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STEVE MARTINI PROVA SCHIACCIANTE (Compelling Evidence, 1992) A Leah, il cui amore e la cui ispirazione hanno guidato la stesura di questo libro. È questo il primo dei castighi, che nessun uomo venga assolto se si giudica da sé. GIOVENALE 1. Da qualche parte dietro le quinte vengono accese le luci nella camera. Dreyers mi dà un colpetto di gomito. «Sembra la Sfida da 64.000 dollari», mormora. Lo dice a me, ma lo sentono anche gli altri. Un breve intermezzo comico. Dalla pedana rialzata alle nostre spalle giungono risolini soffocati. Johnston e l'altra guardia non ridono. Dreyers sussurra ancora più sottovoce, questa volta soltanto a me: «Fra un po' sparano la domanda». Lo guardo. «Per 64.000 dollari: quanto tempo riuscirà a trattenere il respiro?» E mi strizza l'occhio. Sento qualcuno che ridacchia, a fianco di Dreyers. Un altro poliziotto, uno dei suoi amici. Pessimo gusto, penso. Eppure, scrutando la scena, devo dargli ragione. Con il soffitto a volta e l'illuminazione esagerata, come quella delle vetrine di un grande magazzino, la stanza sembra proprio la scintillante, squallida cabina di un quiz televisivo degli anni '60. Una guardia, sola, entra dalla porta sull'altro lato della camera. Mentre la porta viene richiusa, si sentono chiaramente grida soffocate, litanie di un cupo, disperato lamento. Da adesso in poi, per l'uomo in attesa all'altro lato della porta ogni atto di questa sistematica procedura rappresenta un passo verso la morte. Con movimenti rapidi e misurati la guardia abbassa due veneziane verdi, davanti alle finestre sull'altro lato della camera. Nasconderanno gli incaricati quando apriranno le valvole e abbasseranno la leva che provocherà la fuoriuscita del gas letale.
Poi le vedo: sono grosse come palle da softball. I granuli di cianuro di sodio, una polvere che sembra lievito, sono stati compressi in due sfere di mezzo chilo ciascuna. Sono posate su due pezzi di buratto e fissate a un dispositivo sopra le vasche che stanno sotto le due sedie. Le sfere letali pendono dal filo appeso a due bracci ricurvi di metallo. Quando verrà azionata la leva, i bracci si abbasseranno, e il cianuro cadrà nella soluzione di acido solforico e acqua. Per ragioni di sicurezza, le due vasche sono ancora vuote. È presente il padre di Sally Ryan. Ha dieci anni di più; i capelli sono grigi, il volto è segnato da rughe molto più profonde di quanto ricordassi. Se ne sta in disparte, come fosse qui per un altro scopo, per consumare una vendetta antica e sacra, nata direttamente dall'istinto umano. Il ricordo di una figlia violata e uccisa è lungo a morire. Chiedo a Ryan notizie dei genitori dell'altra ragazza, Linda Maldinado. «Sono divorziati», risponde, come se questo spiegasse la loro assenza. In realtà, intendeva dire che sono distrutti, devastati da un lutto impossibile da superare finché questa cosa fosse rimasta aperta, incompiuta. È la prima volta che vedo qualcuno delle due famiglie dai tempi del processo, da quando Ryan e la più aggressiva signora Maldinado si attardavano con me nei corridoi, chiedendo che fosse fatta giustizia. Ryan ora mi fissa con aria chiaramente cinica: l'incancellabile amarezza di chi ha atteso troppo a lungo la fine del viaggio. Io sono qui per fare un favore a Sam Jennings, l'ex procuratore distrettuale con il quale ho perseguito Danley. Jennings è malato, sta troppo male per presentarsi a questo appuntamento; forse è lui stesso troppo vicino alla morte per guardarla diritto negli occhi. C'è anche Gale Haight. Gli ho fatto un cenno di saluto mentre salivamo sul furgone. Non mi ha risposto. All'università, Haight era due anni avanti a me, e di solito è un tipo cordiale; in un giorno come questo, però, non riesce nemmeno a grugnire un ciao. Ha un grosso peso da portare: è stato lui il difensore di Danley al processo. C'è qualche poliziotto, in rappresentanza del corpo. Lo impone la legge. Gli altri sono dieci uomini e due donne. Ho il sospetto che si tratti di pupilli del governatore o del direttore del penitenziario, ospiti ufficiali a questo macabro spettacolo. Sono vicino a Jim Dreyers, che lavorava per l'ufficio dello sceriffo e adesso è in pensione. Dopo gli omicidi, Dreyers ha seguito le tracce di Brian Danley fino all'appartamento della sua ragazza. Con l'appoggio della
squadra SWAT, ha eseguito l'arresto e condotto Danley, con i polsi ammanettati dietro la schiena, verso un'auto della polizia. Durante il tragitto, Danley ha continuato a sputare in direzione di telecamere e macchine fotografiche; un grosso scaracchio verde, colto al volo a mezz'aria, è finito al centro di una delle fotografie. La foto è uscita sulla copertina di Newsweek, in un numero speciale dedicato alla recrudescenza del crimine. Dopo la condanna, il caso di Danley è stato seguito da abili avvocati d'appello, professionisti che sono riusciti a ritardare questo appuntamento sei volte in sette anni. Durante questo periodo, in presenza dei fotografi, Danley è stato la personificazione della cortesia e del riserbo. Un anno fa, un articolo strappalacrime pubblicato sul bollettino dell'ordine degli avvocati lo ha dipinto come la guardinga immagine della giustizia negata. A sentir loro, Danley sarebbe solo la sfortunata vittima di una sindrome da alcolismo in gravidanza. Un esercito di strizzacervelli si è messo al lavoro per convalidare questa diagnosi, l'ultima dell'infinita serie di malattie sociali invocate per giustificare il suo crimine, o almeno per evitargli la punizione. Gli articoli su di lui sono stati pubblicati solo dove potevano ottenere il massimo effetto. Non sulle riviste per «menti critiche». Gli avvocati di Danley hanno mirato a un pubblico più elevato. Li hanno fatti uscire sul tipo di pubblicazioni che un giudice di Corte d'Appello può leggere quando ha un'oretta libera. La porta sul lato opposto della camera, che sembra tolta di peso da un sommergibile d'annata, è aperta. Al nostro arrivo, nella stanza c'erano già tre persone: una donna anziana e due sacerdoti. Uno dei sacerdoti confortava la donna, cingendole le spalle con il braccio. Immagino che sia una parente del condannato. Sette anni fa ho affrontato Danley ogni giorno, per quattro mesi. Mi chiedo se oggi mostrerà ancora lo stesso fegato. Allora era spietato. Inflessibile. È stato il peggior incubo dei suoi stessi avvocati. Per tutte le settimane del processo, sul suo viso è apparsa un'unica espressione, in una gamma infinita di varianti: il compiacimento. Ha sorriso per una mezza giornata di orrori, quando c'è stata la deposizione del medico legale; quella volta, una giurata ha vomitato la prima colazione. Contro il parere dei suoi avvocati, ha voluto deporre. Ha negato il minimo rapporto con il crimine, in totale contraddizione con un mare di prove, comprese le sue impronte digitali sulla scena del delitto. Ha avuto qualche difficoltà a spiegare come mai si fossero sovrapposte al sangue delle sue due vittime.
Dopo la condanna, nella fase precedente la sentenza, davanti a una giuria solo poco meno sbalordita del suo avvocato, Danley ha ammesso la propria colpa. La sua versione del rimettersi alla clemenza della Corte è consistita in un racconto in pubblico dei due delitti, esposti con sconvolgente minuziosità. Ricordo le vivide fotografie di Sally Ryan e Linda Maldinado, dopo che erano state violentate e sodomizzate. Le immagini erano dominate dalle grottesche sfumature brunastre del sangue rappreso. Le gole erano state tagliate con la precisione di un bisturi. Danley aveva usato la lama affilatissima e ricurva di un coltello da linoleum. «Un ferro del mestiere», lo aveva definito. Ma il coltello in questione non vedeva il linoleum da anni. Danley lo teneva per la occasioni speciali. Una volta lo aveva usato per incidere una A, profonda sino all'osso, nella guancia destra della sua convivente. Dopo un drink di troppo, Danley si era trovato a farneticare sulle infedeltà della convivente, che non vedeva da un anno. Un luminare d'ubriacone incontrato al bar gli aveva fatto un riassunto della Lettera scarlatta, calcando la mano sui dettagli sensazionalistici. Mi faccio forza al pensiero che Brian Danley è una creatura di cui il mondo farà volentieri a meno. Controllo l'orologio. L'ora stabilita è già passata da un minuto. Si sentono dei suoni dall'altro lato della camera. Il lamento disperato di un uomo. Parole incomprensibili, tranne una. La ripetizione di una sola sillaba diventa più forte: «No-o-o-o...» Due guardie impassibili entrano dall'altro lato. Dietro di loro, Brian Trevor Danley si agita debolmente. È irriconoscibile: ha perso venti chili dall'epoca del processo, è diventato uno spettro. La tracotanza e la spacconeria si sono dissolte. Le ginocchia gli cedono, trascina i piedi. Due guardie lo sorreggono per le braccia; due tori che lo spezzerebbero come un fuscello se opponesse resistenza. Le mani di Danley sono ammanettate davanti. Gli occhi sono allucinati, deliranti; sembrano voler divorare tutte le immagini possibili nei pochi secondi che restano. Danley scruta i volti al di là del vetro, non li riconosce. Trascinando i piedi scalzi, oltrepassa la soglia. Lo spingono all'interno della camera. Quando lo girano e lo costringono sulla sedia, vede la donna. Il suo sguardo si illumina. «Bampa. Bampa.» Sta implorando la donna che è assieme ai due sacerdoti. Lei ha le braccia tese, come se potesse raggiungerlo e afferrarlo. Do un colpo di gomito a Dreyers e indico con un cenno la donna. «La zia. Bampa è il nomignolo che lui le ha dato da bambino.» Dreyers
si stringe nelle spalle, come per dire: «Non è colpa mia». Danley indossa una camicia azzurra da lavoro, di quelle che fanno i detenuti, aperta sul collo, e i jeans della prigione. Il fatto che sia senza scarpe la dice lunga sul viaggio che sta per intraprendere. Dal davanti della camicia sporge un tubicino nero. Fa parte dello stetoscopio che verrà collegato a un apparecchio sul muro: servirà a un medico per stabilire il momento del decesso. Con movimenti veloci ed efficienti, tre delle guardie lo legano alla sedia. Cinghie alte cinque centimetri lo tengono dritto e fermo: due attorno a ciascun braccio, due attorno al petto e all'addome. L'altra guardia sistema le cinghie delle gambe. Finiscono in meno di un minuto. Due guardie se ne vanno. Un'altra aggancia lo stetoscopio, poi dà a Danley un colpetto sul ginocchio e gli dice qualcosa. Non riesco a udire le parole, ma gliele leggo sulle labbra. «Quando senti il gas, respira profondamente.» Ora Danley è atterrito, non capisce più nulla, ruota freneticamente la testa da una parte all'altra. Nella piccola stanza, il suo lamento è un gemito basso, incessante; un mantra distorto. Camminando all'indietro, l'ultima guardia esce dalla camera, e la porta viene chiusa e sigillata dall'esterno. Adesso, le grida di agonia all'interno sono smorzate. Danley gira la testa e guarda di nuovo verso di noi. «Qualcuno...» dice. Poi le parole si confondono, e non riesco a capire il resto. Di certo è una sorta di invocazione. Sta implorando che qualcuno intervenga. Con un ritardo di due minuti sull'ora fissata, il condannato è solo nella camera sigillata. All'improvviso, la testa crolla in avanti, e io penso che forse è cominciato. Poi, lentamente, Danley solleva lo sguardo, e capisco che sta respirando senza difficoltà. Si guarda attorno, verso le finestre della camera. Lancia un'occhiata alla sua destra, alla donna che chiama Bampa. Lei gli volta le spalle: il dolore ha ceduto il posto alla rassegnazione. Uno dei due sacerdoti fa un cenno di incoraggiamento. Nel suo parossismo di terrore, Danley trova un fugace istante di lucidità, perché ho l'impressione che ricambi questa gentilezza con un leggero movimento del capo e un tremolio quasi impercettibile delle palpebre, pesanti sugli occhi allucinati. Ha le labbra secche e screpolate, continua a passarci sopra la lingua; cerca di inumidirle come può nei suoi ultimi secondi di vita. Adesso, da dietro le veneziane sull'altro lato della camera, giungono suoni. Danley gira di scatto la testa per vedere. Un liquido sta scendendo nelle vasche sotto la sedia.
«No, no, no.» Quasi un balbettio. La sua voce si alza di un'ottava. «Non ancora.» Stringe le mani sui braccioli, come se stesse per essere lanciato nello spazio assieme alla sedia. Il rombo di una ventola soffoca gli ultimi suoni provenienti dall'interno. Potente come il ruggito del motore di una nave, scuote il pavimento metallico della camera, vibra nel cemento sotto i nostri piedi, acquista velocità. In un punto imprecisato sull'altro lato, una guardia chiude il canale di ventilazione che corre sotto la camera. Danley gira la testa verso di noi. I suoi occhi sono colmi di terrore, schizzano fuori delle orbite. È come se nessuno gli avesse detto cosa aspettarsi. All'interno, la ventola ha creato un vuoto. Sta cominciando a risucchiargli l'aria dai polmoni; crea un vuoto che sarà riempito da un nuovo, inatteso orrore. Noi sentiamo soltanto il ronzio della ventola. All'improvviso, i due bracci che reggono il carico mortale si abbassano. Le palle di cianuro scompaiono. Calderoni ribollenti cominciano a produrre il gas invisibile che sostituirà l'aria risucchiata dal vuoto. Uno, forse due secondi. Il petto di Danley è scosso da spasmi violenti, da convulsioni che producono una serie di forti conati. La testa si riversa all'indietro e poi in avanti, nell'inutile tentativo di sfuggire all'esalazione invisibile che sale da sotto la sedia. Poi i movimenti di Danley si placano, come se una calma improvvisa fosse scesa su di lui. Volta appena la testa nella nostra direzione. Gli vedo gli occhi. Sono due spazi bianchi. Le pupille sono rovesciate sotto le palpebre come i nastri di una slot machine. Ora dalla bocca gli escono soltanto dolorosi ansiti. Sono automatici, credo, perché non penso che con quella dose di gas lo si possa ancora ritenere cosciente. Le dita sono rigide, acciaio bianco. Artigli ostinati sui braccioli di metallo della sedia. Stando al mio orologio, è trascorso quasi un minuto quando finalmente la testa crolla in avanti, immobile, con lunghe ciocche di capelli neri che pendono, scompigliate, attorno al viso. Dopo un minuto e quindici secondi, lo sforzo finale di ruotare la testa di lato; un gesto inconsapevole, senz'altro uno spasmo muscolare. La sagoma nella camera è ora assolutamente immobile, il mento posato sul petto, senza il minimo segno di respirazione. Mi aspettavo il rosso ciliegia dell'ossido di carbonio, o l'azzurro cianotico di un attacco di cuore. Invece, la sua pelle ha un pallore grigio cenere. Questo colore si imprime nella mia mente, come corollario visivo al sapore di mandorle amare, il segno del cianuro. Passano alcuni secondi nell'immobilità più assoluta. Un liquido viscoso scorre attraverso la costellazione di fori del sedile metallico della sedia.
Esce da Danley. Parte del liquido si mescola al contenuto mortale della vasca. Distolgo lo sguardo. Ho visto tutto quello che era mio dovere vedere. Posso, con certezza, attestare la morte di quest'uomo. Posso apporre la mia firma al verbale di esecuzione capitale, come impone la legge. Uno scrittore, dopo avere assistito a quello che io ho appena visto, lo ha definito un «minuetto formalizzato, un rituale di morte». In questa fredda, cinica prassi dello Stato, c'è una dose calcolata di repulsione che dovrebbe far scoccare almeno una scintilla di pietà in ogni anima razionale. Se penso a quello che il futuro poteva riservare a Sally Ryan e a Linda Maldinado, il fatto che io debba provare questo sentimento è, credo, davvero un'ironia. 2. La telefonata è arrivata nel primo pomeriggio. Ben Potter mi ha chiesto se stasera ci possiamo incontrare da Wong's. È la prima volta che ci parliamo da quasi un anno, dal giorno in cui ho lasciato lo studio. Vuole discutere di qualcosa con me, ma non per telefono. Sono due notti che non chiudo occhio, dopo l'esecuzione di Danley. Al penitenziario, uno strizzacervelli ci aveva avvertito che sarebbe successo. E adesso Ben vuole parlarmi. La cosa mi preoccupa, ma non riesco a dire di no. Harry sembra un bambino di quattro anni. Si è avvicinato al maitre ruotando su se stesso in una lenta spirale e lanciando occhiate sbigottite al soffitto cavernoso. Wong's è di gran lunga superiore ai locali notturni che di solito frequenta. Harry Hinds è qui per darmi un po' di sostegno morale. Da qualche tempo è diventato la mia ombra. Più vecchio di me di una generazione, è la voce della saggezza, un altro di quegli avvocati eternamente in cerca di una buona causa. Per Harry, una buona causa è il cliente che onora la parcella. Occupa il piccolo studio in fondo al corridoio dove c'è anche il mio. A quanto pare, negli ultimi mesi, Harry Hinds e io siamo diventati anime gemelle. Se penso a lui e alla sua carriera, a cosa ha fatto e a quello che farà, il mio futuro non promette troppo bene. «Signor Madriani, è un piacere rivederla.» La voce di Jay Wong sovrasta anche il chiasso del bar affollato. Fa un cenno cortese, esita un attimo, poi allunga il braccio dietro di me, verso Harry. Gli dà un colpetto sulla spalla e Harry si volta. «Mi scusi, signore. È vietato fumare nel ristorante.» Wong indica un avviso scritto in caratteri eleganti, affisso al banco delle prenotazioni. «Ordi-
nanza comunale», spiega. Dalle labbra di Harry pende una sigaretta fumata a metà. Sui risvolti della sua giacca blu c'è della cenere. «Oh, certo.» Harry toglie di bocca il mozzicone e, per un attimo, abbassa distrattamente lo sguardo sul folto tappeto. Ma, prima che possa agire, Wong gli allunga un portacenere. Harry schiaccia diligentemente la cicca, e il portacenere sparisce dietro il bancone. Wong si rivolge di nuovo a me. «È un bel po' che non la vediamo», dice. «Qualche mese», mento. Non vengo qui da quando ho lasciato lo studio P&S. Per tutti e tre gli anni in cui ci ho lavorato, ho pranzato regolarmente da Wong's almeno due volte a settimana. Quando ero con un cliente, avevo il permesso di mettere tutto sul conto di Potter & Skarpellos. Non mi stupisce che Jay Wong abbia sentito la mia mancanza. Ho un bell'aspetto, dice. Mi trova dimagrito. Poi tocca un tasto dolente. «E come sta la sua gentile signora?» L'avevo scordato. Nikki e io abbiamo cenato da Wong's una sola volta, per festeggiare, quando mi hanno offerto di entrare nello studio di Potter. Sono stupefatto: col continuo va e vieni di gente, Wong si ricorda ancora di lei. Già, ma ricordare è proprio il suo talento. «Oh, sta bene. Bene.» Lo dico con convinzione, ma ometto i particolari, e cioè che non viviamo più assieme da parecchi mesi. Nonostante i miei sforzi per rimettere in piedi un matrimonio disastrato, ormai mi aspetto le carte per il divorzio. Poi lo vedo mentre si allontana da un tavolo della sala ristorante e si dirige verso il bar. Ben Potter. Alto, decisamente sopra il metro e ottanta, anche se dubito che si sia mai preso la briga di misurarsi. Ha una struttura fisica tutta particolare, con le spalle arrotondate e un po' curve in avanti; l'andatura è pesante, quasi goffa. Sotto la giacca indossa il suo solito gilet scuro, di maglia. Quel modo di incedere, unito al corpo massiccio, evoca l'immagine di un grosso orso che cerchi inutilmente di afferrare del cibo appeso a un albero. Ben è riuscito a sfruttare al meglio questo suo bizzarro aspetto, a renderlo così inconfondibile che un'intera generazione di studenti in legge, dopo aver seguito i suoi corsi serali all'università, ora lo scimmiotta ogni volta che si rivolge a una giuria. E non è certo un portamento dovuto alla stanchezza o alla vecchiaia, anzi; in Ben assume un tono di calcolata maestosità. Si ferma a un tavolo a scambiare due chiacchiere con amici. Sembra uno
sciatto pope che dispensi benedizioni. Dall'altra parte della sala mi giunge una sonora risata. Poi la risposta pacata di Ben. Altre risate. Wong dice qualcosa, ma mi sfugge. «Hmm?» Mi giro a guardarlo. Ha seguito la direzione del mio sguardo come un radar. «Cosa si dice di Ben Potter?» chiede. «Gira voce che sia diretto a Washington, eh?» Sulla bocca di Wong, chiacchiere del genere diventano attendibili. Sono giorni che ci penso, e già mi immagino le telefonate dei giornalisti. Ben Potter è in cima a una lista sempre più esigua di candidati a un posto vacante alla Corte Suprema, posizione alla quale aspira da sempre. Adesso gli è finalmente a portata di mano, grazie a oculate alleanze politiche coltivate per vent'anni, nonché all'improvvisa, e assai opportuna, dipartita di uno dei «fratelli». L'FBI si è già presentata da me per sapere qualcosa del suo passato, in cerca di magagne. Per i primi minuti, quando i due agenti si sono piazzati nel mio studio, ho avuto l'impressione che avessero sentito qualche pettegolezzo su Talia e me. Alla fine, mi sono convinto che non sapevano nulla di quella faccenda. «I signori vogliono un tavolo?» L'attenzione di Jay è di nuovo rivolta a noi. «Per adesso prendiamo qualcosa al bar.» Ho deciso che con Harry è meglio andarci piano. Se stiamo attenti, riuscirà a non fare figuracce. È un bravo avvocato, ma quando si tratta di divertirsi si sente a proprio agio soltanto nelle piazzole sulle strade di campagna, con luci al neon che sparano il nome di una marca di birra. Esattamente come nella sua professione, Harry ha imparato a schivare le difficoltà anche dopo l'orario di lavoro. Ci facciamo strada fra i tavolini del bar. Harry mi sta attaccato alle calcagna, come se fossi il suo buana in un safari. Scruto il banco alla ricerca di un paio di sgabelli liberi, uno spazio dove parcheggiare i nostri corpi, dove defilarci finché non troverò un angolo tranquillo per parlare con Ben. In privato. Il barista, vestito dalla testa ai piedi di lino bianco inamidato, ci raggiunge e mi mette davanti un tovagliolino da cocktail. Efficiente e sollecito. Guardo Harry. Ordina una birra. «Scotch con ghiaccio.» «Bel posto», dice Harry, ma si vede che è a disagio. «Si combinano un sacco di affari, qui», gli mormoro. «Ci scommetto. Sembra che tutti abbiano le pulci.»
Gli lancio uno sguardo interrogativo. «Sono tutti lì a grattarsi la schiena a vicenda.» Questo non è il genere di rapporti cui Harry è abituato. Capisco dal tono che preferisce i modi schietti dei criminali dichiarati. Il barista inamidato torna con la birra di Harry e il mio scotch. Faccio mettere sul conto. Pagare ogni drink non si fa; è il marchio del turista che vuole dare un'occhiata al bel mondo. Il locale è popolato della solita folla di faccendieri, soprattutto lobbisti che muovono le loro pedine. Fatta eccezione per i legali delle grandi società, sono pochi gli avvocati che osano venire da Wong's. È caro come l'oro. Stanno preparando i carrelli degli antipasti: ostriche. È stato un ottimo argomento per convincere Harry a venire con me. «Le ostriche danno fuoco alla miccia», dice. Bevo un sorso di scotch, giro la testa, e la vedo. Abbronzata come sempre, splendente in un completo di seta azzurra, con orecchini e collana di perle. Talia è a una trentina di metri da noi, seduta a un tavolo con un gruppo di persone; al suo fianco, la sedia vuota di Ben. La conversazione le aleggia attorno come una nuvola di etere. Ma lei è distratta. Se ne sta lì in silenzio, distaccata, un cammeo indifferente all'animazione che la circonda. C'è un altro uomo, più giovane, molto elegante nel vestito firmato. Ha i capelli impomatati come in un cartellone pubblicitario di Madison Avenue. Sulle guance olivastre c'è un accenno di barba. Occupa il posto di fronte a Talia ed è distaccato come lei. Il tipo si gira leggermente verso di me. Non ci posso credere. È come se il grande dispensatore di ogni gene gli avesse sferrato un colpo in mezzo al mento con una mannaia da macellaio: la grande fossetta dell'uomo distinto. Lo sguardo di Talia si posa su di lui. Si sorridono, e per un attimo la mia mente macina interrogativi. «Ne è passata di acqua sotto i ponti», dice Harry. «Cosa?» Lui fa un cenno verso il tavolo. Harry sa di Talia. È l'unica persona a cui l'ho raccontato. «Semmai è la mia carriera che è finita nel cesso», dico. «Cosa fiuto?» Annusa l'aria. «L'aroma del rimpianto?» «Puoi scommetterci. Puzzo di toast bruciati. Che ti devo dire? Sono stato uno stupido.» «Sei troppo duro con te stesso.» Harry sta facendo una valutazione fisica di Talia. Soppesa tutto, ogni minima curva e controcurva.
«È spettacolare», conclude. «Sono lieto che riscuota la tua approvazione.» La bellezza di Talia Potter è indiscutibile, come i teoremi e i postulati della geometria. Il suo fascino è di quelli che, per strada, spingono uomini e donne a fermarsi a guardarla. E trasuda un magnetismo sessuale impossibile da ignorare. Ha imparato a sfruttare al massimo tutte queste doti. «Comunque, non ho nulla da obiettare alle tue conclusioni. Bisogna», dice Harry, «avere qualche rotella fuori posto per scoparsi la moglie del capo.» Pronuncia questa diagnosi con pesante accento tedesco, tanto per dare un tocco freudiano alla sua analisi. Harry è fatto così. Sempre pane al pane. «Ma sarai lieto di sapere che la malattia non è di tipo terminale.» «Sul serio?» «Sicuro. Otto dottori su dieci ti direbbero che è soltanto una condizione transitoria. Va e viene con i cicli lunari. Giuro», dice. «Nel Medioevo la chiamavano 'malattia dell'unicorno'.» Sollevo un sopracciglio. «Oggigiorno, la letteratura scientifica la identifica con il cosiddetto arrapamento, nella sua forma più grave e pervasiva. Però c'è un problema.» Si gratta il naso, pronto a emettere la prognosi. «Ho il sospetto che possa essere contagiosa.» Harry ha continuato a tenere d'occhio il tavolo di Talia, e adesso accenna con la testa in quella direzione. Ha intercettato uno degli sguardi di Talia del tipo «vieni qui», lanciato da un lato all'altro del tavolo come iprite. «Il tizio col mento tagliato in due è uno dei soci dello studio?» chiede Harry. «Immagino di sì.» «Be', a quanto pare il poveretto soffre di sindrome cronica dissociativa disfunzionale da cazzo moscio. Dalle un po' di tempo e lei lo curerà per bene. Allora lui dovrà cercarsi un nuovo lavoro. Mi sa che siamo davanti all'inizio di un'epidemia.» Harry non ha una grande opinione di Talia. Secondo lui, la mia espulsione dallo studio è da ascrivere a un semplice caso di seduzione. Per me è stato qualcosa di molto più complesso. Talia, almeno dal mio punto di vista, non è la puttana che lui crede. «A parte esserti fatto la moglie del capo, cosa hai combinato allo studio?» chiede. «È una faccenda delicata.»
«Se vuoi delicatezza, vai da un prete. Se parli con un amico, ti aspetti franchezza. Parlami dei casi che trattavi.» «Un po' di tutto. In gran parte questioni finanziarie. Qualche reato, un po' di contratti. A volte le due cose erano una sola.» Lui gira la testa e mi lancia un'occhiata interrogativa. «Negli affari, tutti i delinquenti portano giacca, cravatta e bretelle. Rubano a quelli che investono con complicatissime clausole di opzione e fumose definizioni di profitto netto.» «Ah.» Lo dice con soddisfazione, come se avesse finalmente trovato, nel mondo del diritto societario, qualcuno che riconosce. Racconto a Harry degli anni di formazione di Potter. Ben si è fatto le ossa come procuratore degli Stati Uniti all'inizio degli anni '60, perseguendo alcune fra le prime rudimentali truffe finanziarie, manovre sballate finite con la bancarotta. Dopo aver perso l'incarico per il mutare dei venti politici, si è dedicato alla difesa e ha aperto lo studio. Oggi i suoi clienti sono più raffinati e facoltosi, le macchinazioni commerciali più complicate; alcune sono addirittura legali. «Scommetto che rende», commenta Harry. «Nei casi importanti, se rappresenti una società o i suoi funzionari, è normale ottenere un anticipo di onorario a sei cifre.» Harry fischia. «È quello che l'ordine dei penalisti definisce 'diritto commerciale'», gli dico. «E non viene stigmatizzato. Se lo gestisci bene, va a incastrarsi senza problemi fra gli altri clienti più rispettabili dello studio.» A Harry questo riesce un po' difficile da capire. Negli ultimi dieci anni, i penalisti di questo Stato hanno subito un tremendo smacco politico. Sono considerati alla stessa stregua dei clienti che difendono, ignorati nelle cariche giudiziarie, e in generale esclusi dal bel mondo e dalle sue alte sfere. Harry ferma al volo il barista e ordina un altro drink. «V.O. con acqua», dice, poi aggiunge: «Doppio». Sta cominciando a fare sul serio. Ben ha sempre avuto un motto: «Nella finanza corrotta, la confusione è regina». È sempre stata la sua regola numero uno nella difesa della truffa finanziaria. Se la giuria non capisce, non può condannare. Difendere un truffatore significa quindi, di solito, mettere in scena una sorta di caleidoscopica confusione, per mascherare l'unico dato comune presente in ogni caso. Gli errori di contabilità, gli sbagli nei pagamenti non sono mai a favore della controparte. È una delle immutabili leggi di gravità finanziaria: le fiches finiscono sempre dalla parte del tavolo dove è seduto il tuo clien-
te. «Senti un po'», indaga Harry, «come si fa ad affermarsi nel settore del diritto commerciale?» «Bisogna essere stimati.» Mi guarda. Scoppiamo entrambi a ridere. «E adesso dimmi la verità», dice. «Potter ti ha licenziato?» «Se vuoi chiedermi se l'ha detto, no, almeno non a parole. Ma tra il suo orgoglio ferito e il mio senso di colpa c'era tanto mare da farci navigare un transatlantico. Lo sapeva che Talia andava a letto con qualcuno.» Per un attimo mi fermo a pensare. Nel mio cervello si proietta una specie di film muto. Un giorno, mentre pranzavamo insieme, Ben mi aveva confidato, da amico ad amico, che sua moglie aveva una storia con un altro uomo. Ci stava male da morire. Voleva un consiglio, il parere di qualcuno di cui si fidava. Io ero rimasto ad ascoltare in silenzio: lo compiangevo, emettevo i gemiti giusti, facevo le domande adeguate. Per accertarmi che non sapesse nulla di preciso, che brancolasse nel buio sull'identità dell'uomo. A mio eterno discredito, non ce l'ho proprio fatta a rivelargli che ero io l'amante di Talia. «Quello che gli è bruciato di più», dico a Harry, «è stato che lei lo facesse con qualcuno di cui lui si fidava, sotto il suo naso. Quando ha scoperto tutto, Ben mi ha mandato a chiamare nel suo ufficio, ha urlato come un pazzo. Quando ha finito di sfogarsi, sono uscito, sono tornato nel mio ufficio, e ho cominciato a imballare la mia roba.» Bevo un sorso dal bicchiere. «A conti fatti, immagino si possa dire che sono caduto sulla mia spada.» Harry ride. Lo guardo e afferro l'involontario gioco di parole. «Su questo non c'è dubbio», dice. «Avresti dovuto tenerla nel fodero.» «La prossima volta ci faccio un nodo.» «Adesso non voltarti, ma è arrivata l'ora della penitenza.» Harry sta guardando lo specchio sopra il banco. Ben è uscito dall'ufficio di Wong, all'altra estremità del locale. Improvvisamente sento che mi si attorciglia lo stomaco. Potter sta scrutando il bar. Mi ha visto. Esita quel tanto che basta per prendere un po' di tempo, mentre liscia una piega del gilet di maglia; poi viene dalla nostra parte. Quella sua andatura, le spalle spioventi, le ginocchia leggermente piegate, i gomiti in fuori, la testa bassa: sembra che stia guidando una banda musicale. Uno dei praticanti estivi ha definito quella tipica espressione di Ben «freddezza ebrea», e la frase è passata agli annali. Benché Potter sia un gentile quanto Ponzio Pilato, la descrizione gli calza come un guanto: il suo sguardo, le rughe alla mascella e sul collo, la
testa perennemente piegata di lato, formano una strana combinazione che sembra sempre oscillare tra l'irritazione e la noia. Ha molto di Walter Matthau nel viso e nei modi, un certo burbero carisma. «Potrebbe essere un po' sgradevole», avverto Harry. «Spero solo che non sia armato», ribatte lui, e infila una mano nella tasca del cappotto, facendo finta che sia una pistola. Poi mi strizza l'occhio. «Tutto a posto», dice. «Non pensare a me. Ho una regola. Mai mettersi fra due vecchi amici.» Si appoggia ostentatamente al bancone, prendendo le distanze da me. La cosa lo diverte. «Paul.» Il mio nome pronunciato in un sussurro. La voce di Ben ha un'intonazione quieta e profonda. Lascio che s'infranga come un'onda contro la mia schiena, prima di voltarmi. È tutto molto informale, quasi si trattasse di una sorpresa. «Ben.» Sorrido e porgo la mano. Sono quasi sbalordito quando lui la stringe. L'espressione di Ben Potter è un enigma. Il tipo di sorriso che un insetto potrebbe aspettarsi quando viene osservato al microscopio. Più curioso che cordiale. Adempio ai doveri sociali, le presentazioni fra Harry e Ben. C'è una veloce stretta di mano, e Harry ripiomba nell'oblio. Potter riporta la sua attenzione su di me. Dai tavoli vicini, una dozzina di occhi si posano su di noi. Sono come raggi laser che mi sondano la carne. «Ne è passato del tempo», dice Ben. «Ci conosciamo da tanti anni. Ho pensato che fosse arrivato il momento di parlarci. Te ne sei andato in un modo...» Esita, cerca le parole giuste. «... un po' brusco», conclude. Odia gesti e atteggiamenti esagerati; in questo caso, minimizza quella che in effetti è stata una vera e propria fuga. Sorride. «Posso offrirti un drink?» gli chiedo. «Pensavo che potevamo bere qualcosa nell'ufficio di Jay, intanto che parliamo.» Potter si volta di nuovo verso Harry. «Le spiace se porto via Paul per qualche minuto?» «Oh, no. Lo tenga pure quanto vuole.» C'è un sorriso canagliesco sulla faccia di Harry, come se volesse mettermi in guardia, suggerirmi di tenere d'occhio le mani di Potter. Afferro il mio bicchiere. Ben si dirige verso l'ufficio. Faccio per seguirlo, mi giro velocemente, e, rivolto a Harry, mi stringo nelle spalle, come a dire: «Che ci vuoi fare?» Quando mi volto, Harry sta sventolando un foglietto. All'improvviso capisco l'espressione che ha in faccia. Mentre io sarò segregato con Ben nell'ufficio di Wong, le consumazioni di Harry finiranno sul mio conto.
A prima vista, l'ufficio di Wong è l'ambiente ideale per il mio incontro con Ben. Ha i pacati colori della terra, la soffusa luce indiretta di una raffinata impresa di pompe funebri. Un imponente Budda di bronzo, più grande delle dimensioni reali di un uomo, sta in una nicchia dietro la scrivania antica di Wong. Illuminato dal basso, proietta un'ombra sinistra sul soffitto, come un corpulento genio in attesa degli ordini del suo liberatore. Ben mi guida in un'altra zona della stanza, verso due piccoli divani l'uno di fronte all'altro, separati da un tavolino in vetro trasparente, con una gamba a piedistallo. Siede su un divano, e con la mano indica l'altro. «Accomodati.» Ora che siamo soli, la sua voce ha perso la patina di cortesia. Mi guarda in silenzio, assorto, le labbra strette, una fessura verso i suoi pensieri più reconditi. Sprofondo nel divano e aspetto che le sue parole mi seppelliscano, nella saggezza o nell'ira. «Prima che mi dimentichi», dice, «cosa bevi?» Solleva il ricevitore del telefono da un tavolinetto accanto al divano. «Oh, lo stesso. Scotch con ghiaccio», dico. «Offro io.» «Nemmeno per idea. È mia la festa.» Lo dice senza umorismo, senza garbo, poi dà l'ordinazione. Ben non beve, questa sera. Non è un'occasione mondana. Trascorriamo parecchi secondi a parlare del più e del meno. Lui mi racconta dei cambiamenti nello studio da quando me ne sono andato. Mi chiede come me la passo con il mio studio da solo. Sta ammazzando il tempo in attesa del mio drink, l'ultima interruzione da eliminare. Gli rispondo sinceramente che è una sfida. Ammette di avere fatto un errore ad assumermi. Non capisco se voglia offendermi. Esita un attimo e poi si spiega. Dice che i leader nati non si adattano all'ambiente di uno studio associato, che ero destinato a cose più importanti che non agganciarmi alla stella di qualcun altro. Suona strano, concludo, essere trattato con condiscendenza da qualcuno che ammiro. Entra il cameriere con il mio drink e Potter gli dice di segnarlo sul suo conto. Gli occhiali dalla montatura in osso riflettono la luce. Sono nuovi. Non riesco a vedergli bene gli occhi. I familiari occhiali a mezza lente che usa per leggere sono nella tasca del gilet. Li vedo sporgere. «Ho pensato molto, negli ultimi mesi», dice.
«Allora siamo in due. Cosa posso...» Alza una mano, mi interrompe. Non è alla ricerca di confessioni. «Quel che è stato è stato», taglia corto. «Non possiamo cambiarlo. Possiamo solo perdere dignità, crogiolandoci negli errori passati. Credo di conoscerti abbastanza bene. Penso di sapere come ti senti.» Non mi dà alcuna possibilità di rispondere. Si alza dal divano e va verso la scrivania. «Alla fine sono sempre gli antichi, i greci, a esprimere meglio le cose. Non c'è davvero testimone più implacabile, accusatore più potente della coscienza che vive in ciascuno di noi.» Ora sta quasi parlando a se stesso. Mi volta la schiena, mette un po' di distanza fra noi, come se l'assoluzione debba essere una mia faccenda privata, solitaria. Siedo in silenzio sul divano, lo sguardo abbassato sul ghiaccio che galleggia nel bicchiere. «Dopo quello che diremo qui stasera, fra noi due, non ne parleremo più», dice. «Siamo d'accordo?» «Certo», gli rispondo. Una concessione facile. Non ho alcun desiderio di rimescolare questi tizzoni. Quello che sta accadendo qui è necessario, se voglio poter guardare di nuovo Ben negli occhi. «Non ne parleremo mai più, allora.» Annuisco. Lui non mi sta guardando. Poi, mentre si volta lentamente verso me, garbato nei suoi gesti, noto ancora una volta che Ben Potter è una presenza imponente, un contrappunto al Budda. «Non ho parole per descrivere il dolore, la pena che voi due mi avete provocato.» Non ha la voce alterata dalla collera. È come se stesse ragionando, se ce la stesse mettendo tutta per spiegare questa cosa che si è frapposta fra noi due, che gli ha procurato quel dolore. Non capisce il tradimento, né quello di Talia, né il mio. Comincia a spostarsi dalla scrivania, a tornare verso di me. Parla della sua felicità nei primi anni di matrimonio, della soddisfazione che nasce dall'illusione che la giovinezza sia una condizione mentale, che amore e fedeltà non abbiano le loro radici nella passione. Questo è il Ben Potter che conosco. Le parole che sgorgano dalle labbra. L'abile avvocato che dirime una causa per danni. «Sono qui stasera», dice, «spogliato di queste fantasie.» Tace di colpo: una pausa a effetto. «Questa cosa perlomeno mi ha insegnato tanto. Forse dovrei esservi grato.»
È di nuovo muto. Assorto nei suoi pensieri. Faccio tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, bevo un sorso. «Voglio chiederti una cosa», riprende, «e vorrei una risposta sincera. Chi ha fatto il primo passo? Tu o lei?» Sono imbarazzato dall'improvviso attacco diretto. Per poco non macchio il divano di Wong con lo scotch. La mia espressione è tutta sincerità. «No», dico. «Una cosa così... Quello che è successo fra noi non è stato programmato, Ben. Non è stata una cospirazione. Non ci siamo seduti a tavolino per decidere chi avrebbe iniziato il primo atto. È successo e basta. Ci siamo ritrovati assieme. Una cosa tira l'altra, ed è successo.» Comincio a sembrare un'eco, ma è tutto quello che riesco a dire. «A nostro... a mio eterno discredito... è successo e basta.» Sorride e annuisce, un gesto di superiorità. «Il diplomatico», commenta. «Una risposta da gentiluomo. È quello che mi aspettavo.» Lo dice come se si fosse già fatto un'opinione, come se la mia risposta avesse confermato qualche suo sospetto sull'attribuzione delle colpe. È una malattia che affligge noi laureati in legge: la tendenza dell'avvocato a stabilire le responsabilità. Confessione e assoluzione. «Davvero, Ben. Te lo dico in tutta onestà, è successo... È successo e basta.» Carico la voce di sincerità. Almeno per me, è in ballo un rapporto a cui tengo. «Se potessi, devi credermi, tornerei indietro a disfare quello che ho fatto, a cancellare il dolore, a togliermi da ogni tentazione.» Per un attimo mi chiedo se rivelargli o meno che è stata opera sua, che a fornire l'occasione è stato proprio lui, assegnandomi il difficile lavoro preliminare per le operazioni immobiliari di Talia. La causa scatenante è stata, in ultima analisi, una questione di chimica carnale. Ma tengo per me questo pensiero. «Lo so che lo faresti», annuisce. «Torneresti indietro a cambiare tutto, se potessi.» Sorride. Finalmente, un piccolo segno di perdono. È stanco, e si vede. «Basta così», dice. «Non ha senso insistere. Non ne parleremo più.» Solleva il ricevitore del telefono sulla scrivania e ordina da bere. In un attimo è tutto finito. Il mio sospiro è quasi palpabile, come il sudore che mi imperla la fronte. Mentre Ben guarda da un'altra parte, uso il tovagliolino del bar per asciugarlo. Mi pare impossibile che sia tutto finito, che siano bastati pochi minuti in questa stanza con lui, le poche parole che ci siamo scambiate, per essere di nuovo in rapporti normali con l'uomo che
è stato il mio maestro. Forse Ben è di umore migliore di quanto pensassi. Rimette il ricevitore sulla forcella e appoggia una natica sull'orlo della scrivania. Alza le braccia sopra la testa, si riempie i polmoni d'aria. «La vita è un dio terribile», sentenzia. «Non c'è tempo per pensare. Ultimamente, è come se fossi intrappolato nella rete del tempo.» A quanto pare, vuole parlare di cose più allegre. «La candidatura?» gli chiedo. «Uh, uh.» Aggrotta la fronte e sorride. Chiaramente, è piacevole essere affaticati per motivi del genere. Mi strizza l'occhio. Un piccolo segreto. «Ho preso il red eye per Washington due sere fa», dice. «Lo sprint finale.» Sta parlando dell'ultima selezione fra gli aspiranti alla Corte Suprema. Dalle loro fila uscirà il prossimo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Mi lascia in sospeso, in attesa della parola finale, e intanto mi intrattiene con descrizioni della Casa Bianca, dello studio di Lincoln. «Intimo, solenne», dice. I suoi occhi diventano vitrei, lontani. Adesso sta usando le mani per descrivere. «Mi sono ritrovato in piedi vicino alla scrivania alla quale Lincoln si è seduto per liberare un milione di schiavi.» Scuote la testa. «Giuro», mormora, «si sente la sua presenza in quel posto, il suo spirito che si muove.» Trovo che in questa descrizione ci sia davvero qualcosa che commuove Ben Potter: il senso di occupare lo spazio un tempo occupato dal grande emancipatore. Di gravitare sempre più vicino al centro della Storia. Il pensiero che egli stesso, un giorno, potrebbe essere consegnato, almeno in qualche misura, all'eternità. Idee troppo elevate, irreali come la polverina magica; a me personalmente non sono mai passate per la testa. «Mi pare di capire che è andata bene.» Fa una smorfia, come a dire: «Leggimi nel pensiero». Per me, conoscendo Ben come lo conosco, non è difficile. Capisco in quel preciso momento, dal luccichio degli occhi, che questa città sta per perdere un avvocato. «Congratulazioni, Ben.» Alzo il bicchiere. Per quanto si sforzi, Potter non riesce a trattenere il sorriso. «Grazie.» Lo dice con tono basso, quasi reverenziale. «Naturalmente, tienilo per te.» «Assolutamente.» «Non starebbe bene strillarlo ai quattro venti prima che il presidente abbia fatto l'annuncio. Non volevano che tornassi a casa. Volevano fare l'annuncio da Washington mentre ero là. Sapevo quello che sarebbe successo», dice. «Non mi sarei più tolto di torno i giornalisti. Gli investigatori del Senato alla ricerca di marcio durante le sedute di ratifica, la stampa.»
Scuote la testa con forza. «Ho detto che avevo qualche affare da sbrigare prima che la cosa venisse annunciata. Alcune faccende personali. Uscire di là è stato come l'estrazione di un dente.» Mi chiedo se questi affari, queste «faccende personali», riguardino Talia. «Il prezzo della fama», lo commisero. «Il mondo ha una certa propensione alla fuga di notizie», dice. «Mi hanno dato quarantotto ore e mi hanno fatto giurare sulla mia testa che avrei mantenuto il segreto. Riprendo il red eye per Washington domani sera.» Mentre il cameriere gli porta quello che aveva ordinato, io mi perdo nei miei pensieri. È un buon indice della tolleranza di Ben, del suo spirito liberale, che in questa ora di perdono abbia ritenuto opportuno farmi partecipe della sicurezza del suo futuro. Il cameriere se ne va. Potter chiacchiera del più e del meno. Non ha ancora finito. C'è qualcos'altro di cui vuole discutere, ma ci gira attorno. Scherza sulle imminenti sedute di ratifica del Senato, su tutti i pettegolezzi. Storie su un test politico al tornasole per la Corte. «Sono tutte balle», dice. «Non devi crederci. Uno torna là, il presidente gli stringe la mano, gli offrono qualcosa da bere, e mentre se ne sta in piedi a farsi prendere le misure per la toga, il sarto gli chiede se la vita comincia con il concepimento.» Ridiamo. Come succede quasi sempre con l'umorismo di Ben, non so di preciso quanto sia grande il nocciolo di verità in questa storia. Il sorriso svanisce dalla sua faccia. «C'è un'altra cosa», dice. «Cioè?» «Un favore», spiega. «Qualcosa che puoi fare per me.» Ben al suo meglio. Ben che manovra e tesse trame. Ben che mi chiede qualcosa nel momento in cui sa che non posso dirgli di no. «È per la facoltà di legge. Una cosa che ho messo in moto prima che saltasse fuori tutto questo, prima che andassi a Washington.» Gesticola abbondantemente, si muove, traccia cerchi nell'aria col bicchiere. «Una cosa da poco», dice. «Un fondo fiduciario che ha bisogno di un nuovo amministratore.» Lo guardo, come per chiedergli: «Cosa c'entro io?» «È a nome di Sharon Cooper», conclude lui. All'improvviso, capisco. Sharon Cooper aveva ventisei anni quando è morta, uccisa in un incidente stradale la scorsa estate. All'epoca, lavorava nello studio, dopo che io me ne ero andato. Era studentessa del secondo anno di legge. Ero stato io a
farle ottenere un lavoro part-time allo studio P&S, quando ero ancora in grazia, per fare un favore a suo padre. George Cooper è il medico legale di contea. Siamo amici intimi, io e Cooper, da quando lavoravo per l'ufficio del procuratore distrettuale. «Il fondo fiduciario è un modo per ricordare Sharon», prosegue Ben. «Lo hanno istituito alcuni amici della facoltà di legge e mi hanno chiesto di amministrarlo. All'epoca mi sembrava una bella idea. Ma con tutto quello che ho in ballo adesso...» Scrolla le spalle, e io mi rendo conto del suo dilemma. A quattromila chilometri di distanza da qui e con la miriade di casi affidati alla Corte Suprema, l'ultima cosa che gli occorre sono le minuzie di un fondo fiduciario. Cooper mi ha portato in ufficio i documenti personali di Sharon il giorno dopo la sua morte. Si è tenuto occupato con le inezie di sistemare gli affari di Sharon, il funerale, le proprietà, qualunque cosa servisse a rimandare l'inevitabile dolore. Quando alla fine è caduto in quel baratro, è sparito dal mondo della gente normale per più di un mese. Ma, il giorno dopo la morte di Sharon, sedeva di fronte a me, alla mia scrivania, assolutamente composto, con una pila di documenti suddivisi con la massima accuratezza e fissati da graffette: assicurazione, dichiarazione dei redditi, azioni... un portafoglio notevole per una giovane donna nubile. Sharon aveva ereditato le azioni dalla madre, morta di cancro l'anno precedente. In ventiquattro mesi, Coop aveva perso la moglie e la figlia. Nel suo dolore, per George Cooper un avvocato era un avvocato, capace sia di amministrare le proprietà di un defunto sia di evitare a qualcuno un lungo periodo in galera. Quindi si era rivolto a un amico. Incapace di dire no, presi le carte di Coop, aprii una pratica, ed entrai a tentoni nel mondo delle successioni e tutele. Ben mi guarda dall'altro lato della stanza, perso in un suo sogno a occhi aperti. «Alla facoltà di legge è stato istituito un fondo, una donazione, a nome di Sharon. Vi hanno contribuito molte persone che la conoscevano», dice. «È un fondo di una certa entità, e abbiamo bisogno di un amministratore fiduciario. Ho pensato a te.» Per Ben è diventato un secondo lavoro. In questi ultimi anni, sotto la sua direzione hanno preso il via innumerevoli borse di studio e sussidi privati: due a nome di soci deceduti, molti altri intitolati a pilastri della comunità scomparsi. Per Ben, sono tutte ottime scuse per raccogliere fondi per la facoltà di legge, la sua opera di beneficenza prediletta. Questo non toglie nulla a Sharon Cooper, ai suoi occhi o ai miei, ma le sue motivazioni sono
chiare. Trarrà qualcosa di positivo anche dalla tragica scomparsa di questa giovane donna. «Lo farei io», precisa. Sta parlando della carica di amministratore fiduciario. «Ma Washington è piuttosto lontana. Hanno bisogno di qualcuno che sia più vicino, per decidere con il preside sulle spese, per amministrare il fondo in un modo che Sharon avrebbe approvato. Tu sei la scelta più ovvia», dice. «E poi, credo che suo padre vorrebbe che lo facessi tu.» Le ultime parole sono il perno del suo discorso. «Cosa posso dire?» «Puoi dire sì.» Mi stringo nelle spalle, a esprimere gratitudine nei confronti di Ben per il pensiero, per la fiducia che accompagna la sua offerta. «Sì.» Sento che sulla mia faccia appare un vago imbarazzo. «Perché no», aggiungo, come un adolescente eccitato che ha appena ricevuto un premio che non si sarebbe mai aspettato. «Bene!» Ha un grande sorriso. «Prima che io lasci la città, dovremo parlarne di nuovo per definire alcuni aspetti della questione. Hai programmi per domani sera?» «Niente che non possa rimandare.» «Allora ci vediamo a cena al Broiler. Facciamo alle nove? Possiamo parlare, e magari mi puoi dare un passaggio fino all'aeroporto quando avremo finito.» «Bene», dico. Ben si alza dal bordo della scrivania. L'incontro è finito. Mi alzo anch'io, e ci incontriamo al centro della stanza. La sua espressione è luminosa come una lanterna. Allunga un braccio che pare una porta girevole e batte con una mano enorme sulla mia nuca, un piccolo vincolo maschile, come un padre che dà uno scappellotto al figlio che ha combinato una marachella, ma niente in fondo di così grave. E mentre ci dirigiamo verso la porta, coi bicchieri in mano, i miei pensieri corrono a questioni più economiche, a Harry Hinds e al mio conto aperto al bar. 3. Per raggiungere il mio studio prendo un ascensore che risale ai tempi di Mosè, un aggeggio con una saracinesca che sbatte emettendo il fragore di uno scoppio supersonico. È come il portale dell'inferno che si chiude sui nuovi arrivati. I clienti che sono stati in galera usano sempre le scale.
Questo ascensore svuota il suo carico in un piccolo atrio al primo piano. Il pianterreno è occupato da una banca che ha le sue radici nella corsa all'oro. L'edificio stesso risale al secolo scorso, ma è stato tenuto in buono stato. Ha tocchi di eleganza nelle strutture architettoniche e nelle rifiniture. Le mattonelle di stagno stampato applicate al soffitto, che nel mio studio sono originali, sono tornate di moda. Le usano per comprovare l'autenticità fasulla dei pretenziosi ristoranti di Fashion Square. Divido un appartamento di due stanze che danno su un ingresso comune con Dee, la mia segretaria e centralinista. L'ho assunta su raccomandazione di un amico al quale non parlo più. Nel tempo trascorso con Dee, sono diventato un maestro nell'uso di tutti gli apparecchi elettronici: segreterie telefoniche, fotocopiatrici, fax, il distributore del caffè, e soprattutto il piccolo personal computer che ho trasferito dalla sua scrivania al mio ufficio quando ho scoperto che lei usava lo schermo buio come un mistico specchio high-tech per pettinarsi e truccarsi. Passo le serate, prima dei soliti giri di bevute con Harry, a battere la mia corrispondenza e a sognare di un modo pulito per licenziare Dee. La mia segretaria non manca di attrattive: ha poco più di vent'anni, è decisa, ha uno sguardo vivace, ed è zelante. Ma sul piano intellettuale propende decisamente per le pettinature e le calzamaglie. È bravissima nei preliminari impiegatizi. Tutta la carta da lettere è accatastata in pile ordinate. I cilindri di plastica che contengono graffette di varie dimensioni vengono perennemente accarezzati come mulini da preghiera buddisti, e la scrivania è incessantemente perlustrata alla ricerca di qualsiasi oggetto fuori posto. Ho imparato, per dolorosa esperienza, che qualsiasi cosa vada oltre il chiudere una busta o leccare un francobollo mette a dura prova le sue doti di segretaria. Sfoggia unghie acriliche più lunghe degli artigli di una tigre dai denti a sciabola; da un'unghia pende una minuscola catenella d'oro, che parte dalla punta e va fino a una stellina incastonata nella lunetta sopra la cuticola, attraente quanto un osso infilato nel naso. Esibisce queste unghie come una dichiarazione di indipendenza, e il messaggio è chiaro: «Non ti aspetterai mica che mi metta a battere a macchina». Quando entro in ufficio mi saluta con slancio. «Buongiorno, capo.» Lo dice per ricordare che entrambi sappiamo chi comanda. I compiti che ognuno di noi esegue nel corso della giornata ormai tendono a confondere queste distinzioni. Nei meandri del mio cervello emetto un ringhio mentale, come un segugio rabbioso. Rispondo con un semplice, indifferente: «Salve». Negli ultimi giorni so-
no sempre più brusco con lei; una specie di messaggio cifrato per dirle che può cercarsi lavoro altrove. Ma ogni giorno, quando arrivo al lavoro, lei è là, ansante vicino alla porta come un cucciolo festoso, a darmi il benvenuto. Il pensiero che devo essere io a premere il grilletto per il colpo di grazia non è piacevole, e così la cosa va avanti. «Fammi un favore», le dico. «Certo.» «Chiama Susan Hawley e ricordale che domani abbiamo una comparizione in tribunale.» Rovisto nella mia ventiquattrore ed estraggo la pratica Hawley. «Poi trova gli appunti che ho steso l'altro ieri e mettili nella pratica. Quando hai finito, metti il tutto nella mia valigetta.» Lascio cadere la pratica al centro della sua scrivania, come un possente aereo che atterri sul ponte di una portaerei. Prima che tocchi il piano, lei l'ha già afferrata. Si volta per metterla in uno dei cassetti degli schedari dietro la sua sedia. «Fatto.» «Come no», dico, mentre guardo la cosa scomparire nel buco nero di Calcutta. Mentalmente, prendo nota di ripescarla quando Dee è fuori per la pausa del pranzo. Entrando nel mio ufficio, sono sorpreso di vedere che, a quest'ora, c'è già Harry. Con i piedi sulla mia scrivania, comodamente appoggiato allo schienale della mia sedia girevole, legge il giornale. Harry è cravatte a farfalla, vestiti a righine, calzini sottilissimi di seta, scarpe a punta, naso bulboso, e un gran sorriso. A sessant'anni, con una carriera alle spalle e nessun segno di pensione all'orizzonte, ha un atteggiamento menefreghista che uno nella mia situazione può trovare rincuorante. È che forse, da quando sono caduto in disgrazia, guardando Harry mi vedo come sarò fra vent'anni. «Ti sei perso?» gli chiedo. Mi scruta da sopra il bordo del giornale. «Ho dei clienti che hanno bisogno di un po' di privacy per discutere. Ho pensato che non ti desse fastidio.» Fa per alzarsi. «Resta lì», gli dico. Harry e io siamo diventati sempre più amici, nei mesi dopo la mia espulsione dallo studio P&S. Irrimediabilmente fuori moda, un farfallino diverso per ogni giorno della settimana, percorriamo la stessa strada per il tribunale ogni mattina. Vent'anni fa, Harry era uno dei più eminenti avvocati penalisti in città. Seguiva non più di quattro casi l'anno, tutti delitti da prima pagina. Questo
prima che cercasse il coraggio e l'energia in una bottiglia. Ora le sue giornate sono una serie di tentativi per salvare altri ubriaconi dalle grinfie del procuratore distrettuale e dalle furibonde macchinazioni dell'Associazione Madri Contro la Guida in Stato di Ubriachezza. Come diversivo, la sua vita è punteggiata ogni tanto da un caso di percosse. Appendo il cappotto e apro la valigetta sul divano, poi tiro fuori un paio di pratiche che mi ero portato a casa. «Fottuto Congresso», dice Harry. Ha finito di leggere l'articolo. «Prima permettono ai loro amici di rubare tutti i soldi ai fondi pensionistici, poi vogliono che li restituiamo noi.» Fa seguire un grande sospiro, come ad ammettere che su questa faccenda non ha il minimo controllo. «Tutte le volte che vado a votare ho la stessa sensazione», borbotta. «È come se qualcuno mi mettesse un sacchetto pieno di merda di cane sulla porta e gli desse fuoco. Non so se stare a guardare e turarmi il naso, o cercare di spegnere le fiamme con il piede.» L'immagine mentale evocata dalla sua descrizione mi porta a concludere che probabilmente Harry ha visto questa scena, da vicino e coi propri occhi, in qualche momento della sua gioventù. Chissà come avrà riso, davanti alla veranda di un povero malcapitato. «Non ci si può fidare del governo», conclude. «Lo so», ribatto. «Lavoravo per loro.» Lo studio di Harry è grande la metà del mio. Ha preso l'abitudine di accamparsi qui quando i suoi clienti e i relativi parenti hanno bisogno di conferire in privato: una riunione per decidere dove trovare i soldi per pagare la sua parcella, o concordare i particolari di un alibi prima di dare la versione definitiva della storia al loro avvocato. Non sanno quanto possa essere flessibile e creativo Harry. All'ombra delle suole delle sue scarpe, il piano della mia scrivania è confusione organizzata. Ho cominciato ad ammassare le pratiche più importanti nel mio ufficio, una misura preventiva contro il Dee-sastro. Ci sono una ventina di cartelle, schierate in un ordine che solo il suo creatore può divinare: due processi imminenti, casi che possono essere composti, ma soltanto sui gradini del Palazzo di Giustizia; un appello penale, con sette volumi di trascrizioni, che mi è stato affidato dal tribunale federale di prima istanza perché faccio parte della lista degli avvocati d'ufficio, una misura precauzionale che ho preso prima che il numero dei miei clienti aumentasse. Un'enorme pila di pratiche che richiedono istanze e corrispondenza si sta propagando alla stessa velocità con cui aumentano i
poveri. È un lavoro che comporterebbe un intero pomeriggio di dettatura a una segretaria competente, ma senza dubbio dovrò sbrigarlo con innumerevoli serate trascorse a battere sulla tastiera del mio computer. Frugo tra la posta che Dee ha sistemato in perfetto ordine sull'orlo della scrivania. Alcune fatture, lettere relative a un paio di casi, un rapporto di libertà condizionata per un caso in attesa di sentenza, e l'annuncio che Jerome Feinberg parlerà alla prossima riunione dell'ordine degli avvocati di Capitol City sul tema: Tu e il diritto di successione. Il casello di pedaggio dell'avvocato per l'aldilà. Lancio l'annuncio a Harry. «Ottimo gusto», commenta. «L'avessimo detto tu o io, ci avrebbero espulsi dall'albo.» «Metà dei giudici della contea saranno presenti a ridere. Io ci sarò a prendere appunti», dico. «E perché?» Do un colpetto a una grossa pratica che incombe al centro della mia scrivania, isolata, solitaria, come un antico tomo scritto in sanscrito in attesa di essere decifrato. «Una pratica di successione», dico. «L'unica che ho. E resterà l'unica.» Harry dà un'occhiata all'etichetta sulla cartella della pratica e poi pronuncia una sola parola: «Oh». Nonostante tutti i suoi difetti, Harry Hinds a volte rivela il tatto di un diplomatico francese. Sa di Sharon Cooper. Questa pratica è uno di quegli oggetti dell'esistenza che mi fanno ribollire l'acido nello stomaco al solo vederli. La successione di Sharon provoca in me sensazioni di strisciante, crescente disagio. Ho spostato la pratica una dozzina di volte, l'ho messa sulla credenza, sul pavimento, di nuovo sulla scrivania. E là giace, a testimonianza della mia ignoranza in fatto di eredità e della mia incapacità di rifiutare qualcosa a un amico, in questo caso a George Cooper. Ho passato ore a leggere attentamente i fogli, sistemati in tanti contenitori, dei manuali stile «fai-da-te» per avvocati, quella selva di pubblicazioni con abbonamenti perpetui e aggiornamenti annuali, ciascuna con il proprio vademecum di cose da fare. Sono arrivato alla conclusione che il mistero è insondabile. Gli avvocati testamentari hanno scoperto la pallottola magica che uccide la concorrenza. Hanno messo in piedi procedure ed escogitato una terminologia che può essere tradotta solo dagli alti sacerdoti della loro setta. Ho letto il manuale della segretaria di Dee, che lei non ha
mai usato, come il computer che ho comperato per lei. Nutrivo la speranza che magari potesse diventare la mia stele di Rosetta, la chiave ai misteri della successione. Non lo è. Le segretarie degli avvocati specializzati nel ramo, a quanto pare, hanno una loro corporazione. Ovviamente, Dee non ha la tessera. Quello che un anno fa è iniziato con una semplice istanza di una pagina è ora un intrigo degno di ispirare il più draconiano racconto di Dickens su giudici e avvocati, su un sistema giudiziario intasato da interminabili e incomprensibili formalità. A quanto pare, la riforma del diritto di successione ha seguito la stessa strada della semplificazione fiscale. Sono battuto. Sconfitto. Lo ammetto. Sono pronto a chiedere un consulto e, se necessario, a fare un giro, a pagare il biglietto sull'espresso Feinberg, diretto all'ignoto paese delle successioni. Fisso la pratica e l'annuncio nelle mani di Harry. La scappatoia finale: ingaggerò un altro avvocato per assistere il mio cliente. «Com'è andata ieri sera?» chiede Harry. Sbronzo marcio. Così era Harry ieri sera, dopo il mio incontro con Ben. Nelle condizioni in cui era, ubriaco fradicio, non ho perso tempo a raccontargli i particolari. Ora si sta aggiornando sui pettegolezzi. «Bene. Amichevole. Un incontro cordiale», dico. «Quale dei due?» chiede. «Amichevole o cordiale? Perché nel primo caso significa solo che non ti fa fuori. Nel secondo, forse puoi farti qualche altra scopata.» Lo ignoro. «Sono sorpreso», dice. Harry parla di fuoco e fiamme. Del fatto che mi sono comportato da porco con la moglie di un altro, e Ben non mi ha nemmeno fatto la paternale sull'alienazione degli affetti. «Quell'uomo è molto civile», commenta. «Sono cambiate le cose, dai miei tempi.» «Mi stupisce che tu abbia una memoria così lunga.» Mi guarda di sottecchi. «Vuoi ricominciare, eh?» chiede. «No», gli rispondo, sarcastico. «Ben e io abbiamo discusso la faccenda, ma abbiamo deciso che non sarebbe una buona idea infilarmi di nuovo sotto quelle lenzuola.» «No, stronzo.» C'è irritazione nella sua voce. «Ricomincerai a lavorare nel loro studio?» «Non è stato amichevole fino a quel punto», spiego. «Ah. La moglie è un conto, e lo studio è un altro.» Scoppia a ridere.
