Dopo i successi dei tre precedenti romanzi del ciclo Blood Ties usciti in questa collana (Il prezzo del sangue, Tracce ...
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Dopo i successi dei tre precedenti romanzi del ciclo Blood Ties usciti in questa collana (Il prezzo del sangue, Tracce di sangue e Linee di sangue), tornano i protagonisti Vicki Nelson, il vampiro Henry Fitzroy e l'investigatore Mike Cellucci, questa volta impegnati a risolvere il mistero del trafugamento di un cadavere. Ma è un'indagine molto particolare: non si tratta infatti di un cadavere qualsiasi, poiché è proprio quello della madre di Vicki, Marjory Nelson, morta apparentemente di infarto. IL LIBRO DAL QUALE È TRATTA LA SERIE TV
BLOOD TIES
Tutto ha inizio con una telefonata che nessuna figlia vorrebbe mai ricevere. L'investigatrice privata Vicki Nelson viene a sapere che sua madre è morta. La Nelson, che lavora come segretaria al Dipartimento di Scienze della Queen's University, è informata dal suo superiore che la causa della morte è stata attribuita a un attacco cardiaco, e che adesso lei è attesa a Kingston per il funerale. Ma quella che comincia come una normale tragedia personale diventa però il caso più spaventoso di tutta la carriera di Vicki. Infatti, quando Vicky arriva a Kingston scopre che il corpo della defunta Marjory Nelson è misteriosamente scomparso dall'agenzia di pompe funebri dove si trovava. Vicki, il vampiro Henry Fitzroy, suo collega di indagini e a volte amante, e il suo excollega della Squadra Omicidi, il detective Mike Celluci, sono allora costretti a indagare per capire le ragioni di cosa si nasconda dietro quell'incredibile rapimento. ODISSEA VAMPIRI DELOSBOOKS
Tanya Huff è nata nel 1957 ad Halifax, nella Nova Scotia (Canada), e risiede attualmente nelle campagne dell'Ontario insieme alla sua compagna Fiona Patton. Ha conseguito una laurea in Arti Radiofoniche e Televisive presso il Ryserson Polytechnic, ha scritto molti romanzi e diverse raccolte di racconti che hanno ricevuto importanti riconoscimenti, fra i quali numerose nomination all'Aurora Award. Dopo aver lavorato per otto anni (1984—1992) presso Bakka, la più grande libreria specializzata in fantascienza del Nord America, l'autrice si è impegnata nel suo progetto più ambizioso, la serie dei Blood Books, un ciclo di romanzi di cui sono protagonisti l'investigatrice privata Vicki Nelson impegnata nelle sue indagini insieme al compagno—vampiro Hery Fitzroy e al detective Mike Celluci, per il quale Vicki prova sentimenti di amore e odio. Nel 2007 da questi libri è stata realizzata la serie televisiva Blood Ties, giunta alla seconda stagione e trasmessa anche in Italia su AXN, canale 134 di Sky, e su Alice Home TV, La Huff è stata membro della giuria per il premio Philip K. Dick e scrive regolarmente recensioni per il Toronto Globe, il Mail, e per la rivista Realms.
In copertina: immagine da Blood Ties ©2007 2104023 Ontario Inc. and Bitten Productions Blood Ties is a trade mark of Kaleidoscope Entertainment Inc. Courtesy of Insight Film Studios and Kaleidoscope Entertainment
Di Tanya Huff, per il ciclo «BLOOD TIES» in questa collana sono già apparsi:
Vol. 1 — IL PREZZO DEL SANGUE Vol. 2 — TRACCE DI SANGUE Vol. 3 — LINEE DI SANGUE Vol. 4 — PATTO DI SANGUE di imminente uscita: Vol. 5 — DEBITO DI SANGUE
ISBN 978-88-95724-38-6 Titolo originale: BLOOD PACT Traduzione di Annarita Guarnieri Prima edizione: novembre 2008 Seconda edizione, giugno 2009 © 1993 by Tanya Huff © 2008 by Delos Books
«Odissea» Vampiri — volume n. 7 — ristampa Finito di stampare nel mese di giugno 2009 per conto della Delos Books Srl., Milano, dalla tipografia Stampa Editoriale Srl — Avellino Printed in Italy
Capitolo primo — Signora Simmons? Sono Vicki Nelson, l'investigatore privato di Toronto, ricorda? — esordì Vicki, poi fece una pausa, chiedendosi quale fosse il modo migliore per esporre le informazioni di cui disponeva. Oh, al diavolo... pensò quindi, mentre riprendeva: — Abbiamo trovato suo marito. — È... è vivo? — Sì, signora, decisamente vivo. Sta lavorando come perito assicurativo sotto il nome di Tom O'Conner. — Don lavora da sempre nelle assicurazioni. — Sì, signora, è stato così che lo abbiamo trovato. Le ho appena inviato per corriere un plico contenente una copia di tutto quello che abbiamo scoperto, incluso un certo numero di recenti fotografie, e lei dovrebbe ricevere il tutto prima di domani a mezzogiorno. Non appena mi avrà confermato l'identificazione, porterò le informazioni alla polizia, in modo che lo possano prelevare. — Già una volta la polizia credeva di averlo trovato, a Vancouver, ma quando sono andati a prenderlo lui era scomparso. — Ebbene, questa volta sarà là ad aspettarli — garantì Vicki, appoggiandosi allo schienale della sedia e insinuando la mano libera sotto gli occhiali, per massaggiarsi gli occhi. Nel corso di otto anni di servizio nella Polizia Metropolitana di Toronto e di quasi due anni come investigatore privato, aveva visto alcuni veri figli di buona donna, e Simmons/O'Conner figurava fra i peggiori. Chiunque fingesse la propria morte al solo scopo di scaricare una moglie e cinque figli meritava esattamente quello che gli succedeva. — Stanotte il mio socio andrà a parlare con lui, e credo che suo marito deciderà di rimanere esattamente dove si trova. Il bar era angusto e fumoso, con tavoli troppo piccoli per essere utili e sedie troppo stilizzate per essere comode. La birra era troppo
cara, il liquore era servito con troppo ghiaccio e il menu consisteva in un miscuglio di almeno tre tipi di cucina quasi etnica, oltre ai soliti cibi carichi di grassi e di carboidrati. Il personale era costituito interamente da persone giovani, attraenti e intercambiabili, mentre la clientela era composta da soggetti più maturi, non altrettanto attraenti, anche se questa era una cosa che tutti stavano cercando disperatamente di mimetizzare, e ugualmente anonimi. Al momento, quello era il bar più in voga della città, e tutti gli arrampicatori sociali di Toronto si spintonavano per varcarne la porta, il venerdì sera. Henry Fitzroy si soffermò appena oltre la soglia, scrutando la folla dei presenti con occhi socchiusi. L'odore di così tanti corpi accalcati nell'ambiente ristretto, il martellare di così tanti cuori che battevano all'unisono con la musica assordante che fuoriusciva da una dozzina di altoparlanti appesi alle pareti, la percezione di tante vite in così poco spazio erano tutti fattori che stavano facendo affiorare di prepotenza la Fame, minacciando di scatenarla. Tuttavia era schizzinoso e quello, più che la forza di volontà, fu sufficiente a tenerla a freno: nell'arco di oltre quattrocento cinquanta anni di vita, Henry non aveva mai visto così tante persone che si sforzavano così intensamente, e vanamente, di divertirsi. In condizioni normali, quello era il genere di posto in cui lui non avrebbe mai messo piede neppure da morto, ma quella notte era a caccia, e quello era il luogo che la sua preda aveva scelto per imboscarsi; quando si allontanò dalla soglia, la folla si aprì per lasciarlo passare, e alle sue spalle si creò una scia di supposizioni esternate a mezza voce. — Ma chi crede di essere... — ... te lo dico io, quello è qualcuno... Henry Fitzroy, figlio bastardo di Enrico VIII, un tempo Duca di Richmond e Somerset, Lord Presidente del Consiglio del Nord, notò con un sospiro interiore che c'erano alcune cose che non cambiavano mai, mentre sedeva al bancone, su uno sgabello che un giovane si era affrettato a lasciare libero, e allontanava il barista con un cenno. Alla sua destra, una giovane donna attraente inarcò un sopracciglio bruno in un esplicito gesto di invito. Lo sguardo di
Henry si abbassò sulla vena che pulsava nella colonna d'avorio del collo di lei, e quasi involontariamente ne seguì la linea fino a dove essa scompariva sotto le morbide pieghe di seta color magenta che aderivano alle spalle e al seno della donna, ma pur con rammarico alla fine rispose con un silenzioso rifiuto. La donna registrò sia il suo sguardo sia il suo rifiuto e si concentrò su prede più ricettive, mentre Henry si sforzava di mascherare un sorriso: a quanto pareva, non era il solo cacciatore in circolazione quella notte. Alla sua sinistra, un'ampia schiena coperta dalla giacca di un abito grigio scuro gli occludeva la maggior parte della visuale. I capelli sovrastanti la giacca erano stati pettinati ad arte in modo da nascondere i punti in cui cominciavano a diradarsi, così come il taglio del vestito serviva a nascondere i punti del corpo che il sopraggiungere della quarantina aveva appesantito. Allungando una mano, Henry batté un lieve colpetto su una spalla della giacca di lana. L'uomo al suo interno si volse e si accigliò nel trovarsi davanti qualcuno che non conosceva, poi scivolò nelle profondità di un paio di occhi nocciola, molto più scuri di quanto avrebbero dovuto essere, e molto più profondi di quanto fosse normale per due occhi mortali. — Dobbiamo fare due chiacchiere, signor O'Conner. Soltanto un uomo dalla volontà molto più forte sarebbe riuscito a distogliere lo sguardo. — Anzi, credo sia meglio che lei venga con me — continuò Henry, mentre un sottile velo di sudore appariva sulla la fronte del suo interlocutore. — Questo posto è un po' troppo pubblico per quello di cui intendo... discutere — aggiunse, permettendo a un paio di lunghi canini di essere visibili per un istante appena fra le labbra socchiuse. — E allora? Fermo accanto alla finestra, con una mano premuta contro il vetro, Henry dava l'impressione di essere intento a contemplare le sottostanti luci della città, ma stava invece osservando il riflesso della
donna seduta sul divano, alle sue spalle. — E allora cosa? — ribatté. — Henry, smettila di fare il rompiballe nonmorto. Hai convinto il signor Simmons/O'Conner a rimanere dove si trova fino all'arrivo della polizia? Amava osservarla, studiare il succedersi delle emozioni sul suo volto, guardarla mentre si muoveva e quando era a riposo. L'amava, ma quello era un argomento di cui non si poteva discutere, quindi la sua risposta si limitò a un laconico: — Sì. — Bene. Spero che tu lo abbia terrorizzato a morte, già che c'eri. — Vicki — replicò Henry, girandosi con le braccia conserte sul petto e la fronte aggrottata in un'espressione di disapprovazione che era solo in parte fasulla. — Non sono il tuo personale uomo nero, che tu possa tirare fuori dal cassetto ogni volta che ritieni di dover incutere... — Hai un'alta opinione di te stesso, vero? — ...il timore di Dio a qualcuno... — continuò Henry, ignorando l'interruzione. — Ti ho mai trattato come il mio personale uomo nero? — ritorse lei, sollevando la mano per troncare la sua immediata protesta, mentre proseguiva: — Sii sincero. Tu hai determinati talenti, proprio come io ne ho altri, e quando ritengo che sia necessario, li utilizzo. Inoltre — aggiunse, assestandosi gli occhiali sul naso, — hai detto che volevi essere maggiormente coinvolto nel mio lavoro, che volevi darmi una mano in un numero maggiore di casi, adesso che hai consegnato Pinnacolo di Passione Purpurea e che hai tempo fino al mese prossimo prima di cominciare un altro capolavoro di romanticismo.
— Pene d'Amore in Corso — precisò Henry, che non vedeva
motivo di vergognarsi del fatto di scrivere romanzi rosa a fondo storico, perché era una cosa ben pagata e in cui era bravo; dubitava tuttavia che Vicki avesse mai letto uno dei suoi libri, perché non era tipo da apprezzare, o da desiderare, di sfuggire alla realtà con quel genere di letture. — Quello che ho fatto stanotte non era quello che avevo in mente, quando ho detto che desideravo essere
maggiormente coinvolto. — Henry, ormai è passato più di un anno — gli fece notare Vicki, che pareva divertita, — e a questo punto dovresti sapere che la maggior parte delle investigazioni private è costituita da giorni e giorni di noiosissime ricerche, e che le situazioni eccitanti e pericolose sono molto rare e distanziate nel tempo. Henry si limitò a inarcare un sopracciglio ramato. — Senti, non è colpa mia se la gente continua a tentare di uccidermi, e di uccidere anche te — affermò Vicki, con aria un po' contrita. — In ogni caso, sai anche tu che quelle erano le eccezioni che confermano la regola. Stanotte — proseguì, ripiegando sotto il sedere un piede calzato da una scarpa da ginnastica, — avevo bisogno di convincere un perdigiorno... che meritava di essere terrorizzato, dopo quello che ha fatto passare a sua moglie e ai suoi figli... a rimanere dove si trova fino all'arrivo della polizia. Stanotte avevo davvero bisogno di te, Henry Fitzroy, vampiro. Nessun altro ci sarebbe potuto riuscire. Riflettendoci sopra, Henry si sentì disposto a concedere che nessun altro avrebbe potuto svolgere quell'incarico altrettanto bene, anche se un paio di massicci mortali e una quindicina di metri di corda avrebbero avuto più o meno lo stesso effetto finale. — Non ti piaceva proprio, vero? — commentò. — No, non mi piaceva — confermò Vicki, arricciando le labbra. — Un conto è abbandonare le proprie responsabilità, ma ci vuole un tipo di idiota davvero speciale per farlo in modo tale da indurre tutti a darlo per morto. Lo hanno pianto, Henry, si sono disperati per lui, e quel figlio di buona donna si stava costruendo una nuova vita libera da problemi mentre loro portavano fiori su una tomba vuota, tutti i sabati. Se non fosse stato inquadrato sullo sfondo di quel notiziario nazionale, i suoi familiari lo starebbero ancora piangendo, e secondo il mio modo di vedere, lui ha un grosso debito con loro. — Ebbene, in tal caso sarai lieta di sapere che, per usare la tua poco elegante espressione, se l'è fatta addosso dalla paura. — Bene — approvò Vicki, allentando la mano serrata intorno a un cuscino. — Ti... uh... ti sei nutrito?
— Avrebbe importanza, se lo avessi fatto? — ribatté Henry, chiedendosi se Vicki sarebbe stata disposta ad ammetterlo, se davvero la cosa per lei avesse avuto importanza. — Il sangue è sangue, Vicki, e la sua paura era abbastanza intensa da risvegliare la Fame. — Lo so, e so che ti nutrì anche da altri. È solo che... — Vicki si passò una mano fra i capelli, che le rimasero ritti sulla testa come spuntoni biondi. — È che... — No, non mi sono nutrito da lui — affermò Henry. Il sorriso involontario che affiorò sulle labbra di lei era tutto ciò che avrebbe mai potuto chiedere, e lo indusse ad attraversare la stanza per vederlo meglio. — Allora probabilmente avrai fame. — Sì — annuì lui, prendendole la mano e accarezzandole leggermente con il pollice la pelle sul lato interno del polso, il cui battito accelerò sotto il suo tocco. Vicki cercò di alzarsi, ma lui la spinse di nuovo a sedere mentre chinava il capo e lasciava scorrere la lingua lungo la sottile linea azzurra della vena. — Henry, se non ci muoviamo subito, non sarò in grado di... — cominciò Vicki, poi la voce le si spense a mano a mano che il cervello le si concentrava su altre cose, e le ci volle un notevole sforzo per allentare la gola contratta e costringere la propria bocca a funzionare, per aggiungere: — Finiremo per rimanere sul... divano. Henry sollevò la bocca per il tempo appena sufficiente a mormorare un "e allora?" che costituì la sola affermazione coerente di cui entrambi furono capaci. — Le quattro del mattino — borbottò Vicki, frugando nella borsa alla ricerca delle chiavi del suo appartamento. — Altre due ore e avrò fatto in piedi il giro dell'orologio. Di nuovo. Perché continuo a fare questo a me stessa? — Quasi in risposta alla sua domanda, il polso le diede una lieve fitta che la indusse a sospirare nell'aggiungere: — Come non detto. Era una domanda stupida.
Poi i muscoli le si tesero lungo tutta la schiena quando la porta, inaspettatamente, si spalancò in tutta la sua ampiezza, con la catena di sicurezza che pendeva sganciata e dondolava avanti e indietro, con un lieve sfregamento di metallo contro il legno. Trattenendo il respiro, vagliò ed escluse tutti i suoni abituali del suo appartamento, il rumore del motore del frigorifero, lo sgocciolio di un rubinetto, il distante ronzio della sottostazione idrica, dall'altra parte della strada, e individuò così un sottile ronzio metallico, che sembrava simile a... Era quasi riuscita a capire di cosa si trattasse quando un rumore improvviso cancellò ogni speranza di identificazione: un orribile rosicchiare, schiacciare e stritolare che si protrasse per una decina di secondi, prima di cessare.
Triterò le sue ossa per farne il mio pane... fu l'immagine più
approssimativa che le venne in mente quando cercò di capire cosa mai stesse succedendo. E tutto considerato, non posso ignorare la possibilità che sia applicabile una traduzione letterale, aggiunse fra sé. Dopo i demoni, i lupi mannari e le mummie, per non parlare dell'onnipresente vampiro della sua esistenza, il fatto che nel suo salotto potesse esserci un gigante divoratore di cristiani le sembrava tutt'altro che impossibile, per quanto potesse apparire un evento improbabile. Sfilatasi dalla spalla la grossa borsa di cuoio nero, l'afferrò al volo appena prima che colpisse il pavimento: con la cinghia avvolta due volte intorno al polso, quella borsa costituiva un'arma tale da incutere timore perfino a un gigante. È un bene che mi sia tenuta quel mattone, rifletté. La cosa più sensata da fare sarebbe stata richiudere la porta, correre fino alla cabina telefonica all'angolo e chiamare la polizia.
Sono troppo stanca per queste stronzate, pensò, sgusciando senza far rumore nell'appartamento. Coraggio delle quattro di mattina. Davvero splendido. Sollevando ciascun piede di appena un centimetro dal pavimento e riadagiandolo con cautela esagerata, percorse il breve corridoio d'ingresso e svoltò l'angolo che dava accesso al salotto, tutti i sensi tesi al massimo. Nel corso degli ultimi mesi aveva cominciato a convincersi del fatto che se anche la retinitis pigmentosa l'aveva
completamente privata di qualsiasi capacità di vedere di notte, d'altro canto l'udito e l'odorato stavano provvedendo a compensare quella perdita. Infatti in quel momento ai suoi occhi l'appartamento appariva buio come se fosse stata bendata, sebbene sapesse benissimo che il lampione all'esterno della porta finestra forniva una certa illuminazione nonostante le persiane, e che in casa il buio non era mai assoluto. Ecco, non poteva dire di essere del tutto bendata, perché perfino ai suoi occhi non poteva sfuggire la chiazza di luce che doveva essere costituita dalla televisione addossata alla parete opposta, in funzione senza audio. Si fermò, tenendo pronta l'arma improvvisata, poi piegò il capo da un lato e colse il profumo di un ben noto dopobarba, misto a un odore di... di formaggio? L'improvviso allentarsi della tensione per poco non la fece crollare a terra. — Celluci, cosa diavolo ci fai qui a quest'ora? — A te cosa sembra che stia facendo? — ribatté in tono beffardo una voce familiare. — Sto guardando un film incredibilmente stupido, con l'audio abbassato, e sto mangiando patatine al formaggio decisamente stantie. A proposito, da quanto tempo avevi questa roba in giro per casa? Vicki cercò a tentoni la parete, poi fece scorrere le dita su di essa fino a trovare l'interruttore della luce centrale; sbattendo le palpebre per liberare i suoi sensibili occhi dalle lacrime prodotte dall'improvviso chiarore, adagiò lentamente la borsa sul pavimento, certa che il signor Chin, che abitava nell'appartamento sottostante, non avrebbe gradito di essere svegliato dall'impatto di una decina di chili di chincaglierie che sbattevano contro il suo soffitto. Il detective Michael Celluci sollevò lo sguardo su di lei dal divano e posò da un lato il sacchetto di patatine vuoto per metà. — Hai avuto una brutta nottata? — borbottò. — In realtà no — sbadigliò Vicki, liberandosi della giacca e gettandola sullo schienale della sedia a sdraio. — Perché? — Quelle che hai sotto gli occhi sembrano più un paio di valigie che non delle borse — dichiarò Celluci, tirando giù le gambe dal
divano e stiracchiandosi. — A trentadue anni non ci si riprende come si era soliti fare a trentuno. Hai bisogno di dormire di più. — Cosa che avevo tutte le intenzioni di fare — dichiarò Vicki, attraversando la stanza e protendendo un dito a spegnere la televisione, — finché non sono tornata a casa e ti ho trovato nel mio salotto. E non hai ancora risposto alla mia domanda. — Quale domanda? — ritorse lui, sfoggiando un sorriso affascinante; purtroppo otto anni passati prestando servizio al suo fianco nella polizia, gli ultimi quattro portando avanti una relazione intima... un'etichetta davvero precisa per una situazione complicata... avevano reso Vicki decisamente immune dall'effetto che la sua bellezza classica era solita avere sulle donne. — Sono troppo stanca per questi giochetti, Celluci. Vieni al dunque. — D'accordo. Sono passato per sentire cosa ti ricordavi di Howard Balland. — Un furfante da quattro soldi — rispose Vicki, scrollando le spalle, — alla perenne ricerca del colpo grosso, che però non saprebbe riconoscere neppure se gli addentasse il posteriore. Credevo avesse lasciato la città. — È tornato, in un certo senso — spiegò Celluci, allargando le mani. — Stanotte sul presto, un paio di ragazzini hanno trovato il suo corpo dietro un negozio di libri, giù sulla Queen Street West. — E tu sei venuto a vedere se ricordavo qualcosa che potrebbe aiutarti a inchiodare il suo assassino? — Hai fatto centro. — Mike, sono stata nella squadra antifrodi solo per tre mesi, prima di essere trasferita alla omicidi, e per di più è stato un mucchio di tempo fa. — Quindi non ricordi niente? — Non ho detto questo... — Ah. — Quella singola sillaba conteneva una dose spropositata di sarcasmo. — Sei stanca, e preferiresti fartela con il tuo amichetto nonmorto piuttosto che dare una mano a trovare il bastardo che ha
tagliato la gola a un vecchio e innocuo truffatore. Capisco. — Di cosa diavolo stai parlando? — domandò Vicki, interdetta. — Sai di cosa sto parlando. Eri da qualche parte a giocare a Vlad l'Impalatore con quel fottuto Henry Fitzroy! Le sopracciglia di Vicki si contrassero a formare una profonda V, cosa che la costrinse a riassestarsi gli occhiali sull'arco del naso. — Non ci posso credere. Sei geloso! Adesso erano petto contro petto, e sarebbero stati naso a naso se non fosse stato per la differenza di statura esistente fra loro: anche se Vicki era alta un metro e settantasette, infatti, Celluci sfiorava il metro e novantatré di altezza. — GELOSO! — esplose. Nel corso degli anni, Vicki aveva imparato quanto bastava di italiano per riuscire a seguire il senso delle sue affermazioni successive. La lite stava appena cominciando a salire di tono quando una voce sommessa si insinuò in una pausa fra le urla di entrambi. — Chiedo scusa... Con il volto congelato in una ridicola espressione ringhiante, entrambi si girarono a fronteggiare l'avvizzito e preoccupato signor Chin, che si stava stringendo contro il petto la vestaglia di broccato borgogna con una mano fragile e stava tenendo l'altra sollevata come per catturare la loro attenzione. Quando vide di essere riuscito nell'intento, sorrise nel silenzio che era calato sulla scena. — Grazie — disse loro. — Ora vogliamo vedere se ci riesce di mantenere in essere la situazione attuale? — chiese poi, e subito dopo sospirò nel vedere l'espressione perplessa di entrambi, aggiungendo: — Permettetemi di esprimere la cosa in modo più semplice: sono le quattro e ventidue del mattino. Fate silenzio. — Il signor Chin attese per un momento, annuì e lasciò l'appartamento, richiudendosi delicatamente la porta alle spalle. Con gli orecchi che le si stavano arroventando per la vergogna, Vicki si girò di scatto quando dalla direzione di Celluci giunse un suono che sembrava una via di mezzo fra uno sternuto e una piccola esplosione.
— Di cosa stai ridendo? — sibilò. Lui scosse il capo, agitando le braccia mentre cercava invano le parole per spiegarsi. — Non importa — tagliò corto lei, allungando una mano per allontanargli dalla faccia una ciocca di ricciuti capelli castano scuro, mentre la bocca le si incurvava in un sorriso contrito. — Suppongo che sia stata in effetti una cosa piuttosto buffa, anche se ho la sensazione che passerò il resto della giornata oppressa dalla vaga impressione di aver lasciato qualcosa in sospeso. Celluci annuì, e lo spesso ricciolo gli ricadde sugli occhi. — Come non ricordare se hai mangiato o meno l'ultimo boccone di un doughnut. — O bevuto l'ultimo sorso di caffè. Condivisero un sorriso, poi Vicki si abbandonò sulla sdraio di cuoio nero che dominava il piccolo salotto. — D'accordo, cos'hai bisogno di sapere, riguardo al defunto signor Balland? — domandò. Vicki si ritrasse dalla calda altura costituita dalla schiena di Celluci e si chiese perché non riuscisse a dormire. Forse, avrebbe dovuto dirgli di andare a casa, ma le era parso un po' inutile costringerlo a guidare fino a casa sua, a Downsview, considerato che entro poco più di sei ore sarebbe dovuto tornare in centro per presentarsi al lavoro alla centrale di polizia. Magari anche fra meno di sei ore... Vicki non poteva vedere l'orologio senza sollevarsi a sedere, accendere la luce e trovare gli occhiali, ma ormai doveva essere quasi l'alba. L'alba. Nel centro della città, a diciotto brevi isolati dal suo appartamento in Chinatown, Henry Fitzroy giaceva nella sua stanza sigillata, in attesa del giorno, in attesa che il sorgere del sole spegnesse la sua vita, con la fiducia che essa si sarebbe riaccesa con il tramonto.
Una volta, Vicki aveva trascorso un'intera giornata con Henry, intrappolata nella sua stanza dalla minaccia costituita dalla luce solare presente all'esterno della porta della camera da letto. L'assenza di vita era stata così assoluta da darle quasi l'impressione di trovarsi in presenza di un cadavere, solo che si era trattato di una situazione ulteriormente peggiorata dal fatto che lui non era davvero morto... un'esperienza che non aveva desiderio di ripetere. Quella notte era fuggita da lui non appena l'oscurità le aveva permesso di farlo senza rischi per Henry, e ancora non sapeva con certezza se era fuggita di fronte alla sua natura o alla fiducia che gli aveva permesso di rimanere così assolutamente indifeso in sua presenza. Non era però rimasta lontana a lungo. Nonostante il fare le ore piccole, o il non andare a volte a letto per niente, Henry Fitzroy era diventato una parte necessaria della sua vita, al di là dell'attrazione fisica, che continuava a contrarle lo stomaco e a bloccarle il respiro in gola anche a un anno di distanza. In effetti ciò che più la turbava, che quasi la spaventava, era la misura in cui lui aveva invaso il resto della sua esistenza. Henry Fitzroy, vampiro, figlio bastardo di Enrico VIII, era l'incarnazione del Mistero. Se pure ci avesse provato per tutta la vita, non sarebbe mai riuscita a scoprire tutto ciò che lui era e... che Dio l'aiutasse... non era mai stata capace di resistere davanti a un mistero. E poi c'era Celluci. Girandosi sul fianco, Vicki si modellò lungo le curve del corpo di lui, pensando che Celluci era lo yin che interagiva con il suo yang... o forse il contrario, si corresse, accigliandosi. Lui era le battute condivise, gli interessi in comune, un passato vissuto insieme, s'incastrava nella sua vita come una tessera di un puzzle, che rientrava nell'immagine e la completava. E adesso che ci pensava sopra, anche questo la spaventava. Lei era completa senza di lui. Oppure no?
Signore, oh, signore, oh, signore. Quando è stato che la mia vita ha cominciato a somigliare a un brano di musica country and western?
Il suo sospiro fu così profondo che Celluci si riscosse e si svegliò a mezzo. — Quasi dimenticavo — mormorò. — Ti ha cercata tua madre. Il sole della tarda mattinata si era già quasi levato al di sopra della porta finestra di Vicki quando lei si sedette al tavolo della cucina e allungò la mano verso il telefono. Richiamare sua madre mentre Celluci si stava vestendo le avrebbe reso più facile far fronte alle domande a cui sapeva che avrebbe dovuto rispondere, e che sarebbero senza dubbio cominciate con un Perché Michael Celluci era nel tuo appartamento e tu invece non c'eri? per poi andare in crescendo fino ad arrivare a quella che era la favorita di sua madre, e cioè Quando verrai a trovarmi? Sospirando, Vicki bevve un sorso di caffè per fortificarsi e chiuse le dita intorno alla cornetta, ma il telefono squillò prima che avesse il tempo di sollevarla; colta di sorpresa, riuscì a stento a impedire al caffè di uscirle dal naso, e l'apparecchio squillò una dozzina di volte prima che ce la facesse a smettere di tossire. — Nelson Investigazioni. — Signorina Nelson? Sono la signora cominciando a pensare che non fosse in casa.
Simmons.
Stavo
— Mi scusi — replicò Vicki, afferrando un asciugapiatti appeso alla porta del frigorifero e usandolo per ripulire il disastro. — Cosa posso fare per lei? — Sono arrivate le fotografie. Quelle di mio marito. Vicki controllò l'orologio. A Toronto erano quasi le dodici, il che significava che a Winnipeg dovevano essere all'incirca le undici. Dannazione! Un avviso pubblicitario veritiero. Ho trovato un corriere capace di leggere l'orologio, pensò.
— È mio marito, signorina Nelson. È lui — continuò la donna,
che pareva prossima alle lacrime.
— Allora fornirò le informazioni alla polizia questo pomeriggio, così andranno a prelevarlo e poi si metteranno in contatto con lei.
— Ma siamo nel weekend. — La protesta suonò più come un gemito che come un lamento. — La polizia lavora anche nei weekend, signora Simmons, non si preoccupi — ribatté Vicki, assumendo un tono di voce rassicurante. — E comunque, anche se davvero non potessero arrestarlo fino a lunedì, le garantisco personalmente che nel frattempo lui non andrà da nessuna parte. — Ne è certa? — Certissima. — Ho bisogno di chiedergli il perché, signorina Nelson. Perché ci ha fatto una cosa tanto orribile? Il dolore che traspariva dalla voce dell'altra donna indusse Vicki a serrare le dita intorno alla cornetta fino a farsi sbiancare le nocche, e le riuscì a stento di mascherare la propria ira dietro la compassione negli ultimi momenti della conversazione telefonica. — Dannato, fottuto figlio di buona DONNA! — esplose infine, mentre il suo blocco per appunti andava a sbattere contro la parete opposta dell'appartamento con forza sufficiente a fracassarne la rilegatura e a spargere intorno fogli di carta che fluttuarono verso il pavimento come uccelli feriti. — Qualcuno che conosco? — domandò Celluci. Essendo entrato nel salotto a meno di un metro di distanza dal punto di impatto, stava pensando di essere stato fortunato che lei non avesse invece scagliato la tazza da caffè. — No — rispose Vicki, balzando su dalla sedia e risbattendola al suo posto con tanta forza da farla cadere e rimbalzare due volte. — Qualcosa che ha a che vedere con la persona scomparsa che hai ritrovato? — ipotizzò Celluci; del resto, indovinare non era poi così difficile, perché lui sapeva i dati di base inerenti al caso a cui Vicki stava lavorando e le aveva sentito usare il nome Simmons nel corso della telefonata. Inoltre, conosceva Vicki, e sapeva che, pur essendo una persona complicata, aveva reazioni che tendevano a essere dirette e pertinenti. — Schifoso bastardo! — inveì Vicki; gli occhiali le scivolarono fino
alla punta del naso e lei li ricacciò al loro posto con forza. — Non gli importa un accidente di quello che ha fatto passare alla sua famiglia. Avresti dovuto sentirla, Mike: quell'uomo ha distrutto tutto quello in cui lei abbia mai creduto, l'ha ferita a tal punto che ancora non riesce neppure a infuriarsi. — Quindi tu lo stai facendo per lei. — Perché no? — Già, perché no? — convenne Celluci, scrollando le spalle. Avendo un'intima familiarità con il carattere di Vicki, aveva l'impressione che lei stesse reagendo a qualcosa di più della semplice rabbia di fronte al torto fatto a un'altra donna. Dio sapeva che quella era una situazione a cui si era trovata davanti spesso, durante gli anni trascorsi in polizia, e non le era mai capitato... ecco, diciamo che era successo di rado... di reagire con tanta intensità. — Tua madre si è mai infuriata, quando tuo padre se n'è andato? — E questo cosa diavolo c'entra? — ribatté Vicki, arrestandosi di colpo per fissarlo. — Tuo padre ha piantato in asso tua madre. E te. — Se non altro, mio padre ha avuto il minimo di decenza di non nascondere quello che stava facendo. — E poi tua madre ha dovuto sostentare tutte e due. Probabilmente non ha mai avuto il tempo di infuriarsi. — Di cosa diavolo stai parlando? — domandò Vicki, fissandolo con occhi roventi. Celluci riconobbe i segnali di pericolo, ma quella era un'opportunità che non poteva permettersi di perdere: le cose stavano progredendo in quella direzione ormai da molto tempo, e sapeva che non avrebbe forse mai avuto un'occasione migliore, dato che l'ira per la situazione in cui si trovava la signora Simmons aveva lasciato Vicki tanto aperta dal punto di vista emotivo. Che diavolo, pensò, se pure si arrivasse ai ferri corti, sono armato. — Che ti piaccia o meno, sto parlando di te e di me — rispose. — Stai dicendo idiozie. — Sto parlando del fatto che hai talmente tanta paura di
impegnarti da riuscire a stento ad ammettere che noi siamo qualcosa di più che amici. Capisco da dove questo derivi, capisco che a causa del modo in cui tuo padre se ne è andato e di quello che è successo dopo con tua madre, tu pensi di dover applicare rigidi parametri a una relazione... — Ti hanno forse mandato a un altro di quei seminari sulla sensibilità — sbuffò Vicki. — ... ma tutte quelle cose sono successe oltre venti anni fa, Vicki, e adesso la cosa deve finire — continuò lui, ignorandola e tenendo sotto stretto controllo la propria irascibilità. — Altrimenti? — chiese lei, arricciando le labbra. — Altrimenti niente, dannazione. Non sto facendo minacce. — Si tratta di Henry, vero? Sei geloso. Era inutile cercare di costringere Vicki ad affrontare la verità se lui stesso non era disposto a farlo. — Hai dannatamente ragione, sono geloso di Henry! Non voglio condividere così tanta parte di te con nessun altro, e soprattutto non con qualcuno che... che... — Esitò, perché non sapeva quali parole trovare per descrivere ciò che provava nei confronti di Henry Fitzroy, cosa che comunque non doveva riguardare Vicki, anche se avesse saputo come esprimerla. — Non stiamo parlando di Henry, stiamo parlando di noi — concluse. — Non c'è nulla che non vada in noi — insistette Vicki, che stava guardando in tutte le direzioni tranne che verso l'uomo che si trovava dall'altra parte della stanza. — Perché non andiamo avanti come abbiamo sempre fatto? — Perché non stiamo andando da nessuna parte! Vicki sussultò a ogni singola parola scandita. — Vicki, sono stanco di non essere niente di più del tuo migliore amico. Devi renderti conto che io... — Sta' zitto! — ingiunse lei, le mani serrate a pugno. — Oh, no — ritorse Celluci, scuotendo il capo. — Questa volta mi ascolterai fino in fondo.
— Questo è il mio appartamento. Non sono costretta ad ascoltare niente. — Oh, sì, invece — ritorse lui, attraversando la stanza per fermarsi direttamente davanti a lei, bilanciato sulla punta dei piedi, ma con le mani tenute accuratamente a distanza, perché per quanto desiderasse afferrarla e scrollarla, non voleva dover far fronte alla violenza reattiva che sapeva sarebbe seguita a quel gesto. Un rapido scontro per verificare chi fosse più macho fra i due non avrebbe aggiunto nulla alla situazione. — Questa non sarà l'ultima volta che te lo dico, Vicki, quindi farai meglio ad abituarti alla cosa: io ti amo, e voglio un futuro con te. Perché ti riesce così difficile accettarlo? — E perché tu non puoi semplicemente accettare me... noi... così come sono, come siamo? — rispose Vicki, a denti stretti. — Ho passato cinque fottuti anni a cercare di accettare te e noi — ribatté Celluci, allontanandosi una ciocca di capelli dalla fronte e cercando senza successo di calmare la propria respirazione. — Sarebbe ora che mi venissi incontro a mezza strada. — Vattene. — Cosa? — Vattene dal mio appartamento! ADESSO! Tremando per lo sforzo di controllarsi, Celluci la oltrepassò e prese il cappotto appeso vicino alla porta, tornando a girarsi mentre infilava le braccia nelle maniche, così infuriato da non riuscire a decifrare l'espressione di lei. — Ancora una cosa soltanto, Vicki: io non sono il tuo fottuto padre. E si chiuse la porta alle spalle con tanta violenza da far tremare l'intero edificio. Una frazione di secondo più tardi, il battente si riaprì. — E non dimenticarti di richiamare tua madre! La tazza da caffè esplose in un migliaio di pezzi quando andò a sbattere contro il legno.
— E lo hai fatto? — Fatto cosa? — scattò Vicki. Raccontare a Henry il succo della lite l'aveva messa di cattivo umore quasi quanto aveva fatto la lite stessa, e non le era di molto aiuto sapere che quando Henry le aveva chiesto cosa la stesse turbando lei non era riuscita a trattenersi dal riferirgli l'intera conversazione. — Hai chiamato tua madre? — No, non l'ho fatto. — Vicki si girò verso la finestra, assestandosi gli occhiali e fissando l'oscurità con occhi roventi. — Non ero esattamente dell'umore più adatto per parlare con mia madre. Invece, sono andata all'Ufficio Persone Scomparse e ho inchiodato alla parete il signor Simmons/O'Conner. — Questo ti ha fatta sentire meglio? — No, anche se avrebbe forse potuto farlo, se mi avessero permesso di usare chiodi veri. Un commento faceto, pronunciato con assoluta e totale sincerità. Anche trovandosi dall'altra parte della stanza, Henry poteva percepire le pulsanti ondate d'ira che emanavano da lei, e stava desiderando di non averle fatto domande, di aver ignorato il suo umore e di non essersi mai assoggettato a un resoconto della fin troppo accurata analisi fatta dal detective Celluci del motivo per cui Vicki era incapace di impegnarsi sentimentalmente. Adesso che aveva sentito tutto, però, non poteva lasciar cadere la cosa, perché Vicki avrebbe continuato a pensare a quello che Celluci aveva detto, non aveva evidentemente pensato ad altro da quando lui aveva lasciato il suo appartamento sbattendo la porta, e ora che la cosa le era stata piazzata sotto il naso, con il tempo sarebbe giunta a rendersi conto che era una valutazione esatta. E a quel punto avrebbe dovuto fare una scelta. Non l'avrebbe persa, anche a costo di essere costretto a prendere per sé anche il giorno e non solo la notte, perché il suo amore gli dava un diritto pari a quello di Celluci di avanzare le proprie rivendicazioni.
Sei stato tu ad alzare la posta, mortale, disse dentro di sé, rivolto al rivale. Ricordalo.
Alzatosi, attraversò la stanza per fermarsi accanto a lei, beandosi per un momento nel battito del suo cuore, assaporando il suo calore, il suo odore, la sua vita. — Aveva ragione lui — disse infine. — Riguardo a cosa? — ribatté Vicki, a denti stretti, senza aver bisogno di chiedere chi fosse quel lui. — Non possiamo, nessuno di noi, continuare ad andare avanti come abbiamo fatto finora. — Perché no? — Quell'ultimo monosillabo era carico del peso di una potenziale esplosione. — Perché, come Mike Celluci, anch'io voglio essere la persona più importante della tua vita. — E cosa mi dici di quello che voglio io? — sbuffò lei. Henry vide i muscoli contrarsi sotto la superficie vellutata della pelle di lei, tendendosi intorno agli occhi e agli angoli della bocca, quindi scelse con cura le parole successive. — Credo sia quello che entrambi stiamo cercando di scoprire — replicò. — E se decidessi di volere lui? Il tono di Vicki aveva una sfumatura beffarda e tagliente a cui Henry non poté trattenersi dal reagire. — Potresti rinunciare a me? Il potere della sua voce la indusse a girarsi a fronteggiarlo. La sentì deglutire a fatica, udì il suo battito accelerare e vide le sue pupille che si dilatavano, assaporò nell'aria il cambiamento verificatosi nell'odore di lei. Poi la lasciò andare. Vicki si ritrasse di scatto, infuriata con lui, furente con se stessa. — Non provare a rifarlo! — ansimò, lottando per inserire abbastanza aria nei polmoni. — Non do a nessuno potere sulla mia vita. Non a te, non a lui, a nessuno! — Si girò di scatto e attraversò a passo di carica il salotto. — Me ne vado da qui — annunciò, afferrando il cappotto e la borsa posati sul divano, — e tu puoi continuare a giocare al fottuto Principe dell'Oscurità con qualcun
altro. Henry non si era mosso dalla finestra: non aveva bisogno di tentare di riportarla indietro, perché sapeva che se lo avesse voluto avrebbe potuto richiamarla a sé. — Dove stai andando? — domandò. — A fare una lunga passeggiata nel quartiere più malfamato che riuscirò a trovare, nella speranza che qualche imbecille tenti qualcosa di stupido, permettendomi di spezzargli le sue fottute braccia! E non mi seguire! Anche una porta blindata può essere sbattuta, se si applica una forza sufficiente. "Vicki? Sono tua madre. Mike Celluci non ti ha riferito il mio messaggio? Va bene, cara, non importa, sono certa che deve avere molte cose per la testa. Ora che ci sto pensando, però, mi sono chiesta come mai lui fosse a casa tua in tua assenza. Le cose fra voi si stanno facendo più serie? Chiamami quando puoi. C'è qualcosa che ti devo dire." Vicki sospirò e si massaggiò le tempie mentre la segreteria riavvolgeva il nastro. Era mezzanotte e dieci, e lei non se la sentiva di affrontare una telefonata con sua madre, non dopo la giornata che aveva avuto. Le cose fra voi si stanno facendo più serie? Cristo Santo! Prima Celluci. Poi Henry. Le potenze del cielo e della terra avevano senza dubbio deciso di ribaltare la sua vita. — Che ne è stato degli uomini che vogliono soltanto essere portati a letto con regolarità? — borbottò, mentre spegneva la luce e si dirigeva verso la camera da letto. Il boccale di birra che aveva bevuto in quel locale per gay sulla Church Street, il solo posto della città dove non aveva corso il rischio di imbattersi in soggetti grondanti testosterone, le gravava fastidiosamente nello stomaco, e la sola cosa che voleva era andare a dormire. Da sola.
Avrebbe richiamato sua madre l'indomani mattina. La notte fu tormentata dai sogni, o più specificatamente da un sogno, con le stesse immagini che continuavano a ripresentarsi all'infinito, con persone che entravano nel suo appartamento senza che lei riuscisse a farle andare via. Una nuova scala che portava al terzo piano attraversava la sua cucina, ed era percorsa da un flusso costante di agenti immobiliari che scortavano possibili affittuari, mentre il fondo del suo ripostiglio si apriva sui Maple Leaf Gardens, e la folla degli spettatori provenienti dalla partita di hokey pareva decisa ad andarsene passando dalla sua camera da letto. All'inizio, lei aveva cercato di ragionare, poi aveva gridato e alla fine aveva fisicamente scaraventato gli intrusi fuori dalla porta, solo che essa non era mai rimasta chiusa e che nessuno di quegli invasori aveva accettato di lasciarla in pace. Si svegliò tardi, con una devastante emicrania e la mascella dolorante, di un umore che non era certo migliore di quello con cui era andata a dormire. Un antiacido e un'aspirina avrebbero potuto esserle di aiuto, ma aveva finito entrambi, quindi si dovette accontentare di una tazza di caffè tanto forte da indurre la sua lingua ad arrotolarsi in segno di protesta. — E chissà perché, sapevo che stava piovendo — ringhiò, sbirciando a occhi socchiusi attraverso le tende in direzione del mondo esterno, grigio e poco invitante, con un cielo che pareva abbastanza basso da poter essere toccato. Squillò il telefono Girandosi, Vicki fissò l'apparecchio con espressione accigliata: non aveva bisogno di rispondere per sapere che si trattava di sua madre, poteva percepire le emanazioni materne da dove si trovava. — Non questa mattina, mamma — borbottò. — Non sono in condizione di affrontarlo. La sua testa continuò a vibrare molto tempo dopo che l'apparecchio ebbe smesso di suonare. Un'ora più tardi, il telefono tornò a squillare.
Un'ora di riflessioni che non avevano fatto nulla per migliorare l'umore di Vicki. — Ho detto di no, mamma! — esplose, calando con violenza il pugno sul tavolo della cucina; il telefono sussultò, ma continuò a suonare. — In questo momento non ho voglia di ascoltare i tuoi problemi, e puoi essere dannatamente certa che non voglio parlarti dei miei! — continuò, mentre la voce le saliva di tono. — La mia vita è collassata all'improvviso e non so cosa stia succedendo. Tutto sta andando in pezzi. Sono in grado di reggermi con le mie gambe, e so lavorare in squadra, l'ho dimostrato, giusto? Perché questo non è abbastanza? La cosa si trasformò in una gara di volume e di durata fra lei e il telefono, e Vicki non aveva nessuna intenzione di lasciare che fosse il telefono a vincere. — Ci sono buone probabilità che Celluci stia per chiedermi di sposarlo, e questo vampiro con cui vado a letto... oh, non ti avevo parlato di Henry, mamma?... ecco, lui mi vuole come la sua... la sua... non so cosa voglia Henry. Tu sai affrontare una situazione del genere, mamma? Perché io non posso farlo, quant'è vero Dio. Sentiva di essere sull'orlo di una crisi isterica, ma era decisa a non smettere. — Celluci pensa che io sia infuriata per il modo in cui il caro vecchio papà ti ha piantata in asso, e Henry ritiene che abbia ragione. Tu che ne pensi, mamma? Sono sotto un fottuto assedio su due lati. Tu non mi hai mai avvertita che una cosa del genere poteva succedere, vero, mamma? E non abbiamo mai, proprio mai parlato di papà. L'ultima parola riverberò nell'appartamento silenzioso, e la sua eco parve impiegare molto tempo a dissolversi. — Ti parlerò domani, mamma, lo prometto — concluse Vicki, riassestandosi gli occhiali con un dito tremante. Un'ora più tardi, il telefono suonò ancora. Vicki attivò la segreteria telefonica e uscì a fare una passeggiata sotto la pioggia.
Quando rientrò a casa, in tarda serata, trovò ad aspettarla sette messaggi, che cancellò dal nastro senza neppure ascoltarli. La mattina seguente, Vicki si bloccò con un piede già nella doccia, sospirò e si rimise l'accappatoio: salve, lunedì mattina! — Arrivo, mamma — borbottò, pensando che era inutile rimandare ancora: presto o tardi, avrebbe dovuto affrontare la musica che l'aspettava, quindi tanto valeva togliersi il pensiero. Quel giorno le cose non le sembravano più tanto brutte, e la giornata precedente costituiva un imbarazzante ricordo di un momento di indulgenza verso se stessa, mentre l'indomani... ecco, avrebbe affrontato il domani quando si fosse presentato. Lasciatasi cadere su una delle sedie della cucina, afferrò la cornetta. — Caio, mamma, mi dispiace per ieri — disse. — Parlo con Victoria Nelson? Vicki sentì gli orecchi che le si arroventavano: la voce tesa e sforzata era quella di una donna attempata, e decisamente non era quella di sua madre. Brava, Vicki, così fai davvero una bella impressione a una potenziale cliente, si rimproverò. — Sono la signora Shaw, Elsa Shaw, e lavoro con sua madre. Ci siamo conosciute lo scorso settembre... — Lo ricordo — affermò Vicki, sussultando. Sua madre doveva essere davvero infuriata, se la stava facendo chiamare da una collega: quella faccenda le sarebbe finita per costare quanto meno una visita. — Temo di avere delle cattive notizie per lei. — Cattive notizie? — ripeté Vicki, Oh, Dio, fa' che non abbia
preso il treno del mattino per Toronto. È proprio quello di cui ho bisogno, adesso, pensò intanto. — Ultimamente, sua madre non si sentiva bene, e... ecco, questa mattina è venuta al lavoro, ha detto di aver cercato di contattarla, ha preparato il caffè come sempre, è uscita dall'ufficio della dottoressa Burke e... ecco, è morta.
Il mondo parve arrestarsi. — Signorina Nelson? — Cosa è successo? — Vicki si sentì porre quella domanda, meravigliandosi per quanto la sua voce suonasse calma e chiedendosi perché si sentisse così intorpidita. — La dottoressa Burke, il capo del Dipartimento di Scienze Naturali... ecco, naturalmente lei sa chi è la dottoressa Burke... ha detto che si è trattato del cuore, di un attacco coronarico massiccio. Un minuto era qui, e quello successivo... — La signora Shaw si soffiò il naso, prima di proseguire: — È successo circa venti minuti fa. Se c'è qualcosa che posso fare... — No, grazie. E grazie per aver chiamato. Forse la signora Shaw aveva altre espressioni di condoglianze da porgere o altre informazioni da fornire, ma Vicki non le sentì, perché riadagiò con delicatezza la cornetta sulla forcella e rimase a fissare il telefono ora silenzioso. Sua madre era morta.
Capitolo secondo — Dottoressa Burke? Si tratta del numero sette... — Cosa c'è? — Con il ricevitore incastrato sotto il mento, la dottoressa Aline Burke scribacchiò la propria firma in fondo a un memorandum, che gettò nel raccoglitore dei documenti in uscita. Anche se Marjory Nelson era morta solo da un paio d'ore, il lavoro d'ufficio le stava già sfuggendo di mano. Con un po' di fortuna, magari l'università si sarebbe data una mossa collettiva e le avrebbe assegnato una segretaria temporanea prima che tutte quelle inutili scartoffie finissero per seppellirla. — Credo debba venire a vedere di persona. — Per l'amor del cielo, Catherine, non ho tempo per i tuoi discorsi ermetici — ribatté la dottoressa, levando gli occhi al cielo. Studenti specializzandi. — Lo stiamo perdendo? — Sì, dottoressa. — Arrivo subito. — Dannazione! Di nuovo la decomposizione dei tessuti, proprio come negli altri. — Un secondo guanto seguì il primo nel cestino dei rifiuti, poi la dottoressa Burke si girò a fissare con occhi roventi il corpo di un uomo anziano che giaceva su un tavolo di acciaio inossidabile, con la cavità toracica aperta e la calotta cranica appoggiata sopra un orecchio. — Questo non è durato neppure quanto il numero sei. — Ecco, era vecchio, dottoressa, e non era in buone condizioni fisiche. — Direi proprio di no — sbuffò la dottoressa Burke. — Suppongo di essere leggermente sorpresa che sia durato tanto a lungo — sospirò quindi, mentre la giovane donna in piedi accanto alla testa del cadavere assumeva un'espressione affranta. — La mia non era una critica, Catherine. Come al solito, tu hai fatto un lavoro
eccellente, e non sei certo responsabile delle deplorevoli abitudini che il soggetto aveva quando era vivo. Detto questo, recupera il resto delle parti meccaniche, salva quanta più parte possibile della rete, accertati che tutti i batteri siano morti e avvia le consuete procedure di smaltimento del corpo. — La scuola di medicina...
— Certamente, la scuola di medicina. Di sicuro non lo
appesantiremo con dei sassi per poi gettarlo nel Lago Ontario, anche se devo ammettere che quella soluzione possiede una certa attraente semplicità e mi risparmierebbe parecchio lavoro aggiuntivo. Avvertimi quando sarà pronto. Per il prossimo paio d'ore dovrei essere nel mio ufficio. — Nell'uscire, la dottoressa si soffermò con la mano sulla maniglia, domandando: — Cos'è questo rumore? Catherine sollevò lo sguardo dei grandi occhi azzurro chiaro, mentre le sue dita continuavano a frugare nella cavità del cranio dell'uomo. — Oh, è il numero nove. Credo non gli piaccia il contenitore. — Non c'è niente che gli possa piacere o non piacere, Catherine. È morto. La giovane donna scrollò le spalle in un gesto apologetico, accettando la correzione, ma mostrandosi poco convinta al riguardo. — Continua a picchiare — commentò. — Bene, quando avrai finito con il numero sette, diminuisci di nuovo l'afflusso di energia. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un danno accelerato ai tessuti a causa di movimenti non autorizzato. — Sì, dottoressa — assentì la ragazza, adagiando con delicatezza il cervello del morto su un vassoio di plastica; le file di luci fluorescenti poste direttamente al di sopra del tavolo evidenziarono del filo dorato che attraversava tutta la massa grigioverdastra del cervello. — Sarà piacevole poter finalmente lavorare su un soggetto su cui abbiamo potuto eseguire un'impostazione preliminare. Voglio dire, il ritardo che si verifica mentre cerchiamo di adattare i batteri all'ospite non fa certo loro del bene. — Probabilmente no — convenne la dottoressa Burke, in tono
caustico, e con un'ultima occhiata di disapprovazione al contenitore d'isolamento del numero nove, uscì con passo deciso dal laboratorio. I colpi continuarono a risuonare. — Dove deve andare, signora? Vicki aprì la bocca per rispondere, ma subito la richiuse, perché in realtà non aveva la minima idea di dove andare. — Uh... alla Queen's University, Dipartimento di Scienze Naturali — disse infine. Sua madre doveva essere stata portata altrove, e là di certo qualcuno avrebbe potuto dirle dove trovarla. — Il campus della Queen's è grande — osservò il tassista, mentre lasciava il parcheggio della stazione e svoltava sul Taylor Kidd Boulevard. — Ha l'indirizzo? Vicki conosceva l'indirizzo, perché sua madre le aveva fatto visitare con orgoglio il nuovo edificio subito dopo la sua apertura, due anni prima. — È su Arch Street — rispose. — Giù vicino al vecchio General Hospital, eh? Bene, lo troveremo — dichiarò il tassista, sorridendo cordialmente nello specchietto retrovisore. — Guido un taxi da quindici anni e non mi sono ancora perso una sola volta. Bella giornata, oggi. Sembra sia finalmente arrivata la primavera. Vicki cercò di mettere a fuoco lo sguardo attraverso il finestrino laterale: fuori splendeva il sole. C'era stato il sole anche a Toronto? Non riusciva a ricordarlo. — L'inverno è migliore dal punto di vista del lavoro, badi bene. Chi ha voglia di andare a piedi quando la fanghiglia arriva all'altezza dei coprimozzo, eh? Comunque, aprile non è malaccio, a patto di avere una buona quantità di pioggia. Speriamo che piova, dico io. Si fermerà a lungo a Kingston? — Non lo so. — È in visita a parenti?
— Sì. — Mia madre. È morta. Qualcosa in quella singola sillaba convinse il tassista che la sua passeggera non era dell'umore giusto per fare conversazione, e che sarebbe stato meglio non fare altre domande. Canticchiando fra sé, lasciò quindi Vicki a proseguire il tragitto in relativo silenzio. Il tentativo che era stato fatto di armonizzare le strutture in cemento del nuovo Complesso di Scienze Naturali con le vecchie strutture in arenaria del resto dell'università non era stato un completo successo. — Il progresso — azzardò il tassista, reso nuovamente loquace da una consistente mancia, mentre Vicki apriva la portiera. — D'altro canto, di questi tempi i ragazzi hanno bisogno di qualcosa di più di un paio di bruciatori Bunsen e di una fila di provette per eseguire ricerche degne di questo nome, giusto? Sul giornale c'era scritto che una studentessa specializzanda ha ottenuto un brevetto su un batterio. Vicki, che gli aveva dato una banconota da venti soltanto perché era stata la prima che aveva trovato nel portafoglio, lo ignorò. Scuotendo il capo, il tassista la guardò avviarsi lungo il marciapiede, con la schiena rigida e la valigetta ventiquattrore brandita come se fosse stata un'arma, e decise che era meglio non augurarle una buona giornata. — Signora Shaw? Sono Vicki Nelson... La donna minuta seduta dietro la scrivania balzò in piedi, porgendole entrambe le mani. — Oh, sì, certo. Povera cara, è venuta fin qui da Toronto? Vicki indietreggiò, ma non riuscì a evitare che la donna le afferrasse e stringesse la mano destra. — Certo che lo ha fatto — continuò d'un fiato la signora Shaw, prima che lei potesse ribattere. — Voglio dire, era a Toronto, quando le ho telefonato, e adesso è qui. — Scoppiò in una risatina imbarazzata, lasciando andare la mano di Vicki, mentre proseguiva: — È solo che... ecco, sua madre e io eravamo amiche, avevamo
lavorato insieme per quasi cinque anni e quando lei... voglio dire, quando... è stato... è stato uno shock davvero terribile. Vicki fissò le lacrime che stavano salendo a velare gli occhi della donna più anziana, e si rese conto con orrore di non avere la minima idea di cosa dire, di non riuscire a trovare in sé la minima traccia di tutto l'addestramento, dell'esperienza, di tutte le parole di conforto che nel corso degli anni aveva pronunciato per lenire mille diversi tipi di dolore. — Chiedo scusa — si schermì la signora Shaw, infilando una mano nella manica per tirare fuori un fazzoletto stropicciato e umido. — È solo che ogni volta che ci penso... non posso trattenermi... — Il che spiega perché continuo a ripeterle che dovrebbe andare a casa. Vicki si girò con gratitudine a fronteggiare la persona che aveva parlato, perché il suo tono calmo e misurato aveva avuto l'effetto di un balsamo sui suoi nervi logorati. La donna ferma sulla soglia dell'ufficio era sui quarantacinque anni, di bassa statura e di corporatura robusta, e sotto il camice da laboratorio indossava una combinazione quasi pratica di pantaloni di flanella grigi e camicetta bianca bordata di pizzo. I capelli di un castano rossiccio avevano un taglio corto alla moda, e la pesante montatura degli occhiali gravava su un naso spruzzato di lentiggini. La sicurezza di sé che emanava da quella donna era percepibile anche da un capo all'altro della stanza, e nonostante tutto Vicki si sentì reagire a essa. — E io, dottoressa Burke — ribatté intanto la signora Shaw, tirando su con il naso e riponendo il fazzoletto nella manica, — continuo a ripeterle che non intendo andare a casa a passare la giornata da sola, non se posso invece restare qui, essere in mezzo alla gente e fare qualcosa di utile. Dottoressa Burke — aggiunse poi, mentre Vicki sentiva delle dita minute chiudersi intorno al suo braccio, — questa è Victoria, la figlia di Marjory. La stretta di mano della direttrice del dipartimento risultò calda e asciutta, dotata di un'efficienza di movimento che Vicki trovò di suo gusto. — Ci siamo incontrate di sfuggita alcuni anni fa, signorina Nelson,
credo poco dopo la sua prima citazione al merito. Mi è dispiaciuto apprendere della retinitis. Per lei deve essere stato difficile lasciare un lavoro a cui teneva così tanto. E adesso... — La dottoressa Burke allargò le mani e concluse: — Le faccio le mie condoglianze per sua madre. — Grazie — si limitò a rispondere Vicki, perché le pareva che non rimanesse molto da dire. — Ho fatto trasferire il corpo all'obitorio del General. Il medico personale di sua madre, la dottoressa Friedman, ha là il suo ufficio, e dal momento che non sapevamo quando sarebbe arrivata o quali sarebbero state le esatte disposizioni, abbiamo ritenuto che questa fosse la soluzione migliore per tutti gli interessati. Ho chiesto alla signora Shaw di chiamarla per metterla al corrente, ma lei doveva essere già partita. Quel flusso di informazioni era scevro da qualsiasi peso emotivo, e Vicki si trovò ad attingere forza dall'energica personalità che aveva di fronte. — Potrei usare uno dei vostri telefoni per contattare la dottoressa Friedman? — domandò. — Certamente — assentì la dottoressa Burke, accennando alla scrivania. — Lei è già stata informata e sta aspettando una sua chiamata. Ora, se vuole scusarmi... Ah, signorina Nelson — aggiunse, soffermandosi sulla porta, — ci faccia sapere quando si terrà il servizio funebre, perché gradiremmo essere presenti. — Il suo gesto incluse anche la signora Shaw. — Il servizio funebre? — In queste circostanze, è usanza fare un funerale. Vicki quasi non notò il sarcasmo, e sentì davvero soltanto l'ultima parola. Funerale... — Ecco, non sembra che stia dormendo. Era impossibile fraintendere il cereo pallore grigio, quella completa assenza dell'io indotta soltanto dalla morte, caratteristiche che Vicki aveva riconosciuto fin dalla prima volta che le aveva viste,
in un laboratorio di medicina legale, quando era cadetta di polizia, e che stava riconoscendo anche adesso. I morti non erano vivi; quella spiegazione poteva suonare faceta, ma nel fissare il corpo che aveva contenuto sua madre, lei non riuscì a pensarne una migliore. La dottoressa Friedman assunse una vaga aria di disapprovazione nel coprire nuovamente il volto di Marjory Nelson, ma si astenne dal fare commenti, perché anche se percepiva le barriere che Vicki aveva eretto intorno a se stessa, d'altro canto non la conosceva abbastanza bene da riuscire ad aggirarle. — Non c'è bisogno di autopsia — affermò, segnalando al personale dell'obitorio che poteva portare via il corpo. — Sua madre soffriva da tempo di irregolarità cardiache, e la dottoressa Burke era praticamente accanto a lei quando è successo. Ha riferito che la cosa aveva tutte le caratteristiche di una coronarica massiva. — Un attacco cardiaco? — domandò Vicki, guardando la porta che si richiudeva dietro la barella e rifiutandosi di rabbrividire sotto l'impatto della corrente di aria gelida scaturita dall'obitorio. — Aveva soltanto cinquantasei anni. — Succede — affermò la dottoressa, scuotendo tristemente il capo. — Non me ne ha mai parlato. — Forse non voleva che si preoccupasse.
O forse io non la stavo ascoltando, pensò Vicki. Di colpo, la
piccola stanza le parve claustrofobica e si diresse verso l'uscita. Colta alla sprovvista, la dottoressa Friedman dovette affrettarsi per raggiungerla. — Il medico legale è soddisfatto, ma se lei non lo è...
— Niente autopsia — affermò Vicki. Era stata presente a troppe autopsie per sottoporre sua madre, o almeno quel che restava di lei, a una cosa del genere. — Sua madre aveva preso accordi e pagato in anticipo per il funerale presso l'Impresa di Pompe Funebri Hutchinson, su Johnson Street, vicino a Portsmouth Avenue. Sarebbe meglio che parlasse con loro al più presto possibile. Ha qualcuno che l'accompagni?
— Non ho bisogno di nessuno che mi accompagni — ringhiò Vicki, accigliandosi. — Secondo gli accordi presi da sua madre, signorina Nelson, Vicki... Signorina Nelson — spiegò il direttore delle pompe funebri, impallidendo leggermente di fronte all'espressione della sua cliente, che lo aveva indotto a tornare a rivolgersi a lei con il cognome, ma riuscendo a proseguire con disinvoltura, — lei voleva essere seppellita al più presto possibile, a bara chiusa. — Benissimo. — Voleva anche essere imbalsamata... ritiene che dopodomani possa andare bene? Questo le darebbe il tempo di pubblicare un necrologio sul giornale locale. — Dopodomani è la prima data possibile? Il giovane signor Hutchinson deglutì a fatica, incontrando una certa difficoltà a rimanere del tutto calmo sotto un esame così risoluto. — Ecco, no, pomeriggio...
potremmo
preparare
tutto
entro
domani
— Allora fatelo. Quello non era il tono di una persona con cui si potesse discutere, e non era neppure un tono che lasciasse molto spazio alla discussione. — Le due del pomeriggio è un orario che può andare bene? — Sì. — Riguardo alla bara... — Signor Hutchinson, a quanto mi è dato di capire, mia madre aveva già predisposto tutto. — Sì, lo aveva fatto... — In tal caso — concluse Vicki, alzandosi e mettendosi in spalla la borsetta, — faremo esattamente come voleva mia madre. — Signorina Nelson — insistette l'impresario, alzandosi a sua
volta e cercando di usare il tono più gentile di cui era capace, — senza un necrologio, dovrà chiamare lei le persone interessate. — Lo so — rispose Vicki, incurvando leggermente le spalle nel protendere le dita che tremavano verso la maniglia della porta, e se ne andò. Il giovane signor Hutchinson si lasciò ricadere sulla sua sedia e si massaggiò le tempie. — Rendersi conto che non c'è niente che si possa fare per essere d'aiuto deve essere la parte più dura di questo lavoro — disse con un sospiro a una palma in vaso. Il vecchio quartiere era diventato più piccolo, e la vasta distesa del cortile posteriore, alle spalle della casa d'angolo fra Division e Quebec Street, che lei aveva tanto invidiato quando era bambina, si era in qualche modo ridotta alle dimensioni di un francobollo. Il negozio di alimentari fra Division e Pine era diventato un fiorista e il supermercato di fronte a esso, in cui lei era riuscita a procurarsi un lavoro quando aveva dodici anni, non c'era più. La drogheria su York Street c'era ancora, ma mentre un tempo le era parsa trovarsi a una notevole distanza, adesso le sembrava che le sarebbe bastato protendersi per poterla toccare. Lungo la Quebec Street non restava più neppure un ceppo dei grandi aceri che avevano ombreggiato la casa di Thompson, e neppure la luce primaverile poteva cancellare l'aspetto trasandato e abbandonato dell'intera zona. Ferma nel parcheggio anteriore del condominio di sedici appartamenti in cui si erano trasferite quando la partenza di suo padre aveva fatto perdere loro la casa a Collins Bay, Vicki si chiese quando tutto quello fosse successo. Era tornata là parecchie volte negli ultimi quattordici anni, compresa una visita di poco tempo prima, ma non aveva mai notato quei drastici cambiamenti.
Forse perché la sola cosa per cui tornavo non cambiava mai,
rifletté.
Non poteva procrastinare ancora. La porta di sicurezza era stata bloccata in modo che rimanesse aperta. Una porta di sicurezza non protegge niente se non è chiusa a
chiave. Gliel'ho detto un sacco di volte... gliel'ho detto... gliel'ho
detto... Il vetro rinforzato tremò, ma resistette quando lei chiuse la
porta sbattendola e scese la rampa di scale che portava all'appartamento di sua madre, incespicando a causa della luce fioca.
— Vicki? Ah, avrei dovuto immaginare che eri tu a sbattere le porte. — La porta di sicurezza deve essere tenuta chiusa, signor Delgado — ribatté Vicki, cercando di infilare la chiave nella serratura. — Ah, sei proprio sempre uno sbirro. Non vedrai certo me portarmi il lavoro a casa — ribatté il signor Delgado, poi avanzò di qualche passo sul pianerottolo e si accigliò, aggiungendo: — Non hai un buon aspetto, Vicki. Stai bene? Tua madre sa che sei qui? — Mia madre... — cominciò Vicki, ma la gola le si contrasse e la obbligò a deglutire e a costringersi a respirare: c'erano così tanti diversi modi per dirlo, così tanti diversi, gentili eufemismi che però volevano dire tutti la stessa cosa. — Mia madre... è morta questa mattina. Il fatto di sentire la propria voce pronunciare quelle parole ebbe l'effetto di rendere infine reale l'accaduto. — Dottoressa Burke? Sono Donald. La dottoressa Burke si tolse gli occhiali e si massaggiò una tempia con il palmo della mano. — Donald, a costo di suonare ripetitiva, mi pareva di averti detto di non chiamarmi qui. — Sì, lo ha fatto, ma ho pensato volesse sapere che il signor Hutchinson è andato a prendere il soggetto. — Quale signor Hutchinson? — Quello giovane. — È quando sarà di ritorno? — Fra circa un'ora. Qui non c'è nessun altro, quindi intende cominciare subito a lavorare sul corpo. — Quando affermi che lì non c'è nessuno, Donald, ti riferisci al personale o ai clienti? — sospirò la dottoressa Burke.
— Ai clienti. Il personale è tutto qui: il vecchio signor Hutchinson e Christy. — Benissimo. Sai cosa devi fare. — Ma... — Provvederò io a far sì che si verifichino le interruzioni. Tutto quello di cui tu ti devi preoccupare è di svolgere il ruolo che ti è stato assegnato. Questo è di vitale importanza per le nostre ricerche, e potrebbe portare ai risultati finali, mettendoci praticamente in mano le ricompense che li accompagneranno — ribatté la dottoressa. — Non le verrò meno, dottoressa Burke — replicò Donald, e a lei parve quasi di avvertire attraverso il telefono l'ampio sorriso che accompagnava quella frase fatta. — Certo che non lo farai — convenne la dottoressa, poi troncò la comunicazione e chiamò il laboratorio. — Catherine, ho appena sentito Donald. Abbiamo poco più di un'ora di tempo. — Ecco, in questo momento ho il numero otto in dialisi, ma non dovrebbe metterci più di un'altra quarantina di minuti. — Allora hai tempo in abbondanza. Chiamami appena prima di arrivare e incaricherò la signora Shaw di informarsi per i fiori e il resto: nello stato in cui è, probabilmente riuscirà a tenere le linee telefoniche intasate per il resto del pomeriggio. Il numero nove si è calmato? — Solo dopo che ho diminuito ancora l'energia. Adesso mostra a stento segni di vita. — Catherine, lui non è vivo. — Sì, dottoressa — fu la risposta, dopo una piccola pausa che ovviamente conteneva un silenzioso sospiro. — Sta mostrando a stento tracce di onde cerebrali. — Così va meglio. Tutto quel picchiare gli ha causato qualche danno? — A dire il vero non ho avuto il tempo di esaminarlo, ma credo sia meglio che lei venga a dare un'occhiata al contenitore.
— Al contenitore? — ripeté la dottoressa, inarcando le sopracciglia. — Credo lo abbia ammaccato. — Catherine, questo è im... — cominciò la dottoressa, ma poi fece una pausa e ci pensò sopra per un momento, ben sapendo che Catherine avrebbe atteso pazientemente. Con gli inibitori naturali disattivati e l'incapacità di avvertire dolore, un potenziamento della forza fisica poteva essere possibile. — Puoi eseguire qualche test su di lui dopo aver attivato la nuova coltura di batteri. — Sì, dottoressa.
Senti, senti, senti, rifletté la dottoressa Burke, assestando un
colpetto soddisfatto alla cornetta del telefono nel posarla sulla sua forcella. Pareva proprio che stessero conseguendo un vero successo con il numero nove. Ora, se soltanto riusciamo a impedirgli di
decomporsi...
I piatti della colazione erano ancora nello scolapiatti e la sedia con il cuscino trapuntato era leggermente allontanata dal tavolo; la trousse da trucco era aperta sul piano del bagno con accanto un asciugamano ancora un po' umido, e anche se il letto era stato rifatto con cura, sul centro del copriletto spiccava un paio di collant con una gamba smagliata. Sedutasi al tavolino del telefono, con l'agenda di sua madre aperta in grembo, Vicki chiamò tutti coloro che riteneva dovessero essere informati, mantenendo un tono di voce calmo e professionale, come se stesse parlando della madre di qualcun altro.
Signora Singh? Sono l'Agente Nelson della Polizia Metropolitana. Si tratta di suo figlio... Temo che suo marito... Il conducente non ha avuto modo di evitare sua moglie... Sua figlia Jennifer è stata... Il funerale si terrà domani alle due. Quando giunse la chiamata dell'impresa di pompe funebri, il signor Delgado prelevò dall'armadio il vestito blu preferito da sua madre e provvide a consegnarlo; al suo ritorno, costrinse Vicki a mangiare un tramezzino e continuò a insistere che si sarebbe sentita meglio se avesse pianto. Vicki mangiò il tramezzino senza avvertirne
il sapore. Poi, dopo che non le fu rimasto più nessuno da contattare e che fu riuscita a convincere il signor Delgado a tornare a casa sua, si sedette con una gamba che penzolava dal bracciolo della vecchia sedia a dondolo imbottita e l'altro piede che la spingeva avanti e indietro sul pavimento. Lentamente, la stanza si fece buia. — Henry, ti sto dicendo che lei aveva l'aria distrutta, come nella Notte dei Morti Viventi. — E non ti ha sentito quando l'hai chiamata? — No, ha continuato a camminare — confermò Tony, scuotendo il capo con tanto vigore da farsi ricadere sugli occhi una ciocca di capelli castano chiaro, — e la guardia non mi ha permesso di seguirla su per le scale. Ha detto che poteva passare soltanto chi aveva un biglietto e non mi ha creduto quando ho affermato di essere suo fratello. Quel fottuto bastardo — commentò. Un anno sotto la guida di Henry non aveva ancora cancellato del tutto i risultati di cinque anni vissuti per strada. — Io però ho trascritto tutte le fermate di quel treno — continuò, esibendo un pezzo di carta sporco e appallottolato prelevato da una tasca dei jeans aderentissimi, e nel consegnarlo a Henry aggiunse: — Aveva una borsa da viaggio, quindi credo che intenda fermarsi là dove sta andando, dovunque sia. I nomi delle nove città erano stati scribacchiati negli spazi vuoti di un biglietto della metropolitana. Henry li fissò con aria accigliata, chiedendosi perché Vicki avesse lasciato la città senza avvertirlo. Aveva creduto che il loro rapporto fosse progredito al di là di quello stadio, a meno che la sua partenza non avesse qualcosa a che vedere con la loro lite di sabato notte. Sapeva che per quanto fosse stata grande la tentazione di dimostrare il proprio potere, non avrebbe mai dovuto usare la coercizione su di lei, e intendeva scusarsi per questo non appena si fosse calmata abbastanza da poter accettare le sue scuse. — Sua madre vive a Kingston — disse infine.
— Pensi di aver fatto qualcosa, vero? — Di cosa stai parlando? — ribatté Henry, sollevando lo sguardo con aria sorpresa. — Mi piace osservarti — spiegò Tony, arrossendo leggermente e affondando le dita dei piedi nel tappeto. — Quando siamo insieme lo faccio di continuo. Hai la tua faccia da Principe degli Uomini e quella da Principe dell'Oscurità, e quella sorta di espressione assente, da scrittore, ma quando pensi a "Vittoria"... a Vicki — continuò, arrossendo sempre di più ma sostenendo senza paura lo sguardo di Henry... — ecco, allora è come se non indossassi una faccia particolare. Sei soltanto tu. — Tutte le maschere scompaiono — commentò Henry, scrutando a sua volta il giovane. Molte delle sue spigolosità si erano smussate nell'anno trascorso da quando Vicki e un demone li avevano fatti conoscere, e in lui l'espressione ferita e diffidente era stata sostituita dal primo affiorare di una calma maturità. — La cosa ti crea problemi? — Riguardo a "Vittoria" e a te? No. Lei conta molto anche per me. Voglio dire, senza di lei non avrei... ecco, noi non avremmo... e poi... — Tony dovette umettarsi le labbra, prima di riuscire a proseguire. — A volte, quando ti nutrì, guardi anche me in quel modo. Intendi seguirla? — chiese quindi, abbassando bruscamente lo sguardo. In realtà, si trattava di una domanda retorica. — Devo sapere cosa c'è che non va. — Questo è ovvio — sbuffò Tony, allontanandosi i capelli dagli occhi e ritrovando il consueto tono sfacciato. — Allora chiama sua madre. — Chiamare sua madre? — Sì, sai come si fa. Hai presente il telefono? Henry allargò le mani, disposto a concedere a Tony quel suo piccolo momento di gloria. — Non ho il numero — obiettò. — E allora? Recuperalo nel suo appartamento.
— Non ho la chiave.
— Tu non ne hai bisogno — ribatté Tony, sbuffando ancora, poi
intrecciò le dita, facendo crocchiare le nocche, e continuò: — Se però non vuoi entrare di soppiatto, c'è sempre il nostro vecchio amico, il detective Celluci. Scommetto che lui ha il numero. — Lo recupererò nell'appartamento di Vicki — dichiarò Henry, socchiudendo gli occhi. — Ho il numero di Celluci proprio qui... voglio dire, se vuoi... — Tony — ammonì Henry, chiudendo una mano intorno alla mascella del giovane e serrando appena le dita, il pulsare del sangue di lui che martellava nella sua stretta, — non esagerare. Dalla strada, vide la luce accesa, riconobbe la sagoma che si intravedeva fra le fessure delle persiane, e per poco non decise di non entrare. Tony aveva visto Vicki lasciare la città nelle prime ore della mattina, e nonostante la borsa da viaggio era pur sempre possibile che lei fosse già tornata, nel qual caso era evidente che non stava trascorrendo la serata da sola. In piedi immobile nell'ombra di un antico castagno, rimase a osservare e ad ascoltare finché non fu certo che nell'appartamento ci fosse soltanto una emanazione vitale. Il che cambiava le cose in maniera considerevole. C'erano parecchi modi in cui avrebbe potuto procurarsi quello che voleva, ma Henry decise di ricorrere all'approccio diretto... per pura e semplice voglia di piantare grane, come l'onestà lo costrinse ad ammettere con se stesso. — Buona sera, detective. Stai aspettando qualcuno? Celluci si girò di scatto, assumendo una posa difensiva, e fissò Henry con occhi furenti. — Dannazione! — ringhiò. — Non lo fare! — Fare cosa? — ribatté Henry in tono asciutto, indicando con la voce e il portamento che non percepiva in alcun modo l'altro uomo come una minaccia, e mentre parlava si allontanò dalla porta, entrando nel salotto di Vicki.
Come se avesse ogni diritto di farlo, pensò Celluci, nel trovarsi a indietreggiare. Figlio di buona donna. La cosa gli costò uno sforzo cosciente, ma si costrinse a smetterla di ritrarsi. Non so a quale gioco stai giocando, ma non l'avrai vinta tanto facilmente. — Cosa diavolo ci fai tu qui?
— Potrei chiederti la stessa cosa.
— Io ho la chiave. — Io non ne ho bisogno — ribatté Henry, appoggiandosi alla
parete a braccia conserte. — La mia ipotesi è che tu sia tornato per scusarti per essertene andato di qui sbattendo la porta, sabato — aggiunse, e comprese di aver colpito nel segno quando registrò l'improvviso aumento del battito del cuore di Celluci e vide un iroso rossore affiorargli sul viso. — Lei te ne ha parlato. — Quelle parole suonarono quasi come un ringhio inarticolato. — Mi parla di tutto — precisò Henry, ritenendo inutile menzionare la lite che era seguita. — E tu vuoi che io batta subito in ritirata, vero? — continuò Celluci, tenendo a stento sotto controllo l'ira. — Che ammetta la sconfitta. — Se volessi farti battere in ritirata, mortale, lo faresti — dichiarò Henry, raddrizzandosi.
Considerato che sono di almeno venti centimetri più alto di lui, perché diavolo ho la sensazione che mi stia guardando dall'alto in basso? rifletté Celluci, mentre replicava: — Hai un'elevata opinione
di te stesso, vero? Senti, Fitzroy, non m'importa cosa sei e cosa puoi fare. Saresti dovuto diventare polvere quattrocento anni fa, e non intendo permetterti di averla. — Credo che la scelta dovrebbe spettare a lei.
— Ebbene, lei non sceglierà te! — infuriò Celluci, calando il pugno sul tavolo. L'impatto fece tremare una pila di libri in equilibrio precario, e una piccola rubrica degli indirizzi cadde sulla segreteria telefonica. Con uno scatto, essa si mise in funzione.
"Signorina Nelson? Sono di nuovo la signora Shaw. Mi dispiace disturbarla, ma il corpo di sua madre è stato trasferito al General Hospital. Abbiamo pensato dovesse saperlo nel caso... ecco, per qualsiasi evenienza... immagino che sia in viaggio per venire qui. Oh, santo cielo... sono le dieci del mattino di lunedì nove aprile. Per favore, ci faccia sapere se c'è qualcosa che possiamo fare per aiutarla." Celluci fissò il nastro che si stava riavvolgendo, poi sollevò lo sguardo su Henry. — Il corpo di sua madre — ripeté, ed Henry annuì. — Quindi adesso sappiamo dov'è. — Se questa telefonata è arrivata alle dieci, allora la prima deve essere stata fatta verso le nove. Lei non ti ha detto... — Celluci si interruppe e si allontanò dagli occhi il solito ricciolo di capelli. — No, certo, non poteva farlo, perché stavi... dormendo. Ti ha lasciato un messaggio? — No. Tony l'ha vista prendere il treno delle dieci e quaranta per Kingston, quindi lei deve aver lasciato l'appartamento poco prima di quella telefonata. Non ha fatto avere un messaggio neppure a te? — No — sospirò Celluci, sedendosi sul bordo del tavolo. — Comincio a essere un po' stanco di questo suo atteggiamento da "sono in grado di gestire tutto da sola". — Lo stesso vale per me — annuì ancora Henry, pensando: credevo che lei e io fossimo ormai al di là di questo. — Non mi fraintendere, la sua forza è una delle cose che... La pausa fu appena percettibile, tanto che forse sarebbe potuta passare inosservata a un mortale, ma non sfuggì a Henry. Di certo non verrà a dire proprio a me che la ama, commentò fra sé. — ... che ammiro in lei, ma c'è differenza fra la forza e... — Lasciò a mezzo la frase, con aria più stanca che ammirata. — La paura dell'intimità — sopperì Henry. — Già — sbuffò Celluci, allungando una mano alle proprie spalle in direzione della rubrica degli indirizzi. — Ebbene, dovrà sopportare un po' di fottuta intimità, perché non ho intenzione di
permetterle di affrontare tutto questo da sola — continuò, frugando nella rubrica con tanta forza da metterne a dura prova la rilegatura. — Ecco qui, sotto la M, per Mamma. Cristo, il suo metodo di archiviazione... — Poi ricordò d'un tratto con chi stava parlando, solo che non era preparato alla rapidità con cui lui era in grado di muoversi, tanto che in effetti non lo vide neppure spostarsi. Henry abbassò lo sguardo sull'indirizzo, poi gli restituì la rubrica. — Suppongo che ti rivedrò a Kingston — disse, avviandosi alla porta. — Ehi! Henry si volse. — Credevo non potessi abbandonare la tua bara. — Guardi troppi film scadenti, detective. — Dovrai comunque trovarti un riparo prima dell'alba — aggiunse Celluci, cedendo all'irritazione, — e io potrei fare in modo di impedirtelo. Una sola telefonata alla PPO e all'alba ti ritroverai in una cella detentiva. — Tu non lo farai, detective — ritorse Henry, in tono pacato, mentre intrappolava lo sguardo di Celluci con il proprio e lasciava scivolare via la consueta patina di civiltà. Per un momento si concesse di giocare con le reazioni del mortale, poi lo lasciò libero, quasi con riluttanza. — Tu non lo farai — proseguì, sempre in tono mite, — per lo stesso motivo per cui io non uso il potere che ho su di te. A lei non piacerebbe. Buona notte, detective — concluse, con un urbano sorriso e un cenno del capo che era la parodia di un cortese inchino. Celluci rimase a fissare la porta chiusa, lottando per impedirsi di tremare; chiazze di sudore gli si stavano allargando sotto ciascuna ascella e i palmi delle mani, premuti con forza contro il tavolo, erano umidi. Quello che lo sconvolgeva non era la paura, perché era una cosa che aveva già affrontato in passato e che sapeva di poter dominare; ciò che lo aveva sconvolto era stato l'impulso a offrire la propria gola, la consapevolezza che entro un altro istante avrebbe messo la propria vita nelle mani di Henry Fitzroy.
