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DEAN KOONTZ MEZZANOTTE (Midnight, 1989) A Ed e Pat Thomas della Book Carnival, persone così gentili da farmi talvolta sospettare che non siano veramente umani bensì alieni provenienti da un mondo diverso e migliore. PARTE PRIMA Lungo la costa di notte Dove sinistre figure saltellano alla musica di mezzanotte che solo loro possono udire. The Book of Counted Sorrows 1 A Janice Capshaw piaceva correre di notte. Quasi ogni sera, tra le dieci e le undici, indossava la tuta grigia con le strisce blu sul petto e sulla schiena, infilava le scarpe da ginnastica, fermava i capelli con una fascia e correva per quattro chilometri. A trentacinque anni, sarebbe potuta passare per una venticinquenne e attribuiva questo aspetto giovanile alla propria ventennale dedizione all'esercizio fisico. Domenica 21 settembre uscì di casa alle dieci in punto e percorse quattro isolati in direzione nord fino a Ocean Avenue, la strada principale di Moonlight Cove, dove svoltò a sinistra verso la spiaggia. I negozi erano chiusi, le vetrine buie; a parte la soffusa luminescenza dei lampioni stradali, le uniche luci brillavano in qualche appartamento, nella Knight's Bridge Tavern e nella chiesa cattolica di Nostra Signora della Misericordia. Non circolavano macchine né si vedeva anima viva. Moonlight Cove era sempre stata una cittadina tranquilla, che rifuggiva il flusso turistico tanto avidamente ricercato dalle altre comunità costiere e Janice ne apprezzava il rit-
mo lento e misurato, anche se, negli ultimi tempi, la città non sembrava semplicemente sonnolenta, bensì morta. Correndo lungo la via principale in leggero pendio, attraverso le chiazze di luce color ambra e le ombre notturne dei cipressi e dei pini scolpiti dal vento, non percepiva alcun movimento se non il proprio — e l'inerte, serpentino avanzare della nebbia nell'aria immobile. Gli unici suoni erano il ritmo cadenzato delle suole di gomma sul marciapiede e il suo respiro affrettato. A tutti gli effetti, sarebbe potuta essere l'ultimo superstite sulla terra, impegnata in una solitària maratona post-Armageddon. Janice non amava alzarsi all'alba per correre prima del lavoro, inoltre, d'estate era più piacevole esercitarsi quando il calore diurno si era smorzato, benché né la scarsa propensione per le prime ore del giorno né il calore fossero il vero motivo della sua predilezione notturna. Aveva scelto quell'ora semplicemente perché le piaceva la notte. Anche da bambina l'aveva sempre preferita al giorno, felice di rimanere seduta in giardino dopo il tramonto, sotto le stelle, ad ascoltare le rane e i grilli. L'oscurità ammorbidiva gli spigoli del mondo, attutiva i colori troppo violenti. Con l'arrivo del crepuscolo, il cielo sembrava ritrarsi, mentre l'universo si espandeva. La notte era più vasta del giorno: durante il suo regno, la vita pareva possedere più prospettive. Giunta al raccordo di Ocean Avenue, ai piedi della collina, accelerò attraverso l'area di parcheggio e si diresse verso la spiaggia. Al di sopra del sottile strato di nebbia, il cielo era poco nuvoloso e il chiarore giallo-argento della luna piena, penetrando la foschia, le offriva luce sufficiente per distinguere il percorso. Talvolta la nebbia era troppo fitta e il cielo troppo coperto per consentirle di correre lungo la riva ma, quella sera, la schiuma lattiginosa delle onde si sollevava dal mare in una successione fosforescente e spettrale, mentre la vasta distesa di sabbia riluceva davanti ai suoi occhi. Mentre scattava in direzione della sabbia bagnata, più solida, ai margini dell'acqua e svoltava a sud per percorrere il chilometro che la separava dall'estremità della baia, Janice si sentì meravigliosamente viva. Richard — suo marito, morto di tumore tre anni prima — aveva sostenuto che i suoi ritmi vitali erano tanto concentrati sul periodo successivo alla mezzanotte da renderla qualcosa di più di una normale persona notturna. «Probabilmente ti piacerebbe essere un vampiro per poter vivere fra il tramonto e l'alba», le continuava a ripetere, e lei rispondeva: «Voglio succhiarti il sangue». Dio, quanto lo aveva amato! In principio, aveva temuto
che la vita della moglie di un pastore luterano si rivelasse noiosa e, invece, non lo era stata neppure per un minuto. Tre anni dopo la sua morte ne sentiva ancora la mancanza, ogni giorno e soprattutto la notte. Improvvisamente, mentre oltrepassava due alti cipressi contorti cresciuti nel mezzo della spiaggia, Janice fu certa di non essere più sola nella notte nebbiosa. Non avvertì alcun movimento né un suono al di fuori del proprio respiro affannoso e del martellare del cuore: semplicemente l'istinto le suggerì che aveva compagnia. Dapprima non si sentì allarmata, perché pensò che un'altra persona stesse correndo sulla spiaggia. Occasionalmente, qualche fanatico locale della forma fisica si esercitava a tarda ora, non per scelta, come nel suo caso, ma per necessità; due o tre volte al mese le capitava d'imbattersi in uno di loro. Tuttavia, quando si fermò e si voltò per guardarsi alle spalle, vide soltanto una distesa deserta di sabbia illuminata dalla luna, un nastro ricurvo di onde luminescenti e le ombre vaghe ma familiari delle rocce e degli alberi. L'unico suono era il basso rumoreggiare delle onde. Immaginando che l'istinto l'avesse ingannata, riprese a correre verso sud lungo la spiaggia, ritrovando rapidamente il proprio ritmo. Dopo qualche metro, però, percepì un movimento con la coda dell'occhio alla propria sinistra: un'ombra veloce, celata dalla notte e dalla nebbia, che sfrecciava da un cipresso a una formazione rocciosa, nascondendosi nuovamente alla vista. Janice si bloccò, chiedendosi che cosa fosse: la sagoma le era parsa più grande di un cane, forse delle dimensioni di un uomo, ma, avendola colta soltanto di sfuggita, non era in grado di poterlo dire. La roccia, molto frastagliata, era stata modellata dal vento e dalla pioggia fino ad assomigliare a un cumulo di cera fusa, sufficientemente ampia da occultare chiunque vi avesse cercato riparo. «C'è qualcuno?» chiese. Come si aspettava, non ebbe risposta. Si sentiva a disagio, ma non aveva paura. Se quanto aveva visto era qualcosa di più di un'illusione creata dalla nebbia e dalla luce lunare, si trattava certamente di un animale — e non di un cane, perché un cane si sarebbe avvicinato, senza comportarsi così furtivamente. Dato che lungo la costa non esistevano animali in grado di incutere timore, Janice era curiosa, non spaventata. Immobile, coperta da un velo di sudore, cominciò ad avvertire il freddo della notte. Per mantenere il calore corporeo, si mise a correre sul posto
osservando le rocce, aspettandosi di vedere un animale fuggire dal nascondiglio in direzione della spiaggia. Alcuni abitanti della zona possedevano un cavallo; i Foster gestivano addirittura un allevamento in prossimità del mare, a pochi chilometri di distanza. Forse uno dei loro animali era fuggito. L'ombra che aveva intravisto era più piccola di un cavallo, ma poteva trattarsi di un pony; d'altro canto, nonostante la sabbia soffice, non avrebbe udito il rumore degli zoccoli? Di sicuro, se aveva a che fare con un cavallo, avrebbe dovuto cercare di catturarlo o, perlomeno, di informare i proprietari del ritrovamento. Infine, dato che nulla si muoveva, corse verso le rocce e le aggirò. Ai piedi della formazione e nelle fessure della pietra non c'era nessuno. A Janice non passò neppure per la mente l'ipotesi di trovarsi seriamente in pericolo. Tranne occasionali atti di vandalismo, sempre ad opera di uno o più adolescenti disadattati, oppure di qualche raro incidente stradale, la polizia locale non aveva molto di cui occuparsi. I reati contro le persone — stupri, aggressioni, omicidi — erano praticamente sconosciuti in una cittadina come Moonlight Cove, quasi che i suoi abitanti vivessero in un'oasi al di fuori del tempo. Aggirate le rocce e ritornata sulla battigia, Janice decise di essersi lasciata trarre in inganno dalla foschia e dal chiarore lunare. Il movimento era stato immaginario; sulla spiaggia non c'era nessun altro. Notò che la nebbia si andava addensando rapidamente, ma proseguì verso l'estremità della baia; era certa di poter raggiungere la meta e ritornare ai piedi di Ocean Avenue prima che la visibilità si riducesse drasticamente. Dal mare si levò una brezza leggera che parve spazzare via a tratti la nebbia ma, non appena Janice raggiunse l'estremità sud della riva, il vento si rafforzò e il mare cominciò ad agitarsi, sollevando alti spruzzi di schiuma ogni volta che un'onda si infrangeva contro la scogliera. Qualcuno era ritto su quel muro di massi e la fissava. Janice alzò lo sguardo proprio mentre la coltre di nebbia si sollevava e i raggi della luna delineavano la sua figura. Ora si sentì paralizzare dal terrore. Nonostante l'estraneo le stesse di fronte, l'oscurità le impedì di distinguerne il viso; sembrava alto, ben più di un metro e ottanta, a meno che la distanza non la stesse ingannando. A parte i contorni del corpo, solo gli occhi erano visibili, e furono quelli ad agghiacciarla: color ambra, luminosi, come gli occhi di un animale colto nel fascio di luce di una torcia elettrica.
Per un attimo, mentre lo osservava, si sentì immobilizzata dal suo sguardo. Illuminato alle spalle dalla luna, torreggiante sopra di lei, alto e immobile su contrafforti di roccia, con la spuma del mare che esplodeva alla sua destra, sarebbe potuto essere un idolo intagliato nella roccia, con gli occhi di pietre preziose, eretto da una setta di adoratori del demonio in un'epoca remota. Janice avrebbe voluto fuggire, ma non poteva muoversi; era inchiodata alla sabbia, nella morsa di un terrore paralizzante fino ad allora sperimentato soltanto negli incubi. Si chiese se fosse davvero sveglia. Forse la corsa notturna faceva parte di un brutto sogno, forse si trovava a letto addormentata, al sicuro sotto le coperte calde. Poi, l'uomo emise una specie di ringhio, in parte un ruggito di rabbia e in parte un'acuta invocazione di aiuto. E si mosse. A quattro zampe, cominciò a scendere la scogliera, non come avrebbe fatto un uomo normale, ma con la velocità e la grazia di un felino. In pochi secondi le sarebbe balzato addosso. Janice si riscosse, si voltò e corse verso l'entrata della spiaggia pubblica, a più di un chilometro di distanza. Lungo la scogliera sorgevano alcune case dalle finestre ora illuminate, molte delle quali fornite di scale che conducevano al mare, ma lei non si sentì sicura di poter trovare i gradini nell'oscurità. Non sprecò energie per gridare, dubitando che qualcuno l'avrebbe udita; tra l'altro, se avesse rallentato anche solo di poco per chiamare aiuto, sarebbe stata raggiunta e ridotta al silenzio prima che chiunque fosse in grado di intervenire in suo soccorso. Vent'anni di dedizione alla corsa non si erano mai dimostrati importanti come in quel momento; lo scopo non era più la salute, bensì la sopravvivenza. Janice serrò le braccia contro il corpo, abbassò la testa e scattò, optando per la velocità più che per la resistenza in quanto era certa che, per salvarsi, le sarebbe bastato raggiungere il primo isolato di case della Ocean Avenue. Non pensava che l'uomo — o qualunque cosa fosse — avrebbe continuato a inseguirla lungo le strade abitate e illuminate. Alte nel cielo, nubi striate oscuravano parte della superficie lunare; la luce si affievoliva e si ravvivava in rapida successione, con ritmo irregolare, pulsando attraverso la fitta nebbia in modo tale da creare una serie di fantasmi che, spaventandola ripetutamente, sembravano mantenere il passo con lei. Quella luminosità palpitante e inquietante contribuiva a conferire all'inseguimento le caratteristiche di un sogno e Janice si sentì quasi con-
vinta di trovarsi a letto, immersa nel sonno, anche se non osò fermarsi o guardare alle proprie spalle perché, incubo o meno, l'uomo dagli occhi d'ambra era ancora dietro di lei. Aveva percorso metà della distanza fra l'estremità della baia e Ocean Avenue, di metro in metro sempre più fiduciosa, quando si accorse che due tra le ombre immerse nella nebbia non erano affatto fantasmi. Una si trovava a una decina di metri alla sua destra e correva eretta come un uomo, mentre l'altra, più vicina sulla sinistra, balzava a quattro zampe e possedeva dimensioni umane, anche se certamente nessun uomo avrebbe potuto muoversi con tanta grazia e agilità in quella posizione. Janice aveva solo un'impressione generale delle loro figure e non era in grado di distinguerne i visi, fatta eccezione per gli occhi stranamente luminosi. In qualche modo era sicura che nessuno dei due fosse l'uomo che aveva visto sul frangiflutti; lui la incalzava da dietro, correndo eretto o a quattro zampe. Era praticamente circondata. Non si sforzò minimamente di immaginare chi o che cosa potessero essere: l'analisi di questa inesplicabile esperienza avrebbe dovuto attendere. Si limitò ad accettare l'esistenza dell'impossibile perché, in quanto vedova di un pastore e dotata a propria volta di un'intensa spiritualità, possedeva la flessibilità necessaria per chinarsi di fronte al mistero e all'ultraterreno, quando le si presentavano. Sollecitata dalla paura che, in precedenza, l'aveva paralizzata, rinforzò il ritmo. Ma così fecero anche i suoi inseguitori. Udì uno strano piagnucolio e, lentamente, si rese conto che si trattava della propria voce angosciata. Evidentemente eccitate dal suo terrore, le figure attorno a lei cominciarono a ululare, fluttuando alternativamente dallo stridente e protratto uggiolio, al ringhio gutturale. Cosa ancor peggiore, in mezzo a quegli scoppi di urla bestiali si distinguevano parole intelligibili, pronunciate in tono raschiante, con urgenza: «Prendi la cagna, prendi la cagna, prendi la cagna...» In nome di Dio, che cosa erano? Non uomini, di sicuro, eppure potevano stare in piedi e parlare. Che altro, dunque, sarebbero potuti essere, se non uomini? Janice sentì il cuore martellarle in petto. «Prendi la cagna...» Le forme misteriose ai suoi fianchi cominciarono ad avvicinarsi e lei si sforzò di accelerare per oltrepassarle, ma senza risultato. La distanza si an-
dava assottigliando. Janice poteva scorgerli ai margini del proprio campo visivo, ma non osava guardarli direttamente perché temeva che il loro aspetto l'avrebbe sconvolta al punto da paralizzarla nuovamente; agghiacciata dall'orrore, sarebbe stata catturata. La presero comunque. Qualcosa le balzò addosso da dietro e lei cadde, inchiodata da un forte peso. Tutte e tre le creature la assalirono, toccandola, tirando e strappandole i vestiti. Il suo viso era premuto violentemente contro la sabbia bagnata, ma la testa era girata e la bocca libera: Janice urlò, nonostante le mancasse il respiro. Si divincolò, scalciò, agitò le braccia, tentando disperatamente di difendersi, ma colpì aria e sabbia. Ora non vedeva più nulla, perché la luna era stata coperta dalle nubi. Udì il tessuto strapparsi. L'uomo che la sovrastava le stracciò la giacca della tuta e la fece a pezzi, graffiandole la carne. Lei sentì il tocco rovente di una mano, dura ma umana. Liberata momentaneamente dal peso, si sollevò, cercando di fuggire. Gli esseri la spinsero brutalmente nella sabbia, questa volta sul ciglio del mare, con il viso nell'acqua. Ululando, ansando come cani, sibilando e ringhiando, i suoi assalitori diedero sfogo a frenetici scoppi di parole: «...prenderla, prenderla, prendere, prendere, prendere. ..» «... voglio, voglio, lo voglio, lo voglio...» «... ora, ora, presto, ora, presto, presto, presto...» Cominciarono a tirare i pantaloni da ginnastica, cercando di spogliarla, ma Janice non capì se intendessero violentarla o divorarla; forse né l'una né l'altra cosa. Ciò che volevano era, in effetti, al di là della sua comprensione. Lei sapeva soltanto che erano sopraffatti da un desiderio straordinariamente intenso, perché l'aria gelida sembrava carica del loro bisogno. Uno dei tre le premette la testa nella sabbia e l'acqua la sommerse, profonda solo qualche centimetro, ma sufficiente ad annegarla. Janice si rese conto di essere sul punto di morire, immobilizzata e inerme; stava per morire, e tutto perché le piaceva correre di notte. 2
Lunedì 13 ottobre, ventidue giorni dopo la morte di Janice Capshaw, Sam Booker si diresse, al volante di un'auto a noleggio, dall'Aeroporto Internazionale di San Francisco a Moonlight Cove. Durante il percorso, si dedicò a un gioco macabro, ma sinistramente divertente, elencando mentalmente le proprie ragioni per continuare a vivere. Nonostante fosse in viaggio da oltre un'ora e mezzo, era riuscito a pensare a quattro motivi soltanto: la Guinness Stout, il buon cibo messicano, Goldie Hawn e la paura della morte. Quella birra irlandese scura e densa non aveva mai mancato di soddisfarlo e di fornirgli una breve pausa dalle tribolazioni del mondo. I ristoranti in grado di servire piatti messicani di prima classe erano più difficili da trovare che non la Guinness e questo genere di piacere, quindi, più sfuggente. Sam era da tempo innamorato di Goldie Hawn, o dell'immagine che lei proiettava sullo schermo, perché era bella e interessante, vivace e intelligente, e sembrava ritenere la vita così maledettamente divertente. Le sue probabilità di incontrarla erano un milione di volte più scarse rispetto all'opportunità di scoprire un ottimo ristorante messicano in una città costiera della California del nord come Moonlight Cove, quindi fu lieto che Goldie Hawn non rappresentasse la sua unica ragione per vivere. Con l'avvicinarsi alla meta, alti pini e cipressi circondarono l'autostrada, formando un tunnel grigio-verde e gettando lunghe ombre nella luce smorzata del tardo pomeriggio. La giornata era serena, eppure stranamente austera, dal cielo blu sbiadito, tetro nonostante la trasparenza cristallina, ben diverso dal blu tropicale cui Sam era abituato a Los Angeles. Benché la temperatura si aggirasse sui quindici gradi, i raggi del sole sembravano congelare i colori del paesaggio e offuscarli con una patina simile alla brina. Paura della morte. Quella era la miglior ragione della sua lista. A soli quarantadue anni — un metro e settanta di altezza, settantacinque chili e in buona salute — Sam Booker si era trovato per sei volte in procinto di morire, aveva sbirciato nelle acque sottostanti e non aveva ritenuto il tuffo invitante. Sulla destra dell'autostrada apparve un segnale: OCEAN AVENUE, MOONLIGHT COVE, 3 Chilometri. Non aveva paura del dolore connesso alla morte, perché sarebbe passato in un attimo, né temeva di lasciare la propria vita incompiuta: per parecchi anni non aveva nutrito mete, speranze o sogni, quindi non gli sarebbe rimasto nulla da portare a termine, non uno scopo né un senso. Ma aveva
paura di quanto lo attendeva oltre la vita. Cinque anni prima, più morto che vivo sul tavolo di una sala operatoria, aveva sperimentato uno stato di quasi-trapasso. Mentre i chirurghi lavoravano freneticamente per salvarlo, si era sollevato dal proprio corpo e, dal soffitto, aveva osservato la carcassa e l'equipe medica che la circondava. Poi, improvvisamente, si era sentito risucchiare in un tunnel, verso una luce stupefacente, verso l'Aldilà. Poi, quasi all'ultimo minuto, l'abile chirurgo lo aveva riportato sulla terra dei vivi, ma non prima che egli avesse avuto il tempo di dare un'occhiata a quanto si stendeva oltre l'imboccatura del tunnel. Ciò che vi aveva scorto lo aveva spaventato maledettamente: la vita, per quanto crudele, era preferibile all'affrontare quello che ora sospettava si celasse più in là. Imboccò l'uscita per Ocean Avenue; alla fine della rampa, un altro segnale indicava MOONLIGHT COVE, 700 metri. Su entrambi i lati della carreggiata sorgevano diverse case, alcune nello stile bavarese che gli architetti di trent'anni prima avevano erroneamente ritenuto in armonia con la costa californiana, molte villette, ma perlopiù costruzioni moderne, slanciate, piene di finestre. Quando Sam percorse Ocean Avenue, lungo i sei isolati che formavano la zona commerciale, una strana sensazione di inadeguatezza si impadronì subito di lui. Negozi, ristoranti, bar, un super mercato, due chiese, la biblioteca pubblica, un cinema e altri edifici erano allineati sul corso principale in pendio verso l'oceano, ma i suoi occhi percepivano un'indefinibile, ma vistosa stranezza che gli diede i brividi. Non fu in grado di identificare la causa di questa immediata reazione negativa, nonostante, forse, fosse collegata al tetro interagire di luci e ombre. Sul finire della giornata autunnale, la chiesa cattolica di pietra grigia sembrava una costruzione aliena d'acciaio, eretta per scopi non umani. Un negozio di alcolici in stucco bianco riluceva come se fosse stato edificato con ossa scolorite dal tempo. Molte vetrine erano annebbiate dai riflessi del sole, quasi fossero state dipinte per nascondere le attività di chi lavorava all'interno. Sam frenò a un segnale di stop situato a metà della zona commerciale e, data l'assenza di traffico, sostò per studiare le persone sui marciapiedi. I passanti in vista non erano molti, otto o dieci, e lo colpirono per il loro aspetto «sbagliato», benché il motivo di questa sensazione fosse ancor meno definibile di quello che gli aveva suggerito la prima impressione della città. Tutti camminavano velocemente, determinati, a testa alta, con un
bizzarro senso d'urgenza abbastanza inconsueto in una pigra comunità marina di sole tremila anime. Con un sospiro proseguì lungo Ocean Avenue, ripetendosi che l'immaginazione stava viaggiando a briglia sciolta: Moonlight Cove e i suoi abitanti non gli sarebbero probabilmente parsi insoliti se li avesse osservati in qualità di turista di passaggio. Al contrario, vi era arrivato con la consapevolezza che esisteva del marcio, quindi aveva ovviamente percepito segnali sinistri in uno scenario del tutto innocente. Questo, perlomeno, fu quanto si disse. Ma sapeva bene che non era così. Era giunto a Moonlight Cove perché alcune persone vi erano morte e le spiegazioni ufficiali in merito alla loro fine destavano sospetti; Sam aveva il presentimento che la verità, una volta scoperta, sarebbe stata assolutamente sconvolgente. Nel corso degli anni aveva imparato a fidarsi del proprio istinto, e questa fiducia gli aveva spesso salvato la vita. Parcheggiò la Ford a noleggio di fronte a un negozio. A occidente, sull'orizzonte di un mare plumbeo, l'anemico sole calava in un cielo che andava lentamente assumendo il colore della fanghiglia rossastra. Tentacoli di nebbia serpeggiante cominciarono ad alzarsi dalle acque agitate. 3 Nella dispensa di fianco alla cucina, seduta sul pavimento con la schiena appoggiata a uno scaffale di scatolame, Chrissie Foster guardò l'orologio. Alla cruda luce della lampadina fissata al soffitto, vide di essere rinchiusa in quella stanzetta senza finestre da quasi nove ore. Aveva ricevuto in regalo l'orologio per il suo undicesimo compleanno, più di quattro mesi prima, e ne era rimasta estasiata perché non era di quelli per bambini, con i personaggi dei cartoni animati; era raffinato, da signora, placcato in oro e con i numeri romani, un vero Timex come quello di sua madre. Studiandolo, Chrissie fu sopraffatta dalla tristezza: l'orologio rappresentava il simbolo di un periodo di felicità e accordo famigliare ormai perduto per sempre. A parte le sensazioni di malinconia, solitudine e un po' di irrequietezza dovuta alle ore di prigionia, aveva paura. Naturalmente non era terrorizzata come quella mattina, quando suo padre l'aveva trascinata per tutta la casa e gettata nella dispensa; allora, mentre urlava e scalciava, si era sentita agghiacciata a causa di ciò che aveva visto. Per quello che i suoi genitori erano diventati. Tuttavia, quel terrore lancinante non poteva essere soppor-
tato a lungo: gradualmente, si era ridotto a un sommesso timore che la faceva sentire accaldata e infreddolita nel medesimo tempo; debole, malferma, come nei primi stadi di un'influenza. Si chiese che cosa le avrebbero fatto dopo averla liberata dalla dispensa. Beh, no, non si interrogava sulla propria sorte, perché era più che sicura di conoscere già la risposta: l'avrebbero trasformata in una di loro. In effetti, si domandava come avrebbero effettuato il cambiamento — e che cosa, esattamente, sarebbe diventata. Sapeva che suo padre e sua madre non erano più normali esseri umani, ma qualcosa di diverso, però non aveva parole per descrivere in che cosa si erano mutati. La sua paura era acuita dal fatto di non riuscire a spiegarsi quanto stava accadendo in casa, perché si era sempre trovata a proprio agio con le parole e aveva fiducia nel loro potere. Le piaceva leggere di tutto: poesie, racconti, romanzi, i quotidiani, le riviste, persino le scritte sulle scatole dei cereali, se non aveva altro per le mani. Quando non era intenta a leggere, scriveva racconti; l'anno precedente aveva deciso di diventare una scrittrice. Ora, però, le parole le mancavano e la sua vita stava per diventare ben diversa da quanto si era immaginata. La perdita dell'allettante futuro letterario da lei previsto la spaventava tanto quanto il cambiamento che si era verificato nei suoi genitori. A otto mesi di distanza dal dodicesimo compleanno, Chrissie si sentiva per la prima volta acutamente consapevole dell'incertezza della vita; una triste acquisizione, che la coglieva impreparata. Non per questo si era già arresa. Si proponeva di lottare e di non permettere loro di cambiarla senza opporre resistenza. Poco dopo essere stata rinchiusa nella dispensa, quando le lacrime si erano asciugate, aveva esaminato gli scaffali in cerca di un'arma; la stanza conteneva soprattutto cibo, in scatola, in lattina o sotto vetro, ma c'erano anche scorte di vario genere. Aveva trovato lo strumento perfetto: una bomboletta spray di WD40, un lubrificante a base oleosa, un oggetto piccolo e quindi facilmente nascondibile. Se fosse riuscita a coglierli di sorpresa e a spruzzar loro la sostanza negli occhi, accecandoli temporaneamente, avrebbe potuto tentare di riguadagnare la libertà. Come se leggesse il titolo di un giornale, disse ad alta voce: «Ragazzina ingegnosa si salva grazie a un normale lubrificante domestico». Strinse la bomboletta tra le mani, traendone conforto. Di tanto in tanto, veniva colta da un ricordo vivido e sconvolgente: l'espressione sul viso di suo padre quando l'aveva gettata nella dispensa —
rossa e congestionata per la rabbia, gli occhi cerchiati di scuro, le narici dilatate, le labbra ritratte sui denti in un ringhio animalesco, ogni muscolo contorto dalla furia. «Tornerò a prenderti», aveva sibilato, sputando saliva, «tornerò.» Aveva sbattuto la porta e l'aveva assicurata con una sedia da cucina infilata sotto alla maniglia. In seguito, quando la casa tornò a essere avvolta nel silenzio e i suoi genitori parvero essersi allontanati, Chrissie aveva provato a spingere il battente con tutte le forze, ma la sedia incuneata rappresentava una barricata insormontabile. Tornerò a prenderti. Tornerò. Quel viso contorto dagli occhi iniettati di sangue le aveva rammentato la descrizione fornita da Robert Louis Stevenson del malefico Mr. Hyde nel romanzo sugli esperimenti del dottor Jekyll, che aveva letto qualche mese prima. Suo padre era in preda alla follia: non era più lo stesso. Ancor più agghiacciante era il ricordo di quanto aveva visto in cima alle scale quando era tornata a casa dopo aver perso il pullman della scuola, cogliendo i genitori di sorpresa. No, non erano più i suoi genitori, ma qualcos'altro. Rabbrividì, stringendo la bomboletta di WD-40. Improvvisamente, per la prima volta dopo ore, udì rumori in cucina. La porta posteriore si aprì. Passi. Perlomeno due, forse tre o quattro persone. «Lei è là dentro», disse suo padre. Il cuore di Chrissie ebbe un soprassalto, poi tornò a battere a un ritmo più veloce. «Non sarà una cosa rapida», osservò un altro uomo, una voce sconosciuta, profonda e leggermente raschiante. «Capisci, con un bambino è più complicato. Shaddack non è sicuro che noi si sia pronti per i ragazzini. È rischioso.» «Deve essere convertita, Tucker.» Questa era la madre di Chrissie, Sharon, nonostante non sembrasse lei. La voce le apparteneva senz'altro, ma le mancava l'abituale dolcezza, quella tonalità musicale che la rendeva perfetta per raccontare le favole. «Certo, naturalmente, deve essere fatto», replicò lo sconosciuto di nome Tucker. «Lo so, e anche Shaddack ne è al corrente. Non mi ha forse mandato qui? Sto solo dicendo che potrebbe essere necessario più tempo del solito. Abbiamo bisogno di un luogo dove trattenerla, e osservarla, durante la conversione.» «Si può fare qui, nella stanza al piano di sopra.»
Conversione? Tremando, Chrissie si alzò in piedi e si mise di fronte alla porta. Con qualche scricchiolio, la sedia fu rimossa dalla maniglia. La bambina tenne la bomboletta seminascosta dietro la schiena, l'indice sull'erogatore. Il battente si aprì e suo padre guardò dentro. Chrissie cercò di pensare a lui come ad Alex Foster, non come al proprio padre, solo Alex Foster, anche se le riusciva difficile negare che, in qualche modo, fosse ancora il suo papà. Del resto, «Alex Foster» era un appellativo più adatto di «padre», dato che, ormai, lui era qualcosa di assolutamente diverso. Il suo viso non era più offuscato dalla rabbia e il suo aspetto appariva normale: folti capelli biondi, lineamenti marcati, una spruzzata di lentiggini sul naso e le guance. Eppure, gli occhi erano terribilmente differenti. Sembrava pieno di una strana urgenza, una tensione a fior di pelle. Affamato, ecco che cos'era: papà pareva affamato, consumato, frenetico per la fame, bramoso, ma di qualcosa di diverso dal cibo. Benché non riuscisse a spiegarsi il perché, Chrissie avvertiva questo violento bisogno che gli provocava una costante contrazione muscolare, una necessità così potente, così urgente, che pareva scaturirgli dal corpo in ondate simili al vapore dell'acqua bollente. «Vieni fuori, Christine.» Lei incurvò le spalle, sbattè le palpebre come per reprimere le lacrime, esagerò i brividi che la scuotevano e cercò di apparire piccola, spaventata, sconfitta. Con riluttanza, si fece avanti. «Coraggio, coraggio», la esortò lui, impaziente, indicandole l'uscita. Chrissie oltrepassò la porta della dispensa e vide sua madre alle spalle di Alex. Sharon era graziosa — capelli ramati, occhi verdi — ma nulla in lei lasciava trapelare dolcezza e amore materno; aveva lo sguardo duro, cambiato, ed era in preda alla stessa energia nervosa, a malapena contenuta, che caratterizzava il marito. Accanto al tavolo da cucina era ritto uno sconosciuto in jeans e giaccone da caccia. Si trattava evidentemente di Tucker: alto, magro, tutto spigoli, dai capelli neri molto corti. Gli occhi scuri erano incassati sotto fitte sopracciglia, il naso tagliente era come un cuneo di pietra posizionato al centro della faccia, la bocca era un taglio sottile, mentre le mascelle prominenti assomigliavano a quelle di un animale da preda in grado di spezzare a metà con un singolo morso le proprie vittime. Teneva in mano una borsa di
pelle nera da medico. Il padre cercò di afferrare Chrissie, ma lei protese la bomboletta di WD40 spruzzandogli gli occhi a una distanza di circa mezzo metro; mentre lui urlava di dolore e sorpresa, la bambina diresse il getto contro il viso della madre. Semiaccecati entrambi, avanzarono a tentoni, ma lei stava già sfrecciando attraverso la cucina. Tucker, per quanto stupefatto, riuscì ad acchiapparla per un braccio. Chrissie si girò e gli sferrò un calcio all'inguine. Divincolatasi dalla sua stretta, si precipitò nell'ingresso. 4 Quando Sam Booker scese dall'auto, l'aria era gelida, quindi fu lieto di avere indossato un golf di lana. Mentre una fotocellula attivava simultaneamente tutti i lampioni, fece una passeggiata lungo Ocean Avenue, osservando le vetrine e cercando di farsi un'idea della città. Sapeva che Moonlight Cove era prospera, che la disoccupazione praticamente non esisteva — grazie alla New Wave Microtechnology che, dieci anni prima, vi aveva insediato la propria base — eppure notò diversi segnali di un'economia vacillante. Una gioielleria e un negozio di articoli da regalo avevano chiuso; attraverso le vetrine polverose, scorse scaffalature vuote e ombre immobili. New Attitudes, un negozio di vestiti alla moda, stava organizzando una svendita totale di fine esercizio, ma, a giudicare dalla carenza di clienti, la loro mercé si muoveva lentamente anche con sconti del cinquanta, addirittura settanta per cento rispetto al prezzo originale. Quando raggiunse la Knight's Bridge Tavern, dopo aver percorso Ocean Avenue fino al limitare della spiaggia ed essere tornato sui propri passi lungo il marciapiede opposto, il crepuscolo stava rapidamente declinando. Dal mare proveniva una nebbia madreperlacea e l'aria stessa sembrava iridescente; una patina violacea si stendeva ovunque, tranne dove i lampioni gettavano cerchi di luce giallastra; una pesante oscurità stava scendendo su tutte le cose. Tre isolati più in là un'unica macchina si stava allontanando e Sam era il solo pedone. La solitudine, unita alla strana atmosfera del giorno che finiva, gli diede la sensazione di trovarsi in una città fantasma, abitata da morti. La nebbia dal Pacifico, che si andava gradualmente infittendo, contribuì all'illusione che tutti i negozi circostanti fossero vuoti, che non offrissero
altri prodotti se non ragnatele, silenzio e polvere. Sei un cupo bastardo, si disse. Decisamente troppo tetro. L'esperienza lo aveva reso pessimista; il corso traumatico della sua vita fino a quel momento, gli aveva precluso qualsiasi ottimismo. Propaggini di nebbia scivolarono attorno alle sue gambe. Sam rabbrividì ed entrò nel bar. Degli altri tre clienti, nessuno era di umore particolarmente allegro. In un tavolino alla sinistra, un uomo e una donna di mezza età si protendevano l'uno verso l'altra parlando a bassa voce; al banco, un tizio, grigio in volto, era curvo su un boccale di birra, con lo sguardo torvo, come se vi avesse appena notato galleggiare un insetto. In sintonia con il nome, il Knight's Bridge ostentava una finta atmosfera britannica: una serie di stemmi araldici in legno dipinto a mano decoravano i separé e un'armatura adornava un angolo, mentre alle pareti erano appese scene di caccia alla volpe. Sam occupò uno sgabello a una certa distanza dall'uomo con il viso grigio; il barista si affrettò nella sua direzione, strofinando un panno di cotone sulla superficie del banco in quercia, già immacolato e lucidissimo. «Che cosa desidera, signore?» L'uomo era rotondo sotto tutti gli aspetti: ventre sferico, avambraccia carnose coperte di pelo scuro, viso paffuto, bocca piccola, naso a patata e occhi sufficientemente tondi da conferirgli un'espressione di perpetua sorpresa. «Ha della Guinness?» chiese Sam. «È l'elemento fondamentale di un vero pub, direi. Se non tenessimo la Guinness, beh, potremmo trasformarci in una sala da tè.» Sembrava insolitamente desideroso di compiacere. «La preferisce gelata o solo un po' fresca?» «Leggermente fresca.» «Lei è un intenditore!» Quando tornò con bottiglia e bicchiere, il barista si presentò: «Mi chiamo Burt Peckham e sono il proprietario». «Sam Booker. Hai un bel locale, Burt.» «Grazie. Forse potrebbe passare parola. Cerco di mantenerlo confortevole e ben fornito. Una volta era sempre affollato ma, ultimamente, sembra che la maggior parte della città abbia deciso di diventare astemia o abbia cominciato a distillare in proprio negli scantinati.» «Beh, è lunedì sera.» «Negli ultimi due mesi non è insolito ritrovarsi mezzi vuoti anche al sabato sera, cosa mai successa prima.» Il viso paffuto di Peckham si aggrottò
preoccupato. Mentre parlava, continuava a pulire il banco. «Credo che i salutisti californiani l'abbiano spuntata, alla fine. Tutti se ne stanno a casa a fare esercizi di aerobica, mangiando germogli, chiara d'uovo, o quell'accidente di cui si nutrono, e bevendo soltanto acqua minerale, succhi di frutta e latte di topo. Secondo me, uno o due bicchierini al giorno fanno solo bene.» Sam bevve un sorso di birra, sospirò di soddisfazione e rispose: «Di certo ha il sapore di una bevanda salutare». «Lo è. Favorisce la circolazione e aiuta l'intestino. Ogni domenica i preti dovrebbero esaltarne le virtù, non predicare contro l'alcol. Tutto con moderazione, e questo include un paio di birre al giorno.» Forse rendendosi conto di essere un po' ossessivo nella pulizia del banco, il barista ripose il panno e incrociò le braccia sul petto. «Sei solo di passaggio, Sam?» «In effetti», mentì lui, «sto viaggiando lungo la costa da Los Angeles fino al confine con l'Oregon in cerca di un posto tranquillo dove rifugiarmi in semiritiro.» «Vai in pensione? Stai scherzando?» «Ho detto semi.» «Ma hai solo, vediamo, quaranta, quarantun anni!» «Quarantadue.» «Che mestiere fai, il rapinatore di banche?» «Agente di borsa. Nel corso degli anni ho fatto qualche buon investimento e ora credo di poter abbandonare quel marasma e tirare avanti discretamente soltanto gestendo le mie azioni. Voglio stabilirmi in un posto tranquillo, senza smog né criminalità. Sono stufo di Los Angeles.» «Ma davvero si fanno i soldi con le azioni? Pensavo fosse un investimento sicuro come i tavoli da gioco a Reno. Un paio d'anni fa, quando il mercato è crollato, non erano stati tutti ridotti sul lastrico?» «Per i piccoli investitori è un gioco pericoloso, ma se sei un addetto ai lavori e non ti lasci prendere dall'euforia, puoi guadagnare bene. Nessun mercato sale o scende per sempre: devi solo intuire quando ti conviene cominciare a nuotare controcorrente.» «In pensione a quarantadue anni», mormorò Peckham in tono meditabondo. «Pensare che quando ho comprato il bar ero convinto di essermi sistemato una volta per tutte. Come avevo detto a mia moglie, nei momenti felici la gente beve per festeggiare, nei tempi duri si beve per dimenticare, quindi non esiste modo migliore di un bar per fare affari d'oro. Guarda adesso!» Indicò il locale quasi vuoto con un ampio gesto della mano.
«Avrei guadagnato di più vendendo preservativi in un monastero.» «Mi porti un'altra Guinness?» chiese Sam. «Ehi, forse la mia sorte sta per cambiare!» Quando Peckham tornò con la seconda bottiglia, Sam osservò: «Moonlight Cove potrebbe essere proprio ciò che stavo cercando. Penso che mi fermerò qualche giorno per farmene un'idea. Puoi consigliarmi un motel?» «Ne è rimasto soltanto uno. Questa non è mai stata una grande località turistica, forse perché nessuno dei residenti l'ha voluto. Fino a quest'estate i motel erano quattro, ma adesso tre hanno chiuso i battenti. Non capisco, per quanto grazioso, forse questo villaggio sta morendo. Che io sappia, la gente non se ne sta andando, ma, dannazione, stiamo perdendo qualcosa.» Afferrò nuovamente il panno e ricominciò a lucidare il banco. «A ogni modo, prova al Cove Lodge di Cypress Lane. È l'ultima traversa di Ocean Avenue dalla parte della spiaggia; perlomeno avrai una camera con vista sull'oceano. È un posto pulito e tranquillo.» 5 Giunta nel vestibolo, Chrissie Foster aprì la porta d'ingresso. Attraversò a precipizio l'ampia veranda e scese i gradini, incespicando e riacquistando l'equilibrio; in giardino, svoltò a destra, oltrepassando un'Honda blu, che evidentemente apparteneva a Tucker, e dirigendosi alle stalle. Il rumore delle sue scarpe da tennis sembrava rimbombare come cannonate nel crepuscolo; desiderò di poter correre più silenziosamente e più velocemente. Anche se Tucker e i suoi genitori non fossero usciti sulla veranda finché le ombre non l'avessero inghiottita, sarebbero comunque stati in grado di udire dove si stava dirigendo. Dal mare stavano sopraggiungendo i primi accenni di nebbia e la bambina si augurò che si infittisse in fretta, perché avrebbe avuto bisogno di maggiore copertura. Raggiunse la prima delle due lunghe stalle e fece scorrere la porta. Fu subito assalita dal familiare e non sgradevole aroma: paglia, fieno, pellame, sudore animale. Accese l'illuminazione notturna, tre lampadine a basso voltaggio che emanavano chiarore sufficiente per muoversi all'interno senza disturbare i cavalli. Dieci ampi scomparti fiancheggiavano il corridoio in terra battuta e alcuni fra gli occupanti la guardarono al di sopra delle mezze porte: un certo numero apparteneva ai Foster, ma la maggior parte era di proprietà di
gente di Moonlight Cove e dintorni. I cavalli soffiarono e sbuffarono mentre Chrissie li oltrepassava velocemente, diretta all'ultimo box sulla sinistra, quello di una giumenta macchiata di grigio di nome Godiva. La cavalla era mansueta e particolarmente amichevole con la bambina, ma diventava ombrosa quando veniva avvicinata al buio; se colta di sorpresa a quell'ora, sarebbe potuta arretrare scalciando. Non potendo permettersi di perdere neppure un secondo per calmarla, Chrissie entrò direttamente nel box. Godiva l'aspettava: scosse il muso, agitando la spessa e lucida criniera bianca che aveva suggerito il suo nome, e soffiò forte in segno di saluto. Guardandosi alle spalle, aspettandosi di vedere Tucker e i genitori irrompere in qualsiasi momento, la bambina fece uscire l'animale. «Sii una signora, Godiva, fai la brava.» Non potendo perder tempo a sellarla o infilarle il morso, Chrissie guidò la cavalla verso l'uscita, tenendole una mano sul fianco per tranquillizzarla. Aprì la porta della stalla. Priva del supporto di una staffa, la bambina era troppo piccola per salire in groppa a Godiva. In un angolo giaceva uno sgabello da fabbro, usato per la ferratura. Continuando ad accarezzare l'animale, Chrissie lo sospinse con un piede verso il fianco del cavallo. Alle sue spalle, dalla parte opposta della stalla, Tucker gridò: «Eccola! Là in fondo!» E si precipitò verso di lei. Lo sgabello non era abbastanza alto per sostituire una staffa. La bambina udì i pesanti passi di Tucker farsi sempre più vicini, ma non si voltò. L'uomo urlò: «Ti ho presa!» Chrissie afferrò la splendida criniera bianca di Godiva e fece leva verso l'alto, annaspando disperatamente contro il suo manto. La cavalla doveva provare dolore, ma si comportò stoicamente: non si mosse né nitrì, come se qualche misterioso istinto equino l'avesse avvertita che la sopravvivenza di quella ragazzina dipendeva dalla sua mansuetudine. Infine, Chrissie salì in groppa e, oscillando precariamente, afferrò l'animale per la criniera, sollecitandola ai fianchi con le ginocchia. «Vai!» Tucker la raggiunse in quel momento e la prese per la gamba; i suoi occhi infossati erano folli di rabbia, le narici fremevano e le labbra sottili lasciavano scoperti i denti. Chrissie gli diede un calcio sotto il mento e l'uo-
mo mollò la presa. Simultaneamente, Godiva balzò in avanti, attraverso la porta aperta, lanciandosi nella notte. «Ha preso un cavallo!» Urlò Tucker. «È in groppa a un cavallo!» La giumenta galoppò in direzione del pendio erboso che conduceva al mare, ma Chrissie non voleva spingersi sulla spiaggia perché ignorava l'altezza della marea. In alcuni punti della costa, la sponda era minima anche con la bassa marea; se ora le acque fossero state alte, il passaggio si sarebbe rivelato impossibile. Non poteva rischiare di finire in un vicolo cieco con Tucker e i genitori all'inseguimento. Anche senza il supporto di una sella e a piena velocità, la bambina fece in modo di assumere una posizione più adeguata sul dorso dell'animale; non appena ebbe smesso di cavalcare tutta inclinata di fianco, immerse entrambe le mani nella folta criniera e cercò di usarla come un paio di redini. Sollecitò Godiva a girare verso sinistra, lontano dal mare e dalla casa, tornando indietro verso le stalle per oltrepassarle in direzione del viale che conduceva alla strada statale, dove sarebbe stato più facile trovare aiuto. Invece di ribellarsi a quel brutale sistema di conduzione, la paziente cavalla rispose immediatamente, cambiando percorso come se avesse avuto un morso fra i denti e le redini al collo. Il martellare dei suoi zoccoli echeggiò lungo i muri del fienile che stavano sorpassando al galoppo. «Sei grande!» Gridò Chrissie all'animale. «Ti voglio bene!» Passarono a distanza di sicurezza dalle stalle, dove Chrissie scorse Tucker sulla soglia. L'uomo fu evidentemente sorpreso di vederla galoppare in quella direzione, invece che verso l'oceano, e si precipitò all'inseguimento, sorprendentemente veloce, ma non certo in grado di competere con Godiva. Raggiunto il viale, la bambina mantenne il cavallo sul bordo più soffice della carreggiata, quello in terra battuta; si sporse in avanti, aderendo al manto, terrorizzata alla prospettiva di cadere, mentre ogni scalpitio degli zoccoli le si ripercuoteva nelle ossa. Con la testa girata di lato, distinse la casa sulla sinistra, le finestre illuminate, ma non rassicuranti. Non era più casa sua, bensì un inferno tra quattro mura: quelle luci le parvero fiamme demoniache nelle caverne dell'Ade. Improvvisamente vide qualcosa che correva attraverso il prato, verso di lei. La figura era molto veloce, grande come un uomo, e procedeva a balzi su quattro zampe; si trovava a una sessantina di metri, ma stava rapidamente accorciando la distanza. Subito comparve una seconda sagoma, al-
trettanto bizzarra, alle spalle della prima; nonostante entrambe fossero stagliate contro le luci provenienti dalla casa, Chrissie non riuscì a distinguerle in dettaglio, eppure fu certa di sapere di che cosa si trattasse. O meglio: sapeva chi erano, ma ignorava che cosa fossero, benché quella stessa mattina li avesse visti sul pianerottolo di casa; sapeva che cosa erano stati — persone come lei — ma non ciò che erano diventati. «Vai, Godiva, vai!» Anche senza la sollecitazione delle redini, il cavallo accelerò come se una corrente psichica lo legasse a Chrissie. La bambina si guardò alle spalle e non vide traccia delle due figure animalesche, nonostante la stessero senz'altro inseguendo, celate dalle ombre. Con l'orizzonte color viola, le luci della casa ormai lontane e la luna che cominciava a spuntare a est oltre la cima delle colline, la visibilità era molto scarsa. Benché non riuscisse a distinguere quelli che la tallonavano a piedi, non ebbe difficoltà a scorgere i fanali dell'Honda blu di Tucker, che si era unito alla caccia. Chrissie era sicura che Godiva fosse in grado di tenere testa a qualunque uomo o animale, non avrebbe potuto competere con una macchina: Tucker le sarebbe stato addosso in pochi secondi. Ricordava bene il viso duro di quell'uomo, pervaso dall'innaturale vitalità che caratterizzava anche i suoi genitori: un'eccessiva energia nervosa, unita a un'anomala tensione famelica. Non aveva alcun dubbio che questi avrebbe tentato qualunque cosa per fermarla, compreso investire Godiva con l'auto. Tuttavia, non poteva seguirla in aperta campagna. Con riluttanza, la bambina diede uno strattone alla criniera per allontanare la giumenta dal viale che conduceva alla strada statale, dove aveva sperato di trovare aiuto. Godiva ubbidì senza esitare, galoppando verso i boschi distanti qualche centinaio di metri. «Brava ragazza, corri, vai!» La incitò Chrissie. Avanzarono nell'aria immobile e frizzante, mentre il fiato che usciva dalle loro bocche si cristallizzava in scie di vapore. Il cuore della bambina batteva in sintonia con il convulso scalpitio degli zoccoli, quasi come se lei e Godiva non fossero cavallo e cavaliere bensì un unico essere. Nonostante fuggisse per salvarsi la vita, si sentiva piacevolmente eccitata, non solo terrorizzata, e quella consapevolezza la lasciò attonita. Trovarsi di fronte alla morte — o, in questo caso, a qualcosa forse anche peggiore — era stranamente elettrizzante e morbosamente affascinante. Questa sen-
sazione inaspettata la spaventò quanto gli esseri che la stavano inseguendo. Si strinse ancor più forte alla cavalla, flettendo e contraendo i muscoli con il medesimo ritmo di quelli dell'animale; a ogni potente falcata si sentiva sempre più vicina alla salvezza. Attraversati tre quarti del prato, ormai alle pendici del bosco, decise di svoltare nuovamente a destra in direzione della strada statale e... Godiva cadde. La giumenta aveva posato lo zoccolo in una depressione del terreno ed era inciampata, perdendo l'equilibrio. Cercò di riprendersi, non vi riuscì e crollò al suolo, nitrendo per il terrore. Chrissie temette che l'animale le rovinasse addosso, schiacciandola o rompendole una gamba. Tuttavia, non essendoci staffe a trattenerla o una sella cui rimanere impigliata con gli abiti, si trovò sbalzata in aria, al di là della testa del cavallo. Benché il terreno fosse soffice e rivestito di uno spesso tappeto d'erba, piombò al suolo con un tale impatto da rimanere senza fiato e sbattere i denti con tanta forza da rischiare di amputarsi la lingua, se solo fosse stata protesa. Godiva fu la prima ad alzarsi, un istante dopo la caduta; con gli occhi dilatati per il terrore, cominciò ad allontanarsi al trotto zoppicando leggermente sulla zampa destra, evidentemente distorta, ma non rotta. Chrissie la chiamò per paura che se ne andasse, ma aveva ancora il respiro mozzo e la voce le uscì in un bisbiglio: «Godiva!» La cavalla proseguì verso l'oceano e la stalla. La bambina si rese conto che una giumenta imbizzarrita non le sarebbe stata di nessun aiuto, quindi non tentò più di fermarla; si sentiva leggermente intontita, ma sapeva di doversi muovere perché, senza dubbio, la stavano ancora inseguendo. Poteva vedere i fanali accesi della Honda parcheggiata nel viale a circa trecento metri di distanza. Il prato era immerso nell'oscurità e non fu in grado di determinare la presenza di figure veloci e animalesche, anche se certamente si stavano avvicinando e l'avrebbero catturata entro un paio di minuti. Si alzò in piedi voltandosi verso il bosco, barcollò per qualche metro finché non si fu ripresa dallo choc della caduta, infine si mise a correre. 6 Nel corso degli anni, Sam Booker aveva scoperto che la costa californiana era abbellita da incantevoli locande caratterizzate da un'artistica
struttura in pietra, travi in legno stagionato, vetri molati e lussureggianti giardini interni attraversati da viottoli in mattoni. Malgrado le confortevoli prospettive evocate dal suo nome e la stupenda posizione panoramica, il Cove Lodge non era uno di quei gioielli, bensì un normale scatolone rettangolare di due piani, con quaranta stanze, un tetro caffè e neppure l'ombra di una piscina. Le attrazioni erano limitate a una macchina per il ghiaccio e la soda, su ogni piano. L'insegna sopra l'ufficio della direzione non era vistosa né artistica, come qualche moderno neon: solo piccola, semplice e di poco prezzo. Il portiere di notte gli assegnò una camera al secondo piano affacciata sull'oceano, anche se a Sam non importava particolarmente; del resto, a giudicare dalla scarsità di macchine nel parcheggio, le stanze con vista non mancavano. Ogni piano del motel ospitava venti unità in due gruppi di dieci, collegate da un atrio interno rivestito con una moquette di nylon di colore arancione violento. A est, le camere guardavano su Cypress Lane, a ovest sovrastavano il Pacifico. Quella di Sam era d'angolo, rivolta a nordovest: un enorme letto matrimoniale dal materasso infossato e una logora sopracoperta blu, comodini anneriti dalle sigarette, una televisione avvitata al supporto, un tavolino con due sedie, una cassettiera, telefono, bagno e una finestra che incorniciava il mare avvolto dalla notte. Quando i piazzisti depressi, in preda alla sfortuna e sull'orlo della rovina, si suicidavano lungo il percorso, lo facevano in stanze come quella. Sam disfò le valigie, riponendo gli abiti nell'armadio e nei cassetti, poi si sedette sul bordo del letto fissando il telefono. Avrebbe dovuto chiamare Scott, suo figlio, che si trovava a casa, a Los Angeles, ma non poteva servirsi di quell'apparecchio; in seguito, se la polizia locale si fosse interessata a lui, sarebbe venuta al Cove Lodge, avrebbe controllato le sue telefonate e cercato di stabilire la sua vera identità attraverso le persone con cui aveva parlato. Per mantenere la propria copertura, doveva usare quel telefono solo per comunicare con il suo contatto negli uffici del Bureau di Los Angeles, attraverso una linea sicura dalla quale avrebbe risposto «Birchfield Securities, che cosa desidera?» Negli elenchi telefonici, inoltre, quel numero corrispondeva davvero alla Birchfield, una ditta inesistente dove si supponeva che Sam lavorasse come agente di borsa; da lì, sarebbe stato impossibile risalire all'FBI. Dato che non aveva ancora nulla da riferire, non sollevò il ricevitore. Scott lo avrebbe chiamato da un telefono a gettoni, una volta uscito per andare a cenare. In realtà, non voleva parlare con il ragazzo: si trattava esclusivamente di
una chiamata dettata dal senso del dovere e Sam detestava l'idea. Le conversazioni con il figlio avevano cessato di essere piacevoli perlomeno tre anni prima, quando Scott era tredicenne e orfano della madre già da un anno. Si chiese se il ragazzo avrebbe fatto quella fine se Karen fosse vissuta. Questo genere di pensieri lo condusse, naturalmente, a contemplare il proprio ruolo nel declino di Scott: suo figlio si sarebbe guastato comunque a prescindere dalle attenzioni famigliari ricevute? La sua caduta era inevitabile, la debolezza insita in lui o scritta nelle stelle? O il declino di Scott rappresentava il diretto risultato dell'incapacità paterna di trovare il modo di indirizzarlo su un percorso migliore? Se avesse continuato a rimuginare sull'argomento, avrebbe corso il rischio di togliersi la vita proprio lì a Cove Lodge, per quanto non fosse un piazzista. Birra. Buon cibo messicano. Goldie Hawn. Paura della morte. Come elenco di ragioni per continuare a vivere era maledettamente corto e patetico, ma forse poteva bastare. Si lavò le mani e il viso con l'acqua fredda; si sentiva ancora stanco, per niente rinfrescato. Si tolse il giubbotto e indossò una fondina ascellare estratta dalla valigia, quindi caricò la Smith & Wesson 38 Chief's Special che aveva portato con sé e la infilò nel fodero prima di rimettersi la giacca. I suoi vestiti erano tagliati in modo da celare l'arma: non si notava alcun rigonfiamento e la fondina aderiva così bene all'ascella che la pistola risultava praticamente invisibile anche quando la giacca era sbottonata. Anche il viso e il corpo di Sam erano fatti apposta per gl'incarichi in incognito: né alto né basso, un'eccellente muscolatura senza però sembrare un sollevatore di pesi, né brutto né bello, dai tratti non troppo marcati ma neppure sfuggenti, privo di cicatrici o segni particolari. I capelli castano chiaro erano tagliati moderatamente corti, in uno stile senza tempo che sarebbe risultato poco comune in un'epoca caratterizzata dai capelli a spazzola o da riccioli fino alle spalle. Solo i suoi occhi erano davvero notevoli: grigio-azzurri con striature blu. Le donne gli avevano spesso ripetuto che possedeva gli occhi più belli che avessero mai visto; un tempo gli era importato di ciò che le donne pensavano di lui.
Mosse le spalle, accertandosi che la fondina fosse a posto. Non si aspettava di aver bisogno della pistola per quella sera. Non aveva ancora cominciato a ficcanasare e ad attirare l'attenzione e, dato che non aveva infastidito nessuno, per il momento nessuno avrebbe reagito. Ciononostante, d'ora in poi avrebbe portato con sé il revolver. Non poteva lasciarlo in camera né chiuderlo in macchina; se qualcuno avesse condotto un'accurata ricerca la sua copertura sarebbe andata in fumo. Nessun agente di borsa di mezz'età in cerca di un rifugio sulla costa dove ritirarsi in pensione avrebbe avuto una calibro 38 a canna corta di quel tipo: quella era un'arma da poliziotto. Si infilò in tasca la chiave della stanza e uscì a cena. 7 Tessa Jane Lockland rimase a lungo, in piedi, di fronte all'ampia finestra della propria camera al Cove Lodge. A luci spente, fissò la buia distesa del Pacifico e la spiaggia dove sua sorella, Janice, si era presumibilmente avventurata in una tragica missione autodistruttiva. Secondo la versione ufficiale, Janice si era recata sulla spiaggia, da sola e di notte, in uno stato di acuta depressione, aveva ingerito una dose letale di Valium, poi si era tolta i vestiti e aveva nuotato finché le era stato possibile. Dopo aver perso conoscenza a causa del sonnifero, era stata avvolta dal gelido abbraccio del mare ed era annegata. «Stronzate», mormorò Tessa, come se parlasse alla propria immagine indistinta riflessa sul vetro. Janice Lockland Capshaw era stata una persona piena di speranze, inguaribilmente ottimista — un tratto così comune ai membri della famiglia da essere considerata patrimonio genetico. Mai una volta sua sorella si era seduta in un angolo a compatire se stessa; se ci avesse provato, nel giro di qualche secondo si sarebbe messa a ridere e avrebbe deciso di andare al cinema o a fare una corsa terapeutica. Anche quando Richard era morto, Janice non aveva lasciato che il dolore si stabilizzasse in una permanente depressione, nonostante lo avesse amato moltissimo. Che cosa, dunque, avrebbe potuto trascinarla in un abisso emotivo così profondo? Riflettendo sulla storia di cui la polizia voleva fosse convinta, Tessa si sentì incline al sarcasmo. Forse Janice era andata in un ristorante dove le avevano servito una cena orribile ed era rimasta così sconvolta dall'esperienza da non trovare altra possibile risorsa se non il suicidio. Già. O,
forse, il suo televisore si era guastato e la perdita del teleromanzo favorito l'aveva gettata in uno stato di disperazione irreversibile. Certo. In fin dei conti, queste ipotesi erano plausibili quanto le assurdità che la polizia e il medico legale di Moonlight Cove avevano scritto nei loro rapporti. Suicidio. «Stronzate», ripetè la ragazza. Dalla finestra della camera poteva scorgere soltanto una sottile striscia di sabbia battuta dalle onde, fiocamente illuminata dalla luce di un quarto di luna crescente. Tessa fu sopraffatta dal desiderio di andare sulla spiaggia da dove si supponeva che sua sorella si fosse tuffata per quella nuotata di mezzanotte incontro alla morte, la medesima spiaggia che qualche giorno dopo aveva restituito il suo cadavere gonfio e devastato. Si allontanò dalla finestra e accese la lampada sul comodino, indossò un giubbotto di pelle scura e si mise la borsa a tracolla, poi uscì dalla stanza. Era certa, del tutto irrazionalmente, che soltanto scendendo sulla spiaggia e fermandosi nel punto in cui si presumeva che Janice avesse sostato, avrebbe scoperto una traccia che l'avrebbe condotta alla verità. 8 Mentre la falce argentea della luna sorgeva al di sopra delle colline, Chrissie si precipitò lungo la linea degli alberi in cerca di un passaggio per il bosco prima che i suoi bizzarri inseguitori la trovassero. Giunse rapidamente all'altezza di Pyramid Rock, così chiamata perché la formazione rocciosa, alta il doppio di lei, aveva tre lati culminanti in una punta ormai arrotondata dalle intemperie; quando era più piccola, aveva fantasticato sulla sua costruzione a opera di una tribù di minuscoli egiziani finiti, chissà come, nel continente sbagliato. Avendo giocato per anni sul prato e nella foresta, si sentiva a proprio agio in quell'ambiente come a casa, sicuramente più dei genitori o di Tucker, il che costituiva un vantaggio. Sgattaiolò oltre la roccia, nell'oscurità fra gli alberi, su uno stretto sentiero che conduceva a sud. Non udì nessuno alle proprie spalle e non sprecò tempo a guardarsi attorno; del resto, sospettava che i tre l'avrebbero seguita in silenzio per rivelare la loro presenza soltanto all'ultimo minuto, prima dello scatto finale. La boscaglia costiera era formata, soprattutto, da numerose varietà di pini, nonostante prosperassero anche alcuni eucalipti dalle foglie autunnali di
un rosso scarlatto alla luce del giorno, ma in quel momento nere come frammenti di paramenti funebri. Chrissie seguì il tortuoso sentiero che s'inclinava all'interno di un canyon; in più di metà della foresta, gli alberi crescevano sufficientemente distanziati da consentire al freddo chiarore lunare di penetrare fino al sottobosco, illuminando il percorso. La nebbia era ancora troppo sottile per attutire quei deboli raggi, ma in alcuni punti l'intersecarsi dei rami creava vaste zone d'ombra. Anche dove la luna permetteva di distinguere il cammino, la bambina non osava mettersi a correre perché le radici l'avrebbero sicuramente fatta inciampare; qua e là, anche i rami più bassi costituivano un ulteriore pericolo, quindi si limitò a procedere con passo veloce. Come se stesse leggendo il racconto delle proprie avventure, un libro simile a quelli che tanto le piacevano, pensò: La giovane Chrissie avanzava con passo sicuro, piena di risorse e rapida nelle decisioni, per nulla intimidita dall'oscurità o dal pensiero dei propri mostruosi inseguitori. Che ragazza in gamba! Ben presto avrebbe raggiunto il termine del pendio, dove poteva svoltare a ovest verso il mare o a est in direzione della strada statale che attraversava il canyon. In quella zona, a più di tre chilometri da Moonlight Cove, vivevano poche persone, ma ancor meno risiedevano in prossimità dell'oceano, dove vaste porzioni di costa erano protette dallo Stato e precluse a ogni genere di costruzione. Nonostante lungo il Pacifico si presentassero scarse possibilità di trovare aiuto, a est le prospettive non erano molto migliori, in quanto la statale era poco frequentata e quasi priva di case; tra l'altro, Tucker avrebbe potuto pattugliare la strada con la sua Honda, aspettandosi di vederla mentre tentava di fermare qualche auto di passaggio. Chiedendosi disperatamente dove andare, scese l'ultimo centinaio di metri. Gli alberi che fiancheggiavano il sentiero lasciarono il posto a una macchia impenetrabile di arbusti chiamati chaparral; alcune immense felci, perfettamente adatte alle frequenti nebbie, ostruivano il percorso e Chrissie, attraversandole, rabbrividì perché le parve di essere afferrata da decine di minuscole mani. Un torrente, ampio ma poco profondo, si era scavato un letto sul fondo del canyon e la bambina sostò sulla riva per riprendere fiato. In quel periodo dell'anno, solo qualche centimetro d'acqua scorreva pigramente nel mezzo dell'alveo, risplendente nell'oscurità. La notte era immobile. Non si udiva alcun suono. Chrissie si rese conto di quanto facesse freddo. In jeans e camicia di fla-
nella, era vestita adeguatamente per una frizzante giornata d'ottobre, ma non per l'aria gelida e umida di una notte autunnale. Era intirizzita, spaventata, senza fiato e incerta sulla sua prossima mossa, ma, soprattutto, si sentiva furiosa con se stessa per quelle debolezze del corpo e della mente. I magnifici romanzi d'avventura del suo autore preferito, Andre Norton, erano zeppi di intrepide eroine in grado di sopportare inseguimenti ben più prolungati — per non parlare di un freddo assai più pungente e altre avversità — sempre perfettamente lucide, pronte a prendere decisioni rapide e, di solito, giuste. Spronata dal paragone con i personaggi femminili di Norton, la bambina si mosse; avanzò di qualche passo e cercò di saltare il corso d'acqua gorgogliante. Atterrò fra gli spruzzi a breve distanza dalla riva opposta, bagnandosi le scarpe da tennis, ma risalì l'argine dirigendosi a sud, sull'altro versante del canyon e del bosco che lo ricopriva. Nonostante ormai stesse entrando in un territorio sconosciuto, al di là della foresta dove aveva giocato per anni, non aveva paura di smarrirsi: poteva distinguere l'est dall'ovest in base al movimento della nebbia e alla posizione della luna e, di conseguenza, avrebbe potuto mantenere una direzione sufficientemente stabile. Era certa che, a poco più di un chilometro di distanza, sarebbe giunta a un gruppo di case e all'esteso appezzamento occupato dalla New Wave Microtechnology, a metà strada fra la proprietà dei Foster e la città di Moonlight Cove. Lì avrebbe potuto trovare aiuto. A quel punto, naturalmente, sarebbero iniziati i veri problemi. Avrebbe dovuto convincere qualcuno che i suoi genitori non erano più gli stessi, che erano stati cambiati, posseduti o sopraffatti da uno spirito maligno. E che volevano tramutarla in una di loro. Già, si disse, buona fortuna. Era intelligente, responsabile, in grado di spiegarsi con chiarezza, ma rimaneva pur sempre una ragazzina di undici anni, e le sarebbe stato difficile far sì che le credessero. Non aveva illusioni in proposito. L'avrebbero ascoltata, per poi assentire con il capo e sorridere; avrebbero chiamato i suoi genitori, che sarebbero senz'altro sembrati più plausibili di lei... Eppure devo tentare, si ripetè. Se non cerco di convincere qualcuno, che cos'altro mi resta da fare? Arrendermi? No di certo. Alle sue spalle, a qualche centinaio di metri di distanza, sulla sommità del canyon dal quale era appena scesa, si udì un ululato. Non si trattava di un grido del tutto umano, ma neppure animale. Al primo acuto richiamo fece eco un secondo, poi un terzo, ciascuno chiaramente appartenente a
una creatura diversa perché le voci non si assomigliavano affatto. Chrissie si bloccò, guardò indietro e si mise in ascolto mentre gli esseri cominciarono a gridare simultaneamente, una specie di ululato che ricordava le urla di un branco di coyote, ma in qualche modo più agghiacciante. Il suono era tanto gelido da penetrarle la carne e trapassarle il midollo come un ago. Probabilmente i richiami erano un indizio della loro sicurezza: ormai si sentivano certi di catturarla e non avevano più bisogno di rimanere in silenzio. «Che cosa siete?» bisbigliò la bambina. Sospettava che, come i gatti, vedessero perfettamente anche al buio. Potevano anche fiutare le sue tracce come i cani? Il cuore cominciò a martellarle in petto quasi dolorosamente. Sentendosi sola e vulnerabile, voltò le spalle ai suoi cacciatori e si arrampicò sul sentiero che conduceva al margine meridionale del canyon. 9 Ai piedi di Ocean Avenue, Tessa Lockland attraversò il parcheggio deserto e s'inoltrò sulla spiaggia. Dal Pacifico si stava sollevando la brezza notturna, moderata ma abbastanza gelida da renderla lieta di essersi ben coperta. Camminò sulla sabbia soffice verso le ombre che si stagliavano oltre il cono di luce dell'ultimo lampione, oltrepassando un alto cipresso cresciuto nel mezzo della spiaggia e sagomato così incisivamente dai venti marini da ricordarle una scultura di Erté, tutta linee curve e forme fuse. Giunta sul bordo dell'acqua, mentre la risacca lambiva la sabbia a pochi centimetri dalle sue scarpe, Tessa guardò a occidente; la sottile falce di luna riusciva a illuminare soltanto le creste ondose più vicine, che emergevano dall'oscurità per riversarsi nella sua direzione. Cercò di raffigurarsi la sorella, in piedi sulla spiaggia deserta, mentre inghiottiva trenta o quaranta capsule di Valium con l'ausilio di una Diet Coke per poi togliersi i vestiti e tuffarsi nell'oceano. No, non Janice. Con la crescente convinzione che le autorità di Moonlight Cove fossero una massa di incompetenti o di bugiardi, Tessa procedette lentamente lungo la curvatura della baia. In quel chiarore perlaceo, studiò la sabbia, i ben distanziati alberi sullo sfondo e le formazioni rocciose corrose dal tempo. Non stava cercando indizi concreti sulla fine di Janice, sicuramente cancel-
lati dal vento e dalla marea durante le ultime tre settimane, ma sperava che il paesaggio e le sue componenti notturne — l'oscurità, il vento freddo, gli arabeschi creati dalla nebbia sempre più densa — contribuissero a suggerirle una teoria su quanto era davvero accaduto a Janice e un modo per poterlo provare. Tessa era un'operatrice cinematografica specializzata in documentari industriali. Tutte le volte che aveva avuto dei dubbi circa la realizzazione di un progetto, aveva verificato che l'unico modo per chiarirsi le idee, era quello d'immergersi totalmente nel problema. Per esempio, nelle fasi preliminari di un nuovo lavoro su un paese straniero, trascorreva un paio di giorni passeggiando per le vie di Singapore, Hong Kong o Rio con il solo scopo di assorbirne l'atmosfera, cosa per lei assai più produttiva delle migliaia di ore trascorse a leggere libri oppure in riunione, per quanto, naturalmente, anche queste ultime fossero indispensabili. Aveva percorso soltanto qualche centinaio di metri, quando udì un grido lacerante che la fece arrestare di colpo. Il suono era distante, alternativamente altissimo e poi basso fino a disperdersi nell'aria. Raggelata da quel singolare richiamo più che dal freddo notturno, Tessa si chiese di che cosa potesse trattarsi. Nonostante assomigliasse, almeno in parte, a un ululato, era certa che non fosse un cane; il suono possedeva inoltre una componente felina, per quanto nessun gatto domestico potesse raggiungere un simile volume e non le risultasse che le colline costiere fossero popolate dai puma, perlomeno non nelle vicinanze di un centro abitato come Moonlight Cove. Proprio mentre si accingeva a proseguire, lo stesso grido misterioso lacerò nuovamente la notte, e Tessa fu sicura che provenisse dalla cima del promontorio sovrastante la spiaggia, dove le luci delle case erano meno numerose che non verso il centro della baia. Questa volta l'ululato terminò con una nota gutturale che sarebbe potuta essere emessa da un grosso cane, benché lei continuasse a credere che il suono fosse prodotto da un'altra creatura. Forse qualche residente nella zona teneva in gabbia qualche strano animale: un lupo o un gatto selvatico. Quella spiegazione, tuttavia, non la convinse perché il lamento possedeva una caratteristica stranamente familiare che non riusciva a identificare. Ne attese un altro, ma tutto tacque. L'oscurità si era fatta più profonda e la nebbia si andava addensando. Tessa decise che la mattina successiva le sarebbe stato più facile assorbire i dettagli del luogo e tornò verso i lampioni di Ocean Avenue. Non si re-
se conto che stava praticamente correndo finché non ebbe lasciato alle sue spalle la spiaggia, attraversato il parcheggio e oltrepassato il primo isolato di case. Divenne consapevole del proprio passo solo quando, all'improvviso, udì il suo stesso respiro affannoso. 10 Thomas Shaddack galleggiava in un'oscurità perfetta, né calda né fredda, dove sembrava non possedere peso, dove aveva cessato di provare ogni sensazione epidermica, dove gli pareva di non avere più arti, ossa o muscolatura, dove la sostanza fisica non esisteva. Un tenue filo di pensiero lo collegava al suo io corporeo e solo nei più profondi recessi della mente era ancora consapevole di essere un uomo — un uomo notevole, peraltro, di un metro e novanta, ottantotto chili, magro e angoloso, dal viso molto scavato, la fronte alta e occhi castani così chiari da sembrare quasi gialli. Era vagamente consapevole di essere nudo e immerso in una modernissima camera di deprivazione sensoriale che, in qualche modo, assomigliava a un polmone d'acciaio, però quattro volte più grande. L'unica lampadina a basso voltaggio era spenta e nel serbatoio non penetrava neppure un filo di luce; il liquido in cui Shaddack giaceva era composto di una soluzione al dieci per cento di solfato di magnesio aggiunta all'acqua per assicurare il massimo galleggiamento. Controllata da un computer, come ogni altro elemento di quell'ambiente, l'acqua oscillava fra i trentaquattro gradi, temperatura in cui un corpo immerso in un liquido risente meno della forza di gravita, e trentasette gradi, punto ove la differenza di calore fra il corpo umano e il fluido circostante è trascurabile. Non soffriva di claustrofobia: un minuto o due dopo essere entrato nel serbatoio e aver chiuso il portello, il senso di isolamento svaniva completamente. Privato di ogni stimolo sensoriale — vista, udito, gusto, olfatto, tatto, percezione del tempo o del luogo — Shaddack liberava la mente dalle tristi costrizioni della carne, innalzandosi a vette mai raggiunte fino ad allora ed esplorando concetti di una complessità altrimenti al di fuori della sua portata. In realtà, era un genio anche senza l'ausilio della deprivazione sensoriale; lo aveva scritto la rivista Time, quindi doveva essere vero. Aveva trasformato la New Wave Microtechnology da azienda esordiente con un capitale iniziale di ventimila dollari in un'operazione da trecento milioni di
dollari annui che ideava, sperimentava e commercializzava microtecnologia d'avanguardia. Al momento, tuttavia, Shaddack non si stava sforzando di mettere a fuoco i problemi inerenti la ricerca, ma stava usando il serbatoio per scopi puramente ricreativi, per produrre una specifica visione che non mancava mai di affascinarlo ed eccitarlo. Il suo scenario: fatta eccezione per quel sottile filo di pensiero che lo teneva ancorato alla realtà, era convinto di trovarsi all'interno di una grande macchina in funzione, tanto immensa che le sue dimensioni, come quelle dell'universo, non potevano essere definite facilmente. Al pari di un granello di pulviscolo trasportato dall'aria attraverso le viscere sinistramente illuminate di quel colossale meccanismo immaginario, egli andava alla deriva lungo enormi muri, colonne continue di alberi motori rotanti, catene di trasmissione risonanti, miriadi di pistoni collegati da carrucole scorrevoli a bielle, a loro volta connesse a ingranaggi ben lubrificati che facevano girare volani di ogni dimensione. Servomotori ronzavano, compressori sibilavano, distributori mandavano scintille mentre la corrente elettrica, attraverso milioni di cavi intrecciati, si trasmetteva fino ai margini estremi del macchinario. Per Shaddack, l'aspetto più eccitante di quel mondo irreale era il modo in cui gli alberi di trasmissione d'acciaio, i pistoni in lega, le guarnizioni di gomma e i rivestimenti in alluminio erano collegati a parti organiche per formare un'entità rivoluzionaria dotata di due tipi di vita: l'efficiente movimento meccanico e il pulsare del tessuto organico. Al posto delle pompe, il progettista aveva impiegato cuori umani che battevano instancabilmente, uniti tramite robuste arterie ai tubi di gomma che si insinuavano dentro le pareti; alcuni di loro pompavano sangue alle componenti del sistema che richiedevano una lubrificazione organica, mentre altri pompavano olio ad alta viscosità. Incorporati ad altre sezioni dell'infinito macchinario, c'erano decine di migliaia di sacchi polmonari funzionanti come filtri o mantici; tendini ed escrescenze carnose simili a tumori venivano usati per conferire alle tubature più flessibilità e tenuta di sicurezza di quanto non fosse possibile ottenere con le normali giunture inorganiche. Le prestazioni migliori dei due sistemi, organico e artificiale, erano state combinate in un'unica struttura perfetta. Immaginando il proprio percorso attraverso l'interminabile dedalo di questo luogo di sogno, Thomas Shaddack si sentiva estasiato, nonostante non capisse — né si curasse — quale funzione ultima tutto ciò potesse avere, che prodotto o servizio vi venisse
elaborato. Era eccitato da questa entità a causa della sua evidente efficienza e della splendida integrazione fra componenti organichi e inorganiche. Per tutti i quarantun anni della propria vita, aveva lottato contro le limitazioni insite nella condizione umana, sforzandosi con determinazione e coraggio di elevarsi al di sopra del destino della sua specie. Voleva essere qualcosa di più di un semplice uomo: intendeva possedere il potere di una divinità e modellare non soltanto il proprio futuro, ma quello dell'umanità intera. Nella camera di deprivazione sensoriale, trasportato dalla visione di quest'organismo cibernetico, era assai più vicino alla tanto bramata metamorfosi di quanto non fosse nel mondo reale, e ciò lo rinvigoriva. Per lui, quello scenario non era soltanto intellettualmente stimolante ed emotivamente toccante, bensì anche tremendamente erotico. Percorrendo l'immaginaria macchina semiorganica, osservandola pulsare, si abbandonò a un orgasmo che non coinvolgeva soltanto i genitali, ma ogni sua fibra; egli era assolutamente inconsapevole della propria vistosa erezione e delle violente eiaculazioni che lo facevano tremare in tutto il corpo, perché percepiva il piacere come una sensazione diffusa in ogni parte del suo essere e non focalizzata nel solo pene. Lattiginosi filamenti di sperma si sparsero nella soluzione di solfato di magnesio. Qualche minuto dopo, il timer automatico della camera di deprivazione sensoriale attivò l'illuminazione interna e un debole segnale d'allarme: Shaddack venne riscosso dal proprio sogno e richiamato nel mondo reale di Moonlight Cove. 11 Non appena gli occhi si abituarono all'oscurità, Chrissie Foster fu in grado di orizzontarsi rapidamente anche in un territorio sconosciuto. Raggiunto il bordo del canyon, s'inoltrò lungo un altro sentiero che conduceva a sud attraverso la foresta; per un attimo prese in considerazione l'idea di arrampicarsi su un enorme cipresso, nella speranza che i suoi inseguitori passassero sotto di lei senza scorgerla. Tuttavia non osò correre un simile rischio: se avessero sentito il suo odore o percepito la sua presenza, l'avrebbero seguita fra i rami e lei non avrebbe avuto via di scampo. Proseguì in fretta e raggiunse uno spiazzo fra gli alberi, affacciato su un prato in pendio. Il vento la colpì, scompigliandole i capelli biondi; la nebbia non era più sottile come quando era fuggita a cavallo dalla stalla, ma la luce della luna riusciva ancora a illuminare l'erba secca, alta fino al ginoc-
chio, che ondeggiava nell'aria. Mentre attraversava di corsa il prato, diretta verso il successivo tratto di bosco, vide un grosso camion, pieno di luci come un albero di Natale, che si dirigeva a sud sull'autostrada, a un chilometro circa di distanza. Scartò subito l'idea di cercare aiuto laggiù perché vi avrebbe trovato soltanto forestieri diretti lontano, quindi ancor meno propensi dei residenti a credere alla sua storia. Tra l'altro, visto che leggeva i giornali e guardava la televisione, era perfettamente al corrente dell'esistenza dei maniaci omicidi che battevano le grandi arterie stradali e non aveva alcun problema a immaginarsi i titoli dei quotidiani che descrivevano la sua sorte: RAGAZZINA UCCISA E DIVORATA DA CANNIBALI ERRANTI SU UN FURGONCINO DODGE, SERVITA CON CONTORNO DI BROCCOLI E GUARNIZIONI DI PREZZEMOLO, LE OSSA USATE PER IL BRODO. La strada statale era più vicina, ma vi transitavano pochissime auto; in ogni caso, aveva già deciso di lasciarla perdere per timore di incontrare Tucker sulla sua Honda. In effetti, però, era convinta di avere udito tre voci distinte in mezzo all'agghiacciante coro di uggiolii dei suoi inseguitori, il che doveva significare che quest'ultimo aveva abbandonato la macchina per unirsi ai suoi genitori. Dopotutto, forse sulla statale sarebbe stata al sicuro. Meditò sulla prospettiva attraversando il prato a precipizio ma, prima di aver deciso se fosse opportuno cambiare rotta, quelle urla spaventevoli si alzarono nuovamente dietro di lei, ancora nel bosco ma più vicine di prima. Due o tre voci ulularono simultaneamente, come se avesse alle calcagna un branco di cani, benché fossero più inquietanti e selvatici di cani normali. All'improvviso, Chrissie mise un piede nel vuoto e si troyò proiettata verso ciò che, per un istante, le parve un terribile abisso; si trattava invece di un canale di scolo che attraversava il prato, sul fondo del quale scivolò incolume. Le grida furiose alle sue spalle crebbero d'intensità e si fecero ancora più vicine. Ora le voci possedevano un tono più frenetico, con una nota di urgenza, di fame. Balzata in piedi, aveva cominciato ad arrampicarsi lungo la parete quando si accorse che, sulla sinistra, il fosso terminava in un ampio canale sotterraneo. Subito, si bloccò a metà della salita e prese in considerazione questa nuova alternativa. La tubatura di cemento era a malapena distinguibile al debole chiarore
lunare; quando la scorse, Chrissie intuì immediatamente che si trattava del canale di scarico principale, quello che eliminava le acque piovane dall'autostrada e dalla statale. A giudicare dalle acute urla degli inseguitori, il suo vantaggio stava svanendo e crebbe in lei la paura di non riuscire a raggiungere gli alberi all'altra estremità del prato. Forse il canale era soltanto un vicolo cieco che le avrebbe fornito un rifugio non più sicuro del cipresso sul quale aveva pensato di arrampicarsi, ma decise comunque di correre il rischio. Scivolò nuovamente sul fondo del fossato e sgattaiolò verso l'apertura. Il diametro della tubatura era largo poco più di un metro e, accucciandosi, la bambina riuscì a entrarvi. Aveva percorso solo qualche passo, però, quando fu bloccata da un fetore tanto nauseante da provocarle conati di vomito. In quel passaggio buio, qualche animale era morto e si stava decomponendo. Chrissie non poteva distinguere di che cosa si trattasse, ma forse era meglio così: la carcassa avrebbe potuto avere un aspetto anche peggiore dell'odore. Una bestia selvatica, ammalata e in punto di morte, doveva aver strisciato nella tubatura in cerca di un riparo, e lì era morta. In fretta, arretrò fino all'uscita, respirando profondamente la fresca aria notturna. Da nord vennero gemiti prolungati che le mozzarono il fiato. Si stavano avvicinando rapidamente. Le erano quasi addosso. Non le restava altra scelta se non nascondersi nelle profondità della tubatura e sperare che non riuscissero ad annusare le sue tracce. Di colpo si rese conto che l'animale in decomposizione avrebbe potuto rivelarsi un vantaggio perché, se coloro che la inseguivano erano davvero in grado di fiutarla come cani, il fetore avrebbe mascherato il suo odore. Inoltrandosi nuovamente nell'apertura, ne seguì la pavimentazione convessa che si inclinava gradualmente lungo la pendenza del prato; dopo qualche metro, mise il piede in qualcosa di morbido e scivoloso. Il terribile fetore putrido le assalì le narici con rinnovata violenza, e la bambina capì di avere inciampato nella carogna. Venne assalita dai conati, ma strinse i denti e si impose di non vomitare. Quando ebbe oltrepassato la massa fetida, sostò a pulire le suole delle scarpe contro la superficie di cemento. A una ventina di metri dalla carcassa, Chrissie si fermò e, rannicchiata, si voltò a guardare l'imboccatura del tunnel. Attraverso l'apertura circolare si distingueva chiaramente il fossato illuminato dalla luna; la visuale era migliore di quanto non avesse previsto perché, in contrasto con l'oscurità
del tunnel, la notte sembrava assai più chiara di quando si era trovata all'esterno. Il silenzio era assoluto. Dalle griglie di scarico situate sull'autostrada, una leggera brezza pervadeva la tubatura, allontanando da lei l'odore dell'animale in decomposizione; l'aria era impregnata soltanto da un lieve sentore di umidità e di muffa. Nella notte, tutto taceva. La bambina trattenne il respiro e ascoltò attentamente. Nulla. Ancora accucciata, spostò il peso da un piede all'altro. Silenzio. Si domandò se fosse il caso di addentrarsi ulteriormente nel tunnel, poi si chiese se non vi avrebbe trovato dei serpenti. Non sarebbe stato un luogo magnifico per annidarsi al riparo dal freddo notturno? Silenzio. Dov'erano i suoi genitori? E Tucker? Un minuto fa, le stavano alle spalle, così vicini da poterle quasi balzare addosso. Silenzio. I serpenti a sonagli erano comuni sulle colline, benché non attivi in quel periodo dell'anno. Se un nido... Era così snervata dal perdurare di quella quiete innaturale da sentire il bisogno di urlare solo per rompere l'anomalo incanto. All'esterno, un grido acuto lacerò la calma notturna, echeggiando lungo il tunnel di cemento, oltre Chrissie, e rimbalzando sulle pareti alle sue spalle, come se i cacciatori si stessero avvicinando da ogni parte. Figure indistinte balzarono nel fossato. 12 Sam trovò un ristorante messicano sulla Serra Street, a due isolati dal motel. Gli bastò annusare l'aroma che permeava il locale per capire che il cibo sarebbe stato buono; quel mélange era l'equivalente olfattivo di un album di José Feliciano: polvere di chili, chorizo bollente, la squisita fragranza delle tortillas fatte con masa harina, cilantro, peperoncini piccanti, il gusto forte e astringente del pepe jalapeño, cipolle... Il ristorante Famiglia Perez era privo di pretese come il suo nome: una stanza rettangolare con separé in similpelle blu lungo le pareti, tavoli al centro e la cucina sul retro. A differenza di Burt Peckham alla Knight's
Bridge Tavern, i Perez erano al massimo della loro capienza; tranne un tavolo per due, verso il fondo, dove Sam venne condotto da una cameriera adolescente, il locale era al completo. Il personale addetto ai tavoli era vestito in jeans e maglietta: l'unica concessione all'uniforme consisteva in grembiulini bianchi annodati in vita. Sam non provò neppure a chiedere una Guinness, che non aveva mai trovato in un ristorante messicano, ma optò per la Corona. Il cibo si rivelò eccellente. Non inequivocabilmente superbo, ma assai migliore di quanto non si fosse aspettato in una cittadina costiera di sole tremila anime: frittelline di frumento fatte in casa, salsa densa e appetitosa, zuppa di albondigas saporita e sufficientemente pepata da provocargli una leggera sudorazione. Dopo aver gustato i primi bocconi di enchiladas di granchio in salsa tomatillo, si era ormai quasi convinto di doversi trasferire a Moonlight Cove il più presto possibile, anche a costo di rapinare una banca per poter trovare il denaro necessario a finanziare un pensionamento anticipato. Superato lo stupore per la qualità dei piatti, cominciò a prestare attenzione anche agli altri avventori e si accorse, gradualmente, di parecchie stranezze. La sala era straordinariamente quieta, considerando il fatto che era occupata da un gran numero di persone. I ristoranti messicani di buona qualità erano luoghi allegri, mentre dai Perez, al contrario, solo un terzo dei clienti stava chiacchierando animatamente. Gli altri due terzi mangiavano in assoluto silenzio. Sam ne studiò alcuni. Tre uomini di mezza età seduti in un separé sulla destra si stavano ingozzando di tacos, enchiladas e chimichangas fissando il piatto o il vuoto dinnanzi a loro, scambiandosi qualche occasionale occhiata, ma non una singola parola. A un tavolo dalla parte opposta della sala, due coppie di adolescenti divoravano alacremente una doppia portata di antipasti misti senza mai intervallare il pasto con le chiacchiere e le risate che chiunque si sarebbe aspettato da ragazzi di quell'età. Più Sam li osservava, più trovava strana la loro concentrazione assoluta. In tutto il locale, gente di ogni età e di tutti i tipi era totalmente assorta nel cibo, mangiando voracemente antipasto, primo, secondo, insalata e contorno; alla fine, qualcuno ordinava «un altro paio di tacos» o «un po' di burrito» prima di chiedere il dolce o il gelato. Con i muscoli delle mascelle tesi nella masticazione, non appena inghiottito si affrettavano a riempirsi nuovamente la bocca, che alcuni tenevano addirittura aperta, mentre altri
deglutivano con tale forza che Sam poteva udirli distintamente. Tutti avevano il viso rosso e congestionato, senza dubbio a causa delle salse piccanti, ma nessuno commentava «Ragazzi, com'è forte» o «Mica male», né si produceva nei più elementari accenni di conversazione con gli amici. A quanto pareva, l'ingozzarsi quasi febbrile della maggioranza passava inosservato agli occhi di quel terzo dei clienti che chiacchieravano animatamente fra loro e si cibavano a ritmo normale. Naturalmente, le cattive maniere a tavola non costituiscono una rarità; perlomeno un quarto degli abitanti di qualsiasi città farebbe venire un colpo a un cultore del galateo costretto a mangiare con loro. Cionondimeno, la voracità della maggior parte degli avventori del ristorante dei Perez lasciò Sam sbalordito, facendogli supporre che i pochi beneducati fossero avvezzi al comportamento generale, avendolo osservato ormai un'infinità di volte. Era mai possibile che la fresca aria marina della costa settentrionale producesse un simile effetto sull'appetito? Lo spettacolo cui stava assistendo in quel locale sembrava un rompicapo che qualsiasi sociologo disperatamente alla ricerca di un soggetto per la propria tesi di dottorato sarebbe stato ansioso di risolvere. In breve, tuttavia, Sam si trovò costretto a distogliere l'attenzione dagli altri tavoli perché quel comportamento gli stava facendo passare l'appetito. Più tardi, mentre meditava sull'entità della mancia da lasciare e depositava sulla tovaglia l'importo del proprio conto, esaminò nuovamente la sala, accorgendosi per la prima volta che nessuno degli accaniti mangiatori stava bevendo birra, margaritas o una qualunque bevanda alcolica. Quasi tutti avevano di fronte acqua o Coca-Cola, alcuni latte, che ingurgitavano un bicchiere dopo l'altro, ma nessuno in assoluto sembrava essere amante dell'alcol. Avrebbe anche potuto non notare questa generale tendenza alla sobrietà se non fosse stato un poliziotto — e dei migliori — addestrato non soltanto a osservare, ma anche a riflettere su quanto vedeva. Rammentò la penuria di bevitori alla Knight's Bridge Tavern. Che genere di cultura etnica o setta religiosa inculcava il disprezzo per l'alcol, incoraggiando invece le cattive maniere e la voracità? Non ne conosceva nessuna. Quando ebbe finito la birra e si fu alzato per andarsene, Sam si era convinto di aver avuto una reazione sproporzionata alla vista di qualche individuo rozzo; che questa anomala fissazione sul cibo era limitata a un numero ristretto di avventori e non si trattava di un fenomeno diffuso come a prima vista gli era parso. Dopotutto, dal suo tavolo sul fondo, non era stato
in grado di osservare tutta la sala e ogni singolo cliente. Dirigendosi verso l'uscita, però, passò di fianco a un separé dove tre ragazze giovani, attraenti e ben vestite stavano mangiando voracemente, in assoluto silenzio, gli occhi vitrei; due di loro avevano il mento sporco di cibo e ne erano apparentemente ignare, mentre la terza era così piena di briciole sulla camicetta da sembrare intenta a impanarsi prima di dirigersi nelle cucine, infilarsi nel forno e diventare un piatto di portata. Sam fu lieto di ritrovarsi nella tersa aria notturna. 13 Chrissie li vide entrare nel fossato e, per un attimo, pensò che stessero per attraversarlo e risalire sul prato per poi allontanarsi nella direzione che lei aveva seguito prima di scomparire alla loro vista. Uno dei tre, invece, si girò verso l'imboccatura del canale, avvicinandosi a quattro zampe in pochi balzi furtivi e sinuosi. Nonostante la bambina riuscisse a scorgere soltanto una forma indistinta, faticava a credere che quella cosa fosse uno dei suoi genitori o l'uomo di nome Tucker. Del resto, di chi altri poteva trattarsi? Entrando nel condotto di cemento, il predatore sbirciò nell'oscurità; i suoi occhi verde-ambra scintillavano lievemente, non luminosi come al chiaro di luna, ma vagamente fosforescenti. Chrissie si chiese fino a che punto potesse vedere al buio più assoluto. Sicuramente il suo sguardo non era in grado di penetrare i venticinque o trenta metri di tubatra che lo separavano dal posto dove lei stava rannicchiata; una vista del genere sarebbe stata soprannaturale. La cosa fissò dritto nella sua direzione. D'altronde, chi poteva escludere che si trovasse di fronte a qualcosa di soprannaturale? Forse i suoi genitori erano diventati lupi mannari. La bambina era impregnata di sudore acre e sperò che il fetore dell'animale in decomposizione celasse l'odore del suo corpo. Procedendo sinuosamente bloccando quasi tutta la luce lunare proveniente dall'imboccatura, il cacciatore avanzò lentamente. Improvvisamente, la creatura parlò con voce roca e bisbigliante, con una tale urgenza che le parole erano unite assieme in una singola, lunga catena di sillabe: «Chrissie, tu dà, tu, tu? Vieni, Chrissie, tu venire, venire, volere te, io volere, volere, bisogno, mia Chrissie, mia Chrissie». Quella voce frenetica e bizzarra fece scaturire nella mente della bambina
la terrificante immagine di un essere in parte lucertola, parte lupo, parte uomo e parte qualcosa d'inesplicabile. Eppure, sospettò che il suo vero aspetto fosse assai peggiore di quanto si potesse supporre. «Aiutare te, volere aiutare, aiutare, ora, tu venire, venire, venire. Tu là, là, tu là?» La cosa peggiore di quella voce, a dispetto del suo tono gelido, del mormorio rauco e ultraterreno, era la sua familiarità. Chrissie la riconobbe per quella della madre; mutata, senz'altro, ma pur sempre la sua. Lo stomaco della bambina era contratto dal terrore, ma si sentiva invasa anche da una sensazione dolorosa che dapprima non riuscì a identificare. Poi si accorse di soffrire per il senso di perdita: le mancava la mamma, la rivoleva, la sua vera madre. Se avesse avuto un crocefisso d'argento come quelli che si vedevano sempre nei film dell'orrore, si sarebbe probabilmente fatta avanti verso quella cosa ripugnante, avrebbe preteso che abbandonasse il possesso di sua madre. Forse, però, un crocefisso non avrebbe funzionato perché nella vita reale niente era semplice come al cinema; come se non bastasse, quanto era accaduto ai genitori era ben più spaventoso dei vampiri, dei lupi mannari o dei demoni scaturiti dall'inferno. Tuttavia, se avesse avuto un crocefisso, ci avrebbe provato ugualmente. «Morte, morte, annuso morte, fetore, morte...» La cosa-mamma avanzò rapidamente all'interno del tunnel fino al punto in cui Chrissie aveva messo il piede nello scivoloso ammasso in putrefazione e rimase a fissare la carcassa. All'esterno, oltre l'imboccatura del canale, giunse il rumore di qualcuno che scendeva nel fosso; il rumore di passi e l'acciottolio dei sassi furono seguiti da un'altra voce, agghiacciante come quella della prima creatura, ora chinata sulla carogna dell'animale. Chiamando dal fondo del tunnel, disse: «Lei laggiù, laggiù, lei? Trovato cosa, cosa, cosa?» «... procione...» «Cosa, che cosa, cosa?» «Procione morto, marcio, vermi, vermi.» Chrissie fu colta dal macabro terrore di aver lasciato un'impronta nell'ammasso in decomposizione. «Chrissie?» chiese il secondo essere, avventurandosi nel tunnel. La voce di Tucker. Evidentemente suo padre la stava cercando lungo il prato o nella foresta. Entrambi i cacciatori erano costantemente in movimento; la bambina poteva udirli grattare — artigli? — contro la pavimentazione in cemento,
come fossero in preda al panico. No, non esattamente, perché dalle loro voci non traspariva paura: agitazione, frenesia, piuttosto, come se in ciascuno dei due un motore stesse salendo di giri, sempre più veloce, quasi fuori controllo. «Chrissie laggiù, lei là, lei?» domandò Tucker. La cosa-mamma alzò lo sguardo dal procione morto e lo fissò direttamente sulla bambina nascosta nell'oscurità. Non puoi vedermi, pensò, o pregò, lei. Sono invisibile. La luminosità degli occhi della creatura si era affievolita a due chiazze d'argento ossidato. Chrissie trattenne il respiro. Tucker esclamò: «Mangiare, mangiare, bisogno, volere, mangiare». La creatura che era stata la mamma rispose: «Trovare ragazza, ragazza, trovare prima, poi mangiare, poi». Sembravano animali selvatici dotati per magia di un linguaggio elementare. «Ora, ora, bruciare, mangiare ora, ora, bruciare», ripetè Tucker con insistenza. Chrissie stava tremando così violentemente da temere di essere scoperta. Tucker riprese: «Bruciare, animaletti sul prato, sentire, annusare, cacciare, mangiare, mangiare, subito». La bambina trattenne il respiro. «Niente qui», disse la cosa-mamma, «solo vermi, fetore, andare, mangiare, poi trovare, mangiare, mangiare, poi trovare, andare.» I due predatori arretrarono lungo il condotto e scomparvero. Chrissie osò respirare. Dopo avere atteso un minuto per accertarsi che se ne fossero davvero andati, si girò e proseguì lungo il tunnel, tastandone le pareti alla cieca in cerca di un varco laterale. Dopo un centinaio di metri circa, trovò quel che cercava: un canale secondario, grande la metà di quello principale. Scivolò all'interno a pancia in giù, in modo da fronteggiare il condotto più ampio; lì avrebbe trascorso la notte. Se gli esseri fossero ritornati per verificare se potevano percepire il suo odore nell'aria più pulita al di là del procione decomposto, si sarebbe trovata fuori dalla corrente d'aria che percorreva il canale principale, quindi impossibile a fiutarsi. Si sentì rincuorata perché la loro rinuncia a esplorare più a fondo nel tunnel costituiva una prova dell'assenza di poteri soprannaturali: non erano onniscienti né dotati di una vista eccezionale. Erano solo forti e veloci in
modo anormale, strani e terrificanti, ma anche loro potevano commettere sbagli. Chrissie cominciò a pensare che, una volta spuntato il giorno, avrebbe avuto un cinquanta per cento di possibilità di uscire dal bosco e trovare aiuto prima di venire catturata. 14 Sul marciapiede di fronte al ristorante dei Perez, Sam Booker guardò l'orologio: soltanto le sette di sera. Si incamminò lungo Ocean Avenue, racimolando il coraggio per telefonare a Scott a Los Angeles. La prospettiva di una conversazione con il figlio lo preoccupava, facendogli dimenticare la voracità e le cattive maniere dei clienti del locale. Alle sette e mezzo si fermò a una cabina telefonica nei pressi di una stazione di servizio e compose il suo numero di casa. A sedici anni, Scott era convinto di essere abbastanza maturo da rimanere da solo mentre il padre era in missione. Sam non si trovava del tutto d'accordo e preferiva che il ragazzo stesse in compagnia della zia Edna, ma suo figlio l'aveva spuntata rendendole la vita impossibile, per cui Sam era ormai riluttante all'idea di sottoporre la donna a un simile calvario. Aveva ripetutamente addestrato il ragazzo nelle procedure di sicurezza — tenere porte e finestre chiuse, usare gli estintori, sapere esattamente come uscire di casa da qualunque stanza in caso di terremoto o altre emergenze — e gli aveva insegnato a servirsi di una pistola. A suo giudizio, però, Scott era ancora troppo immaturo per restare a casa da solo per parecchi giorni consecutivi, anche se, perlomeno, era preparato a ogni evenienza. Il telefono squillò nove volte. Sam stava ormai per riappendere, sentendosi in colpa per il sollievo che provava nel non essere riuscito a comunicare, quando suo figlio, finalmente, rispose. «Pronto?» «Sono io, Scott. Papà.» «Sì?» In sottofondo, si udiva una musica ad alto volume. Probabilmente il ragazzo si trovava nella propria stanza, con lo stereo al massimo, tanto da far tremare i vetri alle finestre. «Non potresti ridurre il volume?» «Ti sento benissimo», mormorò Scott.
«Sarà così, ma io invece faccio fatica.» «A ogni modo, non ho niente da dirti.» «Per favore, abbassa la musica», ripetè Sam, sottolineando il «per favore». Il ragazzo depose il ricevitore sul comodino con un rumore tale da assordare il padre. Il volume dello stereo decrebbe solo leggermente, poi Scott tornò all'apparecchio: «Allora?» «Come va?» «Okay.» «Tutto bene da quelle parti?» «E perché non dovrebbe?» «Ho solo chiesto.» In tono astioso: «Se hai telefonato per controllare se sto facendo una festa, non ti preoccupare. Non c'è nessuno». Sam contò fino a tre in modo da controllare la propria voce. Fuori dalla cabina la nebbia si andava infittendo. «Com'è andata oggi a scuola?» «Credi che abbia marinato?» «So che ci sei stato.» «Non ti fidi di me.» «Invece mi fido», mentì Sam. «Tu sei convinto che io non ci sia andato.» «E mi sbaglio, vero?» «Sì.» «Allora, che mi dici?» «Che è ridicola. Sempre la stessa merda.» «Scott, per piacere, sai che ti ho chiesto di non usare questo linguaggio quando parli con me», reagì Sam, rendendosi conto di essere stato trascinato contro la sua volontà in uno scontro. «Mi dispiace tanto. Sempre la stessa cavolata», rispose il ragazzo in un modo tale per cui avrebbe potuto riferirsi alla scuola o all'atteggiamento del padre. «Quassù è molto bello», rispose Sam. Scott non commentò. «Colline boscose che digradano fino all'oceano.» «E con ciò?» Seguendo i consigli dello psicologo, che lui e Scott avevano frequentato insieme e separatamente, Sam strinse i denti, contò nuovamente fino a tre e tentò un nuovo approccio. «Hai già cenato?»