Lo ignoro, anche se trattandosi di Ben so che c'è del vero in quello che dice. «Perché dovrei voler tornare?» «Denaro, prestigio.» Esita un secondo. «Una brava segretaria.» Fra noi due, Dee è diventata un argomento di conversazione sottolineato da una buona dose di imprecazioni (mie) e risate (di Harry). «Non ho intenzione di tornare con loro.» «Bene», dice. «Sono fiero di te.» Harry appare sollevato, come se da un po' di tempo si fosse messo a contemplare questa eventualità, cioè il mio rientro in quello studio. «Lo sai che mi mancheresti», aggiunge. C'è appena un tocco di sentimentalismo nella sua voce. «A sentirti sembra che tornare da Potter e Skarpellos sia come morire», gli dico. Solleva una mano, la fa ruotare avanti e indietro, come fosse uno di quei punti oscillanti della vita che potrebbe andare indifferentemente nell'una o nell'altra direzione. «Di', Harry, perché lo fai? Perché fai il penalista?» Fa una smorfia come se non ci avesse mai pensato prima. «Si guadagna bene», risponde. Scoppio a ridere. «Come no. L'ho vista la principesca stamberga che chiami casa. No, sul serio. Perché lo fai?» «Ce l'ho nel sangue, immagino. E poi mi piace la gente.» Quello che Harry intende è che ha un'inclinazione al «voyeurismo criminoso». Succede. Avvocati, giudici, poliziotti e giurati, di tanto in tanto, si scoprono tutti eccitati dalle storie di violenza, droga e sesso. Il lato penale della legge apre sul lato oscuro della vita una finestra che non esiste da nessun'altra parte. Tuttavia, secondo me, c'è molto di più nel suo senso di una missione. Io penso che Harry Hinds sia un tutore dei derelitti. La sua è un'irresistibile identificazione psichica con i perdenti della società, una gratificazione nell'assumere un atteggiamento bellicoso contro lo Stato per evitare a qualche povero idiota un lungo periodo in gattabuia. Alle orecchie di Harry, questa è dolce musica. Si condivida o no il suo lavoro, i motivi che lo spingono hanno un che di riscatto sociale. È un uomo mosso dalla certezza che le prigioni sono piene di gente vittima del proprio ambiente, violentatori di minori che furono a loro volta violentati, drogati svezzati con la roba da genitori intrappolati nel loro ciclo chimico. Mentre Harry si alza per tornare dai suoi clienti, mi rendo conto che, no-
nostante tutti i suoi difetti, sono un po' invidioso di quest'uomo. Harry Hinds ha uno scopo chiaro nella vita, un fulcro che in questo momento, nel vortice delle forze che agiscono su di me, io non possiedo. 4. Sono in anticipo all'appuntamento con Ben. Il Broiler è più discreto di Wong's. L'arredamento è un po' Kitsch, ma il posto è tranquillo, va bene per parlare, per discutere del fondo intitolato a Sharon e del futuro di Ben. Mi dirigo al bar e ordino da bere. «Paul... Paul Madriani.» L'unica cosa che quella voce mi fa venire in mente è che appartiene a una persona sgradevole. Qualcuno con il quale preferirei non essere visto, non qui e non ora. Mi giro in tempo per ricevere una manata sulla spalla. Eli Walker è il decano della stampa di scarto. Sulla settantina, aggressivo, il più delle volte ubriaco fradicio. Walker attraversa regolarmente la terra di nessuno che sta fra quello che lui chiama giornalismo e la propaganda politica per clienti paganti. «È un po' che non ti si vede.» Si inumidisce le labbra con la lingua, come fosse appena uscito dalle ardenti sabbie del Sahara. «Non ero in giro», dico. Il barista torna con la mia ordinazione. Butto giù un sorso veloce. Non offro a Walker nessun appiglio, qualcosa che possa dare il via a una conversazione. È uno di quei tipi appiccicosi ai quali basta un fuggevole contatto di lavoro per definirsi tuoi amici. Nel mio caso, ebbi la sfortuna di stendere un'unica lettera per sbrogliare un problema di diritto di proprietà riguardante la sua casa; un favore che feci su richiesta di uno dei soci, quando ero ancora allo studio. Non se ne vuole andare. I secondi scorrono in un vago scambio di battute, con Eli che conduce la maggior parte della conversazione, mentre ci muoviamo a zig zag fra la gente che sta attorno al bar. Walker mi osserva come un cane assetato. Fra incarichi e clienti, sbava perché gli offra qualcosa da bere. Mi tiene ancora la mano sulla spalla, dando strattoni come una nave che tenti l'ormeggio. «Come si sta in uno studio da soli?» A ogni parola segue una puzzolente zaffata di alcool. Nelle chiacchiere che girano in tribunale, di Eli Walker si dice che la sua cremazione darà vita alla fiamma eterna. «Bene. Mi tiene occupato.» Faccio per dirigermi di nuovo verso il banco, segnale non proprio velato
che per me la conversazione è conclusa. Finalmente mi libero dalla sua presa. Walker non coglie l'allusione. A forza di gomiti riesce a mettersi al mio fianco. La donna seduta vicino a me gli rivolge un'occhiataccia, poi allontana il suo sgabello di alcuni centimetri, dandogli lo spazio per appiccicarsi al banco. A stare vicino a Walker mi sento come un uomo in compagnia di un lebbroso. Sento di avere improvvisamente perso il rispetto di una dozzina di ubriaconi che circondano il banco. «Prendo quello che ha preso lui.» Walker guarda il barista, il quale a sua volta guarda me. Riluttante, faccio un cenno di assenso. Nel suo inimitabile modo, Eli Walker ha trovato la strada del mio conto. È in momenti come questi che mi spiace di non avere il fegato di reagire all'aperta maleducazione. «Perché cazzo te ne sei andato dallo studio Potter?» La domanda è posta con incredibile delicatezza. «Oh, non saprei. Immagino fosse ora di camminare con le mie gambe.» «Un po' come Custer contro tutti quei bastardi di indiani, eh?» Ridacchia fra sé. Il minimo che potrebbe fare, se ha intenzione di scroccarmi da bere, sarebbe accettare senza discutere le mie stronzate. Abbandona l'argomento della mia carriera e si lancia in una conferenza sul suo ultimo colpo giornalistico, uno scandalo a base di denaro pubblico speso per motivi propagandistici nell'ambito del progetto di ristrutturazione delle rete idrica dello Stato. Smetto di ascoltarlo. Do un'occhiata all'orologio. Ben comincia a essere in ritardo. Passo in rassegna i vari modi per liberarmi di Walker. Penso alla toilette, ma so che non farebbe altro che seguirmi, starmi vicino al pisciatoio a controllarmi la vescica. Il bar è pressoché deserto e Walker è alla disperata ricerca di un compagno di sbornia. Il barista ha individuato il mio bicchiere vuoto. «Un altro?» chiede. Annuisco e noto che ho già bevuto un bicchiere più di Walker. Devo andarci piano. Quando arriverà Ben puzzerò come Eli. Dalla strada giunge un suono di sirene. Un'auto di pattuglia a tutta velocità, seguita nel giro di qualche secondo dallo sgraziato rombo di un motore diesel, l'autopompa dei vigili del fuoco. Una squadra di pronto intervento si sta dirigendo sulla scena di qualche incendio o incidente. Eli inclina il bicchiere verso i rumori della strada, in un brindisi, poi in-
golla l'ultimo sorso. «Terribile», mormora. «Una tragedia.» «Cos'è successo?» «Non hai sentito?» «Sentito cosa?» Mi aspetto brandelli di pettegolezzi senza fondamento. La stoffa di cui sono composti quasi tutti gli articoli di Walker. «Ben Potter», dice. Ho il sospetto che Walker stia smerciando informazioni sulla candidatura alla Corte Suprema. Probabilmente dicerie di terza mano che Eli sta diffondendo più in fretta di quanto si propaghi il tifo da una fogna. «È andato», m'informa Walker. «Di che diavolo parli?» «Ti sto dicendo che è morto. Muerto, finito, deceduto, stecchito.» Le sue parole mi fanno allontanare di scatto dal banco. Giro la testa e fisso questo vecchio in un silenzio di pietra. «L'ho sentito dall'intercettatore della frequenza radio della polizia che ho in macchina. Stavano chiamando la squadra di pronto intervento e gli altri.» Dà un'occhiata all'orologio. «Tu pensa. Più di dieci minuti fa. In questa città, se ti viene un infarto è meglio chiamare un taxi», dice. Improvvisamente capisco di cosa sta parlando. Le sirene in strada. Walker pensa siano la conseguenza di una tragedia in cui è coinvolto Potter. Questa conversazione è surreale. Voglio dirgli che da un momento all'altro Ben entrerà dalla porta dietro di noi. Guardo di nuovo l'orologio. È solo in ritardo. Mi ricompongo. Walker mi sta imbrogliando; sta tentando di strapparmi informazioni sui motivi per cui ho lasciato lo studio. Cerca di rifilarmi balle sulla morte di Potter per vedere se diffamo un morto. È il genere di sudiciume che Walker infilerebbe in un articolo. «Cosa hai sentito, esattamente?» «C'è il morto», ribadisce. Per quanto mi sforzi, resto di stucco. Non c'è alcuna esitazione nelle sue risposte. Persino Eli Walker avrebbe qualche difficoltà a confondere la linea netta che separa la vita dalla morte. «Un incidente?» chiedo. Scuote la testa. «Infarto?» Walker sbatte il bicchiere sul bancone del bar, il volto illuminato da un sorriso compiaciuto. Finalmente ha la mia completa attenzione.
È chiaro, non parlerà fino a che non avrà ancora da bere. Chiamo il barista. Dopo avermi assecondato con uno scotch, ora Walker ordina un doppio bourbon. Chiedo il conto e passo al barista due biglietti da venti. «Un colpo di fucile», mi rivela. «Nel suo ufficio.» Shock e incredulità si manifestano nella sensazione di fuoco che sento salire in faccia, su fino alla punta delle orecchie. Lui legge l'incredulità nei miei occhi. «È vero», dice. «Giuro.» Alza le dita in un fiacco segno di vittoria, come un disorientato boy scout. «Cos'è successo?» gli chiedo. Si stringe nelle spalle. «Sulla frequenza della polizia non trasmettono notiziari.» Questa è l'idea che Walker ha del giornalismo militante. Scroccare da bere in un bar con briciole di informazioni. Mi chiedo quale parte della trasmissione della polizia non abbia sentito o non sia riuscito a capire. «Hai un lasciapassare per la stampa?» gli chiedo. «Certo.» «Andiamo.» «Andiamo dove? Non ci hanno ancora portato da bere.» La mia mano gli afferra il gomito come una morsa e lo trascina via, spingendolo avanti. «Non te lo ha mai detto nessuno, Eli, che l'alcool non va a male?» Per tutto il tragitto, mentre guido, Walker, seduto di fianco a me, non la smette un secondo. Sta blaterando qualcosa su un informatore che deve incontrare al bar. «Come no, Eli. E come si chiama? Johnny Walker?» «No, davvero, devo incontrare una persona.» «Sono sicuro che ti aspetterà. Poi ti riporto indietro, sta' tranquillo. Devi solo farmi passare lo sbarramento della polizia.» Ammesso che ci sia. La speranza si rifugia nelle improbabili, gracidanti trasmissioni sulle frequenze radio della polizia e nell'interpretazione che ne ha fatto Eli Walker. Ma le mie speranze svaniscono quando accosto al marciapiede del viale di fronte alla Emerald Tower. Le squadre televisive di canale cinque e canale otto sono già raggruppate fuori dell'entrata; si dribblano in cerca delle postazioni migliori. I loro furgoni, irti di antenne paraboliche e piccole antenne a spirale per i telefoni cellulari, sono parcheggiati di fianco al marciapiede, prodigiosi insetti su
ruote in cerca di una carogna sulla quale banchettare. Due auto di pattuglia sono ferme accanto alla fontana della piazza acciottolata, di fronte all'edificio. In una, la portiera sul lato dell'autista è ancora aperta, e le luci sul tetto delle due auto lampeggiano, ambra, rosso e azzurro. I riflessi baluginano sul vetro color smeraldo dell'edificio, in una surreale esibizione sinfonica di luci. I poliziotti stanno tendendo nastri gialli sull'entrata dell'edificio. C'è un terzo veicolo, blu scuro, più basso dei furgoni delle reti televisive. Infilato tra i due furgoni più grandi, le sue luci d'emergenza tremolano contro l'azzurro intenso di un cielo alla Spielberg. Sulla fiancata, a grosse lettere bianche, spiccano le parole CORONER DI CONTEA. Comincio a provare un nuovo rispetto per Eli Walker. Ci affrettiamo nell'ampio viale in cemento, verso l'imponente edificio in vetro verde. Per tutto il percorso spingo Walker. È un cronista che non è mai andato a vedere un incendio. L'unico calore che abbia sentito in vita sua è quello del liquore nello stomaco. «Dammi il tuo lasciapassare, Eli.» Maneggia il portafoglio con fare maldestro, lo lascia cadere per terra. Lo raccolgo, frugo in fretta, trovo il lasciapassare. Guardo la tessera plastificata. Non c'è foto. Sono fortunato. «Lascia fare a me. Tu sta' zitto.» Raggiungiamo la porta e veniamo bloccati da un poliziotto in divisa, giovane, senz'altro uno del reparto addetto al traffico. Sventolandogli il lasciapassare sotto il naso, recito la parte del giornalista trafelato. Ci fa cenno di passare. Le troupe televisive sono ammassate nell'atrio dell'edificio. Un altro poliziotto è appostato alle porte degli ascensori. Il lasciapassare di Walker non mi serve più a niente. Walker e io ci consultiamo. «Conosci qualcuno qui?» Faccio un cenno con la testa, in direzione dei giganti dei media che gironzolano per l'atrio. Walker si guarda velocemente in giro, poi scuote il capo. Ha davvero un sacco di agganci. «Resta qui.» Mi avvicino a uno dei cameramen. Sta controllando la giungla di piante tropicali attorno alla fontana interna. «Cos'è successo?» Il tizio sta masticando un chewing-gum, uno di quelli grossi. Mi guarda. «Boh!» La sua erudita risposta è accompagnata da una stretta di spalle,
mentre la gomma gli schiocca in bocca. Indica con la testa un collega più elegante che sta a pochi metri di distanza. «Che succede?» «Hanno fatto fuori qualcuno.» «Chi?» «Che ne so. I piedipiatti non si sbottonano.» «Come lo avete scoperto?» L'uomo mi guarda come se fossi matto, poi tocca il cercapersone fissato alla cintura. «Come scopro tutto il resto, no?» Torno da Walker. Si sta stufando. Vuole andarsene. Mi tocca sentire un'altra volta la storia del suo informatore al Broiler. Risuona il tintinnio di un campanello, uno degli ascensori che arriva nell'atrio. I riflettori ad arco si puntano sulla porta dell'ascensore come la contraerea in un blitz su Londra. La porta si apre. Una figura solitaria sta al centro dell'ascensore, accecata dalle luci, assalita da un fiotto di domande simultanee e incoerenti. Solleva le braccia per proteggersi dalla luce. «Dovrete chiedere alla polizia. Non ho niente da dire.» L'agente davanti all'ascensore fa allontanare parecchie telecamere dalla porta. «Toglietemi quella maledetta luce dagli occhi.» Con una raffica di brontolìi, le luci si attenuano e la folla pigiata davanti all'ascensore comincia a dileguarsi, a tornare negli angoli dell'atrio. È a metà dell'atrio, diretto alla porta, quando mi vede. Gli occhi di George Cooper si stanno ancora adattando dopo il bombardamento dei riflettori. Ha in mano una piccola borsa nera che contiene gli strumenti della sua macabra professione. «Coop.» La mia voce rimbomba un poco nell'atrio cavernoso. Ci sono cerchi di sonno arretrato sotto i suoi occhi, e un sorriso quasi stupefatto sotto un paio di baffi sale e pepe. «Paul.» Un'esitazione momentanea, poi l'apocalittica domanda. «Come lo hai saputo?» Le parole di Coop battono come un tamburo nel mio cervello. È la conferma che temevo. Ben Potter è morto. Lotto per assorbire l'irrevocabilità della cosa; il mio primo vero tentativo di valutare la dimensione personale della sua perdita. Cooper è vicino a me, ora, e aspetta la risposta. «Me lo ha detto Eli», gli dico. C'è una goffa presentazione. Walker rende edotto Cooper sui vantaggi di intercettare le frequenze d'onda della polizia.
«Ahh», commenta Coop. «Cosa è successo?» chiedo. Il tizio con il cercapersone mi sta osservando con rinnovato interesse. Ha afferrato quello con il chewing-gum, e i due si stanno dirigendo verso noi. «Ti spiace se parliamo mentre camminiamo?» dice Coop. «A momenti scenderanno con il corpo. Devo preparare il furgone.» Ci dirigiamo alla porta. Coop e io siamo a fianco a fianco. Abbiamo Walker alle calcagna. «È troppo presto per sapere qualcosa di preciso. Se dovessi tirare a indovinare», dice Coop, con la voce che cala di un'ottava e di parecchi decibel mentre osserva stancamente una troupe che si sta avvicinando, «forse è un suicidio.» Non dico niente, ma scuoto la testa. Coop sa cosa intendo. Non ci credo. «Un unico colpo, con un fucile da caccia calibro dodici, in bocca.» George Cooper non indora mai le pillole. «Il custode l'ha trovato circa un'ora fa. Non si può essere certi di niente fino a che la scientifica non ha finito il suo lavoro.» Usciamo. Il suo accento del sud è pesante nell'aria della sera. Per la prima volta da quando Walker mi ha aperto questo incubo, c'è sicurezza nella mia voce, perché su una cosa non ho dubbi. «Potter non si sarebbe mai suicidato.» «Nessuno è immune alla depressione.» Detto da Cooper, è una verità lapalissiana. «Lo conoscevo bene», insisto. «Credimi. Non si sarebbe mai ucciso. Aveva troppe ragioni per vivere.» «Forse non lo conoscevi bene come pensi», dice Coop. «Le persone come lui proiettano un'immagine amplificata. A volte fanno fatica a stare al passo con le aspettative che loro stessi hanno creato.» Sta accelerando il passo. Il tipo con il cercapersone e il suo cameraman sono alle nostre spalle. Ci seguono come ombre. La voce di Coop si addolcisce un po'. «Lo so, adesso non riesci ad accettarlo. Ma credimi, è possibile. L'ho visto succedere troppe volte.» Abbiamo raggiunto il furgone del coroner parcheggiato vicino al marciapiede. Coop apre le portiere posteriori, butta dentro la sua borsa, libera uno spazio per la barella. «C'è una possibilità che mi lascino salire?» «Nessuna», dice lui. «Se ne sta occupando il procuratore in persona.» «Nelson?» Coop annuisce. «Il boss in carne e ossa.»
«Perché tutta questa attenzione, se è un suicidio?» Lui ignora la domanda, come se non l'avesse sentita. Quando si gira, mi guarda dritto in faccia. Cooper sa più di quanto dica. «Dovevo vederlo a cena, stasera.» «Potter?» chiede lui. Annuisco. «Voleva parlarmi.» «Di cosa?» «Affari», rispondo. È una piccola bugia da niente. Non ho alcun desiderio di riesumare ricordi di Sharon, non qui, non adesso. Glielo dirò un'altra volta, quando saremo soli. «Doveva tornare a Washington. Avrei dovuto portarlo all'aeroporto.» «Quando gli hai parlato?» «Ieri sera», dico. Coop sposta lo sguardo oltre la mia spalla, lo punta su Walker. C'è movimento nell'atrio della Emerald Tower, una corsa di telecamere verso le porte di vetro. Quattro poliziotti aprono la strada a una barella cromata. Un lenzuolo fissato da cinghie copre il sacco nero in cui è racchiuso il corpo. Due degli assistenti di Coop, a passo veloce, spingono la barella sul marciapiede, inseguiti dalle cineprese. Il tipo con la telecamera che ci seguiva perde interesse e si unisce al gruppo. Si sente il secco clic del metallo quando le gambe pieghevoli rientrano sotto la barella e il carico scivola nel retro del furgone del coroner. Walker è perplesso. Coop mi spinge per qualche metro, verso il muso del furgone. «Sei capace di tenere una cosa per te?» dice. Annuisco. «Ci sono i federali, su con Nelson. Due agenti dell'FBI. Cosa succede?» «Ben era in lizza per un incarico», gli rispondo. Coop mi fissa intensamente. Il suo sguardo mi chiede di continuare. Esaudisco il suo desiderio. «Corte Suprema», gli dico. Emette un fischio, lungo e basso, che va a finire in niente sulle sue labbra, mentre si rende conto della portata di questa notizia. È ovvio che Coop eseguirà l'autopsia lui stesso, e con molto scrupolo. «Talia, la moglie di Ben. È di sopra?» chiedo. «La stanno cercando. Stanno tentando di darle la notizia. La polizia ha telefonato a casa. Non risponde nessuno. Hanno mandato un'auto di pattuglia, ma non c'era nessuno.» «Chissà come la prenderà.» Coop mi guarda. Non capisco bene se c'è un vago segno di disapprova-
zione, come se avesse sentito qualcosa di Talia e me. Ma poi distoglie lo sguardo. È il senso di colpa che mi rende eccessivamente sensibile. Questa cosa me la sto portando addosso come una specie di lettera scarlatta mentale. È morta con Ben. Chissà come reagirà Talia. Senza dubbio, con più padronanza di me. La compostezza nelle situazioni difficili è un suo dono speciale. «Probabilmente vorranno parlare con te.» «Chi?» «Quelli della polizia.» «Perché?» «Hai parlato con Potter ieri sera. Avevi un appuntamento con lui stasera. L'agenda di Potter», dice Coop. «Con ogni probabilità ci sarà il tuo nome.» Ha ragione. Posso aspettarmi la visita della polizia. Lo sguardo di Coop si fissa sulle telecamere. Una si punta su di noi mentre parliamo. Nell'inerte atmosfera di una città che sta iniziando il suo sonno notturno, l'attenzione di questi netturbini del pettegolezzo elettronico è attratta da tutto quello che si muove. Il corpo di Ben è nel furgone e, al momento, la mia conversazione con Cooper è l'unica scena filmabile a disposizione. Come in un tango lento, manovro fino a voltare le spalle agli obiettivi. «C'era un biglietto?» chiedo. «Hmm?» Mi guarda come se non capisse. «Ha lasciato scritto qualcosa sui motivi del suicidio?» «Che io sappia, no», dice. Non c'era nessun biglietto. Di questo posso essere certo. Un biglietto accanto a un suicida non è qualcosa che la polizia possa nascondere al medico legale. «Suppongo che ci sarà un'autopsia.» «Oh, sì.» Lo dice con la stessa gravità di un pastore di paese a cui venga chiesto se i dannati andranno all'inferno. Guarda l'orologio. «Sarà una lunga notte.» Si sposta sul davanti del furgone. Uno dei suoi assistenti è già al volante. L'altro copre le retrovie, tenendo lontane le telecamere dal veicolo. «Coop.» Lui mi guarda. «Grazie.» Agita una mano nell'aria, come a dire non è niente, solo una piccola informazione a un amico. «Eli. Adesso ti riporto indietro.» La spia di una cinepresa si accende. Viene immortalato il didietro staz-
zonato della mia giacca. Servirà a coprire almeno alcuni secondi di Eye on Five, l'incrocio fra intrattenimento e giornalismo che viene spacciato per telegiornale. Mentre Walker si dirige verso l'auto, rimango solo sul marciapiede a seguire con lo sguardo il furgone del coroner, le luci color ambra che si allontanano nella notte. La mia mente comincia a chiedersi per quale motivo un uomo dello stampo di Ben Potter, con una carriera in decisa ascesa, dovrebbe togliersi la vita. Mi ritrovo con un solo, inquietante pensiero: nonostante quello che dice Cooper, non si tratta di suicidio. 5. Ho seguito i passi di Harry Hinds per un isolato, e finalmente lo raggiungo al semaforo di fronte al Palazzo di Giustizia. Harry si volta e mi vede. Ha un'espressione cupa. «Mi spiace per Potter», dice. Sta osservando le grandi borse sotto i miei occhi. Ho trascorso una notte insonne a pensare a Ben. Stamattina, ne parlano tutti i giornali. I distributori automatici sulla strada esibiscono grandi fotografie di Potter in un passato migliore: titoli a tutta pagina, e poche notizie. I quotidiani avevano già chiuso quando è successo. Questo è il massimo che siano riusciti a fare. «Hai un aspetto di merda», mi dice. Harry Hinds è fatto così. Niente giri di parole, dritto al bersaglio. Mi stringo nelle spalle. «Cosa ti tira fuori a quest'ora antelucana?» chiede. «Un'istruttoria con Nocedicocco», gli rispondo. A quanto pare, Harry sta pregando che oggi alcune aule rimangano al buio. Conta sulla penuria di giudici per evitare un processo per guida in stato di ubriachezza, un caso in cui non ha alcuna plausibile difesa. Per Harry, questa è soltanto un'altra sfida. Viene il verde. Attraversiamo la strada, saliamo la scalinata, superiamo la moderna statua in bronzo al centro di una vasca d'acqua. La fontana non funziona più da tanto tempo. Senza dubbio, i fondi per la riparazione sono stati prosciugati dal comitato di sovrintendenza della contea per qualche programma sociale caduto nel dimenticatoio. Un'anima d'artista ha appeso alla contorta scultura un rudimentale cartello con una scritta a pennarello: LA VELOCITÀ UCCIDE
Chiacchieriamo del più e del meno. Harry mi parla della sua causa, l'irrefrenabile istinto di ogni avvocato. Ha una donna di sessant'anni, molto stimata nella comunità, autista del bus della scuola. La quintessenza della discrezione e dell'onestà, secondo Harry. Quando la polizia l'ha fermata a notte fonda sull'auto di famiglia, questo modello di virtù ha totalizzato zerovirgoladiciannove nella prova del palloncino, il doppio del limite legale di alcool nel sangue. Harry impreca contro il procuratore che si rifiuta di modificare il capo d'accusa, in modo che la donna possa salvare la patente di conduttrice di bus. «Uno stronzo da manuale», dice. Questa è la descrizione che Harry fa di Duane Nelson, il procuratore distrettuale. Nelson, nominato d'ufficio per coprire il posto rimasto vacante quando Sam Jennings è andato in pensione un anno fa, sta sollevando un polverone. Sostiene che vuole eliminare qualsiasi tipo di patteggiamento. «Se la spunta lui», dice Harry, «finirà che la contea costruirà una dozzina di nuove prigioni e dovrà aggiungere un migliaio di giudici in tribunale. L'economia locale crollerà. Metà della popolazione attiva dovrà adempiere in continuazione alla funzione di giurato, e l'altra metà sarà dietro le sbarre.» Harry mi racconta della giuria che spera di ottenere, se sarà costretto ad andare in aula: «Solo un po' di gente dalla mente aperta», dice. «Conosco il genere», ribatto. «Una giuria che si beve il pranzo.» «Mai!» Lo dice simulando un pizzico d'indignazione. «Solo qualche filosofo. Profondi pensatori», mi dice. Per Harry, si tratta di persone che si piazzerebbero nella corsia di scorrimento veloce dell'autostrada con degli specchietti, a lanciare segnali alla nave madre. Gente alla quale potrebbe far bere la sua sballata linea di difesa. Non c'è un briciolo di vergogna nella voce di Harry. Difenderebbe il diavolo in persona, nel bellicoso combattimento di un processo con giuria. Ormai scappa solo quando c'è in ballo una posta molto alta. Si ferma un attimo a controllare la bacheca vicino alle scale. «Continuano a spostarmi le dannate aule», borbotta. «Non riescono nemmeno a tenere il ruolo in un posto fisso.» «Sanno che stai arrivando, Harry», dico. «Stanno solo cercando di nascondersi. Puoi dargli torto?»
«Diavolo, non so di cosa abbiano paura.» Ride. «Magari di due anni solo per selezionare la giuria, se il caso è brutto come sembra.» Mi ignora. Gli auguro buona fortuna. Scende pigramente le scale. La logora cartella dal fondo rigonfio, appesantita da testi di consultazione e fogli consunti zeppi di citazioni da casi familiari, gli sbatte contro il ginocchio. È il vantaggio di specializzarsi come ha fatto Harry. Ci si può portare appresso la propria biblioteca in una scatola. Da quando me ne sono andato in fretta e furia dallo studio P&S, ho avuto parecchie delusioni. Ma sono lieto di dire che il mio ritorno alla pratica generica del diritto penale non è fra queste. Anche se per tre anni ho continuato a negarlo con chiunque fosse tanto in confidenza con me da accennare alla cosa, la materia di cui è fatto il diritto societario aveva cominciato ad annoiarmi, compresi i reati finanziari d'alto bordo sui quali lo studio aveva indirizzato le mie doti. Il mio studio potrà avere orizzonti limitati, ma considerato il mondo e i suoi vizi, non c'è penuria di clienti. Il segreto, come sempre, è stanare quelli che hanno la possibilità di pagare. Sull'unghia, possibilmente. Il Palazzo di Giustizia di Capitol County non è vecchio, ma in questi ultimi anni i cambiamenti strutturali lo hanno trasformato in un posto tetro. L'ampio padiglione in marmo che parte dall'entrata principale sulla Nona Strada è stato ristretto da una serie di montanti smontabili in ferro, collegati fra loro da corde rivestite di neoprene; il tutto ha lo scopo di convogliare il pubblico in un labirinto di metal detector e punti di controllo. I pannelli di quercia chiara che formano la parte anteriore dei banconi per il pubblico hanno assunto un aspetto logoro, dopo anni di uso indiscriminato. Una lunga fila si è formata sotto lo sfregiato cartello in legno che dice: TRIBUNALE MUNICIPALE - DIVISIONE TRAFFICO. La coda oscilla come un serpente che contorca le spire. Gli automobilisti, nervosi, imprecano e si agitano di fronte all'inefficienza dell'intero apparato. Dietro il bancone, gli impiegati si muovono con studiata indifferenza, come animali senza pelliccia al risveglio da un lungo letargo. Tutto sommato, il posto ha il fascino di una stazione degli autobus all'ora di punta. Passo vicino a un avvocato munito di cartella che sta uscendo di corsa dall'edificio. È inseguito dal suo cliente, un giovane di colore che sfoggia una collana d'oro e un pacchiano anello da mignolo. Il ragazzo sta disperatamente tentando di arpionare il suo difensore prima che questi svanisca
dall'edificio e sprofondi nell'abisso delle telefonate senza risposta. Agli occhi di chi passa e la vede seduta accanto a me sulla dura panca in legno fuori della sezione 13, è bellissima. I suoi capelli si spandono come gonfie cascate di acque scure attorno ai morbidi lineamenti del volto. Grandi occhi rotondi brillano di un'incandescenza azzurra. Indossa un vestito di seta che mette in risalto i contorni di un corpo capace di rendere insignificante una ragazza-copertina. Raffinati orecchini d'oro e braccialetto abbinato le danno un tocco di eleganza. E sempre quelle labbra impertinenti increspate in un sorriso enigmatico, come se lei conoscesse il più ridicolo e definitivo segreto sulla condizione umana: un livello di fiducia in se stessa sorprendente in una persona che ha solo ventisei anni. Persino nel suo modo di parlare, qui nell'intimità con il suo avvocato, nella scelta delle parole e della dizione, il velo di raffinatezza minuziosamente eretto viene conservato; ha un accento costruito, non proprio l'inglese della regina, ma quasi. È un'affettazione per attirare i clienti delle alte sfere. «E cosa possiamo aspettarci oggi?» mi chiede. Si potrebbe pensare che ci stiamo apprestando a una qualche occasione mondana, come se io fossi parte del ricevimento a base di tè e pasticcini preparato per presentarla a Lady D. Susan Hawley è una ragazza squillo, non una semplice prostituta, una passeggiatrice; non il tipo di donna che pare la morte che cammina, con segni di aghi sulle braccia e punture fra le dita dei piedi. Ha letto molto più di me, perlomeno nell'ambito della stampa locale; fa parte dei suoi ferri del mestiere, la capacità di parlare con cognizione di causa e annuire al momento giusto quando si citano nomi importanti alle feste dell'alta società. Ho il sospetto che Susan Hawley sia una donna molto richiesta, negli ambienti esclusivi della vita politica notturna di questa città. È l'ornamento decisivo al braccio di importanti figure politiche o di capitani d'industria, durante tranquille cene d'affari. Nelle sue transazioni commerciali, le banconote da cento dollari compaiono in cospicue quantità nella sua borsetta, il mattino dopo, come i pani e i pesci nel cesto dopo il Sermone della Montagna. Sta aspettando che io risponda alla sua domanda. «Io entro e parlo con il giudice. Scopro cosa ha da offrire il procuratore. Se sono disposti a trattare.» Terrò Susan fuori dell'aula il più a lungo possibile, lontana dagli sguardi
curiosi e dalle battute spinte degli avvocati in attesa di essere ascoltati in istruttoria da Nocedicocco. È una specie di bazar turco in cui gli avvocati dell'accusa e della difesa convengono al cospetto del pascià locale, in questo caso un giudice di Corte Superiore, a mercanteggiare sul prezzo e il valore della giustizia, a definire la causa prima che si debba arrivare a un processo, se possibile. «Potrei stare dentro un pezzo. Penso sia meglio che lei aspetti qui in corridoio. La chiamo io, se abbiamo bisogno di parlare con lei.» Di colpo diventa dura, sbrigativa. «Non ho intenzione di farmi rovinare da questa faccenda. Ha capito? Dica loro di chiudere il caso.» Le sue parole sono secche e fredde, impassibili. La sua voce ha la stessa fermezza di un presidente di banca. È una richiesta assurda. Eppure lei è convinta. Scoppio a ridere, ma non per prenderla in giro. Sono divertito. Susan è stata incastrata da un agente che recitava la parte del ricco uomo d'affari in visita da un'altra città. L'agente ha registrato le loro trattative. Il caso non contiene la benché minima traccia di una trappola, stando al conciso dialogo catturato sul nastro. Con voce inconfondibile, Susan parla di un onorario di mille dollari per una gamma di prestazioni professionali non previste nemmeno nel Kama Sutra. L'hanno arrestata nel giro di due minuti. «Susan, gliel'ho già detto, sono un avvocato, non un mago. Non ci sono garanzie o facili scappatoie in questa faccenda.» «Parli con il giudice», risponde. «Lui capirà. Non ho nessuna intenzione di patteggiare.» Si volta dall'altra parte, come se questa fosse la sua ultima parola sull'argomento. «Mi ascolti.» Evoco autorità nella mia voce, un piccolo esercizio di controllo del cliente. «Penso che riusciremo a far cadere l'accusa di reato maggiore, se non oggi almeno in seguito, prima del processo. Ma non gliela lasceranno passare liscia. Farà bene a metterselo in testa fin da ora.» È la regola numero uno di un avvocato: non fare mai promesse esagerate a un cliente. Le speranze hanno il vizio di autoalimentarsi. Gira di scatto la testa verso di me. «Niente da fare. Sul serio. Non ho intenzione di cedere. Parli con il giudice.» Si mangia queste ultime parole. Per la prima volta, la raffinata patina di ricercatezza scompare. Ho la sensazione che la reazione sarebbe identica, se un cliente dovesse chiedere un rimborso a questa donna d'affari. Si ricompone. «Gli dica...» Si schiarisce la gola e mi guarda dritto negli occhi. «Gli dica che vuole che si lasci cadere l'accusa. Che lo voglio anch'io. Ha capito? È semplicissimo.» I suoi oc-
chi sono colmi di fuoco. Non sono parole dettate da vane speranze. Eppure non ho alcuna base legale per una richiesta simile. Le assicuro che non potrà essere pattuito niente senza la sua approvazione finale. Contrattiamo per parecchi minuti, e alla fine lei accetta. Anche se mi avverte che, salvo un proscioglimento completo, affronterà il processo. Vedremo. Mi alzo e comincio a dirigermi verso l'aula. Un personaggio mal in arnese, con una barba di tre giorni, jeans stracciati e una maglietta senza maniche, percorre il corridoio, trascinando i piedi al seguito del suo avvocato. L'avvocato si ferma a controllare il ruolo affisso alla bacheca fuori dell'aula. Il suo cliente esamina Susan con sguardo sonnacchioso e lascivo, e intanto gratta la testa di un drago azzurro tatuato sull'avambraccio. Se fosse fisicamente possibile, giurerei di vedere ondate di tanfo soffocante sollevarsi dal suo corpo. Il dito scende dal braccio, raggiunge l'ultimo prurito sotto un buco sul dietro dei jeans. Quanto a Susan, è del tutto inconsapevole delle occhiate dell'uomo. Mi chiedo se anni di sguardi maschili l'abbiano resa insensibile, o se non sia semplicemente che i favori di Susan Hawley sono indiscutibilmente oltre la portata di questa abietta creatura. Armando Acosta, giudice di Corte Superiore, studia la pratica aperta sulla sua scrivania. La prematura chiazza di calvizie sulla parte posteriore della testa brilla, fra le sottili strisce di capelli neri, come la tonsura di un monaco medievale. Alza gli occhi, guarda da sopra gli occhiali a mezza lente. Per la prima volta da quando ho assunto questo caso, mi sto convincendo che dovrò andare in giudizio per difendere Susan Hawley. Devo affrontare non soltanto l'intransigenza della mia cliente, ma anche la presenza di Jimmy Lama nell'ufficio privato del giudice. Affianca Al Gibbs, il giovane viceprocuratore distrettuale assegnato al caso. Lama è nella polizia da trent'anni, anche se la sua carica di sergente non lo direbbe. Rappresenta tutto ciò che c'è di discutibile in un poliziotto prepotente e arrogante. È stato processato tre volte e assolto, solo la provvidenza sa come, per abuso di potere e percosse. L'ultima volta il suo collo si è guadagnato quarantatré punti per esibizioni acrobatiche attraverso le lastre di cristallo di una vetrina. Secondo Lama, il barbone cinquantaseienne si era lanciato oltre il vetro, da solo, in un tentativo di fuga. Acosta alza gli occhi, l'impazienza scritta nello sguardo. «Per favore, signori, non parlate tutti assieme.» Il tono insistente della voce di Acosta è scrupolosamente affinato da anni di consumata arroganza di giudice.
Parlo prima che Gibbs possa aprire bocca. «Si tratta di un caso di accusa eccessiva, vostro onore. Il procuratore distrettuale sta cercando di trasformare questa faccenda in reato maggiore sulla base di un'esile teoria di incitamento alla prostituzione.» Secondo la legge, una prostituta che offre i propri servigi per strada è imputabile di infrazione, ma il suo ruffiano può essere condannato alla reclusione con l'accusa di reato maggiore. Stanno cercando di inchiodare Susan in base alla traballante supposizione che non solo vendesse se stessa, ma facesse anche la ruffiana per un'altra donna. Gibbs si dimena sulla sedia, attendendo cortesemente il proprio turno, come se fosse a un tè ufficiale. Lo conosco: ha un buon cervello, ma non ha fuoco nelle vene. L'impazienza di Acosta cresce. Alla fine, il giudice fissa apertamente Gibbs. «Lei è qui per un buon motivo, avvocato, o siamo riuniti per il suo divertimento?» Gibbs comincia a balbettare. «Vo... Vostro onore. La signora gestiva un bordello dal suo appartamento. È stata sorpresa a chiedere il pagamento per rapporti sessuali per conto di un'altra prostituta», dice. In realtà, si tratta di una madornale esagerazione. Protesto con Acosta. Susan divideva un appartamento con un'altra donna. Lei pagava l'affitto e la bolletta del telefono, mentre la sua coinquilina faceva la spesa e pagava gli altri conti. Il fatto che il telefono fosse intestato a Susan e venisse usato per fissare appuntamenti per entrambe le donne costituisce la base per le accuse secondo le quali lei faceva da mezzana all'altra donna. Indosso i fatti come abiti su misura e batto pugni di parole sul tavolo. È una spiegazione che sembra reggere bene, allo sguardo perspicace di Armando Acosta. Non è mai stato troppo portato per le sottili tortuosità della legge. Acosta sta ora rimestando fogli sulla sua scrivania. Parla scandendo le sillabe, con un vago accento spagnolo: non le intonazioni del messicano di strada, ma un tono elegante e preciso, come se le sue labbra si preparassero a descrivere le ricche qualità del «cuoio di Corinto». È solo un modo di parlare imparato a tavolino, come il suo portamento da giudice, perché, nonostante il cognome spagnolo, Acosta non parla quella lingua. Le affettate intonazioni della voce sono soltanto un'altra concessione alla politica demografica, in uno stato con una popolazione latinoamericana in rapida ascesa. Ho parlato con gli avvocati d'ufficio, i giovani ispanoamericani che sui loro destrieri danno l'assalto ai bastioni del sistema, quelli che lavorano per La Raza e il Fondo di Difesa Messicano Americano. Nei loro ambienti,
Acosta è conosciuto come la «Nocedicocco castigliana», scuro e riccioluto all'esterno, ma bianco come la neve fresca all'interno. Rende regolarmente omaggio all'altare dei programmi di assistenza alle vittime dei pregiudizi razziali, ma chiunque conosca anche lontanamente il magistrato sa che ha molto più in comune con gli anglosassoni del consiglio di amministrazione del Del Prado County Club, di cui fa parte, che con gli inservienti dalla pelle scura che tengono in ordine le buche e tosano gli impeccabili greens. Ma, per il momento, Acosta è un buon giudice di solida saggezza. È dalla mia parte. Fissa il procuratore. «F vero, avvocato? Sta cercando di trasformare questo caso in reato maggiore per arrivare a un patteggiamento? Perché se è questo che sta succedendo qui, la Corte non lo tollererà.» «No, vostro onore.» Il diniego di Gibbs è fiacco. C'è un vuoto momentaneo, mentre Acosta attende un'ulteriore risposta. Alla fine il vuoto viene colmato, ma non da Gibbs. Una voce stridula si alza dalla destra del procuratore. «Non esattamente, vostro onore.» Lama entra in campo risoluto. «Vogliamo soltanto la collaborazione della donna», dice. È un minuetto che ormai stiamo danzando da quasi due mesi: Lama, Gibbs, e il sottoscritto. A quanto sembra, la mia cliente farebbe parte di un gruppo più vasto, signore della notte che concedono l'esclusiva dei loro servigi a lobbisti e gente simile; costoro se ne servirebbero per influenzare le elezioni e altre questioni pubbliche. Lama vuole la lista dei clienti. Harry ha soprannominato questa lista «l'agenda delle scopate». La polizia sta conducendo un'indagine su una truffa finanziaria, e la lista dei clienti è diventata di capitale importanza. «Se vuole la nostra considerazione», dice Lama, «la signora deve stendersi e girarsi.» «Come ha detto, scusi?» chiede Acosta. «Darci qualcuno dei pesci grossi», risponde Lama. «Oh», commenta il giudice. «Quello che il sergente sta tentando di dire», interviene Gibbs, «è che l'imputata è una testimone chiave. Conosce l'identità di importanti funzionari pubblici che hanno usato i suoi servigi in cambio di voti e altre azioni ufficiali.» «Allora stiamo parlando di corruzione?» dice Acosta. «Ad alti livelli.» Lama annuisce, come se il giudice avesse finalmente afferrato.
«Cosa si aspetta che faccia, sergente? Che inchiodi la signora per reato maggiore in modo che lei possa spremerla un po', in base a... alle sue semplici affermazioni?» C'è un'espressione di meraviglia sulla faccia di Acosta. «In una parola, sì.» È Lama al meglio del suo meglio. «Vostro onore, vogliamo soltanto la collaborazione della donna.» Gibbs cerca di sistemare la cosa, cerca di zittire Lama prima che possa fare altri danni. «In cambio della sua testimonianza, siamo pronti a concedere un patteggiamento su una semplice accusa di prostituzione.» «Questo non mi va», m'inalbero. «Se lo Stato ha prove sulla complicità della mia cliente in altri reati, ho il diritto di vederle, vostro onore.» «Lei non ha diritto a un bel niente, avvocato», spara a raffica Lama. «Sono informazioni confidenziali. Non hanno nulla a che vedere con il procedimento a carico della sua cliente.» «Mi voglia scusare, ma quanto a questo vorrei qualcosa di più della sua parola», gli dico. Abbiamo aggirato Acosta verbalmente. Adesso sono a faccia a faccia con Lama. Le mie parole sono dirette alle spalle di Gibbs, nervoso sulla sua sedia, agitato dal fatto che il suo decoro sta andando a farsi benedire. Chiedo a Lama perché sia qui. Faccio osservare che non è stato lui a eseguire l'arresto della mia cliente. «Non sapevo che ultimamente il dipartimento di polizia facesse da portavoce al procuratore.» Gibbs è punto sul vivo dalla mia osservazione. Mi guarda, con espressione ferita. Lama fa per alzarsi. «Basta così, signori. Basta così.» Acosta passa la mano sopra la scrivania, come un profeta che cerchi di calmare le acque. «La mia cliente non ha intenzione di accusarsi di un reato minore per evitare un processo, e di certo non verrà a deporre fino a che io non ne saprò di più.» A questo punto, Nocedicocco finalmente si accorge della mia presenza. «Certo, certo, l'avvocato Madriani ha ragione.» Sorride. Gli ho fornito un modo per portare la faccenda a una conclusione. «Se avete in mente un accordo, ovviamente dovete proporlo per tramite del legale.» «Vogliamo soltanto qualche nome», insiste Gibbs. «Un po' di collaborazione.» «La Corte non gliela può fornire. Può farlo soltanto la mia cliente.» Gibbs ha aperto uno spiraglio, e io ci ho infilato il piede.
«Possiamo inviarle un ordine di comparizione.» Lama sguazza come un bufalo indiano nel pantano. «E la mia cliente può appellarsi al quinto emendamento», dico. «Non potete costringerla a testimoniare se la testimonianza può incriminarla e, a quanto mi risulta, occorrono due persone per commettere un atto di prostituzione, o di corruzione.» Acosta sta diventando irrequieto, distratto da qualcos'altro, un'altra preoccupazione più profonda. Glielo leggo negli occhi che ora non sono più fissi su di noi, ma vagano altrove. «Forse dovrei chiamare la mia cliente, e allora sapremo se è disposta a testimoniare, e se sì, a quali condizioni.» Come una capsula di ammoniaca, il mio suggerimento fa uscire Nocedicocco dal suo stato comatoso. «No, no, non c'è tempo. L'elenco delle cause a ruolo è enorme, oggi.» Le sue mani, a palme in fuori, frustano l'aria in segno di protesta. «E la lunga esperienza mi insegna che è meglio tenere lontani i clienti e le loro emozioni dai dettagli concernenti patteggiamenti e accordi.» È come sospettavo. Susan Hawley è una donna molto occupata. Gioco la mia ultima carta. «Bene, penso sia giusto spiegare che la mia cliente mi ha dato precise istruzioni di non accettare nessuna offerta che non sia la completa cancellazione di qualsiasi incriminazione. Ritengo che in cambio di una simile offerta possa essere persuasa a testimoniare.» «Stronzate.» Lama è balzato in piedi. «Forse. Ma o glielo concedete o perdete una testimone.» «Senta un po'...» Lama fa per girare attorno a Gibbs. «Sergente, si sieda.» Acosta non ha nessuna voglia di una rissa. La sua voce da baritono echeggia fra le pareti. «Credo che dovremo riprendere in esame la cosa in altra data.» Acosta dice a Gibbs di cominciare a pensare all'immunità per la mia cliente. Dice che con il fitto ruolo che si ritrova, questa non è una cosa che vuole vedere passare in giudizio. Lama è furibondo. Ma Nocedicocco è stanco di assecondarlo. Per un po' si discute di conflitti di date. Ci mettiamo d'accordo per una data fra tre settimane. È la prima linea di difesa di qualsiasi causa penale: posticipare. A questo punto, l'ultima cosa di cui Susan Hawley abbia bisogno è andare in giudizio in tempi brevi. «Avvocato...» Acosta mi guarda. «Non credo ci sia alcun bisogno che lei porti la sua cliente in tribunale, la prossima volta che converremo sulla questione. Non c'è ragione di farle subire inutili disagi.»
«Certamente, se così vuole la Corte, e se non ci sono obiezioni da parte dell'accusa.» Guardo Gibbs, che sta per aprire bocca. «Be', così vuole la Corte», dice Acosta, «e non ci sono obiezioni da parte dell'accusa.» Gibbs rimane a bocca aperta. Il giudice gli ha rubato la frase. Mentre ci alziamo per uscire, Armando Acosta si appoggia allo schienale della sedia e inarca la schiena. Ha un'espressione di sollievo dipinta in faccia. Ho il sospetto che oggi non sia la prima volta che Susan Hawley prende questo giudice per le palle, anche se senza dubbio l'ultima volta deve essere successo in un ambiente più privato ed eccitante. In fin dei conti, pare che le sue pretese di proscioglimento non siano del tutto campate in aria. 6. Nei giorni successivi alla morte di Ben, la mia mente è stata tormentata dalle recriminazioni, per il ruolo che ho avuto nella sua infelicità con Talia. Il funerale è ormai un frammento del passato, fa già parte delle notizie di ieri. Solo nel mio ufficio, studio una copia del Trib, posata sulla scrivania vicino a un bicchiere colmo di bourbon. Guardo la foto che occupa tre colonne. Almeno nel momento in cui la luce ha colpito l'emulsione del signor Kodak, Talia stava puntando tutto sull'apparenza. È arrivata in prima pagina. Il volto nascosto dal pizzo nero, l'abito a lutto di Armani: l'immagine chic del dolore stoico. È in piedi sul terzo gradino della scalinata della cattedrale, davanti agli occhi del mondo, a testa eretta. Una leggera brezza muove il velo attorno al volto. Manca soltanto il bambino accanto alle sue ginocchia, chiuso in un cappotto, che saluta la bara. Sotto l'immagine, la didascalia a grandi caratteri: LA VEDOVA ADDOLORATA. Talia sa come montare una scena. Sorseggio il bourbon e ricordo il nostro ultimo incontro. Una scialba camera d'albergo sull'altra riva del fiume, nascosta in un circolo del tennis un tempo elegante e ora decaduto. Rotolai dalla sua parte del letto e sentii la fredda umidità della mia passione, una piccola pozza tra le pieghe delle lenzuola, nei punti dove prima erano appoggiati i suoi lombi. Lei si muoveva per la stanza, l'immagine della calma indolente, raccogliendo nuvole di biancheria tutta pizzi. Dopo la passione, il silenzio sem-
brava il rifugio preferito di Talia. Col tempo, sono arrivato a capire che Talia è una persona senza malizia, nel modo in cui sono spesso prive di malizia le figlie dei ricchi, come se fossero in qualche modo immuni alle normali convenzioni sociali. Nei mesi in cui siamo stati amanti, dopo la mia separazione da Nikki, tutte le volte che ci fermavamo in un albergo io mi rifugiavo sotto un cappello a larghe tese, il viso nascosto dal grande colletto di un cappotto in inverno, o dagli enormi occhiali scuri che celavano gran parte della mia faccia nel caldo dell'estate. Ho usato più nomi falsi di quanti personaggi ci siano in un romanzo di Tolstoj. Per Talia, invece, quello che si vedeva era quello che era. Con mio sgomento, dopo un po' dava del tu agli impiegati della miriade di anonimi motel e alberghetti che frequentavamo. Per lei, il termine «discrezione» non aveva alcun significato. «Come sta Nikki?» chiese. «E tua figlia. Come sta Sarah?» «Eravamo d'accordo che non avremmo parlato di loro, ricordi?» «È così carina.» L'interesse e la sollecitudine di Talia erano sinceri. In due occasioni mi aveva aiutato a versare gli alimenti quando i miei proventi extra dallo studio, gli straordinari, erano un po' esigui. Si era trattato di prestiti a breve scadenza, che all'epoca avevo attribuito alla nostra relazione. Ora, a ripensarci, mi chiedo se non fossero tanto a beneficio mio quanto di Sarah. Talia possiede l'universale istinto materno. È del tutto incapace di fare del male a piccoli animali e bambini. «Stanno bene», risposi. Si voltò e vide che dal letto la fissavo a occhi spalancati. «Un penny per i tuoi pensieri», disse. «Non valgono niente di più?» «Non lo posso sapere finché non li sento.» Era in piedi a capo del letto, il corpo avvolto in un body trasparente; mi girava le spalle e si guardava nello specchio mentre si aggiustava i capelli, lunghe ciocche brune raccolte sulla sommità della testa. Il piede sinistro era sollevato, appoggiato al basso sgabello di fronte alla toletta, i muscoli della coscia flessi in una posa atletica. La filigrana del pizzo che ornava le mutandine sgambate si infilava nella fessura delle natiche. La posizione metteva in risalto l'erotica, nettissima piega tra la coscia e la dolce collina del suo sedere. Ricordo l'ondata di desiderio. Succedeva sempre, con Talia: erezione immediata. Pochi attimi dopo aver versato ogni goccia della
mia virilità, stretto nel suo abbraccio, i miei occhi erano di nuovo attirati dalle sue lunghe gambe, dal suo vitino, dal delicato ciuffo di capelli sulla nuca. «E allora?» insistette. Era in attesa di una rivelazione profonda, un accesso al mio io più segreto. «Vuoi davvero sapere a cosa sto pensando?» «Certo», disse. «Sto pensando di scoparti un'altra volta prima che tu esca da questa stanza.» Iniettai un po' di malvagità nel sorriso, e un tocco alla Jack Nicholson nei miei occhi socchiusi. A guardarla, nelle tenui ombre di quella stanza, diventai un fascio di desiderio. Lei ridacchiò. «Mi spiace, non posso. Devo vedermi con Benjamin.» Con la gente che frequentavano, Talia insisteva nell'usare per intero il nome di battesimo di suo marito. All'inizio era una di quelle cose sulle quali tubavano in pubblico. Ma come succede spesso agli uomini anziani che stanno con donne più giovani, quel rito aveva cominciato a inacidirsi, e adesso, ogni volta che lei lo chiamava per nome, Ben provava un fastidio del diavolo. «Mi ha chiamato stamattina prima che lasciassi l'ufficio. Un tenebroso, fosco segreto», mormorò, le sopracciglia sollevate in un'espressione di finta suspense. Sentii una stretta improvvisa allo stomaco, del tipo che accompagna le oscure profezie. «Cosa voleva?» le chiesi. «Chi lo sa? Lo sai com'è fatto Benjamin. Se vuole, riesce a evocare intrighi nella lista della spesa settimanale.» «Forse dovremmo parlare un po' di affari», dissi. «Questi dovrebbero essere incontri di lavoro.» Ma al posto della preoccupazione, da Talia ottenni solo indifferenza. «Hai presente? Lavoro», dissi. «E se ci chiedesse cosa abbiamo fatto per due volte alla settimana negli ultimi quattro mesi? Se volesse sapere perché non abbiamo ancora finito di costituire la società in accomandita?» A suo modo, Ben aveva gettato il dado che aveva portato a questa cosa fra Talia e me. Pensava che lei avesse bisogno di un po' di assistenza legale per superare il pantano delle clausole minuscole in un paio di transazioni immobiliari. Io sapevo poco di questioni immobiliari. Però il compito toccava al socio più giovane, il fidato pupillo di Ben. Talia aveva una licenza di agente immobiliare, ma era Ben a fare gli affari, a fornirle i clienti che la tenevano in attività, che le permettevano di comprarsi le perle e mantenere
la Mercedes, il tutto grazie a una società che Ben le aveva intestato. «Non essere così teso. Su con la vita. Ricordati», disse, «che vieni pagato a ore.» Poi si mise a ridere. Per Talia era fonte di eccitanti fantasie il fatto che nel sistema usato da Potter per contabilizzare il mio tempo con lei, io guadagnassi centosettantacinque dollari l'ora, almeno stando ai libri contabili. Dopo una delle mie prestazioni meno soddisfacenti, quando venni troppo presto, quando la passione sgorgò un po' troppo in fretta, lei si sedette frustrata sull'orlo del letto, si voltò, mi guardò. «Dovresti vergognarti», disse. «Mettere in conto un'ora per sei minuti.» Ma quel giorno, mentre ero steso a letto e la guardavo vestirsi, il suo incontro furtivo con Ben aveva la mia completa attenzione. Non volevo lasciar cadere l'argomento. «Cosa gli dirai, se te lo chiede?» insistetti. La visione di quella donna in quel preciso istante è scolpita nella mia mente come una statua di bronzo. Restò immobile, lo sguardo vuoto. Lo sapevo: non aveva nessuna spiegazione pronta. Perfetto, pensai. Se Ben la coglie di sorpresa con una domanda, dovrà improvvisare. Dopo quella che parve un'eternità, mi guardò, sbatté le palpebre e disse: «Ci sono. Gli dirò quello che dite sempre voi avvocati quando vendete una proprietà. Gli dirò che sono stata occupata con la 'cessione di una piccola proprietà limitata ai discendenti del donatario'». Si piegò in avanti, a schiena inarcata; appoggiò le palme delle mani allo sgabello; mi guardò lasciva da sopra la spalla e scrollò i sodi globi del sedere in un impertinente scodinzolio nella mia direzione; poi uscì in quella risatina da scolaretta che le riesce così bene. Le sue parole e le sue buffonate emanavano una chiara fragranza. Non riuscii a riconoscerla in quel momento, ma oggi, in retrospettiva, posso identificarla con assoluta precisione. Era l'aroma della mia carriera che andava in fumo. Era una delle sue qualità meno simpatiche, l'irriducibile tendenza ad affrontare la vita e ogni suo dramma con risoluta bizzarria. Non ha mai sospettato che io faccia parte di quell'ampia generazione che ha come droga preferita il Maalox. «È una cosa seria», insistei. «Cosa dirai a Ben?» Si era raddrizzata, inarcando la schiena. Con le dita di una mano carezzava l'orlo di pizzo alla piega della coscia. Sotto le lenzuola, le mie parti più basse erano sull'attenti. «Lo sai, sei davvero un tipo A», disse lei.
«Come, scusa?» «Una personalità di tipo A. Un sacco di ostilità senza una direzione precisa, fretta immotivata... Sempre a rincorrerti.» Aveva di nuovo immagazzinato gergo a palate dal suo analista. «Non ti lamentavi, cinque minuti fa.» Si voltò; mi guardò e sorrise. «Cosa ci posso fare se mi piace una sana, frenetica scopata?» Non rise, perché c'era del vero in quello che diceva, ma ci fu un gran balenio di denti, perle perfette di candore sull'abbronzatura da campo da golf. Nei mesi in cui l'avevo frequentata, mi aveva portato a un livello di eccitazione erotica che io, ormai agli albori della mezza età, non avevo mai provato prima. Avere a che fare con Talia è stata una vacanza che, ne sono convinto, non vivrò mai più; uno di quei periodi della vita che negli anni successivi la tua mente riproietta di continuo, come i film dell'infanzia. Senza preavviso, era carponi a capo del letto e strisciava verso me. I divaricati, snelli globi del suo fondoschiena, la fessura arruffata di pizzo, venivano riflessi dalla luce diffusa dello specchio alle sue spalle. Mi guardò con grandi occhi scuri, rotondi, e fece una risatina. Poi, all'improvviso, la sua testa scomparve sotto le lenzuola, verso il mio luogo risvegliato, in quell'arte della persuasione che vince ogni ragione. 7. Diretto allo University Club, passo davanti alla cattedrale di Saint Ann, dove si sono svolti i funerali di Ben. È un edificio greco-romano che in qualsiasi altro ambiente potrebbe ispirare rispetto, se non addirittura soggezione. Qui è solo un'architettura superflua, resa insignificante dal palazzo del governo, con la sua cupola bianca e la sfera dorata a nemmeno un isolato a sud. Percorro a passo svelto il viale, che in questo mezzogiorno brulica di burocrati indaffarati, segretarie frettolose, e loquaci lobbisti. Tutti si muovono come vermi sui resti di un pasto lasciato a metà. Stasera, il K Street Mall verrà consegnato agli altri suoi abitanti, un assortimento di vagabondi, ubriaconi e senzatetto. Vagheranno per il centro della città, in un inutile peregrinare fra le squallide rivendite di alcolici della J Street e i pasti alla missione di carità, una dozzina di isolati a nord. Mi infilo tra la folla ferma all'incrocio con la Decima Strada. Un accattone si lavora il pubblico prigioniero al semaforo con la destrezza di un maestro: una potenziale miniera che un nervoso imbarazzo costringe a una finta di-
strazione. Viene il verde, la folla si muove, e il mendicante si trasferisce sotto il tendone della lercia entrata di un grande magazzino da due soldi, ad aspettare il prossimo, inevitabile ciclo di traffico. Lo University Club ha sede in un maestoso, bianco edificio vittoriano. Costruito come residenza per un magnate delle ferrovie nel secolo scorso, nel corso degli anni è stato di volta in volta abitazione privata per ragazze ribelli, ristorante, e in tempi più recenti ha ospitato un'impresa di pompe funebri. Due anni fa, grazie all'intervento dello University Club e del suo consiglio di amministrazione, ha evitato la palla di ferro della gru, e oggi ospita le riunioni di un gran numero di distinte organizzazioni, compreso l'ordine degli avvocati di Capitol City. La presenza alle riunioni dell'ordine è praticamente obbligatoria; è un'occasione per frequentare i giudici e racimolare incarichi di seconda mano da altri avvocati. Infatti è pieno di gente. C'è posto in piedi solo nel salotto rivestito di pannelli in noce che ora funge da bar. Stringendo in mano una mezza dozzina di scontrini, mi faccio strada tra la folla. A colpi di gomito e spintoni, finalmente raggiungo il banco. Ordino e mi ritiro. Un bicchiere per mano, mi sistemo su una poltroncina imbottita del salone. «Non c'eri, al funerale.» Una voce stridula. Alzo gli occhi. Tony Skarpellos era il socio di Ben, e a tutti gli effetti erediterà l'autorità di Potter. Diventerà l'ago della bilancia all'interno dello studio. «Tony, come va?» «Non ti ho visto al funerale», ribadisce. «Chissà come avrai fatto a non vedermi in quella marea di gente.» «Ah.» Annuisce. «Come te la passi?» gli chiedo. «A meraviglia», dice. «Una vera meraviglia. Il mio socio si fa saltare le cervella, per una settimana giornalisti e poliziotti invadono l'ufficio, e stamattina ricevo una telefonata da questo stronzo di New York. Lavora per il telegiornale, una delle reti nazionali. Stanno cercando il grande scoop. Il nuovo approccio. L'angolazione nazionale. Candidato sicuro alla Corte Suprema si uccide. Che stronzo.» Skarpellos ripete l'epiteto, questa volta con più robusta convinzione. «Prima domanda del carnet: 'Cosa ne pensa di questa faccenda?' Gli rispondo: 'Be', diavolo, a parte i capelli e i pezzetti di cacca grigia su tutto il soffitto dell'ufficio, non è stato poi cosi male'. Figlio di puttana», dice.
Nelle immagini di questo brutale racconto, la mia mente si sofferma a pensare che, con la morte di Ben, lo studio P&S ha perso ben più della sua forza trainante. Se n'è andata senza dubbio anche una bella fetta di stile. Skarpellos si mette di fronte alla mia sedia, torce le mani nel modo tipico degli europei meridionali. L'alta fronte è solcata da pieghe profonde, perse nella perenne abbronzatura. Indossa un costoso pettinato a righine, confezionato ad arte per dare l'illusione di un busto snello. Il guardaroba di Skarpellos è sempre curatissimo, studiato per mettere nel massimo risalto ogni centimetro del suo metro e sessantotto di statura. Le zeppe sotto i tacchi fanno il resto. Mi chiedo dove abbia lasciato il suo seguito, perché è raro che Tony si faccia vedere in giro da solo. Si tira immancabilmente dietro una scia di subalterni, apprendisti, giovani avvocati in carriera, la cui unica missione all'interno dello studio sembra essere quella di far palpitare l'ego del Greco. La sorte mi è stata amica. Ben mi ha salvato da questo compito, durante la mia permanenza nello studio. Senza chiedere, Skarpellos si lascia cadere sulla sedia di fronte alla mia. Per quasi tutta la sua carriera, Tony è stato Eliza Doolittle, e Potter il professor Higgins. Figlio di immigrati, è un uomo orgoglioso e, almeno a suo giudizio, si è fatto strada con gli artigli fino alla cima, senza alcun aiuto. È un dispensatore nato d'allegria, più abile nell'arena politica che in aula. Fin dall'inizio, sono state in effetti le sue conoscenze e la sua influenza nei consigli d'amministrazione locali, negli uffici urbanistici, e nelle miriadi di consigli municipali della zona ad assicurargli la posizione all'interno dello studio. Tony ha il tocco di un re Mida, per gli affari immobiliari. Per la giusta ricompensa, riesce a produrre varianti al piano regolatore con la stessa profusione con cui i poveri fanno bambini. Scambiamo alcune battute; è una strana circostanza, questa, per parlare del più e del meno. Passiamo in rassegna gli scontati rimorsi, l'universale emozione che segue ogni suicidio, qualche recriminazione per quello che si sarebbe potuto fare per impedirlo. Da parte sua, ben presto il dialogo si trasforma in una litania di reminiscenze, racconti nostalgici di lui e Ben quando, da giovani, lottavano nella giungla di un sistema giudiziario provinciale e rozzo per civilizzarlo. Si ferma a metà di una frase, mi guarda come se una questione di grande importanza gli fosse appena emersa dal subconscio. «Che diavolo è successo fra voi due, tra parentesi? Un giorno sei lì, e il giorno dopo sei storia.»
Me lo immaginavo. Ben ha tenuto tutto segreto, per quanto riguarda la mia relazione con Talia. Come c'era da aspettarsi da un uomo dominato dal rispetto delle apparenze e dall'orgoglio. Agli occhi dei suoi amici più stretti, il mio allontanamento dallo studio continua a essere il risultato di un dissidio su una misteriosa questione di lavoro. «È una cosa che riguardava noi due», gli rispondo. «Una di quelle cose che a volte succedono fra amici.» «A sentirti, sembra che gli scopassi la moglie.» Scoppia a ridere, si volta, e schiocca le dita perché gli portino da bere. Per un attimo penso che si sia rivolto a un oracolo. La cameriera accorre prima che lui possa girare la testa, prima che possa leggere la confessione nei miei occhi. Quando alla fine si volta di nuovo verso me, la sua espressione è un vacuo sorriso. Tiro il fiato, sicuro che Skarpellos, dopo tutto, non ha alcun dono di chiaroveggenza. «Posso offrirti qualcosa?» chiede. «È già il secondo.» Alzo il bicchiere ancora pieno. Ordina un doppio bourbon e torna all'argomento dello studio e del mio allontanamento. Mentalmente, prendo nota di usare una linea diversa, se in futuro qualcuno mi chiederà perché ho lasciato lo studio. A conti fatti, Cooper aveva ragione. Due giorni dopo la nostra conversazione davanti alla Emerald Tower, ho ricevuto la visita della polizia e di un tranquillo agente dell'FBI. Mi hanno chiesto del mio colloquio con Ben da Wong's. Mi sono morsicato la lingua e ho mentito. Una piccola omissione. Ho raccontato loro del segreto che mi aveva svelato, il fatto che fosse destinato alla Corte Suprema. Ho tralasciato la nostra conversazione a cuore aperto su Talia. Poi sono arrivati al punto. Volevano sapere perché me ne fossi andato dallo studio. C'erano stati disaccordi, motivi di rancore fra Potter e me? Ho negato decisamente e ho concluso la conversazione con l'offerta di Ben di nominarmi amministratore fiduciario del fondo in memoria di Sharon Cooper. Un particolare che potevano controllare alla facoltà di legge, una discreta convalida delle mie asserzioni. In tutto, è durato meno di dieci minuti. Quando se ne sono andati, sembravano convinti. «Cosa diavolo è stato? Avete litigato per una causa o qualcosa del genere?» dice Skarpellos. «Qualcosa del genere», gli rispondo. «Sai, saresti dovuto venire da me.» «E perché?» «Avevo una grande influenza su Ben. Mi rispettava.»