— Dannazione, Vicki — sussurrò con voce rauca, incrinando appena il silenzio, — stai giocando con il fuoco... — Accidenti, Cathy, perché hai portato anche loro? — Ho pensato che potevano trasportare il corpo. — Oh — mormorò Donald, indietreggiando, mentre Catherine aiutava due figure incespicanti a uscire dal retro del furgone. — Il programma che ho scritto per loro è piuttosto basilare: sei certa che possano fare una cosa tanto complicata? — Il numero nove può farlo — ribatté lei, assestando una pacca quasi affettuosa sulla larga spalla. — Il numero otto potrebbe aver bisogno di un po' di aiuto. — Un po' di aiuto. D'accordo — borbottò Donald, grugnendo per lo sforzo nel trascinare giù dal furgone un paio di sacchi di sabbia. — Allora, se sono tanto forti, possono trasportare loro questi. — Dalli tutti e due al numero nove. Non mi fido molto delle articolazioni del numero otto. Laddove i muscoli viventi dovevano sforzarsi per sollevare da terra anche un singolo sacco, il numero nove non diede invece segno di avvertire il peso, anche dopo essere stato caricato di entrambi i sacchi. — Buona idea — ansimò Donald. — Mi riferisco all'averli fatti venire con noi. Lo sforzo di portare dentro quella roba mi avrebbe ucciso. — Continuando a lottare per respirare, si lanciò un'occhiata intorno nel parcheggio: la luce sovrastante il garage era appena sufficiente a illuminare l'area circostante, e lui aveva rimosso quel pomeriggio la luce dell'ingresso per le consegne. — Solo, accertiamoci che nessuno li veda, d'accordo? Non hanno un aspetto esattamente... ecco... vivo. — Che nessuno veda loro? — ribatté Catherine, impegnata a far girare il numero otto in modo che si trovasse di fronte alla porta; quando si volse, scoprì che il numero nove si era mosso senza avere bisogno di aiuto. — Faremo meglio ad accertarci che nessuno
veda noi. — Le persone non osservano con troppa attenzione le imprese di pompe funebri — spiegò Donald, ancora affannato, nell'infilare la chiave nella serratura. — Hanno paura di quello che potrebbero vedere. Verrebbe quasi voglia di desiderare che qualcuno si imbatta in Mutt e Jeff, qui presenti — ridacchiò poi, scoccando un'occhiata alla faccia grigia ed essiccata del numero nove, appollaiata sopra il colletto di una giacca a vento rossa, e infine aprì la porta con una spinta. — No. Ora muoviamoci. Essendo da tempo abituato alla completa mancanza di senso dell'umorismo della sua collega, Donald scrollò le spalle e scomparve all'interno dell'edificio. Il numero nove lo seguì. — Cammina — ordinò Catherine, assestando una piccola spinta al numero otto, che esitò e poi cominciò a muoversi lentamente; arrivato però circa a metà della lunga rampa in discesa che portava alla sala di imbalsamazione, esso incespicò. — No, non ci provare... — ingiunse Catherine. Tenendolo bloccato contro il muro in equilibrio precario, si chinò e gli raddrizzò la gamba sinistra. — Perché ci avete messo così tanto? — domandò Donald, quando i due infine lo raggiunsero. — Problemi con la rotula — spiegò Catherine con aria accigliata, sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli tanto biondi da apparire quasi bianchi. — Temo che non stia avvenendo nessun tipo di ricostruzione cellulare. — Già, e anche l'odore sta peggiorando. — Oh, no. — Oh, sì. Ma adesso non restiamo tutta la notte fermi ad annusare dei morti — ribatté Donald, aprendo entrambe le metà del coperchio della cassa. — Abbiamo del lavoro da fare. Fu necessario chiudere le dita del numero otto intorno alle caviglie del cadavere, ma bastò ben poca sollecitazione perché il numero nove lo afferrasse per le spalle.
— Donald, ti ripeto che il numero nove si è interfacciato con la rete — gongolò Catherine, mentre guidavano i due corpi semoventi su per la rampa. — Sono certa che si stia verificando una attività cerebrale indipendente. — Cosa ne dice la dottoressa Burke? — Più che altro, è preoccupata per la decomposizione. — È comprensibile. È sempre una fregatura, quando i tuoi esperimenti marciscono prima che si possano raccogliere i dati. Falli fermare per un momento, mentre io raggiungo la porta. I due studenti specializzandi procedettero a caricare personalmente il furgone, perché neppure Catherine era capace di elaborare una serie di comandi costituiti da una singola parola che potessero permettere al numero otto di eseguire le complicate manovre richieste dall'operazione, senza contare che, come Donald le ricordò di nuovo, era opportuno agire in fretta e in silenzio. — Perché quello che stiamo facendo è illegale — aggiunse Donald, sistemando il numero otto al suo posto. — Sciocchezze — ribatté Catherine, accigliandosi. — È scienza. Donald scosse il capo. Non aveva mai incontrato nessuno che fosse anche solo in parte così focalizzato su un singolo scopo. Per quanto era riuscito ad appurare, la sua vita privata era simile a quella che potevano avere i soggetti dei loro esperimenti, il che era significativo, se si considerava che i soggetti in questione erano morti. La cosa più strana, però, era che a lei sembrava davvero non importare che quello che stavano facendo avrebbe avuto come risultato ultimo fama e fortuna. — Allora, nell'interesse della scienza, cerchiamo di rimanere fuori dalla prigione — commentò, assestando al numero nove una spintarella in direzione del veicolo; il numero nove abbassò la testa, e il riflesso delle stelle scivolò sulla superficie artificialmente umida dei suoi occhi.
Capitolo terzo — Quello non è un cuore sano. — No, adesso non lo è — convenne Donald, scrutando l'interno della cavità toracica da sopra la propria mascherina chirurgica. — Niente fumo, niente alcolici, e guarda com'è ridotto. Viene quasi voglia di uscire a fare bisboccia. Con un abile colpo di bisturi, la dottoressa Burke espose la valvola tricuspide e cominciò a rimuovere la membrana lacerata. — Non ti avevo chiesto un commento di tipo morale, Donald — ribatté. — Presta attenzione a quello che stai facendo. Senza mostrarsi in alcun modo mortificato, Donald svuotò la siringa ipodermica che aveva in mano, ne estrasse l'ago dall'angolo dell'orbita oculare e selezionò un ago più piccolo. Il liquido nella siringa appariva quasi opalescente sotto la luce delle lampade fluorescenti. — D'accordo, ragazzi — disse, mentre inseriva con cura la punta nella cornea, — è ora di mettersi al lavoro. Solleva quella curva, trasporta quel sostegno, se non ripari l'iride, devi pagare il pegno. — Possiamo fare a meno della poesia, grazie — ammonì la dottoressa, impegnata a richiudere con punti ben stretti l'incisione nel cuore. — Se hai idratato entrambi gli occhi, aiuta Catherine con la cavità addominale. Dobbiamo legare al più presto quei vasi sanguigni, in modo da poter immettere in circolazione il fluido nutriente. In un lavoro di questo tipo, il tempo è di importanza vitale — continuò a pontificare, mentre Donald posizionava due tamponi di cotone inzuppati sopra ciascun occhio aperto e fisso, e si spostava su un lato del tavolo. — Per fortuna, la prima fase del processo di imbalsamazione rinforza le vene, rendendoci più facile lavorare rapidamente su di esse, e permettendoci di... — Dottoressa... questo è il nostro decimo cadavere — le ricordò Donald, intento ad aspirare la soluzione sterile che utilizzavano per espellere dal corpo i fluidi imbalsamanti. Catherine, che era stata
impegnata a eseguire una sutura in mezzo a tutto quel liquido, gli rivolse un sorriso di gratitudine che le incrinò un poco gli angoli degli occhi, al di sopra della maschera. — Voglio dire che sappiamo tutte queste cose, senza contare che abbiamo trattato sei dei precedenti nove soggetti con le nostre tenere manine. — E avete fatto un lavoro eccellente. Vorrei soltanto che i miei impegni mi permettessero di aiutarvi maggiormente — dichiarò la dottoressa Burke, più che disposta ad assegnare il merito a chi lo meritava, considerato che per il momento questo non aveva nessuna importanza, e allungò una mano alle proprie spalle per prendere un minuscolo motore e un cacciavite elettrico. — Detto questo, non ci fa mai male che ci venga ricordato quanto sia importante per i tessuti sani un adeguato equilibrio di idratazione. Donald ridacchiò e, imitando quasi alla perfezione la voce sensuale delle pubblicità, domandò: — Quanto morto pensate che io sia? — Devo essere più stanca di quanto credessi — dichiarò la dottoressa Burke, smettendo di lavorare per girarsi a fissarlo. — Ho trovato divertente la tua battuta. Scuotendo il capo, Catherine tirò fuori dal corpo un'altra arteria. Qualche momento più tardi, installarono al suo posto la sacca di gel che avrebbe sostituito il sistema digerente; sul suo spesso rivestimento di agar si inseguivano accesi riflessi perlacei. — Questa volta abbiamo batteri in abbondanza — osservò la dottoressa Burke, mentre finiva di collegare il secondo motore del diaframma artificiale. — Voglio che quegli organi ne siano saturati. — E saturati saranno — convenne Donald, accettando la coltura di fegato che Catherine gli stava porgendo, poi si accigliò e scoccò un'occhiata furente al di sopra della spalla di lei, ingiungendo: — Smettila! — Cosa devo smettere? — domandò Catherine, chinandosi a lavorare su un rene. — Non tu, il numero nove. Continua a fissarmi. Lei si raddrizzò per controllare.
— No, non lo sta facendo. Sta solo guardando nella tua direzione. — Ebbene, la cosa non mi piace. — Non sta facendo niente di male. — È allora? — Figlioli — intervenne la dottoressa Burke, con voce tanto asciutta che pareva crepitare. — Potremmo rimanere concentrati sul lavoro che stiamo facendo? — Di proposito, attese che entrambi avessero ripreso il lavoro prima di rimuovere il divaricatore per le costole. — Se lui ti secca tanto, Donald, Catherine può rimetterlo nel suo contenitore. — Buona idea — annuì Donald. — La abitui a mettere via i suoi giocattoli, quando ha finito di usarli. — È meglio lasciarlo fuori, dottoressa — dichiarò Catherine, ignorando quel commento. — Ha bisogno di stimoli, se vogliamo che s'interfacci con la rete. — Obiezione valida — ammise la dottoressa. — Malamente espressa, ma comunque valida. Mi dispiace, Donald, lui resta fuori. Catherine scoccò al collega un'occhiata di trionfo. — Quando avrete finito qui, uno di voi potrà provvedere a richiudere mentre l'altro comincerà a pompare e a sostituire la soluzione sterile. Voglio che quel sistema circolatorio sia installato e funzionante al più presto possibile. E adesso, se pensate di potervela cavare senza che io funga da arbitro, vorrei aprire il cranio. — Mi sta ancora guardando — ringhiò Donald, un momento più tardi, con voce appena udibile al di sopra dello stridio della sega per le ossa. — Possiamo sperare che stia imparando da te. — Davvero? — ribatté Donald, sollevando un dito rivestito dal guanto di lattice. — Allora impara questo. Dall'altra parte della stanza, tre dita della mano destra del numero nove si ripiegarono lentamente verso l'interno, infilandosi sotto il pollice ripiegato, e anche se la faccia rimase inespressiva, un
muscolo si contrasse sotto la superficie di cuoio della pelle. Henry pilotò con disinvoltura la BMW lungo le curve della rampa di uscita, tenendo una velocità notevolmente più elevata di quella consentita. Due ore e quarantadue minuti da Toronto a Kingston non erano la rapidità massima con cui si poteva effettuare quel tragitto, ma se si consideravano il traffico perennemente congestionato a cui si era trovato di fronte nel lasciare la città e l'elevato numero di pattuglie della polizia provinciale che avevano pattugliato l'ultimo centinaio di chilometri, si trattava comunque di un tempo accettabile. Anche se gli piaceva la velocità elevata ed era dotato di riflessi che gli permettevano di eseguire manovre tali da lasciare a bocca aperta gli altri conducenti, Henry non era mai riuscito a capire l'amore dei nordamericani per l'automobile. Per lui un'auto era uno strumento, e la BMW era un compromesso fra la potenza e l'affidabilità, perché mentre i conducenti umani rischiavano sconsideratamente la vita spingendo oltre il limite il loro mezzo, lui non aveva nessuna intenzione di porre bruscamente fine a quattrocento cinquanta anni di vita a causa della fatica dei metalli o di un difetto di fabbrica... ma del resto, al contrario dei conducenti umani, lui non aveva nulla da dimostrare. Trovare l'appartamento della madre di Vicki fu facile: oltre al il fatto che Division Street correva diritta a partire dal numero 401, era comunque impossibile non riconoscere l'uomo che stava scendendo da una berlina di ultimo modello, parcheggiata davanti all'edificio. Henry si infilò nel piccolo parcheggio e insinuò la BMW nello spazio adiacente all'altra auto. — Hai tenuto una buona media — commentò, scendendo dal veicolo e stiracchiandosi. — Grazie. — La parola sfuggì di bocca a Celluci prima che lui si rendesse conto di non avere nessun motivo di sentirsi così compiaciuto per quell'osservazione. — Quanto a te — ringhiò, — è evidente che hai infranto i limiti di velocità. — Non più di quanto tu ritenga che non si applichino a te —
ritorse Henry, con un sorriso tagliente. — Oppure la polizia non è obbligata ad attenersi alle leggi che ha giurato di far rispettare? — Stronzo — borbottò Celluci, anche se in effetti nulla smorzava un impeto di giusta ira quanto basi morali dubbie. — E comunque non capisco perché tu sia venuto. Vicki ha bisogno di avere intorno a sé dei vivi, non altri morti. — Io non sono più morto di te, detective. — Già, ecco, tu non sei... voglio dire, sei... — Io sono un vampiro — affermò Henry, allargando le mani. — Ecco, la cosa non aleggia più in sospeso fra noi, la parola è stata pronunciata — continuò, incontrando lo sguardo di Celluci e trattenendolo con il proprio, questa volta senza usare forza alcuna per mantenere il contatto. — Tanto vale che tu lo accetti, detective: non intendo andare via. — Che cosa eri? — si ritrovò a chiedere Celluci, in cui la curiosità aveva avuto la meglio sul buon senso. — Ero un principe. Un bastardo di sangue reale. — Sei un reale bastardo, su questo non ci sono dubbi — commentò Celluci, un angolo della bocca che gli si contraeva in modo sospetto, poi lottò per tornare su un maggiore piano di parità, ignorando la sensazione che gli stesse venendo concesso di farlo. — Perché nessuno è mai un fottuto contadino? — Nessuno? — ripeté Henry, inarcando le sopracciglia. — Tu, Shirley MacLane... lascia perdere — sospirò Celluci, appoggiandosi contro la propria macchina. — Senti, lei non ha bisogno di averci qui tutti e due. — Quindi sarebbe il caso che io me ne tornassi a casa? Non credo proprio. — Cosa le puoi dare? — Adesso? In questo momento di dolore? Le stesse cose che puoi darle tu. — Ma io le posso dare la notte e il giorno. Tu hai da elargire soltanto la notte.
— Allora perché sei tanto preoccupato per il fatto che io sia qui? Senza dubbio, sei tu a essere in vantaggio. Intendiamoci — continuò Henry, in tono pensoso, — io ho lasciato il mio rifugio per lei, ho sfidato il sole per esserle accanto, e questo dovrebbe contare qualcosa. — Cosa vorrebbe dire... contare qualcosa? — sbuffò Celluci. — Questa non è una gara! Uomo contro... contro scrittore di romanzi rosa — proseguì, socchiudendo gli occhi. — Si suppone che noi siamo qui per lei! — Allora forse dovremmo impegnarci un po' di più per tenerlo a mente — ribatté Henry, avviandosi verso l'edificio. Dannato figlio di buona donna pieno di condiscendenza! Infuriò dentro di sé Celluci. Per fortuna, le sue gambe più lunghe gli permisero di raggiungere l'altro senza che fosse costretto a correre. — In tal caso concentriamoci su di lei finché tutto questo non sarà finito — propose. — E dopo? — domandò Henry, voltandosi a guardarlo. — Chi diavolo sa cosa succederà dopo? Prima arriviamo in fondo a questa faccenda — ritorse Celluci, pensando: Smettila di guardarmi
in quel modo!
Intento ad ascoltare il martellare del suo cuore, Henry annuì, soddisfatto. Vicki impiegò un momento a rendersi conto di cosa significassero quei colpi.
La porta. Bang. Bang. Bang. C'era la polizia alla porta. Il modo di bussare era inconfondibile.
Scrutando con aria accigliata il piccolo appartamento buio, si issò in piedi con mosse rigide. Quanto tempo era passato? Dal momento che i suoi occhi erano inutili nonostante la luce che giungeva dalla strada, raggiunse a tentoni il tavolino del telefono, e da lì procedette lungo il muro, fino alla porta.
Celluci fissò Henry con espressione accigliata e sollevò la mano per bussare ancora. — Sei certo che sia in casa? — Sì. Posso avvertire la sua vita. — Già. Logico.
Bang. Bang. Bang. Le sue dita strisciarono sull'interruttore della luce e lo premettero, facendo lacrimare gli occhi a causa dell'improvvisa luminosità della stanza. Sua madre usava sempre lampadine da cento watt.
"Non m'importa quanta corrente consumo, è più importante vederci bene quando si torna a casa. Me lo posso permettere, e l'ecologia può andare a impiccarsi." Sua madre aveva usato lampadine da cento watt. A metà della sua corsa, la serratura s'inceppò. — Le avevo detto di farla aggiustare — ringhiò, nel lottare per costringere i cilindri ad abbassarsi. — Dannato, stupido pezzo di ferraglia. Bang. Bang. Bang. — Datevi una calmata! — È in casa — affermò Celluci, abbassando la mano. Finalmente, la serratura cedette. Vicki trasse un profondo respiro, si assestò gli occhiali e aprì la porta. — Cosa diavolo ci fate qui voi due? — chiese, dopo una lunga pausa. — Siamo venuti per essere d'aiuto — rispose Henry, in tono pacato. Lei spostò lo sguardo dall'uno all'altro, in preda a emozioni fra cui
la confusione era la sola che riuscisse a etichettare senza difficoltà. — Tutti e due? — Tutti e due — confermò Celluci. — Io non ho chiesto il vostro aiuto. I due si scambiarono un'occhiata con espressione identica. — Lo sappiamo — sospirò poi Celluci. — Vicki? Tutti e tre si girarono. Il signor Delgado era fermo appena fuori dalla soglia della sua casa, con il peso bilanciato in avanti sulla punta dei piedi, le spalle gettate all'indietro, le braccia abbandonate lungo i fianchi e i calzoni infilati sulla giacca di un pigiama a strisce. — C'è qualche problema? Vicki si assestò gli occhiali sul naso, pensando che la risposta più sincera sarebbe stata un non ancora. — No, nessun problema — replicò infine. — Questi sono miei amici di Toronto. — Cosa ci fanno qui? — A quanto pare — ribatté Vicki, con voce che si andava facendo sempre meno incerta a ogni parola, — sono venuti per aiutarmi. — Oh. — Lo sguardo di Delgado passò in esame Celluci da capo a piedi, poi si spostò su Henry che, per amore di Vicki, si costrinse a tenere sotto controllo la propria irritazione e a permettere al vecchio di terminare il suo vaglio. — Bene, se dovesse esserci qualsiasi problema — aggiunse Delgado, pronunciando le ultime due parole in tono di avvertimento, — fammelo sapere. — Sono in grado di gestire questi due, signor Delgado. — Non ne dubito, ma non dovresti essere costretta a farlo, non adesso — dichiarò il vecchio, protendendo in fuori il mento. — Voi ragazzi avete capito? — Abbiamo capito, signor Delgado — confermò Celluci, la cui pazienza mostrava di cominciare a logorarsi. — Tutti e due?
Henry si girò maggiormente, fino a trovarsi rivolto verso il pianerottolo. — Lo comprendiamo entrambi — ribadì. Il signor Delgado lo fissò con occhi socchiusi, poi parve quasi mettersi sull'attenti. — Dovevo chiederlo... — cominciò. — Buona notte — rispose Henry, chinando appena il capo in un gesto di congedo. Tutti e tre guardarono la porta che si chiudeva, poi Vicki indietreggiò per lasciare libera la soglia. — Tanto vale che entriate — disse. — ... non è mai passato per la testa a nessuno di voi due che forse volevo gestire questa cosa da sola? — domandò Vicki, camminando avanti e indietro per il salotto per poi fermarsi accanto alla finestra e fissare con espressione irosa la notte che regnava all'esterno. L'appartamento era un seminterrato, non proprio una cantina ma neppure un primo piano, e le finestre si affacciavano su una stretta striscia di erba, al di là della quale c'erano prima il parcheggio per i visitatori e poi la strada. Come panorama non era un granché, e sua madre aveva speso parecchio per installare delle serrande e delle spesse tende per impedire al mondo di guardare dentro la sua casa, ma Vicki non si era preoccupata di chiudere né le une né le altre. — Non avete pensato che forse non c'era nessun aiuto che poteste darmi? — Se vuoi che l'uno o l'altro di noi torni a Toronto, o che ce ne andiamo entrambi, lo faremo — rispose piano Henry. Celluci gli scoccò un'occhiata e aprì la bocca per ribattere, ma Henry sollevò una mano in un gesto di ammonizione e lui la richiuse senza parlare. — Voglio che torniate tutti e due a Toronto! — No, non lo vuoi. Lei scoppiò in una risata in cui si avvertiva una vaga nota di
isterismo. — Mi stai leggendo nella mente, Henry? — ribatté, girandosi a fronteggiarli entrambi. — D'accordo, hai vinto. Visto che siete qui, tanto vale che rimaniate... tutti e due — aggiunse, abbozzando con la mano un gesto di resa. — Come hai fatto a convincere Mike ad andare a dormire? — Gli ho semplicemente detto che domani avresti avuto bisogno che lui fosse riposato, e che io ero la scelta più logica per vegliare su di te durante la notte. — Soltanto? — Ecco, forse l'ho persuaso un poco. Vicki sedette sul bordo di uno dei letti gemelli, nella stanza in cui era cresciuta, e con la mano cancellò pieghe inesistenti dalla federa del cuscino. — Domattina non ti ringrazierà certo per questo. — Forse no — ammise Henry, osservandola con attenzione senza però lasciar trasparire appieno l'effettiva portata della sua preoccupazione, per evitare che lei reagisse malamente. — Però gli ho spiegato che era un po' difficile per l'uno o l'altro di noi offrire conforto finché eravamo presenti entrambi, e lui è parso convenirne. — A dire il vero, Celluci aveva grugnito un "Allora vattene", ma Henry non ritenne che fosse il caso di farne parola con Vicki. — Tutto questo mentre io ero in bagno? — Avrebbe dovuto richiedere più tempo? — Suppongo di no. Henry si era preparato a vederla infuriarsi per il suo comportamento arbitrario, e avrebbe preferito la fiamma intensa della sua ira alla grigia accettazione che stava ricevendo; allungando la mano, catturò con gentilezza quella di lei, che stava ancora accarezzando il cuscino. — Hai bisogno di dormire, Vicki — disse, notando che la pelle intorno agli occhi di lei pareva tesa al massimo.
— Non credo di riuscirci. — Io credo di sì. — Se hai bisogno di nutrirti, temo di non... — Non stanotte — la interruppe Henry, scuotendo il capo. — Forse domani. Ora cerca di dormire un poco. — Non posso... — Puoi — ribadì lui, rendendo appena più profondo il tono della voce e sollevandole il mento in modo che i loro sguardi si incontrassero. Nel rendersi conto di quello che lui stava facendo, Vicki sgranò gli occhi e cercò invano di liberarsi dalle sue dita. — Dormi — ripeté Henry. La protesta inarticolata di Vicki si trasformò in un lungo sospiro tremante, e lei crollò sul letto. Accigliandosi pensosamente, Henry le sistemò le gambe sotto le coperte e mise al sicuro gli occhiali sul comodino. L'indomani mattina, avrebbero potuto discutere dell'ingiusto vantaggio che lui aveva sulle menti mortali, e forse questo li avrebbe fatti avvicinare maggiormente. Era un rischio che non poteva esimersi dal correre, ma per il momento... sollevata la mano, spense la luce. — Per il momento — mormorò, rimboccando le coperte intorno a quella vita che splendeva come un faro nel buio, — per il momento, proteggerò i tuoi sogni. — Henry... — chiamò Vicki, sollevandosi su un gomito e cercando a tentoni gli occhiali. La stanza era grigia, non nera, ma non poteva essere già l'alba perché lei avvertì la sua presenza prima ancora di riuscire a individuare la zona di ombra più fitta, vicino alla porta. — Non posso rimanere più a lungo — disse lui, allargando le mani in un gesto di scusa. — Il sole è molto vicino all'orizzonte. — Dove andrai? — Non lontano — rispose Henry, con un sorriso che gli traspariva dalla voce. — L'armadio a muro nella stanza di tua madre
costituirà un rifugio adeguato. Ci vorrà ben poco per escludere la luce del giorno. — Vengo con te — dichiarò Vicki, alzandosi dal letto senza darsi pensiero per la mancanza di luce: sua madre non aveva apportato cambiamenti degni di nota nella stanza dopo che lei se ne era andata, e avrebbe dovuto essere peggio che cieca per perdere la strada. Le dita fresche di Henry si chiusero intorno al suo braccio, appena al di sopra del gomito, e Vicki si volse, consapevole che lui era in grado di vederla, anche se lei riusciva a stento a distinguere i contorni del suo corpo. — Henry — disse, e quando lui si fece più vicino si protese ad appoggiargli il palmo contro il petto. — Mia madre... — Pur sapendo che lui stava aspettando, non riuscì però a trovare le parole, e alla fine dovette limitarsi a scuotere il capo. Le labbra di lui le sfiorarono i capelli. — Avevi ragione — affermò infine Vicki, — dormire mi è stato di aiuto... ma non lo fare mai più — aggiunse, affondando le dita nella camicia di lui e assestandogli un lieve strattone in avanti. — Niente promesse — ribatté Henry, in tono sommesso, coprendole la mano con la propria.
Sì, promesse, avrebbe voluto insistere Vicki. Non intendo permetterti di manipolare la mia mente. Solo che lui le manipolava
la mente con il solo fatto di esistere e, considerate le circostanze, non avrebbe creduto a nessuna promessa che le avesse fatto. — Datti una mossa — consigliò, spingendolo verso la porta. — Perfino io riesco ad avvertire il sole.
Celluci giaceva disteso sul letto di sua madre, senza scarpe, ma per il resto completamente vestito. Nel vederlo apparire così improvvisamente sotto la luce intensa del lampadario, Vicki sussultò e dovette trattenersi dallo scrollarlo e dal pretendere di sapere cosa ci facesse là. Sul letto di sua madre. Solo che sua madre non ci avrebbe più dormito, quindi che differenza poteva fare? — Non si sveglierà — la rassicurò Henry, vedendola esitare. —
Non prima che io sia... addormentato. — Vorrei che non lo avessi fatto. — Vicki. Il suono del proprio nome la indusse ad avanzare fino a quando si trovarono separati solo da un soffio d'aria, vicino alla porta dell'armadio. — Michael Celluci ha il giorno — sussurrò Henry, sollevando una mano ad accarezzarle con gentilezza una guancia. — Non posso dividerlo con lui, quindi non mi chiedere di dargli anche la notte. — Ti ho mai chiesto questo? — domandò Vicki, deglutendo a fatica, mentre il tocco di lui le tracciava linee incandescenti sulla pelle. — No — replicò Henry, con il volto che mutava espressione, facendosi un po' triste. — Non mi hai mai chiesto niente. Vicki avrebbe voluto protestare che non era vero, ma sapeva cosa lui intendesse dire. — Non ora, Henry — disse quindi. — Hai ragione, non ora — annuì Henry, ritraendo la mano. Per fortuna, nell'armadio a muro c'era spazio a sufficienza perché un uomo non troppo alto potesse sdraiarsi al riparo al sole. — Bloccherò la porta dall'interno, in modo che non la si possa aprire accidentalmente, e ho portato perfino la tenda oscurante che avevi appeso nel mio appartamento, per avvolgermela intorno. Sarò di nuovo con te questa sera. Con gli occhi della memoria, Vicki lo vide ridestarsi con il sopraggiungere dell'oscurità, dopo una giornata trascorsa... privo di vita. — Henry. Lui si fermò nell'atto di oltrepassare la soglia dell'armadio. — Mia madre è morta. — Sì. — Tu non morirai mai.
Il quattrocento cinquantenne figlio bastardo di Enrico VII annuì. — Non morirò mai — convenne. — Dovrei risentirmi con te per questo? — Dovrei risentirmi perché puoi vedere il giorno? Vicki aggrottò le sopracciglia così bruscamente da farsi scivolare gli occhiali lungo il naso. — Detesto quando rispondi a una domanda con un'altra domanda — dichiarò. — Lo so. Il suo sorriso conteneva così tante sfumature da non dare a Vicki speranza di poterle decifrare tutte prima che la porta dell'armadio si richiudesse fra loro. — Vicki, non puoi essere d'accordo con quello che Fitzroy ha fatto! — esplose Celluci, e quando lei mostrò di concentrarsi sul po' di fango che stava cercando di rimuovere dalle sue scarpe migliori, si rese conto che era effettivamente d'accordo. — Vicki! — Cosa? — Mi ha messo fuori combattimento, mi ha fatto dormire, ha violato il mio libero arbitrio! — Voleva soltanto avere lo stesso tempo da solo con me che tu stai avendo adesso, con la garanzia che non ci fossero interruzioni. — Non posso credere che tu lo stia difendendo! — Non lo sto facendo. Non proprio. È solo che capisco le sue motivazioni. Sbuffando, Celluci infilò le braccia nelle maniche della giacca con violenza. — E cosa avete fatto voi due, in questo tempo libero da interruzioni? — Ha fatto dormire anche me, poi si è seduto ed è rimasto a vegliarmi fino all'alba. — Tutto qui? Vicki si girò a fissarlo, le sopracciglia tanto inarcate da sbucare
entrambe al di sopra della montatura degli occhiali. — Tutto qui. Non che siano dannatissimi affari tuoi. — Questa volta non te la caverai così, Vicki — ribatté lui, togliendole la scarpa di mano, per poi piegare a terra un ginocchio. — Fitzroy li ha fatti diventare affari miei con quella sua manovra da Principe dell'Oscurità. Sospirando, Vicki gli permise di guidarle il piede nella semplice scarpa décolleté nera. — Sì, suppongo che sia così, ma io avevo bisogno di una notte di sonno, Mike — replicò, protendendosi ad allontanargli dalla faccia il lungo ricciolo di capelli scuri, — e non ce l'avrei fatta, senza di lui. Mi ha dato la notte per dormire, mentre avrebbe potuto prenderla per sé. — Molto nobile da parte sua — grugnì Celluci, insinuandole l'altro piede nella seconda scarpa. Ed è stato molto nobile, ammise fra sé, nel rialzarsi in piedi. Nobile in quel modo prepotente da "io
so cosa sia meglio quindi non prenderti la briga di esprimere la tua opinione" che è passato di moda insieme al fottuto sistema feudale. Comunque fosse, Fitzroy aveva agito in modo da perseguire quello che riteneva essere il migliori interesse di Vicki, e lui non riteneva onestamente che sarebbe stato capace di lasciarli soli insieme, cosa che Fitzroy era invece costretto a fare quando giungeva il mattino. Suppongo che anch'io avrei potuto fare la stessa
cosa, in simili circostanze, ma questo non giustifica minimamente la sua fottuta altezza reale nonmorta. Quello che lo preoccupava più di tutto era quanto poco Vicki sembrasse interessarsi alla cosa, come sembrasse operare con il pilota automatico inserito, e quanto poco stesse interagendo con il mondo che la circondava. Non aveva difficoltà a riconoscere gli effetti del lutto e dello shock, li aveva visti fin troppe volte nel corso degli anni, ma in qualche modo gli riusciva più difficile affrontarli, perché erano applicati al presente, e a Vicki. Voleva fare in modo che lei stesse meglio. E sapeva di non esserne in grado. Detestava dover accettare quella realtà di fatto.
D'accordo, Fitzroy, tu le hai dato il sonno, la scorsa notte, e oggi io le darò il mio supporto. Forse, fra tutti e due, riusciremo a tirarla fuori da questa situazione. Riuscì a farle mangiare qualcosa, ma quando perfino il suo tentativo di scatenare una lite cadde nel vuoto, rinunciò infine a indurla a parlare. Verso mezzogiorno, il signor Delgado passò a chiedere a Vicki se aveva bisogno di un passaggio per andare alle pompe funebri, ma lei sollevò la testa in silenzio dalla sedia a dondolo e scosse il capo. — Humph — sbuffò il vecchio, indietreggiando nel corridoio e squadrando di nuovo Celluci da capo a piedi. — Lei è uno dei suoi amici della polizia? — chiese. — Sono il detective Michael Celluci. — Già, lo pensavo, ha l'aria di uno sbirro. Sono Louis Delgado — si presentò il vecchio. La sua stretta era ancora energica, il palmo indurito dai calli propri di un lavoratore. — Che ne è stato dell'altro tizio? — È rimasto alzato a vegliarla tutta la notte, e sta ancora dormendo. — Lui non è un poliziotto. — No. — Ai miei tempi, lasci che glielo dica, con due uomini che si contendevano la stessa donna, ci sarebbe stato sangue sparso per strada. — Cosa le fa pensare... — Crede forse che abbia disattivato il cervello quando sono andato in pensione? La scorsa notte vi ho visti tutti e tre insieme, ricorda? — ribatté il vecchio, poi il suo volto si fece più serio mentre proseguiva: — Forse è un bene che la gente sia diventata più civile: attualmente, Vicki non ha bisogno che ci si batta intorno a lei. L'ho vista crescere, l'ho vista decidere di diventare un'adulta quando avrebbe ancora dovuto godersi la fanciullezza, cercando di prendersi cura di sua madre, di badare a se stessa. Sa che non si piegherà — aggiunse con un sospiro.
— Adesso che è successa questa cosa terribile, lei e quell’altro tizio cercate di impedirle di spezzarsi. — Faremo del nostro meglio. — Uhm — sbuffò il vecchio, asciugandosi gli occhi e mostrando chiaramente di non avere un'alta opinione di quello che poteva essere il loro meglio. Celluci lo guardò tornare nel suo appartamento, poi richiuse in silenzio la porta. — Al signor Delgado importa molto di te — osservò, attraversando la stanza per portarsi al fianco di Vicki. — Era molto affezionato a mia madre — precisò lei, scuotendo il capo, e non aprì più bocca finché non furono già in macchina, diretti alle pompe funebri. — Mike? — disse d'un tratto. Celluci le scoccò un'occhiata in tralice: Vicki stava sfoggiando la sua espressione da tribunale, sulla quale neppure il più diligente fra gli avvocati sarebbe riuscito a leggere la minima opinione personale. — Non l'ho chiamata, e quando lei mi ha richiamata non ho risposto. E poi lei è morta. — Sai che non c'è connessione fra le due cose — le fece notare lui, con la massima gentilezza possibile. Non si aspettava una risposta, e infatti non la ottenne. Non c'era altro da dire, quindi si protese a coprirle la mano sinistra con la propria. Dopo un lungo momento, le dita di lei si girarono e si aggrapparono alle sue con tanta forza da costringerlo a soffocare un'esclamazione di dolore. La mano fu la sola cosa di lei che si mosse, e le dita erano ghiacciate. — In realtà, è per il tuo bene — affermò Catherine, finendo di affibbiare le cinghie sul petto e sfiorando appena la spalla del numero nove. — So che questo non ti piace, ma non possiamo correre il rischio che ti strappi via gli aghi. È quello che è successo alla numero sei, e l'abbiamo perso. Anche se i tuoi reni non stanno ancora funzionando, tu hai fatto molti più progressi di tutti gli altri
— proseguì, sorridendo, — e detesteremmo perdere anche te. — Protendendo una mano dietro l'orecchio sinistro del numero nove, inserì il cavo di collegamento al computer nel connettore impiantato là e controllò che la pelle non si fosse sfilata da sotto il collare chirurgico di acciaio stretto intorno al cuoio capelluto e al cranio. — E adesso... — aggiunse, scuotendo il capo alla vista delle piccole ammaccature visibili lungo la curva interna del coperchio isolato, — restatene sdraiato tranquillo, e io riaprirò nel momento stesso in cui avrai finito la dialisi. Il contenitore si chiuse con un sussurro di sigilli a tenuta d'aria, unito allo scatto metallico di una serratura. Accigliandosi leggermente, Catherine regolò la quantità di ossigeno puro che scorreva attraverso la presa d'aria; anche se il numero nove era progredito fino a non averne più bisogno e avrebbe potuto cavarsela soltanto con la normale aria filtrata, voleva che lui avesse ogni opportunità di riuscire. Più tardi, quando fosse stato in corso l'esame diagnostico dei muscoli, gli avrebbe massaggiato tutto il corpo con la crema agli estrogeni, perché la sua pelle non aveva un bell'aspetto. Nel frattempo, azionò l'interruttore che avrebbe avviato la trasmissione attraverso la sua rete neurale e andò a controllare gli altri due contenitori. Il numero otto stava cominciando a cedere. Le sue articolazioni reagivano sempre di meno, le estremità si erano scurite e lei aveva il sospetto che nel fegato si fosse avviata la decomposizione, un segno certo che i batteri avevano cominciato a morire. — Ci sono miliardi di questi batteri che si moltiplicano in tutto il mondo — commentò tristemente, accarezzando il coperchio del contenitore del numero otto. — Perché non riusciamo a tenere questi in vita abbastanza a lungo perché possano fare qualcosa di buono? Avvicinatasi al terzo contenitore, che era stato recentemente lasciato libero dal dissezionato numero sette, Catherine si soffermò a esaminare uno dei tre monitor di computer: gli schemi delle onde cerebrali di Marjory Nelson, che erano stati registrati nei mesi precedenti la sua morte, erano trasmessi in un loop continuo attraverso la rete neurale da poco installata. Prima di allora non
avevano mai avuto effettivi schemi cerebrali, e tutti i precedenti esperimenti, inclusi il numero otto e il numero nove, avevano ricevuto soltanto generiche onde alfa registrate sulla base del cervello di Donald e della stessa Catherine. — Nutro grandi speranze sul tuo conto, numero dieci. Non c'è motivo che tu non debba... — Uno sbadiglio spezzò a metà quel pensiero e Catherine si avviò incespicando verso la porta, sentendosi improvvisamente esausta. Donald era andato a dormire non appena ultimato l'intervento chirurgico principale, e la dottoressa Burke se n'era andata poco prima dell'alba. A Catherine non era dispiaciuto finire da sola, perché le piaceva avere il laboratorio tutto per sé, cosa che le permetteva di portare a termine tutta una serie di lavoretti extra, ma se non aveva sbagliato i calcoli, era in piedi da circa un giorno e mezzo, e aveva bisogno di schiacciare un sonnellino. Le sarebbe bastato stendersi per un paio di ore, e sarebbe tornata come nuova. Soffermandosi sulla soglia, con le dita già sull'interruttore, si girò a guardare verso il laboratorio, e mormorò: — Sogni d'oro. Non erano sogni, e non erano neppure veri e propri ricordi, ma al di fuori dell'influenza della rete neurale c'erano immagini che affioravano. Il volto molto vicino di una giovane donna, con gli occhi e i capelli chiari. La sua voce era rilassante, in un mondo dove c'erano troppe luci e troppi suoni che erano soltanto rumore. Il suo sorriso era... Il suo sorriso era... Impulsi organici si spostarono turgidi lungo laceri sentieri neurali alla ricerca di un collegamento che completasse quel pensiero. Il suo sorriso era... Gentile. Il numero nove si agitò un poco sotto le cinghie di contenzione. Il suo sorriso era gentile. — Signorina Nelson? Vicki si girò verso la voce, sforzandosi il più possibile per non assumere un'espressione accigliata. Amici e parenti di sua madre
stavano intasando la stanza di ricevimento, in attesa di manifestarle il loro cordoglio. Se non fosse stato per la solida massa di Celluci alle sue spalle, si sarebbe data alla fuga, e se lui non le avesse prontamente afferrato il polso, avrebbe senza dubbio sferrato un pugno nello stomaco al cugino che, dopo essere venuto fin lì in macchina da Gananoque, aveva commentato che sarebbe stato meglio scegliere un orario diverso, più presto o più tardi, e che comunque sperava che dopo ci fosse un rinfresco. L'uomo massiccio che l'aveva chiamata per nome le era sconosciuto. — Signorina Nelson, sono il Reverendo Crosbie — si presentò, porgendole una grossa mano. — Il ministro anglicano che lavora di solito con l'Impresa Hutchinson oggi non si sente bene, e mi ha chiesto di sostituirlo. — La sua voce era un rude ronzio che saliva e scendeva di tono con la cadenza della costa orientale. Un ampio doppio mento quasi nascondeva il colletto clericale, ma considerata l'energia della sua stretta di mano, Vicki dubitò che tutta la mole dell'uomo fosse costituita da grasso. — Mia madre non andava in chiesa — affermò. — Questo è fra lei e Dio, signorina Nelson — ribatté il religioso, con un tono che riuscì a essere insieme pratico e comprensivo. — Lei voleva che si tenesse un servizio religioso anglicano per dare pace alla sua anima, e io sono qui per accontentarla. Tuttavia — proseguì, aggrottando leggermente le sopracciglia, — dal momento che non conoscevo sua madre, non ho nessuna intenzione di parlare come se invece l'avessi conosciuta. Vuole occuparsi lei di tenere l'elogio funebre? Aveva intenzione di alzarsi in piedi davanti a tutte quelle persone per parlare loro di sua madre? Intendeva davvero raccontare loro come sua madre avesse rinunciato alla vita a cui una giovane donna aveva diritto per sostentare entrambe? Doveva dire loro come lei avesse cercato di impedirle di trovare il suo primo lavoro, perché riteneva che l'infanzia dovesse durare un po' più a lungo, o come avesse brillato visibilmente di orgoglio nel guardarla diplomarsi alle superiori, laurearsi e poi diplomarsi alla scuola di polizia? Raccontare di come dopo la sua promozione lei avesse cominciato a condire ogni sua frase con le parole "mia figlia, la detective", o di come si
fosse precipitata a Toronto in treno non appena aveva saputo la diagnosi della sua malattia agli occhi, e si fosse rifiutata di ascoltare le sue bugie riguardo al fatto che stava bene e che non aveva bisogno di averla là? Parlare di come fosse stata solita sgridarla e preoccuparsi, e telefonarle sempre quando lei stava facendo la doccia? Dire a tutti loro che sua madre aveva avuto bisogno di parlarle e che lei non aveva risposto al telefono? Dire loro che sua madre era morta? — No — rispose, e nel sentire la mano di Celluci chiudersi intorno alla sua spalla si rese conto che la sua voce era stata tutt'altro che nitida. Tossendo, si guardò intorno nella stanza, quasi in preda al panico. — Quella donna laggiù, quella bassa con indosso un trench cachi — disse, evitando di indicare perché questo avrebbe rivelato quanto stava tremando. — Quella è la dottoressa Burke. Mia madre ha lavorato per lei durante gli ultimi cinque anni. Forse sarà disposta a dire qualcosa. Per un secondo, gli occhi azzurri del Reverendo Crosbie si misero a fuoco su qualcosa che si trovava appena dietro di lei, e ciò che scorsero sul volto di Celluci parve rassicurare il religioso, che annuì. — Allora andrò a parlare con la dottoressa Burke — convenne in tono sommesso, avviluppandole di nuovo la mano nel calore della propria. — Forse più tardi lei e io avremo l'occasione di scambiare qualche parola. — Forse. La stretta della mano di Celluci sulla sua spalla si accentuò mentre il religioso si allontanava. — Stai bene? — Certo, sto bene — rispose Vicki. Non era proprio una bugia, dato che non si aspettava che lui le credesse. — Vicki? Quella era una voce che lei conosceva, e il suo suono la indusse a voltarsi quasi con entusiasmo verso la persona che aveva parlato. — Zia Esther — disse. La donna alta e magra aprì le braccia, e lei se ne lasciò avviluppare. Esther Thomas era stata la migliore amica di
sua madre. Le due donne erano cresciute insieme, erano andate insieme a scuola, erano state ciascuna damigella d'onore al matrimonio dell'altra. Esther insegnava in una scuola di Ottawa fin da quando Vicki riusciva a ricordare, ma il fatto di abitare in due città diverse non aveva inciso sull'amicizia che la legava a sua madre. Quando si separarono, le guance di Esther erano umide di pianto. — Pensavo che non sarei arrivata in tempo — affermò, tirando su con il naso e mettendosi in cerca di un fazzolettino di carta. — Ho preso la macchina di Richard, ma sono in corso dei lavori sull'autostrada Quindici. Non ti sembra incredibile? Siamo solo in aprile, ed è ancora probabile che si metta a nevicare. Dannazione, io... grazie. Lei è Mike Celluci, vero? Ci siamo incontrati una volta, circa tre anni fa, appena dopo Natale, quando lei è venuto in macchina a Kingston a prendere Vicki. — Lo ricordo. — Vicki... Vicki, ho un favore da chiederti. Io... io la vorrei vedere un'ultima volta. Vicki indietreggiò e calpestò un piede di Celluci senza neppure accorgersene. — Vederla? — ripeté. — Sì, per dirle addio — spiegò la donna, asciugando senza troppo successo le lacrime che le rigavano le guance. — Non penso di riuscire a credere che Marjory sia davvero morta se non la vedrò con i miei occhi. — Ma... — So che è un funerale a bara chiusa, ma pensavo che tu e io potremmo riuscire a sgusciare di là adesso, prima che cominci il servizio. Vicki non aveva mai capito quel bisogno di vedere qualcuno che era morto. Un cadavere era un cadavere, e nel corso degli anni lei ne aveva visti abbastanza da sapere che erano tutti fondamentalmente uguali. Non voleva ricordare sua madre come l'aveva vista all'obitorio, stesa su un tavolo, e di certo non voleva ricordarla come un manichino preparato per andare nella terra, ma
era evidente che quella era per Esther una cosa necessaria. — Parlerò con il signor Hutchinson — si trovò a dire. Pochi momenti più tardi, tutti e tre si stavano avviando lungo la navata centrale della cappella, i loro passi resi silenziosi dallo spesso tappeto rosso. — Ci siamo preparati per questa eventualità — affermò il signor Hutchinson, mentre si avvicinavano alla bara. — Molto spesso, quando la bara è chiusa, ci sono comunque amici e parenti che vogliono dare un ultimo addio al defunto. Sono certo che troverà sua madre molto simile a come la ricorda, signorina Nelson. Vicki serrò i denti per evitare di rispondere. — Il servizio dovrebbe iniziare a momenti — aggiunse Hutchinson, facendo scattare la chiusura e cominciando a sollevare la parte superiore del coperchio, — quindi temo che dovrete... che dovrete... Le mani di Vicki si chiusero intorno al bordo imbottito della bara, le dita che affondavano in profondità nello spesso rivestimento di satin. Nel centro del cuscino trapuntato era posata l'estremità superiore di un grosso sacco di sabbia, e una rapida occhiata verso i piedi della bara le fu sufficiente a constatare che un secondo sacco di sabbia costituiva l'appesantimento della bara. — Cosa ne avete fatto di mia madre? — chiese, in tono tale da strappare a quelle parole qualsiasi parvenza di civiltà.
Capitolo quarto — Probabilmente le cose procederebbero con maggiore facilità se solo potesse indurre la signorina Nelson ad andare a casa — affermò il detective Fergusson della Polizia di Kingston, e abbassando ulteriormente la voce aggiunse: — Non è che non apprezziamo il vostro contributo, detective, ma la signorina Nelson non è più nella polizia da un paio di anni, e in realtà non dovrebbe essere qui. E poi, sa com'è, è una donna, e le donne tendono a farsi prendere dall'emozione in momenti come questo. — Vi capitano molti furti di cadaveri, vero? — ribatté in tono asciutto Celluci. — No! — esclamò l'altro detective, sollevando con indignazione lo sguardo a incontrare quello di Celluci. — Prima d'ora non ne avevamo mai avuto neppure uno. — Ah. Allora a quali momenti si stava riferendo? — Ecco, la morte di sua madre, il furto del corpo, l'essere alle pompe funebri. Personalmente, si tratta di un posto che detesto, troppo dannatamente silenzioso. In ogni caso, probabilmente risulterà che si è trattato di qualche stupido scherzo da parte di quegli svitati studenti della facoltà di medicina... potrei raccontarle un sacco di storie su di loro. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una donna isterica... non mi fraintenda, considerate le circostanze, la signorina ha ogni diritto di essere isterica. — La signorina Nelson le sembra isterica, detective? Fergusson si passò una mano massiccia sui capelli che si andavano diradando e guardò verso la parte opposta della stanza, dove il suo collega aveva appena finito di raccogliere le testimonianze. Alcuni mesi prima, aveva avuto l'opportunità di provare uno di quei nuovi fucili d'assalto ad alta tecnologia in dotazione ai ragazzi delle forze speciali, e la ex— detective Nelson gli ricordava molto quel fucile. — Ecco, no, non proprio isterica.
Anche se non poteva dire di trovare simpatico il detective, Celluci non era peraltro del tutto indifferente al suo problema. — Guardi la cosa da questo punto di vista. Lei era uno dei migliori ufficiali di polizia con cui abbia mai prestato servizio, probabilmente il migliore con cui presterò mai servizio. Se rimane qui, la consideri una risorsa aggiuntiva di cui poter usufruire e parta dalla convinzione che, a causa del suo background, lei non interferirà mai in modo dannoso con la sua gestione del caso. Se invece vuole che se ne vada — concluse, battendo una leggera pacca sulla spalla del detective più anziano, — glielo dica lei, perché io non ho nessuna intenzione di farlo. — Le cose stanno così, eh? — Stanno così. Mi creda, se dovesse chiederle di andarsene, tornerà utile il fatto che lei si trovi già alle pompe funebri. Con ogni probabilità, le cose scorreranno più lisce se lei rimarrà. — Suppongo che si sentirà meglio se avrà l'impressione che sta facendo qualcosa di utile — sospirò Fergusson, scrollando le spalle. — Ma se dovesse perdere il controllo, la dovrà portare fuori di qui. — Mi creda, lei è ciò che mi sta più a cuore. Osservando Vicki, che si trovava dalla parte opposta della cappella, Celluci rimase ancora una volta colpito da come lei apparisse completamente controllata. Ogni suo muscolo si muoveva con rigida precisione, e l'intensità delle emozioni represse che si muovevano con lei la faceva apparire spaventosamente remota. Conosceva quell'espressione, la stessa che lei aveva adottato in passato quando un caso la toccava profondamente, quando il cadavere di turno diventava qualcosa di più di un semplice dato statistico, quando la cosa si faceva personale. Superiori e psicologi mettevano in guardia i poliziotti da quel genere di coinvolgimento, timorosi che esso potesse condurre a un esaurimento o a diventare eccessivamente guardinghi, ma prima o poi tutti ne cadevano vittime. Quello era il genere di sentimento che induceva a portare avanti un'indagine anche quando la logica stava già da tempo suggerendo che era il caso di rinunciare, il sentimento che alimentava le lunghe, e apparentemente inutili, ore di faticoso lavoro che infine portavano davvero a poter formulare delle accuse. Quando
"Vittoria" Nelson assumeva quell'espressione, era meglio non intralciarle la strada. A questo punto, però, nelle attuali circostanze, quella era l'ultima espressione che Celluci voleva vedere sul suo volto. Dolore, ira, perfino l'isterismo... e di certo lei aveva ogni diritto di essere isterica, in quella situazione... sarebbero stati preferibili al modo in cui Vicki si era rinchiusa in se stessa. Quello non era, non poteva essere semplicemente un altro caso come tanti. — Ehi — disse, protendendosi a sfiorarle un braccio. I muscoli, sotto la manica della giacca azzurro polvere, sembravano duri come pietra. — Stai bene? — Benissimo.
Sì, come no. Del resto, quella era la risposta che si era aspettato di
ricevere.
— Dunque — esordì il più anziano dei due Hutchinson, protendendosi in avanti sulla sedia, appoggiando gli avambracci esattamente nel centro del tampone assorbente grigio scuro che proteggeva il piano della sua scrivania e intrecciando le dita, — vi garantisco che avrete tutta la nostra collaborazione nel fare chiarezza su questa sfortunata faccenda. In tutti gli anni in cui l'Impresa di Pompe Funebri Hutchinson ha sopperito alle necessità della popolazione di Kingston non si era mai verificata una cosa tanto orribile. Signorina Nelson, la prego di credere che lei ha tutta la nostra solidarietà e che faremo tutto ciò che è in nostro potere per porre rimedio alla situazione. Vicki limitò la propria risposta a un singolo, rigido cenno di assenso, in quanto era ben consapevole che se avesse aperto bocca non sarebbe più stata in grado di tacere. Voleva strappare il caso dalle mani della polizia di Kingston, fare domande, ricostruire dall'insieme di tutti i minimi dettagli l'identità dell'ignobile furfante che aveva osato violare il corpo di sua madre. E una volta che lo avesse identificato... Sapeva che Celluci la stava osservando e intuiva il suo timore che lei cominciasse a esigere delle risposte, passando come un carro
armato sopra le forze di polizia locali, ma lei non aveva intenzione di fare nulla di così manifestamente stupido. Due anni senza il distintivo le avevano insegnato quanto fosse utile agire con sottigliezza, e lavorare con Henry le aveva insegnato che spesso era più facile trovare giustizia al di fuori della legge. — D'accordo, signor Hutchinson — replicò intanto il detective Fergusson, controllando i propri appunti e assestando la propria mole in cerca di una posizione più comoda sulla sedia. — Abbiamo già parlato con il suo autista e con suo nipote, l'altro signor Hutchinson, quindi partiamo dal momento in cui il corpo è arrivato qui. — Signorina Nelson, probabilmente tutto questo le riuscirà penoso... — cominciò Hutchinson. — Signor Hutchinson, la signorina Nelson ha servito per quattro anni come detective della squadra omicidi di Toronto — lo interruppe Fergusson che, pur dubitando a sua volta che fosse stato saggio permettere a Vicki di essere presente, non aveva intenzione di permettere a un civile di profferire giudizi su un ex— membro delle forze di polizia. — Se dovesse dire qualcosa che le riuscirà penoso, saprà farvi fronte. Dunque, il corpo è arrivato qui... — Sì... ecco, dopo il suo arrivo, la defunta è stata portata nella nostra stanza di preparazione. Anche se la funzione doveva essere a bara chiusa, gli accordi che lei aveva preso con noi prevedevano che venisse imbalsamata. — Questa non è una cosa insolita? L'imbalsamazione senza la bara aperta, intendo. Il signor Hutchinson sorrise, e le profonde rughe che gli attraversavano la faccia si trasformarono in parentesi appena accennate. — No, in realtà non lo è. Molte persone decidono che, pur non desiderando di essere viste dopo essere morte, tuttavia vogliono avere il loro aspetto migliore. Inoltre, molti si rendono conto che, come è accaduto in questo caso, amici e parenti vorranno poter dare loro un'ultima occhiata anche senza veglia funebre. — Capisco. Quindi il corpo è stato imbalsamato?
— Sì. Mio nipote si è occupato della maggior parte della procedura. Ha effettuato la disinfezione, massaggiato i tessuti per smuovere il sangue raccolto alle estremità, composto i lineamenti, prosciugato il corpo e iniettato il fluido per l'imbalsamazione, perforato gli organi interni con il trequarti... — Non c'è... uh, non c'è bisogno di scendere così nel dettaglio — interruppe il detective Fergusson, schiarendosi la voce. — Oh, chiedo scusa — replicò il signor Hutchinson, arrossendo leggermente. — Credevo voleste sentire tutto. — Sì, ma... — Signor Hutchinson — intervenne Vicki, protendendosi in avanti. — Quell'ultima parola da lei usata, trequarti. Che cos'è? — Ecco, signorina Nelson, è un lungo tubo d'acciaio, cavo, molto appuntito e affilato. Lo usiamo per estrarre i fluidi corporei e iniettare un fluido preservante molto, molto astringente nella cavità. — Suo nipote non ne ha fatto menzione. — Ecco — si schermì il vecchio, con un sorriso imbarazzato, — probabilmente lui è stato un po' più conciso di me. Ho la tendenza a divagare un poco, se non vengo frenato. — Lui ha detto — insistette Vicki, trattenendo con il proprio lo sguardo del vecchio, — che aveva appena inserito il sigillante per incisioni nella vena giugulare quando è stato chiamato di sopra. — No — dichiarò il signor Hutchinson, scuotendo il capo, — questo è impossibile. Quando sono sceso per finire il lavoro, dato che la giovane donna in ufficio insisteva a tutti i costi per parlare con David, il trequarti era già stato inserito nell'addome, sigillando la ferita di ingresso. Il piccolo ufficio fu pervaso da un intenso silenzio, in cui era possibile percepire un frenetico lavorio per arrivare alle debite conclusioni. — Credo sia meglio che parli di nuovo con David — affermò infine, lentamente, il detective Fergusson. David Hutchinson ribadì quanto aveva detto in precedenza.
— Ma se non sei stato tu ad aspirare la cavità del corpo, e di certo non sono stato io, allora chi lo ha fatto? — domandò l'anziano signor Hutchinson, che appariva confuso. — Chen? — suggerì suo nipote, allargando le mani con fare impotente. — Sciocchezze, è qui solo come osservatore. Non saprebbe come fare. — Vi riferite a Tom Chen? Entrambi i signori Hutchinson annuirono. — Prima di essere accettato in un programma per diventare impresario di pompe funebri — spiegò il più giovane dei due, — è necessario trascorrere quattro settimane come osservatore presso un'impresa di pompe funebri, perché questo non è un lavoro che tutti siamo in grado di fare. In ogni caso, Tom era con noi da due settimane e mezza, e si trovava nella stanza mentre stavo preparando il corpo. Mi ha dato una mano, ha fatto un paio di domande... — Ed era ancora nella stanza quando sono sceso per finire. Da quanto mi ha detto, David, pareva proprio che tu avessi effettuato l'aspirazione. — Ti dico che non l'avevo fatto. — Ne sei sicuro? — Sì! — Il suono esplosivo di quella parola incrinò il pacato riserbo che i due uomini erano addestrati a sfoggiare, ed entrambi si volsero a guardare con un'identica espressione di sgomento il funzionario di polizia seduto dall'altro lato della scrivania. — E dove si trova Tom Chen? — Purtroppo, non è qui — spiegò il più anziano dei due Hutchinson, ritrovando il controllo. — Ha lavorato per tutto il weekend, perciò quando mi ha chiesto la giornata libera, non ci ho visto nulla di male a concedergliela. — Hmmm. Jamie... Il collega di Fergusson annuì e lasciò in silenzio la stanza.
— Dove sta andando? — A vedere se possiamo fare due chiacchiere con il signor Chen. Per adesso, però, dimentichiamoci per un momento di chi ha effettuato l'aspirazione, d'accordo? — ribatté Fergusson, appoggiandosi allo schienale e tamburellando con la penna sul blocco per gli appunti. — Ditemi cosa è successo dopo. — Ecco, questo è più o meno tutto. Abbiamo vestito il corpo e applicato i cosmetici, giusto per andare sul sicuro, poi abbiamo sistemato il corpo nella bara e... ecco, lo abbiamo lasciato lì, per tutta la notte. Questa mattina abbiamo portato la bara di sopra, nella cappella. — Senza controllarne il contenuto? — Prima d'ora non era mai successo niente al contenuto — dichiarò in tono difensivo il più giovane dei due Hutchinson. — Deve essere successo durante la notte — aggiunse suo zio, scuotendo la testa con fare stanco. — Una volta che la bara è stata portata di sopra, nessuno poteva rimuovere il corpo senza essere visto. — Non ci sono tracce di scasso — rifletté ad alta voce Fergusson. — Chi ha le chiavi? — Ecco, le abbiamo noi, naturalmente, e anche Christy Aloman, che si occupa del lavoro di ufficio ed è con noi da anni. Inoltre, c'è un mazzo di chiavi di riserva nel mio cassetto... oh, che strano — commentò Hutchinson, aprendo un secondo e poi un terzo cassetto. — Ah, eccole qui! — Non sono dove lei le tiene di solito? — No. Non penserà che qualcuno le abbia prese per farne delle copie, vero, detective? Il detective Fergusson si lanciò un'occhiata alle spalle, in direzione dell'angolo dove erano seduti Vicki e Celluci, e sollevò un sopracciglio con aria eloquente. — Io mi sforzo di non pensare, signor Hutchinson — sospirò poi. — Di solito, farlo è troppo deprimente.
— D'accordo — disse Celluci, svoltando su Division Street, una mano sul volante e l'altra che si agitava nell'aria per dare maggiore enfasi alle sue parole. — Perché mai Tom Chen avrebbe dovuto rubare il corpo? — Come diavolo faccio a saperlo? — ringhiò Vicki. — Quando lo avremo trovato, glielo chiederò. — Non hai la certezza che lui abbia avuto qualcosa a che fare con l'accaduto. — No? Stiamo parlando di un indirizzo falso e della scomparsa del soggetto la mattina successiva al crimine, cose che a me suonano dannatamente incriminanti. — Te lo concedo. — Per non parlare di quel rimpallarsi del lo— abbiamo— o— non— lo— abbiamo— fatto che c'è stato nella stanza di imbalsamazione. Quella ragazza che ha insistito per parlare con il più giovane dei due Hutchinson era probabilmente una diversione pianificata. — Il detective Fergusson e il suo collega se ne stanno occupando. — E allora? — ribatté Vicki, girandosi a guardarlo mentre si fermavano nel parcheggio del condominio. — Allora lasciamogli fare il loro lavoro, Vicki — rispose Celluci, finendo di parcheggiare e allungando la mano verso il sacchetto di pollo del take— away posato sul sedile posteriore. — Fergusson ha promesso di tenerti informata di tutto. — Bene — dichiarò Vicki. Scese dalla macchina e si diresse verso l'edificio. — Questo renderà più facile il mio lavoro. — Che sarebbe? — si sentì costretto a chiedere Celluci. Sapeva già la risposta, ma doveva fare quella domanda. — Trovare Tom Chen. Con tre lunghi passi Celluci la raggiunse, e con un altro la oltrepassò, spalancando la porta del condominio. — Vicki, ti rendi conto che Tom Chen, il nome del ladro del corpo, è probabilmente fasullo quando il suo indirizzo? Come
diavolo farai a trovarlo? — E quando lo avrò trovato... troverò il corpo di mia madre — continuò Vicki, in tono tale da far suonare quel ritrovamento come un dato di fatto e non una possibilità, cosa che indusse Celluci a sospettare che non avesse sentito una sola parola di quello che aveva detto. — Che razza di schifosa sfortuna! Impegnata a slacciare le cinghie del numero nove, Catherine si accigliò, ritraendosi poi per permettere al numero nove di uscire dal suo contenitore. — Suppongo che sia stata una sfortuna — commentò quindi, in tono dubbioso, — ma in realtà non ha nulla a che vedere con noi. — Sì, come no! — sbuffò Donald. — Scendi sulla terra Cathy: cerca di ricordare che siamo noi quelli che se ne sono andati di là con il cadavere che stanno cercando, e cerca di ricordare anche che il furto di cadavere è un reato — continuò, con la voce che saliva di tono. — E cerca di ricordare che tutte le tue ricerche andranno al diavolo se ti sbatteranno in galera! — Un momento più tardi si ritrasse di scatto quando all'improvviso il numero nove avanzò barcollando verso di lui, e stridette: — Ehi! Sta' indietro! — Smettila di gridare, perché non gli piace — ingiunse Catherine, mentre insinuava una mano sotto un braccio nonmorto. Il numero nove mosse altri due passi prima di registrare la pressione delle sue dita, ma quando lo fece si fermò, obbediente. — Va tutto bene — gli sussurrò lei. — Va tutto bene.
— Non va tutto bene! — esclamò Donald, levando in aria
entrambe le braccia e girandosi di scatto verso la dottoressa Burke. — Glielo dica lei, dottoressa. Le dica che non va tutto bene. — Donald — sospirò la dottoressa, sollevando lo sguardo dal tracciato di onde alfa che scorreva sul monitor, — credo che tu stia iperreagendo. — Iperreagendo! — ripeté lui, con gli occhi che gli sporgevano dalle orbite. — Cerchi di ricordare che sono io quello che loro
possono identificare! — No, non lo sei — ribatté la dottoressa Burke, in un tono pratico che, pur non essendo precisamente confortante, ebbe comunque l'effetto di calmarlo. — Loro possono identificare Tom Chen, non Donald Li, ma dal momento che Tom Chen non esiste, e che non c'è nulla che lo possa collegare a Donald Li, possiamo supporre che tu sia al sicuro. — Ma loro sanno che aspetto ho — insistette Donald, la cui protesta era però molto calata di tono. — Certo, gli altri dipendenti dell'impresa di pompe funebri potrebbero identificarti in un confronto, ma hai la mia personale garanzia che non si arriverà mai a questo. Che genere di descrizione può essere fornita alla polizia? Un giovane maschio orientale, alto circa un metro e settanta, con corti capelli neri e occhi neri, volto rasato... — La dottoressa Burke sospirò nuovamente. — Donald, già solo in questa università ci sono centinaia di studenti che si adattano a quella descrizione, per non parlare di tutti gli altri sparsi per la città. — Sta dicendo che siamo tutti uguali? — Più o meno quanto potrebbe esserlo un giovane maschio occidentale alto un metro e settantacinque, con corti capelli castani, occhi chiari e volto rasato, soggetti presenti a loro volta a centinaia qui all'università. Sto dicendo che la polizia non ti troverà mai — ribatté la dottoressa, chinandosi sull'elettrocardiografo. — Bada soltanto a non dare nell'occhio nei prossimi giorni, e tutto andrà per il meglio. — Non dare nell'occhio, certo — ripeté Donald, camminando avanti e indietro per la stanza mentre scartava una barretta di cioccolato che si era sfilato da una tasca della giacca. — Sono stato un idiota di classe A a permettervi di convincermi a entrare in questa faccenda. Sapevo dall'inizio che ci sarebbero stati dei guai. — Sapevi fin dall'inizio che tutto questo guadagnare un sacco di soldi — lo corresse la raddrizzandosi. — Sapevi che le applicazioni del svolgendo sono infinite, e che le implicazioni
ci avrebbe fatto dottoressa Burke, lavoro che stiamo sono sbalorditive.
Questo potrebbe farci vincere il Premio Nobel... — Non danno il Premio Nobel ai ladri di cadaveri — obiettò Donald. — Lo fanno, quando quei ladri hanno sconfitto la morte — sorrise la dottoressa Burke. — Sai cosa sarebbe disposta a fare certa gente per avere le informazioni che stiamo scoprendo? — Ecco, so cosa ho fatto io per averle — ribatté Donald, guardando verso il lato opposto del laboratorio, dove Catherine stava guidando il numero nove verso una sedia. Appena poche settimane prima, quell'ex— vagabondo giaceva su un tavolo di obitorio, senza nessuno che lo reclamasse. E adesso, se pure non è stata annullata, di certo la morte ha ricevuto un bel calcio nei denti, rifletté. — Senta, perché aspettare ancora? — domandò. — Con i trucchetti che abbiamo già fatto fare ai batteri di Cathy, per non parlare dell'apparente interfaccia cervello— computer del vecchio numero nove, potremmo facilmente vincere già adesso il premio. — È una cosa di cui abbiamo già parlato, Donald. Se pubblichiamo adesso i risultati, non ci permetteranno mai di arrivare fino in fondo. — Il governo non ha nessun diritto di regolamentare la scienza — interloquì Catherine. Donald spostò lo sguardo dai lineamenti severi della dottoressa a quelli ostinati della sua collega specializzanda. — Ehi, io sono dalla vostra parte, ricordate? Voglio la mia parte dei profitti, per non parlare della possibilità di vincere un Premio Nobel, ma semplicemente non voglio essere buttato dietro le sbarre, dove senza dubbio qualche infima creatura con il fisico di un gorilla mi farebbe piegare in due e... — Hai chiarito il tuo punto, Donald, ma dubito onestamente che la polizia farà molti sforzi per trovare il giovane signor Chen. Fin troppo presto, ci saranno atti indegni commessi a danno di corpi viventi che reclameranno la sua attenzione. — Davvero? E cosa mi dice di quella Vicki Nelson, la figlia? Ho
sentito dire che è un tipo tosto. — Non hai tutti i torti, anche se trovo sgradevole questa tua improvvisa preferenza per un linguaggio da strada — dichiarò la dottoressa Burke, accigliandosi. — Non solo la signorina Nelson era in precedenza un detective di polizia, ma adesso è un'investigatrice privata, e stando a quanto si dice, non è una persona che si arrende facilmente. Per fortuna, anche lei andrà incontro esattamente alla stessa carenza di informazioni a cui si troverà di fronte la polizia, e anche se è possibile che impieghi più tempo a scoraggiarsi, non troverà comunque nulla, perché siamo stati attenti a non lasciarle nulla da trovare. Giusto? — Ecco... sì. — Allora smettila di preoccuparti. È stata una sfortuna che abbiano deciso di aprire la bara, ma non si tratta certo del disastro in cui tu stai trasformando la cosa. Non avevi un seminario tutoriale, questo pomeriggio? — Credevo non volesse che mi facessi vedere. — Voglio che ti comporti come fai di solito. — Cioè male? — sorrise Donald, incapace di continuare a lungo a preoccuparsi per qualcosa. — Va' — ribadì con un mezzo sorriso la dottoressa Burke, scuotendo il capo. E Donald se ne andò.
— Corre davvero qualche pericolo, dottoressa Burke? —
domandò Catherine.
— Non gli ho appena detto di no? — Sì, ma... — Catherine, non ho mai mentito a Donald, perché mentire è il modo più semplice per perdere la fedeltà dei propri collaboratori. Catherine prese a mordicchiarsi un labbro, all'apparenza poco convinta. — Quando mi hai inizialmente contattata — sospirò con gentilezza la dottoressa Burke, — non ti ho forse promesso che mi
sarei occupata io di tutto? Che avrei fatto in modo di permetterti di lavorare senza interferenze? E non ho forse mantenuto la mia promessa? Catherine annuì, smettendo di mordersi un labbro. — Quindi non devi preoccuparti di nulla se non del tuo lavoro. Inoltre, la dedizione di Donald alla scienza non è intensa come la nostra — continuò la dottoressa, battendo un colpetto sul contenitore in cui si trovavano i resti di Marjory Nelson. — Allora, se sei in grado di impostare da sola la sequenza muscolare, è meglio che io torni in ufficio. Con la signora Shaw a casa in preda a una crisi isterica, Dio solo sa cosa sta succedendo lassù. Rimasta sola nel laboratorio, Catherine si avvicinò alla tastiera e si sedette, fissando con aria pensosa il monitor per alcuni momenti. "La
dedizione di Donald alla scienza non è intensa come la nostra." Quella era una cosa che aveva sempre saputo, ma quello di
cui stava cominciando a rendersi conto solo adesso era che forse neppure la dedizione alla scienza della dottoressa Burke era intensa quanto avrebbe dovuto essere. Anche se avevano sempre parlato molto della purezza della ricerca, quella era la prima volta che lei sentiva parlare di infinite applicazioni e di una condivisione dei profitti.
Dietro palpebre che avevano perso la flessibilità necessaria per aprirsi o chiudersi completamente, gli occhi velati del numero nove stavano seguendo ogni suo movimento mentre lui sedeva tranquillo e appagato, per il momento, di essere fuori del contenitore. E con lei. — Allora, come sta? — Sta fronteggiando la situazione — rispose Celluci, uscendo dall'appartamento e richiudendosi quasi del tutto la porta alle spalle. — Humph. Sta fronteggiando la situazione. È successa questa cosa terribile, e tutto quello che lei mi sa dire è che sta fronteggiando la situazione — ribatté il signor Delgado, scuotendo il capo. — Ha
pianto? — No, non che io abbia visto. — Anche se dovette fare uno sforzo, Celluci cercò di non risentirsi per l'interessamento del vecchio. — E scommetto che non lo ha fatto neppure in altri momenti. Il pianto è per i deboli, quindi lei non piange. — Il vecchio si batté un pugno sul petto e aggiunse: — Io ho pianto come un bambino... come un bambino, glielo garantisco, quando la mia Rosa è morta. — Io ho pianto quando è morto mio padre — annuì lentamente Celluci. — Celluci? È italiano? — Canadese. — Non faccia il furbo. Noi... la mia Rosa, il giovane Frank e io... siamo venuti qui dal Portogallo subito dopo la seconda Guerra Mondiale. Io ero un saldatore. — La famiglia di mio padre si è trasferita qui appena prima della guerra. Lui era un idraulico. — Visto? — dichiarò il signor Delgado, sollevando le mani. — E se noi due possiamo piangere, sarebbe logico pensare che lei possa versare qualche lacrima senza nessuna perdita di machismo. La voce di Vicki filtrò fino a loro, sul pianerottolo. — Il signor Chen? Forse può aiutarmi. Sto cercando un giovane sulla ventina di nome Tom Chen... — Ma no — continuò Delgado, accasciando le spalle. — Niente lacrime, lei si tiene tutto il dolore dentro. Ascolti bene quello che le sto dicendo, detective Celluci: quando alla fine verrà fuori, tutto quel dolore la farà a pezzi. — Sarò là per aiutarla — replicò Celluci, cercando di non apparire sulla difensiva senza però riuscirci del tutto, anche se sapeva che l'incapacità di Vicki di far fronte ai propri sentimenti non era colpa sua. — Cosa mi dice di quell'altro tizio? Ci sarà anche lui? — Non lo so.
— Humph. Significa che non sono affari miei? Ecco, forse non lo sono — sospirò il vecchio. — È dura quando non c'è niente che si possa fare per essere d'aiuto. — Lo so — annuì Celluci, sospirando a sua volta. Rientrato nell'appartamento, si appoggiò alla porta chiusa e guardò Vicki scaraventare dall'altra parte della stanza la guida telefonica di Kingston. — Non hai avuto fortuna? — domandò. — Forse non ha il numero in elenco, o forse non ha famiglia qui in città — rispose Vicki, assestandosi con violenza gli occhiali. — Probabilmente è uno studente e vive qui. Lo troverò. — Vicki... — cominciò Celluci, traendo un profondo respiro ed esalando lentamente il fiato. — Stai cercando un nome falso. Chiunque abbia avuto abbastanza cervello da organizzare questa cosa deve essere stato anche abbastanza intelligente da non usare il suo vero nome. — Il fatto che dovesse continuare a ripeterle quel particolare era uno spaventoso indice di quanto lei fosse rimasta profondamente sconvolta dalla morte di sua madre e dalla scomparsa del suo corpo, perché quella era una conclusione a cui sarebbe arrivato anche un cadetto di polizia del primo anno, e non avrebbe dovuto neppure essere menzionata a "Vittoria" Nelson. — Tom Chen è... — È tutto quello che abbiamo! — ringhiò lei. — È un nome. È qualcosa.
Non è niente, pensò Celluci, ma non lo disse, perché dietro quelle
parole di sfida poteva sentire il disperato bisogno che Vicki aveva di qualcosa a cui aggrapparsi. Suppongo dovrei essere felice che si stia aggrappando a questo, invece che a Fitzroy, si disse. Che male poteva esserci ad assecondarla? Se non altro, gli avrebbe permesso di rimanerle vicino, e con il tempo Vicki avrebbe potuto anche decidere di aggrapparsi a lui. — D'accordo, se vive qui, dove sta tenendo... — cominciò, poi s'interruppe, perché non poteva dire "tua madre". Doveva esserci una definizione migliore. — Dove sta tenendo il corpo? — concluse infine.
— Come diavolo faccio a saperlo? Domani, per prima cosa, metterò le mani sugli elenchi degli iscritti all'università. — Come? — ribatté Celluci, attraversando la stanza e lasciandosi cadere sul divano. — Tu non hai un mandato e non lo puoi ottenere. Perché non lasci che se ne occupi la polizia locale? Il detective Fergusson sembrava sicuro che fosse stata opera degli studenti di medicina, quindi sono certo che controllerà l'università. — E allora? Non mi importa di cosa controlla il detective Fergusson, non m'importa che tutta la fottuta polizia si concentri su questo caso — dichiarò Vicki, alzandosi e passando nella piccola cucina. — Intendo trovare quel figlio di buona donna, e quando lo avrò fatto, io... — Tu cosa? — esclamò Celluci, alzandosi di scatto dal divano e seguendola a passo di carica nella cucina, dimentico per il momento che Tom Chen era soltanto un nome, e niente di più. — Perché vuoi trovare questo tizio prima che lo faccia la polizia? Forse per indulgere in una forma di giustizia più attiva e diretta? — Afferrandola per le spalle la fece ruotare in modo da averla di fronte, senza che nessuno dei due badasse al caffè che stava fuoriuscendo in un ampio arco dalla tazza di lei. — Lo scorso autunno ho chiuso gli occhi perché non c'era modo di processare Mark Williams senza causare più danni di quanto lui meritasse, ma qui le cose non stanno così. Lascia che sia la legge a occuparsi di questo, Vicki! — La legge? — Sì, ricordi, quella che avevi giurato di far rispettare. — Non dire idiozie con me, Celluci. Sai esattamente quanti uomini la polizia sarà in grado di assegnare a questo caso. Io lo troverò! — D'accordo. E dopo? Vicki chiuse gli occhi per un secondo, e quando tornò ad aprirli essi risultarono ombrati, indecifrabili. — Quando lo avrò trovato, lui desidererà di non aver mai posato un solo dito sul corpo di mia madre — dichiarò, con un tono così calmo e privo di emozione da destare una serie di brividi lungo la
schiena di Celluci. Lui sapeva che Vicki stava parlando così a causa del suo dolore, e sapeva anche che stava dicendo sul serio. — Questa è l'influenza di Fitzroy — ringhiò. — È stato lui a insegnarti a prendere la legge nelle tue mani. — Non dare a Henry la colpa di questo — ribatté Vicki, ora in tono di ammonizione. — Mi assumo la responsabilità delle mie azioni. — Lo so — sospirò Celluci, sentendosi improvvisamente molto, molto stanco. — Ma Henry Fitzroy... — Non sa di cosa state parlando — intervenne dalla soglia una voce pacata, inducendoli entrambi a girarsi di scatto. Henry spostò lo sguardo da Vicki a Celluci, poi si sistemò su una sedia della cucina e aggiunse: — Perché non mi spiegate cosa è andato storto? — Cosa mai ti fa pensare che io possa sapere per quale motivo il corpo è scomparso? — domandò Henry, fissando Celluci con un certo stupore. — Ecco, tu sei... quello che sei — rispose Celluci. Quella particolare parola poteva anche essere stata pronunciata, ma lui non aveva nessuna intenzione di ripeterla, non così apertamente. — Questo è il genere di cose che tu dovresti sapere, giusto? — No, non lo è — tagliò cotto Henry, poi si rivolse a Vicki, continuando: — Vicki, mi dispiace, ma non ho la minima idea del perché qualcuno di questi tempi e in questa epoca possa aver rubato un corpo. Lei scrollò le spalle, perché in realtà la motivazione non le interessava, e tutto quello che voleva scoprire era chi fosse stato a farlo. — Sempre che si sia trattato del furto di un corpo — osservò Celluci, accigliandosi sempre di più nel rigirare nella mente un'idea non molto piacevole.
— Cosa intendi dire? — domandò Henry, socchiudendo gli occhi. — Supponi che il corpo di Marjory non sia stato portato via — spiegò Celluci, facendo una pausa nell'elaborare la sua idea. — Supponi che lei si sia alzata e se ne sia andata di là. La tazza di caffè di Vicki s'infranse nel colpire il pavimento. — Tu sei pazzo! — scattò Henry. — Lo sono? — esplose Celluci, calando con violenza entrambi i palmi sul piano del tavolo e protendendosi in avanti. — Un anno fa, un imbecille ha cercato di sacrificare Vicki a un demone. Io ho visto quel demone, Fitzroy. E la scorsa estate ho conosciuto una famiglia di lupi mannari, per non parlare del fatto che in autunno abbiamo salvato il mondo dalla maledizione di una mummia. Posso anche essere un po' lento di comprendonio, ma ultimamente sono giunto a convincermi che in questo mondo succede un fottuto sacco di cose di cui la maggior parte della gente non sa un accidente. Tu esisti. Dimmi quindi perché Marjory non avrebbe potuto alzarsi e andarsene da lì! — Henry? Henry scosse il capo e prese una delle mani di Vicki nelle proprie. — L'hanno imbalsamata, Vicki. Non c'è nulla che potrebbe sopravvivere a questo. — Forse non lo hanno fatto. — Le dita di lei si rigirarono fino ad aggrapparsi alle sue. — Erano confusi riguardo al resto, quindi forse non lo hanno fatto. — No, Vicki, lo hanno fatto — ribadì Celluci, sfiorandole con delicatezza un braccio e chiedendosi perché mai non riuscisse a imparare a tenere chiusa quella sua grossa bocca. Si era dimenticato dell'imbalsamazione. — Mi dispiace, ha ragione lui. Avrei dovuto rifletterci meglio sopra. — No — insistette Vicki. Quella era una possibilità che non poteva accantonare. — Henry, tu saresti in grado di capirlo? — Sì, ma... — Allora va' a controllare. Giusto per precauzione.
— Vicki, ti assicuro che tua madre non è tornata da... — Henry. Per favore. Henry guardò verso Celluci, che replicò con un'infinitesimale scrollata di spalle, quasi a dire: La scelta è tua. Mi dispiace di aver dato il via a tutto questo. Annuendo al detective per indicare che le sue scuse erano accettate, Henry liberò la mano da quella di Vicki e si alzò in piedi. Gli aveva chiesto il suo aiuto e lui glielo avrebbe dato: era una cosa davvero minima da fare, e forse le avrebbe dato almeno un poco di pace mentale. — La bara è ancora all'impresa di pompe funebri? — domandò. — Sì — confermò Vicki, accennando ad alzarsi a sua volta, ma Henry scosse il capo. — No, Vicki. L'ultima cosa di cui hai bisogno in questo momento è di essere arrestata per effrazione. Se stanno sorvegliando quel posto, io ho mezzi per evitarli di cui tu non disponi. Vicki si assestò gli occhiali e si lasciò ricadere sulla sedia, accettando la sua obiezione con evidente contrarietà. — Se pensassi che hai avanzato questo suggerimento solo per allontanarmi ne sarei tutt'altro che contento — disse a bassa voce Henry a Celluci, vicino alla porta, mentre si metteva in tasca il foglietto con le indicazioni. — Ma non lo pensi — replicò Celluci, a voce altrettanto bassa. — Come mai? Henry sollevò lo sguardo a incontrare quello dell'alto detective e accennò un sorriso. — Perché so riconoscere un uomo onorevole, quando lo incontro.
