CORNELIO FABRO
OPERE COMPLETE Volume 3
LA NOZIONE METAFISICA DI PARTECIPAZIONE
CORNELIO FABRO
LA NOZIONE METAFISICA DI PARTECIPAZIONE SECONDO S. TOMMASO D’AQUINO
EDIVI
Cornelio Fabro
Opere Complete a cura del Progetto Culturale Cornelio Fabro, dell’Istituto del Verbo Incarnato
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Volume 3
La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino a cura di Christian Ferraro
Prima edizione: Società Editrice «Vita e Pensiero», Milano 1939. Seconda edizione: SEI, Torino 1950. Terza edizione: SEI, Torino 1963.
Prima edizione nella serie delle Opere Complete: 2005 © 2005 – Editrice del Verbo Incarnato P.zza San Pietro, 2 – 00037 Segni (RM)
[email protected] Proprietà intellettuale: «Provincia Italiana S. Cuore» (PP. Stimmatini)
PREFAZIONE
Ormai il titolo e il tema di questo volume non rappresentano più una novità assoluta, come al suo primo apparire or sono due lustri, e ciò è la miglior prova della vitalità e della trascendenza speculativa del Tomismo autentico quando sia cercato e ripensato nel suo clima originario. Si sta chiudendo ormai un secolo fecondo di ripresa del pensiero cristiano che la Chiesa ha voluto indirizzare decisamente sulle orme di S. Tommaso d’Aquino: l’urgenza della sintesi sistematica e le necessità innegabili dell’apologetica, che hanno affaticato intere generazioni di pensatori cristiani, si può ben dire ch’è stata egregiamente soddisfatta. Ora incombe un còmpito più costruttivo e universale, quello di cercare la situazione originale di un pensiero sullo sfondo storico e teoretico delle correnti in lizza al suo tempo e nella prospettiva della sua rivalutazione rispetto alle filosofie che si battagliano nel tempo nostro: perchè se nessuna filosofia è mai del tutto caduca, lo è meno di tutte quella di S. Tommaso per l’apertura illimitata dei suoi temi e una fiducia tutta sua propria nel lavoro della mente umana per la ricerca della verità. Così, una volta in possesso delle strutture principali di questo pensiero, si tratta d’individuarne la forza segreta e il principio maestro che la domina e la muove e la può rendere efficace prima e al di là della sistematizzazione dovuta a contingenze storiche o didattiche. A questo scopo dovrebbe un po’ servire il presente volume o almeno questa era e resta ancora la mia intenzione. Esso vorrebbe mostrare che la nozione di partecipazione, in cui s’incagliò il pensiero classico e alla quale per una via del tutto opposta ritornò il pensiero moderno, rappresenta nel Tomismo, sotto punti di vista diversi e convergenti, sia il problema speculativo fondamentale tanto nell’ordine della natura come in quello della grazia,| sia l’ultimo riferimento dialettico per una fondazione definitiva del problema stesso. Questa risoluzione riesce, nel Tomismo, a incorporare gli elementi perenni del Platonismo di cui si era nutrita l’epoca patristica, trasfigurandoli entro la concezione aristotelica del concreto, per poi elevarsi alla nozione cristiana di creatura. Questa seconda edizione presenta importanti aggiunte in ogni sezione e l’apparato bibliografico è quasi raddoppiato e condotto, per quel che riguardava l’argomento centrale dell’interpretazione della metafisica tomista, fino alle pubblicazioni più recenti d’indirizzo affine. Dal punto di vista storico, credo sia difficile – anche ai più ostinati difensori di un tomismo «sistematico» di struttura formalista – contestare la centralità genetica della nozione di partecipazione. Non ho abbandonato la promessa di trattare della causalità e dell’analogia in corrispondenza alla struttura dell’essere, delineata in questo volume, e mi lusingo di poter dire anch’io: addo, dum minuo! Ringrazio gli amici dell’Argentina: senza la loro cortese e generosa insistenza non avrei messo mano al lavoro di questa seconda edizione che mi auguro faccia avanzare ancora di qualche buon passo quei problemi supremi sul nostro essere che ci dànno il dolce tormento della ricerca e la fiducia dell’attesa per il Primo Principio. Sono grato anche ai critici e mi lusingo ch’essi, riaprendo queste pagine, non tardino ad accorgersi che le loro osservazioni non sono state vane. L’Editore, che in questi tempi così grami per gli studiosi, si è assunto con sollecita liberalità di dare al lavoro una veste degna, ha il merito del progresso della presente edizione. Un Saggio come questo, troppo denso e disadorno, non è fatto per il gran pubblico: esso cerca i sinceri «amici delle idee» che, appartati dal brusio delle vicende contingenti, cercano in serenità l’itinerario per le cose eterne.
L’AUTORE Roma, Luglio 1949
PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE
Questo lavoro ha avuto origine da una dissertazione sul tema: «Il principio di causalità», premiata dalla pontificia Acc. Rom. di S. Tommaso nel 1934. In esso, ed in modo più preciso nell’articolo: «La difesa critica del principio di causa» (Riv. di Filos. Neosc., Milano 1936), che ne riassumeva le conclusioni, mostravo come fra le varie formule proposte per ovviare alle istanze critiche, che da alcuni anni si vanno facendo circa la «perseità» od analiticità del principio di causa, la più adatta, secondo la lettera e lo spirito del Tomismo, sembra essere quella enunziata in funzione della nozione di partecipazione (S. Theol., Ia, 44, 1). La buona accoglienza che ebbero quei primi tentativi, mi hanno spinto a continuare la ricerca secondo una direzione di idee più comprensiva. Mi accorsi allora che quella nozione penetra tutta l’opera del Dottore Angelico, e, fondando l’ascensione dialettica del pensiero, ne garantisce l’oggettività in modo che, benchè originariamente platonica, la nozione di partecipazione si viene costruendo nel Tomismo in armonia agli schemi aristotelici. Questa conclusione però è affrontata soltanto in parte, cioè in quella introduttiva: si vuol mostrare soltanto che la nozione di partecipazione esprime nell’Aristotelismo tomista l’ultima ragione metafisica sulla struttura dell’ente finito (nozione di creatura), tanto nell’ordine trascendentale come predicamentale e sia nell’ambito della natura come in quello della grazia. Per questo la nozione di partecipazione viene da me considerata come l’ultimo riferimento nozionale che da un punto di vista metafisico-critico si possa fare dello sviluppo interiore del Tomismo, soprattutto nei suoi punti cruciali. E poichè la mia attenzione è stata rivolta più| ai principî che alle conclusioni, mi si scuserà se la parte sistematica è quasi sempre sottintesa od appena accennata, ed è per questa ragione che considero la mia indagine di natura «analitica» nel senso moderno, cioè kantiano, del termine. Infine intendo di dichiarare che non voglio fare direttamente opera polemica con alcuno, nè pretendo di rivoluzionare le interpretazioni correnti del Tomismo, ma al più di porgere un invito ad una familiarità più intima e prolungata dei testi nei quali spesso le questioni vengono a delinearsi con tale ampiezza e profondità quale raramente si trova anche nei più fedeli discepoli. L’autore di queste pagine si è aggiunto a questi con la stessa docilità ed umile dedizione al Maestro Comune, e sarebbe il primo a ricredersi qualora s’accorgesse d’averne travisato il pensiero. L’AUTORE Roma, Maggio 1938
AVVERTENZA ALLA TERZA EDIZIONE
Questa nuova edizione è stata corretta con ogni cura dagli errori di stampa della precedente ed è stata migliorata notevolmente nei testi tomistici per i quali ora disponiamo di una sicura edizione critica (Saffrey e Pera per il Commento al De Causis, Decker per il Commento al De Trinitate di Boezio, Perrier per gli Opuscula et scripta minora, I). Fra le modifiche di terminologia mi permetto di segnalare l’espressione «riflessione intensiva» ch’è sembrata doversi preferire alla precedente «astrazione intensiva» per indicare il carattere originale della riflessione metafisica del Tomismo. Per ulteriori approfondimenti dei problemi ci permettiamo di rimandare al recente nostro Partecipazione e causalità, S.E.I., Torino 1961; ed. fr., Nauwelaerts, Paris-Louvain 1960. L’AUTORE Roma, L’Epifania del Signore del 1963
INTRODUZIONE
I. IL SIGNIFICATO DEL PROBLEMA 1. – Nessun termine ha mai tanto interessato l’indagine speculativa come quello di partecipazione: si potrebbe dire quasi che i sistemi filosofici si specificano interiormente secondo l’attitudine particolare che prendono a suo riguardo, come si differenziarono la prima volta le due sintesi mature del pensiero classico: Platonismo ed Aristotelismo. Io vorrei applicare qui, quasi «in vivo», questo criterio esegetico al Tomismo, considerandolo nel suo sorgere e nel suo costituirsi quale sintesi speculativa, apparsa in un’epoca di maturità della cultura cristiana. La rinascita del pensiero scolastico nei tempi moderni è stata, nelle intenzioni della Chiesa, una rinascita e ripresa a fondo del pensiero tomista: ora questo fatto innegabile, anche se qualche personalità eminente ha voluto sminuirlo1, pone degli ardui problemi nel campo dell’esegesi dottrinale del Tomismo. Invero è sintomatico che con l’avvento del Tomismo si è avuta come un’inversione di polarità nella speculazione cattolica: mentre si ritiene che la speculazione patristica assimilava ed esplicitava la dottrina rivelata con lo strumento della filosofia platonica, la speculazione tomista invece sembrò staccarsi nettamente dal pensiero precedente e da quello della maggior parte dei contemporanei,| per adattare quello del «Critico delle Idee»2. Questi contemporanei, che vivevano quieti delle risorse del pensiero patristico e soprattutto di S. Agostino, persuasi d’essere i più legittimi rappresentanti del pensiero ecclesiastico fecero al Tomismo l’accoglienza più sgarbata e, forti della propria posizione, speravano d’aver presto causa vinta; ma il fatto si fu che il Tomismo, sia pur a traverso dure lotte, riuscì ad affermarsi sopra ogni altra direzione e ad essere indicato da secoli come la dottrina ufficiale della Chiesa. Tali e tante sono state le prove a traverso le quali l’Aristotelismo tomista è passato, ed insieme tali e tante sono state le dichiarazioni esplicite del magistero ecclesiastico che è da spiriti in ritardo l’attribuire tale successo a brighe diplomatiche od a mera fortuna: la prima e vera ragione non può essere trovata che nel valore intrinseco del Tomismo come sintesi cattolica, «als katholische Weltanschauung». Ed è su questo valore intrinseco della sintesi tomista che gli avversari antichi e nuovi hanno voluto puntare le armi. La posizione del problema è assai facile: Platonismo ed Aristotelismo sono in sè, a confessione dello stesso Aristotele, inconciliabili. Ora, o S. Tommaso si è limitato ad una pedissequa riproduzione dell’Aristotelismo – ed allora il suo tentativo non merita di esser preso in considerazione se non per sottoporlo alle censure ecclesiastiche – oppure S. Tommaso ha voluto fare una sintesi di elementi che si respingono a vicenda, ed allora il suo tentativo testimonia, al più, una gran buona fede speculativa, ma in sè è destinato a fallire. Alla prima interpretazione possiamo ricondurre l’atteggiamento dei primi avversari di cui il francescano Peckam, in una lettera all’Arcivescovo di Lincoln in data 1º giugno 1285, diede un piccante esempio3: «Praeterea noverit ipse, quod philosophorum studia minime reprobamus, quatenus mysteriis theologicis famulantur,| sed profanas vocum novitates, quae contra philosophicam veritatem sunt in sanctorum iniuriam citra viginti annos in altitudines theologicas introductae, abiectis et vilipensis sanctorum assertionibus evidenter. Quae sit ergo solidior et sanior doctrina, vel filiorum sancti Francisci, sanctae scilicet memoriae fratris Alexandri (Alensis) ac fratris Bonaventurae et consimilium, qui in suis tractatibus ab omni calumnia alienis sanctis et philosophis innituntur, vel illa novella quasi tota contraria, quae quidquid docet Augustinus de regulis aeternis et luce incommutabili, de potentiis animae, de rationibus seminalibus inditis materiae et consimilibus innumeris, destruit pro viribus et enervat, pugnas verborum inferens toti mundo, videant antiqui, in quibus est sapientia, videat et corrigat Deus Coeli»4. I moderni denigratori del Tomismo sono meno enfatici del Peckam e preferiscono la seconda interpretazione: il Tomismo non è in alcun modo un sistema speculativo, ma un’accozzaglia instabile di elementi, presi dagli indirizzi più contrastanti. «La vaste composition élaborée par S. Thomas d’Aquin, – asserisce P. Duhem – se montre à nous comme une marqueterie où se juxtaposent, nettement reconnaissables et distinctes les unes des autres, une multitude de pièces empruntées à toutes les philosophies du paganisme
hellénique, du Christianisme patristique, de l’Islamisme et du Judaïsme. Le Thomisme n’est pas une doctrine, il est une aspiration et une tendance: il n’est pas une synthèse, mais un désir de synthèse»5. È noto che questa poco benigna asserzione del Duhem è stata ripresa in Francia, con molta astuzia e sfoggio di erudizione di seconda mano, dal ROUGIER che la precisò in questo modo: l’unica filosofia cristiana «de jure» è il Tomismo: ora l’essenza e la verità fondamentale del Tomismo sta nell’affermazione della distinzione fra essenza ed atto di essere nelle creature; ma con questa distinzione S. Tommaso si è ispirato al Neoplatonismo e si è messo in evidente contrasto con la lettera e lo spirito dell’Aristotelismo, a cui pur affermava di voler ricondurre tutto il suo sistema. Così il Tomismo si risolve, nella sua tesi principale, in un ripudio dell’Aristotelismo, e fallisce come sistema filosofico, e per questo, con la caduta del Tomismo, cade ogni speranza di una filosofia cristiana6.| Più recentemente, proprio fra noi, vi fu chi osò gettare la pietra contro il più grande spirito speculativo che abbia avuto la nostra gente, anche se quest’insulto perde molto del suo valore quando si tengono presenti le condizioni personali dell’autore, un naufrago del Modernismo e dell’Idealismo. Per G. SAITTA «il carattere della filosofia tomista non è per nulla di ordine speculativo, ma pratico: esso è essenzialmente una filosofia della teocrazia papale, ove il teocentrismo più rigoroso è piegato all’asservimento completo della coscienza di fronte alla somma autorità visibile della Chiesa». Anche per il S. il Tomismo è una filosofia mancata, e come il Duhem e il Rougier, da cui dipende, trova la ragione di questo fallimento nell’assenza di ogni originalità speculativa e nell’assurda fusione di elementi inconciliabili. Tutto il Tomismo non si riduce che ad un facile giochetto di passare dall’Aristotelismo al Platonismo quando l’Aristotelismo zoppica e resta muto: è un bisogno personale di pace interiore e non un problema reale, che S. Tommaso si è affaticato di soddisfare. «Tutta la sua attività è... dominata dall’anelito profondo di accumulare il sapere del suo tempo, di riordinarlo e di chiarirlo, perchè servisse ai fini religiosi e politici di quella teocrazia che ai suoi occhi era il fondamento stabile e visibile della religione alla quale si era votato. Invano si ricercano in lui nuove intuizioni filosofiche: il suo còmpito fu certo grandioso e cercò di assolverlo, ma esso, che riuscì a saldare comunque elementi eterogenei e in sè contrastanti, fu privo di quella luce superiore che rivela il genio filosofico. Tommaso fu il più grande sommista medievale, ma non fu per nulla un filosofo originale. Quando Aristotele non risponde o non può rispondere al suo programma religioso, egli non ha nessuna difficoltà di rivolgersi alla scuola platonico-agostiniana, e sfrutta largamente... le intuizioni dello Pseudo-Dionigi e dei Platonici e Neo-Platonici»7. Una campagna analoga di denigrazione del Tomismo, con espressioni però meno spinte, si viene compiendo anche in qualche ambiente culturale tedesco, ove si va diffondendo un certo senso di sfiducia verso il pensiero dell’Aquinate, che in questi ultimi anni ha avuto delle espressioni molto vivaci di reazione in occasione| della controversia intorno all’analiticità del principio di causa8. Secondo questi bisogna abbandonare lo spirito astratto e sistematico e ritornare allo spirito Agostiniano che è più confacente alle tendenze della cultura moderna ed alla stessa realtà. 2. – Le impugnazioni moderne del Tomismo cercano il loro punto di appoggio sul carattere di «sincretismo artificiale» a cui andrebbe ridotta la sintesi tomista: sincretismo di Platonismo ed Aristotelismo; e bisogna riconoscere che le affermazioni sopra riferite, anche se possono sembrare paradossali, a forza di essere ripetute vanno esercitando un malefico influsso anche su molti spiriti che perciò pretendono ad esser «moderati» nell’accettazione del Tomismo, i quali vogliono cioè esercitare la propria scelta e critica personale sui capisaldi stessi del sistema. Io sono persuaso che questa tendenza rivela una conoscenza molto superficiale della struttura teoretica, ed anche del «divenire» e della genesi storica del Tomismo: questo lavoro vorrebbe ovviare in qualche modo all’aspetto fondamentale di questo equivoco. 1) Nel lavoro si suppone che il Tomismo è essenzialmente un Aristote-lismo: su questo punto, per chi ha familiarità del testo tomista e conosce la genesi storica del sistema e le prime polemiche, non è più lecito dubitare. 2) Ma non si tratta di una ripetizione servile, nell’ambiente medievale, di un puro aristotelismo «storico», quale poteva esser presente all’Aristotele degli ultimi anni: il Tomismo è essenzialmente un Aristotelismo «speculativo», che si è venuto, cioè, costruendo per uno sviluppo «ab intra» (si badi bene) della virtualità dei principî, e di alcuni principî fondamentali particolarmente, posti dallo Stagirita. 3) In questo «sviluppo» dell’Aristotelismo S. Tommaso giunge all’assimilazione, non obbligata o fittizia, ma naturale per lui e reale del midollo speculativo, cioè dell’aspetto perenne, del Platonismo che è
fatto convivere assieme all’Aristotelismo e, quello che più conta anche se può sorprendere, che questo fondo speculativo neoplatonico si sostiene quasi sempre nel Tomismo per principî aristotelici.| È questo midollo che mi è parso possa essere individuato nella nozione tomista di partecipazione. La nozione platonica di partecipazione serviva per esprimere una concezione del reale, che S. Tommaso non poteva ammettere e non ha mai ammessa. Pertanto viene spontanea la suggestione: se questa nozione riappare nel Tomismo, ciò non può essere se non a traverso profonde modificazioni e, d’altra parte, la penetrazione di questa nozione nell’Aristotelismo-tomista deve anche aver influito sui lineamenti dello stesso Aristotelismo. L’interpretazione che qui si crede fondata è quindi al tutto opposta, in questa parte, a quella degli autori sopra citati e collima con quella del FOREST: «Saint Thomas ne se contentera pas de juxtaposer l’une et l’autre explication (platonica ed aristotelica), mais il essaiera de montrer comment, en se plaçant à un point de vue supérieur, et en comprenant toutes les exigences de la “consideratio ipsius esse universalis”, il est possible de les accorder. Tout se passe comme si la philosophie platonicienne de la participation ne pouvait être sauvegardée que dans une philosophie aristotélicienne de l’expérience et du réel»9. Il nucleo centrale della controversia viene ad essere così la «nozione tomista di partecipazione», la quale per gli avversari è la condanna, per noi invece è la salvezza del Tomismo, che deve a quella nozione l’aver raggiunto una sintesi di valore superiore a quella delle fonti. Lo scopo della presente analisi vorrebbe essere quello di una presa di posizione oggettiva rispetto a quelle esagerazioni esegetiche. Io ho intrapreso la mia non lieve fatica nella persuasione che sia possibile una ricostruzione e difesa a fondo, sia teoretica come storica, del Tomismo a partire dalla nozione tomista di partecipazione. Ma bisogna per questo mettere in chiaro il contenuto esatto di questa nozione. La nozione di partecipazione per molti tomisti sembra quasi un’importazione sospetta sulla quale è meglio passar sopra, od almeno presenta un contenuto del tutto superfluo per l’Aristotelismo di S. Tommaso, che si regge da solo con i suoi propri principî: d’accordo! ma si tratta appunto di sapere quale sia il contenuto dottrinale di questi principî. Ora bisogna risolversi a riconoscere, almeno come «status quae|stionis» l’assennatezza di questa osservazione del BAEUMKER: «Ist so die thomistische Philosophie viel stärker von platonischen Elementen durchdrungen, als man bei dem Führer der aristotelischen Bewegung erwarten möchte, so ist es natürlich, dass dort, wo der traditionelle Augustinismus stärkere Macht behalt auch Platos Einfluss noch weit mehr sich geltend macht»10. Di questi elementi senza dubbio il primo e più importante è la nozione di partecipazione e valeva la pena almeno tentare di passare dalle affermazioni generali ad uno studio più particolare e diretto, fatto quasi in «vivo» circa l’armatura metafisica del Tomismo. Un primo frutto di questa nostra fatica sarà quello di dissipare molti preconcetti o vedute superficiali sull’argomento, come quella del GRÜNWALD che taccia la quarta via, che si fonda sulla nozione di partecipazione, come infetta di idealismo: «Es unterliegt keinem Zweifel, daß wir es hier mit einem rein abstrakt begrifflichen Beweisverfahren zu tun haben, das in idealistischer Art aus bloßen Begriffen auf die Möglichkeit schließt, und zwar mit einer überraschenden Offenheit und Schroffheit wie wir sie nur in der Frühscholastik antrafen»11. Quello che preme di mettere in vista è la vera fisionomia della nozione tomista di partecipazione, nella quale, se viene conservato il nucleo platonico originario, vi si versa però molta acqua nel vino, onde non sia più permesso fare delle sviste sostanziali e credere ingenuamente che la nozione tomista non sia che una pura riproduzione di quella platonico-agostiniana, come insinuava il Baeumker e più chiaramente A. LANG. «Offenbar haben wir es mit einer etwas freien Reproduktion der platonisch-augustinischen Gottesbeweises zu tun; die Welt des Werdens ist ein schwaches Abbild einer höheren Seinswelt! Das ist ein platonischaugustinischer Gedanke. Nur schade dass Thomas diesen schönen Gottesbeweis nicht ausführlicher entwickelt hat, sonst hätte man nicht behaupten können, dass der noëtische Gottesbeweis in der Glanzperiod der mittelalterlichen Scholastik in Vergessenheit geraten ist, sonst hätte man nicht von einem Gegensatze zwischen Augustin und Thomas reden können»12. Possiamo fin d’ora osservare che S. Tommaso ha sviluppato| con ogni ampiezza la nozione di partecipazione, ma che è un grosso abbaglio confondere la quarta via di S. Tommaso con la prova noetica di S. Agostino; intorno alla dibattuta questione circa una concordanza o dissenso fra S. Agostino e S. Tommaso, la cosa è meno semplice di quanto la supponga il Lang, come tenteremo di mostrare a più riprese nel corso di questo lavoro.
3. – Quale sia stato l’esatto pensiero della tradizione tomista su questa faccenda, io non sono in grado di dirlo, perchè ancora non ho potuto conoscerlo in tutto il suo sviluppo. Gli indizi, che possono apparire da una lettura ordinaria dei Commentatori più celebri, fanno congetturare che, spesso sotto la pressione della polemica, ci si è occupati di dare alle dottrine sviluppi di ordine sistematico e analitico in questo e quel punto conteso fra Tomisti e Antitomisti o fra gli stessi Tomisti, più che preoccuparsi di risalire ai principî originari che comandano dall’interno lo sviluppo della sintesi. Questo eccessivo sviluppo analitico delle dottrine ha portato non solo alla produzione di tutta una letteratura davvero troppo rigogliosa e abbondante, perchè pretenda di arrestare l’attenzione dello studioso moderno che, assillato dalla brevità del tempo e delle moltiplicate esigenze dei problemi, a stento può convincersi di ripassare, almeno una volta, a traverso le complicate gallerie e gli anfratti tortuosi di tante minuzie. Ma ciò anche rivela una concezione quasi intemporale dei problemi dello spirito, quasi che questi non fossero in alcun modo opera umana, soggetti quindi, come tutte le altre opere umane, a delle condizioni reali – vorrei dire fenomenali – di sviluppo, in una parola, soggetti a quella contingenza radicale che penetra ogni manifestazione degli esseri immersi nel tempo. Per questo l’antitesi: Platonismo o Aristotelismo, cioè il fatto più saliente nella storia dei problemi speculativi, che pur resta ancor così viva, malgrado il noto ottimismo esegetico, nei testi tomisti, non viene mai in primo piano nell’attenzione dei Commentatori, che accettano bene spesso, una volta per sempre, essere il Tomismo, nella sua struttura speculativa, un Aristotelismo che ha subìto al più qualche lieve ritocco qua e là. Con la rinascita del pensiero tomista nella seconda metà del secolo passato, quest’ambiente, che da tempo stagnava in soverchia quiete, ha presentato dei movimenti e degli indirizzi molto interessanti, anche se si deve riconoscere che i risultati reali tardano ancora ad imporsi. Il fatto si spiega anche perchè le interpretazioni nuove| proposte si riducono spesso a qualche felice intuizione, sprizzata da una particolare considerazione di questo o quell’aspetto, ma che poi non è riuscita a concentrarsi in un criterio esegetico di valore generale. Non è sufficiente l’affermare la persistenza nel Tomismo di una buona dose di Platonismo, bisogna ancora mostrare in qual modo e per quali principî essa sia stata resa possibile. Fra i primi, molti anni fa, VINCENZO LILLA aveva in un primo tempo sostenuto che S. Tommaso non era stato filosofo se non quanto bisognava esserlo per un teologo: quanto poi all’indole reale della sua filosofia non bisognava, secondo lui, lasciarsi ingannare dalle apparenze, poichè se il metodo e il formulario è certamente aristotelico, non lo è però l’intima ispirazione, che è essenzialmente platonica, non diversamente da quella del suo maestro S. Agostino. In un’opera successiva il Lilla attenuò le sue affermazioni, inclinando verso un’interpretazione sintetica del Tomismo, secondo la quale esso rappresentò nel secolo XIII, e nella cultura cattolica in genere, una concezione originale nella quale erano stati salvati, perchè innestati sull’armatura della metafisica aristotelica, i principî più profondi del Platonismo13. La tesi del Lilla, che era suffragata da alcune acute analisi delle dottrine tomiste sull’unione sostanziale fra l’anima intellettiva ed il corpo e sulla natura dell’intelletto agente, rimase quasi completamente dimenticata14. Compariva invece, quasi nello stesso tempo, il saggio teoretico di Mons. VESPIGNANI, Dell’esemplarismo divino secondo i principî scientifici dell’Aquinate, lavoro dottissimo che mostra una rara familiarità con le opere dell’Angelico e che su alcuni punti ci pare abbia ricostruito in modo fermo ed esauriente la posizione esatta dei problemi; ma dato il campo di esame ristretto scelto dall’autore che come il Lilla si era fermato al problema della conoscenza, ed anche per la soverchia preoccupazione polemica, questo saggio eccellente non raggiunse le proporzioni di un’interpretazione di valore generale15.| A distanza di molti anni dai lavori precedenti, appariva la tesi del DURANTEL sullo Pseudo-Dionigi, nella quale con una geniale e spesso irruente disamina di testi o dottrine, estesa a tutta l’opera di S. Tommaso, si avanzava l’interpretazione inquietante di un «Tomismo dionisiano» in opposizione a quello aristotelico tradizionale16. A parte l’esagerazione della tesi, il lavoro del Durantel si avvantaggiava delle risorse del metodo storico ed aveva portato alla luce degli elementi di indiscutibile valore, i quali integrati con quelli che avrebbero dovuto dare ricerche analoghe sulle altre fonti del Tomismo, avrebbero portato il problema sul terreno concreto della soluzione che contemperasse gli eccessi di ambedue le direzioni: aristotelica e platonica. Ma anche nell’ambiente strettamente tomista si sentiva il bisogno di una visuale ampia e sufficiente a conciliare dei dati di fatto che ormai apparivano innegabili. Ancor prima della tesi del Durantel, il celebre Teologo Friburgese N. DEL PRADO aveva fatto largo posto nella sua opera capitale: «De Veritate Philosophiae Christianae»17 alla nozione di partecipazione; ivi sono state trattate «ex professo» tutte le implicazioni dottrinali della nozione, però quasi esclusivamente «in via iudicii», e senz’alcun riferimento alle condizioni storiche dei problemi, intorno alle quali, del resto, si sapeva allora ben poco, poichè si era quasi all’inizio delle ricerche.
Profondamente ispirata, anzi dominata più di ogni altra, dalla nozione di partecipazione, è la sintesi recente di un altro Teologo Friburgese, il P. HORVATH18, che ha posto decisamente la nostra nozione alla radice del sistema tomista; anche questa felice ricostruzione è stata interamente orientata verso il problema epistemologico, e ciò, almeno per qualche aspetto, è stato un po’ a scapito sia della chiarezza dell’esposizione, sia dell’impostazione metafisica definitiva dei problemi generali circa la struttura dell’essere finito che è soltanto qua e là brevemente accennata. Ma, comunque sia,| questi due Autori sono stati gli ispiratori di questa mia elementare ricerca ed hanno influito decisamente su tutto l’orientamento che un po’ alla volta è venuto prendendo il mio studio di S. Tommaso. Molti altri ancora, in questi ultimi anni, hanno mostrato in qualche occasione la propria simpatia verso l’interpretazione «sintetica» nel senso sopra chiarito. Il P. MARC nel suo saggio su «L’idée de l’être chez St. Thomas et dans la scolastique postérieure» faceva gravitare la nozione tomista dell’essere attorno alla nozione di partecipazione, dalla quale attinge il vigore per la sua ascesa dialettica. La nozione tomista di ente, in virtù della sua dualità di essenza e di esse può tradurre l’immobilità e la mobilità delle cose, adeguarsi alla realtà e spingere il pensiero verso l’ultimo termine che è Infinito in atto. Poichè: «S’il est l’orientation des essences vers l’existence, il est de plus la participation de celle-ci par celles-là: ce qui veut dire qui il implique l’opposition du participant et du participé qui lui-même ne participe pas, de ce qui est second et de ce qui est premier, de ce qui n’est pas et de ce qui est ce qu’il est par essence, c’est-à-dire de ce qui est et de ce qui n’est pas par soi»19. Un confratello del P. Marc, il P. BREMOND, che è un sincero «amico delle Idee», ha cercato di mostrare prima direttamente in un articolo: «La synthèse thomiste de l’Acte et de l’Idée», e poi indirettamente nel saggio un po’ tumultuoso: «Le Dilemme Aristotélicien» quanto il Tomismo s’avvantaggi, nella sua struttura speculativa, rispetto al pensiero personale di Aristotele, e riprendendo un’espressione del grande platonista A. E. Taylor conchiudeva: «Je suis convaincu que le système cohérent est celui de S. Thomas: synthèse et synthèse nouvelle plus cohérente de celui d’Aristote et dont le vrai nom est Thomisme»20. Forse ispirato dal Bremond, ultimamente anche il Filosofo Lovaniense L. DE RAEYMAEKER nella conclusione alla II ed. della sua «Metaphysica Generalis» ha posto la nozione di partecipazione a fondamento di tutta la metafisica tomista, per via dei due principî che essa fonda: a) «actum non limitari nisi per potentiam correspondentem», b) «ens limitatum esse creatum»21. Nella recente sua presentazione dei problemi della metafi|sica22, il De R. ha dato alla nozione della partecipazione uno sviluppo continuo ch’è un indice sicuro del rinnovamento speculativo a cui il ritorno alle dottrine autentiche di S. Tommaso ci richiama. Notevole pregio della sintesi del De R. è anche la vigile attenzione ch’egli porta alle filosofie contemporanee che mostrino affinità o convergenza verso quest’idea tomista finora tanto obliata (p. es. Max Scheler, L. Lavelle, G. Marcel, Le Senne, ecc.). 4. – Nel medesimo anno in cui si pubblicava la II ed. della metafisica latina del De R. appariva la prima tesi dedicata alla nozione tomista di partecipazione e dovuta a un predicatore protestante23: la ricerca è limitata al problema della conoscenza con particolare riguardo alla teoria agostiniana della «luce» ch’ebbe tanta fortuna nel sec. XIII, ma di cui S. Tommaso fece un uso molto sobrio. Il lavoro è condotto con rigoroso metodo scientifico: precede un sostanziale compendio delle Fonti della nozione tomista (pp. 1-5), da cui l’A. prende i termini e il senso della partecipazione nel campo dell’essere e del conoscere (pp. 5-11) aggiungendo brevi indicazioni sull’applicazione della partecipazione nell’ordine soprannaturale (pp. 12-13). Il problema del conoscere viene esaminato tanto nell’ordine della natura come in quello della grazia con accenni rapidi, ma abbastanza sicuri perchè l’Autore conosce la recente letteratura cattolica: lo studio, ch’è piuttosto una sobria indicazione di testi, ha il merito d’aver sentito con sicuro criterio l’orientamento di un’interpretazione delle dottrine tomiste che prima era rimasta quasi completamente nell’ombra e ci si deve rammaricare soltanto che l’Autore non ci abbia dato, con lo stesso metodo, l’analisi dell’ente come tale, nelle sue espansioni principali sia nell’ordine predicamentale come trascendentale. Un avvicinamento originale alla nozione tomista della partecipazione in funzione della problematica moderna, quale finora nessuno aveva tentato, è stato fatto quasi contemporaneamente| da due filosofi tedeschi, Gustav Siewerth e Max Müller, che sembra si muovano in un identico ambiente culturale: persuasi della esigenza critica del pensiero moderno ed insieme profondamente convinti della consistenza metafisica della concezione tomista dell’essere, essi hanno cercato e tentato di elaborare tutto il problema del rapporto fra finito e infinito in funzione di un accordo superiore e anche di un’integrazione fra i due punti di vista che di solito si credono contrastanti. Il Siewerth, che qualifica il Tomismo come «sistema dell’identità»24, non incontra il problema della partecipazione che di sbieco, trattando il problema della «contrazione e divisione dell’essere» (pp. 115-129): la «partecipazione» costituisce veramente quella «mediazione» nello strutturarsi e nel divenire del finito.
L’unità dell’essere così è salvata, in quanto l’atto finito, avendo la sua consistenza nella «esemplarità» dell’Atto infinito (lo Ipsum esse), non si diparte perciò da esso. Il finito si costituisce in se stesso come «contrazione o limitazione» (Begrenzung), ma si attua, precisamente come dice S. Tommaso, in una derivazione di atto (finito) da atto (infinito): secundum processionem et diffusionem (Ia, 75, 5 ad 1um). Perciò, è l’atto che sta a fondamento della partecipazione dello stesso essere ed è quest’atto la «mediazione pura» (reine Vermittlung), in cui consiste il fondamento dell’ente finito e perciò non si può trattare di un «rapporto semplice e immediato» (p. 119 ss.). In altre parole ciò che il finito ha dall’Infinito è una partecipazione, e non l’Infinito stesso è un «modus particularis»: l’essere quindi ch’è propriamente partecipato non è Dio, ma lo «essere stesso di cui qualcosa risulta»25, perchè Dio non può attuare immediatamente nessuna potenza. Questa contrazione modale o partecipazione dell’ente è riferita ad un divenire puramente ideale e porta perciò a una «differenza modale» che va intesa unicamente con la immagine già indicata del «fluire» che permette egualmente d’intendere l’espandersi dell’essere nella molteplicità dei suoi elementi senza perciò perdere la sua unità (p. 120). Nel rapido accenno alla «contrazione dell’essere nella composizione con l’essenza», il S. evita di considerare la composizione di essenza ed esistenza, pago di| affermare l’unità dell’essere, avvicinandosi (ci sembra) ad una concezione dell’essere di tipo formalista la quale potrebbe verificarsi non tanto per S. Tommaso quanto per molti suoi avversari. La nozione «attivista» dell’essere, concepita in funzione della concezione moderna dello «spirito» (Geistphilosophie), forma anche la trama e il contenuto del robusto saggio metafisico del MÜLLER26: più aderente ai problemi storici e alle analisi testuali del Siewerth, questo lavoro merita seria considerazione come tentativo di ricercare un fondo metafisico comune fra l’ontologia medievale (e specialmente tomista) e la metafisica idealista. Trattarlo semplicemente come di una «trasposizione di S. Tommaso in Hegel»27 mi pare troppo sbrigativo, quando si pensi a quel che tanto l’Angelico quanto Hegel hanno saputo prendere da Proclo. Evidentemente noi pensiamo che con la rivalutazione della nozione di partecipazione, il Tomismo è in grado di aprire il dialogo sia col pensiero classico come con quello moderno, più di qualsiasi altra forma di pensiero cristiano. È da questo punto di vista che va considerato il saggio del Müller dove la nozione di partecipazione non è chiamata a un còmpito diretto, benchè sia evidentemente presupposta specialmente nella Sezione III, La costituzione dell’ente (p. 136 ss.). Per il Müller la distinzione reale tomista fra essenza ed esse (ch’egli chiama: Die reale Differenz von Was und Da, p. 140, Exkurs), su cui si fonda la distinzione fra finito e infinito, creatura e creatore, resta fuori discussione e a fondamento della sua ricerca. La posizione fondamentale del Müller è di penetrare nella coesione «dinamica» dell’essere come tale, nella dinamica diretta fra finito e infinito, superando la porta chiusa dell’analogia (tradizionale) di proporzionalità; così, facendo quasi una sintesi del dinamismo di P. Maréchal e dell’univocismo ontologico di Heidegger, egli cerca di mostrare l’unità della finità esistenziale e dell’infinità essenziale, l’identità dell’infinità essenziale fra Dio e la creatura, sempre mantenendo quella diversità reale di principî senza la quale non vi può essere tensione dialettica alcuna fra principio e principiato. L’infinità come tale è adialettica (l’A. dice «undialektisch», p. 168).| La finità è, secondo la concezione tomista, fondata e caratterizzata decisamente per via della diversità reale, della fondamentale e reale opposizione del «ciò» e del «lì» (Was und Da), di essenza ed esistenza, di piano e forza, di principio di struttura e di realtà. Ma questa diversità si ricompone nella unità di un terzo che ne risulta, per via di una «trasformazione» (Wandlung) dei principî che fondano in ciò ch’è fondato (das Gegründete): così la sussistenza del concreto è come un nuovo momento rispetto ai due fondanti, è come il «risultato» del loro rapporto scambievole di fondazione (als Resultat ihrer sich gegenseitig durchdringenden Gründung). L’eco della «tecnica» hegeliana della dialettica qui balza subito all’occhio28, ma con un’applicazione originale e strettamente metafisica. L’Autore applica la tecnica della Aufhebung hegeliana sia al rapporto di materia e forma (struttura), come a quello di essenza ed esse (purtroppo il M. parla sempre di Existenz, senza precisare meglio il termine) e gli sembra di poter così rispondere al difficile problema della «contractio formae per materiam» e della «contractio existentiae per essentiam». Conclude perciò che la dialettica della Aufhebung hegeliana intesa a un tempo come tollere, elevare et conservare, è mantenuta anche nella concezione tomista; in quanto i principî si conservano, cioè «rimangono» (conservare) nel sostenersi fondante nel fondato, cioè nella loro autentica «trasformazione» in ciò a cui si rapportano (elevare), in quanto principî, come al loro compimento (als ihre Erfüllung), all’ente stesso (ens quod). Essi esistono entitativamente come qualcosa d’altro da sè (come il fondato) in cui consiste il loro elevare. Ma questo elevare è anche un tollere, malgrado il conservare che è implicito in generale nella mutua limitazione di Was e Da (p. 169). Il Müller, in uno speciale Exkurs sul processo della «Aufhebung», analizza le profonde differenze fra la dialettica oggettivo-ontologica tomista e quella soggettivo-logica dell’idealismo che giunge a compimento nell’identità di logica e ontologia proclamate da Hegel29. La nozione di partecipazione veniva avvicinata, con una maggiore aderenza alla problematica tradizionale, ma con non minore| senso di modernità, da tre filosofi gesuiti indipendentemente l’uno
dall’altro benchè tutti e tre influenzati dall’orientamento «attivista» dato alla gnoseologia e per essa alla metafisica dal compianto P. Maréchal. Tutti e tre hanno incontrato il problema della partecipazione indirettamente e torna a loro merito averne afferrato l’importanza e il significato. Il primo, il P. Isaye, tratta della nozione di «misura» in S. Tommaso, al fine di poter determinare il senso genuino della tanto discussa IV via per l’esistenza di Dio la quale dall’esistenza di un magis et minus vuol concludere a quella di un «maximum» assoluto che a sua volta è «causa» di tutti gli altri partecipanti30. Giustamente l’A. osserva, fin dalle prime pagine, che per avere la «partecipazione» non basta lo «ab alio accipere», ma occorre che ciò s’accompagni ad una limitazione e distinzione, e che la limitazione si deduce dalla partecipazione così che da queste dipenda anche la composizione di potenza e atto (p. 12 ss.)31. Egli mette ancora in rilievo la fecondità della nozione di partecipazione in quanto suggerisce altre nozioni molto precise: possedere una perfezione senza essere l’essenza di tale perfezione (distinzione), possedere questa perfezione in un modo parziale (limitazione), assomigliare imperfettamente a un essere perfetto (analogia), dipendere da un essere incausato. L’A., incontrando il problema dell’analogia, è convinto ch’esso non può avere un’adeguata espressione e comprensione che in termini di partecipazione: «Le mot participation exprime heureusement la relation d’une perfection partielle et complexe a une unité qui est en même temps perfection totale» (p. 66). La partecipazione designa una sintesi di somiglianza e differenza e la spiegazione ontologica di questa sintesi deve trovarsi in ultima analisi nella composizione di atto e potenza realizzata o come sintesi di materia e forma oppure di essenza ed esistenza o di quo est e quod est. La formula più completa dell’analogia è quindi quella che oppone (e rapporta) la perfezione parziale alla perfezione totale secondo il testo: Ia, q. 4, 3 ad 3um, che suggerisce un’analogia di attribuzione intrinseca, non tuttavia in senso suareziano. Il P. I. osserva ancora che la partecipazione, a cui fa capo l’analogia, non si deve definire in funzione di causalità, ma viceversa è la causalità che dipende dalla partecipazione: l’essere causato è una pro|prietà dell’ente per partecipazione secondo il celebre testo: Ia, 44, 1 ad 1um: «Ex hoc quod aliquid est ens per participationem, sequitur quod sit causatum ab alio». Impegnato dai limiti del suo tema, l’A. non ha potuto sviluppare questi momenti, così ben individuati, in una concezione unitaria e sistematica: manca anche qualsiasi prospettiva storica, al di là dell’immediato testo tomista. Ma quel ch’è detto, è detto bene e con solide ragioni. La nozione di partecipazione è ancora al centro di un’importante monografia del P. A. Hayen sulla nozione d’intenzionalità nella filosofia tomista32. L’A. assegna alla dottrina della partecipazione e dell’analogia la funzione di sforzo dottrinale dell’intenzionalità ch’egli intende in un senso spiccatamente dinamico. Nel campo della conoscenza, a cui appartiene il suo tema, il P. H. distingue giustamente una doppia partecipazione, una per somiglianza ed una p. per contatto ch’egli accosta alla distinzione parallela di analogia di attribuzione e di proporzionalità (p. 73 ss.). Con acutezza egli ha individuato nella dottrina della partecipazione il cardine e la chiave di tutto il complesso organismo conoscitivo umano: intelletto agente (e possibile), specie intelligibile e verbum, cogitativa, il significato stesso del processo astrattivo (l’astrazione totale), non si possono comprendere che per riferimento a rapporti di partecipazione (pp. 108 ss., 175, 176 ss., 259, 262). Con mano sicura l’A. svolge la tesi che «la métaphysique thomiste de la puissance et de l’acte est essentiellement une métaphysique de la participation», e appoggiandosi al testo capitale del Quodl. II, a. 3, egli chiama la metafisica della partecipazione «une métaphysique de l’avoir» (p. 263). Cercando una soluzione definitiva dei rapporti fra Dio e la creatura il P. H. non vede che quella indicata dappertutto da S. Tommaso: la distinzione di essenza e di esse nelle creature33. L’ente per partecipazione è quindi intrinsecamente dipendente da Dio, ente per essenza, e quindi: relatio ad Deum (immo ipse Deus) intrat rationem entis finiti, seu participati (p. 275). In questo il P. H. vede la verifica della propria tesi dell’intenzionalità dell’essere: così, benchè riconosca che la riduzione che Io. a S. Thoma ha fatto della creazione ad una relazione trascendentale (e non predica|mentale com’è in S. Tommaso) è più favorevole alla sua concezione dell’intenzionale, tuttavia afferma che bisogna ad ogni costo conservare la composizione di essenza e di esse (p. 278), compromessa dalla suddetta relazione trascendentale. È veramente da lamentare che la mancata ricerca sistematica della nozione di partecipazione abbia impedito spesso al P. H. di dare alla sua indagine la precisione e la convinzione necessarie34. L’analisi metafisica della partecipazione è al centro ancora dell’ampio Saggio del P. J. De Finance dedicato all’essere e all’agire nella filosofia tomista35. Anch’egli, come si fa in questo nostro Saggio, trova il nucleo profondo della metafisica tomista della creatura nella distinzione reale fra essenza e l’atto di esse (p. VII): in virtù di questa distinzione e del carattere di attualità che in senso forte compete allo esse, il P. De Finance offre una teoria dello esse (che vien detto indifferentemente «existence») prettamente dinamica non nel senso che l’esse sia da ridurre a un’azione, ma esso è da concepire come la fonte di tutte le attualità: «Acte des actes, l’esse n’est pas en deçà mais au delà de l’action et, dans sa pureté, il assume en soi tous les
valeurs du dynamisme» (p. V: il principio ricorre per tutto il Saggio). Bene! ma occorre ben distinguere anche fra ordine trascendentale e predicamentale: nel primo l’esse ha certamente il carattere di atto (per tutte le formalità) nel senso indicato, nel secondo è invece alla natura, come primo principio immanente dell’agire (Physic., B, 1, 192 b, 20) che compete il carattere di nucleo dinamico e specificativo a un tempo dell’agire36. Un grande merito del P. De F. è d’aver cercato il senso dei problemi metafisici a traverso una rigorosa e ben documentata ricerca storica sia sulle correnti di pensiero che hanno influito sulla posizione tomista, sia sullo sviluppo di questa così da poter concludere con ragione: «L’originalité de Saint Thomas est, selon nous, d’avoir interprété la distinction d’essence et d’esse par la théorie de la participation et celle de l’acte et de la puissance, élargie à des proportions| insoupçonnées d’Aristote» (p. 110). L’originalità della metafisica tomista è quindi esattamente individuata nella concezione dello esse come atto di tutti gli atti e forma e atto intrinseco: «En substituant, comme étalon métaphysique, l’esse à la forme aristotélicienne et au Bien – proportion des platoniciens le thomisme donnait un sens nouveau aux mots d’infini et de limite et bouleversait l’économie des grands systèmes grecs» (p. 62 ss.). E nella identificazione di essere e pensiero (in Dio) l’A. vede l’ultimo fondamento delle dottrine della partecipazione e dell’atto, di quell’argomento dei gradi che dagli atti misti ci porta fino all’Atto puro (p. 135) e ci dà la seguente formula della sua interpretazione della metafisica di S. Tommaso: «La métaphysique de l’esse se fonde sur la conscience d’un accord essentiel entre l’être et le dynamisme intellectuel. L’être est pénétré de pensée, mais réciproquement l’activité de l’esprit exige, à titre de condition suprême, l’existence d’une Pensée totale qui soit en même temps Être total, l’Ipsum esse subsistens» (p. 136). Siamo certi che l’A. ci concederà che tutta questa insistenza sul dinamismo del conoscere, che qui ha suggerito nientemeno che l’intenzionalità dell’atto e dell’esse nel campo della metafisica pura, ammette prudenziali riserve in sede di esegesi tomista. Similmente le critiche, sia pure rispettose, che si avanzano a certe posizioni tomiste più caratteristiche (p. es. p. 167: sulla natura dello amor naturalis Dei; p. 193: nozione di movimento; p. 323: conoscenza dei singolari; p. 339 e nota 1: concetto di «natura pura», ecc.), derivano in gran parte dalla visuale adottata e un po’ dall’impazienza di noi scolari che vogliamo squarciare spesso quel velo dell’inconoscibile che i grandi maestri hanno saputo rispettare. Il De F., com’era prevedibile, considera in prevalenza la partecipazione dinamica cioè come causalità, sia da parte di Dio come delle creature: la ricchezza delle sue analisi e la penetrazione dei suoi suggerimenti dottrinali ed esegesi fanno di questa sua tesi uno strumento indispensabile per la comprensione del Tomismo. Solo è da rammaricare che in essa la nozione di partecipazione entri quasi sempre lateralmente, perchè subordinata alla tesi principale, e non ottenga mai uno sviluppo unitario: còmpito che forse esulava dal piano dell’Autore, ma che avrebbe alimentato la sua profonda passione metafisica – di cui ha dato sì chiara prova – di nuova energia e di una precisione nel metodo più convincente37.| La trattazione più completa della nozione tomista della partecipazione è il vasto volume che ad essa ha dedicato il domenicano P. GEIGER38. Esso abbraccia tanto la partecipazione statica come quella dinamica. Benchè pubblicato tre anni dopo il nostro, il suo lavoro – come quello degli Autori dianzi ricordati – è stato concepito e redatto per proprio conto, anche se il P. G. mi ha fatto l’onore di citarmi spesso e di prendere posizione critica su alcuni punti della mia interpretazione: gliene sono sinceramente grato perchè mi hanno stimolato a precisarli, come ho cercato di fare in questa nuova edizione. Si sappia però anzitutto che sul contenuto del pensiero tomista, sulla consistenza delle sue posizioni maestre, le nostre ricerche hanno raggiunti risultati che combaciano perfettamente, spesso anche nell’espressione verbale: indizio questo della coerenza profonda del pensiero tomista. Il metodo invece da noi seguito è notevolmente diverso e da ciò è derivata una diversa valutazione delle stesse dottrine su non pochi punti: meglio così, forse, perchè il lettore potrà confrontare i due procedimenti e i rispettivi argomenti e orientarsi per proprio conto. Il P. G. ha trascurato di proposito la ricerca delle Fonti e della particolare fisionomia che assumono i testi delle auctoritates nell’opera tomista: in questo senso egli si è mantenuto più fedele alla tradizione del suo Ordine e del Neotomismo in genere per la quale il solo testo tomista è sufficiente a spiegare se stesso (p. 19). Eppure anch’egli ammette che «le milieu philosophique détermine l’esprit», sia pur solo materialmente, di una dottrina e che «une philosophie est le résultat harmonieux des échanges entre un esprit et le milieu où il se développe» (p. 20)39. Precisamente, ed è per questo che l’indagine storico-critica dei termini e delle formule che si trasmettono da scuola a scuola e da sistema a sistema, non sono più un lusso di erudizione ma costituiscono un’inchiesta preliminare inderogabile per non perdersi nel vago e nel soggettivo. E gli esempi in materia non sono rari. Il P. G. perciò comincia ex abrupto a enunziare la divisione di| due partecipazioni: la p. par composition et la p. par similitude, ed esse dànno luogo a due nozioni diverse della partecipazione (cfr. pp. 28, 29). Quando si prendono singolarmente, le due partecipazioni corrispondono in sostanza alle metafisiche
contrastanti, platonica e aristotelica, considerate invece nella loro sintesi superiore costituiscono il Tomismo: tali le tre parti in cui si sviluppa la trattazione. L’A., preoccupato di evitare lo scoglio del dualismo platonico, concepisce come primaria e universale la partecipazione-similitudine e come secondaria e più ristretta la partecipazione-composizione: posizione pericolosa per un tomista e alla quale i negatori della distinzione reale fra essenza ed esse, o fra l’anima e le facoltà, faranno certo buon viso. Sono persuaso per parte mia che una classificazione metodica dei testi combinata con l’armonia intrinseca alla dottrina del nostro comune Maestro, mette fuori dubbio che ogni partecipazione comporta e similitudine (meglio: similitudinedissimilitudine) e composizione, altrimenti la similitudine sola porta difilato all’identità e all’immanenza formale, come fecero coerentemente il Platonismo e l’Averroismo. È strano che il P. Geiger, dopo aver declinato il metodo storico, abbia di fatto orientato la sua ricerca su di un a priori storico quale è la caratteristica «cosiddetta opposta» dei sistemi di Platone e Aristotele: dico «cosiddetta», non perchè forse ciò non corrisponda alla realtà storica dei due sistemi (problema ancora insoluto e forse insolubile), ma perchè di certo non corrisponde all’atteggiamento assunto da S. Tommaso rispetto ai medesimi, che è quel che nella nostra ricerca principale importa40. La ragione che P. Geiger porta per paralizzare il «principio della composizione» è che se non si ammette una limitazione senza una corrispondente composizione reale, si cade nel processo all’infinito nella serie dei soggetti che si condizionano gli uni agli altri, a meno che non si ammetta l’esistenza di un principio eterno e increato, in sè indifferenziato, principio di ogni limitazione, cioè la materia (quale la intese Platone e lo stesso Aristotele sul piano trascendentale) (p. 161). Francamente| questo timore ci pare esagerato, perchè la posizione tomista è su questo punto di una completezza e coerenza mirabile: come le formalità predicamentali vengono limitate negli individui per via della materia, così le formalità trascendentali – e prima di tutte l’esse – vengono limitate dalle essenze che vengono ad attuare. L’essenza resta quello che è, limitata in se stessa nel suo grado ontologico di essere: non è l’essenza che viene limitata – perchè lo è già come grado di perfezione – nella sua composizione con l’esse, ma l’esse stesso e con l’esse l’ente. Quindi non ogni forma come tale e in quanto forma è limitata e composta, bensì ogni «ente» limitato deve essere composto nell’ordine precisamente in cui si presenta limitato41. Non sorprende quindi che non trovi molto favore presso il P. G. la mia difesa della «partecipazione predicamentale» (cfr.: pp. 18, 52, 57, 141, 148, ecc.): ma se si ammette – come si deve ammettere, se non si vuol cadere nell’estrinsecismo nominalista e suareziano – che ogni multiplicazione non è un semplice fatto empirico, ma comporta una situazione metafisica, e quindi che la multiplicazione – anche univoca – comporta limitazione e composizione reale, la nozione di partecipazione predicamentale non è un semplice modo di dire ma appartiene all’aristotelismo tomista più conseguente. E i testi che saranno apportati – a leggerli nel contesto – non ammettono (a mio avviso) altra spiegazione, nè il P. G. stesso finora l’ha trovata42. La posizione di P. G. sembra quasi presentare una spiccata affinità, per quanto riguarda il momento metafisico centrale, con la concezione che ha della partecipazione Sigeri di Brabante quando combatte la posizione tomista. Il corifeo dell’averroismo latino distingue – riporterò i testi più avanti – una participatio univocationis ed una participatio imitationis: soltanto la prima (quella ch’io dico partecipazione predicamentale) comporta una composizione reale di partecipante e partecipato, non la seconda che si esaurisce nella dipendenza causale e nel rapporto di somiglianza43.| Ma a Sigeri mancano i presupposti della concezione tomista sullo «esse» come «actus omnium actuum et ipsarum formarum». Il P. G., che ha saputo sviscerare a fondo, come pochi, il contesto dei testi tomisti, è anche il più indicato per apprezzare la portata di queste osservazioni le quali più che criticare intendono invitare alla discussione su alcuni punti che sembrano di particolare importanza per tutta la dottrina e che forse non sono stati ancora sufficientemente chiariti nella tradizione tomista. Mi permetto, a conclusione di questo spoglio bibliografico un breve cenno ai rapporti fra Tomismo ed Esistenzialismo sia perchè Tomisti di grido hanno fatto in merito delle dichiarazioni molto esplicite, sia anche perchè vi sono direzioni esistenzialiste orientate esplicitamente sulla nozione di partecipazione (Lavelle, Le Senne, Marcel...). Uno dei più entusiasti sostenitori di quest’interpretazione del Tomismo è lo stesso P. De Finance che parla senz’altro di un «existentialisme de saint Thomas»; ammesso (come si deve ammettere) che S. Tommaso ha dato allo esse un senso del tutto nuovo ed un valore originale, allora – a differenza d’Aristotele che faceva derivare l’esistenza dalla forma – l’Angelico attribuisce allo esse il còmpito di attuare la forma: «C’est l’existence, et non la forme, qui représente, dans le thomisme, le type achevé de l’actualité» così che la «métaphysique thomiste peut être appelée une métaphysique existentielle» anche se non proprio nel senso preciso della filosofia novissima44.
Non nego che questo modo di esprimersi si possa in qualche modo anche giustificare: però presenta dei pericoli che a me sembrano abbastanza gravi. Anzitutto uno di terminologia: gli scrittori francesi di metafisica tomista non distinguono abbastanza fortemente fra esse e esistenza e parlano di existence come equivalente dello esse, ciò che in rigore tomista non è ammissibile e può causare deplorevoli confusioni. Poi, e principalmente, l’esistenza secondo l’ultima filosofia appartiene ad un piano di considerazioni del tutto di|verso da quello tomista o scolastico in genere. Per la filosofia esistenziale, che vive nel clima della filosofia moderna, l’esistenza è la libertà dello spirito finito che si trova nel mondo e deve darsi perciò una struttura: l’esistenza è perciò la libertà considerata come «possibilità radicale» di scelta e che si attua pertanto nella «scelta», ma che ogni scelta suppone e insieme mai esaurisce. L’esistenza viene perciò a presentarsi come un «tendere» del soggetto, un «progettarsi» per i suoi compiti e quindi anche come un oscillare continuo rispetto all’infinità della possibilità in cui consiste l’essenza della libertà. In questa concezione della libertà tutti gli esistenzialisti, da Kierkegaard a Sartre, sono d’accordo, ed io credo che lo sia anche S. Tommaso: ma allora è in questo senso, nel campo della dialettica dello spirito, non in quello esteriore della semplice effettualità, che va cercato l’accostamento45. Così la nozione tomista di partecipazione ritornerà in un’estensione e profondità di senso veramente adatte per soddisfare le istanze legittime dell’ultima filosofia che ai suoi inizi, con Kierkegaard, rappresentavano la protesta dell’anima cristiana entro la confusione panteista dell’idealismo. II. LA PARTECIPAZIONE COME COMPOSIZIONE NOZIONALE Il punto di partenza obbligatorio per ogni indagine intorno alla nozione tomista di partecipazione è il Commento giovanile, come pare, dell’Angelico Maestro al De Hebdomadibus di Boezio. A noi interessano particolarmente alcune proposizioni boeziane, non solo perchè divennero assai celebri nel pensiero medievale, ma soprattutto perchè provocarono da parte di S. Tommaso un’esposizione completa della sua concezione circa la struttura del concreto, ed in generale circa i rapporti fra il concreto e l’astratto. La trattazione si può dividere in due parti di diversa estensione: la prima comprende le proposizioni 2-5 nelle quali è studiata la diversità fra astratto e concreto secondo quello che importano le nozioni, «secundum ipsas intentiones»; la seconda, nelle proposizioni 5-6, mostra cosa importi in realtà questa diversità: cioè la semplicità dell’astratto e la composizione reale del concreto. Nella prima parte la diversità fra astratto e concreto è espressa secondo la nozione di «partecipazione»; vi si mostra anzitutto che l’astratto, l’ipsum esse, considerato come astratto ancora non esiste,| il concreto id quod est invece che ha ricevuto la (sua) forma di essere, esiste e sta in sè (Prop. 2). Da ciò segue che mentre l’id quod est può partecipare a qualche cosa, l’ipsum esse non può partecipare di cosa alcuna (Prop. 3). L’id quod est ha una doppia partecipazione, una sostanziale all’ipsum esse, per essere simpliciter, ed un’altra agli accidenti che sono dei modi di essere secondari; e queste due partecipazioni sono ordinate in modo che non si può avere la seconda partecipazione «esse aliquid», se prima non si è avuta la prima, quella dello «ipsum esse» (Prop. 4-5). Nella seconda parte si mostra che ciò che è detto essere per partecipazione è composto realmente dell’«ipsum esse», che è il partecipato, e del quod est, che è il partecipante (Prop. 5); infine si dà la ragione ultima di questa composizione nei partecipanti, mostrando come soltanto in ciò che è assolutamente semplice il concreto e l’astratto coincidono (Prop. 6). S. Tommaso nel Commento al testo di Boezio ci ha dato, tutta di un getto, l’esposizione della nozione metafisica di partecipazione, e fra i testi tomisti ch’io conosco questo resta il più completo e sistematico. Le implicazioni dottrinali seguono l’una all’altra in modo serrato, senz’alcun riferimento d’ordine storico, onde è il pensiero personale dell’Aquinate che qui viene espresso. Per questo mi è parso opportuno di poggiare subito la discussione sul solido con la presentazione di questo testo, che è stato il primo ispiratore di questa ricerca, e di cui resta il principale appoggio sotto l’aspetto letterale. Il S. Dottore esordisce affermando una prima differentia fra l’ipsum esse e il quod est, come una diversità fra l’astratto e il concreto, ed il principio vale per tutte le formalità in generale: «Aliud autem significamus per hoc quod dicimus esse, et aliud per hoc quod dicimus id quod est; sicut et aliud significamus cum dicimus currere, et aliud per hoc quod dicitur currens. Nam currere et esse significantur in abstracto, sicut et albedo: sed quod est, id est ens et currens, significantur sicut in concreto, vel album»46. S. Tommaso vede nelle secche proposizioni, che seguono nel testo di Boezio, la dimostrazione metafisica di questa diversità, che viene fatta in tre tappe che sono esposte da Boezio una appresso all’altra, ma che S. Tommaso sa congiungere e mostrare in continuità l’una dell’altra come si trattasse di esplicitare gradualmente il contenuto di un unico principio fondamentale.|
La prima differenza consiste che noi intendiamo l’astratto sempre come atto, e il concreto come soggetto di questo atto, che «partecipa» a suo modo del medesimo. S. Tommaso, fin da questa differenza, intende l’ipsum esse e la «forma essendi» nel significato più forte, di actus essendi, in relazione al quale tutte le altre formalità potranno, come si vedrà, esser considerate come dei concreti. L’ipsum esse adunque è l’astratto di ens, come il currere è l’astratto di currens: come il currere è compreso esser ciò per partecipazione del quale il currens corre, così l’esse è quella formalità o attualità suprema per partecipazione alla quale è compreso essere di fatto tutto ciò che in concreto esiste. Il soggetto proprio dell’essere è la «sostanza», che è l’ens per se; gli accidenti non sono se non appoggiandosi alla sostanza47. «Deinde cum dicit, “Ipsum enim esse nondum est”, manifestat praedictam diversitatem tribus modis, quorum primus est, quia ipsum esse non significatur sicut subiectum essendi, sicut nec currere significatur sicut subiectum cursus; unde sicut non possumus dicere quod ipsum currere currat, ita non possumus dicere quod ipsum esse sit; sed sicut id ipsum quod est, significatur sicut subiectum essendi, sic id quod currit significatur sicut subiectum currendi; et ideo sicut possumus dicere de eo quod currit sive de currente, quod currat, in quantum subiicitur cursui et participat ipsum, ita possumus dicere quod ens, sive id quod est, sit, in quantum participat actum essendi. Et hoc est quod dicit: “Ipsum esse nondum est”, quia non attribuitur sibi esse sicut subiecto essendi; “Sed id quod est accepta essendi forma” scilicet (spiega S. Tommaso) suscipiendo ipsum actum essendi, est atque consistit idest in seipso subsistit. Non enim ens proprie et per se dicitur, nisi de substantia, cuius est subsistere. Accidentia enim non dicuntur entia quasi ipsa sint, sed in quantum eis subest aliquid» (ed. cit., p. 394). Le preoccupazioni di ordine logico che sentiva Boezio nel porre il problema della bontà delle creature sono diventate per S. Tommaso di ordine metafisico e lo indirizzano verso una serie di considerazioni che toccano la struttura intima dell’essere finito, come essere.| Nella secunda differentia S. Tommaso esplicita ed approfondisce la prima, nella quale ha già fatto intervenire la nozione di partecipazione; mentre in Boezio essa compare solo a questo momento, e non ha certo quella connessione con la prima differenza che vede S. Tommaso, ma può stare a sè. L’Angelico partendo dall’etimologia, e riprendendo le riflessioni precedenti, dà una nozione sistematica del termine «partecipare», che viene applicata ovunque si diano astratti e concreti, nell’ordine predicamentale delle nature particolari ai rispettivi universali, nei principî dell’essere concreto, e nell’ordine dei rapporti causali. Ma l’etimologia del termine è appena accennata: ci saremmo aspettati almeno una esposizione e un po’ di discussione sui vari significati di tutto e di parte esposti dal Filosofo nel Libro V della Metafisica48 ma forse quel bagaglio di suddivisioni avrebbe portato il problema troppo per le lunghe e S. Tommaso attacca senz’altro il significato nel suo aspetto metafisico. I tre significati che si susseguono: partecipazione del particolare all’universale, del soggetto alla forma e dell’effetto alla causa, sono congiunti con un «SIMILITER» che dice l’ampiezza della sintesi alla quale l’Angelico è arrivato, e in relazione alla quale espone le indicazioni di Boezio. «Secundam differentiam ponit ibi: “Quod est, participare aliquo potest”: quae quidem differentia sumitur secundum rationem participationis. Est autem participare quasi partem capere, et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud: sicut: 1) homo dicitur participare animal, quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem; et eadem ratione Socrates participat hominem; 2) Similiter etiam subiectum participat accidens et materia formam, quia forma substantialis vel accidentalis, quae de sui ratione communis est, determinatur ad hoc vel ad illud subiectum; 3) et similiter effectus dicitur participare suam causam, et praecipue quando non adaequat virtutem suae causae, puta si dicamus quod aër participat lucem solis, quia non recipit eam in ea claritate qua est in sole» (ib., p. 394). È facile l’accorgersi che il primo e il terzo significato esulano dal testo e dal problema posto da Boezio, e che sono invece una esigenza del problema che si è posto S. Tommaso, quella dei rapporti| dell’ipsum esse, come actus essendi, a tutto ciò che è. Nella spiegazione del testo: «quod est participare aliquo potest, ipsum autem esse nihil participat», l’Angelico lascia da parte il terzo significato di «partecipare» non perchè sia secondario alla nozione di partecipazione, che anzi sotto un aspetto può esser considerato come principale e ragione degli altri – soprattutto quando ci si volesse ispirare al Neoplatonismo – ma solo perchè esso non tocca la risposta immediata da dare al problema. Mostra pertanto che l’ipsum esse non può esser detto «partecipare» a qualcosa nè nel primo modo, nè nel secondo modo: non nel primo perchè al di sopra dell’esse non v’è una formalità più generale della quale l’esse possa esser detto «partecipare»; nè nel secondo modo perchè l’ipsum esse è compreso come una formalità astratta la più comune, da tutti partecipata. L’ens, invece che è il concreto di esse che è significato come astratto, è compreso partecipare;
ma perchè ha la stessa estensione dell’esse, può esser detto partecipare solo nel secondo modo, come il concreto partecipa l’astratto, non nel primo modo. «Praetermisso autem hoc tertio modo (causale) participandi, impossibile est quod secundum duos primos modos, ipsum esse participet aliquid. Non enim potest participare aliquid per modum quo materia vel subiectum participat formam vel accidens, quia ut dictum est ipsum esse significatur ut quiddam abstractum. Similiter autem nec potest aliquid participare per modum quo particulare participat universale; sic enim ea quae in abstracto dicuntur participare aliquid possunt, sicut albedo colorem; sed ipsum esse est communissimum: unde ipsum quidem participatur in aliis, non autem participat aliquid aliud. Sed id quod est, sive ens, quamvis sit communissimum, tamen concretive dicitur; et ideo participat ipsum esse, non per modum quo magis comune participatur a minus communi, sed participat ipsum esse per modum quo concretum participat abstractum... Unde relinquitur quod id quod est, aliquid possit participare: ipsum autem esse non possit aliquid participare» (ib., pp. 394-395). S. Tommaso nel Commento, è essenziale notarlo fin d’ora, introduce un nuovo uso della nozione di partecipazione, quello fra gli stessi astratti: albedo e color, homo e animal, che non solo è estranea al testo di Boezio, ma ripugnante allo spirito del medesimo, secondo il quale l’astratto ha la proprietà di essere partecipato, ma non può partecipare; ma S. Tommaso è stato costretto a farvi quell’aggiunta per quella nozione di esse da lui assunta fin dall’inizio.| Nella tertia differentia «id quod est, habere aliquid praeterquam quod ipsum est, potest» si mostra come l’ens, l’id quod est che partecipa all’esse, per la ragione che proprio da questa partecipazione è fatto concreto e può partecipare, cioè ricevere in sè altra formalità; mentre l’esse non si comprende avere in sè se non l’esse soltanto. S. Tommaso prende l’occasione per mostrare come è proprio dei termini considerati in astratto, significare formalità pure ed essenze semplici, mentre il concreto può avere formalità che vengono a far composizione in lui. «Sumitur ista differentia per admixtionem alicuius extranei. Circa quod considerandum est, quod circa quodcumque abstracte consideratum, hoc habet veritatem quod non habet in se aliquid extraneum, quod scilicet sit praeter essentiam suam, sicut humanitas et albedo et quaecumque hoc modo dicuntur. Cuius ratio est, quia humanitas significatur ut quo aliquid est homo, et albedo ut quo aliquid est album. Non est autem aliquid homo, formaliter loquendo, nisi per id quod ad rationem hominis pertinet; et similiter non est aliquid album formaliter, nisi per id quod pertinet ad rationem albi: et ideo huiusmodi abstracta nihil alienum in se habere possunt». «Aliter autem se habet in his quae significantur in concreto. Nam homo significatur ut qui habet humanitatem, et album ut id quod habet albedinem. Ex hoc autem quod homo habet humanitatem vel albedinem, non prohibetur habere aliquid aliud, quod non pertinet ad rationem horum, nisi solum quod est oppositum his; et ideo homo et album possunt aliquid aliud habere quam humanitatem vel albedinem». Il concreto risulta quindi infine da una molteplicità di partecipazioni, onde le singole formalità partecipate non esprimono che un aspetto parziale, e non tutto il concreto, e per questo non possono esser predicate (per identità) del concreto: questo principio si rivelerà presto di capitale importanza; S. Tommaso qui lo enunzia sotto l’aspetto logico: «Et haec est ratio quare albedo vel humanitas significantur per modum partis, et non praedicantur de concretis, sicut nec sua pars de suo toto» (p. 395). Il Commento tomista si dibatte fra la sollecitudine di restar fedele alle formule di Boezio e quella di condurre a fondo tutte le implicazioni metafisiche delle medesime, come Lui Tommaso le comprendeva, e che non avevano fatto certamente l’oggetto delle preoccupazioni di Boezio che aveva dato al suo problema delle proporzioni molto più modeste. Nella 3ª differenza la partecipazione| è apparsa legata alla composizione del soggetto partecipante e delle ragioni partecipate, e l’opposizione fra astratto e concreto come un «essere» pienamente e semplicemente ed un «avere» in qualche modo e ASSIEME ad altre determinazioni. Ma il laconico testo di Boezio urge per ulteriori chiarificazioni. La Prop. 4ª: «Diversum tamen est esse aliquid in eo quod est, et esse aliquid, illic enim accidens hic substantia significatur», pone S. Tommaso nell’imbarazzante ma logica per lui situazione di distinguere nel concreto partecipante un duplice «esse»: uno che non è «praeter essentiam» ed uno invece che resta «praeter essentiam»49: il primo fa essere simpliciter, il secondo secundum quid. Nella sottile spiegazione che segue si ribatte l’osservazione che prima si dà la partecipazione all’esse come tale, onde il soggetto si costituisce in sè ed è capace di partecipare alle altre formalità (accidentali). Evidentemente Boezio qui non può parlare che dell’esse formale (sostanziale) e non dell’actus essendi, tanto che il Commentatore per un istante lo riconosce, ma senza rinunciare al suo significato di esse come actus essendi, e facendo dell’unica differenza (molto facile a comprendersi) tre, passa gradualmente dalla prima alla terza per concludere il suo intento:
«Est autem haec differentia quod primo oportet ut intelligatur aliquid esse simpliciter, et postea quod sit aliquid: et hoc patet ex praemissis. Nam aliquid est simpliciter per hoc quod participat ipsum esse, sed quando iam est, restat ut participet quocumque alio, ad hoc scilicet quod sit aliquid» (p. 396). Così finisce la prima parte, secondo S. Tommaso dell’introduzione di Boezio, ove è stata considerata la diversità fra l’ipsum esse e il quod est, fra l’astratto e il concreto, secondo il contenuto nozionale proprio; nella seconda si passa secondo l’Angelico a vedere il modo reale di esistere, che è mostrato in due proposizioni; una (Prop. 6) che riguarda i composti, cioè i partecipanti che dalle precedenti considerazioni risultavano esser composti del soggetto e della ragione partecipata, l’altra riguarda i semplici (Prop. 7). III. LA PARTECIPAZIONE COME COMPOSIZIONE REALE Nelle Prop. 6-8 non si pone per Boezio che il corollario delle proposizioni precedenti, in relazione all’unità nozionale del concreto e dell’astratto. Nel concreto o composto, per definizione ormai vi| dev’essere diversità fra concreto e astratto, fra l’esse e il soggetto: «Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est». Il Commento di S. Tommaso invece si muove entro la nozione dell’esse, non solo come atto formale (predicamentale), ma come actus essendi: allora soltanto per l’ipsum esse che è stato detto non partecipare in alcun modo, nè nell’ordine sostanziale (cfr. sopra), nè in quello accidentale, perchè è la formalità più astratta, tutto esiste ed è detto e concepito come partecipante e composto ed ha in sè l’atto di essere «realmente» distinto dal soggetto in cui è. «Est ergo considerandum quod sicut esse et quod est differunt in simplicibus secundum intentiones, ita in compositis differunt realiter: quod quidem manifestum est ex praemissis: dictum est enim supra, quod ipsum esse neque participat aliquid, ut eius ratio constituatur ex multis; neque habet aliquid extraneum admixtum, ut sit in eo compositio accidentalis: et ideo ipsum esse non est compositum. Res ergo composita non est suum esse: et ideo dicit (B) quod in “omni composito aliud est esse, et aliud id quod est”». La Prop. 7 completa il pensiero di Boezio: «Omne simplex esse suum et id quod est, unum habet»; identità reale «in simplicibus» fra l’ipsum esse e l’id quod est. Ma quel plurale «omne simplex» che sta molto bene in Boezio, non può stare per S. Tommaso, per il quale il vero simplex è uno soltanto, l’ipsum esse subsistens. Segue quindi nel Commento una profonda elaborazione della nozione di «semplice», dalla quale appare che alcune cose che sono semplici in un ordine, appaiono esser composte in un altro ordine. Nel caso, dei corpi materiali alcuni sono detti semplici (gli elementi), altri composti (i misti) quando siano considerati nell’ordine fisico materiale; considerati nell’ordine formale tutti i corpi sono composti sia di parti quantitative come di materia e forma – nessun corpo quindi può esser detto semplice nell’ordine dell’essere. – Invece vi sono degli esseri che nell’ordine formale vanno detti «semplici»: sono tali tutte le forme pure, che sussistono senza il concorso della materia. Ma nell’ordine dell’esse attuale anche queste forme risultano composte perchè sono infine forme particolari, se paragonate alla pienezza dell’ipsum esse subsistens, quindi partecipano all’esse e quindi sono composte della propria formalità e dell’esse partecipato: «Et sic nulla earum est vere simplex» (p. 397). Il testo integro verrà riportato più tardi. I problemi della partecipazione, secondo il Commento tomistico alle proposizioni del De Hebdomadibus, sono visti complemen|tari l’uno dell’altro, e possiamo chiamare l’uno riguardante il significato «formale», l’altro riguardante il significato «reale» di «partecipare»; l’uno, cioè, derivante dalle esigenze del contenuto «nozionale», l’altro derivante dal modo di essere in natura, di ciò che è concepito essere per partecipazione. I. – La nota fondamentale per cui si distinguono fra di loro astratto e concreto è che l’astratto è per essenza ciò che è, e non consta di altro che della sua essenza; il concreto invece è compreso essere per partecipazione dell’astratto, e contiene in sè altre formalità oltre quella della sua essenza, gli accidenti. Il primo problema qui riguarda l’estensione data da S. Tommaso, nel confronto di Boezio, alle nozioni, e ai conseguenti rapporti nozionali di astratto e concreto, dell’«ipsum esse» e del «quod est», all’actus essendi e all’essenza in generale, fosse anche una forma pura – estensione a cui Boezio non aveva pensato, ed a cui non era (forse) necessario neppure che pensasse, data la natura del problema che gli premeva di risolvere, e date le fonti, alle quali immediatamente si ispirava (Aristotele e Neoplatonismo greco). Di fatti nella soluzione che Boezio presenterà, l’estensione introdotta dall’Angelico, non presenta alcuna applicazione. II. – Il secondo problema, posto dall’esegesi tomista, è l’introduzione del significato «reale», quale esplicitazione e fondamento di questo formale. Per l’imperfezione del nostro intelletto che conosce la verità solo componendo nel giudizio soggetto e predicato, noi concepiamo tutte le cose composte di essenza e di atto di essere; ma mentre negli esseri, che sono trovati essere per essenza, questa composizione nozionale si risolve nel riconoscimento di una identità reale assoluta fra concreto e astratto, negli esseri, che sono trovati
essere «per partecipazione», la composizione «nozionale» è oggettiva, e non appare fondata fin quando non sia risolta e riferita ad una composizione reale di soggetto partecipante e di atto partecipato. Anche questa precisazione restava fuori delle esigenze del problema boeziano, che è risolto facendo appello ad altri principî, molto più piani; del resto nel De Veritate, q. XXI, a. 5 anche S. Tommaso suppone che la soluzione boeziana, faccia (o possa fare) astrazione dalla distinzione reale fra essenza ed essere nella creatura. Chiedendosi su cosa si fondi la ragione della bontà della creatura, come bontà per partecipazione, l’Angelico presenta tre soluzioni, quella di S. Agostino, del De Causis e di Boezio. La prima è fondata| sul fatto che la creatura si perfeziona per mezzo di accidenti e perfezioni sopraggiunte (De Trinitate, l. VIII, c. 2) e non secondo la sua sostanza soltanto. Ma anche se fosse detta buona secondo la sua sostanza dovrebbe esser detta buona per partecipazione; perchè nella sua sostanza la creatura è composta di essenza ed atto di essere (partecipato), mentre Dio è essere puro; e questa è la dimostrazione portata nel Liber de Causis, secondo il quale solo la bontà divina può esser detta «Bonitas pura» (Prop. 20 e 23). Ma la bontà divina può esser ancora considerata come causa finale di tutte le altre bontà: essendo il primo principio di origine di tutte le cose, è anche il termine di tutte le loro operazioni per le quali si perfezionano, onde non possono esser dette buone se non in quanto sono ordinate all’ultimo fine, la bontà divina; e questa è la soluzione di Boezio: «Dato igitur quod creatura esset ipsum suum esse, SICUT EST DEUS; adhuc tamen esse creaturae non haberet rationem boni, nisi praesupposito ordine ad creatorem... et haec videtur esse intentio Boëthii in lib. de Hebd.». Quindi S. Tommaso in quel Commento bada alle esigenze della propria sintesi, più che contentarsi di seguire passo passo Boezio: nelle pagine che seguiranno si cercherà di mostrare come nella sintesi tomista vengono ad articolarsi quei due significati della partecipazione, come composizione nozionale e come composizione reale. Nel Commento di S. Tommaso l’esigenza che la composizione nozionale implichi una composizione reale è mostrata in modo esplicito solo nel campo dell’analogia dell’Essere, ma evidentemente essa è un’esigenza universale e deve potersi indicare ovunque si parla di una vera partecipazione nozionale per l’ente finito, e quindi anche nel campo dell’univocità, qualora ivi si diano rapporti di partecipazione. Ecco come S. Tommaso nel De Potentia (VII, 4) espone le implicazioni metafisiche della nozione di partecipazione tanto nell’ordine predicamentale come in quello trascendentale, muovendo sempre dal rapporto fra astratto e concreto e sempre con l’esplicito richiamo al testo boeziano. 1) «Nulli naturae vel essentiae vel formae aliquid extraneum adiungitur, licet id quod habet naturam vel formam vel essentiam possit aliquid extraneum in se habere; humanitas enim non recipit in se nisi quod est de ratione humanitatis». 2) «Quod ex hoc patet, quia in definitionibus quae essentiam rerum significant quodlibet additum vel subtractum variat speciem,| sicut etiam in numeris, ut dicit Philosophus50. Homo autem, qui habet humanitatem, potest aliquid aliud habere quod non sit de ratione humanitatis, sicut albedinem et huiusmodi, quae non insunt humanitati sed homini». 3) «In qualibet autem creatura invenitur differentia habentis et habiti. (I) In creaturis namque compositis invenitur duplex differentia: (a) quia ipsum suppositum sive individuum habet naturam speciei, sicut homo humanitatem, et (b) habet ulterius esse; homo enim nec est humanitas nec esse suum; unde homini potest inesse aliquod accidens, non autem ipsi humanitati vel eius esse. – (II) In substantiis vero simplicibus est una tantum differentia, scilicet essentiae et esse. In Angelis enim quodlibet suppositum est sua natura..., non est autem suum esse; unde ipsa quidditas est in suo esse subsistens. Unde in huiusmodi substantiis potest inveniri aliquod accidens intelligibile, non autem materiale. – (III) In Deo autem nulla est differentia habentis et habiti vel participantis et participati; immo ipse est et sua natura et suum esse; et ideo nihil alienum vel accidentale potest ei inesse. Et hanc rationem videtur tangere Boëthius dicens: Id quod est, habere potest aliquod praeterquam quod ipsum est; ipsum vero esse nihil aliud praeter se habet admixtum». Il testo ha messo in chiaro, con un processo di analisi ascendente i principî supremi della partecipazione, cioè: 1. Il rapporto di astratto e concreto, in ogni ordine e forma, è un rapporto di partecipazione, di «avere», in opposizione allo «essere» senza contrazione o limitazione. - 2. Questo avere o essere secondo limitazione si può realizzare tanto nell’ordine predicamentale (di qualche natura universale rispetto agli individui ai quali vien comunicata), come nell’ordine trascendentale dello esse rispetto a tutti gli enti finiti materiali e spirituali. In ambedue gli ordini tale «avere» comporta una composizione reale nella struttura dell’ente o della natura come tale (composizione di essenza e di esse, di materia e forma). - 3. La composizione nell’ordine entitativo (di essenza e di esse) comporta in tutte le creature un’ulteriore composizione, quella di sostanza e di accidenti nell’ordine operativo in virtù della quale l’ente può operare e così raggiungere la
perfezione a sè conveniente che inizialmente non ha. Sono questi i tre momenti di maggior rilievo della nostra ricerca dal punto di vista della struttura dell’ente creato come ente per partecipazione.| Il nostro lavoro può ormai delinearsi nel suo armonico sviluppo. La prima parte introduttiva tratterà delle Fonti della nozione tomista: il Commento a Boezio suppone una dottrina ormai stabilita, e l’esistenza quindi di altre fonti di contenuto più esplicito e decisivo rispetto a quelle dottrine. La seconda parte è destinata allo sviluppo teoretico del contenuto fondamentale della nozione, sia sotto l’aspetto predicamentale univoco, come sotto quello trascendentale analogo. La terza parte infine prosegue gli ultimi sviluppi della nozione nei riguardi della struttura secondaria dell’essere finito tanto nell’ordine naturale, come soprannaturale. Nella Conclusione sarà riassunto il punto di vista di un’interpretazione d’insieme della metafisica tomista.
PARTE PRIMA
IL FONDAMENTO STORICO DELLA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE
SEZIONE PRIMA
LE FONTI PRIMARIE
IL «PARTECIPARE» NEL LINGUAGGIO SPONTANEO E NEL PENSIERO RIFLESSO
§ 1. – Come i nostri pensieri hanno la loro prima origine dai fatti più ordinari dell’esperienza, così i termini, che usiamo per manifestarli esternamente, mostrano spesso nella loro etimologia quale sia stato il primo passo nella formazione ed epurazione dei nostri concetti. Non è necessario però che il significato etimologico primitivo resti il principale, anzi alle volte può essere quasi completamente trasformato, per dar luogo ad un significato più esauriente: «In significatione nominum aliud est quandoque a quo imponitur nomen ad significandum; et aliud ad quod significandum nomen imponitur. Sicut hoc nomen lapis imponitur ab eo quod laedit pedem non tamen imponitur ad hoc significandum quod significet laedens pedem; sed ad significandam quamdam speciem corporum, alioquin omne laedens pedem esset lapis» (Ia, q. 13, 2 ad 2um). Certamente il valore del linguaggio progredisce assieme a quello del pensiero di cui è segno; ma questo sviluppo è, alla fine, sempre uno sviluppo nel campo della vita, onde si potrà sempre trovare una «qualche» continuità di derivazione fra il significato elaborato ed ultimo dei termini e quello primitivo-originario. L’osservazione può valere soprattutto per i termini verbali, che significano una verità «in actu significato», e quindi suppongono una certa riflessione, a differenza di quelli nominali che la significano solo «exercite», quale conseguente alla prima apprensione.| I dottori scolastici del secolo XIII nel dare il significato di «partecipare» si riferiscono immediatamente alla evidente etimologia: Participare = partem-capere, ma non si curano tanto dell’etimologia e passano senz’altro alle applicazioni dottrinali, come fa S. Tommaso nel testo principale sull’argomento1. Un’applicazione dell’etimologia nel campo grammaticale, era stata indicata da S. Isidoro, dando l’etimologia di participio: «Participium dicitur quod nominis et verbi capiat partes. A nomine vindicat sibi genera et casus; a verbo tempora et significationes; ab utroque numerum et figuram»2 . L’Enciclopedia Italiana Treccani, non dice di più: «Participio - Forma nominale del verbo, dal latino participium che traduce il greco metoch, “partecipazione” così chiamato perchè partecipa sia alla ptw/sij, cioè alla declinazione, sia al cro,noj, cioè al tempo del verbo» (vol. XXVI, p. 419 b). Il verbo «partecipare» ha un largo uso nel linguaggio ordinario: fra i più evidenti e correnti è questo nell’ordine quantitativo ove partecipare è un vero «partem capere» di qualche cosa e suppone che un «tutto» qualsiasi nel campo degli interessi concreti si sia scisso in parti che vengono poi distribuite ai partecipanti: in questo senso diciamo «partecipare ad un’eredità, ad un beneficio, ecc.». In questo partecipare si suppone adunque: a) una «divisione» di un tutto (precedente) in parti: fin quando l’eredità resta indivisa, ci sarà il diritto alla partecipazione, ma non c’è ancora alcuna partecipazione di fatto. b) una certa relazione di «comunanza» o convenienza dei partecipanti, puramente «giuridica» prima della divisione, che diviene reale dopo la divisione per via delle parti, in quanto tutte provengono dalla divisione dell’identico «tutto». È facile rilevare che la prima implicazione del «partecipare» come «partem capere» secondo una divisione e frammentazione reale è secondaria e derivata: poichè ogni partecipante non entra in comunanza che in porzione della quantità che gli spetta, tale porzione non ha verso il «tutto» da cui è derivata e verso le altre parti che hanno raggiunto il loro destino, che un legame storico, qualunque fossero stati i legami primitivi. Il «partecipare» adunque nei rapporti quantitativi si trova, ad esser rigorosi, soltanto
nell’«atto» della divisione, ove il termine ha tutto il suo significato «forte» di «prendere una parte» fra le altre parti, sia come «prendere», «ricevere reale», sia come prendere una parte con esclusione formale| delle altre parti. E questo è proprio della quantità, in quanto essa conferisce alla sostanza corporea la grandezza e l’estensione reale per la quale si può esercitare la divisione delle parti. Se quindi si vuol parlare di «partecipazione» anche a riguardo degli altri predicamenti, ciò sarà con qualche riferimento al modo di partecipare quantitativo, che non è un puro terminus a quo del significato come il «laedere pedem» per il «lapis», ma a suo modo funge come da principale significatum. Inoltre il «partecipare» quantitativo nella sua intelligibilità perfetta è una nozione del tutto chiusa, che non pone alcun problema: i problemi sorgono invece quando, applicato alla qualità e agli altri predicamenti quel significato si oscura e sembra andare incontro alla contraddizione. Ma il linguaggio ordinario presenta altri usi del t. «partecipare», assai più frequenti e di contenuto più ricco e vario di quello quantitativo: può venir esteso a significare qualsiasi rapporto che interessi l’unione dei membri di qualche collettività per oggetti e finalità che comunque li possano interessare in comune, e si può allora costruire grammaticalmente con tutti i casi3. Questa partecipazione può riferirsi tanto alla conoscenza, come alla volontà, al sentimento od all’opera effettiva; diciamo, infatti: «partecipare una notizia... un avvenimento lieto o triste ad una persona», non qualunque, ma che possa o debba «prender parte» cioè «unirsi» almeno ai sentimenti di chi «comunica» la notizia. Diciamo pure, in un senso strettamente morale, «partecipare ad un’azione od opera di qualcuno», nel senso di «collaborare assieme», come anche partecipare ad uno scopo o fine, appoggiandolo di fatto. Diciamo ancora «partecipare» della gioia o del dolore d’altri, dei propositi, convinzioni, intenzioni... per esprimere l’unione di fatto all’oggetto della partecipazione, quale risposta alla richiesta di partecipazione4. In questi ed altri consimili significati l’implicazione propria del «partecipare» non è più quella di una «divisione» di un tutto preesistente: e se in italiano si usa frequentemente come sinonimo il termine «condividere», bisogna confessare che in verità il vocabolo è stato mal scelto, poichè nel caso manca affatto un «tutto»| reale, massiccio da dividere, ed anzi il partecipato più che dividersi e disperdersi per la partecipazione tende sia ad intensificarsi, come nei casi lieti, sia ad alleviarsi come nei casi dolorosi. Raccogliendo i due significati fondamentali di «partecipare» del senso comune, dobbiamo notare una importante differenza: a) Il «partecipare» nell’ordine quantitativo affetta direttamente l’oggetto della partecipazione. b) Nel «partecipare» morale la partecipazione riguarda il modo. L’og-getto può essere presente tutto intero ai singoli partecipanti, ma esso «tocca» qualcuno di essi a preferenza secondo un modo intenso e proprio e alle volte incomunicabile, in relazione al quale secondo che più o meno si avvicinano, anche gli altri modi di unione sono detti «partecipazioni». Per viva che sia la partecipazione amichevole, essa non raggiungerà l’intensità della gioia dell’interessato che ha raggiunto finalmente una meta di intensi sacrifici. Per pietosa che sia la partecipazione al dolore, essa rimarrà sempre inferiore allo strazio dell’amore materno che piange la sua creatura morta. Si noti ancora che la ragione formale della partecipazione «morale», o meglio, il suo fondamento non è dato dall’oggetto stesso, quanto dai legami particolari che possono stringere i partecipanti a colui al quale per primo compete l’oggetto della partecipazione: legami di amicizia, di parentela. Mentre adunque nei rapporti quantitativi la «comunanza» era un effetto della partecipazione, in quelli d’ordine morale affettivo la comunanza è invece la radice del partecipare, per cui è toccata la mente ed il cuore del partecipante. Ci troviamo quindi di fronte a due significati quasi antitetici ed in sè inconciliabili, poichè guardano alla realtà sotto punti di vista al tutto disparati: sarà nell’ordine metafisico che tutte queste esigenze del «partecipare» saranno ridotte in ben legittime proporzioni. Più facile dell’etimologia latina, sembra quella offerta dalla lingua greca, che è la madre legittima del termine, ove, se il significato resta più vago, è insieme meno esclusivo del latino «partem capere». A «partecipare» corrispondono in greco due verbi mete,cein e koinwnei/n, e i corrispondenti sostantivi me,qexij, meta,schsij, koinwni,a; meno frequenti metalamba,nein, meta,lhyij: il greco non sembra quindi suggerire immediatamente «partem capere», «partem habere», ma piuttosto «habere simul», «habere cum alio», «communicare cum aliquo in aliqua re». Poichè spesso anche mete,cein si| costruisce con l’accusativo, la preposizione meta perde ogni suo valore e il termine diventa sinonimo di e;cein, quale contrapposto a ei=nai, avvicinandosi così in un modo notevole al significato filosofico più rigoroso del termine5.
LE FONTI DELLA NOZIONE TOMISTA § 2. – Gli studi più recenti sulla storia del Tomismo portano alla convinzione che nessun dottore medievale può reggere al confronto con il Dottore Angelico per l’ampiezza e la sicurezza dell’informazione positiva; e si ha l’impressione che mai, forse nella storia dei problemi speculativi si trovarono, come in Lui, mirabilmente fuse in una sola persona, la solerzia dello storico e la tendenza irrefrenabile del teorico a portare le idee al vertice della speculazione pura. Vorrei far apparire in qualche modo questo carattere essenziale del Tomismo, che a torto è lasciato da molti nell’ombra; le indicazioni che ho voluto raccogliere, anche se ancora incomplete e limitate dall’argomento, saranno sufficienti a mostrare che S. Tommaso aveva un’idea altissima circa lo sviluppo dello spirito umano. Guardando dall’alto alla sua storia, e dominando quasi duemila anni d’esperienze speculative, il Nostro arrivò presto ad una concezione «dinamica» e serenamente ottimista della vita intellettuale. Egli la vedeva, nei vari tentativi, svilupparsi secondo una continuità armonica, dai primi contatti incerti e parziali fino alla conquista definitiva e quieta della verità. Sta qui il segreto di una valutazione esatta del pensiero tomista ed anche la sua difficoltà. L’Angelico non si rivolge alle Fonti per fare la sola storia «temporale» delle idee, ma per la «verità intemporale» che esse racchiudono. Ciò che lo interessa e lo applica alla conoscenza diretta dei testi, e lo spinge a procurarsi codici nuovi e versioni più accurate, non è la compilazione di una storia del pensiero precedente, di una «catena» o di un centone, od altro simile lavoro documentario, in omaggio al gusto erudito del suo tempo, ma è il valore stesso «progressivo» della verità che, affidata agli uomini, come essi ha una storia del tempo e viene affermandosi a poco a poco. Si deve dire allora che S. Tommaso non ha mai raggiunto il vigore della| critica storica moderna? S. Tommaso, come vedremo, alle volte ha mostrato un fine intuito critico, che non solo va ritenuto eccezionale, quando si badi alla sua informazione scarsa e frammentaria allora possibile, ma ha raggiunto anche dei risultati positivi e di valore definitivo: anche sotto questo aspetto Egli si eleva al di sopra del suo tempo e merita il rispetto di chiunque. Ma è altrettanto certo, e molto più importante, il riconoscere che S. Tommaso non solo non fu un puro storico, ma neppure un pensatore puro nel senso moderno dei termini, cioè un contemplatore solipsista, deduttivo e unilaterale, che s’affida a nozioni e principî, pochi di numero ed esclusivi nel contenuto. Il suo metodo, sia nell’interpretazione storica delle Fonti, come nello sviluppo ulteriore dei principî è essenzialmente «sintetico», progressivo, che tende ad accogliere tutti gli aspetti di verità, qua e là dispersi o mal compresi nei sistemi precedenti, e cerca poi di assimilarli ed incorporarli in un’unità vivente. Si comprende allora quanto possano riuscire insufficienti nello studio del Tomismo tanto il criterio storico come quello speculativo, quando vengano praticati isolatamente, poichè, per ciò, ci si pone fuori dell’ambiente reale-integrale del sistema, e recenti indagini hanno dato dei significativi indizi in ambedue i sensi dell’affermazione. Tutti quelli che con buona o mala intenzione, passano sopra a questo criterio esegetico, concordano nel negare l’originalità speculativa del Tomismo, che, per chi scrive questo saggio, è assieme un punto di arrivo e un punto di partenza: è impossibile, a mio parere, che uno spirito, che ha esercitato e continua ad esercitare su quanti lo avvicinano, in qualsiasi modo, un’attrazione e una simpatia invincibile, non sia che un abile prestigiatore d’idee. La prova esteriore di questo sentimento, che suscita lo studio del Tomismo, esigerebbe di rifare per proprio conto, passo per passo, l’itinerario speculativo percorso, una volta, dal suo Autore, realizzando in noi le condizioni soggettive ed oggettive che hanno favorito quella prima apparizione. Ma evidentemente, questo non ci è concesso di farlo che in parte ed in modo ancora molto imperfetto e inadeguato al desiderio: ancor oggi, dopo quasi un secolo di sapienti ricerche, siamo ben lungi dal conoscere a sufficienza il vero volto del Medioevo speculativo, le risorse letterarie di cui disponevano i medievali e le reali condizioni storiche del loro uso. Lo stesso S. Tommaso, quanto è stato infaticabile nell’informazione positiva delle dottrine e prodigo nella indicazione delle Fonti, altrettanto è stato avaro nello svelarci l’intimo lavorìo del suo spirito. Però bisogna anche dir subito che, malgrado tutto questo, oggi| abbiamo sufficienti documenti, se non per svolgere in ogni sua parte, certamente almeno per delineare nell’essenziale quella che è la fisionomia storico-speculativa del Tomismo. Quanto si vien dicendo, per un complesso di felici circostanze, vale particolarmente per «le fonti della nozione tomistica di partecipazione»; esse sono state indicate in modo esplicito dal Santo Dottore in due articoli delle QQ. disputate, ed insieme sono state l’oggetto di numerose ed importanti ricerche storiche recenti, che permettono di prendere su molti punti un orientamento sicuro. L’Angelico nella Q. disp. De Veritate (q. XXI, art. 5), chiedendosi: Utrum bonum creatum sit bonum per suam essentiam, risponde in modo negativo che «secundum tres auctores oportet dicere, creaturas non esse bonas per essentiam, sed per participationem, scilicet secundum AUGUSTINUM, BOËTHIUM et AUCTOREM LIBRI DE CAUSIS» (quest’ultimo sarà meglio individuato più tardi, come si vedrà). Nella Q. disputata De potentia (q. III, art. 5)
pone il problema della creazione universale: «Utrum possit esse aliquid quod non sit a Deo»; la risposta negativa è provata «triplici ratione» e la prima è riferita a PLATONE, la seconda ad ARISTOTELE, la terza all’arabo-persiano AVICENNA; tutte e tre hanno per fondo comune la nozione di partecipazione. Se ora a questi sei Autori aggiungiamo lo Ps. DIONIGI AREOPAGITA, che in questo affare è forse interessato più di tutti gli altri, abbiamo ormai tutte le fonti principali, alle quali si è ispirata e può esser riferita, nel suo contenuto, la nozione tomista di partecipazione6. È il contenuto dottrinale di queste fonti che costituisce la base sulla quale è sorta e si è affermata la metafisica tomista, alla conoscenza del quale contenuto noi poco fa attribuivamo un’importanza capitale per la comprensione «integrale» del Tomismo. Ma qui occorre avanzare un’altra riserva di notevole valore metodologico: quello che c’importa di conoscere non sono le Fonti come tali e nel loro contenuto «oggettivo», ma le Fonti secondo l’influsso reale-soggettivo, diciamo, che hanno esercitato sul nuovo sistema. Pur non trascurando l’aspetto oggettivo, a noi preme soprattutto di presentare le Fonti dal punto di vista «tomista», nell’aspetto cioè secondo il quale potevano apparire e possiamo congetturare che apparvero, di fatto a S. Tommaso, poichè è solo secondo questo| aspetto che ebbero un influsso reale nella formazione del suo sistema. Per questo una qualsiasi informazione storica sulle Fonti appariva una necessità alla quale non ho potuto sottrarmi e qualunque sia la consistenza dell’interpretazione caldeggiata in queste pagine, essa avrà almeno il merito d’aver tentato di dare al problema una solida base di discussione. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE IN PLATONE § 3. – Diciamo subito che il platonismo, quale può esser da noi conosciuto, non è quello che poteva conoscere S. Tommaso. Di Platone il Medio Evo latino non conosceva che ampi frammenti del Timeo nella versione di Cicerone e di Calcidio, e già Scoto Eriugena nel sec. X cita il celebre dialogo cosmologico che da quel tempo comincia ad entrare nella circolazione letteraria e, certamente anche S. Tommaso ebbe conoscenza diretta di quei frammenti. Degli altri dialoghi platonici non si conosceva che qualche breve frammento o semplicemente il solo titolo (da Calcidio) e solo nel sec. XII comincia a circolare qualche copia del Fedone e del Menone7. Le rare allusioni di S. Tommaso a questi due dialoghi non suppongono però una conoscenza diretta, ma si possono ben spiegare con le citazioni abbondanti che si trovano nell’opera aristotelica. Dal Rinascimento ai nostri tempi le condizioni della cultura sono radicalmente mutate rispetto a quelle del Medio Evo; si può dire che ormai è stata ricuperata la maggior parte delle opere di Platone, mentre d’Aristotele la critica più recente ci fa sapere che non possediamo se non le opere dell’ultimo periodo dell’attività magistrale del Filosofo e parte di quello di mezzo, e del primo periodo fecondissimo non abbiamo che scarsi frammenti. Si comprende pertanto che S. Tommaso non ebbe a sua disposizione gli elementi sufficienti per tentare un’interpretazione originale di Platone, quale oggi sarebbe possibile e come egli potè fare per Aristotele. La fonte principale intorno al pensiero di Platone, come per tutta la filosofia prearistotelica, è stata per lui Aristotele stesso nelle magistrali esposizioni che il Filosofo usa premettere ai suoi trattati (cfr. il I libro della Etica Nic., della Metafisica, del De Anima...), ove ormai le teorie si trovavano di necessità semplificate, ed in qualche modo piegate, per dare maggior risalto all’opposizione| polemica. I nostri accenni alla nozione platonica di partecipazione avranno per questo una visuale un po’ più ampia di quella che abbiamo nel testo aristotelico in omaggio alla «paternità» che spetta a Platone in questa nozione e per l’interesse particolare che hanno per la nozione tomista di partecipazione alcuni sviluppi del tardo platonismo, lasciati nell’ombra dai testi aristotelici8. È risaputo che la nozione di «partecipazione» s’immedesima nella storia del pensiero, con la teoria delle «Idee»: è con l’avvento di questa prima intuizione globale del mondo, che partecipare e partecipazione ricevono un proprio significato, al quale si deve sempre in qualche modo ricorrere per poter comprendere e valutare gli sviluppi che la dottrina ha poi avuti. «Partecipare» nel greco di Platone si esprime di solito con mete,cein e koinwnei/n. Ma questi termini non sono i soli: accanto ad essi figurano non di rado anche metalamba,nein (Parm., 131 A), sunei/nai (Phaed., 83 A), parei/nai (Phaed., 100 D), paragi,gnesqai (Gorg., 506 D), metei/nai (Rep., 402 C). Se, e fin dove, questi termini nei dialoghi platonici siano sinonimi, è difficile poterlo precisare, poichè ciò dipende in buona parte dall’atteggiamento personale che ciascun autore si decide di assumere circa l’esegesi del Platonismo, che, come si sa, è una delle questioni senza fine che l’erudizione antica e recente ci hanno tramandata9. Per attaccare subito il problema possiamo dire, in generale, che per Platone «partecipare» esprime il rapporto che ha la realtà sensibile dei singoli (concreti) con quella dell’intelligibile universale (astratto), rispetto alla soluzione del problema che forma il travaglio di tutto il Platonismo, e della filosofia come tale, quello circa l’oggetto e le condizioni della conoscenza «valida». Per la prima volta, nella storia del pensiero,
abbiamo nel Platonismo il tentativo di soddisfare, in modo adeguato, all’esigenza essenziale del sapere come conoscenza «necessaria» nei rapporti e «oggettiva» nel contenuto, ed è tutta qui la ragione e la genesi del Platonismo e quindi della prima nozione filosofica di partecipazione. La rigida speculazione eleatica con la teoria dell’Essere immobile, unico ed indivisibile, pur cogliendo la prima esigenza logica del conoscere (principio di contraddizione), aveva poi isolato e| avulso questo conoscere, anzi era stato contrapposto all’oggetto che ci è immediatamente dato nella esperienza: la realtà (mobile) del sensibile. Eraclito, il tenebroso, insistendo invece ancor più sul carattere irrazionale dell’esperienza, aveva reso lo hyatus affermato dagli Eleati, fra il sensibile e l’intelligibile, del tutto incolmabile. Gli Italici, o Pitagorici, aprendo una nuova via al pensiero, indicavano nel Numero la ragione dell’ordine e dell’armonia sia sensibile come intelligibile delle cose. E mentre i Sofisti cimentavano il proprio spirito all’eristica, Socrate invitava all’onestà della missione del saggio (sofo,j), intesa come educazione di popoli e particolarmente dei giovani che s’apprestano a diventare elementi operanti nella Repubblica. Secondo l’autorevole testimonianza di Aristotele, la concezione platonica risentì e sorse per l’influsso, variamente combinato di tutte queste correnti, che tenevano il campo della cultura greca nella seconda metà del quinto secolo a. C. Spirito dotato di risorse eccezionali, Platone ben vide che la soluzione definitiva doveva essere comprensiva, dall’alto, delle contrarietà sistematiche, ma a causa di un metodo ancora imperfetto si trovò nell’impossibilità di dominare le intuizioni profondissime della sua mente che, sotto l’insistente pressione dei problemi, non riuscì mai a stabilirsi in una posizione di valore definitivo. La «scepsi platonica», se vogliamo così chiamare quest’assillante ricerca del vero, si esercita anzitutto sulla ricerca dell’oggettività del sapere, per passare in seguito ad una implicita prima, e poi esplicita interpretazione metafisica della realtà10. Malgrado le secolari e persistenti controversie sul significato essenziale del Platonismo, si può dire che Platone sempre tenne fermo al principio che l’oggetto della scienza non può essere che il necessario e l’universale: Parmenide lo ha dimostrato. Ma, d’altra parte, tale oggetto non può esser dato o trovato nella realtà singolare sensibile a cui è intrinseca la contingenza e la mutabilità. Invano tu lo cerchi: esso non si dà, Eraclito aveva ragione di dirlo, se non nel suo continuo fluire e nel discontinuo apparire. Dell’esperienza può aversi solo do,xa, evpisth,mh mai! Ma la scienza, la conoscenza valida c’è!, afferma Pl., anticipando di venti secoli il metodo dell’Autore delle tre Critiche: ci dev’essere quindi anche l’oggetto della scienza, che se non può| esser dato nel singolare concreto, sarà trovato essere «altrove», ove sia in sè universale e per sè intelligibile11. Quest’oggetto è l’ivde,a, l’ei=qoj; le idee (ta. ei;dh), oggetto proprio del pensiero, sono forme «pure» e «piene», ingenerabili, incorruttibili, e ciò suppone che siano «per sè separate», come acutamente le definì Aristotele, che sembra voler definire la terminologia corrente ed ufficiale dell’Accademia: «Essi fanno delle idee sostanze universali, e, insieme, sostanze che alla lor volta sono separate e singolari»12. Il problema allora si riversa tutto sulla determinazione circa la natura della relazione che hanno i sensibili, sempre cangianti, alle idee immutabili: è questa relazione che è espressa con il termine proprio di partecipazione (me,qexij, metoch,, koinwni,a) e sembra bene che si tratti di una terminologia originale. Aristotele nel mostrare l’origine del termine me,qexij è molto sbrigativo, se non semplicista: «Quanto alla partecipazione, egli (Pl.) mutò soltanto il nome: chè i Pitagorici dicono che le cose sono per imitazione dei numeri, e Platone, con nome nuovo, dice che sono per partecipazione»13. Evidentemente, benchè affini, le due concezioni, la pitagorica e la platonica non possono esser ridotte ad un’esteriore differenza di terminologia, ed anche il ROSS nel suo Commentario se ne meraviglia con il Filosofo: «It is surprising that Aristotle should describe the change from mi,mhsij to me,qexij as only verbal»14. Ecco in modo schematico l’istanza platonica dell’idea: l’«uomo», di cui c’è scienza, deve essere sempre, necessariamente e, quindi, in modo esclusivo tale. Ora gli uomini, concreti: Socrate, Fedone, Simmia, sono uomini di una certa durata e che passano – non sono «sempre», nè allo stesso modo, poichè sono piccoli o grandi, giovani o vecchi; non sono neppure «totalmente uomo», poichè possono essere sapienti o ignoranti, barbari o civili, belli o deformi – hanno quindi altri attributi oltre quello dell’umanità.| Ma l’«uomo», oggetto della scienza, non è nè piccolo nè grande, nè bello nè deforme, nè sapiente nè ignorante: è l’«uomo» con l’articolo e solo UOMO, e non può quindi identificarsi nè con Socrate, nè con Fedone, nè con qualsiasi uomo trovato nel mondo dell’esperienza, ma dev’essere qualcosa di «per sè stante», e che può quindi esser la ragione perchè e Socrate e Fedone, e quant’altri mai uomini effimeri, possano essere ed esser detti «uomini». Oggetto della scienza, pertanto, non è l’uomo concreto che si indica con il dito e si chiama per nome, ma è quello astratto e separato, che porta il solo nome della specie, perchè possiede in sè la «totalità» di quella realtà formale che si trova divisa e sparsa, cioè partecipata nei singolari. Esso solo è ciò che «totalmente» è
(pantelw/j o;n) nel suo ordine, e solo pienamente conoscibile (pantelw/j gnwsto,n). L’Idea, adunque, è per funzione sua intrinseca il principio di unità intelligibile e reale del molteplice, come un «to. e]n evpi. tw/n pollw/n», e il termine in cui si fissa l’intuizione intellettuale, che permette «to. noei/n ti fqare,ntoj» (Soph., 248 E)15. Pare, a questo modo, che, per Platone, il singolare sensibile in tanto è intelligibile, in quanto è «sussunto», o, per evitare l’anacronismo della terminologia kantiana, in quanto è riferito ed è visto e compreso essere entro l’universale. È proprio sotto quest’aspetto e in questa forma che l’Idea è il «Tutto», e il singolare, che lo riflette, una partecipazione? Certamente! Ma si sa che Platone ha continuamente ondeggiato di fronte alle nuove difficoltà e alla critica incalzante che si faceva anche in seno all’Accademia, intorno all’ultima precisazione del suo pensiero, onde i critici disputano se alla fine abbia optato per una trascendenza assoluta dell’Idea o se essa vada ridotta ad un puro contenuto noetico, normativo del pensiero formale (NATORP, Plato’s Ideenlehre); o, infine, se ambedue gli aspetti, immanenza e trascendenza dell’Idea nei singolari, abbiano potuto coesistere insieme, almeno in qualche fase dello sviluppo del suo pensiero. Alcuni studiosi moderni di Platone hanno, infatti, voluto vedere nei Dialoghi due teorie, ben distinte, dell’Idea: una giovanile dei primi Dialoghi ed un’altra nei grandi Dialoghi della maturità che si presenta come un approfondimento reale della prima. Secondo la prima forma platonica della metessi (da cui Platone ha sentito il bisogno di liberarsi...) si avrebbe avuta l’immanenza, ma non dell’Uno nei Molti, ma dei Molti nell’Uno. L’universale sarebbe stato sempre la realtà, ontologicamente determinata, non solo «secundum intentionem», ma anche «secundum rem», però| i Molti sarebbero convissuti in esso come sue parti o come negazione parziale della piena essenzialità dell’idea. Non dunque immanenza gnoseologica dell’universale nel particolare, ma immanenza ontologica del particolare nell’universale16. Secondo una tale teoria il mondo sensibile veniva ridotto ad un’apparizione fluttuante di quello intelligibile: conseguenza questa che anche a Platone garbava punto ed a cui cercò di sottrarsi con la seconda teoria, che sarebbe caratterizzata dalla restrizione dell’Idea alle sole sostanze materiali (ta. ovpo,sa fu,sei) e dalla sostituzione del concetto di mi,mesij a quello primitivo e vago di me,qexij. Così pensano fra i moderni lo JACKSON e la sua scuola in Inghilterra17 e, fra noi, lo STEFANINI18. La maggior parte però dei critici contesta che si tratti, nel caso, di uno sviluppo reale, e ritengono come seconda teoria delle Idee, la concezione delle Idee-Numeri (avsu,mblhtoi avriqmoi,), riferita da Aristotele nel libro M (cc. 6-8) della Metafisica19. Quisquilie di critica e di filologia? Forse; ma è qui che si appunta il dilemma della metafisica platonica: conservare il carattere dell’Idea come «Totalità attuale», ed insieme fare di essa la ragione dell’intelligibilità e della realtà del singolare20. O i singolari hanno| parte reale (me,roj e;cein) all’Idea, e allora l’Idea si trova divisa e smembrata: o, se l’Idea resta in sè unita, come può dirsi in essi partecipata? Ma il problema, quand’è così posto, non può esser risolto da un realismo assoluto come quello platonico. Platone però, bisogna riconoscerlo, ebbe una viva coscienza di questa, come delle altre difficoltà che man mano emergevano contro le idee, e le presentò lui stesso con forte drammaticità negli ultimi Dialoghi, ed in particolare in quel Dialogo di confine che è il Parmenide. Ivi l’aporia dialettica fa venire in primo piano un concetto che era già presente nella Repubblica e che si è maturato quasi per una forza logica interiore: l’Idea (sussistente) non è un «tutto» qualsiasi, nè i singolari sono delle «parti» qualsiasi, ma l’Idea è un tutto come «Forma-tipo», di cui il singolare è immagine. La partecipazione, quindi, nell’ordine ontologico è una mi,mhsij, termine questo assai più comprensibile di me,qexij e koinwni,a: con l’«imitazione» viene indicata e fortemente espressa la distinzione incolmabile fra l’universale e il particolare, secondo una trascendenza assoluta dell’Idea in sè, combinata con una relativa immanenza della medesima (Idea) per l’imagine lasciata nel singolare, che è un eivkw,n o eivdw,lon21. «Partecipare» è allora mime,omai, evoike,nai, eivkasqa/nai. Platone, anche se fu fortemente scosso dall’eracliteo Cratilo, come vuole Aristotele, non si vuol rassegnare a quella sconfortante posizione nichilista: bisogna pur riconoscere una «qualche» realtà anche al sensibile, ed una certa qual consistenza ontologica, anche se non del tutto autonoma o autarchica; a Platone sembrò d’averci soddisfatto con l’introdurre il concetto di mi,mhsij a complemento della prima forma della me,qexij. All’aporia del vecchio Parmenide che la «partecipazione» implica «divisione» reale e quindi frammentazione dell’Idea, Platone può rispondere che la mi,mhsij sfugge all’istanza: l’Idea-modello (to. para,deigma), benchè si comunichi (per imagini), può restare in sè| tutta intera; poichè ciò che procede al di fuori, non è una sua «parte», ma solo una copia od imitazione. Il vecchio Eleata però non si dà per soddisfatto: sia pure, che grazie all’imitazione, esemplare ed esemplato possano ad un tempo esser uniti e distinti, e l’imitazione possa esser principio ontologico e noetico dei diversi come «somiglianti»: ma anche la «somiglianza» è alla fine un rapporto, a cui «partecipano» alla lor volta ambedue sia l’esemplare come
l’esemplato. Non resta, allora che postulare un «tertium quid», che sia la ragione di questa nuova «comunanza». Socrate è detto «uomo», in quanto partecipa all’UOMO (separato), avendone ricevuta in sè una «somiglianza»; d’altra parte questa non è possibile se non in quanto entrambi sono simili l’uno all’altro – non resta allora che porre «fra» i due e «prima» di essi un tri/toj a;nqrwpoj, che renda ragione della seconda partecipazione22. Ma è chiaro che anche il tri/toj a;nqrwpoj, in quanto è detto essere «uomo» deve «assomigliare» agli altri due, l’istanza si rinnova ed è così aperto il processo all’infinito – quindi le Idee sono inutili e non esistono23. Eppur ci sono! risponde Platone; ma la risposta più che nel Parmenide va cercata nel Sofista. Il grande Dialogo apre nuove visuali di notevole valore metafisico: a) l’affermazione dell’esistenza di un mh. o;n – esso è posto quale «soggetto» dell’imitazione, onde può essere convalidata metafisicamente, la realtà sia pur «sui generis» del sensibile24 e b) l’estensione del rapporto di partecipazione al regno stesso delle Idee: la koinwni,a tw/n genw/n. Gli elementi (intelligibili) primordiali e fontali che, nella prima concezione restavano fra di loro impervi e senza finestre, come monadi leibniziane, ora sono visti permeati da rapporti che li ordinano e subordinano secondo un canone di perfezione scalare. Al sommo stanno i supremi, che vengono partecipati per gradi dagli inferiori: Platone li indica come o;n kai. mh. o;n, ki,nhsin kai. sta,sin, tavuto.n kai. qa,teron; al di là dell’essere si trova il Bene. Anche il mondo intelligibile appare ben articolato e saldato nella sua struttura interiore, ed il movimento| dialettico ascendente può evitare il tri/toj a;nqrwpoj, poichè l’esemplare supera l’esemplato non per un eccesso quantitativo ma qualitativo, che si va intensificando progressivamente e che può fondare uno «status in quo» della risoluzione dialettica. Il Timeo con il Teeteto, il Politico e il Filebo si occupano della mi,mhsij «in actu exercito»: in questi ultimi Dialoghi l’imitazione, diremmo, è dovuta a causalità formale da parte delle Idee, efficiente da parte del Demiurgo, materiale da parte del mh. o;n o materia. La genesi e la struttura intima del sensibile concreto è concepita essere una kra/sij di pe,raj e a;peiron. I concetti primitivi hanno fatto molto cammino, anzi troppo, per potersi stabilizzare ed unificare. A testimonianza degli specialisti le fluttuazioni e le stesse contraddizioni di Platone, nei punti più capitali, sono tali e tante da disorientare il critico più paziente ed agguerrito25, e come c’è un problema «omerico» o un problema «dantesco» ci sarà sempre anche il problema «platonico». In questo il pensiero platonico va considerato, più che un sistema rifinito, come una sincera aspirazione alla «verità integrale», che ha trovato i suoi eredi, non soltanto in coloro che hanno accettato le nude formule, ma anche e piuttosto in coloro che, superando l’aspetto caduco di quel pensiero, ne hanno realizzato le segrete virtù. E noi pensiamo al Neoplatonismo, o meglio alla sintesi tomista: ma la definitiva risposta al messaggio platonico non poteva avvenire senza la mediazione di chi è stato dell’Accademia il frutto più maturo: Aristotele. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE IN ARISTOTELE § 4. – Tutta la tradizione aveva guardato ad un Aristotele, quale antagonista per vocazione speculativa del Platonismo, ed aveva ravvisato in lui il maestro sovrano del pensiero, che non ha provato dubbi o incertezze, e che ha saputo dare di un getto un’interpretazione completa del mondo, perfettamente equilibrata in tutte le sue parti, senza miti o divagazioni poetiche ma con i termini e le argomentazioni convenienti e proprie. Di qui si spiega quella dittatura intellettuale che il Filosofo esercitò per tanti secoli, ed anche come i suoi ammiratori, che alle volte erano ingegni di alta capacità speculativa, frequentassero con piena dedizione le sue dottrine, senza mai sospettare che anche l’Aristotelismo,| come tutte le cose umane, potesse aver avuto una «storia», e le idee avessero subìto uno sviluppo reale. Questa concezione intemporale e antistorica dell’Aristotelismo, anche se poteva presentare notevoli vantaggi per una presa di possesso sintetica di un corpo dottrinale particolarmente dato, doveva riuscire, sotto altri aspetti, lacunare ed inadeguata per rendere la fisionomia propria e la portata singolare di quell’enorme fatica speculativa che fu l’Aristotelismo. Poichè, si può ben dire che, come lo Stagirita è stato il primo assertore di un concetto integrale di «natura», intesa quale capacità intrinseca di sviluppo progressivo e continuo, volle quasi darci un primo saggio di questa sua profondissima intuizione nel divenire e svolgersi del proprio sistema. Del resto lo stesso Aristotele all’inizio d’ogni sua indagine, con quelle ampie introduzioni storico-critiche, non fa chiaramente capire che le proprie posizioni spesso non sono che il frutto immediato della critica ai suoi predecessori, ed a Platone in particolare? Di più, chiunque abbia qualche familiarità con il testo aristotelico ben conosce quanto «dinamico» sia il metodo aristotelico, ove si succedono di continuo aporie, problemi ed ampie induzioni per cogliere l’essenza di una soluzione. Intuitivo, quanto dialettico, il suo ingegno appena scopre qualche nuovo aspetto dei problemi, lo annunzia subito nell’insegnamento e lo fissa nello scritto, non per riposarvisi, ma per riprendersi avpVavrch/j alla prossima
occasione. È stato il merito della moderna filologia critica d’aver scoperto questo Aristotele «vivo», ed è questo forse il risultato più saliente di un intiero secolo di pazienti ricerche, e che si trovano tuttora in pieno sviluppo. Sicuri indizi, colti nella letteratura stoica, epicurea, neoplatonica e, tra i latini, nelle opere di Cicerone hanno portato alla scoperta di dottrine e frammenti letterari attribuiti ad Aristotele, che non possono esser ricondotti alle dottrine e alle opere attualmente da noi conosciute, e che rivelano quindi un’intensa attività letteraria del Filosofo di cui riusciamo a mala pena ad individuare l’indole e le tappe principali. Quest’attività corrisponde al periodo della sua frequenza all’Accademia, ed a questo periodo appartiene un numero considerevole di Dialoghi e di trattati, i quali sia nei titoli come nella dottrina ricalcano con entusiasmo di neofita i modelli platonici, quali l’Eudemo o dell’anima, il Grillo o sulla retorica che ricordano il Fedone e il Gorgia platonici; il Protrettico, modellato pure in quello platonico, che ispirerà l’Ortensio di Cicerone, quell’Ortensio che accenderà di tanto caldo amore per la verità il retore Agostino di Tagaste da fargli| abbandonare definitivamente le grossolanità dei manichei per il platonismo e la vita dello spirito26. Questi scritti sono stati gli unici che Aristotele abbia licenziato al pubblico, che salutava in lui un ardente e commosso «amante delle Idee», ed è contro quest’Aristotele platonico «flumen orationis aureum» al dire di Cicerone27 che si levò ampia e mordente la critica degli Epicurei e degli Stoici, critica che sarebbe al tutto incomprensibile, se la si volesse riferire all’Aristotele definitivo, quale appare nelle opere inedite e che ritraggono il periodo più maturo della sua attività. Queste ultime, redatte nella forma austera del trattato e senz’alcuna preoccupazione letteraria, furono riservate al cerchio limitato dei più assidui e fedeli e, come si sa, solo dopo la morte del Filosofo, per le loro pietose cure qua e là ritoccate, furono pubblicate in forma di un completo corpo dottrinale. Ed in queste stesse opere postume dell’Aristotele definitivo, che formano il «Corpus Aristotelicum», comune a noi e ai medievali, non mancano indizi evidenti dello sviluppo di cui si parla: alcune di esse, sia per la dottrina come per la forma vanno riconosciute di composizione anteriore alle altre, ed in una stessa opera – anzi in uno stesso libro – i critici moderni sono giunti a distinguere libri e frammenti di diversa ispirazione, e quindi di differente data di composizione. L’Aristotele quindi che finora era conosciuto, era un Aristotele misto, collettizio che solo adepti fedeli con molta buona volontà ed abile esegesi riuscivano a decifrare e coordinare nelle sue parti: non il vero Aristotele. Secondo WERNER JAEGER, che nel suo Aristoteles ha dato una direzione decisiva alle indagini per la ricostruzione dell’«Aristotele perduto», bisogna riconoscere che fino negli aspetti dottrinali più intimi, quali la metafisica (e l’etica), l’Aristotelismo ha subìto una profonda e reale evoluzione, anche se il Filosofo ha cominciato per tempo ad esercitare il suo spirito critico28.| Dapprincipio, quando Aristotele era ancora «amico delle Idee», la metafisica è detta aver per oggetto le sostanze «soprasensibili», ed è quindi una «teologia», come si può vedere nei frammenti del Peri. Filosofi,aj e nel libro A della Metafisica; più tardi invece, quando il Filosofo ha trovato la propria strada, la metafisica, o meglio la filosofia prima, è tutta volta a spiegare le ultime condizioni dell’intelligibilità del mondo dell’esperienza. Infine sono gli studi sperimentali e positivi che finiscono per assorbire tutta la vita di Aristotele, che sembra abbandonare le pretese della speculazione trascendentale, per avvicinarsi a Democrito e riposare il suo pensiero sul terreno solido dei fatti. Evidentemente non tutto in quest’interpretazione moderna dell’Aristotelismo è egualmente sicuro, ma pare che l’idea centrale, quella di un graduale sviluppo da un platonismo iniziale verso una concezione personale indipendente con prevalenza degli studi positivi, sia ormai fuori di discussione. Si potrebbe quindi porre il problema della nozione di partecipazione quale si presenta nei primi scritti aristotelici, quelli «essoterici», di cui oggi si portano alla luce i frammenti, ma una simile ricerca, sia pur interessante, resta fuori del nostro obiettivo, che non mira all’Aristotele storico, ma all’Aristotele conosciuto dal Medio Evo, e soprattutto a quello visto da S. Tommaso, che è l’Aristotele degli scritti «essoterici» (postumi) dell’ultimo periodo. In essi la tradizione, ed anche la critica moderna hanno visto un Aristotele avversario implacabile delle Idee, che sono condannate come metafore poetiche, incapaci di spiegare o di operare alcunchè29. Ma bisogna confessare che neppure questo è l’Aristotele visto da S. Tommaso, quando ciò implichi un’incompatibilità assoluta fra il contenuto teorico dell’Aristotelismo con qualsiasi elemento d’ispirazione platonica. L’Aquinate, invece, ne vide più di uno e gli apparvero di tale importanza, che li giudicò sufficienti per elaborare, entro schemi aristotelici, una teoria completa della partecipazione. Veramente a voler essere precisi, e qui tocchiamo il punto| cruciale del nostro saggio, anche S. T. sembra sia arrivato per tappe ed un po’ alla volta a questa interpretazione «sintetica» dei due sistemi, ed agli inizi della sua attività letteraria tutte le sue simpatie erano per il Filosofo. Così nelle Sentenze, il Magister, trattando della creazione, simpatizza per Platone contro Aristotele ed in ciò si comporta da buon teologo e da fedele interprete della tradizione
patristica; ma S. Tommaso, nel Commentario, rettifica subito secco, secco: «Plato erravit, quia posuit formas exemplares per se subsistentes extra intellectum divinum, neque ipsas neque materiam a Deo esse habere»30, e difende con calore l’ortodossia d’Aristotele. Ma il giovane Maestro ha occasione di approfondire successivamente sia la letteratura patristica, sia alcune importanti opere d’ispirazione platonica, come le opere dello Ps. Dionigi e l’opuscolo De Causis, e cominciano ad apparire accenni più benigni all’indirizzo del Platonismo. Si riconosce esplicitamente ai Platonici la sublimità e verità della dottrina intorno alla divinità; fin nel Commentario al De Divinis Nominibus (a. 1261 circa) si legge: «Haec igitur Platonicorum ratio (= trascendenza reale dell’Idea) fidei non consonat nec veritati quantum ad id quod continet de speciebus naturalibus separatis, sed quantum ad id quod dicebant de primo rerum principio, verissima est eorum opinio et fidei christianae consona»31. Nel De Potentia (1265-1267), che segue di pochi anni, posto ex professo il problema della creazione universale (q. III, art. 5: Utrum possit esse aliquid quod non sit a Deo creatum), nella soluzione è allegata per prima la «ratio Platonis» e poi viene quella di Aristotele; nello sviluppo dell’articolo Platone ed Aristotele sono presentati insieme come gli unici pensatori che, nel primo periodo del pensiero greco, seppero sollevarsi al di sopra delle considerazioni fisiche e contemplare i rapporti metafisici assoluti: «Posteriores vero Philosophi, ut Plato et Aristoteles et sequaces eius, pervenerunt ad considerationem ipsius esse universalis, et ideo soli posuerunt universalem causam rerum a qua omnia alia in esse prodirent». Nella Summa Theologica (Ia, q. 6, art. 4) l’Angelico solleva la questione ormai di prammatica nella controversia fra i due sistemi (cioè: «Utrum omnia sint bona bonitate divina»), e dopo aver fatte le opportune riserve intorno alla metafisica platonica del mondo sensibile, dichiara che, per quanto riguarda i rapporti| di causalità fra Dio e il mondo, Platone ed Aristotele vanno d’accordo, ed anche il tono ha raggiunto un condiscendente equilibrio: «Et quamvis haec (= Platonis) opinio irrationabilis videatur quantum ad hoc quod ponebat species rerum naturalium separatas per se subsistentes, ut Aristoteles multipliciter improbat, tamen hoc absolute est ens et bonum, quod dicimus Deum. Huic etiam sententiae concordat Aristoteles». Ma non mancano temperamenti anche sul punto cruciale della controversia, la struttura metafisica del sensibile. Già nel Comm. al De Hebdomadibus di Boezio, che è ritenuto di composizione giovanile, dopo aver mostrato che la semplicità di qualsiasi essere sotto Dio è soltanto relativa, ed aver accennato alla teoria platonica, osserva: «et nihil differt quantum ad hoc, si ponamus illas formas immateriales alterius gradus quam sint rationes horum sensibilium ut Aristoteles voluit...». Nella Q. De Spiritualibus Creaturis (art. 10 ad 8um) di composizione posteriore (a. 1268 sec. Grabmann, 1269 sec. Mandonnet) si conchiude una profonda disamina della genesi del Platonismo e dell’Aristotelismo con una frase molto inaspettata, sul senso della quale si dirà a suo luogo, ma che è molto significativa: «Non multum autem refert dicere quod ipsa intelligibilia participentur a Deo (= Platonismo), vel quod lumen faciens intelligibilia participetur». E si legga infine anche questo curioso testo del Commento alla Metafisica (a. 1271-1272): «Sive dicamus quod universale sit unum in omnibus secundum opinionem nostram, sive quod sit aliquid separatum secundum opinionem Platonis, sicut fortassis non est verum...» (Comm. in IV Metaph., lect. 4, n. 584)32. Quest’atteggiamento benevolo nelle ultime opere diventa ancora più esplicito, ed esso pare sia dovuto all’approfondimento diretto che l’Angelico potè fare del Platonismo in quella somma dottrinale che è la Stoicei,wsij qeologikh, di Proclo, che la fraterna condiscendenza di Guglielmo de Moerbeka alla fine del 1268 gli metteva fra le mani nella versione latina. Qualche anno più tardi il Domeni|cano fiammingo offriva al maestro italiano la versione del Commentario di SIMPLICIO sopra il De Coelo et Mundo di Aristotele, nel quale lo scolarca ateniese si sforza di mettere in accordo Platone ed Aristotele, e ne riduce le differenze quasi solo a questione di metodo33. Un testo esplicito del Commento al De Anima fa supporre che S. Tommaso abbia abbracciato questo criterio con evidente soddisfazione: «Posita opinione Platonis, hic Aristoteles reprobat eam. Ubi notandum est quod plerumque quando reprobat opiniones Platonis, non reprobat eas quantum ad intentiones Platonis, sed quantum ad sonum verborum eius. Quod ideo facit, quia Plato habuit malum modum docendi: omnia enim figurate dicit et per symbola docet, intendens aliud per verba quam sonent ipsa verba: sicut quod dicit animam| esse circulum. Et ideo ne aliquis propter ipsa verba incidat in errorem, Aristoteles disputat contra eum, quantum ad id quod verba sonant» (In lib. I De Anima, lect. VIII, n. 107). Nel Commento tomista al De Coelo et Mundo, intrapreso dopo la versione del Commento di Simplicio fatta dal Moerbeka (c. 1272-1273), è riferito in modo esplicito il criterio esegetico di Simplicio, ed anche se subito il S. Dottore non afferma di accettarlo in tutta la sua estensione, di fatti ne usa più volte, e all’occasione cerca di attenuare l’impeto della critica aristotelica e di scusare Platone34.