Non dico niente, ma i nostri sguardi si incontrano, e questa volta lui mi legge negli occhi. «No, sul serio. Ben rispettava il mio parere.» Mi chiedo cosa si sia fumato il Greco. «Siamo stati assieme troppo tempo per non sviluppare un buon grado di rispetto reciproco», dice. Cancello il sorriso di chi la sa lunga, ridivento serio, ma non faccio commenti. «Non aveva senso lasciarsi scappare un talento come il tuo. Scommetto che avrei potuto aggiustare le cose fra voi due.» «Be', una cosa è certa», dico. «Cioè?»» «Non lo sapremo mai, giusto?» «È vero», annuisce. «È proprio vero.» C'è un vago scintillio nei suoi occhi. Sento che è alla ricerca di qualcosa di poetico, una frase piccola e intensa da ricordare in seguito, da ripetere ad altri; un messaggio al mondo da parte del socio di Ben. Il verso gli muore sulle labbra quando la cameriera arriva con la sua ordinazione. Prende il bicchiere, e quando riporta lo sguardo su me ha dimenticato cosa stava cercando. «Volevo chiamarti», mormora. «Dobbiamo parlare di qualcosa.» Lo guardo con espressione interrogativa. «È una faccenda un po' delicata», dice. Questo non ha mai fermato Skarpellos, penso. «Non hai una cliente, una certa Hawley?» Annuisco. Mi chiedo quale interesse possa nutrire per Susan Hawley. «Un gran bel culo, da quanto ho sentito.» Sgranocchia un pezzetto di ghiaccio. «Perché ti interessa?» «Ho un cliente che è un po' nei pasticci. Un piccolo guaio», mi risponde. Se il cliente di Tony conosce Susan, è molto probabile che sia stato il cazzo a metterlo in quel guaio. «Forse questa prostituta, Susan Hawley, può darci una mano», continua. «In che modo?» «Non possiamo parlare qui», dice. «Magari nel mio ufficio, fra qualche giorno. Sono in una buona posizione per trattare... Ne varrà la pena», concluse. Questa è l'idea che ha Tony della pratica professionale: una veloce trat-
tativa, senza stare a tirare in ballo l'etica. «Di cosa si tratta?» Con il dorso della mano che regge il bicchiere, mi fa segno di stare zitto. «Harold Stone», dice. Con un cenno, saluta qualcuno alle mie spalle. «Conosci il giudice Stone?» Faccio segno di no. «Un principe», dice. «Un vero principe. Te lo presento.» Oh, gioia, penso. Skarpellos si solleva dalla sedia. «Tony Skar-pell-os.» Il nome proviene da una voce che sembra un muggito stridulo. Erutta alle mie spalle come lava dal Vesuvio. Skarpellos mi sta facendo cenno di alzarmi in piedi. Mi alzo e mi giro. «Harold, è un piacere vederti.» Il Greco si nutre proprio di questo: poter dare del tu ai pezzi grossi della magistratura. Stone è un uomo enorme, di bizzarre proporzioni; una faccia dominata da grasse mascelle cascanti. Sottilissime vene sembrano sul punto di scoppiare sulla superficie di carne flaccida che, mentre parla, trema come un'onda. Tutt'a un tratto, la sua espressione diventa moribonda. Una metamorfosi non certo difficile. «Le mie condoglianze, Tony. Ti faccio le condoglianze anche a nome di tutti noi magistrati.» Per un attimo Skarpellos guarda la mano di Stone, e mi chiedo se non stia per baciargli l'anulare. Poi mi rendo conto che il Greco sta solo prendendo tempo: il bardo è di nuovo senza parole, e questa volta con un pubblico più autorevole. «Era un grande uomo, Harold.» Skarpellos deglutisce un po' di saliva e completa il pensiero. «Ci vorranno molti anni, se mai accadrà, prima che questa città abbia di nuovo un suo pari.» Pronuncia le battute come se i suoi occhi avessero appena carpito le parole scritte su un mistico gobbo. Le voci si abbassano a un bisbiglio, mentre loro conversano in privato. Fermo in piedi, comincio a sentirmi come il proverbiale reggimoccolo. Finalmente Skarpellos alza lo sguardo su di me. «Harold, vorrei presentarti una persona. Paul Madriani. Paul lavorava con noi allo studio.» Una mano molle si sporge a stringere la mia. Stone mi soppesa in pochi secondi. Ha afferrato il verbo essenziale: «Lavorava». Un sorriso veloce, forzato, poi lui riporta la sua totale attenzione su Skarpellos.
«Paul, penso che dovremo riparlarne quando avrò più tempo.» «Prego?» «Non ora. Un'altra volta, nel mio ufficio.» Skarpellos mi ha trasformato in un'involontaria controfigura, un surrogato per il consueto organico di eunuchi da studio che è riuscito in qualche modo a smarrire: un piccolo spettacolo in onore del giudice. Stone attende che io venga congedato. «Chiama il mio ufficio per un appuntamento, la settimana prossima. Avremo più tempo per discutere la faccenda, quella questione della tua cliente.» Immobile, senza alcun luogo verso cui dirigermi, mi passa un solo pensiero per la mente: che razza di stronzo. «Dovrò dare un'occhiata alla mia agenda. Sono molto occupato, la settimana prossima.» «Be', trova il tempo.» L'imperioso comando del Greco. Mi gira le spalle prima che riesca a rispondere e se ne va, seguito da Stone. «Vedrò cosa posso fare.» Le mie parole sono rivolte alla sua nuca che si allontana. Me ne vado, abbandonando un bicchiere pieno sul tavolo. Il prezzo da pagare per salvare un pizzico di orgoglio, per dire: «Tanto volevo già andarmene». Per la prima volta, mi rendo conto che forse il mio allontanamento dallo studio P&S era preordinato dal fato; perché se anche fossi sopravvissuto alla relazione con Talia, di certo l'orgoglio non mi avrebbe mai permesso di resistere alla morte di Ben e alle inevitabili leccate a Tony Skarpellos, il prezzo da pagare per un po' di successo all'interno dello studio, dopo la scomparsa di Ben. In fin dei conti, è una consolazione non indifferente. 8. Ho raccolto le golden delicious dall'albero dietro casa, un intero sacchetto, e le ho portate con me: una specie di offerta di pace per la mia consueta visita a casa di Nikki. Mia figlia Sarah, di tre anni, è in piedi su una sedia, davanti al ripiano di fianco al lavandino, e sta facendo girare la manovella del piccolo sbucciamele. È un'incessante litania di perché: «Perché la mela è rotonda?», «Perché è verde?», «Perché ha i semi?» Le rispondo con l'imponderabile conclusione: «Perché Dio l'ha fatta co-
sì». E lei mi chiede: «Perché?» Sorprendo Nikki a guardarmi dal lavandino. È in momenti come questi, anche se succede sempre più spesso quando sono solo nella grande casa, che il dolore si fa sentire di più. Mi rendo conto che Sarah, questa ignara e vitale incarnazione dell'innocenza, non avrà mai un'infanzia come la mia, a fianco di due genitori che si amano. Mia figlia sta rapidamente diventando il prodotto di una famiglia spezzata. «Devo andare al supermercato per qualche minuto. Forse non ci sarò quando tornerete.» C'è un tono aggressivo nella voce di Nikki. Osservando Sarah e me, si è sorpresa in bilico sul precipizio della felicità in mia presenza. Ma non si può certo dire che mia moglie non abbia capacità di ripresa. Ritrova in fretta l'equilibrio ed è di nuovo l'immagine, l'essenza stessa, dell'indifferenza. «Volevo solo portarla al parco. Pensavo che avresti voluto venire anche tu. Potremmo mangiare fuori.» «Non credo proprio.» L'apatia della sua voce è eclissata solo dal linguaggio scostante del suo corpo curvo sul lavandino, la schiena rivolta verso di me. «Voi due dovreste stare un po' soli.» «Credo che a lei piacerebbe.» «No. Ho delle cose da fare.» La voce di Nikki è ormai enfatica. Non insisto. È dolorosamente cortese nei miei confronti. Ma sempre di più sento che l'unico rapporto che rimane fra noi è incentrato su Sarah: riccioli di capelli castano ramati, guance rosee e paffute, occhi scuri come olive. È l'ultima cosa che ci lega. Ho cercato in svariate occasioni di convincere Nikki a tenersi la casa. Mi sono offerto di trasferirmi nel suo appartamento. Ma lei non vuole sentirne parlare. È una questione di testardo orgoglio, per Nikki: la decisione di andarsene è stata sua. Ora sta mettendo il detersivo nella lavastoviglie. «Raccontami», dice. «Come va lo studio?» «Non ho mica saltato l'assegno di mantenimento, no?» «Non stavo parlando di quello.» Si gira a guardarmi, un sorriso forzato sul volto. «Riesci sempre a travisare quello che dico.» Non capisco se è arrabbiata o imbarazzata. «Era solo una battuta.» «No, era una frecciata.» Ferita, silenziosa, mi guarda. Sono diventati come micidiali nuvole di cobalto fra noi, questi pagamenti mensili sui qua-
li ci siamo accordati per tenere gli avvocati lontani dalla nostra vita; una forma di alimenti per tenere i lupi lontani dalla sua porta. Senza volere, ho dato via libera alla perenne nemesi di Nikki. È un demone che non sono mai riuscito a capire sino in fondo. Quando si discute, è capace di tenere testa su un punto o un principio assolutamente insignificanti, fino a che le menti più deboli della sua si arrendono. Ma mettetela in circostanze che le impongano di chiedere soldi, e diventerà all'istante un balbettante relitto umano. Ho il sospetto che se sospendessi i versamenti mensili, lei soffrirebbe in silenzio fino a che la contea, sommersa da un miasma di sussidi, non venisse a scovarmi e ad appendermi al collo il cartello della vergogna. Forse il creatore di tutte le cose ha tralasciato di includere, nel patrimonio di Nikki, un elemento vitale che le permetta di chiedere quando ha bisogno. Per il momento, ha reclamato la propria autonomia. Nikki ora lavora come programmatrice di computer per una piccola ditta di elettronica. La logica, a quanto pare, è la sua seconda passione, dopo Sarah. Vorrebbe farmi credere che questo lavoro è il risultato di un provvidenziale corso di addestramento fatto all'ultimo minuto prima della nostra separazione. Ma oggi io so che è stata una cosa voluta, non casuale. Il suo ritorno a scuola ha svelato un certo piano generale, il progetto di lasciarmi molto prima che lei se ne andasse, rompendo la corda che ci legava. In queste visite, tutte le volte che mi accorgo di quanto io sia stato ottuso a non capire i segnali, sono afflitto da una sorta di malinconia. Eppure, nel profondo, so bene che, se anche me ne fossi reso conto, non sarei riuscito a cambiare il risultato finale. «Mi dispiace per Ben Potter. So che ti mancherà molto.» È detto con serietà. Però mi viene in mente Clarence Darrow, quando ha ammesso che, sebbene non si fosse mai augurato la morte di qualcuno, c'erano stati alcuni necrologi che aveva letto con piacere. Credo che per Nikki la scomparsa di Ben sia un evento del genere. «Voi due avete passato molto tempo assieme», dice. Più tempo, intende, di quanto io abbia trascorso con lei. Nikki non conosce ancora il motivo per cui me ne sono andato così all'improvviso dallo studio P&S. Non ho capito se la cosa le sia indifferente, o se invece non abbia mai trovato il coraggio di chiedermelo. Negli ultimi tempi, si è caricata sulle spalle un notevole fardello di dolore, mascherato da una fredda indifferenza che, lo so benissimo, è soltanto superficiale. Dopo la separazione, sono finalmente giunto ad ammettere, almeno nei
miei pensieri, che avevo relegato la famiglia, Nikki e Sarah, a un ruolo secondario nella mia vita. Nikki non poteva vincere la guerra con la mia carriera, e ha sempre considerato la cosa come il peggior fallimento della sua esistenza. «In studio c'era sempre molto da fare. È la caratteristica della nostra professione.» «Lo so. Tuttavia, ammesso che sia importante, penso che Ben apprezzasse il fatto che tu non lo abbia mai deluso.» Per un brevissimo istante, aggancia il suo sguardo al mio, leggendomi le pupille come fossero foglie di tè. «Tutte quelle lunghe ore, tutte gli esposti da stendere, prepararsi per i processi fino all'alba. Se lui chiamava, tu eri a disposizione. Era un po' più del semplice lavoro», dice. «Tu ci tenevi a quello che lui pensava di te. Per te era importante. Quello sì era importante.» Ha ragione. Ho capito troppo tardi che un solo «Dagli sotto, Paul» da parte di Ben valeva tutte le interminabili ore chiuso nella macina mentale della fluorescente caverna che era il mio ufficio allo studio P&S. Per almeno quaranta dei suoi sessant'anni, Potter è stato una dinamo umana, la cosa che più si avvicinava all'energia perpetua dopo il sole. Lavorava sette giorni a settimana. Oltre alla professione di avvocato e agli impegni accademici, faceva parte di una dozzina di comitati governativi e privati. Era l'essenza stessa della dedizione al dovere. Il lavoro era la sua vita. Era la sua droga. Forse è per questo che a Nikki non ha mai ispirato molta fiducia, che non le è mai piaciuto troppo. Lui ha fatto del suo meglio per essere gentile con lei. Ma per chissà quale inespressa ragione, Nikki trattava questi sforzi con lo scetticismo che si potrebbe riservare all'alchimia. Ho capito quasi sin dall'inizio che il mio matrimonio e l'ininterrotta frequentazione di Ben erano rapporti destinati a produrre attrito, che l'uno avrebbe alla fine divorato l'altro. Probabilmente sapevo anche quale dei due sarebbe stato la vittima, perché avevo contratto la malattia del mio mentore. Ero stato infettato da un inarrestabile e assoluto bisogno di lavorare. È stato questo a far fallire il nostro matrimonio. «Ci tenevi molto al tuo lavoro», dice Nikki. Adesso mi sta trovando giustificazioni. Non faccio nessun commento, lo accetto come verità inconfutabile. «E lei?» chiede Nikki. «Chi?» «La moglie di Ben, come si chiama... Tricia?»
Ho un attimo di esitazione, come se dovessi scandagliare gli oscuri abissi della memoria alla ricerca del nome di una conoscenza occasionale. «Talia», dico. «Giusto, Talia. Come se la passa Talia?» «Non l'ho vista. Non so. Immagino che se la caverà.» «Già, immagino anch'io», commenta Nikki. Non riesco a credere che stiamo dicendo queste cose. «E adesso, cosa succederà allo studio?» Parlando, Nikki pulisce il piano con una spugnetta. «Non so. Immagino che andrà avanti.» «I giornali stanno facendo un grande scalpore. La morte di Ben e tutto il resto», dice. «Un bel po' di congetture.» «I giornali fanno sempre congetture. È il loro mestiere», rispondo. «Potrebbe essere imbarazzante per lei.» «Cosa vuoi dire?» «Talia. Il suicidio, tutta la controversia, insomma. Non deve essere piacevole.» «Immagino di no.» «Si è offerta di darti una mano?» «Come?» «Talia. Si è offerta di aiutarti a rientrare nello studio?» Sono psicologicamente raggelato. Ma non balbetto. Porto la farsa alla sua conclusione, quasi per un riflesso automatico. «Cosa ti fa pensare che voglia tornare allo studio? E perché lei dovrebbe immischiarsi?» Nikki volta le spalle al lavandino e mi guarda. Ha un'espressione da «Cosa-credi-che-sia-scema?» Sa di me e Talia. È scritto nel sorriso compiaciuto stampato sulle sue labbra. Sono certo che la mia faccia è una maschera di stupore. Mi addolora che lei conosca solo metà della verità, che possa non sapere che io e Talia non stiamo più insieme. Ma non mi riesce di dirlo. Il sistematico scudo di discrezione che avevo eretto era dunque così trasparente, se Nikki era riuscita a vederci attraverso? E ora mi chiedo, quanti altri lo hanno penetrato? Sostengo il suo sguardo per parecchi secondi. Lei sbatte le palpebre e distoglie gli occhi. Sta bluffando... credo. Un abile esercizio di intuizione femminile. Ma io non corro rischi. Evito il confronto diretto sulla questione. «È assolutamente normale che ci siano congetture e chiacchiere. Non succede tutti i giorni che un candidato alla Corte Suprema degli Stati Uniti si uccida. La morte di Ben lascia un grande vuoto nello studio», dichiaro.
«Certo.» Lei fa una specie di pausa a effetto. «Parlavo proprio di questo», dice. «Di colmare il vuoto.» Le parole sono pronunciate con pungente sarcasmo. «Be', sarà meglio che ci muoviamo.» Ho perso di colpo ogni voglia di instaurare un dialogo significativo. «Forza, piccola.» Sollevo Sarah da terra e me la metto sulle spalle. «Stai attento, con lei.» «Come?» Mi volto a guardare Nikki, in attesa di un'ultima raccomandazione materna. Ha lasciato cadere la spugnetta nel lavandino e ora mi fissa negli occhi. «Stai in guardia. Non ci si può fidare di lei.» Le parole mi colpiscono come un fulmine quando mi rendo conto che Nikki non sta parlando di nostra figlia, bensì della donna che, da quel che ricordo, ha incontrato solo due volte in vita sua: Talia Potter. Le mie visite del sabato mattina al parco, assieme a mia figlia, servono a due scopi. Mentre lei sgambetta su per la scala e giù per lo scivolo, io faccio sollevamenti alla sbarra e piegamenti sulla sabbia. È un surrogato economico della mia iscrizione alla palestra, uno degli svariati lussi ormai svaniti; il prezzo di dover contribuire al mantenimento di due case. Eseguiamo l'intero rituale, venti minuti sull'altalena, cinque o sei su e giù sullo scivolo, e poi di corsa alla gelateria a una dozzina di isolati di distanza. Scorto Sarah fuori dal campo giochi e chiudo il cancello, per impedire che gli altri piccoli reclusi scappino via. Quando mi giro, la vedo. «Dannazione.» Sarah ha lasciato il cemento ed è nel fango fino alle caviglie, un'avventura generata da un annaffiatore automatico che perde. «Tua madre mi ammazza.» Mi lancio su lei, ma è troppo tardi. Le gambe e il davanti del vestito sono cosparsi di un migliaio di puntini di fango, grazie alla forza idraulica di due piedini che pestano per terra. «Te l'ho già detto una volta, Madriani, molto tempo fa. Un po' più di calma, un po' meno fuoco. Vivrai più a lungo.» È una voce del passato, persa nel groviglio di un'altissima felce. Allungo il collo. Dietro la pianta, seduto su una panchina, vedo un fantasma. Ha un sorriso noto, ma la faccia è pallida e tirata. A malapena riconoscibile, Sam Jennings, l'uomo che una dozzina di anni fa mi ha assunto come avvocato nell'ufficio del procuratore di questa contea, solleva gli occhi verso me. C'è uno scintillio nel suo sguardo.
Si alza in piedi. «È un piacere rivederti, Paul. Tua?» Fa un cenno verso Sarah. «Sì.» Sarah è ora in condizioni disperate. Con le mani si è spalmata il fango sulle cosce. «Quanti anni ha?» chiede Jennings. «Tre.» «E mezzo», cinguetta Sarah, sollevando tre dita. Jennings ride. Si china a guardarla negli occhi. «Una volta avevo delle bambine proprio della tua età.» Sarah è tutta occhi. «Dove sono adesso?» «Sono cresciute.» Ho sentito moltissimo la mancanza di quest'uomo, da quando ho lasciato il suo ovile per entrare nello studio P&S. Dopo la conclusione di quell'esperienza, ho pensato più di una volta di chiamarlo, ma ho sempre cambiato idea. Non volevo scaricare i miei problemi sulla porta di un malato. Quando mi ha telefonato per chiedermi di presenziare all'esecuzione di Danley in sua vece, ho capito quanto fosse malato. Sam non è il tipo da chiedere ad altri di fare qualcosa che lui non sia disposto a fare. La sua pelle ha il pallore della paraffina. Le radiazioni e le devastazioni della chimica hanno riscosso il loro tributo. Torreggio su quest'uomo che una volta era alto quanto me. È curvo e avvizzito come una festuca dopo un temporale. Una condizione, sospetto, dovuta non tanto al cancro che gli invade il corpo quanto agli orrori clinici che vengono spacciati per cure. A quel che vedo, è una battaglia persa. I nostri sguardi seguono Sarah, la cui attenzione è stata catturata da uno scoiattolo grigio che sta correndo verso un albero. Mia figlia è in condizioni disastrose. Lascio perdere. Mi rassegno a subire le parole sferzanti di Nikki. Di natura, Sam Jennings è un uomo affabile. I suoi lineamenti hanno tutte le caratteristiche di un viso marcato fin dalla nascita da un perenne sorriso. Ma parecchie persone hanno capito troppo tardi che questo aspetto del suo carattere copre un istinto predatorio acquisito. Nei suoi trent'anni come procuratore capo di questa contea, e nei primi decenni della sua carriera, Samuel Jennings, per crimini accertati, ha spedito una mezza dozzina di uomini alla pace eterna nella camera a gas. «Vedi nessuno dei vecchi colleghi?» gli chiedo. «Immagino sia uno dei vantaggi dell'andarsene spontaneamente, invece
di prendersi un calcio nel sedere alle elezioni. Puoi fare una visitina in ufficio ogni tanto. Anche così», dice, «non è che Nelson srotoli il tappeto rosso.» «Qual è il problema?» «Chissà. Forse pensa che la mia presenza intralci il suo stile dirigenziale. Diavolo, ma guardami. Cosa crede, che mi presenti contro lui?» «Forse pensa che tu possa seminare l'idea altrove», suggerisco. «Magari in uno dei suoi sostituti.» «Chi, io?» dice lui. C'è un bel po' di finta innocenza nella sua risposta. Intuisco che non sono il primo a prospettare questa eventualità, a meno di non avere frainteso lo scintillio nel suo sguardo. Probabilmente gli è stato chiesto un appoggio. Chissà chi è la persona dell'ufficio prescelta a farsi avanti sul baratro a fianco di Nelson, il giorno dell'elezione, per cercare di buttarlo giù. Nelson è stato scelto per coprire il posto lasciato vuoto quando Sam è andato in pensione. Ora deve guadagnarsi la nomina alle elezioni. «E a te come va? Lo studio da solo, e tutto il resto?» Faccio una smorfia. «Mi piace abbastanza. E adesso chiedimi se guadagno bene.» «I soldi non sono tutto», sorride. «Lo dice uno che ha una grassa pensione pubblica.» «Potevi restare dov'eri. Non c'era alcun bisogno che te ne andassi in cerca di arcobaleni», dice. «Hmm. Non è esattamente un posto felice, di questi tempi. Non da quello che si sente dire.» «Forse leggermente più politicizzato di quando c'ero io.» «Adesso chi è che sta minimizzando le cose?» Si mette a ridere. «Non è peggio di certi studi che potrei nominare.» C'è un momento di imbarazzante silenzio. Lui mi osserva alla ricerca di qualche indizio, un cenno di disponibilità a parlare, a rivelare qualcosa sui motivi del mio allontanamento dallo studio. Resta a mani vuote. «Una delle vere tragedie della vita», riprende poi Jennings. «Ben Potter. Aveva una vera e propria attitudine per il successo. La sua nomina alla Corte avrebbe dato a questa città fama nazionale.» «Già.» La vita del Paese prosegue. Era sui giornali di stamattina. Il presidente ha nominato un altro candidato alla Corte. L'amministrazione sta assumendo un atteggiamento riservato; rifiuta di confermare di avere mai offerto la nomina a Ben.
Cerco di chiudere l'argomento con il silenzio. Jennings non ha mai dato la sua benedizione al mio passaggio allo studio. Come per Platone, anche per lui giustizia suprema significa trovare il posto che ciascuno di noi ha nella vita. E fin dall'inizio non ha mai creduto che sarei entrato in sintonia con lo studio Potter & Skarpellos. «Faccio fatica a immaginarlo», dice. «Cosa vuoi dire?» «Immaginare perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo.» Guardo Sam Jennings, questo modello di lucida intelligenza, in un silenzio di pietra. So che le sue parole non sono frutto di una battuta che non ha colto nel segno. «Di che stai parlando?» «Qualcuno dell'ufficio di Nelson mi dice che c'è sentore di una cosa del genere. È la polizia che si comporta in modo strano. Non sta seguendo le solite procedure per un caso di suicidio.» «Tipo cosa?» «Sembra che l'ufficio di Potter e un ascensore siano sotto sigillo da più di una settimana. La scientifica si è accampata là.» «Forse non vogliono farsi sfuggire nulla», ipotizzo. «Ci sono di mezzo anche i federali.» «Pensi che si tratti di questo? Di una piccola rivalità burocratica?» Faccio una smorfia, come a dire: «Chissà». «Io non credo», dice. Jennings esibisce il sorriso di chi ha ingoiato qualcosa di molto sgradevole. Il tipo di sorriso di chi è in possesso di informazioni riservate. «L'ascensore di servizio al piano di Potter.» Mi guarda per accertarsi che io stia seguendo il filo di quello che dice. «La polizia lo ha messo sotto sigillo ed è bloccato da quasi una settimana. Mi dicono che i custodi e i fattorini delle consegne stanno sollevando un putiferio. Credo che la polizia non stia semplicemente leggendo le foglie di tè o le viscere di una capra.» Faccio un'altra smorfia. Sono in attesa della battuta finale. Non sarebbe la prima volta che i signori di Capitol City sperperano i dollari dei contribuenti andando a caccia di chimere. «Se Potter si è ucciso nel suo ufficio, capisco che si passi al setaccio la sua scrivania, che si rastrelli la moquette. Ma cosa c'entra l'ascensore?» Gli rivolgo la mia migliore espressione di richiesta di chiarimenti. «Secondo il normale buonsenso, non è vero», dice. «Non è vero cosa?»
«Che sia morto nel suo ufficio.» «Ma è là che hanno trovato il corpo.» Mi mordo la lingua: ero sul punto di rivelare parte della mia conversazione con George Cooper all'uscita della Emerald Tower, quella sera. «Circola voce», spiega Jennings, «che la polizia abbia trovato tracce di sangue e di capelli in quell'ascensore di servizio. A quanto pare, se lui si è sparato, qualcuno si è preso il disturbo di spostare il corpo dopo il fatto.» «Dove l'hai sentito?» «Non certo da Duane Nelson», ammicca. Il suo sorriso è tutto denti. Jennings non ha alcuna intenzione di rivelare la sua fonte. È chiaro che qui è in ballo la sopravvivenza di qualcuno. Le fughe di notizie dall'ufficio di un procuratore, in un caso come questo, stroncano una carriera all'istante. 9. È lunedì mattina, e per trovare George Cooper devo infilarmi come una talpa sotto i sette piani della lugubre prigione di contea. Costruita per ospitare un migliaio di detenuti, oggi, con le sue duemilacinquecento persone, è sul punto di esplodere. Di giorno, i detenuti più affidabili hanno il permesso di uscire per partecipare a speciali programmi di lavoro, e di notte vengono stipati come frutta disidratata in celle sovraffollate. Il monolito di metallo è un monumento alla bancarotta del governo moderno. La facciata è assurdamente rivestita da allegri pannelli arancioni in metallo, più adatti a un asilo infantile che a una prigione. Il tetto è racchiuso da recinzioni sormontate da acuminati rotoli di filo spinato, che isolano il cortile per le passeggiate e impediscono eventuali fughe. Data la bassa posizione che occupa nella scala gerarchica delle forze dell'ordine, questo è il posto migliore che il coroner di contea sia riuscito a ottenere. Agli occhi dei funzionari di contea preposti al bilancio, i cadaveri non valgono un granché come corpo elettorale. E così, in una caverna in origine destinata a parcheggio sotterraneo, Cooper e i suoi sette compagni sgobbano sottoterra nel caldo rovente d'estate, e nella fredda, umida oppressione della nebbia in inverno. Se ne sta seduto a guardarmi. Il suo grembiule in neoprene è striato da fluidi di imprecisata provenienza umana, perché alle nove del mattino lui è già al lavoro da più di un'ora. Nei suoi occhi si legge sincera preoccupazione, perché a George Cooper non piace rifiutare qualcosa a un amico. «Vorrei tanto aiutarti, Paul. Credo che tu lo sappia. Ma Nelson ha messo
il coperchio su questa faccenda. Top secret.» George Cooper parla con l'accento strascicato del sud, quell'accento che spalma sulla lingua ogni vocale dell'alfabeto come sciroppo freddo. Sotto tutti gli aspetti, George Saroyan Cooper, «Coop» per chiunque lo conosca da più di una settimana, è un uomo attraente. Una massa di capelli nerissimi divisi da una riga a sinistra, addolciti da una spruzzata di grigio alle tempie, contorna i bei lineamenti del viso: un naso delicato e ben proporzionato, con la punta leggermente all'insù, e occhi castani infossati. Le labbra sottili, piegate in un sorriso perenne, rivelano il suo buon carattere. I denti sono bianco perla e regolari, messi in risalto da folti baffi neri ben curati, anch'essi con un tocco di grigio dove sfiorano le linee del sorriso agli angoli della bocca. Ha in mano diverse lastrine di vetro. Ne infila una sotto uno stereoscopio sul tavolo vicino al bancone. «Lo dico sempre di infilare le mani nel sacco», dice. «Le mani sempre dentro il sacco.» Gli sorrido senza sapere il motivo della sua lamentela. «E invece no», prosegue. «Portano qui i cadaveri con le mani che penzolano dai bordi della barella, come se il morto dovesse grattarsi o fare chissà cosa.» Avvicina l'occhio al microscopio. Adesso sta parlando da solo, girato di schiena. Coop viene dalla Carolina del sud, da una vecchia famiglia di Charleston, ed è la pecora nera. Non che abbia tradito le aspettative dei genitori. Il padre e il nonno erano medici prima di lui. Solo che preferivano i vivi. Conosco Cooper da sette anni. Mi sembra di più. Possiede la natura spontanea del sud, un fascino quieto, garbato. Sarei pronto a scommettere che se chiedessi a una dozzina di persone che lo conoscono chi sia il loro migliore amico, farebbero tutti il nome di George Cooper. Ha operato questa magia anche su di me, perché, se me lo chiedessero, quelle persone diventerebbero tredici. Eppure dietro tutto questo calore, dietro il carattere forte e buono, c'è l'ombra di qualcosa di sinistro che distingue Coop dagli altri del mio giro di amici. Un conoscente casuale potrebbe attribuire questo spettro sinistro alla professione di Coop, e in un certo senso avrebbe ragione. Ma non è la natura morbosa del suo lavoro a spiegare questo atteggiamento peculiare. Le radici stanno nel fatto che Coop è spinto a studiare la patologia della morte con lo zelo di un missionario. I morti parlano a George Cooper. È il loro interprete, il traduttore di messaggi organici dall'oltretomba. E per George Cooper è una vocazione sacra.
Insisto, lo circuisco, cerco di ottenere informazioni sulla morte di Potter. George ascolta. Taciturno come un banchiere a cui si chieda un prestito. Lascia il microscopio, appoggia le natiche al bordo di una barella contro il muro. «Come sta la tua bambina?» chiede. Avere a che fare con Coop può essere frustrante. «Sta bene.» «Ricordo Sharon a quell'età», dice. «Adorava il suo lavoro, sai. Temo di non averti mai ringraziato.» Scuoto la testa, ma non dico niente. Sento un nodo che comincia a crescere nella bocca dello stomaco. Mi chiedo che fine farà la generosità della facoltà di legge, dopo la morte di Ben. Il fondo Sharon Cooper. Senza dubbio verrà ridimensionato a favore di un altro intitolato a Benjamin G. Potter. «Sarebbe diventata un bravo avvocato», dico. Annuisce. Ha gli occhi velati. Li asciuga con la manica. Non gli parlo dei modesti progressi che ho fatto con la pratica di Sharon. Ho depennato Feinberg. Dopo aver ascoltato il suo discorso allo University Club, l'ho avvicinato cautamente e gli ho raccontato la mia lacrimevole storia. Si è rifiutato di accettare il caso. «Troppo occupato», ha detto. E così sono di nuovo al punto di partenza. Ma con Coop ho almeno una consolazione: non mette fretta. La pazienza è una virtù del sud. «Sto cercando altre piste», dice. «Per la morte di Sharon.» L'incidente rimane una questione aperta, per la polizia. L'auto di Sharon, senza scontrarsi con altri veicoli, è uscita di strada ed è finita contro un albero. Però le prove raccolte sul posto hanno dimostrato che al volante non c'era lei. Coop ha deciso di scoprire da solo chi guidasse. «Lo sapevi che non è rimasta uccisa dall'impatto?» mormora. Scuoto la testa. Non voglio alimentare questa conversazione. «Sarebbe sopravvissuta. Lo so», prosegue. «L'ha uccisa il fuoco. Chiunque fosse in auto con lei avrebbe potuto salvarla.» «Questo non lo puoi sapere, Coop. Lascia fare alla polizia.» «Non stanno facendo molto, al momento. Non hanno praticamente nessuna pista. Penso che chiunque stesse camminando su quella strada, a trenta chilometri dalla città, avrebbe potuto essere visto da qualcuno. Non credi?» Annuisco per assecondarlo.
Il mio primo incontro con Coop avvenne nel corso di un procedimento per omicidio colposo, un caso banale per la pubblica accusa al quale stavo dando gli ultimi ritocchi. L'imputato era un ruffiano di mezza tacca accusato di procurare droga a una delle sue prostitute, morta per overdose. Coop aveva già deposto e aveva già subito il controinterrogatorio. Ma la difesa lo aveva richiamato, in un ultimo disperato tentativo. Gli era stato inviato un mandato di comparizione; doveva esibire i suoi appunti di lavoro. Quando Coop arrivò al Palazzo di Giustizia, intuii il furore nascosto sotto la sottile patina di professionalità. L'ordine di comparizione gli era stato notificato quella mattina stessa, seguito a ruota da una telefonata di Andy Shea, un avvocato sputafuoco della difesa, eletto «penalista del mese» dai drogati e piccoli spacciatori. Shea, come sua abitudine, aveva fatto il prepotente e, nel tentativo di far osservare il mandato di comparizione che non aveva notificato in tempo, si era messo a rampognare per telefono una buona metà degli assistenti del coroner. Nel giro dei tre minuti che mi occorsero per istruire Cooper fuori dell'aula, lo vidi subire una strana metamorfosi. Mentre io lottavo contro il tempo per sondare le implicazioni legali del mandato, Coop sembrava preoccupato. Poi una strana calma si impossessò di lui. Fui preso dalla strisciante paura che il fato mi avesse messo fra le mani il terrore di ogni avvocato: un testimone incontrollabile. Una volta dentro, Coop si diresse al banco dei testimoni. Si accomodò mezzo metro sotto Merriam Watkins, giudice di Corte Superiore. Shea, con fare arrogante, pretese di vedere gli appunti di Cooper. Il coroner infilò la mano nella grossa busta che aveva con sé e porse all'avvocato un arruffato fascio di documenti. Si scusò per la confusione delle carte. Si dimostrò sollecito. Fece di tutto, fuorché alzarsi ed esibirsi in un profondo inchino. Shea afferrò il pacco di documenti. Scuotendo la testa in segno di disgusto, tornò al tavolo della difesa per sistemare il trofeo in un ordine utilizzabile. Cooper volse uno sguardo pieno di sentimento verso il giudice Watkins, esalò un po' di umiltà sudista, e si scusò per non aver fatto copie per la Corte. Offrì una spiegazione al giudice, un suo modo per fare due chiacchiere. Shea era troppo occupato a sfogliare le pagine per prestare attenzione al colloquio in corso allo scanno. Senza che Shea sollevasse alcuna obiezione, Coop venne lasciato libero di divagare. Un sorriso libertino spuntò sotto i baffi scuri e scomparve
immediatamente dietro una coltre di fascino adulatore. Raccontò al giudice che il mandato gli era stato notificato alle otto di quella stessa mattina e che, cinque minuti dopo, l'avvocato Shea aveva telefonato al suo ufficio. Udendo il proprio nome, l'avvocato della difesa alzò per la prima volta gli occhi dal tavolo, ma era troppo tardi. Coop era lanciato. Raccontò dell'insistenza di Shea e chiese se potesse citare le esatte parole dell'avvocato. A quel punto, con un'espressione palesemente interrogativa, il giudice si strinse nelle spalle. «Il signor Shea ha detto, cito: 'Se per le nove di stamattina non porta il suo dannato culo in aula, sarà meglio che prepari lo spazzolino da denti, perché farò in modo che il suo inutile cazzo tarlato finisca in galera per oltraggio alla Corte'.» Due giurati, due donne sui sessant'anni, quasi caddero dalla sedia. L'unica cosa all'altezza del rossore sul viso del giudice Watkins erano le orecchie di Shea, che esibivano una splendida tonalità di cremisi. L'avvocato se ne stava seduto a bocca spalancata al tavolo della difesa, e intanto Coop affondava la lama. «Vostro onore, non saprei proprio spiegare dove l'avvocato Shea abbia studiato anatomia, però non credo che un funzionario della Corte dovrebbe rivolgersi a un funzionario della contea in questi termini. Lei cosa ne pensa?» Il giudice Watkins balbettò, coprì con la mano un colpetto di tosse, e dopo parecchi secondi finalmente emise quello che doveva passare per un commento assennato. «Penso che il signor Shea sia stato adeguatamente rimproverato», disse. «Se lo dice lei, vostro onore.» Coop rivolse un gran sorriso a Shea. L'avvocato sedeva come un povero infelice, riunendo una risma di fogli che avrebbero anche potuto essere coriandoli, per quello che ormai servivano al suo cliente. Su insistenza di Shea, la Corte diede poi istruzioni alla giuria di ignorare la testimonianza di Coop sulla gaffe di Shea. Ma come Cooper osservò sottovoce mentre usciva dall'aula: «Solo quando i porci avranno le ali». Un interno, un giovanotto in camice bianco, è entrato nella stanza dove siamo noi. Porge a Coop una cartellina con parecchi moduli. Coop scarabocchia in fretta la sua firma in calce ai moduli appropriati e riconsegna il tutto all'assistente. Il giovanotto esce.
«Allora, che novità ci sono per Potter?» chiedo. «Lo sai meglio di me. Non posso dirti niente. Ti ho già detto più di quanto avrei dovuto, quella sera fuori del suo ufficio. Potrei pentirmene.» Sono un po' offeso dal rimprovero, dall'allusione che mette in dubbio la mia discrezione. Ma insisto lo stesso. «Capisco la tua situazione, Coop. È solo che girano voci. Ho sentito dire che gli investigatori dell'ufficio del procuratore hanno interrogato tutti, uno per uno, allo studio P&S. La scientifica ha ispezionato il posto con i guanti bianchi una dozzina di volte.» «Spero che se la cavino meglio di questo qui.» Dà un colpetto ai vetrini che tiene in mano. «La vittima dà l'impressione di avere arato con le unghie.» «Che diavolo sta succedendo, Coop?» Mi faccio più serio. La mia voce diventa insistente. «Se Nelson scoprisse che quella sera abbiamo parlato davanti al palazzo dell'ufficio di Potter, mi spellerebbe l'uccello con un coltello smussato. Per caso hai detto a qualcuno che venivi a trovarmi?» «Non dovresti neanche chiedermelo.» «Sia lodato il cielo», esclama. Si sposta a un becco Bunsen, su un tavolo a pochi metri di distanza. Una densa poltiglia nera sta gorgogliando in un contenitore di vetro trasparente, sopra una fiamma. Coop solleva il grosso bicchiere di vetro, agita un po' la ripugnante sostanza, la rimette sul fornello. Si vede benissimo che è preoccupato. Gli racconto della mia conversazione con Jennings, del fatto che anche quelli dell'ufficio del procuratore stanno chiacchierando. Spero che questa rivelazione allenti i suoi timori di discrezione professionale. Ma chiunque abbia detto che i segreti sono come attrezzi appuntiti, da tenere quindi fuori dalla portata di bambini e scemi, non si riferiva di certo a George Cooper: lui non è affatto un bambino, e di certo non è uno scemo. Coop mi guarda con un sorriso colmo di sentimento, il tipo di sorriso che dice: «Se stanno chiacchierando, si vede che hanno il fuoco sotto il loro povero sedere». «Chi ha eseguito l'autopsia?» gli chiedo. Non ho bisogno di attendere la risposta. Lo ha scritto negli occhi che l'ha fatta lui. «Non riesco a credere che si sia ucciso. Era mio amico, Coop, e voglio sapere cosa è successo.»
C'è un lungo sospiro. «Dove andrai con queste informazioni?» chiede. «Alla tomba. Hai la mia parola, Coop. Non un'anima saprà mai qualcosa da me.» Pronuncio il mio giuramento più sacro e me lo affiggo al volto come una maschera funebre. Sollevo la mano destra. «Lo giuro, non una parola.» Vedo lo scetticismo nel suo sguardo, l'incredulità di chiunque abbia lavorato all'interno della burocrazia e abbia già ricevuto assicurazioni analoghe da polizia e giornalisti, da famiglie sconvolte, ansiose di sentire parole consolanti, di avere la certezza che a uccidere il figlio o la figlia non è stata un'overdose. «Non abbiamo ancora terminato. Stiamo ancora facendo molte analisi. Ma se fossi costretto a scommetterci sopra, non punterei neanche un centesimo del mio sudato stipendio sul suicidio.» A questo segue un goffo rituale. Coop arriccia il naso e comincia a togliersi i guanti da chirurgo, il primo segno che la nostra conversazione può forse proseguire. «Ficcati bene in testa che non posso riferirti i particolari.» «D'accordo.» È facile fare concessioni, quando non si ha niente da dare in cambio. «Parliamo in termini ipotetici?» «Ipotetici, è chiaro.» «Cosa sai della distribuzione del sangue dopo la morte?» Mi stringo nelle spalle. «Il corpo umano ha una reazione idraulica molto affidabile, dopo la morte. La pompa si ferma, e circa quattro quarti di sangue affluiscono verso il punto più basso. Nel giro di un'ora, a volte due, il sangue si coagula. Rimane intrappolato nei tessuti, nei vasi sanguigni del punto più basso. La gravità ha la meglio.» Espone la cosa come un dato di fatto, come la legge fisica che è. «La lividezza cadaverica», dice. «Ricordi, no? Non è passato poi troppo tempo da quando eri l'accusa.» Annuisco. Ho capito dove mi sta portando. Stiamo per iniziare l'amato gioco del perito testimone. In gergo legale si definisce «parere»: un'eccezione alla regola generale della deposizione, secondo la quale i testimoni non possono esprimere supposizioni, ma soltanto deporre su eventi ai quali hanno direttamente assistito e di cui hanno conoscenza in prima persona. La legge, come molte istituzioni sociali, ha escogitato regole speciali per gente spe-
ciale. Ai medici e ad altri esperti è concesso applicare la loro competenza professionale per trarre conclusioni di massima da situazioni ipotetiche. Veterano di mille processi, Coop è bravissimo in questa deviazione dalla ricerca della verità; è un maestro del gioco giurato fra esperti. «Nel caso di un uomo che muoia seduto su una sedia, a meno che non si trovi su una navicella spaziale diretta alla luna, ci si deve aspettare che i liquidi del corpo stagnino nelle estremità inferiori, come minimo nelle natiche e nella parte posteriore della zona alta delle cosce.» Pronuncia quest'ultima parola come se contenesse una dozzina di e. «Quindi...» Coop si ferma per avvicinare un fiammifero alla pipa. La fiamma si spegne, e lui prende un altro fiammifero, lo accende, protegge il fornello della pipa con le mani. Il profumo del tabacco, una speciale mistura aromatica, si mescola all'odore della formaldeide. «Quindi...» Tira diverse boccate per far partire la pipa. «Quando trovo un cadavere seduto alla scrivania, con quello che resta della testa rovesciato sul poggiatesta, ma la lividezza indica che tutti i fluidi si sono equamente distribuiti lungo la parte posteriore del tronco superiore e delle gambe, c'è qualcosa che non va. L'uomo è morto steso a terra, e tutto indica che è rimasto coricato sulla schiena per un certo lasso di tempo dopo la morte.» «Potter è stato spostato dopo la morte?» Coop annuisce, lasciando perdere il gioco delle ipotesi. «Da questo punto in poi, la questione diventa meno astratta.» «Che vuoi dire?» Coop torna al becco Bunsen, esamina il fluido nero, ripugnante, che bollendo produce una schiuma. Una nauseante schiuma bianca esce dalla sostanza per andare a galleggiare in superficie. Solleva il bicchiere con un paio di lunghe pinze, si volta verso me. «Caffè?» chiede. Scuoto la testa, gli occhi fissi sulla poltiglia. Coop prosegue con la sua sceneggiatura. «Chiunque l'abbia fatto, non ha mai sentito parlare di medicina legale. O quello o i dettagli non gli interessavano troppo.» L'espressione della mia faccia è un punto interrogativo al neon. «Non è stata una cosa ben programmata», continua Coop. «Insomma, entriamo nell'ufficio di questo tizio e lo troviamo riverso su una poltrona da manager in pelle, con la metà superiore della testa che non c'è più. C'è un fucile calibro dodici sul pavimento, vicino alla sedia. Molto convincente. Ha sparato un colpo. Sull'arma non c'è nessuna impronta. Chiunque l'abbia lasciata là ha cancellato le impronte. Non soltanto le sue, ma anche
quelle di Potter. Te lo dico io, un uomo che sta per uccidersi suda come un dannato. A meno che non sia la persona più impassibile del mondo dai tempi di Nick Mano Fredda, deve lasciare per forza piccole tracce sull'arma. Ma non Potter.» Ho già visto ferite estese alla testa, in passato. Dalla descrizione di Coop riesco a evocare l'immagine nella mente: quello che è rimasto del viso che conoscevo come Ben Potter. «Poi troviamo tracce di sangue, B-negativo, lo stesso gruppo di Potter, in un ascensore di servizio dell'atrio. Non molto, ma quel tanto che basta. Chiunque l'abbia spostato ha usato quell'ascensore.» «Di chi è il fucile?» «Di Potter. Lo usava per andare a caccia. È di fabbricazione italiana, un affare massiccio con un sacco di accessori, e costoso.» «E dove lo teneva?» «La moglie dice che di solito stava in una custodia chiusa a chiave nello studio di Potter, a casa loro.» Con la pipa ben stretta fra i denti, Coop prende una tazza dalla mensola e si versa un po' del denso intruglio. La roba scorre come petrolio greggio. Rimette il bicchiere sul becco Bunsen e toglie la pipa dalla bocca: pipa di radica in una mano, e quello che passa per caffè nell'altra. «E così stanno lavorando sulla teoria che si tratti di omicidio?» Coop fa una smorfia di indifferenza, piega la testa all'indietro, espelle in direzione del soffitto tre perfetti anelli di fumo. Sorride. La cordialità del sud incrina la patina professionale, anche se solo per un istante. «È su questo che puntano gli scommettitori bene informati.» Fa una pausa, beve un sorso dalla tazza. Voglio proprio vedere se la deve masticare, quella roba. «C'è un'altra scuola di pensiero... Un'altra teoria», dice. Lo guardo, in attesa di questa primizia. «La teoria che Potter sia morto in una situazione compromettente, di propria mano... o magari per un incidente, con qualcun altro a premere il grilletto. Magari un pizzico di passione, un'altra donna... Chi lo sa? Abbiamo un noto avvocato, socio di un potente studio legale. Ci sono reputazioni da proteggere. Potrebbero essere moltissime le persone pronte a muoversi in tutta fretta per coprire quel genere di situazione imbarazzante.» «Tu cosa ne pensi?» gli chiedo. «Io cercherei un omicida.» Lo dice come se la seconda teoria non fosse
altro che una falsa pista. «Perché?» «Chiunque sia stato, si è dato una gran pena per metterlo nello studio. Ha corso grossi rischi. Sarebbe stato molto più semplice, e in fin dei conti più plausibile, se lo avesse portato in un campo, lo avesse vestito in tenuta da caccia, e lo avesse abbandonato per terra.» Strizza le palpebre. «Vittima di un incidente di caccia. Non avrebbe funzionato lo stesso, è chiaro. Avrei fiutato qualcosa.» Sorride. «Devi escogitare una copertura a prova di bomba, se vuoi risparmiarti un po' di imbarazzo. No, chiunque l'abbia messo in quell'ufficio stava cercando di coprire le proprie tracce. E...» Fa una breve pausa. «Magari fare in modo che la polizia cominciasse a pensare a qualcun altro, prendesse una direzione sbagliata.» «La polizia ha ristretto le indagini a qualche sospetto?» «Non ti hanno ancora parlato?» dice. All'improvviso, la sua faccia si illumina di un grande sorriso. Poi torna serio. «Non dovresti neanche chiedermelo. Se anche fosse così, non potrei mai dirtelo.» Ridacchia fra sé, mentre si gira a prendere un paio di guanti da chirurgo nuovi dal cassetto alle sue spalle. Solleva un sopracciglio e strizza l'occhio. La pipa di nuovo stretta fra i denti, la tazza sulla mensola dietro di lui, calza il guanto sinistro. Si volta e si dirige verso la porta. Ha detto l'ultima parola sulla faccenda, almeno per il momento. Ma la sua espressione di commiato mi dice tutto, perché se mi fido dell'intuito professionale di George Cooper - e di certo mi fido - l'ultima scintilla di dubbio è stata eliminata dalla mia mente. Adesso so che Ben Potter è stato assassinato. 10. Non sono ancora le nove e mezzo di martedì mattina. Sono appena tornato dal tribunale e trovo una catasta di messaggi telefonici al centro della scrivania, una pila di dolore. Un cliente vuole un rinvio; Nikki ha chiamato per sapere se passerò a trovare Sarah per il fine settimana; il procuratore non vuole patteggiare in una piccola causa di droga. Infilato nel mucchio di foglietti, un appunto dice che Tony Skarpellos ha chiamato. Vuole un incontro, nel suo studio, alle due di questo pomeriggio. La curiosità ha la meglio su di me. Questo pomeriggio c'è un'atmosfera aliena negli uffici dello studio Pot-
ter & Skarpellos, più formale, sommessa. La attribuisco a una giusta manifestazione di lutto per il socio fondatore. Prima che lasciassi lo studio, questi uffici sono sempre stati un luogo familiare. Passavo veloce davanti alla receptionist, piazzata come un portiere d'albergo al barocco bancone di mogano accanto all'ascensore, davanti all'ufficio di Ben e alla zona interna di ricevimento occupata dalla sua segretaria, e mi infilavo nella mia tana in fondo al corridoio. Lo studio occupa tre piani della Emerald Tower, l'indirizzo commerciale più prestigioso di Capitol County. Coinvolto in scandali finanziari per più di tre anni durante la costruzione, l'edificio è un monolitico mammut a pianta curva; le finestre verdi, trasparenti, si alzano verso il cielo, accanto all'ampio e sinuoso fiume, all'estremità occidentale del Capitol Mall. La Emerald Tower è ormai il contrappunto architettonico e politico all'edificio del governo, che sorge all'estremità opposta del viale. Mentre il palazzo governativo ospita due rami della legislatura di Stato, la Emerald Tower è diventata la roccaforte della «terza camera» della legislatura, un esercito di lobbisti che esplicano i loro affari cercando l'appoggio delle commissioni legislative e degli enti governativi. Il Potter & Skarpellos è il primo studio legale di una qualche importanza che si sia avventurato nell'edificio. In più di un'eventualità, mi sono trovato a soppesare la rilevanza di questa posizione e la sua importanza sulla strada che prenderà in futuro lo studio. Sorrido mentre mi avvicino alla receptionist, che si chiama Barbara. Il mio è un sorriso di familiarità. Oggi viene accolto da una fredda efficienza. Il saluto è rigido, il sorriso di plastica. I semi dell'incertezza hanno cominciato a germogliare fra il personale. I cambi di gestione nell'America moderna, dalla multinazionale giù giù fino al negozio di scarpe all'angolo, somigliano oggi al cambio della guardia dopo un colpo di Stato in una repubblica delle banane. I dipendenti dello studio hanno cominciato a interrogarsi sul proprio destino personale. Il re è morto, ma la polvere dell'incertezza che offusca la sorte delle persone coinvolte non si è ancora posata. Barbara mi invita ad accomodarmi nella sala di attesa e mi assicura che informerà Florence del mio arrivo. In un angolo della sala ci sono due divani iperimbottiti che si stendono come nuvole scure contro l'ampia parete. Lì il visitatore sente il bisogno di controllare se per caso nella sua borsa non ci siano un machete e un casco coloniale. I mobili sono sepolti da una giungla di ficus, filodendri, felci, e altre piante tropicali, tutte con le radici che affondano in capienti vasche. Un vago odore di terra umida permea l'aria. Rifiuto il divano e mi metto a
gironzolare nell'ampio spazio, osservando la ricca sinfonia di dipinti alle pareti e le due ceramiche moderne sistemate su piedestalli più o meno al centro della stanza. Sono nuove, prima non c'erano. I consueti simboli della ricchezza commerciale, usati come prologo a quello che normalmente segue negli uffici privati di qualsiasi società di una certa importanza. Vengono utilizzati come una sorta di emetico artistico, per lubrificare e facilitare lo scarico di consistenti onorari da parte di clienti che a volte potrebbero anche chiedersi se non stiano pagando troppo per quello che ricevono. Mentre me ne sto in piedi alla finestra ad ammirare il panorama della città distesa davanti a me, nel vetro appare l'immagine ondulata di un riflesso. Qualcuno si è avvicinato a me. Mi giro. «Ciao», mi dice. Talia tiene fra le braccia una piccola scatola piena di libri e oggetti disparati. Riconosco il portapenne in marmo della scrivania di Ben. Nonostante le mie più sfrenate fantasie di Talia, questo è un aspetto che non mi sarebbe mai venuto in mente: la vedova che esercita la sua prerogativa coniugale, che porta via gli oggetti personali di Ben dall'ufficio. «Salve.» La mia voce è piatta, inespressiva. «Aspetta un secondo.» Torna verso il bancone della receptionist, appoggia la scatola sul piano e dà istruzioni a Barbara. Ci sono altre scatole nell'ufficio di Ben. Sono troppo pesanti. Avrà bisogno di una mano. Non faccio nessun accenno a spostarmi. Alla fine lei si gira e mi guarda, scrutando dietro il filodendro che mi nasconde. Per un attimo ci guardiamo e basta. È come se fossimo su uno stagno ghiacciato che si sta sgretolando sotto i nostri piedi. Ciascuno aspetta che sia l'altro a fare la prima mossa. Vinco io. Talia si avvicina di nuovo. «Come ti va?» dice. «Bene.» Tiene le mani intrecciate appena sotto la cintura della gonna, coloratissima e molto attillata. Con Talia, per lo meno in privato, non ci sarà alcuna pretesa di lutto. Questa donna che mi ha portato a letto per quasi un anno sotto il naso del marito è ora l'immagine del cortese riserbo. Restiamo lì, uno di fronte all'altra, a guardarci in silenzio. Barbara, l'epitome della servilità impiegatizia, appare ignara della tensione che riempie la stanza. «Sei qui in visita?» chiede Talia. «Devo vedere Tony.» «Uomo fortunato.»
«Come stai?» È tutto quello che mi viene in mente di chiederle. L'affettuosa domanda di rito. Fa una smorfia. «Tiro avanti», dice. «È difficile.» Annuisco. «La polizia ci ha permesso di entrare nell'ufficio di Ben soltanto ieri. Immagino ci voglia molto perché finiscano quello che devono fare dopo una cosa del genere.» «A volte.» «Quante domande senza risposta», sospira. «Immagino non lo capiremo mai fino in fondo.» Inarco un sopracciglio in segno di domanda. «Perché l'ha fatto? Ben aveva tante ragioni per vivere.» Con chiunque altro sarei sorpreso, ma conoscendo Talia come la conosco, non ho alcun dubbio che sarà l'ultima a sapere che la morte del marito è ora oggetto di un'indagine per omicidio. Non infrango l'illusione. «Immagino di sì», dico. «Me lo sono chiesta un milione di volte. Il figlio di una mia amica si è suicidato un anno fa. Lei continua a dirmi di smetterla di farmi la stessa domanda: 'Perché?' Dice che più te lo chiedi, peggio è. Credo che abbia ragione.» Questa è la vera misura della differenza tra le nostre due percezioni della vita: prima che mi venisse detto che la morte di Ben era imputabile a un'altra persona, mi ero fatto la stessa domanda una sola volta, e non avevo avuto nessuna difficoltà a giungere a una sola e inconfutabile risposta. Non è stato affatto un suicidio. L'ascolto mentre parla. Non c'è traccia di reticenza nei suoi modi, anche se il suo sguardo vaga senza fissarsi su niente in particolare. Questa è la Talia che conosco, la donna che se ne sta qui in un luogo pubblico, a parlare senza imbarazzo con un ex amante, un suo compagno di adulterio, incapace di mettere assieme una sola spiegazione sul motivo per cui il marito avrebbe potuto togliersi la vita. Talia ha il dono di vedere la realtà attraverso una foschia d'apatia, come fosse un film girato con il velatino. Restiamo in piedi. Lei parla e io sono il suo irrequieto pubblico. Dal corridoio dietro Talia si avvicina qualcuno che ho l'impressione di conoscere. È una faccia che ho già visto, ma non riesco a collocarla. «Ho bisogno del tuo aiuto per alcuni documenti nella scrivania. Bisogna decidere cosa fare con...» L'uomo si interrompe a metà della frase quando si accorge di me.
Talia si gira. «Oh, Tod.» La sua voce diventa più vivace. «Ti voglio presentare un vecchio amico. Paul Madriani, Tod Hamilton. Ricordi, ti ho parlato di Paul.» L'uomo mi porge la mano. Una breve stretta. Fra i due corrono occhiate d'intesa. Una specie di risata mentale invade la conversazione, mentre Hamilton cerca qualcosa da fare con le mani. È chiaro che chissà come e quando sono stato argomento di conversazione fra loro. Intuisco che forse Talia non ha cantato le mie lodi. A quanto pare, Tod è il mio più recente sostituto. Poi ricordo. Il mento con la grande fossetta, da Wong's. Tod era al tavolo di Talia la sera che ho parlato con Ben. «Tod mi sta aiutando a sistemare alcune cose di Ben. È stato la mia ancora di salvezza, la roccia a cui mi sono aggrappata in questo periodo.» Il vestito a lutto color rosa shocking e il fatto che lei sia qui con la sua ultima fiamma la dice lunga sulla totale indifferenza di Talia alle imposizioni sociali che guidano altre creature meno padrone di se stesse. «Capisco.» Talia lo guarda di nuovo, da sopra la spalla, e sorride. Lui esibisce un sorriso sicuro di sé. Del tipo che dice: «Non temo rivali», e il velato sguardo di desiderio negli occhi di Talia lo conferma. Anche se non riesco a spiegarmi perché, la cosa mi ferisce. Non sono affatto innamorato di Talia, eppure il mio ego di mezza età è distrutto. Vedere questi due, praticamente ignari della mia presenza, persi nella fiamma dell'infatuazione reciproca, alimenta in qualche modo in me un desiderio primordiale. Rimango impantanato nelle sabbie mobili di disagio sociale. Il silenzio fa scaturire un'ondata di chiacchiere insignificanti: l'ultima operazione immobiliare di Talia, le prodezze tennistiche di Tod. Talia spinge la conversazione sul versante domestico chiedendo di Sarah. Non mi lascia in pace sino a che non tiro fuori portafoglio e fotografie. Sono salvato da Florence, la segretaria di Tony, che è venuta a prendermi per l'incontro. Florence Thorn è una donna alta, imponente, con la quale i rituali sociali diventano un'arte inutile. È tutta affari. «Signor Madriani, se vuole seguirmi. L'aspettano.» Al sentire il verbo al plurale, l'acidità comincia a ribollirmi nello stomaco. Skarpellos ha latto lega contro di me. Tod mi guarda e sorride. «È stato un piacere conoscerla.» Nonostante l'aspetto esteriore, c'è una sincerità disarmante, una specie di rustica schiet-
tezza sotto la patina di ricercata virilità. Talia avrebbe potuto scegliere di peggio, tutto sommato. La segretaria di Tony imbocca il corridoio a passo svelto. Giriamo l'angolo, ed è come se una spada di ghiaccio mi avesse colpito. Per un attimo mi blocco, resto a fissare in silenzio la doppia porta a pannelli di noce che conduce all'ufficio di Ben. Una delle porte è aperta. Il nastro della polizia, un'unica striscia giallo canarino ricoperta di scritte nere, aderisce alla pannellatura di noce, vicino al telaio. La stanza della segretaria, di fronte all'ufficio di Ben, è vuota e buia. Jo Ann, la segretaria di Ben, non c'è. Poi mi viene in mente. Non c'era nemmeno al funerale. Per tutto il tempo in cui ho frequentato Ben, Jo è sempre stata al suo fianco. «Dov'è Jo Ann?» chiedo. «Oh, la signora Campanelli non è più con noi.» Florence mi offre solo un gradevole sorriso. Tutto qui. Quindici anni nello studio, e l'epitaffio di Jo Ann è di sole cinque parole: «Non è più con noi». Florence bussa discretamente sul noce nero. La porta che immette nello spazioso ufficio d'angolo viene aperta dall'interno. Tony Skarpellos si alza da un'immensa scrivania a piede centrale, con la base formata da un unico blocco di radica lucidata. Il cestino della carta straccia di Tony è un piede d'elefante svuotato. Un corno d'avorio è montato sulla parete sopra la finestra. In questo, come in molte altre cose, il Greco ha davvero cattivo gusto. Per Tony, la disapprovazione sociale è un punto d'onore. Inchioderebbe Bambi al muro, se la Disney gli cedesse i diritti. «Paul, entra», dice. «Prego, accomodati.» «Tony.» Lo saluto senza calore; una semplice dichiarazione di fatto. La superficie della sua scrivania è una lastra di lucido granito nero. Raccoglie il riflesso del suo sorriso falso. Per raggiungerlo, percorro metri e metri di superficie coperta di moquette color talpa. I piedi affondano come nella sabbia di una spiaggia asciutta. Mi porge la mano. Una breve stretta. Poi sento la serratura della porta che si chiude alle mie spalle. Mi giro e mi trovo di fronte Ron Brown, in piedi, a fare la parte del portiere. Questa non è una riunione amichevole. Tony si schiarisce la gola. Lasciato senza alternative, fa gli onori di casa. «Ron, credo tu conosca Paul Madriani.» Brown attraversa la stanza come un purosangue arabo che sfiori appena la sabbia. «Come no. Paul e io siamo vecchi amici. È un piacere rivederti.»
