Isaac Asimov & Robert Silverberg NOTTURNO
“L’eclissi avrà come conseguenza,” disse Sheerin senza esitare, “la pazzia.” ...
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Isaac Asimov & Robert Silverberg NOTTURNO
“L’eclissi avrà come conseguenza,” disse Sheerin senza esitare, “la pazzia.” Nella stanza cadde improvvisamente il silenzio. Infine Athor disse: “Lei dunque prevede che tutti gli uomini impazziranno?” “Con ogni probabilità, sì. Buio ovunque, follia ovunque. Credo che gli uomini saranno colpiti in misura diversa, da una depressione e uno smarrimento passeggero fino alla completa e permanente perdita della ragione.” Quando su Kalgash, pianeta costantemente illuminato da sei soli, cala all’improvviso il Buio, i suoi abitanti sono furiosamente assaliti da un’incontenibile follia distruttiva e autodistruttiva. Rimangono ben presto solo radi superstiti, fra cui alcuni pazzi che devastano e uccidono per fame o per divertimento e pochi gruppi organizzati in lotta per la conquista del potere. E’ proprio a uno di questi che si uniscono Theremon e Siferra, rispettivamente un giornalista e un’archeologa, i quali, addentrandosi in scenari sconvolti dalla più totale anarchia, incontrano gli adepti di una setta religiosa pronti a ristabilire l’ordine e a fondare una nuova civiltà. Nonostante il timore di favorire l’organizzazione di una società superstiziosa e governata da una rigida teocrazia, la scelta dei protagonisti è quella di impegnarsi nella ricerca della conoscenza e della verità. Si trovano così ad affrontare una lunga serie di avventure che li vedono opporsi alle barbare imposizioni di individui votati a meschini interessi al fine di rivendicare quelle libertà da cui l’uomo non potrà mai affrancarsi. Scritto in collaborazione con Robert Silverberg, questo romanzo di Isaac Asimov, che riprende le tematiche di uno dei suoi più famosi racconti, con un andamento narrativo efficace e controllatissimo, ricco di formidabili effetti pittoreschi e di immagini apocalittiche e inquietanti, ci catapulta in un’atmosfera drammaticamente sospesa tra la lotta per la sopravvivenza e capitali interrogativi etici. E ci conferma nel suo autore il grande e indiscusso maestro della science-fiction.
Isaac Asimov & Robert Silverberg. Notturno.
TRADUZIONE DI GINO SCATASTA
CREPUSCOLO. 1 Quel pomeriggio, la luce emanata dai quattro soli era abbagliante. Onos, grande e dorato, era alto a occidente, e sotto di esso il piccolo, rosso Dovim stava sorgendo rapidamente all'orizzonte. Dalla parte opposta, a oriente, i bianchi punti luminosi di Trey e Patru risplendevano nel cielo purpureo. Le pianure ondulate del continente più settentrionale di Kalgash erano inondate di splendida luce. Dalle ampie finestre che si aprivano su ogni parete dell'ufficio di Kelaritan 99, direttore dell'istituto psichiatrico municipale di Jonglor, esse potevano essere ammirate in tutta la loro magnificenza. Sheerin 501 dell'Università di Saro, arrivato a Jonglor poche ore prima in risposta all'appello urgente di Kelaritan, si domandò perché si sentiva di malumore. Sheerin era sostanzialmente una persona allegra; e le giornate a quattro soli davano di solito al suo spirito esuberante una marcia in più. Quel giorno però, per chissà quale motivo, era teso e apprensivo, anche se cercava di fare del suo meglio per nasconderlo. Dopotutto era stato convocato a Jonglor solo come esperto di malattie mentali. "Preferisce iniziare parlando con alcune delle vittime? Gli chiese Kelaritan. Il direttore dell'ospedale psichiatrico era un ometto magro e spigoloso, dalla carnagione gialliccia e dal petto incavato. Sheerin, che aveva un colorito rubicondo e non era affatto macilento, provava un immediato senso di sospetto per ogni adulto che pesasse meno della metà del suo peso. Forse è il modo in cui mi guarda a disturbarmi, pensò Sheerin. Sembra uno scheletro ambulante. "O forse crede sia meglio provare prima di persona la galleria del mistero, dottor Sheerin?" Sheerin rispose con una risata, sperando che non sembrasse troppo forzata. "Forse dovrei iniziare parlando con alcune delle vittime," disse. "Così sarò maggiormente preparato, quando verrà il momento di affrontare gli orrori della galleria." Gli occhi scuri, piccoli e lucenti di Kelaritan volsero in qua e in là sconsolatamente. Ma fu Cubello 54, l'avvocato mellifluo e azzimato che si occupava dell'Esposizione centennale di Jonglor a intervenire animosamente. "Andiamo, dottor Sheerin! 'Gli orrori della galleria!' Non le sembra di esagerare? In fondo lei si basa solo su articoli pubblicati dai giornali. E definire 'vittime' i pazienti, poi... guardi che non sono affatto tali!" "E stato il dottor Kelaritan a definirli così”, rispose Sheerin con freddezza. "Sono certo che il dottor Kelaritan ha usato quel termine in un senso del tutto generale. Ma c'è in esso un presupposto che ritengo inaccettabile.» "Per quanto ne so," disse Sheerin, rivolgendo all'avvocato uno sguardo misto di antipatia e distacco professionale, "diverse persone sono morte in seguito a un giro nella galleria del mistero. Non è così?" Ci son stati parecchi decessi nella galleria, è vero, ma non abbiamo ancora alcun motivo valido per ritenere che quelle persone siano morte in seguito al giro nella galleria, dottore." Non vedo come possa essere altrimenti, avvocato," disse Sheerin in tono deciso. Cubello si volse risentito verso il direttore dell'ospedale. "Dottor Kelaritan! Se l'inchiesta sarà condotta in questo modo, elevo fin d'ora la mia formale protesta. Il suo dottor Sheerin è qui come esperto al disopra delle parti, non come testimone d'accusa." Sheerin sogghignò. "Stavo solo esprimendo il mio parere sugli avvocati in generale, non le mie
opinioni su quello che potrebbe essere accaduto nella galleria del mistero." "Dottor Kelaritan!" esclamò nuovamente Cubello, arrossendo all'improvviso. “Signori, vi prego," disse Kelaritan, spostando rapidamente lo sguardo da Cubello a Sheerin e da Sheerin a Cubello. "Cerchiamo di collaborare. A mio parere, abbiamo un identico obiettivo in questa inchiesta, vale a dire scoprire cos'è realmente successo nella galleria del mistero per evitare che si ripetano altri eventi... ehm... spiacevoli " "D'accordo," disse Sheerin in tono garbato. Era una perdita di tempo stuzzicare in quel modo l'avvocato. C'erano cose più in portanti da fare. Rivolse un sorriso cordiale a Cubello. "Non mi è mai interessato molto attribuire colpe, ma solo trovare modi per prevenire situazioni dove è assolutamente necessario addossare delle colpe. Perché non mi fa vedere subito uno dei suoi pazienti, dottor Kelaritan? Poi potremmo pranzare insieme e parlare di quello che è accaduto nella galleria, per quanto ne sappiamo in questo momento, e forse dopo pranzo potrei incontrare qualche altro paziente." "Pranzare?" chiese con aria un po' assente Kelaritan, come se si trattasse di un concetto a lui poco familiare. "Sì, la colazione di mezzogiorno. E’ una vecchia abitudine dottore, ma posso aspettare ancora un po'. Potremmo visitare uno dei pazienti, prima." Kelaritan annuì. Rivolgendosi all'avvocato, disse: "Credo sia bene incominciare con Harrim. Oggi, è in ottima forma. Abbastanza buona, almeno, per sostenere una conversazione con uno sconosciuto." "Che ne direbbe di Gistin 190?" chiese Cubello. "Sì, potrebbe andar bene, ma non è stabile come Harrim. Lasciamo che sia Harrim a raccontare com'è andata, poi il dottore potrà parlare con Gistin e... ah, sì, forse anche con Chimmilit. Dopo pranzo, certo." "Grazie," rispose Sheerin. "Da questa parte, dottor Sheerin." Kelaritan indicò una porta a vetri dalla quale, attraverso un corridoio, si accedeva direttamente all'ospedale, dal retro dell'ufficio. I tre si trovarono su una passerella aperta e ariosa, con una vista a 360 gradi del cielo e delle basse colline grigio-verde che circondavano la città di Jonglor. La luce dei quattro soli si riversava da ogni lato. Il direttore dell'ospedale si fermò per un istante ad ammirare l'intero panorama, volgendo lo sguardo prima da una parte e poi dall'altra. I tratti austeri e smunti del suo viso parvero risplendere di un'improvvisa vitalità e giovinezza, mentre i caldi raggi di Onos e quelli meno forti di Dovim, Patru e Trey, che provenivano dalla parte opposta, convergevano con uno sfolgorio abbagliante. "Che giornata meravigliosa, vero?" esclamò Kelaritan con un entusiasmo che sorprese Sheerin, essendo una persona che sembrava particolarmente contenuta e austera. "E magnifico vedere quattro dei nostri soli nel cielo contemporaneamente! Come mi sento bene quando i loro raggi mi colpiscono il viso! Ah, chissà dove saremmo senza i nostri magnifici soli?" Davvero," disse Sheerin. In effetti anche lui si sentiva un po' meglio. 2 A mezzo mondo di distanza, anche una delle colleghe di Sheerin dell'Università di Saro stava fissando il cielo. Il solo sentimento che provava, però, era di terrore. Si chiamava Siferra 89, dell'istituto di archeologia, e da un anno e mezzo dirigeva degli scavi nell'antica area di Beklimot nella remota penisola di Sagikan. In quel momento era tesissima perché si rendeva conto che una catastrofe si stava per abbattere su di lei.
Il cielo non le dava alcun conforto. Allora, in quella parte del mondo, le uniche luci visibili erano quelle di Tano e Sitha, e i loro freddi e sgradevoli raggi le eran sempre parsi privi di gioia deprimenti perfino. Nell'azzurro intenso del cielo di quel giorno a due soli, c’era una luce ostile, oppressiva, che creava ombre aguzze, di pessimo auspicio. Nel cielo si poteva vedere anche Dovim, che stava sorgendo proprio in quell'istante: si trovava appena sopra l'orizzonte, al di là delle vette dei lontani monti Horkkan. Ma il debole chiarore del piccolo sole rosso non la rincuorava affatto. Siferra sapeva che presto la calda luce di Onos sarebbe parsa lentamente da oriente a rallegrare la vista. Quello che la turbava, però, era molto più preoccupante della momentanea assenza del sole principale. Una tempesta micidiale di sabbia si stava dirigendo proprio verso Beklimot. Di lì a qualche minuto avrebbe spazzato via l’intera zona, e allora sarebbe potuto accadere di tutto. Veramente di tutto. Le tende avrebbero potuto essere distrutte; i contenitori dove avevano riposto con cura manufatti scelti avrebbero potuto essere capovolti e il loro contenuto disperso; le loro macchine fotografiche, il loro materiale da disegno, le mappe stratigrafiche laboriosamente compilate... Tutto ciò per cui avevano lavorato poteva andare perso in un solo istante. E quel che era peggio, potevano morire tutti. E quel che era ancora peggio, anche le antiche rovine di Beklimot, la culla della civiltà, la città più antica su Kalgash, erano in grave pericolo. Gli scavi di sperimentazione fatti eseguire da Siferra nella pianura alluvionale erano tutti allo scoperto. Se il vento impetuoso fosse stato abbastanza violento, avrebbe sollevato ancora più sabbia di quella che stava già trasportando e l'avrebbe gettata con forza tremenda contro i fragili resti di Beklimot erodendo, scavando, sotterrando di nuovo e forse perfino trascinando via con sé le fondamenta, disseminandole per il piano riarso. Beklimot era una meraviglia della storia che apparteneva al mondo intero. Siferra l'aveva esposta a un potenziale pericolo, compiendo tali scavi, ma il rischio era stato calcolato. E impossibile svolgere qualsiasi attività archeologica senza distruggere qualcosa: è nella sua natura. Ma aver messo a nudo il cuore stesso di quella pianura, come aveva fatto Siferra, e poi subire la sciagura di essere colpiti dalla peggiore tempesta di sabbia del secolo . . . No. No, questo era troppo. Il suo nome sarebbe stato denigrato per eoni ed eoni, se Beklimot fosse stata distrutta da quella tempesta a causa degli scavi da lei condotti. Forse quel posto era maledetto, come, a quanto si sapeva, molte persone andavano dicendo. Siferra 89 non aveva mai tollerato i superstiziosi. Ma quegli scavi, che nelle sue aspettative costituivano l'evento culminante della sua carriera, non le avevano procurato altro che fastidi, fin da quando erano stati iniziati. E ora minacciavano di rovinarla professionalmente per il resto della vita o perfino di ucciderla. Eilis 18, uno dei suoi assistenti, arrivò di corsa. Era un ometto magro che appariva insignificante se paragonato alla figura alta e atletica di Siferra. "Abbiamo fissato tutto quello che potevamo!" le gridò, quasi senza fiato. "Ora siamo nelle mani degli dei!" "Dei?" rispose lei, accigliata. "Quali dei? Ne vedi qui intorno, Eilis?" "Ma io volevo dire..." "So cosa volevi dire. Lascia perdere." Dalla parte opposta giunse Thuwik 443, il caposquadra de operai. Aveva gli occhi stravolti dal terrore. "Signora," disse "dove possiamo rifugiarci? Non c'è nessun luogo sicuro!" "Rifugiatevi sotto quel dirupo, Thuvvik." "Ma verremo sepolti dalla sabbia!
Soffocheremo!» Sarete al sicuro, stai tranquillo," rispose Siferra, con una sicurezza che non provava affatto. "Vai subito laggiù e accertati che tutti siano al riparo!" "E lei? Perché non viene?" Gli lanciò un rapido sguardo allarmato. Pensava forse che lei avesse un rifugio tutto per sé dove sarebbe stata davvero al sicuro? "Arrivo subito, Thuwik. Vai, intanto, e smettila di seccarmi!” Dall'altra parte, vicino alla costruzione esagonale in mattoni che i primi esploratori avevano chiamato il Tempio dei Soli, Siferra scorse la massiccia figura di Balik 338. Con gli occhi socchiusi, riparandosi il viso dalla fredda luce di Tano e Sitha, Ba scrutava l'orizzonte verso settentrione, la direzione da dove stava arrivando la tempesta di sabbia. Aveva un'espressione angosciata. Balik era il loro esperto di stratigrafia, ma era anche, prati mente, il meteorologo della spedizione. Il suo lavoro consisteva nel tenere informato il personale sulle condizioni atmosferiche e fare attenzione a eventuali fenomeni insoliti. Nella penisola di Sagikan, le condizioni atmosferiche erano generalmente stabili: si trattava di una zona incredibilmente arida, con modeste precipitazioni che si verificavano solo ogni dieci o venti anni. L'unico evento di rilievo era una variazione della normale circolazione delle correnti d'aria, che metteva moto forze cicloniche e generava una tempesta di sabbia, ma anche questo avveniva solo poche volte ogni secolo. L'espressione afflitta di Balik era forse un segno del senso di colpa che provava per non aver saputo prevedere l'arrivo della tempesta? Oppure appariva così terrorizzato perché ora riusciva finalmente a calcolare la portata di quella furia che stava per battersi su di loro? Sarebbe stato tutto diverso se avessero avuto un po' più tempo per prepararsi, disse Siferra tra sé. Ora, a rifletterci bene vedeva che di segni eloquenti ne avevano avuti a sufflcienza, se solo avessero saputo coglierli: l'improvvisa ondata di caldo torrido, fortissima anche per le temperature della penisola di Sagikan, e la calma mortale che aveva sostituito la consueta e continua brezza proveniente da settentrione, e poi lo strano vento umido che aveva iniziato a soffiare da sud. I khalla, quegli scarni e terrificanti volatili che si nutrivano di cadaveri aggirandosi nella zona come spettri assetati di sangue, erano tutti scomparsi quando quel vento si era alzato, e si erano dileguati oltre le dune del deserto occidentale, come se fossero inseguiti da demoni. A quel punto avrebbero dovuto capirlo, pensò Siferra. In particolare, quando i khalla si erano alzati in volo verso le dune, emettendo versi striduli e acuti. Ma erano tutti troppo impegnati negli scavi per fare attenzione a quello che stava accadendo. Probabilmente avevano finto di non vedere nulla. Se si finge di non notare i segni che preannunciano una tempesta di sabbia, forse la tempesta si dirigerà altrove. Poi quella nuvoletta grigia era apparsa dal nulla, all'orizzonte, verso nord, una macchia grigia sull'intenso sfondo del cielo del deserto, di solito limpido come vetro. Che nuvola? Vedi delle nuvole? Io non ne vedo. Avevano continuato a far finta di niente. Ora la nuvola era diventata un mostro scuro e immenso che ricopriva metà del cielo. Il vento soffiava ancora da sud, ma non era più umido come prima, ora era caldo come il fuoco; un altro vento, ancora più forte del precedente, imperversava dalla direzione opposta. E ognuno rafforzava l'altro. E quando si sarebbero incontrati... "Siferra!" gridò Balik. "Sta arrivando! Riparati!» «Subito!" Ma non voleva mettersi al riparo. Preferiva invece correre da una parte all'altra degli scavi, tenendo contemporaneamente tutto sotto controllo: reggere le tende che si gonfiavano al vento, avvolgere con le braccia le preziose lastre fotografiche, gettarsi contro la facciata della Casa Ottagonale, da poco portata alla luce, per proteggere gli stupendi mosaici che aveva scoperto il mese precedente.
Ma Balik aveva ragione. In quel convulso mattino, Siferra aveva fatto tutto il possibile per proteggere la zona, e ora non restava che addossarsi sotto il dirupo che si profilava in lontananza, nella parte superiore dell'accampamento, e sperare che sarebbe stato per loro un valido baluardo contro la forza scatenata dalla tempesta. Si affrettò a raggiungere gli altri. Con le sue forti gambe correva senza fatica sulla sabbia riarsa che le scricchiolava sotto i piedi. Siferra non aveva ancora quarant'anni; era una donna alta e vigorosa, nel pieno della sua forma fisica, e fino a quel momento aveva avuto un atteggiamento ottimista nei confronti della vita. Ma, all'improvviso, ogni cosa veniva messa a repentaglio: la sua carriera accademica, la sua ottima salute, forse la sua stessa esistenza. Gli altri erano radunati alla base del dirupo, dietro un riparo improvvisato con della tela incerata, fissata a paletti di legno. "Fatemi passare," disse Siferra, facendosi strada tra loro. "Signora," la implorò Thuwik. "Signora, faccia sparire la tempesta!" Come se lei fosse stata una sorta di divinità dotata di magici poteri! Siferra esplose in una risata beffarda. Il caposquadra, le fece un cenno - un gesto sacro, immaginò Siferra. Gli altri operai, che provenivano tutti dal piccolo villaggio a oriente delle rovine, si fecero lo stesso segno, e rivolti verso di lei cominciarono a pregare. Preghiere? A lei? Fu un momento spettrale. Questi uomini, come i loro padri e i padri dei loro padri, avevano scavato e setacciato la sabbia a Beklimot per tutta la vita, al servizio dei vari archeologi che si erano succeduti sul posto, portando pazientemente alla luce antichi palazzi e minuscoli oggetti. Probabilmente avevano già visto tempeste di sabbia in precedenza. Erano sempre stati così atterriti? Oppure questa tempesta sarebbe stata particolarmente devastante? "Eccola," disse Balik. "Sta arrivando." E si coprì il viso con le mani. La tempesta si abbatté su di loro con tutta la sua forza. All'inizio, Siferra rimase in piedi, fissando attraverso un buco nella tela le grandiose e ciclopiche mura della città, come se avesse potuto impedire qualunque danno solo tenendo lo sguardo fisso su di esse. Ma, dopo pochi attimi, la situazione divenne insostenibile. Un'ondata di calore incredibile colpì Siferra. Fu talmente violenta che credette che i suoi capelli e perfino le sue ciglia stessero per prendere fuoco. Si voltò, sollevando un braccio per proteggersi il viso. Poi arrivò la sabbia e tutto si annebbiò. Fu come un temporale, uno scroscio di pioggia molto più intenso del solito. Ci fu una specie di tuono, che non era però un tuono, ma l'incessante picchiettio delle miriadi di minuscole particelle di sabbia sul terreno. Oltre a quel suono cupo e forte se ne avvertivano altri: il fruscio di qualcosa che strisciava, lo stridore di qualcosa che raschiava, il suono lieve di qualcosa che batteva. E un terribile ululato. Siferra immaginava tonnellate di sabbia che precipitavano addosso a loro, che ricoprivano le mura, che sotterravano i templi, che spazzavano via le fondamenta degli edifici che si estendevano tutt'intorno e il loro accampamento. E che li seppellivano tutti. Si voltò verso il dirupo, e attese che giungesse la fine. Con sua grande sorpresa e mortificazione, si trovò a singhiozzare istericamente, gemiti improvvisi e profondi che nascevano dentro di sé, devastandola. Non voleva morire. Certo che no: chi mai lo voleva? Ma non si era mai resa conto fino a quel momento che poteva esserci qualcosa di peggiore della morte.
Beklimot, il sito archeologico più famoso del mondo, la città più antica dell'umanità, la base della civiltà, stava per essere distrutta. Tutto questo come semplice conseguenza della sua negligenza. Generazioni di grandi archeologi kalgashiani avevano lavorato a Beklimot nei centocinquant'anni successivi alla sua scoperta: il primo e il più grande di tutti era stato Galdo 221, poi Marpin, Stinnupad, Shelbik, Numoin. Che elenco glorioso! E ora Siferra, che stupidamente aveva lasciato il sito senza alcuna protezione, mentre una tempesta di sabbia si avvicinava. Finché Beklimot era rimasta sepolta dalla sabbia, le sue rovine avevano riposato tranquillamente per migliaia di anni, conservate come il giorno in cui i suoi ultimi abitanti si erano arresi di fronte ai disagi del continuo mutamento climatico, e l'avevano abbandonata. Ogni archeologo che vi aveva lavorato, a partire da Galdo, aveva fatto attenzione a portare alla luce solo una piccola parte del luogo, e aveva fatto erigere steccati e altre barriere per proteggere le rovine dai pericoli improbabili ma rischiosi di una tempesta. Ogni archeologo, fin ora. Siferra aveva fatto erigere i consueti ripari e anche delle palizzate, ovviamente. Ma non davanti ai nuovi scavi, nell'area del santuario dove aveva concentrato le sue ricerche. In quella zona sorgevano gli edifici più antichi e più belli. E lei, impaziente di iniziare gli scavi, trascinata come sempre dal suo sfrenato ardore, dal desiderio di andare sempre avanti, non aveva preso le precauzioni più elementari. Certo, in precedenza le era parso di aver fatto quello che doveva, ma ora, con il rombo infernale della tempesta nelle orecchie, e il cielo nero e minaccioso... E lo stesso, pensò Siferra, tanto non soprawiverò. E cosi non dovrò leggere quello che scriveranno di me in tutti i libri di archeologia che verranno pubblicati nei prossimi cinquant'anni. “La grande area archeologica di Beklimot aveva fornito dati ineguagliabili sui primi sviluppi della civiltà su Kalgash, fino a che non andò distrutta in seguito a grossolani errori durante gli scavi eseguiti sotto la guida della giovane e ambiziosa Siferra 89, dell’Università di Saro..." "Credo che sia la fine," mormorò Balik. "Come?" esclamò Siferra. "La tempesta. Ascolta! Si sta calmando, laggiù." "Siamo sepolti dalla sabbia, ecco perché non sentiamo più niente." "No! Non siamo sepolti, Siferra!" Balik diede uno strattone al telo davanti a loro, e riuscì a sollevarlo un po'. Siferra scrutò nello spazio fra il dirupo e le mura della città. Non credette ai suoi occhi. Vide l'azzurro limpido e intenso del cielo. E la luce dei soli. Erano solo i raggi tetri e freddi dei due soli gemelli, Tano e Sitha ma allora le sembrò la luce più bella che avesse mai visto. La tempesta era passata. Tutto era tornato calmo. E dov'era la sabbia? Come mai non aveva ricoperto niente? La città era ancora visibile: i grandi blocchi di pietra delle mura, lo sfolgorio luminoso dei mosaici, il tetto di pietra, a punta, del Tempio dei Soli. E la maggior parte delle tende ancora in piedi, comprese quasi tutte le più importanti. Solo il campo dove vivevano gli operai aveva subito dei danni, ma potevano essere riparati in poche ore. Siferra era sbalordita, non osava ancora credere ai suoi occhi; uscì allo scoperto e si guardò attorno. Non c'era più sabbia nella zona circostante. Si vedeva ancora lo strato scuro, indurito di terra battuta che si trovava nella zona degli scavi. Ora, sembrava diverso, era eroso in un modo strano, come se fosse stato sfregato, ma era privo di quei depositi che la tempesta avrebbe potuto portare.
Balik disse in tono sorpreso: "Prima è venuta la sabbia, e poi il vento. Questo ha sollevato tutta la sabbia che era scesa su di noi l'ha raccolta rapidamente così com'era caduta e l'ha trasportata verso sud. Un miracolo, Siferra. Non c'è altro modo per definirlo. Guarda, si vede il punto in cui il terreno è stato eroso, dove lo strato superiore della sabbia è stato spazzato via dal vento, le sedimentazioni di una cinquantina d'anni scomparse in cinque minuti, ma...» Siferra lo ascoltava a malapena. Prese Balik per il braccio e lo fece voltare, indicandogli una direzione diversa da quella dove avevano compiuto gli scavi. "Guarda là," gli disse. “"Dove? Cosa?" Lei puntò un dito. “La collina di Thombo.” L'esperto di stratigrafia spalancò gli occhi. "Per gli dei! E spaccata in due, proprio al centro!" La collina di Thombo era un rìlievo irregolare di media altezza, a una quindicina di minuti di cammino a sud del centro della città. Nessuno aveva più eseguito dei lavori in quella zona da un centinaio d'anni, dalla seconda spedizione del grande pioniere Galdo 221, che non vi aveva rinvenuto niente di significativo. Si riteneva che fosse la località dove gli abitanti dell'antica Beklimot gettavano i rifiuti - abbastanza interessante di per sé, ma del tutto insignificante rispetto alle meraviglie che quel luogo serbava in ogni suo angolo. A quanto sembrava, la furia della tempesta si era accanita sulla collina di Thombo, e quello che generazioni e generazioni di archeologi non si erano curati di fare, lo aveva compiuto in un istante la violenza della tempesta di sabbia. Un'irregolare striscia di terra, quasi a zigzag, era stata strappata via dal fianco della collina e come una terribile ferita metteva a nudo l'interno dei versanti. Ad archeologi esperti, quali Siferra e Balik, bastò uno sguardo per comprendere l'importanza di quello che vedevano. "Una città sotto il colle," mormorò Balik "Più di una, penso. Forse una serie,» disse Siferra. "Credi?" "Guarda laggiù, sulla sinistra." Balik emise un fischio. "Ma non è un muro a trama incrociata sotto l'angolo di quella base ciclopica?" "Esatto." Un brivido scese lungo la schiena di Siferra. Si volse verso Balik e vide che era stupito quanto lei. Aveva gli occhi spalancati, il viso pallido. "Nel nome del Buio!" disse in tono secco. «Che cosa ci sarà laggiù, Siferra?" "Non lo so. Ma intendo scoprirlo immediatamente.» Si volse verso il rifugio, sotto il dirupo, dove Thuwik e i suoi uomini erano ancora accovacciati in preda al terrore, segnandosi e borbottando preghiere a voce bassa e monotona, come se non si fossero ancora resi conto che erano ormai scampati al pericolo della tempesta. Thuwik!» chiamò Siferra, gesticolando animatamente, quasi con rabbia. "Venite fuori, tu e i tuoi uomini! C’è del lavoro da fare!” 3 Harrim 682 era un uomo robusto sulla cinquantina, con grandi muscoli sulle braccia e sul petto, ricoperti da uno spesso strato di grasso isolante. Sheerin, osservandolo attraverso il vetro della stanza dell'ospedale, capì immediatamente che lui e Harrim sarebbero andati d'accordo. "Ho sempre avuto un debole per quelle persone che sono, come dire, sovrappeso," disse lo psicologo a Kelaritan e Cubello. "Capirete, lo sono stato anch'io per quasi tutta la vita. Certo, io non sono mai stato muscoloso come lui," affermò Sheerin ridendo affabilmente. "Io sono grasso dappertutto.
Tranne qui dentro, ovviamente," aggiunse, dandosi un colpetto sulla fronte. "Che lavoro fa questo Harrim?" "Scaricatore di porto," rispose Kelaritan. "Trentacinque anni passati sulle banchine del porto di Jonglor. Ha vinto a una lotteria un biglietto per il giorno d'apertura della galleria del mistero. Ci ha portato tutta la famiglia. Tutti hanno riportato delle conseguenze, chi più chi menO, ma lui più degli altri. E stato molto difficile per lui: un uomo grande e grosso che crolla in quel modo!" "Posso capirlo," disse con un ampio gesto Sheerin. "Ne terrò conto. Andiamo a fare due chiacchiere con lui adesso, d'accordo?" Entrarono nella stanza. Harrim era seduto sul letto e fissava con disinteresse un cubo rotante che proiettava luci e colori sulla parete davanti a sé. Sorrise affabilmente quando vide Kelaritan, ma sembrò irrigidirsi nel momento in cui notò l'avvocato Cubello avanzare dietro il direttore dell'ospedale, e assunse un'espressione glaciale alla vi sta di Sheerin "Chi è?" chiese a Kelaritan. "Un altro avvocato?" "Niente affatto. Le presento Sheerin 501, deil'Università d Saro. E qui per aiutarla a guarire." Harrim sbuffò. "Un altro cervellone! Che diavolo potrà far di buono per me?" "Hai proprio ragione," disse Sheerin. "La sola persona che può aiutarti a guarire sei tu. Lo sappiamo entrambi, e forse riuscirò a farlo capire anche alla gente di questo ospedale." Si se dette sul bordo del letto, che scricchiolò per la sua mole. "Al meno i letti sono decenti, in questo posto. Devono essere ottimi, se riescono a reggere me e te insieme! Gli avvocati non ti garbano se ho ben capito. A me neanche, amico." Sono dei dannati piantagrane, ecco cosa sono," disse Harrim. Conoscono ogni tipo di trucco. Ti fanno dire cose che non vo levi dire, promettono di aiutarti se tu dici questo e quest'altro, e poi alla fine usano le tue parole contro di te. Almeno, io credo che funzioni cosi." Sheerin alzò lo sguardo verso Kelaritan. “E’ proprio necessario che Cubello sia presente? Senza di lui le cose potrebbero andar meglio.» "Sono autorizzato ad assistere a ogni..." fece Cubello con freddezza. "La prego," lo interruppe Kelaritan in tono deciso, più che gentile. "Sheerin ha ragione. E poi tre visitatori potrebbero essere troppi per Harrim. Inoltre lei conosce già la sua storia." "Bene,” disse Cubello, paonazzo per la rabbia. Dopo pochi secondi si voltò e usci dalla stanza. Con uno sguardo furtivo Sheerin fece segno a Kelaritan di andarsi a sedere in fondo alla stanza. Poi, volgendosi verso l'uomo seduto sul letto, sorrise dolcemente e disse: “E’ stata una brutta esperienza, vero?" "Può giurarci.» "Da quanto tempo sei qui dentro?" Harrim si strinse nelle spalle. «Una settimana, credo, forse due. O forse ancora un po' di più. Non lo so esattamente. Da...» Rimase in silenzio. «Dall'Esposizione di Jonglor?» gli suggerì Sheerin. “Da quando ho fatto quel giro là dentro, si.” "Sono più di due settimane, allora," disse Sheerin. "Davvero?" Lo sguardo di Harrim si offuscò. Non voleva sapere da quanto tempo si trovava chiuso in ospedale. Cambiando tattica, Sheerin disse: "Scommetto che non avresti mai detto che un giorno saresti stato felice di ritornare a lavorare al porto, vero?" Harrim rispose con un sorriso: "Può esserne certo! Cosa non darei per ritornare lì a imbragare tutte quelle casse domani stesso!" Si guardò le mani. Mani grandi e forti, con dita grosse, appiattite sulle punte; una di esse era storta per un incidente avvenuto molto tempo prima. "Mi sto rammollendo, sempre sdraiato sul letto. Quando tornerò al lavoro non sarò più in grado di far niente." "Cos'è che ti tiene qui, allora? Perché non ti alzi, ti metti i vestiti e te ne vai?" Kelaritan, dal suo posto, iniziò a protestare.
Sheerin gli fece segno di stare tranquillo. Harrim lanciò a Sheerin uno sguardo impaurito. "Alzarmi e andarmene?" "Perché no? Non sei mica prigioniero." "Ma se lo faccio... Se lo faccio..." La voce dello scaricatore si afflevoli. "Se lo fai, cosa succede?" chiese Sheerin. Per un po' Harrim rimase in silenzio, il viso chino, le sopracciglia aggrottate. Iniziò a parlare molte volte, ma poi si interruppe. Lo psicologo attendeva pazientemente. Infine Harrim disse con voce forzata, rauca, soffocata: “Non ce la faccio a uscire. Per il... Per... Per il...» Lottava contro se stesso. "Il Buio," disse. "Il Buio," replicò Sheerin. La parola restò sospesa in mezzo a loro come se fosse stata tangibile. Harrim sembrava turbato, perfino imbarazzato. Sheerin ricordò che fra i membri della classe sociale a cui apparteneva Harrim, quella era una parola che si preferiva evitare. Per Harrim il termine era, se non proprio osceno, almeno per certi versi sacrilego. Nessuno su Kalgash amava pensare al Buio; ma minore era il proprio grado di cultura, più era pericoloso ponderare la possibilità che i sei amichevoli soli in qualche modo scomparissero dal cielo tutti insieme e che potesse regnare la totale oscurità. Era un'idea inimmaginabile, letteralmente inimmaginabile. "Il Buio, sì,» disse Harrim. "E del Buio che ho paura... di trovarmi di nuovo al Buio se esco da qui. Ecco cos'è. Ancora una volta circondato dal Buio.» “Un totale capovolgimento dei sintomi, nelle ultime settimane," disse Kelaritan a bassa voce. "All'inizio era il contrario. Non si riusciva a portarlo in uno spazio chiuso se prima non gli si dava un sedativo. Un grave caso di claustrofobia, e poi, qual che tempo dopo, c'è stato un passaggio totale alla claustrofilia. Riteniamo che sia un segno di guarigione.» “Credo sia possibile," disse Sheerin, pensieroso. "Ma se non le spiace… Rivolto a Harrim, gli chiese in tono rassicurante: “Sei stato uno dei primi a entrare nella galleria del mistero, vero?" "Sì, tra i primi." Una nota d'orgoglio apparve nella voce di Harrim. "C'è stata una lotteria cittadina. Un centinaio di persone vinsero un giro gratis nella galleria. Avranno venduto un milione di biglietti, e il mio è stato il quinto estratto. Io, mia moglie, mio figlio, le mie due figlie, ci siamo andati tutti. Proprio il primo giorno." "Ti spiace raccontarmi che cos'hai provato?" "Allora," cominciò Harrim. "E stato..." Si interruppe. "Non ero mai stato al Buio prima. Neanche in una stanza buia. Mai. Non mi interessava. C'era sempre una lampada votiva accesa nella mia camera da letto quando ero piccolo, e dopo sposato, ovviamente, ne ho ripresa una per la nuova casa. Mia moglie la pensa come me. Il Buio non è naturale. E qualcosa che non dovrebbe esistere." "Però hai giocato alla lotteria." "Era la prima volta. E stato solo uno sfizio. Volevo fare qualcosa di diverso. Una specie di vacanza. La grande esposizione, il quintO centenario della città, vero? Tutti compravano i biglietti della lotteria. E io pensavo che doveva essere qualcosa di eccezionale, qualcosa di meraviglioso, altrimenti perché l'avrebbero costruita? E ho comprato il biglietto.
Quando ho vinto, tutti al porto erano invidiosi, avrebbero desiderato andarci loro. Qualcuno addirittura voleva che gli vendessi il biglietto... 'Nossignore,’ gli ho detto, 'non è in vendita, è mio e della mia famiglia, è il nostro biglietto..."' "Eri emozionato all'idea di fare un giro nella galleria?" "Si. Può scommetterci." E quando ti sei trovato lì? Quando sei entrato nella galleria? Cos'hai provato?" "Allora..." iniziò Harrim. Si inumidì le labbra, e i suoi occhi sembrarono perdersi nel vuoto. "C'erano delle automobiline senza tettuccio, con all'interno delle assicelle per sedersi. Ogni vettura ospitava sei persone per volta, ma noi potemmo entrare in cinque perché eravamo tutta una famiglia ed eravamo un numero sufficiente per non dover far salire un estraneo. Poi è cominciata la musica e la macchina è entrata nella galleria. Si muoveva lentamente, non andava come una vera e propria automobile. Poi ci siamo trovati dentro la galleria. E poi... Poi..." Sheerin rimase in silenzio ad aspettare. “Vai avanti," disse dopo un po', quando vide che Harrim non dava segno di continuare. "Racconta. Voglio sapere cosa si prova." "Poi arrivò il Buio," disse Harrim in tono secco. Le grosse mani tremavano al solo ricordo. "Scese su di me come se mi avessero messo in testa un enorme cappuccio, capisce? E tutto divenne nero, all'improvviso." Il tremore cominciò ad aumentare. “Sentii mio figlio Trinit ridere. E un bravo ragazzo, Trinit. Pensava che il Buio fosse una cosa sporca, ci può scommettere. Per questo rideva, e io gli dissi di stare zitto, poi una delle mie bambine cominciò a piangere e io le dissi che andava tutto bene, che non c'era niente di cui preoccuparsi, che durava solo un quarto d'ora e che era solamente un divertimento, non qualcosa che faceva paura. E poi... Poi..." Cadde nuovamente il silenzio. Questa volta Sheerin non dovette spingerlo a proseguire. “Poi l'oscurità mi avvolse. Tutto era Buio... Buio... non può immaginare com'era... non può riuscirci... era nero... nerissimo... il Buio...il Buio..." All'improvviso Harrim fu scosso da lunghi fremiti e cominciò a singhiozzare talmente forte che sembrava avesse le convulsioni. "Il Buio... mio Dio, il Buio...!" "Stai tranquillo, non c'è assolutamente nulla di cui aver paura. Guarda la luce del sole! Ci sono quattro soli oggi, Harrim. Stai tranquillo." "Me ne occupo io," intervenne Kelaritan. Si era precipitato i fianco al letto quando Harrim aveva iniziato a singhiozzare. In mano gli luccicava un ago. Lo infilò nel nerboruto braccio di Harrim e il singhiozzo si mutò in un sussurro. Harrim si calmò quasi immediatamente. Ricadde sul cuscino, con un sorriso spento sulle labbra. "Sarà meglio lasciarlo solo, adesso," disse Kelaritan. "Ma se ho appena iniziato a..." "Non riprenderà il controllo di sé per ore, ormai. Tanto vale andare a pranzo " "A pranzo, sì," disse Sheerin con scarso entusiasmo. Si accorse, con sua somma sorpresa, di non avere affatto appetito. Non si era mai sentito in quel modo, per quel che ricordava. "E’ uno dei meno gravi?" "Uno dei più stabili, sì." "E gli altri come sono?" "Alcuni sono completamente catatonici. Altri hanno continuo bisogno di sedativi. Nel primo stadio, come ho detto, vogliono stare sempre all'aperto. Quando escono dalla galleria sembrano normalissimi, ma in realtà soffrono di claustrofobia.
Si rifiutano di entrare in qualunque spazio chiuso... si tratti di palazzi, case, condomini, appartamenti, baracche, tuguri, capannoni o tende.” Sheerin era veramente sconcertato. La sua tesi di dottorato trattava dei disordini indotti dal buio, ma non si era mai imbattuto in casi così gravi. "Non vogliono entrare in casa? E dove dormono? " "All’ aperto." "E nessuno ha provato a portarli dentro con la forza?" "Certo che ci hanno provato. E in quel momento che si lasciano prendere da violenti attacchi isterici. Alcuni manifestano perfino tendenze suicide: corrono verso un muro, ci sbattono contro la testa e fanno altre cose del genere. Se si riesce a portarli dentro casa, non li si può tenere all'interno senza una camicia di forza o iniettando loro un forte sedativo." Sheerin guardò il grosso scaricatore, ormai addormentato, e scosse il capo "Poveri diavoli." "Questa è la prima fase. Harrim si trova nella seconda fase adesso, quella claustrofiliaca. Si è abituato a stare qui, ormai, e la sindrome si è capovolta. Sa di essere al sicuro nell'ospedale, le luci qui sono sempre accese. E nonostante possa vedere dalle finestre i soli brillare, ha paura di uscire. Crede che fuori sia Buio.» "Ma è assurdo!" disse Sheerin. "Non è mai Buio fuori.» Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, si sentì un idiota. Kelaritan gli rispose ugualmente. «Questo lo sappiamo tutti dottor Sheerin. Ogni persona sana di mente lo sa. Ma il problema di quelli che hanno subito un trauma nella galleria del mistero è che non li possiamo più definire tali.» "Sì, capisco,» disse Sheerin, imbarazzato. "Potrà vedere altri pazienti più tardi," disse Kelaritan. "In questo modo, forse, sarà in grado di inquadrare il problema anche da altri punti di vista. E domani la porteremo a vedere la galleria. L'abbiamo chiusa, ovviamente, ora che sappiamo che può creare problemi, ma i notabili della città attendono con ansia la riapertura. L'investimento che hanno fatto, credo di capire, è enorme. E ora andiamo a pranzo.» "A pranzo, sì,” ripeté Sheerin, ancor meno entusiasta di prima. 4 La grande cupola dell'Università di Saro, che si ergeva maestosa a dominare le pendici boscose del Monte dell'Osservato risplendeva nella luce del tardo pomeriggio. Il piccolo globo rosso di Dovim era già scivolato oltre l'orizzonte, ma Onos era ancora alto a occidente, e Trey e Patru, che attraversavano volta celeste a oriente formando una nitida diagonale, delineavano strisce luminose lungo l'immensa e bellissima facciata del duomo. Beenay 25, un giovane vivace e snello con un portamento scattante e agile, accatastava i suoi libri e fogli, andando su e giù per l'appartamento. Questo era situato sotto l'Osservatorio di Saro, ed egli lo divideva con la sua compagna, Raissta 717. Raissta, comodamente sdraiata sul piccolo divano verde sbiadito, alzò gli occhi su di lui e aggrottò le sopracciglia. "Esci, Beenay?» "Vado all'osservatorio.» "Ma è presto. Di solito non esci finché Onos non tramonta. E manca ancora qualche ora.» "Ho un appuntamento, Raissta.» Gli lanciò uno sguardo caldo e seducente. Avevano tutti e due meno di trent'anni, entrambi laureati e ora assistenti, lui d'astronomia, lei di biologia, ed erano amanti da appena sette mesi. La loro relazione era ancora all'inizio, nel pieno dell'entusiasmo, ma erano già sorti i primi problemi. Beenay lavorava fino a tardi quando in cielo restavano solo i soli minori. Raissta era al meglio della forma nei momenti di piena luce, sotto il fulgore dorato del luminoso Onos.
Ultimamente, Beenay passava sempre più tempo all'osservatorio, e ormai quando uno si svegliava, l'altro andava a dormire. Beenay sapeva che la cosa era spiacevole per la sua compagna. Ma lo era anche per lui. Dopotutto il lavoro che stava svolgendo sull'orbita di Kalgash era impegnativo e lo aveva spinto in campi sempre più complessi, che trovava al tempo stesso stimolanti e spaventosi. Se solo Raissta avesse pazientato per qualche altra settimana, un paio di mesi al massimo. "Non puoi restare qui ancora un po', stasera?" gli chiese lei. Si sentì venir meno al pensiero di trattenersi. Raissta gli stava lanciando uno sguardo languido che lasciava íntendere qualcosa, tipo "vieni qui e spassiamocela". Non era facile resistere; in realtà non aveva alcuna voglia di opporsi. Ma Yimot e Faro stavano già aspettando. "Te l'ho detto. Ho un..." "Un appuntamento, sì. Anch'io. Con te." "Con me?" "Ieri mi hai detto che oggi pomeriggio avresti avuto un po' di tempo da dedicarmi. Ci contavo, lo sai. Mi sono liberata dagli impegni; ho lavorato in laboratorio tutta la mattina." Di male in peggio, pensò Beenay. Si ricordò di averle promesso qualcosa del genere per il pomeriggio, dimenticando completamente che aveva già preso un impegno con i due studenti. Raissta aveva messo il broncio, adesso, ma, in qualche modo, riusciva anche a sorridere, un trucco che conosceva alla perfezione. Beenay avrebbe voluto scordarsi completamente di Faro e Yimot e restare con lei, ma se lo avesse fatto sarebbe giunto all'appuntamento con un'ora di ritardo, forse anche due. E non era giusto. Doveva riconoscere che non vedeva l'ora di sapere se i calcoli dei due studenti confermavano i suoi. Due forze alla pari lo attraevano: da una parte il potente richiamo di Raissta, dall'altra il desiderio di tranquillizzarsi su un problema scientifico di primaria importanza. E anche se era obbligato ad arrivare puntuale all'appuntamento, Beenay si rese conto di aver preso un impegno anche con Raissta, cosa questa che non era solo un dovere, ma anche un piacere. "Senti," le disse, avvicinandosi al divano e prendendole le mani fra le sue. "Non posso essere in due posti contemporaneamente, no? E quando ieri ti ho fatto quella promessa, mi ero completamente scordato che Faro e Yimot dovevano passare da me, all'osservatorio. Raggiungiamo un accordo. Se vado da loro e mi libero subito della questione che devo affrontare, taglierò la corda e sarò di nuovo qui fra un paio d'ore. Che ne dici?" "Non dovevi fotografare quegli asteroidi stasera?" disse lei rimettendo il broncio e senza nemmeno abbozzare un sorriso, questa volta. "Accidenti! Non importa, chiederò a Thilanda di farlo per me, o a Hikkinan. o a chi capita. Sarò di ritorno al tramonto di Onos, te lo prometto.» "Dici sul serio?" Le strinse la mano e le sorrise in modo fugace e malizioso «Manterrò la promessa. Puoi giurarci. Va bene? Sei ancora arrabbiata?" "Insomma..." "Appena potrò mi libererò di Faro e Yimot." "Sarà meglio per te." Mentre riprendeva a radunare le sue carte, Raissta gli chiese: "A proposito, cos'è questa questione con Faro e Yimot che è tanto importante?" "Ricerche di laboratorio. Studi sulla gravitazione universale. "A dire la verità, non mi sembra una cosa tanto importante. "Spero che alla fine non risulti importante per nessuno rispose Beenay. "Ma è qualcosa che devo
scoprire subito." "Vorrei proprio sapere di cosa stai parlando." Beenay guardò l'orologio e sospirò profondamente. Calcolò che poteva trattenersi ancora qualche minuto. "Sai che di recente sto lavorando sul moto orbitale di Kalgash intorno a Onos, vero?" "Certo." «Bene. Un paio di settimane fa ho scoperto un'anomalia. I dati sull'orbita di Kalgash da me calcolati non concordavano con quelli della Teoria della gravitazione universale. Ho rifatto tutti i calcoli, ovviamente, ma non sono riuscito a trovare l'errore. Ho rivisto tutto una terza volta, e una quarta, ma compariva sempre la stessa anomalia, qualunque metodo di calcolo usassi." «Oh, Beenay, mi dispiace proprio. Hai lavorato tanto su quell'argomento, lo so, e la scoperta che le tue conclusioni non sono esatte..." "Ma se lo fossero?" "Non hai detto..." "Non so se i miei calcoli siano giusti o meno, a questo punto. Per quel che ne so io, sono esatti, ma questo sarebbe inammissibile. Ho provato e riprovato, ho controllato tutti i calcoli e ogni volta ho avuto gli stessi risultati. Ogni tipo di verifica incrociata mi confermava l'assenza di errori di calcolo. Ma il risultato che ho ottenuto è impossibile. La sola spiegazione realistica è che sono partito da un presupposto sbagliato, e da quel momento in poi ho proseguito correttamente. In questo caso, potrei rifare i calcoli anche mille volte, ma otterrei sempre lo stesso risultato sbagliato. Oppure potrei avere tralasciato qualche dato fondamentale alla base della mia serie di postulati. Se si inizia con un dato errato per la massa planetaria, ad esempio, si ottiene un'orbita sbagliata per il pianeta, per quanto siano precisi tutti gli altri calcoli. Mi segui?" «Per ora si.» «Per questo ho dato da risolvere il problema a Faro e Yimot, senza dire loro di cosa si trattasse realmente, e ho chiesto loro di fare tutti i calcoli dall'inizio. Sono tipi in gamba, bravi matematici. Posso contare su di loro. E se giungono alla mia stessa conclusione, eventualmente arrivandoci con un ragionamento che escluda completamente ogni errore che io avrei potuto commettere, allora dovrò ammettere che, nonostante tutto, le mie conclusioni sono esatte." «Ma non è possibile, Beenay. Non hai detto che le tue scoperte non concordano con la Legge di gravitazione universale?» «E se la Legge universale fosse sbagliata, Raissta?» «Come?» Lo guardò con gli occhi spalancati. C'era uno smarrimento totale nel suo sguardo. «Capisci qual è il problema?» le chiese Beenay. «Comprendi perché devo sapere subito cos'hanno scoperto Yimot e Faro?» "No,» rispose Raissta. «Non lo capisco proprio.» «Ne riparleremo dopo, te lo prometto.» «Beenay...» disse lei, quasi in preda alla disperazione. «Devo andare. Ma ritornero il più presto possibile. Te lo prometto, Raissta! Te lo prometto!» 5 Siferra si fermò giusto il tempo di afferrare un piccone e una spazzola dalla tenda degli attrezzi; la tenda era tutta sghemba per la furia del vento, ma tutto sommato non aveva subito danni. Poi si inerpicò sul versante della collina di Thombo, trascinandosi dietro Balik. Solo in quel momento il giovane Eilis 18 comparve dal rifugio e rimase a fissarli dal basso. Thuvvik suoi operai erano rimasti un po' indietro, e li guardavano perplessi, grattandosi la testa. «Attento,» gridò Siferra a Balik, quando ebbe raggiunto la fenditura che la tempesta di sabbia aveva aperto nella collina. "Voglio iniziare subito a scavare.” “Non faremmo meglio a fotografarla prima e...” “Ti ho detto di stare attento," disse lei bruscamente, mentre affondava il piccone nel fianco della collina, provocando una cascata di terriccio che finì sulla testa e sulle spalle di Balik. Balik saltò di lato, sputando sabbia. "Scusa," disse lei, senza guardarlo.
Affondò il piccone nella terra un'altra volta, allargando la fenditura. Ma non era quella la tecnica più adatta, e Siferra lo sapeva. Il suo illustre maestro, il buon vecchio Shelbik, si stava probabilmente girando nella tomba. E il fondatore della loro scienza, l'onorato Galdo 221, la stava indubbiamente guardando, dalla sua riverita posizione nel pantheon degli archeologi, scuotendo tristemente il capo. D'altro canto, Shelbik e Galdo avevano avuto occasione di cercare cosa c'era sotto la collina di Thombo, e non l'avevano fatto. Se Siferra era un po' troppo eccitata, se si gettava con ecessiva foga in quell'impresa, avrebbero dovuto perdonarla. Ora che l'apparente disastro della tempesta di sabbia si era trasformato in un'imprevista fortuna, ora che la possibile rovina della sua carriera si era inaspettatamente trasformata in un eventuale successo, Siferra non poteva aspettare un minuto di più per scoprire cosa ci fosse sepolto lì sotto. Non poteva. Assolutamente no. "Guarda…" mormorò, spostando una grande massa di terra e cominciando a usare la spazzola. “C'è uno strato annerito qui, proprio al livello delle fondamenta della città ciclopica. Questo posto deve essere completamente bruciato. Ma ora guarda più in basso, lungo la collina: la città a trama incrociata è proprio al di sotto della linea dell'incendio; le popolazioni dell'era ciclopica posero le loro enormi fondamenta proprio sopra la città più antica." "Siferra," disse Balik con apprensione. "Lo so, lo so. Ma lasciami almeno dare un'occhiata qui sotto. Solo una rapida perlustrazione, poi faremo le cose come si deve." Le sembrava di sudare dalla testa ai piedi. Guardava così intensamente che gli occhi iniziarono a dolerle. “Hai visto? Siamo quasi in cima alla collina e abbiamo già scoperto due città. E sento che se scendiamo ancora un po' più in basso, dove dovrebbero trovarsi le fondamenta della città a trama incrociata, allora... sì! Sì! Ecco! Per l'Oscurità, guarda, Balik! Guarda!" Servendosi della punta del piccone, indicò qualcosa con aria trionfante. Era apparsa un'altra striscia carbonizzata, sotto le fondamenta della città a trama incrociata. Anche quello strato era stato distrutto dal fuoco, come quello ciclopico. E sembrava costruito sulle rovine di un villaggio ancora più antico. Balik fu contagiato dal fervore di Siferra. Insieme, si misero a scavare per mettere a nudo lo strato più esterno della collina, a metà strada fra il livello del suolo e la vetta frantumata. Eilis li chiamò dal basso, chiedendo loro cosa stessero facendo, ma essi lo ignorarono. Infiammati d'entusiasmo e di curiosità, cominciarono a scavare nell'antico strato di sabbia mossa dal vento, e penetrarono all'interno della collina per altri dieci, dodici centimetri. "Vedi anche tu quello che vedo io?" gridò Siferra. "Un altro villaggio, sì. Secondo te, di che stile architettonico si tratta?" Siferra si strinse nelle spalle. "Non l'ho mai visto," rispose. "E neanch'ío. E certamente molto arcaico." "Indubbiamente. Ma non credo che sia il più arcaico di quelli nascosti qui sotto, ne sono certa." Siferra guardò attentamente in basso. "Sai cosa penso, Balik? Che qui sotto ci siano cinque, sei, sette, forse otto città, tutte costruite sulle rovine della precedente. Potremmo passare il resto della nostra vita a scavare in questa collina!" Si guardarono pieni di sorpresa. "Sarà meglio scendere e scattare qualche foto, adesso," disse Balik, ritrovando la sua flemma. "Sì.
Sì, sarà meglio." All'improvviso si sentì più tranquilla. Basta con questi colpi furiosi di piccone dati a caso, pensò. Doveva iniziare a considerare la collina più come studiosa che come cacciatrice di tesori o giornalista. Per prima cosa, Balik avrebbe preso delle fotografie da ogni lato. Poi, insieme, avrebbero raccolto dei campioni di terra in superficie, piantato i primi paletti di rilevamento e seguito tutte le altre consuete procedure preliminari. avrebbero quindi eseguito uno scavo di prova, un taglio netto nella collina, per rendersi conto di cosa ci fosse realmente là sotto. Poi, avrebbero sbucciato quella collina strato per strato, disse Siferra tra sè. L'avrebbero sventrata, portando via ogni strato per scoprire quello sottostante, fino a trovare della terra su cui nulla era mai stato costruito. "E allora," giurò a se stessa, “sapremo molto di più della preistoria di Kalgash. Più di quanto tutti i miei predecessori messi insieme abbiano potuto scoprire dalla prima volta che gli archeologi hanno cominciato a scavare a Beklimot. 6 Kelaritan disse: "E tutto pronto per la sua ispezione nella galleria del mistero, dottor Sheerin. Se si farà trovare al suo albergo fra circa un'ora, la nostra macchina passerà a prenderla.» "Bene," rispose Sheerin. «Ci vediamo più tardi.» Lo psicologo grassoccio riattaccò il ricevitore e fissò con aria grave la sua immagine nello specchio difronte al letto. Vi vide riflessa un'espressione preoccupata. Sembrava così stravolto e sparuto che si pizzicò le guance, come per accertarsi che fossero ancora al loro posto. Sì, c'erano ancora, le sue guance paffute. Non aveva perso un grammo. La macilenza era solo nella sua mente. Sheerin aveva dormito male - non gli sembrava neanche di aver dormito, a dire il vero - e il giorno precedente aveva mangiato poco e controvoglia. Non che ora avesse fame. Il pensiero di scendere a fare colazione non lo attraeva affatto. Era alquanto strano per lui non avere appetito. Si chiese se il suo cattivo umore fosse dovuto agli incontri che aveva avuto il giorno precedente con gli sfortunati pazienti di Kelaritan. O se era semplicemente terrorizzato all'idea di dover entrare nella galleria del mistero. Certo, l'incontro con quei tre pazienti non era stato facile. Da molto tempo ormai svolgeva solo lavoro di ricerca, e il suo soggiorno fra gli accademici dell'Università di Saro gli aveva ovviamente fatto perdere quel distacco professionale che permette ai membri delle arti curative di affrontare il male senza lasciarsi prendere dalla compassione e dal dolore. Sheerin ne era rimasto sorpreso: gli sembrava di essere diventato terribilmente sensibile e influenzabile. Il primo paziente, Harrim, lo scaricatore di porto, sembrava un duro, capace di resistere a ogni cosa. E invece quindici minuti di Buio nella galleria lo avevano ridotto in uno stato tale che gli bastava rivivere il trauma mentalmente per sprofondare un‘isteria balbettante. Il che era incredibilmente triste. E gli altri due pazienti, quelli che aveva visto nel pomeriggio, erano in condizioni peggiori. Gistin 190, l'insegnante, una donna delicata dagli occhi scuri e intelligenti, non era riuscita a smettere di singhiozzare neanche per un attimo, e anche se, almeno all'inizio, parlava con proprietà
e chiarezza, la sua storia era degenerata in un balbettio incoerente nel giro di poche frasi. E Chimmlit 97, un giovane atleta delle scuole superiori, chiaramente in perfetta forma fisica... Sheerin non avrebbe dimenticato con facilità la reazione del ragazzo alla vista del cielo pomeridiano, quando aveva aperto le tende della sua stanza. Onos splendeva alto a occidente, ma tutto quel che il bel ragazzone riuscì a dire fu: «Il Buio... il Buio...» prima ancora di distogliere lo sguardo e cercare di nascondersi sotto il letto! Il Buio... il Buio... E ora tocca a me fare un giro nella galleria del mistero, pensò Sheerin, di pessimo umore. Certo, poteva semplicemente rifiutare. Il suo contratto di consulente con il Municipio di Jonglor non gli richiedeva di mettere a repentaglio la sua salute mentale. Avrebbe potuto dare un’opinione abbastanza accurata sul problema senza rischiare di subire danni psichici. Ma qualcosa dentro di sé si ribellava a quest'idea. Il suo orgoglio professionale lo spingeva a entrare nella galleria. Era lì per studiare l'isterismo di massa e per aiutare quella gente a trovare delle soluzioni che permettessero sia di guarire le attuali vittime che di prevenire il ripetersi di tali fenomeni. Come avrebbe potuto spiegare cos'era accaduto alle vittime della galleria senza un’analisi approfondita della causa dei loro disturbi. Doveva farlo. Sarebbe stata una prevaricazione bell'e buona se si fosse tirato indietro. Non voleva neppure che qualcuno, nemmeno quegli stranieri di Jonglor, potesse accusarlo di vigliaccheria. Ricordava che da piccolo tutti lo canzonavano, dicendogli cose tipo: «Ciccio fifone! Ciccio è un fifone!" Solo perché non voleva salire su un albero, cosa chiaramente al di là delle possibilità del suo corpo pesante e scoordinato. Ma Ciccio non era un fifone. Sheerin lo sapeva. Era soddisfatto di sé: un uomo sano di mente ed equilibrato. Ma non voleva che si facessero un'idea sbagliata su di lui a causa della sua poco ardita apparenza. Inoltre, solo meno di una persona su dieci, fra quelle che erano entrate nella galleria del mistero, ne era uscita manifestando disturbi emotivi. E doveva trattarsi di gente per certi versi particolarmente vulnerabile. Proprio perché era così sano, proprio perché era così equilibrato, non aveva niente da temere, disse Sheerin tra sé. Niente... Da... Temere... Continuò a ripetersi quelle parole finché non si tranquillizzò un po'. Tuttavia, Sheerin non aveva il solito umore gioviale e allegro, quando andò ad aspettare la macchina dell'ospedale che doveva passare a prenderlo. Lo attendevano Kelaritan, Cubello e una bellissima donna di nome Varitta 312. Quest'ultima gli venne presentata come uno degli ingegneri che avevano progettato la galleria. Sheerin salutò tutti con calorose strette di mano e un ampío sorriso, che sperava potesse sembrare convincente. "Ottima giornata per un giro nel parco dei divertimenti,” disse Sheerin, cercando di sembrare gioviale. Kelaritan lo guardò in modo strano. "Sono lieto che sia .ti buon umore. Ha dormito bene, dottor Sheerin?" "Molto bene, grazie... Meglio di quanto mi potessi aspettare, dopo aver visto quei poveracci, ieri." "Non è ottimista, quindi," intervenne Cubello, "sulle loro possibilità di recupero?" "Vorrei poterlo essere," rispose ambiguamente Sheerin all'avvocato.
La macchina si avviò dolcemente lungo la strada. "L'Esposizione centennale dista una ventina di minuti di macchina da qui," disse Kelaritan. "Sarà affollata, come ogni giorno, ma un'ampia sezione del parco è transennata, quindi non saremo disturbati. La galleria del mistero, come lei sa, è stata chiusa non appena si è compresa la piena portata del problema." "Intende dire dopo i decessi?" "Non potevamo permettere che rimanesse aperta dopo quei fatti," disse Cubello. "Ma deve sapere che avevamo preso in COI siderazione l'idea di chiuderla anche prima. Si trattava di determinare se coloro che avevano riportato dei disturbi entrando nella galleria, avevano realmente subito dei danni o erano so tanto vittime di un isterismo di massa." «E ovvio," fece Sheerin in tono secco. "Il Consiglio municipale non avrebbe mai chiuso un'attrazione tanto redditizia, se essa non avesse causato gravissimi danni. Come, ad esempio, trovarsi con delle persone morte di paura." L'atmosfera nell'auto si raffreddò, all'improvviso. Dopo un po' Kelaritan disse: "La galleria non era solo redditizia, ma costituiva anche un'attrazione che quasi tutti coloro che si recavano all'esposizione volevano provare, dottor Sheerin. Ho saputo che migliaia di persone vengono mandate via ogni giorno." «Anche se è evidente fin dal primo giorno che alcuni di quelli che entrano nella galleria, come Harrim e la sua famiglia, escono in uno stato psicotico?" "In particolare per via di questo, dottore,» disse Cubello. «Come?" "Mi perdoni se le do l'impressione di volerle insegnare il suo lavoro," disse l'avvocato in tono ipocrita. «Vorrei semplicemente ricordarle che anche lo spavento ha un certo fascino quando fa parte di un gioco. Un bambino nasce con tre paure istintive: la paura di cadere, quella dei rumori forti e quella della totale assenza di luce. Per questo è così divertente scendere dalle montagne russe. Per questo viene considerato buffo far sobbalzare qualcuno urlandogli 'Bu'. Ed è per questo che la galleria del mistero è qualcosa che tutti vogliono provare di persona. La gente esce dal Buio tremando, ansimando, mezza morta di paura, tuttavia continua a pagare per entrare. Il fatto che alcuni ne escano in un forte stato di shock, non fa altro che aumentarne il fascino. " "Molta gente si ritiene abbastanza forte da sopportare facilmente ciò che invece ha scosso tanto gli altri, non è così?" ' Proprio così, dottore." «E quando è successo che la gente non ne è uscita soltanto sconvolta, ma è rimasta invece stecchita dal terrore? Anche se i dirigenti dell'esposizione non avessero ritenuto di dover chiudere la galleria dopo questi fatti, suppongo che i potenziali avventori sarebbero diminuiti enormemente non appena si fosse sparsa la notizia dei decessi.» «Proprio il contrario, invece,» disse Cubello con un sorriso trionfante sulle labbra. "Ha operato lo stesso meccanismo psicologico, anche se molto più forte. Dopotutto, se ci sono delle persone deboli di cuore che vogliono entrare nella galleria, lo fanno a proprio rischio e pericolo... perché sorprendersi di quel che può accadere loro? Il Consiglio municipale ha discusso molto a lungo la questione. Alla fine, ha deciso di mettere un medico al botteghino e di sottoporre ogni avventore a una visita medica, prima di salire in macchina. Questo ha fatto salire alle stelle le vendite dei biglietti.» «In questo caso,» disse Sheerin, «non capisco perché poi la galleria sia stata chiusa! Da quello che mi ha detto, immagino che avrebbe potuto garantire ottimi introiti, considerando la fila di persone che andava da Jonglor a Khunabar, vere e proprie frotte di gente che entravano sul davanti e un flusso continuo di cadaveri trascinati via sul retro.» «Dottor Sheerin!» «Allora, perché non è ancora aperta, se neanche i decessi hanno turbato nessuno?» «Problemi assicurativi,» rispose Cubello. «Ah, ma certo!» «Nonostante la sua macabra descrizione, i decessi sono stati pochi e sporadici: tre, se ben ricordo, o forse cinque. Le famiglie degli scomparsi sono state adeguatamente risarcite e i casi sono stati così chiusi.
Ciò che infine si è rivelato un problema, non è stato il tasso di mortalità, ma l'eccessivo numero di persone che hanno subito traumi. Ci si è resi sempre più conto che alcuni pazienti avrebbero potuto restare in ospedale molto a lungo... una spesa sempre maggiore, una continua perdita finanziaria per la comunità e per gli assicuratori." "Capisco," disse Sheerin, incupendosi. "Se cascano a terra stecchiti, la spesa è esigua. Basta tacitare i parenti e la cosa e fatta. Ma se si trascinano avanti per mesi o anni in un’istituzione pubblica, il prezzo potrebbe essere troppo alto." "Forse si è espresso con una certa durezza,» fece Cubello, " ma è sostanzialmente questo il calcolo che il Consiglio municipale è stato costretto a fare.» Il dottor Sheerin sembra un po' irritabile questa mattina disse Kelaritan all'avvocato. “Probabilmente l'idea di entrare nella galleria lo preoccupa.» “Assolutamente no,» asserì immediatamente Sheerin. «Lei ovviamente sa, che non è proprio necessario che...» disse il direttore dell'ospedale. «Invece sì,» rispose Sheerin. Nell'auto ci fu un gran silenzio. Sheerin scrutava con aria preoccupata il paesaggio che mutava sotto i suoi occhi, gli strani alberi angolosi dalla corteccia sfaldata, i cespugli pieni di fiori dagli strani colori metallici, le tipiche case alte e strette con le grondaie a punta. Non si era spinto molto spesso così a settentrione, prima di allora. C'era qualcosa di molto sgradevole nel paesaggio che aveva difronte - e anche in questo gruppo di persone così ipocrita e cinico. Non vedeva l'ora di ritornare a Saro, nella propria casa, disse tra sé. Ma prima... la galleria del mistero. L'Esposizione centennale si estendeva su un vasto prato, a est della città. Era una città in miniatura, e a modo suo davvero straordinaria, pensò Sheerin. Vide fontane, porticati, torri luccicanti color rosa e turchese, di plastica iridescente e dura come pietra. In grandi sale erano esposte opere d'arte provenienti da ogni parte di Kalgash, oggetti industriali, le ultime e interessanti scoperte scientifiche. Dovunque egli volgesse lo sguardo, c'era qualcosa di insolito e di fantastico che richiamava la sua attenzione. Migliaia di persone, forse centinaia di migliaia, percorrevano i viali e le strade eleganti e splendenti. Sheerin aveva sempre sentito dire che l'Esposizione centenale di Jonglor era una delle meraviglie del mondo, e ora ne comprese il motivo. Poterla visitare era un raro privilegio. Veniva aperta solo una volta ogni secolo, per tre anni, per commemorare l'anniversario della fondazione della città. La quinta esposizione centennale di Jonglor era, a detta di tutti, la migliore. Osservando i prati ben curati, si sentì improvvisamente pervadere da uno stato di eccitazione, come non gli accadeva da molto tempo. Sperò di avere un po' di tempo durante la settimana per visitarla da solo. Ma il suo umore cambiò bruscamente non appena la loro macchina girò intorno al perimetro dell'esposizione e li condusse, attraverso un ingresso secondario, nell'area dei divertimenti. In quel luogo, come aveva detto Kelaritan, ampie zone erano state transennate. Una folla ostile e visibilmente irritata sbirciava oltre le barriere, mentre Cubello, Kelaritan e Varitta 312 lo conducevano alla galleria del mistero. Sheerin sentì la folla lamentarsi, un brontolio basso e sgradevole che gli parve inquietante e perfino un po' intimidatorio. Si accorse che l'avvocato non aveva mentito. Quella gente era arrabbiata perché la galleria era stata chiusa.
Sono invidiosi, pensò Sheerin con stupore. Sanno che stiamo andando verso la galleria, e anche loro vorrebbero venire. Nonostante tutto quello che è accaduto. "Possiamo entrare da questa parte," disse Varitta. La facciata della galleria era costituita da un'enorme struttura piramidale, che si assottigliava ai lati con una prospettiva strana e impressionante. Al centro c'era un grande ingresso esagonale, vistosamente bordato d'oro e di porpora e chiuso da sbarre incrociate. Varitta estrasse una chiave e aprì una porticina sulla sinistra della facciata. Il gruppo entrò all'interno. Ogni cosa ora aveva un aspetto molto più normale. Sheerin vide delle ringhiere che indubbiamente erano servite a contenere le file di persone che aspettavano di entrare nella galleria. Più in là c'era una piattaforma simile a quella di una stazione ferroviaria, con una serie di vetture aperte in attesa. E oltre... Il Buio. Cubello disse: "Le dispiacerebbe firmare prima questo foglio, dottore.» Sheerin fissò il foglio che l'avvocato gli porgeva. Era pieno di parole che gli danzavano sfocate davanti agli occhi. "Di che si tratta?" "Una dichiarazione che ci declina da ogni responsabilità. E una normale procedura." "Sì, certo." Sheerin scarabocchiò la propria firma con disinvoltura, senza nemmeno cercare di leggere il foglio. Non hai paura, si disse. Non hai affatto paura. Varitta 312 gli mise in mano un piccolo oggetto. "Serve per interrompere la corsa," gli spiegò. "Il giro dura in tutto quindici minuti, ma le basterà premere questo riquadro verde non appena avrà saputo ciò che le interessa - o se dovesse sentirsi a disagio - e si accenderanno le luci. La sua vettura procederà rapidamente fino in fondo alla galleria e tornerà al punto di partenza." "Grazie," disse Sheerin, "ma credo che non mi servirà." "Dovrebbe prenderlo, comunque. Non si sa mai." "E mia intenzione compiere il giro fino in fondo," le disse, assaporando la pomposità delle sue stesse parole. Ma non doveva comportarsi da íncosciente, rifletté. Non aveva alcuna intenzione di spingere quel pulsante, ma probabilmente sarebbe stato uno sciocco se non avesse portato con sé il piccolo congegno. Non si sa mai. Stava camminando sulla piattaforma. Kelaritan e Cubello guardavano, e i loro pensieri erano fin troppo leggibili. Poteva praticamente sentirli pensare: questo stupido grassone se la farà sotto là dentro. Ma non gliene importava nulla. Varitta era scomparsa. Certamente era andata a mettere in moto il meccanismo della galleria. Infatti era in una cabina di controllo in alto, sulla destra, e gli segnalava che tutto era pronto. "Se vuole salire sulla vettura, dottore," disse Kelaritan. "Ma certo. Certo." Meno di una persona su dieci aveva subito conseguenze negative. Molto probabilmente si trattava di soggetti particolarmente vulnerabili ai disordini indotti dal Buio. Non come me. Io sono una persona equilibrata. Entrò nella vettura.
C'era una cintura di sicurezza, se la passò intorno alla vita, adattandola con qualche difficoltà alla pancia. La macchina iniziò a scorrere in avanti, lentamente, molto lentamente. Il Buio lo stava attendendo. Meno di una persona su dieci. Meno di una persona su dieci. Conosceva bene la sindrome indotta dal Buio. La sua conoscenza lo avrebbe protetto, ne era certo. Anche se tutta l'umanità aveva una paura istintiva dell'assenza di luce, questo non significava che tale assenza fosse di per sé pericolosa. Era rischiosa invece, e Sheerin lo sapeva, la propria reazione all’assenza di luce. L'unica cosa da fare era restare calmi. Il Buio era soltanto un mutamento delle circostanze esterne. Siamo abituati a rifuggire da esso perché viviamo in un mondo in cui il Buio non è naturale, dove c'è sempre luce, quella di molti soli. Possono esserci fino a quattro soli che splendono in cielo contemporaneamente, di solito ce ne sono tre, e mai meno di due, e la loro luce da sola è sufficiente a tenere lontano il Buio. Il Buio... Il Buio... Il Buio! In quel momento Sheerin si trovava all'interno della galleria. Le ultime tracce di luce scomparvero dietro di lui, e si trovò a fissare un vuoto totale. Davanti a lui non c'era nulla: proprio nulla. Un pozzo. Un abisso. Una zona totalmente priva di luce. E lui ci stava precipitando dentro. Si rese conto di essere in un bagno di sudore. Le sue ginocchia iniziarono a tremare. Le tempie gli pulsavano. Mise la mano davanti al viso ma non riuscì a vederla. Spingi il pulsante, spingi il pulsante, spingi il pulsante. No. Assolutamente no. Sedeva eretto, con la schiena rigida, gli occhi sbarrati, fissando stupidamente il nulla nel quale stava sprofondando. Sempre più avanti, sempre più in giù. Paure primordiali vennero alla superficie, sibilando dalle profondità del suo animo, ma lui le ricacciò indietro. I soli stanno ancora splendendo fuori da questa galleria, pensò. Non durerà ancora per molto. Fra quattordici minuti e trenta secondi uscirò di qui. Quattordici minuti e venti secondi. Quattordici minuti... Ma si stava davvero muovendo? Non riusciva a capirlo. Forse no. Il meccanismo della vettura era silenzioso e non possedeva alcun punto di riferimento. E se fossi bloccato? si chiese. Sono qui seduto al buio, non so dove sono, cosa sta succedendo, quanto tempo sta passando? Quindici minuti, venti minuti, mezz'ora? Finché non oltrepasserò i limiti che la mia mente può sopportare e allora... Ma posso sempre premere il pulsante, e interrompere la corsa. E se non funzionasse? Se lo premessi e le luci non si accendessero? Potrei provarlo, tanto per vedere se...
Ciccio è un fifone! Ciccio è un fifone! No. No. Non toccarlo. Se accendi le luci poi non potrai più spegnerle. Non devi premere quel pulsante altrimenti loro sapranno... tutti sapranno che... Ciccio è un fifone! Ciccio è un fifone! Incredibilmente, a un tratto, gettò il congegno nel buio. Si udì un lieve suono quando esso, da qualche parte, toccò terra. Poi di nuovo il silenzio. La sua mano gli parve incredibilmente vuota. Il Buio... Il Buio... Non sarebbe cessato mai. Stava precipitando in un abisso senza fine. Cadeva e cadeva e cadeva nella Notte, la Notte infinita, il nero che divorava ogni cosa. Respira profondamente. Stai calmo. E se subirò una lesione permanente al cervello? Stai calmo, disse tra sé. Andrà tutto bene. Nel peggiore dei casi, ti restano solo undici minuti, forse appena sei o sette. I soli stanno splendendo là fuori. Altri sei o sette minuti e non ti troverai mai più al Buio, neanche se vivessi mille anni. Il Buio... Mio Dio, il Buio... Calma. Calma. Sei una persona equilibrata, Sheerin. Sei una persona fondamentalmente sana. Eri in perfette condizioni quando sei entrato qui dentro, e lo sarai anche quando uscirai. Tic. Tac. Tic. Tac. Più i secondi passano, più ti avvicini all' uscita. Ma è così? Forse questo giro non finirà mai. Potrei restare qui per sempre. Tic. Tac. Tic. Tac. Mi sto muovendo? Mi restano cinque minuti o cinque secondi, o non è ancora passato neanche un minuto? Tic. Tac. perchè. non mi fanno uscire? Non capiscono quello che sto passando qui dentro? Non vogliono farti uscire. Non ti faranno uscire mai più. Ti faranno... improvvisamente sentì un lancinante dolore agli occhi. Un’esplosione di dolore al cranio. Cos'è? La luce! Veramente? Sì. Si. Grazie a Dio.
Sì, la luce! Grazie a ogni Dio che sia mai potuto esistere! Era arrivato in fondo alla galleria! Stava rientrando in stazione! Era proprio così. Sì. Sì. Il battito del cuore, che era diventato un rombo incontrollabile, cominciava a tornare normale. I suoi occhi, che si stavano riabituando a una situazione normale, cominciarono a mettere a fuoco cose familiari: le sbarre di ferro, la piattaforma, la finestrella della cabina di controllo... Che Dio la benedica! pensò. Cubello e Kelaritan lo stavano guardando. Si vergognava della sua paura, adesso. Ricomponiti, Sheerin. Non è stato poi così terribile. Stai bene, no? Non sei finito sul fondo della vettura, piagnucolando con il pollice in bocca. E stato spaventoso, è stato terrificante, ma non ti ha annientato. . non è stato qualcosa che non sei riuscito a dominare... "Ecco fatto. Mi dia la mano, dottore. Su... Su..." Lo tirarono in piedi e lo sorressero mentre usciva faticosamente dalla vettura. Sheerin si riempì d'aria i polmoni. Fece scorrere la mano sulla fronte, per asciugare il sudore grondante. "Il congegno per interrompere la corsa," mormorò, "devo averlo perso là dentro..." "Come sta, dottore?" gli chiese Kelaritan. "Com'è andata?" Sheerin barcollava. Il direttore dell'ospedale gli offrì il braccio, ma Sheerin se ne liberò con irritazione. Non voleva che pensassero che quei pochi minuti trascorsi nella galleria lo avevansconvolto . Ma non poteva negare di essere sconvolto. Per quanto si sforzasse, non riuscì a celarlo. Neanche a se stesso. Comprese che mai nessuna forza al mondo avrebbe potuto convincerlo a fare un altro giro nella galleria. "Dottore? Dottore?" "Va... tutto... bene..." mormorò in modo confuso. "Ha detto che si sente bene," sentì dire dall'avvocato. "State indietro. Lasciatelo stare." "Le gambe non gli reggono proprio," disse Kelaritan. "Sta per cadere." "No, no," disse Sheerin. "Assolutamente no. Sto bene, vi ho detto!" Vacillò, riprese l'equilibrio, barcollò nuovamente. Sudava moltissimo. Diede un'occhiata al disopra della sua spalla, vide l'imboccatura della galleria e rabbrividì. Distogliendo lo sguardo da quell'oscura caverna, sollevò le spalle come se avesse voluto nascondere il viso dietro di esse. "Dottore?" chiese Kelaritan, incerto. Era inutile fingere. Questo vano e testardo tentativo di eroismo era una sciocchezza. Pensassero pure che era un vigliacco. Pensassero quello che volevano. Quei quindici minuti erano stati il peggiore incubo della sua vita. Dentro di sé, la paura era ancora viva e sempre più profonda. "E stata un'esperienza formidabile," disse. "Formidabile molto pericolosa." "Ma in sostanza sta bene, non è vero?" chiese con impazienza l'avvocato. "Un po' scosso, certo, ma chi non lo sarebbe dopo essere stato nel Buio? Fondamentalmente però sta bene. Lo sapevamo. Sono solo pochi, pochissimi che subiscono dei danni...» "No,» disse Sheerin. Il viso dell'avvocato sembrava quello di un mascherone ghignante.
Quello di un demone. Non riusciva a sopportarne la vista. Ma una buona dose di verità avrebbe esorcizzato il demone. Non c'era alcun bisogno di diplomazia, pensò Sheerin. Per lo meno non con i demoni. "Nessuno può entrare qui dentro senza rischiare di mettere in serio pericolo la propria salute. Ora ne sono certo. Anche la psiche più salda sarà sottoposta a un terribile trauma e la più debole non reggerà. Se riaprite questa galleria, gli ospedali psichiatrici delle quattro province saranno affollatissimi nel giro di sei mesi." "Credo, invece, dottore..." "Non ammetto repliche, Cubello! E mai entrato nella galleria? Non credo. Io sì. Mi pagate per avere l'opinione di un esperto? Posso darvela subito. La galleria costituisce un pericolo mortale. E qualcosa che riguarda la natura umana. Il Buio va al di là delle nostre capacità di adattamento, e questo fatto non cambierà mai, finché avremo almeno un sole che splenderà. Faccia chiudere la galleria per sempre, Cubello! Se ha a cuore la salute mentale dei suoi simili, la faccia chiudere. Definitivamente. 7 Beenay parcheggiò il suo motoscooter nel parcheggio della facoltà, sotto la volta dell'osservatorio, e percorse in fretta il sentiero che conduceva all'ingresso principale del vasto edificio. Aveva appena iniziato a salire la scalinata esterna di pietra, quando udì, trasalendo, qualcuno che lo chiamava dall'alto. “Beenay! Sei qui, allora.” L'astronomo alzò lo sguardo. La figura alta, massiccia e vigorosa del suo amico Theremon 762 del Saro City Chronicle si stagliava davanti alla grande porta dell'osservatorio. “Theremon? Mi cercavi?” “Certo. Mi avevano detto che non saresti arrivato prima di un paio d'ore. E proprio mentre me ne stavo andando, ecco che arrivi. Una vera e propria serendipità!" Beenay salì rapidamente gli ultimi scalini e salutò l'amico con un abbraccio. Conosceva il giornalista da tre o quattro anni, da quando cioè Theremon era andato all'osservatorio per intervistare uno scienziato, un qualunque scienziato, a proposito delle ultime affermazioni di una setta di folli, gli Apostoli della fiamma. A poco a poco, lui e Theremon erano diventati amici intimi, anche se Theremon aveva cinque anni di più, aveva un bagaglio culturale più limitato e sapeva meglio di lui come andava il mondo. Beenay era contento di avere un amico che fosse completamente al di fuori dell'ambiente universitario; Theremon a sua volta era entusiasta di conoscere qualcuno che non fosse affatto interessato a strumentalizzarlo, per approfittare della sua considerevole influenza giornalistica. «C'è qualcosa che non va?» chiese Beenay. “Niente affatto. Ma ho di nuovo bisogno di te per impersonificare la Voce della Scienza. Mondior ha fatto un altro dei suoi famigerati discorsi tipo: "Pentitevi, pentitevi, il Giorno del Giudizio è alle porte.” Ora dice di essere pronto a rivelare l'ora esatta in cui il mondo verrà distrutto. Nel caso ti interessi, succederà il prossimo anno, il 19 Theptar, per l'esattezza.» “Che demente! E uno spreco di spazio pubblicare qualsiasi notizia su di lui. Ma c'è ancora qualcuno che si interessa a quello che dicono gli apostoli?» Theremon si strinse nelle spalle: “C'è gente a cui interessa.
Un sacco di persone, Beenay. E se Mondior dice che la fine è vicina io ho bisogno di qualcuno che si faccia avanti e dica: 'Non è così fratelli e sorelle! Non abbiate timore! Va tutto bene.' Oppure parole che abbiano lo stesso effetto. Posso contare su di te, vero Beenay?» «Certo.» "Questa sera va bene?» Stasera? Mio Dio, Theremon, questa sera non ce la faccio assolutamente. Di quanto tempo hai bisogno?" "Mezz'ora? Quarantacinque minuti?» “Senti,” disse Beenay, adesso ho un appuntamento urgente … per questo sono venuto qui prima del previsto. Poi ho promesso a Raissta che mi precipiterò a casa e le dedicherò almeno un paio d'ore. Ultimamente è come se vivessimo su due mondi del tutto diversi, riusciamo a malapena a incontrarci. Dopodiché, dovrei tornare qui all'osservatorio per sovrintendere una ripresa foto grafica di..." "Va bene,» disse Theremon. “Vedo che sono arrivato al momento sbagliato. Comunque, Beenay, non ci sono problemi. Ho tempo fino a domani pomeriggio per presentare il mio pezzo. Andrebbe bene se ne riparlassimo domani mattina con un po’ più di tranquillità?» "Domani mattina?» disse Beenay, dubbioso. "Lo so che per te il mattino è come se non esistesse. Ma possiamo fare così: io arrivo al sorgere di Onos, quando tu stai finendo il tuo lavoro serale. Sarebbe sufficiente che tu trovassi u po' di tempo per una breve intervista prima di tornare a casa dormire..." "Be', io..." "Fallo per un amico, Beenay." Beenay rivolse uno sguardo spossato al giornalista. "Ma certo. Non è questo il punto. Solo che dopo un'intera serata di lavoro, sarò talmente distrutto che non ti potrò essere di alcun aiuto." Theremon sorrise. "Non ti devi preoccupare di questo. Ho notato che ti basta un attimo per riprenderti dalla stanchezza se solo si presenta qualche sciocchezza antiscíentifica da confutare. Domani al sorgere di Onos, allora? Nel tuo ufficio, al piano di sopra?" "Va bene." "Molte grazie, amico. Ora sono in debito con te." "Neanche a parlarne." Theremon lo salutò e cominciò a scendere gli scalini. "I miei rispetti alla tua bellissima signora," gridò. "Ci vediamo domani mattina." "Domani mattina, d'accordo," gli fece eco Beenay. Gli sembrava molto strano. Non era mai disponibile per nessuno al mattino. Ma avrebbe fatto un'eccezione per Theremon. Era un suo amico, e non si faceva ogni cosa per gli amici? Beenay si voltò ed entrò nell'osservatorio. All'interno regnava la calma e l'ambiente era fiocamente illuminato. Aveva passato tutto il suo tempo, da quando era matricola all'università, nella quiete della grande dimora delle scienze. Ma si trattava di una quiete ingannevole. Come altri luoghi molto meno austeri, quell'immenso edificio turbinava costantemente di conflitti di ogni genere, che andavano dalle più alte dispute filosofiche alle più meschine e banali liti, a ripicche e a calunniosi complotti. Gli astronomi, presi come gruppo, non erano migliori di altre categorie. Comunque fosse, l'osservatorio era un santuario per Beenay e per la maggior parte di coloro che vi lavoravano. Un posto dove potevano lasciarsi alle spalle i problemi del mondo e dedicarsi, più o meno serenamente, all'eterna ricerca di risposte ai grandi quesiti posti dall'universo. Percorse in fretta il lungo corridoio principale, cercando, come sempre, di attutire il rumore dei suoi stivaletti sul pavimento di marmo.
Passando, gettò inevitabilmente uno sguardo alle bacheche che si trovavano su entrambi i lati, le quali esponevano permanentemente alcuni dei manufatti sacri della storia dell'astronomia. Vide i telescopi, quasi ridicoli nella loro semplicità, che pionieri come Chekktor e Stanta avevano usato quattro o cinquecento anni príma. Vide i pezzi irregolari e scuri delle meteoriti cadute nel corso dei secoli, a enigmatico monito dei misteri che si trovavano oltre le nubi. E ancora le prime edizioni delle grandi carte celesti e dei testi astronomici, e i manoscritti, ormai ingialliti dal tempo, delle opere teoriche dei grandi pensatori che avevano segnato un'epoca. Beenay si soffermò per un attimo davanti all'ultimo di quei manoscritti, che a differenza degli altri sembrava recente, quasi nuovo: risaliva soltanto alla generazione precedente, ed era la famosa codificazione della Teoria della gravitazione universale, scritta da Athor 77, ed elaborata non molto tempo prima che Beenay nascesse. Anche se non era particolarmente religioso, Beenay fissò quel sottile fascio di fogli con un sentimento quasi riverente, e si scoprì a mormorare mentalmente parole che assomigliavano a una preghiera. Considerava la Teoria della gravitazione universale uno de pilastri del cosmo, forse addirittura quello fondamentale. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe fatto se quel pilastro fosse crollato. E ora gli sembrava che stesse iniziando a vacillare. In fondo al corridoio, dietro una porta di bronzo di ottima fattura, c'era l'ufficio del dottor Athor. Beenay gli lanciò una rapida occhiata e si affrettò a salire le scale. Il direttore dell'osservatorio, venerando ma ancora in ottime condizioni fisiche, era assolutamente l'ultima persona al mondo che Beenay avrebbe voluto vedere in quel momento. Faro e Yimot lo stavano aspettando al piano superiore, nella Sala della mappa, dove avevano appuntamento. "Scusate il ritardo," disse Beenay. "E stato un pomeriggio pieno di contrattempi." Gli sorrisero nervosamente, in modo sciocco e solenne allo stesso tempo. Che strana coppia, pensò Beenay per l'ennesima volta. Erano nati entrambi in sonnolente province agricole: Sithin, forse, o Gatamber. Faro 24 era basso e grassoccio e si muoveva in modo languido, quasi indolente. Aveva un modo di fare bonario e disinvolto. Il suo amico, Yimot 70, era incredibimente alto e magro e dava l'idea di una scala munita di braccia, gambe e faccia; c'era praticamente bisogno di un telescopio per vedergli la testa, che si profilava in alto, nella stratosfera. Yimot era nervoso e irrequieto quanto il suo amico era rilassato. Eppure erano sempre stati inseparabili. Fra tutti i giovani laureati, un gradino al disotto del livello di Beenay nella scala gerarchica dell'osservatorio, essi erano di gran lunga i più brillanti. "Non è tanto che aspettiamo," disse immediatamente Yimot. “Soltanto un paio di minuti, dottor Beenay," aggiunse Faro. "Grazie, ma non sono ancora dottore," rispose Beenay. "Mi manca l'esame finale. Com'è andata con quei calcoli?" Yimot, agitando e contraendo le sue gambe incredibilmente lunghe, disse: “Riguardano la forza di gravità, vero?" Faro gli diede una gomitata nelle costole talmente forte che Beenay si aspettò di sentire scricchiolare un osso. «Si," rispose Beenay. "Yimot in effetti ha ragione." Rivolse al giovane segaligno un vago sorriso. «Volevo che questo fosse per voi un esercizio matematico puramente astratto. Ma non mi sorprende che siate stati in grado di afferrare il contesto. Lo avete capito dopo esser giunti ai risultati, vero?" «Sissignore,» dissero Yimot e Faro, contemporaneamente. "Prima abbiamo eseguito tutti i calcoli," spiegò Faro. "Poi abbiamo dato un'altra occhiata al tutto e il contesto è apparso evidente," aggiunse Yimot.
“Si, certo," rispose Beenay. A volte, quei ragazzi spossavano. Erano talmente giovani - in effetti, avevamo solo sei o sette anni meno di lui, ma Beenay era assistente, e Faro e Yimot solo degli studenti appena laureati, e questo rappresentava per tutti e tre un'insormontabile barriera. Nonostante la loro giovane età, comunque, possedevano menti straordinarie. Tuttavia Beenay non era affatto contento che i due studenti avessero intuito la matrice concettuale del suo lavoro. No, non era per niente tranquillo. Di lì a qualche anno sarebbero stati nel corpo insegnante come lui, forse avrebbero aspirato alla stessa cattedra che lui sperava di ottenere, e questo non sarebbe stato simpatico. Ma cercò di non pensarci. Allungò la mano verso il tabulato con i calcoli. “Posso vederlo?" chiese. Yimot gli porse i fogli con le mani tremanti. Beenay esaminò rapidamente le file di numeri, all'inizio con calma, e quindi con crescente agitazione. Per tutto l'anno si era interrogato su certe implicazioni relative alla Teoria della gravitazione universale, che il suo maestro, Athor, aveva portato a un altissimo livello di perfezione. Il grande trionfo di Athor, la conferma definitiva della sua ottima reputazione era stata la deduzione del moto orbitale di Kalgash e dei suoi sei soli conformemente ai principi razionali delle forze d'attrazione. Beenay, usando modernissimi strumenti di calcolo, stava analizzando alcuni aspetti dell'orbita di Kalgash attorno a Onos, il sole principale, quando aveva notato, con grande orrore, che i risultati ottenuti non coincidevano con quelli deducibili dalla Teoria della gravitazione universale. Secondo tale teoria, all'inizio di quell'anno, Kalgash avrebbe dovuto essere in una particolare posizione rispetto a Onos, mentre era innegabile che si trovasse altrove. La variazione era minima - questione di poche cifre decimali - ma le conseguenze su larga scala non lo erano affatto. La Teoria della gravitazione universale era talmente precisa che quasi tutti si riferivano a essa come alla Legge di gravitazione universale. Le sue basi matematiche erano considerate inoppugnabili Ma una teoria che voglia spiegare i movimenti del mondo nello spazio non può permettersi neanche la minima discrepanza. Non le è concessa una via di mezzo: o è esatta o è sbagliata. Beenay era perfettamente consapevole che se fossero stati tentati computi più ambiziosi, anche una divergenza di poche cifre decimali in un calcolo a breve raggio avrebbe spalancato vasti abissi. Come si poteva considerare valida la Teoria della gravitazione universale, se la posizione che Kalgash avrebbe dovuto avere ne cielo dopo un secolo sarebbe stata a metà strada fra Onos e la sua attuale posizione? Beenay aveva letto e riletto quei dati fino alla nausea. Il risultato era sempre lo stesso. Ma a che cosa doveva credere, allora? Ai suoi risultati o allo schema supremo ed eccelso di Athor? Alle sue insignificanti nozioni di astronomia o alle profonde intuizioni del grande Athor sulla struttura fondamentale dell' universo? Si immaginava in cima alla volta dell'osservatorio mentre gridava: "Ascoltatemi! La teoria di Athor è sbagliata! Ho qui i dati che provano definitivamente la sua fallacia!" Il che avrebbe suscitato un tale scoppio di risa che sarebbe stato scaraventato dalla parte opposta del pianeta. Chi era mai Beenay per opporsi al titanico Athor? Chi avrebbe mai potuto credere che un assistente ancora imberbe fosse in grado di confutare la Legge di gravitazione universale? Eppure... Eppure... Scorse rapidamente i tabulati che Yimot e Faro avevano elaborato. I calcoli delle prime due pagine non gli erano affatto chiari.