Un uomo onorevole, pensò Celluci, sprangando la porta alle
spalle del suo rivale e appoggiando per un momento la testa contro lo stipite. Dannazione, vorrei che la smettesse di fare così. Se l'imbalsamazione era stata eseguita, se il sangue era stato estratto e sostituito con una soluzione chimica studiata per disinfettare e per preservare, per scoraggiare la vita piuttosto che per alimentarla... e in base a tutti i rapporti, il più giovane dei due
impresari di pompe funebri era certo che così fosse... allora era impossibile che Marjory Nelson fosse tornata dalla morte per cacciare durante la notte, e comunque il modo in cui era morta non faceva pensare che si fosse verificato il cambiamento. Parcheggiata la BMW, Henry rimase per un momento a fissare il buio della notte, certo al cento per cento che all'impresa di pompe funebri non avrebbe trovato nulla che la polizia non avesse già rilevato. Ma io non sto andando là per trovare informazioni, ci sto andando per Vicki, si disse. E questo l'avrebbe lasciata a trascorrere la notte con Michael Celluci. Scuotendo il capo, scese infine dall'auto. Il fatto che Celluci potesse o meno trarre vantaggio da quel tempo solo con lei era irrilevante: Vicki aveva escluso dalla propria vita tutto e tutti, tranne la necessità di trovare la persona o le persone che avevano preso il corpo di sua madre, e in lei il bisogno di ricevere conforto era stato sepolto sotto quel dolore che non aveva veramente ammesso di provare. Dal momento che l'amava, non le poteva mentire, quindi sarebbe entrato nell'agenzia di pompe funebri, avrebbe appurato ciò che già sapeva e le avrebbe permesso di eliminare una possibile spiegazione senza la minima ombra di dubbio. Prima, però, doveva nutrirsi. Vicki non aveva energie da sprecare, e anche se era stato tentato di dimostrare il proprio potere a Celluci, quella era una tentazione a cui aveva da tempo imparato a resistere; inoltre, l'atto di nutrirsi comportava un'intimità che non era ancora disposto a permettere che insorgesse fra loro, e nutrirsi da Celluci avrebbe richiesto sottigliezze per cui nessuno di loro aveva tempo. Girando la testa per assaporare il vento, vagliò l'aria notturna. A mezzo isolato di distanza, alle sue spalle, un cane scoppiò in frenetici latrati di protesta, ma lui lo ignorò, perché non gli interessava il territorio che la bestia stava reclamando per sé. Là. Le sue narici si dilatarono nel cogliere un odore, lo trattennero e cominciarono a seguirlo per risalire alla sua fonte. La finestra aperta era al secondo piano, ma Henry la raggiunse con facilità, diventando per un istante solo un'altra ombra che si muoveva lungo la parete della casa, spostandosi troppo in fretta
perché occhi mortali potessero registrare quello che stavano vedendo. La zanzariera non offrì una barriera degna di questo nome. Avanzò così silenziosamente che i due giovani uomini distesi sul letto, con la pelle lucida di sudore e il respiro che scandiva un identico ritmo tormentato, non si accorsero della sua presenza finché lui non lo permise. Il biondo lo vide per primo e riuscì a emettere un'esclamazione inarticolata prima di rimanere intrappolato nello sguardo del Cacciatore. Messo in allarme, l'altro si girò di scatto, sollevando un braccio muscoloso. Henry lasciò che il polso gli colpisse il palmo, poi chiuse le dita intorno a esso e sorrise: prigioniero nelle profondità di quegli occhi nocciola, il giovane deglutì a fatica e cominciò a tremare. Il letto si infossò sotto il peso di un terzo corpo, quando lui divenne un'estensione della loro passione, che crebbe in fretta, intensificandosi fino a prendere fuoco e a scorrere lungo ogni terminazione nervosa, finché i due mortali si persero nella sua gloria rovente. Se ne andò com'era venuto. L'indomani mattina, i due avrebbero scoperto che il fermo della zanzariera si era rotto e non avrebbero avuto idea di quando questo fosse successo. Il solo ricordo rimasto loro della sua partecipazione li avrebbe indotti, notte dopo notte, a cercare di ricreare quello che aveva dato loro, e lui poteva solo augurar loro che trovassero gioia in quel tentativo. La bara non era stata rimossa dalla cappella. Henry abbassò su di essa lo sguardo con disgusto. Non riusciva a capire perché avessero rivestito il legno di tessuto grigio— azzurro, non più di quanto riuscisse a capire il bisogno di racchiudere un vuoto involucro di carne in splendidi e costosi contenitori, sigillati per evitare che il contenuto marcisse e protetti dalla putrefazione. Ai suoi tempi, la cosa importante era stata la cerimonia che accompagnava la sepoltura, le manifestazioni di lutto, i lunghi e complicati commiati. Massicci monumenti in memoria dei morti venivano eretti dove la gente poteva contemplarli, non venivano sepolti per soddisfare i vermi. Cosa c'era di sbagliato in una semplice cassa di legno? si chiese, avvicinandosi maggiormente. Lui era stato sepolto in una semplice cassa di legno.
I sacchi di sabbia erano stati portati via, ma l'impronta da essi lasciata era ancora visibile sul cuscino di satin. Henry si protese in avanti, scuotendo il capo: non c'era conforto che si potesse dare ai morti, e non riusciva a capire come negare questa realtà di fatto potesse dare conforto ai vivi. Improvvisamente esitò, memore che l'ultima volta che si era chinato su una bara che sarebbe dovuta essere vuota, per poco non aveva perso l'anima. D'altro canto, l'antico mago egizio che si faceva chiamare Anwar Tawfik in realtà non era mai morto, mentre Marjory Nelson era indubbiamente defunta. Si stava comportando in modo sciocco. L'interno della bara conservava un accenno dell'odore della madre di Vicki, che lui riconobbe con facilità perché ne era stato circondato per tutto il giorno e che aderiva ancora al tessuto sotto la patina di odori lasciati dalle indagini svolte quel giorno. Quando si raddrizzò, era ormai certo che Marjory Nelson non era risorta come una della sua razza, qualsiasi altra cosa avesse fatto in vita, o nella morte. Tuttavia, c'era qualcosa. Nel corso dei secoli, aveva respirato l'odore della morte in tutte le sue variazioni, ma quella particolare morte, quel vago accenno che gli aderiva all'interno del naso e della bocca, era un tipo di morte che non conosceva.
Capitolo quinto — Dottoressa Burke, guardi qui! intercettando onde cerebrali indipendenti.
Stiamo
indubbiamente
— Sei certa che non stiamo soltanto ottenendo degli echi di quanto abbiamo inserito? — Assolutamente certa — dichiarò Catherine, battendo un colpetto sullo stampato con un'unghia rosicchiata. — Guardi questo picco, qui e qui. Donald si protese al di sopra della spalla della dottoressa, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco l'ampia striscia di carta. — Rutti elettronici — dichiarò, raddrizzandosi. — E la cosa non mi sorprende affatto, dopo trentasei ore di que— sta— è— la— tua— vita. — Forse hai ragione, Donald — annuì la dottoressa Burke, con un sorriso che minacciava di affiorarle agli angoli della bocca mentre sfiorava con le dita ciascun picco. — D'altro canto, è possibile che qui ci sia davvero qualcosa. Catherine, credo che dovremmo aprire il contenitore di isolamento. Entrambi gli studenti specializzandi si girarono di scatto a fissare la loro consigliera. — Ma è troppo presto — protestò Catherine. — Abbiamo sempre dato ai batteri un minimo di settantadue ore... — E la cosa non è stata un assoluto successo — la interruppe la dottoressa Burke. — O no? Abbiamo perso i primi sette, il numero otto sta cominciando a putrefarsi, e in base ai campioni di questa mattina, perfino il numero nove non ha ancora avviato nessuna rigenerazione cellulare nei tessuti muscolari. Il disastro che abbiamo rasentato con il numero cinque ha dimostrato che non possiamo protrarre l'isolamento oltre le settantadue ore, quindi proviamo a vedere cosa succede se accorciamo i tempi. — Non so... — mormorò Catherine, facendo scorrere la mano
sulla superficie ricurva del contenitore. — Inoltre — proseguì la dottoressa, — se questi picchi indicano effettivamente un'attività cerebrale indipendente, altro tempo trascorso in quella che è essenzialmente una camera di deprivazione sensoriale avrebbe molte probabilità di... — Spiaccicare quei picchi. Entrambe le donne si girarono. — Poco elegante, Donald, ma essenzialmente corretto — annuì la dottoressa. Gli occhi chiarissimi di Catherine esaminarono la serie di monitor e di unità di visualizzazione dei dati, e il singolo quadrante. — Ecco, a parte il continuo input di onde alfa, in realtà lei non sta facendo niente, lì dentro — ammise pensosamente. — Esattamente quello che intendevo dire — sospirò la dottoressa Burke, decidendo di lasciar correre per il momento la terminologia usata dalla ragazza. — Donald, vuoi fare tu gli onori di casa? Catherine, tieni d'occhio gli strumenti, e avvertici se ci sono cambiamenti di qualsiasi tipo. Il sigillo si aprì con un sussurro, e l'aria ricca di ossigeno sfuggì all'esterno, portando con sé un vago sentore di formaldeide che doveva di certo essere un'illusione, mentre il pesante coperchio si sollevava silenzioso sui suoi contrappesi. Il corpo di Marjory Nelson giaceva nudo ed esposto su quella che era stata un'imbottitura sterile, segnato da grosse cicatrici purpuree chiuse da punti metallici. I capelli, che si stavano già facendo fragili, ricadevano al di sopra dei ganci che trattenevano al suo posto la sommità della calotta cranica, e una vaga traccia dei cosmetici applicati per la sepoltura dipingeva un rossore artificiale sugli zigomi resi prominenti dalla morte. Alla sua postazione accanto ai monitor, Catherine si accigliò. — Non so... potrebbe essere un collegamento che si è allentato. Dottoressa Burke, per favore, può controllare il connettore? Infilatasi un paio di guanti chirurgici, la dottoressa Burke si chinò e allungò le mani per girare leggermente la testa sulla sinistra. Un paio di occhi grigio azzurri si aprirono di scatto.
— Santa merda! — esclamò Donald, indietreggiando così energicamente da andare a sbattere contro il contenitore del numero nove, a cui si aggrappò in cerca di sostegno, mentre la dottoressa Burke si immobilizzava, una mano quasi chiusa a coppa intorno alla curva della mascella. Un secondo. Due secondi. Tre secondi. Un'eternità. Nello stesso modo improvviso in cui si erano aperti, gli occhi si richiusero. Con le attrezzature che le impedivano di vedere il corpo, Catherine ignorò l'esplosione di Donald, cosa che a suo parere si verificava troppo di frequente per poter avere qualche significato. — Era solo una fluttuazione. Probabilmente qualcosa lungo il cavo. — Lungo il cavo! — ripeté Donald, mentre lo stetoscopio che portava al collo oscillava in un folle arco. — Non abbiamo avuto una fluttuazione, socia. Quello che abbiamo avuto si chiama riconoscimento. — Cosa? — esclamò Catherine, saettando in piedi e spostando lo sguardo da Donald alla dottoressa Burke. — Cosa è successo? — Abbiamo aperto il coperchio, lei ha aperto gli occhi e... barn! — spiegò Donald, sferrando un pugno nell'aria. — Per un singolo istante, lei si è resa conto di chi c'era in piedi al suo fianco. Quello che ti sto dicendo, Cathy, è che lei ha riconosciuto la dottoressa Burke! — Sciocchezze — dichiarò la dottoressa, controllando con calma l'impianto prima di raddrizzarsi. — È stata solo una reazione involontaria alla luce, niente di più — continuò, sfilandosi i guanti e gettandoli con violenza nella pattumiera. — Disattivate il flusso aggiuntivo di ossigeno, perché ci restano soltanto tre bombole piene e non sono certa che potremo averne altre dalle scorte dipartimentali, ed eseguite un controllo completo delle apparecchiature, poi prelevate i soliti campioni. — E le onde alfa? — Continuate a registrarle. — Con il volto tinto di un leggero
pallore sotto le lampade fluorescenti, la dottoressa Burke si soffermò sulla soglia, aggiungendo: — Ma al primo segno di agitazione togliete l'alimentazione. Ho del lavoro arretrato da sbrigare, quindi ci rivedremo più tardi. Catherine spostò con aria perplessa lo sguardo dalla porta del laboratorio a Donald. — Com'è vero Dio, a me è parso che la riconoscesse — ripeté lui, asciugandosi il palmo delle mani sui pantaloni. — Credo che la nostra brava dottoressa si sia spaventata, e non la biasimo per questo. Mi sono spaventato anch'io, che pure conoscevo appena quella donna. — Ecco — ribatté Catherine, mordicchiandosi un labbro, — la cosa non si è registrata sulla rete neurale. — Allora forse è in corso dell'attività al di fuori della rete — ribatté Donald, scrollando le spalle. Quasi gli avesse dato l'imbeccata, il numero nove cominciò a picchiare contro l'interno del contenitore. Donald sobbalzò con un'imprecazione, ma Catherine assunse un'espressione sgomenta. — Oh, no. Gli avevo promesso che non avrebbe dovuto passare là dentro più tempo di quanto fosse strettamente necessario per preservare l'integrità dell'esperimento! — esclamò. Nel guardarla attraversare in tutta fretta il laboratorio, Donald tirò fuori di tasca una caramella e prese a scartarla con calma metodica. Quella sì che è una persona che non ne ha mai abbastanza, pensò. Di solito, per la dottoressa Burke il rumore dei propri passi, il battito ritmato delle suole di cuoio contro le piastrelle, non era altro che un rumore di fondo, registrato e dimenticato, ma quel giorno il suono pareva inseguirla attraverso i corridoi vuoti del vecchio edificio di Scienze Naturali, incalzandola attraverso il passaggio di collegamento e fin nel rifugio del suo ufficio. Perfino annidata nelle confortanti profondità della sua vecchia sedia di legno, le pareva di
poter ancora sentire la pista echeggiante che si era lasciata alle spalle, e solo dopo un momento si rese conto che quello che stava sentendo era il rapido martellare del suo cuore.
Ti stai rendendo ridicola, ingiunse con fermezza a se stessa, i palmi premuti sul piano della scrivania. Trai un profondo respiro e smettila di iperreagire. Le condizioni del cuore di Marjory Nelson, per non parlare della sua accessibilità, avevano fatto di lei la candidata perfetta per la fase successiva dell'esperimento. Le sue onde cerebrali erano state registrate, avevano prelevato campioni di tessuto e modificato in modo specifico i batteri sulla base del suo DNA, tutto in previsione della sua morte... o meglio, del tentativo di riportarla indietro dalla morte. Non sapendo nulla di quello che loro stavano facendo, Marjory si era sottoposta a quei test che, così le era stato detto, avrebbero potuto aiutarla, ed era morta esattamente nei tempi previsti.
Nei tempi previsti. Un secondo, profondo respiro seguì il primo. È stata una fine rapida e indolore, mentre avrebbe potuto non esserlo. Per non parlare del fatto che la sua presenza al momento del collasso di Marjory aveva evitato loro di doversi preoccupare della distruzione dei tessuti inerente a un'autopsia.
Squadrando le spalle, la dottoressa Burke trasse a sé la corrispondenza del mattino, posata sulla scrivania. Stavano invertendo il processo della morte. Catherine poteva aver creato i batteri, ma senza il suo coinvolgimento, ci sarebbero voluti ancora anni, decenni, prima di arrivare quell'applicazione. Lei aveva reso possibile la logica progressione degli esperimenti di Catherine, e sarebbe stata lei a raccogliere le ricompense. Se davvero il riconoscimento era affiorato per un istante negli occhi di Marjory, allora questo significava che erano arrivati alla soglia del successo molto prima di quanto avrebbero lasciato supporre i dati empirici raccolti. E se c'era davvero stato un riconoscimento, allora... Allora cosa?
Marjory Nelson è morta, e questo mi dispiace davvero, perché lei
era un membro essenziale del mio staff, e sento la sua mancanza, pensò, facendo scivolare con mano abile il tagliacarte lungo la prima busta. Il corpo nel laboratorio è l'unità sperimentale numero dieci, niente altro. — Ho già parlato di questo con la polizia, signorina Nelson — si schermì Christy Aloman, spostando nervosamente le carte posate sulla sua scrivania. — Non so se ne dovrei parlare anche con lei. — La polizia le ha detto di non farne parola con nessun altro? — No, ma... — Deve ammettere che se c'è qualcuno che ha il diritto di sapere, quella sono io — continuò Vicki; sentendo la matita che le affondava nel callo che le copriva il medio, si costrinse a rilassare la mano. — Sì, ma... — Il corpo di mia madre è stato sottratto da questi locali. — Lo so, ma... — Mi verrebbe logico pensare che vogliate fare il possibile per essere d'aiuto. — E voglio farlo, davvero. — Christy commise l'errore di guardare Vicki in faccia e scoprì di non riuscire più a distogliere lo sguardo da quegli occhi grigio azzurri, simili a cesellati frammenti di pietra ghiacciata, cosa che la fece sentire sciocca e intrappolata, come quando aveva accettato una sfida infantile, molti inverni prima, e toccato con la lingua un paletto di metallo. — Allora mi dica tutto quello che riesce a ricordare sul conto di Tom Chen. Che aspetto aveva, cosa indossava, come si comportava, cosa diceva, le cose che le è capitato di sentire. — Tutto? — Era la resa totale, e lo sapevano entrambe. — Tutto. — Non credo che indossassi niente del genere, quando eri vivo — commentò Catherine, tirando su lungo i fianchi del numero nove un
paio di pantaloni da tuta della Queen's University, coprendo la pelle grigia che brillava per la recente applicazione di crema agli estrogeni. — Voglio dire, eri in buona forma, tutto considerato, ma non avevi l'aspetto di uno sportivo. Siediti. Obbediente, il numero nove si sedette. — Solleva le braccia. Più in alto. Quando il numero nove alzò le braccia, un po' di agar filtrò dai punti che chiudevano l'incisione sul petto, ma Catherine ignorò a cosa e gli infilò lungo le braccia e sulla testa una felpa abbinata ai pantaloni. — Ecco fatto — commentò. — Un paio di scarpe, e poi sarai in condizione di farti vedere in pubblico. — Cathy, detesto dirlo, ma tu sei svitata — dichiarò Donald, allontanandosi dal microscopio e sfregandosi gli occhi. — Stai parlando a un cadavere animatronico. Lui non ti capisce. — Io credo di sì — ribatté lei, infilando un piede ossuto in una scarpa da ginnastica e chiudendola con la cinghia di velcro. — E comunque, se pure adesso non capisce tutto quanto, non imparerà mai a farlo, se non gli parliamo. — Lo so, lo so, uno stimolo necessario, ma dal punto di vista cerebrale non stiamo ottenendo nulla che non abbiamo immesso noi. Ammetto — continuò Donald, sollevando una mano per prevenire le proteste di lei, — che stiamo ottenendo qualche evidenza di interfaccia con le capacità motorie principali. Non è necessario dare istruzioni separate a ogni singola fibra muscolare, e questo è dannatamente incredibile, ma affrontiamo la verità — aggiunse, battendosi un colpetto contro la testa. — Ai piani superiori non c'è niente. L'inquilino se n'è andato. Sbuffando, Catherine batté un colpetto rassicurante sulla spalla del numero nove. — Sei davvero bravo nel trattare i malati — commentò. — Capisco perché ti hanno buttato fuori dalla facoltà di medicina. — Non mi hanno buttato fuori — precisò Donald, inserendo un altro vetrino sotto la lente del microscopio. — Ho fatto uno spostamento laterale per laurearmi in chimica organica.
— Uno spostamento non del tutto volontario, stando a quanto ho sentito, e cioè che la dottoressa Burke è dovuta intervenire per salvarti il culo. — Catherine! Non sapevo che conoscessi parole del genere! — esclamò Donald, in finto tono di sgomento e di orrore, allargando entrambe le mani, poi sorrise, scuotendo il capo, e aggiunse: — Passi troppo tempo con orgasmi unicellulari... — Organismi! — ... devi imparare a vivere! — Qualcuno deve rimanere qui a prendersi cura di loro — affermò Catherine, avvicinandosi al contenitore del numero otto per regolare l'afflusso dell'alimentazione. — Meglio tu che io — sospirò Donald. Un tocco Il suo tocco. A mano a mano che gli impulsi elettronici continuavano a scaturire dalla rete neurale, esso stava ritrovando un numero sempre maggiore di parole. Tenere. Volere. Avere. Il numero nove non sapeva cosa fare con quelle parole, non ancora. Aspettare. — Sta dormendo? — Sì. — Henry si lasciò cadere sul divano, appoggiando le braccia sulle ginocchia, i peli di un biondo rossiccio resi visibili dalle maniche arrotolate che brillavano alla luce della lampada. — Hai dovuto... convincerla? — Ci sono andato vicino, ma... no. L'ho soltanto aiutata a calmarsi, e lo sfinimento ha fatto il resto. — L'hai aiutata a calmarsi? — sbuffò Celluci, in tono ringhiarne. — È un eufemismo per qualcosa che preferisco non sapere?
— È tardi — ribatté Henry, ignorando la domanda. — Cosa ci fai ancora alzato? — Non potevo dormire — rispose Celluci appoggiando i piedi sul tavolino e stendendo le gambe. — Vuoi farlo? La domanda era stata posta in modo del tutto innocente. No, si corresse Celluci, non in modo innocente. In Fitzroy non c'è nulla che
possa essere etichettato come innocente. Diciamo che è stata posta in modo abbastanza neutro.
— No — replicò, cercando di usare un tono altrettanto neutro. — Stavo solo pensando che se hai qualche idea di quale debba essere la nostra prossima mossa, mi piacerebbe sentirla. Henry scrollò le spalle e si lanciò una rapida occhiata alle spalle, in direzione della camera da letto dove il cuore di Vicki batteva lento e costante, finalmente libero dal rabbioso tormento che aveva senza dubbio subito per tutto il giorno. — In tutta onestà, non ne ho idea — ammise, girandosi a fissare l'altro uomo nella penombra. — Tu non hai un lavoro a cui tornare? — Ho un permesso per gravi motivi familiari — replicò in tono secco Celluci, gli occhi semichiusi. — E tu non dovresti essere là fuori a... non so, ad aggirarti nella notte, o cose del genere? — E tu non dovresti essere fuori a indagare? — A indagare su cosa? Isolare la scena del crimine non ha senso, e credo si possa scommettere che quell'imbecille di un Chen, o come diavolo si chiama davvero, è ormai svanito. Tutti i profili del mondo non ci aiuteranno a identificare un sospetto che non possiamo trovare. Henry allungò la mano a sparpagliare i fogli che si trovavano sul tavolino, vicino ai piedi di Celluci. Vicki aveva passato la serata a organizzare i dati raccolti quel giorno, e quando si era svegliato gli aveva esposto i risultati raggiunti.
"Ho parlato con tutti quelli che potevano aver avuto contatti con lui, tranne uno dei tre conducenti di autobus, con cui parlerò domani. I vestiti e la pettinatura possono essere alterati, ma è più
difficile abbandonare le piccole abitudini. Lui sorride molto, anche quando è solo e sembra non ci sia nulla di cui sorridere, beve soltanto Coca Cola Classica e di solito tiene in tasca qualche dolciume. Il più delle volte se ne sta seduto sul sedile antistante le porte posteriori, vicino al finestrino, e prende l'autobus per Johnson Street all'incrocio fra Brock e Montreal, con un biglietto singolo, non uno cumulativo, il che significa probabilmente che abita in centro." Henry era rimasto in pari misura impressionato e preoccupato di fronte a quei dati: a quanto pareva, "Vittoria" Nelson non aveva spazio da concedere al lutto all'interno delle sue indagini, e una dieta costante a base d'ira, soprattutto in quel momento, non poteva essere salutare. Scrutando di nuovo le pagine di appunti, scrollò il capo. — Qui ha tutto quello che serve, tranne una fotografia. Celluci ne convenne, sia pure con riluttanza. Anni di addestramento parevano aver gettato una solida base nelle reazioni emotive di Vicki, che adesso stava cercando una persona, invece di limitarsi ad aggrapparsi ciecamente a un nome. — Il detective Fergusson ha detto che domani cercherà di metterle a disposizione il disegnatore di identikit della polizia — affermò. — Perché ho la sensazione che il detective Fergusson non la ritenga una cosa necessaria? — Non si tratta di questo, ma di un problema di risorse o, più specificatamente, di mancanza di risorse. Come lui ha sottolineato, e cito testualmente, "sì, è una cosa terribile, ma riusciamo a stento a tenere il passo con gli atti indegni commessi contro i vivi". — Mentre parlava, Celluci contrasse le labbra al ricordo di svariati "atti indegni" che lui aveva visto commettere contro i vivi e che erano rimasti impuniti per mancanza di uomini, o per tagli al budget del dipartimento o anche solo per cattiva gestione. Non approvava assolutamente la recente conversione di Vicki al farsi giustizia da sé, ma Dio gli era testimone che capiva le sue motivazioni... la soddisfazione di sapere che Anwar Tawfik era polvere e che questa volta sarebbe rimasto polvere, che Mark Williams aveva pagato per gli innocenti che aveva massacrato, che Norman Birdwell non
avrebbe scatenato altri orrori in giro per la città, tutto questo costituiva un notevole peso a svantaggio della legge, sulla bilancia che la Giustizia teneva in mano. Da sotto le palpebre pesanti, scrutò con occhi stanchi Henry Fitzroy, chiedendosi quanti altri come loro ci fossero stati. Centinaia? Migliaia? Mentre lui si stava ammaccando il posteriore e consumando i piedi, Fitzroy e altri come lui avevano forse passato la notte impegnati a schiacciare metodicamente gli scarafaggi che infestavano l'umanità? Si concesse uno sbuffo silenzioso, pensando che se era così, stavano facendo davvero un lavoro scadente. Vampiri. Lupi mannari. Demoni. Mummie. Vicki era la sola cosa per cui avrebbe mai potuto accettare una visione così distorta della realtà... forse, avrebbe dovuto dare ascolto ai suoi parenti e sposare una brava ragazza italiana, mettere su famiglia. Più o meno come Henry aveva fatto poco prima, si guardò alle spalle, in direzione della camera da letto. No, si disse, una brava ragazza, italiana o meno, non potrebbe mai sperare di competere con lei. Vicki era una collega, e un'amica, e per quanto potesse suonare idiota, era la donna che amava, e sarebbe rimasto al suo fianco, adesso che più aveva bisogno di lui, indipendentemente da chi, o che cosa, le fosse stato accanto a sua volta. Non voleva avere niente a che fare con Henry Fitzroy, non voleva rispettarlo, e senza dubbio non voleva trovarlo simpatico, ma pareva non avere scelta per quanto concerneva il primo punto, era stato del tutto sconfitto già da mesi in merito al secondo e aveva il forte sospetto di essere avviato alla sconfitta anche riguardo al terzo punto. Gesù. Amico di un succhiasangue. Le reazioni dovevano essere filtrate attraverso il ricordo del potere che lui gli aveva dimostrato di possedere nel salotto di Vicki. Sarebbe meno pericoloso giocare con un pitt bull, rifletté. Avvertendo su di sé il peso dello sguardo di Celluci, Henry cercò intanto di ricordare l'ultima volta in cui aveva trascorso così tanto tempo da solo con un mortale da cui non si stava nutrendo, o da cui non aveva intenzione di nutrirsi. Quella situazione era quanto meno insolita. In tutta la sua lunga vita, raramente Henry si era sentito così
frustrato. — Non possiamo risolvere questo problema finché il corpo non sarà stato trovato e sepolto, e lei non sarà uscita dal lutto — disse ad alta voce. Pur sentendosi tentato di farlo, Celluci non finse di non capire a quale problema lui si stesse riferendo. — Allora trova il corpo — suggerì, con uno sbadiglio che minacciò di slogargli la mascella. — Facile a dirsi — mormorò Henry, inarcando un sopracciglio. — Davvero? E cosa mi dici di quello strano odore in cui, a detta di Vicki, ti saresti imbattuto la scorsa notte? — Non sono un cane da caccia, detective, e comunque l'ho seguito fino a dove è scomparso, nel parcheggio. — Che sorta di odore era? — Di morte. — Non mi sorprende. Eri in un'impresa di pompe funebri — commentò Celluci, con un altro sbadiglio. — Le imprese di pompe funebri fanno ogni per non odorare di morte. Questo era un sentore diverso.
sforzo
— Oh, Signore, non di nuovo — gemette Celluci, passandosi una mano fra i capelli. — Di cosa si tratta, questa volta? Della creatura uscita dal Rideau Canal? Del fottuto mostro di Loch Ness? Della Creatura della Palude? Di Godzilla? O di Rodan? — Chi? — Non hai mai visto i film di mostri che danno al sabato pomeriggio? — ribatté Celluci, poi scosse il capo di fronte all'espressione di Henry e continuò: — No, suppongo che tu non li abbia visti, giusto? Ogni weekend migliaia di ragazzini erano incollati davanti al televisore per guardare mostri di gomma giapponesi, in bianco e nero e doppiati malamente, radere al suolo Tokyo. Per non parlare di Jesse James e la Figlia di Frankenstein, Abbott e Costello
contro la Mummia, La Maledizione del Lupo Mannaro.
Lo sbattere di una portiera d'auto, nel parcheggio, suonò d'un
tratto innaturalmente sonoro. — Gesù Cristo! — esclamò Celluci, con occhi d'un tratto sgranati. Per quanto ancora stanco, non aveva più nessuna voglia di dormire, e si sollevò a sedere, abbassando i piedi sul pavimento. — Un movente. Non pensi che... — Che Tom Chen stesse rivestendo il ruolo di Igor per qualcuno che sta giocando al dottor Frankenstein? — sorrise Henry. — Come ho già detto in passato, detective, credo che tu guardi troppi film scadenti. — Ah, davvero? Ebbene, e tu sai cosa penso io? Penso...
Barn. Barn. Barn. I due uomini si girarono verso la porta, poi si guardarono a vicenda. — La polizia — affermò Celluci, alzandosi in piedi. — No — ribatté Henry, bloccandogli il passo. Poteva avvertire le vite dall'altra parte della porta, percepire il canto del loro sangue, fiutare la loro eccitazione. — Non è la polizia, anche se vorrebbero indurci a crederlo.
Barn. Barn. Barn. — Una minaccia? — Non lo so — replicò Henry, attraversando la stanza. Quando si fermò, Celluci si spostò in modo da piazzarsi alla sua sinistra; pensando che era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva avuto qualcuno che gli facesse da scudo, aprì la porta. Il flash scattò quasi prima che lui avesse modo di reagire. Un mortale si sarebbe ritratto, mentre la mano di Henry balzò in fuori a coprire la lente della macchina fotografica prima che l'otturatore si fosse chiuso del tutto; ringhiando a causa della luce intensa che gli stava causando fitte di dolore agli occhi sensibili, chiuse le dita, e la plastica, il vetro e il metallo della macchina divennero un ammasso di plastica, vetro e metallo. — Ehi! La compagna del fotografo ignorò sia il rumore della macchina
che si rompeva sia lo strillo di protesta che accompagnò la sua distruzione. A volte, riuscivano a ottenere una splendida fotografia "naturale" quando la porta si apriva, e a volte la cosa andava a buca, ma non era cosa di cui lei intendesse preoccuparsi. — Buona sera. Victoria Nelson è in casa? — domandò. Protendendo i gomiti e tenendo il blocco per gli appunti come se fosse stato un ariete, cercò di farsi largo spingendo, perché aveva scoperto che la maggior parte della gente era semplicemente troppo educata per fermarla. L'uomo giovane e snello non si spostò di un millimetro e lei ebbe l'impressone di essere andata a sbattere contro un muretto di mattoni non molto alto. Era il momento di passare al piano B, e se anche quello non avesse funzionato... ecco, sarebbe ricorsa a tutte le lettere dell'alfabeto, se fosse stato necessario. — Ci è dispiaciuto apprendere cosa è successo al corpo di sua m... — cominciò, ma in qualche modo il filo dei suoi pensieri si perse nelle profondità di due occhi nocciola. — Andatevene, e restate lontani — ingiunse Henry, decidendo di non andare per il sottile, perché non era dell'umore giusto, e comunque loro non avrebbero capito. L'oscurità permeò le sue parole, diventando una minaccia più che sufficiente. Fu solo quando furono al sicuro in auto, protetti dalla carrozzeria di acciaio e dalle portiere chiuse, che il fotografo ritrovò infine la voce, tenendo stretti in grembo i resti della macchina fotografica rovinata. — Che cosa facciamo? — domandò, con voce tremante in cui vibravano ricordi primitivi della Caccia. — Facciamo... esattamente quello che lui ha detto. — Con una mano gelida dalle dita tremanti, la reporter inserì la marcia e diede gas al motore, schizzando ghiaia per una buona metà del parcheggio. Insieme, erano stati minacciati un centinaio di volte, forse un migliaio, e una volta erano perfino stati attaccati da un ex— difensore della NHL che brandiva una mazza da hockey, ed erano
sempre riusciti a ricavarne una storia, o almeno una loro versione della storia. Questa volta, qualcosa nel cuore e nell'anima, nel sangue e nelle ossa, aveva riconosciuto la natura del pericolo e avuto la meglio sul pensiero razionale. Nell'appartamento di Marjory Nelson, Celluci stava fissando con invidia la nuca ramata di Henry. Se c'era qualcosa che odiava più di ogni altra, quella era la stampa, e le dichiarazioni che i giornalisti insistevano per richiedere erano la dannazione della sua esistenza. — Vorrei poterlo fare anch'io — borbottò. Saggiamente, Henry si astenne dall'ovvia risposta e si assicurò di sfoggiare di nuovo la consueta maschera prima di girarsi, perché quello non era il momento più adatto perché Michael Celluci lo vedesse come una minaccia. — Probabilmente ne arriveranno altri — sospirò Celluci, massaggiandosi un lato del naso. — Me ne occuperò io. — E se dovessero venire di giorno? — Allora ci penserai tu — ribatté Henry, con un affilato sorriso da predatore. — Non sei in servizio, detective, puoi essere scortese quanto... — Esattamente quanto Celluci avrebbe potuto essere scortese andò perso in un improvviso cambio di espressione del suo viso, e un istante più tardi lui si stava già precipitando verso la camera da letto. A occhi mortali sembrò che il momento prima lui fosse lì, e che quello dopo fosse scomparso. Celluci si girò in tempo per vedere la porta della camera di Vicki spalancata, imprecò e attraversò di corsa il salotto. Lui non aveva udito niente. Cosa diavolo poteva aver sentito Fitzroy? Come poteva averlo dimenticato? Prese a scavare freneticamente nelle piastrelle della cucina, strappandole via e gettandosele alle spalle, senza curarsi dell'unghia che volava via insieme a esse, ignorando il sangue che le colava dalle mani e che cominciava a tracciare un suo disegno sul pavimento.
C'era quasi. Quasi. L'area da lei sgombrata era lunga un paio di metri e larga uno, con i bordi irregolari. Finalmente, rimase soltanto il sottopavimento di legno; le assi fra il grigio e il marrone erano segnate dalla corrosione e filamenti di pallidi funghi crescevano fra di esse. Lottando per respirare, calò con violenza i pugni contro quell'ultima barriera. Il legno si crepò, si scheggiò e cedette quanto bastava per permetterle di afferrare il primo pezzo. Proiettando contro di esso tutto il proprio peso, riuscì a sollevarlo con un suono umido, risucchiarne, esponendo una linea di riccioli fra il grigio e il biondo e un accenno di spalla. Come aveva potuto dimenticare dove aveva lasciato sua madre? Implorando perdono, prese ad artigliare le assi rimanenti... — Vicki! Vicki, svegliati, è solo un sogno. Lei non riuscì a trattenere il primo urlo, ma afferrò in tempo il secondo e lo costrinse a forza a tornare da dove era venuto, mentre la sua consapevolezza si aggrappava alle rassicurazioni che venivano mormorate senza interruzione contro i suoi capelli. Le mani si chiusero di loro iniziativa, le dita che affondavano nella spalla e nel braccio incurvati protettivamente intorno a lei. — È tutto a posto, Vicki, è tutto a posto, sono qui. Era solo un sogno. Sono qui, ti tengo stretta... — Henry sapeva che le parole in se stesse erano meno importanti del tono, e nel parlare ne avvolse la cadenza intorno a quel cuore martellante, fino a convincerlo a calmarsi. — Henry? — Sono qui. Vicki lottò contro il terrore, cercando di controllare il proprio respiro, e infine ce la fece. Una lunga inspirazione, un'espirazione altrettanto lunga, poi daccapo. Henry quasi sentì le sue barriere che si rialzavano di scatto mentre
lei lo allontanava da sé, sollevando il mento con aria di sfida. — Sto bene — garantì, sottintendendo chiaramente: Era solo un sogno. Mi sto comportando come una bambina. — Davvero, sto bene — ripeté. Il buio pareva alterare le cose, spostare mobili che non erano stati mossi da quindici anni. Dove diavolo era finito il comodino? Qualcosa di freddo le toccò la mano, e le sue dita si chiusero con gratitudine intorno alla pesante montatura di plastica, poi un secondo tocco l'aiutò a sistemarsi gli occhiali sul naso, proprio mentre la stanza veniva inondata di luce. Socchiudendo gli occhi a causa di tanto chiarore, Vicki si girò verso l'interruttore e la faccia preoccupata di Michael Celluci. — Gesù. Tutti e due — commentò. — Temo di sì — confermò Henry, spostando il proprio peso sul bordo del letto. — Ne vuoi parlare? — chiese quindi, senza molta speranza di successo. — Non direi proprio — ribatté lei, contraendo le labbra. Parlarne avrebbe significato pensarci, pensare a quello che avrebbe trovato, a cosa avrebbe visto se solo fosse riuscita a staccare appena un altro pezzo di pavimento. — Celluci? Sono Fergusson. La facoltà di medicina ha tre Chen iscritti, e uno di loro è perfino un Tom Chen... Thomas Albert Chen. E vuole sapere una cosa? Quel ragazzo ha un alibi a prova di bomba, non solo per quella notte ma per tutte le due settimane e mezza in cui il ragazzo che cerchiamo è stato all'impresa di pompe funebri. Una vera scarogna, non trova? Con il ricevitore bloccato fra la spalla e l'orecchio, Celluci buttò giù una forchettata di uova strapazzate, accompagnandola con un sorso di caffè amaro. Non avrebbe creduto che Fergusson avesse una mente abbastanza sottile da poter fare del sarcasmo, ma evidentemente si era sbagliato. — Già, una sfortuna — convenne. — Per sicurezza, ha comunque fatto vedere la sua fotografia da Hutchinson? — Lasci perdere, Celluci, e la smetta di sprecare il mio fottuto tempo. Sappiamo entrambi che non stiamo cercando nessun Tom
Chen — aggiunse Fergusson, poi sospirò di fronte al neutro grugnito di Celluci, che era un eloquente "dacci un taglio". — Riferisca alla signorina ex— detective Nelson che mi dispiace per sua madre, ma che so quello che sto facendo. Vi richiamerò se avrò qualche vera informazione da darvi. Celluci riuscì a riattaccare e a infilarsi in bocca un'altra forchettata di uova prima di soccombere allo sguardo rovente di Vicki e di ripeterle la conversazione. Lei poteva anche essersi riaddormentata, rassicurata dalla protezione sovrannaturale di Fitzroy, ma lui aveva trascorso una notte insonne sdraiato nella stanza accanto, con l'orecchio teso a cogliere qualsiasi suono che poteva filtrare dalla camera di lei, mentre si chiedeva perché mai avesse ceduto il campo con tanta facilità.
Tu hai il giorno, ricordò a se stesso, allungando la mano verso un
altro pezzo di pane tostato. Questa però non era una risposta sufficiente. Al diavolo Fitzroy, comunque, si disse, sperando che massicce quantità di cibo servissero a compensare il sonno perduto. Vicki intanto allontanò da sé il piatto. Sapeva che doveva mangiare, ma c'era un limite a ciò che riusciva a spingere oltre il nodo che le serrava la gola. — Voglio che controlli quell'alibi — disse.
Oh, Dio, non di nuovo, gemette interiormente Celluci. Aveva
proprio creduto che lei si fosse liberata dell'ossessione che Tom Chen potesse essere davvero il nome del loro sospettato. Il lavoro di profiling da lei svolto era stato un eccellente, solido lavoro di polizia, e lui lo aveva interpretato, a quanto pareva prematuramente, come un segno che stava riprendendo a funzionare razionalmente. Nascondendo la propria preoccupazione, che lei non avrebbe apprezzato, si protese a coprirle una mano con la propria. Ribadire l'ovvio era inutile, dato che lei non voleva ascoltarlo, quindi provò con una diversa angolazione. — Vicki, il detective Fergusson conosce il suo lavoro. — Controlla tu, altrimenti lo farò io. — Liberando la mano, Vicki lo fissò con fermezza. — Non intendo lasciar perdere, e tu non puoi costringermi a farlo, quindi tanto vale che mi aiuti, così la faremo
finita prima. I suoi occhi erano troppo luminosi, e Celluci poteva vedere la tensione che le irrigidiva le spalle e le faceva tremare leggermente le dita. — Senti, Vicki... — Non ho bisogno in un babysitter, Mike. Non tu, e non lui. — D'accordo — sospirò lui. Vicki aveva chiesto il suo aiuto, e anche se quello non era esattamente il genere di aiuto che le voleva dare, era pur sempre qualcosa. — Controllerò quell'alibi e farò vedere una fotografia agli Hutchinson. Non ritengo che dovresti restare sola, ma sei un'adulta e hai ragione nell'asserire che le cose andranno avanti più in fretta se ci lavoriamo sopra tutti e due. — Tutti e tre — precisò Vicki. — D'accordo. — Sarebbe stato troppo aspettarsi che lei volesse che Fitzroy uscisse dal gioco. — Tu che cosa farai? Vicki posò la tazza da caffè vuota sul tavolo con un rumore secco. — Tom Chen voleva specificamente il corpo di mia madre. In tutto il tempo in cui è rimasto alle pompe funebri, ha ignorato due donne che avevano più o meno la sua stessa età ed erano più o meno nelle stesse condizioni, e io intendo scoprire il perché. — Nell'alzarsi in piedi, fece cadere il coltello, che rimbalzò una volta e poi scivolò sul pavimento della cucina, sulle piastrelle che erano ancora integre, che ancora coprivano...
Come poteva aver dimenticato dove aveva lasciato sua madre? Le uova si trasformarono in un blocco solido delle dimensioni di un pugno che le premeva contro le costole. Senza guardare in basso, scavalcò il coltello e altri due passi la portarono fuori dall'area piastrellata.
Riccioli biondi e grigi e un accenno di spalla. Soltanto un'ultima asse... — Solleva la gamba destra — disse Donald, e nel parlare inserì direttamente nella rete lo schema di onde cerebrali immagazzinate
corrispondente a quel comando. — Ehi, Cathy, qui abbiamo una che impara in fretta. Ricordi come sollevava la gamba il vecchio numero nove? Come se avesse voluto prendere a calci il soffitto? — Ricordo che la dottoressa Burke temeva che potesse essersi danneggiato l'articolazione del fianco — replicò Catherine, impegnata a regolare il flusso della flebo che serviva a nutrire il numero otto, in fase di rapido deterioramento. — E se non altro non abbiamo dovuto manipolare la sua gamba per le prime cento volte, come ci è toccato fare con tutti gli altri. — Ehi, datti una calmata, non stavo dicendo niente di male sul conto del tuo super— cadavere, stavo solo sottolineando che il numero dieci sembra avere un controllo quantitativo. — Ecco, stiamo usando le sue onde cerebrali. — E il numero nove ha usato le mie onde cerebrali per il controllo delle principali funzioni motorie — ribatté Donald, usando lo stesso tono sdegnoso, — quindi avrebbe dovuto essere lui in vantaggio. — Mi stupisce che abbia imparato a camminare. — Mi hai ferito nel vivo — dichiarò Donald, serrandosi drammaticamente il cuore, poi levò gli occhi al cielo in direzione della schiena indifferente della collega e premette altri due tasti di computer, aggiungendo: — Ed è doloroso andare avanti nella vita feriti nel vivo, lascia che te lo dica. Abbassa la gamba destra. Cedendo alla gravità, la gamba destra si abbassò. — Solleva la gamba sinistra. Ho la sensazione che il numero dieci sarà quello che farà la nostra fortuna — commentò ancora Donald. Nell'andare a controllare il numero nove, Catherine si accigliò: ultimamente si parlava un po' troppo di "fare fortuna". La scoperta di nuove conoscenze avrebbe dovuto essere fine a se stessa, e la considerazione di guadagni economici offuscava la ricerca. Certo, il numero dieci costituiva un gigantesco passo in avanti dal punto di vista dei dati sperimentali, ma non era assolutamente il risultato massimo che potevano raggiungere.
C'era qualcosa che doveva fare. Quel bisogno cominciò a costringere la definizione ad affiorare dall'oblio. — Francamente, Vicki, sono stupita che tua madre non ti abbia detto tutto questo — affermò la dottoressa Friedman, assestandosi gli occhiali nell'esaminare la cartella clinica di Marjory Nelson. — Dopo tutto, abbiamo ottenuto una diagnosi sette mesi fa. L'espressione di Vicki non cambiò, anche se un muscolo le si contrasse lungo la mascella. — Lei sapeva quanto era grave? — chiese. Quel lei si sarebbe potuto riferire alla madre di chiunque, anche se quell'illusione di distanza non le era di nessun aiuto. — Sapeva che il suo cuore poteva cedere in qualsiasi momento? — Oh, sì. In effetti, avevamo convenuto di tentare un intervento chirurgico di correzione, ma, ecco... — la dottoressa scrollò le spalle con rammarico. — Sai come si continuano a rimandare queste cose, con gli ospedali costretti a ridurre di continuo i posti letto. — Sta dicendo che è stata uccisa dai tagli apportati al bilancio? — Quelle parole risuonarono taglienti come frammenti di vetro. — No, tua madre è stata uccisa da un difetto cardiaco — rispose la dottoressa Friedman, scuotendo il capo e cercando di mantenere un tono confortante. — Probabilmente lo ha avuto per tutta la vita, e alla fine un muscolo in fase di invecchiamento non è più riuscito a compensarlo. — La sua era una condizione comune? — Non era una condizione abituale... — Era una cosa abbastanza insolita perché il suo corpo potesse essere rubato al fine di studiarlo? — precisò Vicki, interrompendo la dottoressa con un gesto secco e tagliente. — No, mi dispiace, ma non lo era. — Vorrei vedere la cartella clinica. Con la fronte aggrottata, la dottoressa Friedman contemplò la
semplice cartelletta marrone senza vederla davvero. Da un punto di vista strettamente tecnico, la cartella era confidenziale, ma Marjory Nelson era morta, e la cosa per lei non aveva più importanza; sua figlia, d'altro canto, era decisamente viva, e se il contenuto della cartella poteva aiutarla a risanare una posizione di rifiuto pericolosamente radicata, la riservatezza poteva andare al diavolo. Inoltre, la cartella non conteneva nulla che lei non avesse già divulgato nel corso dell'ultima ora di interrogatorio, durante la quale i dettagli erano stati prelevati dalla sua memoria con una precisione chirurgica che era insieme impressionante e spaventosa. Giunta a una decisione, la dottoressa spinse la cartella verso il lato opposto della scrivania. — C'è altro che posso fare? — domandò. — Grazie, dottoressa — replicò Vicki, infilando la cartella nella borsa e alzandosi. — Glielo farò sapere. Dal momento che questo non era stato esattamente quello che aveva in mente, la dottoressa fece un altro tentativo. — Hai parlato con qualcuno della tua perdita? — La mia perdita? — ripeté Vicki, con un sorriso pieno di tensione. — Ne sto parlando con tutti. — E con un cenno del capo che era più un congedo che un saluto, lasciò l'ufficio. Nel guardare la porta che si richiudeva, la dottoressa Friedman decise che aveva sbagliato nello scegliere la parola "perdita". C'era quasi. Era quasi riuscita ad afferrare il ricordo. C'era qualcosa che doveva fare. Che aveva bisogno di fare. — Cathy, ha fatto un rumore. — Che genere di rumore? Uno stendersi di tessuti? Un crepitare di articolazioni? Cosa? — Un rumore vocale. — Donald... — sospirò Catherine. — No, dico davvero — insistette Donald, indietreggiando con le mani ancora strette intorno alla felpa che era stato sul punto di
infilare sulle braccia sollevate elettronicamente. — Era una specie di gemito. — Sciocchezze — dichiarò Catherine, togliendogli di mano la felpa e assestandola con delicatezza al suo posto. — Probabilmente era solo uno sfiato d'aria. Sei troppo sgarbato nei movimenti. — Già, e conosco la differenza fra un rutto e un gemito. — Pallido in volto, Donald raggiunse la propria scrivania e si lasciò cadere sulla sedia, lacerando con le dita l'incarto di una mentina. — Io avvio le biopsie di oggi, e tu puoi finire di vestire Ken e Barbie. — Sua madre era una persona decisamente ordinaria — dichiarò la signora Shaw, sorridendo tristemente da sopra l'orlo della sua tazza di caffè. — Probabilmente, lei era la cosa più esotica della sua vita. Vicki lasciò che quella solidarietà si perdesse dietro di lei, come onde su una roccia, e si assestò gli occhiali. — Lei è certa che negli ultimi mesi non fosse rimasta coinvolta in qualche attività insolita? — Oh, ne sono certa. Se lo avesse fatto, me lo avrebbe detto. Parlavamo più o meno di tutto, sua madre e io. — Sapeva delle condizioni del suo cuore? — Certamente. Oh. — Imbarazzata, la signora Shaw si guardò intorno alla ricerca del modo per cancellare quelle ultime parole. — Uh... dell'altro caffè? — No, grazie. — Vicki posò quella che era stata la tazza di sua madre su quella che era stata la sua scrivania, poi allungò una mano e con delicatezza adagiò a faccia in giù la foto del suo diploma presso l'accademia.
"Un'indagine non deve diventare una questione personale'" le scandì nella testa la voce di uno degli istruttori. "Le emozioni mascherano i fatti, e potrebbe capitarvi di oltrepassare a testa bassa proprio quella piccola prova che vi serve per risolvere un caso." — A dire il vero, può darsi che la dottoressa Burke sappia se a sua madre stava succedendo qualcosa di insolito — affermò la signora
Shaw, posando la propria tazza e protendendosi in avanti con fare volonteroso. — Quando ha saputo delle condizioni del suo cuore, ha convinto sua madre a fare una grande quantità di test. — Che genere di test? — Non lo so. Non credo che sua madre...
Smettila di chiamarla così! Sua madre! Sua madre! Lei aveva un nome. — ... lo sapesse. — Posso vedere la dottoressa Burke? — Temo che questo pomeriggio sia impossibile. Attualmente è a una riunione dipartimentale, ma sono certa che le potrà riservare del tempo domani mattina. — Grazie — concluse Vicki, alzandosi con mosse controllate. — Tornerò. Le labbra le si contrassero in un sorriso privo di umorismo: a dire il vero, si sentiva più come Charlie Brown che come Arnold Schwarzenegger. — Dannazione, sono quasi le otto e mezza di sera. Non mi meraviglia di essere così affamato. Catherine adagiò con cautela la piastra di Petri nella camera di incubazione. — Affamato? Non capisco come mai, hai mangiato zuccheri per tutto il giorno. — Cathy. Cathy. Cathy, e pensare che sei una scienziata. Lo zucchero stimola la fame, non la sazia. — Non credo che sia esattamente così — ribatté Catherine, aggrottando le sopracciglia pallide. — Che importanza ha — ribatté Donald, infilandosi la giacca. — Andiamo a farci una pizza. — Io ho ancora del lavoro da fare.
— Anch'io ho ancora del lavoro da fare, ma dubito che sarò in
grado di lavorare al massimo del mio potenziale se tutto quello a cui riesco a pensare è il mio stomaco. Inoltre — aggiunse Donald, attraversando la stanza e assestandole un pugno amichevole sul braccio, — sono certo di aver sentito il tuo stomaco richiamare la tua attenzione, qualche momento fa. — Ecco... — La tua ricerca non merita di avere la tua piena attenzione? — Senza dubbio — dichiarò lei. — Chissà che danni potresti fare, distratta dalla fame. Vieni — insistette Donald, prendendo il cappotto di lei. — Detesto mangiare da solo. Riconoscendo quanto meno la validità della sua affermazione, Catherine si lasciò guidare verso la porta.
ultima
— E loro? — domandò poi. — Loro? — Per un momento, Donald non riuscì a capire a cosa Catherine si stesse riferendo, poi sospirò. — Porteremo loro una pizza speciale ai peperoni, la ficcheremo nell'omogeneizzatore e gliela somministreremo con la flebo, d'accordo? — Non è questo che intendevo. Sono seduti là, fuori dai loro contenitori. Non dovremmo... — Lasciali dove sono. Torneremo subito — propose Donald, tirandola oltre la soglia. — Sei stata tu a suggerire che avevano bisogno di stimoli. — Infatti. Avendo infine pilotato Catherine nel corridoio, Donald protese una mano a spegnere le luci. — Non fate nulla che io non farei — ammonì in tono scherzoso, e chiuse la porta. A una a una, le distrazioni cessarono. Prima le voci, poi le reazioni che non era in grado di controllare o di capire, e infine quella dolorosa luminosità. Ora era più facile mantenere la presa sul pensiero. Su un ricordo.
C'era qualcosa che doveva fare.
Solleva la gamba destra. Solleva la gamba sinistra. Cammina. Ricordava il camminare. Lentamente, barcollando per compensare l'equilibrio in qualche modo sfasato, attraversò la stanza. Porta. Chiusa. Aprire. Le ci vollero entrambe le mani, con le dita intrecciate, per girare la maniglia. Quello non era il modo in cui la memoria le diceva che avrebbe dovuto fare, ma la sua memoria era a brandelli. C'era qualcosa che doveva fare. Che aveva bisogno di fare. Il numero nove guardò tutto. La guardò il camminare. La guardò l'andarsene. Quella nuova non era come l'altro. L'altro non aveva... Non aveva... L'altro era vuoto. Questa nuova non era vuota. Lei era come lui. Lei. Lui. Due nuove parole. Pensò che potevano essere parole importanti. Si alzò in piedi e camminò, come gli era stato insegnato, dirigendosi verso la porta.
Capitolo sesto — Questo non è il diciottesimo secolo, Fitzroy. Le scuole di medicina hanno smesso di assoldare ladri di cadaveri già da parecchio tempo. — Hai un'idea migliore, detective? — ribatté Henry, tirando leggermente il bavero dell'impermeabile di pelle nera per assestarselo in avanti sulle spalle. Celluci si accigliò, perché non aveva idee migliori, e lo sapevano entrambi. — A parte i precedenti storici — continuò Henry, — il detective Fergusson pare essere certo del coinvolgimento di studenti di medicina, opinione senza dubbio basata su precedenti locali. — Il detective Fergusson incolpa gli studenti della Queen's per qualsiasi cosa, dagli ingorghi del traffico al clima — gli fece notare in tono acido Celluci, — e comunque pensavo che non avessi un'alta opinione di lui. — Non l'ho mai neppure incontrato. — Hai detto... — Basta così — intervenne Vicki dal suo posto sul divano, il tamburellare della sua matita contro la tazza da caffè che creava uno scandito sottofondo alle sue parole. — Logicamente, andrebbero perquisite tutte le strutture di immagazzinamento della città. E sempre logicamente, la facoltà di medicina è il posto da cui cominciare, se non altro per motivi storici. — Coloro che rifiutano di apprendere dalla storia sono condannati a ripeterla — convenne pacatamente Henry. — Risparmiami la saggezza dei secoli — borbottò Celluci. — Sai, quei posti non organizzano gite di gruppo di mezzanotte. Come hai intenzione di entrare? — La mezzanotte è ancora lontana.
— Mancando venti minuti alle nove, dubito che troverai aperto. — È aprile e siamo a fine trimestre, quindi ci dovrebbero essere in giro degli studenti, e anche se non ci fossero, negarmi accesso non è una cosa facile. — Non me lo dire. Ti trasformi in nebbia? — domandò Celluci, poi sollevò stancamente una mano alla vista dell'espressione di Henry. — Lo so, guardo troppi film scadenti. Non importa, parlavo sul serio quando ti ho chiesto di non dirmelo. Meno ne so in merito ai tuoi talenti, e meglio è. — Hai la fotografia? — domandò Vicki, la matita che continuava il suo tap, tap, tap. — Sarai in grado di effettuare un'identificazione? — Sì — annuì Henry. Dubitava che Marjory Nelson avesse ancora l'aspetto che aveva avuto in quella fotografia, ma era pur sempre un punto da cui cominciare. — Dovrei venire con te. — Tap. Tap. Tap. — No — ribatté Henry, attraversando la stanza e piegando a terra un ginocchio, accanto a lei. — Da solo, sarò in grado di muovermi più in fretta. — Sì, ma ...— Tap. Tap. Henry le coprì la mano, impedendo alla matita di alzarsi e di ricadere ancora. La pelle di lei sembrava surriscaldata, e si poteva avvertire la tensione che sfrigolava appena sotto la superficie. — Da solo, sarò in grado di muovermi più in fretta — ripeté. — E più in fretta mi muoverò, prima otterrai le informazioni. — Hai ragione — annuì Vicki. Henry attese per un momento, ma quando lei non aggiunse altro si rialzò in piedi, lasciandole andare con riluttanza la mano.
Tap. Tap. Tap. Con estrema delicatezza, le sfiorò i capelli con le dita, poi si avviò. Celluci lo raggiunse alla porta. Insieme si girarono a guardare verso il divano: Vicki aveva rimosso il paralume da entrambe le lampade da tavolo, e alla luce aspra i suoi occhi e la sua bocca
apparivano illividiti e dolorosamente tesi. — Non lasciarla sola — mormorò Henry, e se ne andò prima che il detective potesse decidere come replicare. Il rumore della matita lo seguì anche fuori dall'edificio. La porta per poco non la bloccò, perché il suo meccanismo di chiusura era quasi al di là delle sue capacità di manovra. La fila di punti al di sopra dell'attaccatura dei capelli si aprì leggermente per il corrugarsi delle sue sopracciglia, mentre lei costringeva le dita a spingere, a tirare e a sondare, finché il battente non si spalancò. C'era qualcosa che doveva fare. Forse, era dall'altro lato di quella porta. In alto, la maggior parte delle luci era spenta, e lei si avviò con passo strascicato, passando di ombra in ombra. Stava andando da qualche parte, e i corridoi cominciavano ad apparirle familiari. Oltrepassò un'altra soglia e si venne a trovare in una stanza che conosceva così bene che per un momento il caos si dissolse, e lei seppe.
Io sono... Poi il maelstrom tornò a trascinare via la maggior parte di quella consapevolezza, lasciandole soltanto frammenti sparsi. Per un singolo battito del suo cuore potenziato elettronicamente, era stata consapevole di quello che aveva perduto, e il suo gemito di protesta aveva pulsato contro le pareti, ma prima ancora che la sua ultima eco si fosse dissolta, lei aveva già dimenticato di averlo emesso. Attraversata la stanza fino a un paio di scrivanie, tirò indietro una delle sedie e si sedette. Sembrava che così tutto fosse al suo posto. No, non tutto. Accigliandosi, spostò con cura la tazza da caffè con la scritta La Madre Migliore del Mondo dal centro del tampone di carta assorbente all'estrema destra. La tazza stava sempre sulla destra. C'era ancora qualcosa che non andava. Dopo un momento di quasi riflessione, armeggiò con le dita intorno alla cornice d'argento appoggiata a faccia in giù, riuscendo infine ad afferrarla e a sollevarla. Con dita tremanti, sfiorò con delicatezza il volto della
giovane donna in uniforme la cui fotografia riempiva la cornice, poi si alzò in piedi. C'era qualcosa che doveva fare. Non si sarebbe dovuta trovare lì. Doveva andare a casa. Non sapeva dove fosse l'altra, quindi prese a camminare seguendo il percorso che offriva minore resistenza, fino ad andare a sbattere contro un piccolo quadrato di vetro rinforzato che gli permetteva di vedere le stelle. L'esterno. Ricordava l'esterno. Con la faccia premuta contro il vetro e gli occhi fissi sulle stelle, spinse contro la barriera, con le scarpe che strisciavano sul pavimento di piastrelle; più per fortuna che per intenzione, le sue mani si serrarono intorno alla sbarra di metallo posta all'altezza della vita: un'altra spinta, e la porta antincendio si spalancò. Il fragore dell'allarme gli scacciò le stelle dalla testa e lo indusse ad allontanarsi da quella fonte di dolore più in fretta che poteva, lungo i bui e silenziosi sentieri che si snodavano in mezzo e dietro agli edifici universitari. L'avrebbe trovata. Doveva trovare quella gentile. Lei avrebbe messo tutto a posto. — Allora, adesso non ti senti meglio? — Suppongo di sì. — Supponi di sì? — sospirò Donald, scuotendo il capo. — La pizza migliore di Kingston, per non parlare della mia congeniale compagnia, e tu avresti probabilmente preferito rimanere nel laboratorio, a mangiare un tramezzino stantio, sempre che ti fossi ricordata di mangiare, e a scambiare battute con i tuoi marmittoni morti. — Hai lasciato la porta aperta? — Cosa? — esclamò Donald, scrutando nella penombra del corridoio in direzione del battente aperto su di esso. — Sei certa che
sia la nostra? — È ovvio che ne sono certa. — Io l'ho chiusa, quando ce ne siamo andati, e ho sentito scattare la serratura. — Se è successo loro qualcosa non me lo perdonerò mai — gemette Catherine, mettendosi a correre. Donald la seguì con molta più lentezza, alquanto incline a tagliare la corda. Anche se tenevano d'occhio le entrate e le uscite, gli addetti alla sicurezza non si prendevano la briga di pattugliare l'interno: il vecchio edificio di Scienze Naturali era un vero e proprio labirinto di corridoi, di passaggi e di stanze stranamente suddivise, e se il budget dell'università ne avesse permesso la demolizione, sarebbe stato da tempo trasformato in un più utile parcheggio su tre piani. Anche se si era a volte chiesto se il loro fosse il solo laboratorio clandestino in funzione, Donald non si era quindi mai preoccupato molto che potessero essere scoperti. Però sapeva di aver chiuso la porta. E la dottoressa Burke, che aveva l'unico altro mazzo di chiavi, non l'avrebbe mai lasciata aperta. Quindi a quanto pareva, erano stati scoperti.
La domanda è se abbiamo fatto abbastanza progressi da far sì che il fine giustifichi i mezzi, agli occhi delle autorità, rifletté,
bilanciandosi sulla punta dei piedi, incerto se andare avanti o tornare indietro. Dopo tutto, i numeri da uno a nove erano stati corpi donati per scopi di ricerca; purtroppo, pensava che nemmeno la dottoressa Burke potesse trovare il modo di giustificare il corpo numero dieci, non senza la scappatoia della vittoria sulla morte, meta da cui erano ancora alquanto lontani. E lui non aveva nessuna intenzione di andare in prigione, né per la scienza né per qualsiasi altra cosa. D 'accordo, io me ne vado da qui. — Donald! Sono scomparsi! — Cosa significa "scomparsi"? — ribatté lui, bloccandosi nell'atto di voltarsi. — Scomparsi! Non qui! Se ne sono andati!
— Cathy, cerca di ragionare! I morti non si alzano e se ne vanno a spasso. L'occhiata rovente di lei, in cui ira ed esasperazione si mescolavano in pari misura, parve ardere attraverso i veli d'ombra che li separavano. — Sei stato tu a insegnare loro a camminare, razza di idiota! — Oh, signore, siamo fottuti! — gemette Donald, spiccando la corsa verso il laboratorio. — Sei certa che qualcuno non abbia forzato la porta e non li abbia rubati? — Chi? Se qualcuno li avesse trovati, sarebbe ancora qui con loro in attesa di una spiegazione. — Oppure è andato a chiamare gli sbirri. Accantonando con un gesto le proteste della collega, Donald la oltrepassò. Una rapida occhiata ai monitor indicò che il numero otto era ancora nel suo contenitore di isolamento, con le unità refrigeranti che lavoravano al massimo della potenza nel tentativo di impedire un'ulteriore decomposizione, e le sedie su cui avevano lasciato i numeri nove e dieci erano vuote, così come lo erano gli altri due contenitori di isolamento. Donald controllò sotto i tavoli, nel ripostiglio, nel magazzino e sotto ogni macchinario presente nel laboratorio. Se nessuno li aveva trovati, allora se ne erano andati di loro iniziativa. — È impossibile — gemette, accasciandosi contro lo stipite della porta. — Loro non hanno processi mentali astratti. — Ci hanno visti andare via — replicò Catherine, afferrandolo per un braccio e trascinandolo nel corridoio. — Quanto meno, si è trattato di imitazione. Tu va' da quella parte! — ingiunse, spingendolo verso sinistra. — Dove, da quella parte? — Dobbiamo perquisire l'edificio. — Allora chiama la Polizia a Cavallo — scattò Donald, massaggiandosi la fronte con dita tremanti, — perché tu e io da soli impiegheremo anni a passare al setaccio questo posto.
— Ma dobbiamo trovarli ! Questa era una cosa riguardo alla quale Donald non poté obiettare nulla. Voci. Il numero nove si mosse verso quel suono, attratto da cadenze quasi familiari. Si trattava di lei? — Cathy ! — chiamò Donald, sopraggiungendo di corsa lungo il corridoio e arrestandosi con il respiro affannoso accanto all'altra specializzanda. — Grazie a Dio ti ho trovata! Siamo in un guaio più grosso di quanto pensassimo. Sono andato a parlare con i tizi della sicurezza, nel nuovo edificio, giusto per vedere se avevano sentito qualcosa, e lo hanno fatto. Hanno sentito l'allarme antincendio, il che significa che qualcuno è uscito dalla porta antincendio, sul retro. — All'esterno? Senza supervisione? — La pelle già chiara di Catherine impallidì ulteriormente. — Almeno uno di loro. Dov'è il tuo furgone? — Nel parcheggio dietro l'edificio — rispose lei, girandosi e precipitandosi verso l'uscita. — Dobbiamo trovarli prima che lo faccia qualcun altro! Con la mano premuta contro il fianco dolorante per la precedente corsa, Donald si affrettò a seguirla. — Brillante deduzione, Sherlock — annaspò. Le voci erano più vicine. Si fermò sulla linea di confine fra il terreno morbido e quello duro, girando la testa di qua e di là. — Jenny, tesoro, ti ripeto che nessuno viene mai qui dietro. È un posto assolutamente sicuro. — Perché non possiamo parcheggiare vicino alla torre, come tutti gli altri?
— Perché tutti gli altri parcheggiano là, e io ho delle obiezioni
morali ad avere un poliziotto che mi punta una torcia negli occhi in momenti delicati. — Almeno, chiudiamo i finestrini. — È una notte splendida, celebriamo la primavera. E poi, se dovesse passare qualcuno, i finestrini appannati sono un segno certo che si sta facendo qualcosa di sconcio. E a proposito di cose sconce... — Pat! Aspetta, tiro indietro il sedile. Sta' attento... oh... Le sue suole strisciarono sul terreno mentre avanzava barcollando, diretto verso le ombre più profonde, nel punto in cui i due edifici si incontravano. Non capiva il senso di quei rumori, ma ne seguì il suono fino a una massa di metallo che riconobbe come una macchina. Non sapeva cosa significasse "macchina". Essa le stava facendo del male? Chinandosi con cautela, sbirciò all'interno. Capelli chiari. La sua faccia, ma non era la sua faccia. La sua voce, ma non la sua voce. Confuso, si protese a sfiorare la curva della sua guancia. Gli occhi di lei si aprirono di scatto, si dilatarono, poi lei prese a urlare. Faceva male. Cominciò a indietreggiare. Poi un altro volto emerse dall'oscurità, delle mani si protesero per afferrarlo. Trattenuto per un polso, artigliò l'aria, desideroso soltanto di andare via. Poi le sue dita si chiusero intorno a qualcosa di morbido, e continuarono a chiudersi finché le urla non cessarono. La seconda faccia dondolava inerte al di sopra della sua stretta, la faccia che era la sua e tuttavia non lo era, sollevò lo sguardo su di lui. Poi le urla ricominciarono.
Si girò, e si mise a correre. Ricordava correre. Corse fino a quando il dolore non fu cessato e ci fu terreno morbido sotto i suoi piedi. Andò a sbattere con violenza contro una solida massa di oscurità e prese a seguirla fino ad arrivare a un passaggio. Più avanti c'erano delle luci e lei, la vera lei, quella gentile, era dove c'erano le luci. — Là! Sta aggirando quell'edificio! — Ne sei sicuro? — Cristo Santo, Cathy, quante persone morte se ne stanno andando in giro stanotte per questa città? Va' da quella parte ! Il furgone non si era ancora fermato del tutto quando Donald si lanciò giù in strada, incespicando e lottando per ritrovare l'equilibrio, per poi precipitarsi verso la figura dal passo strascicato che stava proprio allora emergendo dall'ombra. Ignorò le urla che provenivano da un punto imprecisato, dietro la costruzione perché, avendo intravisto la faccia del numero nove sotto la luce dei lampioni, non faticava a immaginare cosa potesse averle causate. Alcune delle suture che tenevano al suo posto il cuoio capelluto si erano rotte, e la curva giallastra del cranio era esposta al di sopra di un triangolo di pelle pendente.
La dottoressa Burke vorrà le mie palle su un vassoio! pensò,
mentre si fermava di botto, traeva un profondo respiro per rilassarsi e, con la massima calma di cui era capace, ordinava: — Seguimi.
Seguimi. Conosceva quella parola. — Donald, sento delle urla, e il clacson di una macchina. — Non ci pensare. Il numero nove è salito, quindi pensa solo a
guidare. — Però dovremmo controllare per vedere se sta bene. Potrebbero avergli fatto del male. — Non ora, Cathy. Per il momento, lui è al sicuro, ma il numero dieci non lo è. Dobbiamo ritrovarla. Catherine si girò a lanciare un'occhiata al numero nove, che giaceva trattenuto dalle cinghie di sicurezza, e annuì con riluttanza, immettendo il furgone in strada. — Hai ragione, per prima cosa dobbiamo trovare il numero dieci. Dove andiamo? Donald si accasciò contro lo schienale del sedile del passeggero e sospirò, allargando le mani. — Come diavolo faccio a saperlo? — ribatté. Marjory Nelson non si era trovata nell'obitorio medico dell'università; là non aveva trovato né il suo corpo, né parti di esso. Mentre sostava immobile accanto al tronco di un antico acero, attendendo di liberarsi dell'odore della morte preservata, Henry rifletté sul modo migliore di sfruttare il resto della notte. I due grandi ospedali cittadini erano chiusi, e se ne avesse controllato entrambi gli obitori prima dell'alba, cosa che riteneva di dover essere in grado di fare, sarebbe poi stato disponibile per... per... per cosa? Nel corso dell'ultimo anno, aveva imparato che gli investigatori privati trascorrevano la maggior parte del loro tempo impegnati a mettere insieme frammenti di informazioni all'apparenza non collegati fra loro per ottenere qualcosa che speravano somigliasse a un tutto coerente, qualcosa che somigliava al dare la caccia ai pezzi di un puzzle per poi ricomporlo senza avere idea di quale dovesse essere l'immagine risultante. Era più probabile che trascorressero il loro tempo in una biblioteca che non in inseguimenti in macchina, e i risultati dipendevano in pari misura dall'addestramento, dal talento e dalla fortuna, per non parlare dell'ostinata determinazione ad andare fino in fondo che rasentava l'ossessione.
Ossessione. L'ossessione di Vicki sul ritrovamento del corpo di sua madre bloccava il dolore che avrebbe dovuto provare, le impediva di andare avanti a vivere la sua vita. Appoggiandosi al tronco dell'albero, Henry si chiese per quanto tempo le avrebbe permesso di continuare così. Sapeva che avrebbe potuto aprire un varco in quell'ossessione, ma a quale prezzo? Poteva farlo senza distruggere anche lei? Senza perderla? Senza lasciare al detective Michael Celluci il compito di raccogliere i pezzi? All'improvviso sorrise, i denti candidi che brillavano nell'oscurità.
Tu misuri la tua vita in secoli, si rimproverò, dalle un po' di tempo per uscire da tutto questo. Sono passati solo un paio di giorni. Il suo modo di pensare era stato troppo influenzato dalla
tendenza propria del ventesimo secolo a superare le cose spiacevoli nel modo più rapido e pulito possibile. Certo, reprimere le emozioni non era una cosa sana, ma... due giorni non meritavano comunque di essere definiti un'ossessione. D'un tratto si rese conto che era stata la presenza di Michael Celluci a farli sembrare molto più lunghi.
Lui non può fare per lei più di quanto possa fare tu, si disse. Confida nella sua forza, nel suo buon senso e nella consapevolezza che ti ama, nella misura in cui ne è capace. Ama entrambi, aggiunse una piccola voce interiore. Taci, ingiunse lui, selvaggiamente. Raddrizzandosi, si staccò dall'albero e subito si immobilizzò, sentendo i capelli che gli si rizzavano sulla nuca. Un secondo più tardi, le urla iniziarono a risuonare. Il suono echeggiava intorno agli edifici addossati gli uni agli altri, rendendogli difficile identificarne la fonte; dopo aver seguito una serie di false piste, arrivò infine a un parcheggio isolato, proprio mentre l'auto della polizia del campus si arrestava con uno stridore di gomme, illuminando con i suoi riflettori un'adolescente terrorizzata che stava indietreggiando da un'auto dai bordi segnati dalla ruggine e dal corpo di un ragazzo giovane quanto lei, riversato per metà fuori del veicolo e sulla pavimentazione. Era evidente che il ragazzo era già morto quando la portiera era stata aperta, perché soltanto i morti riuscivano ad accasciarsi al suolo con quell'inerzia
così assoluta. Socchiudendo gli occhi per difendersi dall'intenso bagliore, Henry sgusciò in una zona di ombra più fitta, perché anche se non sarebbe stato insolito che un passante fosse stato attirato dalle urla, l'anonimato, quando era possibile mantenerlo, garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza per quelli della sua razza. Producendo un rumore minore di quello generato dal vento che sfiorava le pareti di calcare, accennò ad allontanarsi. La ragazza era al sicuro, e anche se sarebbe intervenuto, qualora fosse giunto in tempo, non provava nessun interesse per la miriade di modi con cui i mortali riuscivano a uccidersi a vicenda. — Quel tipo sembrava morto! Era tutto marcio e morto! Non sono isterica! L'ho visto anche nei film, sapete!
Quel tipo sembrava morto. E c'era un cadavere scomparso. Henry si fermò e tornò indietro, anche se probabilmente fra le due cose non c'era nessun collegamento. Avanzando in silenzio, aggirò l'angolo dell'edificio e per poco non soffocò: il sentore di morte che aveva avvertito all'impresa di pompe funebri era così intenso su quel tratto di prato da costringerlo a indietreggiare; costeggiando i confini della traccia di odore, la seguì fino a una strada di accesso cosparsa di buche, e là la perse nuovamente. Nel sentire delle sirene che si avvicinavano, avvolse nuovamente la notte intorno a sé e tornò verso il parcheggio, deciso ad ascoltare e osservare quel piccolo dramma fino alla fine. Era possibilissimo che la ragazza fosse isterica, che il terrore l'avesse indotta ad attribuire all'assassino un volto ancor più terrificante, e quella sarebbe stata di certo l'opinione della polizia. Lui però non la condivideva.
Se Henry non dovesse trovare niente all'obitorio, gli chiederò di cominciare a viaggiare sull'autobus. Un giovane maschio asiatico che siede sempre davanti alla porta posteriore mangiando dolciumi non dovrebbe essere difficile da individuare, e Celluci potrà fare il turno di giorno. Nel formulare quei pensieri, Vicki tracciò un cerchio sulla stazione
di trasbordo di Brock Street, sulla sua cartina delle linee degli autobus. Come pista non era un granché, ma era la sola di cui disponessero, e lei sapeva che si trattava di una pista che la polizia non poteva seguire perché non aveva né gli uomini né il tempo per farlo. Se Tom Chen, o comunque si chiamava, si trovava ancora a Kingston e viaggiava ancora in autobus, alla fine lo avrebbero trovato.
Alla fine, ripeté fra sé, appoggiandosi allo schienale del divano e massaggiandosi gli occhi sotto gli occhiali. Questo però se è ancora a Kingston e se continua a viaggiare in autobus. E se invece se n'era andato o non lo stava più facendo? Cosa avrebbero fatto, se lui aveva gettato il corpo di sua madre su un'auto e se ne era andato? Era possibile che avesse lasciato non solo la zona, ma anche il Paese. L'Ivy Lea Bridge, che passava sulle Thousand Islands e dava accesso agli Stati Uniti, non era molto lontano, e con la quantità di traffico che lo attraversava quotidianamente, le probabilità che la macchina del sospetto fosse stata perquisita alla dogana erano infinitesimali. Lui poteva essere dovunque. Però quell'uomo doveva aver conosciuto sua madre, non c'era altro modo per spiegare come mai avesse ignorato gli altri corpi che erano passati dalle pompe funebri per poi scomparire con quello di Marjory Nelson, specificatamente, il che significava che c'erano buone probabilità che lui avesse la sua base in quell'area. Questo copriva il chi e il dove, e metteva insieme quel poco di informazioni di cui disponevano. Vicki si affondò le dita nella parte posteriore del collo, nel tentativo di allentare i nodi di tensione che le trasformavano le spalle in un blocco solido, poi tornò a chinarsi sul tavolino, ignorando la consapevolezza che sarebbe stata più comoda in cucina. Ammucchiate e riposte ordinatamente da un lato le annotazioni relative a Tom Chen, sparpagliò sul tavolo il contenuto della cartella che la dottoressa Friedman le aveva dato. Aveva ormai degli appunti sul chi, sul dove, sul quando e perfino sul come, un foglio di carta per ciascun punto, con il titolo scritto in alto con un
pennarello nero; soltanto il foglio intitolato perché continuava a rimanere vuoto. Perché rubare un corpo? Perché rubare il corpo di sua madre?
Perché lei non mi ha detto che era tanto malata ? Perché non ho risposto al telefono? Perché non l'ho richiamata? Perché non ero qui, quando lei aveva bisogno di me? La matita le si spezzò fra le dita, e quel suono la indusse ad abbandonarsi di nuovo contro i cuscini del divano, con il cuore che le martellava nel petto. Quegli interrogativi non rientravano nelle indagini, erano domande da affrontare in seguito, dopo che avesse riavuto sua madre. Premendosi la mano sinistra contro il nasello degli occhiali, lottò per ritrovare il controllo. Sua madre aveva bisogno che lei fosse forte. All'improvviso, l'odore perdurante del profumo di sua madre, dei suoi cosmetici e del suo bagnoschiuma le rivestirono il naso e la bocca di una patina di passato, costringendola ad affondarsi il pugno destro nello stomaco per ricacciare indietro un improvviso attacco di nausea, mentre i rumori di fondo dell'appartamento cessavano di essere solo un sottofondo. Il motore del frigorifero raggiunse il fragore di quello di un elicottero in fase di decollo, e il gocciolare del rubinetto del bagno prese a echeggiare contro la porcellana del lavandino. Di tanto in tanto, una macchina passava veloce sulla strada, e qualcosa si stava muovendo sulla ghiaia del parcheggio. A poco a poco, gli altri suoni scivolarono in sottofondo, facendosi remoti, ma il rumore di passi strascicati che avanzavano sulla ghiaia continuò a risuonare e Vicki si concentrò su di esso con aria accigliata, grata per la distrazione. Poteva essere Celluci, di ritorno dalla friggitoria dall'altra parte della strada, e il suo passo era esitante perché... ecco, perché sia lui che Henry erano stati esitanti nel trattare con lei fin da quando erano arrivati. Non era che lei non apprezzasse il loro aiuto, che invece apprezzava molto, semplicemente avrebbe voluto che entrambi si ficcassero in quella testa dura che lei era in grado di badare a se stessa.
Qualcosa strisciò contro la finestra del salotto. Vicki si raddrizzò. Le grandi finestre del seminterrato, poste al livello del suolo, erano sempre state un invitante bersaglio per i ragazzini del circondario, e nel corso degli anni erano state decorate con schiuma saponata, pittura, uova, rossetto, e una volta perfino con adesivi di Smurf. Alzatasi in piedi, si avvicinò alla finestra e accese la lampada a stelo, con le sue tre lampadine da cento watt. Con un po' di fortuna, l'intensa luce bianca che adesso illuminava il salotto si sarebbe riversata all'esterno, nel buio, e le avrebbe permesso di vedere i piccoli vandali prima che si dessero alla fuga. Arrivata alla finestra, si soffermò con una mano sul bordo della tenda e l'altra sul cordino della veneziana che si trovava dietro di essa; così vicino, poteva sentire che qualcosa stava senza dubbio sfregando contro il lato opposto del vetro. Con un movimento reso rapido e fluido da una lunga pratica, tirò di lato la tenda e contemporaneamente sollevò di scatto la veneziana fino in cima. Premuta contro il vetro, con le dita allargate e la bocca che si muoveva senza emettere suono, c'era sua madre. Due paia di occhi della stessa identica tonalità di grigio si dilatarono per il simultaneo riconoscimento. Per un secondo poi il mondo parve oscillare intorno a Vicki.
Mia madre è morta. Una memoria frammentata stava lottando per tornare integra. Disperatamente, lei si aggrappò ai singoli pezzi. Questa è mia...
Questa è mia...
Non riusciva a trovare quel frammento, a trattenerlo. Un'adolescente che correva, e rompeva un nastro con il petto. Un'alta giovane donna che posava orgogliosa con indosso un'uniforme blu. Una piccola bocca rosea che si apriva in quello che era senza dubbio il primo sbadiglio della creazione. Una bambina, diventata improvvisamente seria, che protendeva le piccole braccia per stringerla mentre lei piangeva. Una voce che diceva: "Non ti preoccupare, mamma".
Mamma.
Questa è mia figlia. La mia bambina. Adesso sapeva cos'era che doveva fare. La finestra era vuota, nessuno si muoveva nel parcheggio, almeno fin dove arrivavano la luce della lampada e la vista di Vicki.
Mia madre è morta. Dietro l'angolo, fuori dal suo campo visivo e lungo il sentiero ghiaioso che portava all'ingresso, era possibile sentir risuonare gli stessi passi esitanti di prima. Vicki si girò di scatto e si precipitò alla porta dell'appartamento. Quando Celluci era uscito, aveva richiuso la porta a chiave alle sue spalle, un'abitudine radicata in lei da anni vissuti in una città più grande e violenta. Adesso il meccanismo si inceppò quando lei cercò di girare la chiave con dita tremanti. — DANNATO FOTTUTO FIGLIO DI PUTTANA! — Non riusciva più a sentire i passi, non sentiva più niente tranne il proprio sangue che le ruggiva negli orecchi.
Adesso sarà al gradino, pensò, mentre il metallo le lasciava dei lividi sulle mani, starà aprendo la porta esterna... La porta esterna
era stata chiusa a chiave, quando Celluci se ne era andato? Non riusciva a ricordarlo. Tutta la porta tremò quando lei colpì la serratura con i pugni, implorando dentro di sé: Non te ne andare!
Poi sentì qualcosa che cedeva sotto le sue dita, bianche per la tensione.
Non te ne andare di nuovo. L'atrio era vuoto, e la porta di sicurezza era aperta. Al di sopra dell'urlo di diniego che le fece rimbalzare echi violenti all'interno del cranio, anche se nessun suono le uscì dalle labbra, sentì lo sbattere della portiera di una macchina, seguito da un rumore di pneumatici che si allontanavano sulla ghiaia. L'adrenalina le permise di catapultarsi su per la mezza rampa di gradini e di lanciarsi fuori nella notte.
— C'è mancato poco, Cathy, troppo poco. Era dentro l'edificio! — Sta bene? — Cosa significa, sta bene? Forse volevi chiedere "ti ha visto qualcuno?" — No — ribatté Catherine, scuotendo il capo, i capelli arruffati che brillavano come avorio sotto le luci della strada. — Le riparazioni che abbiamo effettuato non sono studiate per reggere a così tanta attività. Se uno qualsiasi di quei motori si è bruciato... Donald finì di assicurare con le cinghie il corpo che si dibatteva debolmente e raggiunse la parte anteriore del furgone. — Ecco, pare che tutto sia funzionante — sospirò, — ma di certo lei non voleva venire con me. — È ovvio. Tu hai interrotto lo schema. — Quale schema? — Il corpo stava reagendo al fatto di aver lasciato l'edificio di Scienze Naturali ripercorrendo un percorso seguito per anni. — Davvero? Io credevo che stesse andando a casa. — Adesso la sua casa è con noi. Da sopra la spalla, Donald scoccò un'ansiosa occhiata verso il retro del furgone: il numero nove giaceva disteso passivamente, ma il numero dieci continuava a cercare di liberarsi delle cinghie. Esso aveva obbedito al suo comando, ma Donald si sentiva disposto a scommettere le sue probabilità di vincere un Premio Nobel sul fatto che in realtà non aveva voluto farlo. — Sta' ferma — scattò, e si sentì solo di poco più sollevato quando il corpo obbedì alla sua programmazione. Mike Celluci uscì dalla piccola friggitoria, assaporando l'odore di patatine fritte e di halibut che si sovrapponeva al profumo di una tiepida notte primaverile. In quel particolare momento, la situazione non gli appariva poi così brutta. Anche se ritrovare il corpo di Marjory Nelson al più presto possibile sarebbe stata la cosa migliore
per tutti gli interessati, d'altro canto Vicki era un'adulta intelligente, che aveva una lunga familiarità con l'aspra realtà del fatto che alcuni casi non venivano mai risolti. Alla fine, avrebbe accettato il fatto che sua madre era scomparsa, avrebbe accettato la sua morte, e tutti loro avrebbero potuto concentrarsi sulla soluzione del problema che tutto questo aveva messo in sospeso. Lui sarebbe stato presente per confortarla, Vicki si sarebbe resa conto che Fitzroy non aveva nulla da offrire, e loro due avrebbero messo su famiglia, magari avrebbero perfino avuto un bambino... No. Il tentativo di immaginare Vicki in un ruolo materno lo indusse a rivedere quel particolare. Forse sarà meglio non avere
bambini.
Si soffermò sul marciapiede mentre un furgone chiuso usciva dal viale di accesso del condominio e svoltava a sud, verso il centro della città; un momento più tardi, il cibo appena acquistato giaceva dimenticato nel canale di scolo e lui si stava precipitando in avanti per afferrare la figura dallo sguardo sconvolto che si era lanciata alla carica in mezzo alla strada. — Vicki! Cosa c'è? Cosa è successo? Lei si contorse nella sua stretta, lottando per seguire il furgone. — Mia madre... — ansimò, accasciandosi contro di lui quando i fanali posteriori del veicolo scomparvero in lontananza. — Mike, mia madre... Con gentilezza, Celluci la costrinse a girarsi, e riuscì a stento a reprimere un'esclamazione sconvolta nel vedere la sua espressione: a guardarla, pareva che qualcuno le avesse strappato il cuore. — Vicki, cosa vuoi dirmi riguardo a tua madre? — Mia madre era alla finestra del salotto — spiegò Vicki, deglutendo a fatica. — Mi stava guardando. La serratura si è inceppata e quando sono uscita lei era scomparsa. Deve essere andata via in quel furgone, è il solo posto in cui può essere sparita. Mike, dobbiamo seguire quel veicolo. Celluci sentì dita gelide che gli danzavano lungo la spina dorsale: fra un respiro affannoso e l'altro, Vicki stava facendo affermazioni folli, e da come si esprimeva, pareva che ci credesse davvero.