Slancia la mano nella mia direzione come se fosse caricata a molla e mi pompa il braccio come fosse la leva di un cricco idraulico. Brown è bravissimo in queste messinscene. Oggi fa la parte dell'entusiasta tirapiedi dello studio, tutto denti che brillano sotto i baffi sottilissimi. Di primo acchito, è difficile trovare antipatico Ronald Simpson Brown. È un bell'uomo, apparentemente cordiale. Come per il metallo corroso, la sua ossessiva insicurezza diventa palese solo quando viene messa sotto sforzo. Durante il mio periodo di lavoro allo studio P&S, Brown e io abbiamo scoperto molto presto il nostro reciproco coefficiente di attrito. Da quel momento abbiamo mantenuto le distanze. «Ho chiesto a Ron di raggiungerci qui stamattina. Prego, accomodatevi.» Tony sorride e indica con un ampio gesto le due sedie di cuoio per i clienti, di fronte alla sterminata lastra che è la sua scrivania. Mi sistemo su questo nulla imbottito e attendo la rivelazione, il motivo per cui hanno voluto vedermi. «Caffè, Paul?» «No, grazie.» La tazza vuota sul bordo della scrivania nera, di fronte a Brown, indica che qualunque cosa Skarpellos abbia da dire, non sarà una sorpresa per Brown. I due ne hanno discusso per un po' prima del mio arrivo. Brown apre il suo blocco per appunti in pelle e toglie il cappuccio alla stilografica, trecento dollari di smalto nero e filigrana d'oro, con un pennino d'oro a ventiquattro carati grande come una lancia. Siede composto con questo bastone fra le dita, come se stesse per firmare il trattato che metterà fine alla povertà nel mondo. Quando, un anno fa, queste penne cominciarono ad apparire in mano a giovani avvocati in tribunale, Harry li soprannominò in blocco «reggi-lancia». Skarpellos apre una scatola d'oro da sigari che tiene sulla scrivania e la gira nella mia direzione. Faccio di no con la testa. «Ti spiace se io fumo?» «Sei nel tuo ufficio.» Offre un sigaro a Brown, che rifiuta. Non sono normali sigari. Sono piccoli e neri, informi cavatappi contorti, cose che Skarpellos ha scoperto durante un suo viaggio in Italia due anni fa. I vecchi italiani che li fumano, uomini i cui pochi denti superstiti sono neri come la neve accumulata sul ciglio delle autostrade, li chiamano «toscanelli», a quanto mi si dice. Ben giurava che sono pezzi di merda di ca-
ne. Parecchi secondi più tardi, mentre fitte nuvole di fumo scuro si spandono sopra la testa di Tony, mi chiedo se l'eufemismo di Potter si riferisse al loro aspetto o non piuttosto alla puzza che emanano. È l'ostentazione più recente, come lo erano stati il tè al ginseng dopo il suo vorticoso giro della Cina, e lo spiegamento di bottiglie di acqua minerale al suo ritorno dai luoghi termali dell'Est europeo. Come la rana del Vento tra i salici, col tempo ognuna di queste cose ha seguito la strada dell'ultimo capriccio del Greco. Si può solo sperare che la sua passione per i toscanelli segua presto lo stesso destino. Sventolati i simboli di ricchezza e cattivo gusto, Skarpellos e Brown sono pronti a dare il via agli affari. «Tutti noi apprezziamo il fatto che tu sia venuto, oggi.» Il Greco gira la testa di lato e sputacchia pezzettini di tabacco, pulendosi la punta della lingua con i denti e le labbra per togliere gli ultimi residui. «I soci, intendo. So che la morte di Ben è stata un brutto colpo per te, come lo è stata per noi.» Sta ancora sputando, fra una sillaba e l'altra. «Qualunque sia stato il motivo che ti ha spinto ad andartene, be', è tutta acqua passata, per quanto mi riguarda. Voglio che tu lo sappia.» Tony fa una pausa. Come un prete di paese, mi sta fornendo l'occasione per confessarmi. «Te ne sono grato, Tony.» «Già, bene.» Sta giocherellando con un foglio di carta al centro della scrivania: righe scritte a grandi caratteri, in modo che Tony possa leggerle senza gli occhiali. Sta cercando il punto da cui cominciare. In mezzo a tutto quel fumo, gli occhi cominciano a lacrimargli. «C'è stata una gran confusione, qui. Puoi immaginarti.» Annuisco. Si appoggia allo schienale della poltrona, come sempre padrone della situazione. «La polizia ha davvero messo tutto sottosopra. Abbiamo sentito voci, storie, niente di specifico.» Mi guarda, in cerca di segni di interesse. E poi, con tipica delicatezza: «Tu hai sentito qualcosa?» Skarpellos non è uomo da perdersi in chiacchiere da poco, e nemmeno, a dire il vero, in grandi pensieri, ma per chi ha fretta possiede la dote della franchezza. «A proposito di che?» «Della morte di Ben.» «Solo quello che ho letto.» «Pensavo che magari avessi sentito qualcosa dai tuoi amici dell'ufficio
del procuratore. I tuoi canali sono probabilmente migliori dei nostri, in cose come queste.» «Cosa si dice in giro?» chiedo. È chiaro che Tony non è rimasto inerte a guardare. Non crede affatto che il suo socio si sia tolto la vita. Per un attimo penso che Skarpellos mi abbia convocato per carpirmi informazioni sulla morte di Ben. Inghiotte un po' di saliva, e intanto valuta la sua risposta. «Cose», dice. «Cioè?» «Solo voci. Sai, quello che probabilmente si sente sempre quando qualcuno di importante si toglie la vita. Chiacchiere da niente su qualcosa di sospetto. Un sacco di congetture.» «Immagino. Non ho sentito niente.» «Certo», annuisce «Bene, parliamo di affari.» Cercare informazioni sulla morte di Ben è stato soltanto l'antipasto di Tony. «Credo sia meglio andare diritto al sodo. Sono certo che non ci sia alcun bisogno di dirlo ma, per evitare eventuali malintesi, quello che sto per dirti deve essere considerato della massima riservatezza. Immagino di avere la tua parola su questo.» Skarpellos guarda direttamente nella mia direzione. Brown sa che la sua funzione è quella di corroborare la discrezione del Greco. Do il mio assenso con un cenno della testa. «C'è un cliente... che per il momento resterà senza nome. Ti basti sapere che è un uomo di una certa importanza.» A questo punto c'è un bel po' di mimica. Per un breve istante, Skarpellos soppesa quanto sta per dire. La prudente esitazione è soprattutto a mio beneficio. Ed è subito seguita da una dimostrazione di sincerità: «Si tratta di un funzionario pubblico». Il che restringe il campo a circa cinquecento persone di questa città. «Sembra si sia invischiato in quella che sta per diventare una causa penale molto imbarazzante e difficile.» Segue una lunga pausa solenne, con la quale Skarpellos mi prepara alla gravità delle accuse. «Questa persona è accusata di corruzioni varie.» Le folte sopracciglia si piegano all'ingiù. Tira una lenta boccata dal sigaro ed emette un irregolare anello di fumo verso il soffitto. «Con risvolti sessuali.» Faccio una smorfia. È una novità, ma non sono convinto che rappresenti un nuovo abbassamento di livello nella moralità dei nostri funzionari pubblici. Skarpellos afferra al volo, e la sua espressione accigliata si distende. Ri-
de. «Già. Quel tipo è un po' imbecille. Il problema, come si dice, è che è il nostro imbecille.» «Lo studio ha assunto il caso?» gli chiedo. «In un certo senso. A dire il vero, a questo punto lo stiamo soltanto consigliando.» Lo studio sta semplicemente facendo da intermediatore per il caso. Mi chiedo quale premio sia in serbo per il P&S, o, forse più esattamente, per Tony Skarpellos. Comincio a capire dove andrà a parare la nostra conversazione. Come un venditore di tappeti, Tony studia la mia espressione per cogliere eventuali segni di interesse. A questo punto, Skarpellos comincia a perdere carica. Mi chiedo per quale motivo non riesca ad arrivare alla battuta finale. Il peso delle prove concrete può spesso sfuggirgli, ma le stronzate verbali sono il suo forte. «Come sai, questo studio non ha molta pratica di diritto penale, anche se Ben di tanto in tanto ha aiutato i nostri clienti a navigare in quelle acque impervie.» «È per questo che vi siete rivolti a me?» «In un certo senso. Sì.» Vogliono che io tolga loro di mano questi rifiuti. Skarpellos siede in silenzio, mi guarda fisso come se io possedessi una qualche formula magica, una pozione legale da prescrivere perché il suo cliente torni pulito, come un guaritore che cura la lebbra. Segue una lunga pausa. Tony esibisce svariate versioni di sorriso sofferente. È un'espressione normale, per Skarpellos. È partito per uno dei suoi safari verbali, in caccia delle parole giuste. «Apprezzo la fiducia dello studio, Tony. Magari potrei cercare di darvi una mano, se solo sapessi esattamente cosa volete da me.» Se si tratta del mio aiuto, dovrà impegnarsi di più. Skarpellos sarà costretto a scendere dal suo trono. Potrebbe anche dover strisciare. Per il giusto compenso, potrei accettare il caso. «Si tratta di un uomo molto importante», spiega. Il loro cliente che non è un vero cliente, cioè. «Ha amici importanti. Ha fatto un errore, ma in fondo chi di noi non ne ha fatti?» Tony allarga i gomiti sulla scintillante superficie della scrivania e comincia a parlare con le mani, tracciando autostrade di fumo nell'aria. Anche questo fa parte del lessico del Greco. «Tony, si può sapere cosa vuoi?» C'è un accenno di impazienza nelle mie parole. Fra Brown e Skarpellos corrono occhiate d'intesa. Siamo arrivati al succo del nostro incontro. Se fossimo impegnati in un patteggiamento, questo sarebbe il punto in cui tutte le stronzate verrebbero messe da parte. Non si
sentirebbe più parlare degli interessi della società o delle esigenze della giustizia. C'è una pausa impacciata, mentre i due eseguono il silenzioso rituale della scelta del portavoce. Tocca a Brown. Esordisce, tutto fascino raffinato e denti brillanti; pronuncia le parole con la rapida precisione di tiro di una mitragliatrice Gatling. «A dire il vero, non è che vogliamo che prenda tu il caso.» Adesso sono arrabbiato. Ron Brown, il leccapiedi dello studio, sta per dirmi che non sono in grado di difendere il loro uomo. «Rappresenti una cliente, mi risulta... Susan Hawley?» Non faccio alcun cenno di risposta, ma è chiaro che Brown non ne ha bisogno. All'improvviso mi viene in mente la conversazione con Skarpellos allo University Club, e i pezzi cominciano a combaciare. «La tua cliente costituisce un problema serio per il nostro cliente.» C'è una leggera pausa. Brown guarda Skarpellos, poi: «Quello che vogliamo è la tua garanzia che non andrà a deporre.» «Cosa?» Sono più divertito, o stupefatto, che arrabbiato. Ron Brown è afflitto dalla malattia cronica della mia generazione. Possiede la fermezza intellettuale della gelatina. Se nella sua mente si affaccia un pensiero originale, è destinato a morire di solitudine. Osserva ogni disaccordo e battaglia dalla panchina, ed è prodigioso nel precoce riconoscimento di un vincitore. Quando la polvere si è posata, tutto quello che gli altri ricordano è che Brown ha rivoltato la prima zolla di terra per seppellire i vinti, e poi ha diretto l'inno di battaglia della squadra. Possiede tutte le dubbie qualità del potere civile e manageriale della nostra epoca. In una parola, Ron Brown ha le doti naturali di un buon politico. Adesso accelera il passo. «Devi capire. Non ti stiamo chiedendo di istigare una falsa testimonianza o di ostacolare la giustizia. La tua cliente ha tutto il diritto di astenersi dal deporre, di invocare il quinto emendamento, per evitare di incriminarsi. Non vogliamo altro. Il suo silenzio.» Brown è astuto. Eppure la sua conoscenza del diritto penale è sufficiente a metterlo nei guai. «E se le concedono l'immunità? Se le garantiscono che la sua testimonianza non potrà essere usata contro di lei in nessun procedimento penale... Che mi dici?» Mi guarda. Un'espressione accigliata gli ha coperto la faccia, come un velo. «Non depone.» Dall'incertezza della sua voce, non mi è chiaro se queste
parole siano un'affermazione o una domanda. «Sai benissimo che potrebbe essere messa in prigione per oltraggio alla Corte, sbattuta in galera fino a che non accetterà di testimoniare.» Segue un'altra lunga pausa. Il disagio che affligge Skarpellos sembra contagioso. Goccioline di sudore cominciano ad apparire sulla fronte di Brown. «Ci sono persone che sarebbero disposte a ricompensarla con molta generosità, per il suo silenzio. Diciamo che non dovrebbe più esercitare la sua professione, se accettasse di collaborare.» Adesso sono furioso. Tutto questo è surreale, come se fossi entrato in un sogno. Le immagini di Jimmy Lama e del suo scatto d'ira mi invadono la mente. Susan Hawley si è portata a letto il prezioso cliente politico dello studio P&S, e ora vogliono il suo silenzio. «Questa conversazione non esiste proprio.» Mi alzo e mi avvio verso la porta. «Paul, ti prego.» Skarpellos riprende in mano le redini. Si è alzato in piedi, le palme delle mani aperte sulla fredda lastra di granito. Gli occhi, arrossati dal fumo del sigaro, sono colmi di supplica. Per un attimo almeno, la curiosità mitiga la mia rabbia. «Perché lo studio è interessato a questo caso?» Skarpellos mi guarda gravemente. Il tipo di sguardo pieno di sentimento che segnala a sgargianti lettere al neon: «Arrivano le stronzate». «Siamo preoccupati perché si tratta di un cliente importante...» mormora. Mi metto a ridere. Non la gentile risatina o il riso represso di un subalterno, ma una sonora sghignazzata che mi sale diritta dalle viscere. «Dai, Tony. Questo tipo è così sporco che non vuoi nemmeno che il tuo nome sia scritto sullo stesso pezzo di carta dove sta scritto il suo. Fammi un favore, risparmiati la cazzata del cittadino eminente per i giornali e la giuria.» Tony interrompe la lezione di educazione civica. Emette una bonaria risata. È in maniche di camicia, e così il flaccido salvagente che ha sotto il torace è libero di tremolare. Brown è serissimo. «Ah, Ron, perlomeno non ci accuseranno di rivolgerci agli scemi.» La severità comincia a frantumarsi in uno stentato sorriso, agli angoli della bocca di Brown. Per paura di poter dare la risposta sbagliata, alla fine emette una risatina a denti stretti. «Per favore, siediti, Paul... Ti prego.» Tony fa un gesto verso la sedia. «Voglio placare i tuoi timori su eventuali scorrettezze.» Skarpellos comincia a parlare in tono sommesso. Ha rivendicato il controllo sulla riunione.
Esibisce più professionalità di quanta gli avrei attribuito. Si complimenta con me per l'acuta intelligenza nell'afferrare la portata della questione. Si scusa per il maldestro approccio di Brown, il quale struscia a disagio contro il rivestimento in pelle della sedia, mentre il suo capo fa ammenda per lui. Tony mi dice che non c'è da meravigliarsi se Ben mi teneva in così alta stima; poi si addentra nell'arte della sottovalutazione di se stesso. Ammette l'ovvio, e cioè di non essere il più grande penalista del mondo, di avere talento soprattutto per quelli che definisce «affari». Qui elargisce un caldo sorriso paterno. Congiunge le mani sulla scrivania, come un predicatore di campagna che si accinga a dare un consiglio a una pecorella del suo gregge. «Questo caso, questo cliente, sono molto importanti», dice Skarpellos. «Dubito che tu possa mai renderti conto sino in fondo dell'importanza della faccenda.» «Tu provaci.» «A prescindere da tutto quello che puoi pensare di me, voglio che tu capisca che io... che questo studio non ti chiederebbe mai di intraprendere qualcosa di illegale o contrario all'etica.» C'è una pausa seria e severa, come a sottolineare la natura sincera di questa affermazione. «Se alla tua cliente venisse concessa l'immunità e corresse il rischio di essere incriminata per oltraggio alla Corte, comprendiamo che dovrai consigliarle il comportamento che è nel suo migliore interesse. Non ci sarà alcuna offerta di ricompensa per il suo silenzio, non da parte mia, non da parte dello studio Potter & Skarpellos. Però vogliamo che tu e la tua cliente sappiate che nel caso lei decidesse di non testimoniare, di appellarsi al quinto emendamento, noi copriremo tutte le spese legali che potranno insorgere a seguito di quella decisione. Il nostro cliente mi ha incaricato di offrire il pagamento delle intere spese legali di difesa di Susan Hawley, compenso che sarà pagato entro i limiti degli onorari abituali di questo studio, duecentocinquanta dollari all'ora per la preparazione e trecento dollari all'ora per tutto il tempo trascorso in tribunale.» «Chi è il vostro uomo?» chiedo a Skarpellos. «Questo non te lo possiamo dire», risponde Brown. «Informazione confidenziale. Tu capisci.» Skarpellos mi guarda, mi rivolge un altro ampio sorriso. «Allora?» Brown è piegato in avanti sulla sedia. «Qual è la tua risposta?» Per Ron Brown è una faccenda semplice, come ogni questione che con-
trapponga un'infrazione etica all'offerta di un certo vantaggio. «Non spetta a me rispondere. Spetta alla mia cliente. Le parlerò. Niente di più. Il dovere mi impone di trasmetterle la vostra offerta. Avrete la risposta fra qualche giorno. Ma sia chiaro che io non le farò alcuna raccomandazione. È una decisione sua, soltanto sua.» C'è un immediato sorriso, un'espressione di sollievo da parte di Skarpellos. «Sapevo che potevamo contare su di te. Ben diceva sempre che sei uno dei talenti più promettenti di questa città. Un vero diamante grezzo.» So bene che queste non sono parole di Ben Potter. I miei occhi si puntano sulla linea di finestre alle spalle di Skarpellos, sulle ondulate escrescenze di terra che sono le High Sierras, duecento chilometri a est da qui. E mi viene in mente una delle prediche di Ben. «Vuoi sapere una cosa?» diceva. «Tanta gente fa così fatica a resistere alle tentazioni perché in realtà non vuole scoraggiarle del tutto.» 11. Sono seduto a sorseggiare un drink. I cubetti di ghiaccio si stanno lentamente sciogliendo nel fondo color tè del liquore. Il Topper's si sta riempiendo in fretta. La solita folla di avvocati e lobbisti mezzi ubriachi che si scambiano storie di guerra si sta facendo venire i calli sul basso ventre, a forza di appoggiarsi al banco. Il frastuono delle voci raggiunge l'apice e si trasforma in una risata, mentre i tizi di un gruppo all'altra estremità della stanza si contendono il titolo di miglior spaccone. Due donne in minigonna attillata e top a lustrini, issate sugli sgabelli, si sforzano di apparire sobrie. Stanno facendo il primo turno, in attesa che i legislatori finiscano la loro seduta pomeridiana al palazzo del governo, a un isolato di distanza. Il Topper's me l'ha fatto conoscere Ben. Era un ritrovo abituale per la gente del governo, per alcuni avvocati, ma soprattutto per i lobbisti, forti bevitori con molto tempo a disposizione per coltivare i rapporti sociali. Per questo incontro ho scelto il Topper's, invece del più familiare Cloakroom, nella speranza che nessuno ci interrompa. Osservo Leo Kerns che si fa strada aggirando i tavoli. La rossa faccia da cherubino mi sorride mentre lui si avvicina con quel suo tipico passo ciondolante. Leo è una di quelle piccole sfere di energia che sembrano infilate a forza dentro un vestito spiegazzato. Il colletto della camicia bianca è aperto, il nodo della cravatta pende a metà del petto, là dove comincia la
sporgenza dello stomaco. «Leo, sono contento che tu ce l'abbia fatta a venire.» Butta in fuori una mano enorme, e io la stringo. Prima ancora di sedersi, i suoi occhi sono già alla frenetica ricerca della cameriera. Il suo sguardo si posa su una delle donnine al banco. «Sono innamorato», dice. Questo è Leo Kerns, disperatamente fuori moda, privo di tatto. È l'unico sbirro di mia conoscenza che ti saluti con calore. Ho spesso rimuginato l'idea che abbia sbagliato mestiere, perché Leo è il miglior venditore che io abbia mai incontrato. Quando è in ufficio è chiamato di continuo ad adempiere al rituale di ogni carcere, e cioè a recitare la parte del buon poliziotto che fa da contraltare a quello cattivo negli interrogatori. Questo disarmante, grasso ometto dal sorriso serafico ha decisamente contribuito al sovraffollamento delle prigioni. Alimenta il naturale desiderio degli indiziati di conversare con una faccia amica, di liberarsi di angosciosi segreti in un momento difficile, di appoggiarsi a una spalla comprensiva, di rivolgersi a un orecchio pietoso. Stasera Leo è al meglio della sua gloria. Topper's è un gradino sopra il Cloakroom, il bar di fronte al Palazzo di Giustizia che è diventato un'istituzione per la confraternita legale e per una parte della polizia. Qui le prostitute non sono così sfacciate nel mostrare la loro mercanzia. E quello che esibiscono non è così malandato. «Allora, che c'è di tanto importante da discutere che non se ne può nemmeno parlare al telefono?» Lo dice con aria distratta. Alza due dita in un incerto segno di vittoria e attira l'attenzione della cameriera. Ordina un doppio bourbon con ghiaccio. Schivo la sua domanda con qualche banalità, nella speranza che la sua ordinazione arrivi in fretta. Un po' di distrazione liquida da abbinare agli svaghi visivi, intanto che io gli estorco informazioni. In tutto il suo metro e sessanta, Kerns si lascia cadere sulla sedia all'altro lato del tavolo, e quasi sprofonda nell'abisso. Mi sono spesso chiesto, anche se non sono mai stato così privo di tatto da domandarglielo, come Leo abbia fatto a eludere i requisiti di statura ed essere assunto come investigatore presso l'ufficio del procuratore distrettuale. In tutte le riunioni del personale dell'ufficio, pareva il nano del villaggio. Ma compensa quello che gli manca in altezza con la sua faccia tosta irlandese e quei suoi modi totalmente disarmanti. «Come ti trattano, Leo?» «Potrei lamentarmi, ma non servirebbe a niente.»
Sto cercando di entrare lentamente, senza che la manovra sia troppo lampante, nell'argomento della morte di Ben e delle svolte che sta prendendo l'indagine. Prima mi preparo a dare l'avvio alla tirata preliminare, un piccolo diversivo. Si dice che il procuratore distrettuale stia per far esplodere un grande scandalo politico. L'«agenda delle scopate» di Susan Hawley, credo; la lista di nomi che Lama sta cercando di ottenere dalla mia cliente. Leo e io ci abbandoniamo ai ricordi. Lui parla di Nelson, il procuratore. «Che stronzo», dice. A quanto pare, da quando uno degli investigatori si è fatto sorprendere a vivere sui sedili posteriori di un'auto della contea, parcheggiata durante la notte in una delle parti più chic della città, Nelson è sceso sul piede di guerra. «Quel tizio ha avuto problemi con il padrone di casa e così ha lasciato l'appartamento. Non è riuscito a racimolare i soldi per l'affitto anticipato e la cauzione per una nuova casa», spiega Leo, «e così si è infilato sul sedile posteriore della sua auto. Si faceva la doccia all'ostello della gioventù e usava il cesso di un distributore di benzina della zona. Si preparava da mangiare su un fornelletto fissato al paraurti anteriore, te lo immagini? Qualcuno ha visto la targa governativa della macchina e ha protestato.» Leo scoppia a ridere. «Quel figlio di puttana di Nelson adesso ci costringe a riportare tutte le sere le auto nel parcheggio della contea.» Non mi è difficile immaginare che la cosa disturbi lo stile di vita di alcuni amici di Leo. Tizi che prima se la filavano a casa alle due e mezzo del pomeriggio adesso devono tornare alle cinque a parcheggiare l'auto. La vita è dura. Finalmente mi butto. «Cosa sai di questa faccenda politica?» gli chiedo. «Il grande caso che sta seguendo Lama?» Aggrotta le sopracciglia e risponde con una domanda. «Non sarai mica coinvolto, per caso? Hai una parte della difesa o cosa?» «Niente di tutto questo, Leo. Solo un cliente che potrebbe avere un interesse marginale.» Non vale la pena di mentire a Kerns. «La prostituta? Susan Hawley?» chiede. Mi fissa con un sorriso pieno di sentimento. Leo ha imparato la somma arte di un buon interrogatorio: ascoltare molto, sopportare le lunghe pause pregne di significato, e lasciare che l'altro prosegua nel suo racconto. Come un buon terzino, Leo gioca sempre nella prospettiva di un ribaltamento di fronte. Gli sorrido e annuisco, la testa piegata a quarantacinque gradi, come per dire: «Se preferisci chiamarla così». Non mi sorprende che abbia già il mi-
rino puntato sulla mia cliente. È un indiscutibile assioma che la vita dei piedipiatti è fatta di lunghe ore di tedio, inframmezzate da istanti di terrore. In quelle lunghe ore di routine, chiacchierano fra loro, con la stampa sulla scena dell'ultima calamità, con chiunque li stia ad ascoltare. Il fatto che Lama si sia esposto in prima persona all'udienza preliminare di Susan, lo so bene, significa la certezza quasi matematica che i guai di Susan Hawley siano stati sviscerati davanti a caffè e ciambelline da ogni persona che porti un distintivo in questa città. «Se hai letto i giornali, sai già quello che c'è da sapere», mi dice. Gli ricordo che il nome della mia cliente non era sui giornali. Fa una smorfia di assenso e si stringe nelle spalle. «Lama la sta torchiando per bene, eh?» «Ci sta provando.» «L'uomo si è imbarcato in una santa crociata per salvare il mondo in nome della verità, della giustizia, e dello stile americano di vita», dice Kerns. «Dovrebbero dargli un mantello rosso e la calzamaglia azzurra, a quel figlio di puttana.» Ridiamo insieme all'immagine. È stato Leo a darmi i primi indizi su alcune delle bizzarre pagliacciate di Lama e dei suoi amici, un pugno di sbirri che andavano in giro assieme e formavano una confraternita esclusiva. Questi paladini della legge e dell'ordine avevano un curioso cerimoniale per «farsi le ossa», per guadagnarsi l'ammissione al gruppo. Il candidato doveva essere scopato mentre era in servizio. I soci fondatori provvedevano alla bisogna con l'aiuto della moglie o della ragazza di un collega. Per questi tizi, il motto del dipartimento: «Prima di tutto il servizio», assumeva un significato molto speciale. Arriva il drink di Leo. Prima che lui riesca a tirare fuori il portafoglio, metto un biglietto da venti sul tavolo, in direzione della cameriera; investo in un po' di sincerità. La cameriera raccoglie i soldi e se ne va. «Comunque, se vuoi il mio parere, quella tua ragazza dovrebbe farsi l'intera combriccola.» «Magari l'hanno già fatto, quel numero», insinuo. Leo si mette a ridere. L'idea solletica le sue corde interiori più sensibili alla libidine. «No, siamo seri», dice. «Ha reso un considerevole servizio alla società.» «È così grave?» Leo ridacchia un po', una di quelle risatine sporcaccione nella tonalità di un tenore da quattro soldi. Scuote la testa, come se la mia domanda fosse un grossolano eufemismo.
«I politici sono stronzi.» Lo dice come fosse uno degli assiomi della natura. Decido di andare un po' più a fondo, prima di toccare il vero motivo della nostra conversazione. «Che ne sai di Tony Skarpellos, del suo studio? Sai se hanno un cliente coinvolto nella faccenda?» Leo si stringe nelle spalle. «Conosco Skarpellos solo di fama», dice. «Pare abbia un sacco di influenza sulla gente che conta. Dovrebbe essere intrallazzato con i politici corrotti.» Manda giù un sorso. «Sono tutti convinti», continua, «che sua madre si sia tirata indietro all'ultimo momento.» Lo guardo con aria interrogativa. «È opinione comune che la parte migliore di Tony Skarpellos sia colata giù per le gambe del padre, la notte in cui Tony è stato concepito.» Kerns allunga una mano grassoccia per prendere un paio di salatini dalla ciotola al centro del tavolo. «Lama ha qualcosa di concreto su cui lavorare? Nelle indagini?» gli chiedo. «Cosette qua e là», dice. «Ma lo conosci, Lama. Dagli qualche strumento di tortura, una stanza buia, un po' di tempo, e ti farà miracoli. L'Inquisizione si è persa un grande talento.» Un branco di segretarie, personale governativo e altri tirapiedi politici cominciano a sparpagliarsi per il banco. Tolgono spazio vitale alle due signore in minigonna. Una di loro prende la borsetta e si sposta a un tavolo poco distante dal nostro. Kerns è tutto occhi. Sarebbe un progetto ambizioso, per il piccolo uomo. Tanto per cominciare gli servirebbe una scala. Però non mi risulta che Leo Kerns si sia mai tirato indietro di fronte a una vera sfida. C'è un po' di trambusto all'ingresso quando tre uomini in pettinato a righine varcano con disinvoltura la soglia, seguiti a breve distanza da un entourage di figure minori. L'uomo in testa è riconoscibile da chiunque viva in questo Stato da più di una settimana e abbia guardato il telegiornale locale almeno una volta. Corey Trumble è il presidente dell'assemblea di Stato. Kerns gira la testa, lancia una breve occhiata al gruppo, poi riporta lo sguardo sul tavolo alla sua destra. La donna ha accavallato le gambe e sta mettendo in mostra una bella porzione di coscia. La sua attenzione è punta-
ta sui legislatori e sulla consorteria di lobbisti che strisciano al loro seguito. «Credo proprio che voglia segnare un'altra tacca su quella gonna», dice Leo. Annuisco e sorrido. «Quelli della buoncostume avrebbero una giornata campale, qui dentro.» Forse, penso. Ma non ne avranno mai l'occasione. Il Topper's è offlimits per i poliziotti locali, in virtù di una sorta di tacita legge territoriale. I legislatori e gli altri funzionari statali sono un bersaglio ammesso nell'hinterland, nella zona nord, o nella parte meridionale della città. Ma qui, all'ombra della cupola del palazzo del governo, gli unici distintivi che si muovano sono appuntati sui questori dell'assemblea legislativa, per la maggior parte uomini anziani o studenti part-time, gente che prende ordini da Corey Trumble e da quelli del suo stampo nel Senato di Stato. «Tu che ne pensi? Credi che ci sia qualcosa di concreto nei sospetti di Lama?» Lotto contro circostanze sempre più avverse, per riportare l'attenzione di Leo sulla nostra conversazione. «Dovrei fartela io questa domanda.» Parla lentamente, gli occhi incollati alle gambe della prostituta. «Sei tu l'avvocato della signora.» Mastica un cubetto di ghiaccio e riporta lo sguardo su di me. «Una cosa è certa. Se lei ha in mano qualcosa, è nella posizione per trattare. Lama è sicuro che il caso sia una corsia di scorrimento veloce verso una promozione, e circola voce che Nelson stia fiutando grandi titoli sui giornali. Da come stanno andando le cose all'ufficio in questi giorni, potrebbe ritrovarsi con tanti di quegli articoli sui giornali da diventare famoso nell'intero Stato. Pare logico che tra lo scandalo politico e l'omicidio di Potter, se Nelson riesce a mettere in fretta il coperchio su entrambi i casi, potrebbe diventare il prossimo procuratore generale di Stato. È la prima legge di gravità politica: in alto e in avanti, sempre in alto e in avanti.» Strizza le palpebre, spinge la lingua verso il fondo del bicchiere, alla ricerca di una scaglia di ghiaccio. Kerns sa di essersi guadagnato quello che beve. Le aspettative di Susan Hawley di una totale derubricazione non si poggiano su inutili fantasie. Chiamo la cameriera con un cenno e indico Leo. Lui alza una mano che pare la sbarra di un passaggio a livello ferroviario. Ha la faccia del papa che condanna l'aborto. Ha bevuto abbastanza. Ma, prima che io possa fare un cenno affermativo, l'espressione e la mano si squagliano come nevischio in una giornata calda. «Al diavolo, un altro», dice. «Lo stesso.»
Tiro di nuovo fuori il portafoglio. La cameriera porta via i nostri bicchieri e si dirige al banco. Ho coperto le mie tracce, e Kerns, con il suo commento sul caso Potter, mi ha aperto la porta. «Cosa avete in mano su Potter?» chiedo. Mi guarda e sorride. «Mezzo mondo vorrebbe avere questa risposta.» Sbatte le palpebre. «Lo scopriranno presto.» «I giornali ne parlano molto», dico. Nelson ha cominciato a far trapelare voci che indicano una breve lista di sospettati, ma nemmeno un nome o un particolare. È la classica non storia, però funziona bene con i media: un po' di carne cruda gettata in sala stampa per tenere l'argomento in prima pagina; il profumo di una buona storia a venire. Quando Nelson si muoverà con un arresto o un'imputazione, le gigantesche rotative del Times e del Trib saranno già calde e in funzione. Quell'uomo non è uno sciocco. Come al solito, Talia appare del tutto ignara della faccenda. Nella stessa edizione, accanto alla storia dell'indagine sulla morte del marito, è fotografata nella pagina mondana mentre partecipa a una serata di beneficenza, vestita come la concubina preferita di un rajah. «Già», dice Leo. «Prima che sui giornali finiscano di scrivere di questa storia, saranno stati abbattuti metà degli alberi del Nordamerica.» «Sono così vicini?» chiedo. Annuisce. «Se dai retta a loro.» Kerns ha un segreto e, come un uomo con una tasca piena di tizzoni ardenti, sta bruciando vivo. «Tu eri molto vicino a Potter, non è vero?» Cerca di spostare il peso della conversazione su di me. «Eravamo amici», dico. Ma non ce la fa a resistere. «Lascia che te lo dica, Duane ha avuto un gran da fare, in questi ultimi tempi. In ufficio fino alle ore piccole, con tutto il gruppo dei cervelloni per tre notti di fila.» Si appoggia al tavolo e si mi si avvicina. Abbassa il volume di parecchi decibel. «Ha indetto una conferenza stampa per domattina. Pare che abbiano un'imputazione formale.» Batte due dita sul tavolo, a sottolineare quello che ha appena detto. La cosa mi sorprende. In questo Stato, i gran giurì di solito muovono un'accusa formale solo nei casi che prevedono imputati importanti, quei casi che i procuratori vogliono usare per ampliare la portata politica delle loro
azioni. Inarco un sopracciglio. I tizzoni sono sempre più ardenti. Leo si muove irrequieto sulla sedia. «Ha una sua teoria, Nelson. Da quando si è messo al lavoro, sembra puntare in una sola direzione, su un solo sospettato, come l'ago di una bussola con un nord costante.» «Chi?» chiedo. «La vedova allegra. La moglie di Potter.» Si guarda attorno per accertarsi che nessuno sia sintonizzato sulla nostra conversazione, e poi: «Il gran giurì ha steso l'imputazione contro Talia Potter poco dopo le due di questo pomeriggio. È accusata di omicidio di primo grado». Questa dichiarazione sembra spingermi all'indietro, lontano dal tavolo e da Leo Kerns. Per un attimo non riesco più a vederlo, stordito da quello che ho sentito. Faccio una smorfia, del tipo: «Ma pensa un po'». È tutto quello che riesco a fare, perché, se aprissi bocca, potrei solo esprimere incredulità. Sono senza parole, incapace di muovermi, persino di chiedere altri particolari. Le parole di Kerns mi hanno raggelato. «Con aggravanti», prosegue Kerns. Quest'ultima frase significa che Talia forse dovrà andare in giudizio con l'accusa di omicidio e, se giudicata colpevole, potrebbe affrontare la pena di morte. La mia mente viene invasa da immagini di Brian Danley e dei suoi ultimi, fugaci istanti di vita in quella stanzetta verde; il mio viaggio a San Quintino, la morte per mano dello Stato. «Pare che la signora abbia un amante. Meglio ancora, pare che ne abbia avuto una sfilza. Hai presente? Quelli che giocano a polo, fanno collezione di pony, e questa puttanella colleziona fusti», dice Leo. «Secondo Nelson, tempo fa si è stufata del vecchio e assieme a uno dei suoi amanti l'ha fatto fuori per i soldi. Il vecchio valeva una fortuna.» «Ci sono modi più semplici per liberarsi di un marito senza ucciderlo.» Con una certa difficoltà mi sono arrampicato fuori dalla mia voragine mentale, quel tanto che basta per gettare un po' d'acqua su questa teoria, sul pensiero che Talia abbia potuto uccidere per togliersi dai piedi Ben. «No, se c'è un accordo prematrimoniale», spiega. Lo guardo come per dire: «Ma va?» Annuisce. «Sembra che gli ormoni non avessero ucciso del tutto il senso degli affari del vecchio.» Ben, penso. Sempre e comunque l'avvocato. «Inoppugnabile», dice Leo di questo accordo.
Si interrompe per guardare la prostituta, che è stata raggiunta al tavolo da uno dei lobbisti. Kerns resta zitto per parecchi secondi. Sta studiando i due con intensità, come se avesse sentito qualche parola. Magari il prezzo della transazione. Uomo e donna si alzano assieme e vanno verso il banco, verso i tre legislatori, Trumble e il suo contingente. «Uno dei loro benefici accessori, credo», dice Kerns. Valuta le lunghe gambe della donna con evidente lascivia. È un'espressione speciale, mi pare; non l'occhiata diretta del solito satiro, ma il tipo di sguardo che gli uomini bassi riservano alle donne alte. L'espressione ha un che di comico che le impedisce di essere libidinosa. «Inoppugnabile», ripeto, per ricordargli dov'era rimasto. «Eh?» «L'accordo prematrimoniale.» «Ah, già.» Kerns si passa una mano fra i capelli radi, poi raddrizza un po' la cravatta, lasciando il nodo a metà del torace, come se quella parte non contasse. Si sta azzimando per la signora, che non si è nemmeno accorta della sua esistenza. «Già.» Per il momento, Leo riporta l'attenzione su di me. «Un accordo del genere può anche non garantire la felicità coniugale, ma ti fa riflettere due volte prima di chiedere il divorzio.» Si sporge leggermente sul tavolo, mi viene un po' più vicino, come se stesse per rivelarmi dove è nascosto il vello d'oro. «Vedi, per la donna, l'unico modo per ereditare è essere ancora sposata quando muore il marito. In questo caso, lei si prende tutto. Altrimenti...» Mi strizza l'occhio. «Le conviene aprire una bancarella di frutta e verdura.» Sono sbalordito. Né Talia né Ben mi hanno mai fatto cenno a un accordo prematrimoniale. Ma perché poi avrebbero dovuto? È una cosa che fa parte dell'intimità coniugale, come la frequenza del sesso e i modi in cui preferiscono farlo. Talia, anche nei suoi momenti di massima indiscrezione, non avrebbe mai discusso di queste cose. Quanto a Ben, per lui era una questione d'affari, un segreto commerciale da trattare come i rituali di una successione al soglio pontificio. «Nelson si sta muovendo in base alla teoria che la moglie si sia legata un po' troppo a uno dei suoi amanti. Gli incontri occasionali non bastavano più. Così lei e il suo amico hanno fatto fuori il marito e hanno cercato di farlo sembrare un suicidio.» Leo sventola leggermente una mano sopra il tavolo, come a dire che l'idea potrebbe reggere o no, bisognerà aspettare e vedere.
In questo momento di rivelazione, sono impietrito. In tranquillizzanti toni mentali, mi dico che, nonostante la sua cronica disattenzione per le minuzie concrete della vita, la dura realtà di un contratto simile non è uno di quegli oscuri dettagli che possano sfuggire all'attenzione della Talia che io conosco. Mi viene in mente l'analisi fatta da Coop. Chiunque abbia ammazzato Ben era un dilettante. Talia non ha mai programmato una sola cosa in vita sua. È il suo modo di essere. La realtà dei fatti comincia a fare presa su di me mentre ascolto le incessanti disquisizioni di Leo Kerns. Le sue parole sembrano eruttare da un pozzo infernale nascosto sotto il tavolo. Leo ride, con quella sua maliziosa risatina acuta. «Ne sapremo di più quando prenderemo il suo amico», dice. «L'idiota dovrà collaborare, o succhiarsi un po' di gas.» 12. «Allora possiamo tentare di adescarti?» chiede. Gilbert Cheetam ha in mano un mio curriculum, sottratto dagli archivi dello studio. «Notevole», dice. «Devo ammettere di essere d'accordo con Tony... il signor Skarpellos. Saresti davvero un eccellente avvocato aggiunto. Un forte contributo alla nostra squadra.» Da quello che posso vedere al momento, la squadra di difesa di Talia è composta da Cheetam in testa, e da Ron Brown come suo tirapiedi. «Quanto alla signora Potter, be'», aggiunge Cheetam, «aveva pensato a te fin dall'inizio. Devo aggiungere altro?» Parla di Talia come se fosse la regina madre, non un'indiziata accusata d'omicidio. Cheetam è un uomo raffinato; la sua dizione è limata e curata come le sue unghie. Ma ha lo sguardo cauto, diffidente, di un esattore di crediti. Le pupille scure sono in perpetuo movimento in un mare bianco, alla ricerca di qualche opportunità nascosta. Le sopracciglia sono fitte foreste di peli scuri, screziate da venature d'argento, come le abbondanti onde di capelli sul capo. Lascia cadere il mio curriculum sul tavolo e giocherella con uno degli inamidati polsini doppi che gli spuntano di tre centimetri buoni da ciascuna manica del pettinato nerofumo. Lo conosco soltanto di fama. Gilbert Cheetam è uno dei soci fondatori del club dell'eleganza maschile. Due anni fa conquistò le prime pagine dei giornali nazionali quando una giuria riconobbe un indennizzo di centoven-
ticinque milioni di dollari a danno di un'importante casa automobilistica per un difetto di produzione: una cintura di sicurezza che, prima di entrare in funzione, faceva esplorare ai passeggeri le regioni oltre il parabrezza. I titoli furono molto più piccoli, e persi in un mare di notizie nelle pagine interne, quando alcune settimane dopo il giudice del tribunale di prima istanza ridusse l'indennizzo a otto milioni. Tanta è l'abilità di Gilbert Cheetam di infiammare le passioni di una giuria e ipnotizzare i media. La sua telefonata mi è arrivata ieri sera tardi. Erano le dieci passate quando il telefono si è messo a squillare a casa mia. Immagino che siano stati Talia o Skarpellos a dargli il mio numero, visto che non sono sull'elenco. Voleva vedermi la mattina dopo, presto, allo studio Potter & Skarpellos. E così siamo seduti in un ambiente familiare, l'ufficio di Ben, il luogo dove lui è morto, a meno che non si creda alle congetture dello Stato. Cheetam sta usando questo ufficio per mettere assieme la difesa. Si sistema cerimoniosamente, le braccia conserte, le natiche contro il bordo sporgente dell'enorme scrivania di Ben. Alle sue spalle c'è un vuoto. La poltrona in pelle a schienale alto è sparita. Potrebbe essere una dimostrazione di tatto del personale di custodia. Ma mi chiedo se la poltrona non si trovi invece nei depositi della polizia, assieme alle molte mattonelle che mancano dal soffitto: pezzi di prove materiali nel caso di omicidio di Ben. Cheetam mi guarda da sotto le pesanti sopracciglia. Sono seduto su una delle alte poltroncine per i clienti, a non più di mezzo metro da lui. È una piccola messinscena. Le nostre rispettive posizioni hanno lo scopo di chiarire quale sarà il rapporto di lavoro, nel caso accettassi la sua offerta di diventare avvocato aggiunto: sarò il numero due di Cheetam nella difesa di Talia. È assurda, dice, questa accusa nei confronti di Talia. Mi assicura che è un'incriminazione costruita su fumo e specchi. Traccia un ghirigoro nell'aria con entrambe le mani, sopra le spalle: un santone indù che dà una dimostrazione della magia impiegata dallo Stato nel montare questo caso. Ho il sospetto che il gesto sia a beneficio di Talia, stoicamente seduta sul divano in un angolo, a gambe accavallate e braccia conserte, una posizione difensiva che si accorda alle parole del suo avvocato. Skarpellos è seduto al lato opposto del divano. Mordicchia uno dei suoi bastoncini italiani di merda secca. Perlomeno ha la decenza di non accenderlo. Forse è un piccolo segno di deferenza nei confronti di Talia.
In questo Stato, gli imputati di reati capitali hanno diritto a due avvocati: uno per patrocinare la causa, e l'altro (il cosiddetto «avvocato Keenan», dal nome del caso che ha stabilito la prassi, o avvocato aggiunto) per gestire la fase della determinazione della pena, qualora venisse emessa una condanna. Il mio compito, in qualità di avvocato aggiunto, sarebbe salvare Talia dalla camera a gas in caso di condanna, dare rilevanza alle attenuanti, o confutare le aggravanti che prevedono la pena di morte. In questo caso, lo Stato invoca due aggravanti: omicidio per fini di lucro e premeditazione. Ma Cheetam mi assicura che il mio ruolo sarà puramente simbolico, una formalità necessaria. Sostiene che smantellerà la tesi dell'accusa in fase preliminare. Talia non dovrà mai subire un processo. Lei sorride apertamente a questo pensiero. I giornali sono pieni di articoli sulla conferenza stampa di ieri: Duane Nelson che racconta come ha risolto l'omicidio di Ben, omettendo i dettagli, ma affermando senza molte riserve che si è trattato di omicidio premeditato a scopo di lucro. Soltanto il Times riporta l'aggiunta finale, un commento fatto in risposta a una domanda lanciata a Nelson mentre si avviava alla porta. Le indagini proseguono, alla ricerca di un complice non identificato. Cheetam mi guarda con aria speranzosa. «Allora», dice, «sarai dei nostri per questa piccola soirée?» Lo fa sembrare un tè con i pasticcini. «Mi pare di capire che la tesi del procuratore non ti dia molto disturbo.» Fa una smorfia. «Non ho visto tutte le prove. Ma quello che ho visto...» Solleva un sopracciglio, che si muove come un topolino incollato alla sua fronte. «... è solo indiziario.» Lo dice scuotendo la testa. «Un sacco di fumo.» Questo significa che nessuno sostiene di avere visto Talia premere il grilletto, con la canna del fucile nella bocca di Ben. Gli ricordo che le giurie, nei dibattimenti penali, hanno l'abitudine di condannare in base a deduzioni ricavate da prove indiziarie. «Non crederai che sia colpevole.» Cheetam sta saggiando la mia lealtà nei confronti della cliente. «Quello che credo io è irrilevante.» «Non per me.» Talia non è più passivamente sprofondata nel divano. Sposta il corpo in avanti, sull'orlo. «Non lo credi, che io possa fare una cosa simile, vero?» I nostri occhi si incontrano, ma io la ignoro, continuo con il mio pensie-
ro. «Conta solo quello che la giuria conclude dalle prove e da come sono presentate. Vuoi che ci mettiamo a fare il conto?» chiedo a Cheetam. «Di cosa?» «Del numero di persone rinchiuse nei penitenziari di questo Stato perché una giuria è stata sedotta da una sola prova indiziaria.» Talia diventa di colpo silenziosa. Questo commento le ha fornito nuove prospettive su cui riflettere. «Non credo che tu debba fare una conferenza all'avvocato Cheetam sulle sottigliezze del sistema giudiziario.» Skarpellos è passato all'attacco. Tiene il sigaro fra l'indice e il pollice della mano destra. Un'estremità è ben masticata e fradicia. Senza che Tony se ne accorga, un piccolo grumo di saliva gocciola sul bracciolo del divano. Comincio a capire come abbia fatto Talia a entrare in contatto con Gilbert Cheetam. Mi chiedo se il Greco non stia intascando un'altra percentuale per l'intermediazione in questo caso. Per Tony la legge non è una professione, ma un ampio mercato di beni primari; i clienti vengono trattati come granaglie e carne da macello. Si comporta come se non avesse mai sentito parlare della regola che vuole che gli avvocati non si dividano gli onorari. «Oltretutto», dice, «possiamo trasformare l'intera faccenda in un piccolo accordo forfettario. Buttiamo quella tua cliente, la Hawley, nel calderone. Tu hai un ruolo importante nella difesa di Talia. Diavolo, prima che ce ne accorgiamo sei di nuovo qui con noi, allo studio.» Questo audace suggerimento gli provoca una risatina. Il pensiero mi fa rabbrividire. «Stavo solo riflettendo ad alta voce, Tony. Una piccola osservazione», gli dico. «E ben fondata, anche», interviene Cheetam. «Mi piace. Hai ragione, naturalmente. Siamo del tutto d'accordo. Le prove indiziarie possono farci fuori.» Dubito che l'uso del plurale consoli molto Talia. «Il tuo primo compito sarà raccogliere tutte le prove», riprende Cheetam. «Risponderemo con mozioni costruite come il Vecchio Testamento, a capitoli e versetti. Avremo ogni pezzetto di carta che il procuratore distrettuale abbia in mano. Gli daremo addosso. Scateneremo una bufera di carta, una giostra di stelle filanti. Li terremo sul chi vive. Continueremo a produrre documenti, così loro non riusciranno più a preparare la loro linea. Poi noi due, assieme, passeremo tutto al setaccio.» Questa esuberante tirata sottintende che io sia già a bordo.
«Forse», dico. «Ma prima vorrei parlare con Talia... con la signora Potter... da solo.» «Che diavolo...» Skarpellos è visibilmente incazzato. «No, no, va bene.» Cheetam ha alzato entrambe le mani, le palme rivolte verso il Greco. «Se vuole parlare, lascialo parlare. È importante che la signora Potter e Paul siano soddisfatti dell'accordo.» Cheetam può anche essere un dandy nella cerchia dei penalisti, ma è uno stupido a permettere che un avvocato che non ha alcun rapporto privilegiato con la sua cliente parli con lei da solo, in privato. Rifletto per un attimo che forse questo è solo un indice del tipo di patrocinio che Talia può aspettarsi da lui. Sediamo come due mendicanti solitari nell'enorme ufficio vuoto, con le finestre oscurate dalle pesanti tende che io ho tirato. Talia si rifiuta di guardarmi. Il suo sguardo è fisso sulla moquette. «Come è successo?» chiedo alla fine. Si stringe nelle spalle, come un'adolescente rimproverata perché è rientrata tardi la sera, dopo un appuntamento. «Voglio dire il tuo avvocato. È un disastro.» Finalmente alza gli occhi e sorride, un po' mesta. «Non l'ho scelto io», dice. «Cheetam e Tony si conoscono da tanto tempo.» Pare che il Greco e Cheetam siano andati a scuola assieme. Secondo Talia, sono anni che Tony gli passa casi. Dai frammenti di informazioni che raccolgo da Talia e dalle mie congetture, deduco che Skarpellos passa clienti a Cheetam e divide gli onorari con lui. Probabilmente ha sottratto allo studio alcuni dei casi migliori e ha intascato una percentuale della parcella. Chissà se Ben ne era al corrente. «Il problema è come liberarci di lui», le dico. A questo, Talia non ha risposta. «È così terribile?» chiede. La informo del mio sospetto, e cioè che a Cheetam interessi soltanto cavalcare l'onda di pubblicità che verrà generata dal suo caso. Le traccio l'immagine verbale di un surfista, con ginocchia nodose e short gonfi, con tutte e dieci le dita dei piedi strette sul bordo della sua ventiquattrore. Questo la fa ridere un poco. «Tony pensa che sia il migliore.» «È ovvio che Tony lo pensi», dico. Accetta il commento con un sorriso. Talia non è all'oscuro delle battute
su Tony che nel corso degli anni hanno fatto il giro dello studio. «Ma non ho soldi», dice. «Come?» «Lo sai che ho investito tutto quello che avevo nella compartecipazione alle operazioni immobiliari per le quali mi hai aiutato tu. E adesso, con la morte di Ben, tutto il resto dei miei beni è bloccato.» «E la tua quota nello studio?» «Tony è disposto a comprare», spiega lei, «ma non posso vendere prima che sia concluso il procedimento di successione.» «E la casa?» «Proprietà comune», dice. «Forse posso chiedere un prestito sulla mia metà, e questo è tutto. Ecco perché sono stata costretta a rivolgermi a Tony. Era l'unico che potesse aiutarmi. Da quando Ben è morto, sono riuscita a malapena a tirare avanti con i soldi delle mie commissioni. E adesso questa cosa. Non ho soldi per le spese legali.» Con la vedova nei pasticci, Skarpellos ha aperto in fretta e furia il suo banchetto, e ora fa la parte del cambiavalute. «È Tony che paga Cheetam?» Lei annuisce. «È un prestito. Dice che potrò restituirgli i soldi dalla quota di Ben quando la faccenda sarà conclusa, e...» La voce si spegne, come se all'improvviso Talia avesse preso in considerazione qualche altra eventualità, senza lieto fine. Adesso stiamo gironzolando nell'ufficio buio. Andiamo su e giù come due pugili in allenamento ai rispettivi angoli. «Non lo penserai sul serio?» La guardo, la testa piegata come un cane che abbia sentito un rumore strano. «Non crederai che sia stata io?» dice. «Che sia capace di una cosa simile?» Per lei è importante che io creda nella sua innocenza. Scuoto la testa, velocemente, senza esitazioni. È la verità. Non lo credo. Ma se anche lo credessi, non lo direi, né a Talia, né a qualcun altro. Dirlo significherebbe istigare una falsa testimonianza, nell'eventualità che si rendesse necessario far deporre Talia a sua difesa. Ho imparato il credo del buon avvocato difensore: «È meglio non sapere». «Allora mi aiuterai?» Annuisco. Mi scocca un grande sorriso, e all'improvviso riduce le distanze. Le sue braccia sono attorno al mio collo, la sua guancia calda preme contro la
mia. «Grazie», dice. «Non sapevo di chi altri fidarmi.» Sento qualcosa di umido e caldo sul viso, come sangue: le lacrime di Talia. Una mano femminile mi accarezza la nuca, lunghe dita affusolate. Quando si appoggia a me, sento la punta del suo ginocchio piegarsi, spingere contro la mia coscia. Il suo corpo si sta fondendo con il mio. Le mie braccia sono abbandonate lungo i fianchi, inerti, morte. Lei intuisce il mio disagio, trasmesso dalla mancanza di una reazione. Si stacca da me: una dimostrazione di riservatezza, un veloce ricomporsi. «Non so come ringraziarti.» Si sta ritirando, come se fosse stata sconfitta. Adesso mi gira la schiena. Sta frugando nella borsa. Si volta, si asciuga gli occhi con un kleenex. Per il nostro rapporto, questa è una novità assoluta. Talia che non sa come dimostrare la propria riconoscenza. «Dimmi», mormora. «Cosa ne pensi veramente? Quante probabilità ho?» «Chiedimelo fra una settimana, dopo che avrò visto le prove.» «So che mi dirai la verità.» Si ritocca il trucco, usando l'astuccio che ha preso dalla borsa. «Ci puoi contare», dico. Mi guarda come se questa assicurazione fosse un po' troppo rude. Le spiego che non avrà pillole indorate, non da me. È una faccenda seria. Talia si è irrigidita. «Naturalmente», conferma. «Voglio che sia così.» «Non funzionerà in nessun altro modo.» Annuisce, una stoica dimostrazione di approvazione. Ma i suoi occhi sono due sottili fessure di risentimento. Talia non mi ha mai visto così, in passato. Per la prima volta da quando ci conosciamo, ho resistito alle sue astuzie femminili, alla sua capacità di infiammare la mia libido, di paralizzare la mia mente con la passione. «Dirai a Cheetam che hai accettato di collaborare?» chiede. «Glielo dirò.» Lei si avvia alla porta. «Un'altra domanda», la blocco. Talia si gira. «Non capisco. Perché non puoi disporre liberamente delle proprietà di Ben?» «C'è un accordo prematrimoniale», dice. «L'esecutore testamentario non mi permetterà di toccare nessuno dei beni di Ben fino a che l'intera faccen-
da non sarà stata chiarita.» Prima che io possa aggiungere altro, è svanita, come un filo di fumo nel vento. C'è soltanto l'ombra della porta che si chiude e la consapevolezza che perlomeno, nell'esaminare le prove contro di lei, non dovrò cercare lontano per trovare un movente. 13. Sto sistemando la casa. Cerco di metterla in ordine prima della festa di compleanno di Sarah. Nikki ha benignamente concesso di festeggiare qui, con tutti gli amici di mia figlia. Sto spolverando il tavolo dietro il divano, e il mio sguardo si ferma sulla fotografia mia e di Nikki in tempi più felici, prima che ci sposassimo. Ripenso alla prima volta che l'ho vista, in piedi vicino alla piscina del campus, un testo di biologia sotto il braccio, con uno striminzito bikini che lasciava ben poco all'immaginazione. Sapevo di essermi innamorato. Ascoltavo le sue conversazioni animate, ammiravo quel suo modo di tenere la testa leggermente piegata di lato sotto il sole forte mentre parlava con le amiche; e il mio corpo era percorso da una scarica di ormoni tutte le volte che la sentivo ridere. All'epoca, i suoi capelli erano chiari, striati di riflessi dorati dovuti al sole; non il sale e pepe che è arrivato in seguito, dopo qualche anno di matrimonio e la nascita di una bambina. Li portava lunghi e dritti, con le punte girate in sotto; le dita li spostavano in continuazione dietro un orecchio. Era l'immagine di un'indiscutibile classe. Nikki, scura come una dea di bronzo, con una spruzzatina di lentiggini sulle guance, le macchie screziate di un cerbiatto. Nel giro che frequentavo correva voce che ero cotto. La seguivo in biblioteca e facevo i salti mortali per occupare un posto di lettura vicino al suo, per poterla guardare. Una sera la vidi rientrare al dormitorio dopo un appuntamento con un altro ragazzo. Lui era alto, distinto, e ricco. Li scrutai mentre lui l'accompagnava nel tragitto fra la sua scintillante Corvette e la porta. Poi vidi lei sfiorargli le labbra nel bacio della buonanotte, e sentii un grande peso schiacciarmi il petto, come se all'improvviso il mio cuore si fosse messo a pompare piombo. Una sera, dopo settimane di osservazione in muta pena, racimolai tutto il mio coraggio. Mi diressi alla biblioteca, al ponticello interno sopra l'atrio; mi avvicinai a Nikki e le chiesi, con una voce che tremava per l'insicurezza
e il terrore del fallimento, se la sedia accanto alla sua fosse occupata. Lei mi guardò tranquilla e disse semplicemente: «No». Poi, sorridendo, diede un colpetto alla sedia con la mano, offrendomi quel posto come se in qualche modo mi stesse aspettando. Quella sera tornammo assieme ai dormitori sotto una volta di sequoie, un baldacchino costellato di squarci punteggiati di stelle, nella foschia notturna della Via Lattea. Ci fermammo al caffè vicino alla biblioteca. Mi sentivo sempre più sicuro di me, vedendola ridere divertita alle innocue sciocchezze che dicevo. E quando uscimmo, con il profumo di spezie e di caffè che si mescolava alla fragranza dei cedri e delle sequoie, la mia mano trovò la sua, calda, che mi aspettava. Nei giorni che seguirono capii, dai risolini delle sue amiche quando eravamo insieme, che ero stato argomento di conversazione in quel gruppo di ragazze ben prima della mia spedizione in biblioteca. L'idea mi dava piacere; era una soddisfazione sapere che le mie lunghe, tormentate fantasie su quella ragazza d'oro fossero, in realtà, già ricambiate. Mistero e desiderio non sono scomparsi del tutto. Anche adesso, Nikki è sensuale più che mai quando è arrabbiata, come lo è in questo momento con me. «Come puoi fare una cosa simile? Sei un bastardo, lo sai?» Ha le mani appoggiate sui fianchi, e se ne sta piantata su gambe ancora snelle e forti. Di fronte a me, blocca il corridoio che porta alla cucina; la parte inferiore del suo corpo è modellata da un paio di jeans attillatissimi. Manovro per aggirarla. Ho le mani piene di piatti di carta, colmi di avanzi di torta e gelato gocciolante. «È una cliente», le dico, a voce bassa, per non farmi sentire dagli altri in salotto. «Risparmiami le banalità», taglia corto lei. A quanto pare, la mia offerta di pace è andata in fumo. Il mio invito a tenere qui la festa di compleanno di Sarah, nella casa più spaziosa che è stata la nostra abitazione prima che Nikki mi lasciasse, è rovinato dalla notizia che ora rappresento Talia. Era sui giornali del mattino e, da quando è arrivata, Nikki, come un missile telecomandato, non molla il bersaglio. «Talia è una cliente», ripeto. «È così che si chiama di questi tempi? A momenti ci cascavo. Credevo fosse la tua concubina.» Nikki non è troppo discreta, parla a tutto volume. Alle sue amiche, le madri dei bambini nell'altra stanza, arriva tutto a porta-
ta di orecchio. Retrocede in cucina, le mani ancora sui fianchi. «È accusata di omicidio. Lo studio mi ha chiesto di partecipare alla sua difesa. Tutto qui.» «Non fai nemmeno lo sforzo di negare che hai avuto una relazione con lei.» Sta bloccando la strada per la pattumiera. Dai piatti sporchi che tengo in mano, il gelato comincia a gocciolare sul pavimento. È stato un errore tattico. Non aver negato l'accusa di Nikki, la relazione con Talia, porta con sé i germi di un'aperta ammissione. Mi mordo mentalmente la lingua. «Cosa vuoi sentirti dire?» le chiedo. «Che non la rappresenterai.» «Non posso. Ho già accettato il caso.» «Di' che hai cambiato idea.» «Non è come andare a fare compere in centro.» Adesso i suoi occhi sono di fuoco, due tizzoni incandescenti. «Vaffanculo!» Le parolacce sono qualcosa che Nikki riserva ai momenti estremi di ira più tremenda. Adesso ne ha pronunciata una a gola spiegata e con la massima intensità. Ho una visione di bambini di tre anni, nell'altra stanza, appollaiati sulle ginocchia della madre, che chiedono con gli occhi innocenti rivolti all'insù: «Cosa vuol dire vaffanculo, mamma?» «Senti, non ne possiamo parlare dopo?» «No, ne parliamo adesso. Più tardi devo andare via, con Sarah. Voglio la verità. Hai avuto una relazione con lei?» Ho un attimo di esitazione. Ma mentire non serve a niente. Nella sua mente, Nikki mi ha già condannato. «Sì, siamo usciti assieme.» «Voi cosa? Siete usciti assieme?» Scoppia a ridere. Mia moglie ha un talento speciale per prendere in giro. «Chiama la cosa con il suo nome, stronzo.» L'ira si spreca, stasera. «D'accordo, abbiamo avuto una storia, ma è stato dopo che tu mi hai lasciato.» In qualche modo, questo attenua la colpa della mia infedeltà, almeno dal mio punto di vista. Ma non da quello di Nikki. «E allora non conta, è così?» «Prima che noi ci separassimo, lei non era niente. E non è niente oggi. È finita», le dico. «Adesso, quello che c'è fra noi è un rapporto di lavoro, il patrocinio di una cliente accusata di omicidio di primo grado, niente di più.»
«Sei un bastardo.» Ripete l'accusa, ma ora sta piangendo. C'è un'altra ondata di acido nel mio stomaco. «Dobbiamo parlarne», mormoro. È piegata sopra il lavandino. Piange e si asciuga gli occhi con uno strofinaccio bagnato. Per quanto lo sapesse, lo sospettasse, l'aperta ammissione della mia storia con Talia ha annientato Nikki. «Ascoltami.» Le tocco la spalla. Lei si scosta. Le dico che mi deve dare una possibilità, che deve ascoltare quello che ho da dire. «C'è una festa di compleanno che mi aspetta», dice, ed esce dalla stanza, tirando su col naso, tentando di ricacciare indietro le lacrime. La vedo ferma a metà del corridoio buio, mentre cerca di ricomporsi. Poi si tuffa nella stanza. «Forza, è ora di aprire i regali.» La sua voce è tutta allegra, eppure rauca come se avesse il raffreddore. E così, per le donne che aspettano nell'altra stanza, facciamo finta che non sia successo niente, fino a che non se ne vanno. Nikki e io siamo seduti soli nella luce fioca della sera, nel salotto disastrato dall'assalto di una mezza dozzina di bambini. Brandelli di carta da regalo e di nastri imbrattano il pavimento. Tazze vuote di caffè e piattini sono appoggiati sui tavolini attorno al divano. Sarah è nella sua stanza, ora del tutto spoglia di ogni arredo, a giocare con i suoi regali, i nuovi giocattoli. «Indipendentemente da quello che pensi di lei», le dico, «non ha ucciso Ben.» «Ne sei certo?» Annuisco con aria sicura, come un contadino della prateria che predice la pioggia. «Capisco. L'intuito dell'amante.» Il sarcasmo ha soppiantato le lacrime di Nikki. «Anni di pratica», ribatto. «Talia non ha ucciso Ben Potter più di quanto l'abbiamo ucciso tu o io.» «Anche se avessi ragione, potrebbe difenderla qualcun altro.» «E infatti la difende un altro. Un certo Cheetam. Io sono soltanto l'avvocato aggiunto, per assisterlo. Tutto qui.» «E te lo ha chiesto lui?» «A dire il vero, sì. Erano nei pasticci. Quell'avvocato viene da fuori. Aveva bisogno di qualcuno del posto. Skarpellos ha raccomandato me.» Non le dico che è stata Talia a lanciare l'idea. L'ostilità di Nikki sta per-
dendo giri, come una batteria quasi scarica. Le è molto difficile restare arrabbiata a lungo. Ha sempre dovuto mettercela tutta per non avere cedimenti nelle sue sfuriate. La rabbia, per lei, arriva sempre troppo in fretta, sfuma nella stanchezza emotiva. «Ma tu potresti tirarti indietro, se volessi.» Scuoto la testa. «È troppo tardi.» Mi dilungo a spiegarle in toni pacati che ho già presentato varie mozioni. Questo mi rende patrocinante ufficiale. Un mio ritiro a questo punto richiederebbe una sostituzione formale della difesa, o il consenso della Corte. Siamo troppo vicini all'udienza preliminare per entrambe le soluzioni. «Se avessi saputo che l'avresti presa in questo modo, non avrei accettato il caso. Ma ormai è troppo tardi.» «Secondo te come dovrei prenderla? Prima mi sbatti sul naso la tua relazione, poi vieni a dirmi che è troppo tardi. Evidentemente il tuo impegno nei confronti di Talia è un po' più importante della tua preoccupazione per noi.» «Non ho riflettuto», dico. Spero che questa confessione finale ponga termine alla discussione. Impettita all'altra estremità del divano, seduta sull'orlo, a ginocchia strette, le braccia conserte in grembo, lei lascia cadere la bomba. «Ma non c'è un conflitto?» chiede. Faccio finta di non capire. «Che vuoi dire?» C'è un velo di esasperazione nei suoi occhi. «Voglio dire che non è normale che un avvocato si scopi la cliente, no?» «Te l'ho detto che è tutto finito.» «Capisco», dice. «Se è una cosa del passato, se l'avvocato ha smesso di scopare la cliente, non c'è problema.» Si alza dal divano, lasciandomi alle prese con questo dilemma etico. «Senti, quando questa cosa sarà finita, magari potremmo andare assieme, noi tre, a passare un fine settimana sulla costa. Come facevamo una volta», propongo. «Molto improbabile», è il suo commento. Mi comunica che ho sprecato il mio tempo a cambiare le lenzuola nel letto, uno speranzoso preliminare a una notte insieme dopo una felice festa di compleanno. Si dirige verso il retro della casa, chiama Sarah, si prepara ad andarsene. «Non ti spiace se non mi fermo a darti una mano a sistemare il disastro, eh?» Mi guarda con un'espressione seria. Come la maggior parte di quello
che mi dice di questi tempi, le sue parole contengono un voluto doppio senso. «Posso arrangiarmi.» «Lo spero proprio.» 14. «Dov'è l'eunuco?» chiede Harry. Quando Cheetam non c'è, Ron Brown è come un'ombra. In effetti non fa un bel niente, ma ci è sempre addosso come un avaro alla ricerca di oro. È il primo a mettere al corrente di ogni sviluppo Skarpellos e Cheetam. Spaccia senza riserve la moneta intellettuale di qualunque leccapiedi. «Chi se ne frega. Basta che ci lasci in pace», ribatto. «Che gli diciamo quando abbiamo finito? Vorrà sapere cosa abbiamo in mano.» «Gli diciamo il meno possibile. Parlerò a Cheetam da solo. Gli darò le brutte notizie appena ci farà l'onore della sua presenza.» È uno di quei lunghi pomeriggi primaverili. Mi sto addormentando su cumuli di carta. L'orologio a muro è stato regolato sull'ora legale, e il meccanismo interno che gestisce il mio corpo si è confuso. Sin dall'infanzia ho sempre nutrito un risentimento particolare per chi pasticcia con il tempo. Lunghe ombre sottili si spandono sulle alture di quel canyon che è il Capitol Mall. Lotto per restare sveglio nella tormenta di carta in cui si sta velocemente trasformando il caso di Talia. Rimpinguato da un anticipo a cinque cifre, un prestito di Skarpellos garantito dalla quota che Talia dovrebbe avere nello studio, ho ingaggiato Harry per un po' d'aiuto. Siamo chiusi nella sala riunioni dello studio Potter & Skarpellos a studiare le pile di documenti, le prove fornite dalla fotocopiatrice dell'ufficio del procuratore distrettuale, la risposta a una dozzina di mozioni presentate da me. Cheetam è fuori sede. Sta facendo esercizi d'acrobazia con tre importanti casi di illecito civile in altre città; un modesto problema che ha rivelato soltanto dopo che io ho accettato di partecipare alla difesa. Ultimamente, si fa vivo soltanto nei momenti di massimo ascolto, quando c'è un branco di telecamere o giornalisti forniti di blocco per appunti e sottili matite, nonché speranzosi di avere il crampo dello scrittore. «Credi davvero che qualcuno compri queste merdate?» La mente di Harry si è allontanata dal suo compito. Sta guardando una copia del La-
wyer's Monthly, la patinata rivista dell'ordine che qualcuno ha dimenticato in biblioteca. È arrivato alla quarta di copertina, alle luccicanti pubblicità, un'intera pagina di giocattoli per avvocati: palle da golf e orologi con la bilancia della giustizia, una sedia rivestita in pelle, a schienale alto, con più pulsanti di uno shuttle, e un assortimento di «lance», stilografiche MontBlanc da trecento dollari, disposte come una zattera a centro pagina. «Ah, prima che mi dimentichi», dice. Estrae dalla tasca un foglietto giallo per appunti e lo spinge sul tavolo. «Il nome della fanciulla è Peggie Conrad, esperta in pratiche legali. Però non ha la laurea.» Sul foglietto c'è un numero di telefono. «Praticamente si occupa solo di successioni», conclude. Lo guardo e alzo un sopracciglio in segno di domanda. «La pratica Sharon Cooper», m'illumina Harry. «La signora ti risolverà tutti i problemi.» «Come mai ti è venuto in mente?» «Ho pensato che ti servisse un po' di aiuto.» Guardo l'appunto e faccio una smorfia. Come fosse una marca di liquore che non ho mai assaggiato prima. Ingaggiare qualcuno non abilitato all'esercizio della professione legale... «Grazie», gli dico. «Ma l'ordine non ha niente da obiettare?» Lui si stringe nelle spalle. «Tutti i suoi clienti sono avvocati. A quanto pare, non sei l'unico a non sapere come si compilano i moduli.» «Immagino che parlarle non mi costi niente.» La pratica della successione di Sharon sta facendo la muffa sulla mia scrivania. Infilo in tasca il biglietto e torno alla pila di carte che ho di fronte. Harry e io abbiamo messo assieme buona parte delle prove in mano alla polizia. Dai rapporti del medico legale e della scientifica abbiamo dedotto che la polizia sapeva che la morte di Ben non era dovuta a suicidio poche ore dopo aver rimosso il corpo dall'ufficio. A parte l'assenza di impronte, persino di impronte confuse sull'arma, il bossolo di plastica della cartuccia ancora in canna era pulito. Chiunque abbia caricato il fucile portava i guanti, o ha usato uno straccio per inserire la cartuccia. I test per il rilevamento di tracce di polvere da sparo sulle mani di Ben sono risultati negativi. Questi test consistono nella ricerca di nitriti e tracce di piombo, bario e antimonio, le sostanze emesse assieme ai gas combusti da qualsiasi arma da fuoco moderna. Persino con un'arma a canna lunga come quella usata in questo caso, le tracce di questi elementi si sarebbero fissate sul dorso e sulla palma della mano di Ben che non ha sparato, la mano che teneva ferma la canna infilata in boc-
ca mentre l'altra premeva il grilletto. La conclusione è inequivocabile: qualcun altro ha sparato il colpo. «È un po' sconcertante», dico. «Cosa?» «Che l'assassino sia riuscito a infilare la canna in bocca a Ben. Voglio dire, capisco un colpo alla testa a distanza ravvicinata. Ma è molto improbabile che una vittima collabori al punto di mettersi a succhiare la canna di un fucile. L'intenzione immediata di chi vuole sparare è troppo ovvia.» «Direi proprio», ammette Harry. «Forse era in stato di incoscienza quando gli hanno sparato.» «Il medico non ha trovato nessuna traccia di droga nel corpo.» «Già, ma lo sparo avrebbe cancellato anche un bel po' di bozzi in testa.» Harry non ha torto. Secondo la balistica, l'arma, un fucile calibro dodici di fabbricazione italiana, un Bernardelli modello 192, aveva un mucchio di accessori ed era molto costosa. Era registrata a nome di Ben. La seconda canna era vuota. Stando al rapporto della polizia, di solito l'arma era tenuta in una custodia nello studio di Potter, a casa sua, dove Talia aveva facile accesso al fucile. Cheetam punta molto su quest'arma. «Un fucile», sostiene, «non è un'arma da donna.» Gli ho detto di risparmiarsi questi commenti per la giuria. Lui dice che il caso non arriverà mai a quel punto. Quell'uomo sfoggia una sicurezza sorprendente, per uno che non ha ancora esaminato le prove. Il corpo di Ben è stato scoperto da un custode della Emerald Tower che ha sentito lo sparo. Entrato nell'ufficio, l'uomo è rimasto sconvolto dalla scena d'orrore e si è ritirato nella zona della reception, l'area di lavoro di Barbara di fronte all'ufficio, e da li ha chiamato la polizia. In seguito, nell'ascensore di servizio è stata rinvenuta un'unica goccia di sangue, di tipo B-negativo, lo stesso gruppo sanguigno di Ben. L'analisi di quella goccia, il fatto che abbia proiettato un'aureola di goccioline più piccole, come la coda di una cometa, ha permesso alla scientifica di stabilire la direzione in cui è stato spostato il corpo. Hanno concluso che il sangue è caduto mentre Ben veniva trasportato fuori dall'ascensore di servizio, lungo il corridoio, alla volta dell'ufficio. Secondo i rapporti di polizia, l'accesso al garage dell'edificio è stato ottenuto usando la tessera magnetica di Ben. I dati registrati dal computer mostrano che l'entrata è avvenuta circa dieci minuti prima che il custode udisse lo sparo. La polizia ritiene che siano state usate le chiavi di Ben per entrare nell'ufficio.