Aveva preparato i dati di partenza per i due studenti in modo tale che i rapporti di fondo dai quali le cifre erano derivate non fossero evidenti; e chiaramente essi avevano calcolato l'orbita planetare in un modo che qualunque astronomo avrebbe definito poco ortodosso. Ma era esattamente questo che Beenay voleva. I metodi ortodossi lo avevano portato soltanto a conclusioni catastrofiche, ma la quantità delle informazioni a sua disposizione era tale da potergli permettere di lavorare unicamente in modo ortodosso. Faro e Yimot, invece, non avevano incontrato preclusioni di quel tipo. Mentre però seguiva il loro modo di procedere, Beenay inizio a notare una sconfortante concordanza di dati. Arrivato alla terza pagina, le cifre che ormai conosceva a memoria corrispondevano alle sue. E da quel punto in poi tutto era logico, passo dopo passo, fino a un risultato finale identico, allarmante, disastroso, inconcepibile e totalmente inaccettabile. Beenay alzò gli occhi sui due studenti, atterrito. "Non è possibile che abbiate fatto qualche errore, vero? Questa serie di integrali, ad esempio, mi sembra complessa." "Signore!" strillò Yimot, scandalizzato fino nel più profondo dell'anima. Divenne rosso in viso e le mani iniziarono a svolazzare quasi fossero dotate di vita propria. Faro disse in tono più calmo: "Temo proprio che sia tutto esatto, signore. Abbiamo controllato i dati e concordano perfettamente con quelli iniziali." "Certo, come immaginavo," disse Beenay, scoraggiato. Stava lottando per nascondere la sua angoscia, ma le mani gli tremavano così forte che i fogli cominciarono a vibrare. Cercò di appoggiarli sul tavolo davanti a sé, ma il suo polso scattò, privo di controllo, con un gesto che ricordava da vicino quelli tipici di Yimot, e i fogli caddero, sparpagliandosi sul pavimento. Faro si inginocchiò a raccoglierli. Rivolse a Beenay uno sguardo preoccupato. "Speriamo di non averla disturbata." "No. Figuriamoci! Non ho dormito bene oggi, ecco tutto. Ma il vostro lavoro è ottimo, non c'è alcun dubbio. Sono molto fiero di voi perché avete saputo affrontare un problema come questo, totalmente privo di rapporto con il mondo reale, anzi in aperta contraddizione con le sue verità scientifiche, giungendo coerentemente e metodicamente alla conclusione richiesta dai dati e riuscendo, al tempo stesso, a ignorare il fatto che la premessa iniziale fosse assurda... Sì, proprio un ottimo lavoro, una dimostrazione ammirevole delle vostre capacità, un esperimento mentale di prim'ordine. " Vide che i due si scambiavano dei rapidi sguardi. Si chiese se era riuscito a ingannarli, almeno un po'. "E ora," proseguì, "scusatemi ragazzi, ma ho un altro colloquio . " Arrotolò quei fogli pieni di prove schiaccianti, se li ficcò sotto il braccio e uscì rapidamente dalla stanza. Si precipitò lungo il corridoio verso il suo ufficio, dove si sentì tranquillo e finalmente al sicuro. Mio Dio, pensava. Mio Dio, mio Dio, mio Dio, che ho fatto? E ora che farò? Con la testa tra le mani, aspettò che l'attacco di disperazione cessasse. Ma non sembrava voler smettere. Dopo un po' si ricompose e premette il pulsante di comunicazione, sulla scrivania. "Vorrei parlare con il Saro City Chronicle," disse. «Theremon 762." Dal trasmettitore venne una lunga, esasperante raffica di crepitii e sibili. Poi, all'improvviso, si sentì la voce profonda di Theremon: "Theremon 762, servizi speciali." "Sono Beenay." "Chi parla? Non sento niente!" Beenay si accorse che era riuscito a emettere solo un suono soffocato. "Sono Beenay, ho detto! Voglio, voglio spostare l'ora del nostro puntamento." “Spostarla? Senti, amico, so come ti senti al mattino, perché per me è lostesso. Ma devo assolutamente parlarti entro domani a mezzogiorno, o non potrò consegnare il pezzo.
Ti ricompenserò come vuoi, ma…” Non hai capito. Voglio anticipare l'appuntamento, non posticiparlo, Theremon.” “Come?” "Facciamo per questa sera. Alle nove e mezzo. O alle dieci se preferisci." "Ma non dovevi rimanere al laboratorio a lavorare, stasera?" Al diavolo il laboratorio. Devo vederti." Devi vedermi? Beenay, che succede? C'entra Raissta?» "Raissta non ha assolutamente niente a che vedere con questa storia. Nove e mezzo? Ai Sei Soli?» "Ai Sei Soli, alle nove e mezzo, va bene," disse Theremon. “Siamo d'accordo.” Dopo aver riattaccato, Beenay rimase a lungo seduto a fissare i fogli arrotolati davanti a sé, scuotendo tristemente il capo. Si sentiva un po' più calmo, adesso. Confidarsi con Theremon l'avrebbe aiutato ad alleviare la tensione che sentiva dentro di sé. Aveva in Theremon una cieca fiducia. Sapeva che i giornalisti non erano in genere molto attendibili, ma Theremon era prima di tutto un amico, e poi un giornalista. Non avrebbe mai tradito la sua fiducia. Ma neanche dopo la telefonata, Beenay riuscì a decidere come comportarsi. Chissà, forse Theremon avrebbe avuto qualche idea brillante. Uscì dall'osservatorio dalle scale di servizio, strisciando fuori dall'uscita di sicurezza come un ladro. Non voleva correre il rischio di imbattersi in Athor usando l'uscita principale. Lo sconvolgeva l'idea di vedere Athor in quel momento, di doverlo affrontare faccia a faccia, da uomo a uomo. Il suo ritorno a casa in motoscooter fu terribile. Aveva paura che le leggi di gravità cessassero all'improvviso di esistere, di essere scaraventato nei cieli. Alla fine riuscì, comunque, ad arrivare al piccolo appartamento che divideva con Raissta 717. Lei restò senza fiato quando lo vide. "Beenay! Sei pallido come un..." "Come un fantasma, lo so.» Si diresse verso di lei e la strinse forte. “Tienimi stretto,” disse. "Tienimi stretto.» "Cosa c'è? Che succede?" "Te lo dirò dopo," rispose Beenay. "Adesso stringimi forte. 8 Theremon arrivò al Club dei Sei Soli poco dopo le nove. Gli parve una buona idea partire in vantaggio rispetto a Beenay e farsi un paio di bicchierini tanto per sciogliere un po' il cervello. L'astronomo al telefono aveva una voce terribile - sembrava stesse per avere un attacco isterico e riusciva a dominarsi solo con uno sforzo enorme. Theremon non riusciva a immaginare cosa potesse essergli successo di tanto terribile, nella quiete dell'osservatorio, per ridurlo in quelle condizioni in così breve tempo. Ma Beenay si trovava chiaramente in un grosso guaio, e perciò avrebbe avuto bisogno di tutto l'aiuto che Theremon poteva dargli. "Portami un Tano Special,» disse Theremon al cameriere. "No, aspetta, fallo doppio. Un Tano Sitha.” "Doppia luce bianca,» rispose il cameriere. "Arriva subito.” Era una serata tiepida. Theremon, che era un cliente abituale e godeva di un trattamento speciale, era seduto al tavolo che gli davano sempre quando faceva caldo, sulla terrazza che dominava la città. Le luci del centro brillavano allegramente. Onos era tramontato da un paio d'ore e in cielo restavano solo Trey e Patru, e risplendevano a oriente e creavano nitide ombre gemelle mentre declinavano lentamente verso il mattino. Guardandoli, Theremon si chiese quali soli ci sarebbero stati in cielo il giorno dopo.
Ogni volta era uno spettacolo diverso, splendente e sempre nuovo. Ci sarebbe stato certamente Onos - perfino lui sapeva che Onos appariva almeno per un po' ogni giorno dell'anno - ma poi? Dovim, Tano e Sitha: un giorno a quattro soli? Non ne era certo. Forse ci sarebbero stati solo Tano e Sitha, e Onos sarebbe apparso solo per qualche ora, a metà giornata. Si prevedeva un giorno cupo. Ma poi, dopo averci pensato, si ricordò che in quella stagione Onos sorgeva presto e restava a lungo in cielo. Sarebbe stato quindi, con ogni probabilità, un giorno a tre soli, a meno che non fossero apparsi in cielo solo Onos e Dovim. Com'era difficile tenere il conto. Poteva sempre chiedere di consultare un almanacco, se proprio ci teneva. Ma non gliene importava niente. C'era gente che sembrava sapere sempre quali sarebbero stati i soli del giorno seguente - uno di essi, ovviamente, era Beenay - ma Theremon manteneva un atteggiamento più distaccato sull'argomento. A Theremon non importava affatto sapere quale sole sarebbe apparso in cielo il giorno dopo, bastava che ce ne fosse uno. E su questo si poteva sempre contare. Anzi, in alcuni giorni ce n'erano due, tre o quattro, e di tanto in tanto persino cinque. Arrivò da bere. Fece un lungo sorso ed emise un sospiro di piacere. Il Tano Special era delizioso! Il rum buono e vigoroso delle isole Velkareen mescolato con un goccio del liquore ancora più forte, chiaro e penetrante, che distillavano sulla costa di Bagilar, e con un'ulteriore aggiunta di succo di sgarrino per addolcirlo appena. Magnifico! Theremon non era un bevitore particolarmente accanito, come avevano fama di essere tutti i giornalisti, ma gli sembravano sprecati quei giorni in cui non trovava il tempo per un paio di Tano Special, nelle ore tranquille e ombrose dopo il tramonto di Onos. "Sembra che ti stia proprio godendo il tuo cocktail, Theremon," disse una voce familiare alle sue spalle. "Beenay! Sei in anticipo!" "Di dieci minuti. Cosa stai bevendo?» "Il solito. Un Tano Special." "Bene. Ne prendo uno anch'io." "Tu?" Theremon fissò il suo amico con gli occhi spalancati. Un succo di frutta era il massimo che Beenay si concedesse, per quanto ne sapeva. Non ricordava una sola occasione in cui l'aveva visto bere qualcosa di più forte. Ma Beenay aveva un aspetto strano quella sera: stravolto, stanco, sfatto. I suoi occhi avevano un bagliore quasi febbricitante. "Cameriere," chiamò Theremon. Fu impressionante vedere Beenay alle prese con il suo cocktail. Dopo il primo sorso restò quasi senza fiato, come se l'impatto fosse stato molto peggiore di quel che si aspettasse. Ma ne bevve un secondo, lungo sorso e quindi un terzo. "Vacci piano," lo esortò Theremon. "Fra cinque minuti ti girerà la testa." "Mi gira già." "Hai bevuto prima divenire qui?" "No, assolutamente niente," rispose Beenay. "Ho avuto uno shock. Sono tuttora sconvolto." Posò il bicchiere e fissò in malo modo le luci della città. Qualche secondo dopo lo riprese, quasi senza rendersene conto, e lo vuotò. "Non dovrei prenderne un altro subito, vero Theremon?" "Ne dubito fortemente." Theremon allungò la mano e la poggiò delicatamente sul polso dell'astronomo. "Che cosa succede, amico? Raccontami tutto." "E difficile da spiegare." "Forza. Ne ho viste abbastanza di cose, io. Tu e Raissta..." "No! Te l'ho già detto, tutto questo non ha niente a che fare con lei.
Niente." "Va bene. Ti credo." "Forse dovrei ordinarne un altro," disse Beenay. "Fra un po'. Forza, Beenay, che c'è?" Beenay sospirò. "Conosci la Teoria della gravitazione universale, Theremon, vero?" "Ma certo! O meglio, non saprei dirti cosa significhi esattamente. Ci saranno al massimo dieci persone su tutta Kalgash che la comprendono realmente, non è vero? Ma posso comunque dirti cos'è. Più o meno." "Anche tu allora credi a quelle chiacchiere," disse Beenay, ridendo nervosamente, "secondo cui la Teoria della gravitazione è talmente complicata che solo una decina di persone la riescono a capire . " "E’ ciò che ho sempre sentito dire." "Quelle sono stupidaggini ormai radicate," disse Beenay. "Potrei riassumerti tutta la teoria in una frase, e probabilmente capiresti tutto quello che dico." "Davvero? Fallo." "Subito. Stai a sentire, Theremon: secondo la Legge di gravitazione universale, la Teoria della gravitazione universale, volevo dire - esiste fra tutti i corpi dell'universo una forza di coesione tale, che il totale di questa forza fra ogni due dati corpi è proporzionale al prodotto delle loro masse divise per il quadrato della distanza fra essi. Non è semplice?» "Tutto qui?” «Sì, certo! E ci sono voluti quattrocento anni per svilupparla pienamente.» "Perché così tanto tempo? Sembra abbastanza semplice, da come l'hai esposta.» «Le grandi leggi non sono frutto di lampi di genio, anche se a voi giornalisti piace pensarlo. Generalmente è necessaria l'opera congiunta di molti scienziati nel corso di diversi secoli. Anche quando Genovi 41 scoprì che è Kalgash a ruotare attorno a Onos, e non il contrario - e questo è successo circa quattrocento anni fa - gli astronomi si sono sforzati di comprendere il motivo per cui tutti e sei i soli appaiono e scompaiono nel cielo in quel modo. I loro complicati movimenti sono stati registrati, analizzati e scomposti. Teorie di ogni tipo e genere sono state avanzate, verificate, smentite, modificate e abbandonate, riprese e trasformate. E stato un lavoro infernale.” Theremon annuì pensieroso e vuotò il bicchiere. Con un gesto, ordinò ancora da bere, Beenay sembrava abbastanza calmo finché parlava di scienza, pensò. "Solo una trentina di anni fa," riprese l'astronomo, "Athor 77 portò a perfezione il tutto, dimostrando che la Teoria della gravitazione universale spiega esattamente i moti orbitali dei sei soli. Fu un risultato stupefacente. Uno dei più grandi trionfi della logica pura che il mondo ricordi.” «So quanto rispetto hai per quell'uomo,” disse Theremon. "Ma cos'ha a che fare tutto questo con...” "Arrivo subito al punto.” Beenay si alzò e raggiunse l'estremità del terrazzo, portando con sé il bicchiere. Rimase li in silenzio per un po', fissando i due soli lontani. A Theremon parve che Beenay si stesse agitando sempre di più, ma non disse nulla. Poi Beenay bevve un lungo sorso del suo drink. Rimanendo sempre voltato, disse infine: "Il problema è questo. Qualche mese fa ho iniziato a ricalcolare il moto di Kalgash intorno a Onos, usando il grande e nuovo computer dell'università. Ho fornito al computer i dati degli ultimi sei mesi sull'orbita di Kalgash, e gli ho chiesto di prevedere il moto orbitale per il resto dell'anno. Non mi aspettavo niente di sorprendente. Credo che cercassi solo una scusa per giocherellare con il computer. Naturalmente, i miei calcoli si basavano sulle leggi gravitazionali.” Si voltò di colpo. Aveva uno sguardo vuoto, tormentato. "Theremon, i calcoli non coincidevano." "Non capisco." "L'orbita prevista dal computer non corrispondeva con quella ipotetica che mi aspettavo di ottenere. Non stavo lavorando sulla base del semplice sistema Kalgash-Onos, bada bene.
Avevo preso in considerazione tutte le varianti che potevano essere determinate dagli altri soli. E ciò che ottenni - quella che secondo il computer è la vera orbita di Kalgash - era diverso dall'orbita prevista dalla Teoria gravitazionale di Athor.” "Ma hai detto di avere usato le leggi gravitazionali di Athor per i tuoi calcoli," disse Theremon, confuso. "Esatto." "Allora come..." D'un tratto gli occhi di Theremon si illuminarono. "Mio Dio, che notizia! Vuoi dire che il nuovissimo supercomputer dell'Università di Saro, installato con un costo enorme, di parecchi milioni di crediti, è impreciso? Che c'è stato un enorme sperpero del denaro dei contribuenti? Che..." "Il computer va benissimo, Theremon. Su questo puoi stare tranquillo." "Ne sei proprio sicuro?" "Sicurissimo." "Allora... cosa..." "Forse avevo inserito dei dati sbagliati. E’ un computer esattissimo, ma non può dare una risposta giusta se si inseriscono dei dati errati." "Ecco perché sei sconvolto, Beenay! Stai a sentire, è umano fare degli errori di tanto in tanto. Non devi prendertela in questo modo. Tu..." "Dovevo essere innanzi tutto assolutamente certo di avere inserito i dati esatti nel computer, e poi di aver introdotto i giusti postulati teorici da usare per elaborare quei dati," disse Beenay, afferrando il bicchiere con tanta forza che la mano gli tremò. Il bicchiere era già vuoto, notò Theremon. "Come hai giustamente detto, è umano fare degli errori di tanto in tanto. Perciò ho chiamato due dei migliori laureati e ho affidato loro il problema. Oggi mi hanno consegnato i risultati. Quando ho detto che non potevo vederti subito era a causa di questo appuntamento. Theremon, i due studenti hanno appena confermato le mie scoperte. E’ risultata loro la stessa variazione nell'orbita che avevo già riscontrato io." "Ma se il computer aveva ragione, allora... Allora..." Theremon scosse il capo. "Allora cos'è successo? La Teoria della gravitazione universale è sbagliata? E’ questo che vuoi dire?" "Sì." Beenay pronunciò quella parola con uno sforzo sovrumano. Sembrava stordito, sconvolto, distrutto. Theremon lo scrutò attentamente. Certamente quello che aveva scoperto lo disorientava e probabilmente lo lasciava perplesso. Ma il giornalista non riusciva comunque a comprendere perché fosse ridotto in quello stato. Poi all'improvviso comprese ogni cosa. "E’ per Athor! Hai paura di ferirlo, non è vero?" "Proprio così," disse Beenay, guardando Theremon con gratitudine quasi patetica per aver compreso a pieno la situazione. Si afflosciò pesantemente sulla sedia, le spalle curve, la testa bassa. Con voce smorzata, disse: "Il vecchio morirebbe se sapesse che qualcuno ha trovato un punto debole nella sua magnifica teoria. Che proprio io, fra tutti, ho trovato un punto debole. E’ stato come un padre per me, Theremon. Tutto quello che ho concretizzato negli ultimi dieci anni l'ho fatto sotto la sua guida, con il suo incoraggiamento, in un certo senso con il suo amore. E ora lo ripago in questo modo. Non distruggerei soltanto il lavoro di tutta la sua vita, ma sarebbe come se lo pugnalassi, Theremon, lo pugnalassi." "Hai preso in considerazione la possibilità di tenere segrete le tue scoperte?" Beenay lo guardò stupefatto: "Sai che non posso farlo!" "Si. Si, lo so. Ma dovevo sapere se ci avevi pensato." "Se avevo pensato l'impensabile? No, ovviamente no. Non mi è mai passato per la testa. Ma cosa posso fare, Theremon? Potrei buttare via tutte le mie carte e fingere di non aver mai trattato questo argomento. Ma sarebbe mostruoso.
Quindi sono giunto alla conclusione che non ho alternative: o violo la mia coscienza scientifica o rovino Athor. Rovino l'uomo che non è soltanto il mio superiore, ma è anche il mio maestro di vita." "Non è stato poi un maestro così grande, allora." Gli occhi dell'astronomo si spalancarono pieni di rabbia e di stupore: "Cosa stai dicendo, Theremon?" "Stai calmo. Calmo." Theremon allungò le mani in segno di pacificazione. "Mi sembra che tu sia troppo accondiscendente verso di lui, Beenay. Se Athor è davvero quel grande uomo che tu ritieni, non credo che metterà la sua reputazione al disopra della verità scientifica. Capisci cosa voglio dire? La teoria di Athor non è altro che questo: una teoria. Tu l'hai chiamata 'Legge di gravitazione' pochi minuti fa, poi ti sei corretto. E’ una teoria, un'ipotesi, una supposizione. La migliore che sia stata fatta nel proprio campo fino a oggi, certo, ma questo non implica che sia esatta. La scienza si fonda su approssimazioni che gradualmente si avvicinano alla verità, me l'hai detto tu stesso molto tempo fa, e io non l'ho mai dimenticato. Questo implica che tutte le teorie sono soggette costantemente a verifiche e modifiche, non è così? E se infine risulta che non sono abbastanza vicine alla verità, devono essere sostituite da qualcosa di più esatto. E’ così, Beenay? O no?" Beenay stava tremando. Era diventato molto pallido. "Potresti ordinare ancora da bere, Theremon?" "No. Ascoltami, ho qualcos'altro da dirti. Affermi di essere tanto preoccupato per Athor... perché è vecchio; immagino che sia inoltre piuttosto debole… e che tu non abbia il coraggio di dirgli che hai trovato un punto debole nella sua teoria. Bene. E’ una decisione comprensibile e amorevole. Ma rifletti un attimo: se il calcolo dell'orbita di Kalgash è tanto importante, qualcun altro probabilmente troverà presto o tardi la stessa imperfezione nella teoria di Athor, e quest'altra persona con molta probabilità non mostrerà il tuo stesso tatto nell'informare Athor della sua scoperta. Potrebbe essere anche un rivale di Athor, un suo nemico, perfino... ogni scienziato si fa dei nemici, me l'hai detto un sacco di volte. Non sarebbe meglio che fossi tu a informare Athor con attenzione, con delicatezza, su quello che hai scoperto, piuttosto che sia lui a scoprirlo accidentalmente una mattina leggendo il Chronicle?" "Sì," rispose Beenay sottovoce. "Hai perfettamente ragione.» "Andrai da lui, allora?" "Sì. Sì. Credo di doverlo fare." Beenay si morse il labbro. «Mi sento spregevole, Theremon. Mi sembra di essere un vero e proprio assassino." "Lo so. Non è Athor, però, che stai uccidendo, ma una teoria fallace. Non si può permettere che delle teorie errate continuino a sussistere. Devi far sì che la verità venga a galla, sia per te che per Athor." Theremon esitò. Una nuova, sbalorditiva idea gli era saltata in mente. "Certo, c'è un'altra possibilità! Sono solo un profano, lo sai, e probabilmente è una cosa ridicola... ma non c'è qualche possibilità che la Teoria gravitazionale sia esatta, e che i dati del computer sull'orbita di Kalgash siano giusti anch'essi, e che un altro fattore, qualcosa di completamente sconosciuto, sia responsabile della divergenza fra i due risultati?" "E possibile, credo," disse Beenay in tono piatto e depresso. "Ma se si comincia ad associare a questa storia misteriosi fattori sconosciuti, si entra nel regno della fantasia. Ti faccio un esempio.
Poniamo che ci sia un settimo sole invisibile. Ha una sua massa, esercita una forza gravitazionale, ma non riusciamo a vederlo. Non sappiamo che esiste, quindi non l'abbiamo preso in considerazione nei nostri calcoli; di conseguenza i dati finali sono assurdi. E’ questo che intendi?" "Sì. Cosa c'è che non va?" "Allora perché non cinque soli invisibili? Perché non cinquanta? O un gigante invisibile che va in giro a sospingere i pianeti secondo il proprio capriccio? O un enorme drago il cui fiato devia Kalgash dalla sua giusta orbita? E’ impossibile confutare queste ipotesi! Quando cominci con le supposizioni, Theremon, tutto diventa possibile e niente ha più senso, di conseguenza. Secondo me, almeno. Io posso occuparmi solo di quel che è certamente reale. Forse hai ragione quando dici che esiste un fattore sconosciuto e che di conseguenza le leggi gravitazionali sono valide. Lo spero anch'io. Ma non posso lavorare seriamente, partendo da questa supposizione. Tutto ciò che posso fare è andare da Athor, cosa che farò, te lo prometto, e riferirgli i risultati forniti dal computer. Non oso dichiarare a lui o a chiunque altro che attribuisco il tutto a un 'fattore sconosciuto, non ancora scoperto. Farei la figura del cretino; potrebbero scambiarmi per uno di quegli Apostoli della fiamma che ritengono di avere rivelazioni mistiche di ogni genere... Theremon, adesso ho proprio bisogno di un altro drink." Sì. Va bene. A proposito degli Apostoli della fiamma..." "Vuoi sapere come la penso, se ben ricordo." Beenay si passò stancamente la mano sul viso. "Sì. Sì. Ti accontenterò, non preoccupartí. Mi sei stato dí grandissimo aiuto, questa sera. Cosa hanno detto esattamente gli apostoli? L'ho scordato." "E stato Mondior 71," disse Theremon. "Il supremo stregone in persona. Ha detto esattamente... lasciami pensare... che il tempo in cui gli dei vogliono purgare il mondo dal peccato è prossimo, e che lui può calcolare il giorno preciso, persino l'ora esatta, in cui il nostro destino si compirà." Beenay emise un gemito di disapprovazione. "Che c'è di nuovo? Non lo vanno ripetendo da anni?" "Sì, ma ora cominciano a fornire i dettagli più agghiaccianti. Sai, la loro idea di fondo è che questa non sarà la prima volta in cui il mondo verrà distrutto. Gli apostoli vanno insegnando che gli dei hanno deliberatamente creato l'umanità imperfetta, per metterla alla prova, e ci hanno concesso un solo anno - uno dei loro anni divini, non uno dei nostri più brevi - per darci l'opportunità di migliorare. Un Anno Divino, lo chiamano, e corrisponde a 2049 dei nostri anni. Tutte le volte che l'Anno Divino è terminato, gli dei si sono accorti che noi eravamo ancora malvagi e peccatori e così hanno distrutto il mondo, colpendoci con Fiamme celesti provenienti da luoghi sacri chiamati Stelle. Almeno, questo è quanto vanno dicendo gli apostoli." "Stelle?" chiese Beenay. "Sarebbero i soli?" "No. Le Stelle. Mondior dice che le Stelle sono completamente diverse dai sei soli. Non ti sei mai soffermato su questo argomento, Beenay?" "No. E perché avrei dovuto farlo?" "Comunque, ogni volta che l'Anno Divino giunge al termine e su Kalgash non si è avuto alcun miglioramento, dal punto di vista morale, queste Stelle fanno cadere su di noi una specie di fuoco sacro che ci riduce in cenere. Secondo Mondior, questo sarebbe accaduto moltissime volte.
Ma sempre, in questi frangenti, gli dei, o almeno una parte di loro, si mostrano misericordiosi. Quindi ogni volta che il mondo sta per essere distrutto, gli dei più clementi prevalgono su quelli più severi, e all'umanità viene concessa un'altra possibilità. E così i più religiosi fra i soprawissuti vengono salvati dall'olocausto e viene posta un'altra scadenza: l'umanità ha altri 2049 anni a disposizione per cambiare i suoi comportamenti immorali. Ora, il tempo è ormai nuovamente scaduto. Sono passati 2048 anni dall'ultimo cataclisma. Fra circa quattordici mesi, tutti i soli scompariranno e queste orribili Stelle lanceranno fiamme da un cielo nero per spazzare via i malvagi. Precisamente, tutto ciò avverrà il 19 Theptar." "Quattordici mesi," disse Beenay, pensieroso. "Il 19 Theptar. E’ molto preciso a questo proposito, non è vero? Immagino che sappia anche il momento esatto in cui questo avverrà?" "Così dice. E’ per questo che avrei bisogno di una dichiarazione di qualcuno che abbia a che fare con l'osservatorio, possibilmente tua. Mondior ha recentemente affermato che il momento esatto della catastrofe può essere calcolato scientificamente. Non si tratterebbe, quindi, soltanto di qualcosa che viene concepito come dogma nel Libro delle rivelazioni, ma di qualcosa che è soggetto allo stesso tipo di procedimento usato dagli astronomi quando... Quando..." Theremon esitò e si interruppe. "Quando calcoliamo il moto orbitale dei soli e del mondo?" chiese Beenay in tono caustico. "Ebbene si,” rispose Theremon imbarazzato. "Allora forse c'è ancora speranza per il mondo, se neanche gli apostoli riescono a fare un lavoro migliore del nostro." "Ho bisogno di una dichiarazione, Beenay." "Sì. Lo so." Arrivò ancora da bere. Beenay prese il suo bicchiere in mano. "Che ne dici di questo?" disse dopo un momento. " 'Scopo principale della scienza è separare la verità dalla menzogna, nella speranza di rivelare il modo in cui l'universo effettivamente funziona. Mettere la verità al servizio della menzogna non è ciò che noi appartenenti al mondo universitario consideriamo un procedimento scientifico. Oggigiorno siamo in grado di prevedere i movimenti dei soli nel cielo, questo è vero, ma anche se usassimo i nostri migliori computer, non saremmo capaci, come non lo siamo mai stati, di predire la volontà degli dei. Né, a parere mio, lo saremo mai.' Come ti sembra?" "Perfetta," disse Theremon. "Vediamo se me la ricordo. 'Scopo principale della scienza è separare la verità dalla menzogna, nella speranza di... Di...' E poi, Beenay?" Beenay ripeté la sua dichiarazione parola per parola, come se l'avesse memorizzata ore prima. Poi trangugiò il suo terzo cocktail con un unico, stupefacente sorso. Quindi si alzò, sorrise per la prima volta in tutta la sera e piombò a faccia in giù sul tavolo. 9 Gli occhi di Athor 77 si socchiusero per un attimo, mentre esaminava attentamente il piccolo fascio di tabulati sulla scrivania davanti a lui, come se si fosse trattato di mappe di continenti ancora sconosciuti. Era molto calmo. Di una calma stupefacente.
".Molto interessante, Beenay," disse lentamente. "Molto molto interessante." Ovviamente c'è sempre la possibilità che io abbia commesso qualche errore di partenza, e anche che Yimot e Faro..." "Avreste commesso tutti e tre un errore nei vostri postulati di base? No, Beenay. Non credo proprio." "Volevo solo segnalare questa possibilità." "La prego," disse Athor. "Mi lasci pensare." Era metà mattina. Onos splendeva in tutto il suo fulgore nel cielo, ed era visibile dalla grande finestra dell'ufficio del direttore dell'osservatorio. Dovim, alto nel cielo, era un piccolo punto rosso vivo di luce che si vedeva a malapena. Athor spostava i fogli da una mano all'altra, disponendoli un po' ovunque sulla sua scrivania. Poi li raccolse e li spostò nuovamente. Strano che io la stia prendendo così bene, pensò. Beenay sembrava molto più turbato; Athor invece aveva reagito senza scomporsi. Forse sono sotto shock, meditò Athor. "Questa è l'orbita di Kalgash, secondo il calcolo ufficiale, cioè quello dell'almanacco. E qui invece abbiamo la previsione dell’orbita secondo il nuovo computer." "La prego, Beenay. Le ho detto che voglio pensare." Beenay annuì di scatto. Athor gli sorrise, cosa che non gli riuscì facilmente. Lo straordinario direttore dell'osservatorio, un uomo alto, magro, imperioso, con una notevole massa di capelli bianchi, aveva accettato di assumere molto tempo prima il ruolo di austero gigante della scienza, tanto che era ormai difficile per lui liberarsi da questa immagine e manifestare normali reazioni umane. O comunque, questo gli era difficile finché si trovava al'Osservatorio, dove tutti lo consideravano una specie di semidio. A casa, con sua moglie, i figli, e soprattutto con la schiera rumorosa dei nipoti, era tutt'altra cosa. Quindi la gravitazione universale non era del tutto esatta? No! Era impossibile! Ogni atomo di buon senso in lui protestava contro quell'idea. Il concetto di gravitazione universale era fondamentale per qualsivoglia comprensione della struttura dell’universo, di questo Athor non si poteva sbagliare. Lo sapeva. Era troppo ineccepibile, troppo logica, troppo bella per essere sbagliata. Se si mette da parte la gravitazione universale, l'intera logica del cosmo si dissolverà nel caos. Inconcepibile. Inimmaginabile. Ma questi dati... questi dannati tabulati degli studenti di Beenay... "Capisco la sua rabbia, signore," blaterò Beenay di nuovo. "E Voglio dirle che comprendo perfettamente il suo stato d'animo, che immagino quanto lei possa essere mortificato; chiunque sarebbe arrabbiato se il lavoro di tutta una vita fosse messo in discussione in questo modo. " "Beenay..." "Mi lasci aggiungere, signore, che avrei dato tutto ciò che ho per non doverle dare tale notizia. So che lei è furioso con me perché sono venuto qui con questi dati, ma l'unica cosa che posso dirle è che ho riflettuto a lungo prima di farlo. In effetti, avrei voluto bruciare il tutto e dimenticare perfino che avevo cominciato a lavorare su questo argomento. Sono sconvolto da quello che ho scoperto e anche dal dover essere io a..." "Beenay," disse nuovamente Athor, con tono più minaccioso possibile. "Si?” E’ vero, sono furioso con lei, ma non per il motivo che lei presume.” "Come?" «Per prima cosa, mi infastidisce che lei stia parlando a vanvera, mentre io vorrei solo starmene qui tranquillamente ed esaminare le implicazioni della ricerca che mi ha appena consegnato. Seconda cosa, molto più importante, sono veramente scandalizzato dal fatto che lei abbia esitato a mostrarmi le sue scoperte. Perché ha aspettato tanto a lungo?" "Solo ieri ho finito di verificare i risultati." "Ieri! Allora avrebbe dovuto essere qui già da ieri! Beenay, parlava seriamente quando affermava di aver preso in considerazione l'idea di distruggere le sue scoperte? Di aver pensato di gettare via i risultati e di non dire niente?» "Nossignore," disse Beenay tristemente. "Non ho mai pensato davvero di farlo." "Questo mi consola.
Mi dica, crede che io sia talmente accecato dalla mia splendida teoria da desiderare che uno dei miei studenti maggiormente dotati mi nasconda di averci trovato u punto debole?" "Nossignore. Certo che no." "Allora, perché non si è precipitato qui nel momento stesso i cui ha avuto la certezza che i suoi risultati erano esatti?» "Perché ... Perché, signore..." Sembrava quasi che Beenay volesse nascondersi sotto il tappeto. "Perché sapevo che ne sarebbe rimasto sconcertato. Perché pensavo che ne sarebbe... che ne sarebbe stato talmente sconvolto da influire negativamente sulla sua salute. Quindi ho aspettato un po', ne ho parlato con qua che amico, ho riflettuto a fondo sulla mia posizione, e sono giunto alla conclusione che non avevo altra scelta che dirle che la Teoria della grav..." "Crede davvero che io ami la mia teoria più della verità?" “Oh no, no!” Athor sorrise nuovamente, e questa volta senza alcuno sforzo. E invece le cose stanno proprio così. Sono una persona come tutte, che lei lo creda o no. La Teoria della gravitazione universale mi ha assegnato ogni tipo di onorificenza scientifica che questo pianeta poteva offrire. E’ il mio passaporto per l'immortalità, Beenay. Lo sa, vero? E dover considerare la possibilità che la mia teoria sia sbagliata è uno shock fortissimo, Beenay, che mi sconvolge immensamente. Ma non mi fraintenda. Dopotutto credo ancora che la mia teoria sia esatta." "Come?" chiese Beenay con evidente stupore. "Ma se ho verificato i dati moltissime volte e poi..." "Oh, anche le sue scoperte sono esatte, ne sono certo. Che lei, Faro e Yimot, tutti e tre, abbiate potuto sbagliare... no, no, ho già detto che questo è molto improbabile. Ma i suoi risultati non inficiano necessariamente la gravitazione universale." Beenay sbatté le palpebre un paio di volte. "Ah no?" "Certo che no," rispose Athor, accalorandosi. Cominciò a sentirsi più sereno. La calma letalmente irreale dei primi momenti era stata sostituita da quella strana tranquillità che si prova quando si è alla ricerca della verità. "Dopotutto, cosa dice la Teoria della gravitazione universale? Che ogni corpo nell'universo esercita una forza su tutti gli altri, proporzionale alla massa e alla distanza. E cosa ha cercato di dimostrare, usando la gravitazione universale per calcolare l'orbita di Kalgash? Scomporre in fattori l'impatto gravitazionale che tutti i numerosi corpi astronomici esercitano sul nostro mondo mentre si muovono attorno a Onos. Non è così?" "Sissignore." "Di conseguenza, non è necessario rigettare la Teoria della gravitazione universale, almeno finora. Quel che dobbiamo fare, amico mio, è semplicemente ripensare la nostra visione dell'universo e determinare se stiamo tralasciando nei nostri calcoli qualcosa di cui dovremmo tenere conto. Un fattore misterioso, insomma, che sta esercitando una forza gravitazionale su Kalgash e che non è stato mai preso in considerazione." Beenay aggrottò le sopracciglia in segno di allarme. Guardò Athor a bocca aperta, con uno sguardo che poteva solo esprimere stupore assoluto. Poi cominciò a ridere. Cercò di controllarsi, all'inizio, serrando le mascelle e stringendosi nelle spalle, ma non ríuscì a trattenersi dalle risate. Ebbe un attacco di tosse che lo fece sobbalzare tutto; e infine fu costretto a mettersi le mani davanti alla bocca per trattenere quello scoppio di allegria. Athor lo guardava sbalordito. "Un fattore sconosciuto!" esplose Beenay, dopo un attimo. "Un drago in cielo! Un gigante invisibile!" "Draghi? Giganti? Ma di che sta parlando?" "Ieri sera... Theremon 762... mi spiace, mi spiace davvero.. " Beenay cercò di riprendere il controllo di sé.
I muscoli del viso fremevano; sbatté con forza gli occhi e riprese fiato; voltò le spalle per un istante e quando si girò cominciò a riprendersi. Con aria imbarazzata, disse: "Ho bevuto un paio di bicchieri con Theremon 762 ieri sera, quel mio amico giornalista, e gli ho accennato a quello che avevo scoperto, e del disagio che provavo a doverne parlare con lei." "Ne ha parlato con un giornalista?" "E molto fidato. Un amíco intimo." "Sono tutti dei farabutti, Beenay, mi creda." "Certamente non lui, signore. Lo conosco bene e so che non farebbe mai qualcosa che potrebbe ferirmi o mettermi nei guai. In effetti, Theremon mi ha dato degli ottimi consigli. E’ stato lui a dirmi che dovevo assolutamente parlarne con lei, cosa che ho fatto. Ma inoltre... cercando di darmi qualche speranza, qualche motivo di consolazione... ha detto la stessa cosa che ha appena detto lei e cioè che potrebbe esserci un 'fattore sconosciuto'. Ha detto proprio così, un fattore sconosciuto che sta sviando il nostro tentativo di stabilire l'orbita di Kalgash. E io ho riso e gli ho risposto che era inutile chiamare in causa dei fattori sconosciuti, che era una soluzione troppo facile. E ho suggerito, ironicamente, sia chiaro, che se ci lasciavamo andare a ipotesi del genere, allora tanto valeva che ci fossimo raccontati che un gigante invisibile o che fiammate di un drago enorme stava spingendo Kalgash fuori dalla sua orbita. E ora lei, signore, riprende lo stesso ragionamento... non un profano come Theremon, ma il più grande astronomo del mondo. Capisce quanto mi sento cretino?" Credo di sì," rispose Athor. La situazione stava diventando un po' pesante. Si passò la mano tra i folti capelli bianchi e diede a Beenay uno sguardo misto di irritazione e di comprensione. "Ha fatto bene a dire al suo amico che è inutile cercare con la fantasia una soluzione al problema. Ma i suggerimenti occasionali di un profano non sempre sono privi di merito. Per quel che ne sappiamo, può esistere un fattore sconosciuto che influenza l’orbita di Kalgash. Dobbiamo almeno prendere in considerazione questa possibilità, prima di accantonare la teoria. Credo che sia il caso di utilizzare la Spada di Thargola. Sa di cosa si tratta, Beenay?" "Certo, signore. Del Principio di parsimonia. Espresso per la prima volta dal filosofo medievale Thargola 14. Tale principio afferma all'incírca che: 'Dobbiamo recidere con una spada le ipotesi che non sono strettamente necessarie'." "Ottimo, Beenay. Anche se è meglio conosciuto con queste parole: 'Qualora ci venissero presentate diverse ipotesi, dovremmo iniziare la nostra analisi eliminando le più complesse con la nostra spada.' Ora, le ipotesi sono due: o la Teoria della gravitazione universale è sbagliata, oppure lei ha tralasciato qualche dato sconosciuto e forse inconoscibile nel calcolare l'orbita di Kalgash. Se accettiamo la prima ipotesi, allora tutto quello che crediamo di sapere sulla struttura dell'universo precipita nel caos. Se accettiamo la seconda, tutto ciò che dobbiamo fare è localizzare il fattore sconosciuto, e l'ordine sostanziale delle cose viene preservato. E di gran lunga più semplice cercare di trovare qualcosa che possiamo aver tralasciato, piuttosto che elaborare una nuova legge generale che governi i movimenti dei corpi celesti. Di conseguenza, l'ipotesi che la Teoria della gravitazione sia sbagliata non regge al principio della Spada di Thargola, e noi inizieremo la nostra analisi lavorando con la spiegazione più semplice del problema. Cosa ne dice, Beenay?" Beenay era raggiante. "Allora non ho screditato la Teoria della gravitazione universale!" "Non ancora, almeno. Lei si è probabilmente conquistato un posto nella storia della scienza, ma non sappiamo ancora se come confutatore o come fondatore.
Speriamo in quest'ultima possibilità. E ora, mio caro giovanotto, bisogna riflettere, e riflettere attentamente." Athor 77 chiuse gli occhi e si strofinò la fronte, che comínciava a fargli male. Si rese conto che non si dedicava più realmente alla scienza ormai da molto tempo. Nell'ultimo decennio la sua attenzione era stata totalmente rivolta alle questioni amministrative dell'osservatorio. Ma la mente che aveva generato la Teoria della gravitazione universale era ancora capace di qualche idea, pensò. "Innanzi tutto, voglio studiare con più attenzione questi suoi calcoli,” disse. "Poi credo che riesaminerò a fondo la mia teoria." 10 La sede centrale degli Apostoli della fiamma era una torre sottile e sontuosa di pietra dorata e luccicante, che svettava come un giavellotto luminoso sul fiume Seppitan, nell'esclusivo quartiere di Birigam, a Saro. Quell'alta torre, pensò Theremon, doveva essere uno degli immobili di maggior valore della città. Non si era mai soffermato prima sulla questione, ma ora pensò che gli apostoli dovevano essere un gruppo incredibilmente ricco. Possedevano stazioni radiofoniche e televisive, pubblicavano giornali e riviste, erano proprietari di quella straordinaria torre. E probabilmente controllavano altri beni, anche se in modo meno trasparente. Si chiese come questo fosse possibile. Un gruppo di monaci puritani e fanatici! Come erano riusciti a mettere le mani su tante centinaia di milioni di crediti? Poi gli sovvenne che industriali ben noti, quali Bottiker 888 e Vivin 99, erano aperti seguaci degli insegnamenti di Mondior e dei suoi apostoli. Non sarebbe stata una sorpresa scoprire che uomini come Bottiker e Vivin, e altri come loro, contribuivano generosamente all'ampliamento delle fortune degli apostoli. E se anche l'organizzazione fosse stata dieci volte meno antica di quanto pretendeva di essere - a quanto affermavano risaliva a diecimila anni addietro - e avesse, comunque, investito oculatamente il proprio denaro nel corso dei secoli, sarebbe stato impossibile stabilire quello che gli apostoli erano riusciti ad accumulare grazie al favoloso interesse composto, pensò Theremon. Forse possedevano miliardi. Forse erano segretamente proprietari di mezza Saro. Era il caso di indagare, si disse. Entrò nel vasto e risonante ingresso della grande torre e si guardò in giro colmo di meraviglia. Anche se non vi era mai stato prima, aveva sentito dire che si trattava di un edificio sontuoso, sia all’interno che all'esterno. Ma niente di quello che aveva sentito era paragonabile a ciò che si trovò difronte. Davanti ai suoi occhi si estendeva a perdita d'occhio un imponente pavimento di marmo levigato e lucente, con intarsi di una mezza dozzina di colori vivaci. Le pareti erano coperte di mosaici d'oro luccicanti, che formavano motivi astratti e salivano molto in altO, fino a formare delle volte ad arco. Lampadari d'oro e d'argento creavano un brillìo su ogni cosa. In fondo all'ingresso, Theremon vide ciò che sembrava essere un modellino dell'intero universo, costruito, a quanto pareva, esclusivamente con metalli preziosi e gemme: immensi globi sospesi, che dovevano rappresentare i sei soli, pendevano dal soffitto retti da fili invisibili. Ognuno di essi emanava una luce soprannaturale: un raggio dorato proveniva dal più grande di essi, che doveva essere Onos, un chiarore rosso smorto dal globo di Dovim, e un blu e bianco, freddo e nitido, dalla coppia Tano-Sitha, mentre una luce bianca più delicata si diffondeva da Patru e Trey.
Un settimo globo, che doveva essere Kalgash, si muoveva lentamente fra essi, come un palloncino alla deriva, e il proprio colore mutava mentre la luce sempre cangiante dei soli danzava leggera sulla sua superficie. Mentre Theremon stava fissando con grande stupore il modellino, una voce proveniente dal nulla gli chiese: "Posso sapere il suo nome?» "Mi chiamo Theremon 762. Ho un appuntamento con Mondior.» “Sì. Prego, entri nella stanza alla sua sinistra, Theremon 762." Non vide nessuna stanza alla sua sinistra. Poi, però, una porta della parete in mosaico si aprì silenziosamente, lasciando intravedere una piccola stanza ovale, più un'anticamera che una stanza vera e propria. Le sue pareti erano coperte da tende verdi di velluto. Tutto era illuminato unicamente da un tubo di luce ambrata. Si strinse nelle spalle ed entrò. Immediatamente la porta si chiuse dietro di lui, e provò la netta sensazione di essere in movimento. Non era una stanza, era un ascensore! Sì, stava salendo, ne era certo. Saliva sempre più in alto, molto lentamente. Quando la stanza-ascensore si fermò e la porta si riaprì, gli sembrò che fosse trascorsa un’eternità. Una figura vestita in nero lo stava aspettando. "Da questa parte, prego.” Percorsero un breve e stretto corridoio che conduceva in una sorta di sala d'aspetto, dove un enorme ritratto di Mondior 71 occupava quasi un'intera parete. All'ingresso di Theremon, il ritratto sembrò illuminarsi, prendere stranamente vita e colore. Gli occhi scuri e profondi di Mondior lo fissarono, e il viso severo dell'Apostolo Supremo assunse un fulgore luminoso e interiore che lo fece sembrare quasi bello, ma di una bellezza disumana. Theremon sostenne lo sguardo dell'apostolo alquanto freddamente. Ma perfino l'intrepido giornalista si sentì un po' a disagio al pensiero di dover intervistare di lì a pochi minuti proprio quella persona. Mondior alla radio o alla televisione era una specie di predicatore folle, con un assurdo messaggio da diffondere. Ma Mondior in carne e ossa - maestoso, ipnotico e misterioso, se corrispondeva a questo ritratto - poteva essere tutt'altra cosa. Theremon raccomandò a se stesso di stare in guardia. Il monaco vestito di nero disse: "Si accomodi, prego." La parete alla sinistra del ritratto si aprì. All'interno si poteva vedere un ufficio, spoglio come una cella, con una sola scrivania. Quest’ultima era composta da un unico pezzo di pietra levigata e aveva di fronte una sedia bassa senza schienale, di un insolito legno grigio screziato di rosso. Dietro tale scrivania sedeva un uomo di indubbio potere e autorità, che indossava il tipico abito nero degli apostoli, con un bordo rosso lungo il cappuccio. Era una figura solenne, ma non era Mondior 71. Mondior, a giudicare dalle sue fotografie e da come appariva in televisione, doveva essere un uomo di circa sessantacinque-settanta anni che emanava una forza profondamente virile. Aveva capelli folti e ondulati, neri con ampie strisce bianche, e un viso pieno e carnoso, una bocca larga, un naso pronunciato, grosse sopracciglia nerissime e irresistibili occhi scuri. L'uomo che Theremon aveva davanti a sé non doveva avere invece più di quarant’anni, e anche se aveva un aspetto forte e molto virile, era completamente diverso da Mondior: era molto magro, con un viso stretto e affilato e labbra piccole e increspate. Sulla sua fronte, sotto il cappuccio, spuntavano capelli riccí di uno strano colore rosso mattone, mentre gli occhi erano di un azzurro freddo e spietato. Senza dubbio quest'uomo era un alto funzionario dell'organizzazione, ma Theremon aveva appuntamento con Mondior. Aveva deciso quella stessa mattina, dopo aver scritto il suo pezzo sull'ultima sparata degli apostoli, che doveva sapere qualcosa di più su quella misteriosa setta. Ciò che andavano dicendo gli sembrava assurdo, certo, ma cominciava a sembrargli anche interessante, degno di essere approfondito. E il modo migliore per saperne di più era rivolgersi direttamente al capo in persona! Se fosse stato possibile, ovviamente.
Ma con sua somma sorpresa, quando aveva telefonato, gli avevano detto che Mondior l'avrebbe ricevuto quel giorno stesso. Gli era parso tutto troppo facile. In quel momento cominciò veramente a capire che era stato tutto un po' troppo facile. "Mi chiamo Folimun 66," disse l'uomo dal viso affilato con una voce lieve e duttile, che non aveva niente a che fare con quella imperiosa e tonante di Mondior. Eppure, sospettò Theremon, era la voce di qualcuno abituato a farsi obbedire. "Sono colui che tiene le pubbliche relazioni della nostra organizzazione, nella sede centrale. Sarò lieto di ríspondere a ogni domanda che vorrà pormi." "Avevo un appuntamento con Mondior in persona," disse Theremon. I gelidi occhi di Folimun 66 non tradirono alcun segno di sorpresa. "Può considerarmi la voce di Mondior." "Credevo di aver capito che si sarebbe trattato di un'udienza privata." "E così. Tutto ciò che lei mi chiederà, sarà come se lo avesse chiesto a Mondior; tutto ciò che le dirò, sarà la parola di Mondior. Questo le sia chiaro." "Mi era stato comunque assicurato che avrei potuto parlare con Mondior. Non metto in dubbio che quello che lei mi dirà sarà autorevole, ma non sto cercando soltanto delle informazioni. Vorrei farmi un'opinione sul tipo d'uomo che è Mondior, sulle sue idee in generale, e non solo sulla distruzione del mondo che ha profetizzato, su ciò che pensa di..." "Posso solo ripeterle quello che le ho già detto,» dichiarò Folimun, interrompendolo senza foga. "Può considerarmi la voce di Mondior. Sua Serenità non potrà riceverla personalmente, oggi. "Allora preferirei tornare un altro giorno, quando Sua Serenità sarà...» "Mi permetta di informarla che Mondior non rilascia interviste private, soprattutto ora che mancano pochi mesi al Tempo della fiamma.» Folimun improvvisamente sorrise, un sorriso inaspettato, caldo e umano, forse con l'intenzione di moderare quell'atteggiamento di rifiuto e alleggerire quell'espressione un po' troppo melodrammatica: il Tempo della fiamma! Quasi con gentilezza aggiunse: "Ritengo che ci sia stato un equivoco, che lei non abbia compreso che il suo appuntamento sarebbe stato con un portavoce di Mondior, e non con il Supremo Apostolo in persona. Comunque le cose stanno così. Se non desidera parlare con me, mi spiace che si sia preso il disturbo di venire fin qui. Ma io sono la fonte di informazione più utile che può trovare qui dentro, ora o in ogni altro momento." E sorrise nuovamente. Era il sorriso di un uomo che freddamente e senza scusarsi stava sbattendo la porta in faccia a Thermon 762. “Molto bene," rispose Theremon, dopo qualche momento di riflessione. "Vedo che non ho scelta. O lei o nessun altro. D'accordo, parliamo. Quanto tempo ho a disposizione?" “Tutto quello di cui ha bisogno, anche se questo primo incontro non dovrà essere troppo lungo. E inoltre," aggiunse con ghigno sorprendente, quasi malizioso, "deve tenere presente che ci restano solo quattordici mesi in tutto. Ed ho delle altre cose da fare in questo periodo di tempo." "Immagino di sì. Quattordici mesi, ha detto? E poi che cosa accadrà?" "Non ha mai letto il Libro delle rivelazioni, presumo?" Di recente, no." «Mi permetta, allora..." Folimun estrasse da una fenditura nascosta della sua scrivania un sottile volume rilegato in rosso, e lo diede a Theremon. "E’ per lei. Il suo animo vi troverà molto nutrimento, spero. Intanto posso parlare brevemente delle questioni che sembrano maggiormente interessarla. Tra non molto – fra 418 giorni esatti, cioè il 19 Theptar per l'esattezza - il nostro confortevole mondo subirà una grande trasformazione.
I sei soli entreranno nella caverna del Buio e scompariranno, le Stelle si manifesteranno all'umanità, e tutta Kalgash sarà data alle fiamme." Parlò con tranquillità, quasi si trattasse di un fatto di poco conto. Come se stesse parlando di un temporale previsto per il pomeriggio seguente o della fioritura di una pianta rara la settimana successiva nel giardino botanico municipale. Tutta Kalgash in fiamme. I sei soli che entrano nella caverna del Buio. Le Stelle. "Le Stelle," disse Theremon alzando la voce. "E di cosa si tratta esattamente?" "Di strumenti divini." "Non potrebbe essere più preciso?" "La natura delle Stelle sarà fin troppo chiara a tutti noi," rispose Folimun 66, "fra 418 giorni." "Quando quest'Anno Divino giungerà al termine," affermò Theremon. "Il 19 Theptar del prossimo anno." Folimun sembrò piacevolmente sorpreso. "Allora lei ha già studiato la nostra dottrina." "Un po'. A ogni modo ho ascoltato i recenti discorsi di Mondior. Sono al corrente del ciclo di 2049 anni. E dell'evento che lei definisce 'il Tempo della fiamma'. Immagino che non possa descrivermi in anticipo ciò che accadrà." "Troverà qualcosa a questo proposito in un passo del quinto capitolo del Libro delle rivelazioni. Non è necessario che lo cerchi ora, posso citarglielo io a memoria. 'E allora dalle Stelle scenderanno le Fiamme celesti, latrici della volontà degli dei; e dove le Fiamme cadranno, le città di Kalgash saranno consumate fino alla loro totale distruzione, e la stessa fine aspetterà all'umanità, e nulla rimarrà al mondo."' Theremon annuì. "Un cataclisma improvviso e terribile. Perché?" "Per volontà degli dei. Ci hanno messo in guardia contro la nostra malvagità, concedendoci molti anni per redimerci. Il periodo che ci hanno concesso lo chiamano 'Anno Divino', un anno che dura 2049 anni umani, di cui lei conosce già alcune cose. L'attuale Anno Divino è giunto quasi al termine." "E allora lei crede che tutto sarà spazzato via?" "Non tutto, ma quasi; la nostra civiltà sarà distrutta. Quei pochi che sopravviveranno dovranno assumersi l'immane compito della ricostruzione. Si tratta, come lei mi sembra già sappia, di un ciclo che tristemente si ripete nella storia dell'uomo. Non è la prima volta, infatti, che tale evento si verifica: l'umanità ha già fallito in precedenza la prova offertale dagli dei. Siamo stati colpiti e distrutti altre volte; e ora stiamo per essere distrutti nuovamente." La cosa strana, pensò Theremon, è che questo Folimun non sembra affatto pazzo. Se non fosse stato per quel suo strano modo di vestire, avrebbe potuto benissimo essere un qualsiasi uomo d'affari dall'aspetto giovanile seduto nel suo elegante ufficio - un agente di credito, ad esempio, o un dirigente di una società finanziaria. Era evidentemente una persona intelligente. Si esprimeva chiaramente e con precisione, in tono schietto e privo di ambiguità. Non sbraitava né vaneggiava, ma quello che diceva, nonostante la sua precisione e la sua immediatezza, era la cosa più assurda e insensata che Theremon avesse mai sentito. Il contrasto fra ciò che Folimun diceva e il suo modo di parlare era enorme. Ora se ne stava tranquillamente seduto, all'apparenza rilassato, aspettando la domanda successiva che il giornalista gli avrebbe posto. "Sarò franco,” disse Theremon dopo un po'. "Come molta altra gente provo qualche difflcoltà ad accettare un evento così grande che mi viene dato come semplice rivelazione. Ho bisogno di prove fondate. Ma voi non ne fornite nessuna. Abbiate fede, dite. Non c'è ovviamente alcuna prova tangibile per poter dimostrare la verità di ciò che andate affermando, ma noi faremmo comunque bene a credere a quello che ci state propinando perché siete stati informati dagli dei, e sapete che gli dei non mentono.
Mi può dire perché dovrei crederle? La sola fede non è sufficiente per persone come me." «Perché crede che non ci siano prove?" chiese Folimun. «Ce ne sono? Oltre al Libro delle rivelazioni? Le prove tautologiche non mi interessano." «Siamo un'organizzazione molto antica, lo sa?" «Diecimila anni, si dice." Un rapido sorriso comparve sulle labbra sottili di Folimun. «Una data arbitraria, forse un po' esagerata per fare colpo sulle masse. Noi riteniamo che la nostra organizzazione risalga alla preistoria." «Quindi il vostro gruppo avrebbe almeno duemila anni?" "Come minimo, un po' di più. Possiamo trovarne tracce in un periodo anteriore all'ultimo cataclisma - dunque abbiamo certamente più di 2049 anni. Probabilmente siamo molto più antichi, ma di questo non abbiamo alcuna prova, almeno di quelle che lei riterrebbe tangibili. Crediamo che le origini degli apostoli risalgano a diversi cicli di distruzione or sono, il che equivale forse a seimila anni fa. Comunque, per noi è importante che le nostre origini risalgano a prima del cataclisma. La nostra organizzazione ha svolto tranquillamente la sua attività per più di un Anno Divino. Siamo quindi in possesso di informazioni che ci forniscono dettagli assai particolareggiati sulla catastrofe che si abbatterrà su di noi. Sappiamo cosa accadrà, perché siamo a conoscenza di ciò che è accaduto molte altre volte. "Ma non avete intenzione di mostrare a nessuno le informazioni che dite di avere. Le prove, insomma." "Il Libro delle rivelazioni è quanto offriamo al mondo. " Il discorso girava sempre attorno a se stesso, senza arrivare da nessuna parte. Theremon iniziò a sentirsi irrequieto. Era tutta una grande montatura, chiaramente. Una cinica invenzione, probabilmente ideata per mettere le mani su ingenti contributi donati da persone ingenue, quali Bottiker e Vivin e altri ricchi creduloni, che cercavano disperatamente di comprarsi la sopravvivenza dopo il giorno del giudizio. Anche se Folimun sembrava sincero e intelligente, doveva essere o un consapevole complice in quella gigantesca e ingannevole messinscena, oppure soltanto uno dei tanti scagnozzi di Mondior. "Va bene," disse il giornalista. «Accettiamo per ora l'ipotesi che ci sarà il prossimo anno una catastrofe di dimensiOni mondiali, di cui la vostra organizzazione è a conoscenza fin da ora in tutti i dettagli. Cos'è, esattamente, che vorreste che noi facessimo? Che ci accalcassimo nelle vostre cappelle e pregassimo gli dei di avere pietà di noi?" «E troppo tardi per farlo." «Non c'è nessuna speranza, allora? In questo caso, perché vi state preoccupando di metterci in guardia?" Folimun sorrise nuovamente, questa volta senza traccia d'ironia. "Per due motivi. Per prima cosa, sì, vogliamo che la gente venga nelle nostre cappelle, non perché riteniamo che in questo modo si riuscirà a influenzare gli dei, ma affinché tutti ascoltino i nostri insegnamenti su problemi d'ordine morale ed etico. Riteniamo di avere un messaggio importante per il mondo su questi argomenti. Ma il secondo motivo è più urgente: vogliamo convincere la gente della realtà di ciò che sta per avvenire, affinchè prenda misure per proteggersi dalla catastrofe. Le conseguenze più gravi del disastro possono essere evitate. Si può provvedere anzitempo perché si impedisca la totale distruzione della nostra civiltà. Le Fiamme sono inevitabili, certo, data la natura umana - gli dei hanno parlato, il tempo della loro vendetta è prossimo - ma nell'orrore e nella follia universale ci sarà qualche sopravissuto. Le posso assicurare che gli apostoli soprawiveranno. Saremo pronti, come lo siamo già stati in passato, a condurre l'umanità attraverso un nuovo ciclo di rinascita. E offriremo la nostra mano 'con amore e con carità' a chiunque vorrà accettarla. A chiunque si unirà a noi per proteggersi dal disastro inconbente.
Le sembra folle tutto ciò, Theremon? Le sembra che siamo degli impostori pericolosi?" “ Se solo potessi accettare le vostre idee di fondo..." "Che le Fiamme giungeranno il prossimo anno? Lo farà. Resta da vedere se ci crederà in tempo per poter sopravvivere e diventare uno dei guardiani del nostro patrimonio, o se lo scoprirà solo al momento della distruzione, durante la sua agonia." "Me lo chiedo anch'io," asserì Theremon. “Mi permetta di sperare che sarà al nostro fianco il giorno in cui l’Anno Divino giungerà al termine," disse Folimun. Si alzò di scatto e offrì la mano a Theremon. "Ora devo andare. Sua Serenità, l'Apostolo Supremo mi attende fra qualche minuto. Ma avremo ancora occasione di incontrarci, ne sono certo. Se mi avverte con un giorno di anticipo, o anche meno se preferisce, cercherò di rendermi disponibile per un incontro. Attenderò con ansia una sua chiamata. Per quanto possa sembrarle strano, sento che lei e io siamo destinati a lavorare insieme. Abbiamo molto in comune, noi due." "davvero?" "Non in questioni di fede. Ma per quel che riguarda il desiderio di sopravvivere e di aiutare il prossimo a farlo. Sì, credo che lei sia simile a me. Sento che verrà un giorno in cui lei e io ci cercheremo per unire le nostre forze contro il Buio incombente. Ne sono assolutamente certo." Ma certo, pensò Theremon. Sarà meglio che prenda subito le misure per il mio abito nero. Ma non aveva senso offendere Folimun con scortesie di quel genere. La setta degli apostoli aumentava, a quanto sembrava, di giorno in giorno. Poteva ricavarne una serie di grossi articoli, e Folimun era probabilmente l'unica fonte di informazioni a lui accessibile. Theremon fece scivolare la sua copia del Libro delle rivelazioni nella propria cartella e si alzò in piedi. "La chiamerò fra un paio di settimane," disse. "Quando avrò avuto modo di leggere con attenzione il libro. Allora avrò altre cose da chiederle. E con quanto tempo di anticipo devo chiedere un'udienza a Mondior 71?" Folimun non era tipo da lasciarsi intrappolare così facilmente. "Come le ho già spiegato, gli impegni di Sua Serenità da oggi al Tempo della fiamma sono talmente urgenti che non potrà rendersi disponibile in alcun modo per interviste personali. Mi spiace, ma non posso aiutarla." Folimun tese la mano. E’ stato un piacere." "Anche per me," rispose Theremon. Folimun scoppiò improvvisamente a ridere. Sul serio? Passare mezz'ora a parlare con un pazzo? Un bugiardo? Un fanatico? Un settario?" "Non mi pare di avere mai usato queste parole." "Non mi stupirei se venissi a sapere che le ha pensate, però." L'apostolo rivolse a Theremon un altro dei suoi sorrisi stranamente disarmanti. "E avrebbe anche ragione, in parte. Io sono un fanatico. E appartengo anche a una setta. Ma non sono pazzo. Non sono bugiardo. Vorrei esserlo. E anche lei un giorno lo desidererà.» Con un cenno indicò a Theremon la porta. Il monaco che lo aveva condotto nella stanza lo aspettava fuori per accompagnarlo fino all'ascensore. Una strana mezz'ora, pensò il giornalista. E non molto fruttuosa, tutto sommato. Per certi versi ora sapeva meno cose sugli apostoli di quando era entrato lì dentro.
Che fossero tipi strani e giocassero sulla superstizione altrui, restava per Theremon una convinzione. Non avevano chiaramente la minima prova che un gigantesco cataclisma si stesse per abbattere sul mondo. Se fossero però dei pazzi che credevano in ciò che affermavano, oppure degli impostori belli e buoni, era qualcosa che non poteva ancora stabilire con certezza. Era tutto molto sconcertante. Nella loro organizzazione c'era un elemento di fanatismo, di puritanesimo che non gradiva affatto. Eppure... Eppure quel Folimun, il loro portavoce, gli era parso una persona inaspettatamente affascinante. Era intelligente, loquace e perfino, a modo suo, logico. Il fatto che sembrasse possedere un certo senso dell'umorismo fu una sorpresa insieme un punto a suo favore. Theremon non aveva mai sentito parlare di un pazzo che fosse capace anche della minima autoironia, e neanche di un fanatico dotato di tale caratteristica. A meno che anche questo non fosse qualcosa di già programmato, di un comportamento studiato. A meno che Folimun non stesse inventandosi il tipo di personalità che qualcuno come Theremon avrebbe probabilmente trovato affascinante. Fai attenzione, si disse. Folimun vuole usarti. Ma questo era normale. Aveva una posizione influente all'interno del suo giornale. Tutti volevano servirsi di lui. Bene, pensò Theremon. Vedremo se sarà lui a usare me o viceversa. I suoi passi riecheggiarono chiaramente mentre camminava i fretta lungo il corridoio d'ingresso della sede generale degli apostoli e usciva nella luce del pomeriggio a tre soli. Era giunto il momento di ritornare all'ufficio del Chronicle. Avrebbe dedicato un paio d'ore allo studio ossequioso del Libro delle rivelazioni, poi sarebbe venuto il momento di pensare l'articolo del giorno seguente. 11 La stagione estiva delle piogge era nel pieno del suo vigore, il pomeriggio in cui Sheerin 501 tornò a Saro. Il grosso psichiatra scese dall'aeroplano durante un incredibile temporale, che aveva trasformato la pista d'atterraggio in una specie di lago. Grigi torrenti di pioggia scendevano quasi orizzontalmente, trascinati da furiose raffiche di vento. Grigio... Grigio... Tutto grigio... I soli dovevano essere lassù da qualche parte, in mezzo a tutta quella foschia. Onos era probabilmente quella debole luce a occidente. Si riusciva vagamente a vedere la luce fredda di Tano e Sitha, dall'altra parte del cielo. Ma la coltre di nubi era così spessa che il cielo era sgradevolmente scuro. Fastidiosamente scuro per Sheerin, che soffriva ancora - nonostante quel che aveva detto ai suoi ospiti a Jonglor - per le conseguenze del suo giro di un quarto d'ora nella galleria del mistero. Avrebbe preferito digiunare per dieci giorni piuttosto che ammetterlo a Kelaritan, Cubello e tutti gli altri, ma là dentro era stato sul punto di impazzire. Nei tre o quattro giorni successivi, Sheerin aveva sperimentato un pizzico, niente più che un pizzico, di quella specie di claustrofobia che aveva mandato in manicomio tanti cittadini di Jonglor.
Gli accadeva di trovarsi nella sua stanza d'albergo, lavorando alla sua relazione, quando d'improvviso sentiva che il Buio si impossessava di lui e doveva alzarsi e uscire sul balcone, o perfino lasciare l'edificio e fare una lunga passeggiata nel giardino dell'albergo. Era necessario? Forse no. Ma preferibile. Sì, era preferibile farlo. E dopo si sentiva sempre meglio. Oppure si addormentava e il Buio lo assaliva. Naturalmente una lampada votiva era sempre accesa nella sua stanza - ne teneva una accesa quando dormiva, non conosceva nessuno che non lo facesse - e in seguito al giro nella galleria aveva preso l'abitudine di accenderne anche un'altra, nel caso che una lampada improvvisamente smettesse di funzionare, sebbene dall'indicatore risultasse chiaramente che la batteria non si sarebbe scaricata entro sei mesi. Ma anche così, nel sonno, la mente di Sheerin si convinceva che la sua stanza era sprofondata negli abissi dell'oscurità, nel nero più completo, nel Buio totale e assoluto. E si svegliava tremando, sudato, convinto di essere al Buio, nonostante le luci amichevoli delle lampade votive splendessero al suo fianco, quasi a dimostrargli che si sbagliava. In quel momento stava scendendo dall'aereo in un triste paesaggio crepuscolare. Certamente, era felice di essere tornato a casa, ma avrebbe preferito trovare un cielo meno tenebroso. Dovette sforzarsi per vincere un vago senso di angoscia, in realtà neanche tanto vago, mentre entrava nel passaggio in flexiglass, che in caso di brutto tempo metteva in comunicazione l'aereo con il terminal. Avrebbe preferito che non l'avessero messo in funzione. Mi sentirei meglio all'aperto, anche se mi bagnerei tutto, pensò Sheerin. Meglio sotto il cielo aperto, sotto le luci confortanti (per quanto deboli, per quanto nascoste dalle nuvole) degli amichevoli soli. Ma il disagio era passato. Quando recuperò il suo bagaglio, l'idea di essere nuovamente a casa, a Saro, gli aveva fatto dimenticare le ultime conseguenze del suo breve impatto con il Buio. Liliath 221 lo aspettava fuori dalla zona bagagli con la sua macchina. Questo lo fece sentire ancora meglio. Liliath era una donna magra e piacevole, non ancora cinquantenne, sua collega all' istituto di psicologia; lei, però, lavorava in laboratorio e i loro campi d'interesse professionale erano diversi. Si conoscevano da una quindicina d'anni. Sheerin le avrebbe probabilmente chiesto di sposarlo molto tempo prima, se fosse stato un tipo da matrimonio. Ma nessuno dei due lo era, nonostante i taciti messaggi che lei aveva cercato di lanciargli. Il loro rapporto, comunque, sembrava soddisfacente per entrambi. “Fra i giorni orribili che potevo scegliere per tornare a casa..." disse Sheerin, scivolando in macchina vicino a lei e sporgendosi per darle un bacetto affettuoso. "E’ così da tre giorni. E dicono che durerà per altri tre giorni, fino al prossimo Giorno di Onos. Affogheremo tutti per allora, credo. Mi sembra che tu sia piuttosto dimagrito lassù a Jonglor, Sheerin! " "Davvero? Sai, il cibo nordico non è esattamente di mio gradimento." Non si aspettava che fosse così evidente. Un uomo della sua stazza poteva perdere cinque chili senza che si notasse, ma Liliath era sempre stata un'attenta osservatrice. E forse aveva perso più di cinque chili. Da quando era stato nella galleria, si era limitato nel cibo, piluccando poche cose.
Proprio lui! Era difficile riuscire a credere quanto avesse mangiato poco! "Hai un bell'aspetto," disse lei. "Sano. Vigoroso." "Sul serio?" "Non penso che dovresti diventare pelle e ossa, sia chiaro, ormai non più. Ma non ti farà male scendere un po' di peso. Ti sei divertito a Jonglor?" "Insomma! " "Sei andato a vedere l'esposizione?" "Sì. Favolosa." Non riusciva a manifestare molto entusiasmo. "Mio Dio, Liliath, questa pioggia!" "Non pioveva a Jonglor?" "Era sereno e asciutto ogni giorno. Lo stesso tempo che c'era a Saro quando sono partito." "Sai, Sheerin, le stagioni cambiano. Non si può pretendere d i avere sempre lo stesso tempo per sei mesi di seguito. Con differenti soli in cielo ogni giorno, non possiamo aspettarci che il clima sia sempre uguale." "Non so dire se sembri più una meteorologa o un'astronoma," disse Sheerin. "Nessuno dei due. Sembro una psicologa. Non hai niente da raccontarmi sul tuo viaggio?" Sheerin esitò. "L'esposizione era splendida. Mi dispiace che tu l'abbia persa. La maggior parte del tempo, però, l'ho trascorsa al lavoro. Hanno un bel guaio fra le mani, lassù a nord, con quella storia della galleria del mistero." E’ vera la notizia che della gente è morta lì dentro?" chiese Liliath, incuriosita. "Qualcuno c'è morto. Ma la maggior parte n'è uscita traumatizzata, disorientata. Claustrofobica. Ho parlato con alcune delle vittime. Avranno bisogno di mesi per guarire. Per alcuni di loro il danno sarà permanente. Ma la galleria è rimasta comunque aperta per diverse settimane." "Dopo che sono iniziati i problemi?" "A nessuno sembrava importare niente. Men che meno alle persone che avevano organizzato l'esposizione. A questi interessava solo vendere biglietti. E i visitatori erano tutti incuriositi dal Buio. Incuriositi dal Buio, riesci a immaginarlo, Liliath? Morivano dalla voglia di fare la fila per mettere a repentaglio la loro salute mentale! ovviamente erano tutti convinti che a loro non sarebbe potuto succedere niente di brutto. E a molte persone non è successo niente. Ma non a tutte. Anch'io ho fatto un giro nella galleria." "Davvero?" disse Liliath in tono stupito. "Che te n'è parso?" "Una cosa pericolosa. Pagherei non so quanto per non doverlo più rifare." "Ma ovviamente ne sei venuto fuori bene." "Chiaramente sì," rispose Sheerin, lentamente. "sopravviverei anche se dovessi ingurgitare mezza dozzina di pesci vivi. Ma non e un esperienza che mi piacerebbe ripetere. Ho detto loro di chiudere immediatamente quella maledetta gàlleria. E’ stata questa la mia opinione di esperto e credo che la seguiranno. E’ chiaro che non siamo fatti per sopportare tutto quel Buio, Liliath. Un minuto, due minuti, forse, poi cominciamo a crollare. E’ una cosa innata, ne sono convinto, milioni di anni di evoluzione ci hanno portato a essere così. Il Buio è la cosa più innaturale del mondo. E l'idea di venderlo alla gente come divertimento…” Rabbrividì. "Bene, sono andato a Jonglor e sono tornato vivo e vegeto. Invece all'università cos'è successo?" "Praticamente niente,» rispose Liliath. "I soliti stupidi battibecchi, le consuete riunioni di facoltà, prese di posizione sull' una o sull'altra questione sociale,
le solite cose, insomma." Rimase in silenzio per un attimo, stringendo il volante, mentre guidava sull'asfalto bagnato dell'autostrada. "Sembra, invece, che ci sia un po` di trambusto all'osservatorio. Il tuo amico Beenay 25 è venuto a cercarti. Non mi ha detto molto, ma sembra che stiano rivedendo una delle loro teorie più importanti. Sono tutti molto agitati. Il vecchio Athor in persona dirige le ricerche, ci credi? Pensavo che la sua mente si fosse fossilizzata un secolo fa. Beenay è venuto a cercarti con un giornalista, un tipo che ha un ruolo piuttosto importante al giornale. Mi sembra che si chiami Theremon. Theremon 762. Non gli ho prestato molta attenzione." "E’ famoso. Una specie di tizzone d'inferno, credo, anche se non posso dire con certezza con chi ce l'abbia. Lui e Beenay passano un sacco di tempo insieme." Sheerin si propose di telefonare al giovane astronomo dopo aver disfatto la valigia. Da quasi un anno ormai Beenay viveva con la figlia della sorella di Sheerin, Raissta 717, e Sheerin aveva stretto amicizia con lui, per quanto fosse possibile, considerando che avevano una ventina d'anni di differenza. Sheerin si interessava di astronomia a tempo perso: era questo uno dei legami che li aveva avvicinati. Athor era tornato a dedicarsi alla scienza! Incredibile! Che poteva essere successo? Qualche nuovo arrivato aveva pubblicato un saggio, attaccando la Legge di gravitazione universale? No, pensò Sheerin, nessuno avrebbe osato farlo. "E tu?" chiese Sheerin. "Non mi hai detto nulla di ciò che hai fatto mentre io ero via." "Che cosa pensi che abbia fatto, Sheerin? Che sia andata a meditare in alta montagna? Che mi sia convertita alla dottrina degli Apostoli della fiamma? Che mi sia iscritta a scienze politiche? Ho letto. Ho insegnato. Ho condotto i miei esperimenti. Ho aspettato che tu tornassi a casa. Ho pensato alla cena che ti avrei preparato quando saresti tornato a casa. Sei certo di non essere a dieta, allora?" "Certo che no." Lasciò che la sua mano si soffermasse amorevolmente su quella di lei per un attimo. "Ho pensato sempre a te, Liliath." "Ne ero certa." "E non vedo l'ora di cenare." "Questo mi sembra più plausibile." La pioggia si faceva sempre più fitta. Un'incredibile quantità d'acqua si riversava sul parabrezza, e Liliath faceva il possibile per non uscire di strada. Stavano superando il Pantheon, la magnifica Cattedrale di Ognidei. Non sembrava poi così splendida, con quei rivoli d'acqua che scendevano lungo la facciata di mattoni. Il cielo si oscurò ulteriormente man mano che la tempesta aumentava d'intensità. Sheerin si rannicchiò per sfuggire all'oscurítà esterna, fissando, quasi in cerca di conforto, le spie luminose sul cruscotto dell'auto. Non voleva più restare nello spazio chiuso della macchina. Voleva uscire all'aperto, sebbene diluviasse. Ma era una follia. Si sarebbe bagnato completamente in un attimo, là fuori. Forse sarebbe perfino affogato tanto erano profonde le pozzanghere. Pensa a cose allegre, si disse. Pensa a cose calde e luminose. Pensa all'alba, l'alba dorata di Onos, la luce calda di Patru e Trey, perfino la luce fredda di Sitha e Tano, la luce debole e rossa di Dovim. Pensa alla cena di questa sera. Liliath avrà preparato un vero e proprio banchetto per festeggiare il tuo ritorno.
E’ una cuoca così brava, Liliath... Si rese conto che non aveva affatto fame. Come poteva mangiare in una giornata così triste e grigia, una giornata così buia... cosi buia. Ma Liliath ci teneva molto che la sua cucina fosse apprezzata. Specialmente quando cucinava per lui. Decise che avrebbe mangiato tutto quello che gli avrebbe preparato, anche se doveva farlo per forza. Che idea buffa, pensò: proprio lui, Sheerin, il ghiottone, che pensava di dover mangiare per forza! Come lo sentì ridere, Liliath gli lanciò un'occhiata. "Che c'è di tanto divertente?" "Io... ah... sai, pensavo ad Athor che si dà nuovamente alla ricerca," disse precipitosamente, "dopo essere stato per tanto tempo il Signore Supremo dell'astronomia ed essersi dedicato solo a questioni puramente amministrative. Dovrò chiamare Beenay al più presto. Che starà mai succedendo lassù all'osservatorio? 12 Siferra 89 era tornata da tre giorni all'Università di Saro e la pioggia non era ancora cessata. Quel tempo era in netto contrasto con l’arido clima desertico della penisola di Sagikan. Non vedeva la pioggia da così tanto, che si stupì all'idea che potesse caderne ancora. A Sagikan ogni goccia d'acqua era preziosissima. Bisognava calcOlarne l'uso con la massima precisione e riciclarne la maggior quantità possibile. A Saro, invece, l’acqua cadeva dal cielo come da un serbatoio gigantesco che non si sarebbe mai esaurito. Siferra provò il fortissimo impulso di togliersi i vestiti e correre tra i vasti e verdi prati del campus, lasciando che la pioggia scendesse sul suo corpo in un'ondata piacevole e infinita, per lavarla e purificarla finalmente dall'infernale polvere del deserto. Ci mancava solo questo: la gelida, distaccata e prosaica profesoressa di archeologia Siferra 89 che correva nuda sotto la pioggia! Sarebbe valsa la pena di farlo solo per godersi le facce attonite che sarebbero sicuramente spuntate a ogni finestra dell'università. Alquanto improbabile però, pensò Siferra. Non è affatto nel mio stile. E poi aveva tantissime cose da fare. Non aveva perso tempo per tornare al lavoro. La maggior parte dei manufatti portati alla luce nella zona di Beklimot stavano arrivando per nave, e non sarebbero giunti prima di diverse settimane. Ma c’erano mappe da sistemare, schizzi da terminare, foto stratigrafiche di Balik da analizzare, campioni di terreno da preparare per l’esame radiografico e un'altra marea di cose da fare. E poi c'erano anche le tavolette di Thombo, delle quali doveva discutere con Mudrin 505 dell'istituto di paleografia. Le tavolette di Thombo! La scoperta delle scoperte, il reperto di maggiore importanza rinvenuto nell'ultimo anno e mezzo. O almeno così credeva. Tutto dipendeva comunque dal fatto che qualcuno fosse riuscito a decifrarle. In ogni caso, avrebbe immediatamente convocato Mudrin affinché le analizzasse. Si trattava certamente di reperti affascinanti, ma potevano essere molto di più. Forse avrebbero potuto rivoluzionare l'intero studio del mondo preistorico. Per questo non le aveva affidate alle navi da carico, ma le aveva portate personalmente da Sagikan. Sentì bussare alla porta.
"Siferra? Siferra sei qui?" ' Entra pure, Balik." Il robusto esperto di stratigrafia era completamente bagnato. "Questa disgustosa e maledetta pioggia!" borbottò, togliendosi il soprabito. "E’ incredibile quanto sia riuscito a bagnarmi semplicemente per attraversare la corte interna, dalla Biblioteca Uland fin qui!” Io adoro la pioggia,” disse Siferra. "Spero che non smetta mai di piovere. Dopo tutti quei mesi passati al sole cocente del deserto, con la sabbia negli occhi, la polvere nella gola, il caldo, la siccità... no, lascia pure che piova, Balik!" "Noto però che te ne stai tranquilla al coperto. E’ molto più facile apprezzare la pioggia quando si è al riparo in un bell'ufficio asciutto. Stai sempre giocando con le tue tavolette, vero?" Indicò i sei pezzi smussati e malconci di argilla rossa che Siferra aveva sistemato sopra la sua scrivania in due gruppi di tre tavolette ciascuno, quelle quadrate da una parte e quelle rettangolari dall'altra. "Non sono splendide?" disse Siferra, esultante. "Non riesco a staccarmene. Continuo a fissarle come se guardandole a lungo dovessero rivelarmi il loro segreto. " Balik si sporse in avanti e scosse il capo. "A me sembrano solo segni fatti da galline!" "Ma come!... Ho già identificato delle strutture verbali ben precise, rispose Siferra. "E io non sono una paleografa. Guarda qui, vedi questo gruppo di sei caratteri? Si ripete anche da quest’altra parte. E questi tre, cuneiformi..." Mudrin le ha già viste?" "Non ancora. Gli ho chiesto di passare da me più tardi." "Sai che si è già sparsa la notizia delle scoperte che abbiamo fatto? Dei resti delle città di Thombo?" Siferra lo guardò sbalordita. "Come mai? Ma chi?" "Uno degli studenti," disse Balik. "Non so chi, di preciso. Veloran, credo, anche se Eilis pensa si tratti di Sten. Suppongo fosse inevitabile, non credi?" "Avevo avvisato loro di non dire niente a..." "Si, ma sono solo dei ragazzi, Siferra, nient'altro che ragazzi. Hanno diciannove anni e sono al loro primo scavo importante! E la spedizione si è imbattuta in qualcosa di veramente clamoroso: sette città preistoriche finora sconosciute, una sopra l'altra, che risalgono a chissà quante migliaia di anni fa." "Nove città, Balik." "Sette o nove, si tratta comunque di una scoperta importantissima. Credo tuttavia che siano sette," rispose Balik, sorridendo. "So che ne sei convinto. E hai torto... Ma chi è che ne ha parlato all'istituto?" "Hilliko. E Brangin. Li ho sentiti questa mattina, nel bar della facoltà. Devo dire che sono estremamente scettici. Rabbiosamente scettici. Per nessuno dei due è possibile che in quella zona ci sia uno stanziamento più antico di Beklimot, tanto meno nove o sette, o quanti possano essere." "Non hanno visto le fotografie. Non hanno visto le mappe. Non hanno visto le tavolette. Non hanno visto niente. E già si sono fatti un'opinione." Gli occhi di Siferra ardevano di rabbia. "Cosa ne sanno? Hanno mai messo piede sulla penisola di Sagikan? Sono mai stati a Beklimot, anche solo come turisti? E hanno l'ardire di aver un'opinione propria su uno scavo su cui nulla è stato ancora pubblicato, che non è neppure stato discusso informalmente all'interno dell'istituto!" "Siferra..." "Vorrei scuoiarli vivi! E anche Veloran e Sten. Sapevano che avrebbero dovuto tenere la bocca chiusa! Avevo il diritto di essere io la prima a parlare della mia scoperta! Ma gliela farò pagare. Li convocherò entrambi e scoprirò chi è stato a dare la notizia a Hilliko e Brangin, e se il colpevole, chiunque esso sia, crede di riuscire a ottenere un dottorato in quest'università...» "Ti prego, Siferra," disse Balik, cercando di calmarla. "Stai facendo una tragedia per un nonnulla.» «Un nonnulla! Dovevo essere io la prima a rivelare..." Nessuno ha rivelato ancora niente.
Si tratta solo di voci, e tali rimarranno finché non sarai tu a fare le dichiarazioni ufficiali. In quanto a Veloran e Sten, non sappiamo se siano stati proprio loro a raccontare tutto, e se anche così fosse, non dimenticare che anche tu sei stata giovane una volta." «Si," rispose Siferra. “Tre ere geologiche fa." Non fare la sciocca. Sei più giovane di me, e io, in fondo, non sono un vecchietto." Siferra annuì con noncuranza. Volse lo sguardo verso la finestra. Tutt'a un tratto la pioggia non le parve più tanto gradevole. Fuori era buio, un buio conturbante. «E comunque, sapere che le nostre scoperte sono oggetto di discussione prima ancora di essere pubblicate..." "Lo sono per forza, Siferra. Tutto sarà sconvolto dalle scoperte che abbiamo fatto in quella collina, non solo all'interno del nostro istituto, ma anche in campo storico, filosofico e perfino teologico: ci saranno conseguenze ovunque. E puoi stare certa che lotteranno per difendere le loro teorie sull'evoluzione della civiltà. E non lo faresti anche tu, se arrivasse qualcuno con un'idea radicalmente nuova che mettesse in discussione tutto ciò in cui credi? Sii realistica, Siferra. Sapevamo fin dall'inizio che avremmo sollevato un gran polverone." "Immagino di sì. Ma non pensavo che iniziassero così presto a parlarne. Ho appena terminato di disfare i bagagli!" "Ecco il vero problema. Ti sei immersa talmente tanto in questa storia che non hai avuto tempo per pensare ad altro. Senti, ho un'idea. Abbiamo un po' di tempo libero prima di riprendere a pieno ritmo i nostri impegni accademici. Perché non ci lasciamo la pioggia alle spalle e non facciamo una breve e rilassante vacanza insieme? Potremmo andarcene a Jonglor, a vedere l’esposizione. Ne parlavo ieri con Sheerin... lui c'è appena stato e dice che..." Siferra lo fissò sbalordita. “Come?" "Una vacanza. Io e te." "Ci stai provando con me, Balik?" "Credo che come definizione possa andare. Che c'è di tanto incredibile? Non siamo proprio degli estranei. Ci conosciamo da quando ci siamo laureati. Siamo appena stati un anno e mezzo nel deserto insieme." "Insieme? Eravamo nella stessa spedizione, questo sì, ma tu avevi la tua tenda e io la mia. Non c'è mai stato niente fra noi. E adesso, all'improvviso..." Il volto impassibile di Balik assunse un'espressione di delusione e fastidio. "Non prenderla come se ti avessi chiesto di sposarmi, Siferra. Ti ho solo proposto un breve viaggio all'Esposizione di Jonglor, cinque o sei giorni al massimo, un po' di sole, qualche cenetta tranquilla, del buon vino e un albergo dignitoso, invece di una tenda piantata in mezzo al deserto." Spalancò le mani in segno di irritazione. "Mi stai facendo sentire come uno stupido scolaretto, Siferra." “Ti stai comportando come tale,» rispose lei. “I nostri rapporti sono sempre stati puramente professionali, Balik. Cerchiamo di fare in modo che non cambino, va bene?» Balik stava per rispondere, ma poi cambiò idea e tacque. Si fissarono per un po', entrambi a disagio. Siferra sentiva le tempie che le pulsavano. Tutto questo era inatteso e sgradevole... la notizia che gli altri membri dell'istituto stessero già prendendo posizione sulle scoperte di Thombo e il goffo tentativo di seduzione da parte di Balik. Seduzione? Insomma, di instaurare una specie di rapporto romantico con lei. E come era rimasto male quando lei lo aveva respinto! Si chiese se l'avesse mai in qualche modo incoraggiato, se gli avesse mai dato a intendere di provare qualcosa per lui. No. No. Non poteva credere di averlo fatto.
Non aveva voglia né di andare in una località turistica del nord né di sorseggiare vino in ristoranti fiocamente illuminati insieme a Balik o a chiunque altro. Aveva il suo lavoro da fare, questo le bastava. Per quasi vent'anni, fin da quando era adolescente, gli uomini l'avevano corteggiata, le avevano detto che era bellissima, che era splendida, che era affascinante. Ma lo facevano per complimento, o almeno così pensava. Meglio che la ritenessero bella e affascinante piuttosto che brutta e noiosa. Ma gli uomini non la interessavano, non l'avevano mai interessata, e non voleva che la interessassero. Era proprio spiacevole che Balik avesse creato questa situazione imbarazzante fra loro, proprio ora che dovevano passare tanto tempo insieme a sistemare il materiale rinvenuto a Beklimot... loro due, costretti a lavorare fianco a fianco. sentì bussare nuovamente alla porta. Si sentì immensamente grata per quell'interruzione. "Chi è?" "Mudrin 505," rispose una voce tremolante. "Entri pure." "Me ne vado," disse Balik. "No. E’ qui per vedere le tavolette. Sono tue quanto mie, vero?” “Siferra, mi spiace di..." "Lascia perdere. Lascia perdere!» Mudrin entrò, malfermo sulle gambe. Era un uomo gracile e dall'aspetto avvizzito, ormai vicino agli ottant'anni, ben oltre l'età della pensione, ma ancora membro della facoltà. Non insegnava più, però aveva il permesso di continuare i suoi studi paleografici. I suoi teneri occhi grigio-verdi, lacrimosi per una vita passata a studiare antichi manoscritti stinti, spuntavano dietro due spesse lenti. Ma Siferra sapeva che il loro aspetto era ingannevole: erano gli occhi più attenti che avesse mai conosciuto, almeno per quel che riguardava le antiche iscrizioni. "Sarebbero queste le famose tavolette, allora," disse Mudrin. "Lo sa, non sono riuscito a pensare ad altro, da quando me ne ha parlato." Ma non si precipitò a esaminarle. "Può darmi qualche informazione sul contesto del ritrovamento, sulla loro provenienza?» "Ecco la foto originale scattata da Balik,» disse Siferra, porgendogli un ingrandimento su carta lucida. "La collina di Thombo, l'antico immondezzaio a sud di Beklimot. Questo è ciò che la tempesta di sabbia ha portato alla luce. Abbiamo subito cominciato a scavare da questa parte, e poi da quest'altra, e abbiamo messo a nudo tutto l'interno. Vede questa linea scura?" "Carbone?" chiese Mudrin. "Proprio così. Una linea di fuoco, l'intera città bruciata. Ora se scendiamo più in basso vediamo un secondo gruppo di fondamenta e un'altra linea di fuoco. E se guarda qui... e qui..." Mudrin osservò attentamente la fotografia per un po'. "Ma cosa avete scoperto? Otto insediamenti uno sopra l'altro?" "Sette," disse d'impulso Balik. “Nove, credo," ribatté Siferra in tono caustico. "Ma ritengo che sia difficile stabilirlo, soprattutto alla base della collina. Occorreranno analisi chimiche e verifiche radiografiche per saper come stanno le cose con precisione. E comunque chiaro che in questo posto ci sono stati diversi incendi, e gli abitanti di Thombo hanno costruito e ricostruito le loro città sempre nello stesso luogo.” “Ma allora questo sito deve essere incredibilmente antico, se le cose stanno così!" disse Mudrin. “La mia ipotesi è che il periodo di occupazione del sito copra un arco di almeno cinquemila anni. Forse molto di più. Forse dieci o quindicimila anni.
Non lo sapremo finché non avremo completamente portato alla luce il livello più basso, e per far questo bisognerà aspettare la prossima spedizione. O quella ancora successiva.» “Cinquemila anni, lei dice? E’ possibile?» “Per costruire, ricostruire, e costruire nuovamente? Cinquemila anni come minimo.» aMa nessuno scavo mai fatto al mondo ha portato alla luce stanziamenti così antichi,» disse Mudrin, sbigottito. “La stessa Beklimot non ha neanche duemila anni, non è così? E la consideriamo il più antico insediamento umano su Kalgash." "Il più antico insediamento umano conosciuto," asserì Siferra. “Ma cosa ci vieta di pensare che ce ne siano di più antichi? Di molto più antichi? Mudrin, questa foto risponde alla sua domanda. Ecco un insediamento che deve essere più antico di Beklimot; abbiamo trovato dei manufatti dello stile tipico di Beklimot nel livello più alto, e tra il primo e l'ultimo livello è indubbiamente trascorso moltissimo tempo. Beklimot deve essere un insediamento molto recente nella storia dell'umanità. L'insediamento di Thombo, che era già antico prima dell'esistenza di Beklimot, deve essere stato bruciato e poi ricostruito molte volte, per un periodo di centinaia e centinaia di generazioni." “Un posto alquanto sfortunato, allora," osservò Mudrin. “Forse gli dei non l'amavano particolarmente." “E alla fine gli abitanti devono essersene resi conto," aggiunse Balik. Siferra annuì. “Sì. Infine devono aver concluso che si trattava di un luogo maledetto. Così, invece di ricostruire nella stessa area, dopo l'ennesimo incendio si sono trasferiti poco lontano, e hanno fondato Beklimot. Ma prima devono aver occupato Thombo per moltissimo tempo. Siamo stati in grado di riconoscere gli stili architettonici dei due insediamenti superiori... vedi, qui abbiamo un ciclopico medio-Beklimot, e qui un proto-Beklimot a trama incrociata. Ma la terza città, o meglio ciò che ne è rimasto, non assomiglia a nulla di conosciuto. La quarta è ancora più strana e molto rozza. Ma se la paragoniamo con la quinta sembra perfino rafflnata. E più sotto c'è un tale guazzabuglio primitivo che ci impedisce di distinguere una città dall'altra. Ognuna però è separata dalla precedente da una linea di fuoco, o almeno così crediamo. E le tavolette..." "Sì, le tavolette?" chiese Mudrin, tremando per l'emozione. "Abbiamo trovato questa serie, quelle quadrate, nel terzo livello. Quelle rettangolari provengono dal quinto. Non sono riuscita a trarne un senso, ovviamente, ma io non sono una paleografa." "Sarebbe meraviglioso," iniziò a dire Balik, se queste tavolette contenessero un resoconto della distruzione e della ricostruzione delle città di Thombo e..." Siferra gli lanciò uno sguardo avvelenato. “Sarebbe meraviglioso, Balik, se la smettessi con queste stupide fantasie infantili." "Scusami, Siferra," disse freddamente Balik. “Ti dà fastidio se respiro?" Mudrin non fece caso al loro battibecco. Era seduto alla scrivania di Siferra. Rimase a testa china sulle tavolette quadrate per un po', poi studiò quelle rettangolari. Infine il paleografo esclamò: “Stupefacenti! davvero stupefacenti!" "Riesce a leggerle?" chiese Siferra. Il vecchio sogghignò: “Leggerle? ovviamente no. Sarebbe un miracolo. Ma riesco a distinguere dei gruppi verbali." "Sì, li avevo notati anch'io," disse Siferra. "E si possono perfino riconoscere delle lettere. Non sulle tavolette più antiche; la loro è una scrittura del tutto sconosciuta, molto simile a quella sillabica, ci sono troppi caratteri diversi perché sia alfabetica. Ma sulle tavolette quadrate sembra esserci una forma primitiva della scrittura usata a Beklimot. Guarda, questo è un quhas, sarei pronto a scommetterci, e questa sembra proprio una forma distorta della lettera tifjak... è un tifjak, non ti pare? Devo assolutamente studiarle con attenzione, Siferra.
