dai giubbotti antiproiettile in Kevlar modellati per adattarsi alle forme femminili fino alle armi leggere e agli apparecchi d'in-
tercettazione. Nella maggior parte dei casi, le armi e i congegni sembravano progettati appositamente per poter essere indossati e nascosti sotto gl'indumenti tipicamente femminili, inclusi quelli a cui nessuna donna poteva rimandare. Nessun prezzo poteva essere definito basso, ma Joanna riconobbe che un comodo giubbotto antiproiettile in Kevlar poteva essere considerato un importante investimento salvavita. Oltre al catalogo, Adam York le aveva spedito un libro e un biglietto. Il libro era stato letto, riletto e consultato innumerevoli volte, a giudicare dalla sovraccoperta blu, lacera e consunta, e dalle orecchie alle pagine. Intitolato Agente ferito, Codice Tre, era stato scritto da un certo Pierce Brooks, e Joanna non lo aveva mai visto prima, né mai ne aveva sentito parlare. Era un vecchio libro, come dimostravano l'illustrazione, che raffigurava alcuni poliziotti degli anni Settanta, e l'anno di pubblicazione della prima edizione, il 1975. Senza riuscire a capire perché Adam York le avesse inviato il libro, Joanna lo posò per un momento e prese il biglietto da visita della DEA dello stesso York, sul retro del quale l'agente le aveva scritto a mano un breve messaggio di congratulazioni. Compose il numero indicato sul biglietto e udì una serie di strani scatti prima che il telefono, finalmente, squillasse e Adam York rispondesse personalmente. «A quest'ora di notte, mi aspettavo una segreteria telefonica», rise Joanna. «Sei stata fortunata. Grazie ai portenti della telefonia, puoi comporre il mio numero di Tucson e parlare con me a Washington. Non è una cosa meravigliosa, la tecnologia?» «Washington?» ripeté Joanna. «Ora della Costa Orientale, quindi... È davvero tardi! Mi dispiace...» «Il tempo è una cosa relativa. Che succede?» «Ti ho chiamato per ringraziarti del pacchetto. Adesso mi rendo conto che un giubbotto antiproiettile adeguatamente modellato è indispensabile. Quello che ho indossato oggi è troppo grande, per me. Sono scorticata dappertutto. Ma perché il libro?» «Viene usato come manuale nei corsi di autodifesa per agenti di polizia. Prima d'iniziare a frequentare quel corso a Peoria, voglia che tu ti metta seduta e lo legga tutto con attenzione, dalla prima all'ultima pagina. È molto importante.» «Va bene. Lo farò, appena le cose da queste parti si saranno un po' sistemate.»
«Fallo prima», brontolò Adam York. «Finché non sarai un po' addestrata, per te sarà come andare sempre in cerca di guai. E adesso, dimmi... Com'è andato il tuo primo giorno di lavoro?» «Vediamo... Due omicidi, uno vecchio e uno recente... Un amministratore capo ha dato le dimissioni col dovuto anticipo, ma per non restare in carica nel frattempo si è preso le ferie arretrate... A parte questo, credo che sia stata una giornata del tutto normale...» «Non ti hanno lasciato molto tempo per ambientarti, vero?» «Ci riuscirò», disse Joanna. «Però devo farti una domanda... Che cosa sai, ammesso che tu ne sappia qualcosa, degli ex carcerati che provengono dalla Russia?» La voce di Adam York divenne improvvisamente molto seria. «Io personalmente? Non molto. Che cosa vuoi sapere?» «A quanto pare, ce n'è uno che abita da questa parti, a Cochise County», disse Joanna. «Il suo nome è Yuri Malakov. Vive qui da qualche tempo e in apparenza è un cittadino rispettoso delle leggi. Però ha una storia d'amore con la figlia di una delle mie due vittime.» «Che cosa ti fa credere che sia un ex carcerato russo?» «Per prima cosa, viene dalla Russia. Questo è sicuro. Ma stamane mi è capitato di vederlo senza camicia, e così ho scoperto che ha il busto quasi completamente tatuato. Sono soprattutto figure western, e "Cowboy Sam" è l'unica scritta in un inglese abbastanza corretto da risultare comprensibile.» «Che altro?» «Altro? Cosa vuoi dire?» «Che cos'altro ricordi di quei tatuaggi?» «Ricordo due serpenti a sonagli, il cappio del boia, un cowboy da rodeo, e anche, credo, una rosa... Può darsi che ci fossero altre figure, ma mi sembra di no... Perché? Che importanza ha?» «Con tutti i problemi che abbiamo avuto con la mafia russa, ho avuto modo di conoscere un agente dell'FBI che è un esperto nel decifrare i tatuaggi dei detenuti russi», rispose concisamente Adam York. «Lascia che chieda il suo parere. Contatterò anche alcuni funzionari dell'Immigrazione che conosco.» «Non credo che funzionerà», disse Joanna. «I miei collaboratori ci hanno già provato e gli è stato risposto di non immischiarsi. Perciò, se vuoi indagare su di luì, non dire che lo fai per me.» «E tu non entrare in un vicolo buio insieme a quel tizio», avvertì Adam
York. «I mafiosi russi sono maledettamente pericolosi. E se quello se ne va in giro con un cappio da forca disegnato sul petto, allora puoi bene immaginare che non è un semplice rubagalline.» Conclusa la conversazione, Joanna si ritirò in camera da letto con Agente ferito e «People». Sfogliò il libro, ma senza iniziare a leggerlo, perché era troppo stanca per qualunque testo che fosse più impegnativo di un articolo di rivista. Dopo avere sentito tutti i pettegolezzi che aveva scatenato, Joanna rimase delusa, quando finalmente lesse l'articolo di «People». Trattava anche di Holly Patterson, ma soprattutto della ipnoterapista di Hollywood, Amy Baxter, e di alcune sue pazienti, ognuna delle quali aveva denunciato un genitore per abusi sessuali e aveva ottenuto un risarcimento finanziario più o meno ingente. L'ultima cosa che Joanna pensò, dopo avere posato la rivista e prima di scivolare nel sonno, fu che certe scelte di lavoro erano più strane di altre. La mattina successiva dormì troppo. Stava ancora russando, alle sette, quando Jenny bussò alla porta della camera da letto, fece capolino, e disse: «Mamma... non sei ancora sveglia? È tardi». Con una fretta furibonda, Joanna corse ad accudire gli animali, quindi si tuffò sotto la doccia. Si stava ancora asciugando i capelli, quando Jenny si affacciò alla porta del bagno: «Vuoi che vada in bicicletta a prendere l'autobus, stamattina?» «Sì, così mi saresti di grande aiuto», disse Joanna. «Non fa buona impressione, se il nuovo capo comincia subito ad arrivare tardi al lavoro.» Indossò di nuovo il giubbotto antiproiettile sopra una vecchia maglietta di Andy, poi, prevedendo di trascorrere quasi tutta la giornata in ufficio, scelse il completo grigio perla, gonna e blazer, che era il preferito di Eleanor Lathrop. Le conferiva un aspetto deciso e dignitoso, senza contare che il blazer era abbastanza ampio per nascondere il giubbotto in Kevlar e la fondina ascellare di Andy. Badando a non correre troppo, Joanna guidò fino al Palazzo di Giustizia e parcheggiò nel posto che le era riservato. Dopo aver inserito il codice che le era stato recentemente assegnato e che aveva trovato fra la posta, premette il pulsante della porta posteriore riservata che le consentiva di accedere direttamente al proprio ufficio. La spalancò e la bloccò per poter trasportare dentro la scatola di oggetti personali che aveva caricato sulla Eagle. Aveva appena cominciato a sistemarli, quando la porta anteriore, comunicante con la sala d'attesa, si aprì, e Dick Voland entrò nell'ufficio.
Appena la vide, il vicesceriffo si bloccò, sbalordito. «Non sapevo che fossi qui», disse. «Sono entrata dal retro e ho deciso di sistemare le mie cose», spiegò lei, esponendo alla luce la targa con l'impronta della mano di Jenny per cominciare a spolverarla. «Che cosa posso fare per te?» Allora Voland cercò d'infilare nel taschino della camicia la busta che teneva in mano. Immobile sulla soglia, sembrava imbarazzato, indeciso sul da farsi. «Ti occorre qualcosa?» insistette Joanna. Lui sfilò goffamente la busta dal taschino e la porse a Joanna, che vi lesse il proprio nome dattiloscritto e nient'altro. «Cos'è?» chiese. «La mia lettera di dimissioni», rispose Dick Voland. «Con effetto immediato.» Senza aprirla, Joanna gettò la busta sulla scrivania, poi, stordita, indietreggiò fino alla poltrona in cuoio. «Perché?» chiese. «Hai già letto la posta?» Joanna guardò il mucchio di nuova corrispondenza che Kristin aveva lasciato sulla scrivania. «Non ancora. Volevo prima sistemare le mie cose. Perché? Cosa c'è che dovrei leggere?» Voland si allungò a frugare nel mucchio, ne trasse un quotidiano, e lo gettò davanti a lei. «Probabilmente dovresti leggere questo...» disse, in tono burbero. Joanna gettò un'occhiata all'«Arizona Sun», appena uscito. «Tutto il giornale», chiese, «o qualche articolo in particolare?» Lui sfogliò il giornale, lo aprì alla pagina della cronaca statale, quindi lo piegò, in modo che Joanna potesse vederne soltanto la metà inferiore. Subito sotto la piegatura si leggeva un titolo a due colonne: VECCHI AGENTI CONTRO NUOVO SCERIFFO: NESSUNA FIDUCIA. L'articolo era firmato da Sue Rolles. Rapidamente, Joanna lo lesse. Anche se martedì scorso la popolazione di Cochise County ha eletto la prima donna sceriffo dell'Arizona, questo non significa che i veterani del Dipartimento dello Sceriffo della contea siano felici del risultato. Con una decisione che molti considerano una dichiarazione di sfiducia nei confronti del nuovo sceriffo, Joanna Brady, ieri il vicecapo amministrativo di Cochise County, Martin Sanders, ha rassegnato le proprie dimissioni, ed è opinione diffusa che altri
funzionari del dipartimento, stimati ed esperti, intendano fare lo stesso fra non molto. Anche se la sua nomina era politica e a discrezione dello sceriffo, Sanders ha svolto le sue funzioni sotto due diverse amministrazioni e si riteneva che il suo ruolo sarebbe stato essenziale nel garantire l'ordinato svolgimento del passaggio di consegne al nuovo sceriffo appena eletto. Un funzionario del dipartimento che ha chiesto di rimanere anonimo ha dichiarato: «Temo che una donna non sia in grado di reggere alla pressione. Voglio dire... È in carica da due giorni, e ci sono già stati due omicidi» (v. sopra). Joanna girò il giornale quel tanto che bastava per leggere il titolo in cima alla pagina, che annunciava due diversi omicidi a Cochise County. Tuttavia non era quello l'articolo che Dick Voland le aveva mostrato, perciò lo rigirò e riprese la lettura che aveva interrotto. Il vicesceriffo capo Richard Voland, anch'egli di nomina politica, ha sostenuto attivamente la campagna di Al Freeman, l'ex capo della polizia di Sierra Vista, che si era candidato alla carica di sceriffo. Accennando alla scarsa esperienza di Joanna Brady in materia di sicurezza e di giustizia, Voland ha sottolineato che la contea avrebbe bisogno di avere un professionista delle forze dell'ordine a capo del Dipartimento dello Sceriffo. «Joanna Brady è una donna in gamba», dice Voland, «ma non è mai stata in polizia, e invece è proprio di questo che la contea ha maggior bisogno nel momento attuale: una persona che conosca il mestiere.» Joanna lanciò un'occhiata a Dick Voland al di sopra del quotidiano, scoprendo che lui la stava osservando con ansia. «È una citazione da uno dei tuoi discorsi di campagna elettorale, vero? Quello in cui hai insistito sul fatto che non sono mai stata in polizia...» Dick Voland annuì cupamente. «Esatto», disse. «Ma quella donna ha scritto l'articolo in modo tale da dare l'impressione che io lo abbia detto ieri, come se andassi sempre in giro a cercare di sabotarti.» Senza riprendere la lettura, Joanna ripiegò il giornale e lo posò sulla scrivania. «Caro signor Voland», disse, senza aprire la busta che conteneva la lettera di dimissioni, «credo che sia giusto farti sapere che questo articolo è stato scritto da una certa Sue Rolles, una cronista che io stessa, ieri,
nel tardo pomeriggio, ho cacciato da questo ufficio. E adesso spiegami perché vuoi andartene. Sei davvero convinto che non sarò mai in grado di fare questo lavoro?» «No, non si tratta affatto di questo.» «E di che cosa si tratta, allora?» «Con tutte le schifezze che i media stanno vomitando, ho paura che l'intera gerarchia vada in pezzi, e questo metterebbe a repentaglio la vita di tutti gli agenti. Ho l'impressione che te la caveresti meglio con una squadra di collaboratori di tua scelta. Insomma, fuori i vecchi e dentro i nuovi.» «Mi stai dicendo che non credi di poter lavorare con me?» «No, ma il pubblico potrebbe avere questa impressione, soprattutto dopo aver letto questo articolo. E tutto quello che provoca confusione, tutto quello che fa passare in secondo piano un funzionario rispetto a un altro, compromette l'efficienza e la sicurezza del dipartimento.» Joanna meditò su quello che aveva appena sentito. «Lascia che ti chieda una cosa, Dick... Tenuto conto del fatto che sono una novellina, mi sono comportata in modo inappropriato o dilettantesco, ieri, sulla scena del crimine?» «No, ti sei comportata benissimo, ma...» «Ma se lo avessi fatto, tu avresti lasciato correre, oppure me lo avresti fatto notare, in modo da impedirmi di ripetere lo stesso sbaglio in seguito?» Dick Voland sostenne lo sguardo scrutatore di Joanna senza distogliere gli occhi. «Se tu avessi fatto qualcosa di sbagliato, credo che te lo avrei detto.» «Bene.» Joanna prese la busta e la usò per picchiettare il bordo della scrivania, senza accennare ad aprirla. «Accetto la tua lettera con riserva», disse. «Ci penserò su, ma per il momento sappi che non ho ancora accettato le tue dimissioni. È chiaro?» «Sì.» «Bene. E adesso... Non dovrei essere informata di quello che è successo nella contea durante la notte?» «Due fratelli si sono ubriacati a una festa di compleanno, a Kansas Settlement, e si sono massacrati a colpi di mazza da baseball. Uno è ricoverato all'ospedale della contea, giù a Douglas. Ci sono state due liti domestiche, una a Elfrida, l'altra a Miracle Valley. Ci sono stati tre incidenti dovuti a guida in stato di ebbrezza, un ragazzo di Pirtleville è scappato di casa, e alcuni immigrati clandestini sono rimasti senza benzina fra Tombstone e
St. David. Il vice li ha trattenuti fino all'arrivo della Polizia di Frontiera, che li ha presi in custodia.» «È tutto?» «Non è abbastanza?» ribatté Voland. «E cosa dice Ernie Carpenter? C'è stato qualche sviluppo?» «Nulla di nuovo durante la notte, che io sappia, a parte il fatto che Ivy Patterson e quel suo russo si sono sposati, e posso dirti che questa faccenda ha scandalizzato un po' di gente, in città. A parte questo, è tutto tranquillo.» Voland si diresse alla porta. «Aspetta, Dick...» disse Joanna. «C'è un'altra cosa.» «Che?» «Hai qualche suggerimento su chi nominare al posto di Martin Sanders?» Voland scosse la testa. «Al momento no. È una strana posizione, né carne né pesce. Sarebbe una grossa promozione per quasi tutti gli agenti di pattuglia, ma è un incarico amministrativo esclusivamente interno, senza contatto col pubblico. Inoltre, ci sono molte scartoffie da compilare. Accettarlo significa dover grattare tutte le rogne più schifose, dalle lamentele contro la brutalità della polizia alle dispute con i consiglieri per i tagli ai finanziamenti...» «Vuoi dire che tutti, o quasi, quelli che lavorano attualmente al dipartimento darebbero un'occhiata al lavoro e poi scapperebbero a gambe levate nella direzione opposta come se avessero il diavolo alle calcagna?» «Esatto.» «Incluso te, presumo?» chiese Joanna. «Decisamente sì», rispose Voland. «Non accetterei quell'incarico per niente al mondo.» Per qualche tempo, quando il vicesceriffo capo se ne fu andato, Joanna rimase a fissare la porta chiusa, poi riprese il giornale e rilesse l'articolo, questa volta da cima a fondo. Così finalmente capì perché il volto di Sue Rolles le era parso familiare. Non ricordava di averla incontrata all'ospedale di Tucson il giorno della morte di Andy, perché a stento ricordava qualcosa di quello che era successo nel corso di quella giornata terribile, però l'aveva vista in giro per la contea e a qualche riunione, durante la campagna elettorale. Evidentemente Sue Rolles aveva seguito con la massima attenzione e in tutti i dettagli l'intero svolgimento della campagna. Con la lettura attenta dell'articolo, Joanna capì che le lamentele di alcuni funzionari scontenti,