«Che ne pensi del capello?» dice Harry. Sta sfogliando un rapporto all'altro lato del tavolo, prende qualche appunto. Sollevo un sopracciglio. «Problematico, ma non decisivo.» Forse sto sottovalutando il problema. La scientifica ha trovato un unico capello umano impigliato nel meccanismo di chiusura del fucile. Secondo il rapporto: «Corrisponde sotto ogni aspetto a campioni di capelli presi dalla testa della moglie del deceduto, Talia Potter». «Il capello potrebbe essere stato là da mesi», dico. «Magari lei ha usato il fucile una volta. Magari Ben l'ha portata a caccia o al tiro al piattello. Magari lei ha dato una spolverata al fucile mentre era nella custodia.» «Come no», commenta Harry. «La signora è una vera casalinga.» Harry nutre i propri sospetti. È uno dei motivi per cui l'ho ingaggiato: per mantenermi obiettivo. «L'accesso a quel fucile può essere un'arma a doppio taglio», gli dico. «Era in casa sua. Quel capello avrebbe potuto arrivarci in una dozzina di modi diversi, nell'arco di mesi.» «Uh, uh.» Harry non la beve, ma una giuria di gente ragionevole, di persone che non conoscono Talia, magari sì. La morte è stata provocata da un esteso trauma cerebrale causato dall'impatto ad alta velocità di una massa di pallini di piombo. I pallini erano del numero nove, il tipo che in genere si usa per la caccia agli uccelli e il tiro al piattello. L'esplosione ha sventrato il cervello. Un unico pallino si è conficcato in uno dei gangli basali, e questo, secondo il rapporto del medico legale, avrebbe reso impossibile qualsiasi movimento cosciente di Ben dopo lo sparo. Sotto tutti gli aspetti, si può parlare di morte cerebrale istantanea. «Cosa deduci da questo?» chiedo. Leggo a Harry parte di una nota a piè di pagina nel rapporto del medico legale. Nel corso dell'autopsia è stato recuperato il pallino dal ganglio basale. Pesa 10,68 grani. È notevolmente più grande dei pochi pallini ritrovati nella cavità cranica e della massa di parecchie centinaia di pallini conficcati nel soffitto dell'ufficio di Ben. Secondo il rapporto, il peso normale dei pallini del numero nove è di 0,75 grani. In questo caso, molti dei pallini erano un po' più leggeri o un po' più pesanti della norma, ma nessuno si avvicinava al mostro trovato nel ganglio basale. «Che conclusioni traggono?» chiede Harry. «Nessuna», sorrido. «C'è solo l'annotazione.» Coop è troppo smaliziato
per offrire conclusioni su una cosa simile nel suo rapporto. Lo mette dentro come una bomba a orologeria perché la difesa faccia le sue congetture, e intanto si crea spazio di manovra per deporre al processo. Sono i giochi che faceva quando eravamo dalla stessa parte, quando io ero la pubblica accusa e Cooper il mio principale esperto. È una sfida averlo come avversario per la prima volta nella mia carriera. Conferisce al caso un'eccitazione snervante. Dopo avergli estorto informazioni come parte neutrale nel suo ufficio, quella mattina, mi chiedo come vedrà il mio ruolo nella difesa. «Cosa pensi l'abbia provocato?» domanda Harry. Sta parlando del pallino anomalo. «Non lo so. Ho sentito parlare di pallini che si sono fusi assieme. A volte, in una cattiva cartuccia il calore fonde il piombo prima che esca dalla canna. Potrebbe trattarsi di alcuni pallini fusi insieme. Ma penso che sia meglio controllare.» Harry prende un appunto. Nei rapporti di polizia vengono fatte un mucchio di congetture sulle infedeltà di Talia con altri uomini. Harry sembra particolarmente interessato a questa linea di indagine. La polizia ha schierato un assortimento di testimoni, per la maggior parte trafficanti di pettegolezzi. La cameriera di Talia, Maria, afferma a malincuore di avere trovato un articolo di biancheria intima maschile fra le lenzuola del letto di Talia, una mattina. Pare che Ben fosse fuori città la notte precedente, e sembra del tutto improbabile che l'articolo appartenesse a lui. Nel rapporto della polizia, l'oggetto è descritto come un «perizoma maschile, un sacchetto di seta stampata a pelle di leopardo, unito da due sottili elastici a una fascia in vita». «Sheena, regina della giungla», dice Harry. «Pensi che si siano appesi a liane attaccate al soffitto?» Mi guarda, come per chiedermi se io abbia mai sperimentato questi piaceri esotici. Siedo in silenzio, lo guardo impassibile. Almeno sono sicuro che la polizia non potrà far risalire a me la pelle di leopardo. Mi chiedo chi, nella fauna maschile di Talia, possa avere indossato un affare simile. È preoccupante. Se Talia depone e nega relazioni con altri uomini, le verrà senza dubbio chiesto di fornire spiegazioni su questo capo di abbigliamento. Amici e conoscenti della sua cerchia sociale hanno visto Talia fuori città a rimorchio di altri uomini. I suoi peccati di indiscrezione si stanno ritorcendo contro di lei. Tutti gli uomini hanno parlato, ovviamente a malincuore, con la polizia. Nel rapporto, l'elenco dei loro nomi sembra un duplicato dell'almanacco della bella società. A quanto pare, la polizia è ancora
in cerca del complice di Talia nell'omicidio. «Su una cosa Coop aveva ragione», dice Harry. «Chiunque sia stato, era un vero dilettante.» «Può darsi», borbotto. Mi guarda. «Non avrai mica dei dubbi? L'arma ripulita delle impronte. Il sangue nell'ascensore. Gravi discrepanze sull'ora del decesso. Solo un cretino...» La messinscena del suicidio, lo ammetto, è piuttosto fiacca. Difficile che inganni a lungo. «Un eufemismo», dichiara Harry. Ha finito con l'ultimo rapporto della scientifica e lo mette da parte, sul mucchio dei documenti già esaminati. «Abbiamo qualche serio problema», dichiara. Attacca un riassunto, partendo dall'inizio. «Momento del decesso. Il perito medico lo stabilisce alle sette e cinque del pomeriggio. Lo sparo in ufficio viene udito dal custode soltanto alle otto e venticinque. La polizia trova Talia a casa alle dieci circa. A meno che il medico legale non abbia fumato della formaldeide, Potter non è stato ucciso nel suo ufficio.» Faccio un cenno d'assenso con la testa. «Questo ci lascia alle prese con la vicina di casa», dice Harry. «Faremo bene a sperare che la signora abbia fama di amante della bottiglia.» Harry sta parlando della dichiarazione di un'anziana signora, una delle vicine di casa di Potter, che sostiene di avere visto la Rolls di Ben parcheggiata nel vialetto d'accesso della residenza dei Potter poco prima delle otto di sera. «Se risulta attendibile», prosegue, «e non riusciamo a smantellare la sua testimonianza sull'ora in cui ha visto l'auto, Potter sarebbe stato a casa attorno all'ora della morte.» «Guai in vista», dico. «La giuria ci andrà a nozze. Se è stato ammazzato in casa, la ragione vuole che si sia trattato di una faccenda domestica. Sosterranno che lei l'ha fatto fuori in casa», conclude Harry. «La polizia ci ha fatto un favore», dico. «Se non altro, sono andati là con una squadra della scientifica e hanno passato al setaccio la casa, il mattino dopo. Hai letto il rapporto della scientifica. Hai visto se c'erano tracce di violenza nella casa?» Lui scuote la testa. «Pulita come uno specchio.» «Se fosse stato ucciso lì, ci si dovrebbe aspettare di trovare qualche pro-
va materiale in casa.» «Ci si dovrebbe aspettare», ripete Harry, come un'eco. «Ma non è un assioma. Sosterranno che il delitto potrebbe essere stato commesso all'esterno o su una superficie dura, facile da ripulire.» Harry sta facendo il suo dovere; sta elencando tutti i contro del nostro caso. «Perlomeno possiamo sostenere che hanno cercato e non hanno trovato niente.» «Vero», ammette. «E di sicuro non sosterranno che lei gli abbia sparato in casa. Un fucile calibro dodici avrebbe lasciato sangue e materia cerebrale dappertutto. E i vicini avrebbero sentito.» «Fa' la parte del poliziotto», dico. «Allora come è stato ucciso?» «Vuoi il mio parere?» Annuisco. «Hanno scelto il vecchio, affidabile colpo in testa con un corpo contundente.» «Non fila», ribatto. «Il rapporto medico dice che la morte è stata provocata dal pallino anomalo.» «Nel comediavolosichiama», dice Harry. «Ganglio basale.» «Già, ganglio.» «A meno che non sappiano qualcosa che noi non sappiamo, hanno un problema», dico. «È bello sapere che ne hanno uno anche loro.» «Stammi a sentire. Il momento del decesso è stato stabilito dal loro perito alle sette e cinque della sera. Lo sparo viene udito nell'ufficio soltanto alle otto e venticinque. Eppure, in base all'autopsia, la causa della morte è il pallino nel ganglio basale. Spiegamelo tu.» Harry sta facendo smorfie, perplesso. In un processo, come nella vita, la paura indossa quasi sempre i panni dell'ignoto. E al momento, il nostro caso è avvolto nel mistero. Ora sta scartabellando la pila di carte sul tavolo «Dovresti averlo tu, il rapporto dell'autopsia», dice. Allungo la mano verso il fascio di carte e lo tiro fuori. «La nota a piè di pagina», indica. «Il pallino anomalo. Leggimela un'altra volta.» Sono quasi arrivato alla fine, quando mi fermo a metà di una frase. Alzo gli occhi e incontro lo sguardo scintillante di Harry. «Stai pensando quello che penso io?» chiede.
Annuisco, e quasi all'unisono sussurriamo: «Un altro proiettile». «Cooper, piccolo idiota», esclamo. «Hai trovato il frammento di una pallottola, vero?» «Cheetam può dire addio alla sua teoria che un fucile non è un'arma da donna», dice Harry. «Dobbiamo scoprire se Ben o Talia possedevano una pistola di piccolo calibro. Se sì, potrebbe essere immatricolata. Il che significherebbe che la polizia ne conosce l'esistenza.» Harry prende un altro appunto, poi appoggia la penna sul blocco e si frega le mani. «A parità di condizioni, preferirei essere dall'altra parte di questo caso.» Intende la parte dell'accusa. «Che ne pensi?» mi chiede. «Non si mette bene.» «Prova questa», dice. «Potter torna a casa presto dal lavoro, si imbatte in Sheena e nel Figlio della Giungla che penzolano dalle liane. Litigano, e Potter viene fatto fuori, un colpo alla testa da una piccola pistola. Magari un'arma che tenevano nel comodino. Mettono Potter in macchina e lo portano a fare un giro.» Harry arriccia un po' il naso, come se questa storia corrispondesse alla tesi dell'accusa. «Lo portano in ufficio e gli sparano con il fucile, e qui il custode sente il colpo. La cartuccia espelle quello che resta del proiettile della pistola. O magari si era già frantumato entrando nella testa, su qualche osso, e viene scambiato per una cartuccia a pallini. Filerebbe tutto liscio, solo che c'è questo pallino anomalo nel ganglio.» Scuoto la testa. «Perché no?» chiede Harry. Ma non sto negando la plausibilità di questo scenario. Sto scuotendo la testa in segno di impotenza, perché non ho nulla con cui controbattere. «E l'ipotesi conferma le analisi delle fibre della scientifica», dice Harry. La scientifica ha trovato tracce di due fibre di moquette sui vestiti di Ben: una fibra artificiale da poco prezzo, usata soprattutto per rivestimenti esterni e in una vasta serie di veicoli da diporto e caravan, e una fibra di nylon più costosa. La seconda corrisponde esattamente alla moquette rosso scuro del baule della Rolls-Royce di Ben. «Dobbiamo parlare con Talia», dico. «Ci deve pur essere qualcosa che confermi dove era quel giorno.» Ci ha già detto di non avere un alibi per l'ora del decesso. Stando al suo racconto, al momento dell'omicidio di Ben, Talia era in giro da sola a esaminare un certo immobile, la casa di una proprietà in vendita a Vacaville. Non sono riuscito a trovare nulla che possa confermare la sua presenza lì, nessuna telefonata fatta da lei, nessun rifor-
nimento di benzina pagato con la carta di credito. È entrata nella casa vuota da sola, usando la serratura con tastiera elettronica a combinazione ed è uscita quando ha finito. A tutti gli effetti, è sparita dalla faccia della Terra durante le ore immediatamente precedenti e seguenti la morte di Ben. Sarà facile per la pubblica accusa dimostrare che Talia possedeva uno degli ingredienti essenziali di ogni omicidio: l'occasione di uccidere. Una delle doppie porte a vetri alle nostre spalle si apre. Riceviamo l'omaggio dell'espressione sorridente di Ron Brown. Entra, pavoneggiandosi come non mai in un vestito grigio, con doppi polsini alti un chilometro che gli saettano dalle maniche. Con una mano giocherella con il bottone centrale della giacca, chiusa su uno stomaco snello. Il labbro superiore si increspa sotto i baffi sottilissimi, segno sicuro che sa qualcosa che noi non sappiamo. «Ho buone notizie», dice. «In effetti, è un grosso colpo per la difesa.» «Benissimo. Qualche buona notizia non mi farebbe schifo», ammetto. Dall'espressione della faccia di Harry, vedo che è sul punto di vomitare. Brown esita un attimo, si gusta il momento. «Non potevo dirvelo prima. C'erano trattative delicate in corso», dice. «Risparmiaci», implora Harry. Mi chiedo cosa abbiano combinato Cheetam e l'eunuco. Poi ho l'intuizione. Hanno trattato con il procuratore distrettuale: un patteggiamento per salvare Talia. Magari Cheetam non è ottuso come credo. «Gil», dice Brown. «L'avvocato Cheetam ha appena firmato un contratto da sei cifre con una casa editrice di New York per i diritti su un libro sul caso di Talia. Pare che siano interessati alla storia dietro le quinte. La morte di una candidato alla Corte Suprema.» Guardo Harry, incredulo. Sento che la faccia mi cade sul tavolo. «Stai scherzando?» La voce di Brown si alza di un'ottava. «Credi che potrei scherzare su una cosa del genere? Cheetam è un affarista nato. Perché non sfruttare al massimo l'occasione?» Guarda la massa di pagine ammonticchiate sul tavolo di fronte a noi. «Adesso ditemi, quali sassolini di saggezza avete trovato voi due?» Harry sta friggendo. Vedo i tendini sporgergli dal collo come cavi d'acciaio. «Mi piacerebbe poterteli ficcare nei reni», sibila. «Eh?» La battuta è volata alta sopra la testa di Brown.
15. Quando arrivo a casa di Talia sono quasi le otto di sera. Ho telefonato e ho chiesto questo incontro fuori dell'ufficio, in modo che Cheetam e Skarpellos non interferiscano. Suono il campanello e scopro che Talia deve ancora imparare il significato della discrezione. La porta viene aperta dal suo giovane amico, Tod Hamilton. L'unica cosa più fulgida della luce sopra l'entrata è il suo ampio sorriso. Evidentemente, ora le sta fornendo conforto e sostegno ventiquattr'ore su ventiquattro. Sento gli occhi di migliaia di vicini puntati su noi, mentre siamo lì in piedi. Sto cominciando a fare il gioco della pubblica accusa. Mi chiedo dove fosse Tod Hamilton la sera in cui Ben è stato ucciso. Hamilton brandisce un grande bicchiere da brandy, con un liquido del colore del tè che turbina sul fondo. «Entri», dice. «Qualcosa da bere?» «Scotch, se ne avete. Niente ghiaccio, con un po' d'acqua.» Mi conduce in salotto, dove Talia mi sta aspettando. Indossa un pigiama da casa di pizzo nero. È seduta sul divano con le gambe raccolte sotto il corpo, come la favorita di un harem. Tod mi porta da bere e sprofonda nell'enorme poltrona di vimini di fronte alla mia. Sediamo come due comodini disposti ad angolo, davanti a Talia. Hamilton accavalla le gambe. Ha un mocassino che penzola da un piede, la camicia aperta sul collo. È, da tutti i punti di vista, l'immagine del rigoglio giovanile. Ecco qui, penso, un corpo perfettamente adatto a un perizoma di pelle di leopardo. Talia non fa alcun tentativo di mondanità. Va diritta al vero motivo del nostro incontro: cosa ho scoperto dalle prove d'accusa. Apro il mio blocco per appunti e comincio dall'inizio. Dopo la mia prima domanda, lei riflette un attimo e poi risponde: «Sì, era una cosina graziosa». Alza gli indici delle mani, li distanzia di una decina di centimetri. «Ben l'aveva comprata per me. Un'impugnatura bianca molto lucida. Era davvero bellissima.» È così che Talia descrive la piccola pistola semiautomatica che Ben le ha regalato due anni fa, quando un maniaco conosciuto come «lo stupratore lanuginoso» terrorizzava la zona est della città. «Che calibro?» chiedo. È importante, perché il frammento ritrovato in Ben potrebbe mostrare segni di rivestimento d'acciaio. Questo indicherebbe una semiautomatica di calibro non troppo piccolo, come una nove mil-
limetri. Forse posso individuare il proiettile basandomi sulla pistola posseduta da Talia. «Non lo so. Le pallottole erano molto piccole», dice. «Piccolissime.» Immagino si tratti di una calibro venticinque, o una ventidue. Un'arma da donna. «Hai qui la pistola?» «Non la vedo da... deve essere più di un anno, ormai. La tenevamo su, in camera da letto, nel comodino di Ben.» Harry è diventato chiaroveggente, pare. «Ben l'ha cambiata di posto il Natale scorso. Sono venuti a trovarci dei bambini piccoli. Sua nipote si è fermata qui con i figli, per le feste. Ben ha pensato che non fosse sicuro tenere una pistola dove i bambini potevano trovarla. A dirti la verità, non avrei neanche saputo usarla. Una volta Ben mi ha portata a uno di quei poligoni di tiro, l'ha caricata e mi ha fatto sparare parecchi colpi. Non lo ritenevo davvero necessario. Ma sai com'era fatto Benjamin.» «La polizia ha cercato la pistola il giorno che è venuta qui, il giorno dopo che Ben è stato ucciso?» «Può darsi. Non ho fatto molta attenzione.» «Avevano un mandato di perquisizione?» «Non credo. Hanno suonato alla porta e hanno chiesto se potevano dare un'occhiata in giro. Ho risposto di sì. Ero confusa, sconvolta dalla morte di Ben. Ho pensato fosse meglio collaborare. Non avevo niente da nascondere... Per lo meno, era quello che credevo.» Normalmente, l'assenza di un mandato di perquisizione rappresenterebbe un punto a nostro favore. Se avessero trovato qualcosa, poteva essere messo fuori gioco. Ma, dato l'assenso di Talia, e il fatto che in quei primi momenti i sospetti non dovevano ancora essere puntati su di lei, la questione è puramente teorica. «Hanno preso niente dalla casa?» «Non ricordo.» C'è un momento di sofferto silenzio, quando lei torna con la mente a quel giorno. «Se ne sono andati con un paio di sacchettini di plastica, mi pare. Non so cosa ci fosse dentro. Non una pistola. Quello me lo sarei ricordato.» Talia è ormai certa che non la stavano cercando, o che se anche la cercavano, non l'hanno trovata. «Mi pare che abbiano preso delle cartucce dallo studio. Hanno detto che volevano confrontarle con le cartucce dell'arma.» «Del fucile?»
«Penso di sì. Non ricordo. È passato troppo tempo. Non dimenticare che avevo altre cose per la testa.» Lo dice con un po' più di un pizzico di sarcasmo. «È importante?» chiede Tod. «Potrebbe esserlo. Vorrei che tu cercassi la pistola. Se la trovi, non toccarla. Potrebbero esserci delle impronte. Telefonami e basta.» Credo che su questo punto Talia abbia ragione. È praticamente certo che la polizia non abbia trovato la pistola, il giorno che ha perquisito la casa. Non è inclusa nell'inventario di prove conservate nell'armadietto della polizia. Nella nostra situazione, una pistola scomparsa vale quanto una ritrovata, per l'accusa. È improbabile che il minuscolo frammento di proiettile rinvenuto nel corpo di Ben basti per condurre una seria perizia balistica. Date le dimensioni e i danni subiti da ciò che rimane del proiettile, un confronto con la pistola diventa pressoché impossibile. Ma potrebbe essere sufficiente dimostrare che il frammento faceva parte di un proiettile di piccolo calibro. Questo, abbinato a un'immatricolazione che dimostri che Ben o Talia possedevano un'arma del genere, colmerebbe una lacuna importante nella loro tesi. Ci lascerebbe nella posizione di dover dimostrare un doppio dato negativo: che il proiettile sparato nella testa di Ben non proviene da un'arma che Talia non riesce a trovare. È proprio da lacune di questo tipo che i giurati giungono a conclusioni incriminanti. «La cercheremo», annuncia Tod. «L'aiuterò io.» C'è sincerità nella sua voce. Tod è una di quelle persone che potrebbero essere molto astute, o estremamente ingenue. Difficile dirlo. «Immagino che questa pistola sia importante, altrimenti lei non la cercherebbe», dice. «Però...» «Però cosa?» «Al signor Potter non hanno sparato con una pistola», dichiara. «Lo sa per certo?» È intelligente quanto basta per non rispondere con un'ovvietà. Non mi dice che era su tutti i giornali. «Ha prove che dimostrino che sia stata usata una pistola?» Il tipo non è un ingenuo, decido. «Diciamo che potrebbero esserci prove contrastanti. In questo momento stiamo esplorando un certo numero di piste diverse, il che mi porta al punto successivo: un alibi. Abbiamo bisogno di maggiori informazioni sui tuoi movimenti il giorno dell'omicidio. Lo so che ne abbiamo già parlato. Ma riproviamo un'altra volta.» Su questo punto, Talia sta diventando leggermente irritabile. Non si con-
tano più le volte che ne abbiamo parlato, ma mi asseconda. «Come ho già detto, ero a Vacaville, a visitare una proprietà. Sono tornata a casa verso le dieci di sera. Quando sono arrivata, ho trovato la polizia ad aspettarmi.» A questo punto, fra Talia e Tod corrono sguardi d'intesa, del tipo che rende paranoica la gente normale e nervosi gli avvocati. Mi dico che può semplicemente essere che abbiano intuito l'ovvio. L'assenza di una qualsiasi prova plausibile che confermi un alibi fa di Talia l'imputata perfetta. Baro un po' e incalzo. «No. No. Non ci siamo», dico. Li guardo con gli occhi un po' fuori delle orbite, ingigantendo la portata delle loro occhiate. C'è qualcosa di più di una vaga aggressività nella mia voce, e il messaggio è chiaro: «Non fatemi perdere tempo con le vostre balle». «O mi dici la verità, tutta e adesso, o non posso fare niente per te», dichiaro. «La stiamo dicendo», risponde lei. «Cioè, io ti sto dicendo tutto quello che so.» «D'accordo, allora diciamo che non è sufficiente.» È una manovra delicata, tentare di indurre i clienti a parlare, fare in modo che si aiutino da soli senza incorrere nella subornazione. «Ci dev'essere qualcosa che hai dimenticato. Qualcuno con cui hai parlato. Una fermata lungo la strada che ti è sfuggita di mente. Pensaci.» Segue un lungo momento di silenzio, mentre lei scandaglia la memoria. Ho già ottenuto da Talia le autorizzazioni firmate che ho inviato a tutte le società di cui possiede una carta di credito, nella remota eventualità che quel giorno abbia fatto un acquisto con una carta, una transazione di cui si sia dimenticata. «Mi spiace», dice. Legge la frustrazione nei miei occhi. «È così grave?» Annuisco. «Puoi dire a quei due che l'hai sentito qui per la prima volta. A Tony e Cheetam.» Visto come Cheetam le ha indorato la pillola, sono qui in parte anche per farle sapere la verità. «Potremmo tentare di arrivare a un accordo con il procuratore distrettuale», dico. Sto sondando un terreno vergine, ora. Nessuno ha ancora osato discutere con Talia l'eventualità di un patteggiamento. «Non starà mica scherzando?» Tod pianta entrambi i piedi sul pavimento. È proteso in avanti sulla poltrona e mi guarda incredulo. «Dico sul serio. Non potrei essere più serio. La nostra potenziale prospettiva è la camera a gas», concludo. Per Tod queste parole possono anche essere agghiaccianti, ma comunque per lui sono ancora un'astrazione. Vorrei tanto poter dire lo stesso di me. La notte mi sveglio coperto di sudore freddo, perseguitato dalla nitida immagine di Brian Danley che si
contorce sotto le cinghie di quella sedia, implorando pietà. Dopo tanti mesi, mi chiedo perché questi pensieri mi ossessionino proprio adesso. Ma, dopo avere esaminato le prove d'accusa, non è più un balzo quantico immaginare i dolci occhi felini di Talia terrorizzati in quella camera. Scopro, dall'espressione sul viso di Talia, che l'idea sta finalmente cominciando a farsi strada in lei. «Lo so cosa continua a ripeterti Cheetam», proseguo. Aspetto un momento, per dare un peso maggiore al mio punto di vista. «Un sacco di polverina magica e pensieri allegri. Ho controllato. Vince una causa su dieci, però a quell'una fa una pubblicità spietata, e lui ne viene fuori come un dio.» Le mie indagini su Cheetam hanno confermato i miei peggiori timori. «Sul versante civile, la cosa è già abbastanza brutta. Un povero cristo senza una gamba deve passare la vita seduto all'angolo di una strada piena di immondizie, con un barattolo di matite.» La sua espressione si indurisce. So che per Talia una scena del genere fa sembrare allegra la situazione in cui si trova. Non esiterebbe a scegliere una morte veloce, piuttosto che la povertà. «Per Gilbert Cheetam, questo è solo un altro caso», dico. «Un'occasione per riempire qualche pagina del suo album dei ritagli. Quando sarà concluso, passerà al caso successivo, e poi a quello dopo ancora. Certo, gli piacerebbe vincere. Ma i Cheetam di questo mondo non si guardano indietro, non piangono per le cause perse. Le dimenticano il più in fretta possibile. Ricordano solo le vittorie, e dicono ai loro propagandisti di fare altrettanto.» Non capisco se la sto convincendo. «Lo sapevi che ha già venduto i diritti per un libro sulla storia del tuo caso?» A queste parole, Talia gira di scatto la testa verso di me. «No, non lo sapevo», sibila. Annuisco. «È vero.» Tod scoppia a ridere. «Be', è la prova», dice. «Non venderebbe un libro su un caso che pensa di perdere. Dovrebbe essere un idiota.» «Crede proprio?» ribatto. «Che Talia vinca o perda, potete essere certi di una cosa. Gilbert Cheetam vincerà il cuore e la mente di ogni lettore che infili il naso fra le pagine di quel libro. Offrirà Talia come sacrificio alla giustizia, e se stesso come sommo sacerdote. C'è un vecchio detto, ragazzo mio.» Adesso sto guardando direttamente Tod. «'Non importa quello che dicono di te, basta che scrivano il tuo nome senza errori.' E può stare certo che la cosa più grossa di quel libro sarà il nome di Cheetam in copertina. E
all'interno, sarà ripetuto con una frequenza maggiore dei punti e delle virgole.» «Non sono d'accordo», dice lui. «Deve essere sicuro del caso, o non avrebbe...» «Tod, sta' zitto.» Talia ha sentito abbastanza. Ho raggiunto la ribalta, l'attenzione piena. «Questo ci porta alla triste realtà che le possibilità di chiudere il caso in udienza preliminare sono scarse o nulle. Ho visto le loro prove migliori.» Esito un momento prima di lasciar cadere la bomba. «Vuoi sapere come la penso? Penso che ti troverai ad affrontare un processo per omicidio di primo grado.» Talia appare scossa, non tanto dalla notizia, quanto dalla maniera brusca con cui le viene comunicata. «Non sono stata io», mormora. «Mi fa male dirti queste cose. Ma questo non conta. Le prove indicano che sei stata tu. E, in udienza preliminare, tutto quello che devono dimostrare è l'esistenza del reato, il fatto che Ben è morto per mano di un altro, e che esistono ragionevoli basi per ritenere che sia tu la colpevole del delitto.» Carico la mia voce, le mie parole così esplicite, di tutta la gravità possibile. «Credimi, a meno che tu non possa fornirmi qualcosa di più, è certo che riusciranno a dimostrare la loro tesi nell'udienza preliminare.» «Potrebbero condannarmi?» chiede. A questo non rispondo. Mi limito ad alzare un sopracciglio e piegare un poco la testa di lato, come se le scommesse fossero ancora aperte. Restano entrambi senza parole. A quanto pare, avevano ciecamente creduto alle favole di Cheetam su un proscioglimento in fase preliminare. Ho l'impressione che Talia sia sul punto di offendersi, come se dicessi queste cose soltanto perché non credo alle sue asserzioni di innocenza. Dà sfogo alla rabbia, e conclude: «Sei solo un grosso presuntuoso.» Tod è più pacato. Ha lo sguardo fisso sul bicchiere di brandy, stretto fra le mani a coppa. Vedo i piccoli vortici di liquore nel bicchiere, come lievi vibrazioni in una scala Richter. La realtà sta cominciando a farsi strada in lui. La guarda. «Talia, forse dovremmo...» «No», dice lei. Penso che forse lui stia per suggerire un patteggiamento con il procuratore. Alla fine, Talia si calma e mi guida in un giro mentale, facendomi ripercorrere il suo viaggio a Vacaville il giorno in cui è morto Ben. Quello che sento è il solito resoconto di un alibi inesistente, una gita cominciata e
conclusa da sola. Mi racconta della combinazione che l'agente immobiliare le aveva comunicato per telefono e che lei ha usato per entrare in quella che descrive come una villa in aperta campagna. Sostiene di aver trascorso più di due ore a esaminare la casa, studiando non soltanto le stanze, ma anche lo sfarzoso arredamento. Il proprietario doveva avere un debole per i mobili moderni, ed è morto senza lasciare eredi. La casa e il suo contenuto sono stati messi in vendita dall'amministrazione di contea. È il tipo di proprietà che di solito viene comperato dai quaranta ladroni, speculatori immobiliari che trafficano in vantaggiosi acquisti dalle corti di omologazione testamentaria e dagli amministratori pubblici, una cerchia in mezzo alla quale Talia in genere non naviga. Non ho idea di come si sia trovata coinvolta in questa transazione. È rientrata in città senza ulteriori fermate, né per mangiare né per fare benzina. Stando al suo racconto, non ha visto nessuno, non ha scambiato una sola chiacchiera. «Stupendo», esclamo. «Talia, ascoltami.» Tod sta cercando di farla ragionare. «Possiamo avere un minuto da soli?» Non mi va molto di permettere a Tod di parlare con lei da solo, ma dai segni di intimità che vedo, probabilmente ogni danno possibile è già stato fatto, molto prima del mio arrivo. «Certo», dico. «Parlate pure.» Mi alzo, lascio la mia cartella e il blocco per appunti sulla poltrona, ed esco dalla stanza. Gironzolo per l'entrata, supero la porta aperta che immette nello studio di Ben. Accendo la lampada della scrivania, per non restare al buio. Dall'altra stanza mi giunge il suono di svariati rifiuti da parte di Talia. Tod non sta incontrando molto successo nella sua opera di convincimento. Lo studio è un museo vivente. Sulla scrivania ci sono pagine scritte di pugno da Ben. Sotto la lampada c'è un libro aperto, come se lui dovesse rientrare da un momento all'altro per riprendere a leggere da dove era rimasto. Guardo la copertina. È un tomo del West's Digest. Il nome dello studio è stampigliato sui margini inferiori delle pagine, come per un volume da biblioteca pubblica. Probabilmente ci sarà qualche affranto avvocato che gira per l'ufficio chiedendosi che fine abbia fatto il libro. Risuona un alto, conclusivo: «No» di Talia, seguito da un lungo silenzio nell'altra stanza. È il segno che posso rientrare. Lascio la luce accesa nello studio e mi avvio lentamente verso il salotto. Quando entro, Tod è di spalle. Sta guardando fuori della finestra, verso la
piscina all'altra estremità di un prato ben rasato. «Paul», dice Talia, «voglio il tuo parere professionale. Quante sono le mie possibilità?» Di nuovo, è tutta concretezza. «Possono succedere molte cose fra oggi e il processo, e ne possono succedere molte durante il processo. Ne sapremo di più dopo aver visto i loro testimoni all'udienza preliminare», le dico. «Ma se dovessi tirare a indovinare, ora come ora direi non più di cinquanta e cinquanta.» Sono quasi sincero; metto solo un po' di belletto. Lei riflette un momento, poi parla. «Non ci sarà alcun patteggiamento. Se devo affondare, affonderò lottando.» Talia sta dimostrando più fegato di quello che mi sarei aspettato. Si alza dal divano ed esce dalla stanza. Evidentemente, il nostro incontro è concluso. Sono alla porta con Tod. Talia non mi ha accompagnato. Prima che lui apra, mi giro e lo guardo. «Mi dica una cosa. Non è tenuto a rispondere, se non vuole.» «Se posso», accondiscende. «Dov'era lei, il giorno in cui è stato ucciso Ben?» Il rossore gli avvampa sulle guance, come se lo avessi preso in contropiede. «Non andiamo tanto per il sottile, eh?» dice. «Non ho molta scelta. Il tempo stringe. Si rende conto della posizione pericolosa in cui si trova?» gli chiedo. «Chi? Io?» Il suo tono è quasi incredulo. «Certo. Lei è qui, in questa casa. La polizia sta cercando un complice. Qualcuno tanto forte da poter aiutare Talia a muovere il cadavere. Trasportarlo dal posto dove Ben è stato ucciso, qualunque sia, fino al suo ufficio. In questo momento, lei sembra proprio la persona giusta. Potrebbe essere un po' più discreto.» «Forse», dice. «Ma sono un amico. Sono stato allevato nel concetto che gli amici non tagliano la corda.» Ho l'impressione che questa sia una frecciatina rivolta a me, al fatto che sono stato a dir poco lontano da Talia, in questi suoi giorni di bisogno. Il nostro, ora, è solo un rapporto di lavoro. «Davvero nobile», dico. «Per niente», ribatte. «Sto solo cercando di fare la cosa giusta.» «Però questo non risponde alla mia domanda. Dov'era il giorno in cui Ben è stato ucciso?» «Al circolo. A giocare a tennis. Tutto il pomeriggio.» Non esita, non bat-
te ciglio mentre lo dice. «Ho cenato lì, con degli amici. Me ne sono andato dopo le nove di sera.» Scocca un'occhiata alle spalle, per vedere se Talia è a portata d'orecchio. «Può controllare.» «Che fortuna per lei.» «Già», risponde, afferrando la maniglia. «Buonanotte.» 16. Mancano quattro giorni all'udienza preliminare e io conto le ore come se fossero scandite dall'orologio del giudizio universale. Ho seguito Cheetam come un'ombra, cercando di informarlo sulle prove. Fra una telefonata e l'altra gli espongo la teoria del pallino anomalo, del secondo sparo. Lui continua a dirmi che sì, va bene, ne riparleremo. A quanto pare, Cheetam non ha tempo. Vive con una cornetta del telefono che gli spunta dall'orecchio. Trascorre le giornate a raccogliere informazioni su altri casi dai quattro angoli dello Stato e oltre, parlando con il suo studio a Los Angeles, con il suo agente di borsa a New York, inviando interrogatori via fax a una mezza dozzina di altri Stati, dove ha scagnozzi che lavorano per lui come le filiali di una multinazionale. Evidentemente, per Gilbert Cheetam, se una cosa non viene riferita al telefono, non è avvenuta. Ho tentato di stendere i miei pensieri per iscritto, nella speranza che il punto in cui ci troviamo con il caso di Talia riscuota la sua attenzione. Ma i miei promemoria mai letti languono accanto a mucchi di altra corrispondenza, ingialliscono nel cestino sulla scrivania che lo studio Potter & Skarpellos gli ha messo a disposizione. Mancano tre giorni all'ora zero quando finalmente riesco a bloccarlo per pranzo. Lo guido a un angolo isolato di questo posto, uno squallido ristorantino lontano dalla folla del centro. Da decenni, nessun individuo degno di nota ha gettato la sua ombra sulla soglia di questo locale. L'ho scelto proprio per questo motivo: qui non potremo essere rintracciati o interrotti. «Com'è il vitello?», chiede. «Qui è tutto squisito», mento. «Ottimo. Prendo il vitello.» Ordiniamo e comincio a parlare. Trascorsi pochi secondi, si sente uno stridulo trillo elettronico, fioco, a malapena udibile. Proviene da sotto il tavolo. «Scusami un attimo», dice Cheetam.
Apre di scatto il coperchio della sua valigetta e tira fuori un piccolo telefono. C'era da aspettarselo: l'apparecchio cellulare di Cheetam. Rosicchio gambi di sedano e pilucco dai bordi della mia insalata, mentre lui conduce una conferenza telefonica che copre l'intero emisfero settentrionale. Siamo arrivati al secondo. Lui sta spilluzzicando il vitello con la forchetta, il ricevitore ancora all'orecchio, quando improvvisamente da Los Angeles gli chiedono di attendere. Il suo sogno, mi dice, è un fax portatile per l'automobile, da abbinare al cellulare. Gli sorrido cortesemente. Quest'uomo è un drogato di elettronica. Al caffè stacca il ricevitore dall'orecchio quel tanto che basta per dire alla cameriera: «Dia a me il conto». Poi ripartiamo sulla sua auto, con lui sempre incollato al telefono. A un incrocio interrompe i suoi affari e appoggia il ricevitore sul sedile accanto a sé. Colgo l'attimo. «Dovremmo cominciare a prepararci per il processo», gli dico. «Come vuoi condurlo?» Disporre i carri in cerchio per una difesa in fase preliminare, gli dico, è una perdita di tempo. «Ti arrendi troppo facilmente», ribatte lui. «Perché non aspettiamo fino a dopo l'udienza preliminare, prima di cominciare a parlare di processo?» «Fammi un favore. Se hai un asso nella manica, qualcosa che porrà fine a questa storia in fase preliminare, dimmelo subito. Ma risparmiami le cazzate.» Mi guarda a occhi spalancati, con sguardo interrogativo. «Svegliati e falla finita con le stronzate», incalzo. «Non farmi perdere tempo. Non sono Talia. Non sono la tua cliente. Ho visto le prove d'accusa. E, da quello che ho visto, nell'udienza preliminare ce la prenderemo sui denti.» Scandisco bene le sillabe, precise e nette, come a sottolineare la certezza della cosa. «Ma davvero.» Mi lancia un'occhiata. E per un brevissimo istante penso che mi stia prendendo in giro. Non so se mettermi a litigare o se dedurre che tutto questo faccia parte di un bonario scherzo, che in realtà Cheetam sia perfettamente al corrente dei fatti del nostro caso già da molto tempo. Dal taschino interno del gilet estrae un astuccio in cuoio e toglie il coperchio. Appaiono cinque lunghi panatella avvolti in lucido cellophane. Me ne offre uno. «No, grazie.» «Ti spiace se ne accendo uno?»
«L'automobile è tua.» «Sei decisamente troppo pessimista», dice. «Ma sono d'accordo, è un caso difficile. Però sono anche convinto che abbiamo una possibilità.» Quest'uomo è un sognatore. Strappa l'involucro con i denti e si fa scivolare tra le labbra uno di quei lunghi cosi sottili. Lo accende con un fiammifero di legno, e l'auto comincia a riempirsi di una densa foschia azzurra. Abbasso il finestrino di alcuni centimetri. «Caso difficile.» Lo dico come se fosse l'eufemismo dell'anno. «Nei procedimenti giudiziari, l'udienza preliminare è una tirata esibizionistica dell'accusa.» È vero. L'unico scopo delle udienze preliminari è smantellare incriminazioni di reato grave prive di fondamento, evitando a chi sia stato ingiustamente accusato l'imbarazzo e il costo di un processo vero e proprio in Corte Superiore. «Tanto per cominciare», dico, «all'accusa spetta l'onere minore. Non si tratta di prove oltre ogni ragionevole dubbio. Non in questa sede. Non è nemmeno necessaria una preponderanza di prove a carico. Tutto quello che devono dimostrare è una causa probabile. Lo sai cosa significa in questo Stato?» Dall'espressione della sua faccia, dietro la cortina di fumo, capisco che non lo sa. «Significa un sospetto, un semplice sospetto.» Lo dico come se queste parole evocassero qualcosa di sinistro, l'ombra di un tribunale d'inquisizione tutto urla e gemiti. «Per rinviare la nostra cliente a giudizio con l'accusa di omicidio di primo grado, al giudice basta il ragionevole sospetto che Potter sia stato assassinato, e che a ucciderlo sia stata Talia.» Lui annuisce e sorride, soffiando anelli di fumo verso l'alto. «Sono d'accordo», concede. «Ma abbiamo alcune cosette dalla nostra parte.» «E sarebbero?» «Come fa una donna ad avere la meglio su un uomo molto più grande e grosso di lei, anche un uomo anziano dell'età di Potter? Perché mai avrebbe dovuto usare un fucile? Devi ammettere che non è un'arma da donna.» Continua a battere su questo chiodo. «Non vuoi proprio starmi a sentire», gli dico. «La polizia sta lavorando in base alla teoria che qualcuno l'abbia aiutata.» Il telefono squilla sul sedile accanto a lui. La mia mano lo afferra prima
che lui possa sollevarlo. Lo faccio scivolare sul pavimento, nello spazio fra i miei piedi, dove continua a squillare all'impazzata. Mi guarda, vagamente offeso. Poi sorride. «Va bene», dice. «Continua.» «Tanto per cominciare, il procuratore distrettuale ha sospetti a palate, e puntano tutti su Talia.» Gli espongo la nostra tesi del secondo sparo, gli dico che una testimone ha visto l'auto di Ben davanti a casa attorno all'ora del decesso, e che Talia non ha nemmeno un barlume di alibi. Quando ho terminato, lui resta pensieroso un momento prima di parlare. «Allora cosa mi stai dicendo? Vuoi aprire le trattative per un patteggiamento?» chiede. Sollevo un sopracciglio. «Sarebbe meglio che infilarci in un processo al quale non siamo preparati.» Prende queste parole nel senso che volevo io, un rimprovero per il poco tempo e interesse dedicati al caso. Seguono parecchi sbuffi di fumo denso, mentre lui tira rapide boccate dal sigaro. A questo punto mi lacrimano abbondantemente gli occhi. L'unica consolazione è che questi non sono i bastoncini di merda secca del Greco. «Mi stai dicendo che non faccio il mio lavoro. È così?» «In una parola, sì.» «Guarda che io andavo in tribunale quando tu eri ancora all'asilo», sbotta. «Chi diavolo credi di essere per criticarmi?» «Sono quello che sa che ti trovi nella merda fino al collo», gli rispondo. Non dice nulla, ma mi lancia il malocchio. Mi guarda di traverso a occhi socchiusi mentre mastica rumorosamente il sigaro, il busto piegato in avanti, le mani aggrappate al volante. «Vuoi parlare con il procuratore? Va bene, fallo. Come si dice, tutto nella vita è negoziabile.» «Ottimo tentativo», dico. «Ma il caso è tuo, ricordalo. Io sono solo l'avvocato aggiunto. Entrerò in scena quando sarà ora di raccogliere i cocci, in caso di condanna.» Capisco a cosa sta mirando. Del tutto impreparato per l'udienza preliminare, direbbe a Talia che lui era pronto ad affrontare un processo, ma che l'hanno avuta vinta menti più pavide. Svanirebbe nel nulla, lasciandomi alle prese col tentativo di farle ottenere un'imputazione ridotta dopo una dichiarazione di colpevolezza. «Allora non è il patteggiamento quello che vuoi?» dice. «Non sono disposto a tagliare la corda, se è questo che vuoi dire.» Fa un sorriso. Riacquista un po' di padronanza di sé, ora che è passato al-
l'offensiva. «Ho capito qual è il tuo problema. Stai cominciando a pensare che forse è stata proprio lei?» Cheetam vive su un altro pianeta. Scoppio a ridere. «Oh, non ridere», dice. «Lo capisco benissimo quando un avvocato comincia ad avere dubbi. Riesco a leggere i giovani avvocati come fossero foglie di tè.» «Ma certo. Fossi in te, non cederei l'abilitazione alla professione in cambio di un mazzo di tarocchi, perlomeno non ancora», rispondo. «E per tua informazione, no. Non penso che sia stata lei. Ma, in base alle prove, qualcun altro potrebbe pensarlo. Dipende da come saranno presentate.» «Allora perché non accusarsi di un reato minore? Farebbe risparmiare a noi un sacco di problemi, e a lei un notevole rischio. Perché, come hai detto tu, dovremmo disporre i carri in cerchio, se è una causa persa in partenza?» «Cosa stai suggerendo? Omicidio di secondo grado?» chiedo. «Magari proviamo prima con un preterintenzionale», dice. «Marito e moglie, un delitto passionale. Reggerebbe.» Ma capisco dal tono che, con Cheetam, tutto è negoziabile. «No.» «Perché?» «Di' pure che sono un sentimentale, ma quando prendo un anticipo da un cliente mi sento in obbligo di dedicargli tutti i miei sforzi. Oltretutto, Talia non accetterebbe mai. Puoi credermi.» Mi scocca un'occhiata, con un sorriso sardonico dipinto in faccia. È di nuovo Cheetam, l'indovino. «La conosci bene, eh?» Annuisco. «Sai», dice, «c'è un detto. 'Un avvocato che va a letto con la sua cliente finisce per fottersi da solo.' Mai sentito?» Lo guardo, ammutolito. Sulla sua fronte ci sono solchi che sembrano dire: «Oh, sì, so tutto di te». «Non ci vuole un genio», continua. «Un giorno sei nello studio, il giorno dopo non ci sei più. La signora è sposata con un uomo che ha un centinaio di soci e collaboratori, ma quando viene accusata chiede di te. Di punto in bianco.» Alza gli occhi al tettuccio dell'auto, come per sottolineare quanto sia ovvia la cosa.
Eppure sono convinto che stia solo tirando a indovinare, che dietro le sue parole non ci sia nient'altro che un sacco di spacconaggine. Il sorriso comincia a svanire dalla sua faccia. Mi lascia con un pizzico di dubbio, il germe dell'incertezza. Non mi resta che chiedermi se Talia abbia vuotato il sacco con lui, se abbia messo a nudo la propria anima in uno di quei colloqui a cuore in mano fra cliente e avvocato. Indico il sigaro che, dalle dita strette sul volante, sta propagando un diluvio di fumo. «Di cosa li farciscono? Di peyote?» chiedo. Si mette a ridere. «Se così ti pare.» «Non se mi pare. È così.» Mento, per cercare di riportare la conversazione sul lavoro. «Se proprio dobbiamo patteggiare, lo facciamo dopo l'udienza preliminare. Secondo me dobbiamo vedere cos'hanno in mano, e come reggono i loro testimoni al controinterrogatorio.» Adesso, fra un incrocio e l'altro, ha ripreso a guardarmi. Sorride come il gatto che si è mangiato il canarino. Sa che sto mentendo. Fatica a mantenersi serio, con la piega che ha preso la conversazione. «In questo momento potremmo arrivare a un accordo più vantaggioso», dice. «Se non riescono a dimostrare la loro tesi, potremmo anche non avere bisogno di patteggiamenti.» «Hmm.» Riflette un attimo, masticando il sigaro. Sono grato al fumo e alla distrazione. «Tocca a te decidere», dico. «Certo che tocca a me», ribatte. C'è sfrontatezza nella sua voce. «Ma se vuoi il mio consiglio...» Non dice niente per fermarmi. «Penso che dovremmo premunirci. Considerare l'udienza preliminare come una fonte di ulteriori scoperte. Un'occasione per screditare i loro testimoni. Non permettere che Talia deponga. Dare loro il meno possibile, cercare i punti deboli della loro tesi, e prepararci per il viaggio più lungo. Prepararci per il processo.» C'è un attimo di silenzio di tomba. Il tipo di silenzio che di solito precede una difficile rivelazione. «Credevo che a quest'ora Tony ti avesse già parlato», mormora Cheetam. «Parlato di che?» «Di chi seguirà il processo.»
«Che diavolo stai dicendo?» «Temo di non essere più disponibile.» Lo guardo, più divertito che sorpreso. Per chissà quale ragione, niente di ciò che Cheetam dice o fa riesce a sorprendermi. È troppo volubile. Con una faccia imperscrutabile, tiene d'occhio il traffico mentre attraversa un incrocio. Poi trae un lungo sospiro. «Ho un conflitto», dice. «Un conflitto di date. Una causa molto importante in uno Stato dell'est. Amianto. Pensavo che Tony te l'avesse detto.» «Non è che io e Tony parliamo molto.» Mi sento il ghiaccio nelle vene. Il Greco ha procurato a Talia uno zimbello nelle vesti di Gilbert Cheetam. Mi chiedo da quanto sia al corrente di questo conflitto di date, e chi tenga in serbo per la difesa di Talia. «È molto probabile che questa causa per un difetto di produzione si protragga per almeno cinque mesi, quindi...» Mi guarda con un sorriso sfuggente. «Ho pensato fosse meglio concludere tutto in sede preliminare.» Lo dice con la verve di qualcuno che ordina gamberetti. Resto a fissare Gilbert Cheetam, divertito al punto di scoppiare a ridere, e all'improvviso la mia mente è invasa da un unico pensiero, il contratto per il libro che ha già firmato. «Ti capita spesso di firmare contratti per libri su casi che non hai intenzione di seguire?» dico. «Oh, quello. Non è un problema. Il contratto è trasferibile», dice. «Se si arriva al processo, passerò i diritti a chi seguirà il caso. L'editore ha già un negro», dice. «Io prendo soltanto una percentuale.» Ha un enorme sorriso tutto denti, e continua a tenere in bocca il panatella ormai inzuppato di saliva. «Come dico sempre, tutto nella vita è negoziabile.» «Grande.» Mentre la sua auto riparte dal marciapiede, dopo avermi lasciato di fronte alla Emerald Tower a fare altro duro lavoro preliminare per il caso che Cheetam non seguirà, provo un senso di vuoto allo stomaco. Nasce dalla consapevolezza che Talia e io, ciascuno a modo suo, siamo stati fregati. 17. In questo Stato, perché sia emessa una condanna a morte, si deve dimostrare che un omicidio è accompagnato da «circostanze aggravanti», in
special modo una condotta efferata. Bisogna provare che è esistita un'intenzione malvagia, al di là della semplice eliminazione di una vita umana. Nel caso di Talia, la pubblica accusa ne imputa due: omicidio per fini di lucro e premeditazione. L'udienza preliminare è un circo. Siamo immersi nel frastuono provocato dai curiosi: cronisti, frequentatori abituali del Palazzo di Giustizia, vecchie signore e pensionati col cappello di paglia che non hanno niente di meglio da fare, avvocati con un'ora libera fra le varie comparizioni. Sono tutti assembrati qui, nell'aula della sezione 17 del Palazzo di Giustizia. Immediatamente dietro i posti riservati alla stampa, si sono accomodate quattro attraenti signore splendidamente abbronzate, sulla trentina, che hanno seguito il caso da vicino. Con loro c'è Tod. Spediscono robusti segnali di sostegno a Talia, che di tanto in tanto si volta a guardarle e sorride. Immagino si tratti di amiche del circolo del tennis o del golf. Talia è pallida e tesa. Le cronache del suo arresto apparse sui giornali parlavano di una pura e semplice formalità, una comparizione alla centrale di polizia in compagnia di un avvocato, il sottoscritto, per le impronte digitali, le fotografie, e il rilascio su cauzione: duecentomila dollari. Per la cauzione abbiamo usato parte della quota di Talia nella casa, evitando la percentuale che verrebbe incassata da un garante. Benché al momento sia completamente all'asciutto di contanti, duecentomila dollari, per una donna che in teoria dispone di mezzi come Talia, sono considerati una miseria da tutti coloro che partecipano a questo gioco. Almeno per il momento, la Corte ha deciso che la mia cliente non rappresenta un rischio eccessivo di fuga. Nel caso di Talia è una certezza. Tutto ciò a cui tiene è qui, in questa città. Nei cerchi scuri attorno ai suoi occhi vedo i segni della tensione. È come se i traumi di questi ultimi mesi, la morte di Ben, e ora l'incriminazione in questa sordida e sporca faccenda, abbiano cominciato a riscuotere il loro pedaggio. I titani dei media sono qui in forze: maturi redattori dei grandi giornali del sud e della Baia, cronisti locali in lizza per le testate nazionali, troupe di tre reti televisive, e un mare di giornalisti dei quotidiani minori. Tutti pretendono a gran voce un posto nelle prime due file. I riflettori ad arco e le troupe televisive, con i loro generatori portatili, sono stati lasciati fuori della porta, come orfanelli. C'è un uomo che vedo oggi per la prima volta. Siede solo all'altro tavolo destinato agli avvocati, quello più vicino alla tribuna vuota dei giurati. Non
l'ho mai conosciuto di persona, ma so chi è dalle fotografie apparse sui giornali. Alto e di carnagione scura, una presenza torreggiante, con occhi infossati, una massa folta e arruffata di capelli corvini. La fronte è segnata da profondi solchi che dalle tempie scendono verso le guance incavate. È un viso che possiede una sua nobiltà; se avesse la barba, potrebbe persino ricordare Lincoln. Si alza a svuotare sul tavolo il contenuto di una logora cartella in pelle: un assortimento di libri, un unico blocco di carta gialla formato protocollo. Al centro del blocco, i fogli coperti dalla fitta grafia di una mano pesante sembrano sottilissimi. Nonostante le storie che ho sentito da Sam Jennings e da altri, Duane Nelson non dà l'impressione del politicante. «Tutti in piedi.» Un robusto messo, che ha passato da un pezzo la mezza età, marcia di fronte allo scanno. Una pesante pistola gli sbatte sulla coscia mentre cammina. «Rimanete in piedi. Il tribunale municipale di Capitol County, sezione 17, è ora in sessione. Presiede il giudice Gail O'Shaunasy.» Quelli che ancora indugiavano nel corridoio centrale si affrettano ai loro posti. O'Shaunasy esce a passo spedito dallo studio privato e sale i gradini dello scanno, un lampo di turbinante toga nera e autorità. Giovane signora sulla trentina, è l'ultimo astro nascente della magistratura. «Abbiamo alcune questioni preliminari», dice. Segue qualche contesa di scarso peso. Cheetam si alza e nell'erudito, lezioso inglese di un attore attempato e pomposo lancia un certo numero di mozioni pre-processuali. Sono mozioni escogitate da Cheetam e Ron Brown, tutte volte all'esclusione di prove: le fibre di moquette trovate in casa di Talia e alcune cartucce prese nello studio di Ben. Nelson è all'altezza dell'occasione. Citando riga per riga decisioni precedenti, afferma che un mandato di perquisizione non era necessario. «La signora Potter», dice, «ha dato il suo assenso alla perquisizione.» Poi il colpo di grazia. Pare che Ron Brown, che aveva il compito di smistare tutte le mozioni preliminari, non abbia messo Cheetam al corrente della regola delle quarantotto ore. Cheetam l'ha infranta consegnando le proprie mozioni al procuratore distrettuale soltanto stamattina. Gail O'Shaunasy è chiaramente irritata dall'atteggiamento disinvolto nei confronti delle locali regole di procedura. Per quanto possano essere provinciali, violarle volutamente è il modo più veloce per alienarsi le simpatie di un giudice che ha contribuito a redigerle.
Cheetam picchia i pugni sul tavolo e parla della gravità delle accuse mosse alla sua cliente. O'Shaunasy alza una sola mano per interromperlo. «Il signor Nelson ha ragione. Le dichiarazioni in nostro possesso indicano un consenso alla perquisizione. Ho letto i suoi punti e le sue obiezioni, avvocato Cheetam. Dai fatti non risulta nulla che mi porti a concludere che la polizia avesse iniziato a indirizzare i suoi sospetti sull'imputata, all'epoca in cui ha visitato la sua casa per questa inchiesta. C'è qualcosa di cui non sono a conoscenza?» Cheetam rimane ammutolito, a faccia a faccia con la legge. Impossibilitato a dire «sì» per mancanza di qualcosa da aggiungere, e impossibilitato a dire «no» per il timore di perdere sulla questione, non dice nulla. «Su questo punto, e soltanto per questa volta, soprassiederò alla sua palese violazione della regola delle quarantotto ore, avvocato Cheetam. Che non si ripeta più. Mi ha capito?» Cheetam annuisce come uno scolaretto. «Ma, quanto al merito della questione, ritengo che la perquisizione sia avvenuta in conformità al consenso dell'imputata, senza coercizione, e prima che l'imputata diventasse oggetto dei sospetti in questo caso. La sua mozione è respinta.» A quanto pare, l'unica persona finora toccata dalla strategia e dalle argomentazioni di Cheetam è Talia, quasi terrorizzata nel vedere che il primo sangue versato in questa battaglia è proprio il suo. Contrariamente a tutto quello che Sam Jennings mi aveva fatto pensare, Nelson è una presenza imponente. Emana la giusta combinazione di autorità e benevolenza. L'accusa chiama il suo primo testimone, Mordecai Johnson, un anziano detective, con i capelli grigi diradati da un'incipiente calvizie. Johnson è uno dei due tecnici della scientifica chiamati sul posto, nell'ufficio di Ben, la sera del delitto. Depone sul capello trovato nel meccanismo di chiusura del fucile e lo collega a Talia, non in maniera assoluta, ma quanto basta per costituire un pericolo. «Corrisponde, sotto tutti i punti di vista, ai campioni di capelli presi dalla capigliatura dell'imputata, Talia Potter», dice. Johnson si sofferma brevemente sul sangue ritrovato nell'ascensore di servizio; il tempo sufficiente per stabilire la direzione del tragitto seguito dal corpo, e lasciare intendere che Ben fosse già morto quando è stato trasportato nel suo ufficio.
Nelson ha finito con il testimone. Cheetam lo controinterroga. La scienza deve ancora scoprire un metodo universalmente accettato per identificare i capelli di un determinato individuo. Cheetam riesce a ottenere questa ammissione dal teste. «Quindi lei non può sostenere con certezza scientifica che il capello trovato nel meccanismo di chiusura del fucile appartenga proprio alla signora Potter?» «No», ammette Johnson. «Posso soltanto affermare che è identico in tutte le sue caratteristiche principali ai campioni presi dall'imputata.» Conficca il coltello un po' più a fondo. Nonostante il suo celeberrimo fascino, Cheetam è notoriamente lento di riflessi. Senza che gli venga posta alcuna domanda, il teste riesce a fornire una svelta e compromettente disquisizione sulle caratteristiche dei capelli, il pigmento della corteccia, il midollo; tutte identiche al campione preso dalla testa di Talia, sostiene. Cheetam si dimentica di interromperlo. Nel frattempo, il giudice continua a prendere appunti. Scarabocchio i miei su un blocco giallo. Cheetam torna al tavolo della difesa per consultare il rapporto della scientifica. Gli spingo il mio blocco sotto il naso come se fosse un gobbo televisivo. Lui sfoglia a casaccio il rapporto per un attimo, guarda di sbieco il mio appunto, poi torna al teste. «Signor Johnson, lei sa dove fosse abitualmente tenuto o conservato il fucile ritrovato sulla scena?» «Mi è stato detto, dalla signora Potter e da altri, che quella particolare arma era solitamente tenuta in una custodia nello studio del signor Potter.» «Nella residenza dei signori Potter?» «Esatto.» «Dunque, dato il fatto che quest'arma era tenuta a casa dei signori Potter, sarebbe strano che un capello forse appartenente alla signora Potter possa essere ritrovato sull'arma?» Il teste guarda Cheetam con espressione interrogativa. «Voglio dire, non sarebbe possibile che un simile capello possa essere stato trasportato dall'aria, o si possa essere depositato sul fucile quando la signora Potter lo stava pulendo o spolverando?» «Immagino di sì», dice Johnson. «E quindi è del tutto possibile che questo capello possa essere stato su quell'arma, incastrato nel meccanismo di chiusura, molto prima del giorno in cui il signor Potter è stato ucciso, non è vero?» «È possibile», ammette il testimone.
«Ho finito con il teste, vostro onore.» Strappo la pagina dal mio blocco per appunti e la accartoccio. Non caveranno molto da quel capello al processo, penso. Poi tocca alla balistica. Il teste, un perito del dipartimento di giustizia dello Stato, depone sul peso e sulla dimensione dei vari pallini ritrovati nella vittima e nel soffitto dell'ufficio di Potter. Parla di velocità e di traiettoria del colpo che ha fatto saltare la sommità del cranio di Ben. Gira attorno all'esistenza del pallino anomalo senza di fatto dichiarare l'eventualità di un secondo sparo. Nelson sta scavando una buca e la sta coprendo di foglie. Cheetam si alza per il controinterrogatorio. Lancia una sola domanda. «Agente, è vero o non è vero che la traiettoria dei pallini della cartuccia sparata alla testa del signor Potter potrebbe confermare una ferita autoinflitta?» «È possibile», dice il teste. «Grazie.» Cheetam si siede. Non posso crederci. Cheetam sta puntando sulla teoria del suicidio. Non ha letto il rapporto della scientifica; non sa che l'esame per la ricerca di residui di polvere da sparo sulle mani di Potter ha dato esito negativo. Mi pare di sentire Nelson che incalza: «E come spiega l'imputata l'assenza di impronte dal fucile?» Il teste successivo è Willie Hampton, un giovane nero, il custode che ha sentito lo sparo e ha scoperto il corpo di Ben nell'ufficio. Nelson ha qualche difficoltà a far ripetere accuratamente a Hampton i particolari che ha fornito alla polizia la sera in cui Ben è stato ucciso. «Signor Hampton, può dire alla Corte approssimativamente che ore erano quando ha sentito lo sparo nell'ufficio del signor Potter?» «Stavo pulendo il bagno, il gabinetto degli uomini nell'atrio», dice Hampton. «Allora potevano essere...» C'è una lunga pausa mentre Hampton tenta di ricostruire mentalmente i particolari. Nelson, fiutando guai, lo interrompe. «Forse questo potrà aiutarla. Ricorda di aver parlato con un agente di polizia che l'ha interrogata più tardi, quella sera stessa?» «Come no. Me lo ricordo, certo», risponde Hampton. «E ricorda di aver detto a quell'agente di avere sentito lo sparo nell'ufficio del signor Potter alle otto e venticinque circa?» «Obiezione, vostro onore. La domanda tende a suggerire la risposta.» Cheetam è balzato in piedi.
«Accolta.» «Sì che ricordo», dice Hampton. «Ho sentito quello sparo verso le otto e venticinque. Erano passati circa venticinque minuti dalle otto. Lo ricordo perché stavo pulendo il bagno, e pulisco sempre i bagni a quell'ora.» «È tutto con il teste.» Nelson ha quello che voleva. Lo rafforzerà con la prova che il centralino di polizia ha ricevuto la telefonata da Hampton prima delle otto e mezzo. Cheetam rinuncia a controinterrogare il teste, e facciamo una pausa per il pranzo. Alla tavola calda, davanti a un'insalata con la lattuga che comincia ad annerire, cerco di ficcare in testa a Cheetam di lasciare perdere la tesi del suicidio. Talia ascolta attenta, girando la punta di un cucchiaino di plastica in un vasetto di yogurt. «Che c'è di sbagliato?» dice Cheetam. «L'accusa deve dimostrare che la vittima è morta in seguito a un atto criminoso. Se riusciamo a muoverci nella direzione del suicidio, cade la tesi dell'atto criminoso.» «C'è un solo problema. L'idea non combacia con le prove», gli faccio notare. A quanto pare, la cosa non fa il minimo effetto a Cheetam. Gli ripeto che l'analisi per la ricerca di residui di polvere da sparo ha dato esito negativo, e che sull'arma non sono state rilevate le impronte di Potter. Mentre bisticciamo, Talia non ci toglie gli occhi di dosso. Nel suo sguardo c'è un brutto presentimento, un'espressione che sembra dire: «Se i miei avvocati non riescono a mettersi d'accordo, che speranza c'è per me?» «Al momento del decesso, Potter indossava una giacca», dice Cheetam. «E se avesse usato l'orlo della giacca per afferrare l'arma, se avesse avvolto la canna nella giacca? Questo spiegherebbe sia l'assenza di impronte sul fucile sia il fatto che non c'erano tracce di polvere da sparo sulle mani.» Fa acqua da tutte le parti: è insufficiente a dissipare la nube di sospetti che ha cominciato ad addensarsi su Talia. «E come ha fatto a portare l'arma in ufficio senza lasciare impronte?» gli chiedo. «Magari ha usato la custodia», dice. «O una coperta.» «E allora perché non hanno trovato la custodia, o la coperta, in ufficio? E come spieghi il fatto che la cartuccia nel fucile non aveva le impronte di Ben, se l'ha caricata lui stesso?» «Non lo so. Magari ha usato i guanti.» Mi guarda, spinge da parte il suo piatto. «Ho bisogno di un caffè», dice, e se ne va, lasciando Talia e il sot-
toscritto seduti al tavolo, da soli. In questi ultimi giorni, Talia ha assunto l'aspetto di un animale in trappola, piccolo e impaurito. «Non c'è via di scampo, vero?» dice. «Dovrò affrontare un processo per la morte di Ben, non è così?» «Non si sta mettendo bene», ammetto. Guarda per un attimo fuori dalla finestra, si regala tempo per assorbire la notizia. Poi riporta lo sguardo su di me. «Resterai con me?» chiede. «Continuerai a rappresentarmi?» In questo momento è completamente vulnerabile. Valuto la montagna di incriminazioni che si sta alzando davanti a lei, e la mia mente viene invasa dalle immagini della camera a gas. Solo che adesso non è Brian Danley a contorcersi e divincolarsi sotto le cinghie, ma Talia. «Sì», le dico. «Finché potrò aiutarti, finché tu lo vorrai, ti starò vicino.» Non dice niente, ma allunga una mano e stringe la mia. Dopo tanto tempo, stiamo ritrovando, finalmente, un punto di equilibrio, a mezza strada fra l'animosità e il desiderio. Nel pomeriggio Nelson chiama a deporre George Cooper. Cheetam contesta la competenza di Coop come patologo. Una domanda da parte di Nelson, e Coop comincia a sciorinare il proprio curriculum vitae. O'Shaunasy è furibonda sul suo scanno. Passano dieci minuti, e finalmente interrompe Coop. «Il teste è qualificato a deporre in qualità di esperto su questioni di patologia medica. Ha qualche obiezione particolare?» Guarda Cheetam da sopra gli occhiali. «No, vostro onore.» «Grazie al cielo», dice il giudice. Coop mi guarda di sottecchi dal banco dei testimoni e lancia un sorrisetto enigmatico, alla Monna Lisa. È lo stesso sorriso che usa quando giochiamo a poker. Coop ha una di quelle espressioni indecifrabili che possono voler dire di tutto, da una scala reale a una coppia di due. Nelson non perde tempo, e porta il suo teste nelle acque a me ormai ben note della lividezza. Ho il sospetto che Coop abbia mantenuto il segreto sulla nostra conversazione sull'argomento. Ormai è storia antica, dato che i particolari sono esposti in maniera esauriente nel rapporto medico che abbiamo ottenuto con una mozione. Coop parla della gravità e del flusso sanguigno, del fatto inconfutabile che il corpo sia stato spostato dopo il decesso.