L’assimilazione tomista dei due sistemi tocca il suo fastigio in quel gioiello di speculazione e d’informazioni storiche che è l’opuscolo De Substantiis Separatis seu De Angelorum natura (a. 1272-1273) che è contemporaneo al Commento sopra il De Coelo35.| Nel cap. III i due filosofi sono fatti convenire su tre punti fondamentali: creazione; composizione di atto e potenza nelle creature «in linea essendi», e provvidenza divina. Il capitolo va letto per intero, poichè dà la fisionomia esatta di quella che potrebbe chiamarsi la «metafisica tomista definitiva», e che è la ragion di essere di questa nostra ricerca. Riportiamo i due punti più importanti: «His igitur visis, de facili accipere possumus in quo conveniant et in quo differant positiones Platonis et Aristotelis circa immateriales substantias. [C. 3: In quo conveniunt...] – Primo quidem conveniunt in modo existendi ipsarum [Dipendenza totale da Dio]. Posuit enim Plato inferiores omnes substantias immateriales esse unum et bonum per participationem primi quod est secundum se unum et bonum. Omne autem participans aliquid, accipit id quod participat ab eo a quo participat: et quantum ad hoc id a quo participat, est causa ipsius: sicut aër habet lumen participatum a sole, qui est causa illuminationis ipsius. Sic igitur secundum Platonem summus Deus causa est omnibus immaterialibus substantiis quod unaquaeque earum sit et unum et bonum. Et hoc etiam Aristoteles posuit, quia ut dicit, necesse est ut id quod est maxime ens et maxime verum, sit causa essendi et veritatis omnibus aliis (II Metaph. text. mox citandus). – Secundo autem conveniunt quantum ad conditionem naturae ipsarum (Composizione), quia uterque posuit omnes huiusmodi substantias penitus esse a materia immunes: non tamen esse eas immunes a composizione potentiae et actus; nam omne participans oportet esse compositum ex potentia et actu. Id enim quod recipitur ut participatum, oportet esse actum ipsius substantiae participantis, et sic cum omnes substantiae praeter supremam, quae est per se unum et per se bonum, sint participantes secundum Platonem, necesse est quod omnes sint compositae ex potentia et actu; quod etiam necesse est dicere secundum sententiam Aristotelis. Posuit enim quod ratio veri et boni attribuitur actui; unde illud quod est primum verum et primum bonum, oportet esse actum purum; quaecumque vero ab hoc deficiunt, oportet aliquam permixtionem potentiae habere. – Tertio vero conveniunt in ratione providentiae...»36.| In questo testo, quanto mai esplicito, sembra che le posizioni siano invertite: in quest’ultima qualificazione dell’essere finito è Platone che domina ed è Aristotele che è ricondotto con un «etiam» a Platone. Certamente il problema dei rapporti fra Tomismo-Platonismo-Aristotelismo non può esser senz’altro risolto con una comoda affermazione di un graduale affievolimento dell’Aristotelismo nel Tomismo a favore del Platonismo – il Tomismo conserverà sempre l’architettura e lo spirito aristotelico: ma si tratta di un aristotelismo-tomista, cioè sintetico e non storico, che suppone quindi dei rimaneggiamenti, che il lettore moderno con i mezzi di cui dispone deve cercare di mettere in evidenza. Col presentare, in generale l’atteggiamento speculativo tomista come esclusivo di uno di quegli aspetti rispetto all’altro, non solo ci si pone fuori dell’ambiente storico della dottrina, ma ci si mette in diretto contrasto con i testi stessi. Per questo non possono apparire che affrettate e sempliciste le frasi come queste: «À ses yeux (= di S. Tommaso) le problème de critiquer l’un quelconque des systèmes qui s’offrent à lui, se trouve résolu par le choix qu’il a dû faire, une fois pour toutes, entre les deux seules philosophies pures qui puissent exister, celle de Platon et celle d’Aristote. Réduites à leur essence nue, ces métaphysiques sont rigoureusement antinomiques: on ne peut pas être avec l’une sans être contre tous ceux qui sont avec l’autre, et c’est pourquoi S. Thomas reste avec Aristote contre tous ceux qui se rangent du côté de Platon»37. Il problema che il Gilson ha fra le mani riguarda l’ilemorfismo universale d’Avicebron nell’influsso che ebbe sull’Augustinismo, da una parte, e nella sua| derivazione da Platone, dall’altra; ora pare che forse è più prudente trattare i problemi uno alla volta prima di avanzare affermazioni d’ordine generale. Difatti mentre S. Tommaso sa riconoscere l’ispirazione platonica di alcune teorie del filosofo giudeo, come l’occasionalismo nel mondo corporeo (cfr. Ia, q. 115, a. 1: ... Fuerunt aliqui qui totaliter corporibus actiones subtraxerunt. Et haec est opinio Avicebron in libro Fontis Vitae... Et videtur haec opinio derivata esse ab opinione Platonis...); altrove si serve proprio di Platone per ribattere una teoria così tipicamente avicebroniana come quella dell’ilemorfismo universale, che formerà il più grave ostacolo dell’affermarsi del Tomismo. La posizione di Avicebron è contraria all’Aristotelismo come al Platonismo: «Aestimavit (Avicebron) enim omnes substantias sub Deo constitutas ex materia et forma compositas esse: quod tam ab opinione Platonis quam Aristotelis discordat»38; e più sotto: «Plato investigando suprema entium processit resolvendo in principia formalia. Inconvenientissime igitur hic per contrariam viam processit in principia materialia resolvendo»39.
Pare adunque assodato che soprattutto nelle opere della maturità S. Tommaso tendesse ad una assimilazione sempre più intima, entro il pensiero aristotelico del contenuto metafisico della nozione platonica di partecipazione. Ma qui sorge l’accusa degli antitomisti antichi e recenti contro la consistenza speculativa della sintesi tomista, poichè avendo essa avvicinato due direzioni speculative antitetiche e divergenti, avrebbe finito per falsare in sè lo spirito proprio dell’una e dell’altra. * * * Il problema in sè, si può riconoscerlo, è molto grave, e forse dal punto di vista storico-puro insolubile; ma anche senza pretendere di risolverlo in pieno sarà di qualche utilità il mostrare come S. Tommaso abbia visto nello stesso Aristotele TESTI E DOTTRINE che hanno affievolito quella divergenza e facilitato notevolmente l’assimilazione sintetica. Il testo più importante e che ricorre di continuo nelle discussioni circa i rapporti di dipendenza totale della creatura dal Creatore,| si trova nella Metafisica, e suona: «Ciascuna cosa poi, ha tanto più di essere delle altre, quanto per cagion sua anche alle altre conviene lo stesso nome: ad es. il fuoco è la cosa più calda perchè esso è causa che le cose sian calde. Dunque la verità somma è quella che è la causa alle cose posteriori di esser vere. Ed i principî di ciò che è sempre, è necessario che siano sempre i più veri: poichè non sono già veri qualche volta soltanto, e non hanno mai altra causa di essere, ma essi sono causa di essere alle altre cose»40. Il testo colpisce subito per la sua ispirazione platonica, che pervade del resto tutto il libro a, e che la critica moderna tende a staccare dall’opera aristotelica, ma che S. Tommaso accettò sempre come autentico: per questo il testo, sotto l’aspetto letterario, ha potuto fungere da intermediario, onde hanno potuto confluire senza urti in seno all’aristotelismo-tomista le migliori intuizioni del Platonismo. Esso ricorre di continuo sotto la penna di S. Tommaso con una evidente soddisfazione dell’animo; egli l’usa in tutta l’ampiezza del suo significato sia in filosofia come in teologia, lo rovescia, lo scompone e lo adatta in ogni modo41. Su di esso poggia la IV via tomistica dell’esistenza di Dio come anche la dimostrazione razionale che il Santo Dottore ha fatto della creazione e della dipendenza totale delle creature da Dio. Non si comprende pertanto perchè il Baeumker abbia visto il punto di partenza della IV via tomistica, più che nel testo aristotelico-platonico ora riferito, nella filosofia stoica42, ove si può ben ammettere che si tro|vasse sviluppata la medesima dottrina, ma è certo che nella «littera S. Thomae» non v’è alcun indizio di un uso di fonti stoiche in questa parte. S. Tommaso invece più d’una volta, ed in particolare nel Commento al De Causis, ricorre a questo testo aristotelico per mostrare l’accordo fondamentale fra le metafisiche platonica, aristotelica e neoplatonica: «Secundum hoc ergo Platonici ponebant quod id quod est ipsum esse, est causa existendi omnibus; id autem quod est ipsa vita, est causa vivendi omnibus; id autem quod est ipsa intelligentia, est causa intelligendi omnibus. Unde Proclus dicit decimaoctava propositione sui libri: omne derivans esse aliis, ipsum prime est hoc quod tradit recipientibus derivationem. Cui sententiae concordat quod Aristoteles dicit in secundo Metaphysicae, quod illud quod est primum et maxime ens, est causa subsequentium»43. Nei Dialoghi e trattati dell’Aristotele platonico la dialettica dei gradi doveva esser svolta con particolare ampiezza e con le risorse di un’arte raffinata, se quei dialoghi procurarono subito tanta gloria ed entusiasmo verso il giovane «accademico» che eclissarono per qualche tempo i più rinomati capolavori del fondatore stesso dell’Accademia44. Simplicio nel Commento al De Coelo ci ha conservato un frammento del Peri. Filosofi,aj, nel quale assai più chiaramente che dal testo della Metafisica, si arguisce l’esistenza di un «optimum» dall’esistenza di un «bonum» e di un «melius»: Kaqo,lou ga.rà evn oi-j evsti, ti be,ltionà evn tou,toij evsti, ti kai. a;riston\ evpei. ou=n evstin evn toi/j ou=sin a;llo a;llou be,ltionà e;stin a;ra ti kai. a;riston( o[per ei;h a;n to. qei/on\45. Una volta sola, e precisamente nell’esposizione della IV via fatta nel Contra Gentiles, I, c. 13, S. Tommaso associa al testo di cui si è parlato, un secondo testo preso dal libro IV della Meta|fisica: «Potest et alia ratio colligi ex verbis Aristotelis, in II Metaph. (1 testo). Ostendit enim ibi quod ea quae sunt maxime vera sunt et maxime entia. In IV etiam Metaphys. ostendit esse aliquid maxime verum, ex hoc quod videmus duorum falsorum unum altero esse magis falsum; unde oportet ut alterum sit etiam altero verius46. Hoc autem est secundum approximationem ad id quod est simpliciter et maxime verum. Ex quibus concludi potest ulterius, esse aliquid quod est maxime ens...». Il principio, nel suo significato immediato, come avverte anche S. Tommaso, riguarda direttamente il problema logico della verità, ed è il santo Dottore che, con cautela lo trasporta nel piano ontologico. Questo stile guardingo quale appare dalle frasi «Colligi..., concludi potest» è sconosciuto al S. Tommaso della maturità, dopo che ha assimilato con un contatto diretto e personale alcune importanti fonti platoniche47.
S. Tommaso non si ferma ai testi isolati, ma prolunga la sua interpretazione «sintetica» anche ad alcune dottrine prettamente aristoteliche. Così niente di più aristotelico della concezione ilemorfica dell’essere corporeo: materia e forma sono la potenza e l’atto del singolare sensibile, e si sa che per Aristotele la materia ha un valore metafisico assai più «realista», di quello che avesse il mh. o;n del tardo Platone. Ma anche per Aristotele ciò che dà l’atto e l’essere alla sostanza è propriamente e solamente la forma, e sotto questo aspetto il Filosofo nella Fisica chiama la forma «qualcosa di divino e d’appetibile». L’Angelico ha carpito subito la frase per far rientrare la concezione aristotelica nell’ambito della nozione di partecipazione platonico-cristiana. Nel Contra Gentiles (III, 97) vi si fa ricorso per mostrare l’ordine che le cose ricevono dalla Provvidenza divina: «Ex diversitate autem formarum sumitur ratio ordinis rerum. Cum enim forma sit secundum quam res habet esse: res autem quaelibet secundum quod habet esse, accedat ad similitudinem Dei, qui est ipsum simplex: necesse est quod forma nihil aliud sit, quam divina similitudo participata in rebus. Unde convenienter Aristoteles in| I Physic. de forma loquens dicit quod est divinum quoddam et appetibile...»48. Il testo è ricordato con molta efficacia, nella IIIa P., q. 57, a. 4, ove si parla dell’ascesa corporale di Cristo «super omnes coelos» e qui ormai l’esegesi tomista si sente padrona di sè: «Quanto aliqua corpora perfectius participant bonitatem divinam, tanto sunt superiora corporali ordine, qui est ordo localis. Unde videmus quod corpora quae sunt magis formalia sunt naturaliter superiora, ut patet per Philosophum in IV Physic. et in II De Coelo; per formam enim unumquodque corpus participat divinum esse ut patet in I Physic. Plus autem participat de divina bonitate corpus per gloriam quam quodcumque corpus naturale per formam suae naturae». E nel Commento al testo il Santo si era già espresso ancor più chiaramente: «Et quod privatio pertineat ad malum, hoc ostendit (Aristoteles) per hoc quod forma est quoddam divinum et optimum et appetibile. Divinum quidem est, quod omnis forma est quaedam participatio similitudinis divini esse, quod est actus purus: unumquodque enim in tantum est actu in quantum habet formam»49. La forma sostanziale che dà ai corpi l’essere ed il proprio grado ontologico, è come uno splendore che Dio irradia nelle cose, nelle quali, appunto per la forma, si può rintracciare un «vestigio» delle infinite perfezioni divine. Altra dottrina, alla quale fa poi capo anche la precedente è la concezione aristotelica di Dio «pensiero puro» «no,hsij noh,sewj no,hsij», quale si ha nel platonizzante libro L della Metafisica50, e sarà per questa dottrina che S. Tommaso vedrà in Aristotele un assertore dell’esemplarismo divino, e potrà esercitare una critica a fondo della teoria platonica delle sussistenze «separate»51. Cade qui opportuno toccare un altro aspetto della nozione aristotelica di Dio in questo libro L della Metafisica. Secondo il Filosofo, Dio è il termine ultimo dei movimenti delle sfere celesti, o, più esattamente, delle intelligenze che muovono le sfere. Il primo Essere gode nella sovrana possessione la pienezza di sè e non può contaminarsi con il contatto degli esseri inferiori e se la sua azione arriva fino ad essi, ciò non avviene secondo il modo di questi esseri mescolandosi ad essi, ma per l’attrazione che su di essi esercita,| come l’oggetto infinitamente amabile, e termine ultimo di ogni desiderio: kinei/ w`j evrw,menon (Metaph. L, 7, 1072 b, 3)52. Questa frase, che ha fatto disperare i critici antichi e moderni, secondo i quali Aristotele non avrebbe mai pensato ad una reale efficienza creativa della causalità divina nel mondo, permette invece a S. Tommaso di conchiudere tutto il contrario, e di scagionare Aristotele dall’accusa che gli fa il Lombardo, di aver cioè ignorato la creazione. «Ad aliud dicendum quod secundum ipsum (Arist.) primum principium agens et ultimus finis reducuntur in idem numero, ut patet in XII Metaph., ubi ponit quod primum principium movens, movet ut desideratum ab omnibus. Forma enim quae est pars rei non ponitur ab eo in idem numero incidere cum agente, sed in idem specie vel similitudine: EX QUO sequitur quod sit UNUM principium primum extra rem, quod est agens et exemplar et finis, et duo quae sunt partes rei, scilicet forma et materia quae ab illo primo principio producuntur»53. Con i due principi aristotelici che Dio è il pensiero puro, l’«ipsum intelligere separatum» come si dice nel De Substantiis separatis (c. 13, ed. cit., p. 248), e che è il Bene ultimo, da tutti gli esseri, a lor modo, desiderato, l’Aquinate riesce a superare, d’un colpo, l’aspetto caduco del Platonismo – la sussistenza individuale delle Idee, e la concezione neoplatonica delle Intelligenze e degli altri intermediari ontologici fra l’atto divino influente e la produzione ad extra delle creature. Il Commento al De Causis ci mostra in quale ordine di idee S. Tommaso conducesse la sua esegesi circa quello che si dice l’«Aristotele cristiano»: «Quia secundum sententiam Aristotelis, quae circa hoc est magis consona Fidei christianae, non contingit ponere alias formas separatas supra intellectuum ordinem sed ipsum bonum separatum, ad quod totum universum ordinatur sicut ad bonum extrinsecum, ut dicitur in XII54 Metaph., oportet nos dicere quod sicut Platonici ponebant intellectus separatos ex participatione diversarum specierum separatarum diversas intelligibiles
species consequi, ita nos dicamus quod consequuntur huiusmodi species intelligibiles ex participatione primae formae sepa|ratae, quae est bonitas pura, scilicet Dei. Ipse enim Deus est ipsa bonitas et ipsum esse, in seipso virtualiter comprehendens omnium entium perfectiones. Nam Ipse solus per essentiam suam omnia cognoscit absque participatione alicuius alterius formae. Inferiores vero intellectus, cum eorum substantiae sint finitae, non possunt per suam essentiam omnia cognoscere, sed ad habendum rerum cognitionem necesse est quod ex participatione causae primae, speciebus intelligibilibus receptis, res intelligant»55. Riferendosi a queste fonti si può in qualche modo capire come S. Tommaso abbia potuto, senza notevoli scosse, inquadrare la nozione aristotelica di Dio, in armonia con la fede cristiana. Tutto il Commento al De Causis è pervaso da questa persuasione di un accordo fondamentale fra l’autore dell’opuscolo, Dionigi ed Aristotele! * * * Quando si ricercarono le «suggestioni» che S. Tommaso è riuscito a vedere nel testo aristotelico per elaborare una propria teoria «sintetica» della partecipazione, bisogna tener presente che, anche se pare che l’Angelico, soprattutto nelle opere della maturità, le abbia ritenute quasi equivalenti, pure ha sempre distinto fra di loro la nozione platonica e la nozione aristotelica di partecipazione. La nozione platonica, a fondo «logico», suppone che i «molti» sono visti convenire in «una» formalità comune, la quale va posta «per sè» come ragione logico-ontologica della moltitudine; la nozione aristotelica, invece, approfondisce ulteriormente questa «comunità formale» e ne cerca l’ultima ragione metafisica. La «comunità formale», in senso rigoroso, non si dà che nell’ordine logico della definizione ed in un certo senso anche nell’ordine fisico degli esseri corporei, quando i «molti» (individui) realizzano «ex aequo» una medesima ragione specifica56. Ma quando si tratta delle formalità propriamente trascendentali, dell’Essere, del Vero, del Bene, ecc., la «comunità» non può aversi che «secundum analogiam», cioè proporzionale, secondo gradi e modi diversi. Ne deriva che fra il pensiero logico e quello metafisico viene a generarsi come una «tensione» di rapporti: da una parte la «substantia» deve esser concepita consistere nella possessione completa della sua forma, e che in se stessa quindi non può andar soggetta ad un «magis et minus», ad un’intensione o remissione ontologica; e, d’altra parte, tutte le formalità e modi di essere, possono esser ordinati secondo| un «magis et minus» di perfezione, rispetto ad un «maximum» che è Dio stesso, ed è per questo «magis et minus» che si differenziano l’un l’altro57. Le forme e le specie delle cose sono «come i Numeri», osserva Aristotele inverando l’insegnamento degli Italici: i Numeri sono quello che sono, una volta per sempre, e se vi si aggiunge o se vi si toglie un’unità non sono più quelli, ma cambiano di specie, e si ha quindi che l’uno succede all’altro per un’eccedenza formale discontinua. Così le specie, come tali, non presentano alcuna dialettica interiore nell’ordine predicamentale, poichè Socrate non è più «uomo» di Platone, nè vi può essere un’«umanità separata» in relazione alla quale e Socrate e Platone, possano esser detti uomini «secundum magis et minus». La dottrina aristotelica in questione si trova in quei libri Z e H della Metafisica, che secondo la critica moderna rappresentano l’ultima e definitiva metafisica del Filosofo, ed è piccante la constatazione che l’ultimo Aristotele, riesumando l’intuizione pitagorica, ritorni, sia pure a suo modo, al punto da cui era partito il primo ed a cui ritornava l’ultimo Platone, ma senza poter chiudere la potente sintesi58. Ecco la pericope: «Se si vuol sostenere da un certo punto di vista che le sostanze sono numeri, si dovrà intendere come si è detto, e non come alcuni pretendono, che sian collezioni di unità. Si dica pure che la definizione è un numero, poichè infatti è divisibile e si risolve in elementi indivisibili (chè i concetti non sono infiniti): proprio come il numero. E come il numero se tu vi sottrai od aggiungi qualcuno degli elementi suoi – e sia pure il più piccolo –, non è più lo stesso, ma un altro, così neppure la definizione e la sua pura essenza non è più la stessa se vi togli o aggiungi qualcosa [...]. E come il numero non ammette un più e un meno nell’esser suo, così neppure la sostanza in quanto forma: ma se mai in quanto è unita alla materia»59.| Questa precisa nozione della sostanza sensibile, invece che nuocere alla dialettica della partecipazione, le forniva in realtà una solida base nell’ordine predicamentale, come svilupperemo a suo luogo. Qui basterà osservare che essa inserendosi armonicamente con l’accurata gerarchia aristotelica degli esseri che va dalla materia-potenza pura fino a Dio-Pensiero e Atto puro, veniva a fondare di per sè una dialettica che ascende dall’imperfetto al perfetto, e a questo modo la comprese S. Tommaso60. Il Santo riprende il principio aristotelico e, penetrandone la virtualità dottrinale, lo mette in rapporto con la metafisica della qualità, che può variare in uno stesso soggetto «secundum intensionem et remissionem», e ne cava il principio che quanto avviene nel campo chiuso di una qualità predicamentale rispetto ai partecipanti univoci, si verifica proporzionalmente nel campo delle formalità trascendentali rispetto ai partecipanti analoghi. Qui tocchiamo l’aspetto forse più originale della nozione tomista di partecipazione e che formerà la parte centrale di questo
saggio; pare che sia questa introduzione che permise al Nostro la presentazione di un proprio «panorama metafisico» dell’universo, in cui armonizzano, trasfigurati, aristotelismo e (neo-)platonismo, come si può vedere nel seguente testo che riassume in forma estremamente sintetica quanto fin qui è stato detto. «Ex diversitate formarum sumitur ratio ordinis rerum. Cum enim forma sit secundum quam res habet esse: res autem| quaelibet, secundum quod habet esse, accedat ad similitudinem Dei qui est ipsum suum esse simplex: necesse est quod forma nihil aliud sit quam divina similitudo participata in rebus. Unde convenienter Aristoteles in I Physic. de forma loquens, dicit quod est divinum quoddam et appetibile. Similitudo autem ad unum simplex considerata, diversificari non potest, nisi secundum quod magis vel minus est propinqua vel remota. Quanto autem aliquid propinquius ad divinam similitudinem accedit, perfectius est: unde in formis differentia esse non potest nisi secundum quod una perfectior existit quam alia: propter quod Aristoteles in octavo Metaph., diffinitiones per quas naturae rerum et formae significantur assimilat numeris, in quibus species variantur per additionem vel subtractionem unitatis, ut ex hoc detur intelligi quod formarum diversitas diversum gradum perfectionis requirit. Et hoc evidenter patet naturas rerum speculanti. Inveniet enim, si quis diligenter consideret, gradatim rerum diversitatem compleri; nam supra inanimata corpora inveniet plantas, et super has irrationabilia animalia, et super haec intellectuales substantias, et in singulis horum inveniet diversitatem, secundum quod quaedam sunt aliis perfectiora, in tantum quod ea quae sunt suprema inferioris generis videntur propinqua superiori generi, et e converso, sicut animalia immobilia sunt similia plantis. Unde et Dionysius dicit quod divina sapientia coniungit fines primorum principiis secundorum. Unde patet quod rerum diversitas exigit quod non sint omnia aequalia, sed sit ordo in rebus et gradus» (C. Gentiles, l. III, c. 97). Il principio dionisiano sulla «continuità metafisica» degli esseri, con cui termina il testo, si trovava ormai «in actu exercito» in una teoria dell’Aristotele platonizzante intorno ai gradi degli esseri conoscitivi ed alla subordinazione nell’uomo delle facoltà irrazionali appetitive alle razionali e conoscitive come sarà detto più opportunamente nella IIª Parte61.| Questi indizi dell’Aristotelismo platonizzante hanno avuto una importanza decisiva nell’interpretazione «sintetica» dell’Angelico, e per questo meritavano una qualche, sia pur sommaria, considerazione per chi, come noi, desidera porsi sull’itinerario reale che condusse a quella sintesi. Certamente non è facile, ed ormai forse neppur possibile, a tanta distanza di tempo, farsi un’idea completa intorno alla posizione storicospeculativa che aveva per l’Angelico il pensiero dello Stagirita. All’inizio della sua carriera magistrale il suo apprezzamento è quanto mai deciso e ottimista, e suppone che l’Aristotelismo aduni in sè gli elementi di verità, che si trovavano sparsi nei sistemi precedenti – esso è il termine verso cui s’incamminava il pensiero umano. «Plato et alii philosophi – osserva il giovane Baccelliere – quasi ab ipsa veritate coacti, tendebant in illud quod postmodum Aristoteles expressit, quamvis non pervenerint in ipsum»62. Più tardi, negli anni della maturità, quest’affermazione entusiastica viene notevolmente mitigata, non in quanto si venga ad ammettere una qualunque insufficienza dell’Aristotelismo, ma in quanto ci si accorge che dottrine e principî, in esso appena abbozzati, hanno altrove una ricca elaborazione e ivi raggiungono, anche nell’espressione esteriore, delle insospettate analogie con il pensiero cattolico. E, prestiamo fede alla commossa lettera che la Facoltà delle Arti dell’Università di Parigi indirizzava verso la fine del 1274 al Capitolo Generale dei Frati Predicatori, quando la morte sorprendeva questo eccezionale atleta della Chiesa di Dio, egli si trovava in un’intensa attività di ricerca ed assimilazione delle dottrine platoniche63 ma, comunque, la sintesi, nelle sue linee essenziali era stata dal suo profondo ingegno già intuita e fissata, e le ulteriori indicazioni storiche che daremo, si sforzeranno di mostrare insieme e le tappe di tale assimilazione, ed il valore universale di sintesi cattolica a cui mirava il pensiero tomista.
SEZIONE SECONDA
FONTI SECONDARIE OSSIA LA MEDIAZIONE NEOPLATONICA
NEOPLATONISMO E CRISTIANESIMO § 1. – Quanto si è detto intorno all’interpretazione platonizzante, data da S. Tommaso ad alcune espressioni e teorie aristoteliche, e circa la fondatezza delle sue ardite trasposizioni, non illumina che un aspetto della posizione tomista, ed il problema circa il valore intrinseco della sintesi tomista, ne esce forse maggiormente complicato. Invero fra Aristotele e Platone, quali potevano esser conosciuti dalle opere di cui potevano disporre i medievali, era così rilevante, anzi sostanziale, il divario, che pareva impossibile qualsiasi tentativo di un reale avvicinamento: la civiltà greca, si poteva pensare, non aveva raggiunto il suo àpice in questi due sommi ingegni, che a prezzo della perdita della sua unità, ed anche questo poteva essere, per la nascente civiltà cristiana, un prospero annunzio dei tempi nuovi. Tale infatti fu lo stato d’animo della maggior parte dei Padri della Chiesa e di buona parte dei maestri medievali, anche contemporanei del S. Dottore, per i quali l’Aristotelismo rappresentava il tentativo supremo, per far deviare il cammino della ragione che Platone aveva, con tanto calore di persuasione, indirizzato verso il Cristo e la sua dottrina: apprezzamento che alle volte assunse delle forme esterne, anche violente, di avversione alla penetrazione dell’Aristotelismo, come si può rilevare dalle condanne ecclesiastiche dell’inizio e della fine del secolo XIII. È tutta la movimentata e burrascosa vita intellettuale di questo secolo, da cui è sorta la cultura occidentale, che qui si offre alla nostra considerazione, se vogliamo ben determinare le cause per le quali l’Aristo|telismo tomista ha potuto, malgrado tutto, affermarsi prima, e conquistare poi, in modo definitivo, il primato dottrinale nella Chiesa. Ma a noi, più che una ricerca sulla risoluzione storica dei fatti, interessa maggiormente individuare gli elementi che hanno, comunque, reso possibile il sorgere della posizione tomista ed hanno poi favorito il suo consolidarsi definitivo, soprattutto per quanto riguarda la struttura intima della sua metafisica. Si può allora dire che la nozione tomista di partecipazione, che alla fine resta nello spirito essenzialmente aristotelica, ha potuto formarsi e reggere agli urti polemici per l’influsso decisivo di correnti intermediarie, le quali, per un complesso fortunato di circostanze storiche vennero a confluire insieme nella formazione del Tomismo. Di esse indubbiamente la principale è quella rappresentata dal Neoplatonismo. Il Neoplatonismo ebbe appunto la sua origine quale tentativo di conciliare Aristotele e Platone, opera questa quanto mai urgente per la civiltà pagana, che doveva mostrare la propria sufficienza di fronte all’idea cristiana che si proclamava universale e che minacciava di sostituirsi a tutto il passato. Si ebbe allora una fioritura di trattati intenti a mostrare che le contraddizioni fra i due filosofi non erano che apparenti: esse andavano riferite più a diversità di metodo, che a reali divergenze di dottrina; Aristotele vuol parlare delle cose sensibili, e Platone invece parla del mondo intelligibile; le loro dottrine sono in verità complementari e abbracciano il reale tutto intero, dalle cose soggette alla generazione e alla corruzione fino all’origine ineffabile degli esseri...1 È vero che nel cozzo fra le due civiltà, o meglio fra le due concezioni della vita dello spirito, la pagana (neoplatonica) e la cristiana, la vittoria arrise a quest’ultima ed un editto di Giustiniano nel 529 disperdeva gli ultimi fautori del tentativo ormai definitivamente fallito: in verità l’imperatore non aveva fatto altro che registrare un fatto già da tempo compiuto, la morte del paganesimo,| e per questo il suo atto ha avuto il
consenso unanime anche da parte di molti che sono tutt’altro che teneri verso l’idea cristiana. Accanto a questa constatazione, bisogna però subito aggiungere che per un curioso fenomeno, non raro nella storia dello sviluppo della cultura, il vincitore di questo duello, il Cristianesimo, finì per assorbire, a suo modo, l’eredità dottrinale del Paganesimo che moriva, e si ebbe così il Neoplatonismo cristiano, che è stata la prima forma di «filosofia cristiana». Bisogna convenire che il Neoplatonismo, sia per il suo carattere eclettico, come per la conoscenza che poteva avere del contenuto dottrinale della rivelazione mosaica e cristiana, aveva presentato su parecchi punti delle soluzioni felici, e che potevano esser assimilate quasi immediatamente dal Cristianesimo. Le idee che Platone aveva poste «per sè» sussistenti nell’iperuranio, già nel Neoplatonismo dell’ebreo Filone, erano state collocate nella mente divina, alla quale tutto l’universo è presente, come è presente all’architetto tutta la concezione della casa ch’egli ha fatto sorgere2. Anche il neoplatonico Albino aveva considerato le idee come proprî e sostanziali pensieri della divinità3 e lo stesso Plotino aveva dichiarato nell’Enneade, V, 5, 5: «o[ti ou`k e;xw tou/ qeou/ ta. nohta,»4. A nessuno può sfuggire l’importanza eccezionale di una simile trasposizione metafisica delle vecchie dottrine per i Cristiani, e come rendesse agevole l’esposizione delle verità fondamentali della Fede quali la creazione, la Provvidenza, lo stesso dogma Trinitario, e tante altre che da queste dipendono. Di qui si comprende anche il fatto, che sulle prime impressiona non poco, quello cioè del passaggio che avvenne nella mentalità e coscienza cristiana da un’avversione schietta, od almeno riluttanza, alla speculazione greca, quale si osserva in molti rappresentanti dei primi tempi della Chiesa, a quella di una calda simpatia dei tempi seguenti. I Padri della Chiesa, che furono gli artefici di questo arduo còmpito, non solo non dubitarono di profanare con l’assimilazione della verità filosofica il sacro deposito della Fede, e di rovinare con l’acqua delle opinioni umane, il buon vino della verità rivelata, ma, persuasi che con Cristo tutto il creato risorgeva a nuova vita, pensarono che al contatto della verità divina, anche l’acqua dell’umana speculazione poteva cangiarsi in buon vino.| Risulta molto a proposito, soprattutto per il nostro problema, l’affermazione del SAUTER, essere, cioè, stato il Neoplatonismo a permettere l’assimilazione dell’Aristotelismo da parte del Cristianesimo5 e, questo, per averlo completato nei punti mancanti e per aver messo in buona luce e chiariti quelli enigmatici ed oscuri: il Neoplatonismo si presentava come una sintesi compiuta ed armonica, tutta pervasa dal bisogno di un «contatto» immediato con la Divinità che doveva essere il termine di una sempre più intima purificazione dello spirito dal contatto con la materia. I fenomeni di contrasto dottrinale fra Platonismo e Aristotelismo verificatisi nel secolo XIII, vanno allora compresi come effetto di un’ulteriore specificazione che si è voluto dare alle dottrine. Platonismo ed Aristotelismo, già lo sappiamo, quando siano compresi in senso esclusivo, non sono che due astrazioni storiche, perfino rispetto al pensiero reale dei due filosofi di cui portano il nome; tanto più le sintesi successive anche quando optarono per l’una, non poterono restare di fatto estranei, agli influssi dell’altra direzione. Questo che si è verificato nel Neoplatonismo rispetto ad Aristotele, si verificò in S. Tommaso rispetto a Platone. Se S. Tommaso avesse optato, in modo esclusivo, fra Platonismo, o meglio fra Augustinismo e Aristotelismo, la sua costruzione speculativa avrebbe avuto al più un interesse storico temporale, mai il valore universale che ad essa fu attribuito. Per il Tomismo si può ripetere quello che il Sauter ha detto del Cristianesimo speculativo: è stato il Neoplatonismo che ha permesso non solo qualche tolleranza parziale come presso molti augustinisti, ma una penetrazione al tutto originale dell’Aristotelismo. A nessuno sfugge pertanto l’importanza essenziale che assume per la nostra ricerca un’indicazione sia pur elementare delle fonti neoplatoniche che hanno operato direttamente nella formazione del Tomismo. Per comodità di esposizione le dividiamo in due direzioni: a) una greco-cristiana (patristica) con S. Agostino, lo Ps.-Dionigi e Boezio, e b) una greco-araba con Avicenna e il De Causis; gli influssi di altre Fonti, rispetto a queste indicate non hanno che un valore relativo e secondario.| S. AGOSTINO (354-430) § 2. – Se a traverso l’immensa opera dottrinale del grande Padre africano è possibile rintracciare una linea filosofica, essa è esclusivamente d’ispirazione Neoplatonica; grazie alla versione del retore convertito Mario Vittorino, S. Agostino potè avere molta familiarità con gli scritti dei Neoplatonici ed in particolare di Plotino: delle altre scuole filosofiche, come di Aristotele e dello stesso Platone, pare che non abbia avuto che una conoscenza frammentaria e, per di più, indiretta6. S. Tommaso individuò subito quest’aspetto inconfondibile della speculazione agostiniana, e lo fa notare soprattutto allorquando quella terminologia, così diversa dalla sua – aristotelica –, poteva creare qualche
reale imbarazzo per l’esposizione del suo pensiero, e si fa premura di ben distinguere l’autorità che il Santo Vescovo aveva come dottore della Fede da quella che come filosofo poteva avere in filosofia. «Nihilominus,osserva a proposito della controversia sulla natura della luce, Augustinus non intendit hoc asserere, quasi Fidei conveniens, sed sicut utens his quae philosophiam addiscens audierat. Et ideo illae auctoritates parum cogunt» (In II Sent., Dist. 13, q. I, art. 3 ad 1um, P. VI, 501 a). Altrove ne precisa in questa forma l’opera dottrinale: «Ideo Augustinus, qui doctrinis platonicorum imbutus fuerat, si qua invenit fidei accomodata in eorum dictis, assumpsit; quae vero invenit fidei nostrae adversa in melius commutavit» (S. Theol., I, q. 85, a. 2). E poco prima aveva avvertito che non tutto va preso ad occhi chiusi, poichè «in multis quae ad philosophiam pertinent, Augustinus utitur opinionibus Platonis, non asserendo, sed recitando» (ib., Ia, q. 77, a. 5 ad 3um). Lo stesso S. Agostino, del resto, a più riprese e nel modo più categorico ha voluto manifestare il vivo entusiasmo che suscitavano in lui le profonde speculazioni dei platonici. Nel De Civitate Dei7, tracciando una vigorosa sintesi del pensiero precristiano, si mostrava pieno di ammirazione per la teoria neoplatonica del lo,goj, anche se poi doveva rammaricarsi che quei grandi spiriti erano restati ancora tanto lontani dal «Verbum» delle nostre Scritture, che si era degnato di «farsi carne». Ad ogni modo la teoria psicologica che Agostino elaborò intorno al mistero trinitario, e che ritroviamo conservata in buona parte nella teo|logia tomista, molto conservò della speculazione plotiniana intorno al lo,goj divino. Questo platonismo affiora in ogni dottrina, in ogni atteggiamento spirituale del Santo. Le relazioni (di dipendenza) delle creature rispetto al Creatore, sono da S. Agostino espresse costantemente con il termine «participare»: tutto il creato, ogni bontà, verità, bellezza, vita... finita, non sono che una partecipazione della bontà, verità, bellezza, vita divina infinita – ed ogni luce sensibile ed intelligibile non è che una partecipazione della prima luce, il Verbo. L’esuberante fioritura delle sue opere è ripiena di simili asserzioni, pervase da questo «spirito trascendentale» nella considerazione del creato, ma in nessuna parte delle sue opere, forse, come nella q. 46 delle 83 quaestiones, dedicata a celebrare le «Idee», S. Agostino ha espresso le sue convinzioni platoniche con maggior eleganza e profondità. Questa questione ha avuto un’importanza capitale nella formazione della teologia Scolastica8, e in particolare di quella tomista, e senza di essa sarebbe incomprensibile una gran parte delle lotte dottrinali del secolo XIII, onde sarà opportuno indicarne brevemente la struttura ed il contenuto. Essa si presenta chiaramente divisa in tre parti: origine del nome, natura, causalità delle Idee; infine si indica il modo secondo il quale l’anima può entrare nella loro comunione e contemplazione. 1) L’Origine del nome ivde,a è attribuita a Platone; ma è verosimile, osserva il Santo, che trattandosi di una dottrina essenziale al pensiero umano, essa fosse nota a molti sapienti, anche prima di Platone, sotto altro nome (quamvis alio fortasse eas nomine vocaverint). Al termine greco ivde,a, corrisponde nella lingua latina «forma» oppure «species», od anche ma meno propriamente «ratio»: «Ideas igitur latine possumus vel formas vel species dicere, ut verbum a verbo transferre videamur. Si autem rationes eas vocemus, ab interpretandi quidem proprietate discedimus; rationes enim graece lo,goi appellantur non ideae: sed tamen quisquis hoc vocabulo uti voluerit a re ipsa non aberrabit»9. 2) Natura e Causalità. – Le Idee sono gli esemplari eterni e incommutabili delle cose, contenute nell’intelligenza divina (e iden|tificate nel Verbum sussistente): in conformità ad esse si è dispiegata l’attività creatrice di Dio, ed è per esse che continua l’opera della conservazione e del governo del mondo: «Sunt igitur ideae principales formae quaedam vel rationes rerum stabiles atque incommutabiles, quae ipsae formatae non sunt, ac per hoc aeternae ac semper eodem modo se habentes, quae in divina intelligentia continentur. Et cum ipsae neque oriantur neque intereant: secundum eas tamen formari dicitur omne quod oriri vel interire potest, et omne quod oritur et interit». S. Agostino vede in queste riflessioni il fondamento stesso di ogni vera religione: «Quis autem religiosus et vera religione imbutus, quamdiu nondum possit haec intueri, negare tamen audeat, immo non etiam profiteatur, omnia quae sunt, id est quaecumque in suo genere propria quadam natura continentur, ut sint, Deo auctore esse procreata, eoque auctore omnia quae vivunt vivere, atque universalem rerum incolumitatem, ordinemque ipsum quo ea quae mutantur, suos temporales cursus certo moderamine celebrent summi Dei legibus contineri et gubernari? Quo constituto atque concesso: quis audeat dicere Deum irrationabiliter omnia condidisse? Quod eadem ratione homo qua equus: hoc enim absurdum est existimare. Singulis igitur propriis sunt creata rationibus». È guardando ad esse, che tiene sempre in Sè presenti, che Iddio ha potuto creare il mondo, e collocare in esso i singoli esseri come partecipazioni finite, mutevoli e temporali di quelle Idee vere, eterne, incommutabili. «Non enim extra se quidquam positum intuebatur (Creator), ut secundum id constitueret quod constituebat: nam hoc opinari sacrilegum est. Quod si hae rerum omnium creandarum creatarumque
rationes in divina mente continentur, neque in divina mente quidquam nisi aeternum atque incommutabile potest esse; atque has rerum rationes principales appellat ideas Plato: non solum sunt ideae, sed ipsae verae sunt, quia aeternae sunt, et eiusmodi atque incommutabiles manent; quarum participatione fit, ut sit quidquid est, quoquo modo est». 3) Conoscenza delle Idee da parte dell’anima. – L’uomo mortale può avere una qualche intuizione delle Idee soltanto con l’occhio interiore della mente, e non a suo piacere e comodo ma soltanto quando l’animo venga purgato dai grossi fantasmi e dagli affetti terrestri: «Anima vero negatur eas intueri, nisi rationalis, ea sui parte qua excellit, i. e. ipsa mente atque ratione, quasi quadam facie vel oculo suo interiore atque intelligibili. Et ea quidem ipsa rationalis anima, non quaelibet, sed quae sancta et pura fuerit,| haec asseritur illi visioni esse idonea: i. e. quae illum ipsum oculum quo videntur ista sanum et sincerum et serenum et similem his rebus, quas videre intendit, habuerit». In sè purificata e a Dio unita con la carità, l’anima trova in quella contemplazione la sua beatitudine. «Sed anima rationalis inter eas res, quae sunt a Deo conditae omnia superat; et Deo proxima est, quando pura est; eique in quantum caritate cohaeserit, in tantum ab eo lumine illo intelligibili perfusa quodammodo et illustrata cernit, non per corporeos oculos, sed per ipsius sui principale quo excellit, i. e. per intelligentiam suam, istas rationes, quarum visione fit beatissima». S. Agostino vede in questa dottrina il fulcro di tutta la sapienza umana, alla quale solo pochissimi possono arrivare, anche se mostrano di conoscerne i vocaboli: «Tanta in eis (scil. Ideis) vis constituitur, ut nisi his intellectis sapiens nemo esse potest... Quas rationes..., sive ideas, sive formas, sive species, sive rationes licet vocare, et multis conceditur appellare quodlibet, sed paucissimis videre quod verum est». S. Tommaso va senza dubbio annoverato fra questi «paucissimi»: soltanto che le condizioni di cultura, nelle quali vissero i due Dottori, erano notevolmente diverse, e diversa quindi dovette essere l’attitudine reale dei due Dottori di fronte al pensiero precedente, onde si può comprendere che se S. Tommaso molto accetta della dottrina ora riferita, è costretto in altri punti ad avanzare delle importanti riserve. Accetta pienamente il trascendentalismo causale e l’esemplarismo divino10, onde si può affermare in generale che il contenuto metafisico della nozione di partecipazione dei due Dottori resta molto affine; questa concordia è oggetto, del resto, di articoli frequenti nell’opera tomistica, nei quali è posta la questione agostiniana: «Utrum omnia sint vera veritate prima increata» (In I Sent., Dist. 19, q. V, a. 2, VI, 171; cfr. De Veritate, q. I, a. 3; q. II, a. 6 ad 1um; S. Theol., Ia, q. 16, a. 6). «Utrum omnia sint bona bonitate divina»| (S. Theol., Ia, q. 6, a. 4; cfr. De Veritate, q. XXI, a. 4). Nel De Potentia, q. III, a. 5, S. Agostino è introdotto abilmente come intermediario fra Platone ed Aristotele per la soluzione razionale del problema della creazione, da cui si può arguire che ben presto la speculazione agostiniana abbia esercitato un influsso positivo circa quella che abbiamo detta l’«assimilazione sintetica», caratteristica del modo personale, tenuto da S. Tommaso, nell’avvicinare i sistemi, dai quali prende gli elementi della propria sintesi. Le riserve, che l’Aquinate avanza, non riguardano la dottrina agostiniana, così com’è enunziata. Si potrebbe quasi dire che, presa nella sua forma indeterminata, essa è stata accettata integralmente da S. Tommaso – per questo si può accettare l’affermazione di É. Gilson che le metafisiche dei due Dottori alla fine coincidono11: le riserve tomistiche riguardano alcune esplicitazioni della metafisica agostiniana circa la struttura fisica della creatura, ed in particolare nel campo della conoscenza umana. Certamente la conoscenza umana resta sempre una conoscenza «per partecipazione» – S. Tommaso non manca di riconoscerlo con energia (S. Theol., Ia, q. 79, a. 4; De Spirit. Creat., a. 10); ma mentre S. Agostino mostra di prendere il termine «partecipazione» sempre in senso trascendentale, S. Tommaso si sente obbligato di precisarne maggiormente la portata, in relazione alle teorie aristoteliche della struttura ilemorfica dei corpi e dell’intelletto agente astraente. Alcuni neoscolastici, nel desiderio d’arrivare ad un concordismo integrale, hanno voluto far pressione, contro l’intera ispirazione dei due sistemi, su qualche testo isolato, come su quello, ormai celebre del De Spiritualibus Creaturis (a. 10 ad 8um), ove S. Tommaso, dopo aver mostrato l’ispirazione contraria delle gnoseologie platonica ed aristotelica, ed aver notato che S. Agostino aveva seguito Platone «quantum fides catholica patiebatur» conchiudeva, quasi di sorpresa: «Non multum autem refert dicere, quod ipsa intelligibilia participantur a Deo, vel quod lumen faciens intelligibilia participetur». In realtà pare che la portata del testo sia molto ovvia e per nulla compromettente. Anche S. Tommaso è persuaso che S. Agostino ammette, come lui, l’esistenza nell’anima di un lume intelligibile che viene da Dio – su questo punto essi s’avvicinano: «non multum refert...». Ma altro ed altro è l’ufficio che questo lume è chiamato a compiere nell’uno e nell’altro sistema: in quello Agostiniano si ha recezione di intelligibili; in quello tomista, invece, recezione di un lume capace di fare gli intelligibili, a partire dalla| esperienza, ed è proprio questo che
costituisce l’astrazione tomista12. Possiamo ancora chiamare la nostra conoscenza delle cose divine, «per partecipazione», ma allora la partecipazione sia intesa in un modo anche fisico, tanto soggettivo (intelletto agente), come oggettivo (forme materiali). S. Tommaso non oppone quindi il conoscere per astrazione al conoscere per partecipazione, come è tendenza dello spirito augustinista; ma tutta la nostra conoscenza deriva in qualche modo per astrazione, anche se diversa è la conoscenza per astrazione delle cose sensibili, che può esser propria, diretta ed adeguata, mentre quella delle cose divine rimarrà sempre indiretta, impropria, inadeguata. In quanto «divina... simpliciora et perfectiora sunt in seipsis, quam in intellectu nostro vel in quibuscumque aliis rebus nobis notis»; così si può dire che la «divinorum cognitio» avviene «non per abstractionem, ma per participationem». «Sed haec participatio est duplex. Una quidem secundum quod divina in ipso intellectu participantur: prout scilicet intellectus noster participat intellectualem virtutem et divinae sapientiae lumen; alia vero secundum quod divina participantur in rebus quae se intellectui nostro offerunt»13. Molto si è disputato, anche recentemente, circa l’esatto pensiero di S. Agostino su questo fondamentale argomento, e se S. Tommaso, interpretando la conoscenza «per partecipazione» in relazione all’ilemorfismo ed alla teoria dell’astrazione che Aristotele aveva opposto alla me,qexij (e mi,mhsij) platonica, fosse conscio di allontanarsi e di mettersi in opposizione con S. Agostino. C’è chi sostiene un’identità sostanziale fra le posizioni dei due Dottori; altri, e sono la maggior parte degli storici moderni, pensano che l’opposizione sia irriducibile e che lo stesso S. Tommaso l’avesse| ben avvertita (così Hessen, Gilson, Grabmann, Schneider, von Hertling). Ma, ci si può chiedere, è proprio opportuno condurre a fondo simili raffronti? Ed è poi possibile, data la enorme diversità fra l’ambiente culturale del secolo IV-V, e del secolo XIII, arrivare ad una risposta reale per simili questioni?14. Sta il fatto certo che S. Tommaso, per la sua adesione integrale all’Aristotelismo, figurava presso i contemporanei come avversario aperto dell’Augustinismo ufficiale dei suoi colleghi di Parigi e di Oxford, ma da ciò non segue senz’altro che per lo stesso S. Tommaso, l’Augustinismo del suo tempo si identificasse con il pensiero reale di S. Agostino, come non fu mai persuaso che l’Aristotelismo dei maestri averroisti della Facoltà delle Arti si identificasse con il pensiero reale dello Stagirita. Pare, quindi, almeno sibillina e semplicistica la soluzione proposta dal Cayré: «La théorie de l’abstraction, développée par le Thomisme complète heureusement la conception augustinienne, mais elle ne la contredit pas, et surtout elle ne la remplace pas»15. Quello che pare certo in tutta questa questione si è che per S. Tommaso, non si dà quaggiù alcuna conoscenza d’ordine naturale per una partecipazione che sia una specie d’intuizione delle «rationes aeternae», poichè tutta la nostra conoscenza ha origine dall’esperienza, e si ottiene per l’attuarsi delle facoltà del soggetto. Essa resta una conoscenza per partecipazione nel senso sopra indicato, ed all’istanza agostiniana: «Si ambo videmus verum esse quod dicis, et ambo videmus verum esse quod dico; ubi quaeso illud videmus? Nec ego in te, nec tu in me, sed ambo in ipsa, quae supra mentes nostras est, veritate» (Confess., XII, 25), l’Angelico risponde con decisa chiarezza: «Quod omnia dicimus in Deo videre, et secundum ipsum de omnibus iudicare, in quantum per participationem sui luminis omnia cognoscimus et diiudicamus. Nam et ipsum lumen naturale rationis participatio quaedam est divini luminis» (S. Theol., Ia, q. 12, a. 11 ad 3um). Ma benchè abbia dovuto notare questa difformità sistematica dei due massimi Dottori della Chiesa, anche perchè essa ha un influsso decisivo nell’elaborazione metafisica della nozione di partecipazione, pare che questi due grandi spiriti siano nati per comple|tarsi e che le ardite intuizioni dell’uno trovino nel fiume tranquillo e disciplinato della speculazione dell’altro quella precisione e quella giusta proporzione che sole dànno alle concezioni umane un valore soprapersonale e pretertemporale16. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE NELLO PS.-DIONIGI (SEC. VI?) § 3. – Grazie al nome di cui si coprì, questo profondo pensatore esercitò tale un influsso sul pensiero medievale, che può reggere il confronto con quello di S. Agostino. Per quanto riguarda in specie S. Tommaso il Durantel, nel suo vivace Saint Thomas et le Pseudo-Denis (1919) rilevò dalle opere dell’Aquinate più di 1702 citazioni espresse, tolte dal complesso degli «Areopagitica» che inquadrano i punti più vitali del Tomismo. Il Durantel fu tanto scosso dal fatto, che avanzò l’ipotesi come già accennammo, che il Tomismo, nella sua intima struttura, debba esser qualificato come un «Neoplatonismo dionisiano», anche se esternamente si muove entro i quadri sistematici dell’Aristotelismo17. A parte l’esagerazione evidente, il fatto resta, e non è più lecito ridurre il platonismo di S. Tommaso a quel tanto che può aver assimilato da S. Agostino, come la maggior parte degli storici finora continua a credere e a scrivere. S. Tommaso potè ben presto fare la conoscenza con il pensiero di Dionigi alla scuola di
Alberto| Magno, che unico fra gli Scolastici commentò tutto il «Corpus Areopagiticum»; di questi commenti rimane ancora inedito quello sul De Divinis Nominibus conservato in un Cod. della Biblioteca Nazionale di Napoli, che alcuni storici ascrivono alla mano stessa di S. Tommaso (Uccelli, Miola) quand’era studente a Colonia. Di proprio l’Angelico non ci lasciò che il Commento al De Divinis Nominibus compilato (sembra) nel primo periodo della sua carriera, verso l’anno 126118, ma ove ormai si scorge il suo netto distacco dal metodo di Alberto, per l’uso del Commento letterale invece della parafrasi a questioni, come poi fece, con tanto felice successo, anche per i Commenti ad Aristotele. Il complesso degli «Areopagitica»19 si presentava come un edificio dottrinale in sè completo e di un’architettura sistematica seducente per gli spiriti dalle ampie visuali com’erano i pensatori medievali. S. Tommaso ce ne fornisce il prospetto nel Prologo al suo Comm. del De Div. Nom.: «Ad intellectum librorum beati Dionysii considerandum est quod ea quae de Deo in Sacris Scripturis dicuntur, artificialiter quadrifariam divisit...» e ricorda il De Divinis Hypotyposibus, il De divinis Nominibus, la symbolica Theologia e la mystica Theologia alle quali vanno aggiunte alcune lettere indirizzate dall’Areopagita a dei discepoli. Il De ecclesiastica Hierarchia sviluppa la dottrina sulla Chiesa, e il De coelesti Hierarchia quella sugli Angeli, che servirà di schema all’Angelologia tomista. Dionigi protesta di voler esporre solo la pura dottrina della fede, quale si trova nelle Scritture, perchè «universaliter non est audendum dicere aliquid nec etiam cogitare de supersubstantiali et occulta Deitate praeter ea quae divinitus nobis ex sanctis eloquio sunt expressa» (De Div. Nom., c. 1). Ma in realtà, sia la dottrina, come i termini hanno una fisionomia tipicamente neoplatonica, subito rilevata da S. Tommaso, che ne vedeva difficile l’interpretazione: «Accedit etiam difficultas in praedictis libris ex multis. Primo quidem quia plerumque utitur stylo et modo loquendi quo utebantur Platonici, qui apud modernos est inconsuetus [...]. Unde Dionysius Deum nominat quandoque ipsum bonum aut superbonum aut principale bonum, aut bonitatem omnis boni: et similiter nominat ipsum supervitam, supersubstantiam et ipsam Dei|tatem thearchicam, idest principalem Deitatem...» (Prologus in De Div. Nom.,)20. Non si potrebbe meglio caratterizzare l’influsso di D. su S. Tommaso che dichiarandolo complementare di quello di S. Agostino: mentre la speculazione agostiniana può esser detta la «metafisica del Vero e del Verbo», quella dell’Areopagita è la «metafisica dell’Amore e del Bene», che è detto il nome proprio di Dio. Nel De Divinis Nominibus, ove è esposta questa metafisica, il Bene o, più esattamente, il «Superbonum», è presentato nel suo aspetto formale, cioè secondo il suo diffondersi nelle varie partecipazioni alle creature: pur restando sempre in sè indiviso e impartecipato nell’incomunicabilità della sua sostanza, si afferma che tutto quanto è nel mondo emana da Lui, e tutto resta attaccato a Lui, come il raggio di luce al Sole, come la linea al centro... (De Div. Nom., c. V). Il «superbonum» è quindi causa di tutto, e la sua causalità arrivò fino al «non ens» cioè la Materia; il male, come tale, non esiste, perchè non è che la privazione di un bene (debito), onde i mali particolari non possono derivare da qualcosa che è male per essenza, poichè non sono tali per una qualche partecipazione, ma per una «privazione» di partecipazione (c. IV). Il resto dei capitoli tratta delle altre formalità metafisiche che non hanno la stessa ampiezza del «Bonum» e i titoli per noi riescono un po’ curiosi: De existente, cioè dell’esse, ove anche degli esemplari, c. V; De vita, c. VI; De sapientia, mente, ratione, virtute et fide, c. VII; De virtute, iustitia, salvatione, liberatione,| c. VIII; De parvo et magno, eodem, altero, simili, dissimili, statione, sessione, motu et inaequalitate, c. IX; de omnipotente et vetere dierum, ove del tempo e dell’evo, c. X; De pace, ecc., c. XI; de sancto Sanctorum, de rege regum, de Domino dominorum, de Deo deorum, c. XII; de perfecto et uno, c. XIII. La dialettica è sempre identica: ogni perfezione finita non è che un effetto della perfezione per essenza; così ogni esistente, ogni vivente, ogni sapiente... deriva da ciò che è, che vive, che è sapiente per essenza; e tutte le creature hanno in Dio le proprie «ragioni», che D., per restare fedele alle Scritture chiama «praedefinitiones, proorismoi,»21. Le creature vengono così a mostrare in sè una somiglianza di Dio, e diventano per il nostro intelletto le «vie» proodoi,22, risalendo le quali possiamo arrivare a quella conoscenza che di lui ci è possibile (cfr. C. G., IV, c. 1 ove S. Tommaso, sviluppò mirabilmente questo pensiero che veniva a quadrare molto bene con il suo Aristotelismo). La nostra conoscenza di Dio resta quindi indiretta e mediata, nella quale possiamo indicare tre tappe: la prima, affermando che Dio è la causa di tutte le cose (via causalitatis); la seconda, che non può avere alcuna delle imperfezioni e limitazioni proprie dei causati (via negationis); la terza, che le stesse perfezioni dei causati sono in Lui in un modo eccedente (via eminentiae). La nostra teologia dei «Nomi Divini» passa così a traverso due fasi: una affermativa (katafatikh,) quando ci solleviamo dalle creature a Dio, un’altra negativa (avpofatikh,), quando, ritornando alle creature, siamo obbligati a negare di Dio i modi di essere trovati nelle creature e a concepirlo al di sopra di tutti i predicati positivi e negativi (c. VII).
* * * Non è possibile dire anche in breve la portata dell’influsso di questo pensiero sulla formazione speculativa di S. Tommaso: su certi punti si può dire che essa è stata decisiva23. L’Angelico ama| riferire all’Areopagita alcuni degli aspetti più profondi del suo sistema quali la nozione «intensiva» dell’«esse», la soluzione del problema del male, della creazione della materia; l’incorporeità assoluta degli Angeli: vedremo come tutte queste dottrine hanno (avuto) un’importanza decisiva per lo sviluppo della nozione tomista di partecipazione. È allo Ps.-Dionigi poi che S. Tommaso fa ricorso di preferenza quando contro il Platonismo e il Neoplatonismo emanatista, vuol mostrare l’esistenza degli «esemplari» delle cose come idee dell’intelletto divino24. I critici moderni però hanno sollevato molta polvere contro la «devota» e limpida interpretazione dell’Aquinate. Essi pensano che il pensiero dionisiano non sia che un puro neoplatonismo, secondo il quale l’«impartecipato» (Dio), le «partecipazioni», e i «partecipanti», indicano tre gradi ontologici realmente distinti, onde le «auvtozoh,», «auvtosofi,a», ecc. non sono che un doppione delle «Idee platoniche per sè sussistenti» e delle partecipazioni neoplatoniche, quali intermediari formali e causali fra il «Superbonum» e le nature individuali25. S. Tommaso si è accorto della difficoltà, ma la risolve a tutto favore di Dionigi: quella classificazione neoplatonica equivaleva per l’Angelico alla forma più raffinata del politeismo pagano, e data la sua persuasione circa la personalità di Dionigi, non potè neppur sospettare che questi avesse aderito a quelle idee, onde non si tratta che di una pura somiglianza di linguaggio: «Considerandum hic occurrit, quod hic dicitur per se esse, per se vita et huiusmodi. Ad cuius evidentiam sciendum est, quod Platonici, quos multum in hoc opere Dionysius imitatur, ante omnia participantia compositionem, posuerunt separata per se existentia, quae a compositis participantur... Haec autem separata principia ponebant ab invicem diversa a primo principio quod nominabant per se bonum et per se unum. Dionysius autem in aliquo eis consentit, et in aliquo dissentit. Consentit quidem in hoc quod| ponit vitam separatam per se existentem, et similiter sapientiam, et esse alia huiusmodi. Dissentit autem ab eis in hoc quod ista principia separata non dicit esse diversa, sed unum principium quod est Deus, sicut supra dixit» (all’inizio del cap.). S. Tommaso precisa ancora per togliere ogni dubbio: «Cum ergo dicitur per se vita, secundum sententiam Dionysii dupliciter intelligi potest. Uno modo secundum quod per se importat discretionem vel separationem realem: et sic per se vita est ipse Deus. Alio modo secundum quod importat discretionem vel separationem solum secundum rationem; et sic per se vita est quae inest viventibus, quae non distinguitur secundum rem, sed secundum rationem tantum a viventibus. Et eadem ratio est de per se sapientia et sic de aliis. Et istam expositionem exponit infra in 6 Cap.»26. Il S. Dottore pare intimamente preso dalla difficoltà e si preoccupa di risolverla fin negli ultimi suoi scritti. Leggiamo infatti nel De Subst. Sep., c. 17: «Similiter etiam christianae religioni repugnat quod spirituales substantiae ab alio et alio principio habeant bonitatem et esse et vitam et alia huiusmodi quae pertinent ad earum perfectionem... Et hanc quidem veritatem expresse Dionysius tradit in 5º c. De Div. Nom., dicens, quod “sacra doctrina non aliud esse bonum dicit, et aliud existens, et aliud vitam aut sapientiam; neque multas causas, et aliorum alias productivas Deitates excedentes et subiectas”. In quo removet opinionem Platonicorum, qui ponebant quod ipsa essentia bonitatis erat summus Deus, sub quo erat alius Deus, qui est ipsum esse, et sic de aliis. Subdit autem: “Sed unius, scilicet Deitatis, dicit esse omnes bonos processus” quia scilicet et esse et vivere et omnia alia huiusmodi a summa Deitate procedunt in res. Hoc etiam diffusius explicat in II Cap. De Divinis Nominibus, dicens: “Non enim substantiam quandam divinam aut angelicam dicimus per se esse, quod est causa quod sint omnia”... Subdit autem: “Neque vitae generativam aliam Deitatem dicimus, praeter superdivinam vitam, omnium quaecumque vivunt, et ipsius per se vitae causam”, quae scilicet formaliter viventibus inhaeret: “neque colligendo dicimus principales existentium et causativas substantias et personas quas deos existentium et creatores per se facientes dixerunt”. Ad hanc etiam positionem excludendam signanter Dionysius “ab essentiali Dei bonitate” quam Platonici summum Deum exponebant, dicit: “in substantiis spiritualibus procedere quod sunt et vivunt et intelliguntur, et omnia| alia huiusmodi ad earum perfectionem pertinentia ab ea sortiuntur”. Et idem etiam replicat in singulis capitulis, ostendens quod ab esse divino habent quod sunt, et a vita divina habent quod vivunt, et sic de ceteris» (ed. De Maria, III, pp. 259-260). Checchè sia dello stato reale della questione, non può sfuggire il fatto che anche qui, come nell’esegesi di Aristotele, non è all’autorità ma al testo e al contesto che S. Tommaso cerca di riferire la propria interpretazione. La difficoltà viene ripresa nel Comm. al c. XI del De Div. Nom. e dà occasione a S. Tommaso di esporre in extenso la nozione completa di partecipazione metafisica: Dio è l’impartecipato, le creature i partecipanti,
le partecipazioni le varie formalità secondo le quali «dona ipsius dividuntur in creaturis et partialiter recipiuntur: unde et participari dicuntur in creaturis»; indi aggiunge una preziosa chiarificazione di ordine gnoseologico che noi utilizzeremo nella Parte seconda. «Participationes autem tripliciter considerari possunt. Uno modo secundum se, prout abstrahunt et ab universalitate et a particularitate, sicut signatur cum dicitur per se vita. Alio modo considerantur in universali, sicut dicitur vita totalis vel universalis. Tertio modo in particulari, secundum quod vita dicitur huius vel illius rei. Similiter et participantia dupliciter considerari possunt. Uno modo in universali, ut si dicatur hoc illud vivens, alio modo in particulari, ut si dicatur hoc vel illud vivens» (c. XI, lect. 4, P. XV, 395 a). Un’altra grave difficoltà che poteva presentare l’esegesi del pensiero dionisiano, e che di fatto offrì a molti predecessori occasione di errore, era il modo di mostrare le relazioni che Dio ha con le cose. Dionigi asserisce con tale intensità di termini la dipendenza totale delle creature da Dio, da affermare che «Deus est esse (omnium) existentium. Esse omnium est supersubstantialis Divinitas»27. S. Tommaso nel Commento alle Sentenze (I, Dist. 8, q. I, a. 2) sente il bisogno di porre nettamente la q.: «Utrum Deus sit esse omnium rerum» e con un riferimento, davvero inaspettato, a S. Bernardo, interpreta quei testi secondo la relazione di causalità efficiente, non univoca o equivoca, ma analogica, quale solo si conviene a Dio, prima causa effettiva ed esemplare insieme: «Respondeo, sicut dicit Bernardus, Deus est esse omnium non essentiale, sed causale. Quod sic patet...» (P. VI, 68a, cfr. ibid., Dist. 18, q. I,| a. 1 e a. 5, e anche Comm. super De Div. Nom., c. V, lect. 1a, P. XV, 346 b). Non so per quali speciali ragioni28, S. Tommaso riprendendo la questione nel Contra Gentiles, I, c. 26: Quod Deus non est esse formale omnium, si mostra molto preoccupato, e si sforza di risolvere la difficoltà non soltanto sotto l’aspetto dottrinale, ma anche esegetico, con un ricorso esplicito al testo e al contesto: «Huic errori (Panteismo) quattuor sunt quae videntur praestitisse fomentum. Primum est quarumdam auctoritatum intellectus PERVERSUS (!). Invenitur enim a Dionysio dictum: “Esse omnium est supersubstantialis Divinitas”. Ex quo intelligere voluerunt, ipsum esse formale omnium rerum Deum esse, non considerantes hunc intellectum ipsis verbis consonum esse non posse. Nam si Divinitas est omnium esse formale, non erit super omnia, sed intra omnia, imo aliquid omnium. Quum enim Divinitatem super omnia dixit (= superesse), ostendit secundum naturam suam ab omnibus distinctum et super omnia collocatum. Ex hoc vero, quod dixit, quod Divinitas est esse omnium, ostendit quod a Deo in omnibus quaedam divini esse similitudo reperitur. Hunc etiam eorum perversum intellectum alibi apertius excludens, dixit in II cap. De Div. Nom. quod ipsius Dei neque tactus neque aliqua commixtio est ad res alias, sicut est puncti ad lineam vel figurae sigilli ad ceram». È curioso poi che nella Summa Theologica la difficoltà è appena toccata, a cui si risponde con poche parole tecniche: cfr. Ia, q. 3, a. 8 ob. 1a e ad 1um; anzi nella q. seg. quel pericoloso testo è invocato da S. Tommaso «sine adiecto» per fondare la nozione di Dio, come «Ipsum esse per se subsistens» che contiene in sè le perfezioni di tutte le cose: «Et hanc rationem tangit Dionysius, dicens “quod Deus non quodammodo est existens, sed simpliciter et incircumscripte totum in seipso uniformiter esse praeaccipit”. Et postea subdit quod “ipse est esse subsistentibus”» (Ia, q. 4, a. 2, secundo;| tutto l’art., tanto il Corp. art., come il Sed contra e le risposte alle obb. è dominato da Dionigi)29. Una terza difficoltà che S. Tommaso sembrò sentire in un modo più grave delle precedenti, veniva da tutta l’orientazione del pensiero dell’Areopagita, che è stato già indicato come una metafisica del «Bene». L’accettare senz’altro il primato ontologico del «Bene» era minare le basi dell’intellettualismo aristotelico, fondato sulla priorità assoluta (secundum rationem) dell’ens, che è l’oggetto proprio della metafisica. I Vittorini avevano trovato molto pertinenti le suggestioni di Dionigi e ne avevano usufruito per l’elaborazione della loro teologia Trinitaria e mistica; incontravano pure esse molto favore presso molti contemporanei di S. Tommaso, i maestri della scuola francescana in speciale modo, i quali, guidati da S. Bonaventura, inclinavano decisamente verso il Volontarismo e la teologia affettiva. S. Tommaso non poteva certamente rassegnarsi a seguire in pieno simili indirizzi e non mancò di prender al proposito una posizione netta, in diversi articoli che si completano a vicenda. Così nel De Veritate, q. XXI, a. 3 si chiede: «Utrum bonum secundum rationem sit prius quam verum»; ove la questione è trattata sotto l’aspetto metafisico puro, in dipendenza dalla teoria aristotelica sui trascendentali, e vi si distingue un «ordo trascendentalium secundum se» e un altro «ex parte perfectibilium». «Istorum nominum trascendentalium, si secundum se considerentur... post ens est unum, deinde post verum bonum»; «ex parte perfectibilium sic bonum est naturaliter prius quam verum, duplici ratione...»; va notato che il pensiero di Dionigi qui non desta alcuna preoccupazione, anzi vi è completamente assente, poichè sia nelle obiezioni come nel corpo dell’art. manca qualsiasi riferenza esplicita a Dionigi30.|
Non così in un art. della Summa Theologica «Utrum bonum secundum rationem sit prius quam ens» (Ia, q. 5, a. 2), che riguarda esplicitamente la posizione di Dionigi, come risulta dalle due riferenze che formano le prime due obiezioni, le principali, dell’art.: a) «Dionysius inter alia nomina Dei primo ponit bonum quam ens»; b) «... ut dicit Dion. bonum se extendit ad existentia et non existentia, ens vero ad existentia tantum. Ergo...». Il corpo dell’art. dà solo la risposta formale alla q.: poichè l’ente è l’oggetto proprio dell’intelletto umano «sic est primum intelligibile»; ed è quindi la ragione che prima si presenta «in conceptione intellectus» e per la quale soltanto tutte le altre ragioni o formalità possono essere intelligibili. La presa di posizione verso Dionigi avviene nelle risposte alle obiez. e in modo molto abile, ricorrendo ad un’altra teoria aristotelica, quella della correlazione fra le quattro cause. Come sotto l’aspetto dinamico, la prima causa è il Fine che muove l’agente, il quale a sua volta muove il soggetto verso la nuova forma e il nuovo (modo di) essere, così il «bonum cum habeat rationem appetibilis, importat habitudinem causae finalis, cuius causalitas prima est; quia agens non agit nisi propter finem, et ab agente materia movetur ad formam, unde dicitur quod finis est causa causarum. Et sic in causando [bonum] est prius quam ens, sicut finis quam forma» (ad 1um). E poichè la materia può esser detta «non ens», come può esser detto «non existens» tutto ciò che è «in potentia», può dirsi che il Bonum e l’azione del primo agente si estende anche a ciò che non esiste (ad 1um e ad 2um). Invece la ragione di ens, in quanto per sè si riferisce alla forma inerente o alla forma esemplare, non si estende che alle cose che già sono in atto31.| Ma sotto l’aspetto statico l’esse è la prima formalità perchè è il fondamento di ogni altra formalità che può esser oggetto dell’appetito: «Dicendum quod vita et sapientia et alia huiusmodi sic appetuntur, ut sunt in actu; unde in omnibus appetitur quoddam esse: et sic nihil est appetibile nisi ens et per consequens, nihil est bonum nisi ens» (ad 4um). Quindi, mentre l’«esse per se est appetibile» (ad 3um) le altre formalità non sono appetibili che in relazione all’«esse». Si può ben riconoscere che lo Ps.-Dionigi si muove nell’ambito del Neoplatonismo: esso formava l’ambito spirituale della sua epoca e l’imperatore Giuliano l’Apostata aveva coalizzato per suo mezzo tutte le forze spirituali del Paganesimo decadente per sbarrare il passo al Cristianesimo. Non sorprende allora che uno spirito della capacità speculativa del Nostro abbia assunto gli stessi principî del Neoplatonismo per armonizzarli con la verità cristiana. Ma lo fa criticando a fondo quanto è direttamente contrario ai principî del Cristianesimo, polemizzando direttamente coi principî fondamentali del Neoplatonismo. Così, per es., trattando degli attributi di Dio e delle «processioni divine» (ad extra), ci tiene a rilevare che non si tratta d’ipostasi distinte fra loro e da Dio ma che sono tutte unite in Dio (De Div. Nom., c. V, § 2); più sotto (c. XI, § 6) confuta direttamente il principio fondamentale del Neoplatonismo degli «intermediari» e delle sfere di essere «mediatrici» tanto nella derivazione o degradazione ontologica a partire da Dio come nell’ascensione teurgica della conoscenza fino a Dio. Tutta questa tecnica degli intermediari è contraria al pensiero di Dionigi| che pone in Dio gli esemplari di tutte le cose: in De coelesti hierarchia (c. VII, § 7) la Provvidenza divina attinge direttamente tutte le cose, e gli stessi Angeli non sono che strumenti dell’azione della medesima (cfr.: c. XII, § 3; c. XIII, § 4) e il principio viene applicato per analogia alla gerarchia ecclesiastica. Pertanto Dionigi è perfettamente coerente con se stesso quando respinge la teoria degli intermediari per sè sussistenti di un certo filosofo Clemente (De Div. Nom., c. V, § 9), per ribadire che fra Dio e le creature, che fra la pienezza divina e la realtà concreta non esiste alcuna sfera universale intermediaria. Così la successione graduale della comunicazione del divino, che il Neoplatonismo concepiva in modo che la sfera stessa del divino veniva in qualche modo a degradarsi e ad affievolirsi di grado in grado nella scala ontologica, è intesa invece da Dionigi come una molteplicità di forme che partecipano direttamente alla divinità la quale è presente tutta intera a ciascuna, benchè diversamente a seconda della diversità delle nature stesse in cui la divina semplice pienezza si diffonde32. Non v’è dubbio che per quanto riguarda la trasformazione dei valori della cultura ellenica nel nuovo clima del Cristianesimo, nessuno ha operato più a fondo di Dionigi: S. Tommaso ne ha approfondito l’opera nei suoi motivi più essenziali, e il suo indirizzo esegetico si è dimostrato – dal punto di vista sia dell’ortodossia come dello sviluppo della dottrina cattolica – ancora il più solido e costruttivo33. Così siamo arrivati al «principio dei gradi» o della «contiguità metafisica dei gradi dell’essere» che svolge un còmpito di primo piano nella metafisica costruttiva dell’Angelico, come si vedrà; esso lo ha anche validamente sostenuto nell’ardua lotta contro l’Averroismo. Dionigi lo enunzia nel De Div. Nom., c. VII, § 3: «Semper fines primorum coniungens [scil. divina cognitio] principiis secundorum»34. Esso rompe la rigida barriera dei generi e delle| specie della teoria della sostanza aristotelica e, disponendo gli esseri secondo una scala di perfezioni, ne struttura gli elementi interiori e rende possibile una solidarietà cosmica fra i corpi e gli spiriti.
Il seguito della nostra indagine storica non farà che confermare ancora questo criterio che ci pare sia fondamentale per una comprensione reale della storiografia «speculativa» applicato da S. Tommaso alle sue Fonti. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE SECONDO BOEZIO (480-524) § 4. – Secondo il Praechter, l’«ultimo dei Romani» «Zwar ist auch er kein spekulativer Denker»; il Neoplatonismo non ha suscitato in lui alcuna personale orientazione e iniziativa, e prese solo la forma di un platonismo eclettico senz’alcun interesse speculativo35. Invece il Geyer, mostra che Boezio ebbe un sì grande influsso nello sviluppo del pensiero medievale da potersi paragonare a quello di S. Agostino: «Boëthius erscheint neben Augustinus als der Lehrer und die massgebende Autorität für das frühe Mittelalter»36. Egli è stato l’unico che, allora quando, per le mutate condizioni sociali, i valori spirituali tendevano a scomparire, abbia difeso le sorti della cultura ed, in particolare, quelle della filosofia37. L’opera filosofica di Boezio è assai varia: esordì dapprima con un’intensa attività nel campo della logica con traduzioni e commentari dei trattati dell’Organon di Aristotele, dell’Isagoge del neoplatonico Porfirio, del De Definitione di Mario Vittorino; le opere originali sono in prevalenza di argomenti teologici, ed è in| queste che si trovano le classiche definizioni di natura, di persona... che ricorrono poi presso tutti gli Scolastici medievali. Questa attività darà alla sua fisionomia speculativa un carattere inconfondibile; in lui la posizione, discussione e soluzione dei problemi è sempre vista a traverso il prisma limpido della logica: di qui la severa struttura dei suoi trattati originali che furono modelli di metodo per i dottori scolastici. Ma quello che preme notare si è che il programma della speculazione filosofica di Boezio è quello stesso del Neoplatonismo, quale lo poteva assumere un cristiano: realizzare una sintesi del Platonismo e dell’Aristotelismo, quale preparazione alla speculazione teologica nella quale la ragione sarà congiunta alla Fede e la Fede alla ragione38. È difficile precisare fin dove egli sia riuscito nel suo intento: sembra alle volte che spesso, anche sotto il formulario più platonico, non sia espresso che il pensiero aristotelico, come ora si vedrà per la dottrina esposta nell’opuscolo De Hebdomadibus, che interessa in modo al tutto particolare la nozione tomista di partecipazione. L’operetta non solo nel titolo ci ricorda le «Enneadi» di Plotino, ma è tutta occupata circa la soluzione di un problema tipicamente neoplatonico: quale sia la natura della bontà che spetta agli esseri creati. Tutte le sostanze create son dette esser buone in modo intrinseco...; ora non possono esser dette buone che o per partecipazione o per essenza; ma non possono esser dette buone per partecipazione, perchè allora non sarebbero buone in sè, cioè per il carattere del loro essere, «in eo quod sunt». Allora saranno dette buone per essenza? Neppure, altrimenti l’essere s’identificherebbe con il bene. La discussione della questione è preparata da una concisa introduzione ove sono proposti alcuni principî, in sè evidenti, «propositiones per se notae», che permetteranno di risolvere il quesito; più che la soluzione che Boezio dà della questione, sono queste proposizioni introduttorie che c’interessano e di cui si è già fatto| parola nella Introduzione. In esse infatti si cerca di mostrare la natura dei rapporti fra concreto e astratto: fra l’id quod est e l’esse. Da buon aristotelico, Boezio osserva che solo il concreto, l’id quod est, esiste: l’astratto invece, l’esse, ancora da solo non esiste, e che solo il concreto, che esiste di fatto può arricchirsi di altre determinazioni. Il concreto così viene ad avere una relazione tanto all’ipsum esse, quanto alle ulteriori perfezioni che possono sopraggiungere e sono queste relazioni che Boezio esprime con il termine platonico di «partecipazione», in una serie di proposizioni lapidarie. 1) Diversum est esse, et id quod est; ipsum enim esse nondum est. At vero quod est, accepta essendi forma, est atque consistit. 2) Quod est, participare aliquo potest; sed ipsum esse, nullo modo aliquo participat. Fit enim participatio cum aliquid iam est. Est autem aliquid, cum esse susceperit. 3) Id quod est, habere aliquid praeterquam quod ipsum esse, potest; ipsum vero esse nihil aliquid praeter se habet admixtum. 4) Diversum est, tantum esse aliquid in eo quod est, et esse aliquid in eo quod est: illic enim accidens, hic substantia significatur. 5) Omne quod est, participat eo quod est esse, ut sit; alio vero participat, ut aliquid sit; ac per hoc, id quod est, participat eo quod est esse, ut sit; est vero ut participet alio quolibet. 6) Omne simplex esse suum, et id quod est unum habet. 7) Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est. Omne simplex esse suum et id quod est unum habet39. S. Tommaso nel Comm. giovanile che fece al De Hebdomadibus (a. 1257-1258?), prese i termini nel loro significato metafisico, e partendo dalla nozione di partecipazione elaborò su queste astruse proposizioni i
principî cardinali della sua metafisica, arrivando alla conclusione ultima, della distinzione reale fra essenza ed esistenza nelle creature, che S. Tommaso spesso ama enunciare con i termini di Boezio, come distinzione fra quod est et esse (cfr. In I Sent., Dist. VIII, q. V, a. 1; S. Theol., Ia, q. 50, a. 2 ad 3um; Quodl. II, q. II, a. 3; Quodl. III, q. VIII, a. 20). Sotto l’aspetto critico, a parte la consistenza dottrinale che può avere in sè la posizione tomista su questa dibattuta controversia, tutta la questione sta nel sapere quale sia il significato reale che| Boezio stesso ha dato ai termini di quelle proposizioni. Che intende egli per l’ipsum esse e l’id quod est?: secondo S. Tommaso l’ipsum esse è l’actus essendi; l’id quod est, la sostanza concreta che funge da soggetto dell’atto esistenziale. Buona parte delle prime polemiche antitomistiche contro la distinzione reale fra essenza ed essere citano espressamente questi testi boeziani, in quanto erano invocati a favore della tesi tomista, ma contestano vivacemente la fondatezza di quell’interpretazione. Si risponde che l’ipsum esse, di cui parla Boezio, non è l’actus essendi esistenziale, ma formale, cioè dice la forma in astratto, mentre l’id quod est dice la forma in quanto è singolare e concreta (nella materia). E siccome fra astratto e concreto v’è soltanto distinzione secundum intentionem, cioè secondo il modo di significare, altrettanto si deve dire della distinzione fra l’ipsum esse e lo id quod est. H. GANDAVENSIS, che fu fra i primi ad avversare la distinzione tomista, osserva molto seccato: «Ad auctoritates Boëthii nihil est dicendum nisi quod exponantur, et per hoc videatur quia nihil valet eas adducere ad propositum» e spiega a lungo40. Più esplicito è l’OLIVI: «Sed dicunt quod Boëthius in libro de Hebdo-madibus dicit: “Diversum est esse id quod est, omne simplex esse suum et id quod est unum habet”... Ad quod dicendum quod Boëthius per “esse” intelligit Formam substantialem, per quod est vero intelligit materiam» e apporta quattro argomenti in appoggio di questa esegesi41.| Ricerche critiche recenti, condotte sia da difensori, come da avversari della distinzione reale, portarono al risultato concorde, che l’interpretazione più corretta dei testi boeziani non suggerisce, almeno direttamente, una distinzione reale fra essenza ed esistenza, poichè essa n’è completamente assente. «Il nous parait donc certain, conchiudeva il P. Roland-Gosselin, que Boèce ne parle jamais de l’existence distincte de l’essence»42; l’identità che Boezio pone in Dio è l’identità della sostanza e della forma divina, la distinzione che stabilisce nella creatura è una distinzione fra la sostanza prima e la sostanza seconda. Il BROSCH, nella sua recente monografia sulla nozione di essere in Boezio, raggiunse sostanzialmente le medesime conclusioni. In tutte le sue opere teologiche, posteriori al 2º Commento all’Isagoge di Porfirio e in quelle teologiche Boezio dà allo esse il significato esclusivo d’«esse essentiae»; Dio che è esse puro da cui ha origine l’esse di tutte le altre cose, come esemplati da esemplare. «Vom Dasein, conclude il BROSCH, ist an all diesen Orten keine Rede. Boëthius vernachlässigt die Existenz und betrachtet nur die Partizipation der kreatürlichen Wesenheit am göttlichen Wesen, das nur Form ist»; così va inteso anche l’esse di cui si parla nell’Introduzione al De Hebdomadibus43. La questione, ripresa ultimamente dal P. V. SCHURR, ha portato i seguenti risultati, che in parte correggono le conclusioni dei due Autori precedenti. Boezio presenta testi chiari ove l’esse va inteso proprio come actus essendi in tutte le sue opere, anche in quelle teologiche; benchè resti certo, sia che il significato di esse come essentia occorra più di frequente, sia che nel testo in questione non si tratta direttamente di una distinzione reale fra essenza ed atto d’essere, come la intese S. Tommaso44.| Adunque le due partecipazioni dell’id quod est, prima all’ipsum esse e poi all’esse aliquid, vanno intese come partecipazione l’una alla forma sostanziale e l’altra alle forme accidentali; per la partecipazione alla forma sostanziale, da cui ha il suo modo di essere, la creatura è detta partecipare a Dio: a S. Tommaso basta di indicare il fatto. Tale questione, che è quella dello ultimo fondamento dei possibili, sarà posta esplicitamente e preoccuperà solo più tardi (cfr. S. Theol., Ia, q. 44, a. 3). «Ens per participationem» significa quindi per Boezio l’ente finito e composto, nell’ordine della sostanza, di materia e forma, o a somiglianza di materia e forma45 e non la composizione in linea essendi di essenza ed atto di essere. Ma S. Tommaso sa usufruire anche del Boezio «autentico» per approfondire la nozione dell’esemplarismo divino entro gli schemi concettuali dell’Aristotelismo; questo punto ha la sua importanza poichè mostra come fino dai primi inizi della vita magistrale di S. Tommaso, avessero attirata la sua attenzione gli elementi vitali del Platonismo, e questa volta il vero intermediario fra Platone ed Aristotele è soprattutto Boezio. È un concetto infatti al tutto platonico il ritenere che le forme che non sono sussistenti ma esistono nella materia, siano imperfette e limitate e che quindi vanno considerate come «partecipazioni» delle forme che esistono senza materia, dalle quali quindi devono derivare: «Quia enim omne| quod per se non est, ab eo quod est per se derivatum invenitur, videtur quod formae rerum quae non sunt per se
existentes, sed in materia, proveniant ex formis quae per se sine materia sunt. Et propter hoc Plato posuit species rerum sensibilium esse quasdam formas separatas, quae sunt causae essendi his sensibilius secundum quod eas participant» (C. G., III, c. 69). Ma poichè non può darsi che queste forme universali abbiano una propria sussistenza reale, non resta che concepirle come «intellectae», cioè come forme intelligibili di un intelletto, dell’intelletto divino creatore, nel quale, essendo Iddio l’artefice di tutto l’universo, sono da collocare le «forme» di tutte le cose. Le forme particolari adunque derivano per partecipazione dalle forme perfette universali, in quanto queste sono «intellectae», e si trovano quindi in un intelletto che le pensa. «Omne quod est imperfectum, derivatur ab aliquo perfecto; nam perfecta naturaliter sunt priora imperfectis, sicut actus potentia. Sed formae in rebus particularibus existentes sunt imperfectae, quia particulariter, et non secundum communitatem suae rationis; oportet igitur quod deriventur ab aliquibus formis perfectis et non particulatis. Tales autem formae esse non possunt nisi intellectae, cum non inveniatur aliqua forma in sua universalitate nisi in intellectu» (C. G., I, c. 44, Amplius 2). A nessuno sfugge l’interesse di questo testo per la fusione che presenta di principî platonici ed aristotelici che si continuano con tranquillo equilibrio: la qualificazione tutta platonica di ente per partecipazione ed imperfetto, data alla realtà sensibile, che quindi deve dipendere da ciò che è perfetto e per essenza e la determinazione, che nello spirito è certamente più aristotelica che platonica, di tali forme originarie senza materia, come idee di un agente intellettuale. Orbene è ad una frase esplicita di Boezio che S. Tommaso ricorre, per mostrare l’origine delle forme materiali e ogni moto corporale e risolvere così «in radice» il problema della creazione. «Oportet quod species eorum quae causantur et intenduntur ab intellectuali agente praeexistant in intellectu ipsius, sicut formae artificiatorum praeexistunt in intellectu artificis, et ex eis deriventur in effectus. Omnes igitur formae quae sunt in istis inferioribus, et omnes motus determinantur a formis intellectualibus, quae sunt in intellectu alicuius substantiae vel aliquarum. Et propter hoc dicit Boëthius quod formae quae sunt in materia venerunt a formis quae sunt sine materia; et quantum ad hoc verificatur dictum Platonis, quod formae separatae sunt principia formarum, quae sunt in materia, licet posuerit eas per se subsistentes et causantes immediate| formas sensibilium; nos vero ponamus eas in intellectu existentes, et causantes formas inferiorum per motum coeli» (C. G., III, c. 24; cfr. In II Sent., Dist. 15, I, 2) ove accanto a Boezio cita il Commentator, che usa l’analogia dell’artefice, che verrà ripresa da S. Tommaso nella soluzione del difficile problema della conoscenza dei singolari materiali da parte di Dio (vedi p. e.: In I Sent., Dist. 36, q. I, a. 1)46. Studi recenti tendono a mostrare come Boezio sia più platonico di quanto comunemente si ritenga, come può aversi anche dalla posizione che fa del problema degli universali: «Plato genera et species ceteraque non modo intelligi universalia, verum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles vero intelligi quidem incorporalia atque universalia, sed subsistere in sensibilibus putat, quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae»47. Questa altior philosophia non fu mai scritta da Boezio48. APPENDICE: Boezio e Porfirio e la nozione di partecipazione predicamentale Assieme a Boezio, per quanto riguarda l’origine della nozione tomista di partecipazione predicamentale, va ricordato il neoplatonico Porfirio (232-400? d. C.) di cui Boezio tradusse e commentò due volte l’Isagoge in Categorias Aristotelis, operetta che, come è noto, fu tenuta in gran conto da tutti i medievali, poichè in essa si pone in un modo al tutto esplicito il cosiddetto «problema degli universali». Ora è interessante notare che nell’Isagoge, Porfirio cercando di coordinare i predicabili fra di loro si serve sistematicamente del termine «partecipazione» che nel greco è detta ora metoch, ora me,qexij ora metousi,a, e che Boezio traduce sempre con «participatio». Secondo Porfirio, per la partecipazione i molti partecipandi vengono a formare come una unità; ma la partecipazione non avviene sempre allo stesso modo: quella al genere e alla specie avviene sempre in modo uguale – non così per quanto riguarda gli accidenti, soprattutto per quelli separabili.| (Partecipazione degli individui alla specie). «Th|/ me.n ga.r tou/ ei;douj metousi,a| oi` polloi. a;nqrwpoi ei-jà toi/j de. kata. me,roj o` ei-j kai. koino.j plei,ouj» (ed. Busse, Berlino 1887, 6, 21-22)49. (Diverso modo di partecipazione al genere ed agli accidenti). «Tou/ me.n ge,nouj evpi,shjà ta. mete,conta mete,cei tou/ de. sumbebhko,toj ouvk evpi,shj\ evpi,tasin ga.r kai. a;nesin evpide,cetai h` tw/n sumbebhko,twn me,qexijà h` de. tw/n genw/n ouvke,ti» (ed. cit., p. 17, 6-8)50.
(Diverso modo di partecipazione alla specie e agli accidenti). «Tou/ me.n ei;douj h` metoch. evpi,shjà tou/ de. sumbebhko,tojà ka'n avcw,riston h|-à ouvk evpi,shj» (ed. cit., p. 21, 15-16)51. (Diversa partecipazione agli accidenti propri e a quelli separabili). «Tw/n me.n ivdi,wn evpi,shj h` metoch,à tw/n de. sumbebhko,twn h` de. ma/llon h` de. h-tton» (ed. cit., p. 22, 910)52. L’applicazione della nozione di «partecipazione» ai rapporti logici si poteva leggere, come si vedrà, anche in un’opera dell’Aristotele platonico nei Topici: ma S. Tommaso ha preferito ricorrere alle formule di Porfirio forse perchè più esplicite e più conosciute. Ma quello che va notato è che mentre il termine «partecipazione» conserva in Porfirio un significato essenzialmente logico, e così pure nei Commenti di Boezio, nei testi tomisti, come si vedrà, esso suppone un profondo significato metafisico. Il S. Dottore ricorre con compiacente frequenza a quelle formule di Porfirio, specialmente alla prima, anche nelle questioni speculative più spinose, come quella circa la trasmissione del peccato originale (cfr. In II Sent., D. 32, I, 3 Sed contra; De Malo, V, 1; In Ep. ad Rom., V, lect. 4; Ia-IIae, q. 81, 1; Comp. Theol., c. 196). Ivi il termine partecipazione, oltre la «communitas» nozionale, sta ad indicare la solidarietà che hanno i partecipanti verso il partecipato| come ad un’unità ed, in certo modo, un’entità di ordine superiore ai singoli dalla quale questi in qualche modo dipendono. Con Boezio e Porfirio abbiamo quindi i suggerimenti per una partecipazione logico-metafisica, che S. Tommaso riuscirà ad inquadrare, come si dirà a suo luogo, in modo armonico nella Fisica e Metafisica di Aristotele. Come si vedrà, questo punto del Tomismo, che è stato finora molto trascurato, ha attirato in modo particolare la mia attenzione. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE NEL «DE CAUSIS» (SEC. X-XI?) § 5. – Fra le influenze che hanno preparato la nozione tomista di partecipazione ha un’importanza di primo piano quella che partì dal Neoplatonismo arabo: per il nostro problema interessa la forma ch’esso rivestì nell’opuscolo De Causis e nella filosofia del persiano Avicenna. Non era nello spirito primitivo dell’Islam spingere i propri seguaci a profonde indagini speculative: se poi, di fatto, si ebbe un fiorire eccezionale di scuole teologiche e filosofiche fra i popoli arabi, ciò va ascritto ad una specie di pressione morale che nei tempi di pace (Califfati di Bagdad e di Córdova) esercitavano su di loro, con la propria cultura, i popoli conquistati. I primi movimenti risalgono all’inizio del sec. IX, nel quale si nota un’intensa attività di traduzioni, compilazioni in lingua araba delle opere più importanti della filosofia e scienza greca da parte soprattutto di siro-cristiani; a questo modo le opere di Platone, Aristotele e le principali dei Neoplatonici Plotino, Proclo poterono infiltrarsi nel mondo islamico e modificare notevolmente la rigida teologia del Corano. Per ragioni che è facile comprendere, è soprattutto al Neoplatonismo che spetta di aver data la fisionomia generale alla speculazione araba: il carattere scolastico e sincretistico e l’abbondanza d’ispirazione orientale, che il Neoplatonismo offriva, gli valsero facilmente questo predominio53. È risaputa l’importanza eccezionale della filosofia araba in rapporto al sorgere dei grandi sistemi scolastici: in particolare, per quanto riguarda la conoscenza del pensiero aristotelico, si può dire che il veicolo più importante e più vicino è stata la grande opera dei commentari Arabi al pensiero dello Stagirita, fra i quali restarono particolarmente celebri| quelli di Avicenna e di Averroè. Ne veniva di conseguenza che l’Aristotele, conosciuto dagli Scolastici, almeno per qualche tempo e in certi ambienti, era un Aristotele ormai ben platonizzato, assai diverso da quello conosciuto dai Padri. Da ciò si comprende come si giunse perfino ad attribuire ad Aristotele delle opere di schietta ispirazione neoplatonica (p. e. la Theologia Aristotelis), e come presso alcuni Scolastici (p. e. in Alberto Magno) il termine «peripatetici» possa servire per indicare anche i Neoplatonici. Fra questi apocrifi occupa un posto di primaria importanza un opuscolo che ebbe vari titoli, ma che presso gli scolastici passa ordinariamente con quello di De Causis. Si tratta di un’opera di alta metafisica, composta tra il sec. IX e X nel mondo musulmano che fece la sua comparsa nel mondo latino nella seconda metà del sec. XII (a. 1167-1187?) in una traduzione dall’arabo di Gerardo da Cremona della Scuola di Toledo, che lo intitola «De Bonitate pura» e lo attribuisce ad Aristotele: Liber Aristotelis de bonitate pura54. Il De Causis non ebbe una paternità sempre costante: p. e. ALBERTO MAGNO nel l. II del suo Commento lo ascrive ad un certo DAVID JUDAEUS che l’avrebbe compilato con sentenze raccolte da una certa lettera di Aristotele e dalle opere di Avicenna, Algazali ed Alfarabi. S. Tommaso nelle sue prime opere lo attribuisce vagamente ad Aristotele poichè nel Comm. alla Dist. 8 del l. I delle Sentenze (q. I, a. 2 Contra, ibid. a. 3,
Contra; De Ver., 21, 5; Quodl. IX, q. III, a. 5), lo attribuisce al Filosofo; ma verso l’anno 1268 potrà individuarne la vera origine in modo definitivo, quale tuttora si ritiene. Nel giugno di quell’anno l’amico e confratello G. DE MOERBEKE, che si trovava allora a Viterbo come penitenziere alla Corte di Clemente IV, ove pure in quel tempo si trovava l’Aquinate, portava a compimento la versione dal greco della Stoicei,wsij qeologikh,, o Elementatio theologica di Proclo. Servendosi di questa versione latina, che però non era la prima in ordine di tempo55, S. Tommaso s’accorse della straordinaria somi|glianza dottrinale fra l’opera di Proclo e il De Causis e, nel Commentario che dedicò all’opuscolo, con una precisione critica che anche oggi non lascia nulla a desiderare56, indica in particolare per ogni singola proposizione del De Causis le corrispondenti proposizioni dell’opera di Proclo da cui quella deriva, e sa all’occasione far notare l’identità degli stessi termini impiegati, e la convenienza più o meno nella dottrina. Questo fu un avvenimento di grande importanza nella formazione del Tomismo, sia perchè separava nettamente la causa dell’Aristotelismo da quella del Neoplatonismo, sia anche perchè la versione dell’opera di Proclo permise a S. Tommaso un approfondimento del Platonismo che, come è stato accennato, sembra abbia avuto un valore positivo nell’espressione più matura della sintesi tomista. Anche qualche storico ha recentemente notato che mentre nelle prime opere è il Neoplatonismo e l’autorità di AVICENNA che emerge, dal tempo della compilazione della Summa Contra Gentiles in poi l’autorità di AVICENNA è in forte ribasso, mentre emerge di più il Neoplatonismo di origine greca e greco-romana57. Per quanto riguarda la dottrina propria del De Causis si può osservare che essa poggia tutta su di un realismo esagerato che tiene l’immediata corrispondenza, come Platone, fra i gradi di astrazione intellettuale e quelli di essere della realtà; si assiste così ad un «ipostatizzazione» degli elementi concettuali della «tabula logica». Al sommo degli esseri sta l’Uno e il Bene, causa prima, collocata, ante aeternitatem; da essa derivano le «Intelligenze» pure, collocate «cum aeternitate» (derivano le une dalle altre per un complicato| processo di emanazione intellettuale, per cui la perfezione e purezza della prima si viene degradando nella seconda). Dall’intelligenza deriva l’Anima (mundi) che è detta «post aeternitatem»; dall’Anima infine procede la «Natura»; cioè il mondo dei corpi, che è solo effetto e non «causa». Le 31 proposizioni, di cui consta l’operetta nell’ediz. arabo-tedesca del BARDENHEWER (32 nel Commento di San Tommaso che spezza il § 4 dell’originale arabo in due proposizioni distinte, IV e V) si occupano della natura, del modo di conoscere e di operare di queste tre categorie di «cause», l’Uno, le Intelligenze, l’Anima da cui è fatto dipendere il mondo sensibile; in formule concise sono esposte spesso delle vedute profonde intorno alla metafisica della causalità, della conoscenza che destavano un particolare interesse per una mente speculativa come era quella dell’Aquinate. S. Tommaso non manca di segnalare i lati eterodossi di questo Neoplatonismo, come la creazione mediata (Comm. in II Sent., Dist. 1, I, 3 ad 1um) e nel De Potentia (q. III, a. 4) rimprovera al De Causis il principio dell’idolatria; ma, tutto sommato, si può dire che, alla fine, sotto l’abile esegesi dell’Aquinate, il midollo metafisico di quelle dottrine viene assimilato ed utilizzato largamente. Per la nostra questione giova notare anzitutto la nozione di «esse», che è detto la prima formalità «creata»: «prima rerum creatarum est esse» (Prop. 4). Nella gerarchia neoplatonica, particolarmente secondo l’indirizzo della Scuola Ateniese, il to. o;n era considerato la «prima delle partecipazioni», che viene partecipata dai partecipanti (concreti) prima di tutte le altre formalità come vita, sapienza, ecc. Prima del to. o;n non c’è che il Bene e l’Uno cioè la Somma Divinità, situata nella sua purezza ed eminenza al di sopra di ogni cosa come «impartecipata». La Prop. 4 del De Causis ha per riscontro nel libro di Proclo la Prop. CXXXVIII: «Pa,ntwn tw/n meteco,ntwn th/j qei,aj ivdio,thtojà evkqeoume,nwnà prw,tisto,n evsti kai. avkro,taton to. o;n) Ei' ga.r kai. tou/ nou/ kai. th/j zwh/j evpe,keina to. o;nà w`j de,deiktai( ei;per plei/ston tou/to( meta. to. e[nà ai;tionà avkro,taton a'n ei;h to. o;n\ tou,twn me.n ga.r e`nikw,teron) a;llo de. pro. auvtou/ ouvk e;sti plh/n tou/ e`no,j»58. L’esse indica il contenuto più profondo delle cose, su cui tutto posa: e S. Tommaso, collegando questa nozione a quella di Dionigi| e a quella che ha letto in Boezio, può arrivare in modo definitivo alla nozione di esse, che gli è propria, dell’esse cioè come atto ultimo, come «actus omnium», «forma formarum», nozione che sta a fondamento della nozione tomista di partecipazione. Altra suggestione importante, dovuta al De Causis, riguarda la distinzione reale fra essenza ed esistenza, anche se la posizione dell’opuscolo non sia in proposito così chiara come la vede S. Tommaso. Sempre nella Prop. 4, dopo avere affermato che l’esse è la prima formalità creata, per cui tutte le creature, a cominciare dall’intelligenza, esistono, si pone la questione d’onde sia possibile una distinzione fra le intelligenze. La risposta è che l’essere nelle intelligenze si moltiplica in quanto è composto di finito e d’infinito: «Et ipsum
quidem, scilicet esse creatum primum, non est factum multa, id est distinctum in multas intelligentias, nisi quia, licet ipsum esse sit simplex et non sit in causatis aliquid simplicius eo, tamen est compositum ex finito et infinito». S. Tommaso nel suo Commento trova la ragione d’infinito «ex parte essentiae» dell’Intelligenza, in quanto non è ricevuta in una materia, e la ragione di finito «ex parte ipsius esse» in quanto è limitata dal grado di essere proprio dell’Intelligenza: «In tantum igitur», conchiude, «intelligentia est composita in suo esse ex finito et infinito, in quantum natura intelligentiae infinita dicitur secundum potentiam essendi, et ipsum esse quod recipit est finitum. Ex hoc sequitur quod esse intelligentiae multiplicari possit, inquantum est esse participatum» (S. 30, 5 ss.)59. Bisognerebbe citare tutto il commento di questa prop. 4, poichè in essa S. Tommaso sviluppa «ex alto» la nozione metafisica di partecipazione in tutta la sua portata: a) esemplarismo divino e ordine fra i trascendentali con una discussione sulla precedenza del Bene data da Dionigi: «Secundum quem modum etiam auctor huius libri (del De Causis) hic intelligere videtur» (ib., S. 28, 24); b) composizione reale di essenza ed essere cavata dalla nozione di ente per partecipazione, che rende possibile la molteplicità nell’ordine formale puro (testo cit., S. 30, 5); c) diversificazione delle forme fra di loro,| secondo la contrarietà metafisica, fondata sul vario grado di perfezione secondo che sono più o meno vicine al primo principio (ib., 725 b). S. Tommaso vede un’altra conferma della tesi della distinzione reale in una curiosa frase della Prop. 9 (§ 8 nel testo arabo originale), ove si dice: «Et intelligentia quidem est habens yliatim, quoniam est esse et forma, et similiter anima est habens yliatim, et natura est habens yliatim; et causae quidem primae non est yliatim, quoniam ipsa est tantum esse»; yliatim gli suggerisce yle «dicitur enim yliatim ab yle quod est materia», che per l’intelligenza significa la sua essenza pura in quanto è potenza all’essere. «Comparatur ipsa forma subsistens ad esse participatum sicut potentia ad actum et ut Materia ad Formam» (ib., S. 64, 12); altrettanto vale per l’anima e tanto più per la natura «quia corpus naturale est compositum ex materia ex forma» (ib., S. 64, 15)60. Il senso vero del testo, però, non pare sia esattamente questo. Poichè, secondo alcuni critici, ylcachim sarebbe la versione curiosa di Rolando da Cremona, o traslitterazione dall’arabo del termine greco di Proclo o`lo,thj, astratto di o[lon, che significa quindi «Totalità». Il senso allora sarebbe che mentre i «Tutti», qualunque essi siano, partecipano alla «Totalità», e in essi la Totalità sia distinta dalle partecipazioni diverse che essa unifica: p. e. dall’essere, dalla vita, l’Essere primo (to. prw,twj o;n), tuttavia resta al di sopra della totalità61. Soltanto non si vede come in questa spiegazione un testo arabo possa richiamare un vocabolo greco.| Il testo arabo ha culliya che vuol dire: universalitas, e non è necessario ricorrere alla o`lo,thj anche se per una strana coincidenza il termine greco e arabo sembrano foneticamente affini. Il termine culliya è di pacifica possessione e ricorre continuamente nel nostro opuscolo: esso appoggia egregiamente lo sviluppo tomista della più ardua questione della metafisica. Possiamo quindi tradurre l’ultima parte della Prop. 8: «... Et intelligentia est habens universalitatem quia est esse et forma, et similiter anima est habens universalitatem et natura est habens universalitatem; et causae quidem primae non est universalitas, quoniam ipsa est esse tantum. Quod si dixerit aliquis: necesse est ut sit universalitas, dicemus: universalitas sua est infinitas sua, et infinitas sua est bonitas pura effluens super intelligentiam omnes bonitates et super reliquas res mediante intelligentia»62. LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE IN AVICENNA (980-1037) § 6. – Ultimo nell’ordine cronologico, questo arabo-persiano andrebbe posto primo per l’ampiezza dell’influsso esercitato sulla prima formazione speculativa di S. Tommaso che lo potè conoscere alla scuola di Alberto M., il quale nelle sue parafrasi ad Aristotele spesso non fa che riprodurre Avicenna. Della copiosa produzione letteraria di Avicenna il Medio Evo non conobbe che alcune parti, a traverso le versioni della scuola di Toledo: La Logica, la Sufficientia o Fisica, la Metafisica, il De Anima, il Canon Medicinae; ad Avicenna veniva pure attribuito un opuscolo, il De Intelligentiis largamente citato dagli scolastici, ma che è un tentativo, opera di qualche cristiano, di conciliare l’emanatismo neoplatonico di Alfarabi e di Avicenna con la Rivelazione cristiana63.| Questo complesso dottrinale passava presso non pochi Maestri dei secoli XII-XIII per Commentario autorizzato, il migliore, anzi – fino ad un certo tempo – il solo della filosofia aristotelica, che suscitò i primi entusiasmi e le prime adesioni alle dottrine metafisiche del Filosofo, per le quali l’età patristica aveva nutrito tanti sospetti. In realtà bisogna convenire che Avicenna era stato un discepolo infedele dello Stagirita ed il suo emulo, Averroè, gli farà, giustamente, su molti punti, il rimprovero d’aver inquinato il pensiero
aristotelico con elementi estrafilosofici, presi dalla mistica orientale e dalle posizioni della teologia ufficiale islamica (i «Loquentes»). Ma in fin dei conti è stata proprio questa sua infedeltà all’Aristotelismo storico e la colorazione neoplatonica che seppe dare alle dottrine, che fece la sua fortuna presso i maestri medievali. Il sistema aristotelico appariva deficiente per i cristiani soprattutto in due punti: nulla diceva sulla prima origine delle cose ed era molto sommario sulla natura di Dio. Ora Avicenna l’aveva precisamente completato di una teoria cosmogonica e di una teologia, ispirata al Neoplatonismo, restaurando, in qualche modo, le nozioni di creazione dal nulla e di Provvidenza. Certamente per un teologo cristiano, non tutto poteva apparire limpido in questa speculazione, ma c’era già molto per suscitare una viva corrente di simpatia, anche perchè Avicenna s’era occupato intensamente dell’armonia fra Fede e Ragione, ed aveva fatto posto ad un certo numero di dogmi che sono comuni al Cristianesimo e all’Islamismo, quali la risurrezione dei morti, la vita futura, la profezia, ecc. Tutto questo non poteva che suscitare una benevola attenzione per le dottrine Avicenniane, tanto che il DE VAUX64 ha pensato che prima dell’Averroismo latino, ci sia stato un «Avicennismo latino». Per Guglielmo d’Auvergne Avicenna è «nobilissimus philosophus» e lo considera un grande ingegno, anche se deve poi in molti punti contraddirlo e approvarne le condanne, che sono tanto più giuste, in quanto per il suo ingegno poteva meglio evitarle. È stato già notato che anche S. Tommaso, soprattutto nei primi anni della sua carriera, subì in grande proporzione l’influsso di questo pensiero; ma tale influsso, a differenza di quanto accadde| in altri Scolastici, non fu in lui mai esclusivo, poichè non manca di criticare aspramente più di una di quelle posizioni: l’emanatismo causale (De Substantiis Separatis, c. 10), la conoscenza divina indiretta dei singolari (In I Sent., Dist. 36, I, 1 et loci parall.), e nozione di esse come «accidens» predicamentale, l’intelletto agente «separato» (Quodlib. XII, 5, et alibi come In IV Metaph., lect. 2, n. 556 ss.), ecc. ecc. Per l’Aquinate l’Avicennismo appare infetto da una specie di «estrinsecismo» ontologico e gnoseologico, che se proprio non collima sempre con quello di Platone, gli resta però spesso assai vicino (S. Theol., Ia, q. 110, a. 1; ibid., q. 115, a. 1): da ciò si comprende come venga notevolmente diminuita la portata dell’influsso positivo, soprattutto per quanto riguarda la nozione di partecipazione, quale apparirà in S. Tommaso. Bisogna notare che S. Tommaso ha saputo ben distinguere fra l’emanatismo causale qual era spiegato dal Neoplatonismo greco-romano (dal quale deriva quello dello Ps.-Dionigi) da quello presentato dal Neoplatonismo greco-arabo, quale figura nel De Causis e in Alfarabi e Avicenna. Il primo è esposto compiutamente nel c. 11 del De Substantiis Separatis; dopo l’Uno che è Dio, e sotto di Lui, vi sussistono come principî separati la «per sè vita», il «per sè intelletto» ecc. di modo che se vi è qualcosa che insieme esiste, intende e vive, esiste per partecipazione del primo principio, e intende e vive per partecipazione dell’intelletto e della vita «separata». S. Tommaso comincia la sua critica in un modo abbastanza benigno: «Haec autem positio quantum ad aliquid quidem veritatem habere potest...» (ed. cit., p. 243). Il secondo è esposto nel c. 10: dal primo principio, poichè è semplicissimo, non può procedere che una cosa sola «et hanc nominant intelligentiam primam», dalla quale però ormai, per un certo processo curioso di ordine intellettuale, procede tutto il resto: «Nam secundum quod convertitur ad intelligendum suum simplex et primum principium, dicunt quod ab ea procedit intelligentia secunda; prout vero seipsam intelligit, secundum id quod est intellectualitatis in ea, producit animam primi orbis; prout vero intelligit seipsam quantum ad id quod est in ea de potentia procedit ab ea corpus primum, et sic per ordinem usque ad ultima corporum... Haec est positio Avicennae, quae etiam videtur supponi in libro de Causis». La critica è severa: «Haec autem positio etiam primo aspectu reprobabilis videtur» (pp. 239-240); nel Commento al De Causis| invece S. Tommaso tende ad accostare quell’emanatismo non a quello di AVICENNA ma a quello dei Platonici, e nell’interpretazione lo assimila a Dionigi, scagionandolo dei principali errori; cfr. Comm. in II Prop. (P. XXI, 722-723). Certamente nel De Subst. Sep. S. Tommaso ha colto meglio nel segno: quali le cause di questo mutamento d’interpretazione? Ciononostante bisogna riconoscere che ne resta abbastanza per parlare di un vero contributo di Avicenna anche in questa parte; basti ricordare: a) La soluzione tomista del problema degli universali è tirata sulla falsariga di AVICENNA (Quodl. VIII, I, 1) e sono riferiti ad Avic. i rapporti fra Genere e Materia, Differenza e Forma, cioè fra gli elementi della definizione e quelli della realtà concreta (In II Sent., Dist. 3, I, 5 Praeterea; ib., I, 6 Sed contra. In III, Dist. 5, I, 2 ad 2um; ib., 3 ad 5um ecc.), rapporti con i quali si stabilirà la nozione tomista di partecipazione nell’ordine predicamentale65. b) La distinzione reale fra essenza ed essere nelle creature riceve la prima elaborazione nel Tomismo in dipendenza quasi esclusiva, e spesso perfino verbale, da Avicenna: il P. ROLAND-GOSSELIN nelle sue note all’ediz. del «De Ente et Essentia» ne ha dato una prova convincente. Anche se si vuol ammettere che la posizione tomista in materia abbia di poi, per un approfondimento più diretto del Neoplatonismo e
dell’Aristotelismo, raggiunto una formulazione propria, resta il fatto che è ad Avicenna (assieme al De Causis e a Boezio) che dobbiamo il sorgere della posizione tomista66.| Altrettanto si dica delle nozioni avicenniane di «necesse esse» e di «possibile esse»: solo Dio è «per se necesse esse», la creatura in quanto riceve tutto l’esse da Dio, e l’esse rimane del tutto al di fuori della sua essenza (come accidens) è soltanto «possibile esse»: su queste nozioni si fonda la III via tomistica per ascendere a Dio (almeno nel C. G., I, c. 15: quella della Summa Theologica si ispira piuttosto a Mosè Maimonide)67. Anche su questo punto S. Tommaso si scosterà notevolmente da Avicenna per avvicinarsi al genuino Aristotele, intermediario Averroè, con l’ammettere che si possono dare degli esseri «necessari», pur essendo causati ab alio, come è il caso di tutte le sostanze immateriali e di quelle materiali incorruttibili (corpi celesti)68. c) La distinzione fra le cause «tou/ fieri» e delle cause «tou/ esse»; solo Iddio è causa dell’essere: le creature influiscono soltanto sul divenire (In I Sent., Dist. 7, I, 1 ad 3um; ibid., Dist. 36, I, 1; In II, Dist. 2, I, 2 ad 1um; ib., Dist. 15, I, 2; ibid., Dist. 17, II, 1 ad 3um; De Ver., II, 3 ad 20um; ib., V, 8 ad 8um, tutte citazioni esplicite). Anche su questo punto la posizione di S. Tommaso non resta identica a quella di Avic. nel quale essa non è che il corollario del carattere accidentale che l’esse ha nelle creature, onde l’azione delle creature si limita al «fieri» che è la «via ad esse», ed anzi non arriva che a causare le disposizioni, poichè le stesse forme sostanziali nella generazione vengono ab extrinseco, dal «Dator formarum». Per S. Tommaso invece poichè «omne agens agit sibi simile» e «agit in quantum est actu» la causa prossima delle forme corporali va ricercata nell’attività di un altro corpo, il quale è causa principale della natura «in individuo»: assieme alla natura individuale l’agens proximum causa anche le formalità superiori, ed anche l’esse, ma in modo indiretto e come strumento delle cause superiori, alle quali compete «per se» di causare quelle formalità. È soprattutto in dipendenza di Dionigi e del De Causis che S. Tommaso elabora quella distinzione avicenniana delle cause «tou/ fieri» e delle cause «tou/ esse».|
CONCLUSIONE DELLA PARTE PRIMA Cl. Baeumker in una recensione alla monografia di V. Lipperheide, Thomas von Aquin u. die platonische Ideenlehre (München 1890) aveva osservato giustamente che non sarà mai possibile pronunciarsi sul Platonismo di S. Tommaso, se non si avrà prima fatto una accurata inchiesta sulle fonti, da cui dipende69. L’eminente storico forse non percepiva tutta la difficoltà di quel lavoro e quella sua richiesta, per quanto sappia, ha ancora da ricevere una risposta esauriente. Tutto quanto possediamo di serio sull’argomento si riduce alle monografie particolari, che sono state citate nelle pagine precedenti. Una classificazione sistematica delle fonti è stata tentata da E. Scheller, il quale ha voluto presentare anche una specie di schema genetico delle fonti, che riproduco70: Schema I.
|Questo schema, però, anche se contiene l’essenziale, mi pare alquanto semplicista ed incompleto, onde mi è parso opportuno completarlo con il seguente, ove anche senza pretendere alla compiutezza sono stati aggiunti nuovi dati importanti da noi indicati in questa parte storica. Schema II.