Muovendosi con lentezza, la pilotò verso l'appartamento. — Vicki — cominciò, ma la voce gli uscì così tesa e sforzata da rendere perfino il suono del suo nome quasi irriconoscibile, quindi fece un secondo tentativo. — Vicki, tua madre è morta. — Questo lo so! — ringhiò lei, liberandosi con violenza dalla sua presa. — Credi forse che non me ne renda conto? Ma lo era anche quella donna alla finestra! — Senti, l'ho lasciata sola appena per pochi minuti — affermò Celluci, e nel parlare ebbe l'impressione di sentire quelle stesse parole ripetute dal migliaio di persone che erano tornate a casa solo per scoprire che un disastro si era verificato in quei pochi minuti della loro assenza. — Come potevo immaginare che lei fosse così vicina al punto di rottura? Non aveva mai avuto cedimenti, in passato. — Appoggiato il braccio contro il muro, abbandonò la faccia su di esso. Dopo quell'esplosione, Vicki aveva cominciato a tremare. Anni di addestramento, passati ad affrontare situazioni simili a quella, erano parsi improvvisamente inutili. Per fortuna era sopraggiunto il signor Delgado e aveva convinto Vicki a prendere quelle pillole per dormire, con la motivazione: "Come potrai essere in forze domani, se stanotte non dormi, eh?" — Non è crollata, almeno non nel modo che credi tu — affermò in tono sommesso Henry, rialzandosi da dove era accoccolato, accanto alla finestra. L'odore che aderiva all'esterno del vetro era inconfondibile. — Di cosa stai parlando? — ribatté Celluci. — Dio santo, ha avuto delle allucinazioni! — No, temo che non sia così, e pare proprio che io ti debba delle scuse, detective. — Delle scuse? Per cosa? — sbuffò Celluci, ma la certezza che poteva avvertire nel tono di Henry lo indusse a raddrizzarsi. — Per averti accusato di guardare troppi film scadenti. — Di cosa diavolo stai parlando? — Sto parlando del ritorno del dottor Frankenstein — spiegò
Henry, indecifrabile in volto, allontanandosi dalla finestra. — Non prendermi per i fondelli, Fitzroy, io non sono il... Gesù Cristo, non stai scherzando, vero? — No, non sto scherzando — confermò Henry, scuotendo il capo. Impossibile non credergli. Lupi mannari, mummie, vampiri. Mi sarei dovuto aspettare una cosa del genere, pensò Celluci. — Madre di Dio. Cosa diremo a Vicki? Gli occhi nocciola incontrarono lo sguardo di quelli castani, per una volta senza che fra loro si scatenasse una lotta di potere. — Non ne ho la minima idea — ammise Henry.
Capitolo settimo — Credo che dovremmo dirglielo. — Dovremmo dirle che qualcuno ha trasformato sua madre nel mostro di Frankenstein? — ribatté Henry, incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi al muro, accanto alla finestra. — Sì, dirle proprio questo — insistette Celluci, massaggiandosi le tempie; era stata una notte molto lunga, e non stava guardando con impazienza alla prospettiva di affrontare il mattino che l'avrebbe seguita. — Ricordi quel piccolo incidente dello scorso autunno? Henry inarcò le sopracciglia. Non potevano esserci dubbi in merito a quello a cui il detective si stava riferendo, anche se lui non avrebbe certo descritto come un incidente la distruzione di un antico mago egizio. — Se stai parlando di Anwar Tawfik, lo ricordo. — Ecco, stavo pensando a qualcosa che Vicki ha detto dopo che è finito tutto, riguardo al fatto che là fuori c'è un dio oscuro che ci conosce, e che se cederemo alla disperazione e perderemo la speranza ci piomberà addosso come un politico su un buffet gratuito. — Celluci trasse un lungo respiro tremante, sentendosi quasi troppo stanco persino per respirare. — E se ancora non l'hai notato, presto lui le piomberà addosso. Vicki è sull'orlo del baratro. — Vicki? — Tu non l'hai vista. Henry aveva difficoltà a credere che Vicki avrebbe mai potuto arrendersi a qualcosa, men che meno all'assenza di speranza e alla disperazione, ma si rendeva conto che nelle circostanze attuali anche il carattere più forte avrebbe potuto essere spinto a soccombere. — E tu credi che se le esporremo i nostri sospetti... — Si infurierà, e non c'è niente che cancelli la disperazione più in fretta di una giusta ira.
Henry ci pensò su, le braccia conserte e la schiena premuta contro il muro. Il dio oscuro di Tawfik continuava a esistere perché le emozioni di cui si alimentava erano parte della condizione umana, ma loro tre... lui stesso, Celluci e Vicki... conoscevano il suo nome, e se voleva degli accoliti, cosa che qualsiasi dio desiderava, esso avrebbe dovuto rivolgersi a uno di loro. Se Celluci aveva ragione sul conto di Vicki, ed Henry doveva ammettere che i loro lunghi anni di conoscenza reciproca dovevano fare di lui un buon giudice al riguardo, darle l'ira come protezione sarebbe stata la cosa migliore che potessero fare. E poi, c'era un altro fattore che non doveva essere ignorato. — Se non glielo dicessimo, non ce lo perdonerebbe mai. — Infatti, c'è anche questo — annuì Celluci. Per un momento fra loro scese il silenzio, mentre entrambi riflettevano sulle conseguenze dell'essere il bersaglio diretto della rabbia di Vicki, giungendo tutti e due alla conclusione che le loro probabilità di sopravvivenza non sarebbero state molto elevate, almeno per quanto concerneva la possibilità di mantenere in essere i loro rapporti con lei. Henry fu il primo a parlare. — Allora glielo diremo. — Dirmi cosa? — Vicki era ferma sulla porta del salotto, con gli abiti spiegazzati, gli occhi appannati e una guancia segnata da una piega della federa del cuscino. Quando provò ad avanzare con cautela, barcollò e dovette aggrapparsi allo schienale di una sedia per ritrovare l'equilibrio; si sentiva distaccata dal proprio corpo, a causa dell'effetto dei sonniferi che era a stento riuscita a vincere. — Dovreste dirmi che sono impazzita, che non posso aver visto mia madre morta alla finestra? — continuò, incapace di controllare la voce, che oscillava di continuo fra toni bassi e picchi acuti. — In realtà, Vicki, noi ti crediamo — ribatté Henry, in un tono che non lasciava adito a dubbi. Colta alla sprovvista, lei batté le palpebre e cercò di appuntare su Celluci uno sguardo accigliato. — Mi credete tutti e due? — domandò. — Sì — confermò lui, ricambiando con pari intensità la sua
espressione aggressiva. — Ti crediamo tutti e due. Celluci sussultò quando la statuetta Royal Dalton andò a sbattere contro la parete opposta del salotto e si frantumò in un migliaio di costosi pezzetti di porcellana, inducendo Henry ad allontanarsi un po' di più dall'area investita dalle schegge. — Dannati, fottuti bastardi! — L'ira che le aveva velato lo sguardo di rosso e le stava facendo ruggire il sangue negli orecchi intervenne a contrarle la gola, interrompendo quel flusso di imprecazioni, mentre lei raccoglieva un altro costoso soprammobile e lo scagliava dall'altra parte della stanza. — Come OSANO! — ringhiò poi, ritrovando la voce contemporaneamente al frantumarsi dell'oggetto. Respirando affannosamente, si lasciò ricadere sul divano, serrando i denti per reprimere un'ondata di nausea che costituiva la reazione del suo corpo alla notizia. — Come può qualcuno fare una cosa del genere a un altro essere umano? — ringhiò. — La scienza... — cominciò Celluci, ma Vicki lo interruppe, e probabilmente fu meglio così, perché neppure lui sapeva con certezza che cosa volesse dire. — Questa non è scienza, Mike. Questa è mia madre. — Non è tua madre, Vicki, è soltanto il suo corpo — le ricordò in tono sommesso Henry. — È solo il suo corpo? — ripeté Vicki, assestandosi gli occhiali con il pugno chiuso, in modo che il tremito delle sue dita passasse inosservato. — Posso non essere stata la figlia migliore del mondo, ma conosco mia madre, e vi sto dicendo che quella alla finestra era lei, non era soltanto il suo fottuto corpo! Celluci le si sedette accanto sul divano e le prese una mano fra le proprie mentre passava al vaglio e scartava quattro o cinque banali espressioni di conforto che in realtà non avevano senso, e decideva infine saggiamente di tenere la bocca chiusa. Senza troppo impegno, Vicki cercò di liberare la mano, ma
quando le dita di lui si limitarono ad accentuare la stretta lasciò perdere, risparmiando le forze per alimentare la propria ira. — Io l'ho vista. Era morta, so che era morta; poi l'ho vista di nuovo alla finestra, ed era... — Di nuovo un'ondata di nausea le salì dallo stomaco, raggiunse il proprio apice e si ritirò con riluttanza. — Era non morta. — Ma non era viva. — Dal momento che quelle parole, di per se stesse, negavano qualsiasi consolazione, Henry le offrì così com'erano, disadorne di emozione. Ancora una volta, il viso di sua madre emerse dall'oscurità, con gli occhi sgranati e la bocca che si muoveva; la stretta di Celluci divenne una calda ancora, e Vicki se ne servì per trascinarsi fuori da quel ricordo. — No, non viva — ammise, deglutendo a fatica mentre un muscolo le si contraeva lungo la mascella. — Però era in piedi e camminava. — Per un momento, la consapevolezza che fra loro c'era stato soltanto un pannello di vetro le rese impossibile continuare. Voglio solo urlare e piangere finché tutto questo non
scompare e io non sono più costretta ad affrontarlo. Voglio che sia di nuovo sabato scorso. Voglio aver risposto al telefono. Voglio averle parlato, averle detto che l'amavo, averle detto addio. Tutto il
corpo le doleva per lo sforzo di mantenere il controllo, ma la sola cosa che riuscì a liberare, di tutto quel maelstrom tenuto a stento sotto controllo con la forza della volontà, fu l'ira. — Qualcuno le ha fatto questo. In quell'università, qualcuno ha commesso la violazione estrema, lo stupro definitivo.
— All'università? — ripeté Celluci, sussultando. — Perché proprio all'università? — Lo hai detto tu stesso, la scienza. Non si può certo trattare di qualcuno che gestisce una fottuta drogheria. — Vicki si assestò ancora gli occhiali, poi si chinò in avanti e spazzò via i propri appunti dal tavolino da caffè, con tanta forza da sparpagliare i fogli fino alla porta dell'appartamento; in contrasto con quel comportamento, la sua voce acquistò intanto un rigido controllo, mentre aggiungeva: — Questo cambia tutto. Adesso possiamo
trovarla. Con riluttanza, Celluci le lasciò andare la mano. Vicki aveva accettato tutto il conforto di cui aveva bisogno. In silenzio, la guardò tirare verso di sé un foglio di carta bianco, sentendo il desiderio di scrollarla senza saperne con esattezza il perché. — D'accordo, sappiamo che il corpo è ancora in città, quindi sappiamo dove cercare quei vermi figli di puttana che le hanno fatto questo. — La punta della matita si spezzò contro la carta, e lei dovette lottare per reprimere l'impulso di conficcarla attraverso il tavolo. — Lei è in città. Loro sono in città. — Vicki — intervenne Henry, attraversando la stanza per inginocchiarsi al suo fianco. — Sei certa di dover fare questo proprio ora? — Cosa dovrei fare? Andare a dormire? — ribatté lei, e quando sollevò lo sguardo a incontrare il suo, Henry sentì la tensione presente nell'aria fargli rizzare i peli sulle braccia. Poteva udire il battito violento del cuore di lei, avvertire gli effetti dell'adrenalina che scorreva nel suo organismo. — No... — Ho bisogno di fare questo, Henry, ho bisogno di mettere insieme i fatti, di costruire da tutto questo una sorta di struttura, e ho bisogno di farlo adesso. — L'alternativa era implicita nel suo tono: Altrimenti questo mi divorerà fino a non lasciare niente di me. La mano che si posò per un istante appena su quella di lui era così calda che quasi scottava. Dal momento che non poteva fare niente altro, Henry annuì e si trasferì sulla sedia a dondolo, vicino alla porta, da dove poteva guardarla in faccia; per il momento le avrebbe permesso di fronteggiare a modo suo l'orrore e la rabbia che provava. Trovava interessante che Celluci non apparisse più soddisfatto di quanto lui stesso si sentisse.
Volevamo correre in suo soccorso e invece ci siamo ritrovati a vederci concedere il permesso di dare una mano. Per un cavaliere errante non è certo una posizione comoda in cui venirsi a trovare, rifletté, ma del resto Vicki non era una donna comoda da amare.
— D'accordo, spostando il punto focale dalla ricerca del corpo di mia madre alla ricerca delle persone che le hanno fatto questo, che cosa stiamo cercando? — continuò Vicki, e con la matita scrisse "cosa?" in cima al pezzo di carta. — Qualcuno che può resuscitare i morti. Escludendo una seconda venuta, dal momento che dubito si sia trattato di una cosa semplice come "alzati e cammina", dobbiamo rivolgerci alla scienza — proseguì. Sotto il titolo, scrisse quindi "uno scienziato", prima di passare a un altro foglio bianco, su cui annotò "dove?" Scivolando nei vecchi schemi di lavoro, Celluci si protese, dimentico della propria preoccupazione. — Tutto punta all'università. Primo, è là che si possono trovare degli scienziati; secondo, di questi tempi chi si può permettere un laboratorio privato? E soprattutto uno contenente le apparecchiature di cui devono aver avuto bisogno per... — cominciò. — Terzo — lo interruppe Vicki, perché l'ultima cosa che voleva affrontare in quel momento erano i dettagli di cosa era stato effettivamente fatto.
"Non l'ultima cosa" precisò una fievole voce, in un angolo della
sua mente.
— Terzo — ripeté, ricacciando indietro con violenza la propria certezza che se solo avesse risposto al telefono, in qualche modo sarebbe stato possibile prevenire tutto quello, — abbiamo già determinato che deve essersi trattato di qualcuno che sapeva delle sue condizioni di salute. Lei lavorava all'università, aveva là i suoi amici, e là si era sottoposta a dei test. Quarto, il campus è meno di dieci isolati a sud di South Division Street. Siamo vicini. Perfino una donna morta poteva arrivare qui a piedi — concluse, con una risata più isterica che divertita. — E quinto — aggiunse piano Henry, mentre Vicki lottava per riportare sotto controllo le proprie emozioni e il braccio di Celluci aleggiava impotente dietro la sua schiena, certo che lei avrebbe rifiutato ogni sostegno, ma incapace di astenersi dall'offrirlo, — ce n'è un altro, che questa notte si trovava nel campus. Vicki sollevò di scatto il mento, aiutata a ritrovare un po' di
distacco dalle parole di Henry, che le avevano ricordato come la cosa non fosse strettamente personale, e Celluci lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. Vicki trascrisse alla lettera le parole di Henry, poi prese un altro foglio bianco, che intitolò "perché?", e a questo punto dovette nuovamente lottare per ritrovare un certo distacco. — Almeno adesso sappiamo per che cosa volevano il corpo, ma perché proprio mia madre? Cos'aveva lei di tanto speciale? "Sapevano che stava per morire" avrebbe voluto replicare Celluci, ma non riuscendo a trovare un modo per formulare quell'affermazione senza spargere sale su emozioni già ferite e sanguinanti, trasse un profondo respiro e disse invece: — Vicki, perché non lasci che me ne occupi io? — E io intanto cosa dovrei fare? Aspergermi il capo di cenere? Fottiti, Celluci. Sapevano che lei stava per morire e avevano bisogno di un corpo fresco. Ecco, l'ho detto, quindi adesso possiamo proseguire. Con i nervi logorati quanto quelli di lei, Celluci scoccò un'occhiata dall'altra parte della stanza, in direzione di qualcuno che poteva comprenderlo, in un tacito Non volevo ferirla!
Lo so, comunicò lo sguardo di Henry, poi si spostò per un attimo
alla sinistra di Celluci, aggiungendo con la stessa chiarezza di altrettante parole scandite, e lo sa anche lei. — Non è stata effettuata un'autopsia — proseguì Vicki, la matita che riprendeva a muoversi. — Immagino che questo sia importante, se vuoi avere un corpo in grado di rialzarsi e di circolare. Con una diagnosi di morte entro sei mesi per arresto cardiaco, non c'è stato nessun bisogno di effettuare un'autopsia, quando mia madre ha avuto quell'attacco di cuore. Mi stavo chiedendo... — rifletté, sollevando lo sguardo con espressione accigliata. — Anche con quell'altro tizio hanno aspettato che morisse? Possiamo controllare il personale, verificare chi altri è morto di recente, vedere se c'è un collegamento con mia madre e procedere a ritroso. D'accordo — continuò, agitando con una mano i tre fogli di carta e facendo rimbalzare con l'altra la matita sulla gomma posta alla sua estremità. — Qui abbiamo il cosa, il dove e il perché... — La matita si arrestò mentre aggiungeva. — Non credo dobbiamo preoccuparci del come.
Un corpo steso su un tavolo, la sua ombra grottesca proiettata su una rozza parete di roccia. Sullo sfondo, strane apparecchiature e negli angoli oscurità, infranta dal tenue merletto grigio di una tela di ragno. In alto, una cupola gotica aperta alla notte: scoppia un tuono e un fulmine descrive un arco, scendendo dal cielo. E la Morte viene ricacciata indietro. — Vicki ? — Cosa vuoi? — esclamò lei, girandosi di scatto verso Celluci con gli occhi dilatati. — Niente — si schermì lui, perché adesso che aveva la sua attenzione, in realtà non sapeva con certezza come sfruttarla. — È solo che avevi un aspetto un po'... — Si trattenne dal concludere con un "tormentato", serrando i denti su quell'ultima parola. — Stanco — sopperì con disinvoltura Henry, riempiendo quella pausa. — Non credi che dovresti concederti un po' di sonno? — No, non abbiamo finito, e non intendo dormire finché non avremo finito — ribatté Vicki. Sapeva di suonare un po' frenetica, ma era arrivata al punto che la cosa non le importava più. — Allora, che cosa abbiamo sotto la voce chi? Uno scienziato, o un gruppo di scienziati dell'università, che sapevano che mia madre stava per morire e che hanno le conoscenze per ridare vita ai morti, oltre all'arroganza di usare tali conoscenze. — La maggior parte dei criminali è arrogante — dichiarò Celluci, abbandonandosi contro i cuscini del divano. — È questo che fa di loro dei criminali. Pensano che le leggi della società non si applichino anche a loro. — Molto profondo, detective — commentò Vicki, assestandosi gli occhiali, — ma questo non è certo come svaligiare il negozio all'angolo in cerca di denaro per pagarsi una birra. Ci serve un movente. — Se avessi la capacità di ridare vita ai morti, non credi che questo possa bastare come movente? — domandò Henry, i cui occhi si erano fatti di colpo molto cupi. — Stanno facendo questo perché possono farlo. Probabilmente non lo considerano neppure un crimine, ritengono che questa loro capacità quasi divina li ponga al
di sopra di simili meschine considerazioni. — Tu dovresti saperlo — sbuffò Celluci. — Sì. Quella singola sillaba fece rizzare i capelli sulla nuca di Celluci, inducendolo a rendersi tardivamente conto che nessuno poteva comprendere un abuso di potere meglio di chi condivideva quello stesso potenziale. Vicki ignorò entrambi, impegnata ad assestare i propri appunti in un mucchietto ordinato, con movimenti meccanici, a scatti. — Quindi dobbiamo cercare all'università uno scienziato arrogante con esperienza medica e informato del fatto che mia madre stava per morire. Sarà come trovare il proverbiale ago nel pagliaio. — Cosa mi dici del capo di tua madre? — suggerì Celluci, lottando per distogliere la propria attenzione da Henry Fitzroy e riportarla sul problema in esame. — La dottoressa Burke? Non credo proprio. Mia madre affermava che lei era l'amministratore più dotato per cui avesse mai lavorato, e questo non lascia molto tempo libero da passare a ridestare i morti. — E con ciò? Se ha firmato il certificato di morte, deve avere un dottorato in medicina, qualsiasi altra cosa possa essere. Sapeva che tua madre stava per morire e, come capo del dipartimento, era senza dubbio nella posizione più adatta per l'acquisto di attrezzature per un laboratorio segreto — insistette Celluci, affondandosi entrambe le mani nei capelli e cercando di costringere il proprio cervello stanco a funzionare ancora per un poco. — Lei è il punto da cui partire. — Ho un appuntamento con lei domattina. Vedrò cosa mi riesce di scoprire — replicò Vicki, in un tono da cui risultava evidente che non si aspettava di trovare granché.
— Vedremo cosa ci riesce di scoprire. — No, Mike — ribatté Vicki, scuotendo il capo. — Voglio che ti occupi di alcuni fili pendenti relativi al signor Chen. — Vicki, Tom Chen è un vicolo cieco.
Lei si girò di scatto a fissarlo, puntellandosi contro lo schienale del divano. — Può darsi che continui a essere la sola pista che abbiamo. Non ho bisogno di averti con me, Mike. — Non dovresti fare questo da sola. — Non lo sto facendo, a meno che tu non voglia tornare a casa. Celluci guardò verso Henry, che non gli fu di nessun aiuto.
— È ovvio che non intendo tornare a casa — ringhiò infine. La
resa poteva essere la sua sola alternativa, ma nulla gli imponeva di arrendersi con grazia. — Allora, adesso cosa facciamo? Con sua sorpresa, fu Henry a rispondergli.
— Dormiamo. Io non ho scelta in merito, perché è quasi l'alba e posso già avvertire il sole. Tu, detective, sei stato in piedi per tutta la notte e quanto a te, Vicki, posso sentire l'odore dei sonniferi che hai nell'organismo. Hai bisogno di dormire, se vuoi snebbiarti la mente dal loro effetto. — No, io... Henry la interruppe sollevando un sopracciglio con fare imperioso. — Qualche ora non farà nessuna differenza per tua madre, ma ne farà parecchia per te — ribadì, attraversando la stanza e porgendole la mano. — Se vuoi, posso farti dimenticare per qualche tempo. — Grazie, ma non voglio dimenticare — ribatté Vicki, però accettò la sua mano e si issò in piedi, frantumando ulteriormente un pezzo di porcellana sotto la suola della scarpa; le dita di lui erano fresche quanto quelle di Celluci erano state calde, e costituivano un'ancora di tipo diverso. — Nonostante quello che tutti e due sembrate pensare, sono perfettamente consapevole che massacrarmi di stanchezza non servirà affatto a trovare i bastardi che hanno fatto questo, quindi dormirò, mangerò, e poi... — L'ira e lo sfinimento, in pari misura, contribuirono a disintegrare il resto di quel pensiero mentre lei ancora lo stava formulando. Aggrappandosi al braccio di Henry, lo fissò in volto e aggiunse: — Non potrò aspettarti. Il tramonto è troppo dannatamente lontano.
— Troppo dannatamente lontano — ripeté lui, sfiorandole il volto con la mano libera. — Io stesso non avrei potuto dirlo meglio. Sii cauta, mentre non sono con te. — Il suo sguardo si spostò al di là della spalla di lei, a incontrare quello di Celluci, e precisò: — Siate cauti tutti e due. Donald fissò il vetrino e rimase a contemplare per un momento la macchia purpurea presente su di esso, prima di girarsi con un sospiro. — Cathy, non mi piace quello a cui stiamo andando incontro, qui — disse. — Problemi con il numero otto? — domandò Catherine, sollevando lo sguardo dal suo lavoro di dissezione, le mani affondate sotto uno degli organi in decomposizione del numero otto. — Il numero otto è a un punto tale che non può più darci problemi — sbuffò Donald. — Mi preoccupa di più il nostro dinamico duo, laggiù. Perplessa, Catherine sbirciò da sopra la mascherina chirurgica in direzione dei due contenitori d'isolamento in funzione. — Sono certa che tutti i danni che hanno subito la scorsa notte erano superficiali. Tu hai ricucito la lacerazione riportata dal numero nove, ed entrambi abbiamo verificato che non ci fossero sovraccarichi meccanici, poi ho regolato i livelli di sostanze nutrienti per compensare lo sforzo subito dalla ricostruzione batterica... — Non era questo che intendevo — la interruppe Donald, scartando una caramella, appallottolando la carta e lanciandola in direzione del cestino dei rifiuti. — Non credi che quei due siano usciti almeno un pochino dai parametri dell'esperimento? — Certo che no — dichiarò Catherine, posando un rene su un vassoio sterile. — Avremo bisogno di campioni di tessuto prelevati dagli altri, per un confronto. — Sì, sì, lo so. Fra un minuto tirerò fuori un ago per le biopsie, ma prima dobbiamo fare due chiacchiere su quella piccola
passeggiata della scorsa notte. Essa non aveva niente a che vedere con la Rigenerazione degli Organi mediante Batteri Adattati, e neppure con la Rianimazione del Corpo Umano mediante Batteri Adattati e Servomotori. — Di cosa stai parlando? Se quella della scorsa notte non era animazione, allora non so che cosa fosse. Se li vuoi più animati di così, allora devi rivolgerti alla Disney. — Era una battuta? — domandò Donald. — Perché se lo era, non era molto divertente. Non era previsto che lei tornasse a casa — continuò, indicando il contenitore di Marjory Nelson, — e quanto a lui... ecco, non era previsto che andasse da nessuna parte. Catherine scrollò le spalle, le mani di nuovo affondate nel corpo fino al polso. — È ovvio che fornendole le sue stesse onde cerebrali attraverso la rete neurale abbiamo stimolato ricordi sepolti. Considerato che quando era viva è tornata a casa a piedi dal Dipartimento di Scienze Naturali per anni, è stato soltanto logico che abbia seguito quella programmazione. Avremmo dovuto prevedere che questo sarebbe potuto succedere, e prendere delle precauzioni — proseguì, assumendo un tono di voce da conferenziera, molto simile a quello usato dalla dottoressa Burke. — Quanti più impulsi vengono inviati lungo una data traccia di memoria, tanto più facile diventa per impulsi successivi seguire quello stesso circuito. E considerato quanta fatica abbiamo fatto per insegnare al numero nove a seguirci, ritengo che dovresti essere soddisfatto che lui l'abbia seguita. Dopo tutto, eri tu a sostenere che lui non stava imparando niente. — Sì, certo, ma sono anche quello che dice che questa situazione non gli piace — ribatté Donald, mordendo con forza la caramella che aveva in bocca e frantumandola fra i denti. — Voglio dire... prova a immaginare che noi non stiamo semplicemente ricreando risposte fisiche. — Non so di cosa tu stia parlando — dichiarò Catherine, adagiando il secondo rene accanto al primo. — Sto parlando di anime, Cathy! — esclamò Donald, in tono d'un tratto più acuto. — Possibile che a causa di quello che noi
abbiamo fatto, Marjory Nelson sia tornata nel suo corpo? — Non essere ridicolo. Noi non stiamo riportando indietro la vecchia vita, ne stiamo creando di nuove, come mettere vino nuovo in otri vecchi. — È una cosa che non si dovrebbe fare — sottolineò Donald, in tono aspro. — Pare che il vino vecchio contamini quello nuovo. — Poi fece ruotare lo sgabello e si chinò sul microscopio, perché si era reso conto dell'inutilità di quella discussione: non c'era posto per l'anima, nel mondo di Cathy. E poi, forse aveva ragione lei. Dopo tutto, era un genio riconosciuto, e quello era il suo esperimento, lui era lì solo per curiosità, e naturalmente per il bonus finale.
Tuttavia, rifletté, tormentandosi il labbro inferiore fra i denti,
sgradevolmente consapevole degli interrogativi che giacevano nei due contenitori di isolamento alle sue spalle, sarei più contento se
sapessi che stiamo facendo un remake di Frankenstein, e non della Notte dei Morti Viventi. Un altro momento di riflessione servì a
ricordargli che anche Frankenstein non finiva in modo esattamente piacevole. O quello di una versione intermedia a lieto fine, si corresse quindi. Poteva sentire delle voci. La voce di lei, e quella di lui. Non riusciva a sentire cosa stavano dicendo, ma era in grado di udire i toni. Stavano discutendo. Ricordava la discussione, come finisse con le percosse, e con la sofferenza.
Lui discuteva spesso con lei. Il numero nove non... Non... Non lo gradiva. — Buon giorno, dottoressa Burke. Il caffè è pronto. — Bene. — La dottoressa Burke lasciò cadere la propria valigetta
accanto alla porta dell'ufficio interno e tornò indietro verso la caffettiera. — Lei mi salva la vita, signora Shaw. — Probabilmente non è buono come quando lo faceva Marjory — sospirò la signora Shaw. — Lei è sempre stata molto brava a fare il caffè. Volgendo le spalle alla stanza, la dottoressa Burke levò gli occhi al cielo e si chiese per quanto tempo ancora nel suo ufficio sarebbe andato avanti il melodramma del lutto. Due giorni in cui ogni rapporto, ogni memorandum e ogni piccolo documento consegnatole era stato accompagnato da parole di cordoglio le erano più che sufficienti. Presa la sua tazza, vi lasciò cadere tre abbondanti cucchiaini di zucchero, pensando che se solo l'università avesse mantenuto la promessa di mandarle un rimpiazzo temporaneo, o meglio ancora permanente, per Marjory Nelson, lei avrebbe potuto chiedere alla signora Shaw di prendersi qualche giorno di vacanza. Purtroppo, rifletté nel riempire la tazza di caffè con aria accigliata, gli ingranaggi accademici ruotano con geologica
lentezza.
Alle sue spalle, la signora Shaw accese la radio, dalla quale giunsero gli ultimi accordi di YMCA, dei Village People. Girandosi, la dottoressa indirizzò verso la radio il proprio cipiglio. — Se stanno facendo un'altra retrospettiva degli Anni Settanta, cambiamo stazione. Sono sopravvissuta una volta alla disco music, e non dovrei essere costretta a farlo di nuovo — commentò. "Questa è la CKVS FM, sono le nove ed eccovi il notiziario. La polizia non ha ancora nessun indizio in merito al feroce omicidio di uno studente QECVI, avvenuto la scorsa notte nel campus della Queen's University. L'unica testimone del crimine è sotto osservazione al Kingston General Hospital e non è stata ancora in grado di fornire alla polizia una descrizione accurata dell'assassino. Pur non essendo rimasta ferita fisicamente, secondo i dottori la giovane donna è in stato di shock. Sia la polizia sia il personale medico hanno riferito che finché non è stata sedata, lei ha continuato a urlare frasi come 'Lui era morto. Quel tizio sembrava morto'. Chiunque sia in possesso di informazioni relative a questo tragico incidente contatti il detective Fergusson, alla Centrale di
Polizia. "Altrove nella città..." — Non è orribile? — commentò la signora Shaw, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. — Quel povero giovane, stroncato nel fiore degli anni.
"Quel tizio sembrava morto." Le dita della dottoressa Burke si serrarono intorno al manico della tazza. È evidente che quella ragazza ha un 'immaginazione troppo fervida. Questo non ha nulla a che vedere con... — Le altre stazioni hanno dato un resoconto molto più completo. La ragazza ha detto che quell'uomo barcollava nel camminare, che aveva la pelle grigia e fredda, e che la sua espressione non è mai cambiata, mentre stava strangolando il suo ragazzo. Spaventoso. Semplicemente spaventoso — continuò la signora Shaw. — Ha detto come era vestito? — domandò la dottoressa, ripetendosi che era impossibile. — Abbigliamento sportivo di qualche tipo, credo una tuta. Dottoressa Burke? Dove sta andando? Dove stava andando? La dottoressa abbassò lo sguardo sul caffè, poi posò con fermezza la tazza sul mobiletto d'archivio, mentre già le dita dell'altra mano stavano stringendo la maniglia della porta con tanta forza da far sbiancare le nocche; per fortuna, in ufficio nessuno si aspettava di vederla sorridere. — Mi sono appena ricordata che la scorsa notte ho lasciato un laureando a verificare un programma e che gli avevo promesso di dare un'occhiata questa mattina. Non so perché mi prendo tanto disturbo, dato che lui continua a fare errori. — Se lo prende perché spera sempre che riescano a correggersi — sorrise la signora Shaw, scuotendo il capo, poi il suo sorriso svanì mentre aggiungeva: — La figlia di Marjory deve passare a trovarla questa mattina. La figlia di Marjory Nelson, l'ex— detective, l'investigatore privato, era l'ultima persona con cui la dottoressa Burke desiderava parlare, in quel preciso momento.
— Le porga le mie scuse e... no. Se dovesse arrivare in mia assenza, le chieda di attendere. Tornerò il più in fretta possibile — decise, pensando che era meglio sapere in che direzione la signorina Nelson stava indirizzando le ricerche del corpo di sua madre. Le informazioni erano sapere, l'ignoranza conteneva il potenziale per andare incontro al disastro. — La scorsa notte un ragazzo è stato ucciso nel campus. Voi due non ne sapete nulla? Donald si girò così in fretta che per poco non cadde dallo sgabello. — Dottoressa Burke! Mi ha spaventato! La dottoressa avanzò di un altro passo nel laboratorio, con un muscolo che le si contraeva lungo la mascella e gli occhi socchiusi dietro gli occhiali. — Rispondi alla domanda — ingiunse. — La domanda? — Donald si accigliò, con il cuore che ancora gli martellava nel petto, e cercò di estrapolare dallo spavento le parole che aveva sentito. Un ragazzo è stato ucciso la scorsa notte. — Oh, merda — mormorò, rivedendo con l'occhio della mente il numero nove che avanzava barcollando sotto la luce, mentre delle urla echeggiavano dietro un edificio. — Cosa... cosa le fa pensare che ne sappiamo qualcosa? — Non sparare balle con me, Donald — ribatté la dottoressa Burke, usando quel tono di voce che riusciva a ottenere attenzione anche dall'ultima fila, in una sala conferenze da settecentocinquanta posti. — C'era una testimone, e la descrizione che ha fornito è un ritratto piuttosto accurato del numero nove, quindi quello che voglio sapere... — continuò, calando il palmo sul tavolo con uno schiocco che echeggiò come un colpo di fucile, — è cosa diavolo sta succedendo qui sotto. — Non lo ha fatto di proposito — intervenne Catherine, alzandosi con grazia da dietro il contenitore di isolamento del numero nove e appoggiando con leggerezza entrambe le mani sul coperchio.
— Mi stavo chiedendo dove fossi — ringhiò la dottoressa Burke, girandosi con le narici dilatate, perché la calma della ragazza stava ulteriormente alimentando la sua furia, e indicando il contenitore con un gesto tagliente. — Dal momento che, essendo morto, non ha capacità di intenti, lui non ha bisogno di difendersi, ma voi due non avete una scusante del genere, quindi cominciamo dallo spiegare perché gli esperimenti sono stati portati fuori del laboratorio. — Uh... non lo sono stati — azzardò Donald, poi si schiarì la voce nel trovarsi oggetto dello sguardo da basilisco della dottoressa, ma continuò a parlare, perché non aveva intenzione di essere accusato di qualcosa che non era colpa sua. — Se ne sono andati di loro iniziativa. — Se ne sono andati di loro iniziativa? — ripeté la dottoressa, in un tono che era tutt'altro che rassicurante. — Hanno semplicemente deciso di alzarsi e di andare a fare una salutare passeggiata serale, vero? — proseguì, con la voce che andava salendo di volume fino a rimbalzare contro le pareti. — Per che razza di idiota mi prendi? — Ha ragione — ribadì Catherine, a testa alta. — Abbiamo chiuso la porta alle nostre spalle, e quando siamo tornati era stata aperta dall'interno, e loro se n'erano andati. Abbiamo trovato il numero nove che girovagava per il campus — proseguì, accarezzando il contenitore in un gesto confortante, — mentre abbiamo trovato il numero dieci fuori dal condominio in cui abitava quando era Marjory Nelson. — È andata a casa — aggiunse Donald. — Sta solo seguendo una vecchia programmazione — sospirò Catherine. — Tu non hai visto la sua faccia, Cathy. — Non ne ho bisogno, conosco i parametri dell'esperimento. — Ecco, allora forse i parametri sono cambiati! — Tacete, tutti e due! — Occhi grigi che si aprivano di colpo, dilatandosi in un istante di riconoscimento. La dottoressa Burke chiuse gli occhi per un momento, e quando infine li riaprì borbottò: — Forse tutto questo si è spinto troppo oltre.
— Che cosa? — domandò Catherine, accigliandosi. — Tutto quanto. — Ma, dottoressa Burke, lei non capisce. Se ha ucciso quel ragazzo, il numero nove ha agito di sua iniziativa, quella non era una cosa che noi avessimo inserito nella programmazione. Lui sta
imparando.
— Significa che lui... esso... ha ucciso qualcuno, Catherine. Quel ragazzo è morto. — Ecco, sì, è un vero peccato, ma non possiamo fare niente per riportarlo indietro. — Catherine si interruppe, soppesando le possibilità, poi si accigliò e scosse il capo, commentando: — No, è troppo tardi. Però — proseguì, rimettendo a fuoco lo sguardo, — possiamo esplorare e sviluppare questi nuovi dati. Non capisce? Il numero nove deve aver cominciato a pensare. Il suo cervello sta funzionando di nuovo! — Cathy! — esplose Donald, saltando giù dallo sgabello e avanzando verso di lei con l'incredulità dipinta sul volto. — Sei tu a non capire. Un tizio è morto. Questo pezzetto del tuo esperimento è un assassino — continuò, calando la mano sul contenitore del numero nove, — e quest'altro è... è... Non riusciva a trovare le parole. No, questo non era del tutto vero, perché conosceva le parole adatte, ma non riusciva a proferirle, perché se le avesse enunciate, avrebbe potuto crederci. — Ha ragione, dottoressa Burke. Tutto questo è andato troppo oltre. Dobbiamo chiudere tutto e andarcene da qui prima che la polizia rintracci il numero nove qui nel suo covo! — Taci, Donald, sei isterico. La polizia non crede che un morto stia andando in giro a commettere omicidi, ed è improbabile che ci creda in futuro. — Ma... La dottoressa Burke lo zittì con un'occhiata, la sua personale crisi di coscienza già dimenticata alla luce di quelle nuove informazioni. In effetti, non aveva considerato l'incidente dal punto di vista dei risultati sperimentali, mentre tutto quello poteva indicare un
gigantesco passo in avanti. — Se il numero nove sta davvero pensando, Catherine, non mi piace quello che sta pensando. — Ecco, sì, ma sta pensando — protestò Catherine, mentre due chiazze di colore le apparivano sulle guance. — Non è questa la cosa importante? — Forse — concesse la dottoressa. — Sempre che si tratti davvero di pensiero e non di mera reazione agli stimoli. Dovremo elaborare tutta una nuova serie di test. — Ma, dottoressa Burke, quel ragazzo è morto! — tentò ancora Donald, pur deglutendo a fatica. — Dove vuoi andare a parare? — Dobbiamo fare qualcosa! — Cosa? Costituirci? — La dottoressa catturò lo sguardo di lui con il proprio, e dopo un momento abbozzò un mezzo sorriso, continuando: — Non credo proprio. Terminare l'esperimento? Questo non lo riporterebbe in vita. Detto questo — proseguì, squadrando le spalle, — sono molto seccata per la vostra disattenzione. Accertatevi che questo non accada di nuovo, e tirateli fuori dai loro contenitori soltanto quando è assolutamente necessario, senza mai lasciarli soli e non confinati. Avete eseguito un EEG del numero nove, dopo quanto è successo? — No, dottoressa — ammise Catherine, arrossendo ancora di più. — Perché no? — Il numero otto è morto durante la notte, e abbiamo dovuto cominciare... — Il numero otto è morto da tempo, Catherine, e non andrà da nessuna parte. Esegui quell'EEG, subito. Se là dentro ci sono schemi di onde cerebrali, voglio che siano registrati. — Donald? — Cosa mi dice di lei? — chiese Donald, accennando al secondo contenitore. — Possibile che... che...
Possibile che abbiamo intrappolato l'anima di Marjory Nelson? La
dottoressa Burke gli lesse in volto quelle parole, le sentì sussurrare nel silenzio, e rifiutò di condividere la paura del giovane. — Noi siamo qui per dare risposta ai "possibile che", Donald. È questo che fanno gli scienziati. E adesso — aggiunse, guardando l'orologio, — ho un appuntamento con la figlia di Marjory Nelson. — Arrivata alla porta, si soffermò e si girò di nuovo verso il laboratorio, ammonendo: — Ricordate, ancora una cosa che vada storta, e dovremo ridurre al minimo le nostre perdite. Donald trasse un lungo respiro tremante. La situazione si stava facendo un po' troppo pericolosa per i suoi gusti. Forse era tempo che anche lui cominciasse a pensare a ridurre al minimo le sue perdite. — Riesci a crederci, Cathy? Un tizio viene ucciso, e lei è seccata — commentò. Catherine lo ignorò, interamente concentrata sui colpi soffocati che provenivano dall'interno del contenitore che aveva davanti. Non le piaceva la piega che le cose stavano prendendo. Di certo la dottoressa Burke si rendeva conto di quanto fosse importante che il numero nove stesse acquisendo indipendenza e di quanto fosse vitale proteggere l'integrità dell'esperimento. Cosa c'entravano le carriere, con quello? No, non le piaceva affatto la piega presa dalle cose. — Non gli piace rimanere confinato — fu però tutto quello che disse.
Figlia. La parola filtrò attraverso il ronzio dei macchinari e le proprietà di isolamento acustico del contenitore stesso, e lei se ne servì per districare l'estremità di un filo dalla massa ingarbugliata della sua memoria. Aveva una figlia. C'era qualcosa che doveva fare.
Capitolo ottavo Incapace di rimanere ferma, Vicki stava camminando avanti e indietro per l'ufficio esterno, sgradevolmente consapevole dello sguardo compassionevole e lacrimoso della signora Shaw che seguiva ogni sua mossa. Non aveva bisogno di compassione, ma di informazioni. D'accordo, doveva ammettere di non aver reagito molto bene quando le era stata offerta la scatola contenente gli effetti personali di sua madre, ma questo non era un motivo sufficiente perché la signora Shaw dovesse saltare a conclusioni di qualsiasi tipo; se l'ultima annotazione sull'agenda non fosse stata Chiamare Vicki, non ci sarebbero stati problemi. — Gradirebbe una tazza di caffè, cara? — No, grazie — rifiutò Vicki; in realtà, avrebbe gradito immensamente il caffè, ma non tollerava l'idea di berlo nella tazza di sua madre. — La dottoressa Burke tarderà molto? — Non credo. Doveva solo controllare il lavoro di uno dei suoi laureandi. — Laureandi? Che cosa insegna? — Oh, in realtà non insegna, si limita a prendere sotto la sua ala protettrice alcuni dei laureandi e degli specializzandi e ad aiutarli. — Studenti di medicina? — Non lo so per certo — replicò la signora Shaw, prendendo un altro fazzolettino per tamponarsi gli occhi. — Sua madre lo avrebbe saputo. Lei era la segretaria personale della dottoressa Burke.
Mia madre non è qui, pensò Vicki, ma cercò di non far trasparire
quella riflessione dal proprio volto, dato che l'emozione che la accompagnava non era tanto dolore quanto irritazione. — Sua madre rispettava molto la dottoressa Burke — continuò la
signora Shaw, lanciando una malinconica occhiata verso la scrivania vuota. — Sembra una persona degna di rispetto — la bloccò Vicki, prima che potesse travolgerla con una piena di lacrimosi ricordi. — Quante lauree ha? Due? — Tre. Dottore in medicina, dottore in scienze commerciali e un dottorato in chimica organica. Sua madre diceva sempre che averla assunta per dirigere questo dipartimento era la cosa più intelligente che l'università avesse mai fatto. La maggior parte degli accademici non vale granché come amministratore, e in genere gli amministratori sono del tutto insensibili alle esigenze degli accademici. Sua madre definiva la dottoressa Burke un ponte fra due mondi.
Perché diavolo continua a riportare il discorso su mia madre? si
chiese Vicki, mentre la signora Shaw faceva fronte a tre telefonate in rapida successione. — Sì, Professor Irving, farò in modo che lei riceva il suo messaggio non appena rientra — disse la signora Shaw, poi lasciò ricadere la cornetta sul suo sostegno e sospirò. — Va avanti così per tutto il giorno. Vogliono tutti una fetta della sua attenzione. — Immagino che questo non le lasci molto tempo per il lavoro di laboratorio. — Lavoro di laboratorio? Ha a stento il tempo di mangiare qualcosa prima che qualcuno abbia di nuovo bisogno di lei — dichiarò la signora Shaw, battendo un colpetto sul mucchio di promemoria, già notevole prima dell'aggiunta degli ultimi tre, poi la voce le si fece più dura mentre proseguiva: — La costringono a correre da una riunione all'altra, risolvendo un problema dopo l'altro, la seppelliscono sotto moduli, studi e rapporti, uno annuale, l'altro semestrale, un altro quindicinale e un altro ancora... — E Dio solo sa come farò a emergere da sotto quella montagna senza l'aiuto di sua madre. La signora Shaw arrossì, e Vicki si girò. — Mi dispiace di averla fatta attendere, signorina Nelson — continuò la dottoressa Burke, attraversando la stanza e protendendo
una mano per farsi dare i promemoria, — ma come ha già sentito, sono molto impegnata. — Non è stato un problema, dottoressa. — Qualcosa in quella robusta figura in candido camice da laboratorio aveva su di lei un effetto calmante, e Vicki obbedì al gesto che la invitava a passare nell'ufficio interno sentendosi più controllata di quanto fosse stata da giorni. Improvvisamente ricordò come sua madre le avesse descritto il suo nuovo capo, poco dopo che la dottoressa Burke era subentrata come capo del dipartimento, asserendo che lei era così sicura di sé che in sua presenza si perdeva la necessità di mettere in discussione qualsiasi cosa. A quel tempo lei ne aveva riso, ma adesso riteneva di riuscire a capire cosa sua madre avesse inteso dire. Lei stessa aveva risentito in certa misura di quell'effetto, all'inizio della settimana: era stata la dottoressa Burke ad aiutarla a rimanere aggrappata alla realtà e a indirizzarla all'obitorio dell'ospedale, ed era stato alla dottoressa Burke che lei si era rivolta per l'elogio funebre. Prima che scoprissero che esso non sarebbe stato necessario. Mentre Vicki prendeva posto su una delle sedie di legno e cuoio, la dottoressa Burke aggirò la scrivania e si sedette, lasciando cadere in un mucchietto ordinato la dozzina circa di foglietti quadrati rosa. — Di solito non mi richiedono così tanto — spiegò, — ma siamo alla fine del trimestre, e stupidaggini burocratiche di cui ci si sarebbe dovuti occupare già da mesi devono essere sbrigate immediatamente. — Non può delegare qualcosa? — Scienza e Amministrazione parlano due linguaggi differenti, signorina Nelson. Se delegassi qualcosa, finirei per dover fare da interprete. Francamente, è molto più facile provvedere di persona. Vicki riconobbe il suo tono, perché lei stessa lo aveva usato, in un paio di occasioni. — Immagino che preferirebbe essere... non so, ad armeggiare con delle provette, o qualcosa del genere, vero? — commentò. — Per nulla — sorrise la dottoressa Burke, con una sincerità che era impossibile mettere in discussione. — Mi piace moltissimo gestire la vita delle altre persone, provvedere a che ogni singolo
ingranaggio di una macchina molto complicata continui a funzionare nel posto assegnatogli. — Sarebbe stato più esatto dire, nel posto che io gli ho assegnato, ma la dottoressa Burke non aveva nessuna intenzione di lasciar trasparire così tanto del suo carattere. Adesso
che abbiamo stabilito che mi piace il mio lavoro, vogliamo andare avanti con le indagini, signorina Nelson? — La signora Shaw mi ha
accennato che lei voleva farmi delle domande in merito ai test a cui ho sottoposto sua madre.
— Esatto. — Una precedente telefonata alla dottoressa Friedman aveva accertato che lei era stata al corrente di quei test, quindi essi non avevano probabilmente nulla a che vedere con... con il risultato finale, però erano un punto da cui partire. — Suppongo avessero a che fare con i suoi problemi cardiaci — affermò, estraendo dalle profondità della sua borsa un blocco per appunti e una penna. — Sì. Anche se non pratico più la medicina da qualche tempo, sono comunque un medico, e sua madre, comprensibilmente sconvolta, voleva un altro parere. — E lei cosa le ha detto? — Che senza un intervento di chirurgia correttiva le restavano forse sei mesi di vita. Più o meno la stessa diagnosi del suo medico personale. — Perché non si è sottoposta all'intervento? — Non è così facile — affermò la dottoressa Burke, appoggiandosi allo schienale della sedia e intrecciando le dita sullo stomaco. — Ci sono sempre delle liste di attesa per gli interventi di alta chirurgia, soprattutto per i trapianti, il che era ciò di cui sua madre avrebbe avuto bisogno, e con i tagli al bilancio... La penna di Vicki trapassò il foglio di carta. — È la stessa spiegazione che mi ha dato la dottoressa Friedman — affermò a denti stretti. Mia madre potrebbe essere morta per dei fottuti, dannati tagli al bilancio, pensò, mentre aggiungeva: — Mi piacerebbe poter vedere delle copie. — Dei test? Non ne ho tenute. Ho dato le copie a sua madre che, suppongo, deve averle date alla sua dottoressa, ma non ho ritenuto ci fosse motivo di tenerne per me — replicò la dottoressa Burke,
accigliandosi. — Ho fatto per lei quello che potevo. Dubita della mia diagnosi, signorina Nelson? — No, certamente no. — Tu eri qui per aiutarla, e io non c'ero, ma adesso non è questo il problema. — Chi altri sapeva dei test? — Perché? Vicki non rimase sorpresa di quella domanda, perché si rendeva conto che essa era soprattutto una reazione al suo tono aggressivo. Lei stessa avrebbe potuto reagire in quel modo, se qualcuno le avesse sbattuto in faccia una domanda con tanta violenza. Tecnica d'interrogatorio davvero brillante, Nelson, si rimproverò. Hai dimenticato tutto quello che hai imparato? Forse, avrebbe dovuto davvero portare con sé Celluci, forse non stava pensando con chiarezza. No, si disse, non ho bisogno che lui mi tenga la mano. Non è la prima volta che lavoro nonostante l'ira. Lei era stata uno dei migliori della sua classe, la ragazza bionda della Polizia Metropolitana. Traendo un profondo respiro, lottò per ritrovare una parvenza di professionalità. — Il corpo di mia madre è scomparso, dottoressa Burke, io intendo ritrovarlo, e qualsiasi informazione che lei possa darmi non può che essermi di aiuto. — Lei crede che il suo corpo sia stato preso da qualcuno che sapeva che lei stava per morire? — ribatté la dottoressa Burke, protendendosi in avanti, entrambe le mani posate sul piano della scrivania. Celluci sosteneva sempre che lei non sapeva mentire; nel guardare negli occhi la sua interlocutrice, Vicki decise di non tentare neppure di farlo. — Sì. È esattamente quello che penso — dichiarò. La dottoressa Burke trattenne il suo sguardo per un momento, poi tornò ad appoggiarsi allo schienale. — A parte me e la dottoressa Friedman, posso fare con certezza solo il nome della signora Shaw, anche se è probabile che l'infermiera della dottoressa Friedman fosse al corrente della cosa. Io non l'ho detto a nessuno, la signora Shaw potrebbe averlo fatto, e naturalmente sua madre potrebbe averne parlato con degli amici.
— Lei non ne ha mai parlato con me — ringhiò Vicki, poi serrò le labbra, timorosa di che altro le sarebbe potuto sfuggire, considerato che non era stata sua intenzione dire quelle parole. — Dato che abbiamo utilizzato le apparecchiature dell'università — continuò intanto la dottoressa Burke, ignorando cortesemente il suo sfogo, — lei capisce che non posso garantire che nessun altro sapesse dei test. — Sì. — Una risposta di una singola parola sembrava abbastanza scevra da rischi; purtroppo, dovette usarne altre, e ogni sillaba successiva le uscì di bocca con un tono più acceso della precedente, senza che lei potesse fare nulla al riguardo. — Ho bisogno di parlare con quei membri del suo dipartimento con cui mia madre entrava di frequente in contatto. — Cioè con tutti — commentò in tono asciutto la dottoressa Burke. — Di certo non riterrà che il responsabile sia qualcuno di questo dipartimento, vero? — I suoi membri sembrano essere le prime persone da controllare, non trova?
Rispondere a una domanda con un 'altra domanda. Bel tentativo, signorina Nelson, ma non ho nessuna intenzione di cedere il controllo della conversazione. — Mi interesserebbe davvero sapere il motivo per cui pensa questo. Dal momento che le sue motivazioni si basavano esclusivamente su una visita nel cuore della notte di cui lei non aveva nessuna intenzione di fare parola, Vicki si trovò momentaneamente a non sapere cosa replicare. — I membri del suo dipartimento sono degli scienziati — affermò infine. — E perché mai uno scienziato avrebbe dovuto impossessarsi del corpo di sua madre? — ribatté la dottoressa Burke, mantenendo un'espressione neutra mentre prendeva mentalmente Donald a calci nel sedere. Sapeva che non si poteva pretendere che Catherine prendesse in
considerazione gli aspetti più concreti della situazione, ma si era aspettata di meglio da Donald. Era evidente che la piccola passeggiata della notte precedente era stata notata, perché soltanto la consapevolezza che una donna morta stava andando in giro con i suoi piedi poteva spiegare l'improvvisa, ostinata certezza che il responsabile fosse qualcuno dell'università. — Potrebbe altrettanto facilmente essere stato un amante respinto — continuò. — Ha considerato questa possibilità? — Lei non aveva amanti, respinti o meno — ringhiò Vicki. Dietro una maschera di cortese contrizione, la dottoressa Burke godette di quell'ovvia reazione. Era naturale, le madri non avevano mai un amante. — Allora questo ci riporta ai miei scienziati — proseguì ad alta voce. — Vuole che chieda alla signora Shaw di fare qualche telefonata per suo conto e di fissarle degli appuntamenti? — Quella era una grande università, ed era possibile farla diventare ancora più grande. — Se lo facesse gliene sarei grata — accettò Vicki che era stata sul punto di richiedere quel genere di assistenza, consapevole che avrebbe potuto permetterle di risparmiare tempo nel groviglio della burocrazia accademica; il fatto che la dottoressa Burke rimanesse sulla lista dei potenziali sospetti non sminuiva affatto il valore del suo aiuto e anzi, il modo in cui esso fosse stato fornito avrebbe potuto essere utilizzato come prova ulteriore. — Ho bisogno di parlare con i membri della facoltà di medicina — proseguì, decidendo di partire dai sospetti più ovvi. In seguito, se necessario, avrebbe allargato il cerchio delle ricerche, anche a costo di fare a pezzi quella dannata università, un blocco di calcare dopo l'altro. — Farò il possibile. Se posso darle un suggerimento, sua madre era molto amica di un certo dottor Devlin, un biologo cellulare. — E
parlare con quel vecchio reprobo irlandese dovrebbe tenerti impegnata per giorni a separare i fatti dalle fantasie. — In effetti, lui
risponde a entrambe le nostre teorie, dato che credo le fosse molto affezionato.
— Entrambe le nostre teorie?
— Quella dello scienziato e dell'amante respinto. Per un momento appena, Vicki si chiese se sua madre non avesse davvero avuto una relazione con qualcuno che aveva rifiutato di arrendersi davanti alla morte, si chiese se un distorto sentimento d'amore non avesse spinto qualcuno a cercare di forzare un ritorno alla vita e a creare quella parodia di sua madre che lei aveva visto alla finestra. No, impossibile, si disse. Henry ha detto che ce n'era un
altro, e poi lei me lo avrebbe detto, se avesse conosciuto qualcuno. Come ti ha detto dei suoi problemi cardiaci? ribatté una vocetta interiore.
Nell'osservare la tempesta emotiva che traspariva dal volto della sua visitatrice, la dottoressa Burke decise che l'esperimento non correva un immediato pericolo. Anche se la sfortunata breccia nelle misure di sicurezza verificatasi la notte precedente aveva portato la signorina Nelson più vicina alla verità, a conti fatti, essere vicini non era sufficiente. E adesso le ho dato qualcosa di nuovo su cui
riflettere. Il dottor Devlin si troverà ad affrontare un colloquio davvero interessante. E quando quella pista si fosse esaurita, sarebbe
stato sempre possibile trovarne un'altra, altrettanto a fondo cieco.
Nel frattempo, era evidente anche agli occhi di un osservatore meno attento e coinvolto di quanto lei fosse, che la figlia di Marjory Nelson stava correndo sul filo di un precario equilibrio fra un rigido controllo e un crollo completo, uno stato emotivo che poteva soltanto intralciare un'indagine oggettiva e che creava una situazione facile da sfruttare. — È incredibile quanto lei somigli a sua madre — mormorò, come se stesse parlando con se stessa. — Io? — domandò Vicki, sussultando. — Lei è più alta, naturalmente, e sua madre non portava gli occhiali, ma la linea della mascella è identica, e anche la sua bocca si muove come faceva quella di sua madre.
Faceva... Il volto di sua madre emerse dalla sua memoria, con una
lastra di vetro che le separava e la bocca di lei che si muoveva in silenzio. — E avete anche gli stessi atteggiamenti.
Vicki lottò disperatamente per bandire dalla mente l'immagine dell'orrore che sua madre era diventata e sostituirla con un altro ricordo, quello di un telo che veniva sollevato, del pallore cereo della morte, dell'odore di prodotti chimici dell'obitorio dell'ospedale... nel ricordo ancora antecedente, un telefono suonava senza che nessuno rispondesse. — Signorina Nelson? Si sente bene? — Sto bene. — Quelle parole erano un avvertimento. La dottoressa Burke si alzò in piedi, celando dietro una maschera di cortese rammarico la propria soddisfazione. — Se non ha altre domande, temo di avere una lista di riunioni lunga quanto il mio braccio. Chiederò alla signora Shaw di prenderle quegli appuntamenti. Vicki ripose nella borsa il blocco per gli appunti e si alzò a sua volta, assestandosi gli occhiali. — Grazie — disse, costringendo la propria bocca a formulare le frasi convenzionali. — E grazie per il tempo che mi ha dedicato questa mattina. Con la borsa in spalla, si diresse in fretta verso la porta. Non sapeva e non le importava di sapere se aveva appurato tutto quello che le interessava, voleva solo uscire da quell'ufficio, da quell'edificio, voleva trovarsi in un posto dove nessuno conoscesse sua madre, dove nessuno potesse vedere sul suo volto l'immagine di una morta. — Signorina Nelson? Noi tutti, qui, sentiamo la mancanza di sua madre — aggiunse la dottoressa Burke, con l'intenzione di sferrare un colpo di commiato a delle difese già danneggiate, ma nel parlare si rese conto con sorpresa che quanto stava dicendo era vero, e invece di affondare il coltello si limitò a concludere: — L'ufficio sembra vuoto, senza di lei. Già quasi oltre la porta, Vicki si girò e rispose a quell'osservazione con un semplice cenno del capo, perché non si fidava di parlare e stava desiderando, in quel singolo momento, di aver dato ascolto a Celluci e di non essere andata là da sola.
La dottoressa Burke allargò le mani, e mentre la sua voce prendeva le cadenze di una benedizione, aggiunse: — Le garantisco che non ha sofferto, alla fine. — No, detective, nessuna delle persone in queste fotografie è il Tom Chen che lavorava da noi. — È sicuro anche riguardo a questo? — insistette Celluci, tirando fuori dal mucchio la fotografia del Tom Chen che studiava medicina. — Assolutamente. Il nostro signor Chen aveva i capelli più lunghi, gli zigomi più marcati e una linea delle sopracciglia del tutto diversa. In questo lavoro, rimodelliamo una quantità di facce, detective — continuò il più giovane dei due Hutchinson, in risposta alla silenziosa domanda di Celluci, — e ci abituiamo a notare le caratteristiche dominanti di un volto. — Già, immagino sia così — annuì Celluci, nel riporre le fotografie sgranate in bianco e nero nella grande busta gialla. Tom Chen, o come si chiamava veramente, non stava frequentando attualmente la facoltà di medicina, e neppure vi si era laureato nell'arco degli ultimi tre anni. Il detective Fergusson era stato più che disposto a chiamare l'ufficio di registrazione del campus e a chiedere che fornissero quelle fotografie. — Non c'è problema — aveva dichiarato con assoluta mancanza di sincerità. — Non ho difficoltà ad assecondare l'ex— detective Nelson nella sua caccia al cadavere. — Attraverso il telefono era giunto il suono inconfondibile di un sorso di caffè bollente che veniva bevuto in una tazza di cartone. — Ha sentito il notiziario, questa mattina? Metà degli effettivi della polizia è a letto con una sorta di influenza primaverile, e un qualche idiota comincia a strangolare giovani amanti. Abbiamo una testimone isterica che, se vuole il mio parere, deve aver visto troppe volte il video "Thriller" di Michael Jackson, e non ho bisogno di dirle che quanto più è fresco il cadavere, tanto più alta è la priorità. Se una telefonata può bastare a far contenta la sua ragazza e a tenermela lontana mentre mi occupo di questo nuovo caso, varrà la pena di impegnare i due minuti che
mi ci vorranno per farla. Celluci si era sentito tentato di dirgli che le due cose erano collegate, in un ultimo tentativo di fare ricorso alla legge e all'ordine a scapito di ciò che Vicki e Fitzroy stavano dispensando, qualsiasi cosa fosse, ma all'ultimo minuto aveva deciso che era meglio non farlo. Il suo assassino è un cadavere rianimato, detective. Come faccio a saperlo? Me lo ha detto un vampiro. Kingston aveva un grande ospedale psichiatrico, e lui non aveva nessuna intenzione di finire a visitarlo. Nel frattempo, la ricerca di Igor non stava facendo progressi. — D'accordo, signor Hutchinson — riprese, decidendo che era ora di tentare da una diversa angolazione, — lei mi ha detto che tutti gli impresari di pompe funebri devono prestare servizio come osservatori presso un'impresa di pompe funebri per un periodo di quattro settimane, prima di essere accettati in un programma di addestramento. — Esatto — confermò il giovane Hutchinson, appoggiandosi allo schienale della sedia. — E da dove arrivano questi osservatori? — Da quanti hanno presentato domanda per partecipare al programma, presso l'Humber College di Toronto. — Quindi questo giovanotto, chiunque fosse, deve aver presentato domanda per il programma? — Oh, sì, e deve aver superato un colloquio. Quelli delle Scienze della Salute si sforzano in ogni modo di eliminare alla radice i candidati inadatti, prima di mandarli a svolgere l'osservazione. — Quindi — osservò Celluci, accigliandosi, — è stato solo un caso che Ig... chiamiamolo Tom Chen, non avendo un altro nome, sia finito qui? — No, affatto. Ha chiesto lui di venire da noi. Ha detto di essere rimasto colpito dal modo in cui ci eravamo occupati del funerale di sua zia, anni fa, e di voler lavorare con noi. Immagino fosse tutto inventato — sospirò il signor Hutchinson, — ma a quell'epoca ci siamo sentiti adulati e abbiamo acconsentito a prenderlo con noi.
Era un tipo molto gradevole, ed era simpatico a tutti. — Già, ecco, tutti fanno un errore di valutazione, prima o poi — commentò Celluci, finendo di scribacchiare un appunto per ricordarsi di chiamare l'Humber College, poi si mise in tasca il blocco per gli appunti e si alzò in piedi, lieto di uscire di lì. Le imprese di pompe funebri, con i loro tappeti, i fiori e il mobilio disposto con gusto, gli mettevano i brividi. — Al suo posto non mi preoccuperei. Immagino non abbiate molte opportunità di esercitarvi in valutazioni caratteriali. Il signor Hutchinson si alzò con fare gelido. — I nostri servizi sono a beneficio dei viventi, detective — ribatté, — e le assicuro che la nostra capacità di valutazione caratteriale è pari a quella del dipartimento di polizia. Buon giorno. Dal momento che non aveva altre domande da porre, Celluci accettò di essere congedato. Una volta fuori, sbuffò e si diresse verso la più vicina fermata dell'autobus, perché alla luce del fatto che le abitudini di spostamento del sospetto erano il loro solo indizio concreto, aveva lasciato la sua auto nel parcheggio del condominio. "Le assicuro che la nostra capacità di valutazione caratteriale è pari a quella del dipartimento di polizia" — ripeté fra sé, mentre cercava in tasca degli spiccioli. — Siamo un po' troppo sensibili su questo tasto, vero? — D'altro canto, era logico supporre che gli impresari delle pompe funebri fossero stanchi degli stereotipi quanto lo erano i funzionari di polizia, e che quindi quel commento non fosse stato del tutto immeritato. Salito sull'autobus di Johnson Street, lanciò un'occhiata al sedile antistante la porta posteriore, nella speranza di trovarvi un giovane maschio orientale intento a mangiare caramelle, ma il sedile era vuoto. — È logico che lo sia — borbottò, occupando lui stesso quel posto, — altrimenti sarebbe troppo facile. — Omicidi, detective Graham. — Perché diavolo non sei fuori a lavorare? Gesù, non ti posso togliere gli occhi di dosso per un secondo.
— Ciao, Mike. Anch'io sento la tua mancanza. Sorridendo, Celluci incastrò il telefono contro la spalla. — Senti, Dave, ho bisogno che tu mi faccia un favore — disse. All'altra estremità della linea, il suo collega sospirò con forza sufficiente a far tremare i cavi fra Toronto e Kingston. — Questo è ovvio. Altrimenti, per quale motivo avresti chiamato? — Voglio che contatti l'Humber College e parli con qualcuno delle Scienze della Salute a proposito di un Tom Chen che si sarebbe iscritto di recente al loro programma per impresari di pompe funebri. — Humber... Scienze della Salute... Tom Chen... d'accordo. Cosa vuoi sapere? — Tutto quello che sanno loro. — Riguardo a questo Chen? — No, riguardo alla vita in generale — ribatté Celluci, levando gli occhi al cielo in direzione della propria immagine riflessa nello specchio sovrastante il divano. — Il nome è falso, ma questo non dovrebbe fare differenza per le tue indagini. Le informazioni mi servono al più presto. — Anche questo è ovvio. — I cavi tremarono nuovamente. — Lei come se la sta cavando? — Vicki? — No, idiota, sua madre. — Direi nel modo migliore che ci si possa aspettare, tutto considerato. — Già. Ecco... — Seguì una pausa di riflessione. — Quindi nel prossimo paio di giorni potrò trovarti a casa della madre di Vicki? — Per quanto ne so sì — rispose Celluci, lasciando vagare lo sguardo per l'appartamento. — Hai il numero? — Sì. Chiamata a tuo carico. — Tirchio bastardo scozzese — borbottò Celluci, ma nel
riattaccare stava sorridendo. Dave Graham era un buon poliziotto e un amico leale, ma a parte avere la stessa dedizione al lavoro, non si somigliavano affatto e la loro collaborazione era insieme produttiva e priva di complicazioni. — Priva di complicazioni. Ecco qualcosa che mi servirebbe adesso — si disse, dirigendosi verso la cucina e la caffettiera. — La madre morta di Vicki sta facendo visite a domicilio, e un tizio altrettanto morto sta assassinando adolescenti. E poi c'è un vampiro nell'armadio. Si bloccò a metà di un passo. — Un vampiro del tutto indifeso nell'armadio. Anche con la porta sprangata dall'interno, sarebbe stato comunque facile eliminare il suo rivale e avere Vicki per sé. Sarebbe stato sufficiente far filtrare una dose sufficiente di luce solare... Completò il passo e prese la caffettiera. Fitzroy era troppo furbo e aveva vissuto troppo a lungo per aver scelto di dormire in quell'armadio, se avesse pensato di poter essere in pericolo. Scuotendo il capo, Celluci rifletté sulle sottigliezze della fiducia, e levò la tazza di caffè in un gesto di saluto. — Dormi bene, figlio di buona donna. Massaggiandosi le tempie con entrambe le mani, Vicki esalò un rumoroso respiro. L'adrenalina si era esaurita già da qualche tempo e lei si sentiva intontita dalla stanchezza. Lo sfinimento fisico era una cosa a cui poteva far fronte e che aveva dominato molte volte in passato, ma emotivamente si sentiva come se avesse trascorso la giornata sotto sale dopo essere stata scuoiata. La dottoressa Burke aveva cominciato a demolirla, con la sua improvvisa solidarietà, e il Dottor Devlin aveva poi completato l'opera. Lui era stato più che affezionato a sua madre, era ancora affranto per la sua morte e, con il tipico modo di fare irlandese, le aveva esternato tutto il suo dolore. Incapace di fermarlo, Vicki era rimasta lì seduta senza piangere mentre il professore di mezza età infuriava contro la crudeltà del fato, le spiegava come Marjory Nelson fosse stata apprezzata da tutti e proseguiva esponendole nei
dettagli fino a che punto lei fosse stata orgogliosa di sua figlia. Vicki aveva saputo come fare per fermarlo... "A volte" aveva detto loro l'istruttore dell'accademia, "vi conviene lasciare che la persona che
state interrogando parli a ruota libera, di tutto quello che vuole. Vi insegneremo noi come separare l'oro dalle scorie. A volte, invece, dovete interromperla e assumere il controllo..." ma non era
semplicemente riuscita a farlo.
Non aveva voluto sentire che persona meravigliosa fosse stata sua madre, quanto tutti avessero fatto affidamento su di lei, quanto sentissero la sua mancanza, non quando ascoltare le pareva un tradimento, colpa di cui si era già macchiata fin troppo. La scatola di effetti personali che aveva portato via dall'ufficio era un atto di accusa posato su un'estremità del tavolino. Fino a quel momento, non era riuscita a fare niente di più che portarla a casa, e anche quel non era stato facile, perché il suo peso era stato molto superiore a quello che si poteva pensare guardandola. Improvvisamente, si rese conto che Celluci le aveva appena fatto una domanda, e che lei non aveva idea di cosa si fosse trattato. — Scusami — disse, assestandosi gli occhiali con tanta forza da ammaccarsi la fronte con il nasello di plastica. Lui scambiò un'occhiata con Henry, e anche se non riuscì a coglierne il contenuto, lei non trovò di suo gradimento ciò che essa poteva significare. Era a stento in grado di gestirli separatamente, e in quel momento non avrebbe potuto tener loro testa se avessero fatto fronte comune, per qualsiasi cosa. — Ti ho chiesto cosa sai degli specializzandi della dottoressa Burke — ripeté lui, con calma. — Ci hai detto che ne ha alcuni. Esiste qualche possibilità che stiano portando avanti questo lavoro sotto la sua supervisione? — Ne dubito. Secondo quanto mi ha riferito la signora Shaw, uno si occupa di batteri, un paio hanno a che fare con i computer e un terzo... e qui sto parafrasando... è un incasinatore che non riesce a decidersi su cosa fare. Li controllerò... — Celluci aprì la bocca per protestare, ma lei si corresse prima che potesse parlare. — Li
controlleremo meglio domani. Henry si protese in avanti sulla sedia con un'espressione che lei stava cominciando a riconoscere come quella di quando era in caccia. — Quindi sospetti della dottoressa Burke? — Non so cosa pensare di lei. — Ripensando al colloquio, Vicki ebbe l'impressione di sentire di nuovo la voce della dottoressa che diceva in tono pacato: " È incredibile quanto lei somigli a sua madre". Quella era stata un'osservazione comunque irrilevante in qualsiasi momento, e ancor più adesso che sua madre era morta. — Ha la necessaria arroganza, questo è dannatamente certo, e ha anche l'intelligenza e le cognizioni, ma la sola cosa che tutti ripetono sul suo conto è quanto sia in gamba come amministratore. — Scrollò le spalle, desiderando subito di non averlo fatto, perché le sembrava che esse stessero tenendo in equilibrio dei pesi di piombo. — Tuttavia, finché non sapremo per certo che non è stata lei, rimarrà sulla lista. Credo però che possiamo ignorare tranquillamente il dottor Devlin. — Perché? — Perché non avrebbe mai potuto mantenere segreta la ricerca. Se fosse lui quello che sta facendo questo — spiegò Vicki, — non sarebbe riuscito a trattenersi dal dirlo al mondo. Inoltre, a quanto ho capito è un devoto cattolico irlandese, e fino a non molto tempo fa, i cattolici irlandesi erano ostili perfino alle autopsie. — Ma è anche uno scienziato. Potrebbe fingere. — Il mondo è un gran teatro, e noi siamo soltanto attori, su di esso — aggiunse in tono sommesso Henry. — E questo cosa dovrebbe significare? — ribatté Celluci, levando gli occhi al cielo. — Che se parli con i colpevoli, ti mentiranno. — È per questo che si raccolgono delle prove, Fitzroy, per incastrare i bugiardi. Stanotte ne sappiamo più di quanto sapessimo la scorsa notte, e domani ne sapremo più di adesso. Alla fine, la verità verrà fuori. Niente rimane nascosto in eterno.
Non abbiamo un 'eternità, avrebbe voluto ribattere Henry. Ogni momento che passa la consuma. Quanto tempo passerà prima che non rimanga più nulla se non una causa ? — Ci serve una pistola fumante — disse invece. Celluci emise uno sbuffo incredulo, perché quella frase suonava ridicola, sulle labbra di Henry. — Hai letto un po' di letteratura — commentò. — Ho intenzione di rintracciare l'altro, il maschio che ha ucciso l'adolescente — proseguì Henry. — La scorsa notte c'era in giro troppa polizia per poterlo fare, ma se lo troverò, troverò anche il corpo di tua madre. — E dopo? — domandò Vicki. — Cosa facciamo dopo? — Li consegniamo al detective Fergusson. Lo guidiamo al laboratorio, e lasciamo che se la veda lui con il... — Aspetta un momento — lo interruppe Celluci. — Stai davvero suggerendo di lasciare che sia la polizia a occuparsene? — Perché no? Questa volta non abbiamo nessuno da proteggere, tranne me, e al contrario degli antichi dei egizi o dei demoni evocati dall'inferno, gli scienziati pazzi dovrebbero essere qualcosa che la legge è capace di fronteggiare. Celluci chiuse la bocca. Quella non era la sua argomentazione? — Henry, tu non puoi andare alla polizia... — cominciò Vicki. — Non lo farò — la interruppe lui, con un sorriso. — Consegnerò a te le informazioni e tu le trasmetterai alla polizia. Il detective Fergusson sarà così contento di mettere le mani sul suo assassino che credo ti permetterà di essere un po' vaga in merito al dove e al come lo hai trovato. — Sai — commentò Vicki, arrivando quasi a sorridere, — la maggior parte degli uomini regala a una donna dei fiori, o dei dolci. — La maggior parte — convenne Henry. L'aria dell'appartamento parve farsi di colpo carica di elettricità, tanto che Celluci sentì i peli che gli si rizzavano sulle braccia. Gli occhi di Fitzroy si erano scuriti e anche dalla parte opposta della
stanza, Celluci aveva l'impressione di poter vedere l'immagine riflessa di Vicki che si affacciava da essi. L'improvvisa comprensione di quello che stava vedendo lo portò a spezzare a metà la matita che aveva in mano, ma nessuno dei due se ne accorse. Vampiro. Con quanta frequenza dovevano nutrirsi i vampiri? E Fitzroy aveva trovato modo di farlo, da quando erano arrivati a Kingston?
Ebbene, ragazzo mio, non ti nutrirai da me, e non mi spedirai neppure di nuovo nel paese dei sogni mentre tu... mentre tu... Mentre le offri un conforto che lei non accetterà mai da me. Un'altra occhiata al volto di Henry gli permise di capire che quell'offerta non sarebbe stata fatta a sue spese. In un luogo e in un momento imprecisato, erano giunti al di là di questo. — Ho bisogno di uscire di qui — annunciò con voce brusca ma decisa, alzandosi, e dentro di sé aggiunse: Non posso credere che sto facendo questo. — Ho bisogno di fare una bella, lunga passeggiata per schiarirmi le idee. Mi aiuta a riflettere. — Una mezza dozzina di lunghi passi lo portarono alla porta, dove strappò la giacca dall'attaccapanni e uscì a precipizio nell'atrio prima che gli altri due avessero la possibilità di cercare di fermarlo.
Perché di certo questa non è un 'offerta che io possa fare più di una volta. Una volta al sicuro all'esterno, con la porta chiusa alle proprie spalle, si accasciò contro il muro e chiuse gli occhi per un secondo, incredulo di fronte a ciò che aveva appena fatto.
Sì, signore e signori, guardate un uomo agire da idiota di sua spontanea volontà, pensò. Però lui aveva il giorno. Era giusto negare a Fitzroy la notte?
E comunque, rifletté, passandosi le mani fra i capelli, dovrebbe essere Vicki a scegliere, e non trattarsi di una scelta che le viene imposta dalla mia presenza.
Se ami qualcosa, lascialo andare... — Gesù Cristo — borbottò, — che razza di idiota accetta consigli da una fottuta T— shirt? Vicki fissò per un momento la porta dell'appartamento, poi si girò verso Henry. — Se n'è appena... — Andato? — completò Henry, annuendo, lui stesso alquanto incredulo. — Sì. — Perché? — insistette Vicki, incapace di indurre il cervello ad analizzare la cosa. — Credo stia rimuovendo la sua presenza quale ostacolo fra noi due. — Fra noi due? Vuoi dire, in modo che noi si possa... — Sì. — Che razza di bastardo arrogante! — esplose lei, accigliandosi, ma era così stanca che la sua esclamazione risuonò quasi priva di forza. — Non ha pensato che avrei potuto avere qualcosa da dire al riguardo? — Nessuno ti sta impedendo di dirla, Vicki — osservò Henry, allargando le mani in un gesto che fece brillare alla luce della lampada la sua fine peluria dorata. Per un momento ancora, Vicki lo fissò con occhi roventi, poi sospirò. — D'accordo, osservazione valida, però penso che voi due stiate andando dannatamente troppo d'accordo. — Non ti renderebbe le cose più facili se il detective Celluci e io andassimo d'accordo? — Dipende — replicò lei, abbandonandosi contro i cuscini del divano, e in tono asciutto aggiunse: — Da quanto andate d'accordo. — Vicki! — esclamò Henry, infondendo in quel nome una dose esagerata di shock. — Di certo non penserai... Vicki impiegò un momento a cogliere il sottinteso, e quando
infine lo fece non riuscì a impedirsi di ridacchiare. Doveva essere colpa dello sfinimento, perché lei non ridacchiava mai. — Pia speranza — commentò. — Michael Celluci è l'incarnazione dell'eterosessualità. Il sorriso di Henry si modificò leggermente e i suoi occhi si scurirono, facendo affiorare il Cacciatore quanto bastava a rendere esplicito il suo desiderio. — In tal caso, dovremo trovare qualcun altro — ribatté. Vicki deglutì a fatica, se non altro per ricacciare indietro il cuore che le era salito in gola. Henry non stava tentando in alcun modo di intrappolare il suo sguardo, di catturarla con il suo potere, e se gli avesse detto di no, parola che poteva sentirsi vibrare sulla lingua, sarebbe andato a caccia altrove. Però ha bisogno di me, pensò, avvertendo tangibilmente la sua Fame anche da un lato all'altro della stanza. Non sarebbe stato un tradimento, perché per quella notte non c'era niente altro che lei potesse fare per sua madre, ma la cosa più importante era che le necessità di Henry coprivano anche le sue, e dietro il loro camuffamento lei avrebbe potuto, almeno per un po', lasciarsi andare.
Ha bisogno di me. Ripetuta, quell'affermazione serviva a distogliere l'attenzione dal più pericoloso: ho bisogno di lui. — Vicki? — Sì — rispose, sentendo la carezza della voce di lui arroventarle la pelle. Celluci guardò Henry attraversare il parcheggio e si concentrò per rilassare i denti serrati. Nel modo in cui l'altro uomo... il vampiro— trattino— scrittore di romanzi rosa, si corresse selvaggiamente Celluci... si muoveva non c'era niente che potesse dare qualche indicazione su quello che era successo nell'appartamento. Almeno
non se ne vanta, è una cosa che devo riconoscere a quel piccolo bastardo. — Detective. — Fitzroy.
— Non fare rumore nel rientrare nell'appartamento. Lei sta dormendo. — Come sta? — Alcuni dei nodi si sono sciolti. Vorrei solo poter dire che domattina sarà ancora così. — Non avresti dovuto lasciarla sola — osservò Celluci. Io l'ho lasciata sola, e guarda cosa è successo, fu il tacito corollario che entrambi colsero e ignorarono. — Sto ascoltando il battito del suo cuore, detective, e posso essere al suo fianco in pochi secondi. E non intendo allontanarmi da qui finché tu non mi sostituirai. Sbuffando, Celluci desiderò di riuscire a pensare a qualcosa da dire. Intanto, Henry sollevò il volto e respirò a fondo l'aria notturna. — Sta per piovere — , annunciò. — È meglio che non mi attardi oltre. — Già. — Con le mani affondate nelle tasche, Celluci si staccò dalla propria macchina, a cui era appoggiato. D'accordo, non era andato lontano nella sua passeggiata, ma non aveva neppure detto di volerlo fare. Desiderava poter credere che Fitzroy non le avesse lasciato scelta, ma sapeva che non era così. Se una cosa del genere fosse stata anche solo possibile, lui non se ne sarebbe mai andato. — Michael. Indotto a girarsi dal suono del proprio nome, Celluci cercò di non far trasparire dal volto i propri sentimenti, cosa peraltro poco difficile, perché non sapeva con esattezza cosa stava provando. — Grazie.
Per cosa? fu sul punto di chiedere Celluci, ma ricacciò indietro
quelle parole, perché qualcosa nel tono di Henry... qualcosa che lui avrebbe definito sincerità, se gli fosse stato chiesto di dargli un nome... gli impediva di dare una risposta faceta. Invece, si limitò ad annuire, chiedendo: — Cosa avresti fatto, se lei avesse detto di no? — Ancora prima che l'ultima parola gli fosse uscita di bocca, si stava già domandando perché avesse posto quell'interrogativo.
Il gesto di Henry parve estendersi al di là dei sovrapposti aloni di luce gialla dell'illuminazione stradale. — Siamo nel centro di una piccola città, detective — ribatté. — Me la sarei cavata. — Saresti andato da una sconosciuta? Le sopracciglia ramate, rese più scure dall'ombra, s'inarcarono. — Ecco, non avrei avuto esattamente il tempo di fare amicizia. — Non sai che c'è in giro una fottuta epidemia? — domandò Celluci, pur sapendo che era un colpo basso. — È una malattia del sangue, detective. Io so quando qualcuno è infetto, e sono quindi in grado di evitare il contagio. — Fortunato te — grugnì Celluci, gettando indietro il ricciolo che gli ricadeva sulla fronte. — Comunque, continuo a pensare che non dovresti... voglio dire... — Sferrò un calcio alla ghiaia e imprecò quando un sasso spinto dal suo piede rimbalzò rumorosamente contro il telaio della sua auto. E comunque, perché diavolo si stava preoccupando per Fitzroy? Quel figlio di buona donna era sopravvissuto per secoli, ed era in grado di badare a se stesso. Fidarmi di lui è un conto, e comunque non sono certo di
farlo, ma senza dubbio non sto cominciando a trovarlo simpatico, cercò di dirsi. Uh— uh, non funziona. Lasciamo perdere. — Senti — tentò nuovamente, — anche se sei in grado di percepirlo, non dovresti... — Non dovresti cosa? Gesù, il normale vocabolario non è adeguato per una situazione del genere! — ... non dovresti farlo con degli sconosciuti — concluse in fretta. Le labbra di Henry si contrassero in un sorriso.