Cheetam si china verso me. «C'era nel rapporto?» Annuisco. Sulla sua faccia si dipinge un'espressione grave quando vede andare in polvere la teoria del suicidio. «Dottor Cooper, ci può dire qual è stata la causa del decesso?» «Il decesso è stato causato da un singolo proiettile, o frammento di proiettile, che si è conficcato in uno dei gangli basali della vittima. Questo ha provocato una morte pressoché istantanea.» Segue, a beneficio della Corte, una breve spiegazione con l'ausilio di disegni anatomici. Viene mostrata la posizione del frammento di proiettile. «È un importante centro nervoso del midollo allungato, detto ponte di Varolio», dice Coop. «È qui che le cellule nervose si collegano al cervello e da lì, lungo la colonna vertebrale, al resto del corpo. Se questo centro nervoso viene distrutto o frantumato, le funzioni vitali cessano.» «Ed è quanto è successo in questo caso?» «Sì.» «Lei dice che un proiettile ha provocato questo trauma al ganglio basale della vittima. Intende una cartuccia a pallini da fucile da caccia?» «No. Intendo un proiettile da pistola, probabilmente di piccolo calibro, sparato alla testa della vittima, probabilmente da distanza ravvicinata.» C'è agitazione in aula. I cronisti nelle prime due file stanno prendendo appunti a ritmo frenetico. Nelson fa una pausa melodrammatica, come se udisse queste parole per la prima volta. «Dottore, può dirci l'ora del decesso?» Coop consulta i propri appunti, una copia del rapporto dell'autopsia. «Fra le sette e le sette e dieci di sera», dice. «L'ora è stata fissata alle sette e cinque.» «Come fa a essere così preciso?» «Una serie di procedure», spiega Coop. «Il segreto sta nel trovare il corpo subito dopo il decesso. I vari gradi di rigor mortis sono significativi. La lividezza stessa fornisce indizi. Se la pelle impallidisce quando la si preme, se diventa bianca, il sangue non si è ancora coagulato. Questo significherebbe che la morte è sopravvenuta meno di mezz'ora prima dell'esame. Se il sangue non può essere fatto defluire dai capillari, la pelle manterrà lo stesso colore scuro quando la si preme. Allora la vittima è morta da più tempo. In questo caso ho potuto misurare la temperatura del fegato. Si tratta di un organo ben isolato dal resto del corpo. Non è soggetto a rapide va-
riazioni di temperatura dell'atmosfera esterna. In questo caso, lo considero un mezzo preciso per determinare l'ora del decesso.» «Capisco. Lei dunque afferma, dottore, che a Benjamin Potter è stato sparato un colpo alla testa con un'arma di piccolo calibro fra le sette e le sette e dieci di sera, e che è stata questa ferita a causarne la morte?» «Sì.» «Allora possiamo ragionevolmente sostenere che il colpo di fucile udito nell'ufficio del signor Potter non sia stato la causa della morte?» «È esatto», dice Coop. Il pubblico dà ulteriori segni di agitazione. Due giornalisti escono, probabilmente per trasmettere servizi in diretta dai furgoni parcheggiati davanti al Palazzo di Giustizia. Nelson ora penetra nell'imponderabile: il calibro del piccolo proiettile e la distanza dalla quale è stato sparato il colpo. Coop spiega che la risposta a queste domande è meno certa perché è stato ritrovato solo un frammento di proiettile, e qualsiasi segno che uno sparo a bruciapelo avrebbe potuto lasciare sulla pelle è stato cancellato dall'estesa ferita provocata dal fucile. È opinione di Coop, dichiarata al cospetto della Corte, che il proiettile che ha provocato la morte sia stato frantumato dai pallini del fucile mentre penetravano nel cervello. «Il colpo di fucile», chiarisce, «da un punto di vista medico è stato un'aggiunta inutile.» «A meno che», suggerisce Nelson, «qualcuno non stesse tentando di far passare per suicidio quello che è un omicidio.» «Precisamente», dice Coop. È ora la volta di Cheetam. «Dottor Cooper, lei sostiene che sia stato questo proiettile misterioso, sparato alla testa del signor Potter, a provocarne la morte. Le è stato possibile trovare il foro d'entrata di questo proiettile?» «No. Come ho detto...» «Lei ha già risposto alla mia domanda, dottore. Dunque non esiste un foro d'entrata che lei sia riuscito a individuare per questo proiettile. Quanto era grande il proiettile in questione? Che calibro aveva? Ce lo può dire?» Gli occhi di Coop si stanno trasformando in due strette fessure. «Non con certezza. Era un frammento.» «Oh, un frammento. Quanto era grande questo frammento, dottore?» Coop consulta il suo rapporto. «10,68 grani», risponde. «E quando lei ha eseguito l'autopsia, ha trovato pallini da fucile nella te-
sta della vittima?» «Sì.» Intuendo la tattica di Cheetam, Coop è passato alle risposte brevi. «Quanti di questi pallini ha trovato?» «Nella vittima o nel soffitto dell'ufficio?» «Cominciamo dalla vittima.» Coop dà un'altra occhiata ai suoi appunti. «Durante l'autopsia ne sono stati estratti sessantasette dalla cavità cranica.» «E nel soffitto?» «Quattrocentonovantadue.» «Sa di quale numero fossero i pallini trovati nel corpo della vittima e nel soffitto?» «Praticamente tutti numero nove.» «E sa di cosa fossero fatti questi pallini?» «Di piombo, con un sottile rivestimento di rame.» «Lo sa, dottore, quanti pallini contiene una normale cartuccia di questo tipo?» «Circa cinquecentottantacinque...» «Obiezione, vostro onore.» Nelson ha capito dove sta tentando di andare a parare Cheetam. «Se l'avvocato Cheetam vuole chiamare a deporre un perito balistico, è libero di farlo. Il dottor Cooper è qui per deporre come esperto di medicina legale.» «Accolta.» «Eppure», dice Cheetam, «il dottore conosce bene il tipo di cartuccia. Ha perfettamente ragione riguardo al numero.» «Obiezione. Ora la difesa sta testimoniando.» «Avvocato Cheetam, rivolga i suoi commenti al teste e voglia esprimerli in forma di domanda.» «Chiedo scusa, vostro onore.» «Dottor Cooper, i pallini che lei ha trovato nel corpo della vittima e nel soffitto dell'ufficio del signor Potter erano tutti numero nove?» «No, erano di dimensioni variabili.» «Di dimensioni variabili?» Le sopracciglia di Cheetam si sollevano a effetto. Si gira verso il banco della giuria, dimenticando per un attimo che è vuoto. «Alcuni erano più grandi di un numero e alcuni più piccoli di uno, ma per la maggior parte erano numero nove.» La voce di Coop è piatta, come se stesse dicendo: «E con ciò?» Cheetam fa una breve pausa. Vorrebbe chiedere a Coop se queste varia-
zioni sono normali, ma Nelson lo farebbe prendere a calci nel sedere dalla Corte. Prosegue. «Ora, questo presunto frammento di proiettile... Lei ha sostenuto prima che pesava 10,68 grani. È esatto?» «Sì.» «Qual era il peso dei pallini trovati nella vittima?» Coop consulta di nuovo i suoi appunti. «In media pesavano 7,5 grani.» «Quindi quest'altra cosa, questa cosa che lei ha identificato come frammento di un proiettile, era un po' più grande?» «No, era molto più grande», dice Coop. «Circa quindici volte più grande.» «Capisco.» Cheetam sorride, per non mostrarsi scoraggiato da una risposta tutt'altro che utile. «Dottore, ha mai sentito parlare di un fenomeno detto 'fusione', relativo alla balistica dei fucili?» «Obiezione, vostro onore.» Nelson non molla. Cheetam ha qualche problema nell'arrivare al punto che gli interessa. «Mi permetta di riformulare la domanda, vostro onore.» «Prego.» O'Shaunasy lo sta di nuovo guardando da sopra gli occhiali. «Suppongo che nel corso della sua carriera di medico legale lei abbia eseguito centinaia, forse migliaia, di autopsie.» Coop annuisce. «E suppongo che alcune di queste autopsie, magari un notevole numero, abbiano implicato ferite da arma da fuoco.» «Un buon numero», conferma Coop. «Nel corso di queste autopsie che comportavano ferite da arma da fuoco, le è mai capitato di imbattersi in una situazione in cui due, o più, forse a volte addirittura parecchi pallini da fucile si fossero fusi assieme in modo da formare una massa di piombo più grande?» Cheetam si volta a guardare Nelson negli occhi. Sul suo volto è finalmente apparso un sorriso imperioso. «Conosco il fenomeno. L'ho visto», dice Coop. Il sorriso di Cheetam si allarga a dismisura. «Allora non è possibile che quest'oggetto che lei ha identificato come un frammento di proiettile, non è possibile, dottore, che questo amorfo pezzo di piombo sia in realtà costituito da un certo numero di pallini fusi assieme dal calore dell'esplosione mentre percorrevano la canna del fucile?» Cheetam volta le spalle a Coop. Adesso fissa Nelson, lo guarda diritto in
faccia, a braccia conserte, in attesa dell'inevitabile alzata di spalle e dell'ammissione di un: «È possibile». «No», dice Cooper. «Non erano pallini fusi.» Cheetam si gira con una piroetta e prende di mira il teste. «Come fa a esserne così certo, dottore? È un perito balistico, adesso?» Coop è lento nel rispondere, metodico e guardingo. «No», prosegue. «Non sono un perito balistico. Ma ho estratto tanti proiettili dai cadaveri che so riconoscerne uno quando lo vedo.» Poi, come per chiudere definitivamente la discussione, aggiunge: «Il frammento estratto dal ganglio basale di Benjamin Potter non era di piombo. Era una parte di un rivestimento d'acciaio, usato esclusivamente per proiettili di pistola e di carabina.» «Oh.» Cheetam è in piedi davanti al banco dei testimoni, a bocca semiaperta, come il re nudo. Ha violato la regola cardinale di ogni avvocato penalista: mai fare una domanda di cui non conosci già la risposta. «In questo caso era piccolo e sottile», incalza Cooper, descrivendo il frammento di rivestimento. «La ferita che ha inflitto era insufficiente per una carabina di grosso calibro. Quindi, sono giunto all'ovvia conclusione che si trattasse di una parte di un proiettile sparato da una pistola di piccolo calibro. Probabilmente una venticinque...» «È tutto per il teste, vostro onore.» Cheetam sta cercando di farlo stare zitto. «Perché è l'arma di calibro più piccolo che usa pallottole con rivestimento d'acciaio», conclude Coop. «Chiedo che quest'ultima frase venga cancellata dagli atti come non conseguente a domanda posta al teste, vostro onore.» Cheetam è scosso. Adesso è in piedi al tavolo della difesa, e sta cercando una via d'uscita. «Benissimo, avvocato, ma le ricordo che, essendo stato lei ad aprire la questione, il signor Nelson è libero di trattarla diffusamente in un nuovo interrogatorio.» O'Shaunasy ha incastrato Cheetam. Senza vie di scampo, Cheetam ritira la mozione di cancellazione, permettendo che la risposta di Coop resti a verbale. Nelson rinuncia a interrogare di nuovo il teste. George Cooper ha già fatto tutto il danno necessario per un solo giorno. Cheetam si siede e giocherella nervosamente con una matita mentre Nelson chiama il teste successivo. È Matthew Hazeltine, il socio di Ben. Era compito di Hazeltine redigere testamenti e vitalizi per i ricchi clienti dello
studio. Successioni e accertamenti patrimoniali sono la sua specialità. Ha l'aspetto ideale per questo ruolo: aria indigente, viso rugoso, e occhiali rotondi con la montatura in ferro. Se la discrezione sociale fosse una religione, Matthew Hazeltine ne sarebbe il gran sacerdote. Posso contare sulle dita di una mano le volte in cui gli ho parlato quando facevo parte dello studio. Con la pratica della successione di Sharon Cooper ancora in sospeso, ho desiderato parecchie volte aver fatto uno sforzo maggiore per coltivarlo. La sua deposizione riguarda l'esistenza di un accordo prematrimoniale; un documento, afferma, che la vittima gli ha chiesto di redigere prima che Potter e l'imputata si sposassero. Esibisce una copia di questo contratto, che Nelson ha contrassegnato per l'identificazione. «Ha mai steso un documento simile a questo accordo per altri clienti?» gli chiede Nelson. «In qualche occasione.» «Qual è lo scopo di un simile accordo?» Hazeltine riflette un momento prima di rispondere. «Di solito lo scopo è quello di proteggere i diritti degli eredi, figli di precedenti matrimoni.» «Ma in questo caso la vittima non aveva figli. Non è vero?» «È esatto.» «E l'imputata non aveva figli, vero?» «Infatti.» «Quindi quale funzione poteva avere un simile documento?» Hazeltine si agita un po' sulla sedia. La sua è una professione da gentiluomo. Nella stesura di testamenti e altri documenti di proprietà, le delicate questioni riguardanti i motivi sono il più delle volte taciute. «Il signor Potter era un uomo molto prudente. Voleva che tutti i suoi affari fossero sempre in ordine. Non era persona da correre rischi.» Hazeltine sorride a Nelson, come per comunicare che non c'è altro da aggiungere sull'argomento. «Signor Hazeltine, ha mai sentito parlare di una cosa chiamata 'clausola Rooney'?» Gli occhi di Hazeltine diventano due fessure dietro le lenti spesse. «Certamente.» «Può spiegare alla Corte da cosa deriva questo nome?» «Da Mickey Rooney.» Hazeltine è succinto, stringato. Si limita a rispondere alla domanda che gli viene posta. «L'attore?» «Sì.»
«E qual è lo scopo di questa clausola, brevemente, in termini correnti?» «È destinata a proteggere una parte da un coniuge che possa tentare di trarre ingiusto vantaggio.» «In che senso?» La svolta presa da questa linea di indagine sta chiaramente mettendo a disagio Hazeltine. «Un coniuge che potrebbe sposarsi per convenienza e volere poi un veloce divorzio», dice. «Ah.» Nelson annuisce vigorosamente, recita la parte dell'ottuso che ha appena compreso il significato dell'intera faccenda. «Ha mai sentito qualche altra definizione per questa clausola?» Hazeltine lo guarda, reclina un po' la testa all'indietro. «No, che io ricordi», dice. «Ha mai sentito il termine 'clausola dell'accaparratrice'?» chiede Nelson. Il teste si stringe brevemente nelle spalle. «Qualcuno può anche chiamarla così.» «Dunque, questa clausola, questa cosiddetta 'clausola dell'accaparratrice', non è forse inclusa nell'accordo prematrimoniale che lei ha preparato per il signor Potter?» «Sì.» «E fu la vittima, il signor Potter, a chiederle esplicitamente di includere questo paragrafo nell'accordo?» «Sì, certo.» «E lei ha spiegato alle due parti, al signore e alla signora Potter, al momento della firma dell'accordo, le implicazioni e l'effetto legale?» «L'ho fatto.» «E qual è l'effetto legale?» «La signora Potter non poteva ereditare nulla delle proprietà del signor Potter a meno che non fosse legalmente sposata con lui al momento della sua morte.» «Quindi, se lei avesse chiesto il divorzio...» Nelson fa una breve pausa. «O se lui avesse chiesto il divorzio, lei non avrebbe ottenuto nulla, è esatto?» «Esatto.» «A lei il teste.» Cheetam rivolge una lunga occhiata a Hazeltine, seduto al banco dei testimoni, e con un gesto della mano rinuncia al controesame. È ancora sconvolto, scosso dal siluro di Cooper.
«Vostro onore», dico. «Avrei alcune domande da rivolgere al teste.» Cheetam mi guarda come se volesse uccidermi con gli occhi. Io distolgo lo sguardo, ignorandolo. O'Shaunasy mi fa cenno di procedere. Rimango seduto al tavolo della difesa, e faccio la domanda che mi rode, la domanda rimasta senza risposta per tutta la fase preparatoria. «Signor Hazeltine, non è vero che gli accordi prematrimoniali vengono spesso redatti in concomitanza alla stesura di testamenti, e che i termini di un simile accordo sono accuratamente coordinati ai termini del testamento?» «È prassi comune.» «Le venne chiesto di redigere un testamento per il signor Potter nel momento in cui stese l'accordo prematrimoniale?» «Obiezione.» Nelson è scattato in piedi. «La domanda è irrilevante, vostro onore.» O'Shaunasy mi sta guardando. «È stato il procuratore distrettuale ad aprire l'intero argomento, la questione delle intenzioni testamentarie della vittima. Ha fornito prove secondo le quali, a meno che la mia cliente non fosse sposata con la vittima al momento della sua morte, avrebbe perso tutto quello che aveva acquisito durante il matrimonio. Ritengo di avere il diritto di ottenere un quadro completo della situazione.» «Obiezione respinta. Il teste risponda alla domanda.» «Mi venne chiesto di stendere un testamento contemporaneamente alla preparazione dell'accordo prematrimoniale.» Mi alzo dal tavolo e mi sposto di lato, tenendo una giusta distanza dal teste. «Mi pare lei abbia già confermato che il signor Potter non aveva figli.» Hazeltine fa un cenno affermativo. «Ha preparato testamenti reciproci per i signori Potter, o soltanto uno?» «Soltanto uno, per il signor Potter.» «Secondo i termini di quel testamento, se per un qualsiasi motivo l'imputata, la signora Potter, perdesse ogni diritto all'eredità, a causa di divorzio o per un'altra ragione, il signor Potter aveva nominato altri eredi, altre persone che avrebbero ereditato il suo patrimonio?» Hazeltine è chiaramente a disagio. Guarda il giudice, quasi sperasse in un richiamo. «Vostro onore, il testamento non è mai stato letto. Sono l'esecutore testamentario, ma fino a che questo procedimento non sarà conclu-
so, ho pensato bene di rinviare ogni omologazione. Sono questioni della massima riservatezza.» «La capisco, signor Hazeltine», dice il giudice, «ma sono anche attinenti al caso. La prego di rispondere alla domanda.» Hazeltine sposta lo sguardo nella mia direzione, nella vaga speranza che io abbia dimenticato la domanda. «C'erano altri eredi nominati nel testamento?» «Ce n'erano parecchi. Un lontano cugino del Midwest era l'unico parente sopravvissuto, oltre alla signora Potter. Doveva ricevere una piccola eredità. Il signor Potter ha lasciato diverse centinaia di migliaia di dollari alla facoltà di legge. Il resto del patrimonio andava alla moglie, e se lei fosse deceduta prima di lui o avesse perso diritto all'eredità per qualunque altro motivo, allora l'intero patrimonio andava a un unico beneficiario alternativo.» «Di chi si tratta?» La testa calva di Hazeltine è imperlata di goccioline di sudore. «Il suo socio», dice. «Il signor Skarpellos.» Nell'aula risuonano mormorii. «Quindi, se la signora Potter fosse...» Cerco una parola migliore, ma non me ne viene in mente nessuna. «...eliminata, il signor Skarpellos erediterebbe la sua parte di patrimonio?» Hazeltine deglutisce a fatica. «È esatto», risponde. «Oh.» La vera portata della reticenza di Matthew Hazeltine è ora chiara. Riservatezza o no, di una cosa sono certo. Tutto quello che Hazeltine sa del testamento di Ben lo sa anche Tony Skarpellos. È questo il predominio che il Greco esercita sui suoi cosiddetti soci. Ho concluso con il teste e lo lascio libero di andare verso un destino peggiore: il suo ufficio, e l'ira di Tony Skarpellos. 18. «È importante?» le chiedo. Sto facendo una pausa per il pranzo. Trangugio un sandwich e mi arrabatto a richiamare tutti quelli che mi hanno cercato: una pila di appunti lasciati stamattina sulla mia scrivania da Dee. «Non vitale», dice lei, «ma c'è un particolare in sospeso che sarà meglio sistemare prima di chiudere la pratica.»
Non ho mai incontrato Peggie Conrad, l'assistente legale che mi è stata raccomandata da Harry per la pratica di successione di Sharon. Dopo una prima telefonata, le ho spedito il fascicolo per corriere. Da allora le ho parlato due volte, sempre al telefono. Ascoltandola, mi faccio l'idea di una donna sciatta di mezza età. La sua voce ha un che di sciupato, un suono aspro che evoca odore di alcool e sigarette. A quanto pare, la successione di Sharon, come tanta parte della mia vita, non sta andando molto bene. Alla pratica mancano un paio di cose. «Ho quasi finito di mettere assieme il tutto», spiega lei. «La pratica è un po' pasticciata. Niente che non si possa sistemare, intendiamoci. Quando avrò finito di controllare tutto, pubblicherò l'avviso ai creditori, preparerò la dichiarazione conclusiva dei redditi della deceduta, a meno che il padre non ne abbia già fatta una.» È più una domanda che un'affermazione. «Meglio farla», dico. Conoscendo Coop e il suo stato mentale al momento della morte di Sharon, sono certo che non fosse dell'umore per affrontare le minuzie delle dichiarazioni dei redditi. Il fatto che lo Stato possa tassare questa transazione, la morte della sua unica figlia, è, ne sono certo, un concetto estraneo a George Cooper quanto lo è quello dei redditi di capitale a un senzatetto. Stamattina ho sentito, da voci che si sono diffuse, che la polizia non ha più piste. Un mese fa avevano pensato di controllare i dati dei telefoni cellulari, nella remota eventualità che il guidatore dell'auto di Sharon potesse avere con sé un telefono portatile e che lo abbia usato per farsi venire a prendere da qualcuno sul luogo dell'incidente. Ma era una traccia talmente esile che nemmeno Coop ha preteso che la seguissero sino in fondo. Invece ha raccolto ogni minimo appunto in suo possesso ed è riuscito a convincere la polizia a dargli un uomo, un tecnico della scientifica molto in gamba, per tre ore. Esamineranno l'auto ancora una volta, nella speranza di trovare qualcosa che possa essere sfuggito in passato. «Ci penso io», dice Peggie Conrad. «Alla dichiarazione dei redditi, cioè. Poi preparo l'elenco delle proprietà. E con quello dovremmo aver finito, penso.» «Quanto ci vorrà per chiudere la pratica?» le chiedo. «Sono ansioso di concludere. È un favore a un amico.» «Trenta, forse quarantacinque giorni. Una comparizione in tribunale, che forse potremmo anche riuscire a evitare. Se non ci sono complicazioni, richieste di creditori, a volte si accontentano di una documentazione scritta. Vuole che provi?»
«Se ci riesce, non sarebbe male. Questa cosa che manca, la ricevuta, è una complicazione?» le chiedo. «Uno scontrino per ritirare qualcosa», mi corregge. «No, non credo proprio.» Mentre lei parla, prendo appunti su un blocco di carta formato protocollo. Trascrivo i punti ancora da completare. «Il modello W-2 di Sharon dell'anno scorso. Per la dichiarazione dei redditi», dice lei. Faccio una smorfia. «Dovrò farmelo dare dal padre.» Sharon è una ferita non ancora rimarginata per Coop. Il pensiero di riaprirla, fosse anche per una banale questione pratica, non è piacevole. «Quanto allo scontrino», prosegue lei, «dall'inventario stilato dalla polizia risultano gli effetti personali che Sharon aveva con sé al momento dell'incidente. Non è una gran cosa, ma c'è anche questo scontrino rilasciato da un ferramenta, un negozio che si chiama Simms. L'inventario della polizia non dice cosa dovesse ritirare Sharon, ma qualunque cosa sia fa parte del patrimonio. Lo scontrino mi manca. Potrebbe sentire il padre o semplicemente chiamare il negozio. Non è importante. Se non riusciamo a trovarlo, lasceremo perdere e indicheremo l'oggetto come smarrito.» Peggie mi legge il numero dello scontrino e io lo trascrivo. Telefonerò al negozio di ferramenta. Per questo posso evitare di infastidire Cooper. «È tutto?» «Per il momento sì. Fa spesso queste pratiche?» chiede. «Mai fatta una prima.» Esito un secondo. «E non ne farò mai più.» «Si vede», ride lei. «È così terribile?» «Non peggio del solito. Alcuni avvocati mi rifilano successioni talmente vecchie che sono passate attraverso due generazioni di esecutori», mi confida. «È il motto dell'avvocato», le dico. «Quando hai dubbi, temporeggia. È questo che rende così remunerativa la negligenza professionale.» «L'ha detto lei, non io.» «La richiamerò quando avrò le altre cose.» Poi riaggancio. Il messaggio successivo nel mucchio è di Skarpellos. Chiamo e parlo con Florence. Tony è fuori a pranzo. Si è incontrato con Cheetam. Vuole parlarmi. Florence dice che è importante. Mi inserisce nella sua agenda di appuntamenti per oggi stesso, fra qualche ora, dopo l'udienza pomeridiana di Talia. Riaggancio.
All'improvviso, ho la sensazione di essere saldato al Greco, di far parte del suo impero mercantile. Come una stracciona a una svendita in saldo, Susan Hawley ha accettato l'offerta di Skarpellos: una difesa gratuita in cambio del suo silenzio nello «scopa-gate». Ora non mi resta che destreggiarmi nella difesa di Susan, mentre osservo Talia precipitare lentamente nell'abisso in cui si è trasformata la sua udienza preliminare. Come delegati alle Nazioni Unite, sediamo in quattro al tavolo della difesa. Cheetam vicino a Talia, e io alla destra della nostra cliente. Oggi con noi c'è anche Harry. Gli ho raccontato dell'errore marchiano sul proiettile, di come Cooper abbia consegnato al nostro leader la sua stessa testa su un vassoio. Cheetam è convinto che la presenza di Harry in aula sia una dimostrazione di forza, una raduno delle truppe per l'esposizione della sua tesi, il primo vero giorno per la difesa. Per tutto il tragitto fino al Palazzo di Giustizia, ha fatto il cordiale, ha continuato a dare pacche sulla schiena a Harry. Ma io so com'è fatto Harry. Dopo essersi perso la grande scena, nutre speranze di vedere Gilbert Cheetam che prende un'altra sonora raffica di calci in culo. C'è una certa quieta cattiveria nella natura di Harry Hinds. Nel primo pomeriggio, Nelson apporta gli ultimi ritocchi al suo caso. Chiama un teste del dipartimento di giustizia dello Stato, una donna della sezione archivi. Poco sfoggio, e nessuna sorpresa. La deposizione della donna riguarda l'immatricolazione di una pistola a nome di Benjamin G. Potter. È la piccola pistola acquistata da Ben per Talia, quella che Talia e Tod non hanno ancora trovato. Come tutto ciò che Ben possedeva, si trattava di una cosina costosa, una semiautomatica da quattrocento dollari, una ACP calibro venticinque della Desert Industries. Nelson la collega sapientemente alla deposizione di Coop, al fatto che tra i proiettili rivestiti di acciaio prodotti in questo Paese, quelli per questo tipo di pistola sono i più piccoli in assoluto. Il giudice O'Shaunasy prende appunti. Dopo aver inferto il suo colpo finale, Nelson ha concluso per l'accusa. O'Shaunasy si informa se Cheetam è pronto a procedere. È pronto. Cheetam si alza e parte in quarta. Chiama il suo perito chiave. Il dottor Bernard Blumberg è un medico da due soldi noto a ogni avvocato che si occupi di lesioni fisiche a ovest delle Montagne Rocciose. Psichiatra di formazione, Blumberg, dietro compenso, è pronto a deporre su ogni aspetto della scienza medica, dalla chirurgia a cuore aperto all'asportazione dei calli. È famoso per essere sempre disponibile senza tanto pre-
avviso: l'esperto preferito quando altri non sono riusciti a offuscare le loro conclusioni tanto da soddisfare gli avvocati e i clienti che li hanno chiamati. È quello che è successo nel nostro caso. Cheetam ha esaurito il gruppo di esperti locali, uomini che in tutta coscienza non potevano confutare l'essenza del rapporto di autopsia redatto da George Cooper. Parecchi hanno offerto di dare un risvolto favorevole ad alcuni dei dati. Ma a Cheetam questo non bastava. Skarpellos lo ha messo in contatto con Blumberg. Per due ore ho discusso invano con Cheetam, ho cercato di convincerlo che si trattava di un errore di dimensioni colossali. Mi ha detto che potevo anche starmene a casa, se non ero in grado di affrontare la cosa. Blumberg è un omino malizioso, con occhiali dalla montatura in ferro e una voce tonante. Rispecchia l'immagine popolare dell'uomo di scienza, ma con l'aggiunta di una natura altezzosa che gli ha permesso di sopportare i colpi di una lunga carriera di rigidi controinterrogatori. Ha passato vent'anni a combattere contro una fondamentale mancanza di credenziali e qualifiche. Oggi ci rende partecipi della sua competenza in tema di patologia legale. Si accomoda al banco dei testimoni, giura, e Cheetam prende l'avvio. «Dottor Blumberg, conosce il fenomeno detto 'lividezza cadaverica'?» «Certo.» «Richiamo la sua attenzione sul rapporto del medico legale. Ha letto il rapporto?» «Certo.» «In particolare, ha esaminato la pagina trentasette di detto rapporto, la cosiddetta prova della goccia di sangue rinvenuta nell'ascensore di servizio vicino all'ufficio del signor Potter?» Blumberg annuisce con l'aria di chi sa tutto. Gli riesce particolarmente bene. È noto che ha fatto la figura del perfetto cretino sul banco dei testimoni, a varie riprese, pur continuando ad annuire con grande autorevolezza. «Ha letto quella parte del rapporto, dottore?» «Sì, l'ho letta.» «E ha tratto conclusioni sulle deduzioni riferite in quella sede? Mi riferisco in particolare alla conclusione secondo la quale la goccia di sangue in questione apparteneva al deceduto, Benjamin Potter.» «Certo. È mia opinione professionale che le conclusioni del medico legale relative a questa prova non siano corrette. Ritengo siano un errore»,
dice Blumberg. Cheetam volge lo sguardo allo scanno, per fare un po' di scena. O'Shaunasy non sta prendendo appunti. «E su cosa basa questa sua opinione?» «Sui modi di coagulazione del sangue.» «Certo, dottore.» Ora Cheetam si sta muovendo di fronte al banco dei testimoni, piegandosi in avanti e passeggiando su e giù a fasi alterne, usando il linguaggio del corpo per indurre il teste a parlare, per fargli sciorinare l'opinione predigerita che i due hanno escogitato. Noto che Harry, seduto accanto a me, ha cominciato a tracciare scarabocchi su un blocco di carta: un piccolo cerchio dentro il quale passa e ripassa la penna sino a forare la pagina. «La prego di spiegare alla Corte, dottore.» «La coagulazione del sangue è il risultato di un insieme di azioni chimiche che riguardano il plasma, una proteina chiamata fibrinogeno, le piastrine, e altri fattori. La coagulazione inizia subito dopo la morte, provocando la scissione della fibrina e dei globuli rossi dal restante liquido, il siero», dice Blumberg. «A coagulazione avvenuta, il sangue non può più fuoriuscire da una ferita.» «Quanto tempo dopo la morte avviene la coagulazione che impedisce al sangue di fuoriuscire liberamente da una ferita?» «Quindici minuti.» «Così poco?» «Sì.» Lo scarabocchio di Harry si arricchisce ora di una sottile linea retta, di circa sei centimetri, che va verso il fondo della pagina. «Qual è la rilevanza di questo fattore nel presente caso, dottore?» «Secondo il rapporto del medico legale, l'ora del decesso è fissata alle sette e cinque di sera. Accettando la teoria della polizia che il deceduto sia stato ucciso altrove e il suo corpo sia stato trasportato in ufficio poco prima del colpo di fucile udito alle otto e venticinque, devo concludere che il sangue nel corpo della vittima doveva essere già coagulato. Quindi non avrebbe potuto fuoriuscire liberamente e lasciare una goccia nell'ascensore, come dichiarato nel rapporto.» Cheetam pare non rendersi conto che con questa dichiarazione il suo perito sta accettando come vangelo l'ora del decesso fissata da Coop. Il che è del tutto incongruente con la linea di difesa del suicidio di Ben, visto che in base alle deduzioni di Coop, Potter è morto circa un'ora e mezzo prima
che si udisse lo sparo nell'ufficio. Dettagli da niente. «Grazie, dottore. A lei il teste.» Nelson sfoggia un lieve sorriso e si alza dal tavolo della pubblica accusa. «Dottor Blumberg, lei è specializzato in patologia?» Blumberg borbotta. Oltre che per quel suo modo di annuire così autorevole e competente, è famoso per essere bravissimo a borbottare, soprattutto durante il controinterrogatorio. «Non ho sentito il teste.» La stenografa interviene con voce petulante. Ha smesso di battere sulla sua macchina stenografica, dato che il testimone si è inghiottito la risposta. O'Shaunasy si sporge dallo scanno. «Non ho sentito nemmeno io.» «No.» Blumberg sta guardando la stenografa attraverso le lenti spesse come il vetro di una bottiglia di Coca-Cola. È chiaro che la vorrebbe mandare a quel paese. «Ha mai esercitato nel campo della patologia legale?» Nelson se la sta godendo. «Ho testimoniato nel campo molte volte.» «Non ho il minimo dubbio, dottore, ma questo non risponde alla mia domanda. Ha mai esercitato nel campo della...» «No.» «Capisco. Ci dica, dottore, lei è specializzato in qualche campo?» «Certo.» C'è dell'orgoglio in questa dichiarazione. Il teste si raddrizza sulla sedia e gonfia un po' il petto. «E vuol dire alla Corte di quale campo si tratta?» Nelson ha trovato il tallone d'Achille. «Psichiatria. Ho una laurea in medicina.» Per Blumberg, la qualifica di medico è stata il pretesto per ficcare il naso in ogni ramo della scienza noto all'uomo. Lo scarabocchio di Harry presenta ora due linee laterali che partono dalla linea più lunga, proiettate in fuori e verso il basso a quarantacinque gradi, a formare una grande Y capovolta, «Capisco. Dunque lei è dottore in medicina, con una specializzazione in psichiatria, ed è qui a deporre sui punti più specifici della patologia legale e precisamente sulla sierologia, la scienza della coagulazione del sangue?» A queste parole Blumberg non dice nulla. Si limita ad annuire, non troppo sicuro questa volta, ma piuttosto nervoso. «La stenografa non può trascrivere un cenno del capo, dottor Blumberg. Deve rispondere alla domanda in modo udibile.» Il giudice gli sta dando
addosso. «Sì», dice Blumberg. Questa volta lo sguardo che uccide è riservato a Gail O'Shaunasy. «Mi permetta di chiederle, dottore, ha mai pubblicato articoli specialistici sull'argomento delle prove basate sul sangue in criminologia?» «No.» Blumberg sta diventando imperioso, ed evita di guardare Nelson negli occhi. «Parliamo in termini più generali. Ha mai pubblicato articoli specialistici nel campo della medicina legale?» «Non che io ricordi.» «Non che lei ricordi? Dottore, ho qui una copia del suo curriculum vitae. L'ho passato al setaccio e non mi è riuscito di trovare un solo articolo da lei pubblicato in quel campo. Ora, suppongo che se lei avesse pubblicato qualcosa nel campo della medicina legale lo avrebbe incluso nel suo curriculum, o mi sbaglio?» Cheetam non sta facendo nulla per fermare questo bombardamento di pugni. L'unica cosa che potrebbe fare sarebbe alzarsi e ammettere che il suo perito manca di perizia. Lo scarabocchio di Harry ha ora due braccia; è la figurina stilizzata di un uomo. Blumberg si contorce nervosamente sulla sedia. Un leggero tic gli scuote a intermittenza la guancia destra, come il tremore di un terremoto assai più violento che stia per esplodere in superficie. «Allora, lo avrebbe incluso, non è vero?» «Sì.» «Quindi è ragionevole dire che lei non ha pubblicato nessun articolo, specialistico o no, nel campo della medicina legale.» «Sì, sì. Ma come ho dichiarato, ho testimoniato in svariate occasioni sull'argomento.» «Sì, sono a conoscenza delle sue regolari comparizioni in aula, dottore. Anzi, dottore, non sarebbe ragionevole sostenere che lei è quello che si potrebbe definire un professionista delle deposizioni, che è così che si guadagna da vivere?» «Testimonio regolarmente, se è questo che intende.» «Non è esattamente quello che intendo. Voglio dire che lei non pratica più la medicina, né la psichiatria né è attivo in alcun altro ramo. Quando è stata l'ultima volta che ha ricevuto un cliente pagante, dottore?» «Vostro onore, obiezione.» Cheetam si è alzato in piedi. «Se l'avvocato
vuole un accordo sui limiti della perizia di questo teste, forse dovremmo conferire in privato o ritirarci nel suo studio.» È un debole tentativo per scansare il proiettile di Nelson. «Avvocato, è stato lei a portare questo teste a deporre.» Mentre scruta Cheetam da sopra gli occhiali, O'Shaunasy non mostra la minima pietà. «Non possiamo almeno proseguire? L'avvocato ha chiarito il suo punto. Ora sta soltanto tormentando il teste.» «Credo che lei abbia chiarito il suo punto, signor Nelson. Può procedere?» «Certamente, vostro onore.» Nelson torna al tavolo dell'accusa e sfoglia parecchi fasci di documenti. Alla fine trova quello che cercava. Alza lo sguardo in direzione di Blumberg, che a questo punto ha la fronte imperlata di sudore. «Dottore, lei depone spesso in vertenze penali?» «Ho già testimoniato in passato.» «Ma è questa la sua regolare fonte di reddito? Non è forse vero che di solito lei compare nei processi civili?» Intuendo una linea di interrogatorio più amichevole, la concessione da parte di Nelson che forse il teste è leggermente fuori del suo campo, Blumberg ammette il punto con un sorriso e un caloroso cenno d'assenso. Si sta asciugando la fronte con un fazzoletto, forse convinto che il peggio sia passato. Do un'occhiata di lato. Nella figura disegnata da Harry c'è una piccola linea, pressappoco dove dovrebbero trovarsi le ginocchia, e un'altra riga più pesante, una specie di ampio trave che sale verso l'alto della pagina, un po' più grande della figura, e poi un'altra grossa linea sopra la testa. «Dottore, ricorda di avere testimoniato, due anni fa, nel caso Panicker contro Smith, un caso di morte colposa, di omissione di soccorso di un bambino?» «Non... Non so. Non posso ricordare tutti i casi in cui ho testimoniato.» «Non stento a crederlo.» C'è più che un velo di sarcasmo nella voce di Nelson. «Ho qui una trascrizione, dottore. La trascrizione della sua deposizione in quel caso. Vorrei mostrargliela e chiederle se l'aiuta a rinfrescarsi la memoria.» Adesso, Blumberg si sta dimenando sulla sedia come fosse costretto a sedere sulle proprie feci. O'Shaunasy ha preso in mano la matita.
Nelson gli mostra il documento. Blumberg non lo tocca nemmeno, come fosse un acido corrosivo. Nelson lo deve appoggiare alla ringhiera del banco dei testimoni, mentre il teste abbassa il capo e punta gli occhiali per esaminare la copertina. «Vedo che sono elencato come teste», dice. «Questo significa che devo avere testimoniato.» «Così sembrerebbe, dottore. Ricorda il caso, ora?» «Vagamente», risponde Blumberg. «D'accordo. In parte, il problema centrale di quel procedimento consisteva nell'ora del decesso, della morte del bambino. Lei comparve per la difesa, per la compagnia di assicurazione che rappresentava il presunto conducente dell'auto investitrice. Questo le fa venire in mente niente?» Cheetam è balzato in piedi. «Obiezione, vostro onore. La difesa non ha potuto vedere quella trascrizione.» Nelson torna al tavolo dell'accusa, estrae una copia dalla pila di documenti e la lascia cadere senza tante cerimonie sul tavolo della difesa, di fronte a Cheetam, che comincia a esaminarla per vedere se è rilevante. «Nel corso di quella deposizione, lei è stato interrogato circa le proprietà di coagulazione del sangue. Ricorda quella deposizione, dottore?» Blumberg si stringe nelle spalle. «Non nei dettagli.» Le goccioline di sudore si sono trasformate in torrenti che scorrono a valle attorno agli occhi, lungo le basette, e giù per il collo di Blumberg. «In quell'occasione, il conducente dell'auto sostenne di essersi trovato a casa con la moglie, nell'ora in cui il bambino era stato investito. A lei vennero fatte domande riguardanti l'ora del decesso, e lei si rifece alla lividezza cadaverica per formulare la sua opinione. Parlò del fatto che il sangue si era coagulato nel corpo e del tempo necessario per questo processo. Ora ricorda quella sua deposizione, dottore?» «No, mi spiace, non la ricordo.» «Allora lasci che l'aiuti, dottore.» Nelson apre la trascrizione a una pagina contrassegnata da un grande graffa di metallo. «Cito: 'DIFESA: Dottor Blumberg, quanto tempo impiega il sangue a coagulare nei capillari del corpo dopo la morte? DOTTOR BLUMBERG: Da un'ora a un'ora e mezzo'. Adesso ricorda, dottore?» Dal banco dei testimoni viene soltanto un silenzio carico di tensione. «Eppure oggi lei siede qui e ci dice che, nel presente caso, non sarebbe stato possibile che la vittima perdesse sangue nell'ascensore perché il sangue coagula nel giro di quindici minuti dalla morte. Qual è il tempo neces-
sario, dottore? Un'ora e mezzo o quindici minuti? Oppure dipende dalla parte che la paga?» «Obiezione, vostro onore.» Cheetam è in piedi. Piagnucola una protesta. «Ritiro l'ultima domanda, vostro onore. Chiedo che la trascrizione del caso Panicker contro Smith sia inclusa fra le prove, vostro onore.» «Qualche obiezione, avvocato Cheetam?» Cheetam si lascia cadere sulla sedia. Rimane in silenzio e scuote la testa. «Esperto... Merda.» Lo dice sottovoce, rivolto a nessuno in particolare. «Cosa ha detto, avvocato?» «Nessuna obiezione, vostro onore.» Guardo di lato. Lo scarabocchio di Harry è ora completo: il cappio attorno al collo, il corpo che penzola sopra la botola spalancata della forca. L'impiccato. Noto che Talia l'ha visto e mi guarda, sconsolata. È il problema delle opinioni degli esperti, soprattutto quando a pronunciare un'opinione è qualcuno con la flessibilità intellettuale di un Blumberg. Le loro ciance sono talmente inconsistenti che loro stessi dimenticano quello che hanno già detto. Si potrebbe credere che le forze della natura in gioco in ciascun processo siano soggette a regole variabili, meno ferree di quelle che governano gli affari dei comuni mortali. Tony vuole vedermi da solo, oggi. Niente sorrisi smaglianti, niente risate cordiali. Oggi è tutto affari, seduto alla sua scrivania di pietra vicino al piede svuotato di elefante che trabocca di carta, gli scarti di un giorno di intenso lavoro. «Sento che le cose non stanno andando bene per Talia», esordisce. «Un eufemismo», gli rispondo. Skarpellos è stato vistosamente assente all'udienza preliminare. D'altra parte, il suo unico interesse per le sorti di Talia è economico: acquisire la quota di Ben nello studio nella maniera più indolore possibile. «A questo punto avrai capito perché ti ho convocato. Lo sai che Gil Cheetam non è in grado di seguire il processo, se Talia venisse rinviata a giudizio.» Sia ringraziato il cielo, penso. Annuisco. «L'accordo finanziario che c'è fra me e Talia non può durare all'infinito», dice. Skarpellos ha visto l'inevitabile. Sta tracciando una linea nella sabbia, restio a coprire i costi di un processo penale che potrebbe mettere a dura prova le risorse dello studio.
«Credevo avessi un accordo con Talia.» Fa una smorfia. «Più o meno», borbotta. «Niente di rigido. Deve vendere la quota di Ben nello studio, e io sono interessato a comprare.» Il Greco sta tentando di concludere un affare. «La signora ha bisogno di un buon avvocato», dice. «Ti interessa?» «Hai sbagliato mestiere, Tony. Dovevi fare il paraninfo.» A questa battuta ha un breve sorriso, una piccola smorfia da mercante. «Direi che il problema della scelta dell'avvocato per Talia riguardi solo Talia», gli dico. «Non se sono io a pagare la parcella.» «Un prestito garantito», gli ricordo. «Non se viene condannata. La legge non le permetterà di entrare in possesso del patrimonio del defunto, se è stata lei a ucciderlo.» «Tu credi che sia stata lei?» «Oh, non la sto giudicando», risponde. «Sto parlando di affari. Devo pensare alle garanzie per il nostro prestito.» «Dimentichi che una parte della quota di Ben nello studio è proprietà comune con Talia. E quella è sua, qualunque cosa possa succedere.» Fa una smorfia, come se queste fossero sciocchezze, inezie di cui non vale nemmeno la pena parlare. «Farà una bella fatica a spendere quei soldi, se viene condannata. Ma perché dobbiamo discutere?» esclama. «Abbiamo un interesse comune. Io voglio aiutare la signora. Immagino che tu voglia fare lo stesso.» Le sue braccia sono spalancate in un ampio gesto di amore fraterno; e ora arriva il sorriso smagliante. «Se noi, tutti e tre, traiamo qualche beneficio da questa esperienza, tanto meglio.» Prende uno dei suoi sigari storti da una scatola laminata d'oro sulla scrivania, poi si appoggia all'indietro, si mette comodo sulla poltrona. Io prego in silenzio che non accenda il sigaro. «Veniamo al dunque, Tony. Cosa vuoi?» «Voglio farti un'offerta», dice. «Primo, penso che dovresti parlare con Talia del tuo patrocinio del caso.» «Perché? Perché io?» «Perché lo conosci bene. Hai lavorato a fianco a fianco con Cheetam.» «Non darmi anche questa colpa», gli dico. Si mette a ridere. «Be', è un uomo occupato.» «No, il papa è un uomo occupato. Gilbert Cheetam è la risposta forense alla febbre tifoidea. Gli mostri le prove e lui dice: 'Chi se ne frega?' Gli
fornisci piste che basterebbe seguire per smantellare in parte la tesi dell'accusa, e lui le ignora. Segue solo le ambulanze, e nient'altro.» «Va bene, ormai è acqua passata», dice il Greco. «Se non sbaglio, siamo tutti e due d'accordo che il destino di Talia in preliminare è deciso. La signora dovrà affrontare un processo.» Ron Brown ha portato notizie dall'aula. Queste, più le infuocate cronache televisive, hanno portato il Greco alla sua sorprendente conclusione. «Oltretutto», continua, «probabilmente era già fregata fin dall'inizio. Non credo proprio che la prestazione di Gil sia stata un fattore determinante.» «La prestazione di Gil è stata un disastro», chiarisco. «Lei gli è in debito, se non altro perché le ha fornito basi solidissime per un appello per patrocinio incompetente. Vincerebbe di sicuro.» Skarpellos si concede una risatina alle spalle di Cheetam. «Be', questo non succederà», dice. «Gil è fuori questione. E credo siamo d'accordo nel pensare che sia tu la persona più adatta per gestire la difesa.» «Forse lei vuole qualcun altro», obietto. «Dopo tutto, ho fatto parte di questo circo.» «Non credo proprio.» Lo afferma con sicurezza, come avesse consultato un oracolo. «Devi sapere qualcosa che io non so.» «Parla con lei. Ti ascolterà.» «Supponendo che io accetti, come verrò pagato, se tu non hai più intenzione di farle credito?» Adesso lui sorride, mordace e losco, mentre prende un fiammifero. «Stai imparando», commenta. «Non accenderlo», gli dico. È stata una giornata dura, e sono stanco di sopportare pazientemente le persone moleste. Fa un gesto di cortese concessione, lascia cadere il fiammifero. Continua a succhiare il sigaro spento. «Ai soldi ci stavo arrivando», spiega. «Sono disposto a offrire a Talia duecentomila dollari, uno sull'altro, in contanti, per la rinuncia a qualsiasi interesse nello studio. Una somma del genere coprirà ampiamente la difesa. Anche gli appelli, se dovesse averne bisogno.» «Stai già parlando di appelli. Devi proprio avere una grande fiducia in me.» Ride appena. «Be', sto soltanto cercando di vedere anche il lato negativo.»
«Non è un'offerta molto generosa, considerato che la quota di Ben vale dieci volte tanto», gli dico. «Solo se lei riesce a ottenerla. E potrebbe dover aspettare anni. Questi sono contanti, sull'unghia, oggi.» La conversazione degenera in una discussione sulle cifre. Sembriamo due arabi in un bazar: il Greco che alza le mani in segno di protesta, io che cerco di fargli aumentare l'offerta, fingendo di poter trattare una quota che nulla mi autorizza a vendere. Mi interessa vedere dove può arrivare. A Talia potrebbe servire saperlo. In tre minuti l'ho trascinato, scalciante e gemente, a trecentomila dollari. Penso che potrebbe alzare ancora, ma mi sto stancando di questo gioco. «Comunicherò la tua offerta alla mia cliente, Tony. Ma non posso certo raccomandargliela.» A questo commento, Skarpellos mi guarda dalle due piccole fessure sopra le guance tozze. «Perché no?» «Cosa vale la quota, Tony? Due milioni? Di più? Lo sai tu, non io. Soltanto un revisore dei conti può dirlo. Talia sarebbe pazza a vendere a queste condizioni. E tu lo sai bene quanto me.» «Sarebbe ancora più pazza a ridursi in miseria. Vuole che sia un avvocato d'ufficio a difenderla?» «Ci sono altre alternative», dico. «Ad esempio?» «Ad esempio, una richiesta al tribunale di scongelare il patrimonio di Ben per sostenere le spese della difesa di Talia.» È un bluff, una sparata legale fatta a casaccio, ma è qualcosa che Skarpellos non ha preso in considerazione. Gli cancella ogni sicurezza dagli occhi. «Oltrettutto, ammesso che lei me lo chieda e che io decida di rappresentarla, potrei finanziare io stesso l'operazione. Potrei prendere una piccola quota dello studio come compenso per le mie prestazioni.» Vedo che il pensiero del sottoscritto seduto alla scrivania di Ben, un socio che non aveva previsto, non va molto giù al Greco. Ride. Gli ultimi sbuffi di vapore di una caldaia che si sta spegnendo. Una risata forzata. «E i soldi dove li trovi?» mi chiede. «Non è che tu abbia molto da sprecare.» «Una seconda ipoteca sulla casa. Non sarebbe la fine del mondo», gli rispondo.
«Rischeresti tanto?» «Chissà. Magari vedremo.» «Pensavo che tu stessi imparando», dice. «Ma vedo che hai ancora molta strada da fare.» La sua faccia è dura, ora. Tutto il malanimo che riesce a mettere assieme è concentrato nei suoi occhi. «Non sarebbe una mossa intelligente.» «È una minaccia, Tony? Non capisco.» Fa una smorfia, come per dire: «Prendila come vuoi», poi conclude: «È solo un piccolo avvertimento». «Ah. Bene, allora lo prendo nello spirito con cui è offerto.» Gli rivolgo un ampio sorriso. «Ti farò sapere la decisione di Talia, quando l'avrà presa.» Mi alzo e mi dirigo alla porta. «A proposito», dice Skarpellos. «Cosa ti ha tanto incuriosito sui beneficiari del testamento di Ben?» Mi giro e gli scocco un'occhiata inequivocabile. «Una frecciatina indirizzata a me?» chiede. Le mie domande a Hazeltine lo hanno indisposto. «Stai supponendo che io conoscessi già la risposta, quando ho fatto la domanda.» «Ti conosco. Non l'avresti chiesto se non lo avessi saputo.» «Forse non mi conosci abbastanza», gli dico. Annuisce. Non c'è calore nella sua espressione. Lo sguardo è spento, freddo, e sulla sua faccia è dipinta una meschinità che non avevo mai visto prima. 19. Prevedo un disastro, una disfatta della portata di quella di Napoleone a Waterloo. Cheetam è al tavolo della difesa fra Talia e me. Stiamo attendendo il risultato di una settimana di udienza preliminare. Il giudice si è ritirato per dare gli ultimi ritocchi alla sua decisione. «Che ne pensi?» mi chiede Cheetam. Gli rivolgo un'occhiata priva di espressione. Se non riesce a capire da solo, non sarò certo io a dirglielo. A conclusione delle argomentazioni dell'accusa, ha chiesto il proscioglimento da tutti i capi d'accusa. La Corte lo ha assecondato, prendendo in esame la sua mozione, solo perché il protocollo processuale lo richiede.
Il fatto che in quelle circostanze abbia potuto presentare una mozione simile mi dice che Gilbert Cheetam non solo manca di discernimento, ma che su un piano più sostanziale è del tutto fuori della realtà. La presentazione della mozione è durata tre minuti, il tempo sufficiente perché Nelson esponesse una breve obiezione e il giudice O'Shaunasy la respingesse. Cheetam si sporge e tocca Talia sul braccio. «Mancano soltanto pochi minuti», dice. Talia gli sorride cortesemente, poi guarda verso di me, in cerca di un po' di sanità mentale. L'ultimo giorno di udienza è stato il colpo finale. Cheetam ha tentato di costruire qualcosa su fondamenta di sabbia, vale a dire sulla precedente testimonianza di Blumberg. Ha presentato un custode della Emerald Tower, Reginald Townsend, il quale ricordava di essersi tagliato una mano con una scheggia di vetro il giorno della morte di Ben. L'uomo ha sostenuto di avere usato l'ascensore poco dopo l'episodio e ha dichiarato che forse aveva sanguinato nell'ascensore. E, guarda caso, il suo gruppo sanguigno era uguale a quello di Potter: B-negativo. Il volto di Cheetam era illuminato da un gran sorriso soddisfatto mentre diceva: «È tutto, vostro onore. A lei il teste». Nelson si è lanciato all'attacco. Ha chiesto al testimone se, dopo aver usato l'ascensore, avesse fatto vedere la ferita a un medico. «Non era così grave.» «Be', quanto sangue ha perso?» «Oh, era soltanto un taglietto. Una cosa da poco.» Townsend lo ha detto con tono eroico, alzando due dita per mostrare la lunghezza della ferita, un paio di centimetri, come se per lui qualunque cosa al di sotto dei dodici punti fosse soltanto un taglietto. «Capisco. E lei ricorda questo taglietto, questa cosa da poco, a distanza di quasi otto mesi, e può dire con certezza alla Corte di essersi procurato questa ferita, dalla quale a quanto pare ha perso una sola goccia di sangue nell'ascensore, esattamente il giorno in cui Benjamin Potter è stato ucciso?» «Già, già. Ma ne ho perso di più, di sangue. Mi ero avvolto la mano in un asciugamano», ha risposto Townsend. «Ha sempre avuto questo dono?» L'uomo ha guardato Nelson con l'aria di chi non capisce. «Questa capacità di ricordare minimi particolari e date precise dopo che sono trascorsi mesi dall'episodio?»
«Oh, quella è una data che nessuno di noi dimenticherà.» Il testimone ha scosso la testa, come a sottolineare l'assoluta gravità degli avvenimenti di quel giorno. «Capisco. Dunque lei abbina questo taglietto, come lo chiama lei, al giorno in cui il signor Potter è stato assassinato?» «Proprio così», ha detto Townsend, contento di ricevere un piccolo aiuto. «Me lo ricordo perché uno le cose se le ricorda, quando succede qualcosa del genere. Come quando hanno ammazzato il presidente Kennedy. Ricordo che ero con la mia mamma...» «Mi dica, signor Townsend, come ha fatto l'avvocato Cheetam a scoprire che lei si era procurato questa ferita? È stato lei ad andare da lui a raccontarglielo, o è stato lui a venire da lei a chiederglielo?» «Be', non è stato lui.» Townsend stava ora indicando Cheetam, con il braccio teso, puntato come una freccia. «No, signore, il signor Cheetam non è venuto da me.» Cheetam se ne stava comodamente appoggiato alla sua sedia, mordicchiando la gomma di una matita, sorridendo disinvolto per il vicolo cieco nel quale Nelson si era infilato. «È stato quell'altro, quello là dietro.» Come una banderuola con vento variabile, il braccio di Townsend si è spostato di scatto verso il pubblico. Ha preso di mira Ron Brown, che ha cercato di raggomitolarsi dietro una donna robusta seduta nella fila davanti. «Quello con la penna di lusso», ha detto Townsend. Gli occhi di Nelson hanno seguito il dito come missili teleguidati. Brown è stato colto sul fatto, lancia in mano, pennino d'oro posato sul blocco giallo appoggiato alle ginocchia. «Vostro onore, possiamo chiedere al signor Brown, il collega dell'avvocato Cheetam, di alzarsi un momento?» Non c'è stato bisogno che O'Shaunasy aprisse bocca. Brown si era già alzato, spostava il peso del corpo da un piede all'altro, le spalle cascanti, i tratti del volto persi nell'ombra. Se ne stava a testa bassa, sfuggendo alla luce delle lampade incassate nel soffitto. «È lui.» «Il signor Brown l'ha contattata?» «Sì, signore. È lui quello che mi ha parlato. Ha parlato con tutti noi.» «Obiezione, vostro onore. Voci riferite.» «Lei era presente quando il signor Brown ha parlato con gli altri? Ha sentito quello che ha detto loro?»
«Obiezione, vostro onore.» «Sentiamo cosa ha da dire il teste.» Il giudice voleva vedere se la risposta di Townsend avrebbe fatto cadere l'obiezione alle informazioni di seconda mano. «Come no. Ci ha parlato in gruppo. L'amministratore dello stabile ci ha radunati. Ha detto che uno degli avvocati che lavorano lì voleva parlarci.» A quel punto, Townsend era tutto un sorriso; cercava di collaborare il più possibile. «Obiezione respinta.» Cheetam era furente, arrabbiato non tanto con la Corte e le sue decisioni, quanto con Brown, per la mancanza di tatto nel trattare con il personale di servizio. «Cosa ha detto quando ha parlato con tutti voi?» «Ci ha chiesto se nessuno di noi aveva visto qualcosa, il giorno che hanno sparato al signor Potter.» «E qualcuno di voi aveva visto qualcosa?» «No, noi no, ma Willie aveva visto parecchio.» «Willie?» «Già. Aveva visto il signor Potter dopo lo sparo.» «Ah.» Nelson ha annuito. «Willie è il custode che ha scoperto il corpo?» «Uh, uh.» Nelson stava diventando più clemente, i suoi modi più affabili, adesso che cominciava a fare passi in avanti con il teste. «Che altro vi ha chiesto il signor Brown?» «Ci ha chiesto se qualcuno di noi si era ferito, tagliato o qualcosa di simile, e se aveva usato l'ascensore di servizio.» «Ha fatto questa domanda a tutti?» «Uh, uh.» «E lei ha risposto di sì?» «Già, io e Bill e Rosie e Manuel.» «Avete risposto di sì in quattro?» La domanda di Nelson è cresciuta di un'ottava, dall'inizio alla fine. La matita di Cheetam giaceva sul tavolo. La gomma era tutta mangiata. «Uh, uh.» «E poi cosa è successo?» «Ci ha portati tutti nel suo ufficio.» «Lei e Bill e Rosie e Manuel?» «Sì, signore.»
«Poi cosa è successo?» «C'era una signora, un'infermiera, che ci ha preso il sangue.» «Vi ha preso il sangue?» «Uh, uh. Con un ago grosso. E hanno detto che ci avrebbero richiamati.» «E lo hanno fatto?» «Solo me», ha detto Townsend. «Quel signore là...» Ha indicato Brown con la testa. «Mi ha mandato a chiamare.» Quando hanno ricevuto i risultati dell'analisi del gruppo sanguigno di Townsend, Cheetam e Brown devono aver pensato di essersi imbattuti nel filone d'oro. «Il signor Brown le ha detto perché voleva parlare soltanto con lei?» «No, signore.» «E cosa ha detto quando vi siete rivisti?» «Mi ha chiesto quando mi ero ferito, e come.» «E lei glielo ha detto?» «Uh, uh. Come lo sto dicendo a lei adesso.» «Cioè gli ha detto che si è tagliato la mano il giorno in cui Benjamin Potter fu ucciso?» «Sì, signore.» «Signor Townsend, le ricordo che lei è sotto giuramento. Mentire ora significa commettere falsa testimonianza. È un reato grave.» A questo punto, Townsend si è messo a deglutire a ripetizione. Il suo pomo d'Adamo è andato su e giù parecchie volte. «Non sto mentendo», ha detto. «È sicuro di non essersi ferito alla mano un altro giorno, magari dopo l'omicidio di Potter, o molto prima?» Nelson, incapace di scuotere il teste, gli stava offrendo un'ultima rispettabile via d'uscita da una menzogna. «No, è stato quel giorno, o magari il giorno prima, ma credo proprio che sia stato quel giorno. Ne sono sicuro.» La sua testimonianza era stata talmente compromettente per Brown e Cheetam, che era difficile credere che potesse mentire su quel punto. Le parole di Townsend avevano un tono sincero, e Nelson non ha insistito. Io mi sono chiesto se, nonostante tutte le pecche di Cheetam, lui e Talia non avrebbero tratto un vantaggio da una fortunata coincidenza. Non era destino che l'interrogativo mi tormentasse a lungo. «Grazie. Ho finito con il teste.» Cheetam era raggiante come lo Stregatto.
O'Shaunasy lo ha guardato. «Altre domande?» «Nessuna, vostro onore.» «Benissimo, chiami il suo prossimo teste.» «La difesa ha concluso, vostro onore.» «Signor Nelson, ha qualche teste confutativo?» «Soltanto uno, vostro onore. La pubblica accusa vorrebbe richiamare a deporre il dottor George Cooper.» «Qualche obiezione?» Cheetam sembrava sconcertato, ma a corto di pretesti per sollevare obiezioni. Ha sorriso. «Nessuna, vostro onore.» Coop è stato mandato a chiamare dalla stanza in cui i testimoni vengono riuniti o trattenuti per ulteriori deposizioni. Ha preso posto al banco dei testimoni e gli è stato ricordato che era ancora sotto giuramento. «Dottor Cooper, lei ha prelevato campioni di sangue dal corpo della vittima, Benjamin Potter, dopo la morte, non è vero?» «Sì, certo.» «E la goccia di sangue rinvenuta nell'ascensore di servizio... Ha raccolto ed esaminato questa prova dalla scena stessa del delitto, non è vero?» «Sì.» «E infine, le è stato possibile ottenere un campione del sangue di un certo Reginald Townsend, un custode dell'edificio, teste per la difesa?» «Sì, l'ho avuto.» «Dottore, può brevemente descrivere alla Corte il sistema di classificazione del gruppo sanguigno comunemente conosciuto come A-B-0 e spiegare in termini correnti come funziona?» «Come è noto, esistono due tipi di cellule sanguigne, i globuli rossi e i globuli bianchi. Il sistema A-B-0 si impernia esclusivamente sui globuli rossi. Identifica strutture chimiche, chiamate antigeni, presenti sulla superficie di questi globuli. In base al sistema A-B-0, un donatore di tipo A avrà antigeni A sulla superficie dei suoi globuli rossi, uno di tipo B, antigeni B, il tipo AB avrà entrambi gli antigeni A e B, e infine il tipo 0 nessuno dei due. Inoltre, in questo sistema di classificazione sanguigna c'è un altro fattore comune. Il cosiddetto antigene D, o fattore RH del sangue. Gli individui con antigene D vengono definiti Rh-positivi; quelli che ne sono privi, RH-negativi.» «Quindi, nell'ipotesi che sia il signor Potter sia il signor Townsend venissero classificati come donatori di tipo B-negativo, questo significhereb-
be che ciascuno dei due aveva soltanto antigeni B sulla superficie dei globuli rossi, e che nessuno dei due aveva il cosiddetto antigene D, e quindi erano di fattore RH negativo?» «È esatto.» Una scenetta studiata nei minimi particolari, alla Gianni e Pillotto. Townsend era stato indicato come teste per la difesa prima del procedimento, prassi indispensabile in fase preliminare. Era chiaro che Coop e Nelson si erano preparati molto bene su questo punto. Non stavano certo procedendo a tentoni. «Ora, questo sistema A-B-0 è l'unico metodo per determinare e classificare il gruppo sanguigno?» «No. È il sistema di classificazione più comune, quello usato negli ospedali per le trasfusioni e in altre procedure mediche. Ma, per rispondere alla sua domanda, risulta che esistono più di un centinaio di altri diversi fattori sanguigni. Almeno in teoria, non è lecito aspettarsi che due individui, salvo nel caso di gemelli omozigoti, abbiano la stessa combinazione di fattori sanguigni.» A questo pensiero, l'espressione di Cheetam si è afflosciata. Ha dedicato troppo tempo a patrocinare casi di lesioni personali, e troppo poco tempo a perseguire padri irresponsabili in accuse di paternità, per conoscere le sfumature dell'identificazione per mezzo del sangue. «Dottore, può descrivere e spiegare qualcuno di questi altri fattori sanguigni, come li definisce lei?» «Be', a parte gli antigeni A, B e D, nel sangue ci sono altri antigeni che funzionano da marker o che possono essere usati per identificare un particolare individuo, o almeno per escludere altri individui dall'analisi. Sono fattori che possono essere isolati, anche se è difficile quando si ha a che fare con sangue coagulato.» «Come quello rinvenuto nell'ascensore di servizio?» «Precisamente. In questo caso, i fattori più facili da isolare sono gli enzimi. Altri marker, proteine presenti nelle cellule del sangue che regolano molte delle reazioni chimiche del corpo.» Evidentemente, in questo caso, vista la natura abborracciata della difesa di Cheetam, Coop non ha ritenuto necessario sostenere le spese e la fatica di analisi complicate. I test del DNA avrebbero dato risultati certissimi, ma richiedono laboratori sofisticati e apparecchiature costose. Si sarebbe dovuto fare analizzare il sangue in un laboratorio privato. «In questo caso, è riuscito a isolare gli enzimi del sangue?»