Con la mia attrezzatura, le mie luci, le mie telecamere e i miei analizzatori. Posso portarle via?" "Portarle via?" esclamò Siferra, come se le avessero chiesto di poter prendere a prestito le dita della sua mano. "Solo così posso cercare di decifrarle." "Crede di poterci riuscire?" chiese Balik. "Non posso promettere niente. Ma se questo carattere è un tifjak e quest'altro è un quhas, allora potrei riuscire a trovare altre lettere più antiche di quelle dell'alfabeto di Beklimot, e fornirvi almeno una traslitterazione. Se poi riusciremo a capire la lingua, questo è difficile dirlo. E dubito che riuscirò a raggiungere buoni risultati con le tavolette rettangolari, a meno che non ne abbiate scoperta una bilingue che mi permetta di affrontare questa scrittura ancora più antica. Ma mi lasci tentare comunque, Siferra. Mi lasci provare." “Va bene. Ecco." Con amorevole cura Siferra radunò le tavolette e le rimise nel contenitore che le era servito per trasportarle da Sagikan al suo ufficio. Le dispiaceva separarsene, ma Mudrin aveva ragione. Dare loro soltanto un rapido sguardo non sarebbe servito a nulla; doveva sottoporle a un'analisi di laboratorio. Guardò afflitta il paleografo che usciva vacillando dalla stanza, con il prezioso pacco stretto contro il torace incavato. In quel momento lei e Balik erano rimasti nuovamente soli. “Siferra, a proposito delle confidenze di prima..." “Ti ho detto di lasciare perdere. Io l'ho già fatto. Ti spiace se torno al mio lavoro, Balik?" 13 "Allora, come l'ha presa?" chiese Theremon. “Meglio di quanto ti aspettavi, immagino." "E stato davvero straordinario," rispose Beenay. Erano seduti sulla terrazza del Club dei sei Soli. Per il momento aveva smesso di piovere, e la serata era splendida e diafana, come sempre avviene dopo un lungo periodo di pioggia. Tano e Sitha, a occidente, emanavano la loro luce bianca e quasi spettrale con un'intensità maggiore del solito, e il rosso Dovim, dalla parte opposta del cielo cupo, splendeva come una piccola gemma. “Non mi è sembrato particolarmente turbato, tranne quando ho accennato la mia intenzione a non rivelare la scoperta per paura di ferirlo. Allora è andato su tutte le furie. Mi ha dato una lavata di capo! Ma me la meritavo. La cosa più buffa, però... Cameriere! Cameriere! Mi porti un Tano Special, per favore. E uno anche al mio amico. Doppi!" "Stai diventando veramente un gran bevitore, mi pare," osservò Theremon. Beenay si strinse nelle spalle. “Solo quando sono qui. Questo terrazzo ha qualcosa di strano: il panorama della città, l'atmosfera che si respira...» "Si inizia sempre così. A poco a poco comincia a piacerti, in seguito cominci a fare delle gradevoli associazioni fra un posto particolare e il bere, e dopo un po' provi a farti un paio di bicchieri da un'altra parte, poi te ne fai tre o quattro da un'altra ancora." «Theremon! Parli come un Apostolo della fiamma! Credono che anche bere sia un male. no?" "Credono che tutto sia un male. Bere certamente lo è. E’ questo che lo rende così bello, non è vero, amico mio?" Theremon scoppiò a ridere. “Mi stavi raccontando di Athor." Sì.
Della cosa buffa che è successa. Ti ricordi quell'idea insensata che ti è venuta su un fattore sconosciuto che poteva spingere Kalgash fuori dall'orbita prevista?" "Sì, il gigante invisibile. Il drago che soffia e sbuffa in cielo." "Bene, Athor ha detto esattamente la stessa cosa!" “Crede che ci sia un drago in cielo?" Beenay rise fragorosamente. "Non essere sciocco. Ha parlato però di un fattore sconosciuto. Un sole oscuro, forse, o un altro mondo impossibile a vedersi data la sua posizione, ma che esercita ugualmente una forza di gravità su Kalgash." "Non è un'idea un po' troppo fantastica?" chiese Theremon. "Certamente lo è. Ma Athor mi ha ricordato la vecchia storiella della Spada di Thargola. E ciò che noi usiamo, metaforicamente, per eliminare gli assunti più complessi quando cerchiamo di decidere fra due diverse ipotesi. E’ più semplice mettersi a cercare un sole oscuro, che creare ex novo un'altra Teoria della gravitazione universale. E inoltre..." "Un sole oscuro? Ma non è una contraddizione? Un sole è una fonte di luce: se è oscuro, come può essere un sole?" disse Theremon in tono sorpreso. “Si tratta solo di una delle possibilità che Athor ha avanzato. Non è necessariamente quella giusta. In questi ultimi giorni abbiamo iniziato ad analizzare tutti i tipi di nozioni astronomiche, con la speranza che una di esse sia in grado di darci una spiegazione per... Guarda, c'è Sheerin!" Beenay salutò con la mano lo psicologo grassoccio, che era appena entrato nel locale. "Sheerin! Sheerin! Vieni qui a bere qualcosa con noi!" Sheerin attraversò con cautela l'angusto ingresso. "Ti sei dato a nuovi vizi, Beenay?" "Non proprio. Ma Theremon mi ha iniziato al Tano Special, e temo proprio mi piaccia molto. Conosci Theremon, vero? Scrive per il Chronicle." “Non credo che ci abbiano mai presentati," disse Sheerin, porgendogli la mano. “Ma ho sentito parlare molto di lei. Sono lo zio di Raissta 717." “Il professore di psicologia," disse Theremon. E’ stato all'Esposizione di Jonglor, vero?" Sheerin lo guardò con aria sorpresa. "Siete sempre al corrente di tutto, voi giornalisti!" "Io ci provo." Arrivò il cameriere. “Cosa possiamo offrirle? Un Tano Special?" "Troppo forte per me," rispose Sheerin. “E un po' troppo dolce. Avete del Neltigir, per caso?" "Il brandy di Jonglor? Non ne sono sicuro. Come lo vuole, se rieSco a trovarne?" "Liscio," disse Sheerin. “Grazie." Poi, rivolto a Theremon e a Beenay aggiunse: “Ho cominciato ad apprezzarlo quando ero al nord. Il cibo è terribile a Jonglor, ma almeno riescono a distillare un buon brandy." "Ho sentito che hanno avuto un sacco di problemi all'esposizione, asserì Theremon. “Qualcosa che aveva a che fare con il parco dei divertimenti: un giro nel Buio che faceva impazzire la gente, che mandava il loro cervello letteralmente in frantumi." "Sì, la galleria del mistero. Sono andato a Jonglor proprio per questo: in qualità di esperto convocato dal Consiglio municipale e dai suoi avvocati, per esprimere un'opinione sul problema.» Theremon si protese in avanti. “E’ vero che della gente è morta per lo spavento in quella galleria, e che hanno continuato a tenerla aperta?" "E’ quello che mi chiedono tutti," rispose Sheerin. "C'è stato qualche decesso, ma questo non ha influito sul successo della galleria del mistero. Anzi, un sacco di gente voleva correre il rischio. E molti ne sono usciti decisamente sconvolti. Ho fatto un giro anch'io nella galleria,» disse, rabbrividendo. "Adesso l'hanno chiusa. Ho detto loro che se non avessero chiuso, avrebbero dovuto sborsare milioni di crediti per il risarcimento dei danni e che era assurdo aspettarsi che quel livello di Buio fosse tollerabile. E alla fine hanno seguito il mio ragionamento. " "Ho trovato del Neltigir, signore,» lo interruppe il cameriere, posando sul tavolo davanti a Sheerin un bicchiere pieno di scuro liquido ambrato. “Ne
abbiamo solo una bottiglia, quindi ci vada piano.” Lo psicologo annuì e sollevò il bicchiere, buttandone giù metà prima che il cameriere avesse lasciato il tavolo. "Signore, le stavo appunto dicendo..." Sheerin gli sorrise. “Ho sentito. Dopo il primo bicchiere, ci andrò più piano." Si rivolse a Beenay. “Liliath mi ha detto che c è stato un po' di scompiglio all'osservatorio mentre ero a Jonglor. Ma non era esattamente al corrente di quello che stava succedendo. Mi sembra che abbia parlato di una nuova teoria." Sorridendo, Beenay disse: "Io e Theremon ne stavamo appunto parlando. No, non si tratta di una nuova teoria, ma di una revisione di quella ufficiale. Stavo eseguendo dei calcoli sull'orbita di Kalgash quando..." Sheerin ascoltò il racconto con grande stupore. “La Teoria della gravitazione universale è sbagliata?» esclamò, mentre Beenay era a metà della sua narrazione. “Mio Dio! Insomma, se poso il bicchiere sul tavolo, potrebbe cominciare a svolazzare? Sarà meglio che finisca in fretta il mio Neltigir, allora!" E così fece. Beenay rise. “La teoria è ancora valida. Quel che stiamo cercando di fare, o meglio, quel che Athor sta cercando di fare, visto che è lui alla direzione dei lavori, è trovare una spiegazione matematica alle discrepanze sorte dai nostri calcoli." “Io la definirei manomissione di dati," aggiunse Theremon. “Non mi convince," disse Sheerin. “Non ti piace il risultato, quindi risistemi la scoperta, vero, Beenay? Alla fine tutto deve tornare in ordine, costi quel che costi." “Non esattamente." "Ammettilo! Ammettilo!" Sheerin scoppiò in una fragorosa risata. “Cameriere! Un altro Neltigir! E un altro Tano Special per il mio giovane amico, privo di qualsivoglia etica professionale! Theremon, posso offrire da bere anche a lei?” “Sì, grazie." Sheerin aggiunse con lo stesso tono pungente: "Che delusione, Beenay. Pensavo che solo noi psicologi facessimo coincidere per forza i fatti con le teorie, e chiamassimo il risultato 'scienza'. Sembrerebbe un comportamento più adatto agli Apostoli della fiamma!" "Sheerin! Smettila!" "Anche gli apostoli asseriscono di essere scienziati," intervenne Theremon. Beenay e Sheerin si volsero verso di lui. “La settimana scorsa, subito prima che cominciasse a piovere, ho intervistato uno dei loro pezzi grossi,» proseguì. “Speravo di riuscire a incontrare Mondior, ma mi hanno fatto parlare con un certo Folimun 66, il loro rappresentante. E’ molto scaltro, veramente brillante e di ottima presenza. Ha passato mezz'ora a spiegarmi che gli apostoli sono in possesso di fondate prove scientifiche che il prossimo anno, il 19 Theptar, i soli scompariranno, piomberemo tutti nel Buio e l'umanità impazzirà." "Il mondo intero trasformato in una grande galleria del mistero, insomma?" disse allegramente Sheerin. "Non ci saranno abbastanza manicomi per internare l'intera popolazione. E neppure abbastanza psichiatri per curarla. Ma d'altra parte, anche gli psichiatri impazziranno." "Non sono già matti?" chiese Beenay. "Ottima obiezione," rispose Sheerin. "La cosa peggiore non sarà la pazzia," riprese Theremon. "Secondo Folimun, il cielo si riempirà di cose chiamate Stelle che lanceranno fiamme su di noi e bruceranno ogni cosa. E così avremo un mondo pieno di pazzi deliranti, che vagano per città devastate dal fuoco. Grazie al cielo, è solo un incubo di Mondior." "E se non lo fosse?" disse Sheerin, improvvisamente sobrio. Il suo viso rotondo si fece cupo e pensieroso. “E se ci fosse qualcosa di vero in tutto questo?" "Che pensiero orribile," disse Beenay. “Mi farei un altro bicchierino. " "Ma se non hai ancora finito quello che hai davanti," fece presente Sheerin al giovane astronomo. "E allora? Posso sempre prenderne un altro. Cameriere! Cameriere!" 14
Athor 77 cominciava a sentire il peso della stanchezza. Il direttore dell'osservatorio aveva perso la nozione del tempo. Era stato davvero seduto alla scrivania per sedici ore di fila? E il giorno precedente aveva fatto lo stesso. E il giorno prima ancora. Questo, almeno, era quanto Nyilda asseriva. Le aveva appena parlato. Il viso di sua moglie sullo schermo gli era parso teso, rigido, evidentemente preoccupato. “Perché non torni a casa a riposarti un po', Athor? Ormai sei al lavoro da quasi ventiquattr'ore." «Sul serio?" «Non sei più giovane, lo sai." «Ma non sono neanche decrepito, Nyilda. E questo lavoro è vivificante. Dopo dieci anni passati a firmare bilanci e a leggere relazioni di altri studiosi, finalmente sono tornato a dedicarmi alla scienza. E mi piace." Nyilda aveva assunto un'espressione ancor più preoccupata. "Ma non è necessario che sia tu, alla tua età, a fare lavoro di ricerca. Hai già un'ottima reputazione, Athor!" "davvero?» "Il tuo nome resterà famoso nella storia dell'astronomia per sempre." "O sarà coperto d'infamia," disse lui in tono sinistro. "Athor, non capisco proprio..." "Lasciami stare, Nyilda. Non cadrò riverso sulla scrivania, stai tranquilla. Mi sento ringiovanito, da quando sono chiuso qui dentro. E si tratta di lavoro che solo io posso fare. Forse ti sembrerò testardo, ma non ha importanza: è assolutamente necessario che io..." Nyilda sospirò. Certo, è ovvio. Ma non tirare troppo la corda, Athor. E’ tutto quello che ti chiedo." Athor si chiese se stava davvero esagerando. Ma sì, certo che stava esagerando. Ma non c'era altro modo. Non si poteva esitare davanti a problemi del genere. Bisognava buttarcisi dentro anima e corpo. Quando aveva elaborato la Teoria della gravitazione universale, aveva lavorato sedici, diciotto, venti ore al giorno per settimane, dormendo solo quando non ce la faceva più, schiacciando brevi pisolini e risvegliandosi già pronto per il lavoro e ansioso di ricominciare, con la mente che ancora ribolliva delle equazioni lasciate in sospeso poco prima. Ma allora aveva solo trentacinque anni, o poco più. Adesso si avvicinava ai settanta. Era inutile negare che il tempo lo aveva cambiato. La testa gli doleva, aveva la gola secca e il cuore gli batteva irregolarmente. Nonostante il tepore del suo ufficio, aveva le estremità delle dita gelate per la stanchezza. Le ginocchia gli tremavano. Ogni parte del suo corpo risentiva della tensione a cui era sottoposta. Ancora un po', promise a se stesso, e poi me ne andrò a casa. Ancora un po'. Ottavo postulato... «Signore?" "Che cosa c'è?" chiese. Ma il tono della sua voce doveva essersi trasformato in una specie di ruggito feroce perché, quando alzò gli occhi, vide il giovane Yimot sulla porta che si muoveva stranamente, contorcendosi, come se stesse danzando su carboni ardenti. Negli occhi del ragazzo poteva scorgere il terrore. Yimot, sembrava sempre intimidito dal direttore dell'osservatorio. In facoltà, tutti lo erano, non solo i giovani laureati; Athor sapeva di incutere soggezione, ma ormai c'era abituato.
Tuttavia, la reazione del ragazzo gli parve eccessiva. Yimot lo fissava con occhi pieni di paura e stupore. Yimot riuscì a fatica a trovare la forza per parlare e disse con voce rauca: “I calcoli che aveva chiesto, signore..." “Oh, sì. Sì. Me li dia." La mano di Athor tremava smisuratamente, mentre afferrava i tabulati che Yimot aveva portato. Entrambi rimasero a fissarla, atterriti. Le lunghe dita ossute erano bianche come la morte, e tremavano con una veemenza tale, che neanche Yimot, famoso per le sue crisi nervose, avrebbe mai potuto eguagliare. Athor cercò di fermare quel tremore ma non ci riuscì. Forse avrebbe avuto più successo se avesse cercato di far mutare orbita a Onos. Con un enorme sforzo riuscì ad afferrare i fogli che Yimot gli porgeva, e li sbatté sulla scrivania. Yimot gli chiese: "Le serve niente, signore?" “Vorrebbe forse portarmi delle medicine? Come osa..." “No, pensavo che desiderasse qualcosa da mangiare, o una bibita rinfrescante," disse Yimot con un sussurro appena percettibile. Si diresse lentamente verso la porta, come se si aspettasse che Athor iniziasse a ruggire e gli saltasse alla gola. "Ah, ah. Capisco. No, non mi serve niente, Yimot. Niente!" "Va bene, signore." Lo studente uscì. Athor chiuse gli occhi per un momento, respirò profondamente un paio di volte, cercò di calmarsi. Era ormai giunto al termine del suo compito, ne era certo. I dati che aveva chiesto a Yimot di elaborare erano quasi certamente la conferma definitiva che attendeva. Ma non sapeva se sarebbe riuscito a finire il lavoro, prima che questo finisse lui. Guardò i calcoli di Yimot. C'erano tre schermi sulla scrivania davanti a lui. Quello a sinistra riportava l'orbita di Kalgash, calcolata conformemente alla Teoria della gravitazione universale, e tracciata in un rosso sfavillante. Sullo schermo di destra era indicata, in un giallo vivacissimo, l'orbita corretta calcolata da Beenay con il nuovo computer dell'università e le osservazioni più recenti sulla posizione reale di Kalgash. Lo schermo centrale riportava entrambe le orbite tracciate una sopra l'altra. Negli ultimi cinque giorni, Athor aveva stabilito sette postulati diversi, per spiegare la differenza fra l'orbita teorica e quella reale, e poteva richiamare sullo schermo centrale ciascuno di questi postulati, semplicemente premendo un tasto. Il problema era che tutti e sette erano assurdi, e lo sapeva. In effetti, ognuno di essi possedeva un difetto sostanziale e decisivo, un presupposto che era stato introdotto non perché i calcoli lo giustificassero, ma solo perché la situazione richiedeva quel tipo di presupposto, al fine di ottenere un risultato corretto. Niente poteva essere provato, niente poteva essere confermato. Era come se in ognuno dei sette casi egli avesse semplicemente stabilito, ad un certo punto del percorso logico, che una fata madrina fosse comparsa a sistemare le interazioni gravitazionali, in modo da spiegare la deviazione. A dire il vero, era esattamente questo che Athor sapeva di dover trovare. Solo che doveva essere una fata madrina reale. Ottavo postulato, allora... Cominciò a digitare i calcoli di Yimot.
Diverse volte le sue dita tremanti lo tradirono, facendolo sbagliare; ma i suoi riflessi erano ancora sufficientemente buoni da avvertirlo non appena egli premeva un tasto sbagliato; ogni volta Athor tornava indietro e correggeva l'errore fatto. Per due volte, mentre lavorava, i suoi occhi si annebbiarono per l'intensità dello sforzo. Ma si impose di andare avanti. Sei l'unico al mondo che può farcela, si disse, mentre proseguiva. Quindi devi farcela. Tutto ciò gli sembrava sciocco, e follemente egocentrico, e forse un po' insensato. E probabilmente lo era. Ma era giunto a un livello di sfinimento tale, che non poteva permettersi di considerare altre premesse, se non quella di essere assolutamente indispensabile. Tutti i concetti fondamentali di quel progetto erano racchiusi nella sua mente, e solo in essa. Doveva andare avanti finché non avesse completato l'ultimo anello della catena. Finché... Ecco fatto. Gli ultimi dati di Yimot erano stati inseriti nel computer. Athor batté il tasto che riportava le due orbite simultaneamente sullo schermo centrale e poi quello che inseriva i nuovi dati. La luminosa ellisse rossa, che indicava l'originale orbita teorica, cominciò a tremolare e a spostarsi, poi all'improvviso scomparve. Allo stesso modo si comportò la linea gialla dell'orbita stabilita da Beenay. Ora restava una sola linea sullo schermo, di un vivo colore arancione: le simulazioni delle due orbite coincidevano fino all'ultimo decimale. Athor rimase senza fiato. Per un lungo istante fissò attentamente lo schermo, poi chiuse gli occhi e appoggiò la testa sull’orlo della scrivania. L'ellisse arancione brillava come un cerchio di fuoco sulle sue palpebre chiuse. Provò uno strano senso di esultanza mista a turbamento. Ora aveva la risposta che cercava; aveva un'ipotesi che avrebbe retto alle più attente verifiche, ne era certo. La Teoria della gravitazione universale era risultata valida, dopotutto: il celebre principio sul quale si fondava la sua fama non era da gettare via. Ma al tempo stesso, sapeva che il modello del sistema solare a lui tanto familiare era in realtà sbagliato. Il fattore sconosciuto che avevano cercato, il gigante invisibile, il drago nel cielo, esisteva realmente. Athor fu profondamente scosso da quel pensiero, nonostante fosse riuscito a salvare la sua celebre teoria. Aveva pensato per anni di aver compreso appieno il movimento armonioso degli astri, e ora capiva chiaramente che il suo sapere era incompleto, che al centro dell'universo conosciuto c era un'enorme mistero, che le cose non erano come le aveva sempre credute. Questo alla sua età era difficile da accettare. Dopo un po', Athor alzò lo sguardo. Sullo schermo non era mutato assolutamente nulla. Inserì alcune equazioni di verifica e non ci fu alcun cambiamento. Continuava a vedere una sola orbita, non due. Ottimo, si disse. Allora l'universo non è esattamente come tu credevi che fosse. Sarà meglio che tu riveda le tue convinzioni. L'universo certamente non riuscirai a risistemarlo.
“Yimot!" chiamò. “Faro! Beenay! Venite tutti!" Il piccolo e paffuto Faro fu il primo a comparire sulla porta, con alle spalle l'allampanato Yimot e poi, di seguito, tutti gli altri studenti dell'istituto di astronomia: Beenay, Thilanda, Klet, Simbron e alcuni altri. Si radunarono tutti vicino alla porta del suo ufficio. Dall'espressione stupita dei loro volti, Athor dedusse che il proprio aspetto doveva essere terribile, indubbiamente sconvolto e sparuto, con i capelli bianchi e scomposti, il viso pallido: nel complesso, sembrava un uomo sull'orlo di un collasso. Bisognava tranquillizzarli. Non era il caso di allarmarsi. Tranquillamente disse: "Sì, sono molto stanco, e me ne rendo conto. E probabilmente sembro un demone uscito dagli inferi. Ma ho qui qualcosa che, a quanto pare, funziona." "L'idea della lente gravitazionale?" chiese Beenay. "La lente gravitazionale è un concetto totalmente sballato,” disse Athor freddamente. "E lo stesso vale per il sole spento, per la curvatura spaziale, per la zona di massa negativa e le altre congetture fantastiche con cui ci siamo trastullati per tutta la settimana. Si tratta di idee molto interessanti, ma che non reggono a un esame più attento. Ce n'è una che però funziona." Vide i loro occhi spalancarsi. Tornando allo schermo, cominciò a introdurre nuovamente i dati dell'ottavo postulato. Come iniziò a lavorare, la sua stanchezza svanì: questa volta inserì i dati nel computer senza commettere errori, né sentì dolori di sorta. Nello stato in cui si trovava non sentiva più la fatica. "In questo postulato si presume," disse, “che esista un corpo planetario privo di luminosità simile a Kalgash, e che non orbiti però intorno a Onos, ma alla stessa Kalgash. La sua massa è considerevole, simile a quella del nostro mondo, ed esercita una tale forza gravitazionale da causare le perturbazioni dell'orbita di Kalgash rilevate da Beenay." Athor premette il tasto per richiamare la visualizzazione, e sullo schermo apparve il sistema solare in forma stilizzata: i sei soli, Kalgash e il presunto satellite di Kalgash. Si volse verso gli altri. Si guardavano fra loro, chiaramente a disagio. Nonostante avessero metà dei suoi anni, o perfino di meno, anche per loro doveva essere difficile accettare, sia intellettualmente che emotivamente, l'idea di un altro grosso corpo celeste nell'universo. Oppure, forse, stavano semplicemente pensando che era diventato arteriosclerotico e che i suoi calcoli dovevano essere sbagliati. "I dati a sostegno dell'ottavo postulato sono esatti," disse Athor. "Ve lo posso garantire. Ed ha retto a tutte le verifiche che ho fatto.” Lì guardò con aria di sfida, fissandoli uno dopo l'altro brutalmente, come a ricordare loro che avevano difronte Athor 77, l'uomo che aveva dato al mondo la Teoria della gravitazione univerSale, e che non aveva ancora perso le sue facoltà mentali. Beenay disse in tono blando: "E per quale motivo non possiamo vedere questo satellite, signore?" “Per due motivi," replicò Athor con calma. “Come la stessa Kalgash, questo corpo planetario risplende solo di luce riflessa. Se partiamo dal presupposto che la sua superficie è formata in gran parte da roccia bluastra - il che è alquanto plausibile, da un punto di vista geologico - allora la luce da essa riflessa si localizerebbe sullo spettro in modo tale che il fulgore eterno dei sei soli combinato con le modalità di diffusione della luce nella nostra atmosfera, ne impedirebbe la vista. In un cielo in cui splendono diversi soli in ogni momento, un satellite di questo tipO sarebbe completamente invisibile." Faro disse: “A patto però che l'orbita del satellite sia estremamente
ampia, non è vero?" “Esatto." Athor premette il tasto per richiamare la seconda visualizzazione. “Ecco una visione più ravvicinata. Come vedete, il nostro sconosciuto e invisibile satellite viaggia intorno a noi con un'ellisse molto ampia che lo porta a una notevole distanza da noi per molti anni. Non è così distante da impedirci di notare gli effetti orbitali della sua presenza nel cielo, ma è abbastanza lontano da non permetterci, in condizioni normali, una visione a occhio nudo della sua oscura massa rocciosa, e da darci una minima possibilità di scoprirlo con i telescopi. Dal momento che i nostri normali strumenti di osservazione non sono in grado di rilevare se tale satellite esista realmente, ritengo sia stato solo un caso del tutto fortuito che lo abbiamo identificato astronomicamente." “Ma ora possiamo cercarlo," disse Thilanda 191, che era specializzata in astrofotografia. “E ovviamente lo faremo," le rispose Athor. Vide che erano d'accordo con lui. Tutti. Li conosceva abbastanza bene per capire che non c'era nessuno che segretamente si beffava della sua ipotesi. “Anche se probabilmente la ricerca sarà più difficile di quanto sospettiate; in effetti sarà come cercare il proverbiale ago nel pagliaio. Ma vi garantisco che verranno immediatamente stanziati dei fonti per questa ricerca." “Una domanda, signore," disse Beenay. “Dica." “Se l'orbita è eccentrica come il suo postulato suppone, e quindi il nostro satellite, questa ... Kalgash Due, chiamiamola così per il momento, questa Kalgash Due è estremamente dístante da noi per alcuni periodi del suo ciclo orbitale, allora è logico supporre che per altri periodi del suo ciclo debba trovarsi in una posizione molto vicina a noi. Deve esserci una certa gamma di disuguaglianza anche nell'orbita più perfetta; quindi un satellite che percorra un'ampia orbita ellittica ne possiederà probabilmente un'ampissima gamma fra il punto più lontano e quello più vicino al corpo primario." “Sì, questo è logico," disse Athor. "Allora," proseguì Beenay, "se supponiamo che Kalgash Due sia stata talmente lontana da noi, durante l'intero periodo della moderna scienza astronomica, da impedirci di scoprire la sua esistenza, se non in modo indiretto - misurando cioè i suoi effetti sull'orbita del nostro mondo - non ritiene che essa stia probabilmente tornando verso di noi? Che si stia avvicinando al nostro pianeta?” "Non è detto," disse Yimot, agitando le mani. “Non abbiamo la minima idea della sua attuale posizione orbitale, né del tempo che impiega per compiere un giro completo intorno a Kalgash. Potrebbe trattarsi di un'orbita di diecimila anni. Probabilmente Kalgash Due starebbe ancora allontanandosi da noi, dopo un avvicinamento in epoca preistorica che nessuno ricorda." "E’ vero," ammise Beenay. “Non possiamo affermare con sicurezza se al momento si stia avvicinando o allontanando. Non ancora, comunque." "Ma possiamo cercare di scoprirlo," disse Faro. “Thilanda ha avuto una buona idea. Anche se abbiamo già verificato i calcoli, dobbiamo scoprire dove si trova in questo momento Kalgash Due. Solo successivamente potremo cominciare a calcolare la sua orbita.” "Dovremmo essere già in grado di calcolarla dalle perturbazioni che genera nella nostra orbita," disse Klet, che era il miglior matematico dell'istituto. "Sì," intervenne Simbron, una cosmografa, "e allo stesso modo possiamo anche stabilire se si sta avvicinando o allontanando da Kalgash. Per gli dei! E se si dirigesse verso di noi? Sarebbe un avvenimento incredibile! Un corpo planetario oscuro che sfreccia nel cielo, che passa fra noi e i soli! Che forse nasconde perfino la luce di uno di essi per qualche ora!" 'Come sarebbe strano!" rifletté Beenay. "Un'eclissi, si potrebbe chiamare.
Sapete di cosa si tratta... quell'effetto visivo che si verifica quando un oggetto viene posto fra un osservatore e la cosa che sta osservando. Ma come potrebbe accadere? I soli sono così grandi.. come riuscirebbe Kalgash Due a nascondere uno di essi alla nostra vista?" "Se passasse abbastanza vicino a noi, potrebbe accadere," disse Faro. "Posso immaginare una situazione in cui..." Bene, studiate tutte le possibilità," si intromise bruscamente Athor, Interrompendo Faro con tanta brutalità che tutti nella stanza si volsero a guardarlo. “Riflettete attentamente tutti su quest'idea. Verificate ogni ipotesi che vi viene in mente e poi vedete cosa ne esce." All'improvviso non riusciva più a starsene lì seduto. Doveva andarsene. L'esultanza che aveva provato quando anche l'ultimo dubbio era stato chiarito, lo aveva di colpo abbandonato. sentì una stanchezza mortale addosso, come se avesse avuto mille anni. Brividi di gelo gli correvano lungo le braccia fino alle dita. I muscoli della schiena si contraevano furiosamente. Ora sapeva che si era spinto al di là delle sue forze. Era giunto il momento di cedere il passo alle persone più giovani, afflnché lo sollevassero dal peso di quell'impresa. Alzandosi dalla sedia, davanti agli schermi, Athor fece un passo incerto e traballante verso il centro della stanza, imponendosi di non inciampare, e passò lentamente e con tutta la sua dignità davanti al personale dell'osservatorio. “Vado a casa," disse. “Ho bisogno di dormire un po’.” 15 " Beenay disse: "Ho capito bene, Siferra? Il villaggio è stato distrutto dal fuoco per nove volte di seguito? E ogni volta l'hanno ricostruito?" "Balik, il mio collega, pensa che ci siano solo sette villaggi sotto la collina di Thombo," rispose l'archeologa. “E probabilmente ha ragione. La situazione è abbastanza confusa ai livelli più bassi. Ma sette o nove villaggi che siano, non ha importanza, il concetto fondamentale non cambia. Dai un'occhiata a queste mappe. Le ho tracciate sulla base delle mie note sul campo. Ovviamente abbiamo fatto solo degli scavi preliminari, un rapido taglio attraverso l'intera collina, mentre il lavoro più scrupoloso sarà lasciato a una spedizione futura. Abbiamo scoperto la collína troppo tardi per agire altrimenti. Ma queste mappe ti daranno un'idea. Non ti sto annoiando, vero? Questa roba ti interessa sul serio, Beenay?" "Mi sembra una storia davvero affascinante. Credi forse che sia talmente impegnato con l'astronomia da non prestare alcuna attenzione alle altre discipline? Per di più, l'archeologia e l'astronomia a volte hanno molte cose in comune. Abbiamo appreso moltissimo sui movimenti dei soli, studiando gli antichi monumenti astronomici che voi avete riportato alla luce in ogni parte del mondo. Ecco, fammi vedere." Si trovavano nell'ufficio di Siferra, che aveva chiesto a Beenay di passare da lei per discutere di un problema inaspettatamente sorto nel corso della sua ricerca. Beenay aveva trovato l'invito imbarazzante, perché non riusciva a capire come un astronomo potesse aiutare un'archeologa nel suo lavoro, nonostante quanto avesse appena detto sulla relazione fra archeologia e astronomia. Era comunque sempre felice di andare a trovare Siferra. Si erano conosciuti cinque anni prima, quando avevano lavorato insieme in un comitato di facoltà interdisciplinare che stava progettando l'espansione della biblioteca universitaria. Anche se da allora Siferra era stata quasi sempre all'estero, impegnata in scavi archeologici, quando lei era a Saro, faceva piacere a entrambi incontrarsi per pranzo, di tanto in tanto.
Beenay la trovava intrigante, molto intelligente e con una causticità tutta sua. Nel complesso, decisamente piacevole. Non aveva idea di cosa Siferra trovasse in lui: forse lo considerava soltanto un giovane intellettualmente sveglio, estraneo alle velenose rivalità e ai contrasti tipici dell'ambiente di lei, e non palesemente interessato al suo corpo. Siferra aprì le mappe, grandi fogli di carta quasi trasparente, simile a pergamena, sulle quali erano tracciati a matita sottili diagrammi, e si chinò a esaminarli da vicino insieme a Beenay. Beenay aveva detto la verità quando aveva dichiarato di essere affascinato dall'archeologia. Fin da ragazzo, leggeva con passione le avventure dei grandi esploratori dell'antichità, quali Marpin, Shelbik e ovviamente Galdo 221. Tutto ciò che apparteneva al passato lo affascinava, quanto gli angoli più lontani dello spazio interstellare. La sua attuale compagna, Raissta, non era molto felice della sua amicizia con Siferra. Aveva stizzosamente insinuato un paio di volte che era più attratto da Siferra che dall'archeologia. Beenay riteneva che la gelosia di Raissta fosse del tutto immotivata. Siferra era indubbiamente una donna attraente - non sarebbe stato sincero se avesse affermato il contrario - ma era i credibilmente priva di romanticismo, e ogni persona all'università lo sapeva. Inoltre, aveva una decina d'anni più di Beenay. Sebbene fosse bella, Beenay non aveva mai pensato a lei da un punto di vista sessuale. “Per prima cosa, qui abbiamo una sezione trasversale dell’intera collina," gli disse Siferra. "Ho tracciato ogni diverso livello di insediamento in modo schematico. Quello più recente è in alto, ovviamente: grandi mura di pietra, quello che chiamiamo lo stile architettonico ciclopico, tipico della cultura di Beklimot nel periodo in cui raggiunse l'apice della maturità. Questa linea a livello delle mura ciclopiche rappresenta uno strato di resti carbonizzati... tanto vasto da indicare che un enorme incendio deve avere distrutto la città. E qui, sotto il livello ciclopico e la linea del fuoco, c'è l'insediamento immediatamente precedente." "Che ha uno stile diverso." "Esatto. Vedi come ho disegnato le pietre delle mura? Si tratta dello stile che chiamiamo a trama incrociata, caratteristico della più antica cultura di Beklimot, o forse della cultura precedente a essa. Entrambi questi stili si possono ritrovare nelle rovine che circondano la collina di Thombo, le quali risalgono a un'era in cui Beklimot già esisteva. La maggior parte delle rovine e ciclopica e ogni tanto si incontra qualche elemento a trama incrociata, non più di un paio di reperti che abbiamo definito proto-Beklimot. Ora osserva attentamente questo punto, al limite fra l’insediamento a trama incrociata e le rovine ciclopiche sopra di esso." "Un'altra linea di fuoco?" chiese Beenay. "Esatto, un'altra linea di fuoco. Questa collina è come una specie di sandwich, un insediamento umano, uno strato di carbone, un altro insediamento umano, un altro strato di carbone. Credo che sia accaduta una cosa di questo genere: nel periodo che definiamo 'a trama incrociata', ci fu un disastroso incendio che si espanse per buona parte della penisola di Sagikan, provocando l'abbandono del villaggio di Thombo e di altri villaggi dello stesso stile architettonico che si trovavano nelle vicinanze. In seguito, quando gli abitanti tornarono e ripresero a costruire, adottarono uno stile architettonico completamente nuovo e più complesso del precedente, che noi definiamo 'ciclopico' a causa dei suoi grossi elementi in pietra. Quindi ci fu un altro incendio e anche l'insediamento ciclopico fu spazzato via. A quel punto, la popolazione della zona smise di costruire città sulla collina di thombo e scelse di ricostruire in una località vicina, quella che definiamo 'Beklimot Maggiore'.
Abbiamo ritenuto per molto tempo che Beklimot Maggiore fosse il primo vero insediamento urbano al disopra degli insediamenti minori a trama incrociata del periodo proto-Beklimot sparsi tutt'intorno nella zona. Ma i rinvenimenti di Thombo ci rivelano l'esistenza di almeno un'altra importante città ciclopica in quell'area, costruita ancora prima che sorgesse Beklimot Maggiore." "E nell'area di Beklimot Maggiore," chiese Beenay, non ci sono tracce d'incendi?" No. Quindi non esisteva ancora, quando la città in cima alla collina di Thombo venne distrutta dalle fiamme. In seguito la cultura di Beklimot crollò, e anche Beklimot Maggiore fu abbandonata, ma il fatto fu dovuto ad altre cause, che avevano a che vedere con mutamenti climatici. Il fuoco non c'entrava niente. Questo è accaduto all'incirca mille anni fa. Ma l'incendio che ha distrutto il villaggio superiore di Thombo si è probabilmente verificato molto tempo prima. Un migliaio di anni prima, credo. Il test al radiocarbonio che stanno eseguendo in laboratorio su alcuni campioni ci darà indicazioni più precise." «E l'insediamento a trama incrociata a quanto tempo fa risale?" "L'opinione comune fra gli archeologi è che le strutture frammentarie a trama incrociata, cioè quelle che abbiamo trovato in diversi luoghi della penisola di Sagikan, risalgano soltanto a un paio di generazioni prima dell'insediamento a Beklimot Maggiore. Dopo gli scavi di Thombo, io sono di un'opinione diversa. La mia ipotesi è che l'insediamento a trama incrociata presente in quella collina sia duemila anni più antico degli edifici ciclopici sopra di esso." "Duemila? E ci sarebbero anche altri insediamenti sotto quello a trama incrociata?" "Guarda la mappa," rispose Siferra. "Ecco il numero tre, un tipo di architettura mai visto prima, che non assomiglia affatto a quello a trama incrociata. Poi un'altra linea di fuoco. Insediamento numero quattro. E una linea di fuoco. Numero cinque. Una linea di fuoco. Poi numero sei, sette, otto e nove... o, se Balik ha ragione, solo sei e sette." "E tutti sono stati distrutti da un grande incendio! Mi sembra una cosa eccezionale. Una distruzione micidiale che colpisce ripetutamente lo stesso luogo." "La cosa più incredibile," aggiunse Siferra in tono stranamente cupo, "è che, a quanto sembra, ognuno di questi insediamenti si è sviluppato per lo stesso periodo di tempo, prima di essere distrutto dal fuoco. Lo spessore di ogni strato è straordinariamente simile. Stiamo ancora aspettando i risultati delle analisi di laboratorio, ma non credo che la mia prima valutazione sia sbagliata di molto. E i dati ricavati da Balik coincidono con i miei. Se non stiamo prendendo un enorme abbaglio, la collina di Thombo custodisce almeno quattordicimila anni di preistoria. E durante questo periodo essa fu ciclicamente sconvolta da enormi incendi, che provocarono infine il suo abbandono con una regolarità perfetta: un incendio ogni duemila anni, per l'esattezza!" “Come?” Un brivido corse lungo la schiena di Beenay. La sua mente iniziò a trarre le più improbabili e allarmanti conclusioni. "Aspetta," esclamò Siferra. "Non finisce qui.” Aprì un cassetto e tirò fuori una pila di fotografie. "Sono foto delle tavolette di Thombo. Mudrin 505, il paleografo, lo conosci, ha gli originali. Sta cercando di decifrarli. Sono di argilla cotta. Queste, le abbiamo trovate al terzo livello, le altre al quinto.
Presentano tutte una scrittura estremamente primitiva; su quelle più vecchie, in particolare, è talmente antica che Mudrin non sa proprio come venirne a capo. Ma ritiene di avere già individuato una ventina di parole dalle tavolette del terzo livello, che sono scritte in una forma arcaica dell'alfabeto di Beklimot. Per quel che può dire fin ora, si tratta di un resoconto della distruzione di una città in seguito a un incendio, a opera di alcuni dei incolleriti che ritengono necessario punire periodicamente la cattiveria dell'umanità." Periodicamente?” Proprio così. Non ti ricorda niente?" "Gli Apostoli della fiamma! Mio Dio, Siferra, in che cosa ti sei imbattuta?” E’ quel che mi chiedo anch'io da quando Mudrin mi ha portato il primo abbozzo della sua traduzione." L'archeologa si voltò verso di Beenay, e per la prima volta egli si accorse di quanto fossero affaticati i suoi occhi, di quanto fosse teso e contratto il suo viso. Sembrava quasi impazzita. "Capisci ora perché ti ho chiesto di venire qui? Non posso parlarne con nessuno, nel mio istituto. Beenay, che cosa devo fare? Se queste mie scoperte diventano pubbliche, Mondior 71 e la sua banda di pazzi grideranno ai quattro venti di aver avuto conferma scientifica delle loro deliranti teorie!" “Credi?” “Che altro devo pensare?" Siferra indicò le mappe con la mano. “Ecco le prove che ogni 2000 anni si verifica un terribile disastro, e questo si ripete da molte migliaia d'anni. E le tavolette... quel che ne sappiamo fin ora, potrebbero essere davvero una versione primitiva del Libro delle rivelazioni. Il tutto fornisce, se non una vera e propria conferma delle affermazioni degli apostoli, quanto meno un solido Sostegno razionale alla loro mitologia." "Ma una serie di incendi ciclici in un singolo luogo non implicano una distruzione su scala mondiale, " obiettò Beenay. “E’ la periodicità che mi preoccupa,” disse Siferra. “E’ palesemente troppo simile a quella prevista da Mondior. Ho dato un'occhiata al Libro delle rivelazioni. La penisola di Sagikan è un luogo sacro per gli apostoli, lo sapevi? E lì che gli dei si sono manifestati per la prima volta all’uomo, a quanto affermano gli apostoli. E’ dunque logico... non è paradossale usare questa parola: logico," disse, ridendo con amarezza, "che gli dei abbiano preservato Sagikan per ricordare all'umanità la sorte che l'attende e che sempre l'attenderà se persevera a vivere empiamente." Beenay la guardava sbigottito. In realtà, non ne sapeva molto sugli apostoli e la loro dottrina. Queste fantasticherie patologiche non lo avevano mai interessato. Era troppo impegnato con il suo lavoro scientifico per prestare attenzione alle insignificanti profezie apocalittiche di Mondior. Ma ora il ricordo della conversazione avuta qualche settimana prima con Theremon 762 al Club dei Sei Soli, esplose con enorme furia nella sua mente. Non è la prima volta che il mondo viene distrutto... Gli dei hanno deliberatamente creato l’umanità imperfetta e ci hanno concesso un solo anno - uno dei loro anni, non dei nostri - per redimerci. Un Anno Divino, lo chiamano, e, dura esattamente 2049 anni. No. No. No. Idiozie! Deliri! Assurdità isteriche! Ma c'era dell'altro. Tutte le volte che l Anno Divino e terminato, gli dei si sono accorti che eravamo ancora malvagi e peccatori, e così hanno distrutto íl mondo, colpendoci con Fiamme celesti. Almeno, questo è quanto affermano gli apostoli. No! No! " "Beenay?" chiese Siferra "Ti senti bene? «Stavo riflettendo," le rispose. "Per il Buio, è vero! Daresti agli apostoli la conferma delle loro teorie!” "Non necessariamente. Le persone sensate, comunque, respingerebbero le idee di Mondior. La distruzione di Thombo in seguito a un incendio, perfino la sua ciclica distruzione a intervalli regolari di circa duemila anni, non provano comunque che il mondo intero sia stato distrutto dal fuoco.
O che debba inevitabilmente ripetersi un grande incendio di quel genere. Perché mai fatti del passato dovrebbero necessariamente ripetersi in futuro? Ma le persone sensate sono una minoranza. La massa della popolazione sarà influenzata dall'uso che Mondior farà delle mie scoperte, e si farà cogliere immediatamente dal panico. Lo sai, vero, che secondo gli apostoli, il fuoco che distruggerà il mondo si abbatterà su di noi il prossimo anno?" "Sì," rispose Beenay con voce fioca. "Theremon mi ha detto che hanno previsto perfino il giorno esatto. Loro parlano di un ciclo di 2049 anni, per l'esattezza, e ora ci troviamo nel duemilaquarantottesimo anno; fra undici o dodici mesi, a detta di Mondior, il cielo Si oscurerà e il fuoco scenderà su di noi. Mi sembra che dovrebbe accadere il 19 Theptar." "Theremon? Il giornalista?» "Sì. E’ un mio amico. Si interessa a quello che gli apostoli vanno dicendo, e ha intervistato uno dei loro alti sacerdoti. Theremon mi ha detto...» La mano di Siferra si protese verso di lui e gli afferrò il braccio. Le sue dita lo strinsero con forza incredibile. "Devi promettermi che non gli dirai una parola di quanto ti o rivelato, Beenay!» "A Theremon? Certo che no! Non hai ancora pubblicato le tue scoperte. Non sarebbe onesto che lo raccontassi in giro! Comunque Si tratta di una persona molto affidabile.» La sua mano allentò la presa, ma solo di poco. A volte, fra amici, si parla in modo confidenziale, ma vedi Beenay, non si può parlare liberamente con qualcuno come Theremon. Se trova un buon motivo per usare ciò che gli hai detto, lo farà, nonostante quello che ti ha promesso. O per quanto 'affidabile’ ti piace pensare che sia.» Ma... in questo caso...» "Credimi. Nel caso che Theremon dovesse venire a sapere quello che ho scoperto, puoi scommettere la testa che dopo qualche ora il Chronicle pubblicherà tutta la storia. E professionalmente sarei rovinata, Beenay. Ci mancherebbe solo questo! Diventare celebre come la studiosa che ha fornito agli apostoli le prove delle loro insensate teorie! Provo una ripugnanza totale per gli apostoli, Beenay. Non voglio offrire loro alcun tipo di aiuto o di sostegno, e non voglio assolutamente che si possa pensare che approvo le loro idee deliranti.» «Non ti preoccupare,» disse Beenay. «Non ne farò parola con nessuno. «Te ne prego. Lo sai che mi rovineresti. Sono tornata a Saro per ottenere un rinnovo del finanziamento per le mie ricerche. Le scoperte che ho fatto a Thombo hanno già sollevato delle polemiche nel mio istituto, perché mettono in discussione le teorie ufficiali, secondo le quali Beklimot è il centro urbano più antico del mondo. Ma se Theremon riuscisse in qualche modo a porre in connessione le mie scoperte con le credenze degli Apostoli della fiamma, sarebbe come la ciliegina sulla torta.» Ma Beenay ormai l'ascoltava a malapena. Capiva perfettamente il problema di Siferra e non avrebbe fatto nulla che avesse potuto danneggiarla. Non avrebbe certamente parlato con Theremon delle scoperte archeologiche. Ma la sua mente pensava a qualcos'altro, molto più preoccupante. Frammenti di frasi di Theremon sulla dottrina degli apostoli continuavano ad agitarsi nella sua memoria. «... Fra circa quattordici mesi, tutti i soli scompariranno...» «... le Stelle lanceranno Fiamme da un cielo nero..." "... il momento esatto della catastrofe può essere calcolato scientificamente..." “… un cielo
nero...” «... i soli scompariranno tutti..." «Il Buio!» mormorò Beenay con voce dura. «E’ forse possibile...» Siferra aveva continuato a parlare. Alla sua interruzione si fermò a metà di una frase. «Tu non mi stai a sentire, Beenay!" "Io... come? Oh, certo, ti stavo ascoltando, stavi dicendo che non dovevo assolutamente parlare con Theremon delle tue scoperte, perché altrimenti avrei messo a repentaglio la tua reputazione e... E... senti, Siferra, ti spiace se ne riparliamo un'altra volta? Questa sera, o domani pomeriggio, o quando vuoi? Ora devo correre all'osservatorio." "Non voglio trattenerti," disse Siferra freddamente. "No, non prenderla in questo modo. Quel che mi hai detto è di estremo interesse per me... e molto importante, terribilmente importante, più di quanto io possa dire, ora. Ma prima devo verificare qualcosa. Qualcosa che è strettamente connesso con quello di cui stavamo parlando.» Siferra lo guardò attentamente. «Sei arrossito. Hai lo sguardo stravolto, Beenay. Sei tanto strano, improvvisamente. La tua mente è a milioni di chilometri da qui. Che ti succede?» “Te lo dirò dopo,” disse Beenay, dirigendosi verso la porta. Più tardi! Tè lo prometto!» 16 A quell'ora, l'osservatorio era praticamente deserto. Non c'era nessuno tranne Faro e Thilanda. Con grande sollievo di Beenay, Athor 77 non era in circolazione. Bene, pensò lui. Il vecchio si era sottoposto a un eccessivo sforzo nell'intento di elaborare la teoria di Kalgash Due. Non avrebbe dovuto sobbarcarsi ulteriori fatiche per quella sera. Ed era preferibile che all'osservatorio ci fossero solo Faro e Thilanda. Faro possedeva esattamente quel tipo di intelligenza rapida e sbrigativa di cui Beenay aveva bisogno. E Thilanda, che aveva passato anni e anni a scrutare gli spazi vuoti del cielo con il suo telescopio e la sua attrezzatura fotografica, avrebbe potuto fornire tutti quei dati concettuali di cui Beenay poteva avere bisogno. Appena lo vide, Thilanda disse: «E’ tutto il giorno che sviluppo lastre, Beenay, ma non ho scoperto nulla. Mi ci giocherei la testa: non c'è niente lassù in cielo tranne i sei soli. Non pensi che il grand'uomo abbia finito col perdere la ragione?" "Penso che sia in ottime condizioni mentali, come sempre." «Ma queste foto..." asserì Thilanda. "Da giorni sto esaminando a caso ogni quadrante dell'universo. Ho preparato un programma che lo include per intero. Uno scatto, uno spostamento di un paio di gradi, un altro scatto, un altro spostamento, un altro scatto ancora. Sto esaminando metodicamente tutto il cielo. E guarda cosa ho ottenuto, Beenay: un mucchio di fotografie in cui non compare nulla!" "Se il satellite sconosciuto è invisibile, Thilanda, non lo si può vedere. E’ semplice." "Invisibile a occhio nudo, forse. Ma in fotografia dovrebbe..." “Senti, adesso questo non ha alcuna importanza. Ho bisogno che voi due mi aiutate su una questione puramente teorica, connessa con la nuova teoria di Athor.» "Ma se il satellite sconosciuto fosse solo una vana speranza...» protestò Thilanda "Una
speranza remota, ma che potrebbe comunque realizzarsi,” tagliò corto Beenay. «E non faremo salti di gioia quando sbucherà fuori dal nulla e ce lo troveremo davanti al naso. Mi aiutate o no?» «Se proprio vuoi.» «Bene. Voglio che mi prepariate le proiezioni computerizzate dei movimenti di tutti e sei i soli in un periodo comprendente gli ultimi 4200 anni.» Thilanda spalancò gli occhi, incredula: «Quattromiladuecento anni! Ho sentito bene, Beenay?» «So benissimo che non possediamo assolutamente dati sui movimenti celesti per un periodo così lungo. Ma ho parlato di proiezioni computerizzate, Thilanda. Hai a disposizione dati attendibili per un periodo di almeno cento anni, vero?» «Anche più.» «Meglio ancora. Inseriscili nel computer e proiettali avanti e indietro nel tempo. Cerca di scoprire le combinazioni giornaliere dei sei soli negli ultimi ventuno secoli, e nei ventuno futuri. Se non ci riesci, sono certo che Faro ti aiuterà a preparare il programma.» "Credo di potercela fare,» disse Thilanda in tono glaciale. «E ti dispiacerebbe dirmi di cosa si tratta? Dobbiamo occuparci noi dell'almanacco, adesso? E anche questo, comunque, si limita a stabilire i movimenti dei soli per pochi anni. Cosa vuoi scoprire?” "Te lo dirò più tardi,» rispose Beenay. “Te lo prometto." La lasciò seduta alla scrivania a sbollire la rabbia, e attraversò l’osservatorio diretto verso l'ufficio di Athor. Si mise difronte al computer a tre schermi sul quale Athor aveva elaborato la teoria di Kalgash Due. Per un lungo istante Beenay rimase a fissare pensieroso lo schermo centrale, che mostrava l'orbita di Kalgash perturbata dall'ipotetica Kalgash Due. Poi premette un tasto e la presunta orbita di Kalgash Due divenne visibile sotto forma di una luminosa linea verde, un'ampia ellisse eccentrica che si muoveva intorno a quella più compatta e quasi circolare di Kalgash. La esaminò per un po', poi fece apparire sullo schermo i soli e li fissò per circa un'ora, assorto nei propri pensieri, richiamando tutte le loro possibili configura zioni: Onos insieme a Tano e Sitha, Onos con Trey e Patru, Onos e Dovim con Trey e Patru, Dovim con Trey e Patru, Dovim con Tano e Sitha, Patru e Trey da soli... Il normale schema solare, certo. Ma che dire delle configurazioni anomale? Tano e Sitha da soli? No, era impossibile. La relazione fra la loro posizione e quella dei soli più vicini escludeva nel modo più assoluto che Tano e Sitha potessero apparire in quell'emisfero senza la presenza di Onos o Dovim, o di entrambi. Forse centinaia o migliaia di anni fa questo era stato possibíle, pensò, ma ne dubitava. Certamente non ora. Trey e Patru e Tano e Sitha. Niente da fare. I due gruppi di soli gemelli si trovavano in posizioni opposte rispetto a Kalgash: se uno dei due gruppi compariva in cielo, l'altro si trovava generalmente nascosto dalla massa del pianeta. A volte i quattro soli apparivano insieme nel cielo, ma nel caso di questa duplice congiunzione, Onos era sempre visibile. Si trattava di quei famosi giorni a cinque soli, altrettanto caratteristici nell'emisfero opposto, dove, in contrapposizione, appariva solo Dovim. Questa eventualità si verificava raramente, una volta in un paio d'anni. Trey senza Patru? Tano senza Sitha? Sì, teoricamente era possibile. Quando le due coppie di soli gemelli si trovavano vicine all'orizzonte, uno dei due soli poteva trovarsi per un breve periodo di tempo al disopra di esso e l'altro al disotto. Ma non si trattava di un evento solare significativo, quanto piuttosto di una momentanea aberrazione. I soli gemelli erano sempre insieme, ma momentaneamente separati dalla linea dell'orizzonte.
Tutti e sei i soli in cielo contemporaneamente? Impossibile! O ancora peggio, inconcepibile! Eppure ci aveva appena pensato. Beenay rabbrividì all'idea. Se tutti e sei i soli si fossero trovati contemporaneamente al di sopra della linea dell'orizzonte, una zona nell'altro emisfero sarebbe rimasta priva di luce. Il Buio! Il Buio! Ma il Buio era sconosciuto su tutta Kalgash, se non come concetto astratto. Era però impossibile che i sei soli si trovassero contemporaneamente nello stesso emisfero, lasciando un'ampia parte del mondo nella più totale oscurità. O chissà, forse era possibile. Si era mai verificato un evento del genere? Beenay valutò l'agghiacciante possibilità. Ancora una volta sentì la profonda voce di Theremon che gli esponeva la teoria degli apostoli: "... i soli scompariranno tutti...” "... le Stelle lanceranno Fiamme da un cielo nero..." Scosse il capo. Tutte le sue conoscenze scientifiche si ribellavano contro l'idea che i sei soli si raggruppassero da una parte di Kalgash contemporaneamente. Non sarebbe mai potuto accadere, se non per miracolo. Ma Beenay non credeva nei miracoli. Considerando la posizione dei soli nel cielo, si giungeva alla conclusione che avrebbero dovuto essercene almeno uno o due su ogni parte di Kalgash in ogni momento. Dimentica questa ipotesi: sei soli da una parte, il Buio dall'altra... Impossibile. Cosa restava? Dovim da solo, pensò. Il piccolo sole rosso da solo lassù in cielo? Sì, era già successo, anche se di rado. In quei rari giorni a cinque soli in cui Tano, Sitha, Trey, Patru e Onos si trovavano in congiunzione nello stesso emisfero, dall'altra parte del mondo restava solo Dovim. Beenay si chiese se poteva essere quello il momento in cui il Buio aveva il sopravvento. Era possibile? Dovim da solo non emanava molta luce, soltanto un raggio freddo e pallido di color rossastro che poteva essere scambiato per il Buio. No, era un'idea priva di senso. Perfino il piccolo Dovim doveva essere in grado di fornire luce a sufficienza per impedire che la gente si facesse prendere dal terrore. Inoltre Dovim restava solo in cielo molto raramente, una volta in un paio d'anni. Erano casi rari, ma niente affatto straordinari. Se la presenza in cielo di un unico piccolo e oscuro sole poteva compromettere l’equilibrio psichico della gente, allora tutti si sarebbero preoccupati del giorno in cui Dovim sarebbe riapparso da solo in cielo, il che doveva accadere, come Beenay ricordò, entro un anno o due. E in realtà nessuno se ne preoccupava. Ma se il giorno in cui Dovim si trovava da solo in cielo fosse accaduto qualcosa, qualcosa di straordinario e di assolutamente insolito, che avesse oscurato la sua fioca luce... Thilanda apparve alle sue spalle e gli disse stizzosamente: "Ecco fatto, Beenay, ho pronte le proiezioni solari che desideravi. Non solo 4200 anni, bensì una regressione infinita. Faro mi ha dato una mano per la parte matematica, e abbiamo preparato un programma in grado di fornire dati dall'inizio alla fine dei tempi, se lo desideri." "Bene. Trasferisci le proiezioni sul computer su cui sto lavorando per favore... ti dispiacerebbe venire qui, Faro?" Il piccolo e paffuto laureato si avvicinò senza fretta alla scrivania. I suoi occhi scuri, comunque, brillavano di curiosità. ovviamente moriva dalla voglia di sapere ciò che Beenay stava facendo, ma riSpettava le regole implicite di comportamento fra studenti e professori e perciò non disse nulla, in attesa che fosse Beenay a parlargliene. “Quello che vedete sullo schermo," cominciò Beenay, “è l'orbita proposta da Athor per la nostra ipotetica Kalgash Due.
Partirò dal presupposto che quest'orbita sia corretta, sia perché Athor ci ha detto che essa spiega ogni perturbazione della nostra orbita sia perché mi fido di ciò che Athor sta facendo. Ho inoltre a disposizione, o meglio l'avrò quando Thilanda finirà di trasferire i dati, il programma che avete appena elaborato sui movimenti dei soli per un lungo periodo di tempo. Ciò che intendo fare adesso è stabilire se ci può essere una correlazione fra la presenza di un unico sole nel cielo e un passaggio di Kalgash Due vicino a questo pianeta, così da..." "Così da calcolare la frequenza delle eclissi?» lo interruppe Faro. La prontezza mentale del ragazzo era piacevole e anche un po' sconcertante. "Proprio così. Anche tu stavi pensando alle eclissi, vero?" "Sì, da quando Athor ci ha parlato per la prima volta di Kalgash Due. Come ricorderai, Simbron accennò al fatto che il misterioso satellite avrebbe potuto nascondere la luce di alcuni dei soli per un breve periodo. Tu dicesti che questa si sarebbe potuta definire un'eclissi, e fu a quel punto che cominciai a valutare alcune probabilità. Ma Athor mi zittì prima che potessi avanzare delle ipotesi, perché era stanco e voleva andare a casa." "E da allora non hai più parlato con nessuno?" "Nessuno mi ha più chiesto nulla in proposito," disse Faro. "Bene, ecco il tuo momento. Ora trasferirò nel tuo computer ogni dato che si trova nel mio e separatamente, in questa stessa stanza, inizieremo a lavorare con quei dati. Ciò che sto cercando è un caso eccezionale, cioè il momento in cui l'orbita di Kalgash Due sia vicinissima a Kalgash e contemporaneamente nel cielo ci sia un unico sole." Faro annuì. Si diresse verso il suo computer a una velocità che Beenay trovò alquanto insolita. Beenay non si aspettava di essere il primo a finire i calcoli. Faro era notoriamente velocissimo in questi compiti. Dovevano però lavorare sul problema separatamente, per verificare immediatamente il risultato. E così, quando dopo un po' Faro emise una sorta di sbuffo in segno di trionfo e balzò in piedi per dire qualcosa, Beenay, irritato, gli fece segno con la mano di stare zitto e continuò a lavorare. Impiegò altri dieci lunghissimi e imbarazzanti minuti per finire. Poi i numeri cominciarono ad apparire rapidamente sul suo schermo. Se tutti i dati preliminari che aveva inserito nel computer erano esatti - il calcolo eseguito da Athor della probabile massa e della presunta orbita del satellite sconosciuto, il calcolo eseguito da Thilanda dei movimenti dei sei soli nel cielo - allora era piuttosto improbabile che il Buio sarebbe sceso su di loro. Il Buio totale sarebbe stato possibile solo in un giorno in cui Dovim era l'unico sole in cielo. Ma non sembrava che Kalgash Due avesse molte occasioni per eclissare Dovim. I giorni in cui Dovim si trovava da solo in cielo erano talmente rari, che le probabilità che questo accadesse, mentre Kalgash Due passava vicino a Kalgash nella sua lunga orbita, erano infinitesimali, e Beenay lo sapeva. O forse no? No. Non infinitesimali. Niente affatto. Osservò attentamente i numeri sullo schermo: sembrava esserci un'esigua possibilità di convergenza. Il calcolo non era completo, ma era quella la tendenza che si andava delineandO, mentre il computer elaborava ogni congiunzione di Kalgash con Kalgash Due nel periodo stabilito di 4200 anni. Ogni volta che Kalgash Due, seguendo la sua orbita, si avvicinava a Kalgash, aumentavano le probabilità che ciò avvenisse in un giorno in cui solo Dovim splendeva in cielo. Mentre il computer elaborava tutte le possibilità astronomiche, sullo schermo continuavano a comparire dei numeri.
Beenay li fissava con timore e sfiducia crescenti. Ecco, infine, i tre corpi esattamente allineati: Kalgash, Kalgash Due, Dovim! Sì! Era possibile che Kalgash Due eclissasse totalmente Dovim in un giorno in cui quest'ultimo era l'unico sole visibile in cielo. Ma tale configurazione era estremamente rara. Dovim doveva essere da solo nel suo emisfero e alla massima distanza possibile da Kalgash, mentre Kalgash Due doveva trovarsi alla sua distanza minima dal pianeta. Il diametro apparente di Kalgash Due, in questo caso, sarebbe stato sette volte superiore a quello di Dovim. Ciò era sufficiente a nascondere la luce di Dovim per oltre mezza giornata, cosicché nessuna parte del pianeta sarebbe sfuggita agli effetti del Buio. Il computer mostrava che una tale circostanza poteva verificarsi soltanto ogni... Beenay restò senza fiato. Non voleva crederci. Si voltò verso Faro. Il viso tondo del giovane laureato si sbiancò per l'emozione. Beenay disse bruscamente: "Bene. Ho terminato e ho ottenuto un risultato. Ma prima dimmi il tuo." "Dovim eclissato da Kalgash Due, periodicità di 2049 anni." «Sì," disse Beenay, tristemente. "E’ lo stesso risultato che ho ottenuto io. Una volta ogni 2049 anni." Aveva le vertigini. Gli sembrava che l'universo intero gli ruotasse intorno. Una volta ogni 2049 anni. La durata esatta di un Anno Divino, secondo gli Apostoli della fiamma. La stessa data che compariva nel Libro delle rivelazioni. "... i soli scompariranno tutti...” "... le Stelle lanceranno Fiamme da un cielo nero..." Non sapeva cosa fossero le Stelle. Ma Siferra aveva scoperto una collina, nella penisola di Sagikan, in cui le città erano state distrutte dal fuoco con incredibile regolarità, a distanza di circa duemila anni. Quando l'archeologa avrebbe eseguito dei test al radiocarbonio, la distanza esatta fra un incendio e l'altro sulla collina di Thombo sarebbe stata di 2049 anni?" “…un cielo nero .." Beenay lanciò uno sguardo smarrito a Faro. "Fra quanto tempo Dovim sarà nuovamente da solo in cielo?" chiese. "Fra undici mesi e quattro giorni," rispose Faro, accigliato. "Il 19 Theptar.”"Sì, fece Beenay. "Lo stesso giorno in cui, secondo Mondior 71, il cielo si oscurerà e il fuoco degli dei scenderà a distruggere la nostra civiltà.” 17 "Per la prima volta nella mia vita," disse Athor, "mi trovo a pregare con tutto il cuore che i miei calcoli siano sbagliati. Ma temo che gli dei non mi concederanno questa grazia. Stiamo dirigendoci inesorabilmente verso una conclusione che è terribile anche solo da immaginare." Si guardò intorno, posando lo sguardo per un momento su tutte le persone che aveva convocato nella sua stanza. Il giovane Beenay 25, naturalmente. Sheerin 501, dell'istituto di psicologia. Siferra 89, l'archeologa. Con la sola forza di volontà, Athor lottava per nascondere l'enorme stanchezza che provava, il senso di disperazione che cresceva dentro di sé, le conseguenze sconvolgenti di tutto quello che aveva saputo nelle ultime settimane.
In quei giorni, si era trovato a pensare che aveva vissuto fin troppo a lungo, a desiderare che gli fosse stato concesso di andarsene qualche anno prima. Ma poi scacciava senza esitare questi pensieri dalla sua mente. Una ferrea volontà e un'indomabile forza d'animo erano sempre state le caratteristiche del suo carattere. Ma ora che con l'età le forze gli venivano meno, anche il suo temperamento ne risentiva. Rivolto a Sheerin, chiese: "Il suo campo, se ho ben capito, è lo studio del Buio?" Lo psicologo sembrò divertito: "Credo che si possa dire così. La mia tesi di dottorato riguardava i disordini mentali indotti dal Buio. Ma le ricerche che sto svolgendo sul buio sono solo un aspetto del mio lavoro. Mi interesso dell'isterismo di massa in ogni sua manifestazione, la reazione irrazionale della mente umana a stimoli travolgenti. E’ con l'intera lista delle follie umane che mi guadagno il pane quotidiano." "Molto bene," disse freddamente Athor. "Comunque sia, Beenay 25 mi ha detto che lei è la maggiore autorità sul Buio, in questa università. Ha appena visto la nostra breve dimostrazione astronomica sullo schermo del computer. Suppongo che abbia compreso le implicazioni fondamentali di ciò che abbiamo scoperto." Il vecchio astronomo non riuscì a impedire che una certa superiorità trasparisse dal proprio tono. Sheerin, comunque, non ne parve particolarmente offeso. Con calma disse: “Credo di aver afferrato l'essenziale. Se ho ben capito, c'è un corpo celeste invisibile, dalle dimensioni di un pianeta e dotato di una certa massa, che orbita attorno a Kalgash a una certa distanza, e per via di quella sua certa massa e di quella sua certa distanza, la sua forza d'attrazione giustifica perfettamente le deviazioni dell'orbita teorica di Kalgash, scoperte dal mio amico Beenay. Fin qui, tutto bene?" "Sì," disse Athor. «E’ abbastanza corretto." "Bene," proseguì Sheerin, «a questo punto succede che a volte tale corpo si intromette fra noi e uno dei nostri soli. Questo evento viene definito eclissi. Ma c'è un unico sole che si trova sul piano della sua orbita in modo tale che possa eclissarsi, e questo sole è Dovim. E’ stato dimostrato che l'eclissi si verifica solo quando..." Sheerin si interruppe e aggrottò le sopracciglia, "... quando Dovim è l'unico sole in cielo, e la cosiddetta Kalgash Due si trova allineata con esso in modo tale che Kalgash Due copra completamente il disco di Dovim. In conseguenza di ciò, a noi non arriva alcuna luce. Sto procedendo bene?" Athor annuì preoccupato. «Ha afferrato perfettamente la questione." «Lo temevo. Speravo di essermi sbagliato." «Allora, per quel che concerne gli effetti dell'eclissi..." disse Athor. Sheerin fece un respiro profondo. "Bene. L'eclissi... che si verifica solo ogni 2049 anni, siano lodati gli dei!... provocherà un periodo di Buio totale su Kalgash. Mentre il mondo ruota su se stesso, ogni continente verrà completamente oscurato per un periodo che va da... come aveva detto?... da nove a quattordici ore, a seconda della latitudine.» «Ora, per favore," disse Athor, "come psicologo esperto di tali problemi, può spiegarci gli effetti che l'eclissi avrà sulle menti degli esseri umani?" "L'eclissi avrà come conseguenza," disse Sheerin senza esitare, "la pazzia." Nella stanza cadde improvvisamente il silenzio. Infine Athor disse: «Lei dunque prevede che tutti gli uomini impazziranno?" “Con ogni probabilità, sì. Buio ovunque, follia ovunque. Credo che gli uomini saranno colpiti in misura diversa, da una depressione e uno smarrimento passeggero fino alla completa e permanente perdita della ragione.
Maggiore è la stabilità psicologica che il soggetto possiede, ovviamente, e minore è la probabilità che la sua mente sia totalmente sconvolta dalla completa assenza di luce. Ma nessuno, credo, ne uscirà completamente indenne." “Non capisco," disse Beenay. "Perché impazziamo quando ci troviamo al Buio?" Sheerin sorrise: "Semplicemente perché non siamo abituati a esso. Immaginate, se ci riuscite, un mondo che abbia un unico sole. Quando questo mondo ruota intorno al proprio asse, ogni emisfero riceve luce per metà giornata, e rimane totalmente al buio per l'altra metà." Bennay ebbe un involontario scatto di paura. "Vedi?" esclamò Sheerin. "Non riesci neanche a sopportare che se ne parli! Ma gli abitanti di quel pianeta sarebbero perfettamente abituati a una dose giornaliera di Buio. Probabilmente troverebbero le ore giornaliere molto più leggere e maggiormente di loro gradimento, ma considererebbero il Buio come un normale evento quotidiano, di cui non preoccuparsi affatto, da usare eventualmente per dormire in attesa che venga il mattino. Le cose stanno diversamente, per noi. Ci siamo evoluti in condizioni di perpetua luce solare, per ogni ora del giorno, per tutto l'anno. Se non c'è Onos in cielo, ci sono Tano, Sitha e Dovim, o Patru e Trey, e così via. La nostra mente, la fisiologia stessa del nostro corpo, è abituata a una luminosità costante. Tu dormi con una lampada votiva accesa nella tua stanza, suppongo. “Certo," rispose Beenay. “Certo? E perché?" “ perché... Perché tutti hanno una lampada votiva!" “E’ esattamente a questo che volevo arrivare. Dimmi, ti sei mai trovato al Buio, mio caro amico?" Beenay si appoggiò contro la parete, vicino alla grande finestra panoramica, e rifletté: “No. Credo di no. Ma so cos'è il Buio. E’... " Fece un vago movimento con le dita, poi la sua mente si illuminò. “E’ assenza di luce. Come in una caverna." «E sei mai stato in una caverna?" «In una caverna! Certo che no!" "Lo immaginavo. Io ho provato a entrarci una volta, tanti anni fa, quando stavo iniziando i miei studi sui disordini indotti dal Buio. Ma ne sono uscito di corsa. Mi sono addentrato in essa finché la bocca della caverna era ancora visibile, anche se intorno era tutto nero." Sheerin sogghignò, compiaciuto. “Mi è tuttora difficile credere che una persona della mia stazza potesse riuscire a correre così velocemente." Beenay disse con aria di sfida: "Credo che io non mi sarei messo a correre, se mi fossi trovato nella tua situazione.» Lo psicologo rivolse al giovane astronomo un lieve sorriso. "Che parole valorose! Ammiro il tuo coraggio, amico mio.» Rivolgendosi ad Athor, Sheerin disse: “Mi dà il permesso di eseguire un breve esperimento psicologico?» "Certamente.» "Grazie.» Sheerin si rivolse nuovamente a Beenay. "Ti dispiace tirare la tenda vicino a te, Beenay?» Beenay sembrò sorpreso. “E perché?» "Tira la tenda e poi vieni a sederti vicino a me.» "Se proprio insisti..." Ai lati delle finestre si trovavano delle pesanti tende rosse. Athor non ricordava di averle mai viste tirate, e quella stanza era il suo ufficio da una quarantina d'anni. Beenay, alzando le spalle, afferrò la nappa del cordone e la tirò. Mentre la tenda rossa scivolava davanti alla grande finestra, gli anelli di ottone stridevano scorrendo lungo la riloga. Per un attimo si riuscì ancora a intravedere la bassa luce rossa di Dovim, poi tutto piombò nel buio, e perfino le ombre divennero indistinte. I passi di Beenay risuonarono sordi nel silenzio, mentre il giovane astronomo avanzava verso il tavolo, poi si fermarono a metà strada.
«Non ti vedo più, Sheerin,» mormorò con voce disperata. «Segui il tuo istinto," ordinò Sheerin in tono innaturale. "Ma non ti vedo!» Il giovane astronomo respirava a fatica. "Non vedo niente! "Che ti aspettavi? Ecco cos'è il Buio." Sheerin attese un attimo, poi aggiunse: “Forza. Dovresti essere in grado di muoverti in questa Stanza anche a occhi chiusi. Cammina fin qui e siediti." I passi risuonarono nuovamente, incerti. Poi si sentì il rumore di una sedia. La voce fioca di Beenay disse: "Sono arrivato." “Come ti senti?" "Sto... sto bene.” "Ti è piaciuto?» Una lunga pausa. "No." «No Beenay? "Niente affatto. E’ stato terribile. E’ stato come se le pareti...” Si interruppe nuovamente. «Mi sembrava che si stessero chiudendo su di me. Mi veniva voglia di spingerle via. Ma non sto diventando pazzo. Anzi, devo dire che mi ci sto già abituando. "Bene. Siferra? Lei come sta?» "Sopporto bene il Buio a piccole dosi. Ho percorso qualche galleria Sotterranea, di tanto in tanto. Ma non posso dire che mi piaccia particolarmente.” ''Athor? "Anch’io sopravvivo. Ma credo che lei abbia ormai dimostrato ciò che si prefiggeva, dottor Sheerin,» disse il direttore dell'osservatorio, bruscamente. «Bene Beenay, tira le tende. " Si sentirono dei passi guardinghi nell'oscurità, il rumore sommesso del corpo di Beenay contro la tenda mentre cercava la nappa, poi il confortante fruscio della tenda che scorreva e si apriva. La luce rossa di Dovim invase la stanza, e con un grido di gioia Beenay guardò fuori dalla finestra, in direzione del più piccolo deí sei soli. Sheerin si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano, e disse con voce incerta: «E questo per pochi minuti in una stanza buia.” «E’ sopportabile,» disse Beenay con indifferenza. «Sì, una stanza buia è tollerabile, almeno per un po’. Ma immagino che sappiate quello che è successo all’Esposizione centennale di Jonglor, vero? Lo scandalo della galleria del mistero? Beenay, te ne ho parlato una sera della scorsa estate, quando ti ho incontrato al Club dei Sei Soli con il tuo amico giornalista, Theremon. "Sì, mi ricordo: ti riferisci a quella gente che ha fatto un giro al Buio nel parco dei divertimenti ed è impazzita, vero?" «Una galleria lunga un chilometro, priva di luce. Si entrava in una piccola vettura aperta e si veniva sballottati al Buio per quindici minuti. Alcuni sono morti di paura. Altri hanno subito danni mentali permanenti." "E perché? Cosa li ha fatti impazzire?» "Sostanzialmente la stessa cosa che ha agito su di noi poco fa, quando abbiamo tirato le tende e hai creduto che le pareti della stanza si stessero chiudendo su di te, schiacciandoti. Esiste un termine in psicologia per indicare l'istintiva paura dell'assenza di luce. La chiamiamo 'claustrofobia', perché la mancanza di luce è sempre collegata a luoghi chiusi, quindi la paura della prima è anche paura di questi ultimi. Capisci?" "E quella gente che è impazzita nella galleria?» "Quelle che sono... impazzite, per usare questo termine, erano delle persone che non avevano sufficiente resistenza psicologica per superare la claustrofobia che le ha assalite nel Buio. E’ una sensazione fortissima. Credetemi. Ho fatto anch'io un giro nella galleria. Voi siete stati solo pochi minuti al buio, poco fa, e credo che ne siate rimasti alquanto turbati. Immaginatevi quindici minuti!" «Ma si sono ripresi in seguito?» «Alcuni si. Ma soffriranno per anni, o forse per il resto della loro vita, di claustrofobia. La loro paura latente del Buio e degli spazi chiusi si è cristallizzata e, per quel che possiamo dire al momento, è diventata permanente. E qualcuno, come ho detto, è morto per lo shock. E dalla morte non c'è ritorno.
Ecco cosa può succedere restando quindici minuti al Buio." "A qualcuno,» replicò Beenay testardamente. La sua fronte si aggrottò in una lunga ruga. "Continuo a credere che alla maggior parte di noi non accadrà nulla di così terribile. Certamente non a me." Sheerin sospirò, esasperato. "Immagina il Buio, ovunque. Ti guardi intorno e non c'è luce da nessuna parte. Le case, gli alberi, i campi, la terra, il cielo... neri! E per di più le Stelle, se dobbiamo dare ascolto a quello che gli apostoli vanno dicendo... Le Stelle, di qualunque cosa si tratti. Riesci a immaginarlo?" "Sì," dichiarò Beenay in tono sempre più aggressivo. "No! No, non puoi!» Sheerin batté il pugno sul tavolo in un improvviso attacco d'ira. «Stai ingannando te stesso! Non puoi immaginarlo. Il tuo cervello non è fatto per concepire il Buio più che per... Senti, Beenay, sei un matematico, no? Il tuo cervello riesce a concepire realmente l'idea di infinito? O di eternità? Puoi solo parlarne. Ridurre il tutto a equazioni e fingere che i numeri astratti siano la realtà, quando invece non sono altro che segni sulla carta. Ma quando cerchi realmente di racchiudere nella tua mente l'idea di infinito, immediatamente ti viene il capogiro, ne sono certo. Una piccola parte della realtà ti sconvolge. La stessa cosa che è successa con quella frazione di Buio che hai appena sperimentato. E quando te lo troverai davanti davvero, il tuo cervello si troverà ad affrontare un fenomeno che è al di là delle sue capacità di comprensione. Diventerai pazzo, Beenay. Completamente e in modo permanente. Ne sono certo!» Nella stanza cadde nuovamente un terribile silenzio. Infine Athor disse: “E’ questa la sua conclusione, dottor Sheerin? Follia generalizzata?» «Almeno il 75% della popolazione perderà la ragione in modo permanente. Forse l'85%. O perfino il 100%. Athor scosse il capo. “Mostruoso. Terribile. Una calamità inconcepibile. Anche se devo confessarvi che per certi versi la penso come Beenay; credo che riusciremo in qualche modo a sopravvivere, che gli effetti saranno meno catastrofici di quanto lei pensi. Anziano come sono, non posso fare a meno di essere ottimista e fiducioso." Siferra lo interruppe: «Permette, dottor Athor?» "Certo. Certo! Siete qui per questo.» L'archeologa si alzò e andò al centro della stanza. "La mia presenza qui, per certi aspetti, mi sorprende. Quando ho parlato per la prima volta con Beenay delle mie scoperte nella penisola di Sagikan, l'ho pregato di considerare le mie parole strettamente confidenziali. Temevo per la mia reputazione scientifica, perché comprendevo che le mie scoperte potessero essere facilmente utilizzate per sostenere il più irrazionale, più spaventoso e più pericoloso movimento religioso che sia mai esistito nella nostra società. ovviamente, mi riferisco agli Apostoli della fiamma. “Ma poi, quando Beenay è tornato da me con le sue nuove scoperte, cioè quelle relative alla periodicità delle eclissi di Dovim, ho capito che avrei dovuto rendere noto ciò che sapevo. Ho qui fotografie e mappe dei miei scavi alla collina di Thombo, vicino a Beklimot, nella penisola di Sagikan. Beenay, tu le hai già viste, ma se puoi essere così gentile da mostrarle al dottor Athor e al dottor Sheerin.» Siferra attese che tutti avessero avuto l'opportunità di esaminare il materiale. Poi riprese a parlare.
«Le mappe si potranno comprendere meglio, se pensate alla collina di Thombo come a una gigantesca torta a strati di antichi insediamenti, ognuno di essi costruito sopra al suo immediato predecessore: il più recente, ovviamente, si trova in cima alla collina. L'ultima città appartiene a quella che definiamo la 'cultura di Beklimot'. Sotto di essa, c'è una città costruita dallo stesso popolo, o almeno così pensiamo, in una fase precedente della loro civiltà, e così via, scendendo verso il basso, per un totale di almeno sette, o forse nove, diversi periodi di insediamento. Ognuno di questi insediamenti, signori, è stato distrutto dal fuoco. Potete distinguere, credo, gli spazi più scuri fra uno strato e l'altro. Sono le linee del fuoco... resti carbonizzati. La mia ipotesi onginaria - basata soltanto su quanto intuitivamente presumevo che queste città avessero impiegato per sorgere, fiorire, decadere e crollare - era che ognuno di questi grandi incendi si fosse sviluppato a circa duemila anni di distanza dall'altro, e che il più recente fosse avvenuto circa duemila anni fa, subito prima che si sviluppasse la cultura di Beklimot, che noi consideriamo l'inizio dell'era storica. Ma il carbone si presta particolarmente bene ai test al radiocarbonio, il che ci fornisce indicazioni alquanto precise sull'età di ogni stanziamento. Non appena il materiale estratto da Thombo è giunto a Saro, il laboratorio del nostro istituto ha iniziato ad analizzare i reperti tramite radiocarbonio, e ora possediamo dei dati precisi. Posso ripeterveli a memoria. Il più recente fra gli insediamenti di Thombo fu distrutto dal fuoco 2050 anni fa, con una possibilità d'errore di 20 anni in più o in meno. I resti carbonizzati dell'insediamento sottostante risalgono a 4100 anni fa, con una possibilità di errore di 40 anni in più o in menO. Il terzo insediamento è stato distrutto dal fuoco 6200 anni fa, con una possibilità di errore di 80 anni in più o in meno. Il quarto insediamento risale a 8300 anni fa, con un possibile errore di 100 anni in più o in meno. Il quinto...» "Per gli dei!" gridò Sheerin. "Sono situati tutti a intervalli di tempo cosi precisi?» "Si, gli incendi si sono verificati a intervalli di poco più di venti secoli. Considerando le lievi e inevitabili imperfezioni dei test al radiocarbonio, è comunque lecito supporre che essi abbiano avuto luogo esattamente ogni 2049 anni. Che, come ha dimostrato Beenay, è la frequenza con la quale si verificano le eclissi di Dovim... e anche,» aggiunse Siferra in tono gelido, "la lunghezza di quello che gli apostoli chiamano Anno Divino, alla fine del quale il mondo dovrebbe essere distrutto dal fuoco.» "Si, come conseguenza della follia di massa," disse Sheerin con voce cupa. "Quando scende il Buio, la gente vuole luce di ogni tipo. Torce. Falò. Brucia tutto. Brucia i mobili. Brucia le case." "No,» mormorò Beenay. "Ricorda,» disse Sheerin, "che quella gente non sarà in sé. Si comporteranno come bambini, ma avranno il corpo di adulti, e quel che resta di una mente adulta. Sapranno accendere i fiammiferi. Solo che non ricorderanno le conseguenze che derivano dall'uso improprio del fuoco." "No,» ripeté Beenay disperatamente. "No. No." Ma il suo scetticismo era scomparso. "Si poteva presumere in un primo momento," riprese Siferra, "che gli incendi di Thombo fossero un evento puramente locale.
Era una strana coincidenza, certo, che si verificassero regolarmente secondo un rigido schema durante un cosi lungo periodo di tempo, ma poteva essere un fenomeno relativo a una sola zona, forse un insolito rituale purificatore praticato in quel luogo. Dal momento che insediamenti antichi come quelli di Sagikan non sono stati rinvenuti in nessun'altra parte di Kalgash, non potevamo escludere questa possibilità. Ma i calcoli di Beenay hanno cambiato tutto. Ora sappiamo che ogni 2049 anni il mondo, a quanto pare, sprofonda nel Buio. Come ha detto Sheerin, probabilmente scoppiano incendi dappertutto. E tutto viene distrutto. Qualunque altro insediamento fosse esistito ai tempi degli incendi di Thombo, in qualunque parte del mondo, sarebbe stato incenerito come le città di Thombo, e per lo stesso motivo. Ma Thombo è tutto ciò che ci resta dell'epoca preistorica. Come dicono gli Apostoli della fiamma, è un luogo sacro, quello in cui gli dei si sono manifestati all'umanità." "E forse si stanno manifestando di nuovo," disse Athor in tono cupo. «Rivelandoci le prove di incendi in epoche passate." Beenay lo guardò: “E’ arrivato al punto di credere alla dottrina degli apostoli, signore?» La domanda di Beenay parve ad Athor un'esplicita accusa di follia. Passò qualche momento prima che riuscisse a rispondere. Ma poi replicò, con tutta la calma di cui disponeva: "Credere agli apostoli? No. Non completamente. Ma mi interessano, Beenay. Solo l'idea di parlarne mi terrorizza, ma è necessario porsi questa domanda: e se gli apostoli avessero ragione? Abbiamo chiare indicazioni ormai che il Buio scende su di noi ogni 2049 anni, proprio come affermano nel loro Libro delle rivelazioni. Sheerin sostiene che il mondo intero impazzirà se questo avverrà, e Siferra ha provato come una piccola parte del mondo, per lo meno, ha effettivamente perso la ragione, per diverse volte; città intere sono state distrutte dal fuoco ogni 2049 anni, data questa, in cui ci imbattiamo continuamente.» «Cosa propone di fare, allora?» chiese Beenay. «Entrare a far parte della loro organizzazione?" Ancora una volta Athor si sforzò di trattenere la rabbia. "No, Beenay. Dobbiamo solo studiare a fondo la loro dottrina e capire che uso possiamo farne!» "Uso?" gridarono Sheerin e Siferra quasi contemporaneamente. "Si! Uso!" Athor intrecciò le sue grandi mani scarne e si voltò verso di loro. "Non capite che la sopravvivenza dell'umanità potrebbe dipendere interamente da noi quattro? Dopotutto le cose stanno cosi. Per quanto possa sembrare melodrammatico, noi quattro possediamo prove sempre più incontrovertibili che la fine del mondo si sta per abbattere su di noi. Buio su tutto il pianeta... che genera follia collettiva... incendi ovunque... le nostre città in fiamme, la nostra civiltà distrutta. Ma c'è al momento un altro gruppo che ha predetto la stessa calamità, sulla base di chissà quali prove... indicando l'anno e perfino il giorno.» «Il 19 Theptar,» mormorò Beenay. «Esatto, il 19 Theptar. Il giorno in cui Dovim splenderà da solo nel cielo e, se abbiamo ragione, Kalgash Due comparirà, coprendo il nostro cielo e nascondendo la luce. Quel giorno, secondo gli apostoli, il fuoco invaderà le nostre città. Come fanno a saperlo? Un caso fortuito? Puri deliri mitologici?» "Parte di quello che affermano non ha alcun senso,» fece notare Beenay. "Ad esempio, la storia delle Stelle che compariranno nel cielo. Cosa sono queste Stelle? Da dove proverranno?" Athor si strinse nelle spalle. “Non ne ho idea. Questa parte della dottrina degli apostoli potrebbe essere, in effetti, pura immaginazione. Sembra comunque che essi possiedano qualche resoconto delle precedenti eclissi, per mezzo del quale hanno elaborato le loro sinistre predizioni attuali.
Dobbiamo sapere di più sulle loro fonti.» "Perché proprio noi?» chiese Beenay. "Perché noi, in quanto scienziati, possiamo fungere da guide, da punti di riferimento autorevoli nella lotta che ci attende per salvare la civiltà,» disse Athor. «Solo se riusciamo a conoscere immediatamente la natura esatta del pericolo, la nostra civiltà può sperare di proteggersi contro ciò che accadrà. Ma così come stanno le cose, solo i creduloni e gli ignoranti daranno credito agli apostoli. Le persone intelligenti e sensate continueranno a considerarli come li giudichiamo noi: dei fanatici, degli sciocchi, dei pazzi, o perfino degli imbroglioni. Quel che dobbiamo assolutamente fare è persuadere gli apostoli a comunicarci le loro conoscenze astronomiche e archeologiche, se ne hanno. E poi uscire allo scoperto. Rivelare le nostre conoscenze e appoggiarle con quello che abbiamo saputo dagli apostoli, ammesso che sappiano qualcosa. In pratica, si tratta di formare un'alleanza con loro per fronteggiare il caos che entrambi sappiamo imminente. In questo modo potremo guadagnarci l'attenzione di tutti, dai più ingenui ai più scettici.» «Quindi lei ci propone di smettere di fare gli scienziati e di darci alla politica?» chiese Siferra. «Non mi va. Non è il nostro lavoro. Propongo di consegnare le nostre scoperte al governo e lasciare che siano loro a...» "Il governo!» sbuffò Beenay. "Beenay ha ragione,» disse Sheerin. «So che tipi sono i politici. Formerebbero un comitato che infine stilerebbe un rapporto, poi il rapporto sarebbe archiviato e in seguito formerebbero un altro comitato, per approfondire ciò che aveva scoperto il primo, e poi voterebbero e... No, il tempo gioca a nostro sfavore. E’ nostro compito uscire allo scoperto. So per esperienza diretta che conseguenze ha il Buio sulla psiche. Athor e Beenay, voi avete le prove matematiche che presto calerà il Buio. Lei, Siferra, ha visto quali conseguenze il Buio ha avuto sulle civiltà del passato. "Ma ci sentiamo di rivolgerci agli apostoli?» chiese Beenay. «Non metteremo in pericolo la nostra reputazione se avremo a che fare con loro?» "Giusto,» disse Siferra con convinzione. "Dobbiamo fare molta attenzione.» Athor si accigliò. «Forse ha ragione. E’ stato ingenuo da parte mia proporre una sorta di collaborazione con quella gente. Ritiro la proposta.» «Aspettate,» disse Beenay. «Ho un amico, tu lo conosci, Sheerin, è Theremon, il giornalista, che è già in contatto con una grossa personalità degli apostoli. Potrebbe riuscire a organizzare un incontro segreto fra Athor e quell'Alto apostolo. Lei, signore, potrebbe sondare le conoscenze degli apostoli e vedere se sanno qualcosa che valga la pena conoscere, e poi potremmo sempre negare che questo incontro sia avvenuto, se scoprissimo che non sanno niente d'importante.» "Si può fare," disse Athor. "Sebbene mi disgusti, sono disposto a incontrarli. Mi pare, comunque, che non abbiate alcuna obiezione alla questione di fondo da me sollevata: siete tutti d'accordo che dobbiamo assolutamente fare qualcosa in rapporto a ciò che abbiamo scoperto?» "Ora sì,» disse Beenay, lanciando un'occhiata a Sheerin. «Per quel che mi riguarda, credo che soprawiverò al Buio, ma ciò che è stato detto qui oggi, mi ha indotto a credere che molti altri non ce la faranno. E neanche la nostra società sopravviverà se non facciamo qualcosa.» Athor annuì. «Molto bene. Parli con il suo amico Theremon. Con cautela, però. Sa quel che penso della stampa. I giornalisti non mi vanno più a genio degli apostoli.
Ma lasci capire con molto tatto al suo Theremon che gradirei incontrare privatamente l'apostolo che conosce.» "Lo farò.» «E lei, Sheerin, raccolga tutto il materiale che riesce a trovare sugli effetti dell'esposizione a uno stato di Buio prolungato, e me lo faccia pervenire.» «Nessun problema, dottore.» «E lei, Siferra, potrebbe farmi avere una relazione, comprensibile anche da un profano come me, sui suoi scavi a Thombo? Correlata di ogni minimo dettaglio che a suo parere abbia rilevanza per la questione della ciclicità degli incendi." «Alcuni dati non sono ancora disponibili, dottor Athor. Si tratta del materiale di cui oggi non ho parlato.» Athor aggrottò le sopracciglia. «Potrebbe essere più precisa?» «Tavolette di argilla incise,» rispose Siferra. «Rinvenute nel terzo e nel quinto livello dalla cima della collina. Il dottor Mudrin è al lavoro, ma tradurle è molto difficile. Per ora ha avanzato l'ipotesi che si tratti di una sorta di moniti sacerdotali sulla discesa di Fiamme dal cielo.» «La prima stesura del Libro delle rivelazioni!» fece Beenay. "Si, forse si tratta proprio di questo," disse Siferra, sorridendo senza però manifestare alcun segno di compiacimento. «In ogni caso, spero di avere presto la trascrizione delle tavolette. E poi le consegnerò tutto il materiale, dottor Athor.» «Bene,» disse Athor. «Abbiamo bisogno di tutto ciò che è possibile reperire. Sarà il lavoro più importante della nostra vita." Lanciò un'altra occhiata agli altri. «C'è comunque una cosa importante da ricordare: la mia disponibilità a incontrare gli apostoli non significa assolutamente che io voglia fornire loro una parvenza di rispettabilità. Spero solo di scoprire quel che sanno, per convincere il mondo di ciò che sta per accadere, nient'altro. Se questo non sarà possibile, farò ciò che posso per mantenere le distanze da loro. Voglio tenere fuori da questa storia ogni sorta di misticismo. Non credo minimamente ai loro deliri; voglio soltanto sapere come sono arrivati a stabilire la data della catastrofe. E voglio che voi tutti stiate bene attenti ogni volta che entrerete in contatto con loro, chiaro?" «Sembra tutto un sogno,» disse in tono blando Beenay. «Un sogno orribile,» disse Athor. "Ogni atomo della mia anima grida che è impossibile, che si tratta solo di fantasie, che il mondo continuerà a esistere anche dopo il 19 Theptar, senza che succeda niente. Purtroppo i dati in nostro possesso parlano chiaro.» Guardò fuori dalla finestra. Onos era tramontato, e Dovim era soltanto un punto rosso all'orizzonte. Era sceso il crepuscolo, e la sola luce ancora visibile era quella spettrale e sgradevole di Patru e Trey. «Non abbiamo alcun motivo per dubitarne. Il Buio scenderà su di noi. Forse le Stelle, qualunque cosa siano, appariranno in cielo. Il fuoco avvamperà. La fine del mondo che conosciamo è giunta. La fine del mondo!" DUE NOTTURNO 18 "Faresti meglio a stare in guardia," disse Beenay. Cominciava a sentirsi nervoso. Stava facendosi sera, la sera dell'eclissi, che aveva atteso cosi a lungo con paura e agitazione. "Athor è furioso con te, Theremon. Non riesco ancora a credere che tu sia qui. Sai benissimo che non dovresti essere da queste parti.
In particolare non questa sera! Dovresti capirlo da solo, considerando le cose che hai scritto di recente su di lui." Il giornalista ridacchiò: «Te l'ho detto. Riuscirò a tranquillizzarlo. "Non esserne troppo sicuro, Theremon. Il tuo articolo l'ha presentato come un demente che dovrebbe essere già in pensione da tempo. Il vecchio è generalmente tranquillo e imperturbabile, ma se lo provochi cambia radicalmente.» "Senti, Beenay,» disse Theremon, scrollando le spalle, "prima di diventare un grande giornalista ero un ragazzino che faceva il reporter, specializzato in interviste impossibili, e non scherzo quando dico impossibili. Tornavo a casa ogni sera con lividi, occhi neri, a volte con un paio di ossa rotte, ma avevo sempre pronto un pezzo per il giorno dopo. Si comincia ad avere una certa fiducia in se stessi dopo aver passato degli anni a esasperare continuamente la gente, per farsi concedere un'intervista da pubblicare. Riuscirò a tenere a bada Athor." Esasperare la gente?» replicò Beenay. Gettò uno sguardo significativo verso il calendario, sulla parete del corridoio. A grosse lettere verdi e luminose annunciava la data: 19 THEPTAR. Il giorno dei giorni, quello che da mesi e mesi ossessionava la mente di tutti all'osservatorio. L'ultimo giorno di lucidità mentale per molti, forse per quasi tutti gli abitanti di Kalgash. "Non mi sembra che tu ti esprima con buon gusto, considerando che giorno è oggi." Theremon sorrise: "Forse hai ragione. Staremo a vedere." Poi aggiunse, indicando la porta chiusa dell'ufficio di Athor: "Chi c'è ora là dentro?» "Athor, ovviamente. E Thilanda, un'astronoma. Davnit, Simbron, Hikkinan, che fanno parte del personale dell'osservatorio. E basta." "E Siferra? Ha detto che sarebbe venuta anche lei.» «Se doveva venire, non è ancora arrivata." Un'espressione di sorpresa apparve sul viso di Theremon. "davvero? Quando le ho chiesto l'altro giorno se aveva scelto il rifugio, mi ha riso in faccia. Aveva deciso che avrebbe assolutamente visto l'eclissi da qui. Non riesco a credere che abbia cambiato idea. Quella donna non ha paura di niente, Beenay. Ma forse sarà nel suo ufficio a sistemare le ultime cose." «E’ probabile.» "E Sheerin, il nostro amico paffutello? Non è qui neanche lui?» «No, Sheerin non c'è. E’ al rifugio." "Non è certo il più coraggioso degli uomini, il nostro Sheerin!» «Almeno ha il buon senso di ammetterlo. Anche Raissta è al rifugio, e la moglie di Athor, Nyilda, e praticamente tutta la gente che conosco, tranne noi dell'osservatorio. Se fossi furbo, Theremon, anche tu saresti là. Quando il Buio scenderà su di noi stasera, vedrai che rimpiangerai di non esserci andato." «L'apostolo Folimun 66 mi ha detto pressoché la stessa cosa oltre un anno fa, solo che mi invitava ad andare al suo rifugio, non al vostro. Ma sono pronto ad affrontare le cose più terribili che gli dei possono avere in serbo per me, amico mio. Scriverò un pezzo formidabile questa sera, e non potrò farlo se me ne sto rintanato in un nascondiglio sotterraneo." "Non ci sarà nessun giornale domani su cui pubblicare il tuo articolo, Theremon." «Ne sei certo?" Theremon afferrò Beenay per il braccio, tirandolo vicino a sé, quasi contro il suo viso. Con voce bassa e profonda gli disse: "Dimmi, Beenay, e dimmelo da amico. Credi che questa sera accadrà qualcosa di incredibile come la Notte?» "Sì, ne sono certo." "Per gli dei! Ma dici sul serio?" "Non sono mai stato più serio di così in vita mia, Theremon.» «Non posso crederci. Sembri una persona equilibrata, Beenay.