citate da Rolles, erano recenti e legittime. Sicuramente Kristìn Marsten non era l'unica a essere del tutto insoddisfatta di avere come capo una donna. Ma quasi tutte le dichiarazioni attribuite a Richard Voland erano estrapolate dai discorsi pronunciati in campagna elettorale, decontestualizzate e modificate in maniera tale da sembrare espressioni recentissime della delusione immediatamente successiva al risultato delle elezioni. Dunque non fu difficile accostare le tessere del mosaico e intravedere il disegno complessivo. Joanna si rese conto che l'artìcolo avrebbe avuto un tono e un senso ben diversi se lei stessa non avesse sommariamente cacciato Sue Rolles dal proprio ufficio. Evidentemente la cronista si era offesa e aveva fatto in modo di far pagare caro a Joanna Brady il piccolo errore tattico che aveva commesso. Riflettendo, Joanna ebbe quasi l'impressione di udire la voce di D.H. Lathrop che, proveniente dal passato, diceva a lei e a sua madre, nel suo tipico accento strascicato del New Mexico: «I cronisti sono come i serpenti a sonagli. È meglio che stiano allo scoperto, in modo che si possa vedere che cosa stanno facendo». Vivi e impara, si disse Joanna. E non commettere due volte lo stesso errore. CAPITOLO 31 Joanna trascorse la mezz'ora successiva a studiare ogni parola degli articoli del «Sun» che avevano in qualche modo a che fare con il suo dipartimento, incluso quello che trattava dei due omicidi a Cochise County. Quest'ultimo era sostanzialmente innocuo, in quanto riferiva soltanto quello che Dick Voland aveva dichiarato durante la conferenza stampa pomeridiana. Dunque la redazione del giornale non aveva saputo, prima di andare in stampa, che molto probabilmente lo scheletro apparteneva a Thornton Kimball. Uno a uno, pensò Joanna, prima di dedicarsi al resto della corrispondenza. Fra i memorandum e i bollettini, trovò una copia del «Bisbee Bee» uscito quello stesso mattino, e non vi lesse soltanto che la prima vittima era stata identificata con Thornton Kimball. Qualche intraprendente cronista era riuscito a procurarsi gli annuari della Bisbee High School, perciò in prima pagina erano pubblicate le fotografie di Harold Patterson e di Thornton Kimball, giovani e dignitosamente vestiti con giacca, cravatta e cami-
cia bianca. Nel vederli insieme così, abbigliati con una eleganza ormai fuori moda, fu interessante notare quanto Burton Kimball avesse preso dalla madre, dato che assomigliava molto di più allo zio che al padre. «La signorina Kellogg chiede di vederla», annunciò bruscamente Kristin attraverso l'interfono. Entrata nell'ufficio con andatura svagata, Angie si diresse subito alla finestra e rimase in piedi a guardare fuori. «Dovresti mettere una mangiatoia per gli uccelli su quel mesquite, e un'altra sotto, al suolo, per le quaglie», disse. In soli due mesi, Angie aveva sviluppato una devozione profonda per gli uccelli selvatici che popolavano Bisbee e dintorni, e una conoscenza enciclopedica delle loro abitudini. Il cortile della sua casetta, nel quartiere di Galena, a Bisbee, era diventato una sorta di connubio fra un magazzino di mangiatoie per uccelli e una gigantesca voliera. Armata della sua copia di Uccelli del Nord America, che considerava preziosa come un tesoro, Angie trascorreva felicemente il suo tempo libero a osservare e a catalogare i suoi visitatori pennuti. «A dire la verità, non ho avuto il tempo di pensare agli uccelli», rispose Joanna, con una risata. «Come mai sei qui?» Angie si girò verso Joanna, con viso improvvisamente cupo. «Stavo quasi per andarmene», disse Angie. «Volevo vederti, ma quando sono arrivata nel parcheggio ho avuto paura e ho cominciato a tremare dalla testa ai piedi. Non ero mai entrata in un posto del genere di mia volontà, o senza essere ammanettata dietro la schiena. Sono tornati a galla molti brutti ricordi...» «Non ne dubito», disse Joanna. Angie si allontanò dalla finestra e si fermò dietro una poltrona, come se fosse troppo nervosa per sedersi. «Le ragazze di Los Angeles non ci crederebbero mai... Io stessa stento a crederci...» Per Angie, il fatto di potersi considerare amica di uno sceriffo di contea e di un reverendo metodista era, in una parola, incredibile. Nulla, nel suo turbolento passato di adolescente fuggita di casa, che era riuscita a sopravvivere soltanto grazie alla propria intelligenza, avrebbe fatto presagire una simile possibilità. «Sono qui per mostrarti una cosa...» disse Angie. Infilò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni per estrarne una tessera plastificata delle dimensioni di una carta di credito. «Ecco...» aggiunse, porgendola a Joanna.
«Dai un'occhiata...» Era una patente di guida rilasciata dallo stato dell'Arizona, la prima che Angie Kellogg avesse mai posseduto, completa di una delle più belle fotografie che Joanna avesse mai visto sopra una patente. «Sei stata promossa!» disse. «Congratulazioni! E hai anche una gran bella foto! Dev'essere la fortuna dei principianti...» Angie sorrise, soddisfatta. «E sono stata promossa al primo tentativo», disse. «Anzi, ho appena dato l'esame. Avevo paura di dover rifare la prova pratica più di una volta, ma il mio esaminatore è stato grande.» Osservando Angie, bionda e sensuale, Joanna pensò che non sarebbe stato sorprendente se l'esaminatore avesse tralasciato qualche piccola incertezza o qualche piccolo errore. La precoce perdita dell'innocenza aveva privato Angie della capacità di essere consapevole della propria bellezza. Ma quello di cui lei era ignara non sfuggiva di certo a qualunque maschio, inclusi gli esaminatori. Spesso Joanna restava perplessa dinanzi allo strano miscuglio di scaltrezza e ingenuità che caratterizzava Angie. Era allo stesso tempo giovane e vecchia, candida e scafata. Com'era possibile che una giovane donna come lei, che fino a pochi mesi prima si era prostituita per guadagnarsi da vivere, fosse apparentemente inconsapevole della propria bellezza e degli effetti che essa esercitava su tutti coloro che la incontravano? Comunque, Angie stava compiendo con una certa difficoltà la transizione da un'economia, in cui l'unico mezzo di scambio era stato il suo corpo, a un'altra, in cui i conti si pagavano col denaro del salario. Con l'aiuto di persone quali Bobo Jenkins e Jeff Daniels, stava cominciando a imparare, per la prima volta, che era possibile avere amici maschi senza che questo implicasse automaticamente rapporti sessuali, e che nel privilegio di dire no si manifestava la vera libertà. «Beh, ti piacerebbe venire a fare un giro, e magari andare a pranzo insieme?» chiese Angie, con il viso illuminato da un disarmante entusiasmo. «Oggi ho la mattinata libera. Comincio a lavorare soltanto alle sei.» Era ancora presto. Con due omicidi ancora irrisolti, Joanna sentiva di dover fare qualcos'altro, oltre che andare a pranzo. L'unico problema era che, in quel momento, non aveva la minima idea di cosa fare. Così, alla fine, decise di andare. Con considerevole orgoglio, Angie scortò Joanna fino alla sua Oldsmobile Omega, color crema, che era parcheggiata davanti al palazzo. Pranzarono molto presto da Daisy e se ne andarono molto prima che cominciasse
l'affollamento di mezzogiorno. Poi Joanna chiese ad Angie di aiutarla a riportare la Eagle al ranch, in modo da lasciare nel parcheggio dell'ufficio una sola vettura, anziché due. Angie fu felice di darle una mano. Così sostarono al Palazzo di Giustizia soltanto il tempo necessario a prendere la Eagle. La corsa al ranch non richiese più di venti minuti, dieci per andare e dieci per tornare, anche se parve molto più lunga alla passeggera, che per la paura strinse il bracciolo con tanta forza da sbiancare le nocche. Pur avendo passato l'esame a pieni voti, Angie era ancora una guidatrice molto inesperta. La Omega tendeva a stare troppo a destra quando incrociava altri veicoli, per spostarsi troppo al centro e zigzagare, quando la strada era libera. Aggrappata al bracciolo, Joanna si sforzò di tenere la bocca chiusa, dato che rammentava fin troppo bene quanto l'avessero irritata a suo tempo le critiche e i consigli di Eleanor. Dopo avere lavorato per tanti anni in campo assicurativo, tuttavia, sapeva perché il premio dell'assicurazione era molto più alto per gli automobilisti poco esperti. «Allora, come va?» chiese Angie all'improvviso. «Essere sceriffo è come pensavi che sarebbe stato?» Se Angie Kellogg non aveva mai riflettuto granché sui mestieri che avrebbe potuto scegliere, sicuramente non le era mai passato per la mente di entrare nelle forze dell'ordine. «È un lavoro duro», disse Joanna. «Ci sono già stati due omicidi, da martedì, e a me basterebbe qualcosa di meno eccitante.» «Ne ho sentito parlare», disse Angie. «I clienti, al bar, quasi non parlano d'altro.» «A proposito, il detective Carpenter è passato a interrogarti?» chiese Joanna. Sbalordita, Angie si girò a fissare la passeggera, e in quella momentanea disattenzione, le ruote di destra della Olds uscirono di strada. Lasciandosi dietro una scia di polvere e di ghiaia, Angie riuscì a riportare la vettura sull'asfalto. «A proposito degli omicidi?» riuscì a chiedere, mentre il suo viso impallidiva. «Non mi piacciono i detective. Perché mai uno dovrebbe voler parlare con me?» Evidentemente il ricordo delle brutte esperienze avute durante la vecchia vita influenzava la nuova esistenza di Angie. Perciò Joanna si affrettò a rassicurarla. «Tu non hai fatto niente di male», disse. «È soltanto che un uomo implicato in uno dei due omicidi sostiene di essere stato al Blue
Moon per quasi tutto il pomeriggio, martedì, e io, sapendo che eri di turno, quel giorno, ho pensato che potessi averlo visto.» «Uno dei miei clienti è un sospetto?» chiese Angie, ancora sconcertata. «Chi è?» «Non ho detto questo. Dobbiamo soltanto controllare quello che ci ha detto. Comunque, è Burton Kimball», proseguì Joanna. «È un avvocato.» «Oh, quello...» disse Angie, in tono improvvisamente sprezzante, scalando le marce per svoltare in direzione del Palazzo di Giustizia. «Cosa vuoi sapere di lui?» «Suo zio è stato assassinato proprio quel giorno, nel pomeriggio o in serata. Burton Kimball non è un bevitore abituale, a quanto si sa, però martedì, evidentemente, si è ubriacato. In un caso di omicidio, si indaga sulle persone che sono vicine alle vittime, e si nota tutto ciò che è insolito, inclusi i comportamenti.» «Hai ragione», convenne Angie. «Non è un gran bevitore. Ecco perché è stato facile fare in modo che si sbronzasse. Quello non li regge per niente, i liquori.» «Lo hai fatto ubriacare? Di proposito?» «Puoi scommetterci.» «Perché?» «Perché volevo che il giorno dopo non fosse capace neanche di trascinare le chiappe giù dal letto. Così non avrebbe potuto nemmeno andare in tribunale a difendere quel vecchio porco di suo zio.» «Aspetta un momento, Angie... come fai a conoscere Burton Kimball? E a proposito... che cosa ti fa credere che suo zio fosse un vecchio porco? Lo conoscevi, forse?» «So quello che si dice di lui», rispose Angie, «ed è abbastanza. Non era un molestatore di bambine? Uno di quei pervertiti che abusano delle figlie? Beh, quei tipi trovano sempre qualche viscido avvocato che li aiuta a farla franca!» La voce di Angie tremava di rabbia repressa. «È dannatamente vero! L'ho proprio fatto ubriacare, e lo rifarei, anche subito! Volevo che quel figlio di puttana fosse tanto sbronzo da non riuscire neanche a sollevare la testa! Ma lui se n'è andato troppo presto. Si è alzato ed è uscito.» «Sei fortunata che non abbia avuto un incidente, Angie», disse Joanna. «Lo sai che i baristi possono essere considerati responsabili? Avresti potuto perdere il lavoro...» «Non ci avevo pensato... Comunque», insistette ostinatamente Angie,
«lo rifarei, se mi capitasse l'occasione.» Intanto, aveva fermato l'auto nel parcheggio del Palazzo di Giustizia, a cavallo di una striscia bianca, occupando parzialmente due posti. «Ma perché fare una cosa del genere?» chiese Joanna. «Perché correre un rischio simile?» Angie rimase seduta con le mani strette intorno al volante e gli occhi fissi su qualcosa di invisibile. Tardò tanto a rispondere, che Joanna si chiese se avesse udito la domanda. «Come si fa a difendere un uomo così?» chiese finalmente Angie. «Come ha potuto cercare di fargliela passare liscia? Per quanto mi riguarda, l'avvocato è come il padre, e forse anche peggio. Il padre potrebbe essere malato o pazzo, ma l'avvocato lo fa soltanto per i soldi, e lavora per chi ha tutte le carte migliori in mano. Le bambine invece sono quelle che non hanno niente, nessuno a cui rivolgersi. Sono loro quelle che hanno davvero bisogno di essere difese e aiutate.» Mentre Joanna osservava con sgomento, il viso di Angie Kellogg sembrò frantumarsi in mille pezzi. Le parole che Angie non era mai riuscita a pronunciare per se stessa erano scaturite all'improvviso in difesa di una persona che non conosceva neppure: in difesa di Holly Patterson. Mentre Angie scoppiava a piangere, Joanna scoprì finalmente la chiave di volta del suo passato, un elemento che sino a quel momento le era sfuggito, e capì. «Oh, mio Dio...» sussurrò, con orrore. «È successa la stessa cosa anche a te, vero?» Angie annuì. «E mia madre non ha fatto niente per aiutarmi. Forse all'inizio non lo sapeva, anche se avrebbe dovuto. Ma persino quando le ho detto tutto, non ha alzato un dito, non lo ha fatto smettere.» Per mesi, dalla metà di settembre, Joanna si era sforzata di ricomporre le tessere sparse della storia di Angie, e aveva sempre avuto la sensazione che ne mancasse una. Non era mai riuscita a capire che cosa avesse costretto Angie a fuggire di casa e a vivere in strada, quando aveva soltanto pochi anni più di Jenny. E adesso che lo sapeva, adesso che capiva, quasi se ne rammaricava. «Va tutto bene?» chiese, posando una mano su un braccio della giovane donna turbata. A poco a poco, Angie riacquistò la propria compostezza, smise di piangere, e quasi completamente di singhiozzare. «Va tutto bene», riuscì a dire. «Sicura?»