Sono state ricordate soltanto quelle fonti che dal testo stesso di S. Tommaso appaiono aver avuto un influsso d’ordine sistematico in relazione all’argomento di cui ci occupiamo: esse quindi non sono le uniche. Così dei Padri sono stati indicati soltanto Agostino e lo Ps.-Dionigi, ma per la sua profonda conoscenza della letteratura patristica l’Aquinate ha subito certamente degli altri influssi. Meritano di essere ricordati in modo speciale S. Ilario, a proposito della distinzione reale (cfr. p. e. De Pot., q. VII, a. 1 Sed contra; ib., a. 2 Sed contra; C. G., I, c. 22 in fine) per il testo: «Esse non est accidens Deo, sed subsistens veritas, et manens causa, et naturalis generis proprietas» (De Trin., VII); e S. Gregorio M., a proposito della conservazione di tutte le cose da Dio (cfr. In I Sent., Dist. VIII, q. III, 2; In II, Dist. 1, I, 5 ad 2um; De Pot., V, 1 Praet.; Ia, q. 104, a. 1, ecc.) per il testo: «Omnia in nihilum deciderent, nisi ea manus Omnipotentis contineret» (Moral., XVI, 18). Riepilogando, sembra che S. Tommaso abbia distinto nelle sue fonti almeno tre aspetti diversi, secondo i quali era stata presentata la nozione di partecipazione: l’indicazione è fatta chiaramente nel De Potentia, III, 5, ove, mostrando che anche la ragione è riuscita a provare la verità della creazione, riporta le argomentazioni di tre filosofi, Platone, Aristotele ed Avicenna. Esse sembrano essere tre dialettiche di ispirazione diversa: a) Per Platone la ragione della partecipazione è fondata sul fatto che «molti» sono trovati convenire in una formalità comune; la formalità comune dev’essere trascendente ai molti, e l’unità deve precedere la moltitudine (Dialettica dell’Uno e dei Molti). b) Per Aristotele la ragione della partecipazione è trovata nel fatto che una formalità si trova, in natura, realizzata in modi e gradi diversi, secondo «prius et posterius», un «magis et minus» di perfezione: ciò non è possibile se non in quanto esiste di fatto qualcosa che abbia quella formalità in tutta la sua pienezza formale, alla quale più o meno gli altri esseri partecipano, secondo| che ad essa sono più o meno vicini (Dialettica dell’Imperfetto e del Perfetto). c) Per Avicenna infine la ragione della partecipazione è fondata primieramente nella distinzione reale che c’è in ogni creatura fra essenza ed essere, poichè a capo della serie degli esseri vi deve stare un Essere che è atto puro e semplicissimo, che è atto ed essere secondo tutta la sua essenza; anzi non ha essenza, ma è solo essere (Dialettica del «Semplice e del Composto»). Ma, checchè sia del contenuto originario che possono avere presso i rispettivi Autori, queste tre «rationes» per S. Tommaso presentano un contenuto metafisico equivalente, e Egli mostra, nelle sue opere, di usare in modo indifferente ora dell’una e ora dell’altra (cfr. p. e. Ia, q. 44, a. 1; ibid., 61, a. 1). Ciascuna può restare in sè sufficiente, ammessa che sia una volta la validità del punto da cui parte; ed insieme, tutte e tre possono essere viste integrarsi a vicenda per costituire la nozione adeguata di ente per partecipazione. Ma ai bisogni della sintesi, che alla fine va giustificata in ogni costruzione speculativa, non si può ammettere che quelle tre «rationes» convivano l’una accanto all’altra, e che ciascuna sia, da sè sola, veramente sufficiente, o che soltanto «possano» integrarsi; ma, se la sintesi è stata raggiunta, esse «devono» integrarsi e l’una non può prescindere dall’altra. Bisogna quindi mostrarle solidali l’una dell’altra e in continuità l’una all’altra. Lavoro lungo e tormentante, che è stato il còmpito di intere generazioni di pensatori e che non troverà il suo compimento che nell’opera del Domenicano italiano. Il suo indomito ingegno ha saputo tutto ripensare, e, riprendendo i problemi dall’interno del loro contenuto dottrinale, è riuscito ad affinare, rettificare e collocare al debito posto ogni nozione. La sua mente, come il nou/j, di cui parla il Filosofo nel libro III del De Anima, è stata recettiva dell’intelligibile, faticosamente adunato dai suoi predecessori nel magistero delle anime – Platone, Aristotele, Agostino, lo Ps.-Dionigi, Proclo, l’Autore del De Causis, Avicenna – ma non per
soffrirne gli accenti discordanti, bensì, levandosi con la potente ala del suo genio al di sopra dei contrasti, per riviverne in sè ed elaborare nel proprio sistema la verità integrale. È questo il significato storico essenziale del Tomismo. Ed è il nucleo profondo di questa che abbiamo detta «verità integrale» del Tomismo, che noi abbiamo chiamato «la nozione tomista di partecipazione», di cui, dopo aver indicato in questa Ia Parte le Fonti, potremo ora seguire nelle parti seguenti la progressiva ascensione dialettica.| Il nostro metodo che si concentra su S. Tommaso e muove, con lo studio delle Fonti, alla ricerca del suo clima originario, si pone al di sopra delle polemiche dei secoli seguenti che non di rado, e qualche volta anche da parte tomista, hanno trascurato quel clima, e può perciò servire di orientamento per giudicare anche l’esito di tali contese, non ancora spente71.
PARTE SECONDA
LE IMPLICAZIONI FONDAMENTALI DELLA NOZIONE TOMISTA DI PARTECIPAZIONE
SEZIONE PRIMA
IL REALISMO TOMISTA
L’oggettività realistica aristotelica § 1. – Tanto i difensori come gli avversari della metafisica concordano almeno in questo: nel considerarla come la scienza dell’essere e dell’assoluto. Per noi la nozione di partecipazione ha un contenuto essenzialmente metafisico, che porta direttamente sull’essere (reale) di cui esprime il modo secondario nelle connessioni che ha con l’assoluto. Ma per alta manifestazione dello spirito che sia la metafisica, si tratta infine sempre di un’attività umana, che porta in sè ben visibili le impronte e quasi la fisionomia del soggetto nel quale si attua. Sarà quindi di qualche utilità (personalmente io lo reputo necessario) l’indicare in un capo a modo di preambolo, quello che potrebbe dirsi l’«itinerario gnoseologico» che percorre la nozione di partecipazione, o meglio la mente per arrivare a quella nozione, nel sistema aristotelico-tomista, che unicamente c’interessa. Degli elementi d’importanza primaria che saranno ora accennati, alcuni verranno approfonditi in seguito, altri non lo saranno mai perchè esulano dal mio tema; comunque nelle pagine seguenti si dovrebbe mostrare quanto solida resti la posizione tomista anche in questo campo, e come in realtà il cosiddetto «realismo tomista» non è una cosa tanto semplice ed ingenua quale molti amano pensarlo. Il «lapis offensionis» della soluzione platonica dell’oggettività consisteva, secondo l’apprezzamento di S. Tommaso, essenzialmente nel considerare il modo di presentarsi assoluto dei contenuti del pensiero isomorfo al modo di essere dell’oggetto significato. Mentre i «Naturales» avevano pensato che «forma cogniti sit in cognoscente eo modo quo est in re cognita», (Ia, q. 84, a. 2), al contrario «(Plato) credidit quod forma cogniti ex neces|sitate sit in cognoscente, eo modo quo est in cognito. Consideravit autem quod forma rei intellectae est in intellectu universaliter et per modum necessitatis cuiusdam (...). Et ideo existimavit quod oporteret res intellectas hoc modo in seipsis subsistere, scilicet immaterialiter et immobiliter» (Ia, q. 84, a. 1). Se Aristotele reagirà con veemenza al Platonismo, la ragione è da ricercarsi qui, nel travisamento del problema dell’oggettività fatto da Platone, e che è dovuto al permanere della nozione eraclitea dell’esperienza, che rinnegava ogni consistenza reale alla fu,sij. Il punto di partenza di Aristotele sarà appunto la riabilitazione di questa fu,sij. S. Tommaso lo ha notato in un testo raro, ma in compenso esplicito: «PLATO eius discipulus (scil. Socratis) consentiens antiquis Philosophis quod sensibilia semper sunt in motu et fluxu, et quod sensus circa sensibilia non habet certum iudicium de rebus, ad certitudinem scientiae stabiliendam posuit quidem ex una parte species rerum separatas a sensibilibus, et immobiles, de quibus dixit esse scientias; ex alia parte posuit in homine virtutem cognoscitivam supra sensum scilicet mentem [...]. ARISTOTELES autem per aliam viam processit. PRIMO enim multipliciter ostendit, in sensibilibus esse aliquid stabile. SECUNDO quod iudicium sensus verum est de sensibilibus propriis, sed decipitur circa sensibilia communia, magis autem circa sensibilia per accidens. TERTIO quod supra sensum est virtus intellectiva, quae iudicat de veritate non per aliqua intelligibilia extra existentia, sed per lumen intellectus agentis quod facit intelligibilia» (De Spiritualibus Creaturis, a. 10 ad 8um)1. Per Aristotele adunque, anche Democrito ed Empedocle e gli antichi filosofi avevano raggiunto un punto saldo: l’affermazione che le sostanze e i principî delle cose sono delle realtà particolari, come il fuoco e la terra, e non qualcosa di «comune» come «corpo» (In XII Metaph., lect. 1, n. 2423). Se si ammette però che l’Aristotelismo non è un puro ritorno all’empirismo, tanto per Aristotele come per Platone, l’oggetto del conoscere è posto «extra animam»; differiscono però i due filosofi nel modo di essere
da attribuire a quest’oggetto: «Non enim est differentia inter Aristotelem et Platonem nisi in hoc quod Plato| posuit quod res quae intelligitur, eodem modo esse habet extra animam quo modo eam intellectus intelligit, idest ut abstracta et communis: Aristoteles vero posuit rem quae intelligitur, esse extra animam, sed alio modo: quia intelligitur abstracte et habet esse concrete; et sicut secundum Platonem ipsa res quae intelligitur est extra animam, ita secundum Aristotelem. [...] sed Plato quidem dixit, scientias esse de formis separatis; Aristoteles vero de quidditatibus rerum in eis existentibus» (De Spirit. Creat., a. 9 ad 6um). Aristotele non si stacca da Platone fin quando questi afferma che l’intelligibile è soltanto l’universale: la nozione aristotelica della scienza è quella della conoscenza «in universali» del to, ti h=n ei=nai; ma affinchè la scienza sia universale basta che l’essenza possa esser presente al conoscente «in universali», sia cioè conosciuta «in universali», e non è necessario che esista in uno stato «reale» di universalità, come voleva Platone. È il nuovo concetto aristotelico di natura (ilemorfismo) bisogna notarlo, che cambia faccia alla posizione platonica dell’oggettività: «Et veritas haec est, quia nihil est in rerum natura praeter singularia existens, sed tantum in consideratione intellectus abstrahentis communia a propriis» (In XI Metaph., lect. 2a, n. 2174). L’oggetto proprio della nostra conoscenza sono le essenze «naturali», le quali, anche se intrinsecamente soggette al movimento, possono esser oggetto di conoscenza, poichè hanno sempre un fondamento di stabilità. Non tutto, e sempre, è in movimento; durante i cangiamenti accidentali, restano le proprietà e tutta la sostanza; durante i cangiamenti sostanziali resta la materia prima, che è la potenza propria di tutte le forme naturali. La materia, in queste considerazioni, occupa una funzione centrale; essa non è una pura negazione dell’essere (mh. o;n) od una privazione (cw,ra) come dice Platone, ma è il «soggetto» (to. u`pokei,menon) dell’essere della forma e come il «sostegno» della medesima, onde questa può avere in natura una «certa» stabilità, quale si conviene al suo grado ontologico. La forma non ha l’essere, quindi, se non nella materia, e la nostra conoscenza degli esseri sensibili, quando vuol esser adeguata cioè oggettiva, deve potersi riferire tanto alla forma come alla materia, non certamente alla forma e materia individuale, principî concreti dei singolari, ma alla Forma e Materia comune, principî propri della specie in generale2. La definizione, adunque delle sostanze| materiali, come le sostanze stesse, deve constare di Forma e Materia comune, come ha detto Avicenna, che in questo punto è stato più fedele allo spirito dell’Aristotelismo che non Averroè secondo il quale la definizione sarebbe data soltanto dalla forma3. Come l’aggettivo «simus» (= naso curvo), non si comprende se non come forma di quella parte del corpo animale che è detta «naso», così tutte le forme delle cose naturali non si possono comprendere se non riferite alla materia propria, alla quale appunto perchè sono forme e atti, dànno l’atto, struttura e figura nell’insieme e nelle parti. «Unde relinquitur quod materia sensibilis sit pars essentiae substantiarum naturalium non solum quantum ad individua sed etiam quantum ad species ipsas. Definitiones enim non dantur de individuis sed de speciebus. Unde est alia opinio, quam sequitur Avicenna; et secundum hanc forma totius, quae est ipsa quidditas speciei, differt a forma partis, sicut totum a parte; nam quidditas speciei est composita ex materia et forma, non tamen ex hac forma individua et ex hac materia. Ex his enim componitur individuum, ut Socrates et Callias. Et haec, est sententia Aristotelis in hoc Capitulo, quam introducit ad excludendum opinionem Platonis de ideis» (In VII Metaph., lect. 9, n. 1468-69). Allora mentre nel Platonismo l’oggettività non risultava che da un’esplicitazione ab intra dell’oggetto, già presente tutto quanto nel soggetto, esplicitazione che esaspera di più l’irriducibilità fra esperienza e conoscenza: nell’Aristotelismo, invece, l’oggettività è un acquisto dell’animo, conseguente ad un progressivo approfondimento fatto dalla mente, in dipendenza del sentire e del contenuto reale dell’esperienza. Ciò che è veramente reale, è quindi il singolare, detto appunto sostanza prima; esso è veramente ciò che è «separato» nel significato più forte del termine, ed è dai singolari che è costituita la natura, che gode di una vera realtà. L’universale invece, rispetto al quale il singolare della natura si dice partico|lare, non può esistere «separato»: in quanto è universale si sarebbe portati a dire che senz’altro non è; ma neppure questo è vero, che anzi l’universale esiste due volte, una nel singolare come specie ed essenza, una nell’intelletto, come idea; però, come si vede, esiste sempre unito a qualche altra cosa che lo «porti», che lo «produca» o lo «rifletta». Il concetto aristotelico di universale è quello bensì di un «separato» ma mentale, non reale e questo stato di separazione è un modo di essere incompleto e derivato, che acquista nella mente di chi pensa; e quanto più è astratto, tanto più è imperfetto e inadeguato a riflettere la realtà concreta e individuale. Gli universali restano sempre gli elementi costitutivi della scienza, alla quale conferiscono la struttura sistematica e il valore universale: tutto ciò non ha che un contenuto puramente formale, che dice tutto quanto si contiene nella realtà, ma che da solo è vuoto di contenuto ontologico fin quando non può esser riferito e non è riferito
di fatto all’esperienza: «Et veritas est quod licet universalia non per se existant, tamen naturas eorum quae per se subsistunt est considerare universaliter. Et secundum hoc accipiuntur genera et species in praedicamento substantiae, quae dicuntur secundae substantiae, de quibus est scientia» (In XI Metaph., lect. 2, n. 2189). Se l’universale è soltanto un «separato mentale» non reale, e se in quanto universale è non reale, è facile capire come venga senz’altro soppressa la nozione platonica di partecipazione, almeno nella funzione ch’essa è chiamata a compiere nel Platonismo, quale fondamento ontologico «autonomo» dell’essere, e dell’essere conosciuto del singolare. Si deve per questo rinunciare ad ogni possibile uso della nozione di partecipazione, dichiarando questo termine come parola «vuota» e le «Idee» metafore poetiche? OGGETTIVITÀ E ASTRAZIONE INTELLETTUALE § 2. – Se l’universale non è un «separato» reale, in quanto è universale resta per definizione «separato» dai singoli di cui si predica, ne consegue che è soltanto un «separato mentale»; è universale in quanto è dalla mente «cavato fuori», tratto fuori, dal singolare, in quanto è astratto (tractus-abs). L’universalità non è quindi un modo di essere reale, ma è un effetto dell’«astrazione intellettuale», e questo è il modo naturale di conoscere per l’uomo. «Astrarre» importa «trahere-ab», cavar fuori (con l’accusativo)| qualcosa da un complesso in cui si trova implicata, per liberarla. Nel linguaggio ordinario «astrarre» da qualcosa (con l’ablativo) significa trascurare un dato elemento in favore di altri ai quali si vuol rivolgere di preferenza la propria attenzione (astrazione negativa). Nel linguaggio filosofico è ciò da cui si astrae che viene lasciato nell’ombra, ma l’oggetto CHE si astrae è il termine e l’oggetto dell’atto considerativo, che «isola» con l’astrazione quegli elementi ed oggetti che vuole adeguatamente conoscere (astrazione positiva). Conoscere «per astrazione» si oppone a conoscere per «intuizione», poichè l’astrazione non termina, come l’intuizione, all’oggetto qual è fisicamente presente, ma soltanto nello stato di «solitarietà» che viene ad avere nella mente, per la quale è come l’uno fra i molti e l’immutabile fra i mutabili e il necessario fra i contingenti. Il conoscere per astrazione benchè possa essere attribuito anche al senso, in quanto ciascun senso termina ad una qualità, particolare (In Boëth. De Trinate, q. I, a. 3; Ia, q. 85, a. 2 ad 2um), il sensibile proprio, esso indica soprattutto il modo proprio di attuarsi dell’intelletto umano, a differenza di quello divino ed angelico. Invero nè il conoscere dice di essere per astrazione, nè il singolare come singolare dice di essere inintelligibile, ma il conoscere per astrazione è una conseguenza nell’uomo del modo di esistere della natura intellettuale, situata «in horizonte aeternitatis et supra tempus» (De Causis, Prop. 2)4. Per dirla in breve, l’intelletto umano non può aver per oggetto l’intelligibile puro, perchè è una facoltà dell’anima che è forma sostanziale del corpo; per la proporzione che deve correre fra l’essere e l’operare, fra il primo ed il secondo modo di attuarsi, l’oggetto proprio del nostro conoscere non può esser dato che nel mondo della corporeità, è l’intelligibile nel sensibile. Così si ha la curiosa constatazione: l’intendere umano, in quanto umano, non dirige il suo sguardo direttamente all’intelligibile puro; d’altra parte il sensibile, come tale non è intelligibile, e non presenta che l’aspetto più esterno e superficiale della realtà. Bisogna allora superare questa corteccia esteriore e raggiungere la natura che dietro si cela e di cui gli accidenti non sono che| modificazioni e, per noi, segni indicativi: il nostro atto conoscitivo diretto termina così alla natura in sè, nel suo contenuto formale puro, assoluto; termina p. e. alla conoscenza dell’umanità, come umanità soltanto, e nulla dice di quanto ad essa può aggiungersi per individuarla in Socrate e Platone. Questo è l’itinerario della conoscenza umana: astrazione dell’intelligibile dal sensibile, della natura specifica dagli individui, della forma dalla materia; queste espressioni nell’Aristotelismo si corrispondono. La «formalità specifica» esprime un dato modo di essere, e nulla più: non dice da sola se di fatto esista e come si trova nei singolari poichè è un puro «obiectum» senz’altre qualifiche: per arrivare a queste determinazioni occorrono dei nuovi processi mentali, che fanno capo non più al potere astrattivo spontaneo della mente, ma a quello riflessivo5. L’intelletto non soltanto può «ricevere» i dati oggettivi delle cose, ma può contemplare e riflettere sui medesimi che ormai ha presenti. Ma badiamo: siccome le formalità specifiche, come sono presenti per l’astrazione (prima intentio) rimangono come in uno stato d’indifferenza, l’intelletto resterebbe in sè chiuso se, dopo avvenuta l’astrazione, venisse abbandonato alle sole sue risorse. Ma l’intelletto nostro è agitato da un incessante bisogno di sviluppo; e per ragioni che qui si suppongono, e che toccano l’essenza della teoria aristotelica della conoscenza umana, può risalire di nuovo alle origini dell’idea, alle imagini (phantasmata) da cui è stata cavata e per le imagini congiungersi ai singolari concreti: è questa la «conversio ad phantasmata». È per questa «conversio» che l’intelletto può rendersi conto come la
formalità astratta si trovi in concreto ed avere così la oggettivazione di quel contenuto indifferente che ha in sè dell’universale astratto. Ma c’è di più: la nostra mente può da questa conversione risalire al contenuto formale, e, ritenendo in sè la conoscenza dei particolari, li può paragonare alla ragione formale; allora questa ragione non appare più indifferente, assoluta, ma «relativa», nel senso che è trovata essere la ragione «comune» per la quale i particolari possono ricevere una denominazione formale identica. Quando dico «umanità», questo termine può avere due sensi: può indicare quel modo di essere = animale ragionevole, distinto da altri modi di essere (universale metafisico), o può indicare la ragione «comune» a tutti quei particolari, o meglio singolari, che sono detti essere «uomini».| Questo è l’universale katV evxoch,n o universale logico, che come tale si trova soltanto nella mente e che ha la sua ragione formale nel processo comparativo che lo ha preparato; ogni singolare ha la sua propria natura, che è incomunicabile; ma essa è trovata dall’intelletto esser «simile» a quella di altri particolari, onde l’intelletto la vede, come ragione formale, comunicata e comunicabile. Ora quel ch’è importante rilevare è che S. Tommaso, trattando del metodo proprio della metafisica non parla di abstractio ma di separatio6: questo perchè l’Angelico riduce la metafisica, a differenza delle scienze fisiche e matematiche fondate sulla prima operazione della mente (la simplex apprehensio), al dinamismo di affermazione e negazione proprio del giudizio. La tradizione tomista ha piuttosto preferito parlare di «tre gradi di astrazione», terminologia che può avere qualche plausibile ragione ma che rischia di svisare la fisionomia e la natura stessa della metafisica quale fu intesa da S. Tommaso e che sembra particolarmente adatta per discutere i problemi del pensiero moderno. Mi sia permesso quindi un cenno, sia pur breve, perchè il concetto stesso di partecipazione ne dipende strettamente. Le scienze che si fondano sull’astrazione cercano l’essenza delle cose, da cui procedere all’analisi delle proprietà del proprio oggetto e così costruire l’edificio scientifico delle dimostrazioni e conclusioni in cui si manifesta e si espande la virtualità dell’essenza stessa: tutto e sempre si riduce a sapere cosa è che fa essere così e così un certo genere o una data specie di enti. La metafisica, che ha per suo oggetto lo o'n h- o;n, suppone già dall’esperienza e dalle scienze la conoscenza delle essenze e cerca di conoscere lo esse vale a dire «come le cose hanno l’atto di essere, come esse esistono»: p. es. se sono sostanze o accidenti, cioè esistono in sè o in altro, se sono in atto o in potenza, se sono cause o effetti, se vanno dette essere per essenza o per partecipazione, ecc. Mi limito al punto essenziale. Il problema (corrispondenza fra scienza e metodo): «Sciendum est quod secundum Philosophum in III De Anima (430 a 26) du|plex est operatio intellectus. Una quae dicitur intelligentia indivisibilium qua cognoscit de unoquoque quid est. Alia vero qua componit et dividit, scilicet enuntiationem affirmativam vel negativam formando. Et hae quidem duae operationes duobus, quae sunt in rebus, respondent. Prima quidem operatio respicit ipsam naturam rei secundum quam res intellecta aliquem gradum in entibus obtinet, sive sit res completa ut totum aliquod, sive res incompleta, ut pars vel accidens. Secunda vero operatio respicit ipsum esse rei, quod quidem resultat ea congregatione principiorum rei in compositis, vel ipsam simplicem naturam rei concomitatur, ut in substantiis simplicibus» (Wyser, 38, ll. 3-13; Decker 18, 2-12). La differenza fra i due tipi di sapere, scientifico e metafisico, consiste precisamente nel fatto che le scienze godono nei loro processi astrattivi di una certa «libertà», per così dire, di combinazione e scombinazione rispetto agli elementi nozionali su cui operano; la metafisica invece, legata all’essere delle cose, lo deve esprimere nel modo secondo il quale tale essere si trova attuato nella realtà, se esista o non, e se sia in un modo o in un altro. La metafisica non può quindi che unire ciò che nella realtà si trova unito, separare ciò che in essa è separato: «Et quia veritas intellectus est ex hoc, quod conformatur rei, patet quod secundum hanc operationem intellectus non potest vere abstrahere, quod secundum rem coniunctum est, quia in abstrahendo significaretur esse separationem secundum ipsum esse rei, sicut si abstraho hominem ab albedine dicendo “homo non est albus”, significo esse separationem in re. Unde si secundum rem homo et albedo non sint separata, erit intellectus falsus. Hac vero operatione intellectus vere abstrahere non potest nisi ea quae sunt secundum rem separata, ut cum dicitur homo non est asinus. Sed secundum primam operationem potest abstrahere ea quae secundum rem separata non sunt, non tamen omnia, sed aliqua» (Wyser 38, ll. 13-23; Decker 18, 12-22). La tecnica differente perciò dei due metodi è comandata dalla differenza stessa dei rispettivi oggetti che per le scienze astrattive è l’essenza, ch’è qualcosa di unitario se non sempre di semplice, mentre per la metafisica è lo esse che non si esprime se non in forma di sintesi reale, secondo il modo cioè in cui tale sintesi si trova di fatto nella realtà. Le cose vanno quasi come se nel primo caso l’intelletto dominasse la realtà, nel secondo come se fosse dominato: «Sic ergo intellectus distinguit unum ab altero aliter et aliter secundum diversas operationes; quia secundum operationem qua componit et dividit, distinguit unum ab alio
per hoc quod intelligit unum alii non inesse. In operatione vero qua intelligit, quid est unum|quodque, distinguit unum ab alio, dum intelligit quid est hoc, nihil intelligendo de alio, neque quod sit cum eo, neque quod sit ab eo separatum» (Wyser 39, ll. 8-13; Decker 183, 23-28). Perciò, se quella distinzione va detta «separatio», questa invece è «abstractio» ogni volta che sia possibile quella «forma di isolamento» nozionale. Due sono le forme di isolamento nozionale o astrazione, l’una è detta dall’Angelico totale, l’altra formale: precisazione decisiva che rende superflua la teoria dei «gradi» di astrazione. Le due astrazioni corrispondono alle forme di rapporto fondamentali nella struttura delle cose, cioè quelle di parte e tutto e di materia e forma: «tutto» si dice l’universale rispetto ai subordinati universali più ristretti o agli individui, «forma» in questo caso è data dalla struttura (quantitativa) geometrica o numerale delle cose che possiamo considerare a sè, prescindendo dalla natura concreta delle cose stesse. L’astrazione totale è a base delle scienze reali, la formale è propria delle scienze matematiche: S. Tommaso sviluppò ampiamente la diversità fra le due astrazioni. «Et ita sunt duae abstractiones intellectus: una quae respondet unioni formae et materiae vel accidentis et subiecti, et haec est abstractio formae a materia sensibili; alia quae respondet unioni totius et partis, et huic correspondet abstractio universalis a particulari, quae est abstractio totius, in qua consideratur absolute natura secundum suam rationem ab omnibus partibus, quae non sunt partes speciei, sed sunt partes accidentales» (Wyser 40, ll. 18-24; Decker 185, 20-26). Tre sono perciò i tipi di scienza umana: reale-fisica, matematica e metafisica: «Sic ergo in operatione intellectus triplex distinctio invenitur: a) una secundum operationem intellectus componentis et dividentis, quae separatio dicitur proprie, et haec competit scientiae divinae sive metaphysicae. b) Alia secundum operationem, qua formantur quidditates rerum, quae est abstractio formae a materia sensibili, et haec competit mathematicae. c) Tertia secundum eandem operationem universalis a particulari et haec competit etiam physicae et est communis omnibus scientiis, quia in omni scientia praetermittitur quod est per accidens et accipitur quod est per se» (Wyser 40, ll. 42-46 – 41, 1-4; Decker 186, 13). S. Tommaso nell’art. 4 [Utrum divina scientia sit de his quae sunt sine materia et motu] precisa, in conformità all’art. precedente, che la metafisica ha per oggetto o le realtà che sono astratte «secundum esse» da ogni materia (Dio e le sostanze spirituali), o quei modi di essere che – benchè si trovino anche nel mondo materiale – non sono però necessariamente legati alla materia: «... Et sic ens et substantia et potentia et actus sunt separata a| materia et motu: quia secundum esse a materia et motu non dependent» (Wyser 48, ll. 40-49, 1-2; Decker 195, 18-20). Il problema della fondazione della metafisica è giunto al suo momento cruciale, ma per nostra disdetta l’Angelico non inizia una ricerca di tipo fenomenologico o epistemologico come noi desidereremmo, e dobbiamo perciò cercare di farci strada orientandoci al lume dei principî generali. La conoscenza della natura di Dio e delle sostanze spirituali sta al vertice della metafisica, mentre la determinazione dei concetti di atto e potenza, di sostanza e accidente, e con essi del concetto metafisico primordiale di ens, sta all’inizio, e costituisce – direbbe Hegel – il «cominciamento» (Anfang) di quel contenuto dell’Assoluto a cui la metafisica arriva al suo termine. LA RIFLESSIONE METAFISICA INTENSIVA § 3. – Sembrerà forse che questi accenni d’indole un po’ sistematica, siano al tutto impertinenti al problema della nozione di partecipazione: ma non è così, poichè invece interessano moltissimo. E una prima constatazione a cui conducono, è che se tale è la posizione definitiva nell’Aristotelismo tomista del problema della conoscenza, sembra che in essa non vi sia posto alcuno per una nozione metafisica della partecipazione. E la ragione di ciò è evidente. È chiaro anzitutto che la formalità (metafisica) che è data nella «prima intentio» dall’astrazione formale, non pone alcun nuovo problema perchè è in sè indifferente a riguardo degli inferiori in cui si trova realizzata: nulla dice se possa esser detta un «tutto» od una «parte», perchè gli inferiori in questa considerazione non sono direttamente presenti, essendo essi per definizione il termine a quo di questa astrazione. La formalità «logica» invece, della «secunda intentio», a cui arriva l’astrazione totale, si presenta da sè come un tutto, che può esser detta presente e partecipata in una moltitudine di inferiori dei quali viene predicata «in actu signato»: ma a voler essere esatti anche la totalità della «secunda intentio» sembra non si mostri più feconda della prima. Senza dubbio in quanto la formalità logica è un «tutto» universale e una ragione «comune», pone di per sè il problema della partecipazione, in quanto si dice che i particolari partecipano alla ragione universale che viene ad essi attribuita; ma il pensiero logico non va oltre, e non si
preoccupa in che cosa consista questa partecipazione: che anzi si muove in una direzione che finisce per togliere ogni preoccupazione che avesse potuto sor|gere su quel problema. Infatti, se la ragione logica è detta essere una «totalità», si tratta di una totalità sui generis, poichè essa è presente tutta intera in ciascuno dei partecipanti, onde si risolve in un rapporto di convenienza secondo un’identità formale. Per questo è detto «tutto universale» e «soggettivo»; essa suppone l’attribuzione del proprio contenuto ad una Collezione di specie (per il genere) e di individui (per la specie), ma qui il termine «attribuzione» va inteso nel suo senso forte, cioè quale «praedicatio in quid» nel primo modo «dicendi per sè». Ogni specie ed ogni individuo possiede, da sè solo, intrinsecamente, la nozione e la ragione formale del tutto7: sta infatti in questa cosiddetta immanenza piena della formalità universale negli inferiori il significato essenziale della reazione aristotelica contro la posizione platonica della trascendenza reale dell’universale, che doveva quindi esser predicato del singolare soltanto per partecipazione, perchè era presente in esso soltanto secondo una partecipazione od una somiglianza. Ma «l’uomo separato» non si può dare, ed esistono soltanto gli individui concreti: Socrate, Callia; e Socrate non è più o meno uomo di Callia, e l’uomo non può esser detto aver in sè più o meno la ragione di animale di quanto l’abbiano l’asino ed il cavallo: Socrate e Callia e tutti gli uomini sono egualmente uomini; l’asino, il cavallo e l’uomo, come animali, vanno detti egualmente animali. Ma ove c’è eguaglianza non si può dare partecipazione. Resta dunque assodato che il problema della partecipazione non può sorgere nel campo del pensiero formale univoco, quale consegue all’astrazione formale e totale, e che, per conseguenza, i rapporti di partecipazione qualora si dessero, devono avere la loro radice altrove, onde rigorosamente parlando, non possono mai esser predicati nel primo modo «dicendi per se». Ciò veniva implicitamente riconosciuto dal teorico tomista che credo più profondo sulla nozione di partecipazione, F. Silvestri da Ferrara, il quale, a proposito della frase di S. Tommaso «hoc modo essentia denominatur bona sicut et ens; unde sicut habet esse per participationem, ita et bona est per participationem» (De Verit., XXI, 5 ad 6um) osserva: «In hac autem ratione non dicitur essentia creata esse ens per participationem, ratione primi et formalis significati, sed ratione connotati, sive ratione eius a quo nomen entis imponitur» (Comm. in I C. G., c. 25). Il connotato di cui parla il Ferrariensis è l’atto di essere, ed in verità è solo sul piano metafisico dell’atto di essere che si pone| il problema della partecipazione. Secondo le astrazioni sopra ricordate l’intelletto coglie la formalità dell’essere ma non si rende conto e non tiene conto del midollo ontologico delle cose, che è dato dall’attualità concreta; di qui si fa evidente che il pensiero formale è intrinsecamente affetto da una radicale inadeguatezza a confronto dell’oggetto in sè a cui si riferisce. Esso infatti deve prescindere dagli individui e dagli inferiori, ma siccome l’essere reale compete a questi soltanto, come tali, allora la presa di possesso «intelligibile» ovvero l’oggettivazione dell’intelletto in questa parte, è assai povera, perchè di natura più schematica che propria. Sembra adunque che l’astrazione, che era presentata come l’unica ala che permetteva all’uomo di elevarsi all’intelligibile, diventi ora una catena che gli impedisca di raggiungere la realtà concreta, che è lasciata in balìa esclusiva delle oscure intuizioni dei sensi. Non bisogna però scoraggiarsi. Da un punto di vista teorico sappiamo che l’universale nell’Aristotelismo di S. Tommaso, benchè venga «astratto» e «separato», non perde mai un certo contatto con i singolari reali da cui è derivato, come avviene invece per l’ei=qoj puro nella evpoch, dei Fenomenologi. Per quanto riguarda l’universale logico non v’è dubbio alcuno: esso per definizione si dirige ai singolari come al termine ad quem di predicazione. Ma anche l’astrazione che arriva all’universale metafisico mantiene un qualche contatto con i singolari. Certamente essa «libera» la natura dalle note individuanti, ma questa liberazione è fatta con discrezione e senza strappi violenti, e cioè «cum cognitione positiva termini a quo qui relinquitur, et naturae quae ab illo accipitur»8. È per questo contatto che la mente conserva con il singolare nella prima astrazione dell’universale metafisico che può (nella seconda astrazione) sorgere l’universale logico, riferirsi ai singolari ed essere predicato dei medesimi – di qui il fondo intimamente realista della logica tomista. Da un punto di vista psicologico sappiamo ancora che l’intel|letto e il senso sono facoltà di un’unica sostanza, alla quale sono compresenti come strumenti di un unico agente principale; per questo l’intelletto può congiungersi, mettersi in continuazione nel suo conoscere, con la sensibilità ed, effettuando una conversione radicale, raggiungere la realtà nel suo modo di essere concreto. In questa conversione l’intelletto può muoversi in varie direzioni; così può congiungere l’«intentio intellecta» (l’universale) all’«intentio imaginata», preparata per l’intelletto dalla cogitativa, assieme alla fantasia e alla memoria; a questo punto l’intelletto può raggiungere il singolare attuale, quale può esser presente nell’esperienza, e conoscere come di fatto esistano gli uomini e come esista quest’uomo, Socrate, e quell’uomo, Callia: abbiamo, nel caso, un movimento dell’intelletto dall’alto in basso; dall’universale, da cui parte, al particolare ove termina. Ma l’intelletto può muoversi ancora: dopo questo movimento dall’alto in basso, e in grazia ad esso, può ancora,
una seconda volta, dirigersi dal basso in alto, ma in un modo ben diverso dalla prima volta. Avendo potuto conoscere il modo di essere particolare degli individui, mentre nella prima aveva confrontato gli individui con la ragione formale, ed aveva cavato la ragione logica, ora può confrontare la ragione formale in riferimento all’atto di essere, trovato negli individui. È interessante il notare che in questo processo vengono a collaborare tutte le potenze conoscitive dell’anima, poichè esso infatti si compie per un processo comparativo fra la formalità predicamentale (astratto) e l’atto di essere, che l’anima riesce a toccare (attingere) con due facoltà diverse, il senso e l’intelletto. Questa astrazione termina alla ragione di essere; e per il modo secondo il quale avviene quest’astrazione, che ormai possiamo chiamare senz’altro «metafisica», la ragione di essere è a un tempo la più astratta ed insieme quella che maggiormente ci fa conoscere la realtà quale è in sè. Difatti nel processo comparativo fra la formalità astratta e l’atto di essere, l’intelletto è subito colpito dal fatto, che mentre la formalità in astratto è uniforme e identica nel suo contenuto, considerata invece secondo l’atto di essere reale, essa è estremamente varia e ricca di toni e colori. Guardati adunque sotto l’angolo intelligibile dell’atto di Essere, ciascun singolare e particolare realizza di fatto in un modo diverso la ragione astratta, e non più ex aequo: «Non enim in diversis singularibus est aliqua natura una numero, quae possit dici species. Sed intellectus apprehendit ut unum, id in quo omnia inferiora conveniunt. Et sic in apprehensione intellectus, species fit indivisibilis, quae realiter est diversa in diversis individuis» (In X Metaph., lect. 1, n. 1930).| Al posto della limpida visione dell’astratto pensiero formale, succede una meno limpida, ma più consistente ed oggettiva, quella che possiamo chiamare, del pensiero «reale». Mentre per il pensiero formale la mente, con l’uguaglianza affermata fra i particolari, aveva presto raggiunto una visione di «ordine» al tutto soddisfacente, che le permetteva di muoversi a suo comodo per l’ulteriore conoscenza dell’essenza, l’astrazione metafisica invece la pone subito di fronte alla ineguaglianza e al disordine. La mente però vive dell’ordine e per questo l’astrazione metafisica pone per essa il problema di trovare l’ordine entro l’ineguaglianza, di mostrare che non si tratta di una ineguaglianza che è anarchia di elementi, ma che è di coordinazione e subordinazione. È a questo momento che si presenta la nozione di partecipazione. LA RIFLESSIONE METAFISICA E LA NOZIONE DI PARTECIPAZIONE § 4. – Anche l’atto di essere, che è il termine della riflessione teoretica, e che è detto oggetto della metafisica, in quanto diviene oggetto della considerazione intellettuale, anch’esso è infine una ragione nozionale astratta, anzi, come si diceva, è la ragione più astratta; ma bisogna notare che si tratta di una riflessione al tutto nuova, che non può esser ridotta a quelle note, formale e totale. La ragione di essere, per la sua massima generalità, sembrerebbe fosse conseguente all’astrazione totale, e così pensò Scoto, ma questa è una evidente deviazione dal pensiero di Aristotele, che dimostra non potersi la ragione di ente considerare come un genere, sia pure supremo (Metaph., B, 3, 998 b, 21-27). Difatti se la ragione di ente fosse un genere, avrebbe bisogno di essere intrinsecamente determinata dall’aggiunta di differenze che la dividano in ragioni specifiche; per fare questo, le differenze formalmente dovrebbero esser estrinseche all’essere, come razionale ed irrazionale sono estrinseche alla ragione di animale – ma al di fuori dell’essere non c’è che il non essere, onde la ragione di essere resta intrinseca a qualsiasi formalità. La ragione di essere non può neppure esser ricondotta all’astrazione totale quale prima è stata da noi presentata. Sotto l’aspetto psicologico si sa che la prima nozione che forma l’intelletto è quella di ens, ed è una nozione ottenuta evidentemente per astrazione formale; ma questa è la nozione più imperfetta e confusa ed indica l’inizio e il risveglio della vita intellettuale; al suo confronto la no|zione di essere che comanda lo sviluppo della metafisica sta al polo opposto del pensiero, in quanto appare appunto allo stadio più perfetto del medesimo. La riflessione che dà origine alla nozione metafisica di essere, com’è stato detto, è condizionata sia dall’astrazione formale, come da quella totale, ed esplicita poi, a differenza di quelle, i suoi problemi a traverso una vera dialettica, che si svolge per un processo di contrasto, rispetto a quello di semplificazione operato dalla logica (cfr. In I Sent., Dist. 19, V, 2 ad 1um = analogia). Tutti gli esseri convengono in questo: nell’avere la propria ragion d’essere, ma la nozione non dice di più, perchè in concreto ciascun essere ha il proprio modo di essere, che è distinto e diverso da ogni altro: «esse uniuscuiusque est ei proprium et distinctum ab esse cuiuslibet alterius rei» (De Potentia, q. VII, 3 ad 2um). Ne segue che mentre nelle nozioni universali di uomo e animale, io venivo informato di tutto il contenuto proprio di quelle nozioni, la nozione di essere è intrinsecamente inadeguata ad informare la mente una volta per sempre, ma esige di essere esplicitata, volta per volta, nell’oggettivazione: onde dal sapere il modo di essere reale di una cosa, non è
deducibile, a priori, quale sia quello di un’altra cosa, se non in un modo approssimativo ovvero proporzionale. Ma non bisogna poi chiudersi per la nozione di essere in un formalismo «simbolico». Si è detto che la ragione di ente è la prima che si presenta alla mente. Con il procedere della conoscenza essa va soggetta a tutte quelle particolari determinazioni che corrispondono ai vari esseri o modi di essere; a questo momento può intervenire la riflessione metafisica, che si attacca alla «ragione di ente», in quanto è criterio e lume (formale quo) per determinare il valore «ontologico», di quelle determinazioni. E nella riflessione metafisica allora ci si accorge che, benchè la mente possa progredire alle più varie e ricche determinazioni, la ragione di ente resta a tutte «trascendente», rimane cioè sempre inesauribile ed aperta ad altre determinazioni ancora, perchè tutto può esser compreso nell’àmbito della sua «irradiazione» intelligibile. Ne consegue che la «ragione di ente» sta ad indicare una perfezione ed una formalità che è superiore a tutte le perfezioni e formalità, alle quali viene applicata; l’essere pianta, l’essere asino, l’essere uomo, dicono dei modi di essere particolari, e l’uno non è convertibile con l’altro. Eppure tutti sono «dell’essere»; ma sono finiti tutti, e per questo ciascuno può esser detto essere accanto agli altri, perchè è essere in un modo ad esclusione degli altri. Ma io ben comprendo, al lume della ragion di essere, che questa limitazione che l’essere riceve in| concreto, non è dovuto all’essere, in quanto è essere, ma soltanto alla formalità determinata alla quale va unito e che lo specifica. PERTANTO se ora io tengo compresenti nella mente i vari modi nei quali si attua in concreto ed in particolare l’atto di essere, e faccio nella mia mente come una «Sinossi», posso avere dell’Essere l’idea della «formalità suprema», che è sintesi e «totalità assoluta» a riguardo di tutte le formalità particolari9. Mentre l’essere confuso dell’ordinaria riflessione è il punto di partenza del pensiero, e la ragione proporzionale di essere è l’oggetto formale della metafisica, che determina la posizione e lo svolgersi dei problemi, quest’ultima ragione d’Essere, segna come un termine dell’induzione metafisica, il quale insieme pone ulteriori problemi. Questa ragion di Essere, non è più qualcosa di confuso e d’indeterminato, ma ha in sè un contenuto pienamente intelligibile, anzi perchè dice pienezza di attualità, è pienezza d’intelligibilità. In relazione ad essa, tutti gli altri modi di essere, dai più universali fino ai particolari, appaiono come coartazioni e negazioni parziali, che sono più o meno degradate secondo che più o meno s’avvicinano all’Essere, per la negazione delle imperfezioni e dei limiti. Sotto questo punto di vista, tutta la visione intellettuale del mondo si trasforma e si ordina a formare come una «armonia razionale» degli esseri10. Si potrebbe chiamare questo processo, come vuole qualche autore moderno, astrazione integrativa11, anche se forse i termini astrarre-integrare, sotto l’aspetto etimologico, sembrino escludersi; si potrebbe forse meglio chiamarla riflessione INTENSIVA, in opposizione all’astrazione totale, estensiva, in quanto che la ragione (di essere) a cui si arriva nulla lascia perdere delle perfezioni positive degli inferiori, ma tende a vederle unificate tutte quante. Riferiti a questa ragione eminente, tutti gli esseri e i vari modi di essere si presentano, possono presentarsi, alla mente nella loro oggettività piena e definitiva. È vivente la pianta, il cavallo,| l’uomo; ma la vita nel cavallo ha un modo di essere più perfetto che nella pianta, e nell’uomo, più perfetto di ambedue; ma anche il modo di vivere dell’uomo resta limitato, come resta limitato qualsiasi modo di vivere che non sia la stessa Vita. La ragione «Vita» appare così come una «totalità formale» di cui le varie manifestazioni che si trovano in natura sono come delle «degradazioni», delle «partecipazioni» nel senso metafisico della parola. S. Tommaso non si è preoccupato tanto di offrire una teoria «in actu signato» del come in realtà si faccia la riflessione intensiva. A giudicare dagli esempi, si può dire in generale che l’ascensione dialettica, operata dalla «separazione» metafisica (intensiva), fa passare la mente da specie a genere, e dai generi inferiori ai generi superiori e ai trascendentali. Ma poichè la riflessione intensiva raggiunge l’eminenza di perfezione e non la sola estensione di predicazione, l’ascensione dialettica non si dà per tutte le differenze a riguardo di qualsiasi genere, e su questo punto si può convenire che anche la teoria dell’ultimo Platone sulla mi/xij tw/n eivdw/n e sulla koinwni,a tw/n genw/n segna un progresso reale rispetto alla prima forma della dialettica. Nel Tomismo l’ascensione di cui si parla avviene, è importante il notarlo, quando la «natura generis», in sè considerata, esprime qualcosa di più perfetto che la «natura differentiae», e la differenza, come tale, non fa che coartare la perfezione intensiva indicata dal genere. «Dicendum quod cum natura speciei consistat ex natura generis et natura differentiae, ex utraque dignitas speciei posset pensari, et secundum has duas considerationes inveniuntur aliqua se invicem in dignitate excellere quandoque. Et quantum pertinet ad rationem speciei, semper illud participat perfectius speciei rationem in quo differentia formaliter speciem constituens perfectius invenitur; sed simpliciter loquendo quandoque est nobilius in quo natura generis est perfectior, quandoque vero id in quo est perfectius natura differentiae. Cum enim natura differentiae addit
aliquam perfectionem supra generis naturam, praeeminentia quae est ex parte differentiae facit aliquid esse simpliciter nobilius, sicut etiam in specie hominis qui est animal rationale, simpliciter est dignior ille qui est potior in rationalitate, quam qui est potior in his quae ad rationem animalis pertinent, utpote sensus et motus et alia huiusmodi. Quando vero differentia aliquam imperfectionem importat tunc id in quo est perfectius natura generis, est simpliciter nobilius» (De Veritate, q. XII, a. 12). Si comprende che questa dialettica si dà meglio entro le specie di un genere, più che entro gli individui di una specie, poichè le| specie essendo intrinsecamente ordinate secondo gradi diversi di perfezione, esigono che fra esse vi siano un minimo, un massimo e degli intermedi. Il massimo, che può essere anche la prima specie, è principio di ordine e di misura per tutte le altre: S. Tommaso si richiama anche in questa parte cruciale della sua nozione di partecipazione, da principî aristotelici: «In quolibet genere est unum primum, quod est mensura omnium quae sunt in illo genere, in quo perfectissime natura generis invenitur, sicut natura coloris in albedine, quae pro tanto mensura omnium colorum dicitur, quia de unoquoque colorum cognoscitur quantum participat de natura generis ex propinquitate ad albedinem, vel ex remotione ab ipsa ut dicitur X Metaph. Et per hunc modum ipse Deus est mensura omnium entium, ut ex verbis Commentatoris ibidem haberi potest» (De Veritate, q. XXIII, a. 7)12. Il problema della partecipazione nell’Aristotelismo tomista, guardato nel suo porsi, ha un’origine simile a quella che ha nel Platonismo, quella cioè di assicurare la piena oggettività del pensiero,| determinando i rapporti fra astratto e concreto. Nello sviluppo del problema i due sistemi si muovono in direzioni opposte, per il concetto radicalmente diverso che hanno della realtà sensibile. La soluzione platonica tende a magnificare l’astratto, che è realtà piena e per sè, e il concreto ombra e similitudine dell’astratto, soluzione che sembra piana, ma che a Platone stesso ha posto delle insormontabili difficoltà. La soluzione aristotelica magnifica il concreto, valorizzando la natura e la conoscenza sensitiva, e in ciò lo Stagirita rimette in onore buona parte del programma di Democrito (Ia, q. 75, a. 2), con il quale del resto la sua personalità di indagatore della natura aveva molta affinità intellettuale. Ma anche per Aristotele la scienza è dell’astratto e dell’universale, e non del concreto. L’astratto però su cui si fonda la nostra scienza è un astratto mentale, non reale. E poichè è un astratto mentale, riferisce solo la «forma» dell’oggetto in generale; non può informare del modo reale di essere del medesimo, perchè l’essere è del singolare, che per noi è oggetto di esperienza e non di scienza. L’astrazione propria della scienza formale, lascia quindi sussistere sempre un «residuo» che bisogna pur risolvere se si vuol dar fondo all’intelligibilità13. Questo residuo è l’atto di essere reale, alla considerazione del quale, attende la «filosofia prima», la quale mostra come la ragion d’essere, che corrisponde all’atto di essere, è anch’essa un «astratto», ma non come gli altri astratti; è un «astratto intensivo» che non può esser compreso nel suo contenuto se non è visto in relazione al concreto in cui si realizza, dal quale quindi non può mai astrarre del tutto. Di qui la soddisfazione dell’intelletto nell’aver raggiunto il fondamento dell’intelligibilità; ma assieme a ciò spunta una nuova esigenza, quella di fondare lo stesso «essere», come tale: a risolvere questo problema, che è il problema metafisico fondamentale, è invocata nell’Aristotelismo tomista la nozione (platonica) di partecipazione. Ma non si prenda abbaglio: questo colpo di scena non significa una riabilitazione che i seguaci dello Stagirita abbiano voluto fare alla sua critica delle Idee: il platonismo, nell’aspetto che è stato criticato da Aristotele, anche per S. Tommaso è stato sepolto per sempre. Bisogna riconoscere che è sempre nello spirito della speculazione aristotelica che S. Tommaso sviluppa la sua nozione di partecipazione.|
SEZIONE SECONDA
LA PARTECIPAZIONE PREDICAMENTALE
Per «partecipazione predicamentale» intendo quella nella quale ambedue i termini della relazione, partecipato e partecipante, restano nel campo dell’ente e della sostanza finita (predicamenti). Di essa nel Commento al De Hebdomadibus sono ricordati due modi: uno formale-nozionale ed uno reale; e ciascuno di questi due modi è stato presentato sotto due forme: A = la specie partecipa al genere e l’individuo alla specie; B = la Materia partecipa alla Forma ed il soggetto (la sostanza) partecipa all’accidente. Si dovrebbe quindi trattare di quattro forme di partecipazione. Ma ciò porterebbe troppo per le lunghe e forse falserebbe la visuale unitaria che il problema richiede. Il problema quindi sarà esposto nella sua integrità, passando, come meglio si potrà, da un modo all’altro, e facendo emergere all’occasione che sembrerà più opportuna, ciascuna delle quattro forme indicate. LA PARTECIPAZIONE COME CONVENIENZA NELLA DEFINIZIONE (Partecipazione logica) § 1. – Potrà sembrare molto sorprendente, ma sta il fatto che il primo significato proposto da S. Tommaso del termine «partecipare», riguarda proprio quel campo, dal quale sarebbe sembrato più alieno, quello dei rapporti logici dell’ordine predicamentale. «Est autem participare quasi partem capere» ed il significato è preso in tutta la sua ampiezza; «et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud, sicut homo dicitur participare animal, quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem; et eadem ra|tione Socrates participat hominem» (In Boëth. De Hebdomadibus, lect. II). L’homo, evidentemente, è la «ratio hominis» in quanto è meno universale della «ratio animalis»: i due termini di una predicazione devono trovarsi su di uno stesso piano affinchè il loro rapporto possa esser affermato (o negato) nella copula del giudizio. Quella formula equivale quindi all’altra più esplicita della partecipazione univoca: «Omne quod de pluribus praedicatur univoce secundum participationem cuilibet eorum convenit de quo praedicatur, nam species participare dicitur genus, et individuum speciem» (C. G., I, c. 32 Amplius 2). S. Tommaso in questa parte della sua dottrina non dà alcun riferimento storico all’infuori della frase porfiriana: Participatione omnes homines sunt unus homo1; non si creda però che nell’uso di questa terminologia l’Angelico sia originale, poichè essa si trova tutta, tale e quale, in Aristotele, per quanto quest’affermazione possa stupire. Il Filosofo, prima di Porfirio ha toccato in modo sistematico questo punto, trattando degli elementi della definizione e dei rapporti che questi hanno fra di loro e con la realtà oggettiva: i rapporti che hanno fra di loro sono esposti nei Topici, e quelli con le realtà nella Metafisica: la posizione di Aristotele è veramente sconcertante, poichè nel secondo luogo nega recisamente quanto aveva affermato nel primo. Nei Topici la partecipazione è presentata come la relazione fondamentale, secondo la quale si collegano o si oppongono i tre predicabili, che concorrono alla formazione della definizione: Genere e differenza come parti, Specie come tutto risultante. Siccome l’esse nel campo logico è dato dall’intelligibilità, e l’intelligibilità è espressa nella definizione, «partecipare» nel campo logico è ricevere in sè la «definizione» che è propria del partecipato: «o[roj de. tou/ mete,cein to. evpide,cesqai to.n tou/ metecome,nou lo,gon»2. Ci si chiede allora se il genere debba, o possa in qualche modo, partecipare di ciò di cui è detto genere: «Pa,lin eiv
avna,gkh h' evnde,cetai tou/ teqe,ntoj evn tw|/ ge,nei mete,cein ge,noj» (121 a, 10-11). La risposta è negativa, perchè sono le specie che ricevono la definizione del genere e quindi sono dette partecipare il genere, non il genere che riceve la definizione della specie: «Dh/lon ou=n o[ti ta. me.n ei;dh mete,cei tw/n genw/n( ta. de. ge,nh tw/n eivdw/n ou;\ to. me.n ga.r ei=doj evpide,cetai to.n tou/ ge,nouj lo,gon( to. de. ge,noj to.n tou/ ei;douj ou;» (121 a, 1214).| È contro la definizione di genere di non ricevere la sua ragione dalla specie, come è assurdo in generale pensare che si possa predicare qualcosa delle nozioni generalissime di ens e unum, poichè sono esse che sono predicate di tutti gli esseri, così il genere di tutte le specie (121 a, 14-19). Alcune righe più sotto vien posto il problema, se ciò che si trova nel genere possa partecipare a qualcuna delle specie del genere: «Pa,lin ga.r mhdeno.j tw/n eivdw/n evnde,cetai mete,cein to. teqe.n evn tw|/ ge,nei» (121 a, 26-27). La risposta è affermativa; non si può partecipare al genere senza partecipare ad una sua specie, a meno che non si tratti delle prime specie nelle quali il genere si divide, poichè queste partecipano soltanto al genere; gli individui vengono così a partecipare sia alla propria specie (direttamente), come al genere comune (indirettamente): «VAdu,naton ga.r tou/ ge,nouj mete,cein mhdeno.j tw/n eivdw/n mete,con( a;n mh, tij tw/n kata. th.n diai,resin eivdw/n h-|\ tau/ta de. ge,nouj mo,non mete,cei))) kai. ga.r ta. a;toma mete,cei tou/ ge,nouj kai. tou/ ei;douj( oi-on o` ti.j a;nqrwpoj kai. avnqrw/pou mete,cei kai. zw|,ou» (121 a, 27-30 et 37-39). Adunque il genere non è suscettibile di alcuna partecipazione; la specie partecipa soltanto al genere; e l’individuo ha una doppia partecipazione all’uno e all’altra. Nel cap. 2 si pone il problema della relazione fra la differenza e il genere, e si risponde in modo negativo, perchè tutto ciò che è partecipe del genere o è specie oppure individuo, ma la differenza non è tale: «Ouv dokei/ de. mete,cein h` diafora. tou/ ge,nouj\ pa/n ga.r to. mete,con tou/ ge,nouj h|' ei=doj h|' a;tomo,n evstin\ h` de. diafora. ou;te ei=doj ou;te a;tomo,n evstin\ dh/lon ou=n o[ti ou' mete,cei tou/ ge,nouj h` diafora,» (Topic., D, 2, 122 b, 20-24). Nel Libro Z, c. 6 si dà espressa ragione perchè non si possa predicare del genere, nè la specie, nè la differenza, in quanto il genere ha maggiore ampiezza nozionale di queste, e quindi sotto l’aspetto formale non si può identificare con esse, benchè si identifichi realmente con quelle cose che hanno la differenza; il passo è importante perchè riflette l’essenza stessa dell’Aristotelismo in questo campo, e perchè (forse) serve di chiave per comprendere il diverso modo di parlare che il Filosofo usa nella Metafisica: «:Eti eiv kathgorei/tai tou/ ge,nouj h` diafora. h' to. ei=doj h' tw/n ka,twqe,n ti tou/ ei;douj( ou,k a'n ei;h w`risme,noj\ ouvde.n ga.r tw/n eivrhme,nwn evnde,cetai tou/ ge,nouj kathgorei/sqai( evpeidh. to. ge,noj evpi. plei/ston pa,ntwn le,getai\ pa,lin eiv kathgorei/tai to. ge,noj th/j diafora,j( ouv ga.r kata. th/j diafora,jà avlla. kaqV w-n h` diafora.( to. ge,noj dokei/ kathgorei/sqai» (Topic., Z, 6, 144 a, 28-33). Il senso immediato di questi testi in sè è molto piano. Nel pen|siero logico il «partecipare» può esser detto una dipendenza nell’ordine concettuale delle «secundae intentiones» dell’astrazione totale. Questa dipendenza esige che il meno universale e il particolare sia compreso entro il più universale, il determinato entro l’indeterminato e non viceversa; ora nell’astrazione totale, il carattere di totalità e la ragione dell’eccedenza del superiore sull’inferiore è dato dal grado di estensione della formalità che si predica. Più, quindi, la formalità è espressa in modo indeterminato, e maggiore sarà la sua estensione, ed il suo diritto di fungere da Predicato, mentre in proporzione diminuirà l’esigenza di essere Soggetto. Il problema della relazione fra i predicabili è ripreso nella Metafisica, ma con altre preoccupazioni, non più in relazione alle «secundae intentiones», ma al modo di essere delle cose in sè. Nel I libro sulla Sostanza (Metaph., Z) Aristotele vuol mostrare come l’essere reale in tanto è tale, in quanto è uno; la sostanza quindi è tutto ciò che è, tutta unita e indivisibile nel suo contenuto ontologico; per conseguenza anche la definizione che esprime questa realtà sostanziale, benchè consti di elementi, ha un’unità di significato. Nel cap. 12 il problema è posto in tutta la sua chiarezza, e vi si fa il confronto fra le predicazioni homo (est) albus, e animal bipes; poichè la prima predicazione è accidentale, homo et albus esprimono due realtà distinte, ma animal bipes indicano la sostanza, quindi esprimono un’unica formalità. Viene ripetuta l’asserzione dei Topici che il genere non può essere detto partecipare alle differenze e vi dà come ragione, che dovrebbe partecipare insieme a formalità contrarie, perchè le differenze dividono il genere in modo contrario (Metaph., I, 12, 1377 b, 14-21); nel libro XI, sempre trattando dell’unità della sostanza viene aggiunta la precisazione contraria che la differenza non può esser detta partecipare il genere (Metaph., K, 1, 1059 b, 33). Per riassumere ancora: tanto homo albus, come genere e differenza esprimono un’unità, ma si tratta di unità di natura affatto diversa: genere e differenza non possono formare una unità come homo albus; homo albus è un’unità kata. me,qexin, la quale in sè è irreversibile: può esistere cioè fra A e B e fra A e non B (A =
partecipato, B e non B = partecipanti) ma non fra ambedue insieme. Ma la relazione fra il genere A e la differenza B è insieme a B e a non B. Se quella è un’unità kata. me,qexin, l’unità di genere e differenza non è k) m) ma per identità assoluta, altrimenti perirebbe la sostanzialità dell’essere. I critici disputano se Aristotele nella metafisica sia giunto a identificare i modi di predicare kata. metoch,n, k. pa,qoj, kata, sumbe|bhko,j (cfr. Metaph., 4, 1030 a, 14). Il BONITZ pensa che il Filosofo faccia fra di essi qualche distinzione, ma il ROSS, fondandosi su tutto il contenuto del l. Z, ove si ha di mira la confutazione della partecipazione platonica, pensa che «... No important distinction seems to be intended here between kata. metoch,n, k. pa,qoj, and k. sumbebhko,j» (Comm, I, 171). Se si volessero riportare i testi, si potrebbe vedere che la terminologia fra i Topici e la Metafisica resta identica solo esternamente: il mete,cein nei Topici entrava a definire i rapporti fra gli elementi della definizione dell’essenza, nella Metafisica invece il termine viene bandito perchè, rievocando il contesto platonico, verrebbe a pregiudicare l’unità dell’essere; e viene riservato, sembra, unicamente alle predicazioni accidentali3. Resta ora a vedere se l’identità di terminologia, in questa parte fra Aristotele e S. Tommaso copra un’identità di dottrina. Se badiamo al significato immediato dei testi, non v’è dubbio alcuno che l’Angelico segue in ogni punto Aristotele; l’opposizione fra Genere e Differenza nel pensiero logico non può essere reale, se non quando ambedue abbiano una esistenza propria: «Hoc verum est secundum sententiam Platonis, qui posuit aliam esse ideam animalis et bipedis hominis. Sed secundum sententiam Aristotelis, qui posuit quod homo vere est id quod est animal, quasi essentia animalis non existente praeter essentiam hominis, nihil prohibet id quod per participationem dicitur substantialiter praedicari» (In Boëth. De Hebdomadibus, lect. 3a, ed. cit., pagine 400401). Veramente Aristotele non ha mai chiaramente, e in uno stesso contesto, presentato insieme i due rapporti; è S. Tommaso che per conto suo lo fa: qui sembra che contrariamente all’Aristotele della Metafisica, S. Tommaso asserisca che qualcosa possa ad un tempo, esser predicato per partecipazione e sostanzialmente. Il divario però, se c’è, fra i due pensatori non sembra essere precisamente su questo punto; ma la posizione tomista intorno alla partecipazione predicamentale sembra essere un riflesso di quella assai più chiara ed evidente che vige nell’ordine trascendentale, al quale Aristotele non l’ha mai estesa.| Per questo si comprende bene perchè S. Tommaso non abbia voluto ripetere la definizione logica di partecipazione, data dai Topici, e abbia invece scelto una definizione che si prestava immediatamente all’elaborazione metafisica, anzi è già metafisica, quando enunzia gli stessi rapporti logici. Difatti, mentre il testo del Comm. in Hebd. resta vago: «homo dicitur participare animal quia non habet rationem animalis secundum totam communitatem»: la «communitas» può essere sia di ordine intensivo (di perfezione) sia estensivo (di predicazione), nel testo del 1º C. G. la partecipazione è spiegata senz’altro nell’ordine intensivo: «Omne quod de pluribus praedicatur univoce secundum participationem, cuilibet eorum convenit de quo praedicatur, nam species participare dicitur genus et individuum speciem. De Deo autem nihil dicitur per participationem, nam omne quod participatur DETERMINATUR ad modum participantis, et sic PARTIALITER habetur, et non secundum omnem perfectionis modum» (C. G., I, c. 32, Amplius 2). Dal testo si ricava che anche la ragione univoca può avere una certa intensità ontologica, che permetta una partecipazione reale. Dobbiamo ora vedere come S. Tommaso arrivi a fondare il suo significato di partecipazione predicamentale. PARTECIPAZIONE PREDICAMENTALE E COMPOSIZIONE § 2. – Il punto di partenza della posizione tomistica su questa delicata questione, bisogna ricordarlo, resta al tutto prettamente aristotelico, tanto nell’aspetto fisico della cosiddetta «immanenza» della formalità specifica e generica nell’inferiore come nella identificazione in concreto degli aspetti formali e trascendentali. Le parti quindi della definizione non stanno ad indicare delle essenze, dalla cui unione consti il reale definito, ma il genere e tutte le differenze intermedie, p. e. dalla corporeità fino alla razionalità che è l’ultima, esprimono in concreto l’unica sostanza determinata dall’ultima differenza: «Unde patet quod multae partes definitionis non significant multas partes essentiae ex quibus essentia constituatur sicut ex diversis; sed omnes significant unum quod determinatur ultima differentia. Patet etiam ex hoc, quod cuiuslibet speciei est una tantum forma substantialis; sicut leonis una est forma per quam est substantia et corpus, et animatum
corpus et animal, et leo. Si enim essent plures formae secundum omnia praedicta, non possent omnes| una differentia comprehendi, nec ex eis unum constitueretur» (In VII Metaph., lect. 12, n. 1564). Sotto questo aspetto S. Tommaso non si avvicinerà neppure un istante alle insinuazioni platoniche, ma avrà delle frasi così forti che sembrano antitetiche a quelle sopra citate del C. G., I, c. 32: «Ea de quibus genus praedicatur secundum participationem», dice il Santo, «non possunt definiri per illud genus, nisi sit de essentia illius definiti. Sicut ferrum ignitum, de quo ignis per participationem praedicatur, non definitur per ignem sicut per genus; quia ferrum non est per essentiam suam ignis, sed participat aliquid eius. Genus autem non praedicatur de speciebus per participationem, sed per essentiam. Homo enim est animal essentialiter, non solum aliquid animalis participans. Homo enim est quod verum est animal» (In VII Metaph., lect. 3, n. 1328)4. Evidentemente S. Tommaso con un testo non ha mai inteso di distruggere la portata dell’altro: occorre quindi intenderli bene; ciò non potrà essere se non in quanto la negazione e l’affermazione della partecipazione predicamentale portano su due aspetti diversi dello stesso soggetto. Questi due aspetti diversi non sono che la conseguenza delle due astrazioni, secondo le quali il nostro intelletto fa le sue risoluzioni intelligibili; con quella totale all’esse formale, con quella metafisica intensiva all’actus essendi. Genere e differenza adunque sono irriducibili sotto l’aspetto logico formale, e si identificano in realtà: come uscire da questo ginepraio? Si badi: genere e differenza sono due formalità astratte da una medesima realtà; per questa astrazione il pensiero può seguire due direzioni, una verso il carattere più indeterminato della realtà considerata, e un’altra verso il carattere proprio; la prima arriva alla formalità generica, nella quale scompare di vista il punto di partenza; nella seconda si giunge invece alla formalità differenziale, costitutiva della realtà, e determinativa del genere. Si noti ancora che le due formalità se sono irriducibili non sono nè contrarie, nè disparate, ma una è intrinsecamente ordinata all’altra. Abbiamo così che la realtà da cui si astrae è anzitutto una nella sua costituzione: ma quest’unità non può essere di semplicità perchè il pensiero può cogliere in essa una formalità, la differenza specifica, che la esprime in modo determinato. Poichè io sono persuaso che questo processo riflette una necessità oggettiva, e non dipende dal mio arbitrio, bisogna ammettere che «a parte rei» ci sia un fondamento di questo processo contrario della mente; ciò vuol dire che la realtà stessa| deve risultare di due elementi che nell’astrazione fondano quelle due abitudini così diverse della mente: se così non fosse, genere e differenza si differenzierebbero come Tullius e Cicero. Adunque le parti della definizione non sono le parti reali della sostanza, perchè sono concetti e non elementi, ma indicano le parti reali della cosa e ad essa corrispondono: il genere, come ragione indeterminata, indica il principio indeterminato che possiamo senz’altro chiamare la Materia, e la differenza indica il principio di attualità, cioè la Forma, che fa l’essere tale e non altro. Abbiamo toccato l’aspetto più profondo del realismo tomista, che bisogna tener presente agli inizi stessi della metafisica; la realtà talmente domina il pensiero che lo obbliga a prendere in sè non solo il suo aspetto formale, ma ad imitare e corrispondere nella struttura astratta a quanto essa in sè possiede come realtà concreta. Aristotele aveva detto che, poichè ogni definizione è una orazione ed ogni orazione consta di parti, c’è uguale proporzione fra l’orazione e la cosa e la parte dell’orazione e la parte della cosa: «VEpei. de. o`rismo.j lo,goj evsti,( pa/j de. lo,goj me,rh e;cei( w`j de. o` lo,goj pro.j to pra/gma kai. to. me,roj tou/ lo,gou pro.j to. me,roj tou/ pra,gmatoj o`moi,wj e;cei»5. S. Tommaso trova quest’espressione poco chiara: la definizione infatti si identifica con la cosa significata, e sembrerebbe allora, secondo il testo di Aristotele, che le parti della definizione si identificassero, cioè corrispondessero immediatamente alle parti della cosa; ma ciò è falso, perchè mentre le parti della definizione sono predicate del definito come di uomo, animale; nessuna parte integrale può esser predicata del tutto di cui è parte: la corrispondenza non può essere dunque immediata e diretta. Onde San Tommaso sente il bisogno di precisare, che la corrispondenza è soltanto indiretta: «Sed dicendum est, quod partes definitionis significant partes rei, in quantum a partibus rei sumuntur partes definitionis: non ita quod partes definitionis sint partes rei. Non enim animal est pars hominis, neque rationale; sed animal sumitur ab una parte, et rationale ab alia. Animal enim est quod habet naturam sensitivam, rationale vero quod habet rationem. Natura autem sensitiva est ut materialis respectu rationis. Et inde est quod genus sumitur a materia, differentia a forma, species autem a materia et forma simul» (In VII Metaph., lect. 9, n. 1463). Questa dottrina è densa di implicazioni metafisiche, ed è l’espressione più esatta del Tomismo, come realismo moderato, che avrà la sua ri|percussione immediata nella tesi fondamentale dell’unità della forma sostanziale contro gli Augustinisti avicebronizzanti che davano al genere un’immediata rispondenza in natura, la materia universalis realis, e quindi ad ogni grado formale una nuova materia ed una nuova forma. S. T. ha preso nettamente posizione fin dagli inizi della sua carriera magistrale; nel De Ente ha un riferimento per il Commentator; «Unde dicit Commentator super VII Metaph.: Socrates nihil aliud est quam
animalitas et rationalitas, quae sunt quidditas eius»6. Nel Comm. alla Metafisica la proporzione Genere : Differenza = Materia : Forma è attribuita a Porfirio: «Non enim intelligendum est quod differentia sit forma, aut genus sit materia, cum genus et differentia praedicentur de specie, et materia et forma non praedicentur de composito, sed hoc dicuntur quia genus sumitur ab eo quod est materiale, differentia vero ab eo quod est formale. Sicut genus hominis est animal quia significat aliquid habens naturam sensitivam, quae quidem materialiter se habet ad naturam hominis. Rationale vero significat aliquid habens naturam intellectivam, ex qua sumitur rationale, quae est differentia hominis. Rationale vero significat aliquid habens naturam intel|lectivam. Et inde est (analogia fra l’ordine logico e l’ordine reale) quod genus habet differentias potestate, et quod genus et differentia proportionantur materiae et formae, ut Porphyrius dicit» (In VIII Metaph., lect. 2, n. 1697). Diversa adunque è la natura della composizione concettuale della definizione da quella reale che essa indica in natura: in ambedue le composizioni l’elemento indeterminato contiene in potenza le ulteriori determinazioni; ma la determinazione nei due casi avviene in modo diverso: «Si ergo considerentur in genere et differentia id a quo utrumque sumitur, hoc modo se habet genus ad differentias, sicut Materia ad Formas. Si autem considerentur secundum quod nominant totum sic aliter se habent. Hoc tamen commune est utrobique quod sicut ipsa essentia materiae dividitur per formas, ita ipsa natura generis dividitur per differentias. Sed hoc utrobique distat, quia materia est in utroque divisorum, non tamen est utrumque eorum; genus autem utrumque eorum est: quia Materia nominat partem, genus autem totum» (In X Metaph., lect. 10, n. 2116). «Aliter diversificatur materia per formas et aliter genus per differentias. Forma enim non est hoc ipsum quod est materia, sed facit compositionem cum ea. Unde materia non est ipsum compositum sed aliquid eius. Differentia vero additur generi non quasi pars parti sed quasi totum toti» (In X Metaph., ib., n. 2114)7.| Il risultato di questi ragionamenti è pertanto il seguente: Per S. Tommaso la partecipazione logica di specie a genere (e individuo a specie), non è un puro «sumere definitionem», ma è un esprimere in modo particolare una formalità universale. Quindi la definizione, se vuol essere adeguata, deve avere delle parti: il genere e la differenza: ma la composizione logica in tanto ha valore oggettivo, in quanto riflette una composizione reale. La partecipazione logica, attraverso la composizione nozionale, deve infine far capo, nel caso, ad una composizione reale, dalla quale riceve la sua giustificazione metafisica8. Dobbiamo ora approfondire il significato di questo fondamento metafisico: la partecipazione formale-nozionale suppone che in natura l’esse della formalità sia smembrato, o meglio «membrato», sia cioè costituito di un atto partecipato (la Forma) e di un soggetto partecipante (la Materia). Qual è il significato metafisico della Materia? È tutto qui che viene ora a convergere il problema della partecipazione: siccome il nostro pensiero si sviluppa «post factum» e «propter factum» possiamo assalire il problema solo indirettamente, a lato e non di fronte. LA PARTECIPAZIONE E LA MOLTEPLICITÀ REALE § 3. – La predicazione per partecipazione si oppone ad un tempo sia alla predicazione per identità dei sinonimi, come alla predicazione per diversità assoluta, come negli equivoci disparati: in quanto si oppone agli equivoci suppone un’identità, in quanto si oppone ai sinonimi suppone una diversità. Questi due aspetti, identità e diversità, nella predicazione per partecipazione, convi|vono insieme: senza suscitare problemi che ancora non sono maturi, possiamo dire che l’identità riguarda l’aspetto formale, la diversità l’aspetto reale della predicazione: identica è l’umanità partecipata, cioè presente, in tutti gli uomini, ma sotto l’aspetto reale essa, secondo la concezione aristotelica del concreto, si trova moltiplicata in ogni individuo. Così la molteplicità reale dei partecipanti appare come il termine a quo dell’astrazione che porta alla ragione universale, e deve fungere quindi da fondamento reale per l’oggettivazione, sia della ragione in sè, sia anche della predicazione della ragione «per partecipazione» fatta a riguardo degli inferiori. Ma, se la molteplicità dei partecipanti può esser considerata in un primo tempo come un fatto, in un secondo tempo, soprattutto nell’Aristotelismo tomista diventa un problema. Mentre nel movimento del pensiero dal basso in alto l’intelletto ha raggiunto la Forma, che spiega l’unità (formale) del molteplice, nel movimento riflesso dall’alto in basso, bisogna render conto della molteplicità che caratterizza l’essere reale della formalità. Nel pensiero logico i gradi di valore sono presi secondo l’eccedenza di estensione, onde il genere va considerato come una totalità rispetto alla specie, e similmente la specie rispetto agli individui: ma nell’Aristotelismo genere e specie non sono totalità che «secundum intentionem», non reali a sè. Nella realtà le ragioni universali si trovano attuate soltanto in modo singolare: per questo l’astratto, come tale non può esistere, e non è compreso esistere se non in quanto è concreto, in quanto ciò viene unito ad un principio o ad
un soggetto, che sia di per sè radice di concretezza. Da ciò deriva che l’universale, che nel pensiero formale era tutto, nel pensiero «reale» va compreso soltanto come una parte. L’umanità certamente è la ragione per la quale e Pietro e Paolo sono detti «uomini», ma l’umanità non dice tutto quanto è costituito in Pietro e Paolo, altrimenti P. e P. in nulla differirebbero e s’identificherebbero. Similmente l’animalità abbraccia e l’umanità e l’asinità: ma l’animalità, come tale, non dice tutto quanto costituisce l’umanità e l’asinità, altrimenti l’umanità e l’asinità sarebbero la stessa formalità. Ma l’animalità qui va considerata esprimere solo una «parte»; l’asino e l’uomo vanno concepiti come rispettivamente composti, in concreto, e dell’animalità e di ciò che distingue l’asinità dall’umanità: «Universale magis commune comparatur ad minus commune ut totum et ut pars; ut totum quidem secundum quod in magis universali, non solum continetur in potentia minus universale sed etiam alia, ut sub animali non solum homo, sed etiam equus; ut pars autem secundum quod minus commune continet| in sui ratione non solum magis commune sed etiam alia; ut homo non solum animal sed etiam rationale» (Ia, q. 85, a. 3 ad 2um; cfr. De Ente et essentia, c. 2 ed. cit. ove si dà l’indicazione immediata al principio di molteplicità, di cui diremo fra poco). Qui sorge allora il problema della possibilità metafisica della molteplicità reale delle specie di un genere e degli individui di una specie; il problema è stato già virtualmente risolto, poco fa, quando si è mostrata la corrispondenza proporzionale fra Genere e Materia e Differenza e Forma: ma qual è la ragione metafisica di questa corrispondenza? Ci si chiede: a) Com’è possibile che la ragione generica si venga attuando in una molteplicità di specie? b) Com’è possibile che la ragione specifica si attui in una molteplicità di individui? Anzitutto si può osservare che i problemi che versano sulla possibilità reale del molteplice, entro un’unità formale, non possono da noi esser supposti a priori, come esercizi di speculazione, ma l’intelligenza li deve porre e risolvere solo in quanto è stimolata o sostenuta dall’esistenza reale del molteplice, conosciuta o per esperienza oppure per fede. Diciamo senz’altro, contro Parmenide, che il molteplice esiste: si dànno di fatto più specie entro un genere, e più individui sotto una specie: fatto sperimentale e fatto filosofico. Per quanto riguarda la questione di diritto, si può osservare in generale che l’unità della specie e del genere è un’unità derivata, in quanto che noi raduniamo gli aspetti comuni degli elementi del molteplice, lasciamo nell’ombra gli aspetti diversificanti, onde questo artifizio mentale lascia intatta l’autonomia del singolare. Ma la risposta non è che verbale, e lascia intatto il problema metafisico, quale è stato posto. Una ragione formale, come tale, è per sè immediatamente intelligibile; è in sè, quindi una, e non mostra alcuna esigenza di trovarsi comunicata e moltiplicata. Se di fatto si trova a essere moltiplicata, ciò non può essere se non in quanto la si pensi «comunicata» a più «soggetti» distinti. Ora ciò che fonda la pluralità dei soggetti, come soggetti, dev’essere intrinsecamente «indeterminato»: non può essere quindi che la capacità reale della formalità di cui si parla. Adunque in tanto la ragione formale, generica o specifica (il caso è identico sotto questo aspetto), si moltiplica nei particolari, in quanto è congiunta nel suo modo di essere reale ad una capacità di ordine reale-concreto. Come va concepita questa potenzialità o capacità? Contro il Realismo esagerato bisogna negare che sia il genere per la specie, e tanto meno la specie per gli individui, perchè genere e specie sono «principia cogno|scendi», e non «principia essendi». Ora si tratta di mostrare appunto un principio «essendi», che sia ragione di quel fatto tanto ovvio della molteplicità predicamentale, che al pensiero puro sembra essere del tutto irrazionale. È tale principio che nell’Aristotelismo è detto Potenza reale, la Materia, principio intravveduto da Platone nel Sofista ove è detto mh. o;n, ma ove è ben lungi dall’assurgere a principio di concretezza sostanziale, quale appare in Aristotele. La esistenza di una potenza reale è la condizione metafisica fondamentale della moltiplicazione, e quindi della partecipazione stessa, quando si ammetta il valore reale e non puramente empirico della molteplicità9. In tanto allora è possibile che la formalità generica si trovi espansa in una molteplicità di «specie», in quanto si dà un «sostrato» indeterminato, che è veramente determinabile da atti particolari, che sono trovati rientrare entro l’ampiezza formale della formalità generica. Similmente, in tanto è possibile una molteplicità di individui nella stessa specie, in quanto la formalità specifica viene ricevuta in soggetti realmente distinti. Ora l’essere indeterminato e l’essere soggetto è proprio della materia. Ma altra è la materia del genere, altra la materia della specie: chiamiamo per ora «materia communis» quella che rende possibile la molteplicità delle specie in un genere, e «materia determinata» quella che rende possibile la molteplicità degli individui in una specie: «Sicut compositum ex materia et forma determinata est species, ita compositum ex materia et forma communi est genus» (In VII Metaph., lect. 12, n. 1546; cfr. ib., lect. 9, n. 1473 ove è detta m. communis anche quella della specie). Si ha quindi «una materia communis» che è la parte, o meglio, l’aspetto potenziale del genere: la «materia determinata o corporeitas» che è principio della specie, e infine la materia «individuata» che è il principio
dell’individuo «evn avto,mw|»10. Si badi bene però che si tratta soltanto di una determinazione metafisica, non di una enumerazione fisica, quasi esistessero in natura tre materie distinte; in realtà esiste soltanto la materia individuata, e la materia «communis» del genere e della specie (sensibile) non indica un’altra| materia diversa da questa, ma connota questa in universale, come radice della molteplicità. Siccome adunque si tratta di una «communitas secundum rationem», non reale, si avrà che ogni specie, se è sussistente per la sua attualità, avrà una propria potenza, ed ogni singolare consterà non solo di Forma ma anche di Materia propria. Per questo nell’Aristotelismo tomista, per una via inaspettata ed ignota ai suoi facili critici, viene salvata tutta l’originalità del concreto di fronte all’astratto, della specie di fronte al genere e dell’individuo di fronte alla specie. Diversa infatti, sotto l’aspetto reale, è l’animalità dell’asino e quella dell’uomo, e diversa è pure l’umanità in Socrate e Callia, perchè diverso è il modo di attuarsi e di essere delle formalità generiche nella specie e di quella specifica negli individui. Abbiamo così raggiunto un risultato di primario interesse: l’astratto, quale da noi è conosciuto, è trovato moltiplicato e diffuso nei concreti, in ciascuno dei quali ha un proprio modo di essere: ed è a questo punto che viene ad inserirsi ed a giustificarsi la nozione di partecipazione predicamentale, non quale è stata esposta sotto l’aspetto logico da Aristotele nei Topici, ma quale l’ha intesa S. Tommaso nel C. G., I, c. 32, Amplius 2. Prima però di passare alla considerazione di quest’ultimo aspetto della partecipazione predicamentale, si potrebbe osservare come dalle considerazioni elementari sopra esposte intorno alla partecipazione «univoca», l’ilemorfismo aristotelico viene munito di un solido fondamento metafisico. Aristotele ha trovato la composizione nei corpi di materia e forma analizzando le condizioni del divenire naturale nell’ordine sostanziale (Generazioni e Corruzione sostanziale) ed assimilando il divenire naturale a quello dell’opera di arte (:A pollwn), lo ha spiegato con la teoria delle quattro cause, due estrinseche: il fine e l’agente, e due intrinseche: la forma o l’atto e la materia o potenza, soggetto comune ai due termini della mutazione. A non pochi critici questo procedimento, considerato così da solo, è parso una mera analogia, assai impregnata di antropomorfismo, e frutto di un realismo esagerato. «Die Kritik hat mit Recht, osserva il MEYER, den aristotelischen Begriff der ersten Materie und der Form in dieser Fassung abgelehnt. Die Materie ist einmal das Produkt eines unberechtigten Analogieschlusses von der Kunst in die Natur hinein, sodann das Ergebnis eines zu weit gehenden Realismus. Das Festhalten an der Parallelität von Denken und Sein hat Aristoteles veranlasst, den logischen Unterscheidungsteilen reale Bestandteile des Dinges entsprechen zu lassen. Dabei ist die Materie ein unmögliches Mittleres zwischen Sein und Nichtsein, ein qualitätsloses Etwas, das unmöglich Grundlage,| Keimanlage und Vorbedingung sein kann, ohne überhaupt einer Seinskategorie anzugehören»11. Sono persuaso che il Meyer esagera nel presentare il dualismo ilemorfico quale conseguenza di un ingenuo «parallelismo» fra il pensiero e l’essere; poco fa si è mostrato a lungo (almeno per quanto riguarda l’Aristotelismo tomista) che si tratta soltanto di «corrispondenza proporzionale» fra la composizione nozionale e la composizione reale12. Come pure sembra che al Meyer sia sfuggita la nozione aristotelica di materia come o;n duna,mei, cioè come potenza (reale) «in linea substantiae», e che si riduce quindi alla categoria di sostanza, non come quod, ma come quo: il realismo esagerato sembra che stavolta stia tutto da parte della fantasia del Meyer. Ma bisogna riconoscere che la nozione di Materia è il punto critico per l’elaborazione della struttura dell’essere corporeo, come quella, ancor più difficile per una ragione inversa, di un’essenza-potenza, per la nozione metafisica di essere finito, di cui si dirà a proposito delle creature spirituali. Alcuni autori trovano del tutto persuasivo l’argomento delle generazioni sostanziali, e lo credono, come pare abbia pensato Aristotele, l’unico od almeno il principale, nel senso che se ve ne fossero degli altri, come p. e. «ex extensione corporum», «ex multiplicitate individuorum» debbano, infine esser ricondotti a quello13.| La cosa però sembra assai più complessa perchè si tratta sempre di una analogia che può esser un invito alla speculazione non una prova della tesi: che se poi si volesse dire che Aristotele non fa, nel caso, che un’applicazione della teoria generale dell’atto e della potenza, difficilmente sembra si possa sfuggire al circolo vizioso, essendo state cavate anch’esse, le nozioni di atto e potenza dalla risoluzione metafisica del divenire naturale. Certamente il fatto della generazione sostanziale ha un valore primario nella posizione del problema, ma non pare sia assolutamente esclusivo, anche per la ragione che esso resta ancora da essere dimostrato nella sua universalità, soprattutto per quanto riguarda il mondo inorganico, e la fisica moderna cammina piuttosto in un senso contrario. Il fatto invece della molteplicità numerica è universale e incontrastato: onde sembra proprio che la ragione propter quid dalla composizione ilemorfica vada infine ricercata nella nozione di partecipazione secondo l’itinerario che nelle pagine precedenti si è cercato di
mostrare: esso vale tanto per il mondo siderale degli antichi, costituito da corpi incorruttibili, come per la concezione moderna intorno alla struttura della materia. Essa si accontenta di un «minimum» sotto l’aspetto della prima posizione del problema: la molteplicità dei partecipanti e la diversità reale nel modo di essere concreto. PARTECIPAZIONE (PREDICAMENTALE), DIVERSITÀ REALE, E CONTRARIETÀ METAFISICA (sec. magis et minus) § 4. – Il problema della molteplicità, con la posizione della potenza reale e della materia, è rimasto ancora a mezza via poichè con ciò si è indicata soltanto la prima condizione della moltiplicazione, e non la ragione positiva del perchè il genere si espanda in molte specie, e la specie negli individui. Invero le specie in tanto si pongono l’una fuori dell’altra sotto l’aspetto formale in quanto per le differenze vengono ad avere una opposizione, che rompe l’identità che avevano nel genere: è per un’opposizione quindi fra gli aspetti differenziali, che vengono aggiunti al genere, che è possibile una molteplicità di specie. L’opposizione in questione non può essere che di contrarietà, che è l’opposizione propria di quanti hanno in comune uno stesso soggetto, che viene qualificato da ciascuno in modo esclusivo: il genere adunque si trova (moltiplicato) attuato in diverse specie, in quanto la «materia communis» diventa «materia determinata» per il fatto che si trova qui sotto| una forma (o differenza), che è contraria ed esclusiva (cioè escludente) di una forma che si trova là. Non si vada però dietro alla fantasia: la contrarietà che hanno le forme (in quanto sono differenziate) fra di loro, va intesa non solo in senso fisico, ma prima e soprattutto in senso metafisico; si vuol dire che l’opposizione più che essere quella dei due termini del movimento di cui uno è in potenza essenziale e prossima all’altro, è l’opposizione come diversità e come diversità di gradi di perfezione. È quindi soprattutto l’opposizione di «meno» perfetto e di «più» perfetto. Questo punto è essenziale per l’originalità della nozione aristotelico-tomista di partecipazione. La contrarietà si trova anzitutto, cioè «per se primo», nell’azione e passione in quanto sono i principî del moto e della mutazione fisica: il movimento fisico in tutti i suoi generi, proporzionalmente, non è una semplice attuazione di una potenza, che è lì pronta per ricevere e che non fa altro che ricevere un perfezionamento puro di un soggetto, ma comporta in natura come una specie di lotta. L’agente che prende l’iniziativa del movimento e che opera sul soggetto, non trova in esso una potenza pura, ma lo trova attuato da una propria forma, principio del proprio essere, che la forma dà, e che esso conserva ed anche difende, se può passare la metafora, contro gli attacchi disgregativi che venissero dall’esterno. Il paziente adunque, non si lascia senz’altro attuare dall’agente ma reagisce e resiste agli urti, quanto può, e questo per il fatto che la forma del paziente è esclusiva e contraria a quella che l’agente tende ad «edurre» dalla Materia. Nello stesso tempo quindi che l’agente deve, per questa eduzione, assimilare a sè il paziente, facendo sì che questo abbia una forma simile alla sua, deve poter espellere, o meglio riuscire a far cessare (redire in potentiam materiae) la forma propria del paziente. Questa assimilazione, in cui consiste la generazione, non può avvenire senza un certo urto, ma si deve appunto realizzare per la risoluzione di un contrasto «formale». Risoluzione che sotto l’aspetto metafisico non è conciliazione, ma predominio e vittoria del più forte14. Se si trattasse soltanto di una negazione, o di una privazione pura, se cioè il pa|ziente fosse solamente potenza pura in relazione alla nuova forma, vi sarebbe semplice attuazione ed informazione, e non resistenza e lotta di contrarî, e neppure quindi movimento con azione e passione: l’azione e la passione sarebbero ridotte ad un puro «dare» e «ricevere», e il movimento non avrebbe luogo, perchè vi sarebbe un termine soltanto. La «contrarietà» si trova così, e compete «per se primo» all’azione e passione. Ma poichè i principî (prossimi) della azione e passione sono delle qualità dell’agens e del patiens, la contrarietà viene a trovarsi anche in certe qualità, non in quanto sono qualità, ma in quanto sono principî di mutazione, e nella misura in cui sono principio di azione e passione. La contrarietà si trova quindi anzitutto nelle «patibiles qualitates» e poi anche nelle «potentiae», benchè in un modo meno formale; nelle «patibiles qualitates» e nelle «potentiae» la contrarietà è una vera proprietà che ad esse appartiene «per se», (benchè non «per se primo»), perchè queste qualità sono principio di movimento per la loro stessa ordinazione essenziale. Ancora: poichè le qualità accidentali si fondano sulle qualità sostanziali, si troverà quindi un principio (ragione) di contrarietà anche nelle sostanze. Per il fatto che queste sostanze (materiali) vanno soggette a generazione e corruzione, questa loro mutazione sostanziale avviene alla fine di un processo fisico di alterazione qualitativa, che avanza in modo graduale. Per se stessa la sostanza è «impassibile» ed inattaccabile, ed in sè indivisibile onde si oppone ad ogni cangiamento dell’essere: ma siccome nel suo essere è condizionata da un complesso corredo di disposizioni, quando questo venga a perdere il suo
equilibrio la forma non si trova più proporzionata alla sua materia, che invece va disponendosi per un’altra forma. Nella generazione tutto succede come se prima venissero sgretolati i fondamenti più remoti sui quali si è stabilita la proporzione fra i principi sostanziali, e poi quelli più prossimi fino a che la proporzione è resa impossibile. Per la sua stessa natura adunque la generazione della sostanza materiale esige di essere preparata dall’alterazione, che è una lotta fra qualità contrarie. Le sostanze materiali hanno perciò un vero fondamento che permette di classificare le loro differenze specifiche, le loro forme, nel genere «comune» a partire dall’opposizione di contrarietà. Fin qui la «contrarietà» sembra restare puramente fisica, e non suggerisce alcun movimento dialettico per trascendere il molteplice e il diverso; e difatti da un punto di vista formale rigoroso, non si| può ricondurre l’opposizione di contrarietà fisica ad un’opposizione di «più o meno» perfetto nell’ordine dell’essere, come esige la risoluzione dialettica mediante la nozione di partecipazione. Per se stesso, guardato sotto l’aspetto della contrarietà formale, il movimento non implica nè perfezione nè imperfezione (benchè nell’ordine metafisico sia evne,rgeia avtelou/j); è semplicemente una lotta fra contrarî, e i contrarî sono solamente dei dati correlativi che si escludono in concreto l’un l’altro: non risulta perciò che per questo si possano dare dei gradi di perfezione fra di loro. Dal punto di vista «fisico» del movimento, l’azione e la passione vanno considerate sullo stesso piano e l’una non può vantare una priorità sull’altra: e altrettanto si deve dire fra i termini formali, la forma che cessa e la nuova che incomincia. Se queste considerazioni fossero definitive, il pensiero rimarrebbe rinchiuso in un relativismo monotono ed empirico, come quello che S. Tommaso ascrive alle filosofie «naturaliste» che hanno preceduto Platone ed Aristotele (cfr. De Potentia, III, 5), e sarebbe soppresso ogni valore proprio delle stesse ragioni formali. Ma il movimento, in quanto affetta dei soggetti che hanno una propria natura ed un fine, può esser considerato da un punto di vista più vasto e comprensivo ad un tempo: cioè non soltanto nel piano fisico come successione di contrarî, ma nel piano metafisico dell’essere, come successione del «più o meno» perfetto, secondo l’intensità ontologica di perfezione15. Similmente i «contrarî», che sono i principî del movimento, possono esser considerati come delle qualità vere e proprie, esprimenti un determinato grado di perfezione, onde possono essere «ordinate» accanto alle altre qualità e perfezioni dell’essere. Anche per le parti di un composto c’è una «gerarchia» di valore: «In omni composito ex pluribus partibus necesse est ponere quemdam partium ordinem: ut scilicet una pars sit melior et alia vilior. Multa enim ad unum constituendum ordine quodam perveniunt: sicut et ab uno multitudo ordine quodam progreditur. Unde videmus quod in compositione corporis naturalis forma est praestantior materia; et in compositione corporis mixti unum elementum dominatur; et in compositione partium animalis unum membrum est principalius alio, et in partibus alicuius continui una pars magis accedit ad punctum, quod est principium magnitudinis, quam alia» (In l. De Causis, l. 28; P. XXI, 756 b). Così possiamo passare dalla contrarietà «fisica» che è la oppo|sizione di due termini in relazione al movimento alla contrarietà «metafisica» come distinzione secondo un «magis et minus» nell’ordine dell’essere. Considerati sotto il punto di vista dell’essere e della perfezione, i contrarî, che hanno delle forme differenti, devono necessariamente essere ineguali, e l’uno più perfetto dell’altro16. Il principio supremo dell’intelligibilità dell’«essere» è quello di essere «determinato» in sè: l’essere ha un orrore dell’eguaglianza e se l’essere è molteplice dev’essere necessariamente ineguale, se vuol essere atto «reale» e non una forma vuota dell’intelligenza. Le cose differenti adunque e gli individui distinti devono essere fra di loro ineguali, affinchè possano esser trovati ordinati e presentare perciò un fondamento per l’intelligibilità della loro molteplicità – è chiaro allora che questa «contrarietà metafisica» deve trovarsi in ogni creatura. Questa contrarietà, perchè posta nel piano metafisico, non si riferisce più a dei termini che si oppongono in senso proprio, come termini di un moto continuo, ma ritiene della contrarietà fisica una certa continuità, non più applicata al divenire, ma in riferimento alla ragione suprema di essere; continuità che si può verificare in un modo, diciamo, più o meno rigoroso, a seconda che si tratta degli esseri materiali o degli esseri spirituali. Così il mondo «metafisico» risulta essere il mondo dell’ordine e la patria propria dell’intelligenza, che sa dar ordine al tutto, perchè trova dovunque un «magis» et «minus» di essere. La contrarietà fisica nel suo aspetto formale, come ragione dei movimenti fisici, non implica alcuna eccedenza od eminenza, ma per essa i movimenti possono restare reversibili e ripetersi all’infinito secondo un ciclo di processi determinato (generazione eterna, qualora si desse un mondo ab aeterno). Il magis et minus appare solo quando| i termini del movimento dal piano fisico passano al piano metafisico e sono considerati «sub ratione entis», ed è a questo modo che si può parlare di un «magis et minus» anche in relazione al movimento (fisico).