«Sì. Nel caso del sangue rappreso trovato nell'ascensore di servizio siamo riusciti a isolare un enzima conosciuto come PGM. L'enzima PGM non è lo stesso in ogni persona e si presenta in tre comuni varianti, da noi definite PGM-1, PGM-2-1, e PGM-2. Nel nostro caso, la macchia di sangue rappreso nell'ascensore di servizio era PGM-2, il che è piuttosto raro. Circa il sei per cento della popolazione possiede questa variante di enzima.» «E ora ci dica, dottore, è riuscito a isolare l'enzima PGM nel sangue prelevato dal signor Townsend?» «Sì. Era PGM-1.» «Quindi non corrispondeva al sangue trovato nell'ascensore?» «No.» «Dottore, ci può dire se l'enzima PGM rilevato nel sangue della vittima, Benjamin Potter, corrispondeva al sangue trovato nell'ascensore di servizio?» «Sì, corrispondeva.» «Possiamo dunque dedurre con una certa sicurezza che il sangue nell'ascensore era quello della vittima, Benjamin Potter?» «Questo non lo posso asserire con certezza, ma una cosa posso dire con sicurezza. Non era quello di Reginald Townsend. L'analisi enzimatica esclude il signor Townsend come possibile fonte di quel sangue. Posso aggiungere che, poiché l'enzima PGM-2 è presente soltanto nel sei per cento della popolazione, e poiché il sangue di fattore B-negativo è altrettanto raro, solo il dodici per cento, c'è un'altissima probabilità che questo sangue sia quello della vittima.» «Nessun'altra domanda, vostro onore.» Ora, anziché essere semplicemente ferito a morte, Cheetam aveva il sedere scoperto, esposto in bella vista alla Corte, al mondo intero. Doveva fare qualcosa, se voleva salvare la faccia. Si è sporto in avanti e mi ha guardato con occhi vuoti, spenti; era la prima volta che gli vedevo un'espressione simile. Lo sguardo della paura. Era talmente scosso che è occorso un secondo perché il cervello entrasse in comunicazione con la bocca. «Puoi controinterrogarlo tu?» Sono rimasto sbalordito, intrappolato fra la padella e la brace: Cheetam che era paralizzato dalla paura, e Talia che mi fissava speranzosa, come se all'ultimo minuto io potessi salvarla dalla furia vendicatrice di Nelson. La mia esitazione ha spinto Cheetam a una reazione viscerale. Prima che potessi chinarmi a dirgli qualcosa, si era già rivolto alla Corte.
«Vostro onore, con il permesso della Corte, il controesame del dottor Cooper sarà condotto dal mio collega, l'avvocato Madriani.» Si è riappoggiato allo schienale della sedia e ha evitato il minimo contatto coi miei occhi, guardando invece in direzione della giuria che non c'era. Mi sentivo le orecchie infuocate. Fossimo stati soli, credo che avrei potuto ucciderlo. Stavo per guadagnarmi un'ulcera nella disputa su un particolare insignificante, un po' di sangue in un ascensore, diventato fondamentale nella nostra tesi solo perché Cheetam non era riuscito a impostare la sua linea di difesa in base a una teoria plausibile. Aveva trattato il caso come suicidio con l'incrollabile certezza di un inquisitore, ma senza una briciola di successo. Mi sono alzato, i pensieri a soqquadro. Con la mente invasa da un ronzio, mi sono avvicinato al banco dei testimoni. Il mio cervello era alla disperata ricerca di qualche particolare rimasto in sospeso, di un appiglio a cui aggrapparmi. Ho scorso in fretta i pochi appunti che avevo preso della testimonianza di Coop. Stavo cercando di guadagnare tempo. Coop sedeva e mi fissava. Sulla sua faccia c'era il familiare sogghigno sudista. Sapevo che se la stava ridendo per come ero stato messo nel sacco da Cheetam. Si divertiva, adesso che poteva farlo a mie spese. Mi prenderà in giro a vita per questo episodio, ci potrei giurare. «Dottore, questi test, questi cosiddetti esami enzimatici...» Muovevo in su e in giù le braccia, sventolavo il mio blocco nell'aria; facevo un po' di scena, come stessi parlando del sacchetto di ossa di uno stregone. «Questi esami sono perfettamente affidabili? Le è mai capitato che dessero risultati errati?» «Si possono commettere errori nell'esecuzione, ma gli esami in sé sono affidabili.» Il sorriso beffardo ha illuminato di nuovo la faccia di Coop. «È possibile che in questo caso ci siano stati errori?» Lui mi ha guardato, con un pizzico di quello charme pieno di sentimento, poi ha scosso leggermente la testa. «No.» Come dire: «Prova da un'altra parte, amico». Mi rendevo conto di brancolare nel buio. A lui quasi scappava da ridere. La cosa avrebbe anche potuto essere divertente, non fosse stato per la posta in gioco. «Ha eseguito lei stesso questi esami?» «Sì, certo.» Stavo inseguendo chimere. «Ora, dottore, nella sua deposizione lei sostiene che esiste un'alta probabilità che il sangue rinvenuto nell'ascensore sia quello del signor Potter,
vero?» «No. Ho detto che c'era un'altissima probabilità che il sangue nell'ascensore fosse quello della vittima.» Stava giocando con le parole. Io mi riferivo a Ben come «signor Potter», un po' di distacco per mitigare la situazione di Talia. Lui ritorceva: «la vittima». «Mi scusi, dottore, un'altissima probabilità. Ora, questo significa che esiste la possibilità che il sangue possa essere di qualcun altro?» «Esiste quella possibilità, anche se remota.» Per un lungo momento c'è stato un silenzio immobile nell'aula, spezzato soltanto da una tosse secca proveniente da qualcuno tra il pubblico. Mi sono chiesto se fare o no la domanda implicita nella risposta di Coop. Ho ricontrollato i miei appunti, il calcolo che avevo fatto in fretta mentre Nelson otteneva le risposte che voleva. Era un rischio, ma nell'altra direzione c'era solo il nulla, dato che non avevo nessuna linea di interrogatorio. «Esattamente quanto è remota la possibilità che il campione di sangue nell'ascensore possa appartenere a qualcun altro?» Coop ha estratto dalla tasca interna della giacca una piccola calcolatrice. Ha guardato i suoi appunti, poi ha premuto alcuni tasti e ha alzato lo sguardo. «Meno di otto persone su mille presenterebbero la stessa combinazione di questi due marker nel sangue.» Agli esperti di statistica, probabilità simili possono sembrare remote. A un avvocato nei guai, queste cifre hanno aperto l'unica strada percorribile. Mi sono voltato un attimo a guardare il pubblico. Duecento paia di occhi erano incollate su di me. Nel banco vuoto dei giurati c'erano due disegnatori intenti a tracciare il mio profilo. Per una frazione di secondo ho provato la solita sensazione, il terrore del palcoscenico, il noto fremito di paura, smorzato dall'eccitazione che mi percorreva il corpo. Ho riportato l'attenzione su Cooper per vincere la paura, e ho rimesso ordine nelle idee. «Questo significa che in un'area come questa, con...» Un rapido calcolo mentale. «Con un milione e mezzo di persone nell'area metropolitana, ci sono, mi lasci pensare, circa dodicimila persone soltanto in quest'area che avrebbero potuto lasciare quel sangue nell'ascensore. È esatto?» «Il calcolo lo ha fatto lei», ha risposto Coop. «È esatto, dottore?» «Obiezione, vostro onore. Il dottore non è un matematico.» Nelson è rimasto seduto, però si è sporto leggermente in avanti. «Vostro onore, è stato il dottore a tirare fuori la calcolatrice dalla tasca.»
Cooper, con un gran sorriso, ha fatto il gesto di porgermi la calcolatrice. Io sono balzato indietro, schivando l'oggetto come si trattasse di una macchina della verità. «Accolta. Le cifre parleranno da sole.» Considerato che ero partito da zero, mi era andata meglio di quanto osassi sperare, anche se il mio argomento era più adatto a confondere una giuria che questo giudice. Non teneva conto del fatto che Townsend, il solo candidato di Cheetam per questo gruppo sanguigno, non era incluso fra le dodicimila anime che avevo indicato, mentre Ben lo era. Aveva funzionato una volta, e così l'ho tirato fuori di nuovo, questo cavallo morto che si nutriva di cifre. «Dottore, ha idea di quante siano le persone che lavorano nell'edificio in cui il signor Potter aveva il suo ufficio?» «No.» «La sorprenderebbe se le dicessi che circa quattromila persone lavorano in quell'edificio? Senza contare rappresentanti, venditori, addetti alle riparazioni che vanno e vengono, fattorini?» Stavo procedendo completamente al buio; parlavo e tiravo giù i numeri dal cielo. Non avevo la più pallida idea di quante persone lavorino nella Emerald Tower. Coop ha scosso il capo. «Non mi sorprenderebbe.» «Quindi, supponendo nella popolazione una distribuzione casuale di questi cosiddetti marker sanguigni, il gruppo B-negativo e il fattore enzimatico, e accettando la sua percentuale di otto su mille, possiamo dedurre che fra le quattromila persone presenti nell'edificio al momento della morte del signor Potter, o attorno a quell'ora, c'erano ben trenta persone, oltre a Ben Potter, che lavoravano lì e che potevano presentare le caratteristiche, i fattori riscontrati nel sangue rinvenuto in quell'ascensore. È esatto?» La mia domanda ignorava l'ovvio, e cioè che le sofisticate segretarie in tacchi a spillo e i dirigenti in abiti da mille dollari di solito non usano gli ascensori di servizio. Cheetam non mi aveva lasciato altra scelta che addentrarmi eroicamente dove nessun altro si era mai avventurato: ero partito per una missione di cinque minuti nella fantasiosa terra delle prove indiziarie. Coop ha fatto una smorfia condiscendente. «Mi sbaglio?» «Non ho fatto un preciso calcolo statistico.» Sia ringraziato il cielo, ho pensato.
Nelson si agitava sulla sedia, ma per il momento non aveva sollevato obiezioni. «È una cifra plausibile», ha detto Coop. Avevo quello che volevo. Una piccolissima ombra nella luce accecante dell'accusa, qualche barlume di dubbio. Dall'espressione, ho capito che Coop si pentiva di non aver fatto anche l'esame del DNA. Mi sono chiesto se fosse il caso di spingermi un poco più oltre. Ma poi l'ho scrutato, seduto al banco dei testimoni, in attesa come un alligatore completamente immerso vicino a riva, salvo gli occhi. Due luci di segnalazione in superficie. Mi ero spinto fin dove potevo. Ho pensato che fosse meglio non offrirmi in pasto a una causa persa. Risparmiati certe esibizioni per il processo, ho pensato. «È tutto per il teste.» Quando sono tornato al tavolo della difesa, Cheetam mi si è sciroppato addosso. Complimenti sperticati e strette di mano. Talia, molto più riservata, mi ha guardato con un caldo sorriso e occhi che sapevano la verità. Le mie disquisizioni sul sangue in un ascensore non avrebbero impedito il rinvio a giudizio. Ora sta tremando. Il tempo stringe, e lei sente che un nuovo orrore sta per avvilupparla. Il messo esce a passo lento dallo studio privato del giudice, lanciando occhiate furtive alle spalle. Sta facendo strada a Gail O'Shaunasy. Il giudice lo segue a una dozzina di passi di distanza, con un fascio di documenti in mano. Il destino di Talia. Sale sullo scanno. «Ordine, prego. Restate seduti. Il tribunale municipale di Capitol City, sezione 17, è ora in sessione. Presiede il giudice Gail O'Shaunasy.» Il messo si sposta in un angolo dell'aula. O'Shaunasy si schiarisce la gola e rovista fra le carte fino a metterle nell'ordine desiderato. Guarda direttamente Talia prima di parlare, poi spinge lo sguardo verso un ampio, imprecisato orizzonte al di là del pubblico. «Ho ascoltato tutte le testimonianze presentate in questa sede», dice, «esaminato tutte le prove concrete e documentarie. Ho valutato il tutto molto attentamente prima di esprimere questa decisione. «Il tipo di prove che questa Corte deve valutare non è quello di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, e nessun giudizio di questa Corte può determinare l'innocenza o la colpevolezza. «Il tipo di prove prese in esame riguarda esclusivamente una causa pro-
babile. A questa Corte compete soltanto stabilire se vi siano prove sufficienti per far nascere una ragionevole convinzione che un crimine sia stato commesso, e se queste prove indichino l'indiziata come sua esecutrice.» Questo è cibo per la televisione, un vano sforzo di dare una prospettiva critica alla storia, di evitare l'inevitabile: la condanna dell'accusata prima del processo. Più avanti, a frotte di giurati verrà chiesto se abbiano sentito parlare del caso, se sappiano qualcosa dell'imputata. Troppi diranno di aver letto o visto da qualche parte che Talia Potter è la donna che ha ucciso il marito. Entro questa sera, le sfumature di prove e di gradi di prova, il concetto che Talia abbia diritto a una chiara e inequivocabile presunzione di innocenza, moriranno sulle labbra di questo giudice, soffocate dall'attacco furioso di titoli di giornale e flash televisivi da trenta secondi. Ora O'Shaunasy punta lo sguardo su Talia. «È opinione di questa Corte che sussistano ampie prove, benché indiziarie, che esista causa probabile per ritenere che Benjamin G. Potter sia morto in seguito ad atto criminoso, e che l'indiziata abbia avuto ampia opportunità e motivi per commettere il reato. «In quanto all'accusa di violazione del codice penale, articolo 187, omicidio di primo grado, esistono prove sufficienti per ritenere che il reato imputato sia stato commesso e che l'indiziata Talia Pearson Potter abbia commesso detto reato. «Ritengo inoltre che, in rapporto alla perpetrazione di questo crimine, esistano circostanze aggravanti come sostenuto dal procuratore distrettuale, e pertanto l'indiziata sarà rinviata a giudizio presso la Corte Superiore con l'accusa di omicidio di primo grado con circostanze aggravanti. «Si ordina la presentazione di incriminazione formale entro quindici giorni. La chiamata a giudizio è ordinata in tale data. Si ordina che l'indiziata sia posta sotto la custodia dello sceriffo, in attesa di udienza per la modifica della cauzione.» Evidentemente, il rischio di una fuga di Talia non è più considerato minimo. Cheetam è balzato in piedi. «Vostro onore, non esiste nessun concepibile motivo per aumentatare la cauzione in questo caso. L'indiziata si è presentata a tutte le udienze, ha collaborato in ogni modo possibile a questo procedimento.» «Vero», ammette O'Shaunasy. «Ma la sua cliente dovrà ora affrontare un processo con l'accusa di omicidio. La questione della cauzione compete al-
la Corte Superiore. La mia decisione rimane immutata. La Corte si aggiorna.» Talia mi guarda. Due lacrime le tracciano un solco sulle guance. «Ne verremo fuori.» Cheetam fa promesse mentre la guardia carceraria, una donna, si mette alle spalle di Talia per scortarla alla porta d'acciaio che immette nelle celle sottostanti. Mi chino e le dico all'orecchio: «Ci vediamo domani mattina, prestissimo». «Sì, prestissimo», mormora lei, stordita. Non credo che mi abbia sentito. Non mi è chiaro se ha capito quello che è successo. Viene presa per un braccio, sorretta al gomito da dietro, e condotta fuori dall'aula. L'ultima cosa che vedo è Talia che scende i primi gradini, diretta alle viscere dell'edificio, alle fredde celle e al furgone che la trasporterà verso una notte di caos sonoro e orrori nella prigione di Capitol City. 20. E così il mattino dopo ci incontriamo in galera, dietro un vetro rafforzato da una fitta reticella di filo di ferro, parlandoci al telefono e leggendoci il pensiero. Siamo soli ora, Talia e io, naturalmente se si crede alla politica ufficiale dell'ufficio dello sceriffo, secondo la quale le conversazioni fra avvocato e cliente non vengono spiate. Cheetam è ormai acqua passata. È partito per Houston o Dallas o qualche altro dannato posto. Il suo impegno a tirare fuori Talia da una gelida cella è stato dimenticato prima ancora che lui si precipitasse giù dai gradini del Palazzo di Giustizia. Vittima di impegni più urgenti, il suo slancio è spirato come ogni altro impeto di focoso entusiasmo che possa impadronirsi di Cheetam. «Ho un'udienza per la cauzione oggi pomeriggio. Cercherò di mantenerla a duecentomila dollari», le dico. Lei annuisce. «E se non accettano?» «Cercherò di tenerla il più bassa possibile.» «Non potrò ricavare molto di più dalla casa.» «Quella casa vale almeno un milione e mezzo», le faccio notare. «Ma è ipotecata. Il nostro capitale effettivo non è molto.» Usa il plurale, come se Ben stesse aspettando fra le quinte per rimettere assieme i pezzi della sua vita distrutta. «C'è la prima ipoteca, e Ben ne ha accesa una seconda l'anno scorso.»
«Aveva bisogno di quei soldi?» «Le cose non andavano troppo bene allo studio», spiega. È la prima volta che sento una cosa del genere. «Per quasi tutto l'anno scorso Ben è stato preso dalle manovre politiche. Il suo introito dallo studio era in ribasso. Avevamo bisogno di una parte di quei soldi per andare avanti. Il resto, a quanto diceva, gli serviva per estinguere debiti d'affari.» È tipico di Talia: piccoli particolari che sembrano colare fuori dalle crepe. Adesso mi sta ragguagliando. «Che debiti?» Si stringe nelle spalle. «Affari», dice, come se la parola comprendesse l'universo intero. «Il vostro commercialista ha un rendiconto finanziario aggiornato, qualcosa che possa inviarmi subito per fax, per l'udienza di questo pomeriggio?» «Sì», risponde. «Immagino di sì.» Mi dà il nome del commercialista, ma non ricorda il numero di telefono. Dovrò chiederlo alle informazioni abbonati. «La cauzione è sempre relativa», le dico. «Si basa su ciò che la Corte ritiene necessario per costringerti a comparire. Se sei in situazioni di ristrettezza, la cifra magica potrebbe essere non troppo alta.» Lei si guarda attorno, scruta le squallide pareti grigie e il ripiano segnato su cui appoggia un gomito, quello del braccio che regge il ricevitore. Dalla parte di Talia, sul metallo grigio, sono incise le iniziali di qualche precedente occupante. C'è davvero da chiedersi dove quella creatura sia riuscita a trovare l'attrezzo appuntito necessario per l'incisione, e con quale audacia lo abbia adoperato sotto gli occhi di una guardia. «Non so se riuscirò a sopportare un'altra notte qui dentro.» Si scosta i capelli dagli occhi. Anche senza trucco, Talia è sempre una donna affascinante. Ma, nel giro di dodici ore, i suoi capelli hanno già perduto la loro lucentezza, dopo un unico lavaggio con un sapone disinfettante. Questo, assieme ad altre indescrivibili infamie, è il prezzo dell'ammissione in questo luogo. «Ti tirerò fuori», la rassicuro. Ma quasi mi strozzo con le mie stesse parole. Comincio a sembrare Cheetam. «Se Ben fosse qui farebbe...» Si ferma, soffoca la minaccia a metà, vittima della sua stessa mancanza di logica. «Se Ben fosse qui, non sarebbe successo niente di tutto questo.» Si mette a ridere. «La mia testa non fun-
ziona molto bene, vero?» «Chissà poi perché», dico. Questo provoca un piccolo sorriso. «Sei in una cella singola, da sola?» le chiedo. «Ci sono stata per quasi tutta la notte. Stamattina presto hanno messo qualcuno nell'altra brandina. Non hai idea del rumore che c'è in questo posto. Come si fa a dormire?» «Non è un hotel a cinque stelle.» «Dillo a me.» «Ascolta, non ho molto tempo e dobbiamo discutere di parecchie cose. Ti tirerò fuori di qui, ma intanto alcune regole.» Mi guarda, gli occhi attenti, ansiosa di collaborare. «Primo, non parlare con nessuno. Con la polizia, con il procuratore... nessuno. Hai capito? Se la polizia vuole parlarti, chiedi di me. Dopo di che non possono farti nessuna domanda, se non in mia presenza. Questo dovrebbe spegnere la loro curiosità.» Annuisce. «Regola numero due. È più importante della regola numero uno», le dico. «Non fidarti di nessuno qui dentro, per quanto possa sembrarti gentile e servizievole. Non farti coinvolgere in conversazioni con nessuno degli altri detenuti. Non parlare del tuo caso. Non dire a nessuno il motivo per cui sei dentro. Se guardano la TV o leggono i giornali, lo sanno. Tu sei una persona che scotta.» Mi guarda con gli occhi spalancati, un po' ingenui. Poi afferra. La maledizione di ogni prigione: la spia. «Non è soltanto di una confessione che ti devi preoccupare. Devi stare attenta ai piccoli particolari della tua vita. Di' a qualcuna di queste persone dove sei nata, o il cognome da ragazza di tua madre, e nel giro di venti minuti fabbricheranno la tua confessione, farcendola di questi piccoli fatti per dare un po' di colore. Diranno al procuratore distrettuale che l'hai raccontato di notte, in un momento di depressione, fra i singhiozzi di una crisi di pianto. Che hai messo a nudo la tua anima perché ti fidavi di loro. Credimi», insisto. «Ti impacchettano e ti vendono, per un'ora in meno qui dentro.» «Questo lo posso credere», commenta. «Ti tirerò fuori. Te lo prometto.» È un giuramento di sangue. Se non altro, per il debito che sento di avere nei suoi confronti per la mia complicità nel disastro provocato da Cheetam.
Respiro a fondo prima di affrontare l'argomento successivo. È delicato. «Cheetam è uscito di scena. Forse lo sai già, vero?» Annuisce. «Tony mi ha detto che non poteva andare oltre l'udienza preliminare. Ha accennato a un conflitto. Ha detto che avrebbe tentato di procurarmi qualcun altro.» I suoi occhi mi stanno supplicando. «Perché non puoi assumere tu il caso?» dice. «Tu e Tony ne avete parlato?» «Un po'. Pensa che faresti un buon lavoro.» «È l'opinione di chi ci ha dato una referenza placcata in oro per Gilbert Cheetam.» «Cheetam non lo conoscevo. Ma conosco te.» «Non si mette bene, il tuo caso», dico. «Dimmi qualcosa che non sappia già.» Sto pensando che se assumo il caso di Talia dovrò vedermela con Nikki, con la sua ira; e dovrò ottenere la sua firma, se voglio avere i soldi per farlo. «Hai detto che saresti rimasto con me.» Talia me lo ricorda come mi stesse leggendo un promemoria. «L'ho detto, eh?» «Sì, l'hai detto.» «Bene, allora immagino che se tu mi vuoi, sono tuo.» «Ti voglio.» A questo punto intuisco che è leggermente euforica, su di giri, espansiva. La sua mente sta esultando, dall'altra parte del vetro. Sento che non era poi tanto sicura che avrei accettato il caso. Vedo che l'ho fatta felice. «Lo so che non è il momento, ma dobbiamo parlare di questioni economiche.» «Prendi un avvocato, e la prima cosa di cui vorrà parlare sono i soldi», commenta. «A parte la mia parcella, ci saranno delle spese», spiego. «Periti, analisi di laboratorio. Tutte quelle cose che Cheetam non ha fatto o ha fatto nel modo sbagliato.» «Pensa Tony a tutto», dice. «È lui che maneggia i soldi.» «Ho visto Tony nel suo ufficio l'altra sera. Mi aveva mandato a chiamare. Pare che si stia innervosendo per il costo della difesa.» «Che problemi ha? Sa che gli venderò la quota di Ben nello studio, quando tutto sarà finito.» «Già. Be', non mi fa piacere comunicare le cattive notizie, ma credo che
stia cercando uno sconto.» Talia emette una piccola imprecazione, fra sé e sé, sottovoce. Adesso tiene la testa fra le mani, piegata da un lato con il ricevitore appoggiato sulla spalla, i gomiti sul piano del tavolo. Non riesco più a vederle gli occhi. Sono nascosti da una cascata di lunghi riccioli che le piovono sulla faccia. Le ho dato un colpo allo stomaco che le ha mozzato il fiato, spegnendo del tutto l'euforia della sua festa mentale con la mia notizia. E poi c'è questo posto, che alimenta le manie depressive. «Cosa vuole?» La voce proviene dal fondo di un baratro. «Offre contanti in anticipo per il rilevamento dell'intera quota dello studio.» «Quanto?» «Sono riuscito a farlo arrivare a trecentomila. Penso che salirebbe.» Talia scuote la testa. Ora ha alzato lo sguardo su di me, i capelli sugli occhi. La sua è quasi un'espressione di accusa. Mi pare di sentire la vocina nella sua testa: «Sei riuscito a farlo arrivare a trecentomila per un studio che vale dieci milioni. Stupendo! Già che c'eri, sei riuscito a farmi altri piccoli favori?» «È assurdo», le dico. «Gli ho detto che avrei comunicato l'offerta, ma che non l'avrei raccomandata, che nutrivo la speranza che tu non avresti accettato.» Sono parole audaci, considerato che adesso Talia è in prigione, e forse non ha i mezzi per coprire la cauzione. «Skarpellos.» Scuote la testa in segno di disperazione. «Ben diceva sempre che ha il dono degli affari.» «Quell'uomo sa quando fare un'offerta», le rispondo. «Quell'uomo è un colossale sacco di merda», dice. Sono le prime parole dure che le sento pronunciare da quando è cominciata questa sua odissea. La prima volta che abbia rimproverato un'altra persona per una parte del suo tormento. Talia avrà molti difetti, ma non è certo una che si lamenta. Lo prendo come un segno della tensione a cui è sottoposta. «Che altro posso fare?» Lo dice in tono pratico. Come se avesse preso la brillante decisione di accettare l'offerta del Greco. «Puoi tenere i nervi saldi. Non farti prendere dal panico. Per adesso gli ho fatto credere che i soldi non sono un problema. A quanto pare, gli ho rovinato i piani.» Questo pensiero mi fa ridere gli occhi, e lei lo vede attraverso il vetro.
«Come?» «Gli ho detto che potrei finanziare io una parte del procedimento. Che potrei finanziare la difesa di tasca mia e farmi dare da te un pagherò garantito dalla quota di Ben nello studio. Avresti dovuto vedere la sua faccia.» «Me la immagino», dice. Un breve istante di soddisfazione. Un leggero sorriso spensierato. Poi ridiventa seria. «Però», riprende, «è meglio non scherzare con Skarpellos. Ti può fare del male in cento modi, e tutti legali. E poi, dove prenderesti i soldi?» «Non preoccuparti», dico. «Posso trovarli.» Se Talia deve passare un'altra notte in questo posto, forse sono almeno riuscito a eliminare un motivo di insonnia. «Adesso devo andare a prepararmi per l'udienza per la cauzione. Più tardi passerà Harry a parlarti. Finché resterai qui, lui o io verremo a trovarti due volte al giorno. Una faccia amica ti impedirà di parlare con gli estranei», le dico. «Oggi verrà anche Tod.» Questo mi sorprende un po'. Benché abbia fatto la sua comparsa ogni giorno di udienza preliminare, fermandosi almeno per qualche ora, discreto nelle ultime file dell'aula, avrei scommesso che adesso, con tutti i guai di cui Talia è al centro, Tod Hamilton la considerasse un sicuro intralcio alla sua carriera. «Non discutere il caso con lui», le raccomando. «È un po' tardi per questo. Sa quello che c'è da sapere.» Dal modo in cui lo dice, ricordando anche la loro conversazione privata la sera che a casa di Talia abbiamo parlato della pistola scomparsa, mi viene il dubbio che Tod sappia più di quello che so io. «Non discutere il caso con lui. Qualunque cosa tu gli abbia detto prima può essere ritenuta confidenziale. In fondo, fa parte dello studio. Finché lavora per lo studio P&S, posso sostenere che le sue labbra sono sigillate dal segreto professionale. Anche se adesso le cose potrebbero cambiare.» Annuisce. Credo che capisca. «Ci vediamo in aula oggi pomeriggio.» Riagganciamo i ricevitori, e prima di andarmene rimango a guardare mentre viene condotta oltre la massiccia porta d'acciaio a un lato del parlatorio. Nelson mira in alto. Dice che è pronto a chiedere una cauzione di tre milioni di dollari per Talia. Non credo alle mie orecchie. Al telefono gli ri-
verso addosso la mia ira. «È scandaloso», esclamo. «Nessuna Corte lo permetterà.» «Niente affatto», ribatte. «È quello che ci vuole per assicurarci la presenza dell'imputata al processo. La signora dispone di grandi mezzi. Duecentomila dollari... Al diavolo, sono spiccioli.» «I suoi beni sono bloccati. Non ha contanti. Tre milioni... A questo punto potrebbe anche chiedere che venga negata la cauzione.» «Non è una cattiva idea.» «Lei si sta spingendo troppo oltre», scatto. «Su quali basi? Che la signora è una serial killer, che è andata in giro a malmenare i testimoni? Non ha nemmeno il passaporto...» È vero. Ben era talmente preso dai suoi affari che da quando si è sposato non ha mai fatto una vacanza più lunga di tre giorni. E Talia, benché annoiata, non era ancora stata sfiorata dall'idea di vacanze separate. Aveva trovato altri sfoghi alle sue energie, diversivi più vicini a casa. «Vedremo», dice Nelson. «Senta, chieda una cifra ragionevole per la cauzione e noi faremo del nostro meglio per mettere assieme i soldi.» Adesso sto cercando di addolcirlo un po'. «Si informi con chi vuole. Io non tiro bidoni. Ho avuto clienti che rappresentavano veri rischi di fuga. Non insisto su cauzioni basse se penso che esista una minima possibilità che un mio cliente tagli la corda. Non farebbe bene ai miei affari. I giudici tendono ad avere una memoria molto lunga.» Poi, imboccando una direzione imprevedibile, Nelson mi chiede: «Ha preso in considerazione la possibilità di un patteggiamento?» «Cosa? Lei ha intenzione di trattare sulla cauzione se la mia cliente accetta di patteggiare?» A queste parole ride un po'. Ho rotto il ghiaccio. «Cosa propone?» gli chiedo, serio. «Magari omicidio di secondo grado.» Nelson fa una breve pausa. «Magari meno. Dipende da quello che la sua cliente ha da offrire.» «Cosa potrebbe offrire?» «Il nome del suo complice.» Lo dice senza alcuna esitazione. Da mesi, la polizia sta facendo salti mortali nel tentativo di individuare chi ha aiutato Talia a uccidere Ben. Per il momento non hanno preso in considerazione la possibilità che non ci sia stato alcun complice, che chiunque abbia ucciso, se non è stata Talia, possa avere agito da solo. È quello che spiego a Nelson, ma non gli interessa.
Torniamo alla cauzione. Dice: «Ci vediamo in aula». E alle due del pomeriggio siamo in aula. Nelson e io ci troviamo al cospetto di Norton Shakers, giudice di Corte Superiore. Talia è al banco degli imputati, circondata da una transenna di quercia e da pannelli acrilici, come se fosse chiusa in una sorta di recinto di carico dell'era spaziale, vicino alla porta che conduce alle celle del tribunale. Indossa una tuta della prigione, arancione fosforescente, con la parola PRIGIONIERO stampigliata sulla schiena. Su Talia, la P e la O dell'enorme tuta hanno fatto il giro del corpo e spuntano da sotto le braccia. Mi sporgo oltre la transenna, mi avvicino a lei. Alle nostre spalle c'è una matrona, una guardia dello sceriffo. Shakers è ai livelli bassi del totem giudiziario; è di nomina recente e di esperienza limitata. Gli è stata conferita la carica di magistrato di primo grado, il che significa che viene svegliato a qualunque ora della notte per firmare mandati di perquisizione e ascoltare le divagazioni degli agenti di polizia sulla causa probabile. Mentre Nelson espone la sua mozione per fissare la cauzione a tre milioni di dollari, Shakers sbadiglia e si sfrega l'occhio con due dita. È la stessa triste musica che il procuratore mi ha cantato al telefono. L'imputata è molto ricca. Una cauzione di duecentomila dollari equivale all'invito a prendersi una vacanza. Sottolinea la gravità del crimine, le conseguenze che la mia cliente subirebbe se fosse riconosciuta colpevole, la tentazione di tagliare la corda. Indosso ancora una volta il mantello dell'indignazione e faccio presenti alla Corte le importanti conoscenze di Talia all'interno della comunità. Sventolo il suo rendiconto finanziario, ne passo copie a Nelson e al giudice, e insisto sul tema che una cauzione eccessiva equivale a negare la cauzione. Le cifre del rendiconto dimostrano che la liquidità non è tra le virtù finanziarie di Talia. Tutto quello che possiede è bloccato nello studio legale; c'è un piccolo conto alimentato dalla sua agenzia immobiliare, e la casa è pesantemente ipotecata. Il giudice siede impassibile mentre Nelson e io ci prendiamo a zampate. Propongo la riconferma della cauzione di duecentomila dollari. Sottolineo che, dal momento dell'imputazione avanzata dal gran giurì, la signora è stata libera di andarsene in giro per tre mesi, ed è comparsa in aula in ogni singola occasione, come le era stato ingiunto. «Stiamo parlando di una donna preminente all'interno della comunità. Talia Potter non rappresenta un rischio di fuga», dico alla Corte.
«Signor Nelson.» «Vostro onore, la donna è accusata di un crimine grave. Prima può anche non aver avuto motivo di scappare. Ma ora sì. Faccio notare a questa Corte che chiunque si trovi a dover affrontare la pena capitale deve essere considerato un rischio di fuga.» Nelson guarda il giudice con occhi glaciali. «La pubblica accusa è convinta che la presenza di questa imputata non possa essere garantita senza che si fissi un'ingente cauzione.» «Mi sembra un po' più che ingente», dice Shakers. Vedo le cifre scorrere veloci nello sguardo del giudice. «Vostro onore, ho qui una dichiarazione. Posso avvicinarmi allo scanno?» Shakers conferma con un cenno. Nelson fa il giro per consegnare copie di questa cosa, la sua dichiarazione, alla Corte e a me. Do un'occhiata. È una prolissa testimonianza, quattordici pagine, ottenuta da uno degli investigatori del procuratore e firmata sotto vincolo di giuramento da una certa Sonia Baron. La appoggio alla transenna e indico il nome con un dito, in modo che Talia lo possa vedere. «Sonia è un'amica», sussurra, e si stringe nelle spalle, come se quel documento fosse per lei una novità assoluta. «Per comodità della Corte, ho sottolineato la parte pertinente di questa dichiarazione. Vi prego di andare a pagina undici.» Apro e leggo: una lunga, divagante dichiarazione in calligrafia elegante, la storia di un'amicizia mondana, di incontri e discorsi fra le due donne nell'arco di diversi anni. È prassi normale da parte degli investigatori controllare ogni pista, parlare con i conoscenti, ricostruire i retroscena e l'ambiente di un sospettato. Per quisquilie simili, che ora giacciono sepolte negli archivi della polizia, si sono distrutte intere foreste. Nelson ha sottolineato con un evidenziatore giallo una parte di questo sconclusionato discorso, un incontro per un caffè fra Talia e Sonia al club, una mattina, poco dopo che Talia era stata accusata. «Era depressa», dice Sonia di Talia. «Era offesa e ferita all'idea che qualcuno potesse pensare che lei avesse commesso una cosa simile. Disse che la vita non meritava di essere vissuta. Che ora aveva incubi tutte le notti e che sognava di scappare e ricominciare da zero. Parlava di Raul a Rio.»
I poliziotti hanno scarabocchiato in grafia pesante, sopra la parola «Rio», nel doppio spazio fra le righe, «(Brasile)», nel caso il lettore non capisse. Hanno fatto siglare questa aggiunta da Sonia. «Si erano scritti di recente e lui le aveva parlato del clima e della vita spensierata di quel luogo. Lei gli aveva risposto dicendogli che desiderava tanto poterlo andare a trovare.» La dichiarazione prosegue, ma la parte evidenziata in giallo da Nelson termina. Mi sporgo oltre la transenna e avvicino le labbra all'orecchio di Talia. «Chi è Raul?» Lei mi dà un'occhiata che sta a significare: «Niente di importante». «Era il maestro di tennis del club», spiega poi. «Sonia e io lo conoscevamo tutte e due.» Non stento a crederlo. Shakers lascia cadere la dichiarazione sul piano davanti a sé ed emette un profondo sospiro, il primo segno che la faccenda non sta andando bene come sperava. Dovrà fare la parte di Salomone. «Vostro onore, mi pare sia chiaro che le affermazioni fatte dall'imputata a questa teste rivelino un profondo desiderio di sfuggire alla sua condizione, se necessario lasciare il Paese per evitare la situazione in cui si trova ora.» Nelson sta sfruttando al massimo la dichiarazione. «Al contrario», intervengo io. «Questa dichiarazione non vuole essere niente di più di ciò che è. La spontanea espressione dello stato di sconforto dell'imputata confidato a un'amica. Il fatto che possa avere sognato di essere libera dal suo attuale problema è naturale, comprensibile. Ha detto a un'amica come si sentiva. Niente di più.» «Ha scritto a Raul a Rio che desiderava poterlo andare a trovare.» Questo piccolo appunto è rivolto più a me che alla Corte. Potrei chiamare Talia a deporre, a spiegare i commenti fatti a Sonia, a metterli nel loro contesto, ma potrebbe sembrare una mossa di parte, e renderebbe Talia disponibile al controinterrogatorio di Nelson. Lui le chiederebbe di Raul, scaverebbe alla ricerca di un po' di marcio, qualcosa da collegare al perizoma di pelle di leopardo. «Certo, ma ci è andata?» chiedo. «Per tre mesi di martellamento da parte della stampa, quando sarebbe stato un gioco da ragazzi ottenere un passaporto e filarsela in qualche posto dimenticato da Dio, la mia cliente è rima-
sta qui ad affrontare le accuse mosse nei suoi confronti. E ora farà lo stesso, fino a che non verrà prosciolta.» Shakers capisce che non stiamo facendo progressi. Guarda Nelson. «Deve ammettere, signor Nelson...» Il giudice ha sollevato la dichiarazione di alcuni centimetri sopra il piano. «Che questo sa molto di chiacchiere fra due amiche. Ci sono volte in cui anche a me non dispiacerebbe andare a Rio», commenta. Dal tono, dà l'impressione che questa sia una di quelle famose volte. Emetto una risatina, per esprimere la mia comprensione nei confronti di un giudice oberato di lavoro. «Questa», dice Shakers, guardando la dichiarazione, «non vale tre milioni di dollari.» «Vostro onore, secondo la pubblica accusa questa dichiarazione mette in risalto una condizione mentale, il fatto che nei pensieri dell'imputata la fuga sia vista come un'alternativa al processo. Siamo convinti che questo, oltre al fatto che l'imputata potrebbe trovarsi a dover affrontare una condanna a morte, punti a favore di un cospicuo aumento della cauzione.» Nelson sta cercando di riportare un po' di solennità nel dibattimento. «E scommetto che lei ha setacciato tutti i suoi rapporti e questo è quanto di meglio sia riuscito a trovare», ribatto io. «Raul a Rio.» Alzo gli occhi al soffitto. «Questo non prova nulla, se non il fatto che una donna abbia sogni esotici di luoghi lontani. Sogni», sottolineo, «non concrete intenzioni di andarsene.» «Basta così, ho sentito abbastanza.» Shakers ha deciso che Nelson e io non riusciremo mai a raggiungere un compromesso. «Una cauzione di tre milioni di dollari è fuori questione», dice. «Non la prendo nemmeno in considerazione. Ho preso visione del rendiconto finanziario dell'imputata e, benché la signora Potter possegga un cospicuo patrimonio, non è chiaro se possa essere usato direttamente come cauzione o soltanto offerto a garanzia. L'imputata ha diritto a una cauzione ragionevole.» Talia mi guarda sorridente. Le do un colpetto di gomito per spegnere il sorriso. Shakers guarda nella nostra direzione. «Al tempo stesso, si tratta di un caso che prevede la pena capitale. Benché l'imputata non abbia precedenti, è noto che la fuga è considerata un'alternativa preferibile alla morte», dice. «La cauzione viene fissata a un milione di dollari. Verrà applicata una soprattassa del due per cento per ogni somma messa a disposizione da un
garante.» Talia mi ha afferrato la manica. «Non ce la farò mai a mettere assieme quei soldi dalla casa», sussurra. «La Corte si aggiorna.» Shakers è già sceso dallo scanno ed è diretto verso il suo studio privato. «Possiamo ottenere un prestito», dico. «Costa soltanto il dieci per cento.» È l'ammontare del premio da versare al garante che paghi il saldo della cauzione. «La tua quota della casa vale almeno duecentomila dollari, questo lo sappiamo», aggiungo. «Dovremmo poter ottenere l'ottanta per cento di quell'importo, se riusciamo ad accendere un'ipoteca di terzo grado.» Ma Talia mi sta guardando. Conosce la lentezza da ghiacciaio delle finanziarie. Starà in prigione una settimana, se siamo fortunati, e se riesce a trovare amici che diano una spinta alla pratica. Non sfioro nemmeno l'altro problema, quello di un garante. I garanti non sborsano un milione di dollari per una cauzione senza una garanzia di qualche tipo: una quota immobiliare, azioni, tua madre, insomma qualcosa. Talia mi fissa. La matrona l'ha presa per un braccio, la spinge verso la porta. Almeno per il momento, non sono riuscito a mantenere la mia promessa di farla uscire di prigione. «Ti tirerò fuori», le dico. «Lo so», mi risponde. È qualcosa nel suo tono, l'inflessione della voce: per la prima volta, penso che forse questa donna abbia più fiducia in me di quanta non ne abbia io stesso. 21. Harry è nel mio ufficio, davanti alla libreria che copre tutta la parete, e sta usando i miei codici. È troppo tirchio per precipitarsi a fare gli abbonamenti che terrebbero aggiornati i suoi. La biblioteca di Harry è una selva di statuti abrogati e leggi revocate. «Dov'è Dee?» mi chiede. «Le ho dato il pomeriggio libero», rispondo. «Avevo bisogno di leggere un po'.» Gli indico il rapporto sulla scrivania e gli faccio capire che è gradito il silenzio. Apro la copertina. Sotto il foglio trasparente c'è la carta intestata:
SCOTT BOWMAN E SOCI INVESTIGATORI AUTORIZZATI Bowman è stato una mia idea. Senza dire una parola a Cheetam o a Skarpellos, e vincendo le deboli obiezioni di Talia, l'ho pagato duemilacinquecento dollari di tasca mia, un anticipo. A metà dell'udienza preliminare, Talia si era finalmente resa conto che le prestazioni di Cheetam non erano la via migliore per garantirle la libertà. Bowman si occupa soltanto di casi che prevedono la pena capitale. La sua specialità sono le indagini da sfruttare in fase di definizione della pena, l'insieme di informazioni necessarie per salvare Talia dalla camera a gas, nel caso la giuria emettesse un verdetto di colpevolezza. Anche se pensare alla fase finale del processo può sembrare macabro, a questo stadio, Bowman ha consigliato di muoversi in tempo. Il suo è un consiglio sensato. Adesso possiamo inserire nella difesa informazioni sulla storia personale di Talia, mettere le mani avanti per una richiesta di clemenza in caso di condanna. Per Talia è stata dura: due lunghe interviste con Bowman, sola nel suo ufficio. Evidentemente, il suo passato è qualcosa che preferirebbe dimenticare. Mentre leggo questo primo rapporto preliminare (Bowman condurrà una successiva indagine contattando parenti e amici per ulteriori informazioni), mi colpisce scoprire quanto poco sapessi della storia di Talia. Dalle prime cinque pagine imparo di più sulla sua vita e sulle sue motivazioni di quanto abbia intuito nei mesi della nostra relazione. Talia è in parte latina, un particolare che ha nascosto sotto atteggiamenti anglicizzati; e ho l'impressione che farlo le sia costato la perdita di una fetta della propria identità. La vita cosciente di Talia Griggs inizia durante un'estate a Monterey Park; i suoi primi ricordi risalgono all'età di cinque anni. Viveva con la madre, Carmen, due fratelli e una sorella in quella triste distesa di anonime villette bifamiliari e squallide case in legno a cinque stanze che i costruttori chiamavano eufemisticamente «ranch». Edifici del genere deturpano la zona orientale della contea di Los Angeles come una sorta di triste bivacco architettonico. Quando ero un adolescente che viveva nella parte più ricca della contea, ho avuto occasione di vederlo: un luogo in cui le case sono dominate da prati incolti e zanzariere rotte. Veicoli posati su mattoni o assi di legno e
abbandonati da anni ingombrano tutte le strade residenziali: sogni fantastici di aspiranti meccanici, persi nell'illusione di riuscire un giorno a riportare quelle carcasse sull'autostrada. Le case cuociono sotto un sole opprimente che per mesi è invisibile, nascosto dalla perenne foschia scura che incombe come una specie di cataratta sopra le zone interne della contea. E i bambini sono onnipresenti, in numero spropositato. Scorrazzano nelle vie e sui marciapiedi, armati di giocattoli fatiscenti come le case. È in quest'ambiente che, dal rapporto di Brown, posso ora immaginare Talia, con cascate di lucidi capelli scuri che si arricciano alle spalle e il visino sporco, mentre corre per stare al passo con i ragazzi. Per un attimo, le righe di questo racconto evocano immagini di Sarah, perché quanto a tratti e colore dei capelli, Talia e mia figlia non sono tanto diverse. Carmen Garcia, la madre di Talia, non è mai stata del tutto certa della discendenza paterna della figlia. Dopo alcuni calcoli, e procedendo per esclusione, si era decisa per un padre putativo. James Griggs, un camionista vagabondo, aveva seguito Carmen a casa dopo una delle tante uscite serali della donna in cerca di qualcuno con cui dividere il letto in una fredda notte d'inverno ed era rimasto suo ospite per una settimana, mentre il suo camion era in riparazione. Carmen aveva fatto aggiungere il cognome Griggs al certificato di nascita di Talia quando la bambina aveva compiuto due anni. Secondo Talia, si era trattato più di un espediente burocratico che del desiderio di ristabilire la verità. La manovra forniva alle autorità di contea qualcuno da perseguire per un contributo ai sussidi mensili che Carmen riceveva dalla previdenza sociale per il mantenimento della figlia. Sembra che si sia trattato di un gesto inutile perché del signor Griggs non si ebbe mai più notizia e, a parte il suo breve e discutibile contributo genetico, non entrò mai nella vita di Talia. Per tutta l'infanzia e l'adolescenza, Talia imparò a vivere con il costante flusso di uomini che passavano nella vita della madre come vagabondi alla ricerca di un sacro graal sessuale. Mi appoggio allo schienale della sedia e, con l'occhio della mente, visualizzo l'immagine di una bambina in ginocchio sul pavimento del soggiorno di quella casa disordinata, con gli occhi spalancati e precoci, mentre una processione di estranei vaga per la casa al seguito di sua madre. La situazione familiare della prima infanzia di Talia era governata, a quanto pare, da due indiscusse dottrine. Regola numero uno, sua madre non soffriva di nessun problema legato all'alcool e, regola numero due, i bambini non dovevano parlare con gli altri del problema della madre. È
chiaro che l'apparente mancanza di coerenza logica fra questi due precetti sfuggiva alle giovani menti, oppure la paura di una punizione era talmente grande da rendere impotente la ragione. Più forte di tutto il resto era il senso di una lealtà mal riposta, condivisa dai quattro figli nei confronti di una madre che aveva dimostrato loro pochissima sensibilità o amore. Quando Talia arrivò ai dodici anni, i problemi di alcolismo di Carmen avevano raggiunto dimensioni intollerabili. Passava quasi tutti i giorni in un ebbro stordimento. Talia notò che l'attenzione degli uomini per la madre cominciava a calare. Le visite diminuivano, gli uomini erano più vecchi, e la situazione appariva ancora più disperata. Sempre più spesso, se si fermavano per più di una notte, la loro attenzione si spostava da Carmen alla figlia. Dato il costante stato di ebbrezza, Carmen notò questi approcci nei confronti della figlia solo mesi più tardi, quando Talia, con il corpo che stava prendendo le dolci curve della donna, venne bloccata mentre era sola in casa da uno degli amici della madre. Carmen rientrò, non attesa e sorprendentemente sobria, e trovò Talia seminuda, gli abiti strappati, raggomitolata sotto le lenzuola: stava lottando con uno dei compagni di letto della madre. Secondo Talia, a quanto riferisce Bowman, la reazione della madre fu fulminea e selvaggia, uno sfogo di rabbia che si impresse per sempre nella memoria della ragazza; un'ira rivolta esclusivamente alla figlia. Carmen lanciò lampade, strappò lenzuola, buttò all'aria comodini. Talia rimase sul letto, impietrita dal terrore, proteggendosi come meglio poteva dietro due cuscini mentre la madre le scaraventava addosso ogni oggetto a portata di mano. L'assalitore di Talia, del tutto ignorato in quella baraonda, scivolò silenziosamente fuori dalla stanza. Tirò su i pantaloni e allacciò la cintura mentre saltellava lungo il vialetto verso la sua automobile. Dopo questo episodio, per settimane Carmen rivolse la parola alla figlia soltanto per ricordarle la sua slealtà, il suo peccato. Le parlò del prezzo che i figli ribelli devono pagare. Trascinò Talia alla chiesa cattolica della zona, un luogo sul quale l'ombra di Carmen non si era mai posata prima di quel giorno, e costrinse la ragazza adolescente a confessare il proprio peccato a un prete anziano, raggomitolato dietro lo schermo di plastica del confessionale. Secondo le parole stesse di Talia, l'episodio lasciò in lei una cicatrice indelebile, la sensazione che tutte le istituzioni della società fossero intrise dell'identica ipocrisia dimostrata da sua madre. Nelle settimane e nei mesi che seguirono, il comportamento di Carmen
non fece che peggiorare. Passava la notte a bere, dormiva fino a tardi per scacciare gli effetti dell'alcool, si svegliava disfatta dai postumi della sbornia, sola in un letto vuoto. Dal racconto di Talia contenuto nel rapporto di Bowman, le mattine della madre cominciavano sempre allo stesso modo, in un alone di fumo di sigaretta, in un coro di accessi di tosse provocati dal tabacco. Fino a che un mattino, durante uno di questi accessi, si portò le mani al petto e si accasciò a terra, morta. Chiudo la copertina del rapporto. Rimando a più tardi la parte successiva: «Adolescenza ed età matura». «Lettura interessante?» chiede Harry. È in piedi su una delle mie sedie e sta consultando un libro che ha tirato giù dall'ultima mensola in alto. In dieci pagine, Bowman ha mandato in frantumi l'immagine che dipinge Talia come il prototipo della ricca donnaccia viziata. La sorpresa non è tanto il modo in cui ha trascorso gli anni della giovinezza, quanto il fatto che abbia nascosto queste verità in maniera così completa a tutti coloro con i quali è stata in rapporti intimi. 22. «Lo sapevo», dice. «Lo sapevo che sarebbe successo.» Nikki sta fremendo di rabbia. Sono andato a prenderla per cena. L'ho invitata da Zeek's per ottenere la sua firma. La casa è di proprietà comune e mi serve il nome di Nikki per avere un prestito, il denaro per finanziare la difesa di Talia. Sempre più spesso ho dei flashback della mattina in cui ho assistito all'esecuzione di Brian Danley, ma nella mia mente è il viso di Talia a guardarmi dall'interno della camera della morte. È l'unica cosa che mi spinga a chiedere l'aiuto di Nikki. Ho scelto con cura questo posto. È affollato ma tranquillo, un po' come mangiare in una chiesa. Tutti i camerieri indossano i paramenti, lino bianco inamidato con fasce di tessuto colorato attorno alla vita a mo' di fusciacche. Il timbro melodico di una balalaika ci giunge dalla sala vicina, dove un uomo nel classico costume russo suona a un tavolo. Ma ho il timore che nemmeno l'ambiente sereno di questo posto riuscirà a placare l'ira di Nikki. Gocce di sudore grandi come gocce di pioggia mi scorrono sotto la camicia. Il coraggio sta davanti a me in un bicchiere di vetro: Johnny Walker, doppio con ghiaccio. «Sei sicura di non volere qualcosa da bere?» domando.
«Hai anche il coraggio di chiedermelo», dice. Ma Nikki non sta parlando di un cocktail. Mi sta trascinando a bordo della nave dell'ira per una crociera in un mare forza otto. È incazzata nera all'idea che io abbia anche solo osato chiedere la sua autorizzazione per un'ipoteca sulla casa. La mano destra artiglia la tovaglia di lino accanto al piatto. I suoi penetranti occhi grigi mi stanno forando l'anima. «Immagino sia stata lei a chiedertelo.» La «lei» in questione è Talia, ma faccio l'ottuso. «Chi?» Sono l'innocenza in persona, con lo sguardo colmo di interrogativi. «Quella donnaccia... la bambolona... la tua cliente.» Nikki lascia cadere queste parole come napalm, a denti stretti. Una donna anziana, con le spalle avvolte da una stola di code di volpe, ci sta guardando dal tavolo vicino. «No», dico a Nikki. «Nessuno mi ha chiesto di farlo. Lo sto facendo perché è un buon affare. La causa vale parecchi soldi.» «Oh, scusami, signor Lee Iacocca», ribatte sarcastica lei. Fa una breve pausa per prendere in mano la forchetta, che usa per giocherellare con l'insalata. «E se ti dicessi di no?» Non è quello che voglio sentirmi dire. «Non posso accendere un'ipoteca di secondo grado senza la tua firma.» «Ah.» La risposta che voleva. «Bene, allora. Non te la do.» Ora si è messa a mangiare, si gusta la sua insalata. Come se questo pizzico di ripicca fosse il condimento che mancava. Le spiego che anticiperò le spese della difesa, ma avrò un pagherò cambiario garantito dalla quota di Talia nello studio. «Non è una questione personale, Nikki. Si tratta di affari», le spiego. «Affari? Be', è una parola che copre una quantità di peccati, no?» «Tu pensi che ti abbia mentito.» La mia voce è pacata e bassa. «Che ti abbia ingannata quando ho accettato la causa. Ti ho detto che mi era stato chiesto. Ed era vero. Non sono stato io a propormi. Ti ho detto che non ero l'avvocato principale, e non lo ero. Tutto quello che ti ho detto era la verità.» Calco la mano sul disastro provocato da Cheetam, come se a Nikki importasse qualcosa. «Ha abbandonato il caso, grazie al cielo», dico. «Ma ora io ci sono dentro più di chiunque altro. Un altro avvocato impiegherebbe sei mesi per mettersi al passo con me.» «Capisco. Nessuno può farlo come te. Immagino che anche lei conti su
di te.» «Immagino di sì», ammetto. «Come ogni altro cliente che abbia come prospettiva la camera a gas.» Questo fa nascere un'espressione grave sul volto di Nikki. Non ha mai considerato la posta in gioco prima d'ora. Anche nel suo attuale stato di furia, una morte di quel tipo è del tutto sproporzionata al suo desiderio di vendetta. «Ascolta», le dico. «Se non vuoi darmi una mano, ti capisco. Dovrò solo rivolgermi da qualche altra parte.» Adesso sto cercando la strada della riconciliazione. È una situazione pesante, per Nikki. Non mi sarei rivolto a lei se avessi avuto un'altra scelta. Dal suo punto di vista, il fatto che le chieda soldi per difendere la mia ex amante è una cattiveria, un versare sale in una ferita aperta; è costringerla a sbattere il muso sulla mia relazione con un'altra donna. Segue una lunga pausa dolorosa, strana per Nikki, mentre cambia marcia. «Quanto ti servirebbe», chiede, «per questa difesa?» «Centomila dollari, forse settantacinquemila, se uso una certa cautela. Basterebbero per condurre la difesa fino alla conclusione del procedimento.» Le dico che Harry e io percepiremo soltanto acconti fino a che tutto non sarà finito. La verità è che di questo non ho ancora fatto parola con Harry. Una sera lo beccherò a colloquio intimo con una bottiglia e gli strapperò l'impegno irrevocabile a diventare il mio avvocato aggiunto. «Potrò riscuotere il saldo quando sarà tutto finito, dalla quota di Talia nello studio. Estinguerò la seconda ipoteca. Devi credermi», dico. «E avrò un premio, un extra.» «Avrai un premio?» «Certo.» «E credi che questo per me cambi qualcosa? Mi porti qui, in questo posto.» Le sue braccia si alzano, assieme al volume della voce, a indicare l'ambiente circostante. Dal collo costellato di macchie senili, le bestioline stanno di nuovo rizzando il pelo contro di me. La loro proprietaria si è girata a guardare Nikki. La imploro con lo sguardo: «Abbassa la voce». «Mi porti qui, in questo antro di intrighi.» Nikki trasuda sarcasmo. «Mi porti qui non per parlare di noi, della nostra situazione, ma per discutere di... affari.» La fa sembrare una parolaccia, un'oscenità.
«Non era l'unico motivo. Volevo anche parlare di noi.» «Sì, ma prima le cose importanti, vero?» Mi sto soltanto scavando una fossa più profonda. «Sei mai venuto qui con lei?» chiede. Mi domando se valga la pena di fingere ancora una volta, di ribattere con un: «Chi?», se non altro per salvare le apparenze. Guardo le piccoli volpi e cambio idea. «No», dico. «È già qualcosa, immagino.» Adesso sto trangugiando Johnny Walker, e con la mano indico alla cameriera di portarmene un altro. «Non so proprio perché dovrei essere sorpresa», dice Nikki. «Sono le uniche cose di cui tu abbia mai parlato in undici anni di matrimonio, la tua carriera, i tuoi affari.» Eccola qui di nuovo, la parolaccia, che esce d'impeto dalle sue labbra, una piccola bomba. «È l'unica cosa di cui ti sia mai importato.» «Non è vero, Nikki. Tu importavi, Sarah importava. Ma a un certo punto siamo usciti dai binari.» Non sono mai stato bravo in queste cose. Questa intimità verbale in cui le donne sembrano tanto a proprio agio. Valuto per un attimo l'idea di offrirle una parte del denaro che ricaverò dal caso, una ricompensa per il suo investimento nella casa. Ma temo che si offenderebbe. Cerco di usare tutta la mia diplomazia. «Tratteremo il guadagno che ricaverò da questo caso come proprietà comune. È più che giusto. Stiamo usando una proprietà comune per finanziare la difesa, la nostra compartecipazione alla proprietà della casa.» «L'eterno avvocato», dice. «È sempre un altro affare. Se come marito fossi la metà dell'avvocato che sei, vivremmo ancora assieme. Diavolo, saremmo innamorati.» Nikki ha un talento tutto speciale nel catturare la verità e rovesciartela sulla testa come una secchiata di acqua dell'oceano Artico. C'è un lungo, pesante silenzio mentre lei con la forchetta sposta foglie di insalata sul piatto. Poi alza gli occhi e mi guarda. «Non voglio soldi. Se vuoi la mia firma, te la do... perché sei tu che me la chiedi», dice, «e per nessun'altra ragione.» Resto lì a guardarla, con la vergogna scritta negli occhi. Ho ottenuto quello che avevo chiesto, ma lei si è presa tutto il resto: una grande fetta di stima in me stesso. «Come ti pagherà?» chiede.
«A ore», le rispondo. «Ma forse metterò un limite.» «Generoso da parte tua.» «D'accordo, niente limite.» «Fai quello che ritieni giusto.» «Se lo facessi, non sarei qui a chiederti la firma», le dico. Le mie parole sembrano prenderla alla sprovvista. Forse la sorprende che io possa rendermene conto. «Conterrò i costi», le prometto. Ho già eliminato l'idea di un investigatore, a parte Bowman. Harry e io faremo personalmente la maggior parte del lavoro d'indagine. Nei mesi prima del processo, seguiremo le piste rimaste in sospeso e accerteremo i fatti che Cheetam ha ignorato. «Hai già un accordo con lei per la tua parcella?» «Non abbiamo ancora fissato nulla;» «Aspettavi la mia firma?» chiede. È una domanda più retorica che altro, ma prima di rendermene conto faccio una piccola smorfia d'assenso. Adesso ride di me, dietro la maschera che è la sua espressione. Lo capisco dalle piccole rughe attorno agli occhi. Pensa che Talia mi stia trattando da idiota. Magari vorrà esserci anche lei a farsi una bella risata, quando tutto sarà finito. Non so. Sto facendo una gran fatica a capire questa donna con la quale ho vissuto per undici anni, la madre di mia figlia. È arrivata la nostra cena, costata d'agnello stufata. Il cameriere sta togliendo i piatti dell'insalata. «Muoio di fame», dico, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che non sia Talia e il suo caso, di cui parlare. «Ha un aspetto delizioso.» Nikki non ha nemmeno abbassato gli occhi sul piatto. Li tiene fissi su di me. Uno sguardo indagatore, un'espressione colma di immensa pena; e c'è un'unica lacrima che le scorre lungo la guancia. Distolgo lo sguardo. Le piccole volpi se ne sono andate. «Hai una visita», mi dice Harry, impassibile. «Nel tuo ufficio.» È nella stanza d'entrata, appoggiato alla scrivania, a parlare con Dee. La mia impiegata ha finalmente imparato a usare il computer, quando ne ha voglia. I due si stanno trastullando con un cruciverba, un gioco da computer che il ragazzo di Dee le ha regalato per il compleanno. Harry le sta suggerendo parole per riempire i vuoti. «Accomodarsi, sei lettere, comincia con S. SEDERE», dice Harry. Se lo può permettere. Non è lui che paga lo stipendio di Dee. Gli lancio un'occhiata di sbieco, mentre controllo i messaggi telefonici
che ho preso dal raccoglitore sulla scrivania di Dee. «Ti sei messo in contatto con gli strozzini?» Ho lasciato a Harry l'incarico di sbrigare tutte le pratiche per l'ipoteca di Talia, i contanti per una parte di cauzione. Harry annuisce. «Ho portato i moduli di richiesta del prestito in prigione stamattina. Potevo risparmiarmi il viaggio», dice. «Perché?» Harry allunga un braccio, ancora distratto. Guardando al di sopra della spalla di Dee, apre la porta del mio ufficio, quel tanto che basta per farmi vedere l'interno. Su una delle sedie riservate ai clienti, di fronte alla mia scrivania, c'è Talia che sfoglia una rivista, senza sbarre e reticella di ferro. Indossa un fresco vestito a fiori. I capelli, non ancora toccati dalla mano del parrucchiere, sono più morbidi dei riccioli che ho visto ieri in carcere, senza dubbio grazie a qualche costoso shampoo a PH bilanciato e a un'ora di immersione in una vasca da bagno. «Che velocità», dico. Il suo esodo dalla prigione di contea, intendo. Lei si volta e mi guarda. Le sue dita stringono una piccola borsa. «Mai abbastanza veloce per me.» Entro nella stanza, mi dirigo alla mia poltroncina dietro la scrivania. «Come hai fatto?» le chiedo. «Amici», risponde. «Hanno versato l'anticipo di cauzione?» «Ho un grosso debito con loro.» Come minimo centomila dollari e un po' di spiccioli, penso fra me e me. «E chi è stato?» chiedo. «Non te lo posso dire. Vogliono restare anonimi.» «Non puoi dirlo nemmeno al tuo avvocato?» «Mi spiace, Paul, ho promesso che non l'avrei detto a nessuno.» «Capisco.» Harry finalmente smette di giocare e mi segue in ufficio. Chiude la porta e ci sediamo, pronti a parlare con Talia. «È una cosa di cui voi due non dovrete preoccuparvi», insiste lei. «Tirarmi fuori di prigione. Ho pensato che fosse la cosa giusta da fare.» Mi sto chiedendo chi, nell'ambiente di Talia, possa avere sufficiente interesse a versare l'anticipo di centomila dollari e offrire la garanzia personale richiesta per una cauzione di un milione di dollari. In ogni caso, è una bella notizia. «Allora i soldi dell'ipoteca restano disponibili», le dico. «Possiamo usar-
li per la difesa. In ogni caso, andiamo avanti lo stesso con la richiesta del prestito.» Harry annuisce. Lei sorride alla prospettiva di pagare gli interessi di tasca sua. «Oh, prima che mi dimentichi», esclama. Fruga nella piccola borsa che tiene in grembo e ne estrae un sacchetto di carta marrone tutto stropicciato, piegato e ripiegato una dozzina di volte. «Tod l'ha trovata in casa ieri.» Sta aprendo il sacchetto, e finalmente tira fuori il contenuto. Quando la sua mano riemerge, è stretta su una luccicante semiautomatica, talmente piccola che quasi si perde nella palma. «Tieni», dice Talia. Si sporge sulla scrivania per consegnarmela. «Là», ordino, facendole cenno di metterla sulla scrivania, al centro del tampone di carta assorbente. Sibilo a denti stretti. «Ti avevo detto di chiamarmi, se la trovavi. Di non toccarla.» Sto guardando Harry, che ha rivolto gli occhi al soffitto. «Sono sicura che l'hai detto. Era così eccitato quando l'ha trovata che deve esserselo dimenticato.» Sta parlando di Tod. «E anch'io», conclude, accartocciando il sacchetto di carta e ricacciandolo in borsa. «Grandioso. Immagino che sia piena anche delle sue impronte.» Mi guarda, un cagnolino bastonato, e annuisce, come a confermare che è proprio così. Senza reperti balistici capaci di dimostrare se i proiettili sparati da quest'arma corrispondano o no al frammento di proiettile ritrovato nel cranio di Potter, la polizia è libera di dedurre che sia proprio questa l'arma del delitto, questa piccola pistola coperta delle impronte della mia cliente e della sua ultima fiamma. Senza contare che mi è difficile comprendere quale incoscienza abbia spinto Talia, uscita di prigione da meno di un giorno, a portare nel mio ufficio questo oggetto nascosto in borsetta. Esamino attentamente la pistola. È piccola, circa dodici centimetri di lunghezza. La sicura è inserita. La lucida canna cromata è pesantemente decorata, con volute attorno alle cifre e alle lettere, 25 ACP, appena sotto la feritoia di espulsione dei bossoli; più avanti, il disegno di due carte da gioco, una coppia di due, incise quasi all'estremità della canna, sistemate l'una sull'altra a ventaglio. Non vedo l'ora di sapere se questa pistola ha sparato, di estrarre il caricatore e far uscire tutti i proiettili, in modo da poter vedere se lungo la canna ci sono residui. Ma farlo significherebbe cancellare impronte o aggiungere le mie a quelle di Talia e di Tod. Cosa fare della pistola è un problema. Harry vuole portarla a un labora-
torio, far analizzare le impronte ed effettuare confronti balistici. Ma Nelson potrebbe insinuare che forse abbiamo distrutto delle prove. Ci resterebbe soltanto il nostro rapporto di laboratorio, che, come minimo, confermerebbe la presenza delle impronte di Talia sulla pistola. «No», dico. «La consegneremo a Nelson. Pretenderemo di vedere l'analisi completa delle impronte e la perizia balistica non appena saranno pronte. Gli forniamo nome, data di nascita e numero di previdenza sociale di chiunque sappiamo abbia toccato l'arma. Talia, Tod, e forse anche Ben. Diremo che Tod l'ha trovata e senza pensare l'ha presa e data a Talia. Che nessuno dei due si è reso conto dell'importanza delle impronte. Che me l'hanno portata. Questo toglie ogni sospetto alle loro azioni. Qualsiasi altra impronta possano trovare...» Strizzo l'occhio a Harry. «Servirà solo a discolpare.» È persino troppo semplice. Harry ha capito al volo e annuisce vigorosamente. La mia prima impressione potrebbe essere che gran parte di tutto questo sia passato sopra la testa di Talia. Ma quando la guardo sta sorridendo, come il gatto che ha acchiappato il canarino. Sembra che Talia sia più a suo agio con questa strategia di quanto mi sarei aspettato. Forse è esattamente ciò che avrebbe fatto lei stessa. Mi hanno lasciato solo in ufficio. Talia è andata a casa, a lavarsi via un altro po' di inferno dai capelli. Harry ha fatto un salto da Nelson per parlargli della pistola e confermare tutto per iscritto. Poi consegnerà l'arma a uno degli investigatori del procuratore distrettuale. Contro ogni assennata valutazione, Harry ha accettato di essere il mio avvocato aggiunto in questa causa. Alzo il ricevitore e faccio il numero di Judy Zumwalt. È un quintale di piacere, una voce che è quasi una risata quando risponde: «Ufficio del segretario di contea». «Judy, sono Paul Madriani. Mi chiedevo se puoi farmi un piccolo favore.» «Chiedi pure», dice, «ma stasera sono già impegnata.» Poi scoppia a ridere, grande e sboccata. Ondate di carne tremolante passano nel cavo telefonico. «Stamattina è stata pagata la cauzione di una mia cliente. Vorrei sapere chi ha pagato l'anticipo. E anche chi ha firmato come garante del saldo.» «Certo», dice. «Dammi un paio di minuti.» Le do il numero di pratica del caso di Talia, e lei svanisce dall'altro capo
della linea. Gli amici di Talia possono anche preferire un'aura di mistero, ma chi si impegna a versare una cauzione fa del proprio interesse per l'imputato una questione di pubblico dominio. Non è certo qualcosa che possa passare inosservato a Nelson e ai suoi aiutanti. Judy è tornata in linea. Sta fischiettando: una folata d'aria tra denti distanziati. «Non se ne vedono molte di così grosse», dice della cauzione di Talia. «Signora poco perbene?» chiede. «Uno scambio di identità», le spiego. «Oh.» Ride ancora, come a dire: «Raccontamene un'altra». «È stata l'imputata a versare l'anticipo per la cauzione», dice. Il che significa che Talia e i suoi amici hanno fatto un po' di giri bancari; probabilmente un versamento veloce, un assegno circolare per assicurare la pronta accettazione da parte della sua banca prima che Talia compilasse l'assegno e pagasse l'anticipo. «E chi ha garantito il saldo?» chiedo. «Dunque, vediamo», borbotta Judy, consultando la pratica. «Ecco qua. Un certo Tod Hamilton.» 23. È un quartiere del ceto medio, strade tranquille fiancheggiate da alberi, una fitta volta di foglie che quasi si chiude sopra il centro di serpeggianti incroci. Il numero 239 di Compton Court corrisponde a una discreta casa bianca a mattoni, in stile coloniale, con un piccolo motivo ornamentale in ferro battuto vicino alla porta d'ingresso, ed edera ben curata al posto del prato. A fianco della porta, un pittoresco cartello dipinto a mano dice: I SIGNORI CAMPANELLI, JO E JIM. Jim è morto due anni fa, ma lei vive ancora qui. Suono il campanello e aspetto. Dall'interno non proviene alcun rumore. Premo un'altra volta. Poi, da una certa distanza, sento il suono sempre più marcato di passi che si dirigono alla porta. Lo scatto secco del chiavistello, e la porta si apre, ma non riesco a vedere la figura all'interno, avvolta com'è dall'oscurità e dalla fitta rete della zanzariera che sta fra noi. «Paul. Che piacere vederti.» In questa voce familiare c'è eccitazione, una leggera euforia, il segnale che sono il benvenuto. «Ero nei paraggi e ho pensato di fermarmi a salutarti.» «Hai fatto benissimo», dice lei. Socchiude la porta-zanzariera, la spalanca per farmi passare. «Quanto tempo. Dai, accomodati», dice. «È splendi-
do rivederti.» Jo Ann Campanelli possiede una di quelle facce che non sono mai state belle. Ha gli occhi di un cane bassotto, con lunghe borse cascanti. Fra i capelli, striati di grigio sin da quando era giovane, ci sono bigodini che sembrano balle di fieno in un campo. La retina che li tiene fermi è una cosa che risale a prima dell'ultima guerra. In questo caso, il volto triste appartiene a uno spirito cordiale. Se si fosse potuto dire che lo studio Potter & Skarpellos aveva un'anima, Jo Ann Campanelli ne sarebbe stata l'incarnazione. Mi spinge verso il soggiorno e accende una lampada a stelo per illuminare un po' l'ambiente. «Ne è passato del tempo», dico. «Non ho avuto occasione di parlare con te al funerale di Ben.» Eccomi qua, sulla soglia del suo soggiorno, a caccia di informazioni. Una domanda mi tormenta da quando ho concluso l'esame della tesi della pubblica accusa contro Talia. Perché non c'è nessuna dichiarazione di Jo Ann, la segretaria di Ben? Si sta sporgendo sopra il divano per afferrare la cordicella delle tende e lasciar entrare un po' di sole in questo antro. La trova, e veniamo entrambi inondati dalla luce. «Dio, così va meglio, no? Passo talmente tanto tempo nelle camere sul retro che mi pare di non usarla più, questa stanza. Quando sei sola non vedi molta gente», dice. «Non sono molti quelli che mi vengono a trovare. «Mi stavi chiedendo del funerale», continua, ricordandosi dove eravamo rimasti. «Sono andata dopo al cimitero. Quando la cerimonia era finita, a visitare la sua tomba, per stare un po' sola con lui.» «Ah.» Annuisco, a indicare quanto mi sia facile capire questo sentimento. «Ma non voglio fare la vecchia piagnucolona», spiega. «Come va il lavoro? Ti trovo in forma.» La morte di Ben è un argomento che la mette a disagio. È ansiosa di parlare d'altro. «Va bene», le rispondo. «Già, ti vedo in televisione», dice. «Quell'accusa vergognosa a Talia, la signora Potter. Dovrebbero farsi controllare il cervello. Non avrebbe potuto uccidere Ben più di quanto avrei potuto ucciderlo io.» «Sono d'accordo con te», convengo. «Ma succede spesso che le circostanze facciano di noi delle vittime. Temo che dovremo lavorarci parecchio.» «Oh, non ci credo. Non avranno mica delle prove?»