«Sì.» «Fatti i compiti?» «Non ne avevo.» Sam esitò, poi decise di lasciarla passare. Lo psicologo, il dottor Adamski, sarebbe stato fiero di tanta pazienza e autocontrollo. Inoltre riprese: «Che cosa stai facendo?» «Stavo ascoltante un po' di musica.» Talvolta Sam aveva l'impressione che la musica fosse parte di ciò che aveva rovinato il ragazzo; quell'heavy metal frenetico, assordante e privo di melodia, era un insieme di percussioni e ritornelli monotoni e ripetitivi, così privi di sentimento e ottenebranti, da sembrare il prodotto di una civiltà di macchine intelligenti instauratasi sulla terra molto tempo dopo la scomparsa della razza umana. Scott aveva perso interesse per la maggior parte delle band di rock duro per convertirsi al ritmo degli U2, ma la loro semplicistica denuncia sociale non poteva competere con il suo nichilismo, quindi era nuovamente passato all'heavy metal, questa volta concentrandosi sui gruppi che abbracciavano il satanismo, o perlomeno fingevano di farlo. Di conseguenza, era diventato sempre più chiuso in se stesso, antisociale e cupo. In più di un'occasione, Sam aveva preso in considerazione l'idea di confiscargli tutti i dischi, mandarli in frantumi e buttarli via, ma gli era parsa una reazione esagerata. Dopotutto, lui stesso aveva avuto sedici anni quando i Beatles e i Rolling Stones erano comparsi sulla scena e i suoi genitori avevano inveito contro quella musica, predicendo che avrebbe condotto alla perdizione il figlio e tutta la sua generazione. Nonostante John, George, Paul, Ringo e gli Stones, non era finito male: si sentiva il prodotto di un'epoca caratterizzata da una tolleranza senza precedenti e non voleva che le sue vedute si restringessero come era accaduto ai suoi genitori. «Beh, penso sia meglio che vada, ora», osservò. Il ragazzo rimase in silenzio. «Se avessi qualche problema, chiama la zia Edna.» «Lei non può far niente che io non sia capace di fare da solo.» «Ti vuole bene, Scott.» «Ah, certo.» «È la sorella di tua madre e vorrebbe poterti amare come se fossi suo figlio. Basta soltanto che tu gliene dia la possibilità.» Dopo una pausa, Sam respirò a fondo e soggiunse: «Anch'io ti voglio bene». «Davvero? E questo che effetto dovrebbe farmi, mandarmi in brodo di
giuggiole?» «No.» «Perché non mi commuove affatto.» «Stavo solo esponendo un dato di fatto.» Evidentemente citando una delle sue canzoni favorite, il ragazzo disse: Nulla dura in eterno; anche l'amore è una menzogna, uno strumento di manipolazione; non esiste Dio al di là del cielo. Click. Sam rimase immobile per un attimo, ascoltando il segnale della linea ormai libera. «Perfetto.» Riappese il ricevitore. La sua frustrazione era superata soltanto dalla rabbia; avrebbe voluto prendere a calci qualcosa, qualcuno, fingendo di punire chiunque gli avesse portato via il figlio. Provava una dolorosa sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco perché amava davvero Scott. L'estraneità del ragazzo gli era insopportabile. Sapeva di non potere ancora tornare al motel: non sarebbe riuscito a prendere sonno, e la prospettiva di trascorrere un paio d'ore di fronte a quella scatola idiota a guardare commedie o teleromanzi assurdi, gli risultava intollerabile. Quando aprì i battenti della cabina, tentacoli di nebbia scivolarono all'interno e parvero quasi sospingerlo incontro alla notte. Per un'ora percorse le strade di Moonlight Cove fino ai quartieri residenziali, dove non esistevano lampioni e dove gli alberi e le case sembravano galleggiare nella bruma, come se non fossero radicati al suolo, ma precariamente assicurati e sul punto di spezzare i legami. Quattro isolati a nord di Ocean Avenue, sulla Iceberry Way, mentre camminava velocemente per far sbollire la rabbia, Sam udì il rumore di passi affrettati. Qualcuno stava correndo, tre persone, forse quattro. Il suono era inconfondibile, benché stranamente furtivo: certamente non il ritmo regolare di un appassionato di jogging. Si girò, guardandosi alle spalle. I passi cessarono. Dato che la falce di luna era stata oscurata dalle nuvole, la scena era illuminata soprattutto dalla luce proveniente dalle finestre delle case, anni-
date tra pini e ginepri su entrambi i lati della strada. Per quanto Sam poteva vedere, era completamente solo. Si rimise in moto, ma, a meno di mezzo isolato di distanza, udì nuovamente il medesimo scalpiccio affrettato; si voltò di colpo e, come prima, non scorse nulla. Questa volta il rumore si affievolì, dandogli l'impressione che chi lo seguiva si fosse allontanato dal marciapiede per spostarsi sulla terra battuta che ricopriva gli spazi fra le case. Forse quelle persone si trovavano in una strada adiacente: l'aria gelida e la nebbia potevano ingannare sull'origine dei suoni. Tuttavia, cauto e incuriosito, si trasferì silenziosamente sul prato di una villa, nell'oscurità sottostante un immenso cipresso. Studiò i dintorni e, in capo a un minuto, distinse movimenti furtivi sul lato della strada. Quattro figure indistinte apparvero all'angolo di una casa, correndo rannicchiate. Quando attraversarono un giardino illuminato parzialmente da due lampioncini, le loro ombre bizzarramente distorte si agitarono furiosamente sulla facciata in stucco bianco; subito dopo, tornarono a nascondersi fra i cespugli senza lasciargli il tempo di giudicare le loro dimensioni o qualunque altro dettaglio. Ragazzini, pensò Sam, e non hanno in mente nulla di buono. Non sapeva il motivo per cui si sentiva così certo che fossero ragazzi, forse perché né la loro velocità, né il comportamento, erano propri degli adulti. O erano impegnati in qualche scherzo ai danni di un vicino sgradito, oppure lo stavano inseguendo. L'istinto lo fece optare per la seconda ipotesi. Da quando la delinquenza giovanile costituiva un problema in comunità piccole e tranquille come Moonlight Cove? Ogni città aveva qualche ragazzaccio, ma nell'atmosfera semirurale di un luogo del genere, la criminalità minorile raramente comprendeva attività da bande quali aggressioni, rapine a mano armata, scippi od omicidi gratuiti. In campagna, gli adolescenti finivano nei guai a causa della passione per le auto veloci, gli alcolici e le ragazze, oppure per qualche furto occasionale, ma non pattugliavano le strade in gruppi come i loro coetanei delle metropoli. Eppure, Sam nutriva dei sospetti sul conto del quartetto che, invisibile, rimaneva accucciato fra le felci e le azalee sul marciapiede opposto, tre case più in là. Dopotutto, a Moonlight Cove qualcosa non andava, ed era anche possibile che il problema fosse collegato alla delinquenza giovanile. La polizia stava nascondendo la verità sulle numerose morti verificatesi
durante gli ultimi due mesi e forse intendeva proteggere qualcuno; per quanto sembrasse improbabile, avrebbero potuto coprire un gruppetto di ragazzi appartenenti a famiglie facoltose, adolescenti che avevano spinto troppo in là i privilegi di classe, oltrepassando i limiti di un comportamento civile e accettabile. Sam non li temeva; sapeva come comportarsi e aveva una calibro 38. In effetti, gli sarebbe piaciuto dare una lezione a quei mocciosi, ma uno scontro con un gruppo di teppisti avrebbe richiamato la polizia locale e preferiva non destare l'attenzione delle autorità per timore di compromettere le proprie investigazioni. Gli parve strano che il quartetto avesse deciso di assalirlo in un quartiere residenziale come quello, visto che un suo grido d'allarme avrebbe di certo richiamato qualcuno. D'altra parte, visto che non voleva destare clamori, decise di non urlare e si allontanò lungo il vialetto. Raggiunse la casa, si affrettò lungo il muro laterale ed entrò nel cortile posteriore, dove saltò una staccionata che si affacciava su una viuzza ospitante i garage dell'isolato. Aveva progettato di tornare sulla Ocean Avenue, nel centro cittadino, ma una specie di premonizione lo spinse in un'altra direzione. Oltrepassato un gruppo di bidoni delle immondizie, saltò un'altra staccionata e atterrò nel giardino posteriore di una casa il cui ingresso era situato sulla parallela a Iceberry Way. Non appena lasciato il vicolo, udì passi leggeri e affrettati sull'asfalto; i teppisti — se la sua idea era corretta — erano sempre veloci, ma per nulla furtivi come in precedenza. Sam aveva la strana sensazione che, in virtù di uno speciale sesto senso, sarebbero stati in grado di stabilire in quale giardino si fosse rifugiato e di saltargli addosso prima che potesse raggiungere la strada successiva. L'istinto gli suggerì di smettere di correre e cercare un riparo: era in ottima forma, d'accordo, ma aveva pur sempre quarantadue anni mentre loro erano sicuramente molto più giovani, e qualsiasi uomo di mezz'età convinto di poter battere nella corsa dei ragazzi, era uno stupido. Invece di precipitarsi in un altro giardino, si avvicinò rapidamente alla porta laterale di un garage, sperando di trovarla aperta. Lo era. Mosse un passo nella totale oscurità e richiuse il battente proprio mentre i suoi inseguitori si arrestavano di fronte all'ingresso scorrevole all'altro capo del garage. Non si erano fermati in quel punto perché sapevano dove si trovava ma, probabilmente, allo scopo di decidere che direzione avesse preso. In un buio tombale, Sam armeggiò in cerca di un chiavistello per assicu-
rare la porta, ma non trovò nulla. Udì i quattro ragazzini mormorare, tuttavia non capì che cosa si stessero dicendo. Le loro voci erano strane: bisbiglianti e affannose. Afferrò la maniglia con entrambe le mani per evitare che si muovesse in caso i quattro avessero girato attorno al garage per tentare di entrare. Cadde il silenzio. Sam ascoltò intento. Nulla. L'aria odorava di grasso e di polvere; non vedeva niente, ma diede per scontato che lo spazio fosse occupato da una o due macchine. Nonostante non avesse paura, cominciava a sentirsi stupido. Come si era ficcato in una situazione del genere? Era un uomo adulto, un agente dell'FBI addestrato in svariate tecniche di difesa, aveva una pistola che sapeva maneggiare con abilità, eppure si stava nascondendo in un garage di fronte a un pugno di adolescenti. Era arrivato a quel punto perché aveva agito istintivamente e, di solito, si fidava del proprio istinto, anche se questa volta... Udì movimenti furtivi lungo il muro esterno del garage. Divenne teso. Passi raschianti in direzione della porta dietro cui stava nascosto. A quanto pareva, si trattava di uno soltanto dei ragazzi. Facendo leva all'indietro, serrando la maniglia, Sam tenne il battente inchiodato allo stipite. I passi si fermarono proprio di fronte a lui. Trattenne il respiro. Trascorsero interminabili secondi. Controlla la maledetta porta e vattene, pensò Sam con irritazione. Con il passare del tempo, si sentiva sempre più stupido e fu sul punto di affrontare il ragazzino. Poteva, schizzare fuori dal garage come un pupazzo a molla, spaventare a morte il teppista e farlo scappare urlando nella notte. Poi udì la voce dall'altra parte del battente, a pochi centimetri, e per quanto ignorasse che cosa, in nome del Cielo, stesse ascoltando, capì immediatamente di aver fatto bene a fidarsi del proprio istinto, a fermarsi e cercare un nascondiglio. La voce era flebile, roca, assolutamente agghiacciante, e il ritmo frenetico delle parole sembrava quello di uno psicopatico o di un tossicomane in crisi di astinenza. «Bruciare, bisogno, bisogno...» Sembrava rivolgersi a se stesso, forse inconsapevole di parlare, come un
malato in delirio. Un oggetto duro grattò contro il battente di legno e Sam cercò d'immaginare che cosa potesse essere. «Alimentare il fuoco, fuoco, alimentare, alimentarlo», mormorò il ragazzo con una voce ambigua e sottile. A Sam non parve affatto la voce di un adolescente — e neppure di un adulto. In realtà non aveva niente di umano. Nonostante l'aria fredda, la sua fronte era imperlata di sudore. L'oggetto misterioso grattò nuovamente contro la porta. Il ragazzo era forse armato? Si trattava della canna di una pistola sfregata sul legno? La lama di un coltello? Un semplice bastone? Unghioni? L'idea era pazzesca, eppure Sam non riuscì a liberarsene. Nella sua mente si era formata la chiara immagine di un'unghia incurvata e tagliente, un artiglio, che estraeva frammenti dal battente mentre scavava un solco nel legno. Con il sudore che gli colava dalle tempie, strinse saldamente la maniglia. Infine il ragazzo fece un tentativo. La maniglia si mosse fra le mani di Sam, che si sforzò di tenerla immobile. «... oh, Dio, brucia, fa male, oh Dio...» A questo punto Sam ebbe paura. Il ragazzo sembrava assolutamente folle, come sotto l'effetto di una droga, anzi molto peggio, ben più eccitato e pericoloso di qualsiasi fanatico della polvere degli angeli. Sam era terrorizzato perché ignorava che cosa diavolo aveva di fronte. Parole concitate, frenetiche: «... alimentare il fuoco, alimentare il fuoco...» Chissà se riesce a fiutare il mio odore? pensò; date le circostanze, quell'idea bizzarra non gli parve più assurda del concetto di un ragazzo munito di artigli. Il suo cuore batteva all'impazzata e il sudore gli appannava la vista. I muscoli del collo, delle spalle e delle braccia gli dolevano terribilmente: si stava sforzando, beh più del necessario, di tenere la porta chiusa. Dopo un attimo, avendo evidentemente deciso che la propria preda non si trovava nel garage, l'adolescente si arrese e tornò correndo verso il vicolo. Mentre se ne andava, emise un lamento a malapena udibile: un suono che evocava dolore, bisogno ed eccitazione animale. Per quanto lottasse per trattenere il gemito, gli era impossibile controllarsi. Sam udì passi felpati in avvicinamento da direzioni diverse. Gli altri tre
potenziali scippatori si unirono al ragazzo nel vicolo e le loro voci bisbiglianti possedevano la medesima nota frenetica, benché ormai fossero troppo distanti perché egli potesse capire i loro discorsi. I giovani tacquero di colpo e, un minuto dopo, come se appartenessero a un branco di lupi pronto a reagire d'istinto all'odore della selvaggina e del pericolo, sfrecciarono via tutti assieme. Ben presto il rumore dei loro passi svanì, e la notte tornò immobile come una tomba. Per parecchio tempo ancora Sam rimase in piedi nel garage, stringendo forte la maniglia. 15 Il bambino morto giaceva in un canale di scarico all'aperto lungo la strada statale, nella zona sud est di Moolight Cove; il suo viso pallidissimo era macchiato di sangue. Alla luce dei fari della polizia, i suoi occhi spalancati fissavano immobili un punto lontano oltre l'orizzonte. In piedi, di fianco a una delle lampade portatili, Loman Watkins guardò il piccolo cadavere, costringendosi a presenziare alle operazioni perché Eddie Valdoski, di soli otto anni, era il suo figlioccio. Loman aveva frequentato il liceo con il padre del piccolo, George, e da circa vent'anni era innamorato in senso strettamente platonico della mamma, Nella. Eddie era stato un bambino fantastico: vivace, intelligente ed educato. Era stato. E ora... Orribilmente percosso, morso selvaggiamente, graffiato e pieno di lacerazioni, il collo spezzato, il piccolo era poco più di un mucchietto di rifiuti in decomposizione, tutto il suo promettente potenziale distrutto, privato della vita — e la vita di lui. Tra le innumerevoli cose orrende cui Loman aveva assistito in vent'anni di carriera nella polizia, questa era forse la peggiore. Inoltre, a causa del rapporto personale esistente con la vittima, avrebbe dovuto sentirsi profondamente scosso, se non straziato. Eppure, la vista di quel corpicino devastato lo sfiorava appena: era attraversato da tristezza, rimpianto, rabbia e un susseguirsi di altre emozioni, ma solo superficialmente e momentaneamente, allo stesso modo in cui un gruppo di pesci può passare accanto a un nuotatore nelle profondità marine. Quanto al dolore, che avrebbe dovuto trafiggerlo, non ne provava affatto. Barry Sholnick, uno dei nuovi agenti delle recentemente ampliate forze di polizia di Moonlight Cove, stava accucciato lungo il fossato, scattando fotografie del cadavere. Per un istante, gli occhi vitrei del bambino di-
ventarono color argento per il riflesso del flash. La crescente incapacità di Loman di provare emozioni rappresentava, stranamente, l'unica cosa in grado di procurargli sensazioni intense: lo spaventava a morte. Negli ultimi tempi era sempre più terrorizzato dal proprio distacco emotivo, uno sgradito, ma evidentemente irreversibile, indurimento del cuore che lo avrebbe presto ridotto con orecchi di marmo e ventricoli di pietra. Ormai apparteneva alla Nuova Gente e differiva in molti modi dall'uomo che era stato in precedenza. Il suo aspetto era sempre lo stesso — altezza media, fisico robusto, un viso aperto e straordinariamente innocente per la professione che esercitava — ma le apparenze celavano ben altro. Forse l'accresciuto controllo sui sentimenti, una prospettiva più equilibrata e razionale, rappresentava un inaspettato beneficio del Cambiamento. Ma si trattava davvero di un beneficio? Non provare emozioni? Non sentire dolore? Nonostante il gelo notturno, un velo di sudore gli ricoprì il viso e il corpo. Il medico legale, dottor lan Fitzgerald, era impegnato altrove, ma Victor Callan, titolare delle locali pompe funebri e assistente medico legale, stava aiutando un altro agente, Jules Timmerman, a ispezionare il terreno fra il canale di scarico e il vicino bosco. Cercavano possibili indizi lasciati dall'assassino. In realtà, stavano soltanto esibendosi in una messinscena a uso degli abitanti della zona, assiepati lungo la strada. Anche se fosse stato rinvenuto qualche indizio, nessuno sarebbe stato arrestato, né si sarebbe mai svolto un processo: se il responsabile della morte di Eddie fosse stato trovato, la polizia lo avrebbe protetto al fine di nascondere l'esistenza della Nuova Gente agli occhi di chi non era ancora caduto vittima del Cambiamento. Perché, senza dubbio, l'omicida era quello che Thomas Shaddack definiva un «regressivo», un membro della Nuova Gente divenuto incontrollabile e finito male. Molto male. Loman voltò le spalle al cadavere del bambino e s'incamminò lungo la statale, verso la casa dei Valdoski, qualche centinaio di metri più in là. Ignorò i curiosi, benché uno di loro lo chiamasse: «Capo? Che diavolo sta succedendo, Capo?» Questa era un'area semirurale, a malapena all'interno dei confini cittadini; le case erano molto distanziate e le luci sparse facevano molto poco per fugare l'oscurità notturna. Prima ancora di aver percorso la metà della stra-
da che lo separava dalla residenza dei Valdoski, per quanto si trovasse a tiro di voce dai propri uomini sparpagliati sulla scena del delitto, Loman si sentì isolato. Gli alberi, torturati da millenni di vento marino in notti assai meno tranquille di quella, si piegavano verso la strada, con i rami contorti. Loman continuava a immaginarsi di scorgere movimenti fra il fogliame che lo sovrastava e in mezzo alla nebbia annidata fra i tronchi. Mise la mano sul calcio della pistola che portava al fianco. Loman Watkins era capo della polizia di Moonlight Cove da nove anni e, durante l'ultimo mese, nella sua giurisdizione era stato versato più sangue che non negli altri otto anni e undici mesi. Era certo che il peggio dovesse ancora venire: aveva il presentimento che i regressivi fossero ben più numerosi e pericolosi di quanto Shaddack fosse disposto ad ammettere. Temeva i regressivi quasi quanto aveva paura della propria nuova personalità fredda e distaccata. A differenza di felicità, dolore, entusiasmo e tristezza, la paura allo stato puro rappresentava un meccanismo di sopravvivenza, quindi, forse non se ne sarebbe liberato così completamente come gli stava accadendo con ogni altra emozione. Quel pensiero lo mise a disagio. La paura, si chiese, è dunque l'unica sensazione destinata a prosperare nel mondo nuovo che stiamo edificando? 16 Dopo un hamburger al formaggio intriso di grasso, patatine unticce e una bottiglia gelata di Dos Equis nella sala di ristoro deserta del Cove Lodge, Tessa Lockland tornò nella propria camera, si accomodò sul letto e telefonò alla madre a San Diego. Marion rispose al primo squillo, «Ciao, mamma», esordì Tessa. «Dove sei, Teejay?» Da bambina, Tessa non riusciva mai a decidere se preferiva essere chiamata con il primo nome o con il secondo, Jane, per cui sua madre aveva optato per le semplici iniziali di entrambi, come se si trattasse di un nome vero e proprio. «Cove Lodge», rispose la ragazza. «È carino?» «Il migliore che sono riuscita a trovare. Non mi sembra una città in grado di fornire grandi servizi ai turisti. Se non possedesse una vista così spettacolare, il Cove Lodge sarebbe solo uno di quei posti che sopravvivono affittando camere a ore e offrendo film porno sulla TV a circuito chiuso.»
«Ma è pulito?» «Ragionevolmente.» «Se non lo è, preferirei che ti trasferissi altrove immediatamente.» «Mamma, quando giro un film non sempre dispongo di alloggiamenti lussuosi, lo sai. Quando ho lavorato a quel documentario su quegli indiani dell'America Centrale sono andata a caccia con loro e ho dormito nel fango.» «Teejay, cara, non devi mai raccontare alla gente che hai dormito nel fango come i maiali. Devi dire che hai avuto un'esperienza dura o che hai usato una tenda, ma non parlare mai del fango. Anche le circostanze spiacevoli possono rivelarsi positive, se solo si mantiene il proprio senso della dignità e dello stile.» «Sì, mamma, lo so. Intendevo solo farti capire che il Cove Lodge non è il massimo, ma è meglio che dormire nel fango.» «In una tenda.» «Come preferisci.» Per un attimo, entrambe rimasero in silenzio, poi Marion riprese: «Dannazione, dovrei essere lì con te». «Mamma, hai una gamba fratturata.» «Avrei dovuto partire per Moonlight Cove non appena mi hanno informata di aver trovato la povera Janice. Se fossi stata là, non avrebbero cremato il corpo. Glielo avrei impedito! Li avrei fermati e avrei preteso una nuova autopsia fatta da medici legali affidabili, così non sarebbe stato necessario coinvolgerti. Sono furiosa con me stessa!» Tessa sprofondò tra i cuscini sospirando. «Mamma, cerca di essere obiettiva. Ti sei rotta la gamba tre giorni prima del ritrovamento del corpo di Janice; non sei in grado di viaggiare adesso come non lo eri allora. Non è colpa tua.» «Un tempo, una gamba spezzata non mi avrebbe fermata.» «Non hai più vent'anni, mamma.» «Sì, so di essere vecchia», rispose Marion in tono infelice. «Quando penso alla mia età, talvolta mi spavento.» «Hai solo sessantaquattro anni, non ne dimostri più di cinquanta e ti sei fatta male lanciandoti con il paracadute, per la miseria, quindi non aspettarti la mia compassione.» «Conforto e comprensione sono quanto una vecchia madre si attende da una buona figlia.» «Se tu mi avessi sorpresa a chiamarti vecchia o a trattarti con compati-
mento, mi avresti inseguita a calci fino in Cina.» «La possibilità di prendere a calci nel sedere la figlia di tanto in tanto, è uno dei piaceri della vecchiaia materna, Teejay. Maledizione, ma da dove era spuntato quell'albero? Pratico il paracadutismo da trent'anni e mai una volta sono atterrata su una pianta. Giuro che non c'era quando ho guardato giù per controllare la rotta di discesa.» Nonostante una discreta quantità dell'incrollabile ottimismo e della vitalità della famiglia Lockland provenisse dal defunto padre di Tessa, Bernard, in vastissima parte — con l'aggiunta di una buona misura di spirito indomito — derivava dai geni di Marion. La ragazza aggiunse: «Questa sera, subito dopo il mio arrivo, sono stata sulla spiaggia dove l'hanno trovata». «Dev'essere stato terribile, Teejay.» «Posso sopportarlo.» Quando Janice era morta, Tessa si trovava in viaggio in Afghanistan, per studiare gli effetti della guerra genocida sulla popolazione e la cultura locali, allo scopo di preparare un documentario sull'argomento. La madre non era stata in grado di comunicarle la morte della sorella fino a due settimane dopo la scoperta del cadavere sulla spiaggia di Moonlight Cove. Cinque giorni prima, l'8 ottobre, era ripartita in volo dall'Afghanistan con la sensazione di avere in qualche modo tradito Janice; il suo senso di colpa eguagliava quello di Marion, anche se aveva appena detto la verità: poteva sopportarlo. «Avevi ragione, mamma. La versione ufficiale puzza.» «Cos'hai saputo?» «Niente, per ora. Ma me ne sono rimasta là, sulla sabbia, dove, secondo la polizia, avrebbe dovuto inghiottire il Valium e gettarsi in acqua per l'ultima nuotata. Ho capito che tutta la storia non sta in piedi, me lo sento nelle ossa. In un modo o nell'altro, scoprirò che cosa è veramente accaduto.» «Devi stare attenta, tesoro.» «Lo farò.» «Se Janice è stata... assassinata...» «Andrà tutto bene.» «E se, come sospettiamo, non ci si può fidare della polizia...» «Mamma, sono minuta, bionda, con gli occhi azzurri, vivace e dall'apparenza pericolosa quanto uno scoiattolo di Disney. Per tutta la vita ho dovuto lottare contro il mio aspetto per essere presa seriamente. Tutte le donne vogliono farmi da madre o essere una sorella maggiore, mentre gli uomini
si sentono paterni oppure desiderano soltanto portarmi a letto; ben pochi si accorgono immediatamente che possiedo anche un cervello più sviluppato di quello di un moscerino. Di norma, devono conoscermi abbastanza per capirlo. Quindi, per questa volta, mi servirò del mio aspetto, e nessuno mi vedrà come una minaccia.» «Ti terrai in contatto?» «Naturalmente.» «Se ti senti in pericolo, vattene, scappa subito.» «Starò benissimo.» «Promettimi che non rimarrai lì, in caso di pericolo», insistè Marion. «Prometto. Ma tu devi promettermi che per un po' non salterai giù da qualche areoplano.» «Sono troppo vecchia per cose del genere, tesoro. Ormai sono anziana, anzi, decrepita. Dovrò ripiegare su interessi più adatti alla mia età. Ho sempre desiderato imparare lo sci d'acqua, per esempio, e quel documentario che hai girato sul motocross mi ha suggerito l'idea che quelle motociclette debbano essere molto divertenti.» «Ti voglio bene da morire, mamma.» «Anch'io, Teejay. Più di qualunque cosa al mondo.» «Gliela farò pagare per Janice.» «Ammesso che esista qualcuno che merita di pagare. Ricordati soltanto che la nostra Janice se n'è andata, ma tu sei ancora qui, e il tuo primo dovere non è nei confronti dei morti.» 17 George Valdoski sedeva al tavolo di cucina. Nonostante le sue mani, segnate dal lavoro, fossero strette attorno a un bicchiere di whisky, non riusciva a impedirsi di tremare. Quando Loman Watkins entrò e richiuse la porta dietro di sé, l'uomo non alzò neppure lo sguardo. Eddie era il suo unico figlio. George era alto, con petto e spalle robusti. In virtù degli occhi molto incassati, delle labbra sottili e delle fattezze marcate, possedeva un aspetto duro e aggressivo, ma pur sempre piacevole. Tuttavia, la sua parvenza minacciosa era ingannevole e celava una persona sensibile, gentile e cortese. «Come va?» chiese Loman. George si morse il labbro e assentì con il capo, come per indicare che sarebbe sopravvissuto a quell'incubo, ma continuò a fissare il tavolo.
«Vado da Nella», aggiunse Loman. Questa volta, Valdoski non si curò neppure di annuire. Attraversata la cucina, si fermò sulla soglia e si girò verso l'uomo seduto. «Troveremo quel bastardo, George, te lo giuro.» Questi alzò finalmente gli occhi dal bicchiere: era in procinto di piangere, ma si sforzava di non farlo, da buon polacco testardo e orgoglioso, deciso a mostrarsi forte. Disse: «Al crepuscolo, Eddie stava giocando in cortile, proprio qui dietro la casa, dove potevi vederlo da qualsiasi finestra. Quando Nella lo ha chiamato per la cena e lui non è comparso, abbiamo pensato che fosse andato da un vicino a giocare con altri bambini senza chiedere il permesso, anche se avrebbe dovuto». Aveva già raccontato tutto questo, più di una volta, ma sembrava sentire il bisogno di ripeterlo all'infinito, come se ciò potesse logorare l'orribile realtà e quindi cambiarla. Proprio come, usare una cassetta per diecimila volte finisce per cancellare la musica e lasciare soltanto un sibilo. «Abbiamo cominciato a cercarlo, ma non siamo riusciti a trovarlo. In principio non eravamo spaventati, solo un po' arrabbiati; poi ci siamo preoccupati, infine abbiamo davvero avuto paura. Stavo per telefonarti in cerca d'aiuto quando lo abbiamo visto nel canale, mio Dio, fatto a pezzi in quel canale.» Respirò a fondo ripetutamente e le lacrime trattenute a forza brillarono nei suoi occhi. «Che razza di mostro può prendersela con un bambino, trasportarlo da qualche parte, massacrarlo e poi essere così crudele da riportarlo qui e lasciarlo dove noi potessimo trovarlo? Deve essere successo così, perché se no, avremmo sentito... sentito le urla, se quel bastardo gli avesse fatto tutto questo qui nei pressi. Deve averlo portato via per poi trascinarlo dove lo avremmo scoperto. Che razza d'uomo può essere, Loman? Per carità del Cielo, che razza d'uomo?» «Uno psicopatico», rispose l'amico, come aveva già risposto in precedenza. E in fondo era vero. I regressivi erano degli psicopatici. Shaddack aveva coniato un termine per le loro condizioni: psicosi metamorficocorrelata. «Forse sotto l'effetto di qualche droga», aggiunse, questa volta mentendo. Le droghe — perlomeno le normali sostanze illegali — non avevano nulla a che fare con la morte di Eddie. Loman era ancora sorpreso per la facilità con cui riusciva a mentire anche a un amico, una cosa di cui un tempo era stato incapace. L'immoralità della menzogna era un concetto più adatto alle persone ordinarie e al loro turbolento mondo emotivo; le vecchie regole morali avrebbero infine perso ogni significato per la Nuova Gente perché, se il Cambiamento si fosse svolto secondo le previsioni di
Shaddack, l'efficienza e le massime prestazioni sarebbero state gli unici imperativi. «Di questi tempi, il Paese è zeppo di drogati. Cervelli bruciati, nessun principio, niente obiettivi se non brividi a buon mercato. Sono la nostra eredità di un'epoca troppo permissiva. Questo tizio era un pazzoide sconvolto dalla droga, George, e ti giuro che lo prenderemo.» L'amico tornò a fissare il proprio whisky. Infine, parlando più a se stesso che non a Loman, riprese: «Al crepuscolo, Eddie stava giocando in cortile, proprio dietro casa, dove potevi vederlo da qualsiasi finestra...» La sua voce si spense. Con riluttanza, Loman salì al piano superiore per vedere come stava Nella. La donna era sdraiata sul letto, sorretta dai cuscini, e il dottor Jim Worthy stava seduto al suo fianco. Questi era il più giovane dei tre medici di Moonlight Cove, un trentottenne zelante dai baffi ben curati, occhiali cerchiati di metallo e una certa propensione per i cravattini a farfalla. Con lo stetoscopio attorno al collo, stava riempiendo di liquido dorato una siringa insolitamente grande. Worthy si girò verso il nuovo venuto, i loro sguardi s'incontrarono e non ci fu bisogno di parlare. Avendo udito i passi di Loman, oppure percependo la sua presenza in virtù di una sorta di sesto senso, Nella Valdoski aprì gli occhi, gonfi e rossi per il pianto. Era ancora una donna molto bella, dai capelli biondissimi e lineamenti così delicati da non sembrare neppure un prodotto della natura, bensì di un magistrale scultore. La bocca le tremò: «Oh, Loman». Lui girò attorno al letto e prese la mano che Nella gli tendeva: era umida, fredda e tremante. «Sto per somministrarle un tranquillante», spiegò il medico. «Ha bisogno di rilassarsi, magari anche di dormire un po', se se la sente.» «Non voglio dormire», esclamò la donna. «Non posso, non dopo... non dopo tutto questo. Mai più, d'ora in poi.» «Calmati», la esortò Loman, carezzandole la mano. «Lascia che il dottor Worthy si prenda cura di te. Andrà tutto per il meglio, Nella.» Per metà della propria vita aveva amato quella donna, la moglie del suo migliore amico, benché non lo avesse mai lasciato trasparire. Si era ripetutamente detto che si trattava di un'attrazione strettamente platonica, anche se, guardandola ora, non riusciva a nascondersi che la passione ne era stata una forte componente. Ciò che lo turbava, però, beh, per quanto sapesse che cosa aveva provato
per lei durante tutti questi anni, nonostante se ne ricordasse, ora non sentiva più nulla. Il proprio amore, la passione, quel desiderio piacevole e malinconico nel contempo si erano affievoliti al pari di ogni altra reazione emotiva; era ancora consapevole dei propri sentimenti passati, ma gli sembravano qualcosa ormai svanito per sempre. Worthy depose la siringa sul comodino, arrotolò una manica della camicetta di Nella e le strinse al braccio un laccio emostatico, mettendo in evidenza una vena. Mentre il medico le strofinava sulla pelle un batuffolo di cotone intriso d'alcol, la donna chiese: «Loman, che cosa sarà di noi ora?» «Andrà tutto bene», rispose lui, continuando a carezzarle la mano. «Come puoi dire una cosa simile? Eddie è morto. Era così tenero, così piccolo e dolce, e ora non c'è più. Niente sarà più come prima.» «Molto presto ti sentirai meglio. Prima che tu te ne accorga, il dolore sarà scomparso, non avrà più importanza. Ti prometto che starai bene.» Lei lo fissò come se stesse vaneggiando. In effetti, ignorava che cosa stava per accaderle. Worthy le infilò l'ago nella vena. Nella si contrasse. Il liquido dorato entrò, a poco a poco, nel suo sistema circolatorio. Lei chiuse gli occhi e cominciò a piangere sommessamente. Dopotutto, forse è meglio non amare così tanto, si disse Loman. La siringa era vuota. I due uomini si guardarono. Nella rabbrividì. Il Cambiamento avrebbe richiesto altre due somministrazioni e qualcuno avrebbe dovuto rimanere con la donna per le prossime quattro o cinque ore, non solo per provvedere alle iniezioni successive, ma anche per accertarsi che la paziente non si facesse del male durante la conversione. Diventare una Nuova Persona non era un processo indolore. Nella fu scossa da nuovi brividi, violenti e protratti. Dalla soglia, George Valdoski esclamò: «Che cosa sta succedendo qui dentro?» Loman si era tanto concentrato sulla donna da non udire l'arrivo dell'amico. Si alzò in piedi immediatamente. «Il dottore ha pensato che avesse bisogno...» «A che cosa serve quell'ago da cavalli?» Lo interruppe l'altro, indicando la grossa siringa.
«Un tranquillante», spiegò Worthy. «Le sarà utile...» «Un tranquillante?» esplose Valdoski. «A me sembra che gliene abbiate dato una dose sufficiente a far stramazzare un toro.» Loman cercò di calmarlo. «Andiamo, George, il dottore sa che cosa...» Sul letto, Nella risentì gli effetti dell'iniezione. Il suo corpo si irrigidì repentinamente, le mani si serrarono a pugno, i denti si strinsero; le arterie si gonfiarono sulla gola e sulle tempie, pulsando vistosamente con l'accelerare dei battiti cardiaci. Gli occhi diventarono vitrei, denotando il passaggio in quella particolare zona di crepuscolo tipica del Cambiamento, a metà strada tra la consapevolezza e la mancanza di conoscenza. «Che cosa le sta succedendo?» domandò George in tono duro. Dalle labbra contratte in una smorfia di dolore, Nella si lasciò sfuggire uno strano gemito rauco, inarcando la schiena finché solo le spalle e i calcagni rimasero a contatto con il letto. Sembrava piena di un'energia violenta in procinto di esplodere. Poi, di colpo, ripiombò sul materasso, rabbrividì ancora più vistosamente di prima e si coprì di sudore. Valdoski fissò i due uomini. Capiva chiaramente che qualcosa non funzionava, anche se non poteva neppure supporre la natura di quel fenomeno. «Fermati.» Loman estrasse la pistola nel momento in cui l'amico accennò a muoversi in direzione del pianerottolo. «Vieni qui e sdraiati sul letto di fianco a Nella.» George si bloccò sulla soglia, guardando l'arma con aria incredula e sgomenta. «Se provi ad andartene, sarò costretto a spararti e preferirei evitarlo.» «Non ne saresti capace», ribattè Valdoski. «Io non ci conterei», rispose freddamente Loman. «Se fossi costretto, ti sparerei e giustificherei la tua uccisione con una storia che non ti piacerebbe. Affermeremmo di averti colto in contraddizione e di aver rinvenuto le prove che tu hai ammazzato Eddie, il tuo bambino, per perversi motivi sessuali. Messo a confronto con le prove, hai afferrato la mia pistola, abbiamo lottato e sei stato colpito da un proiettile. Caso chiuso.» Questa minaccia, e il fatto che proveniva dal suo più caro amico, lo lasciò di sasso. Infine, rientrando nella stanza, riuscì solo a mormorare: «Tu permetteresti che tutti pensassero che ho fatto a Eddie quelle cose tremende? Ma perché? Che cosa stai facendo, Loman? Cosa diavolo ti capita? Chi... chi stai proteggendo?» «Sdraiati sul letto», ribattè Loman. Il dottor Worthy stava preparando un'altra siringa.
Nel frattempo, Nella rabbrividiva incessantemente, torcendosi e dibattendosi. Il viso era coperto di sudore e, nonostante tenesse gli occhi aperti, sembrava inconsapevole della presenza dei tre uomini; forse non si rendeva neppure conto di dove si trovasse. Loman non ricordava nulla della propria conversione, se non che il dolore era stato lancinante. Avvicinandosi al letto con riluttanza, Valdoski chiese: «Che cosa sta accadendo, Loman? Cristo, ma che succede? Che cos'è che non va?» «Andrà tutto bene», lo rassicurò l'altro. «È meglio così, George, davvero.» «In nome di Dio, ma di che cosa stai parlando?» «Sdraiati. Andrà tutto bene.» «Che cos'ha Nella?» «Sdraiati, George.» «È per il suo bene», aggiunse il medico, finendo di riempire la siringa. «Ti giuro che è così», dichiarò Loman. «Fidati di me.» Con la canna della pistola indicò il letto, sorridendo rassicurante. 18 La casa di Harry Talbot era piena di enormi finestre. Si trovava a tre isolati dal cuore di Moonlight Cove, sulla Conquistador Avenue, così chiamata perché i conquistatore spagnoli vi avevano bivaccato secoli prima, quando avevano scortato il clero cattolico lungo la costa californiana per fondarvi le loro missioni. Talvolta Harry sognava di essere uno di quei soldati, in marcia verso nord in un territorio inesplorato, e si trattava sempre di una piacevole evasione, visto che si illudeva di poter camminare con le sue gambe. La maggior parte della città era edificata sulle colline di fronte al mare, e la proprietà di Talbot si elevava sulla Conquistador, fornendo un osservatorio perfetto per un uomo la cui attività principale consisteva nello spiare i propri concittadini. Dalla camera da letto al terzo piano, proprio sull'angolo della casa, poteva vedere, almeno in parte, tutte le strade fino alla baia — Juniper Lane, Serra Street, Roshmore Way e Cypress Lane — e le loro trasversali. A nord, era in grado di sbirciare interi tratti di Ocean Avenue e delle zone adiacenti. Naturalmente, il suo campo visivo sarebbe risultato drasticamente ridotto se la casa non fosse stata di un piano più alta rispetto a tutte le altre e se non avesse posseduto un telescopio rifrangente da sessanta millimetri e un ottimo cannocchiale.
Lunedì 13 ottobre, alle nove e mezzo di sera, Harry era seduto sullo sgabello costruito appositamente per lui, tra le due immense finestre che guardavano a nord e a ovest, chino sul telescopio. Il seggiolino, molto alto, aveva braccioli e schienale, quattro robusti supporti molto estesi per assicurare il massimo equilibrio e una base rinforzata per evitare che si rovesciasse quando doveva issarsi dalla sedia a rotelle. Era inoltre dotato di una cintura di sicurezza come quelle delle automobili per permettergli di chinarsi in avanti senza scivolare e cadere sul pavimento. Avendo perso completamente l'uso del braccio e della gamba sinistri, essendo la gamba destra troppo debole per sostenere il suo peso e potendo contare solo sul braccio destro — che, grazie a Dio, i Vietcong avevano risparmiato — anche trasferirsi dalla carrozzina a motore all'apposito sgabello rappresentava per lui un'impresa estenuante. Tuttavia, valeva la pena di sottoporsi a quello sforzo perché, attraverso telescopio e cannocchiale, Harry Talbot viveva ogni anno più intensamente. Appollaiato sullo speciale sgabello, talvolta quasi si scordava della propria menomazione in quanto, in modo tutto particolare, partecipava alla vita. Il suo film preferito era La finestra sul cortile con Jimmy Stewart; lo aveva visto, probabilmente, un centinaio di volte. Al momento, il telescopio era puntato sul retro delle Pompe Funebri Callan nella parte orientale della Juniper Lane, la parallela a Conquistador. L'edificio si affacciava su un vicolo, e Harry poteva vedere il garage dove veniva parcheggiato il carro funebre, l'entrata posteriore e l'accesso alla nuova ala, dove i cadaveri venivano imbalsamati e preparati per l'esposizione, oppure cremati. Durante gli ultimi due mesi, aveva osservato strane cose da Callan; quella sera, però, nessuna attività insolita ravvivava la paziente veglia di Harry. «Moose?» Il cane si alzò dal proprio angolo e si diresse verso il padrone; era un grosso labrador nero, virtualmente invisibile nell'oscurità. Gli premette il muso contro la gamba: quella buona, dove esisteva ancora un po' di sensibilità. Chinandosi, Harry lo accarezzò. «Mi porti una birra, vecchio mio?» Moose era stato addestrato da un'associazione che si occupava dell'assistenza agl'invalidi ed era sempre felice di mostrarsi utile; si affrettò in direzione del piccolo frigorifero collocato in un angolo e dotato di apertura a pedale. «Là non c'è niente», disse il padrone. «Questo pomeriggio mi sono di-
menticato di portarne su qualche lattina dalla cucina.» Il cane lo aveva già scoperto e si stava avviando in corridoio, le zampe ticchettanti sul pavimento di legno levigato. Con un balzo, Moose premette il pulsante dell'ascensore servendosi di una zampa; immediatamente, il ronzio del macchinario riempì la casa. Harry rivolse la propria attenzione al retro delle Pompe Funebri Callan. La nebbia percorreva la città a ondate, alcune fitte e accecanti, altre più rade, ma le luci della camera mortuaria gli consentivano un'ottima visuale; se la serata fosse stata limpida, avrebbe potuto contare le viti sul portone metallico del crematoio. Alle sue spalle, le porte dell'ascensore si aprirono e udì il cane entrarvi. Annoiato, Harry spostò lentamente lo strumento verso sinistra, dapprima sul vasto lotto abbandonato adiacente alle pompe funebri, poi sulla casa dei Gosdale, in Juniper Lane, fermandosi sulla finestra del soggiorno. Dato che in quel momento la nebbia era particolarmente sottile, poteva osservare la stanza quasi come se stesse accucciato sulla veranda con il viso premuto contro il vetro. Herman e Louise Gosdale stavano giocando a carte con i vicini, Dan e Vera Kaiser, come tutti i lunedì e venerdì sera. L'ascensore raggiunse il pianterreno, il motore smise di ronzare e la casa tornò silenziosa; ora Moose si trovava due piani più in basso, diretto in cucina. Nelle notti straordinariamente terse, quando Dan Kaiser stava seduto con la schiena rivolta verso la finestra, Harry riusciva a distinguere la sua mano di carte. Qualche volta, era stato tentato di telefonare a Herman Gosdale per rivelargli il gioco dell'avversario e dargli consigli tattici. Tuttavia non osava far sapere alla gente che trascorreva la maggior parte del tempo in quella stanza — a luci spente, di notte, per evitare di stagliarsi contro la finestra — partecipando indirettamente alle loro vite. Nessuno avrebbe capito. Chi possedeva l'uso delle gambe era, sin dal principio, a disagio di fronte a un handicappato, quasi fosse convinto che una menomazione degli arti dovesse necessariamente estendersi al cervello. Lo avrebbero ritenuto un ficcanaso o, anche peggio, bollato come un guardone degenerato. E questo non era certo il suo caso: Harry Talbot si era prefisso rigide regole per l'uso del proprio telescopio e le rispettava fedelmente. Per esempio, non avrebbe mai cercato di sbirciare una donna svestita. Una volta aveva scoperto Amelia Scarlatti, la sua dirimpettaia, sdraiata sul letto della sua camera, intenta a leggere un libro, completamente nuda.
Aveva un corpo stupendo, tuttavia Harry, trafitto dalla sorpresa e sconvolto dall'imbarazzo e dal desiderio, aveva abbassato il telescopio. Benché da più di vent'anni non si accompagnasse con una donna, da quel giorno evitò di invadere l'intimità di Amelia, limitandosi a osservarla di mattina quando, in cucina, si preparava la colazione. In un certo qual modo, supponeva di essere innamorato di lei, come un ragazzine potrebbe amare un'insegnante assolutamente al di là della sua portata, ma non si servì mai di questo sentimento quale scusa per accarezzarle il corpo con lo sguardo. Allo stesso modo, se gli capitava di cogliere un vicino in una situazione imbarazzante, dirigeva altrove il proprio strumento. Li guardava litigare, questo sì, oppure ridere, mangiare, giocare a carte, barare sulla dieta, lavare i piatti, dedicarsi agli innumerevoli gesti della vita quotidiana, ma non perché intendeva scoprire le loro debolezze al fine di trovare un motivo per sentirsi superiore. Voleva soltanto far parte delle loro vite e renderli una specie di propria grande famiglia; desiderava possedere una ragione per averli a cuore e, di conseguenza, per sperimentare una vita emotiva più piena. Il motore dell'ascensore riprese a ronzare: evidentemente, Moose aveva preso la lattina di birra e stava venendo a portargliela. Harry Talbot era un uomo socievole e, una volta rientrato in patria dalla guerra con un solo arto funzionante, era stato consigliato di trasferirsi in una comunità di handicappati, dove avrebbe potuto trovare un'atmosfera amichevole e una vita sociale. Gli psicologi lo avevano avvertito che la vita in mezzo alla gente normale avrebbe potuto rivelarsi ben più difficile e lui avrebbe finito per ritrovarsi completamente solo. Harry, però, oltre che socievole, era anche ostinatamente indipendente e la prospettiva di abitare in una comunità, con l'unica compagnia di assistenti e altri andicappati, gli era sembrata peggiore della solitudine. Aveva quindi accettato di buon grado la sua tranquilla routine quotidiana, confortata dalla presenza di Moose e dalla visita settimanale della domestica. E perfino a lei continuava a tenere nascosta l'esistenza di telescopio e cannocchiale. La gran parte degli avvertimenti degli psicologi si era dimostrata fondata; tuttavia, nessuno aveva previsto la sua capacità di trovare conforto, e un minimo di calore, grazie all'osservazione, furtiva ma benevola, dei propri vicini. L'ascensore raggiunse il terzo piano e Moose entrò nella camera da letto, dirigendosi immediatamente allo sgabello del padrone. Il telescopio era collocato su una piattaforma a rotelle; Harry lo spinse da parte e si chinò ad accarezzare la testa del labrador, togliendogli dalla
bocca la lattina di Coors. Si mise la birra in grembo, prese una piccola torcia elettrica e indirizzò il fascio di luce sulla lattina per accertarsi che non si trattasse di Diet Coke. Il cane era stato addestrato a portare quelle due bevande e, nella maggior parte dei casi, riconosceva la differenza tra le parole «birra» e «Coca» ed era in grado di tenere a mente il comando per tutto il tragitto fino alla cucina. In rare occasioni, se ne scordava e ritornava con la bibita sbagliata. Ancora più raramente, gli consegnava oggetti che non avevano nulla a che fare con l'ordine impartitogli: una pantofola, un giornale, un sacchetto ancora chiuso di biscotti per cane. Una volta si era presentato con un uovo sodo, trasportato così delicatamente che il guscio era rimasto intatto fra i suoi denti. Quando portava la cosa sbagliata, Moose ritentava ancora e riusciva sempre al secondo tentativo. Harry aveva capito da tempo che, spesso, non si sbagliava affatto, ma si stava solo divertendo; lo stretto rapporto esistente fra loro lo aveva convinto che i cani erano dotati di senso dell'umorismo. Questa volta, Moose era arrivato con quanto gli era stato chiesto e il padrone lo lodò. «Sei proprio un bravo cane, un bravissimo cane.» L'animale uggiolò felice e si sedette attento ai piedi dello sgabello, in attesa di essere mandato a fare un'altra commissione. «Vai, Moose. Sdraiati e sta' buono.» Deluso, il labrador si accucciò in un angolo del pavimento, mentre il suo padrone strappava la linguetta della lattina e ingoiava una lunga sorsata. Poi, risistemato il telescopio, Harry tornò al proprio esame della notte, del vicinato e della sua grande famiglia. I Gosdale e i Kaiser stavano ancora giocando a carte. Alle Pompe Funebri Callan non si muoveva nulla, se non la nebbia. Un isolato più in giù, sulla Conquistador, Ray Chang, proprietario dell'unico negozio di elettronica e apparecchi televisivi, stava camminando nella sua direzione. Portava a passeggio Jack, un golden retriever che annusava ogni albero sul marciapiede in cerca del posto giusto per alzare la zampa. Harry si sentì lieto per la tranquillità e la familiarità di quelle scene, ma il suo umore mutò bruscamente quando spostò la propria attenzione sui Simpson. Ella e Denver Simpson abitavano in una casa in stile spagnolo dall'altra parte della strada, un poco più a nord, oltre il vecchio cimitero cattolico e nei pressi di Ocean Avenue. Aveva puntato l'obbiettivo sulla cucina illuminata e, non appena l'immagine fu messa a fuoco, vide Ella lot-
tare con il marito, che la stava addossando contro il frigorifero; lei si dibatteva nella sua stretta, gridando e graffiandogli il viso. La spina dorsale di Harry, devastata dallo shrapnel, fu percorsa da un brivido. Immediatamente capì che quanto stava accadendo in quella casa era collegato con altri fatti sconvolgenti di cui ultimamente era stato testimone. Denver era il responsabile dell'ufficio postale di Moonlight Cove, mentre Ella dirigeva il più rinnovato istituto di bellezza cittadino; entrambi appena oltre la trentina, risultavano felicemente sposati da qualche anno. La loro lotta era così insolita da dover necessariamente essere connessa ai recenti eventi, oscuri e inesplicabili. Ella si liberò dalla stretta di Denver, ma aveva mosso solo un passo quando lui le sferrò un pugno; il colpo si abbattè sulla nuca e la donna cadde a terra priva di sensi. Chino sullo sgabello, incollato al telescopio, Harry vide due uomini farsi avanti da un angolo della cucina al di fuori della sua visuale. Nonostante non indossassero l'uniforme, li riconobbe come agenti del locale corpo di polizia: Paul Hawthorne e Reese Dorn. La loro presenza gli fece ricollegare il fatto a una serie di analoghi episodi di cui era stato testimone nel corso delle ultime settimane. Non per la prima volta, desiderò di poter capire che cosa stesse succedendo in quella cittadina un tempo tanto tranquilla. Hawthorne e Dorn sollevarono la donna, che sembrava stare per riprendere conoscenza. Denver stava parlando, ma era impossibile indovinare con chi; il suo viso era contorto da una furia così intensa che Harry ne rimase raggelato. Un terzo individuo entrò nel campo visivo, dirigendosi alle finestre per chiudere le tende e, il veterano, riconobbe il dottor lan Fitzgerald, il più anziano fra i tre medici di Moonlight Cove. In attività da circa trent'anni e noto a tutti con il nomignolo di Doc Fitz, era il medico curante di Harry, un uomo normalmente affabile e pieno di premure, anche se in quel momento sembrava gelido come un iceberg. Per un attimo, Harry riuscì a fissarlo direttamente in viso distinguendo nei suoi tratti una sorta di durezza solitamente estranea a quell'uomo. Moose guaì in tono interrogativo. Dopo un attimo, una luce si accese nella stanza d'angolo al secondo piano e il veterano spostò immediatamente l'obbiettivo sulla finestra: la camera da letto della coppia. Nonostante la nebbia, vide i due agenti gettare il corpo di Ella sulla trapunta.
Denver e Doc Fitz entrarono dietro di loro. Mentre il secondo deponeva la valigetta di pelle sul comodino, Simpson tirò le tende della finestra sulla facciata, poi si avvicinò a quella d'angolo, sulla quale era puntato il telescopio. Per un istante, Denver fissò l'oscurità e Harry provò la sconcertante sensazione di essere osservato, nonostante i due isolati di distanza, come se quell'uomo possedesse la vista di Superman. Infine, questi accostò le tende lasciando uno spiraglio di qualche centimetro. Tremante, fradicio di sudore, il veterano armeggiò con gli obbiettivi, cercando di mettere bene a fuoco la piccola fessura. Hawthorne e Dorn stavano tenendo Ella inchiodata al letto. Lei si dibatteva, ma, trattenuta per le gambe e per le braccia, i suoi sforzi risultavano vani. Denver l'afferrò per il mento e le infilò in bocca un fazzoletto appallottolato, impedendole di urlare. Harry riuscì a intravvedere brevemente il viso della donna: aveva gli occhi sbarrati per il terrore. «Oh, merda.» Moose si alzò e gli andò vicino. A causa della terribile lotta, Ella aveva la gonna arrotolata attorno ai fianchi e le mutandine in vista, mentre la camicetta si era aperta sul petto. Ciononostante, la scena non suggeriva l'idea di uno stupro, neppure un accenno di tensione sessuale: qualsiasi cosa intendessero farle, era forse ancora più tremenda e certamente più strana. Doc Fitz si collocò ai piedi del letto, nascondendo agli occhi di Harry la donna e i suoi persecutori. Il medico reggeva un flacone di liquido ambrato, con cui stava riempiendo una siringa. Volevano praticarle un'iniezione. Ma di che cosa? E perché? 19 Dopo il colloquio con la madre, Tessa Lockland guardò un documentario alla televisione. Ad alta voce, criticò riprese, inquadrature, luci, tecnica di montaggio, copione e ogni altro aspetto della produzione, finché non si rese improvvisamente conto di sembrare una pazza che parlava da sola. Per prendersi in giro, cominciò a imitare i vari critici televisivi, commentando la trasmissione nello stile di ciascuno, il che le fece, se non altro,
tornare il buon umore. A ogni modo, per quanto scherzasse, stava ancora parlando da sola, e la cosa suonava troppo eccentrica persino per un'anticonformista come lei che aveva raggiunto l'età di trentatré anni senza mai dover venire a patti con una normale routine d'ufficio. Il sopralluogo sulla scena del «suicidio» della sorella l'aveva resa nervosa e, in effetti, stava semplicemente cercando uno sfogo dopo quel triste pellegrinaggio. Spense il televisore e prese un contenitore per il ghiaccio; lasciando aperta la porta e, con qualche monetina in mano, si diresse alle macchine distributrici del secondo piano. Tessa aveva sempre considerato un motivo d'orgoglio l'essere riuscita a evitare la routine di un impiego dipendente; un orgoglio assurdo, a ben vedere, dato che spesso lavorava dodici o quattordici ore al giorno invece di otto e, nei suoi stessi confronti, era un padrone ben più duro della norma. Anche i suoi guadagni non costituivano un gran vanto: aveva goduto di qualche anno proficuo in cui sembrava che i soldi non smettessero mai di arrivare, ma erano stati assai più numerosi i periodi in cui le sue entrate erano ai limiti della sussistenza. Facendo una media dei propri guadagni nei dodici anni trascorsi da quando si era diplomata alla scuola di cinematografia, aveva calcolato che gli incassi annuali si aggiravano sui ventunmila dollari, anche se questa cifra si sarebbe ben presto ridotta drasticamente se non le si fosse nuovamente presentato un periodo fortunato. Nonostante non fosse ricca, e la sua collocazione come libera professionista non le offrisse reali garanzie, si sentiva una persona di successo, non tanto perché il suo lavoro era stato, generalmente, bene accolto dai critici e neppure perché era dotata della propensione all'ottimismo tipica dei Lockland. Si sentiva realizzata in quanto, da sempre ostile all'autorità, aveva trovato nel proprio lavoro un modo per essere padrona del proprio destino. Al termine del lungo corridoio, spinse una pesante porta antincendio ed entrò sul pianerottolo dove erano situate le macchine distributrici di ghiaccio e di bevande. Quest'ultima, ben rifornita di Coca-Cola, aranciata e 7 Up, stava ronzando sommessamente, ma la ghiacciaia era rotta e completamente vuota: avrebbe dovuto riempire il secchiello al pianterreno. Cominciò a scendere le scale, i suoi passi riecheggianti lungo le pareti di cemento; il suono era così sordo e freddo che le parve di trovarsi in un'immensa piramide o in qualche altra struttura antichissima, del tutto sola a parte la compagnia di spiriti invisibili. Ai piedi delle scale trovò un cartello indicante che le distribuzioni del piano terra si trovavano sull'angolo nord del motel. Quando finalmente
fosse riuscita a conquistarsi ghiaccio e Coca, avrebbe consumato abbastanza calorie da meritarsi una bibita piena di zuccheri. Proprio nel momento in cui afferrò la maniglia della porta che conduceva nel corridoio, le sembrò di udire aprirsi la porta in cima alle scale. In questo caso, si trattava del primo indizio che non era l'unica ospite del Cove Lodge. L'albergo emanava un'atmosfera di abbandono. Entrò nel corridoio e scoprì che anche il piano inferiore era rivestito con la medesima, orrenda moquette color arancione violento. Avrebbe preferito essere una documentarista di maggior successo, se non altro perché avrebbe potuto permettersi un alloggio che non offendesse gli occhi. Del resto, quello era l'unico motel di Moonlight Cove, quindi neppure la ricchezza l'avrebbe salvata da quel colore accecante. Raggiunse le scale sul lato nord e la vista dei muri e dei gradini in cemento grigio le procurò finalmente una sensazione di riposo. Il distributore di ghiaccio sembrava funzionare. Aprì il contenitore e vi immerse il secchiello, riempiendolo di cubetti. Mentre richiudeva il coperchio, udì aprirsi la porta in cima alle scale, con un debole ma prolungato cigolio di cardini. Si accinse a prendere la Coca-Cola, aspettandosi che qualcuno scendesse dal piano superiore; soltanto quando fece scivolare la monetina nella fessura si accorse che c'era qualcosa di furtivo nel modo in cui il battente si era aperto: un lungo, lento scricchiolio, come se qualcuno sapesse che i cardini erano poco oliati e tentasse di minimizzare il rumore. Con un dito sul pulsante di selezione, Tessa esitò, in ascolto. Niente. Solo il freddo silenzio del cemento. Provò esattamente la medesima sensazione sperimentata poco tempo prima sulla spiaggia, quando aveva udito quel grido strano e distante: adesso, come allora, si sentì assalire dal panico. Aveva l'assurda impressione che qualcuno fosse sul pianerottolo soprastante, tenendo ferma la porta antincendio in attesa che lei premesse il pulsante, in modo che il cigolio dei cardini venisse coperto dal tonfo della lattina nella nicchia. Molte donne, consce della necessità di essere dure in un mondo duro, si sarebbero sentite in imbarazzo per una simile apprensività e avrebbero volutamente ignorato quella sensazione di disagio. Tessa, invece, si conosceva bene: non era portata agli isterismi e alla paranoia, quindi non si chiese neppure per un attimo se la morte di Janice non l'avesse resa iper-
sensibile né attribuì quel brivido a un eccesso d'immaginazione. Attorno a lei si aprivano tre porte: la prima, a sud, era quella da cui era arrivata e che l'avrebbe riportata sul corridoio del pianterreno; la seconda, sulla parete ovest, consentiva l'accesso al retro del fabbricato, dove evidentemente esisteva un passaggio di servizio tra il motel e il pendio a picco sul mare; la terza, a est, conduceva al parcheggio sull'ingresso. Invece di premere il pulsante, abbandonato il secchiello del ghiaccio, si avviò rapidamente e in silenzio verso la prima delle tre. Percepì un movimento all'altra estremità del corridoio: qualcuno si nascose dietro la porta antincendio del pianterreno. Tessa non fu in grado di vederlo bene; scorse soltanto una forma indistinta perché il personaggio misterioso non si era spinto sulla moquette arancione, ma era rimasto in ombra sulla soglia del corridoio, riuscendo così a svanire nello spazio di un secondo. La porta si richiuse alle sue spalle. Dunque, perlomeno due uomini, la ragazza presumeva che non fossero donne, le stavano dando la caccia. Al piano superiore, i cardini poco oliati produssero nuovamente un rumore a malapena udibile: evidentemente, l'altro si era stancato di attendere. A questo punto non poteva inoltrarsi nel corridoio perché sarebbe rimasta intrappolata fra i due. Benché potesse urlare nella speranza di richiamare altri ospiti e di spaventare i suoi inseguitori, esitò nel timore che il motel fosse effettivamente deserto come sembrava. Le sue grida sarebbero forse rimaste inascoltate, mentre certamente avrebbero fatto capire agli uomini di essere stati scoperti, rendendo superflua ogni loro cautela. Qualcuno stava furtivamente scendendo le scale sopra di lei. Tessa si girò, aprì la porta sulla parete est e corse fuori, verso il parcheggio che si affacciava su Cypress Lane. Ansimando, oltrepassò l'ingresso del motel e si precipitò verso gli uffici della direzione. L'ufficio era ancora aperto, la sua soglia immersa in un alone nebbioso di neon rosa e giallo, e l'uomo dietro il banco era lo stesso che l'aveva registrata qualche ora prima. Sulla cinquantina, alto e un po' sovrappeso, in pantaloni di tela e camicia di flanella scozzese, questi depose la rivista, abbassò il volume della radio e si alzò, accigliandosi mentre lei, senza fiato, gli raccontava l'accaduto. «Beh, questa non è una metropoli, signora», le rispose infine. «Moonlight Cove è un luogo pacifico. Qui non deve preoccuparsi di cose del ge-
nere.» «Eppure è successo», insistette lei, guardando nervosamente la nebbia che si addensava all'esterno. «Oh, sono certo che abbia visto e sentito qualcuno, ma ha interpretato male l'accaduto. In effetti, abbiamo un altro paio di ospiti, e li avrà uditi mentre si prendevano una Coca-Cola e del ghiaccio, proprio come lei.» Quando sorrideva, l'uomo assumeva un aspetto amichevole e rassicurante. «Questo posto può mettere un po' a disagio, quando ci sono pochi clienti.» «Ascolti, signor...» «Quinn. Gordon Quinn.» «Signor Quinn, le cose non sono andate per niente così.» Tessa si sentì la classica donnicciola isterica, benché sapesse benissimo di non esserlo affatto. «Non ho confuso due ospiti innocenti per scippatori o violentatori. Non sono una pazza. Quei tizi non avevano in mente nulla di buono.» «Beh, d'accordo. Sono convinto che lei si sbagli, ma andiamo comunque a dare un'occhiata.» L'uomo uscì dal banco e si incamminò verso l'uscita. «Ha intenzione di andare così?» «Così come?» «Disarmato.» Quinn sorrise, facendola nuovamente sentire una stupida. «Signora», le spiegò, «in venticinque anni di direzione del motel, non mi sono ancora imbattuto in un cliente che non fossi in grado di affrontare.» Nonostante quel tono paternalistico la irritasse, Tessa preferì non discutere e seguirlo in mezzo alla nebbia fino all'estremità del fabbricato. Lui era grande e grosso, e la ragazza, così minuta, si sentì in un certo qual modo come una bambina scortata nella propria stanza da un padre deciso a dimostrarle che nessun mostro stava nascosto sotto il letto o nell'armadio. Quinn aprì la porta di metallo dalla quale lei era fuggita poco prima ed entrambi entrarono nell'edificio. Non un'anima viva. Il distributore di bibite ronzava sommessamente e il secchiello di plastica pieno di cubetti era ancora sul coperchio della ghiacciaia. L'uomo si affacciò sul corridoio del pianterreno. «Qui non c'è nessuno», dichiarò, indicandole con un cenno del capo il passaggio deserto. Aprì anche la porta sulla parete ovest e guardò fuori, a sinistra e a destra, poi la invitò sulla soglia, insistendo affinchè lei guardasse a propria volta. Tessa vide uno stretto vìcolo di servizio protetto da una ringhiera, che correva parallelo al retro del motel e si affacciava sul promontorio, illuminato a entrambe le estremità. Deserto.
«Ha detto di avere già inserito la monetina nella macchina senza ritirare la sua bibita?» Chiese Quinn, richiudendo il battente. «Sì, infatti.» «Cosa voleva?» «Beh, una Diet Coke.» Lui spinse il pulsante corrispondente e le consegnò la lattina, quindi indicò il secchiello di plastica. «Non dimentichi il ghiaccio.» Rossa in viso e piena di rabbia, Tessa lo seguì su per le scale: nessuno. Al piano superiore, i cardini della porta cigolarono al loro ingresso sul corridoio vuoto. La porta della sua stanza era aperta come l'aveva lasciata, ma lei esitava a entrare. «Controlliamo anche qui», suggerì Quinn. La camera, l'armadio e il bagno non erano stati toccati. «Si sente meglio, ora?» «Non mi sono immaginata tutto quando.» «Ne sono certo», rispose lui, sempre trattandola con condiscendenza. Mentre l'uomo si avviava verso il corridoio, Tessa insistette: «C'era qualcuno, e in carne e ossa, ma suppongo che adesso se ne siano andati. Probabilmente sono fuggiti accorgendosi che li avevo scoperti ed ero corsa in cerca d'aiuto». «Beh, in questo caso tutto è finito bene. Lei è al sicuro. Se se ne sono andati, è quasi come se non fossero mai esistiti.» La ragazza dovette far ricorso a tutto il proprio autocontrollo per evitare di dire ben più di un semplice «Grazie» prima di chiudere la porta. Il battente disponeva di due chiavistelli e di una catenella di sicurezza, e Tessa usò tutti e tre. Si diresse quindi alla finestra e la esaminò per accertarsi che non potesse essere aperta facilmente da un possibile intruso; in effetti, l'anta sembrava non forzabile dall'esterno. Per qualche ora rimase seduta sul letto, ascoltando i distanti rumori nel motel: ormai anche il più piccolo suono le sembrava anomalo e minaccioso. Si chiese quale legame, ammesso che ne esistesse uno, collegasse la propria sconcertante esperienza con la morte di Janice, avvenuta più di tre settimane prima. 20
Dopo un paio d'ore nel canale di scarico, Chrissie Foster fu assalita dalla claustrofobia. Era rimasta rinchiusa nella dispensa (di dimensioni assai ridotte rispetto al tunnel) ben più a lungo, eppure quella cavità di cemento buia come una tomba le sembrava di gran lunga peggiore. Forse aveva iniziato a sentirsi ingabbiata e soffocata a causa dell'effetto cumulativo derivante dall'aver trascorso l'intera giornata, e la maggior parte della sera, in luoghi ristretti. Dalla sovrastante superstrada, dove aveva origine il sistema di scarico, il ruggito dei camion echeggiava lungo i tunnel, facendole scaturire nella mente immagini di draghi ringhianti. Per eliminare il rumore, si mise le mani sugli orecchi. Talvolta i passaggi dei camion erano abbastanza intervallati, ma occasionalmente, sopraggiungevano in convogli di sei, otto, o addirittura dodici, e il fragore continuo diventava opprimente ai limiti della follia. Forse, però, il suo desiderio di uscire dal tunnel aveva qualcosa a che spartire con il fatto di trovarsi sottoterra. Sdraiata al buio, e tendendo l'orecchio a ogni fortuita pausa di silenzio in previsione di un eventuale ritorno dei genitori e di Tucker, Chrissie cominciò a sentirsi in una bara di cemento, vittima di una sepoltura anzitempo. Leggendo ad alta voce il libro immaginario delle proprie avventure, declamò: «La giovane Chrissie ignorava che il condotto stava per crollare e riempirsi di terra, schiacciandola come un insetto e intrappolandola per sempre». Sapeva di dover rimanere dov'era: loro avrebbero potuto trovarsi sul prato e nel bosco ancora intenti a cercarla. Era senz'altro più al sicuro lì dentro che non all'esterno. Tuttavia, possedeva il dubbio privilegio di un'immaginazione fervida. Benché fosse sicuramente l'unica occupante del passaggio in cui stava sdraiata, si figurava indesiderate compagnie sotto infinite e ripugnanti forme: serpenti viscidi, ragni a centinaia, scarafaggi, topi, colonie di pipistrelli succhiatori di sangue. In seguito, cominciò a chiedersi se, in anni precedenti, un bambino si fosse per caso infilato in un tunnel giocando per poi perdersi fra le ramificazioni dei canali e morire senza essere mai ritrovato. Naturalmente, la sua anima non aveva avuto pace ed era rimasta legata alla terra perché non si era svolto un adeguato servizio funebre che aveva liberato il suo spirito. Magari, proprio in quel momento, lo spettro, avvertendo la sua presenza, stava animando le orrende spoglie scheletriche, trascinando verso di lei il cadavere decomposto e mummificato dagli anni,
perdendo, lungo il percorso, brandelli di carne incartapecorita. A undici anni, Chrissie era già piuttosto matura e si disse ripetutamente che i fantasmi non esistevano, ma poi pensò ai propri genitori e a Tucker, che sembravano appartenere a qualche specie di lupo mannaro, santo Cielo, e smise di coprirsi gli orecchi al passaggio dei camion per paura che il bambino morto si servisse del frastuono come copertura per strisciare sempre più vicino. Doveva uscire di lì. 21 Quando lasciò il garage dove aveva trovato rifugio dal gruppo di delinquenti drogati, Sam Booker puntò direttamente su Ocean Avenue e si fermò alla Knight's Bridge Tavern il tempo necessario per comprare sei lattine di Guinnes Stout da portare in albergo. Più tardi, nella propria camera al Cove Lodge, sedette al tavolino bevendo birra mentre meditava sui vari aspetti del caso. Il 5 settembre, tre attivisti del sindacato nazionale degli agricoltori — Julio Bustamante, la sorella Maria e il fidanzato di quest'ultima, Ramon Sanchez — sulla via di ritorno da un sopralluogo a certi vigneti avevano deciso di fermarsi a Moonlight Cove. Avevano cenato al ristorante dei Perez, eccedendo nei margarita, secondo la successiva versione di alcuni clienti del locale. Mentre s'immettevano nuovamente sulla statale, a bordo del loro camioncino Chevrolet, avevano imboccato una curva pericolosa a velocità eccessiva e il furgone si era capovolto, prendendo fuoco: nessuno dei tre era sopravvissuto. La storia avrebbe potuto reggere senza mai coinvolgere l'FBI nel caso se non si fossero notate alcune discrepanze. Tanto per cominciare, secondo il rapporto ufficiale della polizia di Moonlight Cove, Julio Bustamante era alla guida del mezzo. Ma questi non aveva mai guidato un'auto in vita sua e, inoltre, era assai improbabile che fosse in grado di farlo dopo il tramonto, visto che soffriva di una forma di cecità notturna. Come se non bastasse, secondo i testimoni citati dalla polizia, tutti e tre erano ubriachi, ma nessun conoscente di Julio e Ramon li aveva mai visti alticci; Maria, poi, era astemia da sempre. Le famiglie Sanchez e Bustamante, di San Francisco, erano inoltre rimaste insospettite per il comportamento delle autorità di Moonlight Cove: nessuno, infatti, fu avvisato delle tre morti fino al 10 settembre, cinque giorni dopo l'incidente. Il capo della polizia Loman Watkins aveva spiega-
to che i documenti dei defunti erano stati completamente distrutti nel rogo e che i loro corpi, devastati dal fuoco, avevano reso impossibile una rapida identificazione tramite le impronte digitali. E la targa del furgone? Stranamente, Watkins non l'aveva trovata, né sul veicolo né in prossimità del disastro. Di conseguenza, con tre corpi carbonizzati per le mani e nessun modo di mettersi in contatto con i famigliari, aveva autorizzato il medico legale, dottor lan Fitzgerald, a stendere i certificati di morte e a cremare i cadaveri. «Non disponiamo delle attrezzature degli obitori di una grande metropoli, voi capite», aveva spiegato il capo della polizia. «Non ci è possibile conservare i cadaveri a lungo e non avevamo modo di sapere quanto tempo ci sarebbe voluto per identificare quella gente. Abbiamo supposto che fossero degli immigrati clandestini, nel qual caso rischiavamo di non venire mai a conoscenza dei loro nomi.» Pulito, si disse tetro Sam, adagiandosi contro lo schienale della sedia e concedendosi un lungo sorso di Guinness. Tre persone erano morte di morte violenta, erano state dichiarate vittime di un incidente e cremate prima che i parenti venissero avvertiti, prima che potesse intervenire qualunque altra autorità per procedere a verifiche basate sulle moderne tecniche di medicina legale circa la veridicità dei certificati di morte e del rapporto della polizia locale. I Bustamante e i Sanchez sospettarono un imbroglio, ma il sindacato degli agricoltori ne ebbe la certezza. Il 12 settembre, il massimo dirigente dell'organizzazione chiese l'intervento del Federai Bureau òf Investigation sulla base della convinzione che forze antisindacali fossero responsabili dei tre decessi. Il 26 settembre, dopo i consueti, anche se inspiegabili, ritardi legati alla burocrazia governativa, una squadra di sei agenti dell'FBI — inclusi tre membri della Divisione Scientifica — si trasferì nella pittoresca Moonlight Cove per dieci giorni. Interrogarono gli agenti di polizia, esaminarono i fascicoli inerenti il caso, ascoltarono le dichiarazioni dei testimoni che si trovavano nel ristorante dei Perez la sera del 5 settembre, ispezionarono i resti del furgone Chevrolet nel deposito di rottami e cercarono qualsiasi minima prova potesse essere rimasta sul luogo dell'incidente. Dato che a Moonlight Cove non esisteva industria agricola, non furono in grado di rintracciare una singola persona interessata alle questioni sindacali relative e, men che meno, spinta al rancore; questo li lasciò a corto d'indiziati in possesso di validi motivi per uccidere tre attivisti. Per tutta la durata dell'inchiesta, ricevettero la piena e cordiale collabo-
razione del corpo di polizia e del medico legale. Loman Watkins e i suoi uomini arrivarono al punto di sottoporsi volontariamente alla macchina della verità e, tutti, superarono l'esame senza neppure un accenno di menzogna. Anche il medico legale accettò il test e si dimostrò un uomo di specchiata onestà. Ciononostante, qualcosa non quadrava. Gli agenti del luogo erano quasi troppo ansiosi di collaborare. Inoltre, tutti i sei uomini dell'FBI giunsero a sentirsi oggetto di beffa e derisione alle loro spalle, benché non avessero mai colto un sopracciglio alzato, una smorfia o un'occhiata significativa fra i poliziotti. Chiamiamolo pure «istinto federale», che Sam riteneva affidabile quanto quello di un animale selvatico. Bisognava poi prendere in considerazione le altre morti. Mentre investigavano sul caso Sanchez-Bustamante, gli agenti avevano studiato i fascicoli della polizia e del medico legale relativi alle morti violente verificatesi nell'ultimo paio d'anni, allo scopo di controllare se le autorità locali si erano comportate diversamente dal solito in occasione del recente episodio, denunciando così una possibile complicità in una copertura. Ciò che scoprirono era inquietante, ma del tutto diverso da quanto si erano aspettati. Fatta eccezione per uno spettacolare incidente automobilistico causato da un adolescente al volante di una Dodge esageratamente potenziata, Moonlight Cove era stata un luogo straordinariamente tranquillo. Nell'arco di tempo esaminato, i suoi abitanti erano rimasti esenti da circostanze di morte violenta — perlomeno fino a otto giorni prima del decesso di Sanchez e dei Bustamante, quando, negli archivi della polizia, cominciava ad apparire un'insolita serie di episodi funesti. All'alba del 28 agosto infatti, l'intera famiglia Mayser — Melinda, John e i loro due bambini, Carrie e Billy — era perita nell'incendio che aveva devastato la loro casa. I cadaveri erano stati danneggiati dal fuoco al punto che l'identificazione fu resa possibile solo tramite le impronte dentali. Terminata la prima bottiglia di Guinness, Sam esitò prima di passare alla seconda: quella sera doveva lavorare. Talvolta, quando il suo morale era particolarmente basso, Sam cominciava a bere, e non riusciva a smettere finché non si era ridotto alla semincoscienza. Tenendo stretta la bottiglia vuota per ricavarne conforto, si chiese perché nessuno della famiglia si fosse accorto del fumo prima ancora delle fiamme. E che genere d'incendio, se non uno alimentato dalla benzina o da un'altra sostanza volatile (della cui presenza non esisteva traccia nel rappor-
to ufficiale), si sarebbe diffuso tanto rapidamente da non lasciare scampo a un'intera famiglia e da ridurre la casa e i corpi a un mucchietto di cenere prima ancora che arrivassero i pompieri? Anche questa volta, tutto era stato giustificato alla perfezione. I cadaveri erano carbonizzati al punto da rendere le autopsie praticamente impossibili. Inoltre, dietro suggerimento del proprietario delle Pompe Funebri (e assistente medico legale, quindi potenziale sospetto in caso di una copertura ufficiale), la madre di Melinda Mayser aveva autorizzato la cremazione dei resti, eliminando così anche la più piccola prova. «Che capolavoro di pulizia», disse Sam ad alta voce. «Che splendido esempio di chiarezza, senza neppure una grinza.» Numero delle vittime: quattro. Poi, il 5 settembre, i Bustamante e Sanchez. Un altro incendio seguito da immediate cremazioni. Numero delle vittime: sette. Il 7 settembre, quando nell'aria di Moonlight Cove dovevano probabilmente ancora aleggiare i vapori residui dei corpi dei tre sindacalisti, Jim Armes, residente in città da vent'anni, era salpato con la sua barca, la Mary Leandra, per un giro di navigazione mattutino: non fece più ritorno. Nonostante fosse un esperto marinaio, nonostante la splendida giornata e il mare calmo, a quanto pareva, era stato risucchiato da una marea diretta al largo, visto che nessun relitto identificabile era mai apparso sulla spiaggia locale. Numero delle vittime: otto. Il 9 settembre, mentre i pesci stavano mangiucchiando il cadavere di Armes, Paula Parkins era stata fatta a pezzi da cinque dobermann. La donna, una ventinovenne, viveva da sola e si dedicava all'allevamento e all'addestramento di cani da guardia, su un terreno ai margini della città. Evidentemente, uno dei suoi dobermann l'aveva attaccata e gli altri, resi frenetici dall'odore del sangue, si erano uniti al primo. Il cadavere mutilato e irriconoscibile di Paula era stato inviato in una bara sigillata alla famiglia, a Denver, mentre i cani erano stati abbattuti, sottoposti ad accertamenti nell'ipotesi di rabbia e infine cremati. Numero delle vittime: nove. Sei giorni dopo l'intervento sul caso Bustamante-Sanchez, il 2 ottobre, l'FBI aveva esumato il cadavere di Paula Parkins, verificando tramite l'autopsia che, in effetti, era stata morsa e graffiata a morte da numerosi animali. Ma c'era qualcosa relativo a quel rapporto che non convinceva Sam.
«Tuttavia», si leggeva in una parte del documento, «i segni dei morsi, le lacerazioni, le lesioni di ordine vario e gli specifici danni causati ai seni e agli organi sessuali non sembrano essere stati causati da un branco di cani inferociti. La posizione dei denti e le dimensioni dei morsi non corrispondono al profilo dentale di un dobermann o di altro animale conosciuto.» E, più oltre, con riferimento alla specifica natura degli assalitori della ragazza: Specie sconosciuta. Com'era veramente morta Paula Parkins? Quale terrore e sofferenza aveva sperimentato? Chi stava cercando di far ricadere la colpa sui cani? Quali prove avrebbero potuto fornire i corpi dei dobermann sulle circostanze della loro stessa morte e, di conseguenza, sull'attendibilità della versione della polizia? Sam pensò al grido, strano e distante, udito quella sera — una sorta di urlo di un coyote, che non era un coyote, misto a quello di un felino, che non era un felino. Riflette anche sulle voci frenetiche e inquietanti dei suoi inseguitori. In qualche modo, tutto quadrava. Istinto federale. Specie sconosciuta. Sconcertato, cercò di calmare i nervi con la Guinness: la bottiglia era sempre vuota. Sei giorni dopo la morte della Parkins e parecchio tempo prima dell'esumazione del suo cadavere a Denver, altre due persone incontrarono una fine prematura a Moonlight Cove. Steve Heinz e Laura Dalcoe, conviventi, furono trovati morti nella loro casa sulla Iceberry Way: l'uomo aveva lasciato un contraddittorio messaggio sulla macchina da scrivere, poi aveva sparato a Laura nel sonno e, infine, si era suicidato. Nel rapporto, il dottor lan Fitzgerald aveva sostenuto la tesi dell'omicidio-suicidio, chiudendo il caso. Dietro suo suggerimento, le famiglie dei due giovani avevano autorizzato la cremazione dei corpi martoriati. Numero delle vittime: undici. «In questa città si sta verificando un numero pazzesco di cremazioni», osservò Sam ad alta voce, rigirando la bottiglia vuota fra le mani. La maggior parte della gente preferiva ancora la sepoltura in una bara, a prescindere dalle condizioni del cadavere; in generale, le cremazioni venivano richieste in un caso su quattro o cinque al massimo. Infine, sempre durante l'investigazione, la squadra delPFBI aveva scoperto che il decesso di Janice Capshaw era stato registrato sotto la voce «suicidio per annegamento». Il suo corpo devastato dall'acqua era tornato a
riva due giorni dopo la scomparsa, ossia tre giorni prima dell'arrivo degli agenti incaricati dell'inchiesta sulla morte dei tre sindacalisti. Julio e Maria Bustamante, Ramon Sanchez, i quattro Mayser, Jim Armes, Paula Parkins, Steve Heinz, Laura Dalcoe, Janice Capshaw: dodici vittime in meno di un mese, ossia esattamente dodici volte il numero di morti violente verificatesi a Moonlight Cove nel corso dei precedenti ventitré mesi. Con una popolazione di sole tremila anime, dodici casi in poco più di tre settimane rappresentavano un numero spaventoso. Interrogato in merito alla sua personale reazione di fronte a questa stupefacente catena di eventi luttuosi, Loman Watkins aveva risposto: «Certo, è orribile e agghiacciante. Le cose sono rimaste tranquille così a lungo che, in termini statistici, suppongo ci si dovesse attendere che capitasse tutto in una volta». Ma in città così piccola, persino sparse nell'arco di due anni, dodici morti violente superavano di gran lunga le previsioni statistiche. I sei federali non erano stati in grado di trovare un briciolo di prova circa la complicità delle autorità locali in tutti questi casi. Del resto, benché la macchina della verità non fosse interamente affidabile, non era neppure tanto inattendibile da consentire che Watkins, e i suoi uomini, il medico legale e il suo assistente passassero tutti quanti l'esame senza un singolo indizio di menzogna se, in effetti, fossero stati colpevoli. Eppure... Dodici casi. Quattro carbonizzati nell'incendio di una casa e tre nel rogo di un furgone; un omicidio e due suicidi, uno per arma da fuoco e uno per annegamento; tutti successivamente cremati alle Pompe Funebri Callan. Un disperso in mare, il cadavere mai recuperato. L'unica vittima disponibile per un'autopsia sembrava non essere sbranata da dei cani, come sosteneva il rapporto del medico legale, anche se il suo corpo rivelava tracce di strani morsi e lacerazioni. Questi elementi, comunque, erano sufficienti a tenere aperto il fascicolo dell'FBI. Il 9 ottobre, a quattro giorni di distanza dalla partenza da Moonlight Cove della squadra dei federali, fu presa la decisione di inviare un agente in incognito per riesaminare alcuni aspetti del caso, senza dare nell'occhio. Il giorno successivo, 10 ottobre, all'ufficio di San Francisco arrivò una lettera il cui contenuto rafforzò la determinazione del Bureau di mantenere il proprio interessamento. Sam la ricordava a memoria:
Signori, sono in possesso di informazioni pertinenti alla recente serie di decessi verificatisi nella città di Moonlight Cove. Ho motivo di ritenere che le autorità locali siano coinvolte in una cospirazione per nascondere reati di omicidio. Preferirei essere contattato personalmente, dato che non mi fido delle linee telefoniche cittadine. Devo insistere sull'assoluta discrezione, perché sono un veterano del Vietnam handicappato e nutro, ovviamente, vive preoccupazioni sulla mia capacità di proteggere me stesso. Era firmata Harold G. Talbot. Gli archivi dell'esercito avevano confermato che costui era effettivamente un reduce fisicamente menomato, ripetutamente citato per il coraggio dimostrato in combattimento. L'indomani, Sam gli avrebbe discretamente fatto visita. Nel frattempo, considerato il lavoro che ancora lo attendeva, si chiese se fosse opportuno arrischiare una seconda bottiglia di birra dopo quella che aveva bevuto a cena. La confezione da sei stava sul tavolo, davanti ai suoi occhi, e lui la fissò a lungo. Guinness, buon cibo messicano, Goldie Hawn e paura della morte. Il cibo messicano l'aveva già gustato, ma il suo sapore era ormai svanito; Goldie Hawn viveva da qualche parte con Kurt Russelì, che aveva avuto il cattivo gusto di preferire a un agente federale di aspetto comune, pieno di cicatrici e abbandonato dalle speranze. Meditò allora sulle dodici persone morte, sui cadaveri bruciati nel crematoio, sull'omicidio e il suicidio per arma da fuoco, sui corpi martoriati dai pesci, sulla donna sbranata, e questi pensieri lo condussero a speculare morbosamente sul destino della carne. Ricordò la propria moglie, morta di tumore, Scott e la loro conversazione telefonica: a quel punto, aprì la seconda bottiglia. 22 Inseguita da schiere immaginarie di ragni, serpenti, scarafaggi, topi, pipistrelli e dal cadavere rianimato del bambino asfissiato nel tunnel, forse frutto della sua fantasia, Chrissie strisciò fuori dal condotto secondario dove aveva trovato rifugio, percorse il canale principale, mise nuovamente il piede nei resti decomposti del procione ed emerse nel fossato. L'aria era dolce e pulita. Nonostante le alte pareti laterali, la luna seminascosta dalla nebbia e l'assenza di stelle, la claustrofobia svanì e la bambina respirò a
pieni polmoni, cercando però di fare meno rumore possibile. Si mise in ascolto. In breve, udì quelle grida anomale che echeggiavano sommessamente dal bosco situato all'altra estremità del prato. Come prima, fu certa di percepire tre voci distinte. Se i suoi genitori e Tucker stavano cercandola nella foresta che confinava con il terreno della New Wave Microtechnology, lei avrebbe potuto tornare da dove era venuta, ripercorrendo la prima porzione boscosa, il prato dove Godiva l'aveva disarcionata e la strada statale che conduceva a Moonlight Cove, lasciando che loro ispezionassero il posto sbagliato. Di sicuro non poteva rimanere dove si trovava. E neppure incamminarsi proprio nella loro direzione. Risalì il fossato e corse verso nord, lungo il medesimo percorso imboccato qualche ora prima, elencando mentalmente le proprie sofferenze. Aveva fame ed era stanca, i muscoli della schiena e delle spalle erano intorpiditi per tutto il tempo passato nel tunnel di cemento gelido e le gambe le dolevano. E allora, qual è il problema? si chiese quando raggiunse i primi alberi. Preferiresti forse essere stata catturata da Tucker per venire «convertita» in una di loro? 23 Loman Watkins uscì dalla casa dei Valdoski, dove il dottor Worthy stava sovrintendendo alla conversione di Nella e George. In fondo alla strada, i suoi agenti e l'assistente medico legale stavano caricando il cadavere del bambino sul carro funebre; la folla di curiosi sembrava ipnotizzata dalla scena. Loman salì in macchina e accese il motore. Il piccolo videoterminale s'illuminò immediatamente di un verde tenue, mentre il computer, montato fra i sedili anteriori, cominciò a lampeggiare, indicando che il quartier generale aveva un messaggio per lui — del tipo che non era opportuno trasmettere alla radio. Benché da qualche anno lavorasse con i microcomputer mobili, talvolta rimaneva ancora sorpreso quando entrava in un'auto e vedeva attivarsi il terminale. Nell'ultimo decennio, nelle metropoli come Los Angeles, la maggior parte delle autopattuglie erano state equipaggiate con collegamenti computerizzati alla banca dati centrale della polizia, ma simili meraviglie elettroniche erano ancora rare nelle città più piccole e del tutto sconosciute
in giurisdizioni minuscole come Moonlight Cove. Il suo dipartimento vantava una tecnologia all'avanguardia non certo in virtù dei fondi municipali in eccesso, ma perché la New Wave — un'azienda leader nei sistemi mobili computerizzati, tra le altre cose — aveva attrezzato l'ufficio di polizia e le sue macchine con materiale modernissimo, che veniva continuamente aggiornato e che serviva alla ditta, come una specie di terreno di collaudo, per ogni miglioramento da introdurre nella propria serie di prodotti. Questo era uno dei molti modi in cui Thomas Shaddack si era insinuato nelle strutture portanti della comunità cittadina anche prima di aver raggiunto il controllo totale tramite il Progetto Falco Notturno. A quel tempo Loman era stato abbastanza stupido da ritenere che la generosità della New Wave fosse una benedizione. Ormai la pensava diversamente. Mediante il proprio terminale, egli poteva accedere al computer centrale del dipartimento di Jacobi Street, a un isolato da Ocean Avenue, per ottenere qualsiasi informazione contenuta nella banca dati o per «parlare» con l'operatore in servizio, che comunicava con lui via computer con la stessa facilità con cui trasmetteva via radio. Inoltre, era in grado di rimanere comodamente seduto in macchina e raggiungere elettronicamente il dipartimento della Motorizzazione di Sacramento per ricevere notizie su una targa; il dipartimento di Giustizia, nella medesima città, per chiedere ragguagli su un determinato criminale; oppure collegarsi con uno qualsiasi dei computer appartenenti alla rete nazionale di pubblica sicurezza. Servendosi della tastiera, digitò il proprio codice d'identità. L'epoca in cui le operazioni di raccolta dati richiedevano un grande dispendio di tempo ed energia, grazie al Cielo erano finiti. Ormai solo i poliziotti dei telefilm come Hunter erano costretti a correre a destra e a manca per verificare tutti i dettagli. Con il passare degli anni, si disse Loman, il piedipiatti avrebbe rischiato di diventare un «sedere piatto», con il deretano parcheggiato per ore di fronte a un terminale mobile o sistemato sulla scrivania al quartier generale. Il computer accettò il suo codice. Il terminale smise di lampeggiare. Naturalmente, se l'intera popolazione mondiale fosse entrata a far parte della Nuova Gente, e se il problema dei regressivi fosse stato risolto, non sarebbe più esistito il crimine e i poliziotti sarebbero divenuti inutili. Nel nuovo mondo infatti — perlomeno secondo quanto diceva Shaddack — tutti gli uomini sarebbero stati uguali, come una macchina è identica all'altra, con i medesimi obiettivi e aspirazioni, senza competitivita o esigenze
conflittuali. Talvolta Loman si domandava quale fosse il ruolo del libero arbitrio in questo disegno. Forse non era previsto. In alcune occasioni non gliene importava nulla, in altre la propria incapacità di provare interesse, beh, lo spaventava a morte. Sullo schermo cominciarono ad apparire le parole, l'una dopo l'altra, in lettere verde chiaro sullo sfondo scuro: Per: Loman Watkins Da: Shaddack Jack Tucker non ha fatto rapporto dalla casa dei Foster. Nessuno risponde al telefono. È urgente chiarire la situazione. Attendo tuo resoconto. Shaddack aveva accesso diretto al computer della polizia dalla propria casa all'estremità nord della baia; poteva lasciare messaggi per Watkins o qualsiasi altro agente senza che nessuno fosse in grado di richiamarli sul terminale se non il destinatario. Le lettere scomparvero dallo schermo. Loman tolse il freno a mano, mise in marcia e partì per la proprietà dei Foster, nonostante essa si trovasse al di fuori dei confini cittadini, quindi delle sue competenze. Non si curava più di dettagli come i limiti giurisdizionali e le procedure di legge: era ancora un poliziotto solo perché doveva sostenere quel ruolo fino al momento in cui tutta Moonlight Cove fosse stata sottoposta al Cambiamento. Nessuna delle vecchie regole poteva più essergli applicata, dato che era un Nuovo Uomo. Soltanto qualche mese prima, una simile mancanza di rispetto per la legge lo avrebbe sconvolto ma, ormai, la sua arroganza e il suo disprezzo per le regole della Vecchia Società non lo turbavano minimamente. Sostanzialmente, nulla lo turbava più. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, diventava sempre meno emotivo. Fatta eccezione per la paura, che faceva ancora parte del suo nuovo, elevato stato di coscienza perché si trattava di un meccanismo di sopravvivenza, utile a differenza di amore, affetto, speranza e gioia. In effetti, proprio in quel momento aveva paura. Paura dei regressivi. Paura che il Progetto Falco Notturno venisse in qualche modo svelato al mondo esterno e distrutto — e lui con esso. Paura del suo unico padrone, Shaddack. Talvolta, fuggevolmente, aveva anche paura di se stesso e del nuovo mondo che sarebbe nato.
24 Moose sonnecchiava in un angolo della camera da letto, abbaiando sommessamente nel sonno, forse sognando di cacciare conigli. Assicurato allo sgabello di fronte alla finestra, Harry si chinò sul telescopio e studiò il retro delle Pompe Funebri Callan, dove il carro funebre era appena giunto alla porta di servizio. Osservò Victor Callan e il suo assistente Ned Ryedock mentre si servivano di una barella per trasportare un corpo dalla Cadillac nera all'ala destinata alla cremazione. Racchiuso in un sacco di plastica mezzo vuoto, il cadavere era così piccolo da dover per forza appartenere a un bambino. I due si chiusero la porta alle spalle e il veterano non vide più nulla. Talvolta lasciavano le persiane aperte e, dalla propria posizione sopraelevata, Harry era in grado di sbirciare nella stanza e mettere a fuoco il tavolo inclinato dove i morti venivano imbalsamati e preparati per la veglia funebre. In quelle occasioni, vedeva molto più di quanto avrebbe voluto, ma, quella sera, le persiane erano rigorosamente chiuse. Gradualmente, spostò il campo visivo verso sud, lungo il vicolo invaso dalla nebbia che si snodava tra Conquistador e Juniper. Non stava cercando nulla di particolare, solo ispezionando lentamente, quando scorse due figure grottesche: rapide e furtive, si stavano dirigendo verso il vasto appezzamento abbandonato confinante con le pompe funebri. Non correvano a quattro zampe, ma neppure erette, anche se la loro posizione era più vicina alla prima che non alla seconda. Entità malefiche. Il cuore cominciò a battergli all'impazzata. Le aveva già viste prima, tre volte nel corso dell'ultimo mese, benché, in principio, non avesse creduto ai propri occhi. Erano così strane e misteriose, così difficili da catturare, che gli avevano dato l'impressione di essere soltanto frutto dell'immaginazione; per questo le aveva battezzate «Entità malefiche». Più veloci di un gatto, scomparvero dal suo campo visivo e svanirono nell'oscurità del lotto abbandonato prima che lui potesse riprendersi dalla sorpresa e seguirle con l'obbiettivo. Si mise a perlustrare il terreno a palmo a palmo, cercandole fra l'erba alta e i cespugli. Finalmente le trovò. Due forme rannicchiate, delle dimensioni di un uo-
mo, solo lievemente meno scure della notte, prive di fattezze. Stavano accovacciate l'una di fianco all'altra nel mezzo dell'appezzamento, a pochi passi dall'immenso abete che con i suoi rami dava ombra a buona parte del terreno. Tremando, Harry aggiustò il fuoco. Le Entità malefiche acquisirono contorni più netti, per quanto fosse ancora impossibile distinguerle in dettaglio a causa dell'oscurità e della nebbia. Si trovò improvvisamente a desiderare di possedere un Tele Tron, ovvero uno di quei potentissimi dispositivi per la visione notturna in grado di servirsi di qualunque fonte luminosa disponibile — luna, stelle, anche una debolissima illuminazione elettrica, le esigue irradiazione naturali di certi minerali rocciosi — e di amplificarla ottantacinquemila volte. Con quella singola apparecchiatura, un impenetrabile panorama notturno si trasformava in un crepuscolo o, addirittura, nel grigiore di un tardo pomeriggio. Le creature spettrali guardarono verso Juniper Lane, poi in direzione dei due edifici che fiancheggiavano quello spazio vacante, le pompe funebri e una villetta. Le loro teste si girarono con un movimento rapido e fluido che ricordava quello dei gatti, benché senz'altro non fossero felini. Uno dei due volse lo sguardo di lato e, grazie al potente obbiettivo, Harry distinse gli occhi della cosa — dorati e lievemente luminosi. Quello spettacolo lo fece rabbrividire, non tanto per l'aspetto del tutto innaturale, quanto perché gli rammentò qualcosa di vagamente familiare, facendogli riaffiorare ricordi seppelliti da anni. Di colpo si sentì gelato fino al midollo e sopraffatto da un terrore di un'intensità mai più sperimentata dai tempi del Vietnam. Per quanto sonnecchiasse, Moose si manteneva in sintonia con gli umori del padrone. All'improvviso si alzò, avvicinandosi allo sgabello ed emettendo un basso uggiolio interrogativo. In quel momento, Harry ebbe una fugace visione del viso da incubo di una delle Entità malefiche. Fu questione di un attimo, due secondi al massimo. Ciononostante, lui rimase trafitto, sconvolto, agghiacciato. Moose abbaiò incerto. Per un istante, incapace di staccarsi dallo strumento come se da esso dipendesse la propria vita, il veterano fissò una fisionomia scimmiesca, anche se più scarna, repellente, feroce e infinitamente più strana di quella di un primate. Il suo aspetto ricordava, nel contempo, anche i tratti del lupo e
sembrava possedere addirittura alcune caratteristiche dei rettili. Gli parve di scorgere le mascelle spalancate e lo scintillio di denti straordinariamente acuminati, ma la luce era scarsa e non fu in grado di stabilire quanto di ciò che stava osservando fosse un gioco d'ombre o una distorsione dovuta alla nebbia. Parte di questa visione da incubo doveva essere opera della sua febbrile immaginazione: un uomo con le gambe inservibili e un braccio inerte era costretto a possedere una fervida immaginazione, se voleva far fronte alla vita. Improvvisamente, le due creature si mossero all'unisono con la velocità e l'agilità tipiche degli animali, sorprendendo Harry, che si affanno a seguirli con l'obbiettivo. Essi volarono letteralmente lungo il lotto abbandonato, scomparendo al di là di una staccionata nel cortile posteriore della casa dei Claymore; erano così rapidi che fu impossibile mantenerli entro il campo visivo. Continuò a cercarli fino ai cancelli della scuola Roshmore, ma trovò solo notte, nebbia e gli edifici ormai familiari del proprio quartiere; le figure da incubo erano svanite con la medesima rapidità con cui scomparivano dalla camera da letto di un bambino quando venivano accese le luci. Infine sollevò il capo e si appoggiò allo schienale. Immediatamente, Moose mise le zampe anteriori sul bracciolo in cerca di coccole, come se avesse visto attraverso gli occhi del padrone e desiderasse essere rassicurato che nessuno spirito maligno si trovasse in libertà nel mondo esterno. Con la mano buona, che in principio tremava violentemente, Harry accarezzò la testa del Labrador. Se l'FBI avesse infine risposto alla lettera da lui inviata più di una settimana prima, non sapeva se avrebbe fatto cenno alle Entità malefiche. Avrebbe certamente parlato di tutto ciò che aveva visto, e molto si sarebbe potuto rivelare utile; ma questo... Da un lato, era certo che le creature intraviste di sfuggita in tre occasioni — quattro, ora — fossero in qualche modo collegate a tutti gli altri strani avvenimenti delle ultime settimane. D'altro canto, però, rappresentava un'anomalia di genere ben diverso e, parlandone, avrebbe potuto sembrare un po' tocco, persino pazzo, con il risultato che i federali non avrebbero più creduto neppure al resto. Sono forse pazzo? si chiese accarezzando Moose. Dopo vent'anni di confinamento in una sedia a rotelle, costretto in casa, vivendo indirettamente per mezzo di telescopio e cannocchiale, forse era davvero diventato così disperatamente ansioso di partecipare più da vicino
agli eventi esterni e così affamato di eccitazione da aver sviluppato un'elaborata fantasia a base di soprannaturale e cospirazione, collocando visi al centro nel ruolo dell'Unico Uomo Che Aveva Capito, convinto che le proprie illusioni fossero reali. Questa interpretazione, però, era assai improbabile: la guerra aveva indebolito il suo corpo, ma la sua mente era rimasta forte e limpida come sempre, forse persino acuita e rafforzata dalle avversità. Questa, non la pazzia, era la sua maledizione. «Entità malefiche», disse a Moose. Il cane mugolò. «Che cosa verrà dopo? Guarderò la luna una di queste notti e vedrò la sagoma di una strega a cavallo di una scopa?» 25 Chrissie sbucò dal bosco nei pressi di Pyramid Rock, che un tempo le aveva ispirato teorie sui minuscoli egizi, e volse lo sguardo in direzione della propria casa e delle stalle, dove ora le luci erano avvolte in un alone di nebbia. Per un attimo, cullò il pensiero di tornare a prendere Godiva o un altro cavallo; forse avrebbe addirittura potuto sgattaiolare in casa e acchiappare una giacca. Tuttavia, decise che sarebbe stata meno visibile e più al sicuro a piedi. Tra l'altro, non era stupida come le eroine dei film, che continuavano a tornare nella Casa Maledetta, sapendo che la Cosa Orrenda le avrebbe, quasi certamente, cercate là. Si diresse verso la strada statale. Dimostrando il proprio abituale acume, recitò fra sé come se leggesse un romanzo d'avventura, Chrissie evitò saggiamente la casa maledetta e si avviò nella notte, chiedendosi se avrebbe mai rivisto il luogo della sua gioventù o trovato sollievo fra le braccia della famiglia ormai estranea. L'alta erba autunnale le sferzò le gambe mentre si inoltrava nel mezzo di un campo. Invece di rimanere vicino agli alberi, preferiva trovarsi all'aperto in caso qualcosa fosse sbucato dalla foresta. Non pensava di poter fuggire, una volta avvistata dalle creature, neppure se avesse avuto un buon margine di vantaggio, ma intendeva, perlomeno, avere la possibilità di tentare. Mentre era nascosta nel tunnel, l'aria si era fatta considerevolmente più fredda e la camicia di flanella cominciò a non bastare. Se fosse stata un'avventurosa eroina del genere creato da Andre Norton, avrebbe saputo intessere una giacca servendosi dell'erba, oppure sarebbe stata capace d'intrappolare, uccidere in modo indolore e infine scuoiare gli animali selvatici
per poi cucirne assieme le pelli e confezionarsi abiti pratici e, nel contempo, terribilmente alla moda. Doveva smetterla di pensare alle eroine di quei libri: al paragone, la propria inettitudine la deprimeva. E aveva già sufficienti motivi di depressione. Strappata alla propria casa, era sola, affamata, confusa, spaventata, e inseguita da creature bizzarre e pericolose. Ma soprattutto — nonostante i suoi genitori fossero sempre stati un po' distanti e poco portati alle facili manifestazioni d'affetto — lei li aveva sinceramente amati e ora aveva l'inquietante sensazione di averli persi per sempre. Giunta a meno di un centinaio di metri dalla statale, udì il suono di un motore e distinse dei fanali in avvicinamento; infine vide la macchina, dato che la nebbia in quel punto era meno fitta che non in prossimità del mare. Grazie alla buona visibilità, anche a quella distanza la identificò come un'auto della polizia, che rallentò per svoltare sul viale d'accesso alle stalle dei Foster. Chrissie fu sul punto di gridare e correre verso la pattuglia perché le era stato insegnato che i poliziotti erano amici. In effetti, aveva già cominciato a sbracciarsi quando si rese conto che in un mondo in cui non era possibile fidarsi dei propri genitori non poteva certo aspettarsi che tutti i poliziotti fossero animati dalle migliori intenzioni. Terrorizzata al pensiero che gli agenti fossero stati «convertiti» come Tucker aveva tentato di fare con lei e come era accaduto ai suoi genitori, la bambina si nascose nell'erba alta. Osservò la macchina imboccare il viale, fermarsi brevemente di fianco all'auto di Tucker e proseguire finché non venne inghiottita dalla nebbia. Subito si alzò e si precipitò verso la statale, che intendeva percorrere fino a Moonlight Cove. Se fosse rimasta all'erta e attenta, avrebbe potuto nascondersi in un fossato e dietro un cespuglio ogni volta che avesse udito il rumore di un veicolo. Non si sarebbe fatta vedere da chi non conosceva. Una volta giunta in città, avrebbe potuto andare alla chiesa di Nostra Signora della Misericordia e cercare aiuto da Padre Castelli, o Padre Jim come lui amava farsi chiamare. Chrissie aveva collaborato assiduamente alle manifestazioni estive organizzate dalla chiesa e aveva espresso il desiderio di servire a messa l'anno successivo con gran gioia di Padre Jim. Era certa che lui la stimava e le avrebbe creduto, per quanto pazzesca potesse sembrare la sua storia. In caso contrario, beh, avrebbe potuto tentare con la signora Toka-
wa, la sua insegnante. Raggiunta la statale, si fermò e guardò indietro in direzione della propria casa, che era ormai un insieme di distanti punti luminosi nella nebbia. Rabbrividendo, riprese il cammino per Moonlight Cove. 26 La porta d'ingresso di casa Foster era spalancata. Loman Watkins la ispezionò da cima a fondo: gli unici particolari fuori posto erano una sedia rovesciata in cucina e la borsa abbandonata di Jack Tucker, piena di siringhe e di dosi di siero con cui veniva effettuato il Cambiamento — oltre a una bomboletta di WD-40 sul pavimento del pianterreno. Chiusa la porta principale alle proprie spalle, uscì sulla veranda e rimase ad ascoltare la notte, immobile in modo quasi soprannaturale. La nebbia sembrava smorzare ogni suono, lasciando il mondo silenzioso come un'unico, enorme cimitero. Guardando verso le stalle, Loman chiamò: «Tucker! Foster! C'è nessuno qui?» Gli rispose soltanto l'eco della propria voce, freddo e solitario. «Tucker? Foster?» Notò le luci accese in una delle stalle, che aveva la porta aperta, e decise di dare un'occhiata. Aveva quasi raggiunto l'edificio quando un ululato simile al suono ondeggiante di un corno in lontananza si fece udire da sud, debole ma inconfondibile. Era acuto e gutturale nel contempo, pieno di rabbia, desiderio, eccitazione e urgenza: il grido di un regressivo in caccia. Si fermò ad ascoltare, sperando di essersi sbagliato. Il suono si ripetè, ma questa volta Loman riuscì a distinguere perlomeno due voci, forse tre. Erano molto distanti, a più di un chilometro, quindi quegli inquietanti lamenti non potevano giungere in risposta ai suoi richiami. Quelle grida lo agghiacciarono. E lo riempirono di una strana bramosia. No. Strinse i pugni al punto che le unghie gli scavarono la carne, lottando per cacciare l'oscurità che minacciava di sommergerlo. Cercò di concentrarsi sul lavoro di polizia, sul problema che aveva per le mani.
Se le grida provenivano dai coniugi Foster e da Jack Tucker — come era assai probabile — dov'era la bambina, Christine? Forse era scappata mentre la stavano preparando per la conversione: la sedia rovesciata, la valigetta abbandonata e la porta d'ingresso aperta sembravano confermare questa ipotesi. Inseguendo la bambina, eccitati per la caccia, tutti e tre avrebbero potuto essersi arresi al bisogno latente di regredire. E ora la stavano cacciando in mezzo ai boschi, se non l'avevano già catturata e fatta a pezzi, in attesa di riprendere le loro normali fattezze. La nottata era fredda, ma improvvisamente Loman si mise a sudare. Voleva... aveva bisogno... No! Qualche ora prima, Shaddack gli aveva detto che la bambina dei Foster aveva perso l'autobus scolastico e, tornata a casa, si era imbattuta nei genitori mentre stavano sperimentando le loro nuove capacità. Di conseguenza, la piccola doveva essere guidata attraverso il Cambiamento un po' prima del previsto, la prima bambina a venire elevata. Forse, però, il fatto che stessero sperimentando non era del tutto vero; più probabilmente quando Chrissie li aveva sorpresi, entrambi si trovavano in uno stato di regressione profonda, cosa che non avevano potuto rivelare a Shaddack per non marchiarsi come degenerati in seno alla Nuova Gente. Il Cambiamento era inteso come un'elevazione dell'umanità, una specie di evoluzione forzata. La regressione volontaria, al contrario, rappresentava una distorsione depravata del potere concesso dal Cambiamento. Chi regrediva diventava un paria, e i regressivi che uccidevano per la primordiale eccitazione del sangue erano in assoluto i peggiori: psicopatici che avevano scelto l'involuzione. Le urla lontane gli giunsero di nuovo. Un brivido di piacere gli percorse la spina dorsale. Loman fu colto da un prepotente desiderio di strapparsi i vestiti, abbassarsi sul terreno e correre nudo e libero per la notte in lunghi balzi aggraziati, attraverso il prato fino ai boschi dove tutto era selvaggio e meraviglioso, dove la preda attendeva di essere scoperta, abbattuta, spezzata, fatta a brani... No. Controllo. Autocontrollo. Gli ululati lo trapassavano. Doveva dimostrare autocontrollo.
Il cuore gli martellava in petto. Le grida. Quelle grida dolci, avide, selvagge... Loman cominciò a tremare, poi a sussultare violentemente mentre immaginava se stesso svincolato dalla rigida posizione dell'Homo erectus, libero delle costrizioni della forma e del comportamento civilizzato. Se finalmente l'uomo primordiale dentro di lui avesse potuto scatenarsi... No. Impensabile. Le sue gambe s'indebolirono, e Loman cadde a terra, ma non sui quattro arti, no, perché quella posizione lo avrebbe incoraggiato ad arrendersi a impulsi innominabili; si rannicchiò invece in posizione fetale, su un fianco, con le gambe ripiegate sul petto, lottando contro il crescente desiderio di regredire. Il suo corpo bruciava come se fosse rimasto per ore esposto al sole estivo di mezzogiorno, anche se era consapevole che il calore non proveniva da fonti esterne, ma dalle profondità del suo essere. Solo nell'oscurità e nella nebbia di fronte alla casa dei Foster, sedotto dagli ululati echeggiami dei regressivi, desiderò disperatamente di esercitare il controllo sull'entità fisica garantitagli dal Cambiamento. Ma sapeva che, una volta ceduto alla tentazione, non sarebbe mai più stato Loman Watkins: sarebbe divenuto un degenerato cammuffato da Loman Watkins, Mr. Hyde in un corpo dal quale era stato bandito per sempre il dottor Jekyll. A testa china, guardò le proprie mani strette contro il petto, e al tenue chiarore delle finestre di casa Foster gli parve di notare il principio di un mutamento nelle dita. Un sordo dolore esplose nella sua mano destra: egli sentì le ossa spezzarsi e ricostituirsi, le nocche gonfiarsi, le dita allungarsi, i polpastrelli dilatarsi, i nervi e i tendini ispessirsi, le unghie indurirsi e acuminarsi in una sorta di artiglio. Urlò in preda al puro terrore, costringendosi a rimanere aggrappato alla propria identità naturale, a quanto rimaneva della sua umanità. Si sforzò di resistere al movimento simile a lava dei propri tessuti, ripetendosi fra i denti serrati «Loman Watkins, Loman Watkins, Loman Watkins» come se il suo nome fosse una formula magica in grado d'impedire quella malefica trasformazione. Passò il tempo. Forse un minuto, dieci, o addirittura un'ora. Non ne aveva la minima idea. La lotta per mantenere la propria identità lo aveva condotto in una dimensione di coscienza al di fuori del tempo. Lentamente tornò in sé e con sollievo si ritrovò ancora a terra di fronte alla casa, per nulla cambiato. Era fradicio di sudore, ma il calore lancinante del suo corpo era svanito; le mani apparivano identiche, quelle di sempre,
senza alcun sconcertante allungamento delle dita. Per un attimo rimase in ascolto. Le grida lontane non si udivano più, ed egli fu grato per il silenzio. La paura, l'unica emozione a non aver perso, di giorno in giorno, intensità e vigore da quando era entrato a far parte della Nuova Gente, era adesso tagliente come una lama, tanto da spingerlo a urlare. Da qualche tempo aveva cominciato a temere di essere uno di coloro che possedevano il potenziale per trasformarsi in un regressivo, e ormai quell'oscuro presentimento si era dimostrato realtà. Se si fosse arreso all'impulso, avrebbe perso il vecchio mondo che aveva conosciuto prima della conversione e l'audace nuovo mondo che Shaddack stava edificando, non sarebbe più appartenuto a nessuno dei due. Peggio: stava cominciando a sospettare di non essere l'unico, ma che tutta la Nuova Gente possedesse dentro di sé i semi dell'involuzione. Notte dopo notte, i regressivi sembravano aumentare di numero. Si alzò in piedi barcollando. Muovendosi faticosamente in direzione dell'autopattuglia, Loman Watkins si chiese se le ricerche di Shaddack — e le loro applicazioni tecnologiche — non fossero per caso così fondamentalmente errate da rendere il Cambiamento del tutto privo di un qualunque beneficio. Forse si trattava di una vera maledizione: se i regressivi non avessero rappresentato una percentuale statisticamente insignificante della Nuova Gente, se al contrario tutti fossero destinati prima o poi a scivolare verso la regressione... Pensò a Thomas Shaddack, là fuori in quella grande casa sull'estremità della baia, affacciata sulla città dove bestie di sua creazione popolavano le ombre, e un tremendo senso di desolazione lo sopraffece. Dato che sin da bambino la lettura aveva rappresentato il suo passatempo favorito, pensò al dottor Moreau di H.G. Wells e si chiese se Shaddack non fosse diventato un suo simile, un Moreau reincarnato. Shaddack poteva essere il Moreau dell'epoca della microtecnologia, ossessionato da una folle visione trascendente basata sulla fusione forzata fra uomo e macchina. Sicuramente soffriva di manie di grandezza e aveva l'arroganza di credere di poter elevare l'umanità a uno stadio superiore, proprio come il personaggio letterario aveva pensato di poter ricavare uomini dagli animali selvaggi e battere Dio al Suo stesso gioco. Se Shaddack non era il genio del proprio secolo, se era un presuntuoso come Moreau, allora, tutti loro erano dannati. Loman salì in macchina e chiuse la portiera, accese il motore e attivò il riscaldamento per dar sollievo al proprio corpo gelato dal sudore.