Sei responsabile, assennato. Eppure hai preso un mucchio di calcoli astronomici dichiaratamente ipotetici, qualche pezzo di carbone trovato fra le sabbie di un deserto a migliaia e migliaia di chilometri da qui, e delle sciocchezze incredibili uscite dalla bocca di una combriccola di fanatici allucinati; poi hai messo il tutto insieme, e lo hai trasformato in un delirio apocalittico che è il più assurdo e il più demente che io abbia mai...» «Non è assurdo,» insisté Beenay con calma. «E non è affatto un delirio." «Quindi il mondo finirà davvero questa sera.» «Il mondo che noi amiamo e conosciamo, sì.» Theremon lasciò il braccio di Beenay e alzò le mani in segno di esasperazione. «Per gli dei! Anche tu! In nome del Buio, Beenay, è più di un anno che cerco di credere a questa storia e non ci riesco, non ci riesco proprio. Nonostante quello che dici tu, quello che dicono Athor, Siferra, Folimun 66, Mondior o...» "Basta saper aspettare,» disse Beenay. «E’ solo questione di poche ore." "E sei sincero!» riprese Theremon stupefatto. «Per tutti gli dei, sei un pazzo scatenato come Mondior in persona. Bah! Ecco quel che penso, Beenay. Bah! E ora accompagnami da Athor.» «Ti avverto, non vuole vederti." «Me l'hai già detto. Fammi entrare lo stesso.» 19 Theremon non si sarebbe mai aspettato di dover prendere una posizione contraria a quella degli scienziati dell'osservatorio. La situazione, però, si era gradualmente evoluta in quel modo, nei mesi che avevano preceduto il 19 Theptar. Era in fondo una questione di onestà professionale, disse a se stesso. Beenay era un suo vecchio amico e il dottor Athor era indubbiamente un grande astronomo; Sheerin era una persona geniale, onesta e simpatica, e Siferra era una donna affascinante e un'importante archeologa. Non desiderava affatto diventare nemico di persone come loro. Ma doveva scrivere quello che pensava. E quello che pensava, con tutta l'anima, era che il gruppo dell'osservatorio fosse completamente impazzito, tanto quanto gli Apostoli della fiamma, e fosse altrettanto pericoloso per la stabilità sociale. Non era riuscito in alcun modo a prendere sui serio quel che dicevano. Più tempo trascorreva all'osservatorio e più gli sembravano tutti matti. Un pianeta invisibile e apparentemente impossibile da scoprire, la cui orbita lo portava vicino a Kalgash con una frequenza di qualche decennio? Una combinazione di posizioni astronomiche che questa volta avrebbero lasciato solo Dovim in cielo quando il pianeta invisibile sarebbe arrivato? E la luce di Dovim si sarebbe quindi oscurata, gettando il mondo intero nel Buio? E di conseguenza tutti sarebbero impazziti? No, no, questa non la beveva. A Theremon sembravano tutte assurdità, simili a quelle che gli Apostoli della fiamma avevano divulgato per tanti anni. Ma questi ultimi sostenevano per di più l'avvento di quel fenomeno misterioso che definivano «Stelle». Perfino all'osservatorio avevano dovuto ammettere di non riuscire a immaginare di cosa potesse trattarsi. Probabilmente di altri corpi celesti invisibili, che sarebbero apparsi improvvisamente al termine dell'Anno Divino, quando l'ira degli dei sarebbe scesa su Kalgash, almeno secondo gli apostoli. "E’ impossibile,» gli aveva detto Beenay, una sera al Club dei Sei Soli, quando mancavano ancora sei mesi alla data dell'eclissi. "Credo alle eclissi e al Buio, ma alle Stelle no. Non c'è niente nell'universo tranne il nostro mondo, i sei soli e qualche insignificante asteroide... e Kalgash Due.
Se ci sono anche le Stelle, perché non ci accorgiamo della loro presenza? Perché non riusciamo a scoprirle attraverso le perturbazioni orbitali che generano, così come abbiamo scoperto Kalgash Due? No, Theremon, se lassù ci fossero le Stelle, allora ci sarebbe qualcosa di sbagliato nella Teoria della gravitazione universale. E noi sappiamo che quella teoria è giusta.» Sappiamo che quella teoria è giusta, ecco cosa aveva detto Beenay. Ma anche Folimun non aveva detto: "Sappiamo che il Libro delle rivelazioni è un libro di verità?» All'inizio, quando Beenay e Sheerin gli avevano parlato per la prima volta della loro crescente convinzione che ci sarebbe stato un periodo catastrofico di Buio su tutto il mondo, Theremon, in parte scettico e in parte impaurito e impressionato dalle loro visioni apocalittiche, aveva fatto del suo meglio per rendersi utile. "Athor vuole incontrare Folimun," gli aveva detto Beenay. «Sta cercando di scoprire se gli apostoli possiedono degli antichi dati astronomici in grado di confermare quel che abbiamo scoperto. Puoi darci una mano a organizzare un incontro?» "Che buffa idea,» aveva detto Theremon. «L'irascibile e famoso scienziato chiede di incontrare il portavoce delle forze dell'antiscienza, della non-scienza! Ma vedrò quel che posso fare per lui.» L'incontro si rivelò sorprendentemente facile da organizzare. Theremon aveva comunque intenzione di intervistare nuovamente Folimun. L'apostolo dal viso affilato concesse a Theremon un colloquio per il giorno seguente. “Athor?" chiese Folimun, quando il giornalista gli riferi il messaggio di Beenay. «E perché vorrebbe vedermi?» "Forse stà pensando di diventare un apostolo," suggerì Theremon in tono scherzoso. Folimun scoppiò a ridere: "Mi sembra improbabile. Da quel che so di lui, è più probabile che si dipinga tutto di viola e vada a passeggio nudo per Saro Boulevard.» "Chi lo sa, forse si è convertito,» disse Theremon. E dopo una pausa che sperava potesse incuriosirlo aggiunse con cautela: "So per certo che lui e il suo gruppo hanno scoperto qualcosa in grado forse di appoggiare la vostra credenza che il Buio sta per calare sul mondo, il prossimo 19 Theptar." Folimun si permise un minimo segno d'interesse attentamente contenuto, sollevando quasi impercettibilmente il sopracciglio. "Affascinante se fosse vero," disse con calma. «Dovrà incontrarsi con lui, se vuole scoprirlo.» «Forse lo farò,» disse l'apostolo. E lo fece. Cosa successe esattamente fra Folimun e Athor, Theremon non riuscì mai a scoprirlo, nonostante tutti i suoi sforzi. Athor e Folimun si incontrarono da soli, e in seguito, per quanto Theremon riuscì a scoprire, nessuno dei due fece mai parola di quella visita. Beenay, il principale legame di Theremon con l'osservatorio, poté solo fornirgli vaghe ipotesi. "Credo che abbiano parlato di antichi dati astronomici che il mio maestro ritiene in possesso degli apostoli: questo è tutto quanto posso dirti,» gli riferì Beenay. "Athor sospetta che si siano tramandati queste informazioni nel corso dei secoli, addirittura da prima dell'ultima eclissi. Alcuni brani del Libro delle rivelazioni sono scritti in un'antica lingua, ormai dimenticata." "Un antico vaniloquio giustamente dimenticato, vorrai dire. Nessuno è mai riuscito a ricavare un senso da quella roba.» "Io certamente no,» disse Beenay. «Ma secondo l'opinione di rispettabilissimi filologi, quei brani potrebbero essere davvero testi preistorici. E se gli apostoli avessero realmente scoperto un modo per decifrare quella lingua? ma non lo vogliono rivelare, occultando così tutti i dati astronomici che possono essere contenuti nel Libro delle rivelazioni. Può essere questo che Athor sta cercando.» Theremon era stupefatto. «Vuoi dire che l'astronomo più importante del nostro tempo, forse di ogni tempo, sente il bisogno di consultare un gruppo di fanatici isterici su una questione scientifica?" Stringendosi nelle spalle, Beenay disse: "Tutto quello che so è che gli apostoli e le loro dottrine piacciono ad Athor quanto a te, solo che lui pensava di
poter ricavare qualcosa di importante da un incontro con il tuo amico Folimun " "Non è mio amico! Si tratta di una conoscenza strettamente professionale. » "Be', chiamalo come vuoi,» riprese Beenay. Theremon lo interruppe bruscamente. Con sua stessa sorpresa, cominciava ad arrabbiarsi sul serio. "E lascia che ti dica che non mi piacerà affatto se verrò a sapere che voi e gli apostoli avete stretto una specie di patto. Per quel che mi riguarda, gli apostoli rappresentano il Buio... le idee più oscure, più odiosamente reazionarie che esistano. Se date loro spago, ci costringeranno a vivere tutti come nel Medioevo, fra digiuni, castità e flagellazioni. E’ già difficile essere attorniati da psicotici come loro, che vomitano profezie dementi e deliranti per disturbare la quíete della nostra vita quótidiana, ma se un uomo del prestigio di Athor dà peso a quelle ridicole scemenze, includendone alcune nelle sue scoperte, allora comincerò a diventare molto sospettoso, amico mio, di tutto ciò che uscirà dal vostro osservatorio d'ora in poi.» Beenay era rimasto chiaramente sbigottito. «Se solo tu sapessi, Theremon, con quanto disprezzo Athor parla degli apostoli, quanta poca considerazione ha per la loro causa.» «Allora, perché si è abbassato a parlare con loro?» «Ma se tu stesso hai parlato con Folimun» «E diverso. Ti piaccia o meno, Folimun fa notizia in questi giorni. Il mio lavoro è scoprire cosa gli passa per la testa.» "Bene,» disse Beenay, riscaldandosi, "forse Athor vuole fare la stessa cosa." A quel punto avevano lasciato cadere il discorso. Lo scambio di idee si stava trasformando in un litigio, e nessuno dei due lo voleva. Theremon si rese conto che non aveva molto senso accanirsi contro Beenay, visto che quest'ultimo non aveva la minima idea di quale tipo di accordo, se di accordo si fosse potuto parlare, avessero raggiunto Athor e Folimun. Poi però Theremon comprese che quella conversazione con Beenay era sintomatica dell'atteggiamento che avevano cominciato ad assumere Beenay, Sheerin e gli altri dell'osservatorio quando lui si era trasformato da osservatore amichevole e curioso a critico sprezzante e beffardo. Sebbene Theremon avesse contribuito alla realizzazione dell'incontro fra il direttore dell'osservatorio e l'apostolo, quest'evento gli appariva ora come un tradimento fra i più catastrofici, un'ingenua capitolazione da parte di Athor davanti alle forze della reazione e della cieca ignoranza. Theremon non aveva mai creduto fino in fondo alle teorie degli scienziati - nonostante tutte le cosiddette "prove» che gli avevano permesso di esaminare - ma nei suoi articoli aveva mantenuto una posizione piuttosto neutrale, quando le prime notizie sull'eclissi avevano cominciato a trapelare sul Chronicle. "Un annuncio sorprendente," lo aveva definito, «e decisamente agghiacciante, se corrisponde a verità. Come giustamente afferma Athor 77, un periodo prolungato di Buio improvviso in ogni parte del pianeta sarebbe una calamità a noi sconosciuta. Ma dall'altra parte del mondo ci giunge questa mattina una voce di dissenso. 'Con tutto il rispetto dovuto al grande Athor 77,' dichiara Heranian 1104, astronomo reale dell'Osservatorio imperiale di Kanipilitiniuk, 'non esiste al momento alcuna prova certa che il cosiddetto satellite Kalgash Due esista realmente. E non è neppure immaginabile che sia in grado di causare un'eclissi dell'entità prevista dal gruppo di Saro. Dobbiamo tenere presente che i soli, anche un piccolo sole come Dovim, sono immensamente più vasti di un satellite che vaga nello spazio, e ci sembra decisamente improbabile che tale satellite possa assumere quella posizione necessaria a intercettare tutta la luce de sole che raggiunge la superficie del nostro mondo.’" Poi però ci fu il discorso di Mondior 71 del 13 Umilithar, nel quale il Sommo apostolo dichiarò con orgoglio che il più grande uomo di scienza del mondo aveva
legittimato la parola del Libro delle rivelazioni. «La voce della scienza è ormai tutt'uno con quella del cielo," aveva gridato Mondior. "Vi esorto a non confidare ulteriormente in illusioni e miracoli. Ciò che deve avvenire avverrà. Niente può salvare il mondo dall'ira degli dei, tranne la volontà collettiva di abbandonare le vie del peccato, di rigettare il male, di incamminarsi lungo i sentieri della virtù e della rettitudine." Le esplosive affermazioni di Mondior avevano spinto Theremon a prendere posizione. In un primo momento, per rispetto di Beenay, aveva considerato più o meno seriamente l'ipotesi dell'eclissi, ma ora cominciava a considerarla come un'emerita sciocchezza: un gruppo di scienziati che senza basi fondate, ma trascinato solo dall'entusiasmo per una serie di circostanze e di avvenimenti del tutto privi di nessi logici, si era lasciato attrarre da una delle più insensate e balzane teorie del secolo, fino a credere in essa ciecamente. Il giorno seguente Theremon scriveva: «Vi sarete certamente chiesti come hanno fatto gli Apostoli della fiamma a convertire Athor 77. Fra tutti i possibili creduloni, il grande, vecchio astronomo sembrerebbe la persona meno propensa ad abbracciare la causa di questi divulgatori, in toga e cappuccio, di menzogne e formule magiche. Forse qualche apostolo dalla parlantina sciolta ha gettato un incantesimo sul grande scienziato facendolo uscire di senno? Oppure semplicemente, come abbiamo sentito sussurrare dietro le mura coperte d'edera dell'Università di Saro, l'età di pensionamento obbligatorio della facoltà è stata elevata un po' troppo?» E questo fu solo l'inizio. Theremon comprese il ruolo che ora doveva assumere. Se la gente cominciava a prendere sul serio la storia dell'eclissi, ci sarebbero state esplosioni di follia ovunque, senza dover aspettare il sopravvento del Buio. Se tutti avessero cominciato a credere che il giorno del giudizio sarebbe arrivato la sera del 19 Theptar, il panico per le strade sarebbe iniziato molto prima, l'isteria sarebbe stata universale, la legge e l'ordine sarebbero crollati, per lasciare posto a un periodo lunghissimo di instabilità generale e di pericolosa inquietudine. Quando poi il giorno temuto fosse trascorso normalmente, sarebbero seguiti sconvolgimenti emotivi che solo gli dei potevano prevedere. Suo compito doveva essere quello di ridicolizzare la paura della Notte, del Buio, del Giorno del Giudizio, di colpirla con la lancia affilata dell'ironia. E così, quando Mondior tuonò con tutte le sue forze che la vendetta degli dei era ormai prossima, Theremon 762 rispose con bozzetti divertiti, che descrivevano come sarebbe stato il mondo se gli apostoli fossero riusciti a «riformare» la società secondo i loro voleri: gente che andava in spiaggia avvolta in costumi da bagno lunghi fino alle caviglie, lunghe sedute di preghiera fra un'azione e l'altra durante gli incontri sportivi, tutti i grandi libri, i classici teatrali e gli spettacoli di varietà riscritti, eliminando la benché minima traccia di empietà. E quando Athor e il suo gruppo diffusero diagrammi che mostravano i movimenti nel cielo dell'invisibile Kalgash Due, diretta al suo chimerico appuntamento con la pallida luce rossa di Dovim, Theremon pubblicò garbate osservazioni su draghi, giganti invisibili e altri mostri mitologici che piroettavano nei cieli. Quando Mondior ostentò l'autorità scientifica di Athor 77 come una prova tangibile della scientificità delle sue dottrine, Theremon rispose chiedendosi quanto si potesse considerare fondata la competenza di Athor 77, ora che questi era chiaramente squilibrato quanto lo stesso Mondior. Quando Athor invocò un programma radicale che prevedeva rifornimenti di cibo, la conservazione di informazioni scientifiche e tecniche, e di tutto quello di cui l'umanità avrebbe avuto bisogno dopo che la follia avesse avuto il sopravvento, Theremon avanzò l'ipotesi che in alcuni gruppi, la follia si era già propagata e fornì un proprio elenco di oggetti essenziali da riporre nella propria cantina: apriscatole, puntine da disegno, copie della tavola pitagorica, carte da gioco... «Non dimenticate di scrivere il vostro nome su una targhetta e di legarlo al polso destro nel caso lo dimentichiate quando scenderà il Buio.
E appendete anche una targhetta al polso sinistro con sopra scritto: 'Per sapere come vi chiamate, consultate la targhetta all'altro polso..."' Quando Theremon finì di commentare le dichiarazioni degli apostoli e degli astronomi, i suoi lettori non sapevano più dire con certezza quale dei due gruppi fosse più ridicolo: gli Apostoli della fiamma, scatenati profeti di sventure, o gli scienziati dell'Università di Saro, patetici e ingenui, con il naso sempre in su. Ma una cosa era certa: grazie a Theremon, erano ormai pochissime le persone convinte che qualcosa di insolito sarebbe avvenuto la sera del 19 Theptar. 20 Athor, sporgendo in fuori il labbro inferiore in segno di belligeranza, fissò infuriato il giornalista del Chronicle. Riuscì a trattenersi solo con uno sforzo enorme. "Lei qui? Nonostante gli ordini che ho dato? Non ho mai conosciuto una persona più sfacciata!» Theremon tese la mano verso Athor in segno di saluto, come se fosse stato davvero convinto che Athor l'avrebbe stretta. Ma dopo un istante, l'abbassò e rimase a guardare il direttore dell'osservatorio con sorprendente noncuranza. Con la voce tremante, nel tentativo di controllare la rabbia, Athor disse: «Lei ha un'incredibile faccia tosta a presentarsi qui, questa sera. Mi stupisce che osi ancora farsi vedere fra noi.» Da un angolo della stanza, Beenay, passandosi nervosamente la punta della lingua lungo le labbra, disse pieno di inquietudine: «Vede, signore, dopotutto...» «E’ stato lei a invitarlo qui? Sapeva che avevo espressamente proibito..." «A dire il vero...» “E’ stata la dottoressa Siferra,» disse Theremon. «Mi ha invitato molto calorosamente. Sono qui in seguito al suo invito » "Siferra? Siferra? Ne dubito fortemente. Mi ha detto qualche settimana fa che la considera uno sciocco irresponsabile. Ha parlato di lei usando toni molto risentiti.» Athor si guardò intorno. “Dovè, a proposito? Doveva già essere qui, non è vero?» Nessuno rispose. Rivolgendosi a Beenay, Athor aggiunse: “E’ stato lei che ha fatto entrare questo giornalista, Beenay. Sono decisamente sorpreso dal suo comportamento. Non è questo il momento più adatto per un ammutinamento. L'osservatorio è chiuso ai giornalisti, questa sera. E da molto tempo ormai è chiuso a questo giornalista in particolare. Lo accompagni fuori immediatamente.» «Signor direttore,» disse Theremon, «se solo mi lasciasse spiegare le ragioni per cui...» «Ritengo, mio caro giovanotto, che niente di quel che potrà dire possa giustificare i suoi insopportabili articoli quotidiani degli ultimi due mesi. Lei ha condotto una vasta campagna di stampa contro gli sforzi che io e i miei colleghi abbiamo fatto per preparare il mondo ad affrontare la minaccia che sta per abbattersi su di noi. Con le sue critiche spietate ha fatto di tutto per coprire di ridicolo il personale di questo osservatorio." Prese la copia del Saro City Chronicle che era sul tavolo, e la sventolò furiosamente davanti al viso di Theremon. «Perfino un individuo della sua ben nota impudenza avrebbe esitato prima di chiedermi il permesso di poter scrivere un articolo sugli avvenimenti di questa sera. Di tutti i giornalisti, proprio con lei dovevo imbattermi!» Athor scaraventò il giornale a terra, andò alla finestra e si strinse le mani dietro la schiena. «Se ne vada subito,» disse seccamente, volgendo le spalle al giornalista. «Beenay, lo porti fuori di qui.» Athor sentì le tempie che gli pulsavano. Era importante che riuscisse a dominare la sua rabbia, lo sapeva bene. Niente al mondo avrebbe potuto distogliere la sua attenzione dall'enorme disastroso evento che stava per accadere. Con aria cupa, guardò il panorama di Saro, e si sforzò di riacquistare la calma, quel poco di calma che poteva sperare di trovare quella sera.
Onos cominciava a calare all'orizzonte. Di lì a poco la sua luce si sarebbe affievolita e poi confusa con le nebbie lontane. Athor lo guardò tramontare. Sapeva che non l'avrebbe mai più rivisto in condizioni mentali normali. Anche i freddi raggi bianchi di Sitha erano ancora visibili. Quel sole era basso nel cielo, all'orizzonte, dalla parte opposta della città. Il gemello di Sitha, Tano, non era più visibile, ormai tramontato, splendeva già nei cieli dell'emisfero opposto, dove presto si sarebbe potuto godere lo straordinario fenomeno di un giorno a cinque soli; e anche Sitha stava rapidamente scomparendo alla vista. Di lì a un attimo anch'esso sarebbe tramontato. Dietro di sé, sentì Beenay e Theremon parlare fra loro a bassa voce. «E’ ancora qui quell'individuo?» chiese Athor minacciosamente. «Credo che lei, signore,» gli disse Beenay, «dovrebbe ascoltare quello che ha da dirle.» «davvero? Crede che dovrei ascoltarlo?» Athor si voltò di scatto, lo guardò con occhi pieni di rabbia. «Oh, no, Beenay. No, sarà lui ad ascoltare me!» Fece un gesto perentorio in direzione del giornalista, che non aveva accennato a muoversi. «Venga qui, giovanotto! Le darò il materiale che cerca per il suo articolo.» Theremon gli si avvicinò lentamente. Athor cominciò a gesticolare rivolto verso la finestra. «Sitha sta per tramontare; no, è già tramontato. Anche Onos fra qualche minuto sarà scomparso. Di tutti i sei soli, in cielo resterà solo Dovim. Lo vede?» Era una domanda del tutto superflua. Il minuscolo sole rosso sembrava ancor più piccolo del solito quella sera, più piccolo di quanto fosse mai apparso da decenni. Ma era quasi allo zenith, e i suoi raggi rossastri risplendevano spaventosamente, inondando il paesaggio con una straordinaria luce rossa come il sangue, che rivaleggiava con i raggi luminosi di Onos al tramonto. Il viso di Athor, volto verso l'alto, si arrossò completamente alla luce di Dovim. «Entro quattro ore," disse, "la nostra civiltà, cesserà di esistere. E ciò accadrà perché, come vede, Dovim è l'unico sole rimasto in cielo.» Socchiudendo gli occhi volse lo sguardo verso l'orizzonte. L'ultimo sprazzo di luce gialla di Onos era scomparso. «Ecco fatto. E’ rimasto solo Dovim! Fra quattro ore tutto finirà. Pubblichi questa notizia! Ma non ci sarà nessuno che la leggerà.» «Ma mettiamo che passino quattro ore, poi altre quattro, e non succeda niente?» chiese Theremon con voce pacata. «Questo non deve preoccuparla. Accadranno un sacco di cose, glielo assicuro." "Forse ha ragione. Ma se non fosse così?» Athor cercava di reprimere la rabbia che cresceva dentro di sé. “Se non se ne va subito, e se Beenay si rifiuta di portarla via di qui, chiamerò i sorveglianti dell'università. No. Non permetterò che nell'ultima sera della nostra civiltà vengano fatte delle scortesie. Le concedo cinque minuti, giovanotto, per parlare. Scaduto questo tempo, o le permetterò di restare a vedere l'eclissi con noi o se ne andrà di sua spontanea volontà. D'accordo?» Theremon esitò per un breve istante, poi disse: «Mi sembra un accordo equo." Athor estrasse il suo orologio da taschino. "Cinque minuti, allora." «Bene! Per prima cosa: che differenza farebbe se lei mi permettesse di raccogliere una testimonianza di prima mano di quello che sta per
avvenire? Se la vostra previsione è esatta, la mia presenza non avrà alcuna importanza; il mondo finirà, domani non ci saranno giornali, non potrò nuocervi in alcun modo. Ma d'altra parte, cosa accadrà se non ci sarà alcuna eclissi? Sarete coperti di ridicolo, tutto il mondo vi riderà alle spalle. Non pensa che sarebbe saggio se a orchestrare quelle risate fossero delle mani amiche?» Athor sbuffò: «Intende dire le sue mani?» «Certo!» Theremon si lasciò cadere con disinvoltura sulla sedia più comoda della stanza, e incrociò le gambe. «Forse i miei articoli sono stati a volte un po' duri, d'accordo, ma ogni volta che mi è stato possibile vi ho lasciato il beneficio del dubbio. Beenay è un mio amico, tutto sommato. E’ stato per merito suo che ho avuto sentore di quello che stava succedendo qui dentro, e lei probabilmente ricorderà che all'inizio vedevo di buon occhio le vostre ricerche. Ma... è questo che vorrei chiederle, dottor Athor... come ha potuto, lei che è uno dei più grandi scienziati della storia, dimenticare che il secolo attuale è l'era del trionfo della ragione sulla superstizione, della realtà sulla fantasia, della scienza sulla paura cieca? Gli Apostoli della fiamma sono un insensato anacronismo. Il Libro delle rivelazioni è una massa raffazzonata di sciocchezze. Tutte le persone intelligenti, le persone moderne lo sanno. E quindi la gente è infastidita, irritata perfino, dal fatto che gli scienziati abbiano cambiato atteggiamento e ci abbiano detto che quel che predicano quei fanatici è la verità. La gente...» "Su questo si sbaglia, giovanotto,» lo interruppe Athor. «Se è vero che alcuni dei nostri dati ci sono stati forniti dagli apostoli, i risultati da noi ottenuti sono però scevri del loro misticismo. I fatti restano tali, e non si può negare che le 'sciocchezze' degli apostoli, come lei le definisce, siano fondate su di essi. L'abbiamo scoperto con nostra somma mortificazione, questo posso assicurarglielo. Ma abbiamo respinto con sdegno le loro fantasie misticheggianti e abbiamo fatto il possibile per separare i loro moniti contro il disastro imminente, del tutto legittimi, dal loro assurdo e insostenibile programma per trasformare e 'riformare' la società. Le assicuro che al momento gli apostoli ci odiano molto più di lei.» «Io non vi odio. Sto solo cercando di dirle che l'opinione pubblica non vi vede di buon occhio. La gente ce l'ha con voi." Athor storse la bocca in segno di scherno: «Li lasci fare!» "Sì, ma cosa accadrà domani?» "Non ci sarà alcun domani!» «Ma se ci fosse? Poniamo il caso che ci sia, ragionando per assurdo, se vuole. La rabbia che la gente prova contro di voi potrebbe trasformarsi in qualcosa di più serio. Dopotutto, come certamente sa, l'intero mondo finanziario è precipitato negli ultimi mesi. La borsa è crollata tre volte, o forse non l'ha notato? Gli speculatori dotati di buon senso non credono davvero che il mondo stia per finire, ma ritengono che gli altri potrebbero pensarlo, e così i più furbi cominciano a vendere prima che inizi il panico, essendo loro stessi a farlo esplodere in questo modo. Poi ricomprano tutto e rivendono non appena il mercato è in ripresa, il ciclo ricomincia da capo. E’ cosa crede che sia accaduto nel mondo del commercio? Anche l'uomo della strada non vi crede, ma che senso ha acquistare nuovi mobili per la veranda proprio adesso? Meglio tenersi stretti i propri soldi, non si sa mai, o investirli in rifornimenti e munizioni. I mobili possono aspettare. Ha capito qual è il punto, dottor Athor? Non appena questa storia sarà finita, gli uomini d'affari vorranno farle la pelle. Diranno che se degli idioti, mi scusi il termine, degli idioti mascherati da seri scienziati, possono sconvolgere l'economia dell'intero paese come e quando vogliono, semplicemente facendo delle previsioni assurde, allora è compito della nostra nazione impedire che questi inconvenienti si ripetano. Vedrà che scintille, dottore!» Athor guardò il giornalista con indifferenza. I cinque minuti erano quasi trascorsi.
«E cosa propone di fare per aiutarci in questo frangente?" «Allora,» disse Theremon, sogghignando, «stia a sentire cos'ho in mente: a partire da domani, curerò in modo informale le vostre relazioni pubbliche. Con questo intendo dire che cercherò di placare la rabbia collettiva che si scaglierà contro di voi, allo stesso modo in cui ho cercato di alleviare la tensione che la nazione provava... con l'ironia, mettendovi in ridicolo, se necessario. Lo so, lo so, sarà duro da sopportare, perché dovrò farvi apparire come una massa di idioti. Ma se riesco a non farvi prendere sul serio, forse la gente dimenticherà di essere arrabbiata con voi. In cambio, tutto quello che chiedo è un servizio in esclusiva dall'osservatorio, questa sera.» Athor rimase in silenzio. Beenay si inserì con impeto fra i due: "Dottor Athor, credo che valga la pena prendere in considerazione la proposta di Theremon. So che abbiamo esaminato tutte le eventualità, ma c'è sempre una possibilità su un milione, una su un miliardo, che ci sia un errore da qualche parte, nella nostra teoria o nei nostri calcoli. E se fosse così...» Si sentì il bisbiglio delle altre persone nella stanza, e Athor lo interpretò come un segno di approvazione. Per gli dei, l'intero istituto si stava ribellando contro di lui? L'espressione di Athor divenne simile a quella di chi si ritrova un amaro sapore in bocca e non riesce a liberarsene. "Dovrei permettergli di rimanere con noi in modo che domani possa ridicolizzarci ancor di più? Non sono ancora completamente arteriosclerotico!» «Ma le ho già spiegato che la mia presenza qui non avrà alcuna conseguenza,» replicò Theremon. «Se ci sarà un'eclissi, se il Buio scenderà su di noi, il mio comportamento sarà improntato alla massima riverenza e vi fornirò tutto l'aiuto possibile nel periodo critico che seguirà. Ma se non avviene niente di insolito, sono pronto a offrire i miei servizi nella speranza di proteggere lei, dottor Athor, contro l'ira dell'opinione pubblica che..." "Per favore," disse un'altra voce. «Lo faccia restare, dottor Athor." Athor si guardò intorno. Senza che se ne fosse accorto, nella stanza era entrata Siferra. «Scusate il ritardo. All'ultimo momento è sorto un piccolo problema all'istituto di archeologia che complica un po' le cose, e… » Lanciò un'occhiata a Theremon che ricambiò il suo sguardo. Rivolta ad Athor, aggiunse: «La prego, non se la prenda. So perfettamente con quanta perfidia si è beffato di noi, ma gli ho chiesto di venire qui questa sera perché potesse rendersi conto che avevamo ragione. E’ mio ospite, dottore." Athor chiuse gli occhi per un attimo. Ospite di Siferra! Questo era troppo. Perché non invitare anche Folimun, allora? E perché non Mondior, a questo punto? Ma non aveva più voglia di discutere. Non ce n'era il tempo. E ormai era evidente che a nessun altro importava molto se Theremon rimaneva o meno all'osservatorio durante l'eclissi. Che importanza aveva? C'era ancora qualcosa che avesse importanza, ormai? Rassegnato, Athor disse: "Va bene. Rimanga pure, se è questo che vuole. Ma la prego di non intralciarci in alcun modo durante le nostre operazioni. Chiaro? Stia in disparte per quanto le è possibile. E inoltre ricordi che il direttore qui dentro sono io, e nonostante le opinioni da lei espresse sul suo giornale, mi aspetto piena collaborazione e totale rispetto.» 21 Siferra attraversò la stanza e si avvicinò a Theremon.
A bassa voce gli disse: "Non mi aspettavo di vederti qui, questa sera.» «E perché no? Dicevi sul serio quando mi hai invitato, non è vero?» "Certo! Ma sei stato così di cattivo gusto nei tuoi attacchi, così... così perfido negli articoli che hai scritto su di noi...» "La parola che hai usato è irresponsabile,» disse Theremon. Siferra arrossì: «Sì, anche irresponsabile. Non immaginavo che saresti riuscito a guardare Athor in viso, dopo le cose terribili che hai detto di lui.» «Farò molto di più che reggere il suo sguardo, se le sue sinistre previsioni sono esatte. Mi getterò in ginocchio ai suoi piedi, e implorerò umilmente il suo perdono.» «E se invece le sue previsioni sono sbagliate?" «Allora sarà lui ad avere bisogno di me," disse Theremon. «Voi tutti avrete bisogno di me. Il posto migliore in cui posso trovarmi stasera è qui, all'osservatorio." Siferra lanciò al giornalista uno sguardo sbigottito. Theremon aveva la prerogativa di dire sempre qualcosa di inatteso. Non era ancora riuscita a farci l'abitudine. Lui non le piaceva affatto, ovviamente, era perfino inutile dirlo. Ogni cosa in lui - la sua professione, il suo modo di parlare, i vestiti vistosi che indossava sempre le sembrava volgare e di cattivo gusto. La sua persona, nel complesso, era per lei un simbolo di ciò che aveva sempre detestato, cioè di quel mondo rozzo, grossolano, squallido, ordinario e repellente, al di là delle mura dell'università. Eppure, eppure, eppure... Nonostante tutto, c'erano degli aspetti in questo Theremon che erano riusciti a conquistare la sua riluttante ammirazione. Per cominciare era un tipo deciso: se si metteva in testa qualcosa, niente poteva fermarlo. E Siferra lo apprezzava per questo. Era franco, perfino brusco nella sua schiettezza: un netto contrasto con i personaggi accademici infidi, intriganti e arrivisti che le giravano intorno al campus. Era anche intelligente, su questo non c'era niente da dire, anche se aveva scelto di usare la sua intelligenza vigorosa e indagatrice in un campo sciocco e senza senso, quale il giornalismo. E Siferra rispettava anche il suo vigore fisico: Theremon era alto, robusto e godeva chiaramente di ottima salute. Siferra non aveva mai tenuto in grande considerazione gli smidollati. Lei stessa aveva fatto molta attenzione a non diventare tale. A dire il vero, si rese conto... per quanto fosse inverosimile, per quanto il solo pensiero la imbarazzasse... che per certi aspetti era attratta da lui. Due opposti che si attraggono? pensò. Sì. Sì, si poteva metterla in questo modo. Ma non era esattamente così. Siferra sapeva bene che al di là delle loro diversità superficiali, lei e Theremon avevano in comune molto più di quanto fosse disposta ad ammettere. Guardò con inquietudine verso la finestra. "Comincia a imbrunire là fuori,» disse. «Il cielo è più scuro di quanto l'abbia mai visto.» «Spaventata?» chiese Theremon. «Del Buio? No, non proprio. Ma sono spaventata di quello che avverrà dopo. Anche tu dovresti esserlo.» "Quello che avverrà dopo,» rispose lui, «sarà l'alba di Onos, e credo che anche qualche altro sole risplenderà domani, e tutto sarà come prima.» «Mi sembri molto sicuro di quello che affermi.» Theremon scoppiò a ridere. «Onos continua a sorgere ogni mattina da quando sono nato. Perché dovrei dubitare che sorgerà anche domani?» Siferra scosse il capo. Theremon cominciava nuovamente a infastidirla con la sua testardaggine.
Le era difficile credere che solo qualche attimo prima aveva pensato di sentirsi attratta da lui. Disse freddamente: «Onos sorgerà domani, ma illuminerà uno scenario talmente devastato, che una persona dall'immaginazione limitata come la tua è evidentemente incapace di prevedere.» «Incendi ovunque, vuoi dire? E tutti che se ne vanno in giro come pazzi mentre la città brucia?» "Le prove archeologiche indicano che...» «Incendi, sì. Olocausti ciclici. Ma solo in un luogo limitato, a migliaia di chilometri da qui e migliaia di anni fa.» Gli occhi di Theremon risplendettero d'improvvisa vitalità. «E dove sono le prove archeologiche che indicano che esploderà la follia collettiva? E’ una deduzione che trai da tutti quegli incendi? Come puoi essere certa che non si trattava soltanto di fuochi rituali, accesi da uomini e donne perfettamente normali, con l'intenzione di riportare indietro i soli e di scacciare il Buio? Fuochi che ogni volta si espandevano e causavano grossi danni, certo, ma che non erano in alcun modo il risultato della degenerazione mentale di una parte della popolazione?» Siferra lo fissò con tranquillità. «Abbiamo prove archeologiche anche di questo. Dell'esplosione di follia collettiva, voglio dire.» "davvero?" «I testi delle tavolette. Solo questa mattina abbiamo finito di confrontarli con le indicazioni linguistiche fornite dagli Apostoli della fiamma." Theremon scoppiò a ridere fragorosamente: "Gli Apostoli della fiamma! Splendido! così sei diventata un apostolo anche tu! Che peccato, Siferra, una donna carina come te che ora dovrà infagottarsi in una di quelle loro orribili, informi e ingombranti divise.» «Oh!" esclamò Siferra, soffocando un'esplosione di collera e di disgusto «Non sai fare altro che prendere in giro, Theremon? Sei talmente convinto di avere ragione che anche quando sbatterai il naso contro la realtà, non riuscirai a fare altro che qualche penosa battuta! Oh, sei... sei insopportabile...» Si voltò e si allontanò rapidamente. «Siferra, Siferra, aspetta.» Ma lei lo ignorò. Il cuore le batteva forte dalla rabbia. Capiva ora che era stato un enorme errore invitare all'osservatorio una persona come Theremon, la sera dell'eclissi. Un errore, in effetti, anche quello di averci avuto a che fare. Era colpa di Beenay, pensò. Era tutta colpa di Beenay. Era stato Beenay, infatti, a presentarle Theremon, un giorno di molti mesi prima al bar della facoltà. Sembrava che il giornalista e il giovane astronomo si conoscessero da molto tempo, e che Theremon consultasse Beenay ogni volta che gli servissero dell' informazioni su questioni scientifiche. A quei tempi, Theremon si era mostrato interessato alla predizione di Mondior 71, secondo la quale il mondo sarebbe finito i 19 Theptar, data a cui allora mancava circa un anno. Nessuno all'università, ovviamente, aveva mai preso in minima considerazione Mondior e i suoi apostoli, ma fu proprio in quel periodo che Beenay aveva fatto notare le apparenti irregolarità nell'orbita di Kalgash, e Siferra gli aveva riferito dei suoi rinvenimenti alla collina di Thombo, degli incendi che si ripetevano a intervalli di 2000 anni. Ed entrambe le scoperte, ovviamente, avevano la sconcertante prerogativa di rafforzare la plausibilità delle teorie degli apostoli. Sembrava che Theremon conoscesse già tutto sulle scoperte d Siferra a Thombo. Quando il giornalista entrò nel bar della fa coltà - per pura coincidenza sia Siferra che Beenay si trovavano già lì - Beenay si era limitato a dire: «Theremon, ti presento la mia amica Siferra dell'istituto di archeologia,» e il giornalista aveva immediatamente replicato: «Ah, certo. Quella dei villaggi sovrapposti, incendiati, su quella vecchia collina.» Siferra aveva risposto con un sorriso glaciale: «L'ha già saputo?” Beenay si inserì prontamente: «Gliel'ho detto io. So che ti avevo promesso di non parlarne con nessuno, ma visto che avevi rivelato tutto ad Athor, Sheerin e gli altri, ho pensato che non ti sarebbe importato se glielo avessi detto, ovviamente gli ho fatto giurare di mantenere il segreto.
Vedi, Siferra, mi fido di lui, sul serio, e sono certissimo che...» "Non preoccuparti, Beenay,» disse Siferra, sforzandosi di nascondere il fastidio che provava. «Avrei preferito che tu non dicessi niente, ma non ha importanza.» «Non ha fatto niente di male,» disse Theremon. «Beenay mi ha fatto giurare solennemente di non rivelare questa storia. Ma è affascinante. davvero affascinante. Quant'è antica la città ai piedi della collina? Cinquantamila anni, vero?» «Più probabilmente quattordici o sedicimila anni,» rispose Siferra. «Un'età abbastanza rispettabile, se si considera che Beklimot - conosce Beklimot, suppongo? - che risale a circa venti secoli fa, è stata fino a oggi considerata il più antico insediamento su Kalgash. Non avrà intenzione di scrivere un pezzo sulle mie scoperte, spero?" "In realtà non ce l'avevo. Gliel'ho già detto, avevo dato la mia parola a Beenay. Inoltre, ritenevo che fosse un argomento un po' astruso per i lettori del Chronicle, lontano dai loro interessi quotidiani. Ma ora credo che si tratti di una grossa notizia. Perché non ci incontriamo con calma e mi fornisce i particolari?» «Preferirei di no,» disse seccamente Siferra. «A che cosa si riferisce questo no? Al fatto di incontrarsi con me o al fornirmi particolari?" La sua risposta rapida e impertinente gettò improvvisamente una luce nuova sulla loro conversazione. Siferra realizzò, con vago senso di fastidio e di sorpresa, che il giornalista era attratto da lei. E capì, pensando ai minuti appena trascorsi, che Theremon doveva essersi chiesto se ci fosse stato del tenero fra lei e Beenay, visto che li aveva trovati seduti al bar insieme. Ma alla fine, il giornalista aveva deciso che fra loro non c'era niente e aveva quindi fatto un primo, vago approccio. Peggio per lui, pensò Siferra. Siferra rispose in tono deliberatamente indifferente: "Non ho ancora pubblicato le scoperte fatte a Thombo su nessuna rivista scientifica. Sarebbe preferibile che fino a quel momento la stampa non ne parlasse.» «Capisco perfettamente. Ma se prometto di aspettare fino a che il suo lavoro non verrà divulgato agli specialisti, mi permette nel frattempo di dare un'occhiata al materiale da lei raccolto?" «Ma..." Gettò uno sguardo a Beenay. Quanto valeva, in fondo, la promessa di un giornalista? «Di lui puoi fidarti,» disse Beenay. "Te l'ho già detto: nell'ambito del proprio lavoro è una persona fidata.» «Il che non è molto,» aggiunse Theremon, ridendo. «Ma so bene che non mi conviene rompere la mia promessa su una questione del genere. Se rivelassi la sua storia con troppo anticipo, il mio amico Beenay coprirebbe d'infamia il mio nome in tutta l'università. E ho bisogno dei miei contatti in facoltà, per la maggior parte delle notizie di un certo interesse. Allora, che ne direbbe di un'intervista? Diciamo, dopodomani?» Era cominciata così. Theremon era stato molto convincente. Siferra acconsentì infine a pranzare con lui e a poco a poco, con molta astuzia, Theremon le carpì tutti i particolari degli scavi di Thombo. In seguito lei se ne pentì - il giorno seguente era convinta di trovare un articolo stupido, pieno di esagerazioni sul Chronicle - ma Theremon mantenne la parola e non pubblicò niente. Le chiese però di vedere il suo laboratorio. Lei cedette nuovamente e il giornalista ispezionò le mappe, le fotografie, i campioni di cenere. Le pose anche delle domande sensate. "Ora che ha visto tutto questo, non ha intenzione di scriverne, vero?» gli chiese lei nervosamente. «Ho promesso che non l'avrei fatto. E non lo farò. Solo quando mi dirà che sta per pubblicare le sue scoperte su una rivista scientifica, mi riterrò libero di rivelare ogni cosa.
Che ne direbbe di cenare con me al Club dei Sei Soli, domani sera?» "Per dire la verità...» "Dopodomani sera, allora?» Siferra si recava assai di rado in locali come il Sei Soli. Non voleva dare la falsa impressione di essere interessata alla vita mondana. Theremon però era un osso duro. Con garbo, allegria e abilità, la convinse a uscire con lui, di lì a dieci giorni. Che importanza può avere, pensò Siferra. Theremon non era male fisicamente. Sarebbe stato un simpatico diversivo alle fatiche incessanti del proprio lavoro. Si incontrarono al Club dei Sei Soli, dove tutti sembravano conoscerlo. Presero un aperitivo, cenarono e bevvero un ottimo vino della provincia di Thamian. Theremon condusse la conversazione, toccando con abilità diversi argomenti: fece parlare Siferra della sua vita, della sua passione per l'archeologia, e degli scavi a Beklimot. Scoprì che non si era mai sposata e che il matrimonio non la interessava affatto. Parlò con lei degli apostoli, delle loro deliranti profezie, delle sorprendenti coincidenze fra le sue scoperte a Thombo e i discorsi di Mondior. Tutto quello che le diceva era discreto, intelligente, interessante. Siferra lo trovava molto affascinante e anche molto abile. Alla fine della serata le chiese - sempre con molto garbo, allegria e abilità - se poteva accompagnarla a casa. Ma lei a quel punto si tirò indietro. Theremon non sembrò affatto turbato dal suo rifiuto. Le chiese anzi di uscire nuovamente con lui. Dopo quella sera, per un periodo di circa due mesi, uscirono insieme altre due o tre volte. Il programma della serata era sempre uguale: cena in un locale elegante, conversazione ottimamente condotta da Theremon, e infine un invito, fatto sempre con molto tatto, a trascorrere il periodo di sonno con lui. E ogni volta Siferra declináva l'invito con lo stesso tatto. Stava diventando un gioco piacevole, questo frivolo corteggiamento. Siferra si chiedeva quanto tempo sarebbe durato. Non desiderava ancora particolarmente andare a letto con lui, ma la cosa strana era che non sentiva più il desiderio di non farlo. Da molto tempo non provava queste emozioni per un uomo. Poi arrivò il primo di una serie di articoli, nei quali Theremon attaccava le teorie dell'osservatorio, metteva in dubbio la sanità mentale di Athor, paragonava le previsioni degli scienziati sull'eclissi alle folli farneticazioni degli Apostoli della fiamma. All'inizio Siferra non poteva crederci. Era uno scherzo o cos'altro? L'amico di Beenay, il suo amico, ormai, che li attaccava con tanta veemenza? Passò qualche mese. Gli attacchi continuarono. Theremon non si faceva più sentire. Alla fine non ce la fece più a tacere. Gli telefonò al giornale. «Siferra! Che piacere! Non ci crederai, ma ti avrei chiamato oggi pomeriggio per chiederti se ti andava di...» «Non mi va,” disse Siferra. “Theremon che cosa stai facendo? “Io?” «Parlo dei pezzi che hai scritto su Athor e l'osservatorio. " Dall'altra parte della linea telefonica ci fu un lunghissimo silenzio. Infine Theremon disse: «Ah, sei sconvolta.» "Sconvolta? Sono fuori di me dalla rabbia!» "Forse ritieni che io sia stato troppo spietato. Ma vedi, Siferra,quando si scrive per della gente comune, e alcuni lettori, ti assicuro, sono molto comuni, bisogna descrivere il mondo in bianco e nero, altrimenti si corre il rischio di essere fraintesi.
Non posso limitarmi a dire che credo che Athor e Beenay abbiano torto. Devo dire che sono pazzi. Mi segui?" «Da quando ti sei fatto questa opinione? E Beenay sa quello che pensi?» «Senti...» «Sei stato dalla nostra parte per mesi, e ora hai fatto un volta faccia completo. A sentire te, si potrebbe pensare che tutti all'università siano diventati discepoli di Mondior, e che per di più siano rincretiniti. Se avevi proprio bisogno di trovare uno zimbello per le tue stupide spiritosaggini, non potevi cercarlo fuor dall'ambiente universitario?» «Non si tratta solo di spiritosaggini, Siferra,» disse Theremon con calma. “Credi davvero a quello che hai scritto?" "Sì. Sul serio. Non ci sarà nessun cataclisma, ecco quello che penso. E Athor sta tirando il freno d'emergenza in un treno pieno di gente. Con le mie battute, inserendo qualche amabile spiritosaggine qua e là, sto cercando di dire alla gente che non deve per forza prenderlo sul serio, che non deve farsi prender dal panico, né lasciarsi andare a gesti inconsulti.» «Cosa?» esclamò Siferra. «Ma ci sarà certamente un enorme incendio, Theremon! Con queste tue incoscienti cretinate, stai giocando con il fuoco, mettendo a repentaglio il bene di tutti. Stammi a sentire attentamente: io ho visto le ceneri degli incendi precedenti, quelli di migliaia di anni fa. So cosa sta per accadere. Le Fiamme scenderanno su di noi. Su questo non ho il minimo dubbio. E la posizione che hai preso è la più dannosa possibile, Theremon. E’ stupida, crudele e odiosa. E assolutamente irresponsabile.» "Siferra...» "Credevo che tu fossi una persona intelligente. Invece ora capisco che sei esattamente come tutti gli altri.» «Sifer...» Mise giù il ricevitore. E non volle più parlargli, rifiutandosi di rispondere a tutte le sue telefonate fino a qualche settimana prima del fatidico giorno. All'inizio di Theptar, Theremon le telefonò per l'ennesima volta, e Siferra si trovò a parlare con lui, prima ancora di riuscire a capire di chi si trattasse. "Non riappendere,» disse lui, frettolosamente. "Concedimi un minuto.» "Preferirei di no.» «Stai a sentire, Siferra. Puoi odiarmi finché vuoi, ma voglio che tu sappia che non sono crudele e nemmeno stupido." "E chi l'ha detto?» "Tu stessa, mesi fa. L'ultima volta che abbiamo parlato insieme. Ma non è così. Tutto quello che ho scritto sull'eclissi l'ho pubblicato perché ci credevo.» "Allora sei davvero stupido. O pazzo, in ogni caso. Il che può essere diverso, ma non migliora la tua situazione." «Mi sono basato sull'evidenza dei fatti. E credo che voi, invece, siate saltati direttamente alle conclusioni.» Siferra disse freddamente: «Bene, il 19 del mese scopriremo chi ha ragione." "Vorrei potervi credere, perché tu e Beenay e tutti gli altri siete persone ottime, affettuose, brillanti e tutto il resto. Ma non posso. Sono uno scettico, per natura. Lo sono sempre stato. Non riesco ad accettare nessun tipo di dogma che gli altri cercano di farmi credere. Ritengo che sia una grossa pecca del mio carattere; è questo che mi fa sembrare superficiale. Forse lo sono. Ma almeno sono onesto.
Semplicemente non credo che ci sarà un'eclissi, né che tutti impazziranno e appiccheranno il fuoco dappertutto.» «Non si tratta di un dogma, Theremon, ma di un'ipotesi." «Questo è solo un gioco di parole. Mi dispiace se ho scritto qualcosa che ti ha offeso, ma non posso farci niente, Siferra." Rimase zitta per un momento. C'era qualcosa nella voce del giornalista che l'aveva stranamente colpita. Infine disse: «Dogma, ipotesi o quel che sia, fra qualche settimana sapremo di che si tratta. Io sarò all'osservatorio la sera del 19 Theptar. Vieni anche tu, così vedremo chi di noi ha ragione.» "Ma non te l'ha detto Beenay? Athor mi ha dichiarato 'persona non gradita' all'osservatorio!" "E quando mai una cosa del genere ti ha fermato?» "Si rifiuta perfino di parlare con me. Sai, ho una proposta da fargli, qualcosa che gli sarebbe di grande aiuto dopo il 19, quando tutto questo incredibile castello in aria che ha costruito crollerà, e il mondo intero vorrà fargli la pelle. Ma Beenay mi ha detto che Athor non ha la minima intenzione di parlare con me, e tanto meno di darmi il permesso di restare all'osservatorio la sera del 19.» "Ti invito io. Digli che sei mio ospite che ti ho dato appuntamento lì,» disse Siferra con sarcasmo. «Athor sarà troppo affaccendato per badare a te. Voglio che tu sia in quella stanza insieme a me, quando il cielo si oscurerà e i primi fuochi divamperanno. Voglio vedere la tua faccia in quel momento. Voglio vedere, Theremon, se sei tanto bravo a scusarti quanto lo sei a fare la corte alle donne.» 22 Questo era successo tre settimane prima. Allontanandosi con rabbia da Theremon, Siferra si diresse verso l’altra parte della stanza, e si accorse che Athor era intento a leggere una serie di tabulati. Continuava a voltare desolatamente una pagina dopo l’altra, come se stesse cercando di trovare una speranza per il mondo nascosta da qualche parte, fra quelle fitte colonne di numeri. Poi alzò gli occhi e la vide. Arrossì. “Dottor Athor, credo di doverle chiedere scusa per aver invitato qui quell’uomo proprio stasera, dopo quello che ha scritto su di noi, su di lei, su…” Scosse il capo. “Credevo realmente che sarebbe stato utile per lui trovarsi in mezzo a noi, ma… ma… insomma, mi sbagliavo. E’ ancora più superficiale e sciocco di quanto immaginavo. Non avrei mai dovuto invitarlo qui.” Athor replicò senza forza: “Non ha più alcuna importanza, ormai, non le pare? Se sta alla larga da me, può anche rimanere. Ancora qualche ora, e niente avrà più importanza. Fece un gesto in direzione della finestra, verso il cielo. “E’ scuro! Molto scuro, ma mai scuro come sarà fra breve. Ma dove sono Faro e Yimot? Li ha visti, per caso? No? Quando è entrata, dottoressa, mi ha detto che aveva appena avuto qualche problema al suo ufficio. Niente di serio, spero.” “Le tavolette di Thombo sono scomparse,” rispose Siferra. “Scomparse?” “Erano nella cassaforte insieme ad altri reperti. Poco prima di venire qui, il dottor Mudrin è passato nel mio ufficio. Si stava recando al rifugio, ma voleva verificare un’ultima cosa nella sua trascrizione. Gli era venuta una nuova idea. Così abbiamo aperto la cassaforte e… non c’era niente. Erano scomparse, tutte e sei. Abbiamo delle copie, ovviamente, ma gli originali, gli autentici reperti…” “Come può essere successo?” chiese Athor. Siferra rispose con amarezza: “Non è evidente? Le hanno rubate gli apostoli. Probabilmente per usarle come una sorta di talismano sacro, dopo che il Buio sarà calato e la catastrofe sarà compiuta.” “Ci sono degli indizi?” “Non sono un detective, dottor Athor. Non ho trovato niente che potesse essermi d’aiuto, ma certamente sono stati loro. Da quando hanno saputo che le custodivamo noi, hanno fatto di tutto per averle. Oh, vorrei non aver mai detto una sola parola su quelle tavolette!
Vorrei non averne mai parlato con nessuno!” Athor le prese le mani. “Non sia così turbata, ragazza mia.” Ragazza mia! Siferra lo fissò sbalordita. Nessuno aveva mai osato chiamarla così negli ultimi venticinque anni. Ma trattenne la rabbia. Era vecchio, dopotutto. E cercava solo di essere gentile. “Lasciagliele pure, quelle tavolette,” riprese Athor. “Non ha alcuna importanza. Grazie a quel tale laggiù, niente ha più importanza, non le pare?” Siferra si strinse nelle spalle. “Non sopporto comunque l’idea che un ladro con il saio da apostolo sia penetrato nel mio ufficio… abbia scassinato la mia cassaforte, e abbia portato via quelle cose che avevo scoperto con le mie stesse mani. E’ quasi come se avessero violato il mio corpo. Mi capisce, dottor Athor? Il furto di quelle tavolette è stato quasi come uno stupro.” “Comprendo il suo turbamento,” disse Athor con un tono che indicava chiaramente che non lo comprendeva affatto. “Guardi, guardi là. Com’è luminoso Dovim, questa sera! E fra breve tutto sarà avvolto dal buio.” Siferra fece un vago sorriso e si allontanò. Intorno a lei si muoveva in gran fretta il personale dell’osservatorio. Tutti correvano da una parte all’altra della stanza, facendo verifiche, discutendo, precipitandosi alla finestra, indicando qualcosa fuori, parlando sottovoce. Di tanto in tanto, qualcuno entrava correndo e portava nuovi dati forniti dal telescopio sulla cupola. Siferra si sentiva del tutto fuori posto fra quegli astronomi. E completamente sfiduciata, più triste che mai. Athor deve avermi contagiato con il suo fatalismo, pensò. Era così depresso, così smarrito. Non sembrava più neanche lui. Avrebbe voluto ricordare al vecchio astronomo che non era il mondo che sarebbe finito quella sera, ma solo l'attuale ciclo sociale. Loro avrebbero ricostruito un'altra civiltà. Quelli che erano al sicuro, nascosti, sarebbero usciti allo scoperto e avrebbero iniziato tutto da capo, come era già avvenuto tante volte in precedenza... venti volte, forse, o cento... fin dal principio della civiltà su Kalgash. Ma questo non sarebbe stato di alcun conforto per Athor, come non lo era stato per lei quando lo scienziato le aveva detto di non preoccuparsi per la scomparsa delle tavolette. Athor aveva sperato che il mondo potesse prepararsi per la catastrofe e difendersi da essa. E invece solo un piccolo gruppo di persone aveva dato ascolto ai suoi moniti. Soltanto quei pochi che ora si trovavano nel rifugio dell'università, o negli altri rifugi che erano stati preparati altrove. Beenay le si avvicinò. «E’ vero quello che mi ha detto Athór? Le tavolette sono scomparse?" «Sì, le hanno rubate. Sapevo che non avrei mai dovuto prendere contatti con gli apostoli.» «Pensi che siano stati loro a rubarle?» chiese Beenay in tono sorpreso. «Ne sono certa,» rispose Siferra con amarezza. "Non appena è stata resa pubblica l'esistenza delle tavolette di Thombo, mi hanno mandato a dire che possedevano delle utili informazioni per me. Non te ne avevo parlato? Probabilmente no. Volevano fare con me un patto simile a quello che Athor aveva stretto con quel loro Alto sacerdote, quel Folimun 66. 'Conserviamo delle nozioni dell'antica lingua,' aveva detto Folimun, 'quella parlata nel passato Anno Divino.' E pare che le avessero davvero. Custodivano, infatti, una moltitudine di testi, dizionari, vecchi alfabeti, e forse anche qualcos'altro.» «E Athor è riuscito ad avere questo materiale?» «Una parte. In ogni caso, sufficiente a stabilire che gli apostoli erano effettivamente in possesso di dati astronomici relativi alle eclissi precedenti... sufficiente, come ha detto Athor, a dimostrare che il mondo ha già dovuto subire un disastro di immani proporzioni almeno una volta.» Athor, proseguì Siferra, le aveva procurato alcune copie dei pochi frammenti di testi astronomici ricevuti da Folimun. Lei li aveva mostrati a Mudrin, che aveva trovato tali documenti molto utili per la sua traduzione.
Ma Siferra, in un primo momento, aveva esitato a dare le tavolette agli apostoli; o almeno, non alle loro condizioni. Gli apostoli dicevano di possedere dei mezzi per tradurre le tavolette più antiche, e forse questo era vero. Folimun, tuttavia, anziché darle il materiale necessario alla loro decodifica, aveva insistito per avere gli originali da copiare e tradurre. Non si accontentava di copie, ma pretendeva i reperti autentici, altrimenti non vi sarebbe stato alcun accordo. «E tu ti sei opposta,» disse Beenay. "Certamente. 'Le tavolette non devono lasciare l'università. Dacci i mezzi per decifrare il testo,' ho detto a Folimun, 'e noi ti daremo le copie delle tavolette.' In questo modo ognuno di noi avrebbe potuto tentare separatamente di tradurle.» Ma Folimun aveva rifiutato. Le copie del testo non gli servivano a niente, dato che si poteva tranquillamente accusarli di falso. Ma aveva anche escluso nel modo più assoluto di darle i documenti in suo possesso. Secondo Folimun, Siferra possedeva del materiale sacro, che doveva essere messo a disposizione degli apostoli. Se gli avesse dato le tavolette, lui avrebbe pensato a fornirle una traduzione attendibile. Ma nessun profano avrebbe mai avuto il permesso di consultare i testi degli apostoli. "In realtà, ho avuto per un momento la tentazione di convertirmi alla loro setta,» disse Siferra, «ma solo per poter aver accesso ai documenti.» «Tu, un apostolo?" «Soltanto per mettere le mani sul materiale in loro possesso. Ma la sola idea mi ripugnava. Ho mandato al diavolo Folimun." Così Mudrin aveva dovuto lavorare duramente alle sue traduzioni, dal momento che gli apostoli avevano rifiutato di concedere il materiale che affermavano di avere. Fu ben presto evidente che le tavolette parlavano davvero di una terribile sciagura che gli dei avevano lanciato su Kalgash, ma le traduzioni di Mudrin erano incomplete, incerte, vaghe. E comunque in quel momento, con ogni probabilità, gli apostoli si erano impossessati delle tavolette. Era veramente una brutta faccenda. Nel caos che sarebbe seguito, le avrebbero sbandierate ai quattro venti, come ulteriore prova della loro saggezza e della loro sacralità... le sue tavolette! "Mi dispiace che i tuoi reperti siano scomparsi, Siferra,» disse Beenay. «Ma forse c'è ancora qualche speranza che non siano stati gli apostoli a rubarli, che sbuchino fuori da qualche parte.» «Non ci conto propriO,» rispose Siferra. E con un sorriso sconsolato si voltò a fissare il cielo che diventava sempre più scuro. La cosa migliore che poteva fare per trovare un po' di conforto era comportarsi come Athor, pensare che il mondo sarebbe comunque finito di lì a poco, e che niente aveva realmente importanza. Ma in ogni modo, sarebbe stato un ben magro conforto. La cosa principale era continuare a pensare ai giorni che sarebbero seguiti, alla sopravvivenza, alla ricostruzione, alla lotta e ai compiti che li aspettavano. Non doveva lasciarsi prendere dallo sconforto come aveva fatto Athor, né accettare la rovina dell'umanità, né scrollare le spalle e abbandonare ogni speranza. Una voce acuta interruppe all'improvviso le sue cupe meditazioni. «Salve a tutti! Come va?» "Sheerin!» esclamò Beenay. «Cosa ci fai qui?» Le guance piene del nuovo venuto si allargarono in un sorriso compiaciuto. «Cos'è questa atmosfera da funerale? Nessuno si è perso d'animo, spero?» Athor sobbalzò smarrito e chiese con irritazione: "Giusto, cosa ci fa qui, Sheerin? Mi sembrava di aver capito che lei sarebbe rimasto al rifugio » Ridendo, Sheerin si lasciò cadere di peso su una sedia. «Al diavolo il rifugio! Mi annoiavO a morte là dentro. Era qui che volevo trovarmi, quando la situazione si sarebbe fatta pesante. Credete forse che non sia curioso? Dopotutto, sono entrato nella galleria del mistero.
Posso sopravvivere a un'altra razione di Buio. E voglio vedere quelle Stelle di cui hanno tanto vaneggiato gli apostoli.» Si stropicciò le mani, e aggiunse con tono più grave: «Si gela, là fuori. C'è un vento tale da formare dei ghiaccioli che penzolano dal naso. Dovim non dà alcun calore, nella posizione in cui si trova stasera.» Il canuto direttore digrignò i denti, colto dall'esasperazione. "Come le è venuto in mente di fare una sciocchezza del genere, Sheerin? Di che aiuto può esserci qui dentro?» "E di che aiuto potevo essere al rifugio?" Sheerin allargò le mani in segno di comica rassegnazione. «Uno psicologo là dentro non serve a nulla. Non ora, almeno. Non c'è niente che possa fare per loro. Sono tutti tranquilli al calduccio, lontani dal pericolo, nel loro nascondiglio sotterraneo, senza preoccupazioni di sorta." "Ma se la folla infuriata dovesse fare irruzione là dentro quando calerà il Buio?" Sheerin scoppiò a ridere: «Sono convinto che anche in piena luce sarebbe impossibile, per chi non conosce l'ingresso, riuscire a trovare il rifugio. Figurarsi poi quando i soli saranno scomparsi. Ma se la folla dovesse riuscirci, allora gli occupanti del rifugio avranno bisogno di uomini d'azione per difendersi. E io peso una quarantina di chili di troppo per essere utile in questa eventualità. Sarei stato loro d'intralcio. Preferisco stare qui.» Ascoltando le parole di Sheerin, Siferra si riprese d'animo. Anche lei aveva deciso di passare la fatidica sera all'osservatorio invece che al rifugio. Forse era solo una stupida bravata, forse la sua decisione derivava da un'eccessiva sicurezza di sé. Era comunque certa che sarebbe sopravvissuta alle ore dell'eclissi, e perfino alla comparsa delle Stelle, se quella parte del mito era vera. E che sarebbe riuscita a conservare il proprio equilibrio psichico. E così aveva deciso di non perdere quell'occasione unica. E ora Sheerin, che non era certo un campione di coraggio, aveva fatto la stessa scelta. Forse aveva concluso che l'impatto con il Buio non sarebbe stato in fondo così sconvolgente come aveva supposto, nonostante le sue cupe previsioni degli ultimi mesi. Siferra aveva sentito i suoi racconti della galleria del mistero e dei disturbi che questa aveva causato alla gente e allo stesso Sheerin. Eppure lui era qui. Forse si era infine convinto che l'umanità, o almeno parte di essa, si sarebbe dimostrata più forte di quanto aveva creduto tempo addietro. Oppure stava semplicemente comportandosi in modo sconsiderato. Forse aveva pensato che era meglio perdere completamente la ragione in una sola sera, pensò Siferra, piuttosto che dover affrontare gli innumerevoli e forse insuperabili problemi che aspettavano i soprawissuti. No. No. Stava ricadendo in un pessimismo morboso. Scacciò via quei pensieri. "Sheerin!" Theremon attraversò la stanza per andare a salutare lo psicologo. "Si ricorda di me? Sono Theremon 762." "Ma certo, Theremon,» rispose Sheerin. Gli tese la mano. Per gli dei, amico mio, è stato spietato con noi di recente, non le pare? Ma ormai è acqua passata, soprattutto dopo quello che accadrà questa sera." "Vorrei che anche lui appartenesse al passato," disse Siferra sottovoce. Fece una smorfia di disgusto e si allontanò di qualche passo. Theremon strinse la mano a Sheerin. «Cos'è questo rifugio in cui avrebbe dovuto trovarsi in questo momento? Ne ho sentito parlare stasera, ma non ho idea di cosa si tratti realmente.» "Siamo riusciti a convincere almeno qualcuno," rispose Sheerin, "della validità delle nostre previsioni sul... ehm...
sul Giorno del Giudizio, tanto per essere un po' melodrammatici, e quei pochi che abbiamo persuaso hanno preso delle misure adeguate. Si tratta principalmente di familiari del personale dell'osservatorio, di altri membri dell'Università di Saro e di qualche esterno. Anche la mia compagna, Liliath 221, si trova lì dentro in questo momento, e suppongo che anch'io avrei dovuto essere lì, se non fosse stato per la mia infernale curiosità. Ci sono circa trecento persone, per quanto ne so.» «Capisco. Quindi dovrebbero restare nascoste finché all'esterno ci saranno il Buio e le... ehm... le Stelle, e poi uscire fuori quando il resto dell'umanità sarà ormai impazzito." «Esatto. Anche gli apostoli hanno un loro nascondiglio, comunque. Non sappiamo con precisione quanta gente vi si trovi... pochi, se siamo fortunati, ma più probabilmente ci saranno migliaia e migliaia di persone radunate là dentro. E dopo il Buio, erediteranno il mondo.» «Quindi il gruppo dell'università,» disse Theremon, «dovrebbe essere la vostra risposta agli apostoli?» Sheerin annuì. "Se sarà possibile. Ma non sarà facile. Con quasi tutta l'umanità impazzita, con le grandi città in fiamme, con un'orda di apostoli che cercherà di imporre il proprio concetto di ordine su quel che resterà del mondo. No, sarà dura per loro sopravvivere. Ma almeno hanno del cibo, dell'acqua, un rifugio, delle armi.» «Hanno qualcosa di più," disse Athor. «Hanno tutti i documenti che abbiamo raccolto, tranne i dati che ci perverranno oggi. Sarà materiale essenziale per il ciclo futuro, ed è questo che deve assolutamente sopravvivere. Il resto non ha importanza." Theremon si lasciò sfuggire un lungo fischio. "Non avete dunque il minimo dubbio che quanto avete previsto si realizzerà fin nei minimi dettagli?» "Che altra posizione avremmo potuto assumere?» chiese Siferra in tono duro. "Una volta compreso che il disastro sarebbe inevitabilmente giunto...» «Certo,» disse il giornalista, «dovevate prepararvi per il suo arrivo. Voi, infatti, possedete la verità. Proprio come gli apostoli. Vorrei avere sempre la metà della certezza che voi possessori di verità manifestate questa sera.» Siferra lo guardò con ira. «Io invece vorrei che tu non fossi qui stasera, che ti trovassi a vagare fra un po' per le strade in fiamme! Ma no... No, qui sarai al sicuro! E ciò è più di quanto meriti!» "Calma,» esclamò Sheerin. Prese Theremon per un braccio e in tono pacato gli disse: «Non ha senso fare delle provocazioni in questo momento. Andiamo da qualche parte: non saremo d'impiccio e potremo fare due chiacchiere." "Buona idea,» rispose Theremon. Ma non accennò affatto a lasciare la stanza. Al tavolo avevano appena iniziato una partita a scacchi stocastici, e Theremon si soffermò a osservare le mosse rapide che venivano fatte in silenzio, senza evidentemente capirci nulla. Sembrava stupito dalla capacità dei giocatori di concentrarsi sul gioco, quando tutti erano convinti che di li a poche ore sarebbe giunta la fine del mondo. «Vieni,» ripeté Sheerin. «Sì. Sì," rispose Theremon. E uscì con lo psicologo nel corridoio, seguito, un istante dopo, da Beenay. Che persona esasperante, pensò Siferra. Fissò il globo luminoso di Dovim che risplendeva intensamente. Il cielo era diventato più scuro negli ultimi minuti? No, no, si disse, era impossibile. Dovim era sempre al suo posto. Era solo frutto della sua immaginazione.
Il cielo aveva un aspetto strano, ora che Dovim era l'unico sole rimasto. Non l'aveva mai visto di un viola così intenso prima d'allora. Ma non era affatto buio là fuori; cupo, questo sì, ma c'era ancora abbastanza luce, e tutto era facilmente visibile, nonostante la relativa oscurità causata dalla presenza di un unico, piccolo sole. Le ritornarono alla mente le tavolette perdute, ma poi scacciò tali pensieri. I giocatori di scacchi avevano avuto un'ottima idea, si disse. Siediti e rilassati. Se ci riesci. 23 Sheerin fu il primo a entrare nella stanza accanto. Qui le sedie erano molto più comode. Alle finestre c'erano delle pesanti tende rosse e sul pavimento un tappeto marrone. La strana luce color ruggine di Dovim che inondava la stanza dava l'idea che ci fosse sangue disseccato ovunque. Era rimasto sorpreso vedendo Theremon all'osservatorio quella sera, dopo i terribili articoli che aveva scritto, dopo tutto quello che aveva fatto per boicottare la campagna per la salvaguardia nazionale lanciata da Athor. Nelle ultime settimane Athor andava su tutte le furie non appena veniva fatto il nome di Theremon; eppure stasera si era placato e gli aveva dato il permesso di rimanere all'osservatorio durante l'eclissi. Era una cosa strana e un po' preoccupante. Poteva significare che la rigidità tipica del carattere del vecchio astronomo aveva iniziato a vacillare, che non solo la sua rabbia, ma anche la sostanza stessa della sua personalità, cominciavano a cedere di fronte alla catastrofe imminente. In quanto a questo, Sheerin era ancor più sorpreso di trovare se stesso all'osservatorio quella sera. Era una decisione che aveva preso all'ultimo momento, un impulso che aveva provato poche volte. Liliath ne era stata atterrita. E anche lui lo era. Non aveva dimenticato l'orrore che quei pochi minuti trascorsi nella galleria del mistero gli avevano suscitato. Ma alla fine aveva capito che doveva andare all'osservatorio, proprio come aveva dovuto fare quel giro nella galleria. Agli occhi di chiunque altro, forse Sheerin era solo un universitario bonaccione e sovrappeso, ma al di là di ogni giudizio altrui, egli si considerava ancora uno scienziato. Lo studio del Buio lo aveva accompagnato durante tutta la sua carriera di psicologo. Come avrebbe fatto a convivere col rimorso di essersi nascosto nell'accogliente sicurezza di una stanza sotterranea, proprio l'unica volta che il Buio si presentava in più di duemila anni? No, doveva essere all'osservatorio durante l'eclissi. Vederla con i propri occhi. Sentire il Buio che prendeva possesso del mondo. Mentre entravano nella stanza, Theremon disse con sorprendente franchezza: «Sto cominciando a chiedermi se ho avuto ragione a essere tanto scettico, Sheerin.» «Fai bene a chiedertelo.» «Lo sto facendo, infatti. Vedere Dovim lassù tutto solo, con quel suo strano colore rosso che si diffonde ovunque. Sai, adesso darei dieci crediti per una buona dose di luce bianca. Un buon Tano Special bello forte. E non mi dispiacerebbe neanche se ci fossero in cielo Tano e Sitha. O, ancora meglio, Onos.» "Onos domani mattina sarà di nuovo in cielo," si intromise Beenay, che era appena entrato nella stanza. «Ma noi ci saremo?» chiese Sheerin.
E immediatamente sorrise per attenuare quelle terribili parole. Rivolto a Beenay, disse: "Il nostro amico giornalista muore dalla voglia di un sorso d'alcool . «Ad Athor verrà un colpo. Ha dato ordine che tutti rimangano perfettamente sobri questa sera.» «E quindi,» disse Sheerin, «c'è solo dell'acqua da bere?» «Be' veramente...» "Forza, Beenay. Athor non verrà qui.» "Lo spero.» Beenay andò in punta di piedi fino alla finestra più vicina, poi si abbassò, e da uno sportello sotto di essa estrasse una bottiglia di liquido rosso che gorgogliò in modo inequivocabile non appena la agitò. «Sapevo che Athor non l'avrebbe trovata,» commentò mentre tornava in fretta verso il tavolo. «Ecco qua! Abbiamo un solo bicchiere, e lo daremo a te, Theremon, dato che sei nostrO ospite. Sheerin e io berremo dalla bottiglia.» E riempì una piccola tazza con molta cura. Theremon disse ridendo: «Non toccavi alcool quando ci siamo conosciuti, Beenay.» "Erano altri tempi. Adesso è tutto cambiato. Stiamo passando momenti di tensione. Un buon bicchierino può essere di grande aiuto in situazioni come queste." "Così pare," rispose Theremon allegramente. bevve un sorso. Era un vino rosso, forte e poco raffinato, probabilmente un prodotto di second'ordine, proveniente da una delle province meridionali. Proprio quel genere di alcolici che di solito compravano ex astemi come Beenay, ignorando che ne esistesse di migliore. Ma era sempre meglio che niente. Beenay bevve un lungo sorso e passò la bottiglia a Sheerin. Lo psicologo se la portò alla bocca, bevendo a lungo e lentamente. Poi, mettendola giù con un grugnito di piacere e facendo schioccare le labbra, disse a Beenay: «Athor mi è parso strano stasera. Considerate le circostanze, ovviamente. Cosa c'è che non va?» «Credo che sia preoccupato per Faro e Yimot.» «Chi?» "Due dei nostri giovani laureati. Dovevano arrivare diverse ore fa e non si sono ancora visti. Athor è terribilmente a corto di personale perché la maggior parte di loro, a parte noi che siamo realmente essenziali, sono già nel rifugio.» "Credi che se la siano filata?» disse Theremon. "Chi? Faro e Yimot? Certo che no! Non sono i tipi. Darebbero qualsiasi cosa per essere qui questa sera a raccogliere dati, quando ci sarà l'eclissi. Ma se ci fosse qualche tumulto a Saro e fossero rimasti coinvolti?» Beenay si strinse nelle spalle. «Si faranno vivi presto o tardi, suppongo. Ma se quando si avvicinerà la fase critica non saranno arrivati, sorgeranno dei problemi, perché c'è molto da fare. Deve essere questo che preoccupa molto Athor." «Non ne sarei così sicuro,» disse Sheerin. «Certo, sarà anche la mancanza di Faro e Yimot, ma c'è qualcos'altro. Sembra così invecchiato, tutt'a un tratto. Stanco. Perfino sconfitto, direi. L'ultima volta che l'ho visto era pieno di voglia di lottare, non faceva che parlare della ricostruzione della società dopo l'eclissi. Era quell'Athor che tutti conosciamo, l'uomo tutto d'un pezzo. Ora vedo solo un vecchio relitto, triste, stanco, patetico, che sta semplicemente aspettando la fine. Il fatto che non si sia neanche preoccupato di buttare fuori Theremon...» "Ci ha provato,» disse Theremon. "Beenay l'ha convinto a cambiare idea. E anche Siferra." "E’ proprio questo il punto.
Beenay, hai mai conosciuto qualcuno che sia riuscito a far cambiare idea ad Athor su una qualsiasi questione?... Passami il vino." "Potrebbe essere Colpa mia,» disse Theremon. "Tutto quello che ho scritto, attaccando il suo progetto di costruire dei rifugi come il vostro in tutto il paese. Se crede sinceramente che fra qualche ora calerà il Buio su tutto il mondo e che l'umanítà intera diventerà completamente pazza…" «Come certamente crede, disse Beenay. «E come crediamo tutti noi. "Allora il fatto che il governo non abbia preso in considerazione le sue previsioni dev'essere stato per lui una sconfitta schiacciante, travolgente. E io ne sono responsabile come tutti gli altri. Se verrò a scoprire che voi avevate ragione, non me lo perdonerò mai " "Non darti troppa importanza, Theremon," disse Sheerin. «Anche se tu avessi scritto cinque articoli al giorno, sostenendo la necessità di una massiccia preparazione per il disastro imminente, il governo non avrebbe comunque fatto niente. Forse avrebbe preso ancor meno in considerazione gli avvertimenti di Athor, se un giornalista battagliero e popolare come te si fosse schierato dalla sua parte » "Grazie," disse Theremon. "Ti ringrazio dell'incoraggiamento... E’ rimasto del vino?» chiese, guardando Beenay. “E poi, ovviamente, ho dei problemi anche con Siferra. Mi ritiene un individuo spregevole " "C'è stato un momento in cui mi sembrava davvero interessata a te," disse Beenay. «Mi sono anche chiesto, per un certo tempo, se tu e lei... «No,» rispose Theremon, sorridendo. "Non proprio. E da come si sono messe le cose, non credo che avverrà mai. Ma per un po' siamo stati buoni amici. E’ una donna affascinante, molto affascinante. Ma questa sua teoria su una preistoria ciclica... voi che ne pensate?" "A sentire alcuni dei suoi colleghi, sono tùtte balle,» disse Sheerin. "Non la stanno neanche a sentire. Certo, sono tutti convinti, come vuole l'archeologia ufficiale, che Beklimot sia stato il primo centro urbano su Kalgash, e che duemila anni prima di esso non ci fosse alcuna traccia di civiltà al mondo, ma solo villosi primitivi che vivevano nella giungla.” “Ma come possono ignorare il ripetersi delle catastrofi sulla collina di Thombo?» chiese Theremon. "Gli scienziati che sono convinti di avere la verità in tasca riescono tranquillamente a dare l'ostracismo a tutto ciò che può mettere in discussione le loro convinzioni," disse Sheerin. «Se gratti fin sotto la crosta di un accademico di successo, scoprirai che egli è simile per molti versi a un Apostolo della fiamma. Solo che si veste diversamente.» Prese la bottiglia che Theremon teneva oziosamente in mano, e bevve nuovamente. «Che vadano al diavolo! Perfino un profano come me riesce a capire che le scoperte fatte a Thombo da Siferra rivoluzionano la concezione ufficiale della preistoria. Il problema non è sapere se ci sono stati degli incendi ciclici nel corso di migliaia di anni, ma perché si sono verificati.» "Ne ho sentite molte di spiegazioni recentemente," disse Theremon, "tutte più o meno incredibili. Un professore dell'Università di Kitro sosteneva che ogni duemila anni circa si verificano delle piogge di fuoco. E al giornale abbiamo ricevuto una lettera di un tizio che afferma di essere un astronomo autodidatta, e di aver 'provato' che di tanto in tanto Kalgash passa attraverso uno dei soli. E credo che siano state fatte ipotesi ancor più assurde.» "Una sola delle ipotesi è sensata," disse Beenay con tranquillità. "Ti ricordi quando ti parlai del principio della Spada di Thargola? Devi liberarti delle ipotesi che richiedono troppi corollari fantasiosi per avere senso. Non c’è alcun motivo di pensare che una pioggia di fuoco cada periodicamente su di noi; e l'ipotesi che Kalgash passi attraverso i soli è evidentemente una sciocchezza. La teoria dell'eclissi, invece, trova piena conferma nei dati matematici sull'orbita di Kalgash che risente della gravitazione universale.» "La teoria dell'eclissi può anche reggere, è vero. Non lo metto in dubbio.
E poi lo scopriremo presto, non ti sembra?» disse Theremon. "Ma applica la Spada di Thargola a quello che hai appena detto. Nella teoria dell'eclissi non c'è nulla che possa far pensare che ci saranno inevitabilmente degli incendi terribili dopo il sopravvento del Buio.» “E’ vero, disse Sheerin. "Dalla teoria dell'eclissi non consegue necessariamente che scoppieranno incendi ovunque, ma è il buon senso a farcelo pensare. L'eclissi porterà con sé il Buio. Il Buio porterà la pazzia. E la pazzia porterà le Fiamme. E così per l'ennesima volta gli innumerevoli e terribili sforzi dell'uomo svaniranno. Domani non ci sarà più nulla. Non ci sarà una sola città intatta su tutta Kalgash." «Parli come un apostolo,» disse Theremon con rabbia. «Folimun 66 mi ha detto pressoché le stesse cose qualche mese fa. Ricordo di avervene parlato al Club dei Sei Soli.» Guardò fuori dalla finestra, oltre le pendici alberate del Monte dell'Osservatorio, verso gli alti palazzi di Saro che svettavano all'orizzonte avvolti in una luce sanguigna. Il giornalista senti la tensione crescere dentro di sé, mentre gettava una rapida occhiata verso Dovim. Risplendeva della sua luce rossa allo zenith, rimpicciolito e malvagio. Theremon proseguì caparbiamente: «Non riesco a cogliere la logica del tuo ragionamento. Perché dovrei impazzire per il semplice fatto che in cielo non c'è neanche un sole? E anche se fosse... d'accordo, avevo dimenticato quei poveracci della galleria del mistero... anche se fosse, e anche se il mondo intero impazzisse, perché le città dovrebbero venire distrutte? E perché dovrebbe succedere per colpa nostra?» "Anch'io la pensavo come te all'inizio,» si intromise Beenay. “Poi ho riflettuto a lungo. Se ti trovassi al Buio, cosa vorresti assolutamente avere? Cosa cercheresti istintivamente?" «La luce, credo.» "Esatto!» esclamò Sheerin, quasi urlando. "La luce, sì! La luce!» "E allora?" "Come otterresti la luce?" Theremon indicò l'interruttore sulla parete. "Con quello.» «Bravo,» rispose Sheerin con aria di derisione. "E sarebbero gli dei, nella loro infinita bontà, a fornirti la corrente necessaria per ottenere ciò che desideri. Certamente, infatti, la compagnia elettrica non potrebbe farlo. Immagina tutti i macchinari che si bloccano stridendo e gli addetti al loro funzionamento che vagano balbettando nel buio, mentre la stessa cosa avviene ai controllori delle linee di trasmissione. Mi segui?" Theremon annuì, come inebetito. "Come ottieni la luce se i generatori si fermano?” riprese Sheerin. "Con le lampade votive, non credi? Vanno tutte a batteria. Ma poniamo il caso che tu non abbia una di queste lampade sotto mano. Sei fuori, per strada, al Buio, e la tua lampada è a casa, accanto al letto. E vuoi la luce. Allora bruci qualcosa, non credi, caro il mio Theremon? Hai mai visto un fuoco in una foresta? Sei mai andato in campeggio, hai mai cucinato uno stufato sulla legna? La legna che brucia non fa solo calore, ma dà anche luce, e tutti lo sanno. E quando è Buio, tutti vogliono la luce e quindi se la procurano!» "Così bruciano la legna," disse Theremon senza molta convinzione. "Bruciano tutto quello che trovano. Devono fare luce. Devono bruciare qualcosa, e la legna non si trova facilmente, almeno lungo le strade di una città. Allora sono costretti a bruciare tutto quello che c'è. Una pila di giornali? E perché no? Il Saro City Chronicle farà un po' di luce, ma non durerà molto. Che ne dite allora delle edicole, con i giornali tutti accatastati? Ma bruciatele pure! Bruciate i vestiti! Bruciate i libri! Bruciate le travi dei soffìtti! Bruciate tutto! La gente avrà la luce che
desidera, ma ogni centro abitato sarà dato alle fiamme! Ecco da dove verranno gli incendi, mio caro giornalista. Ecco perché il mondo in cui abbiamo vissuto fino a oggi finirà." "Se ci sarà un'eclissi,» disse Theremon con il tono di chi si ostina a difendere una causa persa. "Certo," fece Sheerin. "Non sono un astronomo. E neanche un apostolo. Ma sono pronto a scommettere che ci sarà un'eclissi. Guardò fisso negli occhi Theremon. Ognuno sostenne lo sguardo dell'altro, come se chi avesse avuto più forza di volontà 'avrebbe avuto la meglio. Poi Theremon abbassò lo sguardo, senza parlare. Respirava a fatica. Si premette le mani sulla fronte. Dalla stanza vicina si sentì un chiasso improvviso. «Mi sembra di aver sentito la voce di Yimot,» proruppe Beenay. “Deve essere finalmente arrivato insieme a Faro. Andiamo a vedere cosa li ha trattenuti.» "Sarà meglio!» mormorò Theremon. Dopo un lungo respiro egli parve riprendersi. E per il momento, almeno, la tensione si attenuò. 24 La stanza dove era riunito il personale era in grande subbuglio. Tutti si accalcarono intorno a Faro e Yimot, che cercavano di sottrarsi a un fiume di impazienti domande mentre si toglievano i soprabiti. Athor si fece largo fra i suoi collaboratori e apostrofò con se verità i nuovi arrivati: “Vi rendete conto che è quasi l'ora E? Dove siete stati?» Faro 24 si sedette e si stropicciò le mani. Le sue guance paffutelle erano ancora arrossate dal freddo. Aveva sulle labbra uno strano sorriso compiaciuto e sembrava insolitamente calmo, come se si trovasse sotto l'effetto di una droga. «Non l'ho mai visto così prima d'ora,» sussurrò Beenay a Sheerin. "E’ sempre stato molto ossequioso, il tipico astronomo giovane e modesto che si è assoggettato alle grandi menti che lo circondano. Perfino alla mia. Ma ora...» "Zitto e ascolta,» disse Sheerin. “Io e Yimot abbiamo appena portato a termine un piccolo esperimento un po' anomalo per conto nostro. Abbiamo cercato di capire se era possibile creare una situazione tale da simulare la discesa del Buio e l'apparizione delle Stelle, per avere in anticipo un'idea di come potessero essere.» Ci fu un mormorio fra i presenti. “Stelle?" chiese Theremon. «Sapete cosa sono le Stelle? E come l'avete scoperto?" “Leggendo il Libro delle rivelazioni,» rispose Faro con il suo strano sorriso sulle labbra. “Sembra abbastanza evidente che le Stelle siano qualcosa di molto luminoso, simili ai soli ma più piccole, che appaiono in cielo quando Kalgash entra nella caverna del Buio » “Assurdo!» disse qualcuno. “Inconcepibile!» "Il Libro delle rivelazioni! Ecco dove hanno svolto le loro ricerche! Ma come si può...!" "Silenzio,» proruppe Athor. Ci fu un guizzo d'interesse nei suoi occhi, uno sprazzo del suo antico vigore. «Vai avanti, Faro. Siete riusciti a creare questa 'situazione'? Come avete fatto?» "Allora,» riprese Faro, «l'idea è venuta a me e a Yimot un paio di mesi fa, e ci abbiamo lavorato sopra durante il nostro tempo libero. Yimot era a conoscenza di una casa a un solo piano, in centro, con un soffitto a cupola.
Credo che fosse una specie di magazzino. Comunque, l'abbiamo comprata e...» "Come avete fatto?» lo interruppe Athor in tono perentorio. "Dove avete preso i soldi?» "Daí nostri conti in banca,»grugnì il suo compagno segaligno, Yímot 70. «Ci è costata duemila crediti.» Poi, mettendosi sulla difensiva, aggiunse: «E con questo? Domani duemila crediti saranno duemila pezzi di carta e niente di più.» ' Esatto,» disse Faro. «E così abbiamo acquistato questa casa, e ne abbíamo rivestito l'interno di velluto nero in modo da simulare il più possibile il Buio. Poi abbiamo fatto dei forellini nel pavimento e nel soffitto, e li abbiamo otturati con piccoli coperchi di metallo, che potevamo aprire tutti insieme premendo un interruttore. Per questa parte dell'esperimento ci siamo fatti aiutare da un falegname, un elettricista e qualcun altro; non abbiamo badato a spese. Volevamo che la luce splendesse attraverso quei fori nel soffitto, per ottenere un effetto simile a quello delle Stelle.» "A quello che immaginavano potesse essere l'effetto delle Stelle, “ lo corresse Yimot. Nella pausa che seguì non si sentì neanche respirare. Athor disse freddamente: «Non avevate alcun diritto di svolgere un esperimento privatamente.» Faro sembrava mortificato. «Lo so, signore, ma francamente Yimot e io pensavamo che l'esperimento fosse un po' pericoloso. Se l’effetto si fosse realmente verificato, temevamo perfino d'impazzire . Sulla base di tutto ciò che il dottor Sheerin ci aveva detto al proposito, pensavamo che quest'eventualità fosse piuttosto probabile. Abbiamo ritenuto che sarebbe stato meglio che noi due soli avessimo corso questo rischio. Certo, se avessimo scoperto di poter conservare la ragione, pensavamo che forse avremmo potuto conquistare l'immunità al comparire delle Stelle, e quindi sottoporvi allo stesso esperimento. Ma la cosa non ha funzionato affatto." "Perché? Cos'è successo?" Fu Yimot a rispondere: "Ci siamo chiusi dentro e abbiamo lasciato che i nostri occhi si abituassero all'oscurità. E’ una sensazione raccapricciante perché al Buio sembra che le pareti e il soffitto ti crollino addosso. Ma superato il primo momento, abbiamo premuto l'interruttore. I coperchi si sono aperti, e abbiamo visto risplendere il soffitto di tanti piccoli punti di luce." "E poi?" "Poi... niente. E’ stato questo che non ha funzionato. Da quel che abbiamo capito dal Libro delle rivelazioni, stavamo sperimentando l'effetto provocato dalla visione di Stelle su uno sfondo buio. Ma non è successo niente. Era solo un tetto con deí buchi e dei puntini di luce, nient'altro. Abbiamo provato e riprovato, ed è per questo che ci abbiamo messo tanto... ma non abbiamo avuto nessun risultato." Ci fu un silenzio imbarazzante. Tutti gli sguardi si volsero verso Sheerin che era rimasto immobile, a bocca aperta. Theremon fu il primo a parlare: "Sai che conseguenze ha questo esperimento sulla tua teoria, Sheerin?" Sogghignava sollevato. Ma Sheerin sollevò la mano. «Calma, Theremon! Lasciami riflettere. Queste cosiddette 'Stelle' che i ragazzi hanno costruito... il tempo complessivo della loro esposizione al Buio…” Si zittì. Tutti lo guardavano. Poi fece schioccare le dita, e quando sollevò il capo, nei suoi occhi non c'era sorpresa né incertezza. "E’ ovvio..." Ma non riuscì a continuare. Thilanda, che si trovava nella cupola dell'osservatorio e stava scattando foto del cielo con una frequenza di dieci secondi man mano che l'eclissi si avvicinava, entrò correndo nella stanza, gesticolando con incontrollabili movimenti delle mani, degni di Yimot nei momenti di maggiore e eccitazione.
"Dottor Athor! Dottor Athor!" Athor si voltò. "Cosa c'è?" "Abbiamo appena trovato... è entrato nella cupola... è incredibile, dottor Athor.. » "Stia calma, ragazza mia. Che è successo? Chi è entrato nella cupola?» Dal corridoio venne il rumore di una colluttazione e si udì un chiaro suono metallico. Beenay scattò in piedi e corse alla porta, poi si bloccò di colpo, esclamando: "Ma che diavolo!...» Nel corridoio c'erano Davnit e Hikkinan, che avrebbero dovuto invece trovarsi insieme a Thilanda nella cupola. I due astronomi stavano lottando con una terza persona, un uomo dall'aspetto agile e atletico che non aveva ancora quarant'anni, con strani capelli rossi e ricci, un viso magro e dai tratti decisi, e gelidi occhi blu. Lo trascinarono nella stanza tenendogli saldamente le mani ferme dietro la schiena. Lo sconosciuto indossava l'abito scuro degli Apostoli della fiamma. "Folimun 66!» gridò Athor. E nello stesso istante Theremon esclamò: "Folimun! In nome del Buio, cosa ci fa qui?" In tono gelido e imperioso, l'apostolo disse tranquillamente: "Non sono venuto qui nel nome del Buio questa sera, ma nei nome della luce." "Dove ha trovato quest'uomo?" chiese Athor a Thilanda. "Gliel'ho detto, dottor Athor. Eravamo impegnati con le lastre fotografiche quando l'abbiamo sentito. Era dietro di noi. 'Dov'è Athor?' ha chiesto. 'Devo vedere Athor'." "Chiamate le guardie di sicurezza," disse Athor, mentre si accigliava per la rabbia. «L'osservatorio è chiuso questa sera. Voglio sapere come ha fatto quest'uomo a passare inosservato." "Mi sembra chiaro: sul suo libro paga deve esserci almeno un apostolo," disse Theremon allegramente. «E immagino con che deferenza abbia obbedito all'apostolo Folimun quando questi gli ha chiesto di aprire la porta." Athor gli lanciò un'occhiata feroce, ma dall'espressione del suo viso si capiva che il vecchio astronomo aveva compreso la possibile esattezza dell'ipotesi di Theremon. Tutti nella stanza fecero cerchio intorno a Folimun. Lo fissavano stupiti: Siferra, Theremon, Beenay, Athor e gli altri. Con voce pacata, Folimun disse: "Sono Folimun 66, assistente speciale di Sua Serenità Mondior 71. Non sono venuto qui questa sera come criminale, come lei sembra credere, ma come inviato di Sua Serenità. Pensa di poter persuadere questi suoi due premurosi aiutanti a lasciarmi libero, Athor?» Athor fece un gesto irritato: «Lasciatelo.» «Grazie,» disse Folimun. Sí strofinò le braccia e si sistemò l'abito. Poi si inchinò in segno di gratitudine verso Athor... o lo stava solo prendendo in giro? Intorno all'apostolo, l'aria sembrava formicolare di una misteriosa elettricità. «E ora,» disse Athor, «può dirci cos'è venuto a fare qui? Che cosa vuole?» "Niente che lei sia disposto a darmi di sua spontanea volontà, o almeno credo." «Probabilmente ha ragione." "Quando ci siamo incontrati mesi fa," riprese Folimun, "abbiamo avuto un colloquio che definirei carico di tensione, un incontro fra due uomini che si consideravano rappresentanti di due regni nemici. Per lei, io ero un fanatico pericoloso. Per me, lei era il capo di una banda di empi peccatori. Ma nonostante questo eravamo perfettamente d'accordo su un punto, vale a dire, come lei ricorderà, sul fatto che la sera del 19 Theptar il Buio sarebbe sceso su Kalgash e vi sarebbe sicuramente rimasto per molte ore." Athor si accigliò. "Venga al punto se ne ha uno, Folimun. Il Buio sta per scendere, e non abbiamo tempo da perdere." "Secondo me," rispose Folimun, «il Buio sarebbe sceso su di noi per volontà degli dei. Secondo lei, non rappresentava altro che il movimento inanimato di corpi celesti. Insomma, ci trovammo d'accordo, ma solo per dissentire immediatamente. In quell'occasione, le fornii dei dati in nostro possesso fin dal precedente Anno Divino, tabelle che indicavano il movimento dei soli nel cielo e altri dati ancor più astrusi.