— Questo potrebbe essere difficile, se dovessimo rimanere qui molto a lungo — replicò in tono sommesso. — Anche se lei fosse disponibile, non posso nutrirmi da Vicki ogni volta che la Fame si desta. Incontrando un'improvvisa difficoltà a respirare l'aria notturna, Celluci si strattonò il colletto della camicia. — E dopo tutto — proseguì Henry, gli angoli degli occhi che gli si increspavano in un'espressione divertita, — in questa città c'è una
sola altra persona che io possa non considerare sconosciuta. Come Vicki, anche Celluci impiegò un momento ad afferrare il sottinteso. — Ti piacerebbe — ringhiò, girando su un tacco e allontanandosi a passo di carica verso il condominio. Con le labbra allargate in un ampio sorriso, Henry lo osservò andare via, ascoltò il battito rabbioso del suo cuore mentre lui oltrepassava a precipizio l'angolo, scomparendo alla vista. Era stato tutt'altro che cortese punzecchiare quel mortale proprio quando si stava mostrando sinceramente preoccupato per lui, ma resistere a una simile tentazione gli era riuscito impossibile. — E se mi piacesse davvero — ricordò alla notte, quando la ebbe di nuovo tutta per sé, — lo farei.
Capitolo nono La notte racchiudeva innumerevoli tipi di oscurità, dal cielo di un cupo color vinaccia che si stendeva ad arco sul Mediterraneo, al deserto, disegnato in affilato rilievo dall'incerta luce lunare, e alle città che lo suddividevano in pezzi segreti con un caleidoscopio di luci intense. Henry conosceva tutte quelle sfumature, e non era mai riuscito a decidere se la notte avesse più sfaccettature del giorno, o se lui avesse semplicemente avuto più tempo per individuarle, visto che diciassette miseri anni non potevano competere con quattro secoli e mezzo. Ciascuna di quelle sfaccettature era di per sé veramente bella, oppure era lui che stava trovando bellezza nell'inevitabilità? Nel dirigersi a piedi verso sud lungo Division Street, in direzione dell'università, si dissetò delle sensazioni derivanti da un'ennesima notte. Il ritorno di un sole che lui non avrebbe mai più visto aveva riscaldato la terra, e il profumo della nuova vegetazione in crescita quasi sopraffaceva l'odore dell'asfalto, del cemento e di parecchie migliaia di pezzi di carne e di sangue in movimento. Le foglie appena nate, ancora morbide e fragili, danzavano esitanti sotto il soffio del vento, e il sussurro del loro movimento faceva da contrappunto al ronzio dei cavi elettrici, al rombo sordo delle automobili e agli incessanti suoni prodotti dall'umanità. Sapeva che se si fosse preso il tempo di andare a esplorare i luoghi più ombrosi della città avrebbe scoperto che il rialzo della temperatura aveva indotto anche altri a riprendere a cacciare, alcuni a quattro zampe, ma per lo più bipedi. Nel l'attraversare Princess Street abbassò le palpebre per difendere gli occhi dal bagliore delle luci che rischiaravano l'incrocio; una giovane donna che attendeva il verde dal lato opposto della strada si soffermò a osservarlo mentre le passava accanto, e lui rispose al suo interesse con un lento sorriso, facendo sì che il calore della sua reazione lo seguisse per parecchi passi. In ultima analisi le città, e i loro abitanti, erano fondamentalmente tutti uguali, in tutto il
mondo.
Cosa di cui ringrazio Dio, ammise, levando un silenzioso saluto al cielo, perché questo rende la mia notte davvero molto più semplice. Division Street lo portò praticamente fino al campus vero e proprio, dove sgusciò nell'ombra di un androne per lasciar passare una macchina della polizia, perché a sole ventiquattro ore dall'omicidio, probabilmente gli agenti gli avrebbero fatto una quantità di domande a cui non voleva rispondere, domande come "dove sei diretto" e "perché". Nel corso dei secoli, aveva scoperto che il modo più semplice per vedersela con la polizia era non averci a che fare. Quando infine raggiunse il piccolo parcheggio isolato dove si era verificato l'omicidio, aveva già evitato altre due volte quella stessa autopattuglia: a quanto pareva, la polizia di Kingston stava prendendo davvero molto sul serio la promessa fatta ai media di aumentare il servizio di pattugliamento. Protendendo tutti i sensi, sgusciò sotto il nastro giallo teso dalla polizia e attraversò lentamente il tratto di asfalto. Arrivato alle indistinte linee tracciate con il gesso che evidenziavano il punto in cui la vittima si era infine accasciata, si accoccolò e posò con leggerezza le dita sulla pavimentazione. Perduravano tracce della morte del ragazzo: l'odore del suo terrore, l'impronta del suo corpo, l'istante del cambiamento, in cui la carne viva era diventata una cosa morta. Stratificato su di esse, e su tutta l'area circostante, c'era il sentore dell'altra morte, quell'odore misto di putrefazione, di sostanze chimiche, di macchine e di una morte andata per un verso molto, molto sbagliato. Cercando di non vomitare, si raddrizzò e sollevò una mano a farsi il segno della croce. Abominio: quella parola gli si era inculcata nel cervello e non riusciva a rimuoverla, e probabilmente era una definizione buona quanto qualsiasi altra per descrivere la creatura di cui doveva seguire la pista. Abominio. Perversione. Malvagità. Forse non di per se stessa, ma malvagia nella sua creazione. Una volta seguita la pista di quella creatura fino al suo rifugio, se avesse trovato insieme a essa anche Marjory Nelson, avrebbe fatto in modo che Vicki non dovesse mai vedere cosa era stato fatto a sua
madre. Quell'unica, rapida immagine che già possedeva sarebbe stata la sola con cui avrebbe dovuto convivere. — Accidenti, Cathy, ma non vai mai a casa? — Cosa intendi dire? — domandò Catherine, accigliandosi nel sollevare lo sguardo dal monitor. — Sai, casa — sospirò Donald. — Casa con un letto e una televisione, e un frigorifero pieno di condimenti e di un mezzo contenitore di formaggio stagionato, quello con la muffa — elencò, poi scosse il capo e improntò la voce a un'esagerata preoccupazione, nel domandare: — Non sto riuscendo a farmi capire da te, vero? — So cos'è una casa, Donald — ribatté Catherine, sospirando a sua volta. — A mio parere, non puoi dimostrare di saperlo. Sei sempre qui. Lo sguardo di Catherine vagò per il laboratorio, e la sua espressione si rilassò, facendosi appagata. — Il mio lavoro è qui — rispose semplicemente. — La tua vita è qui — scattò Donald. — Non vai mai a casa a dormire? — A dire il vero — ammise Catherine, le guance pallide che si tingevano di rossore, — mi sono attrezzata un posticino qui, nello scantinato. — Cosa? Qui? In questo edificio? — Ecco, a volte gli esperimenti non possono essere lasciati senza supervisione, oppure devono essere controllati tre o quattro volte nel corso della notte, e il mio appartamento è su Montreal Street, vicino alla vecchia stazione ferroviaria, per cui... ecco, mi è sembrato più pratico usare una delle stanze vuote che ci sono qui — spiegò Catherine, tutto d'un fiato, poi rimase a guardare, il labbro inferiore stretto fra i denti, mentre Donald si appollaiava su un angolo di un tavolo di acciaio inossidabile, tirava fuori di tasca una caramella, toglieva la carta e se la ficcava in bocca. — Che io sia dannato — disse infine, con un ampio sorriso. —
Non avrei mai pensato che fossi il tipo dell'occupante abusiva. — Non sono un'occupante infervorandosi. — Sto soltanto...
abusiva!
—
protestò
lei,
— Facendo la custode? — suggerì Donald, e quando lei si accigliò, propose: — Ti stai comportando in maniera responsabile verso i tuoi esperimenti? — Sì, proprio così. Donald annuì, e riprese a sorridere. — Sei un'abusiva — ribadì. Catherine poteva razionalizzare la cosa nel modo che preferiva, ma essa continuava a essere ciò che era... non che Donald la disapprovasse, anzi, riteneva che quella fosse un'incredibile manifestazione di iniziativa da parte di una persona che lui considerava troppo legata alle sue provette. — Perché nello scantinato? — domandò. Per un momento, Catherine lo fissò con irritazione, poi si decise a rispondere. — Perché non ci sono finestre da sigillare — disse, mentre entrambi lanciavano un'occhiata alla parete occidentale del laboratorio, rivestita di compensato, — ed è meno probabile che venga disturbata. — Disturbata? — ripeté Donald, alzando le sopracciglia fin quasi all'attaccatura dei capelli. — Che altro fai laggiù, a parte dormire? — Ecco... — tergiversò Catherine, sfregando con il pollice il bordo inferiore del monitor, lo sguardo fisso sullo schermo. — Avanti, Cathy, a me puoi dirlo. — Non ne farai parola con la dottoressa Burke? — Croce sul cuore e che possa morire — rispose Donald, tracciandosi una X sul petto. — Ho impiantato là sotto un piccolo laboratorio. Donald tirò fuori di tasca un'altra caramella. — Perché non ne sono sorpreso? — commentò. — Hai un nascondiglio segreto, il posto perfetto per spassarsela, e tu cosa ci fai? Ci lavori. — Sceso dal tavolo, attraversò la stanza, fino a dove
erano ammucchiati dei microscopi, dei prodotti chimici e una piccola centrifuga. — Tu lavori tutto il tempo, Cathy, e questo non è normale. Non riesco neppure a ricordare di essere mai stato in questo laboratorio senza che ci fossi anche tu. — Come hai detto, mi sento responsabile nei confronti del mio lavoro. — Come ho detto, tu sei matta. — È tardi — tagliò corto lei, sollevando il mento di scatto. — Cosa ci fai ancora qui? Invece di rispondere, Donald prese a gironzolare per il laboratorio, armeggiando con l'apparecchiatura laser, esaminando un'unità di visualizzazione dati e infine tamburellando con le dita lungo tutto il fianco di uno dei contenitori di isolamento. — Ehi! Un momento! — esclamò poi, accennando con un pollice alla rientranza in ombra fra il contenitore di isolamento e il muro. — Cosa ci fa lui fuori? La dottoressa Burke ha detto... — Di rimuoverli dai contenitori soltanto quando era assolutamente necessario, e di non lasciarli mai soli e non isolati. Lui non è solo, perché io sono qui, e credo sia assolutamente necessario che stia il più possibile fuori del contenitore, perché deve ricevere degli stimoli. Lui pensa, Donald! — Già certo — commentò Donald, ma nonostante la spacconeria del suo tono non riuscì a incontrare lo sguardo del numero nove, mentre continuava: — Allora perché non li lasci uscire tutti e due, in modo che possano giocare a ramino, o qualcosa del genere? Senti, Cathy — continuò, aggirando la fila di monitor e lasciandosi cadere sull'altra sedia antistante il computer, seduto a cavalcioni su di essa con le braccia incrociate sullo schienale, — possiamo parlare?
— Stiamo parlando — gli fece notare lei, ruotando la sedia per
fissarlo con espressione confusa.
— No, intendo parlare davvero. — Donald si contemplò le mani, e prese a tormentare una pellicina vicino all'unghia del pollice. — Parlare di quello che stiamo effettivamente facendo qui. Cathy, devo confessare che comincio a essere preoccupato, perché tutto questo è andato molto al di là di quello che la dottoressa Burke aveva detto
che avremmo fatto. Voglio dire, è indubbio che stiamo facendo molto di più che sviluppare un sistema di riparazione e di manutenzione. — Si tratta di quello che è successo la scorsa notte? — In un certo senso sì, ma... — Non succederà di nuovo. Ho intenzione di stare molto attenta, e di non lasciarli mai più soli. Siamo stati fortunati che non si siano danneggiati, andando in giro così, senza supervisione. Donald sollevò di scatto lo sguardo a incontrare quello di lei. — Accidenti, Cathy, la scorsa notte un tizio è morto, e tu riesci a preoccuparti dell'effetto che una piccola camminata può aver avuto sui Gemelli Barcollanti? — Mi dispiace che sia successo — affermò Catherine, — ma preoccuparsene non lo riporterà indietro. La scorsa notte il numero nove ha fatto uno stupefacente passo avanti, ed è su questo che ci dovremmo concentrare. — E se avesse solo reagito? — In tal caso, non si è trattato di una reazione programmata, ma di qualcosa che ha imparato da solo — sorrise Catherine. — Sì, e dove? — ribatté Donald, girandosi a fissare il numero nove, che se ne stava seduto impassibile a ridosso della parete. — Quelle che stanno rimbalzando lì dentro sono le mie onde cerebrali, e io di certo non ho mai strangolato nessuno. — Un'obiezione valida — ammise Catherine, e si soffermò per un momento a riflettere, corrugando la fronte. — Non credi che dovremmo far venire uno psicologo? — Come no! Grandioso! — esplose Donald, voltandosi di nuovo a fronteggiarla e prendendo a gesticolare, mentre alle sue spalle il numero nove teneva d'occhio i suoi movimenti. — Dovremmo metterlo sotto terapia. La risposta del decennio. Cathy, è ora di rimettere a fuoco la realtà: quel tizio è morto, e non credo che esista più come persona. È tempo di chiederci che cosa abbiamo creato. — La vita?
— Centro pieno. E adesso — incalzò Donald, il cui gesticolare si stava facendo sempre più marcato, — sai dirmi cosa questo significa davvero? Lasciando da parte il fatto che si può alzare e camminare, e tutte quelle stronzate scientifiche sull'interfacciali con la rete, e ignorando per un momento se si tratti di una vita vecchia o di una nuova, questo significa che qui abbiamo una persona, proprio come te e me. Solo che sta marcendo in piedi — concluse, protendendo di scatto una mano in direzione del numero nove, senza girarsi. In piedi Era quasi un comando. Lentamente, il numero nove si alzò. Gli piaceva sentirla parlare, ascoltare la sua voce, ma non gli piaceva quell'altro, faceva troppo rumore. Muovendosi con cautela, una mano appoggiata contro il contenitore che riconosceva come suo, prese ad avanzare in silenzio. — Quindi quello che stai dicendo è che abbiamo un uomo vivo in un corpo morto? — Sì ! Cosa faremo al riguardo? — I batteri stanno mantenendo funzionale il corpo — asserì Catherine, fissandolo con calma. — Già, ma solo per un tempo limitato. È vivo e si sta decomponendo, e a te non importa neppure un poco. Voglio dire, anche accantonando le considerazioni etiche riguardo al depredare le tombe, questa è una cosa davvero infernale da fare a qualcuno! — È ovvio che mi preoccupa — ribatté Catherine, allontanandosi i capelli dalla fronte e notando con quanta precisione il numero nove stesse controllando i propri movimenti; qualsiasi residuo di barcollamento derivava probabilmente da qualche guasto meccanico alle ginocchia o ai fianchi. — Quello di cui abbiamo bisogno in realtà sono corpi più freschi. Ho grandi speranze per il numero dieci. — Corpi più freschi ! — esplose Donald, quasi urlando quelle parole. — Sei pazza? — Sono giunta a convincermi che quanto più presto i batteri
vengono applicati, tanto meglio lavorano — spiegò Catherine, con le dita che danzavano sulla tastiera. Un momento più tardi, protese verso Donald uno stampato. — Ho creato un grafico in cui il fattore tempo è contrapposto alla durata della vita dei batteri e alla quantità di riparazioni che sono stati in grado di effettuare, e credo che troverai inoppugnabili le mie conclusioni. Quanto più un corpo è fresco, tanto più durerà e tanto più grandi saranno le possibilità di un completo successo. Donald spostò lo sguardo dai fogli a Catherine, e gli occhi gli si dilatarono per un'improvvisa realizzazione. Non sapeva perché non se ne fosse reso conto prima. Forse, il denaro e i riconoscimenti di cui la dottoressa Burke continuava a parlare avevano interferito con la sua capacità di giudizio, o forse essa era stata annebbiata dall'intero concetto, quasi divino, di riportare in vita i morti. O forse non aveva semplicemente voluto vedere. Quando guardava il numero nove negli occhi, vedeva una persona, e questo era già di per sé terrificante; quando sottoponeva Catherine a quello stesso esame, non riconosceva quello che stava vedendo, e questo gli faceva una paura ancora maggiore. Con il cuore che gli martellava nel petto, si alzò in piedi e prese a indietreggiare. — Tu sei pazza — annaspò, poi andò a sbattere con le spalle contro il numero nove, si girò di scatto e urlò. Quel suono gli faceva male. Ma aveva imparato come farlo smettere. Donald artigliò la mano stretta intorno alla sua gola, affondando le unghie nella carne morta. Catherine si accigliò. Sembrava proprio che il numero nove si fosse limitato a reagire all'urlo di Donald. A quanto pareva, il suono acuto gli faceva male, quindi lui lo bloccava, e senza ulteriori dati era logico concludere che il ragazzo della notte precedente avesse
urlato a sua volta. Comunque, il numero nove stava applicando la lezione della notte precedente a una nuova situazione, e questo era incoraggiante. Quei rumori erano meno fastidiosi, ma il silenzio sarebbe stato ancora meglio. Accentuò la sua stretta.
Lascia! Lascia! Quel comando era stato impiantato nel cervello del
numero nove, che avrebbe dovuto obbedire, ma anche se quella parola gli ruggiva nella mente, Donald non riusciva a emetterla. La vista gli si velò di rosso, poi di porpora e infine di nero. Il numero nove abbassò lo sguardo su ciò che aveva in mano, poi lo sollevò su di lei e lentamente raddrizzò il braccio, offrendole il corpo. Anche Catherine abbassò lo sguardo, poi lo sollevò, annuì, e lui comprese di aver fatto la cosa giusta. — Mettilo sul tavolo — ordinò Catherine, e mentre il numero nove obbediva, procedette a salvare il programma a cui stava lavorando e a caricare nel sistema gli schemi di onde cerebrali di Donald. Aveva avuto bisogno di un corpo più fresco per testare la sua ipotesi, e adesso ne aveva uno, il corpo perfetto, dato che perfino i batteri erano già stati adattati a esso. I batteri si trovavano però nel suo laboratorio personale, nello scantinato, perché la dottoressa Burke le aveva ordinato di smetterla di sprecare tempo prezioso su qualcosa che non sarebbe stato utilizzato. Poteva inserire subito la rete e poi andare a prendere i batteri, oppure poteva recuperare i batteri e lasciare Donald dov'era, o anche... Il tempo era un fattore essenziale, quindi doveva muoversi in fretta, qualsiasi cosa avesse fatto. Aprì il contenitore che era stato usato per il numero otto, pensando che se lo avesse messo lì dentro,
avrebbe almeno potuto tenere Donald al freddo mentre correva di sotto. Presa la sua decisione, posò una mano leggera sul braccio del numero nove. — Mettilo là dentro — ordinò. Il numero nove conosceva il contenitore. La testa andava qui, i piedi là, le braccia dovevano essere distese, in questo modo. — Bene. — Sorridendo in segno di approvazione, Catherine abbassò il coperchio e attivò l'unità di refrigerazione senza prendersi il disturbo di far scattare la sicura del coperchio, perché non si sarebbe allontanata per molto tempo. Spingendolo con gentilezza, guidò il numero nove fino alla parete, in modo che non le fosse di intralcio. — Resta qui — ordinò. — Non seguirmi. E spiccò la corsa verso la porta, le scarpe dalla suola di gomma che non facevano il minimo rumore sulle piastrelle.
Resta qui. Non seguirmi. Voleva stare con lei, ma fece come gli aveva detto. Fissando con irritazione la porta antincendio, Henry giunse all'ovvia conclusione che non poteva entrare nell'edificio nello stesso modo in cui la creatura ne era uscita, perché anche se avrebbe potuto aggirare l'ostacolo rappresentato dall'assenza di una maniglia, non poteva fare nulla riguardo all'allarme antincendio. Dall'esterno, non poteva neppure distruggerlo. Da qualche parte, però, ci doveva essere un'altra entrata. Le finestre del primo piano erano coperte da pannelli di compensato inseriti fra le griglie di metallo e il vetro, e una rapida ispezione rivelò che anche le porte erano state barricate nello stesso modo. Frustrato, si ritrovò alla porta antincendio, infilò le dita sotto il bordo della griglia e assestò uno strattone a titolo di esperimento. Se
proprio era necessario un approccio diretto... I bulloni si sfilarono dal cemento e le sbarre laterali cominciarono a piegarsi emettendo un acuto stridio metallico.
Idea sbagliata. Immobilizzandosi, Henry tese l'orecchio per
recepire possibili reazioni. In lontananza, sentì un rumore di suole di gomma che sbattevano contro il cemento, e percepì due vite che si stavano avvicinando. Allontanatosi dall'edificio, divenne parte della notte e attese. — ... e così lui ha detto: "I Chicago? In quattro partite? Devi essere impazzito. Scommetto venti dollari che non arriveranno neppure ai quarti di finale!" Io ho accettato la scommessa, e fra un paio di giorni incasserò quei venti dollari. — Ah, caro mio, non so come fai a pensare all'hockey in un momento come questo. — Che genere di momento? — È la stagione del baseball, amico. Il sei è stato il giorno di apertura. Non hai motivo di pensare all'hockey, di parlarne o di giocarci, una volta che è cominciata la stagione del baseball. — Ma la stagione dell'hockey non è finita. — Forse no, ma dovrebbe esserlo. Merda, se continua così, finiranno per assegnare la Coppa Stanley in giugno! I due uomini erano entrambi sulla quarantina, indossavano l'uniforme della Sicurezza dell'università, erano muniti di torcia e avevano uno sfollagente alla cintura. Uno di essi camminava con il peso del corpo proiettato in avanti, quasi a sfidare il mondo a fare qualcosa, mentre l'altro usava le spalle e le braccia enormi per controbilanciare un ventre impressionante; entrambi passarono a pochi centimetri da dove Henry si trovava senza rendersi conto di essere osservati. — La porta è questa? — Già. — Ci fu il suono di una mano massiccia che faceva tintinnare l'acciaio. — Probabilmente si è trattato di qualche imbecille di uno studente che stava tagliando di qui nel venire dal nuovo edificio di Scienze Naturali.
— Tagliando di qui? Al buio? — Quale buio? In questo punto tengono accesa una luce su quattro, giusto per precauzione. — Precauzione per cosa? — Non ne ho idea, ma nell'edificio c'è ancora l'elettricità. — Che dannato spreco di denaro. — Senza dubbio. Forse, se spegnessero le luci e risparmiassero un poco, potrebbero permettersi di abbattere questa trappola per topi e costruire quel parcheggio di cui si parla. — Un parcheggio? Amico, quello sì che è il genere di edificio di cui avremmo bisogno da queste parti.
Dal Partenone al parcheggio; quanto ancora può deteriorarsi una civiltà? si chiese Henry, mentre i due sorveglianti passavano oltre.
Con le mani affondate nelle tasche, si diresse verso il nuovo edificio di Scienze Naturali, vivacemente illuminato contrariamente alla buia struttura chiusa e sprangata che aveva sostituito. Quindi i due edifici erano collegati. La creatura era entrata in quello vecchio, e la dottoressa Burke lavorava in quello nuovo, insieme a un paio di centinaia di altre persone; esattamente lo stesso genere di informazioni imprecise che Vicki e Celluci si erano trovati a raccogliere per tutto il giorno.
Vediamo se la notte potrà dare loro qualche risposta, si disse. La guardia all'ingresso principale notò soltanto un fugace alito di brezza che le agitò il giornale, ma non vide il movimento che l'aveva prodotto. Una volta dentro, Henry si diresse in silenzio verso i livelli inferiori dell'estremità settentrionale dell'edificio, perché il collegamento, non essendo visibile, doveva essere sotterraneo. Nello scantinato, si imbatté in un odore che conosceva. Aveva trascorso gli ultimi tre giorni nel buio dell'armadio di Marjory Nelson, circondato dai suoi vestiti e dai pezzi e frammenti della sua vita riposti là dentro. Il sentore della sua morte, privata della sua pace e trasformata in una sorta di grottesca esistenza, aderiva ancora alle piastrelle e alla vernice delle pareti, nella stessa misura in cui aderiva alla finestra dell'appartamento.
Esso lo guidò al passaggio, al di là di esso, su per una rampa di scale, lungo il corridoio, su per una seconda scala, attraverso una sala per conferenze vuota, il cui pavimento recava ancora i segni di dove si erano trovati i posti a sedere, e infine lo guidò a un corridoio, dove il fetore di abominio era tanto intenso da non permettergli più di distinguere due tracce separate. A metà del corridoio, una lama di luce filtrava da sotto una porta. Poteva sentire il sommesso ronzio di apparecchiature elettroniche, un rumore di motori e il battito di un cuore, ma non percepiva nessuna vita. Quando cercò di avanzare, le gambe rifiutarono di obbedirgli. Henry Fitzroy, Duca di Richmond e di Somerset, figlio bastardo di Enrico VIII, era stato allevato nella convinzione della resurrezione fisica del corpo: quando fosse arrivato il Giorno del Giudizio, e il Signore avesse chiamato a Sé i credenti, essi gli si sarebbero presentati non solo in spirito, ma anche nel corpo. Si era recato nella cappella quasi ogni giorno, durante i suoi diciassette anni di vita, e quella convinzione era stata alla base della sua educazione religiosa. Perfino dopo che il suo reale genitore si era staccato da Roma, il concetto della resurrezione del corpo era perdurato. Quattro secoli e mezzo di vita avevano modificato il suo modo di vedere la religione, ma non era mai riuscito a liberarsi del tutto della sua educazione iniziale: era stato allevato come un cattolico del sedicesimo secolo, e sotto alcuni aspetti continuava a essere tale. Non poteva entrare in quella stanza.
E se non lo farai tu, chi lo farà? si chiese, mentre un pezzo del rivestimento in legno gli si spezzava fra le dita. Michael Celluci? Vuoi concedergli così tanto? Dargli l'opportunità di venirti in soccorso mentre tu tremi in preda a un terrore superstizioso? O forse Vicki? E che ne sarà allora del giuramento da te fatto di tenerla lontana da tutto questo? Riuscì a muovere un passo, uno piccolo, verso la porta. Se la sua natura gli avesse permesso di sudare, la sua mano avrebbe lasciato un'impronta umida sul muro; così come stavano le cose, le sue dita crearono una rientranza nell'intonaco.
La leggenda definiva quelli della sua razza come nonmorti, ma nonostante ciò che poteva aver appurato la scienza medica del suo tempo, lui era cambiato, non era morto, mentre in quella stanza dei morti erano in piedi e camminavano, derubati della loro occasione di accedere alla vita eterna, privati della grazia di Dio...
Non mi lascerò dominare dal mio passato a spese di Vicki. La porta non era chiusa a chiave. La stanza sul cui centro essa si apriva era enorme, lunga la metà del corridoio. Sollevando una mano a ripararsi gli occhi sensibili dal bagliore intenso delle luci fluorescenti, Henry notò che le finestre erano state accuratamente bloccate per impedire che quel chiarore potesse trapelare all'esterno, rivelando che la stanza era in uso. Non conosceva quasi nessuna delle apparecchiature che riempivano gran parte dello spazio disponibile: indipendentemente dai precedenti letterari, evidentemente la perversione richiedeva molto più di un bisturi e di un parafulmine.
Forse riconoscerei qualcuna di queste macchine, se scrivessi fantascienza invece di romanzi rosa, rifletté, mentre avanzava in silenzio, accompagnato dai demoni della sua infanzia.
Il fetore di abominio era diventato così onnipervasivo da rivestirgli l'interno del naso e della bocca, arrivandogli ai polmoni e allargandosi sulla sua pelle come uno strato di sporcizia, e poteva solo sperare che con il tempo se ne sarebbe liberato, che non sarebbe stato costretto a portarselo dietro in eterno come un invisibile marchio di Caino. C'erano dei serbatoi di ottone allineati sotto le finestre, scaffali carichi di prodotti chimici, due computer e una porta che dava accesso a un piccolo magazzino quasi del tutto vuoto. Una seconda porta, che permetteva di uscire dal magazzino, era chiusa a chiave. Incapace infine di rimandare oltre, Henry si girò verso il battito lento e costante di cui era stato fin troppo consapevole da quando era entrato nella stanza. La creatura era in piedi dietro una fila di casse metalliche lunghe un paio di metri e larghe un metro e venti. Troppo grandi per essere delle bare, esse gli ricordarono il sarcofago esterno che aveva tenuto
imprigionato per tre secoli, vivo, un antico mago egizio. La maggior parte dei suoni elettrici che lui era in grado di sentire provenivano da quelle casse, i rumori meccanici erano prodotti dalla creatura. Con cautela, scivolò lungo il muro, senza mai attraversare la diretta linea visiva della creatura, e quando arrivò alla sua altezza si arrestò, costringendosi a registrare razionalmente quello che stava vedendo. Arruffati capelli scuri ricadevano all'indietro da una faccia lunga, la cui pelle fra il grigio e il verdastro aveva la stessa grana fine del cuoio; la pelle della fronte era tenuta al suo posto da una serie di punti applicati con filo nero, e sotto di essa un naso che era stato indubbiamente fratturato più di una volta s'incurvava su labbra fra il porpora e il grigio che non erano più in grado di chiudersi sulla curva d'avorio dei denti. Anche tenendo conto dell'essiccazione prodotta dalla morte, i muscoli apparivano sodi e le ossa sporgevano attraverso la tuta sportiva azzurra. Quello era stato un uomo, e non era stato molto anziano, quando era morto. Lo stretto torace si sollevava e si abbassava, ma la creatura non dava nessun segno di consapevolezza. Dolce Gesù! Henry avanzò di un passo, poi di un secondo, e infine si girò a fronteggiare la creatura. I suoi occhi erano aperti. Il numero nove stava aspettando. Lei sarebbe tornata presto. Vide lo sconosciuto entrare nella stanza e farsi più vicino. Poi lo sconosciuto si girò a guardarlo. E lui lo guardò a sua volta. Ringhiando, Henry infranse il contatto visivo e si ritrasse di scatto. Quella cosa era viva. Il corpo era morto, ma quella cosa era viva.
Chiunque abbia fatto questo dovrebbe essere dannato per l'eternità, e al di là di essa! Tremando per l'ira e per altre emozioni che gli era meno facile
definire, lasciò ricadere le mani sul coperchio del contenitore che aveva davanti. Marjory Nelson, la madre di Vicki, doveva essere in una di quelle casse, ma lui non sapeva più che cosa avrebbe fatto, quando l'avesse trovata.
"Li consegniamo al detective Fergusson." Era stato così facile
decidere, in astratto.
E che cosa farà il detective Fergusson? Aprì il contenitore. L'odore di una morte recente, libera da qualsiasi contaminazione, esalò dall'interno con l'alzarsi del coperchio, e per un istante Henry sperò che il corpo là dentro appartenesse a Marjory Nelson. Invece, un giovane maschio orientale che sfoggiava intorno alla gola una serie di segni purpurei e aveva gli occhi sporgenti dalle orbite e la lingua che pendeva dalla bocca, era adagiato nell'interno imbottito del contenitore. Il giovane era morto da così poco tempo che l'afflusso di sangue causato dallo strangolamento non gli aveva ancora abbandonato la faccia. D'un tratto, Marjory Nelson divenne meno importante, perché era già perduta e per lei non poteva fare più niente, tranne trovarla, mentre poteva ancora salvare quel ragazzo. Agendo in fretta, chiuse gli occhi fissi e insinuò le braccia sotto le spalle e le ginocchia del corpo ghiacciato, sollevandolo dal contenitore. Il peso era insignificante per lui, ma il carico era ingombrante e lo costrinse a spostarsi lateralmente fino a uscire dalla fila di contenitori e a potersi girare. — Cosa credi di fare? Con l'olfatto soffocato dal fetore di abominio, Henry non aveva avvertito l'avvicinarsi dell'odore di lei, e gli orecchi concentrati su un cuore che non avrebbe dovuto battere gli avevano impedito di sentirla. Non essendo nello stato d'animo più adatto per andare per il sottile, sollevò lo sguardo a incontrare quello di lei con l'intenzione di ordinarle di andarsene, ma scoprì che al di sotto di uno strato superficiale di normalità non c'era nulla che lui potesse toccare: i suoi pensieri scorrevano in una spirale interminabile, senza un inizio e senza una meta.
Due occhi chiari si socchiusero, le guance pallide arrossirono. — Fermalo — disse la donna. Due mani gli serrarono le spalle e lo strattonarono all'indietro, e lui sentì la morte respirare sopra la sua testa. Questa non è vita! urlarono i suoi sensi, mentre la pelle gli si accapponava per il disgusto, poi perse la presa sul ragazzo, si sentì sollevare e sbattere su una superficie che cedette sotto la forza dell'impatto. Si contorse in tempo per vedere il coperchio che si chiudeva. — NO! — Non è ancora tornato. Celluci si svegliò con un sussulto, sollevando la testa di scatto e irrigidendo i muscoli. — Cosa... — Non è ancora tornato — ripeté Vicki, dal centro del salotto, le braccia strette intorno al corpo. — Ed è quasi l'alba. — Chi non è tornato? Fitzroy? — Sollevando il pugno a nascondere un gigantesco sbadiglio, Celluci abbassò lo sguardo sul proprio orologio. — Sono le sei e dodici. A che ora sorge il sole? — Alle sei e diciassette — rispose Vicki. — Gli restano cinque minuti. — Stava mantenendo il volto e il tono inespressivi, limitandosi a riferire i fatti, soltanto i fatti, perché se avesse dato al panico che la stava artigliando interiormente la minima possibilità di liberarsi, aveva il terrore di non riuscire poi più a controllarlo. Celluci riconobbe quella forma di difesa. Su tutto il pianeta, non esisteva un poliziotto che non avesse usato almeno una volta l'addestramento ricevuto per coprire un terrore personale, e quelli che si lasciavano coinvolgere troppo lo facevano di frequente, tanto che a volte quella forma di difesa cominciava a usarli a sua volta. Ignorando le proteste delle proprie articolazioni, emerse faticosamente dalla poltrona su cui si era addormentato. — Come diavolo fai a sapere quando sorge il sole? — borbottò. All'improvviso, fu assalito dal sospetto di una spaventosa
possibilità. Possibile che Fitzroy si fosse... si fosse... la sua mente si ritrasse di fronte al concetto del succhiare sangue, del nutrirsi in quel modo. Possibile che Fitzroy fosse stato con lei abbastanza a lungo perché Vicki stesse diventando come lui? Non era forse così che funzionava? Scoccò un'ansiosa occhiata in direzione dello specchio sovrastante il divano, e si sentì sollevato nel vedere che Vicki si rifletteva ancora in esso... ma poi ricordò che Fitzroy vi si era riflesso altrettanto bene. — Non ti starai trasformando in un... un... in uno di loro, vero? — ringhiò. — Di cosa diavolo stai parlando? — ribatté Vicki, assestandosi gli occhiali con il dorso di una mano. — Come fai a sapere che il sole sorge alle sei e diciassette? — Celluci avrebbe voluto attraversare la stanza e scrollarla fino a ottenere la risposta, e riuscì a stento a trattenersi dal farlo. — L'ho letto sul giornale, la scorsa notte — spiegò Vicki, corrugando la fronte, confusa dinanzi a quell'attacco inatteso. — Qual è il tuo problema, Mike? Lo aveva letto sul giornale la notte precedente. — Scusami, io... ecco... — L'ondata di sollievo che lo stava pervadendo era talmente intensa da lasciarlo debole e un po' stordito. Allargando le mani in un gesto di scusa, sospirò e spiegò in tono sommesso: — Ho creduto che stessi diventando come lui, e ho avuto paura di essere sul punto di perderti. Il labbro inferiore stretto fra i denti, Vicki indugiò a fissarlo per un lungo momento, anche se nella fioca luce dell'alba riusciva a stento a distinguere i suoi lineamenti. Non avendo più risorse mentali con cui alimentare il proprio diniego, poteva avvertire il suo interessamento, la sua paura, il suo amore, e sapeva che lui non stava apponendo condizioni ai suoi sentimenti, non ne stava imponendo a lei. Con sua sorpresa, invece di sminuire il suo senso dell'io, questa scoperta lo alimentò e la fece sentire più forte, arrivando perfino a placare un poco il panico che provava riguardo a Henry. Le lacrime le salirono agli occhi.
Non piangerò, ingiunse a se stessa.
— Non funziona così — disse, costringendosi a parlare nonostante il nodo che le serrava la gola. — Bene. — Celluci aveva colto nel suo tono il riconoscimento, se non l'accettazione, dei suoi sentimenti, e per il momento questo gli bastava. La stanza si fece percettibilmente più luminosa. Vicki si volse verso la finestra, tornando a stringersi le braccia intorno al corpo. — Apri le tende — chiese, consapevole quanto lui del silenzioso corollario che accompagnava quella richiesta. Aprile tu perché io
non posso. Perché ho paura di quello che potrei vedere.
— Chi era il tuo schiavo, lo scorso anno? — borbottò Celluci, per mascherare la cosa. Sarebbe stata una giornata splendida. Parecchie dozzine di uccelli stavano salutando rumorosamente l'alba e l'aria aveva quel genere di limpidezza che si riscontrava soltanto in un mattino di primavera. L'orologio segnava le sei e ventidue. — Quanto può resistere sotto il sole? — Non lo so. — Vado a dare un'occhiata fuori, nel caso che sia quasi riuscito ad arrivare a casa. Nessun corpo contorto e annerito stava strisciando verso la porta, e nel parcheggio non c'erano mucchi di cenere che disegnassero una sagoma umana. Al suo rientro, Celluci trovò Vicki ancora ferma dove l'aveva lasciata, con lo sguardo fisso sulla finestra. — Non è morto. — Vicki, non hai modo di saperlo. — E allora? — ritorse lei, serrando i denti con tanta forza da farsi pulsare le tempie. — Non è morto. — D'accordo — replicò Celluci, attraversando la stanza fino a portarsi al suo fianco e girandola con gentilezza verso di sé. — Non voglio crederci neppure io — aggiunse, ed era vero, non lo voleva. Non riusciva a capire neppure la metà delle reazioni che Fitzroy
suscitava in lui, ma non voleva che morisse. — Quindi non ci crederemo insieme — concluse. Insieme. Con il volto contratto in un'espressione aggrondata per evitare di piangere, Vicki annuì. Insieme aveva un suono molto migliore che non da sola. Poteva avvertire l'alba. Anche attraverso il terrore, la frenesia e il panico, poteva percepire l'approssimarsi del mattino. Per un momento accentuò i propri sforzi, scaraventando tutto il proprio corpo contro il coperchio della sua prigione, poi si accasciò all'indietro sull'imbottitura e giacque immobile. Il tocco familiare del sole che aleggiava sulla linea dell'orizzonte portò con sé la sanità mentale. Per troppo tempo era stato consapevole soltanto dell'onnipervasivo fetore di abominio e del dolore che si stava infliggendo per liberarsi. Adesso sapeva di nuovo chi era. Appena in tempo per abbandonarsi al sopraggiungere del giorno. Dovendo lavorare da sola, Catherine impiegò fin dopo le sette per finire di preparare il corpo di Donald e per collegarlo al sistema, all'interno del contenitore del numero nove. Era stata sua intenzione usare quello del numero otto, ma l'intruso chiuso dentro di esso l'aveva costretta a modificare i suoi piani, e comunque al numero nove non avrebbe fatto male restare fuori per un po'. Anzi, poteva perfino giovargli. Sbadigliando, si stiracchiò, e si sentì improvvisamente esausta. Era stata una notte lunga e piena di eventi, e lei aveva un disperato bisogno di un paio di ore di sonno. I colpi costanti che provenivano dal contenitore del numero otto erano stati estremamente irritanti e l'avevano distratta non poco mentre eseguiva delicate procedure, tanto che per poco non aveva riattivato l'unità di refrigerazione, giusto per vedere se il suo ospite si sarebbe calmato. Era quindi stata una sfortuna che quei colpi fossero infine cessati proprio quando lei aveva quasi finito, permettendole di apprezzare il silenzio soltanto per un tempo tanto breve.
Capitolo decimo Vicki si svegliò per prima, e rimase distesa a fissare il soffitto senza vederlo davvero, incerta su dove si trovasse. La stanza non le sembrava familiare, le dimensioni erano sbagliate e i giochi di ombre che per lei costituivano il mondo quando era senza occhiali non formavano schemi che riuscisse a riconoscere. Non era nella sua stanza da letto, e neppure in quella di Celluci, sebbene fosse lui l'uomo addormentato al suo fianco. Poi ricordò. Poco dopo l'alba, tutti e due si erano sdraiati sul letto di sua madre, della sua defunta madre. In due, mentre avrebbero dovuto essere tre.
Tutti e tre sul letto della mia defunta madre? Quel sarcasmo era così tagliente che per poco non fece scorrere del sangue. Controllati, Nelson. Scivolata via da sotto il braccio di Celluci senza svegliarlo, cercò a tentoni gli occhiali sul comodino, la luce diurna che filtrava intorno ai contorni delle veneziane appena sufficiente a permetterle di muoversi. Con il naso che quasi toccava la superficie della radio sveglia, scrutò con espressione accigliata i numeri rossi: erano le nove e dieci, aveva dormito due ore, a cui doveva aggiungere il tempo che Henry le aveva elargito... di certo le era capitato di dover essere funzionale avendo dormito molto meno di così. Avvolgendosi meglio nella vestaglia, si alzò, perché tanto ormai non sarebbe riuscita a riprendere sonno. Non poteva affrontare i sogni in cui Henry bruciava e nel consumarsi urlava il suo nome, mentre il corpo putrescente di sua madre creava fra loro una barriera vivente. Se voleva salvare Henry, doveva oltrepassare sua madre, e non poteva farlo. Quel sogno le aveva lasciato una perdurante sensazione di paura e di fallimento.
Il mio subconscio è tutto meno che oscuro, pensò. I suoi piedi nudi non stavano producendo nessun rumore nel
muoversi sulla morbida moquette, che era ancora quasi nuova; ricordando quanto sua madre fosse stata soddisfatta di aver sostituito il vecchio tappeto con una folta moquette che andava da una parete all'altra, raggiunse l'armadio a muro in cui Henry aveva trascorso le ore diurne. Dopo aver annaspato per un momento alla ricerca dell'interruttore, accese la luce interna e si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Come aveva detto Henry, quell'armadio era a stento abbastanza grande per un uomo non molto alto. O per un vampiro non molto alto. Un materassino di gommapiuma azzurra, del genere usato di solito nei campeggi, era steso sotto una fila di indumenti femminili appesi, e su di esso erano posati un ampio pezzo della pesante tenda da oscuramento, ordinatamente piegato, e una valigetta ventiquattrore di cuoio; un altro pezzo della tenda era stato fissato con delle puntine su un lato della porta, che era stata a sua volta dotata di un pesante chiavistello d'acciaio.
Deve averlo montato Henry, pensò, toccandone il metallo, e
scosse il capo. Non aveva sentito usare un martello, ma considerata la forza di Henry, era possibile che il suo impiego non fosse stato necessario. Sarà meglio che ci ricordiamo di rimuoverlo, altrimenti il
prossimo inquilino resterà dannatamente perplesso.
Il prossimo inquilino. Quella era la prima volta che considerava l'appartamento in un qualsiasi modo che non fosse la casa di sua madre. Suppongo sia una cosa ragionevole, si disse, abbandonando la testa contro il muro e chiudendo gli occhi. Mia madre è morta. Il profumo della colonia di sua madre, il suo odore, permeava ancora il piccolo ambiente, e con gli occhi chiusi le pareva quasi che lei fosse lì. In un'altra circostanza, quell'illusione avrebbe potuto esserle di conforto, o farla infuriare, e lei era abbastanza onesta da ammettere che entrambe le reazioni sarebbero state possibili, ma in quel momento la ignorò, perché non era sua madre il motivo per cui si trovava lì. Riaprendo gli occhi, si lasciò cadere in ginocchio accanto al materassino e sollevò il sudario improvvisato, accostandoselo al volto e respirando il vago sentore di Henry intrappolato nella pesante stoffa.
Lui non era morto, rifiutava di credere che lo fosse, era troppo reale per essere morto. Lui non era morto. — Cosa stai facendo? — Non lo so bene neanch'io. Serrando le dita intorno alla stoffa fino a far sbiancare le nocche, Vicki posò il pezzo di tenda e si girò verso Celluci, in piedi sulla soglia; alzandosi, lui aveva aperto le veneziane della camera da letto, e il sole del mattino che gli batteva sulle spalle gli lasciava il volto in ombra, impedendole di vedere la sua espressione... anche se il suo tono era stato quasi gentile... e privandola di qualsiasi indizio su cosa lui stesse pensando. Celluci le porse la mano, e lei vi mise la propria, permettendogli di issarla in piedi. Il suo palmo era caldo e calloso, mentre quello di Henry sarebbe stato fresco e liscio. Con la mano libera appoggiata sul davanti sgualcito della sua camicia, Vicki provò l'improvviso e del tutto irrazionale desiderio di muovere un altro passo e di entrare nel cerchio delle braccia di lui, abbandonando anche solo per un momento la propria testa, per non parlare di tutto il pasticcio in cui si ritrovava, sull'ampia distesa delle sue spalle.
Questo non è il momento giusto per rammollirsi, Vicki, ingiunse
severamente a se stessa, lottando contro la morsa ferrea che pareva costringerle il petto. Hai decisamente troppe dannate cose da fare.
Avendo letto sul suo volto tanto il suo desiderio quanto il modo in cui vi aveva reagito, Celluci si fece da parte con un asciutto sorriso per lasciarla passare. Poteva vedere la crescente tensione che le disegnava ombre purpuree sotto gli occhi e le contraeva gli angoli della bocca, e sapeva che essa doveva essere dissipata almeno in parte prima che la portasse a esplodere, ma non sapeva cosa fare. Anche se le loro liti erano spesso state terapeutiche, la situazione attuale andava un po' al di là del sollievo che poteva derivare dall'urlarsi contro l'un l'altro per insignificanti divergenze di opinioni, e pur avendo in mente alcune divergenze di opinioni tutt'altro che insignificanti a cui avrebbe potuto attingere, non aveva peraltro intenzione di ferirla sollevando quegli argomenti. Tutto quello che
poteva fare era continuare ad aspettare e sperare di essere quello che si sarebbe trovato nel posto giusto per raccogliere i pezzi.
Naturalmente, se Fitzroy ha davvero tirato le cuoia... Era un
pensiero disonorevole, ma lui non riuscì a impedirgli di gettare radici. — Allora — commentò, osservando Vicki dirigersi verso la porta aperta della camera da letto, e chiedendosi per quanto tempo si sarebbe accontentato del loro status quo, se Fitzroy non fosse entrato nella loro vita, — adesso cosa facciamo? Vicki si girò a fissarlo con una certa sorpresa. — Esattamente quello che stavamo facendo — ribatté, assestandosi gli occhiali. — Quando troveremo le persone che hanno il corpo di mia madre, troveremo anche Henry. — Forse si è soltanto rintanato da qualche parte, perché si è attardato troppo fuori e ha dovuto ripararsi come poteva. — Non mi avrebbe fatto questo, se avesse potuto evitarlo. — Ti avrebbe chiamata? — commentò Celluci, incapace di reprimere una nota sarcastica nella voce. — Sì, mi avrebbe chiamata — confermò Vicki, a testa alta. Se
avesse potuto evitarlo, non mi avrebbe lasciata a pensare che sia morto. Non si fa una cosa del genere a una persona che si afferma di amare. — Troveremo mia madre, e troveremo Henry. — Se fosse morto, non mi avrebbe potuta chiamare, ma non è morto. — Hai capito?
In effetti, Celluci capiva benissimo, perché dopo nove anni era diventato molto abile a decifrare i suoi sottintesi, e se la sua comprensione era la sola cosa che lei era disposta ad accettare... allargò le mani, in un gesto conciliante che voleva anche indicare come lui non avesse nessun desiderio di continuare la discussione. — Prepara il caffè — gli disse Vicki, perdendo parte della propria rigidità, — mentre io faccio la doccia. — Cosa ti sembro? — protestò lui, levando gli occhi al cielo. — Un domestico a tutto servizio? — No. — Vicki si sentì tremare il labbro inferiore e vi applicò un
severo autocontrollo. — Sembri qualcuno su cui posso fare affidamento, indipendentemente da tutto. — Poi, prima che il nodo che aveva alla gola potesse fare altri danni, ruotò sui piedi nudi e uscì a passo di carica dalla stanza. Sentendosi a sua volta la gola contratta, Celluci si allontanò il solito ricciolo dalla fronte. — Proprio quando sei pronto a considerarla una causa persa — borbottò, scuotendo il capo, e andò a fare il caffè. Passandosi le dita fra i capelli bagnati, Vicki entrò in salotto e si lasciò cadere sul divano. Poteva sentire Celluci che borbottava fra sé in cucina e, memore di cosa era successo in altre occasioni, decise che sarebbe stato meglio non seccarlo mentre cucinava. Senza sapere esattamente come fosse successo, si trovò poi a sollevare la scatola contenente gli effetti personali di sua madre e a posarla davanti a sé sul tavolino.
Suppongo che nessuna giornata sia tanto brutta da non poterla rendere peggiore, si disse. Il contenuto della scatola era sorprendentemente scarso: una felpa che era stata tenuta appesa alla sedia dell'ufficio, per precauzione; due rossetti, uno rosa chiaro e l'altro di un sorprendente rosso acceso; mezza bottiglia di aspirina; la tazza da caffè; l'agenda con il suo ultimo, inutile appunto; la sua foto del diploma all'accademia. E un mucchietto di fogli sciolti. Raccolta la fotografia, Vicki indugiò a contemplare il volto della donna sorridente che essa raffigurava: appariva così giovane, così sicura di sé. — Davo l'impressione di credere di sapere tutto. — E credi ancora di sapere tutto — commentò Celluci, porgendole una tazza di caffè e togliendole di mano la fotografia. — Buon Dio. Una poliziotta in fasce. — Se ti ignoro, tornerai in cucina? — No — rispose lui, dopo averci pensato sopra per un secondo. — Grandioso. — Avvolgendosi meglio nell'accappatoio, Vicki
sollevò i fogli sfusi. Perché mai la signora Shaw avrà pensato che potessi volere degli appunti di mia madre? si chiese, poi vide come cominciava ogni pagina. Cara Vicki, probabilmente ti starai chiedendo perché ti scrivo una lettera invece di telefonarti, ma devo dirti una cosa importante, e ho pensato che avrei potuto farlo più facilmente in questo modo, senza interruzioni. Non ho più scritto una lettera da molto tempo, quindi spero che mi perdonerai... Cara Vicki, ti ho parlato dei risultati del mio ultimo checkup? Ecco, probabilmente non ti volevo annoiare con i dettagli, ma... Cara Vicki, innanzitutto, ti voglio molto bene e... Cara Vicki, quando tuo padre se n'è andato, ti ho promesso che per te io ci sarei sempre stata. Vorrei... Cara Vicki, ci sono alcune cose che è più facile dire in forma scritta, quindi spero che mi perdonerai questa piccola distanza che devo mettere fra noi. La dottoressa Friedman mi ha detto che ho un problema cardiaco e che potrei non avere molto da vivere. Per favore, non perdere la calma e non cominciare a pretendere che io veda un altro dottore, perché l'ho fatto. Sì, ho paura, perché qualsiasi persona razionale ne avrebbe, ma la mia paura maggiore è che succeda qualcosa prima che trovi il coraggio di dirtelo. Non voglio semplicemente scomparire dalla tua vita come ha fatto tuo padre, voglio che noi si abbia un'occasione di dirci addio. Quando riceverai questa lettera, chiamami, e ci metteremo d'accordo perché tu torni a casa per qualche giorno, in modo che noi ci si possa sedere e parlare sul serio. Ti voglio bene.
Quell'ultima lettera, la più completa, portava la data del venerdì antecedente la morte di Marjory Nelson. Lottando per ricacciare indietro le lacrime, Vicki ripose le lettere nella scatola con mani tremanti. — Vicki? Lei scosse il capo, impossibilitata a parlare a causa di un miscuglio di dolore e di rabbia. Anche se quella lettera fosse stata spedita, non avrebbero comunque avuto il tempo di dirsi addio. Gesù Cristo,
mamma, perché non mi hai fatta chiamare dalla dottoressa Friedman? — Vicki, io... — tentò ancora Celluci, protendendosi in avanti e leggendo il primo dei fogli. — Non dirlo — ingiunse lei, i denti talmente serrati da darle l'impressione che una banda di ferro le comprimesse le tempie. Un'altra sola parola di solidarietà, un'altra sola parola gentile sarebbe bastata a distruggere il minimo appiglio che conservava ancora sul proprio controllo. Muovendosi alla cieca, si alzò e si avviò in fretta verso la camera da letto. — Mi devo vestire, e dobbiamo cercare Henry.
Alle dieci e venti, Catherine sollevò il coperchio del contenitore di isolamento e sorrise alla donna che era stata un tempo Marjory Nelson. — Lo so, è terribilmente noioso stare lì dentro, vero? — commentò, mentre si infilava un paio di guanti chirurgici e scollegava abilmente il connettore, posandolo da un lato. — Dammi solo un secondo, e vedremo cosa possiamo fare per tirarti fuori di qui. — I tubi di alimentazione furono sfilati con delicatezza dai cateteri e riposti in specifici scomparti nei lati del contenitore. — Tutto considerato, hai una carnagione di un colore incredibilmente buono, ma credo sia necessario applicare un po' di crema agli estrogeni sull'epidermide, perché non vogliamo che qualche pezzo si rompa mentre ti muovi.
Canticchiando fra sé nel lavorare, Catherine s'interruppe due volte per prendere degli appunti sul tono muscolare e sulla flessibilità delle articolazioni. Finora, il numero dieci stava comprovando la sua teoria, perché nessuno degli altri, neppure il numero nove, aveva risposto così bene ai batteri. Era impaziente di vedere che risultati avrebbe dato Donald, il numero undici. Aveva già visto prima quella ragazza? Perché non riusciva a ricordarlo? Lei non era la ragazza giusta, anche se non riusciva a capire perché non lo fosse. Agganciando le dita sopra il bordo del contenitore, si issò a sedere. C'era qualcosa che doveva fare. Catherine scosse il capo. L'iniziativa era una cosa eccellente, ma in quel momento un corpo prono e immobile le sarebbe stato di maggiore utilità. — Sdraiati — ingiunse in tono severo.
Sdraiati. Quel comando corse lungo sentieri ben segnati, e il corpo obbedì. Lei però non si voleva sdraiare. O almeno pensava di non volerlo fare. — Stai cercando di accigliarti! Meraviglioso! — esclamò Catherine, battendo le mani guantate. — Perfino un controllo parziale dello zigomatico minore è un deciso progresso. Devo effettuare qualche misurazione. Il numero nove la guardò attentamente mentre si muoveva intorno a un'altra come lui, e ricordò un'altra parola.
Bisogno. Quando lei avesse avuto bisogno di lui, ci sarebbe stato.
Solo per un istante, gli parve di ricordare la musica. Con il numero dieci misurato, idratato, vestito e seduto su un lato della stanza, Catherine rivolse infine la propria attenzione all'intruso. Da quando era tornata nel laboratorio, non aveva più sentito rumori di sorta provenire dal contenitore del numero nove, e sperava che l'intruso non fosse morto, perché senza la registrazione delle onde cerebrali e senza batteri adattati al suo fisico, quello sarebbe stato uno spreco di un ottimo corpo, soprattutto se lui era soffocato o se aveva avuto un attacco cardiaco, nei quali casi non ci sarebbe stato neppure un trauma a cui porre riparo. — Naturalmente, se è morto, potremmo usare le onde cerebrali di Donald e batteri generici — rifletté nel sollevare il coperchio. — Dopo tutto, ha funzionato con il numero nove, e lui non era certo un corpo fresco. Sarebbe bello poter avere un po' di dati di backup, tanto per cambiare. Il suo sguardo si abbassò con perplessità sul contenitore, nel quale l'intruso giaceva con una mano pallida ripiegata contro il petto e l'altra abbandonata lungo il fianco con il palmo verso l'alto. Gli occhi erano chiusi e le lunghe ciglia, appena più scure dei capelli di un biondo rossiccio, sfioravano la curva delle guance pallide. Lui non sembrava proprio morto, ma non sembrava neppure del tutto vivo. Inclinando la testa da un lato, Catherine gli spinse indietro il colletto e gli premette due dita contro la gola in cerca di pulsazioni. La sua carne aveva più tono di quanto si sarebbe aspettata, decisamente più di quanto ne avrebbe avuto un cadavere, ma pareva anche che la sua temperatura corporea si fosse abbassata troppo perché potesse essere ancora vivo. Questo la spinse a verificare che l'unità di refrigerazione fosse stata effettivamente spenta, constatando che era proprio così. — Davvero strano — mormorò. Poi le cose si fecero ancora più strane, perché proprio quando stava per convincersi che il cuore dell'uomo si fosse fermato per un qualche motivo, un singolo battito le pulsò sotto le dita. Sempre più accigliata, rimase in attesa con lo sguardo fisso sui secondi che scorrevano, e poco più di otto secondi dopo il cuore dell'intruso batté di nuovo. E ancora dopo altri otto
secondi. — Circa sette battiti al minuto — rifletté, tamburellando con entrambe le mani sui lati del contenitore. — In un normale essere umano a riposo, l'alternanza di sistole e diastole si verifica con una media di circa settanta volte al minuto. Ciò che abbiamo qui è un cuore che sta battendo a una velocità che è un decimo di quella normale. Aggrottando le sopracciglia, sollevò con cura una palpebra fra pollice e indice: l'occhio non si era rovesciato all'indietro e la pupilla, invece di essere protetta sotto l'arco d'osso della fronte, rimaneva centrata, anche se contratta alle dimensioni di una punta di spillo. Non c'erano reazioni a nessun tipo di luce, e neppure reazioni a qualsiasi altro genere di stimolo, applicato a qualsiasi altra parte del corpo... e lei li tentò tutti. Accompagnato da una respirazione di basso livello, il cuore continuava a battere fra le sette e le otto volte al minuto, impossibile da registrare se non se ne cercava espressamente il battito, e quelli erano gli unici segni di vita. Aveva sentito dire che i fachiri indiani erano in grado di scivolare in uno stato di trance tanto profonda da sembrare in coma o addirittura morti, quindi suppose che quella fosse la variazione nordamericana di quel talento, che nel trovarsi intrappolato, l'intruso avesse abbassato il proprio metabolismo per conservare le risorse. Non aveva idea di cosa avesse sperato di ottenere in quel modo, dato che al momento appariva totalmente incapace di difendersi, ma doveva ammettere che, a parte quella considerazione poco importante, il suo era un trucchetto davvero interessante. Infine, si fece aiutare dal numero nove per rimuovere l'impermeabile di cuoio, poi arrotolò una manica e prelevò due fiale di sangue. Era stata sua intenzione prenderne tre, ma dal momento che la pressione sanguigna dell'intruso era tanto bassa, due consumavano tutto il tempo che lei aveva a disposizione. Eseguire un'analisi del sangue avrebbe potuto fornirle qualche risposta su quella sorta di trance, ma anche se non ci fosse riuscita, avrebbe potuto comunque usare in seguito le informazioni raccolte, qualora l'intruso avesse finito per morire.
— Senta, detective Fergusson, sono consapevole che mia madre è morta di cause naturali prima che venisse commesso il crimine, e sono consapevole che questo fa di lei una priorità molto bassa, ma... — Signorina Nelson — la interruppe il detective Fergusson, in un tono che era una via di mezzo fra l'esasperazione e l'irritazione, — mi dispiace che sia turbata, ma ho per le mani l'assassinio di un adolescente, e vorrei trovare la carogna che lo ha fatto fuori prima di dover far fronte a un altro cadavere. — Lei è il solo detective in servizio? — ritorse Vicki, tamburellando un ritmo scandito lungo un lato della protezione di plastica del telefono a gettoni. — No, ma sono quello che è stato assegnato al caso. Mi dispiace se questo significa che non posso dare a sua madre l'attenzione che lei pensa che meriti... — I due casi sono collegati — ringhiò Vicki. Alle sue spalle, appoggiato alla porta aperta della cabina telefonica, Celluci levò gli occhi al cielo: anche senza sentire ciò che veniva detto dall'altro capo del filo, provava una certa comprensione per la posizione di Fergusson, perché se da un lato era capace di essere di una delicatezza chirurgica con un testimone, con il resto del mondo Vicki aveva la tendenza a usare martello e cesello come forma di diplomazia. — Collegati? — L'esasperazione era svanita. — In che modo? Vicki aprì la bocca e la richiuse con uno schiocco quasi udibile.
Mia madre è stata trasformata in un mostro, e il ragazzo è stato ucciso da un mostro uguale a lei. Troviamo mia madre, e le garantisco che troverà il suo colpevole. Come faccio a sapere tutto questo. Non posso dirglielo. E comunque lui è scomparso. Merda. — Senta, diciamo che si tratta di un'intuizione, d'accordo? — mediò, assestandosi gli occhiali. — Un'intuizione?
— Un'intuizione. Rendendosi conto che anche lei avrebbe reagito più o meno nello stesso modo, se le loro posizioni fossero state invertite, Vicki si mise bruscamente sulla difensiva. — Cosa le prende? Non ha mai avuto un'intuizione? Prevedendo un disastro qualora l'attuale conversazione si fosse protratta, Celluci si servì di una spalla per spingere Vicki lontano dal telefono e le strappò di mano il ricevitore. Pur accigliandosi, lei gli permise di interferire con mala grazia e con la consapevolezza che inimicarsi la polizia di Kingston non era una buona idea. — detective Fergusson? Sono il detective Celluci. Abbiamo appurato che uno degli specializzandi della dottoressa Burke, un certo Donald Li, corrisponde almeno superficialmente alla descrizione di Tom Chen. Le saremmo grati se potesse chiamare l'ufficio di registrazione e chiedere che rilascino una copia della sua fotografia, in modo da poter verificare la sua identità all'impresa di pompe funebri. — Ho già chiamato ieri l'ufficio di registrazione — sospirò Fergusson. — E loro hanno fornito le fotografie degli studenti di medicina, solo che Li non sta studiando medicina, e non ci daranno la sua fotografia senza un'altra telefonata da parte sua. — Perché pensate che Li sia coinvolto? — Perché lavora per la dottoressa Burke, come faceva Marjory Nelson. — Capisco. E perché pensate che la dottoressa Burke sia coinvolta? — Perché lei sembra possedere le capacità scientifiche necessarie a richiamare in vita i morti, oltre ad avere accesso alle necessarie apparecchiature. — Ma mi faccia il piacere, detective — ribatté Fegusson, con voce in cui l'incredulità gareggiava con l'ira per acquisire il controllo. — Come le è saltata in testa questa fottuta idea dei morti che risorgono?
Una valida domanda, ammise Celluci, ignorando lo sguardo
rovente di Vicki, tanto intenso da poterne quasi avvertire l'impatto. Presa una rapida decisione alla luce del fatto che la polizia era già coinvolta, decise di riferire la verità, almeno nella misura in cui riteneva che Fergusson fosse in grado di accettarla. — Due notti fa, la signorina Nelson ha visto sua madre fuori della finestra del suo appartamento — spiegò. — La sua defunta madre? — Esatto. — Che se ne andava in giro? — Sì. — E adesso mi dirà che è stata la sua defunta madre a far fuori il mio studente — ringhiò Fergusson. — No, ma... — Niente ma, detective — tagliò corto Fergusson, con voce scandita. — Ho ascoltato tutte le assurdità che sono in grado di tollerare. Tornate a Toronto e imparate a stare al mondo. Tutti e due! Celluci allontanò il ricevitore dall'orecchio appena in tempo per salvarsi il timpano dalla violenza con cui Fergusson chiuse la comunicazione, e riappese a sua volta la cornetta con altrettanta enfasi. — Non avrei dovuto permetterti di parlargli. — E tu credi di aver fatto molto meglio? — ribatté Vicki, socchiudendo gli occhi dietro le lenti. — Cosa diavolo ti ha indotto a parlargli di mia madre e della dottoressa Burke? Celluci spinse per uscire dalla cabina telefonica, e lei indietreggiò dello stretto necessario per permettergli di passare. — Questa è scienza, Vicki, non una delle assurde situazioni soprannaturali in cui il tuo amico nonmorto ci ha ficcati lo scorso anno. Credevo che lui fosse in grado di capire, e che dovesse essere informato. — Non hai pensato che prima ne avremmo dovuto discutere?
— Hai sollevato tu l'argomento. "I casi sono collegati." Gesù, Vicki, sapevi di non poter supportare un'affermazione del genere. — Non ho visto te supportare molto bene le tue affermazioni, Celluci — ribatté lei, poi si costrinse a rilassare i denti serrati e aggiunse: — Devo supporre che non farà quella telefonata? L'espressione accigliata di Celluci fu una risposta più che sufficiente. — D'accordo — decise Vicki, raccogliendo la borsetta dal marciapiede e issandosela in spalla. — Suppongo che dovremo procedere nel modo più difficile. — La stai prendendo con molta più filosofia di quanto mi sarei aspettato. — Mike, la mia defunta madre è stata trasformata in una sorta di mostro da film di serie B, il mio... — che parola usare? — ... amico, che il caso vuole sia anche un vampiro, è scomparso, di giorno, e probabilmente è stato catturato. Quando dormo ho gli incubi, e quando mangio il cibo si trasforma in un sasso nello stomaco — continuò, girandosi a fissarlo con un'espressione che gli fece contrarre il cuore. — Trovo davvero difficile curarmi del fatto che la polizia locale non veda le cose nella mia ottica. — Hai ancora me. — Era il meglio che poteva offrire. Sentendo il labbro inferiore che cominciava a tremare, Vicki lo serrò selvaggiamente fra i denti. Incapace di fidarsi della propria voce, si protese a spingergli via dalla fronte il ricciolo di capelli castani e si allontanò dagli edifici dell'Amministrazione, con i tacchi che percuotevano la pavimentazione con tanta forza che vi avrebbero dovuto lasciare delle impronte a mezzaluna. Celluci rimase per un momento fermo a osservarla. — Non c'è di che — mormorò, con voce non del tutto salda, poi la raggiunse con una dozzina di lunghi passi e si avviò al suo fianco. — Bene, Catherine, eccomi qui — annunciò la dottoressa Burke, richiudendosi alle spalle la porta del laboratorio e attraversando la stanza con passo deciso. — Cos'hai trovato di tanto importante da
richiedere che io lo veda immediatamente? Catherine sbucò da dietro la console del computer e le porse una pagina stampata. — Non è esattamente importante... più che altro, non capisco che cosa sia. Potrebbe dare un'occhiata ai risultati di quest'analisi del sangue? La dottoressa Burke fissò il foglio di carta con espressione accigliata. — Elementi costitutivi, sessanta per cento di globuli rossi, che è un valore alto. Proteine plasmatiche, venti per cento... anche questo è alto. Nutrienti organici... Catherine, che cosa è questo? — chiese, sollevando lo sguardo. — Legga il resto — replicò Catherine. Anche se era incline a esigere una spiegazione immediata, per rispetto delle capacità della specializzanda... dato che dopo tutto manipolarne il genio era stato dall'inizio l'elemento di base di tutto quel piano... indusse la dottoressa Burke a riportare lo sguardo sullo stampato. — Dieci milioni di globuli rossi per millimetro cubo di sangue? È il doppio della norma umana, e se questo dato sull'emoglobina è esatto... — Lo è. — Allora che cosa è questo, esattamente? — ribadì la dottoressa Burke, ficcando il foglio fra le mani di Catherine per dare maggior enfasi alle proprie parole. — Un sostitutivo della soluzione nutritiva? — No, anche se... — Gli occhi della ragazza persero focalizzazione e due chiazze di colore affiorarono sulle guance pallide. La dottoressa Burke riconobbe quei segnali, ma in quel momento non aveva il tempo di permettere al suo genio di percolare, perché per venire lì aveva dovuto posporre una riunione di fine trimestre, e non aveva intenzione di accumulare altri ritardi. — Pensaci dopo. Sto aspettando. — Sì. Ecco... — Catherine trasse un profondo respiro e si assestò il davanti del camice da laboratorio. Non aveva ancora neppure
cominciato a considerare le applicazioni sperimentali: la capacità di effettuare simili balzi intuitivi doveva essere ciò che faceva della dottoressa Burke una così brillante scienziata. — La scorsa notte abbiamo avuto un intruso nel laboratorio. — Un cosa? — Un intruso — ripeté Catherine, sbattendo le palpebre di fronte al volume e al tono di quell'esclamazione. — Non si preoccupi, il numero nove si è occupato di lui. — Il numero nove si è occupato di lui? — ripeté la dottoressa Burke, vedendo il proprio mondo che si faceva all'improvviso molto più complicato, e scoccò un'occhiata verso il lato opposto della stanza, dove il numero nove e Marj... e il numero dieci sedevano a ridosso del muro. — Come si è occupato di quel ragazzo? — Oh, no! Ha catturato l'intruso, e gli sono bastate semplici istruzioni di base. Non ci possono proprio più essere dubbi che stia ragionando in modo indipendente, anche se non ho ancora avuto il tempo di eseguire un nuovo EEG. — Catherine, sono certa che tutto questo sia affascinante, ma l'intruso? Che ne hai fatto di lui? — L'ho chiuso nel contenitore di isolamento del numero nove. — È ancora lì dentro? — Sì. All'inizio ha fatto un chiasso terribile, che mi ha distratta in modo fastidioso mentre lavoravo, soprattutto se si considera che ho dovuto fare tutto da sola, ma verso l'alba si è quietato. — Si è quietato — ripeté la dottoressa Burke, massaggiandosi le tempie. Grazie a Dio, Catherine aveva continuato ad armeggiare in laboratorio molto tempo dopo che il resto del mondo era andato a dormire! Se in giro non ci fosse stato nessuno a fermare l'intruso, senza dubbio sarebbero andati incontro a una grande quantità di problemi. D'altro canto, però, il fatto che Catherine avesse fermato l'intruso aveva dei pro e dei contro, perché la sua idea delle procedure operative standard del mondo comune non era molto chiara. — Non è morto, vero? Voglio dire, lo hai controllato? — E se
è vivo, che diavolo ne facciamo di lui?
— Certo che l'ho fatto. Il suo metabolismo è estremamente basso, ma è vivo — rispose Catherine, — e questa è un'analisi parziale del suo sangue — aggiunse, esibendo il foglio di carta. — Questo è impossibile — scattò la dottoressa Burke. Con un intruso prigioniero a cui far fronte, non aveva tempo per le assurde fissazioni della sua specializzanda. — Oh, no, non lo è — dichiarò Catherine, scuotendo il capo. — Nessuno ha un sangue del genere. Devi aver sbagliato qualcosa. — No. — Allora il campione era contaminato. — Non lo era. Incapace di infrangere quella calma certezza, la dottoressa Burke afferrò di nuovo il foglio e lo fissò con occhi roventi, scrutando i dati che aveva già letto e prestando maggiore al resto. — Questo cos'è? Non riguarda il sangue. — Ho eseguito anche un tampone orale. — Il tuo intruso ha tromboplastine presenti nella saliva? Questo è ridicolo! — Non è il mio intruso! — protestò Catherine. — E se non si fida dei miei risultati, esegua lei stessa i test. E comunque, se nota, non sono esattamente tromboplastine, anche se esiste una somiglianza del novantotto punto sette per cento. — Nessuno ha quel genere di elementi coagulanti nella sa... — cominciò la dottoressa, poi s'interruppe. Dieci milioni di globuli rossi per millimetro cubo di sangue... tromboplastine nella saliva... si era quietato all'alba... il suo metabolismo era estremamente basso... si era quietato all'alba... all'alba... — No, è impossibile. Socchiudendo gli occhi, Catherine squadrò le spalle. Non riusciva a capire perché la dottoressa Burke continuasse a negare quei risultati sperimentali, perché la scienza non mentiva. — È ovvio che non è impossibile — dichiarò. La dottoressa Burke la ignorò. Con il cuore che le martellava nel
petto, si girò verso la fila di contenitori di isolamento. — Credo sia meglio che dia un'occhiata al tuo intruso — disse lentamente. — Non è il mio intruso — borbottò di nuovo Catherine, appoggiando le mani sul bordo del contenitore del numero nove, che adesso non era più soltanto del numero nove, la dottoressa Burke si disse che stava permettendo alla fantasia di avere la meglio sul buon senso.
Non può essere ciò che le prove lasciano intendere che sia. Una creatura del genere esiste solo nel mito e nella leggenda, non se ne va in giro per il ventesimo secolo. Ma se i risultati dei test erano
esatti...
Probabilmente esiste una spiegazione scientifica del tutto normale per tutto questo, si disse con fermezza, e aprì il coperchio. — Buon Dio, è più pallido di te. Non credevo che questo fosse possibile — commentò. Non si era aspettata che l'intruso apparisse tanto giovane. Come Catherine aveva fatto in precedenza, gli premette le dita contro la colonna d'avorio della gola; passarono trenta secondi, durante i quali rimase immobile in silenzio, con lo sguardo fisso sull'orologio, poi si umettò le labbra e disse: — Un po' meno di otto battiti al minuto. — Anch'io ho riscontrato la stessa cosa — annuì Catherine, soddisfatta che i suoi dati fossero stati confermati. Intanto la dottoressa si protese per controllare le pupille, ma la sua mano, quasi di propria volontà, si stese invece a sollevare un labbro appena sfumato di colore. — Cosa sta cercando? — domandò Catherine, accigliandosi. La dottoressa quasi non sentì la domanda, a causa del battito stentoreo del proprio cuore. — Canini allungati — sussurrò, rendendosi conto che si stava comportando come una vecchia sciocca. — Canini allungati. Chinandosi in avanti, Catherine esaminò la fila di denti candidi messi a nudo. — Anche se quei canini sono un po' marcati, non arriverei al
punto di... — Dannazione! Sono affilati! Insieme, le due donne guardarono la goccia di sangue rotolare dalla puntura nel dito della dottoressa, infrangendosi carminia contro la barriera dei denti per poi filtrare fra di essi e scivolare nella bocca. Con tanta lentezza che il movimento sarebbe loro sfuggito se non fossero state intente a fissarlo così intensamente, il giovane deglutì. Nel lungo momento che seguì, la dottoressa Burke passò in esame un migliaio di motivi razionali per cui quella creatura non poteva essere ciò che doveva invece essere. — Catherine, ti rendi conto di cosa abbiamo qui? — chiese infine. — Un'incipiente infezione percutanea. Farà meglio a disinfettare la puntura. — No, no, no. Sai che cosa è lui? — No, dottoressa — replicò Catherine, dondolandosi sui talloni e infilando le mani nelle tasche del camice. — Quando ho visto i risultati delle analisi del sangue mi sono resa conto che non sapevo cosa lui fosse. Per questo l'ho chiamata. — Questo — proseguì la dottoressa, con la voce che le saliva di tono per un'eccitazione che non si prese il disturbo di reprimere, — è un vampiro! — Nel parlare si girò di scatto a fissare Catherine, che appariva solo cortesemente interessata. — Buon Dio, ragazza, non lo trovi stupefacente? Questo è un vampiro! E siamo noi ad averlo. — Suppongo di sì. — Lo supponi? — ripeté la dottoressa Burke, fissando con incredulità la specializzanda. — Abbiamo un vampiro che penetra nel nostro laboratorio e tu supponi che sia stupefacente? Catherine scrollò le spalle. — Catherine! Tira fuori la testa dalle tue provette e rifletti su cosa questo significhi! Fino a questo momento, i vampiri erano creature mitologiche e leggendarie. Noi possiamo provare che esistono! — Credevo che i vampiri si disintegrassero alla luce del giorno.
— Ma lui non vi è stato esposto, giusto? — ribatté la dottoressa, indicando con un ampio gesto la fila di finestre chiuse da assi. — Questo farà impazzire la comunità scientifica! — Se è un vampiro. Per ora, possiamo provare soltanto che ha un gruppo sanguigno iperefficiente, agenti coagulanti nella saliva e denti affilati. — E questo non ti dice che è un vampiro? — Ecco, non lo dimostra. Il sorgere del sole potrebbe aver causato l'abbassarsi del livello metabolico, ma non possiamo dimostrare neppure questo. Suppongo — proseguì con aria riflessiva, — che potremmo spingerlo a ridosso di una finestra aperta e vedere cosa succede. — No! — La dottoressa Burke trasse un profondo respiro e si appoggiò contro il contenitore di isolamento del numero otto, lasciando che la sommessa vibrazione del macchinario le calmasse i nervi ipertesi. — Questo è un vampiro, ne sono certa come non lo sono mai stata di altro nella mia vita. Hai visto come ha reagito al mio sangue. — Quello è stato davvero strano. — Strano? È stato incredibile. — Sollevando con la sinistra il fianco del vampiro, che risultò essere più pesante di quanto si aspettasse, la dottoressa infilò la destra nella tasca dei suoi pantaloni e tirò fuori un sottile portafoglio di cuoio nero, commentando: — E adesso scopriamo chi sei. — Possibile che un vampiro abbia dei documenti di identità? — Perché no? Siamo nel ventesimo secolo, e tutti hanno documenti di qualche tipo. Ecco qui: Henry Fitzroy. Suppongo non si possano chiamare tutti Vladimir. — Con le labbra contratte e un bagliore nello sguardo, la dottoressa rigirò fra le dita una carta di credito dorata. — "Mai lasciare la cripta senza averla con sé" commenterebbe Donald. A proposito di Donald... si può sapere dov'è? — domandò, guardandosi intorno con aria accigliata. — Ecco, vede... — cominciò Catherine, posando con delicatezza una mano sul contenitore del numero otto. — Lui...
— Questa mattina ha quel dannato seminario tutoria— le, vero? E immagino che se ne fosse andato da tempo quando è arrivato il nostro visitatore. Peggio per lui, dovrai metterlo al corrente più tardi. Dunque, vediamo, libretto dell'auto, assicurazione... ah, la patente. A quanto pare, il mito che i vampiri non possano apparire in fotografia è fasullo. — Non riesco semplicemente a credere che abbiamo dei vampiri a Kingston. — Non ne abbiamo. Lui è di Toronto. — Raccolto il contenuto del portafoglio, la dottoressa gettò il tutto su un mucchio di vestiti drappeggiati su una vicina sedia. — Dovremo fare qualcosa riguardo alla sua macchina... no, meglio di no. Scomparirà e basta, diventerà un altro tragico dato statistico. La sua vita era già una menzogna. Chi mai verrà a cercarlo? Nel parlare, batté un colpetto su una mano pallida, accarezzando appena la sua fine peluria dorata. — Fra tutti i laboratori del mondo, dovevi capitare proprio nel mio. — Ma, dottoressa Burke, che ne facciamo di lui? — Lo studiamo, Catherine, lo studiamo. Inclinando il capo da un lato, Catherine scrutò la dottoressa: l'ultima volta che l'aveva vista così eccitata era stato il giorno in cui il numero quattro aveva fatto l'iniziale passo avanti con la rete neurale. I suoi occhi avevano contenuto lo stesso scintillante miscuglio di avidità e di soddisfazione che stavano esprimendo adesso, e nel pensarci sopra, si rese conto che quell'espressione non le era piaciuta neppure allora. — Dottoressa Burke, i vampiri esulano dai miei parametri sperimentali — disse.
Capitolo undicesimo Vicki sollevò il volto, offrendolo al vento che soffiava dal Lago Ontario, e ricordò come quel pezzo di pietra che si protendeva nell'acqua fosse stato un tempo per lei rifugio e insieme fonte di ispirazione. Per tutta la sua adolescenza, ogni volta che la sua vita si era fatta troppo complicata perché lei potesse vedere con chiarezza la strada da imboccare, era venuta nel parco e si era arrampicata su quella roccia, dove il mondo si semplificava, riducendosi al lago e al vento. La città alle sue spalle scompariva e la vita veniva rimessa in prospettiva. Non aveva avuto importanza che fosse estate o inverno, che il tempo fosse buono o cattivo. Il lago riversava ancora ritmicamente le sue onde contro la roccia sotto i suoi piedi e il vento continuava a raccogliere gli spruzzi e a scagliarglieli contro, ma anche messe insieme, quelle due cose non erano più abbastanza forti da dipanare le complicazioni del mondo. Serrando il braccio intorno alla massa della borsetta, escluse dalla propria mente il rumore delle onde e tese l'orecchio per cogliere lo scricchiolio della carta, sentì le parole della lettera che venivano lette dalla voce di sua madre.
Non voglio semplicemente scomparire dalla tua vita come ha fatto tuo padre, voglio che noi si abbia un 'occasione di dirci addio. Si asciugò l'acqua dalle guance prima di girarsi e di scendere verso il punto in cui Celluci la stava aspettando più o meno pazientemente, vicino alla macchina. La deviazione le era fruttata soltanto il fatto di bagnarsi le scarpe e la consapevolezza che il solo modo per uscire dalla situazione sarebbe stato quello di venirne fuori con le sue forze.
D 'accordo, dedichiamoci a ritrovare mia madre. Troviamo lei, e troviamo Henry. E allora potremo... potremo... Si assestò gli occhiali con tanta violenza da far sbattere la plastica
contro la fronte, ignorando le gocce d'acqua che punteggiavano le lenti, e rifiutando di ammettere la presenza delle gocce salate che si trovavano sul loro lato interno. Dedichiamoci semplicemente a
ritrovarli. Poi ci preoccuperemo di cosa fare dopo.
— Buon giorno, signora Shaw. Posso vedere la dottoressa Burke? — No, cara, mi dispiace ma è appena uscita. Vicki, che era rimasta in attesa finché non aveva visto la dottoressa Burke lasciare in tutta fretta l'ufficio, finse di assumere un'aria contrariata. — Posso fare qualcosa per aiutarla? — Ho bisogno di parlare con Donald Li riguardo a mia madre — spiegò Vicki, mostrandosi subito speranzosa, — ma sto scoprendo che è impossibile rintracciarlo nel campus. Mi stavo chiedendo se la dottoressa Burke non potesse darmi il suo indirizzo di casa. Sorridendole, la signora Shaw trasse a sé uno schedario da tavolo stracolmo. — Non ha bisogno di disturbare la dottoressa Burke per questo, ho l'indirizzo di Donald proprio qui. — Uh, signora Shaw... — intervenne la giovane donna che era stata temporaneamente assegnata all'ufficio, facendo scorrere con disagio lo sguardo dalla sua collega a Vicki. — Ritiene sia il caso di fornirlo? Voglio dire, si tratta di un'informazione personale, e... — Non si preoccupi di questo, signorina Grenier — ordinò con fermezza la signora Shaw, sfogliando fra i cartellini con perizia derivante dalla pratica. — Questa è la figlia di Marjory Nelson. — Sì, ma... Vicki si protese in avanti, intercettando lo sguardo della segretaria temporanea. — Sono certa che a Donald non seccherà — affermò con calma. La signorina Grenier aprì la bocca per obiettare, poi la richiuse e decise che non veniva pagata abbastanza per interferire con qualcuno che aveva appena messo bene in chiaro la sua intenzione
di rimuovere dal campo qualsiasi ostacolo, anche su una barella, se si fosse reso necessario. Intanto la signora Shaw copiò l'indirizzo sul retro di un foglietto promemoria e lo porse a Vicki. — Ecco fatto, cara. La polizia ha fatto sapere qualcosa di nuovo riguardo al corpo di sua madre? — No — rispose Vicki, accartocciando fra le dita il foglietto rosa. — Non ancora. — Mi terrà informata? — Certo — garantì Vicki, senza sforzarsi di sorridere. — Grazie per questo. — Probabilmente, fu una fortuna che la porta dell'ufficio fosse stata progettata in modo tale da non poter essere sbattuta. — Prima sua madre muore, e poi si scopre che il suo corpo è stato rubato — commentò la signora Shaw, con un profondo sospiro, scuotendo il capo. — Quella povera ragazza ne è stata devastata. Con una smorfia silenziosa, ma eloquente, la signorina Grenier tornò a concentrarsi sulla sua tastiera: per quanto la riguardava, devastato era un termine più adatto a descrivere qualsiasi cosa che intralciasse la strada a quella donna, ma non poteva certo essere applicato al suo stato emotivo. Celluci non fece commenti quando Vicki prese posto sul sedile accanto al suo e sbatté la portiera della macchina. Anche se lei aveva ribadito di poter far fronte a qualsiasi espressione di solidarietà da parte dell'ex— col— lega di sua madre, era evidente che qualcosa aveva penetrato le sue difese, ma dal momento che non poteva dire nulla che le fosse di aiuto, lui si limitò ad avviare il motore e a uscire dal parcheggio. — Alla prossima svolta a sinistra — ordinò Vicki, con voce tersa, allungando la cintura di sicurezza con uno strattone e agganciandola con violenza. — Siamo diretti verso Elliot Street. — Tre isolati più tardi, emise un profondo sospiro, commentando: — Ci sono buone probabilità che questo sia stato molto meno difficile che entrare di nascosto nell'ufficio di registrazione. — Per non parlare del fatto che è meno illegale — le fece notare
Celluci, in tono asciutto. La sua ricompensa fu un fugace accenno di sorriso, che apparve e svanì tanto in fretta che gli sarebbe sfuggito, se non fosse stato in attesa di vederlo apparire. — Per non parlare di questo — convenne Vicki. — Catherine — disse la dottoressa Burke, girandosi verso il muro e chiudendo la mano libera intorno al microfono del telefono per non essere sentita, — ho pensato di farti una rapida telefonata fra una riunione e l'altra per sapere come stanno procedendo quei test. — Ecco, i suoi leucociti sono davvero incredibili. Non avevo mai visto globuli bianchi come questi. — Hai preso qualche campione di tessuto? — Non ancora, perché pensavo che volesse avere prima le analisi del sangue. Ne ho prelevate altre due fiale, insieme a un campione di fluido linfatico, e... dottoressa, i suoi plasmociti sono unici quanto tutto il resto. — Unici in che senso? — chiese la dottoressa, ignorando i gesti che le stava rivolgendo un collega, perché tanto non potevano cominciare quella dannata riunione senza di lei. — Ecco, non sono un'immunologa, ma avendo un po' di tempo a disposizione potrei essere in grado di... Un'improvvisa realizzazione parve rendere tutto più nitido e definito agli occhi della dottoressa Burke. — Buon Dio, potresti essere in grado di sviluppare una cura per l'AIDS — mormorò. E questo avrebbe significato molto più di un semplice Premio Nobel: un vaccino per l'AIDS le avrebbe praticamente fruttato la santificazione. — Ecco, sì, suppongo che quello potrebbe essere uno dei risultati — ammise con esitazione Catherine. — Io però stavo pensando più che altro alle applicazioni ai miei batteri, e... — Pensa in grande, Catherine. Senti, adesso devo andare. Concentrati sui plasmociti, che credo costituiscano la nostra carta
migliore... Oh, per l'amor di Dio, Rob, sto arrivando! — Chiusa la comunicazione, la dottoressa si girò verso un uomo dall'aria nervosa che attendeva accanto a lei. — Qual è il tuo problema? — ringhiò. — Uh... la riunione... — Ah, sì, la riunione. Dio non voglia che noi non si sprechi in riunioni la metà della nostra vita! — esclamò la dottoressa, attraversando la sala riunioni praticamente a passo di danza. Ho catturato un vampiro, e lui mi darà il mondo! Un vaccino per l'AIDS sarebbe stato soltanto l'inizio. Nel seguirla, il dottor Rob Fontin, professore associato di microbiologia, si trovò a desiderare di avere una scusa per tagliare la corda, perché quando Aline Burke appariva tanto allegra, qualcuno stava per rimetterci il collo. Nel laboratorio, Catherine fissò il telefono per un momento, poi scosse tristemente il capo. — Non è come se non avessi altre cose da fare — borbottò. Girandosi un poco, scoccò un sorriso rassicurante al numero nove e al numero dieci. Per tutto il giorno, li aveva fatti alternare all'interno dell'unico contenitore di isolamento disponibile a seconda di ciò che richiedevano le loro esigenze fisiche, ma in realtà non era riuscita a passare del tempo con loro. — Non vi sto ignorando — li rassicurò con assoluta serietà. — Finisco quest'analisi per la dottoressa Burke, e dopo potremo occuparci di cose importanti. Per quanto riguardava Donald, poteva ignorarlo per altre dodici ore circa senza sentirsi in colpa, ma non era giusto nei confronti degli altri due che tutto il suo tempo venisse assorbito dal signor Henry Fitzroy, vampiro. Dopo tutto, lui non sarebbe certo andato da nessuna parte. La chiave non era ancora neanche entrata nella serratura quando la porta dell'altro appartamento si aprì e il signor Delgado uscì sul pianerottolo.