«Sicura.» «Angie...» disse Joanna, con imbarazzo. «Mi dispiace tanto... non avevo idea...» Allora Angie la guardò di sbieco. «Vuoi dire che mi credi?» «Beh, certo che ti credo...» rispose Joanna, indignata. «Perché non dovrei?» «Perché», disse Angie sottovoce, con esitazione, «l'unica altra persona cui l'ho rivelato è mia madre, e lei mi ha risposto che ero una bugiarda. Ha detto che mi ero inventata tutto. Ma non è così, lo giuro su Dio! E quella donna, il cui padre è morto... probabilmente neanche lei ha inventato tutto. E io volevo che vincesse la causa, ecco tutto. Ecco perché ho fatto sbronzare l'avvocato. Lo capisci, vero, Joanna?» «Sì», disse pacatamente Joanna, nell'uscire dall'auto di Angie. «Credo di capire...» CAPITOLO 32 Quella mattina Burton Kimball si recò al lavoro per abitudine, non avendo la minima idea di cos'altro fare di se stesso. Rimase seduto nel proprio ufficio come intontito, con la porta chiusa, a fissare senza capire il mucchio di corrispondenza che Maxine, come al solito, gli aveva lasciato sulla scrivania. Anche se lesse e rilesse più volte la prima lettera del mucchio, non riuscì a decifrare un solo paragrafo. Era come se fosse scritta in una lingua che gli era estranea. Scoprire che suo padre era morto ancor prima che lui nascesse sembrava avere mandato in cortocircuito le sue connessioni cerebrali. Per tutto il tempo in cui Burton aveva aspettato che il genitore ricomparisse, per gli oltre quarant'anni in cui aveva desiderato che tornasse a casa a riprendersi il figlio, Thornton Kimball era rimasto a meno di dieci miglia da lui, morto, in fondo a un pozzo, con il cranio fracassato da un sasso prelevato dal fondo di un fiume, che l'acqua aveva consumato a poco a poco per un tempo immemorabile, fino a renderlo perfettamente liscio. Quella mattina, per la prima volta nella vita, Burton viveva senza il conforto della sua cara illusione infantile. Burton Kimball era orfano ed era sempre stato orfano, ma la scoperta del cadavere ridotto a uno scheletro, il senso di perdita e la sofferenza, erano nuovi, come se suo padre fosse morto soltanto il giorno prima. Nel cuore di Burton Kimball, questa era la verità.
Avrebbe dovuto essere lui stesso, in quanto parente superstite più prossimo, a organizzare il funerale, seguendo i consigli di Norm Higgins. Tuttavia Burton era paralizzato dai suoi stessi sentimenti. Semplicemente, non ce l'aveva fatta, aveva lasciato l'intera spinosa questione a Linda, ed era scappato a rifugiarsi in ufficio. E là rimase, seduto in poltrona, nascosto. Era a malapena consapevole persino di altri problemi che avrebbero dovuto invece ricevere tutta la sua attenzione. Il fatto che Ernie Carpenter avesse osato interrogarlo in relazione all'omicidio di Harold Patterson aveva sconvolto Linda, ma Burton stesso non se ne era minimamente preoccupato. Era dispiaciuto per la morte di Harold Patterson, l'unico «padre» che avesse mai conosciuto, ma ciò che lo turbava profondamente, quel giorno, era la perdita improvvisa del vero genitore, che non aveva mai conosciuto. Era sbalordito dalla vastità della sofferenza che provava. Com'era possibile che quella vecchia ferita ormai cicatrizzata potesse fare tanto male? Quando squillò il telefono, Burton trasalì come se una sassata avesse fracassato la finestra accanto. Con mano improvvisamente tremante, sollevò il ricevitore. «Sì?» disse, consapevole dell'improvvisa incertezza della propria voce. «Scusa se ti disturbo», disse Maxine, con sollecitudine, «ma c'è Rex Rogers al telefono. Insiste per parlare con te personalmente.» «Rex Rogers? Cosa vuole?» «Non lo ha detto. Te lo passo, o vuoi che mi faccia lasciare un messaggio?» «Fatti lasciare un messaggio. Non voglio parlare con nessuno, stamane, e soprattutto non con Rex Rogers.» «Vuoi che non ti passi nessuna telefonata?» «Sì, nessuna, per favore...» Pochi istanti più tardi, Maxine bussò alla porta dell'ufficio. «Che ha detto?» brontolò Burton. «Voleva informarti che intende procedere nell'azione legale per il patrimonio del signor Patterson, ma contro Ivy, a meno che lei intenda negoziare un accordo subito, senza più discutere la causa in tribunale.» Burton si coprì il viso con le mani. «Avrei dovuto saperlo», disse. «Holly non è cambiata. È sempre più che contenta di poter prendere a calci qualcuno che è già a terra.» Si alzò, e prese la giacca dall'attaccapanni. «Dove stai andando?» chiese Maxine. «A parlare con la mia cliente.»
«Non era tuo zio, il tuo cliente?» «Adesso ho un'altra cliente», rispose risolutamente Burton. «Lei ha bisogno di me, anche se forse non se ne rende ancora conto. Come procede, in città, la fabbrica dei pettegolezzi?» «A pieno regime, suppongo... Perché?» «Qualcuno sa dove hanno trascorso la notte gli sposini novelli?» «Se c'è qualcuno che lo sa, immagino che sia Helen Barco.» «Io vado a darmi una rinfrescata. Tu mettiti al telefono e cerca di scoprire dove hanno passato la notte Ivy e suo marito. Mi sarà molto più facile trovarli, se avrò almeno qualche idea su dove cominciare a cercarli.» Come al solito, era bastato l'incombere di una possibile minaccia su Ivy perché Burton Kimball reagisse alla paralisi della paura. Fu spinto ad agire da un'abitudine sviluppata e consolidata nel corso di tutta una vita, proprio come quella di recarsi in ufficio ogni mattina. Se Ivy era in pericolo, lui doveva fare qualcosa. Senza capire, Maxine si chiese, nel comporre il numero di Helen Barco, che cosa diavolo gli fosse successo così all'improvviso. Linda Kimball, invece, avrebbe capito, se avesse saputo. Suo marito si comportava così, quando si trattava di Ivy Patterson. Lo aveva sempre fatto. Terminate le pulizie in soggiorno, Isobel Gonzales andò in cucina, sedette a bere una tazza di caffè, e intanto lesse l'edizione del mattino del «Bisbee Bee». Isobel aveva vissuto una vita tranquilla e ben protetta. Quella era la prima volta che una morte violenta la riguardava così da vicino. Dunque cercò d'immaginare come si sarebbe sentita, quel mattino, se fosse stata al posto di Holly Patterson. Era stato già abbastanza brutto, per Holly, tornare a casa dopo tanti anni ad accusare il padre di cose tanto orribili. Isobel non aveva idea di che cosa fosse successo durante il tempestoso incontro pomeridiano di martedì, in biblioteca, dove proprio lei aveva accompagnato Harold Patterson, che si era presentato all'appuntamento prima che la signorina Baxter e la signorina Patterson scendessero. Immaginò che le due donne fossero state fra le ultime persone a vedere vivo il vecchio, e ne fu rattristata, sentendosene in qualche modo responsabile. Il signor Patterson era seduto ad aspettare, quando Holly era entrata in biblioteca, accompagnata da Amy Baxter. Dopo avere chiuso la porta, Isobel se n'era andata a sbrigare il proprio lavoro, facendo del proprio meglio
per non origliare. Anche se la villa era molto grande, però, non aveva potuto fare a meno di sentire le voci irate. Se qualcuno incomincia a urlare, in una casa solitamente tranquilla e silenziosa, è difficile non accorgersene. Preparata la cena, Isobel se n'era andata presto, alle cinque e mezzo, per poter avere il tempo di recarsi a votare con Jaime. Non aveva idea di come fosse finita la discussione in biblioteca, e più tardi non aveva visto Holly partire con la vistosa auto rossa del signor Rogers, ma di sicuro aveva assistito alle cose terribili che erano successe in seguito. Già in precedenza Holly aveva manifestato poco appetito, ma dopo l'incidente aveva praticamente smesso di mangiare. Talvolta beveva qualcosa, ma il cibo restava sempre quasi intatto sul vassoio. Sebbene preoccupata, Isobel non ne parlava con la signorina Baxter, né col signor Rogers. In quanto ispanoamericana e domestica, Isobel Gonzales sapeva stare al proprio posto. Teneva la bocca chiusa e cercava di non ascoltare il cigolio incessante della sedia a dondolo che proveniva dalla camera di Holly, situata proprio sopra la cucina. Pensava che bisognava essere matti per stare sempre seduti così, ora dopo ora, a dondolarsi davanti alla finestra, con lo sguardo fisso alla discarica. Naturalmente, la signorina Baxter non usava la parola «pazza» e neppure «loca». Diceva che la signorina Patterson aveva «problemi emotivi», poverina. Poi, proprio mentre pensava così, Isobel si accorse di non sentire più il cigolio della sedia a dondolo. Pochi istanti più tardi fu spalancato l'uscio della cucina e Holly Patterson apparve sulla soglia, scarmigliata, in vestaglia. Appoggiandosi debolmente alla cornice della porta, disse: «Vorrei un po' di caffè». Nel corso della sua vita Isobel Gonzales si era occupata di diversi invalidi, persone abbastanza malate da avere bisogno di assistenza, ma non tanto da avere bisogno di una infermiera. Sapeva che per chi era rimasto a letto, anche se soltanto per pochi giorni, alzarsi e ricominciare a camminare poteva essere difficile e richiedeva tempo, pazienza, gradualità. «Dovrebbe sedersi», disse, avvicinandosi subito a Holly. «Non dovrebbe essere in piedi.» Holly l'allontanò con un gesto. «Sto benissimo», annunciò. «Sto benissimo, davvero.» Nondimeno vacillò, nell'avvicinarsi al tavolo e alle sedie. Mentre Isobel si affrettava a versarle una tazza di caffè appena fatto, Holly sedette, lasciandosi cadere, al tavolo di cucina. Il suo sguardo fu subito attirato dalle fotografie sulla prima pagina del quotidiano, che stava
aperto proprio dinanzi a lei. Nel momento in cui le vide, i ricordi dimenticati di una vita intera riemersero turbinosamente, minacciando di travolgerla come una piena incontenibile. Le ore di prudente indagine con Amy, le domande e le risposte nella trance ipnotica, non avevano mai suscitato in lei una sofferenza tanto straziante, non avevano mai gettato una luce tanto spietata sulla sua tenebra interiore, e sul suo orrore. Afferrato il giornale, Holly Patterson se lo ficcò in una tasca della vestaglia, pensando che forse, se non avesse più visto quel viso sorridente, il dolore si sarebbe attenuato abbastanza da permetterle di respirare. Ma anche con il ritratto stropicciato fra le pieghe del quotidiano arrotolato, schiacciato come uno scarafaggio colto alla sprovvista, continuò a vedere quel viso. Continuò a ricordare. E poi, in un momento di chiarezza terrificante, intravide il pericolo in cui si trovava, e si alzò di scatto, rovesciando la sedia sul pavimento della cucina. Isobel trasalì allo schianto e, nel timore che Holly fosse svenuta, si girò di scatto, spargendo tutto il caffè che aveva appena versato. Nel momento in cui vide l'orrore e l'angoscia sul viso di Holly, rischiò anche di far cadere la tazza. Si chiese se Holly avesse un malore, forse un infarto, dato che aveva la bocca spalancata, come se stesse cercando di parlare, o magari persino di gridare, ma senza riuscire a emettere alcun suono. Sbattendo la tazza sul banco della cucina, Isobel accorse al fianco di Holly. «Signorina Patterson...» disse, prima di scostare dal tavolo una delle altre sedie e aiutarla a sedersi di nuovo. «Che succede? Si sieda... si sieda subito, qui... sembra che stia per svenire...» «Lei mi ucciderà!» sussurrò raucamente Holly. «Signorina Patterson... la prego... nessuno ucciderà nessuno. È soltanto la sua immaginazione. Si sieda, la prego...» Con agilità sorprendente, Holly Patterson si sottrasse alla presa di Isobel e corse verso la scala. Rimasta in cucina, Isobel udì poco dopo i passi pesanti che percorrevano il lungo corridoio al piano di sopra, in direzione della camera in fondo. Il suo primo impulso fu quello di seguire Holly, perché le fu improvvisamente chiaro quanto la signorina Baxter avesse ragione. Nel suo linguaggio, i «problemi emotivi» di Holly Patterson si traducevano come pu-
ra e semplice follia. Quando la porta della camera da letto si chiuse rumorosamente al piano di sopra, Isobel sospirò di sollievo. Se la signorina Patterson avesse cercato di uscire o di scappare, sarebbe stata di gran lunga più preoccupata. Invece era rientrata nella sua stanza, dove doveva restare. Appena la signorina Baxter e il signor Rogers fossero tornati, Isobel avrebbe dovuto riferire l'accaduto, benché non fosse affatto sicura di che cosa fosse successo. La signorina Patterson aveva guardato il giornale, e aveva visto qualcosa che l'aveva turbata terribilmente, proprio quando ormai ne aveva già passate anche troppe. Ricordando l'espressione che le aveva visto sul viso mentre correva fuori della cucina, Isobel si convinse sempre più che fosse definitivamente impazzita. Rimase in ascolto, in attesa di udire di nuovo il cigolio della sedia a dondolo, e finalmente lo sentì. Allora si fece il segno della croce e sussurrò una breve preghiera. «Lasciate in pace quella povera anima», disse tra sé. «Lasciatela in pace...» Burton fu meno sorpreso di sapere che Maxine era riuscita a individuare Ivy e Yuri Malakov, di quanto lo fu nell'apprendere dove li aveva trovati. Alloggiavano al Geronimo Lodge, un motel scadente, a Tombstone. L'aspetto stesso del luogo lo fece indignare. Certo Ivy meritava di trascorrere la luna di miele in un posto migliore di quello. Chiamò dal telefono nell'atrio, poco prima di mezzogiorno, ma Ivy rispose con voce rauca, come se fosse stata svegliata da un sonno profondo. «Tu sei... dove?!» chiese Ivy, cominciando finalmente a recuperare la lucidità. «Sono nell'atrio. Devo parlarti. Devo parlare a tutti e due, tu e... Yuri. È importante.» «Burt... Questa è la mia luna di miele! L'ho aspettata per quarant'anni, ed è l'unica, perché sicuramente non ne avrò mai nessun'altra. Qualunque cosa tu voglia, puoi aspettare fino a stasera, quando torneremo al ranch per sbrigare tutti i lavori. Anche del funerale ci occuperemo questa sera.» «Non si tratta di tuo padre», disse Burton. «Si tratta di Holly.» «Ebbene?» «Il suo avvocato ha telefonato al mio ufficio poco fa.» «Perché?» «Holly non rinuncia alla causa. Vuole procedere contro di te per l'eredità, a meno che tu sia disposta ad accordarti subito. Il suo avvocato andrà
dal giudice Moore a sbrigare le pratiche necessarie.» Seguì una lunga pausa. «Holly non può fare questo, vero?» «Sì che può.» «E noi che cosa possiamo fare?» «È proprio per questo che ho bisogno di parlarti.» Seguì un'altra pausa. «Va bene...» disse finalmente Ivy. «Aspetta nella caffetteria. Scendiamo fra poco.» Burton andò nella caffetteria, si lasciò cadere in un séparé e ordinò una tazza di caffè. Pochi minuti più tardi vide entrare Dave Hollicker e con un gesto noncurante lo salutò, mentre passava. Non pensò che la comparsa di Dave potesse avere qualcosa a che fare con lui, o che l'avere interrotto la luna di miele della cugina potesse avere aggiunto legna al fuoco della teoria del complotto che stava assumendo sempre maggiore consistenza nella mente di Ernie Carpenter. In quel momento, infatti, il detective della squadra omicidi di Cochise County stava considerando sempre più verosimile l'ipotesi che Burton Kimball, Ivy Patterson e Yuri Malakov fossero complici nell'omicidio. In altre parole, il detective Carpenter era sempre più convinto che quei tre, in combutta, avessero assassinato Harold Lamm Patterson. CAPITOLO 33 Per un poco, dopo essere ritornata nella propria stanza, Holly rimase seduta sul letto e si permise a stento di respirare. Non era stupefacente che gli altri la credessero pazza. Era davvero pazza. Era come se nella sua mente scorressero parallelamente e contemporaneamente due filmati: quello del passato più lontano e quello del martedì precedente. Il primo era pieno di orrore e reale, anche se i colori erano virati al seppia come le ombre rugginose delle vecchie fotografie nelle collezioni dei musei. I visi, tuttavia, erano ancora riconoscibili, e Holly, adesso, sapeva chi erano quelle persone. Tutte quelle persone. Il secondo filmato, invece, era a colori vivaci, anche se la pesante coltre grigia e brumosa delle nubi copriva i foschi dirupi di Juniper Flats. Dapprima suo padre le raccontava quello che era accaduto veramente, e lei sentiva emergere frusciando dalle profondità di se stessa le avvisaglie del ricordo e della comprensione. Poi il filmato s'interrompeva bruscamente come se fosse stato tagliato a metà di una scena. Dopo l'immagine vivida della cima della montagna non c'era altro che il caldo e dolce conforto del-
l'oblio, e poi una collera irrazionale per il fatto che suo padre non era tornato, anche se aveva detto che lo avrebbe fatto. Sembrava che ancora una volta l'avesse tradita. Era sciocco, però. Holly si rese conto che questa volta lui non l'aveva affatto tradita. L'aveva aspettata in biblioteca, come aveva detto, e si era offerto di rimediare, di rimettere tutto a posto. Ma lei, chissà come, lo aveva dimenticato. Quella era la parte del tutto insensata, a meno che fosse stata costretta a dimenticarla. Così Holly rimase seduta là, a fare del proprio meglio per cercare di convincersi che sbagliava, che il panico improvviso che l'aveva sopraffatta in cucina doveva essere stato provocato da qualche orribile errore. Invece non era così. Per quanto fosse doloroso, non era un errore. Adesso sapeva che non era stato un caso se, mesi prima, la sua strada e quella della ipnoterapista Amy Baxter si erano incrociate. Amy doveva essersi informata su di lei e doveva essere andata a cercarla. Il suo degrado personale e professionale e il suo abuso di droghe erano ben conosciuti nell'ambiente di Hollywood. L'aiuto e i consigli che Amy le aveva offerto erano stati una preziosa ancora di salvezza nel momento in cui ne aveva avuto maggiormente bisogno, quando nessuno rispondeva più alle sue telefonate e quello che per tanto tempo era stato il suo agente l'aveva abbandonata. Dopo avere saputo delle difficoltà di rapporto all'interno della famiglia Patterson e dell'esistenza del Rocking P, Amy si era dimostrata fin troppo desiderosa di farle conoscere Rex Rogers. Naturalmente, fra quei due non esisteva soltanto una conoscenza superficiale. Come aveva sottolineato l'articolo pubblicato su «People», avevano collaborato a parecchie cause, che quasi sempre si erano risolte con accordi economicamente molto vantaggiosi per i loro clienti, e dunque anche per loro. Quando aveva letto l'articolo, Holly si era sentita ingenuamente fiera che Amy e Rex fossero riusciti a trovare tante altre persone da aiutare: altre persone, proprio come lei. Aveva pensato che, con Amy come socia e con il Rocking P come sede di un centro terapeutico, lei stessa avrebbe potuto fornire un contributo alla loro opera rivoluzionaria. Ma adesso, per la prima volta, capiva di che cosa si trattava in realtà: una truffa. Quante delle famiglie citate nell'articolo erano state condannate a risarcire danni che forse non erano mai stati inflitti? Quanti dei presunti ricordi rimossi erano stati modificati attraverso l'ipnosi? Quante famiglie avevano accettato di pagare pur di seppellire definitivamente il passato?