Lei mi promise in cambio di dimostrare la verità essenziale alla base della nostra fede, e di rendere nota tale prova all'intera popolazione di Kalgash.» Guardando l'orologio, Athor disse: "Esattamente quel che ho fatto. Cosa vuole il suo capo da me, adesso? Ho mantenuto la parola data.» Folimun abbozzò un sorriso ma non disse niente. Ci fu un'impacciata agitazione nella stanza. "Gli ho chiesto dei dati astronomici, è vero," disse Athor, guardandosi intorno. «Dati che solo gli apostoli possedevano. Me li hanno consegnati. E per questo li ringrazio. In cambio ho accettato, se così si può dire, di rendere pubblici i dati matematici che confermavano il credo fondamentale degli apostoli, vale a dire che il Buio sarebbe sceso su di noi il 19 Theptar." "Noi non avevamo bisogno del vostro aiuto," fu l'orgogliosa risposta dell'apostolo. «Il nostro principio fondamentale, come lei lo definisce, non ha bisogno di prove. Ce ne sono a sufficienza nel Libro delle rivelazioni." "Certamente, ma solo per quei pochi che formano la vostra setta," sbottò Athor. "Non finga di fraintendere le mie parole. Ho annunciato la mia disponibilità a rendere pubbliche le basi scientifiche delle vostre dottrine. E l'ho fatto!" Gli occhi penetranti dell'apostolo si socchiusero in segno di sdegno. "E’ vero, l'ha fatto con la scaltrezza di una volpe, perché le sue finte spiegazioni apparentemente sostenevano il nostro credo, ma in realtà toglievano a esso ogni importanza. Ha fatto del Buio e delle Stelle dei fenomeni naturali e ha negato il loro reale significato. Una vera bestemmia!" "Se è così, non mi assumo alcuna responsabilità. I fatti sono quel che sono. Cosa altro potevo fare se non renderli pubblici?" ' I suoi cosiddetti fatti sono solo frode e inganno." Il viso di Athor si infiammò per la rabbia. "Come può affermare una cosa del genere?" La risposta dell'apostolo aveva la certezza della fede totale: "Lo so." Il vecchio astronomo si sentì salire le fiamme al viso. Beenay si mosse per andargli vicino, ma Athor lo allontanò con un gesto della mano. "Cosa vuole che facciamo, allora, il suo Mondior 71? Ritiene forse che avendo cercato di mettere in guardia il mondo afflnché prendesse misure contro la minaccia della follia, abbiamo in qualche modo interferito con il suo tentativo di conquistare il potere dopo l'eclissi? Può stare tranquillo perché nessuno ci ha dato retta. Spero che questo lo renda felice." "Il tentativo in se stesso ha già causato molti danni. E ciò che state cercando di ottenere qui stasera, non farà che peggiorare la situazione." "Ma cosa vuole sapere di ciò che stiamo facendo ora qui?" Tranquillamente Folimun rispose: "Sappiamo che lei non ha mai abbandonato la speranza di influenzare la popolazione. Avendo fallito prima del Buio e delle Fiamme, è sua intenzione uscire allo scoperto in seguito, con fotografie del passaggio dalla luce al Buio. Lei intende offrire ai sopravvissuti una spiegazione razionale di quel che avverrà, e di riporre in un luogo sicuro le presunte prove delle vostre dottrine, così che alla fine del prossimo Anno Divino i vostri successori nel campo della scienza potranno farsi avanti e guidare l'umanità in modo da poter resistere al Buio." «Qualcuno qui delira," mormorò Beenay. «Tutto ciò è in contrasto con gli interessi di Mondior 71, è chiaro," proseguì Folimun. «Ed è Mondior 71, il profeta eletto dagli dei, il solo che dovrà guidare l'umanità nel periodo che ci attende." "Credo sia giunto il momento di spiegarci per quale motivo si trova qui,” disse Athor con voce gelida. Folimun annuì: "E’ molto semplice. I vostri sconsiderati e blasfemi tentativi di ottenere informazioni tramite diabolici strumenti devono cessare. Mi spiace solo di non aver potuto distruggere i vostri macchinari infernali con le mie stesse mani." «Era questo che aveva in mente? Non le sarebbe servito a molto.
Tutti i nostri dati, tranne le prove dirette dell'eclissi che abbiamo intenzione di raccogliere fra breve, sono già al sicuro e lei non potrà distruggerli." "Tirateli fuori. Distruggeteli." "Cosa?" "Distruggete il vostro lavoro. Distruggete i vostri strumenti. In cambio, cercherò di far sì che venga offerta protezione a lei e alla sua gente durante il caos che certamente scoppierà quando cadrà la Notte." Nella stanza tutti si misero a ridere. «E’ pazzo," disse qualcuno. «E’ completamente andato." "Niente affatto," disse Folimun. «Sono un uomo di fede e servo una causa che è al di là della vostra comprensione. Ma non sono pazzo. Sono del tutto sano di mente, ve lo assicuro. Credo che quest'uomo, che certamente non è un ingenuo," e indicò Theremon, "possa attestarlo. Pongo la mia causa al disopra di ogni altra cosa. Questo è un giorno cruciale nella storia del mondo, e quando sorgerà l'alba, domani, la divinità trionferà. Vi offro un ultimatum. Cessate i vostri blasfemi tentativi di fornire una spiegazione razionale alla discesa del Buio, e accettate Sua Serenità Mondior 71 come unica e vera voce della volontà degli dei. Quando verrà il mattino, spargerete la parola di Mondior nel mondo e non dovrete più parlare di eclissi, di orbite, della Legge della gravitazione universale e di tutte le altre vostre sciocchezze." "E se rifiutassimo?" chiese Athor, quasi divertito dall'arroganza di Folimun. "In questo caso," rispose Folimun con voce gelida, "una folla infuriata guidata dagli Apostoli della fiamma salirà su questa collina e distruggerà l'osservatorio e tutto ciò che contiene." "Ora basta," disse Athor. "Chiamate le guardie. Buttatelo fuori di qui." "Vi resta un'ora esatta," disse Folimun imperturbabile. "Poi l'esercito divino attaccherà." "Non dobbiamo credergli," asserì bruscamente Sheerin. Athor, come se non l'avesse neppure sentito, ripeté: "Chiamate le guardie. Voglio che se ne vada immediatamente!" "Accidenti, Athor, cosa le prende?" esclamò Sheerin. "Se lo lascia andare via, correrà ad attizzare il fuoco. Non capisce che agli apostoli interessa solo fomentare disordini. E quest'uomo è un maestro nel farlo." "Cosa propone, allora?" "Chiudiamolo da qualche parte," rispose Sheerin. "Sbattiamolo in uno stanzino, serriamo la porta a chiave e teniamolo lì dentro per tutta la durata dell'eclissi. E’ la cosa peggiore che possiamo fargli. Se resta chiuso, non vedrà il Buio e non vedrà le Stelle. Non ci vuole una conoscenza profonda della dottrina degli apostoli per capire che, se non potrà vedere le Stelle apparire in cielo, la sua anima immortale sarà perduta. Mi dia ascolto, Athor. Non è solo la scelta più sicura per noi, ma anche quello che merita." "E poi," mormorò Folimun brutalmente, "quando sarete tutti impazziti non ci sarà nessuno che mi farà uscire. Mi state condannando a morte. So bene quanto voi, ciò che significa la comparsa delle Stelle... lo so molto meglio di voi. Quando avrete perso la ragione, nessuno penserà a liberarmi. Soffocamento o lenta morte d'inedia, non è questo che mi aspetta? Esattamente quello che potevo aspettarmi da un gruppo di... di scienziati." Sulla sua bocca sembrava una parola oscena. «Ma non andrà così. Ho preso la precauzione di avvertire i miei seguaci che dovranno attaccare l'osservatorio a un'ora precisa da questo momento, a meno che io non ricompaia e ordini loro di non farlo. Quindi, se mi tenete prigioniero non otterrete nulla. Anzi, entro un'ora verrete assaliti e distrutti.
E la mia gente mi libererà e insieme, con estatica gioia, vedremo la venuta delle Stelle." Le tempie di Folimun pulsavano. «Poi, domani, quando voi tutti sarete dei dementi balbettanti, inizieremo la creazione di un nuovo e mirabile mondo." Sheerin lanciò uno sguardo incerto verso Athor. Anche Athor sembrava perplesso. Beenay, che era a fianco di Theremon, gli mormorò: «Cosa ne dici? Dobbiamo credergli?" Ma il giornalista non rispose. Era diventato pallidissimo, anche le sue labbra si erano sbiancate. «Guardate!" Il dito con cui indicava la finestra tremava e la sua voce era fessa e secca. Tutti si volsero per vedere ciò che Theremon stava indicando, e per un istante rimasero a guardare, impietriti e senza fiato. Una minuscola parte di Dovim era scomparsa! 25 Il frammento di oscurità non era più grande di un'unghia, ma agli occhi sbarrati degli osservatori si ingrandì fino a diventare una letale fenditura. La vista di quella piccola fetta di buio colpì Theremon con forza terribile. Il giornalista trasalì, si portò una mano alla fronte e si allontanò dalla finestra. Quella piccola parte mancante sul globo di Dovim lo scosse fino in fondo all'anima. Theremon lo scettico, Theremon lo sbeffeggiatore, Theremon che con il suo buon senso fustigava le sciocchèzze altrui. Per gli dei! Che enorme errore aveva commesso! Mentre si allontanava dalla finestra, i suoi occhi incontrarono quelli di Siferra, che dall'altro lato della stanza lo fissava. C'era del disprezzo nei suoi occhi oppure si trattava solo di compassione? Si sforzò di sostenere il suo sguardo e scosse tristemente la testa, come se volesse dirle con tutta l'umiltà che aveva: «Sono stato io a combinare questo disastro e mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Gli parve che Siferra stesse sorridendo. Forse aveva capito quel che cercava di dirle. Non appena tutti si precipitarono ai loro posti, la stanza piombò nel caos più totale, ma poi la confusione venne sostituita da un’attività ordinata, mentre gli astronomi si dedicavano ai compiti loro assegnati: alcuni correvano disopra, nella cupola deAl osservatorio, per guardare l'eclissi con i telescopi, altri si sedevano ai computer, altri ancora cercavano di registrare i mutamenti di Dovim con strumenti manuali. In quel momento cruciale non c'era spazio per le emozioni. Non erano altro che scienziati al lavoro. Theremon, solo in mezzo a loro, si guardò intorno in cerca di Beenay e lo trovò, infine, seduto davanti a una tastiera mentre cercava freneticamente di risolvere qualche problema. Athor era scomparso. Sheerin comparve al fianco di Theremon e disse con voce pacata: "Il primo contatto dovrebbe essere avvenuto cinque o dieci minuti fa. Forse un po' prima, ma suppongo che ci fossero molte incognite nei calcoli nonostante gli sforzi fatti." Sorrise. "Dovresti allontanarti dalla finestra, amico.» "E perché?" disse Theremon, che si era voltato nuovamente a fissare Dovim. "Athor è furioso," gli sussurrò lo psicologo. «Ha perso il primo contatto per via di quel diverbio con Folimun. La tua posizione qui è decisamente incerta. Se Athor passa da queste parti, c'è il rischio che ti scaraventi dalla finestra." Theremon annuì e si sedette. Sheerin lo fissò, spalancando gli occhi per la sorpresa.
"Accidenti, amico, stai tremando!" "Eh?" Theremon si passò la lingua lungo le labbra secche cercò di abbozzare un sorriso. "Non mi sento molto bene." Lo sguardo dello psicologo si fece severo: "Non è che stai perdendo la testa, spero." "No!" esclamò Theremon in un impeto d'indignazione. "Non mi dare addosso, per favore. Sai, Sheerin, volevo credere con tutto il cuore a questa storia dell'eclissi ma non ci riuscivo, davvero, mi sembrava la cosa più assurda e insensata che avessi mai sentito. Volevo crederci per Beenay, per Siferra, perfino per Athor, in un certo senso. Ma non ci riuscivo. E non ci ho creduto fin ora. Dammi tempo per abituarmi all'idea, va bene? Tu hai avuto mesi per farlo. Io invece l'ho scoperto di colpo." "Ti capisco perfettamente," disse Sheerin, pensieroso. "Senti, hai una famiglia, dei genitori, una moglie, dei figli?" Theremon scosse il capo. "No. Nessuno di cui debba preoccuparmi. Sì, ho una sorella, ma vive a duemila chilometri da qui. Non la sento da un paio d'anni." "E quanto a te, invece?" "Che intendi dire?" "Perché non vai al rifugio? C’è posto anche per te. Probabilmente farai in tempo; potrei chiamarli e dire che stai arrivando, così ti aprirebbero le porte e..." "Credi che sia spaventato a morte?" "L'hai detto tu stesso che non ti sentivi bene." "Forse è vero. Ma sono qui per raccogliere del materiale, per il mio articolo. E intendo farlo." Sulle labbra dello psicologo apparve un vago sorriso: «Capisco. Orgoglio professionale, non è vero?» "Puoi chiamarlo così, se vuoi." Theremon disse con aria stanca: "E poi ho contribuito in modo determinante ad affossare il progetto di prevenzione di Athor, l'hai scordato? Credi davvero che abbia ora la faccia tosta di scappare a nascondermi in quel rifugio che ho dileggiato fino a ieri?" "Non avevo tenuto in considerazione quest'aspetto." "Chissà se c'è ancora un po' di quel pessimo vino nascosto da qualche parte? Se c'è mai stato un momento adatto per bere qualcosa..." "Zitto!" disse Sheerin. Diede una violenta gomitata a Theremon. "Senti? Ascolta!" Theremon volse lo sguardo nella direzione indicata da Sheerin. Folimun 66 era in piedi vicino alla finestra, con un'espressione di selvaggia esultanza. L'apostolo stava mormorando qualcosa fra sé e sé con voce monotona, una sorta di cantilena che faceva accapponare la pelle. "Ma cosa sta dicendo?" chiese sottovoce il giornalista a Sheerin. "Riesci a capirlo?" “Sta recitando un passo del Libro delle rivelazioni, capitolo quinto," rispose Sheerin. E aggiunse nervosamente: "Stai zitto e ascolta." La voce dell'apostolo salì all'improvviso di tono insieme al suo fervore: "E vennero giorni in cui il Sole, Dovim, fu solo a vegliare nel cielo per tempi sempre più lunghi mentre le rivoluzioni passavano; e venne il giorno in cui per la metà di un'intera rivoluzione, esso solo, piccolo e freddo, risplendé su Kalgash. «E gli uomini si radunarono nelle pubbliche piazze e nelle strade per discutere, e mostravano stupore a quella vista, perché timore e tormento avevano preso possesso del loro spirito. La loro mente era turbata e la loro lingua confusa, perché l'anima degli uomini aspettava l'avvento delle Stelle. "E nella città di Trigon, a mezzogiorno, Vendret 2 uscì fra la gente e disse agli uomini di Trigon: 'Ascoltate, peccatori! Schernite pure le vie della rettitudine, il giorno della resa è prossimo!In verità vi dico, la caverna è pronta a ingoiare Kalgash e tutto ciò che vive in essa.' «E mentre parlava, la bocca della caverna del Buio cominciò a inghiottire Dovim, e subito tutta Kalgash fu nascosta alla vista. Alte furono le grida e i lamenti degli uomini quando lo videro svanire, e grande la paura che serrava le loro anime. «E poi accadde che la caverna del Buio piombò su Kalgash con tutta la sua terribile forza, e non ci fu luce in alcun luogo sulla superficie del mondo.
Gli uomini vagavano come ciechi, nessuno riusciva a vedere chi gli era vicino, anche se poteva sentirne l'alito sul viso. "E nell'oscurità apparvero le Stelle, in numero infinito, e la loro luce era come quella di tutti gli dei riuniti. E con le Stelle venne anche una musica, la cui bellezza era tale che le foglie stesse degli alberi gridarono di meraviglia. "E in quel momento le anime degli uomini si dipartirono da essi e volarono verso le Stelle, e i loro corpi abbandonati divennero simili a quelli delle belve, esseri selvatici e informi; e per le strade oscure delle città di Kalgash essi vagavano urlando come belve. "Dalle Stelle scesero allora le Fiamme celesti, latrici della volontà divina; e dove le Fiamme caddero, le città di Kalgash furono consumate fino alla distruzione più totale, e degli uomini e delle loro opere più nulla rimase. «Fu allora che...» Il tono della voce di Folimun mutò lievemente. I suoi occhi non si erano mossi, ma parve che in qualche modo si fosse accorto di aver attratto l'attenzione dei due. Senza fermarsi a prendere fiato e senza il minimo sforzo, alterò il timbro della voce che divenne più acuta e i suoni si fecero impercettibili. Theremon, colto di sorpresa, si accigliò. Gli sembravano parole vagamente familiari ma incomprensibili. Non c'era stato altro che uno sfuggente mutamento d'accento, una lievissima variazione nell'accentuazione delle vocali; eppure Theremon non aveva la minima idea di quello che Folimun stesse dicendo. «Forse ora solo Siferra riuscirebbe a capirlo," disse Sheerin. "Credo che stia parlando la lingua liturgica, l'antica lingua del precedente Anno Divino da cui si dice sia stato tradotto il Libro delle rivelazioni.» Theremon rivolse allo psicologo uno strano sguardo. «Mi sembra che tu sappia un sacco di cose su quest'argomento, vero? Cosa credi che stia dicendo?" «Come faccio a dirlo? Ho studiato un po' la loro dottrina di recente, è vero, ma non a fondo. Posso solo immaginare di cosa stia parlando, perché non lo rinchiudiamo da qualche parte, piuttosto?» «Lascialo stare," disse Theremon. «Che differenza fa? E’ il suo grande momento. Lasciaglielo godere." Spinse indietro la sedia e si passò la mano fra i capelli. Le mani non gli tremavano più. «E’ buffo," disse. «Adesso che è giunto il fatidico momento non mi sento più nervoso." «No?" «Perché dovrei?" chiese Theremon. Nella sua voce si avvertiva una nota di allegria febbrile. «Non posso fare niente per fermare ciò che sta per accadere, non è vero? Quindi devo fare del mio meglio per affrontare la situazione. Credi che le Stelle compariranno davvero?" "Non ne ho la più pallida idea,» disse Sheerin. «Forse Beenay potrebbe dirci qualcosa.» "O Athor.» "Lascia perdere Athor,» disse lo psicologo ridendo. «E’ appena passato e ti ha lanciato uno sguardo che avrebbe potuto incenerirti.” Theremon storse la bocca. «Ne avrò di scuse da fargli quando tutto sarà finito! Che ne dici, Sheerin? Posso guardare fuori senza pericolo?" "quando il Buio sarà totale..." Non sto parlando del Buio. Credo che riuscirò a sopportarlo. Parlo delle Stelle." "Le Stelle?» ripeté Sheerin con insofferenza. «Te l'ho detto, non so niente in proposito.» "Probabilmente non sono così terrificanti come vorrebbe farci credere il Libro delle rivelazioni. Se l'esperimento che hanno fatto quei due studenti, quello dei buchi nel soffitto, significa qualcosa…» Aprì le mani tendendole verso l'alto, come se potessero afferrare la risposta. "Dimmi, Sheerin, cosa ne pensi? Qualcuno resterà immune dagli effetti del Buio e delle Stelle?" Sheerin si strinse nelle spalle. Indicò il pavimento davanti a loro. Ora Dovim aveva iniziato a calare e la chiazza di luce rossa che entrava dalla finestra e si rifletteva sul pavimento si era mossa di qualche centimetro verso il centro della stanza. Sembrava la terribile macchia di un crimine agghiacciante.
Theremon fissò pensieroso quel tetro colore, poi ritrasse lo sguardo e lanciò un'occhiata furtiva verso Dovim. Il frammento di oscurità si era trasformato in una macchia nera che copriva un terzo della sua intera superficie. Theremon rabbrividì. Una volta, scherzando, aveva fantasticato con Beenay sulla presenza di un drago in cielo. Ora sembrava proprio che quel drago fosse arrivato e che dopo aver inghiottito cinque soli, stesse divorando a morsi anche l'ultimo rimasto. "Ci saranno al momento almeno due milioni di persone a Saro che cercano disperatamente di convertirsi al culto degli apostoli," disse Sheerin. «Staranno tenendo un'enorme assemblea al quartier generale di Mondior, ci scommetto. Mi chiedevi se si poteva essere immuni dagli effetti del Buio? Bene, lo sapremo presto, non credi?" «Penso che sia possibile. Altrimenti come avrebbero fatto gli apostoli a tramandare di ciclo in ciclo il Libro delle rivelazioni? E chi lo avrebbe scritto per primo? Deve esserci stato un modo per restare immuni. Se tutti fossero impazziti, chi sarebbe riuscito a scrivere quel libro?" "Con ogni probabilità, i membri del culto segreto si nascosero nei loro rifugi dove rimasero fino al ritorno della luce, proprio come stanno facendo alcuni di noi questa sera," disse Sheerin. «Non mi convince. Il Libro delle rivelazioni sembra il resoconto di un testimone oculare. Questo sembra indicare che qualcuno ha vissuto di persona l'esperienza della follia ed è sopravvissuto. «Ci sono tre tipi di persone," disse lo psicologo, "che possono restare relativamente indenni. Innanzi tutto, coloro che non potranno vedere affatto le Stelle... vale a dire i ciechi, o chi, all'inizio dell'eclissi, si ubriaca fino a stordirsi e resta in quello stato fino alla fine.» "Non contano. Non sono veri testimoni,» fece Theremon in tono severo. "Sono d'accordo. Il secondo gruppo, invece, è formato dai bambini più piccoli, quelli per cui il mondo nel suo insieme è qualcosa di talmente nuovo che niente appare loro insolito. Ritengo che non sarebbero spaventati dal Buio e neanche dalle Stelle. Si tratterebbe soltanto di due avvenimenti curiosi in un mondo immensamente pieno di sorprese. Sei d'accordo?» Theremon annui, dubbioso: «Credo di si.» "Infine, c'è gente la cui mente è troppo ristretta perché possa vacillare. Chi è privo di intelligenza riporterà conseguenze minime; parlo di ritardati mentali, ovviamente, che non faranno altro che infischiarsene e aspettare che sorga Onos.» "Quindi il Libro delle rivelazioni sarebbe stato scritto da perfetti defficienti?» chiese Theremon, sogghignando. "Non proprio. Potrebbe invece essere stato scritto da alcune delle menti più acute del nuovo ciclo, che si sono basate sui ricordi vaghi dei bambini, sui deliri confusi e incoerenti di chi aveva perso la ragione e forse anche sui racconti dei pazzi.» "Sarà meglio che Folimun non senta i nostri discorsi.» "Naturalmente il testo è stato scritto e riscritto nel corso degli anni. E forse anche tramandato di ciclo in ciclo, nello stesso modo in cui Athor e i suoi sperano di tramandare i segreti della gravità. Ma la questione di fondo secondo me è questa: non può trattarsi che di una massa di impressioni distorte, pur se basate su eventi reali. Pensa ad esempio all'esperimento con i buchi sul soffitto di cui ci parlavano Faro e Yimot... quello che non ha funzionato.” “E allora?" "il motivo per cui non ha funzionato..." Sheerin si interruppe e si alzò in piedi allarmato. "C'è qualcosa che non va?" chiese Theremon. “Athor viene da questa parte. E guarda la faccia che ha!» Theremon si girò.
Il vecchio astronomo si dirigeva verso di loro, come uno spirito assetato di vendetta in una leggenda medievale. Aveva la pelle bianca come il latte, gli occhi infuocati, l’espressione del viso stravolta da una maschera di terrore. Lanciò uno sguardo velenoso a Folimun, che se ne stava ancora da solo nell'angolo vicino alla finestra, e un altro a Theremon. Rivolto a Sheerin, disse: «Ho passato l'ultimo quarto d'ora parlando al telefono con quelli del rifugio, con le guardie dell’osservatorio e con la città.» “E allora?” “Il nostro giornalista sarà contento del suo lavoro. Mi hanno detto che la città è nel caos. Disordini ovunque, saccheggi, gruppi di persone in preda al panico...» «E al rifugio cosa succede?» chiese Sheerin, preoccupato. «Sono al sicuro. Si sono chiusi dentro, come d'accordo, e rimarranno nascosti come minimo affnché non spunta il giorno. Per loro non c'è da preoccuparsi. Ma la città, Sheerin... lei non ha idea...» Faceva perfino fatica a parlare. «Vorrei potesse credermi se le dico quanto mi dispiace,» fece Theremon. "Ora non c'è tempo,» lo interruppe bruscamente Sheerin. Poggiò la mano sul braccio di Athor. "E lei, dottor Athor, come si sente?» «Che importanza ha?» Athor si avvicinò alla finestra, come se avesse potuto vedere i disordini scoppiati in città. Con voce cupa aggiunse: "Nel momento in cui è iniziata l'eclissi, tutti laggiù hanno compreso che le previsioni nostre e degli apostoli si stavano avverando. E sono impazziti dalla paura. Presto cominceranno a incendiare ogni cosa. E immagino che fra un po' arriveranno anche gli uomini di Folimun. Cosa dobbiamo fare, Sheerin? Mi dia qualche consiglio!» Sheerin chinò il capo e tenne a lungo lo sguardo fisso a terra, riflettendo. Poi alzò gli occhi e disse freddamente: «Cosa si può fare, mi chiede? Chiuda i cancelli e le porte e si auguri che tutto vada per il meglio.» «Potremmo dire loro che se cercano di entrare uccideremo Folimun.» «E lo farebbe davvero?» chiese Sheerin. Gli occhi di Athor si accesero per la sorpresa: «Ma... io credo...» «No,» disse Sheerin. «Lei non lo farebbe.» «Ma se minacciassimo di...» «No. No. Si tratta di fanatici, Athor. Sanno già che Folimun è in mano nostra. Probabilmente si aspettano che venga ucciso non appena prendono d'assalto l'osservatorio, ma questo non li turba affatto. E comunque lei sa che non lo ucciderebbe.» «ovviamente no.» «Allora, quanto manca alla totalità?» «Meno di un'ora.» «Possiamo sperare nella buona sorte. I seguaci di Mondior avranno bisogno di tempo per radunare la folla, non si tratterà di un gruppo sparuto di membri della setta, sono pronto a scommetterci, ma di una massa di comuni cittadini fomentati da di alcuni apostoli che prometteranno loro la grazia, la salvezza, ogni cosa. Ma ci vorrà loro un po' di tempo prima di arrivare qui. Siamo a quasi dieci chilometri dalla città.» Sheerin gettò lo sguardo fuori dalla finestra. Theremon, al suo fianco, guardò in basso, lungo le pendici del monte. Più sotto, i campi coltivati cedevano il posto ai gruppi di case bianche della prima periferia. La metropoli era una macchia confusa che si estendeva più oltre, una nebbia nel bagliore sempre più fioco di Dovim. L'angosciosa luce del sole inondava il paesaggio. Senza voltarsi, Sheerin disse: "Sì, ci metteranno del tempo per arrivare quassù.
Sbarrate le porte, continuate a lavorare e pregate che la totalità arrivi prima di loro. Quando splenderanno le Stelle, credo che neanche gli apostoli riusciranno a esortare la follia ad assalire l'osservatorio.» Di Dovim era ormai rimasta solo la metà. La linea di divisione stava creando una lieve concavità nella parte di sole rosso che ancora risplendeva. Era come se una palpebra gigantesca stesse inesorabilimente calando sulla luce di un mondo. Theremon rimase a guardare fuori come pietriffcato. I lievi rumori della stanza si persero nei meandri della sua mente, ed egli percepì solo il profondo silenzio dei campi. Anche gli insetti sembravano spaventosamente muti. E gli oggetti si facevano sempre più indistinti. Quella misteriosa luce sanguigna macchiava ogni cosa. "Non guardare fuori così a lungo,» gli mormorò all'orecchio Sheerin. «Verso il sole?» «Verso la città, verso il cielo. Non sono preoccupato per i tuoi occhi, Theremon, ma per la tua mente.» «Sto bene.» «Continua così. Come ti senti?" «Io...» Theremon socchiuse gli occhi. Si sentiva la gola secca. Si passò un dito all'interno del colletto. Era stretto, molto stretto. Una mano che cominciava a stringergli lentamente la gola, non era questa la sensazione che provava? Torse il collo per un po' da una parte e dall'altra, ma non provò alcun sollievo. “Un po’ di difficoltà a respirare, in effetti.” “La difficoltà a respirare è uno dei primi sintomi di un attacco di claustrofobia," disse Sheerin. «Quando percepirai un senso di oppressione al torace, faresti bene ad allontanarti dalla finestra.» «Voglio vedere cosa succede." "Bene. Bene. Fai come ti pare, allora.» Theremon spalancò gli occhi e respirò a fondo per un paio di volte. "Credi che non ce la farò a sopportarlo?» Sheerin rispose stancamente: «Non so più niente, Theremon. Tutto cambia troppo in fretta, non ti pare? Oh, ecco Beenay!" 26 L'astronomo si mise fra la luce e i due che erano nell'angolo. Sheerin lo fissò un po' a disagio: "Salve, Beenay." "Vi dispiace se resto qui con voi?" chiese Beenay. "Ho finito i miei calcoli e non ho più nulla da fare fino alla totalità.» Beenay si interruppe e lanciò un'occhiata all'apostolo, che stava leggendo attentamente un libretto rilegato in pelle, estratto dalla manica dell'abito. "Ma non dovevamo rinchiuderlo da qualche parte?" "Abbiamo deciso di non farlo,» rispose Theremon. "Sai dov'è Siferra, Beenay? L'ho vista poco fa, ma non mi sembra che sia nei dintorni." "E’ disopra, nella cupola. Voleva dare un'occhiata al cielo con il grande telescopio. Non che ci sia qualcosa che non possiamo vedere anche a occhio nudo, in ogni caso.» «E Kalgash Due?» chiese Theremon. «Cosa c'è da vedere? Buio su Buio. Possiamo osservare le conseguenze della sua presenza mentre passa davanti a Dovim. La stessa Kalgash Due, poi, non è altro che un pezzo di Notte sullo sfondo di un cielo nero.» «Notte,» rifletté Sheerin. "Che strana parola." «Non più,» disse Theremon. "Quindi non si riesce a vedere il satellite vagante neanche con il grande telescopio?" Beenay sembrava imbarazzato. "I nostri telescopi non sono poi gran che. Sono ottimi per osservare i soli, ma difronte al Buio, anche se minimo..." Scosse il capo. Gettò indietro le spalle e fece uno sforzo per immettere aria nei polmoni. "Ma Kalgash due esiste davvero, possiamo esserne certi.
Quella misteriosa zona di Buio che sta passando fra noi e Dovim. Ecco cos'è Kalgash Due.» «Hai qualche difflcoltà a respirare, Beenay,» chiese Sheerin. «Un po' ." Tirò su col naso. «Forse ho preso un raffreddore.» «Un lieve attacco di claustrofobia, direi.» «Credi davvero?» “Ne sono certo. Hai altre strane sensazioni?» «In effetti,» rispose Beenay, «ho l'impressione che gli occhi mi affondino nelle orbite. Le cose sembrano confondersi e... insomma, non riesco a mettere a fuoco niente. E sento freddo, per di più.» «Questa non è una sensazione soggettiva. Fa freddo davvero," disse Theremon con una smorfia. «Mi sento i piedi freddi come se avessi attraversato l'intero paese dentro un vagone frigorifero.» "Quello di cui ora abbiamo bisogno,» disse Sheerin preoccupato, «è distogliere la nostra attenzione dagli effetti che il Buio ha su di noi. Dobbiamo tenere la mente occupata. Ti stavo spiegando un attimo fa, Theremon, perché l'esperimento di Faro con i buchi nel soffitto non è riuscito.» «Avevi appena iniziato,» confermò Theremon. Si raggomitolò su se stesso, circondandosi le ginocchia con le braccia e appoggiandovi sopra il mento. Quel che dovrei fare, invece, è chiedere scusa e andare disopra a cercare Siferra ora che la totalità si sta avvicinando, pensò. Ma si sentiva stranamente inerte, restio a muoversi. Oppure, si chiese, ho semplicemente paura di affrontarla? «L'ipotesi che stavo per avanzare,» disse Sheerin, "è che Faro e Yimot sono stati tratti in inganno perché hanno preso alla lettera il Libro delle rivelazioni. Non ha probabilmente alcun senso attribuire un significato reale al concetto di Stella. E’ forse possibile che, in presenza di Buio totale e prolungato, la mente trovi a assolutamente necessario creare luce. E forse le Stelle non sono altro che illusioni create dalla mente desiderosa di luce.» «In altre parole,» disse Theremon, che cominciava a interessarsi all'argomento, «intendi dire che le Stelle sono un effetto della follia e non la sua causa? Allora a che serviranno le fotografie che gli astronomi stanno prendendo questa sera?" “Forse a dimostrare che le Stelle sono solo un'illusione. O a dimostrare l'opposto, per quanto ne so. E inoltre..." Beenay si era avvicinato con la sedia, e sul suo viso era comparsa un'espressione d'improvviso entusiasmo. "A proposito di questa storia delle Stelle..." iniziò, "ho riflettuto a lungo anch'io, e sono giunto a una conclusione che mi sembra di estremo interesse. Certo, si tratta di una congettura pazzesca, e non intendo esporla seriamente. Ma è qualcosa a cui vale la pena pensare. Volete ascoltarla?" "Perché no?" disse Sheerin, appoggiandosi allo schienale della sedia. Beenay sembrava ora un po' riluttante. Sorrise timidamente e disse in tono calmo: "Allora, supponiamo che esistano altri soli nell'universo.» Theremon si trattenne dal ridere. "Avevi detto che era pazzesca ma non credevo..." "No, non è poi così balorda come sembra. Non sto parlando di altri soli vicini a noi che per qualche misterioso motivo non riusciamo a vedere. Parlo invece di soli che sono talmente distanti da Kalgash che la loro luce non è abbastanza forte da permetterci di percepirli. Se fossero più vicini, sarebbero luminosi come Onos, forse, o come Tano e Sitha. Ma dal momento che così vicini non sono, la luce che emanano basta a malapena a mostrarceli come piccoli punti luminosi inghiottiti dallo splendore costante dei nostri sei soli.» "Ma non hai pensato alla Legge della gravitazione universale?" disse Sheerin. “Mi sembra che tu non ne abbia tenuto conto. Se questi soli esistessero realmente, non creerebbero delle perturbazioni nella nostra orbita così come fa Kalgash Due? Se così fosse, perché non le hai rilevate?" “Ottima osservazione,» disse
Beenay. "Ma poniamo che questi soli si trovino... che so, a quattro anni luce di distanza, o anche di più.” “A quanti anni corrisponde un anno luce?» chiese Theremon. "Non devi pensare in termini di tempo ma di spazio. Un anno luce è la misura di una distanza... la distanza che la luce percorre in un anno. Un numero enorme di chilometri, perché la luce è molto veloce. Abbiamo calcolato che essa viaggia a circa 297 mila chilometri all'ora, e ho il sospetto che non si tratti di una misura precisa. Forse, se possedessimo strumenti migliori, ci accorgeremmo che la velocità della luce è ancora maggiore. Ma se prendiamo come misura quella di 297 mila chilometri all'ora, possiamo calcolare che Onos si trova a dieci minuti luce di distanza da noi, e Tano e Sitha undici volte più lontano e così via. Quindi, un sole che si trovasse anche a pochi anni luce di distanza, sarebbe comunque lontanissimo. Non riusciremmo ad avvertire le perturbazioni che esso crea nell'orbita di Kalgash, perché sarebbero infinitesimali. Insomma: poniamo che ci siano moltissimi soli lassù, tutto intorno a noi nel cielo, a una distanza che può variare da quattro a otto anni luce... diciamo una dozzina, forse perfino venti." Theremon fece un fischio di stupore. "Che idea per un pezzo sul supplemento settimanale! Venti soli in un universo ampio otto anni luce! Per gli dei! Il nostro sistema solare diventerebbe insignificante! Pensate: Kalgash e i suoi soli non sarebbero altro che un misero quartiere periferico del vero universo, mentre noi qui crediamo di essere al centro di tutto, che esistano soltanto Kalgash e i suoi sei soli!» "E’ solo un'idea pazzesca,» disse Beenay sogghignando, “ma spero che abbiate compreso il concetto di fondo. Durante l'eclissi, quei soli diventerebbero all'improvviso visibili, perché per un breve periodo di tempo la luce dei nostri soli, che in condizioni normali ci impedisce di vederli, sarebbe scomparsa. Dal momento che sono tanto distanti, ci sembrerebbero piccoli, come delle biglie. Ma sarebbero proprio loro: le Stelle. I punti luminosi che compaiono all'improvviso, ovvero le Stelle che ci hanno promesso gli apostoli.» "Gli apostoli parlano di un 'numero infinito' di Stelle," disse Sheerin. "E non direi che quindici o venti soli si possano definire in questo modo. Dovrebbero essercene milioni e milioni, non credi?" "Una licenza poetica," disse Beenay. “Non c'è abbastanza spazio nell'universo per un milione di soli, nemmeno se fossero ammassati tutti insieme fin quasi a toccarsi.» "E poi," propose Theremon, "se ammettiamo l'esistenza di una ventina di soli, non sarebbe possibile distinguere chiaramente il loro numero. Scommetto che sembrerebbero davvero un numero infinito, soprattutto se c'è un'eclissi in corso e la mente degli uomini è già abbastanza annebbiata per via del Buio. Come certamente saprete, ci sono tribù selvagge che possiedono nella loro lingua solo tre numeri: 'uno', 'due' e 'molti'. Forse noi siamo un po' più avanzati: andiamo da uno a venti, poi parliamo di 'numero infinito'." Ebbe un brivido d'emozione. "Ma pensate! Venti soli che appaiono in cielo all'improvviso!" "Non solo," riprese Beenay. "Mi è venuta un'altra idea interessante. Avete mai pensato come sarebbe semplice la gravità se vivessimo in un sistema solare semplificato? Poniamo il caso che esista un universo con un pianeta e un unico sole. Questo pianeta descriverebbe un'ellisse perfetta e la natura esatta della forza gravitazionale sarebbe talmente evidente da essere accettata come un assioma. Probabilmente gli astronomi di questo mondo scoprirebbero la forza di gravità ancora prima di inventare il telescopio. Basterebbe loro l'osservazione a occhio nudo per capire come stanno realmente le cose." Sheerin sembrava dubbioso. "Ma un sistema del genere sarebbe dinamicamente stabile?" chiese. "Ma certo! E’ stato definito il caso dell' 'uno a uno'.
Matematicamente è un concetto possibile, ma a me interessano ora le implicazioni filosofiche di questo sistema.» "E’ un'idea divertente," ammise Sheerin, “da un punto di vista puramente astratto, certo... come un gas perfetto o lo zero assoluto. " "Naturalmente,» continuò Beenay, "c'è il problema che la vita sarebbe impossibile su un pianeta del genere. Non ci sarebbe abbastanza calore né abbastanza luce, e se ruotasse intorno al suo unico sole per metà della giornata si avrebbe un Buio totale. E’ il caso del pianeta che una volta mi hai chiesto di immaginare, ti ricordi, Sheerin? Gli abitanti avrebbero dovuto adattarsi all'alternanza del giorno e della Notte. Ma ci ho riflettuto e ho concluso che non potrebbe essere abitato. Non puoi aspettarti che si sviluppi la vita... che dipende direttamente dalla luce... in condizioni così estreme di assenza di luce. Metà della rotazione assiale nel Buio! No, non potrebbe esistere nulla in condizioni del genere Comunque, sempre parlando in astratto, il sistema 'uno a uno'..." "Aspetta un momento," disse Sheerin. “Mi sembra un po' azzardato dire che la vita non potrebbe svilupparsi in un pianeta del genere. Come fai ad affermarlo? Perché dovrebbe essere impossibile l'evoluzione della vita su un pianeta che resta al Buio per metà di ogni giorno?" Te l'ho detto, Sheerin, la vita dipende direttamente dalla luce. E inoltre in un mondo in cui...» “Qui la vita dipende direttamente dalla luce. Ma in un pianeta in cui...» "Rientra nella logica, Sheerin!" "La tua è una logica circolare, Beenay,» ribatté Sheerin. “Tu definisci la vita come un fenomeno particolare che si verifica su Kalgash, poi ti spingi fino ad affermare che su un mondo totalmente diverso da Kalgash la vita non sarebbe...» Theremon scoppiò a ridere fragorosamente. Sheerin e Beenay si volsero indignati. «Cosa c'è di tanto divertente?» gli chiese Beenay. «Voi. Voi due. Un astronomo e uno psicologo che discutono animatamente di biologia. Deve essere questo il famoso dibattito interdisciplinare di cui tanto si parla, il grande fermento intellettuale che ha reso quest'università tanto famosa.» Il giornalista si alzò in piedi. Cominciava a sentirsi irrequieto, e la lunga disquisizione di Beenay su un problema puramente astratto lo aveva innervosito. «Scusatemi, per favore. Devo sgranchirmi un po' le gambe.» «La totalità è ormai vicina,» gli fece notare Beenay. “Non vorrai trovarti da solo in quel momento!» “Faccio due passi e torno," disse Theremon. Non si era neppure allontanato che già Beenay e Sheerin avevano ripreso a discutere. Theremon sorrise. Era un modo per alleviare la tensione, si disse. Erano tutti tremendamente sotto pressione. In effetti ogni secondo che passava portava il mondo più vicino al Buio totale... a... Alle Stelle? Alla follia? Alla discesa delle Fiamme celesti? Theremon scrollò le spalle. Aveva cambiato umore centinaia di volte nelle ultime ore, ma ora si sentiva stranamente calmo, quasi rassegnato. Aveva sempre creduto di poter dominare il suo destino, di poter stabilire da solo il corso della sua vita: in questo modo infatti era riuscito a fare cose impossibili per gli altri giornalisti. Ma ora ogni cosa era al di là del suo controllo, e lo sapeva. Che fosse sceso il Buio, che fossero apparse le Stelle, o che fossero discese le Fiamme, tutto ciò sarebbe accaduto senza che gli venisse chiesto alcun permesso. Non aveva senso, quindi, logorarsi in un'attesa nervosa. Rilassati, siediti, aspetta e stai a guardare quel che accadrà. E poi, disse tra sé... poi, cerca di sopravvivere al disastro che potrebbe seguire. “Sta andando disopra, nella cupola?" chiese una voce. Nella semioscurità Theremon strizzò gli occhi.
Era il giovane astronomo grassoccio... si chiamava Faro, gli sembrava. “Sì, proprio così,» rispose Theremon, anche se in effetti non aveva in mente una direzione particolare. “Anch'io. Venga, l'accompagno." Una scala a chiocciola di metallo portava all'ultimo piano dell'edificio a forma di cupola. Faro salì la scala sbuffando, con un passo corto e pesante, e Theremon lo seguì, adattandosi alla sua andatura. Era già stato una volta, anni prima, nella cupola dell'osservatorio, perché Beenay aveva voluto mostrargli qualcosa, ma ne aveva un ricordo molto vago. Faro aprì con fatica una porta scorrevole, e i due entrarono. “Sei venuto a dare un'occhiata alle Stelle da vicino?» gli chiese Siferra. L'archeologa era in piedi vicino all'ingresso, e guardava gli astronomi intenti nel loro lavoro. Theremon arrossì. Non aveva particolarmente voglia di vedere Siferra in quel momento. Si era ricordato troppo tardi che, secondo Beenay, Siferra si era recata nella cupola. Nonostante quell'ambiguo sorriso che sembrava avergli rivolto nel momento in cui l'eclissi era iniziata, Theremon temeva ancora il morso del suo disprezzo, la rabbia per quello che lei considerava un tradimento verso il gruppo dell'osservatorio. Siferra non mostrava però di essere risentita. Forse ora che il mondo stava sprofondando nella caverna del Buio, riteneva che tutto ciò che era accaduto prima dell'eclissi fosse irrilevante, che la catastrofe imminente avrebbe ricomposto tutti gli errori, tutte le liti, tutti i peccati. “Che posto incredibile!» disse Theremon. «Non è meraviglioso? A ogni modo non è che ne sappia molto di quello che sta succedendo qui dentro. Il grande soliscopio è puntato su Dovim. In realtà credo che sia una telecamera più che un cannocchiale, almeno così mi hanno detto: non puoi guardarci dentro e vedere il cielo. E poi quei telescopi più piccoli sono puntati più lontano, in attesa di un segno che indichi l'arrivo delle Stelle...» "Le hanno identificate?» "Non ancora, o almeno nessuno mi ha detto niente," rispose Siferra. Theremon annuì e si guardò intorno. Questo era il cuore dell'osservatorio, la stanza dalla quale si scrutava il cielo. Era l'ambiente più buio in cui fosse mai entrato... non proprio buio, ovviamente; c'erano portalampade di bronzo in doppia fila lungo tutta la parete circolare, ma la loro luce era decisamente fioca. Nella penombra vide un grande tubo di metallo che saliva verso l'alto e spariva attraversò un riquadro aperto nel soffitto dell'edificio. Da quel riquadro si intravedeva anche il cielo, che ora aveva assunto un terrificante colore porpora. Il globo rimpicciolito di Dovim era ancora visibile, ma il piccolo sole sembrava essersi allontanato enormemente. "Che strana visione," mormorò. "Il cielo ha un aspetto che non ho mai visto prima. E’ denso... sembra quasi una specie di coperta." "Una coperta che ci soffocherà tutti." “Hai paura?" le chiese. "Certo. Tu no?" "Sì e no,» rispose Theremon. "Credimi, non cerco di fare l'eroe, ma non sono nervoso come un paio d'ore fa. Un po' stordito, questo sì." “Credo di capire cosa provi." "Athor dice che sono già scoppiati dei disordini in città." "E’ solo l'inizio," rispose Siferra. “Theremon, non riesco a togliermi dalla testa quelle ceneri.
Le ceneri della collina di Thombo. Quei grandi blocchi di pietra, le fondamenta della città ciclopica... e cenere ovunque, alla loro base." “Con ceneri più antiche sotto, e poi più sotto ancora, e ancora, e ancora.» "Esatto," rispose Siferra. Theremon si accorse che Siferra gli si era avvicinata. E notò anche che l'ostilità che aveva manifestato nei suoi confronti durante gli ultimi mesi sembrava completamente scomparsa e... era forse possibile?... gli pareva che ora ricambiasse quella sorta di attrazione che aveva provato una volta per lei. Conosceva i sintomi. Ne aveva fatta di esperienza per non riconoscerli. Bene, pensò Theremon. Il mondo sta per finire e ora, tutt'a un tratto, Siferra ha finalmente deciso di togliersi quel suo vestito da regina dei Ghiacci. Una strana figura sgraziata, incredibilmente alta, venne verso di loro muovendosi in modo goffo e nervoso. Li salutò con una sciocca risatina. "Ancora nessuna traccia delle Stelle," disse. Era Yimot, il giovane laureato amico di Faro. "Forse non riusciremo neanche a vederle. Forse sarà tutto un fiasco come l'esperimento che abbiamo tentato io e Faro in quella casa buia." "C'è una grossa fetta di Dovim che è ancora visibile,» gli fece notare Theremon. "Per il momento non siamo immersi nell'oscurità totale.» "Sembra che tu non veda l'ora che avvenga,» disse Siferra. Theremon si voltò verso di lei: "Desidero che quest'attesa finisca al più presto.» "Ehi!" strillò qualcuno. “Il mio computer non funziona più!» "La luce!...» gridò un'altra voce. "Cosa succede?» chiese Siferra. "La corrente elettrica se n'è andata," disse Theremon. “Proprio come aveva previsto Sheerin. La centrale deve essere nei guai. La prima ondata di pazzi che ha invaso la città.» Anche le fioche luci dei portalampade sembravano sul punto di spegnersi. Dapprima divennero improvvisamente luminose, come se fosse stata loro fornita un'ultima, forte scarica di energia; poi si abbassarono; quindi tornarono a splendere, ma non con la stessa intensità di poco prima; infine cominciarono a emanare una luce neppure paragonabile a quella normale. Theremon sentì la mano di Siferra stringergli il braccio. “Si sono spente," disse qualcuno. “E anche i computer... qualcuno attivi l'impianto di emergenza! Mettete in funzione l'impianto di emergenza!" "Presto! Il soliscopio non va più! L'otturatore della telecamera non funziona!" "Perché non si sono preparati a un'eventualità di questo genere?" chiese Theremon. E invece era stato previsto. Dai meandri dell'edificio venne dapprima un ronzio, poi gli schermi dei computer sparsi per la stanza si riaccesero. Ma le luci dei portalampade rimasero spente. Evidentemente erano collegate a un altro circuito, e il geeneratore d'emergenza nello scantinato non poteva farle funzionare. L'osservatorio era praticamente al Buio. La mano di Siferra stringeva ancora il polso di Theremon. Il giornalista si chiese se era il caso di passarle un braccio intorno alle spalle per confortarla. Poi si sentì la voce di Athor: "Venite a darmi una mano. Fra un attimo tornerà tutto a posto!" "Ma che cos'ha?" "Athor ha portato le luci,» si sentì la voce di Yimot. Theremon si girò a guardare. Non era facile distinguere qualcosa con la luce così bassa, ma poi i suoi occhi si abituarono. Athor reggeva fra le braccia una mezza dozzina di bastoncini larghi un paio di centimetri e lunghi una trentina. Gettò uno sguardo severo ai suoi collaboratori.
"Faro! Yimot! Venite ad aiutarmi!" I due si affrettarono a raggiungere il direttore dell'osservatorio e presero i bastoncini. Yimot li sollevò uno dopo l'altro mentre Faro, nel silenzio più totale, accendeva grossi fiammiferi crepitanti, con l'aria di chi stia eseguendo il rito più sacro di una cerimonia religiosa. Quando avvicinò la fiamma all'estremità della prima bacchetta, la piccola lingua di fuoco esitò per un istante, ondeggiando sulla punta del bastoncino; poi un improvviso bagliore scoppiettante illuminò di luce giallastra il viso rugoso di Athor. Nella grande stanza si levò un'acclamazione spontanea. In cima alla bacchetta guizzavano dieci centimetri di fiamma! "Fuoco?" si chiese Theremon. "Qui dentro? E perché non usare le lampade votive o qualcosa del genere?" "Ne abbiamo discusso," disse Siferra, "ma le lampade votive sono troppo fioche. Vanno bene per una stanzetta da letto, sono una piccola presenza confortevole che ci accompagna durante il periodo di sonno, ma per stanze così grandi..." "E disotto? Anche laggiù hanno acceso le torce?" “Credo di sì.» Theremon scosse il capo. “Nessuna meraviglia che la città sia data completamente alle fiamme questa sera. Se anche voi ricorrete a un elemento così primitivo come il fuoco per tenere lontano il Buio..." La luce era debole, più debole perfino del più incerto chiarore solare. Le fiamme guizzavano impazzite, formando ombre ubriache, oscillanti. Le torce mandavano un fumo infernale e puzzavano come la cucina di una mensa popolare. Ma emanavano luce gialla. C'era qualcosa di piacevole in quella luce, pensò Theremon. Soprattutto dopo quasi quattro ore di cupa semioscurità, mentre Dovim si estingueva a vista d'occhio. Siferra si riscaldò le mani alla bacchetta più vicina, incurante della fuliggine che cadeva su di esse sotto forma di fine polvere grigia, e mormorò fra sé e sé, quasi in estasi: «E’ splendido! Splendido! Non avevo mai pensato prima a quanto fosse meraviglioso il colore giallo.» Theremon invece continuava a guardare con sospetto le torce. Arricciò il naso al loro rancido odore e chiese: «Ma di che cosa sono fatte?" "Di legno," rispose Siferra. "No, impossibile. Non stanno bruciando. La punta si carbonizza, ma le fiamme continuano ad ardere come se uscissero dal nulla. " "E’ questo il bello. E’ un modo decisamente efficace per produrre luce artificiale. Ne abbiamo preparate un centinaio, ma la maggior parte le abbiamo portate al rifugio, ovviamente. Vedi," si voltò e si tolse la polvere dalle mani annerite, «si prende il midollo delle comuni canne acquatiche, lo si fa seccare e lo si impregna di grasso animale. Poi si accende il fuoco e il grasso a poco a poco brucia. Le torce bruceranno per almeno mezz'ora senza spegnersi. Ingegnoso, non credi?" «Splendido," disse Theremon in tono severo. "Molto moderno. Molto scenografico." Ma non riuscì a restare nella stanza più a lungo. La stessa irrequietezza che lo aveva condotto lassù lo assalì nuovamente. Il fetore delle torce era già di per sé disgustoso; e a esso si erano aggiunte le raffiche d'aria fredda che scendevano dal riquadro aperto della cupola, una corrente rigida e invernale, le dita gelide della Notte. Rabbrividì. Si pentì di aver bevuto così in fretta, insieme a Sheerin e a Beenay, quella bottiglia di pessimo vino. "Ritorno disotto," disse a Siferra. «Non c'è nulla da vedere qui, se non sei un astronomo." "Hai ragione. Vengo con te " Nella gialla luce tremolante vide apparire sulle sue labbra un sorriso inequivocabile, questa volta chiarissimo.
27 Scesero la cigolante scala a chiocciola e si ritrovarono al piano inferiore, dove non molto era cambiato. Anche qui avevano acceso le torce. Beenay era impegnato con tre computer contemporaneamente, elaborando dei dati forniti dai telescopi del piano superiore. Gli altri astronomi stavano svolgendo le loro mansioni, tutte incomprensibili per Theremon. Sheerin vagava da solo, come un'anima perduta. Folimun aveva spostato la sedia sotto una torcia e continuava a leggere, muovendo le labbra nella sua monotona preghiera alle Stelle. Nella mente di Theremon vorticavano spezzoni di frasi, frammenti dell'articolo che aveva progettato di scrivere per il Saro City Chronicle del giorno seguente. Parecchie altre volte durante la serata, la macchina da scrivere che aveva nel cervello aveva iniziato a picchiare sui tasti allo stesso modo... una procedura perfettamente automatica, perfettamente coscienziosa e, come era fin troppo consapevole ormai, perfettamente inutile. Era del tutto assurdo pensare che il giorno dopo il Chronicle sarebbe uscito. I suoi occhi incontrarono quelli di Siferra. "Il cielo," mormorò lei. "L'ho visto." Aveva cambiato nuovamente colore. In quel momento era ancora più scuro, di un terribile rosso purpureo intenso, una tinta mostruosa, come se un'enorme ferita in esso stesse versando fiumi di sangue. L'aria si era fatta in qualche modo più densa. Il crepuscolo, come un'entità tangibile, era entrato nella stanza, e i cerchi danzanti di luce gialla intorno alle torce si stagliavano sempre più netti contro il grigiore che si andava addensando. L'odore di fumo era ancor più nauseante che al piano superiore. Theremon si accorse che lo disturbavano anche i piccoli rumori soffocati che facevano le fiamme delle torce, e perfino i passi smorzati del grosso psicologo che continuava a girare intorno al tavolo al centro della stanza. Diventava sempre più difficile distinguere gli oggetti, con o senza torce. Ecco che inizia, pensò Theremon. Scende il Buio... e appaiono le Stelle. Per un attimo pensò che la cosa più saggia da fare fosse cercare un accogliente stanzino per chiudercisi dentro fino a che non fosse tutto finito. Resta fuori dai piedi, evita la vista delle Stelle, rincantucciati da qualche parte e aspetta che tutto torni alla normalità. Ma con un minimo di riflessione capì che era una pessima idea. Uno stanzino, qualsiasi luogo chiuso, sarebbe stato anch'esso buio. Quel rifugio tranquillo e riparato si sarebbe trasformato in una stanza degli orrori, molto più agghiacciante delle grandi stanze dell'osservatorio. E inoltre, se qualcosa di enorme stava per accadere, qualcosa che avrebbe cambiato radicalmente la storia del mondo, Theremon non voleva starsene nascosto con la testa sotto le braccia, mentre fuori accadeva l'impensabile. Sarebbe stato da sciocchi e da vigliacchi; e se ne sarebbe pentito per il resto della vita. Non era mai stato tipo da evitare i rischi, se pensava di poterne ricavare un buon articolo. Inoltre era abbastanza sicuro di sé da credere di poter resistere a tutto quello che sarebbe successo. E gli restava abbastanza scetticismo da potersi chiedere, almeno con una parte di sé, se qualcosa d'importante stava davvero per accadere. Rimase immobile, ascoltando Siferra che ogni tanto respirava più profondamente, con quei rapidi, brevi respiri che si fanno quando si cerca di mantenere la calma in un mondo che si sta velocemente ritirando nell'ombra.
Poi sentì qualcos'altro, percepì un suono vago, piuttosto confuso, qualcosa di nuovo che sarebbe passato inosservato se non fosse stato per il silenzio glaciale che era caduto nella stanza, e per l'innaturale concentrazione di Theremon sull'avvicinarsi della totalità. Il giornalista rimase ansiosamente in ascolto, con il fiato sospeso. Poi si avvicinò con cautela alla finestra e guardò fuori. Il silenzio esplose in minuscoli frammenti al suo grido d'allarme: "Sheerin!" Nella stanza ci fu un gran frastuono. Tutti si volsero verso di lui, indicandolo, facendo domande. Lo psicologo lo raggiunse in un attimo. Siferra lo seguì. Anche Beenay, chino davanti ai computer, si girò a guardare. Fuori, Dovim era ormai un frammento spento, che gettava un ultimo, disperato sguardo su Kalgash. L'orizzonte orientale, in direzione della città, si perdeva nel Buio, e la strada da Saro all'osservatorio era una smorta linea rossa. Gli alberi del bosco che delimitavano la strada su entrambi i lati non si distinguevano più, ma erano confusi in un'unica massa d'ombra. Era però la strada ad attrarre l'attenzione, perché lungo di essa cresceva un'altra massa d'ombra, estremamente più minacciosa, che come una belva misteriosa si trascinava e si allargava verso le pendici del Monte dell'Osservatorio. «Guardate!" gridò Theremon con voce rauca. «Andate a chiamare Athor! Sono i pazzi della città! Gli uomini di Folimun! Stanno arrivando!" «Quanto manca alla totalità?" chiese Sheerin. «Quindici minuti," rispose Beenay in tono stridulo. «Ma quelli saranno qui fra cinque." «Non ha importanza, continuate a lavorare," disse Sheerin. Aveva una voce ferma, controllata, inaspettatamente autoritaria, come se fosse riuscito ad attingere a una riserva nascosta di forza interiore in quel momento decisivo. «Non riusciranno a entrare. Questo posto sembra una fortezza. Siferra, vai disopra e dì ad Athor cosa sta succedendo. Beenay, tieni d'occhio Folimun. Se il caso, dagli un pugno e mettilo fuori combattimento, ma non perderlo mai di vista. Theremon, vieni con me." Sheerin uscì dalla stanza seguito dal giornalista. Le scale sembravano un vortice compatto che si chiudeva intorno alla tromba centrale, e si perdeva in un grigiore freddo e desolato. Nel primo impeto della loro corsa erano scesi di alcuni metri. E ora che era scomparsa la fioca luce gialla e tremolante prove niente dalla porta aperta alle loro spalle, si sentirono avvolgere dall'ombra oscura. Sheerin si fermò e si portò la tozza mano al petto. Sembrava che gli occhi volessero uscirgli dalle orbite. La sua voce divenne un rauco mormorio. Il suo corpo era scosso da brividi di paura. Quella sicurezza che aveva trovato un momento prima, sembrava averlo abbandonato. "Non... riesco... a... respirare... scendi... tu. Controlla... che le porte... siano... tutte chiuse..." Theremon scese qualche altro scalino poi si voltò. «Aspetta! Ce la fai a resistere ancora per un momento?" Anche lui stava ansimando. L'aria che entrava e usciva dai suoi polmoni era densa come melassa, e al solo pensiero di dover scendere ancora più in basso da solo, avvertiva nella mente il panico che cominciava a crescere, pronto a esplodere. E se le guardie avevano lasciato aperto l'ingresso principale? Non era della folla infuriata che aveva paura, ma del... Buio. Theremon comprese che in fondo anche lui aveva paura del Buio! “Resta qui," disse a Sheerin, ma era superfluo perché lo psicologo era rannicchiato sulla scala, nello stesso punto in cui Theremon lo
aveva lasciato. «Torno fra un attimo." Salendo due scalini alla volta, con il cuore che gli batteva all'impazzata, e non soltanto per lo sforzo, Theremon irruppe nella stanza principale e si impossessò di una torcia. Siferra si voltò verso di lui, gli occhi spalancati e smarriti. Vengo con te?" chiese. “Sì. No. No!" Corse di nuovo fuori. La torcia emanava un pessimo odore, e il fumo gli bruciava gli occhi fin quasi a renderlo cieco, ma Theremon la teneva stretta come se volesse baciarla per la gioia. La fianmma si piegava all'indietro mentre il giornalista si precipitava giù per le scale. Sheerin non si era mosso. Aprì gli occhi ed emise un gemito mentre Theremon si chinava su di lui. Il giornalista lo scosse rudemente. «Forza, riprenditi. Abbiamo la luce." Reggendo alta la torcia, prese per il gomito lo psicologo barcollante e cominciò a scendere nuovamente, questa volta protetto dal crepitante cerchio di luce. Al piano terreno, tutto era immerso nel Buio. Theremon sentì il terrore crescere nuovamente dentro di sé. Ma la torcia aprì un varco fra le tenebre. "Le guardie..." disse Sheerin. Dov'erano? Erano fuggite? Sembrava proprio così. No, un paio di quelle che Athor aveva piazzato a guardia dell'osservatorio erano schiacciate contro un angolo dell'ingresso, tremando come gelatina. Avevano gli occhi vuoti, le lingue ciondolanti fuori dalla bocca. Delle altre, nessun segno. «Da questa parte," disse bruscamente Theremon passando la torcia a Sheerin. «Già si sentono distintamente." Stavano arrivando. Potevano percepire echi di grida incomprensibili, minacciosi. Ma Sheerin aveva ragione: l'osservatorio era stato costruito come una fortezza. Eretto nel secolo precedente, quando lo stile architettonico neogavottiano aveva raggiunto il culmine della bruttezza, era stato progettato per durare a lungo e non per essere esteticamente apprezzabile. Le finestre erano protette da una grata di spesse sbarre di ferro, incassate nel cemento. Le mura erano talmente solide da poter resistere a un terremoto, e la porta principale era di quercia massiccia, rinforzata con spranghe di ferro nei punti deboli. Theremon controllò la serratura. Era tutto in ordine. «Almeno non riusciranno a entrare tranquillamente come ha fatto Folimun," disse ansimando. "Sentili! Sono proprio qui fuori!" "Dobbiamo fare qualcosa." "Hai dannatamente ragione,» disse Theremon. "Non startene lì fermo! Aiutami a spostare questi contenitori contro la porta, e tienimi lontana la torcia dagli occhi. Il fumo mi sta soffocando.» I contenitori da esposizione erano pieni di libri, strumenti scientifici e ogni sorta di cose, un vero e proprio museo astronomico. Solo gli dei sapevano quanto erano pesanti, ma in quel momento cruciale una forza superiore si era impossessata di Theremon, che li sollevò - con l'aiuto più o meno valido di Sheerin - come se fossero stati dei cuscini. I piccoli telescopi e gli altri oggetti contenuti nelle pesanti casse si rovesciarono mentre li sistemava contro la porta. Si sentì il rumore di vetri infranti. Beenay mi ucciderà, pensò Theremon. Per questa roba, prova una vera e propria adorazione. Ma non era affatto il caso di essere delicati.
Accatastò i contenitori uno sopra l'altro contro la porta, e in pochi minuti costruì una specie di barricata che avrebbe potuto trattenere la folla, o almeno così sperava, se fosse riuscita a superare il cancello. Già sentivano il rumore fioco, attutito di pugni nudi che battevano contro la porta del cancello. Grida... urla... Sembrava un incubo. La folla aveva lasciato Saro spinta dall'ansia di salvezza, quella salvezza promessa dagli Apostoli della fiamma, che ora potevano conquistare, a quanto era stato detto loro, solo distruggendo l’osservatorio. Ma con l'avvicinarsi del Buio, il panico e la follia avevano sottratto alle loro menti la ragione. Non avevano avuto il tempo per pensare di procurarsi delle macchine, delle armi, qualcuno che li guidasse, e tanto meno di organizzarsi. Si erano precipitati all'osservatorio a piedi e lo assaltavano a mani nude. E ora che erano arrivati, l'ultimo raggio di Dovim, l'ultima goccia di luce rossastra, splendeva debolmente su un'umanità a cui era rimasto soltanto il terrore. Theremon gemette: "Andiamo disopra!» Non c'era più nessuno nella stanza in cui fino a poco prima l'attività ferveva. Erano tutti saliti al piano superiore, nella cupola dell'osservatorio. Quando si precipitò dentro, Theremon fu colpito dalla spaventosa calma che vi sembrava regnare. Era come entrare in un quadro. Yimot era seduto al quadro di controllo del gigantesco soliscopio, sulla seggiolina dallo schienale inclinato, come se si fosse trattato di una sera normale di lavoro. Gli altri erano radunati attorno ai telescopi più piccoli, e Beenay stava dando loro istruzioni con voce tesa e stanca. “Statemi tutti bene a sentire. E’ essenziale che fotografiate Dovim subito prima della totalità e poi cambiate la lastra. Tu... e tu… venite qui e preparatevi a scattare. Più foto facciamo e meglio è. Sapete tutto sui tempi d'esposizione.» Ci fu un muto mormorio di assenso. Beenay si passò una mano sugli occhi. “Le torce danno ancora luce? Ah, sì, le ho viste!" Si appoggiò pesantemente allo schienale della sedia. "Fate bene attenzione, non... non mettetevi a cercare inquadrature strane. Quando appariranno le Stelle, non perdete tempo cercando di fotografarne d-due alla volta. Una sola basta. E... se vi sentite male, allontanatevi immediatamente dagli apparecchi fotografici." Sulla porta, Sheerin sussurrò a Theremon: "Dov'è Athor? Non lo vedo.” Il giornalista non riuscì a rispondere immediatamente. Le sagome confuse degli astronomi si erano fatte opache e tremule, e le torce sopra di loro erano ridotte ormai a chiazze giallastre. La stanza era fredda come la morte. Theremon senti la mano di Siferra afferrare la sua per un attimo, solo un attimo, poi non riuscì più a vederla. "E’ scuro,» piagnucolò. Sheerin protese le mani in avanti: “Athor.» Avanzò a tentoni. «Athor!" Theremon gli andò dietro e lo afferrò per il braccio. “Aspetta. Ti guido io." Riuscì in qualche modo ad avanzare nella stanza. Chiuse gli occhi per non vedere il Buio e serrò la mente per rifiutare il caos travolgente che in esso sorgeva. Nessuno li senti o badò a loro. Sheerin sbatté contro la parete. "Athor!" "E’ lei, Sheerin?" “Si.
Si. Athor?" «Cosa c'è, Sheerin?" Era senza dubbio la voce di Athor. "Volevo solo dirle... di non preoccuparsi della folla... le porte sono abbastanza salde da impedire loro..." “Si. Certo," mormorò Athor. A Theremon parve che la mente del vecchio astronomo fosse lontana chilometri e chilometri. Anni luce. Tutt'a un tratto apparve accanto a loro un'altra sagoma che si muoveva in modo scoordinato, agitando furiosamente le braccia. Theremon pensò che fosse Yimot o perfino Beenay, poi senti il rozzo tessuto della veste degli apostoli e comprese che si trattava di Folimun. "Le Stelle!" gridò Folimun. «Ecco le Stelle! Fate largo!" Theremon comprese che l'apostolo stava cercando di raggiungere Beenay. Di distruggere la blasfema telecamera. "Attento..." gridò Theremon. Ma Beenay restava chino sui computer che attivavano le telecamere, continuando a scattare foto mentre il Buio calava. Theremon si slanciò in avanti. Afferrò la veste di Folimun e la tirò a sé. All'improvviso sentì delle dita che lo stringevano alla gola. Barcollò come impazzito. Davanti a sé non c'erano altro che ombre; il pavimento stesso, sotto i suoi piedi, era privo di consistenza. Una ginocchiata lo colpi con forza alla pancia e con un gemito, mentre il dolore lo accecava, perse l'equilibrio. Ma dopo il primo, affannoso momento di dolore, le sue forze tornarono. Prese Folimun per le spalle e riuscì a farlo voltare, circondandogli la gola con un braccio. Nello stesso istante sentì Beenay gridare con voce rauca: "Ci siamo! Tutti pronti!" Solo allora Theremon prese piena coscienza della situazione. Il mondo intero si riversò nella sua mente che pulsava disperata, e tutto piombò nel caos, tutto cominciò a urlare dal terrore. Poi ebbe la strana certezza che l'ultimo, sottilissimo raggio di sole era svanito. Nello stesso istante sentì un ultimo rantolo soffocato da parte di Folimun, un urlo di stupore provenire da Beenay e un gridolino da Sheerin, una risatina isterica che terminò stridendo. Poi cadde il silenzio, uno strano silenzio mortale che veniva dall'esterno. Mentre Theremon allentava la stretta, senti il corpo di Folimun afflosciarsi. Lo guardò negli occhi e li vide assenti, fissi verso l'alto, con la tenue luce gialla delle torce che si rispecchiava in essi. Vide la bava sulle sue labbra e senti il cupo lamento bestiale nella sua gola. Con il lento fascino della paura, si sollevò su un braccio e volse gli occhi verso l'oscurità raggelante del cielo. Lassù splendevano le Stelle. Non una ventina, al massimo, come voleva la misera teoria di Beenay. Ce n'erano migliaia e migliaia e risplendevano di luce accecante, una vicina all'altra, e poi un'altra, e poi un'altra, e poi un'altra ancora, un muro infinito di Stelle, uno scudo abbagliante di luce terribile che riempiva i cieli. Migliaia di immensi soli emanavano un fulgore che avvizziva l'anima, ancor più spaventosamente gelido nella sua terribile indifferenza al vento aspro che si era levato su un mondo privo di calore, orrendamente cupo. Le Stelle lo ferirono fin nel profondo dell'anima. Come fruste gli percossero il cervello.
La loro luce gelida e mostruosa era simile a un milione di gong che rimbombavano tutti insieme. Dio mio, pensò. Dio mio, Dio mio, Dio mio! Ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quell'infernale visione. Con gli occhi sull'apertura della cupola, i muscoli tesi e irrigidíti, fissava pieno di smarrita meraviglia e terrore quello scudo di furore che riempiva il cielo. Senti la mente rattrappirsi fino a diventare un minuscolo punto freddo sotto quell'assalto incessante. Il suo cervello era un pezzo di marmo che sbatteva contro le pareti vuote del cranio. I suoi polmoni non funzionavano più. Il suo sangue correva nelle vene alla rovescia. Infine riuscì a chiudere gli occhi. Rimase inginocchiato per un po', cercando di riprendere fiato, mormorando fra sé e sé, lottando per riprendere il controllo. Poi si alzò in piedi barcollando, con una morsa alla gola che gli mozzava il respiro, i muscoli del corpo contratti per la tensione suscitata da un panico e un terrore che superavano ogni umana sopportazione. Gli parve di avvertire la presenza di Siferra al suo fianco, ma dovette lottare per ricordare chi fosse. Faceva fatica a ricordare perfino chi fosse lui. Dal basso veniva il rumore terribile, sordo e continuo, di mani che battevano spaventosamente alla porta: una belva feroce dalle cento teste che cercava di entrare. Ma non aveva importanza. Niente aveva più importanza. Stava impazzendo e lo sapeva, e dentro di sé, in qualche luogo nascosto, quel poco di lucidità rimasta gridava di terrore, lottava per respingere l'ondata disperata di panico. Era orrendo impazzire e insieme saperlo, essere cosciente che nel giro di qualche minuto il proprio corpo sarebbe rimasto dov'era, ma la sua vera essenza, ciò che era realmente, sarebbe sprofondata nella oscura follia. Era questo il Buio... Il Buio, il gelo e la rovina. Le mura luminose dell'universo si erano infrante e i loro frammenti oscuri e impazziti scendevano a soffocarlo, a schiacciarlo e ad annientarlo. Qualcuno arrancava verso di lui sulle mani e sulle ginocchia. Gli sbatté contro e Theremon si spostò. Portò le mani alla gola straziata e si diresse barcollando verso le fiamme delle torce che illuminavano l'assurdo spettacolo che aveva davanti agli occhi. "Luce! gridò. Athor, chissà dove, nel Buio, stava piangendo. Gemeva spaventosamente come un bimbo terrorizzato. "Le Stelle... tutte le Stelle... non lo sapevamo. Non sapevamo niente. Pensavamo che sei Stelle fossero un universo qualcosa che le Stelle non avrebbero visto Buio per sempre sempre sempre e le mura crollano non sapevamo e non potevamo sapere e..." Qualcuno afferrò la torcia che cadde e si spense. In quell’istante, il terribile luccichio delle Stelle si fece più vicino. Dal basso vennero grida, urla e rumore di vetri infranti. La folla, ímpazzita e priva di controllo, aveva fatto irruzione nell'osservatorio. Theremon si guardò attorno. Alla luce spaventosa delle Stelle vide le sagome ammutolite degli scienziati strisciare per la stanza piena di terrore. Andò nel corridoio. Una raffica d'aria gelida che veniva da una finestra aperta lo colpi, ma se ne restò fermo, lasciando che gli sferzasse il viso, ridendo appena della sua freddissima forza. "Theremon?» chiamò una voce dietro di lui. "Theremon?" Continuò a ridere.
"Guarda," disse dopo un po'. "Quelle sono le Stelle. Questa è la Fiamma." Fuori, all'orizzonte, in direzione di Saro, iniziò a diffondersi un bagliore cremisi, sempre più intenso, ma non era la luce di un sole. La lunga Notte era scesa di nuovo. TRE ALBA 28 Appena Theremon tornò in sé, dopo un lungo periodo di totale e profonda incoscienza, vide immediatamente un'enorme cosa gialla sospesa in cielo sopra di lui. Era un'immensa palla, dorata e abbagliante. Non riusciva a tenere gli occhi fissi su di essa per più di una frazione di secondo per via della sua luce intensa. Emanava delle ondate di calore bruciante . Si sedette, nascose la testa fra le ginocchia e con i polsi sugli occhi si protesse da quella forte luce e da quell'immenso calore che venivano dall'alto. Come faceva a rimanere lassù? si chiese. Come faceva a non cadere? Se cade, pensò, mi finirà addosso. Dove posso nascondermi? Come posso proteggermi? Per un altro, lunghissimo attimo rimase rannicchiato dov'era, senza riuscire neppure a pensare. Poi, con cautela, socchiuse gli occhi. Quell'immensa cosa accecante era ancora in cielo. Non si era mossa affatto. Non gli sarebbe caduta addosso. Rabbrividi nonostante il caldo. Gli giunse un odore di fumo, aspro e soffocante. C'era qualcosa che bruciava, non molto lontano. Era il cielo, pensò. Il cielo stava bruciando. Quella cosa dorata sta appiccando il fuoco al mondo. No. No. Il fumo era dovuto a qualcos'altro. Se ne sarebbe ricordato immediatamente, se solo fosse riuscito a schiarirsi la mente. Non era stata quella cosa dorata ad appiccare il fuoco. Non era neppure in cielo quando gli incendi divamparono. Erano state quelle altre cose, quelle cose fredde, bianche e lucenti che riempivano tutto il cielo. Erano state loro, avevano mandato le Fiamme. Come si chiamavano? Stelle. Esatto, Stelle, pensò. Stelle. E iniziò a ricordare qualcosa, poi rabbrividì nuovamente, un brivido che lo scosse tutto. Si ricordò cos'era successo al comparire delle Stelle, quando il suo cervello si era mutato in marmo e nei suoi polmoni l'aria non voleva più entrare, e la sua anima aveva gridato per l'orrore. Ma ora le Stelle se n'erano andate. Al loro posto, nel cielo, c'era quella cosa dorata e luminosa. Quella cosa dorata e luminosa? Onos. Così si chiamava. Onos, il sole. Il sole principale.
Uno dei... uno dei sei soli. Sì. Theremon sorrise. Ora cominciava a ricordare. Era normale che ci fosse Onos in cielo. Onos, e non le Stelle. Il sole, il sole dolce, Onos, buono e caldo. E Onos era riapparso. Quindi il mondo era ritornato alla normalità, anche se sembrava che da qualche parte ci fossero degli incendi. Sei soli? Allora gli altri cinque dov'erano? Riusciva perfino a ricordarne i nomi. Dovim, Trey, Patru, Tano, Sitha. E Onos era il sesto. Onos lo vedeva bene, era proprio sopra di lui, gli sembrava che riempisse metà del cielo. Ma gli altri? Si alzò in piedi barcollando, ancora un po' impaurito per quella cosa calda e dorata sopra di lui, chiedendosi perfino se ora che era in piedi non sarebbe riuscito per sbaglio a toccarla, bruciandosi. No, Onos era mite, Onos era dolce. Sorrise. Si guardò intorno. Non c'erano altri soli lassù? Ce n'era un altro. Molto lontano, molto piccolo. Non faceva paura come le Stelle, e nemmeno come quel globo rovente e infuocato lassù. Era solo un raggiante puntino bianco nel cielo, nient'altro. Abbastanza piccolo da ficcarselo in tasca se fosse riuscito a prenderlo. Trey, pensò. Si chiamava Trey. Il suo sole gemello, Patru, doveva essere da qualche parte lì vicino. Sì. Sì, eccolo. Laggiù, in un angolo lontano del cielo, alla sinistra del piccolo Trey. A meno che Trey non fosse questo e Patru l'altro. Tanto, si disse, i nomi non hanno importanza. Non ha importanza quale sia Trey e quale sia Patru. Trey e Patru sono sempre insieme. E quello grande è Onos. E gli altri tre soli devono essere da qualche altra parte in questo momento perché non li vedo. E io mi chiamo… Theremon. Sì. Esatto. Sono Theremon. Ma non c'era anche un numero? Aggrottò le sopracciglia e si mise a riflettere. Il suo codice di famiglia, ecco cos'era, un numero che conosceva da sempre, ma qual era? Qual era? 762. Sì. Sono Theremon 762. Un altro pensiero, più complesso, gli passò per la mente: sono Theremon 762 del Saro City Chronicle. Non sapeva perché, ma ora si sentiva un po' meglio, anche se gli sorgevano molti dubbi. Saro City? Il Chronicle? Riusciva quasi a ricordare cosa significavano tali parole. Quasi.
Le canticchiò fra sé. Saro saro saro. City city city. Chronicle chronicle chronicle. Saro City Chronicle. Forse farei bene a muovermi, pensò. Fece un passo incerto, poi un altro, poi un altro ancora. Le gambe lo reggevano a stento. Guardandosi attorno, si accorse che si trovava sul pendio di una collina in aperta campagna. Ma dove? Vide una strada, dei cespugli, degli alberi, un lago alla sua sinistra. Sembrava che qualcuno avesse spezzato o abbattuto alcuni dei cespugli e degli alberi; c'erano dei rami che penzolavano in modo strano o erano caduti per terra sotto gli alberi, come se dei giganti fossero appena passati, correndo in quella direzione. Alle sue spalle c'era un grosso edificio dalla cima circolare. Da un buco del tetto usciva del fumo. L'esterno dell'edificio era annerito, come se avessero appiccato il fuoco tutt'intorno a esso, ma sembrava che le sue mura di mattoni avessero retto abbastanza bene alle fiamme. Vide delle persone distese sulle scalinate dell'edificio, sdraiate in modo scomposto come bambole abbandonate. Altre persone si intravedevano a terra fra i cespugli, e altre ancora lungo la strada che scendeva dalla collina. Alcuni si muovevano a malapena. Ma la maggior parte era immobile. Guardò nell'altra direzione. All'orizzonte vide le torri di una grande città. Una spessa coltre di fumo gravava su di esse, e aguzzò gli occhi, gli parve di vedere delle lingue di fuoco uscire dalle finestre degli edifici più alti, anche se un angolo di razionalità nella sua mente gli diceva che era impossibile distinguere dettagli del genere da quella distanza. Quella città doveva essere lontana chilometri e chilometri. Un pensiero lo colse all'improvviso. Saro. Dove pubblicano il Chronicle. Dove lavoro. Dove vivo. E io sono Theremon. Sì. Theremon 762. Del Saro City Chronicle. Mosse lentamente il capo da una parte all'altra, come avrebbe fatto un animale ferito, cercando di scacciare il torpore e la confusione che vi regnava. Era esasperante non riuscire a pensare normalmente, non riuscire a inoltrarsi liberamente nei meandri della propria memoria. La luce brillante delle Stelle era come un muro che rinchiudeva la sua mente e gli impediva di ricordare. Ma ora iniziava a scavare una breccia in quel muro. Fra menti aguzzi e colorati del passato, che brillavano intensamente, danzavano freneticamente nel suo cervello. Si concentrò per cercare di fermarli abbastanza a lungo per capire cosa fossero. Poi comparve nella sua mente l'immagine di una stanza. La sua stanza, piena di fogli, giornali, un paio di computer, la posta a cui non aveva ancora risposto. Un'altra stanza: un letto.
La piccola cucina che non usava quasi mai. Questo, pensò, è l'appartamento di Theremon 762, il famoso redattore del Saro City Chronicle. Signore e signori, al momento il signor Theremon non è in casa. Si trova accanto alle rovine dell'osservatorio dell'Università di Saro, cercando di capire... Le rovine... L'osservatorio dell'Università di Saro... “Siferra!» gridò. "Siferra, dove sei?" Nessuna risposta. Si chiese chi fosse Siferra. Qualcuno che conosceva prima di quella desolazione, probabilmente. Quel nome era venuto a galla dagli abissi della sua mente sconvolta. Fece qualche altro passo incerto. C'era un uomo che giaceva sotto un cespuglio poco lontano, giù per la collina. Theremon gli si avvicinò. Aveva gli occhi chiusi. In mano reggeva una torcia completamente bruciata. I suoi abiti erano a brandelli. Dormiva? O era morto? Theremon lo toccò delicatamente con il piede. Sì, era morto. Strano, tutte quelle persone morte lì intorno. Era una cosa insolita vedere tanta gente morta tutta insieme, vero? E più in là c'era un'automobile capovolta, anch’essa sembrava morta. Era uno spettacolo patetico vedere il suo telaio rivolto verso il cielo mentre spire di fumo uscivano lentamente dall'abitacolo. “Siferra!" gridò nuovamente. Era successo qualcosa di terribile. Questo gli sembrava evidente, anche se era l’unica certezza che avesse. Ancora una volta si rannicchiò su se stesso e premette le tempie con le mani. I ricordi confusi e sparsi che vagavano nella sua mente avevano iniziato a rallentare; la loro danza frenetica stava cessando. Ora procedevano lentamente, quasi fermi, come iceberg che andavano alla deriva nel grande oceano meridionale. Se fosse riuscito rimettere insieme qualcuno di quei frammenti vaganti, a ricavare da essi qualche indizio... Ricapitolò quello che era già riuscito a ricordare. Il suo nome. Il nome della città. I nomi dei sei soli. Il giornale. Il suo appartamento. La sera precedente... Le Stelle... Siferra... Beenay... Sheerin... Athor... Nomi... All'improvviso i ricordi iniziarono a prendere forma nella sua mente. I frammenti di memoria del passato più recente incominciavano finalmente a ricomporsi. Ma non riusciva a mettere ordine nella sua mente perché ogni singolo ricordo se ne stava per conto proprio e non si collegava agli altri in modo logico. Più si sforzava e più ogni cosa ripiombava nel caos. Allora capì che era inutile cercare di ricordare. Rilassati, si disse Theremon.
Lascia che avvenga spontaneamente. Capì che la sua mente era stata fortemente turbata. Anche se gli sembrava di non essere ferito, né di avere dei bernoccoli in testa, sapeva che qualcosa l'aveva colpito con estrema forza. Tutti i suoi ricordi erano stati infranti in mille pezzi, come se li avessero presi a colpi impietosi di spada, e i pezzi erano ora sparsi e mescolati come quelli di un incomprensibile puzzle. Ma col passare dei minuti gli sembrava di riprendersi. Col passare dei minuti, la forza della sua mente, la forza di quell'entità che si chiamava Theremon 762 del Saro City Chronicle, stava riacquistando vigore, stava ritornando alla normalità. Stai calmo. Aspetta. Lascia che avvenga spontaneamente. Fece un respiro profondo, trattenne l'aria nei polmoni e lentamente espirò. Inspirò nuovamente. Pausa, espirazione. Inspirazione, pausa, espirazione. Inspirazione, pausa, espirazione. La sua mente riuscì a spaziare all'interno dell'osservatorio. Ora ricordava. Era sera. In cielo c'era solo il piccolo sole rosso. Dovim, si chiamava. Quella donna alta era Siferra. E l'uomo grasso era Sheerin, e il giovane snello dall'aria seria era Beenay, e il vecchio dall'aspetto infuriato con quella massa di capelli bianchi da patriarca era il grande e famoso astronomo, il direttore dell'osservatorio... Ithor? Uthor? Athor, sì. Athor. E stava per esserci un'eclissi. Il Buio. Le Stelle. Proprio così. Tutto gli era chiaro, adesso. I ricordi si ricomponevano. La folla fuori dall'osservatorio, guidata da fanatici vestiti di nero: gli Apostoli della fiamma, si chiamavano. E uno di quei fanatici era nell'osservatorio. Folimun era il suo nome. Folimun 66. Ricordava tutto. Il momento della totalità. L'improvvisa e completa discesa della Notte. Il mondo che entrava nella caverna del Buio. Le Stelle. La pazzia, le urla, la folla. Theremon sobbalzò al solo ricordo. L'orda di gente proveniente da Saro era impazzita per la paura e aveva abbattuto le porte pesanti, facendo irruzione nell'osservatorio: gente che passava sopra i corpi dei propri simili, nel tentativo frenetico di distruggere gli empi strumenti scientifici e uccidere gli scienziati blasfemi che negavano l'esistenza degli dei. Ora che i ricordi gli fluivano dentro, desiderò quasi non averli richiamati alla mente.
Lo sconvolgimento che aveva provato quando aveva visto per la prima volta la luce brillante delle Stelle; il dolore che gli era esploso nel cranio; le strane, terribili ` deflagrazioni di fredda energia che attraversavano il suo campo visivo. Poi era arrivata la folla... quel momento di caos... la lotta per fuggire... Siferra dietro di lui, e Beenay al suo fianco, e poi la folla che avanzava come un fiume in piena e li separava, li spingeva in direzioni opposte. Gli venne alla mente l'ultima, sfocata immagine del vecchio Athor, i suoi occhi lucidi e ardenti nel furore della totale follia, in piedi su una sedia che ordinava imperiosamente agli intrusi di uscire dal suo edificio, come se invece di essere il direttore dell'osservatorio ne fosse stato il re. E Beenay vicino a lui che lo tirava per un braccio, esortandolo a scappare. Poi la scena si faceva confusa. Non si trovava più nella grande stanza. Theremon vide se stesso fuggire lungo un corridoio, scendere incespicando una scala, guardarsi intorno in cerca di Siferra, di qualcuno che conoscesse. L'apostolo, il fanatico, Folimun 66 gli comparve davanti all'ímprovviso, bloccandogli la strada in mezzo a quella confusione. Gli porse la mano ridendo in segno di scherno, di falsa amicizia. Poi Folimun scomparve e Theremon andò avanti con la forza della disperazione, giù per la scala a chiocciola, inciampando e cadendo, calpestando le persone; erano talmente ammassate sul pavimento che non riuscivano neppure a muoversi. Doveva uscire, a tutti i costi. Nel gelo della Notte. A capo scoperto, tremante, nel Buio che non era più Buio, perché tutto era illuminato da quella luce fredda, terribile, orrenda, inconcepibile, di migliaia di Stelle spietate che riempivano il cielo. Era impossibile nascondersi. Anche chiudendo gli occhi, si vedeva la loro luce spaventosa. Il Buio non era nulla, comparato all'implacabile fardello di quel manto incredibilmente luminoso che riempiva il cielo, alla luce così forte che rimbombava come un tuono. Theremon ricordò che gli era parso che il cielo, le Stelle e tutto il resto stessero per cadergli addosso. Si era inginocchiato e si era coperto la testa con le mani, per quanto sapesse che era inutile. Ricordava anche il terrore intorno a sé, la gente che correva da ogni parte, le grida e i pianti. I fuochi della città in fiamme che guizzavano alti all'orizzonte. E in particolare, le ondate di terrore che scendevano dal cielo, dalle impietose e insensibili Stelle che avevano invaso il mondo. Era tutto. Dopo non ricordava più niente, assolutamente niente, fino al momento in cui si era risvegliato, quando aveva alzato gli occhi e in cielo c'era nuovamente Onos, e aveva iniziato a rimettere insieme ogni piccola parte, ogni frammento della sua mente. Sono Theremon 762, si ripeté. Abito a Saro e scrivo per un giornale. Ma Saro non esisteva più. E il suo giornale neppure. Era arrivata la fine del mondo. Ma lui era ancora vivo e stava riacquistando, o almeno così sperava, la lucidità mentale. E ora? Dove sarebbe andato? "Siferra!" gridò. Non rispose nessuno. Lentamente iniziò a scendere giù per la collina, oltre gli alberi spezzati, oltre le auto bruciate e capovolte, oltre i corpi sparsi lungo la strada. Se questa è la situazione in campagna, pensò, come sarà ridotta la città? Mio Dio, pensò nuovamente. Dei! Cosa ci avete fatto?
29 A volte la vigliaccheria ha i suoi vantaggi, si disse Sheerin, aprendo la porta del ripostiglio nello scantinato dell'osservatorio dove si era rifugiato durante il Buio. Si sentiva ancora scosso, ma certamente era in condizioni psichiche normali. O comunque nelle sue condizioni abituali. Fuori dal ripostiglio sembrava tutto tranquillo. Anche se lo stanzino non aveva finestre, attraverso una grata in cima a una parete era riuscita a entrare abbastanza luce da rassicurarlo che era giunto il mattino e che i soli erano di nuovo in cielo. Forse la follia collettiva era ormai finita. Forse poteva uscire senza correre alcun pericolo. Fece capolino fuori dalla porta e si guardò attorno con cautela. La prima cosa che percepì fu l'odore di fumo. Ma era un odore stantio, vecchio, sgradevole, umido e acre, l'odore di un fuoco che è stato spento. Non solo l'osservatorio era un edificio di pietra, ma aveva anche un efficiente sistema antincendio, che doveva essere entrato in azione non appena la folla impazzita aveva iniziato ad appiccare il fuoco. La folla! Sheerin rabbrividì al solo ricordo. Il grosso psicologo sapeva che non sarebbe mai riuscito a dimenticare il momento in cui la folla aveva fatto irruzione nell'osservatorio. Era un ricordo che l'avrebbe ossessionato per il resto dei suoi giorni: quei visi stravolti, distorti, quegli sguardi stralunati, quei ruggiti di rabbia. Era gente che aveva perso il controllo di sé prima ancora dell'eclissi totale. Il progressivo oscuramento era bastato a far perdere loro la testa. Inoltre, gli Apostoli della fiamma, trionfanti per l'avveramento della loro profezia, avevano contribuito a fomentare la discordia. E così migliaia di persone erano salite fino all'osservatorio per stanare gli scienziati dal loro rifugio; e avevano fatto irruzione nell'edificio, agitando torce, bastoni, scope, tutto quello che poteva essere utile per colpire, spaccare, distruggere. Era paradossale, ma l'arrivo della folla aveva scosso Sheerin a tal punto da fargli riprendere il controllo di sé. Aveva passato un brutto momento poco prima, quando lui e Theremon erano scesi al piano disotto per barricare le porte. Scendendo, non aveva avuto paura, si era sentito perfino spavaldo; ma poi il Buio l'aveva colpito per la prima volta, come uno sbuffo di gas asfissiante, ed era crollato di schianto. Raggomitolato sulle scale, tremando per il panico, si era ricordato del giro che aveva fatto nella galleria del mistero e aveva compreso che questa volta non sarebbe durato pochi minuti, ma ore e ore e ore, un tempo intollerabile. Con l'aiuto di Theremon si sentì comunque meglio e una volta tornati al piano superiore dell'osservatorio si riprese del tutto. Poi ci fu l'eclissi totale e apparirono le Stelle. Sebbene Sheerin avesse distolto lo sguardo, quando quell'assurda esplosione di luce era entrata all'improvviso dallo squarcio nel tetto dell'osservatorio, non era riuscito a sottrarsi completamente a quella visione annientante. E per un istante aveva sentito la sua mente cedere, aveva sentito vacillare quel tenue filo che lo legava alla normalità. Poi era arrivata la folla, e Sheerin aveva capito che non era più in gioco soltanto il suo equilibrio psichico. Doveva salvarsi la pelle. Se voleva sopravvivere a quella Notte, non aveva altra scelta che reagire e trovare un posto dove nascondersi.