— Vicki, pensavo fossi tu — disse, avanzando verso di lei con un'espressione preoccupata. — La polizia non ha ancora trovato niente? — Non si può dire che stia ancora cercando — replicò Vicki, senza mezzi termini. — Non sta cercando? Ma... — Quell'omicidio all'università sta richiedendo tutti i loro effettivi — interloquì Celluci. — Stanno facendo quello che possono. — È ovvio che lei parli così, detective Celluci — sbuffò il vecchio, — ma lei non dovrebbe essere costretta a fare tutto questo — continuò, accennando a Vicki. — Non dovrebbe andare in giro a cercare. — È una mia responsabilità, signor Delgado — ribatté Vicki, le dita che sbiancavano intorno alla chiave. — Perché? — ribatté lui, allargando le mani. — Perché è mia madre. — No — precisò lui, scuotendo il capo. — Lei era tua madre, ma tua madre non c'è più. Tua madre è morta, e trovarne il corpo non te la riporterà indietro. Celluci vide un muscolo contrarsi lungo la mascella di Vicki e si attese un'esplosione che, con sua sorpresa, non si verificò. — Lei non capisce — si limitò a dire lei, a denti stretti, ed entrò in fretta nell'appartamento. Celluci indugiò sul pianerottolo per un momento ancora. — So che ho ragione. L'ho vista crescere — sospirò il signor Delgado... il sospiro stanco e profondo di un vecchio che aveva visto più morte di quanto gli andasse di ricordare. — Pensa che sia colpa sua se sua madre è morta, e che se solo ne ritroverà il corpo, potrà fare ammenda. — È una cosa tanto brutta? — Sì, perché non è colpa sua se Marjory è morta — ribatté il signor Delgado, poi girò sui tacchi e lasciò Celluci in piedi da solo sul pianerottolo.
Trovò Vicki seduta sul divano, con lo sguardo fisso sui suoi appunti e tutte le luci accese anche se era solo metà pomeriggio e il salotto era tutt'altro che buio. — Lui non sa di Henry — gli disse, senza sollevare lo sguardo. — Lo so — annuì Celluci. — E solo perché ho reagito al furto del corpo di mia madre cercando di ritrovarlo, questo non significa che stia reprimendo qualcosa. Le persone hanno modi diversi di affrontare il dolore del lutto. Dannazione, se fossi al mio posto, anche tu saresti in giro a cercare il corpo di tua madre. — Te lo concedo. — Mia madre è morta, Mike. Questo lo so.
È quello che continui a ripetere, avrebbe voluto ribattere Celluci,
ma serrò i denti per ricacciare indietro quelle parole.
— E mia madre non è più il fottuto centro del problema. Dobbiamo trovare Henry prima che lo trasformino in un... Cristo! — esclamò, strappandosi gli occhiali e massaggiandosi gli occhi. — Credi che Donald Li abbia tagliato la corda? — domandò poi, costringendosi a formulare quelle parole con lo stesso tono che aveva usato in un centinaio di altre occasioni in cui avevano ricercato un centinaio di altri giovani uomini. — Credo che se uno studente universitario passa una notte lontano da casa, di solito questo significa che ha avuto un colpo di fortuna — commentò Celluci, tenendola attentamente d'occhio, ma adeguando il proprio tono al suo. — D'altro canto, se lui è davvero Tom Chen, probabilmente sa che lo stiamo cercando e si è nascosto. Forse dovremmo piantonare il suo appartamento. — Quella vecchia signora del primo piano ha promesso che mi avrebbe chiamato se lui fosse tornato a casa. Suppongo che non le sfuggano molte cose. — La mia supposizione è che non le sfugga nulla — dichiarò Vicki, poi si rimise gli occhiali e fissò con aria accigliata il mucchietto di fogli sul tavolino, prima di balzare in piedi, dichiarando: — Mike,
non posso restarmene qui seduta a far niente. Intendo tornare all'università e continuare a frugare in giro. Forse farò saltare fuori qualcosa. — Che cosa? — Non lo so — rispose lei, dirigendosi a passo di carica verso la porta, e a Celluci non rimase altra scelta che quella di spostarsi per non essere travolto. — Vicki, prima che tu vada, ti posso rivolgere una domanda? Lei si fermò, ma non si volse.
— Credi di essere responsabile della morte di tua madre? Celluci lesse la risposta nelle linee della schiena di lei, nell'improvvisa tensione chiaramente visibile attraverso la camicia, la felpa e la giacca a vento. — Vicki, non è stata colpa tua che tuo padre se ne sia andato, e questo non ti ha reso responsabile della vita di tua madre. — Quando ami qualcuno, quella persona diventa una tua responsabilità — rispose Vicki, con voce che lui faticò a riconoscere. — Gesù Cristo, Vicki! Le persone non sono cagnolini o gattini. L'amore non dovrebbe essere un fardello del genere — esclamò, afferrandola per una spalla e costringendola a girarsi, poi desiderò di non averlo fatto quando vide la sua espressione, e le cose si fecero quasi peggiori quando quell'espressione cedette il posto a una maschera che non lasciava trapelare nulla. — Se hai finito, dottor Freud, puoi togliermi di dosso le tue dannate mani — ingiunse Vicki, liberandosi con un passo indietro e una torsione della parte superiore del corpo. — Dunque, hai intenzione di aiutarmi oppure pensi di restartene qui seduto tutto il giorno con la tua psicoanalisi su per il posteriore? Voltandosi di scatto, spalancò la porta e uscì sul pianerottolo prima che lui avesse il tempo di rispondere.
Bene, signor Delgado, pensò Celluci, passandosi entrambe le mani
nei capelli e sforzandosi di non far stridere i denti fino a danneggiarseli. Quando hai ragione, ce l'hai su tutta la linea. Lei però
ha chiesto il mio aiuto, di nuovo, e suppongo che questo sia un
progresso di qualche tipo. Chiudendosi la porta alle spalle, si affrettò a raggiungerla. Intendiamoci, mi sentirei meglio se non fosse così evidente che adesso si sente responsabile anche per il fottuto signor Henry Fitzroy. La dottoressa Burke registrò il saluto della signora Shaw, ma proseguì verso il proprio ufficio senza fermarsi. Non riusciva a decidere cosa odiasse di più, se la burocrazia o i sicofanti che vi aleggiavano intorno. Perché deve essere tanto difficile chiudere un trimestre? si chiese. Basterebbe mandare a casa gli studenti e lavare le
lavagne.
L'ultima cosa di cui aveva bisogno dopo non una, ma addirittura tre riunioni in cui aveva coraggiosamente cercato di imporre la logica al di sopra delle regole e dei regolamenti, era vedere la figlia di Marjory Nelson che si aggirava per i corridoi del Dipartimento di Scienze Naturali, sbirciando nei laboratori e nelle sale conferenze attraverso le finestre e costituendo una perdurante seccatura. Osservando i movimenti della giovane donna dall'anonimato di un recesso in ombra, era stata quasi sul punto di chiamare la Sicurezza perché la scortasse fuori dell'edificio, ma la presenza di quel detective della polizia di Toronto, che le era stato rapidamente presentato nel corso del funerale abortito, l'aveva indotta a cambiare idea. Le azioni arbitrarie erano esattamente il genere di cosa che tendeva a insospettire la polizia. Inoltre, le probabilità che Vicki Nelson si imbattesse nel laboratorio e nel corpo di sua madre erano esigue. Per prima cosa, avrebbe dovuto trovare il passaggio di accesso al vecchio edificio, poi avrebbe dovuto orientarsi nel labirinto di corridoi che si intersecavano ripetutamente con le sale di quella struttura centenaria e che in passato erano a volte riusciti a sconfiggere delle matricole che pure erano armate di piantina, e soltanto allora avrebbe potuto trovare l'unica stanza ancora in uso. No, Vicki Nelson non aveva nessuna possibilità di trovare il corpo di sua madre, ma questo non significava che alla dottoressa Burke facesse piacere vederla aggirarsi lì intorno.
Perché diavolo non se ne torna semplicemente a casa? si chiese,
lasciandosi cadere sulla propria sedia e sparpagliando il mucchietto dei messaggi che aveva sulla scrivania. Senza le sue insistenze, la
polizia avrebbe lasciato perdere quasi prima ancora di cominciare le indagini. Se solo la bara non fosse stata aperta, nessuno si sarebbe accorto di niente.
Se solo Donald non avesse permesso a Marjory Nelson di uscire dal laboratorio e di tornare a casa. Se solo la vista della madre rianimata non avesse convinto la figlia che le risposte si trovavano all'università. Vicki Nelson era una donna intelligente, i fatti parlavano da soli, anche senza tener conto dell'orgoglio materno. Alla fine, nel cercare sua madre, si sarebbe imbattuta in qualcosa che avrebbe messo a repentaglio la sua posizione, e la dottoressa Burke non aveva nessuna intenzione di permettere che questo succedesse. Lentamente, la Direttrice del Dipartimento di Scienze Naturali sorrise. L'incredibile circostanza che le aveva fatto finire fra le mani un vampiro le aveva anche fornito una semplice risposta al suo problema. — Se la signorina Nelson ci tiene davvero tanto a ritrovare sua madre — mormorò, componendo il numero del laboratorio, — forse dovrebbe riuscirci. Catherine rispose al terzo squillo con un secco: — Cosa c'è, dottoressa? Sono impegnata. — Come stanno procedendo i test? — Ecco, lei mi ha richiesto un carico di lavoro notevole, e... — Donald non ti sta aiutando? — No, lui... — Oggi non si è fatto vedere? — Ecco, no, lui... — Non voglio sentire giustificazioni, Catherine, mi occuperò io stessa di lui più tardi. — Quella non era la prima occasione in cui Donald si prendeva una vacanza, ma era ora di mettere bene in
chiaro le cose. — Questo pomeriggio ti sei imbattuta in qualcosa che ci possa permettere di sviluppare un vaccino per l'AIDS? — Ecco, a dire il vero ho osservato che certi leucociti non fagocitici hanno un certo numero di funzioni specializzate a livello cellulare che potrebbero essere sviluppate proprio in quel senso. — Catherine fece una pausa, poi proseguì: — Tuttavia, per poter creare un siero dovremmo praticamente prosciugare il signor Fitzroy, e la sua pressione è già spaventosamente bassa, perché sono costretta a prelevare di continuo nuovi campioni a causa del fatto che una quantità anche minima di luce ultravioletta è sufficiente a distruggere la struttura delle cellule. — Per l'amor del cielo, Catherine, non permettere che sia esposto in nessun modo alla luce ultravioletta. Possiamo sempre rinnovare le sue scorte di sangue — ribatté la dottoressa, mentre quel pensiero destava in lei una strana reazione viscerale, che si ripromise di esaminare in seguito, quando avesse avuto più tempo per farlo, — ma se dovesse perdere l'integrità cellulare, neppure i tuoi batteri sarebbero in grado di ricostruirla. — Ne sono consapevole, dottoressa, e sto facendo molta attenzione. — Bene. Ora, dal momento che il signor Fitzroy ci è caduto fra le mani in modo così fortuito, ho deciso di modificare i miei piani. Ecco che cosa faremo: esegui un'ultima analisi sul numero nove e sul numero dieci, perché è inutile sprecare dati che potrebbero tornare utili inseguito, poi sbarazzati di entrambi attraverso l'obitorio della facoltà di medicina. Prepareremo i soliti documenti per il numero nove, ma senza dubbio qualcuno riconoscerà Marjory Nelson. Farò in modo che non si possa risalire da lei fino a noi, tutti sosterranno di non saperne niente, ci sarà qualche giorno di chiasso e poi potremo proseguire tranquilli, senza il rischio di essere scoperti. Poteva sentire il suo respiro, quindi sapeva che Catherine era ancora in linea, ma trascorsero alcuni momenti senza che giungesse nessuna risposta. — Catherine? — Terminare il numero nove e dieci?
— Esatto. Non ci servono più — confermò la dottoressa Burke, sentendo un sorriso di trionfo che le si allargava sul volto e non facendo nessuno sforzo per reprimerlo. — Abbiamo catturato una creatura che, in sé e di per sé, potrà aprirci la porta del Nobel. — Ma non li posso uccidere! — protestò Catherine, ignorando quel trionfo. — Non essere ridicola, sono già morti. — Ma, dottoressa Burke... La dottoressa Burke sospirò e si sollevò gli occhiali sulla testa per potersi massaggiare le tempie. — Niente ma, Catherine. Loro stanno diventando un rischio. Ero disposta a ignorare la cosa finché costituivano la nostra migliore probabilità di successo, ma con il signor Fitzroy sotto il nostro controllo disponiamo di un potenziale illimitato per riscrivere la storia della scienza — dichiarò, poi addolcì il tono di voce, consapevole che era nuovamente necessario manipolare Catherine per avviarla lungo il sentiero più produttivo. — Se potrai fondere gli elementi del sangue di Henry Fitzroy con i tuoi batteri, questo renderà superfluo tutto quello che abbiamo fatto finora. Qui stiamo passando a un nuovo livello di scoperta scientifica. — Sì, ma... — La scienza va avanti, Catherine, e non puoi permetterti di rimanere nel passato. Un'opportunità come questa non si presenta ogni giorno. — Questa sì che era una minimizzazione, rifletté, mentre il sorriso di trionfo le riaffiorava sul volto. — Comincia la procedura di terminazione, io arriverò più presto che posso. Il tramonto è alle sette e quarantasette, quindi provvedi a rinchiudere per bene il signor Fitzroy con una mezz'ora di anticipo su quell'orario. — Sì, dottoressa Burke — mormorò Catherine, con voce intontita, e chiuse la comunicazione. Scuotendo il capo, la dottoressa Burke riappese la cornetta. Entro pochi giorni Catherine sarebbe stata così immersa in nuove scoperte che si sarebbe dimenticata che i numeri nove e dieci erano esistiti come qualcosa di più di un insieme di dati sperimentali. Il che,
naturalmente, ricordò aspramente a se stessa, è tutto quello che sono. Catherine fissò il telefono per un lungo momento, rigirando nella mente le parole della dottoressa Burke. La scienza doveva continuare ad andare avanti, non poteva rimanere legata al passato. La scienza doveva continuare ad andare avanti. Lei ci credeva davvero.
"La ricerca del sapere, in e per se stessa, è di primaria importanza." Quelle erano parole che lei stessa aveva rivolto alla
dottoressa, nel corso della sua ricerca di fondi e di un laboratorio abbastanza ampio da permetterle di sviluppare il pieno potenziale dei suoi batteri. La dottoressa Burke ne aveva convenuto, e avevano avviato quell'impresa insieme.
Terminare i numeri nove e dieci. Non poteva farlo. La dottoressa Burke si sbagliava: loro erano vivi. Non lo avrebbe fatto. Tratto un profondo respiro, si assestò il davanti del camice e si girò. Seduti dove li aveva lasciati, a ridosso della parete opposta, loro due la stavano osservando quasi come se sapessero. Si fidavano di lei, e non sarebbe venuta loro meno. Purtroppo, caricarli nel retro del furgone e scomparire nel tramonto non era un'opzione praticabile. Per mantenerli funzionali, le serviva il laboratorio, quindi era necessario costringere la dottoressa Burke a cambiare idea.
"Con il signor Fitzroy sotto il nostro controllo disponiamo di un potenziale illimitato per riscrivere la storia della scienza." E se il signor Fitzroy non fosse più stato sotto il suo controllo? Aggrottando la fronte con aria riflessiva, Catherine attraversò la stanza fino al contenitore di isolamento in cui si trovava il vampiro
quiescente; essenzialmente, esso stava operando come una semplice unità di contenimento, senza che nessuna delle sue funzioni speciali fosse operativa, tanto che non era neppure collegato alla corrente... e teoricamente era mobile, anche se in effetti il suo peso rendeva difficile spostarlo. Posate entrambe le mani su un'estremità, spinse con tutte le sue forze. Niente. Puntellati i piedi contro il muro, spinse ancora fino a quando lo sguardo le si velò di rosso. Il contenitore di isolamento sobbalzò in avanti di una dozzina di centimetri, poi si fermò quando lo fece anche lei. Erano stati necessari gli sforzi congiunti di tutti e tre... lei, Donald e la dottoressa Burke... per trasferire nel laboratorio i contenitori vuoti. Chinando il capo sulle braccia conserte, il suo respiro che annebbiava il lucido metallo, Catherine dovette ammettere che non li avrebbe mai potuti spostare da sola. Il numero nove si alzò in piedi e prese ad avanzare con cautela, sorreggendosi una volta allo schienale di una sedia quando la gamba sinistra quasi si ripiegò sotto di lui. Non aveva modo di sapere che all'interno del ginocchio i tendini e i legamenti stavano infine cedendo all'avanzamento della putrefazione. Vedeva che lei era triste. Questo gli bastava. Le si fermò accanto e le posò una mano sulla spalla. Quel tocco indusse Catherine a girarsi e a sollevare lo sguardo. — Se nascondiamo il vampiro — disse, — avremo il tempo di convincere la dottoressa Burke che si sta sbagliando. In quel discorso c'erano molte parole che il numero nove non capiva, quindi si limitò a posare le mani dove si erano trovate quelle di lei, e spinse. Il contenitore di isolamento prese a spostarsi rumorosamente.
— Fermo. Il numero nove smise di spingere; il contenitore avanzò di qualche altro centimetro per inerzia, poi fu arrestato dal suo stesso peso. — Sì! Possiamo farcela lavorando insieme! — esclamò Catherine, e abbracciò impulsivamente il numero nove, ignorando il modo in cui i tessuti si comprimevano sotto il suo tocco, ignorando l'odore che esso cominciava a emettere. Il numero nove si sforzò di riconoscere ciò che stava provando. Era... Era... Poi lei ritrasse le braccia, e la sensazione andò persa. Indietreggiando, Catherine si guardò intorno nel laboratorio. — Vi nasconderò insieme al vampiro e all'altro contenitore di isolamento. In questo modo, la dottoressa Burke non potrà prendervi in ostaggio per ottenere la sua restituzione. La macchina per la dialisi è mobile, e per qualche giorno la flebo potrà sostituire la pompa per le sostanze nutritive. Prenderemo anche uno dei computer, giusto nell'eventualità che la dottoressa Burke impieghi troppo tempo a rinsavire. Non dovete soffrire per mancanza di input solo perché lei si mostra cocciuta. — D'un tratto fece una pausa, poi esclamò: — Oh, no, Donald! — Allungando una mano, batté un colpetto sul contenitore in cui si trovava il corpo dell'altro studente. — Non posso staccarti i collegamenti, Donald, è troppo presto. Mi dispiace, ma ti dovremo lasciare qui. Spero solo che la dottoressa Burke ti permetta di finire di svilupparti — sospirò poi. — Non sta pensando con chiarezza, Donald. Ultimamente, ho cominciato ad avere la sensazione che tutto quello che lei vuole siano soltanto la fama e il denaro, e che non le importi degli esperimenti. A me importa. So che capirai. Controllato l'orologio, attraversò in fretta la stanza fino al terminale del computer, copiò il lavoro della giornata, trasferì i dati
su un disco esterno e li cancellò dalla memoria principale. — Giusto per precauzione — mormorò. — Non posso lasciarle una scappatoia. Nel tornare verso il punto in cui il numero nove l'attendeva con pazienza, raccolse l'impermeabile e la camicia del vampiro. Non aveva il tempo di rivestirlo, ma stese ordinatamente gli indumenti sul suo corpo prima di chiudere e di bloccare il coperchio. — Questo richiederà la forza di tutti e tre. Numero dieci, vieni qui. Liberata dalla compulsione a rimanere ferma, lei si alzò in piedi. "Vieni qui" non era uno dei comandi che le erano stati impiantati, quindi pur sapendo cosa esso significava, lei si diresse verso la porta. C'era qualcosa che doveva fare. — Ferma. — Scuotendo il capo, Catherine aggirò il numero dieci fino a poterla guardare in faccia. — C'è qualche problema, vero? Vorrei potessi dirmi di cosa si tratta, e allora forse ti potrei aiutare. Però non sei in grado di dirmelo, e in questo momento noi tutti abbiamo dei problemi. Afferrando un polso grigiastro, pilotò il corpo di Marjory Nelson fino a farlo fermare davanti all'estremità anteriore del contenitore, e le chiuse le dita dalla punta annerita intorno a una maniglia di metallo. — Tieni — disse. Le dita si strinsero. Con il numero nove che spingeva e il numero dieci che obbediva a rapidi ordini che le ingiungevano di spingere o di tirare, la massiccia apparecchiatura e il corpo in esso contenuto attraversarono fragorosamente il laboratorio e uscirono nel corridoio.
Vorrei potessi dirmi di cosa si tratta... Vorrei potessi dirmi... Ricordò il parlare.
Se i vampiri esistono... rifletté la dottoressa Burke, scribacchiando
un punto interrogativo a margine di una richiesta di fondi per ricerche estive che le era stata consegnata all'ultimissimo minuto... ed
è decisamente ovvio che sia così, chissà che altro ci può essere là fuori. Demoni. Lupi mannari. La Creatura della Laguna Nera. Anche
se le guance cominciavano a dolerle, non riuscì a controllare un altro sorriso, l'ennesimo del pomeriggio. Il sangue di Fitzroy mi
permetterà di ottenere su un piatto d'argento ogni riconoscimento elargito dalla comunità scientifica. Anzi, creeranno nuovi premi apposta per me.
Naturalmente, avrebbero dovuto adottare delle precauzioni, perché ai vampiri della leggenda era attribuita una serie di capacità che potevano costituire una minaccia, anche se molte di esse potevano essere accantonate sui due piedi. Dal momento che non era riuscito a uscire dal contenitore prima dell'alba, quel vampiro moderno non poteva trasformarsi in nebbia, ma era comunque molto forte, come attestavano le ammaccature da lui aggiunte a quelle già prodotte dal numero nove sull'interno del contenitore. Quindi è probabilmente meglio che trascorra le notti
chiuso là dentro.
Naturalmente, avrebbero dovuto nutrirlo, se non altro per sostituire i fluidi che Catherine aveva prelevato durante il giorno, ma per fortuna avevano a disposizione una quantità di tubi sottili attraverso cui far scorrere il sangue.
Quanto al dono dell'immortalità... La dottoressa Burke prese a
tamburellare con le dita sulla scrivania. I documenti di identità di Henry Fitzroy sembravano indicare che lui conduceva una vita ragionevolmente normale, anche considerando che le ore diurne gli erano indiscutibilmente negate, e nulla se non la leggenda lasciava supporre che avesse vissuto più a lungo dei ventiquattro anni indicati dalla sua patente. In seguito, avrebbe dovuto discutere con lui della sua storia, ma la cosa non aveva molta importanza. A che serviva vivere in eterno se lo si doveva fare stando nascosti? Aggirarsi di
soppiatto nel buio, essere impotenti di giorno. No, non credo faccia per me. Dopo aver passato anni a essere anonimamente responsabile del
compito di mantenere in funzione l'infrastruttura della scienza, adesso voleva dei riconoscimenti. Aveva trascorso fin troppo tempo nascosta alla vista, tenendo il timone della burocrazia mentre altri accumulavano gloria. Una singola vita, adeguatamente assaporata, sarebbe stata sufficiente. Conquistare la morte era stato soltanto un mezzo per raggiungere un fine, e lei non aveva intenzione di diventare una creatura della notte che si nutriva di sangue, non più di quanto intendesse permettere di usare il suo corpo per creare una di quelle barcollanti mostruosità che aveva appena ordinato a Catherine di distruggere.
Anche se forse, quando Catherine avrà risolto tutti i problemi... Resistendo alla tentazione di cominciare a scrivere il discorso per quando sarebbe andata a Stoccolma per il Nobel, si costrinse a concentrarsi sulla richiesta di fondi, perché non appena avesse sbrigato quelle ultime pratiche burocratiche, sarebbe stata libera di trascorrere qualche ora nel laboratorio, e stava addirittura guardando con anticipazione all'inevitabile conversazione con il vampiro prigioniero. Mezz'ora più tardi, un colpetto battuto con esitazione sulla porta del suo ufficio la distrasse da una proiezione di bilancio che serviva quanto meno a dimostrare che uno dei professori del dipartimento aveva seguito un corso di economia senza ricavarne granché. — Avanti. — Volevo solo avvertirla che me ne sto andando, dottoressa — affermò la signora Shaw, sporgendosi oltre la soglia. — È già così tardi? — Lo è ancora di più — sorrise l'anziana segretaria, — ma la signorina Grenier e io abbiamo sbrigato quasi tutti gli arretrati. — Bene — annuì con approvazione la dottoressa Burke. — Grazie per aver lavorato così sodo. — L'apprezzamento era sempre la cosa più motivante, dovunque venisse applicato. — Domani ce ne sarà un'altra pila, là fuori — aggiunse, indicando un mucchio di cartellette su un angolo della scrivania.
— Può contare su di me, dottoressa. Buona notte. Ah. — La porta, che si stava chiudendo, tornò ad aprirsi e la signora Shaw riapparve sulla soglia. — La figlia di Marjory è passata di qui, questa mattina. Voleva l'indirizzo di Donald Li e gliel'ho dato. Spero che non le secchi. — Se mi seccasse, adesso sarebbe un po' tardi per fare qualcosa, giusto? — ribatté la dottoressa Burke, riuscendo a mantenere un tono leggero. — La signorina Nelson ha detto perché voleva l'indirizzo di Donald? — Gli voleva parlare a proposito di sua madre — spiegò la signora Shaw, cominciando a preoccuparsi di fronte all'espressione della sua principale. — So che è contrario alle regole, ma lei è la figlia di Marjory.
— Era la figlia di Marjory — precisò in tono asciutto la dottoressa
Burke. — Non importa, signora Shaw — aggiunse, perché era inutile mostrarsi seccata a cose fatte. — Se non le vuole parlare, sono certa che Donald saprà come regolarsi. — Grazie, dottoressa. Buona notte.
La dottoressa Burke attese un momento, per accertarsi che questa volta la porta rimanesse chiusa, poi trasse a sé il telefono e compose il numero di Donald. Dopo quattro squilli, la sua segreteria telefonica entrò in funzione con una fanfara di trombe e il messaggio che "... si possono avere fotografie autografate per venti dollari e una busta affrancata con indirizzo del destinatario. Aggiungete cinque dollari per le dediche personalizzate. Quanti desiderano effettivamente parlare con il signor Li possono lasciare un messaggio dopo il segnale acustico, e saranno richiamati non appena lui avrà un momento libero dai suoi troppi, troppi impegni". — Sono la dottoressa Burke. Donald, rispondi. A quanto pareva, Donald non era in casa. Dopo aver lasciato l'ordine di richiamarla alla prima opportunità, la dottoressa riattaccò e spinse lontano da sé il telefono. — Probabilmente, ha passato la giornata a evitare quella donna. Se non altro, non l'ha guidata al laboratorio...
Il laboratorio... Un ricordo vago e insistente affiorò sulla scia di quel pensiero, qualcosa che aveva a che fare con il laboratorio. Appoggiandosi allo schienale della sedia, fissò il soffitto con aria accigliata: si trattava di qualcosa che non andava, e da cui lei era stata distratta dall'incredibile scoperta costituita dal vampiro. Qualcosa di così normale...
Si appoggiò con la schiena al contenitore del numero otto, lasciando che le tenui vibrazioni del macchinario le rilassassero i nervi tesi... Il numero otto non esisteva più, il vampiro era nel contenitore del numero nove, e sia il numero nove che il numero dieci erano passivamente seduti a ridosso del muro. Chi c'era nel contenitore del numero otto? Poi affiorò un secondo ricordo.
Raccolto il contenuto del portafoglio, lo gettò su un mucchio di vestiti drappeggiati su una vicina sedia. Improvvisamente, respirare divenne una cosa molto difficile. — Oh, Signore, no... Sentirono suonare il telefono quando erano ancora sul pianerottolo, e com'era prevedibile in quelle circostanze, la serratura s'incastrò. Quattro squilli. Cinque.
— Dannazione! — Non essendo di umore precisamente roseo,
Vicki indietreggiò e sferrò un calcio contro la porta, appena sotto la serratura. L'intera struttura tremò sotto l'impatto, e quando lei tornò a usarla, la chiave girò con facilità. — Niente è meglio del metodo alla Luke Sky walker — borbottò Celluci, precipitandosi verso il telefono. Nove squilli. Dieci. — Sì? Pronto?
— Ottimo tempismo, Mike. Stavo per riagganciare. Sillabando in silenzio "Dave Graham" in direzione di Vicki, Celluci incastrò il ricevitore fra la spalla e l'orecchio e tenne pronta una penna. — Cos'hai trovato? — domandò. — Sei in debito con me, socio, perché ho dovuto riscuotere un paio di favori, ma alla fine l'Humber College mi ha fornito i dati. Il tuo ragazzo è stato raccomandato per quel corso da un certo dottor Dabir Rashid, della Facoltà di Medicina della Queen's University. Come bonus, hanno aggiunto l'informazione che il dottor Rashid avrebbe specificatamente richiesto che il giovane Chen svolgesse le quattro settimane di osservazione da Hutchinson. — Non hanno nominato una dottoressa Aline Burke? — Neppure una parola. Come sta Vicki? — Una buona domanda. — Che io sia dannato se lo so. — Le cose stanno così, eh? Devi ricordare che la morte ha un effetto diverso a seconda delle persone. Quando mio zio è morto, mia zia è parsa quasi sollevata, ha gestito il funerale come una riunione di famiglia, e due settimane più tardi... blam... è andata completamente in pezzi. E la cugina di mia moglie... — Dave? — Sì? — Un'altra volta. — Oh, giusto. Ascolta, Cantree dice che puoi prenderti tutto il tempo che ti serve, e che riusciremo in qualche modo a cavarcela senza di te. — Gentile da parte sua. — È un santo. Fammi sapere come va a finire. — Contaci, amico. — Celluci riappese, e nel girarsi scoprì che Vicki lo stava fissando. — Il nostro Tom Chen è stato raccomandato dal dottor Dabir Rashid, della Facoltà di Medicina della Queen's University. Pensi che possa essere un nome falso usato dalla Burke? — No. Ieri ho avuto un breve incontro con il dottor Rashid —
rispose Vicki, attraversando con passo iroso la stanza e gettandosi sul divano. — È più vecchio della Creazione stessa e non sa neppure se sta andando o venendo. Immagino abbia un incarico permanente. — Facile da confondere, quindi, se si vuole ottenere un favore senza che si risalga a chi lo ha chiesto — commentò Celluci con una scrollata di spalle, appollaiandosi sul tavolino del telefono. — Proprio così — ringhiò Vicki. — Probabilmente, credeva di raccomandare quel Tom Chen che sta effettivamente studiando medicina. Da quanto ho visto, se pure ricorda di aver fatto quella raccomandazione, di certo non rammenta più chi glielo ha chiesto. — Allora dovremo stimolargli la memoria. — Probabilmente lo shock lo ucciderebbe — sbuffò Vicki. — Non si sa mai. La raccomandazione includeva la richiesta che Chen svolgesse il periodo di osservazione da Hutchinson, e quanti più sono i dettagli, tanto più è possibile che uno di essi sia rimasto nella memoria. — Già. Forse. — Afferrato un cuscino di broccato verde, Vicki lo scaraventò contro la parete. — Gesù, Mike, perché non è mai facile? — Un'altra buona domanda. — Non lo so, Vicki, forse... La voce gli si spense quando improvvisamente dal volto di lei.
vide
il
sangue
defluire
— Vicki? Cosa c'è che non va? — Si tratta del periodo di osservazione di quattro settimane — spiegò lei; le mani le tremavano a tal punto da impedirle di intrecciare le dita, quindi le serrò a pugno e le premette contro le cosce. — A mia madre avevano diagnosticato sei mesi di vita — continuò, costringendosi a spingere le parole oltre il nodo che le serrava la gola. — Non potevano continuare a piazzare qualcuno alle pompe funebri, quindi mia madre doveva morire durante quelle quattro settimane — proseguì, chiedendosi come avesse fatto a non accorgersene prima, poi girò la testa e fissò Celluci negli occhi, domandando: — Capisci cosa significa questo? Lui lo capiva.
— Mia madre è stata assassinata, Mike — riprese lei, con voce ora fatta di ghiaccio e di acciaio. — E chi c'era con lei pochi secondi prima che morisse? — Credo che adesso abbiamo qualcosa che il detective Fergusson sarà disposto ad ascoltare... — cominciò Celluci, allungando la mano verso il telefono alle proprie spalle. — No. — Vicki si alzò lentamente in piedi, muovendosi a scatti, quasi fuori controllo. — Prima dobbiamo salvare Henry. Una volta che lui sarà al sicuro, per lei sarà finita, ma non prima. Non intendeva venire meno a Henry come era venuta meno a sua madre.
Capitolo dodicesimo A mano a mano che il mondo perdeva il potere che esercitava su di lui, Henry fu costretto a lottare per reprimere il panico che accompagnava il ritorno della consapevolezza e il ritrovarsi ancora chiuso in quella bara d'acciaio, avvolto nel fetore di una morte pervertita e nell'odore acre del proprio terrore. Non poté bloccare i primi due colpi che investirono l'arco impervio del metallo imbottito, ma riuscì ad arrestare il terzo e il quarto. Con la piena consapevolezza giunse anche un maggiore controllo, e nel ricordare il futile dibattersi della notte precedente, lui si rese conto che la semplice forza fisica non sarebbe stata sufficiente a liberarlo. Nella testa gli vorticavano immagini confuse. Un giovane strangolato, appena morto; l'uomo più anziano, deceduto da tempo, non morto ma neppure vivo; la giovane donna dai capelli chiari, dalla pelle pallida e dagli occhi vuoti. Deglutì a fatica, avvertì in bocca il sapore residuo della goccia di sangue, e riuscì a stento a impedire l'insorgere della Fame. L'impulso era però troppo forte per poterlo ricacciare indietro, e tutto quello che lui fu a stento in grado di fare fu conservare intatta la linea di demarcazione fra la Fame e il suo io cosciente. La notte precedente si era nutrito, quindi non avrebbe dovuto avere difficoltà a dominare la Fame... d'un tratto si rese conto che nel dibattersi si era impigliato un braccio nelle pieghe del proprio impermeabile di cuoio: qualcuno glielo aveva tolto, insieme alla camicia, e non si era preoccupato di rivestirlo. Esaminandosi il corpo, nudo fino alla cintola, trovò i segni di una dozzina di aghi. "Non desidero passare il resto della mia vita legato a un tavolo da laboratorio più di quanto mi vada che mi taglino la testa e mi riempiano la bocca d'aglio." Quello era un commento scherzoso che lui stesso aveva fatto poco più di un anno prima, ma adesso gli appariva molto meno divertente, perché era evidente che nel corso della giornata
qualcuno aveva portato avanti degli esperimenti. Era impotente nelle ore diurne, prigioniero durante la notte. Il panico ebbe la meglio, e sulla sua scia la marea carminia della Fame si liberò con un ruggito. La consapevolezza riaffiorò per la seconda volta nel corso di quella notte, portando con sé una sofferenza e uno sfinimento così assoluti da lasciargli a stento la forza di raddrizzare gli arti scomposti. Era evidente che il suo corpo, indebolito dalla perdita di sangue, aveva posto un limite alla sua crisi isterica.
Non posso dire... di biasimarlo. Anche solo pensare gli causava
dolore, e si era escoriato la gola a forza di urlare; una serie di lividi, profondi fino alle ossa sui gomiti e sulle ginocchia, protestava a ogni suo movimento, due dita della mano sinistra erano fratturate e la pelle delle nocche era spaccata. Facendo appello a quelli che sembravano essere i suoi ultimi residui di energia, ricompose le fratture e giacque ansimante, cercando di non avvertire il sapore di abominio che contaminava l'aria.
Hanno preso troppo sangue, devo supporre che sappiano che cosa sono. La Fame pervadeva la sua prigione di un pulsante bisogno carminio, tenuto momentaneamente a freno dalla sua debolezza; alla fine, però, la debolezza sarebbe stata consumata, e la Fame avrebbe dominato. In tutti i suoi diciassette anni, Henry non si era mai trovato in un'oscurità così completa, e nonostante il ricordo delle rassicurazioni di Christina, cominciò a cedere al panico, che andò crescendo quando cercò di sollevare il coperchio della cripta e scoprì di non poterlo spostare. Non c'era pietra, sopra di lui, ma rozzo legno che gli gravava addosso a tal punto che il suo petto, nell'alzarsi e abbassarsi, sfiorava contro le assi. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase là disteso, paralizzato dal terrore, con un bisogno frenetico che gli artigliava il ventre, la sua sanità mentale appesa a... — No. Quella protesta sussurrata debolmente, il massimo che riuscì a
fare, non fu del tutto sufficiente a bandire il ricordo del terrore di quel primo risveglio, intrappolato in una semplice bara e quasi distrutto dalla Fame, un ricordo che adesso si sarebbe proteso a reclamarlo, se solo glielo avesse permesso. — Ricorda anche il resto, se proprio devi ricordare — si ingiunse... ...Sentì una pala che affondava nel terreno, sopra di lui, un rumore centomila volte più forte di quanto sarebbe dovuto essere. — Henry ! La Fame si levò d'impeto verso quella voce, trascinandolo con sé. — Henry ! Il suo nome. Quello che lei stava chiamando era il suo nome. Si aggrappò a esso come a un'ancora di salvezza, circondato dal maelstrom della Fame. — Henry, rispondimi! Anche se la Fame stava cercando di soffocarlo, riuscì a formare una singola parola. — Christina... I chiodi emisero uno stridio di protesta quando il coperchio della bara venne scagliato via, poi mani pallide, mani forti, mani gentili lo strinsero per bloccare la sua frenesia, la rozza stoffa fatta in casa venne strappata dalla pelle alabastrina e una ferita in un seno venne riaperta, perché lui potesse nutrirsi nuovamente del sangue che lo aveva cambiato, al sicuro dietro una setosa cortina di capelli neri... Non poteva liberarsi. Quattrocentocinquanta anni prima, l'amore di una donna lo aveva salvato. Non poteva cedere alla disperazione. Ma Christina aveva impiegato tre giorni...
Vicki, fa' presto ad arrivare, ti prego. Non posso sopravvivere di
nuovo a questo. I corridoi erano sempre stati vuoti quando lei li aveva percorsi, vuoti, echeggianti e poco illuminati. E questa notte non sono diversi, si disse con fermezza Aline Burke, muovendo con determinazione un passo dopo l'altro. Sono sempre vuoti, e sono io
a produrre i soli rumori. Le ombre sono soltanto assenza di luce.
C'erano però delle .correnti d'aria che si muovevano dove lei in passato non ne aveva mai avvertita nessuna, e l'intero edificio emanava un'atmosfera intrisa di un'aspettativa di rovina.
Il che non è solo troppo melodrammatico, ma è anche ridicolo, si
rimproverò, asciugandosi i palmi umidi contro i pantaloni e tenendo lo sguardo fisso sulla successiva area illuminata. Non avrebbe ceduto alla paura, non l'aveva mai fatto, e non intendeva cominciare ora. Chi c'era nel contenitore di isolamento del numero otto? Ci poteva essere una quantità di ottime ragioni per cui quel giorno Donald non si era fatto vedere, e le indagini di Vicki Nelson erano soltanto la più ovvia fra esse. Affascinante, brillante e indisciplinato, Donald non aveva mai avuto nessuna difficoltà a inventare qualche ragione per prendersi una giornata libera. Chi c'era nel contenitore di isolamento del numero otto? Con la mente, continuava a rivedere l'immagine del portafoglio di Henry Fitzroy che cadeva sul mucchio di vestiti. Chi c'era nel contenitore di isolamento del numero otto? Esisteva un solo modo per scoprirlo. Aggirato un angolo, fu in grado di vedere i contorni della porta del laboratorio; non c'era un filo di luce che filtrasse all'esterno, ma del resto avevano faticato parecchio per avere la garanzia che fosse così.
Probabilmente, sono tutti e due là dentro, impegnati a discutere su qualche sciocchezza, o magari lui la sta guardando lavorare e sta lasciando cadere sul mio pavimento quelle dannate carte di caramella.
Posò una mano sulla maniglia di metallo, sentendo sotto le dita il freddo dell'acciaio inossidabile. Acciaio inossidabile, come quello dei contenitori di isolamento. Il cuore prese a martellarle nel petto e il metallo le si scaldò sotto le dita. Trascorsero quindici secondi, venti, quarantacinque. Un intero minuto, e ancora non riusciva a ruotare la maniglia. Era come se il collegamento fra il cervello e la mano fosse stato reciso: sapeva quello che doveva fare, ma il suo corpo si rifiutava di obbedire. Serrando le labbra in una linea sottile, ritrasse di scatto il braccio lungo il fianco: quello era il genere di tradimento che non poteva permettere. Tratto un respiro per calmarsi, esalò il fiato e in un unico movimento afferrò la maniglia, la ruotò e spinse il battente, entrando nella stanza. Le luci erano spente, e la sola cosa visibile era una serie di luci di alimentazione rosse e verdi, in fondo alla stanza. Allungando il braccio sinistro, avanzò a tentoni lungo la parete, sentendo il rumore del proprio respiro andare incontro al ronzio delle apparecchiature in funzione. Gli interruttori della luce erano subito a destra rispetto alla porta, ma non aveva nessuna intenzione di voltare le spalle alla stanza. Infine le sue dita toccarono una piastra di acciaio, si ritrassero di scatto e poi continuarono a spostarsi fino ad agganciare un pezzetto di plastica sporgente. Un istante più tardi, la dottoressa Burke batté le palpebre in reazione all'improvviso bagliore fra il bianco e l'azzurro delle luci a fluorescenza. In fondo alla stanza, il contenitore che era appartenuto al numero otto continuava a ronzare, abbandonato a se stesso. Gli altri due contenitori erano scomparsi, e con essi la macchina portatile per la dialisi e uno dei computer. Un rapido esame rivelò che erano sparite anche altre piccole apparecchiature, e l'apprensione della dottoressa Burke si trasformò progressivamente in rabbia mentre lei attraversava il laboratorio in direzione del solo computer rimasto. — Piccola strega vendicativa! Il messaggio sullo schermo era succinto e andava dritto al punto.
Ho nascosto il signor Fitzroy. Potrà riaverlo solo dopo aver acconsentito a che il numero nove e il numero dieci possano proseguire fino alla loro naturale conclusione. Ho io la sola copia dei dati di oggi. Mi metterò in contatto. Catherine. Era ovvio che non aveva nascosto soltanto il vampiro, ma anche i numeri nove e dieci. — Dannazione a lei! Deve aver agito nell'istante in cui ho riappeso il telefono. — Questo avrebbe rovinato tutto, perché se non fosse stato possibile far ragionare Catherine al più presto, l'intero piano sarebbe morto come... morto come... Sollevò la testa, sentendo bande di pressione affiorare a serrarle le tempie, mentre l'immagine riflessa e distorta di una piccola figura vestita di bianco la fissava dalla superficie ricurva del solo contenitore rimasto. Perché Catherine non aveva nascosto anche quello? Perché i collegamenti non potevano essere staccati. E perché non li si poteva staccare? Perché i batteri stavano ancora lavorando sul corpo in esso contenuto. Chi c'era nel contenitore di isolamento del numero otto? I vestiti erano ancora su una sedia dall'altro lato del laboratorio, e una giacca a vento marrone chiaro era appesa allo schienale.
Un sacco di persone portano giacche come quella a Kingston, in aprile. Aggirò il contenitore, tenendosi quanto più alla larga da esso le era possibile fare senza dover ammettere con se stessa che lo stava evitando. Aggrappandosi disperatamente alla propria ira, e usandola come un'arma contro la paura crescente, allungò la mano per prelevare la giacca dalla sedia. Essa poteva appartenere a chiunque. Ignorando le chiazze umide che le sue dita stavano stampando sul tessuto, frugò in una delle tasche anteriori e tirò fuori due caramelle ancora incartate e una barretta di cioccolata mangiata per metà, la carta risigillata ordinatamente con un po' di nastro adesivo.
Niente fa pensare che Donald non abbia lasciato questa giacca nel laboratorio, si disse, ma stava perdendo la battaglia, e lo sapeva.
I documenti di Henry Fitzroy giacevano ancora là dove lei li aveva gettati. Drappeggiatasi la giacca su un braccio, guardò la propria mano libera protendersi a sollevare il portafoglio e il suo contenuto dal mucchietto di indumenti ordinatamente ripiegati. Una giacca poteva anche essere stata dimenticata accidentalmente, ma non così jeans, camicia, calzini e biancheria. Quelli erano i vestiti di Donald, non c'erano dubbi al riguardo, e sotto la sedia, perfettamente allineate, c'erano quelle scarpe da baseball nere di cui lui era così assurdamente orgoglioso.
"Ma, Donald, tu non giochi a baseball." "E questo cosa c'entra ? " ribatté Donald, con un ampio sorriso, continuando a pompare vigorosamente la palla di un arancione acceso inserita nella linguetta delle sue scarpe nuove. "Qui stiamo parlando del meglio delle calzature, di alta tecnologia, di immagine." "La percezione dell'atletica, senza il sudore che l'accompagna?" sospirò la dottoressa Burke, scuotendo il capo. "Esattamente quello che intendo" fu la risposta, mentre il sorriso si accentuava. Tenendo ancora in mano la giacca e il portafoglio del vampiro, la dottoressa Burke si girò verso il contenitore di isolamento. I numeri da uno a nove erano stati prelevati dall'obitorio della facoltà di medicina quando erano già decisamente morti. Marjory Nelson stava morendo. Ma Donald... Donald era stato più che mai vivo. Avanzò di un passo, sentendosi talmente distaccata dalla realtà da doversi concentrare per riuscire a posare di nuovo il piede sul pavimento. Camminare sembrava aver cessato di essere un movimento volontario. Poteva vedere Donald che, con gli occhi scintillanti, per nulla contrito, se ne stava seduto nel suo ufficio ad ascoltare i motivi per cui non solo avrebbe dovuto essere buttato fuori dalla facoltà di medicina, ma avrebbe anche dovuto essere denunciato. Quando gli aveva chiesto perché lo aveva fatto, lui era diventato pensoso per un momento.
"Volevo vedere che cosa succedeva" era poi stata la sua risposta.
Lei lo aveva tirato fuori dai guai, e i particolari erano stati sepolti
quando il professore che aveva scoperto la cosa si era trasferito all'ovest. Avanzò di un altro passo. Poteva vedere Donald esaminare con aria accigliata la rete neurale, con le dita che scorrevano agili sui fili dorati e il labbro inferiore stretto fra i denti, mentre armeggiava con la loro struttura. Un altro passo. Donald che levava in alto la mano di una confusa Catherine per scambiare con lei un "cinque" di trionfo, quando il numero quattro aveva finalmente reagito al loro genio congiunto. Ancora un passo. Donald che si univa a lei in un brindisi privato alla fama e alla fortuna, senza però quasi portarsi alle labbra il liquore, perché non beveva mai. Ancora uno. Donald che conveniva come Marjory Nelson costituisse l'inevitabile passo successivo. Il suo ginocchio urtò contro il contenitore, le vibrazioni le penetrarono nelle ossa e lei si ritrasse di scatto per poi immobilizzarsi. Nel fissare la propria immagine riflessa nel metallo, la vide trasformarsi in una progressione di facce grigie, contorte, private dell'estremo riposo, con il corpo deturpato da grandi incisioni suturate affrettatamente alla meglio con filo di seta nera. Che cosa avrebbe visto, quando avesse sollevato il coperchio? Fino a che punto si era spinta Catherine? Costringendosi a trarre un profondo respiro nonostante la gola contratta, si lasciò sfuggire dalla mano destra il portafoglio di Henry Fitzroy, che cadde a terra. In realtà, esso non aveva più importanza. Non ne aveva più. Non più... Allungò la mano vuota, incapace di arrestarne il tremito, ma rifiutandosi di cedere a esso, e la chiuse intorno al meccanismo di apertura; le sue dita erano così gelate che il metallo sembrava caldo, sotto di esse. — La conoscenza è forza — sussurrò. Il meccanismo di chiusura si aprì con uno scatto. Dall'interno del contenitore dissigillato giunse un alito di aria densa di ossigeno, seguita da un rumore che non aveva niente a che
vedere con l'elettronica o i macchinari. La dottoressa Burke si immobilizzò e i muscoli del suo braccio, a cui era già stato impartito il comando di sollevare il coperchio, ebbero uno spasmo tremante. Un gemito. — Donald? Delle vocali cominciarono a prendere forma, un suono torturato, ma ancora riconoscibile, nel quale non c'era più nulla di neppure remotamente umano. Il sudore prese a scorrerle in rivoletti gelidi lungo i fianchi mentre le sue dita lottavano per far scattare la chiusura: qualsiasi cosa ci fosse lì dentro, non doveva venire fuori. — Dotto... ressa... Lei si ritrasse di scatto, ansimando e quasi piagnucolando, poi si girò e fuggì. Un terrore che non poteva essere messo al bando dall'intelletto, o dalla forza di volontà corse insieme a lei attraverso i corridoi vuoti, i cui echi la deridevano, le cui ombre erano intrise di orrore incombente. — Che facciamo, se non è là? — Non è a casa, deve essere da qualche parte — ribatté Vicki; avevano trovato l'indirizzo della dottoressa Burke nell'agenda accanto al telefono di sua madre. — Ma non necessariamente in ufficio — obiettò Celluci. Vicki si girò a fronteggiarlo, anche se l'oscurità la rendeva virtualmente cieca. — Hai un'idea migliore? — No — lo sentì sospirare, — ma se non è neppure là, che cosa faremo? — Allora faremo a pezzi il suo ufficio, alla ricerca di qualsiasi cosa che ci possa dire dove si trova Henry.
— E se non... — Smettila, Celluci — lo interruppe Vicki, sputando quelle parole nella sua direzione. — Lo troveremo. Lui prese fiato per parlare ancora, ma poi lo esalò senza dire nulla. Vicki intanto tornò a girarsi sul sedile dell'auto, stringendo il cruscotto con forza quasi dolorosa. Lo troveremo. Tutto quello che riusciva a vedere attraverso il parabrezza era il bagliore dei fari, ma non poteva distinguere nulla di ciò che essi illuminavano, neppure la superficie della strada. Le luci delle altre macchine apparivano come sospese nell'aria, occhi rossi e gialli di bestie invisibili. Sentì che l'auto svoltava e poi rallentava fino a fermarsi. Scese il silenzio, poi il buio totale. — Ho parcheggiato su un lato dell'edificio — spiegò Celluci. — Darà meno nell'occhio, se vogliamo evitare le guardie della Sicurezza. — Buona idea. Per un attimo, nessuno dei due si mosse, poi Vicki si girò verso la propria portiera nello stesso momento in cui Celluci apriva la sua, la luce interna si accese e per un istante lei si vide riflessa nel finestrino.
Premuta contro il vetro, con le dita allargate e la bocca che si muoveva senza emettere suono, c'era sua madre. — Mike! Lui le fu accanto immediatamente, e la portiera si richiuse in maniera misericordiosa quando lui si spostò di traverso sul sedile anteriore; ritraendosi nel cerchio delle sue braccia, Vicki serrò gli occhi fino a farseli dolere, e cercò di smettere di tremare. — Vicki, cosa c'è? Cosa è successo? — Prima di allora, non l'aveva mai sentita chiamare il suo nome in quel modo, e quanto era vero l'inferno, si augurava di non sentirglielo fare mai più. Il dolore che le traspariva dalla voce gli trapassava l'anima, e gli rimaneva attaccato addosso con più tenacia di quanto lei riuscisse a fare. La sua schiena gli stava premendo contro il petto con tanta forza da rendergli difficile respirare, ma le sue dita erano serrate a
pugno, e si teneva le braccia strette intorno al corpo. — Mike, mia madre è morta. — Lo so — sussurrò Celluci, appoggiando la guancia sulla testa di lei. — Sì, ma se ne sta anche andando in giro — continuò lei, una nota di isterismo che le affiorava nella voce. — E allora che cosa facciamo quando la troviamo? Voglio dire, ci ho pensato solo adesso, ma come facciamo a seppellirla? — Gesù Cristo — mormorò lui, più una preghiera che un'esclamazione blasfema. — Voglio dire — continuò Vicki, costretta a fermarsi per respirare ogni due parole. — Dovrò forse finire per ucciderla di nuovo? — Vicki! — esclamò Celluci, stringendola maggiormente a sé, perché non sapeva che altro fare. — Dannazione! Non sei stata tu a ucciderla, la prima volta! Per quanto possa suonare crudele a dirsi, la sua morte non ha avuto niente a che vedere con te. La sentì lottare per ritrovare il controllo. — Forse non la prima volta — replicò poi. La Fame stava lottando e artigliando per liberarsi, e lui dovette fare appello a quasi tutte le forze che gli rimanevano per contenerla, perché se si fosse liberata avrebbe rapidamente fatto ripiombare nell'incoscienza il suo corpo maltrattato, probabilmente rompendo altre ossa nel lottare per riuscire a saziarsi, e lui non aveva nessuna intenzione di permettere che questo accadesse. Doveva rimanere cosciente, nell'eventualità che i suoi catturatori si rivelassero tanto stupidi da aprire quella cassa fra il crepuscolo e l'alba. Essendogli rimasto così poco che alimentasse la paura, riuscì quasi a vedere la propria prigionia con occhi spassionati. Quasi, perché il ricordo di essere intrappolato nell'oscurità continuava a tremolare come una falena lungo i contorni del suo autocontrollo, e ancora peggiori erano le immagini degli esperimenti che sarebbero cominciati quando il sorgere del sole lo avesse reso nuovamente vulnerabile.
Aveva visto l'opera dell'Inquisizione, il commercio degli schiavi e i campi di concentramento della Seconda guerra mondiale, e sapeva fin troppo bene quali atrocità la gente fosse in grado di commettere. Il suo stesso padre aveva condannato uomini e donne al rogo senza altro motivo che la propria ira E queste particolari persone hanno già dimostrato di avere ben poche remore dal punto di vista etico, pensò. Nella stanza c'erano stati tre contenitori. Lui era dentro uno di essi, e senza dubbio la madre di Vicki si era trovata in uno degli altri due. Girando appena la testa, in modo che il flusso di aria fresca che giungeva dalla griglia indistruttibile gli passasse sul naso e sulla bocca, si concentrò sull'atto di respirare. Come distrazione non era granché, ma era una delle poche che aveva.
In piccolo conforto è il fatto che non mi devo preoccupare del rischio di soffoca... Il fetore di abominio lo avviluppò improvvisamente, inducendolo a ritrarsi di scatto verso il lato più lontano della sua prigione, con le scapole premute contro la plastica e il cuore che gli martellava negli orecchi. La creatura era accanto alla cassa, doveva esserlo. Tenendo la mano lesa addossata al petto, lottò per calmarsi, perché quella poteva essere la sua sola opportunità di liberarsi, e non poteva permettere al cieco panico di portargliela via. Qualcosa strisciò sulla sommità della cassa, qualcosa di grosso e di morbido che evocò l'improvvisa visione di un vecchio film di Hammer, in cui Dracula portava un bambino alle sue spose affamate, perché si nutrissero.
Oh, Signore, non questo. Se gli avessero dato l'opportunità di nutrirsi, non sarebbe riuscito a controllare la Fame, e il bambino sarebbe morto. Aveva ucciso molte persone nell'arco dei secoli, a volte perché doveva e a volte semplicemente perché poteva farlo, ma mai un innocente. Mai un bambino. Lo strisciare cessò.
Quando il coperchio si apre... pensò, preparandosi come meglio
poteva, ma esso rimase chiuso, e un momento più tardi lui si
riaccasciò sul fondo imbottito della cassa, i muscoli che tremavano per lo sforzo. — Se la chiamo domattina, lei avrà avuto il tempo di pensarci sopra, e si sarà resa conto che faccio sul serio. Anche se poteva ancora avvertire l'odore dell'abominio, Henry riconobbe quella voce, che apparteneva alla pallida giovane donna dagli occhi vuoti. — È una persona ragionevole, e sono certa che, come scienziata, giungerà a capire la mia posizione. Quella giovane donna era pazza... avendo sfiorato la sua mente, Henry non aveva nessun dubbio al riguardo... ma era anche fuori della cassa, era in grado di liberarlo, e pazza o meno che fosse, in quel momento era la sua unica possibilità. Ignorando il dolore, si contorse fino a premere la bocca contro la superficie ammaccata delle bocche di ventilazione e modulò la voce in modo da farla suonare il più pratica e normale possibile. — Scusi? Le dispiacerebbe aprire il coperchio? Per un brevissimo momento, pensò che quella finzione di normalità potesse aver funzionato, laddove un tentativo di ricorrere al fascino o alla coercizione non avrebbe trovato appigli. Colse una traccia dell'odore di lei mescolato al fetore di morte pervertita, anche se per grazia di Dio esso non si fece tanto intenso da strappare la Fame al suo controllo, e sentì le mani di lei posarsi sulla chiusura. Poi udì la sua risposta. — Sì, mi dispiacerebbe, perché oggi non ho il tempo di prendere campioni di tessuto. — Se tutto quello che vuole sono campioni di tessuto, mi faccia uscire, e rimarrò qui per lasciarglieli prendere — insistette Henry, deglutendo a fatica, la gola contratta dalla paura. Fammi uscire! — Ecco, a dire il vero, non sono molto brava a eseguire biopsie su soggetti vivi, quindi credo che aspetterò domani. "Non sono molto brava a eseguire biopsie su soggetti vivi?" Di cosa stava parlando? — Ma io sono vivo!
— Non proprio — ribatté lei, esprimendosi come se stesse sottolineando qualcosa di talmente ovvio da non capire perché mai lui avesse sollevato l'argomento. — Aspetti! — esclamò Henry, sentendola allontanarsi. — Cosa c'è, adesso? Stanotte ho molte cose per la mente. — Senta, sa cosa sono? — Tutto considerato, lei doveva saperlo. — Sì. Un vampiro. — E sa cosa significa? — Sì. Hai dei leucociti affascinanti. — Cosa? — non riuscì a trattenersi dal chiedere Henry. — Leucociti, globuli bianchi. E anche la tua emoglobina ha un potenziale incredibile.
Continuiamo su questo tono ancora per un po’ e diventerò pazzo quanto lei. — Se sai cosa sono, sai anche che cosa posso darti — insistette, la sua voce che riverberava nella cassa, potente e senza tempo. — Lasciami uscire, e ti darò la vita eterna. Non invecchierai e non morirai mai. — No, grazie, al momento sto lavorando a qualcosa d'altro. E la sentì allontanarsi. — Aspetta! — Si costrinse a rimanere immobile e ad ascoltare, ma la sola cosa che riuscì a sentire fu il battito del proprio cuore. Improvvisamente, Henry Fitzroy, figlio bastardo di Enrico VIII, vampiro di quattrocento cinquanta anni, si ritrovò a essere soltanto Henry Fitzroy. — NON MI LASCIARE SOLO! — Sai — commentò Catherine, richiudendosi alle spalle la pesante porta d'acciaio, — non mi ero resa conto che fosse tanto rumoroso. E un bene che lo abbiamo messo qui dentro, così la dottoressa Burke non potrà sentirlo — aggiunse, passando un lucchetto attraverso gli occhielli della pesante sbarra di sicurezza e chiudendolo di scatto.
Il numero nove fissò la porta. La scritta "Attenzione, Alta Tensione" non aveva per lui nessun significato, ma ricordava di essere stato rinchiuso in quella cassa, e non gli era piaciuto. Lentamente, le due dita della sua mano destra che ancora funzionavano, si chiusero intorno alla barra di sicurezza. Già a metà del corridoio, Catherine si girò in risposta al rumore del lucchetto che sobbalzava ma resisteva. — Cosa c'è? Cosa ti prende? Senza abbandonare la sbarra, lui si girò con cautela per guardarla. Non gli era piaciuto stare chiuso nella cassa. — Pensi che dovrei farlo uscire? — domandò Catherine, scuotendo la testa nel tornare ad avvicinarsi. — Tu non capisci. Se riesco a isolare i fattori che portano alla sua continua rigenerazione cellulare, posso integrarli in un batterio che ti riparerà davvero. — Prendendolo per un polso, gli allontanò con gentilezza la mano dalla porta e gli sorrise, aggiungendo: — Così potrai rimanere con me per sempre. Lui comprese il sorriso. Comprese per sempre. Era sufficiente. La sua andatura degenerò progressivamente in un passo strascicato mentre la seguiva fuori della stanza. Ricordava la gioia. Il livello della bottiglia di whiskey di puro malto era calato considerevolmente nel corso dell'ultima... la dottoressa Burke sbirciò l'orologio, ma non riuscì a leggere con precisione l'ora. Del resto, non aveva importanza. Non più. — Niente può impedirmi di raggiungere la gloria. — Puntellandosi su un gomito, si versò nella tazza dell'altro whiskey. — Ho detto questo. Niente può impedirmelo. — Bevve un lungo sorso e si appoggiò all'indietro, posandosi la tazza sullo stomaco.
"Dotto... ressa... " Poteva ancora sentirlo, anche se era rinchiuso in un contenitore di
acciaio inossidabile, in un altro edificio.
"Dotto... ressa... " Bevve un altro sorso per annegare quel suono. — Stai bene? Vicki sgusciò nell'ufficio esterno e accennò ad attraversare la stanza. Perché Celluci glielo stava chiedendo proprio adesso, dato che era riuscita a ritrovare il controllo prima che lasciassero la macchina? — Sto bene — garantì. — Me lo diresti, se così non fosse? Impossibilitata a vederci, lei andò a sbattere con il ginocchio contro il lato di una scrivania e represse un'imprecazione. Evidentemente, il suo ricordo della disposizione dell'ufficio era meno che perfetta. — Fottiti, Celluci — sibilò. Consapevole che lei non era in grado di vederlo, non più di quanto potesse vedere qualsiasi altra cosa, lui levò gli occhi al cielo. Di certo, da come parlava, pareva stare molto meglio. Nonostante l'effetto ammortizzante del whiskey, la dottoressa Burke sentì l'impatto della carne umana contro un mobile, e il cuore le si arrestò. Aveva bloccato il coperchio del contenitore di isolamento. Quella cosa non poteva esserne uscita e averla seguita. Oppure sì? Poi sentì delle voci, e il cuore riprese a batterle. — Davvero piacevole — commentò; il liquore che aveva bevuto, anche se non era ancora sufficiente a isolarla dal ricordo di ciò che aveva lasciato nel laboratorio, la stava comunque facendo sentire distaccata dal resto del mondo. — Ho compagnia. Chinandosi in avanti con cautela in modo da non sforzare eccessivamente un senso dell'equilibrio già duramente provato, prelevò la giacca di Donald, posata sulla moquette, e la stese davanti a sé sulla scrivania.
— Prego, entri, signorina Nelson. Non riesco a tollerare una persona che se ne sta appostata nell'ombra. — Sembra che abbiamo trovato la dottoressa — osservò Celluci, girandosi di scatto verso la porta; la sua mano, chiusa intorno al braccio di Vicki, la sentì rabbrividire, ma la voce di lei rimase salda. — Allora non facciamola aspettare — ribatté. Insieme, passarono nell'ufficio interno. Il lampione che si trovava sotto la finestra, cinque piani più in basso, forniva abbastanza luce da permettere a Celluci di vedere la dottoressa seduta alla sua scrivania, e anche se non riuscì a distinguere la sua espressione sentì subito l'odore di liquore. Girandosi, protese un lungo braccio e accese la luce centrale. Nel chiarore improvviso e intenso, nessuno si mosse o parlò, finché Vicki non si fece avanti, gli occhi lacrimanti quasi chiusi per difenderli dalla luce. — Il dottor Frankenstein, presumo — disse, senza traccia di umorismo nella voce. — Buon Dio, umorismo in condizioni di stress — esclamò la dottoressa Burke, scoppiando a ridere. — Qui ci servirebbe un po' di umorismo in più. In genere, gli studenti specializzandi sono soggetti noiosi e concentrati su questioni accademiche. — Nel parlare, serrò una mano intorno a una piega della giacca posata sulla scrivania e usò l'altra per portarsi la tazza alla bocca. — In genere — ripeté dopo un momento. — È ubriaca — ringhiò Vicki. — A più in percettività, C meno per i modi. Per quanto sia ovvia, non è il genere di cosa che una persona debba far notare. Vicki avanzò a passo di carica verso la scrivania, trattenendosi a stento dal lanciarsi sopra di essa, le mani serrate sul bordo fino a farsi sbiancare le nocche. — Basta con le stronzate! Che ne avete fatto di Henry? La dottoressa Burke si mostrò momentaneamente sorpresa.
— Oh, buon Dio, è di questo che si tratta? Mi sarei dovuta rendere conto che lui era un regalo troppo bello per essere casuale, e lei mi sembra proprio il genere di persona capace di frequentare un vampiro, detective! — continuò, girando la testa per guardare verso Celluci, che si era spostato sulla sua destra. — Lo sa che la sua amichetta qui presente aiuta e spalleggia i nonmorti succhiasangue? — Posata con cura esagerata la tazza vuota sulla scrivania, allungò la mano verso la bottiglia, ma Celluci fu più veloce di lei. Scrollando filosoficamente le spalle, la dottoressa tornò ad appoggiarsi allo schienale, continuando: — Allora, cosa vi ha portati a concludere che il vostro signor Fitzroy sia presso di me? — Il rendermi conto che lui ha ucciso mia madre — spiegò Vicki, con gli occhi che fiammeggiavano dietro gli occhiali, e anche se rimase immobile, ogni linea del suo corpo proclamò la sua furia. — E cosa vi induce ad affermarlo? — A giudicare dall'emozione che la dottoressa Burke stava dimostrando, la domanda avrebbe potuto riguardare un'annotazione a piè di pagina di una tesi. — La morte di mia madre si è verificata nelle quattro settimane in cui Donald ha prestato servizio presso le pompe funebri — ribatté Vicki, con la voce che le tremava per lo sforzo di non urlare quelle accuse. — Più probabilmente, si è verificata verso la fine di quel periodo, dopo che Hutchinson aveva imparato a fidarsi di lui. — Donald sapeva essere molto simpatico — convenne la dottoressa Burke, continuando a tormentare la giacca con la mano sinistra. — Un tempismo del genere non poteva essere affidato al caso — continuò Vicki, un muscolo che le si contraeva lungo la mascella, — e lei le era accanto appena prima che morisse. L'ha uccisa! — Dimentica che la signora Shaw era con lei quando è morta, ma non importa — replicò la dottoressa Burke, sollevando una mano. — Tanto vale che vi dica cosa è successo. Ogni mattina facevo a sua madre delle iniezioni di vitamine, deve averlo letto nella cartella della dottoressa Friedman. Vicki annuì, lo sguardo inchiodato sul volto dell'altra donna. — In realtà, quelle iniezioni non potevano fare nulla per aiutarla,
ma davano a sua madre l'impressione che stava facendo qualcosa, e così stava meglio, era meno tesa, e nelle sue condizioni la tensione era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. — La dottoressa si accigliò e scrollò le spalle, proseguendo: — Dovrete avere pazienza se sono meno coerente del solito. Come lei ha sottolineato prima, sono ubriaca. In ogni caso, ho fatto una splendida chiacchierata con la dottoressa Friedman riguardo allo stress, e quell'ultima mattina sua madre non ha ricevuto un'iniezione di vitamine, ma una di adrenalina pura. Il suo cuore è entrato violentemente in azione e lo sforzo è stato eccessivo per lei. — Un'autopsia avrebbe rilevato quell'eccesso di adrenalina — osservò Celluci, a bassa voce, — e ci sarebbe stata ben poca difficoltà a risalire fino a lei. — E perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto fare un'autopsia? — sbuffò la dottoressa Burke. — Le sue condizioni erano risapute, e tutti stavano aspettando che Marjory morisse. Tutti tranne lei — aggiunse, scoccando a Vicki un'occhiata compiaciuta. — Stia zitta. — Continuava a ripetere che glielo avrebbe detto, ma immagino che non si sia mai decisa a farlo. — STIA ZITTA! La dottoressa guardò la metà degli oggetti presenti sulla sua scrivania rovinare al suolo e si girò verso Celluci. — Che probabilità avrei di riavere quella bottiglia, se le dicessi che ne ho bisogno per motivi medici? — domandò. — Stia zitta — ribadì Celluci, con un secco sorriso. — Voi due avete un vocabolario decisamente limitato — dichiarò la dottoressa Burke, scuotendo il capo. — Non volete neppure sapere perché l'ho fatto? — Oh, sì, mi piacerebbe immensamente saperlo — ringhiò Vicki. — Mia madre pensava che fosse sua amica? — È un bene che io non sia un'ubriaca che tende alla malinconia, altrimenti mi farebbe piangere. Sua madre stava morendo, non aveva vie di uscita, e io ho fatto in modo che morisse per una
ragione. No, non si disturbi — aggiunse, sollevando una mano, — so cosa sta per chiedermi. Se stava morendo comunque, perché non aspettare e fare in modo che mi lasciasse il suo corpo nel testamento, o qualcosa del genere? Ecco, non funziona in questo modo. Avevamo colture di tessuti, schemi di onde cerebrali, tutto il necessario per passare alla fase successiva dell'esperimento, e quello era per noi il solo modo di ottenere il corpo. — Quindi per lei mia madre era soltanto un corpo? — Ecco, dopo che è morta, sì — confermò la dottoressa Burke, protendendosi in avanti. — Non è morta. Lei l'ha uccisa. — Ho accelerato l'inevitabile. È infuriata solo perché sembra essere l'unica persona con cui lei non si è confidata. — Vicki! No! — Celluci si lanciò in avanti e riuscì a impedire che le mani di Vicki si chiudessero intorno alla gola della dottoressa, poi la tirò indietro e la tenne stretta finché la cieca ira non si fu placata abbastanza da far riaffiorare la razionalità, e con essa il controllo. Quando fu certo che era di nuovo padrona di se stessa, la lasciò andare e si girò verso la dottoressa. — Alla prossima battuta del genere — avvertì, in tono basso e intenso, — non la tratterrò più, e lei otterrà esattamente quello che merita. — Quello che merito? — ribatté lei in tono amaro, con un sorriso privo di umorismo. — detective, lei non sa di cosa parla. Accigliandosi, Celluci abbassò lo sguardo sulla giacca, poi tornò a sollevarlo lentamente sulla dottoressa Burke. — Ha detto che Donald era simpatico. Perché era? Perché parlare al passato? Cosa gli è successo? La dottoressa si impadronì della bottiglia, che Celluci aveva lasciato cadere per trattenere Vicki, e si riempì ancora la tazza. — Immagino che Catherine lo abbia ucciso — disse. — Catherine è la seconda dei suoi specializzandi? — Bisogna prendere le provette dall'alto — commentò la
dottoressa, bevendo un lungo sorso e traendo un sospiro di sollievo, perché il mondo aveva minacciato di tornare ad affiorare. — Forse è meglio che cominci dal principio. — No. — Vicki calò con violenza entrambi i palmi sul piano della scrivania. — Prima ci restituisce Henry. La dottoressa incontrò il suo sguardo e sospirò. — Ha bisogno di salvarlo perché non ha potuto salvare sua madre — affermò, con voce così carica di comprensione da dissolvere la reazione di Vicki alle sue parole. — Credo sia meglio che senta prima di Catherine. Celluci spostò lo sguardo dall'una all'altra delle due donne, ma si astenne dal parlare: era Vicki a condurre il gioco. — D'accordo — decise infine lei, raddrizzandosi. — Ci dica cosa sta succedendo. La dottoressa Burke bevve un altro sorso, poi scivolò visibilmente nella sua modalità da conferenziera. — Sono una brava scienziata, ma non sono un genio, non possiedo semplicemente la capacità di elaborare quei concetti originali richiesti dalla genialità, anche se sono uno splendido amministratore, probabilmente il migliore del mondo... il che non significa un accidente di niente. Guadagno una ragionevole quantità di denaro, ma avete idea di quanto possano fruttare un paio di brevetti biologici con applicazioni militari? O qualcosa in cui le compagnie farmaceutiche possano davvero affondare i denti? No, naturalmente no. Ed è qui che entra in gioco Catherine. «Lei è un genio... ve l'ho già detto? Ebbene, lo è. Come specializzanda, ha brevettato il prototipo di un batterio che, con ulteriore sviluppo, dovrebbe essere in grado di ricostruire le cellule danneggiate. Quando sono diventata il suo consigliere, mi è subito risultato evidente che anche lei, come tutti i genii, era estremamente instabile, e stavo per suggerirle di rivolgersi a uno psicologo quando mi sono resa conto di avere davanti la mia occasione. La sua ricerca era la sola cosa con cui lei avesse rapporti, e io ero il suo solo contatto con la realtà. Era una situazione che implorava di essere sfruttata.
«Ben presto mi sono resa conto che non stavamo andando incontro soltanto a ricompense monetarie, ma anche alla netta possibilità di vincere un Premio Nobel. Sembra folle, vero? — commentò, bevendo un altro sorso. — Non escludiamo la cosa, potrebbe costituire una valida linea di difesa. In ogni caso, Catherine ha elaborato alcune possibilità davvero incredibili, e abbiamo cominciato a sviluppare i nostri parametri sperimentali. — Di solito, voialtri non lavorate con i ratti? — ringhiò Celluci. — Di solito sì — convenne la dottoressa. — Avete familiarità con la teoria della sincronicità? Proprio mentre Catherine finiva di elaborare la sua teoria, qualcuno in Brasile ha pubblicato uno studio che riguardava più o meno gli stessi concetti. C'era un solo modo per avere la certezza di vincere la gara. Siamo passati direttamente alla sperimentazione su cadaveri umani. Ho installato un laboratorio e reindirizzato là i corpi più freschi che arrivavano all'obitorio della facoltà di medicina... mi scuserete se sorvolo sui tediosi particolari burocratici in merito a come sono riuscita a fare tutto questo senza che nessuno se ne accorgesse; se lo ricordate, ho detto di essere uno splendido amministratore... — Confusa, fissò per un momento la propria tazza, domandando: — Dov'ero rimasta? — Ai cadaveri umani — ringhiò Vicki. — Ah, sì. A quel punto, mi sono resa conto che ci serviva l'aiuto di qualcun altro. Donald si era messo nei guai, alla facoltà di medicina, e io l'ho tirato fuori da quel pasticcio, soprattutto perché mi era simpatico. Anche lui era un genio, ed era simpatico, avvenente e del tutto privo di etica — spiegò la dottoressa, lisciando con cura meticolosa le pieghe che aveva creato nella giacca. — Dopo un po', abbiamo cominciato ad avere qualche successo. Stavamo usando batteri e onde cerebrali non specifici, ma se volevamo procedere oltre dovevamo mettere le mani su un corpo che fossimo riusciti a tipizzare prima della morte... e quel corpo è risultato essere quello di Marjory Nelson. Quando ho avuto la certezza che sarebbe morta comunque, sotto la copertura degli esami per appurare le sue condizioni abbiamo prelevato campioni di tessuto e registrato le sue onde cerebrali. — E poi l'avete riportata in vita.
Occhi grigi che si aprivano con un bagliore di riconoscimento. — Più o meno. Abbiamo riportato indietro la meccanica della vita, niente altro. — Niente altro. — Sono automi organici, se preferite. Il problema era che i batteri avevano un arco di vita molto breve e che dovevamo vedercela con la decomposizione... il che, nel caso ve lo stiate chiedendo... è stato il motivo per cui ho voluto che sua madre venisse parzialmente imbalsamata — aggiunse, finendo il whiskey nella tazza e sollevandola verso Vicki in un saluto beffardo, precisando: — Se solo aveste lasciato la bara chiusa, nessuno se ne sarebbe accorto. — Sembra dimenticare che ha assassinato mia madre! La dottoressa Burke scrollò le spalle, rifiutandosi di discutere ulteriormente su quel punto. — E così adesso sapete tutta la storia, o almeno la versione riveduta per la televisione. Domattina ci saranno le prove. Qualche domanda? — Sì. Ignorando per un momento un ragazzo adolescente della cui morte è indirettamente responsabile, ho due domande — replicò Vicki, assestandosi gli occhiali. — Perché ci sta dicendo tutto questo? — Ecco, ci sono delle teorie secondo cui la confessione sarebbe una compulsione umana, ma lo sto facendo soprattutto perché il nostro piccolo esperimento è sfuggito del tutto al mio controllo. Catherine è scivolata nell'abisso, e io non ho nessuna intenzione di seguirla. — Anche se per un momento, con la mano sulla chiusura di quel contenitore, ci era andata vicino. Si era chiesta fino a che punto sarebbero stati disposti a spingersi per ottenere un corpo veramente fresco, e poi Donald le aveva risposto. Quella era però una faccenda personale, che non riguardava la donna. — E perché Donald è morto. — Anche quel ragazzo è morto, e anche mia madre! — Il ragazzo è stato un incidente, e sua madre stava morendo, ma Donald aveva tutto per cui vivere! — Per un istante, il volto le si contrasse, ma poi tornò a rilassarsi. — Inoltre — aggiunse, versando il poco whiskey rimasto nella bottiglia, — Donald mi era simpatico. — Lo era anche mia madre!
— Ha detto di avere due domande — affermò la dottoressa Burke, fissando placidamente Vicki. — Qual è la seconda? Come poteva quella creatura starsene lì seduta con tanta calma e ammettere simili orrori? Travolta da un maelstrom emotivo, Vicki non riuscì a parlare; rendendosi conto che la prossima volta che avesse perso il controllo Celluci non sarebbe riuscito a fermarla, allargò le mani e si ritrasse dalla scrivania. Interpretando giustamente quei segnali, lui si fece avanti al suo posto. — Dov'è Henry Fitzroy? — domandò. — Con Catherine. — D'accordo — insistette Celluci, traendo un profondo respiro e passandosi entrambe le mani fra i capelli. — E dov'è Catherine? — Non ne ho la minima idea — dichiarò la dottoressa, scrollando le spalle.
Capitolo tredicesimo — D'accordo, vediamo se ho capito quello che sta dicendo — decise Vicki, traendo un profondo sospiro ed esalando lentamente il fiato, consapevole che urlare e cominciare a scagliare oggetti non avrebbe contribuito in alcun modo alla situazione. — La sua specializzanda, Catherine, che è pazza, ha assassinato l'altro suo studente specializzando, Donald. Quando è tornata nel laboratorio, questo pomeriggio sul tardi, ha scoperto che lei ha nascosto Henry e non sa dove sia... dove siano. — Essenzialmente esatto — annuì la dottoressa Burke. — COSA ACCIDENTI SIGNIFICA, ESSENZIALMENTE? — urlò Vicki, mandando al diavolo le sue buone intenzioni. Il distacco indotto dall'alcol s'incrinò quando lei afferrò la dottoressa per i risvolti del camice da laboratorio e quasi la trascinò di peso sopra la scrivania. — Se potesse allentare la stretta — annaspò la dottoressa, — mi riuscirebbe più facile... rispondere alla sua domanda. La risposta di Vicki fu un ringhio inarticolato. — Detec... tive! Celluci fissò lo sguardo su un punto che si trovava una dozzina di centimetri al di sopra della testa della dottoressa, e assunse un'espressione aggressivamente neutra. Sentendo il colletto che le affondava nella trachea, la dottoressa si rese conto che ulteriori esitazioni sarebbero servite soltanto a peggiorare le cose. — Catherine deve essere nel vecchio edificio del Dipartimento di Scienze Naturali — disse. — Il vostro amico vampiro è chiuso in un grosso contenitore di metallo, e cercare di spingerlo fuori della porta e di caricarlo sul suo furgone avrebbe attirato l'attenzione. Ma quanto a dove sia, all'interno dell'edificio... — aggiunse, con una scrollata di spalle abbastanza credibile, considerata la sua posizione
— ... non ne ho idea. Invece di allentare la presa, Vicki impresse uno spintone all'indietro che mandò la donna più anziana a ricadere con violenza sulla sedia. — Il suo laboratorio è là dentro? Nel vecchio edificio? — Sì, e anche sua madre è là, da qualche parte — scatto la dottoressa Burke, massaggiandosi il dietro del collo nel punto in cui la stoffa era affondata nella pelle e scoccando un'occhiata di superiorità da sopra il bordo degli occhiali. — La sua defunta madre, che se ne va in giro.
La mia defunta madre. Che se ne va in giro. Neppure l'ira riuscì a
reggere sotto il peso di quell'affermazione. — Vicki?
Lottando per ricacciare indietro l'immagine del volto di sua madre premuto contro la finestra, Vicki incontrò lo sguardo di Celluci. — Abbiamo una confessione. Adesso possiamo chiamare il detective Fergusson — suggerì lui. — Non sei costretta ad avere altro a che fare con tutto questo. — Bel tentativo, Mike — ribatté lei, deglutendo a fatica per cercare di umettare una gola improvvisamente arida. — Ma ti stai dimenticando di Henry. — Non dovete dimenticarvi di Henry — commentò la dottoressa Burke, arrivando quasi a sorridere, mentre continuava a massaggiarsi il collo. — Mi piacerà moltissimo sentire come farete a spiegare lui alla polizia locale. Finché non lo avrete trovato, non potrete far parola di questo, e dopo? — Nel vedere la loro espressione, la dottoressa scosse il capo e sospirò, appoggiando entrambe le mani sulla scrivania nel continuare: — Non importa, ve lo dico io: non ci sarà un dopo. Finché Catherine non si deciderà a contattarmi, non avrete la minima speranza di trovare il vostro amico. In quell'edificio c'è un milione di stupidi bugigattoli, e lei potrebbe averlo ficcato in uno qualsiasi di essi. Dovrete semplicemente starvene seduti ad aspettare qui con me finché lei non chiamerà.