Il video del computer si illuminò, in attesa. Al fine di proteggere il progetto Falco Notturno — che, errato o meno, rappresentava l'unico futuro ormai aperto per lui — doveva dare per scontato che la bambina, Christine, fosse fuggita e che i Foster e Tucker non l'avessero presa. Doveva fare in modo che i suoi uomini montassero la guardia di nascosto lungo la strada statale e sulle vie d'accesso a Moonlight Cove; se la piccola fosse giunta in città in cerca d'aiuto, loro l'avrebbero intercettata. Con ogni probabilità si sarebbe rivolta a qualcuno della Nuova Gente con la sua storia sui genitori indemoniati e questo avrebbe rappresentato la fine per lei. Anche se si fosse accostata a persone non ancora convertite, non sarebbe stato facile che credessero a un racconto così folle. Tuttavia, Loman non poteva correre rischi. Doveva parlare con Shaddack di una serie di cose e badare a parecchie questioni di polizia. Doveva anche mangiare. Aveva una fame disumana. 27 Qualcosa non funzionava, era sbagliato, qualcosa, qualcosa. Mike Peyser era scivolato attraverso i boschi fino alla propria casa alla periferia sud della città, giù dalle colline alberate, furtivo e all'erta, sgattaiolante e veloce, nudo e veloce, di ritorno dalla caccia, il sangue in bocca, ancora eccitato, ma stanco dopo due ore di giochi con la propria preda, aggirando cautamente le case dei vicini, alcuni dei quali erano della sua stessa razza mentre altri no. In quella zona le proprietà erano molto distanziate fra loro, quindi trovò relativamente facile strisciare da ombra a ombra, da albero ad albero, in mezzo all'erba alta, basso sul terreno, avvolto nell'oscurità, rapido e aggraziato, silenzioso e rapido, nudo e silenzioso, potente e rapido, fino alla veranda della villetta dove viveva da solo, oltre la porta, in cucina, con il sapore del sangue ancora in bocca, il sangue, lo squisito sangue, esilarato dalla caccia e felice di trovarsi a casa, anche se... Qualcosa non andava. Sbagliato, sbagliato, Dio, stava bruciando, pieno di fuoco, bruciando, bisognoso di cibo, nutrimento, carburante, carburante, ed era normale, come previsto — le richieste del suo metabolismo erano tremende quando si trovava nello stato di alterazione — ma il fuoco non era sbagliato, perlomeno non quel frenetico e devastante bisogno di nutrimento. Quello che non an-
dava era che non poteva, non poteva, non poteva... Non poteva tornare come prima. Affascinato dalle movenze stupendamente fluide del proprio corpo, dal modo in cui i suoi muscoli si flettevano e si estendevano, flettevano ed estendevano, entrò nella casa buia, vedendo abbastanza bene anche senza luci, non come un gatto, ma meglio di un uomo perché ora era qualcosa di più di un semplice uomo, e per un paio di minuti vagò per le stanze, silenzioso e veloce, quasi sperando di trovarvi un intruso, qualcuno da massacrare, qualcuno da massacrare, massacrare, qualcuno da massacrare, azzannare e fare a pezzi, ma la casa era deserta. In camera da letto si stese sul pavimento, si rannicchiò sul fianco e richiamò il proprio corpo alla forma originaria, alla forma familiare di Mike Peyser, alle fattezze di un uomo che camminava eretto e assomigliava a un essere umano, e dentro di sé sentì un impulso alla normalità, un movimento nei tessuti, ma non abbastanza, poi un ritrarsi, ritrarsi, come un'onda che si allontani dalla spiaggia, via, via dalla normalità; tentò ancora, ma questa volta non si verificò nessun movimento. Niente. Era bloccato, intrappolato, imprigionato, imprigionato, imprigionato in una forma che poco prima gli era parsa l'essenza stessa della libertà, desiderabile oltre ogni dire, ma che ora non era affatto desiderabile perché non poteva abbandonarla a piacimento e vi si trovava intrappolato, intrappolato, e fu preso dal panico. Balzò in piedi e si precipitò fuori dalla stanza. Benché vedesse discretamente bene anche al buio, urtò una lampada da tavolo che cadde con fragore di vetri in frantumi, ma proseguì in direzione del soggiorno. Si sentiva in prigione. Il suo corpo, il suo stesso corpo trasformato, era diventato una prigione, prigione, le ossa sottoposte e metamorfosi come sbarre di una cella, sbarre che lo tenevano prigioniero all'interno: era rinchiuso dalla propria stessa carne modificata. Si aggirò in cerchio per la stanza, si arrampicò di qua e di là, in cerchio, in cerchio, frenetico, parossistico. Le tende si agitavano per lo spostamento d'aria provocato da ogni suo passaggio, un tavolino si capovolse. Poteva correre, ma non fuggire; portava con sé la propria prigione. Nessuna via d'uscita, nessuna via d'uscita. Mai. Quella scoperta gli fece battere il cuore all'impazzata. Terrorizzato, frustrato, rovesciò un portariviste, spargendone il contenuto, spazzò via dal tavolo un pesante portacenere di vetro e due oggetti in ceramica, strappò i cuscini del divano finché non ebbe ridotto in brandelli, il tessuto e l'imbottitura, mentre una tremenda pressione andava riempiendogli il cranio, dolore, tanto dolore, e voleva urlare, ma aveva paura, paura che non sarebbe
stato capace di smettere. Cibo. Carburante. Alimentare il fuoco, alimentare il fuoco. D'improvviso si accorse che l'incapacità di ritornare alla propria forma naturale poteva dipendere da una terribile carenza delle riserve energetiche necessarie ad alimentare l'immensa accelerazione del metabolismo collegata alla trasformazione. Per eseguire quanto lui richiedeva, il suo corpo doveva produrre enormi quantità di enzimi, ormoni e complesse sostanze chimiche biologicamente attive; nel breve arco di qualche minuto doveva sottoporsi a una degenerazione forzata e a una ricostruzione dei tessuti pari, in termini di esigenze energetiche, ad anni di crescita normale, e per farlo aveva bisogno di carburante, di materiale da convertire, di proteine, minerali, carboidrati in quantità. Affamato, bramoso, bramoso, Peyser si precipitò in cucina, afferrò la maniglia del frigorifero, spalancò l'anta, sibilò quando la luce gli ferì gli occhi, vide due terzi di un prosciutto da un chilo e mezzo, nutriente prosciutto, buon prosciutto, avvolto nella plastica su un piatto blu, lo afferrò, strappò l'involucro, gettò via il piatto, mandandolo a fracassarsi contro un armadietto, si accucciò sul pavimento e morse il pezzo di carne, morse e morse, in profondità, strappò, masticò febbrilmente, morse ancora. Amava togliersi i vestiti e cercare un'altra forma il più presto possibile dopo il calar della sera, precipitandosi nei boschi dietro la casa, su per le colline, dove cacciava conigli e procioni, volpi e roditori, li faceva a pezzi con le mani, con i denti, alimentava il fuoco, quel calore nelle profondità del suo essere, e gli piaceva, gli piaceva, non soltanto per il senso di libertà conferitogli dalla metamorfosi, ma per la sensazione inebriante di potere, potere divino, più intensamente erotico del sesso, più soddisfacente di qualunque altra cosa sperimentata in precedenza, potere, potere selvaggio, potere brutale, il potere di un uomo che aveva domato la natura, trasceso i propri limiti genetici, il potere del vento e della tempesta, libero da ogni limitazione umana, scatenato, senza restrizioni. Quella notte si era nutrito, percorrendo i boschi con la sicurezza di un predatore invincibile, irresistibile come l'oscurità stessa, ma ciò che aveva consumato doveva essersi rivelato insufficiente per consentire il suo ritorno alla forma di Michael Peyser, progettista di software, scapolo, proprietario di una Porsche, fanatico collezionista di film su videocassetta, maratoneta e bevitore di Perrier. Quindi divorò il prosciutto fino all'ultima briciola, estrasse dal frigo altra
roba e la mangiò, infilandosela in bocca con entrambe le mani artigliate: una zuppiera piena di rigatoni avanzati, una polpetta, mezza torta di mele comprata il giorno prima in città, una confezione di burro da un etto e mezzo, grasso e nauseante ma buon cibo, buon carburante, proprio quello che ci voleva per alimentare il fuoco, quattro uova crude e altro, altro ancora. Quel genere di fuoco, una volta alimentato, non si espandeva ancora più vivido, bensì si raffreddava, si spegneva, perché si trattava soltanto di un sintomo fisico del disperato bisogno energetico per poter far funzionare al meglio i processi metabolici. Ora il fuoco aveva cominciato a perdere parte del calore, riducendosi da una ruggente fiammata a scoppiettanti scintille per poi spegnersi a poco più del bagliore di carboni ardenti. Sazio, Mike Peyser crollò al suolo di fronte al frigorifero aperto, in un caos di piatti rotti, cibo, plastica, gusci d'uovo e contenitori sottovuoto. Si rannicchiò di nuovo e si impose di tornare alla forma che il mondo conosceva, e ancora una volta sentì un movimento verificarsi nel midollo e nelle ossa, nel sangue e negli organi, nei nervi, nelle cartilagini, nei muscoli e nella pelle, mentre maree di ormoni, enzimi e altre sostanze biologiche venivano prodotte dal suo corpo e immesse in circolazione; come prima, però, il cambiamento si arrestò a trasformazione penosamente incompleta e il suo corpo scivolò al proprio stadio più selvaggio, regredendo inevitabilmente nonostante lui si sforzasse, con tutta la volontà, tutta la sua forza di volontà, si sforzasse e lottasse per acquisire lo stadio più elevato. L'anta del frigorifero si era richiusa. La cucina era di nuovo preda delle ombre e Mike Peyser si sentì come se l'oscurità non si limitasse a circondarlo, ma fosse anche dentro di lui. Infine gridò. Come aveva temuto, una volta iniziato a urlare, non riuscì a fermarsi. 28 Appena prima di mezzanotte, Sam Booker uscì dal Cove Lodge, indossando una giacca di pelle scura, jeans, maglietta e scarpe da ginnastica blu — una tenuta che gli permetteva di confondersi efficacemente con l'oscurità, ma non tale da destare sospetti, per quanto fosse un po' troppo giovanile per un uomo dall'atteggiamento così profondamente malinconico. Nonostante l'apparenza normale, il giubbotto possedeva parecchie tasche interne insolitamente capaci, che in quel momento ospitavano diversi strumenti base per le effrazioni e i furti d'auto. Scese le scale di servizio, uscì dalla
porta posteriore e rimase un attimo nel passaggio sul retro del motel. Una fitta nebbia si riversava dalla scogliera, sospinta da un'improvvisa brezza marina che aveva disturbato la calma notturna; in capo a qualche ora, si sarebbe spostata nell'entroterra, lasciando la costa relativamente sgombra. A quel punto, però, lui avrebbe già terminato quanto lo attendeva e sarebbe stato addormentato — o più probabilmente impegnato a combattere l'insonnia — nel letto del Cove Lodge. Si sentiva a disagio. Non aveva dimenticato il gruppo di ragazzi dai quali era fuggito in Iceberry Way qualche ora prima. Dato che la loro vera natura rimaneva un mistero, continuava a definirli teppisti, ma non ignorava che erano ben più di semplici delinquenti giovanili; stranamente, aveva la sensazione di sapere che cosa fossero, ma la verità aleggiava in lui persino assai al disotto del livello subconscio, nel territorio della consapevolezza primitiva. Aggirò l'edificio, oltrepassò il retro della tavola calda ormai chiusa e, dieci minuti dopo, giunse davanti al Municipio di Moonlight Cove, in Jacobi Street. Era esattamente come gli agenti federali di San Francisco lo avevano descritto: due piani — mattoni nella parte inferiore e rivestimento bianco nella zona soprastante — tetto in ardesia, persiane verdi alle finestre e grandi lampioni ai lati dell'ingresso. L'edificio municipale e il terreno sul quale sorgeva occupavano mezzo isolato sul lato nord della strada, ma la sua architettura, non molto istituzionale, armonizzava con il resto del quartiere, a carattere residenziale. Anche a quell'ora le luci al pianterreno erano accese perché, oltre agli uffici comunali, il fabbricato ospitava il dipartimento di polizia che, naturalmente, non chiudeva mai. Dal marciapiede opposto, fingendo di essere uscito per una passeggiata serale, Sam studiò la costruzione. Non vide alcuna attività insolita; di fronte all'entrata principale non c'era nessuno. Giunto sull'angolo, entrò nel vicolo a metà dell'isolato: il buio passaggio di servizio era suddiviso da alberi, cespugli e staccionate che delimitavano i confini posteriori delle case di Jacobi Street e Pacific Drive; da qualche garage, da gruppi di bidoni per le immondizie e dalla vasta area di parcheggio municipale, non recintata. Sam si nascose in una nicchia del cespuglio di sempreverde che costeggiava la proprietà pubblica. Nonostante il vicolo fosse molto buio, due lampade al sodio gettavano una luce giallastra sul parcheggio, rilevando dodici veicoli: quattro Ford di modello recente, del tipo verde-bile prodotto per le amministrazioni federali, statali e locali, due furgoni con le inse-
gne cittadine e la scritta DIPARTIMENTO IDRICO, una gigantesca macchina per la pulizia delle strade, un grosso autocarro con il cassone in legno e quattro auto della polizia, tutte Chevrolet. Il quartetto di pattuglie bianche e nere costituiva l'obbiettivo di Sam, in quanto erano equipaggiate con videoterminali collegati al computer del dipartimento di polizia. Moonlight Cove possedeva otto macchine di servizio, un bel numero per una sonnolenta cittadina costiera, cinque in più di quante non se ne potesse permettere un'altra comunità di eguale grandezza e certamente in eccesso rispetto ai reali bisogni. Del resto, in questo dipartimento di polizia tutto era più grande e migliore del necessario, il che rappresentava uno dei motivi per cui nelle menti dei federali incaricati delle indagini sulla morte di Sanchez e dei Bustamante erano suonati i campanelli d'allarme. Moonlight Cove disponeva di dodici agenti a tempo pieno, tre a mezzo servizio, più quattro addetti agli uffici: un sacco di personale. Non solo, ma tutti quanti ricevevano stipendi competitivi con le medie salariali dei poliziotti delle principali città della Costa Occidentale, quindi esorbitanti per un posto così piccolo. Avevano le più belle uniformi, il miglior mobilio per ufficio, una piccola armeria con pistole, fucili e gas lacrimogeni, e — cosa in assoluto più stupefacente — erano computerizzati a un livello da fare invidia ai ragazzi addetti ai bunker del Comando Aereo Strategico nel Colorado. Dal proprio nascondiglio, Sam studiò il parcheggio per un paio di minuti, in modo da accertarsi che nessuno fosse seduto in uno dei veicoli o nascosto tra le ombre sul retro dell'edificio. Le finestre illuminate del pianterreno avevano le veneziane abbassate, quindi dall'interno era impossibile osservare la strada. Da una tasca del giubbotto estrasse un paio di morbidi guanti di pelle e li indossò. Era pronto a muoversi quando udì qualcosa nel vicolo alle proprie spalle. Un rumore raschiante, proveniente da poco lontano. Addossandosi alla siepe, girò la testa in cerca della fonte di quel suono. Una logora scatola di cartone scivolava lungo l'asfalto, sospinta dalla brezza che faceva ondeggiare le foglie dei cespugli e degli alberi; finita contro un bidone della spazzatura, rimase incastrata e smise di far rumore. Viaggiando sospinta dal vento, la nebbia sembrava ora fumo, come se l'intera città stesse prendendo fuoco. Sam si guardò bene in giro per accertarsi di essere solo, poi si affrettò verso la più vicina autopattuglia. Era chiusa a chiave. Da una tasca estrasse un attrezzo in dotazione alla polizia per aprire la
serratura delle automobili, che poteva sbloccare istantaneamente qualsiasi portiera senza danneggiare il meccanismo. Compiuta l'operazione, scivolò dietro il volante e chiuse la porta più rapidamente e silenziosamente possibile. Dalle lampade al sodio proveniva luce sufficiente a permettergli d'identificare gli oggetti, benché possedesse abbastanza esperienza da poter lavorare al buio. Estratto dal giubbotto un arnese da scasso, nel giro di pochi secondi fece saltare il cilindro dell'accensione, esponendo i fili. Odiava questa parte. Per attivare il monitor doveva accendere il motore; il computer era molto potente e comunicava con la banca dati centrale mediante trasmissioni a microonde a energia intensiva. La nebbia avrebbe celato il fumo del tubo di scappamento, ma non il suono del motore. La vettura era parcheggiata a una certa distanza dall'edificio, quindi era improbabile che qualcuno all'interno potesse udire, ma se un agente fosse uscito sul retro per prendere una boccata d'aria o per recarsi a rispondere a una chiamata, un'auto accesa non sarebbe passata inosservata. A quel punto Sam si sarebbe trovato in una situazione dalla quale — considerata la frequenza delle morti violente in città — avrebbe anche potuto non uscire vivo. Sospirando e premendo leggermente il pedale dell'acceleratore, separò con una mano guantata i fili d'avviamento e ne collegò le estremità; il motore si accese all'istante, senza problemi. Lo schermo del computer s'illuminò. L'elaborato sistema in uso presso il dipartimento di polizia era stato fornito gratuitamente dalla New Wave Microtechnology, che a quanto pareva si stava servendo di Moonlight Cove come di una specie di terreno di prova per i propri prodotti. La fonte dei fondi in eccesso così evidenti in ogni altro aspetto dell'attività della polizia non era semplice da individuare, ma si sospettava che il denaro provenisse sempre dalla New Wave o dal suo azionista di maggioranza e responsabile, Thomas Shaddack. Qualsiasi cittadino era libero di sostenere il locale corpo di polizia o altri settori governativi, naturalmente senza diritto a detrazioni fiscali, ma se Shaddack stava facendo esattamente questo, perché non ne esisteva traccia nei registri ufficiali? Nessun uomo innocente dona grosse quantità di denaro a un'istituzione civica nell'anonimità più totale: se questi era così reticente in merito al proprio finanziamento delle autorità locali con fondi privati, allora l'ipotesi di corruzione non poteva essere scartata. E se gli agenti di Moonlight Cove erano virtualmente soldati dell'esercito personale di Thomas Shaddack, ne derivava che il numero sospetto di morti violente, nelle ultime
settimane, poteva avere un legame con quell'illecita alleanza. Durante l'investigazione dell'FBI, uno dei migliori agenti inviati sul posto, Morrie Stein, si era trovato in un'autopattuglia con uno degli uomini di Watkins, Reese Dorn, quando quest'ultimo si era servito del computer centrale per ottenere informazioni dall'archivio. A quel punto Morrie aveva sospettato che il sistema fosse anche più sofisticato di quanto Watkins e i suoi agenti non avessero rivelato, che venisse usato per scopi al limite della legalità e che nessuno fosse disposto a discuterne; di conseguenza, aveva memorizzato il codice d'accesso con cui Reese vi si era inserito. Arrivato in volo alla sede di Los Angeles per istruire Sam, gli aveva detto: «Penso che ogni poliziotto di quella cittadina contorta possieda il proprio codice d'accesso al computer, ma quello di Dorn dovrebbe funzionare come qualunque altro. Sam, devi immetterti nel loro sistema e ottenere qualche elenco, vedere che cosa ti viene offerto e giocarci un po' mentre Watkins e i suoi non controllano ciò che fai. Certo, sembro un paranoico, ma hanno un eccesso di equipaggiamento rispetto alle loro necessità, a meno che non stiano dedicandosi a qualcosa di sporco. In principio, ti appare una città come le altre, anche più piacevole di molte, piuttosto carina; ma, dannazione, dopo un po' hai la sensazione che l'intero borgo sia sotto intercettazione, che vieni osservato ovunque tu vada, che il Grande Fratello ti stia alle spalle ogni maledetto minuto. Te lo giuro, entro un paio di giorni hai la certezza di trovarti in uno stato di polizia in miniatura, dove il controllo è così sottile da risultare impercettibile, ma pur sempre totale. Quei poliziotti sono corrotti, Sam, immersi fino al collo in qualcosa di losco e il computer ne fa parte». Il numero di codice di Reese Dorn era 262699, e Sam lo digitò sulla tastiera del terminale. Lo schermo rimase sgombro per un minuto, poi apparve un elenco. Scegliere A. Centralino B. Archivio centrale C. Bollettino quotidiano D. Modem extra-sistema Per Sam, la prima opzione in elenco indicava che un agente di pattuglia poteva comunicare con il centralino al quartier generale non soltanto mediante la radio di servizio, ma anche tramite computer. Ma perché sobbar-
carsi tutta la procedura di battere sulla tastiera le domande e attendere le risposte stampate sul terminale quando sarebbe stato tanto più semplice e veloce ottenere le informazioni per radio? A meno che... non esistessero certe cose che i poliziotti non intendevano discutere su frequenze radio facilmente intercettabili da parte di chiunque fosse sufficientemente attrezzato. Non aprì il collegamento con il centralino perché in quel caso avrebbe dovuto dialogare fingendosi Reese Dorn, il che equivaleva a urlare «Ehi, sono qua fuori in una delle vostre pattuglie, ficcanasando dove non dovrei. Perché non venite qui e ci date un taglio?» Invece, premette il tasto B. Apparve un altro elenco. Scegliere A. Stato... attuali arrestati B. Stato... casi attualmente in giudizio C. Stato... casi in attesa di giudizio D. Archivio degli arresti avvenuti... contea E. Archivio degli arresti avvenuti... città F. Criminali residenti nella contea G. Criminali residenti in città Solo per accertarsi che le categorie in elenco fossero ciò che sembravano e non un codice per informazioni di altro genere, battè il tasto F per ottenere i dati relativi ai criminali residenti nella contea. Comparve un ulteriore lista, con dieci possibili scelte: Omicidio colposo, Omicidio preterintenzionale, Stupro, Reati sessuali, Aggressione, Rapina a mano armata, Furto con scasso, Effrazione, Furti di altro genere, Reati minori vari. Selezionò la prima categoria e scoprì che tre ex detenuti per omicidio abitavano ora come liberi cittadini nella contea dopo aver scontato una pena oscillante fra i dodici e i quarantanni ed essere stati rilasciati sulla parola. I loro nomi, indirizzi e numeri di telefono apparvero sullo schermo, accompagnati dai nomi delle vittime, brevi dettagli sui reati e le date di detenzione; nessuno viveva entro i confini di Moonlight Cove. Sam alzò lo sguardo e ispezionò il parcheggio: era ancora deserto. L'onnipresente bruma si alternava a zone di fitta nebbia, che sventolavano come alghe marine fluttuanti nella corrente. Ritornò all'elenco principale e chiese la voce C, Bollettino quotidiano, che si dimostrò essere una serie di messaggi lasciati da Watkins e dai suoi
agenti per qualche collega e riguardanti, in alcuni casi, questioni riferite al lavoro, in altri, invece, ad affari privati. La maggior parte era formulata in modo così criptico che Sam non ritenne valesse lo sforzo di una decifrazione. Provò con il tasto D, Modem extra-sistema, e gli fu mostrato un elenco di computer a livello nazionale con i quali era possibile un collegamento tramite il modem telefonico situato nel vicino municipio. Le possibilità erano stupefacenti: Los Angeles DP (per Dipartimento di Polizia), San Francisco DP, San Diego DP, Denver DP, Houston DP, Dallas DP, Phoenix DP, Chicago DP, Miami DP, New York City DP, e tutta una serie di altre città importanti; Dipartimento della Motorizzazione della California, Dipartimento di Giustizia, Pattuglia Autostradale e molte ulteriori agenzie statali con legami assai meno ovvi con il lavoro di polizia; Archivio del personale dell'Esercito, Archivio del personale della Marina, Aeronautica Militare, Archivi criminali dell'FBI, FBI LLEAS (un programma federale relativamente recente sull'assistenza delle forze dell'ordine a livello locale), persino la sede di New York dell'INTERPOL, tramite il quale l'organizzazione internazionale poteva accedere agli archivi centrali europei. Che cosa diavolo se ne faceva un piccolo corpo di polizia, nella California agricola, di tutte queste fonti d'informazioni? E c'era di più: dati a cui non sarebbe stato facile accedere neppure da parte di pubblici ufficiali di città come Los Angeles. Per legge, parte di quel materiale non poteva essere ottenuto dalla polizia se non con un ordine del tribunale. Il sistema offriva anche accesso agli archivi della sede centrale della CIA in Virginia, che si supponevano al sicuro da intromissioni a opera di computer esterni all'Agenzia, come pure ad alcune informazioni dell'FBI ritenute parimenti inviolabili. Scosso, Sam ritornò all'elenco principale. Fissò il parcheggio, immerso nei propri pensieri. Qualche giorno prima, Morris Stein aveva sostenuto che la polizia di Moonlight Cove potesse in qualche modo essere dedita al traffico di droga e che la generosità della New Wave con i sistemi computerizzati indicasse la complicità di alcuni dirigenti della ditta. Il Bureau, invece, era interessato alla possibilità che la New Wave stesse vendendo illegalmente ai sovietici materiale riservato sull'alta tecnologia e che avesse comprato la polizia di Moonlight Cove affinchè, tramite i contatti fra forze dell'ordine, li avvisasse al più presto nel caso d'inchieste federali sulle loro attività. Non esistevano spiegazioni su come tutte le morti si collegassero a questi reati, ma
bisognava pure cominciare con qualche teoria. Ora Sam era pronto a scartare entrambe le ipotesi. L'estesa rete di dati disponibili alla polizia locale tramite il modem — l'elenco comprendeva centoventi fonti diverse! — eccedeva di gran lunga le necessità di un traffico di droga o di un preallarme sui sospetti federali circa eventuali legami con i sovietici. Avevano creato una ragnatela informativa più adatta alle esigenze operative di un intero apparato statale — o, anche più precisamente, di una piccola nazione. Una piccola nazione ostile. Quei dati erano progettati per conferire al loro destinatario un potere enorme. Era come se quella pittoresca cittadina s'offrisse, sotto la mano dominatrice di un megalomane in preda al delirio, di creare un minuscolo regno dal quale partire per conquistare territori più vasti. Oggi Moonlight Cove, domani il mondo. «Che cazzo stanno facendo?» si chiese. Sam ad alta voce. 29 Chiusa a chiave nella propria stanza al Cove Lodge, Tessa beveva Diet Coke e cercava di guardare la replica di uno spettacolo televisivo, benché non riuscisse a interessarsi alle conversazioni fra il presentatore, una diva, un cantante e un attore teatrale ugualmente insulsi. Riflessioni dietetiche per accompagnare una bevanda dietetica. Più tempo passava dalla sua sconcertante esperienza nei corridoi e sulle scale del motel, più si chiedeva se non si fosse davvero immaginata di essere inseguita. Dopotutto era sconvolta per la morte di Janice, tormentata dall'idea che si fosse trattato di assassinio e non di suicidio. In aggiunta, risentiva ancora dell'hamburger mangiato a cena, così unto che doveva sicuramente essere stato fritto, panino compreso, in lardo di yak. Forse le sue allucinazioni erano state causate proprio da quella cena indigesta. Mentre uno degli ospiti televisivi blaterava a proposito di un fine settimana trascorso all'Avana con Fidel Castro — «una magnifica persona, divertente e sensibile» — Tessa si diresse in bagno per lavarsi il viso e i denti. Stava strizzando il dentifricio sullo spazzolino, quando udì muoversi la maniglia della porta. Il bagno si affacciava sul minuscolo ingresso e, dalla soglia, la ragazza si trovava a mezzo metro di distanza dal battente. Vide la maniglia sollevarsi e abbassarsi mentre qualcuno tentava di aprire senza neppure usare molte
precauzioni: la serratura cigolava e la porta vibrava nell'intelaiatura. Tessa lasciò cadere lo spazzolino e si precipitò al telefono. Muto. Premette il tasto corrispondente al centralino, ma non ottenne risposta. Le linee del motel non funzionavano. I fili erano stati tagliati. 30 Parecchie volte Chrissie fu costretta ad abbandonare la strada, cercando riparo tra i cespugli sul ciglio, per non essere vista dagli occasionali veicoli. A un certo punto passò una pattuglia della polizia di Moonlight Cove, e lei fu certa che si trattasse della medesima vista poco tempo prima davanti a casa. Si appiattì nell'erba e vi rimase fino a quando i fanalini di coda non si ridussero a puntini rossi per poi scomparire oltre una curva. Lungo i primi tre chilometri del nastro asfaltato sorgevano alcune case di cui Chrissie conosceva i proprietari: i Thomas, gli Stone, gli Elswick. Era tentata all'idea di bussare a una delle porte per chiedere aiuto, ma non poteva essere sicura che quelle persone fossero ancora la gente simpatica di una volta. Anche loro potevano essere cambiati, come i suoi genitori: qualcosa di soprannaturale, oppure proveniente da un altro mondo, stava prendendo possesso degli esseri umani di Moonlight Cove e dintorni, e la bambina aveva visto troppi film e letto troppi libri dell'orrore per ignorare che, quando certe forze erano all'opera, non ci si poteva più fidare di nessuno. Stava puntando tutto su Padre Jim perché era un uomo di chiesa e i demoni non avrebbero potuto impadronirsi di lui; naturalmente, se il problema erano invece alieni di un altro universo, il fatto di essere un religioso non sarebbe stato sufficiente a proteggerlo. In quel caso, se anche lui fosse stato posseduto e se in qualche modo le fosse riuscito di sfuggirgli dopo aver scoperto che era diventato un nemico, sarebbe andata dritta dalla signora Tokawa, la sua insegnante. Irene Tokawa era la persona più intelligente che Chrissie avesse mai conosciuto: se gli alieni stessero conquistando Moonlight Cove, lei si sarebbe accorta che qualcosa non andava prima che fosse troppo tardi e avrebbe preso provvedimenti per proteggersi. Sarebbe senz'altro stata una degli ultimi su cui i mostri avrebbero messo le zampe. Zampe, tentacoli, artigli, pinze o chissà che cosa. La bambina si nascose, dunque, dal traffico di passaggio, sgattaiolò die-
tro le case sparpagliate lungo la strada e procedette in direzione della città. La falce di luna, a tratti visibile al di là dello strato nebbioso, aveva attraversato quasi tutto il cielo; presto sarebbe scomparsa. Da ovest si era alzato un vento penetrante, contrassegnato da periodiche raffiche abbastanza forti da scompigliarle i capelli, sollevandoglieli come una fiammata bionda attorno alla testa. Come se non bastasse, anche la temperatura si era abbassata; unico lato positivo: più il gelo e il vento la infastidivano, meno era consapevole dell'altro, grande disagio: la fame. «Senzatetto rinvenuta mentre vagava affamata e confusa dopo un incontro con creature aliene», esclamò, leggendo il titolo immaginario di una copia del National Enquirer che esisteva solo nella sua mente. Stava avvicinandosi all'incrocio fra la statale e Holliwell Road, felice per il progresso compiuto, quando finì quasi fra le braccia di coloro che stava cercando di evitare. In direzione est, Holliwell era una strada sterrata che conduceva alle colline e alla vecchia, abbandonata comunità Icaro — un vasto edificio diroccato con dodici stanze, un fienile e alcuni fabbricati annessi, ormai in macerie — dove un gruppo di artisti aveva fondato una comune negli anni Cinquanta. Da allora, era stata trasformata in allevamento di cavalli (fallito), in sede di un'asta e di un mercatino delle pulci (falliti), in un ristorante macrobiotico (fallito), ed era da tempo finita in rovine. I bambini la conoscevano benissimo perché era un luogo sinistro e, di conseguenza, meta per molte prove di coraggio. A ovest, invece, Holliwell Road era asfaltata e costeggiava la periferia cittadina, oltrepassando alcune fra le case più recenti della zona e la New Wave Microtechnology, fino al promontorio sulla baia dove Thomas Shaddack, il genio dei computer, abitava in un'enorme casa dall'aspetto inquietante. Chrissie non aveva nessuna intenzione d'imboccare quella strada: si trattava soltanto di una pietra miliare sul suo percorso in quanto, attraversandola, sarebbe entrata nei confini di Moonlight Cove. All'improvviso udì il rumore, sommesso ma in rapido aumento, di un motore a tutto gas e immediatamente si allontanò dalla strada, cercando copertura contro lo spesso tronco di un pino. Vide spuntare dei fanali, poi apparve un camion che ignorò il segnale di stop e frenò in mezzo all'incrocio. Dato che quel punto era teatro di numerosi incidenti, su un angolo era stato installato un lampione per consentire migliore visibilità, quindi Chrissie distinse molto chiaramente il marchio della New Wave sulla por-
tiera; un cerchio bianco e blu la cui parte inferiore era sagomata come un'onda. Il camion era munito di un grande cassone che, al momento, trasportava sei o otto persone. Non appena il veicolo si fu fermato, due uomini saltarono giù. Uno si diresse sull'angolo alberato dell'incrocio e scivolò fra i tronchi, a non più di trenta metri dal pino dietro cui la bambina lo stava osservando; l'altro si sistemò dalla parte opposta, tra l'erba e i cespugli. Il camion imboccò la statale e scomparve. Chrissie sospettò che gli uomini rimasti a bordo sarebbero stati accompagnati in altri punti lungo la cintura esterna di Moonlight Cove, dove sarebbero rimasti di guardia. Oltretutto, il veicolo era abbastanza grande da poter trasportare una ventina di persone, quindi molti erano stati senza dubbio già lasciati lungo il precedente percorso. Stavano circondando la città di sentinelle, e la bambina fu certa che fossero lì per lei. Aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere — i suoi genitori nell'atto di trasformarsi, mentre si liberavano della loro forma umana — e ora doveva essere rintracciata e «convertita», come aveva detto Tucker, prima che avesse la possibilità di mettere in guardia il mondo. Il rumore del camion svanì. Il silenzio si stese come una coperta umida. Benché Chrissie sapesse dove gli uomini si fossero appostati, non riuscì a vederli. Erano ben nascosti. 31 La nebbia oltrepassava velocemente l'autopattuglia, sospinta da una brezza che andava sempre più rinforzandosi, e le ipotesi attraversavano la mente di Sam con la medesima fluidità. I suoi pensieri erano tanto sconcertanti che avrebbe preferito rimanere seduto in stupefatta contemplazione. Sulla base di una notevole esperienza precedente con i computer, sapeva che parte delle capacità di un sistema potevano venire nascoste se solo il progettista del programma avesse cancellato alcune opzioni dall'elenco principale che compariva sullo schermo. Fissò la lista sul terminale della pattuglia — A. Centralino, B. Archivio centrale, C. Bollettino quotidiano, D. Modem extra-sistema — e premette il tasto E, nonostante la possibilità non venisse offerta. Sul video apparvero le parole: Salve, agente Dorn.
Dunque esisteva una E. Era penetrato in una memoria segreta che necessitava di una formula rituale per essere attivata, oppure in un sistema d'informazioni interattive che avrebbe reagito alle domande digitate sulla tastiera. Nel primo caso, se erano richieste parole d'ordine o frasi prestabilite e lui avesse fornito la risposta sbagliata, si sarebbe trovato nei guai: il computer avrebbe attivato un allarme al quartier generale di polizia per avvertire che un intruso si stava servendo del numero di Dorn. Procedendo con cautela, digitò: Salve. Posso essere d'aiuto? Sam decise di proseguire come se il sistema fosse esattamente ciò che sembrava: un programma diretto, a domande e risposte. Battè sulla tastiera: Elenco. Lo schermo si azzerò per un istante, poi riapparve la stessa frase: Posso essere d'aiuto? Provò ancora: Elenco primario. Posso essere d'aiuto? Elenco principale. Posso essere d'aiuto? Servirsi di un sistema attivato da un dialogo, con cui aveva scarsa familiarità, significava trovare gli esatti comandi più o meno procedendo per tentativi. Di conseguenza, provò ancora: Primo elenco. Alla fine fu ricompensato. Scegliere A. Personale New Wave B. Progetto Falco Notturno C. Shaddack Aveva scoperto un collegamento segreto fra la New Wave, il suo fondatore Thomas Shaddack e la polizia di Moonlight Cove. Tuttavia ignorava ancora la natura di quel legame e il suo significato. Sospettò che, premendo il tasto C, si sarebbe messo in contatto con il terminale privato di Shaddack, il che gli avrebbe consentito di comunicare con lui in modo ben più riservato di quanto non fosse possibile mediante una normale radio di servizio. Se le cose stavano così, allora Shaddack e i poliziotti locali erano davvero coinvolti in una cospirazione tanto criminale da richiedere un altissimo livello di segretezza. Non battè C perché, se si fosse ritrovato all'altro capo Il Grand'Uomo in persona, non avrebbe mai
potuto fingere di essere Reese Dorn. L'opzione A gli avrebbe probabilmente fornito il ruolino dei dirigenti e dei responsabili di settore della New Wave, forse anche con i codici che gli avrebbero permesso di collegarsi con ciascuno. In verità, però, non aveva voglia di parlare con nessuno di loro. Inoltre, sentiva di non avere ancora molto tempo a disposizione. Sorvegliò nuovamente il parcheggio, scandagliando soprattutto le zone d'ombra più fitta oltre la portata delle luci al sodio; si trovava nell'autopattuglia da un quarto d'ora, e ancora nessuno era entrato o uscito dall'edificio municipale. Dubitava che la sua fortuna potesse durare molto a lungo e intendeva scoprire, tutto il possibile nei minuti che gli restavano prima di venire interrotto. Progetto Falco Notturno rappresentava la scelta senz'altro più misteriosa e interessante, quindi premette B e ne ricavò un ulteriore elenco. Scegliere A. Convertiti B. Conversioni imminenti C. Programma delle conversioni... locali D. Programma delle conversioni... secondo stadio Scelse il tasto A e sul video apparve una colonna di nomi e indirizzi; erano tutti abitanti di Moonlight Cove, e in cima alla lista c'era la scritta: Attualmente convertiti: 1967. Convertiti? E da che? In che cosa? La cospirazione aveva forse caratteristiche religiose? Qualche culto strano? O forse «convertiti» era solo una parola in codice? Il pensiero gli fece venire i brividi. Cercò subito i nomi dei residenti che conosceva o aveva già incontrato: Loman Watkins compariva sulla lista, come pure Reese Dorn. Burt Peckham, il proprietario della Knight's Bridge Tavern, non era fra i convertiti, ma l'intera famiglia Perez, sicuramente la stessa che gestiva il ristorante, ne faceva parte. Controllò Harold Talbot, il reduce handicappato con il quale intendeva entrare in contatto la mattina seguente: non c'era. Perplesso sul significato della propria scoperta, ritornò all'elenco principale e selezionò la lettera B: Conversioni imminenti. Il terminale produsse altri nomi e indirizzi, in tutto 1.104; Burt Peckham e Harold Talbot ap-
partenevano a questa seconda categoria. Tentò poi con la lettera C: Programma delle conversioni... locali e gli venne fornito un subelenco con tre voci: A. Lunedì 13 ottobre, ore 18.00 - martedì 14 ottobre, ore 6.00 B. Martedì 14 ottobre, 6.00 - martedì 14 ottobre, 18.00 C. Martedì 14 ottobre, 18.00 - mezzanotte Era da poco passata la mezzanotte di martedì, a metà circa tra le ore citate nella categoria A, quindi premette per primo quel tasto. Si trattava di un'altra lista di nomi, sotto l'annotazione Conversioni programmate: 380. Sam si sentì rizzare i capelli. La parola «conversioni» lo sconvolgeva: gli rammentava un vecchio film con Kevin McCarthy, L'invasione degli ultracorpi. Pensò al gruppo di ragazzi che lo aveva inseguito. Erano forse stati convertiti? Quando cercò Burt Peckham, scoprì che la sua conversione era programmata appena prima delle sei del mattino; Harry Talbot, invece, non era compreso nell'elenco. La macchina ondeggiò. Sam alzò bruscamente la testa e mise mano alla pistola che custodiva sotto il giubbotto. Vento. Era stato solo il vento. Una serie di raffiche violente aveva perforato la nebbia e scosso l'automobile. Dopo un attimo, tutto tornò tranquillo, ma il cuore di Sam continuò a martellare dolorosamente. 32 Quando Tessa depose il ricevitore, del tutto inutile, la porta smise di sbattere. Per un attimo rimase accanto al letto in ascolto, poi si avventurò nel vestibolo per premere l'orecchio contro l'uscio. Udì alcune voci, ma non nelle immediate vicinanze; erano a una certa distanza lungo il corridoio, voci strane, che si esprimevano in bisbigli rochi e affannosi. Non riuscì a capire nulla di quanto dicevano. Era certa che si trattasse dei medesimi individui che l'avevano inseguita mentre si recava a prendere il ghiaccio e la Coca. Ora erano tornati e, in qualche modo, avevano messo fuori uso i telefoni, impedendole di cercare aiuto. Era una situazione pazzesca, ma stava accadendo veramente.
Un simile comportamento le fece sospettare che non fossero semplici stupratori o teppisti, ma che si accanissero contro di lei perché era la sorella di Janice. Tuttavia, si chiese come avessero saputo del suo arrivo in città e perché si fossero decisi a muoversi tanto precipitosamente, senza neppure aspettare di verificare le sue intenzioni. In preda a un attacco di panico, si sentì vulnerabile vestita soltanto di una maglietta e mutandine; andò in fretta all'armadio e indossò un paio di jeans e un golf. Non era sola nel motel. Il signor Quinn le aveva detto che c'erano altri ospiti, forse non molti, magari solo due o tre, ma nel peggiore dei casi avrebbe potuto urlare ed essere sentita. I suoi assalitori sarebbero stati costretti a fuggire. Prese le scarpe da ginnastica e tornò alla porta. In fondo al corridoio, voci basse e raschianti sibilavano e mormoravano. Poi, all'improvviso, un fragore assordante riempì l'edificio, facendola urlare e sobbalzare per la sorpresa, seguito immediatamente da un secondo schianto: la porta di un'altra camera era stata abbattuta. Un uomo e una donna lanciarono un grido, ma furono le altre voci ad agghiacciare Tessa, tre o quattro, sinistre e terribilmente selvagge. Il corridoio era pieno di mugolii rauchi, ringhi micidiali, latrati acuti ed eccitati, gelidi lamenti e altri suoni indescrivibili, ma il peggio era che quelle stesse voci disumane, chiaramente appartenenti ad animali e non a uomini, riuscivano comunque ad articolare alcune parole intelligibili: «... bisogno, bisogno... prenderla, prenderla... prendere, prendere... sangue, cagna, sangue...» Aggrappata agli stipiti della porta nel tentativo di reggersi in piedi, Tessa cercò di convincersi che quelle parole erano state pronunciate dall'uomo e dalla donna che alloggiavano nella camera, ma sapeva che non era vero perché li aveva sentiti gridare. Le loro urla erano terribili, quasi insopportabili, cariche di terrore e di disperazione, come se li stessero picchiando a morte o peggio, molto peggio, li stessero straziando, squarciandoli da parte a parte. Un paio d'anni prima era stata nell'Irlanda del Nord per realizzare un documentario sull'inutilità di quell'assurda violenza e aveva avuto la sfortuna di trovarsi in un cimitero durante i funerali di uno dell'infinita serie di «martiri», quando la folla di dolenti si era trasformata in un branco di selvaggi. Dalla chiesa, si erano riversati nelle strade adiacenti in cerca dei loro oppositori, imbattendosi in due poliziotti inglesi che, in abiti civili, pat-
tugliavano la zona in macchina. La marea umana aveva bloccato l'auto, circondandola, fracassando i finestrini e trascinando i malcapitati sull'asfalto. I due assistenti di Tessa erano fuggiti, ma lei si era inoltrata nel marasma con la cinepresa; attraverso l'obbiettivo, le era parso di guardare qualcosa che oltrepassava la realtà di questo mondo: l'inferno stesso. Gli occhi sbarrati, i visi distorti dall'odio e dalla furia, dimenticando il dolore e in preda alla sete di sangue, i dolenti avevano preso a calci gl'inglesi stesi al suolo, poi li avevano trascinati in piedi per picchiarli e pugnalarli, sbattendoli ripetutamente contro l'auto fino a frantumare loro il cranio e la spina dorsale; infine li avevano calpestati e fatti a pezzi, benché fossero ormai morti. Gridando e maledicendo, intonando slogan presto degenerati in una cantilena priva di significato, li avevano smembrati come un nugolo di avvoltoi. Due di loro, notata Tessa, si erano avventati sulla cinepresa, riducendola in frantumi; poi era stata la volta della ragazza, gettata a terra con violenza. Per un terribile momento, lei era stata certa che, nella loro frenesia, l'avrebbero massacrata. I visi della folla erano così stravolti dall'odio da aver perso ogni caratteristica umana per assomigliare a sculture demoniache improvvisamente dotate di vita; quella gente aveva scatenato i fantasmi genetici delle creature primitive dalle quali discendevano. «Per carità di Dio, no!» aveva gridato. «Per carità di Dio, vi prego!» Forse era stato l'aver menzionato il nome di Dio, oppure soltanto il suono di una voce che non si era trasformata nel ringhio di una belva, ma, inspiegabilmente, l'avevano lasciata andare, esitando. Tessa aveva approfittato di quell'attimo per mettersi in salvo. Quanto udiva ora in fondo al corridoio del motel era qualcosa di simile. O di molto peggio. 33 Cominciando a sudare nonostante l'autopattuglia avesse il riscaldamento spento, tremante a ogni improvvisa raffica di vento, Sam esaminò l'elenco B, che mostrava le conversioni previste tra le sei del mattino e le sei di sera del giorno successivo. I nomi erano preceduti dalla dicitura Conversioni programmate: 450; Harry Talbot non compariva neppure lì. La lista C, dalle sei di sera di martedì fino alla mezzanotte dello stesso giorno, indicava 274 altre conversioni: il nome e l'indirizzo finale del veterano si trovavano in quel programma finale. Sam addizionò mentalmente i numeri riportati per ciascuno dei tre pe-
riodi — 380, 450 e 274 — e ne ricavò un totale di 1104, esattamente la cifra stampata in cima alle conversioni imminenti. Aggiunta a 1967, la somma dei già convertiti, dava un totale di 3071, con ogni probabilità l'insieme degli abitanti di Moonlight Cove. Al prossimo tocco di mezzanotte, un po' meno di ventitré ore da quel preciso momento, l'intera città sarebbe stata convertita — qualunque accidenti ciò significasse. Stava per spegnere il motore della macchina e andarsene, quando la parola allarme cominciò a lampeggiare sul terminale. Fu assalito dalla paura. Era certo che avessero scoperto l'intruso che si era intromesso nel sistema; doveva avere attivato un segnale di allerta contenuto nel programma. Invece di aprire la portiera e precipitarsi in salvo, rimase a osservare lo schermo, spinto dalla curiosità. Sorveglianza telefonica indica presenza di agente federale a Moonlight Cove. Punto di chiamata: cabina della stazione Shell, Ocean Avenue. Dunque l'allarme era riferito a lui, benché ignorassero che, al momento, si trovava in una delle loro auto, intento a verificare la cospirazione New Wave/Falco Notturno. I bastardi erano evidentemente collegati con la banca dati della società telefonica e controllavano periodicamente le chiamate, persino quelle delle cabine pubbliche, che in circostanze normali avrebbero dovuto garantire a un agente in incognito la possibilità di comunicare in modo sicuro. Erano dei paranoici, organizzati elettronicamente a un livello che si andava dimostrando sempre più stupefacente. Ora della chiamata: 19.31 Lunedì, 13 ottobre. Perlomeno non mantenevano una sorveglianza minuto per minuto, né ora per ora; ovviamente il loro computer osservava un programma prestabilito, forse ogni sei od otto ore. In caso contrario, sarebbero stati avvertiti subito dopo la sua telefonata a Scott. Dopo la scritta destinatario della chiamata apparve il suo numero telefonico di Los Angeles, seguito dal nome e dall'indirizzo preciso.
Chiamata effettuata da: Samuel H. Booker Modalità di pagamento: carta di credito telefonica tipo di credito: a carico del datore di lavoro fatturazione da intestare a: Federal Bureau of Investigation Washington, D.C. Avrebbero iniziato a ispezionare gli alberghi dell'intera contea, ma dal momento che era alloggiato nell'unico motel di Moonlight Cove la ricerca sarebbe stata breve. Sam si chiese se avrebbe avuto il tempo di precipitarsi al Cove Lodge, prendere la macchina e arrivare fino alla più vicina città, Aberdeen Wells, per mettersi in contatto con la sede federale di San Francisco da una linea non sorvegliata. Aveva appreso a sufficienza da esser certo che in città stava accadendo qualcosa di maledettamente strano, abbastanza da giustificare un'approfondita inchiesta da parte dell'FBI. Quanto apparve immediatamente dopo sul terminale, però, lo convinse che, se fosse tornato al Cove Lodge a riprendere l'auto, sarebbe stato preso prima di poter lasciare la città. E se gli avessero messo le mani addosso, avrebbe potuto diventare un ennesimo dato statistico sulle morti accidentali. Conoscevano il suo indirizzo di casa, quindi anche Scott poteva essere in pericolo — non subito, visto che si trovava a Los Angeles, ma forse entro l'indomani. Richiesta di colloquio Watkins: Sholnick, sei collegato? Sholnick: eccomi Watkins: prova al Cove Lodge Sholnick: vado subito Un poliziotto era già diretto al motel per verificare se Sam era registrato
fra gli ospiti, quindi la sua copertura — la storia dell'agente di borsa desideroso di ritirarsi in una cittadina costiera — era saltata. Watkins: Peterson? Peterson: sono qui Probabilmente non avevano neppure bisogno di digitare i loro nomi sulla tastiera: ci avrebbe pensato automaticamente il computer, dopo aver identificato il codice d'accesso. Pulito, rapido e semplice da usare. Watkins: dai una mano a Sholnick Peterson: d'accordo Watkins: non uccidetelo finché non riusciamo a interrogarlo In tutta Moonlight Cove, gli agenti nelle auto di pattuglia si parlavano l'un l'altro via computer, evitando le onde radio, senza pericolo di venire ascoltati. Nonostante Sam li stesse spiando a loro insaputa, si sentì alle prese con un nemico formidabile, onnisciente quasi come Dio. Watkins: Danberry? Danberry: sono al quartier generale Watkins: bloccate Ocean Avenue fino all'autostrada Danberry: subito Shaddack: che ne è della piccola Foster? Nel vedere apparire il nome di Shaddack, Sam rimase allibito: a quanto pareva, l'allarme aveva lampeggiato anche sul suo computer a casa, forse accompagnato da un segnale sonoro che lo aveva svegliato. Watkins: ancora in giro Shaddack: non possiamo rischiare che Booker si imbatta in lei Watkins: la città, è circondata da sentinelle. La prenderanno appena tenta di metterci piede Shaddack: ha visto troppo Sam aveva letto parecchi articoli su Thomas Shaddack. Quell'uomo era una specie di celebrità, il genio del secolo in fatto di computer. Ipnotizzato da questo dialogo rivelatore, che incriminava il grande per-
sonaggio e il suo corrotto corpo di polizia, Sam non aveva afferrato compiutamente il senso dello scambio di battute fra il capo Watkins e Danberry: ... sono al quartier generale... bloccate Ocean Avenue fino all'autostrada... subito. Di colpo si rese conto che il quartier generale si trovava nell'edificio municipale, e che da un momento all'altro l'agente sarebbe uscito dal retro per affrettarsi a una delle pattuglie. «Oh, merda.» Afferrò i fili dell'accensione e strappò il collegamento. Il motore tossì e si spense, mentre il video si oscurò. Una frazione di secondo più tardi, Danberry si precipitò nel parcheggio. 34 Quando le urla cessarono, Tessa uscì dallo stato di trance e andò immediatamente al telefono. La linea era ancora interrotta. Dov'era Quinn? A quell'ora gli uffici dovevano essere chiusi ma non aveva un appartamento al motel? Come mai non aveva reagito al frastuono? Faceva forse parte del branco di selvaggi nel corridoio? Avevano abbattuto una porta, e potevano farlo anche con la sua. Afferrò una delle sedie, si precipitò nel vestibolo e la incastrò sotto la maniglia. Non pensava più che ce l'avessero con lei solo perché era la sorella di Janice e si proponeva di scoprire la verità; quella spiegazione non giustificava l'attacco ad altri clienti, che non avevano niente a che fare con Janice. Era pazzesco. Non riusciva a capire che cosa stesse accadendo, ma aveva afferrato con chiarezza le implicazioni di quanto aveva udito: un assassino psicopatico scorrazzava per il motel — no, parecchi psicopatici, a giudicare dalle voci, qualche culto bizzarro come la famiglia di Manson, o anche peggio. Avevano già ucciso due persone e potevano ammazzare anche lei, evidentemente per il puro piacere di farlo. Si sentì preda di un incubo. Stava indossando affannosamente calze e scarpe, quando udì nuovamente quelle voci. Non in fondo al corridoio, bensì nei pressi della propria porta, sempre più vicine. Si augurò che il battente fosse munito di uno spioncino a largo raggio, in modo da avere un'ampia visuale all'esterno, ma non esisteva niente del genere. In compenso, c'era una fessura nell'intercapedine, quindi Tessa si abbassò, premette il viso contro la moquette e sbirciò nel corridoio. Da quel ristretto punto d'osservazione vide qualcosa oltrepassare la sua stanza a una
velocità tale da non permettere un'identificazione, anche se riuscì a carpire un particolare che le fece gelare il sangue. Aveva visto dei piedi, ma che non avevano niente di umano. Quei piedi erano membranosi, pelosi, dal colore scuro, piatti, larghi e sorprendentemente allungati, con i pollici così flessibili e articolati da svolgere la funzione di vere e proprie dita. Qualcosa colpì la porta. Violentemente. Tessa si allontanò precipitosamente dal vestibolo. Il corridoio si riempì di voci impazzite: la stessa, allucinante miscela di rauchi suoni animali inframmezzata da scoppi di parole pronunciate affannosamente e per lo più sconnesse. Aggirato il letto, si diresse alla finestra, aprì la serratura e fece scorrere il vetro. La porta tremò di nuovo, con fragore così forte che a Tessa parve di trovarsi all'interno di un tamburo. Non sarebbe crollata facilmente come quella degli altri ospiti per via della sedia, ma non avrebbe retto più di qualche altro colpo. Si sedette sul davanzale con le gambe nel vuoto e guardò giù. In basso, il vicolo invaso dalla nebbia riluceva al fioco chiarore giallastro delle lampade: un salto facile, di circa tre metri e mezzo. Un nuovo urto contro la porta, ancora più forte. Il legno si scheggiò. Tessa balzò dal davanzale, atterrò sul selciato umido e, grazie alle scarpe dalla suola di gomma, scivolò, ma non cadde. Di sopra, il legno si squarciò più rumorosamente di prima e il metallo del lucchetto stridette disintegrandosi. Alla ragazza sembrò di vedere qualcosa muoversi nell'ombra in direzione nord; sarebbe potuto trattarsi soltanto di un grumo di nebbia agitata dal vento, ma non voleva correre rischi, quindi corse dalla parte opposta, con la vasta distesa del mare sulla propria destra. Nel momento in cui raggiunse l'angolo dell'edificio, un boato echeggiò nella notte — il rumore della porta abbattuta — seguito dagli ululati del branco che entrava nella stanza. 35 Sam non sarebbe potuto scivolare fuori dalla macchina senza attirare l'attenzione di Danberry. Le vetture a disposizione erano quattro, quindi esisteva un settantacinque per cento di probabilità di rimanere inosservato dove si trovava. Si abbassò sul sedile, adagiandosi dalla parte del passeg-
gero. Il poliziotto si diresse all'auto successiva. Con il collo proteso per sbirciare dal finestrino, Sam osservò Danberry aprire la portiera, pregando che continuasse a voltargli le spalle perché i lampioni del parcheggio illuminavano il suo nascondiglio. Se solo questi avesse girato lo sguardo, lo avrebbe scorto. L'agente entrò in macchina e richiuse lo sportello; Sam sospirò di sollievo. Il motore si accese e l'autopattuglia si avviò lungo il parcheggio, per poi scomparire nel vicolo con stridore di gomme. Per quanto Sam desiderasse riattivare il computer per scoprire se Watkins e Shaddack stessero ancora conversando, decise di non trattenersi più a lungo: con il procedere della caccia all'uomo, gli uffici della polizia si sarebbero certamente animati. Dato che non voleva far loro sapere di aver usato il computer per spiare sul terminale — più lo ritenevano all'oscuro, meno sarebbero stati efficienti nelle ricerche — si servì degli attrezzi per ricollocare l'accensione al proprio posto. Scese dall'auto, premette la sicura e richiuse la portiera. Non intendeva andarsene dal vicolo perché un'auto di pattuglia avrebbe potuto svoltare in quel frattempo, illuminandolo con i fari; invece, lo attraversò a tutta velocità e aprì un cancelletto in ferro battuto. Entrò nel cortile posteriore di una villa vagamente decrepita in stile vittoriano, i cui proprietari avevano trascurato a tal punto il giardino da far pensare che quel luogo potesse essere abitato da una macabra famiglia come quelle che si vedevano alla televisione. Percorse con calma il lato della casa e sbucò su Pacific Drive, a un isolato da Ocean Avenue. La calma notturna non era lacerata dalle sirene. Non udì grida né passi affrettati né clamori d'allarme, ma sapeva di aver svegliato una bestia dalle molte teste, e quest'Idra, tremendamente pericolosa, lo stava cercando in tutta la città. 36 Mike Peyser non sapeva che cosa fare, non sapeva, era spaventato, confuso e spaventato, dunque non riusciva a pensare lucidamente, benché avesse bisogno di riflettere con chiarezza ed efficacia come un uomo, tranne che la sua parte selvaggia continuava a intromettersi; il suo cervello lavorava in fretta, ed era acuto, ma non poteva mantenere il filo dei pensieri per più di pochi secondi. La velocità, il fuoco di fila mentale, non era suffi-
ciente a risolvere un problema del genere; doveva pensare rapidamente e profondamente, ma la sua capacità di concentrazione non era più quella di prima. Quando finalmente fu in grado di smettere di urlare e di alzarsi dal pavimento della cucina, si affrettò nella sala da pranzo, nel soggiorno buio, in camera da letto, infine nel bagno, procedendo sui quattro arti e sollevandosi sulle gambe soltanto sulla soglia del bagno, incapace però di raddrizzarsi completamente e di rimanere del tutto dritto, ma flessibile a sufficienza per mantenere una posizione semieretta. Una volta entrato, alla tenue luce lunare che penetrava da una finestrella sopra la cabina della doccia, afferrò il bordo del lavabo e fissò lo specchio, che gli rimandò soltanto un'immagine indistinta, priva di dettagli. Voleva credere di essere ritornato alla propria forma naturale, che quella sensazione d'intrappolamento in uno stile di alterazione fosse pura allucinazione, sì, sì, voleva disperatamente crederlo, credere, credere, anche se non riusciva più a stare eretto, anche se poteva sentire la differenza nelle mani dalle dita spropositatamente lunghe, nella strana posizione della testa sulle spalle e nel modo in cui la schiena si articolava con le anche. Aveva bisogno di credere. Accendi la luce, si disse. Non poteva farlo. Accendi la luce. Aveva paura. Doveva accendere la luce e guardarsi. Ma rimaneva afferrato al lavabo e non poteva muoversi. Accendi la luce. Si sporse invece verso lo specchio, fissando intento il riflesso indistinto, scorgendo poco più del tenue splendore ambrato di occhi strani. Accendi la luce. Si lasciò sfuggire un flebile miagolio di angoscia e terrore. Shaddack, pensò all'improvviso. Shaddack, doveva dirlo a Shaddack, Tom Shaddack avrebbe saputo che cosa fare, Shaddack era la sua speranza, forse l'unica, Shaddack. Lasciò andare il lavabo, ricadde sui quattro arti, si precipitò fuori dal bagno, in camera da letto, verso il telefono. Lungo il percorso, con voce alternativamente stridente e gutturale, lacerante e sommessa, ripetè quel nome come se fosse una parola magica: «Shaddack, Shaddack, Shaddack, Shaddack...»
37 Tessa Lockland si rifugiò in una lavanderia a gettone aperta tutta la notte, a mezzo isolato da Ocean Avenue. Voleva trovarsi in un luogo illuminato, e le file di neon non lasciavano spazio alle ombre. Completamente sola, si sistemò su una malandata sedia di plastica gialla fissando la fila di asciugatrici, come se la capacità di comprendere potesse calare su di lei da qualche fonte cosmica che comunicava tramite gli oblò. In quanto documentarista, doveva possedere un occhio particolarmente acuto per gli schemi della vita, che avrebbero conferito coerenza al film dal punto di vista narrativo e visivo, di conseguenza non aveva difficoltà a riconoscere schemi di oscurità, morte e forze ignote all'opera in quella cittadina completamente impazzita. Le creature fantastiche del motel erano senza dubbio la fonte delle grida da lei udite in precedenza sulla spiaggia, e sua sorella era certamente stata uccisa dai medesimi esseri, qualunque cosa fossero. Il che spiegava almeno in parte il motivo per cui le autorità si erano dimostrate tanto insistenti nel chiedere che Marion acconsentisse alla cremazione del corpo di Janice — non perché i resti fossero corrosi dall'acqua e semidivorati dai pesci, bensì per nascondere ferite che avrebbero suscitato quesiti senza risposta nel corso di una normale autopsia. Improvvisamente scorse il riflesso della corruzione del potere locale nell'aspetto desolato di Ocean Avenue, dove troppi negozi erano chiusi e troppe attività stavano languendo: una cosa inspiegabile in una città in cui la disoccupazione era virtualmente nulla. Aveva notato un'aria solenne nella gente incontrata per la strada, unita a una determinazione e a una frettolosità che apparivano strane in una località costiera, poco soggetta agli affanni della vita moderna. La sua consapevolezza degli schemi, tuttavia, non includeva alcuna spiegazione del perché la polizia avrebbe dovuto occultare la vera natura dell'omicidio di Janice; o la ragione per cui Moonlight Cove sembrava in preda alla depressione economica nonostante la sua prosperità; o che cosa in nome del cielo fossero quelle creature da incubo nel motel. Gli schemi rappresentavano indizi delle verità sottostanti, ma la sua abilità nel riconoscerli non significava automaticamente saper trovare le risposte. Rimase seduta, tremante, sotto le luci fluorescenti e respirò tracce di detersivi, candeggianti, ammorbidenti, oltre all'odore stagnante dei mozziconi di sigaretta nei portacenere, mentre tentava di decidere il da farsi. Non
aveva perso la propria determinazione di scavare nella morte di Janice, ma non aveva più la temerarietà di credere di poter giocare all'investigatore tutta da sola; le sarebbe stato necessario parecchio aiuto e probabilmente avrebbe dovuto ottenerlo dalle autorità della contea e dello Stato. La prima cosa da fare era uscire da Moonlight Cove sana e salva. La sua macchina era rimasta al Cove Lodge, ma lei non intendeva tornare a prenderla: quelle creature avrebbero potuto trovarsi ancora all'interno del motel o di guardia fra i cespugli e le onnipresenti ombre che sembravano parte intregrande della città. Come Carmel e altre località della costa californiana, Moonlight Cove era virtualmente costruita nella foresta marittima; Tessa amava Carmel per la sua splendida integrazione fra il lavoro dell'uomo e la natura, ove la geografia e l'architettura sembravano spesso il prodotto della medesima mano. In quel momento, però, Moonlight Cove non traeva grazia ed eleganza dalla sua vegetazione lussureggiante e dalle artistiche ombre notturne; al contrario, sembrava rivestita da una sottilissima patina di civilizzazione, sotto cui qualcosa di selvaggio — primordiale, addirittura — osservava e attendeva. Ogni macchia d'alberi e ogni strada buia non erano un sito di bellezza, ma di morte e di ignoto. La città le sarebbe parsa assai più piacevole se tutte le vie, i vicoli, i prati e i parchi fossero stati illuminati con la medesima abbondanza di luci al neon che regnava nella lavanderia a gettone dove si era rifugiata. A quel punto, forse la polizia era arrivata al Cove Lodge in seguito alle grida e al tumulto, ma lei non si sarebbe sentita più protetta nel tornare là soltanto perché vi si aggiravano gli agenti: loro erano parte del problema. Avrebbero voluto interrogarla sull'omicidio degli altri ospiti, per poi scoprire che Janice era stata sua sorella; anche se non avesse confessato di trovarsi in città per verificare le circostanze di quello strano suicidio, loro lo avrebbero sospettato. Se davvero avevano partecipato a una cospirazione per nascondere la vera natura della fine di Janice, probabilmente, non avrebbero esitato a sbarazzarsi di lei. Doveva abbandonare la macchina. Ma che fosse dannata se tentava di uscire dalla città di notte. Forse sarebbe riuscita a trovare un passaggio — magari addirittura da un onesto camionista e non da uno psicopatico — ma tra Moonlight Cove e l'autostrada avrebbe dovuto percorrere una zona buia e spopolata, dove, certamente, i rischi di incontrare altre di quelle bestie misteriose sarebbero stati molto maggiori. Per la verità, avevano cercato di aggredirla in un luogo relativamente frequentato e ben illuminato, quindi non esisteva un vero motivo per rite-
nersi più sicura nella lavanderia a gettone che non in mezzo ai boschi. Quando la membrana della civilizzazione si lacerava e il terrore primordiale si riversava all'esterno, nessun luogo era più sicuro, neppure i gradini di una chiesa, come aveva imparato a sue spese nelPIrlanda del Nord. Ciononostante, lei sarebbe rimasta aggrappata alla luce, evitando l'oscurità. Aveva attraversato un muro invisibile tra la realtà che le era nota da sempre e un mondo diverso, più ostile; finché rimaneva in quella zona di confine, sembrava saggio dare per scontato che le ombre offrissero meno riparo della luce. Il che la lasciava priva di un piano d'azione, tranne rimanere seduta lì in attesa del mattino. Gli oblò delle asciugatrici ricambiavano il suo sguardo. Una falena autunnale sbattè contro i pannelli di plastica sospesi sotto il neon. 38 Impossibilitata a fare il proprio baldanzoso ingresso a Moonlight Cove come aveva progettato, Chrissie arretrò lungo Holliwell Road, nella direzione da cui era venuta. Rimase nel bosco, spostandosi lentamente e con cautela di albero in albero e cercando di evitare di fare il minimo rumore per non allarmare le sentinelle più vicine. Quando si trovò oltre la portata dei due uomini, si mosse con più decisione. Dopo qualche tempo, giunse a una delle case che sorgevano lungo la statale: una fattoria riparata dietro parecchi pini e abeti, a malapena visibile ora che la luna stava svanendo. Tutte le luci erano spente e regnava il silenzio. Aveva bisogno di tempo per pensare e voleva trovare riparo dal freddo e dall'umidità; sperando che in casa non ci fossero cani, si affrettò nel garage. Come si aspettava, in aggiunta alla serranda dalla quale le auto entravano e uscivano, esisteva anche un piccolo ingresso laterale, aperto. «Chrissie Foster, agente segreto, penetrò in campo nemico grazie all'audace e brillante uso di una porta di servizio», esclamò a bassa voce. Il chiarore della luna calante filtrava attraverso le alte finestre, ma era ormai insufficiente: la bambina vedeva solo occasionali luccichii di cromo e riflessi sul vetro dei parabrezza, abbastanza per percepire la presenza di due macchine. Si accostò al veicolo più vicino con la cautela di una cieca, con le mani
protese, spaventate all'idea di rovesciare qualcosa. L'auto era aperta e lei scivolò dietro il volante, lasciando la portiera spalancata per usufruire delle luci interne. Frugò nello scompartimento dei guanti, nelle tasche laterali e sotto i sedili nella speranza di trovare del cibo, visto che quasi tutti tenevano in macchina qualcosa da sgranocchiare. Da dieci ore non mangiava e il suo stomaco brontolava. Non si aspettava certo di scoprire una torta o il necessario per un sandwich, ma perlomeno un po' più di un'unica cicca americana e di una caramella che, recuperata dietro il sedile, era coperta di sporcizia. Come se leggesse il titolo di una rivista popolare, esclamò: «Fame nella terra dell'abbondanza, una tragedia moderna. Ragazzina trovata morta in un garage. 'Volevo solo qualche nocciolina', scritto con il suo sangue». Nell'altra auto scoprì due tavolette di cioccolato alle mandorle. «Grazie, Dio. La tua amica Chrissie.» Mentre mangiava riflette sul modo di entrare a Moonlight Cove. Ora che ebbe finito il cioccolato... RAGAZZINA CIOCCOLATODIPENDENTE TROVATA MORTA IN UN GARAGE PER STADIO TERMINALE DI PUSTOLE GIGANTI ... aveva ideato un piano. Di solito andava a letto parecchie ore prima ed era esausta per tutta l'attività fisica della giornata, quindi desiderava soltanto rimanere in macchina e dormire un paio d'ore prima di realizzare il suo progetto. Sbadigliò, rannicchiandosi sul sedile; era tutta dolorante e sentiva le palpebre pesanti come se qualche zelante impresario di pompe funebri vi avesse deposto due monete. L'immagine di se stessa in qualità di cadavere la sconvolse al punto da farla scendere dall'auto. Se si fosse addormentata là dentro, non si sarebbe svegliata finché qualcuno non l'avesse trovata al mattino; forse i proprietari dei veicoli erano convertiti, nel qual caso non avrebbe avuto speranze. All'esterno, rabbrividendo per il vento, tornò sulla statale e si diresse a nord. Oltrepassò altre due case buie e silenziose, un'estensione boscosa, e giunse a una seconda fattoria. Vi abitavano i signori Eulane: lei gestiva il bar della scuola, mentre lui era un giardiniere molto ricercato a Moonlight Cove. Ogni mattina, il signor Eulane andava in città con il suo furgone bianco, con il retro carico di attrezzi, terriccio, fertilizzanti e quant'altro gli potesse essere utile; lasciava la moglie davanti alla scuola e se ne andava al lavoro. Chrissie decise di
nascondersi nell'automezzo. Lo trovò nel garage, aperto come il precedente. Erano in campagna, dopotutto, e tutti si fidavano l'uno dell'altro — cosa bellissima, peccato che avvantaggiasse gli alieni invasori. L'unica finestra era piccola e per di più sulla parete opposta rispetto alla fattoria, quindi Chrissie si arrischiò ad accendere la luce; montò silenziosamente sul furgoncino e si fece strada fra gli attrezzi, che occupavano i due terzi dello spazio. Dalla parte della cabina di guida, invece, affiancati da terriccio e fertilizzante, stavano ripiegati numerosi teloni impermeabili in cui il signor Eulane ammassava l'erba falciata da gettare via. Avrebbe potuto usare alcuni teli come materasso, altri al posto delle coperte, e dormire fino al mattino, restando nascosta in mezzo al carico per tutto il percorso fino a Moonlight Cove. Scese dal veicolo, spense la luce, poi risalì a bordo. Si preparò un giaciglio: i teloni erano un po' ruvidi e, dopo anni d'uso, permeati dell'odore dell'erba appena tagliata. In breve la stoffa imprigionò il calore del suo corpo e, nello spazio di qualche minuto, la bambina si sentì confortata per la prima volta in tutta la sera. Con il procedere della notte, pensò, la giovane Chrissie, mascherando il proprio odore umano con l'aroma dell'erba che saturava i teloni, si nascose brillantemente dagli alieni inseguitori — o forse lupi mannari — il cui olfatto era acuto quasi come quello dei cani. 39 Sam si rifugiò temporaneamente nel campo giochi delle scuole elementari Thomas Jefferson, sulla Palomino Street, nella zona sud della città. Si sedette su un'altalena, afferrando le catene con entrambe le mani e dondolandosi lievemente mentre rifletteva sulle possibili mosse da fare. Non poteva andarsene da Moonlight Cove in macchina. L'auto a noleggio si trovava al motel, dove sarebbe stato catturato non appena avesse mostrato la faccia; avrebbe potuto rubarne una, ma si rammentava dell'ordine impartito via computer da Loman Watkins a Danberry di organizzare posti di blocco fra Ocean Avenue e l'autostrada. Forse gli sarebbe convenuto spostarsi a piedi, sgattaiolando, di strada in strada, fino ai confini della città, poi attraverso i boschi e i campi fino alla statale; Watkins, però, aveva anche accennato qualcosa circa un accerchiamento dell'intera comunità con sentinelle per intercettare «la picco-
la Foster». Per quanto Sam nutrisse fiducia nel proprio istinto e nelle proprie capacità di sopravvivenza, non aveva più sperimentato azioni evasive in territorio aperto sin dai tempi della guerra, oltre vent'anni prima: se davvero esistevano uomini di guardia intorno alla città per fermare la bambina, era probabile che finisse dritto nelle loro braccia. Nonostante fosse disposto a rischiare la cattura, non doveva finire in trappola prima di aver telefonato al Bureau per fare rapporto e chiedere un intervento d'emergenza. Se era destinato a diventare una cifra statistica in questa capitale mondiale delle morti accidentali, perlomeno la sede avrebbe inviato altri agenti al suo posto e la verità sarebbe stata infine scoperta — ma, forse, troppo tardi. Dondolandosi lentamente avanti e indietro, pensò al programma letto sul terminale: tutti gli abitanti della città sarebbero stati «convertiti» entro le prossime ventitré ore. Benché non avesse la minima idea di che diavolo fosse l'obiettivo della conversione, la faccenda non gli piaceva. Per di più, sentiva che, una volta completato il progetto, arrivare alla verità su Moonlight Cove sarebbe stato difficile come aprire una serie infinita di scatole di titanio sigillato con un laser e infilate le une dentro le altre. D'accordo, allora la prima cosa da fare era dirigersi a un telefono e chiamare il Bureau. Le linee cittadine erano compromesse, ma non gli importava che la comunicazione venisse intercettata dal computer o addirittura registrata parola per parola; aveva bisogno di trenta secondi, un minuto soltanto, e sarebbero arrivati massicci rinforzi. Dopo avrebbe dovuto muoversi di continuo, aggirando i poliziotti per un paio d'ore finché non fossero sopraggiunti gli altri federali. Non poteva certo dirigersi alla casa più vicina e chiedere di usare il telefono, dato che non sapeva di chi fidarsi. Morrie Stein aveva detto che, dopo un giorno o due in città, ti sentivi sopraffatto dalla sensazione paranoica che occhi estranei ti spiassero ovunque andassi e che il Grande Fratello fosse sempre a poca distanza. Lui, però, era arrivato a quello stadio nell'arco di poche ore e stava rapidamente progredendo a un livello di tensione e sospetto costanti, mai più provati dai tempi dei combattimenti nella giungla. Una cabina telefonica. Certo non quella usata la prima volta, alla stazione di servizio della Shell: per un ricercato era stupido tornare in un luogo che aveva già frequentato. Durante le sue passeggiate per la città ne aveva notato un altro paio. Si alzò dall'altalena, infilò le mani in tasca, inarcò le spalle contro il vento ge-
lido e cominciò a camminare. Pensò alla piccola Foster cui Watkins e Shaddack si erano riferiti durante il collegamento via computer. Chi era? Che cosa aveva visto? Sospettò che quella bambina rappresentasse la chiave per scoprire la natura della cospirazione: di qualsiasi evento fosse stata testimone, lei avrebbe potuto spiegare che cosa volesse dire «conversione». 40 Sembrava che le pareti sanguinassero. Il liquido rosso, come se trasudasse dalla muratura, scorreva a rivoli lungo la tappezzeria giallo chiaro. In piedi, in quella stanza al secondo piano del Cove Lodge, Loman Watkins era disgustato dalla carneficina, ma anche stranamente eccitato. Il corpo dell'uomo giaceva nei pressi del letto sfatto, orribilmente sbranato e squarciato; in condizioni persino peggiori, la donna era riversa all'esterno della stanza, nel corridoio, un mucchio scarlatto sulla moquette arancione. L'aria odorava di sangue, bile, feci, urina — una miscela con cui Loman stava acquistando sempre maggiore familiarità da quando le vittime dei regressivi aumentavano di settimana in settimana e di giorno in giorno. Tuttavia, questa volta, come mai in precedenza, una seducente dolcezza giaceva sotto la superficie acre del fetore. Loman trasse profondi respiri, incerto sul perché quell'odore terribile potesse esercitare su di lui un fascino qualsiasi, ma incapace di negare la sua attrazione — o di resistere — come un cane da caccia non può ignorare la traccia di una volpe. Per quanto non riuscisse a restare indifferente all'accattivante fragranza, era spaventato dalla propria reazione; nelle sue vene il sangue sembrava diventare sempre più freddo con l'accrescersi del piacere olfattivo. Barry Sholnick, l'agente che Loman aveva mandato al Cove Lodge per arrestare Samuel Booker e che aveva trovato questo spettacolo di morte e distruzione invece del federale, stava in un angolo vicino alla finestra, fissando intento il cadavere dell'uomo. Era rimasto al motel più a lungo degli altri, abbastanza per aver cominciato a guardare le vittime con il distacco che deriva dall'abitudine, come se i corpi senza vita e mutilati, sulla scena del crimine, non fossero più degni di nota del mobilio. Eppure Sholnick non poteva negare di provare una sorta d'eccitazione davanti a quello spettacolo. Odiamo i regressivi per ciò che sono diventati e per quello che fanno,
pensò Loman, ma, in qualche modo perverso, siamo invidiosi di loro, della loro libertà estrema. Qualcosa dentro di lui — e, sospettava, in tutta la Nuova Gente — urlava per unirsi ai regressivi. Come gli era accaduto di fronte alla casa dei Foster, sentì l'urgenza d'impiegare il proprio nuovo controllo corporeo non per elevarsi, come Shaddack aveva inteso, ma per regredire allo stato selvaggio. Bramava di poter scendere a un livello di coscienza in cui i pensieri sullo scopo e il significato della vita non lo turbassero, in cui sarebbe stato una creatura la cui esistenza era definita quasi interamente dalle sensazioni, in cui la sfida intellettuale sarebbe stata inesistente, in cui ogni decisione si basasse unicamente sul piacere, una condizione imperturbabile ai pensieri complessi. Oh, Dio, essere libero dai fardelli della civiltà e dell'intelligenza superiore! Sholnick emise un suono sordo. Loman sollevò lo sguardo dal morto. Gli occhi scuri dell'agente bruciavano di una luce selvaggia. Sono pallido come lui? si chiese. Altrettanto strano? Per un attimo Sholnick fissò il proprio capo, poi guardò altrove, come se fosse stato colto nell'atto di compiere qualcosa di vergognoso. Il cuore di Loman batteva all'impazzata. L'agente si diresse alla finestra rivolto verso il mare, le mani serrate a pugno lungo i fianchi. Loman cominciò a tremare. L'odore, sinistramente dolce. Il profumo della caccia, dell'uccisione. Si allontanò dal cadavere e uscì dalla stanza, ma la vista della donna in corridoio — seminuda, sgozzata, lacerata — non fu un sollievo. Bob Trott, uno degli ultimi arrivati nel corpo di polizia quando la settimana precedente si era ampliato a dodici uomini, era in piedi di fianco ai resti martoriati. Era un uomo grande e grosso, parecchio più alto e pesante di Loman, dal viso duro: ora stava fissando la morta con un lieve sorriso malvagio. Congestionato, con la vista quasi appannata, Loman gli si rivolse in tono brusco: «Trott, vieni con me». Poi si avviò verso l'altra stanza che aveva avuto la porta forzata; l'agente lo seguì con evidente riluttanza. Proprio in quel momento, Paul Amberlay, un altro dei suoi uomini, apparve in cima alle scale, di ritorno dagli uffici della direzione dove era stato mandato a controllare i registri. «La coppia alloggiava nella numero ventiquattro si chiamava Jenks, Sarah e Charles», riferì. Era un venticinquenne snello, muscoloso e intelligente; forse a causa del viso leggermente
appuntito, a Loman aveva sempre ricordato una volpe. «Sono di Portland.» «E nella trentasei?» «Tessa Lockland di San Diego.» Loman sbattè le palpebre. «Lockland?» Amberlay glielo sillabò. «Quando si è registrata?» «Proprio stasera.» «Lockland era il cognome da nubile della vedova del pastore, Janice Capshaw. Ho avuto a che fare con la madre per telefono, ed era di San Diego. Una tizia insistente: un milione di domande. Non è stato facile farla acconsentire alla cremazione. Mi aveva detto che l'altra figlia era all'estero, in un posto molto lontano, dove non poteva essere raggiunta rapidamente, ma che si sarebbe fatta viva entro un mese per vuotare la casa e sistemare gli affari della sorella. Deve essere lei, immagino.» Loman li guidò nella camera di Tessa Lockland, a due porte di distanza dalla numero quaranta, dove era stato sistemato Booker. Il vento entrava dalla finestra aperta e il locale era ingombro di mobili distrutti, lenzuola strappate, i vetri infranti di uno schermo televisivo, ma non c'era traccia di sangue. Poco prima avevano compiuto un'ispezione in cerca del cadavere, ma non l'avevano trovato; la finestra spalancata indicava che la ragazza era fuggita prima che i regressivi riuscissero a sfondare la porta. «Dunque Booker è là fuori», dichiarò Loman, «e dobbiamo supporre che abbia visto i regressivi o udito le loro voci. Sa che qualcosa non va. Non può capire, ma sa abbastanza. Troppo.» «Ci può scommettere che sta facendo di tutto per mettersi in contatto con il maledetto Bureau», osservò Trott. Loman assentì. «E ora abbiamo anche questa puttana della Lockland, che sta sicuramente pensando che sua sorella non si è suicidata, ma è stata uccisa dai medesimi esseri che hanno ammazzato la coppia di Portland...» «Per lei, la cosa più logica è venire dritta da noi», disse Amberlay. «Finirà proprio nelle nostre braccia.» «Forse», rispose Loman poco convinto. Cominciò a setacciare quel caos. «Aiutatemi a trovare la sua borsetta. Con la porta sul punto di crollare, sarà saltata dalla finestra senza fermarsi a prenderla.» Trott la scoprì, incastrata fra il letto e il comodino. Watkins vuotò il contenuto sul materasso. Afferrato il portafoglio, passò in rivista carte di credito e fotografie finché non arrivò alla patente. Secondo i dati trascritti sul documento, la ragazza era alta poco più di un metro e
sessanta, pesava cinquanta chili, aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. Mostrò la fotografia agli altri due. «È una bellezza», commentò Amberlay. «Mi piacerebbe averne un morso», esclamò Trott. Quella scelta di parole fece rabbrividire Loman: non poteva evitare di chiedersi se l'agente avesse inteso «morso» come un eufemismo per sesso o se, al contrario, il termine esprimesse un vero desiderio inconscio di sbranare la donna come i regressivi avevano dilaniato la coppia di Portland. «Ora sappiamo che aspetto ha», disse. «Ci sarà d'aiuto.» Il lineamenti duri e angolosi di Trott erano inadeguati a esprimere emozioni gentili, come affetto e gioia, ma perfetti per suggerire la bramosia animale e la spinta alla violenza che ribollivano dentro di lui. «Vuole che la portiamo dentro?» «Sì. Non sa niente, in effetti, ma d'altro canto ha visto troppo. Sa che la coppia è stata uccisa e probabilmente ha visto un regressivo.» «Forse i regressivi l'hanno seguita giù dalla finestra e l'hanno presa», suggerì Amberlay. «Potremmo trovare il suo corpo da qualche parte intorno al motel.» «Può darsi, ma in caso contrario dobbiamo scovarla e rinchiuderla. Hai chiamato Callan?» «Sì», rispose il giovane. «Questo posto va ripulito», concluse Loman. «Dobbiamo mettere tutto a tacere fino a mezzanotte, finché l'intera città non è stata sottoposta al Cambiamento. In seguito, quando Moonlight Cove sarà sicura, potremo concentrarci sul compito di rintracciare i regressivi ed eliminarli.» Trott e Amberlay lo fissarono, poi si scambiarono un'occhiata. In quello sguardo, Loman vide l'oscura consapevolezza che tutti erano potenziali regressivi e che anche loro sentivano il richiamo verso lo stato primitivo. Si trattava di una certezza di cui nessuno dei tre osava parlare, perché darle voce significava ammettere che Falco Notturno era un progetto terribilmente imperfetto, che avrebbe potuto condurli alla rovina. 41 Mike Peyser udì il segnale e armeggiò con i tasti del telefono, troppo piccoli e ravvicinati per le sue lunghe dita artigliate. Di colpo, si rese conto di non poter chiamare Shaddack, di non osare, benché si conoscessero da
più di vent'anni, dai tempi dell'università, di non poter chiamare Shaddack nonostante fosse stato lui a renderlo quello che era. Questi lo avrebbe considerato un fuorilegge, un regressivo, e fatto rinchiudere in un laboratorio per trattarlo con tutta la tenerezza di cui un vivisezionista gratifica una cavia, oppure per distruggerlo in quanto rappresentava una minaccia per la conversione di Moonlight Cove, ora in atto. Frustrato, Peyser urlò, strappò il telefono dal muro e lo scagliò attraverso la stanza, dove colpì la specchiera, mandandola in frantumi. La sua improvvisa percezione di Shaddack come un potente nemico piuttosto che un mentore e un amico fu l'ultimo pensiero lucido e razionale che poté permettersi per un certo tempo. La paura era una trappola che si era aperta sotto di lui, facendolo piombare nell'oscurità della mente primordiale, scatenata per il piacere di una caccia notturna. Si aggirò avanti e indietro per la casa, talvolta frenetico e talvolta cupo, incerto sul perché si sentisse alternativamente eccitato, depresso o bruciante di desiderio selvaggio, spinto dalle sensazioni più che dall'intelletto. Scaricò la vescica in un angolo del soggiorno, annusò la propria urina e si spostò in cucina in cerca di altro cibo. Ogni tanto la sua mente si snebbiava, e subito cercava di far tornare il corpo alla forma più civilizzata; quando i tessuti non obbedivano alla sua volontà, s'inabissava nuovamente nell'oblio del pensiero animale. Parecchie volte fu abbastanza lucido da apprezzare l'ironia di esser stato ridotto allo stato selvaggio da un processo — il Cambiamento — inteso a elevarlo a un livello sovrumano, ma quelle riflessioni erano troppo dure da sopportare, e una nuova discesa nella bestialità diventava quasi la benvenuta. Ripetutamente, sia quando si trovava nella morsa della coscienza primitiva, sia nei momenti in cui la coltre si sollevava dal suo cervello, pensò al bambino, Eddie Valdoski, un bambino così tenero, l'elettrizzante ricordo del sangue, sangue dolce, sangue fresco che scorreva nella gelida aria notturna. 42 Nonostante fosse fisicamente e mentalmente esausta, Chrissie non riusciva ad addormentarsi. Avvolta nei teloni sul retro del furgone del signor Eulane, continuava a rimanere appesa al sottile filo della veglia per quanto non desiderasse altro che lasciarsi andare e piombare nell'incoscienza. Si sentiva incompleta, come se avesse dimenticato di fare qualcosa — e,
improvvisamente, scoppiò in lacrime, con il viso sepolto nella stoffa ruvida, come non le capitava da anni, con l'abbandono di un neonato. Pianse per la madre e per il padre, forse perduti per sempre, non vittime di una morte normale, ma di qualcosa di orrendo, sporco, disumano, satanico. Pianse per l'adolescenza che avrebbe dovuto appartenerle — cavalli, passeggiate lungo l'oceano e libri letti sulla spiaggia — ma che era ormai distrutta irreparabilmente. Pianse anche per un senso di perdita che non riusciva a identificare, nonostante sospettasse che si trattava dell'innocenza o forse della fiducia nel trionfo del bene sul male. Nessuna delle sue amate eroine immaginarie avrebbe ceduto a lacrime incontrollate, e Chrissie fu imbarazzata da quel torrente. Piangere, però, era umano quanto sbagliare e, forse, ne aveva bisogno anche per provare a se stessa che in lei non era stato piantato quel seme mostruoso che aveva germinato e sparso radici nei suoi genitori. Se piangeva era ancora Chrissie: questa era la dimostrazione che nessuno le aveva rubato l'anima. Si addormentò. 43 Sam aveva visto una cabina telefonica in una stazione di servizio a un isolato a nord della Ocean Avenue. Il benzinaio aveva cessato l'attività: le finestre erano ricoperte da una patina di polvere e un cartello VENDESI, scritto frettolosamente, pendeva sulla facciata, come se il proprietario non si curasse veramente di vendere l'esercizio, ma avesse esposto l'avviso solo perché gli altri se lo sarebbero aspettato. Foglie morte e aghi di pino si erano ammucchiati contro le pompe. La cabina era appoggiata alla costruzione e ben visibile dalla strada; Sam vi entrò senza chiudere la porta, per paura che scattasse un meccanismo di illuminazione. L'apparecchio era muto. Depositò una moneta, sperando di attivare il segnale di comunicazione: la linea rimase bloccata. Scosse la forcella e ottenne la moneta di ritorno. Tentò ancora, ma inutilmente. Era convinto che i telefoni a pagamento nelle vicinanze dei negozi o di altre attività private godessero talvolta di una convenzione: gli incassi venivano spartiti tra la società telefonica e chi autorizzava l'installazione della cabina. Forse il servizio era stato sospeso quando il benzinaio aveva chiuso.
Tuttavia sospettò che la polizia si fosse servita del proprio accesso al computer della società telefonica per mettere fuori uso tutti gli apparecchi pubblici di Moonlight Cove. Nel momento in cui avevano appreso che un agente federale in incognito si trovava in città, dovevano esser state messe in atto misure estreme per impedirgli di comunicare con l'esterno. Naturalmente, avrebbe anche potuto sopravvalutare le loro capacità. Doveva provare con un altro telefono prima di rinunciare a ogni speranza di contattare il Bureau. Improvvisamente, ricordò che durante la passeggiata dopo cena aveva oltrepassato una lavanderia a gettone, attraverso la vetrina dalla quale era certo di aver visto un telefono. Facendo la massima attenzione a evitare ogni zona di luce, si avviò verso il negozio. A un incrocio nei pressi della sua meta, per un pelo non si scontrò con un'autopattuglia che si stava dirigendo verso il centro cittadino. Il poliziotto guidava molto lentamente, sorvegliando entrambi i lati della via; fortunatamente stava guardando dalla parte opposta quando Sam attraversò correndo l'inevitabile fascio di luce creato dal lampione sull'angolo. Immediatamente arretrò, premendosi contro l'androne di un edificio in mattoni che ospitava alcuni fra i liberi professionisti locali: una targa elencava un dentista, due avvocati e un medico. Se la pattuglia avesse svoltato a sinistra, probabilmente sarebbe stato individuato. Addossato al portone, il più possibile in ombra, aspettando che l'auto — lenta in modo esasperante — raggiungesse l'incrocio, Sam ebbe tempo per riflettere e si accorse che, anche per l'una e mezzo del mattino, Moonlight Cove era stranamente quieta e le sue strade insolitamente deserte. Le cittadine possedevano i loro nottambuli esattamente come le metropoli; avrebbero dovuto esserci un paio di pedoni, qualche macchina qua e là, alcuni segni di vita oltre alle macchine della polizia. Proprio in quel momento, l'auto bianca e nera svoltò a destra, allontanandosi nella direzione opposta. Nonostante il pericolo fosse passato, Sam rimase dov'era, ripercorrendo mentalmente il proprio itinerario dal Cove Lodge fino a quel portone. Non riusciva a ricordare di avere oltrepassato una casa da dove provenisse della musica, si udisse un televisore o scoppi di risate indicassero lo svolgersi di una festa. Non aveva visto coppie di ragazzi scambiarsi un bacio in un'auto parcheggiata, i pochi bar e ristoranti erano chiusi, il cinema aveva cessato ogni attività: eccetto per lui e la polizia, Moonlight Cove sarebbe potuta essere una città fantasma. Forse i suoi soggiorni, cucine e camere da letto
erano popolate soltanto da cadaveri in liquefazione — o da robot che, durante il giorno, si fingevano persone e di notte venivano disattivati per risparmiare energia quando non era così essenziale mantenere un'illusione di vita. Sempre più preoccupato dal termine «conversione» e dal suo misterioso significato nel contesto di quello che definivano Progetto Falco Notturno, lasciò il nascondiglio, girò l'angolo e si affrettò verso la lavanderia a gettone. Appena aperta la porta a vetri vide il telefono. Aveva già percorso metà del lungo locale — le asciugatrici sulla destra, una doppia fila di lavatrici al centro, diverse sedie lungo la parete sinistra — quando si accorse che non era vuoto: una bionda minuta in jeans sbiaditi e golf blu stava seduta su una delle sedie di plastica. Nessuna delle macchine era in funzione e non sembrava che la ragazza avesse con sé un carico di vestiti. Fu così stupito dalla sua presenza — un essere vivente che non fosse un poliziotto in quella notte sepolcrale — che si fermò e sbattè le palpebre. Lei era appollaiata sul bordo della sedia, visibilmente tesa. Teneva gli occhi sbarrati e le mani strette in grembo; sembrava trattenere il respiro. Accorgendosi di averla spaventata, Sam mormorò: «Scusi». La ragazza lo fissò come se fosse un coniglio di fronte a una volpe. Consapevole del proprio aspetto agitato, addirittura frenetico, lui aggiunse: «Non sono pericoloso». «Lo dicono tutti.» «Davvero?» «Ma io lo sono sul serio.» Confuso, Sam domandò: «Che cosa?» «Pericolosa.» «Ne è sicura?» Lei si alzò. «Sono cintura nera.» Per la prima volta da giorni, un genuino sorriso gli illuminò il viso. «Può uccidere a mani nude?» La ragazza lo fissò per un attimo, pallida e tremante. Quando parlò, la sua furia difensiva era esagerata. «Ehi, non prendermi in giro, stronzo, o ti concerò così male che quando camminerai tintinnerai come un sacchetto di cocci di vetro.» Infine, stupefatto da tanta veemenza, Sam cominciò ad assimilare le impressioni registrate nell'entrare: nessuna macchina in funzione, niente biancheria né detersivi.
«Cos'è che non va?» chiese, improvvisamente sospettoso. «Niente, se lei mantiene le distanze.» Lui si domandò se in qualche modo la ragazza sapesse che i poliziotti locali erano ansiosi di catturarlo. Un'idea simile, però, sembrava pazzesca: come avrebbe potuto esserne al corrente? «Che cosa sta facendo qui, se non ha biancheria da lavare?» «Sono forse affari suoi? È il proprietario di questa fogna?» «No, ma non mi venga a dire che lei ci lavora.» Per tutta risposta ebbe un'occhiata furente. Sam la osservò, rendendosi gradualmente conto di quanto fosse attraente. Aveva gli occhi azzurri come un cielo di giugno, la pelle trasparente come l'aria estiva e sembrava del tutto fuori posto in quell'oscura località costiera, per non parlare in una squallida lavanderia a gettone all'una e mezzo del mattino. Oltre alla sua bellezza, notò altri particolari, soprattutto l'intensità della sua paura, evidente nello sguardo e nella piega della bocca: un terrore assolutamente sproporzionato a qualunque minaccia lui potesse rappresentare. Se fosse stato un motociclista pieno di tatuaggi, gigantesco, muscoloso, con una pistola in una mano e un coltello nell'altra, entrato nella lavanderia intonando peana a Satana, il pallore cadaverico del suo viso e il panico negli occhi sarebbero stati comprensibili. Lui, però, era soltanto Sam Booker, il cui principale attributo come agente era l'aspetto qualunque e un'aria innocua. Scosso dalla sua agitazione, spiegò: «Il telefono». «Che cosa?» Indicò l'apparecchio. «Sì», reagì lei, come per confermare che si trattava effettivamente di un telefono. «Sono entrato solo per fare una chiamata.» «Oh.» Tenendola d'occhio, andò all'apparecchio, inserì una moneta, ma non ottenne la linea. Riprovò: niente. «Dannazione!» esclamò. La bionda si era spostata impercettibilmente verso l'uscita. Ora si bloccò, come fosse convinta che lui l'avrebbe assalita se solo avesse cercato di andarsene. Moonlight Cove scatenava in Sam una potente paranoia. Nelle ultime ore era giunto a pensare a chiunque come a un potenziale nemico e, improvvisamente, percepì che lo strano comportamento di quella donna deri-
vava da uno stato d'animo identico al suo. «Ma certo, naturalmente — lei non è di qui, di Moonlight Cove, vero?» «E allora?» «Nemmeno io.» «E allora?» «Lei ha visto qualcosa.» La ragazza lo fissò. «È accaduto qualcosa e lei ha visto. Ora è terrorizzata e scommetto che ha delle ragioni dannatamente buone per esserlo.» La bionda sembrò sul punto di precipitarsi verso la porta. «Aspetti», disse Sam in fretta. «Sono dell'FBI.» La sua voce si incrinò leggermente. «Davvero.» 44 Essendo una persona notturna che aveva sempre preferito dormire di giorno, Thomas Shaddack si trovava, nel proprio studio rivestito in teak, con addosso una tuta da ginnastica grigia, di fronte al terminale del computer al lavoro su alcuni aspetti del progetto Falco Notturno. Evan, il suo cameriere, lo avvertì che Loman Watkins era nell'ingresso. «Mandalo nella torre. Lo raggiungerò subito.» In quei giorni, raramente indossava qualcosa di diverso da una tuta; nell'armadio ne aveva più di venti — dieci nere, dieci grigie e due blu. Erano più comode dei vestiti formali e, limitando le proprie scelte, risparmiava il tempo che, altrimenti, sarebbe andato sprecato nel coordinare il guardaroba quotidiano, un compito che non gli riusciva molto bene. La moda non lo interessava e, del resto, era goffo — piedi lunghi, gambe ossute, ginocchia nodose, braccia smisurate, spalle scavate — e troppo magro per fare buona figura persino con capi, di sartoria. Gli abiti gli pendevano addosso in modo bizzarro, oppure enfatizzavano la sua magrezza a tal punto da farlo sembrare la Morte in persona: un'immagine disgraziata, rinforzata dal colorito cadaverico, i capelli quasi neri, i lineamenti spigolosi e gli occhi giallastri. Indossava le tute da ginnastica persino alle riunioni del consiglio d'amministrazione della New Wave. Se sei un genio nel tuo campo, la gente si aspetta qualche eccentricità, e se possiedi un patrimonio, nell'ordine delle centinaia di milioni, sono più che disposti ad accettare tutto senza commenti.