Questo movimento di progresso perfettivo appare evidente nella vita organica, di cui l’embriologia moderna ha rivelato i meravigliosi processi: il germe che all’inizio è indifferenziato e senza struttura almeno sotto l’aspetto istologico, checchè sia di quello fisico-chimico, si attiva nelle prime divisioni, che sembra toccare soltanto la distribuzione quantitativa dei materiali; passa poi alla formazione dei primi foglietti germinativi, dai quali per ulteriori complicazioni avranno origine gli organi primitivi dell’embrione, al quale succederà la nascita dell’animale perfetto. Movimento di perfezionamento, che si continua con l’accrescimento della vita giovanile, fin quando, raggiunta la maturità, il vivente diventa a sua volta principio di nuove espansioni, cioè partecipazioni dell’essere. Il «magis et minus» viene a trovarsi in qualche modo in tutti i perfezionamenti qualitativi, anche in quelli della vita superiore dell’uomo, non in quanto appartengono all’ordine della spiritualità, come tale, ma in quanto per la dipendenza estrinseca che hanno dalla sensibilità, e quindi dalle condizioni materiali, sono soggetti al movimento ed al tempo e possono avere un ciclo di sviluppo. Di qui l’originalità di tutta la vita umana, al confronto dei puri spiriti e dei viventi inferiori; l’uomo è suscettibile di un vero progresso culturale e morale per il perfezionamento graduale delle potenze e degli abiti (problema della cultura e dell’educazione). Il «magis et minus» infatti si può trovare egualmente nelle qualità che sono i principî del movimento qualitativo ed allora il «magis et minus» esprime i differenti gradi di realizzazione di una stessa forma, che può essere comunicata (partecipata) nei vari soggetti, o nello stesso soggetto in varie epoche, secondo gradi più o meno intensi di perfezione. Siamo ancora sempre, si noti bene, nel campo dell’univocità, ma è un’univocità che è in cammino verso l’analogia. Non si tratta ancora della diversità reale fra le forme, ma della diversità di una stessa forma, realizzata in modi diversi secondo le condizioni del soggetto, e si tratta dell’attuarsi di forme accidentali (2ª specie qualità) e di alcune di esse soltanto17.| Ma per la trasposizione della contrarietà fisica nel «magis et minus» metafisico di perfezione, noi possiamo uscire dal circolo chiuso dell’univocità. Siccome il «magis et minus» è una proprietà della «qualità» il «magis et minus» deve potersi trovare «in qualche modo» in ogni qualità sia accidentale come sostanziale: anzi, giova ripeterlo, il «magis et minus» delle forme accidentali sarebbe senza fondamento, se non fossero fondate in un «magis et minus» nell’ordine formale sostanziale, poichè le qualità accidentali dimanano da quelle sostanziali, e sono «segni» rivelatori delle medesime18. Anche le formalità sostanziali vanno adunque distribuite, o| meglio organicamente ordinate, secondo un magis et minus, non come gradi di perfezione di una stessa forma, in continuità rigorosa, e che possono attuarsi in un medesimo soggetto, ma come atti formali indivisibili, discontinui fisicamente, ma che come atti determinati realizzano un modo di perfezione, secondo una certa misura, in quanto sono concepiti avvicinarsi «più o meno», secondo una specie di «contiguità metafisica» (De Ver. XVI, 1), a ciò che è la perfezione assoluta senza limitazioni. Il «magis et minus» viene a trovarsi così in ogni genere, ed in qualche modo, lo vedremo subito, in ogni specie, ovunque ci sia contrarietà od anche solo molteplicità: esso è il principio della distinzione metafisica come tale. LA PARTECIPAZIONE PREDICAMENTALE COME UNIVOCITÀ FORMALE E ANALOGIA REALE
§ 5. – La nostra ricerca ci ha portati verso la conclusione intorno alla nozione di partecipazione predicamentale. Secondo le riflessioni precedenti vi è molteplicità soltanto quando vi sia contrarietà metafisica, intesa come gradazione di perfezione nell’ordine formale. Le specie degli esseri non formano quindi un mondo monotono, come quello delle idee dell’iperuranio di Platone, ma sono ordinate «per se» fra di loro, in modo che al basso stanno le forme degli elementi, alle quali seguono quelle dei corpi misti indi vengono i viventi: piante, animali, l’uomo, i corpi celesti, unici nella loro specie e incorruttibili, le intelligenze, e al vertice, Dio. Nell’ulteriore sviluppo della nozione tomista di partecipazione si potrebbe mostrare come quest’ordine ontologico è concepito nel senso più pieno, secondo una intima dipendenza causale degli inferiori dai superiori, che si esercita non secondo una discesa e derivazione lineare, ma quasi concentrica che, pur allargandosi in estensione, guadagna insieme nell’intensità e intimità (cfr. teoria delle cause tou/ fieri e tou/ esse; delle cause univoche – entro la specie, equivoche – fuori della specie (corpi celesti) e analoghe – Dio (cfr. Ia, q. 13, a. 5 ad 1um; q. 104, a. 1 ecc.). Se ora pertanto, mediante la riflessione intensiva, faccio una Sinossi19 di tutte le forme e gradi dell’essere, io arrivo ad una| nozione intensiva di essere, che è Sinolo logico-metafisico di tutte le manifestazioni dell’essere – come presto vedremo – in relazione alla quale ciascuna forma o grado, non è che una particolarizzazione, cioè partecipazione. Anche per la stessa formalità generica, p. e. l’animalità, che si
scinde nella molteplicità delle specie animali, io posso fare, in relazione alla nozione intensiva di essere, una simile «Sinossi», ed allora l’animalità non mi si presenta più come una ragione di minimo contenuto formale, rispetto alle specie e agli individui, ma come una formalità densa, come per una specie di virtualità ontologica, di tutte le determinazioni specifiche. Onde senza «reificare» le ragioni generiche, si può ben dire che le specie partecipano al genere, non solo nel senso logico dei Topici, ma nel senso metafisico di «participationem accipere», in quanto che ciascuna specie non riesce ad attuare la perfezione virtuale del genere, ma soltanto un aspetto particolare, con esclusione degli altri. Contro questa conclusione si potrebbe obiettare che in S. Tommaso ricorre di frequente il principio neoplatonico dell’«omnia in omnibus» almeno nella sua forma mitigata, che tutte le perfezioni degli inferiori sono contenute in un modo più semplice e perfetto nei superiori. L’osservazione in sè è esatta; ma si può osservare che S. Tommaso applica quel principio senza riserve soltanto quando si tratta dell’eminenza divina; per quanto riguarda gli altri esseri, la distinzione delle creature è come una «divina discretio», per la quale ciascuna formalità, essendo uscita immediatamente da Dio,| possiede se stessa «primo et per se». Anche questa profonda osservazione mostrerà come fosse acuto in S. Tommaso il cosiddetto «spirito del concreto»: «... quaelibet creatura habet esse finitum et determinatum. Unde essentia superioris creaturae, etsi habeat quamdam similitudinem inferioris creaturae, prout communicant in aliquo genere, non tamen complete habet similitudinem illius; quia determinatur ad aliquam speciem, praeter quam est species inferioris creaturae. Sed essentia Dei est perfecta similitudo omnium, quantum ad omnia quae in rebus inveniuntur sicut universale principium omnium» (Ia, q. 84, a. 2 ad 3um)20. In una parola la nozione di partecipazione si rivela nella gradazione dell’ordine formale in tutto il suo fulgore. S. Tommaso riassume egregiamente la sua interpretazione: «Quantum ad naturas ipsarum (intelligenze), necesse est quod naturae earum diversificentur secundum ordinem quemdam. Non enim est in eis materialis differentia, non enim sunt compositae ex materia et forma, sed ex natura quae est forma et esse participato... In his autem quae materialiter differunt, nihil prohibet inveniri multa ex aequo se habere: nam in substantiis (materialibus?) individua unius speciei aequaliter speciei rationem participant. In accidentibus etiam possibile est diversa subiecta aequaliter participare albedinem. Sed in his quae formaliter differunt semper quidam ordo invenitur. Si quis diligenter consideret in omnibus speciebus unius generis, semper inveniet unam alia perfectiorem, sicut in coloribus albedinem, et in animalibus hominem. Et hoc ideo quia quae formaliter differunt, secundum aliquam contrarietatem differunt; est enim contrarietas differentia secundum formam ut Phil. dicit X Metaph. In contrariis autem semper est unum nobilius et aliud vilius, ut dicitur I Physic., et hoc ideo quia prima contrarietas est privatio et habitus, ut dicitur in X Metaph. Et propter hoc in VIII Metaph.21 Phil. dicit quod species rerum sunt sicut numeri qui specie diversificantur secundum additionem unius super alterum...» (Comm. supra l. De Causis, lect. 4a, P. XXI, 725 b). Ma il testo citato mostra, nel modo più lampante, che mentre la nozione aristotelico-tomista di partecipazione esalta il carattere| metafisico della partecipazione formale, sembra senz’altro annullare quello della partecipazione reale-individuale. È essenziale alla nozione aristotelica di sostanza naturale concepire che gli «individua unius speciei aequaliter speciei rationem participant»: gli individui di una specie sono quindi tutti eguali. Essi infatti non possono partecipare la forma comune secondo un magis et minus, perchè la essenza consiste «in indivisibili» onde, o si ha tutta, o non si ha: fra gli individui di una stessa specie sembra non vi possa essere quindi alcun posto per una predicazione di partecipazione. A questa difficoltà si potrebbe osservare anzitutto che una simile considerazione della specie, è frutto dell’astrazione formale e totale; ma v’è un’altra considerazione della specie, di carattere più metafisico, secondo la quale anche gli individui hanno gradi di perfezione e contrarietà «reali». Ma la risposta, se tocca il cuore del problema, non è ancora definitiva: difatti, perchè l’essere (l’atto di) è concepito sopravvenire all’essenza ed è specificato da essa, ne segue, che è secondo il grado di perfezione dell’essenza che va misurata la perfezione dell’atto di essere, e per questo gli individui di una stessa specie non possono esser detti differire «per se», secondo gradi, ma soltanto «per accidens». Insisto su questo punto affinchè non mi si dica che voglio tirare tutta l’acqua al mio mulino! I testi di S. Tommaso sono espliciti al proposito, come quello già citato, a cui si può aggiungere un altro di data ancor più matura: «Oportet quod superiores universi partes magis de bono universi participent, quod est ordo. Perfectius autem participant ordinem ea in quibus est ordo per se quam ea in quibus est ordo per accidens tantum. Manifestum est autem quod in omnibus individuis unius speciei non est ordo nisi secundum accidens: conveniunt enim in natura et differunt secundum principia individuantia, et diversa accidentia, quae per accidens se habent ad naturam speciei. Quae autem specie differunt ordinem habent per se, et secundum essentialia principia. Invenitur enim in speciebus rerum una abundare super aliam, sicut et in speciebus numerorum, ut dicitur in VIII Metaph. In
istis autem inferioribus, quae sunt generabilia et corruptibilia, et infima pars universi, et minus participant de ordine, invenitur non omnia diversa habere ordinem per se; sed quaedam habent ordinem per accidens tantum, sicut individua speciei...» (Q. De spiritualibus Creaturis, a. 8, secunda ratio). Giovanni di S. Tommaso, forse abbagliato da questi testi, sostenne che gli individui hanno fra di loro una perfetta eguaglianza: la loro perfezione specifica è identica, e non sono che materialmente distinti l’uno dall’altro. Essi sono quindi univoci nel loro essere,| il quale pur restando trascendentale, esercita per sè la sua funzione di analogo solo per la specie e i generi non per gli individui: «Dices: Ens dictum de Petro et Paulo, vel de duobus aliis individuis, est transcendens, cum imbibatur etiam in eorum differentiis et in omni eorum ratione, et tamen neque est proportionalitatis neque proportionis, siquidem inter individua est omnimoda aequalitas. (Respondetur) Transcendens de se et per se ad plura extendi, quae et specie et genere differunt, respectu quorum analogum est, et sic non coarctatur ad illa tantum individua. Respectu tamen illorum (sc. individuorum) praecise analogum non est, licet transcendens sit, sed hoc est per accidens»22. Giovanni di S. Tommaso, in questo punto, non ha raccolto il suffragio dei Tomisti per i quali, secondo il loro Maestro, l’essere va predicato secondo l’analogia a riguardo di tutti i suoi inferiori, anche degli individui23 quindi, e non soltanto delle specie, perchè tutti gli univoci vanno infine fondati su di un analogo: «Sicut in praedicationibus omnia univoca reducuntur ad unum primum non univocum sed analogicum, quod est ens» (Ia, q. 13, a. 5 ad 1um). L’affermazione è fatta senza riserve. Per il fatto che gli individui di una stessa specie formale sono distinti per il loro essere, come tante volte afferma S. Tommaso, non possono essere considerati come univoci nella nostra conoscenza intellettuale che di essi acquistiamo: «Habitus humanitatis non est secundum idem esse, in duobus hominibus; et ideo quandocumque forma significata per nomen est ipsum esse, non potest univoce convenire, propter quod etiam ens non univoce praedicatur» (In I Sent., Dist. 35, q. I, a. 4). Giovanni di S. Tommaso del resto fu criticato subito anche da qualche contemporaneo, come l’OLIVA: «Differentia materialis et individua essentialiter est ens et primo diversa ex alio capite. Ergo| simpliciter distinguuntur inter se, licet secundum quid faciant distinguere naturam humanam. Sic ens respectu Petri et Pauli exercet analogiam contra Joannem a S. Thoma»24. Cerchiamo ora d’impostare la questione nei suoi giusti termini: la specie degli individui corporei è un astratto che non può esistere da sè, ma esiste soltanto negli individui concreti: in questi concreti essa si trova individuata e determinata, ma la determinazione di cui si tratta ha due aspetti: UNO nell’ordine formale, che riguarda la funzione individuante della «materia signata quantitate», problema assai difficile, e che S. Tommaso ha potuto sviluppare a poco a poco sulla scorta dei Filosofi Arabi; un ALTRO, reale, che metafisicamente viene a dipendere da questo formale, ma che nella «via inventionis» appare prima ed è più evidente. La distinzione fra gli individui, sul piano dell’esistenza reale, si manifesta a traverso proprietà e qualità, dette accidenti, che possono essere considerate, nell’ordine formale, come effetto della sostanza, ma che nell’ordine materiale sono disposizioni per l’essere della medesima. Gli accidenti vanno considerati, per la sostanza finita (De Veritate, q. XXI, a. 5) come delle perfezioni, secondo le quali l’essere si completa e può raggiungere il suo fine. Ma poichè tali perfezioni «subiectantur in materia individuali», esse vengono ricevute negli individui sia in un modo individuale e finito, sia in un modo esclusivo, in quanto non possono comportare in uno stesso soggetto la coesistenza della perfezione contraria. S. Tommaso: «Perfectum dicitur unumquodque, quando nihil deest ei eorum quae ad ipsum pertinent. Et huius quidem perfectionis gradus ex extremis rerum perpendi potest. Deo enim, qui est in supremo perfectionis, nihil deest eorum quae pertinent ad rationem totius esse [...]. Individuum autem aliquod in infima parte rerum, quae continet generabilia et corruptibilia, perfectum invenitur ex eo quod habet quidquid ad se pertinet, secundum rationem individuationis suae, non autem quidquid pertinet ad naturam suae speciei, cum natura suae speciei etiam in aliis individuis inveniatur»25. Il fatto è molto evidente nel regno dei viventi. Consideriamo p. e. il carattere della sessualità: esso il più spesso è «diviso» fra| due individui distinti, di cui l’uno (il maschio) è più perfetto dell’altro (la femmina), anche se nella biologia moderna non è più permesso di opporre i due sessi come attivo e passivo, secondo la concezione aristotelica. Ma la femmina, pur essendo un «animal imperfectum» a confronto del maschio, ha una perfezione propria, che fa capo a tutta una struttura fisio-bio-psichica che non può esserci nel maschio26. Si dica altrettanto di altre qualità che sono presenti in un individuo e mancano in altri, onde il problema degli allevamenti razionali secondo i criteri della selezione artificiale, di cui tanto si valse DARWIN per presentare la sua teoria dell’evoluzione. L’assioma adunque: «Species sunt sicut numeri» va inteso nel senso metafisico rigoroso ed in quanto non si dà il passaggio per continuità da una specie all’altra. Sotto l’aspetto reale, la specie ha un modo di essere diverso, cioè più o meno perfetto, nei vari individui, ed anche i Tomisti possono
sottoscrivere a questa vivace osservazione di un ben noto rappresentante della scuola francescana: «Videmus enim in eadem specie unum individuum nobilius participare speciem et eius proprietates quam aliud. Unde inter lapides eiusdem speciei, tam pretiosos quam non pretiosos, magna est differentia; et idem est in auro et in ceteris metallis. Idem etiam patet evidenter in animalibus; equi enim magni et generosi a roncinis, in participatione suae speciei multum differre videntur: et idem est in canibus»27. Negli uomini, in particolare, la varietà di attitudini assume| delle proporzioni quasi infinite; chi è naturalmente inclinato alla speculazione, chi alla pratica; chi all’arte, chi all’industria; chi alla scienza sperimentale, chi ai ragionamenti astratti; chi nasce con una complessione ben proporzionata ed è portato naturalmente alle cose belle e buone, chi invece appare dominato da tendenze ignobili... ecc.28. È interessante il notare come per molti di questi caratteri la Genetica moderna ha potuto verificare che si tratta di fatti legati ad «una vera» partecipazione fisica dipendente dai cosiddetti «cromosomi». In questi si troverebbero inclusi i «genî», strutture ultramicroscopiche del nucleo degli elementi germinali, che sarebbero i portatori ed i responsabili della presenza di questa o quella qualità. Così p. e. per la determinazione del sesso pare assodato ch’essa in molti animali è legata ad una combinazione ben definita. Ambedue i gameti, cioè tanto il pronucleo maschile quanto quello femminile portano cromosomi legati al sesso. Ora, mentre quelli del pronucleo femminile hanno un’identica forma e sono pari e quindi li possiamo indicare con xx (Dro-sophila); quelli invece che derivano dal pronucleo maschile sono di forma diversa e possono denominarsi con la formula x y: evidentemente, in questo caso, nella formazione dei gameti, si otterranno gameti che hanno o il solo x o il solo y, e questo precisamente nella proporzione, più o meno, del 50 % per ambedue i casi. Nella fecondazione i gameti maschili con cromosoma x, unendosi con il gamete femminile daranno una femmina (xx), nell’altra combinazione si avrà invece un maschio (x y)29. Similmente per molte altre qualità e caratteri, che sono ancora più propriamente individuali, sono state trovate corrispondenze analoghe che possono esser oggetto di esperimento e di calcolo, secondo le leggi dell’eredità enunziate dall’Agostiniano Gregorio| Mendel, e perfezionate dalla Genetica moderna dal biologo T. H. Morgan. Secondo tali leggi i caratteri della prole dipendono tutti dal patrimonio ereditario, portato virtualmente nei cromosomi e nei genî. Per il fatto che il patrimonio ereditario della prole è dato dall’anfimixia che avviene nella fecondazione dei nuclei paterno e materno, si ha che il nuovo animale riceve in sè soltanto due gruppi di qualità ben determinate. Ma non si può dire neppure che riceva tutto il contenuto originario dei (due) ceppi da cui deriva, poichè per via della cosiddetta «divisione riduzionale», una metà dei cromosomi di ambedue i ceppi andrà perduta, perchè espulsa, secondo proporzioni qualitative praticamente imprevedibili. Inoltre, il nuovo individuo di solito non presenta l’espansione reale di tutti i caratteri, portati dai suoi cromosomi e genî: chè in realtà non si ha che un’espansione parziale, per il fatto che alcuni p. e. della linea maschile possono neutralizzare o rendere latenti altri della linea femminile, e viceversa30. Basti quest’accenno sommario per comprendere come oggi anche da un punto di vista strettamente naturalista, si può parlare di una vera «distribuzione», e quindi partecipazione, del patrimonio o corredo di perfezioni, fondato su una certa contrarietà o antagonismo germinale, anche in uno stesso ceppo dinastico; tanto più questa contrarietà è evidente fra i ceppi molto distanti e le varie razze, che sono delle modalità molto marcate, secondo le quali si può manifestare un’identica specie31. Può essere intrinsecamente diverso, quindi, il modo di esistere dei membri di una stessa famiglia (sia per il sesso, come per le altre qualità); a fortiori dei membri di famiglie diverse e tanto più fra individui che appartengono a diversi gruppi etnici – popoli e razze: anche se bisogna riconoscere che, nello stato attuale dei popoli, non è più possibile parlare di razze pure, che non abbiano cioè subito alcuna infiltrazione. Ora, guardati secondo l’angolo intelligibile dell’astrazione formale e totale, tutti gli uomini sono egualmente uomini, e la natura| umana, presente nell’uno, non può, come natura umana, esser diversa da quella dell’altro, altrimenti quest’altro non sarebbe più un uomo, ma qualche altra cosa. Guardati invece secondo l’astrazione metafisica, in relazione all’atto di essere, l’individuarsi della specie umana appare come una magnifica fioritura dai colori e dalle tinte più varie. Se ora pertanto secondo la riflessione intensiva faccio con la mente come una «sinossi» di tutta questa «ESPANSIONE ONTOLOGICA» della specie, essa mi appare come una «totalità» ontologica nel suo àmbito, che si manifesta negli inferiori secondo modi di essere più o meno perfetti; e si può quindi dire che l’individuo partecipa alla sua specie, nel senso metafisico proprio del termine in quanto che ogni individuo, per ricco che sia delle migliori qualità, in fine si riduce a mostrare in sè soltanto un modo, fra i moltissimi, quasi infiniti che la specie può avere in natura32. Quanto si vien dicendo mi pare al tutto conforme alla nozione tomista dell’atto di essere; a conferma si porteranno anche alcuni testi, che se anche non sono troppo numerosi, sembrano essere, in compenso, al tutto decisivi. Secondo S. Tommaso la contrarietà katV evxoch,n, è quella che vige fra le specie di un genere comune, ma ciò non toglie che si possa parlare di una contrarietà anche fra gli individui di una stessa specie: «Dicit ergo
(Aristoteles), quod ideo contingit quod quaedam contrarietas facit differre specie, quaedam non, quia quaedam contraria sunt propriae passiones generis, et quaedam sunt minus propriae. Quia enim genus a materia sumitur, materia autem per se habet ordinem ad formam: illae propriae sunt differentiae generis quae sumuntur a diversis formis perficientibus materiam. Sed quia forma speciei iterum multiplicatur in diversa secundum materiam signatam, quae est subiecta individualibus proprietatibus, contrarietas accidentium individualium minus proprie se habet ad genus, quam contrarietas differentiarum formalium» (In X Metaph., lect. 11, n. 2131). S. Tommaso distingue al proposito fra gli accidenti di un individuo tre generi di accidenti: alcuni di essi fanno parte del contenuto nozionale stesso della specie, altri invece sono estranei all’intelligibilità della medesima, ma sono necessari affinchè essa possa esistere «in individuo (evn avto,mw|)»: «... tria sunt genera accidentium: quaedam enim causantur ex principiis speciei; et dicuntur propria sicut risibile homini; quaedam vero causantur ex principiis indi|vidui; et hoc dicitur vel quia habent causam permanentem in subiecto, et haec sunt accidentia inseparabilia, sicut et masculinum et femininum et alia huiusmodi (i caratteri della biologia moderna): quaedam vero habent causam non permanentem in subiecto, et haec sunt accidentia separabilia, ut sedere et ambulare. Est autem commune omni accidenti, quod non sit de essentia rei, et ita non cadit in definitione rei; unde de re intelligimus quod quid est absque hoc quod intelligamus aliquid accidentium eius. Sed species non potest intelligi sine accidentibus quae consequuntur principium speciei, potest tamen intelligi sine accidentibus individui etiam inseparabilibus (p. e. il sesso): sine separabilibus vero esse potest non solum species, sed et individuum» (Q. De Anima, a. 12 ad 7um). Gli accidenti inseparabili dell’individuo sono le sue qualità reali proprie, di cui sopra si è detto, e in relazione alle quali si fonda la partecipazione alla specie. Il testo del C. G., 1º, c. 32 (amplius 2) già citato, è esplicito al proposito, e parla di una partecipazione di perfezione nell’ordine univoco, secondo vari modi di perfezione: «Omne quod de pluribus praedicatur univoce secundum participationem, cuilibet eorum competit de quo praedicatur, nam species participare dicitur genus et individuum speciem. De Deo autem nihil dicitur per participationem, nam omne quod participatur, determinatur ad modum participantis, et sic PARTIALITER habetur, ET NON SECUNDUM OMNEM PERFECTIONIS MODUM»33. Altrove S. Tommaso giunge perfino ad asserire una continuità nozionale fra la partecipazione katV evxoch,n, cioè analoga e quella che è stata detta predicamentale, e che forse sarebbe meglio dire, individuale, il testo è di prima importanza per tutta la teoria tomista della partecipazione, poichè mostra l’intima connessione dell’aspetto statico o formale con quello dinamico o causale: «Aliquod perfectum participans aliquam naturam, facit sibi simile, non quidem producendo absolute illam naturam, sed applicando eam ad aliquid: Non enim hic homo potest esse causa naturae humanae absolute, quia sic esset causa suipsius; sed est causa quod natura humana sit in hoc homine generato... Sed SICUT hic homo participat humanam naturam, ITA quodcumque ens creatum participat, UT ITA DIXERIM, naturam essendi; quia solus Deus est suum esse» (Ia, q. 45, a. 5 ad 1um).| PARTECIPAZIONE PREDICAMENTALE E TRASCENDENTALE § 6. – Ci pare adunque che il termine di partecipazione predicamentale non debba turbare le preoccupazioni di ortodossia tomista di nessuno. Esso altro non indica che la situazione metafisica che l’individuo ha nella specie che può riassumersi dicendo: mentre gli individui sono identici nell’ordine specifico (= iidem essentialiter), differiscono realmente l’uno dall’altro nell’attuazione della specie (= differunt substantialiter). All’obiezione che il principio d’individuazione è la «materia signata quantitate», e quindi di ordine puramente potenziale rispondo che gli individui sono gli unici enti reali in cui sussiste la specie, se non si vuol tornare al Platonismo. Quando poi si enunzia il principio d’individuazione a quel modo, bisogna tener presente l’aspetto metafisico della questione, e cioè che la materia (principio di limitazione e molteplicità) non è la materia prima nuda, ma la materia ch’è propria della specie e proporzionata perciò a ricevere la forma specifica e che ha quindi, sia pure come potenza, un suo grado ontologico (la corporeitas, e in concreto tale corporeitas p. es. umana, canina, ecc.). Parimenti per la «quantitas signata», non si tratta di quantità matematica ma della prima strutturazione che per via delle dimensioni concrete riceve la corporeitas secondo una funzione ontologica nella quale se la materia ha la funzione di soggetto, la forma ha quella di atto. Effetto dell’individuazione è precisamente la «distinzione» sostanziale, che comporta una diversità reale, senza cui la moltiplicazione non avrebbe senso. La partecipazione predicamentale differisce perciò profondamente da quella trascendentale, come si dirà: mentre tutto ciò che non è Dio e perciò partecipa l’essere, non è il suo essere ma ha il suo atto di essere, ogni
uomo che partecipa l’umanità se non si può dire che è l’umanità come tale (ciascuno è soltanto «uomo» in concreto), si può ben dire ch’è la sua umanità, benchè la sua concreta umanità non costituisca che il nucleo fondamentale della sua realtà. Osservazioni forse troppo elementari, ma a mio avviso non inutili se non si vuole sconfinare nel logicismo. Limitarsi a intendere il «partecipare», di cui fa uso S. Tommaso, in senso debole quasi «narrativo» come semplice «avere», significa svalutare un complesso di testi che presentano un contenuto ben definito e costante dove il parallelismo con la partecipazione trascendentale non è casuale, ma espressamente inteso.| Così si deve osservare che, quanto alla struttura del concreto che ne risulta, tanto la partecipazione trascendentale quanto la predicamentale implicano la distinzione e composizione reale di due principî che stanno fra loro nel rapporto di potenza e atto, e cioè essenza ed esistenza per l’una, materia e forma per l’altra. Questo è l’unico argomento metafisico decisivo della composizione ilemorfica. Ci si consenta perciò ancora un po’ di documentazione. La corrispondenza fra le due partecipazioni, già affermata in Ia, q. 45, a. 5 ad 1um, ritorna nel tardo Quodl. II, q. II, a. 3 (Utrum Angelus componatur ex essentia et esse) di cui dò il testo integrale più avanti. Qui basti riportare l’affermazione categorica delle due partecipazioni: «Sciendum est quod aliquid participatur dupliciter. Uno modo quasi existens de substantia participantis, sicut genus participatur a specie. Hoc autem modo esse non participatur a creatura; id enim est de substantia rei quod cadit in eius definitione. Ens autem non ponitur in definitione creaturae, quia nec est genus nec differentia; unde participatur sicut aliquid non existens de essentia rei». Altra affermazione esplicita in un contesto tecnico contro l’astrazione platonica è Ia, 44, 3 ad 2um: «Dicendum quod de ratione hominis est quod sit in materia; et sic non potest inveniri homo sine materia. Licet igitur hic homo sit per participationem speciei, non tamen potest reduci ad aliquid existens per se in eadem specie; sed ad speciem superexcedentem, sicut sunt substantiae separatae». La partecipazione predicamentale si muove, per così dire, dentro la specie e il genere: toccherà ad una teoria della causalità, intesa come partecipazione originaria e fondante, determinare le forme e la natura di tale espansione ontologica sia predicamentale come trascendentale. S. Tommaso può quindi, in base alla doppia partecipazione, sostenere che «homo nec est humanitas nec suum esse» perchè «ipsum suppositum sive individuum habet naturam speciei sicut homo humanitatem» (De Pot., VII, 4). E più sotto dice di Dio: «Deus non comparatur creaturis in hoc quod dicitur melior vel summum bonum, quasi participans naturam eiusdem generis cum creatura, sicut species generis alicuius; sed quasi principium generis» (De Pot., VII, 7 ad 4um). Il senso della partecipazione predicamentale non può quindi esser dubbio: non si tratta di una partecipazione che affetti la formalità generica o specifica, come tale, nei suoi inferiori (le specie e gli individui), ciò che distruggerebbe l’univocità della predicazione e la realtà stessa delle nature esistenti, ma è partecipazione di queste nature specifiche e individuali considerate come diverse attuazioni| reali di una virtualità di perfezioni rispetto all’essere e secondo la realtà di essere che posseggono. La medesima dottrina, nel fondo, si può avere dalla celebre analisi che l’Angelico fa circa l’aumento degli abiti, nella Ia-IIae, q. 52, a. 1, anche se a prima vista la trattazione sembri orientata a negare la partecipazione nell’ambito della specie come tale. S. Tommaso infatti inizia affermando «quod illud secundum quod sortitur aliquid speciem, oportet esse fixum et stans et quasi indivisibile», dove quindi non ci può essere variazione di gradi per cui, facendosi forte dell’autorità di Simplicio, dichiara: «Ideo omnis forma quae substantialiter participatur in subiecto caret intensione et remissione. Unde in genere substantiae nihil dicitur secundum magis et minus». Ciò che si deve dire, aggiunge l’Angelico, anche degli accidenti più vicini alla sostanza come la quantità, la forma e la figura, mentre le altre qualità più distanti dall’essenza (p. es. il calore nei corpi, la sanità nei viventi) ammettono variazioni di gradi nello stesso soggetto «secundum diversam participationem subiecti» a tale qualità, la quale quindi in se stessa aumenta o diminuisce. Certamente le nature delle cose, come costitutivi essenziali, non possono ammettere una partecipazione nel senso di uno sviluppo indefinito, e la teoria dell’evoluzione – nelle sue forme antiche e recenti – ha contro di sè una delle esigenze più fondamentali del pensiero umano. S. Tommaso conclude perciò energicamente: «Duobus igitur modis potest contingere quod forma non participatur secundum magis et minus; uno modo quia participans habet speciem secundum ipsam; et inde est quod nulla forma substantialis participatur secundum magis et minus, et propter hoc Philosophus dicit quod “sicut numerus non habet magis neque minus, sic neque substantia quae est secundum speciem”, id est, quantum ad participationem formae specificae; “sed si quidem cum materia”, id est, “secundum materiales dispositiones”, invenitur “magis et minus in substantia”. – Alio modo potest contingere ex hoc quod ipsa indivisibilitas est de ratione formae. Unde oportet quod si aliquid participet formam, participet illam secundum rationem indivisibilitatis...» come per i numeri, le specie della quantità continua e le figure geometriche. Tutte queste formalità sono quel che sono soltanto in un modo e non si possono comprendere che in un modo soltanto – e così restan fondate le scienze
matematiche – e, nel caso, come determinazioni di una formalità astratta: «Unde quaecumque participant rationem eorum, oportet quod indivisibiliter participent». È pacifico pertanto: 1) Che l’Angelico esclude nel campo del|l’ente predicamentale una partecipazione che affetti l’essenza sostanziale come tale, perchè in questo caso svanirebbe ogni distinzione generica e specifica fra gli esseri. – 2) Che l’Angelico insieme afferma una «partecipazione predicamentale» in senso proprio rispetto al modo concreto di essere e di attuarsi che l’identica natura specifica assume nei diversi soggetti34. Questi allora, si badi bene, non si diversificano rispetto alla forma o essenza come tale, ma essi stessi diversificano nel campo dell’essere reale tale forma o essenza, e tale diversificabilità ha un campo infinito qual è l’intera esistenza o espansione di ogni specie, e per l’uomo la storia intera della sua civiltà. Non v’è adunque alcun dubbio che anche nel campo predicamentale, come in quello trascendentale, si può parlare di una vera partecipazione, e possiamo ora dire che essa è la prima ragione metafisica che serve a qualificare l’essere finito in qualunque ordine si trovi esistere, sia come specie a sè (Intelligenze separate), sia come individuo sperduto nella «natura»35. Del resto la nozione di partecipazione individuale viene bene ad inquadrarsi nella concezione che S. Tommaso si è fatta dell’esemplarismo divino; per tutti gli individui corrisponde nella mente divina (e negli Angeli) una sola Idea, quella della specie; ma siccome l’idea divina è fattiva non solo della Forma come l’idea degli artisti, ma anche della materia delle cose, nell’unica idea della specie sono compresenti alla mente divina le idee di tutti i particolari individui della specie, quasi diverse realizzazioni della specie, onde Iddio conosce immediatamente i singolari non soltanto sotto l’aspetto specifico «sed etiam quantum ad singularitatem individui: per prius tamen quantum ad naturam speciei; quod ex hoc patet...», cioè in| quanto che il grado di essere specifico è ciò che vi è di più perfetto nell’individuo (Quodl. VIII, q. I, a. 2)36. In relazione a questa dottrina che è la sintesi ab intra dell’aspetto vitale del Platonismo entro l’Aristotelismo, S. Tommaso può scrivere: «Forma... quae est pars compositi, est forma participata. Sicut autem participans est posterius eo quod est per essentiam, ita et ipsum participatum...» (Ia, 3, 8 tertio). L’idea divina della specie contiene adunque tutta quella pienezza reale che noi riusciamo ad intravedere mediante l’astrazione integrativa, onde l’idea divina non può essere ridotta ad un «esemplare» platonico che riferisce solo il contenuto astratto della specie; essa invece lo riferisce secondo tutta l’intensità ontologica che può avere nelle sue realizzazioni concrete. Questo punto non è una semplice sfumatura, ma fa parte dell’essenza della nozione tomista di partecipazione, che va a sboccare nell’analogia dell’essere, di fronte all’univocismo sul quale si è elevato il Platonismo: «Quia formae influxae non sunt similes rationibus idealibus in mente divina existentibus nisi secundum analogiam, ideo per huiusmodi formas illae rationes ideales non perfecte cognosci possunt» (Q. De Anima, a. 20 ad 9um)37. Per riassumere quanto è stato detto intorno allo sviluppo della| nozione tomista di partecipazione predicamentale, possiamo dire che la specie è detta partecipare al genere, e l’individuo alla specie non soltanto in quanto vi sono altre specie che «comunicano» nella stessa ragione generica, ed altri individui che «comunicano» nella medesima ragione specifica e che quindi hanno una medesima definizione, ma anche, ed in conseguenza di ciò, per il fatto che fra le molte virtualità formali del genere ciascuna specie non ne realizza che una sola, e fra i molteplici modi di essere di cui è suscettibile una specie ogni individuo non ne realizza che uno solo, con esclusione degli altri. Ci troviamo quindi di fronte ad un vero «partecipare» in senso metafisico, inteso come un «partialiter habere», in quanto si oppone ad un habere «totaliter» e ad un «totaliter esse», e non in quanto si oppone ad un «substantialiter esse»: questo punto è centrale nella sintesi tomista, al quale finora si è badato troppo poco, e che ha la sua origine in una penetrazione tutta personale dell’Angelico dei problemi, anche se egli ama in questo riferirsi ad Aristotele. «Dicitur aliquid de aliquo dupliciter. Uno modo substantialiter, alio modo per participationem», questa è la terminologia di Boezio, secondo il quale «per participationem» ha il significato dell’aristotelico «kata. sumbebh-ko,j», ma S. Tommaso allarga subito il significato di quei termini. «Ad intellectum huius quaestionis [scil. utrum entia sint bona per essentiam, vel per participationem], considerandum est quod in ista quaestione praesupponitur quod aliquid esse per essentiam et per participationem sint opposita. Et in uno quidem supradictorum modorum manifeste verum est: scilicet secundum illum modum quo subiectum dicitur participare accidens, vel materia formam (est enim accidens praeter naturam subiecti, et forma praeter ipsam substantiam materiae); sed in alio participationis modo, quo scilicet species participat genus, hoc verum est quod species participat genus. Hoc etiam verum est secundum sententiam Platonis, qui posuit aliam esse ideam animalis, et bipedis hominis. Sed secundum sententiam Aristotelis, qui posuit quod homo vere est id quod est animal, quasi essentia animalis non existens praeter differentiam hominis; nihil prohibet, id quod per participationem dicitur, substantialiter praedicari» (Comm. in l. Boëth. De Hebdom., lect. 3a, ed. cit., pp. 400-401).
Ci sono anche i testi che sembrano dire il contrario. Ecco un saggio: «(Totum) universale adest cuilibet parti subiectivae secundum esse et perfectam virtutem et ideo proprie praedicatur de parte sua» (In I Sent., Dist. 3, q. IV, a. 2 ad 1um; ed. Mandonnet, I, p. 117). – «Totum universale adest cuilibet parti secundum| totam suam essentiam et virtutem, ut animal homini et equo; et ideo proprie de singulis partibus praedicatur» (Ia, 77, 1). Il contesto è identico; si tratta di assicurare la predicazione essenziale dal punto di vista logicometafisico e l’Angelico non poteva essere meno energico. Ma ciò non pregiudica la diversità delle perfezioni reali e quindi la partecipazione stessa: «Dicendum quod omnia animalia sunt aequaliter animalia, non tamen sunt aequalia animalia, sed unum animal est altero maius et perfectius» (De Malo, q. II, a. 9 ad 16um)38. La formula vale, è chiaro, tanto per la partecipazione delle specie al genere quanto degli individui alla specie ed è la più felice per indicare quel che ho inteso dire fin qui sulla partecipazione predicamentale. Nel Tomismo allora la pluralità delle specie partecipanti al genere e degli individui alla specie, non resta un puro fatto od un «dato irrazionale», ma questa molteplicità è compresa («post factum» s’intende) come un’esigenza metafisica per l’«EPIFANIA ONTOLOGICA» della ragione generica nelle specie e della specie negli individui39. Genere e specie possono esser compresi secondo due aspetti complementari: uno logico, in quanto sono delle ragioni formali (astratte) ond’è fondata la partecipazione logica quale «comunanza» dei molti nell’uno secondo la quale va inteso il detto di Porfirio, che S. Tommaso ha spesso presente: «Participatione omnes homines sunt unus homo»; ed un altro ontologico, come formalità reali, che fondano la partecipazione reale, intesa come un «partialiter accipere». Questa include una distribuzione ed in un certo modo una «divisione» del contenuto di una «totalità» di perfezioni, nelle quali tali perfezioni sono comprese trovarsi unite. Se le riflessioni precedenti hanno colpito abbastanza nel segno, pare allora ben giustificata la conclusione, che i due modi di partecipazione enunziati nel Commento al De Hebdomadibus: 1. Species participat genus et individuum participat speciem et similiter. 2. Materia participat Formam et subiectum participat accidens,| su questo piano di considerazioni finiscono per corrispondersi – non dico che si identificano – e mostrano ad un tempo la profonda unità che lega nel Tomismo le varie direzioni che può prendere il pensiero. C’è quindi – non sarà mai notato abbastanza – una profonda «dialettica del concreto», nella speculazione tomista che tiene saldati il reale e l’ideale, il concreto e l’astratto. Essa obbliga quest’ultimo sia a sempre più determinarsi, cioè ad «oggettivarsi», ed a rivelare l’intima struttura dell’essere che presenta, «obiicit», alla mente: partecipazione come composizione reale, di cui finora sono stati illustrati due modi, quello di materia e forma e di sostanza ed accidenti. A questi presto s’aggiungerà un terzo più fondamentale, quello di essenza ed atto di essere per mostrare come l’essere concreto, anche se «solitario ed incomunicabile», esige che il pensiero ad un certo momento lo sappia dominare per riferirlo e fondarlo nel suo essere su principî ad esso estrinseci: partecipazione come dipendenza causale.
SEZIONE TERZA
LA PARTECIPAZIONE TRASCENDENTALE COME PARTECIPAZIONE DEGLI ENTI ALL’ESSERE
Il significato dei termini: Ente, Essenza e Atto di essere § 1. – Se ora volgiamo lo sguardo al cammino percorso dobbiamo constatare che di partecipazione in partecipazione il pensiero è ancora in movimento verso un ultimo fondamento di ogni partecipazione, che sia ragione e «posizione» assoluta, poichè finora tutte le altre posizioni non sono apparse che intrinsecamente «ipotetiche». Tutte infatti le considerazioni intorno al contenuto metafisico della nozione di partecipazione, che finora sono state messe in vista, rimangono nel puro campo logico-formale e restano, di per sè, al di fuori di quello veramente «reale», inteso come attuale. Per questo si possono efficacemente esprimere nella forma condizionale: «SE», per indicare come il loro valore metafisico resti sospeso all’avveramento di tale condizione o fatto; la specie partecipa al genere, l’individuo alla specie, il soggetto partecipa all’accidente, SE di fatto, la specie, l’individuo, il soggetto «esistono». «Omnia participant ipsum esse, esse autem nihil participat»: l’espressione boeziana dal suo significato logico-formale è stata subito da S. Tommaso elevata ad un significato metafisico, in quanto viene posta al centro del movimento dialettico, secondo il quale si costituisce la metafisica tomista (gradi di formalità). Difatti qualsiasi formalità, che non sia l’essere, anche se in un senso può esser considerata come termine della dialettica, sotto qualche altro aspetto può andar «soggetta» ad ulteriore dialettica: soltanto| l’atto di essere non è più in alcun modo dialettizzabile, onde si pone come centro di attrazione del pensiero, e come fonte di derivazione e di rannodamento ontologico di ogni formalità o modo particolare di essere. Così si potrebbe dire che l’esse reale attuale, cioè «exercite» che l’anima incontra (attingit) nell’esperienza, interna ed esterna, funge, per la nostra concezione metafisica circa la struttura del concreto, da vero «intermediario dialettico»: non si potrebbe caratterizzare in un modo più efficace l’aspetto decisamente realistico, e critico insieme, di questa metafisica. Ma facciamo i nostri passi con cautela, poichè tocchiamo ormai alle tesi essenziali del Tomismo. Quest’ultima parte della ricerca, si svolge entro lo sfondo dottrinale che è stato delineato nella parte precedente, di cui rappresenta l’ultimo approfondimento metafisico: esso verrà fatto in relazione alle nozioni più universali: ente, essenza, essere, secondo le quali avviene necessariamente la specificazione di ogni sistema speculativo sia fuori come entro la Scolastica. Secondo il senso che si attribuisce a questi termini vengono a delinearsi i vari sistemi ed è a questo punto di partenza che bisogna assolutamente far ricorso per trovare la ragione intima dei disaccordi reali e non puramente verbali, che sul piano della metafisica, dividono, soprattutto dal tempo della Scolastica a questa parte, le correnti della filosofia cristiana. Agli scopi della nostra ricerca è sufficiente indicare il significato proprio che questi termini hanno nell’opera di S. Tommaso, e non ho creduto opportuno agitare la questione in merito agli ulteriori sviluppi che questi problemi possono aver avuto nel Tomismo. Il P. DESCOQS nel suo T. II delle Praelectiones Theologiae Naturalis (pp. 530-568) ha voluto mostrare che esiste un dissidio reale fra la nozione tomista tradizionale di Ens e quella proposta dal Gaetano e ritenuta dalla maggior parte dei tomisti moderni. Mentre per il Capreolo, «princeps Thomistarum» solo l’ens ut nomen trascende i predicamenti ed è trascendentale per sè ed in senso
proprio ed è quindi l’oggetto proprio della metafisica – per il Gaetano invece è tutto il contrario: «Mihi autem aliter dicendum occurrit: dico enim quod ens participialiter est id quod est transcendens, divisum in decem praedicamenta»1. La disamina del P. D. si presenta in sè molto interessante, soprattutto per le conseguenze che possono derivare intorno al pensiero genuino di S. Tommaso circa l’analogia dell’Essere, di cui| tanto recentemente si è discusso: la preminenza data dal Gaetano all’analogia di proporzionalità rifletterebbe fedelmente la vera «mens Divi Thomae» in questa parte?2 Quello che par certo si è che nella concezione tomista dell’analogia dell’essere è essenziale la nozione di partecipazione: «Non dicitur esse similitudo inter Deum et creaturas propter convenientiam in forma secundum eamdem rationem generis aut speciei: sed secundum analogiam tantum, prout scilicet Deus est ens per essentiam et alia per participationem» (Ia, q. 4, a. 3 ad 3um); ora sembra che tale nozione sia piuttosto trascurata nell’elaborazione del Gaetano. Dobbiamo allora dire che la grande ombra del Gaetano ha impedito la vera interpretazione del pensiero dell’Aquinate? La questione è troppo grave ed io non intendo avanzare su di un terreno così spinoso, poichè un giudizio definitivo in merito non sarà possibile se non a traverso uno studio che ci porterebbe fuori dell’argomento che abbiamo fra le mani3. Del resto le divergenze fra i tomisti, alle quali il P. Descoqs ha voluto accennare, non senza una maliziosa soddisfazione, non toccano direttamente il significato positivo delle applicazioni principali della nozione tomista di ente, che sono comuni a tutti i tomisti: tanto il Capreolo, come il Ferrariensis, come il Gaetano ritengono essenziale per il Tomismo la distinzione reale fra essenza ed atto| di essere, che formerà il fulcro della nostra ricerca; di fronte a questo accordo così profondo, le altre divergenze perdono molto della drammaticità che ad esse si è cercato di dare. A) ENTE
Ente è un termine participiale di senso attivo, che indica in concreto l’esercizio di una formalità, quella dell’essere: ENTE allora è «ciò che è», Id quod est, come «camminante» è ciò che «cammina». Ma questa indicazione grammaticale non basta; essa resta troppo vaga; poichè l’essere non è una formalità qualsiasi, ma al tutto speciale, e non suscettibile di un unico significato, ma di diversi, onde anche il concreto «Ente» è un concreto sui generis, la cui intelligibilità pone delle esigenze speciali. S. Tommaso per il significato di «essere» si riferisce costantemente ad Aristotele secondo una pericope del libro V della Metafisica, ove viene distinto: a) un essere «extra animam» che corrisponde ai modi reali predicamentali, e b) un modo di essere che esiste soltanto nella mente, ed in conseguenza dell’operazione mentale, cioè la verità: a) «Essere in sè si dice in tutti i significati che l’essere ha nelle figure della categoria; poichè tanti sono i modi in cui si dice, e altrettanti sono questi significati. Ora, poichè dei predicati alcuni significano che cosa è una cosa, altri la qualità, altri la quantità, altri la relazione, altri il fare o patire, altri il dove, altri il quando, essere in sè si dice nello stesso modo di ciascuno di questi significati... b) Di più, l’essere e l’“è” significa che “è vero”; il non essere, che “non è vero, ma falso”, e questo tanto per l’affermazione, quanto per la negazione. c) Di più, l’essere e “ciò che è” nei casi su menzionati; si può dire tanto per significare la potenza, quanto l’atto»4. Secondo Aristotele il secondo significato ha un interesse metafisico molto secondario, poichè dipende in tutto dal primo, come effetto da causa; per lo Stagirita adunque il primo significato di essere è quello che si riferisce ai dieci predicamenti, di cui fa espressamente l’elenco: è un significato quindi «plurisignificativo» che si estende dalla Sostanza, alla quale compete per primo, fino agli accidenti più deboli. Sembra evidente quindi che per Aristotele l’ens, che è oggetto proprio della metafisica, è quello «nominaliter| sumptum», quello cioè che si riferisce all’espansione categoriale della realtà, e che resta perciò comune e trascendente, a suo modo, a tutte le categorie. Malgrado i continui sforzi di mantenersi fedele non soltanto al pensiero ma anche alla lettera del Filosofo, S. Tommaso presenta delle ulteriori esplicitazioni in proposito che sono qualcosa di più delle semplici varianti, e che rivelano ormai l’assimilazione personale che l’Angelico ha fatto della speculazione posteriore allo Stagirita, e soprattutto di quella neoplatonica, come è stato già indicato. Altrove infatti S. Tommaso, benchè si introduca con un «dupliciter», in realtà presenta ben tre significati distinti di «Essere», con una precisione inequivocabile: «Sed sciendum est quod esse dicitur tripliciter. Uno modo 1) dicitur esse ipsa quidditas vel natura rei, sicut dicitur quod definitio est oratio significans quid est esse: definitio enim quidditatem rei significat (corrisponde esattamente al primo significato di Aristotele). –
Alio modo 2) dicitur esse, ipse actus essentiae; sicut vivere quod est esse viventibus, est animae actus; non actus secundus, qui est operatio, sed actus primus. – Tertio modo 3) dicitur esse quod significat veritatem compositionis in propositionibus secundum quod est dicitur copula – (è il 2º significato di Aristotele) –. S. Tommaso precisa la natura dell’est copula «et secundum hoc est in intellectu componente et dividente quantum ad sui complementum: sed fundatur in esse rei, quod est actus essentiae, sicut supra de Veritate dictum est» (In I Sent., Dist. 33, I, 1 ad 1; P. VI, 266 a). In questo testo appare non solo la distinzione dell’esse come copula, dell’esse reale ma anche dell’esse come atto dall’essenza di cui è atto, come si rileva dall’applicazione immediata che S. Tommaso ne fa a proposito della relazione: «Dico igitur, quod cum dicitur: Ad aliquid sunt, quorum esse est ad aliud se habere, intelligitur de esse quod est quidditas rei, quae definitione significatur: quia ipsa natura relationis per quam constituitur in tali genere est ad aliud se referri; et non intelligitur de esse quod est actus essentiae; hoc enim esse habet relatio ex his quae causant ipsam in subiecto secundum quod esse non refertur ad aliud sed ad subiectum, sicut et quoddam accidens» (l. cit. ibid.; cfr. Ia, q. 3, a. 4 ad 2um, In III Sent., Dist. 6, q. II, a. 2, VII, 84; cfr. ibid., ad 4um; S. Theol., III, q. 17, a. 3). Se cerchiamo pertanto di dare un prospetto generale dello sviluppo che la nozione di essere può avere nel pensiero umano, vi possiamo distinguere:| I. (a) Una prima nozione di essere, quella che segna il primo risveglio della nostra facoltà intellettuale – essa è frutto di una astrazione, quasi formale, da una particolare percezione di ordine concreto: in tedesco sarebbe detto «Dingsein». Questa nozione si va estendendo con il procedere dell’esperienza, includendo tutti i nuovi oggetti (Ens in communi). II. Nella riflessione filosofica distinguiamo nettamente (b) un essere formale, cioè essere come essenza che esiste «Etwassein»; (g) un essere attuale come atto dell’essenza, «Wirklichsein» e (d) un essere logico, come verità, «Wahrsein»5. III. Infine possiamo arrivare, per mezzo della riflessione metafisica intensiva, ad (e) una nozione di essere che è la sintesi, nella quale vengono a trovarsi fuse tutte le formalità e perfezioni particolari con la rimozione di ogni potenzialità6. Tutte queste precisazioni ci sono abbastanza note, e sono state indicate soltanto per dare una qualche organicità allo sviluppo delle nostre riflessioni: quello che a noi preme ora di far notare è il passaggio nozionale fra il II e il III significato di Essere, e precisamente fra il significato di essere (b) come essenza e (g) come atto di essere, al significato (e) di essere come sintesi nozionale di ogni formalità, poichè è per questo ultimo significato che resta fondata la nozione metafisica di partecipazione. B) L’ESSERE COME ESSENZA Pertanto al termine concreto «Ente» corrispondono in astratto nel pensiero tomista due termini: «Essenza ed Essere», che stanno a significare due attualità, dalle quali si comprende risultare l’ente reale cioè l’essenza e l’actus essendi, ovvero l’esse essentiae, e l’esse existentiae. Quando ci è noto di una cosa l’esse essentiae sappiamo «che cosa» è, e perchè qualcosa venga a diversificarsi in mezzo alle altre con le quali coesiste; per l’esse existentiae| sappiamo che c’è, che esiste di fatto, e non può esser ridotta o confusa con un concetto od un vano desiderio. Si noti subito però che «essenza» e «actus essendi» sono bensì due significati (intentiones) distinti, ma non indipendenti, cioè perfettamente separabili, poichè l’uno implica necessariamente un riferimento all’altro; non si può comprendere un’essenza se non in relazione all’esistenza, o come possibile se l’essenza è considerata in astratto, o come reale se l’essenza è considerata come realizzata di fatto in natura. Similmente l’esistere non è concepibile, per noi, se non come atto, possibile o reale, di qualche formalità: l’essere puro per sè sussistente, non è per noi oggetto di semplice apprehensio o intuizione, ma è una conclusione alla quale arriviamo dopo laboriosi ragionamenti, checchè abbiano voluto dire gli ontologi, e questo per le condizioni particolari del nostro modo di conoscere che è finito e legato alla sensibilità: «Modus significandi in dictionibus quae a nobis rebus imponuntur, sequitur modum intelligendi... Intellectus autem noster hoc modo intelligit esse quo modo invenitur in rebus inferioribus a quibus scientiam capit, in quibus esse non est subsistens sed inhaerens. Ratio autem invenit quod aliquod esse subsistens sit» (De Pot., VII, 2 ad 7um). Ma il nostro intelletto, ciononostante, non resta sempre rinchiuso in una conoscenza di minimo contenuto nozionale: per la sua spiritualità può riflettere sui dati delle sue conoscenze, e considerare in un modo universale e intensivo i dati particolari che giacciono nelle prime nozioni, avute nella conoscenza spontanea: «Sed intellectus noster potest in abstractione considerare quod in concretione cognoscit. Etsi enim cognoscat res habentes formam in materia, tamen resolvit compositum in utrumque, et considerat ipsam formam per se» (Ia, q. 12, a. 4 ad 3um).
Consideriamo adunque brevemente «ipsam formam per se» in relazione alla nozione intensiva di essere: e ci si perdoni se qua e là dobbiamo riprendere riflessioni già note. E si può osservare che l’«essere», come ragione (astratta) di essere, in natura non esiste, come in natura non esistono nè l’animalità, nè l’umanità – ma esistono soltanto degli esseri, come esistono soltanto degli animali e degli uomini, individui. Di più, la ragion d’essere s’identifica realmente nell’individuo con l’animalità, la quale s’identifica con l’umanità concreta di Socrate e Callia, cioè con le essenze individuali; è questa infatti la conclusione principale di quel complesso di laboriose discussioni che formano i libri Z ed H (VII-VIII) della Metafisica di Aristotele, dedicati alla nozione metafisica di sostanza concreta, ove, in oppo|sizione alla partecipazione platonica, si proclama l’identificazione reale di tutte le parti della definizione7. Ancora: queste forme ed essenze individuali nell’Aristotelismo sono concepite appunto consistere in qualcosa di indivisibile, onde vanno predicate «ex aequo» degli inferiori secondo una rigorosa eguaglianza formale; soltanto alcune forme accidentali, nel genere della qualità, possono per sè trovarsi in vari soggetti secondo un magis et minus, ma la forma, che è ragione del grado specifico di essere, è immutabilmente fissa per tutti perchè fondata sulla contraddizione stessa. Per questo Callia non è meno «uomo» di Socrate, anche se Socrate possa essere più sapiente di Callia; ed Alcibiade è egualmente «uomo» da fanciullo, da giovane, da adulto, da vecchio...: mentre tutto in lui, fisiologicamente e psicologicamente in qualche modo cambia, la sua «umanità» resta sempre identica nel suo fondo sostanziale, tanto all’inizio come alla fine. «Substantia non suscipit magis et minus..., essentiae rerum sunt sicut numeri»: l’ostracismo alla partecipazione platonica non poteva essere più inesorabile; eppure è su queste affermazioni aristoteliche che S. Tommaso, come è stato già indicato, viene a radicare la propria nozione di partecipazione. Per S. Tommaso il mondo intelligibile delle essenze non è un «hortus conclusus», risultante di elementi immobili che per un istante, che possiamo chiamare quello del pensiero categoriale o predicamentale, quello cioè della predicazione logico-formale del genere a riguardo delle sue specie, e della specie per gli individui8. Ma nell’istante seguente della riflessione metafisica tutto quel mondo di perfezioni pure e formalità astratte e indivisibili offre spontaneamente, anzi suscita lui stesso, il movimento dialettico del pensiero, che relaziona le varie formalità fra di loro e rispetto alla formalità suprema, l’essere che è soltanto «essere». In relazione a questo «essere» ogni perfezione formale, generica e specifica, si presenta come una «particolare perfezione»9 onde le varie for|malità, sul piano del pensiero metafisico, non possono esser considerate «ex aequo», e collocate a pari lungo una linea retta, secondo una contiguità fisica, ma si presentano secondo un intensificarsi progressivo di perfezione e secondo un piano che ascende a spirale per gradi, secondo una contiguità che possiamo chiamare metafisica. La penetrazione del pensiero dello Ps.-Dionigi ha reso meno rigide le barriere che Aristotele sembrava aver posto fra i vari elementi della fu,sij: «Sicut dicit Dionysius (De Divinis Nom., c. VII) divina sapientia coniungit fines primorum principiis secundorum; naturae enim ordinatae ad invicem sic se habent sicut corpora contiguata, quorum inferius in sui supremo tangit superius in sui infimo; unde et inferior natura attingit in sui supremo ad aliquid quod est proprium superioris naturae, imperfecte illud participans» (De Veritate, XVI, 1). Le varie formalità vengono quindi nella riflessione metafisica ad essere ordinate per sè, secondo l’intensità del grado di perfezione di ciascuna: «Invenitur igitur in formis diversitas secundum quemdam ordinem perfectionis et imperfectionis, nam quae materiae est propinquior imperfectior est et quasi in potentia respectu supervenientis formae» (De Subst. separatis, c. 8, ed. cit. p. 231; cfr. anche: C. G., III, c. 91; De Spiritualibus Creaturis, a. 1 ad 9um). S. Tommaso è così preso da questa suggestiva visione metafisica, aperta dalla speculazione dello Stagirita, che la vuol gustare in tutta la sua profondità, quasi avesse trovato il miele nella bocca del leone, e parla di un prius et posterius anche nelle cause formali: «... Dicendum quod secundum Philosophum, etiam in causis formalibus prius et posterius invenitur; unde nihil prohibet unam formam per alterius participationem formari; et sic ipse Deus qui est esse tantum, est quodammodo species omnium formarum subsistentium quae esse participant et non sunt suum esse» (De Pot., VI, 5 ad 6um). Il testo completa quello del De Veritate, XVI, 1, e mostra a quale vertice sia giunta la sintesi di S. Tommaso: ma non preveniamo le ulteriori discussioni. Possiamo pertanto dire che nel Tomismo è proprio l’essenza, considerata in relazione all’atto di essere, che obbliga la mente a trascendere i dati univoci delle astrazioni inferiori e a mettersi in cammino| verso l’ultima fondazione di ogni cosa. Ciascuna formalità, per perfetta che sia, poichè è questa e non quella, le manca sempre qualche perfezione reale, resta sempre qualcosa di limitato e di ristretto nell’ordine dell’essere (Comp. Theol., c. 21, Item); se a riguardo delle formalità ad essa inferiori, può considerarsi come un partecipato, a riguardo dell’ultima formalità, quella dell’essere, essa stessa resta un partecipante.
L’ultimo termine della risoluzione formale dell’essenza è adunque l’«essere formale», che È, senza limitazione alcuna a genere o specie; è l’Essere che è senza determinazioni e che si determina, cioè si pone al di fuori e sopra ogni altra formalità, appunto perchè, a differenza di tutte, non è costituito da una particolare determinazione: questo «Essere» è il vero to. o;;ntwj o;n e pantelw/j o;n, verso il quale si apre per la risoluzione definitiva la dialettica della partecipazione (Ia, q. 12, a. 4 ad 3um), l’Ente perfettissimo. In altre parole l’ipsum Esse è talmente ciò che è che, essendo sè, è tutte le altre formalità e più ancora: riassumendo in sè la perfezione di una formalità, non esclude quella di un’altra ma anzi la implica; onde tutte le perfezioni sono in lui presenti senza alcuna contrarietà formale. Così questa suprema «ragion d’essere» (poichè si astrae ancora se, di fatto, esista in realtà), può esser veramente considerata come il «plesso di tutti gli enti» e di tutte le formalità. L’«ipsum esse» esprime adunque la «totalità metafisica trascendentale» di cui le singole perfezioni e formalità reali non sono che particolari realizzazioni ed espressioni, cioè «PARTECIPAZIONI». L’enigmatica formula di Boezio: «Omnia participant esse, ipsum autem esse nihil participare potest» non ha più soltanto il significato «fenomenologico», quale veniva indicato all’inizio di questa parte, secondo il quale l’essere appariva come condizione prima dell’intelligibilità di qualsiasi partecipazione: ora l’essere appare come la prima formalità, in relazione alla quale tutte le altre formalità appaiono come delle derivazioni e «degradazioni». A questo momento Boezio è continuato con il De Causis e con lo Ps.-Dionigi, quale è stato assimilato da S. Tommaso ed è curioso l’osservare come S. Tommaso trovi l’incentivo per la sua elaborazione sintetica proprio in quelle formule dionisiane che sono più sospette ai critici moderni. La prima formalità dopo il Bene, è l’Essere e non solo i partecipanti, ma anche le stesse seguenti partecipazioni, come la Sapienza, la Vita... partecipano all’Essere che è la formalità «più| vecchia»10: di tutto questo formulario neoplatonico, tutt’altro che chiaro, S. Tommaso ne fa una completa trasposizione metafisica, che finisce per raggiungere la nozione della Divinità che abbiamo per Rivelazione. «Quod autem per se esse sit (senius) primum et dignius quam per se vita et per se sapientia ostendit (Dionysius) dupliciter. Primo quidem per hoc quod quaecumque participant aliis participationibus, primo participant ipso esse: prius enim intelligitur aliquid ens quam unum, vivens et sapiens. Secundo quod ipsum esse comparatur ad vitam et ad alia huiusmodi sicut participatum ad participans: nam etiam ipsa vita est ens quoddam: et sic esse prius et simplicius est quam vita et alia huiusmodi et comparatur ad ea ut actus eorum. Et ideo dicit quod non solum ea quae participant aliis participationibus, prius participant ipso esse; sed, quod magis est, divina quae nominantur per se ipsa, ut per se vita, per se sapientia et alia huiusmodi, quibus existentia participant ipso per se esse: quia nihil est existens, cuius ipsum per se esse non sit substantia et aevum, idest forma participata ad subsistendum et durandum. Unde cum vita sit quoddam existens, vita etiam participat ipso esse. Ex hoc ergo concludit principale propositum: scilicet quod Deus convenienter principalius prae aliis nominibus laudatur sicut existens, quasi ex digniore donorum suorum. Et quod principalius sic laudetur patet Exod. 3, 14: ubi dicitur “Qui est, misit me ad vos”» (Comm. in l. De Div. Nom., c. V, P. XV, lect. 1, p. 348). Di questo testo assai complesso riteniamo che tanto i concreti, come le partecipazioni e perfezioni formali, partecipano all’essere: «Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi» Ia, q. 4, a. 2). «Ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est ab omnibus; ipsum autem nihil participat; unde si sit aliquid quod sit ipsum esse subsistens, sicut de Deo dicimus, nihil participare dicimus» (De Anima, 6 ad 2um; cfr.: De Malo, q. XVI, a. 9 ad 5um).| La nozione tomista di «esse» ci appare ancora una volta come il frutto più maturo della riflessione intensiva: «In omnibus illud quod est commune, vehementius est: sed illud quod est proprium plura complectitur actu; et perfectio communis est in hoc quod se extendit ad illa quae complectitur proprium, ut genus perficitur per additionem differentiae: sicut esse vehementius inhaeret quam vivere et tamen vivere aliquid complectitur actu, quod esse non habet nisi in potentia; unde perfectio esse est secundum quod se extendit ad vitam» (In III Sent., Dist. 30, q. I, a. 2, VII, 327 a)11. Il Neoplatonismo, che qui ispira direttamente l’Aquinate, con l’emergenza ontologica data agli aspetti (rationes) più formali e trascendentali della realtà e le partecipazioni, che venivano «reificate» come entità per sè stanti, intermediarie fra l’Uno e il Bene impartecipato (avme,tecon) e impartecipabile e i partecipanti, viene sfrondato del suo aspetto caduco, ed è ritenuto soltanto lo spirito metafisico. Di partecipante in partecipazione, e di partecipazione in partecipazione assistiamo così come ad un «passaggio al limite» che la mente fa, fissandosi nella nozione intensiva di «Esse», termine ultimo di
risoluzione dialettica e di composizione nozionale: non si può andare più in là, perchè un al di là che sia oltre l’essere, non c’è. Alla nozione di essenza, come «id quod habet esse» in questo o quel particolare, come è il caso di ogni ente particolare, corrisponde nella riflessione metafisica la nozione dell’ipsum esse subsistens, pienezza formale assoluta di ogni perfezione: e così mentre la nostra speculazione comincia con una nozione di minimo contenuto formale e di massima estensione, qual è quella di ente come «id quod habet esse» alla fine si arriva ad una nozione di massimo contenuto, a quella che l’HABBEL opportunamente ha chiamato la «Maximalbegriff des Seins», che è propria di Dio12. L’attribuzione metafisica di partecipazione vien fatta adunque| in relazione a questa ragione intensiva di essere che è l’esse subsistens, come totalità intelligibile, che contiene in sè tutte le attuali e possibili partecipazioni dell’essere: quando sarà assodato che l’esse subsistens DI FATTO esiste, allora la partecipazione non è più un mero rapporto nozionale o condizionale di intelligibilità, ma un rapporto reale di triplice causalità – esemplare, efficiente e finale –, secondo una totale dipendenza della creatura dal Creatore. L’intervento della nozione dell’ipsum esse come «totalità intelligibile dell’Essere» non solo non complica le cose, come teme il P. Descoqs13; ma rappresenta l’unica via d’uscita per un realismo moderato che voglia evitare le ipostatizzazioni platoniche di ogni astratto, ed il nichilismo metafisico dei nominalisti, per i quali non esiste se non il singolare concreto. Per S. Tommaso il primo, che ha diritto ad esistere, è un astratto, l’ipsum esse, ma, fra gli astratti, esso soltanto: esso che non può essere, in senso rigoroso, un astratto mentale, è l’astratto e il «separato» (cwristo,j) reale per eccellenza. Perchè solo l’essere può essere in quanto è soltanto essere. C) L’ESSE COME ACTUS ESSENDI
La nozione di «esse» come actus essendi è il complemento nozionale della nozione di ente reale; essa è assai più semplice di quella di essenza, ma al confronto ben più misteriosa. L’essere, come esistenza, infatti è da noi «toccato» e vissuto nelle oscure intuizioni della sensibilità e nella presenzialità effimera che hanno in noi gli atti all’anima nostra, e mai penetrato dal nostro intelletto intuitivamente nella sua profonda attualità. È strana, ma è pur questa la condizione del nostro intelletto: esso arriva a comprendere direttamente solo l’essenza, e non coglie l’esistenza che entro un’essenza, secondo la fisionomia di questa. Bisogna dire dunque che l’esistenza, non è per noi definibile, non soltanto per la sua massima generalità, cioè trascendenza logica, ma anche perchè di natura sua, per il nostro intelletto, non ha un modo proprio di presentarsi, all’infuori dell’essenza di cui| è atto: S. Tommaso quindi si accontenta di presentare delle descrizioni. Le descrizioni tomiste dell’atto di essere hanno però un valore tutto particolare, per l’eccezionale importanza che dànno all’atto di essere nei confronti dell’essenza, e che non potranno esser afferrate in tutta la loro portata metafisica se non da chi ammette tutti gli sviluppi che quella nozione ha provocati nella sintesi tomista. L’esse, come atto di essere, non è soltanto il fatto di esistere, o «id per quod aliquid constituitur extra suas causas»: ciò piuttosto è l’effetto esterno dell’atto di essere, ma secondo S. Tommaso l’atto di essere è di natura più profonda. Esso è anzitutto ciò per cui (quo) ogni formalità può essere indicata come reale, cioè distinta, non solo nozionalmente, da ogni altra, ma «separata» realmente in natura, è l’atto dell’essenza: «Alio modo, osserva l’Angelico, esse dicitur actus entis in quantum est ens, idest quo aliquid denominatur ens actu in rerum natura; et sic esse non attribuitur nisi rebus ipsis quae decem generibus continentur» (Quodl., IX, q. II, a. 3). E altrove precisando: «Esse est actualitas omnis formae vel naturae, non enim bonitas et humanitas significamus in actu, nisi prout significamus eam esse» (Ia, q. 3, a. 4); «Omnis res est per hoc quod habet esse» (C. G., I, c. 22; Quodl., II, 3 ad 2um). L’esse quindi è ciò che vi è di più intimo in ogni cosa: «Inter omnia, esse est illud quod immediatius et intimius convenit rebus, ut dicitur in libro De Causis» (Q. De Anima, a. 9). «Esse est illud quod est magis intimum cuilibet et profundius inest, cum sit formale respectu omnium quae in re sunt» (Ia, q. 8, a. 1). L’Esse è il complemento di ogni forma: «Dico quod esse substantiale rei non est accidens, sed actualitas cuiuslibet formae existentis, sive sine materia sive cum materia. Et quia esse est complementum omnium, inde est quod proprius effectus Dei est esse» (Quodl. XII, 5). È la forma di tutte le forme, e l’atto di tutti gli atti: «Ipsum esse est complementum substantiae existentis, unumquodque enim actu est per quod habet esse» (C. G., II, c. 53). È ciò che vi è di più formale: «Illud autem quod est maxime formale omnium, est ipsum esse» (Ia, q. 7, a. 1). «Nihil est formalius aut simplicius quam esse» (C. G., I, c. 23). «Esse est magis intimum cuilibet rei
quam ea per quae esse determinatur unde et remanet illis remotis» (In II Sent., Dist. 1, q. I, a. 4; P. VI, 389 b; cfr. Ia, q. 105, a. 5). L’essere è il primo bene e la prima perfezione a confronto delle formalità di cui è atto: «Ipsum enim esse cuiuslibet rei quoddam bonum est et similiter perfectio» (Ia, q. 20, a. 2), perchè è atto,| e l’atto è essenzialmente perfezione. S. Tommaso non ha quindi potuto aderire neanche per un istante alla concezione avicenniana dell’atto di essere come accidente (quasi) predicamentale, che anzi ha posto l’atto di essere a fondamento della stessa realtà sostanziale. «Omnis nobilitas cuiusque rei est sibi secundum suum esse; nulla enim nobilitas esset homini ex sua sapientia, nisi per eam sapiens esset, et sic de aliis» (C. G., I, c. 28). «Ipsum esse est perfectissimum omnium: comparatur enim ad omnia ut actus; nihil enim habet actualitatem nisi in quantum est, unde ipsum esse est actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum. Unde non comparatur ad alia sicut recipiens ad receptum sed magis sicut receptum ad recipiens; cum enim dico esse hominis vel equi, ipsum esse consideratur ut formale et receptum, non autem ut illud cui competit esse» (Ia, q. 4, a. 1 ad 3um). Perciò si afferma che «licet ipsum esse sit formalissimum inter omnia, tamen est etiam maxime communicabile» (Q. De Anima, a. 1 ad 17um). «Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi. Secundum hoc enim aliqua perfecta sunt quod aliquo modo esse habent» (Ia, q. 4, a. 2). I testi di S. Tommaso intorno alla natura dell’esse, come «actus essentiae» e atto ultimo di ogni formalità, nel senso tecnico della parola actus, sono così espliciti che stupisce assai il sentire il P. Descoqs fare delle restrizioni di questo genere, che non si spiegano se non per il partito preso di evitare la conseguenza della distinzione reale fra essenza ed atto di essere in creatis. Dopo aver distinto i due possibili sensi di esse, come perfezione in genere, e come atto «au sens propre du mot», conclude: «Nous soutiendrons ici dans tout ce qui va suivre la première manière d’entendre l’esse, c’est-à-dire là actualité de la perfection de la forme, de l’acte... ce qu’il y a de plus intime et de plus profond dans l’être, ce qui le constitue comme réel en acte, mais non pas du tout un acte au sens strict dont corrélatif est puissance réelle»14. Certamente il punto che qui tocchiamo è assai delicato, soprattutto quando si consideri il pensiero di S. Tommaso in relazione alle sue Fonti da una parte, e alle posizioni avversarie dall’altra, che rivendicheranno al riguardo la genuina interpretazione di Boezio o di Aristotele o dello Ps.-Dionigi intorno alla nozione di «esse»15.| Ma checchè sia della fedeltà storica dell’esegesi tomista, il P. Descoqs è padrone di accettare l’esegesi più fedele dalle fonti, ma non riuscirà mai a cambiare il significato immediato dei testi tomistici, che proclamano in un modo inequivocabile la natura dell’esse existentiae come actus essendi, di cui il correlativo è l’essenza stessa, come potenza. I testi da citare sono innumerevoli e già i testi citati sono decisivi al proposito, ma si legga anche il seguente, che è di una rara eleganza e profondità: «Hoc quod dico ESSE est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est semper perfectior potentia» (per S. Tommaso adunque i due significati dello Ps.-Dionigi fanno uno, e, manco a farlo apposta, il primo, che gode le preferenze del dotto Padre, è giustificato con il secondo! Il testo continua): «Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse, est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans sicut potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui additur determinandum. Nihil autem potest addi ad esse quod sit extraneum ab ipso, cum ab eo nihil sit extraneum nisi non ens, quod non potest esse nec forma nec materia. Unde non sic determinatur esse per aliud sicut potentia per actum, sed magis sicut actus per potentiam. Nam et in definitione formarum ponuntur propriae materiae loco differentiae, sicut cum dicitur quod anima est actus corporis physici organici. Et per hunc modum hoc esse ab illo esse distinguitur in quantum est talis vel talis naturae. Et per hoc dicit Dionysius (Div. Nom., c. V) quod licet viventia sint nobiliora quam existentia, tamen esse est nobilius quam vivere: viventia enim non tantum habent vitam, sed cum vita simul habent et esse» (De Potentia, VII, 2 ad 9um). Il concetto di esse, come ho accennato di sopra, presenta per la nostra mente una duplice convergenza: una come pienezza assoluta di tutte le forme e perfezioni, come esse intensivo formale (nozione a cui s’arresta la metafisica di tipo scotista o suareziano); un’altra come atto originario, atto di ogni atto, ecc., e che non si trova quindi sulla linea retta di una mera potenziazione formale ma che esige il «passaggio ad altro», all’ineffabile energia primordiale che ci fa emergere sul nulla, atto che quando è per essenza (e non per partecipazione) è per ciò stesso pienezza assoluta, pos|sesso eminente di tutte le perfezioni. Ma questa, per così dire, nascita primordiale dell’ente il nostro intelletto non la penetra mai, ma appena la sospetta o la tocca (attingit) nella riflessione metafisica e in certi scandagli più profondi, ma troppo passeggeri, della nostra vita interiore. Ma bisogna conservare questa tensione fra il campo formale reale e quello reale attuale:
altrimenti l’esse svapora nella existentia, nel fatto di essere come mera realtà storica in una data situazione spazio-temporale16. Il richiamo a Dionigi, con cui termina il t. cit., ci fa pensare ad un punto della nozione tomista dell’esse di essenziale importanza. L’esse può essere considerato sia in astratto, come in concreto: a) in astratto, viene a coincidere con l’«esse maximum formale» che è termine dell’astrazione intensiva ed è il plesso di tutte le perfezioni formali e trascendentali; considerato invece b) in concreto, è l’atto proprio di ogni formalità particolare, onde è bensì ciò che vi è di più perfetto in un essere particolare, ma resta imperfetto a confronto dello esse che attua una formalità di ordine superiore: poichè ogni formalità è in qualche modo una partecipazione dello splendore divino17. L’essere ha voluto umiliarsi, ci si passi la metafora, ad attuare anche le più infime forme, rassegnandosi al loro grado. «Sicut idem Dionysius dicit, licet ipsum esse (in astratto) sit perfectius quam ipsa vita, et ipsa vita quam ipsa sapientia, si considerentur secundum quod distinguuntur ratione; tamen vivens est perfectius quam ens tantum; quia vivens etiam est ens, et sapiens est ens et vivens. Licet igitur ens non includat in se vivens et sapiens, quia non oportet quod illud quod participat esse, participet illud secundum omnem modum essendi...» (Ia, q. 4, a. 2 ad 3um). E più chiaramente nella Ia-IIae: «Esse simpliciter acceptum secundum quod includit in se omnem perfectionem essendi, praeeminet vitae et omnibus perfectionibus subsequentibus. Sic igitur esse praehabet in se omnia bona subsequentia, et hoc modo Dionysius lo|quitur. Sed si consideretur ipsum esse secundum quod participatur in hac re vel in illa, quae non capiunt totam perfectionem essendi, sed habent esse imperfectum, sicut est esse cuiuslibet creaturae; sic manifestum est quod ipsum esse cum perfectione superaddita est eminentius. Unde et Dionysius dicit, quod “viventia sunt meliora existentibus, et intelligentia viventibus”» (Ia-IIae, q. 2, a. 5 ad 2um; cfr. anche In I Sent., Dist. 8, q. I, a. 1 Sol. Ratio Dionysii; ibid. q. II, a. 2)18. Alla fine di questa disamina della nozione tomista di ens e di esse si potrebbe osservare che tanto l’essenza come l’esse possono esser soggetti di una sublimazione nella riflessione filosofica, con la quale si arriva alla nozione dell’ipsum esse che è sintesi eminente di tutte le forme e perfezioni, e dell’esse subsistens, che è l’esse come tale, che è atto puro sussistente cioè non mescolato a nessuna formalità particolare che lo faccia «degradare». Ma non pare che si possa parlare, in senso rigoroso, di due nozioni intensive di «esse» dovute a due elaborazioni, una dell’esse essentiae e una dell’esse existentiae, ma di UNA soltanto19, quella dell’esse essentiae, che come dice S. Tommaso è quello che specifica e trae a sè e determina l’esse existentiae. L’esse existentiae, sotto questo aspetto, è speculativamente «vuoto», poichè non ha un contenuto formale proprio, e come trova nel soggetto il fondamento della sussistenza, così pure dalla essenza del soggetto riceve l’intelligibilità20.| Voglio dire che per la mente essenza ed esistenza si presentano con uno strano contrasto: a) l’essenza è di per sè intelligibile, in quanto risulta dalla proporzione di elementi che si completano a vicenda od in quanto è un’imagine, manifestativa di qualche perfezione divina, infinitamente però distante dall’esemplare, com’è il caso di tutte le essenze in generale, anche di quelle al tutto semplici. Ma l’essenza, per perfetta che sia, di per sè non è reale, perchè dice di essere questo o quello, ma non di essere senza altro «realmente»; ciò sarebbe una meta,basij eivj a;llo ge,noj! b) l’atto di essere è per definizione ciò che fa reale ogni cosa ed attua ogni formalità; ma in queste si trova come «inhaerens». L’esse «subsistens» è perfettamente intelligibile in sè, ma l’esse «inhaerens» no! almeno al primo aspetto si presenta come un dato irrazionale. Come l’essenza, che per sè è un possibile e non ha diritto ad esistere, se è trovata esistere di fatto, pone il problema del «come» alla possibilità sia succeduta lo esse attuale: così l’esse, che non solo ha diritto all’esistere, ma è lo stesso esistere, se è trovato esistere come «inhaerens» a qualche altra cosa, è quasi come uno scandalo per la nostra mente, che bisogna, almeno in qualche modo, cercare di superare21. Così l’ente reale finito, che esiste di fatto, presenta due problemi di un’unica esigenza sotto due aspetti contrarî, che alla fine formano un unico problema; come mai l’essere finito, che in quanto finito non dovrebbe esistere, esiste di fatto? Una prima risposta, sotto l’aspetto critico del problema, può esser data per un ricorso all’esperienza che mi attesta in modo incontestabile, e da nessuno contestato neppure in sede filosofica, l’esistenza di fatto, dell’essere finito. Ma evidentemente si tratta di una risoluzione del problema di ordine più materiale che formale, per un ricorso alla evidenza sensibile soltanto. Ma possiamo avere del fatto anche un’evidenza intelligibile, cioè a priori?
La risposta a questo problema dipende dalla nozione che ci si è fatta dal primo Principio di tutte le cose e della natura della Sua azione ad extra.| Il Neoplatonismo, nelle forme che ha avuto fuori del pensiero cristiano, non ha trovato di fronte a questo problema difficoltà alcuna: il «Bene e l’Uno» per essenza è fontana riboccante e sempre zampillante di nuova realtà, che si effonde necessariamente al di fuori, come per effluvio naturale, nella varietà delle sue partecipazioni; in questa concezione il finito ha la sua esistenza radicata nell’essenza stessa dell’infinito in quanto è la manifestazione naturale della sua essenziale vitalità ed attività. Anche Leibniz, dal punto di vista del suo ottimismo, trovò una risposta categorica alla questione: fra gli infiniti mondi possibili «in mente Dei», ve n’era uno dotato, a preferenza degli altri, di un’esigenza reale ed immediata all’esistenza: quello che fra essi era il migliore. Analogamente, nel numero pure infinito dei compossibili, ulteriormente realizzabili in questo mondo, ve ne sono alcuni forniti di una simile esigenza: quelli fra di essi che, nel sistema delle cose in corso, sono i più adatti. Ma queste grandiose concezioni, poggiano su ipotesi che sono ancora ben lontane dal godere il suffragio degli altri filosofi, che anzi da questi sono respinte come impossibili e infondate. L’osservazione vale soprattutto per i cultori del pensiero cattolico, nel quale Dio è presentato come sovranamente libero, onde il procedere delle partecipazioni ad extra, ed il loro venire all’esistenza non è un’emanazione «naturale», ma una processione che è opera di intelligenza e di amore. Dobbiamo allora concludere che in questo campo l’unica «risoluzione» a noi possibile è nel puro fatto, presente nella esperienza, della realizzazione concreta dell’essere per partecipazione? Certamente sotto l’aspetto critico non possiamo dire di più: noi non possiamo, come il Verbo Divino, avere presenti i decreti eterni, le «praedefinitiones» dello Ps.-Dionigi, per i quali sono chiamati all’essere, nell’istante fissato, gli esseri che a Dio piace chiamare; questa conoscenza è tutta propria di Dio, in quanto è connessa alla sua suprema libertà. Però sotto l’aspetto metafisico, supposta la realizzazione di fatto dell’essere finito e molteplice, pare che possiamo fare qualche piccolo passo, per mostrare non certo le condizioni supreme della possibilità e realtà dell’essere finito, ma solo quelle prossime, o meglio, per mostrare quasi a priori non le condizioni reali dell’essere finito, ma quelle formali. Il Tomismo ha risposto a questo problema facendo ricorso appunto alla nozione trascendentale di partecipazione applicata| sotto un doppio aspetto: anzitutto A) come causalità estrinseca: esemplare, efficiente e finale; poi B) come composizione intrinseca reale nell’ordine dell’essere. POSIZIONE DEL PROBLEMA: LA MOLTEPLICITÀ TRASCENDENTALE NELLE SOSTANZE IMMATERIALI § 2. – La partecipazione trascendentale, secondo le riflessioni precedenti, sembra presentare una doppia problematica: quella della molteplicità reale nel campo dell’essere finito e quella del fatto dell’esistenza del molteplice, che non ha in sè la ragione della sua esistenza. Per poter raggiungere la piena intelligibilità in questo campo, dovremmo poter mostrare le condizioni trascendentali, cioè le ragioni proprie sia della molteplicità come tale, nell’ambito dell’essere, sia dell’esistenza di fatto del molteplice. È stato già detto che a riguardo di quest’ultimo problema la nostra mente può avanzare ben poco: l’esistenza di fatto del molteplice ci appare come un mistero di amore, che dobbiamo accettare con riconoscenza e non presumere di scandagliare. Ma se potremo invece dire qualcosa di più sul primo problema, riusciremo ad illuminare un po’ anche il secondo. Il problema della partecipazione trascendentale è stato da noi ridotto nel suo aspetto fondamentale a quello della molteplicità nel campo dell’essere, come tale. Esso ricerca quindi quali siano le condizioni a priori, ovvero le cause che rendono possibile, cioè intelligibile, una molteplicità di partecipazioni e di partecipanti nel campo dell’essere22. Poichè e partecipazioni e partecipanti convengono (communicant) nell’essere, il punto di partenza delle nostre riflessioni è la considerazione dell’ipsum esse come «FORMA UNIVERSALIS». Ma se cerchiamo di avanzare in questa direzione le nostre conclusioni non potrebbero essere più sconcertanti. Se consideriamo infatti l’Esse come forma universalis, più che alla affermazione, si è portati alla negazione di qualsiasi molteplicità. Ogni formalità invero, quand’è considerata soltanto secondo il suo contenuto intelligibile è unica e indivisibile in sè: se quindi la si suppone esistere, secondo la purezza di questo suo contenuto che la specifica, essa, anche in realtà, non può esistere che unica. Ogni forma, adunque, che è| posta esistere «separata», poichè è solo forma ed atto, deve respingere da sè ogni contaminazione di elementi estranei ed ogni divisione del proprio contenuto, perchè è in sè semplice: questa è l’esigenza del principio
(neoplatonico) della «perfectio subsistens» che S. Tommaso ha sempre accettato secondo il suo contenuto dottrinale23. Altrettanto allora dovrebbe valere per l’atto e la forma di «essere»: l’essere come tale, non dice che essere, pienezza di essere, assoluta autosufficienza; e come tutte le altre forme pure esige unicità, indivisibilità, incomunicabilità... Di fatto, però, quando vogliamo verificare nella realtà la nozione formale ed intensiva di essere che la metafisica ci offre, proviamo una grande delusione: invece di un unico essere ne troviamo molti; invece di un Essere pienamente perfetto, troviamo degli esseri che sono dotati di diversi gradi di perfezione. Tutti questi però sono «esseri» certamente, ma non sono l’Essere: allora non dovrebbero essere – eppure «sono», esistono; diciamo allora che «hanno» l’atto di essere, senza essere l’atto di essere! Non possono esser detti esser l’Essere, per il fatto che sono o cavallo o uomo o Angelo; e il cavallo in tanto è cavallo in quanto rinuncia ad essere tutto il resto... e così Gabriele in tanto è Gabriele, in quanto non è Raffaele o alcuno degli altri Angeli. L’essere reale adunque non è uno, ma pluriforme e plurificato. Allora, se si dà di fatto una pluralità di esseri, questa pluralità, in quanto è reale, dev’essere pur in qualche modo intelligibile. Fin quando si trattasse di sola molteplicità predicamentale, entro il genere o la specie, la questione sembra sia stata già risolta con l’ammissione di quel principio di molteplicità che è stato chiamato «Materia», soggetto fisico di diverse determinazioni da parte di diverse forme o di modi di essere. In tanto, si diceva, è possibile una molteplicità di specie, entro il genere, in quanto si pensa ad una «materia communis», che è soggetto delle differenze specifiche – in tanto è possibile una molteplicità di individui entro la specie, in quanto si pensa ad una materia determinata che è soggetto delle differenze individuali. Ma ora il problema sembra essere ben diverso: non si tratta di mostrare come possano esserci più specie di animali, o più individui uomini entro la specie umana, ma bensì di mostrare, in generale, perchè e come possano esserci più «esseri» tout court.| Qualche filosofo ha pensato di condurre a fondo la riflessione ora indicata: come la materia determinata rende possibile la molteplicità degli individui nella specie, e quella «communis» la pluralità della specie nel genere, così si può pensare una «materia universalis» che sia principio di moltiplicazione nel campo dell’essere come tale; questa «materia universalis» viene poi determinata al grado di essere della formalità a cui va unita ed in alcuni esseri è «corporea», in quelli invece più nobili è «spiritualis» (S. Theol., Ia, q. 90, a. 2 ad 1um). Questa fu appunto la posizione dell’ebreo Avicebron nell’opera Fons vitae, che, per un complesso non ancora del tutto noto di circostanze, venne a costituire uno dei capisaldi dottrinali più importanti della corrente del pensiero medievale, che si diceva più tradizionale e che si appellava a S. Agostino, e che è detta appunto Augustinismo24. Ma S. Tommaso non si lasciò aggiogare, neppure per un istante, a questa corrente, e il Peckam aveva ragione di chiamare «doctrina novella» la posizione del domenicano italiano, che nella modestia del contegno aveva tanto ardire di andare contro uno dei punti più essenziali dell’insegnamento, creduto, più ortodosso. È risaputo come è in questa lotta, aperta con la pomposa dichiarazione del Peckam e che ha ancora da essere chiusa, che si è venuto maturando e specificando il Tomismo, come sistema «nuovo» di filosofia cristiana. Ma quali furono le ragioni che spinsero S. Tommaso ad una opposizione così intransigente che sente il bisogno di ripeterla in tutti i suoi scritti, con i termini più decisi? A sentire S. Tommaso stesso, tanto la Sacra Scrittura, come la tradizione cristiana, come anche la ragione, cioè Aristotele, pongono l’esistenza di esseri superiori, perfettissimi, che stanno al di| sotto di Dio, ma sono superiori a tutto il mondo corporale: e l’Angelico Dottore pensa che secondo la S. Scrittura e la tradizione ecclesiastica, soprattutto lo Ps.-Dionigi, come secondo quella filosofica, tale superiorità degli Angeli non possa esser salvata se non riconoscendoli come esseri al tutto immateriali25. Qui bisogna ancora notare, il contributo positivo dello Aristotelismo in questo punto cruciale del Tomismo: poichè, bisogna riconoscere, è per l’intervento di una nozione specificamente aristotelica, quella di conoscenza, che S. Tommaso ha pensato di volgere il suo pensiero verso una nuova direzione, e cambiare così profondamente tutto l’orientamento della metafisica, checchè vogliano dire gli amanti del concordismo26. Nell’Aristotelismo v’è irriducibilità assoluta fra Materialità e Intellettualità, come fra il grado infimo e il grado supremo della realtà, e gli Angeli sono detti appunto «Intelligenze». Ora la materia e l’intelletto si comportano in un modo affatto contrario a ri|guardo delle forme che hanno o ricevono, come atti proprî; mentre infatti la materia non può ricevere la forma che secondo un modo particolare di essere, l’intelletto invece riceve in sè la forma secondo tutta la sua ampiezza, come consta dall’universalità che ha l’idea nell’intelletto. «Ratio illa (Proprietates materiae sunt recipere et substare...) ponitur in libro Fontis vitae. Et
esset necessaria si idem esset modus quo recipit intellectus, et quo recipit materia. Sed hoc patet esse falsum. Materia enim recipit formam, ut secundum illam constituatur in esse alicuius speciei; vel aëris, vel ignis, vel cuiuscumque alterius. Sic autem intellectus non recipit formam; alioquin verificaretur opinio Empedoclis, qui posuit quod terram terra cognoscimus, et ignem igne. Sed forma intelligibilis est in intellectu secundum ipsam rationem formae; sic enim cognoscitur ab intellectu. Unde talis receptio non est receptio materiae, sed est receptio substantiae immaterialis» (Ia, q. 50, a. 2 ad 2um; cfr. De Ente et Ess., c. IV, ed. Roland-Gosselin, pp. 30-31)27. Mentre la materia è principio di coartazione formale, l’intelletto è principio di un’amplificazione formale che può attingere l’infinito, poichè esso si unisce all’intelligibile intelletto non come materia a forma o potenza ad atto, ma come atto ad atto, e, come l’intelletto, più si attua come forme intelligibili nuove e più nobili, maggiormente è disposto e «tende» ad attuarsi secondo forme ancor più nobili. E tutte queste varie forme, anche quelle che sono in natura più contrarie, coesistono assieme nell’intelletto, senza contrarietà alcuna: che anzi l’una serve a mettere maggiormente in rilievo l’altra (Ia, q. 75, a. 4 ad 1um – per l’Anima)28.| È veramente «frivola» quindi la supposizione che nell’Angelo e in qualsiasi essere spirituale vi possa entrare come principio costitutivo la Materia (Q. De Anima, a. 6); a meno che non si voglia chiamare «materia» ogni potenza reale in generale, ma questo modo di parlare si presta all’equivoco, e non è conforme al modo ordinario tenuto dai filosofi nel designare la natura della materia (Q. De Sp. creat., a. 1; Quodlib. IX, 6; S. Theol., Ia, q. 50, a. 2 ad 3um). Avendo escluso dalla composizione dell’essere angelico la materia, S. Tommaso, se voleva spiegare la molteplicità di questi esseri, come la loro distinzione da Dio, doveva pur ricorrere ad un qualche altro principio potenziale che, sotto l’aspetto metafisico, corrispondesse alla potenzialità della materia, e trovare così un’altra composizione che corrispondesse a quella di Materia e Forma29. S. Tommaso non ha provato gran difficoltà per rispondere all’arduo problema, che egli leggeva suggerita in modo esplicito sia da Avicenna, come dal De Causis e da Boezio: la potenza è l’essenza stessa ovvero la Forma pura dell’Angelo, e l’atto è l’actus essendi; onde l’Angelo, benchè non sia composto di materia e forma perchè è sostanza semplice e immateriale, è composto «in linea essendi» di «forma et esse» (De Causis) di «id quod est et esse» (Boezio). Così il problema della moltitudine trascendentale è risolto: «Et quia in intelligencia ponitur potencia et actus non erit difficile invenire multitudinem intelligenciarum, quod esset impossibile, si nulla potencia in eis esset» (De Ente, c. IV, p. 36, ed. R. Gosselin). CLASSIFICAZIONE DEGLI ARGOMENTI TOMISTI PER LA DISTINZIONE DI ESSENZA ED ATTO DI ESSERE
§ 3. – La nozione metafisica che presenta S. Tommaso di Dio come l’ipsum Esse subsistens è originale, in quanto afferma la coincidenza assoluta ed unica dell’astratto con il concreto: per «Dio» intendiamo l’«Ens realissimum», che ha, o meglio è, secondo una| ineffabile semplicità, quanto è espresso nella nozione formale astratta dell’ipsum esse subsistens; in questa nozione è il sostantivo che determina l’aggettivo: Dio è per se subsistens in quanto è l’ipsum esse senz’altre determinazioni. Gli altri esseri sono tutti «determinati» e rinchiusi in specie od almeno in generi: altrimenti non sarebbero «molti, diversi e distinti». Sono quindi esseri per partecipazione, cioè dipendenti dal primo Essere, ed in sè finiti onde da Esso si distinguono: su questa nota generica della creatura tutti i filosofi cristiani vanno d’accordo. Le difficoltà cominciano quando si voglia ulteriormente precisare cosa significhi per la creatura «essere per partecipazione», e come possa essere radicato metafisicamente il suo carattere di ente finito. Quando si considera l’ente finito, qualsiasi, secondo la ragione comune (analogica) di ente si può dire soltanto in generale che tale ente esiste per una propria proporzione di elementi intrinseci; ma fin quando ci si ferma a questa considerazione d’ordine metafisico-logico non vi è ancora nessun’affermazione esplicita di una distinzione reale fra gli elementi dell’essere, poichè si tratta di considerazioni secondo ragioni ed aspetti nozionali e non dell’essere e degli elementi reali. Sotto questo aspetto, anche Dio può esser detto convenire, in qualche modo, nella ragione comune di Ente, in quanto anche per Lui, come per la creatura, si deve dare una ragione (solo logica nel caso) di essere, onde possa apparire giustificata questa proposizione: Dio esiste. La questione adunque di una distinzione od identità reale di essenza ed atto di essere nelle creature e in Dio non si pone per noi nei primi istanti della riflessione metafisica, ma soltanto quando, a riflessione avanzata, abbiamo prospettato in una maniera sufficiente la natura e il modo di essere di ambedue. Allora, come a corona di tutta la metafisica, possiamo esplicitare quali siano i caratteri proprî che convengono in modo contrario all’essere Infinito e all’essere finito: in questo senso (in via iudicii) la distinzione e
composizione reale va detta la verità fondamentale del Tomismo. Procediamo un po’ veloci, poichè si tratta di indicare solo il contesto essenziale dei problemi, non di svolgerli in forma sistematica e tanto meno polemica contro gli inesauribili avversari del Tomismo. A riflessione finita S. Tommaso indica Iddio come l’Esse puro sussistente, unico, semplicissimo, causa prima incausata, Suprema Bontà, Verità, ecc., esse per essenza – e la creatura come ente molteplice composto, imperfetto, causato, che è ente, vero e buono solo per partecipazione. Ma bisogna notare che tutti questi attributi si trovano anche in altri filosofi cristiani, i quali però non hanno| sentito il bisogno di ricorrere ulteriormente alla distinzione reale che S. Tommaso pone nella creatura fra l’essenza e l’atto di essere. Perchè l’Angelico ha sentito allora il bisogno di porre quella distinzione? a) Una prima risposta è stata già data, quando si è mostrato il problema della composizione dell’Angelo; ora si vuol rintracciare la radice speculativa di quella risposta. E si può subito dire che S. Tommaso trova la radice cercata in ciascuno degli attributi ora menzionati, e del resto, non è nel suo metodo di risolvere i problemi, l’irrigidirsi in una formula unica. – Si può osservare però che questi attributi non sono tutti sullo stesso piano, ma uno può essere concepito come ragione dell’altro ed avere una priorità logica su questo, e ci si può chiedere allora quale di essi sia il primo, e se necessariamente al primo debbano seguire il secondo ed il terzo... b) Per la seconda questione S. Tommaso ha data una risposta sempre affermativa, e affermativa pure è la risposta alla prima questione: ma nella risoluzione di questa S. Tommaso usa di una certa libertà: alle volte cava la necessità di «esser composto» dal fatto di «esser causato»; alle volte viceversa dalla composizione passa all’affermazione della dipendenza causale; alcune volte parte dalla posizione del problema sotto l’aspetto logico per arrivare a quello metafisico, altre volte procede in senso contrario. Ciò non ci deve turbare, poichè tutto dipende dal diverso punto di vista sotto il quale, nelle varie opere, il S. Dottore pone la questione: quando la pone come filosofo, secondo cioè la «via inventionis», apparirà anzitutto la nota della molteplicità delle creature, indi la diversità, l’imperfezione, la contingenza, la limitazione e in ultimo la composizione; quando invece considera la questione da Teologo, soprattutto nella supposizione della dipendenza di tutte le cose da Dio, sarà la nota della composizione reale di essenza e di atto di essere ad imporsi per prima, e ad illuminare tutte le altre. Non bisogna quindi meravigliarci se la ragione che in alcuni testi funge da protasi, in altri si trovi come apodosi, e viceversa. 1) Possiamo dire p. e. che soprattutto nelle prime opere, nelle quali è più sensibile la dipendenza da Avicenna, S. Tommaso di preferenza cava la distinzione reale, dal fatto che la creatura è causata da Dio; cfr. In I Sent., Dist. 2, q. I, a. 1 ad 2um; Dist. 3, q. IV, a. 1; Dist. 8, q. V, a. 2; ib. anche q. III, a. 2; q. IV, a. 2; Dist. 19, q. II, a. 1; De Ente, c. 5 (4 ed. R. Gosselin); In II Sent., Dist. 1, q. I. a. 1; ib., Dist. 3, q. III, a. 1 ad 4um; ib., Dist. 37, q. I, a. 1; De Veritate, VIII, 8; Qdl., IX, 6. Cfr. anche In Boëth. De Trin., q. V,| a. 4 ad 4um; C. G., II, c. 52, arg. 3, 4, 5; Ia, q. 3, a. 7 ad 1um; ib. («Est hoc de ratione causati quod sit aliquo modo compositum, quia ad minus esse eius est aliud quam id quod est»). Vedi anche Comm. super lib. De Causis, lect. IV, P. XXI, 725 a. 2) Altre volte invece è dalla distinzione reale che cava la causalità: Qdl. VII, 7; In I Sent., Dist. 8, q. V, a. 2; In II Sent., Dist. 1, q. I, a. 1. sol.; II, Dist. III, a. 1 ad 4um; De Veritate, q. II, a. 1; C. G., III, c. 13; ib., c. 65 Item2; I, 61, 2; Comp. Th., c. 68 Adhuc. 3) Altrove ancora la necessità della composizione dall’esigenza critica di fondare la verità del giudizio. Questo aspetto poco noto, ma assai profondo, della posizione tomista è stato recentemente ricordato dal P. Marc30; esso è stato confutato con veemenza dal P. Descoqs, suo confratello, il quale gli rimprovera di ispirarsi in ciò alla nuova teoria sulla struttura dell’atto conoscitivo, proposta dal P. Maréchal nel suo Le point de départ de la Métaphysique (spec. Cahier V). Checchè sia dell’origine prossima della affermazione del P. Marc, quello che è certo si è che va riconosciuta al tutto tomista, come risulta dalle dichiarazioni esplicite del S. Dottore, anche se fa menzione soltanto implicita della composizione reale di essenza ed esistenza. Questo punto potrebbe essere oggetto di interessanti riflessioni, che forse toccheremo più avanti. «Oportet enim veritatem et falsitatem quae est in oratione vel opinione, reduci ad dispositionem rei sicut ad causam. Cum autem intellectus compositionem format accipit duo, quorum unum se habet ut formale respectu alterius: unde accipit id ut alio existens; propter quod praedicata tenentur formaliter. Et ideo si talis operatio intellectus ad rem debeat reduci sicut ad causam, oportet quod in compositis substantiis ipsa compositio formae ad materiam, aut eius quod se habet per modum formae et materiae, vel etiam compositio accidentis ad subiectum, respondeat quasi fundamentum et causa veritatis, compositioni quam intellectus interius format et exprimit voce. Sicut cum dico Socrates est homo, veritas huius enunciationis causatur ex compositione formae humanae ad materiam individualem, per quam Socrates est hic homo: et cum dico, homo est albus, causa veritatis est compositio albedinis ad subiectum: et similiter est in aliis» (In IX Metaph., lect. 9, n. 1898). Similmente, adunque, nel pensiero di S. Tommaso secondo l’inciso sottolineato quando
dico: aliquid est cioè esiste, la verità di questa enunciazione si fonda sulla composizione reale di essenza e di atto| di essere, a meno che ciò che è, sia l’ipsum esse come tale; ma tale essere, lo sappiamo, è uno soltanto. A questo modo si ha l’ultima radice metafisica «ex parte obiecti» del modo creato di conoscere per idee prima e poi per giudizi, e questo per la sola ragione che unicamente l’essenza divina implica l’essere, poichè vi si identifica. In quanto invece in tutti gli altri esseri l’essenza è distinta (realmente) dall’atto di essere, noi possiamo prima conoscerli in astratto nell’idea, prescindendo dall’atto reale di essere, ed in un secondo tempo conoscerli secondo il modo di essere reale nel giudizio. «Cum in re duo sint, quidditas rei et esse eius, his duobus respondet duplex operatio intellectus. Una quae dicitur a philosophis formatio, quae apprehendit quidditates rerum, quae etiam dicitur indivisibilium intelligentia. Alia comprehendit esse rei, componendo affirmationem, quia etiam esse rei ex materia et forma compositae, consistit in quadam compositione formae ad materiam vel accidentis ad subiectum» (In I Sent., Dist. 38, q. I, a. 3, P. VI, 314 b). Il significato immediato dei testi, nell’ambito del realismo tomista è lampante ed è inutile spremerli e torturarli per cavarne un senso fittizio. 4) La somiglianza suppone sempre una qualche composizione almeno in uno dei membri della somiglianza stessa. Difatti o due esseri sono detti somiglianti rispetto ad una terza formalità ed allora ambedue risultano composti della formalità partecipata in cui convengono e di ciò per cui si distinguono l’un l’altro; oppure l’uno è detto simile all’altro, e non viceversa, in quanto che il secondo è la stessa formalità sussistente ed il primo ad esso s’avvicina in qualche modo; in questo caso la composizione si dà soltanto nel primo. Questo modo di considerare l’ente finito è squisitamente platonico ed introduce direttamente alla nozione di partecipazione. In un testo giovanile di capitale importanza S. Tommaso cava la distinzione reale e la composizione dal fatto della somiglianza che vige fra gli esseri: In I Sent., Dist. 48, q. I, a. 1 sol.: «Contingit aliqua dici similia dupliciter. 1) Vel ex eo quod participant unam formam, sicut duo albi albedinem; et sic omne simile oportet esse compositum ex eo quod convenit cum alio simili et ex eo in quo differt ab ipso, cum similitudo non sit nisi differentium, secundum Boëthium [...]. 2) Vel ex eo quod unum quod participative habet formam, imitatur illud quod essentialiter habet. Sicut si corpus album diceretur simile albedini separatae, vel corpus mixtum igneitate ipsi igni. Et talis similitudo quae ponit compositionem in uno et simplicitatem in alio, potest esse creaturae ad Deum participantis bonitatem vel sapientiam vel aliquid huius|modi, quorum unumquodque in Deo est essentia eius» (ed. Mandonnet, I, p. 1080). L’identica dottrina è applicata espressamente per l’esse: In II Sent., Dist. 16, q. I, a. 1 ad 3um. Per il secondo punto è significativo, come fondamento dell’analogia fra creatura e creatore in funzione della partecipazione, un testo della maturità: «Non dicitur esse similitudo inter Deum et creaturas propter convenientiam in forma, secundum eamdem rationem generis aut speciei; sed secundum analogiam tantum prout scilicet Deus est ens per essentiam, et alia per participationem» (Ia, q. 4, a. 3 ad 3um). A nessuno sfugge la stretta corrispondenza che hanno in questi testi la somiglianza, la composizione e la partecipazione. 5) Infine, più spesso, la distinzione reale è fondata direttamente sulla nozione di partecipazione, intesa nel senso tecnico e «statico», in quanto si distingue da quello vago della partecipazione, come dipendenza causale estrinseca, sul quale non v’è alcuna discussione. Gli avversari della distinzione reale, vorrebbero ridurre il senso statico della partecipazione a quello dinamico, ma i testi che citerò fra breve mostreranno a sufficienza il carattere tendenzioso di quella manovra. Prima di passare all’esposizione di questi testi è importante il rilevare come nelle opere di S. Tommaso per la dimostrazione della distinzione reale, assistiamo ad un processo di sempre maggiore semplificazione: nelle prime opere gli argomenti abbondano e sono dati in dipendenza soprattutto da Avicenna; nelle seguenti, dell’età più matura, si svolge soprattutto l’unico argomento della partecipazione, che nelle prime opere era piuttosto soltanto implicito. Se questa constatazione è esatta, come sono convinto, essa viene a confermare l’osservazione avanzata nella parte storica, circa una evoluzione non di ordine essenziale, ma piuttosto modale (nella presentazione della dottrina) del Tomismo in questa parte, dovuta ad un approfondimento personale del Neoplatonismo, fatto sulla Elementatio theologica di Proclo e sul De Causis. Ma resta assodato che in S. Tommaso la distinzione fra essenza ed atto di essere è sempre stata presentata come reale, in quanto distinzione reale si oppone a distinzione di ragione; nella tesi non voglio entrare in merito circa la vera mens D. Thomae, perchè sono persuaso che tale questione non esiste. Qui si cerca soltanto di mettere in evidenza i fondamenti della posizione tomista. Presento, a conferma della mia asserzione circa uno sviluppo «modale» del pensiero di S. Tommaso in questo settore centrale della sua metafisica, lo schema di due forme di dimostrazione della distinzione reale, che sono molto istruttive: quella del De Ente,| c. IV, e quella del C. G., II, c. 52; ambedue le pericopi hanno lo stesso contesto, il mostrare cioè che benchè l’Angelo non sia composto di materia e forma in linea essentiae, resta però composto in linea entis.
(I) De Ente, c. IV. – «Huiusmodi autem substantiae, quamvis sint formae tantum sine materia non tamen in eis est omnimode simplicitas nature ut sint actus purus, sed habent permixtionem potentie et hoc sic patet»: (ed. Roland-Gosselin). Seguono tre argomenti, di cui uno, il primo, è di natura logica, gli altri due invece sono metafisici e precisamente il secondo preso ex parte Dei, in quanto l’ipsum esse subsistens non può essere che uno soltanto, onde nelle altre cose l’esse è inhaerens sicut in subiecto; il terzo ex parte creaturae, in quanto ha l’essere ricevuto da Dio (arg. della causalità). 1º) Ciascuna cosa s’identifica con il suo contenuto nozionale ovvero definizione: ma l’essere non è mai compreso nella definizione di alcuna cosa, se non nella Cosa che è lo stesso essere – ma questa cosa è Unica – Ergo: «Quidquid enim non est de intellectu essentiae vel quidditatis hoc est adveniens extra et faciens compositionem cum essentia, quia nulla essentia sine his quae sunt partes essentiae intelligi potest. Omnis autem essentia vel quidditas potest intelligi sine hoc quod aliquid intelligatur de esse suo: possum enim intelligere quid est homo vel fenix et tamen ignorare an esse habeat in rerum natura. Ergo patet quod esse est aliud ab essentia vel quidditate. Nisi forte sit aliqua res, cuius quidditas sit ipsum suum esse. Et haec non potest esse nisi una et prima» e così comincia il secondo argomento. Questa forma logica dell’arg. è molto rara: si trova quasi con le identiche espressioni del De Ente in In II Sent., Dist. 3, q. I, a. 1; e più tardi S. Theol., Ia, q. 3, a. 5; cfr. anche C. G., I, c. 22, ove è applicato in forma rovesciata a Dio, e Comp. Theol., c. 11. Più frequente è invece un’altra forma, che si può chiamare logico-metafisica, di origine avicenniana, come la prima: «Omne quod est in genere, habet quidditatem differentem ab esse...», ecc. (In I Sent., Dist. 8, q. IV, a. 2, P. VI, 77 a. Tertia ratio subtilior est Avicennae. Cfr. Ib., Dist. 26, q. IV, a. 2; De Verit., q. XXI, a. 1 ad 8um; In II Sent., Dist. 26, q. I, a. 4; C. G., I, c. 25; Ia, q. 3, a. 5; nel Comp. Theologiae, c. 14 Item, si ha la formula: Omne quod est in specie...). La «ratio logica» ha incontrato straordinario favore presso i tomisti, i quali nei loro manuali, sulla scorta del De Ente, la citano| per prima; ad altri invece sia difensori della distinzione reale, come il profondo Schiffini31, sia avversari come P. Descoqs, è parsa di valore molto discutibile: anzi il Descoqs la dice in contrasto con il realismo moderato che S. Tommaso ha sempre strenuamente difeso contro le esagerazioni realiste di Avicebron e di quanti si ispiravano al Realismo assoluto32. La glossa è troppo facile e semplicista, perchè nessuno meglio di S. Tommaso poteva comprendere la portata del suo realismo moderato ed è poco serio invocare un testo, avulso da un contesto al tutto diverso (l’art. cit., S. Theol., Ia, q. 50, a. 2, confuta la tesi di Avicebron della materia universalis, che formò appunto l’occasione a S. Tommaso di porre la distinzione reale fra essenza ed essere; cfr. ivi ad 3um) per distruggere il senso ovvio di un’affermazione, ripetuta a sazietà nell’opere del S. Dottore. Inoltre si può osservare che la replica parte da un malinteso (o da più?!) fondamentale. Si prende cioè l’argomento logico, così com’è enunciato, e lo si considera... in astratto, cioè senza badare ai fondamenti metafisici, sui quali nel contesto è poggiato; si pensa che sia «un» argomento che sta a sè, e che può essere presentato indipendentemente dagli altri. In realtà questo modo di presentare le cose è al tutto fittizio e finisce per rompere l’armonia che lega le riflessioni tomiste; per esse infatti v’è connessione intrinseca fra il pensiero logico e il pensiero ontologico, poichè il pensiero logico non è un puro esercizio mentale, ma è l’attuarsi secondo della mente, che tende ad oggettivare nella riflessione i dati immediati della prima apprensione. Ed anche nel testo e contesto tomistico in questione c’è diretta continuità fra l’aspetto logico e quello metafisico, come consta dal fatto che il primo argomento metafisico funge da «minore» dell’argomento logico, con il quale è connesso anche grammaticalmente: «Ergo patet quod esse est aliud ab essentia vel quidditate. NISI forte sit aliqua res cuius quidditas sit ipsum suum esse». 2º) Il primo argomento metafisico sviluppa il principio della «perfectio separata», applicato all’ipsum esse. «ET h(a)ec res (– cuius quidditas est ipsum suum esse) non potest esse nisi una et prima – segue un elenco dei modi secondo i quali può aversi una plurificazione sia in astratto come in concreto – quia impossibile est quod fiat plurificatio alicuius nisi vel| a) per additionem alicuius differentiae sicut multiplicatur natura generis in species, vel b) per hoc quod forma recipitur in diversis materiis, sicut multiplicatur natura speciei in diversis individuis, vel c) per hoc quod est unum absolutum et aliud in aliquo receptum, sicut si esset quidam calor “separatus”, esset aliud a calore non separato ea ipsa sua separatione. Si autem ponatur aliqua res quae sit esse tantum ita ut ipsum esse sit subsistens, hoc esse non recipiet additionem differentiae, quia iam non esset esse tantum sed esse et praeter hoc forma aliqua; et multo minus recipiet additionem materiae, quia iam esset
non subsistens sed materiale. Unde oportet quod in qualibet alia re, praeter eam, aliud sit esse suum et aliud quidditas vel natura seu forma sua» (ed. cit., pp. 34-35). È chiaro che per l’elaborazione sistematica della questione quest’argomento è d’importanza fondamentale, poichè presenta quali e quanti siano i modi di «plurificazione». L’argomento ricorre in termini identici: In I Sent., Dist. 8, q. IV, a. 1 ad 2, pericope contemporanea alla composizione del De Ente. Nel Comp. Theol., c. 15, Item, il processo è semplificato, e metafisicamente è più rigoroso: «DUPLEX est modus quo aliqua forma potest multiplicari: UNUS per differentias, sicut forma generalis, ut color in diversas species coloris; ALIUS per subiectum, sicut albedo...» (ed. De Maria, III, p. 8; cfr. anche C. G., I, c. 28; Comm. in l. De Causis, lect. 9, P. XXI, 635 b; Comm. in Evang. Jo., c. III, lect. 6, P. X, 358 a). 3º) Il secondo argomento metafisico parte dal fatto che l’essere della creatura è causato ab extrinseco, e non ab intrinseco come il «proprium» di ogni essenza; questa conclusione è continuata con l’applicazione della coppia aristotelica di atto e potenza: «Omne autem quod recipit aliquid ab aliquo est in potentia respectu illius, et hoc quod receptum est in eo est actus eius. Ergo oportet quod ipsa quidditas vel forma qu(a)e est intelligencia sit in potentia respectu esse quod a Deo recipit, et illud esse receptum est per modum actus» (ib., p. 35). Nel De Veritate, VIII, 8 l’argomento è attribuito espressamente ad Avicenna: «Et per hunc modum probat Avicenna quod esse cuiuslibet rei praeter primum ens, est aliquid praeter essentiam ipsius, quia omnia ab alio esse habent». (II) Contra Gentiles, II, 52. – «Quod in substantiis intellectualibus creatis differt esse et quod est». Questa trattazione ha delle notevoli particolarità a confronto| di quella del De Ente, a cominciare dal titolo che porta la formola di Boezio; possiamo notare la completa assenza dell’argomento logico, sotto ambedue le forme, e di qualsiasi riferenza ad Avicenna. Il capitolo comprende 7 argomenti che possono però esser divisi in tre categorie; alla prima appartengono i primi tre argomenti, che sviluppano il 2º arg. del De Ente, in una forma però personale; il 7º arg. è formulato esplicitamente secondo la nozione di partecipazione, e ciò costituisce una novità significativa a confronto del De Ente, e delle opere del primo periodo magistrale. Mi limito, per ragioni di brevità, a dare il senso centrale di questi argomenti che il P. Del Prado ha reso celebri, ponendoli a base della sua ormai classica opera in materia33. A) – (a) All’esse subsistens niente può esser aggiunto che lo differenzi – come tale resta quindi unico, «oportet igitur in substantia quae est praeter ipsum, esse aliud ipsam substantiam, et aliud eius esse». (b) Come la «natura communis, si separata intelligatur, non potest esse nisi una...» così il genere considerato fuori delle specie e tanto più l’esse subsistens, che è al di sopra di tutti i generi, e che non ammette alcuna propria differenza, resta necessariamente unico. «Relinquitur igitur quod cum Deus sit ens subsistens, nihil aliud praeter ipsum est suum esse». (g) Poichè l’esse subsistens è infinito, e non si possono dare due infiniti, non vi può essere alcun altro ente che sia sussistente «praeter primum». B) – (d) Solo l’ente sussistente è incausato; ciò quindi che è causato non è sussistente per sè: «nullum igitur ens causatum est suum esse». Amplius 3 (e) Mentre ciascuna sostanza, come tale è «per se», l’esistenza (l’esse) di ogni cosa creata è invece «per aliud: alias non esset creatum, nullius igitur substantiae creatae suum esse, est sua substantia». (z) «Cum omne agens agat in quantum est actu, primo agenti quod est perfectissimum, competit esse in actu perfectissimo modo [...] ut scilicet sit ipse actus perfectissimus. Hoc autem est esse, ad quod generatio et omnis motus terminatur. Soli igitur Deo (– primum agens: cfr. I, 13, 15; II, 15, 21) competit quod sit ipsum esse, sicut soli competit quod sit primum agens».| LA PARTECIPAZIONE COME ULTIMA RAGIONE METAFISICA NELLA POSIZIONE TOMISTA CIRCA LA COMPOSIZIONE REALE DI ESSENZA E ATTO DI ESSERE § 4. – Il titolo del paragrafo enuncia la conclusione della seconda parte delle nostre considerazioni sulla partecipazione trascendentale; essa potrà stupire molti, poichè la trovano assente anche nelle più accreditate esposizioni del pensiero tomista, eppure, infine, non è che il corollario dei principî che toccano i fondamenti stessi del Tomismo, quali nelle riflessioni precedenti si è cercato di mettere in luce. Come la partecipazione predicamentale richiama una composizione reale di elementi del molteplice concreto, tanto nella linea sostanziale (materia e forma) quanto in quella accidentale (sostanza e accidenti), similmente (qualora si
conceda che l’atto di essere ha vera ragione di atto) nella linea dell’essere, ciascun essere concreto risulterà composto della sua sostanza e dell’atto di essere: «Quandocumque aliquid praedicatur de altero per participationem, oportet ibi aliquid esse praeter id quod participatur» (Quodl. II, a. 3). Il principio, com’è evidente ha valore generale. Ma se ancora persistesse qualche dubbio, credo che di fronte ai testi di S. Tommaso non avrà più ragione di essere: i testi che ora citerò con qualche abbondanza valgono da soli, più di qualsiasi dimostrazione; e sono stati essi ad ispirare la trama di tutta la ricerca che ormai con questa conclusione sta per prendere il suo sviluppo ed equilibrio. I testi sono stati divisi in due categorie: la prima comprende le affermazioni di carattere più vago ed appartengono in prevalenza alle opere del primo magistero parigino; la seconda, abbraccia i testi espliciti delle opere dell’età matura, nei quali la nozione di partecipazione è fatta intervenire in modo sistematico. A. – TESTI VAGHI 1) In I Sent., Dist. 48, q. I, a. 1. – Il testo presenta la dottrina generale in modo assai esplicito, ma non fa alcuna applicazione particolare, se non accennando vagamente alla bontà, sapienza, ecc.; ma il testo ha un’importanza di primo ordine. [Utrum voluntas humana divinae voluntati non possit conformari]: «Respondeo dicendum quod conformitas est convenientia in forma una, et sic| idem est quod similitudo, quam causat unitas qualitatis ut in V Metaph. dicitur. Unde hoc modo aliquid Deo conformatur quod sibi assimilatur. Contingit autem aliqua dici similia dupliciter. VEL ex eo quod participant unam formam, sicut duo albi albedinem (– partecipazione predicamentale univoca); et sic omne simile oportet esse compositum ex eo in quo convenit cum alio simili et ex eo in quo differt ab ipso, cum similitudo non sit nisi differentium secundum Boëthium. [...] VEL ex eo quod unum quod participative habet formam imitatur illud quod essentialiter habet. Sicut si corpus album diceretur simile albedini separatae, vel corpus mixtum igneitate ipsi igni. Et talis similitudo, quae ponit compositionem in uno et simplicitatem in alio, potest esse creaturae ad Deum participantis bonitatem ac sapientiam vel aliquid huiusmodi, quorum unumquodque in Deo est essentia eius» (P. VI, 375 b-376 a; ed. Mandonnet, t. I, p. 1080). In II Sent., Dist. 16, q. I, a. 1 ad 3um: ha un contenuto simile al precedente. 2) In II Sent., Dist. 37, q. I, a. 2. – Il testo, benchè resti un po’ vago e generale ha un’importanza speciale in quanto è l’unico che abbia trovato nel Comm. alle Sentenze che faccia ricorso sistematico alla nozione di partecipazione a riguardo dell’atto di essere, tanto sotto l’aspetto della dipendenza causale, di cui si occupa l’art., quanto della composizione reale, che è indicata espressamente quale struttura propria dell’essere finito. [Utrum omne ens sit a Deo]: «Respondeo dicendum, quod ens invenitur in pluribus secundum prius et posterius. Illud tamen verissime et primo dicitur ens cuius esse est ipsum quod est, quia esse eius non est receptum sed per se subsistens. In omnibus autem quae per prius et posterius dicuntur, primum eorum quae sunt, potest esse causa, et per se dictum est causa eius quod per participationem dicitur; et ideo oportet quod illud ens quod non per participationem alicuius esse quod sit aliud quam ipsum, dicitur ens, quod primum inter entia est, sit causa omnium aliorum entium. – Alia autem entia dicuntur per posterius, in quantum aliquod esse participant quod non est idem quod ipsa sunt; et haec procedunt usque ad ultima entium: ita quod quamcumque rationem essendi aliquid habeat, non sit nisi a Deo; sed defectus essendi ei a seipso» (P. VI, 721 ab; ed. Mandonnet, t. II, p. 946). Si può notare ancora, nei confronti con il testo precedente, come questo testo considera soltanto la partecipazione trascendentale e questa da un punto di vista spiccatamente aristotelico, non più cioè secondo la «conformitas o communitas in eadem forma»,| quale esige la dialettica platonica, ma secondo la gradazione del prius e posterius di perfezione: nei testi però non si dà alcun risalto a questa diversità di dialettica, che viene invece messa bene in vista nel De Potentia, III, 5 com’è stato notato. – Nel De Veritate, q. XXI, a. 5, è posta esplicitamente la questione: «Utrum bonum creatum sit bonum per suam essentiam», e si conchiude che «secundum tres auctores oportet dicere creaturas non esse bonas per essentiam, sed per participationem» e si recitano le opinioni di S. Agostino, del De Causis e di Boezio. La ragione della Bontà per partecipazione presa dal De Causis è detta fondarsi sulla distinzione reale di essenza e di essere, e questa distinzione è cavata dal fatto che la creatura partecipa l’essere. 3) «Sed adhuc inter Dei bonitatem et nostram alia differentia invenitur. Essentialis enim bonitas non attenditur secundum considerationem naturae absolutae, sed secundum esse ipsius; humanitas enim non habet rationem boni vel bonitatis nisi in quantum esse habet. Ipsa autem natura vel essentia divina est eius esse; natura autem vel essentia cuiuslibet rei create non est suum esse, sed esse participans ab alio. Et sic in Deo est esse purum, quia ipse Deus est suum esse subsistens; in creatura autem est esse receptum vel participatum. Unde dico quod si bonitas absoluta diceretur de re creata secundum suum esse substantiale, nihilominus adhuc remaneret habere bonitatem per participationem, sicut et habet esse participatum. Deus
autem est bonitas per essentiam inquantum eius essentia est suum esse. Et haec videtur esse intentio Philosophi in libro de Causis, qui dicit solam divinam bonitatem esse bonitatem puram». Nel testo sembrano quasi confuse la partecipazione come dipendenza causale (ab alio) e la partecipazione statica; questa incertezza sparisce completamente nei testi della maturità, quando S. Tommaso si sarà liberato dall’influsso diretto di Avicenna. Il testo ha però una particolare importanza perchè pone fuor di dubbio aver S. Tommaso sempre difesa la distinzione fra essenza e atto di essere, poichè si dice che è proprio questa distinzione che può salvare nella creatura il carattere di partecipazione. Contra Gentiles, I, 22; I, 23; II, 52. Questi tre cc. del C. G. sono molto più espliciti dei precedenti, ma li metto nella categoria dei testi vaghi perchè nelle rispettive argomentazioni la ragione della partecipazione è portata per ultima, senza particolari sviluppi.| 4) I, 22 [Quod in Deo idem est esse et essentia]: «Amplius: Omnis res est per hoc quod habet esse; nulla igitur res, cuius essentia non est suum esse, est per essentiam suam, sed participatione alicuius scilicet ipsius esse. Quod autem est per participationem alicuius non potest esse primum ens; quia id quod aliquid participat ad hoc quod sit, est eo prius. Deus autem est primum ens quo nihil est prius. Dei igitur essentia est suum esse». Come si vede in questo t. l’uso della nozione di partecipazione è rovesciato: poichè le cose create non sono il proprio essere, sono per partecipazione dell’essere. 5) I, 23 [Quod in Deo non sit accidens]: «Ipsum enim esse non potest participare aliquid, quod non sit de essentia sua; quamvis id quod est possit aliquid aliud participare; nihil enim est formalius aut simplicius quam esse. Divina autem substantia est ipsum esse; ergo nihil habet quod non sit de sua substantia». Il testo, benchè serva per un’applicazione particolare, in sè ha valore generale; nessun accenno a Boezio da cui è desunta l’espressione: «Ipsum esse non potest participare aliquid». 6) II, 52 [Quod in substantiis intellectualibus creatis differt esse et quod est]. «Amplius: Ipsum esse competit primo agenti secundum propriam naturam, esse enim Dei est eius substantia, ut supra (I, 22) ostensum est. Quod autem competit alicui secundum propriam suam naturam, non convenit aliis nisi per modum participationis, sicut calor aliis corporibus ab igne. Ipsum igitur esse competit omnibus aliis a primo agente per participationem quamdam. Quod autem competit alicui per participationem, non est substantia eius. Impossibile est igitur quod substantia alicuius entis, praeter agens primum, sit ipsum esse». È questo il 1º t. nel quale è invocata ex professo la ragione di partecipazione per la distinzione reale di esse e quod est; nel testo la partecipazione è intesa soprattutto in senso causale dinamico34.| 7) Un testo analogo si legge nel «Comm. in Ev. Joannis», di data molto posteriore alle opere da cui sono stati tolti i testi precedenti: «Et dicit, Ego sum, non autem, quid sim, ut rememoret quod dictum est Moysi Ex. 3, 14; “Ego sum, qui sum”: In qualibet enim alia natura a divina differt esse et quod est; cum quaelibet natura creata participet suum esse ab eo quod est ens per essentiam, scilicet ipso Deo, qui est ipsum suum esse, ita quod suum esse sit sua essentia, unde ipse solus denominatur ab eo; et ideo dicit: Nisi credideritis quia ego sum, idest quia sum vere Deus, qui habet esse per essentiam, moriemini in peccato vestro» (Comm. in Ev. Joannis, c. VIII, lect. 3, P. X, 448 a). In questo senso va pure compresa la partecipazione di cui si parla nel profondo Prologo a questo Comm. quando S. Tommaso espone la via secondo la quale i platonici arrivano a Dio, situato «Super solium excelsum». 8) «Quidam autem venerunt in cognitionem Dei, ex dignitate ipsius Dei, et isti fuerunt Platonici. Consideraverunt enim quod omne illud, quod est secundum participationem, reducitur ad aliquid quod sit illud secundum suam essentiam, sicut ad primum et summum: sicut omnia ignita per participationem reducuntur ad ignem qui est per suam essentiam talis. Cum ergo omnia quae sunt participent esse, et sint per participationem entia, necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum, quod sit ipsum esse per suam essentiam, idest quod sua essentia sit suum esse; et hoc est Deus, qui est sufficientissima et perfectissima causa totius esse, a quo omnia quae sunt participant esse» (Comm. in Ev. Jo., Prologus S. Thomae, P. X, 280 a). 9) Comm. in l. De Divinis Nominibus, c. IV, lect. 14a. – La pericope è dedicata a studiare l’essenza del male: il testo però ha in sè una grande importanza in quanto porta il principio generale della composizione in dipendenza della nozione di partecipazione, che è qui intesa nel senso statico, anche se la prima preoccupazione sia quella di mostrare che il male non ha una causa per se, ma solo per accidens.
«Oportet enim quod omne quod habet essentiam, natum sit habere causam per se et non per accidens. Unde si malum non habet causam per se, solum sequitur quod malum non habet essentiam:| et hoc est quod quasi concludens subdit, quod neque ipsum malum est aliquid, si accipiatur malum secundum se, sicut aliquod subsistens in natura mali. Omne enim quod est totaliter aliquale, est essentialiter tale; sicut si aliquid est totaliter bonum, est essentia bonitatis. SI ENIM PARTICIPAT BONO, OPORTET QUOD DIVIDATUR IN PARTICIPANS ET PARTICIPATUM. Si ergo nihil est malum essentialiter, illud quod est malum non est totaliter malum, sed habet aliquam partem boni; et secundum illam est totum esse illius quod dicitur malum. Sic ergo manifestavit per hoc quid est malum. Non enim malum potest esse aliqua essentia subsistens, sicut bonum est ipsa essentia bonitatis; sed quaelibet res mala per suam essentiam est bona, mala autem secundum quod deficit ab aliquo bono, quod debet habere et non habet» (Comm. in l. De Div. Nom., P. XV, 323 b). B) TESTI ESPLICITI 10) In lib. Boëthii De Hebdomadibus, lect. II. – Questo testo, di cui si è già mostrato il contenuto, ha una doppia importanza: una in quanto mostra la distinzione reale fra essenza ed atto di essere, quale esigenza necessaria della nozione di partecipazione, applicata nel campo metafisico da cui viene la composizione dell’ente finito, che è ragione di tutte le altre; un’altra, di ordine esegetico. S. Tommaso si trova di fronte alla VII Prop. di Boezio «Omne simplex, esse suum et id quod est unum habet»; per Boezio questo «simplex» è la sostanza che non ha materia, che è quindi semplice «in linea essentiae», poichè è forma soltanto. Per l’Angelico invece, che fin dall’inizio del Commento ha inteso l’esse degli aforismi di Boezio non nel senso di «forma», ma quale «atto di essere» esistenziale, quella proposizione costituisce un inciampo; parimenti era proprio da una proposizione di Boezio, assai celebre e molto sfruttata dagli augustinisti, che si traeva argomento, com’è stato notato, contro la posizione tomista circa la composizione della natura angelica. La prop. diceva «Forma simplex non potest esse subiectum», mentre nella posizione tomista la forma pura è anche potenza e quindi «soggetto» dell’atto di essere. S. Tommaso supera quest’ostacolo non indifferente, applicando alle forme semplici la dialettica della partecipazione, offrendoci una stupenda «venatio» metafisica della nozione di composizione, che passa a traverso i vari modi dell’essere per raggiungere ciò che è semplice sotto tutti gli aspetti: «l’ipsum esse subsistens». Il testo ha ancora un’altra importanza poichè per la prima| volta in esso si afferma che la nozione di partecipazione raggiunge le conclusioni volute ugualmente tanto nella concezione metafisica del mondo secondo Platone, come in quella di Aristotele: una seconda affermazione, ancor più esplicita, in questo senso apparirà nel De Substantiis separatis, c. 3º, come è stato già riferito. Mi si perdoni la lunga citazione, trattandosi del testo fondamentale: il testo del Commento dovrebbe avere due parti, ma in realtà, per quella trasposizione fatta da S. Tommaso ambedue le proposizioni di Boezio (VI e VII) concorrono alla soluzione di un unico problema. (a) «Deinde cum dicit “omni composito aliud est esse, aliud ipsum est” ponit (Boëthius) conceptiones de composito et simplici, quae pertinent ad rationem unius. Est autem considerandum, quod ea quae supra dicta sunt, de diversitate ipsius esse et eius quod est, est secundum ipsas intentiones; hic autem ostendit quomodo applicetur ad res; et primo (a) ostendit hoc in compositis; secundo (b) in simplicibus, ibi, “omne simplex”, esse suum et id quod est unum habet. Est ergo primo considerandum, quod sicut esse et quod est differunt in simplicibus secundum intentiones, ita in compositis differunt REALITER; quod quidem manifestum est ex praemissis; dictum est enim supra, quod ipsum esse neque participat aliquid, ut eius ratio constituatur ex multis, neque habet aliquid extraneum admixtum, ut sit in eo compositio accidentis; et ideo ipsum esse non est compositum. Res ergo composita non est suum esse; et ideo dicit, quod in omni composito aliud est esse aliud ipsum compositum, quod est (participatum) ipsum esse. (b) Deinde cum dicit “Omne simplex, esse suum et id quod est unum habet”, ostendit qualiter se habet in simplicibus; in quibus est necesse quod ipsum esse et id quod est sit unum et idem realiter. Si enim esset aliud realiter id quod est et ipsum esse: iam non esset simplex sed compositum (ora segue la glossa di S. Tommaso). Est tamen considerandum, quod cum simplex dicatur aliquid ex eo quod caret compositione, nihil prohibet aliquid esse secundum quid simplex, in quantum caret aliqua compositione, quod tamen non est omnino simplex; unde ignis et aqua dicuntur simplicia corpora in quantum carent compositione quae est ea contrariis, quae invenitur in mixtis; quorum tamen unumquodque est compositum tum ex partibus quantitatis, tum etiam ex forma et materia. Si ergo inveniantur aliquae formae non in materia; unaquaeque earum est quidem simplex quantum ad hoc quod caret materia, et per consequens quantitate, quae est dispositio materiae;| quia tamen quaelibet forma est determinativa ipsius esse, nulla earum est ipsum esse, sed est habens esse. Puta secundum opinionem Platonis, ponamus formam immaterialem subsistere, quae sit idea et
ratio hominum materialium, et aliam formam quae sit idea et ratio equorum: manifestum erit quod ipsa forma immaterialis subsistens, cum sit quiddam determinatum ad speciem, non est ipsum esse commune, sed participat illud ET NIHIL DIFFERT QUANTUM AD HOC, si ponamus illas formas immateriales esse altioris gradus quam sint rationes sensibilium, ut Aristoteles voluit: unaquaeque enim illarum, in quantum distinguitur ab alia, quaedam specialis forma est participans ipsum esse; et sic nulla earum erit vere simplex. Id autem erit solum vere simplex, quod non participat esse, non quidem inhaerens sed subsistens. Hoc autem non potest esse nisi unum; quia si ipsum esse nihil aliud habet admixtum praeter id quod est esse, ut dictum est; impossibile est id quod est ipsum esse multiplicari per aliquid diversificans: et quia nihil aliud praeter se habet admixtum, consequens est quod nullius accidentis sit susceptivum. Hoc autem simplex unum et sublime est ipse DEUS» (ed. De Maria, III, 396-398). 11) In II Post. Anal., lect. 6: non è possibile con una medesima dimostrazione provare a un tempo il quid est e il quia est. «Aliud est quod quid est homo, et esse hominem: in solo enim primo essendi Principio, quod est essentialiter ens, ipsum esse et quidditas eius est unum et idem; in omnibus autem aliis, quae sunt entia per participationem, oportet quod sit aliud esse et quidditas entis» (ed. leonina, t. I, p. 347 a ). S. Theol., Ia, q. 3, a. 4 (3º); ibid., q. 75, a. 5 ad 4um. Il 1º testo esprime la nozione di partecipazione in forma rovesciata, il secondo in forma diretta. 12) Ia, q. 3, a. 4 [Utrum in Deo sit idem essentia et esse] 3º (parallelo a C. G., I, 22): «Quia sicut illud quod habet ignem et non est ignis, est ignitum per participationem; ita illud quod habet esse et non est esse, est ens per participationem: Deus autem est sua essentia, ut ostensum est (art. praec.). Si igitur non sit suum esse erit ens per participationem, et non per essentiam. Non ergo erit primum ens quod absurdum est dicere. Est igitur Deus suum esse, et non solum sua essentia». Quest’argomentazione è ripresa, con riferimento esplicito a quest’art.,| nella dimostrazione della creazione: hic q. 44, a. 1. Quest’articolo sulla creazione fu il primo che mi diede la persuasione della funzione centrale che deve avere nel Tomismo la nozione di partecipazione. 13) Ia, 44, 1 [Utrum sit necessarium omne ens esse creatum a Deo]: «... Necesse est dicere quod omne ens, quocumque modo sit, a Deo esse. Si enim aliquid invenitur in aliquo per participationem, necesse est quod causetur in ipso ab eo cui essentialiter convenit: sicut ferrum fit ignitum ab igne. Ostensum est autem supra cum de divina simplicitate ageretur (3, 4) quod Deus est ipsum esse per se subsistens. Et iterum ostensum est (11, 3-4) quod esse subsistens non potest esse nisi unum; sicut si albedo esset subsistens, non posset esse nisi una; cum albedines multiplicentur secundum recipientia. Relinquitur ergo quod omnia alia a Deo non sint suum esse, sed participent esse. Necesse est igitur omnia quae diversificantur secundum diversam participationem essendi, ut sint perfectius vel minus perfecte, causari ab uno primo ente quod perfectissime est. Unde et Plato dixit quod “necesse est ante omnem multitudinem ponere unitatem”. Et Aristoteles dicit quod “id quod est maxime ens, et maxime verum, est causa omnis entis et omnis veri; sicut id quod est maxime calidum, est causa omnis caliditatis”». 14) Ia, q. 75, a. 5 [Utrum anima sit composita ex Materia et Forma]. L’ob. 4ª proclama la necessità della materia quale parte dell’essenza dell’anima, altrimenti l’anima sarebbe atto puro come Dio. «Ad quartum dicendum quod omne participatum comparatur ad participans, ut actus eius. Quaecumque autem forma creata per se subsistens ponatur, oportet quod participet esse; quia etiam ipsa vita, vel quicquid sic diceretur, participat ipsum esse, ut dicit Dionysius. Esse autem participatum finitur ad capacitatem participantis. Unde solus Deus qui est ipsum suum esse, est actus purus et infinitus. In substantiis vero intellectualibus est compositio ex actu et potentia: non quidem ex materia et forma, sed ex forma et esse participato. Unde a quibusdam dicuntur componi ex quo est, et quod est, ipsum enim esse est quo aliquid est». Di quest’art. è importantissima l’obiez. 1ª con la risposta: nell’ob. si vuol applicare alla potenza pura, la materia prima, la stessa dialettica della partecipazione che conduce all’atto puro, principio universale; nella risposta si mostra come la potenza in generale (materia prima) non può essere termine di dialettica perchè non è una «numero» con l’atto puro, ma solo «analogia», poichè si trova moltiplicata e diversificata secondo gli atti di cui è potenza.| Non è necessario perciò che la potenzialità degli esseri sia in tutti identica.
