JANINE BOISSARD PER UN BAMBINO CHE NON C'È (Priez Pour Petit Paul, 2001) Prima parte Prega per il piccolo Paul 1. Spunta...
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JANINE BOISSARD PER UN BAMBINO CHE NON C'È (Priez Pour Petit Paul, 2001) Prima parte Prega per il piccolo Paul 1. Spuntava l'alba quando l'uomo fermò la sua auto sul ciglio della strada che conduceva al lago. Fece attenzione a non sconfinare nella banchina, non bisognava lasciare tracce di pneumatici. Aveva pure pensato a calzare scarpe dalle suole lisce, di cui, per maggior precauzione, si sarebbe sbarazzato la sera stessa. Spense i fari e smontò. L'aria era frizzante, pungente, impregnata del profumo degli abeti, alberi che alcuni trovano funebri. A lui invece davano una sensazione di tranquillità. Presto sarebbe arrivato l'autunno. Il tempo sarebbe stato bello come il giorno precedente? Ci sarebbero stati dei gitanti? La stagione dei gallinacci e dei porcini cominciava, quella della pesca finiva. Il suo primo ricordo del Giura: una trota ai porcini. Non che attribuisse ormai molta importanza al cibo, ma assaporando i gusti mescolati di terra e di acqua gli era sembrato di comunicare con l'anima di quella regione selvaggia e altera, fatta di grotte, di cascate, di valli cieche, disseminata di nascondigli inespugnabili, che aveva scelto per fermarvisi un po'. Passò dietro l'auto e aprì il bagagliaio. Il sacco a pelo c'era entrato a stento. Meccanicamente tese l'orecchio. Dopo tante grida, ingiurie, minacce, il silenzio che ne emanava quasi lo sorprendeva. Perché le cose erano andate così? «Mi lasci andare, non ha il diritto, racconterò tutto...» Nient'altro che odio, mentre lui chiedeva soltanto un po' di pazienza e di compassione. Si chinò, fece scivolare le mani guantate sotto il sacco e lo estrasse, badando che non prendesse colpi. Il corpo era ancora tiepido, elastico. Non vi avrebbero trovato alcuna traccia di violenza. Nessuno avrebbe potuto dire che il bambino era stato vittima di un sadico, o di un pedofilo, i mostri che uccidono l'innocenza. Con quel fardello contro il petto prese il sentiero del lago, di cui si di-
stingueva fra gli abeti la macchia argentea, coperta da una sottile coltre di bruma. Ad alcuni metri dalla riva un faggio stendeva i suoi rami fin sopra l'acqua. Il suo fogliame cominciava a tingersi d'oro. Là sarebbe stato bene. Di nuovo provò un senso di rivolta. Una preparazione così minuziosa, tante speranze, per arrivare a quel viaggio funebre fatto suo malgrado. Saresti stato trattato come un principe! Posò il sacco sul terreno, la parte alta addossata al tronco del faggio rivestito di licheni. Il tessuto spesso avrebbe protetto il bambino da eventuali animali selvatici. Quel rosso chiassoso, che non gli piaceva, avrebbe avuto il pregio di richiamare l'attenzione. I genitori dei bimbi scomparsi dicono sempre: «Preferiamo sapere che nostro figlio è morto piuttosto che pensare che soffra e ci chiami senza che possiamo rispondergli. L'incertezza è la tortura peggiore». La madre di Jean-Lou non avrebbe subito quella tortura per colpa sua. Secondo i suoi calcoli, avrebbero ritrovato il bambino prima della fine della mattinata. Il grido di un uccello lo fece sobbalzare. Forza, era ora di rientrare, era già mattina e lui aveva bisogno di un po' di riposo prima di cominciare la sua giornata. Si inginocchiò per terra e abbassò di qualche centimetro la cerniera del sacco a pelo. Apparve il volto di Jean-Lou, sereno. Se n'era andato nel sonno, senza soffrire; lui preferiva dire «andato». In tempi migliori, sua nonna gli raccontava che le anime dei bambini andavano direttamente in Cielo, dove intercedevano presso Dio per i vivi. Jean-Lou era lassù, aveva compreso il suo errore. Sarebbe stato ascoltato. Sfiorò la fronte liscia con le labbra. «Prega per il piccolo Paul» mormorò. 2. In un pesante fruscio di ali, il piccione atterrò sul balcone. Istantaneamente, Blanche si sentì il cuore in gola e la bocca secca. Era un grosso uccello dal gozzo palpitante disseminato di piume verdi, come fosforescenti. Le zampe stringevano saldamente la ringhiera di ferro battuto e la testa si muoveva di qua e di là come una molla. Mio Dio, perché ho aperto la finestra? Non ti farà alcun male, tentò di ragionare la giovane donna. Volerà via e
tu non ci penserai più. Nessun piccione, nessuna ala, nessuna piuma potranno mai nulla contro di te. Purtroppo, una fobia è per definizione la totale impermeabilità a ogni ragionamento. E benché Blanche conoscesse la sua a memoria e le capitasse persino di sorriderne, ogni volta era la stessa storia: bastava che un uccello, una libellula, una banale falena le si avvicinassero troppo per farla precipitare in una sorta di catalessi. Il telefono sul tavolo da disegno squillò. Le dita le si contrassero attorno alla matita che un minuto prima aveva scelto con cura, con allegria, pensando unicamente al piacere di creare. Uno squillo, due, tre. Ma come non aveva la forza di gridare per scacciare il piccione, così non trovava quella di imporre alla propria mano di percorrere i pochi centimetri che la separavano dall'apparecchio. Quattro, cinque, sei... La suoneria si arrestò, e fu come se un filo in più si spezzasse fra la vita e Blanche. Gli occhi rotondi dell'uccello, giallastri, occhi da uccello da preda, non smettevano di guardarla. Si sarebbe posato sul tavolo... La porta dello studio si aprì bruscamente e il piccione volò via. «Mamma! Perché non hai risposto?» Con la cartella in spalla e un dolcetto già addentato in mano, Sophie la guardava con sguardo accusatore. Blanche inspirò profondamente. Ancora un po' impacciata, alzò la matita. «Ecco, stavo disegnando. Non ho sentito». Sophie alzò gli occhi al cielo. «È Marie-Thé. Vuole parlarti. Piange. Io vado». La bambina le voltò le spalle e abbandonò la stanza, lasciando la porta spalancata. Blanche sollevò il ricevitore con mano pesante. «Marie-Thé?» Le risposero dei singhiozzi, che echeggiavano nel salotto dove Sophie si era ben guardata dal mettere giù la cornetta. Come la porta lasciata aperta... La sua Principessa non rifuggiva da quelle piccole rappresaglie. «Marie-Thé, che cosa c'è?» «Jean-Lou!» singhiozzò la sua amica. «Jean-Lou è scomparso». Il cordless all'orecchio, Blanche si alzò per chiudere la finestra. «Scomparso? Cosa intendi dire?» «Dalla clinica. Stamattina non era più nel suo letto». Jean-Lou, nove anni, era stato sottoposto a un'appendicectomia alla clinica dei Quatte Lacs, a Saint-Rémi.
«Ma non è possibile!» «I poliziotti parlano di una fuga» riprese Marie-Thé. «Una fuga... in vestaglia e pantofole. Ti sembra possibile? E perché avrebbe dovuto fuggire, visto che sarebbe tornato a casa stamattina?» «Dove sei adesso?» chiese Blanche. I singhiozzi ripresero con maggiore intensità. «A casa, dove vuoi che sia?» «Non muoverti. Arrivo». Blanche chiuse la comunicazione. Il suo sguardo si posò con rammarico sui mazzi di matite: le morbide, le medie, le dure. E, accanto, i carboncini. E, più in là, i pastelli. I miei amici, il mio universo. Fin dalla più tenera infanzia, ben prima dell'età di Sophie, undici anni, sapeva che il suo futuro sarebbe passato per quei sottili cannelli di legno con mine di tutti i colori. Quella che si definisce una vocazione. Irresistibile quanto una fobia, pensò. Impossibile sottrarvisi. È così che si diventa illustratrice di libri per bambini. E siccome è un mestiere che non dà da vivere, insegnante di disegno. Jean-Lou era scomparso. Non riusciva davvero a preoccuparsi. Probabilmente perché il giorno prima lo aveva visto alla clinica, dove si recava ogni mercoledì per insegnare ai piccoli malati a tradurre in colore le loro sofferenze, i loro timori, le loro speranze, un lusso che si concedeva. Jean-Lou era tutto contento di uscire l'indomani. Adorava fare scherzi: doveva essersi nascosto da qualche parte. Chiuse nel raccoglitore gli schizzi di quella mattina e passò in salotto, dove rimise sul supporto l'apparecchio lasciato staccato da Sophie. Sentiva ancora i singhiozzi dell'amica. Al mio arrivo l'avranno già ritrovato. Dopo una rapida doccia si infilò una tuta sportiva, un pullover e un paio di scarpe da tennis. Sarebbe tornata a cambiarsi prima della lezione a scuola, nel primo pomeriggio. Ai bambini piace che ci si faccia belli per loro; riconoscono d'istinto la bellezza. Dopo essersi spalmata un po' di crema sul viso si fece una smorfia allo specchio. «Non ti trucchi?» avrebbe finto di stupirsi Marc se fosse stato lì. Le rimproverava di non curare il proprio aspetto. Il vantaggio di non avere più marito: si può essere se stesse. E a trentacinque anni era ora! «Tu non vivi veramente con me» si lamentava ancora Marc. «Vivi con le tue immagini». Per non dire: «con i tuoi scarabocchi». Una delle ragioni del loro divorzio: la mancanza di rispetto dell'«uomo della sua vita» per
ciò che dava senso all'esistenza di Blanche, quell'appassionata delle matite colorate che, invece di coccolare il suo caro e tenero sposo come avrebbe fatto ogni donna degna di tal nome, fuggiva dal letto prima dell'alba per appagare furiosamente la propria inclinazione. Nessuna sorpresa! In cucina Sophie aveva lasciato tutto in disordine come al solito: tazza di cereali mezza piena, bottiglia di succo di frutta senza tappo - e hai bevuto a collo, brutta sporcacciona! -pacco di dolcetti sventrato. Aprirlo come si deve ti avrebbe portato via troppo tempo, non è vero? Domani farò colazione con te, si ripromise Blanche riordinando in fretta. Non mi limiterò a prepararti il pasto prima di filare al mio tavolo da disegno senza aspettare il tuo passaggio lampo in cucina e il tuo sguardo da ayatollah. Domani, giuro, ti sorbirai tua madre fino all'ultimo boccone, all'ultimo sorso - in un bicchiere, per favore - e ti accompagnerò alla porta con il sorriso radioso e il magniloquente «ti voglio bene» delle madri (magnificamente truccate e pettinate) dei film americani. E mi farò detestare! concluse Blanche ridendo fra sé e sé. Inserì la segreteria e scese i due piani della casa. Al primo abitava Myriam, proprietaria del bistrot che portava il suo nome, situato al pianterreno. Per forza di cose e ragioni di amicizia, Chez Myriam era diventato Chez Sophie, che preferiva fare i compiti nel brusio della saletta interna piuttosto che nel loro appartamento, quando sua madre non c'era. E anche Chez Blanche, invitata permanente del locale e dei suoi fornelli. Dopo aver ricuperato la bici in cortile, uscì. Il cielo si stava coprendo. Pedalando di buona lena, da lì alla casa di Marie-Thé ci volevano dieci minuti. Il tempo di fare una doccia supplementare? La ristoratrice annaffiava le piante davanti alla porta: un'ottimista. «Ho visto passare Sophie» annunciò. «Non era proprio di buon umore, il tesorino! Sembra che tu le abbia fatto fare tardi. Nulla di grave?» «Non lo so ancora. Ti farò sapere». Blanche prese lo slancio, seguita dallo sguardo di Myriam. Tutto considerato, se dopo il divorzio, aveva scelto di trasferirsi in quel buco sperduto che aveva la fama di essere uno dei più freddi della Francia, era probabilmente per poter dire a qualcuno «Ti racconterò». E sentirsi rispondere con un «Lo spero bene» pieno di eccitazione. 3.
Un'auto della gendarmeria era parcheggiata davanti al villino di MarieThé. Blanche spinse il cancello ed entrò con la bici in giardino. Era per quei pochi metri di terra che, dopo il divorzio, la sua amica aveva commesso la follia di acquistare quella casetta, per pagare la quale era praticamente sempre al verde. Vetrinista a Digione, dove il suo ex marito esercitava come dentista, a Saint-Rémi Marie-Thé era riuscita a trovare solo un impiego di commessa al supermercato. «Mi rifaccio con i fiori» scherzava. Ed era vero: formavano magnifiche macchie di colore davanti alla casa. Poiché il cielo diventava sempre più grigio, Blanche spinse la bici nel garage. Le si strinse il cuore quando scorse la mountain bike di Jean-Lou e il suo skate-board. La porta di casa era socchiusa. Blanche entrò. In soggiorno due uomini in uniforme stavano interrogando Marie-Thé, accasciata sul divano. Lei, che di solito ci teneva moltissimo al proprio aspetto e andava in brodo di giuggiole quando le chiedevano se Jean-Lou non fosse per caso il suo fratellino, era in vestaglia e aveva i capelli in disordine. Vedendo entrare Blanche i gendarmi si interruppero. «Sono Blanche Desmarest, un'amica». «Resta» supplicò Marie-Thé tendendo verso di lei una mano da annegata. «Hanno quasi finito». Blanche lanciò uno sguardo interrogativo ai due uomini, che annuirono. Si accomodò accanto a Marie-Thé, che stringeva al petto il cordless. «Ci stava dicendo che il signor Girard, il suo ex marito, non aveva voluto la custodia del figlio?» chiese un gendarme. «Perché avrebbe dovuto volerla?» rispose Marie-Thé in tono aggressivo. «È stato ben contento che Jean-Lou restasse con me». Avrei potuto rispondere esattamente la stessa cosa, pensò Blanche. A Marc sarebbe scocciato da morire avere la custodia di Sophie. Niente più viaggi né amichette. E sapeva benissimo che gliel'avrei concessa solo quando si fosse risvegliato il suo istinto paterno. Marc, che faceva il pubblicitario, viveva a Parigi. Sophie aveva l'opportunità di fare, ogni tanto, una scorpacciata di cinema e di MacDonald's con un papà amico. «Sa dove si trovi attualmente il signor Girard?» proseguì uno degli agenti. «Ma a Digione, ovviamente! È là che ha il suo studio». «Lo ha avvertito?»
Marie-Thé scosse penosamente il capo. Senza dubbio non ne aveva avuto il coraggio. «Se vuole, ce ne incaricheremo noi» propose gentilmente l'agente. «Comunque, non si preoccupi troppo». Fece un cenno al suo vicino e si alzarono entrambi. «Non preoccuparmi? Non preoccuparmi troppo?» gridò Marie-Thé. «Ma sapete cosa state dicendo?» I gendarmi ostentarono un'espressione contrita e a Blanche dispiacque per loro. In situazioni simili, anche le parole di conforto feriscono. Dopo aver rivolto un saluto imbarazzato alle due donne si eclissarono. Blanche circondò con il braccio le spalle dell'amica, che aveva ripreso a piangere. «Quando sei stata avvertita?» «Alle sette e mezzo. Mi ero appena alzata. Speravano che Jean-Lou si trovasse qui. Ho cercato dappertutto, anche in garage. Ma perché sarebbe scappato stanotte, visto che veniva dimesso questa mattina? Mi ero tenuta la giornata libera». Fece una risata nervosa: «Meno male». La voce mutò tono: «Ma dov'è, Blanche? Dove?» Blanche additò la pendola sul caminetto: le nove. «Ascolta» disse. «È sparito da pochissimo. Lo ritroveranno per forza. Intanto, credo che abbiamo entrambe un gran bisogno di un caffè». Si alzò e tese la mano all'amica che la seguì continuando a stringere al petto il cordless. Sperava o temeva che si mettesse a suonare? Probabilmente tutt'e due le cose. Marie-Thé mise un bollitore d'acqua a scaldare e si lasciò cadere su una sedia. Era stato grazie alla sua professione che Blanche aveva conosciuto la giovane donna: Jean-Lou era uno dei suoi allievi. Un ragazzino vivace e allegro. Che cosa può essere successo, mio Dio? Da quando aveva visto i poliziotti, cominciava a preoccuparsi davvero. Lo sguardo di Marie-Thé cambiò bruscamente. «Ma tu l'hai visto ieri!» esclamò. «Era mercoledì. Sei andata alla clinica, non è vero?» «Ci sono andata» confermò Blanche. «E Jean-Lou mi ha fatto un bel disegno». «Come ti è sembrato?» chiese ansiosamente Marie-Thé. «Non sembrava proprio che stesse macchinando una fuga». Si pentì subito di quanto aveva detto. Il volto della sua povera amica si era alterato ancora di più. Se non era una fuga, cos'era? Un rapimento? La
pista che seguivano gli agenti quando la interrogavano sul suo ex marito? «Vedrai che quando l'avranno ritrovato, la spiegazione ci sembrerà semplicissima» cercò di rimediare. Versò l'acqua bollente sul caffè solubile. Marie-Thé circondò la sua tazza con le mani, come se volesse riscaldarsi. Il telefono squillò e la poveretta ebbe un gesto così brusco per afferrare l'apparecchio che un po' della bevanda si versò sul tavolo. «Ah, è lei?» disse, scoppiando di nuovo a piangere. «Sì... Sì... certo. Se vuole. Grazie!» Spense l'apparecchio e rivolse all'amica uno sguardo incredulo. «Era il dottor Lagarde. Passerà qui. Adesso!» Le lacrime erano di riconoscenza. Roland Lagarde aveva operato JeanLou di appendicite alla clinica dei Quatre Lacs. «Ma non posso riceverlo così» esclamò Marie-Thé. «Ti dispiace aprirgli tu?» Si precipitò su per le scale. Blanche rimase immobile qualche minuto. Quel silenzio, quella tregua le facevano bene. I primi momenti distesi dopo l'episodio del piccione. Marie-Thé aveva appena toccato il suo caffè; lei finì di bere, posò le tazze nell'acquaio e passò in soggiorno. Un intero angolo della stanza era consacrato agli idoli di oggi: televisore, videoregistratore, computer. Senza contare il collegamento Internet, di gran moda a Saint-Rémi. La scuola aveva spinto in quella direzione: una scuola all'avanguardia, che aveva adottato la settimana di quattro giorni e aveva acquistato due computer per la gioia dei bambini che, appena usciti dalla materna, imparavano a navigare con una facilità sconcertante. Non volendo essere da meno, la clinica dei Quatre Lacs si era adeguata e, grazie a Internet, i piccoli malati potevano restare in contatto con i loro genitori o amici. Così un giornale locale aveva intitolato: Saint-Rémi si mette al passo con i tempi. È arrivata la Rete. Sono un dinosauro, come sostiene mia figlia, a rifiutare tutto ciò? si chiese Blanche guardando quegli apparecchi che definiva barbari. O forse indietreggio per saltare meglio? Sarò obbligata, uno di questi giorni, a dar retta a Sophie? Non ne aveva proprio nessuna voglia. Quando lei gliene spiegava le ragioni, sua figlia ridacchiava. Blanche preferiva leggere piuttosto che abbrutirsi davanti a uno schermo.
«Ma non hai proprio capito, mamma! Sullo schermo si legge. Quelli che non sanno usare il computer sono fuori gioco, ormai». Lei preferiva ammirare un solo bel quadro dal vero, in una mostra, piuttosto che visitare dieci musei sulla Rete. Il peggio era che la gente credeva poi di conoscere la pittura, mentre ne aveva perduto la caratteristica essenziale: l'emozione. «Allora, mamma, non capisci proprio! Ci sono persone che non metteranno mai piede in un museo. Così, almeno, possono farsi un'idea». Eccetera, eccetera. La discussione terminava senza che l'una o l'altra avesse receduto di un passo. Se la sua Principessa le somigliava fisicamente - biondina, occhi chiari, nasino piccolo e labbra un po' troppo carnose -non nutriva però le stesse passioni. Un bel canto in giardino distolse Blanche dalle sue riflessioni: rumore di pioggia sui rosai. Non poté resistere alla tentazione di andare ad aprire la finestra. Per gli odori. Oh, non quello degli abeti, né della terra bagnata. Odori di antiche partite a carte, a dama, a monopoli. Odori di pace, di benessere, di serenità presso la nonna di Saint-Rémi, morta, purtroppo, poco tempo dopo che Blanche aveva deciso di venire ad abitare nel paese delle vacanze felici. Le aveva giocato proprio un brutto tiro! Protese il volto verso l'acquazzone e chiuse gli occhi. Immersa nel passato, non vide arrivare l'auto né uscirne il guidatore, un bell'uomo sulla quarantina che si fermò un attimo per guardarla con curiosità. Riaprì gli occhi solo al rumore dei suoi passi nel vialetto dei rosai: Roland Lagarde, il chirurgo. Un po' confusa, gli fece un cenno e richiuse in fretta la finestra per andargli incontro. Era bagnato fradicio, cosa che sembrava essere l'ultima delle sue preoccupazioni. «Entri presto» disse lei. «Marie-Thé scende subito. Sono un'amica, Blanche Desmarest». Il chirurgo le strinse la mano: una stretta energica. Non lo aveva mai visto così da vicino. Roland Lagarde era arrivato a Saint-Rémi solo da un anno circa e, fino ad allora, si erano visti unicamente di sfuggita, alla clinica. Era alto, almeno un metro e ottantasette, mentre lei raggiungeva appena il metro e sessanta. Bruno, occhi grigi, elegante. Lo precedette in salotto. In alto, la doccia si era fermata.
«Blanche Desmarest...» ripeté lui in tono pensoso. «Non è la fata del mercoledì? La volontaria che viene con le sue matite magiche a far sognare i nostri piccoli malati?» Lei non poté fare a meno di sorridere. «Esistono fate non volontarie? Personalmente, sono pagata moltissimo: con un mare d'amore. Senza contare i capolavori». «Posso sperare che un giorno me li mostrerà?» chiese lui. 4. La sua prima lezione di disegno a scuola: Blanche non l'avrebbe mai dimenticata. Aveva sette anni e l'insegnante, una «vecchia» di una cinquantina d'anni, aveva posato su un tavolo un vaso con alcuni fiori e chiesto alla classe di riprodurlo nella maniera più fedele possibile. Su uno dei fiori Blanche aveva disegnato una bella farfalla variopinta. «Ma io non vedo farfalle» aveva osservato l'insegnante, visibilmente colpita da quell'iniziativa. «Eppure c'è» aveva ribattuto Blanche con convinzione. Benché il suo disegno fosse il migliore - lei non ne dubitava -, aveva avuto un voto mediocre. Forse a causa di questo ricordo doloroso, lei raramente imponeva un modello ai suoi allievi; tutt'al più un tema, su cui potevano ricamare liberamente. Quando arrivò alla scuola elementare di Saint-Rémi, all'una e mezzo, dopo essere ripassata da casa per cambiarsi e spilluzzicare un po' di formaggio e un frutto, la maggior parte dei bambini sapevano che uno dei loro compagni era scomparso. Quelli della mensa lo avevano appreso dai compagni che erano rincasati a pranzare. Scossi, certi genitori li avevano addirittura riaccompagnati fino alla porta della scuola piuttosto che lasciarli andare da soli come al solito. Non si sa mai. I piccoli erano più eccitati che inquieti. Nutriti quotidianamente di drammi di ogni genere sullo schermo del televisore, praticando la violenza con i loro videogiochi, faticavano a immaginare una vera disgrazia. JeanLou sarebbe ritornato e non se ne sarebbe più parlato. La classe di Blanche comprendeva una ventina di alunni dai sei ai dieci anni. Poiché il disegno non era obbligatorio, potevano optare per la musica o anche per le marionette, che riscuotevano un grande successo. Era nei più giovani che si trovava un gusto reale per la materia, e il loro modo i-
stintivo di esprimersi somigliava a quello dei nostri lontani progenitori sulle pareti delle grotte. Non appena sapevano leggere e scrivere... e avevano preso gusto alla televisione, i più lasciavano perdere. A Blanche piaceva pensare che coloro che proseguivano avevano sentito che, dietro quella forma d'arte, si trovava una verità che avrebbe arricchito il loro cuore e la loro vita. Nel brusio gioioso degli scolari notò Charles solo a un tavolo. Charles, adorabile rossino dagli occhiali colorati, era il miglior amico di Jean-Lou. Stessa età, stessa classe, si sedevano sempre fianco a fianco per disegnare. Il bimbo gli aveva tenuto il posto, mettendovi delle cose. Lei gli si avvicinò. «Tornerà, non è vero, signora?» chiese il piccolo. «Spero bene! E prima sarà meglio sarà. Del resto, proprio ieri ha disegnato per il nostro progetto». Tornò alla cattedra ed estrasse dalla cartella il disegno eseguito da JeanLou il giorno prima, in clinica: una divertente scimmietta. Mentre lo affiggeva al muro fra altri schizzi di animali, ci furono delle risate e alcuni applausi. Blanche aveva proposto ai bambini di realizzare un fumetto che avrebbero regalato ai loro genitori per Natale. L'idea aveva scatenato l'entusiasmo. Ma silenzio! Non bisognava dire niente a casa, sarebbe stata una sorpresa. I bambini avevano scelto da soli il tema della loro storia: una rivolta degli animali contro gli uomini che distruggevano la natura e se stessi contemporaneamente. Soggetto di grande attualità! Ma tutti i bambini non si sentono vicini ai loro cugini, gli animali? Da Marie-Thé, Blanche aveva sentito parlare di un sito Internet molto apprezzato da Jean-Lou, dedicato agli animali selvaggi, battezzato: HacunaMatata.com. La formula magica del film Il Re Leone. Hacuna Matata: un nome adattissimo a far sognare i piccoli! pensò. Avrebbe dovuto chiedere a Sophie cosa significasse. Distribuì a ciascuno un foglio di carta e delle matite. Era stato deciso che durante le prime lezioni i bambini avrebbero disegnato i loro animali preferiti, fra i quali, in seguito, avrebbero scelto i protagonisti del fumetto. Le «nuvolette» sarebbero state riempite con la collaborazione delle maestre. Un raggio di sole penetrò all'improvviso nell'aula; il cielo si rischiarava. Ma dove ti sei nascosto, Jean-Lou? si chiese lei ancora una volta. La domanda si ripresentava a intervalli regolari nella sua testa, come un'invocazione di aiuto. Marie-Thé aveva promesso di avvertire subito la scuola se
ci fossero state novità. A ogni modo, Blanche sarebbe tornata a trovarla dopo la lezione. Non poteva lasciarla aspettare da sola. Passò tra le file dei banchi, fermandosi accanto all'uno o all'altro dei suoi scolari. Madeleine, di sei anni, disegnava con impegno un leone con una testa da gatto e zampe da ragno. Le zampe, come le mani, erano il particolare più difficile da eseguire. I pittori detti «primitivi» ne sapevano qualcosa. Aiutò per un po' la piccola e poi riprese a muoversi per l'aula. A ogni artista piace che ci s'interessi all'elaborazione della sua opera. Charles stava disegnando una scimmia; somigliava a quella di Jean-Lou che lei aveva appena affisso alla parete. Con risultati migliori, poiché Charles era più dotato. L'animale teneva in mano una matita. «Un babbuino?» chiese lei tirando a indovinare. Il ragazzino si lasciò sfuggire una risata. «Ma no: è una cappuccina. La chiamano anche 'cebo'». «Ed è una matita quella che tiene in mano?» «Le scimmie cappuccine adorano disegnare» spiegò il bimbo. «Ma hanno bisogno di un modello: non sanno inventare». «Vedo che sei un pozzo di scienza!» commentò ammirata Blanche. «E dove hai imparato tutte queste cose?» «Ho un amico che ne ha una» rispose Charles. «È un segreto. Forse la vedrò presto. Si chiama Mister Chance». «Mister Chance?» esclamò Blanche, impressionata. «E dici che la vedrai presto?» Charles si accingeva a rispondere quando la porta si aprì davanti alla direttrice della scuola. A Blanche venne il batticuore: avevano ritrovato Jean-Lou? La classe aveva smesso di disegnare, tutti i musetti erano levati verso la donna che era appena entrata. Blanche le si precipitò incontro. Ma purtroppo non c'era nulla di nuovo. Saputo che Blanche aveva trascorso la mattinata con la madre di Jean-Lou, la direttrice veniva solo a chiedere notizie. È una vasta sala seminterrata a volta. L'illuminazione, molto sofisticata, richiama la luce del giorno, che filtra appena dai finestrini protetti da grate. Il suolo è pavimentato, le pareti ricoperte di poster, molti dei quali raffigurano animali selvaggi. Ma ci sono pure foto di sportivi, di campioni mentre compiono grandi imprese. Su alcune mensole si trovano i giochi, innumerevoli scatole di colori, e anche cassette, libri, fumetti. Quasi tutto sembra nuovo.
Mister Chance si arrampica sullo sgabello accanto al frigorifero, ne estrae una bottiglia di latte, richiude la porta dell'elettrodomestico, salta a terra e apre con destrezza il recipiente. Adesso inserisce una cannuccia nel collo. Ce n'è un mazzo, in un bicchiere. Il bambino che le è stato affidato vuole bere con la cannuccia. Mentre compie le sue azioni, la scimmia emette una sorta di sommesso latrato: uuu... uuu... che esprime la sua soddisfazione. Il muso, circondato di peli bianchi, come bianca è parte del petto e delle braccia, giustifica appieno il suo nome: scimmia cappuccina. I suoi occhi sono vivaci, maliziosi, a tratti teneri. Oggi, Mister Chance lo ha presentito, il suo padroncino non ha voglia di giocare. È da un pezzo che è al suo servizio e ne conosce perfettamente gli sbalzi di umore. Il piccolo infermo è rimasto silenzioso tutta la mattina. Ha pianto, e il computer non ha funzionato. Il giorno prima, invece, il bambino era molto allegro. Rideva fragorosamente alle smorfie della scimmia, abbondantemente ricompensata con dolciumi e insetti di cui va pazza. Se le cappuccine sapessero leggere dalle labbra, avrebbe potuto decifrare quel grido di gioia, ripetuto più volte dal ragazzino prigioniero della sua poltrona. «Un amico, Mister Chance. Avrò un amico. Uno vero!» Questo ieri. La scimmia fa una specie di sospiro. Con la bottiglia di latte stretta al petto, si avvicina al piccolo Paul. 5. Il giardino di Marie-Thé si crogiolava sotto il sole quando, verso le tre, Blanche lo attraversò di nuovo. Dalle finestre del soggiorno constatò che la stanza era piena di gente. La porta era chiusa. Suonò. La moglie del sindaco venne ad aprirle. «È a causa dei giornalisti» si scusò la donna. «Ne sono già passati due, se ne rende conto? Le cattive notizie circolano in fretta...» «Ancora nessuna novità?» chiese Blanche, che se ne infischiava dei giornalisti. «Niente di niente. Il marito è stato avvertito. Sarà qui stasera». In caso di disgrazia non si parlava più di «ex»? Nella stanza c'erano una decina di persone. Alcune discutevano fra loro,
le altre circondavano Marie-Thé accasciata in una poltrona. Sembrava sfinita, senza più lacrime. Si raddrizzò per indicare a Blanche il tavolo della sala da pranzo. «Hai visto?» Il tavolo era coperto di cibarie: frutta, dolci, bevande. Ciascuno aveva voluto portare la propria offerta: un buffet da festa. Normale, pensò Blanche. Il dolore, come la gioia, sono occasione di raduno, di scambio di calore. Dopo un funerale non si fa forse un buon pasto per dimostrare a se stessi che la vita continua? La nonna di Blanche, prima di andarsene all'altro mondo, aveva addirittura pensato al proprio pranzo funebre: conserve fatte in casa e piatti surgelati, cucinati personalmente. «Perché tu non debba fare troppa fatica». Era sempre stato il motto di quella anziana contadina: non dare troppo disturbo agli altri... Ma no, nonna, pensò Blanche con il cuore stretto in una morsa, capita che, come oggi, si abbia voglia di darsi da fare per coloro che si amano. Senza sapere come. Buffet da festa o no, la vita di Marie-Thé non sarebbe potuta ricominciare finché non si fosse conosciuta la sorte del suo piccolo. «La clinica è stata frugata da cima a fondo» fece sapere a Blanche la moglie del sindaco, trascinandola verso la tavola. «Tutto il personale è stato interrogato, ma nessuno ha sentito o notato nulla. Sembra quasi che si sia volatilizzato. Non si sa nemmeno a che ora sia sparito. Mio marito ha proposto di organizzare una battuta, ma i poliziotti ritengono che non servirebbe a nulla. E da dove cominciare?» Ci fu una scampanellata, qualcuno andò ad aprire e tutti gli sguardi si volsero verso il nuovo venuto. Thomas Riveiro era sulla cinquantina. Alto, piuttosto magro, con lo sguardo un po' vago dietro gli occhiali dalla montatura massiccia, indossava un paio di jeans e un pullover di lana grossa. La sua sola ricercatezza nell'abbigliamento consisteva nelle costose scarpe di cuoio che in qualche modo ne suggerivano la posizione sociale. Anestesista, era apprezzato nel suo campo quanto lo era Roland Lagarde nel suo. Lavoravano insieme alla clinica dei Quatre Lacs. Il medico si era irrigidito sulla soglia, impressionato dal numero dei presenti. Blanche gli rivolse un segno di amicizia. Le piaceva molto. Il mercoledì, quando lei andava a insegnare ai piccoli malati, l'anestesista faceva in modo di passare. Thomas, fervente sostenitore dei metodi antidolore, si indignava che non venissero somministrati per prassi ai bambini, e faceva in modo di rimediarvi.
«Io mi occupo della sofferenza fisica» diceva a Blanche. «Lei, con il disegno, dà sollievo allo spirito». All'arrivo dell'anestesista Marie-Thé si era alzata. Sì! Le restavano ancora alcune lacrime: di quelle che una mano tesa, un sorriso di comprensione, la consapevolezza di non essere abbandonati traggono dal più profondo di una solitudine. La madre angosciata le versava sulla spalla del suo visitatore. «Allora, glielo hanno detto? Glielo hanno detto?» ripeteva la poveretta. «Non ero alla clinica, stamane, avevo un intervento all'ospedale di Champagnole» spiegò Riveiro con voce alterata. «Non appena ho appreso quanto era successo, sono venuto. Ancora nessuna notizia?» Marie-Thé vacillò. Due uomini si precipitarono. La fecero riaccomodare in poltrona e il cerchio si riformò attorno al suo dolore. Dopo pochi istanti Thomas raggiunse Blanche che, in piedi accanto al tavolo, aveva le lacrime agli occhi, e le posò una mano sulla spalla. «Dio mio, povera donna!» sospirò. «Che cosa potrei fare?» «Proprio nulla! Ed è questo il peggio» rispose Blanche con un sorriso di impotenza. Mostrò il buffet: «Nulla, se non rifocillarsi e sperare. Non si dice che i pensieri positivi allontanano il male? Le servo qualcosa da bere?» Ecco che faceva la padrona di casa: quella mattina un caffè per il chirurgo, adesso un succo di frutta per l'anestesista. Mentre serviva quest'ultimo, si disse che i due non potevano essere più diversi. Da quel che aveva intuito, Roland era un uomo disinvolto, solido, piuttosto sicuro di sé. Thomas se ne stava sempre... come in disparte. Discreto, talvolta goffo. Timido? Entrambi erano uomini soli: Roland era rimasto vedovo, Thomas era divorziato. Soli e senza figli. E Marie-Thé e io... Quante persone sole, pensò Blanche dolorosamente. Una brusca ventata di riconoscenza la pervase: ma io ho Sophie. Ho la mia Principessa! «Ha visto Jean-Lou ieri, non è vero?» le chiese l'anestesista, facendola ritornare sulla terra. «È venuta alla clinica per il disegno?» «Come tutti i mercoledì» rispose lei. «E posso dirle che Jean-Lou era in piena forma. Contentissimo di tornare a casa stamattina». «Non le ha detto nulla di particolare? Le è sembrato... normale?» «Ho trascorso tutta la mattinata a pormi questa domanda. Senza risultato. Abbiamo parlato di skate-board e mi ha disegnato una bella scimmia, animale che sembra molto in voga fra i bambini. Conosce le scimmie cap-
puccine?» «Non più di altre razze» rispose Thomas. Si voltò verso il buffet per servirsi una fetta di plum-cake. Non avrà avuto il tempo di mangiare, pensò Blanche guardando l'orologio: quasi le quattro. Sophie, in sesta alla media cittadina, sarebbe rincasata di lì a poco. Provò all'improvviso una voglia imperiosa di stringerla fra le braccia. Vuotò il bicchiere, lo posò sulla tavola e sorrise a Thomas. «Credo che me ne andrò» disse. «Se Sophie non è ancora stata messa al corrente, preferirei farlo di persona». «Vada di corsa» la incoraggiò l'anestesista con un'espressione un po' dolorosa che la sorprese. «E non dimentichi di darle un bacio da parte mia. Lei ha una figlia deliziosa». 6. Il cielo non era stato dalla sua parte. Fin dalle nove, grosse nuvole vi si erano addensate e la pioggia si era messa a cadere copiosa, scoraggiando le passeggiate, ritardando la scoperta. A fine mattina il tempo si era finalmente rimesso, e alle due il sole aveva cominciato a splendere. Non aveva fatto altro che guardare l'orologio. Adesso erano le quattro e mezzo, e ancora nessuna notizia dal lago di Bonlieu. Il sacco doveva essere fradicio, la cosa lo preoccupava, poiché era abituato a fare le cose per bene. Jean-Lou sarebbe stato scoperto prima di notte? Era riuscito a dormire alcuni minuti prima che il telefono squillasse. Poco male. Non aveva mai avuto bisogno di dormire molto, e il suo sonno somigliava alla veglia di una sentinella cui nessuno viene mai a dare il cambio. Alla clinica le cose erano andate come previsto. L'infermiera non si era preoccupata subito; non era raro che i bambini si facessero visita a vicenda, talvolta nelle ore più improbabili. Succedeva anche che certi si nascondessero. Poi avevano pensato che Jean-Lou fosse ritornato a casa da sua madre... Dove, ovviamente, non lo avevano trovato. Diffusasi la notizia, c'erano state manifestazioni di solidarietà per la signora Marchand: sospiri, carezze, compassione zuccherosa che nascondevano in coloro che li profondevano la soddisfazione di essere dei prediletti del destino, di essere stati risparmiati dalla sorte... Lo sapeva anche troppo bene! Aveva sperimentato fino alla nausea la sollecitudine delle anime
buone: pover'uomo... una disgrazia così grande... una tale ingiustizia... Ma guai a deluderle. Se le anime buone si accorgono di avere mal riposto la loro pietà, di aver investito a fondo perduto nella generosità, insomma di essere state abbindolate, si trasformano in bestie feroci e dilaniano crudelmente coloro che, solo il giorno prima, accarezzavano con tanto ambiguo piacere. Non lo aveva sorpreso che il padre venisse sospettato. Era nell'ordine delle cose: padri messi in disparte, padri privati della custodia dei figli, negati, respinti. La pancia, l'utero, la gravidanza. Come se il fatto di aver portato un figlio dentro di sé desse alle femmine il potere assoluto su di lui, anche quando si dimostravano incapaci di amarlo, di dargli la felicità cui ogni essere ha diritto. Aveva vissuto anche questo. Ma non ce l'aveva con Marie-Thérèse Marchand. Non vedeva l'ora che il sacco venisse trovato sotto il faggio, e avrebbe considerato come un affronto personale che il piccolo trascorresse quella notte all'addiaccio. Chiunque altro non vi avrebbe attribuito alcuna importanza. Non lui. Lui che aveva agito per amore. Pierre Rondeau, bancario in pensione, abitante a Champagnole, la perla del Giura, era un appassionato di pesca e, in quella regione di laghi in cui le trote abbondano, il lago di Bonlieu era il suo preferito. Il bancario era anche appassionato di poesia, e mentre lanciava la lenza in un'acqua che, secondo il colore del cielo o quello dei fondali ricoperti di vegetazione, passava dal blu al verde e dal verde all'oro, amava recitare ad alta voce alcuni versi di Lamartine, altro innamorato di quei paesaggi. La sera di quel 15 settembre si chiudeva la stagione della pesca, Rondeau, che aveva previsto un'ultima giornata sulle rive del suo lago favorito, era rimasto molto deluso quando, fin dalle nove del mattino, la pioggia si era messa a cadere. Per colmo di sfortuna, sua moglie aveva pensato, «visto che era libero», di portarlo con sé a giocare a bridge. Libero... le donne hanno certe idee! Per fortuna il cielo si era rischiarato dopo pranzo e, senza ascoltare i rimproveri della signora, che avrebbe avuto tutto l'inverno per perdonarlo, il pescatore-poeta si era avviato. Protetto dagli stivaloni, berretto in testa e borsa impermeabile a tracolla, ora seguiva la riva con i piedi nell'acqua, attento al minimo movimento della lenza alla quale aveva appeso una mosca secca, l'esca più efficace in
quella stagione. Il pesce è più difficile da prendere alla fine dell'estate. Sembra quasi che il furbetto senta che presto gli verrà concessa una tregua e che gli secchi lasciarsi catturare quando manca così poco all'armistizio. Tuttavia alle tre il pescatore era riuscito a uncinare una trota arcobaleno mentre l'imprudente saltava fuori dall'acqua per afferrare al volo un moscerino. Erano ormai le quattro e mezzo e il signor Rondeau pensava di fare dietrofront per rincasare prima di notte quando notò, sotto un faggio, una lunga macchia rossa, come una coperta dimenticata in quel punto. Poiché non c'era nessuno in giro, si avvicinò alla riva e constatò che si trattava di un sacco a pelo che sembrava contenere qualcosa. Perché Pierre Rondeau fece lo sforzo di riavvolgere la lenza e di montare sulla riva per vedere di cosa si trattasse? Si sarebbe posto spesso la domanda e, con un po' di vergogna, si sarebbe pentito di non aver tirato dritto. Si sarebbe pentito persino di non essere andato a giocare a bridge con la moglie e le sue asfissianti amiche. Dei canaletti di acqua piovana si erano formati sulla parte superiore del sacco. L'uomo si chinò per abbassarne la cerniera. Fu così che il pescatore non avrebbe mai più potuto tirar fuori dall'acqua una trota arcobaleno, né il poeta evocare Lamartine, senza veder apparire il volto livido di un bambino morto. 7. I gendarmi avevano disposto un largo perimetro di sicurezza attorno al sacco a pelo rosso. Due di loro esploravano minuziosamente il suolo alla ricerca di tracce di lotta o di elementi atti ad alimentare l'inchiesta futura. Erano le cinque e mezzo del pomeriggio. Non mancava molto al tramonto. Dovevano affrettarsi. Insieme agli agenti era arrivata un'ambulanza e, sotto lo sguardo attento di due uomini in bianco, un medico con guanti chirurgici, inginocchiato per terra, esaminava il corpo del bimbo. Il cuore di Pierre Rondeau rifiutava di calmarsi. Era a causa della corsa a perdifiato lungo la strada fino a quando era riuscito a fermare un'auto, o della visione di quel bimbo in vestaglia e pantofole quando il medico aveva aperto completamente il sacco a pelo? Una tenuta per farsi dire «Buonanotte, angioletto», come diceva Pierre ai suoi nipotini, non una tenuta per un angioletto assassinato.' Senza dubbio era una considerazione stupi-
da, ma il delitto gli sarebbe sembrato meno atroce se il bambino avesse portato degli indumenti da giorno. L'angioletto si chiamava Jean-Lou. Prima ancora di arrivare sul posto, i gendarmi ne conoscevano l'identità. Rondeau li aveva sentiti pronunciare il suo nome quando aveva chiamato con il telefono dell'auto del boscaiolo che aveva fermato: Jean-Lou Marchand. Lo cercavano dalla mattina. Il brigadiere gli aveva posto alcune domande, prendendo nota in un taccuino. Rondeau aveva risposto senza riuscire a trattenere le lacrime; c'era così poco da dire: stavo pescando, ho notato questa macchia rossa, ho aperto il sacco. No, non aveva visto nessuno. Non aveva udito alcun rumore di fuga né l'avviamento di alcuna auto sulla strada. Solo un silenzio assordante. Un «silenzio assordante»? Proprio così: un silenzio che riempiva la testa di urla. Il silenzio era stato infranto da due giornalisti arrivati su grosse moto, e ciò aveva profondamente turbato Rondeau, come se qualcuno, durante la messa, si fosse messo a bestemmiare in chiesa. I gendarmi avevano proibito loro di fotografare la vittima. «Facciamo il nostro lavoro» avevano protestato gli altri. Era stato uno dei giornalisti a informare Rondeau che il piccolo era scomparso dalla clinica dei Quatre Lacs, dove aveva subito l'asportazione dell'appendice. I quattro laghi in questione, situati nelle vicinanze di SaintRémi, si chiamavano in realtà lago di Narlay, d'Ilay, del grande e del piccolo Maclu. Quello di Bonlieu non ne faceva parte. Il pensionato aveva la sensazione di essersi fatto intrappolare. Prima, i giornalisti lo avevano fotografato senza domandargli il suo parere. Poi, come se niente fosse, con fare ipocrita, lo avevano sottoposto a un vero interrogatorio. Così, stava pescando? Aveva preso una trota? Bella, la trota? E che effetto gli aveva fatto quando aveva aperto il sacco? Rondeau aveva capito dove volevano arrivare quando gli avevano detto che l'indomani sarebbe stato famoso: l'uomo che aveva scoperto il cadavere. Loro erano degli sciacalli, e lui un imbecille. Adesso stava il più vicino possibile al brigadiere, per evitarli. Il medico legale richiuse il sacco, si alzò e si tolse i guanti. «Nessuna traccia apparente di violenza» annunciò. «Il bambino non è stato percosso. E probabilmente non ha subito sevizie sessuali». Parlava con voce stupita. Era vero che, se non fosse stato per il pallore del viso, si sarebbe potuto credere che il piccolo Jean-Lou stesse dormendo.
«Bisognerà attendere l'autopsia per conoscere la causa della morte» soggiunse il medico. «Chiamo il procuratore» decise il brigadiere. Un nome che faceva paura, anche se non si aveva nulla da rimproverarsi. Soprattutto se si aggiungeva la Repubblica. Procuratore della Repubblica. Altri agenti erano arrivati, sei in totale: tutta la squadra di Saint-Rémi. Fatta la sua telefonata, il brigadiere impartì degli ordini e i portantini deposero il corpo su una barella, dopo che il medico lo ebbe avvolto completamente in un telo di plastica arancione. Lo portarono via, seguiti dal medico. «Dove lo portano?» chiese Pierre. «A Champagnole, per l'autopsia» rispose un gendarme. «Povera mamma!» sospirò il brigadiere. «Ero a casa, sua stamattina. Cercavo di rassicurarla. Se avessimo potuto immaginare questo orrore!» L'uomo propose a Rondeau di firmare la sua deposizione sul posto, cosa che gli avrebbe evitato di presentarsi alla gendarmeria. Il pensionato accettò. Le dita gli tremavano, strette attorno alla stilografica. Il gendarme lo guardò più attentamente. «Si sente in grado di guidare?» chiese. «Altrimenti, uno dei miei uomini l'accompagnerà». «Ce la farò». Adesso quasi tutte le auto erano partite, seguite dai giornalisti. Erano rimasti soltanto due uomini che continuavano a battere i dintorni, parlando sottovoce. Rondeau, raccolta la sua borsa, l'aprì e ributtò in acqua la trota la cui livrea arcobaleno si era sbiadita. Se era riluttante a lasciare quel luogo, se avrebbe preferito rimanervi da solo, era perché, come un bimbo, disperatamente, chiedeva al tempo di fare marcia indietro, fino al momento di grazia in cui aveva lanciato la lenza nel suo lago preferito sentendosi un re. Ma soltanto i poeti hanno il potere di sospendere il volo del tempo. E di solito lo fanno piangendo. 8. «Mangia» ordinò Myriam a Blanche, spingendole sotto il naso il piatto che aveva appena riempito con un passato di verdura che aveva il buon profumo della quotidianità, della vita che continuava. Ma era un profumo menzognero, smentito dal cartello CHIUSO, appeso alla porta del ristoran-
te. Myriam avrebbe potuto aggiungere: «Chiuso per assassinio». Con i gomiti sulla tavola e il mento sui pugni, Sophie osservava la madre; non si lasciava sfuggire alcuna delle sue reazioni. Aspetta che mi metta a piangere, pensò Blanche. Il mio silenzio la preoccupa. Dei grossi singhiozzi le andrebbero meglio. Ma Blanche non aveva mai saputo «piangere forte». Anzi, più il dolore era grande e più lo nascondeva dentro di sé, facendo esattamente il contrario di quanto preconizzavano gli psicologi che, come imponeva la moda, correvano dovunque ci fosse della sofferenza per aiutare la gente a esprimerla, altrimenti, sostenevano, il dolore si sarebbe incancrenito e si sarebbe sviluppata quell'infezione dell'animo che si chiama depressione. «Hanno ritrovato Jean-Lou». Quando il padre del bimbo le aveva telefonato, verso le sei di sera, mentre lei tentava, senza grande successo, di disegnare, il tono di voce era tale che Blanche aveva capito subito che era morto. E, per la terza volta nella giornata, aveva inforcato la bici in direzione del giardino delle rose, trovando persino il modo di cadere al suo arrivo. Quando, due ore dopo, era tornata a casa, il palmo di una mano che bruciava per le abrasioni prodotte dai sassolini, aveva trovato la cena pronta da Myriam. «Sono sicuri?» chiese Sophie. «Sono davvero sicuri che Jean-Lou sia morto? Ha delle ferite?» Blanche deglutì con difficoltà. «Non presenta ferite, ma sono sicuri. Il suo cuore si è fermato». Jean-Lou non era stato brutalizzato e non aveva subito abusi sessuali. La prima cosa che i gendarmi, accompagnati dal sindaco, avevano detto a Marie-Thé: «Il suo bambino non ha sofferto». «Voglio vederlo» aveva supplicato lei. «Domani. Si trova all'ospedale di Champagnole per l'autopsia». Quella parola l'aveva fatta urlare. «Prenderanno quello che l'ha ucciso?» chiese Sophie. «E perché ha rapito Jean-Lou, se non gli ha fatto nulla?» «È certamente un pazzo» rispose Myriam con voce rauca. «Ha rapito il piccolo e poi ha avuto paura». René, il cuoco e marito della padrona, largo e solido armadio fatto del buon legno della tenerezza, venne a posare sul tavolo una scodella di crostini da cui Sophie attinse subito. L'uomo si sedette accanto a Blanche, e Myriam gli riempì il piatto.
«Ma allora, perché il pazzo non lo ha lasciato andare?» insistette Sophie a bocca piena. «Perché non lo ha liberato?» «Perché, ecco, non credo proprio che gli avrebbero fatto i complimenti, a quel porco!» rispose arrabbiato René. «Povera, povera Marie-Thé!» sospirò Myriam. «Il marito resta con lei, almeno?» «Vorresti che andasse in albergo?» tentò di scherzare Blanche, attirandosi uno sguardo furioso della sua Principessa. Aveva lasciato l'amica con due persone che la circondavano di premure. Il marito, come diceva Myriam, e soprattutto Thomas. L'anestesista era venuto a portarle qualcosa che l'avrebbe aiutata a dormire. Marie-Thé lo aveva quasi insultato. Dormire? E che altro volevano da lei? Con molta pazienza, lo specialista del dolore aveva saputo trovare il tono giusto per convincerla che l'indomani avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze, e che prendersi un po' di riposo non significava tradire Jean-Lou. Blanche aveva ammirato il suo modo di fare. In verità, non si sarebbe aspettata tanta fermezza da parte sua. «Ne parleranno alla televisione?» chiese Sophie guardando l'apparecchio posto in alto nella sala, spento per mancanza di clienti. «Ci puoi scommettere!» rispose Myriam in tono cupo. Blanche annuì: i giornalisti erano tornati alla carica da Marie-Thé. Non li avevano lasciati entrare. Jean-Lou è morto, si ripeté, ma in fondo al cuore, là dove racchiudeva la sua pena e la sua rivolta, continuava a rifiutare di crederci. Risentì la voce del ragazzino, pura, ingenua e nello stesso tempo piena di colori. La voce che somigliava ai suoi disegni. «Senti, Blanche, quand'è che potrò correre di nuovo con lo skateboard?» Le lacrime le salirono agli occhi. «Mamma, la tua zuppa si raffredda!» la incoraggiò Sophie, spargendovi una manciata di crostini». Un gesto d'amore. Myriam dormì male quella notte. Rispondendo alle domande di Sophie le era venuta un'idea di cui non riusciva a liberarsi, un'idea insultante, oltraggiosa: l'assassino era forse di Saint-Rémi, la città-paese in cui si era sempre sentita al riparo dagli orrori sfruttati quotidianamente dai media. Dovunque nel mondo, d'accordo, ma non lì. Non dove abitava lei! «Perché non lo ha liberato?» aveva chiesto Sophie.
La risposta era lapalissiana: perché Jean-Lou conosceva il suo rapitore e lo avrebbe denunciato. «Non credo proprio che gli avrebbero fatto i complimenti» aveva risposto René. La stessa idea. René aveva tentato di far ragionare sua moglie. Non era che una semplice ipotesi. Bisognava pur rispondere alla piccola. Myriam non si era convinta né rassicurata. Poiché c'era altro di cui non aveva osato parlare a René, che le avrebbe dato dell'idiota: guardando Sophie lappare il suo passato come un dolce gattino, così innocente e fragile, all'improvviso Myriam aveva avuto paura per lei. Una paura irragionevole, viscerale. Dopotutto, la ragazzina aveva più o meno la stessa età di Jean-Lou. E se fosse stata lei, la vittima? Myriam aveva conosciuto Blanche da piccola, quando veniva in vacanza dalla nonna. Poi l'aveva persa di vista e quando, dopo il divorzio, Blanche era venuta ad abitare a Saint-Rémi, ne era stata felicissima. Dopo la morte della nonna e la vendita della fattoria aveva proposto alla giovane donna, senza crederci troppo, di affittarle l'appartamento sopra il suo bistrot. Con sua sorpresa Blanche aveva accettato e la vita di Myriam ne era stata trasformata. Lei che non aveva potuto avere figli - il suo dolore, la sua ferita -si vedeva mandare dal cielo due creature in un sol colpo. Quando Sophie, di ritorno da scuola, si sistemava d'autorità in fondo al locale per fare i compiti, il cuore le scoppiava letteralmente di felicità. Se Myriam dormì male quella notte, fu anche perché la finestra della sua camera dava su quelle del municipio, dall'altra parte di place des Faïenciers, rimaste sempre illuminate. René era consigliere municipale. Lei lo mandò a chiedere notizie. Ce n'erano eccome! Di fronte alla gravità del caso, la polizia giudiziaria dava il cambio alla gendarmeria. Così aveva deciso il procuratore. A mezzanotte, due uomini del Servizio regionale della polizia giudiziaria erano arrivati da Besançon. Si sarebbero messi al lavoro sin dall'indomani. 9. Un uccello... un uccello da preda dallo sguardo penetrante, lungo becco, piumaggio grigio-nero... è perfetto, pensò Blanche quando incrociò il commissario Müller mentre arrivava da Marie-Thé quel venerdì mattina.
Venerdì... due giorni soltanto dall'episodio del piccione, dalla telefonata della sua amica: «Jean-Lou è scomparso». Quarantott'ore. È possibile? pensò. Mi sembra un'eternità. Il poliziotto le chiese di passare in mattinata al municipio, dove aveva installato il suo quartier generale. «La signora Marchand mi ha informato che lei è stata una delle ultime persone ad aver visto il bambino vivo» le disse. «Il bambino vivo...» Pensò che l'uomo avrebbe potuto risparmiarle quelle parole. Ma nessuna parola andava più bene per Jean-Lou. Tutte ricordavano che non c'era più. Marie-Thé era ancora sotto shock per le domande del commissario Francis Müller. Aveva ricevuto lettere o telefonate di minaccia? Nella sua vita esisteva qualcuno che si sarebbe potuto mostrare geloso di suo figlio? Com'erano i rapporti fra quest'ultimo e lei? «Sembrava che mi accusasse. Di che cosa, Dio mio, di che cosa?» Blanche si fermò per poco: stavano arrivando la famiglia di Marie-Thé e quella del marito. Francis Müller la ricevette nell'ufficio spazioso messo a sua disposizione dal sindaco. Telefoni, fax, computer erano già a posto: quegli strumenti che Blanche definiva barbari, ma così utili per lottare contro i criminali. Il commissario la interrogò a lungo sul comportamento dell'allievo durante la lezione di disegno. Le era sembrato normale? Aveva ricevuto delle telefonate? Una visita? Le aveva parlato di un appuntamento? «Un appuntamento?» ripeté stupita Blanche. «Lei pensa che Jean-Lou potesse avere appuntamento con il suo rapitore?» «Nessuno ha sentito nulla e nessuna traccia di lotta è stata rilevata nella stanza del piccolo. È uscito in tenuta da notte, come se pensasse di dover rimanere fuori solo un momento. È dunque probabile che conoscesse il suo assassino». A che ora lo aveva seguito? Non ne avevano la minima idea. L'ultima persona ad aver visto Jean-Lou mercoledì era l'infermiera, entrata nella stanza alle diciannove e trenta per verificare che tutto andasse bene. Passando un po' più tardi, la donna aveva constatato che la luce era spenta e pensato che il bambino stesse dormendo. Si trovava ancora nel suo letto, in quel momento? «Le sedute di disegno non hanno luogo nelle camere» spiegò Blanche. «Avevo cinque bambini l'altroieri, nessuno ha avuto visite o ricevuto telefonate. Jean-Lou ha disegnato una scimmia per un fumetto che prepariamo
a scuola. Non vedeva l'ora di tornarci». Aggiunse, non senza aggressività, che i rapporti fra Marie-Thé e suo figlio erano eccellenti, che Jean-Lou era un bambino felice e che la separazione dei suoi genitori si era svolta nelle migliori condizioni possibili. «Non abbiamo il diritto di scartare alcuna ipotesi» le rispose seccamente Müller. Lei si trattenne dal domandargli se tale diritto non si accompagnasse al dovere di mostrarsi umani. Mentre usciva dal municipio incrociò il piccolo Charles, accompagnato dalla madre che era andata a prenderlo a scuola per farlo pranzare a casa. «Una psicologa specialista dei bambini è venuta a parlare alla loro classe» fece sapere a Blanche. Il ragazzino fissava il suolo con aria testarda. La madre si allontanò un po' per non farsi sentire. «Charles non ha voluto dire nulla: nemmeno una parola!» Era ieri che il piccolo aveva chiesto a Blanche: «Ritornerà, non è vero?» Blanche aveva risposto: «Prima sarà, meglio sarà». La donna si sentì stringere il cuore. Charles aveva perso la fiducia in coloro su cui avrebbe dovuto fare affidamento? «A casa non gli si può cavare più nulla di bocca» proseguì la madre a bassa voce. «Nemmeno il suo computer lo interessa più, mentre prima ci stava incollato di continuo. Si chiude in camera sua e non risponde quando lo si chiama. Capirà, Jean-Lou era il suo migliore amico». Blanche si ricordò del modo risoluto con cui Charles aveva tenuto il posto di Jean-Lou accanto a sé durante l'ultima lezione di disegno. Le tornò in mente anche la loro breve conversazione sulla scimmia cappuccina. Come la chiamava? Ah sì! Mister Chance... un nome da film. Era una cappuccina anche quella che Jean-Lou aveva disegnato alla clinica? Si avvicinò al ragazzino e lo strinse lungamente al petto. Non c'era null'altro da dire. Gli inviati speciali delle radio e dei giornali cominciarono ad arrivare verso la fine della mattinata con i loro apparecchi fotografici, i loro cellulari e i loro fax portatili. C'era un unico albergo a Saint-Rémi: l'Hôtel du Centre. Il commissario Müller vi aveva riservato alcune camere per sé e i suoi uomini; i giornalisti si divisero le altre. A sera sarebbero arrivati quelli della televisione regionale. Il risultato dell'autopsia giunse al municipio già alle due del pomeriggio.