— E a quel punto? — Starò al suo gioco, lei mi dirà dove lo ha nascosto, voi lo tirerete fuori e chiamerete la polizia, in modo da farle pagare la morte di Donald. — E lei pagherà per quella di mia madre — sibilò Vicki, socchiudendo gli occhi. — Se la cosa può farla felice, signorina Nelson, le pagherò perfino la cena. — E se lei non dovesse chiamare? — intervenne Celluci, stroncando sul nascere la reazione di Vicki. — Ha detto che lo avrebbe fatto. — Ma sostiene che è pazza. — Questo è vero. — Mike, io non posso aspettare — dichiarò Vicki, muovendo quattro passi verso la porta, poi girò sui tacchi e ne mosse altri tre verso la scrivania. — Non posso basare tutto su quello che una pazza può o non può fare. Ho intenzione di trovarlo. Lei... — continuò, accennando con la testa alla dottoressa — ... ci potrà guidare al laboratorio, e avvieremo le ricerche da lì. — Neppure per sogno — ribatté la dottoressa Burke. Non aveva intenzione di avvicinarsi al laboratorio... era già abbastanza sgradevole continuare a sentire lui che la chiamava, nonostante mezza bottiglia di Scotch. — Mi dovrete trascinare a forza, questo metterà in allarme la Sicurezza e scoppierà un pandemonio, con il risultato che il vostro Henry Fitzroy verrà confiscato dal governo. Se volete il laboratorio, dovrete trovarvelo da soli. Vicki si protese in avanti, posando le mani sulla scrivania con le dita che quasi sfioravano quelle della dottoressa, una posizione che risultò molto più minacciosa delle sue azioni precedenti. — Allora ci fornirà indicazioni molto precise. — Oppure? Cosa farà? Cerchi di prestarmi attenzione, signorina Nelson: lei non può fare niente finché non avrà salvato il suo amico. — Posso ridurle in poltiglia quella sua fottuta faccia.
— E cosa otterrebbe con questo? Se estorcerà le indicazioni percuotendomi, le posso garantire che non saranno precise. Cerchi di essere realistica, se le riesce: lei e questo suo amico piedipiatti potete anche andare là dentro e tentare di trovare il vostro amico, ma dovrete lasciarmi fuori dalla cosa. — Ritrovare la strada fino al laboratorio le era impossibile, anche solo a parole. — Giusto per dimostrarvi che non porto rancore, voglio rivelarvi qualcosa che non è realmente un segreto: esiste un modo per entrare nel vecchio edificio passando dal lato settentrionale del parcheggio sotterraneo. La Sicurezza avrebbe dovuto installare laggiù dei video di sorveglianza, ma hanno esaurito i fondi. Poi non dite che non vi ho dato nessun aiuto. Buona caccia. — E lei cosa farà, mentre noi cerchiamo? — domandò Celluci, afferrando Vicki per una spalla e trascinandola con gentile inflessibilità lontano dalla scrivania. — La stessa cosa che stavo facendo quando siete arrivati — spiegò la dottoressa Burke, aprendo l'ultimo cassetto della scrivania e tirando fuori una seconda bottiglia di Scotch. — Tenterò di bere fino a intontirmi. Grazie a Dio, tengo sempre una bottiglia di riserva — aggiunse, riuscendo a rompere il sigillo di carta al terzo tentativo. — Vi garantisco che non intendo andare da nessuna parte. — Perché no, dato che come minimo si troverà ad affrontare un'accusa di omicidio? — scattò Vicki, liberandosi con uno strattone dalla presa di Celluci. — Sta ancora battendo il chiodo sulla faccenda di sua madre, vero? — sospirò la dottoressa, fissando per un momento le chiare profondità del liquore ambrato, prima di continuare: — Ho perso interesse nel gioco quando Donald è morto. — La bottiglia parve diventare una bara argentea e lei rabbrividì, sollevando la testa e spingendo lo sguardo oltre gli occhiali di Vicki, fino a incontrare i suoi occhi. — Essenzialmente, e chiedo scusa se questa parola la offende, dato che è la sola adatta a esprimere il concetto... essenzialmente, non me ne importa niente. Ed era vero, Vicki se ne rese conto anche attraverso il velo del lutto, dell'ira e della confusione. — Muoviamoci — decise, issandosi in spalla la borsa e
accennando con la testa verso la porta. — Attualmente, lei non andrà da nessuna parte. — Le credi? Vicki diede un'occhiata agli occhi della dottoressa Burke, e riconobbe ciò che si scorgeva in essi. — Sì, le credo — confermò. Sulla porta, si soffermò per aggiungere: — Ancora una cosa: può darsi che adesso non le importi, ma non pensi di poter usare in seguito quello che sa di Henry come jolly per trattare la sua posizione... — In seguito — la interruppe la dottoressa, stringendo entrambe le mani intorno alla bottiglia per evitare di rovesciarne il contenuto nel riempirsi ancora la tazza, — senza una creatura tangibile su cui eseguire dei test, potrò urlare al vampiro fino a diventare bluastra in faccia senza che nessuno creda a una mia parola. Trafugare cadaveri non aiuta a mantenere la propria credibilità presso la comunità scientifica. — Per non parlare dell'assassinio di uno dei suoi specializzandi — sottolineò Celluci, in tono asciutto. — Non lo immagineresti mai — sbuffò la dottoressa Burke, sollevando la tazza in un sorriso sarcastico. — Gesù Cristo! — esclamò Celluci, calando con forza il palmo della mano contro il muro in un gesto di frustrazione. — Questo posto è come un labirinto: corridoi che non vanno da nessuna parte, aule che portano a uffici nascosti, laboratori che appaiono all'improvviso... Vicki diresse lungo il corridoio il raggio della sua potente torcia. Dal momento che nel vecchio edificio soltanto una su quattro delle forti luci di emergenza era accesa, lei ci vedeva abbastanza bene da non andare a sbattere contro qualcosa, ma non tanto da poter identificare ciò contro cui non era andata a sbattere. Soltanto l'area illuminata appieno dalla sua torcia conservava un minimo di definizione, e le pareva quasi di procedere attraverso le diapositive di un'assurda vacanza, entrando in una scena nel momento esatto in cui veniva sostituita da quella successiva; i suoi nervi erano talmente
tesi che le pareva di sentirli vibrare a ogni movimento. La sua defunta madre si stava aggirando in quell'edificio.
Questa volta la vedrò? si chiedeva, ogni volta che spostava
intorno lo sguardo, e quando tutto ciò che riusciva a vedere era soltanto un'altra stanza vuota o un tratto di corridoio, insorgeva spontanea la domanda successiva: È ferma nel buio alle mie spalle? La camicia le aderiva ai fianchi, sotto la felpa e la giacca, ed era costretta a passare di continuo la torcia da una mano all'altra per asciugarsi i palmi. — Non funzionerà — ammise, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco e guardando il corridoio scivolare nel buio, tranne che per la polla di luce sui suoi piedi. — Questo posto impedisce qualsiasi tipo di ricerca sistematica. Dobbiamo usare la testa. — Concesso — ne convenne Celluci, addossandosi alla spalla sinistra di lei, dove riteneva di essere abbastanza vicino da permetterle di vederlo in volto. — Però abbiamo a che fare con una pazza che è fuggita portandosi dietro un vampiro, il che di per sé non si presta a un'analisi logica. — Deve farlo — ribadì Vicki, assestandosi gli occhiali più per il conforto che le derivava da quel gesto familiare che non per effettiva necessità, mentre una metà della sua mente passava in esame le scarse informazioni in loro possesso in cerca di indizi, e l'altra filtrava i rumori notturni del vecchio edificio, cercando di cogliere un eventuale suono di passi strascicati. All'improvviso, socchiuse gli occhi e sollevò lo sguardo su Celluci, osservando: — La dottoressa Burke ha detto che Henry era in un grosso contenitore di metallo. — E allora? — E ha lasciato intendere che era pesante. — Di nuovo... e allora? — Guarda il pavimento, Celluci — suggerì Vicki, arrivando quasi a sorridere. Insieme, chinarono la testa per fissare le piastrelle grigio chiaro, opacizzate dal passaggio di migliaia di piedi; la loro superficie era
segnata da parecchie scalfitture e rientranze che le punteggiavano d'ombra, e ancora più scuri erano una mezza dozzina di segni lasciati da pesanti ruote di gomma nera. — Se il contenitore era pesante come afferma la dottoressa Burke — continuò Vicki, sollevando il capo e fissando Celluci negli occhi, — in un modo o nell'altro deve aver lasciato dei segni. Le ruote di gomma si usurano e quelle di metallo scavano solchi. — Quindi — annuì Celluci, — dobbiamo cercare le tracce che lei ha lasciato nello spostare il contenitore. Tuttavia, questo continua a essere un grande edificio... — Sì, ma noi sappiamo dannatamente bene che non può averlo portato su e giù per le scale — sottolineò Vicki, dirigendo il raggio della torcia lungo il corridoio. — La corrente c'è, quindi gli ascensori devono essere in funzione. Ci basterà controllare davanti alle loro porte, a ogni piano, fino a trovare i segni e a seguirli da lì. — Sai, è un'idea praticamente brillante — dichiarò Celluci, con un sorriso di apprezzamento. — Grazie — sbuffò Vicki. — Non c'è ragione che ti mostri così sorpreso. Senza altro motivo se non il fatto che dovevano cominciare da qualche parte, avviarono le ricerche dall'ottavo piano, il più alto, e arrivati al terzo trovarono quello che stavano cercando, impresso non solo nelle piastrelle ma anche nella striscia di metallo che portava nell'ascensore: i segni di due paia di ruote, distanti fra loro circa un metro e venti. In silenzio, uscirono nel corridoio e lasciarono che le porte dell'ascensore si richiudessero con un sospiro alle loro spalle. Nessuno venne a indagare la causa di quel rumore. Riluttante a usare la torcia e a rischiare di essere prematuramente scoperti, Vicki si aggrappò alla spalla di Celluci e gli permise di guidarla lungo il corridoio, scoprendo con sua sorpresa che muoversi in quella che era per lei un'oscurità assoluta le riusciva meno faticoso della serie di immagini isolate fornite dalla torcia. Anche se aveva ancora l'orecchio teso a cogliere un rumore di passi in avvicinamento, la tensione che la accompagnava si era attenuata.
O forse è solo che adesso ho un'ancora, rifletté, accentuando un
poco la stretta.
Quando arrivarono alla prima intersezione, perfino lei riuscì a distinguere in che direzione dovevano andare, perché l'aspra luce bianca delle lampade a fluorescenza si riversava attraverso la porta aperta e fin nel corridoio. Sentì la spalla di Celluci che si sollevava, quando lui infilò la mano sotto la giacca, poi udì il suono inconfondibile del metallo che scivolava contro il cuoio. Fino a quel momento, non si era resa conto che lui aveva portato con sé la pistola, e considerata la quantità di problemi a cui sarebbe potuto andare incontro se l'avesse usata, stentò a credere che l'avesse davvero impugnata. — Questo non è appena un po' troppo americano? — sussurrò, con le labbra che quasi sfioravano l'orecchio di lui. Celluci la spinse di nuovo dietro l'angolo e chinò la testa verso quella di lei. — Quello che la dottoressa Burke ha trascurato di menzionare — rispose, a voce tanto bassa da poter essere udita soltanto da lei, — è che c'è qualcosa d'altro che vaga qui sotto, a parte una scienziata pazza e tua... — Mia madre — concluse Vicki, in tono piatto. — Non ti preoccupare. — In quella situazione, i suoi sentimenti erano irrilevanti. Devo soltanto continuare a ripetermelo, pensò. — Già, ecco, qualcos'altro ha ucciso quel ragazzo, e noi non correremo più rischi di quanto sia strettamente necessario. — Mike, se è già morto, a cosa può servire sparargli? — Se è morto una volta, può morire di nuovo — ribatté lui, in tono deciso. — E io cosa dovrei usare secondo te... delle parolacce, forse? — Tu puoi aspettare qui. — Fottiti — tagliò corto Vicki, mascherando sotto la spavalderia la sua paura. Non da sola. Non al buio. Non qui. Si diressero verso la porta aperta, e quando arrivarono al limitare
dell'area illuminata, Vicki lasciò andare la spalla di Celluci. — Conta fino a cinque — sussurrò Celluci, sfiorandole la guancia con il suo alito caldo, poi scattò oltre la soglia. I successivi cinque secondi furono i più lunghi che Vicki avesse mai vissuto. Con gli occhi chiusi, si appoggiò con la schiena alla parete e si chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di guardare; arrivata a contare fino a cinque, deglutì a fatica, aprì gli occhi e si guardò intorno nella stanza, consapevole che Celluci, fermo dall'altro lato della porta, stava facendo altrettanto. Anche con le palpebre socchiuse a difendersi dal chiarore, i suoi occhi impiegarono un momento a smettere di lacrimare quanto bastava per mettere a fuoco la vista. Quello era un laboratorio, senza dubbio era stato usato di recente e altrettanto indubbiamente era stato abbandonato. Otto anni nella polizia le avevano insegnato a riconoscere la confusione rivelatrice che i sospetti si lasciavano alle spalle nel tagliare la corda. Con cautela, presero ad avanzare nella stanza, si girarono lentamente e avvistarono quasi nello stesso momento il contenitore di isolamento, che ronzava in meccanica solitudine in fondo al laboratorio. Vicki mosse due rapidi passi verso di esso, poi si fermò e si costrinse a ragionare. — Se questo è il laboratorio originale, e se sappiamo che Catherine ha spostato Henry... — Lui non è in quella cassa. — Forse è vuota. — Forse. Ma nessuno dei due ci credeva davvero. — Dobbiamo accertarcene — affermò Vicki. In qualche modo, senza che lei neppure se ne accorgesse, i suoi piedi l'avevano portata a un braccio di distanza dal contenitore. Tutto quello che doveva fare era protendersi e sollevare il coperchio.
E sollevare il coperchio. Oh, mamma, mi dispiace. Non posso farlo. Pur disprezzandosi per la propria vigliaccheria, non riuscì ad
arrestare l'ondata di sudore freddo o a contrastare la debolezza alle ginocchia che minacciava di farla crollare prona al suolo. — È tutto a posto. — Non era tutto a posto, ma quelle erano le parole giuste da dire, quindi Celluci le disse nell'aggirare Vicki per posare una mano sul meccanismo di chiusura: se non altro, quella era una cosa che poteva fare per lei. — Non sei obbligata a restare. — Invece sì. — Quanto meno, poteva essere un osservatore passivo. Celluci la scrutò in volto, giurò fra sé che qualcuno avrebbe pagato per la sofferenza che continuava ad affiorare a forza attraverso le crepe della maschera di lei, e sollevò il coperchio. L'allentarsi della tensione fu così intenso che Vicki barcollò, e sarebbe caduta se Celluci non fosse indietreggiato e non l'avesse afferrata. Per un momento, lei si concesse di rimanere appoggiata al suo braccio, poi si riscosse e si risollevò. Fin dall'inizio, aveva dichiarato che era intenzionata a ritrovare sua madre, quindi perché era tanto sollevata che non lo avessero fatto? Spesse incisioni purpuree, richiuse alla meglio con rozzo filo nero, segnavano il corpo nudo del giovane maschio orientale, formando uno sgradevole disegno a forma di "y", e una serie di lividi porpora e verdi circondava come una collana la gola sottile. Tubi di plastica penetravano in entrambi i gomiti e nell'interno della coscia, e sulla fronte parzialmente ricoperta da una fitta massa di capelli neri spiccava una seconda incisione, chiusa con punti metallici. In tanti anni, sia Vicki sia Celluci avevano visto più cadaveri di quanto amassero ricordare, cosa che li rendeva certi che il giovane nel contenitore fosse morto. — Mike, il suo petto... si... — Lo so. Due passi bastarono a Vicki per avvicinarsi abbastanza da allungare la mano oltre il bordo del contenitore e toccare delicatamente con la punta delle dita la pelle al di sopra del diaframma. Essa era fredda, ma si alzava e si abbassava, rispondendo allo stimolo di qualcosa che si trovava sotto di essa.
— Gesù... c'è un motore — mormorò, ritraendo la mano e sfregando le dita contro la giacca come per pulirle; sollevando la testa, sorprese Celluci nell'atto di farsi il segno della croce. — La dottoressa Burke non ha mai parlato di questo — aggiunse. — No, non proprio. — Spostando la pistola nella destra, Celluci la ripose nella fondina, perché non pareva che per il momento ne avrebbe avuto bisogno. — Qualcosa però mi dice che abbiamo finalmente trovato Donald Li. Gli occhi del giovane si aprirono di scatto. Vicki non sarebbe riuscita a muoversi neppure se lo avesse voluto, così come non riuscì a distogliere lo sguardo da quegli occhi neri, mentre essi si spostavano da lei a Celluci e viceversa. Un muscolo si mosse sotto i lividi purpurei che segnavano la gola. Labbra fra il grigio e l'azzurro si socchiusero. — Uccide... temi. — Santa Maria, Madre di Dio, è vivo — mormorò Celluci. Nel contenitore, lo sguardo degli occhi neri si spostò lentamente su di lui. — No. — No? Cosa diavolo significa no? — Ti sta dicendo che non è vivo, Mike — spiegò Vicki, ignorando le urla che sentiva echeggiare dentro di sé. — È come mia madre. —
Mani allargate contro il vetro. La bocca che si muove senza emettere suono. — È morto, ma è intrappolato lì dentro. — Uccide... temi... per... favore...
Affondando le dita nel cavo del braccio di Celluci, Vicki indietreggiò e lo trascinò con sé, fermandosi soltanto quando al posto del volto di Donald Li vide la propria faccia riflessa nell'acciaio inossidabile del cassone. — Dobbiamo fare qualcosa — affermò. — Cosa? — domandò in tono aspro Celluci, lo sguardo sempre fisso sul contenitore.
Vicki lottò contro l'impulso di girarsi e di fuggire, grata che Celluci sembrasse radicato dove si trovava, perché non avrebbe avuto la forza necessaria a trattenere entrambi. — Quello che chiede. Dobbiamo ucciderlo. — Se è vivo, ucciderlo è un omicidio, e se è morto... — È morto, Mike, lo afferma lui stesso. Puoi andartene e lasciarlo in quello stato? — insistette Vicki, rabbrividendo in tutto il corpo con tanta violenza da sentire a stento la risposta di lui. — Vicki, è una cosa che non sappiamo come affrontare — obiettò lui. Quella era la vera sostanza di cui erano fatti gli incubi, non i demoni o i lupi mannari o le mummie o uno scrittore di romanzi rosa che aveva quattrocentocinquanta anni, ma quello. Aveva creduto che tredici anni di servizio nella polizia lo avessero preparato a fare fronte a qualsiasi cosa, e che gli eventi dell'ultimo anno lo avessero preparato a tutto il resto, ma si era sbagliato. — Non posso... — Dobbiamo farlo. — Perché? — protestò lui, con voce che l'orrore riduceva a poco più di un sussurro. — Perché lo abbiamo trovato. Perché siamo tutto quello che ha.
C'è un intero mondo, là fuori. Che se ne occupi qualcun altro, pensò Celluci, ma quando si volse e abbassò lo sguardo su
Vicki, non riuscì a pronunciare quel rifiuto, perché riconobbe il suo sguardo come quello di qualcuno che era giunto quasi alla fine delle proprie risorse, qualcuno che era stato colpito con troppa violenza, troppo spesso; d'altro canto, riconobbe anche la piega decisa della sua mascella: lei non poteva andarsene e lasciare Donald Li intrappolato nella sua prigione di carne morta. — Come facciamo a farlo? — chiese quindi, anche se dovette costringere la propria bocca a formulare quelle parole. Parlando lentamente, perché sapeva che se avesse perso anche una minima parte di controllo avrebbe finito per perderlo tutto, Vicki espose quello che sapevano. — Sappiamo che è morto, e lo afferma lui stesso. Però la sua... la
sua anima è intrappolata — cominciò, la mentalità propria del ventesimo secolo che le rendeva ancora più difficile esprimere ciò che era così spaventosamente chiaro. — Perché? La sola differenza fra questo cadavere e qualsiasi altro... — Tranne quello di mia madre. Quel pensiero minacciò di farla sprofondare nell'abisso. No, non ci devo pensare adesso. — ... è che qualcuno gli ha dato una parvenza artificiale di vita. Deve essere per questo che è intrappolato. — Quindi dobbiamo staccare il suo sistema di supporto vitale? — Sì, suppongo di sì. — Vicki, uno di noi due ne deve essere certo. Lei sollevò la testa a incontrare il suo sguardo, e dopo un momento Celluci annuì. — Facciamolo — si arrese. Non impiegarono molto tempo a sganciare tubi e cavi, attingendo all'addestramento e alla pratica per tenere la distanza fra quello che doveva essere fatto e i sentimenti che il farlo destava in loro. Nessuno dei due toccò il corpo più di quanto fosse assolutamente necessario, e anche se Donald Li non disse più niente, quando ebbero finito lo videro continuare a fissarli con i suoi occhi morti, e compresero che non era stato sufficiente. — Avrei dovuto saperlo, visto che gli altri sono in piedi e se ne vanno in giro. Poi Vicki trovò il connettore nascosto sotto una spessa ciocca di capelli e ne seguì il cavo fino al computer. Socchiudendo gli occhi, mise a fuoco il messaggio che Catherine aveva lasciato sullo schermo, poi si costrinse a frenare il tremito che le scuoteva le mani per il tempo necessario a usare la tastiera. — Pare che stia caricando un programma nel... — cominciò, senza aggiungere altro, perché c'era un solo posto in cui era possibile che il programma fosse caricato. — Okay, ci sono buone probabilità che un programma che può essere caricato possa anche essere cancellato — aggiunse, asciugandosi il palmo delle mani e lasciandosi cadere sulla sedia.
— Sei certa di sapere quello che stai facendo? — domandò Celluci, grato di avere una scusa per allontanarsi dall'orrore nel contenitore. — Questo sistema è più complicato di quello che hai a casa. — Quanto può essere più complicato? — borbottò Vicki, prendendo nota del file di destinazione. — Tutto si riduce a una serie di uno e di zero. E poi — aggiunse in tono cupo, — come potrei mai rendere le cose peggiori di quelle che sono? Mike — chiese quindi, dopo aver scrutato il menu, — per te cosa significa "inizializzare"? — Qualcosa che ha a che fare con l'avvio della macchina? — È quello che pensavo. — Nell'elenco delle cose che potevano essere inizializzate c'era il codice di destinazione nel quale il programma stava effettuando il download. — Allora? — Gli ho appena detto di inizializzare il cervello di Donald. — E? — E questo dovrebbe cancellarlo completamente. — Ne sei sicura? — No, ma una volta ho cancellato in questo modo tutto il mio hard disk. — Spingendo indietro la sedia, Vicki si alzò in piedi e si assestò gli occhiali. — Possiamo sperare che serva a liberarlo. — E se non lo facesse? — Non lo so — ammise lei, scuotendo il capo. Se non avesse funzionato, avrebbero dovuto lasciarlo là e sperare che il corpo si decomponesse, in modo che ciò che lo teneva prigioniero, qualsiasi cosa fosse, lo lasciasse andare.
Sapere di essere morto, vedere il tuo corpo marcire lentamente, con la consapevolezza che quella è la tua unica speranza... Vicki si
costrinse a reprimere con violenza l'isterismo che sentiva affiorare dentro di sé. Più tardi, si ripromise. Più tardi, quando Henry sarà al
sicuro e mia madre sarà... sarà...
— Nessun cambiamento — annunciò Celluci, interrompendo quei
pensieri. — Dagli un minuto. — Un passo per volta, Vicki riuscì a tornare vicino al contenitore, accanto a Celluci; non pensava che ce l'avrebbe fatta, se lui non fosse già stato là. Con il braccio premuto contro il caldo sostegno di quello di lui, abbassò lo sguardo sul volto di Donald Li. Gli occhi scuri catturarono e trattennero il suo sguardo. Prosciugata emotivamente, Vicki non tentò neppure di distogliere il proprio, e d'un tratto si rese conto che il suo terrore e la sua repulsione, per quanto assoluti ed estremi, non dovevano essere niente rispetto al terrore che urlava da dietro gli occhi di Donald Li. Al confronto, non c'era nulla di cui lei dovesse avere paura. E con il dissolversi della paura, l'ira insorse a prenderne il posto.
Che sorta di persona poteva fare una cosa del genere a un altro essere umano? All'improvviso, gli occhi del morto si dilatarono, e per un istante appena la sua espressione mutò, esprimendo una gioia incredula. Poi il suo volto divenne del tutto inespressivo. — Hai visto? — chiese Vicki, esalando un respiro che non si era resa conto di trattenere. — Sì. — Hai dubbi che fosse la cosa giusta da fare? — Nessuno. Insieme, allungarono la mano e chiusero il coperchio. Solo al buio, Henry si chiese quanta parte della notte dovesse ancora trascorrere. Di certo aveva già sopportato una dozzina di ore o anche più, dal tramonto, quindi perché non poteva avvertire l'alba ? Con la Fame che lo artigliava per liberarsi, e l'acciaio che lo avviluppava come un sudario, era giunto a desiderare l'oblio, anche se al tempo stesso lo temeva. Aveva passato in rivista tutti i momenti che aveva avuto con
Vicki. È ingiusto che un anno scivoli così in fretta attraverso la memoria, si disse. Se da un lato qualcosa di ciò che avevano condiviso aveva contribuito ad alimentare la Fame, tutto il resto lo aveva aiutato a reprimerla. Vicki gli aveva dato la sua vita, non soltanto il suo corpo e il suo sangue, aveva forgiato un'amicizia partendo dalle circostanze, lo aveva aiutato quando ne aveva avuto bisogno ed era venuta da lui in cerca di aiuto. Si era fidata, e aveva ricevuto fiducia in cambio. Passione, Amicizia. Bisogno. Fiducia.
Insieme,
formano
l'amore. Considerando
le cose sotto quell'aspetto, supponeva che non fosse necessario da parte di Vicki dire che lo amava. Anche se sarebbe stato bello sentire quella
parola...
Cercò di ricordare quante volte l'aveva sentita pronunciare, e cento voci la gridarono dentro di lui, voci femminili e maschili; lui però le zittì tutte e procedette a cercare il bagliore dell'oro in mezzo alle scorie. Un migliaio di notti, centomila, gli sfilarono davanti, e in mezzo a tutta quella passione e quell'amicizia e quel bisogno condivisi emersero soltanto tre donne e un uomo con i quali ci fosse stata anche tanta fiducia da portare all'amore. — Ginevra. Gustav. Sidonie. Beth — mormorò, scandendo i loro nomi nell'oscurità. Molti altri erano quelli che aveva lasciato andare, dimenticato, ma quei quattro rimanevano. — Solo quattro, in tutti questi anni... Due gli erano stati tolti con la violenza, uno da un incidente e uno ancora dal tempo. Sentì la malinconia trasformarsi in una presenza tangibile, minacciando di schiacciarlo sotto il proprio peso. — Vicki — disse. Un quinto nome, un nome vivo. — E come si suol dire... dove c'è vita, c'è speranza — aggiunse, premendo con la mano sana contro il coperchio nella misura in cui il suo sfinimento e la sua sofferenza glielo permettevano, anche se sapeva che era inutile. I muscoli si tesero nello sforzo, l'oscurità si tinse di una sfumatura rossastra, poi il braccio gli ricadde di traverso sul petto, e lui si sentì
quasi assordare dal suono del proprio cuore che gli martellava contro le costole. Non aveva idea di cosa avesse cercato di dimostrare.
Un ultimo sforzo, nell'interesse dell'amore? si chiese nel cambiare
leggermente posizione nella misura in cui gli era possibile, con la sottostante imbottitura di plastica che faticava a staccarsi dalla sua pelle nuda. Almeno, questa volta non sarò io quello lasciato indietro
a piangere.
La malinconia si trasformò in disperazione, serrandolo con dita gelide. Arrendersi sarebbe stato così facile.
Io sono Henry Fitzroy, Duca di Richmond, il figlio di un re. Io sono un vampiro. Era troppo stanco. Quelle parole non erano più sufficienti.
Vicki non si arrenderà. Vicki non si arrenderà finché non ti avrà trovato. Attingi forza da questo. Fidati di lei. Lei verrà. Christina era venuta, lo aveva fatto rinascere dall'oscurità, lo aveva nutrito, protetto e istruito, e infine lo aveva lasciato andare... — Ascolta quello che ti dice il tuo istinto, Henry. La nostra natura dice che cacciamo da soli. Questo è il tuo territorio, te lo regalo, e non rimarrò a combattere con te per conservarlo. — Allora rimani e dividilo con me! Lei si limitò a sorridere con una certa tristezza. Henry attraversò la stanza con passo nervoso, poi tornò indietro e si gettò in ginocchio ai suoi piedi. Appena poco tempo prima, avrebbe completato quel movimento abbandonando la testa sul suo grembo, ma adesso, nonostante la posizione, non riuscì a superare la poca distanza che li separava. — Il legame dovuto alla tua creazione è quasi infranto — affermò
Christina, con un sorriso sempre più triste, e in tono sommesso aggiunse: — Se rimango, molto presto uno di noi due scaccerà l'altro, e questo cancellerà anche il ricordo di ciò che abbiamo condiviso. La voce del Cacciatore, sempre più forte nella sua mente, gli disse che lei aveva ragione. — Allora perché mi hai cambiato, sapendo che questo sarebbe successo? — gridò. — Sapendo che avremmo avuto così poco tempo insieme? Le nere sopracciglia di lei si contrassero in un'espressione riflessiva. — Credo di averlo dimenticato — affermò poi, lentamente. — Per un po'. — Lo hai dimenticato? — ripeté Henry, con voce sempre più alta che echeggiò contro le umide pareti di pietra della torre abbandonata. — Sì. Forse è per questo che siamo in grado di continuare a esistere come razza. Lui chinò il capo, serrando gli occhi, ma la sua natura non gli permetteva più di piangere. — Fa male — disse. — Come se mi avessi tagliato via il cuore per portarlo con te. — Forse è per questo che siamo così pochi... Non l'aveva più rivista. — Questo non mi aiuta — disse all'oscurità, sentendo accentuarsi la morsa della disperazione. Ci dovevano essere stati tempi più piacevoli da usare come arma contro la consapevolezza che era intrappolato là, da solo... — No — ringhiò. — Ci sono già state prigioni e prigionieri, in passato. Posso sopravvivere.
Puoi sopravvivere alle notti, gli sussurrò la disperazione, ma cosa mi dici dei giorni? Ti hanno tolto così tanto sangue... quanto altro ne prenderanno? Quanto altro ne puoi perdere e avere ancora una
notte a cui tornare? Che altro faranno che non sarai in grado di prevenire? Le labbra ritratte sui denti, Henry si contorse per cercare di allontanarsi da quella voce, che lo circondava, risuonava dentro di lui, echeggiava contro il metallo che lo intrappolava. — Vicki...
Lei non sa dove sei. E se non ti trovasse in tempo? E se non venisse? — NO! Abbandonò la presa sulla Fame e lasciò che la Bestia si impadronisse di lui nell' aprirsi un varco a colpi di artiglio. Essa era il solo strumento che gli fosse rimasto con cui combattere. — Finché questi sono in funzione, non abbiamo nessuna garanzia che lei lasci Henry sempre nello stesso posto — osservò Vicki, socchiudendo gli occhi di fronte alla luce intensa dell'interno dell'ascensore e spegnendo la torcia. — Può continuare a spostarlo di qua e di là per l'edificio, con noi che rimaniamo sempre indietro di un paio di passi, come in una specie di film scadente dei Fratelli Marx. — Allora li blocchiamo? — propose Celluci, nello stesso tono pratico, entrando a sua volta. A suo parere, il fatto che entrambi fossero ancora in grado di agire era da considerarsi come una sorta di miracolo. Un punto a favore della capacità animalesca di adattamento della natura umana, pensò. Scuotendo il capo, Vicki premette il pulsante dello scantinato con tanta forza da crepare quasi la copertura di plastica. — Non basta. Gli ascensori sono alle estremità opposte dell'edificio, e lei li può sbloccare con la stessa rapidità con cui noi li blocchiamo. Dobbiamo disattivarli. — Come? — Togliendo la corrente all'edificio. — Ribadisco, come?
— Come diavolo faccio a saperlo? — ribatté Vicki, girandosi a fissarlo con occhi socchiusi. — Ti sembro un elettricista? Troviamo la stanza del quadro elettrico e stacchiamo tutto. — Metaforicamente parlando. — Risparmiami i tuoi fottuti atteggiamenti, Celluci. — I miei atteggiamenti? Nelson, hai davvero una bella faccia tosta! — Faccia tosta! — Vuoi un atteggiamento? Le loro voci si sovrapposero, i suoni che rimbalzavano contro le pareti anguste dell'ascensore e ricadevano loro addosso. Le parole rimasero intrappolate in quella cacofonia, perdendo significato mentre si fronteggiavano, urlandosi improperi a vicenda. Poi l'ascensore raggiunse il seminterrato, si fermò, e le porte si aprirono. — ... idiota condiscendente ! Gli echi cambiarono, le parole saettarono nell'oscurità e non tornarono indietro. Rendendosene conto tutti e due nello stesso istante, tacquero contemporaneamente. Vicki stava tremando a tal punto da non essere certa di potersi reggere in piedi. Le pareva che le sue gambe fossero fatte di pasta stracotta, e si sentiva la gola serrata da una banda metallica talmente stretta che respirare le faceva male e deglutire le riusciva quasi impossibile. Gli occhiali le erano scivolati a tal punto lungo il naso da essere quasi inutili, e nello sbirciare al di sopra di essi, lungo il tunnel a cui la malattia aveva ridotto il suo campo visivo, lei cercò di mettere a fuoco la faccia a pochi centimetri dalla sua. La mano le si sollevò per riposizionare gli occhiali, ma continuò invece il suo movimento fino ad allontanare il solito ricciolo di capelli dalla fronte di Celluci, gesto a cui lui reagì con un sospiro. Lentamente, Celluci sollevò il braccio e le appoggiò un dito sul nasello degli occhiali, riassestandoglieli sul naso.
— Tutto a posto? — domandò. Sentendo il suo respiro caldo che le sfiorava la guancia, Vicki annuì a fatica e si ritrasse, uscendo dal raggio di portata di quel conforto. — Dobbiamo cercare delle tracce? — chiese Celluci. Accesa la torcia, Vicki si avviò nel seminterrato, un po' stupita che le sue gambe obbedissero a quei pur semplici comandi. — Le cercheremo dopo aver immobilizzato Catherine — replicò. Celluci indugiò per un momento sulla soglia dell'ascensore, impedendo con il proprio corpo alle porte di chiudersi. — Se togliamo la corrente all'edificio — osservò, — blocchiamo anche qualsiasi altro esperimento che lei possa avere in corso. — Sì — convenne Vicki, fermandosi e girandosi parzialmente verso di lui. Celluci riconobbe l'ira che permeava quelle parole, perché era la stessa che anche lui stava provando e che non aveva nulla a che vedere con lo scontro al vetriolo che si era verificato nell'ascensore... quello era stato un semplice scarico della tensione... e aveva invece tutto a che vedere con l'orrore che avevano trovato nel laboratorio. Voleva rintracciare il responsabile, chiunque fosse, prenderlo per la gola, e... non esistevano parole adeguate a descrivere quello che voleva fare. Nel corso dell'ultima settimana, l'autocontrollo di Vicki, le sue difese, erano stati erosi uno strato dopo l'altro, e lui cominciava a temere che non rimanesse più nulla che potesse impedirle di agire sulla spinta della sua ira. Aveva paura che se avessero trovato Henry nello stesso stato in cui avevano trovato Donald Li, lei avrebbe perso anche gli ultimi freni, e non ci sarebbe più stato nulla che lui potesse fare per fermarla. Soprattutto, però, aveva paura che non avrebbe neppure provato a fermarla.
Al secondo piano, in un armadio a muro che aveva una parete in comune con il pozzo dell'ascensore, Marjory Nelson contrasse i muscoli della faccia fino ad accigliarsi nella misura in cui le era possibile. Stava sentendo delle voci. Voci. Una voce. Conosceva quella voce. Le era stato detto di rimanere ferma, e quello era uno dei comandi imposti dalla rete neurale, uno dei comandi che avevano scavato un solco irregolare nella sua memoria.
Rimanere ferma. Tremando, si alzò in piedi...
Rimanere ferma. Si diresse alla porta con passo strascicato...
RIMANERE FERMA! Aprì il battente e uscì barcollando nel corridoio. C'era qualcosa che doveva fare.
Capitolo quattordicesimo — Sala radio. Parla l'agente Kushner. — È la stascione... di polizia? — Sì, signora. La dottoressa Burke trasse un profondo respiro e si sforzò di scandire le parole con cura. — Vorrei parlare con il detective Fergusson, pre... per favore. — Le passo la omicidi. — Lo faccia. — Con gli occhi semichiusi, la dottoressa Burke si accasciò contro il ricevitore. — Omicidi, detective Brunswick. — Bene. Il detective Fergusson, per favore. — Attualmente il detective Fergusson non è qui. Come posso esserle utile? — Non è qui? — ripeté la dottoressa, ruotando il ricevitore intorno alla bocca quanto bastava per poterlo fissare con occhi vacui. — Coscia significa, non è qui? Il tempo che impiegò a ricordare che l'altra metà della cornetta doveva stare contro l'orecchio le fece perdere la prima parte della risposta del detective Brunswick. — ... ma posso lasciargli un messaggio, se vuole. — Un messciaggio? — Sorseggiando lo Scotch, la dottoressa si prese un momento per pensarci su. — Ecco, io volevo... confessciare. Le teorie dicono che la confessione è necess... aria, ma se lui non c'è... ecco, forse non lo farò. — Se vuole darmi il suo nome, lo informerò della sua chiamata — replicò il detective Brunswick, con un tono che significava "assecondiamo questa pazza". Sollevandosi in posizione più o meno eretta sulla sedia, la dottoressa Burke dichiarò in toni altisonanti:
— Io sciono il Direttore del... Dipartimento di Scienze Naturali. Lui sa chi sono. Tutti scianno... chi sono. — E riappese. — E tanti
scialuti... alla confessione — commentò, tirandosi in grembo la giacca di Donald. — Sctò davvero... male per quescto, Donald. Ma mi farò perdonare... da te. Vedrai. — Un'idea si fece strada in qualche modo nel suo cervello annebbiato da una bottiglia e mezza di Scotch. — Sciai, se il con— tenitore di isolamento è in funzione e l'unità di refrigerazione è in funzione, prò... probabilmente hai freddo. — Serrando disperatamente il bracciolo della sedia, riuscì a issarsi in piedi. — E se hai freddo, vorrai la tua giacca. — Finire di bere l'ultimo sorso di whiskey rimasto nella tazza per poco non la fece crollare a terra. Barcollando si diresse alla porta. — Ti porterò... la tua... giacca.
— No! — stridette una voce terrorizzata, da qualche parte dietro
gli strati di ottundimento forniti dall'alcol. Ma la dottoressa Burke l'ignorò.
— Quante stanze del quadro elettrico ci possono essere in uno schifoso edificio? — ringhiò Vicki in un teso sussurro, a denti stretti e con il respiro affannoso, indietreggiando nel corridoio e cercando di proiettare in tutte le direzioni contemporaneamente il raggio della torcia elettrica. — Ogni volta che apriamo una porta, mi aspetto di trovarci dietro mia madre. Celluci le posò una mano sulla spalla e usò l'altra per afferrarle il polso e dirigere la luce lontano dai propri occhi, perché l'ultima cosa di cui avevano bisogno era di andare tutti e due in giro senza vedere niente. — Lascia che sia io ad aprirle — suggerì a bassa voce, facendola girare in modo che lo fronteggiasse. — No — rifiutò Vicki, scuotendo il capo. — Tu non capisci. Lei è mia madre. — Vicki... — cominciò lui, poi si interruppe con un sospiro, perché in realtà nulla di quello che poteva dire avrebbe cambiato le cose, e se il pensiero di aprire una porta e di trovare Marjory Nelson che li fissava con gli occhi di un cadavere lo terrorizzava, solo Dio
sapeva che effetto stava avendo su Vicki. Vedere Donald Li era già stato fin troppo brutto, ma come la dottoressa Burke aveva loro ricordato così gentilmente, Marjory Nelson se ne stava andando in giro. Se ne andava in giro ed era morta. Se però Vicki aveva il fegato di affrontare la cosa, lui l'avrebbe affrontata al suo fianco; inoltre, per quanto potesse desiderare che Henry Fitzroy non avesse mai fatto la sua comparsa sulla scena, d'altro canto non poteva abbandonarlo a quel genere di morte vivente in cui era stato intrappolato Donald. — Disattiviamo la corrente, troviamo Fitzroy e battiamocela da qui — disse. Vicki annuì muovendo appena la testa, un movimento che era più intenzione che gesto effettivo, e si liberò con una torsione dalla sua mano, nonostante le ombre che le premevano addosso e che cercavano di minare il precario equilibrio che stava mantenendo. Dobbiamo trovare Henry; per fare questo dobbiamo
bloccarlo su un singolo piano, e per riuscirci dobbiamo disattivare la corrente. Poi faremo a pezzi questo posto un piano per volta e troveremo Henry. Non gli verrò meno come sono venuta meno a mia madre. Finché si fosse aggrappata a quel pensiero sarebbe stata
in grado di funzionare. Che le ombre spingessero quanto volevano.
L'aria dello scantinato odorava di cemento umido, di ruggine e di disuso, e l'edificio stesso, scricchiolando, assestandosi, nascondendo segreti, faceva più rumore di quanto ne producessero loro due, anche se il suono del loro respiro sembrava perdurare dove passavano. Le stanze sulla destra del corridoio erano a ridosso del muro esterno, quindi era necessario controllarle tutte: la porta si apriva, la luce si riversava all'interno e rivelava ogni potenziale orrore. Fino a quel momento avevano trovato due piccoli quadri elettrici secondari, con pannelli etichettati "lab. terzo p.", "lab. quarto p." e "conferenze uno", ma non avevano toccato gli interruttori. — Dobbiamo spegnere tutto contemporaneamente — aveva ringhiato Vicki, — in modo da non metterla in guardia. Rimaneva una sola porta prima dell'angolo: una porta, una stanza, e avrebbero finito di esaminare il lato settentrionale dell'edificio. Mentre si dirigevano in fretta verso di essa, Celluci
controllò l'orologio: le ventitré e diciassette. Soltanto? pensò. Avevano ancora a disposizione più di metà della notte, il che non era poi molto, come rifletté nel rendersi conto che quello era probabilmente tutto il tempo che avevano. Un quadrato di pittura più scura all'altezza degli occhi e il metallo forato a tutti e quattro gli angoli indicavano un cartello mancante, e una sbarra di sicurezza appoggiata alla meglio su un occhiello di acciaio lasciava intuire che quella stanza aveva contenuto un tempo qualcosa che valeva la pena di proteggere. — Potrebbe essere questa. — Strappata la sbarra, Vicki aprì a fatica la pesante porta. I cardini arrugginiti emisero un prevedibile stridio di protesta che le escoriò l'interno del cranio come il suono di un chiodo su una lavagna; serrando i denti, fendette l'oscurità con il raggio della torcia. Qualcosa si mosse appena al di là del cerchio di luce. Vicki s'immobilizzò. Appena al di là di essa, qualcosa si mosse di nuovo. Tutto quello che doveva fare era dirigere la luce della torcia su un punto a meno di un metro di distanza, sulla sinistra. Tutto quello che doveva fare... Una singola lampadina che pendeva dal soffitto disegnò sagome nere intorno a un complesso intreccio di tubi, e a circa un metro e mezzo dal suolo illuminò un ingobbito corpo marrone e una coda nuda che stavano scomparendo attraverso una fessura incredibilmente stretta. — Un ratto — spiegò Vicki, per il bisogno di dire qualcosa, mentre riprendeva a respirare. — O un topo che si stava allenando per le Olimpiadi — ribatté Celluci, che aveva ancora la mano sull'interruttore della luce, poi si umettò le labbra e cercò di spingere al suo posto il cuore che gli era salito in gola. — Comincio a pensare che trovarla sarebbe meglio di questo costante timore di trovarcela davanti. Asciugandosi gli occhi lacrimanti, Vicki ricacciò indietro il nodo che le stava contraendo lo stomaco. Non vomiterò! ingiunse a se
stessa, inghiottendo una boccata di bile. — E io comincio a pensare che hai ragione — borbottò dopo un momento, sollevando la testa e riassestandosi gli occhiali. — È ovvio che questa è la stanza dell'impianto idraulico, e non quella che stiamo cercando. — Poi uscì nel corridoio, si soffermò e aggiunse, prima che lui potesse seguirla: — Lascia la luce accesa. Celluci la raggiunse quando lei era già sul punto di controllare la prima stanza lungo il muro occidentale. Accigliandosi, socchiuse gli occhi per scrutare il corridoio, cercando di isolare il bagliore di metallo lucido che aveva attirato la sua attenzione. — Vicki, quella porta laggiù ha un lucchetto. Vicki si volse, ma il cono di luce che si protendeva dalla sua mano non arrivava abbastanza lontano: non solo non poteva vedere il lucchetto, ma doveva anche fidarsi della parola di Celluci sul fatto che là ci fosse una porta. — Nella mia esperienza — continuò lui, — si chiudono a chiave stanze per evitare che la gente possa entrare. — O uscire — aggiunse Vicki. — Vieni. Al contrario della stanza che avevano appena lasciato, questa conservava il suo cartello. Pericolo. Alta Tensione. Vietato l'ingresso. — Ci sono buone probabilità che qui dentro ci sia il quadro elettrico centrale — osservò Vicki, porgendo la torcia a Celluci. — Tieni questa, perché mi serviranno entrambe le mani — aggiunse, frugando nella borsa alla ricerca dei grimaldelli, poi piegò a terra un ginocchio, prelevò dalla custodia i due grimaldelli più grossi e ordinò: — Tieni ben ferma la luce. Le mani le stavano però tremando a tal punto che non riuscì a inserire nessuno dei due nella serratura. Il secondo tentativo non ebbe maggior successo. Al terzo tentativo, una delle sonde le cadde di mano, le rimbalzò su un ginocchio, tintinnò sulle piastrelle e si andò a fermare con l'estremità incurvata a ridosso di una scarpa di Celluci. Vicki la fissò per un momento, poi guardò con aria accigliata il grimaldello che aveva ancora in mano: stringendolo così tanto che la
punta delle dita le si sbiancò sotto le unghie, ruotò improvvisamente su se stessa e lo scaraventò in fondo al corridoio.
— Dannazione! Non era in grado di fermare il tremito che le scuoteva le mani, il che significava che non sarebbe mai riuscita a forzare quella serratura. E tanti saluti alla fottuta stanza del quadro elettrico, pensò. Avrebbero disattivato la corrente, e impedito che Henry venisse spostato da un piano all'altro. Avrebbero fatto a pezzi quel posto un piano dopo l'altro e avrebbero trovato Henry. Doveva aggrapparsi a questo, perché era tutto quello che aveva. Solo che sta andando tutto a rotoli! Avrebbe voluto sbattere la testa contro quella porta e urlare la propria paura e frustrazione. Quasi le avesse letto nella mente, Celluci allungò una mano e la chiuse a coppa intorno al suo mento, costringendola gentilmente a girarsi a guardarlo. — Lascia provare me. Non fidandosi di parlare, lei annuì e gli porse il grimaldello rimasto. — No, non è nel mio stile — rispose lui, restituendole la torcia. — Aspetta qui. Poi scomparve prima che lei avesse il tempo di obiettare, e per un singolo, terrificante momento, parve che l'oscurità lo avesse divorato, perché nel tempo che lei aveva impiegato a spostare il raggio della torcia, lui si era già portato al di là di esso. All'improvviso si sentì un familiare stridio di metallo, e l'estremità opposta del corridoio divenne di colpo visibile, pur non essendo ancora a fuoco.
Cosa diavolo è andato a fare nella stanza dell'impianto idraulico? si chiese Vicki. Un momento più tardi lui aggirò di nuovo l'angolo senza preoccuparsi di richiudere la porta, reggendo con entrambe le mani un... un pezzo di tubo? Vicki si trasse di lato quando lui la raggiunse e incastrò un'estremità del tubo nell'anello del lucchetto, puntellandola contro
il metallo che copriva la porta. Tratto un profondo respiro, proiettò poi tutto il suo peso sull'altra estremità. Il tubo affondò nella porta, incassandone il metallo. Con il volto che si andava arrossando, Celluci ringhiò una sfida inarticolata, grato di avere finalmente un modo per scaricare tutta l'adrenalina che il terrore gli aveva fatto accumulare quella notte. La sbarra di sicurezza si piegò lentamente. — Mike?... — Non. Ora. A poco a poco, le viti si staccarono. — Solo. Un altro. Po... La resa improvvisa del lucchetto lo scaraventò all'indietro quando l'intero blocco crollò rumorosamente al suolo. Barcollò, arrivando quasi a cadere, poi si appoggiò ansimando al tratto di tubo. Avanzando, Vicki recuperò il suo grimaldello da sotto il groviglio di metallo. — Evidentemente, il tuo specialista di effrazioni usava metodi un po' più diretti del mio — commentò in tono asciutto. — Evidentemente — replicò Celluci, con il respiro ancora affannoso. Sorpresi dalla pura e semplice normalità di quello scambio di battute, indugiarono per un momento a fissarsi a vicenda, poi la bocca di Vicki si incurvò quasi in un sorriso mentre lei si protendeva ad allontanargli i capelli dalla fronte. — Bene — commentò, assaporando le parole e sentendo parte della disperazione dissolversi con esse, — un applauso al testosterone. Sbuffando, Celluci si raddrizzò e lasciò cadere il pezzo di tubo. — Personalmente, sono stupito che tu non abbia tirato fuori un pezzo di esplosivo al plastico da quella valigia che ti porti dietro — ribatté, poi spinse da parte la sbarra di sicurezza divelta, aprì la porta
e tastò oltre l'angolo in cerca dell'interruttore della luce. Senza dubbio, avevano trovato la stanza del quadro elettrico. E anche qualcos'altro. — Vicki... — Lo vedo — rispose lei, controllando la voce. L'odore del sangue lo fece riaffiorare dal baratro in cui lo sfinimento lo aveva precipitato e scatenò di nuovo la Fame. Qualcuno, contenitore?
qualcosa,
stava
percuotendo
l'interno
di
quel
— Henry? — chiamò Vicki, un piede che si spostava davanti all'altro senza che lei ricordasse di averlo deciso coscientemente. Non ci fu risposta, soltanto i colpi continui. Non poteva chiamare l'altra. Avrebbe potuto ricevere una risposta. — Vicki, lasciami... — No. Questa è una cosa che devo fare io. — È ovvio che lo sia — ringhiò Celluci, lottando contro la paralisi destata in lui dalla vista di quel contenitore di acciaio inossidabile e avanzando fino a portarsi alle spalle di lei, sulla sinistra. Dannazione,
Vicki, perché non puoi girarti e fuggire, in modo che possa farlo anch'io? pensò.
Lei guardò la propria immagine riflessa farsi sempre più grande a mano a mano che si avvicinava; quanto più riduceva la distanza, tanto più la sua mente insisteva nel sostenere che avrebbe invece dovuto aumentarla, finché si fermò quasi a ridosso del contenitore, fissò i propri occhi e si assestò gli occhiali, con la sensazione che tutta quell'esperienza fosse appena scivolata fuori dal contesto della realtà.
Non guardo neppure i film dell'orrore, si disse. Cosa diavolo ci faccio a recitarne uno da protagonista? Guardò il proprio braccio sollevarsi, la mano posarsi sulla
chiusura, le dita girare leggermente di lato... Il coperchio si spalancò con violenza, spingendole via la mano. Fece appena in tempo a intravedere un volto pallido sotto capelli di un biondo ramato; poi, prima che potesse reagire, qualcosa di nero e di pesante le calò addosso e lei indietreggiò barcollando, accecata. Freddo e umido, quel qualcosa le si avvolse strettamente intorno alla testa e le si drappeggiò intorno alle spalle con oscena familiarità: con la gola che emetteva un succedersi di acuti e incoerenti suoni di terrore, prese ad artigliare l'oggetto con frenesia indotta dal panico. Alla fine, il terrore assunse in parte le sfumature dell'ira e lei si strappò di dosso quel qualcosa, scagliandolo al suolo. I suoi occhiali, agganciati solo dietro un orecchio, cominciarono a cadere, e il più grande panico destato dalla loro possibile perdita la aiutò a ritrovare il controllo mentre si affrettava a rimetterli a posto. Ai suoi piedi giaceva un mucchio di cuoio nero. L'impermeabile di Henry. All'improvviso, come se quel riconoscimento avesse attivato un interruttore, divenne consapevole di una serie di ringhi e di imprecazioni, accompagnati dall'impatto della carne contro la carne. La sua pesante borsa era la sola arma che aveva, quindi se ne avvolse la cinghia intorno al polso prima di girarsi di scatto, in tempo per vedere Celluci interporre una gamba fra il proprio corpo e quello di Henry, usandola come una leva per scaraventare l'uomo più minuto dall'altra parte della stanza. Nudo fino alla cintola, Henry aveva il torso che splendeva come alabastro, con lividi color ametista che gli segnavano la piega di entrambe le braccia. Sfruttando lo slancio derivante dal colpo, rotolò fino a rialzarsi in piedi, ringhiò e tornò a lanciarsi alla carica. Celluci grugnì sotto l'impatto e calò un gomito contro la tempia dell'avversario, senza nessun effetto apparente. Un paio di volte, nel corso dell'ultimo anno, Vicki aveva avuto modo di intravedere ciò che si celava dietro la maschera di civiltà indossata da Henry, e anche se un sudore gelido le aveva imperlato la pelle e il buon senso le aveva urlato di fuggire, si era sentita
eccitata da tanto letale potere tenuto sotto controllo con tanta facilità.
"Nella mia razza, la bestia è molto superficie" l'aveva avvertita lui, una volta.
più
vicina
alla
Adesso la bestia era libera. Celluci aveva avuto a stento il tempo di registrare il fatto che il contenitore era aperto che si era ritrovato steso a terra e impegnato a lottare per la propria vita. Era crollato al suolo con le mani di Henry Fitzroy intorno alla gola, ed era sopravvissuto a quei primi secondi soltanto perché una di quelle mani, gonfia e quasi inutilizzabile, non era stata in grado di mantenere la presa. Con l'avambraccio sinistro infilato sotto il mento di Fitzroy e la mano destra che cercava di allontanare quelle dita ferree dalla sua trachea, Celluci aveva avuto un'improvvisa rivelazione sui vampiri. Aveva già intravisto la realtà l'agosto precedente, quando Mark Williams era morto, ma gli era stato facile seppellire la cosa sotto il confuso miscuglio di emozioni evocate da Henry. Nonostante la propria gelosia, aveva riconosciuto il suo potere personale e aveva reagito a esso, poi il rispetto era diventato una cosa inevitabile quando la lotta contro Anwar Tawfik li aveva portati ad allearsi. Altre emozioni meno facili da definirsi erano rimaste per la maggior parte ignorate. Adesso, tutto quello si era riassunto in una questione di sopravvivenza.
È più forte. Più veloce. La frenesia dell'attacco gli offrì un'apertura
e lui agganciò un piede intorno alla sommità del fianco di Fitzroy, scaraventandolo dall'altro lato della stanza, ma meno di un istante più tardi, il vampiro tornò ad attaccarlo. — Merda! Le unghie gli affondarono nella guancia e l'intensità della reazione di Fitzroy gli fece comprendere che la pelle era stata lacerata. Torcendo freneticamente la testa da un lato evitò i suoi denti, sentendoli schioccare vicino al proprio orecchio.
Non mi ero mai accorto che quei fottuti denti fossero così dannatamente lunghi! Per lui sono solo carne. Sono un uomo morto. Questo non è qualcosa che gli hanno fatto loro. È a caccia di sangue! realizzò Vicki. La sua reazione emotiva insisteva a incitarla a
gettarsi nella mischia per staccare dalla gola di Celluci le dita di Henry, mentre una reazione più viscerale le stava suggerendo di fuggire per salvarsi la vita. Reprimendo energicamente entrambe, rimase ferma dov'era, tremante. Dannazione, Vicki, pensa! Ricorda
quello che lui ti ha detto!
Henry aveva parlato del desiderio di nutrirsi come se esso fosse stato una forza separata dal resto del suo io e sulla quale doveva esercitare una certa quantità di controllo consapevole.
D'accordo, ha fame e ha perso il controllo. Quella non era una
deduzione difficile, perché il suo bisogno era una presenza tangibile, che pulsava contro le pareti della piccola stanza. Probabilmente quei
bastardi hanno prelevato sangue per i test per tutto il giorno. Il sangue è tutto ciò che Henry ha, e lo deve rinnovare. Squarcerà la gola di Mike per ottenerlo. Quindi gli devo dare una fonte di sangue più facile da raggiungere, una per cui non debba lottare. Inginocchiatasi, rovesciò la propria borsa alla ricerca del coltello. Mike Celluci era un uomo alto e robusto, in eccellenti condizioni fisiche, la cui forza e rapidità erano potenziate dalla certezza che se avesse perso sarebbe morto. Fortunatamente per lui, Henry Fitzroy non era soltanto indebolito dalla perdita di sangue, ma anche esausto e ferito a causa della lotta per liberarsi a cui la Fame lo aveva spinto. Cosa che stava solo rimandando l'inevitabile. Perdendo sangue da una dozzina di piccole ferite, con il respiro che gli bruciava in gola e le articolazioni che scricchiolavano mentre i denti di Fitzroy calavano lentamente verso di lui nonostante tutto,
Celluci seppe con fredda certezza che stava per essere sconfitto, e che non c'era un dannato accidente di niente che potesse fare per evitarlo. Con il sangue che le colava nella mano, Vicki si lanciò dall'altra parte della stanza, affondò le dita nei capelli di Henry e gli sollevò la testa con uno strattone. Celluci sentì le labbra che si ritraevano a contatto della sua pelle, e una lieve sensazione di dolore, poi il contatto rovente si allontanò di scatto e i denti fendettero l'aria nell'incavo fra la sua mascella e il collo. A cavalcioni su entrambi gli uomini, Vicki tirò di nuovo, con forza maggiore. Ululando, Henry si sollevò di scatto sulle ginocchia. Senza la presa sui suoi capelli, Vicki avrebbe perso l'equilibrio, ma riuscì a ruotare il braccio ferito, con il sangue che le inzuppava il polsino e gocciolava al suolo, e a premere la ferita contro la faccia di lui. Poi lanciò un grido quando i denti di Henry le affondarono nella ferita e la sua mano sana le serrò il braccio fin quasi all'osso, e gridò ancora quando Henry cominciò a succhiare, la bocca che si contraeva disperatamente sul suo polso. Vagamente consapevole che Celluci si stava districando e spostando, Vicki scivolò progressivamente lungo il corpo di Henry fino a inginocchiarsi alle sue spalle, spostando la mano libera dai suoi capelli alla sua spalla. Con gli occhi chiusi, sentì il sangue lasciare il proprio corpo per quello di lui, si sentì afferrare e trascinare dalla sua urgenza, sentì che stava cominciando a perdersi nella sua Fame. L'ultima volta che lo aveva nutrito a forza con il suo sangue, lui era stato in una condizione di passività, mentre adesso era tutt' altro che passivo, anche se la sua necessità non era forse altrettanto grande. Quell'esperienza aveva una concretezza che bruciava e stava consumando il ricordo di tutte le altre volte in cui Henry si era
nutrito da lei. Poi riaprì gli occhi di scatto quando lui emise un ringhio frustrato e spinse lontano il suo polso, girandosi di scatto a fronteggiarla; si ritrasse e lui la seguì, le labbra e i denti chiazzati di carminio, lo sguardo che le ingiungeva di offrirgli la gola, di sottomettersi. Vicki si accorse che il mento cominciava a sollevar— lesi e si costrinse a riabbassarlo. — Un accidente! — disse in un rauco sussurro, forte appena quanto bastava per essere udito. — Tu ti nutrì dove io te lo permetto. — E sollevò la mano sinistra fra loro, tracciando scie scarlatte nell'aria. Non era sufficiente, il sangue scorreva troppo piano. Spinse da parte la ferita, accostò i denti alla carne morbida della gola e inspirò il ricco aroma della vita. Vita... Conosceva quella vita. Poi la Fame insorse ruggendo, e i suoi denti forarono la pelle. Un colpo violento lo raggiunse al fianco. Perdendo la presa, si contorse nel cadere e atterrò supino, lo sguardo sollevato sul maschio bruno che osava allontanarlo dalla sua preda. Un altro colpo. Afferrò la gamba e la spinse via, sfruttando il movimento per sollevarsi in ginocchio. Vicki sussultò quando Celluci andò a sbattere contro la parete, ma continuò a tenere lo sguardo fisso su Henry. Per un secondo, aveva percepito un indebolimento della Fame, e sapeva che poteva raggiungerlo. Quella era la sola possibilità di salvezza per tutti e tre. Con la mano destra stretta come un laccio emostatico al di sopra della ferita che, a giudicare dal dolore che le causava, doveva essere stata allargata in modo significativo dai denti di lui rispetto all'incisione iniziale da lei praticata, gli offrì di nuovo il polso sinistro.
Lui accennò a lanciarlesi contro, si bloccò e spostò lentamente lo sguardo dal sangue che scorreva al suo volto. La Fame continuava a contorcersi e a dibattersi, ma adesso la stava controllando rigidamente, attingendo forza dal sangue che aveva già inghiottito. Attingendo forza dal suo sangue. — Henry? Henry. Sì. Un nome con cui incatenare la Fame. Costrinse le proprie labbra a formare un nome che l'aiutasse a ingabbiarla di nuovo. — Vicki. Lei si accigliò nel vederlo barcollare e si spostò verso di lui, ancora in ginocchio. — Henry, devi continuare a nutrirti. Non hai ancora presto neppure parte del sangue di cui hai bisogno. E poi... — aggiunse, abbassando lo sguardo sul proprio polso e affrettandosi a distoglierlo. — E poi — ripeté, — lo stiamo soltanto sprecando sul pavimento. Henry gemette e si accasciò. Vicki lo sostenne, sporcandogli la schiena di sangue, e sorreggendolo goffamente si sistemò in posizione seduta, tirandoselo in grembo. — No... — protestò lui, allontanandole il polso che gli stava accostando alla bocca perché il fugace sapore del sangue era quasi bastato a liberare di nuovo la Fame e anche solo l'odore di quel sangue stava demolendo barricate erette in tutta fretta. — Non mi fido... di me stesso. Vicki gli appoggiò di nuovo il polso contro la bocca, il sangue che colava sulle labbra serrate, macchiandogli le guance, e il fatto che lui fosse troppo debole per contrastarla servì soltanto a dimostrare che aveva ragione. — Per l'amore di Cristo, Henry, smettila di fare il martire. Io mi
fido di te. Lo sentì esitare, poi avvertì le sue labbra che si aprivano e dalla carne lacerata partirono fitte incandescenti di dolore che le si estesero in tutto il braccio quando lui premette contro di essa e cominciò a succhiare. I muscoli le si tesero, ma riuscì a non ritrarsi e a poco a poco il ritmo familiare annullò il dolore mentre il suo corpo reagiva con qualcosa di molto simile a uno stanco rilassamento post— coitale. Appoggiando la guancia sulla testa di Henry, sospirò. — Non è splendido? — grugnì Celluci, fissando la scena con occhi roventi e asciugandosi il sangue che gli macchiava la faccia. — L'amore vince ogni cosa. — Esalando un sibilante respiro, si accoccolò accanto a loro e scrutò quel che riusciva a vedere del volto di Vicki. — Stai bene? — domandò. Intrappolata nell'incessante bisogno di Henry, lei non si prese la briga di sollevare la testa, e non avrebbe neppure replicato se la preoccupazione che si avvertiva nella voce di lui non avesse reso necessaria una risposta. — Sto bene — disse, poi tardivamente comprese che Celluci meritava più di questo e aggiunse: — Credo di stare bene. — Grandioso — commentò lui, cambiando posizione. In qualche modo, quello che stava vedendo era più intimo che guardarli fare l'amore, e lui resistette a stento all'impulso di afferrare Henry e di ficcarlo di nuovo nel contenitore di isolamento. — Come farai a sapere quando ne avrà avuto abbastanza? — Lui lo saprà. Si fermerà. — Davvero? E se gli servisse più sangue di quanto tu ne abbia da dare? Vicki sospirò ancora, ma questa volta con un'intonazione del tutto diversa. — Non ne prenderà più di quanto io ne possa dare. Celluci si aggrappò al bordo del cassone aperto e si issò in piedi. — Mi scuserai se non ripongo molta fiducia in questo. Pochi minuti fa era pronto a ucciderci entrambi... — Quello era allora...
— E questo è adesso? Davvero profondo, Vicki. Idiozie molto profonde. Se non smette entro quindici secondi, ci penserò io a staccarlo dalla tetta. — Non ce ne sarà bisogno, detective. L'affermazione, anche se a stento udibile, non lasciava spazio a obiezioni. Essendosi ritratto appena del necessario per poter parlare, Henry tornò a incollare la bocca alla ferita, premendone insieme i bordi lacerati in modo da permettere al coagulante nella sua saliva di fare il suo lavoro. Poteva sentire la vita di Vicki avvolta intorno alla propria, e anche se l'ultima cosa che voleva in quel momento era staccarsi da essa, sapeva che continuare a nutrirsi li avrebbe soltanto messi in pericolo, perché lei sarebbe morta per la perdita di sangue, e lui per averla perduta. Aveva preso tutto quello che intendeva attingere. Questa era la seconda volta che lei lo salvava. Nella prima occasione, Vicki non era stata cosciente dei rischi e la Fame, sconfitta dal demone, era rimasta relegata nell'oscurità insieme a lui, senza bisogno che la controllasse. Questa volta, però, lei era stata consapevole di cosa stava offrendo, e lo aveva offerto nonostante la Fame che infuriava libera. Volevo sentirle dire che mi ama. L'ho appena sentito, pensò. E cosa le aveva dato in cambio? — Vicki, mi dispiace — disse, appoggiando la testa contro il seno di lei per risparmiare le poche forze appena riacquistate. — Posso arrestare la maggior parte dell'emorragia, ma non riparare il danno. Avrai bisogno di una fasciatura. Vicki abbassò lo sguardo sul proprio polso e sentì lo stomaco che le si contraeva. — Gesù Cristo — mormorò, ricacciando indietro una boccata di bile. — A guardarlo, sembra che dovrebbe fare molto più male... oh, dannazione — aggiunse, quando il dolore improvvisamente aumentò. Prelevata la camicia di Henry dal contenitore, Celluci si lasciò cadere in ginocchio.
— Credo che un "Gesù Cristo" riassuma la situazione. Fitzroy, sei un dannato animale! — Non quando posso evitarlo — ribatté Henry in tono pacato, incontrando con calma lo sguardo tempestoso del detective. — Già, certo. — Celluci distolse lo sguardo per primo, e per mascherare la propria confusione procedette a fasciare il braccio di Vicki, pensando: per poco non ci uccide entrambi, apre a morsi un dannato buco nel braccio di Vicki e io mi sento dispiaciuto per lui ? — Sei fortunata — grugnì, nell'avvolgere la camicia di Henry intorno alla ferita. — Ha un brutto aspetto, ma non credo ci siano danni ai tendini. Muovi le dita. — Fa male. — Muovile lo stesso. Borbottando imprecazioni sottovoce, Vicki obbedì, mentre tutti e tre osservavano con ansia il movimento delle dita. — Cosa ti avevo detto? — commentò Celluci, annodando la fasciatura con dita che tremavano per il sollievo e sollevando una manica in ciascuna mano. — Useremo queste per appenderti il braccio al collo e immobilizzarlo, ma dovrai andare al pronto soccorso non appena saremo fuori di qui. Vicki chinò la testa per permettergli di annodarle i polsini dietro la nuca, e per un momento Celluci appoggiò la guancia sui suoi capelli, più o meno come lei aveva fatto in precedenza con Henry, che giaceva ancora nel cavo del suo braccio sano. — Ho pensato... — Aveva pensato che lei sarebbe morta, quando aveva allontanato con un calcio i denti di Henry dalla sua gola, e aveva creduto che volesse suicidarsi quando l'aveva vista offrirsi ancora. E quando la cosa aveva invece funzionato, aveva pensato... aveva pensato... non sapeva più cosa avesse pensato. — Ho pensato che fosse tutto finito — concluse alla meglio, appoggiandosi all'indietro sui talloni. E non so cosa le dirò se dovesse chiedermi cosa intendevo con quel tutto, aggiunse fra sé. Poi sgranò gli occhi, e ridacchiò. Con aria stupita, Henry si issò a fatica a sedere in posizione quasi
eretta, e Vicki si accigliò. — Cos'hai da ridere? — domandò. Agitando una mano nella loro direzione, Celluci ridacchiò ancora. — Per un minuto, mi avete ricordato la Pietà di Michelangelo. Sai, quella statua della Madonna che tiene in grembo il corpo di Cristo. — E pensi che io non sia appropriato, come Cristo? — domandò Henry. Celluci gli diede una lunga occhiata, registrando l'orrore che aleggiava ancora dietro gli occhi nocciola, il misto di giovinezza fisica e di antichità spirituale, il senso dell'io quasi visibile e ora saldamente radicato al suo posto, e scosse il capo. — A dire il vero, ho visto Cristi peggiori — dichiarò. — Ma la Madonna... — continuò, riprendendo a ridacchiare, di fronte all'espressione indignata di Vicki, — ecco, il soggetto per la Madonna è senz'altro quello sbagliato. — Razza di bastardo — cominciò Vicki, con le labbra che si contraevano per il riso represso, poi perse il controllo e scoppiò a ridere. Con l'effetto di trascinare Celluci a fare altrettanto. Henry esitò, con i nervi ancora provati e incerto se doveva rilevare un insulto laddove Vicki non lo aveva fatto, o una blasfemia dove non c'era intenzione di proferirne, anche se l'onestà lo stava costringendo ad ammettere che Celluci non aveva tutti i torti. Alla fine, incapace di resistere a quello sfogo emotivo, si unì alla risata. E se a tratti quel riso assunse un tono leggermente isterico, tutti e tre furono concordi nell'ignorare la cosa. — Ehi, Fergusson! Cosa ci fai di nuovo qui, amico? — Ho dimenticato qualcosa — replicò il detective Fergusson, prelevando dalla scrivania un sacchetto di carta lungo e stretto, da cui tirò fuori una bottiglia di bagnoschiuma a forma di tartaruga ninja per il tempo sufficiente a far vedere al collega di cosa si
trattava. — Mia figlia mi ha rispedito indietro. Nell'andare a letto, mi ha comunicato che infrangere le promesse fa venire le vesciche. — Quanti anni ha adesso? Quattro? Cinque? — Cinque. — Ha solo cinque anni e ti sta già facendo saltare su un piede solo. Amico, quando diventerà un'adolescente ti farà a brandelli. — Per allora — sbuffò Fergusson, — forse sua madre avrà cominciato a smettere di farlo. — Protendendosi in avanti, socchiuse gli occhi per mettere a fuoco il promemoria di carta rosa posato in cima al mucchio dei rapporti come un quadratino di glassa. — Cosa diavolo è questo? — domandò. — Un'ubriaca ti ha chiamato per confessare. — Confessare cosa? — L'affondamento del Lusitania! L'assassinio di JFK? Il furto della Costituzione? Non lo so. Non ha voluto fare a me la sua confessione. — Accidenti, perché li becco sempre io? — Perché sei un vero zuccherino — sogghignò Brunswick. — Fottiti anche tu — borbottò distrattamente Fergusson, impegnato a leggere il messaggio. — Il Direttore del Dipartimento di Scienze Naturali?... — Lei pareva pensare che tu sapessi chi era. Anzi, mi ha detto che tutti sapevano chi lei fosse — spiegò Brunswick, il cui sorriso andava svanendo di fronte all'espressione del collega. — Non penserai che ci sia effettivamente sotto qualcosa, vero? — Non lo so. Forse — rispose Fergusson, accartocciando il foglietto e infilandolo in tasca insieme al bagnoschiuma per sua figlia, con il volto increspato in un'espressione che lo faceva somigliare a un cane che stesse rosicchiando un osso. — O forse no — aggiunse, scrollando le spalle con un sospiro. — Non hai ancora neppure cominciato a convincermi che non dovremmo alzare immediatamente i tacchi da qui — ringhiò Celluci.
— Tu — continuò, puntando un dito verso Henry, — stai operando in riserva e tu — proseguì, mentre il dito si spostava per agitarsi davanti al naso di Vicki, — sei a corto di circa un litro e mezzo di sangue. — Non così tanto — protestò Vicki, anche se non ci avrebbe scommesso, giudicando da come si sentiva. — Noi tutti diamo l'impressione di essere passati attraverso una guerra — proseguì Celluci, ignorandola. — Tagliamo la corda da qui e lasciamo alla polizia il compito di ripulire tutto. — Mike... — Non c'è Mike che tenga. Inoltre, voglio assolutamente che tu faccia vedere quel polso a un dottore prima che ti venga la cancrena e che debba farti amputare quella fottuta mano. — La ferita non si infetterà — garantì Henry, con pacata sicurezza, — e io intendo andare nel laboratorio. — Nel parlare, allargò entrambe le braccia. Anche se i lividi purpurei erano sbiaditi, facendosi verdastri, e le ossa della mano fratturata avevano cominciato a saldarsi, i segni degli aghi erano ancora molto evidenti. — Se, come voi affermate, Catherine non mi ha spostato prima del tardo pomeriggio, allora ogni campione e risultato dei test sarà ancora là. Bisogna distruggere tutto. — Oh, suvvia, Fitzroy — sospirò Celluci. — Nessuno crederà a una sola parola che queste persone possano dire, non dopo che sarà stato scoperto il loro tentativo di giocare al dottor Frankenstein. — È un rischio che non posso correre. Celluci spostò lo sguardo avanti e indietro da Henry a Vicki e viceversa, poi si affondò violentemente le mani nei capelli. — Gesù, fra voi due non si sa chi scegliere! D'accordo, d'accordo, ci andremo. — Ho detto che io intendo andare — gli fece notare Henry. — Non siete obbligati a venire con me. — Un accidente — ribatté Celluci, senza mezze misure. — Ne abbiamo passate troppe per riuscire a trovarti e non ti perderemo più di vista finché non arriverà il mattino e ti ficcheremo di nuovo
nel tuo dannato armadio. A meno che... — Interrompendosi, inarcò un sopracciglio con aria significativa. — Siete entrambi del tutto al sicuro — garantì Henry, con un mezzo sorriso. — Sebbene abbia ancora fame, il sangue di Vicki è stato più che sufficiente a restituirmi il controllo. Involontariamente, Celluci portò la mano al punto della gola che i denti di lui gli avevano sfiorato, e subito trasformò quel movimento in un brusco gesto in direzione dei cavi e dei pannelli elettrici della parete. — Disattiviamo comunque la corrente? — domandò. Vicki annuì, poi si pentì del movimento fatto, quando la sua testa parve voler continuare a cadere. — I motivi per cui farlo non sono cambiati — affermò. — Se in questo edificio c'è qualche altro di quegli esperimenti, voglio... disattivarli. — Fece una pausa, deglutendo a fatica. La dottoressa Burke aveva detto che sua madre se ne stava andando in giro, il che significava che disattivarla, vederla morire una seconda volta, non sarebbe stato facile. — Anche se questo non farà per me nessuna differenza, dovremmo avere all'incirca quarantacinque minuti di illuminazione d'emergenza, tempo in abbondanza per raggiungere il laboratorio, fare quello che dobbiamo e andarcene. Poi la polizia si potrà occupare del resto — concluse, catturando e trattenendo lo sguardo di Celluci. — Lo prometto. — Ottimo — annuì Celluci, e si diresse verso un angolo della stanza, dove uno spesso tubo di plastica sbucava dalla parete e scompariva dentro una scatola di metallo che misurava all'incirca sessanta centimetri per lato. — Questa è l'alimentazione principale, quindi questo deve essere il quadro centrale di disconnessione. — Come fai a saperlo? — domandò Vicki, sbirciando da sopra la sua spalla. — Credevo che tuo padre fosse un idraulico. — È una cosa da uomini, tu non capi... ouch! Dannazione, Vicki, quello era l'ultimo pezzo di pelle privo di lividi che avevo! — Avevi — ripeté Vicki, accendendo la torcia. — Abbassa l'interruttore.
L'interruttore in questione, lungo una trentina di centimetri e segnato dalla ruggine in tutta la sua lunghezza, rifiutò di arrendersi facilmente. — Questa cosa non è più stata abbassata da quando hanno attivato l'impianto — grugnì Celluci; proiettando sull'interruttore tutto il proprio peso, riuscì ad abbassarlo fino a un'angolazione di quarantacinque gradi, ma non fu in grado di spingerlo oltre. — Mi serve qualcosa da usare come leva. Quel pezzo di tubo che ho usato per forzare la porta... — Posso? — Protendendo la mano oltre Celluci, Henry chiuse le lunghe dita pallide intorno all'interruttore e lo abbassò con un singolo movimento fluido, spezzandolo alla base. Le luci della stanza si spensero. — Credevo non avessi recuperato tutte le tue forze — osservò Celluci, socchiudendo gli occhi nel cerchio di luce prodotto dalla torcia di Vicki. Henry, che era indietreggiato per proteggere i propri occhi sensibili, scrollò le spalle, dimenticando che gli altri due non potevano vederlo. — Non le ho recuperate — confermò. — Gesù Cristo! Ma quanto sei forte? — Non abbastanza da liberarmi da solo — replicò con diplomazia Henry, resistendo alla tentazione di vantarsi, di guadagnare altro terreno su un rivale che era in qualche modo diventato molto di più. E, dopo tutto, quella era la pura verità. Scrutando nel microscopio con aria aggrondata, Catherine stava riflettendo che ci doveva essere un modo per usare le proprietà rigenerative delle cellule del vampiro per prolungare la vita limitata dei suoi batteri. Una volta che lo avesse trovato, avrebbe potuto adattare nuovi batteri per il numero nove e impedirgli di decomporsi come tutti gli altri. Sollevando lo sguardo, scoccò un sorriso verso il punto in cui lui sedeva con pazienza sul bordo del letto, intento a osservarla.
All'improvviso, tutte le luci si spensero e il ronzio costante del suo computer venne inghiottito dal silenzio, che calò insieme all'oscurità. — È lei! — esclamò Catherine, serrando il bordo del tavolo con entrambe le mani finché il mondo non ebbe smesso di vorticarle intorno. — Lei ha fatto questo. Vuole che tu muoia. Rovesciando lo sgabello, si alzò in piedi e si diresse incespicando verso la porta, le braccia tese rigidamente davanti a sé. Per un momento armeggiò con la porta, poi uscì nel corridoio, dove a ogni curva c'erano luci di emergenza che funzionavano a batteria e le fornivano luce a sufficienza per muoversi. — Tutto questo è andato troppo oltre. Dobbiamo arrivare al laboratorio. Vieni — chiamò da sopra la spalla. — La fermeremo insieme. Il numero nove riusciva a stento a vederla delineata sulla soglia. Alzatosi in piedi, si diresse verso di lei con passo strascicato. Insieme. Gli sarebbe piaciuto poterla vedere meglio. Con lo sguardo che si spostava di continuo da una zona d'ombra alla successiva, cercando di individuare l'eventuale presenza della dottoressa Burke, Catherine non si accorse che adesso gli occhi del numero nove brillavano al buio per la lieve fosforescenza indotta dalla decomposizione.
Capitolo quindicesimo L'improvvisa oscurità mandò la dottoressa Burke a sbattere contro il muro, con il cuore in gola e le mani che le formicolavano per il sudore; poteva sentire l'ondata dell'adrenalina consumare il distacco indotto dall'alcol, e lottò per calmarsi. Essere sobria, in quell'edificio,, non rientrava nelle sue intenzioni. — Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo che avrei dovuto portare il rescto... della sec... onda bottiglia — borbottò, con voce che quasi si perse lungo il tragitto attraverso la gola, i denti e le labbra, che dovette varcare per poterle uscire di bocca. L'apparizione altrettanto improvvisa delle luci di emergenza a batteria disposte a ciascuna estremità del corridoio la indusse ad agitare con fare vittorioso la giacca di Donald. — Ah! Ah! Sia lode alla moderna inge... gneria! La corrente se ne va, le luci... di emer... genza si accendono. Ed è un bene che lo abbiano fatto — continuò, riprendendo ad avanzare con passo incespicante, — altrimenti non troverei mai... quel dannato laboratorio. Vagherei qui sotto per... giorni. Forse perfino... per mesi. Socchiudendo gli occhi, scrutò il corridoio che le si stendeva davanti. — E a questo proposito... dove diavolo sono? — Le ci volle un momento di faticosa concentrazione per riconoscere la vicina intersezione a T. Le pareva che l'ala sinistra, dopo aver attraversato una sala conferenze e aver sceso una piccola rampa di scale, finisse in un vicolo cieco, ma quella di destra, con un po' di fortuna, l'avrebbe condotta infine alla porta posteriore del laboratorio. Quella piccola porta di legno dava nel magazzino, e anche se non la usavano mai, lei aveva fatto in modo fin dall'inizio di averne la chiave. — Forse sapevo che sarebbe successo... qualcosa del genere — confidò a un estintore. — Forse mi stavo preparando a quando... alla pazza Cathy sarebbero saltate le... rotelle.
Ed eri preparata a quello che è successo a Donald? domandò la
voce della ragione.
Neppure una bottiglia di whiskey di puro malto era sufficiente a farla tacere, ma almeno rendeva molto facile ignorarla, cosa che la dottoressa Burke fece. Se dal canto suo Vicki vedeva le luci di emergenza come bianchi punti di luce in un sudario nero, a quanto pareva i suoi compagni trovavano invece più che sufficiente quell'illuminazione. Dal momento che aveva bisogno di pochissima luce, Henry probabilmente ci vedeva con assoluta chiarezza, e lei sapeva per esperienza che Celluci aveva una visione notturna migliore della media. Dio, quanto li invidiava! Essere in grado di muoversi liberamente, senza il timore di mettere un piede in fallo o di sbattere contro qualcosa, poter vedere i movimenti nell'ombra in tempo per... Per cosa? Allontanando quella domanda, si concentrò per non uscire dal cerchio di luce della propria torcia; anche se ne teneva il raggio diretto verso il pavimento per non abbagliare i due uomini, stava comunque permettendo che esso investisse in parte anche Henry, perché dopo quello che avevano passato tutti e tre, non aveva intenzione di permettergli di sgusciare nell'oscurità solo perché la sua vista faceva schifo. Henry era salvo. Lo avevano salvato. Sua madre era morta, ma Henry era vivo ed era al sicuro con loro. Questo compensava molte cose. Con il respiro affannoso, la mano di Celluci infilata nel cavo del braccio sano, seguì il poco che poteva vedere di Henry fuori dalla tromba di una scala e socchiuse gli occhi per cercare di mettere a fuoco un punto di luce rossa che spiccava nel buio e che doveva segnalare l'uscita.
— Voialtri siete sicuri che questo sia il piano giusto? — domandò. — Ne sono sicuro — replicò Henry, con voce piatta e atona. — Qui l'odore di morte pervertita è più intenso. — Henry... — Liberandosi dalla stretta di Celluci, Vicki si protese a pungolarlo gentilmente su un fianco con la torcia accesa. — Nel laboratorio sarà peggio. Mentre erano ancora nella stanza del quadro elettrico, gli avevano parlato di Donald, e tutti e tre avevano avuto bisogno di riprendersi da quella narrazione. — Se pensi che l'odore possa essere troppo forte, puoi aspettare nel corridoio. — È solo una differenza di intensità — ribatté lui, in tono brusco, senza girarsi, lo sguardo fisso sui contorni di una porta che poteva scorgere in fondo al corridoio. — Tanto vale che entri nel laboratorio, perché non riesco ad avvertire nessun altro odore. — Poi si protese all'indietro per sfiorare con le dita il calore della mano di lei e aggiunse, in tono più dolce: — Il momento della fuga è stato superato. Adesso è il momento di affrontare le nostre ultime paure, e... — E di battercela da qui — concluse per lui Celluci. — Cosa che non faremo finché rimarremo fermi a blaterare. Muoviamoci. — Afferrata Vicki, la trascinò in avanti, costringendo Henry ad avviarsi se non voleva essere travolto. Sapeva che se avessero perso il loro impeto iniziale non sarebbero mai andati fino in fondo, e da molto tempo non c'era più stato niente che lui desiderasse veder concluso con altrettanta intensità. — Non potrà certo essere peggio dell'ultima visita, per nessuno di noi. Vicki serrò la mano intorno alla torcia, ringraziando Dio che la sua impugnatura fosse di gomma molto ruvida, perché aveva la mano talmente umida di sudore che una superficie più liscia sarebbe sfuggita alla sua presa. Affrontare le nostre ultime paure. Oh. Dio,
spero di no.