15) (ob. 1a) «Videtur quod anima sit composita ex Materia et Forma. Potentia enim contra actum dividitur. Sed omnia quaecumque sunt in actu, participant primum actum, qui Deus est; per cuius participationem omnia sunt et bona, et entia, et viventia, ut patet per doctrinam Dionysii. Ergo quaecumque sunt in potentia participant primam potentiam. Sed prima potentia est materia prima. Cum ergo anima humana sit quodammodo in potentia (quod apparet ex hoc quod quandoque est intelligens in potentia) videtur quod anima humana participet materiam primam tamquam partem sui». (Ad 1um) «Ad primum ergo dicendum, quod primus actus est universale principium omnium actuum quia est infinitum virtualiter, in se omnia praehabens ut dicit Dionysius. Unde participatur a rebus non sicut pars, sed secundum diffusionem processionis ipsius. Potentia autem, cum sit receptiva actus, oportet quod actui proportionetur. Actus vero recepti, qui procedunt a primo actu infinito, et sunt quaedam participationes eius, sunt diversi. Unde non potest esse potentia una quae recipiat omnes actus, sicut est unus actus influens omnes actus participatos; alioquin illa potentia receptiva adaequaret potentiam activam primi actus. Est autem alia potentia receptiva in anima intellectiva a potentia receptiva materiae primae, ut patet ex diversitate receptorum. Nam materia prima recipit formas individuales, intellectus autem recipit formas absolutas. Unde talis potentia in anima intellectiva existens non ostendit quod anima sit composita ex materia et forma». 16) Ia, q. 104, a. 1 [Utrum creaturae indigeant ut a Deo conserventur in esse]: «Sic autem se habet omnis creatura ad Deum, sicut aër ad solem illuminantem. Sicut enim sol est lucens per suam naturam; aër autem fit luminosus participando lumen a sole, non tamen participando naturam solis, ita solus Deus est ens per essentiam suam, quia eius essentia est suum esse: omnis autem creatura est ens participative, non quod sua essentia sit eius esse». Comm. in VIII Physic., lib. VIII, lect. 21 (G., 1268). La pericope si occupa della struttura metafisica dei corpi celesti. Averroè «in undecimo Metaphysicae» aveva combattuto la opinione di Alessandro secondo il quale il corpo celeste riceve la sua eternità dal motore separato, che è dotato di virtù infinita, come anche la perpetuità del moto; perchè il corpo celeste non è composto di materia| e forma, anzi non ha potenza alcuna «ad esse» e quindi non dipende da alcuna causa. S. Tommaso prende le difese dell’opinione di Alessandro e mostra anzitutto che il corpo celeste è composto di materia e forma, od almeno di atto e potenza; poi che il corpo celeste, anche se è eterno, non è incausato, ma riceve la sua eternità «ab alio». Il testo, per la sua compiutezza e il suo carattere formale, è uno dei più espliciti; in esso l’aspetto dinamico della partecipazione segue all’aspetto statico. 17) Statice: «Sed haec solutio et veritati repugnat et intentioni Aristotelis. Veritati quidem repugnat multipliciter. Et primo quia dicit corpus caeleste non componitur ex materia et forma: hoc enim est omnino impossibile. Manifestum est enim, corpus caeleste esse aliquid actu, alioquin non moveretur. Quod enim est in potentia tantum, non est subiectum motus ut in sexto habitum est. Oportet autem omne quod est actu, vel esse formam subsistentem, sicut substantiae separatae: vel habere formam in alio, quod quidem se habet ad formam sicut materia et sicut potentia ad actum. Non autem potest dici quod corpus caeleste sit forma subsistens: quia sic esset intellectum in actu non cadens sub sensu neque sub quantitate. Relinquitur ergo quod est compositum ex materia et forma, et potentia et actu: et sic est in ipso potentia quodammodo ad non esse. SED, dato quod corpus caeleste non sit compositum ex materia et forma, adhuc oportet ponere in ipso quodammodo potentiam essendi. Necesse est enim quod omnis substantia simplex subsistens, vel ipsa sit suum esse, vel participet esse. Substantia autem simplex quae est ipsum esse subsistens, non potest esse nisi una: sicut neque albedo, si esset subsistens, posset esse nisi una. Omnis ergo substantia quae est post primam substantiam simplicem participat esse. Omne autem participans componitur ex participante et participato, et participans est in potentiam ad participatum: ergo substantia quantumcumque simplex, post primam substantiam simplicem, est potentia essendi. Deceptus autem fuit (Averroes) per aequivocationem potentiae [...]. Est etiam eius positio contra intentionem Aristotelis», etc. Comm. in l. De Causis (dopo 1268). È stato già osservato come in questo Comm. S. Tommaso esponga i capisaldi di tutta la metafisica e che la nozione di partecipazione abbia in esso la sua piena espansione: il De Causis ha non soltanto potuto suggerire a S. Tommaso la distinzione reale fra essenza (forma) ed esse, ma ha anche indicato il fondamento di questa distinzione nella ragione della partecipazione; mi limito a riferire solo alcuni testi fra i più evidenti. 18) Lect. IV (super illud Prop. IVae «Et ipsum quidem est| factum multa, nisi quia ipsum esse, quamvis sit simplex, et non sit in causatis simplicius ipso, tamen est compositum, ex finito et infinito»). Per S.
Tommaso l’esse, di cui qui si parla, non è l’esse separatum, la prima sussistenza dopo il Bonum e l’Unum secondo i Platonici, ma è l’esse participatum, «sicut loquitur Dionysius in primo gradu entis creati quod est esse superius», indica cioè l’Intelligenza e l’«esse» dell’intelligenza. Con questa trasposizione S. Tommaso passa a mostrare come vi possa essere distinzione e molteplicità anche nelle Intelligenze. [Secundum ibi «et ipsum quidem»] – «Ostendit rationem distinctionis quae potest esse in intelligentiis secundum essentiam. Ubi considerandum est quod si aliqua forma vel natura sit omnino separata et simplex, non potest in ea cadere multitudo, sicut, si albedo esset separata, non esset nisi una: nunc autem inveniuntur multae albedines diversae quae participant albedinem. Sic igitur, si esse causatum primum esset abstractum, ut Platonici posuerunt, non posset multiplicari, sed esset unum tantum. Sed quia esse causatum primum est esse participatum in natura intelligentiae, multiplicabile est secundum diversitatem participantium. Et hoc est quod dicit: “et ipsum quidem” scilicet esse causatum primum non est factum multa idest distinctum in multas intelligentias nisi quia licet ipsum sit simplex et non sit in causatis aliquod simplicius eo, tamen est compositum ex finito et infinito» (sviluppa con Proclo, prop. 89: «omne entis ens ex fine est et infinito» – l’infinito è «secundum potentiam existendi» cioè secondo la durata ma poichè riceve l’intelligenza l’esse «ab alio», quest’esse è finito). «Si autem aliquid sic haberet infinitam virtutem essendi quod non participaret esse ab alio, tunc esset solum infinitum: et tale est Deus, ut infra dicetur Prop. 16. Sed, si sit aliquid quod habeat infinitam virtutem ad essendum secundum esse participatum ab alio, secundum hoc quod esse participat est finitum, quia quod participatur non recipitur in participante secundum totam suam infinitatem sed particulariter. In tantum igitur intelligentia est composita in suo esse ex finito et infinito, in quantum natura intelligentiae infinita dicitur secundum potentiam essendi, et ipsum esse quod recipit est finitum. Et ex hoc sequitur quod esse intelligentiae multiplicari possit, inquantum est esse participatum: hoc enim significat compositio ex finito et infinito» (S. 29, 26 ss.; cfr. anche Prop. [lect.] 18, S. 101, 5). 19) Lect. Va [La composizione dell’anima «ex finito et infinito»]. «Deinde restat considerandum de secundo, scilicet de distinctione animarum. Et ponit eamdem rationem distinctionis sive mul|tiplicationis in animabus quam in intelligentiis posuerat. Sicut enim esse intelligentiae compositum est ex infinito et finito, in quantum esse eius non est subsistens, sed participatum ab aliqua natura, ratione cuius potest distingui in multa, ita etiam est de esse animae. Et hoc est quod dicit (Proclus): Et non multiplicantur animae nisi per modum quo multiplicantur intelligentiae, quod est quia esse animae iterum habet finem, sed quo ex eo est inferius est infinitum. Inferius autem dicit ipsam naturam participantem esse, quam vocat infinitum propter virtutem ad durandum in esse in infinitum; ipsum autem esse participatum vocat finitum: quia non participatur secundum totam infinitatem universalitatis suae, sed secundum modum naturae participantis» (S. 39, 7 ss.). In conseguenza di ciò alla lect. VII è detto che l’Intelligenza può essere collocata nel genere: «Similiter intelligentia transcendat totum ordinem corporalium rerum. Quia tamen sua quidditas vel essentia non est ipsum suum esse, sed est res subsistens in suo esse participato, ideo quodammodo convenit in genere cum corporibus quae etiam in suo esse subsistunt; et sic secundum logicam intentionem utrumque ponitur in genere substantiae (ib. 730 b). 20) Lect. IX (Super illud: «Et intelligentia quidem est habens yliatim, quoniam est esse et forma, et similiter anima est habens yliatim, et natura est habens yliatim; et causae quidem primae non est yliatim, quoniam ipsa est tantum esse»). Questo testo è ancor più esplicito del precedente, malgrado la curiosa esegesi di yliatim di cui si è già detto. La Prop. IX si occupa della causalità ed eminenza della prima causa. «Similiter etiam prosequitur quantum ad esse, ostendens quod causa prima habet altiori modo esse quam omnia alia. Nam intelligentia habet yliatim, idest aliquid materiale vel ad modum materiae se habens: dicitur enim yliatim ab yle quod est materia. Et quomodo hoc sit exponit subdens. Quoniam est esse et forma. Quidditas enim substantia ipsius intelligentiae est quaedam forma subsistens et immaterialis: sed quia ipsa non est suum esse, sed est subsistens in suo esse participato, comparatur ipsa forma subsistens ad esse participatum sicut potentia ad actum aut materia ad formam. Et similiter anima est habens yliatim: non solum ipsam formam subsistentem: sed etiam ipsum corpus, cuius est forma. Similiter etiam natura est habens yliatim, quia corpus naturale est compositum ex materia et forma. Causa autem prima nullo modo habet yliatim quia non habet esse participatum, sed ipsa est esse primum, et per consequens bonitas pura; quia unumquodque in quantum est ens, est bonum35; oportet autem quod omne participatum de|rivetur ab eo qui pure subsistit per essentiam suam. Unde relinquitur quod esse intelligentiae et omnium entium sit a bonitate pura causae primae» (S. 64, 4 ss.). Identica dialettica è applicata a proposito dell’unità «aliorum quae sunt sub Deo» (cfr. lect. XXII, 115, 6): solo Dio è uno per essenza, ed unico Dio. «Si enim ipsum unum est essentia primi, oportet quod si aliquid ab
eo differat, quasi secundum post ipsum existens, non sit tale quod essentia eius sit ipsum unum, sed sit participans unitatem. Et hoc est quod hic (Prop. XXXII) proponitur, quod necesse est ponere unum primum faciens adipisci unitates; idest a quo participant unitatem quaecumque sunt unum et ipsum non adipiscitur, idest non participat unitatem ab aliquo alio [...]. Et sic terminatur totus liber de Causis. Sint gratiae Deo omnipotenti qui est prima omnium causa» (S. 145, 11 ss.). Q. De Malo (M., 1563-1568, Lottin, 1569), q. XVI, a. 3. 21) L’art. pone la questione, agitata da molti Padri (cfr. obiezioni) circa la natura del peccato per il quale il diavolo cadde: «Utrum diabolus peccando appetierit aequalitatem divinam». Benchè «diversae auctoritates» sembrano rispondere affermativamente, S. Tommaso, in armonia con la sua concezione intorno alla struttura metafisica dello spirito puro finito, risponde negativamente, poichè l’Angelo vede con intuito immediato che la sua essenza è realmente distinta dal suo essere e che non potrà quindi mai riuscire ad eguagliare l’infinita perfezione divina. «Non autem potest esse quod appetierit divinam aequalitatem absolute [...]. Huiusmodi ratio manifesta est. Primo quidem ex parte Dei, cui non solum impossibile est aliquid aequari, sed etiam hoc est contra rationem essentiae eius. Deus enim per suam essentiam est ipsum esse subsistens: nec est possibile esse duo huiusmodi, sicut nec possibile foret esse duas ideas hominis separatas, aut duas albedines per se substantes36. Unde quicquid aliud ab eo est, necesse est quod sit tamquam participans esse, quod non potest esse aequale ei, quod est essentialiter ipsum esse. Nec hoc potuit diabolus in sua conditione ignorare: naturale est enim intelligentiae, sive intellectui separato, quod intelligat substantiam suam: et sic naturaliter cognoscebat quod esse suum erat ab aliquo superiori participatum: quae quidem cognitio naturalis in eo nondum erat corrupta per peccatum. Unde relinquitur quod intellectus eius non poterat apprehendere aequalitatem sui ad Deum, sub ratione possibilis».| Nella S. Theol., Ia, q. 12, a. 4 ad 3um sembra chiamare questa conoscenza dell’Angelo «per modum resolutionis cuiusdam»... «Et similiter intellectus angeli, licet connaturale sit ei cognoscere esse concretum in aliqua natura, tamen potest ipsum esse secernere per intellectum, dum cognoscit quod aliud est ipse, et aliud est esse eius. Et ideo, cum intellectus creatus per suam naturam natus sit apprehendere formam concretam et esse concretum in abstractione per modum resolutionis cuiusdam: potest per gratiam elevari ut cognoscat substantiam separatam subsistentem et esse separatum subsistens». Q. De Spiritualibus Creaturis (1266-1268) art. 1 [Utrum substantia spiritualis sit composita ex materia et forma]; è la trattazione forse più ampia che S. Tommaso abbia dedicato a questa classica controversia; all’inizio sono nominate delle sentenze, una affermativa ed un’altra negativa. Per togliere ogni ambiguità S. Tommaso premette la nozione di materia come la potenza più imperfetta, e che quindi non può trovarsi nelle sostanze spirituali, nelle quali la potenzialità è di natura assai diversa. Il testo corrisponde quasi verbalmente con i precedenti. 22) a) «Non est ergo substantia intellectualis receptiva formae ex ratione materiae, sed magis per oppositam quamdam rationem. Unde manifestum fit quod in substantiis spiritualibus illa prima materia, quae de se omni specie caret, eius pars esse non potest. Si autem quaecumque duo se habent ad invicem ut potentia et actus, nominentur materia et forma: nihil obstat dicere, ut non fiat vis in verbis, quod in substantiis spiritualibus est materia et forma». b) «Oportet enim in substantia spirituali creata esse duo quorum unum comparatur ad alterum ut potentia ad actum: quod sic patet. Manifestum est enim quod primum ens quod Deus est, est actus infinitus, utpote habens in se totam essendi plenitudinem, non contractam ad aliquam naturam generis vel speciei. Unde oportet quod ipsum esse eius non sit esse quasi inditum alicui naturae quae non sit suum esse; quia sic finiretur ad illam naturam. Hoc autem non potest dici de aliquo alio: sicut enim impossibile est intelligere quod sint plures albedines separatae; sed si esset albedo separata ab omni subiecto et recipiente esset una tantum. Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit suum esse, habet esse in aliquo receptum; per quod ipsum esse contrahitur; et sic in quolibet creato aliud est natura rei quae participat esse, et aliud ipsum esse participatum; et cum quaelibet res participet per assimilationem primum| actum in quantum habet esse; necesse est quod esse participatum in unoquoque comparetur ad naturam participantem ipsum sicut actus ad potentiam». c) Nelle nature corporee, invece la materia partecipa all’essere non per sè, ma mediante la forma. «Remoto igitur fundamento materiae, comparabitur ad suum esse ut potentia ad actum. Non dico autem ut potentiam separabilem ab actu, sed quam semper suus actus comitetur. Et hoc modo natura spiritualis substantiae, quae non est composita ex materia et forma, est ut potentia respectu sui esse; et sic in substantia spirituali est compositio potentiae et actus, et per consequens formae et materiae; si tamen omnis potentia
nominetur materia et omnis actus nominetur forma. Sed tamen hoc non est proprie dictum secundum communem usum nominum». Q. De Anima (1269-1270) art. 6 ad 2um [Utrum anima composita sit ex materia et forma]. L’art. mostra che l’anima ed ogni forma, è principio dell’essere, ma non è il suo essere: quindi la forma è potenza rispetto all’essere: e questo vale anche per le forme sussistenti, poichè Dio soltanto è atto puro; l’art. termina con il riferimento a Boezio identico a quello di Ia, q. 75, a. 5 ad 4um. La ragione formale di tutto questo è data nell’ad 2um: l’ob. 2 si introduce con il principio boeziano «Id quod est, participare aliquid potest; ipsum vero esse nihil participat», e poichè anche l’anima è partecipante a qualcosa «ergo non est forma tantum; est ergo composita ex materia et forma». 23) «Ad secundum dicendum quod ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est ab omnibus; ipsum autem nihil participat; unde si sit aliquid quod sit ipsum esse subsistens, sicut de Deo dicimus, nihil participare dicimus; non autem est similis ratio de aliis formis subsistentibus, quas necesse est participare ipsum esse, et comparari ad ipsum ut potentiam ad actum: et ita cum sint quodammodo in potentia, possunt aliquid aliud participare». Il testo nella sua brevità è assai categorico. QQ. Quodlibetales – I testi sono tolti dai Qdl. dell’ultimo insegnamento di S. Tommaso. – Qdl. II, q. II, a. 3 (M. Natalis 1269; Pelster, Natalis 1270). L’art. [Utrum Angelus componatur EX ESSENTIA ET ESSE] presenta l’esposizione più completa, sotto l’aspetto tecnico, della nozione tomista di partecipazione; il Sed contra è preso dal De Causis «Intelligentiam quam dicimus angelum|, habet essentiam et esse» (Prop. 9) e nel corpo si cita Boezio; in questo come nel prossimo Qdl. III, non c’è più alcun accenno ad Avicenna. L’art. ha due parti: nella prima la q. è vista sotto l’aspetto della predicazione; nella seconda sotto quello della composizione. 24) (a) «Respondeo dicendum quod dupliciter aliquid de aliquo praedicatur: uno modo essentialiter, alio modo per participationem; lux enim praedicatur de corpore illuminato participative, sed si esset aliqua lux separata, praedicaretur de ea essentialiter. Secundum hoc ergo dicendum est, quod ens praedicatur de solo Deo essentialiter, eo quod esse divinum est esse subsistens et absolutum; de qualibet autem creatura praedicatur per participationem: nulla enim creatura est suum esse, sed est habens esse. Sicut et Deus dicitur bonus essentialiter, quia est ipsa bonitas; creaturae autem dicuntur bonae per participationem, quia habent bonitatem [...]. Quandocumque autem aliquid praedicatur de altero per participationem, oportet ibi aliquid esse praeter id quod participatur; et ideo in qualibet creatura est aliud creatura quae habet esse et ipsum esse eius: et hoc est quod Boëthius dicit in lib. de Hebd. quod in omni eo quod est citra primum, aliud est esse et quod est». C’è una doppia partecipazione, predicamentale e trascendentale. 25) (b) «Sed sciendum est, quod aliquid participatur dupliciter. Uno modo quasi existens de substantia participantis, sicut genus participatur a specie. Hoc autem modo esse non participatur a creatura; id enim est de substantia rei quod cadit in eius definitione. Ens autem non ponitur in definitione creaturae, quia nec est genus nec differentia; unde participatur sicut aliquid non existens de essentia rei; et ideo alia quaestio est an est et quid est. Unde, cum omne quod est praeter essentiam rei, dicatur accidens; esse quod pertinet ad quaestionem an est est accidens; et ideo Commentator in V Metaph. dicit quod ista propositio Socrates est, est de accidentali praedicato, secundum quod importat entitatem rei, vel veritatem propositionis. Sed verum est quod hoc nomen ens secundum quod importat rem cui competit huiusmodi esse, sic significat essentiam rei, dividitur per decem genera; non tamen univoce, quia non eadem ratione competit omnibus esse; sed substantiae quidem per se, aliis autem aliter. Si[c] ergo in angelo est compositio ex essentia et esse; non tamen est compositio sicut ex partibus substantiae, sed sicut ex substantia et eo quod adhaeret substantiae». Circa la natura dell’esse il Qdl. XII, 5 porterà delle precisazioni definitive.| Qdl. III, q. VIII, a. 20 (Pascha 1270). Il contesto è formalissimo come nel Qdl. precedente: e lo sviluppo delle nozioni è identico a quello osservato in De Spiritualibus Creaturis a. 1. 26) [Utrum anima sit composita ex materia et forma]. «Respondeo dicendum quod si materia dicatur omne illud quod est in potentia quocumque modo, et forma dicatur omnis actus, necesse est ponere quod anima humana, et quaelibet substantia creata, sit composita ex materia et forma. Omnis enim substantia creata est composita ex potentia et actu; manifestum est enim quod solus Deus est suum esse, quasi essentialiter existens, in quantum scilicet suum esse est eius substantia; quod de nullo alio dici potest: esse enim subsistens non potest esse nisi unum, sicut nec albedo subsistens, non potest esse nisi una. Oportet ergo quod quaelibet alia res sit ens participative, ita quod aliud sit in eo substantia participans esse, et aliud ipsum esse participatum. Omne autem participans se habet ad participatum, sicut potentia ad actum, unde substantia cuiuslibet rei creatae se habet ad suum esse, sicut potentia ad actum. SIC ergo omnis substantia
creata est composita ex potentia et actu, id est ex eo quod est et esse ut Boëthius dicit in lib. de Hebd., sicut album componitur ex eo quod est et albedine». Qdl. XII, q. V, a. 5 (M. Natalis 1270; Synave, Pascha 1271; Pelster 1272-1273). L’art. tocca solo indirettamente la distinzione reale, ma è di primaria importanza in quanto mostra a quale profonda elaborazione della nozione di esse fosse giunto S. Tommaso, di fronte alla nozione di Avicenna, e come sia al tutto originale la sua nozione di partecipazione che fa capo appunto all’esse, come qui è detto espressamente. 27) [Utrum esse angeli sit accidens eius]. «Respondeo dicendum quod opinio Avicennae fuit, quod unum et ens semper praedicant accidens. Hoc autem non est verum; quia unum prout convertitur cum ente, signat substantiam rei, et similiter ipsum ens; sed unum prout est principium numeri signat accidens. – Sciendum est ergo, quod unumquodque quod est in potentia fit actu per hoc quod participat actum superiorem. Per hoc autem aliquid maxime fit actu quod participat per similitudinem primum et purum actum. Primus autem actus est esse subsistens per se: unde completionem unumquodque recipit per hoc quod participat esse; unde esse est complementum omnis formae, quia per hoc completur quod habet esse, et habet esse cum est actu; et sic nulla forma est nisi per esse. Et sic dico quod esse substantiale rei non est accidens, sed actualitas cuiuslibet formae existentis, sive sine materia sive cum| materia. Et quia esse est complementum omnium, inde est quod proprius effectus Dei est esse, et nulla causa dat esse nisi in quantum participat operationem divinam; et sic proprie loquendo non est accidens. Et quod Hilarius dicit, dico quod accidens dicitur large omne quod non est pars essentiae, et sic est esse in rebus creatis, quia in solo Deo esse est eius essentia». Compendium Theologiae (1271-1273) c. 68 [De effectibus Divinitatis: et primo de esse]. 28) «Adhuc. Omne quod habet aliquid per participationem, reducitur in id quod habet illud per essentiam, sicut in principium et causam, sicut ferrum ignitum participat igneitatem ab eo quod est ignis per essentiam suam. Ostensum est autem supra, quod Deus est ipsum suum esse: unde esse convenit ei per suam essentiam, omnibus autem aliis convenit per participationem: non enim alicuius alterius essentia est suum esse, quia esse absolutum et per se subsistens non potest esse nisi unum...» (ed. De Maria, III, p. 37). Testo sintetico, senz’alcuna particolarità. De Substantiis separatis seu de Angelorum natura (M. 1272-1273). È stato già osservato come tutto quest’op. sia permeato della nozione di partecipazione: per il nostro tema interessano soprattutto i capi 3 e 59. Il capo 3 [In quo conveniat opinio Platonis et Aristotelis] è stato già riportato sopra nella parte che ci interessa, e costituisce certamente uno dei testi più importanti, se non il più importante, su cui si basa tutta la ricerca. Per comodità, e dato il suo grande valore, torno a riferirlo nei punti principali. Anzitutto la partecipazione è posta come la ragione della dipendenza totale delle creature da Dio; indi come ragione della composizione di essenza ed essere. 29) (a) «Primo quidem conveniunt in modo existendi ipsarum. Posuit enim Plato inferiores omnes substantias immateriales esse unum et bonum per participationem primi, quod est secundum se unum et bonum. Omne autem participans aliquid, accipit id quod participat ab eo a quo participat: et quantum ad hoc id a quo participat est actus ipsius: sicut aër habet lumen participatum a sole, qui est causa illuminationis ipsius. Sic igitur secundum Platonem summus Deus, causa est omnibus immaterialibus substantiis, quod unaquaeque earum et unum sit et bonum sit. Et hoc etiam Aristoteles posuit: quia, ut dicit, necesse est ut id quod est maxime ens, et maxime verum, sit causa essendi et veritatis omnibus aliis».| 30) (b) «Secundo autem conveniunt quantum ad conditionem naturae ipsarum: quia uterque posuit omnes huiusmodi substantias penitus esse a materia immunes; non tamen esse eas immunes a compositione potentiae et actus: nam omne participans ens, oportet esse compositum ex potentia et actu. Id enim quod recipitur ut participatum, oportet esse actum ipsius substantiae participantis; et sic cum omnes substantiae praeter supremam, quae est per se unum et per se bonum, sint participantes SECUNDUM PLATONEM, necesse est quod omnes sint compositae ex potentia et actu; quod etiam necesse est dicere secundum sententiam Aristotelis. Ponit enim quod ratio veri et boni attribuitur actui: unde illud quod est primum verum et primum bonum oportet esse actum purum; quaecumque vero ab hoc deficiunt, oportet aliquam permixtionem potentiae habere» (ed. De Maria, III, pp. 219-220; ed. Perrier, p. 133 s.). Nei cc. 5-9 S. Tommaso presenta una «mise au point» definitiva della tesi sulla composizione ilemorfica dell’Angelo, che qui viene, come sempre, attribuita dal Dottore Angelico al suo vero responsabile, il giudeo Avicebron: è questa l’esposizione più ampia che sotto l’aspetto storico-critico S. T. ci abbia dato della
questione. La nozione di partecipazione interviene soprattutto al c. 8, che dovrebbe essere trascritto per intero: indicherò soltanto i punti principali. 31) c. 8 [Solutio rationum opinionis Avicebron]. In risposta alla «tertia ratio» di Avic. (cfr. c. 5) S. Tommaso presenta tutta la gerarchia degli esseri ordinata secondo il rapporto di partecipazione: «Tertia vero ratio efficaciam non habet. Cum enim ens non univoce de omnibus praedicetur, non est requirendus idem modus essendi in omnibus quae esse dicuntur: sed quaedam perfectius quaedam imperfectius esse participant. Accidentia enim entia dicuntur, non quia in se ipsis esse habeant, sed quia esse eorum est in hoc quod insunt substantiae. Rursumque substantiis omnibus non est idem modus essendi. Illae enim substantiae quae perfectissime esse participant, non habent in se ipsis aliquid quod sit ens in potentia solum: unde immateriales substantiae esse dicuntur. – Sub his sunt substantiae quae etiam in seipsis huiusmodi materiam habent, quae secundum sui essentiam est ens in potentia tantum; tota tamen earum potentialitas completur per formam, ut in eis non remaneat potentia ad aliam formam, unde et incorruptibiles sunt, sicut coelestia corpora, quae necesse est ex materia et forma composita esse [...]. Sub his vero substantiis est tertius substantiarum gradus: scilicet corruptibilium corporum, quae in seipsis huiusmodi materiam habent,| quae est ens in potentia tantum; nec tamen tota potentialitas huiusmodi materiae completur per formam unam cui subjicitur, quia remanet adhuc in potentia ad alias formas...» (ed. cit., p. 232; ed. Perrier, p. 149). È nella risposta alla «quarta ratio» che la partecipazione è invocata, al solito, come ratio propter quid della composizione di essenza ed atto di essere, in sostituzione alla composizione di materia e forma, e con ciò la creatura si distingue sufficientemente da Dio. 32) (a) «Quarta vero ratio efficaciam non habet. Non enim oportet ut si substantiae spirituales materia carent, quod ideo non distinguantur; sublata enim potentialitate materiae, remanet in eis potentia quaedam, in quantum non sunt ipsum esse sed esse participant. Nihil autem per se subsistens, quod sit ipsum esse, poterit esse nisi unum solum; sicut nec aliqua forma, si separata consideretur, potest esse nisi una. Inde est enim quod ea quae sunt diversa numero, sunt unum specie, quia natura speciei secundum se considerata est una. – Sicut igitur est una secundum considerationem, dum per se consideretur: ita esset una secundum esse, si per se subsisteret vel existeret. Eademque ratio est de genere per comparationem ad species, quousque perveniatur ad ipsum esse, quod est communissimum. Ipsum igitur esse per se subsistens est unum tantum. Impossibile est igitur quod praeter ipsum sit aliquid subsistens quod sit esse tantum: omne autem quod est, esse habet. Est igitur in quocumque praeter primum, et ipsum esse tamquam actus et substantia rei habens esse, tamquam rei potentia receptiva huius actus qui est esse» (ed. cit., p. 233; ed. Perrier, p. 150). Il contenuto del testo è, come si vede, sostanzialmente identico a quello del capo 3, e in tutti questi capitoli Avicebron è presentato come il filosofo che abbia del tutto deviato dalla linea metafisica di Platone e di Aristotele. Al t. cit. S. Tommaso fa seguire una profonda dilucidazione sulla natura della potenzialità della materia e della forma, dilucidazione che utilizzerò mostrando i rapporti fra la nozione di partecipazione e la teoria dell’atto e della potenza. Nella risposta alla 5ª ragione, sull’infinità della forma pura, l’Angelico con un’evidente allusione al De Causis, mostra di quale natura sia questa infinità. (b) «Quintae vero rationis solutio jam ex dictis apparet. Quia enim substantia spiritualis esse participat non secundum suae communitatis infinitatem, sicut est in primo principio sed secundum proprium modum suae essentiae, manifestum est quod esse eius non est infinitum, sed finitum. Quia tamen ipsa forma non est partici|pata in materia, ex hac parte non finitur per modum quod finiuntur formae in materia existentes». (c) «Sic igitur apparet gradus quidem infinitatis in rebus. Nam materiales substantiae finitae quidem sunt dupliciter: scilicet ex parte formae, quae in materia recipitur, et ex parte ipsius esse quod participat secundum proprium modum, quasi superius et inferius finita existens. Substantia vero spiritualis est quidem finita superius, in quantum a primo principio participat esse secundum proprium modum; est autem aliquo modo infinita inferius, in quantum non participatur in subiecto. Primo vero principium quod Deus est, est omnibus modis infinitum» (ed. cit., p. 234; ed. Perrier, p. 152). Credo che i testi riportati dimostrino a sufficienza il mio assunto: nessuna modificazione reale nel pensiero di S. Tommaso, sia in generale circa l’affermazione della natura della distinzione fra essenza ed atto di essere, sia nell’argomentazione; ma modificazione modale (passi il bisticcio!) ed approfondimento insieme, mediante il ricorso esplicito alla nozione di partecipazione. Questa nozione, nei testi riportati a volte si riferisce all’argomento della causalità (3º del De Ente e 2º gruppo del C. G.), ma più spesso ha il suo significato formale-statico (2º arg. del De Ente, 1º gruppo e 7º arg. del C. G. e segg.): mentre l’uso della nozione di partecipazione nel primo senso è comune a quasi tutti i filosofi cristiani, lo sviluppo invece dato al secondo senso verso l’affermazione della distinzione reale fra partecipazione e partecipato, è proprio di S.
Tommaso. La fondatezza di questa importante conclusione apparisce già dalla sola lettura dei testi, ma sarà ancora confermata, dalle osservazioni che fra poco aggiungerò sull’originalità della posizione tomista. Pertanto si potrebbe presentare, più o meno, a questo modo, lo schema dell’argomentazione tomista, per stabilire la distinzione reale fra essenza ed atto di essere: * *
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«Omnis creatura dicitur (esse) ens per participationem. Sed omne quod est per participationem oportet quod dividatur in participans et participatum (t. 9), ita quod «omne participans componatur ex participante et participato (t. 17), tamquam ex potentia et actu (t. 22, 23, 26). Ergo omnis creatura componitur [realiter] ex actu et potentia in linea entis quod est ex participato et participante (t. 25): parti|cipans dicitur essentia vel suppositum, et quod est participatum ipsum esse seu actus essendi. Ad Maior – patet, quia unaquaeque substantia creata in se est finita vel in suo ordine, vel saltem relate ad ipsum esse, ex eo quod est talis et talis, et non capit totam plenitudinem entis, quia «Omne esse, secundum quamcumque rationem essendi existit (tantum) in eo qui omnium existentium est causa. Non enim esse suum est finitum per aliquam naturam determinatam ad genus vel speciem ut possit dici, quod est hoc et non est illud, ut sunt determinatae etiam substantiae spirituales...». (Comm. in l. De Div. Nom., c. 5, XV, p. 351 b)37. Minor etiam patet. Sicut in ordine praedicamentali fit participatio in linea substantiae ex subiecto et accidente secundum compositionem realem: ex accidente quod participatur et ex subiecto participante; et in linea essentiae ex forma quae participatur et ex materia participante – (Cfr. testi 10, 14, 17, 22, 24, 26, 27, 30, 31). «...Similiter, et a fortiori, in ordine trascendentali ipsius entis, ex actu tou/ esse quod participatur, et ex potentia participante quae est ipsa essentia vel suppositum». * *
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Pensavo di far seguire allo spoglio dei principali testi tomisti alcune indicazioni storiche, prese sia dagli avversarî, come dai difensori immediati della distinzione reale fra essenza ed atto di essere, ed avevo raccolto alcuni interessanti documenti che mostrano all’evidenza come anche per quei pensatori della fine del sec. XIII e di tutto il sec. XIV il nòcciolo della posizione tomista era attorno alla nozione di partecipazione. Ma ho omesso di elencarli sia perchè la mia ricerca in questo campo è appena iniziata; sia per non ingombrare soverchiamente il lavoro. CONFERME ESTRINSECHE DELLA NOSTRA INTERPRETAZIONE § 5. – Ognun comprende l’importanza che hanno in una questione di esegesi critica, com’è la mia, le testimonianze estrinseche, quando vengano a collimare con le conclusioni che già i testi di| S. Tommaso avevano direttamente suggerite. Queste testimonianze non mancano ed ho cercato di darne un breve saggio, incompleto certamente, ma significativo e sufficiente allo scopo; le divido in due classi, quelle prese dagli avversari e quelle prese dai difensori della distinzione reale. Mi mantengo nei limiti dei secoli XIII-XIV. Fra gli avversari ricorderò le testimonianze degli Averroisti, di Duns Scoto, dell’Olivi e del Gandavensis; fra i difensori, quelle di Egidio Romano, di Thomas de Sutton, e di Petrus de Godino. A) SECONDO GLI AVVERSARI Gli Averroisti. È risaputo che non solo i teologi, gli Augustinisti, ma anche gli Aristotelici della Facoltà delle arti fecero una forte resistenza alla tesi tomista della distinzione reale fra essenza ed essere in creatis; per essi tale tesi significava un abbandono del pensiero aristotelico e un ritorno alla posizione di Avicenna dell’esse «come accidens additum essentiae». 1ª Test. – SIGERI di Brabante. Il Grabmann nel Cod. Clm 9559 trovò assieme a varie opere, una collezione di questioni metafisiche, attribuite espressamente a Sigeri, il noto capo-scuola dello Averroismo latino; esse formano come un commento ai libri I-V della Metafisica di Aristotele e occupano i fogli 93r118v del Codice. Esse si trovano anche nel Codice parigino: Nat. Lat., 16.297. Nell’introduzione, è posta espressamente la q. (7): «Utrum esse in creatis pertineat ad essentiam causatorum vel sit aliquid additum essentiae», ove si fa espressamente menzione della dottrina di S. Tommaso, dopo quella di Alberto M.; la q. è stata edita integralmente dal Grabmann38. Ma il Grabmann, che
ha segnalato in altri Averroisti l’accenno all’argomento della partecipazione, non sembra essersi accorto ch’esso era presente anche nella questione da lui edita, di Sigeri. Sigeri si introduce nella q. con 9 argomenti, quelli più in voga presso i difensori della distinzione reale; nel corpo esamina l’opinione «Alberti Commentatoris» (p. 14, lin. 30), e un’«alia opinio» che in margine del ms. è indicata come «opinio Thome»; indi pro|pone la sua opinione personale, ed infine risponde agli (9) argomenti in contrario. L’argomento della partecipazione, è riportato, senz’alcuna indicazione d’autore, come 8ª difficultas; «Item omnia sunt entia per participationem primi entis, ita ut nihil sit ens aliud a primo. Ergo cum in his que sunt entia per participationem differt esse participatum et natura participans, quare differt esse ab essentia». A chi attribuisce Sigeri quest’argomento? Non è facile dirlo, perchè mentre pone 9 argomenti in contrario, alla fine non dà che 6 risposte: nelle risposte però è fatto menzione esplicita di S. Tommaso a cui sono attribuiti gli argomenti I e IX: «Ad aliud, omne per se subsistens citra primum, compositum est..., nota: Ista et ultima ratio movit fratrem Thomam»; l’ultima «ratio» è il 2º arg. del De Ente: «Esse secundum quod est esse non potest esse diversum, ecc.». Nella lunga e complessa risposta di Sigeri si fa una menzione diretta anche alla nozione di partecipazione: ed è interessante l’osservare come in essa Sigeri si sforzi di mantenersi aderente al testo e allo spirito di Aristotele. D’altra parte l’arg. 8º, quello fondato sulla nozione di partecipazione, non è oggetto di una risposta speciale: onde non resta che ammettere che Sigeri abbia voluto rispondere cumulativamente a due argomenti, al 1º, ed anche all’8º. Così Sigeri avrebbe dato, implicitamente, per autore dell’argomento della partecipazione S. Tommaso: propongo questa mia deduzione a puro titolo di ipotesi, che credo verosimile e fondata sul contesto. Ecco il testo: «Omne per se subsistens citra primum compositum est. Ista et ultima ratio movit fratrem Thomam. Dicendum est quod haec ratio duplicem habet solutionem. Primum tamen modum non assero. Cum dicitur “omne citra primum debet recedere a simplicitate primi, etc.” nescio ubi sumpta sit haec propositio. Bene autem invenio quod que sunt citra primum recedunt ab ipso et multiplicantur per hoc quod accedunt ad potentiam [...]. Item recedunt a primo per participare, quia quaedam participant de ente magis et minus, quia quanto magis accedunt ad primum, tanto plus participant de ente sicut species numeri per comparationem ad unitatem quia una magis perfecta, alia minus [...]. Unde Aristoteles: In speciebus numeri semper una species magis perfecta, alia minus. Item, esto quod maior sit vera: unumquodque recedit a simplicitate primi, etc. – et quaedam sunt que non sunt composita ex materia et forma, ergo sunt composita ex essentia et esse». La risposta è: «Fallacia consequentis. Possunt enim recedere alio modo ut per intelligere, quia omne aliud a primo intelligit per speciem, que est aliud ab ipso» (ed. cit., p. 22, lin. 47-53).| La riposta adunque presenta esattamente i punti della posizione tomista fra i quali Sigeri conosce l’argomento della partecipazione come principale. Questa è l’unica volta che nel Commento Sigeriano si fa espressamente il nome di S. Tommaso: l’argomento però della partecipazione vi ricorre altre volte e con particolare impegno. Al lib. III, q. II Sigeri si chiede: Utrum esse sit de essentia rei39 e si collega direttamente alle questioni dell’Introduzione (secundum quaedam prius dicta) ma non è contento di quella prima soluzione all’argomento della partecipazione: «Ratio dicenda nunc non fuit soluta superius». Eccola: «Quaecumque sunt entia, sunt entia per participationem Primi Entis; sed in omnibus talibus differunt participans et participatum; et tunc esse participans et esse participatum differunt». È impossibile non pensare a S. Tommaso (spec. al testo del Comm. alla Fisica, riportato di sopra e che doveva essere ben noto a Sigeri perchè ispirato dalla polemica antiaverroista), leggendo quest’argomento. La risposta di Sigeri è molto chiara: c’è una doppia partecipazione, una univoca, l’altra analoga; soltanto la prima comporta la composizione reale di partecipante e partecipato, perchè la seconda è esaurita dalla «imitazione» come voleva Platone. Il testo è al tutto esplicito: «Dico quod duplex est modus entis per participationem: unus per participationem imitationis; alius per participationem univocationis, ut album ipsum est album per participationem albedinis quae est univoca. In talibus autem oportet quod sit compositum ex participante et participato. In entibus autem ipsa essentia Primi non est participata per participationem univocationis, sed imitationis, in hoc quod ista imitantur Primum. In his autem non oportet quod participans et participatum differant, unde Plato mutavit nomen imitationis et assumpsit ipsum pro participatione univocationis». Nello stesso libro III la q. 21 si chiede: Utrum ens possit participari40 e la risposta è molto energica: «Quod non, probo. Omne quod participatur est ex participato et natura participante, quae diversa est a participato; sed nihil est diversum ab ente; sed oportet illud esse diversum ab ente quod participaret ens; quare, etc.». Nella soluzione Sigeri sembra prendere una nuova via, ma ricade nell’argomentazione di prima e nell’identica distinzione delle due partecipazioni. – «Solutio. Dico quod ens participari duobus modis est:
vel ens commune, vel ens quod est ipsum ens particulare. Sed| illud est duplex. Unum est ens ipsum, hoc est Ens Platonis separatum; tale non participatur, quia non est aliquod tale ens. Alio modo Ens Primum per se, non sicut ens quod nunc dictum est, et hoc ens contingit participari duobus modis: vel per participationem esse vel essentiae, vel per participationem imitationis. Unde aliquid potest participare Ens Primum non per essentiam, sed per imitationem». – Ma non potrebbe il concreto, riprende Sigeri, dirsi ente per partecipazione allo «ens commune?». No, per la ragione già detta, perchè il genere si può partecipare in quanto è diviso nelle specie, non l’ente a cui tutto fa capo: «Sed potestne aliquid esse ens per participationem entis communis? Dico quod non, quia tunc oporteret quod illud esset compositum ex natura participantis et participati, quae inter se essent diversa. Unde omne quod est ens, est ens per suam rationem: homo enim est animal per participationem animalitatis, quia est aliquid in ipso quod differt a natura animalitatis; non tamen est ens per participationem entis, quia nihil est in ipso quod sit differens ab ente vel a ratione entis, et sic patet ad illud»41. Sigeri ammette quindi che solo la partecipazione predicamentale comporta composizione reale nel partecipante, non quella trascendentale. La tradizione averroista si manterrà fedele a Sigeri sia per l’interpretazione esatta di S. Tommaso, sia per la sua opposizione alla tesi tomista. 2ª Test. Queste due testimonianze sono al tutto esplicite. L’una si trova in una collezione di «Quaestiones» sulla Metafisica di Aristotele, di un anonimo averroista, che occupano i fogli 134 r-148 r del Cod. Lat. 1444 della Biblioteca dell’Università di Lipsia. Ai fogli 143 r-144 r si pone la q.: «Utrum esse et essentia differant realiter»; riporto il testo secondo la trascrizione del Grabmann che per primo ha trovato queste questioni. L’anonimo cita fra i difensori della distinzione reale Avicenna, San Tommaso e Egidio (Romano), e, a differenza di Sigeri, distingue bene l’opinione di Avi|cenna da quella di S. Tommaso mentre per quella di Egidio nota che «est eadem cum opinione beati Thomae in radice. Sed illa (quella di Egidio) non est magis lucida». Per l’opinione di S. Tommaso è dato come unico argomento la ragione di partecipazione. «Consequenter restat videre opinionem beati Thomae. Unde dicit duo: Primo quod in omnibus creaturis existentibus per se differt esse realiter ab essentia. Secundo dicit, quod illud quod esse addit super essentiam, non est alterius generis ab essentia, sed est eiusdem generis cum essentia. Primum probatur sic. Illa differunt realiter quae se habent sicut participans et participatum. Esse et essentia sunt huiusmodi. Maior probatur. Si non, tunc sequeretur, quod participans esset idem, etc. Sed hoc est falsum. Et hoc declarat, quia albedo participatur ab albo et album est participans et illa differunt realiter. Secundum relinquit manifestum et non probat». All’esposizione segue una critica assai sommaria, nella quale l’anonimo fa venire il dubbio se conosca il Tomismo di prima o seconda mano, poichè mostra d’ignorare quelle che sono le sue tesi più fondamentali. «Haec autem opinio non valet quoad conclusionem, quia si in omni creatura differunt esse et essentia, sequitur quod sub aliqua substantia incorporea possunt esse plura individua sub una specie, quod est contra Commentatorem in pluribus locis, quia si differt realiter essentia ab esse, tunc essentia posset plurificari et per hoc constituere plura. [...] Tunc ad rationem potest concedi maior: In participatione reali est vera. Sed hoc est non nisi participatio rationis. Ad probationem dico, quod non est simile, quia in genere accidentium concretum superaddit abstracto aliquid reale, sed subiectum quod est alterius generis. Et sic non est in proposito»42. La prima osservazione è evidente «ignoratio elenchi», poichè anche S. Tommaso sempre difese che ciascun Angelo è una specie a sè: intorno alla seconda osservazione, che sarà ripetuta continuamente dagli avversarî del Tomismo, è stato già detto abbastanza, e si dirà ancora qualcosa. 3ª Test. Un’altra testimonianza esplicita è data dallo stesso Johannes de Janduno, che fu scolarca dell’Averroismo dopo la morte di Sigeri († 1281-84); essa si trova nelle «Quaestiones in XII ll. Metaphysicae» che furono stampate a Venezia nel 1560; l’edizione| resta molto rara ed il Grabmann se ne accorse solo recentemente. Nella q. III, del IV libro pone la q.: «Utrum in rebus causatis esse sit aliud ab essentia», espone dapprima la sentenza di Avicenna a cui contrappone quella di Averroè; indi fa seguire l’opinione di S. Tommaso che è nominato con il titolo di «antiquus expositor» [Aristotelis]; questo testo è più denso di quello dell’anonimo del Codice 1444 di Lipsia e sono indicate espressamente le fonti della sentenza tomista. «Alia est opinio, quae plus restringit et specificat quaesitum, et est, quod licet in omni ente causato esse non differat ab essentia, tamen in omni ente subsistente causato ut in substantia omni causata, esse est simpliciter aliud ab essentia et intelligitur de esse, quod praedicatur, ut: homo est, quod esse est secundum adiacens. Et ista opinio est antiqui expositoris in tractatu suo de Ente et Essentia et in VIII Physicorum ubi loquitur contra Averroim ponentem coelum esse simplicem et non compositum ex materia et forma. Et adducit talem rationem: Participans differt a participato, sicut patet de ferro ignito et hoc si vera est
participatio. Sed in omni substantia et essentia per se subsistente esse participatur ab alio, ut ab essentia, et quod esse sit participatum in substantia per se subsistente, quia esse vel est participatum in subiecto vel est per se subsistens: et hoc patet per sufficientem divisionem. Si est participatum ab essentia et a subiecto aliquo, tunc habetur propositum. Sed si est per se subsistens et non participatum a subiecto, hoc non potest esse nisi unum et sic non esset nisi unum, quod est subiectum, quia multa sunt esse. Et consequenter probat per simile, quia si albedo esset separata et per se subsistens, non esset et separatum, tunc non esset nisi unum esse causatum, quod est impossibile»43. Il maestro averroista fa seguire un’ampia critica al procedimento di S. Tommaso, riassunta brevemente dal Grabmann, ma che per la nostra ricerca merita maggiore attenzione. 1) Egli nega anzitutto che tutte le sostanze causate debbano dirsi «enti per partecipazione»: «Quia in substantiis abstractis est esse per se subsistens, et non est participatum vere, quia est idem essentialiter cum essentia» (col. 237). 2) Espone la sua tesi personale che ammette la distinzione di essenza ed esse soltanto nelle sostanze corruttibili, perchè in queste soltanto si può parlare di un «esse participatum ab aliquo». Prova: «Si est participatum, tunc differt a participante, quia participans| semper differt a participato, si est vera et realis participatio, quia participare non est nisi participati rationem habere». 3) Attacca poi decisamente il principio della «perfectio separata quae non potest esse nisi una» di S. Tommaso e spezza una lancia in difesa di Averroè: «Hoc verum est in illis quae conveniunt in specie specialissima, ut si albedo esset per se subsistens, quia est eiusdem speciei specialissimae, tunc non esset nisi unum individuum, et hoc verum est, tamen potest multiplicari illud quod coniungitur materiae per divisionem materiae ut intellectus, licet hoc non senserit Commentator (sicut patet 3. De Anima) quia secundum ipsum in abstractis impossibile est reperire plura individua sub eadem specie. Et propter hoc fuit coactus Commentator ad ponendum intellectum humanum unum numero et haec ratio sic formata valet, quae prius non valebat, sicut formabat eam frater Thomas» (col. 237). 4) Spiega la propria sentenza che afferma l’identità dell’essenza attuale con lo esse attuale e dell’essenza potenziale con lo esse potenziale, per affermare unicamente la partecipazione predicamentale della materia alla forma da cui dipende la moltiplicazione degli individui nella stessa specie: «Notandum diligenter circa istam opinionem (= di S. Tommaso) quod sicut ens distinguitur per ens in actu et ens in potentia, sic essentia distinguitur per essentiam in actu et essentiam in potentia. Modo quando dicitur quod in substantia generabili et corruptibili esse differt ab essentia, si intelligitur uniformiter non est verum, quia essentia actualis non participat esse actuale: sed illud esse actuale est idem cum essentia, quia essentia actualis est idem cum forma quae est esse et actus. Similiter essentia potentialis ut materia non participat esse potentiale, sed est idem cum ipso. Sed essentia potentialis ut materia participat esse actuale ut formam, quia nisi forma participaretur et caperetur in materia, tunc in una specie non esset nisi unum individuum, quod videmus esse falsum quia plura individua sunt [in] natura humana» (col. 237). 5) Precisa infine, concludendo, che nè negli accidenti nè nelle sostanze spirituali si può ammettere la distinzione reale di essenza ed esse e ritorna sulla critica alla nozione tomista di partecipazione: «Si esse differret ab essentia in illis [= le sostanze spirituali], hoc esset ratione participationis: quia participans differt a participato, ut patet ex dictis; sed propter diversitatem participationis non oportet esse diversa: ut patuit ex solutione rationis S. Thomae, quia praeter diversitatem participationis possunt istae substantiae multiplicari diversitate specifica, ut dictum est, quia istae sub|stantiae perpetuae non sunt eiusdem speciei specialissimae» (col. 238). Ripete la sua teoria per la distinzione nelle sostanze materiali, nel senso già indicato, e conclude contro la posizione tomista: «Quia si esse in actu differret ab essentia in actu, tunc esset processus in infinitum in distinctis44 essentialiter secundum actum et in essentialiter ordinatis, quod est contra Aristotelem» (col. 238). 4ª Test. Un suo valore ha la testimonianza del tutto esplicita di Agostino Nifo. Egli afferma infatti senza tanti ghirigori: a) che per S. Tommaso l’esse e la essenza si distinguono realiter, e b) che l’argomento principale è quello della partecipazione. Probabilmente, in quest’atteggiamento così onesto e cristallino nel riferire l’opinione avversaria, il Nifo dipendeva dagli scritti di Sigeri e di Io. de Janduno che conosceva molto a fondo, come sappiamo altrove da indizi espliciti. Nella prima fase del suo insegnamento è noto che il Nifo aderì all’Averroismo. Nel suo Metaphysicarum Quaestionum dilucidarium, al lib. IV, disputatio 5ª: «De distinctione esse ab essentia in unoquoque causato», esauriti i prolegomeni e l’esposizione delle sentenze opposte dove ha cura di rilevare non pochi equivoci, il Nifo arriva alla posizione di S. Tommaso che espone come segue. Benchè sia stampato in ottima edizione, credo che il testo non sia stato finora rilevato da alcuno come neanche da me nella prima edizione.
«Quaestio vero nostra quaerit de essentia propria Socratis: utrum differat ab esse existentiae... Thomas vero in 8 phys. ausc. et in codicillo de ente et essentia et hic in 4 [Metaph.] asserit in omni ente causato subsistente esse distingui simpliciter et realiter ab essentia, cuius multae sunt rationes, POTISSIMA quia participans differt ab eo quod participatur. Sed esse participatur ab essentia in omni tali, igitur differt ab illa. – Secundo, quia esse causatur ex principiis essentiae, igitur differt ab essentia, ut arguitur 4º huius. Pro hac positione videtur Boëthius in multis locis, ubi semper vult ipsum esse diversum esse ab essentia; pro eadem et Avicenna 5º Metaph. cap. 1, pro hac eadem Algazel ibidem, et multi doctores. Sed contra hanc positionem abiiciunt iuniores rationibus...»45. Il Nifo, preoccupato di rimanere fedele alla lettera di Aristotele, non ammette la posizione tomista ma insinua che anche S. Tommaso, da buon peripatetico, non dovrebbe dissentire da lui: «Solum| differt Thomas a nobis qui hanc compositionem [essentiae et esse] etiam in intelligentiis ponit, nam ut catholicus posuit illas possibiles non esse, et antequam fuissent, possibiles esse; igitur cogitur ponere in illis esse differre ab essentia. Sed, ut naturalis philosophus non dissentiret a peripateticis: ipse enim ut bonus peripateticus, raro aut numquam a mente Aristotelis divertit». E il Nifo approfitta dell’occasione per dare una botta ai discepoli esagerati e poco intelligenti, così da poter quasi rivendicare S. Tommaso dalla sua parte con una interpretazione dei rapporti fra essenza (intesa in astratto) e esistenza (intesa come essenza concreta realizzata) che prelude a quella di Suarez: «Nec Thomas negaret sumendo essentiam pro natura illam esse idem ipsi esse sumpto pro existentia individui... Thomas enim non diceret naturam illam et ipsum esse differre eo modo quo differunt duae res diversarum existentiarum, sed diceret illam distinctionem esse realem, quatenus est praeter operationem intellectus: et sic in idem veniunt, licet verbis differunt»46. Conclusione certamente un po’ semplicistica, ma che rivela un ambiente dottrinale che meriterebbe uno studio più accurato di quanto finora non siasi fatto, al fine di conoscere la genuina storia del Tomismo. 5ª Test.: DUNS SCOTO. Nelle testimonianze che seguono vi manca l’attribuzione esplicita a S. Tommaso dell’argomento della partecipazione, ma certamente bisogna far risalire a S. Tommaso la prima origine del medesimo. Così Io. Duns Scotus nell’Opus Oxoniense (Super I Sent., Dist. VIII, q. II) si chiede se qualche creatura sia semplice: «Quaero utrum aliqua creatura sit simplex»; per la sentenza negativa cita S. Agostino (De Trinitate, VI, c. V), al quale fa poi seguire con un «Hic dicitur» un’elaborazione teologica che doveva essere di comune conoscenza, ma di cui tace l’autore. «Hic dicitur quod quaelibet creatura est composita ex actu et potentia, quia nulla est pura potentia, quia tunc non esset, nec purus actus, quia tunc esset Deus: ergo quaelibet creatura est composita ex actu et potentia». Segue un «Praeterea» ove si accenna all’argomento della partecipazione: «Praeterea, quaelibet creatura est ens per participationem; ergo est composita ex participante et participato»47.| Nell’edizione WADDING, riprodotta dal Vivès (Parisiis 1893) tanto nel margine, come negli «Scolia» è indicato espressamente S. Tommaso come l’autore di questa opinione (cfr. t. III ed. Vivès, p. 574: Hic dicitur - hic ponitur opinio Thomae qui dicit...), ma gli editori di Quaracchi hanno soppresso tutte queste indicazioni, non so per qual ragione: l’indicazione accettata dal Wadding è al tutto corretta, poichè lo Scoto ha polemizzato direttamente con S. Tommaso in questa parte, e non con Egidio Romano, come è il caso degli autori che ora citeremo. 6ª Test. – PETRUS JO. OLIVI (1248-1298). L’Olivi nelle QQ. in II l. Sententiarum, nella q. VIII, II parte, solleva la questione della distinzione fra essenza ed essere: «Secundo quaeritur an esse et essentia sint idem». Fa precedere la soluzione da 10 obiezioni, che rappresentano gli argomenti dei difensori della distinzione reale; l’argomento della partecipazione è il secondo: «Item. Omne limitatum et participatum differt ab eo per quod limitatur et in quo participatur; sed esse limitatur ad certum genus et speciem per essentiam cuius est et a qua participatur: esse enim quantum est de se est illimitatum et indistinctum»48. L’Olivi non dice chi fosse l’autore dell’arg. e in tutta la questione non fa alcun nome dei suoi avversari; credo però che si tratti di S. Tommaso; ma anche se si riferisse ad Egidio Romano, la testimonianza nulla perde del suo valore dottrinale. 7ª Test. – HENRICUS GANDAVENSIS (?-1293). Il Gandavensis è insieme uno degli avversarî più decisi della distinzione reale, e l’autore di un modo intermedio di concepire questa distinzione, che non sia nè una pura distinzione di ragione come per gli Averroisti e per Godefridus de Fontibus, nè una distinzione «inter rem et rem». Gli studi fondamentali del P. Hocedez49 hanno assodato che fin dalla prima presa di posizione del Gandavensis nel Quodl. I, q. IX (a. 1276) l’avversario che ha di mira il maestro fiammingo è più Egidio Romano che S. Tommaso; la posizione avversaria, come nell’Olivi, è indicata con il plurale «dicunt» onde pare che| assieme ad un individuo singolo si voglia indicare tutta una scuola che aveva in comune
l’argomentazione di Egidio. Il Gandavensis accetta la nozione di partecipazione, ma ne contesta le conseguenze, volute dai suoi avversari e qualifica il loro modo di intendere la partecipazione («creatura se habet ad Deum sicut aër ad solem illuminantem») come «phantastica imaginatio». L’argomento secondo la nozione di partecipazione nel Quodl. I, q. IX, è riferito nelle ob. 4-5-6 con le proposizioni del De Hebdomadibus di Boezio; ad esse segue una interminabile discussione, quella che fece sudare tutte le posteriori generazioni tomiste fino all’apparizione di Suarez che volle un po’ anche per sè l’onore di posare ad avversario del Tomismo. Credo inutile riferire dell’argomentazione, poichè non dice nulla di nuovo50. B) SECONDO I DIFENSORI 8ª Test. – La nozione metafisica di partecipazione in Egidio Romano (1247-1316). Egidio Romano deve molto della sua fama all’essersi fatto paladino a spada tratta della distinzione reale fra essenza ed essere: anzi, secondo la tesi, che fece tanto rumore, del P. M. Chossat S.J.51, Egidio, e non S. Tommaso, sarebbe il responsabile della distinzione reale, quale poi fu ed è difesa comunemente dai tomisti; e si è parlato senz’altro di un antitomismo di Egidio anche in questa parte. Oggi la controversia, grazie all’intervento del P. Mandonnet, di Mons. Grabmann e di altri, e secondo anche gli ultimi studi del P. Hocedez S.J., sembra liquidata anche sotto l’aspetto storico: il dottore agostiniano, in questa sua posizione, dipende direttamente da S. Tommaso, suo maestro, di cui probabilmente ascoltò a Parigi la difesa nell’insegnamento orale. Il P. Hocedez, benchè ritenga che S. Tommaso stesso abbia difeso, prima di Egidio, la distinzione reale, ha voluto notare una certa differenza modale fra l’esposizione del maestro e quella del discepolo. Mentre S. Tommaso mantiene un prudente riserbo nei termini, e si trincera entro la coppia aristotelica atto-potenza, Egidio invece converge tutti i suoi sforzi, più che nel provare la necessità della distinzione reale, nel mostrare in qual senso preciso| essa vada intesa, ed è il primo a parlare in proposito di una distinzione «inter rem et rem». Egidio insiste in questa terminologia: distinguuntur ut res et res, distinctio inter rem et rem, sunt duae res, faciunt numerum...; distingue un doppio esse nelle creature, uno conseguente alla «forma partis» ed un altro conseguente alla «forma totius», ammette, nelle opere posteriori, una certa qual distinzione reale fra genere e differenza specifica. E soprattutto nel Commento al De Causis (a. 1290 Bruni), presenta un Platonismo assai spinto ed un realismo davvero esagerato che appare anche nella concezione sull’essere dei possibili, che sono detti preesistenti in un certo modo alla loro realizzazione. «La conclusion que la convergence de ces indices impose à notre avis», scrive il P. Hocedez, «est que Gilles a renforcé la distinction réelle, l’a entendue dans un sens plus matériel, plus physique que S. Thomas. En tous cas ces indices dénoncent en Gilles une imagination philosophique différente de celle du docteur Angélique»52. E più sotto in termini più forti osserva: «Nous pouvons donc conclure avec certitude que Gilles ne conçoit pas exactement la distinction réelle de l’essence et de l’existence comme S. Thomas. Il l’a, si je puis parler de la sorte, réifiée. Malgré les atténuations et les correctifs qu’il apporte, il n’a pas su s’empêcher de l’imaginer, comme “ deux ” choses qui s’ajoutent ou se séparent, et ainsi il a préparé la conception Suarezienne de la distinction réelle» (Introd. p. 64). L’accusa poi diventa esplicita: «Gilles par sa “ réification ” de la distinction réelle a outré la pensée de Thomas d’Aquin. Il est la cause responsable des exagérations des certains thomistes de XVe siècle...; il a créé la confusion qui règne dans la matière; est l’inventeur de monstre qui a effarouché Scot et Suarez»53. I tomisti non mostrarono gran difficoltà ad accettare queste conclusioni dell’Hocedez, anche se fecero notare come, qua e là l’Hocedez abbia ad arte, marcato un po’ le tinte. Per il P. Mandonnet, le esagerazioni di cui parla l’Hocedez non vanno intese come una reale deviazione dal pensiero di S. Tommaso, ma sono da interpretarsi con una certa equanimità: si tratterebbe più di un’esagerazione della terminologia, che di una difformità di dottrina, e la questione Egidio-distinzione reale, attorno alla quale si volle fare tanto chiasso, non è che uno pseudo-problema54.| Per quanto riguarda più da vicino il nostro argomento gli sviluppi di Egidio sono del massimo interesse, poichè la nozione di partecipazione viene ad occupare il posto centrale della sua metafisica: basti dire che dei 22 «Theoremata de esse et essentia», i quattro principali e cioè nn. 1, 4, 21, 22, sono formulati secondo i termini della partecipazione. Ma è soprattutto negli sviluppi della nozione nella speculazione di Egidio, ove si manifesta il carattere organico che essa ha per il «Doctor fundatissimus», e questo basterebbe, secondo i risultati di questa nostra ricerca, per mostrare la sua fedeltà e continuità con l’atteggiamento più maturo e definitivo che ebbe S. Tommaso in questa questione. Questo sembra riconoscerlo anche l’Hocedez, che ha la cura, di mettere in calce a quei Theoremata le referenze ad alcuni dei testi tomisti che noi già conosciamo. Ciononostante egli pensa che Egidio non concepisce la partecipazione esattamente come S. Tommaso (cfr. Introd. p. 73); concede però che i due dottori si trovano d’accordo (ibid., Nota 1):
1) sulla definizione di partecipare come «partem capere»; 2) sulla partecipazione dell’essere: l’esse è partecipato, la essenza il partecipante. Per quanto riguarda la mia ricerca debbo dire che ho provato una viva soddisfazione nel riscontrare in Egidio lo stesso piano di concetti, adottato in questo lavoro, che ormai era redatto nella sua forma definitiva quando venni a conoscenza dei Theoremata. Per questo non sarà fuor di luogo riportare alcuni fra i testi più significativi. Nel Theor. I si passa con ritmo continuo dalla partecipazione predicamentale a quella trascendentale, dottrina al tutto tomista, che sarà poi quasi completamente dimenticata. I. «Omne esse vel est purum per se exsistens et infinitum vel est participatum in alio receptum et limitatum». Partendo dalla etimologia di Partecipare come «partem capere», esordisce applicando la nozione alla composizione di materia e forma. «Nam quia forma limitatur et particulatur secundum modum materiae in qua recipitur, consequens est quod materia non recipiat formam in tota sua plenitudine et in tota sua universalitate sed recipit eam particulariter et contracte, quia secundum partem et non secundum sui universalitatem recipit illam formam. Inde est quod dixerunt Philosophi quod omnis forma in materia receptibilis, quantum est de se, est multiplicabilis. Nam omnis forma in hac materia recepta quantum est de se potest in alia parte materiae recipi et est apta nata plurificari [...]. Nam si materia reciperet formam secundum omnem rationem suam et in tota sua plenitudine, eam non posset| illa forma in alio reperiri, nec esset plurificabilis. Nam si posset reperiri in alio et posset plurificari iam non esset recepta in hoc secundum totam suam plenitudinem. Eo ergo ipso quod forma materialis est plurificabilis et potest in alio reperiri, nulla talis forma secundum omne suum esse et secundum totam suam plenitudinem recipitur in materia, ideo bene dictum est quod materia participat perfectionem formae, quia huiusmodi perfectionem solum secundum partem recipit et non secundum omne suum esse. Ex ipso ergo recipi in alio sumitur ratio participationis, quia si esset forma abstracta et per se existens haberet in se omnem rationem illius formae et comprehenderet omne esse illius. Recepta autem forma in materia deficit ab hac plenitudine et ab hac totalitate, ideo forma sic recepta dicitur participari i. e. secundum partem recipi. Et quod dictum est de forma respectu materiae, intelligendum est de esse respectu essentiae vel naturae; nam si esset esse per se subsistens illud esse esset totale et purum, habens in se omnem rationem essendi. Sed si esse sit receptum in alio, oportet quod contrahatur, particuletur et limitetur secundum modum eius in quo recipitur. Tale ergo esse dicitur participatum, i. e. secundum partem receptum: sed esse per se existens est purum et infinitum. Et quia omne esse vel est per se existens vel est in alio receptum, bene dictum est quod omne esse vel est purum per se existens et infinitum, vel est participatum in alio et limitatum» (ed. Hocedez, p. 2 l. 13 sq. usque ad p. 4 l. 10; cfr.: pag. 8, l. 1 e segg., e pag. 17 cfr. infra). La ragione della «plurificazione» è approfondita nel teorema seg. II. «Omne esse purum et infinitum multiplicari non potest quia nec (a) secundum numerum in eadem specie, nec (b) secundum speciem in eodem genere, nec (c) secundum genus in unitate analogiae potest plurificationem recipere». Per Egidio «... intelligere non possumus illam triplicem pluralitatem nisi intelligendo hanc triplicem compositionem. Nam non possumus quod aliqua sint plura numero et eadem specie, nisi sint composita ex materia et forma; in formis enim per se existentibus, non possumus intelligere differentiam nisi secundum formam. Nam si est differentia secundum esse vel secundum alias essentiales perfectiones, hoc est etiam secundum formam. Nam haec in eis ideo differunt, quia recipiuntur in diversis formis. Differre autem secundum formam est differre secundum speciem, nam non est aliud species quam forma» (ibid., p. 7, l. 17- 8, l. 4).| E, più sotto, precisando: «Secundum enim cursum naturae dicere possumus quod plurificatio secundum numerum in eadem specie praesupponit compositionem ex materia et forma. Plurificatio vero secundum speciem in eodem genere dicit compositionem ex genere et differentia, quia species quae sunt in genere ex genere et differentia sunt compositae, cum a genere in speciem per differentiam descendatur55. Sed tertia plurificatio secundum genus in unitate analogiae sine compositione esse et essentiae fieri non potest, nam semper analogia dicit prius et posterius. Si autem essent plura esse pura, nullum illorum esset prius altero nec posterius [...]. Est ergo esse purum prius quam esse participatum [...]. Ergo numquam duo esse sic se habent quod inter ea sit analogia, et quod unum sit prius altero, nisi alterum illorum sit participatum. Omne autem esse participatum requirit essentiam a qua participetur, ergo in omni tali est compositio ex esse et essentia. Diversitas ergo secundum genus in unitate analogiae absque compositione esse et essentiae fieri nequit (Ibid., pag. 9, l. 3-24 passim).
Nel Theor. III mostra come la forma per se existens possa aver ragione di potenza; su questo punto delicato e centrale Egidio riproduce fedelmente la dottrina di S. Tommaso come riferiremo fra poco. III. «Formae per se existentes, in alio non receptae, plurificari possunt, licet esse per se existens in alio non receptum plurificari omnino ratio contradicat». Nè nella potenza pura, nè nell’atto puro possono darsi gradi, ma solo nella potenza che è mescolata all’atto. «In potentia ergo admixta actu et in actu permixto potentia possunt assignari gradus et possunt talia differre secundum quod plus et minus habent de potentialitate et de actu. Et quia forma separata cum participet esse, et sit in potentia ad esse, licet dicat actum ratione qua forma, habet tamen quandam potentialitatem ex eo quod perficitur per esse. Ergo quaelibet talis forma est actus permixtus potentia et potentia permixta actu» (p. 14 l. 16-23). Ma è nel Theor. IV che la nozione di partecipazione raggiunge il suo pieno sviluppo, trattando della dipendenza totale dell’esse participatum dall’esse per se existens.| IV. «Omne esse participatum, in alio receptum et limitatum ab illo esse causatur et fluit quod est purum per se existens et infinitum». Egidio lo dimostra diffusamente con tre «viae», – ex actualitate, ex puritate, ex simplicitate esse primi – riteniamo la parte più sintetica. «Sed ut lucidius appareat quomodo omne aliud esse causatur et fluit ab esse puro per se existenti, diligenter est advertendum quod semper potentia participat actum loquendo de participatione reali, ut si materia est in potentia ad formam, dicitur participare formam et non proprie e converso. Nam illud quod recipitur in alio non recipitur secundum modum suum, sed secundum modum rei recipientis. Ideo omne receptum in alio dicitur participatum quia ex quo in alio recipitur non est in eo secundum omne esse suum, nec habet in ipso esse totale, sed particulatur et limitatur in ipso et hoc sonat participare, quasi partem capere. Ergo id quod recipitur participatur, quia secundum partem capitur, et id quod recipit participat quia secundum partem capit; ut si forma recipitur in materia secundum partem capietur ab ea, quia illa forma non habebit omnem rationem illius formae, nec erit in materia secundum omne suum esse, et sicut forma recepta participatur et secundum partem capitur, et sic materia recipiens participat et secundum partem capit. Et quod dictum est de materia respectu formae, intelligendum est de essentia respectu esse: nullum enim esse receptum in alio est infinitum, nec habet omnem rationem essendi, sed omne esse receptum participatur i. e. secundum partem capitur ab eo in quo recipitur et omne recipiens esse participat ipsum, i. e. secundum partem capit» (ib., p. 17). Indi precisa la differenza fra partecipazione logica e partecipazione reale. «Dimissa ergo participatione quae est secundum rationem, quae est inter genus et speciem, secundum quem modum dicimus quod species participat suum genus, eo quod aliquo modo partem capit de ipso, quia non secundum totum ambitum comprehendit illud. Nam ut genus est totum universale ad speciem oportet quod excedat ipsam et non comprehendatur ab ea; et ut species est pars subiectiva ipsius, exceditur a genere et non comprehendit ipsum, ideo dicitur participare quasi partem de ipso capere. Dimissa ergo hac participatione (quia) videtur esse secundum rationem, eo quod ratio talia adinvenit, sed loquendo de participatione reali secundum quam materia participat formam et essentia esse et omnino potentia actum, dicamus ut antea dicebatur, quod omne quod recipitur in alio se habet ut participatum et id quod recipit se habet ut participans. Et quia in ipso esse nihil recipitur, sed in| omnibus aliis recipitur esse, ipsum esse nihil participat sed omnia alia participant esse. Unde Boëthius in l. de Hebd. ait: “Quod est participare aliquod potest sed ipsum esse nullo modo aliquo participat”». E verso la fine conchiude: «Dicebatur quod semper potentia participat actum, actus vero secundum quod huiusmodi, non participat alio, quia potentia ut potentia habet recipere, actus vero secundum quod huiusmodi est nullius receptivus. Et quia esse dicit maxime actum et omnia alia a primo sunt in potentia ad esse, et omnia alia participant esse, ipsum vero esse nullo modo potest aliquid participare. Et quia omne quod est per participationem causatur et fluit ab eo quod est per se ipsum, ideo cum omnia alia participant esse, causantur et fluunt ab esse puro quod est per se existens et quod nullo alio participare potest» (pp. 18, 19). Espressioni ancor più efficaci si trovano al Theor. XVIII: «Nam semper, recipiens se habet ut participans, receptum vero ut participatum. Et quia semper potentia substernitur actui et actus in potentia recipitur, semper potentia se habet ut participans et actus ut participatum, et quia esse intelligitur actualitas quaedam et nullo modo esse habet rationem potentiae, bene dictum esse quod Boëthius ait, etc.» (p. 122-123. Cfr. anche Teor. XXII, pagine 156-157). I teoremi seguenti approfondiscono la questione da ogni lato. CAPREOLO (Defens. Theol. I, Dist. VIII, 1) nella difesa che farà di S. Tommaso ripeterà molte delle osservazioni poste qui da Egidio; la posizione viene definita nei suoi termini reali negli ultimi due Teoremi. XXI. «Omnis essentia participans esse per se determinatur ad genus, omne autem esse de se est extra terminos et non clauditur genere, si autem determinatur ad genus hoc est per essentiam in qua recipitur.
Sicut ergo esse per essentiam determinatur ad genus, sic essentia ut est idem cum esse poterit excellere omne genus (è Dio)» (p. 143). Nello sviluppo del Teorema è interessante la considerazione dell’essenza come «forma media», che partecipa dell’atto e della potenza, con un curioso riferimento ad Averroè al proposito. «(I. via)... Essentia autem participans esse non dicit potentiam puram nec actum purum, sed dicit formam mediam inter potentiam et actum. Nam si essentia aliqua participat esse, oportet quod illa essentia aliquem actum dicat, quia pura potentia nisi sit perfecta per actum, nullum esse participare potest. Omne enim participans esse, vel est aliquis actus, vel est determinatum per aliquem actum. Immo quia esse immediate respicit formam, et| forma de se est quidam actus, oportet quod essentia participans esse sit aliquis actus [...]. Bene ergo dictum est quod omnis essentia participans esse nec est pura potentia, nec etiam purus actus, quia purus actus nullo alio participare potest. Erit ergo huiusmodi essentia forma media inter potentiam et actum. Et quia hoc est de ratione generis quod sit huiusmodi forma media, ideo essentia quae talem habet formam mediam nominat per se in genere et determinatur ad genus. Quod autem genus sic dicat formam mediam, patet per Commentatorem in II Metaphysicorum qui dans differentiam inter genus et materiam ait quod materia dicit potentiam puram, genus vero dicit formam mediam inter potentiam et actum» (pp. 144-145). A parte la terminologia, la dottrina è al tutto tomista (cfr. infra). Nell’ultimo Teorema è detto che la specificazione formale dell’esse participatum è data dall’essenza a cui inerisce. XXII. «Omne esse participatum per essentiam in qua recipitur ad genus determinatur substantiae. De ipso tamen huiusmodi esse directe nec substantia qu[a]e est genus, nec substantia quae est species, nec substantia quae est analogum praedicatur». La spiegazione finisce: «Si ergo volumus videre in quo genere sit ipsum esse, videndum est in quo genere sit essentia, cui per se et primo competit esse. Nam sicut omnia sunt sana quia attribuuntur uni sano, sic omnia sunt entia quia attribuuntur uni enti scilicet substantiae. Aliqua ergo sunt entia quia sunt per se entia, ut substantiae: aliqua vero quia sunt passiones entis, vel sunt mensura entis ut quantitates et sic de praedicamentis aliis (p. 154, l. 43). I Theoremata de esse et essentia cominciati nel 1278 sono stati portati a termine nel 1285-86; Egidio aveva trattato della questione già nei Theoremata de corpore Christi, datati circa l’anno 1275 perchè presi di mira nel I Quodl. del Gandavensis, nel suo Quodl. I ancora si chiede: «Utrum in omni ente creato differat essentia et esse»56 e nelle QQ. de essentia et esse da collocarsi anch’esse verso il 1285-86 di cui il Gandavensis nel suo Quodl. X del Natale 1286 confuta l’art. 957. Non ho avuto tempo di confrontare la dottrina| dei Theoremata con queste altre trattazioni, ma, a giudicare dalle repliche del Gandavensis, sembra che Egidio abbia sempre difeso sostanzialmente la stessa nozione di partecipazione. Lo sentiremo subito in una testimonianza indiretta di Thomas de Sutton. 9ª Test. – THOMAS DE SUTTON. Questo domenicano inglese fu uno dei più benemeriti difensori del Tomismo, prendendo parte anche alle dispute parigine e polemizzando nella sua patria contro il «Correctorium fratris Thomae» del francescano G. de la Mare. Intervenne due volte per la difesa della distinzione reale, una nella Q. Disputata XXVI, contro il Gandavensis, ed un’altra nel Quodl. III, q. 8 contro G. de Fontaines; la sua dottrina è ferma ed espressa con tratti vigorosi; ed anche se dipende direttamente od almeno sente l’influsso di Egidio, ciò non vuol dire che non sappia essere personale nella sua discussione. Il nostro domenicano, nella q. XXVI riallacciandosi, come sembra, ad Egidio, fa un ampio riferimento alla nozione di partecipazione, che viene toccata brevemente anche nel 13, Praeterea. «Q. disp. XXVI, qu[a]eritur utrum in Angelis sit realis compositio essencie et esse existencie, ita quod esse illud sit extra racionem essencie aliquid absolutum additum essencie. 13, Praeterea (Sed contra). Omne reale positivum et absolutum quod participatur ab alio, in quo suscipitur realiter differt, ab illo participante, sicut forma quae participatur a materia, differt a materia. Sed esse est reale positivum et absolutum et participatur ab essencia sicut ab illo in quo recipitur. Non enim participatur ab essencia sicut genus a specie, quia tunc contraheretur esse per differenciam aliquam ad genus determinatum: quod est impossibile quia tunc ens esset genus ad X Praedicamenta. Ergo esse realiter differt ab essentia»58. Nella difesa della tesi tomista il De Sutton si attacca soprattutto alla conseguenza che qualora nella creatura ci fosse identità fra essenza ed essere, non si vedrebbe come la creatura debba dipendere dal primo essere; questa ulteriore determinazione della tesi può esser riconosciuta entro la linea del pensiero di S. Tommaso, anche se il S. Dottore non l’abbia mai posta in termini così espliciti (cfr. però: S. Theol., Ia, q. 61, a. 1) e sembra che sia riuscita ad attirare in un modo speciale l’attenzione dei controvertisti, tanto che nel Quodl. I (a. 1293) dell’agostiniano G. Capocci da Viterbo troviamo| dedicata ad essa la q. IV: «Utrum possit salvari creatio, si non differret in creaturis realiter essentia et esse» (cfr.: GLORIEUX, op. cit., p. 215).
Il De Sutton però dà un ampio sviluppo anche alla considerazione formale della partecipazione e sa fondere opportunamente l’aspetto logico con quello metafisico, mettendo in continuità il 1º con il 2º arg. del De Ente, come del resto fece lo stesso S. Tommaso. Mentre adunque nel De Ente l’ordine degli argomenti è: 1º arg. logico; 2º metafisico-statico; 3º metafisico-dinamico, nella q. del De Sutton si ha 1º arg. metafisicodinamico; 2º arg. logico; 3º arg. metafisico-statico; però bisogna dire che nel De Sutton non v’è una distinzione così netta fra gli argomenti come in S. Tommaso. Ecco il testo che c’interessa: «Et propterea non potest esse aliquod ens in cuius essencia sit esse tamquam genus et aliquid aliud tamquam differenciam; quia cum tale ens limitatum esset causatum, esse non foret de eius essencia tamquam forma generis vel differencia. Unde sicut ens in sua communitate non potest esse genus et habere differenciam contrahentem: ita nec hoc nomen existens potest esse genus, nec habere differenciam contrahentem ad genus, quod est substantia, vel ad aliud genus, sed necesse est quod omnis natura vel essencia causata sit totaliter et quantum ad genus et quantum ad differenciam vel in genere substancie vel in alio genere de numero 10 predicamentorum, et quod esse suum actuale differat ab eo realiter ut sic causari possit a Iº ente a non esse in esse et ut sit limitatum per essenciam que non est tante actualitatis, quante est esse, sed comparat[ur] ad esse sicut potentia ad actum. Et sic tale ens non est actus purus sed habet potentialitatem admixtam. Sic et omne ens praeter Deum habet esse participatum, non sicut species participat genus, quod est de intellectu eius, sed sicut materia participat formam, quae realiter a materia participante differt. UNDE aliqui doctores59 bene ostendunt ratione necessaria quod esse differat ab essencia Angeli ex hoc quod essentia Angeli habet esse participatum. Patet enim per ea que dicta sunt, quod essencia non sic participat esse, quod habeat esse limitatum per differenciam contrahentem esse ad constituendam essenciam, de cuius intellectu sit esse, ut ideo dicatur participare esse i. e. partem eius capere, quia est de essencia eius, que est limitata sicut species participat genus. Sed oportet quod habens essenciam sic participet esse, quia capit non totam perfeccionem essendi sed partem in quantum esse| limitatur per essenciam in qua suscipitur: que essencia est limitata ad genus determinatum et ad speciem. Et sic limitatur esse per essenciam, sicut forma equi limitatur per hoc quod recipitur in materia tamquam in susceptivo participante. Isto enim modo actus participatur a potentia; et isto modo participatum realiter differt a participante et non est de intellectu eius» (ed. cit., pp. 30-31). Segue una confutazione della nozione di partecipazione proposta dal Gandavensis (pp. 31-33); il Quodl. III, q. 8, non presenta alcun nuovo elemento sulla questione. Credo opportuno richiamare l’attenzione su due acute risposte del De Sutton alla ob. della q. XXVI, nelle quali mostra la differenza che corre fra l’(ipsum) esse e gli altri infinitivi che significano atti speciali, e fra l’esse e gli altri aspetti trascendentali. Nell’ob. Ia gli avversari affermano l’identità reale dell’astratto con il suo atto concreto, come fra cursus e «currere»; Resp. ad 1: «Currere significat cursum esse (il corsivo è mio) [...]. Sed infinitum “esse” significat esse tantum et nullam specialem essenciam. Unde non est simile de esse et de aliis infinitivis que significant actus speciales» (p. 34). Nella risposta all’ob. 26, mostra come l’esse esige di essere riconosciuto distinto dall’essenza non in quanto è trascendente, ma per la natura assoluta della perfezione che dice: ad 26. «Dicendum quod non est simile de veritate, bonitate, unitate et de esse existencie, quia esse non significat respectum, sed importat quiddam positivum et absolutum secundum suam racionem quam addit supra essenciam, tamquam non inclusum in essencia. Absolutum autem positivum additum supra essenciam oportet esse aliud realiter ab essencia [...]. Esse autem addit supra essenciam quid absolutum et positivum, non inclusum in essentia. Et ideo est aliud realiter ab essencia, non quia est trascendens sed propter istam scilicet quia est positivum absolutum, non inclusum in essencia. Unde essencia participat esse tamquam actualitatem sibi additam a Deo, qui est esse subsistens, cuius nomen sit benedictum in saecula. Amen» (p. 47). 10ª Test. PETRUS DE GODINO (1260-1336). Riporto anche questo testimonio che ho trovato nel primo lavoro del Grabmann sulla distinzione reale, per l’importanza della personalità politica e culturale del Godino, professore, provinciale della provincia tolosana e poi Cardinale e legato papale in varie missioni pontificie assai delicate. Recenti ricerche di Mons. Grabmann hanno portato ad attribuire al Godino la cosiddetta «lectura Thomasina», cioè un com|mento alle Sentenze, il cui autore si mostra un fedele discepolo di S. Tommaso di cui, esempio raro a quei tempi, dà citazioni precise dalla Summa Theologica, dalla Summa Contra Gentiles, dal Commento sulle Sentenze, dalla Q. de Veritate60. Nel I libro della «lectura Thomasina» si trova la q. «Utrum esse ita sibi (– Deo) proprie conveniat quod in ipso solo sit idem essentia et esse» ove il Godino difende la distinzione reale in creatis con l’argomento della partecipazione, che mi pare dipende da quello della Summa Contra Gentiles, II, 52. Ecco il testo: «Probatur Iº, Omne quod alicui convenit per suam essentiam, si conveniat alteri oportet quod hoc sit per participationem [...]. Esse autem convenit Deo secundum essentiam suam, immo ipse est esse purum. Ergo si
esse aliis creaturis conveniat, non erit esse nisi per participationem. Quod autem alicui convenit solum per participationem, non est substantia eius. Ergo»61. Il testo è molto vago, ma l’ho riportato ne pereat e nella speranza di poter venire a conoscenza degli altri contributi portati dai tomisti e non tomisti alla mia ricerca intorno al primato della nozione di partecipazione, nelle discussioni che ancora in gran parte restano inedite. * * * A conclusione di questa seconda parte, dedicata alla partecipazione trascendentale, a quella cioè propria dell’essere nella sua ultima struttura e nel suo assoluto significato, lo studioso è preso da un’impressione un po’ di malinconia: dopo tanta ricchezza di penetrazione delle analisi tomiste, dopo il geniale superamento in una ardita sintesi di Platonismo e Aristotelismo, subentra la sterile polemica degli avversarî e la scarsa comprensione dei discepoli. L’orizzonte invece di toccare le profondità del pensiero classico, come sempre fa l’Angelico, si appiattisce in sottigliezze e puerilità che portano il discredito sulla meditazione metafisica pura. Nei secoli XIV-XV tutte le scuole sono in decadenza: è il clima spirituale che è mutato, e tocca attendere la reazione generosa, e ancora non debitamente apprezzata, del Capreolo per poter sentire ancora un’impressione non del tutto indegna del tomismo autentico. Ad aggravare la confusione nel sec. XV si è delineata una lotta| fra Tomisti e Albertisti sui punti più cruciali della metafisica: l’incidente non ha avuto serie conseguenze nell’Ordine domenicano e gli Albertisti appartengono in genere al clero secolare, ma esso è significativo in quanto rappresenta una nuova forma di opposizione, solidale dell’agostinismo e dell’avicennismo estrinsecista, per sabotare il pensiero tomista. Il P. Egidio Meersseman, che ha scoperto l’Albertismo a Colonia nel sec. XV come una continuazione di un movimento iniziatosi a Parigi all’inizio del medesimo secolo62, ha edito alcuni fra i testi principali della controversia. La controversia sulla distinzione fra essenza ed esse forma uno dei punti principali di divergenza: gli Albertisti attribuiscono esplicitamente a S. Tommaso la difesa di una distinzione reale, e ad essa oppongono la posizione di Alberto M. che si ferma alla sola distinzione di ragione, dove essenza ed esse si riducono a due «modi» di considerare la stessa realtà e la «partecipazione» è la semplice causalità divina sostentante le cose nella realtà: «Sequitur quod esse quod est actus essentiae, relatum ad essentiam a qua fluit, vocatur esse essentiae; in quantum vero participatur ab eo quod est, quod esse capit in quantum causalitate causae efficientis tangitur, vocatur esse actualis existentiae. Et hoc est quod sub aliis verbis dicitur sic: in quantum esse refertur ad primam causam, a qua omne derivatur esse, consideratam sub ratione formae vocatur esse essentiae; relatum vero ad primam sub ratione efficientis, vocatur esse actualis exsistentiae». Ne segue che la differenza è soltanto fra modo e modo: «Sequitur secundo quod inter essentiam et esse, quod est eius actus, differentia non est nisi sicut inter idem differenter significatum, nominaliter videlicet et verbaliter. Essentia enim habet modum principii fontalis. Esse habet modum fluxus vel fluentis a fonte. Quod est habet modum alvei in quod esse a fonte fluit»63. Di lì a poco esponendo la teoria di S. Tommaso dirà nientemeno che per l’Angelico «esse quidditatis importatur hoc nomine homo, et esse actualis existentiae hoc nomine individuum signatum» (l. cit., p. 107), dove l’incomprensione più marchiana è di per sè evidente.| Gli Albertisti, attingendo le proprie dottrine metafisiche soprattutto dal grande Commento albertino al De Causis, dovevano in qualche modo impegnarsi nella nozione di partecipazione, ma in questi scritti polemici la nozione non ha nessun rilievo ed è toccata di sfuggita secondo il suo significato immediato senz’alcun approfondimento metafisico. Dobbiamo a un tomista secolare belga, certo Johannes Tinctorius (scoperto dall’infaticabile Mgr. Grabmann), che è stato fra i primi a commentare la Summa Theologica (Wien, Dominikanerkloster, Cod. 51), una precisa notizia al riguardo: «Discordia inter Thomistas et Albertistas de ente per participationem. Sed ipse Deus est ens per essentiam, quod non dicitur participatum, sed esse rei receptum in essentia dicitur esse participatum, cuiusmodi de esse Dei non est, cum sit ipsa essentia. Ponendo ergo quod essentia et esse sint realiter idem non potest assignari distinctio realis inter participans et participatum. Et ideo sunt termini equivoci, quando Albertistae dicunt ens per participationem et Thomistae. Dicunt enim Albertistae quod dicatur per participationem ens, quod non est in illa excellentia primi simplicissimi entis... Sed secundum Thomistas esse receptum dicitur quod contrahitur per essentiam distinctam a tali esse realiter. Et ideo dicitur participatum videlicet ab essentia quam actuat»64. Per afferrare il punto della controversia, bisogna rifarsi ad un concetto della partecipazione in senso dinamico esclusivo che risulta da un compromesso fra l’emanatismo neoplatonico e il creazionismo cristiano. E non è senza ragione che gli Albertisti, nella loro bislacca dialettica, hanno sempre sulla penna il verbo «fluere». In un breve scritto, non si sa se di Heymericus de Campo o di Io. de Nova Domo, la confusione della terminologia tocca il vertice della tollerabilità: ne dò un saggio anche per ammaestramento. Trattando della natura degli universali, l’autore incontra la composizione di quod est e quo est e dopo la sua
peregrina interpretazione pone il DUBIUM: «Utrum in eodem esse essentiae distinguatur ab esse actualis existentiae». La soluzione è prospettata in due proposizioni: «Prima propositio: Esse, quod est actus simplicis essentiae, in eo quod a primo fluit, procedendo tribuit esse ei, quod [est], esse dico propriae naturae. Unde imaginatur ista propositio, quod essentia rei, cuius esse est actus essentialis, sicut lucere est actus| essentialis lucis, in eo quod a primo fluit, capit virtutem fontis, a quo omne esse derivatum est, et ideo virtualiter significatur, ut sit in agere per li esse. Nominaliter autem significatur nomine essentiae in quantum est id, quod fluit, quia omne, quod est esse essentiae, participat formaliter essentiam. Essentia autem esse formaliter non participat sed causaliter». – Per capire un po’ questo suo guazzabuglio l’autore ci dà il rincalzo della Propositio secunda: «Omne quod est, participat esse, in quantum formaliter participat essentiam, cuius est actus essentialis. Ipsum vero esse in nullo participat». È persuaso di dare con ciò l’interpretazione genuina delle celebri proposizioni boeziane con cui noi abbiamo iniziato la nostra indagine: «Ista propositio quoad ambas eius partes est Boëthii. Esse, quod est actus simplicis essentiae, ut comparatum est ad essentiam, cuius est actus essentialis, vocatur esse essentiae, et hoc idem, comparatum ad id, quod participat esse, vocatur esse actualis existentiae»65. E per spiegar questo, viene una nuova proposizione che volentieri risparmio ai lettori. Tuttavia, anche da questi brevi accenni polemici, possiamo cavare un utile insegnamento: l’importanza assoluta e la necessità di una conoscenza completa e storicamente sicura del testo tomista: il non averlo fatto, o l’averlo fatto in modo inadeguato e alle volte semplicista, ha portato la scuola Tomista a gravi rischi (cfr. esse essentiae e esse existentiae!) e ha permesso agli avversarî di alzare il capo e di fare delle istanze che non erano sempre del tutto ingiustificate.
PARTE TERZA
ESPANSIONE INTERIORE E CONTENUTO DELLA NOZIONE TOMISTA DI PARTECIPAZIONE
L’ESPANSIONE PREDICAMENTALE ED IL CONTENUTO DELLA NOZIONE TOMISTA DI PARTECIPAZIONE
La nozione di partecipazione non solo si affonda nel midollo della concezione tomista dell’essere finito nella sua struttura sostanziale, sia entitativa come formale, ma viene a permeare ed a dominare dall’alto, gli ulteriori sviluppi della sua struttura predicamentale. A questo momento l’abbondanza delle riferenze tomiste diviene così imponente, e quasi impressionante, da imporre l’obbligo di una qualche scelta, limitata a quegli aspetti del Tomismo che storicamente e dottrinalmente presentino un particolare interesse. Ne ho scelto alcuni, tanto nell’ordine naturale come in quello soprannaturale: ma non pretendo d’aver sempre scelto il meglio; spero soltanto di aver offerto un materiale sufficiente per mostrare fino a quale vastità di applicazione ed intensità di espressioni sia arrivata nel Tomismo la nozione di partecipazione. In questa parte si viene a cogliere sul vivo, «in actu exercito», la nozione tomista di creatura: di qui lo zampillare continuo dei testi che ho profuso senza scrupoli di annoiare; tanta e tale è la forza ed eleganza dell’espressione, da scoraggiare chiunque volesse tentare una versione. Questa parte dovrebbe essere una conferma di valore sia esegetico come dottrinale del nostro punto di vista nello studio del Tomismo. Essa vuole approfondire e portare a compimento i risultati fondamentali della parte precedente: l’opposizione primaria fra creatura e creatore è quella di ente per partecipazione e di Ente per essenza; e, come l’essere «Ente per essenza» è per Dio la ragione della somma semplicità e di tutte le altre perfezioni, così, per la creatura, l’essere «ente per partecipazione» è ragione di tutte le altre composizioni ed imperfezioni.
SEZIONE PRIMA
LE PARTECIPAZIONI NATURALI
I PRINCIPII GENERALI § 1. – La conoscenza che l’uomo potrà farsi della natura intima di Dio sarà sempre intrinsecamente inadeguata: per quanti progressi possa fare il povero viandante, che è l’uomo, verso questa meta, essa si erge sempre di contro a lui con la sconfortante imponenza dell’inaccessibile. Per questo non ci resta che concepire Iddio in relazione alle nature create, di cui è Causa, onde esse, per il fatto che da Lui sono procedute, diventano poi «vie», risalendo le quali l’intelletto umano arriva in qualche modo al Creatore (C. G., IV, c. 1). A questo modo con un sottile maneggiamento di concetti arriviamo a predicare una certa categoria di perfezioni tanto della creatura come del Creatore, le perfezioni pure o «simpliciter simplices». Non si creda però che Dio e la creatura vengano, per il nostro intelletto a trovarsi sullo stesso piano reale o logico, che anzi vengono opposti nel modo più contrario e quasi lanciati agli antipodi delle convenienze nozionali: mentre infatti la predicazione per Dio viene fatta «per essentiam», per la creatura invece è detta sempre «per participationem». Quindi l’appellativo «per essentiam» caratterizza il modo proprio di essere di tali perfezioni in Dio; «per participationem» quello delle creature: è questa, secondo S. Tommaso, la determinazione metafisica suprema. Dio è detto quindi l’Essere per essenza (Ia, q. 4, a. 2; ibid., q. 13, a. 11), il Bene per essenza (Ia, q. 6, a. 3); tutti gli altri esseri, dagli infimi ai più elevati hanno l’essere e la bontà per partecipazione. Per l’Angelico questo riconoscimento segna il culmine della speculazione umana, nel quale sono venuti ad incontrarsi| Platone ed Aristotele. Checchè sia delle altre divergenze «Tamen hoc absolute verum est quod aliquid est primum quod per suam essentiam est ens et bonum, quod dicimus Deum. Huic etiam sententiae (Platonis) concordat Aristoteles. A primo igitur per suam essentiam ente et bono, unumquodque potest dici bonum et ens, in quantum participat ipsum per modum cuiusdam assimilationis, licet remote et deficienter» (Ia, q. 6, a. 4). Altrettanto si dica per la Verità: «Licet sint multae veritates participatae, est tamen una veritas absoluta quae per suam essentiam est veritas, qua veritate omnia verba sunt vera. Eodem modo est una sapientia absoluta supra omnia elevata, scilicet sapientia divina, per cuius participationem omnes sapientes sunt sapientes; et etiam unum Verbum absolutum, cuius participatione omnes habentes verbum dicuntur dicentes. Hoc autem Verbum est Verbum divinum»1. Parimenti si dica per l’Unità, benchè i testi qui siano meno frequenti; «Unitas divinae personae est maior quam unitas numeralis, quae scilicet est principium numeri. Nam unitas divinae personae est unitas increata per se subsistens, non recepta in aliquo per participationem: est etiam in se completa, habens in se quicquid pertinet ad rationem unitatis; et ideo non competit ei ratio partis, sicut unitati numerali quae est pars numeri, et quae participatur in rebus numeratis» (IIIa, q. 2, a. 9 ad 1um; cfr.: Ia, 103, a. 3; In I Sent., Dist. 24, q. I, a. 1). Altrettanto si dica per altri attributi come eternità (Ia, q. X, a. 2 ad 1um et passim), necessità (C. G., II, c. 30 et passim), ecc.; in una parola, per S. Tommaso, come nella S. Scrittura e nel pensiero patristico, e in S. Agostino in ispecie, la suprema e più perfetta predicazione che possiamo fare di Dio è «per essenza», come per la creatura è «per partecipazione» (C. G., I, 60). Tutte le perfezioni create non sono adunque che diversi modi di partecipazione all’infinita perfezione di Dio (Comp. Theol., c. 102, e passim); e l’origine di tutte le creature da Dio è indicato dal S. Dottore come un procedere secondo partecipazione, come una «divina discretio» che avviene per una «diffusione» e quasi
«divisione» della totalità (semplice) di perfezione esistente in Dio; onde per necessità quanto procede in questo modo è qualcosa di «degradato» e viene posto «al di fuori» della Divinità, realmente da essa distinto.| La Fede cattolica insegna che nell’unità assoluta della divina natura vi sono due processioni «ab intra», una per via di generazione del Figlio dal Padre, ed un’altra per spirazione attiva dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio: il Figlio e lo Spirito Santo quindi sono «ab alio», ma ciò non pone alcuna dipendenza reale come effetto da causa, perchè queste processioni non sono per partecipazione, ma secondo l’identità dell’essenza che resta numericamente una e identica nelle tre Persone divine, e non secondo una similitudine (– in analogis) od una pura identità di ragione (– in univocis). «In processione Divinarum Personarum ipsa eadem divina essentia communicatur Personae procedenti, et sic sunt plures Personae habentes Divinam essentiam. Sed in processione creaturarum ipsa divina essentia non communicatur creaturis procedentibus: sed remanet incommunicata seu imparticipata; sed similitudo eius per ea quae dat creaturae, in creaturis propagatur et multiplicatur, et sic quodammodo Divinitas per sui similitudinem in creaturis procedit et quodammodo multiplicatur: ut sic ipsa creaturarum processio possit dici divina discretio...» (Comm. in l. De Divinis Nominibus, c. II, lect. 3, P. XV, p. 281 b). Errarono quindi Origene ed Ario credendo, per il fatto che il Figlio ha origine dal Padre, non possa avere la Deità che per partecipazione: «... Blasphemavit Origenes2 quod Verbum non esset Deus per essentiam, licet sit essentialiter Verbum; sed dicitur per participationem Deus:| solum vero Pater est Deus per suam essentiam: et sic ponebat Filium Patre minorem»3. Quanto si vien dicendo intorno alla nozione tomista di creatura, vien confermato in modo più diretto dal fatto che è espressamente per un ricorso alla nozione di partecipazione che S. Tommaso dimostra la creazione di tutte le cose da Dio4. Con la nozione di partecipazione l’Angelico approfondisce ancora la causalità divina per quanto riguarda le azioni di ogni operante (Ia, q. 95, a. 5), che la scuola tomista interpreta non solo secondo un concorso simultaneo5, ma anche per l’applicazione delle cause seconde al proprio atto secondo una causalità totale (la premozione fisica); e secondo questa linea di pensieri viene anche affermato l’influsso divino nell’atto positivo del peccato (Ia-IIae, q. 79, a. 2). S. Tommaso è così preso e penetrato del contenuto metafisico di questa nozione che di essa si serve per giustificare una delle sue posizioni più originali: quella della possibilità dell’esistenza di un mondo «ab aeterno». Anche se il mondo fosse «ab aeterno», e non vi fosse stato un «prima» reale della sua esistenza, andrebbe sempre riconosciuto come creato da Dio, perchè presenterebbe ugualmente i caratteri di ente per partecipazione6.| LE PARTECIPAZIONI NATURALI E LA CONTINUITÀ METAFISICA DEGLI ESSERI § 2. – La partecipazione nel Tomismo non ha soltanto un valore trascendentale, in quanto lega il particolare all’universale e la creatura al Creatore, ma riceve anche un senso concreto e predicamentale, come punto di riferimento intelligibile sia per una visione ordinaria del mondo nel concerto degli esseri, come anche dell’organizzazione reale di ogni essere particolare. Se le «parti» del mondo, e gli esseri che lo compongono, si influenzano in qualche modo l’un l’altro e connettono realmente il proprio sviluppo gli uni con quello degli altri, – e se le «parti» di un essere singolo non sono delle «membra disgiunte» ma, almeno in certi settori, si compenetrano quasi e s’influenzano a vicenda, ciò non pare possibile se non in quanto si suppone che ad un certo punto tanto gli esseri fra di loro, come le parti varie di un essere singolo, vengano come a «contatto» e quasi si saldino per continuarsi l’una nell’altra. Il «contatto» e la «continuazione» di cui si parla, non è comprensibile fin quando ciascun essere è concepito isolato nel suo contenuto proprio (univoco), che è esclusivo per definizione del suo contrario. D’altra parte l’ordine che possono realizzare gli individui di una stessa specie, non è che «per accidens», poichè avendo essi «ex aequo» la partecipazione alla natura comune, non dispongono di un fondamento di preminenza reale, nell’ordine dell’essere, l’uno sull’altro; l’ordine fra di essi, quando c’è, non ha che ragioni contingenti. Deve rinunciare allora la nostra mente ad una comprensione globale ed organica del mondo? Non pare, poichè quelle due considerazioni ora avanzate sono troppo unilaterali e non tengono conto di alcuni aspetti che la realtà offre di continuo alla nostra riflessione e che hanno un’importanza primaria. Pare infatti, e l’esperienza stessa conferma la supposizione, che gli esseri in natura siano come pervasi da una «affinità universale» che si manifesta secondo una particolare attrazione che va dall’alto in basso, quasi che gli esseri superiori scendano per avvicinarsi agli inferiori, e questi, così aiutati, si sforzino di salire per raggiungerli in qualche modo: si dica qualcosa di simile per le varie facoltà che possono trovarsi in un essere, soprattutto se di natura complessa, p. e. l’uomo. Questa «affinità ontologica» è spiegata nel Tomismo con la nozione di partecipazione. A nessuno può sfuggire l’importanza enorme di questa osservazione elementare,
che non è poetica| o puramente estetica, ma essenzialmente metafisica, e che può essere indicata con il termine di «principio della continuità metafisica degli esseri» e costituisce il filo d’oro che lega, distinguendoli, i membri dell’analogia: S. Tommaso lo ha trovato soprattutto nelle profonde speculazioni dello Pseudo-Dionigi e di Proclo, secondo la formula «divina sapientia coniungit fines primorum principiis secundorum»7. Si può dire che nessun Dottore medievale, neppure fra i platonici od agostiniani più convinti, si è ad esso attaccato più di lui; quel principio viene ad innervare i punti più caratteristici del Tomismo e spesso a dire l’ultima parola sui problemi più cruciali. Evidentemente per mantenermi fedele al metodo puramente euristico da me adottato, non posso sobbarcarmi all’onere di una esposizione sistematica delle dottrine da questo punto di vista, ma mi limiterò ad alcune indicazioni testuali, particolarmente significative, soprattutto nel campo della conoscenza. Sappiamo già che ogni essere conoscitivo e intellettivo, conosce e intende, in confronto a Dio, «per partecipazione», e non per essenza. Il termine però di «conoscenza per partecipazione» può avere sensi molteplici, secondo il grado ontologico dell’essere in cui si realizza; poichè se ogni conoscenza, come tale, esige nell’essere conoscente quella particolare eminenza ontologica detta «immaterialità», non si esclude che sotto l’assoluta e purissima immaterialità divina, vi possono essere gradi diversi d’immaterialità e quindi di nobiltà. Cominciamo dall’Angelo, che è l’essere creato naturalmente più nobile. La conoscenza (naturale) che l’Angelo ha di se stesso sembra non possa essere detta «per partecipazione» poichè l’essenza dell’Angelo per la sua assoluta spiritualità è l’immediatamente presente al suo intelletto senz’alcun intermediario gnoseologico, cioè senz’alcuna specie (impressa) informante: in questa parte si può dire in senso proprio che l’Angelo conosce se stesso «per essentiam», e fin qui nessun problema.| Il problema si pone invece quando l’Angelo abbia da conoscere le altre cose; qui non si può dire che l’Angelo conosca «per suam essentiam» poichè la sua essenza di creatura, sia pur perfetta, è finita e limitata quindi ad una specie entro un dato genere; essa è solo ciò che è con esclusione di tutto il resto, e non può quindi essere «mezzo oggettivo» sufficiente per la conoscenza adeguata e propria delle altre cose8. Dovrà, quindi l’Angelo procurarsi le idee delle cose a proprie spese? Possiamo subito dire che per quanto riguarda gli esseri corporei non si comprende come l’Angelo possa farlo: l’Angelo non ha alcun contatto diretto nel mondo della sensibilità e del tempo, e d’altra parte anche ripugna che un essere così perfetto vada soggetto ad uno sviluppo reale sotto questo aspetto che è fondamentale per la sua vita d’intelligenza pura. Per questo si ammette nel Tomismo, ed è sentenza comune nella teologia cattolica, che l’Angelo conosce le altre cose per via di «specie infuse», derivate cioè ed esemplate direttamente dalle idee divine9. Per questa derivazione immediata le idee angeliche ritengono in sè una straordinaria ricchezza noetica, e si può ben dire che esse sono delle «totalità»; ciascuna infatti realizza una «presentazione» adeguata ed unita dell’intelligibilità del suo oggetto, quale può essere comunicata ad una creatura. Però, e appunto perchè l’Angelo è sempre una creatura, assieme al carattere di «totalità oggettiva», che caratterizza l’idea angelica, va unito necessariamente un certo carattere di partecipazione, quando il modo di conoscere angelico sia confrontato con quello divino. Infatti le idee angeliche per poche che siano, sono sempre molteplici, mentre Dio tutto intende e Sè e le altre cose nell’unico| Verbo. Inoltre le idee angeliche hanno una funzione puramente «noetica» cioè oggettiva – le Idee divine, invece, sono anche, e principalmente, principî effettivi e costitutivi delle cose. Di conseguenza le idee angeliche non si estendono che alle condizioni che hanno gli oggetti nell’istante determinato nel quale diventano oggetto della contemplazione dell’Angelo, e non al futuro contingente, poichè per ogni creatura il futuro contingente, prima del suo avverarsi reale, è ancora un «non ens», e quindi intrinsecamente inconoscibile10. Passando a considerare l’aspetto soggettivo del conoscere angelico, si può dire che l’Angelo va detto un conoscente per partecipazione in un senso ancor più profondo. Si sa infatti che secondo la dottrina di S. Tommaso, a cui accenneremo fra poco, solo l’essenza divina è immediatamente operativa: le creature operano per mezzo di potenze che si attuano per atti e abiti11. Il conoscere angelico implica adunque l’esistenza di una facoltà conoscitiva distinta dall’essenza; questa facoltà si attua per atti da sè distinti, e raggiunge la perfezione di qualsiasi suo atto, anche di quello che è conoscitivo della propria essenza, in un termine, il verbo (specie espressa) che a sua volta è distinto sia dall’atto come dalla facoltà. Su questi principî S. Tommaso ha edificato quel capolavoro di analisi metafisica pura, che è la sua Angelologia (Ia, qq. 50-65). Pare quindi che il «conoscere» realizzi in natura il «partecipare» nel senso pieno del termine. Conoscere è assimilare e assimilarsi, è l’avere l’atto e la forma di altra cosa in quanto l’atto e la forma sono e restano dell’altra cosa. Ma allora uno stesso atto è allo stesso tempo e sotto lo stesso aspetto atto di diversi soggetti, del conoscente e del conosciuto? Sì, ma l’Aristotelismo tomista s’affretta ad aggiungere, non allo stesso modo. L’atto e la forma sono presenti nell’oggetto conosciuto in modo fisico e reale, nel soggetto
conoscente, invece, in modo oggettivo ed «intenzionale», cioè per via di un «intermediario», la «specie» (impressa), che è la qualità che dispone il soggetto a mettersi in quella partecipazione. Per questa modificazione qualitativa, che ha tutta la sua ragione e struttura dall’oggetto e che viene ad adergersi e ad emergere sopra l’essere del conoscente come un fiore sopra il| gambo, si comprende bene che il conoscere è proprio un «partecipare». Anche secondo MAX SCHELER, il conoscere è un partecipare e nel senso forte, e davvero in un senso troppo forte. Per questo attraente filosofo il conoscere un’essenza è sempre un «cognoscere essentiam PER ESSENTIAM»; si badi però che lo Scheler non intende questo «per essentiam» secondo una qualche funzione noetica, quale si ascrive nel Tomismo all’essenza angelica e divina. Il conoscere avviene invece per un’unione reale, vorrei dire «fisica», ma questo termine non rende la sfumatura della gnoseologia scheleriana: l’atto del conosciuto è lo stesso atto del conoscente, non solo in senso intenzionale e formale, ma reale e quasi numerico. Il conoscere è come una penetrazione che facciamo entro la realtà dell’oggetto (Hineinsetzen), incuneandosi fra le sue viscere per averla e viverla «assieme» ad esso. Il conoscere come partecipare non è più un’assimilazione per intermediarî, ma è una proiezione di spontaneità affettiva del soggetto verso l’oggetto, è un atto di amore, e lo Scheler afferma espressamente che il conoscere ha le sue profonde radici nell’Amore. Conoscere è perciò met&e,cein – avere insieme, e come un convivere: è «mitlieben, mit-hassen, mit-fröhlich sein, oder mittrauern»..., in altre parole è «ein Mitvollzug des Aktes». E lo Scheler può dire che: «Der Akt des Philosophierens ist ein liebebestimmter Aktus der Teilnahme des Kernes einer endlichen Menschenperson am Wesenhaften aller möglichen Dinge»12. Ancora una volta con Max Scheler torna a galla nel pensiero moderno il tema agostiniano dell’amore, nella calda immediatezza del suo contatto con le cose, ed è ben un grande omaggio alla Chiesa di Dio questa ininterrotta festa di spiriti, che si prolunga a traverso i secoli e sotto tutti i climi intellettuali attorno al grande Dottore. Ma altri Dottori della Chiesa, che pure sono stati alla scuola di S. Agostino – e fra i primi è certamente S. Tommaso –, hanno pensato che quel pensiero, davvero troppo esuberante, andava non dico arginato, ma in qualche modo disciplinato, quasi realiz|zato in forma scientifica, affinchè fosse in grado di sostenere ogni urto dei nemici della verità. Ed è questa «Strutturazione aristotelica» del pensiero agostiniano che forma in gran parte il còmpito della Scolastica, ed in particolare del Tomismo, e che è, bisogna ben riconoscerlo, una delle sue maggiori glorie. Il conoscere adunque è «partecipare» tanto per S. Agostino come per S. Tommaso come per Max Scheler: ambedue questi ultimi erano consapevoli di dovere molto della propria concezione al primo, ma anche sapevano d’aver fatto subire un prolungamento al suo pensiero, che fu nei due casi nettamente divergente: l’uno verso la presenzialità intenzionale, per mezzo della specie, l’altro verso la presenzialità reale per l’atto d’amore13. Anche l’UOMO in quanto è un conoscente creato e finito è un conoscente per «partecipazione», ma questa determinazione riceve a suo riguardo, nella gnoseologia tomista, delle sfumature molto delicate e di valore insieme fondamentale. In una filosofia cristiana che si ispiri, come quella agostiniana, quasi esclusivamente al Neoplatonismo, è la stessa Divinità che prima largisce alla mente umana l’intelligibile e poi ne assicura alla creatura la verità assoluta del suo conoscere. In opposizione alle cose esteriori che trascinano alla colpa e all’errore, l’uomo deve purificarsi interiormente per potere ricevere e vedere con occhio limpido la verità nella Verità stessa incommutabile e lasciarsi docilmente guidare dal Verbo, che diventa il «Maestro interiore» dell’anima ben disposta. Si sa che S. Tommaso, radicato profondamente nel naturalismo aristotelico, ha dovuto elaborare una nozione più esplicita di creatura ed in particolare non ha trovato contrario, ma piuttosto conforme al contenuto della fede l’attribuire alle creature l’efficienza sulle proprie operazioni e riconoscerle quindi dotate di principî e facoltà capaci di produrle: «Omne autem agens quamcumque actionem, habet formaliter in seipso virtutem, quae est talis actionis principium» (Q. De Spiritualibus Creaturis, a. 10 ad 16um)14.| Certamente Dio, che è l’«ipsum intelligere subsistens», è il sole intelligibile degli spiriti e la causa prima di ogni verità; ma, come nell’ordine sensibile, non è necessario che l’occhio guardi gli oggetti volgendosi direttamente al sole, ma è sufficiente che li guardi secondo che sono messi in evidenza dal lume derivato dal sole – similmente nell’ordine intelligibile creato è sufficiente, anzi conveniente, che la creatura veda i suoi oggetti in quanto sono messi in evidenza da un lume partecipato dal sole divino (De Veritate, q. XVIII, a. 1). Questo lume è per l’uomo l’intelletto agente, che Aristotele ha detto essere in noi oi-on to. fw/j (De Anima, G, 5, 430, a. 15) e che S. Tommaso descrive sempre come la partecipazione più alta e il sigillo più intimo (nell’ordine naturale) della Divinità in noi15.| L’intelletto agente è principio fattivo dell’intelligibile e questo intelligibile che viene a noi non per partecipazione diretta da Dio, ma per un complesso lavoro di astrazione esercitato dal lume partecipato, l’intelletto agente, nel campo delle partecipazioni concrete e diffuse del
mondo sensibile: «Species intelligibiles quas participat noster intellectus, reducuntur, sicut in primam causam, in aliquod principium per suam essentiam intelligibile, scilicet in Deum. Sed ab illo principio procedunt mediantibus formis rerum sensibilium et materialium a quibus scientiam colligimus, ut Dionysius dicit» (Ia, q. 84, a. 4 ad 1um)16. Tutta questa dottrina, che sta alla radice della gnoseologia tomista, non è a sua volta che una conseguenza della composizione ilemorfica quale è intesa nell’Aristotelismo e che è propria sia del soggetto conoscente, l’uomo, come dell’oggetto conosciuto a lui proporzionato, le sostanze corporee. Di qui si comprende come il principio intellettivo, che nell’Angelo resta una facoltà unica contemplante, nell’uomo viene a duplicarsi in un intelletto attivo ed in un intelletto recettivo. A questo modo, dal punto di vista sogget|tivo, cioè funzionale, l’uomo rispetto a Dio e all’angelo, è un conoscente «per partecipazione» alla seconda potenza, per esprimerci con un’analogia matematica17. È facile comprendere che tali condizioni soggettive del conoscere umano influenzino direttamente, nel senso accennato, anche quelle oggettive. Infatti l’idea infusa nell’intelletto angelico, benchè sia una partecipazione degradata rispetto all’idea divina, resterà in fin dei conti sempre una «totalità» intelligibile. Non così per l’idea umana che viene alla mente non per partecipazione, ma per astrazione. La materia, che negli esseri concreti è principio di coartazione ontologica della forma, diventa per la nostra mente astraente ostacolo all’intelligibilità e, comunque, la materia che è pur parte dell’essere reale, sfugge sempre, e necessariamente, al processo umano di assimilazione conoscitiva. L’astrazione infatti avviene a partire dagli accidenti e dalle proprietà, che sono effetti (formali e reali) della forma, ed è quindi la forma e la essenza in generale, non la materia, che viene conosciuta18. Per questo anche sotto l’aspetto oggettivo, cioè del contenuto noetico, l’idea umana, avuta per astrazione, va detta conoscenza «per partecipazione» in senso forte, cioè alla doppia potenza, e cioè in quanto: a) l’idea umana «est similitudo formae tantum»; essa non raggiunge la materia, e cioè essa, come tale, terminerà sempre ad un contenuto generale ed indeterminato, e non potrà gustare della densa ricchezza del singolare concreto, che è invece immediatamente presente all’idea angelica (De Malo, q. XVI, a. 7 ad 6um). b) Il contenuto indeterminato dell’idea umana è soggetto intrinsecamente a sviluppo verso una maggiore penetrazione dell’oggetto, in dipendenza di ulteriori esperienze e di una disciplina intellettuale sempre più accurata (problema della cultura e della scienza). L’uomo non si avvicina alle cose che un po’ alla volta, per tentativi e sondaggi graduali, con l’ansia di sempre più determinare le| sue nozioni precedenti ed è così che sorge e si perfeziona la fisionomia spirituale degli individui e delle società19. Ma per grandi ed importanti che possano essere i progressi della cultura, l’uomo non darà mai fondo all’intelligibilità dei suoi oggetti: per le stesse condizioni intrinseche della nostra spiritualità, tanto degradata rispetto ai puri spiriti, si viene a generare nel nostro conoscere come una «tensione», una irrequietezza che rende in noi spasimante l’insoddisfazione per gli oggetti finiti che ci si fanno presenti. Il concreto è bensì reale, ma intrinsecamente limitato nel suo ordine e composto; la forma astratta è bensì semplice, ma ha un contenuto vago e poi non esiste a quel modo come è da noi compresa: bisognerebbe poter vedere direttamente, con un solo sguardo e in una sola idea, tutta l’intensità della specie e del genere nella compresenza attuale dei partecipanti. Il metafisico, per mezzo della riflessione intensiva, riesce appena a prospettare da lontano quel festoso convito intelligibile, ma non a prendervi parte realmente: «Intellectus noster a sensibilibus cognoscendi initium sumens, illum modum non transcendit qui in rebus sensibilibus invenitur in quibus aliud est forma, aliud habens formam, propter formae et materiae compositionem. Forma vero in his rebus invenitur quidem simplex, sed non perfecta, utpote non subsistens: habens autem formam invenitur quidem subsistens: sed non simplex immo concretionem habens» (C. G., I, c. 30; cfr. In I Sent., Dist. 19, q. IV, a. 2; ibid., Dist. 23, q. I, a. 2). Però non dobbiamo esagerare in queste constatazioni sconfortanti. L’«assimilazione astrattiva» umana che termina all’idea universale, anche se non realizza un modo perfetto di conoscenza, rappresenta sempre l’unico modo secondo il quale l’anima si perfeziona. Il nostro intelletto se dovesse assimilare le cose materiali, secondo il loro essere materiale, non si perfezionerebbe; chè anzi si deprimerebbe e diventerebbe senso. Sotto questo aspetto la specie e l’idea universale sono per l’anima qualcosa di meglio dell’essere concreto; poichè, mentre questo è particolare e materiale, l’idea è spirituale e porta in sè come una impronta e una partecipazione del mondo superiore intelligibile: «Non enim aliquod perficitur ab aliquo, è l’osservazione profonda di S. Tommaso, nisi secundum| quod in inferiori est aliqua participatio superioris. Manifestum est autem quod forma lapidis vel cuiuslibet rei sensibilis est inferior homine, unde per formam lapidis non perficitur intellectus in quantum est
talis forma, sed in quantum in ea participatur aliquod simile alicui quod est supra intellectum humanum scilicet lumen intelligibile vel aliquid huiusmodi» (Ia-IIae, q. 3, a. 6). Inoltre la conoscenza umana, per mezzo dell’idea universale, è un tentativo, sia pur solo parzialmente riuscito, di ricostruire nell’interno del nostro spirito la totalità (ontologica) della «forma generis vel speciei», che era stata perduta nella frantumazione delle partecipazioni molteplici e delle attuazioni concrete20. La riflessione metafisica intensiva insegna e precisa i contenuti di queste ricostruzioni e ne indica le condizioni per un uso valido sia nella soluzione naturale del problema teologico (metafisica), come nell’approfondimento che l’uomo può fare del contenuto delle verità rivelate (teologia). Dobbiamo allora concludere che nella gnoseologia tomista resta al tutto bandita la partecipazione gnoseologica nel senso agostiniano platonico? No, più che dirla bandita, ci pare più esatto dirla «rettificata» cioè integrata, o meglio, inserita in una concezione naturalistica della creatura, ed in particolare dell’uomo21. Quanto poi al midollo metafisico della concezione agostiniana esso è rimasto intatto nella gnoseologia tomista che sotto questo aspetto, pur rimanendo aristotelica, è ben qualcosa di più, non dico di diverso, da quanto si poteva immediatamente avere dal De Anima di Aristotele: i testi tomisti al proposito sono di un senso inequivocabile e quanto mai abbondanti. Sappiamo per esperienza che il modo ordinario di attuarsi della nostra conoscenza è «discorsivo», dipendente cioè da una| specie di «movimento nozionale» che è appunto l’argomentazione. Ma ogni movimento in tanto può svolgersi, in quanto s’inizia da qualcosa d’immobile e termina alla fine a qualcosa di stabile. La nostra mente non è adunque soltanto «ratio discursiva» ma anche in qualche modo «intellectus apprehensivus» dei contenuti iniziali e terminali dell’argomentazione. Ma non può essere la mente umana «intellectus» in senso proprio, che tale è la condizione propria della facoltà apprensiva dell’Angelo – diciamo allora che «partecipa» all’intellettualità, che ritiene «qualcosa» dell’intellettualità22. Questa «partecipazione», che la mente umana ha all’intellettualità angelica, da una parte è il «vinculum» metafisico fra le due nature conoscitive, e dall’altra parte viene ad essere nell’uomo garanzia e principio ultimo di valore per tutta la conoscenza ulteriore – è ciò che abbiamo di più prezioso: «Quod quidem perfectissime invenitur in substantiis superioribus, in homine (est) autem imperfecte et quasi participative. Et tamen istud parvum est maius omnibus aliis quae in homine sunt» (Comm. in X Ethic., lect. 11a, n. 2110. Il contesto è leggermente diverso ma s’applica perfettamente al nostro caso). In concreto, la «partecipazione all’intellettualità» nell’uomo consiste nella capacità che ha la mente umana di apprendere immediatamente e senza argomentazioni, e di ritenere poi in sè come norme infallibili di verità, alcuni principî di valore più assoluto e più generale. Questa capacità non è una facoltà a sè, ma è l’«habitus primorum principiorum», inerente alla mente stessa, che costituisce la nostra tenue partecipazione al modo di conoscere delle intelligenze pure. Secondo S. Tommaso esso è doppio: l’uno riguarda la conoscenza speculativa e ritiene il termine ora indicato; l’altro sta a fondamento della conoscenza pratica e del vivere morale ed è detto «synderesis»23. Non sarà mai possibile esagerare l’importanza che hanno nell’intellettualismo tomista questi due abiti, poichè essi sono davvero come le «ragioni seminali» di tutte le scienze, ed arti e di tutte le virtù che possono venire all’uomo24.| Sono essi che rappresentano l’apice del suo essere e la «scintilla» che Dio ha acceso nell’anima affinchè essa si faccia luce e possa ritornare al suo primo principio25. In altre parole, essi sono il sigillo stesso di Dio in noi, carico di promesse e di responsabilità. Si comprende da questi accenni sommari che una giustificazione metafisica del valore della scienza umana e della morale naturale nello spirito del Tomismo deve far capo alla nozione di partecipazione. «Ratio humana, osserva il Santo, non potest participare ad plenum dictamen rationis divinae; sed suo modo et imperfecte. Et ideo sicut ex parte rationis speculativae per naturalem participationem divinae sapientiae inest nobis cognitio quorumdam primorum principiorum..., ita etiam ex parte rationis practicae naturaliter participat homo legem aeternam secundum quaedam communia principia» (Ia-IIae, q. 91, a. 3 ad 1um). Nell’art. precedente della stessa questione l’Angelico offre una mirabile indagine circa la definizione di legge eterna: benchè tutti gli esseri siano guidati dalla legge eterna, di questa però scende una partecipazione al tutto propria nell’uomo, secondo le parole del Salmo IV: «Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine», «quasi lumen rationis naturalis, quo discernimus quid sit bonum et quid sit malum, quod pertinet ad naturalem legem, nihil aliud sit quam impressio divini luminis in nobis. Unde patet quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura» (Ia-IIae, q. 91, a. 2). È da questa partecipazione alla legge eterna che la legge naturale trae la sua «vis obligandi» (ibid., ad 1um)26.| Ma non basta: la nozione di partecipazione penetra ancora più a fondo nella psicologia tomista ed assume un senso più predicamentale all’interno dell’anima stessa. Si sa che nel Tomismo è la ragione che tiene le redini della vita interiore, non il cuore o la volontà; poichè la ragione è lume e fonte prossima di verità e moralità. Non ci si fermi però alle secche formule, poichè S. Tommaso ha una concezione profondamente umana della vita interiore. Per Lui le diverse facoltà dell’anima non sono dei pezzi isolati, o solo
meccanicamente saldati, ma sono principî operativi coagenti e subordinati entro un’unità funzionale che è il soggetto operante. Le facoltà superiori devono quindi trovarsi a contatto con le inferiori – o per essere precisi – la ragione deve trovarsi a contatto con le altre facoltà non per una connessione esteriore o limitata al momento dell’operazione, ma per un’affinità ontologica permanente, che solo può spiegare la connessione naturale e subordinazione reale che si osserva di fatto. Anche questa volta S. Tommaso ricorre alla nozione di «partecipazione» la quale evidentemente ha un significato diverso, secondo che viene applicata a facoltà diverse che possono dipendere dalla ragione27. La volontà nell’ordine dell’attività e dell’efficienza resta il primo principio propulsore della nostra vita; essa fa entrare in azione non solo l’appetito inferiore e per suo mezzo le membra del corpo, ma anche le facoltà apprensive della sensibilità esterna ed interna, e perfino l’intelletto che non passa al suo atto e alla considerazione di un tale oggetto, se non viene applicato dalla volontà. Stiamo però attenti, poichè potrebbe darsi che la volontà non profonda i suoi doni che dopo aver ricevuto degli anticipati compensi. Invero la volontà non muove se prima non è illuminata (dall’intelletto); spesso anzi deve essere l’intelletto che fissa la volontà su di oggetto, sul quale essa, lasciata a sè sola, non potrebbe mai fissarsi. Il problema della libertà umana e della moralità è il problema della partecipazione della volontà alla ragione. «Appetitus respectu alicuius est rectus naturaliter, sicut respectu finis ultimi prout quilibet naturaliter vult esse felix, sed respectu aliorum rectitudo appetitus a ratione causatur secundum quod appetitus aliqualiter rationem participat» (In III Sent., Dist. 35, q. I, a. 1, Sol. IV, P. VII, 350). Questa partecipazione consiste nella soggezione e obbedienza che| la volontà presta all’impero della ragione, per cui la volontà è detta «rationalis» per partecipazione. Per conseguenza, anche se la conseguenza può suonar strana, la virtù morale trae la sua ragione di virtù dalla partecipazione alla virtù intellettuale: «Illa definitio (virtutis, scil. habitus electivus, ecc.), non datur de virtute in communi, sed de virtute morali in cuius definitione convenienter ponitur virtus intellectualis, communicans in materia cum ipsa, scilicet prudentia, quia sicut virtutis moralis subiectum est aliquid participans rationem, ita virtus moralis habet rationem virtutis, in quantum participat virtutem intellectualem» (IIa-IIae, q. 47, a. 5 ad 1um; cfr. Ia-IIae, q. 55, a. 4 ad 3um). E da un punto di vista sintetico che abbracci tutta la vita morale si può dire che, come le virtù morali si stabiliscono per una partecipazione alla prudenza, per opposto tutti i vizi e peccati partecipano del vizio dell’imprudenza: «Potest dici aliquod vitium generale dupliciter; uno modo per essentiam, quia scilicet praedicatur de omnibus peccatis... Alio modo per participationem et hoc modo imprudentia est generale peccatum: sicut enim prudentia participatur quodammodo in omnibus virtutibus, ita et imprudentia in omnibus vitiis et peccatis. Nullum enim peccatum potest accidere, nisi sit defectus in aliquo actu rationis dirigentis quod pertinet ad imprudentiam» (IIa-IIae, q. 53, a. 2). Così, anche nel complesso edificio degli atti ed abiti che formano la vita morale umana è la nozione di partecipazione che struttura e subordina questi elementi molteplici rispetto ad una comune fonte di moralità: i testi fanno pensare ad una concezione fortemente speculativa e quasi parallela a quella che regola i rapporti dell’essere in generale (analogia). «Dicendum, afferma il S. Dottore, quod quando aliqua condividuntur, aequaliter recipientia communem praedicationem, tunc unum non ponitur in definitione alterius; sed quando commune praedicatur de eis per prius et posterius, tunc primum ponitur in definitione aliorum, sicut substantia in definitione accidentium: et propter hoc prudentia ponitur in definitione aliarum virtutum, in qua per prius bonum rationis, et per consequens ratio virtutis invenitur: quia prius est quod est per essentiam quam quod est per participationem» (In III Sent., Dist. 33, q. I, a. 1, Sol. II ad 1um, P. VII, 350 a); dottrina che viene precisata nella Sol. III (ibid.): «Habitus virtutum moralium ex bono rationis diversificatur: quod quidem in ipso rationis iudicio essentialiter consistit, quod ad prudentiam pertinet; in his vero quae per rationem disponuntur, participative, quod ad morales virtutes spectat». La volontà, una volta diretta dall’intelletto, può dirigere l’appetito sensitivo che viene così a sottostare alle direttive della ragione; per questo anche l’appetito è detto da S. Tommaso: «razionale| per partecipazione»28. Evidentemente, questa partecipazione è meno intensa di quella che ha la volontà; lo impero che la ragione esercita sull’appetito è solo indiretto e politico, e non dispotico: ma comunque è per questa partecipazione alla ragione che anche l’appetito può esser soggetto di abiti morali, virtù e vizi29. Triplice allora è in noi la razionalità per partecipazione: la volontà, l’appetito concupiscibile e l’appetito irascibile e solo la sfera vegetativa sfugge alla attrazione che l’anima esercita con la ragione sulle potenze inferiori per sollevarle alla partecipazione della sua dignità: «Irascibilis et concupiscibilis dupliciter considerari possunt: uno modo secundum se, in quantum sunt partes appetitus sensitivi, et hoc modo non competit eis quod sint subiectum virtutis. Alio modo possunt considerari per hoc quod natae sunt rationi obedire, et sic irascibilis vel concupiscibilis potest esse subiectum virtutis humanae. Sic enim est principium humani actus, in quantum participat rationem, et in his potentiis necesse est ponere virtutes» (Ia-IIae, q. 56, a. 4; cfr. ad 1um).