Il suo ingenuo progetto di studiare il fenomeno del Buio si era dissolto, e con esso era svanita quell'immagine di scienziato freddo e distaccato che pretendeva di essere. Che fosse qualcun altro a studiarlo. Lui sarebbe andato a nascondersi. E così era riuscito in qualche modo a raggiungere lo scantinato, a entrare in quel piccolo e accogliente ripostiglio dove la sua piccola e confortevole lampada votiva emanava una luce fioca ma molto rassicurante. Aveva chiuso a chiave la porta e aveva aspettato. Aveva perfino dormito, per un po'. E adesso era mattina. O forse pomeriggio, per quel che ne sapeva. Di una cosa era certo: la terribile Notte era ormai trascorsa e tutto era tranquillo, almeno nei pressi dell'osservatorio. Sheerin avanzò in punta di piedi lungo il corridoio, si fermò ad ascoltare, poi iniziò con cautela e prudenza a salire le scale. Il silenzio regnava ovunque. Pozzanghere di acqua sporca, l'acqua degli estintori. Cattivo odore di fumo stantio. Si fermò lungo la scala e con aria meditabonda prese un'accetta antincendio da una mensola sulla parete. Non sapeva se avrebbe mai avuto il coraggio di usare quell'accetta per colpire un altro essere vivente, ma sarebbe stato utile portarla con sé, qualora la situazione all'esterno fosse stata caotica come si aspettava. Ora, Sheerin aveva raggiunto il piano terra. Aprì la porta che conduceva nello scantinato - la stessa che aveva sbattuto dietro di sé nella sua frenetica corsa giù per le scale la sera precedente - e si guardò attorno. La scena che si trovò difronte era agghiacciante. Il grande atrio dell'osservatorio era pieno di persone, tutte distese sul pavimento, sparse ovunque, come se durante la Notte ci fosse stata un'orgia colossale con abbondanti libagioni. Ma quella gente non era ubriaca. Molti di loro avevano assunto le posizioni contorte tipiche di un cadavere. Altri giacevano distesi, ammassati come vecchi tappeti, in mucchi di due o tre persone. Anch'essi sembravano morti, o almeno in uno stadio di totale incoscienza. Altri ancora erano vivi, ma se ne stavano seduti piagnucolando e frignando come se la loro psiche fosse completamente a pezzi. Tutti gli oggetti che erano esposti nel grande ingresso, gli strumenti scientificí, i ritratti dei primi grandi astronomi, le accurate mappe astronomiche, erano stati gettati a terra e bruciati, o fatti a pezzi e calpestati. Sheerin ne poteva vedere i resti inceneriti o distrutti sparsi qua e là fra i corpi ammassati. Il portone principale era spalancato. Dall'esterno veniva una luce calda e rassicurante. Con estrema cautela Sheerin iniziò a farsi strada fra i corpi, diretto verso l'uscita. "Dottor Sheerin?" disse all'improvviso una voce. Si voltò di scatto, brandendo l'accetta con un'aria talmente feroce che gli venne quasi da ridere per la sua finta bellicosità. "Chi è là?" “Io. Yimot.» "Chi?" "Yimot. Si ricorda di me, vero?" "Ah, sì, Yimot." Il giovane laureato alto e sgraziato che veniva dalle province dell'interno. Sheerin lo vide seminascosto in una nicchia. Aveva il viso annerito dalla cenere e dalla fuliggine, i suoi abiti erano a brandelli. Sembrava teso, turbato, ma tutto sommato in buone condizioni.
Mentre gli si avvicinava, Sheerin vide che si muoveva in modo meno comico del solito: niente gesti meccanici, niente sfarfallio delle mani o movimenti particolari del capo. Il terrore fa strani effetti sulla gente, si disse Sheerin. «Sei stato nascosto qui dentro tutta la Notte?" "Ho provato a uscire quando sono giunte le Stelle, ma sono rimasto intrappolato. Ha visto Faro, dottor Sheerin?" "Il tuo amico? No, non ho visto nessuno." "All'inizio eravamo insieme, ma poi, con tutto quel caos, non ho capito più niente e..." Yimot si sforzò di sorridere. "Pensavo che avrebbero incendiato l'edificio." Indicò la gente a terra intorno a loro. "Crede che siano tutti morti?" "Alcuni sono solo impazziti. Hanno visto le Stelle." "Anch'io, per un attimo," disse Yimot. "Solo per un attimo." «Com'erano?" gli chiese Sheerin. "Non le ha viste, dottore? O non se lo ricorda?" “Ero nello scantinato. Al sicuro." Yimot allungò il lungo collo verso l'alto, come se le Stelle brillassero ancora sul soffitto dell'atrio. "Erano... terribili," mormorò. "So che non è una risposta esaustiva, ma è l'unica parola che mi viene in mente. Le ho viste solo per due secondi, forse tre, e già mi sembrava che la mente fosse catturata da un vortice, mi sentivo la testa schizzare via, e così ho abbassato gli occhi. Non sono molto coraggioso, dottor Sheerin." "No. E neanch'io." "Ma sono felice di aver resistito per quei due o tre secondi. Le Stelle sono spaventose, ma sono anche molto belle. Almeno per un astronomo. Non assomigliavano affatto a quei minuscoli punti di luce che io e Faro avevamo creato con quel nostro stupido esperimento. Secondo me, ci troviamo proprio in mezzo un immenso ammasso di Stelle. Il gruppo di sei soli è molto vicino a noi, alcuni soli sono più vicini, altri più lontani; e poi, più oltre, a cinque o dieci anni luce di distanza, o forse più, c'è una gigantesca sfera di Stelle, che in realtà sono dei soli, migliaia di soli, un terribile globo di soli che ci avvolge completamente, ma che in condizioni normali è reso invisibile dalla luce dei nostri soli. Proprio come aveva detto Beenay. E’ un grande astronomo, Beenay. Diventerà più celebre del dottor Athor, un giorno. Ma lei non le ha viste affatto, le Stelle?" "Ho dato solo una rapida occhiata," disse Sheerin con un po' di tristezza. "Poi sono corso a nascondermi. Stai a sentire, ragazzo, ora dobbiamo andarcene di qui." "Vorrei prima trovare Faro." "Se sta bene, sarà già andato via. Altrimenti non puoi fare più niente per lui." "Ma se fosse sotto uno di questi mucchi..." "No," disse Sheerin. "Non puoi andare a cercare lì in mezzo. Sono ancora storditi, ma se li provochi, non so come potrebbero reagire. La cosa più saggia da fare è filarsela. Io cerco di raggiungere il rifugio. Se sei furbo verrai con me." "Ma Faro..." "Va bene," disse Sheerin, sospirando. «Andiamo a cercare Faro. O Beenay, o Athor, o Theremon, o uno degli altri." Ma fu inutile. Passarono una decina di minuti nell'atrio, frugando fra gli ammassi di gente morta, svenuta e semicosciente; ma non trovarono nessuno dell'università. I loro volti erano terrificanti, orribilmente stravolti dalla paura e dalla follia. Alcuni si agitavano quando venivano disturbati e iniziavano a mormorare e a sbavare in modo raccapricciante. Uno afferrò l'accetta di Sheerin e lo psicologo dovette allontanarlo con l'impugnatura. Era impossibile salire le scale e raggiungere i piani superiori dell'edificio; la scala era bloccata dai cadaveri e c'erano pezzi di intonaco ovunque. Il pavimento era pieno di pozze fangose.
L'odore aspro e pungente di fumo era insopportabile. "Ha ragione," disse infine Yimot. "Faremmo meglio ad andarcene." Sheerin fu il primo a uscire fuori, alla luce del sole. Dopo quelle terribili ore, l'apparizione del cerchio dorato di Onos fu la cosa più gradita dell'universo, anche se lo psicologo si accorse che i suoi occhi non riuscivano a sopportare una luce così intensa, dopo le lunghe ore di Buio appena trascorse. Ne fu colpito con una forza quasi tangibile. Per alcuni secondi dopo essere uscito all'aperto, rimase con gli occhi socchiusi, aspettando di riabituarsi alla luce. Poco dopo fu di nuovo in grado di vedere normalmente, ma lo spettacolo che si trovò difronte gli mozzò il fiato. «E’ terribile," mormorò Yimot. Altri corpi. Pazzi che vagavano muovendosi in cerchio, canticchiando con voce sommessa. Automobili carbonizzate lungo il ciglio della strada, alberi e arbusti spezzati come se fossero stati travolti da una forza cieca e mostruosa. E in lontananza una spettrale coltre di fumo che si levava dalle torri di Saro. Caos, caos, caos. «Ecco com'è la fine del mondo," disse Sheerin con voce pacata. «Ed eccoci qua, io e te. Due soprawissuti." Rise con amarezza. «Che coppia! Io con una trentina di chili in più sulla pancia e tu con una trentina di chili in meno. Ma siamo ancora qui. Chissà se Theremon è ancora vivo. Se c'era qualcuno che poteva farcela, era proprio lui. Su noi due non avrei scommesso molto. Il rifugio si trova a metà strada fra Saro e l'osservatorio. Possiamo arrivarci a piedi in una mezz'ora, salvo imprevisti. Prendi questo.» Raccolse da terra un grosso bastone, vicino a uno dei caduti, e lo porse a Yimot, che lo afferrò impacciato e lo fissò come se non avesse la minima idea di cosa fosse. «Che devo farne?" chiese infine. «Cerca di far credere che lo userai per sbatterlo in testa a chiunque voglia disturbarci,» disse Sheerin. «Esattamente come io cerco di far credere che userò questa accetta se avessi bisogno di difendermi. E se necessario lo farò. C'è un mondo nuovo qui fuori, Yimot. Andiamo. E cerca di non perdere la testa lungo la strada." 30 Quando Siferra 89 uscì barcollando dall'osservatorio di strutto, il mondo era ancora al Buio e le Stelle continuavano inondare Kalgash con i loro diabolici fiumi di luce. Ma un debole chiarore roseo cominciava ad apparire all'orizzonte, verso oriente: il primo segno che faceva sperare nel ritorno dei soli. Rimase ferma sul prato dell'osservatorio, le gambe larghe, la testa buttata all'indietro, respirando a pieni polmoni. Aveva la mente annebbiata. Non aveva idea di quante ore fossero trascorse da quando il cielo era diventato Buio e le Stelle erano spuntate sotto i suoi occhi come lo squillo di un milione d trombe.
Per tutta la Notte aveva vagato lungo i corridoi dell'osservatorio come se si fosse persa in un labirinto, incapace di trovare l'uscita, lottando contro i pazzi che le piombavano addosso da ogni lato. Forse anche lei era impazzita, ma non ci voleva pensare. Le importava soltanto di sopravvivere: allontanare le mani che tentavano di afferrarla; respingere i colpi di bastone con un manganello che lei stessa aveva sottratto a un caduto; evitare le orde urlanti e impetuose di pazzi che correvano sotto braccio a gruppi di sette o otto lungo i corridoi, travolgendo chiunque si trovasse sulla loro strada. Le sembrava che in giro per l'osservatorio ci fossero milioni di persone. Dovunque si voltasse vedeva volti contratti, occhi fuori dalle orbite, bocche spalancate, lingue penzolanti, dita piegate come artigli mostruosi. Stavano distruggendo tutto. Non aveva idea di dove si trovassero Beenay o Theremon. Ricordava vagamente di aver visto Athor in mezzo a dieci o venti pazzi urlanti, con la sua enorme massa di capelli bianchi che spiccava fra il gruppo; poi l'avevano sommerso e non era più riapparso. Oltre a questo, Siferra non ricordava nulla con molta chiarezza. Per l'intera durata dell'eclissi, non aveva fatto altro che correre avanti e indietro, su per un corridoio e giù per un altro, come una cavia durante un esperimento. Non conosceva bene l'interno dell'osservatorio, ma non le sarebbe stato difficile trovare una via d'uscita se si fosse trovata in condizioni normali. Ma allora, con le Stelle che le riversavano spietatamente la loro luce da ogni finestra, era come se avesse avuto un punteruolo ficcato nella testa. Non riusciva a pensare. Non riusciva a pensare. Non riusciva pensare. Tutto ciò che riusciva a fare era correre avanti e indietro, tenendosi lontana da quei pazzi che la guardavano sfrontatamente e farfugliavano parole incomprensibili, facendosi strada con la forza fra gruppi compatti di disperati e cercando ostinatamente e vanamente una porta per uscire. Questo andò avanti per ore e ore, come se fosse stata prigioniera di un sogno infinito. Ora, finalmente, era uscita all'aria aperta. Non sapeva come era giunta fin lì. All'improvviso, in fondo a un corridoio, aveva visto una porta che era certa di aver attraversato migliaia di volte prima d'allora. La spinse e si aprì: fu colpita da una raffica di aria fresca e uscì barcollando. La città bruciava. Vide le fiamme in lontananza, una macchia rossa violenta e incontenibile, sullo sfondo nero del cielo. sentì grida, singhiozzi, risate folli da ogni parte. Sotto di lei, lungo le pendici del colle, alcuni uomini stavano abbattendo un albero senza motivo; spezzavano i rami, li tiravano con forza, strappavano a mani nude le radici. Non riusciva a capire il perché. Probabilmente non lo sapevano neanche loro. Nel parcheggio dell'osservatorio, altri uomini stavano rovesciando le auto. Siferra si chiese se una di quelle macchine fosse la sua. Non riusciva a ricordarlo. Non riusciva a ricordare molte cose, a dire il vero. Le era perfino difficile ricordarsi il proprio nome. "Siferra," disse ad alta voce. «Siferra 89. Siferra 89.» Le piaceva il suono di quel nome. Era un bel nome. Era stato il nome di sua madre o forse di sua nonna.
Non poteva dirlo con certezza. «Siferra 89, ripeté. «Sono Siferra 89. Cercò di ricordare il proprio indirizzo. Niente. Un groviglio di numeri senza senso. "Guarda le Stelle!" gridò una donna passandole accanto. "Guarda le Stelle e muori!" "No," rispose Siferra con calma. "Perché dovrei desiderare la morte?" Ma guardò ugualmente le Stelle. Ormai, si era quasi abituata alla loro vista. Sembravano luci intense, molto intense, talmente vicine l'una all'altra da fondersi, formando un'unica massa luminosa, una sorta di manto lucente con cui qualcuno aveva coperto il cielo. Tenendo gli occhi fissi su di esse per qualche secondo, le parve di distinguere singoli punti di luce, più luminosi degli altri, che pulsavano con strano vigore. Ma non riuscì a guardare per più di cinque o sei secondi; poi la forza di tutta quella luce pulsante l'aveva sommersa, facendole formicolare il capo, e bruciandole il volto, e aveva dovuto chinare la testa e strofinare le dita contro quell'irritante punto fra gli occhi in cui sentiva il dolore. Attraversò il parcheggio ignorando il caos che la circondava e uscì dal lato opposto, dove un sentiero lastricato costeggiava le pendici del Monte dell'Osservatorio. Una parte della sua mente ancora lucida le suggerì che quella era la strada che conduceva dall'osservatorio alla parte principale del campus universitario. Da lì, in quel momento, Siferra riusciva a vedere alcuni degli edifici più alti dell'università. Su alcuni tetti vedeva danzare le fiamme. La torre della campana stava bruciando, e anche il teatro e la segreteria universitaria. Devi salvare le tavolette, le disse una voce che riconobbe come sua. Tavolette? Che tavolette? Le tavolette di Thombo. Ah, sì. Certo. Era un'archeologa, vero? Sì. Sì. E gli archeologi scavavano per trovare oggetti antichi, non era questo che facevano? Aveva fatto degli scavi in un posto molto lontano. Sagimot? Beklikan? Un nome all'incirca così. E aveva trovato delle tavolette, dei testi preistorici. Roba antica, pezzi archeologici. Materiale molto importante. In un posto che si chiamava thombo. Come me la sto cavando? si chiese. E la risposta fu: Ottimamente. Sorrise. Cominciava gradualmente a sentirsi meglio. Era la luce rosata dell'alba all'orizzonte che l'aiutava a ristabilirsi, pensò. Si stava facendo mattino! Onos sarebbe apparso in cielo di lì a poco. Man mano che Onos sorgeva, le Stelle diventavano meno luminose, meno terrificanti. La loro luce svaniva rapidamente. Già quelle a oriente erano state oscurate dalla forza di Onos che aumentava a poco a poco. All'estremità opposta del cielo, invece, le innumerevoli Stelle continuavano a luccicare intensamente, anche se non con lo stesso vigore di poco prima. Ora Siferra poteva fissare il cielo per parecchi secondi senza sentire la testa pulsare dolorosamente. E si sentiva meno confusa. Ora ricordava chiaramente dove viveva, dove lavorava e cosa aveva fatto la sera prima. Era stata all'osservatorio con i suoi amici, gli astronomi, che avevano previsto l'eclissi... L'eclissi... Ecco cosa aveva fatto. Lo comprese all'improvviso.
Aveva aspettato l'eclissi. Il Buio. Le Stelle. Sì. Le Fiamme, pensò Siferra. Ed eccole, le Fiamme. Tutto era avvenuto come previsto. Il mondo bruciava, come era bruciato tante volte prima di allora; e ad appiccare il fuoco non erano stati la mano degli dei e il potere delle Stelle, ma uomini e donne comuni, impazziti per via delle Stelle, in preda al panico che li spingeva a cercare la luce del giorno con ogni mezzo che riuscissero a trovare. Nonostante il caos che la circondava, Siferra si mantenne calma. La sua mente ferita, annebbiata, completamente intorpidita, non era in grado di reagire al cataclisma che il Buio aveva portato con sé. Continuò a camminare lungo il sentiero, arrivò alla piazza principale del campus, passò oltre scene di terribile devastazione e distruzione, senza sentirsi sconvolta, senza provare alcun rimpianto per ciò che aveva perduto, né paura per i tempi difficili che la aspettavano. La sua mente non si era ancora ristabilita al punto di poter provare delle sensazioni del genere. Era una semplice osservatrice, tranquilla, distaccata. Sapeva che l'edificio in fiamme era la nuova biblioteca dell'università, al cui progetto anch'ella aveva collaborato. Ma tale distruzione non le suscitò alcuna emozione. Siferra era indifferente, sembrava che stesse camminando in un sito archeologico di duemila anni, la cui sorte era soltanto un evento che ormai apparteneva alla storia. Non le era mai successo di piangere per delle rovine di duemila anni. E non pianse neppure quando vide l'università avvolta dalle Fiamme. In quel momento, si trovava al centro del campus e stava seguendo un percorso che le era familiare. Alcuni degli edifici erano in fiamme, altri no. Come una sonnambula voltò a sinistra all'altezza della sede dell'amministrazione, a destra della palestra, poi ancora a sinistra dietro l'istituto di matematica, superò zigzagando gli istituti di geologia e antropologia e arrivò finalmente al suo ufficio, nel dipartimento di archeologia. La porta del palazzo era aperta. Entrò. L'edificio sembrava quasi del tutto intatto. Alcune delle vetrinette da esposizione nell'atrio erano state infrante, ma non era stata la folla impazzita perché i manufatti erano ancora tutti al loro posto. La porta dell'ascensore era stata scardinata. La bacheca vicino alle scale era finita sul pavimento. Tutto il resto sembrava intatto. Non si sentiva alcun rumore. L'edificio era vuoto. Il suo ufficio era al secondo piano. Salendo le scale si imbatté nel corpo di un vecchio che giaceva, col viso rivolto verso l'alto, sul pianerottolo del primo piano. «Mi pare di conoscerti,» disse Siferra. "Come ti chiami?» Non rispose. «Sei morto? Dimmi si o no." I suoi occhi erano aperti, ma del tutto privi di luce. Siferra toccò con un dito la sua guancia. «Mudrin, ecco come ti chiami. O ti chiamavi. E comunque eri molto vecchio.» Si strinse nelle spalle e proseguì. La porta dell'ufficio di Siferra era aperta. Dentro c'era un uomo.
Anche lui le sembrava familiare; questo però era vivo, rannicchiato in modo strano contro il mobiletto dello schedario. Era un tipo grosso e tarchiato, con braccia forti e zigomi sporgenti. Il suo viso grondava di sudore, e negli occhi aveva una luce febbrile. Siferra? Sei qui?" «Sono venuta a prendere le tavolette,» gli disse. «Le tavolette sono molto importanti. Devono essere protette.» L'uomo si alzò in piedi e fece qualche passo incerto verso di lei. “Le tavolette? Le tavolette non ci sono più, Siferra! Le hanno rubate gli apostoli, non ricordi?» "Non ci sono più?" "No, non ci sono più. E neppure la tua mente c'è più. Sei impazzita, non è vero? Hai un'espressione vuota. Dietro i tuoi occhi non c'è nessuno. Lo vedo. Non sai nemmeno chi sei.» "Tu sei Balik," disse Siferra; quel nome le era uscito spontaneamente dalle labbra. "Allora ti ricordi?" "Balik. Sì. E Mudrin è sulle scale. Mudrin è morto, lo sai?» Balik scrollò le spalle. "Lo immaginavo. Saremo tutti morti fra un po'. Il mondo intero là fuori è impazzito. Ma perché perdo tempo a parlare con te. Anche tu sei impazzita." Le labbra di Balik tremavano. Le sue mani si agitavano. Uno strano sorriso comparve all'improvviso sulla sua bocca, e serrò le mascelle come per trattenerlo. «Sono rimasto qui per tutta la durata del Buio. Dovevo lavorare fino a tardi e quando la luce ha cominciato a sparire... mio Dio," disse, «le Stelle, le Stelle. Ho dato loro solo un rapido sguardo. Poi mi sono infilato sotto la scrivania e sono rimasto lì per tutto il tempo." Andò alla finestra. "Ma Onos sta sorgendo, adesso. Il peggio è passato. E’ tutto in fiamme là fuori, Siferra?» "Sono venuta a prendere le tavolette," insisté Siferra. "Non ci sono più.» Le ripeté piano, parola per parola. "Mi capisci? Sono sparite. Non sono più qui. Le hanno rubate." «Allora prenderò le mappe che abbiamo disegnato," disse. "Devo custodire il nostro sapere." "Sei proprio impazzita! Dov'eri, all'osservatorio? Una bella vista delle Stelle da lassù, non è vero?» Fece di nuovo una strana risatina e attraversò la stanza, avvicinandosi a lei. Siferra increspò la bocca per il disgusto. Sentiva l'odore pungente, aspro e sgradevole del sudore di Balik. Puzzava come se non si fosse lavato da una settimana. Sembrava che non avesse dormito per un mese. "Vieni qui," disse mentre lei si ritraeva. "Non ti farò del male." "Voglio le mappe, Balik." "Certo. Te le darò. E anche le fotografie e tutto quello che vorrai. Ma prima ti darò qualcos'altro. Vieni qui, Siferra." La prese e la tirò verso di sé. Siferra sentì le mani di Balik sul petto e le sue guance ruvide contro il viso. L'odore della sua pelle era insopportabile. Lei si sentì invadere dalla collera.
Come osava toccarla in quel modo? Lo respinse bruscamente. "Ehi, Siferra, non fare così. Devi essere carina con me, per quel che ne sappiamo, forse al mondo siamo rimasti solo io e te. Andremo a vivere nella foresta, cacceremo piccoli animali, raccoglieremo noci e bacche. Caccia e raccolta. Poi, più tardi, inventeremo l'agricoltura.» Scoppiò a ridere. I suoi occhi apparivano gialli sotto quella strana luce. Anche la sua pelle sembrava gialla. La prese di nuovo, avidamente; con una mano le tocco uno dei seni, con l'altra scivolò fino alla base della schiena. Appoggiò il viso alla sua gola e ci strofinò rumorosamente il muso sopra, come un animale. I suoi fianchi premevano contro di lei in modo disgustoso. Contemporaneamente iniziò a spingerla verso un angolo della stanza. All'improvviso, Siferra si ricordò del bastone che aveva raccolto da qualche parte all'osservatorio, durante la Notte. Ce l'aveva ancora, gli penzolava dalla mano. Lo sollevò rapidamente e lo puntò con forza contro il mento di Balik. La testa dell’uomo scattò all'indietro e la sua bocca si chiuse con un rumore secco. Balik lasciò la presa e indietreggiò di qualche passo. I suoi occhi erano spalancati per la sorpresa e il dolore. Il labbro era ferito perché se l'era morso e il sangue cominciava a colare da un lato della bocca. "Ehi, brutta puttana! Perché mi hai colpito?" "Mi avevi toccato.» «Ma certo che ti ho toccato! Era ora che lo facessi.» Si Passò la mano lungo la mandibola. "Stai a sentire, Siferra, metti giù quel bastone e smettila di guardarmi in quel modo. Io ti sono amico. Sono un tuo alleato. Il mondo si è trasformato in una giungla é siamo rimasti solo io e te. Abbiamo bisogno l'uno dell'altra. Non è più sicuro girare da soli, di questi tempi. Sarebbe troppo rischioso.» Andò nuovamente verso di lei, con le braccia aperte, cercando di stringerla a sé. Siferra lo colpì ancora. Questa volta sollevò il bastone facendolo roteare e colpì Balik violentemente sulla guancia, proprio dove si uniscono le ossa. Ci fu un suono secco e l'uomo perse l'equilibrio per l'impatto. Mentre la testa scattava di lato, le lanciò uno sguardo pieno di stupore. Ma riuscì a tenersi in piedi. Siferra lo colpì per la terza volta, sopra l'orecchio, con tutta la forza che aveva, facendo fare al bastone un ampio arco. Mentre Balik cadeva, lo colpì di nuovo nello stesso punto, e sentì che qualcosa cedeva sotto il colpo. Gli occhi di Balik si chiusero; egli emise un suono strano e sommesso, come un pallone pieno d'aria che si sgonfia, e cadde in un angolo contro la parete, con la testa girata da una parte e le spalle dall'altra. "Non toccarmi più in quel modo,» gli ordinò Siferra, puntandogli contro la punta del bastone. Balik non rispose. Non si muoveva più. Ora non doveva più preoccuparsi di lui. Doveva occuparsi delle tavolette, pensò. Si sentiva incredibilmente calma. No. Le tavolette erano scomparse, aveva detto Balik. Rubate. Ora se lo ricordava: era vero, le avevano rubate.
Erano sparite prima dell'eclissi. Va bene, allora le mappe. Tutti quei bei disegni che aveva fatto della collina di Thombo. I muri di pietra, la cenere all'altezza delle fondamenta. Quegli antichi incendi, tanto simili a quelli che stavano distruggendo Saro in quello stesso momento. Ma dov'erano? Ah, sì. Qui. Nell'apposito armadietto, certo. Aprì lo schedario, prese un rotolo di carte che sembravano pergamene, le arrotolò e se le mise sotto il braccio. Improvvisamente si ricordò dell'uomo a terra e lo guardò. Ma Balik non si era mosso. E le parve che, con ogni probabilità, non si sarebbe mai più mosso. Uscì dall'ufficio e scese le scale. Anche Mudrin era sempre nel punto in cui l'aveva lasciato, immobile e sdraiato in modo scomposto sul pianerottolo. Siferra gli passò accanto correndo, diretta verso l’uscita. Fuori era quasi mattino. Onos sorgeva rapidamente in cielo e le Stelle stavano svanendo sotto la sua luce. Ora l'aria sembrava fresca e limpida, anche se appesantita dall'odore di fumo. Vide vicino all'istituto di matematica un gruppo di persone che stava frantumando i vetri delle finestre. Un attimo dopo anch'essi la videro e le gridarono qualcosa di incomprensibile. Alcuni di loro iniziarono a correre verso di lei. Il seno le faceva male nel punto in cui Balik l'aveva premuto. Non voleva che altre mani la toccassero. Siferra si voltò e corse dietro il dipartimento di archeologia, si fece strada fra i cespugli che limitavano la strada, attraversò un prato e si ritrovò difronte a un grosso edificio grigio, l'istituto di botanica. Dietro di esso c'era un piccolo orto botanico e ancora oltre, ai margini della foresta che circondava il campus, su una collina, c'era un arboreto sperimentale. Siferra si guardò alle spalle e le sembrò che quegli uomini la stessero ancora inseguendo, anche se non poteva esserne certa. Superò di corsa l'istituto di botanica e saltò senza difficoltà il basso recinto dell'orto botanico. Un uomo con una falciatrice la salutò con un cenno. Aveva la divisa color grigioverde dei giardinieri dell'università; stava falciando metodicamente gli arbusti, distruggendo tutto quello che incontrava sul suo cammino. Mentre lavorava, rideva fra sé e sé. Siferra lo evitò. Ancora un po' e avrebbe raggiunto l'arboreto. La stavano ancora seguendo? Non voleva perdere tempo a guardarsi alle spalle. Corri, corri e basta, corri, era la cosa più saggia da fare. Le sue gambe lunghe e forti la portarono subito fra le ordinate file di alberi. Si muoveva a passi lunghi e costanti. Correre in quel modo la faceva sentire incredibilmente bene. E lei correva. Correva. Poi arrivò nella zona più selvaggia dell'alboreto, piena di rovi intrecciati e di spini. Senza esitare, Siferra si gettò nella macchia, sapendo che nessuno l'avrebbe seguita lì dentro. I rovi le graffiarono il viso e le strapparono gli abiti.
Mentre attraversava una zona particolarmente impervia, il rotolo di fogli le cadde di mano e quando uscì dalla parte opposta non l'aveva più. Restino pure dove sono, pensò. Ormai non hanno più alcuna importanza. Ma ora doveva riposarsi. Ansimando, senza più fiato per lo sforzo, saltò un ruscello al limite dell'arboreto e si lasciò cadere su un piccolo sentiero di muschio fresco. Non la seguiva più nessuno. Era sola. Guardò in alto, attraverso le cime degli alberi. La luce dorata di Onos invadeva il cielo. Le Stelle erano ormai scomparse. La Notte era finita, finalmente, e con essa anche l'incubo. No, pensò. L'incubo è appena iniziato. Si sentì invadere dalla nausea e dal terrore. Quello strano malessere che aveva turbato la sua mente per tutta la Notte iniziò a placarsi. Dopo ore e ore di dissociazione mentale, cominciava di nuovo a ordinare razionalmente i propri pensieri, a collegare gli eventi, a comprenderne il significato. Pensò al campus in rovina, alle Fiamme che si alzavano dalla città in lontananza. Ai pazzi che vagavano ovunque, al caos, alla devastazione. Balik. Il ghigno mostruoso sul suo viso mentre cercava di afferrarla. E lo sguardo di stupore nei suoi occhi quando lo aveva colpito. Ho ucciso un uomo oggi, pensò Siferra stupita e costernata. Io. Come ho potuto fare una cosa del genere? Cominciò a tremare. Quel ricordo terribile la tormentava: il rumore che aveva fatto il bastone quando lo aveva colpito, il modo in cui Balik era indietreggiato e poi caduto, gli altri colpi, il sangue, la testa piegata in modo innaturale. L'uomo con il quale aveva lavorato per un anno e mezzo, con cui aveva scavato pazientemente fra le rovine di Beklimot, era caduto come una bestia massacrata sotto i suoi colpi letali. E la calma assoluta con cui lei lo aveva guardato subito dopo... la sua soddisfazione perché non le avrebbe dato mai più fastidio. Forse era questa la parte più agghiacciante del suo ricordo. Poi Siferra si disse che non aveva ucciso Balik, ma solo un pazzo che aveva il corpo di Balik, con gli occhi stravolti e la bava alla bocca, che cercava di toccarla e di accarezzarla. E non era Siferra quella che aveva usato il bastone, ma un fantasma, una Siferra uscita da un incubo, che camminava come una sonnambula fra gli orrori dell'alba. In quel momento però stava rinsavendo. Il tragico impatto degli avvenimenti della notte precedente le tornava chiaramente alla mente. Non solo la morte di Balik (non si sarebbe sentita in colpa per questo), ma anche la morte di un'intera civiltà. sentì delle voci lontane, in direzione del campus. Voci grosse e bestiali, le voci di uomini la cui mente era stata annientata dalle Stelle e non sarebbe mai più tornata normale. Cercò il suo bastone. Aveva perso anche quello, nella sua frenetica fuga attraverso l'arboreto? No. Eccolo. Siferra lo afferrò e balzò in piedi. La foresta sembrava attirarla a sé. Si voltò e iniziò a correre verso la frescura dei suoi alberi bui.
E continuò a correre finché le gambe le ressero. Cos'altro poteva fare se non continuare a correre? Correre. Correre. 31 Era il tardo pomeriggio del terzo giorno dopo l'eclissi. Beenay avanzava zoppicando lungo la silenziosa stradina di campagna che conduceva al rifugio, muovendosi con prudenza e attenzione, guardandosi continuamente attorno. C'erano tre soli che splendevano in cielo, e le Stelle erano ormai tornate definitivamente nella loro antica oscurità. Ma il mondo era mutato in modo irrevocabile in quei tre giorni. E anche Beenay. Solo da quella mattina il giovane astronomo aveva ripreso pienamente coscienza di sé. Non sapeva esattamente cosa avesse fatto nei due giorni precedenti. Era stato un periodo di gran subbuglio, segnato soltanto dalle albe e dai tramonti di Onos, con gli altri soli che di tanto in tanto comparivano in cielo. Se qualcuno gli avesse detto che era il quarto giorno dopo la catastrofe, o il quinto o il sesto, Beenay gli avrebbe tranquillamente creduto. Gli faceva male la schiena, la gamba sinistra era piena di lividi e sulle guance aveva dei piccoli tagli ormai rimarginati. Gli doleva dappertutto, anche se, rispetto ai primi momenti, ora il dolore sordo si diffondeva da diverse parti del corpo. Cos'era successo? Dov'era stato? Si ricordava di aver lottato nell'osservatorio. Avrebbe voluto dimenticare quello che era successo. L'orda urlante e schiamazzante di pazzi aveva sfondato la porta; fra loro c'erano anche alcuni apostoli in tonaca, ma la massa era formata da gente comune, probabilmente buona, semplice, ordinaria che aveva passato tutta la vita a fare quelle cose buone, semplici, ordinarie che avevano mantenuto viva la civiltà. Ma, all'improvviso, la civiltà aveva smesso di vivere, e tutta quella gente comune e cordiale si era trasformata in un batter d'occhio in un'orda di bestie feroci. Il momento in cui si erano riversati all'interno dell'osservatorio era stato terribile! Avevano distrutto le telecamere e le registrazioni dei preziosissimi dati sull'eclissi, avevano buttato giù il grande soliscopio dal tetto della stanza, avevano sollevato i computer sopra le loro teste e li avevano scaraventati a terra. E Athor, ergendosi come un semidio davanti a loro, aveva ordinato a tutti di andarsene! Era stato come ordinare alle onde dell'oceano di ritrarsi. Beenay ricordò di aver implorato Athor di andare via insieme a lui, di fuggire finché poteva. "Lasciami andare, ragazzo!" aveva urlato orribilmente Athor, che non sembrava neanche riconoscerlo. «Toglimi le mani di dosso!» E allora Beenay si rese conto di qualcosa di cui avrebbe dovuto accorgersi anche prima, e cioè che Athor era impazzito e che quella piccola parte della sua mente ancora integra e razionale desiderava soltanto morire. Ciò che restava di Athor aveva perso completamente la voglia di vivere e non intendeva avventurarsi nel nuovo e terribile mondo, fra la barbarie che sarebbe seguita all'eclissi. Era la cosa più terribile di tutte, pensò Beenay: la distruzione della voglia di vivere in Athor, la resa disperata del grande astronomo difronte all'olocausto della civiltà. E poi... Poi la fuga dall'osservatorio. Era l'ultima cosa che Beenay riusciva a ricordare con chiarezza: sulla porta della stanza dell'osservatorio si era voltato e aveva visto Athor scomparire, sommerso da uno sciame di persone, poi se n'era andato, aveva preso una porta secondaria, era sceso per l'uscita di emergenza e si era ritrovato nel parcheggio. Dove le Stelle lo attendevano con la loro terribile maestà.
Con quella che in seguito avrebbe definito un'ingenuità sublime, o forse una sicurezza di sé al limite dell'arroganza, Beenay aveva sottovalutato immensamente la loro forza. Quando le Stelle erano apparse, era talmente intento nel suo lavoro all'osservatorio che non si rese conto della loro potenza: gli eranO sembrate soltanto un evento interessante, da esaminare attentamente quando avrebbe avuto un momento libero, e così aveva continuato il suo lavoro. Ma li fuori, sotto la volta spietata e immensa del cielo, le Stelle lo avevano colpito con tutta la loro forza. Era rimasto sconvolto alla loro vista. L'implacabile luce fredda di quei mille soli era scesa su di lui e lo aveva gettato in ginocchio. Aveva cominciato a strisciare per terra, soffocato dalla paura, cercando disperatamente di respirare. Le mani tremavano febbrilmente, il cuore batteva all'impazzata, rivoli di sudore scendevano dal viso in fiamme. Quando ciò che restava del suo spirito scientifico lo aveva spinto a volgere lo sguardo verso l'alto per esaminare e analizzare il fenomeno, era stato costretto ad abbassare gli occhi dopo un paio di secondi. Riusciva a ricordare solo questo: si era sforzato di guardare le Stelle, ma aveva abbassato subito gli occhi, sconfitto. Poi tutto si faceva confuso. Un paio di giorni passati a vagare per la foresta. Voci lontane, risate fragorose, canti stonati e striduli. Fuochi che crepitavano all'orizzonte; ovunque l'odore aspro di fumo. Si era inginocchiato per immergere il viso in un ruscello, acqua fresca che gli scendeva lungo le guance. Un branco di animali lo aveva circondato - non bestie selvatiche ma animali domestici fuggiti dalle case in cui vivevano - ringhiando come se avessero voluto farlo a pezzi. Aveva colto delle bacche da un cespuglio. Era salito su un albero per prendere dei teneri frutti dorati ed era caduto, con un tonfo incredibile. Lunghe ore di dolore erano trascorse prima che avesse potuto riprendere a camminare. Ricordava un'improvvisa, furibonda lotta nella parte più profonda e oscura del bosco: pugni, gomitate sulle costole, calci furiosi, poi lanci di pietre, grida disumane, la faccia di un uomo contro la sua, gli occhi rossi come fiamma, un conflitto violento, i loro corpi che rotolavano avvinghiati... poi prendeva una grossa pietra e la lasciava cadere con un unico gesto deciso... Ore. Giorni. Uno stordimento febbrile. Poi, al mattino del terzo giorno, si era ricordato finalmente chi era e cos'era successo. Aveva subito pensato a Raissta, la sua amata compagna. Si era ricordato della promessa di andare da lei al rifugio non appena avesse finito di lavorare all'osservatorio. Il rifugio, dove si trovava? Beenay si era sufficientemente ripreso per ricordare che il rifugio dove si era radunata la gente dell'università era a metà strada fra il campus e Saro, in aperta campagna, fra pianure ondulate e prati erbosi. L'ampia stanza sotterranea, dove si trovava il vecchio acceleratore di particelle del dipartimento di fisica, era stata abbandonata qualche anno prima, quando avevano costruito il nuovo centro di ricerche sulle alture che circondavano Saro. Non era stato difficile sistemare quelle stanze vuote per garantire una breve permanenza a centinaia di persone. Dato che il luogo in cui era conservato l'acceleratore era sempre stato tenuto segreto per motivi di sicurezza, non era sussistito neanche il pericolo che qualcuno dopo l'eclissi avesse potuto invaderlo, tanto meno i pazzi che venivano dalla città. Ma per trovare il rifugio, Beenay doveva prima capire dove egli fosse.
E aveva vagato in uno stato di stordimento per almeno due giorni, forse anche di più. Avrebbe potuto essere ovunque. Nelle prime ore del mattino riuscì a uscire dalla foresta, quasi per caso, finendo inaspettatamente in quello che un tempo era stato un quartiere residenziale lindo e tranquillo. Ora era deserto e in uno stato spaventoso, con macchine accatastate da ogni parte della strada, dove i loro proprietari le avevano lasciate quando non erano più stati in grado di guidare, e cadaveri sparsi qua e là sotto uno scuro sciame di mosche. Non c'erano segni di vita da nessuna parte. Trascorse tutta la mattina percorrendo a fatica una strada periferica fiancheggiata da case annerite e abbandonate, senza trovare punti di riferimento familiari. A mezzogiorno, quando Trey e Patru comparvero in cielo, entrò in una casa che aveva la porta spalancata e prese tutte le provviste che vi trovò. Dal rubinetto non usciva acqua, ma trovò delle bottiglie nello scantinato e bevve più che poté. Con l'acqua rimasta si lavò. Poi cominciò a salire lungo una strada tortuosa che finiva in cima a una collina, fra case ampie e imponenti di cui restava in piedi solo la struttura. Il resto era tutto bruciato. Della casa più in alto non restava niente, tranne una veranda sul fianco della collina, decorata con piastrelle rosa e blu, indubbiamente molto graziosa un tempo, ma ora danneggiata da grossi pezzi scuri di macerie disseminati lungo la sua lucente superficie. Con difficoltà si arrampicò fino a essa e da lì guardò la vallata sottostante. L'aria era immobile. Niente aerei in volo, niente rumori di automobili, un silenzio soprannaturale regnava ovunque. improvvisamente Beenay capì dove si trovava e tutto divenne chiaro. Alla sua sinistra riusciva a vedere l'università, un gruppo di graziosi edifici in pietra, molti dei quali ora striati da nere macchie di fumo; altri sembravano completamente distrutti. Più in là, sul promontorio più alto, c'era l'osservatorio. Beenay gli lanciò un rapido sguardo e poi abbassò gli occhi, contento di non poter capire con chiarezza a quella distanza quali fossero le reali condizioni dell'edificio. Lontano, sulla destra, c'era Saro che risplendeva nella luce del sole. Gli sembrava praticamente intatta, ma sapeva che se avesse avuto un binocolo avrebbe certamente visto finestre infrante, edifici crollati, tizzoni che ancora ardevano, fili di fumo che si alzavano. Tutte cicatrici della conflagrazione esplosa quando era scesa la Notte. Proprio sotto di lui, fra la città e il campus, c'era la foresta nella quale aveva vagato durante il suo delirio. Il rifugio si trovava a una delle sue estremità; forse qualche giorno prima era passato a un centinaio di metri dal suo ingresso, senza rendersene conto. Il pensiero di dover riattraversare la foresta non lo entusiasmava. Certamente era piena di pazzi, tagliagole, animali domestici inselvatichiti, ogni sorta di pericoli. Ma dal suo comodo posto d'osservazione in cima alla collina riusciva a vedere la strada che tagliava la foresta, e le strade più piccole che portavano a essa. Segui la strada asfaltata, si disse, e non puoi sbagliare. E così fece. Onos era ancora alto nel cielo quando Beenay, dopo aver percorso la strada che attraversava la foresta, prese il piccolo sentiero laterale che portava al rifugio. Le ombre del pomeriggio si erano da poco allungate quando giunse al cancello esterno. Dopo di esso, pensò Beenay, doveva prendere una lunga strada non asfaltata che lo avrebbe portato a un secondo cancello, e quindi, aggirando un paio di edifici esterni, avrebbe raggiunto l'ingresso nascosto del rifugio. Quando giunse al primo cancello, una chiusura a sbarre di metallo disposte a grata, si accorse che era spalancato. Era una visione inaspettata e decisamente infausta.
La folla infuriata era riuscita a fare irruzione anche qui? Ma non c'era alcun segno di distruzione. Tutto era come doveva essere, tranne che per il cancello aperto. Entrò perplesso e si incamminò lungo la strada non asfaltata. Il cancello interno, comunque, era chiuso. «Sono Beenay 25, disse, dando il suo numero di codice universitario. Passarono alcuni secondi, che divennero minuti, e non successe niente. Il grande occhio verde sopra di lui sembrava funzionare - vedeva il suo raggio spostarsi da una parte all'altra - ma forse i computer che lo mettevano in funzione non avevano più corrente, o erano stati distrutti. Attese. Attese ancora. «Sono Beenay 25, ripeté infine, pronunciando il proprio numero una seconda volta. "Sono autorizzato a entrare qui dentro." Poi ricordò che il nome e il numero non bastavano: bisognava dire anche una parola d'ordine. Ma qual era? Si fece prendere dal panico. Non riusciva a ricordarla. Non ci riusciva. Era assurdo, aveva trovato finalmente la strada per arrivare al rifugio e ora era bloccato al cancello esterno per colpa della sua stessa stupidità! La parola d'ordine... la parola d'ordine... Era qualcosa che aveva a che fare con la catastrofe: «Eclissi?» No, non era questa. Sforzò il suo cervello dolente. «Kalgash due?" No, gli sembrava di no. «Dovim?" «Onos?" «Stelle?" C'era quasi. Poi ricordò. «Notte," disse in tono trionfante. Ma non successe nulla, almeno per un po'. Poi, e gli sembrava che fossero passati mille anni, il cancello si aprì e poté passare. Oltrepassò alcuni edifici e si fermò davanti alla porta ovale di metallo del rifugio, che formava un angolo di 45 gradi con il terreno. Un altro occhio verde lo scrutava. Doveva nuovamente dichiarare il proprio nome e il proprio codice? Pareva di sì. «Sono Beenay 25, disse, preparandosi a un'altra lunga attesa. Ma la porta iniziò immediatamente ad aprirsi. Gettò lo sguardo verso l'atrio del rifugio. Raissta 717 era lì ad aspettarlo, a meno di dieci metri da lui. «Beenay!" gridò, correndo verso di lui. «Oh, Beenay..." Da quando erano diventati amanti, due anni prima, non erano stati lontani l'uno dall'altra per più di diciotto ore. Questa volta erano passati giorni prima che potessero rincontrarsi. Beenay abbracciò il corpo snello di Raissta, la tenne stretta a sé, e passò molto tempo prima che la lasciasse andare. Poi si accorse che erano rimasti davanti alla porta aperta del rifugio. "Non dovremmo entrare e chiudere la porta?" chiese. "Se qualcuno mi avesse seguito? Non credo ma..." «Non ha importanza. Non c'è più nessuno qui." «Come?" "Sono andati via tutti, rispose Raissta. «Ieri, al sorgere di Onos. Volevano che anch'io andassi via con loro, ma dissi che ti avrei aspettato e l'ho fatto." La fissò stupito, senza capire. Solo ora si accorse del suo aspetto affaticato, sciupato, di come era smagrita e tesa. I suoi capelli, un tempo lucidi, erano raccolti in ciuffi scompigliati e il suo viso era pallido, senza trucco. I suoi occhi erano gonfi e arrossati. Sembrava invecchiata di cinque o dieci anni. "Raissta, quanto tempo è passato dall'eclissi?" "Sono trascorsi tre giorni.» "Tre giorni. Più o meno come mi aspettavo." La sua voce riecheggiò in modo strano.
Il suo sguardo si spinse oltre Raissta, nel rifugio deserto. La spoglia stanza sotterranea si estendeva in lontananza, illuminata solo da una fila di alte lampade. Non vide nessuno dietro di lei. Questo non se l'aspettava proprio. Secondo i piani, tutti sarebbero dovuti restare lì nascosti finché la situazione fuori non si fosse normalizzata. Pieno di stupore, chiese a Raissta: «Dove sono andati?» "Ad Amgando,» rispose lei. «Al parco nazionale di Amgando? Ma è a centinaia di chilometri da qui! Sono stati dei pazzi a uscire dal loro nascondiglio dopo soli due giorni, per marciare verso un posto che si trova praticamente dall'altra parte del paese! Hai idea di cosa ci sia là fuori, Raissta?» Il parco di Amgando era una riserva naturale abbastanza lontana, verso sud, dove vivevano liberamente animali selvatici e venivano gelosamente protette delle piante provenienti dalle province. Beenay c'era stato da ragazzo con suo padre. Era un posto selvaggio, con alcuni sentieri che lo attraversavano. «Pensavano che laggiù sarebbero stati più al sicuro,» disse Raissta. «Al sicuro?» «C'era giunta voce che tutti quelli che erano ancora in condizioni normali, tutti coloro che volevano impegnarsi nella ricostruzione della società, si erano dati appuntamento ad Amgando. A quanto sembrava, c'era gente che stava arrivando da ogni parte, migliaia di persone. Da altre università, soprattutto. E funzionari del governo." "Bene. Orde e orde di professori e politici che si aggirano per il parco calpestando ogni cosa. Dato che tutto il resto è già rovinato, perché non distruggere l'ultimo pezzo di terra che è rimasto ancora intatto?" "Questo non ha importanza, Beenay. L'essenziale è che ora il parco di Amgando sia nelle mani di gente normale. E’ un'enclave di civiltà tra la follia generale. E sapevano del nostro rifugio, ci hanno chiesto di unirci a loro. Abbiamo votato e i due terzi di noi hanno scelto di andare." "I due terzi," disse Beenay incupendosi. "Anche se voi qui dentro non avete visto le Stelle, siete riusciti a impazzire ugualmente! Rifletti un attimo: lasciare il rifugio per intraprendere un viaggio a piedi di cinquecento chilometri - o forse mille? - nel caos più totale che c'è là fuori. Perché non avete aspettato un mese, sei mesi o tutto il tempo che volevate? Avevate cibo e acqua a sufficienza per un anno.» «Esattamente quello che abbiamo risposto," rispose Raissta. «Ma la gente di Amgando ci ha detto che il momento migliore per muoverci era questo. Se fossimo rimasti ad aspettare altre settimane, le bande erranti di pazzi si sarebbero unite, formando dei piccoli eserciti organizzati sotto la guida di capi locali, e quando saremmo usciti allo scoperto avremmo dovuto affrontarli. E se avessimo aspettato altro tempo ancora, gli Apostoli della fiamma sarebbero probabilmente riusciti a costituire un nuovo governo repressivo, con una propria polizia e un proprio esercito, e ci avrebbero sorpresi proprio nel momento in cui saremmo usciti dal rifugio. Ora o mai più, ci ha detto la gente di Amgando. Meglio dover combattere contro dei banditi semideficienti e isolati piuttosto che contro bande organizzate. E abbiamo deciso di partire." "Tutti meno te." "Volevo aspettarti." Beenay le prese la mano. "Come facevi a sapere che sarei arrivato?" "Me l'avevi promesso. Avevi detto che non appena avresti finito di fotografare l'eclissi saresti venuto. Mantieni sempre le promesse, Beenay." “Sì," rispose Beenay con voce fioca. Non si era ancora ripreso dalla sorpresa di aver trovato il rifugio vuoto. Aveva sperato di potersi riposare, di curare le ferite, di rimettere in sesto la sua mente sconvolta dalle Stelle. E ora, cosa dovevano fare? Stabilirsi lì da soli in quelle vuote stanze sotterranee di cemento? O cercare di raggiungere Amgando? La decisione di abbandonare il rifugio era pazzesca, ma forse
l'unica possibile, pensò Beenay. Se davvero era logico riunirsi ad Amgando, bisognava partire subito, quando ancora il paese era in uno stato di totale disordine, invece di aspettare che nuove entità politiche, apostoli o banditi locali, proibissero gli spostamenti da distretto a distretto. Ma Beenay avrebbe voluto ritrovare i suoi amici al rifugio e immergersi in una comunità di visi familiari, finchè non si fosse ripreso dallo sconvolgimento dei giorni precedenti. Con tono depresso, disse: "Hai idea di cosa stia succedendo là fuori, Raissta?" "Abbiamo avuto notizie tramite trasmettitore, fino a che la comunicazione non si è interrotta. A quanto pare, la città è stata totalmente distrutta dal fuoco, e anche l'università ha subito gravi danni... è esatto?» Beenay annuì. "Per quel che ne so io, sì. Sono fuggito dall'osservatorio subito dopo che la folla aveva fatto irruzione nell'edificio. Athor è stato ucciso, ne sono certissimo. Tutti gli strumenti sono stati distrutti, tutti i nostri dati sull'eclissi sono andati perduti… "Oh, Beenay, quanto mi dispiace!" "Sono riuscito a fuggire da un'uscita di sicurezza. Appena fuori, le Stelle mi hanno colpito come una tonnellata di mattoni. Due tonnellate di mattoni. Non puoi immaginare che spettacolo, Raissta. Sono lieto che tu non possa immaginarlo. Per un paio d giorni ho vagato come un pazzo per i boschi. Non c'è più legge. Tutti contro tutti. Forse ho ucciso un uomo durante una colluttazione. Gli animali domestici si stanno inselvatichendo e sono terrificanti: le Stelle devono aver fatto impazzire anche loro." "Beenay, Beenay..." "Tutte le case sono bruciate. Questa mattina ho attraversato uno splendido quartiere sulla collina a sud della foresta, Onos Point, mi sembra che si chiamasse, ed era incredibile, tutto di strutto. Non si vedeva un'anima viva. Auto rovesciate, cadaveri per strada, case in rovina. Dio mio, Raissta, che Notte di follia! E la follia continua!" "Mi sembra che tu stia bene, però,” “Un po’ scosso, ma non..." "Pazzo? Però lo sono stato. Dal momento in cui sono uscito sotto le Stelle fino al mio risveglio, questa mattina. Poi finalmente tutto ha ricominciato a prendere forma nella mia mente. Ma penso che le condizioni degli altri siano peggiori. Quelli che non avevano la minima preparazione emotiva, quelli che hanno semplicemente alzato gli occhi e ... via!... i soli erano scomparsi e al loro posto splendevano le Stelle. Come ha detto tuo zio Sheerin, le reazioni possono essere diverse, da un breve disorientamento alla follia totale e permanente." Raissta chiese con calma: "Sheerin era con te all'osservatorio durante l'eclissi, vero?» "Sì." "E dopo?» "Non lo so. Ero impegnato a visionare le fotografie dell'eclissi. Non ho idea di che fine abbia fatto. Non mi sembra che si trovasse nella stanza quando è arrivata la folla.» Con un vago sorriso, Raissta disse: "Forse si è dato alla fuga nella confusione. Zio Sheerin è così: quando ci sono guai in vista, diventa improvvisamente agile. Spero proprio che non gli sia successo niente di grave." "Raissta, è successo qualcosa di grave al mondo intero. Forse Athor aveva avuto l'idea giusta: mettervi al riparo e impedire che il disastro vi toccasse. In questo modo non avreste dovuto affrontare un mondo impazzito e travolto dal caos." "Non era giusto, Beenay." «No. E’ vero." Passò dietro di lei e le accarezzò dolcemente le spalle. Spinse il viso in avanti e le sfiorò il dietro dell'orecchio con le labbra. "E ora che si fa, Raissta?» "Non lo indovini?» Nonostante tutto, Beenay scoppiò a ridere: “Dopo, voglio dire.» "Ci penseremo dopo,» rispose lei. 32
Theremon non era abituato a vivere in campagna. Si riteneva un cittadino. Non provava una particolare attrazione per l'erba, gli alberi, l'aria pulita o i cieli aperti, anche se non si poteva dire che non gli piacessero. Per anni la sua vita si era mossa all'interno di un triangolo urbano ben preciso, lungo un sentiero familiare che aveva a un'estremità il suo piccolo appartamento, all'altra il suo ufficio al Chronicle e alla terza il Club dei Sei Soli. Ora, all'improvviso, era costretto a vivere nella foresta. E la cosa strana era che gli piaceva. Quello che gli abitanti di Saro chiamavano «foresta», era in realtà un'ampia zona boscosa che iniziava a sudest della città e si estendeva per una quindicina di chilometri verso sud, lungo le rive del fiume Seppitan. Una volta il bosco era stato molto più vasto: una distesa incolta tagliava una grande diagonale che divideva in due l'intera provincia, quasi fino al mare, ma ora gran parte di essa era destinata all'agricoltura e quasi tutto il resto del bosco era stato abbattuto per costruire dei quartieri residenziali periferici; l'università ne aveva acquistata una buona parte una cinquantina d'anni prima per costruire il nuovo campus. Restia a lasciarsi inglobare dallo sviluppo urbano, l'università si era poi data da fare perché quello che restava della foresta venisse trasformato in un'area protetta. E dal momento che a Saro da molti anni ormai l'università dettava legge, l'ultima striscia di bosco era rimasta intatta. Ed era qui che ora Theremon viveva. I primi due giorni erano stati terribili. La sua mente era ancora un po' annebbiata per la vista delle Stelle, e non riusciva ad avere nessuna idea sensata. La cosa più importante era semplicemente sopravvivere. La città era in fiamme. C'era fumo ovunque; l'aria era terribilmente calda; da alcune zone si potevano vedere perfino lingue di fuoco che guizzavano in cima ai tetti. Non era decisamente una buona idea quella di tornarci. Appena finita l'eclissi, quando aveva iniziato a rinsavire un po', Theremon non aveva fatto altro che camminare giù per la collina finché non si era ritrovato nei pressi della foresta. Ma molti altri avevano fatto la stessa cosa. Alcuni sembravano gente dell'università, altri erano probabilmente i reduci della folla che aveva assalito l'osservatorio la notte dell'eclissi, le altre persone, suppose Theremon, dovevano essere coloro che vivevano in periferia e che erano fuggite dalle loro case quando erano divampati gli incendi. Le condizioni mentali di tutti quelli che incontrava sembravano come minimo alterate, esattamente come le sue. Quasi tutti erano in pessime condizioni e alcuni erano completamente sconvolti, incapaci di connettere. Non avevano formato dei gruppi omogenei. Erano soprattutto singoli individui che si muovevano per misteriosi percorsi attraverso i boschi; al massimo si potevano incontrare gruppi di due o tre persone. Il gruppo più numeroso che Theremon incontrò era formato da otto persone, che dal loro aspetto e dagli abiti che indossavano sembravano far parte della stessa famiglia. Era terribile incontrare quella gente completamente uscita di senno: occhi assenti, bocche bavose, mandibole cadenti, abiti sudici.
Arrancavano per le radure dei boschi come morti viventi, parlando da soli, canticchiando, piombando di quando in quando a terra sulle mani e le ginocchia per raccogliere zolle di terra e mangiarle. Erano ovunque. La foresta sembrava un enorme manicomio all'aperto, pensò Theremon. Forse anche il mondo intero lo era diventato. Persone di questo genere, quelle che avevano maggiormente risentito dell'apparizione delle Stelle, erano generalmente innocue e troppo sconvolte per pensare a qualsiasi forma di violenza. Le loro condizioni fisiche erano talmente compromesse che non avrebbero mai potuto essere aggressive. Ma altri non erano così pazzi - a prima vista potevano apparire perfino normali - e costituivano invece un serio pericolo. Questi ultimi, come aveva rapidamente appreso Theremon, si potevano dividere in due gruppi. Il primo era formato da gente che non avrebbe mai fatto male a nessuno, ma che era ossessionata dalla possibilità che le Stelle e il Buio tornassero. Erano i piromani. Molto probabilmente si trattava di gente che aveva condotto una vita ordinata e tranquilla prima della catastrofe: padri di famiglia, bravi lavoratori, allegri vicini di casa. Finché Onos era in cielo, restavano tranquillissimi; ma nel momento stesso in cui il sole principale iniziava a scendere verso ovest e si avvicinava la sera, la paura del Buio li sopraffaceva e si guardavano intorno alla ricerca disperata di qualcosa da bruciare. Qualsiasi cosa. Tutto quello che trovavano. Anche se in cielo restavano due o tre degli altri soli, la loro luce non sembrava sufficiente a placare il terrore incontrollato che il Buio incuteva. Erano coloro che avevano appiccato il fuoco a tutta la città, che colti da cieco terrore avevano incendiato libri, giornali, mobili, tetti. Ora, sospinti nella foresta dalla distruzione della città, cercavano di bruciare anche questa. Ma era più difficile. La foresta era molto rigogliosa, e la sua spessa coltre di alberi era ben irrigata dalle miriadi di ruscelli che sfociavano nel grosso fiume ai margini della vegetazione. Anche se spezzavano rami verdi e cercavano di accendere un fuoco, non ottenevano delle fiamme soddisfacenti. E il tappeto di foglie morte e di rami secchi era ancora completamente bagnato a causa delle piogge precedenti. Presto scoprirono qualche ramo in grado di bruciare, e accesero dei falò, ma non riuscirono a creare vasti incendi; e il secondo giorno la legna da ardere era già molto scarsa. I piromani, quindi, non avevano avuto finora molto successo, intralciati com'erano dallo stato della foresta e dalle loro menti ancora sconvolte. Erano riusciti comunque ad appiccare un paio di incendi di discrete proporzioni, che per fortuna si erano spenti da soli nel giro di qualche ora perché avevano consumato tutto quello che poteva bruciare. Ma dopo qualche giorno di tempo caldo e asciutto, questa gente sarebbe riuscita a dare fuoco all'intera foresta, come aveva già fatto con la città. Il secondo gruppo che vagava per la foresta sembrava a Theremon una minaccia più immediata. Era gente che non aveva più alcuna costrizione sociale. Erano banditi, teppisti, tagliagole, psicopatici, maniaci omicidi: si muovevano come lame sguainate lungo i tranquilli sentieri della foresta, colpendo a loro piacere, prendendo tutto ciò che volevano, uccidendo chiunque fosse tanto sfortunato da suscitare la loro irritazione.
Siccome tutti avevano lo sguardo assente, alcuni solo per la stanchezza, altri per lo scoraggiamento, altri ancora perché erano pazzi, non si aveva mai la certezza che la persona che si incontrava nel bosco fosse pericolosa o meno. Non c'era modo di dire a prima vista se l'individuo che si stava avvicinando era solo un pazzo sconvolto o turbato, e dunque fondamentalmente innocuo, o uno di quelli pieni di furia letale, che attaccavano chiunque incontrassero, senza un motivo o una ragione plausibile. E così si imparava rapidamente a stare in guardia contro chiunque camminasse nel bosco con aria appena un po' sicura. Ogni sconosciuto poteva costituire una minaccia. Si poteva chiacchierare amabilmente con qualcuno, confrontando le rispettive esperienze sulla discesa della Notte, quando improvvisamente questi si offendeva per un'osservazione innocente o decideva che un articolo di vestiario dell'altro gli piaceva, o forse all'improvviso non apprezzava più, senza alcun motivo, la sua faccia, e con un urlo animalesco gli saltava addosso, pieno di cieca ferocia. Alcuni di essi, senza dubbio, stavano diventando dei potenziali criminali. Quando la società era crollata intorno a loro, si erano sentiti liberi da ogni restrizione. Ma altri, sospettava Theremon, erano stati persone abbastanza tranquille fino a che la loro mente non era stata annientata dalle Stelle. Allora, all'improvviso, tutte le inibizioni della vita civilizzata erano scomparse. Avevano dimenticato le regole che rendevano possibile la convivenza civile. Erano tornati come bambini, asociali e preoccupati soltanto dei propri bisogni, ma avevano ancora la forza degli adulti e la forte volontà dei malati di mente. L'unica cosa da fare, se si voleva sopravvivere, era evitare tutti quelli che erano chiaramente dei pazzi pericolosi e anche quelli che avrebbero potuto esserlo. Si poteva soltanto sperare che si uccidessero tutti fra loro nel giro di qualche giorno, lasciando il mondo ai meno avidi. Theremon incontrò tre pazzi di questa terrificante specie, nei primi due giorni. Il primo, un uomo alto e snello con un inquietante sorriso diabolico, stava facendo capriole lungo la riva di un ruscello che Theremon voleva attraversare; disse al giornalista che se voleva passare, doveva pagare un pedaggio. "Le tue scarpe potrebbero andare. O che ne dici del tuo orologio?» "E se invece ti togliessi dai piedi?" gli suggerì Theremon e l'uomo andò giù di testa. Afferrò un randello che fino a quel momento Theremon non aveva notato, emise una sorta di grido di guerra e partì all'attacco. Non ci fu tempo di fuggire: Theremon riuscì solo ad abbassarsi, mentre l'uomo sferrava un colpo terribile all'altezza della sua testa. sentì il bastone che fischiava sopra di sé. Il randello lo mancò per pochi centimetri e colpì un albero alle sue spalle. Si abbatté sulla pianta con una forza terribile, talmente terribile che l'impatto si ripercosse lungo il braccio dell'assalitore, che per il dolore lasciò cadere il bastone dalle mani, ansimando. Theremon gli fu addosso in un attimo, afferrò il braccio colpito, glielo spinse all'indietro senza pietà, facendolo grugnire di dolore, piegare in due e cadere sulle ginocchia piangendo. Continuando a tenerlo per il braccio, lo trascinò fino al torrente, gli ficcò la testa sott'acqua e lo tenne fermo. Fermo. Sempre più fermo. Com'è facile, pensò Theremon pieno di stupore: basta tenergli ferma la testa sott'acqua finché non affoga. Una parte della sua mente era decisamente a favore di questa soluzione. Ti avrebbe ucciso e non te ne saresti nemmeno accorto. Liberati di lui.
Altrimenti cosa fai se lo lasci andare? Ricominci a lottare con lui? E se ti segue nella foresta per vendicarsi? Affogalo subito, Theremon. Affogalo. Era una tentazione fortissima. Ma solo una piccola parte della mente di Theremon desiderava adattarsi con tanta prontezza alla legge della giungla di quel mondo. Il resto di essa provava disgusto a quell'idea. Alla fine lasciò il braccio dell'uomo e fece un passo indietro. Raccolse il randello caduto e attese. L'altro aveva perso ormai ogni voglia di combattere. Semisoffocato e ansimante, sollevò la testa dal torrente mentre l'acqua gli scendeva dalla bocca e dalle narici, e si sedette tremando sulla riva, tossendo e cercando di riprendere fiato. Fissò Theremon in modo cupo e impaurito, ma non fece alcun tentativo di alzarsi, tanto meno di riprendere la lotta. Theremon gli passò accanto, attraversò il torrente con un salto e si inoltrò di corsa nella foresta. Per almeno dieci minuti, non si rese conto fino in fondo di quello che era stato sul punto di fare. Poi si fermò all'improvviso, bagnato di sudore e colto dalla nausea, e fu preso da un terribile attacco di vomito che lo estenuò a tal punto da permettergli di rialzarsi solo dopo qualche minuto. In seguito, quello stesso pomeriggio, si accorse che i suoi vagabondaggi lo avevano portato al margine della foresta. Guardando fra gli alberi, vide una strada completamente deserta e dall'altra parte della strada, al centro di una grande piazza, le rovine di un alto edificio in mattoni. Lo riconobbe: era il Pantheon, la Cattedrale di Ognidei. Era pressoché distrutta. Attraversò la strada e rimase a fissarla senza credere ai suoi occhi. Sembrava che l'incendio fosse scoppiato nel cuore dell'edificio - cosa avevano fatto, avevano usato le panche per appiccare il fuoco? - e si fosse rapidamente propagato fino in cima alla stretta torre sopra l'altare, infiammando le travi di legno. La torre era interamente crollata, facendo cadere anche le mura. I mattoni erano sparsi per tutta la piazza. Vide dei corpi spuntare da sotto le macerie. Theremon non era mai stato particolarmente religioso, né conosceva qualcuno che lo fosse. Come altra gente, gli capitava di esclamare «Dio mio" o per gli dei!" o "In nome degli dei", ma l'idea che esistesse realmente un dio o degli dei o qualunque altra cosa prevedesse la religione, non lo aveva mai minimamente toccato. La religione gli sembrava qualcosa di medievale, di curioso e di arcaico. Di tanto in tanto gli capitava di trovarsi in una chiesa per assistere al matrimonio di un amico - che era miscredente quanto lui, ovviamente - oppure si recava a qualche rito ufficiale per motivi di lavoro, ma non entrava più in un luogo sacro per pregare dai tempi della cresima, ovvero da quando aveva dieci anni. La vista della cattedrale distrutta, comunque, lo colpì profondamente. Aveva assistito alla sua consacrazione, una decina di anni prima, quando era ancora un giovane reporter. Sapeva quanti milioni di crediti era costato l'edificio; si era stupito di fronte alle splendide opere d'arte raccolte al suo interno; si era commosso alla meravigliosa musica dell'Inno agli Dei di Ghissimal che risonava nell'immensa navata. Anche se la religione non lo interessava, riteneva che se ci doveva essere un posto in tutta Kalgash dove gli dei erano davvero presenti, era proprio la cattedrale. E gli dei avevano permesso che il proprio edificio venisse distrutto in questo modo! Gli dei avevano mandato le Stelle, sapendo che la pazzia che ne sarebbe seguita avrebbe ridotto in cenere il loro stesso Pantheon! Che significava tutto ciò? Quali implicazioni aveva questo fatto con l'impossibilità
di conoscere gli insondabili voleri degli dei, ammesso che esistessero? Nessuno avrebbe mai ricostruito quella cattedrale, Theremon ne era certo. Niente sarebbe tornato com'era. "Aiuto," implorò una voce. Quel debole suono interruppe le meditazioni di Theremon. Si guardò intorno. "Da questa parte. Qui." Alla sua sinistra. Sì. Più in là, lungo la parete laterale dell'edificio, Theremon vide il bagliore di un paramento dorato alla luce del sole. Un uomo semisommerso dai detriti, probabilmente uno dei sacerdoti, a giudicare dal pomposo abbigliamento. Il suo corpo era immobilizzato per metà, fino alla vita, sotto una pesante trave; l'uomo gesticolava verso di lui con le ultime forze che gli erano rimaste. Theremon si avvicinò al ferito. Prima che potesse fare una decina di passi, però, apparve correndo, dall'altro lato dell'edificio crollato, la sagoma di un ometto magro e agile che, arrampicandosi sul mucchio di mattoni con una rapidità felina, si diresse verso il sacerdote immobilizzato. Bene, pensò Theremon. Insieme riusciremo a sollevare quella trave e a liberarlo. Ma quando giunse a una ventina di metri dal sacerdote si fermò inorridito. L'agile ometto era giunto a fianco dell'uomo intrappolato. Si chinò su di lui e tagliò risolutamente la gola al prete con un piccolo coltello, con la stessa semplicità con cui avrebbe aperto una lettera; e in quel momento stava tagliando i lacci che legavano le ricche vesti del morto. Alzò lo sguardo e fissò Theremon. Gli occhi dell'uomo erano febbrili e spaventati. "Mio," ringhiò come una bestia feroce. "Mio!" ripeté agitando il coltello. Theremon rabbrividì. Per un lungo istante rimase immobile, come inebetito, orribilmente affascinato dalla destrezza con cui il ladro spogliava il cadavere del sacerdote. Poi, tristemente, si volse e corse via, dall'altra parte della strada, nella foresta. Non aveva senso comportarsi diversamente. Quella sera, quando Tano, Sitha e Dovim illuminavano il cielo con la loro malinconica luce, Theremon si abbandonò ad alcune ore di sonno agitato, avvolto in una pesante coperta; ma si svegliava di continuo, con l'impressione che un pazzo con un coltello in mano stesse strisciando verso di lui per rubargli le scarpe. Si destò completamente molto prima che Onos sorgesse. Gli sembrò quasi sorprendente ritrovarsi ancora vivo quando finalmente si fece mattino. Alcune ore dopo, incontrò per la terza volta uno di quei nuovi assassini. Stava attraversando un campo erboso vicino a un braccio del fiume, quando notò due uomini seduti all'ombra proprio davanti a lui che giocavano a dadi. Sembravano tranquilli e pacifici. Ma mentre Theremon si avvicinava, si accorse che fra i due era improvvisamente scoppiata una lite; e poi, con una rapidità impensabile, uno dei due afferrò un grosso coltello da cucina, poggiato su una coperta li vicino e lo conficcò con furia omicida nel petto dell'altro. L'uomo con il pugnale in mano si rivolse a Theremon sorridendo. Lui imbrogliava. Sai com'è, no? Mi fa salire il sangue al cervello. Non sopporto la gente che cerca di fregarmi.» Gli sembrava tutto chiaro e logico.
Sorrise agitando i dadi nella mano. «Senti, ti va di fare una partita?» Theremon fissò quegli occhi pieni di follia. «Mi dispiace,» disse, facendo il possibile per sembrare naturale. «Sto cercando la mia ragazza.» E continuò a camminare. «Ma puoi cercarla dopo! Vieni a fare una partita!» «Mi sembra di vederla laggiù,» disse Theremon; cominciò a correre e si allontanò senza neanche guardarsi alle spalle. Dopo questo incontro fu più guardingo quando si aggirava per la foresta. Trovò un angolo appartato in una radura che sembrava disabitata e si costruì un riparo abbastanza confortevole sotto una roccia sporgente. Li vicino, c'era un cespuglio di bacche pieno di frutti rossi, commestibili, e quando scuoteva l'albero difronte al suo rifugio, gli cadevano addosso delle noci gialle e rotonde, che contenevano un gheriglio scuro e saporito. Esaminò attentamente il ruscello che scorreva nelle vicinanze, per vedere se c'erano dei pesci; ma sembrava ce ne fossero solo di minuscoli e comprese che, anche se fosse riuscito a catturarli, avrebbe dovuto mangiarli crudi, perché non aveva nulla con cui accendere un fuoco. Vívere di bacche e noci non era esattamente quella che Theremon avrebbe definito "bella vita", ma per qualche giorno gli parve sopportabile. La sua pancia diminuiva a vista d'occhio: era l'unico effetto collaterale apprezzabile del disastro. Meglio restare nascosto in quel postícino tranquillo finché le acque non si fossero calmate. Era certissimo che la situazione sarebbe migliorata. Presto o tardi la gente sarebbe rinsavita. O almeno così sperava. Sapeva che lui stesso era migliorato notevolmente dal momento in cui la vista delle Stelle aveva sconvolto la sua mente. Ogni giorno che passava si sentiva sempre più stabile, sempre più disposto ad affrontare la realtà. Gli sembrava di essere tornato quello di prima, solo un po' più nervoso, forse, un po' più teso, ma questo c'era da aspettarselo. Fondamentalmente, però, era in ottime condizioni mentali. Comprese che con ogni probabilità aveva sopportato il Buio meglio di molti altri: aveva migliori capacità di recupero, era più equilibrato, era in grado di superare meglio le terribili conseguenze di quella sconvolgente esperienza. Ma forse anche gli altri avrebbero iniziato a riprendersi, anche quelli che erano stati colpiti in modo più violento, e così non avrebbe corso rischi, se fosse uscito allo scoperto per vedere come si stava evolvendo la situazione. Ora la cosa migliore, si disse, era starsene buono ed evitare di farsi uccidere da uno di quegli psicopatici che si aggiravano nella zona. E sperare che si ammazzassero fra loro il più presto possibile; solo allora sarebbe uscito con prudenza dal suo nascondiglio per scoprire cosa stava succedendo. Non era un piano particolarmente coraggioso, ma gli sembrava molto saggio. Si chiese cos'era successo agli altri che erano con lui all'osservatorio quando era scesa la Notte. A Beenay, a Sheerin, ad Athor. A Siferra. Soprattutto a Siferra. Ogni tanto Theremon pensava di avventurarsi a cercarla. Era un'idea che lo tentava. Durante le lunghe ore di solitudine, passava il tempo a fantasticare su quello che sarebbe successo se l'avesse incontrata per caso nella foresta. Loro due da soli, che viaggiavano insieme per quel mondo mutato e spaventoso, stringendo un patto di reciproca protezione. ovviamente, era stato attratto da lei fin dall'inizio. Sapeva benissimo che per quel che ne aveva ricavato, avrebbe potuto anche dimenticarla.
Nella sua bellezza sembrava quel tipo di donna indipendente che non aveva affatto bisogno della compagnia di un uomo o di un'altra donna. L'aveva convinta a uscire con lui qualche volta, ma Siferra era sempre riuscita tranquillamente e risolutamente a tenerlo a distanza di sicurezza. Theremon aveva abbastanza esperienza in questioni del genere per sapere che i complimenti e le lusinghe non riuscivano a superare quelle barriere che Siferra aveva eretto con tanta ostinazione. Molto tempo prima egli aveva deciso che le donne interessanti non andavano mai sedotte; si poteva far loro capire qualcosa, ma bisognava fare in modo che fossero le donne alla fine a sedurre, e se non ne erano intenzionate, non c'era molto da fare perché cambiassero idea. E con Siferra le cose continuavano ad andare nella direzione sbagliata ormai da un anno. Si era scagliata violentemente contro di lui - e in parte aveva anche ragione, ammise pentito - non appena aveva iniziato la sua fuorviante campagna diffamatoria contro Athor e il gruppo dell'osservatorio. Ma in qualche modo, alla fine, aveva sentito che stava cedendo, che cominciava a mostrarsi interessata a lui, nonostante la freddezza che manifestava. Altrimenti perché l'avrebbe invitato all'osservatorio, opponendosi agli ordini precisi di Athor, la sera dell'eclissi? Per un breve momento, quella sera, era effettivamente sbocciato fra loro un contatto reale. Ma poi era sceso il Buio, erano giunte le Stelle, la folla, il caos. Tutto era precipitato nella confusione più totale. Ma se ora fosse riuscito a trovarla, allora... Staremmo bene insieme, pensò. Saremmo una coppia imbattibile: tenaci, in gamba, preoccupati solo della nostra sopravvivenza. Qualunque sia la società che nascerà, vi ci troveremmo un buon posto. E anche se c'era stata una certa barriera psicologica fra loro in precedenza, era sicuro che ora lei non avrebbe posto ostacoli. Si trovavano in un mondo completamente nuovo, e se si voleva sopravvivere bisognava assumere un atteggiamento nuovo. Ma come avrebbe potuto ritrovarla? Per quel che ne sapeva i mezzi di comunicazione erano tutti fuori uso. Era soltanto una fra un milione di persone che vagavano in quella zona. Nella sola foresta ormai vivevano molte migliaia di persone; e non c'era alcun motivo logico per presumere che lei si trovasse in quel luogo. Poteva essere a cento chilometri da lì, ormai. Poteva essere morta. Cercarla sarebbe stata un'impresa disperata. Era peggio che pensare di trovare il proverbiale ago nel pagliaio. Il pagliaio in questione si estendeva per province e province, e forse l'ago si stava allontanando sempre di più. Solo la coincidenza più incredibile avrebbe potuto fargli ritrovare Siferra o qualsiasi altra persona di sua conoscenza. Ma più Theremon rifletteva sulle sue speranze di ritrovarla, più l'impresa gli sembrava possibile. Anzi, dopo un po' cominciò a convincersi che era perfino molto probabile. Forse quell'ottimismo che sentiva rinascergli dentro, era un effetto secondario della sua nuova vita solitaria. Non aveva mai niente da fare, se non passare le ore seduto accanto al ruscello, a guardare i pesciolini e a pensare. E mentre ritornava incessantemente sugli eventi trascorsi, ritrovare Siferra non gli parve più impossibile ma soltanto improbabile, da improbabile gli sembrò solo difficile, da difficile soltanto impegnativo, da impegnativo fattibile e da fattibile facilmente realizzabile.
Si convinse che bastava tornare a inoltrarsi nella foresta e conquistarsi l'appoggio di coloro che fossero ancora in buone condizioni mentali. Dire loro chi stava cercando e com'era fatta. Doveva spargere la voce. Mettere a frutto la sua esperienza di giornalista. E usare la sua popolarità locale. «Sono Theremon 762,» avrebbe detto. "Ricordi, quello del Chronicle. Aiutami e vedrai che non te ne pentirai. Vuoi il tuo nome sul giornale? Vuoi che ti renda famoso? Posso farlo. Lo so, adesso il giornale non viene pubblicato, ma presto o tardi tornerà e io continuerò a lavorarci, e vedrai la tua faccia proprio al centro della prima pagina. Puoi contarci. Basta che tu mi dia una mano a trovare la donna che sto cercando e..." "Theremon?" Una voce familiare, stridula, allegra. Rimase immobile, aguzzò gli occhi nella luce dei soli di mezzogiorno che filtrava tra gli alberi, tentando di scoprire da dove venisse la voce che aveva chiamato il suo nome. Camminava da due ore alla ricerca di qualcuno che fosse disposto a spargere la voce che il famoso Theremon 762 del Saro City Chronicle stava cercando una donna di nome Siferra. Ma fino a quel momento aveva trovato solo sei persone. Due di loro se l'erano data a gambe non appena l'avevano visto. La terza era rimasta seduta dov'era, cantando a bassa voce con lo sguardo rivolto verso i piedi nudi. Un altro uomo, acquattato fra i rami di un albero, stava affilando due coltelli da cucina con fervore maniacale. Le ultime due persone erano rimaste a fissarlo mentre diceva loro cosa voleva; il primo sembrava non avesse capito nulla; il secondo scoppiò in una risata fragorosa. Non avrebbe avuto alcun aiuto da nessuno dei due. Ma ora sembrava che qualcuno avesse trovato lui. "Theremon! Da questa parte, Theremon. Sono qui. Non mi vedi? Da questa parte!" 33 Theremon lanciò un'occhiata alla sua sinistra, verso una macchia di ombrellifere con grandi foglie a punta. All'inizio non vide nulla di anomalo. Poi le foglie iniziarono a muoversi e comparve un uomo grassoccio e dalle guance paffute. “Sheerin!" disse Theremon, stupefatto. "Bene, vedo che non sei talmente pazzo da non ricordare più il mio nome!" Lo psicologo aveva perso qualche chilo, ed era vestito in modo per lui insolito, con una tuta da lavoro e un maglione a brandelli. Nella mano sinistra teneva con noncuranza un'accetta dalla lama scheggiata. Era questa, forse, la cosa più insolita: Sheerin con un'accetta in mano. Non gli sarebbe parso altrettanto strano se a Sheerin fosse spuntata un'altra testa o un paio di braccia supplementari. “Come stai, Theremon?" disse Sheerin. “Per gli dei, mi sembri a pezzi e non è passata neppure una settimana! Ma neanch'io sto meravigliosamente " Si guardò e riprese: "Hai visto quanto sono dimagrito? Una dieta a base di foglie e bacche può fare miracoli, non credi?» “Ce ne vorrà di tempo prima che tu possa definirti magro,» rispose Theremon. "Ma mi sembri in forma. Come hai fatto a trovarmi?"Semplicemente non cercandoti. E’ l'unico modo sensato, in questo mondo ormai senza senso.
Sono stato al rifugio ma non c era più nessuno. Ora sono diretto verso sud, al parco di Amgando. Stavo seguendo il sentiero che taglia a metà la foresta quandO ti ho visto.» Lo psicologo uscì con un balzo dai cespugli e tese la mano a Theremon "Per tutti gli dei, che gioia rivedere una faccia amica! Sei sempre mio amico, no? Non sei diventato un pazzo omicida?" "Credo di no.» «In questa foresta ci sono più pazzi per chilometro quadrato di quanti ne abbia visti in tutta la vita, e ti assicuro che di pazzi ne ho visti tanti." Sheerin scosse il capo e sospirò. "Non avrei mai pensato che sarebbe stato così terribile, nonostante le esperienze e gli studi fatti. Sapevo che sarebbe stato orribile, certo, ma non a questi livelli " "Non avevi previstO che tutti al mondo sarebbero impazziti?" gli ricordò Theremon. "C'ero anch'io quando lo hai detto. Ti ho sentito. Avevi previstO che l'intera civiltà sarebbe crollata." "Una cosa è prevederlo, tutt'altra trovarcisi in mezzo. E’ umiliante, Theremon, per un accademico come me scoprire che le proprie teorie astratte si trasformano in fatti concreti. Ero disinvolto, allegramente indifferente quando dicevo: 'Domani non resterà in piedi una sola città su tutta Kalgash.' Per me era solo un susseguirsi di parole, niente più di un esercizio filosofico del tutto astratto. 'La fine del mondo in cui siamo sempre vissuti.’ Si. Sì.» Sheerin rabbrividì "E’ accaduto tutto come avevo previsto. Ma ho l’impressione di non aver creduto sul serio alle mie cupe previsioni finché non mi sono trovato difronte ai fatti." "Le Stelle," disse Theremon. «Non hai mai preso in considerazione le Stelle. Sono state loro a causare i danni peggiori. Forse ce l'avremmo fatta a sopportare il Buio, molti di noi, almeno: forse ci saremmo sentiti un po' confusi, appena un po' stravolti. Ma le Stelle... le Stelle… " "Te la sei vista brutta?" «All'inizio sì. Ora sto meglio. E tu?" "Nei momenti più difficili mi sono nascosto nello scantinato dell'osservatorio. Praticamente sono rimasto immune. Quando sono uscito, il giorno dopo, l'osservatorio era completamente distrutto. Non puoi immaginare che carnaio tutt'intorno.» «Che maledetto quel Folimun!» disse Theremon. «Gli apostoli...» "Hanno gettato della benzina sul fuoco, è vero. Ma il fuoco sarebbe divampato lo stesso.» "Hai visto nessuno dell'osservatorio? Athor, Beenay e gli altri? Siferra...» "Non li ho visti. Ma non ho trovato neanche i loro cadaveri, mentre davo un'occhiata in giro. Forse sono riusciti a fuggire. Ho incontrato soltanto Yimot, te lo ricordi? Uno dei laureati, quello alto e scombinato. Si era nascosto anche lui.» Sheerin si accigliò. "Siamo stati insieme per un paio di giorni, poi è stato ucciso" “Ucciso?” “Da una bambina di dieci, al massimo dodici anni. Con un coltello. Una bambina dolcissima. Gli è corsa incontro ridendo e lo ha pugnalato senza preavviso. Ed è corsa via, sempre ridendo.» "Per gli dei!" "Gli dei non ci ascoltano più, Theremon. Se mai ci hanno ascoltato." "Credo di no. Dove hai vissuto per tutto questo tempo, Sheerin?" «Qui. Là," rispose con aria incerta. "Per prima cosa sono tornato al mio appartamento, ma l'intero edificio era stato dato alle fiamme. C'era rimasta solo l'armatura, non si poteva mettere in salvo ormai più niente. Ho dormito là, quella sera, in mezzo alle rovine. Yimot era ancora con me. Il giorno dopo ci siamo diretti verso il rifugio, ma da dove ci trovavamo era impossibile raggiungerlo. La strada era bloccata, c'erano incendi ovunque.
E dove non c'era il fuoco violento, montagne di macerie impedivano il passaggio. Sembrava un campo di battaglia. Allora ci siamo diretti a sud passando per la foresta, pensando di aggirare li ostacoli, riprendere la via dell'alboreto e raggiungere il rifugio da quella parte. Fu allora che Yimot venne ucciso. Credo che tutte le persone in preda a turbe psichiche si siano dirette verso la foresta. " "Sono venuti tutti qui nella foresta," esclamò Theremon. "E’ più difficile darle fuoco della città... Ma stavi dicendo che quando alla fine sei arrivato al rifugio l'hai trovato deserto?" “Esatto. L'ho raggiunto ieri pomeriggio. Gli ingressi erano spalancati: il cancello esterno e anche quello interno, e la porta stessa del rifugio. Tutti scomparsi. Sulla porta però c'era un biglietto di Beenay." Beenay! Allora ce l'ha fatta a raggiungere il rifugio!" “A quanto pare sì,» disse Sheerin. "Un paio di giorni prima di me, credo. Il biglietto diceva che avevano deciso di abbandonare il rifugio e dirigersi verso il parco di Amgando, dove alcune persone dei distretti meridionali stavano cercando di costituire un governo provvisorio. Quando Beenay è arrivato al rifugio, ha trovato solo mia nipote Raissta, che probabilmente era rimasta ad aspettarlo. Ora sono partiti anche loro per Amgando. E anch'io sono diretto laggiù. Anche la mia amica Liliath era nel rifugio. Credo che sia partita per Amgando con gli altri.» "Che strano,» disse Theremon. "Il rifugio era il posto più sicuro del mondo. Perché diavolo hanno deciso di affrontare questa confusione pazzesca e marciare per centinaia di chilometri fino ad Amgando?" "Non lo so. Comunque devono avere avuto un buon motivo. In ogni caso, io e te non abbiamo scelta, non ti pare? Tutta la gente che non è impazzita si sta radunando laggiù. Possiamo restarcene qui ad aspettare che qualcuno ci squarti, come ha fatto quella terrificante ragazzina con Yimot, o tentare la sorte e cercare di raggiungere Amgando. Qui siamo condannati, presto o tardi l'inevitabile accadrà. Se riusciamo a raggiungere Amgando, andrà tutto bene.» "Hai saputo niente di Siferra?" chiese Theremon. "Niente. Perché?» "Vorrei trovarla." «Forse è andata anche lei ad Amgando. Se ha incontrato Beenay lungo la strada, le avrà detto dove sono andati tutti e..." «Cosa ti fa pensare che possa essere andata così?» «Niente, è solo un'ipotesi.» «Io invece penso che sia ancora da queste parti," disse Theremon. «Voglio tentare di rintracciarla.» «Ma le possibilità di trovarla sono...» «Tu mi hai trovato, vero?» «Per puro caso. E’ praticamente impossibile che tu riesca a trovarla con la stessa facilità.» «Credo invece che ci riuscirò facilmente," disse Theremon. "O almeno così voglio credere. E comunque ci proverò. Posso sempre sperare di raggiungere Amgando, in seguito. Con Siferra.» Sheerin gli lanciò uno strano sguardo, ma non disse nulla. «Credi che sia pazzo?» gli chiese Theremon. "Si, forse lo sono. «Non ci pensavo nemmeno. Credo invece che tu stia rischiando la vita per niente. Questo posto è diventato una giungla. L'unica legge è quella del più forte e la situazione non migliorerà con il passare dei giorni, stanne certo. Vieni con me a sud, Theremon.
Nel giro di due o tre ore potremmo essere fuori di qui, e la strada per Amgando è proprio...» "Voglio prima cercare Siferra,» disse Theremon, ostinato. «Dimenticala.» “Non ne ho la minima intenzione. Resterò qui a cercarla." Sheerin si strinse nelle spalle. «Resta pure se vuoi. Io me ne vado. Ho visto Yimot venir amazzato da una ragazzina, a non più di duecento metri da qui. Questo posto è troppo pericoloso per me.» "E tu credi che camminare per cinque o seicento chilometri tutto da solo non sia pericoloso?» Lo psicologo sollevò l'accetta. «Userò questa se proprio ne avrò bisogno.» Theremon si trattenne dal ridere. Sarebbe stato impossibile credere che Sheerin, persona dal temperamento mite, avesse potuto difendersi con un'accetta. Dopo un attimo di silenzio gli disse: «Buona fortuna.» "Hai davvero intenzione di restare?» «Sì, finché non trovo Siferra.» Sheerin lo fissò tristemente. "Riprenditi la fortuna che mi hai appena augurato, allora. Tu ne avrai più bisogno di me.» Si voltò e riprese a camminare senza aggiungere altro. 34 Per tre giorni - o forse quattro, il tempo passava senza che lei se ne rendesse conto - Siferra rimase nella foresta, spostandosi verso sud. Il suo unico obiettivo era restare in vita. Non c'era neppure motivo di tornare al suo appartamento. A quanto pareva, la città era ancora in fiamme. Distingueva chiaramente una bassa coltre di fumo sospesa sopra di sé, e di tanto in tanto vedeva perfino una sinuosa lingua rossa di fuoco che lambiva il cielo all'orizzonte. Le sembrava che venissero appiccati nuovi incendi ogni giorno. E questo significava che la follia non si era ancora placata. Sentiva che la sua mente stava gradualmente tornando alla normalità, che giorno dopo giorno si schiariva, che finalmente ne stava riprendendo il controllo, come se si stesse risvegliando dopo una febbre violentissima. Era spiacevolmente consapevole di non essere ancora rinsavita completamente - le era difficile riuscire a collegare logicamente una serie di pensieri e perdeva facilmente il filo dei propri ragionamenti. Ma era sulla strada della guarigione, ne era certa. Tuttavia aveva l'impressione che molta altra gente nella foresta non migliorasse affatto. Anche se Siferra cercava di isolarsi, di tanto in tanto incontrava delle persone che sembravano quasi tutte completamente squilibrate: chi singhiozzava, chi si lame tava, chi rideva sguaiatamente, chi la fissava in modo strano, chi si rotolava per terra. Come aveva previsto Sheerin, quella gente che durante il Buio aveva subito un trauma mentale, non sarebbe mai più tornata normale. Un'ampia parte della popolazione doveva essere ripiombata in uno stato semiselvaggio o animalesco, si disse Siferra. Probabilmente appiccavano il fuoco solo per divertimento, e uccidevano per la stessa ragione. E quindi si spostava con cautela. Non aveva nessuna particolare destinazione in mente, perciò si dirigeva all'incirca verso sud, sempre nella foresta, fermandosi ogni volta che trovava dell'acqua fresca. Non abbandonava mai il bastone che aveva trovato la sera dell'eclissi. Mangiava tutto ciò che trovava e che avesse un aspetto commestibile: semi, noci, frutta, perfino foglie e corteccia d'albero. Non era gran che come alimentazione.
Sapeva di essere fisicamente abbastanza forte da resistere per più di una settimana a tali cibi, ma presto ne avrebbe risentito. Sentiva già che quel poco peso che aveva in eccesso era scomparso, e la sua resistenza fisica stava pian piano diminuendo. Inoltre, anche le bacche e i frutti a sua disposizione diminuivano molto rapidamente perché i nuovi abitanti della foresta, certamente più di un migliaio, li coglievano per nutrirsi. Poi, durante quello che riteneva fosse il quarto giorno, Siferra si ricordò del rifugio. Le sue guance si infiammarono non appena si rese conto che poteva benissimo evitare di vivere come una donna delle caverne per il resto della settimana. Ma certo! Come aveva potuto essere così stupida? A pochi chilometri da lei, in quel preciso momento, centinaia di persone dell'università erano nascoste al riparo nel vecchio laboratorio dell'acceleratore di particelle, bevevano acqua in bottiglia e cenavano allegramente con del cibo in scatola messo da parte negli ultimi mesi. Che sciocca era stata ad aggirarsi furtivamente per una selva piena di pazzi, scavando per terra in cerca di qualcosa da mangiare e fissando avidamente le piccole creature della foresta che saltellavano fra i rami degli alberi, dove lei non poteva raggiungerle! Sarebbe andata subito al rifugio. Avrebbe certamente trovato un modo per convincerli ad accoglierla. Il fatto che avesse impiegato tanto tempo a ricordarsi di quel luogo era un segno di quanto le Stelle avessero sconvolto la sua mente, si disse. Un vero peccato, pensò, che non le fosse tornato in mente prima. Solo ora comprese che aveva trascorso gli ultimi giorni spostandosi nella direzione esattamente opposta. Ora, si trovava difronte a un insieme di colline ripide che segnava il limite meridionale della foresta. Alzando gli occhi, poteva vedere i resti anneriti dell'elegante zona residenziale di Onos Heights, sulla cima della collina che le si parava davanti come una scura muraglia. Il rifugio, se i suoi ricordi erano esatti, era proprio dalla parte opposta, a metà cammino fra il campus e Saro, vicino alla strada che costeggiava la foresta a nord. Impiegò un altro giorno e mezzo per riattraversare la foresta e arrivare all'estremità settentrionale. Durante il lungo viaggio fu costretta a usare per ben due volte il bastone, per difendersi dalle turbe degli assalitori. Ebbe tre incontri a distanza non violenti, con dei giovani che la squadrarono con l'intenzione di saltarle addosso. E una volta si ritrovò in una radura riparata dove cinque uomini macilenti e dallo sguardo allucinato, tutti armati di coltello, stavano girando in circolo, come danzatori che seguissero un misterioso e arcaico rituale. Si allontanò più in fretta che poté. Infine si trovò davanti al viale che un tempo conduceva all'università, appena fuori dalla foresta. Da qualche parte, lungo il lato settentrionale di quella strada, c'era un sentiero di campagna che portava al rifugio. Era lì: nascosto, insignificante, circondato da entrambi i lati da ciuffi d'erbacce che rischiavano di invaderlo. Era ormai il tardo pomeriggio. Onos era quasi scomparso dal cielo e la sinistra e fredda luce di Tano e Sitha gettava lungo la campagna delle ombre nette, che davano a quella giornata un aspetto invernale, nonostante l'aria fosse mite. Il piccolo occhio rosso di Dovim si muoveva lungo la parte settentrionale del cielo, ancora molto distante, ancora molto alto. Siferra si domandò quale fine avesse fatto l'invisibile Kalgash Due. Evidentemente aveva compiuto la sua terribile e maledetta opera e se n'era andata. Ormai lontana milioni di chilometri nello spazio, sempre più distante dal loro mondo nella sua lunga orbita, continuava la propria corsa nell'immobile oscurità, per ritornare di lì a 2049 anni.