Jean-Lou Marchand era morto in seguito a una crisi cardiaca provocata da un'iniezione di cloruro di potassio, praticata nella piega interna del gomito destro. Il bimbo non aveva subito alcuna sevizia fisica o sessuale. L'ora della morte si collocava fra le tre e le sei del mattino. Gli esami sulla lividezza cadaverica indicavano che il corpo del bambino era stato trasportato vicino al lago poco dopo il decesso. Durante i notiziari delle diciotto parecchie radio parlarono di «delitto inspiegabile». Venne pronunciata la parola «gratuito». Il sostituto procuratore apparve brevemente al telegiornale della sera e si limitò a dichiarare che per il momento non veniva scartata alcuna pista e che si sarebbe fatto tutto il possibile per scoprire rapidamente il colpevole. Frasi sentite mille volte, ma che gettarono nello smarrimento e nel sospetto gli abitanti della cittadina. Francis Müller aveva riunito la sua squadra, composta da una decina di uomini, per fare il punto sulla situazione e stabilire un primo profilo psicologico dell'assassino. Innanzitutto si trattava probabilmente di un uomo. Nell'omicidio di un bambino, se il colpevole è una donna, di solito fa" parte della famiglia. L'innocenza della madre del piccolo Jean-Lou era fuor di dubbio, e la famiglia si riduceva a lei. Il rapitore conosceva la vittima, che lo aveva seguito senza opporre resistenza: niente rumore, nessuna traccia di lotta. Conosceva pure la clinica e i suoi orari. La camera di Jean-Lou si trovava accanto a un'uscita di sicurezza, che portava a un piano più sotto, al parcheggio. Senza dubbio erano passati per di là. Il parcheggio era chiuso al pubblico solo a partire dalle ventuno. Il personale disponeva di una tessera. Ciò poteva indicare che il rapimento aveva avuto luogo in serata. Il criminale sapeva praticare un'endovenosa. Alla clinica non era stata constatata alcuna sparizione di cloruro di potassio. L'assassino si era dunque rifornito altrove. Non aveva cercato di nascondere il corpo. Si poteva addirittura affermare: «Anzi». Gli sarebbe stato facile fare alcuni passi in più e gettarlo nel lago. Il colore sgargiante del sacco a pelo, il punto in cui era stato deposto - se non fosse piovuto tutta la mattina lo avrebbero ritrovato assai prima indicavano che l'assassino non aveva ritenuto necessario di concedersi il tempo di prendere il largo. Si credeva intoccabile? Né tracce, né indizi, né movente apparente. Solo questo: la cura che il
rapitore si era preso del corpo del bambino, la sua preoccupazione che venisse ritrovato in fretta, potevano leggersi come un messaggio: «Vedete, non sono il mostro che credete». 10. Scende i pochi scalini che portano allo scantinato di casa e percorre un breve corridoio. Giunto davanti alla porta, come sempre l'angoscia gli attanaglia il ventre: come verrà accolto? Dopo quanto è successo il giorno prima rischia di essere ancor più doloroso. Composto il codice, la pesante porta gira silenziosa sui cardini. Prima ancora di averla richiusa si ritrova fra le braccia Mister Chance, che emette grida di gioia. Almeno, la cappuccina gli fa sempre festa. Lo spazio è vasto. Occupa praticamente tutta la parte bassa della casa; è per questo che l'ha scelta. Un professionista della foto vi aveva installato un tempo studio e laboratorio di sviluppo. C'era stato poco da fare per ripristinarlo. Era pavimentato, vi arrivava l'acqua, e l'illuminazione, così importante per il bambino, era simile alla luce del giorno. L'essenziale dei lavori era stato eseguito da un artigiano reclutato in Svizzera e pagato profumatamente. Non avrebbe parlato. L'uomo aveva chiuso personalmente con fitte grate i finestrini, dopo che Mister Chance aveva avuto la malaugurata idea di scappare per fare un giro del parco. «Papà?» Al grido del piccolo Paul, la cappuccina fugge via. Quaranta centimetri, tre chili: una piuma. Durante i suoi primi cinque anni ha imparato a comunicare con gli esseri umani e a rispettare le costrizioni della vita in loro compagnia. È pulita, fa la doccia. Dopo la pubertà è stata messa accanto al piccolo Paul e si è adattata a lui. Sa rispondere ai suoi bisogni e occuparsene in assenza di suo padre. In caso di urgenza, il bambino dispone di un pulsante di chiamata che comunica direttamente con il cellulare del genitore. Fino a quel momento non ne ha mai abusato. Come al solito, il bambino è davanti al computer, l'altro suo compagno di sempre. Lo spegne e si volta verso il padre. I lunghi capelli chiari, stretti in una coda, potrebbero, se necessario, farlo passare per una bambina. Non sono stati tagliati dalla loro partenza dal Québec. L'uomo preferisce parlare di «partenza». Una «fuga» sarebbe indegna di lui. Nell'incantevole volto pallidissimo, diafano, il fulgore dello sguardo è quasi insostenibile. Si direbbe che tutta l'energia di cui è priva la parte in-
feriore del corpo del piccolo Paul si sia concentrata nei suoi occhi così belli, così azzurri, di cui, all'occasione, sa servirsi come di un'arma. «Dov'è Simba?» chiede. «Perché non è tornato?» «Alla fine Simba ha preferito tornare a casa sua» risponde l'uomo. «Non lo rivedrò?» «Non credo». «Perché si è arrabbiato?» insiste il bambino. «Non si aspettava di trovarti così». «Handicappato?» La parola è stata pronunciata senza ostilità, e il padre annuisce. Il piccolo Paul è sempre stato paraplegico. La paralisi degli arti inferiori risale alla nascita: camminare, correre, saltare sono per lui vocaboli di una lingua straniera. «E poi credeva di farti soltanto una visita» soggiunge il padre. «Non pensava che lo avremmo invitato a restare per un po'». Il bambino gira la poltrona a comando elettrico. Lascia vagare lo sguardo sui giochi; cosa preferisce? Costruire. Senza alcun aiuto è riuscito ad assemblare dei modellini molto complicati. «Però ci saremmo divertiti un sacco» dice sospirando. Lo stomaco del padre ha una nuova stretta. Scelti su catalogo dal figlio per i futuri amici di cui sogna, la maggior parte dei giochi non sono stati neanche aperti. «E se ne inaugurassimo uno?» propone con allegria forzata. Il piccolo Paul scuote il capo con forza. «Non voglio giocare con te. Voglio un altro amico, papà. Uno vero». È così che tutto è cominciato. 11. «Un amico, uno vero». Dal giorno fatale in cui il piccolo Paul ha scoperto su Internet il sito frequentato da alcuni bambini di Saint-Rémi: Hacuna-Matata.com. Dal Libro della giungla a Tarzan, passando per Dumbo, Bambi, l'orsetto Winnie e, ovviamente, il Re Leone, da cui viene la formula magica, il piccolo Paul ha letto tutto, ha visto tutto sul suo schermo. Gli animali selvaggi, gli animali in libertà, sono la passione del ragazzino condannato a vivere rinchiuso fra i braccioli di una poltrona a rotelle. È stato via via ognuno di quegli eroi. Ha scelto il nome di Mowgli per entrare nel sito e dialogare
con gli altri abbonati. Jean-Lou aveva preso quello di Simba. A Simba e ad altri il piccolo Paul ha parlato di Mister Chance. Ha avviato una corrispondenza quotidiana con loro. Ha desiderato vederli. Ha preteso di incontrarli. «Un amico, papà, uno vero». È impossibile comprendere ciò che l'uomo ha fatto, se non si è subito giorno dopo giorno, notte dopo notte, la supplica. Supplica... Supplizio... Jean-Lou-Simba aveva nove anni, la stessa età del piccolo Paul. Era un bambino vivace, allegro. Lo avrebbe trattenuto solo per qualche tempo e avrebbe fatto in modo che la madre avesse sue notizie. Il bambino lo aveva seguito senza esitare quando aveva appreso che avrebbe finalmente incontrato Mister Chance. Poi, l'orrore. La sua reazione davanti all'infermo. Lo sguardo che scende verso le gambe, il dito che si protende, accusatore. «Allora non puoi camminare? E poi sembri una bambina». E, molto presto, la paura e la collera: «Mi riporti alla clinica». La paura e le minacce: «Dirò tutto». La paura e la crudeltà: «E comunque, non giocherò mai con lui». Che poteva fare? Trattenerlo con la forza? Impossibile. Restituirlo a sua madre? Jean-Lou lo avrebbe denunciato, Paul e lui sarebbero stati separati. Per sempre. Non hai avuto scelta. L'uomo si china verso il figlio, il suo dolore, il suo rimorso, il suo amore straziante. «Presto, ti prometto, avrai un amico. Anzi, parecchi. Molti amici». «Dici sempre 'presto'» ribatte il bambino con ira. «Lo voglio adesso. Oppure lasciami uscire». «Sai bene che per il momento non è possibile. Ricorda la tua promessa». Accettare di vivere nascosto per qualche tempo. Era stato il piccolo Paul a scongiurarlo di toglierlo da quell'orribile istituto, da quell'inferno per innocenti in cui lo aveva messo sua madre, privandolo del suo computer che lei detestava, di Mister Chance che aveva preso in odio. «Portami via, papà, presto, lontano». Aveva sopportato benissimo il viaggio in auto, le lunghe giornate sull'oceano, pazzo di gioia per essere uscito da quella che chiamava la sua prigione. Lì, il suo regno gli era piaciuto. Durante i primi mesi aveva accetta-
to la solitudine, sapendo che, se fosse stato scoperto, lo avrebbero ripreso a suo padre e lo avrebbero rinchiuso di nuovo. Fino alla scoperta del sito. Mister Chance salta sulle ginocchia del ragazzino, elemosinando una carezza. È stato addestrato in Canada. Il cebo è il genere di scimmie più dolce, più affettuoso che ci sia. Gli piace anche molto giocare. Una coccola, un dolcetto, un frutto sono la ricompensa. Una ricompensa indispensabile perché la scimmietta continui ad assolvere il proprio compito. Il piccolo Paul la respinge brutalmente. «Vattene!» La scimmia si avviluppa nella coda per manifestare il proprio scontento, ma i suoi occhi restano incollati a quelli del suo padroncino e sembra che lo interroghi: «Perché mi tratti così?» «Non devi maltrattarla» lo rimprovera il padre offrendo un mandarancio alla cappuccina, che lo afferra prontamente prima di sbucciarlo con grugniti di soddisfazione. «Se continui così, smetterà di obbedirti». «Me ne frego» grida il bambino. «Non mi piace più». Eppure ne era così orgoglioso! Era stato proprio grazie a Mister Chance che Paul ha avuto i suoi primi interlocutori sul sito. Ha mostrato delle foto, vantato la sua intelligenza, la sua dolcezza, le sue molteplici capacità. Ma certi rifiutavano di credere che lui possedesse una simile meraviglia. «Con te! Mostraci delle foto con te». Il piccolo Paul non ne ha. Non ne ha più. Troppo pericoloso. Sono rimaste tutte laggiù. Appena non ci cercheranno più, ti tirerò fuori di qui, si ripromette il padre con disperazione. Andremo là dove potrò mostrarti alla luce del sole. Saremo semplicemente un padre e un figlio paraplegico. E tu avrai amici in abbondanza. Guarda l'orologio luminoso alla parete. Le otto di sera. Fuori è buio. Finché il piccolo Paul è condannato a vivere nascosto, è importante che conservi la nozione del tempo, rispetti degli orari e, per quanto poco, veda la luce del giorno dai finestrini. «Hai fame?» chiede. «È ora di cena. Che ne diresti di ravioli gratinati?» Il piatto preferito del bambino. Già in Québec. Facile da preparare, per sua madre: una teglia da infilare in forno. Ma sembrava che fosse chiederle troppo... «Non voglio cenare» dichiara il bambino. «Ho la nausea». Volta la schiena al padre, accende il computer e si connette a Internet.
Compaiono quelle scritte piene di termini tecnici. Con abilità maneggia il mouse. Il piccolo Paul vive con la Rete da più tempo che con la sua cappuccina. Sua madre lo chiamava «il bambino-computer». Perché non «il bambino virtuale»? Di nuovo il fuoco della collera infiamma tutto il corpo dell'uomo. Gli tremano le mani. Perché Roselyne si è ostinata a separarlo da quanto aveva di più caro al mondo? La dorma ha avuto solo ciò che si meritava. Le parole Hacuna-Matata.com compaiono sullo schermo con il sottofondo di una musica esaltante, misteriosa, ogni sorta di animali liberi corrono, galoppano, saltano. Adesso il piccolo Paul cerca il newsgroup. Trovato. La scimmietta guarda, affascinata, le dita del bambino che scorrono sulla tastiera per inserire il suo messaggio. Si direbbe che sospetti che si stia parlando di lei. «Da Mowgli a Zazu». «Vuoi incontrare Mister Chance? Ho anche un nido di formiche. Gliene daremo un po' da mangiare. Rispondimi». Il piccolo Paul rilegge il suo messaggio, poi si volta di nuovo verso il padre. «Zazu è l'uccello del Re Leone» spiega. «Ha molta voglia di incontrare Mister Chance. Lui vorrà restare, ne sono sicuro. Non griderà come Simba». Il cuore dell'uomo ha fatto un balzo. Zazu si chiama Charles Laurent. È stato lui, alla clinica, a rivelargli il suo nome in codice, lui a portarlo a Simba-Jean-Lou, il suo migliore amico. «E ti ha risposto? Zazu ti ha risposto?» chiede in un sussurro il padre. «Non ancora». Una vertigine annebbia la vista dell'uomo. E se Zazu rivelasse a Mowgli che cosa è successo a Jean-Lou? Quel computer diventa pericoloso. Ma il piccolo Paul non è mai vissuto senza. Esserne separato, laggiù, lo aveva quasi reso pazzo: «Portami via, papà, portami via». «Allora, per Zazu, va bene?» chiede il bambino con un filo di voce. Il padre non risponde. No, si ripromette l'uomo stringendo i denti. No! Adesso le lacrime scorrono sul viso del ragazzino, così fragile, così ferito. L'uomo si volta dall'altra parte: vederlo piangere per lui è una tortura. Preferisce cento volte le urla. «Lasciami un po' di tempo» mormora. «Vedremo». Il bambino-computer, il bambino-virtuale, l'abilissimo manipolatore di
mouse a cui il mondo risponde «presente» non appena lo sollecita, ha imparato a cliccare sui sentimenti di suo padre per indurlo a soddisfare i suoi desideri. Sa notare la minima inflessione della sua voce. Il «vedremo» che questi ha appena pronunciato può tradursi con «forse». Il piccolo Paul sorride fra le lacrime. «D'accordo per i ravioli gratinati» acconsente. «Ma sulle tue ginocchia. Come una volta». Per quel sorriso, per quelle parole, l'uomo è pronto a tutto. 12. Pierre Rondeau guardò, davanti all'altare, la piccola bara di legno chiaro coperta di rose, e sentì che stava per scoppiare in singhiozzi. Era anche quella musica, che idea! Violini, violoncello, da spezzare il cuore. Sua moglie gli strinse affettuosamente il braccio. Lui non aveva osato dirle che avrebbe preferito venire da solo. La donna non avrebbe capito che quanto era successo vicino al lago di Bonlieu era una storia che riguardava soltanto lui. Una storia fra lui e il tempo che gli restava da vivere, fra il prima e il dopo. E quando sul sagrato la madre del bambino era venuta a stringergli la mano e gli aveva sussurrato all'orecchio «Grazie a lei Jean-Lou non ha passato la notte fuori» in un certo modo atroce si era sentito ripagato del proprio dolore. L'interno della chiesetta romanica era stato riservato ai parenti della signora Marchand e agli abitanti di Saint-Rémi. Il resto del pubblico, costituito in maggioranza da curiosi, giornalisti e inviati della televisione, era stato pregato di restare all'esterno della casa del Signore. Degli altoparlanti, sistemati sugli alberi della piazza, permettevano loro di seguire la cerimonia funebre. Ma quelli potevano essere definiti «fedeli»? In chiesa, i primi banchi di sinistra erano occupati dai genitori di JeanLou circondati dalle famiglie e dagli amici. Quelli di destra radunavano i bambini delle elementari, inquadrati dalle maestre. Apprendevano quella mattina che la morte poteva colpire per davvero, persino fra loro. In piedi in fondo alla chiesa, il commissario Müller guardava quel padre e quella madre riuniti dal dolore e non poteva fare a meno di pensare che se non avessero divorziato - per una banale storia d'infedeltà - la madre non avrebbe lasciato Digione e il ragazzino sarebbe stato ancora vivo. Kyrie... Chiuse per qualche secondo gli occhi, abbandonandosi alla musica. Quando studiava giurisprudenza, i suoi genitori si burlavano affettuo-
samente di lui che, per concentrarsi, ascoltava quella che definivano la sua «musica da chiesa». Ma l'intento della musica sacra non era quello di calmare gli spiriti, di aiutarli a concentrarsi sull'essenziale? La musica da chiesa lo aveva sempre aiutato a vedere più chiaro nei suoi pensieri e nei suoi sentimenti. Lasciò vagare lo sguardo sui presenti, persone ben vestite, rispettose, in linea di massima rispettabili, molte delle quali piangevano, e si disse che forse fra loro si trovava l'assassino. È nell'ambiente della vittima che bisogna cercarlo prima di tutto, è lì che lo si trova di solito. L'idea che Jean-Lou conoscesse il suo rapitore e si fidasse di lui s'imponeva sempre più al poliziotto. Un rapitore diabolicamente abile, di cui non riusciva a definire le motivazioni. Nel corso della sua carriera, Müller aveva avuto a che fare con un gran numero di criminali e aveva finito col dividerli in due categorie. C'erano i casi semplici: esseri mossi dall'odio, da un desiderio di vendetta o, sempre più, purtroppo, in una società in cui dominava il denaro e le coscienze erano mute, dall'allettamento del lucro. In questa categoria dei casi semplici si trovavano gli accessi di pazzia, incidenti che, nella maggioranza dei casi, non si sarebbero mai ripetuti: la gelosia ne faceva parte. A casi semplici, risposte semplici. La polizia non si trovava a dover affrontare problemi troppo grossi. E poi c'erano gli «altri», che un tempo si chiamavano pazzi o squilibrati e, oggi, psicotici, nevrotici, paranoici e via dicendo. Costoro si presentavano spesso come persone del tutto normali, che la davano a bere piuttosto bene alla loro cerchia. Ad alcuni piaceva firmare i loro delitti, lasciare la loro impronta. Altri giocavano al gatto e al topo con gli inseguitori, come se un piccolo barlume di coscienza li inducesse a desiderare di essere messi nell'impossibilità di nuocere. Bisognava risalire per lo più alla loro infanzia per spiegarne il gesto criminoso. L'assassino del piccolo Jean-Lou faceva parte degli «altri». Müller ne era convinto. Non cercando di nascondere il corpo della sua vittima, consegnandolo intatto, a parte la traccia quasi impercettibile dell'ago che aveva provocato una morte immediata, sembrava proclamare: «Vedete, non ho voluto farlo soffrire». Per quanto strano potesse sembrare, si dichiarava non colpevole. E ciò che preoccupava di più Müller in quella mattinata di funerale, mentre il suo sguardo vagava sui partecipanti alla messa, era che nella categoria degli «altri» si trovano di solito i serial killer.
«Dio mio» pregò, benché non fosse più molto sicuro di credere. «Se è così, fa' che troviamo questo malato prima che ricominci a uccidere». L'uomo stava dietro gli scolari, a pochi passi di distanza. L'omelia del curato, benché un po' magniloquente per i suoi gusti, gli era piaciuta. «Di lassù» aveva predicato il sacerdote, «Jean-Lou vi guarda. Sa quanto lo amiate e prega Dio perché nei vostri cuori straziati la pace prenda poco a poco il posto del dolore». Di lassù, Simba guardava Mowgli. L'uomo guardava i bambini. Guardava quelle spalle strette le une contro le altre, quelle teste vicine, e provava un profondo senso d'ingiustizia. Qualunque fosse la loro pena, avevano l'immenso privilegio di non portarne il fardello da soli, erano insieme. E un po' più tardi, non ne dubitava, avrebbero ripreso i loro giochi, la loro corsa gioiosa verso un avvenire aperto a tutti i sogni, a tutti i desideri. Mentre vicino a loro, nel suo regno deserto, un Pinocchio spezzato non avrebbe mai incontrato la Fata dai capelli turchini che gli avrebbe permesso di diventare un vero bambino. Fra gli scolari individuò Charles Laurent: un rossino con gli occhiali, padre commerciante, madre casalinga e due sorelle grandi. «Allora, per Zazu, sei d'accordo? Lui accetterà di restare, ne sono sicuro. Non griderà come Simba». Charles-Zazu. No, si ripromise. No. Come attratto dallo sguardo dell'uomo, Charles si voltò, lo riconobbe e gli rivolse un pallido sorriso. L'uomo dovette fare uno sforzo per contraccambiarlo. Una coda si stava formando adesso nella navata, perché ciascuno potesse benedire Jean-Lou. L'uomo vi prese posto. L'odore un po' acre dell'incenso - l'odore del paradiso, come lo chiamava sua nonna, e lui non era d'accordo - si mescolava a quello dolciastro dei fiori. La musica cullava il suo dolore. Venne il suo turno. Una donna gli porse l'aspersorio. Tracciando il segno della croce sulla bara coperta di rose, chiuse gli occhi per un attimo. «Prega per il piccolo Paul» mormorò. Sulla piazza della chiesa, fra le altre persone che non erano potute entrare, Julien Manceau, inviato speciale di un'importante radio nazionale, ascoltava la musica diffusa dagli altoparlanti, che indicava la fine della funzione.
Era una bella giornata di sole, l'aria leggera e mite sembrava gettare un manto azzurro sulla disgrazia. Il canto degli uccelli sopra la sua testa pareva smentire ciò che avveniva in quella cittadina dai balconi fioriti: il funerale di un bimbo assassinato nella maniera più semplice e misteriosa del mondo. Julien era arrivato il mattino stesso da Besancon. Era stato lui a chiedere di occuparsi dell'avvenimento, senza ignorare che ciò non avrebbe fatto altro che riaprire l'antica piaga, ma come agire altrimenti? Lo doveva a Nina. Nina era la sua sorellina di sette anni, uscita a comprare delle caramelle al vicino supermercato e mai più rivista: svanita, scomparsa! Era successo a Lione, in una famiglia senza storia. Nessuna domanda di riscatto, nessuna rivendicazione erano giunte ai suoi genitori. Le solite telefonate di balordi che aggiungevano all'orrore il supplizio di fugaci speranze. Da quel giorno i genitori di Julien avevano vissuto nell'attesa. Non del ritorno della loro figlioletta, ma di una prova della sua morte, per poterne portare il lutto. Erano passati vent'anni. Quella vana attesa non era certamente stata estranea alla scelta del mestiere di Julien: reporter. Ogni rapimento o assassinio di bambino lo colpiva personalmente, e quando un colpevole veniva preso e punito non poteva fare a meno di pensare: 'Magari è lo stesso di Nina' e la sentiva un po' vendicata. Negli altoparlanti un'Ave Maria, interpretata da piccoli cantori dalle voci alate, lo fece tornare dolorosamente alla realtà: ecco! Un altro bambino strappato alla vita e all'amore dei suoi. Il portale a due battenti della chiesa si spalancò e apparve una donna in nero: la madre. Un uomo dall'espressione sconvolta la sorreggeva: l'ex marito. Immediatamente dietro di loro veniva una giovane donna bionda, esile, che stringeva visibilmente i denti per non piangere. Aggrappate a lei una ragazzina, che le somigliava moltissimo, teneva accanto al viso un bouquet di rose bianche. E in quell'atmosfera di dolore, di oppressione, di notte spirituale, entrambe offrivano, se così si può dire, uno spettacolo... fresco. «Chi sono?» chiese Julien al corrispondente del giornale locale, con cui aveva simpatizzato al suo arrivo a Saint-Rémi. «Blanche Desmarest e sua figlia» rispose questi. «La migliore amica della madre del piccolo Jean-Lou. È insegnante di disegno; il bimbo era uno dei suoi allievi».
Gli scolari comparivano sul sagrato, serrandosi gli uni contro gli altri, guardando la folla con occhi sgranati, uccellini che di certo non vedevano l'ora di volar via. «Prof di disegno, le sì addice» decise Julien seguendo con lo sguardo Blanche che scendeva i gradini e si mescolava ai bimbi. Non poteva fare altro, pensò. La piccola folla si scostò per lasciar passare i portatori, poi si dispose dietro la bara per avviarsi verso il vicino cimitero. Julien non si mosse. Se i suoi genitori avessero potuto accompagnare Nina all'estrema dimora, di sicuro la loro vita ne sarebbe stata trasformata. E anche la sua. La sorte di un'inchiesta si gioca nei primissimi giorni. Dopo, sono state pronunciate troppe parole, sono circolate troppe voci, vere o false. La verità si smarrisce. Nel caso di Nina erano stati commessi degli errori. Julien lo aveva appreso solo molto più tardi. Troppo tardi. Guardando sparire le ultime persone del corteo, quelle che a bassa voce ricostruiscono già gli avvenimenti a modo loro, Julien si ripromise che sarebbe stato il pungolo della futura inchiesta, nei limiti del possibile, e anche dell'impossibile. Seconda parte Charles-Zazu 13. Lo squillo del telefono svegliò Blanche di soprassalto alle sei e mezzo del mattino: la voce di Roland. «Può venire alla clinica, Blanche? La sua amica...» «È morta?» Il grido le era sfuggito. Certo, Marie-Thé era morta: avevano seppellito suo figlio ieri. «Ma no, ma no» fece la voce calma del chirurgo. «Ha solo preso troppe pillole. Adesso sta bene». «Arrivo». Blanche riattaccò. Il cuore le batteva ancora forte. Sta bene... Buona questa! Scese dal letto e andò a scostare la tenda. La notte si faceva più leggera. Era l'ora in cui le piaceva alzarsi, una volta, quando dormiva con lo spirito in pace le sue otto ore di fila. Alzarsi con nel petto il ronzio gio-
ioso di un motore che la spingeva verso il tavolo da disegno. Il motore sarebbe ripartito? Dal giovedì precedente, il giorno del piccione, ogni risveglio era stato pesante, grigio: uccello del malaugurio. E il funerale di Jean-Lou non aveva risolto niente. In mezzo alle rose che ricoprivano la bara - tutte quelle del giardino di Marie-Thé - ciascuno aveva potuto leggere un enorme punto interrogativo. Uscì in corridoio. Nessun rumore dalla camera di Sophie. A quanto pareva, il telefono non aveva interrotto il suo sonno, tanto meglio! Era mercoledì, la sua Principessa avrebbe poltrito a letto sgranocchiando dolci, di preferenza al cioccolato, di cui Blanche avrebbe trovato il ricordo sul suo letto. E dire che ti ho sgridata per questo, per qualcosa che fa parte della vita di tutti i giorni di una ragazzina viva e vegeta, oh mio tesoro, mia cara... Niente doccia per non far rumore. Una lavatina alla svelta. Un caffè? No! Dopo, una volta tranquillizzata sulle condizioni di Marie-Thé. Sul tavolo di cucina, sotto il pacco di dolci... al cioccolato, lasciò un messaggio: Devo uscire, fai una bella colazione, a presto, tesoro mio. Il genere di dolci che le sarebbe tanto piaciuto trovare nella sua infanzia! Roland la stava aspettando nell'atrio della clinica. Un atrio elegante, dalle pareti ornate di foto dei quattro laghi di cui la casa di cura portava il nome. Il fatto che il lago di Bonlieu non ne facesse parte adesso era una fortuna, per la reputazione dell'ospedale. Il chirurgo aveva i lineamenti tirati, anche lui non doveva aver dormito troppo bene. Trattenne la mano di Blanche per qualche secondo nella sua. «Mi dispiace di averla allarmata. Ho pensato che la sua amica sarebbe stata contenta di trovarla al suo fianco al momento del risveglio. Il marito è a pezzi. Per fortuna si è accorto di ciò che la poveretta aveva fatto». «Lei ha parlato di pillole, di quali pillole si trattava?» chiese Blanche. Con aria sorpresa, Roland gliene disse il nome. Erano proprio quelle che Thomas aveva portato l'altra sera a Marie-Thé e che l'amica si era rifiutata di prendere. Blanche si ricordò del suo grido: «Dormire? E che altro volete da me!» A meno che non sia per sempre? «Tutta la confezione, accompagnata da qualche bicchiere di whisky. Non abbastanza per lasciarci, ma a sufficienza per stare molto male. Definiamola un'invocazione di aiuto». La trascinò nel corridoio. Lo stesso odore dolciastro ovunque. «Un odore di puntura» lo chiamavano i bambini. Per Jean-Lou, la puntura era stata mortale.
«Le è stata fatta una lavanda gastrica» spiegò Roland. «Ha appena lasciato la sala di rianimazione. Non si lasci impressionare dai tubi. Ma lei è una donna forte, non è vero?» Blanche si fermò. «Non me lo dica mai!» Lui la guardò sorpreso. Lei si sforzò di sorridergli. «È una frase che ho sentito un po' troppo... quando ero piccola e debole». «Una signorinella... una ragazzina su cui si può contare... Una figlia all'altezza...» Quale altezza, buon Dio? Si può distruggere un bambino ripetendogli che è una nullità; gli si mettono scarpe di piombo chiedendogli di essere troppo forte, troppo grande rispetto alla sua età. Chiusa nell'angolo fra un padre dispotico e una madre depressa, a lungo Blanche non aveva saputo chi essere. E oggi lo so? si chiese con ironia. «Se vuole, ci rivediamo fra un po'» propose Roland lasciandola alla porta della camera. Marie-Thé aveva gli occhi aperti. Il suo volto era livido, scavato. Blanche si sedette sul bordo del letto e prese la mano collegata ai tubi. In pochi giorni la sua amica era invecchiata in maniera incredibile. Più nessuno le avrebbe chiesto se per caso fosse la sorella maggiore di Jean-Lou. Il suo sguardo chiamò Blanche; mosse le labbra ma non ne uscì alcun suono. «Non hai bisogno di parlare, lo so» mormorò Blanche. Le uniche parole che la sedicente donna forte trovava erano «Ti capisco. Se un simile orrore fosse capitato a Sophie, avrei fatto la stessa cosa. Ma non avrei sbagliato la dose». Le lacrime le bruciarono le palpebre. Ecco che mi commisero, brava! È questa la pietà? Commuoversi davanti alla propria fortuna e donare qualcosa per non sentirsi in colpa? Tenne la mano di Marie-Thé stretta nella propria fino all'arrivo del marito, pardon, dell'ex, accompagnato dalla madre della sua amica. Mentre Blanche lasciava la stanza, si imbatté in Thomas. L'anestesista stava finendo di abbottonarsi il camice. Dietro gli occhiali, lo sguardo era ansioso. «Roland mi ha detto cos'è successo. Come sta?» «Se la caverà». Era stata sul punto di dire «per questa volta», ma sarebbe stato crudele.
Thomas sapeva che Marie-Thé aveva lanciato la sua invocazione di aiuto con le pillole che lui le aveva lasciato, e senza dubbio se lo rimproverava. L'anestesista aveva un'aria così infelice che Blanche gli posò una mano sul braccio. Subito lui la ricoprì con la propria. Il suo sguardo grigio la interrogava. Spesso Blanche aveva avuto l'impressione che aspettasse solo un segno da lei per dichiararsi. Segno che era ben decisa a non dargli mai; per lui provava soltanto amicizia. Ritrasse la mano e Thomas voltò la testa dall'altra parte con un'espressione che la sorprese: truce? «Verrà nel pomeriggio?» chiese con voce brusca. Dapprima lei non capì la sua domanda, poi si ricordò. Quello era il suo giorno di disegno con i piccoli pazienti. La «fata del mercoledì», come diceva Roland. Come fata, puoi andare a rivestirti... di nero, pensò. «Certo che verrò! Non c'è ragione per non farlo. Questi poveri bambini...» L'anestesista fece un sospiro. Di sollievo? Blanche non capì perché, prima di sparire nella camera di Marie-Thé, le disse «Grazie». 14. «Ci vediamo più tardi, se vuole» aveva detto il chirurgo a Blanche. Ma all'accettazione la informarono che era uscito. Otto e un quarto. Era rimasta quasi un'ora con Marie-Thé. Forse si era stancato di aspettare. Decise di rincasare. Il cielo aveva preso il lutto con una giornata di ritardo: ora era di un grigio plumbeo, mentre il giorno prima era azzurro e oro. Blanche si stava dirigendo verso la bicicletta quando l'auto del chirurgo entrò nel cortile. Roland vide la giovane donna e si fermò non lontano da lei. «Per un pelo non ci incontravamo» disse uscendo dalla macchina. «Come ha trovato la sua amica? Le ha detto qualcosa?» «Nemmeno una parola» riconobbe Blanche. «L'ho lasciata con la madre e il marito. Forse loro riusciranno a farla parlare». Ecco che di nuovo si autocommiserava! Se le fosse capitata una disgrazia, quale famiglia sarebbe venuta a soccorrerla? Non aveva più nessuno... Ma sì! Sophie e Myriam. Roland guardò l'orologio. «Scommetto che non ha fatto colazione. E, in verità, nemmeno io. Posso invitarla?» Un caffè, un caffè macchiato bollente... Blanche si rese conto che ne a-
veva una voglia feroce. Un caffè in compagnia. Sorrise al chirurgo. «D'accordo, ma non qui. Non mi piacciono troppo gli odori. E sono io a invitarla dalle mie parti. Conosce Chez Myriam?» «Ne ho sentito parlare. Sembra che gli odori lì siano buoni». «Anche il caffè. E con un po' di fortuna, i croissant saranno caldi». «Allora andiamo». Indicò la sua auto: «L'accompagno?» «No, grazie, sono motorizzata» rispose Blanche inforcando la bicicletta. Lui la seguì senza cercare di superarla. Blanche constatò divertita che dietro di loro si stava formando una fila di veicoli i cui guidatori non osavano suonare il clacson a causa dell'ora. Ecco, ti meriti proprio il nome di «reginetta» confidò Blanche alla sua vecchia bicicletta. Aveva rinunciato all'auto quando si era trasferita a Saint-Rémi. Tutto di guadagnato, poiché, ogni volta che ne aveva bisogno, Myriam le prestava la sua vetusta Due Cavalli. Sophie era a un tavolo della sala grande del caffè - la saletta interna, più tranquilla, era riservata ai compiti e alle lezioni serali. La bimba gustava delle fette di pane imburrate e una cioccolata spumosa, guardando i cartoni animati alla televisione. Ovviamente, non c'era un apparecchio televisivo nella cucina del loro appartamento. E Myriam non sapeva rifiutarle nulla. Blanche presentò Roland a sua figlia, che si degnò di staccare un attimo gli occhi dallo schermo per dirgli buongiorno. «Ti conosco» constatò la piccola. «Sei il signore che opera. Ti vedo il mercoledì, quando vado alla clinica con la mamma». Sophie accompagnava volentieri Blanche ai Quatte Lacs. Era una visita interessata poiché lì poteva trascorrere il tempo della lezione nella sala giochi della casa di cura. Blanche sperò che sarebbe venuta con lei quel pomeriggio. «Non ti ho visto, l'ho vista» disse Blanche correggendo la figlia. «Lasci perdere, è un onore!» protestò Roland portando alle labbra la mano di Sophie, che si lasciò sfuggire una risata. Quando rideva le si formavano due fossette sulle guance, e ogni volta Blanche avrebbe voluto baciargliele. Quella mattina fu ancora più difficile trattenersi. Non era di brioche o di croissant che aveva fame, ma dell'amore e dell'allegria della sua Principessa. Myriam venne a prendere l'ordinazione: caffè per Roland e cappuccino per Blanche. Ebbe la buona idea di spegnere il televisore e, dopo averli serviti, non resistette al piacere di sedersi al loro tavolo. Talvolta Blanche invidiava la spigliatezza dell'amica. Se fosse entrato nel locale il papa in
persona, lo avrebbe ricevuto con la stessa semplicità: «Allora, Santo Padre, come va in Vaticano?» Blanche le raccontò di Marie-Thé, minimizzando i fatti a causa della presenza di Sophie. Come tutti i bambini del posto, anche lei era rimasta molto colpita dalla tragedia. Tanto più che conosceva Jean-Lou e tendeva a snobbarlo: era un piccolo! Per fortuna, accettava di parlarne. Non era tipo da rinchiudersi nel suo dolore, come una tizia che Blanche conosceva bene... «Lei ha operato un mio cugino» disse Myriam al chirurgo. «Stravede per lei. Sa la domanda che si fanno tutti al suo riguardo?» «Una domanda?» «Come mai è venuto a seppellirsi in un buco come Saint-Rémi quando sembra che ci sia scarsità di chirurghi dappertutto?» Roland sorrise. «E se fosse stato proprio il buco ad attirarmi? Un buco tranquillo e verde, e un part-time alla clinica che mi consente di scrivere un libro che mi sta a cuore». «Sei come la mamma» intervenne Sophie alzando il naso dalla tazza di cioccolata. «Prima stavamo a Parigi, e anche lei è venuta qui per il verde. Solo che lei non scrive libri, li disegna». «Me l'hanno raccontato» rispose Roland. «E tu, Sophie, cosa fai di bello?» Una fiamma maliziosa passò negli occhi della piccola e Myriam, sapendo che cosa avrebbe risposto, rivolse un cenno d'intesa a Blanche. «Io mi interesso di extraterrestri. Un giorno avrò un sito per ascoltare il cielo» dichiarò la bimba, nello stesso tono in cui avrebbe potuto dire «Mi interesso ai vestitini, alle bambole o alle fragole». Gli extraterrestri costituivano il test inevitabile cui Sophie sottoponeva tutti coloro che cercavano di guadagnarsi la sua amicizia. Ed erano in molti a corteggiare quella bella ragazzina che ogni sera vuotava la sua cartella nella saletta interna del caffè! Talvolta un po' troppo numerosi e solleciti, per i gusti di Myriam... Dalla reazione dell'interlocutore al progetto di Sophie dipendeva la sua sorte. Se aveva la disgrazia di riderne, o anche solo di sorriderne, veniva definitivamente cancellato dalla sua lista. Roland rimase serio. Bevve alcuni sorsi di caffè senza togliere gli occhi di dosso a Sophie prima di porle una domanda che dovette collocarlo al vertice della sua stima.
«Allora credi che non siamo soli nell'universo». «Ovvio» rispose la bimba. «Tu no?» «Mi capita di sperarlo». «Stanne certo» lo rassicurò lei. E fu Blanche a trattenersi dal ridere, tanto il tono era perentorio. Un uomo entrò nella sala. Sulla trentina, jeans, giubbotto di cuoio, borsa a tracolla. La disinvoltura del parigino, l'occhio inquisitore del giornalista. Gli abitanti di Saint-Rémi avevano imparato a riconoscerli. La maggior parte di loro erano ripartiti il giorno prima, dopo il funerale. Myriam si alzò con un sospiro. «Il buco non è più così calmo, e si vedono sbarcare strani extraterrestri» osservò lei indicando con il mento il nuovo arrivato. Le guance le si imporporarono: «Non vedo l'ora che prendano quello schifoso e che non se ne parli più». «Prima sarà, meglio sarà!» approvò Roland. Esattamente quello che avevo detto a Charles, pensò Blanche, e il suo appetito sparì. Myriam andò a occuparsi del cliente. Roland terminò il suo croissant. Blanche si accingeva a chiedergli che libro stesse scrivendo quando il cellulare di lui si mise a suonare nella sua tasca. Dopo essersi scusato, il medico si alzò per andare a rispondere alcuni metri più in là. Davanti a tanta educazione Sophie rimase a bocca aperta. Sa dare importanza ai bambini, approvò Blanche: una questione di fiducia. Io sono una madre troppo ansiosa. Avrebbe voluto Sophie al riparo da tutto, dalla violenza in televisione o altrove, dalla droga, dal sesso praticato troppo presto. Aveva sperato che a Saint-Rémi... La conversazione telefonica fu breve. Dopo aver spento l'apparecchio, Roland tornò verso di loro. «Purtroppo il dovere mi chiama» sospirò. «Sarei rimasto più a lungo in così deliziosa compagnia. Mi permetterà di ricambiare l'invito?» Strinse la mano a entrambe. Sophie lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva verso la porta. Poi fissò sua madre con severità. «Sono sicura che lui ha Internet» dichiarò. Blanche disegnava. Illustrazioni per un libro destinato ai piccoli, che doveva uscire prima delle feste. Si era impegnata a consegnare il lavoro al più tardi a fine ottobre: di lì a un mese. Il soggetto era dei più classici, ma i bambini non se ne stancavano. Una
bambola che prendeva vita la notte e trascinava la ragazzina a cui apparteneva in folli avventure. Tutti vogliono sempre l'avventura e, più è spaventosa, più ne vanno matti, pensò lei. A patto che finisca bene, ovviamente. Rivide gli occhi brillanti di Sophie quando parlava dei suoi cari extraterrestri. Era convinta che fossero delle creature benefiche, desiderose di aiutare i terrestri. Perciò disdegnava tutto ciò che era «guerre stellari». Blanche allineò sul tavolo alcune matite dai colori teneri. La storia della bambola magica sarebbe stata letta ai bambini prima che si addormentassero, perciò la voleva color del sogno e non dell'incubo. Aveva esitato a lungo fra matite colorate e pastelli. Per finire col decidersi a favore di matiteacquerello, solubili in acqua. Quella tecnica le piaceva. Cominciava a immergersi nel suo soggetto quando suonarono alla porta. Era il cliente del caffè. Ed era proprio un giornalista! «Julien Manceau» si presentò, citando la radio di cui era l'inviato. «Sarebbe disposta a chiacchierare un po' con me?» Blanche si sentì pervasa dalla stizza. Chi lo aveva autorizzato a salire: Myriam? «Non ho niente da dirle» rispose seccamente. «Non le porterò via molto tempo» insistette l'uomo. «Ho saputo che Jean-Lou era uno dei suoi allievi e ho pensato...» Sopraffatta dall'indignazione, Blanche non lo lasciò finire. «Chi le permette di chiamarlo Jean-Lou? Lo conosceva?» E, approfittando del disorientamento del giornalista, gli sbatté la porta in faccia. 15. «Sei in ritardo!» disse Sophie a Thomas facendogli gli occhiacci. L'anestesista scoppiò in una risatina. Aveva raggiunto la piccola nella sala riservata ai giovani malati della clinica, una sala che avrebbe fatto invidia a qualsiasi istituto ospedaliero: televisore, videoregistratore, lettore di CD, libri... «Deve pensare, signorina impaziente, che talvolta mi tocca occuparmi dei miei pazienti... Voglia comunque accettare le mie scuse». «Il fatto è che mamma si trova qui da quasi un'ora, perciò non abbiamo più molto tempo» spiegò con gravità lei.
Thomas indicò due bambini incollati a dei video. «Mentre mi aspettavi, non eri senza compagni di gioco». «Giocare...» sbottò Sophie con disdegno. Thomas sapeva bene che non era quello che lei veniva a cercare lì. La bambina lo seguì fino alla porta che introduceva in quella che per lei era la stanza magica. Lui la aprì con una chiave attaccata al suo mazzo. Quella piccola stanza, contigua alla sala giochi, era vietata ai bambini non accompagnati. Vi si trovava la meraviglia delle meraviglie: Internet. Alcuni volontari, che facevano parte del personale della clinica, si premuravano di iniziare al mouse i malati che non avevano un computer a casa e di guidare sulla Rete gli apprendisti navigatori. Sophie era dovuta ritornare cento volte alla carica prima che Thomas accettasse di accompagnarcela. I bambini «di fuori» o altri visitatori non potevano utilizzare il materiale della clinica. E Thomas conosceva perfettamente l'avversione di Blanche per Internet. Aveva finito col cedere in cambio della promessa che Sophie avrebbe mantenuto il segreto. Come fa la mamma a pensare che Internet sia dannoso per me! pensò con rammarico mentre si accomodava davanti allo schermo e Thomas si collegava. Se almeno accettasse di provare, ma no, nemmeno questo. Blanche si ostinava. Affermava inoltre che le sarebbe costato troppo. Come se si potesse pensare ai soldi quando era questione di vita su altri mondi! La macchina ronzò. Thomas le si sedette accanto. «Un giretto dalle parti di Hacuna Matata?» Sophie annuì. Hacuna Matata: il primo sito che Thomas le aveva fatto visitare. Un sito sugli animali selvaggi. Erano soprattutto i piccoli a frequentarlo. La divertiva leggere i loro messaggi, in cui spesso c'erano errori di ortografia incredibili. Capitava anche che litigassero tra loro. Mentre compariva la formula del Re Leone, una musica esotica riempì la stanzetta. Con il sonoro era ancora meglio. Il giorno in cui lei avrebbe creato il proprio sito, avrebbe scelto una musica misteriosa, di stelle lontane, una specie di ronzio dorato. «Vediamo cosa si raccontano oggi» decise. Cliccò alla ricerca del newsgroup. Sentiva alle spalle il respiro di Thomas. Respirava sempre così, un po' forte. Comunque, era davvero fantastico, a permetterle di servirsi di Internet benché fosse proibito. E quella mattina aveva trovato fantastico anche Roland. Le balenò un'idea.
«Roland viene qui con i bambini?» chiese a Thomas. «Lo chiami Roland, adesso?» fece l'anestesista con uno strano tono di voce, come se fosse geloso. «Non lo so. A ogni modo, qui non l'ho mai incontrato». Sophie sospirò dispiaciuta: peccato! Forse avrebbe accettato anche lui di aprirle la porta della stanza magica. Quel giorno c'erano pochi messaggi: un certo Bambi, un Tarzan... La divertiva anche scoprire gli pseudonimi dei partecipanti, alcuni decisamente stupidi. E naturalmente c'era Mowgli, un nome che invece le piaceva molto: quello del protagonista del Libro della giungla, il ragazzino allevato dai lupi. Ogni volta che Sophie visitava il sito era sicura di trovarcelo. Sosteneva di possedere una scimmia superintelligente, una cappuccina, e gli altri non gli credevano. Come al solito, protestava: «Perché non mi rispondete più? Rispondete, rispondete». «Poverino» lo compatì Sophie ad alta voce. «Non potrei lasciargli un messaggio? Solo uno piccolo piccolo? 'Io ci credo, alla tua scimmia. Dimmi dove si può venirti a trovare per stringerle la zampa'». Thomas non rispose subito. Stava telefonando, in fondo alla stanza. La cosa scocciante, con Thomas, era che telefonava di continuo. E lui non si scusava come Roland. Ritornò verso di lei. «No» rispose severo. «Lo sai benissimo, Sophie. Niente messaggi». Lei sorrise dentro di sé. Eh sì, lo sapeva. «Lasciarti guardare è una cosa, permetterti di partecipare un'altra» le aveva spiegato Thomas, e lei aveva capito che su quel punto era inutile insistere. Il che non le impediva di provarci ogni volta, solo per vedere. Lasciò il newsgroup. «I genitori conoscono gli pseudonimi dei loro bambini?» chiese a Thomas. «No, lo sai bene. È top secret!» Sophie apprezzò. Una volta scelto il proprio, non le sarebbe piaciuto che sua madre o Myriam lo conoscessero. Sarebbe stata una cosa solo sua. «Conosco una cosa top secret sulla mamma» annunciò all'improvviso. «Se è top secret non devi dirla». La bimba esitò un attimo, poi si lanciò. «Mamma ha una fobia. Se un uccello le si avvicina troppo, o una farfal-
la, soprattutto una falena, si paralizza totalmente». «E non si cura?» chiese stupito Thomas. La piccola lo guardò con aria severa: «Tu che sei dottore, sai bene che una fobia non si cura. La si ha per tutta la vita». «Hai ragione» approvò lui. «Sono un dottore da quattro soldi». Sophie scoppiò a ridere. Thomas le piaceva davvero molto. Talvolta l'anestesista aveva il viso tutto grigio; sembrava che stesse per piangere o per arrabbiarsi. Invece no! Un attimo dopo, scherzava. Come quel giorno. «Hai dei bambini tuoi?» gli chiese. «Sei un papà?» Di nuovo il volto di Thomas si incupì. «Sì. Ma non vivono con me». «È la loro mamma ad averne la custodia?» «Sono quasi sempre le madri ad averne la custodia» rispose lui tetro. «E perché?» «Perché portano i bambini nel loro ventre». Guardò l'orologio e spense il computer. «Uffa!» esclamò Sophie. «Non siamo nemmeno andati sul sito degli extraterrestri». «Un'altra volta» rispose Thomas. «Oggi non abbiamo più tempo. Così imparerai a spettegolare come una gazza. Fra un quarto d'ora tua madre verrà a prenderti. Vuoi davvero che ti trovi qui?» Lei lasciò la sua sedia, rassegnata. Se Blanche la trovava lì, di sicuro non ci sarebbero più stati giretti sulla Rete. Tornarono nella sala giochi. Due bambini si divertivano rumorosamente. Thomas si mise un dito sulle labbra. «Segreto per segreto, non dirò nulla della fobia» promise sommessamente. Alla porta, Sophie si alzò in punta di piedi. «Un bacino con lo schiocco» reclamò. Con il cuore stretto Thomas sì chinò sulla sua guancia. Sophie aveva il profumo della bambina sana, della vita in boccio. Come poteva la gioia essere nello stesso tempo così dolorosa? Con un gesto rabbioso il piccolo Paul spegne il computer. Niente! Nessun messaggio per lui, nessuna risposta ai suoi appelli. La delusione lo pervade, forma un groppo nel suo petto. Delusione, e anche inquietudine. Da quando è venuto Simba il dialogo si è interrotto. Il bambino ha riflettuto. Sa che Zazu e Simba abitano nella stessa citta-
dina: Saint-Rémi. Ha appreso anche che suo padre lo tiene nascosto nelle vicinanze. Oh, non è stato suo padre a dirglielo: «Meno ne saprai e meglio sarà per noi». Il piccolo Paul lo ha letto su un pezzo di busta dimenticato da suo padre un giorno in cui sbrigava la corrispondenza accanto a lui. «Via per Saint-Rémi» significava sicuramente nelle vicinanze del villaggio. E se Zazu e Simba si conoscessero? Se Simba avesse raccontato a Zazu che lì le cose erano andate male? Che era infermo e che sembrava una bambina? È già passata una settimana da quando è venuto. No! Un po' più di una settimana: mercoledì scorso, mercoledì sera. «È importante che tu sappia che giorno è, anche che ora è. Non devi aver perso la cognizione del tempo quando uscirai. Presto». Presto, ma quando? Gli speleologi che si rinchiudono sotto terra perdono la cognizione del tempo. Anche lui. «Presto» somiglia a «mai». Il bambino manovra la sua poltrona e si avvicina al finestrino. Ormai non si vede più niente. Non si sentono nemmeno più i piccioni, rru, rru... Una sera il papà lo ha accompagnato fino alla colombaia. Il piccolo Paul avrebbe voluto dar da mangiare ai piccioni, ma era impossibile. È quasi sempre impossibile. E da quando è venuto Simba, suo padre non lo fa più uscire. Presto, sempre, mai. Tutto ciò che il piccolo Paul riesce a distinguere chinandosi e rovesciando il capo, con conseguente mal di schiena, sono dei tronchi d'albero, degli abeti come laggiù. Laggiù. Il piccolo Paul non è più tanto sicuro di preferire qui a laggiù. All'inizio era contento, ma adesso la reclusione dura da troppo. A volte ha paura che suo padre non lo lasci più uscire, che lo tenga rinchiuso lì dentro per sempre. Sempre, mai. Laggiù c'erano delle persone, degli altri bambini come lui, delle infermiere, dei dottori; a volta c'era mother che gli diceva che papà era pericoloso e che era meglio che non si vedessero troppo. «Tua madre ha avuto un incidente. Adesso è vicina al buon Dio». «Simba non è voluto restare con te. Se n'è andato per sempre». Andato anche lui presso il buon Dio? Il piccolo Paul si tappa le orecchie, ma il grido gli si gonfia nel collo fino a soffocarlo. Se gridi, nessuno ti sentirà. Suo padre ha aggiunto un vetro alle griglie dei finestrini. Le griglie sono state applicate dopo il tentativo di evasione di Mister Chance. Il vetro, dopo Simba. Grida ugualmente, e gli risponde la solitudine. Allora preme il bottone che lo collega al papà. «So-
lo in caso di urgenza». È urgente, non ne può più, qui è una prigione peggiore che laggiù. Al suo grido Mister Chance si precipita verso il frigorifero. Ecco che gli salta sulle ginocchia e gli mette in mano una bottiglia di succo di frutta, fissandolo con i suoi occhi gialli e schioccando le labbra per reclamare una ricompensa. «Non ti ho chiesto nulla, idiota! E hai dimenticato la cannuccia». Il piccolo Paul respinge la sua scimmia e lancia la bottiglia contro il muro. Mister Chance non suscita più l'interesse di Zazu. Zazu non chiede più di vederlo: «Una sua foto con te». Perché papà ci mette tanto a venire? E se non tornasse più? Se rimanesse lì tutto solo per sempre? «Mister Chance!» La scimmia non risponde. Fa il muso davanti alla casa delle formiche: una grande casa di plastica, posata su un tavolo, che papà ha riempito di terra. Si possono vedere le formiche che scavano le loro gallerie. La regina è due volte più grossa delle operaie. Le formiche sono il cibo preferito di Mister Chance, la sua ricompensa più ambita. Era una sorpresa per Zazu. Avrebbe lasciato che gliene desse. Zazu sarebbe rimasto. Non avrebbe gridato come l'altro. Ma papà rifiuta di portarglielo. Con espressione cattiva, il piccolo Paul gira la poltrona di fronte al tavolo. «Ne vuoi, eh? Ne vuoi?» grida alla scimmia. Preso lo slancio, dirige la poltrona contro il mobile che, urtato, fa vacillare la casa delle formiche. Mister Chance saltella protestando violentemente: «Nio! nio!». Il piccolo Paul ride. E avanti... e indietro... La formica è un essere sociale: non può vivere da sola. Da sola, una formica non è niente. Da solo, un bambino non è niente. Il tavolo oscilla. Nella casa si scatena il panico. Gli insetti rotolano gli uni sugli altri, le gallerie crollano. E avanti... e indietro... La scimmia urla, il piccolo Paul batte le mani, la porta si apre e suo padre si precipita dentro. «Fermati! Che cosa stai facendo?» «Voglio Zazu!» urla il bambino. «Voglio Zazu! Voglio Zazu!» 16. Francis Müller guardò il giornalista seduto di fronte a lui e non poté reprimere un sospiro. Ci mancava anche quella! Manceau, Julien Manceau, il fratello della piccola Nina, sette anni, scomparsa a Lione. Già da quanti anni?
«Vent'anni e rotti» precisò Julien. Di rado una creatura era stata ricercata con tanta costanza, con tanto accanimento. Si era potuto vedere, affisso dovunque, sia in Francia sia all'estero, lo straziante sorriso di Nina alla vita. Rimaneva nel cuore di tutti i poliziotti una sorta di frustrazione, di fallimento. Persino in quello di Müller che, agli inizi della carriera, non se ne era dovuto occupare. Forse Nina era stata assassinata il giorno stesso della sua scomparsa e il suo corpo nascosto là dove non sarebbe mai stato ritrovato. Forse era costretta a prostituirsi in un paese lontano. Delle due ipotesi, tutti, compresi i genitori, preferivano la prima. Per potersi dire: non soffre più, e per noi, pazienza! Se Francis Müller sospirava guardando Julien Manceau, era perché la sua fama era giunta fino a lui. Il giornalista faceva in modo di essere inviato dovunque un bambino sparisse o venisse ucciso. Conosceva perfettamente l'incartamento riguardante sua sorella e sapeva che si era perso troppo tempo all'inizio dell'inchiesta. Si sarebbe detto che volesse evitare la ripetizione di quella storia. In fondo avrebbe fatto meglio a entrare direttamente nella polizia... pensò Müller con ironia. «Ho saputo che il giudice istruttore le ha dato pieni poteri» cominciò Manceau. «Commissione rogatoria generale. Congratulazioni!» «La ringrazio. Per quanto la riguarda, suppongo che lei abbia intenzione di restare per qualche tempo a Saint-Rémi, vero?» «La mia radio mi ha autorizzato». Niente di strano! Julien Manceau era un inviato speciale eccezionale. Si poteva contare su di lui per cercare il pelo nell'uovo, per informare gli ascoltatori che, senza conoscerne necessariamente la storia, ne avvertivano la partecipazione personale. «Lei sa probabilmente che patto sto per proporle» proseguì il commissario, rassegnato. Con i giornalisti aveva la sua tattica che, fino a quel momento, non aveva fatto cilecca. Certi poliziotti li mandavano a farsi benedire, lui no. Dato che a ogni modo avrebbero ficcato il naso dappertutto, avrebbero sfruttato la più piccola fuga di notizie e... avrebbero parlato, tanto valeva limitare i danni. «Nei limiti del possibile, lei sarà tenuto al corrente degli sviluppi dell'inchiesta. In cambio le chiederò di non intralciarla. Conosce bene quanto me la fragilità delle testimonianze e i danni considerevoli che informazioni di-
vulgate troppo presto possono causare». «Nei limiti del possibile, sottoscrivo il patto» rispose Julien prontamente. «Vuole un caffè?» propose Müller. «Con piacere». Il sindaco aveva fatto installare una macchinetta nell'ufficio del commissario. Un brav'uomo, il sindaco, discreto, disponibile, costernato per quanto era successo. Mentre preparava il caffè, Müller calcolò l'età di Manceau basandosi su quella che avrebbe avuto Nina. Lei, ventisette anni. Lui, una trentina buona. Conservava sul volto qualcosa del ragazzo, come se si fosse trattenuto dall'invecchiare, per non abbandonare la sorellina. Il commissario gli portò il caffè e poi riprese posto dietro la scrivania reggendo in mano la sua tazza. «Allora, a che punto siamo?» chiese il giornalista. Il plurale strappò una smorfia al poliziotto. «A nessuno» rispose semplicemente. «Nessun inizio di inizio di pista». Aveva destinato al caso una decina di uomini, spiegò a Julien. Costoro avevano chiuso il primo cerchio: famiglia, amici, personale della clinica, chiunque avesse avvicinato il bambino il giorno della sua sparizione. Senza risultato. Attaccavano adesso il secondo cerchio: vicinato, abitazioni situate attorno al lago di Bonlieu, auto scorte nei dintorni la vigilia e il giorno del dramma. Per di più, a Besancon, che serviva da base alla squadra, venivano ritirati fuori i dossier di rapimenti o uccisioni di bambini avvenuti nel dipartimento. Ci si interessava pure all'ambiente della pedofilia e alle sette... «Per il momento, non posso offrirle niente di più» concluse in tono dispiaciuto il commissario. «E invece sì!» ribatté Julien. «La sua opinione personale». Müller esitò. «Le do la mia parola che resterà fra noi» assicurò il giornalista. «Ebbene, non mi ero mai trovato davanti a un caso simile. Eppure me ne sono capitati non pochi. L'individuo rapisce un bambino, non gli fa alcun male, lo tiene con sé solo alcune ore prima di ucciderlo, probabilmente nel sonno». «Come fa a saperlo?» lo interruppe Julien. «Le analisi sulla lividezza cadaverica indicano che il piccolo è stato ucciso quando era raggomitolato: la posizione abituale di un bambino che dorme. Sotto quell'albero lo hanno trovato disteso sulla schiena, si potreb-
be aggiungere come se ci fosse stato appoggiato sopra 'con cura'». «Insomma, un omicidio dolce» concluse il giornalista con voce tesa. «Uno squilibrato?» «Probabile. Ma diabolicamente in gamba, perfettamente organizzato, esperto nel fare le iniezioni e pratico della clinica». «Non avete davvero trovato nulla nella casa di cura?» «Nulla! Abbiamo controllato e ricontrollato tutto». Müller terminò il suo caffè. Profonde rughe gli solcavano la fronte. «E non quadra neppure con lo squilibrato» riprese. «Di solito, questi tizi lasciano un'impronta, un marchio personale, se preferisce. Il 'gratuito' non esiste. Nessuno agisce davvero senza motivo. In questo caso, il 'perché' è la grande domanda. Perché Jean-Lou è stato rapito e ucciso? E perché lui e non un altro?» «Come spera di rispondere?» chiese Julien. «Un segno... È quello che cerchiamo. Il particolare che tradirà l'assassino. Lei sa che si può aspettare giorni e giorni, quando non sono settimane, o più, e poi questo segno, spesso infimo, vecchio o nuovo, ci mette sulla pista». «Speriamo che non sia una prossima vittima a fornirvelo!» «È quello che speriamo tutti». «Il segno» osservò amaramente il giornalista, «non lo abbiamo mai avuto, per Nina. O forse c'era, e la polizia non è riuscita a vederlo». Müller non rispose. Non doveva giustificarsi. Lui e i suoi uomini non trascuravano niente. «Ha interrogato una certa Blanche Desmarest?» chiese all'improvviso Manceau. «L'insegnante di disegno? Certo» rispose Müller. «Aveva visto a lungo il bambino la vigilia dell'omicidio. Una donna poco accomodante che non ha nascosto... una forte antipatia per la mia persona». «Si consoli, a me non è andata meglio» disse Julien ridendo. «Ieri mi ha letteralmente sbattuto la porta in faccia». «E che cosa si aspettava di sapere da lei?» chiese il commissario, incuriosito. «Insegnava disegno a Jean-Lou e lei sa quanto il disegno di un bambino può essere rivelatore. Mi sarebbe piaciuto studiare con lei le ultime opere del suo alunno. Senza contare che è un'artista, e gli artisti hanno fiuto». «Il meno che si possa dire è che con me non lo ha mostrato affatto» osservò Müller con amarezza. «Altrimenti, invece di guardarmi come un
carnefice, avrebbe intuito che detesto questa inchiesta. Da quando ho due figli, piccoli per di più, prego ogni giorno il Cielo perché non mi mandi... un caso come questo». «Allora faremo un buon lavoro» constatò Julien. E anche stavolta Müller non apprezzò molto il plurale. 17. Sì, i bambini avevano riso, riso e anche applaudito quando il giovedì precedente, giorno della scomparsa del loro compagno, Blanche aveva affisso alla parete dell'aula il suo disegno. Bisognava riconoscere che era davvero mal riuscito: senza la larga coda pelosa si sarebbe pensato più a un orso che a una scimmia. Lei guardò la commovente firma di Jean-Lou sulla parte inferiore del foglio. Senza dubbio era a causa di essa, che racchiudeva in nuce quella dell'adulto che il poverino non sarebbe mai divenuto, che Blanche aveva deciso di lasciare il disegno sulla parete. Tirarlo via sarebbe stato un tradimento e una vigliaccheria: «Ci fai troppo male. Scusa, ma non vogliamo più vederti». Sperò che la direttrice, spinta da certi genitori, non glielo chiedesse. Si fa di tutto per proteggere i bambini, al giorno d'oggi. Lei per prima, con Sophie. I suoi alunni fecero rumorosamente ingresso in aula e vennero a raggrupparsi attorno a lei per ammirare le loro opere. Praticamente tutti gli animali selvaggi erano rappresentati. La settimana seguente, primo giovedì di ottobre, si sarebbero scelti quelli che avrebbero avuto l'onore di figurare nel fumetto. Jean-Lou sperava tanto che il suo disegno ne avrebbe fatto parte. Un riso pieno di lacrime invase il petto di Blanche: che sfortuna, povero piccolo. Batté le mani. «Su, ciascuno al proprio posto, per favore». I bambini obbedirono. Meno uno: il piccolo Charles Laurent, il cui disegno di una scimmia, molto riuscito, si trovava ugualmente affisso alla parete. Ma era quello di Jean-Lou che Charles guardava. Blanche si ricordò della loro breve conversazione durante l'ultima lezione. Dopo un attimo di esitazione, additandogli la scimmia del suo amico, chiese al bimbo: «È una cappuccina come la tua?» Charles si schiarì la gola. «È Mister Chance» rispose con voce rauca. «Jean-Lou aveva molta voglia di conoscerla».