Ancora più intima è la partecipazione che ha la sensibilità umana alla ragione in quanto essa è la cooperatrice immediata della mente di cui condiziona continuamente e necessariamente il sorgere e lo svilupparsi. Perchè la sensibilità nell’animale resta sensibilità, nell’uomo invece raggiunge spesso effetti, cioè contenuti rappresentativi di tale valore da esser la condizione necessaria per la nascita dell’intelligibile? Per il fatto, risponde S. Tommaso, che il senso nell’uomo è come una certa partecipazione deficiente dell’intelletto, per cui nel suo essere e operare è intrinsecamente proteso in avanti e in alto verso l’intelletto30. In particolare c’è un senso che fra tutti partecipa direttamente dall’intelletto, il senso interno più perfetto, la Cogitativa, che è detto| anche intelletto materiale. Nella psicologia tomista la Cogitativa è la vera «longa manus» della nostra intelligenza. Per essa è possibile l’ultima preparazione del «phantasma» per l’astrazione, la conoscenza del singolare concreto nella riflessione, quindi la percezione dei sensibili «per accidens» e infine la formazione della minore nel giudizio prudenziale31. Insomma essa è la facoltà dei piccoli e grandi interessi reali della vita vissuta, e tutto questo perchè «Cogitativa est quod est altissimum in parte sensitiva, ubi attingit quodammodo ad partem intellectivam ut aliquid participet eius quod est in intellectiva parte infimum scilicet rationis discursum secundum regulam Dionysii... Unde ipsa vis Cogitativa vocatur particularis ratio, ut patet a Commentatore in III De Anima, nec est nisi in homine» (De Veritate, q. XIV, a. 1 ad 9um; cfr. In II De Anima, lect. 15, nn. 396-397)32. Di partecipazione in partecipazione e di subordinazione in subordinazione, siamo ormai arrivati alla soglia del problema psicologico fondamentale: la possibilità dell’unione sostanziale fra l’anima spirituale e il corpo nell’uomo, contestata dagli esegeti aristotelici puri di tutti i tempi. S. Tommaso varca sicuro quella soglia mediante un’ardua sì, ma convincente, dialettica che poggia completamente sulla nozione di partecipazione, e la sua profonda mente speculativa ha ben ragione di rallegrarsi dopo tanta fatica. La soluzione suppone, da una parte, che l’anima intellettiva sia lo spirito infimo, e talmente degradato, da esigere un corpo a cui comunicare il proprio essere ed in esso sussistere; e, d’altra parte, si ammette che il corpo umano raggiunge una così fine perfezione nella sua complessione che arriva a «toccare» l’anima e trovarsi ad essa proporzionato. «Hoc autem modo, afferma deciso l’Angelico, mirabilis rerum connexio considerari potest. Semper enim invenitur infimum supremi generis contingere supremum inferioris generis; sicut quaedam infima in genere animalium parum excedunt vitam plantarum, sicut ostrea quae sunt immobilia et solum tactum habent, et terrae in modum plantarum affiguntur; unde et Beatus Dionysius dicit (VII De Div. Nom.) quod “divina sapientia coniungit fines primorum principiis inferiorum”. Est autem accipere aliquid| in genere corporum, scil. corpus humanum, aequaliter complexionatum, quod attingit ad infimum superioris generis, scilicet ad animam humanam quae tenet ultimum gradum in genere intellectualium substantiarum, ut ex modo intelligendi percipi potest. Et inde est quod anima intellectualis dicitur esse quasi quidam horizon et confinium corporeorum et incorporeorum, in quantum est substantia incorporea, corporis tamen forma» (C. G., II, c. 68). Più tardi, precisava ancora per rispetto all’anima: «Attingitur autem (anima humana) a materia corporali ea ratione quod semper “supremum infimi attingit infimum supremi”, ut patet per Dionysium (loc. cit.); et ideo anima humana, quae est infima in ordine substantiarum spiritualium, esse suum communicare potest corpori humano, quod est dignissimum ut fiat ex anima et corpore unum sicut ex materia et forma» (De Spiritualibus Creaturis, a. 2). La nozione tomista di partecipazione gnoseologica non si arresta nell’uomo, ma procede ancora e discende negli animali. Come l’uomo all’apice della sua mente razionale partecipava «qualcosa» dell’intellettualità angelica per mezzo dell’«habitus principiorum» e della «synderesis», similmente gli animali e precisamente quelli più elevati nella scala zoologica, partecipano in qualche modo a ciò che rappresenta l’aspetto più imperfetto del nostro volere e conoscere33. La partecipazione al conoscere è data dalla facoltà apprensiva che presiede alla vita intera dell’animale, ed è come il centro di coordinazione e di specificazione di tutte le manifestazioni della sua vita. Gli antichi la chiamavano «aestimativa», i moderni invece la dicono «istinto», con un termine meno intellettualista e più soddisfacente all’apparenza, ma che in realtà, non ha fatto avanzare di un passo la difficile e forse insolubile questione sulla natura intima della conoscenza animale. Come sempre, anche questa volta la posizione tomista è discreta: indica le condizioni generali della soluzione dal punto di vista teorico, e senza pretendere di dar fondo al problema, riesce a conservare il principio della continuità ontologica fra gli esseri, quasi che il lume della mente andasse gradualmente a spegnersi a partire dall’uomo, negli animali superiori, per finire nelle oscure percezioni degli animali «immobili». «Dicit (Aristoteles) quod sapere inest paucis animalium, et non quod| insit solis hominibus, quia etiam quaedam animalia participant aliquid prudentiae et aliquid sapientiae, scilicet quod recte iudicant de agendis per aestimationem naturalem»34. La catena degli esseri che si è dipartita da Dio, puro «esse subsistens» ha i suoi ultimi e infimi anelli nella vita vegetativa e poi nel mondo anonimo, quasi sotto il pieno dominio della materia, degli esseri inorganici
composti e semplici. S. Tommaso avrebbe potuto parlare di una «qualche partecipazione» di alcune piante alla conoscenza; invero, checchè sia del problema intimo, si sa che alcune piante superiori sembrano dotate di delicate strutture analoghe al sistema nervoso ed hanno un modo così vivace e preciso di rispondere agli stimoli, da avvantaggiarsi in non poche manifestazioni analoghe della vita animale e tutto questo potrebbe ben fondare l’attribuzione di partecipazione. L’Angelico parla invece con insistenza, anche se i moderni sembra l’abbiano dimenticato, di una partecipazione dei corpi terrestri alla proprietà dei corpi celesti e delle sostanze separate; secondo questa partecipazione il corpo non si riduce ad essere soggetto di generazione e corruzione e solo principio di azione e passione corporale, ma riesce a produrre nel «medium» fisico una immutazione intenzionale che è similitudine della forma ed è in qualche modo soprattutto nei riguardi dall’atto della visione spirituale. Lo stimolo fisico porta con sè, a traverso il «medium» all’organo di senso, la «similitudo» di cui si parla, e mentre lo stimolo fisico modifica fisicamente l’organo, quella «similitudo», da esso portata, modifica gnoseologicamente la facoltà, informandola di se stessa. «Sciendum quod corpus habet duplicem actionem, unam quidem secundum proprietatem corporis, ut scilicet agat per motum (hoc enim proprium est corporis, ut motum moveat et agat); aliam autem actionem habet secundum quod attingit ad ordinem substantiarum separatarum, et participat aliquod de modo ipsarum, sicut naturae inferiores consueverunt aliquid participare de proprietate naturae superioris, ut apparet in quibusdam animalibus, quae participant aliquam similitudinem prudentiae, quae propria est hominum. Haec autem est actio corporis quae non est ad transmutationem materiae sed ad quamdam diffusionem similitudinis formae in medio secundum similitudinem spiritualis intentionis quae recipitur de re in sensu| vel intellectu, et hoc modo sol illuminat aërem, et color speciem suam multiplicat in medio»35. Il fondo di tutta quest’ardita metafisica tomista è dato alla fine dal «principio di contiguità» con il quale cominciavamo la nostra rassegna: «Naturae enim ordinatae ad invicem sic se habent sicut corpora contiguata quorum inferius in sui supremo tangit superius in sui infimo» (De Veritate, q. XVI, a. 1). La formula più densa di questo principio è ispirata dal De Causis: «[1] Corpora participant esse tantum; animae autem secundum propriam naturam participant ulterius esse et vivere; intellectus autem participant esse, vivere et intelligere. – [2] Causalitas autem horum ad ordinem divinum pertinet: sive ponantur multi dii ordinati sub uno secundum Platonicos, sive unus tantum in se omnia habens secundum nos. Universalitas autem causalitatis propria est Deo. Huiusmodi autem ordines cum ab uno primo procedant, continuitatem quandam habent ad invicem: ita quod ordo corporum attingit ordinem animarum, et ordo animarum attingit ordinem intellectuum qui attingit ordinem divinum. – [3] Ubicumque autem diversi sub ordinem subinvicem coniunguntur, oportet quod id quod est supremum inferioris ordinis, propter propinquitatem ad superiorem ordinem, aliquid participet de superioris ordinis perfectione. – [4] Et hoc manifeste videmus in rebus naturalibus. Nam quaedam animalia participant aliquam rationis similitudinem, et quaedam plantae participant aliquid de distinctione sexus quae est propria animalium. Unde et Dionysius dicit, c. VII De Div. Nom., quod per divinam sapientiam fines primorum coniunguntur principiis secundorum. – [5] Sic igitur illi qui sunt supremi in ordine intellectuum vel intelligentiarum dependent per quamdam perfectiorem participationem propinquius a Deo, et magis participant de bonitatis eius et de universali causalitate ipsius» (In l. De Causis, l. 19, S. 106, 11 ss.)36. Il testo prosegue con riferimenti concreti a questa profonda corrispondenza metafisica fra l’ordine formale e quello causale. Aristotele invero si era occupato soltanto della contiguità fisica (cfr. Physic., E, 3, 226 b, 23) e da parte sua S. Tommaso è ben conscio di avere attinto l’applicazione del principio nell’ambito della metafisica direttamente dal Neoplatonismo.| Ma qual è il valore di questo principio, così importante nella visione tomista del creato? Non è ben chiaro da quali fondamenti i platonici, Proclo, il De Causis (e lo Ps.-Dionigi) lo derivassero, ma in ogni modo esso si trova perfettamente a suo luogo nella loro concezione emanatista circa il divenire degli esseri, secondo la quale il grado inferiore aveva origine per un’attenuazione e un impallidimento dello splendore del grado superiore. S. Tommaso non può certamente ricorrere a questo fondamento e non vi ricorre di fatto nel senso ultrarealista inteso dai Neoplatonici. Di solito il Santo si accontenta di illustrarlo con esempi, che poteva avere anche da Aristotele e che noi abbiamo già ricordato. Dobbiamo quindi concludere che l’Angelico ha accettato il «principio della contiguità» come una pura analogia spaziale da proiettare nel mondo metafisico, ma priva in sè di una propria giustificazione? Non lo credo, e mi pare assennata l’osservazione del Peghaire, che nel Tomismo questo famoso principio viene ad innestarsi, poichè ne è una conseguenza, al principio di finalità37. Il mondo è interiormente finalizzato: ecco il punto di partenza. Ora chi dice finalità, dice ordine, dice gerarchia, e la gerarchia suppone la realizzazione di qualcosa che è comune nei vari gradi e che insieme è diversamente presente, perchè altrimenti non sarebbero gradi. Il principio esige quindi somiglianza e
dissomiglianza, o somiglianza-dissomigliante, dissomiglianza-somigliante che non è altro che il principio stesso dell’analogia metafisica: ed a questo punto la nostra ricerca si può fermare. Essa potrebbe continuare ancora, ma mi pare d’aver indicato i punti più salienti della vigorosa dialettica tomista dei gradi di conoscenza, e della funzione essenziale che vi ha la nozione di partecipazione. In questa ricerca due mi pare siano i risultati per noi d’importanza eccezionale. a) Uno speculativo. Per la partecipazione, l’essere inferiore nelle sue manifestazioni più alte raggiunge il superiore, imitando in qualche modo le operazioni inferiori di questo, e mettendosi, magari, con esso in relazione di causalità – tocca alla metafisica determinare in particolare i modi di questa connessione fondamentale che hanno fra loro gli esseri e le parti di uno stesso essere. b) Uno positivo. La nozione di partecipazione predicamentale, che si diparte da un principio strettamente neoplatonico, viene poi elaborata con principî e dottrine quasi esclusivamente aristotelici.
SEZIONE SECONDA
LE PARTECIPAZIONI SOPRANNATURALI
L’ELEVAZIONE ALLA GRAZIA E GLORIA § 1. – Fra tutte le partecipazioni create nelle quali variamente si riflette l’infinita perfezione di Dio, ve n’è una che è la più nobile: l’immaterialità (positiva) che fonda negli Angeli e nell’uomo la conoscenza intellettuale. Grazie all’assimilazione conoscitiva, la creatura, pur restando sempre un essere finito sotto l’aspetto ontologico, ha un’ampiezza formale infinita, in quanto è capace di avere in sè dipinto tutto l’universo, cioè di ricevere in sè in modo intenzionale e come proprio atto le forme di tutte le cose, avvicinandosi così in qualche modo all’infinità di Dio. «Consideratis divinae bonitatis processibus in creaturis, quibus naturae creatae constituuntur in similitudinem naturae increatae, ultima invenitur intellectualis dignitatis participatio, et quae omnes alias praesupponit: et ideo intellectualis natura attingit ad imitationem divinam, in qua quodammodo consistit species naturae eius» (In II Sent., Dist. 16, q. I, a. 1 ad 3um, P. VI, p. 524 a). Guardate sotto l’aspetto essenziale, tutte le creature sono in qualche modo imperfette. Ciascuna essenza infatti è in sè determinata e quindi è esclusiva delle altre, onde la perfezione di un essere particolare qualsiasi è intrinsecamente limitata, anche dall’ordine creato; essa è «veluti pars totius perfectionis universi». Ma l’attuazione conoscitiva rimedia in qualche modo a questa imperfezione radicale dell’ente per partecipazione: «Unde ut huic imperfectioni aliquod remedium esset, osserva con fine espressione l’Angelico, invenitur alius modus perfectionis in rebus creatis, secundum quod perfectio quae est propria unius rei, in altera re invenitur; et haec| est perfectio cognoscentis in quantum est cognoscens quia secundum hoc a cognoscente aliquid cognoscitur quod ipsum cognitum aliquo modo est apud cognoscentem; et ideo in III De Anima (G, 5, 430 a, 14) dicitur animam esse quodammodo omnia, quia nata est omnia cognoscere. Et secundum hunc modum possibile est ut in una re totius universi perfectio existat» (De Veritate, q. II, a. 2; cfr. C. G., III, c. 112 Praeterea)1. Di più: mentre tutte le altre creature si limitano a mostrare una similitudine di Dio, la creatura razionale è invece capace di Dio, qualora Iddio si degni elevarla, e dice ordine immediato a Lui, come a termine del suo movimento di ritorno. «Sola creatura rationalis est capax Dei, quia ipsa sola potest ipsum cognoscere et amare explicite, sed aliae creaturae participant divinam similitudinem...» (De Veritate, q. XXII, 2 ad 5um). «Sola rationalis creatura habet ordinem immediatum ad Deum...; in quantum cognoscit universalem boni et entis rationem habet immediatum ordinem ad universale essendi principium» (IIa-IIae, q. 2, a. 3)2. Per questo l’uomo è detto «a immagine» di Dio. Da ciò la possibilità e congruenza dell’Incarnazione: «Dicendum quod similitudo imaginis attenditur in natura humana secundum quod est capax Dei, scilicet ipsum attingendo propria operatione cognitionis et amoris» (IIIa, q. 4, a. 1 ad 2um). A questo momento si viene a generare nell’anima e nella mente creata un’altra «tensione» interiore, ben più profonda di quella ricordata poco fa. Sapevamo che la nostra mente non riesce a dar fondo all’intelligibilità piena neppure del suo oggetto proporzionato, le essenze sensibili; sappiamo pure per esperienza che il nostro intelletto nelle attuali condizioni di vita e cultura, non arriva neppure, negli angusti termini di un’esistenza temporale, a darci una informazione, sia pur vaga, dei soli oggetti delle svariate scienze. Ma anche quando sapessimo a fondo tutto quanto oggi forma il campo specializzato della scienza, e
proprio per questo, il nostro desiderio di sapere, più che spegnersi, sarebbe maggiormente assetato, poichè| nessuna verità finita, sia pur altissima, può saziare una capacità infinita. È misterioso (è il mistero dell’intelligenza) che una facoltà e creatura finita non abbia riposo che nel contatto con l’Infinito; ma ciò è pur anche ragionevole. «Perfecta hominis beatitudo non consistit in eo quod est perfectio intellectus secundum alicuius participationem, sed in eo quod est per essentiam tale. Manifestum est autem quod unumquodque in tantum est perfectio alicuius potentiae, in quantum ad ipsum pertinet ratio proprii obiecti illius potentiae. Proprium autem obiectum intellectus est verum. Quidquid ergo habet veritatem participatam, contemplatum non facit intellectum perfectum ultima dispositione. Cum autem eadem sit dispositio rerum in esse, sicut in veritate ut dicitur (Metaph., a, 1) quaecumque sunt entia per participationem, sunt vera per participationem; Angeli autem (a fortiori le altre creature) habent esse participatum, quia solius Dei suum esse est sua essentia, ut ostensum est. Unde relinquitur quod eius contemplatio faciat perfecte beatum» (Ia-IIae, q. 3, a. 7). Allora, se tutto dipendesse dalle sole nostre forze naturali, l’anima nostra dovrebbe rassegnarsi ad un tormento eterno di fame, salutando da lungi con disperata nostalgia la patria della contemplazione beata, costretta a seppellire in se stessa l’illusione dei suoi infiniti desiderî. Ma la divina bontà che ha prodotto le sue effusioni create, non per inutile sperpero di potenza ma secondo un amoroso disegno di sapienza, ha voluto successivamente innestare sul tronco della vita naturale anche la vita soprannaturale, per la quale l’uomo riceve la capacità e il diritto di quella visione infinita. Iddio però non trasporta subito l’intelletto creato alla contemplazione di Sè, ma lo assoggetta ad una «iniziazione graduale» prima in terra: «Ad quam quidem visionem homo non potest pertingere nisi per modum addiscentis a Deo doctore (Jo., 6, 45). Huius autem disciplinae homo fit particeps non statim, sed successive, secundum modum suae naturae» (IIa-IIae, q. II, a. 3). La prima partecipazione della divina luce è la Fede, l’ultima la visione della Gloria: «Est duplex participatio divini luminis. Una scilicet perfecta quae est in gloria [...] alia imperfecta quae scilicet habetur per fidem [...]. Istorum autem modorum prior est modus participationis per fidem, quia per ipsam pervenitur ad speciem» (Comm. in Ev. Jo., c. I, lect. 4, P. X, p. 290 a; cfr. ibid., c. V, lect. 4, p. 390 b, 391 a, gradi di vita, pericope molto bella)3. La Fede fa bensì aderire all’oggetto beatificante, ma non rende| felici, poichè è intrinsecamente congiunta all’inevidenza e all’oscurità, onde è principio per l’anima di un’irrequieta tendenza e di un acceso desiderio verso la chiarezza e la luce piena4. Quando la Fede è informata dalla carità, allora entrano a far parte dell’economia della santificazione dell’anima anche i Doni dello Spirito Santo: la sapienza, la scienza e soprattutto l’intelletto, per il quale la mente può intravedere, nella contemplazione infusa, l’essenza dei misteri soprannaturali, pur restando sempre «in caligine Fidei». «Iste defectus (virtutis, scil. ex parte ipsius habitus) tollitur per altiorem habitum qui vocatur donum, quia quasi excedit modum humanae operationis a Deo datum; sicut donum intellectus qui facit aliquo modo limpide et clare intueri quae sunt fidei» (Comm. in Isaiam, c. XI, P. XIV, 475 b). Ma si tratta sempre di «contatti» con il soprannaturale più o meno discontinui, più o meno intimi, che sono indizi e presagi, per i quali l’anima si asseta maggiormente. La visione propria e piena avverrà soltanto quando, dopo questa vita, a chi muore in grazia, sarà comunicato il lume della gloria che è, in certo qual modo, la partecipazione più propria della vitalità stessa di Dio, onde la creatura entra in comunione dello stesso oggetto di cui vive Dio stesso. La partecipazione del «lumen gloriae» tende a compiere in modo ineffabile quest’assimilazione dell’intelletto creato: «Impossibile est, argomenta l’Angelico, quod id quod est forma alicuius rei propria, fiat alterius rei forma, nisi res illa participet aliquam similitudinem illius, cuius est propria forma, sicut lux non fit actus alicuius corporis, nisi aliquid participet de diaphano. Essentia divina est propria forma intelligibilis intellectus divini [...]. Impossibile est ergo quod ipsa essentia divina fiat intelligibilis forma alicuius intellectus creati, nisi per hoc quod aliquam divinam similitudinem (in senso soggettivo, non oggettivo) intellectus creatus participat» (C. G., III, c. 53). Nella visione beatifica viene concessa la partecipazione suprema che la Divinità possa fare di sè alla creatura; al di sopra non resta che l’unione ipostatica che è stata ordinata appunto per renderla ancora possibile, dopo che Adamo ne perdette il diritto (cfr. IIIa, q. 1, 2). Nella visione beatifica l’anima raggiungerà Iddio,| non per il solo «partecipare», ma per un vero «attingere»5 e Dio sarà dato all’anima nella sua presenzialità reale e non per similitudine: essa lo avrà in sè come per un «contatto», per «quamdam tentionem»6 per non perderlo mai più. La creatura, pienamente beata, sarà trasportata alla partecipazione della eternità stessa di Dio. «Ex hoc autem apparet, quod per visionem praedictam intellectus creatus vitae aeternae fit particeps. In hoc enim aeternitas a tempore differt, quod tempus in quadam successione habet esse: aeternitatis vero esse est totum simul. Iam enim ostensum est (hic c. 60) quod in praedicta visione non est aliqua successio, sed omnia quae
per illam videntur, simul et uno intuitu videntur. Illa ergo visio in quadam aeternitatis participatione perficitur» (C. G., III, c. 61; cfr. ibid., c. 51). Questa partecipazione all’eternità consiste nell’intrasmutabilità dell’operazione, data appunto dalla possessione di Dio nei Santi e negli Angeli (Ia, q. 10, a. 3 e ad 1um; cfr. In II Sent., Dist. 1, q. II, a. 2 ad 3um; ib., Dist. 2, q. II, explicatio textus [tertio] P. VI, p. 408; ibid., Dist. 16, q. I, a. 2); di qui la quiete somma della volontà e della mente, congiunte in modo irrevocabile al loro Principio. LA GRAZIA E LA SANTIFICAZIONE § 2. – La visione della gloria non si dà soltanto al termine di una preparazione dell’intelletto per mezzo della fede, ma esige insieme e, in un certo senso principalmente, l’elevazione e la purificazione di tutta l’anima in sè, come natura, onde venga fondata in potenza prossima la sua ordinazione a partecipare la vita stessa di Dio nella visione beata, e ne venga dato come il diritto. Ciò av|viene per una nuova e più propria partecipazione di Dio che tocca l’essenza stessa dell’anima e che è detta la grazia per eccellenza, ovvero grazia santificante. La grazia allora va concepita come la suprema partecipazione divina nell’ordine creato; per essa la Divinità, che compete a Dio in modo essenziale, viene comunicata alla creatura in modo accidentale. La grazia, a differenza di tutte le altre partecipazioni, va concepita come una partecipazione formale della stessa Deità in sè, come parla S. Pietro dei cristiani (II Petr., 1, 4): «Est autem duplex homini beatitudo sive felicitas, ut supra dictum est. Una quidem proportionata humanae naturae, ad quam scilicet homo pervenire potest per principia suae naturae. Alia autem est beatitudo naturam hominis excedens, ad quam homo sola divina virtute pervenire potest, secundum quamdam divinitatis participationem secundum quod dicitur II Petr., 1, 4, quod per Christum facti sumus consortes divinae naturae» (Ia-IIae, q. 62, a. 1)7. «Et quia gratia est supra naturam humanam, non potest esse quod sit substantia aut forma substantialis; sed est forma accidentalis ipsius animae. Id enim quod substantialiter est in Deo, accidentaliter fit in anima participante divinam bonitatem [...]. Secundum hoc ergo quia anima imperfecte participat divinam bonitatem, ipsa participatio divinae bonitatis quae est gratia, imperfectiori modo habet esse in anima quam anima in seipsa subsistat; est tamen nobilior quam natura animae in quantum est expressio vel participatio divinae bonitatis: non autem quantum ad modum essendi» (Ia-IIae, q. 110, a. 2 ad 2um). «... Lumen gratiae, quod est participatio divinae naturae» (Ia-IIae, q. 110, a. 3). «Gratia nihil aliud est quam participata similitudo naturae divinae secundum illud II Petr., 1, 4: Magna nobis et pretiosa promissa donavit, ut divinae simus consortes naturae» (IIIa, q. 62, a. 1). Per la grazia santificante l’anima «fit particeps divini Verbi et procedentis Amoris, ut possit libere Deum vere cognoscere et recte amare» in modo che resta in suo potere «frui persona divina et uti effectu eius» (Ia, q. 37, a. 1)8.| La grazia, appunto perchè è una partecipazione, resta sempre nell’ordine finito e creato ed in ciò appare sempre unita ad una «degradazione» (una «similitudo») rispetto alla pienezza con cui la Divinità possiede se stessa, o si è comunicata al Cristo nel mistero dell’Incarnazione: «Gratia, quae est accidens est quaedam similitudo Divinitatis participata in homine. Per Incarnationem autem humana natura non dicitur participasse similitudinem aliquam divinae naturae: sed dicitur esse coniuncta ipsi divinae naturae in persona» (IIIa, q. 2, a. 10 ad 1um; cfr. Comp. Theol., c. 215)9. Assieme alla grazia, che viene data «per modum naturae» vengono infuse nell’anima le virtù soprannaturali, per le quali essa può compiere le opere salutari e meritevoli di vita eterna – come nell’ordine naturale vengono date, assieme alla natura, le potenze proporzionate al raggiungimento del fine naturale. «Virtutes infusae disponunt hominem altiori modo et ad altiorem finem; unde etiam oportet quod in ordine ad aliquam altiorem naturam, hoc est in ordine ad naturam divinam participatam, quae dicitur lumen gratiae, secundum quod dicitur II Petr., 1, 4; et secundum acceptionem huiusmodi naturae dicimur regenerari in filios Dei [...]. Sicut virtutes acquisitae perficiunt hominem ad ambulandum, secundum quod congruit lumini naturali rationis, ita virtutes infusae perficiunt hominem ad ambulandum secundum quod congruit lumini gratiae» (Ia-IIae, q. 110, a. 3). Le virtù teologali infuse non competono all’uomo che per partecipazione: «Aliqua natura potest attribui alicui dupliciter: uno modo essentialiter, et sic huiusmodi virtutes theologicae excedunt hominis naturam; alio modo participative, sicut lignum ignitum participat naturam ignis, et sic quodammodo fit homo particeps divinae naturae. Et sic istae virtutes conveniunt homini secundum naturam participatam» (Ia-IIae, q. 62, a. 1 ad 1um). Questa sugge|stione generica vale poi in particolare per tutta l’espansione della vita soprannaturale per mezzo delle virtù teologali e dei doni dello Spirito Santo, in quanto è un’assimilazione alla vita intima di
Dio, onde l’anima si trova sotto l’immediata irradiazione delle Persone divine: «Caritas... est quaedam participatio infinitae caritatis quae est Spiritus Sanctus» (IIa-IIae, q. 24, a. 7). Infine per la comunicazione dei Doni dello Spirito Santo l’anima raggiunge, in un certo modo, le condizioni stesse di vita della patria celeste. Invero ciò che propriamente è di soprannaturale nelle virtù infuse, anche teologali, è la sostanza dell’abito, cioè il fine e l’oggetto, non ancora il «modo di operare», che rimane ancora «secundum conditionem humanam» (In III Sent., Dist. 34, q. I, a. 1; cfr.: Ia-IIae, q. 68, a. 1), cioè «secundum regulam rationis». Sotto l’azione dei Doni, invece, l’anima acquista un modo divino di operare, e misura le sue azioni da un’altra regula «quae est ipsa Divinitas ab homine participata suo modo, ut jam non humanitus, sed quasi Deus factus, participatione, operetur» (In III Sent., Dist. 34, q. I, a. 3, P. VII, 384). I Doni vengono così ad essere il completamento e prolungamento normale, e necessario, delle virtù infuse e l’intensità della vita spirituale s’accresce a partire dalle virtù e andando verso un predominio dei Doni, quale appare nei grandi Santi. A questo modo i Doni sono la partecipazione suprema della Divinità, a cui arriva l’anima sulla terra: per essi l’anima è ordinata a Dio nel modo più immediato che quaggiù è possibile (In III Sent., Dist. 34, q. III, a. 2, q.la III, Sol. 1). Mentre nella vita naturale le potenze appetitive e operative soggiacciono all’impero della ragione, nella vita soprannaturale per l’infusione dei Doni, è lo Spirito Santo inabitante che diventa il principio e la regola della vita dell’anima e questa, da parte sua, sempre più ripiegandosi all’interno di sè, si fa più docile e sensibile ad ogni movimento del «Dolce Ospite», quasi per un’assimilazione e passione immediata alle divine cose. Essi, i Doni, abbracciano tutti gli aspetti della vita umana, sia pratica come speculativa; e dopo d’aver introdotta, quasi sperimentalmente, l’anima nei segreti della vita soprannaturale sulla terra secondo una qualche partecipazione, sono essi che, giunti al loro pieno sviluppo nella patria, concorrono a dare all’anima la possessione perfetta e l’espansione piena della regola divina, «quando homo erit totaliter subditus Deo» (Ia-IIae, q. 68, a. 6). La mirabile teologia tomista dei Doni non è che il tentativo di scandagliare e narrare le segrete operazioni dello Spirito nelle anime che quaggiù ormai, per un immediato contatto, pregustano il modo di vita che avranno nel possesso definitivo di Dio secondo una piena partecipazione.| LA PARTECIPAZIONE DI CRISTO § 3. – Iddio aveva costituito l’uomo in questo felice stato di grazia nell’istante stesso della creazione, od almeno non molto dopo, ma il primo Uomo non superò la prova offertagli da Dio e cadde, trascinando seco alla perdizione tutti gli uomini, in quanto che tutti gli uomini, partecipando con lui e da lui l’umana natura, formano come un sol uomo. S. Tommaso ricorre volentieri alla nozione di partecipazione per la presentazione della verità del peccato originale come «peccatum naturae», richiamandosi all’espressione di Porfirio: «Omnes homines participatione sunt unus homo (Isagoge, cap. de specie; cfr. supra). Sed haec quaestio de facili solvitur (estensione universale del peccato originale), si distinguatur inter personam et naturam. Sicut enim in una persona multa sunt membra, ita in una humana natura multae sunt personae, ut participatione speciei multi homines intelliguntur quasi unus homo, ut Porphyrius dicit»10. Si tratta qui evidentemente dell’uso della nozione di partecipazione predicamentale, alla quale va ricondotta anche quella di cui S. Tommaso parla a riguardo di Cristo, nuovo Adamo, che ripara le rovine del primo (cfr. In III Sent., Dist. 18, q. I, a. 6 Sol. 1a). Con il mistero dell’Incarnazione s’inizia un nuovo piano nell’economia divina della salute: mentre la grazia degli Angeli buoni e dei progenitori era stata partecipata direttamente da Dio, come «gratia Dei», la grazia invece degli uomini rigenerati viene partecipata a traverso il Cristo che l’ha meritata; essa è quindi «gratia Christi», e tutti i doni che Dio ora effonde nelle anime sante, sono partecipazione della pienezza dei doni che è in lui. Il Cristo va adunque considerato come una nuova fonte di partecipazioni soprannaturali11. La grazia infatti è stata data al Cristo secondo tutta la sua pienezza «secundum quod potest haberi, quia quicquid ad rationem gratiae poterat pertinere, totum Christus accepit» (Comm.| in Ev. Io., c. III, lect. 6, P. X, 338 ab). Tutti gli uomini di questo mondo ricevono da questa pienezza, secondo l’espressione finale del Prologo del Vangelo di S. Giovanni; e S. Tommaso aggiunge: «addi potest et plurium mundorum, si essent» (Comp. Theol., c. 215). Cristo, autore della grazia (IIIa, 23, 9 ad 1um) la distribuisce ai fedeli secondo il sapiente consiglio dell’edificazione del suo Corpo mistico che è la Chiesa, onde la pienezza dei doni che è in Lui, Capo, si trova «variamente» distribuita e partecipata nelle membra. Lo Spirito Santo, che è l’Anima e il principio fecondatore del Corpo Mistico, profonde i suoi doni variamente nei suoi membri. «Solus autem Christus Spiritum Sanctum habuit ad plenitudinem [...]. Alii autem sancti de eius plenitudine receperunt, et participes facti sunt, non quidem substantiae sed distributionum eius» (Comm. in Ep. ad Hebr., c. VI, lect. 1, P. XIII, p. 715 b)12. Anche qui allora si ha come una «discretio» ovvero
«divisione», unita a degradazione della pienezza estensiva ed intensiva di grazia, propria del Cristo, analoga alla degradazione che si ha della pienezza dell’essere della Divinità, rispetto alle partecipazioni nell’ordine naturale. Per questo «quantumcumque crescat gratia alicuius hominis, qui gratiam secundum aliquam particularem participationem possidet, numquam potest adaequare gratiam Christi, quae universaliter plena existit» (De Ver., XXIX, 3 ad 5um)13. Se tutti i nostri doni supernaturali sono partecipati da Cristo, lo è anzitutto il primo, quello della filiazione divina: la nostra filiazione adottiva non è che una partecipazione della Sua filiazione| naturale, con la quale il Padre ci attrae al consorzio della vita divina. «Ipse (Christus) est praedestinatus ad hoc quod esset Filius Dei naturalis: nos autem praedestinamur ad filiationem adoptionis, quae est quaedam participata similitudo filiationis naturalis» (IIIa, q. 24, a. 3)14. G. Cristo è «per se» Figlio di Dio, e ciò è a Lui dato anzitutto e propriamente per la «gratia unionis»; noi invece diventiamo Figli di Dio soltanto per la grazia abituale che, come si è detto, resta qualcosa di creato e accidentale (IIIa, q. 24, a. 4 e ad 2um), e quindi una «operatio Dei ad extra». Si comprende perciò che mentre Gesù Cristo va detto Figlio naturale del Padre, noi siamo invece figli volontari di tutta la SS. Trinità. Unico adunque è il Padre di Cristo e nostro, ma a diverso titolo: Egli è il Figlio del Padre, noi siamo piuttosto figli di tutta la Trinità: «Nos per adoptionem efficimur fratres Christi, quasi eumdem Patrem habentes cum ipso: qui tamen alio modo est Pater Christi, et alio modo est Pater noster [...]; est enim Pater Christi naturaliter generando, quod est proprium ipsi: est autem Pater noster voluntarie aliquid faciendo; quod est commune Ipsi et Filio et Spiritui Sancto: et ideo Christus non est Filius totius Trinitatis sicut nos» (IIIa, q. 23, a. 2 ad 2um). Gesù Cristo potè restituire l’uomo alla amicizia di Dio in quanto, essendo perfetto Dio e perfetto Uomo, era costituito mediatore perfetto: qui S. Tommaso accetta per primo fra i latini, una profonda suggestione della teologia greca, e del Damasceno in particolare, che parte da alcune formule oscure dello Ps.-Dionigi intorno alla causalità strumentale dell’Umanità di Cristo nell’operare la nostra salute. Ogni causalità strumentale «qua talis» è causalità per partecipazione, onde l’effetto a cui termina la causa strumentale riceve la specificazione della sua forma non da questa, ma dalla causa principale, poichè l’influsso delle due causalità non è disparato e collaterale ma subordinato: «Illa operatio quae est rei, solum secundum quod movetur ab alio, non est alia praeter operationem moventis ipsam; sicut facere scamnum non est seorsum operatio securis ab operatione artificis; sed securis participat instrumentaliter operationem artificis [...]. Sic igitur in Christo humana natura habet propriam formam et virtutem per quam operatur; et similiter divina. Unde humana natura habet propriam operationem distinctam ab operatione divina et e converso. Et tamen divina| natura utitur operatione naturae humanae, sicut operatione sui instrumenti; et similiter humana natura participat operationem divinae naturae, sicut instrumentum participat operationem principalis agentis» (IIIa, q. 19, a. 1). A questo modo S. Tommaso spiega la qeandrikh. evne,rgeia dello Ps.- Dionigi, cioè come operazione strumentale: «Dicendum quod Dionysius ponit in Christo operationem qeandrikh,n, idest divinam virilem vel divinam humanam, non per aliquam confusionem operationum, seu virtutum utriusque naturae; sed per hoc quod divina operatio eius utitur humana, et humana huius operatio participat virtutem divinae operationis»15. L’umanità, assunta dal Verbo, che è Dio per essenza, nell’unità della persona, fu come «deificata», nella partecipazione alla gloria della Persona divina: «Christus homo, qui regnat in gloria; quae ex Dei gloria est, et ipse exinde in Dei gloriam transeat: quasi deificatus ex ea qua homo est dispensatione: sicut si diceremus: Lampas clara est, quia ignis clarescit in ea. Illud ergo quod emittit radios claritatis ad humanitatem Christi, est Deus; et sic humanitas Christi clarificatur a gloria divinitatis eius, et humanitas Christi inducitur in gloriam divinitatis, non per trasmutationem naturae, sed per participationem gloriae, in quantum ipse Christus homo adoratur tamquam Deus...» (In Ev. Joannis, c. XIII, lect. 6, P. X, 369 b). A questo modo l’Umanità di Cristo operava i miracoli, e me|ritò e fu causa efficiente della nostra salute, patendo la morte di Croce; questa causalità dell’Umanità di Cristo si prolunga ancora nell’applicazione della Redenzione ai singoli fedeli che avviene per mezzo dei Sacramenti in modo corporale, e per mezzo della fede in modo spirituale. Questa presenza ed azione dell’Umanità di Cristo compete anzitutto al Sacramento dell’Eucaristia. «Sic humanitas Christi est instrumentalis causa iustificationis, quae quidem causa nobis applicatur spiritualiter per fidem, et corporaliter per Sacramenta; quia humanitas Christi et spiritus et corpus est... Unde illud est perfectissimum Sacramentum, in quo Christus realiter continetur, scilicet Eucharistia, et est omnium aliorum consummativum, ut Dionysius dicit (Eccl. Hier., III). Alia vero Sacramenta participant aliquid de virtute illa qua humanitas Christi instrumentaliter ad iustificationem operatur, ratione cuius sanctificatus Baptismo, sanctificatus Sanguine Christi dicitur ab Apostolo, Hebr., 10, 19 ss.» (De Veritate, q. XXVII, a. 4). Ogni Sacramento ha un modo particolare di operare in noi la partecipazione alla grazia di
Cristo e di conformarci a Lui: così per la Penitenza «aliquis fit particeps Christi, per realem conformitatem ad Ipsum, scilicet in quantum Christo patiente patimur...» (In III Sent., Dist. XIX, q. I, a. 3, P. VIII, 203 b). Partecipazione della partecipazione anche nell’ordine soprannaturale! I cristiani santificano se stessi e santificano gli altri partecipando al Cristo ed il Sacerdozio cattolico ed ogni atto di culto non è che un prolungamento visibile, per partecipazione, del Sacerdozio di Cristo, Pontefice eterno: «Christus autem ut Dominus auctoritate et virtute propria nostram salutem operatus est, in quantum fuit Deus et homo... Oportet igitur ministros Christi homines esse et aliquid Divinitatis Eius participare secundum aliquam spiritualem potestatem: nam et instrumentum aliquid participat de virtute principalis agentis» (C. G., IV, 74). Non basta infatti che i cristiani ricevano in sè la grazia santificante, per la quale vengono indirizzati immediatamente alla vita eterna. Poichè essi devono condurre per un certo tempo anche una vita terrestre, non possono limitarsi al culto interiore, ma devono prestare a Dio per Gesù Cristo il culto esteriore nella Chiesa presente. Occorre perciò che venga ad essi partecipata la capacità di cooperare, chi passivamente e chi attivamente, al culto esteriore di Dio sulla terra che è stato iniziato ed assolto in modo perfettissimo da Cristo. È questa capacità che è detta «carattere sacramentale», per il quale tutti i cristiani, ed i Sacerdoti in particolare, sono configurati al Sacerdozio, onde è detto «proprie character Christi».| Secondo l’Apostolo è ancora nel Sacramento dell’Eucaristia che i fedeli raggiungono il grado più intimo di unione (liturgica) con il Cristo e fra di loro, in quanto sono un sol corpo (mistico), quanti nel seno della Chiesa partecipano del medesimo Corpo del Signore: «o[ti ei-j a;rtoj( e]n sw/ma oi` polloi, evsmen\ oi` ga.r pa,ntej evk tou/ e`no.j a;rtou mete,comen» (I Cor., 10, 16-18)16. Onde per il S. Dottore «Totus ritus christianae religionis derivatur a sacerdotio Christi. Et ideo manifestum est quod character sacramentalis specialiter est character Christi cuius sacerdotio configurantur fideles secundum sacramentales characteres, qui nihil aliud sunt quam quaedam participationes sacerdotii Christi ab ipso Christo derivatae» (IIIa, q. 63, a. 3). E tutta l’opera di santificazione dei fedeli è concepita da S. Tommaso, in conformità della S. Scrittura, come una divinizzazione, un’elevazione a diventare dèi per partecipazione. S. Tommaso trae da ciò argomento per dimostrare la divinità del Cristo, poichè se è Lui ad operare tale divinizzazione, è segno che è Dio per essenza: «Ideo vocavit eos deos (Ps., 81, 6), in quantum participant aliquid Divinitatis, secundum participationem sermonis Dei ad eos facti: nam ex sermone Dei homo aliquam participationem divinae virtutis et puritatis consequitur [...]. Ex his autem quae praedicta sunt posset sic argumentari. Manifestum est (autem) quod aliquis ex participatione Verbi Dei fit Deus participative; sed non fit aliquid participative hoc nisi ex participatione eius quod est per essentiam; ergo non fit aliquid participative Deus, nisi ex participatione eius quod est Deus per essentiam: ergo Verbum Dei scilicet ipse Filius, cuius participatione aliquis efficitur Deus, est Deus per essentiam. Sed Dominus voluit humanius magis quam sic profunde contra Judaeos arguere» (Comm. in Ev. Io., c. X, lect. 6, P. X, 486 b - 487a). L’Angelico non poteva dare una testimonianza più eloquente e decisa dell’importanza speculativa della nozione di partecipazione! Alla partecipazione imperfetta di Cristo sulla terra, succederà quella perfetta nella gloria: «Sciendum autem, quod duplex est participatio Christi. Una imperfecta quae est per fidem et sacramenta; alia vero perfecta quae est per praesentiam et visionem rei. Primam iam habemus in re, sed secundam in spe» (Comm. in Ep. ad Hebraeos, c. III, lect. 3, P. XIII, p. 700 a). Anche la gloria dei corpi glorificati non è che una partecipazione della gloria del Corpo| di Cristo: «Augustinus dicit resurrectionem animarum fieri per Dei substantiam, quantum ad participationem, quia scilicet participando divinam bonitatem animae fiunt bonae et justae, non autem participando quamcumque creaturam [...]. Sed participando gloriam corporis Christi, efficiuntur corpora nostra gloriosa» (IIIa, q. 56, a. 2 ad 1um). La nostra risurrezione finale nella carne è una partecipazione della risurrezione di Cristo (cfr.: IIIa, q. 51, a. 1 ad 1um) che ne è la causa effettiva strumentale (ibid., ad 2um) ed esemplare (ibid., ad 3um) e il Padre ha dato al Figlio di essere «vita» per essenza, e principio di ogni vita partecipata: «Circa quod (scil. sicut Pater vitam in semetipso sic et Filio dedit habere vitam in semetipso, Jo., 6) sciendum est quod aliqui vivunt, sed non habent vitam in semetipsis sicut Paulus, Gal., 2, 20 “Quod autem nunc vivo in fide Filii Dei vivo”; et iterum “Vivo ego jam non ego, vivit vero in me Christus”. Vivebat ergo, sed non in semetipso sed in alio per quem vivebat; sicut et corpus vivit, sed non habet vitam in semetipso, sed in anima per quam vivit. Illud ergo in semetipso vitam habet, quod habet vitam essentialem non participatam, idest quod ipsum est vita. In quolibet autem genere rerum, quod est per essentiam est causa eorum quae sunt per participationem, sicut ignis est causa omnis ignitorum. Quod ergo est per essentiam vita, est causa et principium omnis vitae in viventibus; et ideo ad hoc quod aliquid sit principium vitae requiritur quod sit per essentiam vita: et ideo congrue manifestat Dominus se totius vitae principium, dicens se habere vitam in semetipso, idest per essentiam, cum dicit: Sicut Pater habet vitam in
semetipso, idest sicut est vivens per essentiam, ita et Filius: ideo sicut Pater est causa vitae, ita Filius suus» (Comm. in Ev. Jo., c. V, lect. 5, P. X, 392 ab)17.| Di partecipazione in partecipazione, attratta dolcemente dalle misericordiose epifanie della divina bontà, la creatura umana percorre gli stadî della sua purificazione morale e si prepara per l’epifania suprema, nella quale potrà assidersi allo stesso convito divino. E la fame di verità e la sete di giustizia, che tanto quaggiù ci tormentano, saranno pienamente quietate per il riversarsi e lo zampillare eterno ed esuberante della Divinità nell’anima.
SEZIONE TERZA
LA NOZIONE TOMISTA DI PARTECIPAZIONE
CONTENUTO DELLA NOZIONE § 1. – Un’esposizione esauriente del contenuto metafisico della nozione di partecipazione resta sempre prematura fin quando non sia dato fondo a tutte le applicazioni dottrinali che essa riceve nel Tomismo, ed in parte a quelle che riguardano l’aspetto dinamico della causalità. Ci limiteremo quindi a prospettare il contenuto fondamentale ed i caratteri principali della nozione, quali possono risultare dagli elementi messi in vista dalla nostra indagine. Come molte altre nozioni metafisiche, guardate sotto l’aspetto etimologico e secondo il primo uso, anche la nozione di partecipazione sembra venire dal campo della quantità: «tutto» e «parte» infatti significano i due modi di essere secondo la quantità, e la «divisione» e l’«unificazione» indicano l’atto per cui si passa dall’uno all’altro. Si dicono «parti integrali» gli «elementi» dell’estensione e della quantità; e la quantità è una modificazione ad attuazione della sostanza corporea, richiesta dalla Materia in quanto è potenza reale di tale Forma, che deve sostenere nell’essere come nell’operare (differenziamento e localizzazione delle qualità attive e passive, e, nei viventi, delle facoltà). Ora come la Materia ha un’estensione quantitativa delle sue parti, quale esplicitazione della sua potenzialità intesa come recettività proporzionata, così la Forma ha una corrispondente estensione nell’ordine qualitativo per via delle potenze: virtù e facoltà, che sono dette appunto parti potestative; e come l’insieme delle parti quantitative dà il tutto integrale, così l’insieme delle virtù e facoltà dà il tutto potestativo. Sembra che nelle sostanze corporee, eccetto l’uomo, tutto e parti integrali| e tutto e parti potestative stiano fra loro come i rispettivi principî sostanziali, Materia e Forma, da cui emanano. Ma poichè il tutto e le parti potestative sono nell’ordine dell’atto, come tale, pare che possano ben trovarsi anche altrove che nelle sostanze corporee, e possano indicare il modo di manifestarsi e l’intensità, attuale o virtuale, dell’atto in sè (organicismo metafisico). E la nozione di partecipazione in tutti i suoi ulteriori sviluppi, soprattutto in metafisica, sembra fluttuare e ritenere più o meno qualcosa di ambedue questi significati, poichè riunisce in sè il doppio aspetto e della potenzialità in quanto si oppone a ciò che è tale per essenza e che è piena possessione dell’atto, e di attualità, in quanto partecipando in qualche modo dell’atto si oppone al nulla – non si può quindi offrire una nozione di partecipazione che valga una volta per sempre, ma, a voler essere esatti, essa va precisata con cautela secondo i varî ordini e modi di essere. S. Tommaso, come si è visto, più che preoccuparsi come i neoplatonici (p. e. Proclo e l’Autore del De Causis) di svolgere analiticamente, come «in actu signato», tutte le implicazioni metafisiche della nozione, ne ha usato piuttosto «in actu exercito» applicandola ad ogni ordine di rapporti; vi sono però alcuni aspetti più generali, dei quali la nostra ricerca si è occupata in particolare e che meritano di ritenere ancora per un istante la nostra attenzione. L’etimologia tomista di partecipare ci è nota: «Est autem participare quasi partem capere» (Comm. in l. Boëth. de Hebd., lect. 2; Comm. in Ep. ad Hebr., c. VI, lect. 1, P. XIII, 715 b). È detto «quasi» p. c., poichè propriamente solo nell’ordine della quantità, p. e. partecipare ad un’eredità… la partecipazione avviene per una comunicazione di una «parte», per il fatto che in quell’ordine si possono avere realmente delle parti di un tutto distinte realmente (dopo la divisione) le une dalle altre, e che quindi possono essere distribuite indipendentemente.
Ma nell’ordine metafisico, cioè della qualità e dell’atto in generale, il partecipare non può avere questo senso troppo materiale. L’atto e la qualità (formalità) come tali sono semplici o si hanno o non si hanno; se quindi ad essi si applica il «partecipare» ciò potrà significare non l’avere una parte, poichè non vi sono parti, ma l’avere in modo «particolare», «limitato», «imperfetto» un atto ed una formalità che altrove si trovano in modo totale illimitato e perfetto. «Et ideo quando aliquid particulariter recipit id quod ad alterum pertinet universaliter dicitur participare illud» (In l. Boëth. de Hebd., l. c.); «nam participare nihil aliud est quam ab alio partialiter accipere» (Comm. in ll. de Coelo et Mundo, l. II,| lect. 18, P. XIX, 123 b); «Participative (scil. aliquid convenit alicui) quod excedit suam naturam sed tamen aliquid de illo participat, sed imperfecte: sicut intellectuale homini quod est supra rationale et est essentiale Angelorum, et idem aliquid participat homo» (Comm. in Ep. ad Coloss., c. I, lect. 4, P. XIII, 536 a). «Quod enim totaliter est aliquid, non participat illud, sed est per essentiam idem illi. Quod vero non totaliter est aliquid, habens aliquid aliud adiunctum proprie participare dicitur» (Comm. in I Metaph., lect. 10, n. 154). Secondo S. Tommaso adunque «participare» è un «partialiter esse», un «partialiter habere», che si oppone ad «esse, habere, accipere... TOTALITER»: chi ricevesse tutto quanto ha il donatore, non partecipa del suo atto, ma è consustanziale con il donatore, come avviene nelle processioni «ab intra» della SS. Trinità: «Sed nota quod cum dicit “de meo accipiet” (Jo., 16, 15) ly de non importat participationem, sed consubstantialitatem: quia (Spiritus Sanctus) totum accipit quod Filius habet» (Comm. in Jo., c. XVI, lect. 4, P. X, 581 a). Onde si potrebbe anche dire con terminologia aristotelizzante, che «esse per essentiam» è un «esse simpliciter», mentre «esse per participationem» è «esse accidentaliter, secundum quid...»; però bisogna badare che queste denominazioni non vengano ad ostacolare lo sviluppo ulteriore che la nozione di partecipazione ha ricevuto nel Tomismo, tanto per le formalità trascendentali come per quelle predicamentali. Un’altra precisazione: «esse per essentiam», può avere ancora un doppio significato, secondo che la formalità di cui si parla è l’essenza stessa, oppure è la prima formalità dell’essenza: nel primo caso «esse per essentiam» è «avere pienamente» (Vollbesitz), nel secondo caso è piuttosto «avere in modo esclusivo» (Eigenbesitz). Così l’uomo è detto «rationalis per essentiam» come «Eigenbesitz», non «Vollbesitz», mentre l’animale può essere detto «rationalis per participationem» – similmente l’Angelo è intellettuale per essenza mentre l’uomo può esser detto tale solo per partecipazione. Quest’osservazione vale soprattutto nell’ordine predicamentale, poichè nell’ordine trascendentale delle perfezioni pure che si identificano nella purezza della Divinità, ambedue gli aspetti «Vollbesitz» ed «Eigenbesitz» coincidono. MODI DI PARTECIPAZIONE § 2. – S. Tommaso è costante nell’affermare due modi fondamentali di partecipazione, che abbiamo chiamato l’uno predicamentale-univoco, l’altro trascendentale-analogo. Nel primo tutti i par|tecipanti hanno in sè la stessa formalità secondo tutto il suo contenuto essenziale, ed il partecipato non esiste in sè, ma solo nei partecipanti (momento aristotelico della partecipazione tomista). Nel secondo invece i partecipanti non hanno in sè che una «similitudine degradata» del partecipato che sussiste in sè, al di fuori di essi, o come proprietà di un sussistente superiore, o senz’altro come formalità pura e sussistente nella piena possessione di sè. Qui abbiamo il significato più forte di partecipazione, intesa come «eivkw,n», «mi,mhsij» che era presente già nell’ultimo Platone, e che S. Tommaso trovava avvalorata dalla speculazione successiva del Neoplatonismo e di S. Agostino in particolare. La partecipazione analoga, in concreto, è quella della creatura dal Creatore che, essendo l’essere per essenza, in sè riassume («accepit et praeaccepit» dello Ps.-Dionigi) tutte le altre perfezioni, formalmente se sono perfezioni pure, virtualmente se miste. «Convenientia potest esse dupliciter: (a) aut duorum participantium aliquod unum: et talis convenientia non potest esse Creatoris et creaturae [...], aut (b) secundum quod unum per se est simpliciter, et alterum participat de similitudine eius quantum potest ut si poneremus calorem esse sine materia, et ignem convenire cum eo ex hoc quod aliquid caloris participaret: et talis convenientia esse potest creaturae ad Deum: quia Deus dicitur ens hoc modo quod est ipsum suum esse: creatura vero non est ipsum suum esse, sed dicitur ens quasi esse participans» (In II Sent., Dist. 16, q. I, a. 1 ad 3um, P. VI, 542 ab). «Creatura non dicitur conformari Deo quasi participanti eamdem formam quam ipsa participat, sed quia Deus est substantialiter ipsa forma, cuius creatura per quamdam imitationem est participativa: sicut si ignis similaretur calori per se separato existenti» (De Verit., q. XXIII, a. 7 ad 10um; cfr.: Comm. in l. De Div. Nom., c. II, lect. 3, P. XV, 282 a b).
Siamo ritornati pertanto ai pensieri fondamentali della nostra ricerca da cui eravamo partiti: «Sciendum est, quod aliquid participatur dupliciter: (a) Uno modo quasi existens de substantia participantis, sicut genus participatur a specie [...], (b) alio modo participatur sicut aliquid non existens de essentia rei» (Quodlib., II, q. II, a. 3; v. identica dottrina in In Boëth. de Hebd., lect. 2. Come è stato esposto sopra; il testo più comprensivo però è In I Sent., Dist. 48, q. I, a. 1, Sol. – già citato sopra). Sotto questo punto di vista va compresa l’ardita terminologia di S. Tommaso che sembrerebbe in evidente contrasto con un Aristotelismo letterale: «participare essentiam» (p. univoca) e «participare similitudinem»| (p. analoga): «Omnes enim singulares homines huius praedicationis recipient veritatem per hoc quod ipsam essentiam speciei participant. Nullus autem eorum ex hoc dicitur homo, quod similitudinem participat alterius hominis, sed ex eo solo quod participat essentiam speciei: ad quam tamen participandam unus inducit alium per viam generationis, pater scilicet filium» (Comp. Theol., c. 255, ed. De Maria, III, p. 205; cfr.: Ia, q. 13, a. 10; ibid., q. 105, a. 5). Le varie espressioni usate dall’Angelico possono, mi sembra, essere raccolte nel seguente schema:
Secondo questa linea di pensieri sembra adunque che per San Tommaso due siano i modi principali di esistenza e di predicazione di una formalità: per essenza e per partecipazione – i Neoplatonici aggiungevano un terzo, «causaliter», che S. Tommaso ben conosce e che mostra anche in certe occasioni di usare. Questo punto di esegesi è un po’ delicato e su di esso desidero passar sopra questa volta, anche perchè esula dai limiti della mia ricerca: personalmente penso che il «causaliter» quand’è usato da S. Tommaso ha un senso più aristotelico che neoplatonico, e che non turba la evidente dicotomia di predicazione ora esposta. Ecco i testi principali: la triplice predicazione serve a verificare il principio neoplatonico, che l’emanazione degradante non impe|disce che siano «omnia in omnibus» quasi per involuzione: è stato invece già notato come S. Tommaso preferisce la concezione dello Ps.-Dionigi che la partecipazione avviene per una «discrezione» e «divisione» di una pienezza originale – ciò che meglio armonizza con la teoria aristotelica dei gradi metafisici, e delle essenze concepite come numeri – ma di ciò si dovrà trattare in altro lavoro. «Sciendum est, quod sicut Gregorius et Dionysius dicunt, haec dona spiritualia ex quibus nominantur hi ordines (scil. Angelorum), communia sunt omnibus [...]: cuius ratio accipitur ex dictis Platonicorum: quia omne quod convenit alicui, convenit tripliciter: quia (a) aut essentialiter (b) aut participative (c) aut causaliter. Essentialiter quidem quod convenit rei secundum proportionem suae naturae, sicut homini rationale. Participative autem quod excedit suam naturam, sed tamen aliquid de illo participat, sed imperfecte; sicut intellectuale homini, quod est supra rationale et est essentiale Angelorum, et idem aliquid participat homo. Causaliter vero quod convenit rei supervenienter, sicut homini artificialia, quia in eo non sunt sicut in materia, sed per modum artis [...]. De dictis autem donis in Angelis ea quae conveniunt superioribus essentialiter, inferioribus conveniunt participative; quae vero inferioribus conveniunt
essentialiter superioribus causaliter conveniunt; et ideo superiores denominantur ab inferioribus donis» (Comm. in Ep. ad Coloss., c. I, lect. 4a, P. XIII, 536 a). Più chiaro è l’altro testo: «Apponit autem Proclus probationem manifestam ad ea quae dicta sunt, distinguens quod tripliciter aliquid de aliquo dicitur, (a) Uno modo causaliter sicut calor de sole. (b) Alio modo essentialiter sive naturaliter, sicut calor de igne. (c) Tertio modo secundum quamdam posthabitationem, idest consecutionem sive participationem, quando scilicet aliquid non plene habetur sed posteriori modo et particulariter, sicut calor invenitur in corporibus elementatis essentialiter, tamen non in ea plenitudine secundum quam est in igne. Sic igitur illud quod est essentialiter in primo, est participative in secundo et tertio; quod autem est essentialiter in secundo, est in primo quidem causaliter et in ultimo participative. Quod vero est in tertio essentialiter, est causaliter in primo et secundo. Et per hunc modum omnia sunt in omnibus» (Comm. super l. De Causis, lect. 12, S. 79, 20 ss.; cfr.: Pot., VII, 7 ad 3um)2.| Questa terminologia prettamente neoplatonica, che aveva per fondo il processo triadico dell’emanazione discendente, non poteva esser accettata da S. Tommaso, come da nessun Maestro cattolico, se non con profonde modificazioni. Alla fine, forse per scrupolo di non allontanarsi da Dionigi, anche S. Tommaso ritiene quella triplice denominazione, ma da un punto di vista che non è certo quello delle Fonti e che lascia intatta la denominazione bimembre di «ens per essentiam» e di «ens per participationem». «In rebus ordinatis, osserva l’Angelico sempre a proposito delle denominazioni angeliche, tripliciter aliquid esse contingit, scilicet per proprietatem, per excessum et per participationem. (a) Per proprietatem autem dicitur esse aliquid in re aliqua, quod adaequatur et proportionatur naturae ipsius; (b) per excessum autem, quando illud quod attribuitur alicui est minus quam res cui attribuitur, sed tamen convenit illi rei per quemdam excessum, sicut dictum est de omnibus nominibus quae attribuuntur Deo; (c) per participationem autem, quando illud quod attribuitur alicui, non plenarie invenitur in eo, sed deficienter, sicut sancti homines participative dicuntur dii» (Ia, q. 108, a. 5). L’indicazione qui suggerita per l’ordine delle gerarchie celesti, nel Tomismo può avere un’applicazione ancor più precisa a riguardo dell’uomo richiamato da Dio alla partecipazione dell’ordine soprannaturale per mezzo del Cristo, Dio-Uomo, principio e causa di ogni grazia, grato a Dio per essenza. Concludendo: si deve adunque ritenere che secondo S. Tommaso due sono i modi di predicazione di una formalità: per partecipazione e per essenza; e due sono i modi di partecipazione: predicamentale e trascendentale: un terzo membro romperebbe a priori l’armonia logica della divisione. DEFINIZIONE DI «PARTECIPARE» § 3. – Evidentemente non si tratta di una definizione in senso rigoroso, ma soltanto di un’accurata descrizione nominale reale, poichè il «partecipare» è il rapporto metafisico supremo e sfugge ad una determinazione logica. Questa descrizione deve comprendere| e potersi applicare tanto alla partecipazione analoga come a quella univoca. Mi si intenda: questo vale dal punto di vista della rigorosità dei concetti, poichè convengo anch’io che sotto l’aspetto metafisico ha il primato e va detta nel modo più proprio partecipazione, quella analoga. Questa descrizione inoltre deve darsi al di fuori di ogni particolare preoccupazione che i particolari problemi della partecipazione possono porre: dovendo avere la massima estensione, essa deve avere il minimo contenuto. Si potrebbe dire adunque che «Partecipare» si predica di un soggetto che ha una qualche formalità od atto, ma non in modo esclusivo e in modo totale3. Da quanto è stato discusso fin qui «avere in modo esclusivo ed in modo totale» si corrispondono, benchè diverso ne sia il senso nella partecipazione univoca ed in quella analoga. Parimenti è superfluo il ripetere che l’avere «tutta» una formalità, può non coincidere con averla «totalmente», cioè secondo tutte le modalità di essere e tutte le ragioni formali che alla medesima possono competere: tocca all’indagine speciale sui varî modi di partecipazione determinare in particolare come ciò avvenga (cfr. p. e. nella p. univoca e nella p. dei beati alla gloria). È stato pure indicato, e sarà meglio precisato fra poco, che partecipante e partecipato stanno come potenza ed atto, e che il partecipato è atto del partecipante; ma si deve insieme tener presente che questa ulteriore specificazione della nozione viene fatta nel Tomismo secondo il contenuto tecnico della suddetta coppia aristotelica e secondo lo spirito proprio dell’Aristotelismo. Si vuol dire che il partecipato che è atto concreto del partecipante, non è l’atto o la formalità superiore ed eccedente, per cui tutti i partecipanti sono detti partecipare (cfr.: Neoplatonismo, G. d’Auvergne) ma è un atto proporzionato alla potenza di cui è atto – atto, però, che a sua volta è derivato, in qualche modo, dall’atto eccedente. Il determinare ulteriormente come
avvenga la derivazione degli atti particolari dall’atto totale, costituisce quella che può dirsi la ricerca intorno all’aspetto dinamico della partecipazione. Lo SCHELLER ha dato una descrizione della nozione nella quale ha cercato di mettere tutti gli elementi che contribuiscono all’originalità della sintesi tomista rispetto al Platonismo ed all’Aristotelismo: «Partecipare significa nel partecipante il ricevere in modo| essenziale o graduale qualcosa del partecipato come (proprio) atto secondo una forma di analogia o di somiglianza. La partecipazione è così una recezione parziale nel partecipante in quanto potenza del partecipato in quanto atto, secondo che il partecipato è causa esemplare per l’effetto somigliante»4. Meno felice, a mio debol parere, sembra la definizione tentata dai Carmelitani di Salamanca nella loro ampia discussione intorno alla natura della grazia: «Participare nihil aliud est quam rem inferiorem imitari atque exprimere perfectionem rei superioris, non quidem adaequate et secundum omnes conceptus, sed inadaequate et quoad rationem partialem... Participare est habere partialiter perfectionem rei superioris, et ex perfectione per se inspecta atque imitabili ab inferiori, quamdam partem capi et alias partes sive conceptus relinqui»5. Pare infatti che la nozione tomista sia qui espressa in termini troppo recisi, quali non sono riuscito a trovare nei testi tomisti; ed inoltre, e quest’osservazione è più grave, sembra esulare da essa totalmente la partecipazione predicamentale univoca: invero quei rigidi teologi si mostrano troppo preoccupati del problema teologico che hanno per le mani, e la loro nozione è più neoplatonica che tomista. Nè al tutto fedele ai testi e alla nozione tomista mi pare la divisione che essi prospettano della partecipazione «physica», così detta da loro in opposizione a quella morale qui omessa, che può essere rappresentata nel seguente schema:
Io non intendo di far qui una querela di parole: anzi può darsi che questa divisione corrisponda sostanzialmente con la dottrina di S. Tommaso: per quanto mi riguarda dico anzitutto che essa è ancora prematura per essere adottata nella conclusione della mia ricerca e, poi, che io non intendo di adottarla in pieno per alcuni dubbi che ho circa il suo contenuto. Così per es.: 1) S. Tommaso non divide mai la partecipazione in formale e virtuale nel senso voluto dai Salmanticesi; si può chiamare invece p. virtuale sec. S. Tommaso quella dinamica della causalità efficiente in quanto è considerata come causalità strumentale; e 2) nell’esempio della p. formale univoca S. Tommaso dà sempre per esempio «species participat genus et individuum speciem» cioè «homo participat animalitatem et Socrates humanitatem»: l’esempio dell’«aër illuminatus» e del «calor» nell’acqua sono usati esclusivamente per la partecipazione analoga trascendentale. I teologi suddetti sembra che davvero abbiano considerato il problema metafisico della partecipazione in un modo troppo fisico – ma ciò sia detto «recitando» e non «calumniando»: solo a ricerca finita si potrà dire qualcosa di più preciso. Una schema condotto secondo il contenuto immediato dei testi, per quanto riguarda la partecipazione «statica», o formale, dovrebbe più o meno avvicinarsi al seguente:
L’aspetto essenziale del «partecipare» riguarda in ambedue i membri della divisione il «modo» di avere, e la differenza tra di essi consiste nel fatto che mentre nel primo membro la partecipazione non intacca la formalità nel suo contenuto essenziale, nel secondo viene ad esercitarsi anche su questo. Si dice che la creatura partecipa l’esse non solo nel senso che l’esse della creatura non esaurisce la pienezza estensiva dell’esse, come la mia umanità non esaurisce la pienezza estensiva di questa forma, poichè essa può| essere in altri e altrove: ma sopra tutto nel senso che l’esse creato è formalmente finito sotto l’aspetto intensivo; è esse soltanto e non necessariamente vita, sapienza..., come lo è invece l’Esse per se subsistens; e se la creatura è inoltre anche vivente e sapiente..., esercita queste ulteriori formalità non immediatamente per il suo esse ma per mezzo di potenze e accidenti aggiunti, radicate nella essenza, come diremo subito. Per le partecipazioni soprannaturali la creatura intellettuale si trova sulla via del «ritorno» al suo Principio, che però avviene per tappe successive. Esso s’inizia con la Fede, che fa presente all’intelletto la stessa verità divina, ma solo come oggetto di adesione da parte dell’intelletto, non di contemplazione. L’infusione della Carità, che porta all’anima lo Spirito Santo, vi porta pure i suoi doni, che dànno all’intelletto e alla volontà un certo «contatto» immediato con le cose divine pur a traverso i velami della Fede e le tentazioni della vita. Ma è solo nella patria che la Divinità è comunicata alla creatura, per essere da essa conosciuta ed amata, non solo quale è in sè, ma anche secondo il modo divino con cui Dio conosce e ama se stesso. La Divinità nella visione beata è data tutta e totalmente, ma la creatura ne gusta e ne vive come può – cioè sempre in modo finito la riceve «totam, sed non totaliter»; poichè solo Iddio è proporzionato a se stesso. Nelle partecipazioni soprannaturali, ed in particolare nella visione beata, non si ha propriamente un «participare similitudinem», quale si verifica nelle partecipazioni naturali, ma è alla stessa Divinità, quale è in sè, che termina l’atto della creatura. È un partecipare che è anche un «ATTINGERE», che potrebbe esser detto il terzo modo di partecipazione, sopra quello univoco e analogo quali si verificano nell’ordine naturale. Questo termine «attingere», qigga,nein, che è squisitamente platonico e agostiniano, ma che è noto anche ad Aristotele6, caratterizza il modo più perfetto di «partecipare»; esso indica come di fatto si effettui quel «vinculum» metafisico che ordina e connette sia gli esseri fra di loro, sia alcune creature privilegiate, quelle intellettuali, direttamente a Dio. L’«attingere» esprime, un partecipare secondo un grado più o meno perfetto, ma sempre proprio, di assimilazione dell’inferiore rispetto al superiore. S. Tommaso ne distingue due modi: «Attingi superiorem naturam et inferiori contingit dupliciter. UNO MODO se|cundum gradum potentiae participantis; et sic ultima perfectio hominis erit in hoc quod homo attinget ad contemplandum, sicut angeli contemplantur. ALIO MODO sicut obiectum attingitur a potentia: et hoc modo ultima perfectio cuiuslibet potentiae est ut attingat ad id in quo plene invenitur ratio sui obiecti» (Ia-IIae, q. III, a. 7 ad 3um). Questo doppio modo di «attingere» è illustrato da S. Tommaso con un’altra terminologia, che chiarisce e specifica la precedente: «attingere per similitudinem», e «attingere per operationem», ove il primo termine segna l’apice della partecipazione naturale, mentre il secondo indica l’apice di quelle soprannaturali. Da tutto questo S. Tommaso cava quella sua profonda tesi, di tanto valore spirituale, esser necessario che l’anima nella gloria si unisca immediatamente alla Divina Essenza senza veli e senza specie: solo a questo modo si verifica il «plene» con cui terminava il testo precedente. «Beatitudo, afferma l’Angelico, est ultima perfectio rationalis naturae. Nihil autem est finaliter perfectum, nisi attingat ad suum principium secundum modum suum: quod ideo dico, quod ad principium quod est Deus, attingit aliquid dupliciter: UNO MODO per similitudinem, quod est commune omni creaturae; quae tantum habet de perfectione, quantum consequitur de divina similitudine. ALIO MODO per operationem... Dico autem per operationem, in quantum rationalis creatura cognoscit et amat Deum. Et quia anima immediate facta est a Deo, ideo beata esse non poterit nisi immediate videat Deum, scilicet absque medio quod sit similitudo rei cognitae» (Quodlib. X, q. VIII, a. 17).
Si hanno quindi, secondo S. Tommaso, tre significati fondamentali di «partecipazione», due dei quali raggiungono la intensità dell’«attingere».
«Attingere» e «Partecipare» si sovrappongono e poi si prolungano l’un l’altro, come se, rimanendo sempre in qualche modo| uniti, in tanto l’uno può crescere in quanto l’altro diminuisce. Più il «partecipare» è perfetto e meno è «partecipare», e diventa propriamente «attingere». E l’«attingere» più cresce in perfezione, più dice immediatezza d’unione e pienezza di comunicazione. Così sappiamo che «attingere» è detta l’unione immediata in noi della materia (il corpo) con lo spirito (l’anima) secondo il principio della contiguità metafisica. «Attingere» si ha ancora nell’unione immediata dell’anima beata con Dio. «Attingere» infine si ha nell’unione, pure immediata, che la natura umana ha avuto nel Verbo Incarnato con la natura divina, nell’unità della Persona divina, come osserva incidentalmente l’Angelico nel medesimo artic. 17 del Quodlib. X, ora citato (frase omessa nella citazione: «Alio modo per operationem, ut praetermittatur ille modus, qui est Christo singularis scilicet in unitate personae»). Anche l’«attingere» allora è triplice.
L’«attingere», benchè non fosse sconosciuto ad Aristotele (cfr. Metaph., L, 7, 1072 b, 20-22), ha avuto il pieno sviluppo sistematico nell’idealismo ontologico di Plotino secondo la teoria dell’illuminazione. S. Tommaso ha ridato al termine la sua ampiezza metafisica sia nel campo dell’essere come in quello del conoscere, nutrendo con questa profonda intuizione tutti i problemi del pensiero7. IMPLICAZIONI METAFISICHE: COMPOSIZIONE REALE NELL’ORDINE TRASCENDENTALE § 4. – La stessa etimologia di «partecipare» conduce alla supposizione dell’esistenza di un soggetto che partecipa e di una formalità che dal soggetto è partecipata, poichè solo la formalità che esiste allo stato «puro», che ha cioè in sè tutta la pienezza intensiva, è in sè semplice. È in dipendenza di questa riflessione che S. Tommaso enuncia il principio della composizione del concreto in termini molto realisti: «Omne quod est totaliter aliquale, est| essentiater tale: sicut si aliquid est totaliter bonum, est essentia bonitatis. Si enim participat bono, oportet quod dividatur in participans et participatum» (Comm. in l. De Divinis Nominibus, c. IV, lect. 14, P. XV, 322 b). È stato per questo principio che il Neoplatonismo cristiano prima, e poi più nettamente S. Tommaso hanno potuto superare il principio della gnosi manichea sul male assoluto. So bene che qui si trova la «crux metaphysicorum» della filosofia cristiana a partire dall’innovazione tomista, ma non si può non riconoscere come aperte falsificazioni della nozione tomista di partecipazione, quelle di coloro che nell’esposizione del pensiero dell’Angelico vogliono fermarsi al concetto di
contingenza, passando a lato della composizione reale. In una sezione speciale si è mostrato che la posizione tomista sulla composizione reale fra essenza ed atto di essere era derivata direttamente dalla nozione di partecipazione; parimenti era stato mostrato che anche la composizione ilemorfica aveva la sua ultima radice nella nozione di partecipazione. Allora la composizione reale nell’essere concreto di (potenza) partecipante e di (atto) partecipato è un’implicazione metafisica della nozione di partecipazione come tale. S. Tommaso si prende cura di farla notare presentando il contenuto fondamentale della nozione. «... Singulis speciebus attribuuntur “multa individua univocorum” idest multa individua univocae speciei praedicationem suscipientia et hoc secundum participationem; nam species vel idea est ipsa natura speciei, qua est existens homo per essentiam. Individuum autem est homo per participationem, in quantum natura speciei in hac materia designata participatur. Quod enim totaliter est aliquid non participat illud, sed est per essentiam idem illi. Quod vero non totaliter est aliquid, habens aliquid adiunctum, proprie participare dicitur. Sicut si calor esset calor per se existens, non diceretur participare calorem: ignis vero quia est aliquid aliud quam calor, dicitur participare calorem» (In I Metaph., lect. 10, n. 154). Possiamo aggiungere subito che a questa prima proprietà onde si ha la partecipazione statica, il partecipato è «parte» reale in qualche modo nel partecipante per la formazione del su,nolon ontologico, va aggiunta la seconda proprietà, quella della dipendenza causale del partecipante dal partecipato, onde c’è la partecipazione dinamica. Su questo aspetto della partecipazione tutti gli Scolastici convengono almeno in generale, anzi vorrebbero che esso fosse suffi|ciente a fondare da sola la partecipazione come tale. Così p. e. il P. Descoqs, che ha voluto riassumere tutta la mentalità antitomistica in questa parte: «Cette raison (della analogia e della partecipazione) est le fait de la dépendance des divers êtres vis-à-vis d’un être qui est a se et réalise en soi la plénitude de la perfection [...]. Les êtres ne sont qu’en tant que ils dépendent de lui et qu’ils lui sont semblables: d’où leur similitude mutuelle en tant qu’êtres [...]. Et c’est là la Participation»8. E chiarendo più avanti il suo pensiero: «La participation implique deux éléments ou points de vue: l’unité de la perfection possédée par le participant et le participé et la diversité résultant de la dépendance du participé vis-à-vis du participant et des degrés plus ou moins grands de ressemblance que le premier a avec le second»9. Ci troviamo adunque sotto una visuale metafisica al tutto aliena da quella tomista: ed è ameno il sentire il P. D. dichiarare che il suarezianesimo, di cui si è fatto paladino, ha il suo principio di unità «qui se trouve dans une théorie de l’analogie de l’être dont il a fourni tous les éléments, sans du reste en achever l’exposé complet, mais qui implique une théorie de la participation une et très homogène». D. spiega la partecipazione con la contingenza (almeno etimologicamente è un bel salto!) «celle-ci implique une double relation à l’être divin: (a) relation de l’essence finie, qui est toute ab alio, puissance objective limitée par elle-même, à l’exemplaire infini qui est a se, (b) relation de son existence, i. e. de son actualité, toute ab alio également et de sa position dans l’ordre actuel à la cause première créatrice. La participation est constituée par cette double dépendance...»10. Ma il P. Descoqs ha dovuto obbedire, suo malgrado, alla logica interna delle sue idee. Nella presentazione delle cinque vie esercita a tutto suo agio il proprio spirito critico e mentre la III via, quella della contingenza, è fatta emergere sopra a tutte, dichiara che la IV via è in sè priva di valore apodittico, e può essere ridotta al più ad una conferma di quella della contingenza. A questo modo la nozione di partecipazione che secondo il Dottore Angelico indica la più profonda qualificazione metafisica che possiamo dare della creatura, riceve dal P. Descoqs il benservito e viene relegata fra le nozioni superflue11. Parvus error in principio!...| COMPOSIZIONE REALE NELL’ORDINE PREDICAMENTALE: ovvero LA STRUTTURA SECONDARIA DELL’ENTE PER PARTECIPAZIONE § 5. – La creatura – possiamo chiamare ormai con questo termine l’ente finito – risulta, da quanto abbiamo cercato a più riprese di mettere in vista sotto varî aspetti, come contrassegnata da una finitezza ed insufficienza intrinseca, che deve poi necessariamente radicarsi in una composizione reale di soggetto e forma, di potenza ed atto. Questa composizione è la condizione reale e trascendentale del suo stesso essere, di cui fonda, ad un tempo, la consistenza e la deficienza. La realtà dell’ente finito, invero, è data dall’unione di due principî complementari: Essenza ed Atto di essere; vorremmo dire dall’unione di due «parti», ma in realtà si tratta di un’unione al tutto singolare, che non ha riscontro in quelle note del mondo fisico materiale e quantitativo. Quei due principî non sono uno accanto all’altro, ma uno per l’altro, nella reciproca comunicazione della propria entità, onde in realtà restano uno nell’altro, ed è per questa unione che rianno in qualche modo una certa propria consistenza di essere, di cui sono assolutamente privi, se considerati (e posti) l’uno indipendente dall’altro. Nelle creature l’atto di essere, che sopra abbiamo chiamato forma pura, «forma
formarum», atto primo ed assoluto, viene ad abbassarsi ed assumere, quasi per una benevola condiscendenza, le condizioni proprie dell’essenza e del soggetto che lo riceve: in altre parole, l’atto di essere nelle partecipazioni create viene veramente ad abbassarsi, a sparpagliarsi perdendo, più o meno, dell’intensità formale piena che ad esso compete per diritto, come «forma separata». L’ente concreto, come tale, è quello che è essenzialmente finito nel suo essere, diversificato, moltiplicato, e ciò può avvenire non una, ma anche due volte, cioè non soltanto rispetto all’atto di essere trascendentale, ma anche rispetto alla formalità essenziale propria che, pur essendo già una partecipazione, può ulteriormente frantumarsi ed essere ricevuta in partecipanti di secondo ordine. Ci si potrebbe ora domandare: l’essere concreto, sia pur così finito, è in qualche modo per sè stante in modo definito? è, in altre parole, in sè rifinito e perfetto nel suo ordine? Sembra che la nozione di «perfetto» abbia, almeno per noi, un contenuto naturalistico; noi diciamo «perfetta» non qualsiasi cosa, ma solo quanto ha di fatto raggiunto un certo risultato che amplifichi realmente il modo di essere iniziale di un soggetto. «Per|fetto» è ciò che è «totalmente fatto», cioè «totalmente sviluppato»; lo sviluppo totale, in questione, va inteso come raggiungimento del fine proprio ed ultimo dell’essere. Dal momento poi che questo fine è detto ultimo, si suppone che abbia degli intermediarî, che sia dato cioè al termine di attuazioni successive coordinate e subordinate, per le quali si compie gradualmente, l’ascesa interiore che l’essere fa verso il suo fastigio. Da ciò si viene a comprendere che lo sviluppo dell’essere finito avviene in due momenti, o fasi principali: a) Costituzione prima dell’essere (concreto) nella sua derivazione dalla sua causa, b) attuazione successiva secondo un movimento di ascesa che è un ritorno (evpistrofh,) verso la causa stessa, sorgente eminente di perfezione. Ma qui sorge un problema essenziale: è necessario che la creatura passi di fatto a queste attuazioni, a questo suo sviluppo? Veramente il problema, quand’è così posto, non presenterebbe insormontabili difficoltà; solo che, a voler essere pienamente coerenti, esso va posto in un modo ancor più radicale – va cioè esteso anche al primo momento dell’essere finito. Chiediamoci allora un’altra volta: l’essere finito ha diritto ad esistere? deve esistere di fatto? Si è già notato che il tormentante problema in tutte le filosofie che non si ispirano, o non tengono conto, della Rivelazione cristiana ed anche nell’ottimismo leibnitziano, quella domanda ha ricevuto una risposta affermativa. Ma il filosofo cristiano ben comprende che una tale risposta viene a sopprimere l’aspetto più profondo della libertà divina. Per un filosofo cristiano, adunque, l’esistenza dell’ente finito è solo un dato di fatto, risolubile solo nell’esperienza reale, non in un contenuto nozionale dato, o comunque avuto per una derivazione analitica che può essere operata dalla mente. Ma supposto, in base all’esperienza, che la prima costituzione dell’essere (e la creazione) siano di fatto avvenute e che l’essere concreto consti di Essenza e di atto di Essere (od anche di Materia e Forma), anche il problema dell’agire dell’ente finito, da un punto di vista teleologico, nella supposizione cioè che gli esseri raggiungano in qualche modo i proprî fini, è già in qualche modo risolto. Se l’essere finito deve perfezionarsi, deve anche «operare» cioè passare dalla potenza all’atto, deve acquistare delle ulteriori perfezioni ed attualità; e di fatto l’esperienza ci assicura in modi varî e molte volte sufficienti, che gli esseri operano, si muovono, comunicano le proprie perfezioni e ricevono le altrui. Lo spettacolo quotidiano della natura non è che l’espansione reale del gran| dono dell’azione che il Creatore ha concesso agli esseri anche più umili, affinchè rivelino a lor modo, nelle proprie partecipazioni, le perfezioni del primo Principio. Possiamo ormai dire che l’essere finito non è solo essenza ed atto di essere partecipato (nè solo materia e forma), ma alla sua sostanza s’aggiungono le operazioni, che sono gli «atti secondi», rispetto ai quali tutto l’essere sostanziale funge da soggetto e da potenza recettiva. Per via degli atti, l’ente finito apre quasi se stesso a ricevere la partecipazione del mondo circostante e risponde, secondo la sua natura, agli inviti ed ai messaggi che gli arrivano da ogni parte dell’universo, affinchè anche lui si inserisca armonicamente nel concerto degli esseri. Questo attuarsi dell’essere finito resta però sempre un’opera di natura; regolata quindi da leggi definite e non lasciata al caso od al capriccio di una contingenza assoluta: si vuol dire che non solo ogni pianta ha il proprio fiore ed il proprio frutto, ma ogni natura è aperta verso attuazioni di un valore ben definito, cioè rigorosamente proporzionato alla intensità ontologica del suo essere formale12. Comunque la sostanza finita, ed in particolare le nature che partecipano alla vita e alla conoscenza, s’arricchiscono di nuove perfezioni e non solo hanno ricevuto l’atto di essere fondamentale, ma ricevono continuamente nuovi atti secondarî. Qui è inevitabile una conclusione: se, allora il primo atto di essere è realmente distinto dall’essenza, «a fortiori» questi atti secondarî non potranno identificarsi con la sostanza che li porta.
La struttura secondaria dell’essere finito è data dalla sostanza e dalle sue attuazioni successive cioè, possiamo ora dirlo senza reticenze, dai suoi accidenti. La distinzione reale fra sostanza ed accidenti sembrerebbe già da sè assicurata da un punto di vista fenomenologico e teorico insieme, per il fatto che essi sono molteplici, variabili, successivi, mentre la sostanza per definizione è una, indivisibile e immutabile. Per quanto riguarda l’atto primo di essere, è di per sè evidente che esso non può identificarsi con gli accidenti: il S. Dottore ha voluto radicare questa verità, che ha un valore fondamentale nel suo pensiero, sulla pietra angolare della sua metafisica, la distinzione reale fra essenza ed atto di essere. Iddio soltanto, che è atto puro nell’ordine dell’essere, resta puro nell’ordine dell’operare, ed il suo operare è il suo essere stesso ed il suo essere il suo operare. Ma l’agire creato non può essere identi|ficato con l’atto di essere: esso certamente è portato, sostenuto anche, dall’atto di essere – ogni ente opera in quanto esiste – esso si compenetra con l’atto di essere, ma non si sprofonda tanto da annegarsi completamente o per ridursi ad una modificazione del medesimo. L’opera della creatura resta un atto inerente e saldato sulla comune potenza, che è l’essenza; esso galleggia alla superficie della medesima, mentre l’atto di essere sta al suo fondo (id quod est magis intimum). La dimostrazione dell’Angelico Dottore è categorica. L’operazione creata può essere duplice: immanente e transeunte; ora nè l’una nè l’altra possono identificarsi con l’atto di essere. a) Non lo può evidentemente l’azione transeunte, che per definizione perfeziona un altro soggetto – l’atto di essere invece è ciò che c’è di più profondo e d’incomunicabile nel soggetto stesso. – b) Lo sarà l’operazione immanente? Neppure. L’operazione immanente, per eccellenza, è l’attuazione conoscitiva la quale è dotata intrinsecamente di una certa qual infinità nel suo ordine, o secondo tutta l’ampiezza dell’essere, come nella intelligenza e nella volontà che hanno per oggetto il Vero ed il Bene universale, od almeno entro l’intero ambito del mondo corporeo, come la conoscenza e l’appetito sensitivo. Qualsiasi atto di essere creato, invece, è intrinsecamente finito perchè determinato ad un grado particolare d’intensità, entro un genere ed una specie determinata; ed anche se alle volte l’essenza creata può dirsi in qualche modo infinita (sostanze separate) nella piena possessione di tutto il suo contenuto formale l’atto di essere, come tale, è sempre finito dovunque si trovi unito con qualche altra cosa, che non sia atto di essere. Ancora un ultimo passo, ed avremo scoperto tutti gli elementi che vengono nella metafisica tomista, a fondare la struttura secondaria dell’essere finito e la nozione piena di ente per partecipazione. Essenza ed atto di essere, Materia e Forma sono delle coppie assolute, delle sintesi chiuse, e come tali sono dei principî che si esauriscono nella mutua causalità l’uno per l’altro. Quali possono essere allora i principî immediati che nell’essere finito ricevono e producono le attuazioni secondarie? In questo punto la «fenomenologia» e l’«introspezione» poco possono dire, e la risposta non può essere che puramente speculativa cioè metafisica. Se ogni sintesi reale avviene per due principî che stanno tra di loro come potenza ed atto, ciò suppone anche una rigorosa proporzione, diciamo un’affinità metafisica, che nel linguaggio ufficiale si esprime con il principio: «Proprius actus respondet propriae potentiae» (Cfr. Ia, q. 76, a. 4). Un atto accidentale non può quindi avere come principio proprio| che un altro accidente, che sia, a suo riguardo, come potenza ricettiva od operativa: la struttura secondaria dell’essere finito è data quindi non solo dagli atti e dalle perfezioni conseguenti, ma anche, e precedentemente, dai principî a quelli proporzionati, le virtù operative, attive e passive e le facoltà. Alcuni spiriti, che per lunga consuetudine di riflessione vivono immediatamente, quasi per trasparenza, il proprio pensiero, durano fatica a seguire il Tomismo in queste ultime esplicitazioni della sua metafisica, perchè pare loro che esse vengano a turbare o ad impedire l’immediato «partecipare» e l’intimo colloquio che negli esseri conoscenti lo spirito fa con le cose e con se stesso. Così è stato giudicato sostanzialmente illusorio il tentare di spiegare il conoscere mediante l’incontro o il venire in rapporto di distinte e correlative «potenze» del «soggetto» e dell’«oggetto» e che un problema simile non potrebbe avere che un significato dal punto di vista della «fenomenologia della conoscenza», non dal punto di vista speculativo. Le riflessioni precedenti, tolte da S. Tommaso, dimostrano abbastanza, credo, che è proprio il contrario che è vero. L’invocare poi contro la ferrea posizione tomista la stessa logica del rapporto fra potenza ed atto, manifesta almeno degli essenziali fraintendimenti. Si obietta infatti che «se la potenza non può passare all’atto che in virtù dell’atto, le potenze da cui dovrebbe nascere la conoscenza, non possono non rimanere impotenti finchè non vi sia, comunque, il conoscere in atto, che lungi dal poter risultare da quelle, è la condizione della possibilità del loro passare in atto»13. Le potenze, invero, prima di passare all’atto, sono «in potenza», e non impotenti, sono capaci cioè di passare all’atto in presenza del proprio oggetto proporzionato; ed è l’oggetto proprio di ogni facoltà, nella sua posizione reale, non il conoscere in atto, che è la condizione del loro passare in atto. Altro è la potenza, altro il suo oggetto, altro è l’atto; la potenza in sè, cioè in quanto è in potenza (passi il termine!), l’oggetto (in sè) in potenza, restano sempre separati: l’atto del conoscere avviene solo quando l’uno e l’altro si attuano,
poichè la potenza non è un atto se non per il suo oggetto, e l’oggetto non è in atto se non quando realmente, meglio formalmente, è atto di quella potenza; prima è soltanto oggetto in potenza. Questo ragionamento è proprio del tutto aristotelico ed il Filo|sofo lo sviluppa in lungo ed in largo nel capo IV, del libro II del De Anima (416 b, 32 - 418 a, 6) ove espone, da un punto di vista squisitamente metafisico, la sua teoria generale della conoscenza. Come d’ispirazione non meno aristotelica è la concezione tomista delle facoltà, come principî operativi distinti dalla sostanza; essa infatti, come è stato già osservato, segna il trionfo definitivo del naturalismo aristotelico, di fronte alla svalutazione platonica dell’essere predicamentale, ripristinata dal Neoplatonismo e continuata dall’Augustinismo arabizzante dei teologi dei secoli XII e XIII. Raccogliendo ora le fila delle riflessioni precedenti, possiamo ben dire che la nozione di partecipazione è l’unica chiave che apra e disserri l’intelligibilità dell’essere finito. La creatura non va detta essere per partecipazione soltanto nell’ordine dell’essere statico, sia sostanziale come accidentale, ma anche nell’ordine dell’operare, rispetto agli atti e alle potenze prossime che li causano. La creatura non va detta «operare per partecipazione» solo in senso causale trascendentale, come vuole il Neoplatonismo, ma anche in senso soggettivo predicamentale, per mezzo di capacità e potenze che sono realmente distinte tanto dalla sostanza, quanto dall’atto di essere partecipato. «Illud quo operatur anima, dupliciter acceptum differt ab ipsa. Operatur anima aliquo influenti sibi esse, vivere et operari scilicet Deo, qui operatur omnia in omnibus qui constat ab anima differri. Operatur etiam naturali sua potentia, quae est principium suae operationis, scilicet sensu vel intellectu; quae non est essentia eius, sed virtus ab essentia fluens» (In II Sent., Dist. 17, q. I, a. 2 ad 6um, ed. Mandonnet, t. II, p. 419). E prima ancora il S. Dottore aveva osservato, ispirandosi allo Ps.Avicenna: «Omne agens quod agit per suam essentiam est agens primum, ut dicit Avicenna. Cuius ratio est quod omne secundum agens, agit in quantum participat aliquid; et ita agit per aliquid additum essentiae» (In I Sent., Dist. 3, q. IV, a. 2 Praet., ed. Mandonnet, t. I, p. 115). L’argomento riappare sotto la stessa forma nella Summa Contra Gentiles: «Unumquodque agit secundum quod est actu. Quod igitur non est totus actus, non toto se agit, sed aliquo sui. Quod autem non toto se agit non est primum agens: agit enim alicuius participatione, non per suam essentiam» (L, I, c. 16, 4º). L’ultima radice di questa profonda teoria è sempre identica, e i testi lo mostrano con stile piano ed eloquente: è per la distinzione reale fra essenza ed atto di essere che vengono alla creatura le altre distinzioni reali: fra sostanza e facoltà, fra facoltà e atti è appunto per la caratteristica della creatura come ente per par|tecipazione, che essa deve essere un agente ed operante per partecipazione. Questo complesso dottrinale è nel Tomismo come un edificio compatto, anzi è un organismo, vorrei dire una «Gestalt» metafisica, ove le singole parti sono solidali l’una dell’altra, ed ove la sottrazione di un elemento non può che distruggere all’istante la fisionomia del tutto. Certamente tutto questo è solo «Tomismo» e non semplice «Filosofia Cristiana» e possono ben darsi, e si sono date di fatto, altre concezioni dell’essere finito profondamente diverse dalla tomista su questo punto, che possono lasciare non solo intatte ma dare in altro modo una qualche «intelligibilità» delle verità rivelate. Oggi, dopo lo sforzo che da quasi un secolo compie la maggior parte dei pensatori cattolici per la rinascita del Tomismo e le esplicite direttive dei Pontefici che lo hanno indicato quale mezzo sicuro per la rinascita dell’alta cultura cristiana a protezione ed espansione della fede, pare che qua e là incominci a trapelare qualche impressione di diffidenza od almeno di stanchezza. Qualcuno, anzi più di uno, attratto dal fascino e dalla profonda umanità del pensiero agostiniano che arriva direttamente al cuore proprio ed altrui ed a quello dei problemi, vi aderisce con entusiasmo e lo trova assai adatto a conquistare alla Verità le anime moderne, irrequiete e frettolose, sensibili soltanto alla impressione dell’istante. E sembra che il Tomismo con le sue forti architetture logiche e ontologiche, debba essere il privilegio di pochi intelletti che non sentono lo spasimo dell’umanità attuale, avida di trovarsi in contatto immediato con gli oggetti che possono variamente colorire gli istanti della vita ed avvalorare immediatamente gli interessi reali. Questo sentimento si va diffondendo con impressionante rapidità anche in ambienti ufficialmente devoti alle direttive immediate della Chiesa; ma io non voglio dar fine al mio lavoro con una requisitoria, non solo inopportuna, ma al tutto inutile, e mi basta l’aver accennato al fatto. Per parte mia resto persuaso che il Tomismo ha tale una vitalità interiore, dal punto di vista sia storico come speculativo, che sa sempre rinascere e imporsi per forze autoctone; s’intenda però sempre il Tomismo vivo, il Tomismo cioè che sprizza direttamente dai testi. Molti si sentono scoraggiati, prima di toccare la soglia del Tomismo genuino, poichè si sono sentiti impotenti a frazionare il proprio cervello in quell’interminabile numero di distinzioni e caselle nozionali, nelle quali non di rado i commentatori e i manualisti pare disperdano la polla sorgiva della speculazione tomista. Ma i commentatori e i manualisti non devono sostituire la Fonte| primaria, e non lo pretendono; essi hanno una funzione isagogica per il contatto diretto con il testo, che resta il mezzo insostituibile per la comprensione dell’Autore. S. Tommaso, studiato
direttamente, ha una fisionomia che per molti costituisce un’autentica rivelazione: certamente il suo è sempre un pensiero serrato, severamente disciplinato e non si abbandona a divagazioni «fenomenologiche» o «affettive». Ma tutto questo non toglie che esso sia profondamente umano, anzi lo è maggiormente, poichè situandosi al di sopra delle fluttuazioni degli spiriti ordinarî, arriva a scandagliare l’anima fin nei suoi segreti più riposti, e a presentarcela nella sua possibilità originaria.
CONCLUSIONE
PLATONISMO ED ARISTOTELISMO ORIGINALITÀ DELLA SINTESI TOMISTA
PARTECIPATO E PARTECIPANTE – ATTO E POTENZA IN S. TOMMASO § 1. – Qual è, infine, il valore della nozione di partecipazione nella sintesi tomista? La risposta a questa domanda essenziale, che ponevamo nell’Introduzione, dipende dalla funzione teorica che la nozione esercita nel Tomismo all’interno dell’Aristotelismo, sopra tutto nella posizione e soluzione della controversia sulla distinzione fra essenza ed atto di essere, e poi delle altre partecipazioni e composizioni che da quella derivano. Il principio da cui procede la posizione tomista della distinzione reale fra essere ed essenza «in creatis», è enunziato dai tomisti nei termini: «Actus non limitatur nisi per potentiam propriam», e da S. Tommaso: «Omnis actus alteri inhaerens terminationem recipit ex eo in quo est, quia quod est in altero est in eo per modum recipientis» (C. G., I, c. 43, Amplius 1). Ma questo principio esige una fondazione metafisica: in cosa essa consiste? Ecco il problema centrale. Qualche autore, raro a dir il vero, propone di far ricorso alla nozione di partecipazione: è secondo il contenuto che si dà alla nozione di partecipazione che può essere determinata la posizione dei difensori e avversarî della distinzione reale. «D’un point de vue purement logique (o «métaphysique»!), il apparait nettement qu’entre partisans et adversaires de la distinction réelle, la discussion porte avant tout sur la théorie de la participation, rejetée par les théologiens modernes et admise sans contestation par toute la tradition qui va de Platon à Saint Thomas par Saint Augustin»1.| Altri invece, e sono ancor oggi la maggior parte, o non si accorgono neppure dell’insistenza che i testi tomisti fanno su questo punto o, quando s’accorgono, sembrano far passare in seconda linea la nozione di partecipazione per far emergere unicamente la teoria aristotelica dell’atto e della potenza, nella quale quella nozione va completamente assorbita onde resta al tutto inutile. Tale è l’impressione che si prova leggendo non solo i Manuali, ma anche le ricostruzioni sintetiche, quali il Das Wesen des Thomismus del P. MANSER che pur non è senza pregi, e si può vedere un simile atteggiamento in AIMÉ FOREST, che è stato così acuto e felice nella ricostruzione storica di altri aspetti fondamentali del pensiero dell’Aquinate. «Or, dice il Forest, commentando la frase di N. Maurice-Denis, si l’on se tenait à cette façon de voir, il faudrait sans doute prendre la distinction d’essence et d’être comme une séparation trop tranchée. Participer signifie dans le langage thomiste recevoir selon une partie. Mais si l’essence est ce qui reçoit l’existence selon une partie de cette dernière, il faut donc que cette essence soit d’abord définie comme une chose et posée par elle-même d’une certaine façon hors de ses causes, interprétation qu’il parait bien difficile de saisir. En réalité Saint Thomas nous suggère lui-même une toute autre façon de voir. Le rapport du participant au participé n’est pas ce qui permet de traduire avec rigueur sa pensée, mais au contraire ce rapport est encore pour lui assez imprécis; c’est pourquoi il le rapproche pour en donner une interprétation plus claire du couple aristotélicien de la puissance et de l’acte. “Omne participans aliquid comparatur ad id quod participatur ut potentia ad actum: per id enim quod participatur fit participans actuale” (C. G., II, c. 53 Item). L’essence doit donc être définie, non pas exactement, ce qui participe l’existence, mais ce qui est en puissance à l’acte d’être»2.
Dopo quanto è stato detto fin qui credo che i testi tomisti, quando siano collocati nel loro ambiente storico e dottrinale, suggeriscano un’interpretazione più «nuancée», e suppongano una prospettiva assai più vasta di speculazione metafisica: ma procediamo con ordine. 1) Anzitutto, si può riconoscere che per S. Tommaso c’è assoluta corrispondenza di terminologia fra le coppie: esse per essentiam – esse per participationem – participatum et participans = forma e soggetto – actus et potentia: ciò risulta dalle dichiarazioni esplicite del S. Dottore.| a) «Omne participans se habet ad participatum, sicut potentia ad actum» (Quodlib. III, q. 8, a. 20. Identica formula in C. G., II, 53, 3º arg.). – «Necesse est quod (esse) participatum in unoquoque comparetur ad naturam participantem ipsum sicut actus ad potentiam» (De Spirit. Creat., a. 1; cfr.: In VIII Physic., lect. 21; De Subst. separatis, c. 3; ibid., c. 13)3. b) «Omne participatum comparatur ad participans ut actus eius» (Ia, q. 75, a. 5 ad 4um). «Id enim quod recipitur ut participatum oportet esse actum ipsius substantiae participantis» (De Subst. Separatis, c. 3; ed. Perrier, p. 133). «Quod autem magis participat quamcumque perfectionem comparatur ad id quod minus ipsam participat, sicut actus ad potentiam, et agens ad patiens» (Comp. Theol., c. 124, ed. De Maria, p. 79). Perciò il principio generale: «Omne quod est actu vel est ipse actus, vel est potentia participans actum» (Quodlib. III, q. 1, a. 1). c) La formula più densa si legge nel De Subst. Sep., c. 13 (12 nell’ed. Perrier): «Si [Deus] intelligit participando aliquid aliud superius, sicut per participationem eius inferior intellectus intelligit, sequetur quod erit aliquid aliud principale respectu ipsius, quia ex quo per participationem alterius intelligit non est intelligens per suam essentiam ita quod sua substantia sit suum intelligere, sed magis sua substantia est in potentia respectu intelligentiae, sic enim se habet substantia cuiuslibet participantis ad id quod per participationem obtinet» (ed. Perrier, p. 172). Ogni formalità paragonata all’esse, sta come una potenza al proprio atto: «Ipsa enim essentia formae comparatur ad esse sicut potentia ad proprium actum» (De Pot., q. VII, a. 6). L’esse è l’atto di tutti i concreti e di tutte le forme: «Ipsum esse comparatur ad vitam et ad alia huiusmodi sicut participatum, et sic esse prius est et simplicius est quam vita et alia huismodi, et comparatur ad ea ut actus eorum» (Comm. in l. De Div. Nom., c. V, lect. 1, P. XV, 348). 2) E si può anche concedere che di riscontro la coppia aristotelica presenti per S. Tommaso un significato più preciso di quella platonica: di qui la sua preoccupazione di mostrarne la corrispondenza: tutto questo è pacifico. Ma il problema da porre è un altro: non si tratta solo di sapere se, a sintesi finita, le due terminologie abbiano un valore equiva|lente, ma ci si può chiedere se ambedue le coppie, nella genesi dottrinale del sistema, abbiano ciascuna un proprio còmpito, per il quale l’una possa avvantaggiarsi sull’altra, sotto qualche aspetto, e con essa cooperare alla consistenza dottrinale della sintesi. Quando il problema sia così posto, mi pare che non si possa esitare a dare una risposta nettamente affermativa: nel Tomismo la nozione di partecipazione ha una propria funzione costruttiva, insostituibile e quindi indispensabile. Già il P. Roland-Gosselin aveva notato che S. Tommaso avrebbe prima ammesso la distinzione reale fra essenza ed essere, e che solo di poi avrebbe considerato l’esse come atto e l’essenza come potenza, portando così la coppia aristotelica in un campo di considerazioni che sembra siano state del tutto assenti nella sintesi aristotelica: egli dice infatti che «la conception de l’essence comme puissance à l’acte d’être» è una «conception dérivée de la distinction de l’être et de l’essence». E questo «passaggio»4 è indicato espressamente dai testi, che credo utile far rilevare in conferma della sporadica affermazione dell’editore del De Ente. – In II Sent., Dist. 3, q. I, a. 1, mostrata la distinzione reale, si conchiude «ideo ipsa quidditas est sicut potentia, et suum esse acquisitum est sicut actus; et ita per consequens est ibi compositio ex actu et potentia» (P. VI, 412 a, e cfr. prima: In I Sent., Dist. 8, q. V, a. 2, Sol.). – In VIII Physic., lect. 21: «Omnis substantia post primam [...] participat esse. Omne autem participans componitur ex participante et participato, et participans est in potentia ad participatum: ERGO substantia quantumcumque simplex, post primam substantiam simplicem est potentia essendi» (P. XVIII, 532 b). – Quodl. III, q. VIII, a. 20: «Oportet quod quaelibet alia res (praeter Deum) sit ens participative, ita quod aliud sit in ea substantia participans esse, et aliud ipsum esse participatum. Omne participans se habet ad participatum, sicut potentia ad actum; UNDE substantia cuiuslibet rei creatae se habet ad suum esse sicut potentia ad actum».
– Q. de Spirit. Creaturis, a. 1: «Oportet enim in substantia spirituali creata esse duo, quod unum comparatur ad alterum ut potentia ad actum: quod sic patet» e la dimostrazione viene fatta con la nozione di partecipazione; si conclude «et sic in quolibet creato aliud est natura rei quae participat esse et aliud ipsum esse participatum, et cum quaelibet res participet per assimilatio|nem primum actum in quantum habet esse, necesse est quod esse participatum in unoquoque comparetur ad naturam participantem ipsum ut actus ad potentiam»5. Il punto cruciale di tutta la questione è un nuovo concetto di atto al di sopra della forma ed essenza aristotelica, ed un nuovo concetto di potenza diverso dalla potenza della materia, a cui S. Tommaso è arrivato con la nozione di partecipazione: la potenzialità della forma e dell’essenza in relazione all’essere, nozione che viene a dare al mondo, visto sotto l’aspetto metafisico, una struttura assai più complessa di quella che avesse in Aristotele. Il testo che faccio seguire, anche per la sua tarda data, vale più di ogni commento: in esso troviamo l’ultima risposta all’istanza degli Augustinisti avicebronizzanti. «Considerandum est, quod ea quae a primo ente esse participant, non participant esse secundum universalem modum essendi, secundum quod est in primo principio; sed particulariter secundum quemdam determinatum essendi modum qui convenit huic generi vel huic speciei. Unaquaeque autem res adaptatur ad unum determinatum modum essendi secundum modum suae substantiae. Modus autem uniuscuiusque substantiae compositae ex materia et forma, est secundum formam, per quam pertinet ad determinatam speciem. Sic igitur res composita ex materia et forma, per suam formam fit participativa ipsius esse a Deo secundum quemdam proprium modum. Invenitur igitur in substantia composita ex materia et forma duplex ordo: unus quidem ipsius materiae ad formam, alius autem ipsius rei iam compositae ad esse participatum. Non enim est esse rei neque forma neque materia ipsius; sed aliquid adveniens rei per formam. Sic igitur in rebus ex materia et forma compositis materia quidem secundum se considerata, secundum modum suae essentiae habet esse in potentia et hoc ipsum est ei ex participatione primi entis; caret vero secundum se considerata, forma per quam participat esse in actu secundum proprium modum. Ipsa vero res composita in sua essentia considerata, iam habet formam esse, sed participat esse proprium sibi per formam suam. Quia igitur materia recipit esse determinatum actuale per formam et non e converso: nihil prohibet esse aliquam formam quae recipiat esse in seipsa, non in aliquo subiecto, non enim causa dependet ab effectu sed potius e converso. Ipsa igitur forma sic per| se subsistens, esse participat in seipsa, sicut forma materialis in subiecto. Si igitur per hoc quod dico “non ens” removetur solum esse in actu; ipsa forma secundum se considerata est non ens, sed esse participans. Si autem “non ens” removeat non solum ipsum esse in actu, sed etiam actum seu formam, per quam aliquid participat esse; sic materia est “non ens”, forma vero subsistens non est non ens sed actus, quae est forma participativa ultimi actus, qui est esse. Patet igitur in quo differt potentia quae est in substantiis spiritualibus a potentia quae est in materia. Nam potentia substantiae spiritualis attenditur solum secundum ordinem ipsius ad esse; potentia vero materiae secundum ordinem et ad formam et ad esse. Si quis vero utrumque materiam esse dicat, manifestum est quod materiam aequivoce nominabit»6. Gli avversarî della nascente sintesi tomista si facevano forti di un testo boeziano del De Trinitate, secondo il quale «forma simplex non potest esse subiectum», per concludere che l’Angelo e l’anima umana, per il fatto che sono forme ed atti, non possono fungere ulteriormente da potenze soggettive di un altro atto (l’esse), realmente da sè diverso. L’Angelico che tiene sempre presente la celebre obiezione, non la respinge di fronte, ma abilmente gira a lato. È vero che ogni forma come tale è atto soltanto, ma si possono dare dei gradi nell’attualità della forma; ed una potrà essere più o meno in atto di un’altra, onde solo di una forma che sia soltanto (e pienamente) atto, si potrà a buon diritto negare che possa fungere da soggetto: tale è la Divina Essenza; ed è di questa forma che Boezio intende parlare. Ma tutte le altre forme che sono in atto secondo un aspetto e restano in potenza secondo qualche altro si può dire, in qualche modo, che restano in potenza e che sono «soggetto». Le sostanze spirituali, benchè siano forme sussistenti, conservano sempre una certa potenzialità, perchè hanno un atto di essere finito e limitato. E poichè l’intelletto è capace di conoscere tutte le cose secondo la loro propria ragione, e la volontà è capace di amare lo stesso Bene universale, rimane sempre nell’intelletto| e nella volontà della sostanza creata una potenzialità da colmare rispetto a qualcosa che si trova al di fuori o al di sopra del suo essere. Onde «Si quis recte consideret», anche le sostanze spirituali sono in potenza, ma in un modo che conserva tutta la nobiltà del loro essere: poichè non possono esser trovate «soggetto» se non degli accidenti che appartengono all’intelletto e alla volontà7. Ne consegue che l’«esse subiectum» ed il «recipere» non è necessariamente legato alla materialità, come pretendeva Avicebron, poichè si dà un doppio modo di ricevere: uno soggettivo, quello della materia che riceve la sua forma per la costituzione dell’essere specifico, ed un altro oggettivo, quello della conoscenza secondo il quale la forma è ricevuta nella sua alterità (ed universalità) ed è a questo modo che si può parlare di un «recipere» anche nelle sostanze immateriali.