Forse Amy Baxter aveva iniziato la carriera per amore della scienza e per assistere le persone sfortunate che avevano bisogno di aiuto, ma a poco a poco, e soprattutto da quando era in combutta con Rex, il suo compare, l'aveva trasformata in un'attività a puro scopo di lucro, e stava ammassando un'autentica fortuna. Se fosse riuscita a trovare una famiglia abbastanza facoltosa da consentirle di guadagnare tanto da aprire un centro terapeutico, lei e Rex avrebbero potuto creare una vera e propria impresa che, con l'assistenza alle vittime e le cause ai persecutori, si sarebbe autoalimentata. Il silenzio della casa s'insinuò gradualmente nelle meditazioni solitarie di Holly. Rex e Amy dovevano essere ancora fuori, forse insieme, forse separatamente. Ma quando uno dei due fosse tornato, Isobel avrebbe inevitabilmente riferito loro quello che era accaduto in cucina. E appena Amy avesse scoperto che Holly aveva finalmente capito la verità... La sensazione di pericolo che l'aveva travolta poco prima in cucina ritornò con la stessa violenza, o forse ancora più violentemente. Ma se la sua amica Amy era in realtà una nemica, allora, in nome di Dio, a chi avrebbe potuto chiedere aiuto? Alla fine Holly si sentì costretta a implorare proprio colui che doveva essere meno disposto ad aiutarla, e cioè suo cugino, Burton Kimball. Anche se lo considerava un incapace, non sapeva a chi altri rivolgersi. Dall'antiquato telefono col disco combinatore sul tavolo nel corridoio al primo piano di Casa Vieja, e a bassa voce, per non essere sentita, Holly chiamò lo studio legale, ma la segretaria le disse che Burton era uscito, che molto probabilmente per quel pomeriggio non sarebbe più rientrato, e le chiese se volesse lasciare un messaggio. Lei rifiutò. Sempre più spaventata, cercò di escogitare un'altra soluzione. Era mai possibile che Burton, con tutto quello che stava succedendo, si fosse preso una giornata libera? Aprì il cassetto del tavolo, sfogliò con dita tremanti la guida telefonica, e alla fine trovò il numero di casa Kimball. Una donna rispose al primo squillo. «Chi parla?» chiese Holly. «Linda Kimball. E lei chi è?» Holly non aveva mai conosciuto la donna che Burton aveva sposato, ma capì che quella doveva essere proprio la moglie di suo cugino. «C'è tuo marito?» chiese Holly, in un sussurro rauco e soffocato. «Ivy?» disse Linda. «Sei tu? Ti senti bene? Hai una voce strana...» Ivy! Per tutta la vita Holly aveva invidiato e odiato la sorella. Ivy era sempre stata la brava ragazza, la preferita, quella che non si sporcava mai i
vestiti, che non andava mai a rubare le uova nel pollaio per fare torte di fango, che non giocava mai tiri birboni agli altri. Eppure, prima di quel momento, in cui Linda Kimball aveva scambiato la sua voce per quella di Ivy, non aveva mai considerato quanto lei e sua sorella fossero simili e sembrassero simili. «Non sono Ivy, sono Holly», riuscì a dire. «Devo parlare con tuo marito. Subito.» «Di cosa?» «Di suo padre, e del mio.» «Burton non è in casa», disse Linda, in tono improvvisamente duro e reticente. «Non è qui, e non so quando rientrerà.» «Dov'è andato? Devo vederlo subito. È molto importante.» «Gli dirò di chiamarti appena torna.» «No, non può chiamarmi qui.» «E allora come farà a parlare con te?» «Non credo che potrà», disse Holly Patterson, «perché sarà troppo tardi. Per allora sarò morta.» Ciò detto, Holly interruppe la comunicazione, poi guardò su e giù per il corridoio. Nel silenzio innaturale della casa si udì lo scricchiolio delle ruote sulla ghiaia del vialetto. In preda al panico, Holly capì di dover scappare, e subito. Non aveva altro modo per salvarsi. Trattenendo il fiato, scese le scale in punta di piedi, contenta che i gradini lignei fossero coperti da una morbida passatoia. A pianterreno indugiò, nel sentire Isobel che lavorava alacremente in cucina, canticchiando sottovoce mentre tagliava qualcosa. Udì il rumore dei passi di Rex e di Amy, che stavano incamminandosi dal garage alla porta posteriore. Ancora pochi istanti e sarebbero entrati. In camicia da notte, vestaglia e ciabatte, camminando in punta di piedi, Holly attraversò l'atrio in ardesia e uscì dalla porta principale. Camminò curva nella speranza di non essere vista da nessuno, incluso il giardiniere, marito di Isobel. Giunta sul retro della casa, deviò verso quel terrazzo coperto di edera dove un tempo aveva cercato di sedurre il povero Bobby Corbett. Senza guardare indietro, strisciò giù per i pendii dei quattro terrazzi, impigliandosi e inciampando a ogni passo nelle robuste piante rampicanti, ma senza fermarsi. Alla fine giunse al recinto di filo spinato che segnava il confine della proprietà. Più oltre si scorgevano i macigni che erano rotolati giù dalle ripide pendici della discarica a costituirne le propaggini.
Quando s'insinuò tra il filo spinato, la vestaglia vi rimase impigliata, e la fretta, l'impazienza di giungere alla discarica, le impedirono di liberarla. Così se la sfilò e proseguì, lasciandola appesa a ondeggiare, bianca, come una larva. Era terribilmente freddo quel giorno, ma Holly, sebbene indossasse soltanto la camicia da notte, non se ne accorse neppure. Aveva occhi soltanto per l'immensa discarica multicolore che si stagliava sullo sfondo del cielo azzurro. Per tutta la vita quella discarica aveva esercitato una strana e inesplicabile attrazione su Holly Patterson. Quando giunse alla base esitò, ma soltanto per un momento. Per tutta la vita si era chiesta che cosa ci fosse in cima alla discarica, e quel giorno, per salvarsi, intendeva finalmente scoprirlo. Era a metà della salita quando udì la voce di Amy: «Holly! Che stai facendo? Scendi! Scendi subito, prima di farti male!» Holly chiuse gli occhi, cercando di resistere all'attrazione irresistibile della voce che la chiamava. «Scendi... giù... subito! Adesso!» Holly voleva disperatamente non sentire quella voce, non rispondere, ma era incapace di resistere. Senza neanche allontanarsi dall'ultimo terrazzo in fondo, Amy cominciò a contare. «Dieci...» gridò la sua voce, nella sua cadenza irresistibilmente suadente. «Nove... otto... sette...» Lentamente, i numeri regredirono fino allo zero, insinuandosi nella coscienza di Holly come altrettanti vermi, scendendo in profondità, divorando la volontà e i ricordi appena ritrovati. Quando la voce imperiosa di Amy bloccò la sua intrepida ascesa, Holly era giunta quasi in cima alla discarica, che era alta una sessantina di metri. Poi, a metà della discesa, abbassò casualmente lo sguardo alla superficie del deserto, una trentina di metri sotto di lei, e rimase senza fiato nello scoprire di essere salita tanto in alto. Tremante di paura in ogni muscolo, ebbe a malapena le forze di continuare la discesa. Chissà come, e almeno per pochi istanti, Holly Patterson aveva dimenticato la propria disperata paura dell'altezza. Quando ritornò in ufficio nel dopopranzo, Joanna trovò il pandemonio. I due fratelli di Kansas Settlement, che la notte precedente avevano cercato di ammazzarsi a vicenda, erano di nuovo amici. Anche se uno dei due era ancora ricoverato in ospedale, erano pieni di amore fraterno. La madre, che
non aveva partecipato alla festa di compleanno, aveva negoziato un trattato di pace, poi aveva assunto un legale. Fra i messaggi che le furono consegnati, Joanna ne trovò uno di un avvocato di Willcox, il quale la informava che i suoi clienti di Kansas Settlement si accingevano a fare causa, per arresto illegale e per brutalità, sia alla contea sia ai due vicesceriffi che avevano eseguito l'arresto. Un messaggio dell'avvocato che rappresentava la contea riguardava la medesima controversia. «Come dovrei affrontare questa faccenda?» chiese Joanna. Kristin si strinse nelle spalle. «Di solito, chi si occupa di queste cose?» «Il signor Sanders, di solito. Ma adesso è in vacanza», aggiunse Kristin, con un sorriso compiaciuto, quasi impercettibile. «E chi si occupa di questi problemi, quando il signor Sanders non è disponibile?» «Nessun altro, che io sappia. Se n'è sempre occupato lui, da quando sono qui. Di solito partecipa anche alle riunioni con la Forza Multigiurisdizionale, e proprio oggi ce n'è una che incomincia alle due. Ci andrà?» «Sul mio calendario non c'è nessun appunto a proposito di una riunione con la FM», disse Joanna, indicando il calendario laminato che aveva appeso al muro per annotare impegni e appuntamenti. E nello spazio riservato a quel pomeriggio non c'era nessun appunto a pennarello. «Devo averlo dimenticato», disse Kristin. «Mi dispiace.» «Dimenticato un accidente», mormorò Joanna tra sé, dopo avere chiuso la porta. Ci sarebbe voluto parecchio tempo per disciplinare Kristin, o per sbarazzarsi di lei, ma Joanna non poteva permettersi d'impelagarsi in uno scontro del genere proprio mentre era immersa fino al collo in una crisi organizzativa. Seduta in poltrona, Joanna chiuse gli occhi per un momento. Si sentiva isolata e sola. Era bello poter pranzare con Angie o con Marianne, ma all'interno del dipartimento non aveva altri che se stessa. Era difficile non pensare di essere finita in una tana di vipere, ognuna delle quali aspettava soltanto che lei mettesse un piede in fallo. Si rese conto che le dimissioni di Martin Sanders, presentate senza neppure discutere la situazione con lei, costituivano un grave colpo alla sua credibilità. Aveva cercato di convincere Dick Voland a restare perché, privata di un amministratore, aveva bisogno di mantenere intorno a sé funzionari esperti che conferissero almeno un'apparenza di continuità alla di-
rezione del dipartimento. D'altra parte aveva bisogno anche di un alleato, di qualcuno che stesse dalla sua parte, qualcuno che non fosse in ansiosa attesa del suo primo fallimento pubblico, o che non stesse addirittura complottando per boicottarla. L'unico problema era che non sapeva assolutamente a chi chiedere aiuto. Voland era disposto a collaborare, ma soltanto a malincuore, e avrebbe continuato a collaborare soltanto finché lei avesse continuato a tener duro. Al primo segno di debolezza, gli sarebbe stato addosso come uno sciame di mosche sullo sterco. E lo stesso valeva per Ernie Carpenter. Per il momento, non aveva altra scelta che resistere e fare del proprio meglio per andare avanti. Finché non fosse riuscita a trovare alleati interni, sarebbe stato importante coprire tutte le basi e giocare tutti i ruoli. Così, accese l'interfono e chiamò Kristin. «Chiami quelli dell'FM e dica che ho cambiato idea. Andrò alla riunione.» Senza lamentarsi, Linda Kimball trascorse la mattinata a sbrigare quelli che considerava i propri doveri di moglie. Era quello il suo lavoro. Aprendosi un varco nelle stratificazioni burocratiche mediante una lunga serie di telefonate, riuscì a scoprire quando, presumibilmente, le due salme sarebbero state rese disponibili per la sepoltura, e prese accordi con Norm Higgins per celebrare in forma privata il funerale di Thornton Kimball,, evitando cortesemente le domande di Norm a proposito di quello per zio Harold. Norm Higgins lasciò intendere che sarebbe stato molto meglio per tutte le parti interessate, e anche molto meno costoso, celebrare insieme i due funerali, ma Linda si oppose a quell'idea sventata. Al funerale di Thornton Kimball avrebbero partecipato esclusivamente i membri della famiglia. Chiunque avesse cercato di approfittare della sofferenza di suo marito per dare spettacolo avrebbe dovuto vedersela con lei. Quanto al funerale di zio Harold, disse chiaro e tondo a Norm di essere sicura che Ivy si sarebbe fatta viva per occuparsene al più presto possibile. Ammesso che sapesse del matrimonio sconveniente di Ivy col russo, Norm Higgins ebbe il buon senso di non discutere con Linda di quell'argomento delicato. Quando, nell'intervallo fra due chiamate, il telefono squillò, Linda rimase colta alla sprovvista nell'apprendere che era Holly Patterson, anzi, appena seppe di chi si trattava, ebbe l'impulso d'interrompere la comunicazione. Non aveva già causato abbastanza guai a tutti quanti quella Holly Patterson? Tuttavia la sua cortesia e la sua cordialità innate ebbero la meglio.