«Perché, esiste davvero?» chiese stupita Blanche. «Non è proprio sicuro» rispose Charles. «Lui dice che ce l'ha, ma forse è per vantarsi». «Chi 'lui'?» All'improvviso le lacrime scaturirono dagli occhi del piccolo, che le voltò la schiena e corse al suo tavolo nascondendo la testa fra le braccia. Nessuno aveva osato prendere il posto del suo amico accanto a lui. Stupida, sono una stupida, si rimproverò Blanche. Perché gli ho parlato del disegno di Jean-Lou? Era l'ultima cosa da fare. Avrei dovuto piuttosto proporgli di aiutarmi a scegliere quelli per il fumetto: una bella occasione mancata! La lezione finì senza che si fosse perdonata. E, lasciando l'aula, non era più certa di aver fatto bene ad affiggere lo schizzo di Jean-Lou. Come cambiano velocemente le nostre convinzioni! Proprio come il cielo. Azzurro il giorno del funerale, grigio plumbeo il giorno prima, quando si era recata alla clinica a trovare Marie-Thé, oggi era color foglia d'oro. Sul marciapiede, di fronte alla scuola, riconobbe il giornalista che era salito da lei il giorno precedente. La stava aspettando? Eccolo, uno che non cambiava idea! Ma ogni collera contro di lui era sfumata, dopo che Myriam le aveva spiegato chi era: uno segnato dalla vita, il fratello di una bambina scomparsa di cui non si era trovata più traccia. Myriam si ricordava benissimo del caso, Blanche per niente. All'epoca frequentava l'Accademia di Belle Arti, e pensava solo a superare gli esami. Il giornalista la fissava senza muoversi, e lei ebbe la certezza che stavolta non le avrebbe imposto la sua presenza. Blanche esitò. Se lo avesse voluto disegnare, come lo avrebbe rappresentato? Si faceva sempre quella domanda. Trovò facilmente la risposta: un funambolo sul suo filo. E non cosi sicuro. Sul punto di precipitare. Questa immagine la fece decidere: attraversò la strada e gli porse la mano. «Mi scusi per ieri, ma abbiamo tutti i nervi a fior di pelle» disse. «Impossibile accettare ciò che è successo». «Ci mancherebbe altro che lo si accettasse!» ribatté lui. «Inoltre» prosegui Blanche, «non so che cosa si aspetti da me, ma ho già raccontato un sacco di volte ciò che sapevo. Alla madre di Jean-Lou, ai gendarmi, al commissario Müller, e non ho nessuna voglia di ricominciare. Non ho visto nulla, notato nulla, solo un ragazzino che non vedeva l'ora di
tornare a correre sullo skate-board. E se vuole saperlo, ogni volta che ne vedo uno, mi si spezza il cuore». Mentre parlava si era messa a camminare. Julien la seguiva passo a passo. Come la prima volta che l'aveva vista, il giorno del funerale, il tempo era splendido e la bellezza del cielo era insieme una consolazione e un'offesa. E Blanche era proprio come l'aveva immaginata: un concentrato di viva emozione e di indomabile caparbietà. «Forse bisognerebbe risalire più indietro di quell'ultimo giorno» osservò lui in tono misurato. «Ho pensato che i disegni del piccolo potrebbero aiutarci». Blanche alzò le spalle senza rispondere. «Mi permette di accompagnarla?» chiese il giornalista, aspettandosi un rifiuto. «Se la diverte andare a comprare dei bottoni e del filo!» Percorsero la strada principale che attraversava la cittadina da parte a parte, fiancheggiata da case dai muri bigi e dai tetti rossi e interrotta da tre belle piazze rallegrate da qualche negozio, in cui le comari non si fecero scrupolo di seguire la coppia con lo sguardo. Se sapessero quanto me ne infischio, pensò Blanche, che trovava ormai futile tutto ciò. Un gruppetto di turisti della terza e quarta età li incrociò. Venivano sempre numerosi nel Giura in quella fine stagione più mite, di vendemmie e di raccolti, i cui colori nostalgici si armonizzavano con quelli della loro età. Passando, si salutarono. Ancora una cosa di cui Blanche non si stancava: dire buongiorno a degli sconosciuti. Nel suo stabile parigino aveva subito quello che chiamava il «supplizio dell'ascensore»: trovarsi faccia a faccia con persone cui non si rivolgeva la parola anche se si viveva fra gli stessi muri. «Abita qui da molto?» le chiese Julien come se leggesse nei suoi pensieri. «Dal mio divorzio: cinque anni. Mia nonna era di qui». «Era?» «Ha avuto il cattivo gusto di piantarmi in asso poco tempo dopo che ero tornata apposta per lei». Fecero alcuni passi in silenzio. Odori d'infanzia salivano dal marciapiede intiepidito dal sole. Blanche mise la mano in quella di sua nonna. «E ha sempre disegnato?» riprese il giornalista. «Certo!» «Io ero attratto dalla fotografia» le rivelò lui. «Cogliere la vita... vede? Il
piccolo istante di luce che fa tilt». Tirò un lieve sospiro. «E poi la vita ha deciso diversamente. Mi ha fatto diventare reporter dall'oggi al domani, e ormai mi dedico alla fotografia solo come dilettante». Blanche si ricordò di quanto le aveva raccontato Myriam. «Quello che è successo alla sua sorellina?» Lui piegò il capo, contento che la donna lo avesse saputo. Non avrebbe mai potuto immortalare Nina su una foto, ma ogni volta che parlava di un bambino che un mascalzone schifoso aveva privato della vita, del futuro, lui protestava in suo nome. Arrivarono sulla piazza in cui si trovava il piccolo bazar. La porta tintinnò quando Blanche la spinse. Un signore molto vecchio la salutò chiamandola per nome. Lei estrasse di tasca un modello di bottone. Sophie li seminava ai quattro venti; non aveva il tempo di raccoglierli. Ne mancavano due al suo cardigan preferito. Il signor Florentin non ne aveva di uguali. Lei impiegò un certo tempo a trovare un altro modello che le piacesse: delle delicate margherite. Ne prese una decina e del filo assortito al cardigan. Julien la guardava, con aria estasiata. «Se non avessi avuto paura di farmi buttar fuori, le avrei scattato una foto» confessò il giornalista mentre lasciavano il negozio. «C'era la vita nei suoi occhi mentre faceva scorrere i bottoni fra le dita». Blanche rise. «Sa cosa diceva Chardin, il pittore? Ci si serve dei colori, si dipinge con il sentimento. Mentre sceglievo i bottoni pensavo che alla mia bambina sarebbero piaciuti, ma che si sarebbe ben guardata dal dirmelo». «Ed è così che andrà?» «A quell'età sono tutte così». Rise di nuovo. Di colpo si sentiva leggera. La passeggiata le aveva fatto bene. Acquistare del filo e dei bottoni, anche. Come per rispettare la tregua, camminarono in silenzio fino alla piazza del municipio. Lì Julien si fermò. «Mi scusi se insisto, ma sarebbe disposta a mostrarmi alcuni disegni di...» Ricordandosi della reazione di Blanche il giorno prima, s'interruppe. «Lo può chiamare Jean-Lou» gli concesse la donna. «Sarei contento se chiamasse la mia sorellina Nina» proseguì lui. Blanche gli sorrise: un sorriso commovente, che scopriva gli incisivi su-
periori leggermente distanziati. «Per i disegni di Jean-Lou, d'accordo. Ma non speri di ricavarne gran che: quel frugoletto era decisamente scarso. Credo anzi che venisse alle mie lezioni solo per non staccarsi da Charles». «Charles?» «Charles Laurent, il suo migliore amico: erano inseparabili». Il ricordo di ciò che era appena successo a scuola le strinse il cuore. Aveva perso una bella occasione. Fu sul punto di parlare a Julien del misterioso Mister Chance, ma erano quasi arrivati. Lui si fermò davanti alla porta del bistrot. «Riparto per Lione domani: un weekend in famiglia. Se le va, guarderò i disegni la settimana prossima». «Sa dove abito» rispose lei, alzando gli occhi verso la finestra del secondo piano. Si rallegrò che la lasciasse entrare da sola da Myriam. 18. «È passato il tuo innamorato: due regali per le signorine» annunciò la padrona del bistrot a Blanche mentre questa gettava un'occhiata nella saletta interna per vedere se per caso ci fosse la sua Principessa. Da quando frequentava la scuola media, la regolarità non era sempre di prammatica. Capitava che un professore fosse assente, e Sophie allora ritornava a casa prima. Da sopra il banco Myriam le porse un pacchettino piatto e una busta. Il nome di Sophie era scritto sul pacchettino, il suo sulla busta. «Il mio innamorato?» «Il signor chirurgo». Blanche alzò gli occhi al cielo. Non appena la vedeva con un uomo, per quanto poco disponibile fosse, Myriam si metteva a fantasticare. Quel giorno Roland, prima Thomas che, a periodi, frequentava più assiduamente il suo locale. L'indomani chi? Julien Manceau? «Quando la finirai di fare la mezzana?» brontolò. Myriam si lasciò sfuggire una risatina prima di andare a occuparsi dei clienti. Blanche ne approfittò per filarsela. Tanto peggio per la curiosa, che probabilmente sperava di essere messa al corrente del contenuto della busta. «Sei cattiva» le avrebbe rinfacciato Sophie. Cattiva? Salendo le scale,
Blanche sorrideva. L'irritazione che talvolta provava nei confronti di Myriam le sembrava piuttosto sana. Per lei faceva parte dell'amicizia. Non ci sono né amicizia né amore senza perdita di libertà... liberamente accettata. Non si parla forse di «legami»? Basta non lasciarsi legare. Ma senza legami, che freddo nel cuore! La busta conteneva un biglietto da visita di Roland: Le devo un invito. Domani sera a cena? Sophie sarà la benvenuta. Un'onda di piacere attraversò Blanche. Le uscite erano rare a SaintRémi, l'imprevisto ancor di più. Soprattutto questo le mancava. Certo che avrebbe accettato! Passò in studio, dove la segreteria lampeggiava. Due messaggi: uno del suo editore, che voleva sapere a che punto fosse con la storia della bambola, il secondo di Marc, il suo ex marito, che chiedeva notizie. Aveva sentito parlare del dramma di Saint-Rémi. «Hai retto al colpo?» gli fece il verso Blanche ad alta voce. «Be', non è detto» rispose Blanche sarcastica. Adorava parlare da sola, per prendersi in giro, pensò. «Si deve adorare solo Dio» le rimproverava sua nonna. «Allora io adoro Dio e te» ribatteva Blanche per tapparle la bocca. Stava per richiamare l'editore, quando sentì sbattere la porta dell'appartamento: «Mamma?» Quella del suo studio si spalancò e apparve Sophie, seguita da una ragazzina segaligna con le trecce. «Domani dormo da Charlotte, e rimarrò da lei sabato per il suo compleanno» annunciò Sophie, mentre la ragazzina porgeva le guance pallide a Blanche. «È okay?» La famiglia di Charlotte era l'invidia di Sophie: padre e madre, fratelli e sorelle, cane e gatto, e compleanni di continuo. L'azienda del padre produceva un formaggio annoverato fra le specialità della regione. «È okay! Quanto a me, mi consolerò andando a cena da Roland» rispose Blanche mostrando a Sophie il biglietto d'invito. E, prima che sua figlia potesse esprimere il proprio rammarico, le mise il pacchettino fra le mani. «Da parte del tuo nuovo amico». La ragazzina strappò la carta e lanciò un grido di gioia: un CD-ROM sugli extraterrestri. Seguì un sospiro di scontentezza. «Evidentemente crede che abbiamo un computer come tutti». «Potrai guardarlo a casa mia» propose Charlotte. Le due ragazzine si interessarono per un po' agli ultimi disegni di Blanche e Sophie spiegò alla compagna le avventure di Iris, la bambola magica. Piuttosto avara di complimenti nei confronti della madre, la piccola ne
vantava volentieri il mestiere con gli altri: «Mamma disegna libri». Blanche, avvicinatasi, circondò loro le spalle con le braccia: toccare i bambini le procurava un piacere analogo a quello che le davano il legno delle sue matite, la tenera struttura dei suoi carboncini. «Posso farvi una domanda, ragazze? Che cosa vuol dire 'Hacuna Matata?'» Sophie ebbe una reazione inattesa. Con sguardo sospettoso si voltò bruscamente verso sua madre. «Perché me lo chiedi?» «Semplice curiosità» si giustificò Blanche, stupita. «Ho sentito parlare del sito da Marie-Thé. Sembra che Jean-Lou lo visitasse» soggiunse a voce più bassa. «Mi chiedevo cosa volesse dire quel nome. Se non mi sbaglio, è la formula magica del Re Leone, non è vero?» Quando era uscito il film, Sophie, che all'epoca aveva sette anni, aveva trascinato Blanche a Champagnole per vederlo subito. La piccola sembrava rassicurata. «Vuol dire: 'No problem, calma, poche storie e sganciami le scarpe da pallacanestro'». E lasciò la stanza trascinandosi dietro Charlotte, che soffocava dal ridere. No problem, calma, poche storie e sganciami le scarpe da pallacanestro, recitò Blanche allegramente. Eccomi servita! Ma perché mai Sophie aveva avuto quella reazione bizzarra quando lei aveva parlato del sito? Come se respingesse un'aggressione. Ho dimenticato di darti i bottoni-fiore, pensò. Quanto a sganciarti le scarpe da pallacanestro, non contare troppo su di me. Riprese il biglietto di Roland. C'era scritto, a mano, il numero del suo cellulare. Lo compose e il chirurgo rispose subito. «Se accetta la madre senza la figlia, sarò felice di venire a cena». «È il contrario che sarebbe stato un problema» osservò lui ridendo. «La figlia senza la madre. Le dica che mi dispiace». «È tutta presa da un compleanno» spiegò Blanche. «La ringrazia molto per il CD-ROM». Menzogna per educazione: menzogna autorizzata. «Alle otto le va bene?» chiese il chirurgo. «Passerò a prenderla in auto. La bicicletta non mi sembra indicata». «Andremo lontano?» chiese lei, curiosa. «Semplicemente a casa mia, se è d'accordo. Da territorio a territorio». Dopo aver riattaccato, Blanche rimase pensierosa. Come si sarebbe ve-
stita? 19. La casa era bella, una casa antica a due piani. La nonna di Blanche avrebbe parlato di dimora. Vi erano arrivati per un viale di faggi e pini. Dei proiettori illuminavano la facciata. Roland li aveva accesi dal cancello d'ingresso, un cancello a carta magnetica. Come dappertutto, i furti erano numerosi e ciascuno si proteggeva come meglio poteva. Da Saint-Rémi avevano impiegato soltanto dieci minuti. Era il bello di quella regione: appena superate le ultime case della cittadina, ci si ritrovava in piena natura. Anche Thomas aveva scelto di prendere in affitto una grande casa sulla strada di Champagnole, dove esercitava la sua professione. Per Blanche, nessuna esitazione. Con Sophie che andava alle medie, non era proprio il caso di abitare in campagna. E poi, sola con sua figlia in un'abitazione isolata, non avrebbe dormito tranquilla. Durante il breve tragitto Roland e Blanche avevano parlato di Jean-Lou, o piuttosto di Marie-Thé, che aveva preso la decisione di lasciare SaintRémi per Digione, dove viveva la sua famiglia. Blanche non se n'era meravigliata. Quando l'amica aveva tagliato tutte le rose del giardino per ricoprirne la bara, lei vi aveva letto un addio a quelle aiuole di cui andava così fiera. «Le mancherà?» le aveva chiesto Roland. Blanche aveva esitato. «Per essere sincera, sì e no». Marie-Thé era stata la compagna di festa, la complice con cui divideva momenti di leggerezza, risate, il piacere agrodolce di giocare qualche volta alle malelingue... Tutto questo, se ne rendeva conto, era finito per sempre, ma l'amicizia di una donna della sua età e della qualità di Marie-Thé le sarebbe mancata. Senza consultarsi, arrivando a destinazione, entrambi avevano deciso di non parlare più di quella storia. «Non ha freddo?» chiese premuroso il chirurgo mentre attraversavano il cortile spazzato da un vento che profumava di abeti. «Non dimentichi che sono una giurese incallita» scherzò lei. Aveva scelto di indossare un abito da mezza stagione, scarpe con un po'
di tacco e, sulle spalle, uno scialle multicolore. Una fortuna che Sophie fosse uscita prima di lei, altrimenti che cosa le sarebbe toccato sentire! Uau, mamma, è per Roland che ti sei conciata così? Andate a ballare? Quanto a Myriam, Blanche, per scendere, aveva aspettato che l'auto del chirurgo arrivasse davanti alla porta per sfuggire a un sorriso complice, pieno di sottintesi. Una vera collegiale! Roland spinse la porta d'entrata e si scostò per lasciarla passare. Con sorpresa della giovane donna, un odore di fuoco di legna si mescolava a quello di pietra dell'ingresso. Qualcun altro abitava lì? «Ho acceso il caminetto prima di venirla a prendere» spiegò Roland. «Ho pensato che un bel fuoco sarebbe piaciuto alla giurese... incallita o no». Il salotto era vasto, sobriamente arredato. Un computer con un grande schermo, dotato di modem, da far impallidire d'invidia Sophie. Un angolo studio-biblioteca. Infine, accanto a una delle finestre, una tavola rotonda apparecchiata su cui troneggiava un candeliere d'argento. «Una coppa di champagne per cominciare?» propose Roland. «Volentieri». Indicò le poltrone davanti al caminetto. «Si accomodi, torno subito». Blanche lo seguì con lo sguardo mentre lasciava la stanza. Chi è? si chiese. Un uomo gentile e persino galante, come non se ne incontravano quasi più. Senza dubbio un solitario per essersi sistemato lì. Forse semplicemente, da quanto aveva appreso alla clinica, uno sposo ancora straziato dalla morte della moglie, vittima di un incidente d'auto. Roland tornò e, dopo avere riempito le coppe, toccò con la sua quella di Blanche: «A una serata di pace...» disse, esprimendo ciò che provava anche lei. Si accomodarono davanti al caminetto e restarono in silenzio per un po'. Davanti a un fuoco, come davanti a dell'acqua in movimento, il silenzio non pesa più; è carico di meraviglia, si condivide l'indicibile. È strano, pensò Blanche guardando danzare le fiamme azzurrognole, senza la morte orribile di un ragazzino probabilmente non sarei mai venuta qui. Non gusterei questo momento di benessere. Aveva fatto pressappoco la stessa riflessione camminando al sole accanto a Julien Manceau. Roland parlò per primo. «Ieri la sua amica Myriam mi ha chiesto perché avessi scelto di tasferirmi qui» le ricordò con un sorriso. «Posso rivolgerle la stessa domanda?
Cosa è venuta a cercare in questo buco in mezzo al verde? Non si sente un po' isolata, qualche volta?» «Ho vissuto l'isolamento nella più bella città del mondo accanto a un marito che mi era divenuto estraneo» rispose Blanche con semplicità. «Mi sento molto più felice a Saint-Rémi». «Stasera, anch'io» approvò Roland. I loro sguardi si incrociarono. Quello del chirurgo era intenso. Lei si sentì un po' a disagio. «E poi ho Sophie... e il disegno» riprese. «Di che riempire largamente le mie giornate. E lei, non ha detto che sta scrivendo un libro cui tiene molto?» «È un'opera specialistica sulla vita intrauterina» confermò Roland con un improvviso calore nella voce. «L'evoluzione del feto nel ventre della madre. Sa che si scoprono ogni giorno elementi nuovi e appassionanti? Per esempio, il feto riconosce prestissimo la voce e l'odore del padre. Li distingue perfettamente da quelli della madre». Scoppiò a ridere: «Mi capita persino di essere geloso». «Geloso?» chiese stupita Blanche. «Non è ingiusto che il privilegio di portare un bambino in grembo sia riservato alle donne?» La risata di Blanche fece eco alla sua. «Un po' di pazienza! Vedrà che fra qualche anno gli uomini faranno in modo di restare incinti». «Non mi parli di felicità!» esclamò inaspettatamente e come sovrappensiero Roland. E lei non fu certa che stesse scherzando. Poco dopo passarono a tavola. Il chirurgo aveva acceso le candele e messo della musica. Salmone, foie gras: Natale anticipato. Blanche aveva preferito continuare a bere champagne, e la testa le girava un po'. Da un pezzo non aveva trascorso una serata così piacevole, con la sensazione deliziosa di essere guardata, ascoltata. Chissà quanto avrebbe gioito Myriam! Segretamente le rivolse una strizzatina d'occhio. Si era persino trovata un punto in comune con Roland: Digione, dove entrambi avevano studiato. Lui medicina, lei disegno. Blanche fu sul punto di chiedere al chirurgo di sua moglie. Si trattenne. Non rischiava di rovinare l'atmosfera? Toccava a lui farlo, nel momento che avrebbe giudicato opportuno. Il disastro avvenne dopo cena. Mancava poco alle undici, e Roland era sceso in cantina a prendere del vino passito che, con suo grande stupore, Blanche non aveva mai gustato. Un paziente gliene aveva regalato una bottiglia. Quel nettare era tipico del Giura. I grappoli d'uva, selezionati dalla
pianta prima della vendemmia, riposavano su letti di paglia per tre mesi prima di essere spremuti, cosa che faceva concentrare il loro tasso di zucchero. Poi bisognava pazientare circa sei o sette anni prima che il vino potesse essere degustato: un liquore dal sapore squisito, color topazio. Attendendo il ritorno del suo ospite, Blanche si interessava ai libri della biblioteca quando la farfalla le sfiorò la guancia: una grossa falena dai colori crepuscolari, dalle antenne piumose. Una testa di morto. Probabilmente era entrata dalla finestra che Roland aveva aperto quando le aveva chiesto il permesso di fumare un sigaro. Blanche senti il cuore in gola. In un attimo la bocca le si seccò. La grossa farfalla notturna si posò sul paralume di un'applique, vicinissimo a lei. La luce faceva risaltare il disegno delle sue ali in cui si stagliavano dei grandi occhi. Le gambe di Blanche si piegarono e la donna si lasciò cadere sul pavimento. Altri insetti, più piccoli, avevano seguito il grosso. Le sembrò di vederne dappertutto. Trascorse un'eternità. «Blanche?» Con una bottiglia in mano, Roland stava sulla soglia della stanza e la guardava con un misto di incredulità e di inquietudine. Lei volle gridargli di restare dov'era, ma non ci riuscì. Il chirurgo si precipitò. La falena batté le ali. «Che cosa le succede?» Senza muoversi, lei alzò gli occhi verso l'insetto. Roland ebbe un attimo di esitazione, poi capì. «Stia tranquilla» ordinò con dolcezza. Blanche si contrasse ancor di più: no, non fare nulla! Roland le fece scivolare le mani sotto il corpo e la sollevò senza difficoltà. La paura non era mai stata così forte. Lei nascose il volto contro la sua spalla mentre lui la portava via. Sentì aprirsi una porta. Sotto le reni, la morbidezza di un letto. «Può guardare, adesso» disse la voce calma. «Non siamo più in salotto e ho chiuso la porta». Le ci volle un po' per trovare il coraggio di riaprire gli occhi. Si trovava in una vasta camera dalle tende tirate. Non c'erano farfalle. Chino su di lei, Roland la guardava impensierito. Blanche sentì il calore delle lacrime sulle guance. A prezzo di un grosso sforzo, si tirò su. «Mi scusi» mormorò lei. «Mi scusi. È più forte di me. È più forte di tutto». Il chirurgo si sedette vicino alla testiera e le passò un braccio dietro le spalle. «Sono io che le chiedo scusa per averci messo tanto a trovare quella
dannata bottiglia». Blanche rise debolmente. «Non mi offra più del vino passito». Lui avrebbe potuto prenderla in giro, anche gentilmente, ma non lo fece. Come non aveva riso degli extraterrestri di Sophie. E fu per questo che lei parlò. Con piccole frasi spezzate per il disgusto, per la ripugnanza, confidando a quel quasi sconosciuto ciò che non aveva ancora rivelato a nessuno. Perlomeno con quella violenza. Quella carogna di suo padre si divertiva, quando era piccola, a far finta di soffocarla sotto il suo piumino. Un giorno lei si era dibattuta così forte da lacerarlo. Blanche non pensava che la sua fobia fosse stata originata da quell'episodio. Come altri temono i ragni o i serpenti, lei era sempre stata terrorizzata dagli uccelli, dalle farfalle, dalle libellule; soprattutto dalle libellule! Tale repulsione sembrava far parte di lei. Suo padre lo sapeva, ma nonostante ciò continuava a fare quel giochetto. «E sua madre? Non faceva niente per difenderla?» chiese il chirurgo con voce sorda. «Mia madre non ha mai osato alzare un dito contro il suo padrone... Per fortuna, avevo la nonna». La nonna... aveva pronunciato la parola come una bambina e, di nuovo, ebbe voglia di piangere: calde lacrime d'amore e di lutto, venute dalla porta socchiusa di un'infanzia non proprio serena. «Allora, non mi trova completamente idiota?» chiese lei. Senza rispondere, Roland le strinse di più il braccio attorno alle spalle. Blanche si voltò per vederne il volto, che era tenero e tormentato. Era bello come una solitudine amica. Lei gli porse le labbra. Roland le restituì il bacio ma, un attimo dopo, mentre la mano di Blanche lo cercava, mostrò di non desiderarla, e con dolcezza la allontanò da sé. «Se aspettassimo di conoscerci meglio?» 20. Blanche fece uno sforzo per aprire gli occhi. La luce filtrava fra le tende a fiori della sua camera e lei si voltò dall'altra parte. Collera e vergogna si mescolavano nel suo animo. Brava, davvero brava, ragazza mia! Si può dire che ti sei proprio comportata bene. Durante la serata, Roland non le aveva offerto tutto ciò di cui si sentiva
così spesso priva? Un ascolto maschile, degli sguardi, e, quando aveva avuto la sua solita crisi, una comprensione totale. Gettandoglisi al collo, aveva sciupato tutto. «Aspettiamo di conoscerci meglio...» Sono le puttane che si offrono fin dalla prima sera. Si sarà fatto una bella idea di me, adesso! Lasciò il letto e andò ad aprire le tende. Le sette e mezzo, sabato, l'ultimo sabato di settembre. La piazza era ancora deserta, il sole nascente illuminava con la sua luce rosata gli alberi il cui fogliame cominciava a diventare rossiccio. Le campane della chiesa suonarono. Blanche si lasciò pervadere da una risonanza azzurrognola; ogni suono ha il suo colore. Invocò il ritorno della tranquillità, della calma. Mentre lasciava la camera, percepì fisicamente l'assenza di Sophie. Meno male che aveva dormito da Charlotte! Così lei sarebbe sfuggita, per lo meno provvisoriamente, alla prevedibile valanga di domande. Allora mamma, com'era? Dove siete stati? Che cosa avete mangiato? Che cosa ti ha detto? Non era sicura che avrebbe risposto con la calma necessaria. In cucina, si mise a tavola davanti a una tazza di caffè. Bene! Faccio il punto una volta per tutte e non ci penso più. Non mi farò la testa come un pallone tutta la giornata maledicendomi per essermi offerta a un uomo che non mi desiderava. Il desiderio... parliamone! Se almeno fosse stato il desiderio a spingerla verso Roland... Ma non era così. Quando Blanche gli aveva teso le labbra... e il resto, era stato solo un puro slancio dell'anima. L'improvviso bisogno di fondersi con colui che le aveva permesso di dischiudere il sacco doloroso dell'infanzia. Ed ecco come ci si innamora del proprio psicoanalista, concluse lei con il poco spirito che le restava. Quanto a te, caro papà, tanto di cappello per la tua perseveranza a volermi rovinare la vita! Aveva completamente fagocitato sua madre. La tecnica della doccia scozzese, l'altalena fra amore e disprezzo: coccole, morsi, ti amo, sei una nullità, poverina... Per sfuggirgli, lei era sprofondata nella depressione e non ne era più uscita. Quanti anni aveva Blanche quando si era resa conto che il padre cercava di fare la stessa cosa con lei? Pressappoco quelli di Sophie, e il metodo era identico. In sintesi, con infinite varianti: «Povera bambina, che non vale
niente ma che amo lo stesso». Traduzione: «che sarò l'unico ad amare». Ma non aveva potuto nulla contro di lei. Già all'epoca, Blanche si era imbarcata sulla sua nave spaziale, il razzo che la conduceva lontano dalle sue manovre. Una passione cui apparteneva totalmente. «Ha sempre disegnato?» le aveva chiesto Julien Manceau. Si chiede a qualcuno: «Ha sempre respirato?» Quando, da bambina, Blanche disegnava una principessa, era lei la principessa. Quando disegnava un uccello - quando disegnava non temeva nulla - le spuntavano le ali. Quando disegnava una casa, vi trovava riparo. Le sue matite erano le sue bacchette magiche, il suo divenire, il suo avvenire. Né suo padre, né chiunque altro avevano potuto farci nulla. Nemmeno Marc. E persino ora, pensò lei, non sono la bambola magica della mia storia? Passò in studio. Le otto e mezzo. Che cosa faceva Roland? Dormiva ancora? Lavorava al suo libro sulla vita intrauterina? Non sapeva bene cosa pensare del suo atteggiamento quando gliene aveva parlato: a metà fra il leggero e il serio. Gli dispiaceva veramente che gli uomini non potessero portare i bambini nel loro ventre, o era soltanto una battuta? E aveva avuto dei figli dalla moglie? Blanche sapeva così poco di lui! E con quello che è successo ieri, non avrai certo occasione di saperne di più! pensò. Poche possibilità che voglia rivederti. Il rammarico la pervase. L'inizio della serata era stato quasi magico; non vedeva nessuno a SaintRémi che potesse procurarle un simile benessere. Forza, basta con inutili lacrime, e al lavoro! Ricordandosi della promessa fatta a Julien Manceau, sgombrò il tavolo per posarvi il raccoglitore in cui conservava i disegni che le regalavano grandi e piccoli. Per nulla al mondo li avrebbe buttati via. Si possono buttare dei sentimenti? Ce n'erano parecchi di Jean-Lou. Quando faceva visita a Marie-Thé, era raro che il povero pulcino non gliene regalasse uno! I più recenti risalivano al ritorno dalle vacanze e raffiguravano il mare, le barche. Aveva trascorso alcuni giorni con suo padre, appassionato di vela. Marie-Thé e lei ne avevano approfittato per concedersi delle piccole distrazioni: cinema e ristorante a Champagnole. «Le mie vacanze» diceva la sua amica... E domenica se ne va! si ricordò Blanche. Il suo ex marito veniva a prenderla per accompagnarla dai genitori a Digione. Un dramma può spezzare una coppia, ma capita anche che la rinsaldi. Hubert si era mostrato davvero
all'altezza, e non era impossibile che Marie-Thé tornasse con lui. Dopotutto, l'amica lo aveva lasciato solo per un'infedeltà, e lui non si era «rimesso» con nessuna. Per il giornalista Blanche selezionò due disegni di barche. Erano meno brutti di quelli destinati al fumetto, ma dubitava che Julien ne avrebbe ricavato qualcosa di interessante sulla personalità di Jean-Lou. Ma in fondo sembrava tenerci, e lei aveva promesso. Si era sentita bene, con Julien. Non come con Roland. Bene come con un amico, con un complice. Non conducevano, come l'uomo aveva espresso a meraviglia, una stessa lotta? Cogliere dei momenti di vita? Nel raccoglitore trovò pure un disegno di Charles. Il piccolo le aveva regalato solo quello, che le piaceva moltissimo. Raffigurava un bambino su una spiaggia con un aquilone che sembrava tirarlo verso il cielo. Il movimento era straordinario. Si ricordò che Charles glielo aveva fatto alla clinica dei Quatte Lacs quando era stato operato lì di un'ernia durante la primavera precedente. Anche in questo, sembrava che Jean-Lou lo avesse imitato. Solo che a lui avevano asportato l'appendice, e non era mai tornato a casa. Guardando il disegno si sentì di nuovo inquieta, a disagio. Sempre quella sensazione di essersi lasciata sfuggire, giovedì, un'occasione che non si sarebbe ripresentata più. Dovrò parlarne a Julien. Squillò il telefono: Sophie? Sollevò il ricevitore. «Blanche? Sono Roland». Le sembrò che il cuore si fermasse, prima di riprendere a battere impazzito. «Buongiorno» rispose lei con voce più naturale possibile. «Volevo sapere come sta». «Insomma». «Volevo anche ringraziarla per ieri». «Ringraziare me? Mi chiedo perché» farfugliò lei con un riso spezzato. «Ho considerato un onore che lei mi abbia parlato di suo padre» disse il chirurgo. «Un onore di cui spero di mostrarmi degno». Gli occhi di Blanche si riempirono di lacrime. Era stata talmente sicura di averlo perso. Inspirò profondamente. «Eppure mi sono comportata in maniera ridicola» disse con un filo di voce. Avrebbe capito che non stava parlando né della falena né di suo padre? «Ho visto solo una donna ferita che mi ha profondamente commosso»
rispose lui. 21. Roland gettò i guanti nel cestino e sorrise a Thomas, che si stava togliendo la mascherina. «Un buon lavoro, non è vero?» L'anestesista annuì. Il paziente che avevano appena operato a un'anca era semplicemente odioso: pieno di pretese, sempre pronto a protestare e a lamentarsi. Nessuno alla clinica si sarebbe dispiaciuto quando lo avrebbero dimesso, purtroppo non l'indomani. «Non smettono di parlare di malati trascurati, o troppo poco informati sul loro caso. Dovrebbero parlare anche di medici attaccati, talvolta calunniati» osservò Thomas cupamente. «Il guaio è che non possiamo intentare processi ai nostri pazienti». Entrarono nello spogliatoio. «E la serata con Blanche? È andata bene?» chiese l'anestesista in tono falsamente disinvolto, slacciandosi i cordoni del camice. «Vedo che a Saint-Rémi le lingue non si fermano mai» osservò Roland con una smorfia. «Per rispondere alla sua domanda, la serata è stata molto gradevole». Sarebbe stata perfetta senza la storia della farfalla... Ogni volta che ci ripensava, si sentiva assalire dall'indignazione contro quel padre che giocava con la paura della sua bambina. Avrebbe capito meglio Blanche, adesso. Quella sensibilità che trapelava sotto una forza apparente. «Non mi dica mai che sono forte...» Osservò l'espressione fosca dell'anestesista. Che fosse geloso? Provava qualcosa per Blanche? La cosa non lo avrebbe sorpreso. Thomas frequentava regolarmente il bistrot di Myriam e coltivava - coltivava? - eccellenti rapporti con Sophie. A Roland era capitato parecchie volte di vederli insieme. «Finito per oggi?» domandò l'altro con voce di nuovo affabile. «Se così si può dire...» rispose il chirurgo ridendo. Salvo eccezioni, Roland raggruppava i suoi interventi il martedì e il giovedì. Erano stati tre, quella mattina. Sarebbe ritornato nel pomeriggio per alcuni appuntamenti e ne avrebbe approfittato per visitare i suoi pazienti. Lasciò la stanza con Thomas. In corridoio un uomo li aspettava: Francis Müller, il commissario incari-
cato dell'inchiesta sulla morte del piccolo Jean-Lou. Per due giorni lui e i suoi uomini si erano praticamente accampati alla clinica: impronte, orari, e la solita solfa. Il direttore, che temeva per la reputazione del suo istituto, aveva lasciato loro intendere con sollievo che era finita e che il personale era considerato fuori causa. Il poliziotto venne verso di loro, con la mano tesa. «Mi dispiace di essere penetrato nel sancta sanctorum, ma mi hanno detto che era qui che avrei avuto le maggiori probabilità di trovarvi». Si rivolse a Thomas: «È a lei, dottor Riveiro, che vorrei parlare. Se ha un minuto di tempo». «Mi aspettano in sala di rianimazione» rispose l'anestesista in tono contrariato. «Non ho fretta» ribatté Müller. «Se è d'accordo, pazienterò alla caffetteria. E non si preoccupi, non la tratterrò a lungo». Thomas si allontanò rapidamente. Roland fece alcuni passi con il commissario. «Novità?» «Non proprio, purtroppo» riconobbe questi. «Continuiamo a cercare la farmacia che ha venduto il cloruro di potassio all'assassino. Per il momento senza risultato. Allargheremo il raggio delle ricerche. Il guaio è che qui, quando ci si allarga, ci si ritrova molto presto in Svizzera o in Germania». Rise. «Quanto a me, compio il procedimento inverso: ritorno al punto di partenza, questa clinica in cui il bambino è stato rapito e che porta un nome così bello». «È la regione che è bella» osservò Roland con una punta di nostalgia. Stavano arrivando alla porta della caffetteria. «Posso offrirle qualcosa?» propose il poliziotto. «No, grazie. Un'altra volta, molto volentieri». Müller guardò il chirurgo che si allontanava. Aveva sentito solo elogi sul suo conto. Come, del resto, su quello dell'anestesista: una squadra straordinaria, a quanto pareva. Scelse un tavolo in disparte e non poté resistere alla voglia di tirar fuori il suo walkman. Tutti conoscevano la sua mania, e certuni lo prendevano in giro. Lui se ne infischiava. La musica classica, in particolare «quella da chiesa», come ai tempi dei suoi studi, lo aiutava a concentrarsi e a passare in rassegna tutti gli elementi oggettivi. Preludi di Bach. Da dove si trovava, poteva vedere l'insieme della sala, una parte dell'atrio e anche il parcheggio, dove seguì Roland Lagarde con lo sguardo. Questi salì in una station wagon di marca francese: un'auto piuttosto gran-
de, per un uomo solo. Ritornando al punto di partenza, come aveva rivelato al chirurgo, il commissario sperava, senza crederci troppo, di trovare quel segno di cui aveva parlato a Julien Manceau. Erano stati i gendarmi a iniziare l'inchiesta alla clinica dopo che era stata segnalata la sparizione del bambino. Avevano fatto il loro lavoro correttamente: a prima vista, non era stato trascurato nulla. Ma Müller tornava sempre alla stessa conclusione: il bambino aveva seguito il suo rapitore senza opporre resistenza. Ciò poteva significare che alla clinica qualcuno lo conosceva, o, per lo meno, lo aveva visto passare. L'anestesista comparve sulla porta e lo cercò con gli occhi. Müller fermò il walkman, se lo ficcò in tasca e gli fece un cenno. Ordinarono due caffè. «Tutto a posto? I suoi pazienti sono ritornati sulla terra?» chiese il commissario. «Sa, dobbiamo stare molto attenti» spiegò Thomas. «Con tutti questi processi... Presto faremo firmare una liberatoria ai pazienti che devono essere sottoposti a un intervento, come negli Stati Uniti. E faremo bene». Müller annuì. «Ho un cognato nel ramo. Dice le stesse cose». Questi si lamentava perché il mestiere diventava sempre più difficile. E a rischio... Del resto, affermava, in Francia c'era carenza di anestesisti, e si reclutavano sempre più stranieri. Müller si ricordò di aver visto, nell'incartamento di Riveiro, che aveva girato un bel po' prima di arrivare a Saint-Rémi. L'anestesista aveva sperato di trovare nella cittadina un'atmosfera più serena? In tal caso, si poteva dire che aveva proprio scelto male. «Probabilmente saprà che la signora Marchand ha lasciato la città» cominciò il poliziotto. «È un po' questa la ragione che mi porta qui. Ho saputo che a casa aveva Internet, e che suo figlio era un fanatico della Rete». «Come tutti i bambini» osservò Thomas. «E adesso imparano a navigare a scuola». «E anche qui, non è vero? Mi hanno detto che alcuni volontari si dedicano alla preparazione dei piccoli che aspirano a tuffarsi nello sconfinato mondo del ciberspazio». «Esatto». Portarono loro i caffè. Müller nel suo mise due zollette di zucchero. Thomas lo bevve amaro. «Mi ponevo una domanda» riprese il commissario. «Passano, sembra, un sacco di persone, che vengono anche da fuori, nella sala video riservata ai
bambini. E se fosse lì che il rapitore ha preso contatto con la vittima?» «In realtà ci sono due sale» spiegò Thomas. «La sala giochi, aperta a tutti, e la sala del computer, in cui soltanto alcune persone sono autorizzate a entrare. E unicamente a certe ore». Sorrise: «La clinica protegge il suo materiale e i suoi soldi...» «Più che naturale. Potrebbe darmi la lista delle persone autorizzate?» «Non la conosco. Ma la otterrà facilmente dalla segreteria. È là che si prende la chiave». «Il che significa che, per avere accesso alla sala del computer, si deve obbligatoriamente passare per la segreteria?» «Esatto» approvò Thomas. «E anche lei fa parte di quei volontari, credo. Le è capitato di accompagnarvi Jean-Lou durante il suo soggiorno qui?» Müller notò una leggera tensione nell'anestesista. «Ne aveva espresso il desiderio. Ma il mio aiuto non gli sarebbe stato di alcuna utilità. Se la cavava benissimo da solo. «Saint-Rémi al passo con i tempi: è arrivata la Rete! come ha detto la stampa». «Un'affermazione piuttosto esagerata. Pochi abitanti di Saint-Rémi sono collegati con Internet. Per loro è complicato e costoso». Guardò l'orologio. «Posso andare? I miei malati...» «Vada» disse Müller sorridendo. «Non vorrei procurarle un processo. Ma se lei si ricordasse di una presenza insolita in una sala o nell'altra, o se le tornasse in mente un particolare qualunque che possa aiutarci, le sarei grato se mi telefonasse. Può raggiungermi in ogni momento in municipio». «Conti su di me» promise Thomas. Strinse la mano del commissario e si allontanò a lunghe falcate. Müller lo seguì con gli occhi. Alto, snello, tutto muscoli. E visibilmente a disagio, il che non lo sorprendeva poi tanto. L'esame dell'incartamento gli aveva rivelato che il dottor Riveiro, oltre ad aver viaggiato molto, aveva divorziato due volte ed era padre. Prima di finire lì tutto solo. Poco piacevole! Di nuovo Müller pensò al cognato anestesista. Sua sorella si lamentava di non avere mai la certezza di passare un'intera notte con lui. Quanto ai bambini, diceva, avevano un padre «corrente d'aria». La moglie di un poliziotto potrebbe dire le stesse cose, concluse Müller. Non siamo dei principi azzurri per le nostre spose. Attorno a lui, depressioni e divorzi non erano rari. Ecco perché si era ripromesso di restare sca-
polo. Fino al giorno in cui aveva incontrato Marie-Jeanne, una meraviglia di donna, che gli aveva dato due meraviglie di bambini. Rivide i volti di tutt'e tre e si disse che aveva una fortuna sfacciata. 22. A quest'ora del giorno, una certa agitazione regna attorno alla colombaia. Quando aveva affittato la casa, sulle foto si distingueva solo vagamente il piccolo edificio, fortunatamente situato in disparte. «Non se ne dovrà occupare» gli aveva segnalato l'e-mail. «Un uomo è incaricato della sua cura e di quella degli uccelli». Appena arrivato aveva rescisso il contratto. Quando si entra, l'odore fetido assale le narici e si trattiene istintivamente il fiato. Gli escrementi biancastri conferiscono al luogo un aspetto spettrale. Non gli sono mai piaciuti quegli uccelli. Il mattino, il loro baccano lo sveglia. È forse a causa di questa presenza troppo rumorosa che la casa è rimasta sfitta così a lungo. A meno che non sia la reputazione dell'ultimo inquilino: il fotografo sospettato di cattivi costumi. Però costui aveva allestito uno scantinato magnifico. Esattamente quello che cercava. Ancora per un attimo guarda entrare e uscire gli uccelli, pensando allo strano potere di una fobia. Da bambino lui aveva quella del buio, che paragonava alla morte. Ma sua nonna non voleva che dormisse con la luce. «C'è il buon Dio a proteggerti». Ma né il buon Dio né alcun altro avrebbero potuto impedire ai suoi denti di battere per il terrore quando lei lasciava la stanza portando con sé la lampada per evitargli di disobbedire; in quei momenti l'avrebbe voluta morta. Quanto a sua madre, rispondeva ai suoi appelli disperati con un unico ritornello: «Ma insomma, non sei un uomo?» E la frase racchiudeva tutto il disprezzo, il rifiuto nei confronti di chi l'aveva abbandonata, lasciandole soltanto il cuore per odiare e un ragazzino su cui si vendicava di tutto il genere maschile. Più nessuno mai lo priverà della luce, ma è nel suo intimo che regna la notte. Prima di rientrare in casa, l'uomo fa qualche passo fra i pini, il cui odore lo pervade e lo tranquillizza. Stamattina, per torturarlo, il piccolo Paul aveva scelto le lacrime silenziose. In che stato lo ritroverà? Come sarà punito questa volta per non aver ancora risposto alla sua supplica? Un giorno
ha devastato la sua casa delle formiche. Un altro si è tagliuzzato con le forbici i capelli biondi, così fini, così belli. Senza contare Mister Chance, reso pazzo dai maltrattamenti. Non può durare. Ha preso una decisione. Se ne andranno. Scegliendo la Francia ha commesso un errore. Quale forza arcana lo ha spinto a tornare alle fonti della sventura? Sono morti tutti. Sua madre suicida, sua nonna per il dispiacere e suo padre di cancro. Il padre di cui loro lo avevano privato. Ha appreso troppo tardi, da una lettera atroce speditagli dalla sorella del defunto, che, contrariamente a quanto affermavano quelle megere, lui non lo aveva abbandonato, ma anzi aveva tentato di tutto per ottenere la sua custodia. Invano! Il ventre, l'utero... «Non sei un uomo, tesoro?» Quel «tesoro», nero, più distruttore di qualsiasi ingiuria. Lascerà la Francia, tornerà alla sua prima idea: l'America del Sud, il Venezuela. I loro passaporti sono in regola. Laggiù non rischieranno niente. Nessun mandato internazionale è stato spiccato contro di lui. Non lo possono arrestare all'estero. A ogni modo -se ne assicura regolarmente su Internet - le ricerche sono praticamente cessate. Presto, subito, il piccolo Paul potrà farsi quegli amici, quelli veri, che non smette di chiedergli. Imparerà rapidamente la lingua. Non parla già bene l'inglese come il francese? Quanto a lui, non farà alcuna fatica a trovare lavoro. Ha cominciato a occuparsi del viaggio. Partiranno da Ginevra con un charter. Due scali per il rifornimento di cherosene: il primo a Valencia, il secondo a Dakar. Poi Recife, in Brasile, dove affitterà un'auto. Fervono i preparativi. Di lì a una quindicina di giorni dovrebbero poter spiccare il volo. L'uomo rientra in casa, dove lo accoglie il silenzio. Il cuore gli pesa un po'. In un tempo che gli sembra già lontano, aveva fatto un sogno folle: una moglie per lui, una sorella per il piccolo Paul. Ma quella donna è mutevole e fragile. È troppo presto. Più avanti, forse? Scende i gradini che portano allo scantinato. Per preparare la partenza avrà bisogno di tutta la sua energia e anche di calma. Non può smettere di lavorare senza destare sospetti. Sottoposto al ricatto continuo del piccolo Paul, a quella guerra dei nervi cui il bambino si abbandona con lui, non ci riuscirebbe. Ecco perché ha preso un'altra decisione. Gli offrirà Zazu. Si è deciso non senza una lotta interiore. Il breve soggiorno di Simba gli ha lasciato un'impressione terribile. Ma stavolta le cose andranno in ma-
niera diversa, poiché le carte non sono più le stesse. Concluderà un patto con il loro invitato: alcuni giorni accanto al piccolo Paul in cambio della sua futura libertà. Il bambino è intelligente. Capirà qual è il suo interesse. Nello scantinato c'è una stanzetta senza finestre che serviva da camera oscura al fotografo. È dotata di acqua e di elettricità. Si può chiudere a chiave. Fino ad allora aveva evitato di servirsene. Camera oscura... È là che dormirà Zazu. Ci ha già messo una branda. Quando lui e il piccolo Paul partiranno, gli lascerà cibo a sufficienza per resistere fino al suo ritrovamento. Il freezer acquistato al suo arrivo sarà utilissimo. Ai bambini piacciono i sorbetti e i gelati. E Zazu non rischierà di annoiarsi con tutti i giochi a sua disposizione. Paul e lui saranno arrivati in porto prima che si decidano a perquisire la casa. Scoprendo il regno incantato creato per il piccolo Paul, capiranno che non è il mostro che loro immaginano. Da qualche giorno sorveglia Charles Laurent. Conosce i suoi orari, quelli della scuola, del calcio che pratica due volte alla settimana. Non sembra che si diverta molto. Non è uno sportivo, tanto meglio! Nemmeno il povero piccolo Paul. Dovrebbero intendersi bene, i due. Il bambino è quasi sempre accompagnato dalla madre o da una delle sorelle, il che non gli faciliterà il compito. Dovrà spiare l'occasione, all'occorrenza provocarla. Ha messo a punto parecchi piani. A ogni modo, non ha scelta. Nell'umore ribelle in cui si trova, il piccolo Paul potrebbe rifiutarsi di partire. Ecco perché lui aspetterà che si calmi per parlargli del viaggio. Dandogli Zazu riacquisterà la sua fiducia. «Abbi fiducia, sono qui» dice Bagheera a Mowgli. Lui non ha mai smesso di stare accanto al suo povero bambino-lupo. Inspira lentamente, profondamente, poi digita il codice della porta ed entra all'inferno. 23. Quel sabato la signora Laurent, la madre di Charles, era tutta contenta: il suo ragazzino che, dalla sparizione di Jean-Lou - proprio non riusciva a decidersi a pronunciare la parola «assassinio» - si rinchiudeva in se stesso e, quando non era a scuola, si barricava in camera sua, aveva accettato di trascorrere il pomeriggio a casa di Sylvain, un compagno di classe. Restava da ottenere il suo consenso a lasciarsi accompagnare. Sylvain abitava all'altro capo della cittadina, in una viuzza poco frequentata, ed era
escluso che Charles ci andasse da solo. La signora Laurent non poteva farci nulla: aveva paura. Senza dubbio il timore derivava dal fatto che JeanLou era stato il migliore amico di Charles, erano come due fratelli, e talvolta lei si chiedeva: perché non il mio? Perciò, malgrado le proteste del bambino che si lamentava di essere diventato lo zimbello dei compagni, lei lo accompagnava dovunque andasse. Il marito stesso le rimproverava di esagerare: «Un giorno dovrai pure lasciarlo andare. Charles è in gamba, ha la testa sulle spalle. E credi che con quei poliziotti dappertutto l'assassino giri ancora per Saint-Rémi?» Per l'invito da Sylvain, Charles e sua madre avevano finito per trovare un compromesso. Lei lo avrebbe accompagnato in auto fino all'incrocio fra la strada principale e la viuzza in cui abitava il suo amico. Di là, avrebbe potuto vederlo entrare nella casa di Sylvain e si sarebbe sentita tranquilla. Identico programma per il ritorno: appuntamento alle diciotto nello stesso posto. Così fu fatto, e la signora Laurent rincasò sollevata e si mise a disposizione del marito per andare al supermercato di Champagnole. Anche la madre di Sylvain era andata a fare la spesa e aveva affidato i ragazzini alla figlia maggiore, che era in compagnia di un'amica. Sylvain e Charles avevano cominciato costruendo un garage per le numerose automobiline di Sylvain. Charles non era un appassionato né di costruzioni né di automobili; preferiva i giochi di società, che comportavano la riflessione o la strategia. Aveva portato con sé, per ogni evenienza, i suoi scacchi, ma il gioco non aveva suscitato l'interesse di Sylvain. Charles aveva accettato la sua scelta per cortesia. Poi i bambini avevano deciso di fare una partita a ping-pong nel garage, dove le cose si erano messe male. Sylvain barava. Si sdraiava sfacciatamente sul tavolo e si concedeva dei punti in più. Quando Charles glielo aveva fatto notare, si era arrabbiato. Aveva gettato la racchetta, gli aveva dato dell'occhialuto e del moccioso, e si era piazzato davanti alla televisione senza occuparsi più di lui. Colette, la sorella maggiore, era chiusa in camera sua con la compagna, e Charles le sentiva ridacchiare come oche. Lo stesso modo di ridere delle sue sorelle. Poteva durare ore e gli dava sui nervi. Fu allora che pensò di tornare a casa. Erano appena le quattro, non avrebbe pazientato ancora due ore lì, con quegli idioti. Venti minuti di strada al massimo lo separavano da casa. Sua madre non avrebbe avuto il tempo di preoccuparsi, perché lo avrebbe tro-
vato lì al ritorno dal supermercato. Certo, avrebbe ricevuto una lavata di capo, ma suo padre lo avrebbe difeso come al solito; poteva anche darsi che poi la mamma capisse finalmente che non c'era alcun pericolo a lasciarlo andare a scuola da solo. Uno che lo avrebbe approvato, ne era sicuro, era il nonno, che era stato militare. Charles lo amava e lo ammirava. Era stato lui a iniziarlo agli scacchi. «Vedi, è come nella vita» gli ripeteva. «Bisogna sempre riflettere prima di agire, studiare la tattica dell'avversario per adattarvi la propria. Non fare nulla con precipitazione o in preda al panico, insomma, conservare il sangue freddo». E concludeva con la sua risata da soldato: «Se non avessi messo in pratica questi principi, non sarei qui a darti i miei consigli». Charles aveva dunque preso la decisione di andarsene. Per ogni evenienza, aveva telefonato a casa, ma non aveva trovato nessuno. Allora aveva recuperato gli scacchi, il giubbotto ed era sgattaiolato fuori senza dire niente a nessuno. Così Sylvain avrebbe imparato, a trattarlo da moccioso! La viuzza era deserta e lui procedeva di buon passo verso la strada principale, quando un'auto, proveniente da quella e diretta alla volta della campagna, gli si fermò accanto. Prima di riconoscere il guidatore, benché non fosse un fifone, Charles provò un po' di paura. L'uomo abbassò il finestrino. «Che ci fai qui?» chiese con aria stupita. «Torno a casa» rispose Charles, nella cui voce vibrava ancora la collera. «Che ti succede? Hai avuto noie?» «Sylvain è un cretino. A casa sua non mi rivedrà più. Se lo può proprio scordare!» «Vuoi che ti riaccompagni?» Charles esitò. Aveva la consegna di non dare retta a estranei, ma sua madre non avrebbe potuto dire nulla, visto che si trattava del dottore della clinica in cui era stato operato di ernia. Lei stessa affermava che se un giorno avesse dovuto subire un'operazione, non avrebbe esitato ad affidarsi a lui. «Se hai un po' dì tempo, ti mostrerò qualcosa di molto interessante» propose il dottore aprendo la portiera. Fu così che, senza esitare, Charles salì. Terza parte
Mister Chance 24. Non c'era nulla che Sophie preferisse a una serata a base di spaghetti e televisione. Traduzione: gustare della pasta guardando un film, di preferenza sentimentale e americano. E la pasta doveva essere all'italiana. Salsa di pomodoro e carne obbligatoria, il resto secondo l'umore e il contenuto del frigo: salsiccia spagnola molto piccante, lardelli, dadini di prosciutto o di pollo, il tutto cosparso di gruviera e passato in forno per un croccante gratin. Erano le nove di sera di sabato, gli spaghetti erano già stati divorati e madre e figlia si godevano per l'ennesima volta Rebecca, La prima moglie, quando sentirono suonare alla porta. Si guardarono contrariate: Myriam? Certamente no! Il sabato era giorno di affluenza nel bistrot, e lei non si sarebbe mai permessa di salire senza prima telefonare: il minimo, quando in certo qual modo si vive in coabitazione. Blanche fermò il videoregistratore e lasciò che Sophie andasse ad aprire. Vedendola ritornare accompagnata da Julien Manceau, capì subito che era successo qualcosa di terribile. Il volto del giornalista era grigio, il suo sguardo sembrava chiedere scusa in anticipo. Lei si alzò. «Che succede?» L'aggressività nella sua voce era dovuta alla paura. Il rifiuto anticipato di ciò che Julien le avrebbe risposto. «Charles...» disse. «Charles è scomparso». «No!» Non era vero. Non poteva esserlo. «No» ripeté Blanche. «No!» Julien si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. «Non volevo che lo venisse a sapere da qualcun altro». Lei si liberò con un movimento brusco. «Vi state sbagliando. È sparito? Non significa niente. I bambini spariscono di continuo. È il loro grande gioco». Vide su di sé gli occhi increduli di Sophie. «Ha trascorso il pomeriggio da un compagno» spiegò Julien con voce sorda. «Sembra che abbiano litigato. Quando la madre è andata a riprendere Charles, alle sei, non c'era più. Da quel momento, nessuna notizia». Blanche lanciò uno sguardo all'orologio. «Vede? Non sono nemmeno le nove! Sono passate solo tre ore. Lo ritro-
veranno». Julien si voltò dall'altra parte senza rispondere. Pensa a Nina, si disse lei. È normale, poveretto. Ma confonde tutto. Charles non è Nina. Charles era un ragazzino accorto. Non può aver seguito nessuno. Rivide lo sguardo che le aveva rivolto il ragazzino, levato verso di lei, dietro quegli occhiali verdi, quando le aveva parlato, a scuola, e qualcosa le si spezzò nel petto. Si accasciò su una sedia. «È colpa mia» singhiozzò. «È colpa mia». «Mamma, smettila!» gridò Sophie. «Voleva parlarmi, aveva qualcosa da dirmi, non ho saputo ascoltarlo». Julien le si accovacciò accanto. «Nina mi aveva chiesto di accompagnarla al supermercato» raccontò con voce dolente. «Avevo rifiutato. Non mi andava, ecco tutto... Non ne avevo voglia. Non è mai tornata. Ancora oggi mi capita di pensare che è stata colpa mia». Afferrò di forza le mani della giovane donna, che erano gelate. «Blanche! Nessuno può evitare l'imprevedibile». Lei lo respinse e si alzò. Dietro le tende, il buio. «Che cosa fanno?» chiese. «Müller era dalla sua famiglia, a Digione. Dovrebbe arrivare da un momento all'altro. Il suo vice lavora in collaborazione con i poliziotti. Tutte le strade, tutte le case vengono perlustrate e perquisite, interrogano un sacco di gente». Suonarono di nuovo; stavolta era Myriam. Blanche si spazientì. Non potevano lasciarla tranquilla? Se fosse stata sola avrebbe almeno potuto gridare. La ristoratrice si avvicinò a Sophie e se la strinse al fianco: la piccola aveva le lacrime agli occhi. «Vedrai che lo ritroveranno» le promise. Non lo avrebbero ritrovato. Nel suo intimo, Blanche lo sapeva. Non avrebbero ritrovato Charles vivo. E anche Julien lo sapeva, poiché non diceva nulla. Echeggiò una sirena della polizia. Blanche andò ad aprire la finestra. Si irrigidì. Davanti al municipio, illuminato come nei giorni di festa, si stava radunando una folla che affluiva silenziosa da ogni parte. La gente si fece da parte per lasciar passare l'auto che si fermò davanti all'edificio. Ne scattò fuori Müller. «Non si guarda la disgrazia dal balcone» sbottò Blanche. Diede una
spinta a Myriam che si era fatta accanto, e lasciò l'appartamento. Scendendo precipitosamente le scale prese una storta alla caviglia che le fece un male cane. La notte era fredda e blu. Blu il Giura, blu gli abeti, blu la morte. Si fece largo a gomitate per arrivare ai piedi degli scalini del municipio che Müller aveva percorso prima di fermarsi e di impadronirsi di un microfono. Il sindaco era al suo fianco. Il poliziotto si schiarì la voce. Aveva un'espressione agitata. «Il procuratore della Repubblica sarà qui domattina» annunciò. «Ci sono già stati accordati grossi rinforzi». Lasciò vagare lo sguardo sulla folla. «So che alcuni di voi desidererebbero partecipare fin da stasera alle ricerche. Chiedo loro di pazientare». Si alzarono grida di protesta. Li zittì con un gesto della mano. «Avremmo tutto da perdere, e il bambino anche, ad agire in modo disordinato» riprese con voce ferma. «Sono stati istituiti dei posti di blocco sulle strade. I miei uomini, in collaborazione con i gendarmi, lavoreranno tutta la notte. Se per disgrazia il bambino non fosse stato ritrovato entro domattina, do appuntamento qui a tutti i volontari. Saranno organizzate delle battute. Avremo l'assistenza di un elicottero». La piazza ebbe un ondeggiamento: impotenza, delusione. Blanche sentì sulle spalle il calore del giubbotto che Julien vi posava. Era scesa a braccia nude. La mano di Sophie si infilò nella sua. Müller accostò di nuovo il microfono alle labbra. «Vi chiedo ugualmente di riflettere su quanto abbiate potuto notare di particolare durante questo sabato, o anche ieri. Un'auto sospetta, uno sconosciuto che si aggira per le strade, un comportamento insolito. Il municipio rimarrà aperto tutta la notte. Venite o telefonate. Vi ringrazio in anticipo». Restituì il microfono a un impiegato e si precipitò nell'edificio seguendo il sindaco. Gli astanti si voltarono gli uni verso gli altri, indecisi, non rassegnandosi a rincasare. Dapprima parlarono sommessamente, poi il rumore delle conversazioni si amplificò. «Tu rèsti con me» ordinò una donna in tono isterico al suo ragazzino. Un lampo attraversò il cervello di Blanche. È qui! Coloro che sostenevano che dopo l'omicidio di Jean-Lou l'assassino fosse scappato s'ingannavano. Müller lo aveva lasciato capire chiaramente: «Se avete notato un comportamento insolito...» Era lì, a Saint-Rémi o molto vicino. Aveva aspettato con impazienza una
nuova preda e scelto Charles, il miglior amico di Jean-Lou. Che cosa significava tutto ciò? Blanche vacillò. Julien l'afferrò per un braccio. «Blanche, per favore, venga a bere qualcosa di caldo. È gelata». Senza lasciare la mano di Sophie, si lasciò trascinare. I disegni dei bambini, sulla parete dell'aula, le danzavano davanti agli occhi. Le parve che l'assassino venisse a pescarvi le sue vittime. Jean-Lou, Charles... E chi, dopo? 25. No, Pierre Rondeau non riusciva davvero a crederci, persino lì, persino in quel momento, mentre camminava con il suo gruppo, lo sguardo vigile, fra gli alberi, così belli in autunno da accendere il cuore. Non poteva credere che l'inaccettabile si fosse ripetuto, che un altro bambino fosse stato rapito, della stessa età del suo Jean-Lou, anche lui di Saint-Rémi, la cittadina senza storia presso la quale un tempo aveva deciso di ritirarsi. Mentre l'immagine di un visetto livido contro il rosso di un sacco a pelo continuava a ossessionare il bancario, ora che non avrebbe più potuto guardare il cielo allo stesso modo, né gli uomini, soprattutto gli uomini, ecco che tutto ricominciava! Sua moglie aveva appreso la notizia quella mattina, dalla telefonata di un'amica, mentre lui poltriva a letto. Senza ascoltare le sue proteste era corso a presentarsi al municipio, dove venivano organizzate le ricerche. Quando vi era giunto, verso le nove e mezzo, molti volontari erano già in movimento, inquadrati da poliziotti o gendarmi. Laghi, boschetti e foreste erano stati assegnati alle squadre. Alla quindicina di persone che restavano avevano destinato uno dei sentieri che portavano alle cascate dell'Hérisson. L'Hérisson nasceva sopra i quattro laghi di cui la clinica, ormai tristemente famosa, portava il nome. Era un corso d'acqua vivace, estroso, che si infilava fra le gole, si nascondeva sotto strati calcarei per riapparire in rapide o in cascate. Pierre Rondeau vi aveva fatto spesso delle escursioni, con un taccuino in mano su cui annotava le sensazioni che provava davanti a tanta bellezza. Se quel giorno avesse portato con sé il suo taccuino, che cosa vi avrebbe scritto? In quella domenica di inizio ottobre il sole splendeva sui luoghi della ricerca, la ricerca di cosa, mio Dio? Un altro cadavere di ragazzino? Osservando i suoi compagni che, sparsi qua e là, perlustravano le vicinanze della
strada forestale, Rondeau non poteva fare a meno di chiedersi quanti, fra loro, fossero venuti perché si sentivano realmente partecipi, e quanti per semplice curiosità, per poter dire «C'ero». E si tratteneva dal gridare: «Io ho il diritto, il dovere di esserci, poiché sono stato io a trovare il primo piccolo...» Non andava a deporre regolarmente dei fiori sotto il faggio? Aveva persino potuto constatare che non era il solo. Il giovedì della sua terribile scoperta si era seccato per la presenza di due giornalisti, solo due! Quanti ce n'erano quella mattina, quando era arrivato nella piazza del municipio? Parecchie decine, certamente. «Aspettano la televisione» gli aveva sussurrato un passante, mascherando l'eccitazione dietro un'aria desolata. E precipitandosi a Saint-Rémi, cosa si aspettavano? Cosa stavano cercando? Serial killer... La gente si trasmetteva freneticamente l'espressione con un misto di orrore e di avidità. I serial killer erano di moda, nei film, nelle soap o nella letteratura. La primavera precedente, quando Saint-Rémi dormiva ancora tranquilla, Pierre Rondeau aveva guardato una trasmissione sull'argomento. Uno psicologo, specialista in criminologia, aveva spiegato che, uccidendo, quelle persone soddisfacevano uno sfrenato appetito di potere. Disporre della vita altrui non equivale a essere Dio? Interrogato, uno di quei serial killer aveva detto una cosa che aveva raggelato l'ex bancario. Aveva detto: «Quando passeggio per strada, guardando le donne, decido: 'No, non sarà quella: quella la risparmio'». Godeva del fatto di averle concesso la grazia. Era un serial killer e aveva ammazzato Jean-Lou e rapito il piccolo Charles? Avrebbe risparmiato il secondo bambino? Il frastuono di un elicottero invase il cielo e fece alzare tutte le teste. Comunque fosse, non si lesinava sui mezzi per ritrovarlo. Quando il velivolo si fu allontanato tornò a regnare il silenzio, si udì di nuovo il canto degli uccelli e ognuno riprese la sua ricerca. «Lei è proprio il signor Rondeau?» L'uomo che gli rivolgeva quella domanda doveva avere una trentina d'anni; un volto simpatico, pullover e scarpe da montagna, una borsa a tracolla che subito il bancario sospettò contenesse una macchina fotografica. Un giornalista? Non si era sbagliato. «Julien Manceau, inviato speciale» disse il suo interlocutore citando la radio per cui lavorava. «Ho saputo che è stato lei a scoprire il corpo della
prima vittima». Rondeau si limitò a fare un cenno affermativo con il capo. Non lo avrebbero infinocchiato due volte! All'indomani dell'assassinio la sua foto era apparsa sul giornale, accompagnata da un articolo pieno di menzogne e di esagerazioni. Quei cretini avevano persino trovato il modo di parlare della trota arcobaleno che aveva pescato quel giorno, come se avesse importanza. Notando la sua diffidenza, il giornalista gli sorrise. «Stia tranquillo, non ho intenzione di importunarla. Mi dicevo solo che deve essere dura trovarsi qui oggi. Sappia che la capisco». Totalmente inattesa, un'onda di riconoscenza gonfiò il cuore di Pierre Rondeau, e le lacrime gli salirono agli occhi. «Vede» riconobbe con voce rauca, «quando si cerca, è naturale che si abbia voglia di trovare. Ma, nel nostro caso, che cosa si troverebbe? Il corpo di un altro bimbo? Allora non si sa più esattamente che cosa stiamo facendo qui. Né del resto in questo fottuto mondo» aggiunse con rancore. Julien annui. Quel mattino, quando aveva visto partire Blanche, Sophie e Myriam, come tre brave esploratrici, per il lago di Chalain, si era augurato ardentemente che non fosse il loro gruppo a trovare il bimbo. Si sarebbe unito volentieri a loro, ma doveva organizzare il suo intervento al giornale radio della sera. Pensando a Nina, concluse che, dopo vent'anni, il peggio poteva essere l'aver perduto ogni speranza di trovare qualcosa. Pierre Rondeau gli indicò due uomini che li avevano raggiunti strada facendo e camminavano davanti a loro parlando a bassa voce. «Se non mi sbaglio, sono i medici della clinica dei Quatre Lacs, non è vero?» «Sono proprio loro» rispose Julien. «Il chirurgo e l'anestesista». «L'anestesista si chiama Riveiro, credo. Qual è?» «Quello che porta il giubbotto di pelle e il pullover a collo alto» rispose il giornalista pensando che sotto un sole così caldo doveva sentirsi soffocare. «Be', si figuri che, pur non essendo mai stati presentati, abbiamo qualcosa in comune» gli disse Rondeau. «Come?» «Quando, dopo essere andato in pensione, ho deciso di trasferirmi in questa zona, ho visitato un bel po' di case nei dintorni di Saint-Rémi. Una di esse, in mezzo a un parco di pini, mi piaceva in modo particolare. Vede,
sono un po' poeta» soggiunse in tono pudico. «E dopo aver lavorato per più di quarant'anni in un ambiente chiuso e rumoroso, il più bel regalo che potessi offrirmi erano il silenzio e lo spazio». «E quella casa non è riuscito ad averla?» chiese Julien, colpito. «Purtroppo mia moglie l'ha bocciata» rispose Rondeau con un sospiro. Lei è piuttosto fanatica del bridge, e si era messa in testa che le sue amiche non si sarebbero mai avventurate in un luogo così isolato. Così, alla fine, abbiamo scelto una casa a Champagnole con un giardino minuscolo. Sono venuto a sapere da poco che un medico occupa la mia casa: il dottor Riveiro». «Lui non l'ha trovata troppo grande?» «A quanto pare, no. Anche se ci vive da solo». Lo sguardo di Rondeau si spostò su Roland Lagarde. Questi si era gettato sulla spalla una giacca da trapper. «Quanto al chirurgo, mi chiedo dove abbia potuto incontrarlo. La sua faccia mi dice qualcosa, e quella giacca anche. Solo che, alla mia età, la memoria...» I Stavano arrivando alla meta: ai piedi della cascata. Da un po' il suo fragore li spronava ad avanzare, e tutti avevano affrettato il passo. Precipitava ampia, come un ventaglio tempestato di diamanti. Era doloroso pensare che nulla avrebbe potuto fermarla, nessuna preghiera, nessun dolore, nemmeno la morte di un bambino. Più in basso scintillavano calmi gli specchi dei laghi. In quel contrasto c'erano tutta la violenza e il dolore di quella regione sensibile e tragica come il cuore degli uomini. Julien posò la mano sul braccio del poeta che piangeva. «Su con la vita. Non abbiamo trovato niente». 26. «È proprio fortunato» aveva detto Müller a Julien, e il giornalista lo aveva guardato in un modo tale che il commissario si era scusato: la tensione, la mancanza di sonno, e anche la paura, forse che uno sbirro non ha il diritto di aver paura? Paura: per il piccolo Charles. Quell'aggettivo, «fortunato», era sfuggito a Müller perché Julien era l'unico giornalista gradito, se così si poteva dire, alla signora Laurent. Ciò grazie a Nina, di cui la donna aveva seguito un tempo, con molta partecipazione, la triste storia sulla stampa. Müller non era comunque arrivato a dire «fortunato grazie a Nina». Altrimenti Julien lo avrebbe strangolato.