La sua casa ultramoderna in cemento armato sul promontorio rappresentava un'altra espressione del suo anticonformismo calcolato. I tre piani erano come strati di una torta, benché ciascuno avesse dimensioni diverse — il più ampio in cima, il più piccolo in mezzo — e non fossero concentrici, creando un profilo che di giorno conferiva all'edificio l'aspetto di un'enorme scultura d'avanguardia. Di notte, quando la miriade di finestre era illuminata, assomigliava invece all'astronave-madre di un esercito di invasori extraterrestri. La torre, poi, costituiva l'ennesima eccentricità in un contesto già fuori del comune: svettante dal terzo livello, si innalzava nell'aria per una dozzina di metri. Ovale e non rotonda, era assai poco simile alla struttura immortalata nelle fiabe e nelle epopee cavalieresche e ricordava, piuttosto, la torretta di un sottomarino. L'ampia stanza a vetrate sul culmine poteva essere raggiunta in ascensore o salendo le scale a chiocciola. Shaddack lasciò attendere Watkins per dieci minuti, giusto per il piacere di farlo, poi scelse di prendere l'ascensore; l'interno della cabina era rivestito di ottone brunito e di conseguenza, per quanto il meccanismo fosse lento, gli sembrava di spostarsi dentro un proiettile. La torre era stata una sua variante al progetto dell'architetto e ben presto quel luogo elevato, che offriva una splendida panoramica su tutta la baia, era diventato la sua zona favorita. A est e a sud, si godeva un'ottima vista sulla città di Moonlight Cove e il suo senso di superiorità era gradevolmente rafforzato da quella prospettiva dall'alto. Solo quattro mesi prima, da quella stanza aveva osservato il falco notturno per la terza volta nella sua vita, uno spettacolo che ben pochi uomini avevano il privilegio di ammirare anche una volta soltanto, e lui, l'aveva interpretato come un segno inviatogli dal destino per avvertirlo che sarebbe diventato l'uomo più potente di tutta la terra. Le porte dell'ascensore si aprirono. Quando Shaddack entrò nella stanza in penombra, Loman Watkins si alzò in fretta da una poltrona e lo salutò rispettosamente: «Buona sera, signore». «Prego, rimanga seduto, capo», rispose lui con benevolenza, quasi affabilmente, ma con un lieve sottinteso nella voce, volto a rinforzare il loro mutuo accordo nello stabilire che non sarebbe stato certo Watkins a decidere se l'incontro si sarebbe svolto in termini formali o amichevoli. Thomas era l'unico figlio di James Randolph Shaddack, un giudice di Phoenix ormai deceduto. La famiglia non era stata ricca, per quanto deci-
samente benestante, e quella posizione nella scala sociale, unita al prestigio della carica ricoperta, aveva conferito a James un considerevole ascendente sulla propria comunità. E potere. Per tutta l'infanzia e l'adolescenza, Tom era rimasto affascinato per il modo in cui suo padre, attivista politico oltre che giudice, aveva usato quel potere non solo per acquisire benefici materiali, ma anche per controllare gli altri. Il controllo — l'esercizio del potere fine a se stesso — aveva prepotentemente attratto James e profondamente eccitato il figlio fin dalla più tenera età. Ora Thomas Shaddack teneva in pugno Loman Watkins e Moonlight Cove in virtù della propria ricchezza: era il principale datore di lavoro della città, reggeva le redini del potere politico e aveva ideato il Progetto Falco Notturno, così battezzato in seguito alla triplice visione. Tuttavia, le sue possibilità di manipolazione erano assai più estese di quanto il vecchio James si fosse mai potuto permettere come giudice e come politico. Lui possedeva letteralmente potere di vita e di morte sulla intera comunità. Se avesse deciso che dovevano morire entro un'ora, prima delle due nessuno sarebbe rimasto vivo; come se non bastasse, poteva seppellire una intera città senza correre alcun rischio di venire punito, proprio come una divinità quando sceglie di punire le proprie creature mandando una poggia di fuoco. A piedi nudi, Shaddack attraversò la moquette grigio fumo e si sistemò in una poltrona, fronteggiando Watkins al di là di un basso tavolino in marmo bianco. Il poliziotto aveva quarantaquattro anni, soltanto tre più di lui, ma rappresentava il suo completo opposto fisico: tarchiato, muscoloso, dall'ossatura robusta, spalle e torace molto ampi, collo taurino. Il suo viso era aperto e candido quanto quello di Shaddack appariva chiuso e astuto. Gli occhi azzurri di Watkins incrociarono lo sguardo giallastro dell'altro, lo sostennero per un attimo, poi si abbassarono a fissare le mani, strette in grembo così convulsamente che le nocche sembravano in procinto di perforare la pelle. L'ovvia sottomissione del capo della polizia compiacque Shaddack, che si sentì anche maggiormente gratificato dalla sua paura, evidente nel tremore che questi stava cercando di reprimere — con qualche successo — e nello smarrimento del suo viso. In virtù del Progetto Falco Notturno e di quanto gli aveva arrecato, Loman Watkins era in molti modi superiore alla maggior parte degli uomini, ma si trovava anche, ora e per sempre, prigioniero di Shaddack esattamente come un topolino da laboratorio, immobi-
lizzato e collegato a elettrodi, alla mercé dello scienziato che se ne serviva per i propri esperimenti. In un certo qual modo, Shaddack era il suo creatore e possedeva nei suoi confronti la posizione e il potere di una divinità. Appoggiandosi allo schienale e intrecciando sul petto le mani pallide dalle lunghe dita, Thomas sentì il proprio pene ingrossarsi e indurirsi. Non era la presenza di Watkins a eccitarlo, in quanto non aveva alcuna tendenza verso l'omosessualità, bensì la consapevolezza del tremendo ascendente esercitato su quell'uomo. Il potere lo eccitava più facilmente e compiutamente di qualunque stimolo sessuale: anche da adolescente, quando osservava fotografie di donne nude nelle riviste porno, non era sollecitato alla vista dei seni, delle curve di una natica o delle linee eleganti di un paio di gambe, ma dall'idea di dominare quelle donne, di controllarle totalmente, di tenere in pugno le loro vite. Se una ragazza lo guardava con un'aria intimorita, lui la trovava infinitamente più attraente che se gli avesse dimostrato un desiderio palese. Dal momento che reagiva più intensamente al terrore che non alla lussuria, la sua erezione non dipendeva dal sesso, dall'età o dall'aspetto fisico della persona che tremava alla sua presenza. Godendo della sottomissione del poliziotto, Shaddack esordì: «Avete preso Booker?» «No, signore.» «E perché?» «Quando Sholnick ci è arrivato, non era al Cove Lodge.» «Bisogna trovarlo.» «Lo scoveremo.» «E convertirlo. Non solo per impedire che racconti a tutti che cosa ha visto, ma per avere uno dei nostri all'interno del Bureau. Sarebbe un bel colpo. La sua presenza qui potrebbe rivelarsi un vantaggio incredibile per il progetto.» «Beh, il motivo della mia visita è un altro. I regressivi hanno assalito alcuni ospiti del motel. Lo stesso Quinn è stato trascinato via, ucciso e gettato da qualche parte, a meno che non fosse uno di loro e in questo momento sia nel bosco a ululare alla luna.» Con disappunto e agitazione crescenti, Shaddack ascoltò il rapporto. Appollaiato sul bordo della poltrona, Watkins terminò, sbattè le palpebre e commentò: «I regressivi mi spaventano a morte». «Sono sconcertanti», convenne l'altro. La notte del 4 settembre avevano intrappolato un regressivo, Jordan Coombs, all'interno del cinematografo locale. Questi era un addetto alla ma-
nutenzione della New Wave, ma quella sera sembrava una scimmia più che un uomo, benché non fosse esattamente nessuno dei due, ma qualcosa di così strano e selvaggio da rendere impossibile descriverlo a parole. Il termine «regressivo», aveva scoperto Shaddack, era adeguato soltanto se non t'imbattevi mai a distanza ravvicinata in una di quelle bestie. Quando ne avevi vista una da vicino, un simile appellativo si dimostrava del tutto insufficiente a esprimere l'orrore della cosa e, in effetti, qualunque definizione veniva meno. Il loro tentativo di catturare Coombs incolume era fallito, perché questi si era rivelato troppo forte e aggressivo per venire ridotto all'impotenza; per salvarsi, avevano dovuto fargli saltare le cervella. Ora Watkins aggiunse: «Sono più che sconcertanti. Molto di più. Sono... psicopatici». «Lo so», reagì Shaddack in tono impaziente. «Io stesso ho dato un nome al loro stato: psicosi metamorfico-correlata.» «Godono nell'uccidere.» L'altro si accigliò. Non aveva previsto il problema dei regressivi e si rifiutava di credere che costituissero qualcosa di più di un'irrilevante anomalia nell'altrimenti benefica conversione degli abitanti di Moonlight Cove. «Certo, è vero, amano uccidere e, nello stadio di regressione, sono progettati allo scopo, ma ne esistono soltanto pochissimi, che dovremo identificare ed eliminare. Statisticamente, rappresentano una percentuale insignificante di coloro che abbiamo sottoposto al Cambiamento.» «Forse non tanto irrilevante», lo corresse Watkins esitante, incapace di guardare Shaddack negli occhi. «A giudicare dallo spargimento di sangue nell'ultimo periodo, ritengo che fra i millenovecento convertiti sino a oggi ci siano almeno cinquanta o sessanta regressivi.» «Ridicolo!» Per ammettere che esisteva un numero così alto di regressivi, Shaddack avrebbe dovuto prendere in considerazione la possibilità che la sua ricerca fosse imperfetta, che non l'avesse sperimentata a sufficienza in laboratorio e che l'affrettata ed entusiastica applicazione del progetto Falco Notturno agli abitanti di Moonlight Cove fosse un tragico errore. Ovviamente, non poteva accettare un'ipotesi del genere. Per tutta la vita aveva bramato il potere assoluto e ora che ce l'aveva a portata di mano era psicologicamente incapace d'invertire il corso degli eventi. Sin dalla pubertà si era negato certi piaceri perché, se avesse dato un seguito ai propri bisogni, sarebbe stato perseguito dalla legge e condannato a pagare un prezzo molto alto. Tutti quegli anni di negazione aveva
creato una tremenda pressione interna che ora desiderava disperatamente sfogare. Aveva sublimato nel lavoro i propri impulsi antisociali, focalizzando ogni energia in sforzi socialmente accettabili — che, ironicamente, avevano prodotto scoperte tali da renderlo immune all'autorità e quindi libero d'indulgere alle proprie tendenze, a lungo represse, senza timore di censura o punizione. Del resto, non solo psicologicamente ma anche in termini pratici, si era spinto troppo in là per poter tornare indietro: aveva introdotto nel mondo qualcosa di rivoluzionario. Grazie a lui, millenovecento membri della Nuova Gente camminavano sulla terra, diversi dagli altri esseri umani come gli uomini di Cro-Magnon dai loro più primitivi avi di Neanderthal. Non era in grado di neutralizzare quanto aveva fatto, esattamente come altri tecnici e scienziati non avrebbero potuto «disinventare» la ruota o la bomba atomica. Watkins scosse la testa. «Mi dispiace, ma non credo sia ridicolo. Affatto. Cinquanta o sessanta regressivi. O più, forse parecchi di più.» «Saranno necessarie delle prove per convincermi. Lei dovrà citarmi dei nomi. Siete per caso in procinto di identificarne almeno uno — a parte Quinn?» «Alex e Sharon Foster, penso. E forse anche il suo uomo, Tucker.» «Impossibile.» Watkins descrisse ciò che aveva trovato in casa Foster e le urla udite in lontananza. Riluttante, Shaddack prese in esame la possibilità che Tucker fosse uno di quei degenerati; era seccato all'ipotesi che il proprio controllo sulla cerchia dei collaboratori più intimi non fosse assoluto come aveva pensato. Se non riusciva a essere sicuro degli uomini a lui più vicini, come poteva essere certo della propria capacità di controllare le masse? «Forse i Foster sono regressivi, per quanto io dubiti che lo stesso valga per Tucker. Ma anche se questi fosse uno di loro, ciò significherebbe che lei ne ha scoperti quattro, non cinquanta o sessanta. Solo quattro. Chi sarebbero tutti gli altri?» Loman Watkins fissò la nebbia che premeva contro le vetrate della torre. «Signore, temo che non sia facile. Voglio dire, provi a pensarci. Se le autorità statali o federali venissero a conoscenza della natura del progetto e, di conseguenza, volessero impedirci di operare il Cambiamento su chiunque risieda oltre i confini di Moonlight Cove, farebbero di tutto per cercare di fermarci, non è vero? D'altra parte, noi convertiti siamo in grado di passare
del tutto inosservati in mezzo all'altra gente. Sembriamo uguali a loro, per nulla differenti o cambiati.» «E allora?» «Beh, con i regressivi noi abbiamo il medesimo problema. Sono Nuova Gente come noi, ma ciò che li rende diversi è impossibile da vedere. Sono indistinguibili da noi come noi lo siamo dalla gente normale.» L'erezione di Shaddack si era smorzata. Irritato per il pessimismo di Watkins, si alzò dalla poltrona e andò alla vetrata più vicina. In piedi, con le mani strette a pugno nelle tasche della tuta, fissò il riflesso del proprio viso, lungo e affilato, trasparente come uno spettro. Per un attimo incrociò il suo stesso sguardo, poi, rapidamente, guardò oltre il vetro nell'oscurità, dove gli occasionali venti marini sospingevano un fragile tessuto di nebbia. Continuò a voltare le spalle a Watkins perché non voleva che quell'uomo si accorgesse della sua preoccupazione ed evitò l'immagine riflessa dei propri occhi perché non intendeva ammettere con se stesso che la sua preoccupazione potesse essere solcata da venature di paura. 45 Lui aveva insistito affinchè si sedessero, in modo da non esser scorti troppo facilmente dalla strada, ma Tessa era sospettosa all'idea di sistemarsi di fianco a quell'uomo. Le aveva spiegato di essere in incognito, per cui non possedeva alcun documento d'identificazione come agente dell'FBI ma, in compenso, le aveva mostrato tutto ciò che custodiva nel portafogli: patente di guida, carte di credito, tessera della biblioteca, abbonamento al noleggio di videocassette, foto del figlio e della moglie defunta, un buono per un dolce al cioccolato presso una catena di pasticcerie, un'istantanea di Goldie Hawn ritagliata da una rivista. Un maniaco omicida porterebbe con sé un buono per una torta al cioccolato? In breve, mentre le faceva raccontare la storia del massacro al Cove Lodge e insisteva incessantemente sui dettagli, accertandosi che gli venisse riferita ogni cosa in modo comprensibile, Tessa cominciò a fidarsi di lui. Se stava solo fingendo di essere un agente, la sua simulazione non sarebbe stata così elaborata e verosimile. «Dunque lei non ha veramente assistito agli omicidi?» «Sono stati uccisi», insistè Tessa. «Se avesse udito le loro urla, non le sarebbe rimasto alcun dubbio. Nell'Irlanda del Nord mi sono trovata in mezzo a una folla di mostri umani e li ho visti linciare due persone. Una volta stavo girando un filmato in un'acciaieria, quando si è verificata una
perdita di metallo fuso che si è versato sui corpi degli operai, sui loro visi. Sono stata con gl'indiani Miskito nella giungla centroamericana nel momento in cui venivano colpiti da bombe anti-uomo — milioni di frammenti d'acciaio, indios trafitti da migliaia di schegge — e ho sentito le loro urla. Conosco le grida d'agonia, e queste erano le peggiori che avessi mai udito.» Lui la fissò a lungo, poi osservò: «Lei ha un aspetto ingannevolmente...» «Grazioso?» «Sì.» «Quindi ingenuo e innocente?» «Già.» «È la mia maledizione.» «E talvolta un vantaggio?» «Talvolta», concesse Tessa. «Senta, lei sa qualcosa. Me lo spieghi: che cosa sta succedendo in questa città?» «Sta capitando qualcosa agli abitanti.» «Che cosa?» «Non lo so. Non sono attratti dai film, per esempio, visto che il cinema ha chiuso. Hanno perso interesse per le merci di lusso, i regali, i vestiti. Tutti i negozi di quel tipo sono fuori esercizio. Non apprezzano più lo champagne...» Sorrise lievemente. «I bar sono sempre più vuoti. L'unica cosa che sembra ancora interessarli è il cibo. E uccidere.» 46 Ancora in piedi di fronte alla vetrata, Shaddack dichiarò: «D'accordo, Loman, ecco che cosa faremo. Tutti i dipendenti della New Wave sono stati convertiti, quindi le assegnerò un centinaio di uomini per incrementare le forze di polizia. Lei può usarli per contribuire alle ricerche, in qualunque modo ritenga opportuno — iniziando da adesso. Con tanta gente al suo comando, sicuramente coglierà sul fatto uno dei regressivi, e le sarà più facile scovare questo Booker.» La Nuova Gente non aveva bisogno di dormire: il personale aggiuntivo poteva essere impiegato immediatamente. Shaddack aggiunse: «Possono pattugliare le strade a piedi e nelle loro auto — inosservati, senza attirare l'attenzione. Con la loro assistenza, acciufferà perlomeno un regressivo, forse tutti. Se riusciamo a prenderne uno allo stato di involuzione, se avrò la possibilità di esaminarlo, sarei in grado
di elaborare un test — fisico e psicologico — con cui analizzare la Nuova Gente per scoprire i degenerati». «Non mi sento all'altezza di un compito simile.» «Si tratta di un'operazione di polizia.» «No, non lo è, non in senso stretto.» «Non è per niente diverso dal rintracciare un normale assassino», reagì Shaddack irritato. «Userà le medesime tecniche.» «Ma...» «Che cosa c'è ancora?» «I regressivi potrebbero far parte degli uomini che lei mi assegnerà.» «Non ce ne saranno.» «Ma... come può esserne sicuro?» «Le ho detto che non ce ne saranno!» Esclamò l'altro bruscamente, sempre fronteggiando la vetrata, la nebbia, la notte. Entrambi tacquero. Infine Shaddack riprese: «Deve mettercela tutta per trovare quei maledetti devianti. Tutta, ha capito? Entro il termine in cui avremo sottoposto l'intera Moonlight Cove al Cambiamento, ne voglio almeno uno da esaminare». «Pensavo...» «Sì?» «Beh, pensavo...» «Andiamo, andiamo! Che cosa stava pensando?» «Ecco, solo che forse lei avrebbe sospeso le conversioni finché non avessimo capito che cosa sta succedendo.» «No, maledizione!» Shaddack si girò, fissando irosamente il capo della polizia, che si ritrasse in modo soddisfacente. «I regressivi rappresentano un problema minore, del tutto irrisorio. Che accidenti ne sa lei? Lei non ha progettato una nuova razza, un nuovo mondo. Sono stato io. Il sogno, la visione, erano miei. Io ho avuto il cervello e il coraggio di realizzare un sogno, e so che questa anomalia non significa nulla. Di conseguenza, il Cambiamento proseguirà secondo i programmi.» Watkins si fissò le mani dalle nocche bianche. Parlando, l'altro cominciò a camminare avanti e indietro. «Ora abbiamo un numero di dosi più che sufficiente per far fronte al resto degli abitanti. Di fatto, abbiamo iniziato un nuovo turno di conversioni proprio questa sera; entro l'alba ne avremo trattati qualche centinaio, mentre il resto sarà completato per la mezzanotte. Finché l'intera città non sarà con noi, esiste
la possibilità di venire scoperti, il rischio che qualcuno avverta il mondo esterno. Ora che ogni problema è stato superato grazie alla produzione dei biochips, dobbiamo impadronirci di Moonlight Cove nel minor tempo possibile, in modo da poter procedere con la sicurezza che deriva da una base incrollabile. Ha capito?» Watkins assentì con il capo. «Ha capito?» ripetè l'altro. «Sì. Certo, signore.» Shaddack ritornò alla poltrona e si sedette. «Dunque, che cos'è l'altra cosa di cui mi ha parlato prima, questo caso Valdoski?» «Eddie Valdoski, otto anni», rispose Loman guardandosi le mani, che ora stava virtualmente strizzando, quasi cercasse di estrarne qualcosa, come acqua da uno straccio. «È stato trovato morto qualche minuto dopo le otto, in un fossato lungo la statale. Lo avevano torturato, sbranato, sventrato.» «Pensa che sia stato uno dei regressivi?» «Ne sono certo.» «Chi ha scoperto il cadavere?» «I genitori. Il padre, per l'esattezza. Il bambino giocava in cortile, poi è scomparso verso il tramonto. I suoi hanno iniziato le ricerche, non sono riusciti a trovarlo, si sono spaventati e ci hanno chiamato. Mentre stavamo accorrendo hanno continuato a guardare in giro, e hanno rinvenuto il corpo appena prima dell'arrivo dei miei uomini.» «I Valdoski non sono convertiti, vero?» «Non lo erano, ma ora sì.» Shaddack sospirò. «Se sono diventati dei nostri, non avremo guai per via del ragazzino.» Il capo della polizia alzò la testa e trovò il coraggio di guardare direttamente il suo interlocutore. «Ma il bambino è morto, a prescindere dalle conseguenze.» Il tono di voce era duro. Shaddack osservò: «È una tragedia, naturalmente. Questo elemento di regressione nella Nuova Gente non poteva essere previsto, ma nessun grande progresso nella storia umana è stato ottenuto senza vittime». «Era un bravo bambino.» «Lo conosceva?» Watkins sbattè le palpebre. «Sono andato a scuola con il padre, George Valdoski, ed ero il suo padrino.» Scegliendo attentamente le parole, l'altro affermò: «Si tratta di un episo-
dio orribile e troveremo il regressivo che ne è stato responsabile. Li scoveremo tutti e li elimineremo, ma, nel frattempo, può esserci di conforto la consapevolezza che Eddie è morto per una nobile causa». Loman lo guardò senza nascondere il proprio sbalordimento. «Nobile causa? Che cosa ne sapeva Eddie di roba simile? Aveva solo otto anni.» «Cionondimeno è stato vittima di un inaspettato effetto collaterale della conversione di Moonlight Cove, il che lo rende parte di questo magnifico evento storico.» Shaddack sapeva che il poliziotto era un patriota, assurdamente orgoglioso del Paese e della bandiera e supponeva che almeno parte di questi sentimenti continuassero ad albergare in lui anche dopo la conversione, quindi aggiunse: «Mi ascolti, Loman. Durante la rivoluzione americana, quando i coloni stavano lottando per l'indipendenza, morirono anche donne e bambini innocenti, non solo i combattenti, e nessuno di loro perse la vita invano: erano martiri tanto quanto i soldati periti sul campo di battaglia. Lo stesso accadde in ogni rivoluzione. Ciò che conta è che la giustizia prevalga e che le vittime si siano sacrificate per un nobile scopo». Watkins distolse lo sguardo. Alzandosi nuovamente dalla poltrona, Shaddack si mise di fianco al poliziotto e gli posò la mano sulla spalla. Al tocco, questi rabbrividì. Senza spostare la mano, l'altro parlò con il fervore di un predicatore: un predicatore distaccato, però, il cui messaggio non comportava la passione vibrante della convinzione religiosa, ma il gelido potere della logica e della ragione. «Ora lei appartiene alla Nuova Gente e questo non significa soltanto che è più forte e veloce di un uomo normale, praticamente invulnerabile alle malattie e dotato di una capacità di sanare le ferite mai neppure sognata. Vuol dire anche che la sua mente è più lucida e razionale di quella della Vecchia Gente — dunque, se considera attentamente la morte di Eddie nel contesto del miracolo che qui stiamo operando, si accorgerà che il prezzo pagato non è troppo alto. Non affronti la situazione emotivamente, Loman: stiamo costruendo un uomo più efficiente, più ordinato e infinitamente più equilibrato proprio perché uomini e donne avranno la capacità di controllare le loro emozioni, di esaminare ogni problema ed evento con la freddezza analitica di un computer. Guardi alla fine di Eddie Valdoski come a un ennesimo dato all'interno del grande flusso di dati che è la nascita della Nuova Gente. Ora lei è dotato del potere di trascendere le limitazioni emotive tipicamente umane, e, nel momento in cui vi riuscirà, conoscerà l'autentica pace per la prima volta nella sua vita.»
Dopo qualche istante, Watkins alzò la testa e guardò Shaddack. «Davvero tutto questo ci condurrà alla pace?» «Sì.» «Quando non rimarrà più nessuno da convertire, esisterà finalmente la fratellanza universale?» «Certo.» «E la tranquillità?» «Eterna.» 47 La casa di Talbot sulla Conquistador era un edificio in legno di tre piani con una quantità di ampie finestre; il terreno su cui sorgeva era un pendio e ripidi scalini di pietra conducevano, dal marciapiede, a una stretta veranda. Sam fu grato per l'assenza di lampioni in tutto l'isolato e per la mancanza d'illuminazione esterna, alla residenza del veterano. Mentre lui premeva il pulsante del citofono, Tessa gli rimase vicina, come aveva fatto per tutto il percorso dalla lavanderia. Al disopra del rumoroso stormire del vento fra gli alberi, sentirono il campanello suonare all'interno. Guardando la strada alle proprie spalle, lei osservò: «Talvolta sembra un obitorio più che una città, un luogo popolato dai morti, eppure...» «Eppure?» «... nonostante il silenzio e l'immobilità, puoi percepire una sorta di energia, una tremenda energia, come se, sotto le strade, sottoterra, esistesse un immenso macchinario nascosto, come se anche le case fossero piene di macchine, tutte accese e in attesa che qualcuno muova una leva e le metta in funzione.» Moonlight Cove era esattamente così, ma Sam non era stato capace di tradurre in parole l'atmosfera del luogo. Suonò nuovamente il campanello e commentò: «Pensavo che i cineasti fossero degli illetterati all'ennesima potenza». «In massima parte quelli di Hollywood lo sono, ma, in quanto banale documentarista, a me è concesso di pensare — purché non esageri.» «Chi è?» disse una voce metallica, facendo sobbalzare Sam. «Chi è, prego?» Sam si avvicinò al citofono. «Signor Talbot? Harold Talbot?» «Sì, e lei chi è?»
«Sam Booker», rispose lui sommessamente, in modo da non farsi udire al di là della veranda. «Scusi se l'ho svegliata, ma sono venuto in risposta alla sua lettera dell'8 ottobre.» Per un attimo il veterano tacque, poi spiegò: «Sono al terzo piano e avrò bisogno di un po' di tempo per scendere dabbasso. Nel frattempo le manderò Moose. Per piacere, gli dia la sua tessera d'identificazione, in modo che possa portarmela». «Non possiedo tesserino federale», bisbigliò Sam. «Sono qui in incognito.» «Una patente di guida?» «Quella sì.» «Mi basta.» E il citofono si spense. «Moose?» chiese Tessa. «Che io sia dannato se so chi è», disse lui. Attesero quasi un minuto, sentendosi vulnerabili all'aperto, e rimasero entrambi scossi quando un cane uscì da una porticina che non avevano notato, infilandosi fra le loro gambe. Per un istante Sam non capì di che cosa si trattasse e fece un passo indietro per la sorpresa, rischiando di perdere l'equilibrio. Chinandosi ad accarezzare l'animale, Tessa bisbigliò: «Moose?» Un guizzo di luce era emerso dalla porticina assieme al cane ma, con il richiudersi del battente, tutto era tornato buio. Il labrador era nero e praticamente invisibile nell'oscurità. Accovacciatosi di fianco a lui, facendosi leccare la mano, Sam disse: «Dovrei darti la mia patente?» Il cane abbaiò piano, come se rispondesse affermativamente. «Te la mangerai.» «Non lo farà», gli assicurò Tessa. «Come fai a saperlo?» «È un bravo animale.» «Non mi fido di lui.» «Immagino faccia parte della professione.» «Come?» «Non fidarsi di nessuno.» «Anche della mia natura.» «Fidati di lui», insistè la ragazza. Lui porse il portafogli; il cane glielo prese di mano, lo tenne fra i denti e scomparve all'interno della casa.
Per qualche minuto ancora rimasero sulla veranda buia, mentre Sam cercava di soffocare gli sbadigli. Erano passate le due del mattino, e stava prendendo in considerazione l'idea di aggiungere una quinta voce al proprio elenco delle ragioni per cui vivere: buon cibo messicano, birra, Goldie Hawn, paura della morte e sonno. Un sonno beato. Di colpo udì gli scatti di una serratura aperta laboriosamente e, finalmente, il battente si schiuse su un ingresso in penombra. Harry Talbot li attendeva sulla sedia a rotelle motorizzata, in pigiama blu e vestaglia verde. La testa era inclinata leggermente a sinistra in una posa permanentemente interrogativa che faceva parte della sua eredità dal Vietnam. Era un bell'uomo, nonostante il suo viso fosse prematuramente invecchiato da rughe troppo pronunciate per appartenere a un quarantenne. I capelli, molto folti, erano per metà bianchi e gli occhi vecchissimi; si vedeva che una volta era stato un giovane vigoroso, ma ora, gli anni di paralisi lo avevano reso molle. Una mano gli giaceva in grembo, il palmo rivolto verso l'alto, le dita rattrappite, inutili. Era un monumento vivente a ciò che sarebbe potuto essere, alle speranze distrutte, ai sogni inceneriti: un triste ricordo della guerra infilato fra le pagine del tempo. Quando Tessa e Sam entrarono, richiudendosi la porta alle spalle, il veterano protese la mano sana ed esclamò: «Dio, come sono contento di vedervi!» Il sorriso lo trasformava in modo sbalorditivo: era l'espressione calda, amichevole, raggiante e genuina di un uomo convinto di trovarsi in grembo agli dei e benedetto dalla fortuna. Moose rese il portafogli di Sam, intatto. 48 Dopo aver lasciato la proprietà di Shaddack sul promontorio e prima di tornare al quartier generale a coordinare le mansioni dei cento uomini inviati dalla New Wave, Loman Watkins si fermò a casa, sulla Iceberry Way. Era una villetta modesta, bianca con le finiture azzurre, annidata fra le conifere. Rimase un attimo nel vialetto, in piedi, di fianco all'autopattuglia, a studiare l'edificio. L'aveva amato come fosse un castello, ma ormai non riusciva più a rintracciare in se stesso alcun sentimento del genere. Rammentava molta felicità legata a quella casa, alla sua famiglia, ma non poteva provare neanche il ricordo di tanta gioia; la vita domestica era stata contrassegnata da una quantità di risate, che si erano ormai sbiadite al punto
da non suscitare in lui neppure un sorriso nel rievocarle. In quei giorni, del resto, i suoi sorrisi erano tutti contraffatti. La cosa strana era che gioia e risate avevano fatto parte della sua vita fino ad agosto. Tutto era svanito nell'arco dell'ultimo paio di mesi, in seguito al Cambiamento, e già gli sembrava un antico ricordo. Buffo. In effetti, nient'affatto buffo. Quando entrò, trovò il pianterreno buio e silenzioso. Nelle stanze deserte aleggiava un vago odore di chiuso. Salì le scale. Sul pianerottolo vide un tenue chiarore filtrare da sotto la porta della camera di Denny; entrò e trovò il ragazzo seduto alla scrivania, di fronte a un computer dallo schermo enorme, l'unica fonte d'illuminazione in tutto l'ambiente. Denny non distolse lo sguardo dal terminale. A diciotto anni, non essendo più un bambino, era stato convertito assieme alla madre non molto tempo dopo che Loman stesso era stato sottoposto al Cambiamento. Più alto e più bello del padre, aveva sempre avuto ottimi voti a scuola e il suo quoziente d'intelligenza era risultato così alto da lasciare Loman esterrefatto all'idea di avere un figlio tanto brillante. Era sempre stato orgoglioso di Denny, ma ora, in piedi al suo fianco, non riuscì a resuscitare quel sentimento per quanto si sforzasse. Il ragazzo non aveva fatto nulla per guadagnarsi l'indifferenza paterna: semplicemente, l'orgoglio, al pari di tante altre emozioni, sembrava un ostacolo alla superiore consapevolezza della Nuova Gente e interferiva con i loro ben più efficienti schemi di pensiero. Anche prima del Cambiamento, Denny era stato un fanatico dei computer. Uno di quei ragazzini che non li consideravano soltanto uno strumento o una fonte di gioco e di svago, ma un modo di vivere. Dopo la conversione, la sua intelligenza e preparazione tecnica erano state messe a frutto dalla New Wave, che lo aveva fornito di un terminale più potente e di un collegamento con il proprio supercomputer al quartier generale — uno smisurato apparato che, secondo la descrizione di Denny, incorporava tremila chilometri di cavi e trentatremila unità di elaborazione ad alta velocità. Per ragioni ignote a Loman, lo avevano battezzato Sole, per quanto, forse, quel nome fosse stato scelto perché tutta la ricerca della New Wave si serviva incessantemente di quella macchina e, di conseguenza, ruotava intorno a essa. Sul terminale del figlio stavano lampeggiando masse di dati: parole,
numeri, grafici e diagrammi apparivano e scomparivano a una velocità tale che solo un membro della Nuova Gente, dai sensi acuiti e dalla concentrazione elevatissima, avrebbe potuto ricavarne un qualunque significato. In effetti, Loman non li capiva perché non si era sottoposto all'addestramento che Denny aveva ricevuto dalla New Wave; tra l'altro, non aveva il tempo né il bisogno d'imparare a focalizzare nel modo migliore i propri nuovi poteri di concentrazione. Suo figlio, invece, assorbiva le continue ondate di dati fissando lo schermo senza alcuna espressione, con il viso completamente rilassato. Da quando era stato convertito, il ragazzo sembrava un'entità elettronica allo stato solido tanto quanto un insieme di carne e sangue, e quella nuova parte del suo essere comunicava con il computer a un livello d'intimità che superava qualsiasi rapporto uomo-macchina mai conosciuto fra la Vecchia Gente. Loman sapeva che Denny stava studiando il Progetto Falco Notturno. Alla fine, si sarebbe unito al gruppo di ricerca della New Wave incaricato di perfezionare incessantemente ciascuna fase del progetto al fine di rendere ogni generazione della Nuova Gente superiore — e più efficiente — rispetto alle precedenti. Un interminabile fiume di dati scorreva sullo schermo. Loman mise una mano sulla spalla del figlio. Questi non lo guardò né reagì in alcun modo. Cominciò a muovere le labbra, come se stesse parlando, ma senza emettere un suono: dialogava con se stesso, ignaro della presenza del padre. In un raro momento di loquacità, Thomas Shaddack aveva illustrato la prospettiva di realizzare in futuro un collegamento in grado di unire direttamente un computer a una cavità ricavata chirurgicamente alla base della spina dorsale umana, fondendo, in tal modo, l'intelligenza naturale e artificiale. Loman non aveva capito perché un simile intervento fosse da giudicare saggio o desiderabile e Shaddack aveva spiegato: «La Nuova Gente rappresenta un ponte fra uomo e macchina, ma un giorno la nostra specie attraverserà del tutto questo ponte e diventerà un tutt'uno con le macchine, perché solo così l'umanità sarà completamente efficiente». «Denny», chiamò piano Loman. Il ragazzo non rispose. Infine il capo della polizia uscì dalla stanza. In fondo al pianerottolo, nella loro camera, Grace era sdraiata sul letto, al buio.
Naturalmente, dopo il Cambiamento, la mancanza di luce non era sufficiente ad accecarla completamente, dato che la vista migliorava molto. Anche in quell'ambiente privo d'illuminazione, lei poteva distinguere — al pari di Loman — i contorni dei mobili e anche qualche dettaglio: per loro, il mondo notturno non era più nero, ma grigio scuro. Si sedette sul bordo del materasso. «Ciao.» Sua moglie rimase in silenzio. Lui le carezzò i lunghi capelli ramati, poi le toccò il viso e si accorse che le sue guance erano rigate di lacrime. Stava piangendo, e questo lo fece sobbalzare perché non aveva mai visto piangere un membro della Nuova Gente. Le sue pulsazioni accelerarono e fu percorso da un breve, ma intenso brivido di speranza: forse la mancanza di emozioni era solo una fase transitoria. «Cosa c'è?» le chiese. «Perché piangi?» «Ho paura.» La speranza svanì di colpo. Era stata ridotta alle lacrime dal timore e dalla desolazione che vi si accompagnava e lui già sapeva che questi sentimenti facevano parte del nuovo mondo, quelli e nessun altro. «Paura di che cosa?» «Non riesco a dormire.» «Ma non ne hai più bisogno.» «Davvero?» «Nessuno di noi ha bisogno di dormire.» Prima del Cambiamento, uomini e donne avevano avuto necessità di un periodo di sonno perché il corpo umano, un meccanismo biologico, era terribilmente inefficiente; la sosta serviva a riposare e a porre rimedio ai danni verificatisi durante il giorno, a occuparsi delle sostanze tossiche assorbite dal mondo esterno o prodotte internamente. Nella Nuova Gente, invece, ogni funzione e processo corporeo erano regolati superbamente: il lavoro della natura era stato di gran lunga raffinato. Ogni organo, sistema o cellula operava a livelli di efficienza ben più elevati, producendo meno scorie e liberandosene con rapidità assai maggiore di prima, ripulendosi e rigenerandosi a tutte le ore del giorno. Grace lo sapeva quanto lui. «Sento la nostalgia del sonno», gli spiegò. «È solo la spinta dell'abitudine.» «Adesso la giornata ha troppe ore.» «Occuperemo il nostro tempo. Il nuovo mondo sarà molto attivo.»
«Che cosa faremo in questo nuovo mondo, quando arriverà?» «Shaddack ce lo dirà.» «Ma nel frattempo...» «Pazienza.» «Ho paura.» «Abbi pazienza.» «Muoio dalla voglia di dormire.» «Non ne abbiamo bisogno», rispose lui, dando prova di quella pazienza che l'aveva incoraggiata a manifestare. «Non abbiamo bisogno di sonno», osservò lei oscuramente, «ma ci necessita.» Per un poco tacquero entrambi. Infine Grace gli prese la mano e se la mise sul seno: era nuda. Lui cercò di sottrarsi perché temeva ciò che avrebbe potuto accadere, ciò che era già accaduto dal Cambiamento in poi ogni volta che avevano fatto l'amore. No, non amore, bensì sesso. Al di là delle sensazioni fisiche non esisteva più sentimento, né tenerezza né affetto: si spingevano violentemente l'uno dentro l'altra, flettevano e contorcevano i loro corpi nello sforzo di massimizzare l'eccitazione delle terminazioni nervose, nessuno dei due si preoccupava dell'altro, ma solo di se stesso e della propria soddisfazione. Ora che la loro vita emotiva non era più intensa, cercavano di compensare quella perdita con il godimento dei sensi, soprattutto cibo e sesso. Tuttavia, privata del fattore emotivo, ogni esperienza era vacua, ed essi tentavano di riempire il vuoto con l'eccesso: un semplice pasto diventava un festino, che presto degenerava in un'orgia di ghiottoneria senza limiti. E il sesso si era trasformato in un frenetico e bestiale accoppiamento. Grace lo sospinse sul letto. Anche se non voleva, lui non era in grado di opporsi. Letteralmente non poteva rifiutarsi. Respirando affannosamente, rabbrividendo per l'eccitazione, lei gli strappò i vestiti e gli montò a cavalcioni, emettendo strani suoni inarticolati. L'eccitazione di Loman eguagliò quella della moglie: si spinse contro di lei, dentro di lei, dentro, perdendo ogni cognizione di tempo e spazio, esistendo soltanto per alimentare il fuoco del proprio inguine, alimentarlo incessantemente finché non diventò un calore insopportabile, calore, frizione e calore, umido e bollente, calore alimentato fino al punto in cui il suo intero corpo sarebbe stato consumato dalle fiamme. Cambiò posizione, pre-
mendola contro il letto, penetrando con violenza dentro di lei, dentro, dentro, afferrandola con tanta forza da farle male, ma non gl'importava. Lei lo graffiò, scavandogli il braccio con le unghie fino a far sgorgare il sangue, e lui le lacerò la carne a propria volta perché il sangue era eccitante, l'odore del sangue, quel dolce odore, così inebriante, e non era grave che si ferissero perché si trattava di lacerazioni superficiali che si sarebbero rimarginate in pochi secondi, dato che appartenevano alla Nuova Gente; i loro corpi erano efficienti e il sangue scorreva solo qualche istante, poi le ferite si chiudevano e loro potevano tornare a graffiarsi ancora, ancora. Ciò che lui voleva veramente — ciò che entrambi volevano — era lasciarsi andare, godere dello spirito selvaggio che albergava in loro, accantonare tutte le inibizioni della civiltà, compresa quella della forma umana evoluta, inselvatichirsi, regredire, arrendersi, perché solo allora il sesso avrebbe posseduto un fascino più intenso e puro. Arrendersi e il vuoto sarebbe stato colmato; si sarebbero sentiti appagati e, terminato l'accoppiamento, avrebbero potuto cacciare assieme, cacciare e uccidere, veloci e silenziosi, astuti e silenziosi, mordere e lacerare, sbranare a fondo e con forza, cacciare e uccidere, sperma e poi sangue,dolce sangue fragrante... Per un poco Loman si sentì disorientato. Quando riacquistò la cognizione del tempo e dello spazio, guardò la porta e si accorse che era spalancata. Se Denny fosse uscito sul pianerottolo avrebbe potuto vederli — e certamente li aveva uditi — ma Loman non si proccupò: vergogna e pudore erano altre due vittime del Cambiamento. Non appena si fu pienamente sintonizzato sul mondo attorno a lui, la paura gli strinse il cuore e si toccò rapidamente il corpo — viso, braccia, torace, gambe — per assicurarsi di essere ancora se stesso. Nel mezzo del rapporto sessuale il suo lato selvaggio cresceva e, talvolta, era convinto che, con l'approssimarsi dell'orgasmo, la mutazione si verificasse realmente, anche se in forma leggera. Appena ripresa coscienza, però, non trovava mai prove di una regressione. Tuttavia era coperto di sangue. Accese la lampada sul comodino. «Spegnila», disse immediatamente Grace. Ma lui non era soddisfatto neppure della propria migliorata vista notturna: voleva osservarla da vicino per stabilire se fosse in qualche modo differente. Sua moglie non era regredita, o, se lo aveva fatto, era già tornata allo stadio evoluto. Il suo corpo era rigato di sangue e sulla carne si notavano
alcuni graffi dove lui l'aveva ferita e la cicatrizzazione non era ancora completata. Tranquillizzato, spense la luce e si sedette sul bordo del letto. Siccome i poteri di recupero dei loro corpi erano stati vistosamente migliorati dal Cambiamento, i tagli e i graffi superficiali sparivano nell'arco di qualche minuto: potevi, di fatto, vedere la carne che si rigenerava. Ora erano anche inattaccabili dalle malattie, in quanto il loro sistema immunitario era divenuto troppo aggressivo perché anche i virus e i batteri più infettivi potessero sopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi. Shaddack riteneva, inoltre, che le loro vite si sarebbero dimostrate assai più lunghe, forse centinaia di anni. Naturalmente potevano rimanere uccisi, ma solo da una ferita che annientasse il cuore, facesse esplodere il cervello o distruggesse i polmoni, impedendo l'afflusso di ossigeno nel sangue. Se veniva recisa una vena o un'arteria, la circolazione si riduceva drasticamente in quel tratto durante i minuti necessari a sanare il danno; se risultava leso un organo vitale diverso da cuore, cervello o polmoni, il corpo poteva sopravvivere per ore mentre era in atto un processo accelerato di rimarginazione. Non erano ancora pienamente affidabili come le macchine, perché queste non morivano; con adeguati pezzi di ricambio, qualunque meccanismo poteva essere ricostruito persino dai rottami e funzionare di nuovo; tuttavia, si stavano avvicinando a un livello di efficienza fisica mai concepito al di fuori di Moonlight Cove. Vivere per centinaia d'anni... Talvolta per secoli, conoscendo soltanto la paura e le sensazioni fisiche... Si alzò dal letto, andò in bagno e fece una rapida doccia per lavare via il sangue. Non fu capace di guardarsi allo specchio. Tornato in camera da letto, indossò una divisa pulita. Grace era ancora sdraiata. Gli disse: «Vorrei tanto poter dormire». Lui capì che stava ancora piangendo in silenzio. Quando uscì dalla stanza, chiuse la porta alle proprie spalle. 49 Si radunarono in cucina. Tessa si sentì sollevata perché alcuni fra i ri-
cordi più felici della sua infanzia e adolescenza erano legati a riunioni famigliari e chiacchiere improvvisate nella cucina della loro casa di San Diego. Talvolta anche i problemi più gravi diventavano insignificanti se venivano discussi in un ambiente caldo, profumato di caffè e cioccolata bollente, mangiucchiando un dolce appena sfornato. In una cucina si sentiva al sicuro. Quella di Harry Talbot era grande e razionale, appositamente progettata per le esigenze di un uomo su una sedia a rotelle, con molto spazio attorno ai fornelli, collocati nel centro e molto bassi, come pure i ripiani lungo le pareti. Per il resto, era una cucina simile a molte altre: armadietti color crema, piastrelle in ceramica giallo chiaro, un frigorifero. Le veneziane alle finestre venivano mosse elettricamente da un pulsante situato su un ripiano, e Harry le abbassò. Dopo aver provato il telefono ed essersi accorti che la linea era interrotta, che non solo le cabine ma l'intera rete cittadina era fuori uso, Sam e Tessa si sedettero al tavolo d'angolo, dietro insistenza di Harry, mentre lui preparava un buon caffè colombiano. «Sembrate infreddoliti. Questo vi farà bene.» Stanca e gelata, bisognosa di un po' di caffeina, la ragazza non declinò l'offerta, affascinata nel constatare come Harry, con un handicap tanto grave, riuscisse a rivestire il ruolo del padrone di casa ospitale con i visitatori inattesi. Con la mano sana e qualche mossa azzardata, il veterano estrasse un pacco di biscotti dal contenitore per il pane, mezza torta al cioccolato dal frigorifero, piatti, forchette e tovaglioli di carta; quando Sam e Tessa si offrirono di aiutarlo, rifiutò gentilmente con un sorriso. Lei capì che Harry non stava cercando di dimostrare qualcosa, né a loro e neppure a se stesso: stava semplicemente godendo della loro compagnia, persino a quell'ora e in quelle circostanze bizzarre. Forse per lui era un evento raro. «Non ho panna», dichiarò. «Solo un po' di latte.» «Va benissimo», rispose Sam. «E nessuna elegante lattiera di porcellana, temo», aggiunse Harry, mettendo sul tavolo la confezione di latte. Tessa cominciò a progettare di girare un documentario su di lui, sul coraggio necessario per rimanere indipendente in simili circostanze; gli avvenimenti delle ultime ore non avevano certo intaccato la sua creatività. Del resto, anche nel pieno del dolore per la morte della sorella, avevano
continuato a venirle in mente idee per future realizzazioni, concetti narrativi, angolature e fotogrammi interessanti. Persino nel panico della guerra, correndo con i ribelli afgani mentre gli aerei sovietici mitragliavano a bassa quota il terreno alle loro spalle, si era sentita eccitata per ciò che stava girando e per quanto ne avrebbe ricavato una volta in sala di montaggio — e i tre componenti della sua troupe avevano reagito nello stesso modo. Di conseguenza, non provava più disagio o sensi di colpa per un simile atteggiamento, neppure nei momenti più tragici: per lei si trattava soltanto di una cosa naturale, una parte dell'essere viva. La sedia a rotelle di Harry comprendeva un propulsore idraulico che sollevava il sedile di qualche centimetro in modo da consentirgli di trovarsi al livello di un normale tavolo o di una scrivania. Egli prese posto di fianco a Tessa e di fronte a Sam. Moose era accucciato nell'angolo e li osservava, alzando di tanto in tanto la testa come se fosse interessato alla loro conversazione — ma assai più probabilmente attratto dal profumo della torta al cioccolato. Il labrador, però, non si fece avanti annusando e uggiolando in cerca di qualche boccone e la ragazza rimase colpita dalla sua disciplina. Mentre si passavano il bricco del caffè e mangiavano i dolci, Harry osservò: «Sam, tu hai detto che ti ha condotto qui non solo la mia lettera, ma tutti questi cosiddetti incidenti. Ma lei, signorina Lockland, come si inserisce nel quadro?» «Diamoci del tu, per piacere. Beh, mia sorella era Janice Capshaw.» «La moglie di Richard Capshaw, il pastore luterano?» chiese lui sorpreso. «Esattamente.» «Venivano sempre a trovarmi. Io non appartenevo alla loro congregazione, ma erano molto disponibili. Siamo diventati amici. Dopo la morte del marito, lei aveva continuato a fermarsi da me, di tanto in tanto. Tua sorella era una persona magnifica, Tessa.» Depose la tazza e le porse la mano. «Era mia amica.» La ragazza strinse quella mano ruvida e callosa; era molto forte, come se tutta la potenza frustrata del suo corpo paralizzato trovasse espressione attraverso quel singolo arto. «Li ho visti trasportarla al crematoio delle pompe funebri Callan», aggiunse Harry. «Con il telescopio. Sono un osservatore. È il modo in cui trascorro la maggior parte della mia vita: osservo.» Arrossì lievemente, stringendo la mano di Tessa con più forza. «Non lo faccio per ficcanasare,
proprio per niente. Si tratta di una forma di... partecipazione. Oh, mi piace anche leggere e ho una biblioteca molto fornita. Di certo penso parecchio, ma è soprattutto osservare che mi fa tirare avanti. Più tardi andremo di sopra e vi mostrerò tutta la mia attrezzatura. Penso che forse mi capirete. Lo spero, almeno. A ogni modo, quella notte li ho visti portare Janice da Callan, per quanto abbia ignorato di chi si trattasse fino a due giorni dopo, quando la notizia della sua morte è apparsa sul quotidiano locale. Non riuscivo a credere che fosse davvero andata come scrivevano. Non ci credo neppure adesso.» «Neanch'io», rispose Tessa. «Ed è per questo che sono qui.» Riluttante, Harry le lasciò andare la mano. «Troppi cadaveri ultimamente, per la maggior parte arrivati da Callan di notte, spesso con la polizia, che rimaneva nei dintorni a sorvegliare. È maledettamente strano per una cittadina tranquilla come questa...» Sam commentò: «Dodici morti accidentali o suicidi in meno di due mesi». «Dodici?» si stupì il veterano. «Non ti eri accorto che fossero così tanti?» «Oh, ma sono di più.» Sam sbattè le palpebre. «Venti, secondo i miei calcoli», spiegò Harry. 50 Dopo la partenza di Watkins, Shaddack ritornò nel proprio studio di fronte al terminale, riattivò il collegamento con Sole, il supercomputer della New Wave, e si rimise al lavoro su un aspetto problematico del progetto in corso. Nonostante fossero le due e mezzo del mattino, vi avrebbe dedicato ancora qualche ora, visto che era solito andare a dormire verso l'alba. Dopo qualche minuto, squillò il telefono. Si trattava della linea riservata. Finché Booker non fosse stato catturato, il computer della compagnia telefonica avrebbe garantito il servizio soltanto ai convertiti, consentendo unicamente le chiamate provenienti e dirette ai loro numeri. Tutte le altre linee erano state disattivate e ogni telefonata all'esterno della città veniva interrotta prima della fine; chi chiamava da fuori si sentiva rispondere da un nastro registrato che avvertiva di un guasto alle centraline, prometteva il ritorno in funzione entro ventiquattr'ore e si scusava per l'inconveniente. Di conseguenza, Shaddack sapeva che. chi lo stava cercando doveva es-
sere un convertito e, inoltre, trattandosi della linea riservata, anche uno dei suoi più intimi collaboratori. Un visore collocato alla base dell'apparecchio mostrava il numero di provenienza della chiamata, che lui riconobbe come quello di Mike Peyser. Sollevò il ricevitore ed esordì: «Qui Shaddack». Il suo interlocutore ansimò affannosamente, ma non pronunciò parola. Accigliandosi, lui insistè: «Pronto?» Solo quel respiro affrettato. «Mike, sei tu?» La voce che infine gli rispose era rauca, gutturale ma con una nota stridula, sommessa eppure potente, il timbro di Peyser, tuttavia nel contempo diverso, strano: «... qualcosa sbagliato, sbagliato, qualcosa sbagliato, impossibile cambiare, non posso... sbagliato... sbagliato...» Shaddack era riluttante ad ammettere di riconoscere la voce di Mike Peyser in quelle inflessioni anomale e cadenze sinistre. «Ma chi parla?» «... bisogno, bisogno... bisogno, voglio, ho bisogno...» «Ma chi è?» domandò lui con rabbia, anche se nella sua mente l'interrogativo era: Che cos'è? L'altro emise un suono che ricordava un gemito di dolore, un lamento di angoscia disperata, un grido di frustrazione e un ringhio. Il ricevitore gli cadde di mano con un rumore violento. Shaddack si allontanò dal telefono, tornò al terminale, si inserì nel sistema della polizia e inviò un messaggio urgente a Loman Watkins. 51 Seduto sullo sgabello nella camera da letto buia, piegato sul telescopio, Sam Booker studiò il retro delle Pompe Funebri Callan. Tranne qualche sottile velo isolato, la nebbia era stata soffiata via dal vento che ancora scuoteva gli alberi sulle colline; i lampioni erano ormai spenti, e il retro di Callan era immerso nell'oscurità, fatta eccezione per la luce sfocata che filtrava dalle veneziane abbassate nel crematoio. Senza alcun dubbio erano indaffarati ad alimentare le fiamme con i corpi della coppia assassinata al Cove Lodge. Tessa era seduta sul letto e accarezzava Moose, che le aveva deposto la testa in grembo. Harry, sulla sedia a rotelle, stava studiando con l'ausilio di una piccola torcia elettrica le pagine di un quaderno a spirale dove aveva preso nota dell'insolita attività alle pompe funebri.
«Il primo — o perlomeno il primo episodio insolito di cui mi sia accorto — è accaduto la notte del 28 agosto, a mezzanotte meno venti. Trasportarono quattro corpi in una volta, servendosi del carro funebre e dell'ambulanza locale, scortati da un'auto della polizia. I cadaveri erano rinchiusi nelle sacche, per cui non sono stato in grado di vederli, ma gli agenti, gl'inservienti dell'ambulanza e il personale di Callan erano visibilmente, beh, sconvolti. Ho letto la paura nei loro visi. Continuavano a guardarsi attorno, a fissare le case e le vie circostanti come se temessero che qualcuno potesse vedere che cosa stavano facendo. Mi parve strano, perché in fin dei conti si trattava del loro lavoro, giusto? A ogni modo, più tardi, lessi sul giornale che la famiglia Mayser era perita in un incendio e capii chi era stato portato lì quella notte. Quella versione era convincente quanto il suicidio di tua sorella.» «Infatti, probabilmente non sono morti così», dichiarò Tessa. Continuando a guardar fuori, Sam disse: «I Mayser sono sul mio elenco. I loro nomi sono saltati fuori durante l'inchiesta sul caso SanchezBustamante». Harry si schiarì la gola e proseguì: «Sei giorni dopo, il 3 settembre, altri due cadaveri furono portati da Callan intorno a mezzanotte. Le circostanze mi apparvero ancora più bizzarre perché non arrivarono in ambulanza o sul carro funebre, ma su due auto della polizia, che scaricarono dal sedile posteriore un cadavere ciascuna, avvolto in un lenzuolo sporco di sangue.» «Il 3 settembre?» si meravigliò Sam. «Non risulta nessun decesso in quella data. Sanchez e i Bustamante morirono il 5, e per il 3 non esiste alcun certificato di morte. Questi due non sono stati riportati nell'archivio ufficiale.» «Non ne hanno parlato neppure i giornali della contea», spiegò Harry. «E allora chi erano quelle due persone?» chiese Tessa. «Forse forestieri abbastanza sfortunati da fermarsi a Moonlight Cove e imbattersi in qualcosa di pericoloso», ribattè Sam. «Il loro caso sarà stato archiviato sotto la voce 'scomparsi'.» «Poi abbiamo Sanchez e i Bustamante la notte del 5», proseguì il veterano, «e Jim Armes il 7.» «Quest'ultimo è scomparso in mare», obiettò Sam. «Hanno trasportato il corpo da Callan alle undici di sera», rispose Harry, consultando il quaderno. «Le finestre del crematoio avevano le veneziane sollevate, quindi ho potuto vedere bene, quasi come se mi fossi trovato in quella stanza. Ho visto il cadavere, lo scempio che ne era stato fatto. E ho
notato il viso. Un paio i giorni dopo, quando il quotidiano ha scritto un articolo sulla sparizione di Armes, l'ho riconosciuto come il tizio finito nella fornace.» L'ampia camera da letto era avvolta dalle ombre, fatta eccezione per il sottile fascio di luce della piccola torcia elettrica puntata sul notes; quelle pagine bianche sembravano brillare di luminosità propria, come se appartenessero a un libro magico, sacro e proibito. Quella bizzarra fonte di illuminazione delineava di riflesso anche i tratti del viso di Harry, accentuandone le rughe e facendolo sembrare più vecchio. Ogni ruga, Sam lo sapeva, scaturiva dalla sofferenza e da esperienze tragiche. Si sentì invadere da una profonda simpatia, non pena perché non avrebbe mai potuto provare compassione per una persona così determinata, pur conoscendo il dolore e la solitudine di quella vita confinata. Osservando il reduce sulla sedia a rotelle, il federale si infuriò con i vicini: perché non avevano fatto qualcosa per inserirlo nelle loro vite? Perché non lo avevano invitato a cena più spesso? Perché lo avevano lasciato tanto solo da costringerlo a partecipare alla vita della comunità attraverso cannocchiale e telescopio? Provò una fitta di disperazione al pensiero di come la gente sia incapace di accostarsi agli altri. Con un sussulto, pensò alla propria incapacità di comunicare con il figlio e si sentì ancora più depresso. Rivolto a Harry, chiese: «Che cosa vuoi dire quando affermi che il corpo di Armes era uno scempio?» «Tagliato. Squarciato.» «Ma non era annegato?» «A me non è sembrato.» «Squarciato. Che cosa intendi esattamente?» domandò Tessa. Sam capì che la ragazza stava pensando alle persone che aveva udito parlare al motel — e a Janice. Harry esitò, poi riprese: «Beh, l'ho visto sul tavolo del crematoio appena prima che lo infilassero nella fornace. Era stato... sventrato, quasi decapitato, orribilmente dilaniato. Aveva lo stesso, tremendo aspetto di un individuo colpito da una bomba anti-uomo e devastato dallo shrapnel». Tutti e tre rimasero in silenzio, impressionati da quella descrizione. Soltanto Moose non sembrava turbato: emise infatti un lieve mugolio di soddisfazione mentre Tessa lo grattava dietro le orecchie. Sam riflette che non doveva poi essere così male appartenere al novero dei cosiddetti animali inferiori, delle creature guidate soprattutto dall'istinto, prive dei problemi creati da un intelletto complesso. Oppure, all'e-
stremo opposto: un computer estremamente intelligente, tutto logica e nessun sentimento di sorta. Il pesante, duplice fardello di emozioni e intelletto evoluto era unico appannaggio dell'umanità, ed era quello che rendeva la vita così difficile; si era sempre intenti a riflettere sulle emozioni, invece di limitarsi a vivere ogni istante, oppure si cercava di provare il sentimento che si riteneva appropriato a una data situazione. Oltre tutto, cercare di provare emozioni intense e al contempo operare una lucida analisi sui sentimenti, era come giostrare sei clave simultaneamente percorrendo in monociclo una fune pedalando all'indietro. «Dopo l'articolo sulla sparizione in mare di Armes», continuò Harry, «ho atteso una rettifica, ma non uscì niente. È stato quello il momento in cui ho cominciato a sospettare che le stranezze da Callan dovevano far parte di un progetto criminoso, e che, in qualche modo, la polizia ne era coinvolta.» «Anche Paula Parkins è stata dilaniata», osservò Sam. L'altro assentì. «A quanto si è detto, dai suoi dobermann.» «Dobermann?» si stupì Tessa. Alla lavanderia Sam le aveva spiegato che sua sorella rappresentava solo una fra le molte vittime di singolari suicidi e morti accidentali, ma non era entrato nei dettagli sui singoli episodi. Ora la ragguagliò rapidamente sul caso Parkins. «Non sono stati i suoi cani», convenne lei. «È stata sbranata dalla stessa cosa che ha ucciso Armes. E la coppia del Cove Lodge, poche ore fa.» Harry non sapeva niente delle morti al motel e Sam si affrettò a raccontargli l'episodio e il modo in cui lui e Tessa si erano incontrati nella lavanderia a gettone. Il viso prematuramente invecchiato del veterano assunse una strana espressione. Rivolgendosi alla ragazza, chiese: «ecco, non hai per caso visto quelle cose nel corridoio? Neppure un'occhiata?» «Solo il piede di uno di loro attraverso una fessura sotto la porta.» Talbot biascicò qualche parola, si fermò e rimase zitto, immerso nei propri pensieri. Sa qualcosa, si disse Sam. Più di noi. Per qualche ragione, però, non era disposto a condividere le sue scoperte, perché tornò a studiare il quaderno e proseguì: «Due giorni dopo la morte di Paula Parkins, un cadavere è giunto alle pompe funebri verso le nove e mezzo di sera». «Ossia l'11 settembre», precisò Sam.
«Sì.» «Non esiste traccia di un certificato di morte redatto quel giorno.» «Neanche i giornali ne hanno parlato.» «Vai avanti.» «Il 15 settembre...» «Steve Heinz e Laura Dalcoe», lo interruppe Sam. «Secondo la versione ufficiale, lui l'ha uccisa e si è suicidato. Dovremmo ritenerla una lite fra amanti.» «Un'altra cremazione rapida», commentò Harry. «E tre notti più tardi, il 18, altri due cadaveri sono stati consegnati a Callan proprio mentre mi accingevo ad andare a letto.» «Neppure di questi è stata data notizia.» «Altri due forestieri allontanatasi dall'autostrada per una visita o solo per cenare», commentò Tessa. «O forse qualche residente nella contea che costeggiava la città sulla statale.» «Potrebbe addirittura trattarsi di abitanti di Moonlight Cove», osservò il veterano. «C'è sempre qualche nuovo arrivato che affitta una casa invece di comprarla e che non cerca la compagnia dei vicini. Di conseguenza, se desideri coprire il loro assassinio, puoi architettare una storia plausibile su un improvviso trasferimento altrove a causa di un nuovo lavoro, per esempio, e nessuno avrebbe da obiettare. Poi il 23 settembre» continuò Harry. «Dev'essersi trattato del cadavere di tua sorella, Tessa.» «Sì.» «A quel punto avevo capito di dover riferire a qualcuno quanto avevo visto. A una persona dotata di autorità, ovviamente, ma a chi? Non mi fidavo di nessuno del luogo perché avevo osservato gli agenti trasportare cadaveri di cui i giornali non avevano mai dato notizia. Lo sceriffo della contea? Avrebbe creduto a Watkins e non a me. Tutti pensano che un invalido sia un po' strano — a livello mentale, intendo — e associano l'handicap fisico alla minoranza mentale, perlomeno a livello inconscio. Nessuno sarebbe stato disposto a credermi e per di più è effettivamente una storia pazzesca, con tutti questi cadaveri, le cremazioni in segreto...» Fece una pausa e il suo viso si rabbuiò. «Il fatto che io sia un veterano decorato non mi avrebbe reso più degno di fede. Anzi, in questo caso la guerra giocherebbe contro di me. La chiamerebbero sindrome da stress post-Vientam. Al povero vecchio Harry ha dato di volta il cervello — non capite? — per colpa della guerra.» Fino a quel momento aveva parlato in tono casuale, senza manifestare
grande emozione, ma le parole appena pronunciate fecero trapelare una serie di sentimenti a lungo repressi; dolore, solitudine e isolamento. Ora non solo la sua voce vibrò per l'emozione, ma più di una volta dovette interrompersi per arginare le lacrime. «Devo anche ammettere che, in parte, il motivo per cui finora non ho parlato con nessuno è che ho avuto una gran paura. Non sapevo che accidenti stesse succedendo e quale fosse la posta in gioco. Avrebbero potuto ridurmi al silenzio e infilare anche me in quella fornace. Voi penserete che, non avendo molto da perdere, io sia diventato baldanzoso di fronte alla morte. No, non è così. Per me la vita è probabilmente più preziosa di quanto non lo sia per un uomo fisicamente integro e sano. Questo corpo malridotto mi ha effettivamente isolato dal mondo intero, ma è proprio per questo che negli ultimi vent'anni ho avuto il tempo di vedere il mondo in tutta la sua complessità. In sostanza, il mio handicap mi ha spinto ad apprezzare e ad amare la vita più di prima. Ho avuto paura che mi venissero a prendere per eliminarmi, ecco perché ho esitato a informare qualcuno di ciò che avevo visto. Che Dio mi aiuti, se avessi parlato, se mi fossi messo in contatto subito con l'FBI, forse qualcuno sarebbe potuto essere salvato. Forse tua sorella non sarebbe morta.» «Non pensarci nemmeno», reagì Tessa immediatamente. «Se ti fossi comportato diversamente, ormai saresti senza dubbio un mucchietto di ceneri recuperate dalla fornace e gettate in mare. Il destino di Janice era segnato e tu non avresti potuto cambiarlo in nessun modo.» Harry annuì, poi spense la torcia elettrica, gettando la stanza nell'oscurità, nonostante non avesse ancora finito di elencare le informazioni trascritte nel quaderno. Sam sospettò che la generosità d'animo della ragazza avesse fatto salire le lacrime agli occhi del veterano, che non voleva farsi vedere piangere. «Il 25», continuò questi, senza alcun bisogno di ricorrere al notes per i particolari, «alle dieci e un quarto di sera, un cadavere arrivò da Callan. Stranamente, questa volta fu portato da Loman Watkins in persona...» «Il capo della polizia», spiegò Sam a Tessa. «... che però era in borghese e nella sua auto privata. Estrassero il corpo dal portabagagli, avvolto in una coperta. Anche quella notte le veneziane erano sollevate, così fui in grado di vedere a distanza ravvicinata. Non riconobbi la persona, ma le condizioni in cui si trovava il suo cadavere sì: le stesse di Armes.» «Dilaniato?» chiese Sam. «Sì. Poi il Bureau arrivò effettivamente in città per il caso Bustamante-
Sanchez. Quando lo lessi sul giornale, mi sentii molto sollevato perché ero convinto che, finalmente, tutto sarebbe uscito allo scoperto, che avremmo ottenuto delle spiegazioni. Invece, altri due corpi furono cremati la notte del 4 ottobre...» «Con la nostra squadra già in città», interloquì Sam, «nel bel mezzo delle loro indagini. Durante quel periodo non è stato stilato nessun certificato di morte. Mi stai dicendo che è accaduto sotto i loro nasi?» «Già. Non ho bisogno di controllare il notes, me lo ricordo chiaramente. I cadaveri sono stati trasportati a bordo del camper di Reese Dorn, un agente locale, che però quella sera era in borghese. Li ho visti scaricare entrambi i corpi nel crematoio come se avessero una gran fretta di liberarsene. Non solo, ma a tarda notte del 7 ottobre, da Callan c'è stata una grande attività, anche se la nebbia era così fitta che non potrei giurare che si sia trattato di un ennesimo arrivo di cadaveri. E infine, stanotte, qualche ora fa: il corpo di un bambino.» «Più i due che sono stati uccisi al Cove Lodge», aggiunse Tessa. «Con loro, le vittime sono ventidue, non dodici come crede l'FBI. Questa città è diventata un mattatoio.» «Potrebbero essere anche di più», osservò Harry. «Perché?» «Beh, dopotutto, non osservo le pompe funebri di continuo, notte dopo notte, e vado a letto verso l'una e mezzo, al massimo alle due. Chi mi dice che non ho perso qualcosa, che nessun altro cadavere sia arrivato lì mentre dormivo?» Meditando sulle parole del veterano, Sam tornò a fissare attraverso il telescopio: il retro di Callan era ancora buio e immobile. Tessa chiese: «Ma perché sono stati uccisi?» Nessuno aveva una risposta. «E da che cosa?» insistette lei. Spostando l'obbiettivo, Sam studiò un cimitero sul fondo della Conquistador, poi sospirò e raccontò ai due della propria esperienza sulla Iceberry Way. «Credevo fossero ragazzi, dei teppisti, ma ora sono convinto che si trattasse delle medesime cose che hanno ucciso la coppia al Cove Lodge, le stesse creature di cui hai intravisto un piede dalla fessura della porta.» Poté quasi percepire la tensione di Tessa nell'oscurità; in tono frustrato, la ragazza ripetè: «Ma che cosa sono?» Harry Talbot esitò, infine disse: «Entità malefiche».
52 Non osando servirsi della sirena e abbassando le luci dei fanali durante l'ultima parte del percorso, Loman arrivò a casa di Mike Peyser alle tre e dieci del mattino con due autopattuglie, cinque agenti e fucili a pompa. Sperava vivamente che non fossero costretti a usare le armi se non a scopo intimidatorio. Nell'unico precedente incontro con un regressivo — Jordan Coombs, il 4 settembre — non erano preparati alla sua ferocia ed erano stati obbligati a fargli saltare le cervella per salvarsi la vita. Rimasto con una semplice carcassa da esaminare, Shaddack si era infuriato per aver perso l'opportunità di addentrarsi nella psicologia — e nella fisiologia attiva — di uno di questi psicopatici metamorfici. Sfortunatamente, un fucile narcotizzante sarebbe servito a poco, visto che costoro erano membri della Nuova Gente e che, come tutti gli altri, possedevano un metabolismo radicalmente alterato, in grado di assorbire rapidamente, distruggere ed espellere le sostanze tossiche, i veleni e i tranquillanti. L'unico modo di sedare un regressivo consisteva nel convincerlo a sottoporsi spontaneamente a una fleboclisi di calmanti, il che era maledettamente improbabile. L'abitazione di Mike Peyser era una villetta con due verande, rispettivamente sulla facciata principale e sul retro, ben tenuta e riparata da alcuni giganteschi eucalipti che non avevano ancora perso le foglie. Nessuna delle finestre era illuminata. Loman spedì due uomini a controllare i lati della casa, per impedire che Peyser tentasse di fuggire da una finestra, poi posizionò un terzo agente di fronte all'entrata principale. Assieme agli altri due — Sholnick e Penniworth — aggirò l'edificio e salì silenziosamente gli scalini della veranda posteriore. Ora che la nebbia era stata dispersa dal vento, la visibilità era buona, ma le continue raffiche impedivano di udire altri rumori che sarebbe stato utile poter sentire durante una caccia all'uomo. Penniworth si addossò al muro sulla sinistra dell'ingresso, mentre Sholnick occupò il lato destro; entrambi erano armati di fucili semiautomatici calibro 20. Loman provò la porta: non era chiusa a chiave. Spinse il battente e fece un passo indietro. I suoi uomini, l'uno dopo l'altro, penetrarono nella cucina buia, i fucili puntati e pronti a sparare in caso di necessità benché sapessero che l'obiet-
tivo consisteva nel prendere Peyser vivo, se possibile. Un attimo dopo, uno dei due trovò l'interruttore della luce. Con una calibro 12 in mano, Loman li seguì all'interno. Ciotole vuote, piatti rotti e contenitori di plastica sporchi erano sparsi sul pavimento, fra avanzi di rigatoni al sugo, mezza polpetta, gusci d'uovo, un pezzo di torta e altri frammenti di cibo. Una sedia era rovesciata al suolo, un'altra era stata fatta a pezzi contro un armadietto ed erano in frantumi anche le piastrelle alla parete. Di fronte a loro, un'apertura ad arco conduceva in una sala da pranzo, mentre a sinistra, di fianco al frigorifero, c'era una porta, che Barry Sholnick aprì con cautela: scaffali pieni di scatolame fiancheggiavano un pianerottolo e una rampa di scale scendeva nel seminterrato. «Lì controlleremo più tardi», disse Loman sottovoce, «dopo aver setacciato la casa.» Silenziosamente, Sholnick prese una sedia e la assicurò sotto la maniglia, in modo che nessuno potesse salire dalla cantina e sorprenderli alle spalle. Rimasero un attimo immobili, in ascolto. Il vento soffiava a raffiche contro l'edificio, facendo tremare le finestre. Gli agenti guardarono il loro capo in attesa di direttive. Penniworth aveva solo venticinque anni, sarebbe potuto passare per un diciottenne e possedeva un viso così fresco e innocente da assomigliare più a un venditore di articoli religiosi a porta a porta che non a un poliziotto. Sholnick, invece, era di dieci anni più anziano e aveva acquisito una maggiore durezza. A gesti, Loman li indirizzò verso la sala da pranzo. Entrarono, accendendo le luci: il locale era deserto, quindi proseguirono nel soggiorno. Premendo un pulsante sulla parete, Penniworth accese una lampada cromata, che si rivelò uno dei pochi oggetti rimasti intatti. I cuscini del divano e delle poltrone erano stati squarciati, brandelli d'imbottitura erano sparsi ovunque, i libri erano stati fatti a pezzi. Ornamenti in ceramica, un paio di vasi e la superficie di vetro di un tavolino, erano ridotti in frantumi, come pure lo schermo del televisore. Quella distruzione era evidentemente opera di una furia cieca e di una forza selvaggia. La stanza emanava un forte lezzo in parte di urina e in parte di qualcos'altro, meno pungente e meno familiare. Poteva trattarsi dell'odore rancido del sudore, ma si percepiva anche una componente strana, che fece rivoltare lo stomaco di Loman, stringendoglielo nel contempo per la paura.
I due agenti si spostarono nell'ingresso, collegato al soggiorno mediante un'altra arcata. Videro un armadio, e, mentre Sholnick vi rimaneva di fronte con il fucile puntato, Penniworth spalancò l'anta. Non c'erano altro che cappotti. La parte semplice della ricerca era finita. Ora li attendeva lo stretto corridoio con tre porte, una semiaperta e due spalancate sulle stanze buie: meno spazio di manovra, più possibilità di venire attaccati di sorpresa. Il vento notturno sussurrava nelle grondaie e soffiava in un condotto di scarico, producendo una nota bassa e lamentosa. Loman non era mai stato il genere di capo che preferiva mandare avanti i propri uomini in situazioni pericolose, rimanendosene al sicuro. Per quanto l'orgoglio, il rispetto per se stesso e il senso del dovere fossero andati persi, insieme alla maggior parte dei comportamenti e delle emozioni proprie della Vecchia Gente, per lui il lavoro era ancora un'abitudine — in effetti, qualcosa di meno consapevole e più simile a un riflesso — e, di conseguenza, agì come avrebbe fatto prima del Cambiamento. Entrò nel corridoio per primo, dove lo attendevano due porte sulla sinistra e una sulla destra; si spostò rapidamente sul fondo, di fronte all'ultima stanza, e sferrò un calcio al battente della porta semiaperta. Vide un piccolo bagno, deserto. Penniworth si occupò della camera attigua. Entrò e scoprì l'interruttore della luce prima ancora che Loman fosse arrivato sulla soglia. Si trattava dello studio, arredato con una scrivania, due sedie, armadietti, alti scaffali zeppi di volumi e due computer. Nient'altro. Barry Sholnick era rimasto in corridoio, il fucile puntato verso la stanza non ancora controllata. Quando gli altri due lo raggiunsero, spinse il battente con la canna dell'arma, poi balzò indietro, certo che dall'oscurità qualcosa gli sarebbe saltata addosso. Non accadde nulla. Lui esitò, quindi cercò a tentoni di accendere la luce, vi riuscì e, subito, esclamò: «Oh, mio Dio». Immediatamente dopo si precipitò di nuovo in corridoio. Guardando oltre l'agente nella vasta camera da letto, Loman vide una cosa infernale accucciata sul pavimento e rannicchiata contro la parete. Era un regressivo, Peyser senza dubbio, ma non assomigliava affatto a Jordan Coombs nel suo stato di alterazione, come Watkins si era aspettato: esistevano delle similarità, certo, ma non molte. Passando di fianco a Sholnick, attraversò la soglia. «Peyser?» La cosa all'altro capo della stanza sbattè le palpebre, muovendo la bocca
contorta. In una voce bisbigliante ma gutturale, selvaggia eppure disperata come solo la voce di una creatura, perlomeno semintelligente poteva essere, disse: «... Peyser, Peyser, Peyser, me, Peyser, me, me...» Anche qui aleggiava fetore di urina, ma l'altro odore era ora dominante — acre, muschioso. Loman avanzò, seguito da Penniworth. Sholnick rimase sulla porta. Quando, ai primi di settembre, avevano intrappolato Jordan Coombs nel cinema, il suo aspetto alterato ricordava in qualche modo un gorilla dal corpo massiccio e potente; Mike Peyser, invece, era assai più snello, dai tratti molto più simili a quelli di un lupo. I fianchi erano posizionati ad angolo retto rispetto alla spina dorsale, impedendogli di alzarsi in piedi o di sedere in posizione eretta, e le gambe sembravano possedere cosce troppo corte e polpacci troppo lunghi. Era ricoperto di peli fitti, ma non tanto da poter essere definiti una pelliccia. «Peyser, me, me, me...» Il viso di Coombs era stato almeno parzialmente umano, anche se soprattutto scimmiesco: fronte sporgente, naso appiattito, mascella pronunciata dai denti grandi e terribilmente aguzzi come quelli di un babbuino. Al contrario, anche i tratti somatici di Peyser, sinistramente trasformati, suggerivano il lupo o il cane, con il naso e la bocca allungati in un muso deforme. L'ampia arcata sopraccigliare era identica a quella di un primate, per quanto esagerata, e gli occhi iniettati di sangue, profondamente infossati, avevano un'espressione di angoscia e di terrore interamente umana. Alzando una mano e puntandola in direzione di Loman, Peyser disse: «... aiuta me, me, aiuta, qualcosa sbagliato, sbagliato, sbagliato, aiuta...» Il poliziotto fissò quell'arto trasformato con timore e sorpresa, rammentando come la propria mano avesse cominciato a mutare solo qualche ora prima, quando aveva avvertito il richiamo della regressione di fronte alla casa dei Foster. Dita allungate, nocche enormi e nodose, artigli acuminati al posto delle unghie. Merda, pensò Loman, quelle mani, quelle mani! Le ho viste nei film o, perlomeno, alla televisione, quando abbiamo noleggiato la cassetta de L'ululato. Rob Bottin. Quello era il nome del maestro negli effetti speciali che aveva creato il lupo mannaro; se lo ricordava perché, prima del Cambiamento, Danny era stato un fanatico degli effetti speciali. Più di qualsiasi altra cosa, quelle sembravano le stramaledette mani del lupo mannaro ne L'ululato! Il che era troppo pazzesco per essere preso in considerazione: la vita che
imitava la fantasia, il fantastico divenuto carne e ossa! Sul finire del ventesimo secolo, il progresso scientifico e tecnologico aveva raggiunto una sorta di spartiacque ove spesso le aspirazioni dell'umanità a una vita migliore potevano essere realizzate, ma anche gli incubi potevano diventare realtà. Peyser era un incubo emerso furtivamente dal subconscio e diventato concreto, e non esisteva modo di sfuggirgli svegliandosi; non sarebbe scomparso come i mostri che perseguitavano il sonno. «Come posso aiutarti?» gli chiese in tono stanco. «Sparagli», esclamò Penniworth. Loman reagì bruscamente. «No!» Peyser sollevò entrambe le mani artigliate e le guardò per qualche minuto, come se le vedesse per la prima volta. Emise un gemito, poi un flebile lamento di disperazione. «... Cambiare, impossibile cambiare, impossibile, provato, volere, bisogno, volere, volere, impossibile, cercato, impossibile...» Dalla soglia, Sholnick sbottò: «Mio Dio, è rimasto così... è intrappolato! Io credevo che i regressivi potessero mutare a piacimento». «Infatti possono», rispose Watkins. «Lui no», insistè l'altro. «Lo ha detto lui stesso», convenne Penniworth in tono nervoso. «Sostiene di non riuscire a mutare.» Leman replicò: «Forse, o forse no. Gli altri regressivi, però, lo fanno. Perché lo fanno, perché se non fossero in grado di cambiare, a quest'ora, li avremmo scoperti tutti. Di solito abbandonano il loro stato alterato e camminano in mezzo a noi». Peyser sembrava dimentico della loro presenza; stava fissandosi le mani, gemendo gutturalmente come se fosse terrorizzato da quella vista. Poi le mani cominciarono a mutare. «Guardate!» esclamò Loman. Non aveva mai assistito a una simile trasformazione ed era assalito da curiosità, stupore e panico. Gli artigli si ritirarono, la carne sembrò di colpo malleabile come cera: si gonfiava, si riempiva di vesciche, pulsava in modo bizzarro e osceno, assumendo nuove forme come se uno scultore invisibile vi stesse lavorando. Loman udì le ossa scricchiolare e spezzarsi nel processo ricostruttivo; i tessuti si fusero e risolidificarono con un rumore umido, nauseante. Le mani diventarono quasi umane, poi anche i polsi e gli avambracci cominciarono a perdere parte delle caratteristiche animali. Sul viso di Peyser si manifestarono i segni della trasformazione: i tratti del
predatore iniziarono a cedere il passo a un aspetto meno brutale e più civilizzato. Per quanto non fosse uno scienziato o un genio della microtecnologia, ma solo un poliziotto di cultura media, Loman capì che una mutazione tanto rapida e radicale non poteva essere attribuita soltanto ai processi metabolici enormemente migliorati e alla capacità di cicatrizzazione delle ferite propri della Nuova Gente. Nonostante ora il corpo di Mike Peyser fosse in grado di produrre valanghe di ormoni, enzimi e componenti biologici, non c'era modo che carne e ossa potessero riplasmarsi così drasticamente in un lasso di tempo tanto breve; in giorni e settimane sì, ma non nell'arco di secondi. Si trattava di un fenomeno fisicamente impossibile, eppure stava accadendo. Il che significava che, in Peyser, era all'opera un'altra forza, più potente dei processi biologici: qualcosa di misterioso e agghiacciante. Improvvisamente la mutazione si bloccò. Loman poteva vedere che Peyser si stava sforzando di acquisire un aspetto normale, serrando le mascelle ancora simili a quelle di un lupo e digrignando i denti, uno sguardo di disperazione e di ferrea determinazione negli occhi strani, ma senza risultato. Per un attimo, tremò, sulla soglia della forma umana, e parve che, se soltanto fosse riuscito a spingere la trasformazione un passo più in là, solo un piccolo passo, avrebbe attraversato un confine oltre il quale il resto della metamorfosi si sarebbe svolto quasi automaticamente, senza strenui sforzi di volontà. Ma non fu in grado di raggiungere quel punto. Penniworth emise un suono rauco e strozzato, come se stesse condividendo l'angoscia di Peyser. Loman guardò il giovane agente: aveva il viso coperto da un sottile velo di sudore. Il capo della polizia si accorse di essere preda a propria volta del sudore gelido della paura ma, ancor più, sentì un senso di costrizione al torace, una morsa alla gola che gli rendeva difficile deglutire; stava respirando affannosamente, come se fosse salito di corsa per un centinaio di gradini. Gridando per la disperazione, Peyser cominciò a regredire nuovamente. Con un secco rumore di ossa in fase di ricostituzione e il suono umidoscivoloso della carne in metamorfosi, la creatura selvaggia riasserì il proprio dominio; nello spazio di qualche minuto, tornò ciò che era stato pochi istanti prima: una belva infernale. Orribile, certamente, e animalesco, ma invidiabilmente vigoroso e dotato di una singolare, agghiacciante bellezza. Il portamento in avanti della testa enorme era bizzarro, rispetto all'assetto del cranio umano, e gli mancava, la
curva sinuosa della spina dorsale, eppure possedeva una grazia sinistra. I tre poliziotti rimasero in silenzio. Peyser si raggomitolò sul pavimento a capo chino. Infine, dalla soglia, Sholnick esclamò: «Mio Dio, è davvero intrappolato!» Benché il ritorno alle faltezze umane, a quel punto, sembrasse impossibile, Loman sospettò che Peyser possedesse ancora la capacità di mutare, se solo lo avesse voluto veramente, ma che gli mancasse il desiderio di farlo. Era diventato un regressivo perché trovava affascinante quello stato di alterazione e, forse, lo riteneva tanto eccitante da non voler più rientrare in una condizione evoluta. La creatura alzò il capo e li guardò. Non manifestava alcun terrore per il proprio stato; l'angoscia e il panico erano scomparsi dai suoi occhi. Con il muso contorto, sembrava sorridere ai tre poliziotti e una ferocia nuova — sconvolgente e ipnotica nel contempo — gli balenò nello sguardo. Portò le mani all'altezza del viso e flette le dita lunghissime, sfregando gli artigli gli uni contro gli altri e studiandosi con una sorta di stupore. «... caccia, caccia, inseguire, caccia, uccidere, sangue, sangue, bisogno, bisogno...» «Come diavolo possiamo prenderlo vivo se non vuole farsi catturare?» La voce di Penniworth suonò strana, impastata e lievemente strascicata. Peyser si grattò i genitali con aria assente. Guardò nuovamente Loman, poi l'oscurità che premeva contro le finestre. «Mi sento...» Sholnick lasciò la frase a metà. Penniworth non fu più articolato: «Se noi... beh, potremmo...» Loman si sentiva il torace e la gola sempre più costretti ed era, ormai, inzuppato di sudore. La creatura emise un basso ululato, il suono più sinistro che i tre avessero mai udito: un'espressione di desiderio, una sfida animale alla notte, una constatazione di potere e di fiducia nella propria forza e astuzia. Fra le pareti della camera da letto, quel grido sarebbe dovuto suonare spaventoso, invece destò in Loman la medesima, inesplicabile bramosia che aveva già sperimentato nella casa dei Foster. Stringendo i denti al punto da far dolere le mascelle, egli lottò per resistere a quell'impulso malefico. Peyser ululò ancora, quindi biascicò: «Correre, cacciare, libero, libero, bisogno, libero, bisogno, venire con me, venire, venire, bisogno, bisogno...»
Loman si accorse di aver allentato la presa sull'arma: la canna era inclinata verso il basso. «... correre, libero, libero, bisogno...» Alle proprie spalle udì un urlo di sollievo. Si voltò verso la porta in tempo per vedere Sholnick deporre il fucile. Le mani e il viso dell'agente avevano subito una lieve trasformazione. Lo vide gettare a terra la giacca dell'uniforme e strapparsi la camicia; le guance e la mascella si dissolsero per allungarsi in avanti e l'arcata sopraccigliare si ritirò mentre si compiva il processo di trasformazione. 53 Quando Harry Talbot finì di parlare delle Entità Malefiche, Sam tornò a chinarsi sul telescopio, spostandolo verso sinistra finché non lo mise a fuoco sul terreno abbandonato di fianco a Callan, ossia il punto dove le creature avevano fatto l'apparizione più recente. Non era sicuro di che cosa stesse cercando, visto che non gli sembrava logico che quegli esseri ricomparissero nello stesso punto solo per permettere a Sam di dar loro un'occhiata. Fra le ombre e i cespugli, dove si erano rannicchiati soltanto qualche ora prima, non esistevano indizi rivelatori sulla loro natura o sul genere di missione che avevano intenzione di compiere. Forse stava solo cercando di ancorare al mondo reale la fantastica immagine di quelle entità fra scimmia — cane — rettile, di collegarle, nella propria mente, a quel terreno in modo da renderle più concrete. A ogni modo, Harry aveva in serbo un'altra storia. Mentre sedevano al buio come se stessero ascoltando racconti di fantasmi attorno a un fuoco spento, il veterano narrò di come avesse visto Denver Simpson, Doc Fitz, Reese Dorn e Paul Hawthorne sopraffare Ella Simpson, trascinarla in camera da letto e iniettarle un'enorme siringa piena di liquido dorato. Dal letto, con la testa del cane ancora in grembo, Tessa osservò: «Tutto dev'essere collegato in qualche modo: le morti 'accidentali', Ella Simpson e le Entità Malefiche». «Certo, un legame esiste», convenne Sam. «E il punto cruciale è la New Wave Microtechnology.» Riferì agli altri due quanto aveva scoperto servendosi del terminale dell'autopattuglia nel parcheggio del municipio. «Falco Notturno?» si chiese la ragazza. «Conversioni? E in che cosa diavolo stanno convertendo la gente?»
«Non lo so.» «Certo non in... Entità Malefiche. Oppure sì?» «No, non ne vedo lo scopo. Fra l'altro, a quanto ho appreso dal computer, quasi duemila persone in questa città sono state sottoposte al trattamento, al Cambiamento, o come accidenti lo definiscono. Se fossero state create così tante Entità Malefiche, per usare il termine di Harry, sarebbero ovunque; la città ne pullulerebbe come uno zoo da Confini della Realtà.» «Duemila», riflette il veterano. «Significa due terzi di Moonlight Cove.» «E il resto entro mezzanotte», dichiarò Sani. «Poco meno di ventun'ore da adesso.» «Anch'io, suppongo, non è vero?» domandò Harry. «Sì. Ti ho cercato sull'elenco. La tua conversione è prevista per lo stadio finale, tra le sei di domani sera e mezzanotte. Dunque abbiamo circa quattordici ore e mezzo prima che vengano a trovarti.» «Tutto questo è folle», esclamò Tessa. «Certo», confermò Sam. «Pura follia.» «Non può essere vero», disse Harry. «Ma se non sta succedendo, allora perché mi si stanno rizzando i capelli?» 54 «Sholnick!» Scalciando via le scarpe, nella frenesia di liberarsi di tutti gli indumenti e completare la regressione, l'agente ignorò Loman. «Barry, fermati, per amor del Cielo, non lasciare che ti succeda!» lo supplicò Penniworth in tono concitato. Pallido e tremante, il ragazzo fissava alternativamente Sholnick e Peyser, e Loman sospettò che anche lui sentisse la medesima, degenere bramosia a cui l'altro si era arreso. «... correre libero, cacciare, sangue, sangue, bisogno. ..» L'insidiosa cantilena di Peyser era come un chiodo conficcato nella testa di Watkins, che desiderava soltanto non udirla più. No, per la verità, non assomigliava a un chiodo nel cranio perché non era affatto dolorosa, ma, al contrario, eccitante e stranamente melodiosa. Ecco perché voleva che cessasse: lo affascinava, lo solleticava, gli faceva desiderare di liberarsi di responsabilità e preoccupazioni, di ritirarsi dalla vita troppo complessa dell'intelletto in un'esistenza basata unicamente sull'istinto e sul piacere fisico, un mondo i cui i confini fossero definiti dal sesso, dal cibo e dall'eccitazione per la caccia, un mondo dove le dispute venissero appianate unicamente
dai muscoli, dove non avrebbe più dovuto pensare, preoccuparsi o essere afflitto da problemi. «... bisogno, bisogno, bisogno, bisogno, uccidere...» Il corpo di Sholnick si piegò in avanti mentre la sua spina dorsale si modificava; sembrava che la pelle venisse sostituita da squame... «vieni, presto, presto, la caccia, sangue, sangue...» ... e con il mutare del viso la bocca si spaccò in una fessura incredibilmente ampia, aprendosi quasi da un orecchio all'altro, come la bocca di un rettile dall'eterno sogghigno. Con il passare dei secondi, Loman si sentiva sempre più oppresso e angosciato. «No!» cercò di gridare. Era percorso da rivoli di sudore. «No!» ripetè con urgenza. Percepiva quella stanza come un calderone: poteva quasi sentire la propria carne cominciare a sciogliersi. Penniworth stava ripetendo: «Voglio, voglio, voglio, voglio». Ma scuoteva vigorosamente la testa, cercando di negare le sue stesse affermazioni; piangeva, tremava ed era bianco come un lenzuolo. Peyser si alzò, allontanandosi dalla parete. Si mosse rapidamente, in modo sinuoso, e per quanto non potesse stare del tutto eretto era più alto di Loman, una figura contemporaneamente terrificante e seducente. Sholnick urlò. Peyser mostrò i temibili denti e sibilò in direzione di Watkins, quasi dicesse: «O vieni con noi o muori». Con un grido di disperazione e di gioia insieme, Neil Penniworth lasciò cadere il fucile e si portò le mani al viso. Come se quel contatto avesse attivato una reazione alchemica, la faccia e gli arti cominciarono a trasformarsi. Il calore esplose dentro Loman, che lanciò un urlo privo della gioia espressa da Penniworth e ben lontano dalla liberazione orgasmica di Sholnick. Mentre ancora riusciva a controllarsi, alzò l'arma e sparò una scarica contro Peyser. L'esplosione centrò il regressivo in pieno petto, facendolo rimbalzare contro il muro fra terribili spruzzi di sangue. Questi cadde gemendo e boccheggiando, contorcendosi sul pavimento come un insetto mezzo schiacciato, ma non ancora morto. Forse cuore e polmoni non erano stati danneggiati a sufficienza. Se l'ossigeno entrava ancora nel sangue e la circolazione non era rimasta interrotta, stava già rimediando ai danni; la sua invulnerabilità era in una certa misura anche maggiore della resistenza soprannaturale di un lupo mannaro, visto che non poteva essere ucciso facil-
mente neppure con una pallottola d'argento. Entro pochi minuti sarebbe stato in piedi, forte come sempre. Ora Loman avvertiva la pressione interna in ogni parte del corpo. Gli erano rimasti solo pochi secondi di lucidità per agire e di volontà per resistere; si affrettò verso Peyser, gli premette la canna del fucile contro il petto e sparò nuovamente. Ora il cuore doveva essere polverizzato. Il viso mostruoso del regressivo si contorse, poi si raggelò con gli occhi spalancati, le labbra ritratte a scoprire quei denti disumanamente grandi, acuminati, ricurvi. Alle spalle di Loman qualcuno gridò. Girandosi, egli vide la cosa-Sholnick avventarsi contro di lui. Sparò una terza e una quarta scarica, colpendolo allo stomaco. L'agente stramazzò e cominciò a strisciare verso il corridoio, lontano da Watkins. Neil Penniworth era raggomitolato in posizione fetale sul pavimento ai piedi del letto. Stava intonando una cantilena che non parlava di sangue, di bisogno e di libertà: ripeteva di continuo il nome della madre, quasi fosse un talismano in grado di proteggerlo dal male che voleva possederlo. Dopo aver rincorso Sholnick, in piedi sopra di lui, Loman gli spinse la bocca dell'arma contro la schiena, più o meno dove pensava si trovasse il cuore, e premette il grilletto. L'agente lanciò un urlo stridulo, ma era troppo debole per rigirarsi e tentare di afferrare l'arma. L'urlo fu interrotto per sempre dall'esplosione. La stanza grondava sangue. Quell'odore era tanto dolce e irresistibile da prendere il posto della seducente cantilena di Peyser, inducendo Loman a regredire. Si appoggiò alla cassettiera e chiuse gli occhi, cercando di riprendere il controllo di se stesso. Strinse con forza il fucile, non per il suo valore difensivo — era rimasto senza cartucce — ma perché si trattava di un'arma realizzata da mani esperte, ossia uno strumento, un artefatto della civiltà, qualcosa che gli ricordava di essere un uomo, al vertice dell'evoluzione, e che non doveva soccombere alla tentazione di accantonare conoscenza e manualità a favore dei piaceri più primitivi di una belva. Ma l'odore del sangue era forte e tanto invitante... Sforzandosi disperatamente di rammentare a se stesso quanto avrebbe perso in questa resa, pensò a sua moglie Grace e a come un tempo l'avesse amata. Ma ormai era al di là dell'amore, come tutta la Nuova Gente, e concentrarsi su di lei non l'avrebbe salvato. Al contrario, gli passarono per la mente le immagini del loro recente, bestiale accoppiamento: lei non era più
Grace, bensì una femmina, e il ricordo di quell'amplesso selvaggio lo eccitò, trascinandolo ancora più vicino al gorgo della regressione. Dentro di lui infuriò il conflitto: ... sangue... ... libertà... — No. Mente, conoscenza — ... cacciare... ... uccidere... — No. Esplorare, apprendere — ... mangiare... ... correre... ... cacciare... ... accoppiarsi... ... uccidere... — No, no! Musica, arte, linguaggio — Il tumulto interiore crebbe ancora. Stava cercando di resistere al canto della sirena della regressione con la ragione, ma sembrava non funzionasse, quindi, pensò a Danny. Tentò di racimolare tutto l'amore che aveva provato per il figlio, ma dentro di sé trovò soltanto un pallido ricordo. La sua capacità di amare si era allontanata da lui come la materia si era staccata dal nucleo a seguito del Big Bang che aveva creato l'universo; i suoi sentimenti per Danny erano ormai così distanti e lontani nel tempo da sembrare una stella all'altro capo dello spazio, dalla luminosità percepita a stento e priva del potere di riscaldare. Eppure, persino quel barlume d'emozione rappresentava qualcosa attorno a cui costruire un'immagine di se stesso come essere umano, soprattutto e per sempre, un uomo, non una creatura che correva a quattro zampe trascinando le nocche sul terreno, ma un uomo, un uomo. Respiro e battito cardiaco rallentarono un poco; erano ancora affrettati, ma si andavano normalizzando. Anche la mente si stava schiarendo, benché non completamente perché il profumo del sangue rimaneva irresistibile. Si allontanò dalla cassettiera e barcollò verso Penniworth. Il giovane era ancora rannicchiato in posizione fetale e mostrava sempre qualche traccia di regressione nel viso e nelle mani, ma era considerevolmente più umano che bestiale. Loman si chinò su di lui e lo prese per un braccio. «Coraggio, andiamocene da qui, ragazzo, via da quest'odore.» Penniworth capì e si alzò faticosamente in piedi, accasciandosi contro il
suo superiore e facendosi trasportare fuori dalla stanza, lontano dai due regressivi morti. Nel soggiorno, Watkins depose il giovane in una poltrona, l'unica a non essere stata sventrata. «Va meglio?» L'agente esitò, poi assentì. Ogni tratto animalesco era scomparso, ma la sua carne era stranamente gibbosa, ancora in fase di transizione. Il viso, tutto gonfio, sembrava in preda a un terrificante attacco d'acne, con enormi bitorzoli dalla fronte al mento e lunghe strisce diagonali di un rosso acceso sulla carnagione chiara. Tuttavia, questo fenomeno svanì sotto gli occhi di Loman e Neil Penniworth ridivenne completamente umano: dal punto di vista fisico, perlomeno. «Sei sicuro?» insistè Loman. «Sì.» «Rimani qui.» «Va bene.» Loman si diresse nel vestibolo e aprì la porta d'ingresso. L'agente di guardia all'esterno, teso per le urla e gli spari provenienti dalla casa, quasi fece fuoco contro di lui prima di accorgersi di chi si trattasse. «Che cosa diavolo è successo?» chiese. «Vai al computer e mettiti in contatto con Shaddack», ordinò Loman. «Deve venire immediatamente. Subito. Devo vederlo ora.» 55 Sam tirò i pesanti tendaggi blu e Harry accese una lampada da comodino. Per quanto fosse tenue, troppo debole per fugare le ombre della stanza, la luce ferì gli occhi di Tessa, ormai stanchi e arrossati. Per la prima volta, fu in grado di osservare il locale, scarsamente ammobiliato: lo sgabello affiancato da un alto tavolo, il telescopio, una lunga cassettiera di stile orientale laccata di nero, due comodini, un piccolo frigorifero in un angolo e un letto regolabile di tipo ospedaliere, molto grande, privo di trapunta, ma pieno di cuscini e con lenzuola a colori vivacissimi, come se fossero state dipinte da un artista folle. Il veterano notò la reazione degli altri due di fronte alle lenzuola e spiegò: «Beh, questa è proprio una bella storia, ma prima dovete conoscere il retroscena. La mia domestica, la signora Hunsbok, viene qui una volta alla settimana e si occupa del grosso della spesa, ma, ogni giorno, io mando
Moose a far commissioni, anche soltanto a prendere il giornale. È attrezzato, beh... con delle specie di borse da sella sul dorso, una per parte, dove infilo una lista e del denaro. Lui va all'emporio locale — l'unico posto dove si dirige quando porta le borse, a meno che io non sia con lui — il commesso, Jimmy Ramis, che mi conosce bene, legge la nota, infila nelle sacche ciò che mi serve assieme al resto e Moose mi consegna tutto a casa. È un cane affidabile, bravissimo, il migliore; non insegue mai i gatti quando trasporta il giornale o il latte». Il labrador alzò la testa dal grembo di Tessa e ansimò, quasi stesse prendendo atto degli elogi. «Un giorno tornò qui con le solite cose, più queste lenzuola con tanto di federe. Io telefonai a Jimmy Ramis e gli chiesi che cosa gli fosse venuto in mente, ma lui mi rispose di non sapere di che diavolo stessi parlando, di non aver mai visto lenzuola del genere. Ora, suo padre, oltre all'emporio, possiede un negozio sulla statale dove vende rimanenze e fondi di magazzino a basso costo, e io immagino che quelle lenzuola non fossero smerciabili neppure lì. Sicuramente Jimmy doveva averle viste e, pensando che fossero assolutamente assurde, abbia deciso di farmi uno scherzo. Al telefono, naturalmente, finse di nulla. 'Harry, se ne sapessi qualcosa te lo direi, lo giuro.' E io risposi: 'Stai forse cercando di farmi credere che Moose le ha comprate di sua iniziativa, con i suoi soldi?' 'Beh, no, penso che le abbia rubate in qualche negozio.' 'E secondo te, come è riuscito a riporle ordinatamente nella sacca?' E lui: 'Non ne ho idea, Harry, ma quello è un cane maledettamente in gamba — anche se non sembra avere buon gusto.'» Tessa si accorse di come il veterano fosse compiaciuto per quell'episodio e ne capì bene il motivo. Da un lato, il cane era come un figlio, un fratello e un amico messi assieme, e Harry si sentiva orgoglioso quando la gente lo reputava intelligente; ancora più importante, però, era il fatto che lo scherzo di Jimmy rendeva il reduce partecipe della vita della comunità, non solo un invalido confinato a casa. Con ogni probabilità, troppo pochi episodi del genere animavano le sue giornate solitàrie. «In effetti, sei davvero un cane in gamba», la ragazza mormorò a Moose. Harry concluse: «A ogni modo, decisi di farle mettere sul letto dalla signora Hunsbok, così per gioco, ma poi ho finito con l'apprezzarle». Sam osservò: «Sono le lenzuola più chiassose che abbia mai visto. Ma non ti tengono sveglio la notte?» Il veterano sorrise. «Niente può tenermi sveglio. Dormo come un bambino. Di solito la gente non riesce a prendere sonno perché si preoccupa
per il futuro, per quanto potrà accadere, ma a me il peggio è già capitato. Alcuni, invece, restano svegli pensando al passato, a ciò che avrebbe potuto essere; io non lo faccio sempliceniente perché non oso.» Il sorriso svanì. «E adesso che cosa facciamo? Quale sarà la nostra prossima mossa?» Spostando con gentilezza la testa di Moose dal proprio grembo e alzandosi in piedi, Tessa dichiarò: «Beh, i telefoni non funzionano, quindi Sam non può avvertire il Bureau. Se tentiamo di uscire dalla città a piedi, rischiamo un incontro con le sentinelle di Watkins o con queste Entità Malefiche. A meno che tu non conosca un radioamatore disposto a lasciarci usare il suo impianto per trasmettere un messaggio, a mio modo di vedere, dobbiamo allontanarci di qui in macchina». «Ricordati dei posti di blocco», suggerì Harry. «Immagino che dovremo servirci di un camion, qualcosa di grosso e minaccioso, sfondare il maledetto posto di blocco, arrivare sull'autostrada e poi uscire dalla loro giurisdizione. Anche se venissimo inseguiti e presi dagli agenti della contea andrebbe bene, perché Sam potrebbe convincerli a telefonare all'FBI per avere conferma del suo incarico ufficiale, dopo di che sarebbero dalla nostra parte.» «Chi è l'agente federale, qui dentro?» domandò Sam. Tessa si sentì arrossire. «Mi dispiace. Capisci, un regista di documentari produce quasi sempre in proprio e talvolta si occupa di ogni aspetto della realizzazione, testi compresi. Il che significa che per far funzionare la parte artistica bisogna prima sapere gestire la parte organizzativa. Di conseguenza, sono abituata a pianificare. Non intendevo pestarti i piedi.» «Fallo pure quando vuoi.» Sam sorrise, e a lei piaceva quell'espressione. Si accorse di essere persino un poco attratta da lui. Non era né bello né brutto, ma neppure insignificante: piuttosto, si poteva definire... un anonimo dall'aspetto piacevole. Tessa avvertiva in lui un lato oscuro, che andava al di là dell'attuale preoccupazione per gli eventi di Moonlight Cove — forse tristezza per una perdita, forse rabbia a lungo repressa legata a qualche ingiustizia subita, forse pessimismo derivante dai suoi prolungati contatti di lavoro con i peggiori elementi della società. Ma il sorriso lo trasformava completamente. «Davvero volete usare un camion come mezzo di sfondamento?» domandò Harry. «Magari come estrema risorsa», rispose Sam, «ma dovremmo trovare un veicolo sufficientemente grande e poi rubarlo, il che costituisce un'operazione complessa. Tra l'altro, loro potrebbero possedere fucili caricati con
proiettili magnum, oppure armi automatiche, e non mi piacerebbe correre un rischio del genere.» «Allora dove andiamo?» chiese Tessa. «A dormire», suggerì il federale. «Esiste una via d'uscita, un modo per mettersi in contatto con il Bureau. Riesco quasi a intravvederla, ma, non appeno cerco di metterla a fuoco, svanisce perché sono troppo stanco. Ho bisogno di un paio d'ore di sonno per rinfrescarmi le idee e pensare lucidamente.» Anche Tessa era esausta, benché, dopo gli avvenimenti del Cove Lodge, fosse abbastanza sorpresa di voler dormire. Mentre si trovava nella propria stanza al motel, ascoltando le urla dei morenti e i selvaggi ululati degli assassini, si era convinta che non sarebbe mai più riuscita a dormire. 56 Shaddack arrivò a casa di Peyser cinque minuti prima delle quattro del mattino. Aveva scelto di guidare il furgoncino al posto della Mercedes, perché era dotato di un terminale tra i sedili anteriori. Dato che fino a quel momento la notte si era rivelata densa di avvenimenti, sembrava una buona idea avere a portata di mano un collegamento con la banca dati che, come un ragno, tesseva la ragnatela in cui era avvolta tutta Moonlight Cove. Mentre s'incamminava lungo il prato verso la veranda, si udì un rumore di tuono in lontananza: il vento che aveva spazzato via la nebbia aveva anche portato un temporale. Shaddack rabbrividì nonostante il cappotto di cachemire indossato sopra la tuta da ginnastica. Un paio di agenti erano seduti nelle autopattuglie parcheggiate sul viale d'accesso. Entrambi lo guardarono e a lui piacque pensare che lo osservassero con timore e reverenza, visto che in un certo senso era il loro creatore. Loman Watkins lo stava aspettando nel soggiorno; la stanza era stata devastata. Neil Penniworth era seduto in una poltrona, l'unico pezzo d'arredamento rimasto intatto; sembrava molto scosso e non ricambiò l'occhiata di Shaddack. Il capo della polizia camminava avanti e indietro. La sua uniforme era macchiata di sangue, ma non recava segni di ferite: forse si erano già cicatrizzate o, più probabilmente, il sangue apparteneva a qualcun altro. «Cos'è successo qui dentro?» chiese Shaddack. Ignorando la domanda, Watkins si rivolse all'agente: «Vai in macchina, Neil. Stai vicino agli altri uomini».
«Sì, signore», rispose Penniworth. Stava raggomitolato sul sedile, chino in avanti, e si fissava le scarpe. «Andrà tutto bene, Neil.» «Penso di sì.» «Non era una domanda, ma una constatazione. Hai abbastanza forza per resistere. Lo hai già dimostrato.» Il ragazzo annuì, si alzò e si diresse alla porta. Shaddack esclamò: «Di che cosa state parlando?» Girandosi verso il corridoio, Watkins disse: «Venga con me». La sua voce era gelida e dura come il ghiaccio, venata di rabbia e di paura, ma vistosamente priva dello scontroso rispetto con cui aveva trattato Shaddack sin da quando era stato convertito. Contrariato da quel cambiamento, a disagio, l'altro si accigliò e lo seguì. Il poliziotto si fermò di fronte a una porta chiusa e si voltò a fronteggiare il suo interlocutore. «Lei mi ha spiegato di aver migliorato la nostra efficienza biologica iniettandoci questi... questi biochips.» «In realtà si tratta di una definizione poco appropriata. Non sono affatto chips, ma microsfere, incredibilmente piccole.» Malgrado i regressivi e qualche altro problema correlato al progetto Falco Notturno, in Shaddack l'orgoglio per la propria scoperta rimaneva inalterato. Le lacune potevano essere colmate e i difetti nel programma eliminati; lui era ancora il genio dell'epoca, e su questo non c'era dubbio. Genio... Il normale microchip al silicone che aveva reso possibile la rivoluzione del computer era grande come un'unghia e conteneva un milione di circuiti incisi mediante fotolitografia; lo spessore di ogni circuito equivaleva a un centesimo di un capello umano. Nuove scoperte nel campo della litografia a raggi X, conseguite servendosi di giganteschi acceleratori di particelle chiamate sincrotroni, avevano infine permesso di stampare su un chip un miliardo di circuiti sottilissimi, circa un millesimo di un capello umano. Ridurre le dimensioni rappresentava il mezzo fondamentale per aumentare la velocità di un computer, migliorando funzioni e capacità. Le microsfere sviluppate dalla New Wave erano di un quattromillesimo più piccole di un microchip e contenevano duecentocinquantamila circuiti. Questo risultato era stato ottenuto mediante l'applicazione di una forma assolutamente nuova di litografia a raggi X, che aveva consentito di stampare i circuiti su superfici incredibilmente piccole e senza alcun bisogno di mantenerle perfettamente immobili.
La conversione degli esseri umani in Nuova Gente era iniziata con l'immissione nella circolazione sanguigna di centinaia di migliaia di queste microsfere; per quanto fossero biologicamente interattive, il materiale in sé era inerte e quindi il sistema immunitario non veniva attivato. Esistevano differenti tipi di microsfere. Alcune erano cardiotropiche, ossia si dirigevano attraverso il sistema venoso fino al cuore, dove si stabilivano attaccandosi alle pareti dei vasi sanguigni che alimentano il muscolo cardiaco; altre, invece, si fissavano al fegato, ai polmoni, ai reni, al cervello e così via. Una volta a destinazione, le sfere si posizionavano in gruppo ed erano progettate in modo che i loro circuiti si collegassero quando entravano in contatto. Questi grappoli, sparsi per tutto il corpo, fornivano circa cinquanta miliardi di circuiti dotati del potenziale di elaborare dati, ovvero considerevolmente più di qualsiasi supercomputer degli anni Ottanta. In un certo senso, mediante un'iniezione, un super-supercomputer veniva collocato all'interno del corpo umano. Moonlight Cove e dintorni erano costantemente sommersi da trasmissioni a microonde emesse da dischi situati alla sommità dell'edificio principale della New Wave; una frazione di queste riguardava il sistema computerizzato della polizia, mentre un'altra piccola parte poteva essere utilizzata per attivare le microsfere all'interno della Nuova Gente. Una piccola quantità di sfere era composta di un materiale differente e serviva come transduttore e distributore di energia. Quando un individuo riceveva la terza iniezione di microsfere, le trasmittenti di energia si collevagano immediatamente con le emissioni a microonde, convertendole in corrente elettrica e distribuendole in tutta la rete. La quantità di corrente necessaria per rendere operante il sistema era straordinariamente piccola. In ciascun raggruppamento, un nucleo di sfere specializzate costituiva l'unità di memoria: alcune di esse portavano il programma che avrebbe attivato il sistema, al momento dell'immissione di energia nella rete. Rivolto a Watkins, Shaddack disse: «Molto tempo fa mi convinsi che il problema fondamentale dell'animale umano risiedesse nella sua natura estremamente emotiva. Vi ho liberati da quel fardello, rendendovi non solo mentalmente più stabili, ma anche fisicamente più sani». «Ma come? So così poco di come venga effettuato il Cambiamento.» «Ora sei un organismo cibernetico — il che significa parte uomo e parte macchina — ma non hai bisogno di capirlo, Loman. Usi il telefono, eppure non hai idea di come costruire dal nulla un sistema telefonico. Ignori il
funzionamento di un computer, però sai servirtene. Allo stesso modo, non ti è indispensabile conoscere la natura del computer che è in te per poterlo usare.» Gli occhi di Watkins erano pieni di paura. «Sono io a usarlo o è lui a servirsi di me?» «Nessuno ti sta usando, ovviamente.» «Ovviamente...» Shaddack si chiese che cosa potesse essere accaduto in quella casa per aver gettato il capo della polizia in un simile stato di ansietà. Era più curioso che mai di vedere che cosa si nascondesse nella camera da letto sulla cui soglia si erano fermati, ma era anche acutamente consapevole che Watkins si trovava in preda a una pericolosa eccitazione, per cui si rendeva necessario perdere un po' di tempo per calmare i suoi timori. «Loman, le microsfere introdotte nel tuo corpo non rappresentano una mente. Il sistema non possiede affatto un'intelligenza propria: è un servitore, il tuo servitore. Ti libera dalle emozioni tossiche.» Le emozioni violente — odio, amore, invidia, gelosia, l'intera lunga lista delle sensazioni umane — destabilizzano regolarmente le funzioni biologiche dell'organismo. Le ricerche mediche avevano dimostrato che ogni differente emozione stimola la produzione di una specifica sostanza chimica nel cervello; a propria volta, ciascun composto spingeva i vari organi e tessuti ad aumentare, ridurre o modificare la loro funzione, con risultati assai poco producenti. Shaddack era convinto che un uomo il cui corpo era governato dalle emozioni, non potesse essere un individuo completamente sano e non possedesse mai la facoltà di pensare lucidamente. Il computer a microsfere iniettate nella Nuova Gente sorvegliava tutti gli organi del corpo. Quando scopriva la produzione dei vari amminoacidi e delle altre sostanze elaborate in risposta a forti emozioni, si serviva di stimoli elettrici per dominare il cervello, o qualunque altro organo, e interrompere il flusso, eliminando in tal modo le conseguenze fisiche, se non l'emozione stessa. Nello stesso tempo, le microsfere stimolavano una copiosa produzione di ulteriore composti conosciuti per la loro funzione repressiva di quegli stessi impulsi, trattando, pertanto, non solo la causa, ma anche l'effetto. «Ti ho alleggerito da tutte le emozioni tranne la paura», proseguì Shaddack, «che è necessaria all'autoconservazione. Ora che la chimica del tuo corpo non è più soggetta a violente oscillazioni, sarai in grado di pensare con maggiore chiarezza.»