Anziché riappendere, ascoltò. Al termine della conversazione, rimase col ricevitore in mano per non più di pochi istanti prima di decidere. Una sincera richiesta di aiuto era qualcosa che Linda Kimball era quasi fisicamente incapace di ignorare. Senza offrire a se stessa l'opportunità di cambiare idea, si pettinò, si applicò il rossetto, indossò una giacca e partì per Casa Vieja. Presentandosi alla porta principale alle due e mezzo precise, sorrise cordialmente alla domestica messicana che le aprì la porta. «Oh... Isobel Gonzales! L'ultima volta che ci siamo viste è stato all'ospedale, tre anni fa, quando morì tua madre... Non avevo idea che lavorassi qui...» Isobel annuì. «Da quasi un anno, ormai. E anche Jaime. È un buon lavoro.» «Sto cercando Holly Patterson. È qui?» Un'altra donna apparve alle spalle della domestica. «Isobel... chi è?» «La signora Kimball», rispose Isobel. «Ha chiesto della signorina Patterson.» «Sono Amy Baxter, la terapista di Holly», rispose la donna nel farsi avanti, obbligando Isobel a spostarsi. «C'è qualcosa che posso fare per lei?» «Sono qui per vedere Holly.» «Temo che Holly non sia in grado di vedere nessuno, oggi. Non si è sentita bene. Sa, con quello che è successo a suo padre e tutto il resto... Le ho prescritto riposo assoluto, a letto.» «Eppure mi ha chiamata», protestò Linda Kimball. «Mi ha telefonato nel pomeriggio, per chiedermi di passare a trovarla.» Un'espressione di apparente sgomento guizzò fugacemente sul viso di Amy Baxter, ma per scomparire subito, seguita da un risoluto cenno di diniego con la testa. «Impossibile», disse Amy. «Invece mi ha proprio telefonato», rispose educatamente Linda. «E io ho fatto più presto che ho potuto.» «Temo che lei non si renda conto, signora Kimball... Quella donna è gravemente malata. Le è semplicemente impossibile incontrare lei, o chiunque altro.» Linda Kimball era una madre esperta, dotata di un istinto molto sviluppato, che l'avvertiva subito quando uno dei suoi figli, o tutti e due, cercavano di mentirle. Anche se non riusciva neppure a immaginare perché, intuì senza il minimo dubbio che il contegno pacato di Amy Baxter celava una menzogna, nonché un terrore cieco, suscitato dalla sua improvvisa comparsa alla porta di Casa Vieja.
Che cosa sta succedendo? si chiese Linda. Per allora sarò morta, aveva detto Holly Patterson al telefono, senz'alcuna minaccia, come se la morte stessa fosse in suo potere. Il suo tono non era stato lacrimoso come quello di un'aspirante suicida che sperasse in un salvataggio all'ultimo minuto. No, aveva parlato con il fatalismo concreto e disperato di una persona bloccata in mezzo a un passaggio a livello mentre un treno si avvicinava a tutta velocità. Quella era Bisbee, una città piccola, presumibilmente tranquilla e sicura, dove, come il buon senso suggeriva, non avrebbe dovuto essere commesso nessun omicidio. Eppure gli omicidi vengono commessi anche qui, pensò trucemente Linda, e più spesso di quanto mi piaccia credere. Abbastanza perspicace per rendersi conto che, se avesse cercato di entrare con prepotenza non avrebbe certo contribuito a migliorare la situazione, Linda cambiò tattica immediatamente, indossando come una maschera l'espressione mesta e comprensiva che, come volontaria ospedaliera, assumeva per confortare i parenti e gli amici afflitti che attendevano fuori delle stanze dei degenti, nei corridoi lucidi del Copper Queen Hospital. «Potrebbe essere così gentile da riferire a Holly che sono passata a farle visita?» chiese Linda, con un sorriso sinceramente preoccupato. «Se si sentisse meglio, mi farebbe piacere ripassare più tardi, magari verso sera...» «Riferirò senz'altro», disse Amy Baxter. Con le ginocchia che minacciavano di cedere, Linda Kimball ritornò alla macchina. Era spaventata. Pur senza sapere di che cosa si trattasse, si rendeva conto di avere scoperto qualcosa d'importante. Con chi avrebbe potuto parlarne? Di sicuro, doveva dirlo a qualcuno. Appena ebbe varcato il cancello automatico di Casa Vieja, svoltò a destra, sulla Highway 80, e, anziché tornare a casa, si diresse all'ufficio dello sceriffo. CAPITOLO 34 Partecipare alla riunione dell'FM fu noioso come stare a guardar crescere l'erba. Max Foster, un detective del Dipartimento dello Sceriffo di Pima County, era il funzionario di grado più elevato dell'Unità Multigiurisdizionale di Cochise County. Forse, come investigatore, Foster era eccellente, ma come oratore era sicuramente pessimo, perciò la riunione si trascinò stancamente, e anche se i temi erano d'importanza vitale, Joanna non fu l'unica a dover lottare per rimanere sveglia. Così fu molto sollevata quando
Kristin fece capolino dalla porta e la chiamò curvando un indice. Pensando che i ragazzi di Kansas Settlement avessero procurato altre noie, Joanna prese il taccuino e uscì a raggiungere Kristin in corridoio. «Che c'è?» chiese. «Linda Kimball vuole vederla», disse Kristin. «Di nuovo.» Linda aspettava passeggiando avanti e indietro in sala d'attesa. «Sono di nuovo qui», sorrise, in tono di scusa. «Ormai starai cominciando a non poterne più di me...» «Entriamo», disse Joanna, accennando al proprio ufficio. «Qual è il problema?» Linda rispose prim'ancora che la porta fosse del tutto chiusa alle loro spalle. «Sono appena stata a Casa Vieja», disse, «e ho avuto la strana sensazione che qualcosa non vada, lassù. È qualcosa che ha a che fare con la cugina di mio marito, Holly.» Joanna trattenne un sorriso. «Tenuto conto di tutto quello che è successo la settimana scorsa», rispose, «non è certo sorprendente che Holly Patterson non stia granché bene...» Tuttavia, appena l'ansiosa Linda Kimball ebbe terminato di raccontare la sua storia, Joanna fu costretta a riconoscere che quello che stava succedendo a Casa Vieja appariva preoccupante. «Sì, bisognerebbe andare a controllare», convenne Joanna, «se non altro per fare qualche domanda...» «Forse non è niente», disse Linda. «Burton dice sempre che ho la tendenza a saltare alle conclusioni, ma tutta questa faccenda mi rende molto nervosa, mi turba molto. È una sensazione strana... "Avere i brividi", diceva mia madre...» «Non preoccuparti», disse Joanna. «Manderò qualcuno a controllare.» Quando Linda ebbe lasciato l'ufficio, Joanna andò a cercare Richard Voland ed Ernie Carpenter, ma Voland era andato a Willcox per parlare con i due vicesceriffi coinvolti nel caso di Kansas Settlement, e Carpenter era andato a Sierra Vista per provvedere alla spedizione delle prove al laboratorio della polizia di stalo, per le analisi. E tanti saluti al delegare i compiti ai collaboratori... pensò Joanna. Scartò subito la possibilità di mandare un vicesceriffo, perché in tal caso avrebbe dovuto dargli almeno qualche indicazione su cosa cercare e quali domande fare, mentre lei stessa, purtroppo, non aveva nessuna idea precisa in proposito. Alla fine decise di fare come la Gallinella Rossa della filastrocca: occuparsene di persona.
All'interfono, chiamò Kristin. «Sarò fuori per un po'», disse. «Se chiama Dick Voland o Ernie Carpenter, riferisca che sono andata a Casa Vieja per parlare con Holly Patterson. Lasci detto a tutti e due di chiamarmi appena tornano in città.» Era contenta di poter entrare e uscire dall'ufficio mediante l'ingresso privato. Nel montare a bordo del Blazer della contea ebbe l'impressione di cominciare a padroneggiare il lavoro, con le sue prospettive, i suoi tranelli, le sue responsabilità. Un sacco di duro lavoro e di cose da imparare l'attendevano, ma lei apprendeva in fretta. Al suo terzo giorno effettivo di lavoro, Joanna Brady stava cominciando a sentirsi davvero uno sceriffo. Al cancello di Casa Vieja suonò per farsi aprire, ma parcheggiò all'esterno. Questa volta si recò direttamente all'entrata principale e suonò di nuovo il campanello. Amy Baxter in persona l'accolse. «Oh... Sceriffo Brady...» disse. «Non la stavamo aspettando, credo...» «In verità, sono qui per parlare con Holly Patterson», rispose Joanna. «Holly sta riposando, adesso», disse Amy, sorridente e cordiale, ma risoluta. «Purtroppo non è assolutamente in condizione di ricevere visite.» «Comunque, mi piacerebbe vederla. Se ho ben capito, sembra che si consideri in qualche pericolo...» «Holly... in pericolo? Qui? È assurdo! È su nella sua camera, e non potrebbe essere più al sicuro.» «Allora mi permetta di vederla, tanto per tranquillizzarmi.» Amy sospirò, apparentemente esasperata. «Beh, per quanto mi riguarda, suppongo che non ci sia niente di male, ma temo che Rex insisterà per essere presente. Aspetti qui.» «Benissimo», disse Joanna. Poco dopo, fu riaccompagnata fino alla stanza di Holly Patterson, al primo piano, dove un uomo, che attendeva in corridoio, si presentò come Rex Rogers e la fece entrare. La stanza, con le tende quasi completamente tirate, era buia come in occasione della precedente visita di Joanna. In felpa e ciabatte, Holly si dondolava avanti e indietro sulla vecchia sedia a dondolo, con le mani in grembo, inerti, aperte, e il viso flaccido, privo di espressione. «Holly...» disse Rex Rogers, scuotendole gentilmente una spalla. «C'è qui una persona che desidera vederti...» Come se si destasse dall'intontimento della droga, Holly Patterson aprì lentamente gli occhi. «Cosa?» domandò confusamente. «C'è una persona che vuole vederti», ripeté Rogers. «Lo sceriffo. Credo
che voglia farti qualche domanda...» «Come va?» chiese Joanna. «Ho saputo che non si è sentita bene...» «Sto benissimo», rispose Holly, per nulla convincente. «Cosa le è successo alle mani?» Holly abbassò lo sguardo alle proprie mani, che teneva in grembo. Joanna aveva notato che entrambe le palme erano scorticate, come se avesse attutito una caduta violenta. Le abrasioni, ancora umide di siero sanguigno, erano sicuramente molto recenti, ma Holly le guardò con un misto di sorpresa e di sgomento. «Non so...» disse, con incertezza. «Fanno male, ma non so che cosa sia successo...» «È caduta», intervenne bruscamente Rex. «Le capita spesso. È molto distratta.» «Dov'è caduta?» «Fuori», rispose di nuovo Rex. «Su un terrazzo.» «Non è in grado di rispondere da sola?» chiese Joanna. «Mi dica, Holly, dov'è caduta? Com'è successo?» Rex Rogers fece una smorfia d'irritazione, mentre Holly Patterson guardava Joanna con occhi stranamente vacui. «Non so...» disse, senza smettere di dondolarsi. «Non ricordo...» «Ma è successo da poco», insistette Joanna. «Guardi... il sangue si è appena coagulato...» «Non so...» ripeté Holly, disperata. «Proprio non so...» Joanna si volse a Rex Rogers. «Quali farmaci assume questa donna?» chiese. «Che ne so?» rispose Rex Rogers, in tono tagliente. «Sono il suo avvocato, mica il suo medico.» «Qual è il problema?» chiese Amy Baxter, dalla soglia della porta. «Holly si è ferita alle mani», rispose Joanna, «e così di recente che il siero cola ancora. Però non riesce a ricordare come. Assume qualche farmaco, oppure ha subito qualche lesione, magari una commozione cerebrale?» «Come ho cercato di spiegarle poco fa, non è in condizione di ricevere visite. È stata lei a insistere...» Amy s'interruppe, sentendo suonare il telefono nell'atrio. «... per vederla...» concluse. «Credo che debba essere visitata da un medico», disse Joanna. «È ridicolo! Le sto dicendo che sta benissimo!» In corridoio, Isobel Gonzales apparve alle spalle di Amy Baxter. «C'è una telefonata per lei, signor Rogers», disse. «E Burton Kimball.» Con la testa, Amy fece un cenno a Rex. «Vai a sentire che cosa vuole.