Nuovo concetto di potenza questo, che l’Angelico ha immesso entro la traslucida purezza degli spiriti; potenza che abbraccia non soltanto la partecipazione primaria dell’essere da parte dell’essenza, ma che investe anche l’ordine predicamentale dell’essenza rispetto alle facoltà ed ai loro atti ed oggetti. A questo modo i due aspetti dell’ente finito, quello trascendentale e quello predicamentale, appaiono perfettamente saldati realmente e intelligibilmente ed è curioso, ma insieme anche di enorme importanza, speculativa, che sia stata la nozione aristotelica di assimilazione oggettiva a servire di molla al Tomismo per affermarsi in modo definitivo nella posizione sua più originale.| S. Tommaso ci ha dato un esempio di questa priorità «metodologica» della nozione di partecipazione nella Summa Contra Gentiles, II, cc. 52-54, ove si assiste ad una vera progressione nell’assimilazione dei concetti. a) Nel c. 52 [Quod in substantiis intellectualibus creatis differt esse et quod est] la distinzione reale è dimostrata soltanto con la nozione di partecipazione, nelle sue varie forme (statica e dinamica); nella dimostrazione non vi è alcun ricorso esplicito alla coppia aristotelica, benchè vi si parli di atto e potenza e vi compaiano altre nozioni tipicamente aristoteliche. b) L’assimilazione vien fatta solo al c. 53 [quod in substantiis intellectualibus creatis est actus et potentia], che comincia: «EX HOC (dalla distinzione reale già dimostrata nel c. 52) evidenter apparet quod in substantiis intellectualibus creatis est compositio actus et potentiae. In quocumque enim inveniuntur aliqua duo, quorum unum est complementum alterius, proportio unius ad alterum est sicut proportio potentiae ad actum: nihil enim completur nisi per proprium actum. In substantia autem intellectuali creata inveniuntur duo, scilicet substantia ipsa et esse eius, quod non est ipsa substantia [...]; ipsum autem esse est complementum substantiae existenti [...], ergo». L’assimilazione esplicita viene fatta al 3º arg.: «Item. Omne participans aliquid comparatur ad ipsum quod participatur ut potentia ad actum: per id enim quod participatur, fit participans actuale. Ostensum est enim supra (I, c. 22; II, c. 52) quod solus Deus est essentialiter ens, omnia autem alia participant ipsum esse. Comparatur igitur substantia omnis creata ad esse suum, sicut potentia ad actum». c) Infine nel c. 54 [Quod non est idem compositio ex substantia et esse et materia et forma] S. Tommaso spiega, con una serie di raffronti la natura di questa nuova specie di potenza, e di questo nuovo modo di composizione. L’itinerario tomista adunque è di una rara trasparenza intelligibile nella successione delle sue fasi. ATTO E POTENZA IN ARISTOTELE § 2. – Gli avversarî della metafisica tomista hanno ben visto che essa gravita tutta intorno alla nuova nozione di «esse», come atto trascendentale, come «forma formarum», quale necessariamente va considerato (in via iudicii) in seguito all’affermazione della distinzione reale fra essenza ed atto di essere. Per questo essi si fanno forti reclamando che la coppia aristotelica di atto e potenza| originariamente era rimasta non solo estranea, ma aliena a quella estensione che ha poi avuto nel Tomismo. La questione, che costoro hanno voluto sollevare ha certamente una notevole importanza; ma, checchè si possa dire ad inchiesta finita, la conclusione potrà avere un interessante valore storico, e non toccherà per niente la consistenza della sintesi tomista: il Tomismo come sistema speculativo si regge anzitutto per la coerenza intrinseca dei suoi principî, e non per la fedeltà «storica» rispetto alle fonti – criterio davvero assurdo che è la negazione di qualsiasi progresso speculativo. Intorno al significato tecnico del termine «essere», come per molti altri termini, sembra che Aristotele più che abbandonarsi o limitarsi a schemi rigidi, abbia piuttosto di volta in volta ordinato i risultati della sua ricerca. Il Filosofo veramente usa dire to. o;n, ente in concreto, e mai nella sua opera compare il solo termine astratto to. ei=nai, se non unito ad un soggetto al dativo tw|/ sarki. ei=nai8. Questa indicazione elementare è da sè decisiva per tutta la questione9. Aristotele osserva accuratamente che to. o;n pollacw/j le,getai (Metaph., Z, 1, 1028 a, 10) e si preoccupa spesso di elencare i varî significati, come: a) to. kata. sumbebhko,j e to. kaqV au`to, (Metaph., D, 7, 1017 a, 8; cfr. E, 2, 1028 a, 33). b) to. w`j avlhqe,j (Metaph., E, 2, 1026 a, 35), al quale corrisponde, come «non essere», la falsità, w`j to. yeu/doj. Ma prima ancora c’è l’essere, come c) ta. sch,mata th/j kathgori,aj $tou/ o;ntoj%, o meglio tw/n kathgoriw/n come è detto in Metaph., Q, 10, 1051 a, 35, come l’essenza, la quantità, la qualità, ecc. Ma prima ancora di tutte queste denominazioni dell’essere, c’è quella di d) to. kata. du,namin h' evne,rgeian (Metaph., Q, 10, 1051 a, 35).
La prima coppia «ens per accidens» e «ens per se», ha evidentemente un senso logico ed interessa immediatamente la natura| dell’inerenza del predicato al soggetto. Il secondo senso invece riguarda quel modo particolare di essere che riceve l’oggetto intelligibile nel conoscente: si tratta quindi di un modo di essere derivato e che suppone e riceve il suo valore dall’essere reale10. Le due ultime applicazioni del to. o;n restano quindi le fondamentali: esse sono l’essere categoriale, e l’essere secondo che si dice in atto o in potenza. Evidentemente atto e potenza si riferiscono anzitutto all’essere categoriale, sia sotto il suo aspetto o contenuto sostanziale come sotto quello accidentale: ciò era implicito nella teoria aristotelica della generazione e corruzione secondo la quale il divenire dell’esperienza non è una parvenza, ma interessa intimamente la realtà del mondo fisico. Si sa che l’intero libro Q (IX) della Metafisica è dedicato allo sviluppo della teoria dell’atto e della potenza, alle loro mutue relazioni di priorità, di dipendenza reale, ecc. Ivi Aristotele afferma risolutamente la priorità assoluta dell’ente in atto, perchè questo è per sè sufficiente e perfetto e può muovere e perfezionare quanto è in potenza, mentre sarebbe assurdo che l’essere in potenza potesse precedere in modo assoluto l’essere in atto, ed essere ragione ultima del medesimo. La potenza può avere una certa priorità, limitata però, soltanto nel mondo fisico, ove gli agenti predicamentali operano sempre su di un soggetto preesistente, cioè presupponendo una potenza soggettiva, la materia. Si sa ancora che mentre Platone negava al mondo «fenomenale»| un vero contenuto di realtà e continuità e confinava l’essere agli ei;dh cwrista, dell’iperuranio, il significato centrale del gigantesco sforzo di reazione operato da Aristotele soprattutto nell’ultima metafisica dei libri Z ed H consistette nella riabilitazione dell’essere sensibile, come realtà vera e nella negazione dell’inutile duplicato delle «idee separate»: Ciò che «è veramente» adunque secondo Aristotele, non è l’uomo «separato» ma quello concreto: Socrate e Callia; l’essere adunque non è qualcosa d’isolato, ma è p. e. in Socrate la sua umanità in atto, così quello di Callia in quanto realmente c’è, e similmente la natura dell’animale p. e. l’equinità di questo cavallo «Bucefalo». Ciascuna di queste sostanze è veramente, sia perchè ha in atto la sua natura e sia perchè l’ha tutta completa, non per partecipazione, ma ripetuta completamente in ogni individuo. Da ciò si comprende che per Aristotele vien detto «atto» l’essenza reale come tale, ed in particolare la «forma», mentre vien detto «potenza» il soggetto che riceve l’essenza ed in particolare la materia: tutto questo è indiscutibile e fa parte del piano stesso di ricostituzione totale della cultura che il Filosofo si era prefisso di svolgere. Il punto centrale della sua Filosofia è il concetto di essenza e di forma: Aristotele ha dato a questo concetto tale importanza quale forse non si è più avuta nella storia del pensiero. «È in funzione di tale concetto, osserva lo JAEGER, che si sono determinati i confini del dominio scientifico in Aristotele11. Nella sua evoluzione spirituale, l’idea della forma passa da concetto teoretico dell’essere a strumento della scienza applicata, cioè a principio della concezione morfologica e fenomenologica di tutte le cose»12. Una essenza o forma in atto della sua materia, ecco l’essere per Aristotele! Non è tutto qui, certamente: Aristotele ammette degli esseri immateriali, le intelligenze motrici delle sfere, e il Pensiero Puro, ma alla fine anche questi restano delle forme, forme senza materia, forme quindi più dense di contenuto, ma restano sempre forme. Iddio che è no,hsij noh,sewj no,hsij (Metaph., L, 7, 1074 b, 34) può rientrare nel concetto fondamentale, in quanto è la prima forma perfettamente a sè sufficiente e completamente in sè autotrasparente: Egli possiede in sè, anzi è, la forma più alta di conoscere e il conoscere a sua volta è la forma più perfetta di essere. Pare quindi che nell’Aristotelismo l’atto di «essere», il to. ei=nai,| come valore primario metafisico resti quasi velato, non dico che sia «assente» del tutto, chè altrimenti non vi sarebbe metafisica alcuna. Del resto non si sa come Aristotele, o qualsiasi altro pagano, potesse isolare ed affermare nel suo contenuto profondo il valore dell’atto di essere, nell’ignoranza in cui si trovavano del fatto della creazione: il Gilson ha ben colto nel segno notando come il Dogma della creazione è stato l’inizio della metafisica cristiana (diciamo pure anche tomista) imperniata non più, e non soltanto, attorno all’ouvsi,a e alla forma, ma attorno all’atto di essere13. Nella concezione di un mondo che è «ab aeterno», l’atto di essere è coeterno con il mondo, ed anche se in sè era possibile comprenderlo come causato, di fatto nessuno ha compreso che il mondo aveva il suo bisogno più radicale rispetto proprio all’origine e alla conservazione di questo atto di essere, prima che delle formalità o natura particolari che lo accompagnano. Sembra adunque che l’esse quale è inteso da Aristotele, come osserva il Ross, abbia piuttosto un senso di prevalenza fenomenologico-esistenziale, e come portato dalla natura e dalla forma che è in atto14. Possiamo quindi dire ancora che «atto» per Aristotele può indicare ogni natura e forma sia concreta, come separata; «atto» quindi nel testo aristotelico ha un significato molto ampio. Il termine «potenza» ha per Aristotele un’estensione corrispondente a quella di atto? Il problema sembrerebbe assurdo, poichè si è detto poco fa che l’atto precede assolutamente la potenza, ed anche per Aristotele v’è certamente un atto che è
alieno da qualsiasi potenza, il Pensiero Puro. Ma c’è di più: pare cioè che anche le Intelligenze, poichè sono forme pure non implichino in sè una potenza reale, in ogni modo nel testo aristotelico non v’è alcuna preoccupazione di mostrarla. La potenza di cui si interessa e parla Aristotele sembra essere la materia soltanto, e ciò ben si comprende pensando appunto alla natura della sua reazione al Platonismo. Per Aristotele, all’essenza non si applica la nozione di potenza in senso stretto (Metaph., D, 12, 1019 a, 15-20) e le sostanze semplici immateriali sono atti e in atto, non in potenza (Metaph., Q, 10, 1051 b, 17, 26). La materia è la potenza per eccellenza, come la forma è l’atto per eccellenza, e come dalla forma dipendono tutte le altre attua|lità dell’essere, nella materia invece si radicano tutte le sue potenzialità (cfr.: Metaph., H, 6, 1045 b, 18). Dottrina lacunare questa di Aristotele? Certamente, ma noi facciamo il nostro apprezzamento in condizioni di coltura profondamente diverse da quelle dell’Ellade nel IV secolo a. C., e con preoccupazioni di ordine etico-religioso che probabilmente mai affiorarono, nè potevano affiorare, alla coscienza del Filosofo. Lo stesso Averroè del resto ci assicura, con il peso della sua autorità, che la potenzialità è propria degli esseri generabili e corruttibili15 e che il carattere di potenza compete propriamente ed esclusivamente alla materia16. È stato l’approfondimento speculativo esercitato dal Neoplatonismo che ha portato, sia pur a traverso curiose peripezie, alla nozione tomista di esse; esso ha fornito sia i testi che hanno suggerito, anzi provocato, il nuovo orientamento della metafisica verso la coppia essenza ed atto di essere, come anche alcuni principî che in qualche modo potevano condurre a quella distinzione, e primo fra tutti l’uso trascendentale della nozione di partecipazione. È per queste ragioni che mi pare si possa difendere la priorità «metodologica» della coppia «partecipato e partecipante» su quella di «atto e potenza». Per questo si può concedere che in Aristotele non si trova una affermazione della distinzione reale fra essenza ed atto di essere,| perchè nell’indirizzo particolare che prese la sua metafisica, soprattutto in relazione alle sue ricerche positive riguardanti la fisica astrale, la storia naturale, la politica, tale problema non si era posto: ma da ciò non segue, come ha voluto sostenere il Rougier con molta sicurezza personale, che l’Aristotelismo sia positivamente contrario a quella distinzione. Dalla nostra ricerca segue invece che l’Aristotelismo non soltanto è «aperto» verso una ulteriore specificazione di quel genere, ma ne fornisce gli elementi più importanti sotto l’aspetto sistematico: nessuno aveva più di Aristotele messo in vista i caratteri del concreto e dell’astratto, e concepito il concreto come «sinolo» di atto e potenza17. Ma l’Aristotelismo viene a subire nel Tomismo non solo un «prolungamento» per l’aggiunta di nuove conclusioni, ma, con l’assimilazione ed incorporazione della nozione di partecipazione ne è tutto rinnovato e come ringiovanito. Se la nozione di partecipazione ci dà il più bel frutto nella posizione della distinzione reale, essa ancora penetra tutte le altre attuazioni e perfettibilità di cui è suscettibile l’ente finito, in qualsiasi ordine, materiale e spirituale, sostanziale e accidentale, piegandosi a tutte le esigenze dell’analogia. Anzi è la partecipazione stessa che, facendoci penetrare la struttura metafisica del concreto e mostrandoci la gerarchia ontologica delle varie formalità e dei varî gradi di essere, nella relazione che hanno all’«Ipsum Esse», introduce e fonda l’analogia, per la quale la nostra conoscenza dell’essere può procedere secondo rigorose determinazioni. La nozione di partecipazione che ci ha fatti passare, per moto spontaneo ascendente del pensiero, dall’ordine predicamentale a quello trascendentale, resta nella genesi della metafisica tomista quasi come l’«ultima dispositio» nella generazione fisica, e questo per due ragioni, una di ordine storico, ed un’altra di ordine teoretico. a) Frutto autentico del Platonismo, da cui ha avuto origine come da causa materiale (sistema preesistente – sorpassato), essa nel Tomismo ha ricevuto una specificazione dell’Aristotelismo, nel quale sopravvive come ragione della sua consistenza e dal quale insieme è sostentata, in quanto appunto è specificata.| b) La ragione di partecipazione che si esercita, nell’Aristotelismo, dapprima nell’ordine accidentale e indi sostanziale predicamentale, entro modi di essere particolari, obbliga la mente a considerare la partecipazione dell’essere, come tale, e a trovare un’ultima fondazione dei partecipanti e delle partecipazioni. È vero che la partecipazione dell’essere dà l’ultima ragione «propter quid» di tutte le altre partecipazioni, ma insieme è in queste partecipazioni, che nella «via inventionis» sono più evidenti, che noi possiamo oggettivare e «criticamente» fondare la ragione di partecipazione dell’essere. Non credo necessario scendere ad ulteriori spiegazioni dopo quanto si è venuto dicendo finora. La nozione tomista di partecipazione, intesa nel suo autentico contenuto, è quella per la quale il Tomismo più nettamente si differenzia da qualsiasi altra sintesi speculativa, sia che questa si ispiri al (Neo)platonismo come all’Aristotelismo storico.
Possiamo pertanto dire che, giunto a questo punto supremo della propria sintesi metafisica, S. Tommaso può facilmente distinguere la composizione di materia e forma e di essenza ed essere, e se i tomisti si fossero sempre attenuti al linguaggio sobrio e discreto del Maestro, avrebbero evitato alcune esagerazioni di terminologia, ed anche di dottrina, che hanno screditato non poco, storicamente, la portata del Tomismo in questa parte e nutrito dei malintesi che per certe menti sono insanabili. Le coppie partecipante e partecipato – atto e potenza sono superiori ad ogni determinazione categoriale; esse dividono l’ens ut sic e S. Tommaso può concludere in senso forte: «Sic igitur patet quod compositio actus et potentiae est in plus quam compositio formae et materiae: unde materia et forma dividunt substantiam materialem; potentia autem et actus dividunt ens commune, et propterea quaecumque quidem consequuntur potentiam et actum, in quantum huiusmodi sunt communia substantiis materialibus et immaterialibus» (C. G., II, c. 54). Qui dovrebbe cominciare l’analisi speciale degli elementi dell’essere finito come tale, e si potrebbe vedere come nell’indagine tomista è sempre la nozione di partecipazione che apre la via ai problemi e alle loro soluzioni. Ma non è anche vero che la stessa nozione di partecipazione ne esce come ingrandita e ampliata dopo tanto lavoro? Si può quindi far osservare al prof. Forest che, secondo le categoriche indicazioni che S. Tommaso ci offre della nozione di partecipazione, tanto sotto l’aspetto testuale come storico-dottrinale, è il rapporto di atto e potenza che, nella genesi e soluzione radicale dei problemi, si mostra da sè solo insufficiente, poichè viene ricono|sciuto e introdotto solo alla fine della discussione quando, per il maneggio della nozione di partecipazione, si è raggiunta la conclusione. Lo Scheller paragonando nel Tomismo il principio di partecipazione con la teoria dell’atto e della potenza conchiudeva: «Il principio di partecipazione è il principio più generale, ma è indeterminato. La dottrina dell’Atto e della Potenza è meno generale, ma più determinata e più chiara»18. L’osservazione può essere esatta solo quando si riferisca alla genesi dei problemi soltanto, perchè, come è stato indicato, a sintesi finita, c’è perfetta corrispondenza fra le due coppie partecipante e partecipato – atto e potenza, ed hanno quindi la medesima estensione. La miglior espressione della sintesi tomista, sotto questo aspetto, la troviamo nel Quodlib. XII, q. V, a. 5; è bene rileggere questo testo che è il più comprensivo ch’io conosca ed appartiene agli anni 1270-73. «Unumquodque quod est in potentia et in actu, fit actu per hoc quod participat actum superiorem. Per hoc aliquid maxime fit actu quod participat per similitudinem primum et purum actum. Primus autem actus est esse subsistens per se: unde completionem unumquodque recipit per hoc quod participat esse; unde esse est complementum omnis formae, quia per hoc completur quod habet esse, et habet esse cum est actu; et sic nulla forma est nisi per esse»19. Credo pertanto che l’autentica posizione di S. Tommaso non sia esclusiva di nessuno dei due aspetti: chi in essa volesse sforzare il Platonismo a danno dell’Aristotelismo e l’Aristotelismo a danno del Platonismo, si porrebbe fuori dell’atmosfera reale nella quale quella sintesi è sorta e cresciuta; ma si tenga anche a mente che il Platonismo di S. Tommaso non è il Platonismo del Platone storico, ma soltanto l’aspetto vitale del medesimo, attorno al quale S. Tom|maso aveva visto confluire le ispirazioni concordi del pensiero patristico, in particolare di Dionigi e di S. Agostino, e al quale quindi non poteva rinunziare. Per questo sotto diversi aspetti si può dire tanto che il Platonismo nel Tomismo viene specificato dall’Aristotelismo, quanto che l’Aristotelismo viene specificato dal Platonismo: personalmente però io ritengo che la prima formula sia la più corretta. Ritengo allora che l’originalità della posizione tomista possa essere indicata, nel caso, nella corrispondenza che S. Tommaso ha saputo dare a queste due direzioni del pensiero umano, che storicamente, nel pieno sviluppo della speculazione greca, si erano presentate esclusive l’una dell’altra – corrispondenza che mi pare si possa esprimere in questi termini: a) Le due coppie, la platonica di partecipante e partecipato, l’aristotelica di potenza ed atto, nella fondazione e costituzione della metafisica tomista, sono intrinsecamente complementari. b) Quella platonica, in confronto dell’aristotelica, presenta un maggior valore «euristico» per la discussione e l’approfondimento dei problemi. c) Quella aristotelica, invece, si presenta più adatta per la sistemazione delle conclusioni già acquisite, e per la derivazione analitica delle proprietà degli oggetti. d) In ambedue i casi si tratta di una emergenza «metodologica» dell’una sull’altra, e non di una completa sostituzione o assorbimento dell’una nell’altra. La coppia platonica rimarrebbe davvero troppo imprecisa se i suoi risultati non venissero a collocarsi sotto la coppia aristotelica, come rimase imprecisa e infruttuosa, anzi dannosa in quei pensatori, predecessori di S. Tommaso, che non fecero uso dello strumento aristotelico. Ma non meno sterile resterebbe la coppia aristotelica se non fosse preceduta e sostenuta da
quella platonica, come accadde nell’Averroismo. È assai difficile poter dire in che cosa consiste l’originalità speculativa del Tomismo; ma penso che, più che indicarla in una tesi o dottrina particolare, sia più esatto, storicamente e dottrinalmente, indicarla nell’armonia che il sistema ha raggiunto in tutte le sue parti, non per sviluppo analitico di un solo principio, ma per un saggio temperamento di quelle due esigenze contrarie. E i principî costitutivi di ogni vera sintesi non hanno sempre fra loro, considerati nel momento iniziale, una certa contrarietà? La schietta posizione di S. Tommaso, diciamolo per l’ultima| volta, è quella del realismo moderato: non tutti gli esseri sono composti di essenza e atto di essere, ma solo gli esseri sussistenti in sè completi, poichè l’atto di essere non può venire che all’ente ormai costituito. Quest’attitudine tomista, che era ben nota anche agli averroisti, appare fin dagli inizi del magistero dell’Angelico Dottore ed è espressa con un linguaggio piano e coerente, di fronte al quale è più comprensibile una personale indipendenza d’opinioni, che l’inutile fatica di un’esegesi intenzionalmente prevenuta. Le creature non sussistenti, come la materia prima e come qualsiasi forma (sia sostanziale, come accidentale), che hanno l’esse «in alio» o «cum alio», non sono composte, ma bisogna dire che sono semplici se non si vuol aprire il processo all’infinito. Certamente questi principî sono ciascuno affetti intrinsecamente da una corrispondenza verso l’altro, ma la relazione come tale prescinde tanto da composizione, come da semplicità e per affermare tanto l’una come l’altra si deve far ricorso ad altre considerazioni. «Omne quod procedit a Deo, dice l’Angelico, in diversitate essentiae, deficit a simplicitate ipsius. Ex hoc autem quod deficit a simplicitate ipsius non oportet quod incidat in compositionem; sicut ex hoc quod deficit a summa bonitate non oportet quod incidat in ipsam aliqua malitia. Dico ergo quod creatura est duplex. Quaedam enim est quae habet esse completum in se, sicut homo et huiusmodi, et talis creatura ita deficit a simplicitate quod incidit in compositionem. Cum enim in solo Deo esse suum sit sua quidditas, oportet quod in qualibet creatura, vel in corporali vel in spirituali, inveniatur quidditas vel natura sua et esse suum quod sit sibi acquisitum a Deo, cuius essentia est suum esse; et ita componitur ex esse vel quo est, et quod est. – Est etiam quaedam creatura quae non habet esse in se, sed tantum in alio, sicut materia prima, sicut forma quaelibet, sicut universale; non enim est esse alicuius nisi particularis subsistentis in natura, et talis creatura non deficit a simplicitate ita quod sit composita. Si enim dicatur quod componitur ex ipsa sua natura et habitudinibus quibus refertur ad Deum vel ad illud cum quo componitur, item quaeritur de illis habitudinibus utrum sint res vel non: et si non sunt res, non faciunt compositionem; si autem sunt res ipsae non referuntur habitibus aliis, sed seipsis: quia illud quod per se est relatio, non refertur per aliam relationem» (In I Sent., Dist. 8, q. V, a. 1, P. VI, 78 b - 79 a). Linguaggio franco e pieno di buon senso che viene a colpire nel centro la cosidetta soluzione intermedia inaugurata da Enrico di Gand e ripresa poi con tanto successo dal Suarez, che del resto ebbe l’ingegno e la sincerità di riconoscere che in questo, come in altri| punti cruciali della metafisica, s’allontanava dal pensiero esplicito di S. Tommaso. In verità la nostra mente finita non conosce i suoi oggetti che «componendo et dividendo», cioè per via di composizioni nozionali; ora la composizione nozionale alle volte riflette una composizione reale, altre volte non è che un ripiego del nostro modo di conoscere. Per questo non si dànno che due modi di composizione, o reale o logico, perchè di fatto non si dànno che due modi di essere, uno ontologico-oggettivo, l’altro logico-soggettivo. Un terzo membro non solo turba la simmetria della divisione dicotomica, ma di fatto, resta senza fondamento, poichè di fatto non si dà nell’Aristotelismo tomista un terzo modo di essere, quale forse si potrebbe avere in una concezione estrinsecista del reale, che si ispirasse fedelmente al Neoplatonismo. CAUSALITÀ E PARTECIPAZIONE NEL TOMISMO § 3. – A nostro parere, adunque, la nozione tomista di partecipazione riassume, da un punto di vista analitico, l’originalità storica e speculativa del Tomismo: in essa Platonismo e Aristotelismo, spogliati dall’aspetto caduco che li opponeva, vengono fatti convivere insieme secondo una mutua complementarità. È risolta con questo la deprecata opposizione fra pensiero concreto e pensiero astratto, ed in particolare quella fra Augustinismo e Tomismo? Non ho preteso di dire l’ultima parola: questa al più potrà essere avanzata alla fine della ricerca sistematica nella quale la nozione tomista sarà messa alla prova, punto per punto; ma ho soltanto cercato di mostrare in quale direzione di pensiero questa ricerca sistematica dovrebbe essere condotta. Il P. A. GARDEIL, da quel profondo conoscitore dello spirito del Tomismo che era, rimase profondamente scosso dal saggio di É. GILSON, Pourquoi St. Thomas a critiqué S. Augustin20, ove il brillante storico, con dovizia di documenti, restituisce l’opposizione di Augustinismo e Tomismo a quella di Platonismo e Aristotelismo. Il Platonismo era riuscito ad allignare nel pensiero cristiano dei secoli XII e XIII per vie varie,
le quali fanno capo non solo a Platone, e Agostino, ma anche ad Avicebron, ad Avicenna e ad altri; ed i teologi augustinizzanti si credevano autorizzati di far passare per Agostinismo, tutto il prodotto sedimentario di tanti svariati influssi che avevano finito per creare una «forma mentis» tradizionale. In questa «filosofia cristiana» si badava soprattutto| ai diritti di Dio con una specie di geloso timore, quasi che concedendo qualcosa alla creatura, ciò tornasse a scapito della perfezione divina. S. Tommaso intuì presto, ed a fondo, l’instabilità di questa posizione, che diveniva di giorno in giorno più insufficiente di fronte all’irrompere nell’Occidente dell’opera aristotelica in tutta l’imponenza delle sue parti. Per Aristotele anche le cose sensibili veramente sono e quindi anche esse veramente operano: hanno quindi i proprî principî di essere, operare, intendere..., e non sono, nè operano, nè intendono... per la sola partecipazione che hanno alle cause superiori. Sta qui l’opposizione fra Tomismo e Agostinismo: quest’ultimo non aveva afferrato il significato profondamente umano del fusikw/j skopei/n aristotelico, che S. Tommaso ha ripreso quasi ad emblema della sua personale reazione. «L’Augustinisme et le Thomisme, aggiunge il P. Gardeil, différent au point de vue de l’explication de l’Univers créé, en ceci que S. Augustin, après Platon, attribue la production des choses à leur participation aux idées divines, tandis que S. Thomas, s’inspirant d’Aristote et poussant sa doctrine de la causalité jusqu’aux dernières conséquences logiques, l’attribue immédiatement à la causalité divine efficiente»21. Poichè non ho voluto trattare direttamente questa volta la partecipazione dinamica cioè «causale», devo accontentarmi di osservare, a proposito dell’energica posizione del P. Gardeil, che sembra piuttosto aver la nozione tomista di causalità, nella sua purificazione concettuale, raggiunto la nozione di partecipazione: causalità e partecipazione, nel Tomismo non si sviluppano in senso divergente, ma piuttosto convergente, quasi che il concetto, ed il modo, più puro di causare fosse un (puro) partecipare (nozione tomista di creazione). Si può riconoscere, e il dotto tomista ha pienamente ragione di farlo, che la partecipazione platonica lasciava davvero un posto esiguo alla causalità predicamentale, ma d’altra parte il Tomismo non sarebbe in sè sufficiente se optasse per un membro dell’opposizione a scapito dell’altro; esso li ha ritenuti ambedue, privandoli dell’opposizione che avevano. Si potrebbe quasi dire che la partecipazione tomista è, ed insieme non è, la partecipazione platonica, come la causalità tomista è, e insieme non è, la causalità aristotelica: dicevo poco fa che anche in questa sintesi, i due principî, perchè essenzialmente contrarî, hanno potuto nella loro fusione originare una nuova sintesi, superando però quella| iniziale contrarietà. Il P. Gardeil ha perfettamente ragione nell’esaltare la plastica concretezza che assume il reale nella concezione che S. Tommaso ha derivata da Aristotele e che innerva la concezione tomista dell’essere creato sia nell’ordine naturale come soprannaturale. Per S. Tommaso anche la «grazia santificante» è «forma inhaerens animae» è una «qualitas», è un «habitus» che l’uomo porta in sè come termine immanente dell’amore divino e pegno di salute: tutto questo è esclusivamente tomista, però d’ispirazione aristotelica! Bene! ma si può aggiungere che la grazia è detta ancora da S. Tommaso: «participatio quaedam (= propria) divinae naturae» (Ia-IIae, q. 110, a. 3), e «participata similitudo divinae naturae» (IIIa, q. 62, a. 1): ed anche questo è squisitamente tomista, ma d’ispirazione platonico-agostiniana. La soppressione ed anche un eclissamento della partecipazione nel Tomismo non riuscirebbe meno dannoso alla sua efficienza di sintesi cristiana, di una soppressione ed eclissamento della causalità. Il Forest, a nostro parere, ha ben letto nei testi tomisti quando ha affermato che nel problema della partecipazione S. Tommaso adotta una posizione contraria ad Aristotele22, e la frase dopo quanto è stato fin qui detto non dovrebbe più scandalizzare neanche i puritani dell’Aristotelismo tomista. Fin quando adunque il P. Gardeil oppone la partecipazione platonica alla causalità aristotelica, nessuno gli può dar torto; come è nel vero quando vuol caratterizzare la reazione tomista all’Augustinismo nell’accettazione sistematica della mentalità naturalistica aristotelica: ma la sua penna ci pare sia stata troppo veloce ed entusiasta, quando è passata a descrivere la soppressione avvenuta nel Tomismo della partecipazione a tutto favore della causalità. Qualora la mia ricerca potesse continuare anche nell’ambito della causalità mi parrebbe che da essa riuscirebbe a pieno confermata la nostra persuasione essere nel Tomismo partecipazione e causalità armonicamente equilibrate, come se l’una da un proprio punto di vista, apparisse il fondo intelligibile dell’altra. È S. Tommaso stesso che lo afferma proprio in quel testo che è stato il fondamento della nostra indagine: «Similiter effectus dicitur participare suam causam, et praecipue quando non adaequat virtutem suae causae» (Comm. in l. De Hebd., lect. II). Il termine «partecipare» ha la proprietà di esprimere ad un| tempo la dipendenza essenziale del partecipante dal partecipato ed insieme l’eccedenza metafisica assoluta del partecipato rispetto al partecipante. Il «partecipare» viene così ad esprimere, in un modo quale nessun altro termine filosofico può pretendere, il rapporto che ha l’ente finito all’essere infinito, la creatura al Creatore.
Per questo, tutte le opere che Dio mette al di fuori di Sè non sono che «partecipazioni», e questo significa sia che la creatura tutto quanto ha nell’essere e nell’operare lo ha ricevuto e lo riceve da Dio, come anche il fatto che ogni creatura nelle sue attuazioni non riceve che un aspetto di quella pienezza fontale, presente nella Divinità. Nessun termine aristotelico riesce ad esprimere questa nozione di creatura che è il fondamento della filosofia cristiana. Si potrebbe concedere che anche il termine neoplatonico di partecipazione, preso nel suo contenuto storico, è impotente a dare il concetto cristiano di creatura, appunto per quella divisione triadica di impartecipato, partecipazioni e partecipanti, a cui corrisponde l’altra di esse essentialiter, participative e causaliter, come modi di essere realmente distinti. Per questo ho cercato di mostrare l’originalità della nozione tomista di partecipazione e di additare in essa il fulcro su cui poggia la sintesi tomista, sia in generale come nei particolari. Per la nozione di partecipazione il Tomismo riceve il sigillo della universalità della sua missione dottrinale; grazie ad essa, non solo viene conservato alla cultura cattolica una delle più profonde intuizioni della speculazione umana, ma il Tomismo stesso viene ad essere come penetrato da una specie di «elasticità concettuale», che emerge di continuo a traverso i frequenti «quasi» e «fere» e «aliquo modo». Brevi tratti di penna ma significativi per chi vede nella metafisica tomista lo sforzo meglio riuscito del pensiero umano di adeguarsi con una accettazione e contemplazione docile della realtà, a tutta la ricchezza del suo contenuto intelligibile, senza irrigidirsi nella vacuità di schemi generali. L’originalità della posizione tomista non consiste in una negazione della partecipazione in favore della causalità, ma essa dev’esser cercata nella novità dei principî per cui egli portandosi ad un punto di vista superiore è riuscito a salvare l’una e l’altra, ed ha salvato l’una proprio in quanto è riuscito a dare all’altra tutta la espansione che ad essa conveniva. L’approfondimento della partecipazione dinamica, porterà certamente una seconda conferma, accanto a quella che ho dato in questo saggio per la partecipazione statica, di queste mie asserzioni che non dovrebbero più sembrare temerarie. Il nostro Maestro nel Commento alla Lettera ai Colossesi, dopo| aver distinto secondo i platonici l’avere «participative» dall’avere «essentialiter» e «causaliter», aggiunge un elenco dei modi di partecipare: «Tripliciter enim aliquid potest ab alio participare: a) Uno modo accipiendo proprietatem naturae eius; b) Alio modo ut recipiat ipsum per modum intentionis cognitivae; c) Alio modo, ut deserviat aliqualiter eius virtuti; sicut aliquis medicinalem artem participat a medico vel [1] quia accipit in se medicinae artem, vel [2] quia accipit cognitionem artis medicinalis, vel [3] quia deservit arti medicinae. Primum est maius secundo et secundum tertio...» (In Epist. ad Coloss., c. 1, lect. 4a, P. XIII, 536 b)23. Queste ultime tre forme di partecipare sviluppano quel terzo modo di partecipare «sicut effectus dicitur participare suam causam, praecipue quando non adaequat virtutem suae causae», che il Commento al De Hebdomadibus aveva lasciato nell’ombra. Tali forme di partecipare vanno interpretate in funzione di tre forme di essere che l’Angelico, nel Commento al De Causis, ha cura di esporre, prendendole da Proclo: «Tripliciter aliquid de aliquo dicitur. (1) Uno modo causaliter, sicut calor de sole. (2) Alio modo essentialiter, sive naturaliter, sicut calor de igne. (3) Tertio modo secundum quamdam posthabitationem, idest consecutionem, sive participationem: quando scilicet aliquid non plene habetur, sed poste|riori modo et particulariter. Sicut calor invenitur in corporibus elementatis essentialiter, tamen non in ea plenitudine secundum quam est in igne. – (1) Sic igitur id quod est essentialiter in primo, est participative in secundo et tertio; – (2) quod autem est essentialiter in secundo, est in primo quidem causaliter, et in ultimo participative. – (3) Quod vero est in tertio essentialiter est causaliter in primo et in secundo. Et per hunc modum sunt omnia in omnibus» (Comm. super l. De Causis, lect. 12, S. 79, 20 ss.)24. A questo modo il movimento della ragion metafisica si attua, si snoda e si chiude per il solo stimolo interiore dell’essere che nel suo espandersi nel mondo della natura e nello spirito, altro non cerca che di «ritornare a sè». * * * Ma quanti e quanto delicati problemi non pone questo ulteriore sviluppo della nozione! Nella parte terza è stato accennato con una certa diligenza ad alcuni di essi, tanto nell’ordine naturale come soprannaturale, ma ciascuno va approfondito secondo i suoi proprî principî. Con la trattazione della partecipazione dinamica dovrebbe aver fine la ricerca «analitica» che abbiamo iniziata, e si potrebbe passare subito alla teoria tomista dell’analogia, che dovrebbe snodarsi quasi da sè, a partire dalla partecipazione statica e dinamica.
Questo approfondimento ulteriore di pensiero condotto secondo le esigenze della nozione di partecipazione, quali si è cercato di rintracciare, sia pure in forma ancor schematica, in queste pagine, mi pare che gioverebbe notevolmente ad una qualificazione definitiva del Tomismo come sintesi cattolica. Tale ricerca fornirebbe ancora lume per informarci sulla natura di altri numerosi sviluppi che ebbe la nozione di partecipazione, come quello teologico-mistico di Eckhart, quello arabizzante della scuola Albertista, quello neoclassico dell’Accademia Fiorentina, quello teologico-matematico di Niccolò di Cusa... e quello recentissimo, sorto sullo sfondo del pensiero moderno, di Max Scheler e Louis Lavelle. Ma «vita brevis, ars longa!» e il nostro Manzoni, nella prefa|zione al suo romanzo, osservava che «di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo». Comunque ho la speranza che la mia fatica abbia un po’ contribuito a riabilitare questa nozione così profondamente umana della partecipazione. Nessun’altra, com’essa, è tanto vicina alla nostra vita umile di ogni giorno per descrivere in modo impareggiabile gli istanti migliori, quando l’anima riversa in altri esseri, o da essi riceve, le commoventi generosità dell’amore. Risollevata in pieno al suo valore speculativo dall’Angelico, essa può dominare e dare una comprensione integrale dello sviluppo della vita in ogni direzione, secondo un’armonia progressiva di valori intelligibili, senza scissioni e discontinuità.
Note Introduzione 1
Cfr. p. e. la posizione del Card. F. EHRLE che distingue in sostanza fra l’aspetto vitale del Tomismo, quello cioè in cui conviene con le altre filosofie cristiane, e che va quindi accettato e ulteriormente approfondito, e quello proprio, cioè sistematico, espresso soprattutto nelle XXIV tesi di Papa Benedetto XV, sul quale si può usare il proprio discernimento critico: Grundsätzliches zur Charakteristik der neueren und neuesten Scholastik, Ergänzungshefte zu den Stimmen der Zeit, erste Reihe, 6 Heft, 1918; 2ª ediz. curata da Fr. PELSTER, S. J., sotto il titolo Die Scholastik u. ihre Aufgabe in unserer Zeit, Grundsätzliche Bemerkungen zu ihrer Charakteristik, Freiburg i. Br., Herder, 1933, che ha avuto una traduzione italiana di G. BRUNI, La scolastica e i suoi compiti odierni, S. E. I., Torino, 1935. 2 Nell’op.: L’idéal religieux des Grecs et l’Evangile (Paris, Gabalda, 1932) il P. A. J. FESTUGIÈRE ha illustrato con molta erudizione questo punto. La diffidenza delle prime generazioni cristiane per lo Stagirita, è espressa la prima volta da Taziano e si trova ancora in Atenagora, Ireneo, Ippolito, Clemente Alessandrino, Origene, Eusebio di Cesarea, Epifanio, Gregorio Nisseno, Teodoreto. Essa aveva avuto origine dal fatto che la speculazione aristotelica si presentava come la costruzione classica del pensiero pagano, nella quale (si diceva) era negata: a) la Provvidenza del mondo sublunare; b) l’immortalità dell’anima e c) veniva proposta una morale troppo umana. Il diverso atteggiamento del M. Evo per Aristotele ha la sua ragione anche dal fatto che il Cristianesimo, giunto alla virilità, è ormai sicuro di sè (cfr. p. 57 op. cit. e Excursus C, p. 221 segg.: Aristote dans la littérature grecque chrétienne. Vedi anche: M. GRABMANN, Aristoteles im Werturteil des Mittelalters, Mittelalterliches Geistesleben, II, p. 63 sq.). 3 Ed. FR. EHRLE, John Peckam über den Kampf des Augustinismus und Aristotelismus in 13. Jahrhundert, Zeitschrift f. kath. Theologie, 13 (1889), p. 186. 4 Una simile mancanza di visuale si può osservare anche in certe moderne opere «francescane»; cfr. P. JULES D’ALBI O.M.C., Saint Bonaventure et les luttes doctrinales de 1267-1277, Paris, 1923, riprodotte in «Azione francescana», VI (1937). Cfr. spec. pp. 164-165: S. Tommaso rappresenta un regresso nella teologia cattolica. 5 P. DUHEM, Le système du monde, V, p. 569. 6 L. ROUGIER, La scolastique et le Thomisme, Paris, 1923. Per una opportuna| informazione intorno alla conoscenza superficiale e di seconda mano che il R. ha di Aristotele, cfr. il Compte-Rendu di A. MANSION, in «Bulletin Thomiste», II, pp. 14-27, ove si discute profondamente di quella pretesa e tanto sfruttata incompatibilità fra la tesi della distinzione reale fra essenza ed atto di essere e l’Aristotelismo. 7 G. SAITTA, Il carattere della Filosofia tomistica, Firenze, Sansoni, 1934, p. 22; cfr. pp. 29, 39, 42, 55, 80, ecc. 8 Il rappresentante più in vista è oggi JO. HESSEN, di Colonia; di lui vedi soprattutto: Die Weltanschauung des hl. Thomas von Aquin, Strecker u. Schröder, Stuttgart, 1926, pp. 19-21; p. 129 e segg.; vedi anche dello stesso: Das Kausalprinzip, Augsburg, B. Filser 1929, p. 47 segg. Intorno a queste mentalità vedi due note sotto il titolo Le Thomisme en Allemagne, dovute ai Proff. A. BOEHM e M. HORTEN in: «Bull. Th.», II, pag. 156-169 e 169-178. 9 A. FOREST, La structure métaphysique du concret selon S. Thomas d’Aquin, Paris, 1931, p. 307. Però, come si vedrà più avanti, fra la nostra interpretazione e quella del F. su questo punto, v’è una differenza modale abbastanza profonda. 10 CL. BAEUMKER, Der Platonismus im Mittelalter, in: «Studien u. Charakteristiken zur Geschichte der Philosophie», Beiträge zur Gesch. der Phil. d. Mittelalt., Münster i. W., Bd. XXV, 1-2, p. 174. 11 G. GRÜNWALD, Geschichte d. Gottesbeweise im Mittelalter, ecc., in Beiträge z. Gesch. der Phil. d. Mittelalt., Bd. VI, 3, p. 155. 12 A. LANG, Das Kausalproblem, erster Teil, Geschichte d. Kausalproblems, Bachem, Köln 1904, p. 214. 13 LILLA VINCENZO, S. Tommaso d’Aquino filosofo in relazione con Aristotele e Platone, Napoli, 1880; a p. 159 il L. modifica la sua prima opinione; da p. 163 e segg. sviluppa la noetica tomista. 14 S’ispira al Lilla, al quale poco aggiunge, CH. HUIT, Les éléments Platoniciens de la doctrine de Saint Thomas, in: «Revue Thomiste», 1911, pp. 724-766.
15
Mons. ALFONSO MARIA VESPIGNANI, Dell’esemplarismo divino, ecc., Parma, 1887. Cfr. i cc. VIII-XIV sullo sviluppo della nozione di partecipazione. Qui va ricordato il saggio magistrale di Mons. SALVATOR TALAMO, L’Aristotelismo della Scolastica, Siena, 3a ed., 1881, opera di erudizione profonda, scritta per confutare alcune accuse| di Terenzio Mamiani all’indirizzo della Scolastica, che hanno molta affinità con quelle del Rougier. La trattazione, troppo prolissa nei dettagli abbracciando tutta la Scolastica, presenta in modo fermo e franco su molti punti della nostra questione dei risultati definitivi, che rendono la lettura proficua anche a tutt’oggi. 16 DURANTEL, Saint Thomas et le Pseudo-Dénis, Paris 1919; questa tesi era stata preparata da una precedente più analitica: Le retour à Dieu par l’intelligence et par l’amour dans la philosophie de Saint Thomas, Paris 1918. 17 Friburgi Helvetiorum, 1911; al lib. I dedicato alla composizione reale fra essenza ed esse, segue il II che tratta: «De prima divisione entis realis subsistentis in ens per essentiam et ens per participationem»; il lib. III è dedicato a Dio: «ens per essentiam»; il lib. IV alla creatura: ens per participationem». 18 La sintesi scientifica di S. Tommaso d’Aquino, I, Torino 1932. 19 Archives de Philosophie, X, 1, pp. 117-118. 20 Archives de Philosophie, X, 2, p. 139. 21 DE RAEYMAEKER L., Metaphysica Generalis, ed. II, Lovanii 1935, t. I, p. 288. Fra i contributi più sostanziali alla nozione tomista di partecipazione vanno ricordate le pagine che ad essa dedica E. SCHELLER, nella sua tesi: Das Priestertum Christi (Paderborn 1931), e i dotti articoli di G. SÖHNGEN, che saranno indicati opportunamente nel corso del lavoro. 22 L. DE RAEYMAEKER, Philosophie de l’être, Essai de synthèse métaphysique, Louvain 1946. Cfr. l’indice delle materie, s. v.: «participation», p. 382 s. 23 IOHANNES MUNDHENK, Die Begriffe der »Teilhabe« und des »Lichts« in der Psychologie und Erkenntnislehre des Thomas von Aquin (Inaugural-Diss.), Konrad Triltsch, Würzburg 1935, pp. 32. Ecco il sommario: I. Der Begriff der «participatio» in der Lehre von der Seele. 1. Die Teilnahme am Sein, 2. Die Teilnahme an der Erkenntnis, 3. Die Teilnahme an der göttlichen Natur. II. Der Begriff des Lichtes in der Erkenntnislehre. 1. Das verdunkelte Naturlicht in uns, 2. Das uns angemissene natürliche Erkenntnislicht, 3. Das erleuchtende Licht des «intellectus agens», 4. Das übernatürliche Licht. 24 GUSTAV SIEWERTH, Der Thomismus als Identitätssystem, G. Schulte-Bulmke, Frankfurt a. M. 1939. 25 «Das eigentliche partizipierte Sein ist nicht Gott, sondern das Sein selbst, wodurch etwas ist» (p. 120). Se è permesso un’avvicinamento storico, S. Tommaso direbbe probabilmente della posizione del Siewerth che s’avvicina ad Averroè che non ammetteva la distinzione fra essenza ed esse e che attribuiva soltanto alla forma la costituzione ontologica dell’essenza nella sua realtà, come dirò più avanti. 26 MAX MÜLLER, Sein und Geist, Systematische Untersuchungen über Grundproblem und Aufbau mittelalterlicher Ontologie, Beiträge zur Philosophie und ihre Geschichte 7, Tübingen 1940. 27 Cfr.: JOSEPH RÜTTIMANN, Illuminative oder abstraktive Seinsintuition?, Luzern 1945, p. 7. L’A. a p. 82 accomuna (con Siewerth e Müller) come fautori della metafisica dell’identità un notevole gruppo di «proscritti» e mi fa l’onore di mettermi ultimo in lista. Ma l’A. s’inganna, perchè niente più della teoria tomista della partecipazione, quale è stata qui tracciata, assicura la distinzione fra il finito e l’infinito. 28 HEGEL, Phänomenologie des Geistes, Vorrede, ed. J. Hoffmeister, Philos. Bibliot., Bd. 114, p. 21: «Das Wahre ist das Ganze. Das Ganze ist nur das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen. Es ist von dem Absoluten zu sagen, dass es wesentlich Resultat ist, dass es erst am Ende das ist, was es im Wahrheit ist». Evidentemente l’errore di Hegel è di attribuire questo divenire all’Assoluto stesso. 29 Il M. oppone a questo riguardo (p. 173 ss.) un processo di «Konstitution» e la pura «astrazione» estranea alla dialettica. Noi pensiamo che il processo di «astrazione intensiva», a cui ricorriamo per la nozione di astrazione, sfugga alla sua critica. 30 G. ISAYE, La théorie de la Mesure et l’existence d’un maximum selon saint Thomas, Archives de Philosophie XVI, Paris 1940. 31 Il P. I. pensa che la partecipazione dica prima distinzione e poi limitazione (p. 13); per noi i due rapporti sono simultanei e si tengono dialetticamente quando si tratta di molteplicità creata (anche univoca predicamentale). Nelle Persone divine, è chiaro, c’è distinzione reale senza limitazione, per via di pura relazione. 32 ANDRÉ HAYEN, L’intentionnel dans la philosophie de Saint Thomas, Museum Lessianum, sect. philos. 25, BruxellesParis 1942. 33 Il P. H. si mostra molto preoccupato di distinguere l’esse divinum imparticipatum dallo esse commune participatum proprio delle creature (p. 267) in quanto Dio trascende questo e ne è la causa. Questo esse commune, s’intende, è creato ed è diverso da cosa a cosa, atto proprio di ciascuna (cfr. nota 5 di p. 272 s.). 34 Quello che il P. H. dice sulla incompiutezza della sintesi tomista (p. 58 n. 4, p. 287 ss.) dipende dal non aver egli dato un’esposizione completa della teoria tomista della partecipazione e dalla unilateralità un po’ troppo evidente della sua trattazione. 35 J. DE FINANCE, Etre et agir dans la philosophie de Saint Thomas, Paris 1945. 36 L’affermazione perciò di p. 243, n. 1: «Le dynamisme radical de l’être s’exprime en trois formules équivalentes comme tendance à la perfection propre, tendance à l’agir et conversion vers le principe», è ammissibile soltanto se cotesto dinamismo è riferito all’essere ch’è la natura di una cosa non allo esse «actus essendi», ch’è – per così dire – lo «actus quiescens» della natura a cui compete muoversi e agire.
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Fra gli amici della partecipazione va ricordato anche il P. J. Legrand (cfr.: L’univers et l’homme dans la philosophie de Saint Thomas, Museum Lessianum, Sect. philos. n. 27, Bruxelles-Paris 1946, 2 voll.; vol. I, p. 20), e i membri della Società di| filosofia tomista fiammingo-olandese che ha dedicato due tornate accademiche (15-16 aprile 1944) alla discussione della nozione di partecipazione con riferimento ai due volumi di P. Geiger e mio (cfr.: De Thomistische Participatienleer, Bijlage van «Studia Catholica», Nijmegen 1944). 38 L.-B. GEIGER, O. P., La participation dans la philosophie de Saint Thomas d’Aquin, Bibliothèque Thomiste XXIII, Paris 1942, 8º gr., 496 pp. 39 A p. 26, l’A. sembra rimandare il raffronto storico delle dottrine all’ultima tappa del lavoro intrapreso. Ma allora cotesto confronto retrospettivo non sarà ormai pregiudicato dalle conclusioni «sistematiche» già raggiunte? 40 Non mancano però incertezze e qua e là si scorge quasi l’accenno a un pentimento: p. es. a p. 220, n. 6, per la partecipazione in Aristotele qual è intesa da S. Tommaso. Così di fronte alle citazioni dei Topici per la partecipazione predicamentale – dottrina ripresa da Porfirio e passata poi alla Scolastica e a S. Tommaso – l’A. osserva: «Si la participation dont il y fait mention comporte réellement un rapport d’inégalité formelle, il y aurait lieu de nuancer en conséquence notre présent exposé» (p. 48, n. 1). Soltanto che in tutta la mia trattazione della P. II, Sez. 2, si presenta la partecipazione predicamentale come ineguaglianza reale (per individui rispetto alla specie) e mista per la specie rispetto al genere. 41 A p. 163, nota 2, toccando questo punto-chiave della nostra divergenza, il P. G. parla della «utilisation de la composition propositionnelle comme critère de composition réelle» ch’io avrei adottato. In realtà si tratta del criterio di «corrispondenza proporzionale», come ho spiegato in lungo e in largo (cfr. p. 149 ss.), e mi duole della svista (forse è un errore di stampa!) perchè travisa completamente la mia interpretazione. 42 Basti leggere per tutti: In I Sent., Dist. 48, q. I, a. 1 (citato più avanti). 43 Sigeri quindi ammette la partecipazione predicamentale che il P. Geiger invece respinge. Anche il P. De Finance (op. cit., p. VI s.) è molto preoccupato della grave| deviazione tomista a cui espone la interpretazione di P. Geiger: «Dire que la participation par similitude est première et se suffit, déclarer inconciliable avec le créationnisme, comme impliquant un dualisme radical, l’idée que toute participation suppose composition de participant et de participé, n’est-ce pas déserter la position classique, et saper le fondement de la célèbre distinction [d’essenza ed esse]?». 44 J. DE FINANCE, Être et agir, pp. 4, 117 s. Il via per quest’accostamento è venuto dal Maritain (cfr.: Sept leçons sur l’être, Paris s. d., pp. 8 ss., 58 s.; Petit traité de l’existant, Paris 1947) e dal Gilson (cfr.: Le Thomisme5, Paris 1945, p. 505 ss.; L’être et l’essence, Paris 1948, passim). 45 Cfr.: C. FABRO, Il significato dell’esistenzialismo, in: L’Esistenzialismo, Roma-Torino 1947, pp. 3-30. 46 Opuscula philosophica et theologica (ed. De Maria, Tiferni Tiberini 1886, III, 393-394). 47 A. FOREST, in Le réalisme de Gilbert de la Porrée, in: «Rev. Néosc. de Phil.», Hommage à M. de Wulf, t. 36 (1934), pp. 100-111, presenta una buona analisi di questo contesto, al quale ispirarono tutti i medievali la propria analisi sulla struttura del concreto. 48 Metaph., D, 26, 1023 b, 26-1024 a 10 = tutto; ib., 25, 1023 b, 12-26 = parte. 49 M. D. ROLAND-GOSSELIN, Le «De Ente et Essentia», Biblioth. Thomiste VIII, 1926, p. 186 n. 3. 50 Cfr.: Metaph., H, 3, 1043 b, 32. Sul senso e sull’importanza di questo testo per il nostro problema, v. più avanti: p. 71 ss.
Note parte prima, sezione prima 1
In Boëth. De Hebd., lect. 2; ed. De Maria, t. III, p. 394. Etymolog., I, I, 21, c. 11; P. L. 82, col. 88. 3 RIGUTINI-FANFANI, Dizionario della lingua italiana, U.T.E.T., Torino, v. III, sotto «Partecipare», p. 705, col. 3 e p. 706 coll. 1-2. La lingua tedesca ha «teilnehmen» e «teilhaben» e similmente il fiammingo; e pare che i due termini non siano al tutto sinonimi come vuole lo SCHELLER, Das Priestertum Christi, p. 54, n. 4 Cfr.: N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Milano, Vallardi, p. 781, col. b. 5 Cfr. STEPHANUS, Thesaurus graecae linguae, Didot, Paris 1824-1846, vol. IV, coll. 1724-1725 koinwne,w e vol. V, coll. 919-920 mete,cw. Il «Dictionnaire de la Société française de Philosophie» (Lalande) fa menzione della voce «participation» solo nel Supplemento ed a proposito della mentalità dei primitivi, secondo la teoria della Scuola di Durkheim. 6 Sorprende un po’ il disinteresse intenzionale mostrato dal P. Geiger sulla individuazione delle Fonti e sul processo intimo di assimilazione fattone da S. Tommaso: còmpito giudicato «relativement facile» e che «la patience y suffirait» (op. cit., p. 19). 7 M. DE WULF, Historie de la Philosophie Médiévale6, t. I, (1934), pp. 70-71. Questo capitolo sulla Biblioteca del Medio Evo è dovuto a Mons. Pelzer della Vaticana (cfr. Préf., p. VIII). 8 Sullo stato attuale delle ricerche platoniche, v. J. Stenzel, Metaphysik des Altertums, in «Handbuch der Philosophie» Abt. I, München und Berlin 1931, p. 103 ss. 9 EISLER R., Wörterb. d. philosophischen Begriffe, ed. IV, Berlin 1927; cfr. t. I, p. 683 s. (Idee). Cfr. SÖHNGEN G., Die neuplatonische Scholastik u. Mystik der Teilhabe bei Plotin, in: «Philosophisches Jahrbuch», 49, 1-2 (1936), p. 100 n. 1.
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Questo motivo perenne del Platonismo è stato ripreso con particolare vigore dalla direzione più speculativa del neokantismo. Cfr. H. Lotze, Logik, Leipzig 1874, Buch 3, Kap. 2; H. Cohen, Platons Lehre und die Mathematik, Marburg 1878; P. Natorp, Platos Ideenlehre, Eine Einführung in den Idealismus, Leipzig 1903; II ed. 1922. 11 Per l’esposizione di questi argomenti cfr. ARISTOTELE, Metaph., A, 6, 987 b, 10 ss.; ib., 9, 990 b, 2-991 b, 9 – quest’importante pericope è quasi verbalmente identica con M, 5, 1078 b, 3 e 1079 b, 12-1080 a, 3. Per le differenze letterarie fra i libri A e M, e per il cambio di persona dalla prima plurale alla terza singolare che fanno supporre ad una evoluzione del pensiero di Aristotele vedi: JAEGER W., Aristoteles, cap. IV, p. 264 e ROSS W. D., Aristotle’s Metaphysics, I, pp. 191-192. L’argomento evk tw/n evpisthmw/n era classico negli ambienti platonici ed il primo Aristotele ne aveva ampiamente trattato nell’opera (perduta) Peri. ivdew/n (cfr.: V. ROSE, Aristotelis quae ferebantur fragmenta, in Aristotelis opera, Berolini 1870; t. V; fr. 182-183 di Alessandro di Afrodisia). 12 Metaph., M, 9, 1806 a, 33. 13 CARLINI, p. 28; Metaph., A, 987 b, 10: «... th.n de. me,qexin tou;noma mete,balen». 14 ROSS W. D., op. cit., I, p. 162. 15 Metaph., A, 9, 990 b, 13. Per la partecipazione dei generi fra loro, cfr.: Soph., 254 B. 16 Osserva perciò giustamente E. Hoffmann: «Hier kann kein “Hervorgehen” des Sinnlichen aus dem Übersinnlichen statthaben, sondern das Sinnliche als solches ist der Raumform und somit dem Wandelbaren, dem bloss leihweise Aufnehmenden, Ammenhaften [Tim., 49 A] übergeben und anvertraut; das Übersinnliche aber ist ewige, dem Raum entrückte Gestalt» (Platonismus und Mystik im Altertum, in Sitzb. d. Heidelb. Akad. d. Wiss., Philos. hist. Kl. 24-26, Heidelberg 1935, p. 13). 17 Cfr.: ROSS W. D., op. cit., I, Introd. XVIII, LI. 18 STEFANINI L., Platone, Padova 1932-1935, I, pp. 239-244; II, 182-184; 275-281; 325-327; 344-361. 19 Vedi p. e. il Ross, op. cit., p. XLVIII ss., e fra noi G. CAPONE BRAGA, Il mondo delle idee, Città di Castello 1932, I, pp. 99-100. Ha negato di recente con energia ogni differenza reale fra le due concezioni: M. F. SCIACCA, La metafisica di Platone, I, Roma 1938 (cfr. pp. 120, 181, 188, 243, 246 n. e passim). 20 La teoria delle Idee-numeri non si trova esplicitamente nei Dialoghi che conosciamo ed Aristotele deve averla conosciuta dall’insegnamento orale dell’Accademia, ove essa doveva godere molto prestigio, se un frequentatore così assiduo e intelligente come Aristotele la presenta poi come la teoria definitiva. LÉON ROBIN nella sua tesi: La théorie platonicienne des idées et des nombres, Paris 1908, accusa di intenzionale deviazione l’esposizione aristotelica (cfr. p. e. pp. 69, 116, 181, 192, 260, 427, 571, ecc.). La questione è stata ripresa con maggior serenità di spirito da M. GENTILE, in una dissertazione che ha lo stesso titolo: La dottrina platonica delle Idee-numeri e Aristotele (Annali della R. Scuola Normale Superiore, Classe Lettere e Filosofia, vol. XXX, fasc. III, Pisa 1930). Mentre il Robin si era limitato alle sole testimonianze aristoteliche, il Gentile usufruendo dei nuovi materiali di più di venti anni di ricerche dopo il lavoro del professore sorbonico, ha intrapreso un esame comparativo dei testi platonici ed ha concluso per la fondatezza dell’esposizione aristotelica (cfr.: op. cit., pp. 40, 57, 68, 82-84, 100, ecc.). 21 «Denn dasselbe Denken, welches das Eidos-Eidolon-Verhältnis als Bruch setzt, setzt es zugleich als Relation als Teilhabe des Niederen am Höheren, und hiermit ist der Weg zur proportionalen Bindung erschlossen: Wer die Kluft zwischen der denknotwendigen Idee der Gleichheit und sinnlichen, nur “scheinbar” gleichen Dingen wahrhaft eingesehen hat, der erkennt zugleich, daß eben jenes scheinbare Gleichsein der Dinge nur durch Bezug auf die Idee wahrer “Gleichheit” ermöglicht ist, d. h. daß es durch Methexis für die Erkenntnis “gerettet” ist. Die Methexis ist also nie von unten her zu begreifen, immer nur von oben, vom reinen Denken her. Daher ist Teilhabe auch nicht vorstellbar, sondern immer nur denkbar, und alle Ausdrücke für das Wesen der Methexis bleiben in der Sphäre sinnbildlicher Symbolik» (E. HOFFMANN, Platonismus und Mystik im Altertum, l. c., p. 19). 22 Una esposizione assai lucida della prodigiosa dialettica del Parmenide l’ha data il ROBIN, Platon, Paris 1935, p. 112 ss. 23 Per la storia di questo celebre arg., riportato da Aristotele (Metaph. 9, 990 b, 17) e che Platone stesso aveva riferito nel Parmenide (132 AB) vedi ROSS, op. cit., pp. 194-196. Il celebre arg. è attribuito da Alessandro di Afrodisia al sofista Polisseno (In Metaph., ed. Hayduck, 84, 16). 24 Intorno alla nozione platonica di mh. o;n, e che possiamo ormai dire Materia, vedi ROBIN, op. cit., p. 231 ss. È chiaro che se la Materia platonica è forse tutt’altra cosa da quella aristotelica, si può ben ammettere che questa ben difficilmente sarebbe sorta senza di quella. 25 STEFANINI L., Platone, I, Introd., p. XIV ss. 26 Vedi un elenco approssimativo di questi Dialoghi e dei trattati; cfr. ROSS W. D., Aristotle, trad. francese 1930, pp. 1819. 27 Acad., II, 39, 119. 28 W. JAEGER, Aristoteles, Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923, c. III (trad. it., Firenze 1936, p. 221 ss.), ove riassume i risultati già presentati nella Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlin 1912. L’ardita ipotesi dello J., che dà una soluzione positiva a molte delle contraddizioni che affaticavano gli aristotelici (cfr. Zimara!) ha raccolto molti consensi fra gli storici del pensiero antico; le riserve avanzate da qualche specialista, sono di dettaglio e non intaccano la conclusione centrale (cfr. MANSION A., in: «Rev. Néosc. de Philosophie», 1927, pp. 307-341. Sulla natura della critica di Aristotele a Platone e al platonismo in genere, v. ora: H. Cherniss, Aristotle’s Criticism of Plato and the Academy, I, Baltimore 1944.| L’Autore, seguendo il metodo del saggio precedente: Aristotle’s Criticism of Presocratic Philosophy, Baltimore 1935, vuol mostrare che la critica aristotelica proviene da una fondamentale incomprensione del pensiero del Maestro.
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«To. de. le,gein paradei,gmata auvta. ei=nai kai. mete,cein auvtw/n ta;lla kenologei/n evsti. kai. metafora.j le,gein poihtika,j» (Metaph., A, 9, 991 a, 20). Cfr. anche: 987 b, 9; 992 a, 28; 1045 b, 1 ss.; 1079 b, 24. Una buona analisi di questi testi c’è nel vecchio ma sempre utile: C. L. W. Heyder, Kritische Darstellung und Vergleichung der Methoden Aristotelischer und Hegel’scher Dialektik, Erster Band, Erste Abteilung (l’unica pubblicata!), Erlangen 1845, p. 148 ss. 30 In II Sent., Dist. I, q. II, Exp. textus; P. VI, 389 b, 400 b; cfr. anche ibid., q. I, a. 3 ad 1um, 388 b. 31 Comm. super l. B. Dionysii De Div. Nom., Prologus, P. XV, 259 b. 32 E più sotto c’è un altro «forsan» non meno caratteristico: «Licet non propter aliud ponerent Platonici species, nisi ut per eas possit haberi scientia de istis sensibilibus, ut per earum participationem essent. Sed forsan magis est sufficiens ad praedictam positionem, quod quod quid est esse rei sit idem cum re quam ipsae species, etiam si verum sit quod sint species, quia species sunt separatae a rebus. Magis autem aliquid cognoscitur et habet esse per id quod est sibi coniunctum et idem quam per id quod est ab eo separatum. Ex hoc autem Philosophus dat intelligere destructiones specierum». Però di lì a poco l’Angelico precisa che questa «destructio» riguarda soltanto le idee «quales Platonici eas esse dicebant» (In VII Metaph., lect. 5, nn. 1368-70). 33 Ecco il testo in questione: VEpeidh. de. pro.j tau,taj ta.j evnsta,seij ta.j th|/ gene,sei tw/n swma,twn th|/ evk tw/n evpipe,dwn legome,nh| prosenecqei,saj tine.j me.n kai. a;lloi tw/n Platonikw/n avnteirh,kasià Pro,kloj de, o` evk Luki,aj ovli,gon pro. evmou/ gegonw/j tou/ Pla/tonwj dia,docoj bi,blion e;graye ta.j evvntau/qa tou/ VAristote,louj evnsta,seij dialu,onà kalw/j e;cein e;doxe, moi sunto,mwj w`j dunato.n tai/j evnsta,sesi ta.j lu,seij evkei,naj u`pota,xai) o[per de. polla,kij ei;wqaà kai. nu/n eivpei/n kairo,jà o[ti ouv pragmatikh, ti,j evsti tw/n filoso,fwn h` diafoni,aà avlla. pro.j to. faino,menon tou/ lo,gou kai. duna,menon kai. ceiro,nwj noei/sqai polla,kij u`pantw/n o` VAristote,lhj feidoi/ tw/n evpipolai,wj avkouo,ntwn tou/ Pla,twnoj avntile,gein dokei/ pro.j auvto,nà o[per kai. evntau/qaà oi=maià safe,j evsti sunidei/nà evn oi-j ta. tw/| Puqagorikw/| Timai,w| dokou/nta ge,grafen o` Pla,twn (SIMPLICIUS, In De Coelo, ed. Heiberg, Berlin 1894, lib. III, 7, 640, 21 ss.). Cfr. anche: In III De Anima, 430 a 23; ed. Hayduck, Berolini 1882, p. 247, 14 ss. Ad esso oppone S. TOMMASO il criterio di Alessandro Afrod.: «Alexander tamen voluit quod Plato et alii antiqui philosophi hoc intellexerunt quod verba eorum exterius sonant; et sic Aristoteles non solum contra verba, sed contra intellectum eorum conatus est argumentari». Il Santo non vuol decidere la controversia sotto l’aspetto esegetico, e dichiara fermo: «Quicquid autem horum sit, non est nobis multum curandum; quia studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum» (Comm. in De Coelo et Mundo, lib. I, lect. 22ª, P. XIX, 58 b). Nella lez. seg. (23ª, p. 60 b) propone un’interpretazione plausibile della cosmogonia platonica e lo scusa dalla critica di Aristotele; similmente nella lez. 29ª (p. 73 a, e p. 74 b), si appella ai «quidam» che scagionano Platone dalla critica del Filosofo. Nella lez. 1ª del lib. II (p. 79 b), toccando la concezione platonica dell’Anima mundi, quale si ha nel De Angelorum natura (a. 1272-1273) che è contemporaneo al Commento sopra il De Coelo si affretta a scusare Platone: «Non autem reprehendit hic Aristoteles Platonem, quod posuit coelum animatum, quia et inferius hoc ipse ponit, sed de hoc quod videtur ponere, quod moveat coelum in sempiternum contra suam naturam. Sed FORTE Plato non intellexit motum hunc esse contra naturam caeli; sed voluit exprimere quod natura, secundum quod convenit ei talis motus, est ei ab alio». E prima: «Videtur autem Aristoteles, secundum ea quae hic dicit, contrarius esse Platoni..., sed secundum veritatem eadem est circa haec utriusque philosophi opinio» (op. cit., lect. 4, 11ª). Nella lez. 6ª l’Angelico prende le difese di Platone contro la critica di Aristotele: «Sed haec necessitatem non habent. Quod enim Plato posuit coelum genitum, non intellexit ex hoc quod est generationi subiectum, quod Aristoteles hic negare intendit; sed quod necesse est ipsum habere esse ab aliqua superiori causa, utpote multitudinem et distinctionem| in suis partibus habens, per quod signatur esse eius a primo uno causari» (Ibid., 15 b; cfr. anche: lib. II, lect. 10, 101 a; lect. 12, 108 ab con ricorso espresso all’esegesi di Simplicio). Ancor più risoluta è la difesa di Platone più sotto alla lez. 21ª con una lunga disquisizione filologica sul significato di «illomenon» criticato da Aristotele: «Videtur autem a Platone sumptum istud vocabulum secundum quod significat alligationem; ut patet per ea quae ipse dicit de terra in libro Phedonis ubi asserit [eam] in medio quiescentem et quasi ligatam: et sic videtur contra intentionem Platonis Aristoteles verba eius adsumpsisse». Riportata poi l’esegesi benigna di Alessandro, espone quella più franca di Simplicio così che Platone ne esce con tutti gli onori (Ibid., 130 ab). Cfr. anche: In lib. III, lect. 6, 157 b-158 a. Alla lezione 11 si ripete che la critica di Aristotele va «contra apparentiam verborum Platonis, non forte contra intentionem eius» (175 a). Quest’atteggiamento benevolo e concordista verso il Filosofo delle Idee ha un suo significato: non si tratta di frasi sporadiche ma di un orientamento esegetico e dottrinale ben netto che intende valorizzare tutto il contributo positivo del pensiero classico. I grandi Commentari di Alessandro, di Simplicio, del Filopono, le opere di Proclo (citato proprio alla fine della lect. 11 ora ricordata) gliene offrono il panorama conclusivo ed uno spirito così magnanimo come quello dell’Aquinate non poteva non sentirne gli stimoli potenti. Ancora non c’è uno studio esauriente sull’entità e sul significato di quest’esegesi sincretista dei due massimi filosofi greci. Stando a un accenno di Fozio, sarebbe stato il fondatore stesso del Neoplatonismo, Ammonio Sacca, il vero iniziatore (cfr. Photii Bibliotheca, § {Oti su,mfonoi evvn toi/j do,gmasi Pla,twn kai. VAristoth,lhj; ed. Rotomagi 1652, coll. 1381-82). Dal Nifo poi sappiamo che sullo stesso concetto di «materia», «non igitur Plato aliud sensit ab Aristotele, ut recte Iamblicus affirmat et Simplicius docet» (Augustini Niphi Suessani, Metaphysicarum quaestionum dilucidarium, lib. VII, q. 6; ed. veneta 1559, 185 b. V. dello stesso Nifo il Comm. al De Anima, lib. I, tc. 26; ed. veneta 1559, coll. 125 s.). 34 Cfr. nota precedente II parte. 35 Un’eco risoluta dell’esegesi concordista appare fin nella parte ultima della Summa Theologica: «Dicendum quod per se homo non invenitur in rerum natura ita quod sit praeter singularia, ut Platonici posuerunt. Quamvis quidam dicant quod Plato non intellexit hominem separatum esse nisi in intellectu divino» (IIIa, q. 4, a. 4 ad 2um. È strano che nella recente ed. canadese, Ottawa 1944, al «quidam» si rimandi ad Arist., Metaph., a, 2, 997 b, 8).
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Ed. De Maria, t. III, pp. 219-220. Ora ed. critica di J. Perrier, t. I, Opuscula philosophica, Paris 1949, p. 133 ss.: in questa edizione i cc. 3 e 4 dell’ed. De Maria formano un solo capitolo (3). Per una valutazione strettamente teologica dei due filosofi, cfr. la Lectura in Ioannem, c. 1, lect. 1: «Per hoc excluduntur errores philosophorum [...].| Plato autem posuit rationes omnium rerum factarum subsistentes separatas a propriis naturis per quarum participationem res materiales essent: puta per rationem hominis separatam, quam dicebat per se hominem, haberent quod sint homines. Sic ergo ne hanc rationem, per quam omnia facta sunt, intelligas rationes separatas a Deo, ut Plato ponebat, addit Evangelista: Et Verbum erat apud Deum. – Alii autem Platonici, ut Chrysostomus refert, ponebant Deum Patrem eminentissimum et primum, sub quo ponebant mentem quamdam in qua dicebant esse similitudines et ideas omnium rerum. Ne ergo sic intelligas, quod Verbum erat apud Patrem quasi sub eo et minor eo addit Evangelista: Et Verbum erat Deus. – Aristoteles vero posuit in Deo rationes omnium rerum et quod idem est in Deo intellectus et intelligens et intellectum; tamen posuit mundum coaeternum sibi fuisse. Et contra hoc est quod Evangelista dicit: Hoc, scilicet Verbum solum, erat in principio apud Deum: ita quod ly hoc non exclusit aliam personam, sed aliam naturam coaeternam» (P. X, p. 289 b - 290 a). 37 GILSON É., Pourquoi S. Thomas a critiqué Saint Augustin, in: «Archives d’hist. doctr. et litt. du Moyen-Age», I (1926), p. 130. Devo dire, però, che altrove il G. ha parlato con maggior cautela della nozione tomista di partecipazione come in: La philosophie du Moyen-Age, Paris, 1930, pp. 182-183; L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 1932, I, pp. 99-110; Le Thomisme3, Paris 1927, p. 89. 38 De Subst. Sep., c. V; ed. cit. p. 222; ed. Perrier, I, p. 136. 39 Ibid. c. VI, p. 224, ed. Perrier, p. 139. Nella Q. De Spiritualibus Creaturis, art. 3, il Santo ammette che Avicebron ha adottato la dialettica platonica, sviluppandola però in modo opposto: «Quidam vero secundum eamdem viam ingredientes [scil. Platonis] ex opposito posuerunt quod quanto aliqua forma est universalior, tanto est magis materialis. Et haec est positio Avicebron in libro Fontis Vitae». 40 Metaph., a, 1, 993 b, 24: «{Ekaston de. ma,lista auvto. tw/n a;llwn kaqV o] kai. toi/j a;lloij u`pa,rcei to. sunw,numon ¿oion to. pu/r qermo,taton\ kai. ga.r toi/j a;lloij to. ai;tion tou/to th/j qermo,thtoj%\ w[ste kai. avlhqe,staton to. toi/j u`ste,roij ai;tion tou/ avlhqe,sin ei=naiÅ dio. ta.j tw/n avei. o;ntwn avrca.j avnagkai/on avei. ei=nai avlhqhsta,taj ¿ouv ga,r pote avlhqei/jà ouvdV evkei,naij ai;tio,n ti, evsti tou/ ei=naià avllV evkei/nai toi/j a;lloij%à w`sqV e[kaston w`j e;cei tou/ ei=naià ou[tw kai. th/j avlhqei,aj» (W. D. ROSS). 41 Cfr.: In I Sent., Prol. S. Thomae; ibid., Dist. 8, q. V, a. 1; ibid., Dist. 19, q. V, a. 1; ibid., Dist. 24, q. I, Iª. 1; ibid., Dist. 35, q. I, a. 4; De Ente et Essentia, c. 6; In II Sent., Dist. 37, q. II, a. 2; In III Sent., Dist. 11, q. I, a. 1; ibid., Dist. 29, q. I, a. 3 (Praet.). De Veritate, q. I, a. 1 ad 5um; ibid., q. II, a. 14; ibid., q. V, a. 9 (Praet.); De Malo, q. III, a. 1. De Potentia, q. III, a. 5 (ratio Aristotelis, per creazione); ibid., q. VI, a. 1. Comm. in VIII Physic., lect. 2a; Comm. in II Metaph., lect. 2a. Summa Contra Gentiles, I, 1, 13; ibid., 62; II, 6; ibid., 15, ibid. 16; III, 17 Item. Summa Theologica, Ia, q. 2, a. 3 (IVª via); q. 6, a. 4; q. 44, a. 1; 49, a. 3. – Ia-IIae, q. 3, a. 7; q. 7; q. 22, a. 2 ad 1um; q. 90, a. 2. – IIIa, q. 66, a. 1; q. 7, a. 9. Comm. in l. De Causis, lect. 1a; lect. 3a; lect. 9a; lect. 18a. Compendium Theologiae, c. 68; De Substantiis Separatis, c. 3; c. 9. Comm. in l. De Sensu et Sensato, lect. X, n. 137. 42 «Für diesen Ausgangspunkt des thomistischen Argument kommt weniger Plato als die Stoa inbetracht, in der man nach Sextus Emp., Adversus Mathem. IX, 88-91 auf Grund der Voraus-setzung: “eiv fu,sij fu,sew,j evsti krei,ttwn ei;h a;n tij avri,sth| fu,sij” zu einer Gottesbeweis zu gelangen suchte» (BAEUMKER CL., Witelo, ein Philosoph und Naturforscher des XIII Jahrhunderts, Beitr. z. G. d. Ph. u. Th. M. A., Münster i. W., 1908, III, 2, p. 292 n. 3). 43 Comm. in l. De Causis, lect. 3a, S. 22, 13. Il testo greco ha: «Pa/n to. tw|/ ei=nai corhgou/n a;lloijà auvto. prw,twj evsti. tou/toà ou- metadi,dwsi toi/j corhgoume,noij». (PROCLI PLATONICI, Elementatio Theologica, Prop. 18, ed. Creuzer, pp. 3032; ed. E. R. Dodds, Oxford 1933, p. 20, 3). 44 Ed i Neoplatonici alle volte si servono del primo Aristotele, non di Platone, per combattere le teorie dell’ultimo Aristotele. Così Plotino critica la nozione aristotelica dell’anima (De Anima B, 1) come forma del corpo, con gli argomenti dell’Eudemo aristotelico (PLOTIN., Enn., IV, 7, 8 [133, 19-134, 18], ed. Volkmann; cfr. JAEGER W., Aristoteles, p. 57, n. 2, ed. ital.). 45 SIMPLICIO, De Coelo et Mundo, ed. Heiberg, Berolini 1892, p. 289, 2 ss. È evidente l’analogia che questo testo ha con il Simposio platonico (211 C). 46 Il testo esattamente dice: «Finalmente sia pure che tutte le cose stiano così ed anche non così, ma in natura c’è il più e il meno in ogni cosa. Noi non diremmo che il tre è pari nella stessa misura del due, e credere che il quattro valga il cinque non è un errore uguale di chi crede che valga mille. Ora se l’errore non è uguale, manifestamente uno dei due erra di meno e però è nel vero più dell’altro. Ma se è più nel vero e al vero è più vicino, ci sarà quindi una verità a cui è più vicino chi è più nel vero» (Metaph., G, 4, 1008 b, 31-33). 47 Su questo ved. ROLFES E., Die Gottesbeweise bei Thomas von Aquin und Aristoteles2, Limburg 1927, p. 116. 48 ;Ontoj ga,r tinoj qei,ou kai. avgaqou/ kai. evfetou/ (Physic., A, 8, 192 a 16). 49 In I Physic., lect. 15, P. XVIII, p. 258 b. 50 Metaph., L, 9, 1074 b, 34. 51 Cfr. In I Sent., Dist. 36, q. II, a. 1 e ad 2um; De Veritate, q. III, a. 1; Comm. sup. l. De Divinis Nominibus, c. V, lect. 3a; C. Gentiles, I, 51, e soprattutto la vivace difesa in De Substantiis separatis, c. 13. Su di ciò vedi anche GENTILE M., op. cit., p. 124 ss. 52 Il capo 7 del libro L ha due allusioni chiare al peri. Filosofi,aj, di cui evidentemente ripete tanto la gerarchia degli intelligibili fino all’intelligibile supremo, come anche il procedimento dialettico dell’ ovrekto,n (DE CORTE M., Aristote et Plotin, Paris 1925, p. 158 n., pp. 168-169).
53
In II Sent., Dist. 1, Exp. t. II, P. VI, p. 401 a. Cfr. C. Gentiles, I, 27 Adhuc; De Potentia, q. VI, art. 6 che è parallelo a De Substantiis Separatis, cc. 3-4. 54 La ed. Parm. ha «XIV», per errore evidente, dato che i libri XIII-XIV non erano al tempo di S. Tommaso ancor tradotti. 55 In lib. De Causis, lect. X, S. 67, 25. 56 Preciserò in quale senso, trattando della partecipazione predicamentale. 57 Nel De Potentia, q. III, a. 5 è abbastanza netta questa differenza fra la «ratio Platonis» e la «ratio Aristotelis», onde si può arguire che il fondamento letterale della IVª via tomista è d’ispirazione piuttosto aristotelica che platonica. 58 «Pour remplir son voeu d’une connaissance saisissant le réel, Aristote devra substituer au réalisme de la substance empirique et au réalisme de l’être en tant qu’être, la réalité d’une hiérarchie d’essences suspendues à l’Acte pur, Pensée de la pensée. C’est un retour à l’idéalisme, à l’ontologie finaliste de Platon; mais cette conception, qui finalement s’impose à Aristote, il ne dispose pas des moyens intellectuels capables de la fonder» (J. Moreau, Aristote et la théorie de l’être, nel vol.: Les valeurs, Louvain, Paris 1947, p. 224). 59 Fanero.n de. kai. dio,tià ei;per eivsi, pwj avriqmoi. ai` ouvsi,aià ou[twj eivsi. kai. ouvc w[j tinej le,gousi mona,dwn\ o[ te ga.r o`rismo.j avriqmo.j tij\ diaireto,j te ga.r kai. eivj| avdiai,reta $ouv ga.r a;peiroj oiv lo,goi%à kai. o` avriqmo.j de. toiou/ton) kai. w[sper ouvdV avpV avriqmou/ avfaireqe,ntoj tino.j h' prosteqe,ntoj evx w-n o` avriqmo,j evstinà ouvke,ti o`` auvto.j avriqmo,j evstin avllV e[terojà ka'n touvla,ciston avfaireqh|/ h' prosteqh|/à ou[twj ouvde. o`` o`rismo.j ouvde. to. ti, h=n ei=nai ouvke,ti e;stai avf ai-reqe,ntoj tino.j h' prosteqe,ntoj [...]) kai. w[sper ouvde. o` avriqmo.j e;cei to. ma/llon kai. h-ttonà ouvdV h` kata. to. ei=doj ouvsi,a avllV ei;perà h` meta. th/j u[lhj: Metaph., H, 3, 1043 b, 32-1044 a, 11. 60 Cfr. In I Sent., Dist. 9, q. I, a. 5; De mixtione elementorum (ed. De Maria, I, p. 291); De Potentia, q. VII, a. 7 ad 3um; ibid., q. X, a. 5; Comm. in IV Physic., lect. 7a; ib. in VI, lect. 7; Comm. in X Ethic., lect. 3; C. Gentiles, III, 97; S. Theol., Ia, q. 93, a. 3 ad 3um; Comm. in I De Gener. et Corr., lect. 8; Comm. in l. De Causis, lect. 4a; De Spiritualibus creaturis, a. 8 ad 8um, ad 9um; contro l’ilemorfismo universale di Avicebron. Quodl. I, 6; In De Sensu et Sensato, lect. 10, n. 137, testo importante e completo dal punto di vista dottrinale: «Calor per se inest igni non sicut forma substantialis, quae non percipitur sensu, sed sicut proprium accidens eius; et quia actio naturalis est sicut alicuius alterantis, ideo ignis agit secundum suum calorem, cuius est aliquid contrarium; non autem secundum suam formam substantialem quae caret contrarietate; nisi contrarietas large accipiatur secundum differentiam perfecti et imperfecti in eodem genere: per quem modum etiam in numeris contrarietas invenitur, secundum quod minor numerus est ut imperfectum et pars respectu maioris. Formae autem substantiales rerum sunt sicut numeri, ut dicitur octavo Metaphysicorum. Et per hunc modum est etiam inter differentias cuiuslibet generis contrarietas, ut in decimo Metaphysicorum: sic enim animatum et inanimatum, sensibile et insensibile sunt contraria». 61 Anche quest’indicazione è dovuta allo JAEGER (op. cit., c. III, par. 2; ed. it., p. 453 n.) Nell’Etica Eudemea, che lo J. ha avuto il merito di rivendicare al Filosofo, Aristotele pone (B, 1, 1219 b, 28) senza alcuna preoccupazione la vecchia partizione schematica dell’anima in du,o me,rh yuch/j ta. lo,gou mete,conta, a fondamento della teoria dell’avreth,, allo stesso modo che nel Protreptico, che il Filosofo mostra qui di seguire alla lettera. La teoria è ripetuta nella redazione posteriore, cioè nell’Etica Nicomachea (A, 13, 1102 a, 23 ss.) ove si ha un breve accenno alle difficoltà implicite nel concetto (platonico) di me,rh yuch/j. Per la partecipazione degli animali alla ragione vedi la fine dei Post. Anal. (99 b, 34-100 b, 17) e l’Introduzione alla Metafisica (980 a, 29 ss.): anche queste due pericopi vanno ascritte, secondo i critici, all’Aristotele platonico (SOLMSEN FRIEDRICH, Die Entwicklung der aristotelischen Logik und Rhetorik, Berlin, 1929, pp. 84-85). 62 In I Sent., Dist. 36, q. II, a. 1 ad 1; P. VI, 292 b; ed. Mandonnet, I, p. 840. 63 «Ceterum, scrivevano quei maestri, sperantes quod obtemperetis nobis cum affectu in hac petitione devota, humiliter supplicamus ut cum quaedam scripta ad phylosophiam spectantia Parisius inchoata ab eo (= S. Th.), quae in suo recessu reliquerat imperfecta, et ipsum credamus, ubi translatus fuerat complevisse, nobis benevolentia vestra cito communicari procuret, et specialiter super librum Simplicii, Super librum De Coelo et Mundo, et Expositionem Tymaei Platonis, ac librum De Aquarum conductibus et Ingeniis erigendis de quibus nobis mittendis, speciali promissione, fecerat mentionem» (Chartularium Univ. Paris., ed. DENIFLE-CHATELAIN, I, Parisiis 1889, n. 447, pp. 504-505). La lettera ha avuto un’ed. critica in A. BIRKENMAYER, Vermischte Untersuchungen z. Gesch. d. Mittelalt., Beitr. XX, 5, Münster i. W. 1922, pp. 2-5; il testo citato è a p. 4. Anche in M. H. Laurent, Fontes vitae S. Thomae Aquinatis, fasc. VI: Documenta, Revue Thomiste, Saint Maximin (Var) 1937; n. XXXI, p. 583 ss.
Note parte prima, sezione seconda 1
Abbiamo già notato l’atteggiamento di SIMPLICIO, e l’influsso ch’esso ebbe nella più matura elaborazione del pensiero tomista. Il falsario che, verso il secolo VI scriveva sotto il nome del Filosofo, un’opera intitolata Theologia Aristotelis mirò a qualcosa di più che ad un semplice concordismo: nella prefazione a quest’opera si vede lo stesso Aristotele dichiarare che egli dà qui il coronamento della sua opera; la sua metafisica aveva per iscopo di studiare le quattro cause dell’essere: queste cause si riconducono la finale a Dio, la formale all’Intelligenza, la motrice all’Anima, la materiale alla Natura. Non si tratta quindi che di un’esposizione della teoria platonica delle tre ipostasi, completata con la teoria sulla Natura, e l’autore non ha fatto nella compilazione dei 10 libri che architettare fra di loro ampi frammenti delle Enneadi IV, V e VI di Plotino (cfr. BRÉHIER E., La Philosophie du Moyen Âge, Paris 1937, p. 84 s.). 2 UEBERWEG-PRÄCHTER, Grundriss der Geschichte der Philosophie des Altertums, Berlin, 12, 1924, p. 602. 3 Id., op. cit., p. 554.
4
Id., op. cit., p. 584. «Die Amalgamierung des Christentums mit Aristoteles was nicht möglich gewesen, wenn nicht der Neuplatonismus die Lücken und dunkeln Stellen des aristotelischen Systems ausgefüllt und ergänzt hätte» (SAUTER C., Bedeutung der Neuplatonismus für d. antike und mittelalterliche Philosophie, Philosophisches Jahrbuch, 23 [1900] p. 481). 6 UEBERWEG-GEYER, Die patristische und scholastische Philosophie11, Berlin 1928, p. 99. 7 Lib. VII, c. 5 ss. P. L., 41, col. 229 ss. 8 S. Tommaso la cita in modo esplicito: S. Theol., Ia, q. 15, a. 1 Sed Contra; ib., a. 2 Sed contra; ibid., a. 3 Sed contra; q. 84, a. 5. Tutto l’art. non è che una presa di posizione di fronte alla dottrina della q. 46. 9 D. AUGUSTINI HIPP., 83 Quaestiones, q. 46 De Ideis, P. L., t. 40, col. 29 n. 1. Per una esposizione d’insieme, un po’ troppo letterale, della celebre «quaestio», v. ora: H. MEYERHOFF, On the Platonism of St. Augustine’s Quaestio de ideis, in «The New Scholasticism», XVI (1942), pp. 16-45. 10 L’esemplarismo divino è sviluppato da S. Tommaso a più riprese e in diretta dipendenza da S. Agostino; cfr.: In I Sent., Dist. 36, q. II; De Veritate, q. III De Ideis, art. 1 e ad 5; ibid., art. 3; C. Gentiles, I, c. 54; S. Theol., Ia, q. 15 De Ideis. Secondo M. GRABMANN «die thomistische Ideenlehre ist ein scharfsinniges Produkt der Synthese zwischen Augustinus und Aristoteles» (M. GRABMANN, Des heiligen Augustinus quaestio de Ideis [De diversis quaestionibus LXXXIII, q. XLVI] in ihrer inhaltlichen Bedeutung und mittelalterlichen Weiterwirkung, in: «Philosophisches Jahrbuch», 43 [1930]; riprodotto in Mittelalterliches Geistesleben, Bd. II, München 1936, p. 32). L’esemplarismo agostiniano veniva ad incontrarsi in S. Tommaso con la teoria del pensiero divino puro, svolta nel libro L della metafisica aristotelica, e con la teoria dionisiana delle «divinae praedefinitiones». 11 GILSON É., Introduction à l’étude de Saint Augustin, Paris 1929, p. 115 n. 12 SIMONIN H. D., in Angelicum VIII (1931), p. 265, recens. all’art. di CH. BOYER, La philosophie Augustinienne ignoret-elle l’abstraction?, in: «Nouv. Rev. Théologique», Dec. 1930. In termini che s’avvicinano nella sostanza a quelli del P. Simonin aveva precisato il divario tra S. Agostino e S. Tommaso anche il P. A. GARDEIL, Saint Thomas et l’illuminisme augustinien, nota inserita in La structure de l’âme et l’expérience mystique, ed. III (1927), t. II, cfr. p. 314. Intorno all’opposizione fra le due metafisiche agostiniana e tomista difesa dal P. Gardeil, si dirà qualcosa nella conclusione generale. Al tutto simile all’interpretazione dei tomisti citati, era stata quella del benedettino P. BERNARD KÄLIN, nel limpido saggio: Die Erkenntnislehre des hl. Augustinus, Sarnen 1921, che a p. 42 si propone di difendere la tesi del van Endert «essere la teoria dell’astrazione degli intelligibili dai sensibili estranea a S. Agostino». Il Kälin ribadì la sua posizione nel saggio recente: St. Augustin und die Erkenntnis der Existenz Gottes, in: «Divus Thomas Frib.», 14, 3-4 (1936), cfr. p. 340. Per un’esposizione accurata delle varie interpretazioni della gnoseologia agostiniana, cfr. l’accurata esposizione di M. F. SCIACCA, Agostino, Morcelliana, Brescia 1949, I, p. 249 ss. 13 Comm. super l. De Divinis Nominibus, c. II, lect. IV, P. XV, 284 ab. 14 Per un’informazione complessiva della controversia cfr. «Bulletin Thomiste», III, ai nn. 827, 879, 967; IV, nn. 291300; ben informato è anche G. CAPONE BRAGA, Il mondo delle Idee, Città di Castello 1928, II, pp. 116-119 nota; vago invece è lo STEFANINI, L’Imaginismo come problema filosofico, Padova 1936, secondo il quale l’Angelico corregge S. Agostino con S. Agostino (p. 214 n. 2). 15 CAYRÈ F., La contemplation Augustinienne, Paris 1927, p. 194. 16 Si deve tener presente che S. Tommaso fu scolaro assiduo alla scuola di S. Agostino e si nutrì con abbondanza delle sue profonde intuizioni, come lo stanno a testimoniare le 1700 citazioni, circa, di S. Agostino che il barone v. Hertling riscontrò nelle opere dell’Aquinate (G. v. HERTLING, Augustinuszitate bei Thomas v. Aquin, in «Sitzungsberichte der philos.-philol. und histor. Klasse der K. B. Akad. der Wissenschaften», 1914, 4, pp. 535-602). Vedi anche il saggio recente di M. SCHNEIDER, Die quaestiones disputatae De Veritate des Thomas von Aquin in ihrer philosophiegeschichtlicher Beziehung zu Augustin, Beitr. z. Gesch. d. Phil. u. Theol. d. Mittelalters, XXVII (1931). 17 «On le lit, on le traduit, on le commente, on l’incorpore dans les Sommes. Les théologiens l’ont sans cesse présent à l’esprit pour résoudre les grands questions des attributs divins, de l’angélologie, du problème du mal. Dans ces questions Denis règne en maître» (THÉRY G., Études Dionysiennes, I, Hilduin traducteur de Denis, Paris 1932 [Études de Philosophie médiévale XVI], Préface, p. 7). Non meno enfatico è il BARDENHEWER, che considera gli «Areopagitica» come l’«auctoritas» che, dopo la Bibbia, ha avuto maggior influsso nella formazione del pensiero medievale: «Durch sie (= le traduzioni di Hilduino, Scoto) erlangten die Areopagitica einem weitgehenden Einfluss auf die gesamte Theologie. Nach der Bibel ward kein Buch so hoch geschätzt wie diese vom Glorienschein des apostolischen Zeitalters umflossenen Schriften» (BARDENHEWER O., Geschichte der altkirchlichen Literatur, IV, Freiburg i. Br. 1924, p. 298). 18 Sta invece per una data più tarda: A. FEDER, Des Aquinaten Kommentar zu Ps. Dionysios: De Divinis Nominibus, in «Scholastik» I (1926), p. 322 ss. 19 Dell’ediz. MIGNE, tomo 3, il «De Divinis Nominibus», a cui in speciale mi riferisco, si trova in t. 3, col. 585 sq. Per la storia degli «Areopagitica» in Occidente, v. G. THÉRY, L’entrée du Pseudo-Denis en Occident, Mélanges Mandonnet, II (Paris, Vrin, 1930), p. 23 ss. 20 La dipendenza diretta dello Ps.-D. dalle Enneadi di Plotino e da Proclo è stata mostrata da H. FR. MÜLLER, Dionysios, Proklos, Plotinos, Beitr. z. Gesch. d. Phil. u. Theol. d. Mittelalters, Bd. XX, 3-4, Münster i. W. 1918. Sono esaminate in particolare le dottrine circa la conoscenza di Dio, la Provvidenza, il problema del male, il bello, l’unione mistica, e si deve riconoscere che in questo cristiano il Neoplatonismo ha avuto il suo reale trionfo. «Das wussten und wissen wir alle, conchiude il Müller, aber wenige wussten damals und wissen heute, dass Dionysios mit plotinischem Gut 5
wirtschaftet und die in den Enneaden geschürften Goldkörner in gangbare Münzen ausprägt», (p. 110). In questa parte è lo Ps.-D., più che altri, l’intermediario fra il pensiero cristiano e la teologia Neoplatonica. Invece J. Stiglmayr (Aszese und Mystik des sogenannten Dionysius Ar., in «Scholastik» II [1927], pp. 161-207) è riluttante a chiamarlo «Padre della mistica cristiana» (161) e, pur scusandolo dal panteismo, gli pare che la sua dottrina prescinda dalla grazia (171 n.) e la mistica resti separata dal mondo e dalle opere della charitas, sconfinando anche nei particolari dalla teologia cattolica (215 s.). A queste critiche, troppo facili e soprattutto fondate su criteri troppo empirici per l’analisi dei monumenti più insigni della nostra tradizione spirituale, ha fortemente risposto E. von Ivanka, come si dirà più avanti. 21 Paradei,gmata de, famen ei=nai tou.j evn Qew/| tw/n o;ntwn ouvsiopoiou.j kai. e`niai,wj prou?festw/taj lo,goujà ou]j h` qeologi,a proorismou.j kalei/à kai. qei/a kai. avgaqa. qelh,mataà tw/n o;ntwn avforistika. kai. poihtika.à kaqV ou]j o` u`perou,sioj ta. o;nta pa,nta kai. prow,rise kai. parh,gagen. De Div. Nom., c. V, § 8, col. 824. 22 V.: LOSSKY V., Notion des « Analogies » chez le Pseudo-Aréopagite, in: «Archives doctr. et litt. du Moyen-Age», V (1930), p. 282. 23 H. WORONIECKI, nell’art.: Les éléments dionysiens dans le thomisme (Coll. théol. [Lwov], XVII [1936], pp. 25-40), ha voluto sostenere che gli elementi dionisiani entrati nel tomismo sono pochi e di scarsa importanza: speriamo che una simile «ignoratio elenchi» non si ripeta ancora. 24 «Omnes effectus secundi ex eius praedefinitione proveniunt» (De Veritate, q. III, a. 7). Già nel Commento alle Sentenze l’Angelico scriveva: «Dionysius fere ubique sequitur Aristotelem, ut patet diligenter inspicienti libros eius» (In II Sent., Dist. 14, q. 1, a. 2; ed. Mandonnet, Paris 1929; II, p. 350), mentre Basilio e Agostino avrebbero piuttosto seguito Platone. Credo che S. Tommaso abbia badato in quest’apprezzamento soprattutto al carattere nettamente intellettualistico della Dottrina dionisiana, nella quale tuttavia il primato è sempre all’amore, come si dirà più avanti. Questa dottrina, assieme a quella che si trova nell’op. De Causis, hanno ispirato direttamente la nozione tomista della causalità divina, e andranno sviluppate quando si tratterà ex professo dell’aspetto «dinamico» della partecipazione. 25 R. ARNOU, art. Le Platonisme des Pères, Dictionn. de Théol. Cath., XII, 2, (1935), coll. 2341-42. 26 Comm. in De Div. Nom., c. V, lect. 1a, P. XV, 347 b - 348 a; e cfr.: c. II, lect. 4a, 285 b; c. XI, lect. 4a, 394 b - 395 a e Comm. in l. De Causis, lect. 2a, XXI, 722. 27 Auvto.j evsti, to. ei=nai toi/j ou=si\ kai. ouv ta. o;nta mo,nonà avlla. kai. auvto. to. ei=nai tw/n o;ntwnà evk tou/ proaiwni,wj o;ntoj. (De Div. Nom., c. V, § 4, col. 817 D). 28 Forse riferendosi ad Amaury de Bêne ed ai suoi seguaci del suo panteismo formale, o forse a qualche suo contemporaneo, sostenitore ancora di quelle idee? Cfr.: G. C. CAPELLE, Autour de décret de 1210: III, Amaury de Bène. Étude sur son Panthèisme formel (Paris, Vrin, 1932). Clarembaldo di Arras è del tutto esplicito in questa terminologia, richiamandosi al nome che Dio si dà nell’Esodo: «Cum ergo dicitur “Deus est”, nemo intelligat Deum participare essentiae, sed ipsum esse essentiam ex quo scilicet esse habent omnia. Sicut enim calor forma calendi est, albedo quoque forma albendi est: sic Deus forma essendi est, et sicut albedo est in albo, sic forma essendi est in omni quod est. Si Deus forma essendi est, Deus igitur ubique est totus, et in omnibus essentialiter est» (Dr. W. JANSEN, Der Kommentar des Clarembaldus von Arras zu Boethius De Trinitate. Ein Werk aus der Schule von Chartres in 12. Jahrhundert. Breslauer Studien zur historischen Theologie; Bd. VIII, Breslau 1926, p. 10*). 29 L’esegesi di S. Tommaso è quindi di tipo speculativo: egli penetra la dottrina dei principî di un autore, andando magari al di là del pensiero della sua fonte. Si veda invece il diverso tipo di esegesi p. es. del Bessarione il quale di fronte ad un testo dionisiano che fa difficoltà in materia trinitaria, risponde allegando S. Atanasio e S. Basilio per concludere che Dionigi non poteva essere in contrasto con loro: ouv ga.r qe,mij evnnoei/n avntile,gein avllh,loij tou/j didaska,louj (cfr. Bessarionis, De Processione Spiritus Sancti, P. G., t. 161, coll. 395 e 401). 30 Nella Q. de Veritate, q. XXI, a. 2 ad 2um all’ens è attribuita, al più, la sola causalità esemplare, e ciò è squisitamente dionisiano: «Bonum non se extendit ad non entia per praedicationem sed per causalitatem, in quantum non entia appetunt bonum; ut dicamus non entia ea quae sunt in potentia et non in actu. Sed esse non habet causalitatem, nisi forte secundum rationem causae exemplaris; quae quidem causa non se extendit, nisi ad ea quae actu esse participant». 31 Dionigi chiama Dio «tavgaqo,n» (Div. Nom., c. 4 passim), «avgaqo,thtoj u]parxij» (Div. Nom., c. 1, § 5, col. 586); per questo Dio è lodato come principio di tutto «fe,re tavgaqo.n w`j o;ntwj o'n kai. tw/n o;ntwn a`pa,ntwn ouvsiopoio.n avnumnh,swmen» (Div. Nom., c. V, § 4, col. 817). Il lunghissimo capo 4 del De Divinis Nominibus sviscera sotto ogni aspetto l’intensità metafisica di questa determinazione della Divinità; in esso si trova esposta la teoria dell’amore, dell’estasi, della contemplazione e degli altri effetti dell’amore, sui quali nessuno parlò mai con accenti così penetranti come quest’ignoto contemplante. S. Tommaso attinse a larghi sorsi a queste ardenti e ispirate teorie e ne fece ampio uso soprattutto in Teologia, mettendo l’amore a fondamento del costituirsi e dell’attuarsi della vita spirituale. Chi non volesse sobbarcarsi alla fatica della lettura diretta e personale dell’opera dell’Angelico, legga almeno l’articolo del P. SIMONIN H. D., La primauté de l’Amour chez Saint Thomas, in: Supplément à la «Vie Spirituelle» 1 déc. 1937, pp. 129-143; e si persuaderà ancora una volta della ricchezza e della complessità dottrinale del Tomismo. Anche l’aspetto puramente speculativo della teoria dionisiana| non è rimasto inoperante, e l’Angelico non è contrario ad accettare, sul piano del pensiero reale-attuale, il principio del primato del bene. Nella Q. de Malo (I, 2), che è dell’anno 1269, la concezione Platonica sembra godere di tutto il favore di S. Tommaso: «... Loquendo ergo de bono absolute, bonum habet amplissimam extensionem, etiam ampliorem quam ens, ut Platonicis placuit (e spiega con l’eminenza della causa finale)... Omne autem quod est in potentia ad bonum, ex hoc ipso quod est in potentia ad bonum, habet ordinem ad bonum [...]. Patet ergo quod id quod est in potentia, ex hoc ipso quod est in potentia habet rationem boni. Omne ergo subiectum in quantum est in potentia respectu cuiuscumque perfectionis, etiam materia prima, ex hoc ipso quod est in potentia, habet boni rationem. Et quia Platonici non
distinguebant inter materiam et privationem, ordinantes materiam cum non ente, dicebant quod bonum ad plura se extendit quam ens. Et hanc rationem videtur secutus Dionysius in l. de Div. Nom., bonum praeordinans enti. Et quamvis materia distinguatur a privatione, et non sit non ens, nisi per accidens, adhuc tamen haec consideratio quantum ad aliquid vera est..., ecc.». È secondo questa linea di riflessione che altrove il Santo ammette che «materia non participat ens, sed tamen participat bono» (Cfr. p. es.: In l. De Causis, lect. IV, P. XXI, 724 b, dove si nota espressamente l’accordo fra l’Autore dell’opuscolo e D.). 32 Conclude perciò egregiamente E. v. Ivanka: «La doctrine platonicienne de la participation, libérée ainsi de la dialectique néoplatonicienne qui construisait le monde par une emanation graduelle à partir de l’absolu, s’en est trouvée christianisée» (La signification du Corpus Areopagiticum, in «Recherches de Science religieuse», 36 [1949], p. 18. Cfr. anche l’art. scritto in ungherese: D. A. era neoplatonico? pubblicato in: «Theologia», 1942, 1, pp. 38-46 e 104-114 d’identico indirizzo). 33 Si legga, a titolo di conferma negativa, la sfuriata che Lutero fa contro Dionigi nel De captivitate babylonica (De ordine. - Cfr. tr. it. Scritti politici, U.T.E.T., Torino 1949, p. 330). 34 Kai. avei. ta. te,lh tw/n prote,rwn suna,ptousa tai/j avrcai/j tw/n deute,rwn (P. G., 3, 872 B). Sulle varianti delle versioni, vedi l’erudita nota di: A. COMBES, Jean Gerson, Commentateur dionysien, Paris 1940; Appendice VII, pp. 501-506. 35 UEBERWEG-PRAECHTER12, I, § 84, pp. 652-653. 36 UEBERWEG-GEYER, op. cit., § 14, p. 137. 37 «Boezio, secondo il Bardenhewer, non è solo l’ultimo dei Romani ma va chiamato anche il primo Scolastico. Egli ha chiuso un’epoca di cultura ed insieme ha aperto una nuova e grande era scientifica. Egli fu l’ultimo difensore della concezione romana contro la dilagante invasione della barbarie germanica, ma fu anche uno dei fondatori, forse il vero fondatore di una nuova concezione della vita, rispetto ai popoli germanici, ed in particolare fu il padre di quella scienza che si chiama Scolastica» (BARDENHEWER O., Gesch. d. alt. Lit., V, Freiburg i. Br., t. V, 1932, p. 250). Nella prima fase della Scolastica Boezio veniva da molti chiamato il «Philosophus», titolo che, come si sa, venne poi nel secolo XIII riservato ad Aristotele (cfr. JANSEN W., Der Kommentar des Clarembaldus von Arras [1100-1170] zu Boëthius De Trinitate, Breslau 1926, p. 18; cfr. anche: Dr. F. SASSEN, Boëthius leermeester der Middele, I, Studia Catholica, VII, p. 97 ss. [1938]). 38 «Ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit, in Romanum stylum vertens, eorum omnia commenta latina oratione perscribam, ut si quid ex logicae artis subtilitate et ex moralis gravitate peritiae et ex naturalis acumine veritatis ab Aristotele conscriptum est, id omne ordinatum transferam atque id quodam lumine commentationis illustrans, omnesque Platonis dialogos vertendo vel etiam commentando, in latinam redigam linguam. His peractis non equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus, sed in plerique et his philosophia maximis consentire demonstrem» (Comm. in l. Arist.: Peri. VErmhnei,aj, ed. II, l. II [ed. Meiser, 1877, pp. 79-80, P. L., 64, 433]). 39 MANLII SEVERINI BOËTHII, Opera O., P. L., 64, 1311 BC. L’elaborazione dottrinale che S. T. fece di queste proposizioni è stata delineata brevemente nell’Introduzione. 40 HENRICUS GOETHALS GANDAVENSIS, Quodlibeta, Quodl. I, q. IX, fol. 11 vb. 41 JOANNES OLIVI, Quaestiones in II l. Sententiarum, Q. VIII, p. 154, ed. cit. RICHARDUS A MEDIAVILLA († 1307) mostra di conoscere ambedue le interpretazioni, ma non avanza alcun apprezzamento personale: «Quod est ipsius animae est essentia concreta cum suis proprietatibus naturalibus, et quo est est sua essentia absolute considerata. Vel potest secundum alios, quod omne quod est est sua essentia ut per se existens, et suum quo est est suum esse» (In II Sent., Dist. 17, art. 1, I ad 1um). Notiamo che Boezio parla sempre Quod est et esse; la terminologia Quod est et quo est si trova nel Commento di Gilberto Porrettano al De Hebdomadibus (cfr. Commento alle Propp. 2a ed 8a, P. L., 64, col. 1318 CD, 1321 BC). Invece il francescano Alessandro Bonini di Alessandria pare siasi accorto del senso genuino della coppia boeziana, sfavorevole alla sua posizione antitomista, e perciò evita la discussione con un «prolixe esset respondendum» e s’accontenta della distinzione «secundum rationem» (Alexandri De Ales, In XII Aristotelis Metaphysicae libros dilucidissima expositio, Venetiis 1572, fol. 792a). Il falso del nome è dell’edizione veneta e non è stato senza ripercussioni sugli autori seguenti disposti a bere grosso fino allo stesso Suarez. Su ciò, v.: C. Fabro, Una fonte antitomista della metafisica Suareziana, in «Divus Thomas Plac.», L (1947) p. 12 ss. All’articolo ha risposto prendendo le difese di Suarez ma ammettendo «que el hécho es inegable», R. Ceñal, Alejandro de Alejandría: su influjo en la metafísica de Suarez, in «Pensamiento», IV (1948), pp. 91-122. 42 M. D. ROLAND-GOSSELIN, Le De Ente et Essentia, p. 145. 43 JOSEPH BROSCH, Der Seinsbegriff bei Boëthius, Philos. und Grenzwissenschaften, VI, 1, Innsbruck, 1931, II p. c. 2. Die Partizipationslehre und ihre Bedeutung, cfr. pp. 100-101. Cfr. per l’esegesi «moderna» della coppia boeziana di quod est e esse, C. Fabro, Neotomismo e Suarezismo, Piacenza 1941, p. 24 ss., dove riassumo i risultati più recenti della controversia. 44 V. SCHURR C.SS.R., Die Trinitätslehre des Boëthius im Lichte der skythischen Kontroversen, in: «Forschungen zur christlichen Literatur - u. Dogmengeschichte», Bd. XVIII, Heft 1, Paderborn 1935, pp. 33-35 e p. 44. L’espressione frequentemente ripetuta dal Brosch, e così cara al P. Pelster, che il Boezio tomista sia senz’altro un falsch verstandene Boëthius è per lo meno tendenziosa, e bisogna esser grati al P. V. Schurr di aver messo le cose a posto, e di aver dato le giuste proposizioni alla tesi del Brüder sulla fondatezza dell’esegesi tomista (v. BRÜDER K., Die philosophischen Elemente in den Opuscula Sacra des Boëthius, Leipzig 1928, in: «Forschungen z. Gesch.| d. Phil. u. Pädagogik», III, 2, p. 72). Invero come è certo che il Tomismo ha fatto realmente progredire le dottrine che si trovavano nelle fonti
precedenti secondo una maggior chiarezza concettuale, così è inopportuno e anacronistico voler trovare esattamente dottrine antitomistiche, prima dell’apparizione stessa del Tomismo. Anche ritenendo che la posizione tomista è nuova e originale, diversa è la relazione che hanno ad esso, il pensiero di quanti, conoscendola, l’hanno apertamente negata, e il pensiero di quanti prima di esso, non essendo riusciti a porre la questione nei termini secondo i quali poi da S. Tommaso fu posta, non poterono conoscerla in modo esplicito. 45 «Omnes, inquit, res vel ea materia formaque consistunt, vel ad similitudinem materiae atque formae substantiam sortiuntur. Ad similitudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eadem modo sicut corpus tamquam ex materia et figura consistere videatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est» (In Porph.). È difficile poter dire – ed è qui appunto la questione controversa – come B. concepisce la composizione delle sostanze immateriali: probabilmente il pensiero di B. collimava con la posizione che sarà poi tenuta da Jo. de Rupella (FABRO C., La distinzione fra «quod est» e «quo est» nella Summa De Anima di Giovanni de la Rochelle, in: «Divus Thomas Plac.», [1938], p. 508 ss. Cfr. anche: O. LOTTIN, Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, t. I, Lovanio 1942, p. 443 s. che accetta la nostra interpretazione). 46 Il testo di B., a cui si allude, è improntato al più spiccato Platonismo: le vere forme sono quelle libere e fuori della materia; le forme che sono nella materia, più che forme vanno dette «immagini». «Ex his formis, quae praeter materiam sunt, istae formae venerunt quae sunt in materia et corpus effìciunt: nam ceteras quae in corporibus sunt, abutimur, formas vocantes, dum imagines sint: adsimilantur (adsimulantur = ed. Stewart-Rand) enim formis his quae non sunt in materia constitutae» (De Trinitate, c. 2, P. L., 64, 1250 D). 47 In Isag. Porphirii, ed. II, ML., 64, col. 86 A. 48 Cfr.: V. SCHURR, op. cit., p. 23. 49 Participatione enim speciei plures homines, unus homo: particularibus autem unus et communis plures (vers. di Boezio, ed. Busse, Berolini 1887, p. 32). 50 Et genere quidem quae participant, aequaliter participant: accidenti vero non aequaliter: intentionem enim et remissionen suscipit accidentium participatio; generum vero minimo (ed. cit., pp. 44-45). 51 Speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis vero, vel si inseparabile sit, non aequaliter (ed. cit., p. 50). 52 Propriorum quidem aequalis est participatio, accidentium vero haec quidem magis, illa vero minus (ed. cit., p. 51). 53 Gli Arabi ereditarono il programma della tarda Accademia di concordare Platone con Aristotele; così p. es. per Alfarabi come per Simplicio, fra i due filosofi c’è solo differenza di metodo non di dottrina (Cfr.: DE BOER T. J., Geschichte der Philosophie im Islam, Stuttgart 1901, p. 101). 54 OTTO BARDENHEWER, Die pseudo-aristotelische Schrift: Über das reine Güte bekannt unter den Namen «Liber de Causis», Freiburg i. Br. 1882. 55 Cfr. M.: STEINSCHNEIDER, Die europäische Uebersetzungen aus den Arabischen, Wien 1904, p. 40. M. GRABMANN, Die Proklusübersetzungen des Wilhelm von Moerbeke und ihre Verwertung in der lateinischen Literatur des Mittelalters, Byzantinische Zeitschrift 30 (1929-1930) riprodotto in Mittelalt. Geistesleben, München, II, p. 415. Questo studio è stato ripreso e integrato nella monografia: Guglielmo di Moerbeke O. P., il traduttore delle opere di Aristotele, in «Miscellanea Historiae Pontificiae» vol. IX, Roma 1946, p. 147 ss. 56 Cfr. J. GUTTMANN, Die Philosophie des Salomon ibn Gebirol, Göttingen 1889, p. 33 e spec. l’excursus ibid. della n. 2. Il G., riprendendo con il Kaufmann alcune indicazioni dello Steinschneider, aveva rigettato la tesi del Bardenhewer (e di S. Tommaso!), adottando quella di S. Alberto M. giovane che l’autore del De Causis fosse un David giudeo. Ma l’esame della tradizione manoscritta ha dato ragione alla tesi tomista con la precisazione che l’autore arabo, che ha compilato l’opuscolo dall’opera di Proclo, sarebbe lo stesso Alfarabi come aveva indicato S. Alberto M. nell’età più matura (cfr.: H. BEDORET, L’auteur et le traducteur du Liber de Causis, in «Revue Néosc. de Philosophie», t. 41 [1938], pp. 519-533: con ricca discussione bibliografica). Le seguenti citazioni della Teologia di Proclo sono fatte di solito secondo la doppia edizione di Fried. Creuzer, Procli Elementatio Theologica, Francofurti ad Moenum 1822; E. R. Dodds, Proclus, The Elements of Theology, Oxford 1933. 57 Cfr. M. M. GORCE, L’essor de la pensée au Moyen-Age. Albert le Grand, Saint Thomas d’Aquin, Paris 1933, pp. 236238. Per una constatazione visuale di questo indebolimento dell’influsso avicenniano sull’Aquinate si veda l’elenco delle citazioni tomiste di Avicenna raccolto da A. FOREST alla fine della sua opera: La structure métaphysique de l’être concret, pp. 330-36. 58 Ed. Creuzer, pp. 204-206 (Dodds, 122); a p. 205 in nota 9 abbondanti referenze alla ricca letteratura neoplatonica sull’argomento; e nello stesso libro di Proclo, cfr. ancora le Propp. 87, 101, 197. 59 Si veda invece l’incertezza dell’interpretazione giovanile: In II Sent., Dist. 3, q. I, a. 1 ad 5um: «Dicendum quod obiectio [che vuole concludere l’esistenza della materia negli Angeli] procedit ex falso intellectu litterae: non enim est sensus quod ens creatum componatur ex finito et infinito, sicut ex partibus integralibus, sed sicut ex partibus (quasi) subiectivis: quia entis creati quoddam est finitum sicut incorruptibile, et quoddam infinitum, sicut corruptibile, quod non est determinatum ad esse tantum, sed quandoque est et quandoque non est; unde in quodam Comment. lib. De Causis exponitur infinitum “id est potens esse vel non esse”, “vel dicendum quod componitur ex infinito, scilicet ex potentia, et finito, scilicet ex actu”» (ed. Mandonnet, t. II, p. 89). 60 S. Tommaso ad illustrazione del De Causis cita la Prop. LXXXIX di Proclo: «Pa/n to. o;ntwj o'n evk pe,rato,j evsti kai. avpei,rou» (Creuzer, 89; Dodds, 82). L’affermazione è ripetuta alla Prop. 102, che è di particolare interesse per la spiegazione che segue: «Pa,nta ta. me.n o`pwsou/n o;nta evk pe,rato,j evsti kai. avpei,rou dia. to. prw,twj o;n\ pa,nta de. ta. zw/nta e`autw/n kinhtika, evsti dia. th.n zwh.n th.n prw,thn\ pa,nta de. ta. gnwstika. gnw,sewj mete,cei dia. to.n nou/n to.n prw/ton) Eiv ga.r to. kaqV e`ka,sthn seira.n avme,qekton th/j oivkei,aj ivdio,thtoj pa/si toi/j u`po. th.n auvth.n seira.n
metadi,dwsià dh/lon de. o[ti kai. to. o;n to. prw,tiston metadi,dwsi pa/si pe,ratoj a[ma kai. avpeiri,aj( mikto.n u`pa,rcon evk tou,twn prw,twj» (Creuzer, p. 152; Dodds, 92). S. Tommaso la cita nella lect. 18a del commento al De Causis (p. 746), ma soltanto nella sua prima parte, perchè probabilmente s’era accorto che la seconda complicava notevolmente la faccenda. Pare infatti che Proclo concepisse quella composizione in un modo più affine a quello del Gandavensis e del Suarez (escluso, s’intende, il contenuto eterodosso) che a quello genuino tomista, pervaso dal naturalismo aristotelico. Il concreto secondo Proclo (cfr. anche Prop. 90, p. 134) consta di finito e di infinito, in quanto preesistono prima di esso il primo limite e la Infinità, dai quali vengono causati quei caratteri nel concreto. 61 M.-D. ROLAND-GOSSELIN, Le De Ente et Essentia, p. 149, il quale dipende dal Bardenhewer che traduce con «Ganze» e «Ganzheit» nel senso di composizione: «Die Intelligenz endlich ist etwas Ganzes (Zusammengesetzes), weil sie Sein und Form ist,| und ebenso ist auch die Seele etwas Ganzes und die Natur gleichfalls. Die erste Ursache hingegen hat keine Ganzheit (Zusammengesetztheit), weil sie nur Sein ist» (op. cit., pp. 78-79). 62 Devo queste precisazioni al collega Mgr. Prof. Pietro Sfair, docente di lingue orientali, che vivamente ringrazio. 63 La recente critica storica ha portato alla scoperta di una duplice forma di filosofia avicenniana: una a sfondo peripatetico, contenuta nelle opere ora menzionate; un’altra, personale, più libera, – esoterica diremmo – e più confacente al genio orientale a sfondo panteistico e che Avicenna stesso chiamò: Filosofia Orientale (o illuminativa). Avicenna mostrava la differenza fra le due filosofie nel Prologo al De Sufficientia, noto a Ruggero Bacone e che è conservato da qualche codice, ma che manca nell’edizione veneta. Fra gli Arabi ne parlano Ibn Tofail, Algazali, Averroè, ed il Prof. Nal|lino ha trovato a Costantinopoli un Codice arabo ove si avrebbe questa «Filosofia illuminativa»: C. A. NALLINO, Filosofia «orientale» o «illuminativa» di Avicenna?, in: «Rivista di studi Orientali», X (1925), p. 463. Le conclusioni dell’illustre orientalista sono state confermate da A. BIRKENMAYER, Avicennas Vorrede zum «Liber de Sufficientia» und Roger Bacon, in: «Rev. Néosc. de Phil. Hommage à M. de Wulf», 1934, pp. 308-320. 64 DE VAUX R., Notes et Textes sur l’Avicennisme latin, Paris 1934, p. 29. 65 Cfr.: W. KLEINE, Die Substanzlehre Avicennas bei Thomas von Aquin auf Grund der ihm zugänglichen lateinischen Übersetzungen, Freiburg i. Br. 1933, spec. pp. 93 ss., 113 ss. 66 Ha esaminato la questione in modo esauriente A.-M. GOICHON, La distinction de l’essence et de l’existence d’après Ibn Sina (Avicenne), Paris 1937. Il problema, osserva giustamente il Pretzl, è stato anzitutto sentito come teologico, anche se ancora non si conoscono tutte le tappe. Ecco la trad. tedesca dell’argomento avicenniano a cui ricorre di continuo S. Tommaso giovane (= l’esistenza non è compresa nella definizione di nessuna realtà finita): «Von den vor uns liegenden Dingen hat jedes eine Wesenheit (mahiya) und eine Existenz (huwiya). Die Wesenheit eines Dinges ist nicht identisch mit seiner Existenz und auch nicht zu Existenz gehörig. Wenn die Wesenheit eines Menschen seine Existenz selbst wäre, so müsstest du dir bei der Vorstellung von der Wesenheit des Menschen auch seine Existenz vorstellen, du würdest dir also, wenn du dir vorstellst, was der Mensch ist, auch vorstellen, dass der Mensch ist und sein Dasein (Wugud) erkennen» (OTTO PRETZL, Die frühislamische Attributenlehre, Ihre weltanschauliche Grundlagen und Wirkungen, in: «Sitzb. d. Bayer. Akad. d. Wiss., Phil. hist.| Abteilung», Jahrg. - 1940, Heft 4; München 1940, p. 61 s. nota). Invece secondo J. Paulus (Henri de Gand, Essai sur les tendances de sa métaphysique, Paris 1938, p. 259 ss.), Avicenna avrebbe ammesso, fra essenza ed esistenza, una distinzione di ragione come l’avversario di S. Tommaso, Enrico di Gand, che disputa con Egidio Romano. Ma gli arabisti sono contro quest’esegesi di Avicenna (cfr.: A.-M. GOICHON, La philosophie d’Avicenne et son influence en Europe médiévale, Paris 1944, p. 43 ss.: nota). 67 D. SALIBA, Étude sur la Métaphysique d’Avicenne, Paris 1926, c. III, p. 96 ss. 68 FABRO C., Intorno alla nozione «tomista» di contingenza, in: «Rivista di Filosofia Neoscolastica», XXX, 2 (1938), pp. 132-149. 69 Cfr. «Archiv f. Gesch. d. Phil.» V, 4 (1892), Jahresbericht über die abendländische Philosophie im Mittelalter, p. 572. 70 Cfr. Dr. E. SCHELLER, Das Priestertum Christi, p. 59; Quellen der Anteilnahme bei Thomas. Si prova una vera delusione nel leggere il capitolo iniziale che il prof. HANS| MEYER ha dedicato alle fonti del Tomismo nel suo recentissimo Thomas von Aquin (Bonn, Hanstein 1938) che si limita ad un elenco freddo e incompleto di Autori, senza alcun sforzo di ricostruzione sintetica. 71 Cfr.: F. VAN STEENBERGHEN, Siger de Brabant d’après ses œuvres inédites, t. II (Siger dans l’histoire de l’Aristotélisme), Louvain 1942, p. 482. Il P. DESCOQS, generoso alfiere del Suarezismo, ha voluto anche lui – dopo averla osteggiata – spezzare una lancia in favore della nozione di partecipazione (cfr.: Schema Theodiceae, l. I, Paris 1941, p. 114ss. dove si rimanda... «sed cum cautela» [!] a questa nostra opera), difendendo – com’era naturale – che l’unica partecipazione valida è quella ritenuta da Suarez che dice semplice dipendenza estrinseca e non fa appello ad alcuna composizione intrinseca.