«Per adesso, a quanto mi risulta, non sono ancora diventato un genio.» «Beh, forse finora non avrai notato una grande acutezza mentale, ma con il tempo te ne accorgerai.» «Quando?» «Quando il tuo organismo si sarà completamente purificato dai residui di una vita intera d'inquinamento emotivo. Nel frattempo, il tuo computer interno», disse puntando il dito sul petto di Watkins, «è programmato anche per usare complessi stimoli elettrici che mantengano i tuoi vasi sanguigni puliti e liberi da ostruzioni, uccidano le cellule cancerogene nel momento in cui appaiono e svolgano molteplici altre funzioni tese a renderti ben più sano di un uomo comune, senza dubbio prolungando la tua vita in modo sensazionale.» Shaddack si era aspettato che nella Nuova Gente il processo di cicatrizzazione risultasse accelerato, ma era rimasto sorpreso di fronte alla velocità quasi miracolosa con cui le ferite si chiudevano. Non riusciva ancora a comprendere pienamente come il nuovo tessuto potesse formarsi tanto rapidamente, e, il suo attuale lavoro al progetto, era focalizzato sullo scoprire una spiegazione per questo fenomeno. Una simile capacità di risanamento richiedeva un prezzo, perché il metabolismo risultava fantasticamente accelerato: l'accumulo di grasso corporeo bruciava a livelli prodigiosi, lasciando l'individuo più leggero di qualche chilo, inzuppato di sudore e spaventosamente affamato. Il poliziotto, si accigliò e si passò una mano tremante sul viso sudato. «Posso anche capire tutto questo, ma che cosa ci rende in grado di mutare così radicalmente, di regredire a un'altra forma? Di certo, nemmeno una montagna di componenti biologici potrebbe smantellare i nostri corpi e ricostruirli nello spazio di un paio di minuti. Come è possibile?» Per un attimo, Shaddack sostenne il suo sguardo, poi guardò altrove, tossì e riprese: «Ascolta, posso spiegarti tutto più tardi. Adesso voglio vedere Peyser. Spero siate riusciti a immobilizzarlo senza fare troppi danni». Tentò di aprire la porta, ma Watkins lo afferrò per il polso. Shaddack rimase allibito: non permetteva a nessuno di toccarlo. «Toglimi la mano di dosso!» «Come è possibile che un corpo si ricostruisca in così breve tempo?» «Ti ho detto che ne discuteremo più tardi.» «Ora. Subito! Sono così terrorizzato da non riuscire a pensare con chiarezza. Non posso funzionare a questi livelli di paura, Shaddack. Guardami, sto tremando. Mi sento come se stessi per finire a pezzi. Non sai che cos'è
successo qui stanotte, altrimenti anche tu ti sentiresti così. Devo saperlo: come fanno i nostri corpi a mutare tanto rapidamente?» L'altro esitò. «Sto studiando il fenomeno.» Sorpreso, Watkins gli lasciò andare il polso. «Tu... vuoi dire che non lo sai?» «È un effetto collaterale inaspettato. Sto cominciando a comprenderlo» — il che era una menzogna — «ma devo ancora lavorarci parecchio.» Prima doveva capire i fenomenali poteri di cicatrizzazione della Nuova Gente, che senza dubbio rappresentavano un aspetto del medesimo processo che permetteva loro di mutare completamente in forme subumane. «E tu ci hai sottoposti a tutto questo senza nemmeno sapere che cosa ci sarebbe capitato?» «Sapevo che sarebbe stato un beneficio, un grande dono», replicò Shaddack con impazienza. «Nessuno scienziato può predire tutti gli effetti collaterali, ma deve procedere con la sicurezza che qualunque complicazione ne derivi, sia una male minore rispetto ai vantaggi.» «E invece li supera di gran lunga!» esclamò il poliziotto. «Mio Dio, ma come hai potuto farci questo?» «L'ho fatto per il vostro bene.» Watkins lo fissò, poi aprì la porta della camera da letto. «E allora dai un'occhiata.» Shaddack entrò nella stanza, dove il tappeto era fradicio — e i muri schizzati — di sangue. Il fetore gli fece torcere il naso: trovava repellenti tutti gli odori biologici, forse perché gli rammentavano che gli esseri umani erano assai meno efficienti e puliti delle macchine. Dopo essersi fermato di fronte al primo cadavere — che giaceva a faccia in giù vicino alla porta — guardò in direzione del secondo. «Due? Due regressivi e li avete uccisi entrambi? Due opportunità di studiare la psicologia diquesti degenerati e le avete buttate via?» Il capo della polizia rimase indifferente alle critiche. «Era una situazione di vita o di morte. Non avremmo potuto comportarci diversamente.» Sembrava furioso a un livello incompatibile con la personalità di un membro della Nuova Gente, nonostante l'emozione alla base del suo comportamento fosse forse la paura, più che la rabbia. La paura era accettabile. «Quando siamo arrivati qui, Peyser era nello stato di regresso», proseguì. «Dopo avere ispezionato la casa, lo abbiamo trovato e affrontato in questa stanza.» Mentre Watkins descriveva nei dettagli l'accaduto, Shaddack fu colto da
un'apprensione che fece di tutto per nascondere. Quando parlò, lasciò trapelare solo l'irritazione, non il timore: «Mi stai dicendo che i tuoi uomini, sia Sholnick sia Penniworth, sono regressivi e che lo sei persino tu?» «Sholnick era un regressivo, certo. A mio modo di vedere, invece, Penniworth no — non ancora, perlomeno — perché ha resistito con successo all'impulso. Esattamente come me.» Il poliziotto continuava a fissarlo sfrontatamente senza mai distogliere lo sguardo, il che turbò ulteriormente Shaddack. «Sto dicendo le medesime cose che ti ho spiegato diffusamente solo qualche ora fa a casa tua: ciascuno di noi, ogni singolo membro della nostra maledetta specie, è un regressivo potenziale. Non si tratta di una rara forma di malattia che colpisce la Nuova Gente: è in tutti noi! Tu non hai creato uomini migliori, proprio come le teorie di Hitler sulla selezione genetica non hanno creato una razza superiore. Tu non sei Dio, sei un dottor Moreau!» «Non permetterti di parlarmi così!» s'indignò Shaddack, chiedendosi chi fosse questo Moreau. Il nome gli suonava vagamente familiare, ma non riusciva a collocarlo. «Quando parli con me, ti suggerisco di ricordarti chi sono.» Watkins abbassò la voce, forse rendendosi improvvisamente conto che l'altro avrebbe potuto estinguere la Nuova Gente con la medesima facilità con cui soffiava su una candela, ma continuò a esprimersi con veemenza e con scarso rispetto. «Non hai ancora risposto all'interrogativo peggiore.» «E quale sarebbe?» «Non mi hai sentito? Ti ho detto che Peyser era bloccato. Non poteva tornare come prima.» «Dubito molto che fosse costretto nello stato di alterazione. I Nuovi Uomini possiedono un controllo totale del proprio corpo, più di quanto non mi fossi immaginato. Se non riusciva a riacquistare la forma umana, si trattava unicamente di un blocco psicologico: semplicemente, non voleva veramente farlo.» Per un attimo il poliziotto lo fissò, poi scosse la testa. «In realtà, tu non sei così ottuso, vero? È la stessa cosa. Maledizione, non importa se qualcosa non ha funzionato nella rete di microsfere dentro di lui o se era un problema psicologico. In ogni caso, l'effetto è stato il medesimo, il risultato identico: era bloccato, intrappolato, prigioniero di quella forma degenerata!» «Non osare parlarmi così», ripetè Shaddack con fermezza, come se l'insistenza su un comando potesse produrre lo stesso esito ottenibile nell'ad-
destramento di un cane. Con tutta la loro superiorità fisiologica e il potenziale per un predominio mentale, la Nuova Gente era ancora deludentemente gente, ossia macchine assai meno efficienti. Con un computer, dovevi programmare un comando soltanto una volta: il sistema lo memorizzava e agiva sempre di conseguenza. Shaddack si chiese se sarebbe mai stato capace di perfezionare la Nuova Gente al punto da far funzionare le nuove generazioni affidabilmente e senza problemi come un computer. Lucido di sudore, pallido, gli occhi strani e tormentati, Watkins lo intimidiva. Quando il capo della polizia avanzò per ridurre la distanza fra loro, egli ebbe paura e provò l'istinto di arretrare, ma mantenne la propria posizione e continuò a guardarlo, esattamente come si sarebbe comportato se un pericoloso pastore tedesco lo avesse costretto in un angolo. «Dai un'occhiata a Sholnick», lo esortò questi, indicandogli il cadavere di fronte a loro e rivoltandolo a faccia in su con la punta del piede. Nonostante il corpo fosse trapassato dalle pallottole e inzuppato di sangue, la bizzarra mutazione di Sholnick era evidente. I suoi occhi fissi e spalancati costituivano forse il particolare terrificante: gialli, con l'iride nera e ovale come quella dei serpenti. Fuori cominciò a tuonare violentemente. Watkins riprese: «Secondo quanto mi hai spiegato, questi degenerati subiscono un'involuzione volontaria». «Esattamente.» «Mi hai anche detto che l'intera storia dell'evoluzione umana è impressa nei nostri geni, che in noi esistono ancora tracce di ciò che la nostra specie è stata e che i regressivi attingono, in qualche modo, a questa memoria genetica e involvono in creature collocate ai livelli più bassi della scala evolutiva.» «Certo, ma dove vuoi arrivare?» «Questa spiegazione aveva un certo pazzesco senso quando, in settembre, intrappolammo Coombs e gli demmo un'occhiata da vicino: era più scimmia che uomo, una specie di via di mezzo.» «Quindi non era pazzesco. Aveva perfettamente senso.» «Ma, Gesù, guarda Sholnick! Guardalo! Quando gli ho sparato, si era trasformato per metà in una maledetta creatura in parte uomo e in parte... Cristo, non lo so, lucertola o serpente. Adesso vuoi venirmi a dire che ci siamo evoluti dai rettili, che portiamo i geni di una lucertola di dieci milioni di anni fa?»
Shaddock s'infilò entrambe e mani in tasca per non tradire la propria apprensione con un tremito o un gesto di nervosismo. «Le prime forme di vita terrestre si sono sviluppate nel mare per poi spingersi sulla terraferma sotto le sembianze di un pesce con arti rudimentali; in seguito, i pesci si sono evoluti nei primi rettili e lungo il percorso i mammiferi si sono differenziati. Se non possediamo veri e propri frammenti del materiale genetico di questi rettili primitivi — cosa che ritengo invece possibile — allora conserviamo, perlomeno, una memoria di quello stadio evolutivo, codificata in noi in qualche altro modo non ancora noto.» «Tu mi stai prendendo per il culo, Shaddack.» «E tu mi stai irritando.» «Me ne frego. Vieni, vieni con me, guarda Peyser da vicino. Era un tuo vecchio amico, non è vero? Dai una bella e approfondita occhiata a com'era quando è morto.» Mike Peyser giaceva supino, nudo, con una gamba ripiegata sotto di sé in un angolo strano e un braccio sul petto devastato dalle pallottole. Il corpo e il viso — con quel muso e quei denti disumani, eppure ancora vagamente riconoscibile — sembravano appartenere a un fenomeno da baraccone tra i più orripilanti: un uomo-cane o un lupo mannaro, qualcosa, comunque, che poteva esistere solo in un luna-park o in un film dell'orrore. La pelle era ruvida, il pelame a chiazze ispido, le mani possenti e gli artigli aguzzi. Dato che in lui il senso di attrazione superava il disgusto e la paura, Shaddack sollevò gli orli del cappotto per non sfiorare il cadavere insanguinato e si chinò a osservarlo più da vicino. Mentre un'altra scarica di tuoni rimbombava nel cielo notturno, il morto fissava il soffitto con occhi troppo umani per il resto di quel corpo contorto. «Adesso mi dirai che da qualche parte lungo il percorso ci siamo evoluti dai cani o dai lupi?» Il genio non rispose. Watkins premette sul medesimo tasto: «Vuoi per caso spiegarmi che possediamo geni canini a cui possiamo attingere quando intendiamo trasformarci? Devo forse credere che Dio prese una costola da qualche cane preistorico per creare l'uomo prima di servirsi della sua costola per plasmare la donna?» Con curiosità, Shaddack toccò una delle mani di Peyser, progettata per uccidere come la baionetta di un soldato: al tatto, la carne appariva norma-
le, solo un po' più fredda di quella di una persona viva. «Una cosa simile non può essere spiegata in termini biologici», insistè il poliziotto, fissando furiosamente l'altro. «Peyser non poteva estrarre la forma di un lupo dalla memoria razziale conservata nei suoi geni. E allora perché è mutato così? Qui i tuoi biochips non c'entrano. Si tratta di qualcos'altro, qualcosa di ben più strano.» Shaddack assentì. «Sì.» Gli era venuta in mente una spiegazione e si sentiva eccitato. «Qualcosa di assai più complesso, ma forse ho capito.» «Allora parlamene. Anche a me piacerebbe capire, dannazione, e molto bene, prima che mi accada.» «Secondo una teoria, la forma è una funzione della consapevolezza.» «Come?» «In sostanza, noi siamo ciò che pensiamo di essere. Non sto parlando del genere di psicologia dozzinale per cui puoi essere quello che vuoi se soltanto impari ad amarti, o roba simile. Intendo dire che possediamo il potenziale fisico per essere qualunque cosa pensiamo, per prevalere sulla stasi morfologica dettata dalla nostra eredità genetica.» «Disquisizioni pompose!» esclamò Watkins con impazienza. L'altro si alzò, rimettendosi le mani nelle tasche. «Mettiamola così: questa teoria sostiene che la consapevolezza è il potere più decisivo dell'universo, in grado di piegare il mondo fisico a piacimento.» «La mente al di sopra della materia.» «Esatto.» «Tipo i personaggi dotati di poteri paranormali che piegano i cucchiai o fermano gli orologi, in poche parole», osservò il poliziotto. «Sospetto che di solito si tratti d'impostori, ma chissà, forse noi tutti possediamo davvero quelle capacità. Non sappiamo come attivarle perché per milioni di anni abbiamo permesso al mondo fisico di dominarci; per abitudine, per stasi e per inclinazione non abbiamo mai cercato di cambiare lo stato delle cose. Quanto sta accadendo qui, tuttavia», dichiarò indicando Peyser e Sholnick, «è ben più complesso ed eccitante del semplice piegare un cucchiaio con la forza della mente. Peyser ha sentito l'impulso di regredire, per ragioni che non capisco, forse per provare il brivido...» «Precisamente per questo.» La voce di Watkins si abbassò, diventando sommessa e piena di una paura e di un'angoscia così intense da far rabbrividire Shaddack. «La forza animale è eccitante, come pure i bisogni animali: fame, bramosia sessuale, sete di sangue. Te ne senti attratto perché sembra tanto semplice e naturale. È libertà.»
«Libertà?» «Certo, dalle responsabilità, dalle preoccupazioni, dalle pressioni del mondo civilizzato, dal dover pensare troppo. La tentazione di regredire è terribilmente prepotente perché senti che la vita diventerebbe tanto più facile ed eccitante», spiegò il capo della polizia, parlando evidentemente della propria esperienza personale. «Quando ti trasformi in una bestia, la vita è tutta sensazioni, solo piacere e dolore, senza alcun bisogno d'intellettualizzare alcunché.» Shaddack rimase in silenzio, turbato dalla passione con cui l'altro — di solito non particolarmente espressivo — aveva parlato dell'impulso alla regressione. Un'altra detonazione, questa volta violentissima, scosse il cielo e fu accompagnata dal primo crepitio dei fulmini. Con la mente in tumulto, il genio proseguì: «A ogni modo, il dato importante è che quando Peyser provò questo bisogno di diventare una belva, un cacciatore, non è regredito lungo la linea genetica umana. Evidentemente, a suo parere, il lupo rappresenta il re dei predatori, la forma più desiderabile, quindi ha voluto indirizzare la propria mutazione in questo senso». «Tutto qui?» chiese Watkins in tono scettico. «Sì. La mente al di sopra della materia. La metamorfosi è soprattutto un processo mentale. Oh, certo, si verificano dei cambiamenti fisici, ma non possiamo parlare di completa alterazione della materia, bensì solo delle strutture biologiche. I nucleotidi di base rimangono gli stessi, mentre cambia radicalmente la loro sequenza: i geni strutturali vengono trasformati in geni operativi da una forza di volontà...» Shaddack si interruppe, con il fiato corto per l'eccitazione, che era giunta a eguagliare la paura. Con il Progetto Falco Notturno aveva conseguito risultati assai maggiori di quando non avesse sperato e, questa consapevolezza, lo riempiva di gioia improvvisa e di terrore crescente: gioia all'idea di aver fornito agli uomini la capacità di controllare la loro forma fisica e forse tutta la materia, terrore perché non era certo che la Nuova Gente potesse imparare a gestire e usare propriamente questo potere, e perché lui stesso dubitava di potere continuare a controllarlo. «Il dono che vi ho offerto scatena i poteri della mente e permette alla consapevolezza di dettare la forma.» Il poliziotto scosse la testa, chiaramente allibito da quanto l'altro stava suggerendo. «Forse Peyser scelse liberamente di diventare un lupo; magari
anche Sholnick ha voluto quello specifico aspetto. Ma che io sia dannato se a me è accaduto lo stesso. Quando sono stato sopraffatto dal desiderio di mutare, ho lottato come un ex tossicomane in preda alla brama di una dose di eroina. Io non volevo, ma mi è piombato addosso, allo stesso modo in cui la forza del plenilunio assale un lupo mannaro.» «No», reagì Shaddack. «Inconsciamente, desideravi farlo, Loman, e senza dubbio ne eri consapevole almeno in parte. Sono sicuro che tu lo abbia voluto in una certa misura non fosse altro che per il modo vibrante in cui mi hai spiegato come la regressione ti attirava. Hai resistito a servirti del potere della tua mente sopra il corpo solo perché la metamorfosi ti è sembrata più agghiacciante che affascinante. Se la tua paura diminuirà, o se lo stato di alterazione acquisterà maggiore fascino, beh, in tal caso, il tuo equilibrio psicologico slitterà e sarai pronto a mutare. Tuttavia, non si tratterà dell'opera di una forza esterna, ma della tua stessa mente.» «E allora perché Peyser non riusciva più a tornare come prima?» «Come ho già detto e proprio tu hai ipotizzato, non voleva.» «Ma era intrappolato.» «Soltanto dal suo stesso desiderio.» Watkins guardò il grottesco cadavere del regressivo. «Che cosa ci hai fatto, Shaddack?» «Non hai afferrato quanto ti ho spiegato?» «Che cosa ci hai fatto?» «Un dono immenso.» «Non provare emozioni se non paura?» «È proprio questo che vi libera la mente e vi conferisce la capacità di controllare la vostra forma corporea», esclamò Shaddack in tono eccitato. «Ciò che non capisco è il perché tutti i regressivi abbiano scelto uno stadio subumano. Siete sicuramente dotati del potere di optare per l'evoluzione, piuttosto che per l'involuzione, di elevarvi dalla semplice umanità a un livello più alto, più pulito. Forse avete addirittura la capacità di diventare consapevolezza allo stato puro, intelletto privo di qualsiasi forma fisica. Perché tutti costoro hanno preferito invece regredire?» Il poliziotto alzò il capo e i suoi occhi sembravano quasi spenti, come se avessero assorbito la morte dalla semplice vista del cadavere. «A che cosa serve possedere i poteri di una divinità se non puoi sperimentare anche i semplici piaceri di un uomo?» «Ma se puoi fare e sperimentare qualunque cosa tu voglia!» esplose l'altro, esasperato.
«Non l'amore.» «Cosa?» «Non l'amore, o l'odio, o la gioia, o una qualsiasi emozione tranne la paura.» «Ma non ne hai bisogno! Non averle ti ha liberato.» «Non sei ottuso», dichiarò Watkins, «quindi suppongo che tu non capisca perché sei psicologicamente guasto, deformato.» «Non osare parlarmi...» «Sto cercando di spiegarti perché tutti abbiano scelto una forma subumana invece che superumana. Il fatto è che per una creatura senziente dotata d'intelletto superiore non esiste piacere separatamente dall'emozione. Se tu neghi a un uomo le emozioni, gli neghi anche il piacere, costringendolo a cercare uno stato di alterazione dove i due fattori non siano collegati — la vita animale.» «Sciocchezze. Stai...» Watkins lo interruppe di nuovo, bruscamente. «Ascoltami, per carità del Cielo! Se ricordo bene, persino Moreau ascoltava le sue creature.» Ora il suo viso non era più pallido, ma congestionato, mentre gli occhi avevano improvvisamente acquistato un'espressione selvaggia. A un passo o due di distanza da Shaddack, sembrava incombere su di lui nonostante fosse il più basso dei due. Appariva spaventato, molto spaventato e pericoloso. Riprese: «Considera per esempio il sesso, un piacere umano basilare. Perché sia pienamente soddisfacente, deve essere accompagnato dall'amore o, perlomeno, da qualche forma d'affetto. Anche un uomo psicologicamente danneggiato può ricavarne godimento, se lo lega all'odio o alla brama di dominio; persino le emozioni negative possono fare apprezzare l'atto a un individuo deviato. Praticato senza emozione alcuna, però, è privo di senso, stupido, un semplice istinto animale alla procreazione, la mera funzione ritmica di una macchina». Il bagliore di un lampo accese la notte, facendo risplendere per un attimo le finestre della stanza, seguito dallo scoppio di un tuono che parve scuotere la casa. In quella luce sinistra, Shaddack credette di veder accadere qualcosa al viso di Loman, un mutamento nelle proporzioni dei lineamenti. Quando tornò a prevalere la penombra, tuttavia, il poliziotto sembrava nuovamente se stesso, quindi doveva essersi trattato di uno scherzo dell'immaginazione. Continuando a esprimersi con veemenza, Watkins aggiunse: «E tutto questo non riguarda solo il sesso. Lo stesso si verifica per ogni altro piace-
re fisico, come il mangiare, per esempio. Certo, posso ancora gustare un pezzo di cioccolato, ma il suo sapore mi dà solo una frazione della soddisfazione che provavo prima della conversione. Non lo hai notato?» Shaddack non rispose, sperando che nulla nel proprio comportamento rivelasse che non si era affatto sottoposto alla conversione. Ovviamente, stava aspettando che il processo venisse perfezionato al massimo, ma sospettava che l'altro non avrebbe reagito bene alla scoperta che il loro creatore aveva preferito sottrarsi alla benedizione concessa agli altri. Loman riprese: «E lo sai perché è meno soddisfacente? Prima della conversione, il gusto del cioccolato era associato a migliaia di episodi; mangiandolo, noi ricordavamo inconsciamente le feste, le celebrazioni di ogni genere, ed era questo che ce lo rendeva gradevole. Ora, invece, è solo un sapore come un altro: buono, ma non mi fa più sentire bene, una sensazione vuota, la cui ricchezza mi è stata rubata. Mi è stata portata via ogni sensazione tranne la paura, e tutto è diventato grigio — strano, monotono, tetro — come se fossi morto per metà». Il lato sinistro della sua testa si gonfiò: lo zigomo si dilatò e l'orecchio cominciò ad appuntirsi. Sconvolto, Shaddack arretrò. Il poliziotto lo seguì, alzando la voce e parlando in modo leggermente strascicato, con uno sconcertante tocco di ferocia. «Perché diavolo dovremmo voler evolvere in qualche forma più elevata, con ancora meno piaceri del corpo e dell'anima? Il godimento intellettuale non è sufficiente, Shaddack, la vita è ben più di questo. Un'esistenza unicamente intellettuale non è tollerabile.» Mentre la sua fronte scivolava gradualmente all'indietro, sciogliendosi lentamente come neve al sole, cominciarono a formarsi vaste escrescenze ossee attorno agli occhi. La ritirata di Shaddack fu bloccata dalla cassettiera. Sempre avanzando, Watkins esclamò: «Gesù, ma non lo hai ancora capito? Persino un uomo confinato in un letto d'ospedale, paralizzato dal collo in giù, possiede una vita che non si limita soltanto agl'interessi intellettuali: nessuno gli ha rubato le emozioni, riducendolo alla paura e alla mera logica. Abbiamo bisogno di piacere, Shaddack, piacere, piacere! In caso contrario, l'esistenza è terrificante e priva di senso!» «Basta!» «Tu ci hai reso impossibile sperimentare le emozioni, impedendoci così di gioire anche dei piaceri della carne. Per gli esseri umano, o è tutto o è
niente!» Le sue mani, strette a pugno lungo i fianchi, stavano diventando più grandi, con nocche nodose e unghie aguzze color tabacco. «Ti stai trasformando», balbettò l'altro. Ignorandolo e parlando sempre più indistintamente con il progressivo, anche se impercettibile, mutare della propria bocca, Loman aggiunse: «Quindi torniamo allo stadio selvaggio, allontanandoci dal nostro intelletto. Sotto le spoglie di una belva, l'unico piacere è quello della carne, la carne, carne ma, perlomeno, non siamo consapevoli di quanto abbiamo perso, perciò il piacere rimane intenso, così intenso, profondo e dolce, dolce, tanto dolce. Tu hai reso... reso le nostre vite intollerabili, grige e morte, morte, tutto morto, morto... così dobbiamo involvere nella mente e nel corpo per trovare un'esistenza degna d'essere vissuta. Noi, noi dobbiamo sfuggire dalle orribili restrizioni di questa vita angusta che ci hai dato. Gli uomini non sono macchine. Gli uomini... gli uomini... gli uomini non sono macchine!» «Stai regredendo! Per carità del Cielo, Loman!» Questi si bloccò, apparentemente disorientato, poi scosse la testa come per scacciare la confusione; sollevò le mani, le guardò e lanciò un urlo di terrore. Fissò lo specchio sopra il cassettone e il grido divenne più alto, più stridulo. Di colpo, Shaddack fu acutamente consapevole del fetore di sangue, al quale si era in qualche modo abituato; su Watkins doveva avere esercitato un effetto anche maggiore, ma non si era certo trattato di ripugnanza, no, assolutamente, bensì di attrazione. Dopo un ennesimo tuono, improvvisamente la pioggia cadde a torrenti, battendo contro i vetri con violenza. Il poliziotto distolse lo sguardo dallo specchio e rivolse la propria attenzione a Shaddack, sollevò una mano come per colpirlo, poi si voltò e barcollò fuori dalla stanza, lontano dall'odore del sangue. Una volta in corridoio cadde in ginocchio, poi scivolò a terra su un fianco; si rannicchiò infine su se stesso, tremando come una foglia, in preda ai conati, gemendo, ringhiando e cantilenando a tratti «No, no, no, no, no...» 57 Quando ebbe ripreso il controllo di se stesso ancora una volta, Loman si sedette e si appoggiò alla parete; era bagnato di sudore e paurosamente af-
famato. La trasformazione parziale e l'energia spesa per bloccarla lo avevano lasciato esausto. Si sentiva sollevato, ma anche insoddisfatto, come se avesse avuto a portata di mano un enorme premio che gli era stato sottratto nel momento in cui lo aveva sfiorato. Era circondato da un rumore sordo, quasi bisbigliante. Dapprima pensò che provenisse dall'interno della propria testa, forse il suono delle cellule cerebrali che guizzavano e morivano per lo sforzo di ostacolare l'impulso regressivo; poi capì che si trattava della pioggia battente. Una volta aperti gli occhi, quando la vista si fu snebbiata, si ritrovò a fissare Shaddack, in piedi di fronte a lui; magro, con il viso lungo, sufficientemente pallido da passare per un albino, con quegli occhi giallastri e il cappotto nero, sembrava un'apparizione, forse la morte stessa. Se davvero fosse stata la Morte, Loman si sarebbe alzato e l'avrebbe abbracciata con calore. Invece, attendendo di recuperare le forze, rimase seduto e dichiarò: «Niente più conversioni. Devi fermarle». Shaddack tacque. «Tu non hai intenzione di fermarti, vero?» L'altro si limitò a fissarlo. «Sei pazzo», esclamò il poliziotto. «Sei un pazzo furioso, eppure non ho altra scelta se non fare ciò che tu vuoi... o uccidermi.» «Non parlarmi più così. Mai più. Ricordati chi sono.» «Me lo ricordo.» Loman si alzò in piedi a fatica, frastornato e debole. «Tu mi hai fatto questo senza il mio consenso. Se arriverà il momento in cui non saprò resistere all'impulso di regredire, quando sarò piombato nella bestialità e non avrò più paura di te, in qualche modo mi ricorderò anche di dove abiti e verrò a cercarti.» «Mi stai forse minacciando?» Chiese Shaddack, palesamente sbalordito. «No. Minaccia non è la parola giusta.» «E sarà meglio, perché se mi capita qualcosa, Sole è programmato per trasmettere un comando che sarà ricevuto dalle microsfere nel vostro corpo e...» «... ci ucciderà tutti sull'istante», terminò Watkins. «Sì, lo so, me lo hai detto. Se tu te ne vai, ce ne andiamo tutti, proprio come quella gente a Jonestown anni fa, che si è avvelenata in massa assieme al Reverendo Jim. Tu sei il nostro Reverendo Jones, il Jim Jones dell'epoca tecnologica, con il cuore di silicone e una serie di semiconduttori fra gli orecchi. No, non ti sto minacciando, Reverendo Jim, perché 'minaccia' è un termine troppo teatrale, adatto a una persona in preda a una rabbia violenta. Io faccio parte
della Nuova Gente, e ho solo paura. È tutto ciò che posso permettermi. Quindi non è una minaccia, niente del genere. È una promessa.» Shaddack mosse qualche passo lungo il corridoio e una corrente d'aria fredda sembrò accompagnarlo. Forse si trattava dell'immaginazione di Loman, ma quell'ambiente parve diventato gelido da quando l'altro vi aveva messo piede. I due uomini si fissarono. Infine Shaddack affermò: «Continuerai a fare ciò che dico». «Non ho scelta. Proprio come tu mi hai reso: privo di scelte. Mi tieni in pugno, Mio Signore, ma non con l'amore: con la paura.» «Meglio.» Shaddack volse le spalle al poliziotto e s'incamminò lungo il corridoio, fuori dalla casa e nella notte piovosa. PARTE SECONDA Alba nell'Ade Non potevo fermare qualcosa che sapevo essere sbagliata e orribile. Sentivo un tremendo senso d'impotenza. ANDREI SACHAROV Il potere rende dementi più di quanto non corrompa, abbassando la guardia della prudenza e aumentando la fretta dell'azione. WILL E ARIEL DURANT 1 Prima dell'alba, dopo meno di un'ora di sonno, Tessa Lockland fu svegliata da una sensazione di freddo alla mano destra, seguita da uno sbuffo caldo e da una lingua che la leccava. Il braccio le penzolava dal materasso, con le dita che sfioravano il tappeto, e qualcosa sul pavimento la stava assaggiando. Di colpo si sedette sul letto, incapace di respirare. Stava sognando la carneficina al Cove Lodge e le belve intraviste di sfuggita, con denti minacciosi e artigli come spade curve e affilate. Ora pensò che l'incubo fosse diventato realtà, che la casa di Harry fosse stata invasa da quelle creature e che la lingua inquisitrice rappresentasse il preludio a un morso improvviso e selvaggio.
Ma si trattava soltanto di Moose. Ne distinse vagamente il profilo alla debole luce proveniente dal corridoio e tirò un respiro di sollievo. Il labrador mise le zampe anteriori sul materasso, troppo ben addestrato per saltare sul letto; mugolando piano, sembrò chiederle un po' di affetto. «Ti senti solo?» chiese, grattandolo leggermente dietro le orecchie. Il cane tornò a mugolare, soddisfatto per le attenzioni. Una violenta pioggia sferzava le finestre. «Bene, per quanto tu desideri compagnia, il mio bisogno di sonno è mille volte più forte, quindi te ne devi andare.» Quando smise di accarezzarlo, il cane capì. Con riluttanza si avviò alla porta, si voltò a guardarla per un attimo, poi uscì sul corridoio e girò a sinistra. La luce era minima, eppure le dava fastidio. Si alzò dal letto e chiuse la porta, ma una volta tornata a sdraiarsi al buio, capì che non sarebbe riuscita a riaddormentarsi. Tanto per cominciare era completamente vestita e ciò la metteva a disagio, ma non aveva il coraggio di spogliarsi perché si sarebbe sentita troppo vulnerabile; dopo quanto era accaduto al Cove Lodge, voleva essere preparata a muoversi in fretta. Inoltre si trovava nell'unica camera per gli ospiti, e il materasso e la trapunta odoravano di muffa dopo anni di disuso. Tessa aveva asserito di poter fare a meno delle lenzuola, ma ora quel lieve sentore le dava noia. Al di sopra della pioggia, udì il ronzio dell'ascensore in funzione, probabilmente chiamato da Moose. Girovagava sempre così durante la notte? Per quanto affranta dalla stanchezza, era troppo sveglia per isolare la propria mente, e i suoi pensieri la turbavano profondamente. Non il massacro al motel, le truci storie sui cadaveri gettati nel crematoio come rifiuti, Paula Parkins fatta a pezzi da qualche specie sconosciuta, i mostruosi predatori notturni: quelle immagini macabre contribuivano senz'altro a indirizzare il corso delle sue riflessioni, ma rappresentavano soprattutto un triste sfondo a meditazioni di carattere più personale sullo stato della sua vita. Avendo recentemente dovuto fare i conti con la morte, era più consapevole del solito, della propria precarietà: l'esistenza non durava all'infinito e, nell'affanno quotidiano, questa verità veniva spesso dimenticata. In quel momento, era incapace di non pensarci, e si chiese se per caso non stesse giocando troppo con la vita, sprecando troppi anni. Era una donna felice, con un lavoro soddisfacente; per una Lockland era maledetta-
mente duro sentirsi infelice, data la naturale predisposizione al buonumore. In tutta onestà, però, doveva ammettere di non aver ancora ottenuto ciò che davvero desiderava e, se si fosse mantenuta sulle attuali direttrici, non ci sarebbe mai riuscita. Quello che davvero voleva era una famiglia, un luogo dove assestarsi. Il che, naturalmente, derivava dalla sua infanzia e adolescenza a San Diego, dove aveva idolatrato la sorella maggiore Janice e si era crogiolata nell'amore dei genitori; l'immensa gioia e sicurezza sperimentate in gioventù rappresentavano, in definitiva, ciò che le aveva permesso di avere a che fare con l'infelicità, la disperazione e il terrore in cui si era talvolta imbattuta lavorando ai documentari più impegnativi. L'ascensore arrivò sul piano e, ronzando, riprese la sua corsa, questa volta in discesa. Tessa era incuriosita per il fatto che Moose, così abituato a usare l'ascensore per e con il suo padrone, se ne servisse di notte di sua iniziativa, quando avrebbe risparmiato tempo utilizzando le scale. Anche i cani potevano essere abitudinari. Janice si era sposata e trasferita altrove sedici anni prima, quando Tessa aveva diciott'anni e, da quel momento, l'entropia, la cieca forza della dissoluzione, aveva smembrato quella confortevole esistenza: suo padre era morto poco dopo e, a breve distanza dai funerali, Tessa aveva cominciato a viaggiare per i suoi documentari. Benché si fosse tenuta in contatto con la madre e la sorella su base regolare, i tempi d'oro erano finiti. Ora anche Janice se n'era andata e Marion non sarebbe vissuta in eterno, neppure se avesse rinunciato al paracadutismo. Più di ogni altra cosa, Tessa desiderava ricreare quell'atmosfera famigliare con un marito e dei figli. A ventitré anni si era sposata con un uomo che voleva dei bambini più di quanto amasse lei e, quando aveva scoperto che le era impossibile averne, lui l'aveva lasciata; l'idea di un'adozione non lo soddisfaceva perché pretendeva figli biologicamente propri. Quattordici mesi, dal matrimonio al divorzio, e ne era rimasta profondamente ferita. Da allora si era gettata a capofitto nel lavoro. In quel momento, mentre giaceva sveglia nella camera per gli ospiti di Harry Talbot, Tessa capì che non si sarebbe mai sentita del tutto soddisfatta se non avesse radicalmente vivacizzato la propria vita e cercato attivamente quanto desiderava. Respirando quel leggero odore di polvere e di muffa, avvertì che il proprio potenziale come persona era rimasto troppo a lungo in disuso, al pari di quella stanza. Tuttavia, non avendo accettato appuntamenti per anni ed
essendosi rifugiata nel lavoro per dimenticare, come faceva una donna di trentaquattro anni a ricominciare ad aprirsi a quegli aspetti della vita a cui aveva, di proposito, rinunciato da tempo? Si sentì più sterile che mai e decise che, se fosse sopravvissuta a quell'esperienza, il suo obiettivo principale sarebbe stato quello di ricrearsi una vita. Trovarsi nei pressi della morte poteva scatenare strani pensieri. In breve la stanchezza prevalse sul suo tumulto interiore e la ragazza scivolò nuovamente nel sonno. Appena prima di addormentarsi le venne in niente che, forse, Moose era entrato perché aveva percepito un pericolo e intendeva avvertirla. Di certo, però, sarebbe stato agitato e avrebbe abbaiato. Cadde addormentata. 2 Dalla villetta di Peyser, Shaddack tornò nella propria casa ultramoderna sull'estremità della baia, ma non si fermò a lungo. Si preparò qualche panino, prese parecchie lattine di Coca e infilò il tutto in una borsa frigorifera che depositò nel furgone; dall'armadietto delle armi, situato nello studio, prelevò una Smith & Wesson 357 Magnum, un fucile Remington semiautomatico a 12 colpi e un'ampia scorta di proiettili per entrambi. Così equipaggiato, si apprestò a girare per Moonlight Cove e dintorni con il proposito di rimanere in movimento, sorvegliando via computer la situazione finché la prima fase di Falco Notturno non si fosse conclusa a mezzanotte, in meno di diciannove ore. La minaccia di Watkins lo aveva intimorito. Se fosse rimasto in movimento, sarebbe stato difficile da rintracciare nel caso questi fosse regredito e, fedele alla promessa, lo avesse cercato. Entro mezzanotte, una volta effettuato le ultime conversioni, il suo potere sarebbe stato definitivamente consolidato. Poi avrebbe potuto occuparsi del poliziotto. Aveva in mente di farlo catturare e ammanettare prima della trasformazione per poi legarlo a un tavolo da laboratorio e studiare la sua psicologia e fisiologia al fine di trovare una spiegazione per la piaga della regressione. Non accettava le conclusioni di Waktins: non mutavano per sfuggire alla vita della Nuova Gente. Concordare con quella teoria significava ammettere che il progetto Falco Notturno era un disastro senza scampo; che il Cambiamento non rappresentava un dono per l'umanità bensì una maledi-
zione; che tutto il suo lavoro non aveva soltanto imboccato la direzione sbagliata, ma produceva effetti calamitosi. Gli era impossibile ammettere una cosa simile. In quanto creatore e padrone della Nuova Gente, aveva assaggiato il potere di una divinità e non intendeva rinunciarvi. A quell'ora, le strade bagnate dalla pioggia erano deserte fatta eccezione per le auto, in parte private, in parte della polizia, in cui coppie di uomini percorrevano la città nella speranza d'individuare Booker, Tessa Lockland, la piccola Foster e i regressivi in caccia. Nonostante non potessero guardare attraverso i finestrini scuri del furgone, di certo sapevano a chi appartenesse quel veicolo. Shaddack riconobbe molti di loro, dato che lavoravano per la New Wave e facevano parte del contingente di cento unità affiancato al dipartimento di polizia solo qualche ora prima; al di là dei parabrezza inondati d'acqua, quei visi pallidi galleggiavano come sfere all'interno delle auto, così privi di espressione da assomigliare a manichini o robot. Altri stavano pattugliando le strade a piedi, ma erano circospetti e si mantenevano nell'ombra e nei vicoli, assolutamente invisibili. Shaddack incontrò anche due squadre addette alle conversioni mentre passavano silenziosamente da una casa all'altra. Ogniqualvolta una conversione veniva completata, la squadra digitava l'informazione al terminale del computer installato sulla loro macchina, in modo che il sistema centrale della New Wave fosse aggiornato sulla situazione. Fermatosi a un incrocio, si servì del proprio terminale per richiamare sullo schermo l'elenco delle operazioni in corso e vide che rimanevano da trattare solo cinque fra le persone comprese nel turno fra la mezzanotte e le sei del mattino. Erano leggermente in anticipo rispetto al programma. Sferzati dall'acquazzone, gli alberi si scuotevano come se avessero paura. Shaddack continuò a muoversi, girando in cerchio nella notte come fosse uno strano uccello predatore che preferiva cacciare sfruttando i venti temporaleschi. 3 Con Tucker alla guida, avevano cacciato e ucciso, morso e dilaniato, graffiato e morso, cacciato, ucciso e divorato la preda, bevuto sangue, sangue, tiepido e dolce, denso e tiepido, dolce e denso, sangue, alimentando il fuoco nelle loro carni, raffreddando il fuoco con il cibo. Sangue.
Gradualmente, Tucker aveva scoperto che tanto più a lungo rimanevano nello stato di alterazione, meno intensamente il fuoco bruciava e più facile risultava mantenere la forma subumana. Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto preoccuparsi per la crescente facilità con cui restavano avvinti allo stadio animalesco, ma non riusciva a farsene un gran problema, soprattutto perché sembrava che la sua mente non fosse più in grado di focalizzarsi su un pensiero complesso se non per una manciata di secondi. Quindi avevano corso per prati e colline al chiarore lunare, corso e girovagato, liberi, così liberi nella nebbia e nel vento, e lui li aveva guidati, fermandosi soltanto per uccidere e mangiare o per accoppiarsi con la femmina, che si impadroniva del proprio piacere con un'aggressività selvaggia ed eccitante. Poi cadde la pioggia. Fredda. Sferzante. Tuoni, anche, e luci accecanti nel cielo. Parte di Tucker sembrava sapere che cosa fossero quelle lunghe saette che squarciavano il cielo, ma non riusciva a ricordarsene ed era spaventato. Quando i bagliori lo coglievano allo scoperto, si precipitava a nascondersi sotto gli alberi, rannicchiandosi con l'altro maschio e la femmina finché il cielo non era tornato buio. Egli cominciò a cercare un posto dove ripararsi dalla tempesta. Sapeva che avrebbero dovuto rientrare al punto di partenza, un luogo dalle stanze asciutte e luminose, ma non era capace di ricordare dove si trovasse esattamente; tra l'altro, tornare indietro avrebbe significato rinunciare alla libertà e assumere le loro identità umane, cosa che non voleva fare. Tutti e tre desideravano unicamente correre e girovagare, uccidere e accoppiarsi ed essere liberi, liberi. Di conseguenza andarono avanti, attraversando una strada pavimentata e sgattaiolando in cima alle colline, lontano dalle case della zona. L'alba stava arrivando, non ancora all'orizzonte, ma ormai prossima, e Tucker capì di dover trovare un rifugio, una tana, prima dello spuntar del sole, un luogo dove accucciarsi l'uno di fianco all'altro al buio, dividendo il calore, l'oscurità e il calore, accovacciati al sicuro con i loro ricordi di sangue e accoppiamenti. Lì sarebbero stati fuori pericolo, al riparo da un mondo cui erano ancora estranei e dalla necessità di ritornare alla forma umana. Quando fosse nuovamente caduta la notte, si sarebbero avventurati all'esterno per cacciare e uccidere, uccidere, mordere e uccidere, e forse sa-
rebbe giunto il giorno in cui, ormai numerosissimi, non avrebbero più costituito una minoranza e sarebbero usciti allo scoperto, ma non adesso, non ancora. Giunsero a una strada in terra battuta, e Tucker ebbe un vago ricordo di dove si trovasse, la sensazione di poter presto raggiungere un punto che avrebbe loro fornito il rifugio desiderato. Avanzò ulteriormente, incoraggiando il proprio branco con bassi mugolii, e in capo a un paio di minuti giunsero di fronte a un edificio, una vecchia casa molto grande e completamente in rovina. Sotto la pioggia battente si profilavano altre strutture grigie: un fienile più malridotto della casa e diversi fabbricati semidiroccati. Grossi cartelli dipinti a mano pendevano dalla facciata della costruzione principale, l'uno sopra l'altro e in calligrafie diverse, come se fra l'installazione del primo e del secondo fosse trascorso diverso tempo. Tucker sapeva che possedevano un significato, ma non era in grado di leggerli per quanto si sforzasse di rammentare la lingua usata dalla specie a cui poco prima aveva appartenuto. I due membri del suo branco lo affiancarono, fissando a loro volta le lettere nere su fondo bianco: oscuri simboli sotto la pioggia, forme sinistramente misteriose. COMUNITÀ ICARO E sotto: RISTORANTE LA VECCHIA COMUNITÀ ICARO CIBI NATURALI Sul fienile campeggiava un'altra insegna — MERCATO DELLE PULCI — ma Tucker la trovò indecifrabile come quelle sulla casa e decise che dopotutto non aveva importanza capirle. Ciò che contava era l'assenza di gente nei dintorni, nessun odore né vibrazioni di esseri umani, quindi un possibile rifugio, una tana, un luogo caldo e buio, buio e caldo, sicuro e buio. 4 Con una coperta e un cuscino, Sam si era preparato un giaciglio sul di-
vano in soggiorno. Voleva dormire al pianterreno per potersi svegliare in caso di rumori provocati da un eventuale intruso: secondo il programma visto al terminale dell'autopattuglia, Harry non sarebbe stato convertito fino alla sera seguente e dubitava che l'operazione sarebbe stata accelerata solo perché sapevano che un agente dell'FBI si trovava in città, ma preferiva non correre rischi inutili. L'insonnia lo tormentava spesso, ma non quella notte. Dopo essersi tolto le scarpe e sdraiato sul divano, ascoltò la pioggia per un paio di minuti, cercando di non pensare. Si addormentò quasi subito. Il suo era assai raramente un sonno tranquillo. Sognò Karen, la moglie morta, e come sempre negli incubi era emaciata e sputava sangue, allo stadio terminale del cancro, dopo che la chemioterapia era fallita. Sapeva di doverla salvare, ma non poteva. Si sentiva piccolo, impotente e terribilmente spaventato. Quell'incubo, però, non riuscì a destarlo. Il sogno si spostò dall'ospedale a un edificio buio e in rovina, simile a un albergo progettato da Salvador Dalì: i corridoi si diramavano a casaccio, alcuni corti e altri così lunghi da non poterne distinguere la fine, pareti e pavimenti si congiungevano ad angoli surreali, mentre le porte delle stanze erano di dimensioni diverse, o tanto piccole da lasciar passare solamente un topolino oppure di dimensioni adatte a un gigante. Lui si sentiva attratto in particolare da certe camere, dove trovava una persona appartenente al suo passato o al presente. In molte di esse incontrava Scott e aveva con lui conversazioni frustranti, invariabilmente destinate a terminare per la totale ostilità del figlio. L'incubo era peggiorato dal variare dell'età di Scott: talvolta era un sedicenne, talvolta aveva dieci anni, oppure soltanto quattro o cinque. Tuttavia, in ogni incarnazione era distaccato, gelido, facile alla rabbia e schiumante d'odio. «Non è giusto, non è vero, non ti comportavi così quando eri piccolo», disse a uno Scott di sette anni, che gli rispose con un gesto osceno. In ogni stanza e a prescindere dall'età, il figlio era circondato da enormi poster di gruppi heavy metal, vestiti di pelle e pieni di catene, con simboli satanici sulla fronte o sul palmo della mano. La luce era strana e ondeggiante; in un angolo buio Sam vedeva qualcosa in agguato, una creatura della cui presenza Scott era consapevole, qualcosa che il ragazzo non temeva ma che invece atterriva lui. Anche quell'incubo non lo svegliò. In altre stanze di quell'albergo surreale trovava due uomini morenti, ogni
volta gli stessi: Arnie Taft e Carl Sorbino, agenti con i quali aveva lavorato e che aveva visto crivellati di pallottole. L'ingresso di una stanza era la portiera di un'automobile, di una Buick blu del '54, per l'esattezza. All'interno trovava un enorme spazio dalle pareti grigie contenente nient'altro che il sedile anteriore, il cruscotto e il volante, come parti di uno scheletro preistorico. Dietro il volante sedeva una donna vestita di verde, con la testa voltata in modo da nascondergli il viso; naturalmente lui sapeva chi fosse e voleva fuggire, ma non riusciva. Al contrario, si sentiva attirato verso di lei, si sedeva al suo fianco e si ritrovava di nuovo un bambino di sette anni, l'età che aveva il giorno dell'incidente, nonostante parlasse con la voce di un adulto: «Ciao, mamma». Lei si girava, rivelando la parte destra del viso maciullata, l'occhio uscito dall'orbita, le ossa visibili tra la carne dilaniata; la mascella esposta dai denti spezzati faceva sì che lo salutasse con un mezzo sogghigno sinistro. Di colpo, si ritrovavano nella vera macchina, riportati indietro nel tempo. Sulla corsia opposta dell'autostrada, lanciato nella loro direzione, c'era l'ubriaco sul camioncino bianco, che cominciava a ondeggiare oltre le linee gialle a tutta velocità. Sam gridava «Mamma!», ma lei non riusciva a evitarlo, proprio come era accaduto trentacinque anni prima. Quando si scontrarono frontalmente, gli sembrava ancora di essere al centro dello scoppio di una bomba: un grande rombo lacerato dal suono stridente delle lamiere. Tutto diventava nero, e infine si risvegliava schiacciato fra i rottami, a faccia a faccia con la madre ormai morta, fissando la sua orbita vuota. A quel punto cominciava a urlare. Ma non si svegliava. Ora si trovava in ospedale, dove era stato ricoverato per ben sei volte in condizioni disperate, ma non era più un bambino, bensì un adulto steso sul tavolo operatorio, sottoposto a un intervento chirurgico d'emergenza perché gli avevano sparato al petto durante il medesimo scontro a fuoco in cui era morto Carl Sorbino. Mentre i medici si adoperavano per salvarlo, era uscito dal proprio corpo e li aveva osservati lavorare; era stupito, ma non spaventato, proprio come gli era accaduto nella realtà. Subito dopo era in un tunnel, diretto verso una luce accecante, verso l'Altra Parte. Questa volta sapeva che cosa vi avrebbe trovato perché ci era già stato in precedenza, e non in sogno. La prospettiva lo agghiacciava, non voleva affrontarla ancora, non osava guardare Oltre. Eppure si muoveva veloce, sempre più veloce, percorrendo il tunnel con la rapidità di un proiettile, terrorizzato. Essere costretto a vedere quanto lo attendeva dal-
l'Altra Parte era peggio dei suoi scontri con Scott, del viso maciullato e mutilato della madre, infinitamente peggiore (più veloce, più veloce), intollerabile, quindi cominciò a urlare (più veloce), urlare (più veloce) e urlare... Si svegliò. Balzò a sedere sul divano e represse il grido appena in tempo. Un istante dopo si accorse di non essere solo; udì qualcosa muoversi di fronte a lui e immediatamente sfilò la 38 dalla fondina. Era Moose. «Ehi, ragazzino.» Si chinò per accarezzargli la testa, ma il cane si era già diretto a una delle finestre, dove si alzò sulle zampe posteriori e premette il naso contro il vetro. «Hai bisogno di uscire?» chiese Sam, nonostante il cane fosse già stato fuori per una decina di minuti prima che andassero a letto. L'animale rimase in quella posizione, irrigidito in modo strano. «Hai visto qualcosa?» Nel momento in cui formulava la domanda, però, sapeva già la riposta. Attraversò velocemente il soggiorno buio e raggiunse Moose alla finestra. In quest'ultima ora prima dell'alba la notte piovosa sembrava più nera che mai, ma gli occhi di Sam, abituati all'oscurità, distinsero la casa vicina, a qualche decina di metri di distanza. Il terreno in forte pendio situato fra le due proprietà era disseminato di cespugli che ondeggiavano e fremevano sotto la sferza del vento. Individuò subito le due Entità Malefiche perché si muovevano controvento, quindi in netto contrasto con la danza della vegetazione. Si trovavano a circa cinque metri dalla finestra e stavano scendendo il pendio verso la Conquistador; nonostante Sam non li vedesse in dettaglio, capì che non erano uomini, dalla loro andatura strascicata eppure sinistramente aggraziata. Quando si fermarono, una delle due guardò in direzione della casa di Harry e il federale scorse i suoi occhi color ambra, lievemente luminosi e del tutto alieni. Per un attimo ne fu trafitto, immobilizzato dallo stupore più che dalla paura, poi si accorse che la creatura sembrava fissare proprio quella finestra come se fosse in grado di vederlo. Improvvisamente balzò dritto verso di lui. Sam si abbassò, schiacciandosi contro la parete sotto il davanzale e attirando a sé Moose. Il cane doveva avere avvertito il pericolo perché non
abbaiò né tentò di resistere, ma giacque sul pavimento immobile e silenzioso. Una frazione di secondo più tardi, al di sopra del rumore del vento e della pioggia, Sam udì un movimento furtivo contro il muro esterno: un suono affrettato e raschiante. Si tenne pronto con la pistola, in caso quell'essere fosse sufficiente audace da fare irruzione attraverso la finestra. Trascorse alcuni secondi di silenzio assoluto. Tic-tic-tic. Dopo quella pausa, l'improvviso ticchettio lo raggelò; aveva appena deciso che la creatura doveva essersene andata. Tic-tic-tic-tic. Stava battendo sul vetro, come per verificarne la consistenza o per chiamare l'uomo che aveva visto lì in piedi. Tic-tic. Pausa. Tic-tic-tic. 5 Tucker condusse il proprio branco fuori dal fango e dalla pioggia, sulla sconquassata veranda di quella casa decrepita. Le tavole di legno scricchiolavano sotto il loro peso, una persiana sbatteva al vento; tutte le altre, evidentemente marcite, erano cadute da tempo. Lottò per spiegare le proprie intenzioni, ma trovò difficilissimo ricordare o emettere le parole necessarie. Tra ringhi, mugolii e rauchi borbottii animaleschi, riuscì soltanto a dire «... qui... nascondersi... qui... sicuro...» L'altro maschio sembrava aver perso del tutto la parola. Con considerevole difficoltà, la femmina rispose: «... sicuro... qui... casa...» Tucker studiò brevemente i compagni e si accorse che erano cambiati nel corso delle avventure notturne. In precedenza, la femmina aveva posseduto caratteristiche feline: elegante, sinuosa, con orecchie da gatto e denti acuminati che scopriva quando soffiava per la paura, la rabbia o il desiderio sessuale. Per quanto le fosse rimasto qualcosa dell'aspetto originario, ora assomigliava di più a Tucker, ossia a un lupo, con una lunga testa terminante in un muso canino; anche i suoi fianchi erano lupeschi e le estremità sembravano il prodotto di un incrocio fra l'uomo e l'animale, né zampe né piedi, con artigli più lunghi e micidiali di quelli di un vero lupo. L'altro maschio, un tempo dall'aspetto unico, una specie di iena con alcuni trat-
ti dell'insetto, si era a propria volta ampiamente conformato alle caratteristiche del lupo. Per un tacito e mutuo accordo, Tucker era diventato il capobranco; dopo essersi sottomessi al suo ruolo, gli altri due avevano evidentemente preso a modello la sua immagine. Egli si accorse dell'importanza di questa svolta, che forse rappresentava anche un evento negativo. Ignorava il motivo per cui avrebbe dovuto preoccuparsene e non possedeva più la lucidità mentale per concentrarsi sul problema finché non lo avesse risolto; del resto, la questione più urgente, la ricerca di un rifugio, richiedeva la sua completa attenzione. «... qui... sicuro... qui...» Li condusse oltre la porta semiaperta, nel vestibolo: l'intonaco era macchiato e pieno di crepe, in alcuni punti addirittura inesistente. In soggiorno, lunghe strisce di tapezzeria pendevano dai muri, come se la stanza stesse perdendo la pelle in un processo di metamorfosi, simile a quella di Tucker e del suo branco. Egli seguì le tracce olfattive per tutta la casa: interessante, non esattamente eccitante, ma interessante. Gli altri due lo seguirono nell'ispezione di macchie di muffa, funghi che crescevano in un angolo della sala da pranzo, colonie di microrganismi vagamente luminescenti, numerosi depositi di feci di topo, i resti mummificati di un uccello e la carcassa ancora in decomposizione di un coyote rifugiatosi in cucina per morire. Durante il sopralluogo, Tucker si rese conto che la casa non offriva un riparo ideale: le stanze erano troppo ampie e piene di correnti a causa delle finestre rotte. Per quanto non avesse avvertito odori umani, sentì che la gente passava ancora da quelle parti, non di frequente, ma abbastanza spesso da creare problemi. In cucina, però, scoprì l'entrata della cantina e si eccitò alla prospettiva di un rifugio sotterraneo. Condusse il branco giù per le scale malferme nell'oscurità più completa, dove le correnti fredde non li avrebbero raggiunti, dove pavimento e pareti erano asciutti e l'aria aveva un sentore pulito. Sospettò che gli intrusi si avventurassero raramente lì sotto. E se lo avessero fatto, sarebbero finiti in una tana dalla quale non avrebbero più potuto fuggire. Tucker si aggirò per il perimetro con gli artigli che graffiavano il pavimento, annusando gli angoli ed esaminando la caldaia arrugginita. Sarebbe stato un nascondiglio perfetto. Avrebbero potuto trasformarsi in qualunque cosa e nessuno li avrebbe disturbati.
Quest'ultimo pensiero lasciò Tucker allibito. Diventare qualunque cosa volessero? Non gli era chiaro da dove fosse scaturita quell'idea o che cosa significasse; improvvisamente avvertì che, regredendo, aveva dato inizio a un processo ormai al di là del proprio controllo consapevole e che una parte primitiva della sua stessa mente aveva assunto il comando permanente. Fu assalito dal panico. Era passato allo stato di alterazione già molte volte prima di allora ed era sempre riuscito a tornare indietro, ma adesso... La sua paura durò solo un attimo perché non riuscì a concentrarsi sul problema e si scordò addirittura il significato del termine «regredire»; inoltre venne presto distratto dalla femmina, vogliosa di accoppiarsi. I tre si avvinghiarono l'un l'altro, dandosi zampate, sfregandosi e spingendosi; le loro acute urla d'eccitazione percorsero la casa abbandonata, come voci di spettri in un edificio infestato. 6 Tic-tic-tic. Sam fu tentato di alzarsi, guardare alla finestra e affrontare la creatura a faccia a faccia, desideroso com'era di vederne una da vicino. Tuttavia, dato che quegli esseri erano palesemente violenti, un confronto diretto sarebbe sicuramente sfociato in un attacco e una sparatoria, destando l'attenzione dei vicini e della polizia. Non poteva mettere a repentaglio il proprio attuale nascondiglio, visto che al momento non aveva altro posto in cui andare. Strinse la pistola, tenne una mano contro il dorso di Moose e rimase accucciato in ascolto. Udì delle voci, così smorzate che le parole, se erano in grado di pronunciarne, non gli giungevano attraverso i vetri; la seconda creatura aveva raggiunto la prima, e il loro mormorio sembrava una lite in toni sommessi. Cadde il silenzio. Sam mantenne la propria posizione, attendendo che quel dialogo riprendesse o che la belva dagli occhi d'ambra picchiasse ancora — tic-tic-tic — ma non accadde nulla. Infine, con i muscoli delle cosce e dei polpacci in preda ai crampi, si sollevò a guardare. Si era quasi aspettato che le Entità Malefiche fossero lì, visi deformi premuti contro il vetro, invece se n'erano andate. Accompagnato dal cane, ispezionò tutte le stanze del pianterreno, con-
trollando ogni finestra; non sarebbe rimasto sorpreso nello scoprire quegli esseri mentre tentavano di entrare. Tuttavia, fatta eccezione per il martellare della pioggia, la casa era immersa nel silenzio. Decise che si erano allontanati e che il loro interesse era stato del tutto accidentale: non stavano cercando lui in particolare, bensì una preda. Molto probabilmente lo avevano scorto dietro la finestra e si erano prefissi di liberarsi di uno spettatore, accorgendosi però di non poter rischiare rumori di vetri rotti e di lotta nel cuore della città. Erano creature furtive che, occasionalmente, si abbandonavano a grida sinistre, riecheggianti per Moonlight Cove, ma solo quando si trovavano in preda di qualche strana passione. E finora, nella maggior parte dei casi, avevano limitato i loro attacchi a persone relativamente isolate. Tornato in soggiorno, rimise la pistola nella fondina e si distese sul divano. Moose rimase seduto a guardarlo con aria perplessa. «Alcuni dei miei sogni sono peggiori di ciò che si muove là fuori», confidò al cane. «Se mi spaventassi facilmente, forse non oserei più prendere sonno.» Il labrador sbadigliò, si alzò e uscì in corridoio, dove salì sull'ascensore; il motore ronzò mentre la cabina lo conduceva al piano superiore. Mentre attendeva che il sonno lo afferrasse nuovamente, Sam cercò di predisporsi a sogni più gradevoli concentrandosi su alcune immagini: buon cibo messicano, Guinness Stout e Goldie Hawn. L'ideale sarebbe stato sognare di trovarsi in un fantastico ristorante messicano in compagnia di Goldie Hawn, ancora più splendente del solito, e bere Guinness fra una risata e l'altra. , Invece, quando cadde addormentato, sognò il proprio padre, un alcolizzato di pessimo carattere nelle cui mani era finito all'età di sette anni, dopo che la madre era morta nell'incidente d'auto. 7 Annidata fra i teloni profumati d'erba nel retro del furgone del giardiniere, Chrissie si svegliò con l'aprirsi del portello automatico del garage. Quasi balzò in piedi per la sorpresa, rivelando la propria presenza, ma si riprese in tempo, rannicchiandosi ulteriormente fra gli attrezzi. Udì la pioggia cadere sulla ghiaia del viottolo, producendo uno sfrigolio come quello di un migliaio di fette di pancetta in una immensa padella. Era
già affamata, e quel suono peggiorò la situazione. «Hai preso il mio cestino con il pranzo, Sarah?» Chrissie non conosceva il signor Eulane abbastanza bene da riconoscere la sua voce, ma suppose che fosse stato lui a parlare perché la voce nota di Sarah Eulane rispose immediatamente: «Ed, vorrei tanto che tu tornassi a casa dopo avermi accompagnata alla scuola. Prenditi un giorno libero. Non dovresti lavorare con un tempo simile». «Con quest'acquazzone non posso certo tagliare l'erba», obiettò il marito, «ma ho altri lavori da sbrigare. Mi infilerò la giacca a vento e rimarrò perfettamente asciutto. Con quella addosso, Mosè avrebbe potuto attraversare il Mar Rosso senza alcun bisogno che Dio gli venisse in aiuto con un miracolo.» Chrissie cominciò a sentire un fastidioso prurito al naso ed ebbe paura di essere sul punto di starnutire. RAGAZZINA STUPIDA STARNUTISCE, RIVELANDO LA PROPRIA PRESENZA AD ALIENI VORACI. «ERA UN BOCCONCINO GUSTOSO», DICE LA REGINA ALIENA. «PORTATECI ALTRE UNDICENNI BIONDE.» Aprendo la portiera del furgoncino a soli pochi centimetri dal suo nascondiglio, Sarah dichiarò: «Ti verrà una polmonite fulminante, Ed». «Credi forse che io sia una violetta di serra?» ribattè il marito scherzosamente, entrando a propria volta nel veicolo. «Penso che tu sia un vecchio dente di leone avvizzito.» Lui rise. «Ieri notte non la pensavi così.» «Invece sì. Ma resti il mio dente di leone avvizzito e non voglio che il vento ti soffi via.» Chiusero entrambe le portiere. Certa che non potessero vederla, Chrissie emerse dai teloni con la testa, pizzicandosi il naso finché il prurito non si fu calmato. Ed Eulane accese il motore, lo fece scaldare per un attimo, poi uscì a marcia indietro dal garage. Pensando alla conversazione udita nel garage e ascoltando i due coniugi che ridevano nella cabina di guida, la bambina ritenne di potersi fidare di loro: se fossero stati degli alieni, non si sarebbero scambiati battute e scherzi affettuosi. Forse lo avrebbero fatto se si fosse rivelato necessario fingere di fronte agli umani, ma non in privato. Quando gli extraterrestri si trovavano fra loro in assenza di estranei, probabilmente parlavano di... beh, dei pianeti che avevano saccheggiato, del clima su Marte, del prezzo del
carburante dei dischi volanti e di ricette per cucinare gli esseri umani. Chi poteva saperlo? Comunque, di certo non discorrevano come gli Eulane. D'altro canto, forse gli alieni avevano appena assunto il controllo di Ed e Sarah e non si sentivano ancora a proprio agio nel ruolo; poteva darsi che si esercitassero a comportarsi da umani in privato per poter sostenere quella parte anche in pubblico. Se Chrissie si fosse mostrata, era garantito che sarebbero istantaneamente germogliati dal loro petto tentacoli e pinze tipo aragosta per mangiarsela viva senza condimento o essicarla e metterla in cornice per portarsela sul pianeta natio e appenderla a una parete, oppure estrarle il cervello dal cranio per usarlo come meccanismo di controllo a buon mercato per la macchinetta per il caffè dell'astronave. Nel bel mezzo di un'invasione aliena, potevi conferire la tua fiducia solo con riluttanza e considerevole discernimento. Lei decise di attenersi al piano originario. Sbirciò fuori ripetutamente per stabilire dove si trovassero e, quando vide che stavano svoltando in Ocean Avenue, emerse dal proprio nascondiglio. La parete divisoria della cabina di guida era dotata di un finestrino, quindi, se solo si fossero voltati, gli Eulane l'avrebbero individuata; lei però, doveva spingersi verso la coda per essere pronta a saltare giù non appena fossero giunti all'altezza di Nostra Signora della Misericordia. Quando furono a soli quattro isolati dalla chiesa, la bambina si avvicinò alla sponda posteriore del camioncino. Rimase sorpresa nel constatare che i marciapiedi erano deserti e che per la strada non passavano macchine: era presto — le sette e mezzo del mattino — ma non al punto che tutti fossero ancora a letto. Immaginò che anche il cattivo tempo contribuisse all'aspetto desolato della città; evidentemente, nessuno intendeva andare in giro a meno che non fosse stato strettamente necessario. Esisteva un'altra possibilità: forse gli alieni avevano sottomesso un numero così alto di abitanti di Moonlight Cove da non reputare più indispensabile recitare la farsa della normalità quotidiana; a poche ore di distanza dalla conquista totale, tutti i loro sforzi erano incentrati sulla ricerca degli ultimi residenti non ancora posseduti. Questa, però, era una prospettiva troppo sconvolgente per essere presa in considerazione. Quando furono a un isolato dalla chiesa, Chrissie montò a cavalcioni della sponda, poi, tenendosi saldamente con entrambe le mani, appoggiò i piedi sul paraurti. Continuò ad aspettarsi di essere vista da un pedone, che avrebbe urlato:
«Ehi, tu, lì appesa a quel camioncino, sei pazza?» Ma non passava nessuno, e raggiunsero l'incrocio successivo senza incidenti. Il signor Eulane si fermò allo stop con gran stridore di freni. Chrissie balzò a terra. Il camioncino svoltò a sinistra, diretto verso la scuola sulla Palomino, qualche isolato più in là, dove Sarah lavorava e dove, in un martedì mattina qualsiasi, anche la bambina avrebbe dovuto trovarsi in classe. Chrissie attraversò a precipizio l'incrocio e salì i gradini della chiesa, sentendosi invadere da una calda ondata di trionfo per aver raggiunto un rifugio contro ogni previsione. Con una mano sul battente in bronzo del portale di quercia intagliata, sostò per guardarsi intorno: le vetrine dei negozi e le finestre di uffici e appartamenti erano coperte di una patina biancastra come occhi affetti dalla cataratta. Sembrava di trovarsi in una città fantasma. Una pattuglia della polizia si fermò allo stop, ma i due uomini a bordo avevano lo sguardo rivolto altrove. Sospettando da tempo che non ci si potesse fidare della polizia, spinse il portale e scivolò rapidamente all'interno. Appena respirata la prima boccata d'aria profumata d'incenso, si sentì al sicuro; dopo essersi genuflessa, prese posto in uno dei banchi sul fondo. La messa era in pieno svolgimento. Oltre a lei, però, presenziavano soltanto due fedeli, il che le parve un risultato scandalosamente scarso. Tuttavia, dato che i suoi genitori l'avevano portata solo una volta a una funzione feriale, non poteva essere sicura di trovarsi di fronte a una circostanza fuori del normale, anche se continuò a sospettare che la presenza degli alieni o dei demoni a Moonlight Cove fosse responsabile di quell'esigua platea. Senza dubbio, gli extraterrestri erano dei senza Dio o, peggio ancora, adoravano qualche divinità malvagia con un nome tipo Yahgag o Scogblatt. Rimase sorpresa nel constatare che il celebrante, assistito da un chierichetto, non era Padre Castelli, ma il prete più giovane appena inviato dall'arcidiocesi, Padre Tom O'Brien. Chrissie assistè alla messa soltanto un paio di minuti, il tempo necessario per mormorare una preghiera e accertarsi che Padre Castelli non fosse seduto da qualche parte come un normale fedele, come talvolta soleva fare, o in uno dei confessionali. Infine si alzò e si diresse nuovamente verso l'ingresso, dove socchiuse un pochino la porta per sbirciare all'esterno. Proprio in quel momento, sulla Ocean Avenue, spuntò un'altra pattuglia con un solo agente a bordo che guidava lentamente e ispezionava ogni
strada, evidentemente in cerca di qualcuno. Come la macchina della polizia giunse all'angolo dove sorgeva la chiesa, fu sorpassata da un'auto proveniente dalla zona della spiaggia. Si trattava di un veicolo privato, una Chevrolet blu, con due passeggeri intenti a loro volta a sorvegliare i dintorni. Nonostante questi ultimi e il poliziotto non si facessero alcun cenno di riconoscimento, la bambina sentì che erano coinvolti nella medesima impresa: gli agenti si servivano dei civili per cercare qualcosa, qualcuno. Me, pensò. Volevano catturarla perché sapeva troppo. Perché il giorno prima aveva visto gli alieni nei propri genitori e ormai rappresentava l'ultimo ostacolo alla loro conquista della razza umana. E, forse, anche perché se cucinata con patate marziane, avrebbe avuto un buon sapore. Quando entrambe le macchine furono passate, Chrissie spinse il portale di qualche centimetro e sporse la testa sotto la pioggia, guardando a destra e a sinistra. Una volta sicura che tutto fosse di nuovo deserto, sfrecciò all'esterno, girò l'angolo e percorse il lato della chiesa in direzione della canonica sul retro. Sul punto di premere il campanello, esitò, preoccupata di rischiare di mettere piede in un covo alieno; un caso improbabile, ma non del tutto da scartare. Inoltre, le venne in mente che forse Padre O'Brien stava officiando la messa per consentire a padre Castelli un raro momento di riposo, che le ripugnava interrompere. La giovane Chrissie, pensò, innegabilmente coraggiosa e intelligente, era tuttavia troppo educata a scapito del suo stesso bene. Mentre se ne stava di fronte alla porta del prete, tormentandosi sui problemi di etichetta, fu improvvisamente acchiappata da Extraterrestri con nove occhi e divorata sul posto. Fortunatamente era troppo morta per udire i loro rutti post-pranzo, perché certamente la sua squisita sensibilità sarebbe rimasta gravemente offesa. Premette immediatamente il pulsante. Due volte. Un attimo dopo, una figura stranamente gibbosa apparve al di là del pannello di vetro sbalzato che ricopriva metà del battente; la bambina fu tentata di scappare, ma si disse che doveva trattarsi di un effetto ottico deformante e non di un essere veramente grottesco. Padre Castelli aprì la porta e fu chiaramente sorpreso nel vederla. Era un uomo di statura piuttosto bassa, rotondo ma non propriamente grasso, dai capelli neri che cominciavano a diventare grigi sulle tempie; persino il notevole naso a becco non riusciva a smorzare l'effetto dei suoi lineamenti,
per il resto assai dolci, che gli conferivano un aspetto gentile e compassionevole. Sbattè le palpebre, era la prima volta che lei lo vedeva senza occhiali, e le chiese «Chrissie?» Poi sorrise, e la bambina capì di aver scelto la persona giusta, perché la sua espressione era aperta, calda e amichevole. «Che cosa ti ha portato qui a quest'ora, con questo tempo?» Guardò alle sue spalle. «E dove sono i tuoi genitori?» «Padre», rispose lei, per nulla sorpresa di sentire che la voce le si incrinava, «devo parlarle.» Il sorriso del religioso si fece incerto. «Qualcosa non va?» «Sì, padre. È accaduta una cosa terribile, spaventosa.» «Vieni dentro, allora, vieni dentro. Sei bagnata fradicia!» La fece entrare e richiuse la porta. «Mia cara ragazza, di che si tratta?» «Alieni, P-p-padre», spiegò la bambina, con un brivido che la spinse a balbettare. «Vieni in cucina. È la stanza più calda della casa. Stavo giusto preparando la colazione.» «Rovinerò il tappeto», osservò lei, indicando la passatoia che percorreva il corridoio in tutta la sua lunghezza. «Oh, non ti preoccupare, è vecchio, ma reagisce bene agli strapazzi. Più o meno come me! Vorresti un po' di cioccolata calda?» Grata, lei lo seguì oltre l'ingresso, che odorava di detergente al limone, deodorante al pino e, vagamente, d'incenso. La cucina era accogliente ed emanava un fantastico aroma di cioccolata, pane tostato e salsicce. Padre Castelli le indicò una delle sedie accanto al tavolo di formica e cominciò a darsi da fare, accudendola come una chioccia con un pulcino; salì al piano superiore e tornò con due soffici asciugamani di spugna. «Asciugati i capelli e copriti le spalle: ti aiuterà a riscaldarti.» Mentre lei seguiva le istruzioni, andò in bagno a prendere un paio di aspirine, gliele mise di fronte sul tavolo e dichiarò: «Ora ti porto del succo d'arancia, che è pieno di vitamina C. Aspirina e vitamine stroncheranno il raffreddore». Quando infine smise di agitarsi, rimase a guardarla scuotendo il capo, e Chrissie immaginò di aver un aspetto pietoso. «Bambina cara, ma che cosa ti è successo?» Sembrava non aver udito ciò che lei gli aveva detto a proposito degli alieni non appena oltrepassata la soglia. «No, aspetta. Puoi spiegarmi tutto mentre facciamo colazione. Vuoi qualcosa da mangiare?» «Sì, grazie, Padre. Sono affamata. È da ieri pomeriggio che sono a di-
giuno, se si eccettuano due tavolette di cioccolato.» «E nient'altro?» Il prete sospirò. «Il cioccolato è un dono di Dio, ma anche uno strumento di cui il diavolo si serve per indurci in tentazione e spingerci alla ghiottoneria.» Si battè una mano sul ventre rotondo. «Per quanto mi riguarda, ho spesso approfittato di questo specifico dono, ma non mi permetterei mai», sottolineò l'ultima parola e strizzò l'occhio, «di soggiacere alla chiamata del demonio affinchè ecceda! E poi bada, se hai mangiato solo cioccolato ti potrebbero cadere i denti, quindi... ho un sacco di salsicce e stavo per cuocermi anche un paio di uova. Ti piacerebbe farmi compagnia?» «Oh, sì, certo.» «E che ne diresti di un po' di pane tostato?» «Sì, grazie,» «Qui sul tavolo ci sono degli ottimi biscotti alla cannella. Con la cioccolata calda, naturalmente.» Chrissie inghiottì le aspirine. Mentre rompeva le uova nella padella, 'Padre Castelli la guardò. «Stai bene?» «Sì, Padre.» «Ne sei certa?» «Ora va tutto bene, davvero.» «Sarà bello avere compagnia a colazione», osservò lui. Poi aggiunse: «Quando Padre O'Brien finisce di officiare la messa, non vuole mai mangiare. Ha i crampi allo stomaco». Fece una risatina. «I nuovi arrivati hanno sempre problemi di stomaco, perché sono spaventati a morte nel trovarsi lassù sull'altare. Capisci, servire messa è un compito così sacro che i preti più giovani hanno sempre paura di commettere qualche sbaglio in un senso, beh, offensivo nei confronti di Dio, forse. In realtà, il Signore non si offende molto facilmente, se no si sarebbe già lavato le mani della razza umana ormai da tempo. Prima o poi anche i religiosi ordinati da poco finiscono con l'accorgersene e i problemi cessano. A quel punto, appena terminata la messa sono pronti a consumare l'elemosina di un'intera settimana in una colazione!» Chrissie capì che lui continuava a parlare allo scopo di tranquillizzarla: aveva notato la sua tensione e intendeva metterla a proprio agio per poter discutere con calma e in modo ragionevole. A lei stava benissimo; aveva bisogno di rassicurazione. Dopo aver cucinato le uova e apparecchiato la tavola, il prete riprese:
«Sembri terrorizzata, bambina mia, come se avessi visto uno spettro. Ora, però, puoi calmarti. Se dopo tanti anni di studio e preparazione un giovane prete può ancora aver paura di commettere errori nell'officiare una messa, allora chiunque è autorizzato ad aver paura di qualcosa. La maggior parte dei timori viene creata dalle nostre stesse menti, quindi, siamo in grado di scacciarli con la stessa facilità con cui li abbiamo costruiti». «Forse non questo», azzardò lei. «Vedremo.» Trasferì uova e salsicce dalla padella nei piatti. Per la prima volta in ventiquattr'ore, il mondo parve funzionare e Chrissie sospirò di sollievo. 8 Shaddack era solito andare a dormire dopo lo spuntare dell'alba, quindi alle sette di martedì mattina stava sbadigliando e sfregandosi gli occhi mentre continuava a percorrere Moonlight Cove in cerca di un luogo dove nascondere il furgone e dormire per qualche ora al sicuro, fuori della portata di Loman Watkins. La giornata era coperta, grigia e cupa, eppure la luce gli feriva gli occhi. Si ricordò di Paula Parkins, dilaniata dai regressivi in settembre: la sua proprietà era isolata, ai margini estremi della città, e nonostante fosse stata messa in vendita dalla famiglia tramite un'agenzia immobiliare locale, nessuno l'aveva ancora acquistata. Vi si diresse, parcheggiò il furgone nel garage vuoto e chiuse la saracinesca alle proprie spalle. Dopo aver mangiato un panino accompagnato da una lattina di Coca, si rannicchiò sulle coperte nel retro del veicolo e scivolò nel sonno. Non aveva mai sofferto d'insonnia, forse perché era assolutamente certo del proprio ruolo nella vita, del proprio destino, e non si preoccupava del domani. Era del tutto sicuro di poter piegare il futuro ai propri programmi. Per tutta la vita aveva scorto i segni della propria unicità, presagi che gli annunciavano il trionfo finale in qualunque progetto avesse intrapreso. Inizialmente aveva notato questi segnali soltanto perché Don Runningdeer glieli aveva indicati. Costui era un pellerossa, Shaddack non aveva mai saputo di che tribù, che lavorava per il giudice nella tenuta di Phoenix in qualità di giardiniere e tuttofare. Runningdeer era snello e agile, con il viso cotto dal sole, muscoli nodosi e mani callose; possedeva occhi neri e brillanti, singolarmente intensi, dallo sguardo che, talvolta, era impossibile
sostenere. L'indiano aveva mostrato interesse nei confronti del piccolo Tommy Shaddack, permettendogli di tanto in tanto di dare una mano nei lavori in giardino o nella manutenzione della casa quando né il giudice né la moglie erano nei paraggi per disapprovare la propensione del figlio per i lavori manuali e per la compagnia di «gente socialmente inferiore». Questo significava che il bambino era incollato a Runningdeer quasi costantemente, fra i cinque e i dodici anni di età, ossia l'intero periodo in cui questi aveva lavorato per il giudice, visto che i genitori non erano praticamente mai a casa per obiettare. Uno dei suoi primi ricordi dettagliati riguardava l'indiano e il serpente che divorava se stesso... A quel tempo aveva cinque anni e, seduto sulla veranda in mezzo alle sue automobili, osservava Runningdeer, in jeans e stivali ma senza camicia, che potava una siepe con grandi forbici dall'impugnatura di legno. Guardava quei muscoli sul torso e sulle braccia lavorare con fluidità flettendosi e rilassandosi ed era affascinato dalla potenza fisica di quell'uomo. Il giudice era magro, ossuto e pallido, e Tommy stesso gli assomigliava già vistosamente, con la carnagione chiarissima, alto per la sua età e penosamente esile. Nel momento in cui il pellerossa mostrò al piccolo il serpente che divorava se stesso, lavorava per gli Shaddack da due settimane e Tommy si sentiva già sempre più attratto da lui senza capirne esattamente il motivo. Runningdeer gli sorrideva spesso e gli raccontava buffe storie sui coyote parlanti, i serpenti a sonagli e altri animali del deserto; talvolta lo chiamava «Piccolo capo», il primo nomignolo che gli fosse mai stato attribuito. Dunque, se ne stava sdraiato in mezzo ai giocattoli, prestandovi sempre meno attenzione finché non smise addirittura d'interessarsene per rimanere, semplicemente, a fissare l'indiano come ipnotizzato. Non sapeva esattamente quanto fosse durato quella specie di trance all'ombra della veranda, ma dopo un certo tempo fu sorpreso nell'udire la voce di Runningdeer che lo chiamava. «Piccolo Capo, vieni a vedere.» Si trovava in un tale stato di stupefazione che dapprima non riuscì a reagire: braccia e gambe non funzionavano e gli sembrò di essere stato tramutato in pietra. «Coraggio, muoviti, Piccolo Capo. Devi vedere.» Infine Tommy balzò in piedi e corse attraverso il prato fino alla siepe che costeggiava la piscina. «Questo è un fenomeno raro», spiegò l'indiano in tono solenne, indican-
dogli un serpente verde ai propri piedi. Il bambino, spaventato, cominciò ad arretrare. Runningdeer, però, lo prese per un braccio, se lo tenne vicino e affermò: «Non aver paura, è soltanto un innocuo serpente da giardino. Non ti farà del male, anzi, è stato mandato qui come un segnale per te». Tommy fissò ad occhi spalancati il rettile, piegato a forma di O, con la coda in bocca come se si stesse mangiando: l'animale era immobile, lo sguardo vitreo. Il piccolo lo credette morto, ma l'indiano gli assicurò che era vivo. «Questo è un segno importante e potente, noto a tutti i pellerossa», dichiarò Runningdeer. «È un segno soprannaturale, inviato dai grandi spiriti, ed è sempre destinato a un bambino, quindi deve essere indirizzato a te. Un segnale molto potente.» Con aria interrogativa, il piccolo obiettò: «Un segno? Che cosa vuoi dire? A me sembra soltanto un serpente». «È un presagio, un avvertimento. Un simbolo sacro.» Mentre rimanevano chini sul rettile e l'indiano spiegava lo strano fenomeno con voce intensa e sommessa, il sole picchiava sul cemento che circondava la piscina, da cui emanavano vampate di calore torrido. Il serpente giaceva là, tanto immobile da assomigliare a una collana perfettamente cesellata fin nei minimi dettagli: ogni squama un frammento di smeraldo, e rubini gemelli al posto degli occhi. Dopo qualche tempo, Tommy scivolò nuovamente in quel bizzarro stato ipnotico sperimentato sulla veranda e la voce di Runningdeer s'insinuò nella sua testa proprio come un serpente, nelle profondità del cranio, ondeggiando e serpeggiando nella sua mente. Cosa ancora più strana, gli parve che quel mormorio non appartenesse più all'indiano, ma al rettile stesso. Quanto gli diceva era così irresistibile ed eccitante da assorbirlo totalmente e richiedere la sua incondizionata attenzione, nonostante non fosse in grado di comprendere pienamente il significato di ciò che stava ascoltando. Questo è un segno del destino, gli sussurrò il serpente, un presagio del futuro; tu sarai un uomo di enorme potere, molto più grande di quello di tuo padre, un uomo di fronte al quale gli altri s'inchineranno, un uomo che verrà obbedito e non avrà timore del domani perché sarà artefice del futuro. Tu avrai qualsiasi cosa desidererai, qualunque cosa al mondo. Per ora, però, questo sarà il nostro segreto: nessuno deve sapere che ti ho portato il messaggio, che il segnale ti è stato inviato, perché se gli altri venissero a conoscenza che sei destinato a detenere il potere sulle loro vite, senza dubbio ti ucciderebbero, tagliandoti la
gola, di notte, strappandoti il cuore e seppellendoti in una fossa profonda. Non devono supporre che tu sei il futuro dominatore, una divinità in terra, o ti distruggeranno prima che la tua forza si sia pienamente sviluppata. Un segreto, questo deve essere il nostro segreto. Io sono il serpente che divora se stesso, e ora che ti ho recapitato il messaggio mi mangerò e svanirò, in modo che nessuno sappia che sono stato qui. Fidati dell'indiano e di nessun altro. Nessuno. Mai. Tommy svenne e rimase ammalato per due giorni. Il medico si dimostrò perplesso: il paziente non aveva febbre, nessun visibile rigonfiamento delle ghiandole linfatiche, indolenzimento alle giunture e dolore di qualunque natura. Era semplicemente preda di un profondo malessere, tanto letargico da non voler neppure leggere un giornalino a fumetti o sforzarsi di guardare la televisione; non manifestava il minimo appetito, dormiva quattordici ore al giorno e giaceva in stato di stordimento per il resto del tempo. «Forse si tratta di un leggero colpo di sole», diagnosticò il dottore. «Se non si riprende entro un paio di giorni, lo manderemo in ospedale per sottoporlo a una serie di esami.» Nel corso della giornata, mentre il giudice si trovava in aula o a discutere con i soci in affari e la mamma di Tommy era al country club o a un pranzo di beneficienza, Runningdeer sgattaiolava, di tanto in tanto, dentro la casa per sostare un po' al capezzale del bambino e raccontargli le sue storie con quella voce morbida e stranamente ritmica. La signorina Karval, domestica e occasionalmente governante, sapeva che i signori Shaddack non avrebbero gradito le visite dell'indiano, ma in realtà disapprovava la loro mancanza di attenzioni nei confronti del figlio. Di conseguenza, visto che non ci trovava nulla di male, fingeva di non accorgersene — purché Tommy promettesse di non rivelare ai genitori quanto tempo era solito trascorrere con Runningdeer. Proprio quando stava per essere ricoverato in ospedale, il bambino guarì e la diagnosi circa il colpo di sole venne ritenuta valida. Da quel momento in poi, rimase alle costole del pellerossa non appena possibile; quando cominciò a frequentare la scuola, tornava immediatamente a casa, rifiutando gli inviti dei compagni ad andare a giocare con loro. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, l'indiano rese Tommy acutamente consapevole dei presagi che segnalavano il suo grande — anche se non specificato — destino. Una macchia di quadrifogli sotto la finestra della sua stanza, un topo morto che galleggiava nella pi-
scina, un gruppo di grilli in un cassetto della sua scrivania; occasionalmente, poi, si verificava l'apparizione di monetine: nelle scarpe, oppure una in ogni tasca di tutti i pantaloni, addirittura un dollaro d'argento dentro una mela che Runningdeer stava pelando per lui. Attonito, questi gli aveva spiegato che le monete rappresentavano uno fra i segnali più potenti. «È un segreto», aveva bisbigliato minacciosamente, il giorno successivo al nono compleanno di Tommy, quando il piccolo gli riferì di avere udito il tintinnio di campanelle sotto la propria finestra nel cuore della notte. Alzatosi, non aveva visto altro che una candela accesa in mezzo al prato; con grande cautela, per non svegliare i genitori, era uscito all'esterno per osservarla, ma non aveva trovato più nulla. «Tieni sempre per te questi segnali o si accorgeranno che sei un predestinato, che un giorno possiederai un immenso potere su di loro e ti uccideranno subito, mentre sei ancora piccolo e debole.» «Chi sono 'loro'?» chiese Tommy. «Essi, loro, tutti», fu l'enigmatica risposta. «Ma chi?» «Tuo padre, per esempio.» «Lui no.» «Soprattutto lui», mormorò l'indiano. «È un uomo potente, che ama esercitare il proprio dominio sugli altri servendosi dell'intimidazione e della forza per farsi strada. Hai visto come la gente s'inchina e striscia di fronte a lui.» In effetti, il bambino aveva notato il rispetto con cui tutti si rivolgevano a suo padre — soprattutto i molti colleghi in politica — e un paio di volte aveva colto le sconcertanti, e forse più oneste, occhiate che indirizzavano al giudice dietro le spalle. Al suo cospetto sembravano ammirarlo e addirittura riverirlo, ma, quando non li guardava, il loro atteggiamento era più simile alla paura, se non all'aperto disgusto. «È soddisfatto soltanto quando detiene il potere assoluto, e non lo cederà facilmente a nessuno, neppure al proprio figlio. Se scopre che sei destinato a diventare più importante e potente di lui nessuno potrà salvarti. Neppure io.» Forse, se la loro vita famigliare fosse stata contrassegnata da maggiore affetto, Tommy avrebbe trovato difficile accettare questo avvertimento, ma suo padre lo trattava in modo sbrigativo — mai un abbraccio e assolutamente mai un bacio. Talvolta, Runningdeer offriva in dono al piccolo amico un candito fatto
in casa. «Candito di cactus», lo definiva. Ne portava sempre soltanto uno a testa e lo mangiavano assieme, seduti sulla veranda o in giro per la proprietà, fra un'incombenza e l'altra. Subito dopo aver ingerito il dolce di cactus, il bambino si sentiva sopraffare da uno strano stato d'animo: era euforico, ad ogni movimento gli pareva di galleggiare e i colori diventavano più vivaci e più gradevoli. Runningdeer, però, gli forniva le sensazioni più vivide: capelli di un nero impossibile, pelle di una fantastica tonalità bronzea, denti di un bianco splendente, occhi scuri come la fine dell'universo. Ogni suono si tramutava in musica e tutto il mondo era pieno di melodia, ma la cosa in assoluto più musicale era la voce dell'indiano. Anche gli odori acquistavano maggiore intensità: i fiori, l'erba falciata, il lubrificante per gli attrezzi, persino il sentore pungente del sudore era piacevole. Runningdeer odorava di pane appena sfornato, di fieno e di monetine di rame. Tommy ricordava di rado quanto il pellerossa gli raccontava dopo aver mangiato il cactus candito, ma rammentava la particolare forza delle sue parole. Uno degli argomenti principali era il segno del falco notturno. «Se i grandi spiriti ti invieranno il segno del falco notturno, saprai di essere destinato a possedere un potere enorme e a diventare invincibile. Invincibile! Ma se questo accadrà, vorrà dire che i grandi spiriti vogliono in cambio qualcosa da te, un gesto che proverà il tuo vero valore.» Tutto ciò gli era rimasto impresso nella mente, ma non conservava traccia di ogni altro discorso; di solito, dopo un'ora circa, si sentiva stanco e andava nella propria camera a schiacciare un pisolino. I sogni erano particolarmente vividi, più reali delle esperienze quotidiane, e comprendevano sempre l'indiano. In un piovoso sabato di novembre, all'età di dieci anni, Tommy sedeva su uno sgabello nei pressi del banco da lavoro situato nel garage, osservando Runningdeer mentre riparava il coltello elettrico che il giudice usava sempre per tagliare il tacchino. Stavano chiacchierando sulle prossime festività e sugli ultimi avvenimenti scolastici; in realtà, non parlavano esclusivamente di segnali e di destino, perché in tal caso il bambino non avrebbe apprezzato così tanto la compagnia del pellerossa. Questi aveva anche il pregio di essere un grande ascoltatore. Quando ebbe terminato la riparazione, l'indiano inserì la spina e mise in funzione l'utensile: la lama si muoveva avanti e indietro a velocità tale che i suoi contorni risultavano sfumati. Il bambino applaudì. «Vedi?» chiese Runningdeer sollevando il coltello a mezz'aria. «Che cosa?»
«Questo coltello, Piccolo Capo. È una macchina. Una macchina frivola, non importante come un'automobile, un aereo o una sedia a rotelle motorizzata. Mio fratello è invalido e deve spostarsi su una carrozzina elettrica. Lo sapevi, Piccolo Capo?» «No.» «Uno dei miei fratelli è morto e l'altro è invalido.» «Mi dispiace.» «Per la verità sono miei fratellastri, ma gli unici che io abbia.» «Com'è accaduto? Perché» L'altro ignorò le domande. «Anche se lo scopo di questo coltello è semplicemente quello di tagliare un tacchino che potrebbe benissimo essere tagliato a mano, resta comunque uno strumento efficiente. La maggior parte delle macchine sono più ingegnose ed efficienti degli uomini.» L'indiano si voltò verso Tommy, reggendo la lama ronzante e fissandolo negli occhi. Il bambino si sentì trascinare in uno stato di stupefazione analogo a quello sperimentato dopo aver mangiato un cactus candito, anche se non aveva fatto niente del genere. «L'uomo bianco ripone grande fiducia nelle macchine», proseguì Runningdeer, «perché le reputa più affidabili dei propri simili. Se vuoi diventare veramente importante nel mondo dei bianchi, Piccolo Capo, devi renderti il più possibile somigliante a una macchina. Devi essere efficiente, senza sosta, determinato nei tuoi obiettivi, non permettendo ai desideri e alle emozioni di distrarti.» Mosse lentamente il coltello in direzione del viso di Tommy finché gli occhi del bambino s'incrociarono nel tentativo di mettere a fuoco la lama. «Con questo potrei mozzarti il naso, tagliarti via le labbra, affettarti il viso e gli orecchi.» Il piccolo desiderò scendere dallo sgabello e fuggire. Ma non riuscì a muoversi. Si accorse che l'indiano lo stava trattenendo per un polso. Sarebbe stato comunque incapace di scappare: era paralizzato, e non solo dalla paura. C'era qualcosa di seducente in quella situazione; il potenziale di violenza gli sembrava in uno strano modo eccitante. «Potrei toglierti lo scalpo, esporre le ossa, e tu sanguineresti fino a morire, ma...» La lama era ormai a qualche centimetro dal suo naso. «... ma la macchina continuerebbe a funzionare perché non può morire.»
Tommy poteva già sentire il lievissimo spostamento d'aria provocato dalla lama in movimento. «Se vuoi riuscire nel mondo dell'uomo bianco, Piccolo Capo, devi essere come una macchina.» Il pellerossa disattivò il coltello e lo depose sul banco. Non lasciò, tuttavia, il polso del piccolo. Chinandosi verso di lui, affermò: «Se desideri essere un grande uomo, compiacere gli spiriti ed eseguire quanto ti chiedono nel momento in cui ti manderanno il segno del falco notturno, allora devi diventare determinato, incessante, gelido, incurante delle conseguenze, proprio come una macchina». Da allora in poi, soprattutto quando mangiavano il cactus candito, parlarono spesso della necessità di dedicarsi a uno scopo ed essere affidabili. Avvicinandosi alla pubertà, i sogni di Tommy furono sempre meno popolati di riferimenti sessuali e concentrati su immagini del falco notturno e su visioni di individui esteriormente normali, ma internamente composti di cavi, transistor e ticchettanti interruttori metallici. Un estate, ormai dodicenne e dopo sette anni in compagnia del pellerossa, il bambino apprese quanto era accaduto ai fratellastri di Runningdeer, o perlomeno ottenne informazioni parziali e dedusse il resto. Erano seduti sulla veranda, pranzando e osservando gli arcobaleni che apparivano e scomparivano nella nebbiolina creata dall'impianto di irrigazione del prato. L'indiano fissò le montagne all'orizzonte e dichiarò: «Sto per svelarti un segreto». «D'accordo.» «Una cosa segreta come i segnali che hai ricevuto.» «Certo.» «Alcuni uomini bianchi, semplici liceali, si ubriacarono e cominciarono a girare in auto, forse in cerca di donne, certamente in cerca di guai. Incontrarono i miei fratelli per caso, nel parcheggio di un ristorante; il maggiore dei miei fratellastri era sposato e in compagnia della moglie. I liceali presero a molestarli, ma soprattutto furono attratti dalla bellezza di quella donna. La volevano ed erano sufficientemente ubriachi da pensare che bastasse semplicemente prendersela. Ci fu una lotta: cinque contro due. Uno dei miei fratelli fu picchiato a morte con una sbarra di ferro e l'altro non camminerà mai più; mia cognata fu portata via e usata.» A questa rivelazione, Tommy rimase impietrito. Infine dichiarò: «Odio gli uomini bianchi».
Runningdeer rise. «Davvero», insistè il bambino. «E che cosa è capitato ai liceali? Sono finiti in prigione?» «Niente prigione.» L'indiano sorrise dolorosamente. «I loro padri erano potenti, pieni di soldi e di influenza. Di conseguenza, il giudice li lasciò liberi per 'insufficienza di prove'.» «Avrebbe dovuto giudicarli mio padre. Lui non li avrebbe assolti.» «Sul serio?» «Assolutamente.» «Ne sei proprio certo?» A disagio, Tommy replicò: «Beh, sì che ne sono sicuro». L'indiano rimase in silenzio. «Odio gli uomini bianchi», ripetè il bambino, questa volta spinto dal desiderio di accattivarsi la simpatia del pellerossa, più che da una sincera convinzione. Questi rise di nuovo e gli diede un affettuoso colpetto su una mano. Sul finire di quella medesima estate, un giorno Runningdeer si avvicinò a Tommy e gli annunciò con voce solenne: «Piccolo Capo, stanotte ci sarà la luna piena. Vai in giardino e osservala per un po'. Ritengo che questa volta ti arriverà il segno, il presagio in assoluto più potente». Al calar del sole il bambino uscì di casa e si diresse ai bordi della piscina, nel punto in cui sette anni prima aveva visto il serpente che divorava se stesso. Fissò a lungo il globo lunare, giallo e immenso. In breve, il giudice apparve sulla veranda e lo chiamò; Tommy gridò: «Sono qui!» Suo padre lo raggiunse. «Cosa stai facendo, Thomas?» «Aspetto...» «Che cosa?» Proprio in quel momento, il ragazzo scorse il falco, stagliato contro la luna. Per anni gli era stato detto che l'avrebbe visto e ne conosceva il significato: improvvisamente, eccolo lì, congelato, momentaneamente, in pieno volo sullo sfondo di quell'enorme sfera gialla. «Laggiù!» esclamò, scordandosi per un attimo di potersi fidare solo dell'indiano. «Laggiù cosa?» chiese il giudice. «Non l'hai visto?» «Soltanto la luna.» «Vuol dire che non stavi guardando, se no te ne saresti accorto.»
«Ma di che?» La cecità del padre al segnale provò a Tommy che il prodigio era stato inteso unicamente per i suoi occhi, il che gli rammentò che non poteva fidarsi del giudice. Aggiunse subito: «Di... una stella cadente». «E tu te ne stai qui a osservare le stelle cadenti?» «In realtà, si tratta di meteore», rispose il bambino, parlando troppo in fretta. «A quanto pare, stanotte la terra sta attraversando una fascia di meteore, e sarà possibile vederne parecchie.» «Da quando ti interessi di astronomia?» «Non sono davvero interessato», spiegò Tommy, scrollando le spalle. «Mi sono soltanto chiesto se sarebbe stato un bello spettacolo, ma lo trovo piuttosto noioso.» Si avviò verso casa, seguito dal padre. Il giorno successivo, mercoledì, corse a raccontare a Runningdeer dell'apparizione. Ma non ho ricevuto alcun messaggio. Non so che cosa i grandi spiriti vogliono che faccia per dare prova del mio valore.» L'indiano sorrise e lo fissò in silenzio, così a lungo da metterlo a disagio. Infine disse: «Piccolo Capo, ne parleremo a pranzo». Dato che la signorina Karval aveva i mercoledì liberi, i due rimasero in casa da soli e sedettero a fianco a fianco sulla veranda; il pellerossa aveva portato i canditi di cactus. Già da tempo Tommy aveva cessato di mangiare i canditi per il loro sapore, ma li divorava avidamente per l'effetto che producevano; con il passare degli anni, poi, il loro impatto su di lui si era fatto sempre più profondo. Ben presto si ritrovò in quell'agognato stadio sognante in cui i colori erano più brillanti, i suoni acuti, gli odori intensi e tutto appariva rilassante e pieno di fascino. Lui e Runningdeer parlarono per quasi un'ora, finché il ragazzo non capì che i grandi spiriti si aspettavano che uccidesse suo padre di lì a quattro giorni, domenica mattina. «È il mio giorno di libertà», spiegò l'indiano, «quindi non sarò qui a offrirti il mio aiuto. Tuttavia, forse è esattamente ciò che vogliono gli spiriti, che tu cimenti te stesso da solo. Perlomeno avremo qualche giorno per pianificare assieme le tue mosse, in modo che domenica tu sia pronto.» «Certo», rispose Tommy in tono sognante. «Sì, lo progetteremo insieme.» Quello stesso pomeriggio, qualche ora dopo, il giudice tornò a casa e, lamentandosi per il caldo, salì al piano superiore per fare una doccia. La madre di Tommy era seduta in soggiorno con i piedi su uno sgabello, im-
mersa nella lettura di una rivista. Non appena il padre fu di sopra, il ragazzo andò in cucina e prese un coltello da macellaio. Runningdeer si trovava in giardino a falciare il prato. Tommy entrò in soggiorno, raggiunse la madre e la baciò sulla guancia. Lei rimase sorpresa per il gesto d'affetto, ma ancor più per il coltello, che il figlio le vibrò nel petto tre volte. Poi salì le scale e seppellì la lama nel torace del giudice appena uscito dalla doccia. Infine, nella propria camera, si tolse i vestiti: le scarpe non mostravano traccia di sangue, i jeans erano leggermente macchiati, ma la camicia ne era piena. Lavatosi rapidamente e indossati abiti puliti, avvolse con cura gli indumenti sporchi di sangue in un asciugamano e trasportò l'involto in soffitta, dove lo nascose dietro un baule. Avrebbe potuto distruggerlo in seguito. Tornato al piano inferiore, si diresse immediatamente nello studio del padre e aprì l'ultimo cassetto della scrivania, estraendone la pistola del giudice. Spense il neon della cucina in modo che l'unica luce penetrasse dalla finestra, lasciando in ombra alcune parti della stanza, e depose il coltello su un armadietto. Infine collocò la pistola su una sedia infilata sotto il tavolo, facilmente raggiungibile, ma nascosta alla vista. Uscito sulla veranda, chiamò Runningdeer. «Sì, Thomas?» chiese questi, ben sapendo che i signori Shaddack si trovavano in casa. «La mamma ha bisogno del tuo aiuto.» «Il mio aiuto?» «Sì. In soggiorno.» «Cosa vuole?» «Una mano per... Beh, è più semplice fartelo vedere che non parlarne.» Non appena l'indiano ebbe oltrepassato la soglia, Tommy si bloccò ed esclamò: «Ah, un momento. Mia madre dice che avrai bisogno del coltello che sta sull'armadietto di fianco al frigorifero». Una volta in cucina, Runningdeer vide l'arnese e lo raccolse. Subito spalancò gli occhi. «Piccolo Capo, c'è del sangue sulla lama. C'è...» Il ragazzo aveva già afferrato la pistola. Mentre l'altro si voltava stupefatto, la resse con entrambe le mani e sparò fino a vuotare il caricatore, nonostante il rinculo gli facesse dolere le braccia, le spalle e minacciasse di farlo cadere a terra. Colpito da almeno due proiettili, il pellerossa cadde
con la gola squarciata. Il coltello gli scivolò di mano e rimbalzò lungo il pavimento. Con un piede, Tommy lo spinse vicino al cadavere, in modo da far apparire senza alcun dubbio che Runningdeer se ne fosse servito. Il messaggio dei grandi spiriti gli era giunto assai più chiaro che non al suo mentore. Loro volevano che si liberasse in un colpo solo di tutti coloro che esercitavano ascendente su di lui; il giudice, la madre e l'indiano. Solo allora avrebbe potuto aspirare al proprio destino di dominio. Aveva pianificato i tre omicidi con la freddezza di un computer, eseguendoli con la determinazione e l'efficienza di una macchina. Non provava nulla. Le emozioni non avevano interferito con le sue azioni. Beh, per la verità era spaventato e un po' eccitato, persino esilarato, ma questi sentimenti non lo avevano distratto. Dopo aver guardato ancora per un attimo il corpo di Runningdeer, Tommy andò al telefono, chiamò la polizia e raccontò in tono isterico che l'indiano, gridando alla vendetta, aveva ucciso i suoi genitori e che lui, loro figlio, era stato obbligato ad abbatterlo con la pistola del giudice. Naturalmente, non riferì l'accaduto in modo tanto sintetico: era così sconvolto da costringere il poliziotto a estrargli le informazioni. In effetti, era a tal punto distrutto e disorientato per l'accaduto che fu necessario un'ora di paziente lavoro per farlo smettere di balbettare incoerentemente e ottenere nome e indirizzo. Aveva fatto esercizi mentali d'isterismo per tutto il pomeriggio, sin dal pranzo con il pellerossa, ed ora era compiaciuto di suonare così convincente. Uscì di casa, sedette sul viale e pianse fino all'arrivo della polizia. Le lacrime erano genuine: piangeva di sollievo. Nel corso della propria vita aveva scorto il falco notturno altre due volte. Lo vedeva quando ne aveva bisogno, quando voleva essere rassicurato sulla giustezza di un determinato percorso che intendeva intraprendere. Ma non uccise mai più... perché non ve ne fu alcuna necessità. I nonni materni si presero cura di lui. Dato che aveva sopportato una simile tragedia, gli diedero più o meno qualunque cosa desiderasse, come se un rifiuto rappresentasse una crudeltà intollerabile e potesse addirittura costituire la goccia in grado di distruggerlo. Rimase unico erede delle proprietà paterne, rimpinguate da una notevole assicurazione sulla vita e, di conseguenza, gli fu garantita un'istruzione di prima classe oltre al notevole capitale con cui iniziare un'attività dopo la laurea. Il mondo intero si stendeva ai suoi piedi. Grazie a Runningdeer, inoltre, godeva dell'ulteriore vantaggio di sapere, al di là di ogni dubbio, di possedere un grande de-
stino: le forze del cielo e del fato volevano che acquisisse un tremendo potere sugli altri uomini. Solo un folle uccideva senza un estremo bisogno. Tranne rarissime eccezioni, l'omicidio non rappresentava un metodo efficiente per risolvere i problemi. Ora, rannicchiato nel retro del furgone, nel garage di Paula Parkins, Shaddack rammentò a se stesso di essere il figlio del destino e di aver visto il falco notturno per ben tre volte. Allontanò dalla propria mente ogni timore di Loman Watkins e di fallimento; sospirò e sprofondò nel sonno. Sognò immagini familiari. L'immensa macchina: metà metallo e metà carne, pistoni d'acciaio in movimento, cuori umani per pompare lubrificanti di ogni genere. Sangue e olio, ferro e ossa, plastica e tendini, cavi e nervi. 9 Chrissie era stupefatta che i preti mangiassero così bene. Il tavolo di cucina era letteralmente zeppo di cibo: un immenso piatto di salsicce, uova, pane tostato in quantità, una confezione di biscotti, focaccine, una ciotola di patate riscaldate nel forno, frutta fresca e cioccolata calda. Padre Castelli era grassottello, d'accordo, ma lei aveva sempre pensato che i religiosi fossero moderati in ogni cosa, negandosi almeno in parte i piaceri della tavola proprio come si privavano del matrimonio. Se Padre Castelli mangiava così abbondantemente ad ogni pasto, avrebbe dovuto pesare il doppio, anzi, tre volte tanto! Tra un boccone e l'altro, la bambina gli parlò degli alieni che avevano assunto il controllo dei suoi genitori. Come forma di riguardo nei confronti della predisposizione del prete verso spiegazioni spirituali e per tener desta la sua attenzione, lasciò la porta aperta a un'interpretazione di possessione demoniaca, benché personalmente inclinasse per l'invasione aliena. Gli descrisse quanto aveva visto il giorno prima a casa propria, come fosse stata rinchiusa nella dispensa e, in seguito, braccata dai genitori e da Tucker in quelle nuove, allucinanti sembianze. Il religioso espresse stupore e preoccupazione, chiese spesso ulteriori dettagli, ma non smise mai di mangiare; in realtà, con gran meraviglia di Chrissie, divorava con appetito così tremendo da trascurare le buone maniere. Aveva il mento macchiato d'uovo, lasciava cadere pezzetti di cibo senza curarsene, la camicia nera era costellata di briciole di pane, fram-
menti di salsiccia e di patate, scaglie di dolce e di focaccine... Per la verità stava cominciando a pensare che Padre Castelli fosse colpevole quant'altri mai del peccato di ghiottoneria. Nonostante le pessime abitudini alimentari, però, lo apprezzò perché non mise in dubbio una sola volta il suo equilibrio mentale né si dimostrò scettico su quella storia pazzesca; al contrario, ascoltava con interesse e massima serietà, e a quanto pareva, sinceramente turbato, e addirittura spaventato dal suo racconto. «Beh, Chrissie, saranno stati girati, perlomeno, un migliaio di film e scritti altrettanti libri sulle invasioni extraterrestri da parte di creature ostili e ho sempre sostenuto che la mente umana non può immaginare alcunché d'impossibile nel mondo del Signore. Quindi, chi può dire che non siano davvero atterrati qui a Moonlight Cove? Io sono un fanatico di cinema e ho sempre amato moltissimo i film dell'orrore, ma non mi ero mai sognato di potermi ritrovare nel bel mezzo di una pellicola terrificante divenuta realtà.» Era sincero: non stava affatto tentando di mostrarsi condiscendente. Per quanto Padre Castelli non accennasse a smettere d'ingozzarsi, la bambina terminò la propria colazione, sentendosi sufficientemente rinvigorita da prendere in considerazione le prossime mosse, ora che aveva trovato aiuto. «E adesso che facciamo? Dovremo chiamare l'esercito, non crede, Padre?» «Forse anche i Marines», rispose lui dopo un attimo di riflessione. «Loro dovrebbero cavarsela meglio con questo genere di cose.» «Pensa...» «Che cosa, piccola mia?» «Pensa che esista una possibilità, beh, di riavere i miei genitori? Com'erano prima, voglio dire.» Lui depose una focaccina e si sporse a prenderle la mano; aveva le dita unte di burro, ma Chrissie non ci badò perché aveva un assoluta bisogno di rassicurazione e di conforto. «Sarai nuovamente unita alla tua famiglia», dichiarò il prete con grande calore. «Ti garantisco nel modo più assoluto che sarà così.» Lei si morse il labbro, cercando di trattenere le lacrime. «Te lo garantisco», ripetè Padre Castelli. Di colpo il suo viso si gonfiò. Non in modo uniforme come un palloncino, ma in alcuni punti e non in altri, increspandosi e pulsando come se il suo cranio si fosse ridotto in poltiglia e gruppi di vermi si stessero dibattendo e contorcendo sotto la pelle.