Qui me ne occupo io.» Rex Rogers sgusciò fuori della stanza, lasciando sole le tre donne. Per un poco non si sentì altro che il cigolio della sedia a dondolo di Holly sul lucido pavimento ligneo. «Holly è forse trattenuta qui contro la sua volontà?» chiese improvvisamente Joanna. «Contro la sua volontà?! Certo che no! Che assurdità è mai questa?» Joanna si chinò su Holly. «Si guardi le mani», disse gentilmente. «Si è ferita. Non crede che dovrebbe farsi visitare da un medico?» E sollevò le mani fiacche di Holly. Nella luce fioca, Holly fissò le proprie mani come se fossero strane appendici che non avessero nulla a che fare col suo corpo. «Amy... come mi sono ferita le mani?» chiese, con una sorta di strana voce disincarnata. «Lo sai?» «Sei caduta, Holly», rispose fermamente Amy. «Proprio poco fa, mentre eri fuori, sei caduta.» «Allora perché non riesco a ricordarmelo?» chiese Holly, sempre scrutandosi le mani. «È strano che non ci riesca...» «Forse ha battuto la testa, quando è caduta, e per questo non riesce a ricordarlo», suggerì Joanna. «L'ospedale è qui vicino. Per me non sarebbe affatto un problema accompagnarla e farla visitare da un medico.» «Oh, faccia pure, se vuole», disse Amy, con improvvisa irritazione. «Io non intendo certo impedirlo.» «No», disse Holly, dapprima dubbiosa, poi sempre più convinta. «Credo di sentirmi okay. Sì, sono okay. Preferisco rimanere qui.» Amy Baxter sorrise trionfalmente a Joanna. «Ha visto?» disse. Joanna sfilò di tasca uno dei propri biglietti da visita della Davis Insurance Agency, e sul retro scribacchiò il proprio numero telefonico di casa e la parola «sceriffo». «Può chiamarmi quando vuole», disse. Holly Patterson prese il biglietto, ma se lo lasciò cadere in grembo senza neanche guardarlo. «È tutto, sceriffo Brady?» sollecitò Amy Baxter. Joanna annuì. «Sì», disse. «Per il momento...» «Bene», disse Amy, sedendo sul bordo del letto di Holly. «La signora Gonzales può accompagnarla alla porta.» Isobel, che aveva aspettato in corridoio, la precedette giù per la scala. «Che sta succedendo qui?» chiese Joanna. La domestica scosse la testa. «Non so, se fosse stato per me, l'avrei la-
sciata andare. Voleva soltanto vedere cosa c'è in cima alla discarica. Da giorni non faceva altro che star seduta nella sua stanza a fissarla, tanto angosciata da star male. Era già salita tanto: che male avrebbe fatto lasciarla arrivare in cima?» «Holly voleva vedere cosa c'è in cima alla discarica?» chiese Joanna. «Perché?» «E chi lo sa? Me lo chiede sempre... cosa c'è lassù? Com'è? E io le dico che non lo so.» «E ci si è arrampicata?» «Sì.» Nel frattempo, le due donne erano uscite di casa. «Dove?» Isobel proseguì fino all'angolo della villa, da cui si poteva vedere la discarica. «Là», indicò. «Era quasi in cima, sopra a quel piccolo mesquite a mezza altezza.» Joanna si ombreggiò gli occhi, ma non vide niente. Desolata e pericolosa, la discarica non era mai minimamente cambiata, a quanto poteva ricordare. Perché mai Holly Patterson aveva voluto arrampicarvisi? «Isobel...» chiese Joanna. «Che cos'ha quella poveretta?» Isobel Gonzales scosse la testa. «È sempre stata male, fin da quando è arrivata qui. Mangia e dorme pochissimo, quasi niente. Non fa altro che stare seduta su quella sedia a dondolarsi avanti e indietro senza interruzione. Ma in questi ultimi giorni, dopo la visita di suo padre, è peggiorata.» «Harold Patterson è stato qui?» domandò Joanna. «E quando?» «Martedì pomeriggio», rispose Isobel. «È arrivato poco prima che io uscissi per andare a votare.» Joanna colse istantaneamente la discrepanza. L'avvocato Rogers aveva dichiarato che Holly aveva cercato d'investire Burton perché lui aveva convinto Harold a rinunciare all'accordo e a non recarsi all'appuntamento con lei per discuterne. Invece il vecchio aveva fatto visita a Casa Vieja. «Ernie Carpenter le ha mai chiesto niente in proposito? Sa che Harold Patterson è stato qui, quel giorno?» «Nessuno mi ha mai chiesto niente.» Invece qualcuno avrebbe dovuto, pensò Joanna. «Comunque, continui... Mi racconti cos'è successo», disse. «Beh, stamattina ho pensato che le cose stessero migliorando. La signorina Patterson è persino scesa in cucina a prendere il caffè. Però, appena ha visto il giornale, è crollata. Per un momento ho temuto che le fosse venuto un infarto. Mi ha spaventata da morire. Beh, l'ha vista anche lei... e adesso
ha ricominciato a dondolarsi...» «Ha accennato a un giornale...» disse Joanna. «Quale giornale?» «Il "Bisbee Bee" di oggi», rispose Isobel. «E poi?» Isobel scrollò le spalle. «Ha guardato il giornale, è come impazzita, ed è scappata di nuovo, di corsa. Pensando che si fosse ripresa, ho ricominciato a lavorare. Poco dopo il signor Rogers e la signorina Baxter sono rientrati per il pranzo, così ho raccontato alla signorina Baxter cos'era successo e lei è salita per parlare con la signorina Patterson. Poco più tardi ho sentito urlare, fuori, e ho visto tutto dalla finestra della cucina. La signorina Patterson si era arrampicata sulla discarica e la signorina Baxter cercava di convincerla a scendere. È stato allora che è caduta. Ho avuto paura che si fosse rotta l'osso del collo, ma credo che si sia soltanto scorticata le mani.» «Dov'era, esattamente, quando è caduta?» «È stato mentre stava scendendo. Dev'essere scivolata.» «Allora è caduta dalla discarica, non da un terrazzo?» «Non era neanche vicino ai terrazzi.» Joanna si sentì accapponare la pelle sulla nuca. Per un lungo momento rimase a guardare la cupa facciata marrone di Casa Vieja. Linda Kimball aveva ragione. Sicuramente stava succedendo qualcosa di brutto, là dentro, e Holly Patterson era in pericolo. «Isobel...» disse Joanna. «Adesso bisogna che me ne vada, perché quei due si aspettano che lo faccia. Ma se tornassi fra poco, a piedi, potrebbe farmi entrare e accompagnarmi su, da Holly, senza che nessuno mi veda?» «Sicuro», rispose Isobel. «Perché non parcheggia giù, vicino a casa mia? Appena fuori del cancello, prenda la stradina bianca che gira intorno alla proprietà, lungo il muro di cinta. Parcheggi là, poi salga le scale dei terrazzi, come faccio sempre io per venire al lavoro. L'aspetterò alla porta della cantina e la farò entrare dal retro.» Joanna annuì. «Bene», disse. «Faccio presto. E non dica a nessuno che sto per tornare.» «Oh, no», assicurò Isobel Gonzales. «Non ci penso neanche.» CAPITOLO 35 Quando parcheggiò il Blazer dietro l'abitazione del custode di Casa Vieja, Joanna aveva preso un'unica decisione: cercare di condurre Holly Patterson all'esterno della villa, in modo da poterle parlare. Se Holly era in pe-
ricolo di vita, come Linda Kimball aveva suggerito, allora il pericolo doveva provenire da coloro che si trovavano nella casa con lei. A parte il fatto che avevano mentito, Joanna non aveva nessuna accusa concreta nei confronti di Amy Baxter e di Rex Rogers, tuttavia la menzogna di Rex sulla caduta di Holly era stata deliberata. Amy era stata più sottile. Semplicemente aveva taciuto, lasciando credere che Harold Patterson non si fosse presentato all'appuntamento, benché lo avesse fatto, tutt'e due le volte. Holly aveva cercato di uccidere Burton, anche se la città di Bisbee aveva deciso che si era trattato soltanto di guida pericolosa, perché aveva erroneamente creduto che il padre l'avesse delusa ancora una volta. A metà della scalinata che saliva fra i terrazzi, Joanna si fermò per togliersi le scarpe coi tacchi e infilarle nelle tasche del blazer. Salì di altri tre gradini prima di sentire il crepitio tipico di una smagliatura che partiva dal tallone per salire fino a mezza coscia. E tanti saluti alle calze nuove che aveva indossato quella stessa mattina. La profonda saggezza dell'abitudine di Ernie Carpenter di avere sempre un cambio d'abiti per ogni evenienza le divenne sempre più evidente. Appena ne avesse avuto la possibilità, e avesse avuto abbastanza abiti di ricambio, lo avrebbe imitato, portandosi sempre dietro una valigetta. Giunta al terrazzo più alto, vide Isobel accanto a quella che era evidentemente la porta di una cantina. «Da questa parte», esortò la domestica, accennandole di sbrigarsi. Appena Joanna l'ebbe raggiunta, Isobel le sussurrò: «Sono in soggiorno a parlare, anzi, a discutere. Se saliremo dal retro, non ci sentiranno». La scala posteriore era lunga, ripida e senza passatoia. Fu necessario pestare i bordi delle alzate per non provocare scricchiolii. Al secondo pianerottolo, Isobel si fermò per riprendere fiato. Nella casa, altrimenti silenziosa, l'unico suono era un cigolio ritmico che aveva qualcosa d'inquietante, quasi soprannaturale, e che Joanna alla fine riconobbe come quello della sedia a dondolo di Holly. Era in sottofondo come l'incessante e irritante gocciolio di un rubinetto che perdeva. «Sono contenta che qualcuno aiuti la signorina Patterson», ansimò Isobel Gonzales. «Mi dispiace molto per lei.» «Perché?» La governante si strinse nelle spalle. «Non so...» disse. «È come se qualcosa la schiacciasse, la spremesse, privandola della vita a poco a poco...» «Forse è proprio così», rispose Joanna.
Ripresero a salire, poi aprirono una porta e si affacciarono finalmente al corridoio, di fronte alla camera di Holly Patterson. «Adesso posso cavarmela da sola», disse Joanna. «Torni pure giù. Non scopriranno che mi ha aiutata, o almeno, lo spero.» Isobel annuì e cominciò subito la discesa. Non le importava granché di Rex Rogers e di Amy Baxter, ma sarebbe stato un peccato se il simpatico signor Enders avesse licenziato lei e Jaime, perché lavorare a Casa Vieja permetteva loro di guadagnarsi da vivere, oltre che di alloggiare senza spese. In una cittadina insignificante come Bisbee, dove le miniere avevano chiuso e il lavoro scarseggiava, la loro era un'opportunità cui non si poteva rinunciare a cuor leggero. Incapace di prevedere come avrebbe reagito Holly alla sua ricomparsa improvvisa, Joanna attese qualche minuto prima di lasciare il pianerottolo e attraversare il corridoio. Voleva anche concedere a Isobel tutto il tempo per mettersi al riparo da eventuali problemi. Durante l'attesa, il sinistro cigolio si protrasse. Infine, dopo essersi assicurata che il corridoio fosse deserto, Joanna lo attraversò fulmineamente, afferrò la maniglia, e scoprì, con sorpresa, che la camera di Holly era chiusa a chiave. Almeno in parte, ciò confermava la teoria che Holly Patterson era segregata contro la sua volontà. Vicino, sopra un tavolino in quercia, giaceva un passe-partout. Joanna lo usò e la porta si aprì, rivelando che nella stanza nulla era cambiato. Il biglietto da visita di Joanna era ancora nella posizione esatta in cui era caduto. Holly non si era mossa minimamente. Teneva in grembo le mani fiacche e scorticate, con gli occhi vacui fissi al varco sottile fra le tende quasi del tutto tirate. «Holly...» disse Joanna, tanto sottovoce da sovrastare a stento il cigolio incessante della sedia a dondolo. Con lentezza, come una telecamera che eseguisse gradualmente una panoramica, il viso e gli occhi di Holly Patterson si distolsero dalla finestra. Il suo sguardo interrogativo si posò sul volto di Joanna con le sopracciglia corrugate. «Chi sei?» chiese. La domanda lasciò interdetta Joanna. Poco prima era stata in quella stessa camera e aveva parlato con quella stessa donna. Era evidente, tuttavia, che Holly non conservava alcun ricordo della visita. Per lei, Joanna era un'estranea, come se non l'avesse mai vista prima. Sempre più, Joanna sospettò che della mancanza di memoria di Holly Patterson fosse responsabile qualche sostanza chimica.
«Sono Joanna Brady», rispose, in tono calmo, cercando d'ispirare fiducia. «Sono il nuovo sceriffo. Sono qui per parlarti, per sapere se c'è qualcosa che posso fare per aiutarti. Ti piacerebbe uscire a fare una passeggiata?» «Una passeggiata...? No!» Holly scosse vigorosamente la testa. «Amy non vorrebbe che lo facessi. Non le piace che esca a fare passeggiate.» «Amy non deve saperlo», disse Joanna, in tono di complicità. «Possiamo uscire dal retro senza che lei se ne accorga, e senza che sappia dove andiamo.» «No, meglio di no... mi metterei nei guai...» La voce di Holly era lamentosa come quella di una bambina che, dopo essere stata punita per una disubbidienza, rifiutasse di trasgredire ancora per timore di nuove punizioni. Mentre Joanna la osservava, due lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi e scivolarono giù, sulle guance infossate. Qui è successo qualcosa di tremendo, pensò Joanna, senza tuttavia riuscire a intuire che cosa. Benché fosse libera, Holly era come legata alla sedia. Aveva rifiutato di uscire, ma proprio il suo rifiuto rafforzò in Joanna la decisione di condurla in qualche modo fuori di quella casa. D'improvviso, rammentò ciò che le aveva detto Isobel poco prima, sul fatto che Holly desiderava vedere la cima della discarica. Forse quella sarebbe stata una tentazione sufficiente. «Ti piacerebbe andare in cima alla discarica?» chiese Joanna. L'intuizione si rivelò subito esatta. Holly smise bruscamente di dondolarsi, mentre un'espressione di desiderio straziante si diffondeva sul suo volto. «Mi porteresti lassù? Davvero?» «Sì. E non dovresti neanche arrampicarti», si affrettò ad aggiungere Joanna. «Sarebbe troppo pericoloso. Però possiamo andare col mio furgone, il mio Blazer. Sono sicura che, se lo chiamassi prima per chiederglielo, il custode ci farebbe visitare la discarica.» «Sì, per favore...» disse avidamente Holly Patterson. Si alzò in piedi, poi barcollò, come se fosse sul punto di perdere conoscenza per lo sforzo. «Mi piacerebbe molto...» «Allora dobbiamo sbrigarci», avvertì Joanna. «Scendiamo per la scala posteriore. Io ti precedo. Tu seguimi e stai vicino alla parete per non far cigolare troppo i gradini.» Appena Holly fu uscita dalla camera, Joanna richiuse a chiave la porta e rimise il passe-partout sul tavolino. In piedi in mezzo al corridoio, Holly la guardò con confuso stupore.