Forse perché era una stanza tanto grande, o forse perché dopo un secolo di ristrutturazioni quell'edificio sfidava ormai ogni logica, il laboratorio era dotato di una sua luce di emergenza.
— Ecco, sia ringraziato Dio per i piccoli favori — borbottò Celluci, mentre vi entravano. — Non mi andava molto di trovarmi là dentro al buio. Vicki lasciò scorrere la propria luce su quel là dentro, facendo risplendere momentaneamente l'acciaio inossidabile per poi farlo sprofondare di nuovo nell'ombra. Adesso tutto l'orrore era relegato nella memoria, perché il corpo chiuso nel contenitore di isolamento era soltanto quello di un morto, e tutti loro avevano già affrontato la morte in passato. È sinceramente, sentitamente morto, pensò, una riflessione che dovette reprimere con violenza per poter soffocare una risatina. Perdere il controllo sarebbe stato molto facile. Ignorando il contenitore, Henry attraversò rapidamente la lunghezza della stanza con l'impermeabile di pelle che gli svolazzava intorno al torace nudo, e si diresse verso l'unico computer rimasto. Con la corrente disattivata, non aveva modo di verificare se esso contenesse i file che lo riguardavano, ma doveva partire dal presupposto che Catherine avesse inserito i dati in quella macchina, se aveva effettuato i test nel laboratorio. — Fitzroy. Con le dita già strette intorno a una manciata di cavi, Henry si volse. — Forse vorrai portare via di qui anche questo — suggerì Celluci, porgendogli il portafoglio che aveva raccolto da terra, nel quale erano infilati alla meglio svariati documenti di identità. — Non diamo al detective Fergusson l'occasione di approfittare di ciò che è ovvio. — Grazie — rispose Henry, e dopo un rapido controllo infilò il portafoglio nella tasca dell'impermeabile. — Se la polizia riuscisse a collegarmi a tutto questo, dovrei scomparire. Forse — aggiunse, abbozzando un sorriso in direzione del detective, — avresti dovuto lasciare il portafoglio per terra. — Forse avrei dovuto — convenne Celluci, con la stessa espressione e lo stesso tono. Posati con cura da un lato i cavi e il monitor, Henry sollevò il computer vero e proprio sopra la testa e lo scaraventò contro un
angolo con tutte le sue forze. Nel sentire il rumore della plastica che si infrangeva, Catherine sussultò e dilatò gli occhi. — È lei. Sta spaccando tutto — disse, mentre le sue dita si chiudevano intorno al braccio del numero nove, lasciando delle impronte nella carne sempre più malleabile. — Dobbiamo fermarla! Obbedendo alla pressione, il numero nove smise di muoversi. Avrebbe fatto quello che lei voleva. Dal laboratorio giunse intanto il rumore prodotto da altra distruzione, piccoli pezzi che venivano resi ancora più piccoli fino a che non fosse più stato possibile ripararli. — D'accordo. — Sollevandosi in punta di piedi, Catherine appoggiò la fronte contro il cranio del numero nove, appena al di sotto della serie di punti che tenevano al suo posto la calotta cranica. — Ecco il mio piano. Io la distrarrò e la indurrò a inseguirmi e a perdersi nei corridoi, e intanto tu andrai là dentro a prendere Donald, che adesso dovrebbe poter sopravvivere fuori del contenitore. Non lasciare che niente ti fermi. Poteva avvertire l'alito caldo di lei contro l'orecchio e il collo; anche se le terminazioni nervose della pelle non si erano mai rigenerate, percepiva la sua vicinanza, e questo gli bastava. Sollevando una mano, le batté goffamente un colpetto sul braccio. — Sapevo di poter contare su di te! — esclamò Catherine, stringendogli a sua volta la mano, senza sentire le piccole ossa che si spostavano dai loro alloggiamenti perché tendini e legamenti cominciavano a cedere. — Andiamo! Mentre Henry riduceva il computer in pezzi sempre più piccoli e Celluci spezzava i dischetti, Vicki incastrò la torcia sotto il mento e prese a controllare fasci e fasci di stampati. — Trovato qualcosa? — chiese Celluci, allungando la mano verso l'ennesimo quadratino di plastica. — Sono soprattutto registrazioni di EEG — rispose Vicki, scuotendo il capo.
Inclinando il collo, lui sbirciò il foglio di carta diviso in due da una riga d'inchiostro tutta picchi e valli. — Come diavolo fai a dirlo? — obiettò. — Sono etichettati — sbuffò lei. — Fermatevi ! Tutti e tre si girarono di scatto. — Fermatevi all'istante! La luce della torcia di Vicki riuscì a stento a delineare sulla soglia posta in fondo alla stanza il pallido cerchio di una faccia e di una massa di capelli, al di sopra del rettangolo più pallido costituito da un camice da laboratorio. — Fermi! Fermi! Fermi! — Furia e follia trasparivano evidenti dalla sua voce stridula. — Catherine. — Superando d'un balzo i rottami sparsi ai suoi piedi, Henry si lanciò alla carica. La figura sulla soglia scomparve. — Fitzroy! — Henry! Lui li ignorò entrambi, concentrato sulla caccia. Quella pazza lo aveva imprigionato, torturato, lasciato solo nell'oscurità. Lei era sua. Sapendo ciò che lei era, avrebbe potuto evitare di sprofondare nel vuoto dei suoi occhi, ma ne avrebbe fatto la sua preda: il suo sangue non era contaminato, anche se la sua mente lo era, e quel sangue era qualcosa che lei gli doveva. Nonostante la sua rapidità, ancora non del tutto ritrovata, ma comunque superiore a quella di un mortale, lei era già scomparsa alla vista quando raggiunse il corridoio. Il suo odore era seppellito sotto quello perdurante della morte pervertita, che non solo pervadeva l'aria ma gli rivestiva la bocca e il naso come una tossica pellicola di olio, comunque poteva ancora udire la sua vita, quindi si lanciò all'inseguimento. I suoni divennero però ben presto una pista distorta e incerta, facile da smarrire in quel labirinto di stanze e di passaggi; abituato da
così tanto tempo a cacciare facendo affidamento sulla vista e sull'olfatto, Henry trovò più difficile di quanto avesse creduto possibile accorciare le distanze. La vita di lei si andava facendo sempre più vicina, ma con una lentezza imbarazzante.
La follia infonde forza agli arti mentre distrugge la forza della mente. Non riusciva a ricordare chi gli avesse detto questo, tanti
anni prima, ma pareva che la follia elargisse anche la rapidità, oltre alla forza, dato che Catherine continuava a sfuggirgli, sfruttando a proprio vantaggio le peculiarità dell'edificio.
Il battito del suo cuore continuò a guidarlo oltre un angolo, attraverso una sala conferenze e fuori da una piccola porta che poteva essere nota soltanto a chi avesse un'intima conoscenza della costruzione. Le luci di emergenza fornivano chiazze di chiarore troppo intenso che si alternavano a fasce d'ombra in cui i suoi occhi potevano trovare sollievo, e intanto lui stava cominciando a stancarsi, il suo corpo protestava per le richieste che lui gli stava facendo tanto presto dopo il maltrattamento che aveva subito, risanato solo in certa misura dal sangue di Vicki. Nell'istante prima di fuggire, Catherine aveva riconosciuto il vampiro, e non le ci era voluto molto per rendersi conto che non poteva distanziarlo. Il suo unico vantaggio era la conoscenza che aveva dell'edificio, ma sebbene questo impedisse un immediato confronto, ben presto lei si accorse che non era sufficiente a fargli perdere la sua pista. Non aveva idea di cosa lui avrebbe fatto una volta che l'avesse raggiunta, e neppure le importava di saperlo, perché riusciva a pensare soltanto al numero nove, e a come fosse stata costretta a lasciarlo solo e in inferiorità numerica, nel laboratorio. Doveva tornare da lui. Nell'aggirare un angolo, l'inclinazione della luce di emergenza attirò la sua attenzione e la indusse a fermarsi di colpo. La massiccia batteria contenuta nella base della luce era risultata troppo pesante perché ci si potesse aspettare che l'antico graticcio intonacato ne reggesse le viti, e l'unità si era accasciata in avanti, lontano dal muro.
Con il respiro affannoso, Catherine spiccò un salto e agganciò le dita nel sottile bordo di metallo. Nel seguire la pulsazione vitale di Catherine, Henry svoltò un angolo e si venne a trovare in un corridoio molto più buio di quanto lo fosse stato il resto dell'edificio. Il battito del cuore di lei si fece più forte, poi la vide delineata contro lo sfondo grigio del muro, raggomitolata e senza vie di fuga. Ritraendo le labbra dai denti, il Cacciatore avanzò verso la sua preda. Lei si raddrizzò, e smise di bloccare con il proprio corpo l'oggetto che reggeva fra le braccia. L'intensa luce bianca conficcò aghi incandescenti nei sensibili occhi adattati alla notte; con un urlo di dolore, Henry indietreggiò sollevando le mani... una barriera peraltro priva di efficacia adesso che il danno era stato fatto... e intanto la sentì passargli accanto, sussultò di disgusto quando i laceri contorni della sua essenza vitale lo sfiorarono, e non la poté seguire. Celluci mosse tre rapidi passi per seguire il vampiro in corsa, si rese conto che lui lo stava lasciando velocemente indietro e si fermò. — Che Dio lo danni! — imprecò, scagliando con tutte le sue forze contro il muro il dischetto che aveva in mano e scoprendo che il suo infrangersi non gli dava il minimo sollievo. — Dopo tutto quello che abbiamo passato per tirarlo fuori dai guai, quel dannato bastardo ci ha piantati in asso! Vicki si limitò a scuotere il capo, una mano serrata intorno all'impugnatura della torcia; anche se il battito del suo cuore era tanto stentoreo da assordarla, si sentiva sorprendentemente calma. — Non è come se lui fosse un leone addomesticato — mormorò. — E questo cosa diavolo dovrebbe significare? — ribatté Celluci, affondandosi le mani nei capelli nel girarsi verso di lei. — È una frase di un libro per bambini che ho usato per descriverlo la scorsa primavera, quando ci siamo conosciuti.
— Grandioso, proprio grandioso. Tu stai facendo un excursus letterario lungo il viale dei ricordi e Fitzroy ci ha piantati in asso — ringhiò Celluci, muovendo un altro passo verso la porta, poi cambiò idea, si girò di scatto e tornò accanto a lei. — Vicki, questo taglia la testa al toro. Ce ne andiamo di qui — continuò, mentre in lui la sensazione di essere stato tradito aveva la meglio sulla preoccupazione. — Se è in grado di correre via in quel modo, come un angelo vendicatore succhiasangue, Fitzroy potrà anche cavarsela senza di noi, e... All'improvviso, si rese conto che lei non lo stava ascoltando; di per sé, questo non era particolarmente insolito, se non fosse stato per il fatto che il suo sguardo era fisso lungo il raggio di luce della torcia e che il suo volto aveva un'espressione che lui vi aveva scorto soltanto un'altra volta, circa un'ora e mezza prima, quando avevano sollevato il coperchio della bara di metallo e Donald Li aveva aperto gli occhi. Con un brivido che gli correva lungo la schiena, si girò di scatto. Ferma sulla soglia c'era la parodia di un uomo. Lei gli aveva detto di salvare Donald, non aveva parlato di persone ferme al di là del contenitore, quindi il numero nove le ignorò. Strascicando i piedi, prese ad avanzare. Sollevando la destra, Celluci si tracciò rapidamente il segno della croce. — Quella ragazza, la testimone presente la notte che il ragazzo è stato ucciso, ha detto che a strangolarlo era stato un uomo morto. La creatura continuò lentamente ad avanzare, e il suo fetore andò crescendo a ogni passo.
Un uomo sano di mente fuggirebbe, pensò Celluci, ma le gambe
rifiutarono di obbedirgli.
— Questa deve essere la cosa che ha ucciso quel ragazzo — aggiunse.
— Ci sono buone probabilità che tu abbia ragione — convenne Vicki, dando l'impressione di parlare a denti stretti. — Cosa hai intenzione di fare? Di arrestarla? — Oh, davvero divertente. — Senza distogliere lo sguardo da quell'oscenità barcollante, Celluci si spostò di lato fino a portare la propria spalla a contatto con quella di Vicki: di colpo, avvertire in calore di un altro essere vivente era diventato importante. — Cosa supponi che voglia? — Ho paura di avanzare ipotesi — ribatté Vicki, scrollando le spalle. Arrivata al contenitore di isolamento, la cosa si fermò e allungò la mano verso la chiusura. — Col cavolo che te lo lascio fare! — A stento consapevole che si stava muovendo, Celluci si lanciò in avanti. Dopo tutto quello che avevano patito per salvare Donald Li, e dopo tutto quello che lo stesso Donald Li aveva passato, si sarebbe dannato prima di permettere che il ragazzo venisse trascinato di nuovo fra le file dei nonmorti. Le file dei nonmorti... Gesù! Sembra una battuta presa da un film per la TV, pensò nel fermarsi di colpo all'estremità opposta del contenitore, urlando: — Vattene! Togliti di lì! La creatura lo ignorò. — Dannazione a te, ti ho detto di toglierti di lì! — ribadì Celluci. Non ricordava di aver estratto la pistola, ma in qualche modo ora l'aveva in mano. — Allontanati da quel contenitore! Adesso! Rendendosi infine conto che si trattava di una minaccia di qualche tipo, la creatura sollevò la testa e guardò dritto verso di lui.
Prendi Donald. Non lasciare che niente ti fermi. Il numero nove fissò l'uomo vicino al contenitore. La sua voce aveva avuto un tono di comando, ma le parole non erano state fra quelle a cui lui doveva obbedire.
Non lasciare che niente ti fermi.
Le parole non bastavano a fermarlo. L'uomo poteva essere ignorato. Riportando l'attenzione sul meccanismo di chiusura, cercò di indurre le dita a chiudersi intorno a esso. La cosa peggiore non era il colore grigiastro, tombale della pelle, o le labbra e la punta delle dita tinte di un nero verdastro, e neppure la fila di punti che segnava la fronte o perfino gli evidenti segni del trionfo della decomposizione. La cosa peggiore era che là dentro c'era qualcuno, che dentro quelle rovine esisteva non solo un'intelligenza, ma anche una personalità. Scosso da un tremito violento indotto in pari misura dall'orrore, dalla compassione e dalla repulsione, Celluci sostenne con la sinistra la mano in cui impugnava la pistola e, sussurrando con le labbra aride un rapido "Ave Maria", premette il grilletto. Il primo colpo mancò il bersaglio e il secondo raggiunse di striscio il dietro del cranio della creatura con forza sufficiente a farla ruotare su se stessa e a proiettarla sopra la curva di acciaio inossidabile del contenitore di isolamento. Celluci non ebbe la possibilità di far fuoco una terza volta. Il colpo lo raggiunse appena sotto la spalla, scaraventandolo contro le tre bombole di ossigeno allineate sotto la finestra; nel volo perse la presa sulla pistola, si rese vagamente conto che essa stava scivolando sul pavimento, e vide Vicki aggirare il contenitore a passo di carica, la torcia sollevata come un randello. Vicki aveva guardato Celluci avanzare verso la creatura con uno strano senso di distacco. Era come se nel momento in cui aveva visto quella cosa apparire sulla soglia, e si era resa conto di cosa essa fosse e di cosa non fosse, un interruttore di sicurezza fosse scattato dentro di lei, con il risultato che non era più stata in grado di reagire e aveva potuto solo aspettare. La sua bocca si era mossa in risposta a ciò che veniva detto, ma la sua mente non era stata collegata a essa. Dopo gli ultimi giorni di costante tumulto interiore, di accuse e di controaccuse, e di generale isterismo, quella pace e quella quiete
erano state in un certo senso piacevoli, mentre continuava a tenere il raggio della torcia puntato sulla creatura che veniva avanti e si rifiutava di chiedersi cosa stesse aspettando. Anche se capiva cosa stava inducendo Celluci a cercare di impedire che il contenitore venisse aperto, sembrava non riuscire a trovare la cosa importante. Lo sentì parlare, ma le parole suonarono aggrovigliate e prive di significato, e la sola cosa che provò nel vederlo estrarre la pistola fu un vago senso di sorpresa. I muscoli le si contrassero al primo sparo, il cervello le rimbalzò con violenza fra un orecchio e l'altro, poi il crepitio del secondo sparo la strappò al suo rifugio mentale e la riscosse del tutto. Vide il braccio della creatura che si sollevava e Celluci che volava all'indietro, e cominciò a muoversi prima che lui toccasse terra. Tenendo il raggio di luce puntato sul terreno fino a quando fu abbastanza vicina da poter arrivare a destinazione alla cieca, sollevò la pesante torcia come se fosse stata un randello e la calò con violenza, generando un rumore d'impatto che suonò stranamente soffocato. Anche se era ormai tanto vicina da sentirsi avvolta dal fetore dolciastro della decomposizione, non era in grado di vedere davvero la creatura che stava affrontando... Sia ringraziato Dio per i piccoli favori, pensò, consapevole che essa era già stata abbastanza terrificante da lontano... e purtroppo non fu in grado di vedere neppure il colpo che costituì la sua reazione. Avendo un solo braccio con cui bilanciarsi, cadde duramente, più preoccupata di non perdere i suoi soli strumenti visivi che di frenare la caduta. Nel colpire il suolo rotolò, e andò a sbattere con il polso ferito contro il pavimento. Mentre tornava a lanciarsi contro la creatura, Celluci sentì Vicki sussultare per il dolore.
Cosa stai facendo? gli urlò la parte ancora razionale del suo
cervello, ma anche se riconobbe che quella era una valida domanda, era ormai troppo provato da quella lunga notte per darvi ascolto. La sua spalla investì le costole della creatura generando un suono ovattato e molle, e costringendola a indietreggiare verso la porta.
Crollarono insieme al suolo, lottando e rotolando, e Celluci perse la consapevolezza del tempo, di dove fosse e perfino di se stesso, finché non si ritrovò a fissare il soffitto del corridoio, mentre la sua schiena andava a sbattere con violenza contro le piastrelle. Grugnì quando i suoi muscoli massicci assorbirono la maggior parte dell'impatto e cercò di liberarsi scalciando, ma venne sollevato di peso e scaraventato contro una fila di scaffali. Scivolando al suolo, vide una porta che si chiudeva, e di colpo si ritrovò solo al buio. Il numero nove aveva messo il precedente intruso nel contenitore, e lei ne era stata soddisfatta, quindi adesso trovò un contenitore anche per quell'intruso. Premendo verso il basso con entrambe le mani, piegò la cosa rotonda di metallo fino a impedirle di ruotare ancora. Adesso l'intruso sarebbe rimasto nel contenitore. Quello era senza dubbio un ripostiglio per le scorte, cosa peraltro priva di importanza in quel momento. Celluci si scaraventò contro la porta, e quando essa non cedette minimamente, cercò a tentoni la maniglia urlando imprecazioni in italiano; quando infine la trovò, scoprì che non ruotava. Con la testa che le girava, Vicki si sollevò sulle ginocchia. Supponeva che i rumori che aveva sentito fossero stati prodotti da Celluci e dalla creatura, ma in quel momento era fisicamente incapace di andare in suo aiuto. Raggomitolata intorno al braccio ferito, vomitò a vuoto, lottando contro ondate di vertigini che minacciavano di scaraventarla di nuovo al suolo.
Dannazione, Vicki, rimettiti in sesto! Mike ha bisogno di te! Certo, hai perso un po' di sangue, ma non è poi questa gran cosa e non è la prima volta. ALZATI! Con il respiro affannoso che sibilava attraverso i denti serrati, cercò a tentoni la torcia e si rese conto di colpo di non essere sola. Il suo campo visivo era costituito soltanto da una striscia molto ristretta di pavimento, illuminata dalla torcia e delimitata dalla
malattia che le aveva distrutto la vista, e in quella striscia stavano avanzando con passo strascicato un paio di piedi che indossavano scarpe da ginnastica nuove chiuse con una striscia di velcro. Proiettata al di là dell'orrore, si bloccò, incapace di muoversi, di pensare, di distogliere lo sguardo, mentre quei piedi strisciavano verso di lei; quando si fermarono, lei era ormai in grado di vedere anche i pantaloni da ginnastica che coprivano le gambe dalle ginocchia alle caviglie. La creatura vicino al contenitore aveva avuto indosso pantaloni da ginnastica, ma lei poteva sentire ancora i rumori della lotta... Infine, riuscì a indurre le dita a chiudersi intorno all'impugnatura di gomma della torcia e, stringendola come un talismano, si costrinse lentamente a raddrizzarsi. Sua madre abbassò lo sguardo su di lei, proprio come aveva fatto un migliaio di altre volte in passato. Solo che questa volta sua madre era morta. Sentì la ragione che le veniva meno e cercò disperatamente di aggrapparsi ai suoi brandelli. Quella era sua madre, e sua madre l'amava: morta o meno che fosse, non le avrebbe mai fatto del male. Poi le labbra morte si schiusero e una bocca morta formò il suo nome. Era troppo. Henry sentì l'urlo, si girò e spiccò la corsa nella direzione da cui era giunto. Ancora mezzo accecato, con il senso dell'odorato inutilizzabile in quei corridoi saturi di abominio, si precipitò lungo il sentiero tracciato dal terrore di Vicki, e si venne a ritrovare in un vicolo cieco. Ululando la propria ira, tornò indietro, tendendo al massimo i sensi alla ricerca del contatto con la vita di lei che gli facesse da guida. — VICKI! — Celluci si scaraventò contro la porta con furia impotente. Poi ancora, e ancora.
E ancora. Con la bocca arida e il cuore che le martellava nella gabbia troppo angusta del torace, Vicki prese a indietreggiare lentamente, e sua madre la seguì, le mani protese verso di lei; l'aspra illuminazione della torcia accentuava il suo pallore mortale e proiettava ombre minuscole sotto ciascuno dei punti metallici che le attraversavano la fronte. I piedi di Vicki continuarono a muoversi ancora per un momento prima che lei si rendesse conto che non si stava più spostando, e che la distanza fra loro si stava riducendo. La fredda curva metallica del contenitore di isolamento le premeva contro la base della schiena. Aggiralo! pensò, ma non riuscì a ricordare come fare. Non poteva distogliere lo sguardo dalla figura che si stava avvicinando, e non poteva neppure distogliere la luce da essa, nella speranza che scomparisse nell'oscurità. — Ferma! Vicki sussultò, sferzata da quel suono. La donna morta che era stata Marjory Nelson si trascinò in avanti di un altro passo, poi fu costretta a obbedire. — Resta ferma! — Seguita dal numero nove, Catherine entrò nel laboratorio, socchiuse gli occhi nell'attraversare il raggio di luce della torcia e si guardò intorno con aria furente. — Guardate questo posto. Ci vorranno giorni per ripulire tutto — continuò, assestando un calcio a un frammento di circuito stampato, poi si girò verso Vicki con movimenti scomposti quasi quanto quelli dei suoi compagni, domandando: — Tu chi sei?
Chi sono io? Gli occhiali le stavano scivolando lungo il naso, e lei
chinò la testa quanto bastava per spingerli al loro posto con l'indice della mano ferita. Lei chi era? Deglutendo a fatica, cercò di umettarsi la bocca. — Nelson — rispose. — Vicki Nelson. — Vicki Nelson? — ripeté Catherine, facendosi più vicina. Anche se la studentessa era ancora fuori del suo campo visivo, il
suo tono generò un brivido lungo la schiena di Vicki. Questa persona è insana, pensò. "Pazza" non era infatti un termine abbastanza forte da descrivere le incrinature nella voce di Catherine. Lasciato nell'ombra il numero nove, Catherine attraversò il cono di luce e si fermò appena più avanti rispetto al punto in cui Marjory Nelson stava lottando contro la compulsione che la teneva bloccata dov'era. — La dottoressa Burke mi ha parlato di te. Non hai voluto smettere di ficcanasare in giro. — Il mento aguzzo si sollevò e gli occhi azzurro chiaro si socchiusero. — Se non fosse stato per te, lei non avrebbe cercato di terminare gli esperimenti. Questo è tutta colpa tua! — L'ultima parola divenne un'imprecazione, e lei si proiettò in avanti con le dita curvate in artigli protesi verso la gola di Vicki. L'autoconservazione infranse la sua paralisi, e Vicki si gettò di lato, pur sapendo che non sarebbe stata abbastanza rapida. Sentì la punta di quelle dita che le agganciava il colletto ed ebbe un'improvvisa visuale degli abissi della follia, quando per un istante il volto contorto di Catherine riempì il suo campo visivo, poi si trovò a barcollare all'indietro, non più sotto attacco. Accasciandosi contro il sostegno del contenitore, sollevò il raggio della torcia alla ricerca di una spiegazione. Catherine stava penzolando dalle braccia di sua madre, e dopo un momento venne gettata da un lato senza sforzo apparente. Quello era il genere di salvataggio di cui i bambini ritenevano implicitamente capace la madre, e nonostante tutto Vicki si sorprese a sorridere. — Bel colpo, mamma — borbottò, cercando di riprendere fiato. Il numero nove non aveva capito quello che l'altra che era come lui stava per fare. Poi sentì lei gridare nel colpire il pavimento. Lei si era fatta male. Il numero nove ricordò l'ira.
Il primo colpo del numero nove infranse le costole con un crepitio di ossa rotte stentoreo come uno sparo, spingendone i frammenti nella cavità toracica. Quel primo colpo l'avrebbe uccisa, se non fosse stata già morta. Lei barcollò sotto l'impatto ma riuscì a rimanere in piedi. Il secondo attacco spinse di lato le braccia sollevate e il terzo la scaraventò dall'altra parte del laboratorio. Vicki intanto si sforzò di non perdere di vista lo scontro, puntellandosi contro il contenitore e spostando il raggio della torcia per la stanza come una sorta di demente operatore delle luci di una produzione più macabra di qualsiasi cosa che il teatro moderno avesse da offrire. I fluidi nutrienti stavano colando dalle mani rovinate del numero nove, in quanto la violenza dei colpi aveva concluso ciò che la decomposizione aveva iniziato, e le curve delle ossa spiccavano lucide attraverso la devastazione dei polsi, ma lui si servì degli avambracci come di randelli, continuando ripetutamente a colpire. Vicki vide il corpo di sua madre che veniva sbattuto contro una serie di scaffalature di metallo che si schiantarono al suolo con il loro contenuto. Alcuni contenitori di vetro parvero esplodere a contatto con il pavimento, riversando nell'aria vapori chimici che si mescolarono all'odore di decomposizione. Quando il numero nove avanzò barcollando, Vicki non riuscì a reggere oltre. — Per l'amore di Cristo, mamma! — urlò. — Ricambia i colpi di quel bastardo! Sua madre si girò con la testa che penzolava su un collo non più in grado di sorreggerla, incontrò il suo sguardo per un momento, poi si chinò e divelse con uno strattone uno dei supporti di metallo degli scaffali. Brandendolo come una mazza da baseball, si raddrizzò e colpì. L'estremità irregolare e tagliente della sbarra di acciaio raggiunse il numero nove alla tempia, attraversando la sottile parete di osso e penetrando nel cervello. L'oro brillò per un secondo quando la rete neurale si staccò, poi il numero nove barcollò all'indietro e si accasciò.
La sbarra risuonò rumorosamente contro le piastrelle mentre Marjory Nelson barcollava e si afflosciava, come se fossero state tagliate delle corde invisibili. — MAMMA! — urlò Vicki, gettandosi in ginocchio. Non poteva sorreggere sua madre e tenere in mano la torcia, quindi infilò quest'ultima sotto le bende del braccio e si trascinò in grembo il corpo inerte. La luce soffusa che filtrava attraverso il cotone sottile della camicia di Henry cancellò tutti i cambiamenti apportati dalla morte e dalla scienza, e le restituì sua madre. — Mamma? Non morire. Oh, ti prego, non morire. Non di nuovo... Troppi danni. Poteva sentire cedere il legante. Ma c'era una cosa che doveva fare. — Mamma? Dannazione, mamma... Gli occhi grigio chiaro così simili ai suoi si aprirono a fatica e Vicki dimenticò di respirare. Non avrebbe dovuto essere in grado di scorgere la loro espressione, ma la stava vedendo con chiarezza, se ne sentiva avviluppata, e per un lungo momento si sentì protetta dal mondo. — ... voglio bene... Vic... ki. Le lacrime si raccolsero sotto il bordo degli occhiali e le si riversarono lungo le guance. — Anch'io ti voglio bene, mamma. — La vista le si annebbiò, e quando essa le si schiarì, si ritrovò sola. — Mamma? — chiamò, ma adesso gli occhi grigi si erano fatti fissi, e il corpo che stava tenendo fra le braccia era vuoto. Con estrema cura, se lo fece scivolare giù dal grembo e abbassò quelle palpebre con una carezza. Sua madre era morta. Cominciò a tremare, mentre la pressione cresceva dentro di lei, chiudendole la gola, annodandole i muscoli e facendola sussultare avanti e indietro. Pervaso in pari misura di rabbia e di dolore, il primo singhiozzo le aprì enormi buchi roventi nel cuore, causandole un dolore tanto intenso da indurla ad arrendersi al secondo. Raggomitolata intorno a quella sofferenza, si mise a piangere.
Pianse per sua madre. E pianse per se stessa. Il numero nove giaceva dov'era caduto. L'ira si era dissolta, e anche se non aveva modo di sapere che la rete neurale non stava più funzionando, lui capiva in modo vago che la parte costituita dal corpo, e quella costituita da lui, erano adesso separate. Fissò il soffitto, desiderando... Desiderando... Poi la sua visuale cambiò, e lei gli fu accanto. Catherine girò con gentilezza verso di sé la faccia del numero nove. — Non ti posso riparare — sussurrò, facendo scorrere con delicatezza un dito lungo la curva della mascella. — Saresti rimasto con me per sempre. Non le avrei permesso di disattivarti — aggiunse con un sorriso. — Tu eri il miglior esperimento che abbia mai fatto. Voleva che lei sorridesse. Gli piaceva quando sorrideva. Poi lei scomparve. Voleva che tornasse indietro. Lentamente, eseguendo con precisione ogni movimento, Catherine si alzò in piedi. Pianificando con cura ogni singolo passo, avanzò attraverso il laboratorio, si fermò accanto alla sbarra di acciaio che giaceva ancora dove era stata lasciata cadere, e la raccolse da terra. L'estremità divelta dallo scaffale brillava, lucida e affilata, resa appuntita dalla forza che l'aveva strappata. Catherine la sollevò e la fissò sorridendo. La sbarra di metallo calò di piatto sulle spalle chine di Vicki e la
sbatté al suolo. Il mondo s'inclinò e l'istinto prese in lei il sopravvento mentre, annaspando per il dolore, si costringeva a contorcersi fino a girarsi a fronteggiare l'attacco, assestandosi gli occhiali. La luce della torcia si spostò dentro le pieghe della stoffa e in qualche modo si diresse verso l'alto come un riflettore in miniatura, illuminando la punta di acciaio scintillante che stava calando verso di lei, ma non in tempo per permetterle di reagire.
Capitolo sedicesimo Nel precipitarsi lungo il corridoio che portava al laboratorio, Henry sentì i colpi, e li avrebbe ignorati se non fossero stati accompagnati da un interessante repertorio di imprecazioni in italiano. Arrestandosi di colpo davanti a una vecchia porta a pannelli di legno, vide che la maniglia era stata piegata in modo da bloccarla, e risolse il problema puntellando una mano contro il muro e sradicando l'intero meccanismo dal legno. Il battente si spalancò fragorosamente e Celluci si catapultò nel corridoio con tanta violenza da rovinare in ginocchio per l'impeto stesso della sua uscita. Afferrandolo per il colletto, Henry lo issò in piedi, bloccando con l'altro braccio la raffica di colpi scatenata dalla sua manovra. Il ringhio di sfida di Celluci infine si spense quando lui riconobbe il vampiro. — Dove diavolo eri finito? — domandò. — Stavo cercando la via per tornare indietro — rispose freddamente Henry. — E tu cosa ci facevi lì dentro? — Cercavo di uscire — ribatté Celluci, nello stesso tono. — Ho sentito Vicki urlare. — Anch'io. Insieme, si girarono e si precipitarono verso il laboratorio. Nel momento in cui varcarono di corsa la soglia, l'odore del sangue investì Henry quasi con l'impatto di un colpo fisico, ora troppo vicino per essere mascherato dalla puzza di decomposizione o dai vapori di alcol diffusi nell'aria, e la sua Fame, tutt'altro che sazia, tornò a insorgere. Per amore di Vicki, lui però la trattenne, ricacciandola indietro, perché non avrebbe potuto aiutare Vicki se avesse perso il controllo. Mentre era impegnato a lottare per rimanere razionale, Celluci lo oltrepassò.
Pareva che ci fossero corpi sparsi per tutta la stanza, ma lui ne vide uno soltanto che avesse importanza. Stesa supina da un lato rispetto al contenitore di isolamento, Vicki giaceva immobile, tranne per i sussulti puramente cinetici indotti dai colpi. Vide la sbarra d'acciaio sollevarsi e ricadere, poi emise un ululato di furia incoerente e afferrò per le spalle la donna bionda, scaraventandola dietro di sé. — È anche colpa tua! — stridette Catherine, lanciandogli contro, l'estremità irregolare della sbarra che grondava sangue. Celluci non ebbe il tempo di prepararsi all'attacco, ma esso venne stroncato sul nascere. Facendo saettare in avanti il braccio con troppa rapidità perché un occhio mortale potesse seguirne il movimento, Henry afferrò Catherine per il dietro del collo, le chiuse l'altra mano intorno alla sommità della testa e applicò una torsione. Gli occhi chiarissimi si rovesciarono all'indietro nelle orbite, e per la seconda volta nel corso di quella notte la sbarra di metallo risuonò sulle piastrelle, sfuggendo a dita improvvisamente inerti. Gettato da un lato il corpo, Henry si lasciò cadere in ginocchio, unendosi a Celluci nella frenetica ricerca delle ferite sotto gli indumenti di Vicki, intrisi di sangue. La sbarra di ferro le aveva strappato un pezzo di carne dalla spalla sinistra e lacerato in due punti il lato destro del costato, tre brutte ferite, ma di certo non letali. Poi sollevarono le dita di lei dalla pozza di sangue fra il fianco e la coscia. — Gesù — sussurrò Henry, premendo la mano su quel punto, poi incontrò lo sguardo di Celluci. — L'arteria — aggiunse in tono sommesso, sforzandosi di sentire il cuore di lei al di sopra del doloroso battito del proprio. Il sangue che era schizzato sul vetro della torcia creava macchie di Rorschach sul soffitto. Il numero nove giaceva con la testa da un lato, come lei lo aveva
lasciato, in attesa del suo ritorno. Poi lei fu di nuovo lì. Ma non lo vide, e non gli sorrise. — Quindici minuti. Ci vogliono quindici minuti per morire dissanguati con quel genere di ferita. — Lo so — scattò Henry. Adesso poteva sentire il battito del cuore di lei, ma era spaventosamente debole. — È ovvio che lo sai — ritorse Celluci, riassestando con dita tremanti la montatura degli occhiali dietro gli orecchi di lei. — Sei un fottuto vampiro. Ti intendi di perdite di sangue, quindi fa' qualcosa! Henry lo fissò con occhi roventi. Non c'era modo di applicare un laccio emostatico alla congiunzione del torso con la gamba, si poteva soltanto applicare una pressione diretta per fermare l'emorragia, e lui lo stava facendo, anche se era troppo tardi. — Cosa dovrei fare? — ribatté, certo che non ci fosse nulla che poteva tentare. — Come diavolo faccio a saperlo? Sei tu il fottuto! Attirato dall'intensità dello sguardo terrorizzato di Celluci, Henry si girò. Dall'altra parte del laboratorio, vicino alla parete di finestre chiuse da pannelli di legno, uno dei corpi si stava alzando lentamente in piedi. Uno di loro l'aveva uccisa. Uccisa. L'ira che il numero nove aveva provato era niente se paragonata a ciò che stava provando adesso.
La mia pistola... dove diavolo è la mia pistola? Respingendo il
panico, Celluci scrutò il pavimento e infine l'avvistò, quasi sotto i piedi del cadavere. Fottutamente grandioso...
Alzatosi in piedi, si lanciò in avanti, si tuffò a terra, chiuse entrambe le mani intorno alla pistola e rotolò su se stesso,
premendo il grilletto quasi a bruciapelo. La pallottola attraversò i tessuti in putrefazione quasi senza perdere velocità e risuonò contro il rivestimento d'ottone della bombola di ossigeno retrostante, rimbalzò lungo la sua curva, colpì il serbatoio successivo e fece schizzare attraverso la stanza i frammenti della sua valvola. L'ossigeno cominciò a scaturire con un sibilo. — Gesù Cristo! — Ancora a terra, Celluci prese a strisciare all'indietro. Anche se pus e fluidi e Dio solo sapeva che altro si stavano riversando dal foro, il morto continuava ad avanzare con passo strascicato. — Cosa diavolo è questo? Un fottuto film di James Cameron? — Con le mani che gli tremavano troppo per tentare un tiro alla testa, guardò la seconda pallottola staccare un pezzo dalla curva esterna della coscia di quella cosa, senza effetti degni di nota. — Che Dio ti danni, resta morto! La terza pallottola attraversò di nuovo l'addome, risuonò contro l'ottone e generò delle scintille. E si scatenò l'inferno. Henry si gettò sopra Vicki. Celluci si appiattì al suolo. L'esplosione catapultò nell'aria i frammenti della bombola come pezzi di una granata, e parecchi dei più grossi si conficcarono nel numero nove, facendolo a pezzi. Ricordava la morte. L'ultima volta, lei era stata là, quando tutto era finito. Sperava che ci sarebbe stata di nuovo. Con un sibilo, i vapori di alcol presenti nell'aria si incendiarono, poi anche l'alcol prese fuoco, e subito dopo la scrivania. E la luce di emergenza si spense. A tentoni, Celluci tornò accanto a Vicki. — Questo fottuto posto è in fiamme, ma se non altro così possiamo vedere qualcosa — disse, socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco Henry, la pelle pallida del suo volto e del suo petto
a stento visibili nella luce incerta. — Stai bene? — Sì. — Vicki? Henry esitò, pregando di poter dire qualcosa di diverso e sapendo che non era possibile. — Sta morendo. — Morendo un accidente! — Strappatosi di dosso la giacca e la fondina della pistola, Celluci si sfilò la camicia dalla testa ignorandone i bottoni, la ripiegò a formare un rozzo tampone, con le maniche penzolanti, e la spinse verso Henry. — Lei ha detto che la tua saliva induce la coagulazione. — Sì, ma... — Allora sputa su questa e fascia quella ferita. Sei praticamente un fottuto pronto soccorso portatile. Tu fermi l'emorragia e poi la spostiamo. — È troppo... — Fallo! Anche se sapeva che non avrebbe comportato nessuna differenza, Henry prese la camicia e si chinò sulla lacerazione irregolare. Michael Celluci aveva vissuto meno di quarantanni e pensava ancora che si potesse lottare contro la morte. Quattrocentocinquanta anni avevano insegnato a lui una lezione diversa. In una lotta fra l'amore e la morte, la morte vinceva sempre. Poteva sentire la vita di Vicki fluire via, e sapeva che nulla di quello che avrebbero potuto fare avrebbe cambiato quella realtà di fatto. Mantenendo la pressione con le dita, applicò la bocca sulla lacerazione che continuava a fiottare sangue: almeno, quando lei fosse morta, avrebbe avuto il contatto con il suo sangue. Sei mortale, amore mio, pensò, mentre radicava nella memoria il tocco, l'odore e il sapore di lei. Ho sempre saputo che saresti morta, ma non avrei
mai immaginato che avremmo avuto così poco tempo.
Improvvisamente, le dita di Celluci gli affondarono nei capelli, infrangendo il contatto.
— Ti ho detto di fasciarla, dannazione! Non di prendere il poco sangue che le resta! — Toglimi le mani di dosso, mortale! — ingiunse Henry, ritraendo dai denti le labbra sporche di sangue. L'esplosione aveva strappato Vicki alla zona crepuscolare in cui il dolore e l'oscurità l'avevano fatta sprofondare. Non aveva creduto che si potesse soffrire così tanto ed essere ancora vivi. Poteva sentire i due uomini litigare, e lottò contro il peso che le gravava sulla lingua. — Mi... — Vicki? — Nel sentire la voce di lei, Celluci si dimenticò del tutto di Henry e si girò per prenderle il volto fra le mani. Il fuoco si stava protendendo a lambire i pannelli di legno delle finestre, ma lui lo ignorò, perché l'alto soffitto stava tenendo lontano il fumo e il tragitto fino alla porta continuava a essere sgombro. Finché non avesse costituito un pericolo immediato, il fuoco poteva essere ignorato di fronte a problemi più importanti. Il lucido metallo del contenitore di isolamento rifletteva il bagliore arancione delle fiamme, e grazie a quel chiarore Celluci vide le palpebre di Vicki tremolare, una, due volte. — Tieni duro, ti portiamo in ospedale.
All'ospedale? Lei avrebbe voluto dirgli che era inutile, ma non
sapeva come fare.
— Michael? — chiamò Henry, la cui ira era stata smorzata dalla sofferenza presente nella voce del detective, che faceva da eco alla sua. — Non c'è abbastanza tempo. — No. — Sarà morta prima ancora che tu riesca a portarla fuori da questo edificio. — No. — Posso sentire la sua vita che si affievolisce. — Ho detto di NO!
Ascoltalo, Mike, ha ragione lui. Vicki riteneva di stare ancora respirando, ma non poteva esserne certa. Se sono ancora qui, vuol dire che sto respirando, rifletté.
— Dannazione, Vicki, non morire!
Oh, Dio, Mike, non piangere. Aveva creduto di non poter stare
peggio di così, ma si era sbagliata.
— Ci deve essere qualcosa che possiamo fare! Henry sentì una morsa che gli si chiudeva intorno al cuore e stringeva. — No. — Una parola, due lettere che in qualche modo esprimevano tutto quello che stava provando. Attirato dal suono di una sofferenza intensa quanto la sua, Celluci sollevò lo sguardo a incontrare quello di due occhi nocciola che sembravano quasi d'oro alla luce del fuoco e che esprimevano una verità troppo amara per poterla negare: Vicki stava morendo.
Ho freddo. Ed è buio. E non è giusto. Adesso potrei dirvi che vi amo, potrei dirlo a tutti e due. L'amore è bastato a riportare indietro mia madre. Suppongo di non essere altrettanto forte. Il suo corpo pareva non appartenerle più, la carne l'avvolgeva come un vestito che le calzasse malamente. Oh, merda, non posso avvertire niente, e
questo mi scoccia, mi scoccia davvero. NON VOGLIO MORIRE!
Aprì gli occhi di scatto. Poteva vedere una forma familiare china su di lei, e le dita le tremarono, dolendo per il desiderio di allontanargli dal volto quel ricciolo ribelle. — Vicki? Vicki attinse forza da lui per riuscire a formare una singola parola. — Hen... ry. Quel nome trapassò l'anima di Celluci e la ridusse a brandelli con uncini affilati. Voleva Henry, non lui, era fra le sue braccia che voleva morire. Mordendosi un labbro per soffocare un grido, cercò di distogliere il volto ma non poté farlo: qualcosa negli occhi di lei lo stava trattenendo, qualcosa che insisteva perché lui capisse. Vicki vide l'affiorare improvviso del suo sorriso, e lo portò con sé nell'oscurità: aveva fatto quello che poteva, adesso dipendeva tutto da lui. Avendo sentito chiamare il proprio nome, Henry si stava
chinando in avanti quando Celluci sollevò la testa, un gesto che lo indusse a immobilizzarsi. Si era aspettato di scorgere sul suo volto il dolore per la scelta fatta da Vicki inciso sopra il dolore per la sua morte. Non si era aspettato di scorgere una folle, selvaggia speranza. — Trasformala! — Cosa? — Henry era esterrefatto. — Mi hai sentito! — incalzò Celluci, protendendosi al di sopra del corpo di Vicki per afferrarlo per l'impermeabile. — Trasformala! Trasformarla. Si era nutrito abbondantemente da lei appena poco tempo prima, e lo aveva fatto anche la notte precedente. Il suo sangue conteneva una quantità sufficiente di elementi di quello di lei perché il suo organismo potesse accettarlo, soprattutto dal momento che le rimaneva così poco sangue da rimpiazzare. Considerato lo stato in cui era, però, lui aveva abbastanza sangue per entrambi? Trasformarla. Se lo avesse fatto, l'avrebbe persa. Avrebbero avuto poco più di un anno, prima che la nuova natura di Vicki li costringesse a separarsi. — Fallo — implorò Celluci. — È la sua sola possibilità. D'un tratto, Henry si rese conto che lui non aveva idea di cosa comportasse il cambiamento, e che era anzi convinto dell'esatto contrario della verità, credeva che se Vicki fosse stata trasformata, l'avrebbe persa. Henry poteva leggere sul suo volto la consapevolezza di quella perdita, ma anche come lui fosse disposto a rinunciare a tutto per amore di Vicki.
Pensi che io abbia vinto, mortale, ma ti sbagli completamente. Se muore, la perderemo entrambi. Se cambia, la perderò soltanto io. — Henry, per favore.
E se tu puoi rinunciare a lei per amore, posso io essere da meno? Si chiese Henry Fitzroy, vampiro, figlio bastardo di Enrico VIII. Il suo cuore poteva permettere soltanto una risposta.
Portandosi alla bocca il proprio polso, si morse per aprire una vena. — Potrebbe non funzionare — avvertì, nel premere quella ferita contro quella più ampia della coscia di lei in modo da costringere il
flusso del proprio sangue a fare da barriera alla fuoriuscita di quello di Vicki. Un momento più tardi, sollevò il braccio e gettò di nuovo a Celluci la sua camicia con un gesto che scagliò una singola goccia carminia attraverso la stanza come un rubino abbandonato. — Fasciala strettamente. Questo potrebbe ucciderla nonostante i miei sforzi. Celluci obbedì e risollevò lo sguardo in tempo per vedere Henry aprirsi una vena al di sopra del cuore con il coltello multiuso di Vicki. Per quanto eseguito con un'arma così prosaica, quel gesto conservava l'aura di un antico rituale, e lui rimase a guardare, incapace di distogliere lo sguardo, mentre il sangue iniziava a sgorgare dal taglio, spiccando quasi nero sullo sfondo della pelle alabastrina. Insinuato un braccio sotto le spalle di Vicki, Henry la sollevò e le premette la bocca contro il proprio petto. La vita di lei si era ridotta a un lontano mormorio: non era ancora morta, ma ci era vicina, molto vicina. — Bevi, Vicki — disse, facendo di quelle parole un comando, infondendovi tutto ciò che lui era, nel sussurrarle contro i capelli di lei. — Bevi per vivere. Per un momento, temette che lei non potesse obbedirgli neppure se voleva farlo, poi le sue labbra si schiusero e lei deglutì. La propria reazione colse Henry del tutto alla sprovvista. Poteva ricordare vagamente cosa avesse provato quando Christina si nutriva da lui, ma quel ricordo non era neppure paragonabile alla sensazione quasi di estasi che stava avvertendo adesso. Barcollò, avvolse anche l'altro braccio intorno al corpo di lei e chiuse gli occhi. Quell'estasi non era sufficiente a compensare il fatto che alla fine l'avrebbe perduta, ma, per Dio, ci andava vicina. Celluci finì di legare la fasciatura improvvisata, con le mani che funzionavano senza bisogno di direttive coscienti da parte sua. In quella scena c'era qualcosa di così apertamente sessuale e di così straordinariamente innocente che lui non avrebbe potuto distogliere lo sguardo neppure se lo avesse voluto. Non che volesse farlo. Voleva accumulare ogni secondo di Vicki che avrebbe potuto raccogliere prima di dover affrontare il resto della vita senza di lei.
La luce del fuoco tingeva i capelli di Vicki del colore del miele, faceva danzare riflessi arancione lungo le pieghe di cuoio nero che l'avviluppavano e si rifletteva car— minia nelle polle del suo sangue sparse sul pavimento.
Gesù Cristo! Il fuoco! All'improvviso, quasi esso avesse atteso di essere ricordato, poté avvertire il calore che gli lambiva la schiena e che lo indusse a girarsi. L'intera parete di finestre chiuse da assi era in fiamme, e il fumo aveva una tinta verdastra e un sapore spiacevole, per il momento non importava se causato dalle sostanze chimiche rovesciate o dalla plastica che bruciava. Dovevano andarsene da lì. — Fitzroy ! Quella voce pareva giungere da molto lontano, ma aveva una nota di urgenza che era difficile ignorare. Henry aprì gli occhi. — Dobbiamo uscire di qui prima che tutto questo posto ci crolli addosso! Puoi trasportarla? Gli occhi di Henry impiegarono un momento a snebbiarsi, ma a poco a poco anche lui divenne consapevole del pericolo. Abbassò lo sguardo su Vicki, che stava ancora premendo la faccia contro il suo petto come un gattino appena nato, e si riscosse quanto bastava per riuscire a parlare. — Questa è una cosa che non avevo mai fatto prima d'ora, detective — disse, perché non gli rimanevano energie per niente altro se non la verità, e il tocco della vita di lei era ancora terribilmente tenue. — Sta morendo più lentamente di prima, ma sta ancora morendo. — Cristo! Che altro ci vuole? — Temo più di quanto io abbia attualmente da dare — ammise Henry, barcollando, un movimento che fece dondolare la testa di Vicki. — Ti ho detto che poteva non funzionare.
Fottutamente grandioso. Vicki stava ancora morendo, Fitzroy
aveva un aspetto spaventoso e l'edificio stava bruciando intorno a loro. Celluci tossì e si sfregò la faccia con un braccio. La dannata coppa non è mezza vuota, se io dico che è mezza piena. Raccolte da
terra la giacca, la fondina e la pistola, si alzò in piedi. — Se sta ancora morendo, allora non è morta — ribatté. — Cerchiamo di mantenere le cose in questo modo. Vieni ! Modificando la presa e reggendo Vicki fra le braccia come se fosse stata una bambina, Henry cercò di alzarsi in piedi e la stanza gli oscillò intorno. Con gli occhi che lacrimavano per il fumo, Celluci insinuò un braccio sotto un'ascella rivestita di cuoio e lo aiutò a sollevarsi da terra con il suo fardello. — Ce la fai a tenerla? — Sì. — A dire il vero, Henry non riteneva di poterla lasciar andare, ma non aveva abbastanza energie per spiegarlo. Sentendo le ginocchia che minacciavano di cedergli, si appoggiò al più massiccio mortale, e insieme si diressero barcollando verso la porta. Incapace di vedere dove metteva i piedi, Henry incespicò in qualcosa di umido, che non voleva neppure sapere cosa fosse, e per poco non cadde. — Oh, no, non ci provare. — Sforzando al massimo i muscoli, con il sudore che gli colava lungo il petto, Celluci riuscì in qualche modo a mantenere tutti e tre in piedi e in movimento. — Dopo tutto quello che abbiamo passato questa notte, non è ancora il fottuto momento di arrendersi. Con le braccia strette intorno a Vicki, trattenendo la vita di lei con la propria, Henry riuscì a scovare da qualche parte la parvenza di un sorriso. — Mai darsi per spacciati, detective? — Puoi dirlo forte — ringhiò Celluci, scrollando la testa per allontanarsi i capelli dalla faccia nel guidare gli altri due fuori del laboratorio. Mentre scomparivano lungo il corridoio, la porta del magazzino si aprì e la dottoressa Burke avanzò nel laboratorio, tossendo e incespicando. — Questa — dichiarò, — è una serata davvero edi... ficante. Chi ha detto che chi ori... glia non sente mai niente di interessante? —
Asciugandosi con la manica il naso e gli occhi che lacrimavano, prese ad avanzare con cautela fra il fumo e i detriti, verso la porta. A giudicare da quanto aveva sentito, la figlia di Marjory Nelson e i suoi compagni avevano dei problemi, che potevano essere facilmente usati per convincerli che era meglio lasciare in pace la dottoressa Aline Burke, che il suo coinvolgimento in tutta quella sordida faccenda era stato meramente casuale. Donald era morto. Non voleva che Donald fosse morto, ma a rifletterci sopra, non c'era niente che potesse fare al riguardo. Perché doveva soffrire lei a causa del fatto che Donald era morto? Anche Catherine era morta, e costituiva quindi un comodo capro espiatorio. — Non avevo idea di cosa stesse succedendo, vostro onore — disse, cominciando a ridacchiare e finendo per tossire. Quali che fossero, i prodotti chimici che stavano bruciando erano senza dubbio tossici. — Avanti, bruciate — ordinò, — e intanto date a Catherine e ai suoi amici un bel funerale vichingo... — Un accesso di tosse la fece piegare su se stessa. Barcollando, si addossò al contenitore di isolamento e si accasciò contro di esso, lo stomaco sconvolto da conati di vomito. — E intanto — ripeté, quando ebbe ripreso fiato e inghiottito un boccone di bile, — distruggete quante più prove possibile. Un piccolo ricatto vampirico, una piccola... qual è la parola?... con... fla... grazione e ne uscirò senza gravi danni alla carriera. — Il suo riflesso circondato dalle fiamme appariva compiaciuto e soddisfatto, e lei sorrise a esso, battendosi un colpetto sulla guancia. Il contenitore stava diventando caldo al tatto, e lei aveva le pelle del volto e delle mani che si stava inaridendo per il calore sempre più intenso. Era ora di andarsene. A testa china per evitare il grosso del fumo che scendeva ora in fitte volute dal soffitto, tossendo quasi di continuo, si avviò verso la porta, sollevando i piedi con l'eccessiva cautela propria degli ubriachi per scavalcare parti di cadaveri. Poi vide il dischetto, che sporgeva per metà dal camice da laboratorio di Christine e spiccava molto azzurro sullo sfondo bianco
chiazzato di sangue. Esso poteva contenere soltanto una cosa: la copia dei test effettuati quel pomeriggio sul vampiro, perché cos'altro poteva essere tanto importante per Catherine da indurla a portarselo dietro?
Solo questo pomeriggio. Sembra sia passato così tanto tempo. Con una mano appoggiata all'estremità del contenitore
d'isolamento per compensare il proprio equilibrio non proprio stabile, la dottoressa Burke si chinò a raccogliere il dischetto, che non sembrava danneggiato e, essendo stato riparato dalla curva del corpo di Catherine, non era neppure troppo caldo. Nel metterselo in tasca, si rese conto di colpo che non solo sarebbe uscita da quella storia con la carriera intatta, ma che era ora in possesso di informazioni per le quali la comunità scientifica le avrebbe elargito grandi onori.
Qualche semplice esperimento, pensò con un ampio sorriso, e il Premio Nobel sarà... Incredibilmente, una delle bombole di ossigeno non era stata danneggiata quando la precedente esplosione l'aveva scaraventata dall'altra parte del laboratorio, dove era rimasta coperta in parte sotto il contenitore di isolamento, al sicuro dalla principale fonte di calore. Adesso però la temperatura stava salendo e la valvola di plastica cominciava infine a sciogliersi. Il colletto di metallo sottostante si dilatò in maniera davvero minima, ma sufficiente. L'esplosione scaraventò la dottoressa Burke a terra, da dove lei vide con orrore una gigantesca mano invisibile sollevare il contenitore di isolamento e farlo ricadere con impossibile lentezza di traverso sulle sue gambe. Sentì le ossa che si rompevano, un momento più tardi avvertì il dolore, e scivolò nell'oscurità. Quando la luce tornò, si trattò di quella rossastra delle fiamme in avvicinamento, e lei constatò che era passato pochissimo tempo. Non avvertiva più quel che restava delle sue gambe. — D'accordo. Non mi servono le gambe. La mano protesa di Catherine aveva cominciato a sfrigolare. — Non ho bisogno delle gambe, ho bisogno di uscire di qui.
Il contenitore di isolamento era adagiato su un lato, e la curva le avrebbe dato un po' di spazio di manovra. Se solo fosse riuscita a spingere contro di esso, avrebbe potuto liberare le gambe e strisciare fuori della stanza, lontano dalle fiamme. Non aveva bisogno delle gambe. Issandosi in posizione seduta, spinse contro il contenitore che, annidato com'era su una superficie irregolare, oscillò. Qualcosa sotto di esso emise un rumore spiaccicato, ma non aveva importanza. Le fiamme stavano lambendo la manica del camice di Catherine, e al di sopra dell'odore chimico del fumo si sentiva una puzza di carne che arrostiva. Deglutendo a fatica, percosse il contenitore. Esso dondolò ancora, e la chiusura, che il numero nove aveva girato parzialmente, cedette. Il coperchio si aprì, spingendola a terra nel sollevarsi sui cardini silenziosi, e il corpo che l'esplosione aveva proiettato contro di esso le precipitò in grembo. Il nudo guscio vuoto di Donald Li rotolò una volta e si andò a fermare nel cerchio delle sue braccia, la testa gettata all'indietro in modo da dare l'impressione che la stesse fissando. Quando la raggiunsero, le fiamme troncarono infine le sue urla. — Cristo! — urlò il detective Fergusson, riparandosi dietro la propria macchina quando l'esplosione scagliò fino in strada pezzi di legno in fiamme e di metallo surriscaldato. — La prossima volta aspetterò il mattino per indagare sulla confessione di un'ubriaca! — Afferrata la radio, chiamò i vigili del fuoco con una freddezza che non corrispondeva affatto al suo stato d'animo.
— ... e un'ambulanza! — concluse. Sperava di sbagliarsi, ma gli pareva di sentire delle urla. — E adesso cosa facciamo? — Sono da poco passate le due. Mi devo nutrire, e fra circa un'ora dovrò nutrire lei, se sarà ancora viva. Poi dovrò riportarla a
Toronto prima dell'alba. — Perché a Toronto? Perché non può rimanere qui? Henry si accasciò su un'estremità del letto, sentendosi la testa quasi troppo pesante per riuscire a sollevarla. — Perché se si trasformerà, avrò bisogno di poterla tenere in un posto sicuro, e questo non lo è — spiegò, accennando stancamente all'appartamento con un braccio sporco di sangue. — E se invece... se invece... — Dovesse morire — interloquì Celluci in tono privo di emozione, fissando la forma inerte di Vicki. Gli sembrava che il mondo si fosse inclinato lateralmente di alcuni gradi, e che a lui non rimanesse altra scelta che quella di sforzarsi di mantenere l'equilibrio nonostante la pendenza. — Sì — annuì Henry, inespressivo in volto quanto il detective, perché sapeva che se la facciata si fosse crepata proprio adesso, questo li avrebbe travolti tutti. — Se dovesse morire, dovrò liberarmi del corpo, e per poterlo fare dovrò essere in una città che conosco. — Liberarti del corpo? — Se non lo facessi, la sua morte sarebbe piuttosto difficile da spiegare, non credi? Ci sarebbero un'autopsia, un'inchiesta e domande a cui non sarà possibile dare risposta. — Quindi lei scomparirà, semplicemente... — Sì. Un altro mistero irrisolto. — E io mi dovrò comportare come se non sapessi se lei è viva o morta. — Piangila per morta, detective — disse Henry, sollevando la testa e lasciando trapelare nella voce una sfumatura del suo potere. Celluci non finse neppure di far finta di non aver capito. Distolto lo sguardo da Vicki, incontrò avventatamente quello del vampiro. — Dovrei piangerla comunque? Fottiti. Tu mi farai sapere che ne è stato di lei, Fitzroy, e se scomparirà perché è morta, la piangerò, mentre se scomparirà nella notte con te, io... — Celluci fece una
pausa, un muscolo che gli si contraeva lungo la mascella. — Io sentirò la sua mancanza come la sentirei di una parte di me stesso, ma non piangerò, se non sarà più morta di quanto lo sia tu. Da quando l'avevano trovata morente nel laboratorio, Henry aveva preso a misurare il passare del tempo sulla base del battito del cuore di Vicki; esso batté tre volte mentre lui indugiava a studiare l'anima di Mike Celluci. — Parli sul serio — disse infine. Gli riusciva difficile crederci, ma trovava impossibile non farlo. — Già. — La gola di Celluci si contrasse su quella singola parola e lui deglutì, lottando per mantenere il controllo. — Dico sul serio. — Poi d'un tratto sgranò gli occhi e chiese: — Cosa significa che hai bisogno di nutrirti? — Ormai dovresti sapere cosa questo significhi. — Da chi? — Potrei cacciare — opinò Henry... solo che era spaventosamente stanco. Quella notte era già durata più a lungo di qualsiasi altra che riuscisse a ricordare, e comunque gli sembrava uno spreco cacciare quando c'era... permise al proprio potere di affiorare un po' di più. — Smettila, so cosa stai cercando di fare. — Con uno sforzo, Celluci liberò il proprio sguardo e lo riportò sulla donna adagiata sul letto: lei era ancora viva, e la sola cosa veramente importante era mantenerla tale. Nel laboratorio aveva preso una decisione, e adesso intendeva continuare ad attenervisi. — Se però questo include qualsiasi altra cosa a parte il succhiare sangue, ordinati del fottuto cibo da asporto. Henry sentì le sopracciglia che gli si inarcavano per lo stupore, di fronte a quell'offerta. — Non è necessario che la cosa includa altro a parte il succhiare sangue, detective. Ciò di cui ho bisogno non è tanto di nutrirmi quanto di rinnovare le scorte di carburante. — Allora va bene. — Liberatosi della giacca, Celluci la posò rivoltandola con cura dal lato della fodera per non macchiare la
moquette e cominciò ad arrotolarsi la manica. — Vuoi il polso, giusto? — Sì — confermò Henry, scuotendo il capo, meraviglia e rispetto che gli trapelavano in pari misura dalla voce. — Sai, in quattro secoli e mezzo di vita non avevo mai incontrato un uomo come te. Nonostante tutto, mi offri il tuo sangue? — Sì, nonostante tutto. — Lanciata un'ultima occhiata a Vicki, Celluci si volse e si sedette sull'altro lato del letto. — A rischio di suonare offensivo — sospirò, — devo confessare che dopo quello che abbiamo passato stanotte, questo non mi sembra poi granché. Inoltre, lo sto facendo per lei. Per quanto mi riguarda, in questo momento tu sei soltanto una branca primitiva della Croce Rossa. Fa' quello che devi. Accettando il braccio che gli veniva offerto, Henry sollevò lo sguardo su Celluci, con gli occhi incupiti e un vago accenno di sorriso. — Sai, detective — commentò, — è un vero peccato che ci siano così tante cose che ci separano. Celluci avvertì l'insorgere del calore e scosse il capo, allontanando il ricciolo di capelli dalla fronte. — Non sfidare la fortuna, razza di figlio di buona donna nonmorto — ringhiò. Henry si soffermò nell'atto di trasportare fuori dalla porta Vicki, la cui vita era ancora in precario equilibrio su una lama di rasoio. — Non ti rode che alla fine lei abbia scelto me? — chiese, incapace di andarsene senza sapere. Celluci allungò una mano e sistemò con gentilezza gli occhiali di Vicki nella tasca del suo cappotto; la vali— già e la borsetta erano già state caricate sulla macchina di Henry. — Non ha scelto te — ribatté, indietreggiando e tormentandosi la fasciatura intorno al polso. — Ha scelto la sola possibilità che aveva di sopravvivere, e rifiuto di risentirmi di questo. — Potrebbe ancora morire.
— Provvedi che non succeda. Un migliaio di pensieri si accalcarono fra un esitante battito di quel debole cuore e il successivo. — Farò del mio meglio. Celluci annuì, mostrando di riconoscere la sincerità di quelle parole, poi si chinò in avanti e baciò delicatamente Vicki sulle labbra che sembravano già meno calde di quanto fossero state. — Addio, Vicki — mormorò. E non riuscì ad aggiungere altro. Si occupò lui del detective Fergusson, spiegando che Vicki aveva avuto un piccolo crollo nervoso, del tutto comprensibile in quelle circostanze, ed era tornata a Toronto con un amico. — Provvederò io a farle sapere cosa è successo... Fu sempre lui a occuparsi del contenuto dell'appartamento di sua madre, chiamando un banditore di aste patrimoniali e mettendo tutto nelle sue mani. — Pensi solo a vendere tutto. Il denaro verrà affidato all'avvocato finché il testamento non sarà stato omologato, quindi non ci sono problemi — spiegò. Poi si occupò anche del signor Delgado. — Dalla mia finestra l'ho vista andare via in macchina con lui — affermò il vecchio, fissandolo e scuotendo il capo. — Cosa è successo? Per un momento, uno solo, Celluci desiderò dirgli tutto, perché sentiva il disperato bisogno di parlarne con qualcuno, ma per fortuna quel momento passò. — Esiste un vecchio detto, signor Delgado: "Se ami qualcosa, lascialo andare" — rispose invece. — Conosco il detto, una volta l'ho letto su una T— shirt, ma sono vaccate, se perdona l'espressione — ribatté Delgado, continuando a scuotere la testa come se essa fosse stata la sola parte mobile di un antico orologio. — Quindi lei ha fatto la sua scelta. — Noi tutti ne abbiamo fatta una.
Poi affrontò il messaggio, quando infine arrivò, e ringraziò Dio di dover avere a che fare soltanto con la voce di Fitzroy registrata sulla segreteria, perché anche solo questo era sufficiente a turbarlo. Cercò di essere felice che lei fosse ancora viva, si sforzò al massimo, e quasi ci riuscì. Fu per puro caso che scoprì come stavano andando avanti le cose. Non era stata sua intenzione passare nelle vicinanze dell'appartamento di lei, perché era una cosa stupida e quasi macabra, dato che sapeva che Vicki non c'era. Era tornato in quell'appartamento una sola volta, la notte stessa in cui era rientrato da Kingston, per portare via le proprie cose, e senza sapere il perché aveva prelevato dal comò di Vicki una fotografia di loro due che detestava. Arrivato a casa, l'aveva riposta su un alto scaffale del corridoio e non l'aveva più guardata. Però sapeva di averla. — Ehi, detective — chiamò un'ombra snella, distaccandosi dall'ampio tronco di un vecchio castagno e avanzando sul marciapiede. — È inutile andare là dentro. Le sue cose non ci sono più e suppongo che la prossima settimana arriveranno dei nuovi inquilini. — Cosa ci stai facendo qui, Tony? — Ero passato a lasciare giù la chiave — spiegò il giovane, scrollando le spalle, — e quando l'ho vista svoltare l'angolo ho pensato di aspettare e di risparmiarmi un viaggio. Ho un messaggio per lei. — Un messaggio — ripeté Celluci, incapace di chiedere da parte di chi esso fosse. — Sì. Henry mi ha incaricato di dirle che lei è stato uno degli uomini più onorevoli che abbia mai conosciuto, e che desiderava che le cose potessero essere state diverse. — Diverse. Già. Bene. Tony scoccò un'occhiata al detective con la coda dell'occhio e nascose la propria delusione. Henry non aveva voluto dirgli cosa avesse inteso con quel diverse, se si fosse riferito a Vicki o a chissà che altro, e adesso pareva che Celluci intendesse fare altrettanto. Anche se gli era stato raccontato a grandi linee quello che era
successo a Kingston, non ne conosceva i dettagli, e la curiosità lo stava quasi uccidendo. — Henry voleva anche che le dicessi che un anno è una piccola fetta di eternità. Celluci sbuffò e si incamminò lungo Huron Street, cercando di distrarsi con il movimento. — E questo cosa diavolo significa? — domandò, mentre Tony gli si incamminava accanto. — Non ne ho idea — ammise il ragazzo, — ma è quello che lui mi ha chiesto di riferirle. Ha detto che in seguito avrebbe capito. — Fottuto scrittore di romanzi rosa — commentò Celluci, sbuffando ancora. — Già. Certo. — Quando arrivarono all'angolo con Cecil Street senza che il detective avesse aggiunto altro, Tony sospirò: — Per lo più, lei dorme. — Chi dorme? — chiese Celluci, un muscolo che gli si contraeva lungo la mascella. — "Vittoria." Henry è ancora molto preoccupato per lei, ma pensa che andrà tutto per il meglio, adesso che il buco nella sua gamba è finalmente guarito. Stiamo per trasferirci a Vancouver. — State? — Già. Al momento lei è del tutto indifesa, e hanno bisogno di qualcuno che si possa muovere sotto il sole. E poi... — Non importa — tagliò corto Celluci. Vancouver. Dall'altra parte del Paese. — Perché? Per l'aria di mare? — No, perché nessuno la riconosca quando comincerà a cacciare. Pare che all'inizio ci si sporchi parecchio. — Digli che è improbabile che lei impari a essere più pulita e ordinata — consigliò Celluci, sulla base di un migliaio, o forse anche di due migliaia, di pasti consumati insieme. — Glielo dirò — ridacchiò Tony. — Ha qualche messaggio per lei? — Dille... — cominciò Celluci, poi la voce gli si spense e lui parve
fissare qualcosa che Tony non era in grado di vedere. Subito dopo, il volto gli si contrasse e con le labbra serrate in una sottile linea bianca lui girò sui tacchi, allontanandosi in fretta. Per un momento, Tony rimase fermo a osservarlo, poi annuì. — Non ti preoccupare, amico. Glielo dirò. Di nuovo, Celluci si occupò di tutto quando il detective Fergusson chiamò da Kingston per l'inchiesta. — Senta, so che si è trasferita a Vancouver, ma a parte questo non so niente altro. — L'ha scaricata, eh? — commentò Fergusson, saltando all'ovvia conclusione. Per tutta risposta, Celluci strappò via il telefono dal muro della cucina e lo scaraventò fuori dalla porta posteriore. Alcuni giorni più tardi, dopo che era stato arrestato da un paio di agenti per aver cercato di gareggiare con un jet lungo la pista di decollo del Downsview Airport, con il sedile posteriore della macchina coperto di bottiglie vuote, lo psicologo della polizia avanzò l'ipotesi che lui stesse soffocando dentro di sé delle intense emozioni. Ancora tormentato da dolorosi postumi da sbornia, Celluci resistette a stento all'impulso di soffocare lo psicologo della polizia. — Spero che lei valga il fatto che stai gettando nel cesso la tua carriera, perché è questo che stai facendo. — L'ispettore Cantree si protese in avanti con tanta forza da far scricchiolare la sedia e fissò Celluci con occhi roventi. — Sai che cosa ho qui? — continuò, calando con violenza una grossa mano sulla cartella posata nel centro della sua scrivania. — Lascia perdere, te lo dico io: ho un rapporto dello strizzacervelli del dipartimento, nel quale lui sostiene che sei pericolosamente instabile e che non ti si dovrebbe permettere di circolare armato. Con le labbra serrate in una bianca linea sottile, Celluci accennò a sfilarsi la fondina da spalla. — Rimettiti quel fottuto arnese! — scattò Cantree. — Se avessi intenzione di dare ascolto a quel pomposo ciarlatano, ti avrei tolto il
distintivo giorni fa. Celluci si allontanò il solito ricciolo dalla fronte e cercò di ignorare quanto quel gesto gli ricordasse lei. — Sto bene — ringhiò. — Stronzate! Vuoi dirmi cosa c'è che non va? — Non c'è niente che non vada — dichiarò Celluci, in un tono che sfidava Cantree a sostenere il contrario, anche se lui lo stava già facendo con l'espressione del suo volto. Celluci aveva sentito le voci che circolavano riguardo all'affrettato trasferimento dell'ex— detective Vicki Nelson sulla costa occidentale, voci che gli erano giunte di seconda o di terza mano, perché nessuno aveva avuto il fegato di avanzare ipotesi in sua presenza. A quanto pareva, anche Cantree le aveva sentite. — È una cosa personale. — No, non lo è se influenza il tuo lavoro — ribatté l'ispettore, protendendosi in avanti e catturando lo sguardo di Celluci con il proprio. — Quindi ecco che cosa farai. Ti prenderai almeno un mese di licenza, te ne andrai fuori città per scoprire dov'è che hai lasciato il tuo cervello, poi tornerai a fare un'altra piccola chiacchierata con il dottor Freudenstein. — E se non volessi andare ?— borbottò Celluci. — Se non ti prendi quella licenza — sorrise Cantree, — ti sospenderò per un mese senza paga. In un modo o nell'altro, sei fuori di qui. Alla centrale di polizia, le scommesse davano tre a uno che la licenza di Celluci sarebbe iniziata con la prenotazione sul primo volo disponibile per Vancouver, e parecchie persone persero grosse cifre di denaro. Una settimana dopo il colloquio nell'ufficio di Cantree, infatti, Celluci si ritrovò ad accompagnare la sua anziana nonna su un aereo diretto in Italia, per una rimpatriata in famiglia. — Gesù, è bello riaverti qui, Mike — dichiarò Dave Graham, con un sorriso che minacciava di slogargli la metà inferiore della faccia.
— Voglio dire, se mi rifileranno un altro collega temporaneo come l'ultimo, sarò io a prendermi sei settimane di vacanza! — Chi diavolo ha lasciato macchie di caffè su tutta la mia scrivania? — D'altra parte — continuò Dave, in tono riflessivo, mentre Celluci cominciava ad accusare i colleghi di aver messo le mani fra la sua roba, — in tua assenza, qui c'era molta più quiete. — Hai intenzione di comprare uno di quelli, Mike? — Cosa? — domandò Celluci, sollevando lo sguardo dai volumi tascabili sull'espositore per fissare il collega con aria accigliata. — Ecco, li stai fissando da cinque minuti, quindi ho pensato che forse volessi dedicarti a qualche lettura leggera — spiegò Dave, protendendosi verso il volume, sulla cui copertina un gigante biondo teneva fra le braccia una brunetta seminuda. — Vele verso il Destino, di Elizabeth Fitzroy. Sembra un libro di successo. Credi di conoscere qualcuno... — continuò, rigirando il libro fra le mani, — pensi di conoscere i suoi gusti, e poi scopri una cosa del genere. Pensi che alla fine il Capitano Roxborough e questa Veronica si metteranno insieme, o è una cosa scontata dall'inizio? — Gesù Cristo! Siamo in un centro commerciale! Qualcuno potrebbe vederti — sibilò Celluci, afferrando il libro e rimettendolo al suo posto. — Ehi, sei tu quello che si è fermato a guardare — protestò Dave, mentre riprendevano a camminare. — Sei stato tu a... — Conosco l'autrice, d'accordo? E adesso piantala. — Conosci l'autrice? Credevo non sapessi neppure leggere — commentò Dave, mentre osservavano un gruppetto di adolescenti passare oltre ed entrare in un negozio di abbigliamento sportivo. — Allora, lei com'è? Vive a Toronto?
È un vampiro, e vive a Vancouver. — Ti ho detto di piantarla. C'erano frammenti di Vicki sparsi per tutta la città, e ogni volta
che si imbatteva in uno di essi, nel suo vecchio quartiere, nella sua caffetteria preferita, in un ladro che aveva arrestato, questo strappava la crosta alla sua ferita e minava la sua capacità di tirare avanti. E adesso stava cominciando a trovare in giro anche frammenti di Fitzroy, e ogni copia di quel libro che vedeva era come una manciata di sale nelle sue ferite. Per fortuna, era diventato più abile a nascondere la propria sofferenza. Aveva perfino convinto lo psicologo del fatto che ora stava bene. "... e a Vancouver continuano gli omicidi dello Stanley Park. Un altro noto trafficante di droga è stato trovato vicino alla sala da tè di Ferguson Point. Come nelle tre precedenti occasioni, pare che la testa sia stata strappata dal corpo, e fonti vicine all'Ufficio del Coroner riferiscono che, ancora una volta, il corpo è stato dissanguato." Celluci serrò le dita intorno alla lattina di birra che aveva in mano, accartocciandola; con l'attenzione concentrata sulla televisione, non si accorse neppure del liquido che gli colava dalla mano sul tappeto. "La polizia continua a brancolare nel buio, e uno degli agenti che stavano tenendo d'occhio la sala da tè nel periodo di tempo in cui si è verificato l'omicidio ha ammesso spontaneamente di non aver visto nulla. Le ipotesi avanzate dalla stampa vanno dalla probabilità che una nuova banda potente si sia insediata nell'area di Vancouver e stia rimuovendo la concorrenza, alla possibilità che un sasquatch infuriato si stia aggirando nel parco. "A Edmonton..."
Dissanguato. Celluci tolse l'audio e rimase a guardare con occhi
fissi il cronista della CBC che continuava in silenzio a leggere il notiziario nazionale. Non un sasquatch. Un vampiro. Una nuova, giovane vampira che stava imparando a nutrirsi, che strappava via la testa... cosa che Fitzroy era abbastanza forte da riuscire a fare... per nascondere i primi, frenetici segni dei denti e che lasciava i trafficanti
di droga nel parco per dare un avvertimento. Lui non faticava a vedere Vicki, in tutto questo. — Dannati vigilantes vampiri — borbottò, attraverso denti talmente serrati da fargli dolere le tempie. Prima di conoscere Fitzroy, Vicki era stata consapevole che la legge era uno dei concetti che tenevano a bada il caos, e per quanto potesse aver desiderato di poter decapitare qualcuno degli scarafaggi a due gambe che si aggiravano nei quartieri malfamati della città, non si sarebbe mai fatta giustizia da sola. Fitzroy aveva cambiato quel suo modo di vedere ancora prima di cambiare lei. Vicki era viva, ma cosa era diventata? E perché a lui importava? Celluci non voleva affrontare la risposta a nessuna di quelle due domande. Mentre la TV continuava a offrire le sue immagini silenziose, aprì una bottiglia di Scotch e procedette metodicamente a cercare l'oblio. Il tempo passò, ma solo perché non c'era modo di arrestarlo. Per un po', rimase ferma a osservare l'ombra di lui che si muoveva dietro le persiane, sentendosi il petto come stretto in una morsa, tanto che se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe pensato di essere molto spaventata. — Il che è ridicolo — si disse, mentre si asciugava i palmi sui jeans, un movimento non dettato più dal bisogno ma dall'abitudine, poi si avviò lungo il vialetto, perché aspettare avrebbe solo peggiorato le cose. Quando bussò, il colpo risultò più rumoroso di quanto fosse stata sua intenzione, perché non aveva ancora un pieno controllo della propria forza, ed echeggiò su e giù per la strada silenziosa. Poi lo sentì avvicinarsi alla porta, contò i battiti del suo cuore mentre abbassava la maniglia, e cercò di non ritrarsi con un sussulto di fronte alla luce improvvisa. — Vicki. Le pareva di non aver più sentito pronunciare il proprio nome da
un tempo molto lungo, e la sua reazione fu tale da impedirle di registrare quella di lui. Con uno sforzo, riuscì a mantenere una voce più o meno calma. — Non commentò.
sembri
particolarmente
sorpreso
di
vedermi
—
— Ho sentito cosa è successo la scorsa notte a Gowan e a Mallard. — Non è stato più di quanto meritassero, o più di quanto dovessi loro. — I giornali dicono che sopravviveranno entrambi. — Bene, voglio che vivano con quel ricordo — annuì lei, la notte che traspariva per un momento dal suo sorriso, mentre si passava di nuovo le mani sui jeans, questa volta per ripulirle da vecchi debiti. — Posso entrare? Celluci si ritrasse dalla porta. Lei appariva più magra e più pallida, e i suoi capelli erano diversi. Ci volle un momento perché lui registrasse il cambiamento più evidente. — I tuoi occhiali? — Non mi servono più, il che è un bene — sorrise Vicki... il sorriso che lui ricordava. Nel chiudere la porta dietro di lei, Celluci si sentì come la vittima di un'amputazione che al risveglio avesse scoperto che le erano ricresciute le gambe; gli pareva di non riuscire a respirare, e impiegò un momento a rendersi conto che lo strano senso di perdita che stava avvertendo era l'assenza di dolore. Quasi gli parve di sentire lo scatto con cui il pezzo che era stato staccato a forza dalla sua vita tornava a incastrarsi al suo posto. — Sai, quella notte, nel laboratorio, non ho neppure pensato ai potenziali problemi connessi alla RP — continuò lei, precedendolo in cucina. — Riesci a immaginare un vampiro privo di visione notturna? Dio, che disastro sarebbe cercare di mordere usando il sistema braille. — Stai farfugliando — osservò lui, laconico, mentre Vicki si girava a fronteggiarlo.
— Lo so. Scusami. Si fissarono a vicenda per un lungo momento, mentre una quantità di cose che dovevano essere dette venivano discusse in silenzio. — Henry ti deve delle scuse — affermò infine Vicki, — perché non ti ha mai spiegato che i vampiri non possono rimanere insieme, una volta che il cambiamento è completo. — Sono passati quattordici mesi. — Mi dispiace. Ho avuto una partenza lenta. — Non sono certo di capire — osservò Celluci, accigliandosi. — Non puoi rivederlo mai più? — Lui dice che non vorrò farlo. Che entrambi non lo vorremo. — Quel bastardo avrebbe potuto dirmelo — borbottò lui, passandosi una mano fra i capelli. "Henry voleva che le dicessi che un anno è una piccola fetta di eternità." Traendo un profondo respiro, si chiese poi cosa avrebbe fatto, se le loro posizioni fossero state invertite. — Lascia perdere, Henry non mi deve niente, e comunque quel figlio di buona donna si è già scusato. — Davvero? — commentò Vicki, dubbiosa. — Ebbene, per quanto mi riguarda non intendo accettare questa fesseria di una tragica separazione, anche se non possiamo condividere lo stesso territorio. — Erano parole coraggiose, ma non era del tutto sicura che significassero qualcosa, che la sua nuova natura le avrebbe permesso di conservare un legame senza un rapporto di sangue.
"Non intendo rinunciare a te senza lottare." Henry volse le spalle alle luci della nuova città e scosse tristemente il capo. "Lotterai contro te stessa, Vicki, contro ciò che sei, che siamo." "E allora?" ribatté lei, a testa alta. "Io non mi arrendo, Henry, a niente e a nessuno." — Lui ha un cellulare e ha appena comprato un fax, Dio santo. Credo che riusciremo a rimanere in contatto. — Davvero? — ribatté Celluci, puntellando un fianco sul piano di
cucina e incrociando le braccia sul petto. — Non hai mai chiamato me. — Fino a poco tempo fa, non potevo farlo, perché all'inizio le cose sono state un po' caotiche, e dopo... — Esitò, grata di aver perso la capacità di arrossire. — Dopo ho avuto paura. Prima di allora, Celluci non le aveva mai sentito ammettere una cosa del genere. — Paura di cosa? Vicki sollevò lo sguardo, e lui lesse la risposta nel disperato interrogativo che poteva leggerle negli occhi. — Vicki... — disse, trasformando quel nome in una gentile accusa. Non potevi fidarti di me? — Ecco, adesso sono diversa, e... perché ridi? Quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva riso in quel modo? Aveva il sospetto che fossero passati all'incirca quattordici mesi. — Se è tutto qui quello che ti preoccupa, Vicki, tu sei sempre stata diversa. L'interrogativo svanì, sostituito dalla speranza. — Quindi non ti importa? — Mentirei se dicessi che non mi ci vorrà del tempo per abituarmici, ma no, non mi importa. — Importargli? Non c'era granché a cui non potesse abituarsi, se questo significava riaverla accanto. — Non sarà come prima. — Non mi dire. — Henry sostiene che può essere meglio. — Non mi interessa quello che sostiene Henry. — Non sarà come mettere su casa e avere la famiglia che volevi. — Non mi dire quello che volevo — ribatté lui, scendendo dal piano della cucina. — Io volevo te. Lei aprì le braccia, i denti un invito di un bianco molto intenso
lungo la curva della sua bocca. Celluci la incontrò a mezza strada. Scivolarono per terra insieme. Due ore e ventitré minuti più tardi, con la testa posata contro la spalla di lui, Vicki stava fissando il soffitto della cucina. Nel corso degli ultimi quindici mesi aveva creduto di essere venuta a patti con quello che era diventata, una vampira, una figlia dell'oscurità, una creatura della notte, ma in realtà non lo aveva fatto, non realmente, finché i suoi denti non si erano incontrati attraverso una piega della pelle di Mike Celluci e lei non aveva assorbito la sua vita dentro di sé. Leccò una goccia di su— dorè, sentendo il respiro di lui che le alitava caldo sopra la testa, il suo odore che la avviluppava. — A cosa stai pensando? — domandò lui, con voce assonnata. Vampira. Figlia dell'Oscurità. Creatura della Notte. Vicki si protese ad allontanargli il ricciolo dalla fronte e sorrise. — Stavo solo pensando ai prossimi quattrocentocinquanta anni — rispose.