«Te lo garantisco!» La bambina era troppo terrorizzata per urlare. Per un attimo non fu neppure in grado di muoversi, paralizzata dalla paura, congelata sulla sedia, incapace di raggranellare persino il controllo motorio necessario per sbattere le palpebre o respirare. Poteva udire le ossa scricchiolare, sgretolarsi, scoppiettare rumorosamente nel processo di dissoluzione e ricostruzione, veloce in modo impossibile. La carne produceva un suono disgustoso, umido, vischioso nel modellarsi in una nuova forma con la facilità della cera fusa. La testa del religioso s'innalzò in una cresta ossea, mentre il suo viso, ormai perse quasi del tutto le sembianze umane, divenne un insieme di crostaceo, insetto vagamente simile a una vespa e sciacallo, con occhi pieni di odio feroce. Infine Chrissie esplose in un grido: «No! No! Vattene, lasciami stare!» Le mascelle della cosa si allungarono, poi si aprirono fin quasi alle orecchie in un sogghigno minaccioso, delimitato da una doppia serie d'immensi denti acuminati. «No! No!» La bambina tentò di alzarsi. E si accorse che lui la stava ancora tenendo per mano. L'essere parlò, con una voce sinistramente simile a quella di sua madre e di Tucker quando l'avevano seguita nell'imboccatura del tunnel la sera precedente: «... bisogno, bisogno... voglio... dammi, dammi... bisogno» Non assomigliava affatto ai suoi genitori quando si erano trasformati. Perché gli alieni non avevano tutti il medesimo aspetto? La creatura spalancò la bocca ed emise un suono rauco. Qualcosa si mosse all'interno della cavità orale, una lingua strana che schizzò verso di lei come un pupazzo a molla, dimostrandosi in realtà una bocca entro la bocca: una seconda serie di denti più piccoli e ancora più aguzzi su uno stelo, progettati per giungere in angoli inaccessibili e afferrare le prede più nascoste. Padre Castelli stava diventando stupefacentemente familiare: il mostro del film Alien, non preciso fino all'ultimo dettaglio, ma sconvolgentemente somigliante. Era intrappolata in una pellicola, proprio come aveva detto il prete. Padre Castelli era forse in grado di assumere qualunque forma desiderasse ed era diventato così solo perché gli garbava o per soddisfare le sue aspettative di un alieno invasore?
Tutto ciò era folle. Al di sotto degli abiti, anche il corpo del religioso stava cambiando: la camicia gli ballava addosso in più punti, come se ogni consistenza fisica si fosse dissolta, ma altrove, tendeva allo spasimo le cuciture con lo svilupparsi di nuove estrusioni ossee ed escrescenze disumane. I bottoni cominciarono a saltare, il tessuto si lacerò e il colletto ecclesiastico, stracciato, rimase penzoloni sul collo orribilmente mutato. Ansimando ed emettendo suoni strozzati, la bambina cercò di liberarsi dalla stretta; si alzò rovesciando la sedia, ma lui mantenne la presa. Era incredibilmente forte. Anche le sue mani avevano iniziato a cambiare: le dita, ora molto più lunghe, si erano ricoperte di una sostanza cornea — levigata, dura e di un nero lucente — e assomigliavano a pinze articolate più che a estremità umane. «... bisogno... voglio, voglio... bisogno...» Chrissie afferrò dal tavolo un coltello e lo vibrò con tutta la forza, pugnalandolo all'avambraccio, appena sopra il polso, dove la carne sembrava ancora normale. Aveva sperato che la lama lo inchiodasse al legno, ma si accorse di non esserci riuscita. Il suo grido fu così acuto e lacerante da riverberare lungo le ossa della bambina. Per lo spasimo, la mano corazzata e demoniaca si schiuse e lei si svincolò immediatamente. La porta della cucina si trovava dalla parte del prete: impossibile raggiungerla senza mostrargli la schiena. Con un urlo che era nel contempo un ruggito, lui si strappò il coltello dal braccio e lo gettò a terra, poi spazzò cibo e piatti dal tavolo con un'unica mossa del braccio bizzarramente mutato. Ora sporgeva dal polsino della camicia in un incubo di nodi, stratificazioni e uncini di sostanza scura e chitinosa. Maria, madre di Dio, prega per me; madre purissima, prega per me; madre castissima, prega per me. Ti supplico, pensò la piccola. Il religioso afferrò il tavolo e lo gettò da parte, come se pesasse soltanto pochi etti, mandandolo a sbattere contro il frigorifero. Ora non li separava più nulla. Lei fece una finta in direzione della porta. Il prete — o meglio la cosa che talvolta si cammuffava da prete — balzò sulla destra per tagliarle la strada.
Immediatamente Chrissie si voltò e corse dalla parte opposta, verso la porta posteriore che conduceva in corridoio. Il trucco funzionò: prima che lui si accorgesse di quanto stava accadendo, lei lo aveva già oltrepassato. La bambina sospettò che l'essere fosse molto veloce, oltre che forte; lo sentì muovere alle proprie spalle. Se solo avesse potuto raggiungere l'ingresso, uscire sulla veranda e in giardino, probabilmente sarebbe stata al sicuro; immaginava che lui non avrebbe osato seguirla all'aperto, dove qualcuno poteva vederlo. Certamente gli alieni non avevano ancora preso possesso di tutti gli abitanti di Moonlight Cove e, finché ciò non fosse accaduto, loro non si sarebbero permessi di aggirarsi così trasformati, mangiando impunemente le ragazzine. Aveva coperto i due terzi del percorso, attendendosi di sentire le orrende pinze afferrarla sulla schiena, quando la porta d'ingresso si aprì di fronte a lei e l'altro prete, padre O'Brien, apparve sulla soglia, sbattendo le palpebre per la sorpresa. Di colpo, la bambina capì di non potersi fidare neppure di lui: non avrebbe potuto vivere sotto lo stesso tetto con Padre Castelli senza che il seme alieno venisse impiantato anche nel suo corpo. Seme, spora, parassita, spirito — qualunque fosse l'origine della possessione, anche Padre O'Brien ne era rimasto contaminato. Impossibilitata ad avanzare o tornare indietro, riluttante a svoltare verso il soggiorno, che rappresentava un vicolo cieco, afferrò il corrimano e saltò sulle scale, precipitandosi al piano superiore. Dopo qualche secondo, udì i passi di entrambi all'inseguimento. Sfrecciò in fondo al corridoio ed entrò in una camera da letto arredata spartanamente. Non si curò di chiudersi a chiave all'interno: non c'era tempo, e a ogni modo avrebbero abbattuto la porta. Ripetendo «MariamadrediDio, MariamadrediDio» in un bisbiglio affannoso e disperato, corse alla finestra dai vetri inondati di pioggia. I suoi inseguitori avevano raggiunto il corridoio. Si aggrappò al saliscendi e cercò di aprire l'anta scorrevole: era bloccata. Dalla parte delle scale, gli esseri avevano cominciato a spalancare tutte le stanze del piano. Evidentemente la finestra si era gonfiata a causa dell'umidità. Chrissie si allontanò di qualche passo. Alle sue spalle, il battente andò in frantumi e qualcosa ringhiò. Senza voltarsi, lei si protesse il viso con le braccia e si gettò a capofitto attraverso il vetro, chiedendosi se la caduta l'avrebbe uccisa e supponendo
che dipendesse dal punto di atterraggio: bene sull'erba, male sul marciapiede, malissimo sulle aguzze punte della cancellata. Il rumore di vetri infranti aleggiava ancora nell'aria, quando Chrissie colpì il tetto del porticato, un metro circa al di sotto della finestra; si trattava praticamente di un miracolo — era del tutto illesa — quindi continuò a ripetere «MariamadrediDio» mentre si spingeva con cautela verso il margine esterno della superficie in legno. Giunta sull'orlo, si resse alla grondaia e guardò indietro. Una specie di lupo grottesco la stava seguendo. Si lasciò cadere e finì su un viottolo, sbattendo malamente un fianco e ferendosi una mano sul cemento. A quel punto, però, non rimase certo a compatirsi; lottando contro il dolore, si rimise in piedi, pronta a correre verso la strada. Sfortunatamente non si trovava di fronte alla canonica, ma sul retro, nel cortile posteriore circondato da un alto muro in mattoni. A causa della recinzione, era impossibile scorgere le case adiacenti ed essere visti da un eventuale vicino alla finestra. Quell'isolamento spiegava il perché la cosa-lupo osasse mostrarsi sul tetto, inseguendola in pieno giorno. La bambina prese brevemente in considerazione l'idea di rientrare nella casa e attraversarla fino all'uscita principale sulla strada, essendo l'ultima cosa che gli esseri si sarebbero aspettati. Poi pensò: ma sei impazzita? Non perse tempo a invocare aiuto: le rimaneva a malapena fiato sufficiente per muoversi e inoltre, quand'anche l'avessero udita, non sarebbe stato semplice trovarla. Invece, zoppicando leggermente e procedendo più in fretta possibile, cominciò a percorrere il prato. Sapeva di non essere in grado di scalare il muro, soprattutto con una mano malconcia, quindi studiò gli alberi, cercandone uno molto vicino alla recinzione e con i rami sporgenti all'esterno. Al di sopra del rumore insistente della pioggia, sentì un ringhio cupo e si azzardò a sbirciare alle proprie spalle: con addosso soltanto brandelli di camicia e del tutto libero da scarpe e pantaloni, l'essere che era stato Padre O'Brien balzò giù dal tetto del portico. Chrissie scorse infine l'albero adatto — ma immediatamente dopo notò un cancello in un angolo del muro; evidentemente le era sfuggito fino a quel momento perché un folto cespuglio lo nascondeva allo sguardo. Boccheggiando, lo raggiunse di corsa, sollevò la sbarra di chiusura e si
precipitò in strada. Svoltato l'angolo per allontanarsi da Ocean Avenue, percorse quasi un intero isolato prima di arrischiare un'occhiata in direzione della canonica. Nessuno l'aveva seguita oltre il cancello. Due volte si era trovata nelle mani degli alieni e due volte era riuscita a fuggire. Sapeva che non sarebbe stata altrettanto fortunata se fosse stata catturata di nuovo. 10 Poco prima delle nove, dopo meno di quattro ore di sonno, Sam Booker si svegliò all'acciottolio sommesso di qualcuno che lavorava in cucina. Seduto sul divano, si sfregò gli occhi, indossò scarpe e fondina, e si diresse verso la fonte del rumore. Tessa Lockland canticchiava sottovoce disponendo padelle, ciotole e cibo sul basso ripiano di fianco alla cucina a gas, accingendosi a preparare la colazione. «Buon giorno», esclamò con vivacità all'ingresso di Sam. «Cosa ci trovi di buono?» «Ascolta la pioggia. Mi fa sempre sentire pulita e fresca.» «Su di me, invece, ha un effetto deprimente.» «Ed è bello stare in un locale caldo e asciutto mentre fuori piove.» Lui si grattò una guancia non rasata. «Qui dentro mi sembra un po' soffocante.» «Beh, ad ogni modo siamo ancora vivi e questo è bello.» «Suppongo di sì.» «Ma santo cielo!» La ragazza picchiò una padella sul ripiano e simulò uno sguardo torvo. «Gli agenti dell'FBI sono tutti come te?» «In che senso?» «Sono tutti così bisbetici?» «Io non sono bisbetico.» «Anzi, sei il classico menagramo!» «Beh, la vita non è un luna-park.» «Davvero?» «Già. È dura e meschina.» «Forse, ma non è almeno in parte anche un luna park?» «E i registi di documentari sono tutti come te?» «Ossia?»
«Vispe Terese.» «Ridicolo! Io non sono una Vispa Teresa.» «Ah, no?» «No.» «Siamo intrappolati in una città dove la realtà sembra temporaneamente sospesa, la gente viene sbranata da una specie sconosciuta, Entità Malefiche si aggirano di notte per le strade, un folle genio del computer pare aver capovolto la biologia umana, ci troviamo in procinto di venire uccisi o 'convertiti' prima di mezzanotte e tu te ne stai qui tutta sorrisi a canticchiare una canzone dei Beatles!» «Non erano i Beatles.» «Come?» «Rolling Stones.» «Che differenza fa?» Lei sospirò. «Senti, se vuoi mangiare la colazione, allora dai una mano a prepararla. Piantala di lanciarmi occhiate furiose!» «D'accordo, va bene, che cosa posso fare?» «Primo, chiama Harry al citofono e assicurati che sia sveglio. Digli che la colazione sarà pronta in, mmh, quaranta minuti. Focaccine, uova e prosciutto in padella.» Sam premette il pulsante e il veterano rispose immediatamente, avvisando che sarebbe sceso in mezz'ora. «E adesso?» chiese poi a Tessa. «Prendi dal frigo le uova e il latte, ma per amor di Dio non guardare dentro le confezioni.» «Perché no?» Lei sogghignò. «Faresti marcire le uova e andare a male il latte.» «Molto divertente.» «Ne ero convinta.» Mentre preparava l'impasto per le focaccine, impartiva istruzioni a Sam, affettava cipolle e tagliava il prosciutto, la ragazza si esibì in un repertorio di canzoni di Patti La Belle e delle Pointer Sisters. Luì seppe di che motivi si trattassero perché Tessa li annunciava come un disc-jockey, forse nella speranza di educarlo e di far sì che si lasciasse un po' andare. Lavorando e cantando, danzava sul posto, scuotendo il bacino, agitando le anche, muovendo le spalle e schioccando le dita. Si stava sinceramente divertendo, ma Sam capì che lo stava anche stuzzicando. Cercò di rimanere ancorato alla propria tetraggine e, quando lei
gli sorrise, evitò di ricambiarla, ma dannazione se era bella! Aveva i capelli scomposti ed era priva di trucco, i suoi vestiti erano spiegazzati, ma quell'aspetto arruffato non faceva altro che aumentare il suo fascino. Senza smettere di danzare, Tessa gli chiese: «Hai pensato a cosa possiamo fare per toglierci da questa situazione?» «Ho un'idea.» «Patti La Belle, New attitudes», dichiarò la ragazza, annunciando il titolo della canzone che stava cantando. «Forse questa tua idea è un oscuro e tremendo segreto?» «No, ma devo parlarne con Harry e avere da lui alcune informazioni, quindi ne discuteremo tutti assieme durante la colazione.» Mentre lui tagliava a fettine il formaggio, Tessa s'interruppe per domandare: «Perché hai detto che la vita è dura e meschina?» «Perché lo è.» «Ma è anche piena di divertimento...» «No.» «... bellezza...» «No.» «... e speranza.» «Stronzate.» «È così.» «Non è vero.» «Ma perché sei così negativo?» «Perché voglio esserlo.» «E la ragione?» «Gesù, tu sei una che non da tregua.» «Pointer Sisters, Neutron dance», la ragazza riprese a cantare gettando i rifiuti nella pattumiera. Infine aggiunse: «Cosa può esserti capitato per farti credere che la vita sia tanto dura?» «Non penso ti interessi saperlo.» «Invece sì.» «Ne sei sicura?» «Certo.» «Mia madre rimase uccisa in un incidente stradale quanto avevo solo sette anni. Io ero in macchina con lei, mezzo morto, intrappolato fra i rottami per più di un'ora a fissare la sua orbita vuota e il suo viso devastato. In seguito sono andato a vivere con mio padre, dal quale la mamma aveva divorziato, un figlio di puttana alcolizzato che continuava a picchiarmi.
Spesso mi legava a una sedia in cucina e mi lasciava lì per ore, finché non potevo più trattenermi e facevo pipì nei pantaloni; quando veniva a slegarmi, vedeva che cos'era successo e mi picchiava per quello.» Sam rimase sorpreso per come il racconto gli uscisse di getto, quasi la diga del suo subconscio si fosse aperta di colpo, riversando tutti i detriti accumulati in anni di rigido autocontrollo. «Alle soglie dell'adolescenza uscii da quella casa e proseguii gli studi lavorando e vivendo in camera d'affitto a buon mercato, dividendo il letto con eserciti di scarafaggi finché non feci domanda per essere ammesso nell'FBI. Volevo vedere un po' di giustizia nel mondo, essere fra coloro che contribuivano ad attuarla, forse perché nella mia vita ve n'era stata così poca. Ma scoprii che, nella maggior parte dei casi, la giustizia non trionfa affatto: i cattivi se la cavano per quanto tu ti sforzi di fermarli e ciò accade perché, spesso, sono maledettamente intelligenti e i buoni non consentono a se stessi di applicare i metodi spicci necessari per concludere il lavoro. Nello stesso tempo, quando sei un agente vedi soprattutto la parte marcia della società, frequenti la feccia e, giorno dopo giorno, diventi sempre più cinico e disgustato nei confronti della gente.» Stava parlando così rapidamente da sentirsi quasi senza fiato. Lei aveva smesso di cantare. Sam proseguì con un'insolita mancanza di controllo emotivo, affastellando le parole. «E mia moglie, Karen, è morta. Era una creatura meravigliosa, ti sarebbe piaciuta, tutti le volevano bene, ma si ammalò di cancro e morì in mezzo ai dolori, soffrendo orribilmente, non con la facilità di Ali McGraw in Love Story, non con un sospiro, un sorriso e un mesto addio, ma fra pene atroci. E poi ho perso anche mio figlio. Oh, è ancora vivo e ha sedici anni, è fisicamente e mentalmente vivo, ma emotivamente morto, spiritualmente spento, maledettamente gelido dentro. Ama solo i computer, i videogiochi, la televisione e la musica black-metal. Sai che cos'è? È rock duro con una punta di satanismo, che a lui piace perché gli dice che non esistono valori morali, che tutto è relativo, che il suo disinteresse è giusto, che qualunque cosa gli paia buona è buona. Sai cosa mi ha spiegato una volta?» La ragazza scosse il capo. «Ha affermato: 'La gente non è importante, non conta. Solo le cose hanno un valore: i soldi, gli alcolici, il mio stereo, tutto ciò che mi piace è importante, ma io non lo sono'. Sostiene che le bombe nucleari sono pericolose perché un giorno distruggeranno tutte queste cose gradevoli, non
perché uccideranno gli esseri umani; dopotutto, la gente non conta, è solo un insieme di animali inquinanti che rovinano il mondo. Ecco quello in cui crede. E dichiara anche di poterlo dimostrare. 'La prossima volta che ti capita di vedere un gruppo di persone attorno a una Porsche, osserva bene le loro facce e ti accorgerai che si preoccupano di più per quella macchina che non per i loro simili lì accanto. Per di più, non stanno ammirando la lavorazione, non nel senso di riflettere sulle capacità degli uomini che l'hanno realizzata; è come se la Porsche fosse organica, si fosse creata da sola, e l'apprezzano per se stessa, non per ciò che rappresenta in termini di abilità costruttiva. L'auto è più viva di loro, che ricavano energia dalle sue linee sinuose, dal brivido d'immaginare la sua potenza sotto le loro mani. In definitiva, la macchina diventa più reale e assai più importante di qualunque fra le persone che la stanno guardando.'» «Sono tutte sciocchezze», commentò Tessa con convinzione. «Ma lui ci crede. Io so bene che si tratta di idiozie e cerco di farlo ragionare, però lui è convinto di avere tutte le risposte. Talvolta mi domando... se io non fossi così disgustato dalla vita, così stufo di certa gente, sarei forse capace di argomentare in modo più persuasivo? Se non fossi quello che sono, avrei maggiori possibilità di salvare mio figlio?» Si bloccò. Si rese conto di tremare. Entrambi tacquero per qualche tempo. Infine Sam aggiunse: «Ecco perché sostengo che la vita è dura e meschina». «Mi dispiace.» «Non è colpa tua.» «Ma neppure tua.» Ritornarono alle loro rispettive occupazioni. «Ma avevi Karen», sbottò improvvisamente Tessa. «Nella tua vita è esistito anche spazio per l'amore e la bellezza.» «Certo.» «Allora...» «Ma non dura.» «Niente dura in eterno.» «Esattamente quello che sostengo io.» «Ma ciò non vuol dire che non possiamo godere di un dono finché lo possediamo. Se guardi sempre avanti, chiedendoti quando finirà quel momento di gioia, non potrai mai ricavare piacere dalla vita.»
«Esattamente quello che sostengo io», ripetè lui. La ragazza si girò a guardarlo. «Ma è sbagliato! La vita è piena di attimi di meraviglia, gioia, piacere, e se non cogliamo questi attimi, se non cessiamo almeno momentaneamente di pensare al futuro per abbandonarci al presente, allora non conserveremo nessun bel ricordo che ci aiuti a superare i momenti duri, e non ci rimarranno speranze.» Lui la fissò, ammirato per la sua bellezza e la sua vitalità. Subito, però, iniziò a pensare a come sarebbe invecchiata per poi ammalarsi e morire, e non fu più capace di guardarla. Si voltò verso la finestra grondante pioggia. «Beh, mi spiace di averti turbata, ma devi ammettere che te lo sei voluto. Hai insistito tu per sapere le ragioni per cui sono così cupo.» «Oh, ma tu non sei cupo», rispose lei. «Vai ben al di là di questo: sei un vero e proprio Signor Funesto.» Sam si limitò a scrollare le spalle. Senza aggiungere altro, tornarono alle incombenze culinarie. 11 Dopo essere fuggita dalla canonica, Chrissie rimase in movimento per più di un'ora mentre cercava di decidere il da farsi. In precedenza aveva progettato di raggiungere la scuola e raccontare la propria storia alla signora Tokawa, se Padre Castelli si fosse dimostrato poco disposto a crederle, ma ora non si sentiva in grado di fidarsi neppure di lei. Dopo l'esperienza con i due religiosi, si convinse che gli alieni dovevano aver preso possesso di tutte le figure rappresentative di Moonlight Cove come primo passo verso la conquista. Spostandosi di isolato in isolato, maledisse la pioggia e ne fu nel contempo grata: era bagnata fino al midollo, aveva freddo, ma il cattivo tempo teneva la gente in casa, offrendole la possibilità di passare inosservata. Rimase il più possibile nei vicoli e sui retri degli edifici, attraversando la strada solo quando era indispensabile e sempre a gran velocità, perché aveva visto aggirarsi troppe coppie di uomini dallo sguardo attento a bordo di macchine che procedevano lentamente. Circa un quarto d'ora dopo la sua fuga dalla canonica, notò un improvviso aumento dei veicoli in zona e la presenza di un certo numero d'individui a piedi. Questi ultimi la spaventavano di più, perché potevano condurre ricerche più accurate ed erano meno semplici da individuare; l'idea d'imbattervisi inaspettatamente la terrificava.
In realtà, passò la maggior parte del tempo nascosta: dietro mucchi di bidoni per le immondizie, in mezzo ai cespugli e sotto le auto in sosta. Non rimase mai nel medesimo luogo per più di cinque o dieci minuti, timorosa che qualcuno, ormai posseduto dagli alieni, la scorgesse mentre strisciava in un nascondiglio e chiamasse la polizia. Quando raggiunse il terreno abbandonato sulla Juniper Lane, di fianco alle Pompe Funebri Callan, e si rannicchiò nell'erba alta stava già cominciando a dubitare che esistesse qualcuno a cui rivolgersi per un aiuto. Per la prima volta dall'inizio della sua odissea sentì affievolirsi ogni speranza. Per quanto fosse ben riparata, ogni minuto o due alzava cautamente la testa per guardarsi rapidamente attorno e accertarsi che nessuno stesse avanzando furtivamente verso di lei. Durante una di queste ricognizioni, sbirciando in direzione della Conquistador vide l'ampia costruzione di legno sul lato est: la casa di Talbot. Immediatamente si ricordò dell'uomo sulla sedia a rotelle. L'anno precedente era venuto a scuola a parlare con gli studenti durante la «Settimana della Consapevolezza»; il ciclo di conferenze aveva rappresentato in gran parte una perdita di tempo, ma lui era stato interessante. Aveva spiegato loro le difficoltà e le sorprendenti capacità delle persone handicappate. Dapprima Chrissie si era dispiaciuta per lui e aveva provato una gran pena: sembrava così patetico in quella sedia a rotelle, con il corpo inservibile per metà, in grado di usare una sola mano, la testa permanentemente inclinata di lato. Ascoltandolo, però, si era accorta che possedeva un fantastico senso dell'umorismo e non si compativa affatto, quindi le era parso assurdo dispiacersi per lui. Quando era stato il turno delle domande degli studenti, lui si era dimostrato più che disponibile ad affrontare anche i dettagli più intimi della propria vita, le sue gioie e i dolori. Chrissie lo aveva ammirato moltissimo. Inoltre il suo cane, Moose, era un animale stupendo. Ora, guardando la casa e pensando a Harry, si chiese se quello non fosse il posto giusto per ottenere aiuto. Nascosta nel cespuglio, si mise a riflettere. Un invalido rappresentava certamente una delle ultime persone che gli alieni si sarebbero preoccupati di possedere, se mai lo avessero voluto. Immediatamente si vergognò di se stessa per averlo pensato. Un handicappato su una sedia a rotelle non era un essere umano di seconda classe: poteva offrire agli alieni tanto quanto chiunque altro.
D'altro canto, era lecito supporre che un gruppo di extraterrestri nutrisse una concezione illuminata delle menomazioni fisiche? Non era aspettarsi un po' troppo? Dopotutto, si trattava di alieni. La loro scala di valori non doveva necessariamente essere identica a quella degli umani. Se andavano in giro a piantare semi — o spore, o larve viscide — nella gente, oppure se la mangiavano, non ci si poteva certo aspettare che trattassero gl'invalidi con il dovuto rispetto o che aiutassero le vecchiette ad attraversare la strada. Harry Talbot. Più ci pensava, più si sentiva sicura che finora gli fossero state risparmiate le orribili attenzioni degli alieni. 12 Dopo essere stato chiamato Signor Funesto, Sam si era dedicato a ungere le padelle in modo che l'impasto delle focaccine non si attaccasse. Tessa accese il forno, poi, in un tono di voce palesemente rivelatore dell'intenzione di persuaderlo a rivedere il suo tetro punto di vista sulla vita, esordì: «Dimmi...» «Non ne hai ancora avuto abbastanza?» «No.» Lui sospirò. La ragazza riprese: «Se sei così maledettamente pessimista, perché non...» «Mi uccido?» «Perché no?» Sam rise amaramente. «Durante il viaggio da San Francisco a qui ho fatto un giochetto con me stesso, che consiste nell'enumerare i motivi per cui vale la pena di vivere. Ne ho trovati solo quattro, ma suppongo siano abbastanza, visto che sono ancora in giro.» «Quali sono?» «Primo: buon cibo messicano.» «Sono d'accordo.» «Secondo: la birra Guinness.» «Io preferisco la Heineken scura.» «È buona, ma non costituisce una ragione di vita, mentre la Guinness sì.» «Cos'è il numero tre?»
«Goldie Hawn.» «La conosci?» «No, e neppure lo voglio perché forse rimarrei deluso. Sto parlando della sua immagine sullo schermo, della Goldie Hawn idealizzata.» «È la ragazza dei tuoi sogni, vero?» «Più di questo. Lei... accidenti, non lo so... sembra inattaccabile dalla vita, intatta, vitale, felice, innocente e buffa.» «Credi che un giorno riuscirai a incontrarla?» «Stai scherzando?» «Sai una cosa?» «Che cosa?» «Se tu incontrassi davvero Goldie Hawn, se ti si avvicinasse a una festa e dicesse qualcosa di divertente, ridendo in quel modo tutto suo, tu non la riconosceresti neppure.» «Ma certo che la riconoscerei!» «Invece no. Saresti così impegnato a rimuginare su quanto la vita sia ingiusta, iniqua, dura, crudele, tetra, sgradevole e stupida che non coglieresti l'occasione. Saresti circondato da un tale alone di disperazione da non vedere chi hai di fronte. E ora, qual è il tuo quarto motivo per vivere?» Lui esitò. «La paura della morte.» «Non capisco. Se la vita è tanto orribile, perché devi temere la morte?» «Ho vissuto un'esperienza particolare. Ero sottoposto a un intervento chirurgico per estrarmi una pallottola dal torace, quando mi sono librato fuori dal corpo, ho osservato per un po' i medici, poi mi sono ritrovato risucchiato sempre più velocemente in un tunnel buio che sfociava in una luce accecante.» Tessa rimase colpita. I suoi occhi azzurri si spalancarono per l'interesse. «E poi?» «Ho visto che cosa c'è dall'altra parte.» «Stai parlando seriamente, non è vero?» «Sono maledettamente serio.» «Mi stai dicendo che conosci l'Aldilà?» «Sì.» «E Dio esiste?» «Sì.» Stupefatta, lei osservò: «Ma se sai che c'è un Dio e che tutti noi abbiamo una meta, allora devi ammettere che la vita ha un senso e uno scopo». «E con ciò?»
«Beh, alle radici della tristezza e della depressione giace quasi sempre il dubbio sul significato dell'esistenza. Se tutti noi potessimo sperimentare quello che hai sperimentato tu, non avremmo più motivo di cruccio e saremmo in grado di affrontare qualsiasi avversità con un diverso stato d'animo. Dunque, cos'è che non va, signor mio? Perché non sei diventato più sereno? Sei semplicemente un piagnone testardo o che altro?» «Un piagnone?» «Rispondi alla domanda.» L'ascensore si mise in moto e salì al piano superiore. «Sta arrivando Harry», dichiarò Sam. «Rispondi alla domanda», ripetè lei. «Diciamo pure che quanto ho visto non mi ha dato speranza, bensì mi ha terrorizzato.» «Non tenermi in sospeso. Cos'hai visto dall'altra parte?» «Se te lo spiegassi, penseresti che sono pazzo.» Lui sospirò, scuotendo la testa, desiderando non aver sollevato l'argomento. Com'era riuscita a farlo aprire così completamente? L'ascensore si fermò al secondo piano. Tessa gli si avvicinò ed esplose: «Dimmi che cos'hai visto, dannazione!» «Non capiresti.» «Sono forse una stupida?» «Oh, capiresti che cos'ho visto, ma non che cosa ha rappresentato per me.» «E tu lo hai capito?» «Certo», rispose Sam con solennità. «Vuoi parlarmene di tua spontanea volontà o devo torturarti?» La cabina aveva iniziato la discesa. «Non ho intenzione di discuterne.» «Ma davvero, eh?» «No.» «Hai visto Dio, ma non vuoi discuterne.» «Esatto.» L'ascensore giunse al pianterreno. «Ecco Harry», dichiarò lui. «Spiegami che cos'hai visto.» «Forse a te posso dirlo», concluse Sam, sorpreso dalla sua stessa disponibilità. «Più tardi, però.» Moose entrò in cucina, seguito un istante dopo dal veterano.
«Buon giorno», esclamò questi con brio. «Hai dormito bene?» gli chiese Tessa indirizzandogli un sincero sorriso d'affetto che Sam invidiò. «Sodo, ma non come un morto, grazie a Dio.» «Focaccine?» «Tonnellate.» «Uova?» «Dozzine.» «Pane tostato?» «In quantità.» «Mi piacciono gli uomini dall'appetito vigoroso.» Harry spiegò: «Ho corso tutta la notte, quindi ho molta fame.» «Corso?» «In sogno. Inseguito dalle Entità Malefiche.» Tessa cominciò a friggere le focaccine; dopo un attimo annunciò: «Patti La Belle, Stir it up», e si mise a cantare e ballare sul posto. «Ehi», si entusiasmò il veterano, «se vuoi musica, posso dartela!» Si diresse verso una radio inserita sotto un ripiano, che né Sam né Tessa avevano notato, e armeggiò con il sintonizzatore finché non giunse su una stazione che trasmetteva I heard it through the grapevine di Gladys Knight and the Pips. «Fantastico!» esclamò la ragazza, cominciando a ondeggiare e sussultare con tale partecipazione che Sam si chiese come facesse a versare l'impasto nella padella con tanta precisione. Harry scoppiò a ridere e iniziò a girare in cerchio con la sedia a rotelle, come se ballasse con lei. Sam commentò: «Voi due non sapete che il mondo sta crollando attorno a noi?» Loro lo ignorarono e lui sospettò che fosse esattamente quello che si meritava. 13 Seguendo un percorso tortuoso e mantenendosi in ombra, Chrissie raggiunse il vicolo che fiancheggiava la Conquistador ed entrò nel cortile posteriore della casa di Talbot, rischiando per ben due volte di mettere un piede nella pupù di cane — Moose era un animale fantastico, ma non esente da pecche — e spingendosi fino alla veranda sul retro.
Dall'interno proveniva della musica: una canzone vecchia, dei tempi in cui i suoi genitori erano adolescenti. Benché la bambina non ne rammentasse il titolo, si ricordò il nome del gruppo — Junior Walker and the AllStars. Immaginando che la musica e la pioggia battente avrebbero coperto qualunque rumore provocato da lei, salì i gradini della veranda e si avvicinò cautamente a una finestra tenendosi accucciata. Rimase in ascolto: gli occupanti della casa stavano parlando, ridendo e cantando. Non sembravano affatto alieni, ma gente normale. Gli extraterrestri avrebbero apprezzato le canzoni di Steve Wonder, dei Four Tops e delle Pointer Sisters? Difficile. Agli orecchi umani, le melodie aliene sarebbero probabilmente sembrate come cavalieri in armatura che suonavano cornamuse cadendo dalle scale in mezzo a una muta di cani da caccia ululanti. Finalmente, decise di sollevarsi quel tanto che bastava a sbirciare dentro e vide il signor Talbot, Moose e una coppia di estranei. Il veterano stava battendo il tempo con la mano buona sul bracciolo della sedia a rotelle, mentre il labrador agitava vigorosamente la coda. L'altro uomo stava disponendo uova fritte nei piatti, lanciando occhiatacce alla donna, forse perché disapprovava il modo in cui lei si stava lasciando andare al ritmo. La ragazza stava preparando focaccine, danzando nel contempo; si muoveva bene. Chrissie tornò a rannicchiarsi e riflette su quanto aveva appena visto. Se erano esseri umani, il loro comportamento non aveva nulla di strano; se fossero stati alieni, del resto, certamente non avrebbero folleggiato al suono della radio mentre preparavano la colazione. La bambina non riusciva davvero a credere che gli alieni — come la cosa che si cammuffava sotto le vesti di Padre Castelli — possedessero senso dell'umorismo e del ritmo. Sicuramente a loro importava soltanto prendere possesso della gente e scovare nuove ricette per cucinare i bambini. Cionondimeno, preferì aspettare e approfittare dell'occasione di vederli mangiare. Da quanto aveva capito facendo colazione nella canonica, gli extraterrestri erano voracissimi, con l'appetito di una mezza dozzina di uomini. Se Harry Talbot e i suoi ospiti non si fossero comportati come maiali una volta di fronte al cibo, allora avrebbe potuto fidarsi di loro. 14
Loman era rimasto a casa di Peyser, sovrintendendo alla rimozione e al trasferimento dei cadaveri dei regressivi sul carro funebre. Era restio a lasciare che i suoi uomini provvedessero da soli per timore che la vista dei corpi mutati e l'odore del sangue li spingessero a cercare a loro volta lo stato di alterazione. Ormai sapeva che stavano camminando su una corda sottile, tesa sopra un abisso. Per la medesima ragione, seguì il carro fino alle pompe funebri e rimase con Callan e il suo assistente finché il resto di Peyser e di Sholnick non furono dati in pasto alle fiamme. Verificò i progressi nelle ricerche di Booker, della Lockland e di Chrissie Foster, provvedendo a qualche cambiamento nello schema dei pattugliamenti. Si trovava in ufficio quando Castelli fece rapporto, e andò direttamente alla canonica di Nostra Signora della Misericordia per farsi raccontare, di persona, come la bambina fosse riuscita a scappare. Entrambi i preti si mostrarono prodighi di scuse, per lo più inconsistenti. Lui sospettò che fossero regrediti e si fossero messi a giocare con la piccola; mentre si trastullavano in attesa di sbranarla, l'avevano, involontariamente, lasciata fuggire. Naturalmente, non avevano voluto ammettere di essere mutati. Loman aumentò la vigilanza nella zona, ma non si trovò traccia della bambina: evidentemente si era nascosta. Eppure, se era rimasta in città invece di dirigersi verso l'autostrada, esistevano maggiori probabilità di catturarla e di convertirla prima della fine della giornata. Alle nove tornò a casa per fare colazione. Da quando era quasi degenerato nella camera da letto di Peyser costellata di sangue, si sentiva ballare addosso i vestiti a causa del tremendo fabbisogno di energia necessario per regredire, e per resistere all'impulso, prelevato dalla sua stessa carne. La casa era buia e silenziosa. Denny si trovava senza dubbio di sopra, davanti al computer. Grace era uscita per recarsi al lavoro alla scuola Thomas Jefferson, dove insegnava; doveva sostenere la finzione di una vita normale finché tutta Moonlight Cove non fosse stata convertita. Al momento, nessun bambino al di sotto dei dodici anni era stato sottoposto al Cambiamento, anche perché i tecnici della New Wave avevano solo da poco messo a punto il corretto dosaggio per i più giovani. La notte successiva il programma di conversione avrebbe finalmente incluso anche i bambini. In cucina, il capo della polizia bevve numerosi bicchieri d'acqua. Dopo i terribili avvenimenti in casa di Peyser, si sentiva disidratato. Il frigorifero scoppiava, letteralmente, di cibo: prosciutto, roastbeef, avanzi di tacchino, braciole di maiale, petti di pollo, salsicce e una quantità
di confezioni di mortadella e carne secca. Il metabolismo accelerato della Nuova Gente richiedeva una dieta ad alto contenuto proteico. Prese del pane e si sedette al tavolo con un piatto di roast beef, del prosciutto e un barattolo di senape. Cominciò a mangiare a grandi bocconi, voracemente, in una certa misura disgustato dal modo in cui ingurgitava il cibo senza neppure averlo masticato. Scivolò in una sorta di semitrance alimentare, ma a un certo punto riacquistò sufficiente lucidità da rendersi conto di aver preso dal frigo i petti di pollo e di essere intento a mangiarseli con entusiasmo nonostante fossero crudi. Si lasciò pietosamente sommergere dal medesimo stato ipnotico. Terminato di mangiare, salì al piano superiore per salutare Denny. Quando aprì la porta della camera del ragazzo, tutto sembrò dapprima identico alla sera precedente: le veneziane abbassate, l'oscurità retta unicamente dal lampeggiare verdastro del terminale, il figlio assorto nei dati che scorrevano sullo schermo. Poi vide qualcosa che gli fece accapponare la pelle. Chiuse gli occhi. Attese. Li riaprì. Non si trattava di un'illusione. Si sentì raffreddare dalla nausea e provò l'impulso di uscire, dimenticare quanto aveva visto, andarsene via. Ma non riuscì a muoversi o a distogliere lo sguardo. Denny aveva staccato la spina del computer e svitato la copertura del processore; teneva le mani in grembo, anche se non si poteva più definirle mani. Le sue dita si erano allungate a dismisura e terminavano in cavi dall'aspetto metallico, spessi come il cordone di una lampada, che si insinuavano nel ventre del computer e svanivano nei suoi visceri. Suo figlio non aveva più bisogno della tastiera. Era diventato parte del sistema. Attraverso il collegamento con la New Wave, si era fuso con Sole. «Denny?» Aveva assunto uno stato di alterazione, ma nulla paragonabile ai regressivi. «Denny?» Il ragazzo non rispose. «Denny!» Dal computer venne uno strano, sommesso ticchettio e un ronzio elet-
tronico. Con riluttanza, Loman si spinse fino alla scrivania. Guardò da vicino il figlio e rabbrividì. Denny teneva la bocca aperta e la saliva gli colava sul mento. Era tanto rapito dal contatto con la macchina da non essersi curato di alzarsi per andare in bagno: si era urinato nei pantaloni. I suoi occhi erano scomparsi e al loro posto stavano due sfere gemelle che sembravano d'argento fuso, lucide come specchi: riflettevano i dati stampati sullo schermo: I suoni pulsanti, le sommesse oscillazioni elettroniche, non provenivano dal computer, ma da Denny. 15 Le uova erano buone, le focaccine anche meglio e il caffè forte al punto giusto. Mentre mangiavano, Sam delineò il metodo da lui escogitato per far giungere un messaggio al Bureau. «Il tuo telefono è sempre fuori uso, Harry. Ho provato anche stamattina. Non credo ci convenga rischiare di dirigerei sulla statale a piedi o in macchina, non con le pattuglie e i posti di blocco; lo terremo eventualmente come ultima risorsa. Dopotutto, per quanto ne sappiamo, noi siamo gli unici ad aver capito che qualcosa di veramente perverso è in atto in città e che è urgente intervenire subito. Noi e, forse, la piccola Foster, quella di cui parlavano gli agenti nella loro conversazione via terminale.» «Se davvero è soltanto una bambina», osservò Tessa, «ma anche se fosse un'adolescente, non avrà grandi possibilità di farcela contro di loro. Dobbiamo supporre che la prenderanno, se già non l'hanno fatto.» Sam assentì. «E se acchiappano anche noi mentre cerchiamo di uscire dalla città, non rimarrà nessuno a finire il lavoro. Di conseguenza, per prima cosa dobbiamo tentare un'azione a basso rischio.» «Ma esiste una scelta meno rischiosa?» Si chiese Harry, mangiando lentamente e con la precisione di chi è costretto a usare una mano sola. Versando altro sciroppo d'acero sulle focaccine, stupito dalla propria fame e attribuendola alla possibilità che quello rappresentasse il suo ultimo pasto, Sam spiegò: «Vedi, questa è una città sotto intercettazione». «Che cosa vuoi dire?» «Collegata via terminale. La New Wave ha donato i computer alla polizia, in modo da inserirla nella rete...»
«Anche alle scuole», lo interruppe il veterano. «Ricordo di averlo letto sul giornale qualche mese fa. Hanno fornito un sacco di computer e di programmi alle elementari e alle medie superiori. Un gesto altamente filantropico, lo hanno definito.» «Ora sembra tutto molto sinistro, non è vero?» commentò Tessa. «Puoi scommetterci.» Lei proseguì. «A quanto pare hanno voluto dotare di macchinari le scuole con il medesimo intento dimostrato nei confronti della polizia, e cioè per collegarle alla New Wave, in modo da sorvegliarle direttamente.» Sam depose la forchetta. «Quanta gente impiega la New Wave, un terzo della popolazione locale?» «Probabilmente», rispose Harry. «Moonlight Cove è fiorita dopo l'insediamento dell'azienda, circa dieci anni fa. Per certi versi, questa è una città industriale vecchia maniera: non solo dipendente dal principale datore di lavoro, ma anche socialmente incentrata attorno a esso.» Dopo aver bevuto qualche sorso di caffè, così forte da sortire quasi l'effetto di un brandy, Sam mormorò: «Un terzo degli abitanti, il che equivale a circa il quaranta per cento degli adulti». Il veterano rispose: «Presumo sia una supposizione corretta». «E bisogna immaginare che tutti, alla New Wave, facciano parte della cospirazione, che siano stati i primi a essere convertiti.» Tessa annuì. «Direi che è un dato di fatto.» «Inoltre, naturalmente, sono più interessati del solito ai computer perché rappresentano il loro ramo professionale, quindi è lecito scomettere che la maggior parte di loro, se non tutti, ne possiedano uno anche a casa.» Gli altri ne convennero. «E, senza dubbio, i loro computer di casa sono collegati direttamente alla New Wave via modem, in modo che possano lavorare anche di sera o durante i fine settimana, se lo desiderano. Ora, con il programma di conversioni prossimo alla conclusione, giurerei che si danno da fare ventiquattr'ore su ventiquattro. Se Harry può suggerirmi qualche dipendente della New Wave che abita in questo isolato...» «Ce ne sono parecchi.» «... io potrei uscire e provare a controllare se la casa è vuota. A quest'ora saranno probabilmente al lavoro, e, forse, riuscirò a usare il loro telefono.» «Aspetta un momento», si intromise Tessa. «Le linee telefoniche sono fuori uso.» Sam scosse la testa. «Sappiamo soltanto che i telefoni pubblici non fun-
zionano, come pure quello di Harry. Ma ricordati: la New Wave controlla tutti i computer in circolazione, quindi è possibile che siano stati selettivi nell'interrompere il servizio. Scommetterei che non hanno staccato gli apparecchi di coloro che sono già stati sottoposti a questa conversione. Non vorranno negare a se stessi la facoltà di comunicare, soprattutto non adesso, in una situazione d'emergenza e con il loro progetto quasi completato. Esiste più del cinquanta per cento di probabilità che le uniche linee inservibili siano quelle cui noi potevamo accedere: cabine pubbliche, il motel e le case di chi non è ancora stato convertito.» 16 La paura permeava Loman Watkins, lo saturava così completamente che, se avesse posseduto consistenza, sarebbe potuta essere strizzata dalla sua carne in quantità tali da competere con le fiumane di pioggia che stavano cadendo in quel momento dal cielo. Temeva per se stesso e per ciò che poteva ancora diventare, temeva per il figlio, che sedeva davanti al computer con sembianze totalmente inumane. E aveva anche paura di suo figlio, inutile negarlo, era terrorizzato dalla sua presenza e incapace di toccarlo. Una marea di dati invadeva lo schermo a ondate verdi. Gli occhi di Denny, luccicanti, liquidi, argentei come pozze di mercurio nelle orbite, riflettevano le luminescenti serie di lettere, numeri, grafici e proiezioni. Immobili. Loman rammentò quanto Shaddack aveva detto a casa di Peyser, quando aveva visto che questi era regredito a una forma lupesca estranea alla storia genetica umana. La regressione non rappresentava soltanto, e neppure principalmente, un processo fisico: era un esempio di mente sopra la materia, di consapevolezza che dettava la forma. Visto che non potevano più essere individuati normali e non riuscendo a tollerare la vita priva di emozioni della Nuova Gente, stavano cercando stati di alterazione in cui l'esistenza fosse più sopportabile. E il ragazzo aveva scelto questo stato, si era costretto a diventare quella cosa grottesca. «Denny?» Nessuna risposta. I cavi metallici che costituivano la parte terminale delle dita del ragazzo vibravano continuamente e talvolta pulsavano come se fossero percorsi da correnti irregolari di sangue.
Il cuore di Loman aveva il ritmo affrettato che avrebbe caratterizzato i suoi passi se solo fosse riuscito a fuggire. Ma era inchiodato lì dal peso del proprio terrore. Fradicio di sudore, lottò per non vomitare l'enorme pasto appena consumato. Si chiese disperatamente che cosa fare, e la prima cosa che gli venne in mente, fu di chiamare Shaddack in cerca d'aiuto; sicuramente lui avrebbe capito quanto stava accadendo e avrebbe saputo come capovolgere quest'orribile metamorfosi e ridare a Denny forma umana. Ma era impossibile. Il Progetto Falco Notturno era ormai sfuggito a ogni controllo, seguendo percorsi imperscrutabili che neppure Tom Shaddack aveva previsto né poteva evitare. Tra l'altro, questi non si sarebbe affatto spaventato per quanto stava accadendo a Denny. Deliziato e gioioso, avrebbe interpretato la mutazione del ragazzo come uno stadio elevato, un avvenimento desiderabile tanto quanto la degenerazione dei regressivi era da evitare e condannare. Suo figlio rappresentava l'esempio di quanto Shaddack intendeva conseguire: l'evoluzione forzata dell'uomo, in macchina. Loman era certo che l'incarnazione di Denny non rappresentava affatto una forma più alta; a modo suo, si trattava di una degenerazione come la metamorfosi di Mike Peyser in un lupo o la discesa di Coombs nei primordi scimmieschi. Come loro, il ragazzo aveva rinunciato all'individualità intellettuale per sfuggire alla consapevolezza dello squallore esistenziale della Nuova Persona; invece di diventare un membro di un branco subumano, si era trasformato in un elaboratore di dati facente parte di una complessa rete di supercomputer. Un rivolo di saliva gli cadde dal mento, lasciando una macchia umida sulla coscia. Conosci ancora la paura? si domandò Loman. Non puoi amare, proprio come me, ma sei riuscito a sfuggire alla paura? Certo. Le macchine non provavano terrore. Per quanto la conversione lo avesse lasciato incapace di sperimentare qualsiasi emozione se non la paura e benché i giorni e le notti fossero divenuti un infinito calvario di ansietà a vari livelli d'intensità, il capo della polizia era giunto ad amare la paura e ad apprezzarla perché era l'unico sentimento che lo tenesse legato all'uomo normale che era stato un tempo. Se gli avessero portato via anche quella, sarebbe diventato soltanto una macchina fatta di carne e la sua esistenza non avrebbe posseduto alcuna dimensione umana.
Denny aveva rinunciato anche a quell'unica, preziosa emozione. Tutto quanto gli era rimasto per riempire i propri giorni grigi erano: la logica, la ragione, le interminabili catene di calcoli, l'incessante assorbimento e interpolazione dei fatti. E se Shaddack aveva visto giusto circa la longevità della Nuova Gente, quei giorni sarebbero saliti a secoli. Improvvisamente, nuovi e agghiaccianti suoni elettronici provennero dal ragazzo, riecheggiando contro le pareti. Quei rumori erano strani come le canzoni gelide e dolenti di alcune specie che vivevano nei più profondi abissi marini. Chiamare Shaddack, e mostrargli Denny in quelle condizioni, equivaleva a incoraggiare quel folle nei suoi propositi pazzeschi e scellerati. Una volta vista la trasformazione del ragazzo, avrebbe potuto escogitare il modo d'indurre o forzare tutti loro a mutare in identiche entità cibernetiche. Quella prospettiva spinse il terrore di Loman a nuovi vertici. La cosa-ragazzo tornò silenziosa. Con mano tremante, il capo della polizia estrasse la pistola dalla fondina. Fissando la creatura che era stata il proprio figlio, Loman cercò di attingere qualche ricordo dal baule della vita pre-Cambiamento, sforzandosi disperatamente di rievocare qualcosa di ciò che un tempo aveva provato per Denny: amore paterno, dolci accessi d'orgoglio, speranza per il suo futuro. Rammentò le spedizioni di pesca fatte insieme, le serate davanti al televisore, il comune interesse per i libri, le lunghe ore trascorse lavorando gioiosamente alle ricerche scolastiche, il Natale in cui il bambino aveva ricevuto la sua prima bicicletta, il primo appuntamento con una ragazza, quando gli aveva nervosamente presentato la figlia dei Talmadge... Loman riusciva a visualizzare immagini di quei tempi, alcune anche molto particolareggiate, che però non possedevano il potere di riscaldarlo. Sapeva di dover provare qualcosa, se si accingeva a uccidere il proprio unico figlio, ma non ne era più capace. Per aggrapparsi alle ultime tracce di umanità rimaste in lui, avrebbe dovuto perlomeno, spremere almeno una lacrima prima di esplodere un colpo dalla Smith & Wesson, ma gli occhi gli restarono asciutti. Senza il minimo preavviso, qualcosa eruppe dalla fronte di Denny. Il capo della polizia urlò e barcollò all'indietro, sconvolto. Dapprima pensò si trattasse di un verme, perché quell'obbrobrio era lucido, oleoso e segmentato, dello spessore di una matita; mentre la «cosa» si allungava, però, vide che era più metallica che non organica, terminante
in una specie di spina elettrica tre volte più grande del «verme» stesso. Come le antenne di un insetto singolarmente repellente, si agitava avanti e indietro di fronte al viso del ragazzo, allungandosi a dismisura finché non toccò il computer. Denny vuole che questo accada, rammentò Loman a se stesso. Era una manifestazione della mente sopra la materia, non un corto circuito genetico: energia mentale resa concreta, non un processo biologico impazzito. Suo figlio intendeva diventare così, e se questa era l'unica esistenza che ormai tollerava, l'unica vita cui aspirava, perché allora non permettergli di ottenerla? Il mostruoso prolungamento vermiforme tastò il meccanismo e scomparve al suo interno, operando qualche collegamento che permettesse al ragazzo di conseguire un legame ancora più intimo con Sole. Un lamento sordo, elettronico, agghiacciante, venne dalla bocca di Denny, benché le labbra e la lingua non si fossero mosse. In Loman, il terrore di agire venne infine sopraffatto dal terrore di non agire. Si avvicinò, mise la canna della pistola contro la tempia del figlio e sparò due colpi. 17 Rannicchiata sulla veranda posteriore, sbirciando di tanto in tanto le tre persone riunite attorno al tavolo di cucina, Chrissie, a poco a poco, si convinse di potersi fidare di loro. Nonostante fosse in grado di udire soltanto brandelli di conversazione, riuscì a capire che sapevano che a Moonlight Cove qualcosa stava andando terribilmente storto. A quanto pareva, i due estranei si stavano nascondendo in casa del signor Talbot ed erano dei fuggiaschi proprio come lei; evidentemente stavano studiando un piano per ottenere aiuto dalle autorità centrali. Decise di non bussare alla porta: era tutta in legno, priva di pannelli in vetro, per cui non avrebbero potuto vedere chi fosse il nuovo venuto. Aveva origliato abbastanza da sapere che erano tesi, forse non ai limiti del collasso nervoso, ma decisamente in subbuglio. L'inatteso bussare avrebbe potuto spaventarli a morte e farli reagire in modo eccessivo. Magari avrebbero estratto le loro pistole e crivellato la porta di colpi. Si alzò in piena vista e picchiettò sul vetro. Harry Talbot, sorpreso, alzò la testa e la indicò con un dito, mentre gli altri due balzarono in piedi con l'immediatezza di marionette cui fossero
stati tirati i fili. Moose abbaiò ripetutamente. Le tre persone, e il cane, fissarono allibite Chrissie. A giudicare dall'espressione dei loro visi, era come se non fosse una bambina di undici anni ai limiti della resistenza, ma un maniaco armato di una sega a motore con un cappuccio di pelle per nascondere un viso deforme. Lei immaginò che, a quel punto, in una città infestata dagli alieni, persino una bambina patetica, esausta e fradicia di pioggia potesse rappresentare motivo di terrore per chiunque ignorasse che era ancora umana. Nella speranza di mitigare il loro timore, parlò attraverso il vetro: «Aiutatemi. Per favore, aiutatemi!» 18 La macchina urlò. Con il cranio frantumato sotto l'impatto dei due proiettili, fu sbalzata dalla sedia e cadde sul pavimento. Le dita filamentose si staccarono dal computer e il tentacolo segmentato si spezzò in due, a metà fra il computer e la fronte da cui sporgeva. La cosa giacque a terra, contorcendosi in preda agli spasimi. Loman doveva pensare che fosse soltanto una macchina e non il proprio figlio: quell'idea era troppo terrificante. Il viso era irriconoscibile, deformato in una maschera surreale e asimmetrica, gli occhi argentei erano diventati neri e ormai sembrava che le orbite ospitassero due pozze d'olio, invece che mercurio. Nello sguarcio fra le ossa devastate, Loman non scorse soltanto la materia grigia che si aspettava, bensì anche qualcosa di simile a fili attorcigliati, scintillanti frammenti dall'aspetto di ceramica, bizzarre forme geometriche. Il sangue che colava dalle ferite era accompagnato da sottili sbuffi di fumo bluastro. Ciononostante, la macchina urlava. Le grida elettroniche non provenivano più dalla cosa-ragazzo, ma dal computer sulla scrivania; quei suoni erano così bizzarri da risultare fuori posto nella metà meccanica dell'organismo quanto lo erano stati nella metà umana. Loman si accorse che i lamenti non erano del tutto elettronici: essi possedevano caratteristiche e tonalità sconvolgentemente umane. Le fiumane di dati smisero di scorrere sullo schermo. Una singola parola fu ripetuta centinaia di volte, riempiendo, riga dopo riga, il video: NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO
Di colpo, il capo della polizia capì che Denny era morto soltanto per metà: la parte del suo cervello che aveva abitato il corpo si era estinta, ma un altro frammento della sua consapevolezza continuava, in qualche modo, a vivere dentro il computer, conservata nel silicone invece che nel tessuto cerebrale. Quella parte di lui stava urlando con gelida voce meccanica. Lo schermo si animò nuovamente: DOV'È IL RESTO DI ME DOV'È IL RESTO DI ME DOV'È IL RESTO DI ME NO NO NO NO NO NO NO NO... Loman si sentì gelare il sangue nelle vene. Si allontanò dal corpo accartocciato che aveva finalmente cessato di contrarsi e puntò l'arma in direzione del terminale. Scaricò la pistola, facendo esplodere prima di tutto lo schermo e poi riducendo in frantumi i circuiti. Migliaia di scintille brillarono nell'oscurità della stanza. Con un crepitio finale, la macchina si spense. L'aria puzzava di plastica bruciata. E peggio. Il capo della polizia uscì dalla camera del figlio e sostò in cima alle scale, appoggiandosi alla balaustra. Infine scese dabbasso. Ricaricò la pistola e la infilò nella fondina. Emerse all'esterno sotto la pioggia insistente. Salì in macchina e avviò il motore. «Shaddack», disse ad alta voce. 19 Tessa s'incaricò immediatamente della bambina. La condusse al piano superiore, lasciando gli altri in cucina, e le fece togliere gli indumenti bagnati. «Stai battendo i denti, tesoro.» «Sono fortunata ad avere dei denti da battere.» «Hai la pelle completamente blu.» «È una fortuna che io abbia ancora la pelle.» «Ho notato che zoppichi.» «Sì. Mi sono stortata una caviglia.» «Sei certa che non sia slogata?» «Sì, non è nulla di serio. E del resto...» «Lo so», la interruppe la ragazza. «Sei fortunata ad avere le caviglie.» «Esatto. Per quel che ne so, gli alieni trovano le caviglie particolarmente gustose, proprio come certa gente ama i piedini di maiale.»
Chrissie sedette sul bordo del letto nella camera degli ospiti con una coperta di lana avvolta intorno al corpo, aspettando che Tessa tornasse con un lenzuolo e parecchie spille da balia. «I vestiti di Harry sono troppo grandi per te, quindi ti sistemerò temporaneamente con un lenzuolo. Mentre i tuoi abiti sono nell'asciugatrice, puoi scendere dabbasso e raccontarci tutto.» «È stata davvero un'avventura», dichiarò la bambina. «In effetti, hai l'aspetto di qualcuno che se l'è vista brutta.» «La mia storia potrebbe diventare un libro fantastico.» «Ti piacciono i libri?» «Oh, sì, li adoro.» Arrossendo, ma evidentemente decisa ad apparire spregiudicata, Chrissie si liberò della coperta, si alzò in piedi e permise alla ragazza di coprirla con il lenzuolo, che le fu drappeggiato attorno al corpo a mo' di toga. Mentre Tessa lavorava, la bambina riprese: «Penso che un giorno scriverò un libro su tutto questo. Lo intitolerò Il flagello alieno o forse L'ape regina extraterrestre, a meno che, naturalmente, non si scopra che non esista affatto una femmina regina del nido. Magari non si riproducono come gl'insetti e neppure come gli animali: forse sono una forma di vita vegetale. Chi lo sa? In questo caso, cambierò il titolo in Semi spaziali, Vegetali del vuoto, oppure Micidiali funghi marziani. Ovviamente, si potrebbe scegliere qualcosa di più poetico, tipo Radici aliene, foglie aliene. Ehi, se sono davvero dei vegetali, potremmo avere un colpo di fortuna: forse sono sensibili ai parassiti terrestri. Potremmo eliminarli proprio come è successo nel film La guerra dei mondi». Tessa era riluttante a spiegarle che i loro nemici non venivano dalle stelle perché il chiacchiericcio di quella bambina precoce la divertiva. All'improvviso notò che la sua mano destra era ferita. «Mi è successo cadendo dal tetto del portico della canonica», spiegò la piccola. «Sei precipitata da un tetto?» «Ragazzi, quello sì che è stato eccitante! Vedi, la cosa-lupo era appena uscita dalla finestra per catturarmi, e non avevo altra scelta. È stato con quel salto che mi sono distorta la caviglia, poi ho dovuto correre attraverso il giardino fino al cancello posteriore per non farmi prendere. Sa, signorina Lockland...» «Per favore, chiamami Tessa.» A quanto pareva, Chrissie non era abituata a rivolgersi agli adulti con i
loro nomi di battesimo. Per un attimo si accigliò e rimase in silenzio, imbarazzata da quell'invito alla familiarità, infine decise che sarebbe stato scortese non accettare. «D'accordo, Tessa. Beh, ad ogni modo, non riesco a immaginare che cosa fanno gli alieni quando ci acchiappano. Ci mangiano, oppure no? Forse ci infilano negli orecchi delle larve che strisciano fino al cervello e ne prendono possesso. Comunque, suppongo valga la pena di cadere da un tetto per evitarli.» Terminato di appuntare la toga, Tessa la condusse in bagno per medicarle la mano. A piedi nudi, avvolta nel lenzuolo, con i capelli biondi arricciati, la piccola si sottopose stoicamente al trattamento, senza protestare né lamentarsi per il dolore. In compenso non tacque un secondo. «Questa è la seconda volta che cado da un tetto, quindi credo di aver un angelo custode che mi protegge. Circa un anno e mezzo fa, in primavera, degli uccelli, penso che fossero stornelli, costruirono il nido sul tetto di una delle nostre stalle. Io dovevo vedere che aspetto avessero i piccoli appena nati, così aspettai che i miei genitori fossero altrove, presi una scala e salii lassù a dare un'occhiata, in un momento in cui la madre era volata via per procurare altro cibo. Lasciatelo dire, prima di mettere le piume gli uccellini sono gli esseri più brutti che esistano, fatta eccezione per gli alieni, naturalmente. Sono creaturine raggrinzite, tutte becco e occhi, con ali che assomigliano a braccia deformi. Se alla nascita i bambini fossero così orribili, qualche milione di anni fa, i primi uomini li avrebbero buttati nel water, se fosse esistito, e non avrebbero mai più osato averne altri. La razza umana si sarebbe estinta prima ancora di iniziare.» Disinfettando la ferita con la tintura di iodio e cercando senza successo di reprimere un sorriso, Tessa guardò in su e si accorse che Chrissie stava strizzando gli occhi, sforzandosi strenuamente di mostrarsi coraggiosa. «Poi mamma e papà stornello tornarono», proseguì la bambina. «Quando mi videro accanto al nido, mi volarono addosso in picchiata e io scivolai per la sorpresa. Quella volta non mi feci alcun male, anche se atterrai nello stereo di cavallo. Il che, lasciatelo dire, non è per nulla divertente. Amo i cavalli, ma mi piacerebbero di più se fosse possibile insegnare loro a servirsi di una cassetta per i bisogni, proprio come i gatti.» Tessa adorava quella ragazzina. 20
Sporto in avanti con i gomiti appoggiati al tavolo di cucina, Sam ascoltò attentamente Chrissie Foster. Per quanto Tessa avesse udito le Entità Malefiche durante il massacro al Cove Lodge, Harry le avesse osservate in distanza nell'oscurità e nella nebbia e lui stesso ne avesse spiate due dalla finestra la notte precedente, la bambina era l'unica, fra i presenti, ad averle viste da vicino e più di una volta. Tuttavia, il suo interesse non derivava soltanto dalla rarità di quell'esperienza; era anche affascinato dai modi vivaci, dal buonumore e dalla lucidità della piccola. Evidentemente possedeva una notevole forza interiore, perché, altrimenti, non sarebbe sopravvissuta agli eventi. Nel contempo, però, rimaneva deliziosamente innocente, forte ma non dura. Era una di quelle ragazzine che ti facevano sperare nel futuro della maledetta razza umana. Come un tempo era stato Scott. Questo era il motivo per cui Sam si sentiva attratto da Chrissie: vedeva in lei il bambino che Scott era stato prima di cambiare. Con un rimpianto così acuto da manifestarsi sotto forma di un nodo in gola, la osservò e la ascoltò non solo per venire a conoscenza di ogni informazione possibile, ma con la poco realistica aspettativa che, studiandola, avrebbe infine capito perché il proprio figlio aveva perso l'innocenza e la speranza. 21 Nell'oscurità della cantina, nella Comunità Icaro, Tucker e il suo branco non dormivano, dato che non ne avevano bisogno, ma giacevano rannicchiati nel buio più assoluto. Di tanto in tanto lui e l'altro maschio si accoppiavano con la femmina, graffiandosi a vicenda con eccitazione selvaggia, squarciando carne che immediatamente cominciava a cicatrizzare, versando sangue per il puro e semplice piacere di sentirne l'odore — un gioco fra anomalie immortali. La mancanza di luce e i confini circoscritti della tana di cemento contribuivano ad alimentare il crescente disorientamento di Tucker. Di ora in ora, rammentava sempre meno la propria esistenza precedente e cessava di nutrire uno spiccato senso d'individualità, che, del resto, non doveva essere incoraggiata in un branco e ancor meno nello spazio ristretto di un nascondiglio: il mantenimento dell'armonia rendeva necessario l'abbandono di se stessi nel gruppo. I suoi sogni a occhi aperti erano pieni di ombre sfuggenti che sgattaiola-
vano nei boschi avvolti nella notte e lungo prati inondati dal chiarore lunare. Occasionalmente, quando un barlume di memoria di sembianza umana gli s'insinuava nella mente, la sua origine rappresentava per lui un mistero. Anzi, ne era spaventato e focalizzava immediatamente i propri pensieri su scene di corsa-caccia-uccisione-accoppiamento in cui faceva soltanto parte di un branco, un aspetto di una singola ombra, un'estensione di un organismo più ampio, libero dal bisogno di pensare, non avendo altro desiderio se non quello di esistere. A un certo punto divenne consapevole di essere uscito dalla propria forma lupesca, ormai troppo costrittiva. Non voleva più essere la guida di un branco, perché quella posizione portava con sé troppe responsabilità; voleva smettere del tutto di pensare e limitarsi a esistere. Esistere. Le restrizioni di qualsiasi forma fisica gli sembravano insopportabili. Avvertì che l'altro maschio e la femmina si erano resi conto della sua degenerazione e stavano seguendo il suo esempio. Sentì la propria carne fluire, le ossa dissolversi, gli organi abbandonare ogni funzione. Si lasciò andare a un'involuzione al di là della scimmia primordiale, ben al di là dell'essere a quattro zampe che millenni or sono aveva faticosamente arrancato fuori dal mare, al di là, al di là, finché non fu altro se non una massa di tessuto pulsante che palpitava nell'oscurità della cantina. 22 Loman suonò il campanello della casa di Shaddack ed Evan, il suo cameriere, andò ad aprire. «Mi dispiace, Watkins, ma il signor Shaddack non c'è.» «Dov'è andato?» «Non lo so.» Evan era un membro della Nuova Gente. Per essere sicuro di eliminarlo, Loman gli sparò due volte in testa e altre due volte nel petto mentre si contorceva sul pavimento, frantumandogli cervello e cuore. O meglio, elaboratore di dati e pompa. Quale usare ora, la terminologia biologica o meccanica? Fino a che punto si erano spinti nel processo di trasformazione in macchine? Chiuse la porta dietro di sé e scavalcò il cadavere del cameriere. Dopo aver ricaricato l'arma, ispezionò l'immensa casa stanza per stanza in cerca di Shaddack.
Benché desiderasse essere sospinto dalla brama di vendetta, dalla rabbia e dal gratificante scopo di ammazzarlo a bastonate, sentimenti tanto intensi gli erano negati. La morte di Denny non aveva sciolto il ghiaccio che gli paralizzava il cuore: non provava dolore né furia cieca. Solo la paura lo stava spingendo. Voleva uccidere Shaddack prima che quel folle li rendesse ancora peggiori di quanto erano già diventati. Dato che costui era permanentemente collegato al supercomputer della New Wave mediante un semplice congegno cardiaco, nell'ucciderlo Loman avrebbe attivato in Sole un programma volto a trasmettere su microonde un ordine di morte, che sarebbe stato ricevuto da tutte le microsfere annidate nei tessuti della Nuova Gente. Ricevuto l'ordine, ogni computer biologicamente interattivo avrebbe istantaneamente fermato il cuore del suo ospite: tutti i convertiti di Moonlight Cove sarebbero morti, lui compreso. Ma non gli importava più. La sua paura della morte era stata di gran lunga superata dalla paura di vivere, soprattutto se doveva continuare a esistere come regressivo o come quella cosa ancora più ripugnante che Denny era diventato. Non avendo trovato Shaddack a casa, si diresse alla New Wave, dove sicuramente l'artefice del nuovo mondo sarebbe stato nel proprio ufficio, intento a progettare scenari per quell'inferno che lui chiamava paradiso. 23 Poco dopo le undici, mentre Sam se ne stava andando, Tessa lo seguì sulla veranda posteriore e chiuse la porta, lasciando Harry e Chrissie in cucina. Sul retro della proprietà gli alberi erano abbastanza alti da impedire che i vicini guardassero all'interno e lei fu certa che fosse impossibile vederli. «Ascolta», esordì. «Non ha senso che tu vada da solo.» «Al contrario, è perfettamente sensato.» «Ma io potrei suonare il campanello all'ingresso e distrarre chiunque si trovi in casa mentre tu entri da dietro.» «Non voglio essere costretto a preoccuparmi per te.» «So badare a me stessa.» «Ne sono sicuro.» «E allora?» «Ma io lavoro da solo.»
«Sembra che tu faccia tutto da solo.» Lui sorrise appena. «Dobbiamo proprio imbarcarci in un'altra lite per stabilire se la vita è una festa o un inferno?» «Non abbiamo litigato. Si trattava di una semplice discussione.» «A ogni modo, sono passato agli incarichi in incognito proprio perché sono capacissimo di lavorare per conto mio. Non voglio più un compagno perché non sopporterei di vederne morire un altro.» Tessa capì che lui non si stava riferendo soltanto agli agenti uccisi durante un'indagine, ma anche alla moglie. «Rimani con la bambina», la esortò Sani. «Prenditi cura di lei se succede qualcosa. Dopotutto, è identica a te.» «Che cosa vuoi dire?» «È una di coloro che sanno come amare la vita. È un talento raro e prezioso.» «Ne sei capace anche tu.» «No, io non l'ho mai saputo.» «Dannazione, tutti nascono con la prerogativa di amare la vita, anche tu, Sam. Hai soltanto perso il contatto, ma puoi ritrovarlo.» «Prenditi cura di Chrissie», concluse lui, voltandosi e scendendo i gradini della veranda. «Maledizione, farai meglio a tornare. Mi hai promesso di raccontarmi che cos'hai visto alla fine di quel tunnel. Guardati bene dal non tornare!» Sam si allontanò sotto la pioggia. Guardandolo, Tessa si rese conto di desiderare che tornasse per molte altre ragioni. 24 I Coltrane abitavano due case più in là sulla Conquistador. Muovendosi rapidamente lungo la parte posteriore della villetta, Sam sbirciò all'interno attraverso le finestre del pianterreno, scorgendo solo stanze vuote e buie. Quando raggiunse la porta della cucina estrasse la pistola e la tenne lungo il fianco. Avrebbe potuto spostarsi sul davanti e suonare il campanello, destando meno sospetti negli occupanti della casa, ma ciò significava uscire sulla strada e correre il rischio di essre visto dai vicini, o peggio dagli uomini che, secondo Chrissie, stavano pattugliando la città. Bussò alla porta con quattro rapidi colpetti. Quando non ottenne rispo-
sta, ritentò a varie riprese, sempre più forte. Se all'interno ci fosse stato qualcuno, a quel punto sarebbe già accorso ad aprire. Harley e Sue Coltrane dovevano essere alla New Wave, dove entrambi lavoravano. La porta era chiusa a chiave. Sam sperò che non fosse dotata di una serratura di sicurezza. Benché avesse lasciato gli altri attrezzi da Harry, aveva portato con sé una striscia metallica sottile e flessibile. La infilò fra la porta e l'intelaiatura, sotto la serratura, e la spinse verso l'alto, premendo quando incontrava resistenza. La porta si aprì con uno scatto: non c'erano chiavistelli di sicurezza. Entrò silenziosamente, accostando il battente alle proprie spalle: se doveva uscire in fretta, non intendeva perdere tempo ad armeggiare con la chiave. La cucina era illuminata soltanto dal cupo grigiore proveniente dalle finestre. Rimase immobile per circa un minuto, ascoltando attentamente. Udì soltanto l'insistente scrosciare della pioggia. Infine si mosse. Si diresse immediatamente al telefono appeso alla parete. Quando sollevò il ricevitore, non ottenne alcun segnale, ma la linea non era interrotta, bensì invasa da strani suoni: ticchettii, ronzii intermittenti, oscillazioni sommesse, il tutto mescolato assieme in una musica anomala e dolente. Sam si sentì gelare. Con infinita precauzione depose il ricevitore sul supporto. Si chiese che tipo di rumori si udissero in un telefono usato come collegamento fra due computer tramite un modem. Uno dei Coltrane era forse al lavoro in qualche parte della casa, in comunicazione con la New Wave mediante il proprio terminale privato? In qualche modo sentì che la spiegazione di quanto aveva appena ascoltato non era così semplice. Quei suoni erano maledettamente agghiaccianti. Dalla cucina passò in sala da pranzo. Sostò nuovamente: nessun rumore insolito. La casa, progettata in classico stile californiano, non possedeva corridoio; ogni stanza conduceva direttamente alla successiva in uno spazio aperto e arioso. Attraverso un'arcata entrò in soggiorno, meno cupo dei locali finora esaminati anche se il colore più vicino era un grigio-perla. L'effetto combinato dell'illuminazione e del proprio stato d'animo lo fece
sentire in un vecchio film in bianco e nero. Tutto appariva deserto, ma all'improvviso un suono provenne dalla stanza d'angolo al di là dell'ingresso, molto probabilmente lo studio. Era una vibrazione acutissima che gli fece accapponare la pelle, seguita da un grido di disperazione a metà strada fra una voce umana e lo stridìo di una macchina: una tonalità semimetallica intrisa di paura e d'angoscia. E subito dopo un basso pulsare elettronico, come un battito cardiaco mostruosamente amplificato. Poi tornò il silenzio. Sam aveva sollevato la pistola e la reggeva di fronte a sé, pronto a colpire qualunque cosa si muovesse. Ma tutto era immobile. Vibrazioni, pulsazioni e urla metalliche non avevano certamente nulla a che spartire con le Entità Malefiche viste fuori della casa di Harry e con gli altri mutanti descritti da Chrissie. Fino ad allora, un incontro ravvicinato con una di quelle creature aveva rappresentato, per lui, la prospettiva più terrorizzante in assoluto; in quel momento, l'entità sconosciuta celata nello studio gli parve anche più sconvolgente. Sam attese. Nulla. Aveva la sinistra sensazione che qualcuno, teso quanto lui, stesse aspettando una sua mossa. Prese in considerazione l'ipotesi di tornare da Harry per studiare con gli altri un modo diverso per inviare un messaggio al Bureau: in quel momento il cibo messicano, la Guinness Stout e il film di Goldie Hawn gli sembrarono oltremodo preziosi, non patetici motivi per continuare a vivere, ma piaceri così squisiti da non poter essere adeguatamente descritti a parole. L'unico pensiero che lo trattenne dal darsela a gambe fu Chrissie Foster: il ricordo dei suoi occhi luminosi, il suo viso innocente, l'entusiasmo e la vivacità con cui aveva raccontato le proprie peripezie. Forse con Scott aveva sbagliato, ed era troppo tardi per salvarlo dal baratro, ma Chrissie era ancora viva nel vero senso della parola — fisicamente, intellettualmente, emotivamente — e dipendeva da lui. Nessun altro avrebbe potuto impedire la sua conversione. Ormai mancavano poco più di dodici ore a mezzanotte. Avanzò con cautela lungo il soggiorno e attraversò silenziosamente il vestibolo. Con la schiena appoggiata al muro, rimase immobile di fianco alla porta semiaperta della stanza da cui erano giunti quei rumori sinistri. Là dentro qualcosa ticchettava.
Si irrigidì. Lievi scatti sommessi. Non il tic-tic-tic di artigli battuti sul vetro, ma piuttosto qualcosa di simile a una lunga serie di relè in funzione, dozzine di interruttori, tavolette di domino che precipitavano l'una contro l'altra: clic-clic-clic-clic-clic... Di nuovo, il silenzio. Stringendo la pistola con entrambe le mani, Sam si portò di fronte al battente, aprendolo con un piede, quindi attraversò rapidamente la soglia assumendo la classica posizione di tiro. Le persiane alle finestre erano chiuse e l'unica illuminazione proveniva dagli schermi di due computer, entrambi equipaggiati con filtri che producevano un testo nero su sfondo color ambra. In quella stanza, tutto ciò che non rimaneva avvolto nell'ombra possedeva uno splendore dorato. Due persone stavano sedute di fronte ai terminali, volgendosi la schiena. «Non muovetevi!» esclamò Sam con durezza. Loro non reagirono né aprirono bocca: erano a tal punto immobili che, dapprima, gli parvero morti. Quella luminosità strana era più intensa eppure meno rivelatrice del grigiore esterno che rischiarava debolmente le altre stanze. Non appena i suoi occhi vi si abituarono, Sam si accorse che le persone ai computer non erano soltanto innaturalmente immobili, ma non si potevano neppure più definire persone. Avanzò, sospinto dalla morsa gelida dell'orrore. Del tutto inconsapevole di una presenza estranea, un uomo nudo, probabilmente Harley Coltrane, era collegato al terminale mediante una coppia di spessi cavi all'apparenza più organici che metallici, umidi e luccicanti nel chiarore ambrato. Entrambi si estendevano dalle viscere del processore — privato del rivestimento esterno — al petto dell'uomo, sotto la cassa toracica, fondendosi con la carne senza il minimo indizio di sangue. E pulsavano. «Mio Dio», bisbigliò l'agente. Gli avambracci di Coltrane erano completamente scarnificate: solo ossa dorate. Nella parte superiore, i tessuti terminavano in modo uniforme appena al disopra dei gomiti; le ossa sporgevano dai moncherini come propaggini robotiche. Lo scheletro delle mani era saldamente ancorato attorno ai cavi come un paio di pinze. Quando Sam mosse qualche passo per guardare a distanza ravvicinata, si accorse che le ossa non erano ben differenziate come avrebbero dovuto, ma quasi del tutto fuse assieme; per di più, erano venate di metallo. Di col-
po, i cavi cominciarono a palpitare con tale violenza da vibrare all'impazzata; se non fossero stati trattenuti dalle mani, si sarebbero strappati a una delle estremità. Vai via! Una voce dentro di lui lo esortò a fuggire, la sua stessa voce, anche se non quella dell'adulto Sam Booker, bensì del bambino che era stato un tempo e che la sua paura lo stava spingendo a ridiventare. Il terrore estremo è una macchina del tempo mille volte più efficace della nostalgia, in grado di trasportarci indietro negli anni a quel dimenticato e intollerabile stato di impotenza in cui trascorriamo tanta parte dell'infanzia. Vai via, corri, corri, vai via! Sam resistette all'impulso di scappare. Voleva capire. Che cosa stava succedendo? Che cos'erano diventate queste persone? Che aveva da spartire tutto questo con le Entità Malefiche che si aggiravano di notte? Tramite la microtecnologia, Thomas Shaddack aveva evidentemente scoperto il modo di alterare, radicalmente e per sempre la biologia umana. Tutto ciò gli era chiaro, ma sapere solo quello e ignorare il resto equivaleva a percepire che al di sotto della superficie marina viveva qualcosa senza mai aver visto un pesce. Vai via! Né l'uomo vicino a lui né la donna all'altro capo della stanza sembravano remotamente consapevoli della sua presenza. A quanto pareva, non si trovava affatto in imminente pericolo. Corri! insistè il bambino spaventato. Fiumane di dati — parole, numeri e grafici in una miriade di varietà — scorrevano incessantemente sullo schermo, mentre Harley Coltrane, perfettamente immobile, fissava il video lampeggiante, che non poteva vedere come un uomo normale perché non aveva occhi. Rimossi dalle orbite, erano stati sostituiti da una serie di altri sensori: perline di vetro color rubino, piccoli nodi di filo metallico, schegge di materiale simile a ceramica. Ormai Sam reggeva la pistola con una mano sola, il dito lontano dal grilletto perché tremava così violentemente da temere di fare, involontariamente, partire un colpo. Il petto dell'uomo-macchina si alzava e si abbassava; la bocca era aperta ed emanava ritmiche ondate di alito fetido. Sulle tempie e nelle arterie del collo, gonfie in modo raccapricciante, era chiaramente visibile una rapida pulsazione, ma si notavano altri battiti dove non avrebbero dovuto esisterne: nel mezzo della fronte, lungo le man-
dibole, in numerosi punti del torace e del ventre, nella parte superiore delle braccia, dove vene scure e nodose si erano inspessite e sollevate al di sopra del grasso sottocutaneo per rimanere coperte soltanto dalla pelle. Il suo sistema circolatorio sembrava riprogettato e potenziato per assistere le nuove funzioni richieste al corpo; ancor peggio, quelle pulsazioni possedevano uno strano ritmo sincopato, come se, perlomeno due cuori battessero nell'organismo. Dalla bocca spalancata della cosa eruppe un grido e Sam sobbalzò per la sorpresa: era identico ai suoni agghiaccianti che aveva udito mentre si trovava in soggiorno, ma aveva pensato che provenissero dal computer. Mentre il gemito elettronico aumentava d'intensità e raggiungeva decibel dolorosi per i timpani, Sam alzò lo sguardo sugli «occhi» dell'uomomacchina: i sensori scintillavano nelle orbite, le sfere di vetro color rubino splendevano di luce interna, lui si chiese se fossero in grado di registrare la sua presenza sullo spettro infrarosso o in qualche altro misterioso modo. Coltrane riusciva davvero a vederlo? Forse aveva barattato il mondo umano per una realtà diversa, spostandosi dal piano fisico a un altro livello e, probabilmente, Sam rappresentava una presenza irrilevante, da non prendere in considerazione. L'urlo cominciò a calare d'intensità, poi cessò di colpo. Senza neppure accorgersene, il federale aveva sollevato l'arma, puntandola contro il viso dell'uomo-macchina a distanza ravvicinata; stupefatto, si accorse di tenere il dito sul grilletto e di essere in procinto di distruggere quella creatura. Esitò. Dopotutto, Coltrane era ancora un uomo, perlomeno in una certa misura. E se avesse desiderato il proprio stato attuale più della vita come un normale essere umano? E se fosse stato felice così com'era? Sam si sentiva a disagio nel ruolo del giudice, ma ancor più in quello del boia. Essendo personalmente convinto che la vita fosse un inferno in terra, doveva prendere in considerazione l'ipotesi che le condizioni di Coltrane rappresentassero un miglioramento, una via d'uscita. Fra uomo e computer, i luccicanti cavi semiorganici rullarono, sbattendo contro le mani da scheletro che li trattenevano. L'alito rancido della cosa era greve del fetore di carne marcia e di componenti elettronici surriscaldati. I sensori lampeggiavano e si muovevano nelle orbite. Resa dorata dalla luce proveniente dallo schermo, la faccia di Coltrane sembrava congelata in un urlo perpetuo.
Con un brivido di repulsione, Sam premette il grilletto. In quello spazio circoscritto, l'esplosione risuonò violentissima. Sotto l'impatto del proiettile, la testa dell'uomo-macchina fu proiettata all'indietro, poi ricadde in avanti, il mento sul petto, sanguinando e fumando. Quei cavi ripugnanti continuarono a gonfiarsi e restringersi come per il passaggio ritmico di un fluido interno. Sam percepì che l'uomo non era del tutto morto e rivolse la pistola in direzione dello schermo del computer. Con uno scricchiolio di ossa esposte, una delle mani di Coltrane lasciò il cavo e afferrò il polso del federale. Sam si mise a urlare. La stanza si riempì di scatti elettronici, schiocchi, ticchettii intermittenti e vibrazioni. Quella mano da incubo lo teneva saldamente e con una forza così tremenda che le ossa delle dita cominciarono a penetrargli le carni; sotto la manica della camicia, lui avvertì il calore del sangue che scorreva. Con una fitta di panico, si rese conto che la potenza disumana dell'uomomacchina era sufficiente a frantumargli il polso; nel migliore dei casi, la mancanza di circolazione gli avrebbe reso insensibile l'arto e la pistola gli sarebbe caduta. Coltrane stava lottando per sollevare la testa devastata. Sam pensò alla madre fra i rottami dell'automobile, il viso squarciato che gli sogghignava, silenziosa e immobile ma sogghignante... Le ossa aumentarono la stretta e lui gridò, la vista ormai annebbiata. Ciononostante distinse la testa di Coltrane che si sollevava lentamente. Gesù, non voglio vedere quel viso massacrato! Con il piede destro, mettendo nel calcio tutto se stesso, colpì una, due, tre volte i cavi, che si strapparono dal torace di Coltrane con un rumore nauseante. L'essere si accasciò sulla sedia e simultaneamente la sua mano lasciò il polso di Sam. Basse pulsazioni elettroniche risuonarono come un sommesso rullio di tamburo ed echeggiarono lungo le pareti. Boccheggiante e in stato di choc, Sam si strinse il polso sanguinante. Qualcosa si sfregò contro la sua gamba. Guardò in basso e vide i cavi semiorganici, simili a pallidi serpenti senza testa, ancora collegati al computer e pieni di vita malevola. Sembravano essersi allungati di circa il doppio. Uno intrappolò la sua caviglia sinistra e
l'altro gli si avvolse sinuosamente attorno al polpaccio destro. Cercò di liberarsi. La stretta era micidiale. Entrambi cominciarono a risalirgli lungo le gambe. Istintivamente seppe che stavano cercando la carne priva di protezione nella parte superiore del corpo e che, se l'avessero raggiunta, sarebbero penetrati dentro di lui per renderlo parte del sistema. Nella mano destra, resa scivolosa dal sangue, reggeva ancora la pistola. Immediatamente la puntò verso lo schermo. Sullo sfondo ambrato, i dati avevano smesso di scorrere. Al loro posto, la testa di Coltrane apparve sul video; di nuovo dotato di occhi, sembrava vedere Sam, perché guardò nella sua direzione e disse: «... bisogno... bisogno... voglio... bisogno...» Per quanto incapace di comprenderne il motivo, il federale seppe che quell'uomo era ancora vivo: non era morto assieme al proprio corpo, o perlomeno non del tutto, ma, in qualche modo, continuava a esistere all'interno della macchina. Come a conferma di questa intuizione, Coltrane influenzò lo schermo del terminale affinchè abbandonasse la forma originale e si adattasse al contorno del suo viso. Il vetro divenne flessibile come gelatina e si sporse all'infuori, come se questi fosse fisicamente dentro il computer e stesse sospingendo la testa all'esterno. Era impossibile, eppure stava accadendo. A quanto pareva, Harley Coltrane stava controllando la materia con il potere della propria mente, una mente ormai neppure collegata a un corpo umano. Sam era ipnotizzato dal terrore, congelato, paralizzato, il dito immobile contro il grilletto. La realtà era stata lacerata e, attraverso lo strappo, sembrava che un universo da incubo dalle infinite possibilità malefiche si andasse riversando nel mondo che Sam conosceva e — improvvisamente — amava. Uno dei cavi gli aveva raggiunto il petto e si era insinuato sotto il golf fino alla pelle nuda. Gli parve di essere stato toccato da un ferro rovente e il dolore ruppe lo stato di trance. Sparò due colpi nel computer, frantumando lo schermo e il secondo viso di Coltrane; benché si fosse quasi aspettato che assorbisse la pallottola senza conseguenza, il tubo catodico implose come se fosse ancora fatto di vetro. L'altro proiettile devastò le viscere del processore, eliminando infine la cosa mostruosa che era stata un uomo.
I tentacoli vischiosi caddero al suolo. Si riempirono di vesciche, cominciarono a scoppiettare e parvero putrefarsi sotto i suoi occhi. Sinistre sonorità elettroniche, scatti e oscillazioni riempivano ancora la stanza. Quando Sam guardò la donna seduta all'altro computer, vide che i cavi di collegamento fra lei e la macchina, umidi di muco, si erano allungati per permetterle di voltarsi a fronteggiarlo. A parte la nudità e le due connessioni semiorganiche, il suo aspetto era assai diverso — ma non meno ripugnante — da quello del marito. Non aveva occhi, ma le sue orbite non ospitavano una serie di sensori: in loro vece, due globi rossastri tre volte più grandi di un bulbo oculare riempivano le cavità, in un viso interamente modificato per far loro spazio. Si trattava, senza alcun dubbio, di ricettori studiati per reagire a molti spettri di luce; in effetti, il federale scorse la propria immagine capovolta in entrambe le sfere. Tutto il corpo e il viso della donna erano vistosamente solcati da vene sottocutanee, gonfie e tese fin quasi al punto di rottura, che la facevano assomigliare a uno schema di circuiti ramificati. Alcune di esse trasportavano senza dubbio sangue, ma altre pulsavano con ondate di luminosità simile al radium, parte verdi e parte di un giallo sulfureo. Un tentacolo vermiforme e segmentato eruppe, all'improvviso, dalla sua fronte come sparato da una pistola e si scagliò verso Sam a velocità prodigiosa, colpendolo sopra l'occhio destro prima che avesse il tempo di scansarlo. Non appena a contatto, la punta cominciò a penetrare nella pelle con un ronzio che ricordava piccolissime lame rotanti a mille giri al minuto. Il sangue prese a scorrergli lungo l'arcata sopraccigliare e il lato del naso; senza curarsene, esplose gli ultimi due colpi rimasti nel caricatore. Entrambi centrarono l'obiettivo: uno squarciò il torace della donna e l'altro fece esplodere il computer alle sue spalle in una fiammata di scintille e crepitii elettrici. Il tentacolo si afflosciò e cadde a terra prima di avere effettuato il collegamento fra il cervello di Sam e quello della cosa, com'era, evidentemente, sua intenzione. Fatta eccezione per la luce grigiastra che filtrava dalle fessure nelle persiane, la stanza era piombata nell'oscurità. Assurdamente, il federale si ricordò di una frase pronunciata da un esperto in computer durante un seminario per gli agenti: «I computer forniscono prestazioni superiori quando vengono collegati fra loro, consentendo così elaborazioni parallele dei dati». Con la fronte e il polso destro sanguinanti, barcollò verso la porta e ac-
cese la luce; dalla soglia — il più lontano possibile da quei due cadaveri grotteschi, senza però perderli di vista — ricaricò l'arma con le pallottole che teneva nelle tasche della giacca. La stanza era silenziosa in modo soprannaturale. Nulla si muoveva. Il cuore di Sam batteva così forte da fargli dolere il petto. Dalle mani tremanti gli sfuggirono alcuni proiettili. Non si chinò a raccoglierli: era praticamente convinto che, nel momento in cui non si fosse trovato in grado di prendere accuratamente la mira o di darsi alla fuga, una delle creature si sarebbe rivelata ancora viva e lo avrebbe attaccato con la velocità di un lampo. Non appena ricaricata l'arma, rientrò cautamente nello studio, verso il computer fumante di fronte al quale la terrificante metamorfosi di Harley Coltrane stava accasciata sulla sedia, le braccia, di ossa e metallo, penzoloni. Sorvegliando con la coda dell'occhio il cadavere dell'uomo-macchina, sollevò il ricevitore dal modem e si sentì sollevato nell'udire il segnale acustico. Aveva la bocca così secca da dubitare di riuscire a parlare in modo intelligibile. Formò il numero dell'ufficio del Bureau a Los Angeles. Una serie di scatti segnalarono che la linea si era attivata. Una pausa. Entrò in funzione una registrazione: «Spiacenti, ma in questo momento non siamo in grado di trasmettere la vostra chiamata». Lui riappese e provò una seconda volta. «Spiacenti, ma in questo momento non siamo in grado...» Sbattè con forza il ricevitore sul supporto. Allontanandosi dall'apparecchio, sentì qualcosa muoversi alle sue spalle. Furtivo e veloce. Si girò di colpo e la donna era a un metro da lui. Non era più collegata al computer distrutto, ma un nuovo cavo organico si allungava sul pavimento dalla base della sua spina dorsale sino a una presa di corrente. La mente di Sam, in preda al panico, si abbandonò a libere associazioni: arrivederci e grazie, dottor Frankenstein, per i tuoi stupidi aquiloni e la necessità di temporali e fulmini; di questi tempi, noi attacchiamo i mostri a una presa nel muro e offriamo loro una bella scarica direttamente alla fonte, merito della compagnia elettrica. Con un sibilo da rettile la donna si scagliò contro di lui. Al posto delle
dita, le sue mani presentavano una specie di spina multipla dalle estremità aguzze come unghie. Sam balzò di lato, urtando la sedia di Harley Coltrane; inciampò e quasi cadde, ma aprì ugualmente il fuoco, vuotando l'intero caricatore. I primi tre proiettili colpirono in pieno la creatura, facendola piombare al suolo, mentre gli ultimi due staccarono pezzi di intonaco dalle pareti perché lui era troppo terrorizzato per smettere di premere il grilletto nonostante la donna-macchina fosse ormai fuori dalla linea di tiro. Immediatamente, lei cercò di rialzarsi. Come un fottuto vampiro, pensò Sam. Aveva bisogno dell'equivalente ad alta tecnologia di un paletto di legno, una croce o una pallottola d'argento. Le arterie-circuiti che avvolgevano quel corpo nudo stavano ancora pulsando di luce, benché in alcuni punti fosse rimasto solo uno scintillio intermittente. La pistola era scarica. Esaminò le tasche in cerca di pallottole. Non ne aveva altre. Vai via. La donna proruppe in un gemito elettronico, non assordante, ma sconvolgente per il sistema nervoso più di un migliaio di unghie grattate simultaneamente su una lavagna. Due tentacoli vermiformi esplosero dal suo viso e si scagliarono contro Sam. Entrambi caddero al suolo a qualche centimetro da lui — un segnale che le energie della creatura stavano svanendo — e rimbalzarono indietro come chiazze di mercurio rifluenti nella massa originaria. Ma lei stava ancora cercando di alzarsi. Il federale annaspò verso la porta, si chinò e raccolse i proiettili che gli erano caduti quando aveva ricaricato l'arma; aprì il cilindro, lo scosse per espellere i bossoli e inserì le ultime due pallottole rimaste. «... bisoooooooogno... bisoooooooogno...» L'essere era in piedi e avanzava verso di lui. Questa volta lui impugnò la pistola con entrambe le mani, prese la mira con attenzione e la colpì alla testa. Elimina il processore, pensò con un guizzo di umorismo macabro. È l'unico modo di fermare una macchina risoluta: distruggi il processore e non resterà altro che un mucchio di rottami. La donna si accasciò al suolo. Negli occhi disumani la luce rossa si
spense e il corpo rimase assolutamente immobile. Di colpo, dal cranio devastato eruppe una fiammata, estendendosi gli occhi, alle narici e alla bocca spalancata. Velocemente, Sam raggiunse la presa di corrente, a cui il cadavere era ancora collegato, e prese a calci l'estrusione semiorganica finché non la staccò dalla parete. La creatura era sempre in preda alle fiamme. Il federale non poteva permettersi un incendio: i due corpi sarebbero stati rinvenuti e l'intero vicinato, compresa la casa di Harry, avrebbe dovuto subire una perquisizione a porta a porta. Si guardò attorno in cerca di qualcosa da gettare sul cadavere ma, in quel momento le vampate accennarono ad affievolirsi per poi spegnersi del tutto nel giro di qualche secondo. L'aria era impregnata di molteplici odori fetidi, alcuni dei quali al di là di ogni descrizione. Sam si sentì sopraffare dallo stordimento e dalla nausea; in preda ai conati, strinse i pugni e si sforzò di non vomitare. Benché desiderasse disperatamente uscire da quel luogo, si attardò a disinserire ambedue i computer. Per quanto fossero ormai inservibili e danneggiati irreparabilmente, nutriva il terrore irrazionale che, come il mostro creato dal dottor Frankenstein, potessero, in qualche modo, animarsi se esposti all'elettricità. Sulla soglia esitò, si appoggiò allo stipite per riposare le gambe deboli e tremanti, e studiò quegli esseri anomali. Si era aspettato che, una volta morti, ritornassero al loro aspetto normale, proprio come i lupi mannari dei film, che attraversavano sempre un'ultima metamorfosi dopo essere stati trafitti da un proiettile d'argento, diventando, una volta per tutte, quell'io torturato e sin troppo umano, finalmente libero dalla maledizione. Sfortunatamente, non si trattava di un caso di licantropia, di una piaga soprannaturale, ma di qualcosa di ben peggiore, qualcosa che gli uomini avevano scatenato su se stessi senza alcun aiuto da parte di demoni, spiriti o altre entità che popolavano la notte. I Coltrane rimanevano esattamente ciò che erano stati: un mostruoso ibrido di carne e metallo, sangue e silicone — uomo e macchina. Sam non riusciva a comprendere come fossero diventati così, ma si ricordò che esisteva un termine per descriverli. Cyborg: una persona il cui funzionamento fisiologico viene coadiuvato o determinato da un congegno meccanico o elettronico. I portatori di pace-makers cardiaci e chi veniva sottoposto regolarmente a dialisi per un blocco renale, erano cyborg, e
questo rappresentava un bene. Nel caso dei Coltrane, però, il concetto era stato portato agli estremi: essi costituivano il lato agghiacciante della cibernetica avanzata, in cui anche le funzioni mentali erano potenziate e quasi certamente dipendenti da una macchina. Di nuovo fu colto dai conati. Si allontanò rapidamente dallo studio impregnato di fumo acre e riattraversò la casa fino alla porta della cucina da dove era entrato. A ogni singolo passo lungo il percorso si sentì certo di essere in procinto di udire alle proprie spalle una voce metà umana e metà elettronica — «bisoooogno». Si sarebbe voltato e avrebbe visto uno dei Coltrane trascinarsi al suo inseguimento, rianimato da un'ultima, piccolissima riserva di corrente conservata in cellule-batteria. 25 All'ingresso principale della New Wave Microtechnology, ai margini settentrionali di Moonlight Cove, la guardia dall'impermeabile nero con il marchio aziendale sul petto osservò l'arrivo dell'autopattuglia. Quando riconobbe Loman, lo fece passare con un gesto della mano senza neppure fermarlo; il capo della polizia era ben noto da quelle parti anche prima che tutti loro diventassero membri della Nuova Gente. Il potere, il prestigio e la redditività della New Wave non erano nascosti in un quartier generale dall'aspetto anonimo: la sede era stata progettata da un architetto famoso che prediligeva gli angoli smussati e l'interessante contrapposizione di pareti ricurve, alcune concave e altre convesse. I due grandi edifici a tre piani, eretti a quattro anni di distanza l'uno dall'altro, ostentavano enormi finestre dai vetri affumicati e s'inserivano armoniosamente nel paesaggio. Dei millequattrocento impiegati, circa un migliaio abitavano a Moonlight Cove, mentre gli altri risiedevano in comunità disseminate all'interno della contea. Tutti, naturalmente, vivevano entro il raggio di trasmissione a microonde del disco collocato sul tetto della costruzione principale. Seguendo il viale d'accesso in direzione dell'area di parcheggio, Loman pensò: Shaddack è davvero il nostro Reverendo Jim Jones. Ha bisogno di essere certo di poter portare con sé, in qualunque momento, tutti i suoi devoti seguaci. Proprio come un moderno faraone: quando muore, anche i suoi servitori devono perire, come se si aspettasse che continuassero ad accudirlo nell'altro mondo. Merda. Ci è forse rimasta la possibilità di credere
in un altro mondo? No. La fede religiosa era analoga alla speranza, e richiedeva un apporto emotivo. La Nuova Gente credeva in Dio esattamente come credeva a Babbo Natale; l'unica cosa in cui avevano fede era il potere della macchina e il destino cibernetico dell'umanità. Forse alcuni di loro non confidavano neppure in quello. Lui no, per esempio. Ormai non credeva più in nulla — il che lo atterriva, perché un tempo era stato convinto di molte cose. La percentuale delle vendite e dei profitti della New Wave rispetto al numero dei suoi impiegati era elevata persino nell'ambito dell'industria microtecnologica, e la sua capacità di permettersi, pagandoli profumatamente, i migliori talenti del settore si rifletteva nel numero di auto di gran lusso ospitate nei due enormi parcheggi: Mercedes, BMW, Porsche, Cadillac, Jaguar, macchine giapponesi superaccessoriate. Quel giorno l'area di parcheggio era semivuota; sembrava che una gran parte del personale fosse rimasta a casa, a lavorare via modem. Quanti di loro erano già come Denny? L'una accanto all'altra sull'asfalto bagnato, quelle auto rammentarono a Loman le schiere ordinate di pietre tombali in un cimitero. Tutti quei motori in riposo, quel metallo freddo, quelle centinaia di parabrezza bagnati che riflettevano il grigio cielo autunnale gli parvero improvvisamente un presentimento di morte. Ai suoi occhi, il parcheggio rappresentava il futuro dell'intera città: silenzio, immobilità, la terribile ed eterna pace della tomba. Se le autorità centrali si fossero imbattute in ciò che stava accadendo in città, o se fosse emerso che tutti i membri della Nuova Gente erano virtualmente dei regressivi — o peggio — e che il progetto Falco Notturno assomigliava a una catastrofe, questa volta il rimedio non sarebbe stato una bevanda avvelenata come quella usata dal Reverendo Jones a Jonestown, ma un comando letale trasmesso su microonde e ricevuto dalle microsfere annidate nei loro corpi, che l'avrebbero immediatamente eseguito. Migliaia di cuori si sarebbero fermati all'unisono e Moonlight Cove sarebbe diventata, in una frazione di secondo, il cimitero degl'insepolti. Loman si diresse verso gli spazi riservati ai dirigenti. Inutile aspettare che Shaddack capisca che il progetto è degenerato, si disse; a quel maledetto albino non importa di rimediare ai guasti che ha provocato. Ci eliminerà tutti per il semplice gusto di farlo, solo per andar-
sene in modo clamoroso affinchè il mondo rimanga allibito di fronte al suo potere, tanto incredibile da permettergli di ordinare a migliaia di persone di morire con lui. Più di uno psicopatico avrebbe visto in lui un eroe e lo avrebbe idolatrato; qualche giovane genio si sarebbe sentito spinto a emularlo, come senz'altro Shaddack desiderava. Se per caso Falco Notturno avesse avuto successo e tutta l'umanità fosse stata infine convertita, quel folle sarebbe divenuto letteralmente padrone del mondo. Nella peggiore delle ipotesi, se fosse stato costretto a uccidersi per evitare di cadere nelle mani delle autorità, sarebbe diventato una figura mitica, una leggenda maligna, destinata a incoraggiare legioni di pazzi bramosi di potere, un Hitler dell'epoca del silicone. Loman si passò sul viso una mano tremante. Era pervaso dal desiderio di abbandonare questa responsabilità per cercare l'esistenza libera da pressioni del regressivo. Tuttavia non cedette. Se avesse ucciso Shaddack prima che questi avesse l'opportunità di suicidarsi, la leggenda si sarebbe incrinata. Tutti sarebbero periti, lui compreso, ma, perlomeno, il mito avrebbe dovuto incorporare il fatto che questo Jim Jones dell'alta tecnologia, si era spento per mano di una delle sue creature. Il potere di quel pazzo si sarebbe dimostrato limitato; la sua intelligenza acuta, ma non abbastanza: una divinità bacata, dall'arroganza e dal fato analoghi a quelli del Dottor Moreau di Wells. Svoltò a sinistra e percorse a passo d'uomo la fila di spazi riservati ai dirigenti di livello più alto, deluso nel constatare che né la Mercedes né il furgone grigio di Shaddack si trovavano al loro posto. Comunque, ciò non significava che questi non fosse in ufficio: poteva essersi fatto accompagnare da qualcun altro o aver semplicemente parcheggiato altrove. Fermò la macchina e spense il motore. Nella fondina appesa alla cintura portava la pistola. L'aveva già controllata due volte per accertarsi che fosse carica e ora ripetè l'operazione. Lungo il percorso fra la casa di Shaddack e la New Wave, Loman aveva sostato per scrivere un biglietto che avrebbe lasciato sul cadavere di quel folle per spiegare con chiarezza le circostanze dell'omicidio. Quando le autorità del mondo non convertito fossero entrate a Moonlight Cove, avrebbero trovato la sua nota e appreso ogni cosa. Avrebbe portato a termine l'esecuzione di Shaddack non perché spinto da nobili scopi, cui ormai non gli era più consentito di aspirare, ma esclu-
sivamente per il terrore che questi venisse a sapere di Denny, o scoprisse che altri erano diventati come lui, e trovasse un modo per costringere tutti loro a sottomettersi a una scellerata unione con le macchine. Occhi d'argento fuso... La saliva che colava dalla bocca aperta... Il tentacolo segmentato che esplodeva dalla fronte del figlio e cercava il calore vaginale del computer... Quelle e altre immagini agghiaccianti si rincorsero nella mente di Loman in un interminabile girotondo di ricordi. Uscì dalla macchina, si affrettò sotto la pioggia verso l'ingresso principale, si inoltrò nell'atrio rivestito in marmo e girò subito a destra, avvicinandosi al tavolo della reception. Quanto a lusso aziendale, quel luogo rivaleggiava con le elaboratissime sedi delle industrie di alta tecnologia nella più famosa Silicon Valley, parecchi chilometri più a sud. L'impiegata di turno era Dora Hankins. Coetanei, lei e il capo della polizia si conoscevano da tutta la vita. Al suo arrivo, la donna alzò la testa, ma non disse una parola. «Shaddack?» chiese lui. «Non c'è.» «Sicura?» «Sì.» «Quando arriverà?» «Lo saprà la sua segretaria.» «Allora vado di sopra.» «D'accordo.» Salendo in ascensore e premendo il pulsante per l'ultimo piano, Loman riflette sulle quattro chiacchiere cui lui e Dora si sarebbero dedicati prima di venire sottoposti al Cambiamento. Avrebbero senz'altro scherzato, scambiandosi notizie sulle rispettive famiglie e commenti sul tempo. Non ora. Le battute amichevoli rappresentavano uno dei piaceri del loro vecchio mondo; convertiti, non sapevano che farsene. In effetti, il capo della polizia non riusciva più a ricordare perché le avesse ritenute gratificanti e che tipo di soddisfazione gli avessero procurato. Gli uffici di Shaddack si trovavano sull'angolo settentrionale del terzo piano. La prima stanza all'imbocco del corridoio era la sua segreteria, rivestita da una folta moquette beige e ammobiliata con estrema ricercatezza; l'unico quadro alle pareti era un dipinto di Jasper Johns — un originale, non una copia.