Note parte seconda, sezione prima 1
Anche Ia, 84, 1 ad 3um: «Dicendum quod omnis motus supponit aliquid immobile. Cum enim transmutatio fit sec. qualitatem, remanet substantia immobilis, et cum transmutatur forma materialis, remanet materia inmobilis. Rerum etiam mutabilium sunt immobiles habitudines: sicut Socrates, etsi non semper sedeat, tamen immobiliter est verum quod quando sedet in uno loco manet. Et propter hoc nihil prohibet de rebus mobilibus immobilem scientiam habere». 2 «:Esti de. tw/n o`rizome,nwn kai. tw/n ti, evsti ta. me.n w`j to. simo.n ta. d vw`j to. koi/lon) diafe,rei de. tau/ta o[ti to. me.n simo.n suneilhmme,non evsti. meta. th/j u[lhj ¿e;sti ga.r to. simo.n koi,lh r`i,jÀÃ h` de. koilo,thj a;neu u[lhj aivsqhth/j\ eiv dh. pa,nta ta. fusika. o`moi,wj tw|/ simw|/ le,gontai( oi-on r`i.j o`fqalmo.j pro,swpon sa.rx ovstou/n( o[lwj zw|/on( fu,llon r`i,za
floio,j( o[lwj futo,n ¿ouvqeno.j ga.r a;neu kinh,sewj o` lo,goj auvtw/n( avll v avei. e;cei u[lhnÀ( dh/lon pw/j dei/ evn toi/j fusikoi/j to. ti, evsti| zhtei/n kai. o`ri,zesqai» (Metaph., E, 1025 b, 31-1026 a, 5; la questione è ripresa più ampiamente nel lib. Z, 5, 1030 b, 14 ss.; cfr. De Coelo A, 9, 278 a, 28 ss.; De Anima G, 4, 429 b, 18). 3 In VII Metaph., lect. 9, n. 1467. Per Averroè, v.: In VII Metaph., tc. 34: «Differentia inter formam et materiam est quoniam forma praedicatur per se de habente formam secundum quod declarat eius quidditatem substantialem; materia vero non praedicatur de habente formam vera praedicatione, nedum ut praedicetur per se: idolum non dicitur esse cuprum, nec homo caro, nec simus nasus» (ed. veneta 1562, fol. 184 ab - 185 a). La tesi è presentata in forma ancor più esplicita in Io. de Janduno: In VII Metaph., q. XII, Conclusio: «Forma est tota rei quidditas, non autem materia, quae etiam nec est pars quidditatis» (ed. veneta 1560, col. 465). Cita S. Tommaso, ma difende Averroè il Nifo: In VII Metaph., disp. XIII; ed. veneta 1559, p. 203 ss. 4 Nella vers. Bardenhewer: «Das Sein welches nach der Ewigkeit und über der Zeit ist, ist die Seele, weil sie im Horizonte der Ewigkeit unterhalb und über der Zeit ist» (op. cit., p. 62). Altra formula simile, nota S. Tommaso, era quella di Isaak Israeli: «Sublimiore ergo animarum gradu est anima rationalis (= quam anima bestialis) quoniam ipsa in horizonte intelligentiae et ex umbra eius generata est» (I. ISRAELI, Liber de definitionibus, ed. Muckle, in: «Archives d’histoire doctrin. et litt. du Moyen Age», IX [1937-38] p. 313). 5 Cfr.: C. FABRO, Percezione e pensiero, Milano 1941, spec. c. VII, p. 305 ss. (La percezione del concreto materiale), c. VIII, p. 345 ss. (La percezione dello spirituale). 6 S. Tommaso ha raggiunto questa terminologia dopo faticosi tentativi, come si può ancora osservare sul ms. autografo del Comm. in Boëth. De Trinitate (Vat. lat. 9850). Lo ha mostrato L.-B. GEIGER, Abstraction et séparation d’après St. Thomas, in «Revue des Sciences philosophiques et théologiques», XXXI (1947), pp. 3-40. P. Wyser ha dato l’edizione dall’autografo vaticano delle qq. V-VI, che interessano il problema dell’astrazione (Thomas von Aquin, In librum Boëthii De Trinitate quaestiones quinta et sexta, Fribourg-Louvain 1948). Ora abbiamo l’edizione integrale dovuta a B. Decker, S. THOMAE AQ., Expositio super librum Boëthii De Trinitate, Studien u. Texte z. Geistesgeschichte des M. A., Bd. IV, Leiden 1955. Diamo la citazione di ambedue le edizioni. 7 Cfr. H. D. SIMONIN, Recensione in «Bulletin Thomiste», III (1930), p. 176. 8 Logica, II P., Q. III, a. V, ed. Reiser 335 a; cfr. 333 a, 347 b. Nel Tomismo c’è quindi posto per una conoscenza immediata, benchè indiretta, dei singolari (C. FABRO, Percezione e pensiero, Milano 1941, p. 320 ss.), altrimenti la metafisica come scienza dell’ente in quanto tale sarebbe impossibile, dato che per noi l’unico ente accessibile nella sua realtà effettuale è il singolare. Si potrebbe perciò osservare che tanto nella posizione del Gaetano, il quale ammette soltanto una conoscenza «mediata» (... Concipitur singulare ab intellectu nostro, non proprio sed alieno conceptu... confuse et arguitive, quemadmodum deitas concipitur in alieno conceptu: In I P., q. 85, a. 1, n. VII), come in quella di coloro che invece ammettono la conoscenza diretta dei singolari e che la natura singolare è il primum cognitum dell’intelletto umano (Occam, Suarez, ecc.), da cui si sale per astrazione perfetta agli universali fino al concetto di ente, concepito come astratto e il più astratto, la metafisica rischi diventare un gioco logico verbale. 9 Il termine si trova già in Platone per indicare il metodo dialettico a cui iniziare i giovani destinati alla carriera politica (eivj su,noyin( o` me.n sunoptiko,j dialektiko,j: Rep., 537 C). Cfr. anche: J. Stenzel, Zahl und Gestalt bei Plato und Aristoteles, Leipzig 1924, p. 135. 10 Osservazioni analoghe, v. in: A. FOREST, Du consentement à l’être, Paris 1936, pp. 90, 101, 104, 108, ecc. 11 M. DE MUNNYNK, L’Idée de l’Être, in: «Rev. Néosc. de Phil.», 31 (1929), 2-5, pp. 183, 416 n.; cfr. IDEM: Notes sur l’Abstraction, in: «Divus Thomas Frib.», 43 (1929), p. 411. Mi pare che corrisponda alla nostra astrazione «intensiva» quella che il P. HORVATH ha chiamato «astrazione considerativa», detta anche «sintetica» o metafisica e che assomma in sè il processo stesso del pensiero (cfr.: La sintesi scientifica di S. Tommaso d’Aquino, Torino 1932, p. 59, e soprattutto la nota 19 a p. 65). 12 Un esempio esplicito di astrazione «intensiva» si legge nella Ia-IIae, q. 18, a. 7; l’articolo si chiede: «Utrum species bonitatis quae est ex fine contineatur sub specie bonitatis quae est ex obiecto sicut sub genere, vel e converso». Nella III difficoltà si vuol sostenere che la specie presa dal fine è contenuta sotto quella presa dall’oggetto, come la specie specialissima sotto il suo genere subalterno: «Quanto aliqua differentia est magis formalis, tanto est magis specialis; differentia comparatur ad genus ut forma ad materiam. Sed species quae est ex fine est formalior ea quae est ex obiecto... Ergo». E si risponde: «Differentia comparatur ad genus ut forma ad materiam in quantum facit esse genus in actu; sed etiam genus consideratur ut formalius specie, secundum quod est absolutius et minus contractum, unde et partes definitionis reducuntur ad genus causae formalis ut dicitur. Et secundum hoc genus est causa formalis speciei; et tanto erit formalius quanto communius» (ad III). Una coincidenza adeguata fra universalità concettuale e intensità rappresentativa l’Angelico l’afferma esplicitamente per la conoscenza di Dio e degli Angeli: «Est haec differentia universalitatis et particularitatis attendenda solum secundum id quo intellectus intelligit. Quanto ergo aliquis intellectus est superior, tanto id quo intelligit est universalius, ita tamen quod illo universali eius cognitio extendatur etiam ad propria cognita, multo magis quam cognitio inferioris intellectus qui per aliquid magis particulare cognoscit. Et hoc etiam experimento in nobis percipimus: videmus enim quod illi qui sunt excellentioris intellectus, ex paucioribus auditis vel cognitis totam veritatem alicuius quaestionis vel negotii comprehendunt, quod alii, grossioris intellectus existentes, percipere non possunt, nisi manifestetur eis per singula, ratione quorum oportet frequenter inducere. Et ideo Deus, cuius intellectus est excellentissimus uno solo, scilicet essentia sua, omnia comprehendit; aliorum vero intellectuum separatorum tanto unusquisque paucioribus speciebus et ad plura se extendentibus rerum notitiam habet, quanto est altior: ita quod intellectus humanus, qui est infimus, rerum scientiam habere non potest nisi singulis speciebus singularium rerum naturas cognoscat» (In l. De
Causis, lect. 10). A suo modo anche la conoscenza umana tende a realizzare qualcosa di simile nel suo grado supremo ch’è la metafisica. 13 «Je dirai plus. La seule absence d’exclusion positive, le fait même de l’abstraction indique, dans le réel, la présence de quelque chose d’autre que la nature considérée. Si quelque chose a été omise, c’est donc qu’il y avait encore quelque chose». DE TONQUÉDEC J., La critique de la connaissance, Paris 1929, p. 157.
Note parte seconda, sezione seconda 1
Cfr. hic. P. Iª, p. 106. Topic., D, 1, 121 a, 11, il testo è riportato secondo l’ed. Wallies, Lipsiae, Teubner 1923. 3 Difatto la critica moderna ha dimostrato che la teoria logica dei Topici presenta delle lacune veramente gravi rispetto a quella che sarà la logica definitiva di Aristotele, onde i Topici vanno riconosciuti appartenere al periodo dell’«Aristotelismo Platonico» (cfr.: HEINRICH MAIER, Die Syllogistik des Aristoteles, II, I, Tübingen 1900, p. 78 n. 3). Da ciò si può comprendere sia il vasto uso di mete,cein nei Topici, come il loro contrasto con la tarda metafisica del Filosofo. 4 Cfr.: o` a;nqrwpoj leuko,j di Arist.: Metaph., (VII) Z, 11, 1037 b, 18 sq. 5 Metaph., Z, 9, 1034 b, 20-23. Quanto segue è stato sviluppato più ampiamente in: Neotomismo e Suarezismo, p. 20 ss. 6 De Ente et Essentia, c. 2, ed. Roland-Gosselin, p. 11; cfr.: In I Sent., Dist. 25, q. I, a. 1 ad 2um; De Veritate, q. II, a. 4 ad 7um. Nell’ed. Ven. di Averroè si ha una variante, «quidditates» per «quidditas»: «Cum sit declaratum (contro Platone) quod quidditates sunt substantiarum singularium, perscrutemur igitur utrum substantia, quae est quidditas et substantia, quam significat definitio quid sit. Apparet enim quod singulare nihil aliud est quam substantia cuius est, scilicet quidditas eius, et apparet etiam e contrario, quod substantia quae est quidditas, est substantia singularis v. g. Socrates est animal rationale. Socrates enim nihil est quam animalitas et rationalitas quae sunt quidditates eius: nec animalitas et rationalitas sunt quidditates nisi Socratis et Platonis» (AVERROIS, Comm. in VII Metaph., t. 20, ed. Veneta 1562, fol. 169 ra). Più sotto il Commentatore discute con ampiezza circa il rapporto fra gli elementi della definizione e le parti della sostanza. «Quia definitio est sermo et omnis sermo habet suas partes significantes partes rei: et apparet quod sicut est proportio definitionis ad rem, ita est proportio partis definitionis ad partes rei, in quantum quemadmodum definitio declarat quidditatem rei ita pars definitionis declarat partem quidditatis rei... Et intendebat (Aristotele) per hanc perscrutationem declarare quae partes definitionis significant partes rei quidditatis» (ibid., t. 33, fol. 182 vb). In quanto alla materia, bisogna riconoscere che essa è realmente diversa nelle singole sostanze naturali, e solo nelle opere artificiali si può parlare di una materia comune. «Substantiae materiales diversae oportet nos non ignorare quoniam etsi omnes resolvantur in ultimo in unam materiam, tamen unaquaeque earum materiam propriam propinquam, verbi gratia phlegma et cholera. Materia n. utriusque propinqua differt a materia alterius... Hoc quod dicitur quod quaedam materiae recipiunt formas diversas et quaedam formae non recipiunt nisi unam materiam verum est in entibus artificialibus; in entibus autem naturalibus quaelibet forma habet materiam propriam» (In VIII Metaph., t. 21, fol. 219 ra, va). 7 Anche su questo punto Averroè è esplicito: «Omnes definitiones componuntur ex duabus naturis, scil. genere et differentia,... et cum sit declaratum quod omnis definitio componitur ex genere et differentia, et genus componitur ex materia et forma, aut genus quod dicitur simpliciter non sit aliud a forma subiecti, formae autem erit forma et subiectum, et quomodocumque fuerit erit simile materiae. Et forte intelligit per genus quod est unum ex materia et forma, aut habet hoc nomen ex parte formae, aut materiae, et quomodocumque fuerit, simile est materiae. Et intendebat per hoc quod genus in re non existit in actu sicut materia et quod illud quod est in actu est ultima differentia: quia genera diversantur: quaedam enim magis assimilantur formae et quaedam magis materiae... Manifestum est quod definitio est sermo compositus ex differentiis, et non dixit ex differentiis et genere: quia genus apud ipsum (Arist.) est forma universalis et differentia est particularis» (Comm. in VII Metaph., tc. 43, fol. 195 rb). La dottrina è ripetuta in forma più chiara nell’«Epithome Metaphysicae»: «Genus nihil aliud est quam conceptus formarum universalium ipsius definiti, quae se habent veluti materia et forma universalis..., et similiter apparet de ipsa differentia quae est quoddam consequens, quod insequitur intelligibile formae propriae alicuius rei ex eo quod est in intellectu: et tandem ipsa repraesentat formam quamdam, genus autem materiam. Et hinc apparet proportio definitionis ad definita et solvuntur multa dubia quae possunt fieri in eis» (AVERROIS, Epith. Metaph., ed. Veneta, T. IX, fol. 270 va). Circa la dipendenza di S. Tommaso da Avicenna per tutta questa dottrina, vedi ROLAND-GOSSELIN, op. cit., pp. 1217, ove all’inizio è dato un ottimo ragguaglio delle fonti. L’editore del De Ente si è occupato in prevalenza dell’influsso di Avicenna; ma| la dottrina in questione si trovava egualmente presso Averroè, presso il quale, come può anche apparire dai brevi saggi riferiti, essa aveva raggiunto delle formule particolarmente felici. E si sa che nei Commentari tomisti alla Metafisica l’influsso di Averroè è continuo e rilevante. 8 «Pluralitas rationis quandoque reducitur ad aliquam diversitatem rei, sicut Socrates et Socrates sedens differunt ratione; et hoc reducitur ad diversitatem substantiae et accidentis; et similiter homo et aliquis homo ratione differunt, et haec differentia reducitur ad diversitatem formae et materiae, quia genus sumitur a materia, differentia vero specifica a forma; unde talis differentia secundum rationem repugnat maxime unitati vel simplicitati. Quandoque vero differentia secundum rationem non reducitur in aliquam rei diversitatem, sed ad unitatem rei, quae est diversimode intelligibilis; et sic ponimus pluralitatem rationum in Deo» De Veritate, q. III, a. 2 ad 3um. Il nostro intelletto, adunque, non arriva alla conoscenza dei suoi oggetti che a traverso delle composizioni nozionali, le quali pongono ad esso l’ulteriore problema 2
di determinare il contenuto e la portata reale di tali composizioni, che costituisce il còmpito proprio di una critica tomista della conoscenza. 9 Questa fondazione e derivazione della Materia come principio di molteplicità è d’indole critico-metafisica; da un punto di vista puramente metafisico la ragione della diversità delle specie nel genere, e della molteplicità degli individui nella specie va cercata da parte dell’imperfezione della «forma generis vel speciei» che non possono sussistere in sè come tali, e che esigono quindi di essere «espanse» e «diffuse» nei partecipanti. 10 Cfr.: Ia, q. 85, a. 1 ad 2um. 11 HANS MEYER, Geschichte der alten Philosophie, München 1931, p. 268. Cfr. anche: Thomas von Aquin, Bonn 1938, p. 79, e la v. Parallelismus nell’Indice, p. 637. Pare che il M. in quest’accusa si sia ispirato a Cl. Baeumker (cfr. Das Problem der Materie in der griechischen Philosophie, Münster 1890, p. 251 s.) e a G. v. Hertling (cfr. Materie und Form und die Definition der Seele bei Aristoteles, Bonn 1871, pp. 43, 94 ss., 127). Identica critica al Tomismo in J. Hessen, Die Weltanschauung des Thomas von Aquin, Stuttgart 1926, e Das Kausalprinzip, Augsburg 1928, p. 47 ss., come nel suareziano L. Fuetscher, Akt und Potenz. Eine kritisch systematische Auseinandersetzung mit dem neueren Thomismus, Innsbruck 1933, pp. 35, 48 ss. Per una visione complessiva della polemica, v.: C. FABRO, Logica e metafisica. A proposito di alcune critiche recenti al realismo tomista, in «Acta Pont. Acad. S. Thomae» XII (N. S.), Torino 1946, pp. 129-150. 12 «Partes definitionis significant partes rei, in quantum a partibus rei sumuntur partes definitionis; non ita quod partes definitionis sint partes rei. Non enim animal est pars hominis, neque rationale; sed animal sumitur ab una parte, et rationale ab alia. Animal enim est quod habet naturam sensitivam, rationale vero quod habet rationem. Natura autem sensitiva est ut materialis respectu rationis. Et inde est quod genus sumitur a materia, differentia a forma, species autem a forma et materia simul. Nam homo est quod habet rationem in natura sensitiva» (In VII Metaph., lect. 9, n. 1463). Quando si presenta l’Aristotelismo tomista come «Realismo moderato», la moderazione di cui si parla consiste appunto nell’affermazione di una corrispondenza proporzionale – mediata quindi – fra gli elementi del concetto e i principî dell’essere. 13 P. HOENEN S. I., Cosmologia, Roma 1936, p. 270 ss. 14 «In quibus (= rebus) vero forma non complet totam potentiam materiae, remanet adhuc in materia potentia ad aliam formam: et ideo non est in eis necessitas essendi, sed virtus essendi consequitur in eis victoriam formae super materiam, ut patet in elementis et elementatis. Forma enim elementi non attingit materiam secundum totum eius posse: non enim fit susceptiva formae elementi unius, nisi per hoc quod subiicitur alteri parti contrarietatis: forma vero mixti attingit materiam, secundum quod disponitur per determinatum modum mixtionis» (C. Gentiles, II, c. 30). 15 «Inter species unius generis una est naturaliter prior et perfectior altera» (Quodlib. II, q. III, a. 6. Cfr. In III Metaph., lect. 8, n. 438). 16 «Semper contraria se habent sicut peius et melius (ut dicitur I Physic.) ita scilicet quod unum est privatio et defectus respectu alterius, sicut frigidum respectu calidi et nigrum respectu albi» (In II De Coelo et Mundo, lect. 4, P. XIX, 88 b89 a. Cfr. I, lect. 8, 21 a). «Dicendum est quod sicut ostensum est in X Metaph., oppositio privationis et habitus est principium oppositionis contrariorum: et ideo semper aliud contrariorum est cum defectu et privatione quadam respectu alterius. Dicitur ergo frigidum privatio, non quia sit privatio pura, sicut caecum et nudum, sed quia est qualitas deficiens respectu calidi. Unde in hoc differt iste modus secundus a primo; nam primus modus accipiebatur secundum differentiam entis et non entis simpliciter, hic autem accipitur secundum differentiam entis perfecti et imperfecti» (In I De Generatione et Corruptione, lect. 8, P. XIX, 227 a). I testi aristotelici in questione si trovano Metaph., I, 4, 1055 b, 25: fanero.n o[ti avei. qa,teron tw/n evnanti,wn le,getai kata. ste,rhsin\ e Physic., A, 4, 189 a, 3: tau,th| te de. w`sau,twj le,gousi kai. evte,rwj( kai. cei/ron kai. be,ltion( ktl) Cfr. anche: Metaph., B, 3, 999 a, 6-13. Dottrina che si richiama al principio che «le specie sono come i numeri» di cui si è detto nella I Parte. 17 Perchè in tutte le opposizioni, eccettuata quella della relazione, è implicita negli opposti una differenza di perfezione, come si è detto: «Quod accidit ratione negationis quae includitur in privatione et altero contrariorum» (De Potentia, q. VII, a. 8 ad 4um; cfr. ibid. q. VIII, a. 1 ad 13um). Identico contesto: In I Sent., Dist. 26, q. II, a. 2: «Omnis autem distinctionis formalis principium est aliqua oppositio, ut largo modo| sumatur oppositio, secundum quod etiam imperfectum et perfectum opponuntur, in quantum in uno est negatio vel privatio alterius. In omnibus autem oppositionibus alterum est ut perfectum, alterum ut imperfectum, praeter relationem; quod patet per se in affirmatione, et negatione, et habitu. Patet etiam in contrarietate; quia secundum Philosophum (I Phys., tc. 49), semper alterum contrariorum est sicut nobilius, et alterum sicut vilius et sicut privatio, ut album et nigrum, frigidum et calidum, et huiusmodi omnia» (ed. Mandonnet, t. I. p. 134). In questo senso v. ancora: Ia, 76, 3; 93, 3 ad 3um. 18 I Commenti della maturità sono dominati da questo sano realismo: «Sicut habetur ex VIII Metaphysic., avverte l’Angelico, differentiae substantiales, quia sunt ignotae per differentias accidentales manifestantur: et ideo multoties utimur differentiis accidentalibus loco substantialium: et hoc modo Philosophus hic dicit calidum et frigidum esse formas substantiales ignis et terrae: calidum et frigidum cum sint propriae passiones horum corporum, sunt proprii effectus formarum substantialium eorumdem. Et ideo sicut aliae causae intelligibiles innotescunt per effectus sensibiles: ita ex perfectione calidi et imperfectione frigidi perpendimus quod forma substantialis ignis est perfectior quam forma substantialis terrae. Omnes enim formae substantiales differunt secundum magis et minus perfectum. Unde in VIII Metaph. (3, 1043 b-1044 a) dicitur quod species rerum sunt sicut numeri quorum species variantur secundum additionem et subtractionem» (In I De Gener. et Corr., lect. 8a, XIX, 227 b-228). «Est ergo dicendum quod formae substantiales, sicut supra dictum est differunt secundum perfectius et imperfectius» (Ibid., lect. 10a, 232 b).
Cfr. anche: In III Metaph., l. 8, n. 438; In IV Metaph., l. 2, n. 562; l. 4, n. 579; In IX Metaph., l. 2, n. 1791; l. 10, n. 1883; In XI Metaph., l. 3, n. 2200; lect. 9, n. 2292. Quest’ultimo è forse il testo più completo: «In unoquoque genere invenitur aliquid dupliciter, scilicet secundum perfectionem et imperfectionem; sicut in genere substantiae, unum est ut forma, et aliud ut privatio. Et in genere qualitatis hoc est, quod est perfectum, ut album quod habet perfectum colorem, et hoc est ut nigrum, quod est imperfectum in genere coloris. Et in quantitate unum est perfectum quod dicitur magnum, et aliud imperfectum quod dicitur parvum. Et in ubi in quo “est locatio”, idest motus localis, est sursum et deorsum, et grave et leve, secundum quod grave dicitur quod actu subsidet, et leve quod actu supereminet. Et horum unum est ut perfectum, et aliud ut imperfectum. Et ratio huius est, quia omnia genera dividuntur per contrarias differentias; contrariorum autem semper alterum est ut perfectum, alterum ut imperfectum» (ed. Cathala, p. 654). La dottrina era accettata anche dagli Averroisti, p. es. da Io. De Janduno nella Quaestiones in X l. Metaph., q. XIX. Conclusio: Inter species alicuius generis est vera contrarietas secundum formas (ed. veneta 1560, col. 630). 19 Ci si intenda però sulla natura di questa Sinossi. Essa non consiste in una sommazione qualsiasi di atti e perfezioni e neppure è una «purificazione» che la mente esercita sul concreto per cogliere una formalità, come tale: ma appartiene invece a quella particolare astrazione intensiva, accennata poco fa, per la quale, in funzione della| separatio, gli atti e le formalità vengono prima generalizzati secondo i propri valori e poi visti implicarsi secondo una progressione ascendente. Il passaggio da una perfezione ad un’altra viene ad essere, a questo modo, nel campo metafisico, come una specie di passaggio al limite. Questo passaggio si vede facilmente nei riguardi delle perfezioni trascendentali rispetto all’esse, ed anche nei riguardi delle perfezioni predicamentali rispetto all’esse. Ma le modalità del passaggio forse non sono altrettanto chiare quando si vuol descrivere questa dialettica ascendente entro il campo predicamentale. Così abbiamo varie specie di animali: qui è il genere più universale di «animalità» il termine dell’ascensione dialettica o qualche altra formalità? I testi tomisti sono piuttosto scarsi al proposito (cfr. sopra p. 178 ss.), ma ci pare che alla questione, tutt’altro che oziosa, si potrebbe rispondere che ogni formalità (generica) può esser vista sotto due aspetti, cioè uno in quanto si riferisce alla materia e alla potenza, l’altro in quanto si riferisce alla forma e all’atto. Nel caso ora opposto, l’animalità può esser considerata sia come una modalità di essere della corporeità (aspetto potenziale), sia come una particolare forma di attuazione di quella perfezione pura che è la Vita. È soltanto in questo secondo senso, ci pare, che il genere può essere considerato come termine della riflessione intensiva: l’animalità, intanto può esser considerata quale formalità suprema nel suo ordine, in quanto aduna in sè tutte quelle particolari forme di vita, che si vengono a realizzare nel mondo della corporeità. Alla fine, quindi, è sempre il ricorso alla perfezione trascendentale che permette l’ascensione dialettica, come si allude nel testo. 20 Questo punto meriterebbe di essere ulteriormente sviluppato per far risaltare l’originalità della posizione tomista, ove la partecipazione implica ad un tempo e degradazione e dispersione di una pienezza formale. L’uomo, anche se il più perfetto degli animali, resta sempre un partecipante all’animalità, e non riunisce in sè tutte le perfezioni di cui è suscettibile la animalità in natura; per questo «homo ab avibus vincitur volatu (una volta!), ab aliis visu etc. secus nec a basilisco (sic!) nec a leone paveret...», osserva facetamente T. CAMPANELLA (Theologicorum libri, lib. I, c. 9, ed. R. Amerio, Milano, Vita e Pensiero, 1936, p. 177) che invoca su questo punto la dottrina del Gaetano. 21 H, 3, 1043 b, 32, 1044 a, 11. 22 Jo. A S. THOMA, Logica, II P., Q. XIII, a. III, ed. Reiser, T. I., p. 485 b-486 a. 23 L’Angelico è esplicito in materia: «Tribus modis contingit aliquid aliquibus commune esse: vel univoce vel aequivoce, vel analogice. Univoce quidam non potest aliquid de Deo et creatura dici. Huius ratio est, quia cum in re duo sit considerare: scilicet naturam vel quidditatem rei et esse suum, oportet quod in omnibus univocis sit communitas secundum rationem naturae, et non secundum esse, quia unum esse non est nisi in una re; unde habitus humanitatis non est secundum idem esse in duobus hominibus: et ideo quandocumque forma significata per nomen est ipsum esse, non potest univoce convenire, propter quod etiam ens non univoce praedicatur» (In I Sent., Dist. 35, q. I, a. 4; VI, p. 285 a). La «natura communis» ha un modo di essere e di operare diverso nei singoli partecipanti: «Natura communis in unoquoque operatur secundum conditionem ipsius: unde anima sensibilis habet in diversis animalibus diversas operationes, et etiam in diversis organis sentiendi» (In I Sent., Dist. 7, q. I, a. 2 ad 3, P. VI, 62 a). 24 Apud N. BALTHASAR, L’abstraction métaphysique et l’analogie des êtres dans l’être, Louvain, Warny, 1936, p. 37 n. 1. 25 De Spiritualibus creaturis, a. 8: Tertia vero ratio (ed. Keeler, p. 94 s.). È in questo senso ben indicato qui dal S. Dottore che parlo di partecipazione univoca predicamentale la quale vale soprattutto per gli individui nella stessa specie; perchè per le specie rispetto al genere comune siamo già vicini alla partecipazione trascendentale analoga. 26 Aristotele, sviluppando la metafisica della contrarietà quale principio di diversità reale, doveva porsi la questione – e di fatto la pose – perchè la donna non differisce dall’uomo per la specie, pur essendo contrarî femmina e maschio, ed essendo una contrarietà la loro differenza (Metaph., I, q. 1058 b-1059 a). Secondo il filosofo questa contrarietà non è di ordine formale, ma reale: «l’essere maschio o femmina sono, sì, qualità proprie dell’animale, ma non riguardano la sua sostanza (= essenza): esse sono nella materia ossia nel corpo». Ed osserva tranquillamente che «perciò lo stesso seme, secondo che subisce una modificazione o l’altra, diventa femmina o maschio». Il Comm. di Averroè, benchè sia un po’ più chiaro, non dice molto di più: «Masculinitas et femininitas, licet sint passiones essentiales animali et propriae ei tamen non sunt de numero differentiarum essentialium substantialium, sed sunt accidentia essentialia materiae et corporis animalis: sed animal accipitur in definitione earum, non autem illa in definitione animalis» (In X Metaph., t. 25, tom. IX, fol. 275 va). 27 P. J. OLIVI, Quaestiones super II Sent., ed. cit., Jansen, q. XXII, p. 414. – Esagerato invece è il CAMPANELLA che per combattere il principio aristotelico, sostiene l’esistenza di specie composte: «Inter homines quasi plures species
videntur, ut satyrorum, acephalorum, monoculorum, astomorum. Satyros vidit Hieronymus (?), Acephalos Augustinus. De aliis Plinius meminit, et in India coeuntes cum simiis homines hoc tempore (nientemeno!?) faciunt quandoque species mistas. Ergo non sunt numeri, sed possunt variari et misceri...» (Theologicorum libri, lib. I, pp. 176-177). E dire che C. è celebrato come uno spirito moderno, cioè critico! 28 In queste riflessioni, come nelle seguenti, il problema delle differenze individuali e razziali è toccato soltanto dal punto di vista metafisico, senza alcun pregiudizio a quelli che possono essere gli approfondimenti ulteriori che la scienza e la filosofia potranno apportare sull’argomento. Si sa che Leibniz, approfondendo l’originalità dell’ente individuale enunciò il cosiddetto principio degli indiscernibili che riporto nell’ortografia originale: «IL S’ENSUIVENT DE CELA plusieurs paradoxes considérables, comme entre autres qu’il n’est pas vray que deux substances se ressemblent entierement, et soyent differentes solo numero, et que ce que S. Thomas asseure sur ce point des anges ou intelligences – quod ibi omne individuum sit species infima – est vray de toutes les substances, POURVU QU’ON PRENNE LA DIFFERENCE SPECIFIQUE, COMME LA PRENNENT LES GÉOMÈTRES A L’EGARD DE LEURS FIGURES » (Discours de métaphysique, § IX, ed. crit. sul testo autografo di H. Lestienne, Paris, 1929, p. 37). 29 Negli uccelli accade il contrario poichè nella gametogenesi è il maschio che ha la formula xx, mentre la femmina presenta uno solo gamete x, secondo la formula xo. 30 È questo il fatto indicato con i termini di dominanza e recessività, che costituisce, da un punto di vista sia biologico come teoretico, l’aspetto più profondo, ed anche più proficuo, delle più recenti indagini sui fenomeni ereditari, soprattutto nei riguardi dell’uomo. 31 Nella partecipazione univoca si verifica quindi, in un certo modo, e per questo si parla di partecipazione, una «divisio naturae» e questo è dovuto all’imperfezione della natura stessa univoca: «Divisio naturae in pluribus personis, osserva l’Angelico, in hominibus accidit, tum ex imperfectione naturae humanae quae non est suum esse, sed accipit ipsum in supposito suo: unde in diversis hominibus, est secundum diversum esse, tum etiam ex modo distinctionis quia personae humanae distinguuntur per materiam quae est pars essentiae» (In I Sent., Dist. 23, q. I, a. 4, VI, 197 b). 32 «Singula autem individua rerum naturalium quae sunt hic, sunt imperfecta, quia nullum eorum comprehendit in se totum quod pertinet ad suam speciem» (In I De Coelo et Mundo, l. 19, P. XIX, 52 a). 33 Cfr. anche: C. G., I, 44; II, 9, 50 Item; De Pot., II, 1 ad 14um; Ia, q. 5, a. 3 ad 1um; ib., q. 39, a. 4 ad 3um: «Forma significata per hoc nomen homo, id est humanitas, realiter dividitur in diversis suppositis». Ancora: De Pot., VII, 7 ad 3 e ad 4; In I De Coelo et Mundo, l. 19: «Singula autem individua rerum naturalium quae sunt hic, sunt imperfecta quia nullum eorum comprehendit in se totum quod pertinet ad suam speciem» (P. XIX, 52 a). 34 Come vedremo fra poco, l’Angelico commentando Boezio dirà: «Nihil prohibet, id quod per participationem dicitur, substantialiter praedicari» (Comm. in l. De Hebdomadibus, lect. 3a, ed. cit., p. 401). 35 Tutta questa concezione della partecipazione predicamentale è fondata sempre sull’identico principio: qualunque formalità, quand’è considerata «separata» gode di una (certa) propria infinità; ora le Idee divine sono appunto delle «forme separate» rispetto ai singolari che ne partecipano. «Secundum hoc etiam formae universales intellectae habent infinitatem. Sed si forma talis recepta in aliquo de necessitate limitata est quantum ad esse debitum illi formae, non solum quantum ad esse simpliciter: quia non solum non habet plenitudinem essendi simpliciter, sed (nec) totum esse quod naturae illius est possibile fore» (In III Sent., Dist. 13, q. I, a. 2, P. VII, 138 b). Questa dottrina che a noi pare di primaria importanza per la dottrina tomista dell’analogia, susciterà forse delle riserve da parte di qualche aristotelicotomista puro, ma il significato immediato dei testi e l’intimo spirito della dottrina ci pare non lascino dubbi reali su quanto vogliamo insinuare. 36 In questa parte, che costituisce l’aspetto veramente nuovo della speculazione cristiana, pare che S. Tommaso abbia chiaramente avvertito l’insufficienza del pensiero sia platonico come aristotelico. Era nell’essenza del Platonismo che si dessero le Idee solo per le specie e non per gli individui. Anche il Filosofo nel libro XVIII De Animalibus, afferma che solo agli «accidenti specifici» (proprietà essenziali) corrisponde una causa finale; gli accidenti singolari hanno solo cause efficienti e materiali, onde l’Idea corrisponde alla specie e non all’individuo singolare. La radice di quest’attitudine dei due filosofi sta nella posizione comune della materia increata: «Nos autem ponimus Deum esse causam singularis et quantum ad formam et quantum ad materiam. Ponimus etiam quod per divinam Providentiam definiuntur omnia singularia; et ideo oportet nos singularium ponere ideas» (De Veritate, q. III, a. 8). Evidentemente si tratta di una modificazione essenziale che doveva penetrare tutta la concezione dell’essere finito, e che nel Tomismo portò in primo piano dottrine sconosciute al pensiero pagano, quali la creazione e la distinzione fra essenza ed atto di essere, a cui seguì una rielaborazione «ex novo» della dottrina sull’analogia dell’ente. 37 Cfr. anche: «Formae rerum sensibilium perfectius esse habent in intellectu quam in rebus sensibilibus: sunt enim simpliciores, et ad plura se extendentes; per unam enim formam hominis intelligibilem, omnes homines intellectus cognoscit» (C. G., II, c. 50 Item); ciò vale a fortiori ed anzitutto per l’intelletto divino, che conosce tutti gli individui nell’unica idea della specie, secondo la quale gli individui sono stati formati: «in quo etiam aliqualiter salvatur Platonis opinio ponentis ideas secundum quas formantur omnia quae in rebus materialibus existunt» (C. G., I, c. 54; cfr.: De Pot., II, 1 ad 14um). La partecipazione univoca è stata ripresa, con fedeltà, credo, al pensiero tomista da Egidio Romano, di cui appresso riporto alcuni testi. Poi fu quasi completamente dimenticata dai Tomisti. 38 Cfr. anche: Ia-IIae, 61, 1 ad 1um: «Quando genus univocum dividitur in suas species, tunc partes divisionis ex aequo se habent secundum rationem generis, licet secundum naturam rei una species sit principalior et perfectior alia, sicut homo aliis animalibus». Questo che avviene delle specie rispetto al genere nella linea formale, si verifica negli individui rispetto alla specie nell’ambito delle perfezioni individuali.
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Ancora un testo: «Natura speciei ad hoc multiplicatur in pluribus individuis, quia non potest totam perfectionem habere in uno, eo quod individuum est corruptibile, et species incorruptibilis» In I Sent., Dist. 2, q. II, a. 4 ob. 3a: nella risposta ad 3um si concede questa maggiore.
Note parte seconda, sezione terza 1
Comm. in De Ente et Essentia, ed. Laurent, Torino 1934, p. 88. Cfr. la controversia: RAMIREZ-BLANCHE; il Blanche, contro il Ramirez gaetanista, sostiene che è in Fr. Silvestris da Ferrara che possiamo trovare la vera «mens» di S. Tommaso su questo punto. 3 Un’esposizione definitiva della dottrina tomista sull’analogia non può che dipendere direttamente dalla nozione tomista di partecipazione. Nella sua monografia sull’analogia, l’Habbel se n’è accorto e tocca in vari punti la partecipazione, ma è da dolersi che lo faccia solo «recitando» senza alcuna visione sintetica del problema (Dr. J. HABBEL, Die Analogie zwischen Gott und Welt nach Thomas von Aquin, Berlin 1928; cfr.: pp. 13, 31). La nozione di partecipazione compare spesso nel saggio massiccio dell’ottimo tomista M. T.-L. PENIDO, Le rôle de l’analogie en théologie dogmatique, (Bibliothèque Thomiste, XV [1931]), ma essendosi l’A. votato completamente alla tesi gaetanista non riesce a porre la nozione di partecipazione al centro della teoria dell’analogia. Eppure ad un certo momento gli scappa con molta sincerità l’affermazione che S. Tommaso ha potuto risolvere in modo definitivo l’antinomia dell’Uno e dei Molti, dando un fondamento razionale alla dottrina rivelata della creazione: «Débat institué par les Alexandrins, et que Saint Thomas dirima à l’aide de sa doctrine de la participation, fondée sur la distinction réelle entre l’essence et l’existence» (p. 77). Ben detto! solo che il senso della seconda parte della frase sarebbe meglio che fosse invertito: in un primo tempo è la distinzione fra essenza ed atto di essere che è fondata sulla nozione di partecipazione. «Il faudrait donc», aveva ragione di osservare il P. Blanche, «étudier en détail la notion de participation et ses différents modes ou dégrées, pour saisir exactement le jeu de cette analogie» (BLANCHE F. A., Une théorie de l’analogie, in: «Revue de Philosophie», XXXII [1932] p. 58). 4 Metaph., D, 7, 1017, 22-27, 31-33. 5 FR. SLADECZEK, Die verschiedenen Bedeutungen des Seins nach hl. Thomas von Aquin, in: «Scholastik», V (1930), pp. 192-209 e 523-550; il termine «Wahrsein» non si trova usato da Sl., ma credo sia esatto allo scopo: del resto corrisponde all’aristotelico «w`j avlhqe,j». 6 «Cum sit omnium potentialissima [...], formalis abstractio fit per segregationem potentialitatis et materiae, et quanto universalior tanto purior et perfectior, sicque abstractio entis formalis est actus purus, si in tota universalitate abstrahat» (Jo. A S. THOMA, Logica, ed. cit., I, p. 500 a). 7 Cfr. Metaph., Z, 12, 1038 a, 30 sq.; H, 6, 1045 b, 9 sq. e per S. TOMMASO, cfr. Q. De Spirit. creaturis, a. 1 ad 9um. 8 «Quamvis bonitates participatae in creaturis sint differentes ratione, tamen habent ordinem ad invicem, et una includit alteram et una fundatur super altera; sicut in intelligere includitur vivere, et in vivere includitur esse; et ideo non reducuntur in diversa principia, sed in unum» (In I Sent., Dist. 2, q. I, a. 1 ad 1um, ed. Mandonnet, t. I, p. 61; cfr. ibid., Dist. 3, q. II, a. 3 ad 1um; Dist. 5, q. I, a. 2). 9 È una questione ulteriore quella di decidere se il nome più proprio di Dio sia quello di «Ipsum Esse subsistens» o di «Ipsum Intelligere subsistens», che nel suo aspetto tecnico esula dalla nostra ricerca. Un’esegesi accurata del pensiero tomista forse potrebbe conciliare ambedue le posizioni che oppongono fra di loro i seguaci del|l’Angelico su questo punto, come farebbe pensare il testo seg.: «Esse secundum Dionysium est nobilius quam alia quae consequuntur esse; unde esse simpliciter est nobilius quam intelligere, si posset intelligi intelligere sine esse. Unde illud quod excedit in esse, simpliciter nobilius est omni eo, quod excedit in aliquo de consequentibus esse, quamvis secundum aliud possit esse minus nobile» (In I Sent., Dist. 17, q. I, a. 2 ad 3um, ed. Mandonnet, t. I, p. 399). 10 L’esse è detto il dono avrchgikw,teron nel par. 5 del Cap. V del De Divinis Nominibus (P. G., t. 3, 819); ma lo Ps.Dionigi non ha mai in alcun modo anteposto l’esse al bonum e su questo punto la sua posizione collima con quella del De Causis, che cioè l’essere è la prima partecipazione («Prima rerum creatarum est esse», Prop. 4). L’ordine di dignità formale dei Nomi Divini era stato enunziato con chiarezza da Dionigi nel par. 1 dello stesso capitolo: «Kai. ga.r h` tavgaqou/ qewnumi,a ta.j o[laj tou/ pa,ntwn aivti,ou proo,douj evkfai,nousa( kai. eivj ta. o;nta( kai. eivj ta. ouvk o;nta evktei,netai( kai. u`pe.r ta. o;nta kai. u`pe.r ta. ouvk o;nta evsti,n\ `H de. tou/ o;ntoj eivj pa,nta ta. o;nta evktei,netai( kai. u`pe.r ta. o;nta evsti,n) `H de. th/j zwh/j eivj pa,nta ta. zw/nta evktei,netai( kai. u`pe.r ta. zw/nta, evstin» (P. G., t. 3, 815 B ). 11 Raramente S. Tommaso riferisce la nozione intensiva di esse ad Aristotele: cfr. In I Sent., Dist. 8, q. IV, a. 2 Praet., P. VI, 77 a, citazione di «perfectum» di Metaph., D, 16, 1021 b. Ma la nozione aristotelica di «perfectum» come ciò fuor del quale non è possibile trovar nulla, neanche una piccola parte che non gli appartenga, resta in sè molto vaga, e bisogna arrivare ad Averroè per avere una elaborazione di questa nozione di perfetto che si applichi in modo esclusivo a Dio (cfr. Comm. in V Metaph., c. 16, tc. 21; ed. cit., fol. 131 ra). Tutto lo sforzo della metafisica aristotelica, almeno dell’ultima fase, era proteso altrove, nell’affermazione cioè dell’essere in quanto essenza e sostanza ed in rapporto alla sostanza (Metaph., Z, 1, 1028 a, 14-27). 12 J. HABBEL, Die Analogie zwischen Gott u. Welt nach Thomas von Aquin, Berlin 1928, p. 47. 13 P. DESCOQS, Praelectiones Theologiae Naturalis, t. II, p. 559. I timori di P. D. derivano dalla sua metafisica suareziana, nella quale l’analogia dell’essere è fondata su una nozione di partecipazione, intesa esclusivamente come dipendenza causale: su ciò torneremo in seguito. L’antitomismo del P. D. può essere indicato oggi come una posizione sporadica; ad essa s’avvicina di molto questa del suo confratello L. FUETSCHER, nell’opera Akt und Potenz, Innsbruck 2
1934; anche il F. nega che l’esse come actus essendi possa esser detto atto in senso rigoroso (cfr. pp. 116, 124 e passim). 14 P. DESCOQS, op. cit., II, p. 534. 15 Altrettanto dicasi dell’interpretazione che l’Angelico dà alla IV. Prop. del De Causis: «Prima rerum creatarum est esse» (cfr. l. IV, P. XXI, p. 724). Cfr. per la nozione di esse che veniamo esponendo: J. B. LOTZ, Sein und Wert, I Das Seiende und das Sein, Paderborn 1938, p. 136 ss. (§ 14, 2: Das Sein als Fülle). 16 Non tocca a me, in questa ricerca strettamente metafisica, trattare dell’origine fenomenologica di questa nozione di esse come atto assoluto e atto intensivo. Tuttavia secondo il nostro orientamento, accennato nel testo, tale origine non può essere ancora riservata ad un’esperienza privilegiata, p. es. dell’io o dei suoi atti (come sembra orientarsi in senso quasi unanime la Scuola di Lovanio, e fra noi lo Zamboni). Quell’autopercezione dell’io in atto, è in superficie, ed è monovalente (dell’io fenomenologico), non colpisce l’atto di esse metafisico profondo che sostenta in atto ogni realtà e si differenzia per intensità in ciascuna a seconda del suo grado ontologico. 17 Cfr. Comm. in l. De Div. Nom., c. IV, lect. 5a: «Omnis forma, per quam res habet esse, est participatio quaedam divinae claritatis» (ed. Parm., t. XV, p. 307 a). 18 Secondo É. GILSON (L’esprit de la Philosophie Médiévale, I, pp. 237-238) questa nozione di «esse» è una conquista della «Filosofia Cristiana», come tale, poichè solo la Rivelazione della creazione e del nome divino: «Ego sum, qui sum» ha mostrato la insufficienza dell’essenza finita della creatura. Tutto questo, che può essere anche vero, non dispensa dalla ricerca delle tappe per le quali l’uno o l’altro filosofo cristiano è arrivato alla sua nozione di esse – ed è quanto noi abbiamo tentato di fare per quella tomista. 19 Anche perchè la nostra mente può afferrare (attingere) l’«esse existentiae» solo obliquamente, in quanto è congiunto ad un’essenza di cui è atto. Uso della terminologia di esse essentiae e esse existentiae non nel senso della polemica postomista (Egidio Romano e Enrico di Gand), ma per semplice comodità grammaticale. 20 «Res ad invicem non distinguuntur secundum quod esse habent, quia in hoc omnia conveniunt. Si ergo res differunt ad invicem, oportet quod vel ipsum esse specificetur per aliquas differentias additas, ita quod rebus diversis sit diversum esse secundum speciem, vel quod res differant per hoc, quod ipsum esse diversis naturis secundum speciem convenit. Sed primum horum est impossibile, quia enti non potest fieri aliqua additio secundum modum quo differentia additur generi. Relinquitur ergo quod res propter hoc differant quod habent diversas naturas, quibus acquiritur esse diversimode» (C. Gentiles, I, 26 Item.; cfr. II, 94 Amplius; De Veritate, q. X, a. 11 ad 8um). 21 Non credo che il ricorso alla tecnica della «Aufhebung» hegeliana, applicata direttamente al concetto di essere, possa dare risultati convincenti. Cfr. però: Max Müller, Sein und Geist, Systematische Untersuchungen über Grundproblem und Aufbau mittelalterlicher Ontologie, Tübingen 1940, Kap. III: Das Sein der Gründe im Begründeten, p. 164 ss. 22 «Nous affirmons la distinction d’essence et d’être pour rendre possible la multiplicité, puisque l’être apparaît ainsi intrinsèquement varié et n’a pas toute la perfection du simple», A. FOREST, Du consentement à l’être, Paris 1936, p. 96. 23 In I Sent., Dist. 43, q. I, a. 1; In III Sent., Dist. 13, q. I, a. 1; C. Gentiles, II, c. 52 Amplius; S. Th., Ia, q. 4, a. 2; De Spirit. Creat., a. 1; De Substantiis Separatis, c. 8; c. 13, ecc. 24 Anche Avicebron vuol fondare la sua posizione sulla nozione di partecipazione, ma la sua dialettica è l’inverso di quella tomista, poichè fa capo alla potenza e non all’atto: «Cum consideraveris communitatem rerum et collationem earum ad unum, palam fiet tibi per hoc quod hic est res universalis omnibus communis qua omnes participant, hoc est quod si res non participarent aliquid quod esset eis commune, non convenirent in aliquo nec participarent eo quia diversitas suarum radicum prohibet convenientiam in ramis suis» (Avencebrolis Fons Vitae; ed. Baeumker, IV, 10, p. 232). S. Tommaso ha presente questa storpia dialettica in Ia, q. 75, a. 5 ob. 1, e nell’ad 1um la confuta con vivacità; cfr. anche De Subst. sep., cc. 5-8 (l’esposizione critica più completa); Q. De Spiritualibus Creaturis, a. 1 ad 25um; ibid. art. 3: «Quidam vero, secundum eamdem viam ingredientes (scil. Platonis), ex opposito posuerunt quod quanto aliqua forma est universalior, tanto est magis materialis. Et haec est positio Avicebron in libro Fontis Vitae». Sui rapporti fra Avicebron e S. Tommaso, cfr. M. WITTMANN, Die Stellung des hl. Thomas von Aquin zu Avencebrol (Ibn Gebirol), in «Beitr. z. Gesch. d. Philos. u. Th. d. M. A.», Bd. III, 3, Münster i. W. 1900. 25 È esauriente su questo punto il capitolo 18 del De Substantiis separatis (ed. cit., p. 262 ss.) che finisce: «Ex his igitur manifestum est quid circa conditionem spiritualium substantiarum, idest Angelorum sacri Doctores tradiderint, asserentes eos incorporeos et immateriales esse» (p. 265). Sulla storia di questo problema nell’alto Medio Evo, cfr. H. OSTLER, Die Psychologie des Hugo von St. Viktor, Ein Beitrag zur Geschichte der Psychologie in der Frühscholastik, in «Beitr. z. Gesch. d. Theol. u. Philos. d. M. A.», VI, 1, Münster i. W. 1906, pp. 31-43. 26 L’intermediario in questo punto cruciale fra Aristotele e S. Tommaso sembra essere Averroè, di cui è nota la franca opposizione alla distinzione reale affermata da Avicenna: «Pati et recipere, osserva l’Angelico, et omnia huiusmodi, dicuntur de anima et de rebus materialibus aequivoce, ut patet ex Philosopho III De Anima, et ex Commentatore ibidem: unde non oportet quod materia in anima inveniatur; sed sufficit quod sit ibi aliqua potentialitas» (In II Sent., Dist. 17, q. I, a. 2 ad 2um, VI, 531 b). Il testo aristotelico di cui si fa menzione sembra essere: De An. G, 7, 431 a, 5 ss.; ma Aristotele ne aveva parlato anche prima ed in modo più esplicito, cioè in B, 5, 417 b, 1 ss. ed altrettanto si dica del Commento di Averroè, di cui riporto il passo centrale. «Et hoc nomen passio non significat eadem intentionem simplicem, sed quaedam est passio, quae est corruptio patientis a contrario, a quo patitur; ut passio calidi a frigido, et humidi a sicco. (Sed) etiam est quae est evasio patientis in potentia ab eo, quod est in perfectione et actu, secundum quod illud quod est in actu est simile, non contrarium, s. extrahens ipsum a potentia ad actum, econverso dispositioni in prima passione. Iste ultimus modus passionis est dispositio eius quod est in potentia ex anima apud perfectionem moventem illud, quod est in potentia, et extrahentem
eam in actum non secundum primum modum passionis. Iste modus passionis est ex modo qui est evasio patientis ab eo quod est in actu, movens ipsum, non corruptio eius: non enim considerat in aliquo postquam non considerabat, nisi qui scit illud, et haec non est alteratio secundum primam intentionem..., quia ista transmutatio non est ex non esse, sed est additio in trasmutabili et ire ad perfectionem absque eo quod sit illic corruptio, aut mutatio ex non esse, ponitur sicut mutatio ex ignorantia ad scientiam» (AVERROIS CORDUBENSIS, Comm. in II De Anima, tc. 57, ed. cit., Tom. VI, fol. 79 rv). 27 Di questa originale applicazione tomista del principio aristotelico, s’era accorto il primo successore dell’Angelico alla cattedra di Parigi, ROMANO DI ROMA, che riferendo l’opinione della distinzione reale osserva: «Aliis vero (videtur) et credo verius, quod in Angelis non est compositio materiae et formae, et hoc praecipue ratione suae intellectualitatis...» (apud EHRLE, F., L’Agostinismo e l’Aristotelismo nella Scolastica del sec. XIII, Xenia Tomistica, III [1925], p. 370). 28 P. DUHEM sembra dire che è stato l’Alensis a introdurre per primo, fra i latini, la «materia spiritualis» (Le système du monde, t. V, p. 328). In realtà il vero responsabile dell’ilemorfismo universale nell’Occidente cristiano del sec. XIII è stato il celebre traduttore toletano, l’arcidiacono Gundissalvi, sia per la traduzione latina del «Fons Vitae» di Avicebron, sia per aver adottato per conto suo questa dottrina nei suoi opuscoli filosofici (Cfr.: PAUL CORRENS, Die dem Boëthius fälschlich zugeschriebene Abhandlung des Dominicus Gundissalvi De Unitate, in: «Beitr. z. Gesch. d. Phil.-Theol. d. Mittelalters», I, 1, Münster i. W. 1891, pp. 37, 42, 46). Il termine «u[lh nohth, » era stato usato da Aristotele per la determinazione dell’oggetto della matematica (v. Metaph., Z, 10, 1036 a, 9; ibid., H, 4, 1045 a 34); Plotino poi, secondo quanto dicono lo Zeller e il Baeumker, lo trasportò nel piano ontologico degli esseri intelligibili e da Plotino più o meno direttamente lo avrà preso Avicebron.| La stessa origine ha il termine «materia spiritualis» che si trova in S. Agostino (De Genesi ad litt., V, 5, 13; VII, 5, 7; ib., 6, 9; 17, 39) di cui si faranno forti gli Augustiniani del sec. XIII. Qualcuno voleva tirare anche Boezio alle proprie idee per via della dottrina dell’opuscolo «De Unitate» che gli si attribuiva, ma che era dello stesso Gundissalvi, come ha mostrato il Correns. S. Tommaso aveva protestato seccamente contro questa attribuzione dell’opuscolo a Boezio nella Q. de Spiritualibus creaturis, a. 1 ad 2um. 29 Ha studiato in forma metodica l’ambiente pretomistico, ERICH KLEINEIDAM, Das Problem der hylomorphen Zusammensetzung der geistigen Substanzen im 13. Jahrhundert behandelt bis Thomas von Aquin, Lilienthal 1930, spec. p. 23 ss. 30 MARC A., La méthode d’opposition en ontologie, in: «Rev. Néosc. de Phil.», 1931, p. 158. 31 S. SCHIFFINI, Principia philosophica ad mentem Aquinatis, Torino 1892, p. 632 n. 589. 32 Cfr.: P. DESCOQS, Praelect. Theol. nat., ed. cit., t. II, p. 684. 33 DEL PRADO, N., De Veritate fundamentali Philosophiae christianae, Friburgi Helvet. 1911, lib. I, cc. 2-13. 34 Quei pochi fra i tomisti che dal secolo XV in poi si sono accorti di un arg. della distinzione reale secondo la nozione di partecipazione, hanno intesa questa secondo il suo contenuto di dipendenza causale «participare ab alio», senza approfondirne il significato sotto l’aspetto statico come ha fatto S. Tommaso specialmente nelle ultime opere. Cfr.: CAPREOLUS, Defensiones Theologicae, Lib. I, Dist. VIII, q. 1, ed. Paban-Pègues, t. I, pp. 310-311; DOMINICUS DE FLANDRIA, Quaestiones metaphysicales, Bononiae, apud S. Rossi, 1622, t. I, arg. 6., fol. 244 b. CARD. SFORZA PALLAVICINI, Assertiones theologicae, Romae, Corbelletti 1652, t. 8, p. 27. Altrettanto si può dire delle esposizioni recenti della celebre tesi tomista. PETRUS NIGRI, Clipeus Thomistarum, q. 32: Utrum essentia et esse existentie differant in creaturis, ratio 6ª: «Quod competit alicui per naturam, non competit| aliis a se nisi per participationem» (Per Simonen de Luere, Venetiis 1504, fol. 57 ra). L’argomento invece non è neppure indicato da un metafisico come PAOLO SONCINATE (Cfr. Quaestiones metaphysicales, Lib. IV, Q. XII: Utrum esse sit idem realiter cum essentia ut sit ab ea realiter distinctum. Ed. veneta, sumptibus heredum D. Octaviani Scoti, 1505, fol. 10 rb, 12 va). 35 Cfr.: De Veritate, q. XXI, a. 5, 2ª ratio. 36 Così l’ed. Marietti, mentre ci si aspetterebbe «subsistentes». 37 Cfr. anche: In I Sent., Dist. 8, q. I, a. 2 Praeterea. De Veritate, q. II, a. 2. C. G., III, 20. De Pot., I, 2; VII, 3. Ia, q. 4, a. 2; ib., 50, 2 ad 4um, ecc. ecc. 38 Miscellanea Francesco Ehrle, I, Roma, 1924 (M. GRABMANN, Neuaufgefundene Quaestiones Sigers zu den Werken des Aristoteles, pp. 103-147). Ora abbiamo l’edizione integrale di tutto il Commento sigeriano, ad opera di: Cornelio Andrea Graiff, Siger de Brabant, Questions sur la métaphysique. Texte inédit, Philosophes médiévaux, I, Louvain 1948. La nostra questione occupa le pp. 11-22. Essa è stata edita anche da: A. MAURER, Esse and Essentia in the Metaphysics of Siger of Brabant, in «Mediaeval Studies», VIII (1946) pp. 69-74. Cito l’ed. del Graiff. 39 Ed. cit., p. 85 s. 40 Ed. cit., p. 160 s. 41 Una forma meno tecnica dell’arg., applicato alla causalità, si ha sempre nel lib. III, q. 12: Utrum omnium sit causa una (pp. 108-112): «Item, quarta ratio. Illud in entibus quod est per essentiam suam, est causa omnium aliarum quae sunt per participationem; sed unum solum est per essentiam suam et alia sunt per participationem; quare in entibus unum est causa». Se s’intende per «ens per essentiam» lo «ens perfectum», Sigeri accetta volentieri l’argomento: «Hoc supposito verificantur maior et minor. Dicere ergo aliquid habere esse per essentiam, est dicere habere esse perfectum; et sic patet minor, scilicet quod est unum solum per essentiam quia est unum solum perfectissimum» (p. 110, linee 7478). 42 M. GRABMANN, Circa historiam distinctionis essentiae et existentiae, in «Acta Acad. Rom. S. Thomae Aq.», Nova Series, I (1935), p. 71.
43
Il GRABMANN (art. cit., p. 74) scrive «re», ma la mia copia della ed. veneta dà chiaramente «ente» (cfr. col. 236, l. 34). 44 La stampa ha «indistinctis». 45 Augustini Niphi Suessani, Metaphysicarum quaestionum dilucidarium, Venetiis apud Hieronymum Scotum, 1559, p. 219 a. 46 L. c., p. 121 b. Il Nifo combatte la composizione di essenza ed esse «tamquam ex re et re» nel Comm. in III De Anima, tc. 9, Venetiis, apud Hier. Scotum, 1559, coll. 668-69. 47 Si muove nell’ambiente di Scoto e dell’antitomismo il francescano Alessandro Bonini di Alessandria, già ricordato, il quale criticando la tesi tomista della distinzione reale, attacca direttamente l’argomento della partecipazione (cfr.: In XII Aristotelis| Metaphysicae libros, lib. IV, tc. 4, Venetiis apud Simonem Galignanum de Karera, 1572, fol. 119 ra; cfr. lib. VII, tc. 22, fol. 207 rb). Dato che lo pseudo-Alense non fa espressamente il nome di S. Tommaso, non riporto i testi che ho dati altrove (cfr.: C. FABRO, Una fonte antitomista della metafisica suareziana, in «Divus Thomas Plac.», 50 [1947], pp. 64-67). 48 Ed. JANSEN, vol. I, Quaracchi 1922, p. 146. 49 Cfr. Riferenze critiche in: «Bulletin Thomiste», II (1929) pp. 465-466. 50 HENRICI GANDAVENSIS GOETHALS, Quodlibeta, cum Comm. M. Zuccolini (O. Camald., Venetiis apud Jacobum de Franciscis, 1613, fol. 10 ra-vb). 51 Dict. de Théol. Cath., art. Dieu, t. IV, col. 1180. 52 E. HOCEDEZ, Aegidii Romani theoremata de esse et essentia. Texte précédé d’un introduction historique et critique, Louvain 1930, Introd. p. 53. 53 E. HOCEDEZ, op. cit., pp. 116, 117. 54 «Bulletin Thomiste» III, n. 1313, p. 965. 55 Pare dal testo citato che Egidio dia una corrispondenza reale immediata alla composizione nozionale di Genere e Differenza ed in questo pecca certamente di realismo esagerato e si stacca da S. Tommaso: per l’Angelico, come si è visto sopra, tale corrispondenza è soltanto indiretta e proporzionale. Però mi sembra che il Theor. IV, che si reciterà fra poco, temperi un po’ l’esagerazione egidiana. 56 Cfr.: P. GLORIEUX, La littérature quodlibétique de 1260 à 1320, Bibl. Thomiste V, 1925, p. 141. 57 E. HOCEDEZ, Gilles de Rome et Henri de Gand sur la distinction réelle (1276-1287), in: «Greg.», VIII (1927), pp. 358-384. Sulla stessa polemica, v. l’ampio studio di J. PAULUS, Les disputes d’Henri de Gand et de Gilles de Rome sur la distinction de l’essence et de l’existence, in «Arch. d’hist. doctr. et litt. d. M. A.», XIII (1940-42), pp. 323-49. 58 Ed. PELSTER, Münster i. W. 1928, p. 23. 59 PELSTER dà la riferenza ad Egidio, QQ. De Esse et Essentia, q. XI, ediz. veneta 1503, ff. 20 v-21 v, 24 v-25 r. 60 M. GRABMANN, Einzelgestalten aus mittelalterlichen Dominikaner- und Thomistenschule, 4, Kard. Guillelmus Petri de Godino und seine Lectura Thomasina, in Mittelalterliches Geistesleben, II, pp. 559-579. 61 M. GRABMANN, Doctrina S. Thomae de distinctione reali, ecc., pp. 181-182. 62 G. MEERSSEMAN, Les origines Parisiennes de l’Albertisme Colonais, in «Arch. d’hist. litt. et doctr. du M. A.», t. VII (1933), pp. 121-142. 63 Iohannes de Nova Domo, Tractatus de esse et essentia, q. I, prop. IV; ed. G. Meersseman, Geschichte des Albertismus, I, Die Pariser Anfänge des Kölner Albertismus, Lutetiae Parisiorum 1933, p. 101 ss. A p. 104 ss. è criticato direttamente per nome «Sanctus Thomas» perchè «ponit distinctionem realem» fra l’essenza e l’esse. Questa critica è ripetuta da un ardente albertista di Colonia, Heymericus de Campo, nel suo Tractatus problematicus, probl. XVI (G. Meersseman, op. cit., II, Roma 1935, p. 53). 64 Apud: M. GRABMANN, Der Belgische Thomist Johannes Tinctoris († 1469) und die Entstehung der Kommentars zur «Summa Theologiae» des hl. Thomas von Aquin, in «Studia Mediaevalia» (Miscellanea R.-J. Martin O. P.), Brugis s. d. (ma 1948), p. 423. Anche dal modo con cui questo tomista presenta la distinzione fra essenza ed esse, rivela una notevole capacità speculativa (cfr. act. cit., p. 428). 65 Apud: G. MEERSSEMAN, Eine Schrift der Kölner Universitäts-Professor Heymericus de Campo oder des Pariser Prof. Johannes de Nova Domo?, in «Jahrb. des Kölnischen Geschichtsvereins E.V.», Köln, 1936, p. 161 s.
Note parte terza, sezione prima 1
Comm. in Ev. Jo., c. I, lect. 1a, P. X, p. 285 a; cfr. ibid., c. XIV, lect. 1a, P. X, p. 546 b; c. XVIII, lect. 6a, p. 612 b e Ia, q. 16, a. 5; De Verit., q. 27, a. 1 ad 7um; In Ep. ad Rom., c. III, lect. 1, P. XIII, 33 a; In Ep. ad Ebr., c. IV, lect. 2a, ib. 704 b; Ia-IIae, q. 3, a. 7, ecc. 2 Cfr. Comm. in l. De Divinis Nom., c. II, lect. 1 (P. XV, 276 b) ove l’accenno è più benigno: «Integra (Deitas), ad significandum quod Deitas trium Personarum non est Deitas participata (...). Et videntur esse posita ad excludendum errorem Origenis et Arii, qui posuerunt Deitatem Filii esse participatam». Nell’ambiente alessandrino si arrivò adunque alla negazione della consustanzialità del Verbo per l’abuso della nozione di partecipazione. S. Atanasio dice espressamente che, secondo Ario, (il Verbo) «ouvk e;stin avlhqino.j Qeo.j o` Cristo,j( avlla. metoch/| kai. auvto.j evqeo-poih,qh»; il Santo ribatte vivacemente, appellando al testo di S. Pietro (II, 1, 4), secondo il quale è proprio dei fedeli partecipare della divinità, partecipando del Figlio: Auvtou/ gou/n tou/ Ui`ou/ mete,cei ta. pa,nta kata. th.n tou/ Pneu,matoj ginome,nhn parV auvtou/ ca,rin\ kai. fanero.n evk tou,tou gi,netai( o[ti auvto.j me.n o`
Ui`o.j ouvdeno.j mete,cei( to. de. evk tou/ Patro.j meteco,menon( tou/to, evstin o` Ui`o,j) Auvtou/ ga.r tou/ Ui`ou/ mete,contej tou/ Qeou/ mete,cein lego,meqa\ kai. tou/to, evstin( o[ e;legen o` Pe,troj... (Orat. contra Arianos I, c. 9, P. G., t. 26, col. 29, col. 45. Cfr. Ia, 34, 1 ad 1um). Su questo vedi: G. TEICHMUELLER, Aristotelische Forschungen, 3, Geschichte der Begriffe Parusie, Halle, Barthel, 1873, p. 82. Le asserzioni conclusive del T. che la nozione neoplatonica di Parusia e partecipazione non riceve alcun sviluppo passando al Cristianesimo (p. 90) e che rimane immutata a significare ancora «nur die logische Immanenz des Allgemeinen im Einzelnen» (p. 92), mostrano che all’autore è sfuggito sia il significato teologico della salute per Cristo, sia il valore speculativo dell’aristotelismo medievale, e in particolare di quello tomista. 3 Comm. in Evang. Jo., c. I, lect. 1a vedi tutto contesto P. XV, p. 288 b; cfr. ibid., c. XVIII, lect. 3a, p. 595 a; e per la differenza fra l’accipere nelle processioni divine e quello delle creature cfr. De Pot., II, 5 ad 6um; ib., VIII, 1 ad 3um; e Ia, q. 27 a. 2 ad 3um; In III Sent., Dist. 11, q. I, a. 1 e ad 7um. 4 a I , q. 44, a. 1 e ad 1um; cfr. Comp. Theol., c. 76; Pot., III, 5; ecc.: in particolare per la creazione degli Angeli (Ia, q. 61, a. 1; De Subst. separatis, c. 3); dei cieli incorruttibili (In VIII Physic., lect. 21, P. XVIII, p. 532); per la materia prima (Ia, q. 44, a. 2; De Subst. separatis, c. 10). 5 Dei medievali solo Durando sembra abbia negato il concorso divino (simultaneo): ai nostri tempi la negazione è stata ripresa da Jo. STUFLER, prima in: Divi Thomae Aquinatis Doctrina de Deo operante in omni operatione naturae creatae, praesertim liberi arbitrii (Innsbruck, Tyrolia, 1923), che si difese recentemente dalle aspre critiche in una seconda opera: Gott, der erste Beweger aller Dinge, Innsbruck, Rauch, 1936. Per le repliche a quest’ultima cfr. J. GREDT, Die göttliche Mitwirkung im Lichte der thomistischen Lehre von Wirklichkeit und Möglichkeit, in «Divus Thomas Frib.», 1936, h. 3-4, pp. 237-242, che fa ricorso esplicito alla nozione di partecipazione secondo la Ia, q. 105, a. 5. 6 «Si enim intelligatur quod aliquid praeter Deum potuerit semper fuisse, quasi possit esse aliquid aeternum praeter eum, ab eo non factum: error abominabilis est non solum in fide, sed etiam apud philosophos qui confitentur et probant quod omne quod est quoquo modo, esse non possit nisi causatum ab eo qui maxime et verissime habet esse. Si autem intelligatur aliquid semper fuisse, et tamen causatum a Deo secundum totum quod in eo est, videndum est utrum hoc possit stare» De Aeternitate Mundi (1270) (ed. De Maria, I, p. 373). Per un elenco ordinato delle formule cfr.: in FABRO C., «La difesa critica del principio di causa», «Rivista di Filos. Neosc.», XXVIII (1936), pp. 132-133. 7 PROCLO nella Proposit. CXLVII è anche più preciso del laconico testo dionisiano: «Pa,ntwn tw/n qei,wn diako,smon ta. avkro,tata toi/j pe,rasi o`moiou/tai tw/n u`perkeime,nwn) Eiv ga.r sune,ceian ei=nai th/j qei,aj proo,dou( kai. tai/j oivkei,aj e`ka,sthn ta,xin sundede,sqai meso,thsin( avna,gkh ta.j avkro,thtaj tw/n deute,rwn suna,ptein tai/j avpoperatw,sesi tw/n prw,twn) h` de. sunafh. diV o`moio,thtoj) o`moio,thj a;ra e;stai tw/n avrcw/n th/j u`feime,nhj ta,xewj pro.j ta. te,lh th/j u`peridrume,nhj» (ed. Creuzer, p. 218; Dodds, 128 s.). S. Tommaso sviluppa il «principio della continuità» di frequente e con particolare compiacenza; cfr. De Veritate, q. XI, a. 1; q. XV, a. 1; ibid. q. XVI, a. 1; ibid., q. XXV, a. 2; In II Sent., Dist. 39, q. III, a. 1; è forse il testo più esplicito Comm. super Prop. XIX e XXX De Causis; questa ultima prop. è meno chiara dei testi di Dionigi e di Proclo. 8 «Impossibile est aliquod ens creatum quod sit perfecte actus et similitudo omnium entium, quia sic infinite possideret naturam entitatis. Unde solus Deus per seipsum sine aliquo addito, potest omnia intelligere: quilibet autem intellectus creatus intelligit per alias species superadditas» (De Veritate, q. XX, a. 2; cfr. In l. De Divinis Nominibus, c. V, lect. 1; C. G., II, c. 98; Ia, q. 55, aa. 1-2). Solo Iddio «non intelligit alia a se, quasi participando ea, ut per ea fiat intelligens, sicut fit in quocumque intellectu, cuius substantia non est suum intelligere... quia si intelligit participando aliquid aliud superius, sicut per participationem eius inferior intellectus intelligit, sequetur quod erit aliquid aliud principale respectu ipsius, quia ex quo per participationem alterius intelligit, non est intelligens per suam essentiam, ita quod sua substantia sit suum intelligere; sed magis substantia erit in potentia respectu intelligentiae» (De Substantiis separatis, c. 13, ed. cit., pp. 250-251). 9 «Angelus intelligit, non quidem accipiendo a rebus, sed accipiendo lumen a primo uno simplici, scilicet Deo» Comm. in l. De Divinis Nominibus, c. IV, lect. 7, P. XV, 309 b. 10 De Spiritualibus Creaturis, a. 5 ad 7um. 11 Per le referenze al testo di S. Tommaso e alla tradizione tomista su tutta questa dottrina, vedi due esaurienti articoli di H. D. SIMONIN, La connaissance de l’Ange par lui-même, in: «Angelicum», IX, 2 (1932), pp. 43-62, e La connaissance angélique de l’Être créé, ibid. 4 (1932), pp. 387-421. 12 M. SCHELER, Vom Ewigen im Menschen, Leipzig 1923, l. 1, p. 68 ss. Cfr.: Philosophische Weltanschauung, Bonn 1929, p. 92: «Nach Bildung streben heisst mit liebender Inbrunst eine ontische Teilnahme und Teilhabe an allem suchen, was in Natur und Historie weltwesentlich ist, und nicht nur zufälliges Dasein und Sosein..., Liebe zum Wesenhaften». Anche per la unione con Dio l’unica via aperta è quella della partecipazione attiva «... nur durch Mitvollzug, nur durch den Akt des Einsatzes und der tätigen Identifizierung» (Die Stellung des Menschen im Kosmos, Darmstadt 1928, p. 113 s.; nuova ed. München 1947, p. 85). 13 Ha fatto un minuto ed esauriente raffronto delle due teorie: GOTTLIEB SÖHNGEN prima nel Saggio: Die Neubegründung der Metaphysik und die Gotteserkenntnis, Probleme der Gotteserkenntnis, Münster i. W. 1928, pp. 4043 e poi nella tesi dottorale: Sein und Gegenstand, Münster i. W. 1930, VII Hauptstück, Die Teilhabe an den Wesenheiten, p. 210 ss. 14 Cfr. IIa-IIae, q. 23, a. 2 (per l’immanenza della carità). Ma se l’Angelico mette subito in guardia contro gli abusi della dottrina agostiniana, ne conserva insieme la metafisica della partecipazione: «Dicendum quod ipsa essentia divina charitas est, sicuti et sapientia est, et bonitas est. Unde sicut dicimur boni bonitate, quae est Deus (quia bonitas qua formaliter boni sumus est participatio quaedam divinae bonitatis,| et sapientia qua formaliter sapientes sumus est participatio quaedam divinae sapientiae), ita etiam charitas qua formaliter diligimus proximum est quaedam participatio
divinae charitatis. Hic enim modus loquendi consuetus est apud Platonicos, quorum doctrinis imbutus fuit Augustinus» (l. c., ad 1um). 15 Nel Tomismo non c’è adunque partecipazione diretta di «intelligibili», ma partecipazione di un principio fattivo dell’intelligibile; partecipazione cioè «soggettiva» e non «oggettiva», secondo la terminologia da noi adottata. La partecipazione «soggettiva» dell’uomo rispetto a quella «oggettiva», propria delle sostanze separate, rappresenta un grado inferiore di conoscenza, e non una perfezione come erroneamente potrebbe sembrare, e questo per la ragione elementare che l’intendere, nella sua nozione pura, esprime solo la «presenzialità oggettiva» dell’intelligibile, che può esser dato immediatamente assieme all’essere dell’intelligibile (Dio e anche Angeli). Se di fatto questa «presenzialità» è data solo al termine di un certo «sviluppo» reale di potenze e di atti, ciò suppone che l’intelligente è legato al tempo e allo spazio come Prometeo alla rupe. G. SÖHNGEN, nell’art.: Thomas von Aquin über Teilhabe durch Berührung, p. 129 ss., ha caratterizzato la partecipazione gnoseologica tomista rispetto a quella agostiniana, come «participatio causalis» e non «obiectiva», e il termine «p. causalis» è del Gaetano. Però a voler bene essere esatti, non mancano fra i due Dottori dei profondi e reali punti di contatto: anzi in qualche momento si ha l’impressione che S. Tommaso ritenga tutto quanto si ha in Agostino, benchè non sia vero il contrario. Secondo lo GILSON il Dottore africano, preoccupato della soluzione trascendentale del problema della verità, ha poco distinto il problema del concetto da quello del giudizio (Introduction à l’étude de Saint Augustin, Paris 1929, p. 121). Di qui la grande incertezza che ci sarà sempre nell’esegesi del pensiero agostiniano circa la prima origine dell’intelligibile, che da una parte sembra essere acquisito e non innato, e dall’altra non si sa in particolare per qual processo esattamente si abbia quell’acquisto, se esso sia precedente o piuttosto conseguente, in qualche modo, alla presa di possesso che l’anima fa della verità per l’illuminazione divina. Checchè sia di tutto questo, anche nel Tomismo è principio fondamentale che ogni intelletto creato, ed in particolare l’intelletto (agente) dell’uomo, è un «lume partecipato» direttamente da Dio, che è un lume per essenza e questo è spiccatamente agostiniano (cfr. De Veritate, q. X, a. 6; ib. q. XI; De Magistro, a. 1; ib. q. XVIII, a. 1; S. Theol., Ia q. 12, a. 2; ib., q. 84, a. 5; De Spiritualibus Creaturis, a. 10, articolo di rara profondità). Ancora: nel Tomismo, anche se la creatura opera per principî| proprî, largiti da Dio, l’azione divina non si esaurisce nell’atto creativo, ma si prolunga in intensità ed estensione a tutte le manifestazioni dell’essere finito. Iddio conserva l’essere ed i principî operativi, li muove all’agire e infine, quasi col suo sigillo, ne assicura il risultato. Per questo, ed in modo speciale anche secondo l’Angelico, il conoscere umano è, nel divenire e poi nel suo terminare, sotto l’influsso immediato della Verità, che suggella ogni nostra verità: e questo pure è squisitamente agostiniano: «Deus autem, dichiara il nostro Maestro, ad intelligendum hominem juvat, non solum ex parte obiecti, quod homini proponitur a Deo, vel per additionem luminis, sed (1) etiam per hoc quod lumen naturale hominis, quo intellectualis, a Deo est, et (2) per hoc etiam quod cum Ipse sit veritas prima, a quo omnis alia veritas certitudinem habet, sicut secundae propositiones a primis principiis in scientiis demonstrativis, nihil intellectus certum fieri potest, nisi virtute divina, sicut nec conclusiones fiunt certae in scientiis nisi secundum virtutem primorum principiorum» (Comp. Theol., c. 219, ed. De Maria, III, p. 185. Cfr. In I Sent., Dist. 3, q. I, a 2; De Veritate, q. XI, a. 1; q. XIV, a. 8; Ia, q. 84, a. 4). 16 Più chiaro ancora nell’art. seg. 5, ove esamina ex professo la posizione agostiniana: «Alio modo dicitur aliquid cognosci in aliquo sicut in cognitionis principio, sicut si dicamus quod in sole videntur ea quae videntur per solem. Et sic necesse est dicere quod anima humana omnia cognoscat in rationibus aeternis, per quarum participationem omnia cognoscimus. Ipsum enim lumen intellectuale quod est in nobis, nihil aliud est quam quaedam participata similitudo luminis increati, in quo continentur rationes aeternae. Unde dicitur (Ps. 4, 6-7): Multi dicunt: quis ostendit nobis bona? Cui quaestioni Psalmista respondit: Signatum est super nos lumen vultus tui Domine; quasi dicat: per ipsam sigillationem divini luminis in nobis omnia demonstrantur. Quia tamen praeter lumen intellectuale in nobis exiguntur species intelligibiles a rebus acceptae ad scientiam de rebus materialibus habendam; ideo non per solam participationem rationum aeternarum de rebus materialibus notitiam habemus, sicut Platonici posuerunt quod sola idearum participatio sufficit ad scientiam habendam» (Ia, q. 84, a. 5; cfr. Ia-IIae, q. 91, a. 2, contesto identico). 17 Cfr. JO. MUNDHENK, Die Begriffe der «Teilhabe» und des «Lichts» in Psychologie und Erkenntnislehre des Thomas von Aquin, Würzburg 1935, p. 9 ss. 18 De Potentia, q. I, a. 1; ibid., q. II, a. 1; De Veritate, q. II, a. 4; Ia, q. 84, a. 4 ad 1um; ibid., q. 85, a. 1 ad 2um; In I Sent., Dist. 15, q. V, a. 3 ad 3um. Il punto di partenza in questa dottrina della «species» oggettiva è il testo aristotelico: «ouv ga.r o` li,qoj evn th|/ yuch|/Ã avlla. to. ei=doj» (De Anima G, 9, 431 b, 29). L’idea angelica raggiunge tutta l’intensità formale dell’oggetto, ma non tutta quella reale; quella umana non raggiunge nè l’esse reale, nè tutto l’esse formale; il conoscere umano sotto qualunque punto si guardi è sempre doppiamente per partecipazione – ma non è anche l’uomo un ente doppiamente per partecipazione? 19 È opportuno ricordare quanto S. Tommaso sia discreto sulla natura della nostra conoscenza delle essenze. «Cognitio nostra, dice, est adeo debilis quod nullus philosophus potuit unquam perfecte investigare naturam unius muscae; unde legitur quod unus philosophus fuit triginta annis in solitudine, ut cognosceret naturam apis» (In Symbolum Apostolicum Expositio, P. XVI, p. 135). 20 «Quando cognoscens accipit speciem a re, tunc haec species accepta est simplicior et immaterialior in cognoscente quam in re quae cognoscitur» (De Anima, a. 17 ad 4um. Cfr. C. G., I, c. 44, Amplius 2; ibid., II, c. 50 Item). 21 Si potrebbe dire che l’esigenza dell’intervento divino nella conoscenza umana è sentita non tanto per il primo sorgere delle idee, quanto per i giudizi di verità assoluta nei quali il nostro intelletto si eleva al di sopra del mondo in cui vive; questa «emergenza» non è opera delle sue forze, ma di una partecipazione divina. Qui la partecipazione, come causalità, raggiunge il significato più intenso: «Sicut aër sine illuminante manet tenebrosus, ita et intellectus noster, nisi a prima veritate illuminetur, de se in mendacio remanet. Unde quantum est de se omnis homo est mendax secundum
intellectum, sed solum est verus in quantum veritatem divinam participat» (In Epist. ad Romanos, c. III, lect. 1, P. XIII, 33a). E altrove: «Sicut esse creatum quantum est de se vanum est et defectibile, nisi contineatur ab ente increato, ita omnis creata veritas defectibilis est, nisi quatenus per veritatem increatam rectificatur» (De Veritate, q. XIV, a. 8; cfr. In I Sent., Dist. 19, q. V, a. 2). 22 Abbondanti referenze tomiste in PEGHAIRE, J., Intellectus et ratio selon S. Thomas, Publications de l’Institut d’Études médiévales d’Ottawa VI, 1936, p. 174 nota 1. 23 De Veritate, q. XV, a. 1; q. XVI, a. 1; q. XXV, a. 2; In III Sent., Dist. 25, q. I, a. 2; De Ver. I, 4 ad 1; In Jo., c. 8, lect. 2. 24 «Praeexistunt enim in ipsa (natura humana) naturaliter principia demonstrationum per se nota, quae sunt semina quaedam sapientiae, et principia quaedam iuris naturalis quae sunt semina quaedam virtutum moralium» (De Veritate, q. XIV, a. 2; cfr. q. XI, a. 1 ad 5um; q. XVIII, a. 6). Altrove è detto esplicitamente che i primi prin|cipî sono «innati quodammodo». Cfr. In II Sent., Dist. 24, q. II, a. 3; In IV Sent., Dist. 49, q. I, a. 3, Sol. III; De Veritate, q. X, a. 6 ad 6um. Questa terminologia che era comune agli agostiniani (v. MATTHAEUS AB AQUASPARTA, QQ. De Fide et cognitione, Ad Aquas Claras, 1903, q. 1, p. 53) scompare nelle opere tomiste della maturità, nelle quali l’origine dei primi principî è affidata in senso assoluto all’evpagwgh,, che li cava dall’esperienza, non solo per quanto riguarda il contenuto dei termini isolati, ma anche rispetto alla connessione dei medesimi. Su questo cfr. C. FABRO, Knowledge and Perception in the aristotelic-thomistic Psychology, in: «The New Scholasticism», XII (1938), pp. 337-365. 25 «Scintilla animae» era detto di fatto dai Medievali; il termine è conosciuto anche da S. Tommaso che glossa: «Haec virtus “scintilla” convenienter dicitur, quia sicut scintilla est modicum quid ex igne evolans, ita haec virtus est modica participatio intellectualitatis respectu eius, quod de intellectualitate in angelo est, et propter hoc etiam superior pars rationis “scintilla” dicitur, quia in natura rationali supremum est» (In II Sent., Dist. 39, q. III, a. 1). Cfr. H. WILLMS, De scintilla animae, in «Angelicum», XIV, 1-2 (1937), pp. 194-211. V. anche il riassunto di: O. RENZ, Die Synteresis nach dem hl. Thomas von Aquin, in «Beitr. z. Gesch. d. Philos. u. Theol. d. M. A.», Bd. X, 1-2, Münster i. W., 1911, p. 14 ss. 26 Cfr.: M. GRABMANN, Der göttliche Grund menschlicher Wahrheitserkenntnis nach Augustinus und Thomas von Aquin, Münster 1924, p. 53 ss. 27 Questa dottrina, si sa, è fondata metafisicamente sulla teoria dell’emanazione delle facoltà dell’anima, e, rispettivamente poi, di ciascuna facoltà inferiore da quella che è immediatamente superiore, da ciò si può comprendere il «contatto» e l’«affinità» cioè la partecipazione di cui si parla (cfr. Ia, q. 77, a. 6-7). 28 Nella IIIa, q. 18, aa. 3-4 l’appetito «in quantum oboedit rationi» è detto «voluntas per participationem». Cfr.: De Malo, q. VII, a. 6 ad 1um. I testi aristotelici principali a cui si richiama S. Tommaso sono: Eth. Nic. A, 13, 1102 b, 13, 29. Cfr.: R. EUCKEN, Über die Methode und die Grundlage d. arist. Ethik, Frankfurt a. M. 1870, p. 19. 29 Comm. in I Ethic., lect. 20; è questo testo aristotelico che ispira direttamente la dottrina tomista; cfr. In II Sent., Dist. 25, q. I, a. 3 ad 3um; Dist. 27, q. I, a. 2 ad 3um; Dist. 41, q. II, a. 2 ad 1um. In III Sent., Dist. 17, q. II, Sol. II; Ia-IIae, q. 26, a. 1; ib. q. 56, a. 4; ib. q. 56, a. 6 ad 2um; Q. De Anima, a. 11 ad 15um; De Veritate, q. XXV, a. 2 ad 6um ex Damasceno; ibid., q. XXV, a. 6 ad 1um e ad 12um. 30 a I , q. 77, a. 7: «Videmus enim quod sensus est propter intellectum et non e converso. Sensus etiam est quaedam deficiens participatio intellectus; unde secundum naturalem originem quodammodo est ab intellectu sicut imperfectum a perfecto». 31 Cfr. C. FABRO, Percezione e pensiero, 2a ed., Brescia 1962, p. 198 ss. 32 Per le riferenze averroiste cfr.: C. FABRO, Knowledge and Perception in the Aristotelic-thomistic Psycology, in: «The New Scolasticism», XII, 4 (1938), pp. 353-355. Il testo di Dionigi, che comanda tutta questa teorica è stato dato nella parte storica. 33 «Dicendum quod intellectu aliquo modo alia animalia participant per quamdam obscuram resonantiam, in quantum sentiunt: sicut et voluntate participant, in quantum habent appetitum sensualem; unde et in brutis voluntarium invenitur ut dicit Philosophus III Eth. (G, 4, 1111 b, 8) non quod simpliciter voluntatem habeant» (In III Sent., Dist. 27, q. I, a. 4, ad 3um; ed. Moos, t. III, p. 370). 34 Comm. in l. III De Anima, lect. 4, n. 629; cfr. In l. De Sensu et Sensato, lect. 2, n. 25; In III De Anima, l. 5, n. 644; De Veritate, q. XV, a. 1; q. XXV, a. 2; anche: In III Sent., Dist. 26, q. I, a. 1. 35 De Potentia, q. V, a. 8; cfr. In IV Sent., Dist. 44, q. II, a. 1, Sol. III, e ad 2um; ibid., q. III, a. 1, Sol. III, ad 2um; De Veritate, q. XXVII, a. 4 ad 4um; Ia, q. 78, a. 3; De Sensu et Sensato, lect. 5, n. 62. Cfr. C. FABRO, Percezione e pensiero, p. 30 ss. 36 Egregio sviluppo anche in: Q. De Anima, a. 1, II parte. 37 PEGHAIRE, J., op. cit., p. 182.
Note parte terza, sezione seconda 1
E più sotto: «Homo, in quantum per creationem producitur in participatione intellectus, producitur quasi in similitudinem speciei ipsius Dei; quia ultimum eorum secundum quae natura creata participat similitudinem naturae increatae est intellectualitas» (In III Sent., Dist. 10, q. II, a. 2, sol. I; cfr. ibid., Dist. 9, q. I, a. 2 ad 2um; Dist. 23, q. I, a. 4 ad 1um; Q. De Caritate, a. 7 ad 5um. Cfr. anche: In III Sent., Dist. 2, q. I, a. 1, Sol. I ad 3um; Dist. 28, q. I, a. 2 ad 2um, ad 3um (de imagine Dei). 2 Per uno sviluppo di questo punto cfr.: M. MATTHIJS, Quomodo anima humana sit naturaliter capax gratiae, secundum doctrinam S. Thomae, in «Angelicum», XIV, 1-2 (1937), pp. 175-193. 3 Sull’imperfetta visione, propria della Fede, v.: De Ver., q. XIV, a. 9 ad 2um.
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«Fides habet aliquid perfectionis et aliquid imperfectionis: perfectionis quidem est ipsa firmitas, quae pertinet ad assensum; sed imperfectionis est carentia visionis, ex quo remanet adhuc motus cogitationis in mente credentis. Ex lumine igitur simplici, quod est fides, causatur id quod perfectionis est scilicet assentire, sed in quantum illud lumen non perfecte participatur, non totaliter tollitur imperfectio intellectus: et sic motus cogitationis in ipso remanet inquietus» (De Veritate, q. XIV, a. 1 ad 5um; cfr. In Boëth. De Trinitate, q. II, a. 2; cfr. anche: De Veritate, q. XIV, a. 10 ad 2um). 5 «Ultima et completissima participatio suae (= divinae) bonitatis consistit in visione essentiae ipsius, secundum quam convivimus socialiter quasi amici, cum in ea suavitate beatitudo consistat» (In III Sent., Dist. 19, q. I, a. 5, Sol. I, P. VII, 205 b). «Cum ergo ultimus finis quasi exterior humanae voluntatis sit Deus, non potest esse quod aliquis actus voluntatis sit interior fini; sed ille actus erit ultimus finis interior quo primo hoc modo se habebit ad Deum, ut voluntas quietetur in ipso. Haec autem est visio Dei secundum intellectum, quia per hanc fit quasi quidem contactus Dei ad intellectum: cum omne cognitum sit in cognoscente secundum quod cognoscitur» (In IV Sent., Dist. 49, q. I, a. 1, Sol. II; cfr.: ib., q.la IV, Sol. I ad 3um, e In Ep. ad Hebr., c. IV, lect. 3a, XIII, 700 a per la «participatio duplex Christi»). L’«intelligere» come «contactus intellectus ad rem intelligibilem» è una nozione platonica (C. G., II, c. 98); cfr. però anche ARISTOTELE, Metaph., L, 7, 1072 b, 20-22). 6 «Ibidem (in coelo) plenitudo omnis boni et immunitas ab omni malo, est etiam desideranti perfecta visio et tentio, hic autem (in terra) sunt omnia contraria istis» (In Ep. ad Hebr., c. IV, lect. 2, P. XIII, 703 b; cfr. Compendium Theologiae, c. 255). 7 V. anche IIa-IIae, 23, 1; ib., 2 ad 1um; IIIa, 2, 10 ad 1um (differenza fra Grazia e Incarnazione): «Gratia quae est accidens, est quaedam similitudo divinitatis participata in homine. Per incarnationem autem humana natura non dicitur participasse similitudinem aliquam divinae naturae, sed dicitur esse coniuncta ipsi divinae naturae in persona Filii. Maius autem est res ipsa quam similitudo eius participata». 8 Il punto di partenza della speculazione teologica intorno alla partecipazione propria alla Divinità, che ci viene per via della grazia, è l’energica espressione di S. Pietro, (II Epist. I, 3-5): «~Wj ta. pa.nta h`mi/n th/j qei,aj duna,mewj auvtou/ ta. pro.j zwh.n kai. euvse,beian dedwrhme,nhj dia. th/j evpignw,sewj tou/ kalh,santoj h`ma/j ivdi.a| do,xh| kai. avreth|/( diV w-n ta. ti,mia kai. me,gista h`mi/n evpagge,lmata dedw,rhtai( i[na dia. tou,twn| ge,nhsqe qei,aj koinwnoi. fu,sewj( a.pofugo,ntej th/j evn tw|/ ko,smw| evn evpiqumi,a fqora/j». Il Mundhenk (op. cit., p. 12, n. 74) dà un’espressione simile in Giuseppe (C. Ap., I, 232): «qei,aj metaschke,nai fu,sewj» e rimanda anche a Hebr. 12,10 osservando che il testo della Volgata («in recipiendo sanctificationem eius») trascura la nozione di partecipazione. Il Bernhart parla senz’altro di una «hellenistische Denkweise» (Die philosophische Mystik des M. A., München 1922, p. 252, n. 29). La dottrina paolina della salute per Cristo e dell’inabitazione dello Spirito Santo nell’anima fedele, dànno un contenuto definitivo e realistico all’espressione di S. Pietro. Il fedele è detto «me,tocoj tou/ Cristou/ » (II Cor. 3,4); «me,tocoj tou/ pneu,matoj a`gi,ou» (Hebr. 6,5; 12,8) e tutti i cristiani sono detti «klh,sewj evpourani,ou me,tocoi» (Hebr. 3,2). 9 R. GARRIGOU-LAGRANGE, La grâce est-t-elle une participation de la Déité telle qu’elle est en soi?, in: «Revue Thomiste», N. S. XIX (1936) p. 470 ss. 10 Comp. Theol., c. 196; cfr. In II Sent., Dist. 32, q. I, a. 3 Sed contra; Comm. in Ep. ad Rom., c. V, lect. 3; Ia-IIae, q. 81, a. 1; vedi anche De Malo, IV, 1. 11 Altrove, richiamandosi al pensiero di S. Atanasio da noi sopra ricordato, osserva: «Ipse (Christus) naturaliter est sanctus, cuius participatione omnes alii sancti vocantur» (In Epist. I ad Cor., c. II, lect. 3a, XIII, 170 a; cfr.: In Epist. ad Romanos, c. VIII, lect. 3a, XIII, 80 b; In Epist. ad Hebr., c. IV, lect. 3a, XIII, 700 a). E la carne di Cristo «dicitur deificata... quia facta est Dei caro et etiam quia abundantius dona Divinitatis participat ex hoc quod est unita divinitati» (In III Sent., Dist. 5, q. I, a. 2 ad 6um). 12 Onde «aliqui dicuntur uniti (Deo), sed non ita quod habeant essentiam divinitatis unitam, sed quia participant eius aliquid» (In Epist. ad Titum, c. II, lect. 3a, XIII, 655 a). 13 Ma la Beata Vergine Maria, dopo Cristo e sotto Cristo, ha avuto la pienezza della grazia e per questo superò non solo gli uomini, ma anche tutti gli Angeli e Santi, non solo in quanto non ebbe peccato alcuno nè poteva averlo (a), ma sia (b) perchè esercitò tutte le virtù, sia (c) perchè la sua divina Maternità le ha ottenuto un’intercessione universale. «Ipsa etiam exercuit omnia virtutum opera, alii autem sancti specialia quaedam: quia alius fuit humilis, alius castus, alius misericors; et ideo ipsi dantur in exemplum specialium virtutum, sicut beatus Nicolaus in exemplum misericordiae, etc. Sed Beata Virgo in exemplum omnium virtutum...». (Quantum ad refusionem in omnes homines): «Magnum enim est in quolibet sancto quando habet tantum de gratia quod sufficit ad salutem multorum, sed quando haberet tantum quod sufficeret ad salutem omnium hominum de mundo, hoc esset maximum: et hoc est in Cristo et in Beata Virgine» (In Salut. angelicam Expositio, XVI, pp. 132-133; nella III P., q. VII, a. 10 ad 1 distingue la «plenitudo gratiae» del Cristo che è «quantum potest haberi», da quella della Vergine [e di S. Stefano] che è «quantum [B.M.V.] potest habere»; ma anche con questo la grazia di Maria rappresenta una pienezza rispetto a quella di tutti i Santi). 14 Cfr.: IIIa, q. 3, a. 5 ad 2um; q. 23 a. 3 e spec. a. 4: «Dictum est supra quod filiatio adoptionis est participata similitudo filiationis naturalis». 15 IIIa, q. 19, a. 1 ad 1um; ma cfr. lo sviluppo in De Veritate, q. XXVII, a. 4; In III Sent., Dist. 18, q. I, a. 1 ad 1um; e Comp. Theol., c. 212. S. Tommaso ha potuto, sembra, assimilare la sconcertante terminologia della q. e., che tanti sospetti suscitò a carico dell’ortodossia dionisiana, soprattutto per le chiarificazioni che vi apportò il Damasceno, che in questa parte è il maestro della cristologia tomista. Questo tardo dottore della Chiesa greca aveva affermato che l’umana natura nel Cristo era come o'rganon th/j qeioth,toj (De Fide orthodoxa, lib. III, c. 19, P. G. 94, col. 1080 b; cfr. ibid., c. 15, col. 1060 a).
La teologia tomista sul Cristo Mediatore si appoggia oltre che sulle affermazioni esplicite di S. Paolo e sulla teoria di Dionigi e del Damasceno circa l’Umanità del Cristo, anche su principî aristotelici, particolarmente nel suo sviluppo speculativo: come la teoria aristotelica del «medium morale» (Ethic. Nic., B, 6) e quella del «medium physicum», che è l’intermediario fra l’agente e l’effetto (Physic., Q, 7, 262 a, 19-28). A particolare importanza assurse una suggestione, di ordine piuttosto secondario nel testo aristotelico, cioè la distinzione fra strumento congiunto (la mano), e strumento separato (lo schiavo) (Politic., A, 4, 1253 b, 28): l’Umanità di Cristo è lo strumento congiunto della Divinità, mentre tutti gli altri ministri sono strumenti separati nelle opere del culto divino. Di qui scaturisce l’intima partecipazione che ha il Sacerdozio cristiano al Cristo. Su la questione in generale vedi: SCHELLER, E., op. cit., pp. 44-53; e per le relazioni fra il Damasceno e San Tommaso su questo punto cruciale vedi: BACKES, J., Die Christologie des hl. Thomas v. Aquin und die griechischen Kirchenväter, Paderborn 1932, pp. 215-216). 16 Cfr.: ZORELL, F., Lexicon graecum novi Testamenti, Parisiis 1931: koinwne,w, koinwni,a, coll. 719-720 e mete,cw, col. 831. 17 La Liturgia Cattolica ha conservato questi profondi accenti e li ripete di frequente nelle sue ufficiature ai fedeli per suscitare in essi quella viva fede che la predicazione apostolica andava accendendo un tempo negli spiriti delle raffinate città greco-asiatiche. a) Il mistero dell’Incarnazione e della nostra salute come mistero di partecipazione reciproca, è ricordato con espressioni di preghiera e di fiducia dal Sacerdote mentre infonde le poche gocce d’acqua nel Calice: «Deus qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquae et vini mysterium eius Divinitatis esse consortes qui humanitatis nostrae fieri dignatus particeps, Jesus Christus Filius Tuus Dominus noster...» (Canon Missae). Parimenti nel Prefazio dell’Ascensione è detto che Gesù Cristo dopo la Risurrezione si è levato al Cielo, alla presenza di tutti i discepoli, «ut nos divinitatis Suae tribueret esse participes». b) Ma la partecipazione di cui si fa più frequente menzione nella Liturgia è quella che hanno i fedeli ai misteri del Corpo e del Sangue del Signore, che è chiamata «partecipazione dell’altare» (Canon Missae, «Supplices Te rogamus»), «partecipazione| del santo mistero» (Postc. Dom. II Adv.; Postc. Oct. Epif.). Per esso Dio ci fa partecipi della Somma Divinità: «Deus qui nos per huius Sacramenti veneranda commercia unius Summae divinitatis participes effecisti» (Secreta Dom. IV p. Pascha). Lo Scheller ha contato per 46 volte il ricorso della Chiesa nella sua Liturgia alla nozione di partecipazione per ricordare ai fedeli che nell’Eucaristia essi hanno una vera partecipazione al Corpo e al Sangue di Cristo e quindi alla grazia salutare e alla redenzione, onde si trovano ormai posti sul piano della Divinità, e «scelti» da Dio per vivere un’altra vita (cfr.: SCHELLER, E., op. cit., pp. 72-73). Per un fedele la nozione di partecipazione dovrebbe essere una delle più familiari, come quella che esprime la natura stessa della sua inserzione nella vita soprannaturale e queste indicazioni elementari, prese dai documenti più autorevoli della nostra fede, confermano come il termine non sia stato scelto per caso, ma abbia una propria portata che la speculazione teologica dovrà determinare e approfondire, mai eliminare.
Note parte terza, sezione terza 1
Lo specchietto non va considerato con assoluto rigore, per il fatto che anche la partecipazione univoca (participare essentiam) va detta un participare similitudinem; si vuol soltanto indicare che nel secondo membro della divisione il participare similitudinem può esprimere in modo metafisico la differenza fra le due partecipazioni ed il passaggio graduale che si può avere dalla prima alla seconda. Su questo, cfr. De Potentia, q. VII, a. 7 ad 2um, e ad 3um. Chiarificazioni maggiori si potranno dare soltanto trattando ex professo dell’analogia. 2 S. Tommaso aveva letto questa divisione triadica nella Prop. 103 della Elementatio Teologica. «Pa,nta evn pa/sin) oivkei,wj de. evn e`ka,stw| kai. ga.r evn tw|/ o;nti kai. h` zwh. kai. o` nou/j( kai. evn th/| zwh|/ to. ei=nai kai. to. noei/n( kai. evn tw|/ nw|/ to. ei=nai kai. to. zh|/n| avllV o[pou me.n noerw/j( o[pou de. zwtikw/j( o[pou de. o;ntwj o;nta pa,nta) VEpei. ga.r e[kaston hv . katV aivti,an evsti.n( h; kaqV u[parxin( h; kata. me,qexin) e;n te tw|/ prw,tw| ta. loipa. katV aivti,an evsti. kai. evn tw|/ me,sw|) to. me.n prw,ton kata. me,qexin) to. de. tri,ton katV aivti,an( kai. evn tw|/ tri,tw| ta. pro. auvtou/ kata. me,qexin( ktl)» (ed. Creuzer, 152; Dodds, 92). Il principio ritorna nello Ps. Dionigi, De Div. Nom. 4, 7: ai` pa,ntwn evn pa/sin oivkei,wj e`ka,stw| koinwni,ai (P. G., t. 3, col 704 C). 3 G. Isaye scrive: «Le mot participation exprime heureusement la relation d’une perfection partielle et complexe à une unité qui est en même temps perfection totale» (La théorie de la mésure..., p. 66). Nel rigore del linguaggio tomista il rapporto non è fra due perfezioni, ma piuttosto fra il soggetto partecipante e ciò ch’è tale per essenza. 4 E. SCHELLER, Das Priestertum Christi, p. 67. 5 Cursus Theologicus iuxta D. Thomam, t. V, Tr. XIV, Disp. IV, Dub. III; 1 (n. 38): Recta notitia participationis; ed. Veneta, 1861, pp. 559 b - 560 a, e cfr.: n. 59, pp. 568 b - 569 a; n. 66, p. 732 a. 6 Nohto.j gi,gnetai Îo` nou/jÐ qigga,nwn kai. now/n: Metaph., L, 7, 1072 b, 21. Per altri testi, v. BONITZ, Ind. arist., 331 a, 45 - l. 5. Sul significato del termine, v.: J. STENZEL, Zahl und Gestalt..., p. 182. 7 G. SÖHNGEN, Die neuplatonische Scholastik und Mystik der Teilhabe bei Plotin, in: «Philosophisches Jahrbuch», 49 (1936), pp. 114-118. 8 P. DESCOQS, Praelectiones Theologiae Naturalis, II, 1935, p. 661.
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Ibid. op. cit., II, p. 818. Praelectiones, I, (1932), pp. 181-182; cfr.: ibid., p. 29, e II (1935), p. 640; v. anche: Institutiones Metaphysicae Generalis, I, Paris 1925, p. 249, n. 2. 11 Praelectiones, I, p. 155; II, p. 7, pp. 45-46 e passim. 12 Questa osservazione, s’intende, non pregiudica in alcun modo quello che può essere un intervento particolare della Causalità divina. 13 LA VIA, V. , Il problema della fondazione della filosofia e l’oggettivismo antico dalle origini ad Aristotele, Varese, 1936, pp. 155-156.
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Note conclusione 1
N. MAURICE-DENIS, L’être en puissance selon Aristote, Paris, 1922, apud FOREST, op. cit., p. 150. A. FOREST, La structure métaphysique du concret, pp. 150-151. 3 Questo che si può chiamare il «principio di emergenza» (dell’atto sulla potenza), Proclo lo enuncia nei termini seguenti: Dei/n de. th.n avrch.n mhdeno.j e`te,rou mete,cein( dio,ti tou/ metecome,nou deu,teron avnagkai/on ei=nai to. mete,con (In Parm., ed. Cousin2, Paris 1864, pp. 1078-1079). 4 M. ROLAND-GOSSELIN, Le «De Ente et Essentia», Études critiques, p. 197. 5 Cfr. ora: J.-D. ROBERT, Le principe: «Actus non limitatur nisi per potentiam subjectivam realiter distinctam», in «Revue philosophique de Louvain», 47 (1949), p. 52 ss. 6 De Subst. Separatis, ed. De Maria, c. 8, pp. 233-234, ed. Perrier, p. 151 s. Per questo anche le sostanze immateriali possono sottostare ad una classificazione logico-categoriale secondo genere e differenza, in quanto che la sostanza dell’Angelo funge da potenza e da soggetto rispetto all’atto di essere, ed ogni Angelo è più o meno in potenza rispetto all’atto di essere in quanto è più o meno perfetto. La differenza specifica fra gli angeli è data dalla varietà dei gradi di perfezione o meglio dalla particolare proporzione che ha ogni essenza angelica, secondo il suo grado di perfezione, all’atto di essere come è detto in Quodlib. IX, q. IV, a. 6 ad 3um, e cfr. Q. De Anima, a. 7 ad 17um. Anche su questo punto S. Tommaso è originale sia rispetto ad Aristotele come ai Maestri suoi contemporanei. 7 De Spiritualibus Creaturis, a. 1 ad 1um. Cfr. passi paralleli: In II Sent., q. I, a. 1 ad 1um; Ia, q. 50, a. 2 ad 2um; ibid., q. 54, a. 2 ad 2um e a. 3 ad 2um; Q. De Anima, a. 6 ad 1um, ecc. Il testo boeziano in questione si trova nel cap. II, che è tutto dedicato a mostrare come la Divina Sostanza è «pura forma» che non consta di parti e che «materia ac motu caret». Veramente Boezio oppone forme materiali ed immateriali in generale e si comprende come S. Tommaso s’affatichi non poco per arrivare, o meglio, per sollevarsi alla propria posizione. «Sed divina substantia, dice Boezio, sine materia forma est, atque ideo unum est et id quod est. Reliqua enim non sunt id quod sunt; unumquodque enim habet esse suum ex his quibus est, i. e. partibus suis: et est hoc atque hoc, id est partes suae coniunctae, sed non hoc est; et est pulcherrimum, fortissimumque, quia nullo nititur. Quocirca hoc vere unum, in quo nullus numerus, nullum in eo aliud praeterquam id quod est, neque enim subiectum fieri potest: forma enim est, formae vero subiectae esse non possunt. Nam quod ceterae formae subiectae accidentibus sint, ut humanitas non ita accidentia suscipit, eo quod ipsa est, sed eo quod materia ei subiecta est. Dum enim materia subjecta humanitati suscipit quodlibet accidens, ipsa hoc suscipere videtur humanitas. Forma vero quae est sine materia, non potest esse subiectum, nec vero inesse materiae: neque enim esset forma, sed imago» (De Trinitate, c. II, P. L., 64, col. 1250 CD). 8 De Anima G, 4, 429 b, 10 segg. Su questa difficile pericope, cfr.: DE CORTE M., La doctrine de l’Intelligence chez Aristote, Paris, 1933, Appendice II, p. 276 e segg. 9 Il Filosofo distingue fra di loro h` sa,rx e to. sarki. ei=nai, come concreto e astratto, ma non è detto, anzi lo spirito dell’Aristotelismo piuttosto lo esclude, che tale distinzione sia reale, quale sarà la distinzione tomista fra supposito e natura. La distinzione Boeziana fra «quod est» e «esse» pare ben essere stata, dal punto di vista dei testi, l’intermediaria fra la immanenza del naturalismo aristotelico e la trascendenza della metafisica tomista con la tesi della distinzione reale fra supposito e natura e fra essenza ed atto di essere. (Per la posizione di Aristotele, cfr.: M. D. ROLANDGOSSELIN, Le «De Ente et Essentia», p. 137 e segg.). 10 Aristotele ha un doppio termine per indicare l’atto: evne,rgeia e evntele,ceia. I Commentatori sia antichi, come recenti non s’accordano sui rapporti che i due termini possono avere, anche perchè sembra che Aristotele alle volte ne usi indifferentemente. Se si parte dall’etimologia più naturale, come sembrano fare il Filopono e Simplicio, si potrebbe dire che evntele,ceia dice la possessione perfetta del proprio essere (con raggiungimento del fine: to. o;n&te,leion&sune,cein); evne,rgeia, invece direbbe l’atto in senso assoluto, quello che è la perfezione di una facoltà nel suo esercizio. Il termine evntele,ceia, indica così la perfezione delle cose mobili ed il risultato dell’agire, onde è l’atto finale del paziente in quanto è passato completamente all’atto; il termine evne,rgeia, indica piuttosto l’atto di ciò che muove, dell’agente in atto d’agire (cfr.: JO. PHILOPONUS, In libros Aristotelis De Anima, ed. Hayduck, Berlino 1897, 208, 37-209, 1). La nozione di evntele,ceia, secondo le geniali ricerche dello Jaeger e del Bignone, è tipica dell’ultimo Aristotele, poichè il primo Aristotele, quello platonico aveva usato, per designare l’anima, non evnt& ma evndele,ceia, come testimonia chiaramente Cicerone (Tusc., I, 10, 22). Per il primo Aristotele l’anima era una quinta natura, principio semovente (auvtoki,nhton) di un moto continuo e sempiterno = evndelece,j, come voleva Platone. Per l’ultimo Aristotele, l’anima è forma e atto di una potenza che è il suo corpo, e non è una natura propria (i`diofue,j) ma è parte di una natura (cfr.: BIGNONE E., L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, P. I, Firenze, 1935, pp. 227-272). La discussione critica dei testi è stata fatta da: H. BURCHARD, Der Entelechiebegriff bei Aristoteles und Driesch, Quakenbruck 1928, I Teil, p. 5 ss. 2
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La «forma» (ei=doj) ha la priorità ontologica nel concetto di sostanza (v. Metaph., H, 3, 1043 b, 11). W. JAEGER, Aristoteles, trad. ital. p. 551. 13 GILSON É., L’esprit de la Philosophie Médiévale, première série, Paris 1932, p. 67 e ss., e cfr. le note a p. 236 e ss. 14 W. D. ROSS, Aristotle’s Metaphysics, t. I, p. 308. 15 «Illud quod est magis verum dicere quod aeterna (scil. Dio, Intelligenze e corpi incorruptibili) sunt priora substantiis sensibilibus, et nullum aeternorum est in potentia; quod est manifestius et magis verum est dicere, quod res aeternae sunt priores generabilibus et corruptibilibus» (Comm. in IX Metaph., tc. 17, ed. cit., fol. 243 v a). 16 «Potentia multipliciter dicitur: est enim potentia in substantia, in alteratione et ubi» (Comm. in XII Metaph., tc. 41; i corpi celesti hanno la potenza solo all’«ubi»: fol. 324 r a). Al tutto esplicito è un altro Commento del Libro IX ove, dopo aver radicato la potenza passiva nella materia e quella attiva nella forma, conchiude: «Omnes istae definitiones et istae potentiae, non dicuntur aequivocae, quia omnes habent definitionem primae potentiae. Et intendit (Arist.) quod cum consideratum fuerit de istis potentiis in utroque genere, videntur attribui primae potentiae. In definitione enim omnis potentiae passivae accipitur potentia primae potentiae, et similiter in definitione primae potentiae activae accipitur definitio actionis primae formae quae est absoluta a materia» (Comm. in IX Metaph., tc. 2, fol. 227 r a b). La nozione è ripetuta nell’«Epithome Metaphysicae» in un testo parallelo al precedente: «De omnibus his dicitur nomen potentiae modo similitudinis. Sed nomen potentiae quod plurimum fit in scientiis et manifestius apud Philosophos est illud quod est aptum inveniri post in actu, et talis est potentia quae dicitur de materia, et ut diximus, convenientius dicitur de ea nomen potentiae: nam quicquid numeravimus de rebus, de quibus dicitur nomen potentiae, si animadvertas, invenies eas dici secundum huiusmodi similitudinem» (AVERROIS CORDUBENSIS, Epithome Metaphysicae, ed. cit., Tom. IX, fol. 361 v b - 362 r a). 17 Ed Aristotele aveva ancora affermato, per primo, il carattere analogico e trascendentale della nozione di ens (cfr. Metaph., B, 3, 998 b, 20 sg.), dottrina che può essere considerata come l’ultima radice da un punto di vista logicometafisico della posizione tomista. 18 E. SCHELLER, Das Priestertum Christi, p. 69. E lo Sch. è tentato quasi a diminuire l’importanza della partecipazione, affermando che nel Tomismo si tratta «meist nur von einer “gewissen” Anteilnahme», mentre il rapporto di atto-potenza è qualcosa di chiaro e determinato (p. 70). Noi abbiamo dato al problema una formula più comprensiva e aderente ai testi. 19 Anche Proclo ha presente in modo esplicito la coppia di atto e potenza (cfr. Elementatio Theologica, Prop. 77, Creuzer, 120; Prop. 79, Creuzer, 122) ma, se ho ben letto, essa rimane come giustapposta e non si vede alcun sforzo per assimilarla alla coppia di partecipato e partecipante; ciò forse è dovuto al fatto che i membri della divisione platonica dell’essere non erano due, ma tre: Impartecipato (avme,qekton), Partecipazioni (meqe,xeij) e Partecipanti (mete,conta), come se n’era bene accorto anche S. Tommaso. L’assimilazione può avvenire con la soppressione di uno di quei tre membri (le partecipazioni, come ipostasi separate) ed è questo punto che S. Tommaso, come è stato notato a suo luogo, ha afferrato con sicuro intuito, trascinando con sè anche lo Ps. Dionigi. 20 In: «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», Paris 1926-27. 21 A. GARDEIL, S. Thomas et l’illuminisme Augustinien, Appendice II, al t. II, di La structure de l’âme et l’expérience mystique, Paris, 1927, p. 319. 22 A. FOREST, La structure métaphysique du concret, p. 321. 23 Il testo esprime quindi che il «participare» tomista abbraccia tanto la causalità formale-esemplare come quella efficiente. Secondo il Söhngen la nozione tomista di partecipazione si ridurrebbe alla causalità efficiente (strumentale) aristotelica «... freilich ohne dem Teilhabegedanken eine beherrschende Stellung anzuweisen, da nun doch die wirkursächlich verstandene Teilhabe eine uneigentliche Teilhabe ist» (Symbol und Wirklichkeit im Kultmysterium2, «Grenzfragen zwischen Theologie und Philosophie», IV, Bonn 1940, p. 47). Nel nostro testo il I modo esprime come prima partecipazione la derivazione di somiglianza ch’è tipicamente partecipazione formale («accipere proprietatem naturae alicuius»). Anche il II modo, l’assimilazione conoscitiva, appartiene alla partecipazione formale. Ci sembra che nel Tomismo (e soprattutto nell’àmbito teologico che direttamente interessa il S.) la partecipazione formale stia all’inizio (come esemplare da raggiungere) e alla fine (come conformità raggiunta) dello sviluppo operato dalla causa efficiente. Per questo ho creduto di far precedere, dal punto di vista della genesi teoretica dei problemi, la trattazione della partecipazione statica (o costitutiva) a quella dinamica (o produttiva) perchè in senso assoluto anch’io – come il S. – ritengo che questa dipende da quella. Se la nostra ricerca ha colto nel segno, S. Tommaso non ha optato per la causalità aristotelica contro l’esemplarità platonica: lo studio delle Fonti e dello sviluppo dei problemi della struttura del concreto, sia nell’ordine della natura come in quello della grazia, ha mostrato che l’Angelico ha voluto ed ha saputo fondere le due esigenze in cui si era scisso il pensiero classico. Il problema del rapporto fra la causalità formale ed efficiente nell’àmbito della partecipazione, lo riservo perciò ad un secondo tempo. 24 Il testo della Prop. 103 di Proclo, da cui S. Tommaso prende questa divisione, è stato già riportato (cfr. p. 320 s.). Ma su questo punto circa il senso preciso dello «omnia in omnibus», la scuola neoplatonica (come si vedrà trattando della causalità) non era concorde (cfr. la testimonianza in merito dello stesso Proclo: In Tim., [37], ed. Diehl, Lipsiae, 1906, t. III, p. 33, 1 ss.). 12