Aveva incontrato la madre di Charles fin dal suo arrivo a Saint-Rémi. Saputo che suo figlio era il migliore amico di Jean-Lou, aveva voluto incontrarla per saperne di più sui rapporti fra i due bambini. Procedeva sempre cosi, soffermandosi sulla personalità della vittima, cercando di conoscerne le abitudini, le manie, le eventuali passioni, lasciando alla polizia il lavoro più «oggettivo». La signora Laurent lo aveva ricevuto molto gentilmente. Avevano parlato dei legami che univano i ragazzini. L'uno con l'argento vivo in corpo, sempre in movimento, appassionato di sport: Jean-Lou. L'altro piuttosto calmo, riflessivo, amante dei giochi di società: Charles. Per Françoise Laurent, ciascuno ammirava nell'altro ciò che lui sapeva fare meno bene: li legava la loro complementarità. Quel giorno Julien aveva potuto rivolgere alcune parole a Charles, che gli era sembrato un bambino particolarmente pronto e intelligente. Ma quando aveva cercato di portare il discorso sul suo amichetto, Charles si era chiuso come un riccio, e naturalmente il giornalista non aveva insistito. Al ritorno dalla cascata dell'Eventail, Julien passò al suo albergo a fare una doccia e a cambiarsi. Erano le cinque del pomeriggio, i gruppi di volontari che battevano la campagna dall'alba ritornavano delusi gli uni dopo gli altri. Nessuna traccia del bambino da nessuna parte. Avutane conferma in municipio, il giornalista si recò a casa dei Laurent. Quella mattina, Françoise Laurent gli aveva telefonato. Voleva lanciare un appello al rapitore se le ricerche non avessero avuto esito positivo. Julien si era messo subito in contatto con la sua radio, a Besancon, che gli aveva dato carta bianca. L'appello sarebbe stato lanciato alle diciotto, ora di massimo ascolto, durante il notiziario cui lui prendeva parte ogni giorno dalla scoperta del cadavere di Jean-Lou. Aveva ottenuto dall'amico speaker che nessuna domanda venisse posta alla povera donna al termine del suo intervento. Inutile torturarla; avrebbe risposto lui alle domande, se ce ne fossero state. Suonavano le cinque e mezzo quando si introdusse discretamente nel giardino dei Laurent per andare a bussare alla porta posteriore. Fortunato o no, inutile suscitare gelosie. Gli aprì il padre del bambino. Aveva partecipato alle ricerche e sembrava stremato. «Ho appena parlato con il commissario Müller» disse. «Nessuna traccia di nostro figlio da nessuna parte. Secondo lei, potrebbe significare... che è vivo?» Il poveretto aveva pronunciato la parola quasi con vergogna, come se si
rimproverasse la propria mancanza di' fiducia. «È proprio perché lo speriamo che l'appello verrà lanciato» rispose Julien con un ottimismo che era lontano dal provare. Tutta la famiglia era riunita in soggiorno, una grande stanza arredata con gusto che comunicava, attraverso un bancone, con una cucina rivestita di legno chiaro. L'illuminazione indiretta dava un'impressione di comfort, di benessere. Una cornice che sarebbe piaciuta a Blanche, pensò Julien, un po' l'immagine ideale di un Focolare luminoso e conviviale. La madre e le due sorelle di Charles avevano trovato rifugio sul divano, accanto al quale una coppia anziana occupava due comode poltrone. Di sicuro i nonni. All'ingresso di Julien, l'uomo si alzò e gli andò incontro con passo deciso. «Se prendono lo schifoso che lo ha fatto, lo ammazzo con le mie stesse mani e passo volentieri il resto della mia vita in prigione» dichiarò. Julien si limitò a scuotere il capo. A ogni rapimento di bambino, erano le stesse parole venute dal fondo del dolore e della collera. Si guardava bene dal giudicare. Che cosa avrebbe fatto lui se il rapitore di Nina fosse stato ritrovato? Delle foto del piccolo, che non c'erano il giorno prima, erano fiorite sui mobili, e ciò gli strinse il cuore: Charles davanti al computer, alle prese con il mouse. Charles che giocava a scacchi con il nonno. Charles a scuola. E sempre quello sguardo furbo dietro gli occhiali verdi. Françoise Laurent si era alzata, mettendosi a sua disposizione: una bella donna sulla quarantina, che portava gli occhiali come il figlio. Dietro le lenti gli occhi erano gonfi. Si sentiva il suo sforzo per controllarsi. «È proprio sicura di voler lanciare l'appello personalmente?» si assicurò Julien. «Non sarà troppo dura?» «Ce la farò» assicurò la donna. Non ne fu stupito. Qualunque fosse il dramma, erano quasi sempre le donne ad accettare di esporsi davanti a un microfono o a una telecamera. Più coraggiose? Meno sensibili al giudizio altrui? «Ecco come si svolgeranno le cose» le spiegò Julien. «Fra una quindicina di minuti, lo studio di Besançon ci chiamerà per assicurarsi che la linea è libera. Alle diciotto saranno annunciati i titoli, poi il presentatore farà il punto su questa giornata a Saint-Rémi prima di darle la parola. Parli quanto vuole. Io resterò al suo fianco». Françoise Laurent annuì. Poi indicò a Julien un tavolo su cui si trovava-
no il telefono e una radio tenuta a volume bassissimo. Due sedie erano state collocate ai lati. Vi si accomodarono. Come ha osato Müller definirmi fortunato? pensò Julien. Avrebbe dato tutto perché un altro si trovasse al posto suo. L'immensa speranza, forse l'ultima, che lui rappresentava per quella famiglia, la fiducia che essa gli testimoniava, pesavano una tonnellata sulle sue spalle. La signora Laurent estrasse di tasca un pezzo di carta coperto della sua scrittura e se lo posò davanti. Doveva aver passato la giornata cercando le parole giuste per commuovere il rapitore. Julien si era guardato bene dal darle qualsiasi suggerimento. Gli ascoltatori non dovevano avere l'impressione di un testo scritto sotto dettatura. «L'appello sarà ritrasmesso parecchie volte» le disse. «Nella regione, ma anche in tutta la Francia». Lo sentirai, razza di schifoso? si chiese con odio. Sei di quelli che godono seguendo alla radio e alla televisione ciò che si dice di loro? Compri i giornali? E dove ti trovi in questo momento? Nascosto come una bestia malefica con la tua preda o, invece, sicuro della tua impunità, conduci la vita dell'uomo qualunque mentre hai rubato quella di un innocente e ti accingi forse a ripetere il delitto? Julien non poteva fare a meno di sperare che quell'appello, ascoltabile anche negli stati limitrofi, risvegliasse una memoria, allertasse una coscienza, ricordasse all'uno o all'altro un particolare in grado di aiutare la polizia. Le telefonate ricevute dalla radio a Besancon dopo l'intervento della signora Laurent sarebbero state direttamente trasmesse a Müller. Le diciassette e cinquanta. Nella stanza tutti gli sguardi erano fissi sulla pendola. In piedi, dritto come un fuso, con i pugni strettì, il nonno aveva l'espressione tragica di un uomo d'azione ridotto all'impotenza. Squillò il telefono e, benché non si aspettasse altro, tutti sobbalzarono. Julien sollevò il ricevitore. «Tutto bene?» chiese il caporedattore. «Se così si può dire...» «Scusami. È sempre la madre a lanciare l'appello?» «Sì. La signora Françoise Laurent». «Bene. Rimanete in linea. Siamo tutti con voi». Alla radio, posata sul tavolo, si sentì la pubblicità. Poi ci fu la sigla del canale, seguita dall'elenco degli argomenti che sarebbero stati trattati. «Tra poco tocca a noi» disse sommessamente Julien alla signora Laurent porgendole l'apparecchio, che lei prese con mano tremante e incollò all'o-
recchio. «Torniamo ora al dramma di Saint-Rémi» annunciò il presentatore. «Numerosissimi volontari hanno partecipato per tutta questa giornata di domenica a battute organizzate dalla polizia e dalla gendarmeria, in un largo perimetro attorno alla cittadina. Battute che non hanno avuto esito, oseremo dire: per fortuna? Abbiamo in linea la mamma del piccolo Charles che vuole lanciare un appello al rapitore. Signora Laurent, mi sente?» «Sì» rispose Françoise impercettibilmente. «A lei, prego». All'improvviso la donna prese il foglio posato sul tavolo e lo spiegazzò. Non ci riesce, pensò Julien. Ha sopravvalutato le proprie forze. Non avrei mai dovuto accettare che fosse lei a parlare. «Mamma, dai...» supplicò una delle figlie. «Signora Laurent, vuole, credo, lanciare un appello al rapitore del suo bambino...» ripeté il presentatore. Lei chiuse per un attimo gli occhi e poi, nel momento in cui Julien si apprestava a riprenderle l'apparecchio, si lanciò. «Ascolti» disse con voce che l'emozione rendeva quasi maschile, «se è stato lei a prendere il mio Charles, me lo renda. Le darò tutto quello che vuole. Non la denuncerò». Si interruppe per qualche secondo. Non c'era più aria nella stanza, solo attesa e sofferenza. Nemmeno più odio. «Forse anche lei ha avuto un figlio» riprese Françoise Laurent. «Forse lo ha amato. La prego, non faccia del male al mio». I singhiozzi la sopraffecero. Riattaccò. 27. «La prego, non faccia del male al mio...» Con un gesto rabbioso, l'uomo spegne la radio. Per chi lo prende, quella donna? Ha mai avuto l'intenzione di fare del male a chicchessia? È così che lo immaginano? «Forse anche lei ha avuto un figlio... Forse lo ha amato...» E perché usare il passato? È al presente che ama. Nessuno conosce meglio di lui la ferita dell'amore, il dolore costante di un'anima cui non riesce a trovare un rimedio. È stato ovviamente il maledetto giornalista a dare alla madre di Zazu l'idea di quell'appello di merda. Quel Manceau che fa la spola dal bistrot di
Myriam all'ufficio di Müller e che va in onda ogni giorno senza sapere di che cosa parla, mescolando la sua storia personale con qualcosa che non c'entra nulla. «Le darò tutto quello che vuole...» Ma per chi lo prendono? Un sordido taglieggiatore? Un ricattatore? Tutto l'oro del mondo non è niente in confronto al tesoro che possiede da sabato: il sorriso di un ragazzino distrutto dall'incoscienza della madre, e al quale è riuscito a offrire l'amico tanto sognato. Quel giorno, bisogna riconoscerlo, la fortuna lo aveva favorito. Il compagno di scuola da cui si era recato Charles, la loro lite, l'ubicazione ideale della casa, sulla strada dei boschi, lungo la quale non avevano incrociato nessuno. E anche se li avessero visti insieme, chi si sarebbe insospettito della sua presenza accanto a uno dei suoi ex pazienti? Se la sarebbe cavata riaccompagnando il bambino a casa, in attesa di una prossima occasione. Una volta tanto, il cielo si era mostrato clemente nei suoi confronti. Grazie all'esperienza fatta con Simba, si era comportato in maniera diversa, spiegando a Charles chi era il piccolo Paul prima di presentarglielo. Gli aveva rivelato l'infermità del bambino e gli aveva descritto la prigione in cui sua madre lo aveva rinchiuso. «Fammi uscire di qui, papà... Fammi uscire di qui, ti prego». Charles era commosso, lo aveva notato; un bambino sensibile, era stata una buona scelta! E quando aveva spiegato che era costretto, per il momento, a tener nascosto suo figlio perché non glielo riprendessero, il bambino aveva approvato con un cenno del capo. In quel momento erano arrivati davanti alla casa. «E come si chiama?» aveva chiesto Charles. «Paul! Ma ha anche un altro nome, che forse ti dirà qualcosa: Mowgli». «Il Mowgli di Mister Chance?» Charles aveva quasi gridato, sgranando gli occhi, stupito. Stentava a crederci. La sua curiosità era così sincera, così sana! «Hai proprio indovinato. Ti aspettano tutt'e due con impazienza». Charles aveva riso. Richiudendo alle loro spalle la porta della casa, una legittima fierezza gonfiava il cuore dell'uomo: successo totale per la prima parte del programma. Il ragazzino lo aveva seguito entusiasta fino allo scantinato. Sì, felicissimo all'idea di incontrare la cappuccina. Aveva composto il codice
della porta. Dovesse vivere cent'anni, non dimenticherà mai quell'istante! Il piccolo Paul sta inerte davanti al suo computer spento. Non gira nemmeno la testa quando entrano: non aspetta più niente. Con voce soave, il padre gli annuncia: «Zazu è venuto a trovarti». No! Non lo dimenticherà mai. La poltrona ruota lentamente: il piccolo Paul non ci crede ancora. Poi scopre Charles ed è come una rinascita. Il padre ridà vita al figlio, cui tornano la luce negli occhi, il sangue alle guance. L'infermo si raddrizza e, per un attimo, il medico è attraversato dalla folle idea che, per il potere del suo amore, suo figlio stia per alzarsi e correre loro incontro: «Alzati e cammina». La sua felicità è così grande da farlo sentire lui, il paralitico. Zazu si fa avanti con molta naturalezza, la mano tesa verso colui che è già un po' suo amico per la corrispondenza sulla Rete. «Ciao, Mowgli!» Al miracolo mancava soltanto Mister Chance, che salta in braccio all'ospite abbandonandosi ai suoi salamelecchi da mendicante. Charles aveva ricompensato personalmente la cappuccina. Aveva riso alle sue smorfie, ammirato lo splendido spazio in cui viveva il piccolo Paul. Quale bambino non avrebbe sognato un simile regno soltanto per sé, pieno dei giochi più belli, più nuovi? Il piccolo Paul avrebbe voluto mostrarglieli tutti in una volta, le parole si confondevano sulle sue labbra, balbettava, il poverino. E, mentre parlava, era una pena vedere le sue dita che tamburellavano sulle ginocchia come se non potesse ancora credere del tutto che stava comunicando realmente con un ragazzino della sua età. Un amico, papà, uno vero! «Hai un accento buffo» aveva osservato Zazu. Il piccolo Paul lo aveva dalla nascita, quell'accento, cui lui, invece, era riuscito a sottrarsi. Gli sfuggiva solo nei giorni di tensione eccessiva. Poi il momento temuto. Temuto e inevitabile. Charles guarda l'orologio: «Devo tornare a casa, altrimenti la mamma si preoccupa». Lo sguardo smarrito del figlio che vola verso il padre, invocando aiuto. Di che cosa hai paura? Non sai che puoi contare su di me? Non te ne ho appena dato un'ulteriore prova? «Se vuoi, ho giusto un'ultima cosa da mostrarti» aveva detto a Charles. Lo aveva accompagnato nella camera preparata per lui e aveva richiuso la porta. Il momento cruciale era arrivato. Zazu doveva capire che non aveva scelta: volente o nolente, sarebbe rimasto lì. Spettava al medico, in
cui aveva avuto fiducia il giorno della sua operazione, convincerlo che non gli sarebbe stato fatto alcun male. Anzi! Per la prima volta il bambino sembrava inquieto. Il suo sguardo passava dalla branda al tavolo e da questo alle vasche di cui si era servito il fotografo, l'ex proprietario della casa. Aveva indicato le pareti senza finestre. «È una camera oscura?» aveva chiesto con voce esitante. «Mio nonno ne ha una per sviluppare le foto». «Non è oscura, c'è luce. E sarà la tua per i pochi giorni in cui terrai compagnia a Mowgli». «Ma non è possibile, la mamma non vorrà mai!» aveva esclamato Zazu. «E la scuola? Devo andare a scuola». «Non chiederemo il permesso alla... mamma» aveva ribattuto l'uomo in tono inappellabile. «Ma se non torno a casa, avrà molta paura! Ma... ma... ma...» «Le daremo tue notizie». Charles Laurent era rimasto zitto per qualche secondo, stringendo così forte al petto i suoi scacchi che le nocche delle dita erano diventate bianche. «Significa che non ho il diritto di uscire di qui?» aveva chiesto con un fil di voce. «Alcuni giorni soltanto, te lo ripeto. Dopo, potrai tornare a casa, promesso. E non sarai solo, perché avrai il tuo amico». «Mowgli non è mio amico» aveva constatato il bambino alzando la voce per la prima volta. L'uomo era riuscito a raffrenare la collera. «Lo diventerà». Poi aveva indicato gli scacchi: «Se, per cominciare, gli proponessi una partita?» Contrariamente a quanto si aspettava, Charles lo aveva seguito. Quella sera non li aveva lasciati soli, voleva assicurarsi che Charles avesse capito bene e accettato il contratto. La sua docilità lo preoccupava un po'. Troppe grida da parte di Jean-Lou, non abbastanza da parte di Charles. Dopo la partita a scacchi, che il piccolo Paul aveva stravinto, avevano cenato tutt'e tre: ravioli gratinati, una festa, una vera festa! Il piccolo Paul aveva divorato i suoi. Charles aveva appena toccato il suo piatto, in compenso aveva bevuto molto, cosa che aveva permesso all'uomo di mescolare di nascosto alla sua bevanda il necessario per farlo dormire bene. Più tardi, quando lo aveva riportato in camera per la notte, Charles aveva
chiesto quando sua madre avrebbe avuto sue notizie. Le madri... le madri... come se non potessero pazientare un po'. Adesso avrebbe dovuto farlo. «Domani, se farai il bravo». La frase era un avvertimento; sembrava che Charles lo avesse capito. Per dormire, aveva accettato di mettersi la T-shirt che gli aveva regalato il piccolo Paul. Ma quando l'uomo si era chinato sulla sua fronte per dargli un bacio, il suo ritrarsi non gli era sfuggito. Comunque, gli aveva lasciato la luce accesa. Quella sera aveva parlato al piccolo Paul della loro prossima partenza per il Venezuela. «Porteremo con noi Zazu?» aveva chiesto il bambino. 28. Rimette la radio sulla mensola. Di lì a poco la ascolterà di nuovo. È pronto a scommettere che ritrasmetteranno l'appello parecchie volte. Quell'appello che gli brucia il cuore come una fiamma crudele. «La prego, non faccia del male al mio bambino». Dopo aver udito parole simili, come farà la gente a capire che lui ha agito solo per amore? Si alza e si avvia allo scantinato. È ora di tornare dai bambini. Per la prima volta li ha lasciati soli: trenta minuti. Non teme che Charles si mostri brutale con il piccolo Paul. È una creatura mite. Ma deve procedere per gradi. Domani, se tutto va bene, concederà loro una mezza giornata da soli. Nessun rumore dietro la pesante porta che, digitato il codice, ruota sui suoi cardini. I due amici sono chini sul computer, zazzera rossa contro zazzera bionda. A quello spettacolo, la felicità lo inebria. Ah, se potessero vederli, quelli che hanno sentito l'appello della madre! Già le perdona di averlo pubblicamente sospettato di voler fare del male al suo bambino. Si sente l'animo generoso. Domani, farà in modo di farle sapere che tutto va bene. Perché non due righe di pugno di Zazu? Alla fine della settimana prossima lo riabbraccerà, il suo piccolo! «Allora, ci si diverte un sacco?» dice allegramente. E il mondo crolla. Il piccolo Paul si volta verso di lui. I suoi occhi sono cupi. «Perché hai ucciso Simba?» Il dolore lo inchioda. Nella voce di suo figlio c'è l'odio. Vi ha sentito spesso la supplica, la sfida, talvolta la collera, ma quel sentimento mai.
Quel momento che esclude, rinnega, uccide. La notte gli invade il cervello, la nonna ha portato via la luce, è la fine. Respirare. Respirare a lungo e profondamente. Nessuno, mai più, ti priverà della luce. Andare verso i bambini come se niente fosse. Loro non si occupano più di lui. Zazu batte febbrilmente sulla tastiera. Il piccolo Paul segue le parole che compaiono sullo schermo. Ciò che vi legge lo lascia di sasso. Il suo nome. Lo schifoso piccolo ipocrita sta inviando un S.O.S. «S.O.S., venite a prendermi, presto!» Era dunque questa la sua calma, la sua finta docilità: stava macchinando il colpo. Anche il nome del piccolo Paul compare nel messaggio: «Anche lui è prigioniero». Prigioniero, mio figlio? Ma che cosa aspetta, mio figlio, per intervenire, per fermare il traditore? Non sa che se vengono a cercarlo sarà separato, per sempre stavolta, da suo padre, dal suo salvatore? Charles clicca: messaggio inviato. I due bambini adesso si voltano verso di lui. C'è una sorta di sfida nello sguardo di Zazu e, malgrado il fuoco devastatore che gli brucia in petto, l'uomo non può fare a meno di restare ammirato: un bel fegato, il ragazzino! Stende la mano e spegne il computer. Con voce soave - non ha visto nulla, sentito nulla - decide. «Avete giocato abbastanza per stasera». Complici, entrambi rifiuteranno di cenare. Complici, non pronunceranno una sola parola, ma i loro sguardi non cesseranno di andare verso la porta, le loro orecchie di tendersi verso i finestrini. Stavolta, nelle loro bevande metterà più del necessario. Porterà Charles fino alla camera oscura, dove lo stenderà completamente vestito sulla branda. Svestirà il piccolo Paul anche lui addormentato, gli cambierà il pannolino sporco e, rimboccandogli le coperte, non potrà trattenere le lacrime: il piccolo Paul, il suo dolore, la sua penitenza. Dovrà camminare a lungo nel parco addormentato prima di ritrovare la calma. Il freddo, l'odore dei pini, alcune macchie fiammeggianti qua e là gli ricorderanno l'altro paese in cui aveva creduto di trovare la pace. Il paese in cui si parla la sua lingua, lontano però da questa Francia in cui il suo cattivo genio lo ha spinto a tornare. Non si torna sempre al luogo delle ferite d'infanzia? Poi rifletterà. Senza odio né desiderio di vendetta. In tutta lucidità. Il
piccolo computer ha imbrogliato le carte: che scelta resta? Tenere i due bambini insieme? Impossibile. Charles Laurent continuerebbe ad aizzargli il figlio contro e, coalizzati, quale altra diavoleria inventerebbero i due? Tenerlo nascosto da qualche parte per liberarlo a tempo debito? Un suicidio. Adesso il ragazzino sa troppo. «Hai un accento buffo...» Il piccolo Paul gli ha sicuramente parlato del suo paese d'origine. Forse anche della loro prossima partenza per il Venezuela. Sa riconoscere i propri errori. Non avrebbe dovuto nominare il paese della liberazione e della luce in cui sta per condurlo. Non ha resistito al piacere di mostrarglielo su una carta: «Ecco il mare, guarda questo arcipelago dove ti attendono degli amici, tanti amici». E lui: «È Zazu che voglio. Zazu, Zazu». Di nuovo lo brucia la collera. Zazu che gli ha inimicato il figlio. Ritroverà mai la sua fiducia? Senza di essa si sente incapace di vivere. Eccolo arrivato in fondo al parco. Stasera il cielo"è chiaro. Solo il rumore delle foglie morte, che crepitano sotto le sue suole, turba il silenzio. Già domani si recherà a Ginevra e farà in modo di anticipare la partenza. Ma dovrà anche farsi vedere alla clinica, visitare i suoi pazienti, preparare i prossimi interventi. La minima negligenza potrebbe essergli fatale. Che cosa farai di Charles Laurent? Una soluzione, una sola! Quella che avrebbe tanto voluto poter evitare. Ritorna verso la casa. Adesso che la sua decisione è presa, respira meglio. Farà le cose per bene. Zazu se ne andrà senza soffrire. Non sia mai detto che abbia agito con crudeltà lasciando dei genitori nell'incertezza. Sulla strada, laggiù, è passato un camion. Gli è sembrato di percepirne la vibrazione sotto i piedi. Avvertimento. Dovrà mostrarsi molto prudente, la polizia è dappertutto. Ma ha tutta la notte davanti a sé, e Zazu se ne andrà a riposare là dove nessuno lo aspetta. Accanto a Simba, pregherai per il piccolo Paul. Prima di entrare nella casa dove i bambini dormono si interroga un'ultima volta. Pena e rivolta si contendono il suo cuore. Non hai fatto di tutto per non commettere un altro delitto? Sei stato tu a tradire? Puoi abbandonare tuo figlio? Come con Roselyne, la madre incosciente e crudele, la creatura senz'anima, che ha voluto infliggere al piccolo Paul ciò che, un tempo, era stato inflitto a lui: l'abbandono e la notte. Come con Simba ieri e con Charles oggi, non hanno lasciato scelta. E mentre alza gli occhi umidi verso il cielo
stellato, sente come un mormorio di approvazione. «Le anime dei bambini morti intercedono per i vivi». Quanto all'S.O.S. inviato da Zazu, non arriverà mai. Nella fretta, il bambino ha dimenticato di battere un tasto prima di scrivere l'indirizzo di suo padre. Un punto mancante, una luce spenta, un messaggio perduto. Come tanti altri, inviati da uomini ad altri uomini che rifiutano ostinatamente di ascoltarli. 29. Quando il telefono era suonato, alle sei e un quarto del mattino, Myriam aveva semplicemente detto «no», prima di tirarsi il lenzuolo sulla testa. Ci sono ore per le buone notizie e altre per le cattive. A quell'ora non potevano essere che catastrofiche. Era stato dunque René ad alzarsi per andare a rispondere nel soggiorno. La coppia abitava al primo piano, sopra il caffè, un appartamento di quattro stanze. Al piano superiore, Blanche aveva scelto la più spaziosa, che si affacciava sulla piazza, per il suo studio. «Quando disegno ho bisogno dello spettacolo della vita» diceva. In questo momento sei servita, poverina, pensò confusamente Myriam, sempre con il naso sotto il lenzuolo. «Si, no, sì, arrivo...» La conversazione telefonica era stata breve, e quando René era tornato in camera da letto il suo largo viso di uomo semplice, allergico a quelle che chiamava «le storie», era sconvolto dalla collera. «Lo hanno trovato. Hanno ritrovato quel povero bambino. Non indovinerai mai dove». Myriam non aveva risposto. Il «povero bambino» le bastava per immaginare il peggio. Nessuna voglia di entrare nei particolari. Solo la voglia di detestare tutti, anche quell'omone goffo che aveva davanti. «Al cimitero» aveva proseguito René sedendosi sull'orlo del letto e frugando sotto il lenzuolo alla ricerca della sua mano. «Il cimitero... Ci pensi?» Era riuscito ad afferrarle le dita e se le era portate alle labbra. Di solito Myriam adorava quel gesto, di un signore alla sua dama. Ma quella mattina le guance del signore erano bagnate di lacrime, e questo rovinava tutto. Quindi René si era infilato i vestiti del giorno prima - la toeletta sarà per un'altra volta - ed era corso via richiudendo la porta senza far rumore come
per chiederle perdono. Erano le sette quando, a sua volta, Myriam aveva lasciato la casa. Stava spuntando il giorno. Al secondo piano era ancora tutto spento, ma le luci si sarebbero accese di lì a poco, perché la piccola doveva andare a scuola. Mio Dio, quando Blanche e la figlia avrebbero appreso la notizia... E Blanche, che si sentiva già colpevole di non si sa cosa! Il cimitero si trovava all'uscita della cittadina, ai piedi di una collina boscosa. Alcuni lo trovavano di una calma incantevole e pensavano quanto sarebbe stato bello godervi l'eterno riposo, naturalmente a tempo debito. Ma di «calma incantevole» quella mattina non si poteva certo parlare. All'esterno si ammassava una trentina abbondante di persone, fra cui il sindaco e i suoi collaboratori. All'interno una decina di altre, poliziotti, gendarmi, si dedicavano al loro macabro lavoro. La mano di René, cercando quella di Myriam sotto il lenzuolo, aveva voluto senza dubbio preparare la moglie a ciò che stava scoprendo: il peggio del peggio. Charles era stato ritrovato contro la tomba ancora fresca del suo amico Jean-Lou. Accanto al corpicino, il medico legale non era in ginocchio per pregare ma per esaminarlo, e il silenzio non era religioso ma minaccioso, pieno di burrasche in sospeso. Un boscaiolo, che si recava alla segheria in motorino, aveva notato la macchia chiara fra le tombe e aveva pensato di andare a vedere più da vicino. Mentre il giorno prima centinaia di persone avevano perlustrato invano i dintorni, era stato lui, senza volerlo, a fare la scoperta. È spesso un dettaglio a fissare nella memoria il ricordo di momenti importanti, buoni o cattivi. Quando Myriam avrebbe ripensato a quella scena spaventosa, il grido della madre del piccolo Charles, venuta a riconoscere il figlio, sarebbe echeggiato nel suo cuore. «I suoi occhiali. Non ha gli occhiali. Dove sono finiti i suoi occhiali?» «Se volete, signori, farò in modo che nessuno vi disturbi» propose René posando le tazze di caffè davanti al commissario Müller e a Julien Manceau, che si erano accomodati in fondo alla saletta interna. Müller mostrò la sua tazza: «Fra dieci minuti, me ne porterebbe un'altra?» «Anche a me» aggiunse il giornalista. Il marito di Myriam si allontanò. I due uomini osservarono il silenzio per un attimo, bevendo a piccoli sorsi, assaporando - bisognava ammetterlo - quel caffè bollente che avevano tanto desiderato spesso durante quelle
ultime ore, ma che si erano permessi di ordinare solo dopo aver riaccompagnato a casa la signora Laurent. Nessuna parola poteva descrivere la sua disperazione. Forse solo quelle della collera. «Dirà ancora che sono fortunato?» attaccò Julien con voce disgustata. «Deve riconoscere che la mia idea di un appello al rapitore era geniale. Ha risposto a stretto giro di posta!» «Nulla prova che lo abbia sentito». Müller strinse i pugni. Il suo volto era devastato. «Ho quaranta uomini a mia disposizione, lavoriamo giorno e notte e viene a farcela sotto il naso, quel porco!» «Il cimitero... Che cosa vuol dire, secondo lei? È una provocazione? Vi sfida? Avrebbe potuto nascondere il corpo in qualunque altro posto». «Ci teneva che lo trovassimo» constatò il poliziotto. «Come per l'altro bambino. Quanto all'autopsia, secondo il medico legale sarà copia conforme. Ha già individuato la traccia dell'iniezione, nello stesso punto. Quasi certamente cloruro di potassio. A parte questo, il bambino non ha subito, se così si può dire, alcuna violenza». René stava già arrivando con il secondo caffè. «Mia moglie vorrebbe dirle due parole prima che se ne vada», sussurrò all'orecchio di Julien. Poi si eclissò. Nella sala principale qualcuno gridò: un grido di collera. «C'è un'altra possibilità» osservò Müller. «L'assassino cerca di dirci qualcosa, coscientemente o no». «E che cosa, per esempio?» «Arrestatemi prima che ricominci». «Che brav'uomo...» commentò Julien in tono sarcastico. «E quante volte ricomincerà se non lo si arresta? È un serial killer, secondo lei?» Müller represse un gesto indispettito. «Lei sa come me che di questo prestigioso appellativo ci si fregia soltanto al terzo omicidio... E personalmente non ci credo affatto, almeno per il momento». «Perché no?» «Il modo di agire. Non presenta nessuna delle caratteristiche di quello del serial killer. L'ipotesi è comunque prematura». Visibilmente poco desideroso di dirne di più, il commissario bevve d'un fiato la sua seconda tazza di caffè e la posò con violenza sul tavolino. «Hanno ritrovato gli occhiali del piccolo?» chiese ancora Julien. «Né al cimitero, né nei paraggi. Secondo sua madre, li toglieva solo per dormire. Il che sembra confermare che è stato ucciso nel sonno. Gli oc-
chiali devono essere rimasti da qualche parte vicino a un letto. O a un materasso». «Dio mio!» I due uomini tacquero. Un paio di piccoli occhiali verdi, il colore che s'intona con il rosso dei capelli... entrambi ebbero un tuffo al cuore. Julien si ricordò dello sguardo furbo di Charles dietro le lenti e strinse i pugni. No, non si vergognava affatto di provare tutto quell'odio. «E adesso che cosa conta di fare?» chiese a Müller. «Ridurre il perimetro delle ricerche. È evidente che l'uomo non è lontano. Serial killer o no, alcuni di questi mostri hanno una famigliola "molto rispettabile che non si sentono di abbandonare per prendere il largo. Chissà che non sia il caso del nostro uomo. Perciò ci soffermeremo sulle affinità fra i due delitti. I vestiti di Jean-Lou sono stati inviati con quelli di Charles al laboratorio di Lione. Forse gli studi comparativi daranno qualche risultato». «Intende dire che quelli di Jean-Lou non erano stati sottoposti ad analisi?» «I gendarmi non l'avevano ritenuto necessario». Il giornalista avvertì una tensione nella voce di Müller e non insistette. Comparve il suo assistente. «Francis, è arrivato il prefetto». Müller si alzò sospirando. «Vado». Julien lo seguì con lo sguardo fino a quando non lo vide più. Mentre bevevano i due caffè ristoratori, aveva visto un uomo ferito, al quale aveva fatto bene pensare ad alta voce in sua compagnia. Rivide la foto della moglie e dei due ragazzini che Müller gli aveva mostrato e provò un brusco slancio di simpatia nei suoi confronti. La gente dimentica volentieri che anche uno sbirro ha una famiglia, dei sentimenti, dei dubbi. I cittadini vorrebbero che la sola preoccupazione degli agenti fosse di proteggerli. Non concedono loro alcuna debolezza. Stava vuotando la seconda tazza di caffè quando Myriam entrò nella saletta. Mio Dio, com'era invecchiata nel giro di poche ore! Aveva un colorito grigiastro e profonde occhiaie. «Ho avuto il privilegio di annunciare le ultime notizie a Blanche» tentò di scherzare. «La mattina non esce mai prima delle undici. Si dedica alla sua arte. Avevo paura che lo venisse a sapere da una telefonata». «Come ha reagito?» chiese Julien con ansia. «Calma piatta. Mi preoccupa: né grida, né lacrime. Solo 'Vattene!' e la
porta chiusa a doppia mandata. Si ricorda quando ci ha detto che era colpa sua? Non è bene restare da soli quando ci si sente colpevoli». «E se provassi a parlarle?» «Sempre che le apra». Julien posò una mano sulla spalla della padrona, che aveva di nuovo gli occhi gonfi di lacrime. «Di'... Non ci si potrebbe dare del tu? Ci si aiuterebbe più facilmente». Lei fece cenno di sì, piangendo a dirotto, e passarono nella sala principale, dove c'era molta gente. La notizia si era già diffusa. René aveva mantenuto la parola: aveva impedito che li disturbassero. «E per di più tremo per la piccola» confessò Myriam ridendo fra le lacrime. «Se vuoi saperlo, nessuno di noi ha finito di tremare» osservò Julien. 30. Blanche depose la matita. Niente da fare! Quel disegno non valeva una cicca. Non le era mai successo prima: non riuscire a dare vita a un testo. La bacchetta magica aveva perso il suo potere. A che pro? pensò. Perché raccontare ai bambini delle belle storie, illustrate con colori teneri? È una falsità. La verità è la morte che incombe su di loro. Del resto, loro lo sanno già: i loro libri preferiti sono quelli in cui si parla del lupo, di mostri e di streghe. Senza contare la televisione, che mostra loro gli orrori più terribili in diretta. Che cosa ci sto a fare io, con le mie storie di bambole magiche, i miei pastelli, le mie matite ben temperate e le mie gomme? Non si potrà mai cancellare la realtà. Nel libro a cui stava lavorando, c'era un capitolo in cui la bambola consolava la sua giovane proprietaria, Iris, della morte del nonno. «Chiudi gli occhi e pensa intensamente a lui» ordinava il giocattolo. Iris obbediva, ed ecco che le appariva il nonno: «Ogni volta che penserai a me, sarò qui» prometteva il vecchio. La lezione era semplice e bella: le persone amate continuano a vivere nel cuore dei bambini. Per illustrare quel capitolo Blanche aveva previsto di disegnare un nonno vaporoso e sorridente, una sorta di connubio fra un angelo e Babbo Natale. Quale sinistra coincidenza voleva che fosse arrivata a quel capitolo proprio quel giorno? Era la ragione per la quale la mano non le obbediva più? Nei cimiteri ci sono tombe di bimbi, e sono i nonni a piangere.
Ripescò il disegno che Charles le aveva regalato durante il suo soggiorno in clinica, la primavera precedente: l'aquilone che sembrava trascinare il bambino verso il cielo, in un movimento purissimo, perfetto. Non c'era bisogno di essere uno psicologo per capire il messaggio: il desiderio del piccolo di tornare a casa, di ritrovare la vita. La funicella si era spezzata. Per Charles Laurent l'esistenza era finita. Blanche represse un singhiozzo. «Non si può evitare l'imprevedibile» aveva detto Julien Manceau. Ma lei aveva sentito che Charles stava correndo un pericolo, era stato come un campanello di allarme in fondo alla sua coscienza, la sensazione di non aver saputo cogliere un'occasione, di essersi lasciata scappare qualcosa di importante. «Basta, mamma!» urlò a se stessa, copiando il grido di Sophie quando si era dichiarata colpevole. Guardò l'orologio: le quattro. Troppo tardi per andare a prendere la sua Principessa a scuola. Durante la mattinata aveva telefonato all'istituto. Una segretaria l'aveva rassicurata: per evitare che i bambini apprendessero la terribile notizia da qualche compagno, la direttrice era passata per le aule e li aveva informati con le dovute precauzioni. Nel pomeriggio sarebbero arrivati degli psicologi. Avrei dovuto essere all'uscita della scuola, si rimproverò Blanche. Tutte le madri ci saranno andate! Finì la sua tazza di caffè. Quante ne aveva bevute da quando Myriam era salita a trovarla? Avrebbe fatto meglio a prendere dei tranquillanti, invece. Nel corso della mattinata avevano bussato parecchie volte alla sua porta senza che trovasse la forza di andare ad aprire. Il telefono, con la segreteria inserita, aveva squillato a più riprese. Non aveva ascoltato i messaggi. Verso mezzogiorno, nascosta dietro la tenda della finestra, aveva sentito la dichiarazione che il prefetto aveva rilasciato sugli scalini del municipio. Il sindaco, il procuratore della Repubblica, altri signori ben vestiti con in viso un'espressione di circostanza lo circondavano. La piazza brulicava di gente, i giornalisti erano in prima fila, con i microfoni protesi. «Non viene scartata alcuna pista, si attendono importanti rinforzi. Si farà tutto il possibile...» Le stesse parole usate per Jean-Lou. Una dichiarazione di impotenza dietro la quale si sentiva la volontà di tranquillizzare, di contenere il panico che si stava impadronendo della cittadina. Lui è qui. Una vecchia filastrocca salì alle labbra di Blanche: «Lupo, ci sei? Senti? Che cosa vedi?» Ti mangerò, bambino mio... La porta d'ingresso sbatté: Sophie. Solo lei possedeva la chiave. Blanche
si asciugò gli occhi e afferrò un pastello a caso. Controllarsi, fare buon viso. Essere un'adulta per la sua piccola. Il rumore della pesante cartella fece tremare il pavimento, ma il solito «mamma», imperativo, possessivo, non echeggiò. Proprio come pensavo, ce l'ha con me perché non sono andata a prenderla... Nel momento in cui Blanche si alzava, Sophie entrò nello studio. Si fermò accanto alla porta, e il suo sguardo corse al volto di sua madre. Devo avere una faccia da far spavento, pensò lei. «Stai bene, mamma?» le chiese Sophie con un filo di voce. Blanche aprì le braccia e Sophie vi si gettò, per ritrarsi quasi subito. Da buona preadolescente, evitava le coccole. Blanche notò che portava il cardigan con i bottoni-margherita. In mano teneva una custodia colorata: un cellulare. «Chi te lo ha dato?» «È stata Myriam a regalarmelo» spiegò la ragazzina. «È andata a comperarlo apposta per me a Champagnole. Ha detto che così sarebbe stata più tranquilla. E perle telefonate, non preoccuparti, paga lei». Tutta quella giornata di solitudine, di rimorsi, di angoscia, dì paura montò dentro Blanche come un maremoto e si trasformò in furore. Di che cosa si impicciava Myriam? Con quale diritto aveva fatto un regalo simile a Sophie senza parlargliene? «Dammelo!» Spaventata dal tono di sua madre, la piccola indietreggiò senza lasciare l'apparecchio. Blanche la raggiunse e glielo strappò di mano, prima di lasciare la stanza di corsa. «Ma dove vai, mamma? Che cosa ho fatto?» Scendendo i gradini a quattro alla volta, inseguita dalla voce di Sophie, Blanche si rese conto di continuare a tenere fra le dita il pastello: azzurro. Azzurro come la camera di un neonato. Nel corridoio a pianterreno, una porta dava direttamente nel bistrot. Myriam e René se ne servivano per salire al loro appartamento dopo la chiusura del locale. Blanche la spinse. Il caffè era pieno. Traboccante, rumoroso, pieno di fumo. Sembrava che vi fosse affluita tutta la folla che si trovava sulla piazza a mezzogiorno. In ottima posizione, il tuo bistrot, pensò Blanche. Si fanno affari d'oro! Puoi ben pagare il telefonino a Sophie! E le sue chiamate. Si diresse verso il bancone e fece sbattere brutalmente l'apparecchio sul piano di zinco. Impegnata a servire i clienti, Myriam si voltò. «Scusa se m'intrometto» le gridò Blanche furibonda, «anche se sono una
madre indegna. Mi credi incapace di proteggere mia figlia, vero?» Di tavolo in tavolo, di gruppo in gruppo, il silenzio si estese a tutta la sala. Seduto accanto alla finestra, Julien Manceau si alzò. Quella mattina, era salito parecchie volte a bussare alla porta di Blanche. Le aveva lasciato un messaggio in segreteria. Si era chiesto se avesse pranzato. Aveva sperato di esserci quando lei si sarebbe decisa a fare ritorno alla vita. Aveva temuto qualcosa del genere. Non è bene restare da soli quando ci si sente colpevoli, aveva osservato Myriam. E quella sembrava proprio l'esplosione dì una sofferenza trattenuta fino all'estremo limite delle forze. «Non volevo ferirti» tentava di difendersi Myriam andando incontro all'amica con il vassoio pieno di stoviglie sporche. «Ma oggi non ci siamo viste, e ho pensato che con un telefonino Sophie potrebbe chiamarci, te o me, in caso di bisogno». «Nel caso fosse la prossima sulla lista?» urlò Blanche. «Perdonami» ripeté Myriam a bassa voce. «Ho creduto di fare bene. Vuoi bere qualcosa? Hai l'aria... stanca». Senza rispondere, Blanche si voltò verso la sala. Il suo sguardo vagò sui clienti. «Allora, siete contenti? L'avete avuta la vostra seconda vittima?» gridò. L'incredulità pervase il caffè. Chi poteva essere contento lì? «Che cosa intende dire?» tuonò la voce furiosa di un giornalista. «Potrete soddisfare la morbosità del pubblico, far soldi a spese di due ragazzini che non vi hanno chiesto niente!» Simile a una fiammata vendicatrice, un flash scoccò. Julien si precipitò verso colui che aveva scattato la foto. Nello stesso istante Sophie comparve sulla porta del locale. Era passata da fuori. Con la bocca aperta e lo sguardo incredulo fissava sua madre, e Blanche la sentì dire: «Basta, mamma!» Vide la vergogna negli occhi di sua figlia, l'ira le sbollì e ridiventò la creatura che aveva cercato di nascondere accusando ingiustamente gli altri: una donna impotente e colpevole, punita con la perdita della sua bacchetta magica. «Lasciateci in pace, abbiamo già abbastanza dispiaceri» mormorò. Voltò la schiena alla sala e si appoggiò al bancone. Il braccio di Julien venne a cingerle le spalle. Lui era un giornalista, ma faceva bene il suo mestiere, non gonfiava le notizie; non meritava quell'attacco. «Blanche» le mormorò in tono supplichevole. «Blanche, siamo con te. Ti vogliamo bene».
Sentirsi dare del tu le diede il colpo di grazia. Le lacrime l'accecarono. Come sembrava lontana quella giornata di sole in cui, grazie a una dozzina di bottoni-margherite, la sventura era stata tenuta in disparte per un attimo! Che cosa le aveva detto quel giorno, Julien, che le era tanto piaciuto? Ah, sì! Cogliere l'attimo di vita: il lavoro di entrambi. Solo allora toccò il fondo della disperazione. Aprì la mano contratta e una poltiglia azzurrina cadde sul bancone: il pastello. «Vedi» disse, «dietro l'attimo di vita c'è inevitabilmente la morte. Oggi è stata lei a vincere, e non sono riuscita a disegnare nulla». 31. Anche prima che il suo assistente avesse aperto bocca, Francis Müller capì dalla sua espressione eccitata che finalmente qualcosa si muoveva, e il sollievo fu tale che chiuse per un attimo gli occhi: purché non mi sbagli... Jacques Boyer posò sulla sua scrivania un fascio di fax. «Il risultato delle analisi effettuate sugli indumenti dei bambini» annunciò. Per Jean-Lou, vestaglia, pigiama, pantofole. Per Charles, pullover, Tshirt, jeans e scarpe da ginnastica. «E allora?» «Le solite fibre: acrilico, cotone, lana. E una cosa incredibile, capo». «Sbrigati a parlare» si innervosì Müller. «Ti diverti a tenermi sulla corda? Quale cosa?» «Peli di scimmia». «Peli di scimmia?» ripeté Müller, incredulo. «E non provenienti da un animale di peluche. I peli di una bestia viva e vegeta». «Mio Dio, non ci mancava che questo!» esclamò il detective. Ma l'eccitazione contagiava anche lui: il primo indizio. Sconcertante, sì, ma proprio un indizio. E ogni indizio conduce a una pista. «E questi peli sono stati ritrovati sui vestiti dei due bambini?» insistette il commissario, non osando ancora crederci. «In quantità considerevole, come se i piccoli avessero stretto l'animale al petto. Dappertutto, ce ne sono dappertutto! È incredibile, vero? Ho fatto inviare subito dei campioni al Museo di storia naturale di Parigi per sapere a quale razza appartenga la scimmia». «Un momento!» Müller si tolse gli occhiali che aveva inforcato per dare una scorsa ai fax
e li pulì a lungo, scrupolosamente. Quel gesto da niente gli permetteva di concentrarsi. Dei peli di scimmia... Una cosa talmente inaspettata... Posò gli occhiali sul tavolo. «A parte te e me, chi è al corrente di questa scoperta?» chiese. «I tecnici del laboratorio, e basta». «Allora, fa' in modo che tacciano» ordinò Müller. «Non una parola con nessuno. Immagina che il proprietario dell'animale venga a sapere che siamo al corrente e che allontani o elimini la scimmia...» Si alzò e andò alla finestra. Finalmente! La parola non smetteva di mulinargli nella mente. Finalmente avrebbero potuto agire, affrontare qualcosa di preciso. Il suo sguardo percorse la piazza, calma in quell'inizio di pomeriggio, a parte la piccola effervescenza abituale da Myriam, come un'acqua tremolante sul fuoco. In attesa di bollire? Nella cittadina regnava il sospetto. Si evitava di lasciare che i bambini uscissero da soli. Le persone non si guardavano più nello stesso modo, ma, nel contempo, provavano il bisogno di riunirsi per condividere la loro paura o la loro indignazione. Si riavvicinò a Boyer. «Veterinari, serragli, circhi, zoo, come pure tutti i posti in cui si vende cibo per animali, voglio che vengano visitati tutti. Nella maniera più discreta possibile. Non una parola sulla nostra scoperta. Informati anche sui privati che possono essere in possesso di animali proibiti. Un ragno tropicale, un pitone possono nascondere una scimmia. Quando sapremo a quale razza appartiene la nostra?» «Hanno chiesto due o tre giorni». «Voglio i risultati entro domani sera al massimo» tagliò corto Müller. «Arrangiati». «Okay, capo». «E convoca tutta la squadra per le otto di stasera. Per la stampa, si tratta di una riunione di routine. Va'!» Boyer si eclissò. Müller, ritornato alla sua scrivania, scartabellò meccanicamente i fax. Aveva il segno che attendeva dall'inizio dell'inchiesta? Il suo istinto gli diceva di sì. L'assassino possedeva una scimmia che era stata in contatto diretto con i bambini, con i due bambini. Peli dappertutto... Come se avessero stretto l'animale al petto... Ebbe un guizzo di collera contro se stesso. Buon Dio, perché non aveva inviato subito gli indumenti di Jean-Lou al laboratorio, anche a costo di irritare i gendarmi? Tutto quel tempo perduto! Reagì subito: a che pro rodersi il fegato quando la frittata era già stata fatta?
Allungò il dito verso il lettore di cassette, premette il play, Messa in Sol di Schubert. «Tu e la tua musica da chiesa...» C'era l'idea di Dio dietro il suo bisogno di ascoltarla? Tutto ciò che sapeva era che quella musica lo aiutava ad accettare meglio l'idea della morte. Ogni vita racchiude in sé il proprio aldilà. Si innalzarono delle voci bianche. Non avrebbe mai accettato che la vita di un bimbo venisse distrutta anzitempo da un pazzo. Riprese in mano il rapporto dell'autopsia arrivato il giorno prima, identico punto per punto a quello di Jean-Lou, come una sinistra conferma. Li rilesse tutt'e due attentamente. Né in un caso, né nell'altro si parlava di graffi sospetti fatti da un animale. La scimmia era addomesticata. L'assassino l'aveva usata come esca per attirare i piccoli? Mentalmente rifece l'elenco delle analogie: stessa età, stessa scuola, entrambi passati dalla clinica dei Quatre Lacs. Come una dozzina di altri bambini di Saint-Rémi e dei dintorni... E tutt'e due avevano probabilmente seguito il loro rapitore senza porsi domande, anche Charles, che pur era stato messo in guardia dai genitori. Un uomo che dovevano conoscere bene. Avrebbe dovuto riprendere tutto dall'inizio ancora una volta. Serial killer... Dal giorno prima se ne parlava con sempre maggior insistenza. Persino il prefetto... Eppure lui non riusciva ancora a crederci. In nessuno dei due casi aveva trovato le caratteristiche abituali di questi assassini. Nessun piacere a tormentare la vittima, nessun indizio sessuale. Certo, succedeva che la libido esacerbata o repressa di certuni venisse soddisfatta da un atto non sessuale. Ma in tal caso l'assassino traeva piacere dalla manipolazione della sua vittima. Giocava con la preda, il piacere arrivava solo come conclusione di una sorta di cerimoniale di cui si credeva l'officiante esclusivo. E per questo aveva bisogno di tempo. Jean-Lou: alcune ore. Charles: appena quarantott'ore. La cassetta finì. Müller prese un foglio. Vi scrisse sopra: PERCHÉ? Perché l'uomo della scimmia aveva rapito e poi ucciso quei due innocenti? Quale fattore faceva scattare in lui la molla della morte? Una cosa era certa: quelli dei bambini non erano i suoi primi omicidi. La sua padronanza di sé, il suo sangue freddo, la sua organizzazione lo provavano. Niente panico, nessun errore. A parte i peli di scimmia. Il telefono squillò. Riconoscendo la voce di Julien Manceau, non riuscì a
trattenere una smorfia. «Ho saputo che è arrivato il risultato delle analisi riguardanti gli indumenti. È saltato fuori qualcosa?» chiese il giornalista. «Nulla di conclusivo per il momento» rispose con fermezza il poliziotto. «Fibre diverse e varie come sempre. Ho preteso ricerche più accurate per alcune di esse. Sarà tenuto al corrente». 32. Inerte, il piccolo Paul fissa il vuoto davanti a sé, il buco, il nulla, lo specchio spezzato. Il papà gli ha rubato il computer. Glielo ha rubato mentre dormiva. Gli ha rubato anche Zazu. Ieri, quando si è svegliato, con un gran mal di testa, il suo amico non c'era più. Dal loro nascondiglio, sotto il cuscino che gli sostiene le reni doloranti, tira fuori il suo tesoro: gli occhiali verdi, e li inforca. È stato come stregato. Quando li ha intravisti sotto la branda nella camera di Zazu, il suo cuore si è messo a battere forte forte. Li voleva. Ma come fare? La porta è troppo stretta per la sua poltrona. A forza di carezze e di ricompense, Mister Chance ha finito coll'accettare di andarglieli a prendere. Il piccolo Paul li tiene nascosti perché papà non glieli porti via. Le stanghette hanno l'odore dei capelli del suo amico. È perché non lanci un S.O.S. come Zazu - S.O.S., venite a prendermi, presto! - che quello schifoso gli ha confiscato il computer. Il vero nome di Zazu è Charles Laurent. Charles Laurent è stato gentile con lui: «Aiutami, e ti farò uscire da qui». Simba si chiamava Jean-Lou Marchand. È morto. Gridava: «Dirò tutto, la metteranno in prigione». Suo padre gli ha fatto una puntura perché non lo denunciasse. Charles Laurent ha capito subito che Jean-Lou Marchand era stato lì. «È per Mister Chance. Ne parlava di continuo. Aveva talmente voglia di vedere la scimmietta». Dicendolo, piangeva. Se non rispondeva più sul sito era perché si sentiva troppo triste. Jean-Lou Marchand era il miglior amico di Charles Laurent. Adesso è lui, Paul. «Simba se n'è andato per sempre». «Non rivedrai più Zazu». Papà ha ucciso anche Zazu? Dopo la partenza di Simba, erano state la sua radio e la sua televisione a sparire. «In riparazione» aveva spiegato suo padre. Figurarsi! Era perché
non venisse a sapere che Simba si chiamava Jean-Lou Marchand e che era stato assassinato. Quando Zazu glielo ha detto non è rimasto veramente sorpreso. Era come se lo avesse già intuito. «Simba se n'è andato per sempre». Adesso è sparito il suo computer, e il piccolo Paul si sente precipitare in una sorta di buco che gli si è aperto in fondo al cervello. Ha sempre vissuto con Internet. Prima ancora di saper leggere ha imparato a navigare. «Farò di te il re del cielo» diceva suo padre. «Avrai degli amici in tutto il pianeta». Quando c'era Zazu se ne infischiava del pianeta, ma adesso ha perduto tutto, e non smette di precipitare nel buco in cui aveva indovinato che Simba era stato ucciso da suo padre. Per smettere di cadere maneggia sulle ginocchia un mouse immaginario: «Zazu, rispondi, Zazu, rispondi». Ma Zazu non risponde e, stavolta, lui cade nel buco in cui suo padre ha ucciso Charles Laurent. «Mister Chance!» La scimmia esita prima di avvicinarsi. Da quando è andata a prendere gli occhiali di Zazu, il piccolo Paul la ricompensa di nuovo. Anche troppo. Ne può avere bisogno. «Se non la ricompensi più, la scollegherai» lo aveva avvertito suo padre. «Ti devi scollegare da quel maledetto computer» diceva mother. «Devi imparare a vivere come gli altri bambini». E soggiungeva, abbassando la voce e asciugandosi gli occhi: «Diffida di tuo padre, è pericoloso. È per questo che devi rimanere qui per un po', anche se non ti piace». «Qui» era quella casa orribile dove lei lo aveva portato subito dopo il divorzio. Le scimmie non vi erano ammesse, i computer solo ogni tanto. Uno solo, per un mucchio di gente. «Fammi uscire di qui, papà, te ne supplico. Tirami fuori di qui». «Tuo padre è pazzo!» ha gridato Charles. «Simba se n'è andato per sempre». «Non rivedrai più Zazu». «Tua madre ha avuto un incidente. È accanto al buon Dio, adesso». Mai più Zazu. Mai più mother. E se...? Il piccolo Paul offre un dolcetto a Mister Chance, poi aziona la sua poltrona, la guida più vicino che può alla porta, alza gli occhi verso il codice.