Che cosa accadrà agli artisti nel nuovo mondo? si chiese Loman. Ma sapeva già la risposta: non sarebbero neppure esistiti. L'arte era emozione trasferita su tela, parole su una pagina, musica in una sala da concerto. Non avrebbe trovato posto nel nuovo mondo, oppure sarebbe diventata l'arte della paura. Vicky Lanardo, la segreteria privata del genio, era seduta alla scrivania. Esordì: «Non c'è». Alle sue spalle, la porta dell'enorme ufficio di Shaddack era aperta, le luci spente. «Quando arriverà?» «Non lo so.» «Non ha appuntamenti?» «Nessuno.» «Sai per caso dov'è?» «No.» Per qualche tempo Loman perlustrò i corridoi semideserti, gli uffici, i laboratori e gli studi di progettazione nella speranza di trovare il folle. In breve, però, decise che questi non si celava nei dintorni; evidentemente il grand'uomo aveva optato per la mobilità in quell'ultimo giorno di conversioni. A causa mia, pensò. Per via di quanto gli ho detto la notte scorsa a casa di Peyser. Ha paura di me, e di conseguenza continua a spostarsi o si è nascosto da qualche parte per impedirmi di scovarlo. Loman abbandono l'edificio, risalì sull'autopattuglia e partì alla ricerca del suo creatore. 26 Nel bagno di servizio, nudo dalla vita in su, Sam era seduto sul coperchio del water mentre Tessa, in veste d'infermiera, gli prestava lo stesso tipo di soccorso fornito in precedenza a Chrissie. Le ferite del federale, però, erano ben più serie di quelle della bambina. Sulla fronte, proprio sopra l'occhio destro, la pelle era sparita in un'area a forma di cerchio dalle dimensioni di una moneta; al centro, la carne era completamente assente, rivelando un frammento di osso dal diametro di qualche millimetro. Arrestare il flusso di sangue richiedette diversi minuti di pressione continua, seguiti dall'applicazione di disinfettante e di una medicazione; anche dopo tutti questi sforzi, però, la garza si colorò len-
tamente di rosso. Mentre Tessa si adoperava, Sam raccontò loro l'accaduto: «... se non le avessi immediatamente sparato alla testa, se avessi tardato soltanto uno o due minuti, credo che quella maledetta cosa, quel tentacolo, mi sarebbe penetrato nel cranio per affondarsi nel mio cervello, e la donna si sarebbe collegata con me come aveva fatto con il computer.» Abbandonato il lenzuolo per i propri vestiti ormai asciutti, Chrissie era in piedi sulla soglia del bagno, pallidissima ma determinata ad ascoltare tutto. Harry aveva spinto la sedia a rotelle di fianco alla bambina. Moose stava sdraiato ai piedi di Sam, quasi avesse capito che, in quel momento, l'ospite necessitava di conforto più del suo padrone. Sam era ben più freddo al tocco di quanto non potesse essere giustificato dal breve percorso sotto la pioggia gelida; tremava e, periodicamente, era scosso da brividi tanto violenti da fargli battere i denti. Il polso destro era tagliato su entrambi i lati, dove Harley Coltrane lo aveva imprigionato nella tremenda stretta delle dita da scheletro. Fortunatamente, nessuna arteria era stata recisa e non si rendevano necessari punti di sutura; Tessa riuscì ad arrestare il sangue senza troppo sforzo. I lividi, che avevano a malapena iniziato ad apparire e non si sarebbero manifestati appieno ancora per diverse ore, erano certamente peggiori delle ferite. Benché lui accusasse dolori e debolezza alle articolazioni, la ragazza ritenne che non avesse fratture o distorsioni. «... come se in qualche modo possedessero la capacità di controllare la loro forma fisica», proseguì Sam con voce scossa, «e di fare di se stessi qualunque cosa volessero. La mente al di sopra della materia, esattamente come Chrissie ci ha detto raccontandoci del prete che ha iniziato a trasformarsi nella creatura di quel film...» La bambina assentì. «Capite, sono cambiati davanti ai miei occhi, si sono fatti spuntare dei tentacoli, hanno tentato di infilzarmi! Eppure, nonostante questo incredibile controllo dei loro corpi, della sostanza fisica, tutto ciò che volevano fare di se stessi era una specie di prodotto da incubo.» Harry chiese: «Sam, credi veramente che questa gente sia in grado di controllare la materia, che abbiano scelto di diventare macchine, oppure sono stati sopraffatti dai computer contro la loro volontà?» «Non lo so», ammise il federale. «Suppongo che siano valide entrambe le ipotesi.»
«Ma in che modo può succedere una cosa simile, come è possibile ottenere un tale cambiamento del corpo umano?» «Che io sia dannato se lo capisco», dichiarò Sam, «ma in un modo o nell'altro, tutto fa capo alla New Wave. Deve essere così. Purtroppo, nessuno di noi conosce un granché sugli aspetti più avanzati di quel genere di tecnologia, quindi non possediamo neppure le basi necessarie per elaborare teorie sensate. Per quanto ci concerne, potrebbe anche trattarsi di magia o di eventi soprannaturali. L'unica via d'uscita per comprendere realmente quanto sta accadendo è ottenere aiuto dall'esterno, mettere in quarantena Moonlight Cove, porre sotto sequestro i laboratori e i documenti della New Wave e ricostruire tutto come i vigili del fuoco risalgono alle origini di un incendio sulla base dei reperti estratti dalle ceneri.» «Ceneri?» osservò Tessa aiutandolo a infilarsi la camicia. «Tutti questi discorsi sugli incendi, oltre ad altri elementi che ci hai fornito, mi fanno pensare che tu sia convinto che quanto si sta verificando qui in città stia rapidamente procedendo verso un'esplosione.» «È così», convenne lui. Abbottonandogli la camicia, la ragazza si accorse che la sua pelle era ancora molto fredda e i brividi non accennavano a scomparire. Sam riprese: «Tutti gli omicidi che questi esseri sconosciuti sono costretti a nascondere, danno la sensazione di una crisi già in atto.» Stava respirando troppo affrettatamente, in modo convulso, e si fermò a riprendere fiato. «Quanto ho visto nella casa dei Coltrane... non aveva l'aria di essere stato pianificato. Sembrava piuttosto un esperimento sfuggito al controllo, la conseguenza di una biologia impazzita. Giuro su Dio che se le case di Moonlight Cove nascondono questo genere di segreti, allora l'intero esperimento deve essere in fase di collasso e, proprio ora, sta abbattendosi di schianto sulla New Wave, che lo vogliano ammettere o meno. In questo preciso momento sta saltando tutto per aria in un'esplosione terrificante, e noi ci troviamo esattamente nel mezzo.» Dall'istante in cui Sam era apparso alla porta sul retro, gocciolante pioggia e sangue, Tessa aveva notato qualcosa che la spaventava più del suo pallore e del tremito costante: continuava a toccarli. Quando aveva trattenuto il respiro alla vista del buco sulla fronte, lui l'aveva abbracciata, tenendola stretta e assicurandole che stava bene; soprattutto, però, sembrava voler rassicurare se stesso che lei, Harry e Chrissie erano a posto, come se si fosse aspettato di tornare e di trovarli cambiati. Aveva preso fra le braccia anche la bambina, proprio come fosse sua figlia, ripetendole: «Andrà
tutto bene, andrà tutto bene». Il veterano si era sporto dalla sedia a rotelle per tendergli la mano e lui l'aveva afferrata, riluttante a lasciarla andare. Fino a quel momento non si era mai mostrato espansivo, al contrario aveva mantenuto un atteggiamento riservato, freddo, addirittura distante. Durante il quarto d'ora trascorso a casa dei Coltrane, era rimasto così profondamente scosso da quanto aveva visto che tutta questa sua corazza era andata in frantumi. Quando contemplò l'intensità dell'orrore necessaria per trasformarlo così completamente e di colpo, Tessa si sentì più terrorizzata che mai, perché la redenzione di Sam Booker era analoga a quella di un peccatore che, intravvedendo l'inferno dal proprio letto di morte, si volge disperatamente a quel Dio un tempo disprezzato in cerca di conforto e rassicurazione. Si sentiva forse meno certo delle loro possibilità di salvarsi? Dopo tanti anni, probabilmente stava cercando il contatto umano perché pensava che rimanessero ormai soltanto poche ore in cui sperimentare la comunione con i propri simili prima che la grande, profonda, infinita oscurità calasse su di loro. 27 Shaddack si svegliò dal proprio sogno familiare e confortante di parti umane e meccaniche combinate in un gigantesco motore di potenza incalcolabile e scopo misterioso. Come sempre, quelle immagini gli conferirono nuovo vigore. Scese dal furgone e si stiracchiò; servendosi di attrezzi trovati nel garage, forzò la porta di comunicazione con la casa della defunta Paula Parkins per poter accedere al bagno. Una volta lavatosi, spostò il proprio automezzo sul vialetto d'accesso, dove era più facile trasmettere e ricevere dati su microonde. La pioggia stava ancora cadendo e le depressioni nel terreno erano piene d'acqua. Nell'aria immobile stava già sollevandosi una sottilissima nebbiolina, lasciando presagire che, più tardi, i banchi provenienti dal mare sarebbero stati anche più densi della notte precedente. Attivò il terminale per verificare i progressi di Falco Notturno: il turno dalle sei del mattino alle sei di sera, comprendente quattrocentocinquanta conversioni, era in pieno svolgimento. A poco meno di sette ore dal termine, già trecentodieci persone avevano subito il trattamento a base di microsfere; le squadre addette alla somministrazione erano in effetti molto in
anticipo rispetto al programma. Subito dopo controllò la situazione riguardo le ricerche di Samuel Booker e Tessa Lockland: nessuno dei due era stato rintracciato. Shaddack avrebbe dovuto preoccuparsi della loro scomparsa, ma non era affatto turbato; dopotutto, aveva visto il falco notturno non una, bensì tre volte e non nutriva alcun dubbio sulla propria vittoria finale. Anche la piccola Foster mancava ancora all'appello. Neppure questa notizia lo scosse: probabilmente aveva incontrato qualcosa di micidiale nel corso della notte. Talvolta i regressivi potevano risultare utili. Forse Booker e la Lockland erano rimasti vittime delle medesime creature. Sarebbe stata un'ironia della sorte se ai regressivi — l'unica pecca del progetto — fosse spettato il merito di aver conservato il segreto su Falco Notturno. Via terminale, cercò di mettersi in contatto con Tucker alla New Wave, poi a casa sua, ma questi risultò introvabile. Possibile che Watkins avesse ragione? Davvero Tucker era un regressivo, incapace come Peyser di tornare alla forma umana? In quel preciso momento si trovava forse nei boschi, intrappolato nello stato di alterazione? Disattivando il computer, Shaddack sospirò. A mezzanotte, quando tutti fossero stati convertiti, la prima fase di Falco Notturno non si sarebbe potuta dire conclusa. Evidentemente, avrebbero dovuto rimediare a qualche guasto. 28 Nella cantina della Comunità Icaro, tre corpi erano diventati uno. L'entità risultante non possedeva una forma rigida, ossa o lineamenti, ma erano soltanto una massa di tessuto pulsante, viva nonostante l'assenza di cervello, cuore, circolazione e organi di qualsiasi tipo. Si trattava di una sostanza primordiale, un denso brodo proteico, privo di cervello eppure consapevole, senza occhi né orecchi, ma in grado di vedere e di udire, senza viscere e tuttavia affamato. Gli agglomerati di microsfere al silicone si erano dissolti al suo interno. Ormai la creatura non era più collegata con Sole, il supercomputer della New Wave; se il trasmettitore a microonde avesse inviato l'ordine di morte, lei non lo avrebbe ricevuto — e sarebbe sopravvissuta. Riducendosi alla pura e semplice esistenza fisica, era diventata padrona della propria fisiologia.
Anche le tre menti si erano fuse, ormai, la coscienza annidata nell'oscurità mancava di una forma complessa quanto il corpo amorfo e gelatinoso da essa abitato. L'essere aveva rinunciato alla memoria perché i ricordi riguardavano inevitabilmente episodi e rapporti densi di conseguenze e queste — buone e cattive — implicavano la responsabilità delle proprie azioni. In primo luogo, proprio la fuga dalle responsabilità aveva spinto la creatura a regredire; il dolore, poi, rappresentava un ulteriore motivo per abolire i ricordi — il dolore di rammentare ciò che era stato perso per sempre. Allo stesso modo aveva abbandonato la capacità di contemplare il futuro, di pianificare, di sognare. Non possedeva più alcuna consapevolezza del passato, e il concetto di futuro andava al di là della sua portata: viveva solo per il momento, senza pensare, senza provare sentimenti, senza curarsi di nulla. Aveva soltanto un'esigenza. Sopravvivere. E per esistere aveva bisogno di un'unica cosa: nutrirsi. 29 I piatti della colazione erano stati tolti dal tavolo mentre Sam si trovava dai Coltrane a combattere contro mostri che, a quanto pareva, erano parte umani, parte computer e parte zombi — e forse, per quanto loro ne sapevano, parte tostapane. Terminata la medicazione, tutti e quattro si riunirono in cucina per discutere il da farsi. «Il problema principale della nostra epoca», esordì Sam, «consiste nell'accelerare il progresso tecnologico e nel servirsene per migliorare la qualità della vita senza rimanerne sopraffatti. Possiamo servirci dei computer per riprogettare il nostro mondo e riformulare le nostre vite senza, un giorno, arrivare a venerarli?» Strizzò l'occhio a Tessa e aggiunse: «Non è una domanda stupida». Lei si accigliò. «Non lo penso affatto. Talvolta nutriamo una fiducia cieca nelle macchine, una tendenza a credere che qualsiasi cosa ci dica il computer equivalga a vangelo...» «E non dimentichiamo il vecchio adagio», interloquì Harry, «in base al quale 'pattumiera dentro, pattumiera fuori'.» «Esattamente», affermò la ragazza. «Spesso, quando otteniamo dati e analisi dal computer, li trattiamo come se le macchine fossero tutte infallibili. In realtà è pericoloso, perché i loro programmi possono essere conce-
piti, progettati e portati a termine da un pazzo.» Sam osservò: «Eppure la gente mostra la tendenza — no, addirittura l'intenso desiderio — a voler dipendere dalle macchine». «Già», rincarò Harry. «È il nostro tragico, maledetto bisogno di sottrarci alle responsabilità non appena possibile. Sono convinto si tratti di una debolezza insita nei nostri geni e l'unico modo di ottenere qualcosa in questo mondo consiste nel combattere costantemente la nostra naturale inclinazione verso l'irresponsabilità. Talvolta mi domando se non sia proprio questo il lascito del diavolo quando Eva diede retta al serpente e mangiò la mela.» Chrissie notò che il veterano si era considerevolmente animato. Lui continuò: «Gli uomini rubano, uccidono, mentono e imbrogliano perché non nutrono alcun senso di responsabilità nei confronti del prossimo. I politici vogliono il potere e le pubbliche acclamazioni quando le loro strategie hanno successo, ma raramente si fanno avanti ad assumere le proprie responsabilità per un fallimento. Il mondo è pieno di gente che vuole insegnarti come vivere la vita, come ottenere il paradiso in terra, ma quando le loro idee si rivelano disastrose, quando si finisce con Dachau, con i gulag o con gli assassinii di massa, come quelli seguiti alla nostra partenza dal sud-est asiatico, allora girano la testa, guardano altrove e fingono di non avere nulla a che fare con i massacri». Rabbrividì, e anche Chrissie fu presa da un tremito nonostante non fosse del tutto certa di aver capito fino in fondo le sue parole. «Gesù», esclamò lui, «ci avrò riflettuto mille, diecimila volte, forse a causa della guerra.» «Il Vietnam, vuoi dire?» chiese Tessa. Harry assentì, fissandosi le mani. «In guerra, per sopravvivere, dovevi essere responsabile ogni minuto di ogni singolo giorno, di te stesso, di tutte le tue azioni e anche dei tuoi compagni, perché non potevi sperare di sopravvivere da solo. Questo è forse l'unico aspetto positivo del combattere in guerra: ti chiarisce le idee e ti rende consapevole che il senso di responsabilità è ciò che separa i buoni dai cattivi. Non mi dispiace di essere finito in Vietnam, neppure alla luce di quanto mi è accaduto laggiù. Ho imparato una grande lezione e mi sento ancora responsabile nei confronti del popolo per cui stavamo combattendo; ogni tanto, quando penso a come li abbiamo abbandonati ai massacri di massa, rimango sveglio tutta la notte e piango perché dipendevano da me nella misura in cui io ero parte del processo.» Tutti tacquero.
Infine Tessa osservò: «Harry, penso che in questo caso il tuo senso di responsabilità sia eccessivo». Lui alzò lo sguardo. «No, non è vero. Il senso di responsabilità nei confronti degli altri non potrà mai essere eccessivo.» Le sorrise. «Ma ti conosco abbastanza bene da sospettare che tu lo sappia, Tessa; che tu ne sia consapevole o meno.» Guardò Sam e disse: «Molti fra coloro che sono tornati dalla guerra non vi hanno visto alcun lato positivo; parlando con loro, mi accorgo che non hanno imparato la lezione e quindi preferisco evitarli. Quando invece mi capita di conoscere un reduce che ha capito, allora sono pronto a fidarmi di lui con tutto me stesso. Accidenti, gli affiderei la mia anima, che in questo caso sembra essere esattamente ciò che vogliono rubarci. Ci tirerai fuori da questa situazione, Sam, non ho dubbi». Tessa parve sorpresa. Rivolta a Sam, domandò: «Sei stato in Vietnam?» Il federale assentì. «Prima di entrare nell'FBI.» «Non me ne hai parlato. Questa mattina, quando mi hai spiegato tutti i motivi per cui io e te abbiamo una differente visione del mondo, hai citato la morte di tua moglie, l'uccisione dei tuoi compagni, il rapporto con tuo figlio, ma non questo.» Lui si fissò a lungo il polso bendato, infine disse: «La guerra è l'esperienza più personale di tutta la mia vita». «È un'osservazione strana.» «Proprio per niente», obiettò Harry. Sam aggiunse: «Se non fossi venuto a patti con il Vietnam, probabilmente ne parlerei ancora tutto il tempo. Invece ho capito, e accennarvi casualmente con qualcuno che ho appena conosciuto, beh, lo svilirebbe, suppongo». Lei guardò Harry. «Tu, al contrario, ti sei accorto subito che era stato laggiù, vero?» «Sì.» Il federale cambiò argomento. «Harry, ti giuro che farò del mio meglio per toglierci dai guai, ma vorrei tanto riuscire ad afferrare meglio la natura di ciò che abbiamo di fronte. Tutto deriva dalla New Wave, ma che cos'hanno fatto esattamente e come è possibile fermarli? Come posso sperare di affrontare qualcosa che non capisco neppure?» Fino a quel punto, Chrissie si era sentita assai poco all'altezza del livello della conversazione, per quanto l'avesse ritenuta affascinante e istruttiva. Ora, però, le parve doveroso offrire il proprio contributo: «Siete davvero certi che non si tratti di alieni?»
«Sì», le rispose Tessa con un sorriso, mentre Sam le arruffava i capelli. «Beh», si ostinò la bambina, «forse quello che non funziona alla New Wave è che gli extraterrestri sono atterrati proprio là e se ne servono come base. Magari voglio trasformarci tutti in macchine come i Coltrane per usarci come schiavi, il che, pensandoci, è molto più sensato che non mangiarci. Dopotutto sono alieni, quindi avranno stornaci e succhi gastrici diversi; probabilmente ci troverebbero molto difficili da digerire. Chissà, forse gli faremmo venire persino la diarrea!» Sam, che era seduto di fianco a lei, le prese entrambe le mani con dolcezza. «Chrissie, non so se hai prestato molta attenzione a quanto diceva Harry...» «Ma certo!» reagì immediatamente la bambina. «Fino all'ultima parola.» «Bene, allora mi capirai se ti spiego che insistere nell'attribuire tutti questi orrori agli alieni è un modo come un altro per dirottare la responsabilità dalla sua vera sede. È duro convincersi che qualcuno, anche un pazzo, possa aver desiderato che i Coltrane diventassero così, ma è la pura verità. Se cerchiamo di addossare la colpa agli alieni, o al diavolo, o ai folletti, non inquadreremo la situazione con chiarezza sufficiente a escogitare un modo per salvarci. Hai capito?» «Più o meno.» Lui le sorrise. «Sono certo che non ti è sfuggito nulla.» «Sì», convenne la bambina. «Sarebbe stato bello se fossero stati gli alieni, perché avremmo soltanto dovuto trovare il loro nido, o alveare, o chissà che, e bruciarlo, poi magari fare esplodere la loro astronave e tutto sarebbe finito. Se invece i colpevoli siamo noi — esseri umani come noi — allora forse non sarà mai finita del tutto.» 30 Con frustrazione crescente, Loman Watkins percorse Moonlight Cove da un capo all'altro, aggirandosi sotto la pioggia in cerca di Shaddack. Era ripassato dalla casa sulla baia per accertarsi che questi non vi fosse tornato e per controllare nel garage quale veicolo mancasse; ora stava cercando il furgone grigio, ma non riusciva a trovarlo. Dovunque andasse, le squadre addette alle conversioni e gli uomini incaricati delle perlustrazioni erano al lavoro. Nonostante fosse improbabile che i non convertiti notassero qualcosa di insolito nella singolare animazione della città, lui era costantemente consapevole della loro presenza.
A tutti i posti di blocco, i suoi agenti si stavano occupando dei forestieri desiderosi di entrare a Moonlight Cove. Le autopattuglie ai lati delle strade emettevano sbuffi di gas di scarico che si mescolavano con i primi accenni di nebbia; le luci di emergenza rosse e blu si riflettevano sull'asfalto bagnato, dando l'impressione che rivoli di sangue arterioso e venoso si riversassero a terra. I potenziali visitatori erano pochi, visto che la città non costituiva una sede degli uffici della contea né un importante centro per acquisti; tra l'altro, essendo prossima al termine della statale, nessuno l'attraversava per dirigersi oltre. Chi intendeva entrarvi era invitato, ove possibile, con una storia circa una fuga di sostanze tossiche dallo stabilimento della New Wave. Gli scettici irriducibili venivano arrestati, condotti in prigione e rinchiusi in una cella in attesa che fosse presa una decisione sull'opportunità di ucciderli oppure convertirli. Dalle prime ore del mattino, quando era stata stabilita la quarantena, ben poche persone erano state fermate ai posti di blocco e solo sei trasferite in carcere. Shaddack aveva scelto bene il terreno di prova: Moonlight Cove era relativamente isolata e quindi più agevole da controllare. Loman stava pensando di ordinare lo smantellamento dei blocchi stradali e di recarsi ad Aberdeen Wells per raccontare tutto allo sceriffo della contea. Voleva far saltare il progetto Falco Notturno. Non aveva più paura della morte né della furia di Shaddack. O, perlomeno, solo in parte. Preferiva affidarsi alla clemenza dello sceriffo di Aberdeen e delle autorità statali — persino degli scienziati, che avrebbero provato l'irresistibile tentazione di sezionarlo — piuttosto che rimanere in città e consegnare gli ultimi, minuscoli frammenti della propria umanità alla regressione o a qualche accoppiamento da incubo fra il suo corpo e un computer. Tuttavia, se avesse ordinato agli uomini di abbandonare le postazioni, avrebbe destato dei sospetti e la loro lealtà andava tutta a Shaddack, che li teneva legati con il terrore. Loro continuavano a temere quel folle più di qualsiasi altra cosa perché non avevano visto ciò che Denny era diventato e non sapevano ancora che il futuro poteva riservare loro un destino peggiore della regressione allo stato selvaggio. Come le creature di Moreau, facevano del loro meglio per mantenere La Legge e non osavano, almeno per il momento, tradire il padrone; quasi sicuramente avrebbero cercato di impedire al capo della polizia di sabotare il progetto, uccidendolo o, peggio, rinchiudendolo in una cella.
Non poteva rischiare di rivelare le proprie intenzioni controrivoluzionarie: già si immaginava imprigionato, con Shaddack che gli sorrideva gelido al di là delle sbarre, mentre gli agenti portavano un computer con cui obbligarlo in qualche modo a fondersi. Occhi d'argento fuso... Continuò ad aggirarsi sotto la pioggia, i tergicristalli in continuo movimento quasi scandissero il tempo. Era acutamente consapevole dell'avvicinarsi della mezzanotte. 31 Inizialmente, la creatura proteiforme fu soddisfatta nel nutrirsi di ciò che trovava estendendo sottili propaggini lungo il pavimento della cantina, nelle fessure dei muri e nell'umido terriccio circostante: insetti, vermi, larve. Non conoscevano più i loro nomi, ma li mangiavano avidamente. Ben presto, tuttavia, esaurì l'intera disponibilità nel raggio di dieci metri dall'edificio. Aveva bisogno di un pasto più sostanzioso. La cosa si agitò e ribollì, forse nello sforzo di convogliare i tessuti amorfi in una forma che le consentisse di uscire dalla cantina in cerca di preda, ma non conservava alcun ricordo di forme precedenti né desiderava imporsi un qualunque ordine strutturale. La coscienza che abitava quella massa gelatinosa era però ancora in grado di mutare in modo da soddisfare i propri bisogni. Improvvisamente, una serie di bocche prive di labbra e di denti si aprì nell'ammasso fluido, che eruppe in un suono quasi interamente al di là della portata di un orecchio umano. In tutto l'edificio, dozzine di topi sgattaiolavano qua e là, mangiavano, costruivano i nidi e si lavavano; quando il richiamo esplose dalla cantina, tutti si bloccarono all'unisono. La creatura poteva percepirli, benché non pensasse a loro come a topi, ma solo a piccole, tiepide quantità di carne viva: cibo, energia. Li voleva. Ne aveva bisogno. Cercò di esprimere quella necessità sotto forma di un urgente richiamo. In ogni angolo della costruzione, i topolini si contorsero, passandosi le zampe anteriori sul muso come se fossero entrati in una ragnatela e tentassero di togliersi dal pelo i filamenti vischiosi. In soffitta viveva una piccola colonia di otto pipistrelli che, a loro volta, reagirono alla chiamata, mettendosi a volare freneticamente in traiettorie
impazzite. Ma nulla giunse alla creatura nascosta in cantina. Nonostante il suono avesse raggiunto i suoi destinatari, non sortì l'effetto desiderato. L'essere amorfo tacque. Le sue molte bocche si chiusero. Uno per uno, i pipistrelli tornarono alle loro travi. I topi rimasero seduti per un attimo in stato confusionale, poi ripresero le attività abituali. Un paio di minuti più tardi, la cosa tentò di nuovo con un suono diverso, sempre al di là della percezione umana, ma più invitante di prima. I pipistrelli si riversarono fuori dalla soffitta in un tumulto tale che un qualunque osservatore li avrebbe ritenuti almeno un centinaio. Il battito delle loro ali sovrastava il martellare della pioggia sul tetto. Ovunque, i topi si alzarono sulle zampe posteriori, le orecchie tese e all'erta. Quelli che si trovavano ai piani inferiori rabbrividirono violentemente, quasi avessero visto un gatto. Al pianterreno, due di loro cominciarono ad avviarsi in direzione della cucina, dove la porta della cantina era rimasta spalancata. Entrambi, però, si arrestarono sulla soglia, spaventati e confusi. Nel sotterraneo, l'entità informe triplicò l'intensità del richiamo. Uno dei topolini perse sangue dalle orecchie e stramazzò morto. Di sopra, i pipistrelli iniziarono a sbattere contro le pareti, i radar completamente fuori uso. La cosa ridusse la forza dell'emissione sonora. Immediatamente, tutti gli animaletti, in volo o di corsa, si precipitarono giù per le scale e lungo il corridoio che sbucava in cucina. In cantina, le molte bocche della creatura si fusero in un unico, grande orifizio al centro della massa pulsante. In velocissime ondate successive i pipistrelli volarono direttamente nella cavità, annidandosi nel protoplasma e dissolvendosi rapidamente a opera dei potenti acidi digestivi. L'armata di topi sciamò lungo i ripidi scalini, squittendo per l'agitazione e calpestandosi a vicenda; senza esitare, si offrirono in pasto all'entità in attesa. Dopo tutta quella frenesia, la casa tornò immobile. La creatura cessò il suo richiamo. Per il momento. 32
L'agente Neil Penniworth aveva ricevuto l'incarico di pattugliare la zona nord-ovest di Moonlight Cove. Era da solo in macchina perché, nonostante i cento dipendenti della New Wave assegnati per la notte al dipartimento di polizia, le loro forze rimanevano insufficienti. In quel momento preferiva lavorare senza un compagno: sin dagli avvenimenti a casa di Peyser, quando l'odore del sangue e la vista del corpo regredito lo avevano stimolato a mutare, aveva avuto paura di trovarsi insieme ad altra gente. La notte precedente era riuscito a evitare la degenerazione totale, ma solo per un margine ridottissimo. Se avesse osservato nuovamente un essere umano in fase d'alterazione, l'impulso sarebbe ricomparso e questa volta non era certo di poter sopprimere quella bramosia malefica. D'altra parte, temeva in eguai misura la solitudine. La lotta per rimanere aggrappato alle ultime briciole di umanità, resistere al caos, mostrarsi responsabile, era sfibrante e desiderava con tutte le sue forze sfuggire a questa nuova, durissima vita. Da solo, senza qualcuno che lo vedesse nell'atto di trasformarsi, lo convincesse a non arrendersi o, semplicemente, lo avvertisse della sua regressione, sarebbe stato perduto. Il peso della paura era concreto come una lastra d'acciaio. Di tanto in tanto, faticava a respirare, quasi i suoi polmoni fossero imprigionati in una stretta che ne impedisse l'espansione. Le dimensioni dell'autopattuglia sembrarono ridursi finché non gli parve di essere immobilizzato in una camicia di forza. A più riprese fu costretto ad accostarsi al lato della strada e a uscire sotto la pioggia per respirare l'aria fredda. Con il procedere del tempo, però, persino il mondo esterno cominciò ad apparirgli sempre più soffocante. A quel punto capì che non stava disperatamente cercando di sfuggire al claustrofobico interno dell'auto né alla snervante cappa di pioggia: ciò che davvero lo opprimeva era la sua esistenza in quanto membro della Nuova Gente. Ormai capace di provare soltanto paura, era rinchiuso in uno sgabuzzino emotivo di dimensioni così anguste da non riuscire del tutto a muoversi. Era legato dal di dentro a causa di ciò che Shaddack gli aveva fatto. In altre parole non aveva scampo. Eccetto, forse, nella regressione. Neil non poteva sopportare l'idea di un'esistenza simile. D'altro lato, era
disgustato e terrorizzato al pensiero di un'involuzione in qualche forma subumana. Il suo dilemma appariva insolubile. L'unico momento in cui riusciva quasi ad accantonare la propria angoscia, e anche parte della paura, era quando si accostava al terminale dell'auto. Se controllava sul computer l'esistenza di eventuali messaggi, se esaminava il progredire delle conversioni o i dati sul progetto Falco Notturno, la sua attenzione si focalizzava a tal punto sull'interazione con la macchina che la sua ansia si affievoliva. Sin dall'adolescenza Penniworth aveva provato interesse per i computer, nonostante non fosse mai diventato un fanatico. Naturalmente aveva iniziato con i videogiochi, più tardi, gli era stato regalato un modello poco costoso e, qualche anno dopo, si era comprato un modem con il ricavato di un lavoro estivo. Benché non potesse permettersi bollette telefoniche troppo salate o lunghe ore di svago introducendosi nelle reti di dati disponibili nel mondo esterno, aveva sempre trovato le sue esplorazioni negli altrui sistemi avvincenti e rilassanti. Ora, usando il terminale nella macchina parcheggiata, pensò che l'universo dei computer era ammirevolmente pulito, relativamente semplice, prevedibile ed equilibrato, così dissimile dall'esistenza umana — della Nuova come della Vecchia Gente. Lì regnavano la logica e la ragione: causa, effetto e aspetti collaterali venivano sempre analizzati e resi perfettamente comprensibili, tutto era bianco o nero — e se per caso fosse stato grigio, quel grigio veniva misurato, quantificato e specificato accuratamente. I crudi fatti erano ben più semplici da gestire dei sentimenti. Un mondo composto puramente di dati, astratto dalla materia e dagli eventi, sembrava infinitamente più desiderabile dell'universo reale formato da caldo e freddo, duro e morbido, sangue e morte, dolore e paura. Richiamando a uno a uno tutti i programmi, Neil si insinuò sempre più a fondo fra la documentazione relativa alle ricerche per il progetto Falco Notturno. Non gli importava particolarmente dei dati che Sole gli forniva, ma trovava sollievo nel semplice procedimento per ottenerli. Cominciò a vedere lo schermo del terminale non come un tubo catodico, ma come una finestra su un altro mondo, un mondo di fatti, privo di dolorose contraddizioni e di responsabilità. Lì dentro non esistevano emozioni: solo il noto e l'ignoto, un'abbondanza di dati circa un determinato argomento oppure la loro carenza, ma mai sentimenti. Il mondo emotivo era la maledizione di coloro la cui esistenza dipendeva dalla carne e dalle ossa.
Una finestra su un altro mondo. Neil toccò lo schermo. Desiderò intensamente poter aprire quella finestra per entrare in quel luogo di razionalità, ordine e pace. Con le punte delle dita, cominciò a tracciare dei cerchi sulla tiepida superficie di vetro. Ah, se solo una specie di tornado elettronico si fosse sprigionato dal terminale e l'avesse condotto in un universo migliore... Le sue dita attraversarono lo schermo. Stupefatto, Penniworth ritrasse la mano. Il vetro era intatto. Parole e numeri lampeggiavano sul video, esattamente come prima. Dapprima cercò di convincersi di essere rimasto vittima di un'allucinazione. Ma non lo pensava veramente. Si osservò i polpastrelli: non presentavano lesioni di sorta. Sollevò lo sguardo sul parabrezza. I tergicristalli non erano in funzione e la pioggia scorreva sul vetro, distorcendo il mondo esterno; tutto, là fuori, sembrava deforme, mutato, estraneo. In un ambiente simile non sarebbero mai esistiti ordine, equilibrio e pace. Esitante, toccò di nuovo lo schermo. Sembrava solido. Ancora una volta pensò a quanto fosse desiderabile l'universo dei computer e, come prima, la sua mano scivolò attraverso la superficie luminosa, però fino al polso. Il vetro si era aperto intorno a lui e lo aveva avvolto strettamente, al pari di una membrana organica, mentre parole e numeri aggiravano il corpo estraneo. Il cuore in tumulto, Neil provò un brivido di eccitazione. Cercò di agitare le dita in quella profondità calda e misteriosa: non riusciva più a sentirle. Cominciò a credere che si fossero dissolte o che qualcosa le avesse recise e s'immaginò di ritrarre dalla macchina un moncherino sanguinante. Provò immediatamente. La mano era illesa. Ma non era più una mano in senso stretto. Sul dorso, la carne appariva venata di rame e fibra di vetro; nei filamenti trasparenti batteva a ritmo costante una pulsazione luminosa. Si esaminò il palmo: assomigliava alla superficie di un tubo catodico. Era percorso da dati, lettere verdi su un sottofondo scuro e semitrasparente. Paragonando ciò che vi appariva con quanto lampeggiava sul terminale, si accorse che erano identici e cambiavano simultaneamente.
Di colpo capì che la regressione in una forma bestiale non era l'unica via d'uscita che gli si presentava, che poteva anche penetrare nel mondo del pensiero elettronico e della memoria magnetica, della conoscenza priva di desideri carnali, della consapevolezza scevra da emozioni. A un livello più profondo dell'intelletto o dell'istinto, seppe con chiarezza di poter ricostruire se stesso ben più radicalmente di quanto non avesse già fatto Shaddack. Abbassò la mano dallo schermo al processore; con la medesima facilità con cui era penetrata nel vetro, scivolò attraverso la tastiera nelle viscere della macchina. Era come un fantasma, capace d'introdursi nei muri, ectoplasmatica. Un senso di gelo gli percorse il braccio. I dati sullo schermo vennero sostituiti da criptici schemi di luce. Neil si appoggiò allo schienale. La sensazione di freddo gli aveva raggiunto la spalla e stava scorrendogli lungo il collo. Sospirò. Avvertì che qualcosa stava accadendo ai suoi occhi, anche se non capì esattamente di cosa si trattasse. Avrebbe potuto guardarsi nello specchietto retrovisore, ma non se ne curò; decise di chiuderli e di lasciare che diventassero ciò che era necessario per conseguire questa seconda e più completa conversione. Un simile stato di alterazione era infinitamente più attraente della regressione. Assolutamente irresistibile. Ora il gelo gli percorreva il viso e la sua bocca era divenuta insensibile. Anche all'interno della sua testa stava succedendo qualcosa. Si rese conto di essere consapevole della geografia dei propri circuiti e sinapsi cerebrali quanto lo era del mondo esterno. Il corpo non gli pareva più una parte di se stesso: non riusciva neppure a stabilire se all'interno dell'auto facesse caldo o freddo a meno che non si concentrasse sull'accumulazione di questi dati. Dopotutto, il corpo non era altro se non un rivestimento della macchina, un deposito di sensori progettati per proteggere e servire la parte interna, la mente. Il gelo gli aveva raggiunto il cranio. Gli sembrò che decine, centinaia, migliaia di ragni ghiacciati stessero percorrendo la superficie del suo cervello per poi annidarvisi. Di colpo gli venne in mente che quel regno incantato avrebbe potuto rivelarsi un incubo. Al di là dello specchio, Alice aveva trovato follia e terrore nella tana del coniglio...
Un milione di ragni gelidi. Dentro il cranio. Un miliardo. Freddi, gelidi. Che si agitavano. 33 Ancora in giro per Moonlight Cove in cerca di Shaddack, Loman vide due regressivi attraversare la strada a tutta velocità. Si trovava sulla Paddock Lane, ai margini meridionali della città, dove le proprietà erano sufficientemente vaste da consentire di tenervi cavalli. In posizione arretrata rispetto alla strada, affiancate da piccole stalle private, le case sorgevano in mezzo a prati e cespugli lussureggianti. La coppia di regressivi sbucò da un folto gruppo di azalee e percorse la superficie asfaltata su quattro zampe, sparendo all'interno di una siepe. Nonostante Paddock Lane fosse costeggiata da immensi pini che aggiungevano la loro ombra al grigiore della giornata piovosa, Loman non ebbe alcun dubbio su quanto aveva visto. Entrambi erano modellati su creature fantastiche più che su un animale realmente esistente: parte lupo, forse gatto e sicuramente rettile, velocissimi e dall'aspetto potente. Uno di loro aveva girato la testa nella sua direzione e gli occhi avevano brillato di luce rossastra come quelli dei topi. Lui ridusse la velocità, ma non si fermò. Non gli importava più di identificare e intrappolare i regressivi. Tanto per cominciare, sapeva benissimo chi fossero: tutti i convertiti. Inoltre, era conscio che potevano essere ridotti all'impotenza solo fermando Shaddack; in quel momento stava inseguendo una preda assai più importante. Tuttavia rimase scosso nel vederli audacemente in caccia alla luce del giorno, alle due e mezza del pomeriggio. Fino a quel momento erano stati creature notturne e furtive, che nascondevano la vergogna della regressione cercando lo stato di alterazione soltanto dopo il tramonto. Se adesso erano disposti ad avventurarsi allo scoperto prima del calar della sera, allora, il progetto Falco Notturno stava precipitando nel caos, anche più in fretta del previsto. Moonlight Cove non stava oscillando ai margini dell'inferno, ma era già piombata nel baratro. 34
Si erano trasferiti nella camera da letto di Harry dove, da più di un'ora, riflettevano e discutevano animatamente sulle loro possibilità. Le lampadine erano spente e la luce grigiastra, proveniente dalle finestre, contribuiva a incupire gli umori. «Quindi siamo d'accordo che esistono due modi per inviare un messaggio fuori città», dichiarò Sam. «Ma in entrambi i casi», rispose Tessa, a disagio, «devi uscire e affrontare un lungo tragitto per arrivare sul posto.» Lui alzò le spalle. La ragazza e Chrissie, scalze, stavano sedute l'una di fianco all'altra sul letto, la schiena contro la testiera. Appariva chiaro che la bambina intendeva rimanere vicina a Tessa, nello stesso modo in cui un pulcino appena uscito dall'uovo segue la gallina che vede per prima, anche se non si tratta della madre. Tessa insistè: «Non sarà semplice quanto andare a casa dei Coltrane, a due porte di distanza. Non di giorno, perlomeno». «Pensi che dovrei attendere la sera?» domandò Sam. «Sì. Inoltre potrai usufruire della copertura offerta dalla nebbia.» Lei era convinta di ciò che diceva, nonostante la necessità di rimandare l'azione la preoccupasse: più passava il tempo più aumentava il numero dei convertiti e Moonlight Cove sarebbe diventata ancora più estranea, pericolosa e densa di sorprese. Rivolto a Harry, il federale chiese: «A che ora viene buio?» «In questa stagione, il crepuscolo inizia prima delle sei.» Guardando l'orologio, Sam osservò: «Non posso dire che mi diverta l'idea di sprecare altre tre ore. Prima ci mettiamo in contatto con l'esterno, più gente salveremo da... da qualsiasi cosa venga loro inflitto». «D'altra parte, se vieni catturato perché non hai atteso il calar della sera», intervenne Tessa, «le possibilità di salvare chiunque si ridurrebbero a ben poco.» «La signora non ha affatto torto», convenne Harry. «Lo penso anch'io», ribadì Chrissie. «Il fatto che non siano alieni non significa che sarà più semplice avere a che fare con loro.» Sam iniziava a sospettare che qualsiasi computer, collegato via modem con il supercomputer della New Wave (Harry aveva detto che lo chiamavano Sole), avrebbe potuto fornire una via d'uscita, un'autostrada elettronica su cui aggirare le restrizioni telefoniche e i posti di blocco.
Come aveva notato la sera precedente servendosi del terminale collocato sull'auto della polizia, Sole manteneva contatti diretti con decine di altri computer, comprese parecchie banche dati dell'FBI, sia quelle destinate a un ampio accesso, sia la parte che si supponeva vietata a chiunque, agenti a parte. Se avesse potuto arrivare a un terminale, collegarsi con Sole e quindi a un computer dell'FBI, sarebbe stato in grado di trasmettere una richiesta d'aiuto che sarebbe apparsa sugli schermi del Bureau per venire poi trascritta dalle stampanti degli uffici. Naturalmente, stavano dando per scontato che le restrizioni nei contatti con l'esterno non fossero applicate a Sole; se anche i suoi collegamenti al di fuori di Moonlight Cove erano stati interrotti, non avrebbero avuto una singola speranza. Comprensibilmente, Sam era riluttante alla prospettiva di penetrare nelle case dei dipendenti della New Wave per timore di imbattersi in altri esseri simili ai Coltrane. Ciò lasciava soltanto due modi di accedere a un computer collegato con Sole. Primo, poteva cercare di introdursi in un'auto della polizia e utilizzare un terminale mobile come aveva fatto la sera prima. Ora, però, gli agenti erano al corrente della sua presenza, il che rendeva assai difficile penetrare inosservato in una delle loro vetture; inoltre, tutte le autopattuglie sarebbero state in servizio, visto che i poliziotti stavano proseguendo nelle ricerche sue e di Tessa. Secondo, aveva la possibilità di usare uno dei computer della scuola. La New Wave li aveva offerti in dono non certo per il nobile intento di migliorare il livello educativo locale, bensì come ulteriore mezzo per legare a sé la comunità. Di conseguenza, Sam e Tessa erano convinti che quei terminali fossero collegati con Sole. Tuttavia, il complesso scolastico si trovava a una certa distanza dalla casa di Harry. Normalmente si sarebbe trattato di una piacevole passeggiata di cinque minuti, ma con le strade sotto sorveglianza e ogni casa potenzialmente occupata da nemici in stato d'allarme, raggiungere la meta, senza essere scorti, era diventato rischioso come attraversare un campo minato. «Tra l'altro», fece presente Chrissie, «le lezioni sono ancora in corso. Non puoi entrare come se nulla fosse e usare i computer.» «Soprattutto», rincarò Tessa, «dal momento che è facile immaginare che gli insegnanti saranno stati fra i primi a essere convertiti.» «A che ora finiscono le lezioni?» domandò Sam. «Noi delle medie usciamo alle tre, ma le superiori proseguono per un'al-
tra mezz'ora.» Controllando l'orologio, Harry osservò: «Mancano quarantasette minuti. Dopo, però, dovrebbero svolgersi le attività extrascolastiche, non è vero?» «Certo», confermò la bambina. «Gli allenamenti sportivi, le prove della banda e forse anche qualcos'altro.» «E tutto questo dura molto?» «So che la banda termina le prove alle cinque meno un quarto.» «Quindi entro le cinque la zona dovrebbe essere sgombra.» «Gli allenamenti durano anche di più.» «Ma li faranno con un tempo del genere?» «Beh, credo proprio di no.» «Se devi aspettare fino alle cinque e mezzo», obiettò Tessa, «tanto vale che tu rimanga qui un po' di più e ti muova dopo il crepuscolo.» Lui assentì. «Presumo sia il caso.» «Sam, stai dimenticando un particolare», affermò Harry. «Che cosa?» «Subito dopo che te ne sarai andato, forse addirittura alle sei in punto, verranno a convertirmi.» «Gesù, è vero!» «Penso sia indispensabile che tu attenda il calar della sera prima di muoverti, ma dovrai portare con te Tessa e Chrissie. Non sarebbe sicuro lasciarle qui.» «Verrai anche tu», esclamò immediatamente la bambina. «Tu e Moose. Non so se convertono anche i cani, ma sarà meglio tenerlo con noi. Non vorrei proprio che lo trasformassero in una macchina.» Il labrador latrò. «Possiamo star certi che non abbai?» chiese Chrissie. «Forse varrà la pena di avvolgergli attorno al muso una striscia di garza. È un po' crudele e probabilmente lo offenderemo, ma non gli nuocerà fisicamente e, in seguito, faremo la pace offrendogli una bistecca...» Accorgendosi del solenne silenzio improvvisamente calato fra i suoi amici, la piccola tacque e li guardò con aria interrogativa. Il cielo era andato coprendosi di nuvole nere e la stanza stava piombando nell'oscurità, ma Tessa riusciva a scorgere il viso di Harry sin troppo distintamente. Il veterano si sforzava di nascondere la paura dietro un sorriso, ma gli occhi lo tradivano. Rivolto a Chrissie spiegò: «Tesoro, io non verrò con voi». «Oh.» La piccola lo guardò, poi abbassò gli occhi sulla sedia a rotelle.
«Ma quel giorno sei venuto a scuola a parlare con noi. Ogni tanto esci di casa.» Il veterano sorrise. «L'ascensore scende fino al garage nel sotterraneo. Non possiedo una macchina, ma da lì posso facilmente accedere al marciapiede.» «Allora siamo a posto!» si entusiasmò lei. Harry guardò Sam e aggiunse: «Ma non posso andare ovunque, con queste strade così ripide, senza che qualcuno mi accompagni. La mia sedia è dotata di freni e di un motore potente, ma spesso non abbastanza per queste pendenze». «Saremo al tuo fianco», insistette Chrissie con vigore. «Ti aiuteremo noi!» «Mia cara, non potete percorrere velocemente e di nascosto tre isolati di territorio occupato trascinandomi con voi», spiegò il veterano con fermezza. «Dovrete evitare le strade il più possibile, scivolare di cortile in cortile e nei passaggi fra le case, mentre io riesco a spostarmi soltanto sull'asfalto, specialmente con questo tempo e il terreno intriso d'acqua.» «Possiamo trasportarti!» «No», ribattè Sam. «Non ce lo possiamo permettere, se vogliamo raggiungere la scuola e inviare un messaggio al Bureau. È un percorso breve, ma pieno di pericoli e dobbiamo viaggiare leggeri. Mi dispiace, Harry.» «Non c'è alcun bisogno di scusarsi», rispose questi. «Non avrei accettato in nessun caso. Pensi che mi piacerebbe essere portato a spalla per mezza città come un sacco di cemento?» Palesemente sconvolta, la bambina si alzò in piedi. Spostò lo sguardo da Sam a Tessa, implorandoli silenziosamente di escogitare un modo per salvare Harry. La pioggia calò d'intensità, ma Tessa avvertì che si trattava soltanto di una breve tregua; entro breve, i rovesci sarebbero ripresi con violenza anche maggiore. Con le lacrime agli occhi, Chrissie sembrava incapace di guardare il veterano; si diresse alla finestra e rimase a fissare la strada. Tessa avrebbe voluto consolarla. E desiderava confortare anche Harry. O meglio, le sarebbe piaciuto riuscire a sistemare tutte le cose. Come autrice-produttrice-regista, era capace di fare fuoco e fiamme, in grado di assumersi ogni responsabilità, efficiente nel conseguire ogni obiettivo; sapeva sempre come risolvere un problema, come comportarsi in
un momento di crisi, come arrivare alla fine della lavorazione. In quel momento, però, si sentiva impotente. Il veterano ruppe il silenzio. «Andrà tutto bene.» «Perché?» chiese Sam. «Probabilmente sarò l'ultimo del loro elenco», spiegò Harry. «Non si preoccuperanno troppo degli invalidi e dei ciechi. Anche se capissimo che qualcosa non va, non saremmo in grado di allontanarci dalla città in cerca d'aiuto. La signora Sagerian, che abita poco distante, è cieca e scommetto che noi due occupiamo il fondo della lista. Aspetteranno fin quasi alla mezzanotte prima di venire da noi, vedrai se non sarà così. Sono pronto a scommetterci. Quindi, dovete arrivare alle scuole, mandare il messaggio all'FBI, e ottenere rinforzi prima di mezzanotte. In questo modo io sarò salvo.» Chrissie si voltò a guardarlo, le guance rigate di lacrime. «Davvero ne è convinto, signor Talbot? Pensa onestamente che non si faranno vedere prima di mezzanotte?» Con la testa perennemente inclinata di lato, questi le strizzò l'occhio. «Se ti sto prendendo in giro, tesoro, che io possa venire colpito da un fulmine in questo preciso istante.» Ovviamente non accadde nulla. «Hai visto?» esclamò lui sorridendo. Per quanto la bambina volesse chiaramente credere allo scenario dipinto per lei dal veterano, Tessa sapeva che non avrebbe potuto contare su un'ipotesi del genere. Le parole di Harry avevano abbastanza senso, in effetti, ma sembrava tutto fin troppo logico: la vita era approssimativa e imprevedibile, in realtà. Anche lei desiderava, con tutte le proprie forze, poter credere che l'amico sarebbe stato al sicuro fino a qualche minuto prima di mezzanotte, ma la verità era che si sarebbe trovato in una situazione di estremo rischio a partire dalle sei, quando avrebbero dato inizio all'ultima serie di conversioni. 35 Shaddack rimase nel garage di Paula Parkins per quasi tutto il pomeriggio. Un paio di volte uscì sul vialetto con il furgone per controllare sul terminale i progressi di Falco Notturno e, in entrambi i casi, soddisfatto, tornò a nascondersi al coperto.
Il meccanismo stava procedendo con regolarità. Lui l'aveva progettato, costruito e messo in moto: ormai poteva funzionare anche per proprio conto. Trascorse il tempo seduto dietro il volante, sognando a occhi aperti, il momento in cui lo stadio finale del progetto sarebbe stato ultimato e il mondo intero avrebbe mutato corso. Quando non fosse più esistita la Vecchia Gente, la parola «potere» avrebbe assunto una nuova dimensione, perché nessun uomo prima di lui, in tutta la storia, si sarebbe mai potuto permettere un controllo così totale. Dopo aver ricostruito la specie, avrebbe programmato il suo destino in base ai propri desideri: tutta l'umanità sarebbe stata un immenso alveare ronzante di attività, al servizio dei suoi scopi. Fantasticando, la sua erezione crebbe al punto di dolergli. Shaddack conosceva molti scienziati sinceramente convinti che lo scopo del progresso tecnologico consistesse nel migliorare l'umanità, sollevarla dal fango e trasportarla alle stelle. Lui, però, la pensava diversamente: per quanto lo riguardava, l'unico obiettivo della tecnologia risiedeva nel concentrare il potere nelle sue mani. In precedenza, chi aveva tentato di rimodellare il mondo aveva fatto affidamento sul potere politico, che in definitiva si riduceva sempre alla forza delle armi. Hitler, Stalin, Pol Pot e altri, avevano conseguito il potere con l'intimidazione e i massacri di massa, ascendendo al trono in un lago di sangue, ma tutti avevano mancato di raggiungere ciò che i circuiti al silicone stavano per regalare a lui. La penna non era più potente della spada, ma un microprocessore contava assai più di vaste armate. Se avessero saputo che cosa aveva intrapreso e quali sogni di conquista accarezzasse, praticamente, tutti gli altri scienziati lo avrebbero definito un malato, un pazzo, un anormale. A lui non importava affatto, visto che avevano torto. Semplicemente, ignoravano chi lui fosse veramente: il figlio del falco notturno. Aveva distrutto coloro che fingevano di essere i suoi genitori e non era stato scoperto né punito, il che dimostrava come le leggi e le regole valide per gli altri non si applicassero a lui. I suoi veri genitori erano forze dello spirito, incorporee e potenti, che lo avevano protetto dal castigo perché gli omicidi commessi a Phoenix, tanto tempo prima, rappresentavano un'offerta sacra, una dimostrazione della sua fede in loro. Gli altri scienziati lo avrebbero frainteso perché non potevano sapere che l'intero divenire ruotava intorno a lui, che l'universo stesso esisteva solo perché lui esisteva, e che se mai fosse morto, cosa assai improbabile, il creato avrebbe immediatamente cessato di essere. Lui era il centro della creazio-
ne, l'unico uomo ad avere importanza. Erano stati i grandi spiriti a dirglielo, bisbigiandogli queste verità all'orecchio, nel sonno e da sveglio, per più di trent'anni. Figlio del falco notturno... Con il trascorrere del pomeriggio, l'avvicinarsi della realizzazione del primo stadio del progetto lo eccitò al punto da rendergli intollerabile il temporaneo esilio nel garage. Benché gli fosse sembrato saggio astenersi dal frequentare i luoghi in cui Loman Watkins lo avrebbe sicuramente trovato, stava incontrando crescenti difficoltà nel giustificare la necessità di mantenersi nascosto. Gli eventi della notte precedente a casa di Mike Peyser non gli parevano più tanto catastrofici, ma solo un incidente di secondaria importanza; era certo che il problema rappresentato dai regressivi sarebbe stato risolto. Nella sua mente, anche le minacce di Watkins cominciavano a sbiadire, finché la promessa del capo della polizia non gli sembrò addirittura vuota e patetica. Era il figlio del falco notturno, e sì sorprendeva di aver dimenticato una verità così decisiva e di essere fuggito. Naturalmente, anche Gesù aveva trascorso un periodo nell'orto e, spaventato, aveva dovuto combattere i propri demoni. Si convinse che il garage di Paula Parkins fosse il suo Getsemani, dove si era rifugiato per scacciare gli ultimi dubbi che lo affliggevano. Era il figlio del falco notturno. Alle quattro e mezzo sollevò la saracinesca della rimessa. Accese il motore e avviò il furgone lungo il vialetto. Era il figlio del falco notturno. Svoltò sulla statale e si diresse in città. Era il figlio del falco notturno, erede della corona di luce e, a mezzanotte, sarebbe asceso al trono. 36 Pack Martin — per la verità si chiamava Packard, nome attribuitogli dalla mamma in onore dell'auto che aveva costituito l'orgoglio di suo padre — viveva in una roulotte ai margini di Moonlight Cove. Il suo domicilio era vecchio, pieno di crepe, arrugginito in più punti e montato su fondamenta di cemento in un terreno invaso dalle erbacce. Pack sapeva benissimo che molti suoi concittadini consideravano quella sistemazione un vero pugno in un occhio, ma non se ne curava affatto.
Usufruiva di allacciamento elettrico, di una caldaia a gasolio e di impianto idraulico; viveva al caldo, all'asciutto e possedeva persino un ripostiglio per la birra. Il suo era un vero castello. Soprattutto, la roulotte era stata comprata venticinque anni prima con il denaro ereditato dalla madre, quindi non si trovava costretto a pagare ipoteche. Disponeva ancora di una piccola parte di quell'eredità e raramente la toccava: gli interessi ammontavano a circa trecento dollari mensili, arrotondati con l'assegno di invalidità guadagnato, grazie a una caduta provvidenziale, proprio tre settimane dopo essere stato arruolato nell'esercito. L'unico vero lavoro in cui si fosse mai impegnato era consistito in leggere e studiare, al fine di imparare e memorizzare i più impercettibili e complessi sintomi di una seria lesione dorsale prima di sottoporsi alle domande dei medici militari. Era nato per godersi la vita e lo sapeva da sempre. Lui e il lavoro non avevano nulla a che spartire. Supponeva di esser stato destinato a nascere in una famiglia ricca, ma qualcosa era andato storto e aveva finito per ritrovarsi figlio di una cameriera, fortunatamente abbastanza operosa da lasciargli un minimo di denaro. Tutto sommato, non invidiava nessuno. Ogni mese comprava dodici o quattordici casse di birra, a buon mercato, dal grossista all'imbocco dell'autostrada, aveva un televisore e con qualche panino di mortadella e senape si sentiva felice e contento. Quel martedì pomeriggio, alle quattro, Pack era già a buon punto della sua seconda confezione da sei lattine e se ne stava comodamente in poltrona, immerso nella contemplazione di un gioco a premi televisivo in cui le superlative tette della valletta, sempre generosamente in mostra, erano ben più interessanti del presentatore, dei concorrenti e delle domande. Il presentatore chiese: «Allora, che cosa sceglie? Preferisce ciò che si trova dietro lo schermo numero uno, due o tre?» Parlando con il televisore, Pack esclamò: «Voglio quello che sta dentro il reggiseno della pollastra, grazie tante!» Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. Lui non si alzò né mostrò in alcun modo di aver udito: non aveva amici, quindi i visitatori non gli interessavano. Si trattava sempre di benintenzionati carichi di cibo che non gli piaceva o pronti a offrirsi volontari per tagliare le erbacce e ripulire il terreno, altra cosa che non gradiva perché amava le sue erbacce. Bussarono di nuovo.
Pack reagì alzando il volume del televisore. Questa volta ritentarono con maggiore violenza. «Andatevene!» strepito lui. Gli sconosciuti cominciarono a prendere a pugni il battente, scuotendo l'intera maledetta roulotte. «Che diavolo succede?» Irritato, si alzò e spense l'apparecchio. Il frastuono non si ripetè, ma Pack udì uno strano raschiare contro una delle pareti. Di colpo, la sua casa iniziò a scuotersi sulle fondamenta come talvolta capitava in caso di forte vento. Quel giorno, però, l'aria era immobile. «Bambini», decise lui. Gli Aikhorn, che vivevano dalla parte opposta della strada, avevano dei figli così molesti che sarebbero dovuti essere eliminati con un'iniezione, conservati in formalina ed esposti in qualche museo. Quei mocciosi si divertivano a sistemargli i petardi sotto la roulotte, svegliandolo di soprassalto nel cuore della notte. Il rumore raschiante era cessato, ma ora due dei ragazzini stavano camminando sul tetto. Questo era troppo. Il rivestimento metallico aveva visto giorni migliori ed era probabile che si piegasse o si rompesse addirittura per il peso. Pack aprì la porta e uscì sotto la pioggia gridando oscenità. Quando guardò in alto, però, non vide nessun bambino, bensì un essere che sembrava uscito da un film di fantascienza sugli insetti, di quelli in voga negli anni Cinquanta: grosso come un uomo, con mandibole schioccanti, occhi sfaccettati e la bocca incorniciata da pinze. La cosa più agghiacciante era che in quell'aspetto mostruoso si distinguevano alcuni lineamenti umani, quanto bastava perché gli sembrasse di riconoscere Daryl Aikhorn, il padre dei mocciosi. «Bisoooooooogno», esplose la creatura, in un tono a metà strada fra la voce di Aikhorn e il ronzio di un insetto. Poi gli balzò addosso, protendendo simultaneamente dal corpo ripugnante un pungiglione orribilmente acuminato. Ancor prima che quella lunghissima appendice seghettata gli si conficcasse nel ventre, trapassandolo da parte a parte, Pack seppe con certezza che i giorni della birra, dei panini alla mortadella, degli assegni d'invalidità e delle vallette televisive dai seni straripanti, erano finiti per sempre. Randy Hapgood, quattordici anni, sguazzò nell'acqua sporca riversatasi da una grondaia e fece una smorfia di disprezzo, come per significare che
la natura avrebbe dovuto inventare un ostacolo mille volte più formidabile di quello, se sperava di scoraggiarlo. Rifiutava di indossare impermeabile e stivali di gomma perché quel genere di attrezzatura non si addiceva a un duro come lui; inoltre, non capitava spesso di vedere una bionda appesa al braccio di un tizio che portava un ombrello. Non che Randy si tenesse stretta una bionda, però immaginava che le ragazze non avessero ancora notato che razza di duro fosse, indifferente al tempo e a tutte le altre cose che riducevano a malpartito i suoi coetanei. Era ormai fradicio e infelice — sebbene fischiettasse per nasconderlo — quando rincasò dalla scuola alle cinque meno venti, perché l'uscita era stata anticipata a causa del maltempo. Si tolse il giubbotto di jeans e le scarpe da tennis, completamente inzuppati. «Sono quiiiiiiiii!» strillò, parodiando la bambina di Poltergeist. Nessuno gli rispose. Sapeva che i genitori si trovavano in casa perché le luci erano accese. Ultimamente uscivano sempre meno. Stavano lavorando a qualche ricerca per la New Wave e rimanevano giornate intere ai rispettivi terminali, su nello studio, senza neppure spostarsi in ufficio. Randy prese una Coca dal frigorifero e si diresse di sopra per raccontare a Pete e Marsha come aveva trascorso la giornata. Non li chiamava papà e mamma e a loro andava bene così: erano dei tipi giusti, forse anche troppo. Possedevano una Porsche, erano sempre vestiti all'ultima moda e discutevano con lui di qualsiasi cosa, ma proprio tutto, anche di sesso, con la stessa franchezza di una coppia di amici. Se davvero avesse trovato una bionda da portarsi appresso, avrebbe avuto paura di invitarla a casa a conoscere i suoi per timore che trovasse Pete infinitamente più giusto di lui. Talvolta, desiderava che i genitori fossero grassi, sciatti, vestiti in modo antiquato e ansiosi di essere chiamati mamma e papà: a scuola, la competizione per i voti e la popolarità era già abbastanza feroce e non sentiva alcun bisogno di trasferirla a casa propria. Giunto in cima alle scale, gridò: «Nelle immortali parole del moderno intellettuale americano, John Rambo, 'Yo!'» Di nuovo non ebbe risposta. Sulla soglia della porta che conduceva nello studio, Randy si sentì venire la pelle d'oca. Rabbrividì, si accigliò, ma si guardò bene dal fermarsi perché la sua immagine di duro non gli consentiva simili debolezze. Mise un piede nella stanza, pronto a una battuta sul loro ripetuto silenzio. Troppo tardi: rimase congelato sul posto dall'orrore.
Pete e Marsha erano seduti l'uno di fronte all'altra al tavolo da lavoro, i terminali nel mezzo. No, non erano esattamente seduti, bensì collegati alle sedie e ai computer mediante decine di cavi, mostruosi e segmentati, che uscivano dai loro corpi — o forse dalle macchine — e li ancoravano addirittura al pavimento, dove sparivano. I loro visi erano ancora vagamente riconoscibili, nonostante apparissero tremendamente alterati, parte carne e parte metallo. Randy era incapace di respirare. Di colpo, però, si mosse, balzando indietro. La porta si richiuse alle sue spalle. Girò su se stesso. Dal muro eruppero tentacoli organici e metallici nel contempo; l'intera stanza sembrò pazzescamente e malignamente animata. Velocissimi, i tentacoli lo circondarono, immobilizzandolo e facendolo voltare verso i genitori. Entrambi erano ancora sulle sedie, ma non guardavano più i computer: lo fissavano con luminosi occhi verdi che sembravano ribollire nelle orbite, schiumando e agitandosi. Il ragazzo urlò. Pete aprì la bocca e una mezza dozzina di sfere argentee schizzarono all'esterno e colpirono Randy al petto. Lui si sentì invadere da un dolore intenso che, tuttavia, durò soltanto un paio di secondi. Subito dopo, il bruciore si trasformò in un formicolio gelido che gli percorse il viso e il corpo. Cercò nuovamente di gridare, ma non emise alcun suono. I tentacoli si ritirarono in direzione del muro, trascinandolo con loro finché la sua schiena non aderì saldamente all'intonaco. Ora il gelo gli era penetrato nel cranio e strisciava, strisciava... Ancora una volta tentò di urlare. Proruppe in una flebile oscillazione elettronica. Quel martedì pomeriggio, ben coperta perché trovava sempre più difficile riscaldarsi, Meg Hendersen era seduta al tavolo di cucina nei pressi della finestra con un bicchiere di vino bianco, tartine alla cipolla e un romanzo di Nero Wolfe. Aveva letto tutti i libri di Rex Stout anni e anni prima, ma li stava rileggendo. Riprendere in mano i vecchi gialli rappresentava una consolazione perché i personaggi non cambiavano mai: Wolfe era ancora un genio e un buongustaio, Archie amava sempre l'azione e Fritz continua-
va a dirigere la miglior cucina privata del mondo. Inoltre, nessuno di loro era invecchiato dall'ultima volta in cui li aveva incontrati e, questo, era un trucco che desiderava moltissimo avere imparato. Meg aveva ottant'anni e li dimostrava tutti, non si faceva illusioni. Occasionalmente, quando si guardava allo specchio, rimaneva stupefatta, come se stesse vedendo un'estranea; in qualche modo, si aspettava di cogliere un riflesso della propria gioventù, visto che dentro si sentiva ancora una ragazza. Fortunatamente, non si sentiva tutti quegli anni addosso: le ossa scricchiolavano e i muscoli avevano perso vigore, ma non soffriva d'artrite o altri guai, grazie a Dio. Viveva ancora nella villetta in Concord Circle con lei e Frank avevano comperato quarant'anni addietro, quando entrambi insegnavano alla scuola Thomas Jefferson. Da quando il marito era morto, quattordici anni prima, vi abitava da sola ed era felice di potersi ancora muovere, occuparsi delle pulizie e cucinare. Si sentiva anche più felice per la propria acutezza mentale. Non temeva tanto la malattia, quanto la senilità o un ictus cerebrale che la lasciasse fisicamente integra, ma priva di memoria o con la personalità alterata. Cercava di mantenere la mente in esercizio leggendo moltissimi libri di genere diverso, noleggiando parecchie cassette per il videoregistratore ed evitando, a ogni costo, quelle stupidaggini ottenebranti che venivano spacciate per programmi televisivi. Alle quattro e mezzo si trovava già a metà del romanzo, nonostante si fermasse al termine di ogni capitolo per osservare la pioggia. Mentre guardava fuori, scorse tre creature enormi, scure e assolutamente irreali sbucare dalla macchia d'alberi sul retro della proprietà, a pochi metri dalla sua finestra. Si fermarono un istante mentre una leggera nebbiolina si addensava ai loro piedi, quasi fossero mostri da incubo scaturiti dalla nebbia e pronti a dissolversi improvvisamente come si erano manifestati. Al contrario, sfrecciarono verso la veranda sul retro. Mentre si avvicinavano velocemente, la prima impressione di Meg si rafforzò: non possedevano nulla di terreno, a meno che i fregi rappresentanti creature demoniache non potessero animarsi e scendere dai tetti delle cattedrali. Di colpo, ebbe la certezza di trovarsi in preda ai primi stadi di un violento attacco. Era esattamente ciò che aveva sempre pensato l'avrebbe condotta alla tomba, ma fu sorpresa che iniziasse così, con un'allucinazione tanto pazzesca. Naturalmente, doveva trattarsi proprio di questo, una visione che prece-
deva lo scoppio di un'arteria cerebrale, evidentemente ormai gonfia e premuta sul cervello. Rimase in attesa di una dolorosa sensazione al cranio, aspettò che viso e corpo si contraessero a destra o a sinistra a seguito di una paralisi. Persino quando il primo mostro irruppe dalla finestra, proiettando ovunque frammenti di vetro, facendola cadere dalla sedia e atterrando sopra di lei, tutto zanne e artigli, Meg si meravigliò che un infarto potesse produrre illusioni così vivide e convincenti. Al contrario, l'intensità del dolore non la stupì: aveva sempre saputo che la morte sarebbe stata dolorosa. Dora Hankins, l'addetta alla ricezione della New Wave, era abituata a vedere i dipendenti uscire dall'azienda alle quattro e mezzo. Nonostante l'orario di chiusura fosse fissato alle cinque, un sacco d'impiegati proseguivano il lavoro a casa sui terminali privati, quindi nessuno insisteva sul rigido schema delle otto ore quotidiane. Da quando erano stati convertiti, del resto, i regolamenti erano diventati superflui, visto che tutti si stavano dedicando al medesimo obiettivo — il Nuovo Mondo — e l'unico strumento di disciplina imperante era il loro terrore di Shaddack, di cui disponevano in abbondanza. Alle quattro e cinquantacinque, notando che nessuno aveva ancora attraversato l'atrio, Dora si sentì invadere dall'apprensione. L'edificio era stranamente silenzioso; benché centinaia di persone si trovassero negli uffici e nei laboratori; in effetti, il luogo sembrava deserto. Alle cinque, nessuno se n'era ancora andato e lei decise di controllare che cosa stesse succedendo. Abbandonò la propria postazione alla scrivania dell'ingresso e imboccò il corridoio di accesso agli uffici, assai meno vistoso dell'atrio e dal pavimento ricoperto di vinile. Entrò nella prima stanza a sinistra, occupata da otto ragazze che formavano il nucleo addetto ai lavori di segreteria per i dirigenti di rango inferiore. Tutte e otto stavano sedute ai terminali. Alla luce fluorescente del locale, Dora non ebbe problemi nel vedere quanto intimamente carne e macchine si fossero fuse. Da settimane, ormai, la paura era l'unica emozione a lei nota e pensava di averla sperimentata in tutte le gradazioni e a ogni livello; ora, però, le piombò addosso con rinnovata violenza, più intensa e oscura di quanto non avesse mai provato in precedenza. Una sonda luccicante eruppe dalla parete alla destra di Dora: quasi interamente metallica, grondava tuttavia di una sostanza che sembrava muco
giallastro. La cosa si slanciò su una delle segretarie e senza alcuno spargimento di sangue le trapanò la nuca. Dalla sommità del cranio di un'altra ragazza emerse un secondo tentacolo, che si sollevò come un serpente alla musica del flauto dell'incantatore, esitò e infine, con una velocità tremenda, scattò verso il soffitto, perforandolo e svanendo ai piani superiori. Dora percepì che tutti i computer e i dipendenti della New Wave, si erano in qualche modo collegati in una singola entità e che l'edificio stesso vi veniva incorporato rapidamente in quello stesso momento. Desiderò disperatamente poter fuggire, ma non riuscì a muoversi, forse perché sapeva che ogni tentativo si sarebbe dimostrato inutile. Un attimo dopo, le ragazze la inserirono nella rete. Betsy Soldonna stava accuratamente attaccando un cartello alla parete, proprio dietro la scrivania all'entrata della Biblioteca Pubblica di Moonlight Cove; si trattava di un annuncio dell'Affascinante Settimana del Romanzo, una campagna per spingere i bambini alla lettura. Lei era soltanto l'assistente bibliotecaria, ma il martedì, giorno libero della titolare Cora Danker, lavorava da sola e ne ricavava piacere. Cora era una chiacchierona, sempre pronta a riempire ogni minuto di sosta con pettegolezzi e noiosissimi commenti sui personaggi e gli intrecci dei suoi teleromanzi favoriti. Betsy, da sempre accanita bibliofila, sarebbe stata felicissima di discutere all'infinito sui rispettivi gusti letterari, ma l'altra, benché capo bibliotecaria, non leggeva quasi mai. La donna staccò il quarto pezzo di nastro adesivo e fissò al muro l'ultimo angolo del cartellone, poi arretrò per ammirare il proprio lavoro. L'annuncio illustrato era opera sua, e si sentiva orgogliosa del proprio modesto talento artistico. Nel disegno, un bambino e una bambina tenevano un libro fra le mani e fissavano a occhi sbarrati le pagine aperte di fronte a loro; gli orecchi del maschietto si erano letteralmente staccati dalla testa, mentre la bimba aveva i capelli ritti. In cima, una scritta recitava I LIBRI SONO LUNA-PARK PORTATILI, PIENI DI BRIVIDO E DI SORPRESE. Dagli scaffali situati all'estremità opposta della biblioteca venne un suono curioso: un grugnito, una tosse strozzata e quello che sarebbe potuto essere un ringhio. Subito dopo si udì l'inconfondibile rumore di libri che rovinavano a terra. A parte Betsy, l'unica persona presente nella sala era Dale Foy, un ex cassiere del supermercato locale ritiratosi in pensione tre anni prima. Pe-
rennemente in cerca di romanzi polizieschi, si lamentava sempre che nessuno era all'altezza dei narratori di una volta. La donna venne colta dal sospetto che il signor Foy fosse stato colto da un attacco cardiaco e avesse cercato di chiedere aiuto, trascinando i libri al suolo nel tentativo di aggrapparsi a uno scaffale. Poteva già raffigurarselo mentre si contorceva sul pavimento, incapace di respirare, il viso bluastro e gli occhi strabuzzati, una schiuma rossiccia sulle labbra... Anni di continue letture avevano acuito l'immaginazione di Betsy fino ad affilarla come un rasoio d'ottimo acciaio tedesco. Si affrettò verso il fondo della sala, ispezionando tutti gli stretti passaggi fra le alte scaffalature. «Signor Foy? Signor Foy, sta bene?» Nell'ultimo corridoio trovò i libri caduti, ma nessuna traccia di Dale Foy. Perplessa, si voltò per tornare sui propri passi e lo vide apparire... totalmente cambiato. Persino la vivida immaginazione di Betsy Soldonna non avrebbe potuto concepire l'essere in cui Foy si era trasformato e quanto stava per farle. I successivi cinque minuti furono densi di sorprese più di un centinaio di libri messi assieme ma, purtroppo, senza alcun lieto fine. A causa delle nere nubi temporalesche che chiazzavano il cielo, su Moonlight Cove si addensò un crepuscolo precoce. Al pari della biblioteca, tutta la città parve dedita a festeggiare l'Affascinante Settimana del Romanzo: per molti, il calar del giorno fu denso di brividi e sorprese, proprio come il luna-park più macabro che avesse mai piantato le tende da quelle parti. 37 Sam fece scorrere il fascio di luce della torcia elettrica per tutta la soffitta. L'impiantito era formato da spesse tavole di legno, completamente sgombre fatta eccezione per la polvere, le ragnatele e una moltitudine di api morte. Soddisfatto, tornò alla botola e ridiscese nell'armadio della camera da letto di Harry, per abbassare la scala pieghevole e arrivare fin lassù, avevano dovuto spostare gran parte degli abiti appesi. Tessa, Chrissie, Harry e Moose lo stavano aspettando, di fronte alle ante aperte, nella stanza sempre più immersa nell'oscurità. Sam esordì: «Sì, può andare». «Non vado lassù da prima della guerra», disse il reduce.
«Un po' di sporcizia, qualche ragno, ma sarai al sicuro. Se non ti hanno collocato alla fine della lista e vengono a cercarti presto, troveranno la casa vuota e non penseranno certo a un nascondiglio in soffitta. Come farebbe un uomo privo dell'uso delle gambe e di un braccio a trascinarsi lì in cima?» Il federale non era certo di poter prestare fede alle sue parole, ma voleva crederci per il bene di tutti. «Posso portare Moose con me?» «Prenditi la pistola di cui ci hai parlato», osservò Tessa, «ma lascia qui il cane. Per quanto ben addestrato, potrebbe tuttavia abbaiare nel momento meno opportuno.» «Quando loro arriveranno... Moose sarà in pericolo?» domandò la bambina. «Sono sicuro che non corre alcun rischio», la tranquillizzò Sam. «Non vogliono i cani, solo le persone.» «Sarà meglio trasportarti di sopra, Harry», suggerì la ragazza. «Sono le cinque e venti, e tra poco dovremo uscire di qui.» La camera da letto si stava riempiendo d'ombre alla medesima velocità con cui si versa in un bicchiere del vino rosso sangue. PARTE TERZA La notte appartiene a loro Montgomery mi spiegò che la Legge ... si indeboliva stranamente al calar delle tenebre; che proprio allora l'animale era al massimo delle sue forze; al tramonto lo spirito d'avventura si destava in lui; osava cose che non sembrava neppure sognarsi durante il giorno. H.G. WELLS, L'isola del Dottor Moreau 1 Sulle colline adiacenti la Comunità Icaro, piccoli roditori, topolini di campagna, conigli e qualche volpe uscirono dalle tane e rabbrividirono sotto la pioggia, tesi nell'ascolto. Nelle due macchie d'alberi più vicine, scoiattoli e procioni si alzarono sulle zampe posteriori. Gli uccelli furono i primi a rispondere. Nonostante l'acquazzone, abbandonarono i nidi fra gli alberi, nel granaio diroccato e sotto le cadenti grondaie dell'edificio principale; schiamazzando e stridendo, volarono a spirale
nel cielo, dardeggiando e scendendo in picchiata per poi precipitarsi verso la casa. Stornelli, scriccioli, corvi, gufi e falchi accorsero in una profusione di trilli e batter d'ali. Alcuni andarono a sbattere contro i muri come fossero ciechi, spezzandosi il collo e piombando al suolo; altri, ugualmente frenetici, trovarono porte e finestre aperte attraverso le quali entrare senza danni. Benché tutti gli animali in un raggio di duecento metri avessero udito il richiamo, solo i più vicini risposero obbedientemente: i conigli saltellarono, gli scoiattoli corsero a precipizio, i coyote balzarono, le volpi sfrecciarono e i procioni procedettero con la loro tipica, curiosa andatura ondeggiante. Tutti si diressero verso la fonte di quel canto da sirena. Predatori e prede avanzarono a fianco a fianco senza conflitti, come in un film a cartoni animati di Disney. L'armonia e la fratellanza del regno animale rispondevano al richiamo dell'armonica di un uomo di colore che avrebbe raccontato loro favole di magia e grandi avventure. Dove stavano andando, però, non c'era nessun vecchio nero gentile e la musica che li attirava era oscura, gelida e priva d'armonia. 2 Mentre Sam lottava per sospingere Harry su per la scaletta fino alla soffitta, Tessa e Chrissie portarono la sedia a rotelle nel garage sotterraneo. Si trattava di un pesante modello a motore, che non sarebbe mai passato attraverso la botola. La parcheggiarono di fianco al portello della rimessa perché sembrasse che Harry l'avesse usata fino a quel punto, per poi salire sull'auto di un amico e andarsene con lui. «Pensi ci cascheranno?» domandò la bambina, preoccupata. «È probabile.» «Forse crederanno che Harry abbia lasciato la città ieri, prima che organizzassero i posti di blocco.» Tessa assentì, ma sapeva, e sospettava che anche Chrissie se ne rendesse conto, che esistevano poche probabilità che il trucco funzionasse. Se Sam e Harry fossero davvero stati tanto fiduciosi nella sua riuscita, avrebbero insistito che anche la bambina rimanesse nascosta lassù invece di uscire in una città da incubo. Risalirono in ascensore e trovarono Sam intento a piegare la scaletta e a rimettere a posto la botola. Moose lo stava osservando con curiosità. «Cinque e quarantadue», disse la ragazza, controllando l'orologio.
.«Aiutami a rimettere i vestiti nell'armadio.» Camicie e pantaloni, ancora sugli appendiabiti, erano stati trasferiti sul letto. Lavorando in gruppo, passandosi gli indumenti come vigili del fuoco volontari con i secchi d'acqua, conferirono rapidamente all'armadio il suo solito aspetto. Tessa si accorse che le bende al polso del federale erano intrise di sangue fresco: evidentemente le ferite si erano riaperte in seguito allo sforzo. Benché non fossero lesioni mortali, dovevano dolergli molto, e qualunque cosa lo indebolisse o lo distraesse durante il calvario che li attendeva diminuiva la loro probabilità di riuscita. Chiudendo l'anta, lui esclamò: «Dio mio, detesto l'idea di lasciarlo qui!» «Cinque e quarantasei», gli rammentò la ragazza. Mentre Tessa indossava il giubbotto di pelle e Chrissie s'infilava una larghissima giacca a vento blu appartenente a Harry, Sam ricaricò la pistola. Infilata l'arma nella fondina, si diresse al telescopio e studiò le strade circostanti. «C'è ancora un sacco di attività», riferì. «Autopattuglie?» «Sì, ma la pioggia cade a rovesci e si sta addensando una gran nebbia.» «Cinque e cinquanta», lo sollecitò Tessa. Chrissie osservò: «Se il signor Talbot è fra i primi della lista, saranno qui da un minuto all'altro». Il federale si allontanò dallo strumento. «D'accordo. Andiamo.» Tessa e Chrissie lo seguirono fuori dalla stanza e tutti e tre imboccarono le scale. Moose prese l'ascensore. 3 Quella sera, Shaddack era come un bambino. Mentre continuava ad aggirarsi in cerchio per Moonlight Cove, dall'oceano alle colline, da Holliwell Road a nord fino a Paddock Lane a sud, non riusciva a ricordare di essere mai stato d'umore migliore. Modificò lo schema del proprio percorso per accertarsi di passare per tutti gli isolati e le strade della città; la vista delle case e degli uomini di ronda gli provocava una sensazione inedita perché presto sarebbero stati suoi, per farne ciò che desiderava. Traboccava di aspettative ed eccitazione, come non gli accadeva più da
quando era bambino alla vigilia di Natale: Moonlight Cove era un immenso giocattolo ed entro qualche ora, allo scoccare della mezzanotte, sarebbe finalmente stato in grado di divertirsi. Avrebbe dato sfogo a desideri che covava da tempo e che si era sempre negato; da quel momento in poi, niente gli sarebbe stato impedito perché, a dispetto della malvagità e della crudeltà di qualunque gioco scegliesse, non sarebbero più esistite autorità in grado di punirlo. Ed esattamente come un bambino quando penetra furtivamente nel guardaroba per rubare le monetine dalle tasche del papà e comprarsi un gelato, era così totalmente immerso nella contemplazione del premio, da scordarsi l'esistenza di un disastro potenziale. Di minuto in minuto, la minaccia posta dai regressivi svaniva dalla sua mente; benché non si fosse del tutto dimenticato di Loman Watkins, non era più capace di ricordare con esattezza il motivo per cui aveva trascorso la giornata nascondendosi dal capo della polizia. Più di trent'anni di continuo autocontrollo, di strenua e costante applicazione delle proprie risorse fisiche e mentali a partire dal giorno in cui aveva ucciso i genitori e Runningdeer, trent'anni di repressione dei desideri e dei bisogni per sublimarli nel lavoro, lo avevano infine condotto alla vigilia della realizzazione del suo sogno. Non poteva dubitare. Porsi interrogativi sulla sua missione e preoccuparsi per l'esito finale avrebbe significato nutrire riserve sul proprio sacro destino e insultare i grandi spiriti che lo avevano favorito. Incapace di vedere anche il minimo risvolto negativo, distolse la mente da qualsiasi pensiero di disastro incipiente. Da quando aveva eliminato i genitori e l'indiano non aveva più mangiato cactus candito, ma nel corso degli anni era stato soggetto a vistosi flashback, che lo coglievano del tutto inaspettatamente, trasportandolo di colpo in quello strano mondo parallelo. Assai frequenti nel corso del primo anno successivo agli omicidi, questi episodi si erano gradualmente ridotti col tempo. Proprio in quel momento, al volante del furgone, si sentì lentamente invadere dalla familiare magia del cactus. Più si lasciava andare alle sensazioni, più sospettava che questa volta non sarebbe ritornato da quel regno di consapevolezza superiore: d'ora in poi, avrebbe abitato entrambi i mondi, proprio come facevano i grandi spiriti, sperimentando, a piacere, i livelli elevati o inferiori dell'esistenza. Aveva addirittura iniziato a pensare che quanto gli stava capitando in quel momento rappresentasse, in termini spirituali, una sua conversione specifica, mille volte più profonda di quella
cui erano stati sottoposti gli abitanti di Moonlight Cove. Frenando a un incrocio, si toccò il petto e avvertì la presenza del congegno che portava appeso al collo; per un attimo fu incapace di ricordare di che cosa si trattasse, poi si rammentò che quell'oggetto sorvegliava e trasmetteva il suo battito cardiaco ai ricevitori collocati alla New Wave. Funzionante in un raggio di circa tre chilometri anche al chiuso, serviva a far sì che in caso di interruzione delle sue pulsazioni per più di un minuto, Sole inviasse un ordine di distruzione alle microsfere annidate nella Nuova Gente. Dopo qualche minuto, però, lo scopo di quel congegno tornò a risultargli misterioso: avvertì che esso racchiudeva in sé un grande potere, che chiunque lo portasse teneva nelle proprie mani le altrui vite e il bambino sognante che prevaleva in lui decise dovesse essere un amuleto donatogli dai grandi spiriti del cactus. Era un semidio, il figlio favorito del falco notturno, e poteva fare a chiunque qualsiasi cosa gli piacesse. Continuando a guidare, fantasticò su ciò che avrebbe desiderato fare... e a chi. Di tanto in tanto, si abbandonò a una risata sommessa e stranamente acuta, gli occhi brillanti come quelli di un ragazzino crudele e perverso intento a osservare gli effetti del fuoco su un gruppo di formiche prigioniere. 4 Prima di uscire dalla casa di Harry, Sam dichiarò: «Statemi vicine e fate ciò che vi dico in ogni momento». Fissò a lungo Chrissie e Tessa, poi, senza pronunciare una parola, tutti e tre si baciarono e abbracciarono. La bambina non ebbe bisogno di spiegazioni sul motivo di questa improvvisa esplosione di affetto reciproco: erano persone, persone vere, ed esprimere i loro sentimenti rivestiva una grande importanza perché prima dello spuntare del nuovo giorno avrebbero potuto non essere più in grado di farlo. Chissà che cosa provavano quei pazzeschi mutanti? Chi mai avrebbe voluto saperlo? Tra l'altro, se non fossero giunti alle scuole, se qualche pattuglia di ronda o un gruppo di Entità Malefiche li avessero intercettati lungo il cammino, questa sarebbe stata la loro ultima occasione per dirsi addio. Infine Sam le precedette sulla veranda.
Si avviarono attraverso il giardino in direzione della casa adiacente, dove tutte le luci erano spente. Chrissie si augurò che fosse deserta, ma non riuscì a smettere di raffigurarsi una mostruosa creatura celata dietro una delle finestre buie. Scavalcarono il cancelletto che divideva le due proprietà, percorsero il cortile del vicino di Harry, giunsero alla seconda staccionata e la bambina si ritrovò nel mezzo del giardino successivo prima di rendersi conto di essere sul retro della casa dei Coltrane. Anche lì regnava l'oscurità. Un buon segno, perché se le luci fossero state accese, avrebbe voluto dire che qualcuno aveva scoperto ciò che era rimasto dei Coltrane dopo lo scontro con Sam. Chrissie continuò a camminare nonostante si sentisse sopraffare dal terrore che quell'orribile coppia si fosse rianimata e li attendesse al varco. Si aspettava di vedere uscire, con fragore metallico, due esseri robotici, una specie di versione futuristica dei morti viventi nei film di zombi. Questo timore doveva averla spinta a rallentare, perché Tessa, che la seguiva, quasi le cadde addosso e fu costretta a spingerla gentilmente per farla proseguire. Nella casa successiva, i proprietari erano presenti, e Sam si rifugiò fra i cespugli per studiare la situazione, subito seguito dalle sue compagne. Aprendosi un varco fra i rami, Chrissie notò quattro persone radunate in cucina, intente a preparare la cena. «Anche se guardano fuori, non potranno vederci», bisbigliò Sam. «Andiamo!» Raggiunsero senza problemi l'ultimo edificio dell'isolato. Il prato posteriore si affacciava sulla strada laterale, Bergenwood Way, che sbucava sulla Conquistador. Erano ormai a due terzi del percorso, a qualche metro dalla strada, quando un'auto svoltò l'angolo in cima alla collina, a un solo isolato di distanza, e cominciò a scendere nella loro direzione. Seguendo le istruzioni di Sam, Chrissie si appiattì sulla superficie erbosa, in assenza di cespugli dietro cui nascondersi. Per loro fortuna, la Bergenwood non era illuminata da lampioni e il cielo si era ormai oscurato completamente. Con l'avvicinarsi del veicolo, che procedeva lentamente a causa del cattivo tempo o perché i suoi occupanti facevano parte dei nuclei di pattuglia, la luce dei fanali veniva diffusa dalla nebbia, distorcendo ogni oggetto da entrambi i lati della carreggiata.
Quando la macchina si trovò a meno di un isolato da loro, dal finestrino posteriore si sprigionò il fascio di una torcia elettrica, per il momento diretto dalla parte opposta della strada; da un minuto all'altro, però, avrebbero potuto decidere di cambiare lato. «Arretrate!» ordinò Sam. «Restate giù e strisciate, strisciate!» Ventre a terra, Chrissie lo seguì verso la casa: forse intendeva sgattaiolare dietro l'angolo finché la ronda non fosse passata, ma lei dubitava che avrebbero fatto in tempo. Sbirciando alle proprie spalle, si accorse che la luce dei fanali stava per inondare il prato; giunse in tutta fretta al vialetto in cemento che circondava l'edificio — e vide che Sam era scomparso. Si immobilizzò di colpo, guardandosi attorno. Tessa comparve al suo fianco. «I gradini della cantina, tesoro. Subito!» Di fronte a sé, la bambina notò la scalinata: Sam stava accucciato sul fondo ed entrambe lo raggiunsero immediatamente. Un paio di secondi dopo, la torcia elettrica percorse il muro esterno della casa, danzando per un attimo al di sopra delle loro teste. Mentre rimanevano rannicchiati in silenzio, Chrissie fu certa che qualcosa all'interno della casa li avesse uditi: a momenti, la porticina alle spalle di Sam si sarebbe aperta e ne sarebbe balzata fuori una creatura parte lupo mannaro e parte computer, ringhiando e ticchettando, la bocca luccicante di zanne e tasti. «Per essere uccisi, per favore premere Enter.» Fu sollevata quando Sam mormorò: «Andiamo!» Riattraversarono il prato verso la Bergenwood Way. Questa volta la strada rimase deserta. Come Harry, che vi aveva giocato da bambino, aveva promesso, parallelo alla carreggiata scorreva un canale di scarico profondo all'incirca un metro. Al momento, però, il flusso d'acqua piovana aveva alzato il livello e la superficie ribolliva di correnti scure. Benché pericoloso in quelle condizioni, il canale offriva un percorso assai più protetto che non la strada, quindi si spostarono lungo il ciglio finché non trovarono le maniglie di ferro descritte da Harry, collocate ogni centinaio di metri per favorire l'accesso. Sam scese per primo, Chrissie per seconda e Tessa in coda. I due adulti dovevano tenere la testa china per non essere scorti dall'esterno, ma Chrissie non ne aveva alcun bisogno. Avere undici anni presentava dei vantaggi, soprattutto se stavi fuggendo da lupi mannari, avidi alieni, robot e nazisti; durante le ultime ventiquattr'ore aveva cercato in un
modo o nell'altro di scampare ai primi tre e, grazie a Dio, non ai nazisti, ma chi poteva sapere che cosa sarebbe successo in seguito? Le acque agitate erano gelide, e la bambina rimase sorpresa dalla loro forza: sembravano un essere vivente animato dal malvagio intento di farla cadere. Finché rimaneva immobile, con i piedi saldamente piantati sul fondo, non correva alcun rischio, ma non si sentì certa di poter mantenere l'equilibrio durante la marcia. Se fosse scivolata, la corrente l'avrebbe trascinata giù per la collina fino alla baia, dove il canale scompariva nel terreno. Non ebbe nessuna difficoltà a immaginarsi travolta ineluttabilmente, soffocata dall'acqua sporca, incapace di trovare un appiglio, sbattuta contro le pareti di cemento, con le ossa rotte, la testa frantumata... Sì, poteva davvero raffigurarselo ma, improvvisamente, non vide alcun senso nel farlo. Fortunatamente Harry li aveva messi in guardia, quindi Sam era giunto preparato. Cominciò a srotolare una corda che si era già legata in vita prima di uscire di casa, l'assicurò alla cintura di Chrissie e poi a Tessa, lasciando tra loro una certa distanza. Se uno dei tre fosse caduto — beh, guardiamo in faccia la realtà, Chrissie era di gran lunga la più probabile candidata a una fine del genere — gli altri avrebbero potuto tenere duro finché non avesse avuto il tempo di rialzarsi in piedi. Perlomeno, quello era il piano. Saldamente collegati, iniziarono a discendere il canale. Erano diretti verso un tunnel a circa mezzo isolato di distanza, dove il corso d'acqua si insinuava nel sottosuolo all'altezza della Conquistador e vi rimaneva per due interi isolati, risalendo alla superficie sulla Roshmore. Chrissie continuò a fissare l'imbocco del condotto, per niente lieta di quanto vedeva: rotondo, in cemento, abbastanza ampio da consentire un agevole accesso agli addetti alla manutenzione. Ciò che la metteva a disagio, però, non aveva nulla a che spartire con l'aspetto del tunnel; era la sua oscurità totale a farle rizzare i capelli sulla nuca, un buio assoluto, più nero della notte, quasi stessero per inoltrarsi fra le fauci spalancate di un'enorme creatura preistorica. Due auto passarono lentamente nei pressi, la luce dei fanali diffusa dalla nebbia: sfiorava a stento le acque del canale e non penetrava minimamente l'apertura del condotto. Quando Sam attraversò la soglia del tunnel e, in due passi, scomparve interamente dalla vista, la bambina lo seguì senza esitare, anche se con
qualche trepidazione. Ormai procedevano più lentamente perché il pavimento non era più soltanto in discesa, ma anche concavo, quindi pericoloso. L'interno del tunnel sembrava il ventre di una balena. Non che Chrissie ne avesse mai visto uno, ma l'immagine le parve calzante; aveva l'orribile sensazione che quel condotto fosse in realtà uno stomaco e l'acqua corrente un insieme di succhi gastrici già intenti a dissolvere i jeans e le scarpe da tennis. Poi cadde. Il piede le scivolò su qualcosa, forse una colonia di funghi saldamente ancorata al cemento; agitò in aria le braccia nel tentativo di riguadagnare l'equilibrio, ma andò giù con un tonfo tremendo, trovandosi istantaneamente risucchiata dalla corrente. Ebbe la presenza di spirito di non urlare per evitare di attrarre l'attenzione di un'autopattuglia... o peggio. Boccheggiando e cercando di sputare l'acqua che le entrava in bocca, finì contro le gambe di Sam, che perse l'equilibrio e cadde a propria volta. La bambina si chiese quanto a lungo sarebbero rimasti, morti e decomposti, sul fondo del canale, dalla parte della baia, prima che qualcuno scoprisse i loro resti gonfi e violacei. 5 Nell'oscurità tombale, Tessa sentì la piccola cadere e si bloccò istantaneamente, le gambe più larghe e piantate possibile sul pavimento ricurvo, tenendo entrambe le mani sulla corda di sicurezza. Nello spazio di un secondo, la fune si tese allo spasimo mentre Chrissie veniva trascinata dall'acqua. Sam lanciò un'esclamazione e la ragazza capì che la piccola era finita contro di lui. La corda tornò ad allentarsi brevemente, poi si tese di nuovo, sospingendola in avanti; evidentemente, Sam stava barcollando e lottava per rimanere in piedi nonostante il peso della bambina minacciasse di fargli cedere le gambe. Se il federale fosse caduto, la corda le avrebbe dato uno strappo tale da travolgerla. Di fronte a sé, udì ripetuti tonfi nell'acqua e la voce di Sam che imprecava sommessamente. Quella maledetta oscurità, l'impossibilità di vedere, era la cosa peggiore: virtualmente cieca, non riusciva assolutamente a capire che cosa stesse accadendo.
Di colpo venne nuovamente sospinta in avanti. Due, tre — oh, mio Dio! — mezza dozzina di passi. Sam, non cadere! Inciampando, prossima a perdere l'equilibrio, consapevole che tutti loro si trovavano sull'orlo del disastro, Tessa si gettò all'indietro, sfruttando la tensione della corda al fine di stabilizzarsi. La pressione dell'acqua contro le sue gambe andava crescendo. I piedi le slittarono. Come in un videotape fatto scorrere velocemente in avanti, la sua mente fu percorsa da strani pensieri, decine in pochi secondi, e molti la sorpresero. Nulla di stupefacente nel desiderio di sopravvivere, ma la turbò l'immagine di Chrissie, la dettagliata proiezione di loro due insieme in una casa confortevole come madre e figlia. L'intensità con cui avrebbe voluto che ciò si verificasse la lasciò allibita e le parve del tutto fuori luogo, visto che i genitori della bambina erano ancora vivi, dopotutto, e il loro cambiamento avrebbe anche potuto rivelarsi reversibile. Forse la famiglia si sarebbe di nuovo riunita, per quanto sembrasse improbabile. Poi pensò a Sam, alla mancata possibilità di fare l'amore con lui, e quest'ipotesi la scosse profondamente perché, nonostante lo trovasse attraente, non si era affatto accorta di essere emotivamente coinvolta fino a quel punto. Il coraggio dell'uomo nel fronteggiare la disperazione e l'espediente, perfettamente serio, delle quattro ragioni per vivere lo rendevano una sfida affascinante. Doveva offrirgliene una quinta? O soppiantare Goldie Hawn al quarto posto? I piedi continuavano a scivolare e Tessa cercò di fare presa con i talloni sulla superficie viscida. Sam imprecò nuovamente e Chrissie emise un suono strozzato. Un attimo dopo la corda si tese spasmodicamente per poi allentarsi di colpo. Si era spezzata. Entrambi erano stati risucchiati nel tunnel. Per qualche spaventoso secondo cadde il silenzio. Infine la bambina tossì, a pochi passi di distanza. Si accese una torcia elettrica. Sam stava schermando il vetro con la mano. Chrissie stava addossata alla parete del condotto, sottraendosi alla corrente, mentre Sam era in piedi a gambe larghe, girato verso di lei. La corda aveva retto; la tensione si era allentata perché entrambi avevano riguadagnato l'equilibrio. «Stai bene?» bisbigliò il federale alla piccola.
Lei assentì, in preda ai conati per tutta l'acqua sporca ingurgitata. Rivolto a Tessa, Sam chiese: «Okay?» La ragazza non riuscì a parlare: le si era formato un nodo in gola. Inghiottì un paio di volte, sbattè le palpebre, poi il sollievo ebbe il sopravvento. «Okay, certo. Tutto bene.» 6 Quando giunsero alla fine del tunnel senza ulteriori incidenti, Sam si sentì sollevato. Rimase immobile per un attimo sulla soglia, fissando felice il cielo. Per la verità, gli era impossibile vederlo in senso letterale a causa dei densi banchi di nebbia, ma questo era soltanto un particolare; provava ugualmente un gran senso di liberazione nel trovarsi di nuovo all'aria aperta, benché ancora immerso nell'acqua fangosa. Si voltò, attirò a sé la bambina e le disse: «D'ora in poi ti terrò saldamente per il braccio». Lei annuì. Poco più avanti, questo secondo tratto di conduttura all'aperto sfociava in un altro tunnel di cemento che, sempre secondo Harry, terminava all'imbocco del lungo scarico verticale all'altezza della baia. A quanto pareva, lì era stata collocata una grata in acciaio per formare una barriera che lasciasse filtrare solo l'acqua e piccoli oggetti, dunque non avrebbe dovuto presentarsi alcun rischio di venire trascinati in quel salto di una sessantina di metri. Ma Sam non aveva nessuna intenzione di provarci. Per tutta la vita gli era sembrato di aver deluso le aspettative degli altri. Benché all'epoca della morte della madre avesse avuto soltanto sette anni, era sempre stato roso dal senso di colpa, come se fosse stato compito suo salvarla nonostante la tenera età. In seguito non era mai riuscito ad accontentare quel bastardo ubriacone di suo padre e ne aveva sofferto moltissimo. Al pari di Harry, poi, gli era parso di aver abbandonato la popolazione del Vietnam, benché la decisione di ritirarsi fosse stata presa da autorità ben più alte, sulle quali non avrebbe potuto esercitare la minima influenza. Né, del resto, i suoi colleghi dell'FBI erano morti per colpa sua, eppure si era costantemente sentito responsabile. Anche nel caso di Karen, per quanto tutti gli avessero ripetuto che era un folle a ritenersi colpevole del suo tumore, non aveva potuto fare a meno di pensare che se soltanto l'avesse amata di più, lei avrebbe trovato la forza di lottare e vincere la malattia.