Solo un paio di milioni d'anni! pensò tristemente Siferra. Poi un cartello le comparve davanti: PROPRIETA’ PRIVATA VIETATO L'INGRESSO ORDINE DEL CONSIGLIO DELL'UNIVERSITA DI SARO poi un secondo cartello, di un vivace colore scarlatto: PERICOLO!!! CENTRO RICERCHE ALTA ENERGIA INGRESSO VIETATO Bene. Era sulla strada giusta, allora. Siferra non era mai stata al rifugio, neanche quando era ancora un laboratorio di fisica, ma sapeva cosa l'aspettava: una serie di cancelli e poi una sorta di posto di controllo che avrebbe verificato l'identità di chiunque fosse riuscito ad arrivare fino lì. Dopo qualche minuto raggiunse il primo cancello. Era una doppia grata con una rete metallica dalla trama molto fitta, alta due volte più di lei, con una pericolosa staccionata di filo spinato che si dipartiva da entrambi i lati e scompariva nel sottobosco pieno di rovi che crescevano rigogliosi in quella zona. Il cancello era spalancato. Rimase un attimo a esaminarlo, perplessa. Era un'allucinazione? Uno scherzo che le stava giocando la sua mente confusa? No. Il cancello era davvero aperto. Ed era quello giusto. Aveva sopra il simbolo dell'università. Ma perché era aperto? Non le sembrava che l'avessero forzato. Proseguì, impensierita. La strada, all'interno, non era che un sentiero malmesso, pieno di solchi e di buche. Lo percorse sul ciglio, e in breve tempo raggiunse una barriera interna: non più filo spinato, ma un muro solido, senza appigli, apparentemente insuperabile. Il sentiero era interrotto da un cancello di metallo scuro, con sopra una telecamera. E anche questo ingresso era aperto. Sempre più misterioso! Che ne era stato delle misure di sicurezza di cui si erano tanto vantati e che avrebbero dovuto tenere lontano il rifugio dalla follia generale che aveva sopraffatto il mondo? Superò il cancello ed entrò. All'interno era tutto tranquillo. Siferra vide davanti a sé dei vecchi capannoni di legno dall'aria cadente. Forse l'ingresso del rifugio - che portava a una galleria sotterranea dalla quale si entrava nel rifugio vero e proprio - si trovava dietro di essi. Girò intorno agli edifici. Poi vide l'ingresso del rifugio, una porta ovale scavata nel terreno, e più in là un corridoio. Ma c'era anche altra gente, una decina di persone, davanti alla porta aperta, e ora tutti fissavano Siferra con fredda e sgradevole curíosità. Avevano delle strisce di stoffa verde chiara legate intorno al collo, come se fossero fazzoletti. Non conosceva nessuno di loro e, per quel che ne sapeva, non erano dell'università. Un piccolo falò stava bruciando a sinistra della porta. Dietro di esso c'era una pila di rami tagliati, disposti con cura. Ogni singolo pezzo di legno era accatastato insieme agli altri della stessa grandezza con incredibile precisione. Sembrava più un modello architettonico costruito meticolosamente che un semplice mucchio di legna. La colse una sensazione opprimente di paura e disorienta mento. Ma dove si trovava? Si trattava davvero del rifugio? E chi era questa gente? "Stia ferma dov'è," disse l'uomo che guidava il gruppo. Aveva un tono di voce tranquillo, ma pieno di presuntuosa autorità. "Alzi le mani!" Aveva in mano una pistola a raggi piccola e lucida, e gliela stava puntando all'altezza dello stomaco. Siferra obbedì senza dire una parola.
L'uomo doveva essere sulla cinquantina; aveva un comportamento imperioso, deciso e quasi certamente era il capo del gruppo. Indossava degli abiti costosi e si muoveva in modo tranquillo e sicuro. Il suo fazzoletto verde sembrava di seta, a giudicare dalla lucentezza. "Come si chiama?" chiese con calma, tenendo sempre l'arma puntata su di lei. "Siferra 89. Insegnante presso il dipartimento di archeologia dell'Università di Saro." "Bene. Sta progettando di eseguire scavi archeologici nella zona?" Gli altri risero come se avesse detto qualcosa di veramente buffo. "Sto cercando di trovare il rifugio dell'università," disse Siferra. "Sapete dirmi dov'è?" "Credo che sia questo," rispose l'uomo. "Ma la gente dell'università deve essersene andata da un paio di giorni. Ora è la sede della Pattuglia antincendio. Ha per caso del materiale combustibile con sé?" "Combustibile?" “Fiammiferi, accendini, generatori tascabili, tutto ciò che può servire per accendere un fuoco." Síferra scosse il capo. "Niente del genere." "I.'articolo uno del Codice d'Emergenza proibisce di accendere qualsiasi tipo di fuoco. La pena per chi non rispetta l'articolo uno è molto severa." Siferra lo guardò con aria stupefatta. Di cosa stava parlando? Un uomo magro e con il viso giallognolo che era vicino al capo disse: "Non mi fido di lei, Altinol. Sono stati questi professori dell'università a dare inizio a tutto ciò. Scommetto che ha qualcosa nascosto sotto i vestiti.» "Non ho niente che possa servire per accendere un fuoco," disse Siferra, irritata. Altinol annuì. "Forse sì. Ma forse no. Non possiamo correre il rischio. Si spogli." Siferra lo guardò sbigottita. "Come ha detto?» "Si spogli. Si tolga gli abiti. Ci dimostri che non ha degli oggetti illegali nascosti addosso." Siferra sollevò il bastone, sfregando nervosamente la mano lungo l'impugnatura. Sbattendo le palpebre per la sorpresa, disse: "La smetta! Non sta parlando sul serio, vero?» "Articolo due del Codice d'Emergenza: la Pattuglia antincendio può prendere ogni precauzione che ritenga necessaria per impedire che venga acceso un fuoco senza autorizzazione. Articolo tre: ciò può includere l'esecuzione sommaria e immediata di chi resista all'autorità della Pattuglia. Si spogli e in fretta." Fece un gesto con l'arma, facendo capire che non stava assolutamente scherzando. Ma Siferra continuava a fissarlo, senza iniziare a spogliarsi. “Chi siete voi? E cosa sarebbe questa storia della Pattuglia antincendio?" “Siamo vigilanti. Stiamo cercando di ristabilire la legge e l'ordine a Saro dopo la catastrofe. Come saprà, la città è quasi completamente distrutta. O forse non lo sa. Gli incendi continuano a propagarsi e non ci sono più vigili del fuoco per spegnerli. E anche se forse non se n'è accorta, l'intera provincia è piena di pazzi che pensano non ci siano stati abbastanza incendi, e così ne accendono di nuovi. Non si può andare avanti in questo modo. E’ nostra intenzione fermare gli incendiari con ogni mezzo a nostra disposizione. Lei è sospettata di possedere materiale combustibile. Ha sessanta secondi di tempo per provare la sua innocenza. Se fossi in lei, inizierei a togliermi i vestiti." Siferra si accorse che l'uomo stava silenziosamente contando i secondi. Spogliarsi davanti a una decina di sconosciuti? Al solo pensiero di quell'affronto fu colta da una vampata di collera.
Quel gruppo era formato quasi esclusivamente da uomini e non si curavano neppure di nascondere la loro impazienza. Non si trattava di una precauzione dettata da motivi di sicurezza, anche se quell'Altinol aveva citato solennemente un non meglio specificato Codice d'Emergenza. Volevano solo vedere il suo corpo, e avevano l'autorità per farla obbedire. Era intollerabile. Poi, dopo un attimo di riflessione, sentì la sua indignazione svanire. Che importanza aveva? si chiese Siferra stancamente. Il mondo era giunto alla fine. Il pudore era un lusso che si potevano permettere solo le persone civili, e la civilizzazione era un concetto ormai superato. In ogni caso, si trattava di un ordine dato sotto la minaccia di un'arma. Era arrivata in quel luogo isolato, in mezzo alla campagna, e nessuno sarebbe venuto a salvarla. E i secondi passavano. E sembrava che Altinol parlasse sul serio. Non valeva la pena morire per non aver voluto mostrare il proprio corpo a quella gente. Gettò il bastone a terra. Poi, con una collera fredda ma ben celata, iniziò lentamente a togliersi i vestiti e a poggiarli vicino al bastone. "Anche gli indumenti intimi?" chiese con sarcasmo. "Tutto." "Vi sembra che potrei avere un accendino nascosto lì dentro. "Le restano solo venti secondi." Siferra lo fulminò con lo sguardo e finì di spogliarsi senza aggiungere altro. Ora che aveva finito, si rese conto che era stato sorprendentemente facile spogliarsi difronte a quegli sconosciuti. Non le importava niente. L'indifferenza era la cosa fondamentale che la fine del mondo aveva portato con sé, pensò. Non le importava niente. Rimase eretta in tutta la sua imponente statura, quasi con aria di sfida, aspettando di vedere cosa avrebbero fatto. Lo sguardo di Altinol percorse il suo corpo tranquillamente, con sicurezza. Siferra scoprì che non le importava molto neanche di questo. Si trovava in uno stato di completa indifferenza. "Lei è molto carina," disse infine Altinol. "Grazie," rispose Siferra freddamente. "Posso rivestirmi ora?" Altinol fece un ampio gesto con la mano. "Ma certo. E ci scusi per il disturbo. Dovevamo essere assolutamente certi che lei non nascondesse niente di proibito." Infilò l'arma in una fondina che portava sulla cintura, e rimase a guardarla con noncuranza, a braccia incrociate mentre si rivestiva. Poi disse: "Pensava di essere finita nelle mani di un gruppo di selvaggi, vero?" "Vi interessa davvero sapere quello che penso?" "Avrà notato che non l'abbiamo guardata con lascivia, non abbiamo sbavato né sono apparse macchie sui nostri pantaloni mentre lei... aehm... ci stava dimostrando di non avere alcun oggetto atto ad accendere il fuoco. E che nessuno ha cercato di molestarla in alcun modo." "Molto gentile da parte vostra." "Le faccio notare queste cose," riprese Altinol, "pur sapendo che non farà molta differenza per lei finché sarà irritata con noi. Voglio, comunque, che sappia che le persone difronte a lei rapresentano l'ultimo bastione della civiltà in questo mondo dimenticato dagli dei. Non so dove siano scomparsi i nostri cari governanti, e certamente non considero in alcun modo degli esseri civilizzati i membri dell'amata confraternita degli Apostoli della fiamma; i suoi amici dell'università, che erano nascosti qui dentro, hanno preso la loro roba e se ne sono andati. Quasi tutti gli altri qui intorno sembrano irrimediabilmente impazziti! Tranne noi e lei, ovviamente." «Lei mi adula, includendomi fra le persone normali." "Non adulo mai nessuno.
All'apparenza, sembra che lei abbia sopportato il Buio, le Stelle e la catastrofe meglio di molti altri. Quello che voglio sapere è se le interessa restare qui e aggregarsi al nostro gruppo. Abbiamo bisogno di gente come lei." "Che intende dire? Pulire i pavimenti per voi? Prepararvi da mangiare?" Altinol sembrava indifferente difronte al suo sarcasmo. "Intendo dire aiutarci nella lotta per tenere viva la nostra civiltà. Non vorrei sembrarle troppo retorico, ma riteniamo di avere una missione sacra da compiere. Giorno dopo giorno, cerchiamo di portare l'ordine in questo manicomio, disarmando i pazzi, portando via loro ogni oggetto con cui potrebbero accendere il fuoco e riservando esclusivamente a noi il diritto di farlo. Non possiamo spegnere gli incendi che già hanno appiccato, almeno non ancora, ma possiamo fare il possibile per impedire che ne vengano accesi altri. E’ questa la nostra missione. Stiamo iniziando col tenere sotto controllo gli incendiari. E’ il primo passo perché il mondo sia nuovamente degno di essere abitato. Lei mi sembra abbastanza sana di mente da potersi unire a noi e perciò la invito a farlo. Cosa ne dice? Vuole entrare a far parte della Pattuglia antincendio? O preferisce sfidare la sorte tornando nella foresta?" 35 Il mattino era freddo e brumoso. Spessi banchi di nebbia si muovevano lentamente lungo le strade in rovina, una foschia così densa che Sheerin riusciva appena a capire quali fossero i soli nel cielo. C'era Onos, certamente, ma dove? La sua luce dorata era fioca e quasi completamente nascosta dalla nebbia. E quella macchia di cielo appena un po' luminosa a sudovest indicava con ogni probabilità la presenza di una coppia di soli gemelli, ma egli non poteva assolutamente dire se si trattasse di Sitha e Tano o di Patru e Trey. Era molto stanco. Ormai si era reso perfettamente conto che l'idea di percorrere da solo e a piedi le centinaia e centinaia di chilometri che separavano Saro dal parco nazionale di Amgando era una vera e propria follia. Maledetto Theremon! Insieme, almeno, avrebbero avuto qualche possibilità di farcela. Ma il giornalista era stato inflessibile: era certo che sarebbe riuscito a trovare Siferra nella foresta, nascosta da qualche parte. Un'altra follia! Un'altra sciocchezza come la sua! Sheerin guardò davanti a sé, scrutando fra la nebbia. Doveva trovare un posto dove potersi riposare per un po'. Doveva trovare qualcosa da mangiare, degli abiti da indossare, o almeno un posto dove lavarsi. Non era mai stato così sporco in tutta la sua vita. Né così affamato. Né così stanco. Né così scoraggiato. Durante l'intero periodo che aveva preceduto la discesa del Buio, fin dal primo momento in cui Beenay e Athor lo avevano informato di tale eventualità, Sheerin era passato da uno stato d'animo all'altro, dal pessimismo all'ottimismo e dall'ottimismo di nuovo al pessimismo, dalla speranza alla disperazione e dalla disperazione alla speranza. La sua intelligenza e la sua esperienza gli suggerivano una cosa, il suo carattere fondamentalmente ottimista gliene diceva un'altra. Forse Beenay e Athor avevano torto e il cataclisma astronomico non si sarebbe verificato affatto. No, il cataclisma si sarebbe certamente verificato.
Il Buio, nonostante la sgradevole esperienza che egli stesso aveva avuto nella galleria del mistero due anni prima, non sarebbe poi stato una cosa così terribile, se veramente fosse sceso su Kalgash. Non è vero. Il Buio farà impazzire tutti gli abitanti di Kalgash. La pazzia sarà solo temporanea, un breve periodo di disorientamento. La pazzia per molti sarà permanente. Il mondo sarà scombussolato per qualche ora, poi tutto tornerà normale. Il mondo sarà distrutto dal caos che seguirà all'eclissi. Avanti e indietro, avanti e indietro, da una parte all'altra, da una parte all'altra. Sheerin e la sua doppia personalità coinvolti in una disputa senza fine. Ma ora aveva raggiunto il fondo della spirale e gli sembrava di essere rimasto incastrato lì, incapace di muoversi e demoralizzato. Il suo ottimismo e la sua capacità di reazione erano scemati in seguito a ciò che aveva visto durante i vagabondaggi degli ultimi giorni. Ci sarebbero voluti decenni, forse perfino secoli, prima di poter tornare alla normalità. Il trauma psicologico aveva lasciato una cicatrice troppo profonda, la distruzione che si era abbattuta sulla società era troppo vasta. Il mondo che aveva amato era scomparso a causa del Buio, e ormai la situazione era irreparabile. Era questa la sua opinione di psicologo e non aveva motivo di dubitarne. Erano passati ormai tre giorni da quando Sheerin aveva lasciato Theremon nella foresta e si era diretto di buon passo verso Amgando con la sua consueta aria spavalda. Era difficile, adesso, ritrovare quella spavalderia. Era riuscito a uscire dalla foresta senza mai fermarsi; aveva passato qualche brutto momento, talvolta aveva dovuto agitare l'accetta e mostrarsi minaccioso e cattivo. Sapeva benissimo che non avrebbe avuto il coraggio di usarla, ma aveva funzionato lo stesso... e da un giorno ormai avanzava a fatica attraverso quelli che una volta erano gli ameni quartieri periferici della città. In quell'area, tutto era bruciato. Interi isolati erano stati distrutti e abbandonati. Da molti edifici usciva ancora del fumo. Avrebbe dovuto incrociare la grande strada che portava alle regioni meridionali, a quel che ricordava, un paio di chilometri al di là del bosco; bastavano un paio di minuti in auto, se si aveva una macchina a disposizione. Ma Sheerin non l'aveva. Aveva dovuto arrampicarsi su per una terribile salita, dai margini del bosco all'imponente collina dove sorgeva Onos Heights, arrancando sulle mani e sulle ginocchia, facendosi strada a fatica nel sottobosco. Aveva impiegato mezza giornata soltanto per avanzare di poche centinaia di metri. Una volta in cima, Sheerin vide che la collina sembrava un altopiano che si estendeva senza fine davanti a sé, e dopo ore e ore di cammino non aveva ancora trovato la strada che cercava. La direzione era quella giusta? Sì. Ogni tanto incontrava un segnale all'angolo di una strada che indicava la direzione per la Grande Autostrada Meridionale. Ma quanto era lontana? I cartelli non lo dicevano. Ogni dieci o dodici isolati c'era un altro segnale e null'altro. Sheerin andava avanti. Non aveva scelta. Ma trovare l'autostrada era solo il primo passo per raggiungere Amgando. Nel punto in cui era, si trovava praticamente ancora a Saro. Che doveva fare, allora? Continuare a camminare? Che altro? Non poteva sperare che qualcuno gli desse un passaggio.
Non aveva visto neanche un'auto in corsa. Le stazioni di servizio, quelle che non erano state bruciate, dovevano aver esaurito la benzina ormai da giorni. Quanto tempo ci sarebbe voluto, di questo passo, prima di raggiungere a piedi Amgando? Settimane? Giorni? No... ci avrebbe messo un'eternità. Sarebbe morto di fame molto prima di giungere ad Amgando. Ma comunque fosse, doveva andare avanti. Senza una meta era finito, e lo sapeva perfettamente. Doveva essere trascorsa ormai una settimana dall'eclissi, forse qualche giorno di più. Stava iniziando a perdere la nozione del tempo. Non mangiava né dormiva più regolarmente, e Sheerin era sempre stato una persona estremamente abitudinaria. Allora i soli andavano e venivano nel cielo, la luce diventava più forte o più fioca, l'aria si faceva più calda o più fresca e il tempo passava; ma senza il succedersi di colazioni, pranzi, cene e dormite. Sheerin non aveva la minima idea di come il tempo stesse passando. Sapeva solo che le sue forze si stavano esaurendo. Non faceva più un pasto normale da quando era scesa la Notte. Da quel terribile momento in poi si era dovuto accontentare di quello che trovava, niente di più: qualche frutto da un albero quando riusciva a procurarselo, qualche seme immaturO che non aveva l'aria di essere velenoso, ciuffi d'erba, qualsiasi cosa. Non lo facevano stare male, comunque, ma non erano certo dei pasti sostanziosi. Il loro valore nutritivo doveva essere inesistente. I suoi vestiti, ormai ridotti a brandelli, gli pendevano come un sudario. Non osava guardare al disotto di essi. Immaginava la pelle flaccida che ricadeva dalle ossa ormai perfettamente visibili. Si sentiva la gola sempre secca, la lingua gonfia, un punto fra gli occhi che gli pulsava dolorosamente. E quella sorda e insensibile sensazione di vuoto che sentiva continuamente allo stomaco. Bene, si diceva nei momenti d'allegria, doveva pur esserci un motivo per cui si era dedicato con tanta assiduità per molti anni a crearsi un abbondante strato di grasso, e ora aveva finalmente capito qual era quel motivo. Ma col passare dei giorni i suoi momenti d'allegria si facevano sempre più rari. La fame lo tormentava. E comprese che non ce l'avrebbe fatta a resistere ancora per molto in quel modo. Il suo corpo era robusto, abituato a essere nutrito regolarmente, con pasti abbondanti; era riuscito a sopravvivere fino a quel momento grazie alle riserve di grasso che aveva addosso, ma presto sarebbe stato troppo debole per poter continuare così. Di lì a poco la cosa più semplice sarebbe stata lasciarsi cadere dietro qualche cespuglio e riposare... riposare... riposare... Doveva trovare da mangiare. E subito. La zona che stava attraversando allora, anche se deserta come tutte le altre, sembrava un po' meno devastata di quelle che l'avevano preceduta. Anche qui erano scoppiati incendi, ma non dappertutto e sembrava che si fossero accidentalmente propagati da una casa all'altra senza danneggiarle. Sheerin si fermò con pazienza davanti a ogni casa, cercando di aprire le porte di quelle che non gli sembravano gravemente danneggiate. Erano tutte chiuse. Che gente insopportabile! pensò.
E pignola, per di più! Il mondo crolla attorno a loro, abbandonano le case in preda a un terrore cieco, scappano verso la foresta, il campus, la città o solo gli dei sanno dove... e poi perdono tempo a chiudere a chiave la propria casa prima di andarsene! Come se, durante il disastro, fossero soltanto partiti per una breve vacanza per poi tornarsene a casa ai loro libri e alle loro cianfrusaglie, ai loro armadi pieni di bei vestiti, ai loro giardini e alle loro verande. Non avevano capito che era finito tutto, che il caos sarebbe continuato per anni e anni? Forse, pensò tristemente Sheerin, non se n'erano andati affatto. Se ne stavano nascosti in casa, dietro quelle loro porte serrate, rannicchiati nello scantinato come aveva fatto lui, in attesa che la situazione tornasse normale. O forse lo stavano osservando dalle finestre disopra, sperando che se ne andasse. Provò con un'altra porta. Poi un'altra. Poi un'altra ancora. Tutte chiuse a chiave. Nessuna risposta. "Ehi! C'è qualcuno in casa? Fatemi entrare!" Silenzio. Rimase a fissare con aria assente la pesante porta di legno davanti a sé. Immaginava i tesori che racchiudeva: il cibo non ancora deteriorato che aspettava solo di essere mangiato, la vasca da bagno, il letto morbido. E lui doveva restarsene là fuori, senza possibilità di entrare. Si sentiva un po' come quel bambino delle favole a cui viene data la chiave magica del giardino degli dei, dove le fontane gettano miele e su ogni cespuglio crescono caramelle, ma che è troppo piccolo per riuscire a infilare la chiave nella serratura. Aveva voglia di piangere. Fu allora che si ricordò di avere un'accetta. E scoppiò a ridere. La fame doveva averlo rincretinito. Il bambino della favola non si arrendeva e regalava i suoi guanti, i suoi stivali e il suo berretto di velluto agli animali che passavano, per farsi aiutare: ognuno saliva sulla groppa dell'altro e il bambino si arrampicava fino a raggiungere la toppa e infilarci la chiave. E invece Sheerin, che non era più un bambino, se n'era rimasto a fissare una porta chiusa, sebbene avesse in mano un'accetta. Buttare giù la porta? Buttarla giù così? Andava contro i suoi saldi princìpi morali. Sheerin fissò l'accetta come se gli si fosse trasformata in mano in un serpente. Buttare giù la porta, ma era violazione di domicilio! Come poteva lui, Sheerin 501, professore di psicologia dell'Università di Saro, buttare giù la porta d'ingresso della casa di un cittadino rispettoso della legge e appropriarsi con noncuranza di tutto ciò che vi trovava? Senza alcun problema, si disse, ridendo ancora più forte per la propria stupidità. Ecco come si fa. Diede un colpo d'accetta alla porta. Ma non era poi così facile. I suoi muscoli, indeboliti dal digiuno, si ribellarono a quello sforzo. Riuscì a sollevare l'accetta, questo sì, e anche a colpire il bersaglio, ma il colpo gli parve di una fiacchezza penosa e sentì un dolore acuto alle braccia mentre la lama colpiva la solida porta di legno. L'aveva spaccata? No. L'aveva almeno incrinata? Forse sì. Una piccola fenditura. Colpì nuovamente. Un'altra volta. Più forte.
Ci sei, Sheerin. Cominci a prenderci la mano. Forza! Ancora! Non sentiva quasi più il dolore dopo i primi colpi. Chiudeva gli occhi, inspirava profondamente e colpiva. Poi colpiva ancora. La porta iniziava a cedere. Ora, c'era una fessura chiaramente visibile. Un altro colpo... un altro... altri cinque o sei ancora e forse la porta si sarebbe spaccata... Cibo. Bagno. Letto. Colpisci. Colpisci. E... E la porta si spalancò all'improvviso. Fu talmente stupefatto che quasi non cadde. Barcollò, ma riuscì a restare in piedi puntando il manico dell'accetta contro il telaio della porta. Alzò gli occhi. Si trovò una mezza dozzina di sguardi allucinati puntati addosso. "Ha bussato?" disse un uomo, e tutti cominciarono a urlare in preda a una folle euforia. Poi gli si avvicinarono, lo presero per le braccia e lo trascinarono dentro. "Di questa non avrà più bisogno," disse qualcuno, e senza sforzo strappò l'accetta dalle mani di Sheerin. "Ci si può fare male con una cosa del genere, lo sa?" Altre risate, urla pazzesche. Lo spinsero al centro della stanza e fecero cerchio intorno a lui. Erano sette, otto o forse nove. Uomini e donne e un bambino non ancora adolescente. Sheerin capi subito che non erano i legittimi proprietari della casa, che doveva essere stata pulita e ben tenuta un tempo. Ora c'erano macchie sulla parete, molti mobili ano stati rovesciati, c'era una chiazza ancora umida di qualcosa, di vino forse, sul tappeto. Sapeva chi erano. Gente che si era introdotta abusivamente lì dentro, gente violenta e stracciona, sporca e trasandata. Erano entrati furtivamente, avevano preso possesso del posto dopo che i proprietari se ne erano andati. Uno degli uomini indossava solo una camicia. Una delle donne, poco più che una bambina, aveva addosso solo un paio di pantaloncini. Emanavano tutti un odore acre, ributtante. Avevano quello sguardo fisso, immobile, sfocato che aveva visto migliaia di volte di recente. Non c'era bisogno di conoscenze mediche per sapere che quegli occhi appartenevano a dei pazzi. Al di là dell'afrore dei loro corpi, però, percepiva un altro odore, molto più piacevole, un odore che faceva quasi impazzire anche lui: l'aroma di cibo sui fornelli. Nell'altra stanza stavano preparando un pranzo. Una minestra? Dello stufato? C'era qualcosa che bolliva. Sheerin si teneva a malapena in piedi, stordito dalla fame e dall'improvvisa speranza di poterla finalmente placare. Disse in tono conciliante: "Non sapevo che ci fosse qualcuno in casa. Ma spero che mi lascerete restare qui questa sera, poi proseguirò per la mia strada." "Sei uno della pattuglia?" gli chiese con aria sospettosa un uomo grosso e barbuto. Sembrava il capo del gruppo. "La pattuglia?" rispose Sheerin incerto. "No, e non so niente di questa pattuglia. Mi chiamo Sheerin 501 e sono un membro della facoltà..." "Pattuglia! Pattuglia! Pattuglia!" iniziarono a ripetere come una cantilena, muovendosi in cerchio intorno a lui.
"... dell'Università di Saro," concluse Sheerin. Fu come se avesse pronunciato una formula magica. Si immobilizzarono nel momento stesso in cui la sua voce pacata coprì le loro stridule grida e rimasero in silenzio, fissandolo in modo spaventoso. "Sei dell'università, hai detto?" gli chiese il capo con uno strano tono di voce. "Esatto. Dipartimento di psicologia. Insegno e lavoro anche in ospedale. Sentite, non voglio crearvi problemi, ho solo bisogno di un posto dove riposarmi per qualche ora, e di un po' di cibo, se ne avete da dividere con me. Solo un po'. Non mangio più da quando..." "Università!" gridò una donna. A giudicare dalla sua voce, sembrava qualcosa di osceno o di blasfemo. Sheerin aveva già udito quel tono la sera dell'eclissi, quando Folimun 66 aveva perseguitato gli scienziati. Era spaventoso risentirlo. "Università! Università! Università!" Iniziarono nuovamente a girargli intorno, a ripetere quella monotona cantilena, a indicarlo, a fare gesti misteriosi con le loro dita adunche. Non riusciva più a capire cosa dicevano. Era una nenia roca che sembrava uscita da un incubo, un insieme di sillabe senza senso. Forse quella gente era un gruppo di adepti degli Apostoli della fiamma, che si era riunito qui per un arcano rituale. No. Era improbabile. Avevano un aspetto diverso, troppo logoro, troppo trasandato, troppo demente. Gli apostoli, almeno quei pochi che aveva visto, gli erano sempre parsi freddi, controllati, padroni di sé in modo quasi agghiacciante. Inoltre gli apostoli non si erano più visti dopo l'eclissi. Sheerin immaginava che si fossero tutti ritirati in qualche loro rifugio a godersi in privato l'avveramento delle loro profezie. Questi, pensò, sono soltanto dei pazzi vagabondi che non appartengono ad alcuna organizzazione. E a Sheerin sembrava di vedere nei loro occhi un che di omicida. “State a sentire,» disse, "se ho disturbato in qualche modo una delle vostre cerimonie, mi dispiace, sono pronto ad andarmene anche subito. Stavo cercando di entrare qui dentro perché credevo che la casa fosse disabitata e avevo fame. Non volevo..." “Università! Università!" Non aveva mai visto tanto odio negli sguardi di qualcuno come nelle persone che lo stavano guardando. Ma in quegli occhi c'era anche paura. Si tenevano lontani da lui, inquieti, tremanti, come se temessero che egli potesse improvvisamente scatenare una forza terribile. Sheerin tese le mani verso di loro implorandoli. Se solo avessero smesso di ripetere quella nenia! L'odore di cibo che veniva dalla stanza accanto lo faceva impazzire. Afferrò per un braccio una delle donne sperando di riuscire a trattenerla abbastanza a lungo da poterle chiedere una crosta di pane, una tazza di brodo, qualsiasi cosa. Ma la donna si liberò con uno strattone, grugnendo come se Sheerin, toccandola, l'avesse bruciata, e iniziò a sfregare freneticamente il punto del braccio dove lui l'aveva stretta. "Mi scusi," disse Sheerin. "Non volevo farle del male. Sono del tutto inoffensivo, dovete credermi." "Inoffensivo!" gridò il loro capo con disprezzo. "Voi? Voi dell'università? Voi siete peggio della pattuglia.
La pattuglia ci crea solo qualche fastidio, ma voi avete distrutto il mondo." "Come?" Attento, Tasibar," disse una donna. "Buttalo fuori prima che ci faccia una fattura." Una fattura?" esclamò Sheerin. "Io?" Avevano ripreso a indicarlo con gesti inconsulti e veementi, spaventosi. Qualcuno aveva iniziato a canticchiare sottovoce una cantilena cupa e feroce, che aveva il ritmo di un motore che prende a poco a poco velocità e che di lì a breve non avrebbe più risposto ai comandi. La ragazza che indossava soltanto un paio di pantaloncini disse: "E’ stata l'università a far scendere il Buio su di noi." "E le Stelle," disse l'uomo che aveva addosso solo la camicia. "Hanno fatto venire le Stelle." "E lui può farle ricomparire," disse la donna che aveva parlato prima. "Buttatelo fuori di qui! Buttatelo fuori di qui!" Sheerin li fissò incredulo. Si disse che avrebbe dovuto prevederlo. Era una conseguenza del tutto logica: diffidenza patologica per tutti gli scienziati, per le persone colte, una fobia irrazionale che ormai doveva essersi diffusa come un virus fra i sopravvissuti di quella Notte terrificante. "Credete davvero che potrei far riapparire le Stelle semplicemente schioccando le dita? E’ questo che vi spaventa?" "Tu sei l'università," disse Tasibar. "Tu conoscevi i segreti. L'università ha fatto scendere il Buio. L'università ha fatto apparire le Stelle. L'università ha portato morte e distruzione." Questo era troppo. Era già esasperante essere stato trascinato lì dentro senza poter neppure assaggiare quel cibo il cui delizioso aroma si diffondeva nell'aria. Ma attribuirgli la responsabilità della catastrofe, essere considerato da questa gente come una specie di stregone malvagio… Si sentì raggelare. Con voce piena di sarcasmo gridò: "E’ questo che credete? Idioti! Stupidi squilibrati superstiziosi! La colpa sarebbe dell'università, allora? Saremmo stati noi a portare il Buio? Per gli dei, che idiozia! Ma se abbiamo cercato in tutti i modi di mettervi in guardia!" Cominciò a gesticolare con rabbia, stringendo i pugni e sbattendoli rabbiosamente l'uno contro l'altro. "Lo sta evocando di nuovo, Tasibar! Farà scendere il Buio su di noi! Fermalo! Fermalo!" Si strinsero tutti intorno a lui, sempre più vicini, allungando le braccia per prenderlo. Sheerin, fermo in mezzo a loro, allargò le mani disorientato, come per scusarsi, e non cercò neppure di muoversi. Ora si pentiva di averli insultati, non perché questo aveva messo in pericolo la sua vita probabilmente non avevano neanche badato al modo in cui li aveva apostrofati - ma perché sapeva che non era colpa loro. Se mai, la colpa era sua, per non aver fatto il possibile per prepararli psicologicamente contro ciò che egli sapeva imminente. Quegli articoli di Theremon, se solo avesse parlato con il giornalista, se solo lo avesse convinto in tempo a cambiare idea, a smetterla di deridere gli scienziati. Si, era di questo che si pentiva. E si pentiva di tante altre cose, cose che aveva fatto e cose che non aveva fatto. Ma era troppo tardi. Qualcuno lo colpì. Restò senza fiato per il dolore e la sorpresa. "Liliath..." riuscì a gridare. Poi tutti gli furono addosso. 36 C'erano quattro soli in cielo: Onos, Dovim, Patru e Trey. I giorni a quattro soli portavano fortuna, si ricordò Theremon. E certamente quello era un giorno fortunato.
Carne! Finalmente della carne! Che vista magnifica! Si era procurato quel cibo in modo del tutto accidentale. Ma che importanza aveva? Il fascino della vita all'aria aperta si affievoliva man mano che la fame si faceva sentire. Ormai era disposto a procurarsi della carne in qualunque modo e senza tanti complimenti. La foresta era piena di animali selvatici di ogni tipo. Molti di loro erano piccoli, solo pochi erano pericolosi, ma tutti impossibili da catturare, almeno a mani nude. E Theremon non sapeva assolutamente costruire delle trappole, né aveva materiale a disposizione. Quei racconti per bambini in cui qualcuno si perde nel bosco e immediatamente si adatta alla vita all'aperto, si trasforma all'istante in un abile cacciatore o costruisce delle capanne perfette... non erano altro che racconti fantasiosi. Theremon si considerava una persona abbastanza intraprendente, almeno secondo la media dei cittadini di Saro; ma in breve comprese che le sue possibilità di catturare qualche animale della foresta erano pari a quelle che aveva di far funzionare nuovamente i generatori d'energia municipali. Quanto a costruire una capanna, il meglio che poté fare fu un riparo con dei grossi e piccoli rami intrecciati, che riuscì almeno a tenerlo all'asciutto durante un improvviso e violentissimo temporale. Ma ora il tempo era di nuovo sereno, faceva caldo e aveva della carne vera per pranzo. Il solo problema era cucinarla. Non aveva la minima intenzione di mangiarla cruda. Era paradossale che non sapesse come cuocere della carne in una città distrutta dalle fiamme. Ma quasi tutti gli incendi più vasti si erano estinti e la pioggia aveva spento gli altri. Anche se per un breve periodo dopo la catastrofe era sembrato che venissero accesi dei nuovi fuochi, di recente questo non avveniva più. Devo escogitare qualcosa, pensò Theremon. Sfregare insieme due bastoncini per ottenere una scintilla? Sbattere una pietra sul metallo e far prendere fuoco a un pezzo di stoffa? Dall'altro lato del lago, vicino al posto in cui era accampato, dei ragazzi avevano gentilmente ucciso un animale per lui. Ovviamente non lo avevano fatto di proposito. Con ogni probabilità pensavano di mangiarselo loro, a meno che non fossero talmente squilibrati da dare la caccia a quella creatura solo per passare il tempo. Ma ne dubitava. Si erano impegnati molto, con quell'ostinazione che solo la fame può generare. Si trattava di un graben: uno di quegli orrendi animali dal naso lungo e dal pelo bluastro, con la coda spelacchiata e viscida che a volte si vedevano aggirarsi fra i rifiuti della periferia, dopo il tramonto di Onos. Ma in quel momento, non gli importava nulla della bellezza e della grazia dell'animale. I ragazzi erano riusciti ad attirare la povera bestia fuori dal nascondiglio in cui si riparava e l'avevano condotta in un canyon senza uscita. Mentre Theremon li guardava dall'altra parte del lago, disgustato e invidioso al tempo stesso, i ragazzi davano instancabilmente la caccia al graben, prendendolo a sassate. Per essere un lento saprofago, l'animale era comunque particolarmente agile e si spostava rapidamente in ogni direzione nel tentativo disperato di sfuggire agli assalitori. Infine, però, un sasso gli rimbalzò sul capo e lo uccise sul colpo. Theremon era certo che l'avrebbero divorato immediatamente. Ma in quel momento una sagoma irsuta e minacciosa apparve sopra di loro; si fermò per un istante sul bordo del piccolo canyon, poi cominciò a scendere verso il lago. "Scappate! E Garpik lo Squartatore!" strillò uno dei ragazzi. "Garpik! Garpik!" In un attimo i ragazzi si dispersero, abbandonando l'animale morto sul terreno. Theremon si nascose fra gli alberi dall'altra parte del lago e rimase a guardare.
Anche lui conosceva Garpik, sebbene non sapesse che si chiamava così: era uno dei temuti abitanti della foresta, un tipo tarchiato, quasi scimmiesco, che indossava solo una cintura in cui aveva infilato un vasto assortimento di coltelli. Era uno di quelli che uccidevano senza motivo, uno psicopatico contento, un predatore vero e proprio. Garpik si fermò per un po' all'imboccatura del canyon, canticchiando fra sé e sé e accarezzando uno dei suoi coltelli. Sembrava che non si fosse accorto dell'animale morto, o comunque non gliene importava niente. Forse stava aspettando che i ragazzi tornassero. Ma chiaramente essi non avevano la minima intenzione di rifarsi vivi, e dopo qualche tempo Garpik, scrollando le spalle, si avviò lentamente verso la foresta, molto probabilmente in cerca di un modo divertente di utilizzare i suoi coltelli. Theremon attese alcuni minuti, per essere certo che Garpik non cambiasse idea e gli piombasse addosso. Poi, ormai esasperato dalla vista del graben che giaceva morto sul terreno, dove altri esseri umani o animali predatori potevano appropriarsene da un momento all'altro e scappare prima che lui arrivasse, balzò fuori dal suo nascondiglio, fece il giro del lago, afferrò l’animale e se lo portò nel suo rifugio. Pesava come un bambino. Gli sarebbe bastato per due o tre pasti, o anche di più, se fosse riuscito a reprimere la fame e la carne non fosse andata a male troppo in fretta. Aveva le vertigini per la fame. Non mangiava ormai che noci e frutta da giorni e giorni. La sua pelle era tesa sui muscoli e le ossa; quel poco grasso che aveva era già stato consumato e la forza che gli era rimasta la utilizzava per rimanere in vita. Ma quella sera, finalmente, lo aspettava un vero e proprio banchetto. Graben arrosto! Che bontà! pensò con amarezza... ma poi rifletté: Theremon, ringrazia gli dei per questo piccolo dono del cielo. E ora... cerchiamo di accendere un fuoco... Prima cosa, del materiale combustibile. Dietro il suo rifugio c’era un dirupo attraversato da una profonda fenditura, in cui crescevano delle erbacce. Erano quasi tutte avvizzite, e si erano ormai seccate dopo l'ultimo temporale. Theremon si diresse senza indugi verso la parete di roccia e raccolse foglie e steli ingialliti, facendo un mucchietto che avrebbe preso facilmente fuoco. Ora aveva bisogno di alcuni ramoscelli secchi. Questi erano più difficili da trovare, ma iniziò ugualmente a rovistare nella foresta alla ricerca di arbusti secchi o almeno di arbusti con alcuni rami secchi. Dovettero passare parecchie ore prima che riuscisse a raccogliere abbastanza legna per accendere un fuoco: Dovim era già tramontato e Trey e Patru, che erano appena spuntati all'orizzonte quando i ragazzi avevano cominciato a dare la caccia al graben, si trovavano in quel momento in mezzo al cielo, come un paio di occhi splendenti che osservavano dall'alto i tristi eventi di Kalgash. Theremon sistemò con cura gli sterpi che aveva raccolto sopra l'erba secca come riteneva avrebbe fatto un vero uomo dei boschi, con i rami più grandi all'esterno, e i più piccoli intrecciati al centro. Con qualche difficoltà, infilzò il graben con uno spiedo rudimentale che si era costruito con un bastoncino aguzzo e abbastanza dritto e lo poggiò sopra la legna. Fino a quel momento tutto era andato per il meglio. Mancava solo una cosa. Il fuoco! Mentre raccoglieva la legna aveva scacciato dalla mente quel problema, sperando che si sarebbe risolto da solo in un modo o nell'altro senza doverci riflettere a lungo. Ma poi era giunto il momento di affrontarlo.
Doveva assolutamente ottenere una scintilla. Il vecchio trucco che si leggeva nei libri dei bambini, quello di sfregare fra loro due bastoncini, era frutto di una fantasia, di questo Theremon era certo. Aveva letto che alcune tribù primitive accendevano il fuoco facendo girare vorticosamente un bastoncino nel foro di un'assicella, ma sospettava che il procedimento non fosse semplice come sembrava e che probabilmente ci sarebbe voluta un'oretta di paziente sfregamento prima di ottenere qualche risultato apprezzabile. E comunque, con ogni probabilità, perché la cosa riuscisse bisognava prima essere stati iniziati a quell'arte da qualche vecchio della tribù, o qualcosa del genere. Due pietre, allora... era possibile ottenere una scintilla sbattendo con forza due pietre? Ne dubitava. Però valeva la pena provare, pensò. Non gli venivano in mente altre idee. C'era una grossa pietra piatta per terra lì vicino, e dopo un po' ne trovò una più piccola, triangolare, che si adattava bene al palmo della sua mano. Si inginocchiò accanto al mucchietto di legna che aveva sistemato con cura e iniziò a colpire sistematicamente la pietra piatta con quella appuntita. Non successe niente di particolare. Cominciò a scoraggiarsi. Ecco qua il signor Theremon 762, pensò, un uomo grande e grosso che sa leggere e scrivere, che sa guidare una macchina, che riesce perfino a usare un computer, pur se con qualche difficoltà. Riesce a buttare giù un pezzo per il giornale in due ore. E da vent'anni i suoi articoli vengono letti da tutta Saro. Ma non sa accendere un fuoco nel bosco. D'altra parte, pensò, non mangerò questo graben crudo a meno che non sia assolutamente costretto a farlo. Non lo farò. Non lo farò. No. No. No! Pieno di rabbia, continuò incessantemente a sbattere le pietre. Forza, maledette, una scintilla. Un po' di fuoco! Bruciate! Arrostite questo stupido e ridicolo animale! Ancora. Ancora. Ancora. "Cosa sta facendo, signore?" gli chiese a un tratto una voce ostile da un punto imprecisato dietro la sua spalla destra. Theremon alzò gli occhi, confuso, smarrito. La prima regola per chi vuole sopravvivere in una foresta, è quella di non concentrarsi mai tanto su qualcosa da non accorgersi che qualche estraneo si sta avvicinando. Erano in cinque. Tutti uomini, all'incirca della sua età. Avevano gli abiti stracciati, come ogni persona che viveva nella foresta. Non sembravano particolarmente squilibrati, almeno secondo i nuovi criteri di valutazione: niente occhi vitrei, niente bava alla bocca, solo un'espressione severa, stanca e determinata. Sembrava che non possedessero altre armi oltre ai bastoni, ma il loro atteggiamento era decisamente ostile. Cinque contro uno. Va bene, pensò, prendete questo graben e spero che vi rimanga sullo stomaco. Non era tanto stupido da opporsi. "Le ho chiesto: 'Cosa sta facendo, signore?"' ripeté l'uomo in tono ancora più gelido.
Theremon lo fissò e rispose: "Cosa credete che stia facendo? Sto cercando di accendere un fuoco." "Esattamente come pensavamo." Il nuovo arrivato si fece avanti. Con calma e ponderatezza diede un calcio ai ramoscelli che Theremon aveva sistemato con tanta cura; si sparpagliarono e il graben infilzato nello spiedo rotolò a terra. "Ehi! Un momento!..." "Niente fuochi qui, signore. E’ la legge." Brusco, deciso, risoluto. "E’ proibito il possesso di qualsiasi oggetto atto ad accendere un fuoco. Questa legna stava per essere usata a tale scopo. E’ evidente. E lei ha ammesso la sua colpa." "Colpa?" disse Theremon, incredulo. "Ha detto che stava accendendo un fuoco, no? Queste pietre servono ad accendere un fuoco, non è vero? La legge è chiara su questo punto. E’ vietato.» Il capo del gruppo fece un cenno e due uomini si avvicinarono. Uno afferrò Theremon da dietro, per il collo e il torace, e l'altro gli prese dalle mani le due pietre e le gettò nel lago. Ci fu un tonfo e poi sprofondarono nell'acqua. Vedendole scomparire, Theremon capì che cosa doveva aver provato Beenay quando la folla infuriata distruggeva i suoi telescopi. "Lasciatemi andare," mormorò Theremon lottando per liberarsi. "Lasciatelo andare," disse il capo. Affondò nuovamente il piede nel punto dove Theremon aveva tentato di accendere il fuoco, schiacciando i ciuffi d'erba secca e mischiandoli al terriccio. "I fuochi sono proibiti," disse a Theremon. "Ci sono stati abbastanza fuochi. Non possiamo permettere che ne vengano accesi altri con tutto il rischio, la sofferenza e il danno che provocano, non lo sapeva? Se prova ad accendere un altro fuoco, torneremo e gli spaccheremo la testa, chiaro?» "E’ stato il fuoco che ha distrutto il mondo,» disse uno degli uomini. "Il fuoco ci ha costretto a lasciare le nostre case." "Il fuoco è nemico. Il fuoco è proibito. Il fuoco è malvagio.» Theremon li guardava senza capire. Il fuoco malvagio? Il fuoco proibito? Allora erano pazzi anche loro! "La pena per chi tenta di accendere un fuoco,» disse il capo, "per la prima volta è una multa. Ci accontenteremo dell'animale. Questo le insegnerà a non mettere a repentaglio la vita degli innocenti. Portalo via, Listigon. Gli servirà di lezione. La prossima volta che quest'uomo catturerà qualcosa, si ricorderà che non deve rischiare di evocare il nemico solo perché ha voglia di carne arrostita." 'No!" gridò Theremon con voce strozzata, mentre Listigon si chinava per prendere il graben. "E’ mio, idioti! E’ mio! E’ mio!" E si scagliò con ferocia contro di loro; tutta la sua prudenza era svanita e l'esasperazione e la rabbia ebbero il sopravvento. Qualcuno lo colpì con forza allo stomaco. Rimase senza fiato, ebbe un conato di vomito e si piegò in due, tenendosi le braccia strette sulla pancia; qualcun altro lo colpì da dietro, una ginocchiata sulle reni che per poco non lo faceva cadere a faccia in giù. Ma poi sgomitò con forza all'indietro, colpì qualcosa di duro e sentì un grugnito di dolore che gli ridiede speranza. Gli era già capitato di fare a pugni, ma molto, molto tempo príma. E mai da solo contro cinque persone. Ora però non c'era modo di uscire da questo guaio. Devo cercare di restare in piedi, si disse, e indietreggiare finché non ho alle spalle la parete di roccia, così almeno non possono assalirmi da dietro.
Devo tenerli lontano, a calci e a pugni, e se necessario anche a morsi e a urla, fino a che non decidono di lasciarmi in pace. Una voce che nasceva dalle profondità del suo animo gli disse: Sono completamente pazzi. E’ molto probabile che continueranno a picchiarti finché non ti uccideranno di botte. Ma non poteva farci nulla. Solo cercare di tenerli lontano. Abbassò la testa e colpì con tutta la forza che aveva, dirigendosi senza esitare verso la parete di roccia. Lo circondarono bersagliandolo da ogni lato, ma riuscì a tenersi in piedi. Il loro vantaggio numerico non era così schiacciante come si aspettava. Nel combattimento corpo a corpo, i cinque uomini non riuscivano a colpirlo contemporaneamente. Theremon riuscì così a volgere la confusione a suo vantaggio, sferrando pugni e calci in ogni direzione e muovendosi il più rapidamente possibile mentre gli altri si intralciavano a vicenda, cercando di evitare di farsi male fra loro. Ma nonostante questo, Theremon sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Iniziava ad ansimare. Aveva un taglio sul labbro e un occhio cominciava a dolergli. Un altro pugno ben assestato e sarebbe finito a terra. Portò un braccio davanti alla faccia per proteggersi e con l'altro continuò a colpire, sempre avanzando verso la parete di roccia. Colpì qualcuno con un calcio. Ci fu un grido e un'imprecazione. Qualcun altro gli restituì il calcio. Theremon fu colpito alla coscia e si girò, mugolando dal dolore. Barcollando, cercò disperatamente di riprendere fiato. Ora riusciva a malapena a distinguere i suoi assalitori, a capire cosa stesse succedendo. Era completamente circondato, e arrivavano pugni da ogni lato. Non sarebbe riuscito a raggiungere la roccia, né a restare in piedi ancora per molto. Stava per cadere e quegli uomini lo avrebbero calpestato. Stava per morire. Stava... per... morire... Poi si accorse che in quella confusione stava accadendo qualcosa di nuovo: sentiva altre voci che urlavano, altra gente che si univa alla mischia, figure che apparivano da ogni parte. Bene, pensò. Un altro gruppo di pazzi che viene a divertirsi. Forse riuscirò a fuggire approfittando della confusione. "In nome della Pattuglia antincendio, fermi!" gridò una voce di donna, forte, chiara e autoritaria. "E’ un ordine! Fermatevi tutti! Lasciatelo stare! Subito!" Theremon sbatté gli occhi e si sfregò la fronte. Si guardò intorno, ma aveva la vista annebbiata. C'erano altre quattro persone nella radura. Sembravano in ottime condizioni e indossavano abiti puliti. Portavano attorno al collo sventolanti fazzoletti verdi. Erano armate. La donna - che doveva essere il capo - fece un rapido gesto imperioso con la pistola a raggi che aveva in mano; i cinque uomini che avevano assalito Theremon si allontanarono da lui e si schierarono obbedienti davanti alla donna, che li squadrò severamente. Theremon guardava senza riuscire a capire. "Cosa sta succedendo qui?" chiese la donna in tono durissimo al capo del gruppetto. "Stava accendendo un fuoco... cercava di accenderlo... per arrostire un animale, ma siamo arrivati noi e allora..." "Bene.
Non vedo tracce di fuochi qui. La legge è stata rispettata. Ora sparite." L'uomo annuì. Si chinò per prendere il graben. "Ehi! Quella roba è mia," disse Theremon con voce rauca. "No," rispose l'altro. "Devi darla a noi. E’ la multa che deví pagare per aver infranto le leggi sul fuoco." "Le punizioni le decido io," disse la donna. "Lasciate qui quell'animale e andatevene. Subito!" «Ma..." "Sparite immediatamente, o dovrete risponderne ad Altinol. Forza, andatevene! I cinque uomini si dileguarono. Theremon continuava a fissare la donna dal fazzoletto verde, che ora gli si stava avvicinando. «Sono arrivata appena in tempo, Theremon." «Siferra,» esclamò Theremon, stupefatto. "Siferra!" 37 Il dolore si irradiava da centinaia di punti del suo corpo. Non era affatto sicuro di avere tutte le ossa a posto. Un occhio era gonfio e semichiuso. Ma pensava che ce l'avrebbe fatta a sopravvivere. Si tirò su a sedere, appoggiandosi alla parete di roccia, aspettando che lo stordimento diminuisse. "Abbiamo del brandy di Jonglor al nostro quartier generale," disse Siferra. "Credo di poterti autorizzare a berne un po'. Per motivi strettamente sanitari, ovviamente." "Brandy? Quartier generale? Che quartier generale? Ma che significa tutto questo, Siferra? Sei davvero tu?" "Credi che si tratti di un'allucinazione?" Ridendo, gli pizzicò l'avambraccio con la punta delle dita. "Ti sembro davvero un'allucinazione?" Theremon sussultò. "Attenta. Sono diventato molto delicato lì. E anche altrove, credo. Sei cascata dal cielo, o che altro?" "Ero di pattuglia, stavamo attraversando la foresta e abbiamo sentito della gente che lottava. Siamo venuti a vedere cosa succedeva. Non immaginavo fossi tu a essere coinvolto finché non ti ho visto. Stiamo cercando di ripristinare l'ordine nella zona." "Tu e chi?" "La Pattuglia antincendio. Al momento, la potremmo definire il nuovo governo locale. Il quartier generale è al rifugio dell'università, e il capo è un tipo di nome Altinol, che prima era un dirigente d'azienda o qualcosa del genere. Io sono uno degli ufficiali. In realtà, si tratta di un gruppo di vigilanti che è riuscitO far capire la pericolosità del fuoco e che solo i membri della Pattuglia antincendio hanno il privilegio di..." Theremon alzò la mano. "Aspetta un attimo, Siferra. Con calma, per favore. La gente dell'università ha formato un gruppo di vigilanza al rifugio, è così? Vanno in giro a spegnere gli incendi? Ma com'è possibile? Sheerin mi ha detto che se n'erano andati tutti, che erano diretti a sud perché avevano una specie di appuntamento al parco nazionale di Amgando." "Sheerin? E’ da queste parti?" "C'era. Adesso è diretto verso Amgando. Io avevo deciso di fermarmi nella zona ancora per qualche tempo.» Non riusciva a dirle di essere restato nell'improbabile speranza di poterla ritrovare. Siferra annuì. «Quello che ha detto Sheerin è vero. Tutta la gente dell'università ha lasciato il rifugio il giorno dopo l'eclissi. Credo che ormai siano arrivati ad Amgando, ma non ho avuto notizie più precise a questo proposito. Hanno abbandonato il rifugio, Altinol e il suo gruppo lo hanno trovato e ne hanno preso possesso.
La Pattuglia antincendio è composta da quindici o venti membri, tutti in ottime condizioni mentali. Sono riusciti a stabilire la loro autorità su una buona metà dell'area della foresta e su alcuni dei territori urbani circostanti, ancora abitati da qualcuno." "E tu?» chiese Theremon. "Come sei finita insieme a loro?" "Quando le Stelle sono scomparse sono andata nella foresta. Ma era un posto molto pericoloso, e così, non appena mi sono ricordata dell'esistenza del rifugio mi sono diretta là. Altinol e i suoi erano già arrivati. Mi hanno invitata a entrare nella pattuglia.» Siferra fece un sorrisetto amaro. «In realtà non mi hanno dato molta scelta," aggiunse. "Non sono persone particolarmente gentili.» «Sono tempi duri." «E’ vero. E così ho deciso che era meglio aggregarsi a loro piuttosto che continuare a vagare da sola senza meta. Mi hanno dato questo fazzoletto verde: lo rispettano tutti qui in giro. E una pistola a raggi. Anche questa è molto rispettata." «E così sei diventata una vigilante,» disse Theremon con aria pensierosa. "Sinceramente non ti avrei mai immaginata in questa veste. «Neanch'io avrei mai pensato di diventarlo.» «Ma credi che questo Altinol e la sua Pattuglia antincendio siano le persone più adatte per ripristinare l'ordine e la legge?" Siferra sorrise nuovamente, e neanche stavolta il suo sorriso era allegro. "Loro ritengono di esserlo." "E tu che ne pensi?" Siferra scrollò le spalle. "Fanno i loro interessi prima di tutto, questo è chiaro. C'è un vuoto di potere e intendono colmarlo. Ma credo che ci sia gente molto peggiore in giro che potrebbe cercare di prendere in mano la situazione. Almeno sono migliori di altri gruppi che ho in mente." "Ti riferisci agli apostoli? Anche loro stanno cercando di costituire un governo?" "E’ molto probabile. Comunque, non ne ho più sentito parlare da quando tutto questo è cominciato. Altinol pensa che siano ancora nascosti in un rifugio sotterraneo o che Mondior li abbia condotti da qualche parte, lontano da qui, dove stanno creando un loro regno. Ma si sono formati un paio di nuovi gruppi di fanatici veramente agguerriti, Theremon. Ti sei appena imbattuto in uno di essi e devi ringraziare la tua buona stella se non ti hanno fatto fuori. Sono convinti che smettere completamente di usare il fuoco sia l'unica salvezza per l'umanità, dal momento che è stato questo a rovinare il mondo. E così se ne vanno in giro a distruggere tutti gli oggetti con cui si può accendere un fuoco, e uccidono chiunque abbia l'aria di farlo." "Io stavo semplicemente cercando di cucinarmi qualcosa, disse tristemente Theremon. "Per loro non fa differenza se stai arrostendo della carne o se ti stai divertendo a fare il piromane," chiarì Siferra. "Sempre di fuoco si tratta, e loro lo detestano. Per fortuna siamo arrivati in tempo. Riconoscono l'autorità della Pattuglia antincendio. Noi siamo i privilegiati, capisci, gli unici a poter usare il fuoco." "Certamente avere una pistola a raggi vi aiuta," disse Theremon. "Vi porta molti vantaggi, almeno." Si sfregò un punto dolente del braccio e lanciò uno sguardo assente verso l'orizzonte. "E dici che ci sono altri gruppi di fanatici oltre a questi, vero?» "Sì, gente che pensa che gli astronomi dell'università abbiano scoperto il segreto per far apparire le Stelle. Accusano Athor, Beenay e gli altri per quello che è successo. E’ il solito, vecchio odio per gli intellettuali che salta fuori ogni volta che tornano a galla superstizioni medievali " "Per gli dei! E ce ne sono tanti?" "Abbastanza. Solo il Buio sa cosa potrebbero fare se riuscissero a catturare qualcuno dell'università che non sia ancora arrivato sano e salvo ad Amgando.
Come minimo lo appenderebbero al lampione più vicino." Theremon disse in tono cupo: "E io ne sarei il responsabile." “Tu?” "Tutto quello che è accaduto è colpa mia, Siferra. Non di Athor, di Folimun o degli dei, ma mia. Mia. Di Theremon 762. Una volta mi hai chiamato irresponsabile, ma sei stata troppo buona con me. Non sono stato semplicemente irresponsabile, mi sono comportato in modo superficiale, da criminale." "Theremon, smettila. A che serve adesso..." Ma Theremon proseguì. "Avrei dovuto scrivere un articolo ogni due giorni per avvisare il mondo di quello che stava per accadere, invocare a gran voce un programma d'emergenza per costruire rifugi, mettere da parte provviste e istituire impianti d'energia d'emergenza, fornire assistenza agli squilibrati, e fare un'infinità di altre cose. E invece cos'ho fatto? Vi ho deriso! Mi sono preso gioco degli astronomi chiusi nella loro torre d'avorio! Ho fatto in modo che nessun membro del governo prendesse sul serio Athor." “Theremon..." “Avresti dovuto lasciare che quei pazzi mi ammazzassero di botte, Siferra." I loro occhi si incontrarono. Lei sembrava arrabbiata. "Smettila di parlare come un idiota. I piani di tutti i governi del mondo messi insieme non avrebbero cambiato nulla. Anch'io vorrei che tu non avessi scritto quegli articoli, Theremon. Sai cosa ne pensavo. Ma adesso che importanza credi che abbiano? Eri sincero quando scrivevi quelle cose. Avevi torto, ma eri sincero. E in ogni caso non ha alcun senso scervellarsi su ciò che sarebbe potuto succedere se ci fossimo comportati diversamente. Ora dobbiamo occuparci della realtà che ci circonda." Con più dolcezza aggiunse: "Ora basta. Ce la fai a camminare? Dobbiamo portarti al rifugio. Potrai lavarti, metterti degli abiti puliti, mangiare qualcosa..." "Mangiare?" «La gente dell'università ha lasciato un sacco di provviste." Theremon sogghignò indicando il graben. "Vuoi dire che non lo devo mangiare?" "No, se proprio non lo desideri. Secondo me, dovresti regalarlo a qualcuno che ne ha più bisogno di te, mentre usciamo dalla foresta." "Buona idea." Si alzò in piedi, lentamente e con molto dolore. Ogni parte del corpo gli faceva male. Provò a fare un paio di passi: ci riusciva abbastanza bene. Sembrava che non avesse niente di rotto, per fortuna. Lo avevano solo un po' maltrattato. Il pensiero di un bagno caldo e di cibo realmente sostanzioso stava già alleviando il dolore delle sue ferite. Lanciò un ultimo sguardo al piccolo riparo che si era costruito, al suo ruscello, ai cespugli e alle erbacce che crescevano liberamente nella radura. La sua casa, in quegli strani, pochi giorni. Non gli sarebbe mancata molto, ma era anche certo che non l'avrebbe dimenticata tanto presto. Poi prese il graben e se lo mise sulla spalla. "Fai strada," disse a Siferra. Non avevano percorso neanche un centinaio di metri che Theremon avvistò un gruppo di ragazzi rintanati dietro gli alberi. Si accorse che erano gli stessi che avevano stanato il graben, gli avevano dato la caccia e lo avevano ucciso. Evidentemente erano tornati a cercarlo. In quel momento stavano osservando accigliati da lontano, chiaramente infastiditi dal fatto che Theremon se ne stesse andando con la loro preda.
Ma erano troppo intimoriti dai fazzoletti verdi d'ordinanza indossati dal gruppo della Pattuglia antincendio - o più semplicemente dalle loro armi - per avanzare qualsiasi pretesa sull'animale. "Ehi, voi!" gridò Theremon. “Questo è vostro, vero? Me ne sono preso cura per voi!» Gettò la carcassa verso di loro. Essa cadde a terra vicino al luogo in cui erano nascosti, ma i ragazzi si ritrassero, sconcertati e inquieti. Non vedevano chiaramente l'ora di mettere le mani sull'animale, ma avevano paura di uscire allo scoperto. "Ecco un esempio di vita nell'era postnotturna," disse a Siferra. «Muoiono di fame ma non osano muoversi. Pensano sia una trappola. Sono certi che se usciranno allo scoperto per prendere l'animale, spareremo loro, tanto per divertirci." “Chi può biasimarli?» disse Siferra. "Tutti hanno paura di tutti, adesso. Lascia qui quell'animale. Andranno a prenderlo quando ci saremo allontanati." Theremon la seguì zoppicando. Siferra e gli altri uomini della pattuglia si muovevano con sicurezza nella foresta, come fossero stati invulnerabili ai pericoli che si celavano ovunque. E in effetti non ci furono incidenti mentre il gruppo procedeva - con la rapidità permessa dalle condizioni fisiche di Theremon - verso la strada che attraversava il bosco. Era interessante, pensò Theremon, vedere con quanta rapidità la società iniziava a ricostituirsi. Nel giro di pochi giorni, un gruppo senza alcuna autorità come la Pattuglia antincendio era riuscito a farsi considerare come una sorta di governo. A meno che a tenere lontani i pazzi non fossero solo le armi e il loro sfoggio di sicurezza. Infine giunsero ai margini della foresta. L'aria si faceva sempre più fresca e la luce era sgradevolmente fioca, ora che Patru e Trey erano gli unici soli rimasti in cielo. In passato, Theremon non si era mai preoccupato della relativa scarsità di luce propria delle ore in cui in cielo c'era una delle due coppie di soli gemelli. Dal giorno dell'eclissi, però, queste serate a due soli gli erano parse allarmanti e minacciose, un possibile segno - anche se sapeva perfettamente che non poteva essere così - di un imminente ritorno del Buio. Sarebbe servito molto tempo per riparare i danni psichici causati dalla Notte, anche per le persone più equilibrate. "Il rifugio è poco lontano da qui, lungo questa strada," disse Siferra. "Come stai?" "Sto bene," rispose Theremon in tono caustico. "Non mi hanno mica azzoppato." Ma faceva una fatica terribile a costringere le sue gambe dolenti e pulsanti a reggerlo. Si sentì decisamente sollevato e lieto quando alla fine si ritrovò davanti all'ingresso dell'edificio sotterraneo del rifugio. Sembrava di trovarsi in un labirinto. Gallerie e corridoi si diramavano in ogni direzione. Riusciva appena a distinguere in lontananza le serpentine delle attrezzature scientifiche, misteriose e insondabili, che correvano lungo le pareti e i soffitti. Quel posto, ricordava, era stato la sede del frantuma-atomi dell'università fino alla costruzione del nuovo e grande laboratorio sperimentale a Saro Heights. A quanto pareva, gli scienziati avevano abbandonato qui molti dei loro macchinari superati. Comparve davanti a loro un uomo molto autoritario. "Ti presento Altinol 111," disse Siferra. "Altinol, ti presento Theremon 762." "Del Chronicle?" chiese Altinol. Non aveva un tono intimorito né pareva in alcun modo colpito: sembrava invece che si limitasse a constatare il fatto ad alta voce. "Sì, un tempo," rispose Theremon.
Si scambiarono un'occhiata priva di simpatia. Altinol, pensò Theremon, aveva l'aria di un vero duro: non ancora cinquantenne, fisico asciutto, ottime condizioni fisiche. Ben vestito con abiti di ottima fattura; aveva l'aria di una persona abituata a farsi obbedire. Theremon, esaminandolo, consultò rapidamente gli archivi ben forniti della sua memoria, e dopo qualche secondo fu lieto di trovare una scheda a suo nome. "Altinol delle industrie Morthaine?" chiese. Un fugace barlume di compiacimento (O forse era irritazione?) apparve negli occhi di Altinol. "Sì, sono proprio io." "Si diceva in giro che lei sarebbe voluto diventare Primo Ministro. Bene, ora pare che ci sia riuscito. Di quel che resta di Saro, almeno, se non dell'intera Repubblica Federale." "Una cosa alla volta," disse Altinol. Il suo tono di voce era pacato. "La prima cosa da fare è uscire da questa situazione d'anarchia. Poi cercheremo di rimettere insieme il paese e solo allora penseremo a chi dovrà dirigerlo. Dobbiamo prima affrontare il problema degli apostoli, ad esempio. Hanno sotto controllo l'intero settore settentrionale della città e il territorio periferico che si estende dietro di esso, e l'hanno posto sotto la loro autorità religiosa. Non sarà facile soppiantarli." Altinol sorrise freddamente. "Ogni cosa a suo tempo, amico mio." "E per Theremon," disse Siferra, "la prima cosa da fare è un bagno ristoratore, e poi un buon pasto. E’ vissuto nella foresta fin da quando è scesa la fatidica Notte. Vieni con me," disse rivolta a Theremon. La sala in cui si trovava l'acceleratore di particelle era stata suddivisa in una serie di piccole stanze, mediante l'uso di pannelli divisori. Siferra lo fece entrare in una di esse dove dei tubi di rame che passavano sul soffitto portavano l'acqua a una vasca di porcellana. "Non sarà caldissima," lo avvertì. "Accendiamo lo scaldabagno solo per un paio d'ore al giorno perché c'è scarsità di combustibile. Ma sarà certamente meglio che fare il bagno in un gelido ruscello nella foresta... Cosa sai di Altinol?" “Dirigente delle industrie Morthaine, la grande compagnia di navigazione. E’ finito sui giornali un paio d'anni fa, non ricordo bene. Credo si fosse procurato un contratto in un modo non del tutto pulito, per ottenere delle concessioni edilizie in una zona di proprietà governativa nella provincia di Nibro." “Cos'ha a che fare una compagnia di navigazione con delle concessioni edilizie?» chiese Siferra. “E’ esattamente questo il punto. Assolutamente niente. Era stato accusato di aver corrotto dei membri del governo - credo offrendo biglietti gratuiti e illimitati sulle sue navi da crociera a dei senatori,» disse Theremon, stringendosi nelle spalle. «Ma ormai non ha più alcuna importanza. Le industrie Morthaine non esistono più, né ci sono più concessioni edilizie da procurarsi o senatori federali da corrompere. E probabilmente non ha gradito che io lo abbia riconosciuto.» Probabilmente non gliene importa niente. In questo momento l'unica cosa che gli interessi veramente è dirigere la Pattuglia antincendio.» “Per ora,» disse Theremon. «Oggi la Pattuglia antincendio di Saro, domani il mondo intero. Non lo hai sentito? Ha parlato di soppiantare gli apostoli che si sono impadroniti dell'altra parte della città. Qualcuno comunque dovrà farlo. E lui mi sembra un tipo a cui piace comandare.» Siferra uscì. Theremon si immerse nella vasca di porcellana. Niente di lussuoso, certo, ma decisamente piacevole, considerando quello che aveva passato. Si sdraiò, chiuse gli occhi e si rilassò.
Che delizia! Quando ebbe finito, Siferra lo accompagnò nella sala da pranzo del rifugio, una stanza semplice dal soffitto ricoperto di metallo, e lo lasciò lì, dicendogli che doveva preparare il suo rapporto quotidiano per Altinol. C'era un pranzo che lo aspettava: uno dei pasti preconfezionati messi da parte nei mesi in cui avevano preparato il rifugio. Verdura quasi fredda, carne tiepida di dubbia provenienza, e da bere un liquido verde chiaro non alcolico di sapore indefinito. Ma ogni cosa gli sembrava splendida e deliziosa. Si sforzò di mangiare lentamente, con calma, sapendo che il suo corpo non era più abituato al cibo dopo i giorni trascorsi nella foresta; doveva masticare attentamente ogni boccone altrimenti si sarebbe sentito male, ne era certo, anche se il suo istinto lo incitava a ingurgitare tutto il più in fretta possíbile e chiedere che gli portassero altro cibo. Dopo aver mangiato, Theremon si appoggiò allo schienale della sedia, fissando intorpidito il brutto soffitto di metallo. Non aveva più fame. E il suo stato d'animo stava lentamente peggiorando. Nonostante il bagno, nonostante il cibo, nonostante il conforto di sapersi al sicuro in quel rifugio ben protetto, scoprì che stava lentamente sprofondando nella più cupa desolazione. Si sentiva molto stanco. E scoraggiato. E triste. Era stato un mondo molto piacevole, pensò. Non perfetto, anzi tutt'altro, ma sopportabile. C'erano molte persone sufficientemente felici, molta gente in buone condizioni economiche, in ogni campo si stavano facendo grossi progressi: scoperte scientifiche sempre più importanti, economia in netta espansione, rapporti di cooperazione internazionale sempre più stretti. La guerra era ormai un concetto sorpassato e medievale, e gli antichi fanatismi religiosi erano stati completamente superati, o almeno così gli era sembrato. E nel giro di pochissime ore tutto questo era finito. In seguito a un'unica apparizione di quel Buio terrificante. Certamente un mondo nuovo sarebbe nato dalle ceneri del vecchio. Era sempre andata così: gli scavi di Siferra a Thombo lo indicavano chiaramente. Ma che mondo sarebbe stato? si chiese Theremon. La risposta l'aveva già sotto gli occhi. Un mondo in cui la gente si uccideva per un pezzo di carne, o perché era stata violata una legge superstiziosa sul fuoco, o semplicemente perché uccidere sembrava divertente. Un mondo in cui individui come Altinol cercavano di trarre vantaggio dal caos per conquistare il potere. Dove gente come Folimun e Mondior progettava certamente di dettare legge sulle menti degli uomini, probabilmente operando in pieno accordo con personaggi come Altinol, pensò Theremon sempre più depresso. Un mondo nel quale... No. Scosse il capo. Che senso avevano questi pensieri cupi e malinconici? Siferra aveva ragione, si disse. Non aveva senso fare congetture su quello che sarebbe potuto accadere. Doveva affrontare la realtà. Almeno era ancora vivo, e la sua mente era pressoché intatta, e se l'era cavata piuttosto bene in quei terribili giorni passati nella foresta, a parte qualche livido e qualche taglio che sarebbero guariti nel giro di un paio di giorni.
Non aveva senso lasciarsi prendere dalla disperazione: un lusso che non poteva permettersi, così come Siferra non poteva permettersi il lusso di essere ancora arrabbiata con lui per gli articoli che egli aveva scritto. Quel che è stato è stato, pensò. Era giunto il momento di farsi forza e andare avanti, unirsi agli altri, ricostruire, cominciare tutto da capo. Rivangare il passato era da sciocchi. Guardare al futuro con sgomento o sconforto era solo da vigliacchi. "Finito?" gli chiese Siferra, tornando nella sala da pranzo. "Lo so, il cibo non è granché. Ma è sempre meglio del graben." "Non lo so. A dire il vero non ho maí mangiato del graben." "Non hai perso molto, credo. Andiamo, ti mostrerò la tua stanza. " Era uno stanzino dal soffitto basso, non troppo elegante: un letto con a fianco una lampada votiva sul pavimento, un lavabo, una luce che penzolava dal soffitto. In un angolo c'erano dei libri e dei giornali che dovevano essere stati abbandonati dalla gente che aveva occupato quella stanza la sera dell'eclissi. Theremon vide una copia del Chronicle aperta alla pagina in cui c'era la sua rubrica, e trasalì: era uno degli ultimi pezzi che aveva scritto, un attacco particolarmente sfrenato contro Athor e il suo gruppo. Arrossì e lo allontanò con il piede. "Cosa pensi di fare adesso, Theremon?" gli chiese Siferra. “Io?” "Voglio dire, dopo che ti sarai riposato un po'. "Non ci ho pensato. Perché?" “Altinol vuole sapere se hai intenzione di aggregarti alla Pattuglia antincendio," disse Siferra. "E’ un invito?" "Lui ne sarebbe contento. Sei il tipo di persona di cui ha bisogno, un carattere forte, che sa come trattare con la gente." "Sì” rispose Theremon. "Starei bene qui, non credi?" "Ma c'è una cosa che lo preoccupa. Nella Pattuglia deve esserci un solo capo, e questo capo deve essere lui. Se ti unisci a noi, vuole che sia chiaro fin dall'inizio che quel che egli dice è legge, e va eseguito senza discutere. Non sa fino a che punto tu sia disposto a prendere ordini." "Non lo so neanch'io se è per questo," disse Theremon. "Ma capisco perfettamente il suo punto di vista." "Vuoi unirti a noi, allora? So benissimo che l'organizzazione della pattuglia non è il massimo, ma almeno è una forza che combatte per ristabilire l'ordine, e ora ne abbiamo bisogno. E Altinol è certamente arrogante, ma non è cattivo. Ne sono certa. E’ solo convinto che di questi tempi siano necessarie delle misure drastiche e una guida decisa. E lui può fornire entrambe." Non ne dubito affatto " "Pensaci stasera," disse Siferra. «Se accetti di entrare nella pattuglia, parlagliene domani. Sii franco con lui. Lui sarà franco con te, puoi starne sicuro. Se riesci a convincerlo che non minaccerai in alcun modo la sua autorità, sono certa che tu e lui..." «No," disse Theremon bruscamente. «No cosa?” Theremon rimase in silenzio per qualche secondo e infine disse: «Non c'è bisogno che ci pensi tutta la sera. So già qual è la mia risposta.» Siferra restò a guardarlo, aspettando che proseguisse. “Non ho alcuna intenzione di immischiarmi con Altinol. Conosco il tipo e so che con gente come lui non posso andare d'accordo. E so anche che in momenti come questi potrebbero essere necessarie organizzazioni quali la Pattuglia antincendio, ma che a lungo termine risulteranno una cosa nefasta e che quando saranno riconosciuti e istituzionalizzati, sarà difficile liberarsi di loro.
I tipi come Altinol non rinunciano al potere spontaneamente. I piccoli dittatori non l'hanno mai fatto. E non voglio vivere il resto dei miei giorni con la terribile consapevolezza di averlo aiutato ad arrivare al vertice. Non mi sembra che rimettere in vigore il sistema feudale sia una soluzione ai nostri problemi. Quindi, Siferra, niente da fare. Non metterò mai al collo il fazzoletto verde di Altinol. Qui per me non c'è futuro." “Cosa pensi di fare, allora?" gli chiese tranquillamente Siferra. «Sheerin mi ha detto che si sta formando un vero governo provvisorio nel parco di Amgando. La gente dell'università, forse anche membri del vecchio governo e personaggi di rilievo provenienti da tutto il paese si stanno radunando lì. Non appena sarò abbastanza in forza da mettermi in cammino, me ne andrò ad Amgando." Siferra lo guardò fisso, ma non disse nulla. Theremon fece un respiro profondo e dopo un attimo aggiunse: «Vieni con me ad Amgando, Siferra.» Allungò la mano verso di lei. Con dolcezza, le disse: "Resta con me questa sera, in questa mia misera stanzetta. E domani mattina andiamo via insieme verso sud. Tu, come me, hai poco in comune con questa gente. E abbiamo molte più probabilità di arrivare ad Amgando viaggiando insieme che cercando di arrivarci da soli." Siferra tacque. Ma lui non ritrasse la mano. "Allora? Che ne dici?» Theremon vide il dibattersi di sentimenti contrastanti sul viso di lei, ma non ebbe il coraggio di interpretarne il significato. Siferra stava chiaramente lottando contro se stessa, ma poi, bruscamente, la lotta cessò. "Sì," disse alla fine. "Sì. Va bene, Theremon." E si avvicinò a lui. Gli prese la mano. E spense la lampadina che pendeva dal soffitto, anche se la luce fioca della lampada votiva accanto al letto rimase accesa. 38 «Sai come si chiama questa zona?" chiese Siferra a Theremon. Fissava piena di stupore e costernazione lo scenario spettrale che si stendeva davanti a loro: case distrutte dal fuoco e automobili abbandonate. Era da poco passato mezzogiorno, ed erano fuggiti dal rifugio da tre giorni appena. L'inesorabile luce di Onos illuminava spietata ogni muro annerito, ogni finestra infranta. Theremon scosse il capo. "Aveva un nome stupido, puoi starne certa. Acri d'oro o Residenze Saro, o qualcosa del genere. Ma ormai il suo nome non ha importanza. Non è più un quartiere residenziale. Una volta qui c'erano delle case eleganti, Siferra, ma ormai non sono altro che reperti archeologici. Uno dei sobborghi perduti di Saro." Erano arrivati in una zona molto a sud della foresta, quasi ai confini della fascia periferica che costituiva il confine meridionale di Saro. Al di là di essa si estendevano campi coltivati, piccole città, e da qualche parte, lontano, immensamente lontano, la loro meta: il parco nazionale di Amgando. Avevano impiegato due giorni ad attraversare la foresta. La prima sera avevano dormito sotto il vecchio riparo costruito da Theremon, la seconda in un boschetto a metà della scoscesa salita che portava a Onos Heights. Durante quei giorni, niente fece loro pensare che la Pattuglia antincendio li stesse tallonando. A quanto pareva, Altinol non aveva neanche cercato di inseguirli, anche se avevano preso delle armi e due zainetti pieni di provviste.
E ormai, pensò Siferra, non sarebbe certamente riuscito a raggiungerli. “La grande Autostrada Meridionale dovrebbe essere da queste parti, non è vero?" disse Siferra. “Mancheranno tre o quattro chilometri. Se avremo fortuna, non troveremo incendi a sbarrarci la strada." “Saremo fortunati, stai tranquillo." Theremon scoppiò a ridere: "Sempre ottimista, tu!" "Non costa più fatica che essere pessimisti," rispose Siferra. “Comunque sia, ce la faremo." "Giusto. Ce la faremo." Procedevano rapidamente. Theremon sembrava riprendersi in fretta dalla colluttazione nella foresta e dai giorni passati praticamente senza mangiare. Aveva una capacità di recupero incredibile. Siferra riusciva con difficoltà a stargli dietro, nonostante la sua resistenza. E non riusciva neppure a tenersi su di morale. Fin da quando erano partiti, Siferra aveva cercato di mostrarsi sempre speranzosa, sempre fiduciosa, sempre certa che sarebbero arrivati sani e salvi ad Amgando, dove avrebbero trovato gente come loro già impegnata nei progetti e nell'opera di ricostruzione del mondo. Ma dentro di sé, Siferra non era così sicura. E più lei e Theremon si addentravano in quelle zone, che un tempo erano state graziosi quartieri periferici, più le riusciva difficile lottare contro l'orrore, le emozioni, la disperazione e il senso di disfatta che la pervadevano. Non era un mondo reale, ma un incubo. E non c'era modo di sfuggire all'enormità di ciò che vedeva. Ovunque si voltasse, c'erano solo macerie e distruzione. Guarda! pensava. Guarda! La desolazione... le cicatrici lasciate dal disastro... gli edifici crollati, le mura già invase dalle prime erbacce, già occupate dalle prime orde di lucertole. Ovunque i segni di quella notte terribile in cui gli dei avevano nuovamente fatto scendere la loro maledizione sul mondo. Il terribile odore acre di fumo nero che saliva dai resti dei fuochi che le recenti piogge avevano spento; quell'altro fumo, bianco e penetrante, che si levava dagli scantinati che ancora bruciavano. Niente era rimasto intatto... i corpi lungo la strada, contorti all'agonia finale... lo sguardo pieno di follia negli occhi delle poche persone ancora vive che di tanto in tanto li fissavano, seminascosti dai resti delle loro case... La bellezza era svanita. La grandezza era scomparsa. Tutto in rovina, pensò, tutto come se l'oceano avesse invaso la terra, trascinando nell'oblio tutto quello che l'umanità aveva costruito. Siferra non era nuova alle rovine. Aveva passato tutta la vita a scavare in mezzo a esse per motivi di lavoro. Ma le rovine fra cui aveva lavorato erano antiche, addolcite dal tempo, misteriose e romantiche. I resti che aveva difronte a sé in quel momento erano troppo recenti, troppo dolorosi da sopportare, e non avevano niente di romantico. Era riuscita senza problemi ad accettare la caduta delle grandi civiltà del passato: per esse provava ben poco trasporto emotivo. Ma ora la sua stessa epoca era stata gettata fra i detriti della storia, e questo era difficile da tollerare. Perché era successo? si chiese. Perché? Perché? Perché? Siamo stati così malvagi? Ci siamo allontanati a tal punto dalla strada che gli dei ci hanno indicato, da dover essere puniti in modo così duro? No. No! Non c'erano dei; non era una punizione. Siferra ne era ancora certa.
Non aveva alcun dubbio che si fosse trattato soltanto dell'opera di un destino cieco, causato da movimenti di mondi e di soli inanimati e indifferenti, privi di volontà propria, che ogni duemila anni si avvicinavano per una coincidenza del tutto casuale. Ecco tutto. Un fatto casuale. Un fatto casuale che Kalgash aveva dovuto sopportare infinite volte nel corso della sua storia. Ogni volta erano comparse le Stelle nella loro terrificante maestà; e in preda a un'angoscia disperata, l'uomo si era scagliato inconsapevolmente contro ciò che lui stesso aveva creato. Impazzito per il Buio e per la luce spietata delle Stelle. Era un circolo senza fine. Nelle ceneri di Thombo era già scritto tutto. E ora Thombo era ovunque. Come aveva detto Theremon: ormai non ci sono altro che reperti archeologici. Proprio cosi. Il mondo che avevano conosciuto non esisteva più. Ma noi siamo ancora vivi, pensò. Cosa faremo? Cosa faremo mai? Il solo conforto che riusciva a trovare in quella desolazione era il ricordo della prima sera trascorsa insieme a Theremon, nel rifugio; così improvvisa, così inaspettata e così splendida. La mente le correva sempre a quei momenti. Il suo sorriso stranamente timido mentre le chiedeva di restare con lui... niente più squallide tattiche di seduzione, finalmente! E lo sguardo nei suoi occhi. E le mani di lui sulla propria pelle, il suo abbraccio, i loro respiri che si confondevano. Da quanto tempo non andava a letto con un uomo! Aveva quasi dimenticato cosa si provava. E sempre, ogni volta, aveva provato la spiacevole sensazione di commettere un errore, di fare un passo falso, di farsi coinvolgere in un'avventura che avrebbe dovuto evitare. Non era stato cosi con Theremon: con lui erano soltanto crollate delle barriere, dei pretesti e delle paure; aveva ceduto con gioia, aveva ammesso, finalmente, che quel mondo dilaniato e straziato non doveva più affrontarlo da sola, che era necessario formare un'alleanza e che Theremon, leale, sincero e perfino un po' rude, forte, determinato e fidato, era l'alleato di cui aveva bisogno e che voleva. E così si era concessa, alla fine, senza esitazioni e senza rimpianti. Che buffo, pensò: c'era voluta la fine del mondo per farla innamorare! Ma le restava questo, almeno. Tutto il resto era andato perso, ma almeno era innamorata! "Guarda," disse puntando un dito. «Un cartello stradale." Era un triangolo verde di metallo, appeso con una strana angolazione a un lampione, con la superficie annerita da macchie di fumo. In tre o quattro punti si distinguevano dei fori di pallottole. Ma le lettere di color giallo vivo erano ancora leggibili: GRANDE AUTOSTRADA MERIDIONALE, e una freccia indicava di andare avanti. «Ormai non dovrebbero mancare più di due chilometri," disse Theremon. "Credo che ce la faremo a raggiungerla prima..." Ci fu un sibilo improvviso, poi un forte rumore metallico che risuonò con assordante clamore. Siferra si coprì le orecchie con le mani. Un secondo dopo senti Theremon che la prendeva per il braccio e la buttava a terra. «Stai giù!» le sussurrò bruscamente. "Ci stanno sparando addosso!» «Chi? Da dove?» Theremon impugnò la sua pistola. Siferra lo imitò. Alzò gli occhi e vide che il proiettile aveva colpito il segnale stradale: era comparso un ulteriore foro fra le prime due parole e aveva cancellato diverse lettere. Tenendosi sempre chino, Theremon si avviò di corsa verso l'angolo dell'edificio più vicino.
Siferra lo seguì, sentendosi incredibilmente scoperta. Era peggio che mostrarsi nuda ad Altinol e alla Pattuglia antincendio: cento volte peggio. Potevano spararle addosso nuovamente in qualsiasi momento, da qualunque direzione, e non poteva proteggersi in alcun modo. Neanche quando riuscì a raggiungere l'angolo dell'edificio si sentì al sicuro. Nel vicolo si strinse forte a Theremon, respirando a fatica, con il cuore che le batteva forte. Theremon le indicò una serie di case bruciate sull'altro lato della strada. Due o tre di esse, più oltre, erano intatte. In quel momento vide anche dei volti torvi nell'ombra, che facevano capolíno da una finestra del primo piano dell'ultima casa. "C'è gente là dentro. Scommetto che alcuni pazzi l'hanno occupata. "Li ho visti." "Non sono intimoriti dai fazzoletti della pattuglia. Forse non sanno neanche cos'è la pattuglia, lontani come sono dalla città. O forse invece ci hanno sparato proprio perché portiamo quei fazzoletti." "Pensi che sia possibile?" "Tutto è possibile." Theremon si sporse in fuori. "Mi chiedo se volevano davvero colpirci ma abbiano sbagliato mira o se invece cercavano soltanto di spaventarci. Se volevano spararci e sono riusciti solo a colpire il segnale stradale, allora possiamo anche cercare di andarcene di corsa. Ma se si trattava invece di un avvertimento..." "Ho l'impressione che fosse un ammonimento. E’ difficile che un colpo sparato casualmente vada a colpire proprio un segnale stradale. Troppo improbabile." "Hai ragione," disse Theremon. Aggrottò le sopracciglia. "Penso che dovremmo far loro sapere che siamo armati. Se non altro per evitare che qualcuno esca di soppiatto da una di quelle case e cerchi di attaccarci alle spalle.» Abbassò lo sguardo sulla sua pistola, la regolò al massimo dell'apertura e della distanza. Poi la sollevò e fece partire un colpo. Un raggio di luce rossa sfrecciò nell'aria, sibilando, e andò a colpire il terreno proprio davanti alla casa, dalle cui finestre eranO spuntate delle facce. Sul prato, da una macchia scura di bruciato si alzavano spire di fumo. "Credi che se ne siano accorti?" chiese Siferra. "Sì, a meno che non siano talmente pazzi da non rendersi conto più di niente. Ma scommetto che se ne sono accorti. E che non ne sono entusiasti." Videro ricomparire dei visi alle finestre. "Stai giù," la ammonì Theremon. "Ho visto che hanno un fucile da caccia molto potente." Si sentì un altro sibilo e un altro rumore assordante. Il cartello stradale, colpito in pieno, si schiantò a terra. "Saranno anche pazzi," disse Siferra, "ma hanno una mira dannatamente buona." "Troppo buona. Stavano solo giocando con noi quando hanno sparato il primo colpo. Si divertivano alle nostre spalle. Adesso sappiamo che se mettiamo il naso fuori di qui, ci fanno a pezzi. Ci hanno preso in trappola e se la stanno spassando." "Non possiamo svignarcela uscendo dalla parte opposta di questo vicolo?» "E’ pieno di macerie da quella parte. E per quel che ne sappiamo, potrebbero essercene altri che ci stanno aspettando.» "E allora cosa facciamo?» "Diamo fuoco a quella casa," disse Theremon. "La buttiamo giù. E li uccidiamo se sono talmente pazzi da non arrendersi." Siferra spalancò gli occhi. "Intendi ucciderli?" "Se non avremo scelta, sì. Li ucciderò. Vuoi andare ad Amgando o preferisci passare il resto dei tuoi giorni in questo vicolo?” "Ma non puoi uccidere della gente anche se tu... anche se loro...” Non riuscì a finire la frase.
Non sapeva neanche lei cosa stesse cercando di dire. "Anche se cercano di ucciderti, Siferra? Anche se pensano che sia divertente farti passare un paio di proiettili a pochi centimetri dalle orecchie?" Siferra non rispose. Credeva di avere iniziato a comprendere come andavano le cose in quel nuovo e mostruoso mondo postnotturno; ma non aveva capito niente, assolutamente niente. Theremon si era sporto nuovamente dall'angolo della casa. Stava puntando la pistola. Il raggio incandescente di luce colpi la facciata bianca della casa dall'altra parte della strada. Immediatamente il legno iniziò ad annerirsi. Spuntarono piccole lingue di fuoco. Fece partire una serie di colpi e riuscì ad appiccare il fuoco alla facciata dell'edificio; si fermò un istante, poi sparò di nuovo, tracciando una seconda linea di fuoco sotto la prima. «Dammi la tua pistola," disse. "La mia è surriscaldata.» Siferra gli porse la propria arma. Theremon la regolò e sparò una terza serie di colpi. Un'intera parte della facciata aveva ormai preso fuoco. Theremon continuò a sparare, dirigendo il raggio verso l'interno dell'edificio. Non molto tempo prima, pensò Siferra, quella casa di legno bianco era appartenuta a qualcuno. Ci viveva della gente, una famiglia orgogliosa della propria abitazione, del proprio quartiere; persone che curavano il prato, inaffiavano le piante, giocavano con i gattini, invitavano gli amici alle feste, sedevano sulla veranda con un bicchiere in mano a guardare i soli che si muovevano nel cielo della sera. Ora tutto ciò non esisteva più. Theremon era sdraiato per terra in un vicolo cosparso di cenere e macerie, cercando di appiccare il fuoco a quella casa con metodo e determinazione. Era l'unico modo per uscire sani e salvi da quella strada e continuare il cammino verso il parco di Amgando. Sì, quel mondo era un incubo. In quel momento una colonna di fumo si levava dall'interno della casa. L'intero lato destro della facciata era in fiamme. C'era gente che si stava buttando dalle finestre del secondo piano. Tre, quattro, cinque persone che tossivano, semisoffocate. Due donne, tre uomini. Caddero sul prato e rimasero lì per un istante, come inebetiti. I loro abiti erano laceri e sporchi, i capelli scarmigliati. Dei pazzi. Non erano mai stati così prima che scendesse la Notte; ma ora facevano parte di quell'orda di persone dagli occhi stravolti e dall'aria impacciata che si aggirava senza meta; la loro mente era rimasta sconvolta, forse per sempre, dall'improvvisa, stupefacente esplosione di luce accecante che le Stelle avevano scagliato su di loro, cogliendo i loro sensi alla sprovvista. “In piedi!» gridò loro Theremon. «Mani in alto! Subito! Forza, alzatevi!» Uscì allo scoperto, tenendo in mano entrambe le pistole. Siferra lo seguì. La casa era invasa dal fumo nero e fra quella scura coltre si levavano da ogni parte grandi fiammate improvvise, che guizzavano come stendardi scarlatti. C'era ancora gente intrappolata lì dentro? Chi poteva dirlo? Aveva forse importanza? «Tutti in fila, forza!» ordinò Theremon. «Avanti! Fronte a sinistra!" Eseguivano gli ordini a fatica. Un uomo era un po' troppo lento e Theremon mandò un raggio della sua pistola a sfiorargli la guancia per costringerlo a obbedire. «E adesso cominciate a correre da quella parte! Forza! Più veloce!” Più veloce!» Un lato della casa crollò con un terribile fragore, mettendo allo scoperto stanze, armadi, mobili, come quando si apre una casa per le bambole. Era tutto in fiamme.
I pazzi avevano ormai raggiunto l'angolo della strada. Theremon continuò a sparare qualche colpo verso di loro per costringerli a correre, mirando alle caviglie. Poi si voltò verso Siferra. «Bene! E ora andiamocene!» Riposero le pistole nella fondina e corsero via nella direzione opposta, verso la Grande Autostrada Meridionale. «E se fossero usciti sparando?» chiese più tardi Siferra, quando attraversando un campo si stavano dirigendo all'imbocco dell'autostrada davanti a loro. «Avevi davvero intenzione di ucciderli, Theremon?» La guardò in modo duro e severo. «Se fosse stato l'unico modo che avevamo per uscire da quel vicolo? Certo che l'avrei fatto. Non avevamo scelta. Che altro potevo fare?" «Niente, credo," disse Siferra con un filo di voce. L'immagine della casa bruciata ossessionava ancora la sua mente. Insieme alla vista di quella gente lacera e malmessa che correva giù per la strada. Ma erano stati loro i primi a sparare, si disse. Erano stati loro a incominciare. Chissà cosa avrebbero fatto se Theremon non avesse appiccato il fuoco alla casa. La casa... La casa di qualcuno... La casa di nessuno, si corresse. «Ci siamo,» disse Theremon. «Ecco la Grande Autostrada Meridionale. Cinque ore comode di guida fino ad Amgando. PotremmO arrivarci per cena.» «Se avessimo un'auto,» disse Siferra. «Ma non l'abbiamo,» replicò Theremon. 39 Nonostante tutto ciò a cui aveva assistito prima di arrivare fin là, Theremon non era preparato allo spettacolo che vide sulla Grande Autostrada Meridionale. Sembrava di essere finiti nel peggior incubo di un assessore alla viabilità. Attraversando i sobborghi meridionali, Theremon e Siferra avevano trovato ovunque delle auto abbandonate lungo la strada. Senza dubbio molti guidatori, presi dal panico nel momento in cui erano apparse le Stelle, avevano fermato le loro auto ed erano fuggiti a piedi, sperando di trovare un posto dove ripararsi dalla straripante e orrenda luce che improvvisamente aveva iniziato a diffondersi dal cielo. Ma le macchine vuote, disseminate lungo le strade di quei tranquilli quartieri residenziali della città che lui e Siferra avevano finora attraversato, erano sparse in modo casuale, relativamente lontane le une dalle altre. Al momento dell'eclissi, in quelle zone non doveva esserci molto traffico, dato che il giorno lavorativo era già terminato. La Grande Autostrada Meridionale, invece - piena di pendolari che tornavano nelle loro città doveva essersi trasformata in un vero e proprio manicomio nel momento in cui il disastro si era abbattuto sul mondo. "Guarda!" mormorò Theremon, atterrito. "Guarda, Siferra!" Siferra scosse il capo. Non credeva ai suoi occhi. "Incredibile. Incredibile." C'erano automobili ovunque: mucchi di veicoli, gruppi di macchine in un ammasso caotico, anche due o tre auto una sopra l'altra. L'ampia carreggiata era quasi completamente bloccata da un muro di rottami praticamente insormontabile. Le auto erano girate in ogni direzione. Alcune erano rovesciate. Molte erano solo carcasse bruciate.