«Da questa parte», disse Joanna, prendendola per un braccio. «Presto!» Quando cominciarono a scendere la scala, Joanna si rese conto che in tutta la casa echeggiava un improvviso e assordante silenzio. Il cigolio della sedia a dondolo era cessato, perciò lo scricchiolare dei gradini, grandemente amplificato, sembrava risuonare fra le pareti. E se ci sorprendessero? si chiese Joanna, preoccupata. Era già grave che due dei suoi vicesceriffi fossero nei guai per il caso di Kansas Settlement, ma lo sarebbe stato molto di più se anche il nuovo sceriffo fosse stato accusato di comportamento illegale. All'esterno, Joanna rimase colpita dal freddo. A parte il fatto che correre su e giù per le scale l'aveva riscaldata, era protetta almeno dalla lana del blazer. Invece Holly era rimasta seduta in una camera molto calda e indossava soltanto l'ampia felpa e le ciabatte. Infatti cominciò subito a tremare di freddo, incassando la testa fra le spalle. «Ecco...» Joanna si tolse il blazer. «Metti questa... Il furgone è di qua...» Anziché dirigersi nella direzione che Joanna le indicava, Holly Patterson s'incamminò risolutamente in quella opposta e cominciò a scendere serpeggiando per i terrazzi, verso la discarica torreggiante, muovendosi come una sonnambula, attirata da una forza invisibile e inesplicabile. Joanna la rincorse. «Il furgone è di là!» insistette. Dato che Holly continuava a ignorarla, l'afferrò per un braccio e cercò di obbligarla a girarsi nella direzione giusta, ma fu inutile. Holly Patterson proseguì dritto verso la discarica, inarrestabile come un treno merci. Con una scrollata si liberò della presa di Joanna e riprese ad avanzare, animata da un unico intento. «Dove stai andando?» chiese Joanna. «Devo vedere se lui è lassù», rispose Holly, con sorprendente vivacità. «Devo sapere.» «Chi dovrebbe esserci lassù?» Alla casa, dietro di loro, una porta si aprì e si chiuse rumorosamente. «Ehi!» gridò Amy Baxter. «Che cosa diavolo credi di fare? Torna indietro!» Quella voce sembrò galvanizzare Holly Patterson, che sgranò gli occhi e partì di corsa come una cerva spaventata, acquistando un momentaneo vantaggio su Joanna, colta alla sprovvista dallo scatto improvviso. In parte, Joanna era in difficoltà perché era scalza. Le ciabatte, per quanto inadatte, fornivano a Holly un minimo di protezione e di aderenza, mentre Joanna, con i piedi gelati e sanguinanti, gemeva a ogni passo, ferita do-
lorosamente da ogni asperità e da ogni sassolino. Comunque, la fuga di Holly Patterson e l'appressarsi di Amy Baxter, che arrivava di corsa all'inseguimento, la obbligarono a non rinunciare, a non fermarsi. Zoppicando, Joanna rincorse Holly e la raggiunse presso il recinto di filo spinato perfettamente teso alla base della discarica. Holly si era fermata a cercar di liberare una vestaglia che in qualche modo era rimasta impigliata nel filo spinato. «Passaci attraverso», esortò Joanna. «Presto! Se vuoi la vestaglia, te la prendo io!» Con l'abilità di chi era cresciuta in campagna, Holly s'insinuò attraverso il filo spinato del recinto. Naturalmente, il blazer che Joanna le aveva prestato rimase impigliato e si strappò in mezzo alla schiena, ma Holly non se ne curò, proseguendo senza rallentare. Nel passare a sua volta attraverso il recinto, Joanna si strappò la camicetta, poi, come promesso, liberò la vestaglia e se la gettò sulle spalle, contenta di avere qualcosa per proteggersi dal freddo che penetrava fino alle ossa. Quando Joanna arrivò alla base della discarica, Holly si stava già arrampicando su per il versante ripido. Con i piedi sanguinanti e doloranti, Joanna sostò per un momento, prima d'incominciare a sua volta la difficile ascesa. «Holly!» ordinò Amy Baxter, che era rimasta dall'altra parte del recinto. «Torna indietro!» Joanna lo vide. Fu come se Amy avesse tirato un guinzaglio invisibile stretto intorno al collo di Holly, che rallentò la sua fuga disperata, e infine si fermò. «Scendi! Torna qui!» Intanto Joanna si arrampicò serpeggiando fra i macigni, cercando di non provocare frane e di non pensare a quello che sarebbe successo se uno di quei massi fosse rotolato giù. per la ripida discesa. A un terzo della salita, Joanna percepì quasi palpabilmente la paura di Holly, anche se Amy non sembrava armata. Era una paura assolutamente reale, nonché contagiosa e soverchiante. Comunque, Joanna non aveva bisogno di essere minacciata a mano armata per rendersi conto che erano tutt'e due in un terribile pericolo e che dovevano scappare. «Forza, Holly», esortò Joanna, appena ebbe raggiunto l'altra donna, che aveva smesso di salire. «Non fermarti proprio adesso», aggiunse, mentre Holly cominciava già, con esitazione, a scendere. «Non vuoi vedere cosa c'è lassù?» la sollecitò, facendo del proprio meglio per contrastare l'effetto
quasi magnetico che la voce di Amy Baxter sembrava esercitare su Holly Patterson. «Ti ha già impedito una volta di farlo», continuò. «Non le permetterai d'impedirtelo ancora, vero? Non adesso, che sei ormai così vicina...» Holly guardò Joanna come se cercasse di capire il senso delle sue parole, ma si fermò. Chiedendosi perché mai Amy avesse smesso all'improvviso di gridare, Joanna si azzardò a guardare giù e vide che Rex Rogers l'aveva raggiunta, dall'altra parte del recinto, e che, a quanto pareva, stavano discutendo animatamente. «Forza, Holly!» esortò di nuovo Joanna, sapendo che quella tregua non sarebbe durata a lungo. «Perché Amy Baxter non vuole che tu salga lassù? Di cos'ha paura?» Allora, miracolosamente, Holly riprese a salire, con lentezza. Nel procedere accanto a lei, Joanna udì in lontananza il suono lamentoso di una sirena, anzi, di alcune sirene, ma non riuscì a distinguere quanti veicoli fossero, né se fossero auto della polizia, o ambulanze, o magari i vigili del fuoco. Anche se fosse una macchina della polizia, pensò disperatamente, non starebbe certo arrivando qui per me. Non le sembrava possibile, perché anche se aveva detto a Kristin dove sarebbe andata, non aveva previsto nessun pericolo. «Holly!» gridò di nuovo Amy. «Mi stai ascoltando?» Di nuovo Joanna guardò giù. Rex Rogers non si vedeva più, ma Amy sì. Si era insinuata attraverso il recinto, aveva proseguito fino alla base della discarica, e aveva cominciato ad arrampicarsi. «Holly!» ordinò. «Ti ho detto di fermarti! Torna giù! Voglio parlarti!» Quando Holly rallentò di nuovo, Joanna esortò: «Non ascoltarla! Ignorala! Canta qualcosa!» Gli occhi di Holly stavano già cominciando a diventare vitrei. L'influenza della voce di Amy Baxter era talmente forte da risultare quasi irresistibile. Disperata, Joanna Brady iniziò a cantare l'unica canzone che riuscì a ricordare in quel momento. L'aveva imparato tanto tempo prima, durante le escursioni con le Girl Scout, e la cantò con tutto il fiato che le restava nei polmoni ansimanti e affaticati. Novantanove bottiglie di birra sul muro, novantanove bottiglie di birra. Prendine una e passala intorno,
novantanove bottiglie di birra sul muro. Con stupore, vide che Holly Patterson ricominciava miracolosamente a salire. Intanto, Joanna aveva acquistato un po' di vantaggio ed era giunta a pochi metri dalla cima della discarica. Così, fu la prima a compiere l'ultimo, ripido tratto di salita, a valicare il ciglione e a rotolare su quello che era evidentemente il bordo di una strada impervia. Sul lato opposto, la strada era costeggiata a perdita d'occhio da una bassa scarpata. Carponi, Joanna sfilò l'automatica dalla fondina ascellare, strisciò fino al ciglione e guardò giù. In preda alla paura, Holly si era nascosta in una cavità dietro un macigno pericolante a brevissima distanza dalla cima. Più sotto, Amy Baxter stava continuando inesorabilmente a salire. «Scendi, Holly...» grugnì Amy, con respiro affannoso. «Non voglio farti niente...» «Non è vero!» gridò Joanna. «Non ascoltarla! Sali! Vieni quassù!» Ancora una volta Holly sembrava come paralizzata, incapace di muoversi. «Dammi la mano!» ordinò Joanna. «Subito!» Dato che Holly non ubbidiva, Joanna si allungò ad afferrarla per un polso. Con una forza che non sospettava neppure di possedere, la tirò su, oltre il ciglione, e Holly, senza fiato, cadde con un tonfo e rotolò. Subito Joanna le si avvicinò per aiutarla a rialzarsi. «Vai», esortò Joanna, indicando la scarpata, con la Colt in pugno. Non sapeva se Amy fosse armata, ma non poteva escludere che lo fosse, e voleva che Holly fosse protetta, dietro di lei. L'unico riparo possibile sembrava essere quello offerto dalla scarpata sul lato opposto della strada, ma Holly sembrava incapace di agire autonomamente e fissava Joanna senza capire, senza muoversi. «Andiamo, allora», disse Joanna, prendendo Holly per mano e tirandosela dietro. Mentre salivano la scarpata, si udì un rumore di roccia che franava dietro di loro. In quel momento critico, Joanna girò la testa a guardare indietro. La scarpata cingeva una delle vasche rettangolari per la lisciviazione del rame che coprivano quasi tutta la superficie della discarica. L'esterno era roccioso, tuttavia l'interno era fangoso e viscido. Nel tentativo disperato di mettersi al riparo e di proteggere la donna apparentemente incapace di difendersi di cui aveva ormai la completa re-
sponsabilità, Joanna agì il più rapidamente possibile. Così, quando giunse con Holly in cima alla scarpata, non riuscì a frenare l'impeto di entrambe. Barcollando come sciatrici inesperte, scivolarono tutt'e due giù per il fangoso pendio interno e finirono, annaspando, nell'acqua satura di sostanze chimiche di una vasca per la lisciviazione della Phelps Dodge. CAPITOLO 36 Al primo impatto con l'acqua gelida, Joanna rimase senza fiato. Per un momento fu troppo stordita per riuscire a muoversi. Quando ci provò, le sue mani e le sue ginocchia scivolarono sul fondo fangoso. Alla fine, però, riuscì a rialzarsi, a uscire dall'acqua fetida e a risalire sulla scarpata. Afferrata Holly per un braccio, la tirò su, accanto a sé, poi rimasero tutt'e due sdraiate sulla scarpata, esauste, ansimanti. Appena la sua mente si fu schiarita, Joanna si rese conto di avere perduto la pistola. La sua Colt 2000 First Edition nuova di zecca giaceva da qualche parte nel fango biancastro in fondo alla vasca. Se avesse esitato abbastanza per pensare a quanto l'acqua fosse gelida e satura di chissà quali sostanze chimiche, Joanna non si sarebbe mai rituffata nella vasca. Tuttavia, ritrovare la semiautomatica era essenziale. Non attendeva rinforzi, quindi doveva almeno essere armata. Trattenendo il fiato per resistere all'impatto del freddo, Joanna si gettò di nuovo nell'acqua gelida e cominciò a diguazzare nel fango coi piedi nudi intorpiditi e sanguinanti. Fu lieta del dolore ardente delle ferite alle piante dei piedi provocato dalle sostanze chimiche abrasive, perché almeno riacquistò la sensibilità, e questo la favorì nella ricerca. Anche se parve trascorrere molto più tempo, in pochi secondi urtò con l'alluce il calcio della pistola, raccolse l'arma, tutta viscida di fango, e riuscì a stento a tenerla in pugno. Con le dita intirizzite dal freddo, sfilò dalla gonna l'orlo della camicetta relativamente pulita e se ne servì per asciugare la Colt. Le sue mani tremavano violentemente a causa del freddo. Quanto ci vorrà prima che subentri l'ipotermia? si chiese. «Dove sei, Holly?» La voce di Amy Baxter giunse di nuovo, questa volta molto più vicina, dal lato opposto della scarpata. Nell'udirla, Holly gemette come se soffrisse disperatamente, poi si lasciò cadere al suolo e non si mosse più. «Vieni qui», continuò Amy. «Voglio soltanto parlarti.»
«Che succede?» chiese Joanna, lasciandosi cadere accanto a Holly e obbligandola subito ad abbassare la testa per non essere vista. «Perché ti teneva chiusa a chiave? Perché non vuole che tu te ne vada?» Ma Holly non rispose. Si accoccolò accanto a Joanna, tremante di freddo, e non disse nulla. «Holly!» scattò Joanna. «Rispondi alle mie dannate domande!» «Doveva essere qui», mormorò Holly, battendo i denti. «Proprio qui, sotto a dove siamo adesso.» «Che cosa doveva esserci qui?» chiese Joanna, alzando un po' la testa per cercare di guardare oltre il ciglio della scarpata senza essere vista a sua volta. «La sua casa», rispose Holly. «Beh, non era una casa vera e propria, ma soltanto una capanna di lamiera sopra una base di cemento... lo ricordo, adesso... ricordo che di là si vedevano gli alberi verdi di Casa Vieja, gli alberi e i terrazzi...» «Holly!» chiamò la voce di Amy. «Dove sei? Esci, così posso vederti e possiamo parlare!» Parlava lentamente, enfatizzando ogni sillaba. «Vieni qui.» Allora Holly, mentre i suoi occhi cominciavano a diventare vitrei, tentò di alzarsi in piedi, ma Joanna, sbuffando per lo sforzo, la trattenne e la obbligò ad abbassarsi nuovamente. «Devo andare», disse Holly. «Amy mi vuole.» «Perché?» chiese Joanna. «Dimmi soltanto perché.» «Non lo so...» Holly cominciò a singhiozzare. «Sembra che sia arrabbiata con me... devo aver fatto qualcosa di male...» Era ormai sempre più evidente che la voce di Amy esercitava una sorta di effetto ipnotico su Holly, e che l'unico modo per contrastare tale effetto consisteva nel tenerla occupata. Così, Joanna si accostò alla donna in lacrime fin quasi a sfiorarle il viso. «Tu non hai fatto niente di male, Holly. Ti hanno chiusa a chiave nella tua camera. Beh, credi a me... stare alla larga da gente simile non è per niente una brutta cosa. Perché non volevano che tu salissi quassù?» «Avevano paura che ricordassi...» «Che ricordassi cosa?» «La sua faccia», sussurrò Holly. «L'ho vista, per un po'... credo di averla vista su un giornale, ma poi è sparita di nuovo, e adesso non riesco più a ricordarla...» «Holly!» disse Amy Baxter. «Dove sei? Dobbiamo parlare!»
«La faccia di chi?» chiese Joanna. «Non capisco...» «La faccia dell'uomo... l'uomo che...» Il viso di Holly parve sbiadire nel nulla. «L'uomo che... cosa?» domandò Joanna. «L'uomo che mi ha fatto tanto male... tanto tempo fa...» Allora Joanna ricordò ciò che Isobel le aveva riferito. Holly aveva visto il «Bisbee Bee», una copia dell'edizione del mattino, che in prima pagina aveva due fotografie: quella di Harold Lamm Patterson e quella di Thornton Kimball. «Hai visto la faccia di quell'uomo sul giornale?» «Sì.» «Tuo padre?» «No, non lui... l'altro...» «Era tuo padre anche quello», disse Amy Baxter, spuntando in cima alla scarpata. «Sei confusa, Holly. Ti stai inventando le cose.» Anche se Amy non sembrava armata, era come se lo fosse, con quella voce. Così, Joanna puntò la Colt. «Resta dove sei, Amy. Non avvicinarti. Quest'arma è carica, e la userò, se sarà necessario.» «Non minacciarmi. Come puoi vedere, non sono armata. Sono venuta per riportare Holly a casa e rimetterla a letto, prima che muoia congelata. Non avresti dovuto mettere un'invalida in questa situazione, con questo freddo. Sei fradicia, Holly. Vieni, torniamo a casa.» «Lei resta con me finché non avrò chiarito tutta questa faccenda», ribatté Joanna. «Perché l'hai chiusa a chiave nella sua stanza?» «Non è ovvio?» chiese Amy. «Già due volte, oggi, è scappata per correre verso questa discarica. Avrebbe potuto cadere e ferirsi gravemente, o peggio.» «Cosa c'è, qui, sulla discarica, o magari sotto?» chiese Joanna. «Holly ha parlato di una casa, una capanna di lamiera...» «Non c'è niente qui.» «C'era, invece», insistette improvvisamente Holly. «Non ricordi, Amy? Mio padre ci ha detto tutto... dove stavano zio Thorny e zia Bonnie quando è successo... quando è successo la prima volta...» «Taci, Holly», ordinò Amy in tono tagliente. «Sei confusa e ti stai inventando le cose. Tuo padre non ha mai detto niente del genere.» Lentamente, l'immagine sfocata cominciò a definirsi. Ma certo... zio Thorny... Thornton Kimball, la cui fotografia era stata pubblicata sul giornale accanto a quella di Harold Patterson...