È una placca con cifre e lettere, troppo in alto perché lui riesca a raggiungerla. «Non conosci il codice?» ha chiesto Zazu. «Non hai cercato di indovinarlo?» Mortificato, lui ha risposto di no. Se avesse cercato di saperlo avrebbe potuto aiutare il suo amico a scappare, e Zazu sarebbe tornato a liberarlo con suo nonno, che ha fatto la guerra. È da allora che il piccolo Paul, ogni volta che suo padre esce, lo osserva. Papà preme cinque volte, questo è sicuro. Ting, tong, tong, tong, ting. Ogni volta si sente una specie di nota musicale, leggermente diversa per ogni tasto. Guarda anche la posizione della mano quando suo padre preme: più alta, più bassa, a destra, a sinistra. Non è tutto! I tasti sono di metallo. Ha individuato quelli che sembrano diversi, un po' più opachi, meno nitidi. Fra questi ci sono due lettere: la A e la L. E tre cifre: il 2, il 5, il 7. Cinque e due sette. Gli resta da trovare l'ordine. Deve badare che suo padre non sospetti di niente. È stato lui a immettere il codice, e potrebbe cambiarlo. Quando lui lo avrà trovato la porta si aprirà, ma il codice è troppo in alto per lui, e dall'altra parte della porta c'è una scala. Allora il piccolo Paul ha deciso che suo padre deve assolutamente portargli un altro amico, l'ultimo, che lo farà uscire di lì. Non vuole andare in Venezuela. Sente che sarà inutile partire. Papà non lo lascerà mai uscire. «Tuo padre è pazzo!» Mai, sempre, mai, sempre. Vuole Zazu, vuole mother, certe volte vuole morire. S.O.S., venitemi a prendere. Presto. 33. No, Sophie non avrebbe mai creduto che quel mercoledì sua madre sarebbe andata alla clinica come al solito. Anche se lei non smetteva di ripeterle che non bisogna deludere un bambino, un bambino malato men che meno... Ma quello era un mercoledì diverso: quella mattina avevano sepolto Charles. Era stato tutto molto triste, soprattutto durante i canti. Blanche era come una statua dietro gli occhiali neri, e Sophie era sicura che, rincasando, si sarebbe chiusa nel suo studio come lunedì. Be', non era andata affatto così! Dopo il cimitero erano tornate a casa, senza neppure fermarsi da
Myriam, e Blanche le aveva restituito il cellulare chiedendole scusa per l'altro giorno: in fin dei conti era una buona idea, sarebbe stata più tranquilla sapendo che la sua Principessa avrebbe potuto mettersi in contatto con lei ogni momento. Una cosa sola: ci teneva a pagare le telefonate. Myriam faceva loro già abbastanza regali. Dopo avevano mangiato un sandwich al tonno, il preferito di Sophie: pan carré, tonno, insalata, maionese e una fettina di pomodoro per la mamma. E Sophie si era un po' vergognata di aver lo stesso fame. La ragazzina provava qualcosa di bizzarro: anche se erano stati sepolti, non riusciva a credere che non avrebbe più rivisto Jean-Lou e Charles. Era il «più» che stonava. Forse perché non aveva visto i corpi, ma solo le bare coperte di fiori: rose per Jean-Lou, gigli per Charles. Talvolta arrivava addirittura a pensare che era come in un film, che sarebbe finito bene. Charlotte e parecchie sue compagne provavano la stessa cosa. Ma al tempo stesso, sapevano che era vero: i due bambini erano morti, ma quella terribile realtà rifiutava di entrare nelle loro teste. Risultato: erano i genitori ad avere più paura. Malgrado ciò, la notte Sophie preferiva lasciare socchiusa la porta della sua camera per vedere quella della mamma. Fissava la luce finché gli occhi le bruciavano, e quando non riusciva ad addormentarsi cercava di collegarsi al Cielo, di attendere il segnale. E il più delle volte, allora, il sonno arrivava. Dopo il sandwich al tonno e due caffè per la mamma avevano indossato qualcosa di meno triste ed erano partite per la clinica. Pioveva a dirotto, perciò non era il caso di uscire in bicicletta. Avevano preso l'auto di Myriam, quella vecchia Due Cavalli che perdeva colpi. Non c'era nemmeno bisogno di chiedere il permesso: Blanche aveva le chiavi. Un altro regalo di Myriam. «Divertiti, Sophinette» le disse sua madre lasciandola vicino alla sala giochi, e Sophie si sentì colpevole. Se Thomas non le avesse fatto giurare di mantenere il segreto avrebbe confessato a Blanche che si accingeva a giocare su Internet, e non con gli altri bambini. Tre marmocchi, intenti a seguire un cartone animato alla televisione, si fecero in là per consentirle di guardare, ma lei preferì prendere un libro in attesa di Thomas. Lo aveva visto quella mattina al funerale, senza potergli ovviamente parlare. Non appena aveva saputo che sarebbe andata come al solito alla clinica lo aveva chiamato di nascosto con il cellulare, per dirgli che lo avrebbe aspettato. Era la prima volta che usava l'apparecchio. Che
scalogna! Thomas aveva inserito la segreteria. Gli aveva lasciato il messaggio. Lui arrivò solo verso le quattro, tutto ansimante, come se avesse corso. Sophie gli si precipitò incontro. «Sei in ritardo. Non hai sentito il mio messaggio?» «L'ho sentito» rispose l'anestesista con voce irritata. «Chi ti ha dato quel numero?» «L'ho trovato nell'agenda della mamma». «Sa che mi hai chiamato?» «Certo che no. Ti ho telefonato dalla mia camera». Sophie estrasse con fierezza il cellulare dalla borsa per mostrarlo al medico, che non lo guardò nemmeno. Aveva la faccia delle giornate storte. «Non chiamarmi mai più a quel numero. È riservato alle urgenze. A ogni modo, oggi non posso rimanere». «Neanche un minutino?» supplicò la ragazzina. «Da quando ti accontenti di un minutino?» la schernì lui con cattiveria. Sophie si voltò dall'altra parte perché i bambini non notassero le sue lacrime. Più ancora della delusione di essere privata di Internet, era l'atteggiamento di Thomas a ferirla. Perché era in collera con lei? Che cosa gli aveva fatto? L'uomo si chinò e le prese il mento fra due dita per obbligarla a guardarlo. Il suo volto si era addolcito. «Credi che non abbia voglia di piangere anch'io?» disse. Sparita Sophie nella sala giochi, Blanche era andata a bussare alla porta dell'assistente di Roland Lagarde per chiederle se sarebbe venuto alla clinica nel pomeriggio. «Il dottore ha un appuntamento alle quattro. Non dovrebbe tardare» aveva risposto la giovane donna. «Devo trasmettergli un messaggio?» «Faccio lezione fino alle cinque. Se avesse un minutino da concedermi, ne sarei felice» aveva risposto Blanche. Felice... come poteva pronunciare ancora quella parola? Dalla scomparsa di Charles, e più ancora dall'orribile scoperta del suo cadavere al cimitero, provava il bisogno imperioso di parlare a Roland, di confidarsi con lui, di fare appello alla sua forza. Era una delle ragioni che l'aveva spinta a venire lì quel pomeriggio. Non che mancasse di buoni ascoltatori attorno a sé, a cominciare da Myriam e Julien, ma da loro non si aspettava più alcun conforto. Tutto ciò che trovavano da dire era che a
Saint-Rémi ognuno si sentiva colpevole. Non capivano che il suo caso era diverso. Aveva trascorso due ore con Jean-Lou il giorno stesso del suo rapimento. Poco prima della sparizione di Charles, ne era certa, il piccolo era stato sul punto di confidarle qualcosa di importante. Lavorava di fantasia, come le dicevano i suoi amici? O stava per cadere preda della depressione? Fatto sta che non riusciva più a vivere, né a disegnare. Roland l'avrebbe aiutata. Dopo la famosa «cena della farfalla» aveva rivisto il chirurgo parecchie volte, ma mai a quattr'occhi. Era passato da Myriam un giorno in cui c'era anche Julien, e non aveva voluto rimanere a pranzo con loro. Quando aveva espresso il desiderio di vedere i suoi disegni, Blanche lo aveva invitato a salire nel suo atelier, ma purtroppo Sophie non li aveva lasciati tranquilli un minuto. Roland si interessava realmente agli extraterrestri, o in quel modo cercava di accattivarsi sua figlia? «Sophie è la strada più sicura per arrivare al tuo cuore» scherzava Myriam. Blanche lo aveva già sperimentato con Thomas, che corteggiava assiduamente la ragazzina. Ma mentre di solito tendeva a sorriderne, stavolta sarebbe stata quasi gelosa. E vergognosa di esserlo, beninteso. Chiamami, supplicò lei posando la mano sull'apparecchio della sala giochi in cui erano appena entrati i bambini. Chiamami! Ho veramente bisogno di parlarti. Benché si dessero del lei, quando pensava a Roland trovava piacevole dargli del tu. «Signora, che cosa disegniamo oggi?» Cinque bambini erano seduti attorno al tavolo ovale: tre maschi e due femmine. Certi in convalescenza, altri alla vigilia di un'operazione, un piccolo a lunga degenza, Jules, che trascinava dappertutto la sua flebo con abilità. Cinque musetti pallidi, e altrettanti sorrisi levati verso di lei. «Che ne direste di un aquilone?» Un attimo prima non ci pensava. Un'idea-grido del cuore. «Suppongo che tutti ne abbiate visto uno». «Un deltaplano con un filo» rispose spiritosamente un ragazzino. «Solo che non c'è nessuno, su un aquilone» corresse la sua vicina. Si misero all'opera, ciascuno beneficiando della propria busta di pennarelli, forniti da Blanche. Se avesse economizzato sui colori, sarebbe stata zuffa assicurata. «Ogni volta che penserai a me, io sarò qui» diceva il nonno a Iris nel li-
bro che Blanche non riusciva più a illustrare. È così che permetterò a Charles di vivere ancora un po', pensò guardando gli aquiloni che prendevano forma - più o meno bene -sui fogli. E perché non utilizzare, un giorno, quel suo disegno così bello in una delle proprie opere? Un riso doloroso la scosse: non avrebbe certo potuto immortalare le opere del povero Jean-Lou! «Signora, non riesco a fare l'ala, mi aiuti per favore?» chiese Jules. Blanche si chinò su di lui per guidargli la mano. E mentre dispiegavano insieme l'ala dell'aquilone, lei si sentì percorrere da un fremito ed ebbe di nuovo voglia di disegnare. No! Non voglia, bisogno. Un bisogno feroce, venuto, ritornato dal più profondo del suo cuore grazie a quel bambino vivo. «Signora, perché piangi?» Erano le cinque, l'ora di misurare la temperatura, e gli artisti erano ritornati nelle loro camere sotto la guida di una puericultrice, quando Roland comparve sulla porta. «Voleva vedermi, Blanche?» Lei smise di colpo di mettere in ordine e gli andò incontro. L'aria esausta del chirurgo la colpì. Quel mattino era venuto al funerale, ma non si era recato fino al cimitero. «A dire il vero, ho le idee piuttosto confuse» confessò lei in tono falsamente leggero mentre la gola le si caricava di piombo. «Ho pensato che parlare con lei forse mi aiuterebbe a vederci più chiaro». «Lei mi attribuisce un potere straordinario» sospirò Roland. «In questo momento, ci sentiamo tutti più o meno smarriti. Tranne loro. Per fortuna!» Indicava i disegni dei bambini rimasti sul tavolo. Li avrebbero finiti la prossima volta. Roland si chinò per vederli meglio. «Degli aquiloni?» «Il piccolo Charles Laurent me ne aveva disegnato uno di stupendo proprio qui» balbettò lei pensando che aveva voglia di mostrarglielo al più presto. Il chirurgo prese i fogli e li esaminò uno dopo l'altro. Il mare c'era in tutti, con la spiaggia. Spiaggia va con vento, e vento con aquilone. In tutti i cieli splendevano soli più o meno radiosi. «Il mare, il sole... Fanno venir voglia di andare molto lontano...» osservò Roland con voce sorda. Rimise i disegni sul tavolo, si raddrizzò e posò le mani sulle spalle di
Blanche: «Non trova?» La giovane donna ebbe un fremito. La voce del chirurgo, il suo sguardo erano intensi. Un'invocazione? Come durante la cena a casa sua, quando lei aveva parlato di solitudine. Per un attimo Blanche ebbe l'impressione che le proponesse di fare quel viaggio verso il sole. Ma lui le aveva già lasciato le spalle, e sul suo volto si leggeva soltanto una tenera sollecitudine. Ragazza mia, sei proprio incorreggibile, si rimproverò lei. Non smetterai mai di sognare? Non era nemmeno sicura che avrebbe rifiutato il viaggio. Anche lei aveva una voglia matta di «andare molto lontano», lontano da Saint-Rémi e dai suoi funerali. Mentre si accingeva a chiedergli quando avrebbero potuto parlare più tranquillamente, Sophie fece irruzione nella stanza. «Che cosa fai, mamma? Ti stavo aspettando!» Guardò Roland, e gli porse la mano da stringere. L'uomo osservò la sua espressione imbronciata. «Sembra proprio che le cose non ti vadano bene!» Sophie alzò le spalle, fissandosi i piedi. 'Che è successo?' si chiese Blanche stupita. Di solito, la sua Principessa era in gran forma quando lasciavano la clinica. Era stato anche per lei che, dopo quella mattinata tragica, aveva deciso di non annullare la lezione di disegno. «Adesso che ci penso!» esclamò all'improvviso Roland. «Ho letto sul giornale che presto a Besancon inaugureranno una mostra dedicata agli abitanti di altri pianeti. Hai dei complici laggiù?» Sophie rialzò bruscamente il capo; gli occhi le brillavano. «Davvero? Quando?» «Ho dimenticato la data. Quanto alla sede, se ti interessa, mi informerò». «Ci andremo, mamma?» chiese Sophie ansiosamente. «Vedremo» rispose lei sforzandosi di fare buon viso, ma constatando con dispetto che ancora una volta sua figlia era riuscita a richiamare tutta l'attenzione di Roland. La ragazzina adesso alzava verso di lui uno sguardo supplichevole. «Verrai anche tu?» «Vedremo» rispose lui maliziosamente, con lo stesso tono di Blanche. «Se non volete, non m'importa. Prenderò la corriera e andrò da sola» decise Sophie irritata. Estrasse il cellulare dalla borsa e lo agitò sotto il loro naso. «A ogni modo, con questo, non dovete aver paura di niente».
34. «Tre minuti» indicò Alain Bonnard, il presentatore, a Julien Manceau seduto di fronte a lui. Il giornalista fissò la luce verde al centro del tavolo dello studio e si concentrò. Una volta che fosse diventata rossa, sarebbe toccato a loro. E quella sera, più che mai, si sarebbe dovuto mostrare convincente. Trasmissione speciale! Speciale «peli di scimmia» pensò con un residuo di collera nei confronti di Müller. Come aveva potuto nascondergli un elemento cosi importante? Aveva mancato alla parola data. Lui, Julien, non aveva forse rispettato scrupolosamente il patto? Quando la signora Laurent aveva voluto lanciare il suo appello al rapitore, Müller era stato il primo a essere informato. Dietro richiesta del commissario il giornalista aveva accettato di non parlare degli occhiali di Charles per non rischiare che l'assassino, se li aveva conservati, li distruggesse. «Nulla di conclusivo per il momento. Sarà tenuto al corrente...» Ed era tutto ciò che il poliziotto trovava da rispondergli, pur essendo in possesso di quella scoperta fenomenale: peli di scimmia sugli indumenti dei bambini, dei due bambini! Se quel mattino Julien, mosso da un impulso, da un'intuizione, non avesse chiamato un conoscente al laboratorio di Lione per sapere su quali fibre erano state richieste le analisi complementari, avrebbe ignorato tutto. E anche che quei peli, lo sapevano dal giorno prima, appartenevano a una cappuccina. «Venti secondi...» Il giornalista vuotò il suo bicchiere. Da quando aveva appreso la notizia la sete lo attanagliava. Sete uguale desiderio. Nel suo caso, il desiderio di agire al più presto. E stavolta senza chiedere il parere di Müller, che sarebbe stato fuori di sé per la rabbia. Tanto peggio per lui. Non era difficile indovinare che cosa avrebbe detto il poliziotto per difendersi. Come per gli occhiali, non aveva voluto rischiare che il criminale, in preda al panico, facesse sparire per sempre la sua scimmia. Be', Julien era convinto del contrario... Era ora di spaventarlo, quello schifoso, di mettercela tutta per obbligarlo a fare un passo falso. Forse che per agire Müller avrebbe avuto bisogno di un terzo cadavere, che gli permettesse di classificare il mostro nella prestigiosa categoria dei serial killer? «Dieci secondi...» Dietro il vetro della regia il caporedattore gli fece il segno di vittoria. Quando Julien aveva chiamato il suo amico all'inizio del pomeriggio, que-
sti non aveva esitato un secondo: d'accordo per una trasmissione speciale in diretta da Besancon, all'ora in cui ogni sera i suoi ascoltatori lo aspettavano. «A noi!» La luce diventò rossa, la musica lasciò il posto alla sigla della rete, il redattore alzò una mano. Alain Bonnard avvicinò le labbra al microfono. «Sono le diciotto, grazie di essere in ascolto. Stasera dedicheremo questa trasmissione a Saint-Rémi. Julien Manceau, il nostro inviato speciale, è accanto a noi. Vi lancerà un appello. Ascoltatelo. Rispondete. È importante». Julien afferrò il microfono. Dentro di sé non sentiva altro che una risolutezza indomabile. «Buonasera» disse. «C'è un elemento nuovo nell'inchiesta sull'omicidio dei bambini di cui tutti conoscete il nome. Le analisi effettuate sui loro indumenti hanno rivelato la presenza di peli di scimmia. Mi avete sentito bene: peli di scimmia. Ne hanno determinato il genere. Si tratta di una scimmia cappuccina. La cappuccina, chiamata pure 'cebo', vive nelle foreste dell'America meridionale». Si interruppe. Aveva di nuovo la bocca secca. Convincere. Doveva convincere. «Questi peli costituiscono il primo vero indizio scoperto dall'inizio di questa drammatica storia. E che indizio! Si tratta adesso di ritrovare l'animale, probabilmente è nascosto da qualche parte. Chiedo aiuto a voi che mi ascoltate questa sera. Se uno di voi ha visto, o creduto di vedere, una scimmia nella regione, o se sospetta qualcuno della sua cerchia di possederne una, telefoni. Adesso. Subito. Soprattutto, restate in ascolto: vi daremo il numero della nostra stazione di Besancon. Vi aspetto. Grazie». Il presentatore riprese il microfono a Julien, che si sentiva al tempo stesso meglio ed esausto. La macchina si era mossa. Le centraliniste erano pronte a prendere le chiamate. Avrebbe risposto personalmente in diretta alle testimonianze più interessanti. L'assistente di studio entrava già agitando una scheda. Julien chiuse gli occhi per un attimo. La caccia comincia. Non ci sfuggirai, si disse, deciso. Al volante del suo furgoncino per le consegne, sulla strada che lo riportava a Champagnole, Victor Grosjean guardò il numero di telefono che aveva appena annotato su un pezzo di carta attaccato al cruscotto. Avrebbe chiamato?
La sua giornata era finita, e aveva fretta di rincasare. Pregustava già il piacere di mettersi in pantofole e bersi una birra fresca. Avrebbe prima chiamato quella radio di Besancon? Anche se non era sicuro di ciò che aveva visto? Era successo più di un anno prima, alla fine di un'estate canicolare. Aveva appena consegnato un freezer dalle parti di Saint-Rémi. Di questo, almeno, era certo: Saint-Rémi, la cittadina delle due piccole vittime. Mentre attraversava un parco gli era proprio sembrato di vedere una scimmia, una bestiola bizzarra con una sorta di cappuccio bianco che le ricadeva sulle spalle. Si era persino fermato per lo stupore. Il tempo di riprendersi, e l'animale era sparito. Ovviamente non ricordava il nome del cliente. Con una decina di consegne al giorno, come avrebbe potuto? Senza contare che la cosa non risaliva al giorno prima. «Chiedo il vostro aiuto». La voce di Julien Manceau risuonò nella sua coscienza. Quella storia di bimbi rapiti e poi uccisi faceva star male lui e sua moglie, infermiera. Domenica sera avevano ascoltato l'appello della madre, e non ignoravano la risposta di quel pazzo: aveva portato il bimbo al cimitero. Quell'idea rivoltante lo fece decidere. Fermò il furgoncino sul ciglio della strada. Le diciotto e quindici. Compose sul cellulare il numero che aveva annotato. Ovviamente la linea era occupata. Si asciugò la fronte. Che roba! Avrebbe tentato ancora due o tre volte e, se non ci fosse riuscito, avrebbe desistito. Non gli avrebbero potuto rimproverare di non averci provato. «Pronto?» La voce della centralinista lo colse di sorpresa: non ci sperava più. Si sentì idiota. «È a proposito della scimmia» cominciò raschiandosi la gola. «Forse ne ho vista una non lontano da Saint-Rémi». «Per favore, signore, può darmi il suo nome e il suo recapito?» All'improvviso, Victor Grosjean si rese conto che ciò che stava facendo non era molto professionale. «Professionale»: il parolone del suo titolare, che non avrebbe di certo apprezzato il suo uso del telefono di lavoro per chiamare una radio che per di più si trovava a Besancon. «Mi chiamo Victor» rispose con prudenza. «Tutto ciò che vorrei sapere è se le scimmie cappuccine hanno una sorta di mantellina bianca sulle spalle».
«Julien Manceau risponderà personalmente alla sua domanda, signor Victor» disse la voce gentile della centralinista. «Voglia pazientare qualche istante». «Pronto? Pronto?» La donna lo aveva già lasciato. Victor fu sul punto di spegnere il telefonino. Si sentiva a disagio. «Signor Victor? Sono Julien Manceau». Riconoscendo la voce del giornalista preferito di sua moglie, si sentì tutto emozionato. Ah, se Maguy fosse stata in ascolto! Sarebbe rimasta di sale! «Sono io» rispose. «Lei pensa di aver visto una scimmia nei pressi di Saint-Rémi; è un'informazione molto importante. La mantellina bianca di cui parla proverebbe che si trattava effettivamente di una cappuccina. L'animale aveva anche dei peli bianchi sulla fronte?» «Esatto» rispose con fierezza il fattorino. «Dei peli che formavano come un cappuccio. Ma l'ho vista solo per un attimo». «L'essenziale è che lei l'abbia vista, signor Victor. Si ricorda del posto, nei paraggi di Saint-Rémi?» «Assolutamente no» rispose Grosjean. «Una casa con un parco, e basta. La consegna risale ad almeno un anno fa. Per avere l'indirizzo, dovrei cercare nell'archivio». «Se ben capisco, lei fa il fattorino, vero signor Victor? Può dirci che genere di merce consegna?» «Dirci...» Victor Grosjean si rese conto soltanto allora che stava parlando in diretta alla radio. Tutti lo sentivano. Tutti aspettavano di sapere che cosa consegnava. Se il suo padrone... «Non posso dirle di più, per il momento» rispose precipitosamente. «La richiamerò dopo aver fatto delle ricerche». «Victor! Resti in linea, la prego» insistette il giornalista in tono pressante. «La sua testimonianza può rivelarsi della massima importanza. Capisco benissimo che per ragioni... professionali lei non possa parlare alla radio. Le ripasso il centralino, che prenderà i suoi dati. Mi permetterò di richiamarla in seguito, con più tranquillità...» «Sarò io a richiamare» disse in tono categorico il fattorino. «Ma non prima di domani». Interruppe la comunicazione. Era in un bagno di sudore. In quale faccenda si era cacciato? Chi gli diceva che il suo capo non fosse in ascolto,
che non avesse riconosciuto la sua voce? Roba da farsi licenziare! E poi, rivelare il nome di un cliente non sarebbe stato tradire un segreto professionale? Ma se la sua «testimonianza», come aveva appena detto il giornalista, avesse aiutato la polizia a beccare l'assassino? Si sentì percorrere da un brivido. Avrebbe dovuto parlarne a Maguy. Meno male che non aveva dato il suo cognome. Con il cuore in gola, le tempie che gli pulsano, sull'orlo di un malore, l'uomo ferma la sua auto sulla banchina. Un camion lo sorpassa, suonando il clacson furiosamente. Lo sente appena. Durante un interminabile minuto ha avuto la certezza che il fattorino avrebbe pronunciato il suo nome. Si preparava a un piano di emergenza, quando quello ha chiuso la comunicazione, in barba al giornalista. Sposta indietro il sedile, stende le gambe, chiude gli occhi, tenta di ricordare: Victor... Il signor Victor... il nome non gli dice niente. «Almeno un anno» ha dichiarato. Era subito dopo il suo arrivo con il piccolo Paul, in piena calura. La calura. Esatto... Aveva ordinato un minifreezer per lo scantinato. A Champagnole. Sì, Champagnole! Era stato consegnato il giorno in cui Mister Chance era scappato? «Una scimmia con un cappuccio». Non aveva sospettato nemmeno per un attimo che il fattorino, rimasto solo il tempo di deporre il suo carico in cortile, fosse riuscito a vedere la scimmia. Adesso è la collera contro il giornalista a ottenebrargli la mente. Quel maledetto che ogni sera lo costringe ad ascoltarlo, mentre ha tanto da fare. Domenica, l'appello della madre, stasera i peli della cappuccina. Ha commesso un errore lasciando che Mister Chance si avvicinasse ai bambini? Ma la scimmia faceva parte del contratto, non ha l'abitudine di venir meno alle promesse; il piccolo Paul non avrebbe capito. E non era previsto che Simba e Zazu... se ne sarebbero andati così presto. Avrebbe dovuto pulire i loro indumenti? Ma nessuna precauzione avrebbe potuto impedire che gli esperti ritrovassero qualche pelo qua o là. Ce ne sono dappertutto, dal piccolo Paul. E adesso? Quei peli, dove rischiano di condurre gli inquirenti? Nella peggiore delle ipotesi, al sito, a Mowgli. E dopo? Non hanno la minima probabilità di scoprire chi si celi sotto lo pseudonimo. I soli ad averlo saputo non sono più di questo mondo. Da lassù, pregano per il piccolo Paul.
Dovrai comunque preoccupartene. Adesso va meglio: il cuore ha ripreso il ritmo normale, le mani hanno smesso di tremare. Si asciuga la fronte che, un attimo prima, era bagnata di un sudore gelato, riprende il volante su cui le dita hanno lasciato tracce scure. Solo una ventina di chilometri. Passerai da Saint-Rémi prima di rincasare. Adesso è oppresso da una sensazione di ingiustizia. Gli permetteranno mai di occuparsi in pace di suo figlio? Era così felice solo alcuni istanti fa! Era andato tutto così bene a Ginevra! È riuscito ad anticipare la partenza: l'aereo decollerà la settimana prossima, all'alba di una giornata in cui non lavora. Quando si accorgeranno della sua assenza loro saranno giunti a destinazione, nel paese della danza, della musica e del sole, l'opposto di questo, tutto abeti, grotte e gole, in cui da rifugiato è diventato preda. E se partissi adesso? Se ti nascondessi con il piccolo Paul in un albergo in Svizzera in attesa del grande giorno? Ma quale albergo accoglierebbe senza batter ciglio un bambino infermo e una scimmia? Una cappuccina di cui presto parleranno dappertutto... Rinunciare, desistere... Rallenta di nuovo. Di nuovo i sudori freddi. Da quando suo figlio si è trasformato in nemico, fa sempre più fatica a resistere al demone della tentazione, quello che nella camera buia dell'infanzia gli intimava di farla finita. No! Non verrai meno al tuo dovere di padre. Non tu. Deve occuparsi al più presto del signor Victor. «Domani» ha detto il fattorino. Domani cercherà nel suo archivio, non farà alcuna fatica a ritrovare il suo nome e richiamerà quel Manceau che è culo e camicia con la polizia. La casa verrà perquisita, e indagheranno anche sul suo passato. In Svizzera o altrove, non ci metteranno molto a ritrovarlo. Non ha scelta. Rimarrà come previsto fino alla vigilia della partenza, giovedì prossimo. Non dovrebbe essere troppo difficile trovare l'indirizzo del signor Victor partendo dalla fattura. Ha tutta la notte per preparare il suo piano. 35. Ecco cos'era! Quando Blanche aveva sentito Julien parlare dei peli di scimmia alla radio, peli di una cappuccina, lo aveva gridato. Poi una nebbia le aveva otte-
nebrato la mente: sto per svenire... Un estremo tentativo per sfuggire alla sua colpa? Aveva avuto sotto gli occhi, fra le mani, ciò che aveva condotto JeanLou alla morte, Charles alla morte, e non era stata capace di vederlo, di servirsene per salvarli. Ecco cos'era il suo malessere, l'impressione di essere passata accanto a qualcosa d'importante e di esserselo lasciato sfuggire. Mister Chance. «Una scimmia cappuccina. Ho un amico che ne ha una. Forse la vedrò presto. Si chiama Mister Chance». Il nome l'aveva incuriosita, un nome da commedia americana. Invece era quello di un film dell'orrore tutto francese. Come aveva potuto lasciar passare un'informazione così singolare senza interessarsene di più, senza cercare di conoscere il nome del proprietario della scimmia? «È un segreto». Charles le aveva risposto così: è un segreto. Ragione di più per insistere. Riaccese la radio. Un uomo chiedeva precisazioni sulle cappuccine. Julien gli rispondeva e, di nuovo, lei ebbe voglia di gridare: «Ascoltatemi! Sono io a sapere!» Julien aveva detto: «Nessuno può evitare l'imprevedibile»; lei avrebbe potuto. L'imprevedibile era stato alla sua portata, le sarebbe bastato stare più attenta. Julien... Chiamare Julien, parlargli, presto! In preda all'emozione aveva omesso di annotare il numero fornito dal presentatore. Sollevò il ricevitore e compose quello delle informazioni. Le tremavano le dita sui tasti: presto! presto! Un'operatrice le rispose quasi immediatamente. «Vuole che la metta in contatto con questa radio?» La linea era occupata, ovviamente! Dagli ascoltatori che rispondevano all'appello di Julien, senza sospettare che era lei a possedere la chiave del mistero, e che quella chiave la stava facendo impazzire. Riattaccò. Recarsi laggiù? Troppo tardi. Quando fosse arrivata, la trasmissione sarebbe già finita, e Julien andato via. Il cellulare... chiamarlo sul cellulare... Gliene aveva dato il numero: «Non esitare mai!» Come non averci pensato prima? «Sei antiquata, mamma». Sophie ha ragione, non ho mai il riflesso buono, il riflesso moderno. La rubrica... Dove aveva messo la rubrica? Presto! Presto! Finì col ritrovarla sotto una pila di schizzi. «Qui Julien Manceau, sono momentaneamente assente. Lasciatemi il vostro numero, vi richiamerò non appena possibile». Aspettando il bip, si conficcava le unghie nel palmo della mano per evi-
tare di piangere. «Sono Blanche. Vieni presto, ti prego». Avrebbe sentito il singhiozzo che, malgrado le unghie, aveva concluso il messaggio? Le diciotto e venticinque. Quanto tempo sarebbe trascorso prima che fosse lì, accanto a lei, prima che lei potesse liberarsi del suo segreto velenoso? Il giornalista le aveva assicurato che fra Besancon e Saint-Rémi non gli occorrevano più di tre quarti d'ora, in moto. Nell'attesa, Blanche avrebbe recuperato i disegni dei bambini. Le prove. Quello di Jean-Lou era lì, quello di Charles sulla parete dell'aula, dove l'aveva rivisto nel pomeriggio. «Ogni volta che penserai a me, sarò qui». Aveva deciso di lasciarlo dov'era, genitori volenti o nolenti. La scimmia mal riuscita di Jean-Lou, ritratta dal bambino nella speranza di figurare nel fumetto, era riposta su una mensola insieme ai disegni scartati. La guardò come non aveva mai fatto prima. Jean-Lou non le aveva detto nulla sull'animale - un segreto? - ma il mercoledì in cui lo aveva eseguito era sparito dalla clinica dei Quatre Lacs. Lo infilò in una cartellina. Le sette meno un quarto. Aveva il tempo di andare a prendere quello di Charles a scuola. Sì, le prove! Senza prove, Julien le avrebbe creduto? Era questo che la tormentava adesso: l'idea che potesse non crederle. Lui e gli altri. Uscita dall'atelier e infilatasi una giacca, esitò davanti alla porta di Sophie. Lasciala fuori. Proteggila. Sii una madre responsabile. Atteggiò il viso a indifferenza. Come detestava quelle locuzioni: atteggiare il viso, fare buon viso... Portare una maschera quando ci si sente completamente a pezzi, quando si vorrebbe gridare aiuto. La sua Principessa era seduta a gambe incrociate sul letto, in una confusione di libri e quaderni. Blanche rimase sulla soglia della stanza. «Esco un momento. Se chiama Julien, puoi dirgli che torno subito?» «Dove vai?» «A scuola. Ho dimenticato qualcosa, là». Richiuse la porta prima che sua figlia le potesse rivolgere altre domande e scese le scale. Da Myriam c'era il pienone, era l'ora. Era sempre l'ora da qualche tempo: quella della calca attorno all'orrore. In bici o a piedi? In bici, una decina di minuti. A piedi, di corsa, una quindicina. Correre, sentendo il vento sulla faccia, le avrebbe fatto bene. Sì, correre per riscattare la propria colpa, contribuendo a ritrovare quella scimmia.
La scuola era chiusa. Blanche suonò dal custode. Si conoscevano bene: un uomo gentile che mandava uno dei figli alle sue lezioni di disegno. Da quando i bambini erano stati rapiti, bisognava avere tutte le carte in regola per varcare il portone dell'istituto. «Signor Morel, ho dimenticato qualcosa in aula. Non ci metterò molto». Adesso correva nei corridoi: odore di parquet, di gesso, d'infanzia. Si richiuse alle spalle la porta dell'aula e rimase un momento immobile, il cuore che batteva forte, ad ascoltare il silenzio. In un'aula vuota c'è più silenzio che in qualsiasi altro luogo, un silenzio che, unito agli odori, colpisce nel più profondo della memoria. La quindicina di animali scelti per il fumetto erano affissi alla parete, con il nome del loro autore. Una sola scimmia: quella di Charles. Di nuovo, tentò di ricordare. «Jean-Lou aveva una gran voglia di vederla». «Ho un amico che ne possiede una. Forse la vedrò presto». Charles non aveva detto anche: «Non è sicuro che esista davvero?» Mister Chance esisteva davvero e, per averne la prova, i due bambini erano morti. Staccò con cura il disegno dal muro. Per la prima volta le sembrò di fare ciò che doveva. Troppo tardi, ahimè! Le sette e un quarto. Julien aveva sentito il suo messaggio? Era per strada? Se avessi anch'io un cellulare avrebbe potuto richiamarmi. «Sei antiquata, mamma». Mise il disegno di Charles insieme a quello di Jean-Lou nella cartellina. I due amici, riuniti nella cattiva sorte. L'auto le si fermò accanto di colpo, quasi sfiorandola, mentre Blanche percorreva la strada principale. Spaventata, fece un balzo indietro. Poi riconobbe il guidatore, Thomas Riveiro, che aprì la portiera. «Blanche, la stavo cercando!» «Non è una buona ragione per schiacciarmi» tentò di scherzare lei, il cuore che le batteva ancora forte. L'uomo non sorrise. «Devo parlarle». Istintivamente, Blanche strinse la cartellina al petto. «Non adesso, Thomas. Non è possibile. Ho fretta». Lui usci dall'auto e, per alcuni secondi, dall'espressione del suo volto, la giovane donna credette che stesse per farla salire con la forza. Decisamente, sragionava.
«È a proposito di Sophie». Blanche si irrigidì. «Sophie?» «Non le ha parlato di niente?» La voce era tesa; l'inquietudine si impossessò di Blanche. «E di che cosa avrebbe dovuto parlarmi?» «Ieri abbiamo un po'... litigato. Lei sa che il mercoledì mi capita di occuparmi dei bambini. Sophie sperava che avrei avuto un po' di tempo per lei, ma ero molto impegnato. Forse le ho parlato troppo duramente: la piccola ha pianto». Ecco perché sua figlia era di così cattivo umore quando se l'era vista davanti il giorno prima, alla fine della lezione di disegno in ospedale. Certo, Blanche non ignorava che Thomas si occupava di Sophie certi mercoledì: i loro misteriosi conciliaboli da Myriam non le erano sfuggiti. Il volto ansioso dell'anestesista la commosse. Probabilmente non sapeva ancora dei peli di scimmia. Come avrebbe reagito? Thomas era così sensibile a tutto ciò che riguardava i bambini. «Sophie non mi ha detto nulla» lo rassicurò Blanche. «Mia figlia è così: si dà delle arie da dura ma, in fondo, è ultrasensibile. Sono sicura che l'ha già perdonata». L'anestesista parve sollevato. «Se potessimo comunque...» Il rumore di una moto lo interruppe. Julien. Si fermò accanto a loro. Julien, finalmente! Un'ondata di riconoscenza invase Blanche. Se non ci fosse stato Thomas, si sarebbe gettata fra le braccia del giornalista. Julien si tolse il casco, rivolse un breve sorriso al medico e si avvicinò a lei. «Ho avuto il tuo messaggio. Sono appena passato da casa tua. Sophie mi ha detto che eri andata a scuola». La guardava con inquietudine: aveva sentito il singhiozzo. Con un nodo alla gola, Blanche indicò la moto. «Mi dai un passaggio?» Thomas era già risalito in auto. Lei lo salutò con la mano. Ebbe l'impressione che l'anestesista le lanciasse uno sguardo incollerito. 36. Erano le otto passate e Francis Müller si accingeva a lasciare il suo uffi-
cio, deciso a tornarsene a casa per ritrovare la calma e il conforto della famiglia, quando il suo assistente gli annunciò che Julien Manceau e la signora Desmarest chiedevano di essere ricevuti d'urgenza. D'urgenza? Che faccia tosta!, pensò con amarezza. Devo essere a disposizione di quel traditore, dopo il tiro che mi ha giocato? E cosa viene a fare qui la signora Desmarest? A proteggerlo? La notizia della trasmissione si era diffusa in municipio con la rapidità di un fulmine. Si sarebbero ricordati a lungo della collera del commissario. Chi era il figlio di puttana che aveva messo al corrente il giornalista dei risultati del laboratorio? A quanto pareva, nessuno dei suoi uomini. Ma che importava, ormai? Il male era fatto. Non avrebbero mai ritrovato la scimmia. «Li faccia entrare» ordinò a Boyer. Aveva deciso che avrebbe fatto i conti con Julien l'indomani mattina. Be', a questo punto li avrebbe fatti subito. Così avrebbe dormito più tranquillo. Blanche Desmarest entrò per prima, stringendo al petto una cartellina colorata. Aveva il volto disfatto. Julien la seguiva con un'aria di sfida: pronto a contrattaccare. Müller gli andò incontro. «Allora, è soddisfatto? Credevo che si fosse impegnato a non fare nulla che potesse ostacolare l'inchiesta». «E io credevo che lei avesse promesso di tenermi al corrente di ogni progresso significativo» ribatté Julien in tono glaciale. «Aspettavo di avere tutti gli elementi in mano». «Se i vestiti di Jean-Lou fossero stati inviati al laboratorio prima, gli elementi li avrebbe da un pezzo!» A quell'accusa Müller diventò paonazzo e strinse i pugni. Per un attimo Blanche ebbe l'impressione che i due uomini stessero per picchiarsi. Pazzi! Non si era perso abbastanza tempo senza che ci si mettessero anche loro con i rancori personali? «Commissario, venga a vedere, per favore». Sorpreso dal tono al tempo stesso autoritario e angosciato della giovane donna, questi si avvicinò alla scrivania, su cui lei aveva posato la cartellina aperta. «Questi disegni sono di Jean-Lou Marchand e di Charles Laurent» annunciò Blanche. «La scimmia che lei vede è una cappuccina. I due bambini avevano una gran voglia di vederla. Il suo nome è Mister Chance». Müller sgranò gli occhi. Il suo sguardo andava dai fogli a Blanche.
«Mister Chance?» ripeté in tono incredulo. «Mister Chance? Ma come fa a saperlo, buon Dio?» «È stato Charles a dirmelo». Vacillò. Julien l'afferrò saldamente per un braccio e l'accompagnò a una sedia. Era il whisky che le aveva fatto bere al suo albergo mentre si liberava il cuore, a farle girare la testa? O semplicemente il sollievo? Aveva avuto tanta paura di non essere creduta. Ed ecco che la più piccola delle sue frasi scatenava un terremoto. Ne provava una sorta di ebbrezza: essere finalmente ascoltata, non essere più sola. Il commissario trascinò una sedia di fronte alla sua e vi si accomodò. Appostato dietro di lei come una sentinella, Julien le posò le mani sulle spalle con fare protettivo. «Mi racconti, signora Desmarest. Dall'inizio, se può». «A scuola stiamo preparando un fumetto. Una sorpresa destinata ai genitori, per Natale» cominciò lei. «Sono stati i bambini a scegliere il tema: una rivolta degli animali contro gli esseri umani. Charles e Jean-Lou avevano scelto entrambi di disegnare questa scimmia. È stato Charles a dirmi che si trattava di una cappuccina». «E che altro?» chiese Müller in tono febbrile. «Che altro le ha detto, signora Desmarest? Le ha detto a chi apparteneva la scimmia? Dove si trovava?» Blanche scosse negativamente il capo. «Mi ha detto solo che era una scimmia molto intelligente, capace di disegnare. E anche che apparteneva a un compagno, e che forse l'avrebbe incontrata. Ma non era una cosa sicura». «Un compagno di scuola?» «Non lo so» rispose Blanche. «Era un segreto. Mi ha detto che era un segreto». «Cerchi di ricordare, la prego» insistette Müller. «Il più piccolo dettaglio può avere un'enorme importanza». «Ci sto pensando!» gridò all'improvviso Blanche. «Continuo a pensarci. E tutto ciò che so è che hanno incontrato la scimmia e che ne sono morti. Tutt'e due». Si prese il viso fra le mani. Se per un attimo si era sentita meglio, ora l'angoscia l'attanagliava di nuovo. I preziosi dettagli che Müller chiedeva, non era stata capace di tirarli fuori. Julien le strinse le spalle scosse dai singhiozzi. «Commissario, credo che la signora Desmarest le abbia detto tutto ciò
che sapeva. È molto stanca». Müller si rialzò. Andò verso la sua scrivania, estrasse gli occhiali dall'astuccio e li pulì con cura prima di chinarsi di nuovo sui disegni. Julien lo raggiunse e gli porse un fascio di schede. «Ecco il risultato del mio appello alla radio. Tutti coloro che si sono fatti vivi sono qui sopra con i loro dati. Vi troverà i soliti balordi, come pure le denunce di vicini. Più qualche altro... I suoi uomini faranno una cernita». Müller prese le schede e le sfogliò. «La chiamata che mi è parsa più interessante purtroppo non c'è» soggiunse Julien. «Perché mai?» «Si tratta di un certo signor Victor che ha dichiarato di aver scorto una scimmia dalle parti di Saint-Rémi. Secondo la sua descrizione, si tratterebbe proprio di una cappuccina. Ma non si ricordava né del nome, né dell'indirizzo del suo cliente: la consegna risale ad almeno un anno fa». «La consegna? Che cosa consegnava?» «Non c'è stato modo di sapere neppure questo. Si è spaventato quando si è reso conto che andava in diretta. Deve richiamare domani, dopo aver consultato il suo archivio». Julien si riavvicinò a Blanche, che aveva rialzato la testa e sembrava più calma. «Possiamo andare, adesso?» chiese il giornalista al commissario. «Certamente!» Müller tese la mano alla giovane donna che l'accettò per rialzarsi. «Ciò che ci ha appena rivelato ci aiuterà molto, signora. Grazie! Se è d'accordo, tengo i disegni. Le chiedo di passare domani per la deposizione». Blanche fece un sorriso rassegnato. «Verrò». «Vi riaccompagno». Percorsero i corridoi deserti. Malgrado l'ora tarda, si sentivano ancora dei crepitii di macchine dietro le porte chiuse. L'indomani il nome di Mister Chance, quel nome incredibile, si sarebbe trovato scritto dappertutto. E anche quella notte Müller non avrebbe dormito nel suo letto. Uscirono sulla scalinata. La notte era fresca, chiara. Era davvero una bella piazza quella del municipio! Del resto, veniva riprodotta sulle cartoline. Guardandola tutti pensavano: come deve essere bello vivere lì! E morire? Sua moglie gliene aveva chiesta una: «Per seguirti con il pensiero». Dal locale di Myriam proveniva un brusio che in altri tempi si sarebbe de-
finito allegro; in tempo di pace, pensò confusamente il poliziotto. Osservò che i rami degli alberi si erano molto impoveriti, in volume e in colore, dal suo arrivo, quasi tre settimane prima. Si era ormai in ottobre. Strinse la mano a Blanche. «Cerchi di' dormire, comunque». «Adesso tutto ciò che si fa, persino respirare, è 'comunque'» osservò lei. Müller si voltò verso Julien. «Caso mai si facesse sentire il suo signor Victor, posso sperare che saremmo avvertiti subito?» «Non è il mio signor Victor» rispose il giornalista fissando dritto negli occhi il poliziotto. «È il nostro, commissario». Dominando la propria emozione, Müller si schiarì la gola. «Mi scuso, per ciò che ho detto poco fa». «Idem per quanto mi riguarda» rispose Julien. 37. «Ecco una ragazza piuttosto mattiniera!» esclamò Myriam vedendo Sophie entrare nella sala prima ancora delle otto. «Hai fatto colazione, almeno?» «Non ho fame» dichiarò la piccola. «E tua madre? Già al lavoro?» «La mamma si è riaddormentata. Ha parlato tutta la notte con Julien». La voce era tetra, la fronte preoccupata. Qualcosa di storto, pensò Myriam. Senza chiederle il suo parere, stampò un bacio nell'incavo di una fossetta. «Mi aspetti due minuti?» In cucina, René impartiva le sue istruzioni al giovane che lo aiutava ai fornelli. Piatto del giorno: pancetta con le lenticchie. Sarebbe andato bene per il mese che cominciava, addio settembre e senza rimpianti! «Puoi occuparti della sala per un attimo, René? Ho una cosa urgente» sussurrò. «Ti spiegherò poi». René sorrise sotto i baffi. Non c'era alcun bisogno di dargli spiegazioni: le cose urgenti venivano sempre dal secondo piano. Soprattutto negli ultimi tempi. Quando Myriam tornò, Sophie aveva posato la cartella per terra e faceva finta di interessarsi ai pochi clienti che bevevano il loro caffè, con il naso fra le pagine del giornale locale. Inutile chiedere di che cosa vi si parlasse. La prima ondata di avventori era passata: coloro che venivano a riscal-
darsi la gola e lo stomaco prima di andare a lavorare, aggiungendo talvolta al caffè qualcosa di più corposo. «A che ora cominci a scuola?» chiese Myriam alla piccola. «Abbiamo ginnastica alle nove e mezzo». «Allora hai tempo di appollaiarti su uno sgabello due minuti? Mi terrai compagnia. Sei sicura di non volere niente? Una cioccolata? Un croissant? Una fetta di pane con burro e marmellata?» «Un croissant, ma non subito» decise Sophie. Myriam si mise a lavare i piatti. Se la piccola aveva qualcosa sullo stomaco, non sarebbe servito a niente sollecitarla a sfogarsi, la conosceva bene: avrebbe parlato solo se fosse stata in vena. Comparve René, che sfiorò con la mano i riccioli biondi prima di dirigersi verso una coppia che era appena entrata. «Un segreto» attaccò bruscamente Sophie. «Si è obbligati a mantenerlo anche se è grave?» «Che cosa intendi per 'grave', tesoro?» chiese Myriam in tono leggero. Sophie non rispose subito. E quando si decise, non lo fece in maniera diretta. «È a proposito dei peli della scimmia. Sai che ne hanno trovati moltissimi sui vestiti di Jean-Lou e di Charles? La mamma e Julien ne hanno parlato fino a mezzanotte almeno. Credevano che stessi dormendo». «Non era così, a quanto pare» constatò Myriam maliziosamente. La sera precedente infatti era corsa voce che fossero stati trovati dei peli di scimmia sugli indumenti delle vittime. Certi clienti avevano avuto il cattivo gusto di ridacchiarne: la polizia, impotente, inventava qualsiasi cosa... Le scimmie di peluche erano di moda, quell'anno. Myriam li aveva redarguiti aspramente. Quanto a Sophie, non c'era bisogno di essere un'aquila per indovinare a che cosa fosse dovuto il suo cattivo umore: la gelosia, semplicemente. E la questione del segreto era il suo modo di immischiarsi nella storia di Blanche e Julien. Quei due si vedevano sempre più spesso, e Myriam ne era contenta: Blanche aveva bisogno di una presenza maschile. E, fra i medici della clinica che per un po' le erano ronzati intorno e Julien, Myriam preferiva quest'ultimo. «E se mi raccontassi che cosa ti tormenta a proposito di quella scimmia?» propose la donna. «Giuro che ciò che mi dirai non scenderà dal tuo sgabello». La piccola non si degnò nemmeno di sorridere, e colei che si considera-
va un po' come sua nonna ebbe una stretta al cuore. Era una cosa così grave? Una corriera si fermò sulla piazza con gran fracasso e volute di gas. Un carico dei soliti turisti anziani si riversò direttamente nel caffè: erano svizzeri, venuti a fare il giro dei laghi e delle cascate. Una trentina buona di persone. Myriam li additò. «Dovrò dare una mano a René. Prendi in fretta il tuo croissant prima che mi abbiano mangiato tutto. Quanto alla tua storia del segreto, se è veramente grave, sei libera di parlare. Guarda i preti con a confessione: non hanno il diritto di lasciar filare un assassino. Ci sono stati persino parecchi film sull'argomento». «Un assassino...» ripeté la piccola, impressionata. E, ignorando il cestino di croissant che le porgeva Myriam, si lasciò scivolare giù dallo sgabello, raccolse la cartella e uscì. 38. Francis Müller si era recato presto al suo ufficio. Aveva dormito male. E, naturalmente, sognato scimmie, anzi, una scimmia chiamata Mister Chance, nome al quale non riusciva ad abituarsi. Così, come aveva sospettato, l'animale serviva da esca. Una volta ritrovatone il proprietario, si sarebbero messe probabilmente le mani sull'assassino. La sera prima, dopo che la coppia se n'era andata, aveva riunito tutti gli uomini di cui disponeva sul posto per stabilire un piano di battaglia. Fin dal mattino, avrebbero formato due squadre; una si sarebbe occupata degli alunni della signora Desmarest, l'altra delle chiamate ricevute alla radio. Tutte le telefonate, comprese quelle bislacche, dovevano essere prese in considerazione. Le ricerche effettuate dai suoi investigatori in direzione degli zoo, dei serragli e dei proprietari di animali esotici fino a quel momento non avevano dato alcun risultato. Rimaneva la testimonianza di quel signor Victor, che il giornalista sembrava prendere sul serio: aveva davvero visto la cappuccina? Si sarebbe ricordato? Müller purtroppo sapeva per esperienza che ci si può far vivi per un impulso del cuore, in preda a un'emozione, e l'attimo dopo rimpiangere di averlo fatto. Vuotò il suo bicchierino di caffè e andò ad aprire una delle due finestre del suo ufficio. Due finestre: uno sbirro ricco! Una corriera si era appena
fermata sulla piazza. L'autista era ancora al suo posto. Cielo azzurro, una sinfonia di rossi: la bella stagione per i turisti senza troppa fretta. Sospirò. Quel peso sul petto, quella difficoltà a respirare, sapeva benissimo a cosa erano dovuti! A Julien Manceau. Se l'accusa del giornalista a proposito dell'analisi degli indumenti di Jean-Lou aveva rigirato ancora una volta il coltello nella piaga, più doloroso era l'interrogativo che lo tormentava dal giorno prima: aveva commesso un altro errore, quello imputabile a lui solo, tenendo segreta l'informazione riguardante i peli di scimmia? I risultati folgoranti dell'intervento di Julien dimostravano che questi aveva avuto ragione rendendola pubblica. Sto invecchiando? si chiese. Il matrimonio, la paternità hanno cambiato il mio comportamento? Mi sono rincitrullito? Non volendo correre il rischio di mettere in guardia l'assassino, aveva corso quello di perdere del tempo prezioso. Ma il lavoro di un poliziotto non era, da sempre, quello di barcamenarsi fra due rischi? Talvolta mortali? La sua attenzione fu attratta da una ragazzina dai riccioli biondi, con una pesante cartella sulla schiena, che attraversava la piazza con passo deciso in direzione del municipio. Ne salì i gradini. L'istante dopo bussavano alla sua porta. «Avanti!» Spinta da Boyer, la bambina entrò nella stanza. Prima che il suo assistente gliel'avesse presentata, Müller l'aveva riconosciuta: la figlia di Blanche Desmarest. Si somigliavano come due gocce d'acqua, persino nell'aria testarda, osservò divertito il commissario. Aspettava la madre per la deposizione, ed era la figlia a presentarsi! «La signorina desidera parlarti» annunciò Jacques Boyer reprimendo un sorriso. «A te e a nessun altro. Dice che è importante». Müller si alzò. «Be', in questo caso che cosa aspetti a lasciarci soli?» L'assistente lasciò la stanza a malincuore. Müller si avvicinò alla ragazzina. «Ricordami come ti chiami». «Sophie, Sophie Desmarest. E lei è il commissario Müller, non è vero?» «Francis. Francis Müller». Non sembrava affatto intimidita. Il suo sguardo curioso vagava per tutta la stanza: undici? dodici anni? «Se posassi la cartella, Sophie, e mi dicessi la ragione della tua visita?»
La cartella cadde con un rumore sordo sul pavimento. Ma invece di rispondere alla domanda, la ragazzina indicò il computer. «Avete Internet?» «Certo» disse Müller. «Non potremmo più farne a meno. Sei un'appassionata del mouse?» «Molto» rispose Sophie con entusiasmo. «Un giorno me ne servirò per ascoltare il cielo. Mi interesso agli extraterrestri». Adesso fissava Müller diritto negli occhi, spiandone la reazione. Il commissario non credeva affatto agli extraterrestri, ma uno dei suoi ragazzini voleva fare il cosmonauta e lui aveva imparato a non ridere di un sogno. «Dei militari molto seri prendono in considerazione la faccenda; certi credono addirittura che gli UFO esistano» osservò lui senza compromettersi. Perplessa, Sophie scosse il capo. «A che devo l'onore della tua visita?» «Non bisognerà dirlo a mia madre; è un segreto». «Ti prometto di non dire nulla senza la tua autorizzazione» rispose il commissario con prudenza. Per la prima volta, la ragazzina parve a disagio. Le sfuggì un breve sospiro. «Conosco quello che possiede la scimmia» disse come a malincuore. «Si chiama Mowgli». Una burrasca spazzò il cervello del poliziotto. «Di quale scimmia stai parlando, Sophie?» «Di Mister Chance. Mowgli ha detto a Simba che era una cappuccina. Voleva farla vedere a Zazu. Mowgli era furioso perché Zazu non gli rispondeva». Mowgli, Simba, Zazu... ma che diavolo...? si chiese Müller. Pur sentendosi sperduto in un cartone animato di pessimo gusto, non provava la minima voglia di ridere. Qualcosa gli diceva che la piccola gli portava un elemento determinante e che soprattutto non doveva lasciarsi sfuggire il filo che lei gli porgeva. «Da dove vengono questi nomi, Sophie? Dove li hai sentiti?» «Non li ho sentiti, li ho letti» spiegò lei. «Sono pseudonimi. Quando avrò creato il mio sito sugli extraterrestri, anch'io avrò uno pseudonimo, e nemmeno mia madre lo conoscerà». Un lampo illuminò la mente di Müller.
«Intendi parlare di un sito su Internet? È là che hai conosciuto Mowgli e gli altri?» «Su Hacuna-Matata.com. Sai cosa vuol dire Hacuna Matata?» «Non proprio» confessò lui, con il cuore che gli batteva. «Vuol dire no problem. È la formula magica del Re Leone. Ho visto il film al cinema. E Hacuna Matata è il nome del sito sugli animali selvaggi». Un fumetto sulla rivolta degli animali contro gli esseri umani. I disegni di Jean-Lou e di Charles, un sito sugli animali selvaggi. Due computer a scuola, un computer alla clinica dei Quatre Lacs, un computer a casa delle due vittime. Tutto si collegava. Il legame, chiarissimo: Internet. Il rapitore reclutava le sue vittime sulla Rete. Squillò il telefono. Müller andò alla sua scrivania e sollevò il ricevitore. «Non voglio essere disturbato per nessun motivo» tuonò senza ascoltare il suo interlocutore. Riattaccò. Internet! Avrebbe dovuto considerare l'ipotesi? Saint-Rémi si mette al passo con i tempi. È arrivata la Rete. La stampa ne aveva parlato, quando la scuola aveva ricevuto i suoi computer. Ma quante persone, a SaintRémi, ne possedevano uno? E fra loro, quante erano collegate alla Rete? Si potevano contare sulle dita di una mano. Non erano in America. Si riavvicinò a Sophie. «Come hai conosciuto questo sito? C'è un computer a casa tua?» La piccola fece una smorfia. «La mamma non vuole saperne del computer. Detesta Internet. Dice che abbrutisce». «Allora dove? Nella tua scuola? Da amici?» La ragazzina esitò. «Sophie» insistette Müller posandole una mano sulla spalla. «Sophie, per favore, non abbandonarmi!» «Alla clinica» disse la piccola con reticenza. «Accompagno mia madre il mercoledì, quando va a far disegnare i bambini. Crede che io resti nella sala giochi, ma talvolta Thomas mi porta nella stanza dove c'è il computer: la chiamiamo la 'stanza magica'. Il segreto è questo: non ne ho il diritto. È riservato ai malati, e costa caro». «Quando parli di Thomas, vuoi dire il dottor Riveiro? Thomas Riveiro?» chiese il commissario, il cui cervello registrò un segnale di allarme. Sophie annuì in silenzio. «Ed è con lui, è con Thomas che hai scoperto il sito?»
«È con lui. È no problem». Müller si sentì ribollire il sangue. No problem, Riveiro? No problem, Hacuna Matata? No problem, Mister Chance? E, alla fine, una morte no problem per due bambini: una semplice iniezione praticata durante il sonno. L'anestesista aveva parlato a Müller delle due sale: l'una aperta a tutti, l'altra - quella del computer - di cui si doveva chiedere la chiave in segreteria quando vi si accompagnavano dei bambini. Per un attimo, il commissario aveva considerato che il rapitore avesse potuto reclutarvi le sue vittime. L'inchiesta non aveva dato alcun risultato. Alcuni volontari, tutti membri del personale della clinica, fra cui Riveiro, iniziavano all'uso del mouse i bambini che lo desideravano. Era un fatto risaputo. Ma era dall'altra parte dello schermo che il criminale agiva. Sophie guardò l'orologio. «Devo andare a scuola, adesso. Ho ginnastica». Si chinò a raccogliere la cartella. Müller la fermò. «Posso chiederti un sacrificio, Sophie? Rinuncia alla ginnastica, stamattina. Grazie a te, forse troveremo prestissimo l'assassino dei tuoi compagni. Devo raccogliere la tua deposizione, cioè devo battere a macchina tutto ciò che mi hai detto. E forse, parlandomi ancora, troverai altre cose che ci saranno molto utili». «Ma la mamma che cosa dirà?» esclamò la piccola spaventata. «Ti ho promesso che non le avrei parlato senza la tua autorizzazione. Te la chiedo adesso. E ti assicuro che lei non ti sgriderà, anzi. Sarà fiera di te». «Non Thomas» ribatté cupamente Sophie. «Thomas sarà furioso. È stato lui a farmi giurare di mantenere il segreto». «Segreto o no, il dottor Riveiro sarà, come tutti noi, molto contento se il colpevole verrà arrestato». Non era riuscito a evitare il tono brusco e gli dispiacque. Quale conclusione ne avrebbe tratto quell'intelligente ragazzina? Prese una sedia e la collocò dietro la scrivania, accanto alla sua poltrona, che indicò a Sophie. «Vieni qui». Quando la piccola si fu accomodata, lui le si sedette accanto. La cartella era rimasta in mezzo alla stanza, una cartella variopinta, come quelle che si usano al giorno d'oggi. Il commissario si rese conto che non l'avrebbe mai dimenticata. Come non avrebbe potuto scordare quella fatina dai riccioli d'oro, dallo sguardo innocente, che illuminava per lui il regno della notte.
Mise in funzione il computer. «Puoi trovarmi quel sito?» chiese. Sophie fece un sorriso felice e, senza esitare, si collegò a Internet. Una vera esperta. Cliccò, cliccò ancora. E ancora. Poco a poco il volto le si incupiva. Rivolse uno sguardo incredulo a Francis Müller. «Non c'è più» disse. Hacuna Matata non c'è più. Quarta parte Thomas Riveiro 39. Alle sei del mattino, quando era ancora notte fonda, aveva fermato l'auto, a luci spente, davanti alla casetta dì Victor Grosjean, non lontano da Champagnole. Una via calma, fiancheggiata da abitazioni senza pretese, ognuna dotata di un garage e di un giardinetto. Il signor Victor... Victor Grosjean... Partendo dalla fattura del freezer, non gli era stato difficile scoprire la vera identità di colui che sosteneva di aver visto Mister Chance. Era stata la paura a spingere il fattorino a non fornire i suoi dati a quella radio maledetta, o un residuo di serietà professionale? Comunque fosse, una fortuna per lui! Se quel dannato giornalista avesse saputo dove rintracciare il suo interlocutore, senza dubbio non lo avrebbe mollato prima di aver ottenuto ciò che voleva: una denuncia in regola del suo cliente. E forse fin dal giorno prima. Non osava pensare a ciò che sarebbe successo allora. Sì, una fortuna, un segno del Cielo. Significava che Grosjean non avrebbe cercato il suo nome nell'archivio? Un rischio che non hai il diritto di correre. Tramite Internet aveva trovato l'indirizzo del fattorino, e sulla fattura quello della Martin, una ditta di elettrodomestici situata nella zona industriale di Champagnole. Avrebbe aspettato il tizio davanti alla sua abitazione o al suo posto di lavoro? Alla fine aveva optato per la prima soluzione, più sicura: l'uccello nel nido. Alle sei e un quarto si era accesa una luce al pianterreno della casetta, probabilmente quella della cucina. Dietro le tende di pizzo aveva potuto vedere due persone andare e venire, certamente il marito e la moglie. Che età avevano? C'erano dei figli in casa? Internet non fornisce questo genere di informazioni, e non aveva avuto il tempo di approfondire la sua indagi-
ne. Parcheggiato ad alcuni metri dall'abitazione, abbastanza vicino da vedere ciò che vi succedeva, abbastanza lontano da non essere individuato, si era rassegnato ad aspettare. Vedendo tutto nero. Il nero, il nero, il nero, il colore della sua vita. La sera prima il piccolo Paul si era mostrato particolarmente esasperante: non una parola, solo quello sguardo bruciante che lo seguiva dappertutto, consumando la sua energia, provocando quelle emicranie sempre più frequenti e dolorose che lo rendevano cieco. Dalla venuta di Zazu, i rapporti fra lui e suo figlio si erano interrotti. L'averlo privato del computer non aveva certo sistemato le cose, dato che il bambino non aveva mai vissuto senza. Ma come lasciarglielo con quell'idea odiosa che il suo sedicente amico gli aveva messo in testa: tu sei prigioniero? Con quell'odio che gli aveva istillato nel cuore? Non aveva nemmeno osato annunciargli il risultato del suo viaggio lampo a Ginevra, la buona notizia: il decollo anticipato a giovedì. Il piccolo Paul ne sarebbe stato contento? Unico punto positivo: aveva rinunciato allo sciopero della fame. Alle sei e trentacinque si era accesa la luce della scala esterna, e una donna era uscita dalla casetta: sulla cinquantina, occhiali, giacca a vento, berretto di lana. Rannicchiato sul suo sedile, aveva potuto vederla accennare un gesto di saluto verso l'interno dell'abitazione. Aveva gridato qualcosa come «Conto su di te», poi era andata a prendere il motorino in garage ed era partita in direzione di Champagnole. Si era tirato su solo quando il veicolo era scomparso alla vista. E adesso? Se Grosjean era rimasto solo in casa, non era il momento di agire? Prima che si fosse deciso, stavolta tutte le luci si erano spente, quella della cucina e quella della scala esterna, ed era apparso il fattorino. Stessa età della moglie. Più infagottato. Era uscito dal garage in un furgoncino da consegne recante la scritta Martin. Dopo averlo portato in strada, l'uomo ne era sceso per chiudere il portone, e quando il suo sguardo aveva indugiato sull'auto in cui si trovava il medico, a costui erano venuti i sudori freddi. Ma già Grosjean riprendeva il volante e si avviava. Non aveva visto che una macchina come tante altre. Una delle condizioni per sopravvivere: essere normali, non distinguersi in niente. Su una carta, durante la notte, aveva studiato con cura il tragitto che andava dal domicilio del fattorino alla sua ditta. Così aveva potuto seguirlo a una distanza di sicurezza senza timore di perderlo né correre il rischio di
essere individuato. Sei o sette minuti dopo, il furgoncino spariva in un cortile. Lui aveva parcheggiato vicino all'ingresso. All'intorno, tutto dormiva ancora; non erano neanche le sette. La ditta Martin aveva sede in un edificio prefabbricato piccolo e brutto, a un solo piano. La saracinesca era abbassata sulla vetrina. In quanti potevano essere a lavorare là dentro? Martin, il padrone, Victor Grosjean, il fattorino - forse pure riparatore -, una segretaria, un addetto alle vendite? A quanto pareva, a parte Grosjean, non era ancora arrivato nessuno. Come aveva previsto, il dipendente si era recato in ufficio prima dell'apertura, per non essere sorpreso nelle sue ricerche. È tuo. Era sgusciato fuori dall'auto. Mentre faceva rapidamente il giro dell'edificio sentiva il peso dell'arma nella tasca del cappotto. Quante volte era stato sul punto di sbarazzarsene? Quale preveggenza, avvertendolo che se ne sarebbe dovuto servire di nuovo per salvare il piccolo Paul, gli aveva trattenuto la mano? Prima di lasciare la casa, quella mattina, aveva messo un proiettile nel caricatore. Uno solo. Come per lei. Non sei un macellaio. Il furgoncino aziendale era parcheggiato dietro l'edificio, accanto a una piccola porta di ferro che aveva dovuto solo spingere. Un corridoio, le cui pareti erano tappezzate di classificatori, portava a una stanza illuminata, dalla porta aperta. Sì, il Cielo è con te. Il fattorino batteva sulla tastiera di un computer consultando un software gestionale. Date e nomi si susseguivano sullo schermo. Da un momento all'altro, sarebbe apparso il suo. Adesso! Aveva estratto l'arma ed era entrato nell'ufficio. Grosjean si era voltato e, dalla sua espressione, il medico aveva capito di essere stato riconosciuto. Allora aveva sparato subito, senza lasciare all'uomo il tempo di aver paura, di soffrire. Non sei uno di quei pazzi che si divertono a restituire agli altri le torture subite nella loro infanzia, l'angoscia, le tenebre, la camera buia, la certezza di non rivedere mai la luce, «le anime dei bambini morti intercedono per i vivi». Tutto ciò che fai lo fai perché tuo figlio non debba morire come morivi tu, ogni volta che calava la notte nella camera senza luce, sul silenzio dei ventri di donna. Nascondere il corpo? Perché? Non avrebbe dovuto nascondere pure il
furgoncino, lavare il sangue che si spargeva in abbondanza sul pavimento? Si era limitato a portare via il computer, dopo aver spento le luci dell'ufficio. E mentre camminava verso la sua auto, si diceva che quel peso era niente paragonato a quello di un bambino infermo che, anno dopo anno, lui aveva imparato a toccare con mille precauzioni. L'amore non solleva forse le montagne? Si accingeva a lasciare il cortile quando era apparso un camion in fondo alla strada. Con il cuore in gola si era addossato al muro. Il conducente non lo aveva visto. Non aveva nemmeno rallentato. I posti di blocco della polizia sulle strade si facevano ogni giorno più rari. Se la sfortuna voleva che lo fermassero, aveva già la risposta pronta: era stato a trovare un collega all'ospedale di Champagnole. Poche probabilità che gli chiedessero di più, nessuna che gli guardassero nel bagagliaio. Non erano neppure le otto quando il cancello del parco si era richiuso dietro di lui. Sapeva dove nascondere il computer prima di distruggerlo. Dopo non gli sarebbe restato che fare una doccia e dare da mangiare al piccolo Paul. Sarebbe stato alla clinica in tempo per l'intervento delle dieci: un'ernia semplice. 40. Nell'atrio della clinica i medici si strinsero la mano, e Müller poté sentire il chirurgo che augurava buon week-end all'anestesista. Li invidiò. Dal suo arrivo a Saint-Rémi, tre settimane prima, la parola week-end non significava più nulla per lui; l'ultimo era stato contrassegnato dalla scomparsa del piccolo Charles, che lo aveva costretto a un ritorno d'urgenza da Besancon dove aveva appena riabbracciato i suoi cari. Lagarde si avviò all'uscita, Riveiro si diresse con passo stanco verso il piccolo espositore di giornali collocato accanto alla caffetteria. La scoperta dei peli di scimmia non vi figurava ancora, Müller aveva controllato. Raggiunse l'anestesista che sfogliava un quotidiano. Scorgendolo, questi sobbalzò. «Commissario?» «Ho di nuovo bisogno di lei, dottore» annunciò Müller porgendogli la mano. Un lampo di contrarietà passò nello sguardo del medico, che abbassò gli occhi sul proprio polso. Il poliziotto lo precedette.