Lucenti pozze di carburante risplendevano come laghetti cristallini. Strísce di vetri frantumati davano al fondo stradale un luccichio sinistro. Automobili spente, come i loro guidatori. Era lo spettacolo più orrendo che avessero visto fino a quel momento. Un immenso esercito di morti si stendeva davanti a loro. C'erano cadaveri afflosciati sul volante della propria auto, cadaveri incastrati fra veicoli che erano finiti gli uni contro gli altri, cadaveri bloccati sotto le ruote delle macchine. E una miriade di cadaveri sparsi come bambole miseramente abbandonate lungo il ciglio della strada, i loro arti irrigiditi nella grottesca espressione della morte. "Probabilmente alcuni di loro si sono fermati non appena hanno visto le Stelle," disse Siferra. "Ma altri hanno accelerato, cercando di uscire dall'autostrada e raggiungere le loro case, e sono finiti addosso alle auto ferme. E altri ancora erano talmente agitati da dimenticare completamente come si guida... guarda quelle macchine che sono finite fuori strada laggiù... e questa che deve aver fatto un'inversione di marcia e si è trovata di fronte le auto che la seguivano..." Theremon rabbrividì. "Uno scontro colossale. Deve essere stato orribile. Auto che si urtavano violentemente da ogni parte. Testa-coda, inversioni, voli nelle corsie opposte. Gente che usciva dalle macchine in cerca di un riparo e veniva investita dalle auto che sopraggiungevano. Tutti impazziti, in cento modi diversi, ma tutti impazziti." Rise con amarezza. "Come puoi ridere difronte a uno spettacolo del genere?" disse Siferra, sorpresa. "Rido della mia stupidità. Sai, Siferra, mezz'ora fa, mentre ci avvicinavamo all'autostrada, mi era venuta un'idea incredibile: pensavo che avremmo potuto prendere un'auto che qualcuno aveva abbandonato, che l'avremmo trovata piena di benzina e in ottime condizioni e che saremmo arrivati tranquillamente ad Amgando. Comodo, non credi? Non mi era venuto in mente che la strada potesse essere completamente bloccata, che anche se fossimo stati abbastanza fortunati da trovare una macchina, non avremmo potuto percorrere neanche cinquanta metri." «Sarà già difficile camminare lungo la strada, nello stato in cui si trova." «Sì, ma dobbiamo farlo.» Accigliati, iniziarono il loro lungo viaggio verso sud. Sotto la calda luce di Onos del primo pomeriggio, cominciarono a camminare tra quel vero e proprio carnaio, arrampicandosi sopra le lamiere contorte e distrutte delle auto, sforzandosi di ignorare i corpi carbonizzati o mutilati, le pozze di sangue rappreso, l'orrore che li circondava. In breve tempo, Theremon si accorse di essere diventato completamente indifferente a quello scenario. Forse era un orrore ancora maggiore, ma aveva semplicemente smesso di vedere il massacro, gli occhi sbarrati dei cadaveri, le dimensioni del disastro. Arrampicarsi su mucchi enormi di macchine distrutte e strisciare sotto masse pericolosamente sporgenti di metallo tagliente, era talmente impegnativo da richiedere la massima concentrazione e così, dopo breve tempo, smise di fare caso alle vittime del disastro. Theremon sapeva già che non aveva senso cercare dei sopravvissuti. Chiunque fosse rimasto intrappolato fra i rottami, ormai, dopo tutti i giorni trascorsi, sarebbe certamente morto. Anche Siferra sembrava essersi abituata in fretta all'orrendo scenario della Grande Autostrada Meridionale. Senza dire una parola, si faceva strada fra i rottami al fianco di Theremon, a volte fermandosi per indicargli un passaggio nel groviglio delle auto, altre volte strisciando sulle mani e sulle ginocchia sotto qualche grosso pezzo di lamiera accartocciata. Erano le uniche persone vive lungo quella strada.
Di tanto in tanto avvistavano qualcuno che andava verso sud a piedi, molto più avanti di loro, o che veniva in direzione opposta, verso Saro, dall'altro lato della strada, ma non incontrarono mai nessuno. Gli altri viaggiatori si sottraevano alla loro vista, chinandosi rapidamente e perdendosi fra i rottami. Se erano davanti a loro, iniziavano a correre disperatamente a un'andatura che tradiva una paura terribile, sparendo in lontananza. Di cosa hanno paura? si chiedeva Theremon. Pensano forse che vogliamo assalirli? Ormai tutti hanno paura di tutti, tutti sono pronti a fare del male. Poco dopo essere partiti, videro un uomo dall'aria sudicia passare di macchina in macchina, frugare nelle tasche dei morti e spogliare i cadaveri di ciò che possedevano. Aveva un grande sacco sulla schiena, talmente pesante da farlo barcollare. Theremon lanciò una bestemmia ed estrasse la pistola. «Guarda quello sporco sciacallo! Guardalo!" «No, Theremon!» Siferra gli urtò il braccio proprio mentre Theremon faceva partire un colpo in direzione del ladro; il raggio colpì una macchina vicina e per un attimo ci fu un accecante bagliore. «Perché l'hai fatto?» chiese Theremon. «Volevo solo impaurirlo.» «Credevo... che tu...» Theremon scosse il capo con aria tetra. «No,» disse. «Non ancora, almeno. Guarda come scappa!» Al rumore dello sparo, il ladro si era voltato e aveva fissato Theremon e Siferra con stupore. Aveva gli occhi vitrei; la bava gli scendeva dalle labbra. Rimase a fissarli per un po', poi, lasciando cadere il suo bottino, fuggì via arrampicandosi in modo folle e disperato sulle macchine. In breve non lo videro più. Proseguirono. Avanzavano lentamente, a fatica. Gli alti cartelli stradali in cima a lucenti aste di ferro si prendevano gioco del loro penoso viaggio, ricordando quanta poca strada erano riusciti a fare. quando Onos tramontò, scoprirono di aver percorso solo un paio di chilometri. «Di questo passo,» disse tristemente Theremon, «impiegheremo un anno per arrivare ad Amgando.» «Andremo più in fretta quando ci avremo fatto l'abitudine,» disse Siferra senza troppa convinzione. Se invece di percorrere l'autostrada avessero potuto seguire un percorso parallelo, le cose sarebbero andate meglio; ma questo era impossibile. La Grande Autostrada Meridionale era una strada soprelevata sorretta da enormi piloni. Passava sopra tratti di bosco, paludi e qualche zona industriale. In alcuni punti si trasformava in un ponte, sopra rupi scoscese o laghi e fiumi. Per molti tratti furono costretti a percorrere quella che un tempo era stata la banchina spartitrafflco, perché le corsie erano bloccate da una massa informe di rottami. Finché fu possibile, camminarono lungo il ciglio della strada poiché vi erano meno macchine. Si guardarono attorno e videro che il caos continuava ovunque. Case bruciate. Incendi che ancora infuriavano fino all'orizzonte, nonostante i giorni trascorsi. Piccoli gruppi di fuggiaschi laceri, dall'aria inebetita e sconvolta, avanzavano a fatica nelle strade disseminate di macerie, diretti senza speranza verso una meta sconosciuta. A volte avvistavano dei gruppi più numerosi, di un centinaío di persone, accampati in aperta campagna, tutti ammassati in modo desolato, come se fossero paralizzati e potessero muoversi a malapena, come se la loro forza di volontà e la loro energia fossero allo stremo. Siferra indicò una chiesa bruciata sulla cima di una collina, proprio a fianco dell'autostrada. Un gruppetto di persone con gli abiti a brandelli si stava arrampicando fra le macerie delle mura, scegliendo i massi più grossi, sollevandoli con l'aiuto di sbarre di ferro e poi gettandoli all'interno della chiesa.
"Sembra la stiano demolendo," disse. "Perché lo fanno?" "Perché odiano glí dei," rispose Theremon. "Danno loro la colpa di ciò che è successo. Conosci il Pantheon, la grande Cattedrale di Ognidei che si trovava ai margini della foresta, con i famosi dipinti murali di Thamilandi? L'ho visto un paio di giorni dopo la discesa della Notte. L'avevano dato alle fiamme: non c'era più nulla, solo macerie, distruzioni, e un prete semisvenuto che sbucava da un mucchio di mattoni. Solo ora capisco che non è bruciato per caso. Il fuoco è stato appiccato deliberatamente. E il prete... un pazzo l'ha ucciso proprio sotto i miei occhi, e io ho pensato che l'avesse fatto per rubargli i paramenti sacri. Forse no. Forse l'ha fatto semplicemente perché lo odiava." "Ma non sono stati i preti..." "Ti sei già scordata degli apostoli? Di Mondior che ha ripetuto per mesi e mesi che ciò che stava per accadere era la vendetta degli dei? I preti sono la voce degli dei, non è così, Siferra? E se i preti ci hanno spinto a compiere il male, dato che siamo stati puniti in modo così atroce, allora sono loro i responsabili della venuta delle Stelle. O almeno così pensa la gente." "Gli apostoli!" disse Siferra con voce cupa. "Quanto vorrei averli dimenticati! Cosa credi che stiano facendo adesso?" "Immagino che se ne siano rimasti al sicuro nella loro torre per tutto il tempo dell'eclissi." "Sì, devono aver superato la Notte senza problemi, preparati com'erano all'evento. Cos'ha detto Altinol? Che avevano già instaurato un governo nella zona nord di Saro?" Theremon fissava tristemente la chiesa devastata vicino all'au tostrada. Con voce priva di espressione disse: "Posso immaginare che tipo di governo sarà. Imporranno la virtù di Stato. Mondiol proclamerà nuovi comandamenti sulla morale pubblica ogni Onosdì. Tutti i divertimenti saranno proibiti. Esecuzioni pubbliche settimanali dei peccatori." Sputò per terra. "Per il Buio! E pensare che quella sera avevo Folimun fra le mani e l'ho lasciato andare, quando avrei potuto tranquillamente strangolarlo… " “Theremon!” "Lo so, lo so. Cosa sarebbe cambiato? Un apostolo in più o in meno che differenza fa? Che viva pure! Che costituiscano un loro governo, e dicano a tutti quelli che sono così sfortunati da vivere nella zona nord di Saro cosa devono fare e pensare. Cosa ci importa? Noi siamo diretti a sud, no? Quello che fanno gli apostoli non ci riguarda. Non appena le cose si saranno calmate, il loro sarà solo uno dei cinquanta governi rivoltosi. Forse uno dei cinquemila governi. Ogni distretto avrà il suo dittatore, il suo imperatore." La voce di Theremon si incupì di colpo. "Oh, Siferra, Siferra..." Lei lo prese per mano. Con dolcezza, gli disse: "Continui a sentirti responsabile, vero?" "Come hai fatto a capirlo?" "Quando ti vedo così nervoso, so cosa pensi. Theremon, te l'ho già detto, non devi sentirti colpevole. Sarebbe accaduto lo stesso, qualunque cosa avessi scritto sul giornale. Una persona sola non poteva cambiare nulla. Il mondo era condannato, non si poteva fare niente, non..." "Condannato?" la interruppe Theremon. "E’ strano sentirti dire queste parole! Sono gli dei che ci hanno condannato, non è questo che vuoi dire?" "Non ho parlato di dei. Volevo soltanto dire che Kalgash Due Si sarebbe comunque avvicinata a noi, non perché così volevano gli dei, ma semplicemente per una legge astronomica, e che l'eclissi sarebbe comunque avvenuta, e così la Notte e le Stelle " "Sì," disse Theremon, perso nei propri pensieri. "Credo di sì." Continuarono a camminare lungo un tratto di strada in cui si trovavano solo poche macchine. Onos era tramontato e i soli della sera erano alti in cielo: Sitha, Tano e Dovim. Un vento gelido spirava da ovest.
Theremon sentì gli stimoli della fame dentro di sé. Durante il giorno non avevano perso tempo a mangiare. Ora si fermarono, si accamparono fra due macchine accartocciate e aprirono delle confezioni di cibo liofflizzato che avevano portato con sé dal rifugio. Ma per quanto sentisse i morsi della fame, Theremon scoprì di non avere appetito, e ingoiò controvoglia il cibo, boccone dopo boccone. I volti irrigiditi dei cadaveri lo fissavano dalle macchine vicine. Mentre camminava era riuscito a ignorarli, ma in quel momento, seduto su ciò che un tempo era stata la più grande autostrada della provincia di Saro, non riusciva a comportarsi come se non ci fossero. In alcuni momenti gli sembrava di essere stato lui a ucciderli tutti. Si fecero un letto con dei sedili che erano volati via dopo uno scontro fra due auto e dormirono vicini, un sonno disturbato, inquieto, come se avessero tentato di dormire sull'asfalto duro della strada. Durante la sera sentirono grida, risate roche, canti che venivano da lontano. A un certo punto Theremon si svegliò, si sporse a guardare oltre il margine dell'autostrada soprelevata e vide in lontananza, sotto di sé, dei fuochi in un prato, a una ventina di minuti di marcia verso est. Non c'era più nessuno che dormiva sotto un tetto? Forse l'impatto delle Stelle era stato tale che tutta la popolazione del mondo aveva abbandonato le proprie case e si era accampata all'aperto, come avevano fatto lui e Siferra, sotto la luce familiare dei soli eterni? Era quasi l'alba quando finalmente prese sonno. Ma si era appena addormentato che sorse Onos, a est, roseo e poi dorato, e lo risvegliò a metà di un incubo di cui ricordava solo alcuni frammenti. Siferra era già sveglia. Aveva il viso pallido, gli occhi gonfi e arrossati. Abbozzò un sorriso. «Sei bellissima,» le disse. «Oh, questo è niente,» rispose Siferra. «Vedrai quando non mi laverò da due settimane.» «Ma io...» «So cosa volevi dire,» lo interruppe Siferra. «Almeno credo.» Quel giorno percorsero quattro chilometri, ma più andavano avanti più la stanchezza si faceva sentire. «Abbiamo bisogno d'acqua,» disse Siferra mentre il vento pomeridiano si stava alzando. «Dobbiamo uscire alla prossima rampa che incontriamo e cercare una fonte.» «Sì,» rispose Theremon. "Credo proprio di sì." Theremon non desiderava lasciare l'autostrada. Da quando l'avevano trovata, non avevano incontrato praticamente nessuno; e ormai, stranamente, si sentiva abbastanza a suo agio in mezzo a quell'intrico di veicoli ridotti a rottami. Laggiù, fra i campi dove si muovevano bande di fuggiaschi... buffo, pensò, continuo a chiamarli fuggiaschi come se io invece mi stessi soltanto prendendo una vacanza... non poteva sapere a che cosa sarebbe andato incontro. Ma Siferra aveva ragione. Dovevano lasciare l'autostrada e andare in cerca d'acqua. La riserva che avevano portato con sé era quasi esaurita. Prima di riprendere il cammino verso Amgando, avevano forse bisogno di stare per qualche tempo lontani da quell'infernale, infinita schiera di auto demolite e di cadaveri dallo sguardo fisso. Indicò un segnale a poca distanza da loro. "Mezzo chilometro alla prossima uscita.» «Dovremmo essere lì tra un'ora.» "Anche meno,» disse Theremon. "Più avanti, la strada sembra abbastanza libera. Usciremo dall'autostrada e ci procureremo ciò di cui abbiamo bisogno il più rapidamente possibile; poi sarà meglio tornare a riposare qui. E’ senz'altro più sicuro dormire nascosti fra queste macchine che sfidare la sorte in aperta campagna.» A Siferra parve un ragionamento logico. In quel tratto di strada, che era piuttosto sgombro, procedettero rapidamente verso l'uscita successiva, camminando molto più in fretta che in ogni altro tratto precedente.
In breve arrivarono al segnale stradale che indicava 250 metri all'uscita. Ma qui la loro rapida andatura fu bruscamente interrotta. Trovarono la strada bloccata da un'immensa catasta di macchine distrutte, tanto che Theremon per un momento temette che non sarebbero riusciti ad andare oltre. Doveva esserci stata una serie di terribili incidenti in quel punto, qualcosa di ancor più orrendo di quanto Theremon e Siferra avevano visto nei giorni precedenti. Due enormi autocarri erano in mezzo al mucchio di auto, bloccati l'uno contro l'altro come due bellicose bestie della giungla; e sembrava che decine e decine di auto si fossero schiantate contro di essi, capovolgendosi nell'impatto, finendo addosso alle auto che li seguivano, creando una gigantesca barriera che si estendeva lungo entrambi i lati della strada e perfino oltre il guardrail. Portiere e paraurti contorti, taglienti come lame, spuntavano dappertutto, e distese di vetri infranti tintinnavano sinistramente quando il vento li sfiorava. "Da questa parte," disse Theremon "Mi sembra che si possa passare… fra queste macchine, poi oltre quel camion sulla sinistra… no, no, è impossibile, dovremo passare sotto… " Siferra gli si avvicinò. Theremon le mostrò qual era il problema - dietro il camion c'era un mucchio di auto capovolte che sembrava un prato pieno di lame affilate - e lei annui. Dovettero quindi passare sotto il camion, avanzando lentamente, a fatica, insudiciandosi completamente, strisciando fra frammenti di vetro e pozze di carburante vischioso. A metà strada, prima di proseguire verso il lato opposto del mucchio di auto, si fermarono a riposarsi. Theremon fu il primo a uscire dall'altra parte. "Per gli dei!" mormorò, fissando stupefatto la scena che trovò davanti. "E adesso?" Dall'altra parte della grande massa di rottami, la strada era sgombra per una quindicina di metri. Ma oltre il tratto libero si levava un altro blocco di macchine che occupava l'intera carreggiata. Questo, però, sembrava innalzato deliberatamente: una pila di portiere e di gomme ammucchiate con cura sulla corsia, fino a un'altezza di due o tre metri. Davanti a quella barricata, Theremon vide una ventina di persone che si erano accampate sull'autostrada. Si era talmente concentrato nel tentativo di farsi strada tra il groviglio di rottami, che non aveva fatto attenzione a nient'altro, e così non aveva neppure sentito i rumori che venivano dall'altra parte della strada. Siferra arrivò strisciando vicino a lui. La sentì respirare affannosamente per la paura. "Tienti pronta con la pistola," le disse Theremon sottovoce. "Ma non estrarla e non cercare nemmeno di usarla. Sono troppi." Alcuni di quegli uomini stavano avanzando lentamente verso di loro, sei o sette tipi muscolosi. Theremon, immobile, li guardò avvicinarsi. Sapeva che era impossibile evitare l'incontro; non c'era speranza di fuggire tornando in quell'intrico di lamiere taglienti che avevano appena oltrepassato. Erano intrappolati in quel tratto sgombro fra due mucchi di auto. Non potevano fare altro che aspettare e vedere cosa sarebbe successo, e sperare che si trattasse di gente abbastanza in sé. Un uomo alto, dalle spalle curve e gli occhi gelidi, si avvicinò lentamente a Theremon, finché non gli si trovò praticamente addosso, e disse: "Bene, gente. Questo è un centro di controllo.” E sottolineò la parola controllo. "Un centro di controllo?" ripeté Theremon senza mostrarsi intimorito. "E cosa dovete controllare?" "Non fare il furbo con noi o ti buttiamo a testa in giù dall'autostrada. Sai perfettamente cosa dobbiamo controllare. Non crearci problemi.” Fece un gesto agli altri che si avvicinarono per perquisire Theremon e Siferra. Con rabbia, Theremon allontanò le loro mani. "Lasciateci passare," disse risolutamente. "Nessuno può passare senza prima essere perquisito.” "In nome di quale autorità?" "La mia. O ci lasciate fare o saremo costretti a perquisirvi con la forza!" "Theremon… " mormorò Siferra, inquieta. Theremon scosse il capo. Si sentì invadere dalla rabbia.
La ragione gli diceva che era una follia cercare di opporsi, che i loro avversari erano molto più numerosi, che l'uomo grosso non stava scherzando quando diceva che avrebbero avuto dei guai se rifiutavano di farsi perquisire. Quegli individui non sembravano banditi. L'uomo alto parlava in tono quasi ufficiale, come se presidiasse una sorta di stazione di frontiera, una dogana o qualcosa del genere. Cosa dovevano controllare? Se avevano con sé del cibo? Delle armi? Avrebbero preso le loro armi? Meglio consegnare loro tutto quello che abbiamo, disse Theremon tra sé, piuttosto che essere uccisi nello sciocco tentativo di rivendicare la nostra libertà d movimento. Eppure... essere trattato con tanta rudezza... essere costretto obbedire in questo modo su una strada pubblica. E non potevano permettersi di consegnare le armi, e neanche le loro riserve di cibo. Mancavano ancora centinaia di chilometri per raggiungere Amgando. "Vi avverto..." iniziò l'uomo alto. «Sono io che vi avverto di tenere giù le mani. Sono un cittadino della Repubblica Federale di Saro e questa è ancora una strada aperta a tutti, nonostante quello che è accaduto. Non avete alcuna autorità su di me.» «Sembra un professore," disse uno degli altri uomini, ridendo. «Con tutti questi bei discorsi sui suoi diritti." L'uomo alto scrollò le spalle. «Abbiamo già il nostro professore qui. Non ce ne servono altri. E ora basta con le chiacchiere. Prendeteli e perquisiteli. Da capo a piedi." «Lasciatemi... andare..." Una mano afferrò il braccio di Theremon, che immediatamente reagì colpendo qualcuno con un pugno fra le costole. Era una scena che gli sembrava di aver già vissuto: un'altra rissa, un altro pestaggio. Ma decise di battersi fino alla fine. Un attimo dopo qualcuno lo colpì in faccia e un altro lo prese per il braccio, e sentì Siferra gridare, piena di rabbia e di paura. Cercò di liberarsi, colpì nuovamente qualcuno, fu colpito ancora, si chinò, si divincolò, prese un pugno in piena faccia... "Ehi! Aspettate un attimo!" disse qualcuno che stava arrivando. «Fermi! Butella, lascia stare quell'uomo! Fridnor! Talpin! Lasciatelo andare!» Era una voce familiare. Ma chi era? Gli uomini si ritrassero. Theremon, barcollando, cercò di reggersi in piedi e vedere chi stava arrivando. Era un uomo che gli sorrideva, snello, muscoloso, dall'aria intelligente, con occhi penetranti e luminosi che risaltavano sul viso annerito dallo sporco... Era qualcuno che conosceva, sì. «Beenay!» "Theremon! Siferra!» 40 In un attimo la situazione si capovolse. Beenay condusse Theremon e Siferra in un posticino sorprendentemente accogliente, sul lato opposto del blocco stradale: cuscini, tende, una pila di scatole di metallo che sembravano piene di cibo. Una donna giovane e magra era distesa lì dentro, con la gamba sinistra bendata. Aveva un aspetto debole e febbricitante, ma sorrise languidamente quando li vide entrare. "Ti ricordi di Raissta 717, vero, Theremon?» disse Beenay. «Raissta, questa è Siferra 89 del dipartimento di archeologia. Ti ho già parlato di lei e della sua scoperta di quelle antiche città incendiate. Raissta è la mia ragazza,» disse a Siferra.
Theremon aveva visto qualche volta Raissta negli ultimi due o tre anni, da quando era diventato amico di Beenay. Ma questo era accaduto in un'altra epoca, in un mondo che ormai era morto e sepolto. Ora riusciva a malapena a riconoscerla. RiCordava che era una donna snella, graziosa, sempre truccata e vestita con gusto e precisione. Ma ora... ora! Questa ragazza sparuta, fragile, disfatta, questo spettro scarmigliato dagli occhi infossati non poteva essere quella Raissta che aveva conosciuto un tempo! Erano davvero passate solo poche settimane dalla discesa della Notte? All'improvviso gli sembrò che fossero trascorsi degli anni. Dei secoli, delle ere geologiche... «Ho un po' di brandy se ti va, Theremon," fece Beenay. Gli occhi di Theremon si spalancarono. "Sul serio? Lo sai da quanto tempo non bevo qualcosa di buono? Non è buffo, Beenay? Tu, l'astemio, che ho quasi costretto con la forza a bere il primo sorso di Tano Special, tieni nascosta l'ultima bottiglia di brandy al mondo!" "Siferra?" chiese Beenay. "Sì, grazie. Solo un po'." "Ne abbiamo davvero poco." Versò tre piccole dosi. Mentre il brandy iniziava a riscaldarlo, Theremon disse: "Beenay, cosa succede qui? Cos'è questa storia del centro di controllo?" "Vuoi dire che non sai niente del controllo?" "Assolutamente niente." "Ma dove sei stato dopo la discesa della Notte?" "Quasi sempre nella foresta. Poi Siferra mi ha trovato dopo che dei pazzi mi avevano picchiato e mi ha portato al rifugio dell'università per rimettermi in sesto. E negli ultimi giorni abbiamo camminato lungo questa autostrada, sperando di arrivare ad Amgando." "Allora sapete di Amgando?" "Per merito tuo, anche se non direttamente," rispose Theremon. "Ho incontrato per caso Sheerin nella foresta. Deve essere arrivato al rifugio subito dopo che voi ve ne siete andati e ha letto il tuo biglietto che parlava di Amgando. Lui me l'ha riferito e io l'ho detto a Siferra. Così ci siamo diretti laggiù.» "Con Sheerin?" chiese Beenay. "E dov'è adesso?" "Non è con noi. Ci siamo separati diversi giorni fa: Sheerin è partito per Amgando da solo e io sono rimasto a Saro a cercare Siferra. Non so che fine abbia fatto... Senti Beenay, potrei avere un altro goccio di quel brandy? Sempre se ti è possibile. Cosa mi stavi dicendo del centro di controllo?" Beenay versò a Theremon ancora un goccio di brandy. Guardò Siferra, che scosse il capo. Poi disse con inquietudine: "Se Sheerin stava viaggiando da solo, sarà di certo finito nei guai, e in guai seri. Certamente, da quando ci sono io non è passato di qui, e questa è l'unica via che si può prendere da Saro se si spera di raggiungere Amgando. Invieremo una squadra di ricognizione a cercarlo. In quanto al controllo, è una delle novità del momento. Questo è un centro di controllo ufficiale. Ce n'è uno all'inizio di ogni provincia lungo la Grande Autostrada Meridionale." "Ma siamo solo a pochi chilometri da Saro," ribatté Theremon. «Siamo ancora nella provincia di Saro, Beenay!" "Non più. Le vecchie amministrazioni locali sono state soppresse. Quel che resta di Saro è stato spartito; ho sentito che gli Apostoli della fiamma si sono impossessati di una grossa fetta della città, nella zona settentrionale, e che l'area intorno alla foresta e all'università è sotto il controllo di un tipo di nome Altinol, capo di un gruppo paramilitare che si chiama Pattuglia antincendio. Forse li avete incontrati." "Sono stata per qualche giorno un ufficiale della Pattuglia antincendio.
Questo fazzoletto verde che porto al collo è il loro segno ufficiale di riconoscimento," disse Siferra. "Allora sai già cos'è successo," fece Beenay. "Il vecchio sistema politico si è frantumato e milioni di piccole unità governative spuntano ovunque come funghi. Ora ci troviamo nella Provincia della Restaurazione. Si estende lungo l'autostrada per circa dieci chilometri. Dal prossimo centro di controllo, si passa nella Provincia dei Sei Soli. Più in là c'è Terradivina, poi Lucedelgiorno e poi... non me lo ricordo più. Comunque cambiano di giorno in giorno, man mano che la gente si sposta." "E il controllo?» insisté Theremon. "E’ la paranoia più in voga. Tutti hanno paura dei piromani. Sai chi sono? Pazzi che credono che quanto è successo quella Notte sia stato molto divertente. Se ne vanno in giro a bruciare ogni cosa. Ho saputo che un terzo di Saro è stato dato alle fiamme durante l'eclissi, perché la gente in preda al panico ha cercato in questo modo di allontanare le Stelle. Ma un altro terzo della città è stato distrutto in seguito, anche se le Stelle se n'erano andate. Una brutta storia, vero? E così la gente più o meno sana di mente - come questa che vive qui, nel caso ve lo stiate chiedendo - controlla che nessuno abbia niente con cui accendere un fuoco. E’ proibito possedere fiammiferi, o accendini, o pistole a raggi o altro che possa..." "La stessa cosa avviene ai margini della città," disse Siferra. “E’ di questo che si occupa la Pattuglia antincendio. Altinol e i suoi hanno stabilito che sono gli unici in tutta Saro ad avere il diritto di usare il fuoco." "E io sono stato assalito nella foresta mentre cercavo di accendere un fuoco per cucinare," disse Theremon. "Credo che fossero anche quelli dei controllori. Mi avrebbero ucciso a calci e a pugni, se Siferra e la sua pattuglia non fossero arrivati a salvarmi giusto in tempo, proprio come hai fatto tu adesso." “Non so esattamente chi ti abbia aggredito nella foresta," disse Beenay, "ma il controllo è ormai un rito diffuso per affrontare questo problema. Sta prendendo piede ovunque, tutti vengono perquisiti, nessuno escluso. Il sospetto è universale, non si può sfuggirgli. E’ come una febbre, una febbre di paura. Solo piccoli gruppi privilegiati, come la Pattuglia antincendio di Altinol, possono trasportare materiale combustibile. A ogni frontiera si devono consegnare alle autorità, qualunque esse siano in quel momento, tutti i materiali sospetti in proprio possesso. Faresti meglio a lasciare qui quelle pistole a raggi, Theremon. Non riuscirai mai a portarle fino ad Amgando." “Non riusciremo mai ad arrivarci senza di esse," disse Theremon. Beenay scrollò le spalle. «Forse sì, forse no. Ma non potrete evitare di consegnarle a qualche centro di controllo mentre proseguite verso sud. La prossima volta che cercheranno di perquisirvi, non ci sarò io a fermare la pattuglia." Theremon rifletté. “A proposito, come mai sei riuscito a farti obbedire da loro?» gli chiese. "Sei forse tu il capo dei controllori?" Ridendo, Beenay rispose: "Io, il capo dei controllori? Non credo proprio. Ma mi rispettano. Sono il loro professore ufficiale. Sapevate che in alcune zone la gente dell'università viene odiata? Ci sono dei gruppi di pazzi che uccidono i professori universitari appena li vedono, perché pensano che siano stati loro a provocare l'eclissi e che siano pronti a evocarne un'altra. Ma qui non è così. Qui sono considerato utile per la mia intelligenza: scrivo messaggi diplomatici per le province confinanti, so come riparare oggetti e macchinari fuori servizio, posso perfino spiegare perché il
Buio non tornerà e perché nessuno sarà più costretto a guardare le Stelle, per i prossimi duemila anni. Sono confortati quando sentono queste cose. Così mi sono aggregato a loro. Ci danno da mangiare e si prendono cura di Raissta, mentre io mi occupo di loro. E’ una buona relazione simbiotica." «Sheerin mi aveva detto che volevi andare ad Amgando,» disse Theremon. "Sì, era mia intenzione,» rispose Beenay. “E’ ad Amgando che dovrebbero essere persone come me e te. Ma Raissta e io abbiamo avuto dei guai lungo la strada. Ti ho già detto che ci sono dei pazzi che danno la caccia alla gente dell'università e cercano di ucciderla. Siamo stati quasi catturati da un gruppo del genere mentre ci dirigevamo a sud, attraversando i quartieri vicino all'autostrada. In tutta quella zona a sud della foresta, le case sono state occupate da gente pazza.» «Ci siamo imbattuti in alcuni di loro,» disse Theremon. «Allora conoscete già la situazione. Siamo stati circondati da un gruppo di pazzi. Dal modo in cui parlavamo, avevano capito che eravamo persone istruite, poi qualcuno mi ha riconosciuto... mi ha riconosciuto, Theremon, da una foto apparsa sul giornale, in uno dei tuoi articoli, una volta che mi avevi intervistato a proposito dell'eclissi. E ha cominciato a urlare che ero dell'osservatorio, che ero colui che aveva fatto comparire le Stelle.» Beenay fissò il vuoto per un attimo. «Ci è mancato poco che non finissimo appesi a un lampione, ne sono certo. Poi per fortuna sono stati distratti. E’ arrivata un'altra banda - loro rivale per motivi territoriali, credo - lanciando bottiglie, urlando, brandendo coltelli da cucina. Io e Raissta siamo riusciti a fuggire. Sono come bambini, quei pazzi: non riescono a concentrarsi a lungo su qualcosa. Ma mentre strisciavamo lungo un vicolo fra due palazzi distrutti dal fuoco, Raissta si è ferita a una gamba con un vetro. E quando, seguendo l'autostrada, siamo riusciti ad arrivare fin qui, la sua ferita era così infetta che non riusciva quasi più a camminare. «Ho capito.» Per questo ha un aspetto così orribile, pensò Theremon. «Per nostra fortuna, le guardie di confine della Provincia della Restaurazione avevano bisogno di un professore. Ci hanno accolto immediatamente. Siamo qui da una settimana, forse dieci giorni. Se tutto va bene, credo che Raissta potrà riprendere il viaggio fra un'altra settimana, o forse due. Allora mi farò firmare dal capo di questa provincia un passaporto che ci permetta di superare senza problemi almeno due delle province successive e ci dirigeremo verso Amgando. Se volete restare con noi fino a quel momento, siete i benvenuti, poi potremmo andarcene tutti insieme verso sud. Sarà certamente più sicuro viaggiare in quel modo... Mi cercavi, Butella?» L'uomo alto che poco prima aveva cercato di perquisire Theremon aveva infilato la testa fra le tende del rifugio di Beenay. «E’ appena arrivato un messaggero, professore. Ha portato delle notizie dalla città, passando per la Provincia Imperiale. Ma non riusciamo a capire cosa c'è scritto qui sopra.» "Fammi vedere," disse Beenay alzandosi e prendendo il foglio di carta piegato che l'uomo gli porgeva.
Rivolto verso Theremon disse: "I messaggeri vanno e vengono continuamente da una provincia all'altra. La Provincia Imperiale si trova a nordest dell'autostrada e si estende verso la città. La maggior parte dei controllori ha dei problemi con la lettura. La vista delle Stelle sembra aver danneggiato i loro centri verbali, o qualcosa del genere." Beenay tacque cercando di decifrare il messaggio. Si accigliò, increspò le labbra e mormorò qualcosa a proposito della calligrafia e dell'ortografia postnotturna. Poi, un attimo dopo, assunse un'espressione preoccupata. "Per gli dei!" gridò. "Di tutte le maledette, orribili e schifose..." La sua voce tremava. Lanciò uno sguardo sconvolto a Theremon. "Beenay! Che c'è?" Beenay disse in tono cupo: "Gli Apostoli della fiamma stanno venendo da questa parte. Hanno radunato un esercito e stanno marciando verso Amgando, spazzando via tutti i nuovi, piccoli governi locali che incontrano lungo la strada. E quando arriveranno ad Amgando distruggeranno la struttura governativa che sta nascendo laggiù e si proclameranno l'unica forza politica legalmente riconosciuta di tutta la repubblica." Theremon sentì le dita di Siferra che si stringevano sul suo braccio. Si voltò verso di lei e vide il terrore sul suo viso. Ma sapeva che anche lui non doveva avere un aspetto diverso. "Da... questa... parte..." ripeté lentamente. "Un esercito di apostoli." "Theremon, Siferra... dovete andarvene subito," disse Beenay. "Se sarete ancora qui quando arriveranno gli apostoli, tutto sarà perduto." "Vuoi che andiamo ad Amgando?" chiese Theremon. "Immediatamente. Senza perdere un istante. L'intera comunità universitaria che era nel rifugio si trova laggiù in questo momento, insieme a gente proveniente da altre università e a intellettuali arrivati da ogni parte della repubblica. Tu e Siferra dovete dire loro di disperdersi, prima possibile. Se saranno ancora ad Amgando quando arriveranno gli apostoli, Mondior avrà in mano con un colpo solo il nucleo di ogni eventuale governo legittimo che questo paese potrebbe avere in futuro. Forse arriverà perfino a ordinare di uccidere tutta la gente dell'università! Sentite, vi preparerò dei passaporti che vi permetteranno di superare senza problemi almeno due dei centri di controllo lungo l’autostrada. Ma quando sarete al di là della nostra zona d'influenza, lasciate pure che vi perquisiscano e prendano tutto ciò che vogliono e poi proseguite verso sud. Non potrete preoccuparvi di questioni secondarie, come opporvi alla perquisizione. Il gruppo di Amgando deve essere avvertito, Theremon!" "E tu? Haí intenzione di restare qui?" Beenay sembrava confuso. "Che altro posso fare?" "Ma quando arriveranno gli apostoli..." "Quando arriveranno gli apostoli, faranno di me ciò che voranno. Vuoi forse che abbandoni qui Raissta e fugga ad Amgando con voi?" "Ma... no..." "Allora non ho scelta. Giusto? Giusto? Resterò qui, insieme a Raissta. " Theremon cominciò ad avere mal di testa. Si premette le mani sugli occhi. "Non c'è altro modo, Theremon," disse Siferra. "Lo so. Lo so. Ma il pensiero che Mondior e la sua cricca prendano prigioniero un uomo valido come Beenay... che arrivino perfino a ucciderlo..." Beenay sorrise e posò per un istante la mano sul braccio di Theremon. "Chi lo sa? Forse Mondior vorrà tenere un paio di professori attorno a sé come animali domestici.
E comunque, il mio futuro non ha alcuna importanza adesso. Il mio posto è accanto a Raissta. Il vostro è sulla strada per Amgando. Dovete arrivarci il più in fretta possibile. Andiamo: vi farò preparare qualcosa da mangiare e vi darò dei documenti che sembreranno ufficiali. Poi partirete." Rimase in silenzio per un momento. «Prendi. Ne avrai bisogno." Versò il brandy che restava, non più di un dito ormai, nel bicchiere vuoto di Theremon. "Salute!" disse. 41 Al confine fra la Provincia della Restaurazione e quella dei Sei Soli, non ebbero problemi a superare il centro di controllo. Un ufficiale di frontiera, che probabilmente era stato un ragioniere o un avvocato in precedenza, lanciò una rapida occhiata al loro passaporto; annuì quando vide, in fondo al foglio, la firma appariscente di Beenay 25, e fece loro cenno di proseguire. Due giorni più tardi, quando passarono dalla Provincia dei Sei Soli alla Terradivina, non fu così semplice. La pattuglia alla frontiera assomigliava a una banda di tagliagole, che avrebbero potuto tranquillamente scaraventare Theremon e Siferra giù dall'autostrada soprelevata, invece che controllare i loro documenti. Ci fu un lungo istante d'inquietudine durante il quale Theremon continuò a sventolare il passaporto, quasi fosse stato una specie di bacchetta magica. Infine la magia sembrò più o meno funzionare. "Questa roba sarebbe un lasciapassare?" chiese il capo dei tagliagole. «Un passaporto, sì. Siamo esentati dalla perquisizione." "Per ordine di chi?" "Di Beenay 25. Sovrintendente capo al controllo della Provincia della Restaurazione. E’ la seconda provincia da qui, in direzione di Saro." "So dov'è questa provincia. Leggetemi quel documento." "A tutti gli interessati: Attesto con la presente che i latori di questo documento, Theremon 762 e Siferra 89, sono in missione per conto della Pattuglia antincendio di Saro e che sono autorizzati a..." "La Pattuglia antincendio? E che cos'è?" “Il gruppo di Altinol," mormorò un altro dei tagliagole. "Ah." Il capo annuì, guardando le pistole che Theremon e Siferra portavano appese alla cintura, bene in vista. "E così Altinol vuole che attraversiate il nostro paese portando armi che potrebbero incendiare un intero distretto?" "Dobbiamo svolgere una missione urgente al parco nazionale di Amgando. E’ essenziale che noi arriviamo laggiù sani e salvi.» Indicò il suo fazzoletto verde. "Sapete cosa significa questo? Noi impediamo che vengano accesi i fuochi, non andiamo in giro ad appiccarli. E se non arriviamo ad Amgando in tempo, gli Apostoli della fiamma scenderanno lungo quest'autostrada distruggendo tutto ciò che state cercando di ricostruire.» Quel discorso non aveva molto senso, pensò Theremon. Il loro arrivo ad Amgando, molto più a sud, non poteva salvare dall'assalto degli apostoli quelle piccole repubbliche all'estremità settentrionale dell'autostrada. Ma la passione e l'enfasi che Siferra aveva usato nel pronunciare il suo discorso, sebbene fosse molto caotico, lo resero ugualmente convincente. Per un attimo gli uomini rimasero in silenzio mentre il capo della pattuglia cercava di capire di cosa stesse parlando Siferra. Poi aggrottò le sopracciglia con aria irritata e rivolse loro uno sguardo perplesso.
E infine, bruscamente, quasi con irruenza, disse: "Va bene. Passate. Ma andatevene immediatamente e non fatevi più rivedere nella Provincia dei Sei Soli altrimenti ve ne pentirete amaramente! Gli apostoli! Amgando!" "Molte grazie,» disse Theremon con una gentilezza talmente prossima al sarcasmo, che Siferra lo prese per il braccio e lo trascinò al di là del centro di controllo prima che si mettesse nei guai. Riuscivano ad avanzare rapidamente in quel tratto di autostrada, percorrendo una ventina di chilometri al giorno, a volte anche di più. I cittadini delle province che si erano autodenominate dei Sei Soli, della Terradivina e della Lucedelgiorno, avevano lavorato duramente per portare via i rottami che dalla discesa della Notte ingombravano la Grande Autostrada Meridionale. A intervalli regolari trovavano barricate di lamiere - nessuno avrebbe guidato più per la Grande Autostrada Meridionale per molto, moltissimo tempo, pensò Theremon - ma da un centro di controllo all'altro era ormai possibile procedere con un'andatura regolare, senza dover più strisciare sotto mucchi di rottami o infilarsi fra essi. E inoltre stavano iniziando a portare via i morti dalla strada per seppellirli. A poco a poco, sembrava quasi che si stesse ritornando alla convivenza civile. Ma non alla normalità. La situazione era ben lungi dall'essere normale. Gli incendi che divampavano nelle terre costeggiate dall'auto strada erano ormai rari, ma ovunque si incontravano città distrutte dal fuoco. Ogni due o tre chilometri avvistavano un accampamento di fuggiaschi. Mentre Theremon e Siferra percorrevano di buon passo la strada soprelevata, vedevano, al disotto gli abitanti sconsolati e confusi di quegli accampamenti che si aggiravano lentamente e senza meta, come se fossero invecchiati di cinquant'anni in quell'unica, orribile Notte. Theremon comprese che le nuove province erano semplice mente una serie di tali accampamenti, uniti dalla linea retta della Grande Autostrada Meridionale. In ogni distretto erano emersi dei personaggi carismatici che erano riusciti a mettere insieme dei piccoli regni insignificanti; questi si estendevano per una decina di chilometri lungo l'autostrada e, ai suoi lati, per non più di un paio di chilometri. Al di là dei confini orientali e occidentali delle nuove province, nessuno poteva dire cosa ci fosse. Non sembrava esistessero collegamenti radiofonici o televisivi di alcun genere. "Non era stato previsto nessun piano di emergenza?" chiese Theremon, parlando più fra sé che rivolto a Siferra. Comunque, Siferra rispose: "Le previsioni di Athor erano troppo assurde perché il governo potesse prenderle sul serio. E ammettere che potesse verificarsi il crollo dell'intera civiltà per un periodo di Buio così breve, in particolare per un periodo di Buio che poteva essere previsto in modo tanto particolareggiato, avrebbe significato fare il gioco di Mondior." "Ma l'eclissi..." "In effetti, alcune persone influenti avevano visto i diagrammi e credevano davvero che ci sarebbe stata un'eclissi. E di conseguenza un periodo di Buio. Ma come potevano prevedere le Stelle? Le Stelle esistevano soltanto nell'immaginazione degli Apostoli della fiamma, non ricordi? Anche se il governo avesse previsto la comparsa delle Stelle, nessuno avrebbe potuto intuirne le conseguenze." "Sheerin, sì," disse Theremon. "Sheerin non ne aveva la più pallida idea. La sua specializzazione era il Buio, non una luce improvvisa e assurda che riempie il cielo." "Eppure," riprese Theremon, "difronte a tutta questa devastazione, a tutto questo caos, ti viene da pensare che poteva essere fatto qualcosa, che in qualche modo si potevano evitare." "Non si potevano evitare.» "Andrà meglio la prossima volta." Siferra scoppiò a ridere. "La prossima volta sarà fra 2049 anni.
Speriamo di poter lasciare ai nostri discendenti un ammonimento che sia più sensato di quanto sia parso a molti di noi il Libro delle rivelazioni." Volgendo il capo, lanciò uno sguardo dietro di sé, osservando preoccupata il lungo e faticoso tratto di autostrada che avevano percorso nei giorni precedenti. "Hai paura che gli apostoli ci compaiano all'improvviso alle spalle?" le chiese Theremon. "Tu no? Mancano ancora centinaia di chilometri per arrivare ad Amgando, anche se stiamo procedendo molto rapidamente. Cosa facciamo se ci catturano, Theremon?" "Non riusciranno a raggiungerci. Un esercito non può muoversi con la stessa rapidità di due persone determinate e in buone condizioni fisiche. I loro mezzi di trasporto non sono migliori dei nostri... un paio di piedi per soldato e basta. E c'è una serie di considerazioni logistiche che certamente li rallenterà.» «Forse hai ragione.» Inoltre, il messaggio diceva che gli apostoli avevano intenzione di fermarsi a ogni provincia lungo la strada, per imporre la loro autorità su di esse. Impiegheranno moltissimo tempo a piegare tutti quegli ostinati e minuscoli regni. Salvo complicazioni inattese, arriveremo ad Amgando qualche settimana prima di loro." "Cosa pensi che accadrà a Beenay e a Raissta?" chiese Siferra dopo un po'. "Beenay è un ragazzo in gamba. Immagino che finirà col trovare un modo per diventare indispensabile a Mondior." "E se non ci riesce?" "Siferra, non è il caso di sprecar energie preoccupandosi di orribili eventualità contro le quali non possiamo fare niente." "Scusa," ribatté Siferra bruscamente. "Non pensavo che fossi tanto suscettibile." "Siferra.. ." "Lascia perdere," disse lei. "Forse sono io a esserlo." "Andrà tutto bene," rispose Theremon. "Non torceranno un capello a Beenay e Raissta. E noi arriveremo ad Amgando in tempo per dare l'allarme. Gli Apostoli della fiamma non conquisteranno il mondo." "E i morti usciranno dalle tombe e torneranno a camminare sulla terra. Su, Theremon, Theremon..." La sua voce si affievolì. "Ti capisco, Siferra." "Che cosa faremo?" "Cammineremo sempre più in fretta, ecco cosa faremo. E non ci guarderemo alle spalle. Guardarsi indietro non è mai d'aiuto.» "No. Mai," fece Siferra. E sorridendo gli prese la mano. E continuarono rapidamente a camminare in silenzio. Era incredibile, pensò Theremon, come procedevano in fretta, ora che avevano preso una buona andatura. I primi giorni, mentre uscivano da Saro e arrancavano lungo la parte settentrionale dell'autostrada ingombra di rottami, avevano percorso pochissima strada e si stancavano in breve tempo. Ora, invece, si muovevano come due macchine perfettamente sincronizzate per raggiungere la meta. Siferra aveva le gambe lunghe quasi quanto le sue, e camminavano l'uno a fianco dell'altra, i loro muscoli in piena efficienza, i loro cuori che battevano senza affaticarsi, i loro polmoni che si espandevano e si contraevano a un ritmo incessante. Cammina, cammina, cammina. Cammina, cammina, cammina. Cammina, cammina, cammina. Mancavano ancora centinaia di chilometri, certo, ma non ci avrebbero messo molto, a quell'andatura. Un altro mese, forse. O anche meno. In quelle regioni rurali oltre il confine estremo della città, la strada era ormai quasi del tutto sgombra. Da quelle parti non c'era mai stato il traffico caotico del nord.
Sembrava che molti automobilisti avessero lasciato l'autostrada senza troppi problemi quando le Stelle erano apparse, dato che in quella zona il rischio di essere urtati da altre macchine prive di controllo era molto minore. C'erano anche meno centri di controllo. Le nuove province in queste zone scarsamente popolate coprivano aree molto più vaste di quelle a nord, e la gente non sembrava troppo interessata a perquisire i viaggiatori. Theremon e Siferra furono sottoposti a interrogatori stringenti solo un paio di volte nei cinque giorni successivi. Nelle altre zone di confine fecero loro cenno di passare senza neppure esaminare i documenti firmati da Beenay. Persino il clima era loro favorevole. Il tempo era buono e mite quasi ogni giorno, con qualche breve e sporadico scroscio di pioggia che non causava comunque seri problemi. Camminavano per quattro ore, si fermavano per consumare un pasto leggero, camminavano altre quattro ore, mangiavano nuovamente, ripartivano e si fermavano a dormire per circa sei ore - a turno, uno dei due restava seduto a fare da sentinella per qualche ora, poi toccava all'altro - infine si alzavano e proseguivano. Come macchine. I soli andavano e venivano nel cielo con i loro antichi ritmi, ora Patru, Trey e Dovim, ora Onos, Sitha e Tano, ora Onos e Dovim, ora Trey e Patru, ora quattro soli insieme. La successione infinita, il grande e maestoso corteo dei cieli. Theremon non sapeva quanti giorni fossero trascorsi da quando avevano lasciato il rifugio. Gli stessi concetti di date, calendari, giorni, settimane, mesi, gli sembravano ormai arcaici, inutili, qualcosa che apparteneva a un mondo che non esisteva più. Siferra, dopo quel momento d'inquietudine e di tristezza, riacquistò la sua allegria. Stava diventando una passeggiata. Sarebbero arrivati ad Amgando senza problemi. Stavano attraversando un distretto che ora si chiamava Valle Primavera, o forse Bosco Fiorito; avevano sentito vari nomi, tutti diversi, dalla gente che avevano incontrato lungo la strada. Era un'area agricola, vasta e collinare, con rari segni dell'infernale devastazione che aveva distrutto le regioni urbanizzate. Una stalla danneggiata dal fuoco, di tanto in tanto, o gruppi di animali d'allevamento che sembravano vagare incustoditi: erano queste le tracce più gravi lasciate dal disastro. L'aria era dolce e fresca, la luce dei soli luminosa e forte. Se non fosse stato per la spettrale assenza di traffico sull'autostrada, si poteva perfino pensare che non fosse successo niente di anormale. "Siamo arrivati a metà strada?" chiese Siferra. "Non ancora. E’ da un bel po' che non vedo più cartelli, ma credo che..." Si interruppe a metà della frase. "Cosa c'è, Theremon?" "Guarda! Guarda laggiù, a destra. Lungo quella stradina che viene da ovest." Si affacciarono dal ciglio dell'autostrada. Sotto di loro, a qualche centinaio di metri di distanza, una lunga fila di camion era ferma sul bordo di una strada secondaria, vicino allo svincolo dell'autostrada. Videro accanto ai veicoli un accampamento vasto e affollato: tende, un grande falò, alcuni uomini che tagliavano la legna. Due o trecento persone, forse. E tutte incappucciate e vestite con tonache scure. Theremon e Siferra si scambiarono uno sguardo sbigottito. "Gli apostoli!" esclamò Siferra. "Sì. Stai giù.
Sulle mani e sulle ginocchia. Nasconditi dietro questo parapetto." Ma come hanno fatto a fare tanta strada in così poco tempo? La parte superiore dell'autostrada è completamente bloccata!" Theremon scosse il capo. "Non hanno preso affatto l'autostrada. Guarda laggiù, hanno dei camion che ancora funzionano. Eccone un altro che sta arrivando. Per gli dei, che strano spettacolo vedere un veicolo che si muove, non trovi? E risentire il rumore di un motore dopo tutto questo tempo!" Si sentì i brividi per tutto il corpo. "Sono riusciti a serbare un gruppo di camion e una riserva di carburante. E ovviamente sono arrivati fin qui da Saro passando da occidente, per piccole strade di campagna. Ora prenderanno la strada principale, che credo sia sgombra fino ad Amgando. Potrebbero arrivare stasera stessa." "Questa sera! Theremon, cosa facciamo?" "Non lo so. C'è solo una cosa da fare, ma è un tentativo folle! Che ne dici di scendere laggiù e impadronirci di uno dei loro camion? E guidarlo fino ad Amgando? Basterà arrivare un paio di ore prima degli apostoli, così la maggior parte della gente di Amgando farà in tempo a fuggire. Giusto?" “Forse sì," rispose Siferra. "Anche se mi sembra un piano folle. Come facciamo a rubare un camion? Non appena ci vedranno, capiranno immediatamente che non siamo due di loro e ci fermeranno." "Lo so. Lo so. Lasciami riflettere." Dopo un attimo riprese: "Se riusciamo a trovare due apostoli che siano a una certa distanza dagli altri, e ci impossessiamo dei loro vestiti - anche sparando se necessario - e poi, una volta travestiti, ci avviamo verso uno di quei camion come se fossimo autorizzati a farlo, saltiamo dentro e partiamo a tutta velocità verso l'autostrada..." "Ci sarebbero dietro nel giro di qualche minuto." "Forse sì. Ma se ci mostriamo calmi e tranquilli, potrebbero pensare che è tutto perfettamente normale, che rientra nel loro piano; e quando si renderanno conto che non è così, noi avremo già percorso una cinquantina di chilometri." La guardò con aria impaziente. "Che ne dici, Siferra? Che altre speranze abbiamo? Proseguire verso Amgando a piedi? Impiegheremo settimane e settimane, mentre loro possono arrivarci in un paio d'ore!" Siferra lo fissava come se fosse diventato pazzo. "Sopraffare due degli apostoli, rubare uno dei loro camion, filare a tutta velocità verso Amgando; oh, Theremon, non funzionerà mai, lo sai." "Va bene," disse lui bruscamente. "Tu resta qui. Io cercherò di farcela da solo. E’ la nostra unica speranza, Siferra." Cominciò ad avanzare accovacciato lungo il parapetto dell'autostrada verso l'uscita successiva, che distava da loro solo qualche centinaio di metri. "No... aspetta, Theremon..." Theremon si voltò sogghignando: "Vieni anche tu?" "Sì. Ma è da pazzi!" "Lo so," disse Theremon. "Ma che altro ci resta da fare?" Siferra aveva ragione. Era un piano folle. Ma non vedeva alternative. Evidentemente il messaggio che Beenay aveva ricevuto era sbagliato: gli apostoli non avevano mai pensato di spostarsi lungo la Grande Autostrada Meridionale, conquistando una provincia dopo l'altra; si erano diretti invece immediatamente verso Amgando con un grosso convoglio armato, attraverso strade secondarie che, anche se non dirette, erano almeno sgombre dai rottami. Per Amgando non c'erano più speranze. Il mondo sarebbe caduto in mano ai seguaci di Mondior. A meno che... A meno che... Theremon non riusciva a immaginarsi nei panni dell'eroe. Gli eroi erano quelle persone di cui scriveva sul suo giornale... gente che dava il meglio di sé in circostanze eccezionali, che compiva quelle imprese strane e miracolose che gli individui normali non si sarebbero mai sognati di tentare, tanto meno di eseguire.
Ma ora era lì, in quel mondo stranamente trasformato, che parlava tranquillamente di sopraffare con l'aiuto di una pistola a raggi dei fanatici mascherati, di impadronirsi di un camion militare e di dirigersi a folle velocità verso il parco di Amgando, per portare la notizia dell'attacco imminente. Folle. Completamente folle. Ma forse avrebbe funzionato proprio perché era tutto così folle. Nessuno si sarebbe aspettato che due persone sbucassero dal nulla in quel bucolico e pacifico paesaggio e fuggissero con un camion. Continuarono a camminare chini fino alla rampa d'uscita, Theremon un po' più avanti e Siferra dietro di lui. Fra loro e l'accampamento degli apostoli c'era solo un campo dall'erba alta. "Se restiamo abbassati e ci infiliamo fra l'erba," le sussurrò Theremon, "e alcuni apostoli vengono per caso dalla nostra parte, possiamo saltare fuori e prenderli di sorpresa, prima che comprendano cosa sta accadendo." Si abbassò e si infilò fra l'erba alta. Siferra lo seguì, facendo come lui. Dieci metri. Venti. Avanti, chini, a testa bassa, fino a quella montagnola, e poi in attesa... in attesa... All'improvviso sentirono una voce, proprio alle spalle di Theremon: "Guardate cosa c'è qui! Un paio di serpenti davvero strani, non vi pare?" Theremon si voltò, alzò gli occhi e rimase senza fiato. Per gli dei! Sette o otto apostoli intorno a loro! Ma da dove erano sbucati? Stavano facendo un picnic nel prato? E lui e Siferra erano passati vicino a loro senza accorgersene! "Scappa!" urlò rivolto verso Siferra. "Corri da quella parte, io vado di qua." Si diresse di corsa verso sinistra, dove sorgevano i piloni dell'autostrada. Forse sarebbe riuscito a seminarli, a scomparire fra i boschi che vedeva dall'altra parte della strada. No. No. Era agile e veloce, ma gli apostoli erano più agili e veloci di lui. Si accorse che lo avevano quasi raggiunto. "Siferra!" gridò. "Continua a scappare! Corri!" Forse lei ce l'aveva fatta. Non la vedeva più. Gli apostoli lo avevano circondato. Impugnò la pistola a raggi, ma uno di loro gli bloccò immediatamente il braccio e un altro lo prese alle spalle. Gli strapparono l'arma dalle mani. Una gamba si inserì fra le sue, lo fece inciampare e perdere l'equilibrio. Cadde pesantemente, si girò e alzò lo sguardo. Cinque teste incappucciate, severe, lo fissavano truci. Uno degli apostoli gli puntò la pistola contro il petto. “In piedi,» disse l'apostolo. «Piano. E con le mani bene in alto.” Theremon si rialzò con un certo impaccio. "Chi sei? Cosa fai qui?" gli chiese l'apostolo. Abito da queste parti. Mia moglie e io avevamo preso una scorciatoia fra i campi per tornare a casa..." "La fattoria più vicina è a sette chilometri da qui. Una scorciatoia molto lunga, mi pare." L'apostolo indicò l'accampamento con un cenno della testa. "Vieni con noi. Folimun vorrà parlare con te." Folimun! E così era riuscito a sopravvivere alla Notte dell'eclissi. Ed era capo della spedizione contro Amgando! Theremon Si guardò intorno. Nessun segno di Siferra. Sperava che fosse riuscita a tornare sull'autostrada, ormai, e si stesse dirigendo verso Amgando il più in fretta possibile.
Una pallida speranza, ma era l'unica che restava. Gli apostoli lo condussero verso l'accampamento. Era una sensazione strana essere circondato da tante figure incappucciate. Ma quasi nessuno badò a lui, mentre gli uomini che l'avevano catturato lo scortavano verso la più grande delle tende. Folimun era seduto su una panca in fondo alla tenda e stava esaminando dei fogli. Alzò i suoi gelidi occhi azzurri su There mon e il suo viso magro e affilato si addolcì per un istante mentre un sorriso di sorpresa appariva sulle sue labbra. Theremon? Lei qui? Cosa sta facendo? Raccoglie notizie per il Chronicle?” "Sono diretto a sud, Folimun. Mi sono concesso una vacanza, dato che la situazione in città è quella che è. Le dispiacerebbe ordinare ai suoi scagnozzi di lasciarmi andare?" "Liberatelo," disse Folimun in tono perentorio. "Dov'è diretto, con esattezza?" "Questo non la riguarda affatto." "Lasci che sia io a stabilirlo. E’ diretto ad Amgando, non è vero, Theremon?" Theremon rivolse all'apostolo uno sguardo freddo e sostenuto: "Non vedo perché dovrei dirglielo." "Dopo tutto quello che io le ho rivelato quando mi ha intervistato?" "Molto divertente." "Voglio sapere dov'è diretto, Theremon." Prendi tempo, pensò Theremon. Prendi tempo finché puoi. "Mi rifiuto di rispondere a questa domanda, e a qualunque altra che mi farà da questo momento in poi. Esporrò le mie intenzioni solo a Mondior in persona," disse in tono fermo e deciso. Folimun rimase per un attimo in silenzio. Poi, improvvisamente, comparve di nuovo un sorriso sulle sue labbra. E infine, inaspettatamente, scoppiò a ridere. Theremon si chiese se avesse mai visto Folimun ridere prima di allora. "Mondior?" disse Folimun con gli occhi che gli brillavano per il divertimento. "Mondior non esiste, amico mio. Non è mai esistito.” 42 Siferra non riusciva a credere di essere davvero riuscita a fuggire. Ma ormai era chiaramente fuori pericolo. La maggior parte degli apostoli in cui si erano imbattuti nel campo era corsa dietro a Theremon. Guardandosi alle spalle, lo aveva visto circondato da loro, come cani da caccia intorno alla preda. Lo avevano gettato a terra; certamente l'avrebbero preso prigioniero. Solo due degli apostoli le erano corsi dietro. Siferra ne aveva colpito uno in piena faccia con un colpo secco della mano, irrigidendo il braccio, e alla velocità alla quale stava correndo l'impatto era stato tale da farlo rotolare per terra. L'altro apostolo era grasso, maldestro e lento; in breve Siferra lo distanziò. Ripercorse la strada che lei e Theremon avevano fatto, in direzione dell'autostrada soprelevata. Ma non le parve una buon idea tornare lassù. Potevano facilmente bloccare l'autostrada, dal momento che le uniche vie di fuga sicure erano costituite dalle rampe di uscita. In questo modo si sarebbe esposta soltanto al rischio di finire in trappola. E anche se non avesse incontrato altri blocchi stradali, sarebbe stato semplicissimo per gli apostoli inseguirla con i loro camion e prenderla nel giro di un paio d chilometri. No, l'unica cosa da fare era scappare nei boschi all'altro lato della strada. I camion degli apostoli non avrebbero potuto seguirla in mezzo agli alberi. Avrebbe potuto far perdere le sue tracce senza problemi fra la bassa vegetazione e nascondersi finché non avesse deciso come agire.
Ma cosa avrebbe fatto? si chiese. Doveva ammettere che l'idea di Theremon, per quanto folle, restava l'unica loro speranza: riuscire in qualche modo a rubare un camion, correre ad Amgando e dare l'allarme prima che gli apostoli potessero radunare nuovamente il loro esercito. Ma Siferra sapeva che non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare in punta di piedi vicino a un camion vuoto, saltarci dentro e fuggire via. Gli apostoli non erano poi tanto stupidi. Avrebbe dovuto ordinare a uno di loro, sotto la minaccia della pistola, di mettere in moto il camion e poi di cederglielo. E per fare questo doveva riuscire a sorprendere un apostolo da solo, rubargli il saio, riuscire a entrare inosservata nell'accampamento, cercare qualcun altro che potesse aprirle uno dei camion; cosa come minimo irrealizzabile. Si sentì un tuffo al cuore. Non ce l'avrebbe mai fatta. A proposito di progetti irrealizzabili, dato che c'era poteva anche pensare a un piano per liberare Theremon... fare irruzione nell'accampamento con la pistola a raggi spianata, prendere degli ostaggi, chiedere la sua immediata liberazione... oh, ma era una assurdità, uno stupido sogno melodrammatico, un piano insensato uscito da un banale libro d'avventura per ragazzi... Ma cosa fare? Cosa fare? Si rannicchiò sotto alcuni arbusti bassi, folti e dalle grosse foglie, e attese che il tempo passasse. Sembrava che gli apostoli non avessero alcuna intenzione di abbandonare l'accampamento: riusciva a vedere il fumo dei loro falò nel cielo crepuscolare, e i loro camion sempre fermi lungo il margine della strada. Stava calando la sera. Onos era tramontato. Dovim indugiava all'orizzonte. I soli rimasti in cielo erano quelli che meno le piacevano, Tano e Sitha, cupi e tristi, che gettavano la loro fredda luce da una remota postazione, ai limiti dell'universo. O meglio, a quelli che la gente credeva fossero stati i limiti dell'universo, in quei lontani e ingenui giorni prima che apparissero le Stelle e rivelassero loro quanto era immenso in realtà l'universo. Il tempo scorreva lentamente. Non riusciva a escogitare nessun valido espediente. Amgando era ormai perduta, a meno che qualcuno non fosse riuscito a dare l'allarme... e lei certamente non avrebbe potuto arrivarci prima degli apostoli. Cercare di liberare Theremon era un'idea assurda. Le possibilità che aveva di riuscire a rubare un camion e arrivare ad Amgando da sola le sembravano pari a zero. E allora? Doveva restarsene lì seduta a guardare gli apostoli che si impadronivano del mondo? Sembrava che non potesse fare altro. A un certo momento della sera, le parve che l'unica cosa da fare fosse recarsi nell'accampamento degli apostoli, arrendersi chiedere di essere imprigionata insieme a Theremon. Almeno così sarebbero stati insieme. Era incredibile quanto lui le mancasse. Erano insieme da settimane; non aveva mai vissuto con u uomo in tutta la vita. E durante quel lungo viaggio, anche se avevano bisticciato qualche volta, anche se c'era stato fra loro qualche momento di tensione, non si era mai stancata di stargli vicino. Neanche una volta. Vivere insieme a lui, le sembrava la cosa più naturale del mondo. E ora era nuovamente sola. Forza, si disse. Arrenditi.
Ormai è finita, non lo vedi? Si faceva sempre più scuro. La luce gelida di Tano e Sitha era offuscata dalle nubi e il cielo era diventato talmente grigio che Siferra si chiese perfino se sarebbero riapparse le Stelle. Avanti, pensò piena di amarezza, uscite fuori e risplendete! Fate impazzire tutti nuovamente. Tanto, peggio di così non potrebbe andare. Il mondo può essere distrutto una sola volta, ed già successo. Ma le Stelle, ovviamente, non riapparivano. Per quanto offuscati, Tano e Sitha gettavano comunque abbastanza luce da coprire il chiarore di quei lontani punti di luce misteriosa. E mentre passavano le ore, Siferra sentiva che il suo stato d'animo cambiava di continuo: dal pessimismo più totale alla speranza più avventata. Quando tutto è perduto, si disse, non resta più niente da perdere. Protetta dalla bassa luce della sera, sarebbe penetrata ne l'accampamento degli apostoli e in qualche modo, non sapevo ancora come, si sarebbe impadronita di uno dei camion. E avrebbe anche cercato di liberare Theremon. Poi via, verso Amgando! Quando sarebbe sorto Onos, la mattina seguente, sarebbe stata laggiù, fra i suoi amici dell'università, in tempo per dire loro di fuggire prima che arrivasse l'esercito nemico. Bene, pensò. Andiamo. Lentamente, lentamente, con maggiore cautela di prima, potevano esserci sentinelle nascoste fra l'erba alta... Fuori dal bosco, la colse un momento d'incertezza. Essendosi lasciata alle spalle la protezione del folto sottobosco, si senti tremendamente vulnerabile. Ma la luce fioca la proteggeva. In quel momento doveva attraversare la radura che separava il bosco dall'autostrada. Sotto i grandi piloni di metallo, e poi nei campi incolti dove lei e Theremon erano stati sorpresi dagli apostoli quel pomeriggio. Chìnati e corri, ora, come hai fatto prima. Di nuovo nel campo... guardati intorno, potrebbero esserci delle sentinelle che pattugliano il perimetro dell'accampamento... Aveva in mano la pistola, regolata al raggio di apertura minimo, quello più forte, più diretto, più letale possibile. Se in quel momento avesse incontrato qualcuno, tanto peggio per lui. La posta in gioco era troppo alta per curarsi di quelle sottigliezze d'ordine etico. Quando era uscita di senno aveva ucciso Balik nel suo ufficio; non avrebbe voluto farlo, ma intanto lui era morto. Si accorse, con una certa sorpresa, che era disposta a uccidere di nuovo, e questa volta deliberatamente, se le circostanze lo avessero richiesto. La cosa essenziale era procurarsi un mezzo per andarsene da li e portare ad Amgando la notizia che l'esercito degli apostoli si stava avvicinando. Tutto il resto, comprese le considerazioni d'ordine morale, era secondario. Tutto il resto. Questa era la guerra. Avanti. A testa bassa, gli occhi vigili, il corpo chino. Era ormai soltanto a poche decine di metri dall'accampamento. Nella zona regnava il silenzio. Probabilmente erano quasi tutti addormentati. Nel fosco grigiore, Siferra riuscì a vedere alcune sagome vicino al fuoco più grande, anche se non poteva esserne certa per via del fumo che vi si innalzava.
La cosa migliore da fare, pensò, era nascondersi all'ombra di uno dei camion e gettare un sasso contro un albero li vicino. Le sentinelle sarebbero senz'altro venute a vedere di cosa si trattasse; e se si fossero separate, lei avrebbe potuto cogliere qualcuno alle spalle, puntargli la pistola alla schiena, ordinargli di stare buono, farlo spogliare... No, pensò. Non doveva ordinargli niente. Doveva solo sparargli, in fretta, e prendergli i vestiti prima che potesse dare l'allarme. Erano apostoli, dopotutto! Dei fanatici. La sua nuova freddezza la stupiva. Avanti. Avanti. Aveva quasi raggiunto il camion più vicino ormai. Si era nascosta nell'ombra, proprio difronte al fuoco. Dov'è un sasso? Ecco. Si, questo può andare. Passa la pistola nella mano sinistra adesso. Ecco, lancia il sasso contro quel grande albero laggiù... Sollevò il braccio per tirare il sasso. E in quello stesso momento sentì una mano che da dietro le afferrava il polso sinistro, e un braccio che le stringeva con forza la gola. L'avevano catturata! L'impressione, la rabbia e un senso esasperante d'impotenza la colsero. Con tutte le sue forze cominciò a sferrare furiosi calci all'indietro, cercando di svincolarsi. Sentì un grugnito di dolore. Ma non bastò perché l'uomo lasciasse la presa. Cercando di girarsi, sferrò un altro calcio, tentando al tempo stesso di far passare la pistola dalla mano sinistra a quella destra. Ma il suo assalitore le sollevò la mano sinistra con un gesto talmente brusco e deciso che le fece chiudere gli occhi dal dolore e cadere di mano la pistola. L'altro braccio, quello che premeva contro la sua gola, si strinse fino quasi a soffocarla. Ansimò cercando di respirare. Per il Buio! Quanto era stata stupida a farsi cogliere così di sorpresa! E pensare che era lei che voleva cogliere di sorpresa gli apostoli! Sulle guance iniziarono a scenderle lacrime di rabbia. Con forza sferrò un altro calcio all'indietro, poi un altro ancora. "Buona," le sussurrò una voce profonda. "Finirai col farmi male in questo modo, Siferra." "Theremon!" disse lei, stupefatta. "Chi credevi che fosse? Mondior?" La pressione sulla sua gola diminuì. La mano che le stringeva il polso lasciò la presa. Fece un paio di passi barcollanti in avanti cercando di riprendere fiato, poi, annebbiata e confusa, si voltò e lo fissò. "Come hai fatto a liberarti?" gli chiese. Theremon sogghignò. "Un miracolo. Un vero miracolo d vino... Ti ho vista arrivare dal bosco. Sei stata molto brava, sul serio. Ma eri troppo concentrata per arrivare fin qui inosservata, e non hai notato che ti avevo aggirata." "Grazie agli dei sei tu, Theremon. Anche se quando mi hai a ferrato il polso, ho passato il momento più brutto della mia vita. Ma perché ce ne restiamo qui? Forza, saliamo su uno di questi camion e filiamocela prima che ci scoprano." "No," disse Theremon. "Il piano è cambiato." Siferra lo fissò, inebetita. "Non capisco." "Capirai." E, lasciandola di sasso, batté le mani e gridò ad alta voce: “Tutti qui, ragazzi! Eccola!" "Theremon! Sei impazzito?" Un raggio di luce la colpi in piena faccia, con una forza paragonabile a quella delle Stelle.
Ne fu accecata e scosse il capo in preda allo stupore e allo smarrimento più totale. Si rese conto che qualcuno si muoveva intorno a lei, ma impiegò qualche secondo per riprendersi dalle luci improvvise e comprendere di chi si trattasse. Apostoli. Cinque o sei apostoli. Fissò Theremon con uno sguardo d'accusa. Sembrava tranquillo, perfino compiaciuto. La mente confusa di Siferra stava iniziando lentamente a prendere in considerazione l'eventualità che lui l'avesse tradita. Quando provò a parlare, riuscì solo a emettere monosillabi spezzati: "Ma... che... come?..." Theremon sorrise. "Vieni, Siferra. C'è una persona che voglio farti conoscere." 43 "Non c'è bisogno che lei mi fissi con quello sguardo pieno d'ira, dottoressa Siferra,» disse Folimun. "Forse farà fatica a crederlo, ma qui si trova fra amici." "Amici? Mi ritiene una persona davvero ingenua!" "Niente affatto. Anzi, esattamente il contrario." "Siete entrati di nascosto nel mio ufficio e avete rubato reperti archeologici inestimabili. Avete ordinato alle vostre orde di pazzi superstiziosi di invadere l'osservatorio e distruggere gli strumenti con i quali gli astronomi dell'università stavano eseguendo ricerche prestigiose, di estrema importanza. Avete ipnotizzato Theremon che ora esegue ogni vostro ordine, lo avete inviato a catturarmi e lui mi ha portato qui come vostra prigioniera. E ora mi dite che sono fra amici?" Theremon intervenne con voce pacata: "Non sono stato ipnotizzato, Siferra. E tu non sei prigioniera." "Ma certo! E tutta questa storia è solo un incubo: la Notte, gli incendi, il crollo della nostra civiltà e tutto il resto. Fra un'ora mi risveglierò nel mio appartamento di Saro e tutto sarà come quando mi sono addormentata!" Theremon, difronte a lei al centro della tenda di Folimun, pensò che non gli era mai parsa tanto bella come in quel momento. I suoi occhi scintillavano per la rabbia. La sua pelle sembrava brillare. Intorno a lei c'era un'aura di energia che gli sembrava irresistibile. Ma non era assolutamente questo il momento per dirglielo. "Non posso fare altro che presentarle le mie scuse per il furto delle tavolette," disse Folimun. "Si è trattato di un atto ignobile che le assicuro non avrei mai autorizzato, se non fosse stata lei a renderlo assolutamente necessario." "Sarei stata io..." "Sì. Ha insistito per tenerle lei, mettendo così a repentaglio quelle preziosissime reliquie dei cicli precedenti, nel momento in cui il caos sarebbe esploso su Kalgash. Pensi che gli edifici dell'università avrebbero potuto essere distrutti fino all'ultima pietra. Ci è parso essenziale che le tavolette venissero poste in un luogo sicuro, vale a dire in mano nostra, e dato che lei non ci aveva autorizzati a prenderle, abbiamo dovuto sottrargliele." "Quelle tavolette le ho trovate io. Non avreste mai saputo della loro esistenza se non le avessi riportate alla luce." "Questo non ha nulla a che fare con il nostro discorso," disse Folimun tranquillamente. "Una volta scoperte le tavolette, abbiamo compreso immediatamente che erano essenziali per i nostri bisogni, per i bisogni dell'intera umanità. Abbiamo ritenuto che il futuro di Kalgash fosse molto più importante del suo interesse personale per quelle tavolette.
Come potrà vedere, siamo riusciti a tradurle completamente, facendo uso di antico materiale già in nostro possesso, e sono state utilissime per farci meglio comprendere l'enorme minaccia che grava ciclicamente sulla civiltà di Kalgash. Le traduzioni del dottor Mudrin, purtroppo, erano estremamente superficiali. Le tavolette ci hanno dato invece una versione accurata e convincente delle cronache contenute nel Libro delle rivelazioni, ma prive di secoli e secoli di manipolazioni testuali e di errori. Il Libro delle rivelazioni, devo ammetterlo, è pieno di metafore misticheggianti, adottate per meri scopi propagandistici. Le tavolette di Thombo sono resoconti storici di prima mano di due diverse apparizioni delle Stelle, avvenute migliaia di anni fa, e dei tentativi compiuti dai sacerdoti dell'epoca per mettere in guardia la popolazione su ciò che stava per accadere. E’ possibile ora dimostrare che nel corso della storia e della preistoria di Kalgash, piccoli gruppi di persone hanno dedicato la loro esistenza preparando il mondo al disastro che periodicamente si abbatte su di esso. I metodi che hanno usato si sono però dimostrati insufficienti per la risoluzione del problema. Ora, almeno, conoscendo gli errori commessi in passato, potremo risparmiare a Kalgash altri devastanti sconvolgimenti, quando l'Anno Divino attuale giungerà al termine, fra duemila anni." Siferra si voltò verso Theremon: "Guarda com'è compiaciuto! Vuole giustificare il furto delle mie tavolette dicendo che esse gli permetteranno di istituire una dittatura teocratica ancora più efficiente di quanto speravano! Theremon, Theremon, perché mi hai tradito così? Perché ci hai tradito così? A quest'ora saremmo stati a metà strada per Amgando se solo..." "Sarà ad Amgando domani pomeriggio, dottoressa Siferra glielo garantisco," le disse Folimun. "Saremo tutti ad Amgando domani pomeriggio." "Cosa farete?" gli chiese Siferra rabbiosamente. "Mi trascinerete in catene dietro il vostro esercito usurpatore? Mi legherete mi farete camminare nella polvere dietro il carro di Mondior?» L'apostolo sospirò: "Theremon, le spieghi lei ogni cosa se non le spiace." «No," disse Siferra. I suoi occhi sprigionavano fiamme. “No, povero sciocco senza cervello, non voglio ascoltare le baggianate che questo pazzo ti ha inculcato! Non voglio sentire mai più la tua voce! Lasciami stare. Imprigionatemi. O lasciatemi libera, se potete permettervelo. Tanto non posso nuocervi in alcun modo, ormai! Una donna sola contro un intero esercito! Non riesco neanche ad attraversare un campo senza che qualcuno mi veda e mi sorprenda alle spalle!" Theremon, costernato, le si avvicinò. "No! Stai lontano! Mi disgusti! Ma non è colpa tua, vero? Ti hanno fatto qualcosa. La stessa cosa che farai alla mia mente, vero, Folimun? Mi trasformerai in una marionetta obbediente a ogni tuo volere. Allora lascia che ti chieda un favore. Non costringermi a indossare una delle vostre divise. Non sopporto l’idea di indossare una di quelle cose ridicole. Portami via l'anima se vuoi, ma lasciami vestire come mi pare, va bene? Va bene, Folimun?" L'apostolo rispose con una risatina. «Forse sarà meglio che vi lasci soli. Mi sembra chiaro che non concluderemo nulla finchè resterò qui." "No, maledetto," gridò Siferra. "Non voglio assolutamente restare sola con..." Ma Folimun si era già alzato e stava rapidamente uscendo dalla tenda. Theremon si voltò verso Siferra, che stava indietreggiando come se lui avesse la peste. Le disse dolcemente: "Non sono ipnotizzato, Siferra. Non hanno fatto niente alla mia mente." "Cos'altro potresti dire?" "Ma è vero. Lascia che te lo provi." Siferra lo fissò freddamente, con uno sguardo vuoto, e non rispose. Dopo un attimo di silenzio, Theremon disse pacatamente: "Siferra, ti amo." "Quanto tempo hanno impiegato gli apostoli a programmarti per farti dire queste parole?" gli chiese. Theremon trasalì. "No.
No. Dico sul serio, Siferra. Non voglio farti credere di non avere mai detto quelle parole a nessuno, ma questa è la prima volta che sono sincero.» "Non mi sembri affatto originale," disse Siferra con sarcasmo. "Forse me lo merito. Theremon, il rubacuori. Theremon, il casanova della città. Sì, hai ragione. Scordati quello che ho detto. No. No. Parlo sul serio, Siferra. Viaggiare con te nelle scorse settimane... stare con te, mattina, pomeriggio e sera... non c'è stato un momento in cui non ti ho guardato e non mi sono detto: questa è la donna che ho atteso per tutti questi anni, questa è la donna che non avrei mai immaginato di trovare." "Molto commovente, Theremon. E il modo migliore per dimostrarmi il tuo amore è stato quello di assalirmi a tradimento, spezzarmi un braccio, o quasi, e consegnarmi a Mondior. Esatto?" "Mondior non esiste, Siferra. Non esiste nessuno con questo nome." Per un istante vide un lampo di sorpresa e di curiosità fare breccia nella sua ostilità. "Cosa?" "E’ un'utilissima creatura mitica creata per sintesi elettronica in modo che possa parlare in televisione. Non aveva mai ricevuto nessuno, ricordi? Non è mai stato visto in pubblico. Folimun l'ha inventato perché fosse il loro portavoce. Dato che Mondior non compare mai di persona, può apparire in televisione in cinque paesi diversi contemporaneamente, in tutto il mondo; nessuno può dire mai con certezza dove si trovi e quindi può essere mostrato nello stesso momento in luoghi diversi. Il vero capo degli Apostoli della fiamma è Folimun. Lui finge di essere un funzionario addetto alle pubbliche relazioni. Ma, in realtà, dirige tutta l'organizzazione ormai da dieci anni. Prima d lui c'era un tipo di nome Bazret, che ora è morto. E’ stato Bazre a inventare Mondior, ma Folimun lo ha fatto diventare ciò che è oggi." "E’ stato Folimun a raccontarti tutto questo?" "Mi ha detto solo alcune cose, il resto l'ho capito da solo, e lui me l'ha confermato. Quando torneremo a Saro, mi mostrerà le apparecchiature con cui hanno creato Mondior. Gli apostoli hanno in progetto di ripristinare le trasmissioni televisive nel giro di qualche settimana." "Ho capito," disse Siferra con asprezza. "La scoperta che Mondior non esiste ti ha talmente colpito per la sua ripugnante astuzia, che ti sei lasciato convincere immediatamente a unirti alla combriccola di Folimun. E il tuo primo incarico è stato quello di catturarmi. Allora ti sei nascosto nell'ombra, mi hai colta di sorpresa e ora siete tutti tranquilli, perché la gente d Amgando cadrà certamente fra le grinfie di Folimun. Bella mossa, Theremon." "E’ vero, Folimun è diretto verso Amgando," disse Theremon "ma non vuole fare del male alla gente radunata laggiù. Vuol offrire loro dei posti nel nuovo governo." "Per gli dei onnipotenti, Theremon, e tu credi..." "Sì. Sì, Siferra!" Theremon allargò le mani, gesticolando nervosamente con le dita aperte. "Forse sono solo un comune giornalista, ma dammi atto che non sono uno sciocco. Dopo vent'anni del mio mestiere, riesco almeno a giudicare a prima vista le persone. Folimun mi ha colpito fin dal momento in cui l'ho visto.
Non mi sembrò affatto un fanatico, anzi lo trovai molto lucido, molto astuto, una personalità molto complessa. E questa sera ho parlato con lui per otto ore di seguito. Non ha dormito nessuno qui dentro. Mi ha svelato tutto il suo piano. Mi ha mo strato l'intero progetto. Mi darai atto, se non altro per ipotesi, che è possibile farsi un quadro psicologico di qualcuno durante una conversazione di otto ore?" "Ma..." iniziò Siferra con riluttanza. "O è incredibilmente sincero, Siferra, o è il migliore attore del mondo." "Potrebbe essere entrambe le cose. Ma questo non significa che io debba fidarmi di lui." "Forse no. Ma io ora mi fido. "Vai avanti." "Folimun è una persona completamente priva di scrupoli, dotata di una razionalità quasi mostruosa, che crede che la sola cosa realmente importante sia la sopravvivenza della civiltà. Avendo avuto accesso a documenti storici dei cicli precedenti, grazie al suo culto religioso antichissimo, sapeva da molti anni quello che noi abbiamo appreso nel modo più traumatico possibile. Era a conoscenza del fatto che Kalgash dovesse subire la venuta delle Stelle ogni duemila anni e che la loro vista sarebbe stata talmente opprimente da distruggere le menti delle persone comuni, e prostrare per giorni o settimane perfino quelle delle persone più forti. A proposito, quando torneremo a Saro sarà lieto di mostrarti tutti questi loro antichi documenti." "Saro è stata distrutta." «Non la zona controllata dagli apostoli. Sono stati maledettamente bravi nell'impedire che qualcuno appiccasse il fuoco nel raggio di un chilometro dalla loro torre." "Sono molto efficienti, non lo si può negare," disse Siferra. "Sì, sono molto efficienti. Folimun ritiene che in un periodo di follia collettiva, il modo migliore per rimettere in ordine le cose sia l'instaurazione di un totalitarismo religioso. Io e te pensiamo che gli dei non siano altro che vecchie leggende, Siferra, ma ci sono milioni e milioni di persone là fuori, che tu ci creda o no, che la pensano in modo completamente diverso. Hanno sempre paura di compiere azioni che considerano peccaminose, per paura che gli dei li puniscano. E ora hanno un vero e proprio terrore degli dei. Credono che le Stelle possano tornare domani, o dopodomani e finire l'opera che hanno iniziato. A questo punto entrano in ballo gli apostoli, che dichiarano di essere in contatto diretto con gli dei e di essere in possesso di testi sacri che lo provano. A differenza di Altinol, dei piccoli sovrani locali, dei membri fuggiaschi dei governi precedenti o di chiunque altro, essi si trovano in una posizione ideale per costituire un governo mondiale. Sono la più grande speranza che ci resta." "Ma stai parlando sul serio?" esclamò Siferra, meravigliata. "Folimun non ti ha ipnotizzato, Theremon; l'hai fatto da te!" "Stai a sentire," disse Theremon. "Folimun sta preparando da tutta la vita ciò che sta facendo in questo momento; sapeva che la sua era la generazione degli apostoli che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza al mondo intero. Ha preparato piani di ogni genere. Sta già per assumere il controllo di vastissimi territori a nord e a ovest di Saro, poi passerà a occupare le nuove province lungo la Grande Autostrada Meridionale." "E istituirà una dittatura teocratica che per prima cosa si libererà di tutta la gente dell'università: quelle persone atee, ciniche e materialiste come Beenay, Sheerin e me." "Sheerin è già morto. Folimun mi ha detto che i suoi uomini hanno trovato il suo cadavere in una casa abbandonata. Pare che sia stato ucciso qualche settimana fa da una banda di antiintellettuali." Siferra distolse gli occhi, incapace per un attimo di reggere lo sguardo di Theremon. Poi tornò a fissarlo, ancora più infuriata di prima, e disse: "Ora stammi tu ad ascoltare.
Prima Folimun manda le sue orde impazzite a distruggere l'osservatorio - anche Athor è stato ucciso, non ricordi? - poi elimina il povero e innocuo Sheerin. E fra breve tutti noi saremo..." "Ma stava cercando di proteggere la gente dell'osservatorio, Siferra!” "Non gli è riuscito molto bene, allora." "La situazione gli è sfuggita di mano. In realtà voleva far scappare gli scienziati prima che arrivasse la folla; ma dato che si è presentato come un fanatico impazzito, non è riuscito a convincerli ad ascoltare quello che voleva offrire loro, vale a dire un salvacondotto per il rifugio degli apostoli." "Dopo aver distrutto l'osservatorio." "Non è stato lui a volerlo. Il mondo era impazzito, quella Notte. La realtà non segue sempre i piani che si fanno." "Sei molto bravo a trovare delle scuse per lui, Theremon," ribatté Siferra. "Forse hai ragione. Ma ascoltami lo stesso. Ora vuole collaborare con la gente dell'università che è sopravvissuta e con gli intellettuali sani di mente che sono radunati ad Amgando, per rimettere insieme le conoscenze dell'umanità. Il capo del governo sarà lui, o meglio l'inesistente Mondior. Per un paio di generazioni, almeno, gli apostoli terranno calma la popolazione turbolenta e superstiziosa per mezzo della religione. Nel frattempo la gente dell'università aiuterà gli apostoli a radunare e a codificare quelle conoscenze che sono riusciti a salvare, e insieme guide ranno nuovamente il mondo verso la ragione, come è già acca duto tante volte prima d'ora. Ma questa volta, forse, riusciranno a preparare il mondo per la prossima eclissi con un centinaio di anni di anticipo e a evitare il più possibile il caos, la follia generale, gli incendi e la devastazione." «E tu ci credi davvero?" gli chiese Siferra. C'era un tono acido nella sua voce. "Credi che sia giusto farsi da parte e incitare gli apostoli a diffondere la loro velenosa e irrazionale dottrina in tutto il mondo? O quel che è peggio, unirsi a loro e rafforzarli?" "E’ un'idea che mi ripugna," disse Theremon improvvisamente. Gli occhi di Siferra si spalancarono. "Allora perché?..." "Usciamo," disse Theremon. «E’ ormai l'alba. Vuoi darmi la mano?" "Be…" "Quando ti ho detto che ti amavo, parlavo sul serio." Lei scrollò le spalle. "Sono due cose distinte. Il personale e il politico, Theremon... cerchi di usare il primo per farmi cedere nell'altro campo." "Vieni," le disse. 44 Uscirono dalla tenda. La luce di Onos era un chiarore rosato, all'orizzonte orientale. Alti sopra di loro, Tano e Sitha erano emersi dalle nubi, e i soli gemelli, ora allo zenith, avevano una strana, splendida luce. C'era anche un altro sole. Più lontano, a nord, la piccola sfera rossa di Dovim brillava come un minuto rubino incastonato nel cielo. "Quattro soli," disse Theremon. "Un segno propizio." Tutt'intorno a loro, nell'accampamento degli apostoli, l'attività ferveva. I camion venivano caricati, le tende smontate. Theremon vide Folimun difronte a loro, dall'altra parte dell'accampamento, che dava ordini a un gruppo di apostoli. Fece un cenno in direzione di Theremon, che rispose allo stesso modo. "Se ti ripugna l'idea che gli apostoli governino il mondo," disse Siferra, "perché insisti nel voler dare il tuo appoggio a Folimun? Non ha alcun senso!" Senza scomporsi, Theremon rispose: "Perché
è la nostra unica speranza. " "Lo credi davvero?" Theremon annuì. "E’ un'idea che mi è entrata in mente a poco a poco, dopo un paio d'ore che parlavo con Folimun. La ragione mi dice di non fidarmi di Folimun e della sua banda di fanatici. In ogni caso, non c'è dubbio che Folimun sia uno spietato manipolatore di menti, affamato di potere e molto pericoloso. Ma che alternative abbiamo? Altinol? Quegli insignificanti tipi in cui ci siamo imbattuti lungo l'autostrada? Ci vorrebbero milioni di anni per riuscire a unire tutte le nuove province in un unico stato. Folimun ha l'autorità sufficiente perché intere nazioni gli si inginocchino ai piedi... anzi, a quelli di Mondior. Ascolta, Siferra, la maggior parte degli uomini è impazzita. In questo momento ci sono milioni e milioni di folli che girano in piena libertà. Solo gli idioti o le persone psicologicamente forti - io, te e Beenay, ad esempio - sono riuscite a riprendersi. Gli altri, la maggior parte dell'umanità, impiegheranno mesi o anni prima di recuperare a pieno l'uso della ragione. Un profeta carismatico come Mondior, per quanto l'idea mi ripugni, è forse l'unica risposta." "Non c'è altra scelta, quindi?" "Non per noi, Siferra." "E perché no?" "Senti, Siferra, io credo che le cose importanti stiano già migliorando. Tutto il resto è secondario. Il mondo ha subito una terribile ferita e..." "Ha inflitto una terribile ferita a se stesso." "Non la penso così. Gli incendi sono stati la reazione a una situazione totalmente nuova. Non si sarebbero mai verificati se l'eclissi non avesse strappato il velo e non ci avesse mostrato le Stelle; ma le ferite si estendono. Ciascuna ne porta con sé delle altre. Altinol è una ferita. Quelle nuove province indipendenti sono delle ferite. I pazzi che si uccidono nella foresta o danno la caccia ai professori universitari in fuga sono ferite." "E Folimun? Non è lui la ferita più profonda di tutte?" ribattè Siferra. "Sì e no. Certo, lui diffonde fanatismo e superstizione. Ma anche ordine e disciplina. La gente crede a ciò che egli offre, anche i pazzi, anche chi ha la mente offuscata. E’ una ferita talmente profonda che può ingoiare tutte le altre. Può risanare il mondo, Siferra. E poi, dall'interno, noi possiamo tentare di riparare quello che egli ha fatto. Ma solo dall'interno. Se ci uniamo a lui, abbiamo ancora una possibilità. Se ci opponiamo a lui, ci schiaccerà come formiche." "Cosa dici di fare, allora?" "Possiamo scegliere: o ci schieriamo al suo fianco ed entriamo a far parte del ristretto gruppo dirigente che guiderà il mondo fuori dalla follia, o diventiamo dei fuorilegge e continuiamo a fuggire da una parte all'altra del mondo. Cosa scegli, Siferra?" "Voglio un'altra possibilità." "Non esiste. Al gruppo di Amgando manca la forza di volontà per formare un governo efficiente. La gente come Altinol è priva di scrupoli. Folimun controlla già metà di quella che un tempo era la Repubblica Federale di Saro, ed è certo di trionfare il breve sui territori che ancora non governa. Ci vorranno secoli prima che ritorni a regnare la ragione, Siferra, indipendente mente dalla scelta che faremo noi." "Quindi tu sostieni che è meglio unirsi a lui e cercare di controllare la direzione
nella quale si indirizzerà la nuova società, piuttosto che opporsi a lui semplicemente perché non approviamo quel tipo di fanatismo che rappresenta?" "Esatto. Proprio così." "Ma contribuire a mettere il mondo nelle mani del fanatismo religioso..." "Il mondo è già riuscito a liberarsi altre volte dal fanatismo religioso. In questo momento, la cosa importante è trovare un modo per liberarci dal caos. Folimun e il suo gruppo sono la sola speranza tangibile. Pensa alla loro fede come a una macchina che guiderà la civiltà, in un momento in cui non esistono altre macchine. E’ questa la sola cosa che conta. Innanzi tutto bisogna rimettere in ordine il mondo, poi sperare che i nostri discendenti si stanchino di questi fanatici incappucciati. Capisci cosa voglio dire, Siferra?" Annuì in modo strano, vago, come se rispondesse dormendo. Theremon rimase a fissarla mentre si allontanava lentamente da lui, diretta verso il prato dove erano stati sorpresi dalle sentinelle degli apostoli, la sera precedente. Gli sembrava che fossero passati degli anni. Si fermò e rimase a lungo da sola nel prato, sotto la luce dei quattro soli. Com'è bella, pensò Theremon. Quanto l'amo! E che svolta strana hanno preso le cose. Attese. Gli apostoli stavano lavorando speditamente per smontare l'accampamento, sagome incappucciate correvano da una parte all'altra, intorno a lui. Folimun gli si avvicinò: "Allora?" "Ci stiamo pensando," rispose Theremon. "Tutti e due? Avevo l'impressione che lei fosse comunque dalla nostra parte." Theremon lo guardò in modo deciso. "Sarò con voi se anche Siferra lo sarà. Altrimenti no." "Come vuole. Ci dispiacerebbe comunque perdere un uomo con le sue notevoli capacità nel campo della comunicazione. Per non parlare della dottoressa Siferra e della sua competenza in archeologia." Theremon sorrise: "Vediamo intanto se sono stato bravo a comunicare con lei." Folimun annuì e si allontanò in direzione dei camion che gli apostoli stavano caricando. Theremon guardò Siferra, che era rivolta a est, verso Onos, mentre la luce di Sitha e Tano scendeva su di lei dall'alto, come un flusso abbagliante, e da nord cadevano i sottili strali rossi dei raggi di Dovim. Quattro soli. Il migliore dei presagi. In quel momento Siferra stava tornando indietro, attraversando rapidamente il campo. I suoi occhi splendevano e sembrava che stesse ridendo. Andò verso di lui correndo. "Allora?" le chiese Theremon. "Cosa dici?" Gli prese la mano. "Va bene, Theremon. D'accordo. L'onnipotente Folimun è la nostra guida, e lo seguiremo ovunque egli ci ordinerà di andare. Ma a una condizione." "Quale? Di' pure." "La stessa che ho già detto nella sua tenda. Non indosserò la loro tonaca. Assolutamente no. Se insiste perché mi metta quella roba, non se ne fa più niente." Theremon assentì, felice. Tutto sarebbe andato per il meglio. Dopo la Notte sorgeva il giorno, e poi tutto rinasceva. Dalla devastazione sarebbe sorta una nuova Kalgash, e lui e Siferra avrebbero avuto una parte in essa, un ruolo importante nella sua creazione. "Credo che si possa fare," rispose. "Andiamo a sentire cosa ne pensa Folimun."
FINE