Dio solo sapeva, infine, se non aveva lasciato andare alla deriva suo figlio Scott. Chrissie gli strinse la mano. Lui ricambiò la stretta. Sembrava tanto piccola! Qualche ora prima, riuniti nella cucina di Harry, avevano discusso di responsabilità. Ora, improvvisamente, si accorse che il proprio senso di responsabilità era tanto alto da confinare con l'ossessione, ma concordava pienamente con il veterano: la dedizione di un uomo nei confronti degli altri, soprattutto gli amici o la famiglia, non poteva mai essere eccessiva. Non si sarebbe in alcun modo immaginato che una delle acquisizioni chiave della sua vita gli sarebbe balenata mentre si trovava immerso fino alla vita nell'acqua fangosa di un canale di scarico, in fuga da nemici umani e non. Si rese conto che il suo problema non risiedeva nella prontezza con cui si addossava le responsabilità né nell'insolito carico che era disposto ad assumersi; no, maledizione, no, il suo problema consisteva nell'aver permesso al senso di responsabilità di ostacolare la sua capacità di accettare il fallimento. Tutti gli esseri umani fallivano, di tanto in tanto, e la ragione spesso non andava imputata all'individuo bensì al destino. Di fronte all'insuccesso, doveva imparare non solo ad andare avanti, ma anche a farsene una ragione. Voltare le spalle alla vita era un atteggiamento blasfemo, se credevi in Dio, e semplicemente stupido, in caso contrario. Finalmente capiva il motivo per cui aveva perso Scott: perché, innanzitutto, aveva perso ogni amore per la vita, cessando così di essere in grado di dividere con il figlio qualunque evento significativo, o di bloccare sul nascere la sua discesa nel nichilismo. In quel momento, se avesse cercato di enumerare le proprie ragioni per vivere, l'elenco avrebbe compreso centinaia, anzi migliaia di voci. Questa consapevolezza lo assalì nello spazio di un istante, mentre teneva per mano la bambina, come se il flusso temporale fosse stato dilatato per una bizzarria della relatività. Si accorse che se non fosse riuscito a salvare Chrissie e Tessa, ma ne fosse uscito vivo, avrebbe dovuto comunque continuare a vivere. L'incubo divenuto realtà che stavano sopportando a Moonlight Cove lo aveva scosso profondamente, facendo emergere verità fondamentali che avrebbe dovuto afferrare facilmente durante i suoi lunghi anni di tormento; forse la verità era sempre semplice, una volta scoperta. Beh, d'accordo, forse sarebbe riuscito a tirare avanti anche se avesse perso Tessa e la piccola, ma, accidenti, avrebbe fatto in modo che ciò non ac-
cadesse. Sì, dannazione, non lo avrebbe permesso. Tenendo per mano Chrissie, si mosse con cautela lungo il canale, grato per la sua maggiore praticabilità e per l'assenza di alghe. In meno di un minuto raggiunsero un'altra serie di maniglie di ferro infisse nel muro laterale; Tessa si unì a loro e rimasero tutti e tre aggrappati a quel solido ancoraggio. Poco dopo, approfittando di una pausa della pioggia, Sam fu nuovamente pronto a mettersi in moto; salì un paio di gradini e guardò la strada. Nulla si muoveva, fatta eccezione per la nebbia. Quella sezione del condotto fiancheggiava le scuole, a malapena visibili nell'oscurità, fievolmente illuminate da un paio di lampioni. Il terreno era circondato da un'alta cancellata, ma la cosa non lo spaventò: tutti i cancelli possedevano un'entrata. 7 Harry attese in soffitta, sperando per il meglio e aspettandosi il peggio. Era addossato alla parete della stanza buia, nell'angolo più lontano dalla botola, e non esisteva nulla dietro cui nascondersi. Del resto, se qualcuno si fosse preso la briga di svuotare l'armadio, abbassare la scaletta e sporgere la testa lassù per dare un'occhiata, forse non avrebbe esplorato diligentemente ogni anfratto; una volta viste le assi nude e la miriade di ragni, probabilmente si sarebbe ritirato. Assurdità: chiunque si fosse dato la pena di arrivare fino alla soffitta, l'avrebbe ispezionata da cima a fondo. Harry, però, decise di rimanere aggrappato a quella speranza, assurda o meno. Non si sentiva scomodo. Tra l'altro, per equipaggiarlo alla mancanza di riscaldamento del locale, Sam lo aveva aiutato a indossare abiti di lana pesante. Buffo come un sacco di gente sembrava credere che un uomo paralizzato non potesse provare alcuna sensazione alle estremità. In alcuni casi era vero, ma le lesioni alla spina dorsale si presentavano sotto mille forme diverse: se la colonna vertebrale non aveva subito una frattura totale, i livelli di sensibilità rimasti alla vittima variavano moltissimo. Per quanto lo riguardava, era ancora in grado di provare caldo o freddo. Dal punto di vista fisico le sue sensazioni si erano notevolmente ridotte, nessun dubbio in proposito, ma le emozioni non avevano nulla a che spar-
tire con il corpo. Benché fosse certo che pochi gli avrebbero creduto, la menomazione aveva arricchito la sua vita emotiva. I libri e il telescopio lo avevano aiutato a tenere aperta una porta sul mondo, ma era soprattutto la sua incrollabile volontà di condurre un'esistenza molto piena ad averlo mantenuto integro di mente e di cuore. Se quelle dovevano essere le sue ultime ore, quando il momento fosse venuto, avrebbe spento la candela senza amarezza: rimpiangeva ciò che aveva perduto, ma soprattutto considerava prezioso quanto gli era rimasto. In ultima analisi, sentiva di aver trascorso una vita nel complesso positiva, preziosa, degna d'essere vissuta. Aveva due pistole. Se fossero venuti a cercarlo in soffitta, avrebbe scaricato su di loro la calibro trentotto, poi il revolver. Tranne l'ultima pallottola, che avrebbe tenuto per sé. Non si era portato proiettili di riserva: un uomo con una mano sola non poteva ricaricare con sufficiente rapidità, e non voleva correre il rischio di trasformare quest'estremo sforzo in un finale comico. Il tamburellare della pioggia sul tetto era finalmente cessato. Sarebbe stato bello poter rivedere il sole. Si preoccupava più per Moose che non per se stesso. Quel povero cane era dabbasso da solo. Qualora fossero arrivate le Entità Malefiche, e nel caso si fossero spinte fino alla soffitta e lo avessero costretto a uccidersi, sperava che Moose non rimanesse a lungo senza un buon padrone. 8 A Loman, ancora al volante dell'autopattuglia, Moonlight Cove sembrava nel contempo morta e pullulante di vita. Giudicata in base ai normali segni di vita quotidiana, la città era un guscio vuoto, defunta come un villaggio fantasma nel deserto del Mohave: negozi, bar e ristoranti erano chiusi, come pure il locale dei Perez, normalmente molto affollato. Gli unici pedoni sui marciapiedi erano gli uomini di ronda o le squadre addette alle conversioni; allo stesso modo, le strade appartenevano soltanto alle macchine della polizia e alle vetture private che collaboravano al pattugliamento. Tuttavia, Moonlight Cove brulicava di vita perversa. Parecchie volte scorse figure strane e veloci muoversi nella nebbia, ancora furtive, ma assai più audaci delle notti precedenti. Quando si fermava o rallentava per studiare quegli esseri, alcuni di loro sostavano nell'oscurità per fissarlo con
occhi giallastri, verdi o rossi come brace, quasi stessero contemplando l'ipotesi di attaccare la sua macchina e trascinarlo fuori prima che avesse il tempo di rimettere in moto e fuggire. Osservandoli, si sentiva invadere dal desiderio di abbandonare i vestiti e la rigidità della forma umana per unirsi a loro in quel semplice universo di caccia, cibo e accoppiamento. Ogni volta volgeva rapidamente lo sguardo e proseguiva prima che loro — o lui stesso — potessero dar seguito all'impulso. Qua e là oltrepassava case in cui brillavano luci sinistre e finestre al di là delle quali si muovevano ombre così grottesche e abominevoli che il suo cuore accelerava il battito nonostante si trovasse a distanza di sicurezza. Non pensò neppure di fermarsi a investigare su che genere di creature potessero abitare quegli edifici, o a quali compiti si stessero dedicando, perché avvertì che quegli esseri dovevano aver subito la stessa sorte di Denny e che, per molti versi, rappresentavano un pericolo assai maggiore dei regressivi in caccia. Ormai viveva in un mondo di forze cosmiche e primordiali, di mostruose entità notturne, dove gli uomini erano ridotti a poco più di bestie e l'universo dell'amorevole Dio cristiano era stato sostituito dal regno delle antiche divinità crudeli e bramose di potere e vendetta. Nell'aria, nella nebbia densa, nelle strade buie e persino nella luce giallastra dei lampioni sulle vie principali aleggiava la dilagante sensazione che, quella notte, nulla di buono sarebbe potuto accadere, ma che qualunque altra cosa, per quanto fantastica o bizzarra, sarebbe stata possibile. Avendo letto innumerevoli tascabili nel corso degli anni, Lovecraft gli era familiare. Lo aveva apprezzato ma sempre meno di Louis L'Amour, soprattutto perché quest'ultimo si occupava di vicende reali, mentre H.P. Lovecraft descriveva l'impossibile. O, perlomeno, così gli era sembrato all'epoca. Ora, invece, sapeva che gli uomini potevano creare davvero incubi paragonabili alle fantasie degli scrittori più dotati d'immaginazione. Shaddack. Doveva trovare Shaddack. Dirigendosi a sud lungo la Juniper, si fermò all'incrocio con Ocean Avenue proprio mentre un'altra auto della polizia frenava al segnale di stop sulla carreggiata opposta. Sulla via principale il traffico era inesistente. Abbassando il finestrino, Loman si affiancò alla seconda autopattuglia. Il numero impresso sulla portiera sopra le insegne del dipartimento gli indicò che si trattava della macchina di Neil Penniworth, ma quando guardò all'interno non vide il giovane agente. Al suo posto, scorse qualcosa che
un tempo sarebbe anche potuto essere Penniworth, ancora vagamente umano, illuminato dalle luci del cruscotto, ma soprattutto, dal riflesso del terminale mobile. Cavi gemelli, identici a quelli sviluppatisi sulla fronte di Denny, per consentirgli un legame più stretto con il computer, erano spuntati dal cranio del giovane; benché la luce fosse scarsa, sembrava che uno dei due, insinuatesi nel volante, scomparisse nel motore dell'auto, mentre l'altro si protendeva in direzione del terminale. Anche la forma del cranio di Penniworth era mutata radicalmente: tutto sporto in avanti, irto di appendici puntute (evidentemente sensori di qualche tipo) leggermente luccicanti come acciaio brunito. Con le spalle allargate a dismisura, sinistramente dentellate e aguzze, sembrava aver scelto l'aspetto di un robot barocco. Le sue mani non erano appoggiate sul volante, ma, del resto, forse non possedeva neppure più delle mani; Loman sospettava che Penniworth non fosse diventato soltanto un tutt'uno con il computer, bensì anche con l'auto. L'essere girò lentamente il capo verso Watkins. Nelle orbite prive d'occhi tremavano e si agitavano incessantemente bianche vampate crepitanti d'elettricità. Shaddack aveva affermato che l'affrancamento dalle emozioni conferiva alla Nuova Gente la capacità di utilizzare le energie cerebrali in misura di gran lunga superiore, fino al punto di esercitare un controllo mentale sulla forma e la funzione della materia. Dato che la coscienza era ora in grado di dettare la forma, essi potevano diventare qualunque cosa volessero, al fine di fuggire da un mondo in cui erano loro vietati i sentimenti, benché non potessero ritornare la Vecchia Gente che erano stati. Evidentemente, la vita di un cyborg doveva essere priva d'angoscia, se il giovane aveva cercato il sollievo — e forse anche l'oblio — in questa mostruosa incarnazione. Che cosa provava ora? Che scopo lo animava? Rimaneva in quello stato di alterazione perché davvero lo preferiva? O era forse come Peyser, intrappolato per motivi fisici o perché un aspetto aberrante della sua psicologia gli impediva di riassumere faltezze umane che egli, al contrario, desiderava riacquistare? Loman si accinse a prendere la pistola dal sedile laterale. Un cavo segmentato esplose dalla portiera dell'auto di Penniworth, senza lacerare il metallo, come se il veicolo si fosse dato un nuovo assetto. Con uno schiocco, la sonda colpì il finestrino della macchina di Loman. Questi si lasciò sfuggire l'arma dalle mani sudate, incapace di distogliere gli occhi da quell'orrore.
Il vetro non si ruppe, ma una piccola porzione ribollì e si sciolse in un istante, consentendo al tentacolo di penetrare all'interno, ondeggiante verso il viso del capo della polizia. Aveva una bocca a ventosa, come quella di un'anguilla, ma i dentini acuminati sembravano d'acciaio. Lui spostò in fretta la testa, lasciò perdere l'arma e schiacciò a tavoletta l'acceleratore. Per una frazione di secondo, parve quasi che la Chevrolet indietreggiasse, poi, con un'impennata che mandò Loman a sbattere contro lo schienale, balzò in avanti sulla Juniper. Dapprima il tentacolo, fra le auto, si allungò per mantenere il contatto, sfiorò il setto nasale del capo della polizia e scomparve di colpo, ritirandosi nella portiera da cui era scaturito. Loman guidò ad alta velocità fino al termine della strada, poi rallentò prima di svoltare; l'aria fischiava attraverso il foro prodotto dalla sonda nel finestrino. Sembrava che i suoi peggiori timori si stessero avverando: chi fra la Nuova Gente non sceglieva la regressione si stava trasformando — o veniva mutato per volontà di Shaddac — in orripilanti ibridi fra uomo e macchina. Trova Shaddack. Uccidi il creatore e dai pace ai mostri tormentati, generati da lui. 9 Preceduta da Sam e seguita da Tessa, Chrissie avanzò a fatica sul prato intriso d'acqua del campo sportivo. A tratti l'erba fradicia lasciava il posto a fango colloso che le si attaccava rumorosamente alle scarpe, facendole pensare a se stessa, come a una goffa aliena dai piedi a ventosa. Poi le venne in mente che, in un certo modo, quella sera era davvero un'aliena a Moonlight Cove, una creatura assai diversa da ciò che era diventata la maggioranza dei cittadini. Avevano percorso due terzi del tragitto quando vennero bloccati da un grido acuto che lacerò la notte. Quella voce inumana si innalzò, calò d'intensità e tornò ad accrescersi, selvaggia e sinistra eppure familiare, il richiamo di una delle belve che lei aveva ritenuto extraterrestri invasori. Immediatamente, l'ululato ottenne risposta. Perlomeno mezza dozzina di grida ugualmente agghiaccianti si elevarono da tutte le parti: dalla città, dalle colline e dagli scogli in riva all'oceano, distanti solo un paio di isolati.
Tutto d'un tratto, Chrissie anelò al tunnel buio e ribollente d'acque tanto fetide che avrebbero potuto provenire dalla vasca da bagno del diavolo in persona. A paragone, il terreno aperto sembrava incredibilmente pericoloso. Un nuovo richiamo si innalzò, mentre gli altri svanivano nell'aria, tremendamente vicino. Troppo vicino. «Andiamo dentro», bisbigliò Sam con urgenza. La bambina stava cominciando ad ammettere a se stessa che, dopotutto, non sarebbe mai stata adatta per impersonare l'eroina di un romanzo: era terrorizzata, infreddolita, sfinita per gli sforzi, affamata e iniziava a compiangersi. Non ne poteva più di avventure; desiderava soltanto una casa calda, pigri pomeriggi trascorsi fra i libri, al cinema o di fronte a una doppia razione di torta di crema. Giunti a quel punto, una vera eroina avrebbe già escogitato una serie di brillanti stratagemmi per distruggere le belve e trasformare i robot in innocue macchine per il lavaggio delle auto. E sarebbe stata pronta per venire incoronata principessa del regno, tra le acclamazioni della grata cittadinanza di Moonlight Cove. Attraversarono di corsa gli ultimi metri di prato e il parcheggio deserto fino al retro dell'edificio scolastico. Nulla li attaccò. Grazie, Dio. La tua amica Chrissie. Di nuovo un ululato. Talvolta, persino Dio sembrava possedere una vena perversa. Lungo la facciata posteriore si trovavano sei porte. Sam le esaminò tutte, studiando le serrature alla luce della torcia elettrica. A quanto pareva, non era in grado di aprirle e la bambina rimase delusa perché aveva sempre immaginato che gli agenti dell'FBI fossero così bene addestrati da poter forzare la cassaforte di una banca, con lo sputo e una forcina per capelli. Ispezionò poi le finestre, trascorrendo parecchio tempo a guardare al di là dei vetri; in realtà, non stava controllando le stanze, bensì le intelaiature interne. Di fronte all'ultima porta, l'unica non completamente di metallo, ma con la parte superiore del battente in vetro, Sam spense la pila, fissò solennemente Tessa e mormorò: «Non credo abbiano un sistema d'allarme. Potrei sbagliarmi, ma non ho visto cavi o contatti alle finestre». «E se avessero installato un impianto di sicurezza di tipo diverso?» obiettò lei. «Beh, esistono anche i sistemi rivelatori di movimento, che impiegano
trasmettitori di suono o spie elettriche. Però mi sembrano un po' troppo elaborati per una scuola e troppo sensibili per un edificio del genere.» «E allora che si fa?» «Adesso forzo una finestra.» Chrissie si aspettava che lui estraesse da una tasca un rotolo di nastro isolante da collocare sul vetro per attutire il rumore e per impedire ai frammenti di cadere sul pavimento della stanza. Nei libri succedeva sempre così. Sam invece si limitò a sferrare un colpo con il gomito nel riquadro inferiore della finestra, mandando in franturni il vetro con un frastuono spaventoso. Forse aveva dimenticato di portare con sé il nastro. Infilato il braccio nell'apertura, armeggiò con la maniglia ed entrò per primo. La bambina lo seguì, cercando di non camminare sulle schegge. Il federale accese la torcia elettrica senza eccessive precauzioni. Si trovavano in un lungo corridoio. Rimasero un attimo in ascolto. La scuola era silenziosa. Si misero in moto, guardando nelle aule e nei ripostigli, in cerca della stanza che ospitava i computer. Ben presto giunsero a un'intersezione con un altro corridoio e si fermarono nuovamente, le teste inclinate per percepire il minimo rumore. Tutto era ancora immobile. E buio. L'unica fonte d'illuminazione proveniva dalla torcia elettrica, che Sam teneva nella mano sinistra, mentre con la destra impugnava ora la pistola. Dopo una lunga pausa, lui osservò: «Non c'è nessuno». Il che sembrava assolutamente vero. Per un attimo Chrissie si sentì meglio, al sicuro. D'altra parte, però, se davvero era convinto che fossero soli all'interno della scuola, perché non metteva via la pistola? 10 Guidando attraverso il proprio regno, in impaziente attesa della mezzanotte, lontana solo cinque ore, Thomas Shaddack era ormai regredito allo stadio infantile. Ora che il suo trionfo si trovava a portata di mano, poteva finalmente accantonare la mascherata dell'adulto, sostenuta per così tanto tempo, e respirare di sollievo. In realtà, era rimasto un bambino dallo sviluppo emotivo bloccato per sempre all'età di dodici anni, quando il mes-
saggio del falco notturno si era letteralmente annidato dentro di lui. Da quel momento in poi, aveva simulato la crescita emotiva di pari passo con la maturazione fisica. Ma la finzione non era più necessaria. Aveva sempre conosciuto questo aspetto di se stesso e lo considerava la propria maggiore virtù, un vantaggio su coloro che si erano lasciati l'infanzia alle spalle. Un bambino di dodici anni poteva possedere e alimentare un sogno in modo più determinato di un adulto, senza la costante distrazione di bisogni e desideri in conflitto fra loro. Alle soglie della pubertà, un ragazzino disponeva della dedizione adatta a focalizzarsi totalmente su un singolo Grande Sogno; appropriatamente istruito, poteva trasformarsi nel perfetto monomaniaco. Il Progetto Falco Notturno, il suo Grande Sogno di potere divino, non sarebbe giunto a compimento se egli fosse maturato normalmente. Shaddack doveva il proprio trionfo imminente all'arresto nello sviluppo. Era di nuovo un bambino, non più in segreto bensì apertamente, ansioso di soddisfare ogni capriccio, di impadronirsi di qualunque cosa desiderasse, di infrangere le regole. I dodicenni erano per natura dei senza-legge, sulla soglia della ribellione stimolata dagli ormoni. Lui, però, era ben più di un senza-legge: un bambino che volava sulle ali del cactus ingerito tanto tempo prima, ma ancora responsabile delle sue alterazioni psichiche. Un bambino che sapeva di essere una divinità. E la crudeltà potenziale di qualsiasi ragazzino impallidiva di fronte alla crudeltà degli dei. Per passare il tempo fino alla mezzanotte, immaginò che cosa avrebbe fatto del proprio potere quando l'intera Moonlight Cove sarebbe caduta sotto il suo dominio. Alcune fra le sue stesse idee lo fecero rabbrividire, con uno strano misto di eccitazione e disgusto. Stava percorrendo la Iceberry Way quando si accorse che l'indiano era con lui. Rimase allibito nel voltare la testa e vedere Runningdeer seduto dalla parte del passeggero; bloccò il furgone nel bel mezzo della strada e lo fissò incredulo e spaventato. Questi, però, non aveva affatto un atteggiamento minaccioso, ma si limitava a guardare davanti a sé senza neppure rivolgergli la parola. Lentamente Shaddack capì: ora lo spirito dell'indiano gli apparteneva, esattamente come il furgone. I grandi spiriti glielo avevano inviato in qualità di consigliere, un premio per aver portato al successo Falco Notturno. Ma questa volta era lui, non Runningdeer, a possedere il controllo, quindi
questi avrebbe parlato solo se fosse stato interpellato. «Ciao, Runningdeer», esordì. L'indiano lo guardò. «Salve, Piccolo Capo.» «Adesso sei mio.» «Sì, Piccolo Capo.» Per una frazione di secondo, Shaddack contemplò l'ipotesi di essere pazzo, che il pellerossa fosse soltanto un'illusione creata da una mente malata. I bambini monomaniaci, però, non sono in grado di esaminare approfonditamente le loro condizioni mentali, e il pensiero lo abbandonò con la medesima rapidità con cui lo aveva assalito. Rivolto al passeggero, riprese: «Farai ciò che ti dico». «Sempre.» Immensamente compiaciuto, Shaddack rimise in moto il furgone. Le luci dei fanali illuminarono un essere dagli occhi d'ambra e dalle fattezze inimmaginabili intento a bere l'acqua di una pozzanghera. Lui si rifiutò di considerarlo qualcosa di rilevante e lo lasciò svanire dalla propria memoria non appena scomparve a grandi balzi dalla carreggiata. Lanciando un'occhiata malevola all'indiano, dichiarò: «Sai cosa farò un giorno o l'altro?» «Che cosa, Piccolo Capo?» «Quando tutti saranno convertiti, non solo a Moolight Cove ma in tutto il mondo, quando non avrò più nemici, allora dedicherò un po' di tempo a rintracciare la tua famiglia: fratelli, sorelle, cugini, tutti i loro figli, le mogli e i mariti di costoro, fino all'ultimo discendente e li farò pagare per i tuoi misfatti.» La sua voce aveva assunto una nota petulante e lamentosa che non gli piaceva, ma che non poteva fare a meno di usare. «Ucciderò tutti i maschi, li ridurrò personalmente a brandelli, ma prima spiegherò loro che saranno costretti a soffrire per colpa tua, in modo che ti disprezzino, maledicano il tuo nome e la sua stessa esistenza. Poi violenterò tutte le donne, facendo loro molto, ma molto male, e le ammazzerò una per una. Che te ne pare, eh?» «Se è così che desideri, Piccolo Capo.» «Puoi scommetterci.» «Allora potrai farlo.» «Stanne maledettamente certo.» Shaddack si stupì nel sentirsi le lacrime agli occhi. Fermò il furgone a un incrocio e non proseguì. «Quello che mi hai fatto non è stata una cosa giusta.»
L'indiano tacque. «Di' che è stata un'ingiustizia!» «È stata un'ingiustizia, Piccolo Capo.» Shaddack estrasse di tasca un fazzoletto e si soffiò il naso. Aveva già smesso di piangere. Sorrise al paesaggio al di là del parabrezza, sospirò e guardò Runningdeer. Questi stava fissando di fronte a sé. «Naturalmente, senza di te non sarei mai diventato il figlio del falco notturno.» 11 La sala dei computer si trovava al pianterreno, nel cuore dell'edificio. Le finestre si affacciavano su un cortile interno, invisibile dalla strada, quindi Sam accese le luci. La stanza, molto ampia, ospitava trenta computer disposti lungo le pareti e in una doppia fila al centro, ciascuno isolato dagli altri mediante paratie che formavano una specie di cubicolo. Guardandosi intorno, Tessa esclamò: «Certo la New Wave è stata generosa, non è vero?» «Forse 'scrupolosa' è un termine più adatto», rispose Sam. Si avviò lungo una fila di terminali in cerca di modem e linee telefoniche, ma non ne trovò. Tessa e Chrissie rimasero nei pressi della porta, sorvegliando il corridoio. Il federale si sedette a una delle macchine e l'attivò: sullo schermo apparve il simbolo della New Wave. In assenza di telefoni e modem, forse i computer erano davvero stati donati alla scuola con l'intento di addestrare gli studenti, senza alcun secondo fine rispetto al progetto Falco Notturno. Il marchio scomparve, sostituito dall'elenco dei programmi. Le possibili scelte erano cinque: A. Addestramento 1 B. Addestramento 2 C. Word processing D. Contabilità
E. Diverse Sam esitò, non in quanto fosse incerto sul tasto da premere, ma perché ebbe improvvisamente paura di usare la macchina. Rammentava troppo bene i Coltrane. Benché avesse avuto l'impressione che fondersi con i computer fosse stata una loro libera scelta, che la trasformazione fosse cominciata dentro di loro, non aveva alcun modo di sapere, per certo, se in realtà non fosse accaduto l'esatto contrario. Forse i computer li avevano afferrati in qualche strano modo, anche se sembrava un'ipotesi assurda. Tra l'altro, grazie alle osservazioni di Harry, sapevano che gli abitanti di Moonligh Cove venivano convertiti mediante un'iniezione, non a opera di una forza quasi magica in grado di trasferirsi, insidiosamente, dai tasti del terminale ai polpastrelli delle dita. Ciononostante, lui si sentiva a disagio. Infine premette E e ottenne un lista di materie scolastiche: A. Lingue B. Matematica C. Scienze D. Storia E. Letteratura F. Altre Selezionò F, ottenne un altro elenco e il procedimento continuò finché infine non ricavò New Wave fra le possibili scelte. Quando premette il tasto corrispondente, lo schermo si riempì di parole. Salve, studente ora sei in contatto con il supercomputer della New Wave Microtechnology. Il mio nome è Sole. Sono qui per servirti. Le macchine fornite alla scuola erano collegate direttamente con la New Wave: i modem erano superflui. Ti piacerebbe vedere i programmi
o preferisci specificare ciò che ti interessa? Considerata l'abbondanza di elenchi nel solo sistema del dipartimento di polizia preso in esame la notte precedente, Sam immaginò che avrebbe rischiato di rimanere seduto tutta la sera a osservare una lista dietro l'altra prima di imbattersi in ciò che voleva. Di conseguenza digitò: Dipartimento di polizia di Moonlight Cove. Informazioni riservate. Per favore, non tentare di procedere senza l'assistenza di un insegnante. Lui suppose che ciascun insegnante disponesse di un numero di codice individuale che, a seconda se fosse stato o meno convertito, gli avrebbe consentito l'accesso a dati altrimenti segreti. L'unico modo di azzeccare un codice consisteva nel provare combinazioni numeriche casuali, ma dal momento che ignorava persino di quante cifre fosse composto, le possibilità erano milioni, se non miliardi. Avrebbe potuto rimanere lì finché non gli fossero venuti i capelli bianchi e non riuscire ugualmente a scoprire la combinazione giusta. La notte precedente si era servito del codice personale dell'agente Reese Dorn; si chiese se funzionasse soltanto sui terminali a disposizione della polizia o se venisse accettato da qualsiasi computer collegato con Sole. Nulla da perdere nel tentare: battè sulla tastiera 262699. Sullo schermo comparve: Salve, agente Dorn. Sam chiese nuovamente del sistema di dati del dipartimento. Questa volta gli venne fornito. Scegliere A. Centralino B. Archivio centrale C. Bollettino quotidiano D. Modem extra-sistema Premette D. Lo schermo gli mostrò un elenco di computer a livello nazionale con cui era possibile un collegamento tramite il modem del dipartimento di polizia.
Le sue mani si coprirono di sudore. Era certo che qualcosa non avrebbe funzionato, se non altro perché, fino a quel momento, niente era stato facile, dall'istante in cui aveva messo piede in città. Guardò Tessa. «Tutto bene?» Lei sbirciò nel corridoio buio, poi gli strizzò l'occhio. «Così pare. Hai avuto fortuna?» «Sì, forse.» Tornò a voltarsi verso il terminale e mormorò: «Per piacere...» Esaminò la lunga serie di possibili collegamenti al di fuori del sistema e trovò FBI Key, il nome di una delle più recenti e sofisticate fra le reti computerizzate del Bureau — un archivio dati di massima sicurezza collocato al quartier generale di Washington e installato nel corso dell'anno precedente. Si presumeva che nessuno, tranne gli agenti appositamente autorizzati e muniti di un codice speciale, fosse in grado di servirsene. Alla faccia della massima sicurezza. Sempre attendendosi dei problemi, selezionò il programma. L'elenco scomparve e lo schermo rimase vuoto per qualche secondo; infine, ecco apparire il distintivo federale in blu e oro. Subito dopo iniziarono a lampeggiare una serie di domande — Qual è il suo numero d'identificazione dell'FBI? Il nome? La data di nascita? La data di arruolamento nel Bureau? Il cognome della madre? Una volta fornite le risposte esatte, Sam fu premiato con l'accesso. «Evviva!» esclamò, osando mostrarsi ottimista. Tessa chiese: «Cos'è successo?» «Sono penetrato nel sistema principale del Bureau a Washington.» «E adesso?» «Fra un minuto mi metterò in contatto con l'operatore di turno. Per prima cosa, però, voglio inviare i miei saluti a ogni dannata sede del Paese, in modo che mi prestino attenzione.» «Saluti?» Dall'estesa lista FBI Key, Sam selezionò la voce G. Immediata trasmissione a tutte le sedi, perché non intendeva limitarsi a far pervenire il messaggio agli uffici di San Francisco, i più vicini e quelli da cui sperava di ottenere aiuto. Esisteva sempre una possibilità su un milione che l'operatore notturno di laggiù trascurasse il suo appello fra montagne di altre comunicazioni, nonostante egli volesse premettere l'avviso Allarme operativo. Se davvero qualcuno si fosse addormentato al volante in un momento così inopportuno, il suo sonno non sarebbe durato a lungo, visto che tutte le sedi
avrebbero immediatamente chiamato il quartier generale per ulteriori informazioni sulla trasmissione da Moonlight Cove. Non riusciva a capire neppure la metà di quanto stava accadendo in città, ma del resto, anche in caso contrario, non sarebbe stato in grado di fornire una spiegazione esauriente in poche righe. Elaborò quindi una rapida sintesi che ritenne abbastanza accurata e, soprattutto, tale da convincerli a muoversi di corsa. Allarme operativo Moonlight Cove - California * Dozzine di morti. Situazione in deterioramento. Probabili altre centinaia di cadaveri in giro di ore. * New Wave Microtechnology impegnata in esperimenti illeciti su soggetti umani inconsapevoli. Cospirazione su vastissima scala. * Migliaia di abitanti contaminati. * Ripeto, intera popolazione locale contaminata. * Situazione estremamente pericolosa. * Individui colpiti risentono di perdita delle facoltà mentali. Mostrano tendenza a violenza estrema. * Ripeto, violenza estrema. * Richiesta immediata quarantena a opera delle forze speciali. Richiesto anche istantaneo, massiccio appoggio armato del personale federale. Fornì inoltre la propria posizione presso le scuole cittadine, in modo che i soccorritori in arrivo potessero localizzarlo, nonostante non fosse del tutto certo che loro tre riuscissero a rimanere al sicuro sul posto fino al sopraggiungere dei rinforzi. Chiuse il messaggio digitando il proprio nome e il numero d'identificazione del Bureau. Quell'appello non li avrebbe preparati allo choc per ciò che si aggirava a Moonlight Cove ma, perlomeno, li avrebbe spinti a muoversi e ad aspettarsi di tutto. Digitò Trasmettere, poi ebbe un ripensamento e cancellò il comando, sostituendolo con Trasmissione ripetuta. Il computer chiese Per quante volte? Lui battè 99, poi premette il tasto Trasmettere. A quali uffici? Tutti. Lo schermo fece lampeggiare la scritta: In trasmissione.
In quel preciso istante, ogni stampante laser in tutte le sedi FBI del Paese stava riproducendo la prima delle novantanove copie del messaggio. Ben presto, tutto il personale dei turni di notte si sarebbe arrampicato su per i muri. Sam si mise quasi a urlare di gioia. Ma restava altro da fare. Non erano ancora usciti dai guai. Ritornò rapidamente all'elenco principale di Key e selezionò la voce A Operatore notturno. Cinque secondi dopo era in contatto con l'agente di turno nella sala comunicazioni centrale del Bureau a Washington. Sullo schermo lampeggiò un numero d'identificazione, seguito dal nome Anne Denton. Traendo un'immensa soddisfazione nell'usare l'alta tecnologia per distruggere Thomas Shaddack, la New Wave e il progetto Falco Notturno, Sam s'impegnò in una conversazione elettronica con Anne Denton, allo scopo di rivelare gli orrori di Moonlight Cove nei minimi dettagli. 12 Benché Loman non nutrisse più alcun interesse per le attività del dipartimento di polizia, continuò ad attivare il terminale dell'auto ogni dieci minuti per verificare se stesse accadendo qualcosa. Si aspettava che Shaddack si mantenesse in contatto, almeno di tanto in tanto, con il quartier generale di polizia; se fosse stato così fortunato da intercettare un dialogo via computer fra lui e un agente, avrebbe potuto identificare la posizione di quel bastardo in base a quanto si dicevano. Preferì evitare di lasciare la macchina sempre in funzione perché ne aveva paura. Non pensava certo che gli sarebbe saltata addosso per succhiargli il cervello, ma si rendeva conto che servirsene troppo a lungo poteva spingerlo a diventare come Neil Penniworth o Denny, allo stesso modo in cui la vicinanza con un regressivo aveva fatto nascere in lui un potente desiderio di mutare. Si era appena accostato al marciapiede in Holliwell Road e stava accingendosi a verificare se era in corso qualche conversazione quando la parola Allarme, apparve sullo schermo a grandi lettere. Ritrasse la mano dalla tastiera come se qualcosa lo avesse morso. Il computer lampeggiò Sole richiede un colloquio. Sole? Il supercomputer della New Wave? Perché mai s'inseriva sul sistema del dipartimento di polizia? Prima che chiunque altro potesse rispondere alla macchina, Loman as-
sunse l'iniziativa e digitò Colloquio approvato. Domando chiarificazioni, disse Sole. Lui rispose Sì, il che poteva significare Procedi. Sole proseguì Le telefonate riguardanti i numeri non approvati di Moonlight Cove e tutti i numeri esterni sono ancora proibite? Sì. Anche le linee telefoniche riservate a Sole sono comprese nella proibizione suddetta? Il computer della New Wave si riferiva a se stesso in terza persona. Confuso, Loman battè Poco chiaro. Conducendolo pazientemente passo dopo passo, Sole spiegò di avere linee telefoniche speciali al di fuori dell'elenco cittadino, tramite le quali i suoi utilizzatori potevano chiamare altri computer e ottenere accesso. Lui lo sapeva già, quindi digitò Sì. Le linee telefoniche riservate a Sole sono comprese nella proibizione suddetta? ripetè la macchina. Se fosse stato pratico di computer come Denny, avrebbe capito immediatamente quanto stava accadendo, ma al contrario si sentiva ancora confuso. Chiese Perché? Il Modem extra-sistema è in uso in questo momento. Da parte di chi? Samuel Booker. Se fosse stato capace di entusiasmarsi, Loman avrebbe riso. L'agente aveva trovato una via d'uscita e finalmente sarebbe scoppiato il finimondo. Prima che potesse chiedere a Sole dettagli sulla posizione di Booker, un altro nome apparve sul margine superiore dello schermo: Shaddack. Ciò indicava che il Moreau della New Wave stava osservando il dialogo sul proprio terminale e aveva deciso di intromettersi. Il capo della polizia fu lieto di lasciare che i due conversassero senza interruzioni. Shaddack domandò ulteriori particolari. Sole rispose Ottenuto accesso al sistema FBI Key. Loman s'immaginò lo choc di quel folle. Sul video apparve la sua domanda successiva: Alternative. Questo significava che era alla disperata ricerca di qualunque soluzione Sole fosse in grado di offrire. La macchina gli presentò cinque possibilità, l'ultima delle quali era Interrompere il collegamento. Shaddack la approvò. Un attimo dopo il supercomputer riferì: Collegamento con FBI Key interrotto.
Loman si augurò che Booker avesse già trasmesso un messaggio sufficiente a far saltare il pazzo e Falco Notturno. Quest'ultimo insisté: Il terminale di Booker? È richiesta la posizione? Sì. Edificio scolastico di Moonlight Cove. Sala dei computer. Il capo della polizia era a tre minuti da lì. Si chiese quanto fosse vicino l'altro. Non aveva importanza: a qualsiasi distanza si trovasse, Shaddack si sarebbe precipitato sul posto per impedire al federale di sventare il progetto — o per vendicarsi, se Falco Notturno fosse già stato compromesso. Finalmente Loman sapeva dove scovare il suo creatore. 13 Dopo qualche battuta soltanto del colloquio con Anne Denton, la linea s'interruppe e lo schermo si oscurò. Sam voleva disperatamente credere che si trattasse di un problema di ordinaria amministrazione, ma sapeva che non era così. Si alzò dalla sedia con rapidità tale da capovolgerla al suolo. Chrissie sobbalzò per la sorpresa e Tessa esclamò: «Che succede? Qualcosa non va?» «Sanno che siamo qui», rispose lui. «Stanno arrivando.» 14 Harry sentì il campanello suonare dabbasso. Il suo stomaco si contorse come se fosse sulle montagne russe di un luna-park. Un altro squillo. Seguì un lungo silenzio: sapevano che era invalido e gli stavano dando il tempo di rispondere. Infine suonarono di nuovo. Lui guardò l'orologio. Solo le sette e mezzo. Sapere che non lo avevano collocato in fondo alla lista non lo consolò affatto. Il campanello si fece sentire ripetutamente, con insistenza. Attutito dai due piani di distanza, si udì l'abbaiare di Moose.
15 Tessa afferrò la mano di Chrissie e tutti e tre si precipitarono fuori dalla stanza. Le batterie della torcia elettrica dovevano essere quasi consumate, visto che il fascio di luce si andava affievolendo. La ragazza sperò che durassero abbastanza da permettere loro di riguadagnare l'uscita: improvvisamente, l'intersecarsi dei corridoi sembrava un labirinto. Percorsa una ventina di metri, si accorse che avevano preso la direzione sbagliata. «Non siamo venuti di qui.» «Non importa», rispose Sam. «Qualsiasi porta andrà bene.» Dopo un'altra decina di metri, la fioca luce della torcia rivelò che stavano percorrendo un corridoio senza sbocchi. «Da questa parte!» Li incitò Chrissie, lasciando la mano della ragazza e girandosi nella direzione dalla quale erano venuti, obbligandoli a seguirla o abbandonarla. 16 Shaddack immaginò che Booker non avrebbe cercato di entrare nelle scuole da un ingresso sulla strada, dove avrebbero potuto vederlo, e l'indiano fu d'accordo, quindi guidò il furgone sul retro. Oltrepassò diverse porte di metallo che rappresentavano una barriera insormontabile e studiò le finestre in cerca di un vetro rotto. Mentre percorreva lentamente la facciata posteriore, la luce dei fanali veniva riflessa dai vetri; la sua attenzione fu presto attratta da un riquadro oscuro. «Là», segnalò a Runningdeer. «Sì, Piccolo Capo.» Dopo aver parcheggiato, afferrò il fucile Remington calibro 12 dal pavimento del furgone; la scatola delle munizioni stava sul sedile del passeggero. Prese una manciata di proiettili, li infilò in tasca, scese dal veicolo e si avviò verso il vetro rotto. 17 Quattro tonfi sordi si ripercossero per tutta la casa, persino in soffitta, e a Harry parve di udire il frastuono di vetri in frantumi. Moose abbaiava furiosamente: stava esibendo una grinta fino ad allora
insospettata. Forse si sarebbe dimostrato capace di proteggere la casa e il padrone, nonostante il suo temperamento fondamentalmente amichevole. Non farlo, piccolo, pensò il reduce. Non cercare di comportarti da eroe. Limitati a sgattaiolare in qualche angolo e lasciali passare, lecca loro le mani, se è il caso, e non... Il cane guaì e tacque. No! si disperò Harry, percorso da una fitta di dolore. Non aveva perso un cane, ma il suo migliore amico. Anche Moose aveva posseduto un forte senso del dovere. La casa piombò nel silenzio. Come prima cosa lo avrebbero cercato al pianterreno. La paura e la pena del veterano si affievolirono con l'accrescersi della rabbia. Moose. Maledizione, quel povero e innocuo labrador. Si sentiva il viso congestionato dal furore. Voleva ucciderli tutti. Con la mano buona afferrò la 38 e se la tenne in grembo. Non lo avrebbero trovato ancora per un po', ma avere la pistola vicina lo faceva stare meglio. Durante il servizio militare aveva vinto alcune medaglie nelle gare di tiro, ma ormai era trascorso molto tempo; da più di vent'anni non si esercitava con le armi, da quando, nella magnifica e lontana Asia, in una mattina straordinariamente tersa, era rimasto menomato per la vita. Continuava a pulire e lubrificare le sue due pistole essenzialmente per abitudine: le lezioni e le procedure militari rimanevano impresse per sempre e, in quel momento ne, fu lieto. Un cigolio. Il ronzio di un motore. L'ascensore. 18 A metà strada lungo il corridoio che portava all'uscita, la pistola e la torcia elettrica in mano, Sam udì una sirena che si avvicinava. Non ancora nelle immediate adiacenze, era però troppo vicina. Non fu in grado di stabilire se l'autopattuglia si stesse accostando alla parte posteriore dell'edificio, dove loro erano diretti, oppure all'ingresso principale. A quanto pareva, anche Chrissie provò la medesima incertezza perché si fermò e chiese concitatamente: «Dove, Sam? Dove?» Alle loro spalle Tessa gridò: «Sam, la porta!»
Per un attimo lui non capì che cosa avesse voluto dire, poi vide il battente alla fine del corridoio aprirsi di colpo. Entrò un uomo. La sirena, sempre più vicina, era ancora in funzione, quindi stavano sopraggiungendo altri rinforzi, un vero plotone. Il tizio sulla soglia era soltanto il primo — un'ombra molto alta, illuminata posteriormente dal lampione esterno. Sam sparò senza curarsi di stabilire se quell'uomo fosse davvero un nemico, dato che tutti loro lo erano, dal primo all'ultimo. Sapeva di avere una pessima mira a causa del polso ferito che, dopo le disavventure nel condotto, gli faceva un male d'inferno; il contraccolpo dell'arma si ripercosse lungo il braccio fino alla spalla, provocandogli fitte tremende. La pistola gli cadde quasi di mano. Mentre l'eco dello sparo di Sam si spegneva lungo il corridoio, l'altro aprì il fuoco a propria volta, ma con l'artiglieria pesante. Fortunatamente non era molto abile e mirava troppo in alto, ignorando, evidentemente, che il rinculo avrebbe spinto la canna all'insù; di conseguenza, la prima raffica finì contro il soffitto, distruggendo un neon e qualche piastrella. La sua reazione confermò la totale mancanza di esperienza con le armi: questa volta esagerò nel compensare il contraccolpo, abbassando troppo la canna e colpendo il pavimento a una certa distanza dall'obiettivo. Sam non rimase passivamente a osservare quella prestazione scadente, ma sospinse Chrissie sulla sinistra, in un'aula buia, mentre la seconda raffica sollevava frammenti di vinile dal corridoio. Tessa, dietro di loro, chiuse la porta dell'aula e vi si addossò, come se pensasse di poter far rimbalzare le pallottole contro la propria schiena. Il federale le porse la torcia elettrica, ormai penosamente fioca. «Con il polso ferito, avrò bisogno di entrambe le mani per impugnare la pistola.» Lei illuminò per quanto possibile la stanza: si trovavano nell'aula riservata alle prove della banda. Sulla destra sorgeva la gradinata, mentre a sinistra, c'era un ampio spazio libero con il podio per il direttore e due porte, entrambe aperte, che conducevano nelle stanze adiacenti. Chrissie non ebbe bisogno di alcuna sollecitazione per seguire Tessa verso la porta più vicina, mentre Sam copriva loro le spalle camminando all'indietro e tenendo sotto tiro l'ingresso. All'esterno la sirena si era spenta. Ora gli uomini armati con fucili a pompa sarebbero stati più di uno. 19
Avevano ispezionato i primi due piani ed erano ormai giunti nella camera da letto. Harry poteva udirli parlare attraverso il pavimento della soffitta, ma non riuscì a capire che cosa stessero dicendo. Sperò quasi che individuassero la botola nell'armadio e decidessero di salire. Voleva avere la possibilità di ammazzarne almeno un paio. Per Moose. Dopo venti lunghi anni nel ruolo di vittima, era stufo marcio: bramava un'occasione per dimostrare loro che Harry Talbot era ancora un uomo con cui fare i conti e che, nonostante Moose fosse solo un cane, togliergli la vita avrebbe comportato serie conseguenze. 20 Nella nebbia crescente, Loman scorse l'auto della polizia parcheggiata di fianco al furgone di Shaddack e frenò proprio mentre Paul Amberlay emergeva dal sedile di guida. Questi era snello, muscoloso e molto intelligente, uno fra i migliori agenti giovani del corpo locale, ma, in quel momento, sembrava un adolescente spaventato. Amberlay si avvicinò al superiore con la pistola in mano, tremando visibilmente. «Solo lei e io? Dove diavolo sono tutti gli altri? Questa è una situazione d'emergenza!» «Dove sono tutti gli altri?» replicò Loman. «Prova un po' ad ascoltare, Paul.» Da ogni angolo della città, decine di ululati s'innalzavano in una canzone sinistra, chiamandosi a vicenda o rivolti a una luna invisibile. Watkins si affrettò verso il portabagagli della propria auto e ne estrasse un fucile a pompa del tipo normalmente impiegato in azioni antisommossa, mai usato in precedenza nella pacifica Moonlight Cove. La New Wave, che aveva tanto generosamente equipaggiato le forze di polizia, non aveva badato a spese neppure per quanto riguardava le attrezzature ritenute superflue. Raggiungendolo, Amberlay chiese: «Sta forse sostenendo che sono tutti regrediti, l'intero corpo di polizia tranne lei e me?» «Prova un po' ad ascoltare», ripetè Loman, depositando il fucile contro il paraurti. «Ma è una follia!» insistè il giovane. «Santo Dio, lei vuol dire che l'intera faccenda ci sta crollando addosso? Tutto questo maledetto affare?» L'altro prese una scatola di munizioni dall'auto e l'aprì. «E tu non senti
l'impulso, Paul?» «No!» escalmò Amberlay troppo in fretta. «No, non lo sento, non sento proprio niente!» «Io sì», dichiarò Loman caricando il fucile. «Eccome, Paul! Vorrei solo strapparmi i vestiti e mutare, mutare, per correre, essere libero, andare con loro a cacciare e uccidere.» «Io no, no, non lo farei mai!» «Bugiardo.» Il capo della polizia sollevò il fucile e sparò ad Amberlay a bruciapelo, devastandogli il cranio. Non avrebbe potuto fidarsi del giovane e girargli le spalle, non quando l'urgenza di regredire era così forte in lui stesso e con quelle voci nella notte che cantavano la loro melodia ammaliatrice. Mentre s'infilava nelle tasche le munizioni di riserva, udì una raffica proveniente dall'interno della scuola. Si chiese se il fucile a pompa fosse nella mani di Booker o di Shaddack. Lottando per controllare il terrore crescente, combattendo il potente e insidioso impulso ad abbandonare la forma umana, Loman entrò per scoprirlo. 21 Tommy Shaddack udì lo sparo di un altro fucile, ma non si preoccupò più di tanto perché, dopotutto, era scoppiata la guerra. Te ne potevi accorgere facilmente uscendo all'esterno, nella notte, e ascoltando le grida dei combattenti che echeggiavano dalle colline all'oceano. A lui, però, interessava di più prendere Booker, la donna e la bambina visti nel corridoio: aveva capito che quelle due dovevano essere la Lockland e Chrissie Foster, anche se non riusciva a immaginare come avessero fatto a incontrarsi. Una guerra. Di conseguenza, si comportò come i soldati nei film, aprendo la porta con un calcio e sparando una raffica prima di entrare. Nessuno gridò. Supponendo di non aver colpito nessuno, fece fuoco una seconda volta con il medesimo risultato. Dovevano essere già fuggiti. Oltrepassò la soglia, cercò a tentoni l'interruttore della luce, lo trovò e scoprì di trovarsi nella sala della banda, assolutamente vuota. Evidentemente se n'erano andati da una delle due porte. Quando se ne accorse, Tommy montò su tutte le furie. L'unica volta in cui aveva usato un'arma era stato a Phoenix, quando aveva ucciso l'indiano con la rivoltella del padre, ma si era trattato di un colpo a distanza ravvicina, che rendeva impossibile mancare il bersaglio. Ciononostante, si era aspettato di dimo-
strarsi un buon tiratore. Dopotutto, santo Cielo, aveva visto un sacco di film di guerra, western, telefilm polizieschi e non gli era mai parso difficile, proprio per niente, solo puntare e premere il grilletto. Ma non era così. Ormai, però, aveva capito: avrebbe allargato le gambe e opposto resistenza, così le raffiche non sarebbero più finite sul pavimento o sul soffitto. La prossima volta li avrebbe inchiodati, e quei tre si sarebbero pentiti di avere avuto a che fare con lui, di non essere morti quando lui li voleva morti. 22 La porta che avevano imboccato conduceva a una stanza suddivisa in dieci camerini insonorizzati per le prove, dove gli studenti di musica potevano massacrare magnifiche melodie per ore intere senza disturbare nessuno. Sul fondo del locale, Tessa spinse un'altra porta e illuminò a malapena una sala ampia come quella della banda; una scritta vergata a mano su una parete, completa di angioletti, la definiva «Sede del miglior coro del mondo». Mentre Chrissie e Sam entravano dietro di lei, un fucile a pompa tuonò in distanza, probabilmente all'esterno dell'edificio. Non appena la porta della sala prove si fu richiusa alle loro spalle, si udì un'altra raffica, molto più vicina, forse nei locali della banda. Esattamente come prima, due porte conducevano fuori dalla sala del coro, ma una si rivelò un vicolo cieco perché sbucava nell'ufficio dell'insegnante di canto. Si precipitarono all'altra uscita, oltre la quale trovarono un corridoio illuminato da una scritta luminescente rossa — SCALE — il che significava che si trattava di un passaggio interno senza sbocchi. «Porta su la bambina!» Sam incitò Tessa. «Ma...» «Su! Stanno probabilmente invadendo il pianterreno da ogni ingresso.» «E tu che cosa...» «Mi posizionerò per un po' qui sotto», stabilì lui. Una porta sbattè e un fucile fece fuoco nella sala del coro. «Andate!» bisbigliò il federale. 23
Harry udì aprirsi l'anta dell'armadio nella camera da letto. La soffitta era gelida, ma lui stava sudando a profusione come in una sauna. Forse avrebbe dovuto evitare di indossare due golf. Andate via, pensò. Andate via. Poi si disse: Maledizione, no, venite avanti. Credete che voglia vivere per sempre? 24 Sam posò a terra un ginocchio, assumendo una posizione stabile per compensare il polso indebolito dalla ferita. Tenne la porta aperta qualche centimetro, le braccia protese nella fessura, la 38 impugnata con la mano destra, la sinistra stretta attorno al polso. Improvvisamente scorse l'uomo, stagliato contro le luci della sala prove alle sue spalle. Un tizio alto, con il viso in ombra, anche se qualcosa in lui gli parve familiare. Questi, invece, non lo vide. Procedeva con cautela, sparando una raffica prima di muoversi. Proprio in quel momento premette il grilletto: lo scatto a vuoto risuonò nella stanza deserta. Aveva finito le munizioni. Ciò significava un cambiamento nei piani di Sam, che saltò in piedi e avanzò oltre il battente, per bloccarlo prima che avesse il tempo di ricaricare. Fece fuoco quattro volte, vuotando il caricatore e sforzandosi di mandare a segno ogni proiettile. Al secondo o terzo colpo l'uomo strillò, Dio, si lagnò come un bambino, la voce acuta e tremolante; poi scomparve alla vista nel corridoio della sala prove. Sam continuò a procedere, armeggiando con la sinistra nella tasca della giacca in cerca di proiettili, mentre con la destra apriva il cilindro e scuoteva via i bossoli; quando raggiunse la porta che collegava la sala della banda e quella del coro, dove l'altro era svanito, si addossò alla parete e ricaricò la Smith & Wesson. Diede un calcio al battente ed esaminò il locale illuminato dai neon. Era deserto. Nessuna traccia di sangue sul pavimento. Maledizione! La mano destra era quasi insensibile e il polso si stava gonfiando sotto il bendaggio ormai intriso di sangue. Al ritmo in cui la sua mira si andava deteriorando, avrebbe dovuto affiancarsi a quel bastardo e chiedergli di mettersi in bocca la canna per poterlo uccidere. I dieci cubicoli per le prove erano chiusi, mentre la porta che sfociava
nella sala della banda era aperta: il tizio alto poteva essersi rifugiato là, ma anche in uno dei dieci stanzini. Dovunque si trovasse, però, ormai aveva avuto il tempo d'inserire nel fucile, perlomeno, un paio di munizioni, quindi, il momento d'inseguirlo era passato. Sam arretrò e, mentre chiudeva il battente, riuscì a scorgere l'uomo per una frazione di secondo, a qualche metro di distanza. Shaddack in persona. Il fucile a pompa tuonò ancora. La porta insonorizzata si dimostrò sufficientemente spessa da fermare i proiettili. Il federale si voltò e corse fino alle scale, dove aveva mandato Tessa e Chrissie. Raggiunto l'ultimo pianerottolo, le trovò in attesa. Sotto di loro, Shaddack cominciò a salire. Sam scese il primo gradino, si sporse oltre la ringhiera, lo vide ed esplose due colpi. L'altro strillò nuovamente come un bambino e si rifugiò contro il muro, allontanandosi dal centro delle scale. Il federale non era sicuro di aver centrato il bersaglio. Forse. Tuttavia sapeva per certo che Shaddack non era ferito mortalmente, dato che aveva ripreso a salire lentamente, un gradino per volta, mantenendosi addossato alle pareti. Una volta arrivato sul pianerottolo, avrebbe aperto il fuoco. Loro non avevano via di scampo. 25 Un tintinnio. Un rumore raschiante. Harry capì immediatamente: le grucce che scorrevano sulla sbarra di metallo. Come avevano fatto a saperlo? Cristo, forse avevano sentito il suo odore; dopotutto, stava sudando come un cavallo. Forse la conversione migliorava l'olfatto. I suoni cessarono. Un attimo dopo, li udì svuotare l'armadio per guadagnare l'accesso alla botola. 26
La torcia elettrica cominciò a lampeggiare, costringendo Tessa a scuoterla ripetutamente per ottenere qualche secondo di luce fioca e tremolante. Dal pianerottolo erano passati in un laboratorio di chimica, con tavoli di marmo nero, lavandini in acciaio e alti sgabelli di legno. Impossibile nascondersi. Ispezionarono le finestre, sperando che il piano inferiore fosse sormontato da una tettoia: no, solo uno strapiombo sul marciapiede di cemento. Scoprirono una porta che conduceva in un magazzino pieno di sostanze chimiche in bidoni e bottiglie sigillate, alcune con la caratteristica etichetta con il teschio e le ossa incrociate, altre con la scritta PERICOLO a grandi lettere rosse. La ragazza suppose che esistessero parecchi modi di servirsene come arma, ma non avevano il tempo di inventariare il materiale disponibile in cerca di sostanze interessanti da miscelare fra loro. Fra l'altro, non era mai stata una brava studentessa di chimica, non ricordava praticamente nulla di quanto le era stato insegnato e sarebbe probabilmente saltata in aria con la prima bottiglia che avesse aperto. Dall'espressione del viso di Sam, capì che si trovava nella medesima situazione. L'uscita posteriore del magazzino si apriva su un'aula di biologia dalle pareti decorate con carte anatomiche; anche qui non esisteva la minima possibilità di nascondersi. Stringendo la bambina, Tessa guardò Sam e bisbigliò: «E adesso? Aspettiamo qui, sperando che non ci trovi, o continuiamo a muoverci?» «Penso sia più sicuro mantenersi in movimento. Se restiamo immobili, gli sarà più facile intrappolarci.» Lei assentì. Il federale aprì la strada fra i tavoli da laboratorio, dirigendosi verso una porta che immetteva sul corridoio. Alle loro spalle, nel magazzino o nel laboratorio di chimica, si udì un rumore tenue ma distinto. Sam si bloccò, spinse Tessa e Chrissie dietro di sé e si voltò, tenendo sotto tiro l'uscita dal magazzino. Con la bambina al fianco, Tessa proseguì fino all'uscio e abbassò la maniglia silenziosamente, aprendo il battente sul corridoio. Immediatamente Shaddack emerse dall'oscurità e le spinse la canna del fucile contro lo stomaco. «Adesso te ne pentirai», esclamò eccitato. 27
Abbassarono la chiusura della botola. Dall'armadio, un fascio di luce dardeggiò sulle tavole di legno, senza però illuminare l'angolo in cui Harry stava seduto con le gambe inerti allungate. Il reduce strinse vigorosamente la pistola con la mano buona. Il cuore gli martellava in petto come non accadeva più da vent'anni, sin dai tempi dei combattimenti nel sud-est asiatico. Lo stomaco era in subbuglio e la gola tanto stretta da impedirgli quasi di respirare. La paura gli dava le vertigini, ma, Dio santissimo, si sentiva finalmente vivo. Con un cigolio, estrassero la scala. 28 Tommy Shaddack le premette la canna contro il ventre e fu sul punto di polverizzarla quando si accorse di quanto fosse carina. Di colpo, non volle più ucciderla, perlomeno non subito, non finché non l'avesse costretta a fare certe cose con lui, a lui. Avrebbe dovuto prestarsi a qualsiasi suo desiderio, qualunque richiesta, altrimenti l'avrebbe spiaccicata contro il muro, proprio così, era sua, ormai, e sarebbe stato meglio che se ne accorgesse subito, o l'avrebbe fatta pentire. Poi vide la bambina di fianco a lei, piccola e graziosa, di dieci o dodici anni, e si sentì ancora più eccitato. Avrebbe potuto prendersela per prima, e in seguito anche la più vecchia, possederle in qualsiasi modo gli aggradasse, costringerle a fare certe cose, ogni genere di cose, e poi farle soffrire com'era suo diritto; non avrebbero potuto negarglielo, non a lui, perché lui aveva potere di vita e di morte su tutte le cose, lui aveva visto il falco notturno tre volte. Avanzò oltre la soglia tenendo l'arma contro il ventre della ragazza, che arretrò per fargli spazio, stringendo a sé la bambina. Booker era in piedi dietro di loro, con un'espressione stupefatta sul viso. Tommy ordinò: «Butta via la pistola e fai qualche passo indietro, o ridurrò questa cagna in marmellata, te lo giuro. Non sei abbastanza veloce per fermarmi». Booker esitò. «Buttala giù!» insistè Tommy Shaddack. Il federale lasciò cadere l'arma e si allontanò. Premendo con forza la canna del Remington contro il ventre della donna, il folle la fece arretrare lentamente finché non fu all'altezza dell'interruttore; con un cenno, le indicò di accendere i neon. «Bene, ora sedetevi su quei tre sgabelli e non fate sciocchezze!»
Mosse qualche passo indietro e li tenne tutti sotto tiro; sembravano spaventati e questo lo fece ridere. Adesso si stava veramente eccitando, perché aveva deciso di uccidere Booker sotto gli occhi della ragazza e della bambina, non velocemente e in modo pulito, ma lentamente, con un colpo alle gambe che lo facesse cadere e contorcersi un pochino, il secondo alle viscere, senza però finirlo sull'istante: voleva fargli male, molto male, di fronte a quelle due, per mostrare loro che tipo fosse Tommy Shaddack. Perché si sentissero grate di venire risparmiate, tanto grate da mettersi in ginocchio e lasciare che lui facesse certe cose, le cose che aveva desiderato fare per trent'anni e si era sempre negato. Liberare trent'anni di pressione, adesso, subito, stanotte... 29 Oltre la casa, filtrando attraverso le aperture per le grondaie, gli giunsero sinistri ululati in contrappunto, prima un assolo e poi un coro. Sembrava si fossero aperti i cancelli dell'inferno, scatenando per Moonlight Cove gli abitanti degli abissi. Harry si preoccupò per Sam, Tessa e Chrissie. Sotto di lui, l'invisibile squadra di addetti alle conversioni fissò l'estremità della scala pieghevole. Uno di loro cominciò a salire. Il reduce si chiese che aspetto avrebbe avuto. Sarebbero stati uomini normalissimi — il vecchio Doc Fitz con una siringa e un paio di assistenti — o Entità Malefiche? Oppure qualche uomo-macchina come quelli che Sam aveva descritto? Il primo sbucò dalla botola. Era il dottor Worthy, il medico più giovane della città. Harry prese in considerazione l'ipotesi di sparargli mentre si trovava ancora sulla scala, ma non aveva esploso un colpo in vent'anni e non intendeva sprecare i pochi proiettili a disposizione. Meglio attendere che la distanza si riducesse. Worthy non reggeva una torcia elettrica, ma sembrava non averne alcun bisogno: guardò diritto verso l'angolo buio dove si trovava Harry ed esordì: «Come hai fatto a sapere che stavamo arrivando?» «Intuizione da invalido», rispose lui con sarcasmo. Il medico avanzò verso il centro della soffitta e Harry fece fuoco due volte. Il primo proiettile lo mancò, ma il secondo lo colpì nella parte inferiore del petto.
Proiettato all'indietro, Worthy cadde pesantemente al suolo, dove giacque per un minuto contorcendosi; infine si sedette, tossì e si alzò in piedi. La sua camicia bianca era inzuppata di sangue, eppure si era ripreso immediatamente. Il reduce si ricordò quanto Sam aveva affermato, raccontando loro che i Coltrane si rifiutavano di morire: «Bisogna mirare al processore». Puntò l'arma in direzione della testa del medico e sparò altre due volte, ma con quell'inclinazione, visto che lui si trovava sul pavimento, i proiettili andarono a vuoto. Con quattro cartucce soltanto a disposizione, Harry esitò. Un altro uomo stava emergendo dalla botola. Il veterano fece fuoco nel tentativo di ricacciarlo giù. Lui continuò a salire, imperturbabile. Tre cartucce ancora nella pistola. Mantenendosi a distanza, Worthy tentò di ammansirlo. «Harry, non siamo qui per farti del male. Non so che cosa o come tu abbia saputo del progetto, ma non è una cosa cattiva...» Lasciò la frase in sospeso, inclinando il capo per ascoltare le grida inumane che riempivano la notte; una strana espressione bramosa, visibile anche alla tenue luce proveniente dalla botola, gli attraversò il viso. Dopo un attimo si riscosse, sbattè le palpebre e rammentò che stava cercando di vendere il proprio elisir a un cliente riluttante. «Non c'è nulla di malvagio, Harry, soprattutto per te. Camminerai di nuovo perfettamente, come chiunque altro. Sarai di nuovo intero perché, dopo il Cambiamento, potrai guarirti da solo. Ti libererai dalla paralisi!» «No, grazie. Non a quel prezzo.» «Quale prezzo, Harry? Guardami! Che prezzo ho pagato?» «La tua anima, forse?» lo derise il reduce. Una terza persona stava salendo la scala. Il secondo uomo ascoltava intento gli ululati. Di colpo digrignò i denti, serrò con forza la mascella e sbattè rapidamente le palpebre, poi si coprì il viso con le mani come se fosse in preda all'angoscia. Worthy se ne accorse. «Vanner, stai bene?» Le mani dell'altro cambiarono. I polsi si gonfiarono, ricoprendosi di protuberanze ossee, e le dita si allungarono, tutto nel giro di un paio di secondi. Quando scoprì il viso, la mascella era sporta in avanti come quella di un lupo mannaro nel mezzo della trasformazione; le cuciture della camicia si strapparono sotto la pressione della riconfigurazione del corpo. Ringhiò,
facendo balenare i denti. «... bisogno», disse Vanner. «Bisogno, bisogno, volere, bisogno...» «No!» gridò Worthy. Il terzo uomo, appena sbucato nella soffitta, si rotolò al suolo, mutando nel contempo in una ripugnante creatura vagamente simile a un insetto. Senza neppure rendersene conto, Harry scaricò la 38 sulla cosa, prese dal pavimento la 45 e sparò altri tre proiettili, colpendo evidentemente il cervello dell'insetto almeno una volta. La creatura si contorse, scalciò in aria e cadde nella botola senza più risalire. Nel frattempo Vanner aveva subito una completa metamorfosi in un lupo e sembrava essersi modellato su qualcosa visto in un film, perché Harry lo trovò familiare, anche se non riuscì a ricordare di che pellicola si trattasse. L'essere ululò in risposta alle grida che laceravano la notte. Strappandosi freneticamente i vestiti come se il contatto della stoffa contro la pelle lo facesse impazzire, anche Worthy stava mutando in una belva del tutto differente dalle altre due creature, una grottesca incarnazione dei propri desideri più folli. A Harry erano rimasti solo tre proiettili, e doveva conservare l'ultimo per sé. 30 Poco prima, dopo essere sopravvissuto all'odissea nel condotto, Sam aveva giurato a se stesso di imparare ad accettare la sconfitta, il che gli era parso magnifico fino a quel preciso momento, quando la sconfitta era nuovamente a portata di mano. Non poteva fallire, non con le vite di Tessa e di Chrissie che dipendevano da lui. Se non avesse avuto altra scelta, sarebbe balzato addosso a Shaddack un attimo prima che questi premesse il grilletto. Giudicare in anticipo quando fosse venuto il momento, si sarebbe rivelato difficile: quell'uomo sembrava completamente pazzo. Al ritmo in cui la sua mente stava andando in corto circuito, avrebbe anche potuto decidere di sparare nel bel mezzo di una di quelle risate infantili, acute e nervose, senza alcun indizio delle sue intenzioni. «Scendi dallo sgabello», ordinò al federale. «Come?» «Mi hai sentito, maledizione, scendi dallo sgabello! Sdraiati là sul pavimento o te ne farò pentire, stanne certo, ti farò pentire amaramente.»
Sam era restio a obbedire perché sapeva che Shaddack voleva separarlo da Tessa e Chrissie per sparargli. Esitò, poi si alzò in piedi perché non poteva fare altrimenti; si avviò fra due tavoli da laboratorio verso lo spazio aperto che l'altro gli indicava. «Giù», gli intimò il folle. «Voglio vederti strisciare sul pavimento!» Mettendo un ginocchio a terra, Sam infilò la mano nella tasca interna del giubbotto, estrasse la striscia metallica che aveva usato per forzare la serratura a casa dei Coltrane e la lanciò attraverso la stanza.. La striscia veleggiò rasente al pavimento in direzione delle finestre e andò a sbattere con un tintinnio contro la base in marmo di uno dei tavoli. Shaddack girò la canna del fucile verso la fonte del rumore. Con un urlo di rabbia e determinazione, Sam si alzò rapidissimo e si gettò su di lui. 31 Tessa afferrò Chrissie e l'allontanò dagli uomini in lotta. Entrambe si rannicchiarono contro una parete nella speranza di trovarsi fuori dalla linea del fuoco. Sam si era avvicinato al fucile prima che Shaddack potesse riprendersi dalla sua imprevista reazione; impugnò la canna con la sinistra e il polso del pazzo con la destra malconcia, poi lo spinse all'indietro, sbilanciandolo e mandandolo a sbattere contro un tavolo da laboratorio. Quando l'altro urlò, il federale emise un grugnito di soddisfazione, come se anche lui potesse trasformarsi in un essere che ululava di notte. Tessa lo vide vibrare una ginocchiata tra le gambe di Shaddack, proprio all'inguine. «Bravo, Sam!» si entusiasmò la bambina. Mentre il pazzo, in preda ai conati, si ripiegava su se stesso in un'involontaria reazione al dolore, il federale gli strappò il fucile dalle mani e fece un passo indietro... e un uomo con la divisa della polizia entrò nella stanza dal magazzino, reggendo a propria volta un fucile a pompa. «No! Butta giù quell'arma. Shaddack è mio!» 32 La cosa che era stato Vanner si mosse verso Harry con un basso ringhio di gola, colando saliva giallastra. Il reduce sparò due volte e la colpì con
entrambi i proiettili, ma non riuscì a ucciderla. Le ferite aperte sembravano chiudersi davanti ai suoi occhi. Era rimasta un'unica pallottola. «... bisogno, bisogno...» Harry si mise in bocca la canna della 45, premendola contro il palato e sentendosi invadere dalla nausea al contatto con l'acciaio caldo. La sinistra creatura lupesca giganteggiò su di lui. La testa era tre volte più grande di quanto sarebbe dovuta essere, assolutamente sproporzionata rispetto al corpo, e composta quasi esclusivamente da una bocca immensa, irta di denti che non avevano nulla a che fare con un lupo, ma assomigliavano piuttosto a quelli di uno squalo. A Venner non era bastato modellarsi interamente su un singolo predatore: aveva voluto rendersi più micidiale e distruttivo di qualunque animale contemplato dalla natura. Quando la creatura gli fu quasi addosso e in procinto di azzannarlo, Harry si sfilò l'arma di bocca, gridò «Maledizione, no!» e sparò a quell'obbrobrio in piena testa, abbattendolo. Mira al processore. Il reduce si sentì invadere dall'entusiasmo, ma di breve durata. Worthy aveva completato la trasformazione e sembrava in preda alla frenesia a causa della carneficina in soffitta e degli ululati sempre più forti che giungevano dal mondo esterno. Volse gli occhi luminescenti su Harry, che vi scorse un'espressione di fame inumana. I proiettili erano finiti. 33 Sotto il tiro del fucile dell'uomo in divisa. Sam non aveva spazio di manovra. Doveva gettare a terra il Remington strappato a Shaddack. «Sono dalla vostra parte», affermò il poliziotto. «Nessuno è dalla nostra parte», rispose il federale. Boccheggiando, il pazzo stava cercando di mantenersi eretto. Fissò l'agente con assoluto terrore. Con la premeditazione più gelida che Sam avesse mai visto, senza il minimo cenno di emozione, neppure rabbia, il poliziotto puntò il fucile su Shaddack, che ormai non rappresentava più una minaccia per nessuno, e fece fuoco quattro volte. Come se fosse stato preso a pugni da un gigante, questi fu proiettato all'indietro contro la parete. L'agente buttò a terra l'arma e si diresse rapidamente verso il cadavere,
lacerò la parte superiore della tuta che il morto indossava sotto il cappotto e strappò uno strano oggetto, un bizzarro medaglione rettangolare appeso a una catena d'oro. Sollevandolo in aria, dichiarò: «Shaddack è morto. Il suo battito cardiaco non viene più trasmesso, quindi, in questo preciso momento, Sole sta attivando il programma finale. In mezzo minuto circa, tutti noi conosceremo la pace. La pace, finalmente!» Dopprima Sam pensò che questi li stesse avvertendo che stavano per morire, che quel curioso oggetto fosse una bomba in procinto di esplodere. Arretrò velocemente verso la porta e vide che anche Tessa si aspettava il peggio: aveva sollevato Chrissie quasi di peso e aperto il battente. Tuttavia, se davvero si trattava di una bomba, era un ordigno silenzioso, dal raggio d'azione ristretto al solo poliziotto. Improvvisamente il suo viso si contorse e mormorò fra i denti «Dio!» Non sembrava un'esclamazione, bensì una preghiera o forse una descrizione inadeguata di qualcosa che aveva appena visto: proprio in quell'istante, infatti, stramazzò a terra morto senza alcun motivo apparente. 34 Quando finalmente uscirono sul retro dell'edificio scolastico, la prima cosa che Sam notò fu l'assoluto silenzio. Le grida acute dei mutanti non echeggiavano più per la città avvolta nella nebbia. Le chiavi del furgone erano infilate nell'accensione. «Guida tu», pregò rivolto a Tessa. Il suo polso era più gonfio che mai e pulsava a tal punto da fargli riverberare le ondate di dolore per tutto il corpo. Si accomodò sul sedile del passeggero. Chrissie gli si rannicchiò in grembo e lui la circondò con le braccia. La piccola era stranamente silenziosa; sicuramente era sfinita e sull'orlo di un collasso, ma Sam sapeva che la vera causa andava ben al di là della stanchezza. Tessa chiuse la portiera e avviò il motore: non aveva bisogno di farsi indicare la loro meta. Lungo il percorso verso la casa di Harry, scoprirono che le strade erano costellate di morti. Non si trattava dei cadaveri di uomini e donne normali, bensì — come la luce dei fanali mostrava distintamente — di creature uscite da un dipinto di Hieronymus Bosch, dalle forme contorte e fantasma-
goriche. La ragazza guidò lentamente, aggirandoli per quanto possibile; un paio di volte fu costretta a salire sul marciapiede per oltrepassare un intero branco, a quanto pareva falciato dalla medesima forza invisibile che aveva ucciso il poliziotto. Shaddack è morto. Il suo battito cardiaco non viene più trasmesso, quindi, in questo preciso momento, Sole sta attivando il programma finale... Dopo un poco, Chrissie appoggiò il capo sul petto di Sam ed evitò di guardare fuori. Il federale continuò a ripetersi che quegli esseri erano fantasmi, che nulla del genere sarebbe potuto esistere nella realtà, né a opera dell'alta tecnologia più avanzata né della stregoneria. Si aspettava che svanissero da un momento all'altro, avvolti da un manto di nebbia, invece continuavano a giacere in mezzo alla strada, sui marciapiedi e nei prati. Immerso in tutto quell'orrore, non riusciva a credere di essere stato tanto stupido da trascorrere anni interi di vita preziosa in preda alla malinconia, incapace di vedere la bellezza del mondo. Si era comportato da vero idiota. Una volta giunta l'alba, non avrebbe mai più perso l'occasione di ammirare un fiore e apprezzarne la meraviglia. «Adesso me lo dici?» sbottò Tessa a un isolato di distanza dalla casa di Harry. «Che cosa?» «Ciò che hai visto. La tua esperienza con l'al di là. Quello che ti ha spaventato così tanto?» Lui rise forzatamente. «Sono stato un idiota.» «Probabilmente. Parlamene e lascia che sia io a giudicare.» «Beh, difficile spiegarlo esattamente. Non si tratta di qualcosa che ho visto, quanto di una presa di coscienza, una percezione spirituale più che visuale.», «Dunque, che cosa hai capito?» «Che la nostra vita prosegue, che l'esistenza continua su un altro livello, ripetutamente, in una serie infinita di livelli sempre diversi, oppure torniamo a vivere su questo stesso piano, ci reincarniamo. Non sono certo quale delle due alternative sia quella giusta, ma la prospettiva mi è parsa chiara, l'ho saputo non appena giunto alla fine del tunnel, in quella luce brillante.» Lei lo guardò. «E questo ti ha terrorizzato?» «Sì.» «Il fatto che torniamo a vivere?»
«Sì, perché pensavo che la vita fosse cupa, solo una serie di tragedie e dolori. Avevo perso la capacità di apprezzarne la bellezza, la gioia, quindi non volevo morire per essere costretto a ricominciare tutto daccapo, quantomeno non prima del necessario. Se non altro, in questa vita mi ero indurito, abituato alla sofferenza, il che mi forniva un vantaggio rispetto a una nuova esistenza.» «Dunque la tua quarta ragione per vivere non si può definire in senso stretto 'paura della morte'.» «Credo di no.» «Meglio chiamarla paura di vivere di nuovo.» «Sì.» «E ora?» Lui ci pensò su un attimo, accarezzò i capelli di Chrissie e concluse: «Ora sono ansioso di tornare a vivere». 35 Harry udì dei rumori dabbasso: l'ascensore, poi qualcuno in camera da letto. Diventò teso, immaginandosi che fosse eccessivo sperare in due miracoli, ma poi udì il richiamo di Sam proveniente dal fondo della scala. «Sono qui! Sano e salvo! È andato tutto bene.» Un attimo dopo, il federale sbucò nella soffitta. «E Tessa? Chrissie?» domandò ansiosamente il reduce. «Sono dabbasso e stanno bene.» «Grazie a Dio.» Harry emise un lungo respiro, come se avesse trattenuto il fiato troppo a lungo. «Guarda quei mostri, Sam.» «Preferisco di no.» «Dopotutto, forse Chrissie aveva ragione circa gli alieni.» «È anche peggio di così.» «Cosa esattamente?» chiese il veterano mentre l'altro si inginocchiava di fianco a lui e gli toglieva dalle gambe il ripugnante cadavere di Worthy. «Che io sia dannato se lo so. Non sono neppure sicuro di volerlo sapere.» «Stiamo entrando in un'epoca in cui ci costruiamo da soli la realtà, non è vero? A poco a poco, la scienza ci sta fornendo questa prerogativa. Una volta, soltanto i pazzi ci provavano.» Il federale tacque. L'altro riprese: «Forse interferire con la realtà non è saggio. Suppongo
sia meglio l'ordine naturale». «Forse. D'altra parte, all'ordine naturale non nuocerebbe qualche perfezionamento qua e là. Ritengo valga la pena di tentare, sperando in Dio che chi si occupa degli aggiustamenti non sia come Shaddack. E tu stai bene, Harry?» «Certo, grazie.» Sorrise. «Tranne per il fatto che, naturalmente, sono ancora un invalido. Vedi quest'obbrobrio che un tempo è stato Worthy? Stava per tagliarmi la gola, io avevo finito le pallottole, mi aveva già messo gli artigli intorno al collo e di colpo è morto stecchito. E un miracolo o cos'altro?» «Il miracolo è avvenuto in tutta la città», spiegò Sam. «Sembra che tutti siano morti quando è morto Shaddack, come se in qualche modo fossero collegati. Coraggio, andiamo di sotto, via da questo massacro!» «Hanno ucciso Moose, Sam.» «Neppure per sogno. Chi credi stiano coccolando Tessa e Chrissie?» Il veterano rimase allibito. «Ma ho sentito...» «Sembra che qualcuno gli abbia sferrato un calcio alla testa. Ha una ferita sul lato del cranio. Gli hanno fatto perdere conoscenza ma, a quanto pare, non è niente di grave.» 36 Chrissie viaggiò sul retro del furgone con il braccio buono di Harry attorno alle spalle e la testa di Moose in grembo. Lentamente, cominciò a sentirsi meglio; non era ancora se stessa, no, e probabilmente non sarebbe più stata uguale a prima ma, perlomeno, si sentiva meglio. Si diressero al parco in cima a Ocean Avenue, ai margini orientali della città, dove Tessa parcheggiò in mezzo all'erba. Sam aprì il portello posteriore dell'automezzo in modo che, la bambina e il reduce, potessero rimanere seduti, a fianco a fianco, avvolti nelle loro coperte, a guardare lui e Tessa mentre lavoravano. Più coraggioso di quanto Chrissie non sarebbe mai stata, il federale s'inoltrò nell'area residenziale, scavalcando quei cadaveri mostruosi, e mise in moto tutte le auto parcheggiate per strada. Una per una, lui e Tessa le guidarono nel parco, sistemandole in un enorme cerchio con i motori in funzione e i fanali accesi puntati al centro. Sam affermò che i soccorsi sarebbero giunti in elicottero nonostante la nebbia, e il cerchio di luce avrebbe delimitato il punto di atterraggio.
Chrissie amava la luce. Prima che la pista artigianale venisse completata, alcune persone cominciarono a comparire nelle strade, gente viva e per nulla sinistra, senza zanne, pungiglioni o artigli e del tutto eretta — assolutamente normale, a giudicare dalle apparenze. Naturalmente, Chrissie aveva imparato che non era mai il caso di valutare qualcuno in base alle apparenze, visto che dentro avrebbero potuto rivelarsi tutt'altra cosa. Non potevi neppure esser certo dei tuoi stessi genitori. A questo, però, preferiva non pensare. In verità, non osava pensare a quanto era accaduto ai genitori. Sapeva perfettamente che qualunque flebile speranza nutrisse ancora per la loro salvezza era probabilmente illusoria, ma voleva rimanervi aggrappata ancora per un po'. Le poche persone apparse sui marciapiedi cominciarono a gravitare verso il parco, l'espressione inebetita. Più si avvicinavano, più Chrissie si sentiva a disagio. «Sono a posto», la rassicurò Harry, cullandola con il braccio buono. «Come fai a esserne sicuro?» «Si vede benissimo che se la stanno facendo addosso dalla paura. Ooops. Forse non dovrei esprimermi così.» «Nessun problema.» Moose guaì e si assestò in grembo alla bambina. Probabilmente, aveva il genere di mal di testa di cui soffrivano solo gli esperti in karaté dopo aver spezzato una fila di mattoni con la fronte. «Beh», riprese il reduce, «guardali bene. Sono letteralmente terrorizzati, il che li identifica come nostri simili. Hai mai visto uno degli altri con un'espressione spaventata?» Lei riflette per un attimo. «Sì. Quel poliziotto che ha ucciso il signor Shaddack nella scuola. Lui era atterrito. Aveva negli occhi tanta paura quanta non ne ho mai vista in nessun altro.» «Ad ogni modo, quella è gente normale», concluse Harry mentre i superstiti si avvicinavano al furgone. «Sono alcuni fra coloro che dovevano venire convertiti prima di mezzanotte, ma non sono stati raggiunti in tempo. Ce ne devono essere altri barricati nelle loro case, timorosi di uscire, convinti che il mondo sia impazzito o che gli alieni ci abbiano invaso, proprio come pensavi tu. Del resto, se fossero dei mutanti, non barcollerebbero verso di noi con tanta esitazione: con un balzo ci avrebbero mangiato il naso o qualsiasi altra cosa.»
Questa spiegazione le piacque, anzi, la fece persino sorridere lievemente; si rilassò un pochino. Solo un secondo dopo, però, Moose sollevò di scatto il muso dal suo grembo, guaì e si mise faticosamente in piedi. All'esterno, la gente che si stava avvicinando al furgone gridò di sorpresa e paura. Chrissie udì Sam esclamare: «Ma che diavolo...?» Lei buttò via le coperte e si affrettò fuori per vedere che cosa stesse succedendo. Alle sue spalle, allarmato in barba alle assicurazioni appena pronunciate, Harry chiese: «Che c'è? Cos'è che non va?» Per un attimo la bambina non capì cosa avesse stupefatto tutti gli altri, poi si accorse degli animali. Si riversavano lungo il parco — dozzine di topi, qualche grosso ratto, gatti di tutti i tipi, alcuni cani e più di una ventina di scoiattoli scesi dagli alberi. Altri ancora stavano precipitandosi sulle strade per unirsi alla fiumana, sfrecciando frenetici e dirigendosi verso la statale. Osservandoli passare, le venne in mente di avere letto qualcosa del genere: un articolo sui lemming. Periodicamente, quando in una determinata zona il loro numero diventava eccessivo, quelle creaturine correvano a perdifiato verso il mare, si gettavano fra le onde e annegavano. Quegli animali si stavano comportando proprio come i lemming, scagliandosi tutti nella medesima direzione, senza badare agli ostacoli, attratti da qualcosa d'invisibile, seguendo evidentemente un urgenza interiore. Moose saltò giù dal furgone e si unì alle moltitudini in fuga. «Moose, no!» gridò lei. Il cane incespicò, guardò indietro, poi tornò a girare di scatto il muso verso la statale, come tirato da una catena invisibile. Ripartì a tutta velocità. «Moose!» Lui inciampò ancora e, questa volta, cadde davvero, rotolò su se stesso e si rialzò. In qualche modo Chrissie capì che l'immagine dei lemming era appropriata, che quegli animali si stavano precipitando alla tomba, ma non nell'oceano, bensì verso una morte diversa e più orribile che faceva parte di quanto era accaduto a Moonlight Cove. Se non fosse riuscita a fermarlo, non lo avrebbero più rivisto. Il labrador continuò a correre. Lei sfrecciò all'inseguimento. Era stanca morta, esaurita, dolorante in ogni muscolo e giuntura, terro-
rizzata, ma trovò la forza e il coraggio di proseguire perché nessun altro sembrava capire che lui e il resto degli animali, stavano andando incontro alla fine. Tessa e Sam, intelligenti com'erano, non avevano afferrato: se ne stavano lì, in piedi, fissando a bocca aperta lo spettacolo. Di conseguenza, Chrissie corse al massimo delle proprie possibilità, ripetendo incessantemente al cane di fermarsi perché, ogni volta che sentiva il suo nome, Moose esitava, dandole modo di guadagnare terreno. In fondo al parco, la bambina fu sul punto di cadere nel profondo fossato che costeggiava la statale, ma riuscì a saltarlo all'ultimo minuto, avendo visto il labrador spiccare un balzo. Finalmente, quando il cane tentennò in seguito a un ennesimo richiamo, lei gli fu addosso e lo afferrò per il collare. Moose ringhiò e tentò addirittura di morderla, poi tirò violentemente per liberarsi, trascinando con sé la piccola per parecchi metri. Quando infine si calmò e si lasciò condurre di nuovo verso il parco, Tessa e Sam si unirono a loro. «Cosa sta succedendo?» chiese il federale. «Stanno correndo incontro alla morte», rispose Chrissie. «Non potevo permettere che Moose andasse insieme agli altri.» «Incontro alla morte? E come lo sai?» «In effetti, non ne sono certa, ma... che altro?» Rimasero un momento immobili sulla strada buia e nebbiosa, guardando il punto dove gli animali erano svaniti nella notte. Tessa concluse: «Già, che altro?» 37 La nebbia si stava diradando, ma la visibilità rimaneva piuttosto scarsa. In piedi, di fianco a Tessa, dentro il cerchio formato dalle auto, Sam udì gli elicotteri prima ancora di vederne le luci. Dato che la bruma distorceva i rumori, non fu in grado di stabilire da che direzione si stessero avvicinando, ma immaginò che provenissero da sud, lungo la costa, mantenendosi sul mare per evitare rischi di collisione con le colline immerse nella nebbia. Pieni di strumenti sofisticati, potevano praticamente volare alla cieca; i piloti indossavano sicuramente occhiali studiati per la visione notturna e si tenevano a bassa quota a causa del maltempo. Dal momento che l'FBI possedeva stretti rapporti con le forze armate, soprattutto con la Marina, Sam sapeva bene che cosa aspettarsi: un nucleo di ricognizione dei Marines composto dagli elementi standard richiesti in una situazione del genere, ossia un elicottero CH-46 adibito al trasporto
degli uomini — probabilmente dodici elementi distaccati da un'unità d'assalto — accompagnato da due Cobra da combattimento. Guardandosi attorno, Tessa osservò: «Non li vedo». «Certo», spiegò il federale. «Non fino a quando non saranno sopra di noi.» «Volano senza luci?» «No. Sono attrezzati con luci blu, quasi invisibili da terra, ma perfette per gli occhiali che favoriscono la visuale notturna.» Normalmente, in risposta a una minaccia terroristica, il CH-46 — ufficialmente definito «Cavaliere del mare», ma soprannominato «La rana» dai soldati — si sarebbe diretto con i Cobra di scorta alla periferia nord della città. Lì, avrebbe sbarcato tre squadre di assaltatori, composte di quattro uomini ciascuna, con il compito di perlustrare Moonlight Cove da un'estremità all'altra per verificare la situazione. Tuttavia, visto il tenore del messaggio inviato da Sam al Bureau prima che Sole interrompesse il collegamento, e poiché l'emergenza non riguardava atti di terrorismo; bensì avvenimenti assai strani, la ricognizione era stata accantonata in favore di un approccio più audace. Gli elicotteri sorvolarono ripetutamente la città, scendendo a una decina di metri dalle cime degli alberi; con le loro eliche di fiberglass, ben più silenziose di quelle in metallo, i velivoli sembravano scivolare in distanza come astronavi aliene provenienti da un mondo anche più bizzarro di questo. Infine si librarono nei pressi del cerchio luminoso nel parco. Non atterrarono immediatamente, ma mentre i potenti rotori dissipavano la nebbia, esaminarono le persone radunate intorno alla pista e, per diversi minuti, i cadaveri grotteschi sulle strade. Finalmente il CH-46 si abbassò lentamente, quasi con riluttanza. Gli uomini che ne discesero reggevano armi automatiche, ma per il resto non sembravano affatto soldati perché, grazie al messaggio di Sam, indossavano tute isolanti bianche e serbatoi d'ossigeno sulla schiena. Sarebbero potuti essere astronauti, non Marines. Il tenente Ross Dalgood, che dietro la visiera dell'elmetto aveva un viso da bambino, si dirette immediatamente verso Sam e Tessa, fornì il proprio nome e grado e salutò il federale chiamandolo per nome, evidentemente perché gli avevano mostrato una sua fotografia prima della partenza per la missione. «Rischio biologico, agente Booker?» «Non credo», rispose lui. «Ma non lo sa per certo?»
«In effetti, no.» «Noi siamo solo l'avanguardia», spiegò il tenente. «Un sacco d'altri sono per strada — l'esercito regolare e i suoi colleghi dell'FBI stanno arrivando in autostrada. Presto saranno qui.» Tutti e tre si diressero al di là delle auto fino a uno dei cadaveri che giacevano nei pressi. «Da lassù non riuscivo a credere ai miei occhi», affermò Dalgood. «Ci creda», rispose Tessa. «Ma che diavolo sono?» «Entità Malefiche», dichiarò Sam. 38 Tessa era preoccupata per Sam. Assieme a Chrissie e Harry, aveva fatto ritorno a casa del reduce all'una del mattino, dopo essere stati interrogati tre volte da uomini in tute decontaminanti. Nonostante i tremendi incubi, riuscirono a dormire qualche ora, ma il federale non comparve per tutta la notte. Alle undici di mercoledì mattina, dopo che loro tre avevano terminato la prima colazione, lui non era ancora rientrato. «Potrà anche pensare di essere indistruttibile», sbottò la ragazza, «ma non lo è affatto.» «Ti sta a cuore», osservò Harry. «Ma naturalmente.» «Intendo dire che ti sta a 'cuore'.» «Beh, non so.» «Io sì.» «Anch'io», dichiarò la bambina. Sam ritornò all'una, sporco e grigio in volto. Tessa gli aveva preparato un letto con lenzuola pulite e lui vi crollò ancora mezzo vestito. Lei rimase a guardarlo dormire di un sonno agitato. Uomini del Bureau, in tute decontaminanti, vennero a chiamarlo alle sei di sera, dopo meno di cinque ore, e rimase via il resto della notte. Ormai tutti i corpi, nelle loro mutazioni multiformi, erano stati raccolti, etichettati, chiusi in sacchi di plastica e conservati al freddo in attesa dei patologi. Quella notte, Tessa e Chrissie divisero il medesimo letto. Sdraiata nella stanza in penombra, la piccola disse: «Se ne sono andati». «Chi?»
«Mamma e papà.» «Credo di sì.» «Sono morti.» «Mi dispiace, tesoro.» «Oh, lo so. Sei tanto gentile!» Per qualche tempo pianse fra le braccia di Tessa. Molto più tardi, ormai prossima al sonno, riprese: «Tu hai parlato con Sam. Ti ha riferito se sono riusciti a capire... tutti quegli animali... dove stavano correndo?» «No», rispose la ragazza. «Non hanno ancora il minimo indizio.» «Mi fa rabbrividire.» «Anche me.» «Il fatto che non abbiano indizi, voglio dire.» «Lo so», affermò Tessa. «Anch'io mi riferivo a questo.» 39 Entro giovedì mattina, squadre di tecnici federali e di consulenti privati avevano esaminato una quantità sufficiente dei dati, inerenti al progetto, conservati nella memoria di Sole, da poter stabilire che Falco Notturno si era incentrato unicamente sull'inserimento di un meccanismo di controllo, non biologico, tale da provocare nelle vittime profondi cambiamenti fisiologici. Nessuno aveva ancora un barlume di idea circa il suo funzionamento o in che modo le microsfere potessero aver causato metamorfosi così radicali, ma erano certi che batteri, virus e altri organismi artificiali fossero fuori discussione. Si trattava di una questione puramente meccanica. Le truppe dell'Esercito, che mantenevano lo stato di quarantena per evitare intrusioni da parte della stampa, della televisione e dei semplici curiosi, avevano parecchio lavoro ma, perlomeno, erano state liete di potersi liberare di quelle tute soffocanti; lo stesso discorso valeva per le centinaia di scienziati e agenti federali che si aggiravano per tutta la città. Benché, entro breve tempo, Sam avrebbe certamente dovuto tornare sul posto, lui, Tessa e Chrissie, ebbero il permesso di evacuare nelle prime ore di venerdì mattina. Un tribunale comprensivo, dietro consiglio di un gruppo di funzionari statali e federali, aveva già garantito alla ragazza la temporanea custodia della piccola. I tre dissero arnvederci a Harry — non addio — e s'imbarcarono su un elicottero del Bureau. Per impedire che le opinioni dei ricercatori venissero inquinate da artico-
li imprecisi e volti al sensazionalismo, su Moonlight Cove era stato imposto il silenzio stampa; di conseguenza, Sam non aveva ancora afferrato l'impatto della storia di Falco Notturno finché non sorvolarono i posti di blocco dell'Esercito nei pressi della statale. Centinaia di veicoli dei mezzi d'informazione, intasavano la strada o erano parcheggiati nei campi; il pilota ridusse la quota per consentire al federale di vedere tutte le cineprese rivolte all'insù per filmare il loro passaggio. «A nord, dove sono stati collocati gli altri blocchi stradali», spiegò a Sam, «la situazione è più o meno identica. Giornalisti di tutto il mondo dormono per terra perché non vogliono rischiare di trasferirsi in un motel per poi scoprire che Moonlight Cove era stata aperta alla stampa mentre schiacciavano un pisolino.» «Non dovrebbero preoccuparsi», rispose lui. «La città ospiterà unicamente gli scienziati per intere settimane.» L'elicottero li trasportò all'Aeroporto Internazionale di San Francisco, dove erano stati prenotati per loro tre posti sul volo per Los Angeles. Nel terminal, esaminando i quotidiani, Sam lesse un paio di titoli: INTELLIGENZA ARTIFICIALE DIETRO LA TRAGEDIA DI COVE SUPERCOMPUTER IMPAZZITO Naturalmente si trattava di una sciocchezza. Il supercomputer della New Wave non era un'intelligenza artificiale: nulla del genere era ancóra stato costruito sulla faccia della terra, nonostante legioni di scienziati stessero gareggiando per creare per primi una vera mente elettronica pensante. Sole non era impazzito, ma aveva soltanto servito uno scopo, come tutti i computer. Parafrasando Shakespeare, Sam pensò: la colpa non giace nella nostra tecnologia, bensì in noi stessi. Di questi tempi, però, la gente preferiva attribuire ai computer ogni fallimento nei sistemi, esattamente come, secoli fa, i membri di culture meno sofisticate avevano biasimato l'allineamento dei corpi celesti. Tessa gl'indico un altro titolo: ESPERIMENTI SEGRETI NEL PENTAGONO DIETRO IL MISTERIOSO DISASTRO In certi settori, il Pentagono costituiva l'Entità Malefica preferita, quasi
amata per i suoi misfatti veri o presunti perché convincersi che stesse alle radici di tutto il male rendeva la vita più semplice e comprensibile. Per chi la pensava così, il Pentagono equivaleva quasi al mostro di Frankenstein, spaventoso ma comprensibile, perverso e spregevole eppure confortevolmente prevedibile e preferibile a orrori peggiori e più complessi. Chrissie estrasse dalla rastrelliera l'edizione speciale di uno dei più importanti quotidiani scandalistici, zeppa di storie su Moonlight Cove. Mostrò loro la prima pagina: ALIENI ATTERRANO SULLA COSTA CALIFORNIANA AVIDI MANGIAUOMINI SACCHEGGIANO UNA CITTÀ Per un attimo si guardarono l'un l'altra solennemente, poi sorrisero. Per la prima volta in giorni, Chrissie riuscì a ridere e, ascoltandola, Sam si sentì meglio. 40 Joel Ganowicz, della United Press International, si trovava nel perimetro di Moonlight Cove, dietro i blocchi stradali, dalle prime ore di mercoledì mattina. Dormiva per terra in un sacco a pelo, si serviva dei boschi come toilette e pagava un falegname disoccupato di Aberdeen Wells per farsi portare i pasti. In tutta la sua carriera non si era mai sentito tanto coinvolto da una notizia, disposto ad arrivare fino in fondo, e non capiva bene il perché. Sì, certo, si trattava della storia più importante del decennio, ma per quale motivo provava un vero e proprio bisogno di restare lì, di apprendere ogni minimo dettaglio sulla verità? Perché era così ossessionato? Il proprio comportamento lo lasciava perplesso. E non era il solo. Benché gli avvenimenti fossero stati fatti filtrare ai cronisti poco per volta nell'arco di tre giorni e fossero stati esaminati in dettaglio nel corso di una conferenza stampa di quattro ore nella serata di giovedì, e benché i giornalisti avessero intervistato a fondo gran parte dei duecento sopravvissuti, nessuno ne aveva avuto abbastanza. La morte delle vittime, particolarmente orribile — e il loro numero, quasi tremila, ben più consistente dei suicidi di Jonestown — aveva sconvolto il pubblico, mai sazio a prescindere dalle ossessive ripetizioni di ogni particolare. Eppure Joel percepiva che l'interesse generale non dipendeva soltanto
dalla natura così cruenta degli episodi o dalle statistiche spettacolari: si trattava di qualcosa di più profondo. Alle dieci di venerdì mattina, se ne stava seduto sul sacco a pelo in un campo nei pressi della statale, a pochi metri dal posto di blocco della polizia, crogiolandosi al sorprendente tepore della mattinata autunnale. Stava cominciando a credere che forse queste notizie colpivano nel segno perché non coinvolgevano soltanto il conflitto relativamente recente fra uomo e macchina, bensì l'eterno dilemma umano fra responsabilità e irresponsabilità, civilizzazione e barbarie, fede e nichilismo. Stava ancora pensandoci, quando di colpo si alzò e cominciò a camminare. A un certo punto smise del tutto di riflettere e aumentò l'andatura. Non era il solo: una buona metà delle duecento persone che aspettavano al posto di blocco si girò quasi all'unisono e s'incamminò verso est, fra i campi, con improvvisa determinazione, senza esitare, risalendo un prato in pendio e scomparendo dietro una macchia d'alberi. I marciatori lasciarono allibiti tutti coloro che non avevano sentito il subitaneo impulso di mettersi in moto; alcuni giornalisti li seguirono per un po', ponendo loro domande, ma nessuno rispose. Joel era posseduto dalla sensazione di doversi recare in un preciso luogo, un posto speciale dove non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla, dove tutto gli sarebbe stato fornito e il futuro non avrebbe presentato problemi. Non sapeva che aspetto avesse questa magica meta, ma era certo di riconoscerla non appena l'avesse vista. Eccitato, si affrettò in avanti, sospinto, attirato. Bisogno. La cosa proteiforme nello scantinato della Comunità Icaro era in preda alla morsa del bisogno. Quando gli altri figli di Falco Notturno erano morti, lei era rimasta incolume perché le microsfere al suo interno si erano dissolte nel momento in cui aveva scelto la completa libertà da qualsiasi forma. Non aveva ricevuto l'ordine di morte trasmesso da Sole e, del resto, anche in quel caso non avrebbe subito alcuna conseguenza, visto che non possedeva più un cuore da bloccare. Bisogno. La sua bramosia era tanto intensa da farla pulsare e contorcere. Bisogno. Un'infinità di bocche si aprirono lungo tutta la sua superficie. La cosa emise un richiamo che sembrava silenzioso, ma non lo era affatto, con una
voce che non parlava agli orecchi, bensì alla mente delle prede. E queste stavano arrivando. Ben presto i suoi bisogni sarebbero stati soddisfatti. Il colonnello Lewis Tarker, comandante del quartier generale dell'Esercito, di base nel parco, ricevette una chiamata urgente dal sergente Sperlmont, responsabile del posto di blocco sulla statale. Questi riferì di aver perso sei dei dodici uomini a lui assegnati, incamminatisi come zombi assieme a un centinaio circa di giornalisti apparentemente nelle medesime condizioni. «Sta succedendo qualcosa», disse a Tarker. «Non è ancora finita, signore.» Il colonnello Tarker si mise immediatamente in contatto con Oren Westrom, l'agente federale che dirigeva l'indagine su Falco Notturno e con il quale dovevano essere coordinati tutti gli aspetti militari dell'operazione. «Non è finita», gli riferì il militare. «Credo che questa gente sia anche più strana di quanto Sperlmont abbia affermato, strana in un modo che non è riuscito a descrivere. Lo conosco, ed è molto più turbato di quanto lui stesso non pensi.» Westrom, a propria volta, ordinò che l'elicottero del Bureau si alzasse in volo. Spiegò la situazione al pilota, Jim Lobbow, e concluse: «Sperlmont li sta facendo seguire da alcuni uomini per vedere dove diavolo sono diretti — e perché. Se la cosa si presentasse difficile, però, voglio che tu li individui dall'alto». «Vado subito.» «Hai fatto rifornimento di carburante?» «I serbatoi sono pieni fino all'orlo.» «Bene.» L'unica cosa che funzionava per Jim Lobbow era pilotare elicotteri. Si era sposato tre volte, ed era sempre finita con un divorzio. Aveva vissuto con più donne di quante non riuscisse a ricordare ma, anche senza il peso di un matrimonio, gli era impossibile conservare a lungo una relazione sentimentale. Aveva un unico figlio, un maschio, ma non lo vedeva più di tre volte all'anno e sempre per un giorno soltanto. Benché fosse stato allevato in una famiglia cattolica e tutti i suoi fratelli si recassero rego-
larmente a messa, la cosa non faceva per lui: domenica mattina era la sua unica occasione per dormire un po', e recarsi a una funzione infrasettimanale gli sembrava troppo faticoso. Nonostante sognasse di diventare un imprenditore, ogni attività intrapresa pareva sempre destinata al fallimento; rimaneva regolarmente stupefatto nel constatare quanto lavoro si rendesse necessario anche in settori che sembravano fatti apposta per consentire lunghi periodi di assenza da parte del proprietario e, prima o poi, la fatica lo convinceva a lasciar perdere. Tuttavia, nessuno poteva batterlo in qualità di pilota di elicotteri. Riusciva a decollare con condizioni atmosferiche che costringevano tutti gli altri negli hangar o ad atterrare al riposo da qualche parte. Come Westrom aveva ordinato, si portò sopra il posto di blocco sulla statale; dal basso, un gruppo di militari lo indirizzò a grandi cenni verso le colline. Seguendo le indicazioni, in meno di un minuto trovò i marciatori intenti ad arrancare fra i cespugli, rovinandosi le scarpe, strappandosi i vestiti, ma continuando ad avanzare frenetici. Senz'ombra di dubbio era uno spettacolo sconcertante. Uno strano ronzio gli riempì la testa. Dapprima pensò che le cuffie non funzionassero e se le tolse per controllare, ma il disturbo non cessò. In effetti, non si trattava esattamente di un suono, bensì di una sensazione. Ma che diavolo significa? si chiese. Tentò di non pensarci. Si spinse davanti ai marciatori in cerca di una possibile meta e s'imbattè quasi subito nella villa vittoriana in rovina, nel granaio cadente e negli edifici secondari diroccati. Qualcosa in quel luogo lo attrasse. Lo sorvolò in cerchio una, due volte. Nonostante si trattasse di uno sfascio totale, improvvisamente fu colto dalla folle idea che lì sarebbe stato felice, libero, privo di guai, senza exmogli fastidiose e pagamenti mensili per il mantenimento del figlio. I marciatori stavano sopraggiungendo dalle colline, tutti e cento, ma non camminavano più: si erano messi a correre. Jim capì perché fossero venuti. Librato sulla casa, là trovò il luogo più affascinante che avesse mai visto, una fonte di sollievo, ed egli voleva a tutti i costi quella libertà, quell'abbandono. Aumentò considerevolmente la quota e si stabilizzò sull'obiettivo, quel luogo meraviglioso; doveva andarci, doveva, doveva, e scese in picchiata verso la veranda, dritto sulla porta
malandata, nel cuore dell'edificio, seppellendo l'elicottero al centro... Bisogno. Le mille bocche della creatura cantarono il loro richiamo. La cosa sapeva che tra qualche attimo i propri bisogni sarebbero stati soddisfatti e pulsò per l'eccitazione. Poi le vibrazioni, intense, e il calore. La cosa non si ritrasse, perché aveva rinunciato al sistema nervoso e alle complesse strutture biologiche atte a registrare il dolore. Per lei il calore non aveva alcun significato, tranne che non si trattava di cibo e, di conseguenza, non colmava le sue esigenze. Mentre bruciava e rimpiccioliva, tentò di cantare la melodia che avrebbe attratto la preda, ma le fiamme riempirono le bocche e la ridussero al silenzio. Joel Ganowicz si ritrovò in piedi a qualche decina di metri da una casa in rovina in preda a un incendio violentissimo. Le vampate di calore lo costrinsero ad arretrare: non riusciva a capire come mai un po' di legno secco potesse bruciare con una simile intensità. Si accorse di non riuscire a ricordare come fosse cominciato l'incendio. Semplicemente era lì di fronte. Si guardò la mani sporche e piene di abrasioni. I pantaloni avevano uno strappo all'altezza del ginocchio destro e le scarpe erano alquanto malridotte. Girò lo sguardo e rimase allibito nel vedere dozzine di persone nelle medesime condizioni, lacere, luride e inebetite. Continuava a non rammentare come fosse arrivato fino a lì, men che meno in un folto gruppo. Si accigliò, passandosi una mano sulla fronte. Gli era capitato qualcosa... La sua curiosità professionale andò gradualmente affermandosi. Era accaduto qualcosa e doveva assolutamente scoprire che cosa. Si trattava di un fatto sconcertante, molto sconcertante. Perlomeno, però, era tutto finito. Rabbrividì. 41 Quando misero piede nella casa in Sherman Oaks, la musica dello stereo di Scott, al piano superiore, era tanto forte da far tremare le finestre. Sam si avviò per le scale, facendo cenno a Tessa e a Chrissie di seguirlo.
Loro esitarono, imbarazzate e a disagio, ma lui non era certo di poter fare ciò che aveva in mente, se fosse salito da solo. La porta della stanza del figlio era aperta. Il ragazzo stava sdraiato sul letto, tutto vestito di nero, i piedi contro la testiera, intento a fissare i poster appesi alla parete: gruppi rock «blackmetal» tutti pelle e catene, alcuni con le labbra grondanti sangue come vampiri, un cantante nell'atto di baciare un teschio sulla bocca, un altro con le mani piene di vermi. Scott non sentì entrare il padre: con la musica a quel volume, non avrebbe udito lo scoppio di una bomba termonucleare nel bagno attiguo. Di fronte allo stereo, Sam si bloccò, chiedendosi se davvero stava per fare la cosa giusta. Poi gli giunsero le parole della canzone, che verteva sull'uccisione dei genitori, bere il loro sangue e «prendere la fuga con il gas». Bello, veramente bello. Questo lo fece decidere. Premette il pulsante e interruppe il brano a metà. Allibito, il ragazzo scattò a sedere. «Ehi!» Sam prese il disco, lo gettò a terra e lo calpestò. «Cristo, che diavolo stai facendo?» Quranta o cinquanta album, per lo più «Black-metal», stavano allineati su uno scaffale; il federale li spazzò via. «Ehi, andiamo!» gridò Scott. «Sei impazzito?» «Avrei dovuto farlo tanto tempo fa.» Notando Tessa e Chrissie sulla soglia, il ragazzo esclamò: «E chi diavolo sono quelle due?» «Amiche.» Fuori di sé, Scott chiese: «Che cazzo ci fanno qui, amico?» Sam rise. Si sentiva frastornato e non capiva bene il motivo; forse perché stava finalmente affrontando la situazione, assumendosene la responsabilità. «Sono con me.» Gli dispiacque di aver sottoposto Chrissie a una scena del genere, ma la guardò e si accorse che stava sorridendo: tutta la rabbia e le parolacce del mondo non avrebbero potuto ferirla, dopo quanto aveva sopportato a Moonlight Cove. In effetti, il nichilismo adolescenziale di Scott doveva apparirle buffo, persino ridicolo. Salì sul letto e cominciò a strappare i poster dal muro mentre il figlio inveiva ferocemente al suo indirizzo, poi si avviò verso quelli appesi alla parete a fianco. Scott lo afferrò.
Con gentilezza, il federale lo spinse da parte e terminò il lavoro. Suo figlio gli sferrò un pugno. Lui incassò il colpo e lo fissò. Il viso del ragazzo era congestionato, le narici dilatate, gli occhi pieni di odio. Sorridendo, Sam lo abbracciò. Dapprima Scott non capì cosa stesse succedendo. Evidentemente, pensando che il padre lo stesse trattenendo per punirlo, cercò di liberarsi, poi, di colpo, afferrò la situazione: il suo vecchio lo stava stringendo fra le braccia, santo Cielo, e davanti a dei perfetti estranei! A quel punto, cominciò davvero a lottare per sfuggirgli, divincolandosi e scalciando, perché simili gesti non rientravano nelle sue convinzioni circa un mondo privo d'amore, soprattutto se avesse ricambiato quella stretta affettuosa. Ecco il motivo, maledizione, si disse Sam. Dietro l'indifferenza del figlio giaceva il timore di amare e venire respinto, oppure di trovare eccessiva da sopportare la responsabilità di un rapporto affettivo. Anche se solo per un attimo, in effetti, il ragazzo parve rispondere all'amore del padre, stringendolo a sé, come se il vero Scott, l'adolescente nascosto sotto strati di cinismo, avesse fatto capolino. In lui era rimasto qualcosa di buono e di puro, qualcosa da salvare. Un momento dopo, però, ricominciò a insultarlo con epiteti ancora più espliciti e coloriti. Senza lasciarlo andare, Sam cominciò a ripetergli che lo amava disperatamente, con un trasporto assai diverso dal relativo distacco manifestato in precedenza, quando si sentiva privo di speranze. Questa volta, la voce gli si incrinò per l'emozione. «Ascoltami, figliolo. Prima o poi, in un modo o nell'altro, riuscirò a farmi voler bene. Ti costringerò a capire quanto sei importante per me finché non finirai per amarmi. E questo sarà solo l'inizio, perché dovrai cominciare a voler bene a te stesso, alle persone in generale, alla ragazza che vedi sulla soglia e alla bambina che sta con lei, proprio come fosse tua sorella. Dovrai imparare, e ti accorgerai che sarà bello liberarti dalla maledetta macchina che è in te per poter finalmente amare ed essere riamato. Verrà da noi un mio amico, una persona priva dell'uso delle gambe e di un braccio, ma tuttora convinto che valga la pena di vivere. Forse si fermerà per un po' e ti mostrerà ciò che io, per troppo tempo, non ho saputo mostrarti — che la vita è stupenda. Questo mio amico ha un cane fantastico, che ti piacerà da morire.» Sam rise e si tenne il figlio stretto al petto. «Non puoi dire a un cane: 'Togliti dai piedi', e aspettarti che ti dia retta, quindi
sarai obbligato ad amarlo, lui per primo. Poi ti abituerai a voler bene anche a me, perché diventerò un vecchio cane sorridente e tenace, sempre intorno, impermeabile agli insulti.» Scott aveva smesso di lottare, forse soltanto per stanchezza. Sam era certo di non essere riuscito a placare la rabbia del figlio, ma solo a scalfirne la superficie; aveva permesso che il malefico seme della disperazione venata di autocompiacimento si trasmettesse al ragazzo, e ora sradicarlo non si sarebbe rivelato semplice. Guardando al disopra della spalla di Scott, vide che Tessa e Chrissie, entrambe in lacrime, erano entrate nella stanza. Nei loro occhi scorse la medesima consapevolezza, l'acquisizione che la battaglia per suo figlio era appena cominciata. Ma era cominciata. Questa era la cosa meravigliosa. Era cominciata. FINE