«Le undici e mezzo» gli comunicò sorridendo. «So benissimo che deve badare al buon ritorno sulla terra del suo paziente, ma si tratta di una specie di urgenza, e lei è la persona giusta». «Un'urgenza?» Adesso lo sguardo era inquieto. Müller parlò senza mezzi termini, osservando con attenzione la reazione del medico. «Ho avuto un lungo colloquio con Sophie Desmarest, che mi ha informato che le capitava di accompagnarla nella sala del computer. Le ho promesso che lei non le avrebbe serbato rancore per aver tradito un segreto: la situazione lo esigeva!» «La situazione?» chiese Riveiro con voce rotta dall'angoscia. «Sembrerebbe che l'assassino abbia adescato le sue vittime sulla Rete: un sito chiamato Hacuna Matata. Un sito... che lei visitava con Sophie Desmarest, esatto?» Riveiro si era irrigidito. Mandò giù la saliva con difficoltà. Müller, benché non avesse dubitato nemmeno per un attimo delle rivelazioni della piccola, non poté fare a meno di sentirsi sollevato. «Sophie era soprattutto interessata ai siti riguardanti gli extraterrestri» mormorò l'anestesista. «Ma le capitava in effetti di visitare Hacuna Matata, qualche volta. Lei ha parlato di vittime?» «Sono stati ritrovati dei peli di scimmia sugli indumenti dei due piccoli. Sul sito, un certo Mowgli proponeva ai suoi corrispondenti di incontrare una scimmia cappuccina chiamata Mister Chance». «Che cosa vuole da me?» «Se cominciassimo coll'andare nella sala del computer?» «Venga». Mentre salivano al primo piano incrociarono un gruppo di infermiere, che salutarono Riveiro con grandi sorrisi. Il medico era amato dal personale, Müller lo aveva già notato. Aveva anche fatto la differenza fra lui e Roland Lagarde che, invece, sembrava piuttosto temuto. Riveiro spinse una porta; la stanza era al buio. Accese la luce. «Queste sale sono aperte ai bambini solo il pomeriggio; il mattino è riservato alle cure» disse. Tutto era in perfetto ordine: libri, cassette, giochi vari. Davanti al televisore, una pila di cuscini variopinti. Una stanza allegra ma in cui l'odore di ospedale trovava modo lo stesso di penetrare. «Puzza di puntura» avrebbe detto Gaston, il primogenito di Müller, storcendo il naso. Attraversarono la stanza per recarsi nella sala del computer. Riveiro, e-
stratto il suo portachiavi, la aprì. Sedie, un tavolo, mente di più: un ambiente sobrio. A Müller si strinse il cuore: su quelle sedie immaginava due ragazzini intenti a corrispondere fiduciosi con il loro futuro assassino. Thomas si richiuse la porta alle spalle e attese. «Sa se questo sito esiste da molto?» gli chiese il commissario. «Non ne ho alcuna idea» rispose l'anestesista dopo una breve esitazione. «Oltre a Sophie, le è capitato di accompagnare qui altri bambini? In particolare Jean-Lou e Charles?» «Non ne ho avuto alcun bisogno. Frequentavano il sito a casa loro. Sapevano cavarsela benissimo da soli». «Sophie mi ha citato gli pseudonimi di parecchi protagonisti. Mowgli, Simba, Zazu, Tarzan, fra gli altri. Questi nomi le dicono qualcosa?» «Ma che cosa vuole che mi dicano?» si irritò Thomas. «Sono quasi tutti pseudonimi presi a prestito dal Re Leone, che è molto apprezzato dai bambini. Può trovare la cassetta del film nella sala giochi». «Pensavo che alcuni si fossero confidati con lei, magari svelandole il loro pseudonimo». «Uno pseudonimo non si svela, perché il segreto fa parte dell'avventura». «L'avventura, infatti...» commentò amaramente Müller. «Mister Chance...» Il medico gli lanciò uno sguardo di rimprovero misto a stanchezza. A Müller era capitato di chiedersi se non ci fosse, nell'atteggiamento di Thomas, una parte di commedia. Se non si atteggiasse a solitario, a vittima... Si ricordò del sorriso delle infermiere che avevano incrociato. Le donne prediligono gli uomini che sembrano aver bisogno di essere consolati. «Secondo lei, dottore» riprese il commissario in tono più cordiale, «chi ha creato quel sito potrebbe essere qualcuno di Saint-Rémi? Sembra che gli animali selvaggi siano molto di moda. La signora Desmarest mi ha comunicato che anche lei stava preparando un fumetto su questo tema, con i suoi alunni». «Conosce un solo bambino che non ami gli ammali selvaggi?» chiese l'anestesista con impeto. «Quelli che sono ricoverati qui in modo particolare. Natura, libertà, spazio... tutto ciò di cui sono crudelmente privati. Non è una questione di moda, commissario, chiunque può aver creato quel sito per far loro piacere». Guardò di nuovo l'orologio. «E adesso, se me lo consente...» «Un ultimissimo favore, la prego». Müller indicò il computer. «Lei ha
più dimestichezza di me. Mi cercherebbe il sito?» Thomas Riveiro esitò. Adesso nei suoi occhi si leggeva la diffidenza. Sa che il sito è stato cancellato, pensò all'improvviso Müller. Intuisce che gli sto tendendo una trappola. Il medico si decise bruscamente, accese il computer e si collegò con Internet. Come aveva fatto Sophie poco prima, cliccò. E ancora. Desistette più in fretta della piccola. Le mani gli ricaddero sulle ginocchia. «Il sito non esiste più» constatò con voce atona. «Come lo spiega?» «Non sta a me spiegarlo». Spense il computer e si rialzò. «Un'ultima domanda e la lascio, dottore» promise Müller. «Quando ha fatto visitare Hacuna Matata per l'ultima volta? Se ne ricorda?» Riveiro fece una risata acida. «Se ci tiene a saperlo, mi sembra fosse con Sophie Desmarest, per l'appunto! E lei naturalmente avrà informato sua madre, che non me lo perdonerà di sicuro» soggiunse. «La signora Desmarest non mi ha dato questa impressione. Ma non le nascondo che le rivelazioni di sua figlia le hanno fatto venire i brividi». Il cellulare del commissario suonò. «Mi scusi». Passò nella sala giochi per rispondere: era Boyer. «Novità, capo» annunciò questi in tono eccitato. «Arrivo» lo interruppe Müller, incurante di parlare davanti all'anestesista, che lo aveva raggiunto dopo aver richiuso a chiave la sala del computer. Spento il telefonino, il poliziotto si rivolse a Riveiro. «Devo lasciarla. Grazie per le informazioni, dottore. Qualsiasi cosa le dovesse tornare in mente a proposito di quel sito o di coloro che lo frequentavano, mi chiami, mi raccomando». Müller lasciò la stanza senza attendere il medico, che non lo avrebbe chiamato, ne era certo. Allora perché glielo aveva proposto? Una sorta di pietà, sì. Non riusciva a spiegarselo chiaramente, ma quell'uomo gli faceva pietà. Se avesse dovuto inserirlo in una categoria, sarebbe stato in quella delle vittime, non dei carnefici. Pur sapendo fin troppo bene che all'occasione le vittime possono trasformarsi in carnefici! E, comunque fosse, Riveiro gli aveva mentito: possedeva la chiave della sala del computer, mentre qualche giorno prima aveva dichiarato che per entrarvi bisognava chiederla alla segreteria. La sala in cui accompagnava
regolarmente Sophie, e che anche Jean-Lou e Charles avevano frequentato. Attraversando il cortile provò il bisogno imperioso di una bella passeggiata nel bosco: respirare aria pura. Quella della stanza magica di Sophie gli era sembrata particolarmente viziata. Non potendo soddisfare il proprio desiderio, prima di salire in auto fissò la massa verde e rossiccia in lontananza e la respirò a lungo con gli occhi. Che cosa aveva voluto dire Boyer con «novità»? Belle o brutte, le novità? Prima avrebbe chiamato Besancon e chiesto che gli trovassero il nome del creatore del sito. Con un po' di fortuna lo avrebbe saputo entro sera. 41. A trentatré anni, Julien poteva affermare che Blanche era la prima donna a interessarlo veramente. Aveva avuto un certo numero di avventure e, qualche volta, aveva pensato che l'una o l'altra si sarebbe trasformata in un impegno più serio, e invece no! Nelle più seducenti, nelle più intelligenti delle sue conquiste - ma non era lui, piuttosto, a lasciarsi conquistare? -aveva sentito molto presto la distanza, una certa leggerezza che impediva loro di andare veramente d'accordo. Leggerezza non significava che fossero frivole o superficiali; si trattava di una differenza di cuore. Qualcuno usa l'espressione «cuore pesante». Quello dei feriti dell'infanzia lo è per sempre. Possono nascondere il loro peso a se stessi come agli altri, ma il loro respiro non è lo stesso. I feriti dell'infanzia respirano meno bene, ecco tutto! Possono diventare religiosi come assassini: una questione di gradi. Possono diventare anche artisti. E talvolta giornalisti arrabbiati... La ferita di Julien si chiamava, naturalmente, Nina, la sorellina che si era rifiutato di accompagnare al supermercato: lui undici anni, lei sette. Tutti si erano affannati a spiegargli che non era responsabile della sua scomparsa. Ma l'interrogativo mozzafiato «E se le avessi detto di sì?» non avrebbe mai smesso di assillarlo. Senza dubbio era quel cuore pesante che gli impediva di dire di sì all'amore. Con Blanche le cose erano cambiate. Anche lei era una ferita dell'infanzia, il suo respiro somigliava a quello di Julien. E in quei giorni non si era rimproverata di non aver saputo evitare come lui l'imprevedibile?
Dopo la serata da Myriam, in cui la giovane donna era stata colta dalla crisi di disperazione, la sua amica aveva accettato di parlare di lei a Julien. La ferita di Blanche era stata inferta da un padre tirannico e perverso che, una volta annichilita la propria moglie, aveva tentato la stessa operazione con la figlia, divertendosi sadicamente a scalzarne l'autostima per rafforzare il proprio potere. La passione di Blanche per il disegno e i sogni che l'accompagnavano l'avevano salvata; lei stessa si compiaceva di affermarlo con una sorta di toccante stupore, come se stentasse ancora a crederci. Sotto il vincolo del segreto, Myriam aveva anche rivelato a Julien la fobia della giovane donna: farfalle, uccelli, piume. E come, un tempo, quel padre crudele si divertisse a fingere di soffocarla sotto un piumino. Julien lo avrebbe volentieri strangolato. Dell'ex marito, Blanche diceva volentieri che non aveva nulla da rimproverargli. Semplicemente non vivevano sullo stesso pianeta. Quello di Marc, pubblicitario e mondano, era lontanissimo dal suo, in cui silenzio e solitudine erano necessari alla creazione, una solitudine che Blanche non aveva mai temuto e che Marc invece paventava. Julien avrebbe strangolato volentieri anche lui per non aver saputo apprezzare una donna così. Benché, a pensarci bene, avrebbe fatto meglio a rallegrarsene. Grazie a quel disaccordo, che si era chiuso con un divorzio, Blanche si era trasferita a Saint-Rémi dove una nonna, deceduta dopo poco tempo, aveva ricamato sui dolci ricordi d'infanzia che, cuore pesante o no, fanno venir voglia di felicità per la vita. Sì, Julien si era proprio innamorato. Nutriva stima e ammirazione per Blanche e per il modo in cui esercitava il suo mestiere. Si può amare senza ammirare? Avrebbe voluto che le sue braccia assumessero la forma di una tenda invisibile in cui lei potesse rifugiarsi in caso di pericolo. Si ama senza voler proteggere? Quando le si formava una fossetta infantile nella guancia, aveva voglia di mangiarsela di baci. L'amore mette fame. A parte ciò, non appena la perdeva di vista, ne sentiva la mancanza. E persino quando era presente. Strano! Ma come dichiarare la propria fiamma quando il paesaggio circostante arde dei cupi colori della morte? Senza contare che, purtroppo, non era il solo in lizza. Gli sguardi della Medicina sulla sua disegnatrice non gli erano sfuggiti. A pensarci bene, temeva più il chirurgo dell'anestesista. Una sera in cui il primo era passato da Myriam per vedere Blanche, una luce improvvisa negli occhi della giovane donna gli aveva provocato una pulsione da strangolatore. E tre! Serial
killer... Bisogna pur ridere per sopravvivere. A dirla breve, quando alle undici, quel venerdì, Blanche gli telefonò per invitarlo a uno spuntino a casa sua, Julien fu il più felice degli uomini. 42. Il giornalista aveva trascorso una parte della mattinata a Besancon per ascoltare la registrazione delle chiamate giunte alla radio dopo la trasmissione speciale sulla scimmia, e attendere, purtroppo invano, una telefonata del signor Victor. Arrivò a casa di Blanche verso mezzogiorno. La donna aveva un'aria sovreccitata che non gli piacque troppo: cos'era successo ancora? Lo trascinò in cucina, una stanza a sua immagine, colorata e calda. Quanto allo spuntino, sulla tavola c'erano un'insalata mista, un bel pezzo di Comté, il formaggio della regione, e alcune mele. Julien accettò una birra. «Indovina chi ho trovato da Müller stamattina?» attaccò Blanche subito. Lui non indovinò. «Sophie!» «Sophie? Non era a scuola?» «Figurati che aveva di meglio da fare. Stanotte ci ha sentito parlare della scimmia. E anche lei ne aveva delle belle da raccontare a Müller!» Ancora ratta turbata, Blanche comunicò al giornalista le rivelazioni fatte dalla sua Principessa al commissario: il sito Internet, la cappuccina decantata da un certo Mowgli, Simba, Zazu e gli altri. Era molto probabilmente su Hacuna Matata, formula magica del Re Leone, che l'assassino adescava le sue vittime. «Quando penso che mia figlia ci navigava!» «Internet!» esclamò Julien. «Internet... perché no?» Saint-Rémi si mette al passo con i tempi. È arrivata la Rete. Avrebbe dovuto pensarci prima? Non seppe rispondere alla domanda. Ma all'improvviso i pezzi del tragico puzzle cominciavano ad andare a posto. C'era Internet alla clinica dei Quatre Lacs, come da Jean-Lou e da Charles. La scimmia che avevano riprodotto nei disegni era stata loro decantata sulla Rete: una cappuccina chiamata Mister Chance, un nome da commedia. Come quelli di Simba e di Zazu. Come quello di Mowgli. «Mowgli» ripeté lui. «Dici che è il nome del proprietario della scim-
mia?» «Sophie si ricorda di parecchi suoi messaggi. Insisteva molto per presentare la cappuccina ai suoi corrispondenti e si lamentava perché non gli rispondevano». «Allora, sarebbe lui il colpevole?» chiese Julien, incredulo. «Un nome strano per un assassino» osservò Blanche rabbrividendo. «Dietro Mowgli, ci sono i lupi» le ricordò in tono sommesso il giornalista. Rimasero in silenzio per un po'. Da giù proveniva attutito il brusio del caffè. Faceva bello, e Myriam aveva spalancato le porte del locale. «Ma come ha fatto Sophie ad avere accesso al sito?» chiese stupito Julien. «Grazie a Thomas, figurati. Il caro Thomas Riveiro» rispose Blanche con un sorriso contratto. «Il mercoledì, mentre facevo disegnare i bambini alla clinica, lui l'accompagnava di nascosto nella sala del computer». «Di nascosto?» «Thomas sa benissimo che a Sophie non permetto di usare Internet. Senza contare che nei confronti della clinica il suo comportamento non era affatto corretto. Solo i pazienti hanno diritto ad usufruire delle sale giochi. Insomma, lui le aveva fatto giurare di mantenere il segreto...» «Ma bravo! Bravo, dottore!» esclamò Julien furibondo. «Conosci Sophie» cercò di calmarlo Blanche. «Probabilmente lo ha tormentato finché lui non ha ceduto. E sostiene che era autorizzata solamente a guardare, non a intervenire. A ogni modo, sono i siti sugli extraterrestri a interessarla, su Hacuna Matata passava solo di sfuggita». «Non aveva il diritto di accompagnarcela senza la tua autorizzazione» si intestardì Julien. Blanche rimase pensierosa alcuni secondi: «Ieri ero con lui quando sei venuto a cercarmi, ricordi? Mi stava parlando per l'appunto di Sophie. Era agitato. Adesso sono sicura che aveva ascoltato la tua trasmissione e stabilito il nesso con la cappuccina. Cercava di avvertirmi. E poi sei arrivato tu». «Allora perché non me ne ha parlato, invece di alzare i tacchi?» Piluccarono un po' di insalata: mais, pollo, pomodoro, avocado. Gialloarancio, bianco-beige, rosso squillante, verde mandorla. Sul bel legno color miele della tavola. Affamato al suo arrivo, Julien aveva perso ogni appetito. Tante, troppe informazioni dopo la trasmissione; gli sembrava di avere il cervello in ebollizione. Adesso, Internet! Dove li avrebbe condotti
quella nuova pista? «A proposito, non te l'ho detto; il sito è stato cancellato» annunciò Blanche, come rispondendo al suo interrogativo. «Cancellato? Quando?» «Come faccio a saperlo?» «Scusami». La domanda era stupida, in effetti. Né Blanche, né chiunque altro poteva saperlo. Per il momento! Stupida, ma essenziale per Julien. Se il sito era stato cancellato la sera prima, dopo la sua trasmissione, significava che l'assassino aveva sentito il suo appello e reagito immediatamente. Come dopo l'appello della signora Laurent, deponendo Charles al cimitero? osservò cupamente. «È qui» diceva spesso Blanche. Sì, senza alcun dubbio, era lì, vicinissimo, alla portata di tutto, al corrente di tutto. E adesso avrebbe soppresso Mister Chance, come temeva Müller? Blanche indicò a Julien l'insalata quasi intatta. «Più fame?» «Più fame». «Un caffè?» «Il pieno». Lei si alzò per prepararlo. Lui la seguì con gli occhi: pantaloni azzurro cielo, camicia a quadri, coda di cavallo. Quel giorno gli sembrava una ragazzina. Una ragazzina da coccolare. Indubbiamente l'amore dettava espressioni stupide, superate, vecchiotte, che ci si deliziava a ripetere dentro di sé, vestite a nuovo da quello strano sentimento. «Hai disegnato, stamattina?» chiese lui per nascondere un'emozione improvvisa. E un desiderio altrettanto imprevisto e che gli sembrava, viste le circostanze, poco opportuno. «Solo il necessario per dimostrare a me stessa che ne ero ancora capace». «Quando tutto ciò sarà finito, ti porterò altrove a respirare aria buona» dichiarò il giornalista di colpo. «E poi, dovrò presentarti ai miei genitori». «Presentarmi ai tuoi genitori? Sarebbe una domanda di matrimonio?» chiese divertita Blanche. Julien sentì una stretta al cuore. Avrebbe preferito che non usasse quel tono divertito. Si sforzò di ridere. «Chissà? I miei dicono che non faccio che parlare di te. E finora non ero
troppo loquace a proposito di donne. Quindi sono molto curiosi». «Allora rischiano di rimanere delusi». «Chi vivrà vedrà». Chi vivrà... ripeté Blanche dentro di sé, con il cuore pesante. Chi vivrà... L'acqua cantava nel bollitore. La versò sulla polvere di caffè. Andare a respirare altrove... Mercoledì, alla clinica, guardando i disegni degli aquiloni, anche Roland ne aveva espresso il desiderio. Mercoledì? Due giorni soltanto? Una burrasca travolgeva le ore. Non si poteva più misurare il tempo. Andare altrove avrebbe forse potuto ridare al tempo la sua giusta dimensione. «Quando tutto sarà finito» ripeté lei con voce rotta. «Si stenta a credere che un giorno questo potrà finire. Pare sia lo stesso in tempo di guerra. Non si riesce più a immaginare la pace». Julien posò una mano sulla sua. «La pace tornerà!» promise. «Ma niente sarà più come prima». Nel petto di Blanche si facevano risentire la sofferenza e la difficoltà a respirare che solo la presenza di Julien placava un po'. Il telefono di lui suonò. «Scusami, cara». Si allontanò per rispondere. Aveva detto «cara»? «Come? È sicuro? È proprio lui?» La voce del giornalista si era incrinata. Estrasse di tasca un taccuino e vi annotò un indirizzo che ripeté ad alta voce. «Vengo subito». Spense il cellulare. Dato che non si muoveva, che sembrava prostrato, lui che un attimo prima si adoperava per rincuorarla, Blanche si alzò e lo raggiunse. «Julien?» Con difficoltà, il giornalista alzò il viso verso di lei e la donna gli lesse nello sguardo ciò che conosceva a memoria: una tortura che si chiama rimorso. Gli prese la mano. «Per favore, dimmi... caro». «Il signor Victor è morto. È stato assassinato». 43. Maguy Grosjean piangeva. Benché avesse riconosciuto il corpo del suo
Victor, non voleva credere che tutto fosse finito, che non lo avrebbe rivisto più, un così brav'uomo, che non aveva mai avuto nemici, che tutti stimavano, a cominciare dal suo padrone. E, mentre rifiutava di crederci, si accusava di aver mandato il marito alla morte. «È colpa mia!» Era la prima cosa che aveva gridato ai gendarmi, venuti a prenderla all'ospedale in cui lavorava come infermiera: «È colpa mia!» «Ma come può dire una cosa simile?» aveva chiesto stupito il brigadiere. Allora lei gli aveva raccontato la storia della scimmia che Victor aveva creduto di vedere da un cliente, e aveva soggiunto che aveva incitato il marito a cercare nell'archivio della ditta e a richiamare il giornalista. Non era molto entusiasta, il suo Victor. Temeva di commettere un'infrazione dell'etica professionale. Quella mattina stessa, quando si era recata al lavoro, non era sicura che lo avrebbe fatto. Lo aveva fatto, ed ecco com'era finito! «È colpa mia» ripeté ancora una volta a Müller. Erano nel salotto della casetta dei Grosjean, in cui il sole entrava a fiotti come per smentire la disgrazia. Il cadavere del fattorino era stato scoperto dal suo padrone, il signor Martin, alle otto e mezzo: un proiettile a bruciapelo fra le sopracciglia. Appena stabilito il nesso fra la vittima e la trasmissione di Julien Manceau, la gendarmeria aveva chiamato la polizia a SaintRémi. «Lei dunque ritiene che abbiano ucciso suo marito per evitare che richiamasse quella radio? Per impedirgli di svelare il nome del suo cliente?» «E per che altro?» Il commissario avvicinò la sua sedia alla poltrona in cui si era accasciata la povera donna: stessi gesti della sera prima con Blanche, di quel mattino con Sophie. E stessa domanda insistente. «Signora Grosjean, può cercare di ricordare tutto ciò che le ha detto suo marito ieri? Attualmente, sappiamo soltanto che aveva scorto una scimmia cappuccina in un parco nei dintorni di Saint-Rémi mentre faceva una consegna a un cliente, niente di più. Il computer che avrebbe potuto aiutarci a ritrovare quel cliente è sparito. Ogni dettaglio ci faciliterebbe grandemente il compito». L'infermiera tirò un grosso sospiro. Si tolse gli occhiali appesi a una catenella per asciugarsi gli occhi. Per un riflesso, anche Müller si pulì le lenti.
«Faceva molto caldo» cominciò la poveretta. «Di questo, Victor si ricordava. Tant'è che, quando aveva visto la scimmia, aveva creduto a un'allucinazione. Diceva che si trattava per forza di una bella casa a causa del parco, ma non si ricordava di esservi entrato. Gli avevano chiesto di posare lo scatolone in cortile, forse un piccolo freezer, un nuovo modello che si vendeva molto l'anno scorso». «Chi aveva visto?» «Un signore. Ieri, aveva il nome sulla punta della lingua». «La ditta Martin consegna di tutto a Saint-Rémi» intervenne il brigadiere dei gendarmi. «Non ci sono negozi di elettrodomestici nella cittadina». Due colpi leggeri furono battuti alla porta e Julien Manceau entrò. Müller gli aveva telefonato mentre si dirigeva a Champagnole: glielo doveva, con la tempesta che aveva scatenato la sua trasmissione! Rimase impressionato dal pallore del giornalista; come un imbecille, non aveva pensato neppure per un attimo che il giovane si sarebbe potuto sentire responsabile della morte del fattorino. Si alzò. Julien avanzava verso la signora Grosjean. Si chinò e le prese le mani. «È a me che suo marito ha telefonato ieri. Mi spiace enormemente». «Lei è Julien Manceau?» La donna si liberò le mani e si alzò a sua volta. «Quando penso a come la ammiravo» gridò la poveretta, fuori di sé. «È proprio a causa sua che ho spinto il mio Victor a cercare il nome del suo cliente. E adesso è morto!» Il giornalista era diventato livido. «Le chiedo perdono» balbettò. La signora Grosjean gli indicò la porta. «Come ha osato venire qui? Fuori dai piedi!» Müller si chinò verso l'orecchio di Boyer: «Continua tu». Prese il giornalista per un braccio: «Venga». Lasciarono la stanza, inseguiti dai singhiozzi dell'infermiera. «Non mi aspettavo una reazione simile» osservò il poliziotto. «Mi scusi, non è stata una buona idea farla venire qui». «Ha detto soltanto la verità» constatò Julien cupamente. Scesero gli scalini esterni. Un uomo era di guardia davanti al cancello. Le auto della gendarmeria e della polizia stonavano in quella strada tranquilla, fiancheggiata da casette modeste. Talvolta ci si stupisce di veder accadere drammi spaventosi in vie così normali, abitate, si credeva, da gente senza storia. Nessuna vita è senza storia. «Facciamo un giro del giardino?» propose Müller.
Si potevano definire «giardino» quei vialetti stretti bordati dì rosai stenti? pensò il commissario. Rose gialle, le preferite di Marie-Jeanne. Con un calcio rabbioso, Julien sparpagliò la ghiaia. «Se almeno il signor Victor mi avesse lasciato il suo numero, lo avrei richiamato ieri». «Lo avrebbe messo in guardia per questo? Avrebbe pensato che stava correndo un pericolo?» «Non lo so, non so un bel niente» riconobbe il giornalista. «Forse no. Ma magari avrei anticipato la mossa di quel mostro. Come ha fatto, stavolta?» «Una pallottola in piena fronte, una sola. Non si è preso la briga di recuperarla. A prima vista, sparata da una Beretta 9 mm. La balistica confermerà. Il delitto è stato commesso a sangue freddo: è opera di un professionista. Non le ho detto che ha portato via il computer con la lista dei clienti. Questo non ci faciliterà il compito». «Cancella le sue tracce» constatò Julien. «Come per Hacuna Matata». Fece una risata triste: «Proprio non riesco a digerire questo nome. Come quello di Mowgli e degli altri. In che casino siamo? Che cos'è questa mascherata?» «Vedo che la signora Desmarest l'ha informata». «Vengo da casa sua. Mi ha raccontato tutto». Il cuore di Julien si mise a battere più forte: Blanche lo aveva davvero chiamato «caro»? Sospirò: era così insolita, quella felicità che veniva a mescolarsi alla sventura. «Già stasera dovremmo conoscere il nome del creatore del sito» gli comunicò Müller. «Besancon se ne sta occupando. A ogni modo, adesso una cosa è certa: quel mostro, come lei dice, ascolta la sua trasmissione». «Non c'è più pericolo che mi senta» ringhiò Julien. «A partire da oggi, silenzio radio! Ho avuto abbastanza successo così: Charles al cimitero dopo l'appello della madre, e adesso questo povero cristo». «Penso che Charles fosse comunque condannato» osservò Müller. «Ma non Victor Grosjean». «Senza di lei saremmo ancora a un punto morto». «Con me, abbiamo un morto in più». Stavano facendo il terzo giro del giardino. Ogni volta che passavano davanti al cancello, l'uomo di guardia li gratificava di un sorriso. «C'è una cosa che non riesco a capire» riprese Julien. «Perché rimane qui? Non si sente bruciare la terra sotto i piedi? Che cosa gli impedisce di prendere il volo? O è pazzo, o...»
«O...?» «L'altro giorno, lei ha detto che l'assassino mandava in qualche modo un messaggio: 'Arrestatemi prima che ricominci'. E se il messaggio fosse piuttosto 'Non mi prenderai, sono più forte di te'?» «Lo prenderemo, quel figlio di puttana» si ripromise Müller con un'espressione ostinata. Julien strinse i pugni. «Se mi capita davanti...» «È probabile che non lo riconosca». Un'idea attraversò la mente di Müller, che si fermò per riflettere. Secondo il medico legale, Grosjean era stato ucciso fra le sette e le sette e trenta del mattino. Thomas Riveiro avrebbe avuto il tempo di commettere il delitto e di essere alla clinica per il suo intervento? La risposta era sì. Eccome! «Che cosa pensa del dottor Riveiro?» chiese a Julien riprendendo a camminare. «Ne parlavamo poco fa con Blanche. A quanto pare, non ce l'ha troppo con lui per aver accompagnato Sophie in quel maledetto sito. Secondo lei, è stata la bambina a tormentarlo fino a farlo cedere. È vero che quando Sophie ha un'idea in testa... Per me, è un brav'uomo. Un po' irritante, con quei suoi atteggiamenti da perseguitato». «Lo ha notato anche lei?» «Salta agli occhi. Perché questa domanda?» «L'ho interrogato stamattina a proposito del famoso sito. Non mi è sembrato tanto tranquillo, anzi: cercava di defilarsi. Mi è parso che sapesse benissimo che il sito non esisteva più. Il che non gli ha impedito di cercarlo per me». «Pensa che sia stato lui a cancellarlo?» «Non posso certo sostenerlo, ma è un dato di fatto che ha indotto molti bambini a visitarlo, e fra questi le vittime. E ha una casa con parco nei pressi di Saint-Rémi». «Anche il dottor Lagarde». «E molti altri, lo so» ammise Müller. «Se lei sospetta Thomas, spezzerà il cuore di una bambina» osservò Julien. «Vicinissimo a noi c'è un mostro, che ha l'apparenza di uno qualunque e che lo ferma, il cuore dei bambini». 44.
«Zazu mi ha chiesto perché non potevo camminare» dice all'improvviso il piccolo Paul. «E tu che cosa gli hai risposto?» «Che sono così dalla nascita». Il medico guarda il bambino paraplegico. Di quella drammatica nascita, il piccolo Paul non ignora niente. Sa del bacino troppo stretto di sua madre, della brutta posizione in cui si presentava, del taglio cesareo praticato troppo tardi da un ostetrico irresponsabile per venire incontro al desiderio di una femmina ansiosa di non sciuparsi il ventre. La criminale faceva l'indossatrice. Sa della lesione del midollo spinale. Suo figlio non camminerà mai. Il padre guarda il figlio, cui ha rimboccato le coperte per la notte dopo avergli medicato le piaghe da decubito. Malgrado i suoi sforzi, certi punti cominciano a infettarsi, come se il bambino non avesse più difese immunitarie. A meno che non se ne serva come mezzo di ricatto: «Guarda, guarda come sono diventato per colpa tua». Colpa sua? Non è per rispondere alla supplica del piccolo Paul che ha agito? Per lui, soltanto per lui? «Portami via, papà, ti supplico, portami lontano da lei». Talvolta aggiungeva addirittura: «Non voglio rivederla più. Mai». Il bambino si raddrizza. All'improvviso il suo sguardo è cupo. «È perché non mi ha fatto come si deve, che hai ucciso mother?» Il colpo lo raggiunge in pieno petto, mozzandogli il fiato. Mai, fino a quel giorno, il piccolo Paul aveva messo in dubbio la sua parola. «Tua madre ha avuto un incidente. È accanto al buon Dio». Erano appena arrivati in Francia quando aveva ritenuto che fosse giunto il momento di parlargli. Suo figlio era così contento di essere uscito da quell'istituto-prigione in cui lo aveva rinchiuso sua madre all'unico scopo di sottrarglielo. E felice di aver ritrovato Mister Chance e il suo computer. «D'ora in poi sarò io a occuparmi di te, sempre». Era il tempo benedetto in cui la fiducia fra loro era totale. Zazu non aveva ancora compiuto la sua opera. Non si abbasserà a rispondere. Non ha ucciso Roselyne; è stata lei a scegliere la propria sorte. Decidendo di separarli, sapeva a cosa andava incontro, lui l'aveva avvertita. Non avrebbe mai accettato che il piccolo Paul provasse ciò che aveva vissuto lui. Il bambino preme il bottone che fa sollevare la parte superiore del suo
letto. Negli occhi adesso gli passano bagliori inquietanti. Quale nuovo colpo si appresta a sferrargli? Si sente così stanco. La giornata è stata così lunga. Per tutto il pomeriggio ha sentito su di sé lo sguardo del fattorino: paura, incomprensione. Nessuno può dire che sia insensibile. L'amore per suo figlio gli guidava la mano. Dovrà sbarazzarsi della pistola prima di partire. «Voglio tornare in Canada!» dichiara all'improvviso il piccolo Paul. «Voglio tornare a Montreal». La richiesta lo ha fatto sobbalzare. «Ma sai bene che è impossibile. Ci separerebbero». «Ci separerebbero perché hai ucciso mother?» Ancorai Basta. Stavolta non ne può più. Perché hai ucciso Simba? E Zazu, hai ucciso anche lui? E ora, mother! Non si lascerà distruggere, adesso che ha bisogno di tutte le sue forze. Venerdì prossimo saranno lontani. Si alza, spinge il tavolo fino all'angolo cucina, sistema le poche stoviglie nella lavapiatti, rimette il latte al fresco. Il piccolo Paul non accetta ormai altro: del latte. Il latte, il latte avvelenato delle madri irresponsabili. Anche qualche biscotto secco. Il minimo vitale. Ai suoi piedi, Mister Chance saltella emettendo i suoi latrati gutturali, reclamando un ordine che gli frutterà una ricompensa. Rifletti. Stasera Manceau non ha parlato alla radio. Non si è fatto cenno della trasmissione speciale del giorno prima. La morte del fattorino non è stata menzionata. Perché? Sopprimi la scimmia. In Svizzera, l'appello riguardante la cappuccina è stato sicuramente sentito. Può rischiare di portarla con loro? Di esporsi a eventuali domande? Ma se sacrifica Mister Chance, che cosa farà del piccolo Paul in Venezuela? Aveva previsto di assumere una donna perché si occupasse di lui. Non gli ha promesso il sole, il mare e amici a bizzeffe? Amici alla luce del giorno? Se lo lasci uscire, lui ti denuncerà. L'emicrania gli picchia a martellate nella testa, il sudore gli cola fra le scapole. Charles, il maledetto Charles, gli ha reso impossibile anche liberare il piccolo Paul. A causa di quell'ipocrita, sarà costretto a continuare a nascondere suo figlio finché questi non riprenderà ad aver fiducia in lui. Si versa un bicchiere d'acqua, che si sforza di bere molto lentamente, poi torna da suo figlio.
«Hai pensato a ciò che vorresti portare laggiù?» chiede in un tono che cerca di rendere allegro. «Non potrai prendere tutto. Bisognerà scegliere». «Non voglio andarci. Laggiù sarà come qui: sarò prigioniero». Ancora una volta il piccolo Paul gli ha letto nel pensiero. C'è stato un tempo in cui ciò lo meravigliava. «Come potrebbe un figlio essere prigioniero di un padre che lo ama?» «Se mi ami, lasciami uscire. Adesso!» Stavolta è la notte a scendere sul suo cuore, una notte glaciale e disperata. Perché il piccolo Paul lo perseguita così? Lo sa benissimo che lasciarlo uscire significherebbe la loro separazione definitiva. Che verrebbero strappati l'uno all'altro. È questo che vuole? Dopo tutto ciò che ha fatto per lui? Perso per lui? «Di', papà, resteremo sempre insieme?» No, no, si sbaglia. Il piccolo Paul non può aver fatto una scelta simile, per lui mortale. È solo una punizione crudele per avergli portato via il computer. Esatto! Una punizione. E basta. Del resto, il suo Mowgli non attende nemmeno una risposta, il suo sguardo si allontana, si fissa su uno schermo invisibile, le dita gli tamburellano sulle ginocchia. Il computer, sì. «Il bambino-computer», come lo chiamava sua madre: «Ne farai un mostro». E lei, non ne aveva fatto un infermo? Lo sguardo torna verso di lui. «Allora portami un amico, l'ultimo». L'incredulità lo sopraffà. «Ma sai bene che è impossibile. Partiamo fra quattro giorni». Il bambino indica le scatole di giochi sulle mensole, giochi elettronici, giochi di costruzioni, quelli che si definiscono «di società», scelti da lui su catalogo nella speranza di dividerne un giorno la scoperta con uno dei visitatori di Hacuna Matata, il sito maledetto. E anche i modellini. Tutte quelle scatole, rimaste per lo più sigillate. «Un ultimo amico, così posso regalargliele. Dopo, partiremo». Le lacrime sgorgano all'improvviso dagli occhi del bambino, gli tremano le labbra, tende le mani. «D'accordo, papà?» Che felicità! Da quanto tempo il piccolo Paul non lo aveva chiamato così? Papà, papà. Che sofferenza! Stavolta non potrà esaudire il suo desiderio. Ma laggiù, te lo giuro, avrai giochi e amici. Per tutta risposta stringe la mano del bambino, un mucchietto d'ossa. Il suo dito indugia sul polso, così debole. A consumarlo è il veleno del dubbio e del sospetto, che Charles Laurent ha instillato nel suo animo. «Zazu
ha detto che sei pazzo» gli ha sbattuto in faccia l'altro giorno. Sì, pazzo d'amore, è vero. Appena arrivato in Venezuela, lo farà curare. Se necessario, lo alimenteranno artificialmente. Troverà un medico discreto, le ricerche sono state abbandonate. Dio non può volergli riprendere suo figlio. Pregate, pregate per il piccolo Paul. Con grande delicatezza torna a posare la manina sul lenzuolo, aspetta che il respiro sia diventato regolare e poi si rialza. «Dormi, piccolo mio». Adesso, con il petto carico di dispiacere, si avvia alla porta, seguendo con lo sguardo le scatole di ogni forma e colore che il piccolo Paul vorrebbe regalare a un amico, l'ultimo, d'accordo, papà? E bruscamente si ferma. Ha visto bene? Si assicura dapprima che il piccolo Paul continui a dormire e poi si avvicina un po' di più, con il cuore in gola. Non si è sbagliato: dietro una delle scatole ci sono proprio gli occhiali di Charles Laurent. Quanto li ha cercati, quegli occhiali! Ha rifatto due volte il tragitto fino al cimitero. Ha ispezionato l'auto centimetro per centimetro. Ed erano lì, nascosti da suo figlio. Pietà e furore si mescolano in lui. Pietà per il piccolo Paul, furore contro colui che portava quegli occhiali. «Le anime dei bambini morti...» Gli sembra di colpo che la sua mente vacilli. Fesserie! Fesserie! Da lassù, Zazu continua la sua opera di distruzione, quegli occhiali ne sono la prova. Allunga la mano... Non toccare. Deciderai dopo. ... riesce a dominarsi e riprende a camminare. Giunto alla porta, digita il codice, si volta un'ultima volta verso suo figlio. Il piccolo Paul non dormiva. Si è raddrizzato sul letto. Gli lancia uno sguardo pieno di odio, e quello sguardo lo uccide. 45. Per trovare Hacuna-Matata.com e il nome del suo creatore, ai servizi di Müller era bastato collegarsi con il sito statunitense in cui erano registrati tutti i «punto com» del pianeta. Il creatore del sito era Thomas Riveiro. Anche il nome del server, situato ugualmente in America, era stato trovato senza difficoltà. Restava da ottenere dal server un CD-ROM ricavato dal disco fisso di Hacuna Matata. Così si sarebbe conosciuta la cronistoria
del sito e si sarebbe appreso tutto ciò che era stato scritto sul newsgroup. Le informazioni erano arrivate il venerdì sera. Data la differenza di fuso orario, aggiunta al fine settimana, non si poteva sperare di ricevere il CDROM prima della settimana seguente. E quel sabato mattina, guardando spuntare il giorno dalla finestra del suo ufficio, con un bicchierino di caffè in mano, Francis Müller rifletteva. Thomas Riveiro gli aveva nascosto di aver creato il sito e, con ogni probabilità, di averlo cancellato. Potevano esserci due ragioni per quel modo di agire. O era l'assassino e, dopo l'appello radiofonico di Manceau, aveva capito che la situazione diventava pericolosa per lui. Oppure era innocente, e l'idea che un assassino avesse potuto imperversare sul sito di cui era l'autore lo aveva spaventato. Il fatto che fosse stato così maldestro da lasciar vedere a Müller che possedeva la chiave della sala del computer deponeva piuttosto a suo favore. Non quadrava con il professionismo di cui aveva dato prova l'assassino fino a quel momento. Ma il medico, pensando che Sophie avesse parlato della chiave a Müller, poteva aver messo abilmente le mani avanti. Müller tornò alla sua scrivania e sollevò il ricevitore del telefono. Laurent Chauvin, il direttore della clinica, lo ricevette quasi immediatamente. Dopo avergli chiesto la massima riservatezza, il commissario gli espresse le proprie preoccupazioni riguardo al suo anestesista. Per il momento, si rifiutava di pronunciare ad alta voce la parola «sospetti». Durante l'inchiesta preliminare, condotta l'indomani dell'assassinio di Jean-Lou e riguardante l'insieme del suo personale, Laurent Chauvin aveva già detto ai poliziotti pressappoco tutto ciò che sapeva sul suo collaboratore. Lo aveva assunto tramite un annuncio diciotto mesi prima. Dopo aver lavorato in diversi ospedali, Riveiro aveva esercitato per parecchi anni in una clinica di Nizza. Le sue referenze erano eccellenti. Ai Quatte Lacs ne avevano avuto la riprova. Su un piano più personale, Chauvin sapeva vagamente che il suo anestesista aveva divorziato poco tempo prima del suo arrivo nella regione, il che poteva spiegare la sua scelta di un buco sperduto come Saint-Rémi: il bisogno di rompere con un passato doloroso. Dopotutto, non è ciò che ha fatto Blanche Desmarest dopo il suo divorzio? pensò Müller. Laurent Chauvin si turbò all'idea che l'anestesista potesse avere qualcosa
a che fare con l'omicidio dei bambini. Era molto amato dai piccoli pazienti e conduceva una lotta efficace per alleviare i loro dolori. Come avrebbe potuto ucciderne due? Rifiutava di crederci. Il commissario lo rassicurò: Riveiro rappresentava solo una delle varie piste. Era suo dovere non trascurarne nessuna. «A ogni modo» concluse il direttore riaccompagnandolo alla porta, «una cosa è certa: quel maledetto computer non rimarrà un giorno di più nella mia clinica». Erano le dieci e mezzo quando Müller si ritrovò sulla piazza del municipio, calma dopo l'agitazione del giorno prima. In serata, la notizia dell'assassinio di Victor Grosjean si era diffusa con la rapidità di un fulmine. La trasmissione di Julien Manceau era molto seguita a Saint-Rémi, e il nesso fra l'appello e l'omicidio del fattorino era stato stabilito in fretta. La gente si era radunata di nuovo. Di nuovo era accorsa la stampa. La collera, l'odio crescevano. Era molto probabile che anche quel sabato ci fosse trambusto. Che cosa doveva fare? Chiamare il giudice istruttore e operare il fermo di Riveiro? Non aveva abbastanza elementi per farlo e sarebbe equivalso ad abbandonare il medico a un linciaggio certo, quantomeno sul piano dell'informazione. Se era innocente, la sua carriera sarebbe stata stroncata. Ma se era colpevole e decideva di fuggire? Ancora una volta, barcamenarsi fra due rischi. A mezzogiorno, il poliziotto aveva preso una decisione: avrebbe fatto una puntata a Nizza per incontrarvi il direttore dell'istituto ospedaliero in cui l'anestesista aveva esercitato per parecchi anni. Tramite lui avrebbe avuto di sicuro più informazioni. E forse avrebbe potuto incontrare l'ex signora Riveiro. Ottenere dal giudice istruttore il permesso non pose alcun problema. Com'era suo dovere, Müller avvertì della sua visita un magistrato della città e incaricò Boyer di organizzare una sorveglianza discreta attorno al domicilio del medico. Infine, comunicò a Julien il motivo del suo viaggio e gli consigliò di mettere in guardia Blanche Desmarest perché non consentisse a Sophie di avvicinarsi troppo al suo amico Thomas. Partì quel sabato 8 ottobre, verso le tre del pomeriggio. Al tramonto di una giornata incantevole arrivò a Nizza, dove i pini esalavano caldi odori di vita, la notte scendeva leggera e il canto del mare cullava tutto con il suo respiro regolare. Dopo aver depositato la borsa in albergo e telefonato alla moglie per dir-
le come gli sarebbe piaciuto averla accanto a sé, Müller si recò al porto, dove cenò con una bouillabaisse gradevolmente insaporita con aglio e accompagnata da un delizioso rosé della Provenza. Poi, in compagnia di Schubert, camminò per un bel po' sulla spiaggia, con il naso al vento e l'impressione di purificarsi da tre settimane di fango. Perché era diventato sbirro? Gli capitava ancora di porsi la domanda, senza per questo rimpiangere mai la sua scelta, constatando semplicemente quanti altri mestieri sarebbero stati più comodi. Quale ragione aveva spinto il giovane laureato in legge a partecipare al concorso per commissario? Indubbiamente il desiderio di non essere spettatore della vita ma attore. Di agire piuttosto che subire. Sua madre, psicologa, non era stata estranea a quella scelta. Mentre lui era studente, la donna a volte gli raccontava certi casi straordinari che doveva curare, senza naturalmente fare il nome dei suoi pazienti. La complessità del cervello umano lo lasciava incredulo e ammirato. Sua moglie rideva quando Müller le diceva che, se non fosse diventato poliziotto, avrebbe fatto di sicuro lo psicologo. Dalla madre aveva ereditato la compassione per gli esseri umani, combattuti fra tanti istinti contrari e spesso travolti senza poter resistere. Sotto la nera corazza del peggiore dei delinquenti, non poteva fare a meno di cercare l'anima, la piccola luce ancora accesa di una coscienza. Ciò non si coniugava sempre bene con il suo mestiere. Dalla madre aveva preso anche la passione per la musica. Riveiro era il peggiore dei delinquenti? Aveva ucciso freddamente due dei suoi piccoli pazienti? Aveva appoggiato la canna di una pistola sulla fronte di un innocente fattorino? Fece fatica ad addormentarsi. L'indomani, forse, ci avrebbe visto più chiaro. 46. Lo svegliarono le campane delle chiese, allegre e leggere in un cielo azzurro. Domenica! Alle dieci doveva incontrare il direttore della clinica Saint-Jean, un certo Villeclare. Come voleva la prassi, un poliziotto locale sarebbe stato presente al colloquio. Villeclare era un tipo allampanato, dai capelli grigi e dall'aspetto aristocratico quanto il suo nome. Il suo sguardo diritto piacque a Müller, anche se non vi leggeva alcun calore. A nessuno piace parlare alla polizia dei
propri collaboratori; nell'ambiente medico, poi, meno che altrove. Ma in quella situazione non aveva scelta. Boyer si era incaricato di fissare l'appuntamento, e Müller gli aveva chiesto di dire il meno possibile sulle ragioni della sua visita e di citare Besancon invece di Saint-Rémi. A Nizza erano certamente al corrente di ciò che era successo nella cittadina della Franca Contea e il commissario non voleva che il giudizio del suo interlocutore venisse influenzato da notizie eventualmente sentite. Il direttore, dopo aver invitato lui e il giovane poliziotto che lo accompagnava ad accomodarsi, si sedette dietro la scrivania. «L'ascolto, commissario». «Lei ha avuto qui, per parecchi anni, il dottor Riveiro» cominciò Müller. «Tutte le informazioni sul medico e sull'uomo ci sarebbero molto utili». Villeclare rimase in silenzio per qualche secondo, contemplandosi le lunghe mani incrociate. Poi alzò uno sguardo rassegnato verso il poliziotto. «Il dottor Riveiro era un eccellente e simpatico collaboratore. Ne eravamo completamente soddisfatti. Aggiungerò che le nostre mogli erano diventate amiche. Ci capitava di ricevere la coppia, a casa nostra». S'interruppe per qualche attimo e tirò un sospiro: «Può immaginare quanto ci abbia sconvolto entrambi ciò che è accaduto». Un segnale d'allarme si accese nella testa del poliziotto. «E che cosa gli è accaduto?» chiese Müller nel tono più distaccato possibile. «Non lo sapeva?» chiese stupito il direttore. «Pensavo fosse la ragione che la conduceva qui». «Sono venuto perché me ne parli». «Ebbene» riprese Villeclare con una sfumatura di collera nella voce, «una faccenda sordida! Una madre denunciò Riveiro, accusandolo di aver molestato sessualmente suo figlio». Il segnale di allarme si fece più luminoso. «Che età aveva il bambino?» «Era piccolo: otto anni. Il dottor Riveiro è stato messo sotto inchiesta. Il ragazzino si è affrettato a riconoscere di aver voluto... rendersi interessante. All'epoca non si parlava che di pedofilia, alla televisione e sui giornali: la cosa gli aveva suggerito l'idea. Una bella idea davvero! C'è stato un non luogo a procedere, ma i danni erano fatti». «I danni?» «La signora Riveiro ha chiesto il divorzio. Thomas ha rassegnato le di-
missioni. Gli sarebbe stato difficile continuare a esercitare qui, dopo lo scandalo. Non ho potuto fare altro che accettarle». Scese il silenzio, durante il quale Müller prese la decisione di non parlare di Saint-Rémi. A quanto pareva, Villeclare non aveva stabilito il nesso. Si poteva benissimo immaginare che avesse seguito la vicenda in modo non assiduo. I direttori degli ospedali sono molto occupati. «La sua presenza qui significa che il dottor Riveiro ha altre noie?» chiese il direttore, come se avesse seguito il pensiero di Müller. «La stupirebbe?» Davanti alla domanda, volutamente provocatoria, il direttore si inalberò. «Quell'uomo era a pezzi» constatò seccamente. «Mia moglie e io abbiamo temuto che ponesse fine ai propri giorni». Tacque un attimo. «Commissario, che cosa è successo al nostro amico?» «Nel suo stesso interesse, mi permetta di non risponderle finché la verità non sarà stata accertata». Ci fu un nuovo silenzio. Villeclare fissava il poliziotto senza accennare il minimo gesto, aspettando il seguito. Il silenzio pesa alle persone poco sicure, prive di autostima, avrebbe osservato la madre di Müller. Al poliziotto capitava di servirsene. Evidentemente, Villeclare si trovava nel suo elemento e fu lui, quindi, a dover riprendere. «Non avete mai dubitato, lei o sua moglie, dell'innocenza del vostro amico e collaboratore?» «Mai! In fede nostra». Müller non poté fare a meno di assaporare la risposta. Chi aveva il coraggio di usare ancora un'espressione simile? Come molte altre, sarebbe appartenuta presto al passato. O a una letteratura considerata desueta, pensò con rammarico. Il direttore si chinò verso di lui, e stavolta fu l'indignazione a vibrare nella sua voce. «Per amore della verità, devo riconoscere che il nostro parere non era condiviso da tutti e che anche qui alcuni ci hanno provato gusto a pensare che Riveiro fosse colpevole e a rimestare nel fango» constatò con ripugnanza. «Riguardo ai bambini, Thomas conduceva, con il mio pieno assenso, un'energica crociata contro il dolore. Si dava il caso che ciò disturbasse... certe abitudini, diciamo pure, perché alcuni si abituano alla sofferenza dei bambini, la cui voce è troppo debole per protestare efficacemente. Quindi era circolata la diceria che il medico si mostrasse troppo affettu-
oso con i suoi piccoli pazienti». Il piacere di pensare gli altri colpevoli... Müller si ricordò delle lettere piene di odio ricevute alla radio dopo l'appello di Julien sulla cappuccina. La maggior parte vigliaccamente anonime: il mio vicino che... il mio capo che... A più riprese aveva potuto constatare che coloro che attribuivano agli altri dei sentimenti vili ne erano spesso preda essi stessi: i ladri vedono ladri dappertutto. «La mia domanda la sorprenderà di sicuro» disse. «Il dottor Riveiro possedeva una scimmia?» Il direttore sgranò gli occhi. «Certo che no! Perché mai avrebbe dovuto averne una?» «I bambini vanno matti per questo genere di animale. E lui di figli ne ha due, se non sbaglio». «Un maschio e una femmina» confermò Villeclare. «Era attaccatissimo al ragazzino. Deve soffrire terribilmente nell'esserne separato». «Quanti anni ha?» «Nove. E se la mia memoria è buona, la bimba, quattro». «A questo proposito, qualcosa mi stupisce» riprese Müller. «Perché la signora Riveiro ha chiesto il divorzio? Non era convinta, come lei e sua moglie, dell'innocenza del marito?» «Non abbiamo mai capito bene» riconobbe Villeclare. «Probabilmente non ha sopportato lo scandalo. Del resto, non appena ha ottenuto il divorzio, ha lasciato la città senza lasciare un recapito, nemmeno a mia moglie. La cosa ci ha addolorato». «Capisco». Villeclare accennò ad alzarsi. Müller lo precedette, subito imitato dal giovane poliziotto. Chissà quando l'amico di Thomas Riveiro avrebbe stabilito il nesso fra la scimmia e la cappuccina di cui doveva aver parlato la stampa. Sarebbe stata la moglie, a mettergli la pulce nell'orecchio? Si sentì colpevole per non aver risposto alla perfetta lealtà dell'uomo con una totale franchezza. Gli porse la mano. «Grazie di avermi ricevuto. E per di più di domenica! La sua testimonianza mi aiuterà molto. Dovrò interrogare anche alcuni collaboratori del dottor Riveiro. Ho chiesto i loro nomi in segreteria». «Farà riaffiorare il fango» disse Villeclare in tono di riprovazione. Müller sospirò. «Purtroppo il fango fa parte del nostro mestiere. Come il sangue per lei. Certo, nel suo caso è per il meglio. Nel nostro, di solito, per il peggio».
47. Ha trascorso la maggior parte della domenica a fare i preparativi per la partenza. Per sé e il piccolo Paul, due valigie e una borsa, niente di più. L'indispensabile nella borsa. Se succede qualcosa, deve poter sparire rapidamente. Non succederà niente. Si metteranno in viaggio giovedì prima dell'alba, in direzione dell'aeroporto di Ginevra. Il piccolo Paul e Mister Chance dormiranno profondamente. Passaporti e documenti vari, tutto è in regola. Anche se in Canada e negli Stati Uniti le ricerche sono cessate, come ha potuto accertare su svariati siti di Internet, non può permettersi alcun errore. La valigia del bambino è stata chiusa in fretta. Vi ha comunque infilato alcuni giochi. Il piccolo Paul continua a reclamare quell'amico, l'ultimo, cui vorrebbe regalare i suoi tesori, e la sua insistenza lo tormenta e lo inquieta al tempo stesso. Il bambino è abbastanza intelligente da aver capito che, malgrado tutti i «papà» supplichevoli del mondo, stavolta lui non potrà esaudire il suo desiderio. C'è una trappola dietro tanta insistenza? Non ha né il tempo né la forza di accertarsene. E di lì a quattro giorni tutto questo apparterrà al passato. Finalmente! Non ne può davvero più. Sono le otto di sera. Fa una pausa degustando un bicchierino di vino passito, il cui colore dorato evoca per lui una donna in cui aveva riposto qualche speranza e che si è rivelata una grande delusione, visto che oggi se l'intende proprio con il tizio che lo perseguita. Non la rimpiangerà. Ci ha messo una pietra sopra. Che altro è stata la sua vita se non una serie di rinunce? A cominciare dalla più lacerante, quella che lo ha privato di un padre, rimasto senza volto, senza braccia, reso incapace di tenderle verso il figlio e di strapparlo alla sua notte; un padre distrutto, negato, con la complicità di Dio, da quelle che glielo avevano portato via per fargli espiare la colpa di somigliargli. La suoneria del telefono lo fa sobbalzare. Chi può essere a quell'ora? Solleva il ricevitore. «Dottor Lagarde». «Sono Thomas Riveiro. La disturbo?» La voce è impastata: l'anestesista ha bevuto. Il suo tono angosciato indica che ha oltrepassato la linea che fa precipitare dall'euforia alla solitudine. «Certo che no, non mi disturba. Che succede, dottore?»
«Sanno che sono io» sbotta Thomas. «Ne sono certo, lo sanno. Del resto, sorvegliano la casa, ho visto passare delle auto...» «Aspetti» risponde Roland con la sua voce più calma. «Mi spieghi; non capisco le sue parole: chi sa che cosa?» «La polizia... Müller... Sa che sono stato io a creare il sito». Scioccato, Roland chiude gli occhi, mentre il sangue gli sale impetuoso alle tempie. Così era lui! L'uomo a fianco del quale lavorava quasi ogni giorno. Come ha fatto a non sospettarlo? Di colpo gli sembra così chiaro: Thomas, sempre rintanato con i bambini nella sala del computer. Calmati. Ha detto «la polizia». Che cosa sanno esattamente? «Di quale sito si tratta, Thomas?» «Ma di Hacuna Matata!» risponde irritato l'anestesista. «Non mi dica che non ne ha sentito parlare!» «In effetti il nome mi dice qualcosa» risponde prudentemente Roland. «Be', Müller sostiene che era su quel sito che l'assassino adescava le sue vittime. A causa dei peli di scimmia ritrovati sui loro indumenti». La risata di Riveiro scoppia, brutale e disperata. «È strano, ma non mi dava molto affidamento quel Mowgli, con il suo Mister Chance. Solo il nome: Mister Chance... E sempre a blaterare: e la mia cappuccina di qua, e la mia cappuccina di là. Sentivo che qualcosa non andava, ma da lì a pensare che potesse trattarsi del criminale...» Il criminale, Mowgli? Le unghie gli si conficcano nelle palme. A Roland Lagarde sembra che gli aprano il petto, che gli strappino via il cuore e lo gettino sotto i riflettori. Si alza. A parte Mowgli e Mister Chance, che altro sanno? Di quanto tempo dispone ancora? «Mi dica, Thomas. Come ha fatto la polizia a scoprire ciò che mi sta raccontando?» È riuscito a parlare in tono disinvolto, ma la sua mente esplode; si sente trascinare da un turbine di morte. «È stata la piccola a spifferare tutto» risponde Riveiro. «Eppure mi aveva promesso...» «Quale piccola?» «Ma Sophie, naturalmente. Sophie Desmarest! Me l'ha fatta! Avevo finito col cedere per i suoi fottuti extraterrestri, e le piaceva molto passare prima per Hacuna Matata. Le faceva pena, quel Mowgli. Voleva persino corrispondere con lui, ma io non glielo avevo permesso». La ragazzina voleva corrispondere con lui! Nella notte che lo circonda, si è accesa una luce. Perché basta il più piccolo segno di compassione per
sconvolgerlo così? Perché tutt'a un tratto sente rinascere una speranza? All'altro capo del filo, un rumore di bottiglie urtate lo riporta alla realtà. Riveiro sta continuando a bere. Bisogna fermarlo prima che sia del tutto incapace di parlare. Deve assolutamente saperne di più. «Dove si trova, Thomas? A casa?» «Dove cazzo vuole che mi trovi?» sbraita l'anestesista. «Da un amico? Non ne ho. Blanche mi volta le spalle. La capisco del resto, adesso non si fida più. Ieri avevo deciso di dire tutto a Müller, sono andato in municipio, ma lui non c'era». «Che cosa voleva dirgli, Thomas?» Piano. Una cosa per volta. «Be', che avevo creato quel maledetto sito. E che l'ho cancellato. Come un coglione». «Lo ha cancellato?» Il sollievo è tale che il chirurgo ha quasi gridato. Attenzione! Attenzione! Cancellando il sito, Riveiro ha ritardato le ricerche che la polizia non mancherà di fare. Gli ha regalato la boccata di ossigeno di cui aveva bisogno. Prima che ritrovino la traccia del suo povero piccolo Mowgli sul disco fisso, sarà lontano. In salvo! «La strizza, capisce?» riprende l'anestesista con un'aggressività disperata. «La strizza. Senza quel sito fottuto, quei poveri bambini sarebbero ancora vivi. Che conclusioni trarranno, eh?» La risposta è semplice. La sa: colpevole. Riveiro è colpevole. Se non avesse creato Hacuna Matata, il piccolo Paul non avrebbe scoperto né Simba né Zazu. Non avrebbe saputo che entrambi vivevano nei pressi del posto in cui lui era tenuto nascosto. «Un amico, papà, uno vero». La sua richiesta non avrebbe potuto essere soddisfatta. Tutto sarebbe andato secondo i piani: non appena fossero state abbandonate le ricerche, suo figlio avrebbe rivisto la luce. «Ecco mio figlio; è appena arrivato. Me ne è stata affidata la custodia» avrebbe annunciato a tutti. «E la madre?» «Per la madre era un peso, sa...» Quante volte ha pronunciato quelle parole ad alta voce: «Per la madre era un peso». Non si porta un bimbo soltanto nel proprio ventre, lo si porta per tutta la vita. Lui lo avrebbe portato al suo posto. Chi avrebbe osato chiedere altre spiegazioni? Davanti all'handicap, la gente diventa timida. E forse un giorno, Blanche...
A prezzo di un grosso sforzo, riesce a controllare la propria collera. Riveiro lo ha privato anche di Blanche. «Mi ha detto che voleva incontrare Müller e che lui non c'era. È così, Thomas?» «Partito per il fine settimana. A Nizza, ovviamente! Sono riuscito a strapparlo di bocca a quell'imbecille di poliziotto». «Nizza? Perché Nizza?» La voce di Riveiro assume un tono imbarazzato. «Esercitavo là, prima, non glielo avevo detto?» «È possibile; non me ne ricordavo». Si sente il rumore di un bicchiere che si rompe, seguito da un grido di sconforto. «Li ha visti, tutti quei giornalisti? Li ha visti, Roland? Be', presto avranno uno scoop fantastico: Riveiro, il Riveiro di Nizza, è sulla lista dei sospetti». «Che cosa è successo a Nizza, Thomas?» chiede Roland Lagarde in tono invitante. «L'orrore» balbetta Thomas. «La vergogna, la menzogna, la calunnia. Ho perso tutto». Adesso singhiozza, nauseanti singhiozzi da vinto. «Non sopporterò che tutto ricominci» urla. «Preferisco morire». Rifletti. Rifletti. Domani, Riveiro andrà a trovare Müller e sarà sulla sua spalla che piagnucolerà. «Vuole che venga da lei?» propone il chirurgo. «Parleremo di tutta questa storia. C'è sicuramente un modo per venirne fuori. L'aiuterò». All'altro capo del filo, i lamenti sono cessati di colpo. L'uomo trattiene il respiro. «Crede? Crede che non sia troppo tardi? Parlerà a Müller?» «Perché no? Ma prima deve ascoltarmi, Thomas. Che cosa le fa pensare che la sua casa sia sorvegliata?» «Ho visto delle auto passare sulla strada. È una strada privata, ricorda? Ci è venuto, una volta». «Infatti. Ma c'è anche un'altra entrata, se ricordo bene. Quella che passa da dietro e porta alla casa dei custodi». «Non ci sono custodi. Non viene mai usata, il sentiero è pieno di erbacce». «Non importa. Non devono vedermi entrare da lei. Penserebbero a un complotto. Può venire ad aprire con discrezione la porta di quell'entrata?»