«È stato zio Thorny a farti male quando eri piccola?» Holly non rispose. Invece crollò bocconi sulla scarpata e cominciò a piangere. «Guarda cos'hai fatto!» disse Amy Baxter, avanzando di un passo. «Ti ho detto di non muoverti! Non sto scherzando!» ordinò Joanna, coi denti che battevano. Era talmente intirizzita dal freddo che non era per niente sicura di essere in grado di premere il grilletto, se necessario. Ma Amy Baxter la prese in parola e non mosse un passo. «Allora è così, vero?» disse Joanna. «Hai incastrato l'uomo sbagliato...» «Non capisco di cosa stai parlando...» replicò Amy. «Sì, che capisci. So di te e delle tue tecniche per il recupero dei ricordi rimossi. Ho letto l'articolo su "People". Hai capito che Holly era stata molestata da bambina, però, quando hai frugato nella sua memoria, hai individuato l'uomo sbagliato, vero?» Il volto di Amy Baxter divenne duro e impassibile come pietra. «Andiamo, Holly. Dobbiamo andare. Dobbiamo tornare a casa, e tu devi rimetterti a letto.» «Perché?» sfidò Joanna. «Per farle ricordare quello che vuoi che ricordi e per farle dimenticare quello che vuoi che dimentichi?» «Holly! Andiamo!» Ma ormai la voce di Amy era uno strumento troppo sfruttato e probabilmente aveva perduto l'efficacia di un tempo, perché Holly Patterson non si mosse. «Non è un cane, Amy», disse Joanna. «Non è costretta a ubbidirti soltanto perché glielo ordini in un certo modo. Cos'altro l'hai costretta a dimenticare?» «Ricordo i sassi», disse Holly sottovoce, quasi tra sé. «Erano così grossi... riuscivo a sollevarli a malapena...» «Holly!» avvertì Amy, ma la sua voce non esercitava più alcun effetto. «Li ho portati per lei, uno alla volta... ho portato i sassi al pozzo... ho continuato a sentirlo per tutto il tempo... era laggiù, nel pozzo, e piangeva, la implorava di smettere, di fermarsi... ma lei non smetteva... la mamma continuava a tirare i sassi laggiù...» «Holly...» Le lacrime cessarono. La voce di Holly assunse un tono strano, come di sogno, quasi che non stesse raccontando un avvenimento di mezzo secolo prima, ma che riferisse di un evento che era ancora davanti ai suoi occhi come se lo stesse osservando, un'azione ripetuta sullo schermo indelebile
di una mente infantile. «Piangeva, e diceva che non lo avrebbe fatto mai più, che non avrebbe mai più fatto male a nessuno... mai più... poi arrivò papà e la prese per le braccia, la fermò, la fece smettere... Adesso ricordo... ci fermò, tutt'e due, e disse che sarebbe andato tutto bene...» Mentre Holly parlava, Joanna non distolse lo sguardo da Amy un solo istante. Poi, quando il racconto di Holly fu concluso, rimasero in silenzio tutt'e tre, per qualche tempo. «È finita per te, vero?» disse finalmente Joanna ad Amy Baxter. «Con questo, la tua credibilità finisce nel cesso.» «Credi che qualcuno le crederà?» disse sprezzantemente Amy. «Se un ricordo è falso, potrebbero esserlo anche tutti gli altri. La gente dirà semplicemente che è una bugiarda.» «Non sto mentendo!» disse Holly. «Sto dicendo la verità! Perché lo hai fatto?» Amy scosse la testa. «Tutto questo è stupido. È troppo freddo per stare qua fuori a discutere così. Io me ne vado.» Si girò e cominciò a scendere per la scarpata. Si allontanò senza altre minacce, quindi sembrò che la discussione fosse finita. Nel silenzio improvviso, Joanna sentì di nuovo le sirene. Erano parecchie: forse i soccorsi stavano arrivando. Intanto, Holly si mise carponi. «Perché lo hai fatto?» ripeté. «Perché mi hai costretta a lanciare di nuovo i sassi, come avevo fatto allora? Hai detto che era zio Thorny, e che così avrei potuto sbarazzarmi di lui una volta per tutte. Ma non era lui! Era mio padre! Mio Dio, Amy... l'ho ucciso, vero? Mi hai costretta a uccidere mio padre!» Nell'aria gelida, la voce di Holly divenne sempre più acuta, come il lamento di una belva ferita, e il suono di quella voce disperata agì su di lei come i fili che muovessero improvvisamente una marionetta afflosciata, inducendola ad alzarsi di scatto in piedi. Amy non si fermò, né si girò a guardare indietro, e Holly la inseguì barcollando. Intenta a sorvegliare Amy dall'alto della scarpata per accertarsi che non avesse intenzioni aggressive, Joanna si accorse soltanto quando ormai era troppo tardi che Holly la stava inseguendo scompostamente. In seguito non fu mai possibile accertare che cosa fosse accaduto esattamente, se Holly Patterson avesse cercato di afferrare Amy per trattenerla, o se invece avesse cercato di spingerla giù. Le due donne lottarono breve-
mente, arrivarono barcollando al ciglione della discarica, rimasero per un attimo come sospese nel vuoto, infine scomparvero, precipitando. Due urla distinte salirono fino alla cima della discarica. Joanna Brady le udì, come udì il fragore della frana provocata dalla loro caduta. Poi vi fu soltanto silenzio. Subito dopo giunse dal basso la voce di Dick Voland. «Sceriffo Brady!» gridò. «Sceriffo Brady! Dove diavolo sei?» «Qua!» rispose lei. «Sono quassù, in cima!» Ansimando e sbuffando, sfiatato dalla precipitosa arrampicata sul versante della discarica, il vicesceriffo capo Dick Voland fu la prima persona ad avvicinarsi a Joanna. «Stai bene?» chiese, gettandole la propria giacca sulle spalle tremanti. «Tutto okay...» «Un accidente!» Lui si recò fino all'orlo della scarpata. «C'è bisogno di un'altra ambulanza, quassù!» gridò. «Subito! E portate qualche coperta! Sbrigatevi!» Mentre Voland tornava, Joanna si sentì cedere le gambe e cadde seduta al suolo. Dick Voland s'inginocchiò accanto a lei. «C'è un'ambulanza, giù. Ne ho mandata un'altra quassù, con alcune macchine, ma per arrivare qui dovranno passare dal cancello principale e fare tutto il giro, accompagnate dal custode della Phelps Dodge.» Joanna si limitò ad annuire, perché i denti le battevano talmente da impedirle di parlare. «Sdraiati!» esortò Dick Voland. «Sdraiati, prima di cadere!» Joanna fece del suo meglio per ubbidire. Le mani che l'aiutarono a sdraiarsi lentamente furono forti, e al tempo stesso sorprendentemente gentili. «Sei ferita?» Lei scosse la testa. «Ho... solo... fre-freddo...» Due vicesceriffi e un paio di paramedici si arrampicarono sulla scarpata e alcune coperte parvero spuntare dal nulla. Un paramedico misurò la pressione a Joanna, mentre l'altro l'avvolgeva in una coperta. «Come stanno le altre due?» chiese Voland. Il paramedico scosse la testa, senza replicare, e il suo silenzio fu una risposta sufficiente. Voland s'inginocchiò dinanzi a Joanna, osservò i piedi sporchi e sanguinanti, poi la scrutò ansiosamente in viso, mentre i paramedici facevano il loro lavoro. Appena fu accertato che Joanna non era gravemente ferita, la sua angoscia si trasformò in collera.
«Se tu fossi uno dei miei vice», brontolò, «ti licenzierei in tronco, seduta stante! Cosa diavolo avevi in mente, quando hai cercato di mettere in piedi questa specie di operazione di salvataggio senza dire un accidente di niente a nessuno? Se quell'avvocato non si fosse spaventato e non avesse chiamato aiuto, questa faccenda avrebbe potuto finire molto peggio!» Joanna cercò invano di rispondere. In quel momento non era assolutamente in grado di parlare. «Lascia perdere!» latrò Voland. «A proposito, lascia perdere anche la lettera che ti ho consegnato! Se vuoi licenziarmi, benissimo! Ma se hai intenzione di fare altre dannate stupidaggini di questo genere, allora hai troppo bisogno di me, perché io possa dimettermi!» CAPITOLO 37 In seguito tutto divenne confuso. A poco a poco Joanna si accorse dei lampeggianti che si avvicinavano sulla strada che costeggiava il bordo esterno della discarica. Arrivò una vecchia ambulanza che la Phelps Dodge manteneva in servizio all'interno della proprietà. Il ricordo successivo di Joanna fu l'arrivo in ospedale. Un'infermiera del pronto soccorso si accostò alla lettiga con un paio di forbici in mano e un'espressione sbrigativa e determinata sul volto, ma parlò come un'allegra maestra d'asilo. «Voglio soltanto aiutarla a sbarazzarsi di quegli indumenti bagnati», disse, accingendosi a tagliare. «Poi l'avvolgeremo in qualche bella coperta calda.» Joanna abbassò lo sguardo a quello che restava della camicetta strappata e della gonna di lana, che un tempo era stata elegante. Entrambe erano completamente imbrattate di fanghiglia gialla e marrone. «Non c'è bisogno di tagliare i vestiti», disse. «Posso togliermeli da sola. Questo completo è quasi nuovo. Lo farò pulire.» «Non s'illuda, mia cara», disse l'infermiera. «Nessuna lavasecco al mondo potrebbe mai pulire questa robaccia.» Ciò detto, cominciò a tagliare quello che restava delle calze, quindi salì pian piano. Soltanto quando arrivò al giubbotto antiproiettile e alla fondina ascellare si trovò abbastanza in difficoltà per lasciare che fosse la stessa Joanna a toglierseli. Con gli occhi sgranati per la paura, Jenny arrivò al pronto soccorso mentre il dottore finiva di pulire e medicare i piedi feriti di Joanna.
«Mamma! Stai bene? Cos'è successo?» Consapevole che, oltre a Harold Patterson, erano morte altre due persone, ossia Amy Baxter e Holly, Joanna si stava sforzando di stabilire in quale misura ne fosse responsabile lei stessa. «Adesso ho un nuovo lavoro», disse Joanna. «E credo che mi ci vorrà un po' di tempo per imparare a farlo bene.» Intanto arrivò Eva Lou Brady, la quale annunciò che avrebbe accompagnato a casa Jenny e che avrebbe accudito i cani. «Grazie», le disse Joanna. Le infermiere avevano appena trasferito Joanna dalla lettiga al letto, quando il telefono nella sua stanza squillò. «Per quanto ne avrai?» chiese Adam York. «Soltanto stanotte, credo. Ma come hai fatto a trovarmi qui?» «Ti cercavo per le impronte di Yuri Malakov. A proposito, abbiamo un riscontro, ma, secondo le mie fonti, non c'è motivo di preoccuparsi, per quanto lo riguarda. Quando ti ho chiamata in ufficio per dirtelo, mi è stato riferito che hai avuto un problema. Che cosa diavolo è successo?» Joanna raccontò ogni cosa. «Un Coraggio di Tombstone», disse lui, quando lei ebbe concluso. «Non è stato fatale, almeno nel tuo caso, comunque è stato un Coraggio di Tombstone.» «Che significa?» «Non hai ancora cominciato a leggere il libro che ti ho mandato?» «No, non ancora.» «Dov'è?» «A casa mia.» «Allora fattelo portare subito da qualcuno e leggilo dalla prima all'ultima parola prima di lasciare l'ospedale. Chiaro?» «Signorsì.» Marianne Maculyea le portò il libro all'ospedale quella sera stessa, insieme a una valigetta di articoli da toletta. Nonostante la disapprovazione delle infermiere, Joanna lesse Agente ferito da cima a fondo. Era un libro terribile, spaventoso. Elencava e descriveva esempi orribili dei dieci errori fatali che venivano commessi comunemente dai poliziotti. L'errore numero otto era il Coraggio di Tombstone: non chiamare aiuto. Adam York aveva ragione. Lo sceriffo Joanna Brady era colpevole del capo d'accusa.
Il mercoledì della settimana successiva Joanna si recò all'appuntamento con Burton Kimball per redigere i documenti per la tutela di Jenny. Dato che Jeff e Marianne avevano accettato, quando aveva chiesto loro se fossero disposti ad assumersi una tale responsabilità, aveva deciso di definire ogni cosa senza perdere tempo. Ormai sapeva che si poteva essere colpiti da un fulmine, perciò voleva essere pronta. Il lunedì successivo sarebbe partita per Peoria, dove avrebbe partecipato, a spese della contea, a un corso di addestramento di sei settimane, e non voleva che durante la sua assenza il problema della tutela di Jennifer restasse irrisolto. Quando alzò lo sguardo dopo avere firmato l'ultimo documento, Joanna si accorse che Burton Kimball la fissava. «Sono contento che tu non sia rimasta ferita più gravemente», disse lui. Joanna arrossì e si guardò i piedi. Camminava goffamente perché erano ancora bendati, con protezioni esterne in gomma applicate alle fasciature. «Mi sono accorta che Holly stava inseguendo Amy Baxter soltanto quando era ormai troppo tardi. Se me ne fossi accorta in tempo, forse sarei riuscita a fermarla.» «No», disse Burton. «Non attribuirti questa responsabilità. Non è stata colpa tua, né di nessun altro. Ognuno ha fatto del proprio meglio in circostanze terribili.» «Credi che lo abbia fatto apposta?» chiese Joanna. «Oppure è stato un incidente?» «Ha davvero qualche importanza?» disse Burton Kìmball. «Quello che importa, adesso, è che è finita.» «Una tragedia di questo genere può mai considerarsi finita?» Joanna pensava che troppe persone erano morte, che troppe vite erano cambiate per sempre. Burton Kimball sospirò e aprì il cassetto della scrivania. «Io credo che queste cose possano finire», disse. «Ivy mi ha dato questa... È una lettera che ha trovato nella cassetta di sicurezza di zio Harold. Mi ha detto che spettava a me decidere se mostrartela o meno.» E la posò sulla scrivania. Tuttavia, Joanna non accennò a prenderla. «Cos'è?» chiese. «La confessione di zia Emily», disse lui. «Per l'omicidio di mio padre. Lei voleva che nessun altro ne fosse considerato responsabile. Sorprese mio padre mentre...» S'interruppe, e non riuscì più a continuare. Joanna prese la lettera e la lesse, poi, pensierosamente, guardò per un poco le montagne grigie attraverso la finestra dell'ufficio. Infine rimise la lettera nella busta. «Credo che nessun altro debba leggere questa lettera,
Burton. Non è necessario», disse pacatamente. «Tu non me ne hai mai parlato, e io non l'ho mai vista. Chiaro?» Lui annuì. «Grazie», disse, prima di riporre la lettera nel cassetto. «A proposito, come sta Ivy?» chiese Joanna. Per la prima volta, il volto cupo di Burton Kimball si rischiarò. «Soffre maledettamente a causa delle nausee mattutine. Linda dice che molto probabilmente sarà un maschio. Dice anche che le nausee mattutine sono sempre peggiori, coi maschi.» Joanna rimase sinceramente sorpresa. «Non ci credo! Ivy Patterson è incinta?! Credevo che stesse insegnando a Yuri l'inglese!» Burton sorrise. «Notevole, vero?» disse. «Alla sua età si dovrebbe sapere come fare a impedire che capiti, vero? Ma io credo che si sia lasciata trasportare. Correre la cavallina, come si dice... Zio Harold ne sarebbe entusiasta, se lo sapesse. Anzi, se è davvero un maschio, spero proprio che gli diano il suo nome.» «Lo spero anch'io», disse Joanna. Il venerdì successivo, al mattino, Frank Montoya, ex marshal cittadino di Willcox, recentemente nominato vicecapo amministrativo del Dipartimento dello Sceriffo di Cochise County, si presentò alla sua prima riunione al Palazzo di Giustizia di Bisbee. Dato che a partire dal lunedì seguente sarebbe stata assente per sei settimane, Joanna aveva voluto nominare al più presto possibile un responsabile amministrativo che fosse dalla sua parte e che tenesse d'occhio la situazione durante la sua assenza. Ormai sapeva di avere un certo peso all'interno del dipartimento, ma nello scegliere un braccio destro aveva deciso per Frank Montoya, il suo vecchio avversario. Quando Dick Voland ed Ernie Carpenter uscirono dall'ufficio, al termine della riunione, Frank si trattenne per qualche minuto. «Sei sicura che Dick Voland non mi sparerà nella schiena durante la tua assenza?» chiese con un sorriso. «No, se non farai nessuna stupidaggine», gli disse lei. «Dick Voland ed Ernie Carpenter non sono stupidi e non tollerano la stupidaggine. Ecco perché, dopo tanto tempo, quei due sono ancora in giro. E questo è anche il motivo per cui abbiamo bisogno di loro.» «Agli ordini, capo», disse Frank, prima di uscire e chiudere la porta. Addossata allo schienale della poltrona, Joanna chiuse gli occhi per un
istante. Poi li riaprì per abbassarli al consunto nichelino con la testa di bisonte che aveva in mano. Per tutta la durata della riunione aveva tenuto nascosto nel palmo della mano, come portafortuna, il nichelino di Andy. Dopo un momento, aprì il primo cassetto della scrivania e vi lasciò cadere la monetina. Non l'avrebbe portata a Peoria per averla con sé durante il corso. L'avrebbe lasciata lì, a Bisbee, nel cassetto della scrivania in ciliegio dello sceriffo. L'avrebbe lasciata dove doveva stare. FINE