E aggiunge - è necessario, ma quanto gli costano quelle parole, dette a un assassino -: «Sono suo amico». Di nuovo, laggiù, un lamento, e poi una risposta grondante di servile riconoscenza. «Grazie. Grazie. Vado ad aprirle subito. L'aspetto». 48. Jean-Lou era Simba. Charles era Zazu. Boyer e i suoi uomini avevano lavorato bene durante il viaggio, anch'esso fruttuoso, di Müller a Nizza. Era stato il padre di Jean-Lou a regalargli l'abbonamento a Internet, un anno prima. Durante le ultime vacanze, mentre erano in barca insieme al largo della Corsica, il figlio gli aveva parlato del suo sito preferito, Hacuna Matata, e gli aveva confidato lo pseudonimo che si era scelto: Simba. Né Mowgli, né Mister Chance erano stati menzionati dal piccolo. Di questo il signor Girard era certo. Jean-Lou gli aveva chiesto di mantenere il segreto sul suo pseudonimo: Simba, figlio del Re Leone, addirittura! Temeva che si burlassero di lui, sua madre soprattutto. Dai Laurent, era stata una delle sorelle di Charles a informare gli inquirenti che anche questi frequentava Hacuna Matata e che aveva scelto Zazu come pseudonimo. Lo aveva sorpreso un giorno mentre era in Rete e lo aveva preso in giro: Zazu era l'uccello blu del Re Leone, un film che avevano visto insieme, ed era il personaggio preferito di Charles. Nemmeno a sua sorella aveva parlato di Mowgli o di una scimmia. Questo succedeva alla fine di agosto, poco prima della riapertura delle scuole. Quando Mowgli aveva fatto il suo ingresso nel newsgroup, proponendo ai suoi corrispondenti di incontrare la sua cappuccina? Quando l'assassino aveva deciso di adescare dei bambini sulla Rete? Per saperlo, sarebbe stato necessario attendere il CD-ROM ricavato dal disco fisso del sito; al più presto, mercoledì. Tornato da Nizza la notte di domenica, Francis Müller riunì i suoi uomini alle otto di lunedì mattina. Dopo averli ascoltati comunicò loro ciò che aveva scoperto sul passato del dottor Riveiro grazie al direttore della clinica Saint-Jean. Aveva anche interrogato due ex collaboratori dell'anestesista. Uno, contrariamente a Villeclare, non era persuaso della sua innocenza. La tenerezza esagerata del
medico per i bambini, in particolare per i maschietti, era di dominio pubblico alla Saint-Jean. Trascorreva molto tempo con loro nella sala giochi. «Che non era dotata di Internet» precisò Müller. «Il dottor Riveiro sapeva che lei si trovava a Nizza, capo?» chiese uno degli investigatori. «Certo che no! Perché questa domanda?» «È passato di qua sabato sera. Voleva assolutamente parlarle. Quando l'ho informato che lei sarebbe stato di ritorno solo oggi, ha fatto una strana espressione e ha detto: 'Si trova a Nizza, suppongo'». «E tu hai confermato?» «Né sì, né no. A dire il vero, ne sembrava convinto. Ho proposto di riceverlo, ma ha detto che preferiva aspettare lei ed è filato via». «Non si è mosso di casa per tutta la giornata di domenica» soggiunse Boyer. «Abbiamo controllato». Il telefono squillò e Müller sollevò il ricevitore. Era Laurent Chauvin, il direttore della clinica dei Quatre Lacs. «Sono preoccupato, commissario». Il dottor Riveiro, che aveva un intervento alle otto e mezzo, non era ancora arrivato, spiegò Chauvin. Un'ora di ritardo era molto per un uomo di solito così puntuale. Aveva cercato di contattarlo a casa, senza risultato. Sul suo cellulare era inserita la segreteria. «Dopo la nostra conversazione di venerdì, ho ritenuto opportuno avvertirla». «Ha fatto bene, grazie. La terrò al corrente». Müller riattaccò. Rimase in silenzio per alcuni secondi pulendosi le lenti degli occhiali sotto lo sguardo di tutti i suoi uomini, poi si rivolse al suo assistente. «Mi hai detto che ieri Riveiro non si era mosso di casa, vero?» «Affermativo! Non è uscito nemmeno stanotte, e la sua auto si trovava sempre in cortile alle sei di stamattina. La si può vedere dal cancello del parco». «Il dottor Riveiro aveva un intervento alle otto e mezzo. Non è ancora arrivato» disse Müller. «E per di più non risponde al telefono». Un silenzio preoccupato calò nella sala dei matrimoni, quella in cui avevano luogo le riunioni numerose, attorno a un tavolo aggiunto per l'occasione. Ci si sposa poco, in ottobre. Müller prese il telefono. «Chiamo il giudice istruttore. Andiamo a vedere che cosa succede laggiù. Boyer e tre uomini, con me».
In una delle sue poesie, Rimbaud ha attribuito dei colori alle vocali; si potrebbe fare lo stesso con i giorni della settimana, pensò Müller scendendo i gradini del municipio che un dipendente spazzava con un rumore di saggina che lo riportò all'infanzia. Per lui, il colore del lunedì era il grigio. Ma dopo un sabato e una domenica che, secondo i suoi inquirenti, avevano scintillato dei colon della collera e della rivolta, si sentivano sotto quel grigio delle braci rossastre che chiedevano solo un po' di vento perché il fuoco si riprendesse. «Mi tenga al corrente» aveva insistito il giudice. «La cosa mi piace poco». Anche a lui. Stava arrivando alla sua auto quando vide Julien Manceau uscire dal bistrot di Myriam e affrettare il passo nella sua direzione. Lo aspettò. «Salga» ordinò. «Capita a proposito. Andiamo a fare una visitina a Riveiro. Nel caso, sarà nostro testimone, e strada facendo le racconterò il mio week-end a Nizza. Ci sono cose che dovrebbero interessarla». La casa affittata dal medico si trovava a una decina di chilometri dalla cittadina, sulla strada di Champagnole. Per arrivarci bisognava aggiungere un mezzo chilometro abbondante su una strada privata in cattivo stato. Le auto si fermarono davanti al cancello. In effetti, in fondo a un viale di tigli, si poteva scorgere la macchina di Thomas parcheggiata in cortile. Il cancello non era chiuso a chiave. Due uomini lo aprirono e uno di loro rimase sul posto mentre i veicoli imboccavano a velocità moderata il viale che portava alla casa. Il parco, grandioso, era mal tenuto quanto la strada che avevano appena percorso. Faggi e abeti lottavano per conquistare la luce intrecciando i rami su un tappeto di foglie morte, adagiate come spoglie di combattenti. Fino a quel momento, Müller e Julien non avevano smesso di parlare. Adesso, tacevano entrambi. Una luce era accesa sopra la porta della casa. Scesero dalle auto. «Tu vieni con noi» ordinò Müller a Boyer. «Voialtri sorvegliate le uscite». Salirono i pochi gradini della scala esterna e Müller premette il campanello che risuonò, sinistro, all'interno dell'abitazione. Anche i suoni hanno i loro colori, che variano a seconda delle circostanze. Non ottenendo risposta, l'assistente girò la maniglia e la porta si aprì. Si trovavano in un ingresso pavimentato di mattonelle bianche e nere. C'era odore di alcool e di polvere.
«Dottor Riveiro? Dottor Riveiro! È in casa?» gridò Müller. Gli rispose solo il silenzio. «Andiamo» decise il commissario. Con la mano posata sul revolver, precedette i due uomini in salotto. L'anestesista era accasciato sul divano, il capo riverso sui cuscini inondati di rosso. La pistola con cui si era sparato in bocca si trovava accanto alla mano destra. Parecchie bottiglie di birra e una di whisky, vuote, erano sparpagliate dappertutto. C'erano dei cocci di vetro. Senza toccarla, Müller si chinò sull'arma. «Può darsi che sia la stessa che ha ucciso Victor Grosjean» ipotizzò. Quando Julien aveva consigliato a Blanche di diffidare di Thomas Riveiro, lei si era messa a ridere. Thomas sospettato? Ma andiamo, era incapace di fare del male a una mosca! Un vero orso, sì, ne conveniva. Per stuzzicarlo, non gli aveva chiesto parecchie volte di invitarla a casa sua? Si era sempre tirato indietro: «Non è venuto mai nessuno». «Allora, perché aver scelto una casa così grande?» aveva chiesto lei, stupita. La risposta: «Sono abituato allo spazio». Quel lunedì mattina, quella casa, quello spazio traboccavano di invitati a sorpresa: gli uomini della polizia giudiziaria, quelli della balistica, dell'ambulanza, i tecnici che prendevano misure, scattavano foto, rilevavano impronte. Si aspettava il giudice istruttore. Il procuratore era stato avvertito. C'era gente anche nel parco dove ora Julien stava camminando, ancora sotto l'effetto della nausea che lo aveva colto alla vista del viso devastato dell'anestesista. Blanche non avrebbe più riso di lui. La pistola era della stessa marca di quella che era servita a uccidere il fattorino. Avevano ritrovato una fiala di cloruro di potassio nell'armadietto dei medicinali, in camera sua, un computer con il relativo mouse, e sulla sua giacca dei peli identici a quelli scoperti sugli indumenti dei bambini. «Mowgli non farà più del male a nessuno» aveva dichiarato Müller. Un raggio di sole attraversò timidamente la bruma, illuminando gli! alberi del parco, e all'improvviso Julien si ricordò. Circa otto giorni prima, una domenica, sulla strada della cascata dell'Eventail, durante la battuta organizzata per ritrovare il piccolo Charles. Un uomo, che camminava al suo fianco, gli aveva parlato di quel parco e di quella casa, un bancario in pensione che aveva desiderato acquistarla. Lo stesso che aveva ritrovato il corpo del piccolo Jean-Lou sotto il faggio. Ma come si chiamava?
Rondeau! Sì, Pierre Rondeau. L'uomo era simpatico e si dichiarava poeta. Anche lui aveva parlato di spazio. Perché quel ricordo all'improvviso gli sembrava così importante? Scavò nella propria memoria. Sì. C'era anche qualcos'altro. Davanti a loro, camminavano Riveiro e Lagarde. «Un medico occupa la mia casa» aveva detto Pierre Rondeau con rammarico, indicando l'anestesista. Una vertigine colse Julien. In quella casa che Rondeau chiamava sua, probabilmente Jean-Lou e Charles erano stati assassinati. La morte vagava attorno al poeta. «Mowgli non farà più del male a nessuno». Stava passeggiando nel parco del lupo? Mentre tornava verso la casa, non scoprì un sassolino bianco di Pollicino ma, lampo verde in un cespuglio... gli occhiali di Charles Laurent. 49. Il procuratore, il giudice istruttore, il sindaco e Francis Müller comparvero in cima ai gradini del municipio. Erano le diciotto. Dall'inizio del caso, mai la folla era stata così numerosa sulla piazza. Nel corso di quel lunedì pomeriggio era circolata la voce che l'assassino dei bambini era stato ritrovato e che si trattava del dottor Riveiro, anestesista a Saint-Rémi e a Champagnole. Si parlava di suicidio. Dato che era stata annunciata una dichiarazione del procuratore, la gente era venuta da ogni dove per ascoltarla. I media non erano stati da meno. La storia dei peli di scimmia, la storia della trappola tesa via Internet erano una manna dal cielo per la stampa come per il pubblico. «Parlano di noi persino in Svizzera» aveva raccontato con fierezza Charlotte a Sophie. «Mamma ha una sorella a Ginevra che le telefona tutti i giorni per sapere». Sophie guardò gli uomini che scendevano lentamente, quasi cerimoniosamente i gradini, fermandosi sull'ultimo. Qualcuno passò il microfono al procuratore. La bambina aveva sempre immaginato un procuratore della Repubblica come una sorta di nonno in abito scuro. Be', non era affatto così. Quello era un procuratore piuttosto giovane, che non portava un completo, ma la cravatta sì, e pure delle scarpe di cuoio. L'uomo lasciò vagare lo sguardo sulla folla, poi avvicinò il microfono alle labbra come se volesse baciarlo, come i cantanti alla televisione, mentre una selva di altri microfoni si tendevano verso di lui.
«Questa mattina è stato rinvenuto nel suo domicilio il corpo senza vita del dottor Riveiro» annunciò. «Con ogni probabilità si tratta di suicidio. In base a un notevole insieme di prove scoperte a casa sua, la polizia ritiene che l'assassino dei due bambini di Saint-Rémi e quello del signor Grosjean a Champagnole non infierirà più». Un pesante silenzio fatto di grida, d'incredulità, di attesa scese sulla piazza. Sophie alzò gli occhi pieni di lacrime al cielo che si infoschiva. «Tra il lusco e il brusco» recitò a se stessa per trattenere i singhiozzi. «Né carne né pesce, per amore e per forza...» Avevano studiato quelle espressioni durante l'ora di francese, ed ecco che ne viveva una: «tra il riso e il pianto». Riso, perché sostenere che Thomas fosse l'assassino era ridicolo. Pianto, perché era proprio morto. Si rannicchiò un po' di più contro il platano accanto al quale si era rifugiata. Non aveva voglia di stare a sentire ciò che il procuratore diceva, ma non poteva fare a meno di ascoltare, era più forte di lei. «L'arma con la quale il dottor Riveiro ha posto fine ai propri giorni la notte scorsa è, con ogni probabilità, la stessa che è servita per commettere l'omicidio del signor Grosjean. Il morto deteneva in casa sua una fiala del prodotto che ha ucciso i due bambini. Nel suo parco sono stati scoperti anche gli occhiali di Charles Laurent. Tutto ciò consente dunque di pensare che il medico fosse proprio l'uomo che stavamo ricercando». Non è vero! gridò Sophie dentro di sé. Non è vero! Le lacrime le inondarono il viso. Cercò sua madre con gli occhi e la trovò non lontano dal bistrot, fra Myriam e Julien. Quando, al ritorno da scuola nel pomeriggio, le si erano precipitati incontro, aveva capito che era successa un'altra cosa orribile: un altro bambino rapito? «Dobbiamo parlarti, tesoro». Era salita senza rispondere in camera sua. L'avevano seguita e avevano voluto farle credere che fosse stato Thomas a uccidere tutti. «Si è suicidato» aveva concluso Julien in tono prudente. «È colpa mia» aveva gridato lei. Se non avesse tradito il loro segreto. Se non fosse andata a raccontare a Müller che Thomas l'accompagnava nella stanza magica dove aveva saputo della scimmia, non lo avrebbero mai sospettato, non si sarebbe mai suicidato, Thomas che era così gentile, anche se talvolta la strapazzava; come il mercoledì precedente, quando lei gli aveva chiesto di farla navigare benché Charles fosse stato sepolto quel mattino. «Credi che non abbia voglia di piangere anch'io?» aveva detto lui.
Poi Julien le aveva preso le mani come faceva con sua madre, ma lei non gliele aveva lasciate. «Non dirlo, Sophie. Anzi, è grazie a te che altri bambini non moriranno». Si asciugò gli occhi con l'orlo della T-shirt. Aveva dimenticato il fazzoletto. Lo dimenticava sempre. Adesso era il commissario Müller a parlare, e Sophie detestava anche lui. Stava rispondendo alle domande dei giornalisti, che parlavano tutti insieme come alla televisione. Erano alla televisione. «Commissario Müller, la scimmia, la cappuccina, è stata ritrovata?» «Non ancora. Stiamo perlustrando il parco. Se necessario, estenderemo le ricerche al bosco vicino». «È esatto che l'assassino si nascondeva sotto il nome di Mowgli per adescare le sue prede sul sito?» gridò una donna protendendo il suo microfono. «È probabile. Ne sapremo di più quando avremo ricevuto copia del disco fisso del sito». Thomas: Mowgli? Stavolta, per Sophie, il riso ebbe la meglio sulle lacrime. Un riso nervoso che le provocò quasi un conato di vomito. Era veramente troppo! Che cazzata! Che cazzata! si ripeté con aria di sfida. Lo sapeva bene, lei, che Mowgli era un bambino che corrispondeva con dei coetanei e non la smetteva di brontolare, perché loro rifiutavano di credere che la sua scimmia esistesse veramente. Aveva letto i messaggi. «Se esiste, perché non ci fai vedere una foto?» «Sono rimaste tutte in Canada». «Ma dai! O le hai dimenticate sulla luna...» Poi non gli rispondevano più. Il procuratore riprese il microfono. «Adesso il commissario Müller e i suoi uomini, che ringraziamo per il loro eccellente lavoro, devono verificare ancora qualche questione marginale, ma possiamo dire fin d'ora, senza dimenticare il dolore delle famiglie, che il caso è chiuso. Grazie!» La folla gridò e applaudì. Sophie ebbe voglia di nascondersi. Che vergogna! Era come se applaudissero la morte di Thomas, come se lapidassero il suo cadavere. Di nuovo cercò sua madre con gli occhi e si sentì sollevata nel constatare che non si mescolava agli applausi. Ci sarebbe mancato altro! Alla mamma Thomas piaceva. Ma adesso, per lei, contava solo Julien.
50. Era da un po' che il commissario Müller e gli altri erano spariti nel municipio. Adesso i giornalisti intervistavano la gente. Sophie individuò quelli della televisione. E se andassi a dire loro che non sono d'accordo? pensò all'improvviso. Se gli dicessi che ho letto i messaggi di Mowgli, non tutti, certo, ma in numero sufficiente da essere sicurissima che Thomas non avrebbe mai potuto parlare come Mowgli? Anche se non le avessero creduto, almeno lo avrebbe difeso. Si staccò dal platano cui aveva strappato dei pezzi di corteccia e camminò risoluta verso i giornalisti. Li aveva quasi raggiunti quando una mano le si posò sulla spalla. Sobbalzò prima di riconoscere Roland. Preferiva Roland a Julien. Era meno appiccicoso. Vedendolo, si rimise a piangere. Roland lavorava con Thomas, lo vedeva quasi tutti i giorni; doveva sapere che non era stato lui a uccidere Jean-Lou e Charles. Il chirurgo le prese il mento per obbligarla a guardarlo. «Che succede, Sophie?» «Dicono che è stato Thomas» singhiozzò la bambina, «ma io so che non è lui». «Che cosa te lo fa pensare?» «Thomas amava davvero i bambini, tutti i bambini. Amava Jean-Lou e Charles». Si ricordò della carezza delle sue dita sulla guancia, del suo sguardo talvolta così triste quando pensava ai figli che gli mancavano tanto, e riprese a piangere più forte. Roland estrasse di tasca un fazzoletto e glielo porse. Un grande fazzoletto bianco con le sue iniziali in blu: R.L., intrecciate con eleganza in un angolo. Suo padre aveva dei fazzoletti simili, le sue iniziali erano: M.B. Si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. «Vedi, Sophie» osservò Roland quasi bisbigliando, «si può amare qualcuno ed essere indotti a fare cose che non si vorrebbero». «Non capisco quello che dice» rispose la ragazzina. «Come? Mi dai del lei, adesso?» Il chirurgo aveva assunto un tono talmente indignato che Sophie non poté fare a meno di ridere: una vera risata, che le fece molto bene. «Non capisco quello che dici» si corresse. «Be', cercherò di spiegarti. Tua madre, per esempio: suppongo sia la persona che ami di più al mondo, no?»
Era verissimo, ma Sophie non aveva voglia di dirlo, perché nello stesso tempo la detestava per la sua convinzione che Thomas fosse colpevole. Si limitò a piegare il capo. «Allora, immagina che tua madre sia in pericolo» riprese Roland. «Per salvarla, dovrai sacrificare qualcuno che ami ugualmente, ma meno...» «Impossibile» dichiarò Sophie. «Io salvo tutti e chiamo la polizia». «Può succedere che non si abbia scelta» mormorò Roland. Parlava di nuovo in tono sommesso, e Sophie capì che era triste anche lui. «E poi Thomas non aveva nessuno da salvare» riprese la ragazzina. «Era solo, poverino. E soprattutto non poteva essere Mowgli, questo è decisamente impossibile». Con il mento indicò i giornalisti della televisione. «E adesso glielo vado a dire. A scuola ci insegnano che bisogna avere il coraggio delle proprie opinioni». «Pensi che ti crederanno?» le chiese Roland. «Io sono pronto ad ascoltarti, Sophie». Lei fece un sospirone. Certo, sapeva che non le avrebbero dato retta. Nessuno le credeva. Alzò gli occhi umidi al cielo. Ormai era quasi notte. «Perché ritieni impossibile che Thomas e Mowgli fossero la stessa persona?» insistette Roland chinandosi verso di lei. «Ho letto quello che scriveva Mowgli. Era un bambino che voleva dei compagni e che era triste perché non gli rispondevano, punto e basta». «Punto e basta» ripeté Roland. «Punto e basta». Ecco che adesso le sorrideva come se avesse detto qualcosa di straordinario e, per alcuni attimi, Sophie ebbe l'impressione che l'avrebbe abbracciata per ringraziarla. Ma fece di meglio, accostando la bocca al suo orecchio per sussurrarle: «Sai, io penso che tu abbia ragione». Era il primo a crederle! Il petto di Sophie si liberò. Vittoriosa, si voltò verso sua madre, che si trovava sempre fra Myriam e Julien. Stavano tornando al bistrot. Julien aveva messo una mano sulla spalla di Blanche. Di nuovo, si sentì invadere da un senso di ribellione. Loro rifiutavano di ascoltarla. Non sarebbe mai riuscita a convincerli. «Tua madre sa che sei qui?» le chiese Roland seguendo con lo sguardo il gruppetto. «No» rispose Sophie con astio. «Crede che sia in camera mia. Non volevo andare con loro». «Allora torna a casa in fretta, altrimenti si allarmerà».
Sophie si alzò in punta di piedi, stampò un bacio sulla guancia del chirurgo e filò via. Roland Lagarde segue la ragazzina con gli occhi. Non ha notato che si è tenuta il fazzoletto; l'emozione, la gratitudine lo sopraffanno. «Era un bambino triste perché non gli rispondevano». «Sophie voleva corrispondere con lui» aveva detto Riveiro. All'improvviso, ha la sensazione terribile di aver sbagliato tutto. «Un amico, papà, uno vero». Come ha fatto a non pensarci prima che fosse troppo tardi? Un'amica. 51. «Per la miseria! Come rompiscatole lei è davvero irriducibile!» esclamò Müller, esasperato, rivolto a Julien. Non erano ancora le otto e mezzo quando il giornalista aveva fatto irruzione nell'ufficio in cui il commissario cominciava a riordinare, non senza sollievo, i suoi incartamenti. Julien aveva l'espressione del ragazzino testardo che dice «no, non ho capito» mentre tutta la classe dice «sì». Benché avesse avuto sotto gli occhi le prove della colpevolezza di Riveiro non era stato lui a ritrovare gli occhiali di Charles? - non riusciva a convincersi di quella colpevolezza. Una sorta di intima convinzione che, naturalmente, non era in grado di dimostrare. Malessere, disagio erano i suoi unici argomenti. Rassegnato, Müller ripeté ancora una volta la lista. «La pistola, il cloruro di potassio, i peli di scimmia, gli occhiali, che cosa le occorre ancora? Una lettera di confessione? La confessione, Riveiro l'ha resa con il suo gesto, con il suo congedo definitivo». «D'accordo, d'accordo, ci sono tutte queste prove» ammise Julien smettendo per un attimo di girare per la stanza. «Direi anzi troppe, del resto! Come se fosse una messa in scena». «Sta per caso suggerendo che qualcuno le abbia piazzate in casa sua?» lo schernì Müller. «Le ricordo che nell'abitazione sono state ritrovate solo le impronte del nostro... colpevole». «E questo non le sembra sorprendente? Anche se non riceveva visite, qualcuno doveva pur andare da lui qualche volta. Non fosse altro che per fare le pulizie».
Il giornalista riprese a girare per la stanza. Continuò: «Ma non è questo che mi turba di più. Ciò che mi sconcerta davvero è che Riveiro non corrisponde assolutamente all'idea che ci eravamo fatti dell'assassino: un mostro freddo, organizzato, professionale...» «Non dimentichi la cosa principale: un matto» lo interruppe Müller. «E da parte di un matto ci si può aspettare di tutto». «Persino un matto ha le proprie ragioni, un movente per agire» ribatté Julien. «Quale movente aveva Thomas? Io non ne vedo. Rapisce quei bambini, non se ne fa niente, mi scusi l'espressione, li tiene sequestrati per qualche ora e dopo li ammazza. Senza farli soffrire. Eccoci di nuovo al punto di partenza: perché?» «Villeclare ci ha dato la risposta a Nizza: la privazione di suo figlio. Sembra che lo adorasse. Fra parentesi, un figlio della stessa età delle vittime. Quando ne è stato separato, la macchina si è dovuta guastare completamente. Una macchina che probabilmente non funzionava bene già prima, indipendentemente dal non luogo a procedere. Aggiunga la moglie, che se ne va senza lasciare nemmeno un recapito...» «Da questo ad assassinare dei bambini...» «Il panico, caro mio, il panico. Allora... Ne sente terribilmente la mancanza, e allora per raptus, per pulsione, lo chiami come vuole, Thomas rapisce un bambino. Rapire è del resto una parola grossa, poiché il bambino lo segue senza problemi. Ma ecco che chiede di tornare a casa, e allora Riveiro si 'sveglia'. Si accorge del proprio errore spaventoso. Se libera il piccolo, questi lo denuncerà, e lui rivivrà centuplicato l'inferno che ha vissuto a Nizza, e stavolta non sfuggirà al castigo. Quanto al suo 'senza farli soffrire', tenga presente che dovunque Riveiro è passato si è fatto notare per la sua lotta contro il dolore dei bambini: un'iniezione durante il sonno, ed è finita». «E ci ricasca...» «Nuovo raptus. Invece di killer seriale chiamiamolo killer disperalo». Julien tornò verso la scrivania e vi posò i pugni. «E la scimmia cosa c'entra in tutto questo? Quadra anche lei con la sua teoria?» «La scimmia non collima, è vero» riconobbe Müller con una smorfia. «Un po' troppo esotica per i miei gusti. Sarò contento quando l'avranno ritrovata, viva o morta. A Nizza Villeclare si è quasi messo a ridere, quando gli ho chiesto se il suo anestesista ne possedesse una. Ma sicuramente ha
un nesso con il sito. Si può supporre che se la sia procurata prima o dopo aver creato Hacuna Matata, allo scopo di distrarre i bambini. Su Internet si può acquistare praticamente di tutto». «Con l'acquisto di una scimmia, il raptus, la pulsione non funzionano più. Diventa premeditazione, come la creazione del sito, del resto. Che bisogno aveva di tutto ciò, visto che conosceva i bambini e che loro si fidavano di lui?» «La follia, non dimentichi. La follia. Mister Chance! Il nome calza a pennello. Aspettiamo di vedere la registrazione del newsgroup. Ci svelerà molto, di sicuro». «Hanno trovato pochissimi peli nella casa» si intestardì Julien. «Nulla dice che tenesse l'animale in casa. Può averlo liquidato subito dopo la sua trasmissione. È quello che avrei fatto io al suo posto. In tal caso, ha avuto tutto il tempo per passare l'aspirapolvere». «Perché eliminare la scimmia, se aveva intenzione di suicidarsi?» «In quel momento probabilmente non ci pensava ancora. È stato sabato, quando ha capito che ero andato a Nizza, che non ha più visto una via d'uscita. Il suo passato stava per essere scoperto. Non aveva più la possibilità di cavarsela». «Allora perché... non ha tagliato la corda?» «Non sarebbe andato molto lontano. La casa era sorvegliata. A ogni modo, la sua vita era rovinata per sempre». Müller si alzò. Ne aveva veramente abbastanza di quel giornalista, anche se doveva riconoscere che gli aveva dato un bell'aiuto. Gli concedo ancora cinque minuti, non di più, si ripromise. «Riveiro trascorre tutta la domenica in casa a rimuginare la situazione» riprese. «Beve più del necessario. L'arma è a portata di mano, quella con cui ha ucciso il povero Grosjean...» «A proposito, ha avuto i risultati della balistica?» lo interruppe Julien. «Avremo il rapporto finale domani. Un po' di pazienza...» Un colpo sparato in bocca dal basso verso l'alto avrebbe confermato il suicidio. Se la traiettoria del proiettile era orizzontale, la cosa sarebbe stata meno probante. Müller non dubitava della risposta. «Mi terrà informato?» «Ovvio» rispose il commissario. Fece un sospiro irritato: «Se capisco bene, lei sospetta che qualcuno abbia... suicidato Riveiro?» «Senza arrivare a tanto, penso che possa essersi suicidato, e non essere per questo il colpevole».
«Abbiamo avuto molta paura che ponesse fine ai propri giorni» aveva detto Villeclare. Un senso di malessere si impossessò di Müller, che voltò le spalle al giornalista e andò ad aprire una finestra. Non si sarebbe lasciato influenzare dai suoi cavilli. Certo, Riveiro aveva più il profilo di una vittima che di un assassino, ma quante volte aveva visto persone impietrite dallo stupore nell'apprendere che il loro vicino di casa era il criminale ricercato: «Un uomo così per bene... Non avremmo mai pensato...» Inspirò profondamente. L'aria era pungente: pini, nebbia. Il tipico clima ottobrino, ormai. Lasciò vagare lo sguardo sulla piazza, che aveva ritrovato la sua calma. Le porte di Chez Myriam erano chiuse, si, cominciava ad accendere il riscaldamento. Ebbe l'impressione che non avrebbe mai dimenticato quella cittadina, anche se vi aveva trascorso solo quattro settimane. «Un caso condotto speditamente» si era complimentato con lui il procuratore. In quel genere di storia, se non si procedeva spediti si poteva andare avanti all'infinito. Come nel caso di Nina, avrebbe detto Julien. All'improvviso ebbe fretta di tornare a casa. Marie-Jeanne aveva telefonato quella mattina prima di accompagnare i figli a scuola. Tutt'e tre avevano seguito la conferenza stampa del giorno prima, alla televisione. I ragazzi chiedevano il ritorno dell'eroe. A scuola i loro compagni, a quanto pareva, parlavano soltanto del caso di Saint-Rémi. Cinque, sette anni, l'età in cui potevano ancora vantarsi di avere un papà poliziotto. Di lì a qualche anno, essere figli di uno sbirro li avrebbe messi in imbarazzo? Müller pensò a tutti quei poveri ragazzi che evitavano di andare in giro in uniforme, mentre avrebbero avuto ogni motivo di esserne fieri. Tornò alla scrivania. «Oso sperare che lei non abbia espresso i suoi dubbi alla signora Desmarest e a sua figlia». «Stia tranquillo, me ne guarderò bene. Blanche ha già fatto abbastanza fatica ad accettare che il suo amico potesse essere l'assassino. Quanto alla piccola, non ha che un ritornello in bocca: Thomas non era Mowgli». «A proposito, non le ho detto che ieri ho parlato con la sorella di Charles. Si è ricordata di un particolare. Il fratellino, dopo che lei ne aveva scoperto lo pseudonimo, le avrebbe detto: 'Adesso, per Zazu, siete in due a essere a conoscenza del segreto, il dottore e tu'». «Quale dottore?» Müller alzò gli occhi al cielo. «Quello che ha creato il sito, quello che lo ha cancellato quando si è sen-
tito minacciato, quello che accompagnava i bambini nella sala del computer e, molto probabilmente, riceveva le loro confidenze» disse spazientito. «L'anestesista delle due piccole vittime; vede qualcun altro, lei?» Si sentì bussare e Boyer entrò. «Mi scusi, capo, ma è arrivato il sindaco. Chiede di vederla». «Digli che non si disturbi, lo raggiungo io subito». Dopo aver lanciato uno sguardo poco gentile a Julien, l'assistente uscì. «Bene» concluse Müller. «Ci dobbiamo lasciare. Penso che presto tornerà a Besancon. Mi dispiace di non averla convinta». «Riconosca solo una cosa» osservò Julien in tono sgradevole. «Le fa molto comodo che Riveiro sia il colpevole». «Non capisco cosa intende dire. Ciò che mi fa comodo è che l'assassino non sia più in grado di nuocere, che si chiamasse Riveiro o in un altro modo». «Ma immagini che Thomas sia innocente; il suo suicidio le porrebbe un serio problema di coscienza, no? Non lo ha un po' esasperato con le sue indagini?» Furono le parole di Julien a esasperare Müller. Che cosa cercava quel rompiscatole con i suoi problemi di coscienza? Di insinuare il rimorso nella sua? Lui che, più di vent'anni dopo la scomparsa della sorellina, si rimproverava ancora di averla lasciata andare da sola al supermercato, si sforzava di instillare il proprio malessere ovunque. Non c'è inchiesta senza danni. E anche se Riveiro non fosse stato l'assassino - ma lo era, perbacco aveva fatto solo il suo lavoro, interrogandolo e recandosi a Nizza per scavare nel suo passato. Senza contare che poteva dire di averlo trattato con i guanti. Aprì la porta e spinse fuori Julien senza tanti riguardi. «Fuori dai piedi» gridò. «E non ritorni più. Le piaccia o no, il caso è chiuso». 52. Fermo sulla soglia del caffè, l'uomo girava la testa da ogni parte, alla ricerca di qualcuno. Dove l'aveva già visto Julien? Sulla sessantina buona, un volto affabile sotto i capelli bianchi, occhiali dalla montatura pesante, ricercatezza nel vestire: giacca tirolese e piuma sul cappello. E sentendo riaffiorare il ricordo, il giornalista provò un senso di umiltà
davanti agli strani scherzi che gioca la vita. Il giorno prima, soltanto il giorno prima, camminando nel parco di Riveiro, gli era tornato in mente quell'uomo a cui, dal loro unico incontro, non aveva pensato una sola volta. Ed ecco che, attratto dalle misteriose correnti del pensiero, costui gli compariva davanti quel pomeriggio, venuto per lui, non ne dubitava minimamente. «Che cos'hai?» chiese Blanche, seduta al suo fianco. «Lo conosci?» Julien annui e alzò la mano nella direzione di Pierre Rondeau, il bancario in pensione che aveva ritrovato il corpo di Jean-Lou e messo gli occhi sulla casa del suo assassino. Vedendolo, l'uomo si illuminò in volto, venne diritto al suo tavolo e si tolse il cappello. «Signor Manceau, la stavo cercando! Al suo albergo mi hanno detto che avevo qualche probabilità di trovarla qui. Ma forse non si ricorda di me?» «Certo che sì!» rispose Julien con una strizzatina d'occhio mentale rivolta al destino. Si voltò verso Blanche. «Ti presento il signor Rondeau. Abbiamo fatto conoscenza in tristi circostanze: durante la battuta di ricerca per Charles». «Con la speranza di non trovare nulla» ricordò il bancario chinandosi a baciare la mano della giovane donna. «Prende qualcosa con noi?» propose Blanche. «Se non disturbo». Si accomodò di fronte alla coppia. Julien fece un cenno a Myriam. Le sedici e trenta, un'ora calma prima della ressa dell'aperitivo. Rondeau rivolse un sorriso caloroso al giornalista. «Sono venuto a ringraziarla» spiegò l'uomo. «Sapere che l'assassino non è più in grado di nuocere è per tutti un immenso sollievo». «Ma non è me che bisogna ringraziare» protestò Julien, stupito. «Sss... Mia moglie e io abbiamo seguito tutte le sue trasmissioni, e sappiamo quale ruolo abbia avuto il suo appello a proposito della scimmia nella scoperta della verità». Julien represse un sospiro pensando a Victor Grosjean. Il fattorino aveva pagato quella verità con la vita. Indicò Blanche. «Anche la signora Desmarest ha contribuito a chiarire il caso: insegnava disegno alle vittime». «Avrei voluto essere più efficiente» osservò Blanche in tono triste. Continuava a rimproverarsi di non aver capito prima il ruolo nefasto sostenuto da Mister Chance, di non aver saputo leggere un avvertimento che aveva avuto sotto gli occhi nei disegni dei bambini. Il disagio che diceva allora di provare, la sensazione che qualcosa non andasse, non erano forse
paragonabili a ciò che provava Julien dopo il suicidio di Thomas? Un disagio che il giornalista aveva cercato invano di far condividere a Müller quel mattino. Si era ben guardato dal parlare a Blanche del suo tempestoso colloquio con il poliziotto. Lei stava proprio cominciando a convincersi che Thomas potesse essere il colpevole. Perché insinuare di nuovo il dubbio nella sua mente? Myriam venne a prendere l'ordinazione. Guardò Rondeau corrugando la fronte. «Non ci siamo già visti da qualche parte?» chiese con la sua abituale franchezza. «Proprio qui» le rispose Rondeau con un largo sorriso. «Quando cercavo una casa nei dintorni, mi è capitato parecchie volte di venire a bere qualcosa nel suo simpatico locale». «Ci sono!» esclamò Myriam. «L'agenzia svizzera: una biondona con quello strano accento. E ha trovato?» «Non a Saint-Rémi, purtroppo, altrimenti mi vedrebbe qui più spesso» rispose rammaricato l'ex bancario. «Mia moglie e io abbiamo finito col comperare a Champagnole». Ordinò un'acqua minerale. Julien e Blanche presero un altro caffè. Myriam si allontanò. «Ieri mi trovavo nel parco della casa del dottor Riveiro» raccontò Julien a Rondeau. «Mi sono ricordato che aveva cercato di comprarla. Mi sbaglio?» «Non si sbaglia. Quel parco ci piaceva più ancora della casa» rispose Rondeau. «Che colpo, quando abbiamo appreso che era, in certo qual modo, la casa del delitto. Mia moglie mi ha ricordato che la trovava sinistra. Le donne hanno un istinto notevole, particolare...» «Se la casa l'avesse acquistata lei, la tragedia non sarebbe successa lì» intervenne Blanche. «Le case hanno il loro destino, come noialtri» ribatté il bancario. «Chissà che questa storia spaventosa non fosse già scritta nelle sue pareti? Probabilmente conosce la frase di Cocteau: 'Il poeta ricalca l'avvenire'». «Il poeta ricalca l'avvenire» ripeté Blanche, ammirata. «È magnifica». ... e non c'è alcun dubbio che poeta e disegnatrice abbiano delle affinità elettive, pensò Julien, divertito. «Avevo un'altra cosa da dirle» riprese Pierre Rondeau voltandosi verso di lui. «Ho finito col ricordare dove avevo visto l'altro medico, quello che
camminava davanti a noi sulla strada della cascata in compagnia dell'assassino. Ero certo di averlo già incontrato da qualche parte». «Intende parlare di Roland Lagarde, il chirurgo?» chiese Julien. «Esatto». Rondeau sospirò: «Eppure Dio sa se quell'incontro mi aveva colpito! Quel giorno, ero andato a deporre qualche fiore sotto il faggio dove avevo scoperto il piccolo Jean-Lou. Be', c'era anche lui con un mazzo di fiori». Nel cervello di Julien si accese una luce. «Roland? Dei fiori per Jean-Lou?» «Non mi meraviglia» intervenne Blanche. «Nasconde i propri sentimenti, ma è molto sensibile». Un lampo di gelosia baleno nella mente di Julien. «Direi anche che non era sembrato troppo contento di vedermi» riprese Pierre Rondeau. «Mi sarebbe piaciuto scambiare quattro parole con lui, ma se ne andò via subito. Mi è tornato in mente solo quando l'ho incrociato l'altro giorno a Ginevra». «Ginevra?» «Alla mia stessa agenzia immobiliare. Io c'ero andato per un amico. Mi hanno raccontato che il dottor Lagarde aveva preso in affitto una casa chiamata 'casa del fotografo'. Il fatto curioso, vede, è che avevo visitato anche quella. Solo che, quella volta, era a me che non piaceva. Aveva qualcosa di... cupo. Per di più, nella proprietà c'era una colombaia, una colombaia in attività. La mattina, doveva esserci un baccano infernale». Sorrise con un'espressione di scusa: «Non mi piace per niente la musica di quegli uccelli». «Una colombaia...» ripeté Blanche, colpita. «Una colombaia in attività...» «Mi scusi, ma non ho sentito bene» intervenne Myriam, ritornata con le consumazioni. «Stava parlando della casa del fotografo? E chi ci abita?» Aveva posto quella domanda con una sorta di ripugnanza. «Il dottor Lagarde» rispose Rondeau. «Ah, questa poi! Non lo sapevo proprio» esclamò Myriam con una smorfia. «Si può sapere che cos'hai contro quella casa?» chiese stupito Julien. «E perché la chiamate così?» «Apparteneva a uno svizzero, fotografo di professione» raccontò Myriam. «Aveva sistemato lo scantinato a studio e laboratorio. Ci passava molta gente. Giovani dei due sessi. Giovanissimi! Dicevano che facesse
delle strane foto, se capite quel che intendo dire. Be', i gendarmi hanno finito coll'interessarsene e il tizio è sparito. La casa è rimasta vuota per un bel po'». La donna si voltò verso Blanche. «Non avevo mai stabilito il nesso con il tuo Lagarde». Di nuovo la gelosia bruciò il cuore di Julien. «Non è il mio Lagarde» protestò Blanche ridendo. «E a quanto ho visto, quella casa mi è sembrata bella e tranquilla. È vero che era notte». La sua risata si spense. Quella notte c'era stato l'incidente della falena. L'incidente? Aveva confessato la propria fobia a Roland: farfalle, uccelli, piume. Era per non spaventarla ulteriormente che non le aveva parlato della colombaia? Myriam girò la testa verso la porta. Un grande sorriso le illuminò il volto. «Guardate un po' chi arriva!» 53. Con la cartella sulla schiena, Sophie era apparsa sulla soglia del caffè. Individuato il gruppetto, parve esitare, poi si avvicinò con un'espressione cupa in volto. Dall'annuncio del suicidio di Thomas, il giorno prima, andava presa con le molle. Ciò che Julien temeva di più era che la piccola si mettesse in testa che Thomas era morto a causa sua, per il segreto che aveva tradito. Per cui non aveva espresso alcun dubbio davanti a lei, e non smetteva di ripeterle che parlando a Müller aveva probabilmente salvato la vita ad altri bambini. «Domani ho il permesso di andare con Charlotte in autobus a Besancon, a vedere la mostra?» chiese a sua madre, senza prestare attenzione a coloro che la circondavano. Blanche parve cadere dalle nuvole. «Quale mostra, tesoro?» «Lo sai bene, mamma. Roland ce ne ha parlato l'altro giorno! La mostra sugli extraterrestri. Ci siamo informate: chiude domenica». «La madre della tua amica vi accompagnerà?» chiese Blanche. «Non può. Andremo da sole». «Allora è no» decise la giovane donna. «Non senza un adulto». «E perché 'non senza un adulto'?» ribatté la ragazzina con rabbia. «Credevo che avessero trovato l'assassino!» «Perché ho ancora paura» confessò Blanche con semplicità, e il cuore di
Julien si intenerì. «Besancon non è così vicino». «Se hai paura, vieni con noi». «Caso mai te lo fossi scordato, il mercoledì sono occupata alla clinica». «Sapevo che lo avresti detto!» sbottò Sophie con ira. Stavolta si degnò di rivolgere uno sguardo carico di sfida a tutti i presenti. «A ogni modo, Roland è d'accordo con me: dice che non è stato Thomas!» La dichiarazione li raggelò tutti. Sophie voltò loro le spalle e si allontanò. «Le presento mia figlia» disse Blanche a Rondeau in tono spiritoso. «La scusi: voleva molto bene al dottor Riveiro». «A Champagnole, anche i suoi pazienti gli volevano bene» osservò laconico il bancario. «Se non avessi un gran daffare con questo maledetto caffè, l'avrei accompagnata volentieri alla sua mostra» brontolò Myriam. «Non bisogna infischiarsene delle sue storie di extraterrestri; è il suo modo di difendersi». «(Da cosa?» chiese Blanche, inquieta. «Difendersi da cosa?» Guardando Sophie che si allontanava, Julien era stato colto da un sordo malessere. «Roland è d'accordo con me: dice che non è Thomas». Il chirurgo aveva davvero parlato in quel modo irresponsabile a una ragazzina ribelle? Si ricordò della presenza del medico accanto a lei, il giorno prima, durante la conferenza stampa. Era stata la disperazione di Sophie a strappargli quelle parole? O forse, la ragazzina le aveva inventate. Certo non mancava d'immaginazione. Tentò di seguire i discorsi di Blanche e Rondeau, che si erano messi a parlare di extraterrestri, ma non ci riuscì. Era come se nella sua testa si fosse fissata una calamita su cui convergevano elementi disparati, a formare una storia che rifiutava di raccontare a se stesso. I fiori sotto il faggio: Roland Lagarde. Una grande casa con un parco nei dintorni di Saint-Rémi: Lagarde. La casa del fotografo. «Adesso, siete in due a essere a conoscenza del segreto, tu e il dottore» aveva detto Charles. Lagarde? Alt! ordinò a se stesso. Lagarde, l'assassino? Non stava esagerando? Cercò di metterla sul ridere: fin dove poteva lasciarsi trascinare dalla gelosia un uomo innamorato? Se aveva sempre preferito l'esitazione di Thomas alla sicurezza di Roland, non era perché il modo in cui Blanche guar-
dava il chirurgo lo irritava? Non gli era andata giù la storia della cena a casa di lui, anche se allora la conosceva appena. Povera Blanche! Se avesse potuto leggergli nel pensiero, lo avrebbe liquidato in quattro e quattr'otto. La donna adesso parlava di Sophie con Myriam. Julien si chinò verso Rondeau. «Si ricorda del nome dell'agenzia immobiliare che le aveva fatto visitare la famigerata casa del fotografo?» chiese Julien con voce neutra. Il bancario gli sorrise. «Certo. Ha un nome che non si dimentica: agenzia Rubino». «E si trova a Ginevra, ha detto?» «Esatto. Specializzata nell'affitto di abitazioni di lusso per stranieri di passaggio in Europa. Lavora molto su Internet». «Cerchi casa?» chiese maliziosamente Blanche a Julien. Il giornalista dovette fare uno sforzo per rispondere con voce briosa: «E perché no?» Lasciò trascorrere alcuni minuti e poi si eclissò, adducendo come pretesto un appuntamento al suo albergo. Appena salito in camera si precipitò al telefono e ottenne senza problemi il numero che cercava. Componendolo, si sentiva al tempo stesso ridicolo e pieno di vergogna nei confronti di Blanche. «Agenzia Rubino. Cosa possiamo fare per lei?» La frase, pronunciata dalla voce di una giovane donna, fu ripetuta in inglese. «Chiamo dall'estero» cominciò Julien pensando che, dopotutto, era solo una mezza bugia. «Un mio amico, il dottor Lagarde, ha preso in affitto tramite voi una casa nei pressi di Saint-Rémi, nella Franca Contea. Ne è molto contento. Avreste qualcosa da propormi nella zona? Il più vicino possibile a lui». «Il signor Lagarde, dice?» Compitò il nome. Adesso era nei confronti del chirurgo che si sentiva in colpa. Pazienza! L'importante era scacciare quel malessere che si gonfiava in lui come un gas velenoso. «Ecco, ho trovato il suo amico!» riprese la giovane donna dopo qualche secondo. «Signor Roland Lagarde, chirurgo, esatto?» «Esatto». «L'affare è stato trattato da Montreal per e-mail» comunicò a Julien. «È anche lei di laggiù, signore?»
«È proprio da là che chiamo» mentì stavolta sfacciatamente Julien, con il cuore in gola. «Non sapevo che si potesse sistemare tutto da così lontano. Mi può spiegare come si fa?» «È semplicissimo. Noi le inviamo dei dossier, che comprendono video e foto delle abitazioni che rispondono alle sue esigenze e alla cifra che desidera spendere per l'affitto o l'acquisto. Se una è di suo gradimento, può pagarci con la carta di credito. Al suo arrivo, la casa sarà a sua disposizione». «È così che ha proceduto il dottor Lagarde?» All'altro capo del filo percepì un'esitazione. La sua domanda era stata troppo diretta, posta con voce troppo insistente. Perdi la mano, vecchio mio, si rimproverò. «Senza dubbio, signore» finì col rispondere la giovane donna in tono più secco. «Posso avere il suo nome e sapere per quale periodo desidera affittare?» «Richiamerò». Julien riattaccò e rimase immobile per un po', seduto sul bordo del letto. Quell'impazienza che cresceva in lui, quell'eccitazione mista ad angoscia, gli erano familiari; le aveva provate parecchie volte. Prima, per Nina. Poi in occasione di altre inchieste che aveva seguito. Aveva messo il dito su un elemento nuovo. Elemento che poteva rivelarsi cruciale. Si alzò e cominciò ad andare su e giù per la stanza, la testa che gli ronzava. Chi sapeva, a Saint-Rémi, che Lagarde veniva da Montreal? «È anche lei di laggiù, signore?» Montreal: Canada. Julien era quasi sicuro di aver sentito dire da Müller che il chirurgo veniva dall'Inghilterra. Una bugia? Perché? Doveva avvertire il commissario? Per farsi trattare di nuovo da rompiscatole e mettere alla porta? Tanto più che andare nel Québec a verificare il passato di Lagarde sarebbe stato un po' più complicato di una capatina a Nizza, pensò con ironia. E poi, se Riveiro aveva un movente - l'essere stato privato di suo figlio non vedeva affatto quale sarebbe potuto essere quello di Roland. Aprì la finestra. L'albergo dava sulla strada principale che attraversava Saint-Rémi da un capo all'altro, da piazza a piazza. L'aveva percorsa con Blanche. Di nuovo tentò di ragionare. Quante volte, durante altri casi, la sua eccitazione si era risolta in niente! Fu l'immagine di un mazzo di fiori, deposto da Lagarde sotto il faggio
dov'era stato ritrovato Jean-Lou, a convincerlo. Non era raro che i serial killer ronzassero attorno alle tombe delle loro vittime. Sollevò di nuovo il ricevitore, e stavolta chiamò l'Interpol a Lione. Anche là aveva rotto le scatole a più non posso quando aveva ancora la speranza di ritrovare la sorella o, almeno, una traccia di chi l'aveva rapita e probabilmente assassinata. Gli passarono subito l'amico dei suoi genitori. «Ho seguito il caso di Saint-Rémi» gli disse Hubert Legrand. «Terrificante, la storia della scimmia... E poi conosco un po' Müller, un tipo straordinario. Pare che sia tutto risolto, no?» «Quasi» rispose Julien. «Ma sai che io cerco sempre il pelo nell'uovo... Potresti guardare nella tua fenomenale memoria elettronica se per caso c'è qualcosa su un certo Roland Lagarde a Montreal, in Canada? Fa il chirurgo». «Me ne occuperò domani stesso» promise Hubert. «Dove posso richiamarti?» Quinta parte La principessa Sophie 54. Sophie non capiva davvero perché avesse deciso di accompagnare sua madre ai Quatre Lacs come tutti i mercoledì. Il mercoledì precedente, Charles era stato sepolto. Quel mercoledì, Thomas non c'era più, ma il suo, di funerale, a causa dell'autopsia, si sarebbe fatto chissà quando, e l'anestesista, ovviamente, non avrebbe avuto la sua tomba a Saint-Rémi. Non si seppellisce un assassino accanto alle sue vittime... «Perché non vieni con me, a disegnare con i bambini?» le propose Blanche mentre legavano le bici fianco a fianco nel cortile della clinica. «Preferisco andare in sala giochi» rispose Sophie con voce cupa. Arrivate nel corridoio del primo piano, Blanche le diede un bacio in fronte. «Passo a riprenderti alle cinque?» Sophie annuì. Rimpiangeva già di essere venuta. E non aveva ancora visto tutto!
Sulla soglia della sala giochi si bloccò, soffocata dall'indignazione. La stanza magica non c'era più, come si poteva vedere dalla porta spalancata. E non c'erano nemmeno più il computer e il mouse. Al loro posto avevano messo un televisore. Incantati, tutti i bambini erano là, accalcati nello spazio angusto. Sophie fece dietrofront e sbatté la porta, il cuore traboccante di rabbia e di impotenza. Era ancora più orribile di quella mattina, quando suo padre al telefono aveva riso perché lei gli aveva spiegato che tutti si sbagliavano, che non era stato Thomas. Per punirlo aveva interrotto brutalmente la comunicazione. Dietro la porta, anche i bambini ridevano, come se si burlassero di lei. Non sarebbe tornata mai più in quella saletta. Guardò l'orologio: solo le tre e un quarto. Cosa poteva fare, adesso? Non era il caso di raggiungere sua madre per disegnare degli aquiloni. Rincasare? Nessuna voglia. Passare da Charlotte? Vergognandosi di confessarle che Blanche rifiutava di lasciarla andare senza un adulto a Besancon, aveva raccontato all'amica che doveva vedere un dottore alla clinica perché aveva mal di testa. Un dottore alla clinica? Scese i gradini quattro a quattro e si precipitò all'accettazione dove lavorava Monique, che sua madre conosceva bene. Era occupata con un signore molto anziano in vestaglia e pantofole che le faceva un lungo discorso. Sophie attese il proprio turno scalpitando. «Che cosa posso fare per lei, signorina?» chiese Monique gentilmente quando il malato se ne fu andato. «C'è Roland?» «Suppongo che si tratti del dottor Lagarde, eh?» rispose Monique ridendo. «Be', no. Oggi non c'è. Non tornerà prima di venerdì» soggiunse. «Cosa volevi da lui?» Sophie non rispose. Era terribilmente delusa: aveva avuto una cosi buona idea! Roland, la sola persona che aveva voglia di vedere, che l'ascoltava senza burlarsi di lei, che le credeva su Thomas. Per di più, si interessava veramente agli extraterrestri. La prova? Era stato lui, il mercoledì precedente, a parlarle della mostra a Besançon. Aveva tanto sperato che ci fosse. Monique aveva di nuovo gente. E all'improvviso Sophie seppe ciò che avrebbe fatto. Blanche le avrebbe rinfacciato ancora una volta di agire troppo d'impulso, senza riflettere, ma pazienza! Era troppo infelice. Salutò Monique con la mano e filò in cortile. Se voleva essere di ritorno per le
cinque, doveva sbrigarsi. Quando andava in giro in bici con sua madre c'era sempre una meta prefissata, e poi si fermavano da qualche parte a mangiare un gelato o una fetta di torta. Quindici giorni prima la meta era stata la casa di Roland. Blanche le aveva mostrato dove si trovava, a una ventina di minuti da SaintRémi pedalando di buona lena. Era una domenica, e Sophie avrebbe voluto suonare il campanello per fargli un salutino, ma sua madre si era opposta. Non ci si presenta a casa d'altri così. Be', lei ci sarebbe andata! Sbloccò l'antifurto che legava la sua bici a quella della madre. Innanzitutto Roland non era un semplice conoscente, ma un amico. E poi era sicura che non le avrebbe rimproverato di essersi presentata senza avvertire. Era sembrato così contento di parlare con lei, lunedì. Inforcò la bici e lasciò il cortile della clinica, il collo incassato fra le spalle: se sua madre l'avesse scorta dalla finestra, se la sarebbe vista brutta. Sperava di non essersi dimenticata la strada. Era piuttosto semplice: verso Champagnole e, subito a sinistra, la deviazione in direzione di Châteauneuf. Era là che avevano mangiato il gelato. Si sentiva già meno arrabbiata. Avrebbe raccontato a Roland della stanza magica e ci sarebbe rimasto male anche lui. Un camion carico di legname la sorpassò suonando il clacson due volte, segnale che significava «ciao!». Toh, già che c'era avrebbe potuto riportargli il fazzoletto. Sua madre sosteneva che faceva collezione di fazzoletti altrui. Quello era particolarmente bello, con le iniziali ricamate. Sicuramente costava parecchio. Ma lo aveva lasciato da qualche parte in camera sua, e non era il caso di fare dietrofront per andare a prenderlo. Non c'era tempo. Era lì che bisognava svoltare. Sporse il braccio a sinistra. Quasi subito ci si addentrava nella foresta di pini dove faceva scuro, ma c'era un profumo delizioso. Sua madre era portata per i colori, lei per gli odori. Annusava tutto ciò che poteva; Myriam diceva che era l'istinto delle bestioline. Si ricordò che Roland aveva Internet. Quando gliel'aveva chiesto, il chirurgo aveva risposto: «Certo che sì». Per sua madre era: «Certo che no». Grazie a Thomas non aveva più bisogno di nessuno per navigare e forse un giorno Roland le avrebbe permesso di usare il suo computer. Forse persino quel giorno? La sera prima, quando aveva chiesto di nuovo a sua madre di lasciarla andare a Besancon, Blanche si era arrabbiata. «Come puoi pensare ai tuoi cosi con quello che è successo qui?» I suoi cosi... Sua madre non capiva
niente. Quando le persone perdono qualcuno, vanno in chiesa e alzano gli occhi al cielo sperando di trovarvi Dio. Lei sperava che lassù vi fossero degli esseri un po' meno idioti dei terrestri, e basta. 55. Valencia, Dakar, Recife. E la meta finale: Caracas. Borsa e valigie sono già nel bagagliaio dell'auto, che ha il serbatoio pieno. La lascerà nel parcheggio dell'aeroporto. Quando attirerà l'attenzione, sarà arrivato a destinazione da un pezzo. Venerdì mattina chiamerà da Dakar il direttore della clinica per avvertirlo che un'importante faccenda di famiglia lo ha costretto a lasciare d'urgenza Saint-Rémi, e che dunque non potrà operare. Ha programmato apposta per quel giorno due interventi di poco conto. Non vuole che per causa sua dei pazienti corrano un qualsiasi pericolo. Molto presto farà sapere che non tornerà. Si è sbarazzato del computer della ditta Martin buttandolo nell'Ain, vicino a Champagnole. Se verrà ritrovato, il gesto sarà addebitato a Riveiro. Riveiro... Ormai si sente invadere dal disgusto quando pensa a lui. È possibile che l'individuo al cui fianco ha lavorato quasi ogni giorno per un anno fosse un maniaco sessuale che molestava i bambini affidati alle sue cure? Un simile animale non meritava di vivere. L'affitto della casa è stato pagato fino a gennaio. Non dovrà affrettarsi a comunicare all'agenzia che non intende prolungare la locazione. Avvertirà che ha lasciato alcuni oggetti, tutti di qualità. Saranno fin troppo contenti di recuperarli. Ha eliminato solo quanto potrebbe far pensare che vi è vissuto un bambino. La poltrona del piccolo Paul è fra i bagagli. Stanotte distruggerà il letto. Restano i giochi. «Un amico, papà, l'ultimo, per dargli i miei giochi. Poi partiremo. Non gli dirò niente, papà, te lo giuro. Non gli dirò niente». Il dolore lo inghiotte. Il piccolo Paul usa le poche forze che gli restano per torturarlo reclamando l'amico impossibile. Il chirurgo non sopporta più il lamento lancinante, né quello sguardo bruciante e accusatore che lo segue in ogni movimento. Si occuperà dei giochi quando il piccolo Paul si sarà addormentato. Ha preparato dei sacchi di plastica che getterà in una discarica lungo la strada.
Il bambino sopporterà il viaggio? Da tre giorni rifiuta qualsiasi cibo. Non beve nemmeno più del latte, solo qualche sorso d'acqua per umettarsi le labbra secche. Mister Chance suona l'allarme, cercando di attirare l'attenzione del suo padrone con gemiti e una sorta di danza macabra. Il padre ha pensato a una flebo, ma il piccolo Paul se la strapperà via non appena volterà le spalle. «Le anime dei bambini morti...» Zazu si è impadronito dell'anima del piccolo Paul come si era impadronito della sua mente. Cerca ancora di prenderglielo; la sua vendetta non ha fine. Ha preso una decisione: non aspetterà di essere a Recife per farlo curare. Approfitterà del lungo scalo a Dakar per portarlo all'ospedale e chiedere che gli facciano una flebo. Agli occhi di coloro che li accoglieranno, saranno solo un padre e un figlio sofferente. Le ricerche sono cessate, i suoi documenti sono in regola, gli restano abbastanza dollari per arrivare fino in Venezuela dove troverà facilmente lavoro. Tutto andrà bene, non ti lascerò mai più, laggiù avrai la luce del sole, il mare, amici in quantità. Sono le quattro e un quarto, sta passando l'aspirapolvere in salotto quando squilla la suoneria del citofono. Chi può essere? Un rappresentante? Un mendicante? Quei ragazzini maleducati che suonano e poi scappano? Mercoledì: giorno di vacanza. Si asciuga gli occhi umidi, va nell'ingresso e solleva la cornetta. «Chi è?» «Sono io». La vocina nel citofono esplode in lui come un tuono. Si appoggia alla parete, gli tremano le gambe. «Sophie?» «Sì. Puoi aprirmi? Non resterò molto». «Ma che cosa vuoi, Sophie?» «Vederti». Il sangue gli pulsa alle tempie. Chiude gli occhi. «Un amico, papà, l'ultimo, poi partiremo». È finalmente un segno del Cielo? «Ma come sei arrivata qui, Sophie?» «In bici. Mi raccomando: non dovrai dirlo alla mamma». 56. Sophie non era più nella sala giochi. Blanche chiese ai bambini se l'avessero vista: una biondina di undici anni. Uno di loro rispose: «Un po', signora». Un po'? Doveva averne avuto abbastanza ed era tornata a casa.
Avrebbe potuto avvertirmi, pensò Blanche scontenta. Ma da lunedì era sempre così con Sophie: la ribellione permanente. C'era gente in attesa davanti a Monique: l'ora dei ricoveri. Passando, Blanche le fece un cenno amichevole e lasciò la clinica. Constatando che la bici della piccola non si trovava più accanto alla sua, ebbe una leggera stretta al cuore. Quel giorno i bambini avevano terminato i disegni degli aquiloni, che avevano firmato e datato con orgoglio. Li avrebbero regalati alle loro mamme. Solo Jules, il ragazzino che girava con la flebo, aveva fatto scivolare il suo, piegato in quattro, nella mano di Blanche: «E per te, signora». Ne era rimasta così commossa che le erano venute le lacrime agli occhi. Le succedeva spesso negli ultimi tempi: la sensibilità a fior di pelle, e anche un grande senso di fragilità. «È il contraccolpo» assicurava Myriam. «Adesso che la faccenda è finita, tutta la paura e l'angoscia accumulate riaffiorano». Per lei era la stessa cosa. Si era alzato il vento, che aveva liberato il cielo dalle nuvole. Pedalando, Blanche gli offrì il viso; il vento porta l'avvenire a chi vuole ascoltarlo. Fortuna che ho Julien, pensò. L'importanza che il giornalista aveva assunto in così poco tempo nella sua vita la sorprendeva: Julien, il suo avvenire? Le sembrava che il «tesoro» che le era sfuggito un giorno le avesse come sbloccato il cuore. Tenero e sensibile, Julien! E anche allegro, allegro con tutto e contro tutto. Mi sto innamorando? Porsi quella domanda non equivaleva a confessare a se stessa che l'amore l'aveva già vinta? «Quando tutto sarà finito, ti porterò altrove» aveva progettato Julien. Tutto era finito, Müller lo aveva annunciato: «Il caso è chiuso, dormite tranquilli...» Come mai allora non riusciva a convincersene? Quella sera avrebbe cenato con Julien. Gliene avrebbe parlato. Sì, portami via in fretta, gli ordinò mentalmente. Presto, altrove, lontano. Niente bici gialla e rossa nel cortile. Myriam non aveva visto passare la piccola. Una ventata di angoscia sfiorò Blanche mentre saliva le scale. Uno di questi giorni dovrò smetterla di stare in pena per la Principessa! A forza di essere apprensiva, la soffocherò. Quando aveva l'età di sua figlia detestava che si preoccupassero per lei, ma detestava ancor di più che le dicessero che era forte. Ecco ciò che mi dà Julien, pensò: fiducia e protezione al tempo stesso. Infilò la testa nella camera di Sophie, dove non osava mai entrare in sua assenza. Il cellulare era sulla sua scrivania. Lei stessa l'aveva dissuasa dal
prenderlo: «Tanto saremo insieme...» Adesso era pentita. Almeno avrebbe saputo dove si trovava sua figlia. Accanto al guanciale notò un fazzoletto bianco che aveva qualcosa di estraneo. Sophie e i fazzoletti! Seminava i suoi dappertutto, e si rifaceva con quelli degli altri. Le parve di distinguervi delle iniziali e le sfuggì un sorriso di tenerezza: la piccola aveva buon gusto. Chiuse la porta, si tolse la giacca e passò nello studio. Ma dove poteva essere? Dopo un attimo di esitazione compose il numero di Charlotte. Pazienza se l'avesse strapazzata: «Non puoi lasciarmi un po' stare, mamma?» Il telefono aveva la segreteria inserita, e di nuovo si sentì afferrare dall'angoscia. «Charlotte, sono Blanche, cerco Sophie, puoi richiamarmi appena torni?» Se la madre di Charlotte rincasava per prima, Blanche poteva contare su di lei. Le cinque e mezzo, ancora giorno: «Al lavoro!» Si sedette al tavolo. Era in ritardo con il libro. L'editore lo aspettava alla fine del mese. Il capitolo che doveva illustrare si chiamava «La delusione». La piccola Iris, proprietaria della bambola magica, piangeva perché era stata tradita da una compagna di scuola che riteneva, a torto, la sua migliore amica. «Vedi» diceva la bambola a Iris, «non bisogna fidarsi delle apparenze. È nei cuori che bisogna imparare a leggere». Dietro i tratti angelici della falsa amica, come disegnare un cuore duro e interessato? «Il poeta ricalca l'avvenire» ripeté Blanche scegliendo un pastello bruno. Le piaceva proprio la frase di Cocteau che le aveva citato il gentile signor Rondeau. È telefono suonò: Charlotte, finalmente! No, Sophie non si trovava con lei. Quel pomeriggio non l'aveva vista. «Non hai idea di dove potrebbe essere?» «Mi aveva detto che doveva andare alla clinica con lei per vedere il dottore» rispose stupita la ragazzina. Il dottore? Il pensiero di Blanche volò automaticamente a Thomas, ma Thomas non c'era più. «Che cos'è questa storia?» balbettò. «Quale dottore?» «Un dottore per la sua testa, perché ha mal di testa» precisò Charlotte. «Grazie» mormorò Blanche. «Grazie di avermi richiamata». Riattaccò. Un dottore per la testa di Sophie? Prima notizia. In seguito, avrebbe pensato che proprio da quell'istante aveva comincia-
to a sospettare la verità, l'atroce, l'insopportabile verità. Le parole di Charlotte: «È andata a vedere il dottore». La frase di Cocteau: «Il poeta ricalca l'avvenire». Il consiglio della bambola magica a Iris: «Non fidarti delle apparenze». Lasciò ricadere la matita, ritornò nella camera di Sophie e stavolta entrò. Le sembrava di fare gesti da automa, come se il suo cervello fosse scollegato dal suo corpo, come se questo agisse suo malgrado, spinto da un panico che le confondeva i pensieri. C'erano proprio delle iniziali sul fazzoletto: R.L., Roland Lagarde. Il dottor Roland Lagarde. «Roland è d'accordo con me, dice che non è stato Thomas». Tornò nell'atelier e, stavolta, chiamò Monique alla clinica. Le dita le tremavano sulla tastiera. «Hai visto Sophie uscire?» le chiese. «Non è rientrata. Sono preoccupata». «Certo, l'ho vista uscire» rispose Monique. «Mi ha anche chiesto se c'era il dottor Lagarde. Voleva assolutamente vederlo. Quando le ho risposto che non sarebbe tornato prima di venerdì, è sembrata molto delusa». «Non ti ha detto dove sarebbe andata?» «Questo no». Blanche riattaccò. Il dottor Lagarde... «Voleva assolutamente vederlo». Sophie poteva essere andata a casa di Roland? La casa del fotografo. La casa che un giorno aveva mostrato a sua figlia durante un giro in bici, la casa in cui lui l'aveva invitata a cena. Raccolse i propri ricordi. La cena della falena. L'aveva cancellata dalla memoria a causa di quell'insetto. Che cosa aveva detto Roland quella sera, che l'aveva tanto impressionata? «Non è ingiusto che siano le donne a portare in grembo i bambini?» Qualcosa del genere. E quando lei aveva risposto: «Un giorno, vedrà, gli uomini faranno in modo di restare incinti» lui aveva avuto una reazione brusca e inaspettata: «Non mi parli di felicità!» Si era chiesta se dicesse sul serio. Julien, chiamare Julien! Compose il suo numero e, trovata la segreteria, riattaccò subito. Sto sragionando. Sophie rincaserà da un momento all'altro, e mi metterà il muso quando saprà che ho chiamato Charlotte, non oserò nemmeno chiederle da dove venga. Già sua figlia era furiosa che Blanche cenasse da sola con Julien, quella sera. Al pensiero della cena sentì la tensione allentarsi un poco. Presto sareb-
be stata al ristorante con le candele e il caminetto acceso di cui le aveva parlato Julien. Gli avrebbe esposto le proprie elucubrazioni e lui l'avrebbe presa in giro: il colpevole è stato trovato, il caso è chiuso, che cosa vuoi di più? «Non lo so» mormorò Blanche. «Non lo so». Fin dall'inizio della storia, lei era stata così: incerta. Sollevò di nuovo il ricevitore. Era Roland che doveva chiamare, per chiedergli se, per caso, Sophie non fosse passata da lui. Nella tasca dei pantaloni sentì il foglio piegato in quattro: il disegno di Jules. L'ultima volta che aveva visto Roland, il mercoledì precedente, la visione degli aquiloni aveva fatto venire anche a lui voglia di partire. Aveva compreso le sue angosce. Premette i primi tasti e s'interruppe. No! Se lo chiamava, rischiava di mettergli una pulce nell'orecchio. Andarci, piuttosto. Adesso! Il respiro le si bloccò di nuovo: una pulce nell'orecchio... Ecco che ricominciava. Roland, un pericolo per Sophie? R.L., il dottor Roland Lagarde. «Non fidarti delle apparenze» diceva la bambola magica a Iris. Che cosa sapeva del chirurgo in fondo? Un bell'uomo, del genere riservato. Scese precipitosamente le scale e spinse la porta del bistrot dove, al banco, Myriam stava sorseggiando un caffè. «Te ne offro uno, bellezza?» «No, grazie. Posso prendere l'auto?» «Le chiavi sono nel cruscotto. Ma hai le scalmane? Dove vai, mezza nuda?» Aveva dimenticato di infilarsi la giacca. Non aveva nemmeno preso la borsetta. Lo sguardo di Myriam si fece preoccupato. Blanche cercò di ridere, ma la sua risata suonò strana. «Vado dal fotografo». A volte, di fronte ai nostri amici, non abbiamo il coraggio di ammettere i nostri pensieri. 57. Quando Sophie era arrivata nel cortile della casa, una casa magnifica, Roland la stava aspettando con un'aria molto stanca e triste. Ancora più triste di lunedì. Dopo averlo baciato, la bambina gli aveva chiesto se poteva appoggiare
la bici al muro coperto di vite vergine rossa, quasi nera, e lui aveva acconsentito. Poi l'aveva accompagnata in un salotto con le pareti piene di libri e un angolo video, in cui Sophie aveva visto subito il computer con il relativo mouse. Si accingeva a raccontargli la sparizione della stanza magica e a spiegargli le ragioni della sua venuta, quando lui aveva chiesto all'improvviso: «Vuoi aiutarmi, Sophie?» Aveva una voce strana, un po' ansimante. Certo, lei aveva risposto di sì, che era d'accordo, e lui aveva posto l'altra domanda che, invece, l'aveva fatta vergognare. «Sai mantenere un segreto?» Per Thomas non aveva saputo, e Thomas era morto. Aveva promesso lo stesso, allora lui le aveva preso le mani, l'aveva guardata nel profondo degli occhi e aveva detto: «Stai per vedere un ragazzino molto malato. Se ne va domani. Vorrebbe regalarti i suoi giochi prima di partire». «Lo conosco?» aveva chiesto lei, stupita. «Un po'» aveva risposto Roland. «Un po'». Avevano sceso una scala e, in basso, c'era una porta con un codice, come nella casa di suo padre a Parigi. Roland aveva premuto i bottoni, la porta si era aperta e Sophie non aveva creduto ai propri occhi: la caverna di Alì Babà. Sembrava che ci fosse il sole, a causa dei neon e dei riflettori dappertutto. Le pareti erano coperte di poster: di animali, di film, di campioni sportivi, tutto ciò che amano i ragazzi. E, su mensole bassissime, c'erano i giochi, in quantità prodigiosa. Pareva di essere in un negozio. E poi Sophie aveva visto il ragazzino, e aveva avuto paura. Se ne stava raggomitolato in una poltrona a rotelle, con la testa affondata in un cuscino, gli occhi chiusi, magro come un chiodo, il volto bianchissimo. Era stato quel biancore a farle paura più di tutto. Era pallido come un bambino che aveva visto un giorno alla clinica dei Quatre Lacs e che era morto l'indomani: leucemia, aveva spiegato sua madre. «Non lo conosco, non l'ho mai visto» aveva sussurrato a Roland. «Non lo hai mai visto, ma hai letto alcuni suoi messaggi. Me ne hai persino parlato, l'altro giorno. È Mowgli». A quel punto, tutto si era confuso nella testa di Sophie. Mowgli? Il Mowgli di Hacuna-Matata? Non ci capiva più niente. Roland le aveva preso la mano e l'aveva trascinata verso il bambino: Sophie non ne aveva alcuna voglia, e poi quello dormiva. Lo avrebbero sve-
gliato. «Paul, ecco Sophie» aveva annunciato il chirurgo. «È venuta perché tu le dia i tuoi giochi prima di partire». Il ragazzino aveva aperto gli occhi, occhi che spiccavano nel volto emaciato come se fossero stati grandissimi. Anche se era sicuramente molto malato, Sophie non aveva mai visto un ragazzino così bello, salvo nella parte inferiore del corpo che sembrava tutta deforme. Bello come certi disegni di sua madre, con occhi blu cangianti, lunghe ciglia e capelli di seta bionda. Un ragazzino di porcellana. La creatura aveva proteso una mano esitante verso di lei e le aveva toccato il braccio in più punti, come per assicurarsi che fosse vera. Quando lei gli aveva sorriso, gli occhi gli si erano riempiti di lacrime. «Partirà presto» aveva appena detto Roland. Significava che stava per morire, come quello che aveva visto alla clinica? Per di più era muto? Le aveva fatto talmente compassione con il suo aspetto così diafano che si era chinata su di lui per baciarlo: un bacino per ognuna di quelle guance pallide. E adesso era Roland a piangere! Prima che avesse il tempo di chiedersi perché, la scimmia le era saltata in braccio spaventandola a morte. Aveva fatto un balzo indietro, gridando. Roland e il bambino sì erano messi a ridere. Era ancora più triste, quando ridevano. «Non aver paura, è Mister Chance» aveva detto Roland asciugandosi gli occhi. Mister Chance? In quell'istante una fitta nebbia le era calata sul cervello. Tutto ciò che sapeva era di non essersi sbagliata: Thomas non era Mowgli. Ma perché Roland non aveva avvertito la polizia? «Posso avere da bere, papà? Un po' di latte, per favore» aveva chiesto il piccolo Paul con un filo di voce. Papà? Il volto di Roland si era illuminato. Era corso in fondo alla sala, dove si trovava una specie di cucina. Il piccolo Paul aveva atteso che fosse lontano, aveva afferrato la mano di Sophie, l'aveva strétta con tutte le sue forze e aveva bisbigliato: «S.O.S., sono prigioniero». 58. Quel pomeriggio di mercoledì, giorno di vacanza per i bambini, Julien aveva compiuto un gesto difficile, che gli era costato molto: con l'autoriz-
zazione della polizia, aveva riportato ai Laurent gli occhiali del loro figlio. Non era stato, per la breve durata del rapimento, secondo l'espressione stessa di Müller, il loro interlocutore privilegiato? Si erano fidati di lui. Non gli avevano serbato rancore per l'atroce risposta all'appello radiofonico della madre: il corpo del piccolo Charles deposto al cimitero. Il caso Pierre Rondeau avrebbe parlato di destino - aveva voluto che fosse lui a scoprire quegli occhiali; spettava dunque a lui restituirli ai genitori. Aveva trovato una famiglia sconvolta dal suicidio di Thomas Riveiro. Per poter elaborare il loro lutto, i Laurent avrebbero dovuto avere almeno alcune spiegazioni, anche atroci da sentire, sul modo in cui si erano svolte le cose, alcuni chiarimenti sull'uomo che aveva fatto prendere alla loro vita la svolta della sventura. Soltanto allora Françoise Laurent avrebbe potuto smettere di rimproverarsi di aver mandato suo figlio da un amico, quel pomeriggio funesto, suo marito di averlo iniziato all'uso del mouse, e il nonno di non avergli parlato abbastanza dei pericoli della vita. Quelle spiegazioni, quei chiarimenti non li avrebbero mai avuti. E non era certo Julien, anche lui nella nebbia, che avrebbe potuto fornirli. Prima di congedarsi dalla famiglia il giornalista aveva chiesto con tatto alla sorella maggiore di Charles di ripetergli con esattezza le parole del fratellino: «Adesso siete in due a conoscere il segreto, tu e il dottore». La bambina aveva ribadito che Charles non aveva detto altro, non aveva pronunciato alcun nome. Quando la signora Laurent lo aveva abbracciato, Julien aveva avuto l'impressione di non meritarlo. Pensava di tornare a Besancon alla fine della settimana. In realtà sarebbe dipeso dai progetti di Blanche, poiché non aveva intenzione di partire senza la certezza di rivederla prestissimo. Lei aveva accettato di cenare da sola con lui quella sera, in un ristorante di un paese vicino che serviva come specialità le trote. Era deciso a dirle che l'amava, e l'idea lo riempiva al tempo stesso di felicità e di angoscia. Erano le sei passate da poco quando fermò la moto davanti al suo albergo. Il cielo si oscurava già. Senza aspettare di essere nella sua stanza, riaccese il cellulare che aveva spento a casa dei Laurent: era il minimo dei riguardi che potesse osservare nei loro confronti. Aveva due messaggi. Il primo era di Myriam: poteva richiamarla al più presto? La voce era ansiosa, e una paura irragionevole si impadronì di Julien. Poteva trattarsi solo di Blanche. Senza curarsi della seconda chiamata, compose il numero del bistrot. Myriam sollevò subito il ricevitore.
«Finalmente! Credevo che non avresti mai richiamato». «Che succede?» «A dire il vero, non lo so bene» confessò la donna. «Tutto ciò che so è che Blanche ha preso in prestito la mia auto per cercare Sophie, e che era agitatissima. Quando le ho chiesto dove andasse, ha risposto: 'Dal fotografo'...» «Dal fotografo?» «Be', sì. E, come sai, non ce ne sono a Saint-Rémi». «La casa del fotografo...» mormorò Julien. «È quello che mi sono detta». «Ti richiamo». Spense. Respirava a fatica. Blanche da Roland? Blanche agitata? Cercò di riderne per rassicurarsi. Roland non gli avrebbe fregato il suo amore proprio il giorno in cui si accingeva a dichiararlo! Si mise il casco e rimontò sulla moto. Non vide l'impiegato uscire dall'albergo e correre verso di lui. Non sentì che gli gridava che c'era un messaggio dell'Interpol per lui, e che doveva richiamare d'urgenza. Blanche aprì gli occhi. Sto per morire, pensò. Sotto il corpo gelato, sentiva la terra impregnata di odore acre, ocra, verdastra, biancastra: l'odore degli escrementi. Appollaiata sopra di lei, saltellandole attorno, la sua morte tubava e batteva le ali. Sto per morire. Benché incapace del minimo gesto, si sentiva totalmente lucida, proprio come, dicono, ci si sente prima del salto finale. Aveva sempre saputo che la sua vita sarebbe finita così: quel momento era la spiegazione, o forse si poteva dire «la conclusione»?, del suo terrore viscerale nei confronti degli uccelli, delle piume e delle farfalle. Quando suo padre faceva finta di soffocarla sotto il piumino, le annunciava il giorno in cui sarebbe morta, prigioniera di una colombaia. La sua fobia non era che la precognizione di ciò che era scritto per lei. A prezzo di un gigantesco sforzo riuscì ad alzare gli occhi verso le feritoie. La luce filtrava ancora, la notte incombeva. Quanto tempo era rimasta incosciente? Un uccello si posò non lontano da lei, e lei richiuse gli occhi e si raggomitolò, cercando di sparire nel terreno. L'uccello risalì, in un pesante rumore di ali. Lassù, il balletto delle entrate e delle uscite non cessava. «Una colombaia in attività...» Sophie.
Con il ritorno del ricordo, il dolore si aggiunse allo spavento: Sophie era lì, avrebbe subito la sorte degli altri bambini, il mostro l'avrebbe uccisa. Le sue unghie affondarono nella terra: Sophie, Sophie. Il chirurgo non aveva nemmeno negato la sua presenza: «Venga, Blanche, l'accompagno da lei». Lei lo aveva seguito fiduciosa, lungo un sentiero che portava verso i pini. Aveva capito troppo tardi. Non aveva già più voce per supplicare. Prima di gettarla nella colombaia, Roland aveva detto con la sua voce calma di chirurgo-carnefice: «Sapeva, Blanche, che esiste una specie di piccione che chiamano 'il cappuccino'? Non pensa che la cosa interesserebbe il suo amico?» Aveva pronunciato la parola «amico» con immenso odio. Un singhiozzo le salì nel petto. Come aveva fatto a non sospettare? Come aveva potuto sognare quell'uomo prima che «l'amico» prendesse tutto il posto nel suo cuore? Aprì di nuovo gli occhi pieni di lacrime. La porta. Era caduta a pochi passi soltanto dalla porta. Poteva distinguerla, nella luce declinante. Strisciare fino alla porta, salvare Sophie, la mia Principessa. Centimetro dopo centimetro, per non spaventarli, per non irritarli, si rovesciò sul ventre e poi si raddrizzò sui gomiti. Cominciava a muovere il blocco di cemento del suo corpo quando in lontananza si levò un rombo, che crebbe, crebbe fino a riempire la colombaia, scatenandovi la collera generale. In un attimo, lo spazio fu soltanto un furioso turbinio di ali. Blanche si rassegnò alla propria fine. La desiderò. Poi, in fretta com'era cresciuto, il rumore cessò. Julien. La moto di Julien. Era venuto a liberarla. Julien. Julien. Con tutte le sue forze, gridò il suo nome senza che alcun suono le uscisse dalle labbra. Doveva avvertire Julien, fargli sapere che si trovava lì. Soffocando, con il cuore in gola, centimetro dopo centimetro, riprese la sua avanzata verso la porta. Gli escrementi le si appiccicavano alle braccia nude. «Dove vai mezza nuda?» I singhiozzi la soffocavano. Julien. Julien. Le sue dita toccavano finalmente il legno. Adesso, alzare la mano, centimetro dopo centimetro, per non irritarli, per non spaventarli, e girare la maniglia. Era troppo alta; non sarebbe mai riuscita a raggiungerla, in quella maniera.
In ginocchio. Quanto tempo le ci volle prima di poter raccogliere abbastanza energia per allentare le pastoie del terrore, uscire dall'abisso, superare la vertigine, sollevare la montagna, attraversare le fiamme? Poi, in ginocchio contro la porta, incollata a essa, senza irritarli, senza spaventarli, con la testa piena di urla, alzando di nuovo la mano, raggiunse la maniglia. E la girò. La porta era chiusa a chiave. 59. Prima, c'era stato il rumore di un'auto che perdeva colpi come la Due Cavalli di Myriam. Sophie si era precipitata verso i finestrini: la mamma! Era sicura che fosse sua madre. Ma con quelle griglie e quei vetri avrebbe potuto gridare all'infinito senza che nessuno la udisse. Dopo, era echeggiato il rumore di una moto. La moto di Julien? Entrambe le volte, quella dell'auto e quella della moto, si era sentito suonare il citofono. Roland era salito. Non era ritornato, dopo l'auto. La mamma e Julien erano venuti a cercarla? Adesso non si sentiva più nulla. Sophie abbandonò il finestrino e tornò di corsa verso il piccolo Paul, seguita da Mister Chance. Sembrava che la scimmia l'avesse adottata e, anche se era stata causa di molto dolore, la ragazzina non poteva fare a meno di accarezzarla. Il suo calore la rassicurava. Perché Sophie aveva una paura matta. Il piccolo Paul le aveva raccontato tutto: Simba, Zazu, e lui, Mowgli. Le aveva detto che Roland era pazzo. Lo era certamente, dato che aveva ucciso anche sua madre perché era colpa sua se Paul era infermo, e perché aveva cercato di separarli. «Continua a promettermi di liberarmi, ma non è vero. Non lo farà mai». Mentre il ragazzino parlava e piangeva contemporaneamente, tamburellando sulle ginocchia e guardandola con occhi che spiccavano enormi nel volto emaciato, Sophie pensava a Thomas. Era contenta che non fosse un assassino, ma ancora più triste che si fosse dato la morte per niente. «Non dovrai dire a papà che ti ho raccontato tutto» si era raccomandato il piccolo Paul. «Altrimenti finirà come per Zazu, rischi di fare una brutta fine». Se aveva così paura era perché pensava che non sarebbe mai riuscita a far finta di niente con Roland, che se ne sarebbe accorto per forza. L'a-
vrebbe uccisa come gli altri? Fra i giochi presenti nella caverna di Alì Babà, Sophie aveva notato il modellino di una nave spaziale. Allora, per farsi coraggio, la guardava spesso immaginando che i suoi amici extraterrestri l'avessero inviata in missione: doveva salvare il ragazzino di porcellana. «Andiamo, signorina E.T.?» chiedeva Thomas prima di accompagnarla nella stanza magica. Il piccolo Paul era il signor E.T. Con il cuore in gola, si chinò sul prigioniero. «Hai sentito questo rumore? Stavolta è la moto di Julien, un amico. Ci libererà. Come si fa ad avvertirlo che siamo qui?» Il piccolo Paul le si aggrappò alle mani. «Non voglio che tu te ne vada» gemette. «Se te ne vai, succederà come per gli altri, non tornerai più, lo so, lo so». «Tornerò» promise la ragazzina. «Non ti lascerò qui». Indicò il cercapersone che Paul portava al collo. «Se si preme lì, che cosa succede?» «Se premo, significa che c'è qualcosa di grave, e papà scende subito». Papà... Roland... E dire che nessuno sospettava! Che tutti si fidavano di lui, con i suoi bei fazzoletti e tutto il resto. Persino lei stentava ancora a credere che fosse il vero assassino. Forse era solo un incubo. Tese l'orecchio. Da lassù non perveniva più alcun rumore, zero. Julien, infinocchiato da Roland, sarebbe ripartito senza sapere che lei si trovava lì? E la mamma? Sua madre era sempre li? Sophie aveva tralasciato di stare a sentire se l'auto ripartiva, occupata com'era ad ascoltare ciò che il piccolo Paul raccontava a tutta velocità, approfittando dell'assenza di Roland. All'improvviso il terrore la pervase e si sentì rizzare i peli delle braccia. E se Roland avesse fatto del male a sua madre? Se l'avesse uccisa come aveva ucciso la mamma del piccolo Paul? I singhiozzi le salirono in gola. Si nascose il viso fra le mani. «Non piangere» supplicò E.T. «Non piangere». Le dita sottili cercavano di scostarle le mani dalle guance. Ne aveva veramente abbastanza di E.T. Adesso lo detestava. Ma rialzando il capo, Sophie vide che anche i suoi occhi erano pieni di lacrime, che li rendevano ancora più belli e la facevano stare ancora peggio. «È a causa della mamma» gli spiegò. «Credo sia qui, e ho tanta paura per lei». Il piccolo Paul lasciò vagare lo sguardo lontano e tirò un lungo sospiro:
«Mother» mormorò. «Mother». Come se avesse capito la parola, la cappuccina cominciò a dondolarsi emettendo grida da uccello: una scimmia uccello, ci mancava anche questa! Era così comica che Sophie non poté fare a meno di ridere fra le lacrime. «È proprio strana, Mister Chance» osservo la ragazzina. «È l'unica che abbia voglia di ballare». Il piccolo Paul, invece, non rise. Sembrava riflettere, esitare. All'improvviso, tese le mani verso Sophie, che gliele prese, anche se non ne aveva alcuna voglia. Aveva notato che il bambino voleva continuamente toccarla. «Se ti dico come si apre la porta, tornerai a prendermi?» chiese con voce tremante. «La porta?» esclamò Sophie. «Sai aprire la porta?» Lui fece di sì con la testa, come se si vergognasse di averglielo tenuto nascosto fino a quel momento. «Credo di aver scoperto il codice» confessò. «Ma non ci arrivo. È troppo in alto per me. E, a ogni modo, dopo c'è una scala». Indicava le gambe. Ovviamente non avrebbe mai potuto salirla... Sophie gli strinse forte le mani. Aveva ancora più paura, ma stavolta c'era una speranza. «Tornerò a prenderti, te lo giuro sulla testa di mia madre». Il piccolo Paul sospirò di nuovo e poi mise in moto la sua poltrona, dirigendola verso la porta. La guidava benissimo. «Ci sono due combinazioni possibili» disse a Sophie. «Dovrai imparare quella giusta a memoria, altrimenti non potrai tornare. La porta si richiude automaticamente. Ti ricorderai?» Sophie si rendeva conto che il bambino continuava a temere che lei lo abbandonasse; si chinò su di lui, come aveva fatto prima, e lo baciò. «Non la dimenticherò» promise la ragazzina. «Sai come mi chiamano a scuola? La regina della memoria. E andrò a cercare tutti per salvarti». 60. Aveva aperto il cancello al ficcanaso. Poteva fare altrimenti? Se rifiutava di lasciarlo entrare, il maledetto giornalista avrebbe immaginato che aveva qualcosa da nascondere. Non si accaniva dall'inizio contro di lui? Non ci aveva messo molto a sapere ciò che lo portava lì.
«Cerco Blanche. È qui?» Voce ansiosa, sguardo diffidente. Il chirurgo non aveva esitato. «È stata qui poco fa, con Sophie. Se ne sono andate tutt'e due. Vuole entrare un minuto?» Senza rispondere, il giornalista aveva posato il casco sulla moto e lo aveva seguito in salotto. «Le offro qualcosa da bere?» «No, grazie». Lo sguardo sospettoso faceva il giro della stanza, indugiava sugli oggetti, sui libri, sui pochi quadri, sulle stampe. Nulla, lì, poteva far indovinare che quella sera Roland avrebbe lasciato la casa per sempre. «Sono venute insieme?» Una trappola. Manceau sapeva che Blanche cercava Sophie. Probabilmente da Myriam. «No. Sophie è arrivata per prima. Voleva che l'accompagnassi a Besancon. Lei sa di certo che c'è una mostra sul tema che l'appassiona. Credo di essere riuscito a convincere sua madre ad accompagnarcela personalmente». Era stato capace di ridere. «Non è stato facile ficcare la sua bicicletta nella Due Cavalli! Ma la piccola rifiutava di separarsene». Aveva sentito il ficcanaso vacillare. Il particolare: è sempre il particolare a convincere, a far pensare: questo non può esserselo inventato. Se ne sarebbe andato, adesso? Aveva fretta di tornare dai bambini. Ogni volta che rivedeva il bacio dato da Sophie al piccolo Paul, il cuore gli saltava in petto dalla felicità. E il latte che aveva bevuto! Continuava ad assaporarne ogni sorso con lui. Naturalmente, quella novità lo avrebbe obbligato a modificare i suoi piani, ad anticipare la partenza. Ma che importava, visto che il piccolo Paul non si sarebbe più rifiutato di seguirlo? «Un amico, papà, l'ultimo, poi partiremo». «Sapeva che chiamavano questo posto 'la casa del fotografo'?» butta là all'improvviso il giornalista. Roland ricade sulla terra. Era così felice per il piccolo Paul, che aveva quasi dimenticato il guastafeste. «Me l'hanno raccontato. E anche quel tizio era poco raccomandabile». «Chi? L'agenzia Rubino?» Uno stupore misto a collera lo pervade. Chi gli ha parlato dell'agenzia?
E che cosa cerca ancora? Non ha capito che il caso è chiuso? Inspira profondamente e riesce quasi a sorridere. «L'agenzia Rubino, infatti. La conosce?» «Ho un amico che se ne è servito. Sembra sia specializzata nella clientela straniera e lavori essenzialmente per e-mail». Nella testa di Roland Lagarde scatta un allarme. Julien sa. Sa dove ha affittato la casa. L'agenzia ha tradito il segreto professionale, come avrebbe fatto Grosjean se lui non avesse agito in tempo. E dietro quell'accanimento, Roland intuisce fin troppo bene chi si nasconde: il cattivo genio del piccolo Paul, colui che ha seminato l'odio e adesso fa di tutto per contrastare i suoi piani: Charles Laurent. Mantieni la calma! Se il ficcanaso fosse a conoscenza di qualcos'altro, Müller, il suo complice, sarebbe qui con lui. Un'unica soluzione: prevenirlo. «L'e-mail... un'invenzione magica, in effetti. Non indovinerà mai da dove io ho affittato questa casa. Dal Québec! Ho vissuto laggiù alcuni anni felici. Questi paesaggi me li ricordano un po'». Colpito! Nello sguardo di Manceau si disegna l'incertezza. Venuto in veste di inquirente, se ne andrà scusandosi per il disturbo. È ora. Non ne può più di essere privato della felicità che lo attende giù, sotto: la rinascita del suo bambino. Frigge, mentre è costretto a sorridere a colui che si compiace di perseguitarlo. Se avessi ancora la pistola, si mostrerebbe meno arrogante. «Bene! La lascio, dottore. Avrà da fare». Finalmente! Il «dottore», di cui il giornalista non lo aveva onorato al suo arrivo, lo riempie di un sentimento di trionfo. Indica la fornitissima libreria. «Ho un lavoro in corso, infatti. La riaccompagno». Mentre attraversano l'ingresso, un brivido lo gela scoprendo che la porta in fondo, quella che conduce allo scantinato, è socchiusa. Nella fretta di rispondere al citofono l'ha evidentemente chiusa male. Manceau non ha notato nulla, è troppo occupato a scoccare un'ultima freccia. «Sophie ci ha detto che lei non era convinto della colpevolezza del suo collaboratore. È vero?» Sophie l'ha detto a chi? A lui, ovviamente. Quella donna ha avuto solo ciò che si meritava! Un punto in meno per Sophie, che non ha saputo tenere a freno la lingua. Lui stesso ha commesso un errore, lunedì; lo deve ammettere. Ma quella ragazzina è disarmante. Buono a sapersi: non la con-
durrà a Ginevra, come aveva progettato per un attimo. Rimarrà lì. Non ha detto a Blanche che avrebbe ritrovato sua figlia? Sarà la figlia, a raggiungere la madre. I muri della colombaia sono spessi. Prima che le vadano a cercare là dentro... «Sophie ha senza dubbio interpretato male le mie parole» risponde il chirurgo scendendo i gradini della scala esterna. «Ho tentato semplicemente di spiegarle che certe persone non sono sempre responsabili delle loro azioni. Soffriva tanto per... il suo amico». Eccoli alla moto. Che cosa farà il ficcanaso adesso? Andrà a cercare Blanche a Besancon? Al suo ritorno, lui sarà già in viaggio. Il giornalista gli porge la mano. «Arrivederla, dottore». Ma prima che il chirurgo abbia potuto prenderla, la mano ricade. Negli occhi sgranati di Manceau Roland legge ora lo sbalordimento, l'incredulità. L'orrore? Seguendo lo sguardo del giornalista, si volta. Mister Chance è sulla soglia di casa. Le tenebre scendono a raggelargli il cuore. Grazie a una ragazzina, loro, le donne, hanno vinto, richiudendo per sempre su di lui la porta della camera buia. Fra l'amico e il padre, il figlio ha scelto l'amico. Il suo lamento straziante, i suoi sguardi ardenti celavano una trappola. Il piccolo Paul ha scelto l'amico con cognizione di causa, sapendo ciò che avrebbe significato per lui. La loro separazione. La morte. Dietro la cappuccina è apparsa Sophie. 61. Bach non funzionava più. Il clavicembalo ben temperato che così spesso aveva aiutato Müller a... temperare i suoi umori e i suoi sentimenti e talvolta persino ad ammettere l'inaccettabile, quel giorno era incapace di infondergli serenità. Le frasi limpide, mescolandosi o rispondendosi armoniosamente, riuscivano soltanto a sollevare nel suo cuore angosciosi interrogativi. La musica prediletta non diceva più «è così». Ripeteva il «perché?» lanciato dall'innocente di fronte a Dio. I Mercoledì nero. Il CD-ROM era arrivato per espresso alla fine della mattinata, e il commissario lo aveva subito visionato con i suoi uomini.
Qualcosa non quadrava. 'Era stato proprio Riveiro a creare il sito, la primavera precedente. Un sito frequentato poco e irregolarmente a giudicare dai messaggi, essenzialmente di bambini. Il nome di Zazu compariva nel mese di giugno: la data corrispondeva a quella del ricovero in clinica di Charles, che aveva avuto Riveiro come anestesista. Poco dopo arrivava Simba. Simba-Jean-Lou, a cui Charles, una volta tornato a casa, probabilmente aveva insegnato la strada per arrivare ad Hacuna-Matata. I bambini corrispondevano fra loro, come con altri amanti del sito, fra i quali due o tre giovani stranieri. La vita selvaggia, la distruzione dell'ambiente da parte dell'uomo costituivano i loro temi prediletti: erano dei piccoli crociati della natura. Müller aveva avuto una stretta al cuore quando Charles-Zazu aveva dichiarato in un suo messaggio che da grande avrebbe fatto l'esploratore. Mowgli faceva la sua comparsa sul newsgroup all'inizio di settembre e si mostrava subito molto assiduo, intervenendo quotidianamente. I suoi interlocutori preferiti diventavano molto presto Simba e Zazu. Diceva di abitare come loro a Saint-Rémi, fatto che sembrava di grande importanza per lui, ma manteneva il mistero sul suo indirizzo. Non parlava quasi di se stesso, vantandosi soltanto di avere centinaia di cassette di cartoni animati. Contrariamente ai suoi corrispondenti, la sua ortografia era perfetta. Thomas-Mowgli? Ma dov'erano quelle cassette? Non ne avevano trovato traccia a casa dell'anestesista. Il soggetto preferito di Mowgli, la sua spalla in certo qual modo, era Mister Chance, la scimmia che affermava di possedere. Descriveva con entusiasmo le sue molteplici doti e qualità. A sentir lui, la cappuccina univa intelligenza, affetto e malizia. Le piaceva molto disegnare, purché le fornissero un modello. Increduli, i corrispondenti di Mowgli chiedevano di vedere delle foto del bambino con la sua scimmia. «Sono rimaste tutte in Canada». Il Canada? Müller e i suoi uomini si erano guardati sconcertati. Che diamine c'entrava, il Canada? A modo loro, i bambini rispondevano all'interrogatorio dei poliziotti. «Ma dai! Lo dici perché la tua scimmia non esiste». Presto, purtroppo, due di loro avrebbero avuto la prova che l'animale esisteva davvero.
Julien Manceau si sarebbe stupito: che bisogno aveva Thomas di sprecare tante energie e di prendere strade tanto tortuose per adescare dei bambini che lo conoscevano e che lo avrebbero seguito comunque? La scimmia continuava ad assillare Müller. Era dopo il rapimento di Jean-Lou, giovedì 15 settembre, che l'anomalia - si poteva definire così un simile orrore? - si verificava. E il commissario e i suoi uomini avevano ripassato dieci volte la fine del CD-ROM. Fra quel giovedì e sabato 1 ottobre, data del sequestro di Charles, Mowgli continuava a inviare messaggi a Simba, messaggi che, naturalmente, restavano senza risposta. «Rispondimi. Perché non rispondi più?» Quale orribile stortura mentale spingeva l'anestesista a interpellare in quel modo il bambino di cui aveva fermato il cuore con le proprie mani? Mowgli spariva definitivamente dalla Rete dopo il rapimento di Charles. E Riveiro aveva cancellato il sito la sera stessa in cui Julien aveva parlato dei peli di scimmia. L'anomalia non era l'unico elemento che faceva di quel mercoledì un mercoledì nero. I risultati finali della balistica erano arrivati all'inizio del pomeriggio. La traiettoria del proiettile nella bocca de l'anestesista era orizzontale, il che faceva seriamente vacillare la tesi del suicidio. Nessuna traccia di polvere da sparo era stata trovata sulla mano della vittima. Francis Müller interruppe la lettura. «Non è possibile» disse ad alta voce. Era come dire «Non voglio». Julien Manceau aveva visto giusto, ipotizzando che Thomas fosse stato «suicidato» e che le prove della sua colpevolezza fossero state create ad arte? I dubbi del giornalista, il malessere di cui Müller non aveva voluto tener conto, erano fondati? Era possibile che l'assassino fosse ancora in circolazione? In tal caso, altre vite erano in pericolo, e mentre una parte della sua squadra aveva lasciato la cittadina, e l'altra si accingeva a farlo, e lui stesso aveva deciso di tornare a casa venerdì, avrebbe dovuto riaprire l'inchiesta. Non si era mai trovato in una situazione simile. E non osava immaginare ciò che avrebbe detto la stampa. Con passo pesante andò alla finestra e, ancora una volta, contemplò la piazza in cui due giorni prima, alla presenza del procuratore, aveva annunciato la fine della terribile storia. Le strisce di un sole rosso disegnavano in cielo il funerale del giorno: una bella immagine da cartolina. Non poteva più soffrire quel posto. A ogni costo doveva chiamare il giudice istruttore.
Mentre tornava alla scrivania squillò il telefono: Boyer. «Avevo chiesto di non essere disturbato» gridò. «Mi scusi, capo, ma Legrand, dell'Interpol, insiste per parlarle. Dice che la cosa può avere un nesso con il nostro caso». «Passamelo». Interpol... il nostro caso... L'angoscia si fece più forte. «Hubert?» «Scusa se ti disturbo, Francis. È a proposito di una telefonata che ho ricevuto ieri». Riconosceva il suo amico: in caso d'urgenza, al diavolo i convenevoli. Diritto allo scopo. In caso d'urgenza? «Il mio interlocutore era Julien Manceau, il giornalista. I suoi genitori sono amici, ricordi certamente la piccola Nina Manceau... Julien voleva che mi informassi su un certo Roland Lagarde, nel Québec. Ho trovato qualcosa, ma non riesco a mettermi in contatto con lui. È più di un'ora che tento. Ho pensato che potrebbe interessarti». Müller guardò il CD-ROM posato sulla sua scrivania. «Tutte le foto sono rimaste in Canada». Roland Lagarde, nel Québec? Una cappa di angoscia gli cadde sulle spalle. «Continua». «Lagarde, noto medico di Montreal, è sparito circa due anni fa dopo aver assassinato la moglie Roselyne...» «Con un'iniezione?» lo interruppe Müller. «Un'iniezione di cloruro di potassio?» «Niente affatto. Con una Beretta automatica 9 mm. Lagarde è fuggito negli Stati Uniti, dove si perdono le sue tracce. A parte questo...» Müller si alzò: «Aspetta, ti passo qualcuno perché gli racconti tutti gli 'a parte questo'. Ho qualcosa d'importante da fare. Ti richiamo più tardi». La voce gli si spezzò: «Se vuoi saperlo, temo di aver commesso la più grossa stupidaggine della mia carriera». 62. La voce di una bimba si ostinava a squarciare la nebbia che avvolgeva Julien. La voce gridava: «Mamma, mamma». Nina? A prezzo di uno sforzo enorme riuscì ad aprire gli occhi. Il dolore gli
martellava il capo. Si portò la mano alla fronte e la ritrasse appiccicosa di sangue. La memoria gli tornava: il rastrello, Lagarde che brandiva il rastrello. Perché non mi ha dato il colpo di grazia? «Mamma, dove sei, mamma?» Provò una stretta al cuore. Non Nina, ma Sophie! Sophie e Blanche. Blanche si trovava lì? Era in pericolo? Voltò il capo in direzione delle grida. La ragazzina girava in tondo, seguita da uno strano animale. Una scimmia! Adesso nella testa dolorante gli si affollavano le immagini, al tempo stesso sfocate e imperiose: Mister Chance che compariva sulla scala esterna, e poi Sophie. Roland Lagarde che si voltava. Grazie a Dio, la ragazzina era viva. Riuscì a raddrizzarsi su un gomito e la chiamò. Sophie non lo udì, ma la scimmia lo vide e balzò fino a lui emettendo dei latrati lamentosi. Seguendo l'animale con lo sguardo, Sophie lo notò, si bloccò, come spaventata, poi corse verso di lui e si lasciò cadere al suo fianco. «Credevo che fossi morto» singhiozzò. «Sanguini molto». Evitava di guardargli la fronte. A Julien sembrava che i denti del rastrello vi fossero ancora conficcati. Ebbe un attacco di nausea. «Sono qui» mormorò. «Sono qui, tesoro. Non aver paura». Quelle poche parole lo avevano sfinito. Sophie, Nina, tutto si confondeva. Era per entrambe che le aveva pronunciate. Non aver paura, sono qui. Aveva sognato così spesso di dirlo alla sua sorellina. «C'è anche la mamma!» gridò Sophie. «Ho sentito la sua auto». «Blanche non ha auto» corresse lui debolmente. «Ma sì! Ha quella di Myriam, lo sai anche tu. L'ho sentita. Ne sono sicura. Era lei». Le lacrime della ragazzina raddoppiarono. «Credi che l'abbia uccisa?» chiese sommessamente. Il terrore richiuse gli occhi di Julien. Rivedeva il volto di Lagarde nel momento in cui aveva alzato il rastrello. Odio, sofferenza. Immensa sofferenza. Se l'inferno esisteva, doveva essere popolato di quei volti. Udiva ancora il terrificante singhiozzo del chirurgo. Riapri gli occhi e prese la mano della ragazzina. «L'hai vista? Hai visto tua madre con Roland?» Sophie scosse negativamente il capo. «No. Non potevo ancora uscire».
«E lui? Sai dov'è?» Ogni parola che pronunciava gli straziava la fronte. Al solo pronunciarla, gli veniva da vomitare. «È rientrato in casa» affermò Sophie, singhiozzando di nuovo. «Ho paura di andarci. È là». È qui, si ricordò Julien. Ciò che Blanche non smetteva di ripetere. Era là, e forse sarebbe tornato. Doveva mettere Sophie al sicuro. Ma, come negli incubi in cui tentava di salvare Nina, aveva un corpo di piombo che non riusciva a muovere. «Nella mia tasca... il cellulare» balbettò. Sophie capì. Senza smettere di piangere, infilò la mano nella tasca del suo giubbotto, ne estrasse l'apparecchio e glielo porse. Julien non riuscì a richiudere le dita sull'oggetto e lo posò sul terreno, accanto alla faccia. La ragazzina lo guardava, trattenendo il fiato. Lui tentò di sorriderle. «Chiamo il commissario Müller» mormorò. «Verrà ad aiutarci. Andrà tutto bene». Rialzò leggermente il capo e premette alcuni tasti. Il numero era in memoria. Le cifre danzavano in un velo rosso. Finalmente si udì lo squillo. Parecchi squilli. «Pronto?» Una voce di donna. Si era sbagliato? «Müller» farfugliò. «Mi passi Müller, presto». «Il commissario Müller non c'è più, signore». «Allora qualcun altro, per favore. La polizia...» Era consapevole della propria voce impastata. La sua interlocutrice probabilmente lo scambiava per un ubriaco. «Ma non c'è più nessuno, signore. Tutte le auto sono partite. Ha visto l'ora?» La donna riagganciò. Julien lasciò ricadere il capo: più nessuno? «Non voglio più vederla» aveva detto Müller. Stretta al petto di Sophie, la scimmia lo fissava con i suoi occhi gialli. La T-shirt della ragazzina sarebbe stata piena di peli. Müller. Chiamare Müller al telefonino. Premette alcuni tasti. Una voce maschile echeggiò autoritaria e la scimmia indietreggiò. «Julien, per favore, richiamami all'Interpol. L'uomo di cui mi hai parlato è pericoloso». Hubert. Hubert Legrand. «Messaggio terminato, premere il tasto con l'asterisco». Il tasto con l'asterisco. Quell'uomo è pericoloso. Aveva voglia di ridere, ma non ne ebbe la forza. Ha visto l'ora? La notte scendeva sul parco. Invase anche la sua mente. Era così stanco. Rassicura-
re Sophie. Rassicurare Nina. Dormirò soltanto un po', non morirò. Ma che cosa gli raccontava Nina, piangendo così? Chi era quel Paul di cui parlava? Paul. Interpol. Era Blanche che lui voleva. Blanche che chiamava, mentre partiva. Dormire. Non morire. Nel momento in cui stava abbandonando la lotta, in cui si stava lasciando sopraffare dalla cappa di ghiaccio che le avvolgeva il cuore e il corpo, Blanche aveva sentito le invocazioni di Sophie: «Mamma, dove sei, mamma?» Le era tornata alla memoria una sofferenza analoga. Era stato durante una vacanza sulla neve. Quando la circolazione le era ritornata nelle dita dei piedi gelate. Sophie era viva, il sangue le tornava nel cuore: un dolore simile a quello di un parto. «Mamma, dove sei, mamma?» «Sono qui». Dalle sue labbra era uscito solo un mormorio. Ma anche se fosse stata capace di gridare, chi l'avrebbe sentita? I muri dell'edificio erano troppo spessi, e la colombaia troppo lontana dalla casa. Poi le invocazioni erano cessate, e il terrore l'aveva assalita di nuovo. E se non l'avessero mai ritrovata? Tutto era cominciato la mattina della sparizione di Jean-Lou, con un piccione venuto ad avvertirla sul suo balcone. Tutto sarebbe finito in quella colombaia. Logico. Per il momento, lassù, se ne stavano tranquilli. Era ora di dormire, per loro? Dalle feritoie filtrava ormai solo una luce fioca. «Dove vai mezza nuda?» «Dal fotografo». Myriam aveva capito? Era la moto di Julien, quella che aveva sentito poco prima? Julien. Julien. Sarebbe morta senza avergli detto che lo amava? Che ti amo moltissimo, come il fratello che mi è tanto mancato, come l'amante che non sei stato. I singhiozzi la soffocarono. Il gelo l'avvolgeva di nuovo. Almeno fosse finita in fretta! Per aiutarla ad addormentarsi, quando era piccola, la nonna le leggeva delle favole. La sua preferita si intitolava La principessa sul pisello. La figlia del re si riconosceva dalla delicatezza della pelle. Un semplice pisello sotto una pila di materassi le impediva di dormire. Blanche rivedeva ancora l'illustrazione.
Ma perché si ricordava di quella fiaba, adesso, nella sua semincoscienza, nel suo semicoma? Un pisello le dava fastidio all'anca. Ma no! Non era il pisello, ma un foglio da disegno ripiegato: il disegno di Jules, il bambino con la flebo che lei aveva battezzato mentalmente «il ragazzino Coraggio». Coraggio. A prezzo di uno sforzo estremo, riuscì a sollevare le palpebre. Era distesa vicinissimo alla porta, con il viso incollato alla sua base, alla ricerca di un filo d'aria che le permettesse di sfuggire al fetore orribile. Un filo d'aria. Un resto di luce. Coraggio. Senza svegliarli, senza irritarli, estrarre il foglio di tasca, aprirlo, infilarlo sotto la porta, spingerlo fino a farlo sparire. Lasciare la cordicella dell'aquilone. Come in risposta, un rumore di motore si levò in lontananza. Auto, stavolta, molte auto. Se lo inventava lei quell'ululare di sirene? Di nuovo la colombaia si infiammò, e la principessa sul pisello perse conoscenza. 63. Una ragazzina dai riccioli biondi si precipitava verso le auto che invadevano il cortile di Lagarde, gridando parole che i singhiozzi rendevano incomprensibili. Julien Manceau giaceva accanto alla sua moto con il volto insanguinato. Una strana scimmia dalla fronte bianca saltellava emettendo grida da uccello, una scimmia che gli uomini di Müller avevano tanto cercato e di cui non avrebbero mai dimenticato il nome: Mister Chance. Balzando fuori dai loro veicoli, una mano sul calcio della pistola, i poliziotti si chiedevano se non stessero sognando. Alcuni minuti prima, radunandoli per un'irruzione nella casa del rispettabile chirurgo della clinica dei Quatre Lacs, Müller aveva loro raccomandato la massima prudenza: colui che andavano a cercare -se era ancora là aveva molto probabilmente cinque delitti al suo attivo: la propria moglie, Victor Grosjean, Thomas Riveiro e i due bambini di Saint-Rémi. Non ci teneva a vedere la lista allungarsi. La voce del commissario era pesante di collera e di risolutezza. I suoi uomini non lo avevano mai visto così e quando, al cancello del parco, nessuno aveva risposto ai suoi appelli al citofono, Müller senza esitazione a-
veva dato l'ordine di far saltare la serratura. Una decisione che non rimpiangeva, visto lo spettacolo che aveva sotto gli occhi. Due uomini si occupavano già del giornalista; altri, guidati da Boyer, si appostavano attorno alla casa. Il commissario si avvicinò a Sophie e le prese le mani, arrestando la sua folle corsa. La piccola sembrava prossima a una crisi isterica. «Calmati, ragazzina. Calmati. Cerca di raccontarmi cos'è successo». «La mamma, bisogna ritrovare la mamma» singhiozzò lei. «Vuoi dire che tua madre è qui? Siete venute insieme?» «Io sono venuta prima. Ma poi ho sentito la sua auto. Era l'auto di Myriam. Ne sono sicura». «L'hai vista o l'hai solo sentita?» chiese Müller paziente. «Sentita». Müller fece segno a uno dei suoi uomini. «Cercami quest'auto. È una Due Cavalli». La scimmia si era avvicinata. Saltò in braccio a Sophie. Normalmente, Müller avrebbe dovuto catturare l'animale e metterlo in luogo sicuro. Ma in quella storia pazzesca c'era forse qualcosa di «normale»? Non se la sentiva di strapparla a quella ragazzina disperata. Inoltre, Mister Chance non sembrava affatto desiderosa di scappare: era la cappuccina addomesticata di cui aveva letto le entusiastiche descrizioni sulla Rete, durante il pomeriggio. Rivide Sophie nel suo ufficio, alcuni giorni prima, venuta a portargli la formula magica: Hacuna Matata, che avrebbe permesso all'inchiesta di progredire in maniera fulminea. Ed ecco che la ritrovava lì, sul probabile luogo dei delitti, con Mister Chance in braccio. «Dimmi, Sophie» proseguì con precauzione. «E Roland? Sai dov'è?» «È rientrato in casa». La ragazzina non aveva esitato. Müller si voltò verso l'elegante dimora a due piani. Una casa in un grande parco, nei pressi di Saint-Rémi! Era proprio lì che Jean-Lou e Charles erano stati tenuti prigionieri? «Ma quale potrebbe essere il movente di Lagarde?» aveva chiesto uno dei suoi investigatori mentre correvano verso la villa. «Lo sapremo probabilmente solo indagando sulla sua infanzia» aveva risposto Müller. Era così per tutti i serial killer. Ed è così se vogliamo spiegare il comportamento di ciascuno di noi, a-
vrebbe detto sua madre. Tese la mano a Sophie. «Vieni, piccola». La trascinò verso l'auto su cui venivano prestate le prime cure a Julien. Un uomo gli puliva il volto cui i rebbi del rastrello avevano inferto profonde ferite, risparmiando per fortuna gli occhi. Il giornalista era pallido come un cencio e sembrava soffrire molto. Vedendo avvicinarsi Müller, con un gesto fiacco indicò la cappuccina, sempre abbarbicata a Sophie. «La scimmia non la scoccerà più, commissario» mormorò. Müller non rispose. Non c'era bisogno di spiegazioni, fra loro. Tutto era stato detto. C'era stata semplicemente una confusione di nomi: Thomas invece di Roland. Thomas aveva solo creato il sito di cui si era servito Roland. Lo aveva pagato con la vita. «Inutile chiederle chi l'ha conciata così» constatò in tono burbero il commissario. «Sophie assicura che si trova in casa. Conferma?» «Non posso confermare un bel niente» rispose il giornalista. «Ma Sophie dice anche che Blanche si trova qui. Forse l'ha presa in ostaggio. La supplico, faccia attenzione». L'uomo che Müller aveva mandato alla ricerca dell'auto tornò di corsa, seguito da Boyer. Erano arrivati da meno di dieci minuti. «Nessuna traccia della Due Cavalli, capo. In compenso, abbiamo trovato l'auto di Lagarde in una rimessa. Il bagagliaio è chiuso a chiave. Dobbiamo aprirlo?» «Per il bagagliaio vedremo più tardi. Occupiamoci prima del guidatore. Può darsi che Lagarde sia in casa. Avrò bisogno di tutti». In lontananza si udì la sirena dell'ambulanza che Müller aveva chiamato. Si sarebbero presi cura di Manceau e di Sophie. I poliziotti si radunarono attorno a lui. Intento a parlare loro, Müller non si accorse che la cappuccina si staccava da Sophie e imboccava un sentiero che portava a un edificio rotondo circondato da pini. L'animale raccolse un pezzo di carta il cui biancore spiccava nell'oscurità calante della sera. Ritornò verso la ragazzina e glielo porse emettendo brevi latrati, come se reclamasse qualcosa. Sophie lo prese. «È lei! È la mamma!» gridò. Lo sapevo che era qui. Hanno disegnato degli aquiloni, oggi. Tutti si voltarono verso la piccola che agitava il disegno. Julien si alzò faticosamente dal sedile dell'auto e andò a prendere il foglio.
Era un foglio di carta da disegno su cui era raffigurato un aquilone, tenuto da un bambino su una spiaggia. Il disegno era firmato e datato. «Commissario!» La voce alterata di Julien allarmò Müller, che lasciò i suoi uomini e si avvicinò. Julien gli porse il foglio. «La data... guardi la data...» Vedendo il disegno cambiare di mano, la scimmia si innervosiva. Saltellava, cercando di afferrarlo. «Le piace molto disegnare, purché le si fornisca il modello» diceva Mowgli sulla Rete. Mowgli-Roland? Il disegno era firmato Jules. Datato 12 ottobre. Quel giorno. Sophie aveva ricominciato a correre chiamando sua madre. Müller la raggiunse. «Avevi ragione. Tua madre è qui» riconobbe. «Ti crediamo. Hai visto dove Mister Chance ha raccolto questo foglio?» Sophie si fermò. Tese il dito verso un sentiero, in fondo al quale si distingueva una colombaia. «Credo che sia là». «Oh Dio, povero amore mio!» esclamò Julien. 64. Avevano trovato Blanche svenuta e l'avevano portata all'ambulanza, dove si erano dati da fare innanzitutto per riscaldarla: era gelata. Riavutasi, la donna aveva rifiutato di essere portata via. Non voleva lasciare né Julien né sua figlia. Fra le loro braccia piangeva di sollievo e di gratitudine nei confronti di coloro che l'avevano liberata. Piangeva anche per lo stupore di essere ancora viva e per le ferite orribili di Julien. «Amore mio, amore mio». La Due Cavalli di Myriam, con la bici di Sophie all'interno, sarebbe stata ritrovata in seguito, lungo un sentiero del bosco. Müller e i suoi uomini avevano perquisito stanza per stanza i due piani della casa senza trovare Lagarde. Restava lo scantinato. In fondo a una scala ripida avevano scoperto una porta blindata, difficile da aprire. Ci sarebbe voluto uno specialista. Se Lagarde non era fuggito poteva trovarsi solo là. Dai finestrini, troppo stretti per permettere a un uomo di potervisi infilare, non si vedeva nulla. Sembrava che all'interno fosse stata abbassata una veneziana. «La casa del fotografo...» mormorò Blanche.
«Una volta ci abitava un fotografo» spiegò Julien a Müller. «Aveva sistemato il suo studio nello scantinato. Non godeva di una buona reputazione». Sophie si staccò di colpo dalle braccia di sua madre. Dopo una breve parentesi di calma, era di nuovo in lacrime. «Eravamo là! Bisogna andare a cercarlo, presto!» Prima che potessero trattenerla, la ragazzina si precipitò verso la casa, dove un uomo la fermò. Müller la raggiunse. «Vuoi dire che Roland ti ha tenuta nello scantinato?» le chiese con dolcezza. «Ma sì» gridò Sophie. «Perché lui mi desse i suoi giochi. Devo andarci, ho promesso». Martellava il petto di Müller con i pugni. Questi scambiò uno sguardo con i suoi poliziotti: la povera bambina ne aveva viste troppe... «Ascoltami, Sophie» disse bloccandole le mani. «Nessuno può andarci, né tu né noi. La porta è dotata di un codice. Non si può aprire». «Ma io lo conosco» insistette lei, disperata. «Me lo ha dato. L'ho imparato a memoria». I poliziotti si guardarono di nuovo, impietositi. Era impossibile che Lagarde avesse rivelato il codice a Sophie. La poverina vaneggiava. Anche se per sua madre non si sbagliava; si trovava proprio lì. Müller si accovacciò davanti a lei. «Dato che lo hai imparato a memoria, dimmelo. Scenderò a vedere se funziona. È troppo pericoloso per te». Sophie si liberò le mani in un gesto di collera. «Non capisci niente» dicevano i figli a Müller certe volte; Sophie aveva lo stesso modo di guardarlo. «Voglio venire con te. Altrimenti avrà troppa paura». E non avrà torto, lo schifoso, pensò Müller. Senza smettere di piangere, Sophie fissava il suolo con aria cocciuta. Il commissario capì che non avrebbe ceduto. Dall'ambulanza Blanche, avvolta nelle coperte, seguiva la scena con ansia. Julien, che si reggeva appena sulle gambe, li raggiunse. «Blanche vorrebbe sapere cosa succede con Sophie». Müller prese la decisione. «Le dica di non preoccuparsi. La portiamo di sotto. Sostiene di conoscere il codice di apertura. Non correremo alcun rischio». Julien scosse il capo. Si sentiva ancora frastornato. I calmanti che gli a-
vevano somministrato non servivano a granché, ma almeno attutivano il dolore. Alcun rischio? Si fidava di Müller, che aveva due figli. Di sotto... di sotto... che cosa gli aveva raccontato Sophie prima che svenisse di nuovo? Gli tornava in mente un nome: Paul. Paul..! Interpol... O magari stava mescolando tutto? «Faccia attenzione a lei» balbettò, di nuovo in preda alle vertigini. «Non si preoccupi. E del resto non è sicuro che lui si trovi là». Müller si girò verso i suoi uomini. «Andiamo». Circondando Sophie, con le armi in pugno, entrarono di nuovo nella casa. Con passo deciso la ragazzina attraversò l'ingresso, andando diritta alla porta che dava sulla scala. Evidentemente conosceva la strada. In quali circostanze Lagarde l'aveva portata là? «Per darmi i suoi giochi» aveva appena detto Sophie. Di quali giochi si trattava? Scesero la scala. Regnava il silenzio, assoluto, funebre. Müller provò una stretta al cuore. Cosa avrebbero trovato nello studio del fotografo? Arrivati in basso, due uomini si appostarono ai lati della porta mentre un altro si piazzava dietro la ragazzina, pronto ad afferrarla se la porta si apriva. «Forza, piccola». Di rado Müller aveva impartito un ordine così difficile. Sophie non piangeva più; ora stringeva forte le labbra. Dopo essersi concentrata per qualche secondo, tese il dito verso i tasti e ne premette cinque. La porta girò sui cardini. Quando il poliziotto alle sue spalle l'afferrò fra le braccia per allontanarla, la ragazzina gridò. In vita sua, Müller non avrebbe dimenticato lo spettacolo che si offriva ai suoi occhi. Se c'era una stanza magica era quella. La sala, a volta, era immensa, magnificamente illuminata, con il pavimento lastricato, le pareti coperte di poster, i più belli che avesse mai visto. E dappertutto c'erano giocattoli. Giochi di costruzioni, di società, modellini di ogni sorta, certi costruiti per metà, altri terminati, aerei, navi, un'astronave. Un invito al viaggio. Senza contare i videogiochi, le cassette, i libri e i fumetti. Roland Lagarde aveva accumulato tutto quel materiale nella speranza di trattenere lì i bambini che progettava di rapire? O si sarebbero dovute cercare nella sua infanzia le ragioni di quelle spese così esagerate, così vane? Dopo alcune intimazioni rimaste senza risposta, i poliziotti esploravano il posto lentamente, quasi con rispetto. Müller si diresse verso una porta
chiusa. «Se è là dentro, Lagarde, esca!» ordinò. Attese qualche secondo e poi spinse la porta con il piede: si aprì. Piccola e senza finestre, la stanza era illuminata fiocamente da una lampada che pendeva dal soffitto. Un intero lato era occupato da vasche. Si trattava senza alcun dubbio della camera oscura del fotografo. Roland Lagarde giaceva su una branda, la manica sinistra della camicia rimboccata, una mano che sfiorava il pavimento, accanto alla siringa con cui aveva fermato il proprio cuore. «Stavolta è davvero finita» annunciò Müller con voce sorda. Stupito dal silenzio che accoglieva la sua dichiarazione, si voltò e rimase impietrito. I suoi uomini facevano aia a Boyer, che spingeva verso di lui una poltrona a rotelle. Una a una, le armi rientravano nei loro foderi, i volti si abbassavano. Solo una musica avrebbe potuto dare voce all'emozione che li assaliva tutti, al loro tragico interrogativo. Il bambino infermo che occupava la poltrona doveva avere una decina di anni. Il suo volto era di una grande finezza e come trasparente, incorniciato da capelli biondi, quasi bianchi, illuminato - ma si poteva dire «illuminato»? - da occhi di un azzurro intenso. Una bellezza irreale, che ricordò a Francis Müller quella del Piccolo Principe, tanto visto, tanto letto. Un ragazzino piovuto da un altro pianeta. Arrivato accanto a lui, il bambino tese il collo verso la camera oscura, la cui porta era rimasta aperta. Vide l'uomo sul letto. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Papà» mormorò. Contemporaneamente a Sophie, Mister Chance fece irruzione nella sala, saltellò fino al cadavere e scoppiò a piangere. Sophie si precipitò accanto al ragazzo e gli circondò le spalle con un braccio. «Hai visto? Sono tornata». «Chi sei?» chiese Müller al ragazzino con voce rotta. Questi alzò gli occhi verso di lui. «Sono Mowgli» rispose. RINGRAZIAMENTI Grazie a Jacques Delarue, commissario capo onorario di polizia, storico
e amico, che è stato fra i primi a incoraggiarmi ad affrontare la commovente storia del piccolo Paul. A Frédéric Pechenard, capo della squadra anticrimine, che, con la sua umanità, mi ha ispirato il personaggio del commissario Francis Müller. E a Stéphane Goldmann, esperto di Internet, cui è toccato il difficile compito di guidare una fedelissima della penna nel mondo magico della Rete. FINE