«Vorrei poterti rispondere di no.» Senza entrare nei dettagli, le spiego che le prove a carico di Talia non sono uno spettacolo allegro. «Allora hanno i paraocchi», commenta. «Vorrei tanto poterti mettere in giuria», le dico. Ride, poi l'allegria svanisce dal suo volto. «Tutta questa faccenda non ha senso. Il suicidio.» Impreca fra sé e sé, sottovoce, come se la cosa fosse del tutto incredibile. Scuote il capo. «Puoi stare sicuro che, se avessero parlato con me, li avrei fatti ragionare.» «È proprio quello che pensavo», commento. «Cosa?» «Non ti hanno mai interrogata?» «No.» Lo dice con una certa indignazione. «Ti va un caffè? L'ho appena fatto.» È un invito a scambiarci un altro po' di confidenze. «Se non ti disturbo.» «Nessun disturbo. Ti spiace se andiamo in cucina? È solo che di là si sta meglio.» «Fammi strada.» È una stanza allegra, carta da parati gialla con fiorellini in diagonale sopra l'alto zoccolo in legno bianco. Sul fornello c'è un bollitore in rame. Una dozzina di fotografie di nipotini e nipotine occupano le pareti, assieme a una serie di oche in gesso. «Normale o decaffeinato?» chiede. «Normale, senza latte.» «Bene. Per te, niente roba da femminucce.» Prende la brocca della macchina del caffè, ancora bollente. Jo Ann è una fanatica del caffè. C'erano sempre tre tazze distribuite in vari punti dell'ufficio, mezze piene, con il suo nome scritto sopra. C'è un certo caos organizzato in questa stanza, un'apparente confusione, tipica delle persone ordinate. Si ha l'impressione che tutto potrebbe essere riposto in un attimo in una credenza o uno sgabuzzino. Sul tavolo della cucina c'è un groviglio di grosso spago scuro lavorato a maglie larghe, con i nodi piuttosto lenti, come nei cestini reggipiante. Un paesaggio incompiuto, in compagnia di tubetti spremuti di colori acrilici, riposa su un cavalletto nell'angolo, vicino alla finestra. Jo Ann, per scelta o per necessità, è diventata una donna con molto tempo libero a disposizione. «Accomodati.» Spinge lo spago verso un angolo del tavolo. Lo spago
scompare in un cassetto che lei chiude da sotto. Scosto una sedia e mi siedo. «È bello avere compagnia», dice. «Spezza un po' la giornata. Tieni.» Mi mette di fronte una tazza di fumante fanghiglia scura. Adesso ricordo i suoi caffè in studio. Ben si rifiutava di toccarli. Diceva che erano il modo di Jo di comunicare che lei non faceva il caffè per nessuno, se non per se stessa. Jo prende la sua tazza e avvicina una sedia alla mia. «Allora, come si sta in pensione?» le chiedo. «Ci sono momenti belli.» «Ma ti manca l'ufficio.» «Si vede tanto?» Faccio una smorfia. «Be', immagino che desse alla mia vita una certa struttura, uno scopo, soprattutto dopo che Jim se n'è andato. Anche se devo ammettere che non sarebbe più stato lo stesso dopo la morte di Ben.» «Hai ragione», confermo. «Ci ho fatto un salto.» «Io non ci vado. Non credo che sarei la benvenuta.» Lo dice appoggiandosi allo schienale della sedia con un leggero sorriso, come se fosse custode di un segreto che è pronta a svelare. «Perché te ne sei andata?» Una risata, non cordiale, ma cinica. «Non è stata una mia scelta. Ho dovuto prendere un avvocato per ottenere la pensione», dice. «Skarpellos... Quel tizio è più basso dei capezzoli di un serpente.» Scandisce le parole. «Ben era ancora caldo. Mi ha mandata a chiamare e mi ha detto di sgomberare la mia scrivania. Mi ha messo alle spalle una guardia di sicurezza mentre lo facevo. Il genere di fiducia che ti viene dimostrata dopo vent'anni di lavoro.» Pronuncia queste frasi con amarezza. Non dico nulla, ma la guardo come per dire: «Continua a raccontare». L'aroma del caffè si sta facendo strada attraverso i miei sensi. Non l'ho ancora assaggiato, ma l'odore assomiglia vagamente a quello dell'acido cloridrico. «Dimenticavo che tu non c'eri», esclama. «È successo quasi tutto dopo che tu eri già andato via. Quel posto era un campo di battaglia.» Jo sta descrivendo lo studio nei giorni prima del suo allontanamento. «Tony sapeva a chi ero fedele.» «Lui e Ben erano in disaccordo?» Lo chiedo con voce sicura, perché ho visto le aspre battaglie fra loro. «La parola disaccordo è un eufemismo. La società stava per saltare.»
Questo mi sorprende. Benché i litigi fossero normale amministrazione, non duravano mai più di un giorno. I due erano capaci di mettersi a strillare con tutto il loro flato, e il mattino dopo ne avevano dimenticato il motivo. «Gelosia», prosegue Jo. «Skarpellos era verde. Già gli pungeva che Ben se ne andasse, ma l'idea che partisse per i fasti di Washington gli dava i travasi di bile. Era un anno che si lamentava che Ben non faceva la sua parte. Tutti gli altri soci gli dicevano che per lo studio sarebbe stata una miniera d'oro. Un ex socio alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il solo prestigio avrebbe portato nuovi clienti a dozzine. Tony alla stessa tavola della Corte Suprema. Te lo vedi?» L'idea ci fa ridacchiare entrambi. Beve un sorso di caffè e se lo lascia scorrere come piombo fuso giù per la gola. Adesso sul tavolo c'è il pacchetto di sigarette. «Ti spiace?» Scuoto la testa. Sono diventato il surrogato di un migliaio di pause per il caffè piene di lamentele. Jo ne sente la mancanza, da quando ha lasciato lo studio. «Ad ogni modo», prosegue, «il punto cruciale erano i clienti. Tony aveva il terrore che, senza Ben, i clienti si sarebbero pian piano allontanati. Lo sapevano tutti che era Ben a mantenere affollata la sala d'aspetto dello studio. Skarpellos aveva vissuto a sbafo per anni. E la pacchia stava per finire.» Si accende una sigaretta. So che questo è vero. Tony faceva la sua parte nel mungere denaro ai clienti, ma era Ben a foraggiare la vacca dei contanti. «Quando Ben è tornato da Washington, l'ultima volta, c'è stato un cancan», dice. Fra una parola e l'altra, emette uno sbuffo di fumo da un angolo della bocca, verso il soffitto. Un pizzico di durezza. «È stata una cannonata, questa litigata fra Skarpellos e Potter», prosegue. «Li sentivi urlare a più non posso, fino alla reception.» Sono tutto orecchi. «Buffo», dice. «Anche se era Tony a dare in smanie...» Il fumo, assieme ai pezzetti di tabacco tolti dalla lingua, fa da punteggiatura a questo monologo. «...e sebbene fosse Ben che se ne andava e tutto il resto, è stato Ben a cominciare a litigare.» «Per cosa?» «Soldi. Pare che il fondo fiduciario si fosse un po' assottigliato.» Sorride e alza gli occhi al soffitto, come a intendere: «Ovvio, no?»
«Lasciami indovinare», la interrompo. «Ben ha pescato Tony a prendersi un prestito?» Jo annuisce. «Tombola», esclama. «E Ben sprizzava scintille.» Non sono sorpreso. In precedenti occasioni, prima che me ne andassi, c'erano già stati piccoli contrasti per la disinvoltura del Greco nei confronti del fondo fiduciario dei clienti. Lo usava come una specie di conto personale, sempre a un soffio dall'indurre qualche cliente a presentare un esposto all'ordine. In due occasioni di cui sono a conoscenza, Ben dovette lisciare, con cene e vini pregiati, le penne arruffate di clienti che avevano colto il Greco con le mani nella cassa, a prendere a prestito i soldi dei loro anticipi. «Quella volta», mi racconta Jo, «la cosa si era spinta troppo oltre. Skarpellos si era preso più di qualche spicciolo. E un cliente aveva esposto un reclamo all'ordine. La litigata si è conclusa con Skarpellos che usciva come una furia dall'ufficio di Ben, dopo che Ben gli aveva dato un ultimatum.» Secondo Jo Ann, Potter aveva dato a Tony quarantotto ore per rimettere il denaro nel fondo fiduciario, due o trecentomila dollari, non ricorda la cifra esatta, «presi a prestito» dal Greco per una delle sue «transazioni d'affari», cioè per coprire la sua quota in qualche brillante operazione immobiliare. Pare che Skarpellos avesse uno dei suoi perenni problemi di liquidità. Con l'ordine degli avvocati che già era sul punto di avviare le indagini, Ben aveva dettato due lettere a Jo Ann: una - succinta, di una sola pagina al Greco, nella quale si confermava la richiesta di Ben di rimborsare il denaro nel giro di quarantotto ore, e un'altra alla commissione disciplinare dell'ordine, in modo che non ci potesse essere alcun dubbio nello stabilire la responsabilità dell'ammanco. La prima lettera fu inviata a Tony in busta chiusa. La seconda era postdatata, e sarebbe stata imbucata due giorni dopo da Washington se Skarpellos non avesse rimediato all'errore. Nessuno di noi può dire se Ben avrebbe davvero portato a compimento la sua minaccia e spedito la seconda lettera. Ma, se conosco Skarpellos, stava sudando freddo. In una mano di poker con una posta del genere, Potter sarebbe sempre stato in grado di confondere il Greco. «Ben era fuori di sé», dice Jo. «Aveva preso come una questione molto personale il fatto che Tony potesse comportarsi in quel modo proprio quando i federali stavano spuntando dappertutto, per raccogliere informazioni su di lui per la nomina alla Corte Suprema.»
Ora capisco che Potter, al suo ritorno da Washington, aveva in mente cose più importanti della mia storia con Talia. Aveva un socio ladro che minacciava di rovinargli la reputazione. Le storie di appropriazione indebita di fondi fiduciari non portano certo alle nomine alla Corte Suprema. La ratifica del Senato avrebbe richiesto mesi. Sarebbe stato passato al setaccio ogni angolo della vita di Potter. Era molto improbabile che i politici di Washington si prendessero il disturbo di valutare quali dei soci fossero colpevoli, e quali fossero invece vittime innocenti della truffa. Gli schizzi di fango sarebbero stati tanto poderosi da imbrattare anche Ben. «Ben avrà discusso la questione con gli altri soci.» Lei scuote la testa tra i sorsi di caffè. «Non c'era nessun altro con cui potesse confidarsi.» Nessuno tranne lei, intende. «Nessuno dei soci voleva prendere posizione. Sapevano che Ben stava per andarsene, e che loro sarebbero rimasti ad affrontare Tony... da soli. Non certo una bella prospettiva», commenta. Un eufemismo. In una prova di forza all'interno dell'ufficio, il Greco si sarebbe mangiato per pranzo qualunque socio. Aveva dimostrato in una decina d'occasioni di poterli intimidire, collettivamente e individualmente. Tutti, tranne Ben. «Ma la cosa più importante...» Tira una lunga boccata dalla sigaretta. «La lettera di denuncia all'ordine, quella che avevo preparato per la firma di Ben, è scomparsa. Le copie del file, l'originale, ogni traccia di quella lettera. Tutto sparito. Persino il file di backup sul disco fisso del mio computer», dice. «Tutto svanito.» La cosa mi interessa, e lei me lo legge in faccia. «Il giorno dopo la morte di Ben, l'ho cercata nella directory. Ho tentato di richiamarla e leggerla usando il codice segreto di Ben. Ma era sparita. Qualcuno l'aveva cancellata. E non ne esistevano copie su carta», aggiunge. «Ben non voleva che la lettera andasse in giro per l'ufficio.» L'importanza di questa corrispondenza non sfugge a Jo Ann. Mi chiedo ad alta voce perché non si sia rivolta alla polizia. «Per dire cosa? Non avevo prove», risponde. «Ma il peggio non lo hai ancora sentito. Sono andata dal signor Edwards e gli ho raccontato delle preoccupazioni di Ben per il fondo fiduciario. Mi ha risposto che avrebbe controllato. Il giorno dopo si presenta da me. molto cordiale.» Jo Ann fa un sorriso da innocente. «Mi dice che il conto è in ordine, che non ci sono scoperti. Nessun ammanco.» Ripete queste parole a se stessa, annuendo con forza come per sottolineare quanto sia stata stupida a chiedere aiuto.
«Un'ora dopo sono stata licenziata in tronco.» Avrei potuto dirglielo io: come O'Mally è il padrone della squadra dei Dodgers, Tony è il padrone di Edwards. Sono soci solo di nome. Ma è del tutto inutile versare sale sulle ferite, adesso. «Perché la polizia non ti ha interrogata?» Scuote la testa. «Sono stata in Inghilterra per quattro mesi, a trovare dei parenti. Erano anni che volevo farlo. Essere sbattuta fuori me ne ha dato l'occasione.» Questo spiega tutto. La polizia non si è spaccata la schiena alla ricerca di piste o fonti. Cedendo a una comoda miopia, ha cominciato con un indiziato e ha costruito la sua tesi contro Talia. In pochissimo tempo Talia si è trovata sepolta fino al collo, e si è rivolta a Tony perché l'aiutasse a venirne fuori. All'improvviso tutto acquista senso: l'inetto Cheetam, Tony, ansioso di ereditare il patrimonio di Ben, che conduce Talia verso il precipizio. Tutto calza alla perfezione, come le dita di un guanto. «Verresti a deporre?» le chiedo. «Ne sarei deliziata», risponde. «Cos'ho da perdere?» Poi si interrompe. «C'è soltanto un problema. Senza qualcosa in più della mia parola, la cosa potrebbe sembrare dettata dal risentimento.» 24. «Brutte notizie... e sorprese», esordisce Harry. Varca la soglia a passo di valzer, una sottile cartella in pelle sotto il braccio. «Skarpellos ha un alibi», dice. «E aspetta a sentire il peggio.» La sua espressione è seria. Sta per arrivare un brutto colpo. «Tod Hamilton non ce l'ha.» Non è quello che volevo sentire. Si siede per mettermi al corrente dei dettagli. Harry ha fatto un po' di indagini. Imbeccato dalle informazioni di Jo Ann, ha ricontrollato quello che Tony ha dichiarato alla polizia, qualcosa a cui non avevamo prestato molta attenzione durante l'udienza preliminare: i movimenti del Greco la sera dell'omicidio. «Sostiene di essere stato a una partita di basket a Oakland, con un'amica.» «E chi è l'amica?» gli chiedo. «Questa ti piacerà», risponde. «La tua cliente. Susan Hawley.» «Figlio di puttana», esclamo. Spezzo in due la matita che tenevo in ma-
no. «Ci pensi? Non c'è da meravigliarsi che fosse così ansioso di pagarle la difesa. Indovina chi era la persona importante che sarebbe saltata all'occhio nell'agenda delle scopate, se Lama ci avesse messo le mani sopra?» Il Greco mi ha usato per tenere buona Susan Hawley. Tony mi ha mentito, quel giorno nel suo ufficio. Non esisteva nessun cliente. Non esisteva nessun politico importante che lo studio stava cercando di proteggere. Il Greco voleva solo salvarsi il culo. Mi chiedo quante volte abbia usato Susan per pasturare le acque politiche, alla ricerca di voti su questioni urbanistiche o altri cosiddetti «affari». «La polizia ha una dichiarazione di Susan?» gli chiedo. «Puoi scommetterci», risponde. «E lei conferma i fatti, l'alibi di Tony?» «Come se qualcuno le avesse scritto un copione su misura.» Fisso il mio sguardo su di lui. «Che ne pensi?» «Penso che Skarpellos avesse il bisogno impellente di mettere una canna di fucile in bocca a Ben, e l'occasione per farlo.» Sorride. «Credo che la signora stia mentendo. Adesso chiedimi come riusciremo a dimostrarlo.» Su questo non mi sbilancio, ma sono tendenzialmente d'accordo con Harry. Se Susan è stata ingaggiata dal Greco per servire clienti politici prima che lo scandalo cominciasse a venir fuori, sarebbe l'alibi perfetto per la sera dell'omicidio. «Per il giusto compenso, Susan Hawley sarebbe più che disposta a farsi mettere in bocca delle parole», commento. «Fra le altre cose», aggiunge Harry. «E Hamilton?» «Non ha la stessa fortuna», dice. Mi guarda perplesso, ma non del tutto sorpreso. «Nessun alibi?» Harry annuisce. «L'unica nota positiva per lui è che la polizia non lo ha mai interrogato, così non ha avuto modo di mentire ufficialmente.» È quello che temevo. Ho chiesto a Harry di controllare l'alibi di Hamilton, la storia che mi ha rifilato la sera del nostro incontro a casa di Talia, quando mi ha detto di essersi trovato a cena al club con amici la sera in cui Ben è stato ucciso. «Dai registri del club risulta che ha davvero cenato là», dice Harry, «tre sere prima dell'omicidio, e poi ancora una settimana dopo. Per quella sera, non risulta la sua presenza né al bar né al ristorante.»
«Non potrebbe avere pagato qualcun altro?» chiedo. «No. C'è un registro nell'atrio, e tutti firmano quando entrano e quando escono, sia i membri sia gli ospiti. Ho controllato. Quel giorno non ha mai firmato.» Se lo ha scoperto Harry, può farlo anche la polizia. La mancanza di discrezione di Tod mi preoccupa sempre più. Il fatto che abbia versato un riscatto principesco come cauzione per Talia lo illuminerà al neon agli occhi di Nelson. Senza alcun alibi per la sera del delitto, sta diventando un complice sin troppo comodo. «Credi che lei ti stia mentendo?» Harry è preoccupato per Talia, per la sua relazione con Tod. Si sta chiedendo se tutto sommato la polizia non possa avere ragione. «Non sarebbe la prima volta che un cliente mi mente.» Harry è lì seduto e mi guarda come a voler dire che forse, ma proprio forse, questa volta siamo dalla parte del diavolo. Non è una posizione inconsueta per Harry, e nemmeno lo disturba granché. Ma, gli dico, non è stata lei a uccidere Ben, con o senza Hamilton. Quanto al fatto che stia mentendo... Faccio una smorfia come per dire: «Chissà». «Giurami che non stai pensando con l'uccello», mi intima. Gli scocco un'occhiata di esasperazione. Harry se la prende. «Risparmiati certe scene per la giuria.» È irritato. «Vuoi che ti mantenga onesto, no? Allora stammi a sentire.» Gli faccio cenno di proseguire, di mettere alla prova con me le sue migliori elucubrazioni mentali. «Pensaci», dice. «Vai a casa sua, e questo Tod vive con lei. Paga la cauzione per tirarla fuori di galera. Sicuro, può semplicemente essere che il cazzo abbia preso il sopravvento sulla sua testa. È una possibilità. L'altra è che forse considera quei soldi un buon investimento.» Mi guarda con occhio severo, come se l'ipotesi non fosse poi troppo remota. «Se fossi stato tu a fare fuori il vecchio, e Talia lo sapesse, non ti innervosirebbe un po' sapere che è in carcere, sull'orlo del crollo totale? Eh? Quanto tempo passerà prima che riveli qualcosa a qualcuno? Non ti verrebbe voglia di tirarla fuori subito?» Lo guardo con aria seria; seguo il suo ragionamento. «E la pistola», insiste. «Tu sei stato molto chiaro. Ci mancava solo che gli scrivessi le tue istruzioni in fronte. Gli hai detto di non toccare l'arma, se l'avessero trovata. E cosa fa Tod?» Harry alza un indice alla tempia, a mimare il processo mentale, i calcoli che deve avere fatto Tod per decidere
di toccare la pistola riempiendola di impronte. «Adesso scopriamo che non ha un alibi. Ancora peggio, ti ha mentito sulla sera del delitto.» «Cosa stai dicendo? Che hanno ucciso Ben assieme?» «È una possibilità», risponde. Ma c'è un'altra teoria che Harry ritiene più vicina alla realtà. «Forse il ragazzo è innamorato marcio. Vuole che Talia lasci il vecchio. Supponiamo che lei rifiuti. Forse non sa rinunciare alla bella vita, e c'è l'accordo prematrimoniale e tutto il resto. Così ci pensa Tod. Supponiamo, semplicemente supponiamo, che lei lo venga a sapere solo a cose fatte, dopo che Hamilton ha ucciso Potter.» Ci rifletto su, mentre Harry mi scruta. Ho i miei dubbi su Tod. Ma in quanto a Talia, mi è molto difficile credere che mi nasconderebbe una cosa del genere. Con tutto quello che ha passato, non riesco ad accettare l'idea. «Avrebbe parlato», dico a Harry. «La conosco. Non ce l'avrebbe fatta. A questo punto, me lo avrebbe confessato.» Talia, nonostante i suoi capricci, non sarebbe mai arrivata a tanto. Non accetterebbe di affrontare la morte o una lunga carcerazione senza raccontarmi la verità, se fosse colpevole. «Può darsi», concede lui. «Ma pensaci. Ormai è all'angolo. A cosa le servirebbe confessarsi con te? Se anche tu conoscessi la verità, le sarebbe d'aiuto?» Lo seguo su questa strada. Harry ha ragione. Uno scenario del genere non avrebbe molto successo con una giuria. Il fatto che Talia, una donna sposata, avesse una relazione amorosa tanto seria da spingere all'omicidio basterebbe a inchiodarla. Al massimo potremmo sperare che la considerassero complice a cose fatte. Ma anche su questo non ci sarebbe troppo da scommettere. «Allora cosa mi stai dicendo?» chiedo. «Che forse la signora sa più di quanto dica. Forse potrebbe accordarsi con Nelson per un patteggiamento, tutto sommato.» Harry sta suggerendo che potremmo convincere Talia ad accusare Tod, offrirlo al procuratore nelle vesti del misterioso complice. «Troppo comodo», ribatto. «Non esiste uno straccio di prova che colleghi Tod all'omicidio. Il fatto che ha pagato la cauzione? Non è una prova che sia stato lui a uccidere. Il fatto che non abbia un alibi? Dov'eri tu quella sera?» gli chiedo. Harry scrolla le spalle. Non ha una risposta precisa. «Come metà degli abitanti di questa città», commento. «No, non reggerebbe. A meno che non ci siano prove concrete. A meno che Talia non sia
disposta a testimoniare che Tod le ha confessato tutto, Nelson non abboccherebbe mai.» Il che mi lascia col problema di parlare a Talia della cosa, di chiederle di Tod. «Per adesso», dico, «concentriamoci sul Greco.» È solo una sensazione, ma qualcosa nelle ossa mi dice che Skarpellos è la chiave di volta. «Cosa vuoi che faccia? Che chieda un'ingiunzione per farci consegnare dalla banca le registrazioni relative al fondo fiduciario dello studio?» «No, aspettiamo. Le avremo in tempo utile per esaminarle e confermare la nostra linea di difesa, per vedere se riusciamo a provare che qualcuno attingeva al fondo. Ma non appena richiederemo le registrazioni bancarie, Skarpellos saprà a cosa miriamo. Comincerà a fare pressioni sui testimoni. In maniera sottile. Nessun tentativo palese di corruzione.» Il Greco è un maestro dell'intimidazione. Harry annuisce, come se in questo fosse anche lui bravissimo. Ha capito a cosa miro. La vecchia linea di difesa ESUAG: «È-Stato-Un-AltroGonzo». Cinque giorni dopo la spedizione di Harry al club, sono di nuovo nel soggiorno di Talia, a metterla di fronte alla realtà dei fatti sul conto di Tod: la sua mancanza di un alibi, la sua generosità per la cauzione. «Stai facendo un cattivo servizio a te stessa», le dico. «Non posso difenderti senza sapere la verità.» Talia è seduta a un angolo del divano, e mi guarda come se l'avessi picchiata con un'asse irta di chiodi. Le gambe sono raccolte sotto il corpo, le braccia incrociate sul petto: la classica posizione femminile di difesa. Non risponde. Mi guarda sconsolata, con aria accusatrice, delusa all'idea che anch'io le dia addosso in un momento come questo. «Domani dobbiamo andare da Nelson. Puoi stare certa che ci offrirà un qualche tipo di accordo. Ho bisogno di sapere se dobbiamo accettare. Se mi nascondi delle cose, dei fatti determinanti che potrebbero saltare fuori durante il processo, mi stai creando ostacoli... e ti stai mettendo in croce da sola.» Ha un'espressione attonita. Ho sentito spesso dire che si può imputare la perdita delle facoltà mentali a un singolo evento traumatico: una caduta, una disgrazia, un cambiamento di ambiente. In Talia, dalla sua incarcerazione, si è verificata una considerevole perdita della capacità di concentrazione, un'ansia inquieta che per lei non è normale. Sta lentamente andando in dissoluzione.
Mi avvicino al divano e la scuoto leggermente, non con le mani ma con il tono della voce, parlandole all'orecchio. «Mi hai sentito?» chiedo. «Più andiamo avanti, più diventa difficile. Se c'è qualcosa che non mi hai ancora detto, il momento è questo.» Non posso permettermi di fare il tenero. Di colpo decide di aggredirmi. Si irrigidisce e colpisce. «Pensi che sia stata io», dice. «È così?» Finora non le avevo mai fatto questa domanda. Non apertamente. Harry e io ci abbiamo girato attorno, abbiamo sondato il terreno, ma non l'abbiamo mai chiesto a Talia senza mezzi termini. «Come puoi credere che io abbia potuto fare una cosa simile, che abbia potuto uccidere Ben?» «Che parte ha Tod in tutta questa faccenda?» ribatto. «È un amico.» C'è derisione nella sua voce, come per dire: «Diversamente da te». «Un buon amico», dico. «Si è impegnato per un milione di dollari. Farebbe comodo anche a me, qualche amico del genere.» Mi guarda sorpresa, a occhi sgranati, meravigliata che io abbia scoperto il suo piccolo segreto, la tasca gonfia che sta dietro la sua cauzione. Le dico che anche Nelson ormai ne sarà al corrente, e che prima o poi ci troveremo a dover spiegare la mancanza di alibi di Tod e la faccenda della loro relazione. Dall'espressione del suo viso capisco che ha improvvisamente cominciato a comprendere l'importanza di questi fatti. «È una situazione pericolosa», le spiego. «Vivete assieme, lui paga la tua cauzione, non ha alibi per la sera dell'omicidio, e la polizia sta cercando un complice. Qualcuno potrebbe pensare che il suo contributo alla tua cauzione sia un piccolo investimento per assicurarsi il tuo silenzio, per impedirti di puntare il dito e indicarlo come l'uomo che ti ha aiutata.» Leggo nei suoi occhi, nello sguardo da cerbiatto impaurito, che questa idea non l'ha mai sfiorata, prima di questo momento. «Inoltre», continuo, «potrebbe essere un argomento convincente per una giuria.» «Erano i soldi di sua madre», mormora. «Come?» «Il denaro per la cauzione viene da sua madre. Tod non ha tutti quei soldi», mi rivela. «Ma la sua famiglia è ricca.» «D'accordo», dico, come se questi dettagli non avessero in fondo alcuna
importanza. «Però il suo nome figura sulla garanzia di cauzione come avvallante. A Nelson non occorre sapere altro. È la sola cosa che gli importerà.» Mi dice che la garanzia per la sua cauzione fa parte di un fondo di famiglia. L'eredità di Tod. «Non possiamo tenerlo fuori da questa faccenda? Ha solo cercato di aiutarmi.» «Mi spiace, ma questo è quello che succede quando si nasconde qualcosa al proprio avvocato. Se tu mi avessi detto che Tod era disposto a garantire la tua cauzione, ti avrei consigliato di non accettare.» «E io sarei ancora a marcire in galera.» Il suo sguardo è ora furente, gli occhi velati dalle lacrime che stanno spuntando. «Tod era l'unico a cui importasse», dice. A suo modo, Talia mi sta informando che non sono poi tanto meglio di Cheetam, che anch'io ho mancato alla promessa di tirarla fuori di galera. Forse ha ragione. «Pensi che lo arresteranno?» mi chiede. «Non mi sorprenderebbe.» Altre lacrime spengono il fuoco nei suoi occhi. C'è vera commozione, il tipo di espressione angosciata che spesso precede la verità. «Oh, Dio», sussurra. «Come mi sono trovata in mezzo a tutto questo? Come ho fatto a mettere in mezzo anche lui?» Per un attimo penso che stia parlando della sua situazione generale, del fatto di essere accusata di omicidio. Poi mi rendo conto che le sue parole hanno un altro significato, che alludono a un dilemma più specifico. Mi guarda con grandi occhi imploranti. «Era con me la sera che Ben è stato ucciso», dice. Il mio cuore si mette a battere forte, come se qualcuno mi avesse sbattuto contro un muro di cemento. Sono senza parole. Lascio che sia la mia espressione a dire tutto. A chiedere: «Cosa mi stai dicendo?» «La sera che Ben venne ucciso, eravamo assieme», ripete. Si ferma solo un attimo, presa alla sprovvista quando si accorge che nei miei occhi l'incredulità comincia a cedere il posto alla rabbia. «Non ero a Vacaville. Non sono andata fuori città. Ero nell'appartamento di Tod.» Poi, in fretta, come per scacciare quello che sa mi sta passando per la mente, dice: «Ma non l'ho ucciso io. Non ho assassinato Ben». Mi scosto da lei, scuotendo la testa per la frustrazione e l'ira. Sono furibondo con l'intero universo degli imputati che raccontano interminabili bugie ai loro avvocati. Piccole bugie stupide che offuscano la verità, o
grandi menzogne come questa che spezzano le gambe alla tua tesi. Abbiamo sprecato un numero incalcolabile di ore a controllare gli estratti conto delle carte di credito di Talia, nella speranza di riuscire a trovare una qualche conferma al suo alibi. Harry ha scavato un solco sull'autostrada fra questa città e Vacaville, alla ricerca di chiunque potesse averla vista alla proprietà che lei in teoria stava esaminando; ha parlato con i vicini, il postino, i bambini sulla strada. «Vaffanculo.» Lo dico al muro, prima di voltarmi e guardarla di nuovo. «Che altro?» chiedo. «Quali altre piccole sorprese hai in serbo?» Mi chiedo se questa non sia soltanto la prima falla nella diga, una piccola perdita di fatti veri, alla quale seguirà un'inondazione di contraddizioni, una storia andata a male, un racconto che vola come un'anatra ferita in un fuoco incrociato di verità e menzogna. Quante variazioni sul tema mi toccherà sentire, ora che mi dice che il suo alibi è Tod? Una storia che, lo sappiamo tutti e due, non funzionerà, anche se fosse vera. «Siamo stati assieme fino a quando non me ne sono andata dal suo appartamento, poco prima delle dieci. Quando sono arrivata a casa c'era la polizia. Ben era già morto.» «Perché non me l'hai detto? Perché non l'hai detto alla polizia?» «Cosa avrei potuto dire? La polizia mi aveva comunicato che mio marito si era appena sparato. Come facevo a dire che ero stata con un altro uomo, sola nel suo appartamento?» «Rispetto delle convenzioni sociali?» chiedo. «Non volevo coinvolgere Tod.» Sto ripensando alla teoria di Harry. Mi chiedo se l'infatuazione tra Hamilton e Talia non sia del tutto reciproca, e se Tod abbia davvero agito come Harry sospetta, come unico esecutore degli interessi dell'amore. «Capisco. E allora hai inventato una piccola storia per la polizia.» «Ho pensato che non avrebbero potuto controllare il mio viaggio a Vacaville», dice. Scuoto di nuovo la testa, questa volta guardandola diritto negli occhi. Incredibile. Talia che, per proteggere Tod, inventa una storia che la polizia non può verificare, e allo stesso tempo distrugge ogni speranza di alibi per se stessa. «E dopo non potevo più dirlo a nessuno.» Intrappolata nella rete del suo stesso inganno, Talia si è trovata davanti alla solida teoria di un complice maschile. Rivelare i suoi movimenti significava consegnare Tod alla polizia su un piatto d'argento.
«È di questo che abbiamo discusso la sera che sei venuto qui a chiedere notizie della pistola», dice. «Ti ricordi, quando sei uscito dalla stanza? Tod voleva dirtelo. Io no.» «Urrà per Tod», esclamo. «Peccato che tu non abbia seguito il suo consiglio.» Si è rimessa a studiare le volute della moquette, gli occhi bassi, le braccia conserte a formare una specie di riparo attorno al petto. «Come ti è venuta in mente la storia del viaggio a Vacaville?» le chiedo. Tipico di Talia: a quanto pare, era una balla destinata a Ben nel caso l'avesse cercata in ufficio. Secondo Talia, le aveva telefonato l'amministratore di contea incaricato della vendita della proprietà per il recupero delle tasse. Qualcuno, una fonte non identificata, aveva dato all'amministratore il nome e il numero telefonico di Talia, indicandola come potenziale acquirente. Avrebbe dovuto andarci quel giorno e usare la combinazione telefonatale dal mediatore per entrare a prendere visione della proprietà. Talia decise di avere cose migliori da fare. «E invece sei andata a casa di Tod.» Annuisce. C'è appena una sfumatura di vergogna nel gesto. «Lui si era preso una giornata libera. Avevamo in mente di giocare a tennis.» Si toglie dei pelucchi dai pantaloni con le lunghe unghie delicate. «Abbiamo fatto dell'altro.» È il suo modo di dirmi che si sono rotolati fra le lenzuola per tutto il giorno. La lussuria pomeridiana. Sono alla finestra. Guardo fuori in cortile, voltandole la schiena. «Cosa facciamo adesso?» chiede. Alzo appena le spalle. «Andiamo a sentire cosa ha da offrirci Nelson. Se è vantaggioso, magari accettiamo.» «No», dice. «Non lo farò. Non confesserò un omicidio che non ho commesso.» «Nobile», commento. «Ma potrebbe essere preferibile all'alternativa.» Non è necessario che dipinga il quadro a Talia. Le ho già descritto, in termini molto vividi, come vengono eseguite le condanne a morte in questo Stato. La conversazione, che si è svolta nella prigione di contea, aveva uno scopo: farle capire il rischio che correrà se insisterà a volere il processo, a rifiutare le offerte di accordo di Nelson. «Non posso farlo», ripete. «Non posso più farti testimoniare.» «Perché?»
«Per farti raccontare che sei stata a Vacaville?» La guardo come un bambino derubato della sua innocenza. «Non posso istigare la falsa testimonianza. Sul banco dei testimoni ti verrà chiesto dov'eri quel giorno. Verrai messa di fronte alle dichiarazioni che hai reso alla polizia qui a casa tua.» Intuisco dall'espressione che Talia è finalmente arrivata a capire il suo dilemma. Se la faccio deporre non potrà mentire. Se dirà la verità, farà il gioco di Nelson, gli fornirà il complice. Inoltre, ammetterebbe di avere mentito alla polizia sui suoi movimenti la sera dell'omicidio. Già sento Nelson che si rivolge alla giuria: «Una donna capace di mentire soltanto per evitare la riprovazione sociale, l'imbarazzo di una relazione con un altro uomo, potrebbe anche inventare storie per coprire un omicidio». Se devo rappresentarla io, Talia non può più deporre a propria difesa. Dovrà attenersi alla sua storia, mai raccontata sotto giuramento, di un viaggio a Vacaville che nessuno potrà provare. Una bugia da nascondere sotto il mantello delle garanzie costituzionali e del diritto al silenzio. Il suo nome è inciso a caratteri dorati sulla targa di quercia, vicino alla porta del suo ufficio. Duane Nelson ha la stanza d'angolo, il vecchio ufficio di Sam Jennings, con vista sul Palazzo di Giustizia all'altro lato della strada. Harry e io veniamo fatti accomodare. Ho lasciato Talia a casa. Non posso fidarmi del suo discernimento. Un eccesso di loquacità, un lapsus, un'emozione inopportuna, a questo stadio possono essere fatali. La chiamerò se avessimo bisogno di conferire, nell'eventualità che Nelson proponga un accordo troppo vantaggioso per rifiutarlo. Alla nostra entrata, si alza dalla scrivania e porge la mano. Un grande sorriso gli scava il volto magro. È emaciato. I doveri di questo incarico stanno logorando Duane Nelson. Lo saluto usando il suo cognome, e lui mi corregge. «Duane», dice. «Lasciamo perdere le formalità.» Non è solo. «Credo conosca già il tenente Lama.» Jimmy Lama continua a spuntare da tutte le parti, come una moneta falsa. La sua mano fa per spostarsi dal fianco, per stringere la mia. È una dimostrazione di professionalità a beneficio di Nelson. «Ci conosciamo già», dico a Nelson. Non accenno nemmeno a stringere la mano di Lama; la lascio penzolare nell'aria. Lui la ritira e se la passa sulla giacca come fosse un coltello sporco.
Presento Harry: «Harry Hinds, il mio avvocato aggiunto». Harry stringe la mano a Nelson e fa un piccolo cenno con la testa in direzione di Lama. Mi usa come un ostacolo, come se lo intralciassi, impedendogli di essere più espansivo. In venti anni di pratica penale, Harry si è fatto una sua opinione di Lama. Gli piace come il bruciore del sale in una ferita aperta. «Bene, bene.» Nelson colma l'impacciato silenzio. «Il tenente Lama è da poco entrato a far parte del nostro ufficio. È stato incaricato di dirigere la squadra investigativa del procuratore distrettuale. Così ho pensato che dovesse essere presente.» «Tenente?» dico. La mia voce si è alzata di un'ottava, in ovvia sorpresa. «Immagino che le congratulazioni siano d'obbligo.» Lama non è sicuro se debba sorridere o meno. Sta valutando la fonte del complimento. «Forse è meglio cominciare.» Nelson sta tentando di mettere una pietra su quello che c'è fra Lama e me. «Prego, accomodatevi.» Lama si rimette a sedere sul divano appoggiato alla parete, a destra dell'immensa scrivania in ciliegio di Nelson. Il procuratore si lascia cadere nella sedia dirigenziale di cuoio bordò, imbottita fino a scoppiare, enorme, con un gonfio poggiatesta cilindrico; una cosa da bordello del far west. Harry e io prendiamo quello che resta, le due sedie riservate ai clienti di fronte a Nelson. Ha organizzato tutto per bene; mancano solo le luci accecanti puntate sui nostri occhi. Nelson preme un pulsante dell'antiquato interfono di legno che occupa un quarto della scrivania. «Marsha, può venire un momento?» Entra una giovane segretaria, bionda e spumeggiante. Avrà finito le superiori da non più di tre anni. Ha il corpo di un angelo, avvolto in un vestito di seta che aderisce alle sue curve a clessidra, come una pellicola di plastica. A giudicare dall'aspetto, a Marsha competono leggere mansioni di dattilografa e pesanti incombenze di attrazione. Lama è tutto occhi, ma cauto negli sguardi; qualcosa in meno del suo solito io lascivo. È nuovo dell'ufficio, non sa ancora bene che ruolo gli abbia assegnato Nelson. «Qualcuno gradisce un caffè?» offre Nelson. Harry e Lama accettano, e Marsha esce. «Immagino tocchi a me», esordisce Nelson. «Be', nessun mistero. Ho solo pensato che sarebbe saggio vedere se possiamo identificare qualche
punto comune, se esiste un modo per far risparmiare alla contea le spese di un costoso processo.» «Molto virtuoso da parte sua», dico. Nelson fa una breve risata e apre un fascicolo appoggiato sulla sua scrivania. «Immagino non sappiate ancora», dice, «chi è il giudice assegnato al caso.» Lo guardo, tutto occhi. «Armando Acosta», annuncia. Nocedicocco. La pubblica accusa, in una contea come questa, dispone di molti vantaggi, non ultima una rete di informatori con diramazioni in ogni distretto di polizia e tribunale della città. «Dovreste ricevere la comunicazione oggi pomeriggio.» Intuisco dal tono di Nelson che questa notizia dovrebbe preoccuparmi. Mi è capitato un giudice, un uomo ansioso di lanciare un messaggio di legge e ordine agli elettori prima che la legge lo costringa, fra un anno, a presentarsi alle elezioni. A dire il vero, sono sorpreso. Vista la carenza di candidati latinoamericani, ed essendo il principio di equa opportunità quello che è, si mormora in giro che Acosta sia destinato alla Corte d'Appello. Nelson non perde tempo. Si lancia nelle prove, nella solidità della loro tesi, nelle circostanze schiaccianti; tutte cose, sostiene, che puntano in direzione della mia cliente come parte di una cospirazione per uccidere il marito. Non lascia trapelare niente. È la ripetizione delle prove presentate nel corso dell'udienza preliminare. Nulla indica che abbiano modificato la loro teoria. A sentire lui, la polizia non sta facendo grandi progressi nell'identificazione del complice di Talia. Ma è solo questione di tempo, secondo Nelson. Ho l'impressione che questo sia un giochetto di sottintesi a nostro beneficio. A quest'ora devono sapere di Tod. Hamilton non ha fatto altro che puntarsi un riflettore addosso. Lama si intromette, come per spingere la loro linea più avanti di un passo. «La signora ha avuto un tale numero di amanti che è difficile puntare su uno in particolare», commenta. «Ci risparmi», gli dico. «Lo prenderemo», ribatte Lama. Come la maggior parte di ciò che ha da dire Lama, queste parole danno la netta impressione di una minaccia da due soldi, e lo sono. «Abbiamo in mano un caso perfetto», interviene Nelson. «Non prende-
remo scorciatoie. Non mi interessano. Voglio le persone che hanno commesso il delitto.» Mentre mi vengono rivolte queste parole, Lama se ne sta tranquillo e guarda il suo capo. Deve avere l'impressione di essere stato messo in castigo. «Se volete il mio parere», prosegue Nelson, «vi dirò la verità. Credo che la vostra cliente sia colpevole. Altrimenti non l'avrei mai incriminata. Non mi interessano i vantaggi politici, ma le condanne. Soltanto le condanne.» Fa una pausa, congiunge le dita a piramide sotto il mento. Poi fa un leggero movimento della testa, una piccola espressione conciliante. «Però posso accettare la vostra posizione. Voi credete che la vostra cliente sia innocente. È sempre difficile patteggiare quando un avvocato crede nel proprio cliente», dice. «È un'idea che accetto.» «No», lo correggo. «È sempre difficile arrivare a un accordo quando un cliente sa di essere innocente.» Alza leggermente le sopracciglia. «Quindi non crede di poterla convincere?» Faccio una smorfia che vorrebbe dire: «Forse». «Dipende da cosa le offro», dico. «Lei, avvocato, cosa vorrebbe?» «Che cos'è, un'offerta speciale?» gli chiedo. «Mi faccia una lista di desideri.» Assumo un'espressione assorta, come un commerciante che stia per mercanteggiare con un cliente. «Omicidio colposo, secondo grado.» Questo significa che se Talia l'ha fatto, se ha ucciso Ben, si è trattato soltanto di un incidente. Sono a un passo dalla semplice aggressione, e solo il pudore professionale e il fatto che qualsiasi patteggiamento deve essere approvato dalla Corte mi impedisce di chiederlo. Per essere così magro, Nelson ha una risata potente, con una gamma che copre due ottave. A metà di un do acuto, fa la sua entrata la risata di Lama, un'eco dozzinale per dimostrare al capo che anche lui è perfettamente d'accordo. «Questa è buona», ride Nelson. Sta riprendendo fiato, un po' rosso in viso. «Ma probabilmente me la sono voluta. Io avevo in mente qualcosa di più realistico», dice. La sua voce ora assume la serietà di un venditore ambulante. «Senta, la trattativa potrebbe essere difficile per tutti e due. Possiamo
renderci le cose più facili e al tempo stesso fare un favore alla sua cliente. Lei ha un problema. Le prove sono tutte contro la signora Potter. Non è il tipo di persona che potrebbe guadagnarsi le simpatie di una giuria. Una moglie con tendenze libertine, che uccide per denaro.» Solleva un sopracciglio, come per dimostrare in che modo trasformerà Talia nella strega cattiva della storia. «Noi vogliamo soltanto l'aiuto della sua cliente, la sua collaborazione. Metterci alle spalle questa faccenda. Lei ci indica il suo complice e io lascio cadere le circostanze aggravanti. Quindi niente pena di morte. Patteggia per un omicidio di primo grado. Si prende dai venticinque anni all'ergastolo. Con una buona parola da parte mia, scommetto che non si farà più di dodici anni. Sarà ancora giovane quando uscirà.» «Altrimenti?» chiedo. «Altrimenti andrò sino in fondo. Omicidio di primo grado pluriaggravato. Insisterò per la pena capitale», afferma, «e la otterrò.» Con la coda dell'occhio, vedo Harry, seduto sulla sedia accanto alla mia, inghiottire un po' di saliva. «Lei è alquanto miope», rispondo. Convinco Nelson ad ascoltarmi, a seguire il mio ragionamento per un attimo. «Supponiamo, solo per amore di discussione, che la signora non sia colpevole. Che sia del tutto innocente. Lei le ha offerto un accordo che non potrebbe in tutta coscienza accettare. Sì, potrebbe essere estremamente allettante, un risultato certo in un mondo incerto. Ma come potrebbe consegnarle un complice che non esiste?» Nelson ha uno sguardo impassibile. Se anche questa idea, la prospettiva di un innocente trasformato in vittima dalla mia cliente, lo preoccupa, non lo dà certo a vedere. «Perché è così convinto che sia stata lei?» gli chiedo. «Ha un altro candidato?» Atteggio le labbra come a dire: «Chissà». Ma non ho nessun altro da offrirgli. Se gli propongo Tod, vorrà sapere che prove ho in mano. Se gli offro il Greco, Lama passerebbe le sue giornate da qui al processo in cerca di fatti che lo scagionino. Dati i personaggi coinvolti - Skarpellos e Lama scoprirei improvvisamente che Tony stava giocando a carte con una dozzina di anziane signore la sera in cui Ben venne ucciso. «I sospettati sono di sua competenza», dico a Nelson. «Credo che a noi basti l'indiziata che abbiamo. Ci occorre soltanto sapere chi l'ha aiutata. Chi ha trasportato il corpo, chi ha usato il fucile», ribatte.
«Questa è un'offerta fatta perché non sia accettata. Anche se la mia cliente fosse disposta a patteggiare su un delitto che non ha commesso per salvare la vita, non può adempiere alle sue condizioni.» Mi guarda come per dire: «Bella storia, ma non regge». Lama salta su. «Lo sa?» dice. «Abbiamo in ballo una bella identificazione fotografica, all'ufficio. A quanto pare, la signora era un'abitudinaria. Finiva nello stesso posto tutte le sere. Un impiegato di un motel della malora sostiene che lei gli ha portato un'intera scuderia di stalloni. Gli abbiamo fatto vedere le fotografie di tutti gli amici della sua cliente. È solo questione di tempo. Poi ritireremo l'offerta.» Harry gli risponde con una certa logica. «A sentire voi, la nostra cliente aveva già tutta la libertà che desiderava. Amanti in ogni angolo e una casa accogliente a cui tornare quando era stanca. Perché avrebbe dovuto uccidere chi le pagava i pasti?» «Pare che la vittima si stesse stancando della mancanza di discrezione della moglie. Stava prendendo in esame l'idea del divorzio», dice Nelson. «Avete letto l'accordo prematrimoniale? Il divorzio, e la vostra cliente avrebbe dovuto tirarsi su le maniche.» Harry e io ci scambiamo un'occhiata. «Chi le ha detto che Ben pensava di divorziare?» chiedo. «Abbiamo un testimone», risponde Nelson. Non è il tipo da gongolare per una brutta notizia comunicata a un avversario. «Non ci avete riferito di questo testimone.» «È vero», ammette. «Lo abbiamo scoperto dopo l'udienza preliminare. Stiamo ancora controllando. Quando avremo tutto in mano, vi passeremo la documentazione. Ma ve lo dico io, pare solido come il vangelo.» L'espressione di Lama è quella dello Stregatto, raggiante dall'angolo del divano. Intuisco che questa è opera sua. «Credo che dobbiate parlare con la vostra cliente. Sono certo che accetterà di ragionare», dice Nelson. «Se vi sbrigate, penso di poter convincere il giudice a dare corso al patteggiamento.» «Dovrò parlare con la mia cliente, ma non ci spererei molto.» «Le parli», conclude Nelson. «Ma mi faccia sapere in fretta la sua risposta. Se dobbiamo arrivare al processo, ho intenzione di chiedere che venga celebrato presto.» 25.
Sarah mi si sta arrampicando addosso come fossi una specie di spalliera del parco giochi. «Ho l'impressione che non stia andando tanto bene», dice Nikki. Allude alla preparazione del processo di Talia. Fra noi due, dopo la cena da Zeek's, si è stabilita una nervosa tregua. Nikki sta cominciando a interessarsi al caso. Sostiene che si tratta di un interesse puramente commerciale, che si limita a tenere d'occhio il suo investimento e il modo in cui io gestisco la difesa. Ma intuisco che c'è qualcosa di più. Ora che ho ammesso apertamente la mia vecchia relazione con Talia, Nikki si è come ammorbidita nei miei confronti. Comincio a chiedermi se in tutto questo non possano esserci i semi di un nuovo inizio per noi. Ma non faccio pressioni. «Sarebbe più facile se Talia mi avesse raccontato tutto», le spiego. «La settimana scorsa ho saputo dal procuratore distrettuale che Ben aveva in mente di divorziare. Hanno fatto cadere questa notizia come una bomba mentre discutevamo del patteggiamento. La mia cliente non me ne aveva nemmeno accennato.» Nikki è seduta al tavolo della cucina e sta lavorando su un computer portatile, un progetto per il suo lavoro. Preme i tasti, e simboli bianchi strisciano sullo schermo nero come vermi che scavano nel terriccio. «Cosa ti ha detto del divorzio?» Nikki è curiosa. «Che sono tutte stupidaggini, che Ben non le ha mai parlato di divorzio.» «Tu cosa pensi?» «Tendo a crederle.» «Intuito?» «Logica», rispondo. «È possibile che Ben abbia voluto tenere nascoste le intenzioni di divorzio a Talia, perlomeno fino alla ratifica della nomina da parte del Senato. Ma se era un segreto così grosso, perché avrebbe dovuto parlarne con qualcun altro?» Che il procuratore distrettuale sostenga di avere un testimone, un amico così intimo da indurre Ben a confidarsi, non quadra, almeno non per me. «E questa intenzione di divorziare sarebbe determinante?» mi chiede Nikki. La guardo e faccio una smorfia che dice: «Puoi scommetterci». Le implicazioni di quest'ultima svolta del caso non sfuggono a Nikki, anche se non le ho mai parlato dell'accordo prematrimoniale. Evidenziano
un movente. Se Ben aveva intenzione di liberarsi di Talia dopo la conferma della nomina, una volta assicurato l'incarico a vita alla Corte Suprema, e se lei ne era al corrente, Talia aveva un ottimo movente per un omicidio. Se avesse aspettato, avrebbe potuto perdere tutto. Se Nelson riesce a mettere assieme tutti gli elementi necessari, potrà usare questo particolare per rafforzare la sua tesi. «Ultimamente, Talia sta peggiorando la situazione con piccole bugie e mezze verità», dico a Nikki. «Tipo?» «Cose di cui non posso parlare senza violare il segreto professionale.» Nikki lo capisce. È sempre stata una tacita regola durante il nostro matrimonio, un limite che indicava fino a che punto potessi raccontarle dei casi ai quali stavo lavorando. Nella situazione di Talia, non posso parlare dell'alibi, della storia del viaggio a Vacaville che Talia ha inventato per la polizia, o del fatto che la polizia sta stringendo sempre più il cerchio attorno a Tod e che i due erano assieme la sera in cui Ben è stato ucciso. «Però tu credi sul serio che sia innocente dell'omicidio di Ben, non è vero?» Nikki mi sta guardando diritto negli occhi. «Sì», le rispondo. «Forse ha qualche ragione per mentire.» «Oh, una ragione ce l'ha. Dice che sta proteggendo un amico.» Nikki smette di lavorare e mi guarda. «Un amante?» Su questa domanda non mi sbilancio. Un tipo di reazione che per Nikki è sempre stato eloquente. «Un altro uomo.» Lo dichiara con sicurezza. Nikki non ha perso il suo talento, la capacità di leggermi nel pensiero. «La tua cliente è presa in mezzo fra te e il suo impegno nei confronti di un altro uomo. Se la conosco, e credo di conoscerla, hai un problema serio.» Nikki mi rende partecipe della psicologia femminile. «Nella battaglia per le informazioni, non sarai tu a vincere. Non se lei tiene a questo uomo, e se quello che le chiedi potrebbe comprometterlo.» «Detta così, sembra una specie di jihad femminile, una guerra santa che solo i membri del tuo sesso conoscono», commento. Nikki mi rivolge un sorriso silenzioso, intuitivo. I suoi occhi dicono solo: «Ricordati che ti avevo avvertito». «Potrebbe costarle la vita», spiego. L'attenzione di Nikki è tornata al suo lavoro. Sta parlando attraverso lo
schermo della logica del computer. «Forse non riesce a vedere bene il pericolo come lo vedi tu.» «Di questo sono sicuro.» Adesso Nikki è terribilmente occupata. Batte caratteri sulla tastiera del computer; la sua mente, per il momento, è immersa nel lavoro. Poi, senza una ragione particolare, cambia argomento. Si stacca da Talia e dal processo. «A proposito, come sta Coop? Mi mancano le sue visite», dice. Coop veniva a trovarci regolarmente tutti i martedì sera. Nikki preparava i panini per le nostre partite settimanali di poker. Immagino che non si siano più visti da quando lei ha cambiato indirizzo. Nikki ha uno di quei punti deboli comuni a molte rappresentanti del suo sesso. Dopo la doppia perdita, la scomparsa della moglie e la morte di Sharon, aveva preso a nutrire per Coop un interesse particolare. «Ho pranzato con lui la settimana scorsa. Lo vedo in tribunale ma, a parte questo, nessuno dei due ha molto tempo per il poker, ultimamente.» Io stesso mi sono ritrovato a pensare a Coop, di recente. Avevo sempre creduto che George Cooper possedesse una capacità di recupero illimitata. La doppia tragedia che lo ha colpito mi ha dimostrato che avevo torto. In aula indossa una maschera, una patina professionale che resiste anche ai più feroci attacchi di avvocati ostili e giudici autoritari. Ma fuori dell'aula è un uomo diverso, spento come non avevo mai visto prima; è l'ombra dell'uomo espansivo e socievole che conoscevo un tempo. Sarah è di nuovo sulle mie ginocchia, questa volta in una tutina di cotone, del tipo che si usa come pigiama, con tanto di piedi e con il ricamo di una mongolfiera sul pancino. Mi sta dando la buonanotte a baci e abbracci. Mi stringe le braccia attorno al collo; mi scocca baci così delicati che non disturberebbero i petali di una rosa. Nikki la prende in braccio, e si dirigono assieme verso la camera da letto, a leggere di orsi e gnomi, castelli e folletti, le storie che spediscono le piccole menti nel mondo dei sogni. Rimango solo a meditare e, come sempre, i miei pensieri corrono al processo che si sta rapidamente avvicinando. La faccenda di Tod mi preoccupa. Quasi quanto preoccupa Talia. Lui è diverso dagli altri suoi amici. Ha continuato a sostenerla, a starle vicino anche ora che i rischi sono evidenti. Gli altri, il giro di amicizie di Talia, l'hanno eliminata come una coperta infestata dalle pulci poco dopo l'udienza preliminare. Adesso seguono quotidianamente il suo destino dal riparo
dei loro club o nella sicurezza delle loro case. Leggono del caso sulle colonne disinfettate del giornale del mattino, o guardano la sua vita che si dipana sugli schermi televisivi la sera. Stamattina ho saputo da Talia che Tod è stato chiamato dalla polizia per comparire in un confronto di identificazione. Stando alla polizia, si tratta di semplice routine. Ma non me la danno a bere. La mia lettera a Nelson, quella che accompagnava la piccola pistola e indicava Tod come una delle persone che l'avevano toccata, per escludere le sue impronte, lo ha messo al centro dell'attenzione. Deve presentarsi domani con altri uomini, tutte conoscenze dell'indiziata, e mettersi davanti alla parete bianca con le linee orizzontali. Lama sta tenendo occupato il suo testimone, l'impiegato del motel. Ho comunicato a Talia le mie preoccupazioni, la mia convinzione che alla fine Tod si trasformerà in un nemico. Lei ride. Ma se lui viene accusato, inizierà la dinamica del conflitto. Rappresentato da altri legali, sarà il suo stesso avvocato a isolarlo da Talia. Questo silenzio imposto, questa quarantena, infiammerà i sospetti. Nelson sfrutterà la situazione come se fosse il vitello grasso, con offerte alternate, patti per ciascuno dei due, se solo uno accetterà di accusare l'altro. Mi sono chiesto molte volte quante siano le false testimonianze che questa tattica porta nelle nostre aule. Anche se io stesso me ne sono servito spesso nella mia vita precedente, quando lavoravo per l'ufficio del procuratore. Nelson mantiene la parola. Ventiquattro ore dopo averlo informato del rifiuto di Talia, del «no» a ogni patteggiamento, siamo diretti in tribunale. Ha chiesto ad Acosta di fissare una data per il processo. Nell'ampio corridoio che conduce all'aula, Talia e io passiamo attraverso il fuoco incrociato delle macchine fotografiche e dei microfoni. Nello spasmodico desiderio di notizie, una delle conduttrici radio, una donna con un microfono collegato da un lungo filo al registratore che porta a tracolla, è riuscita a impigliare due metri di cavo nel tintinnante braccialetto al polso di Talia. Le due donne eseguono una goffa danza per tutto l'atrio, al suono dei miei: «No comment. Forse rilasceremo una dichiarazione più tardi». Finalmente, alla porta dell'aula, si staccano. Talia ha sganciato e abbandonato il braccialetto con una dozzina di pietre colorate. Il prezzo della libertà. Quando apriamo la porta, nel santuario dell'aula di Nocedicocco un mare di teste si volta a guardarci. La stampa, armata di penne, è in attesa dell'e-
vento principale della giornata. Acosta è allo scanno, a concordare un patteggiamento in un'altra causa. Spingo Talia verso l'ultima fila di sedie e mi accomodo al suo fianco. L'avvocato della difesa e il viceprocuratore si stanno arringando a vicenda su alcuni dettagli non ancora risolti. Acosta ha perso interesse per il duello. Ci sta seguendo con gli occhi in fondo all'aula. Poi riporta l'attenzione sulla questione che sta trattando. «Forse vorrete usare il mio studio per trovare una soluzione.» Non è una domanda. Acosta sta indicando, come la divinità sul soffitto della Cappella Sistina, l'apertura a fianco dello scanno, il corridoio che conduce al suo studio. «Non fatemi perdere tempo», dice. «La prossima volta che vi presenterete qui, mi aspetto che abbiate risolto questi punti.» Il viceprocuratore assorbe l'urto dell'ira del giudice. Si volta, e vede il suo capo seduto che tamburella con le dita sulla transenna. Nelson è vicino a due dei suoi sostituti anziani. Ne conosco uno. Peter Meeks è un mago della parola scritta, un maestro degli esposti. Alle medie, dove gli appunti e il commercio dei compiti a casa erano il sentiero obbligato, una parte essenziale del rito della pubertà, Meeks sarebbe stato incaricato di scrivere i temi giornalieri per i compagni di classe. I due avvocati al cospetto di Acosta raccolgono le loro carte. L'avvocato della difesa conduce fuori il suo cliente, continuando a lamentarsi per una parte dell'accordo che non ha ottenuto. Passano davanti alla postazione dell'usciere, si dirigono a una porta nascosta dietro lo scanno e scompaiono borbottando nell'ombra. Acosta sposta fascicoli e alza lo sguardo su di noi. «Lo Stato contro Talia Potter.» Viene scambiata qualche battuta. Acosta cambia registro sociale, un po' più cordiale ora che c'è Nelson al tavolo e la Corte non deve più trattare con il personale dipendente. Talia e io ci accomodiamo al tavolo della difesa. «La pubblica accusa chiede che venga fissata la data del processo, è esatto?» «Esatto, vostro onore.» Nelson e i suoi due assistenti si siedono e scartabellano alcuni documenti. «Avvocato Madriani, prima che si giunga a una data, questa Corte vorrebbe conoscere le sue intenzioni per quanto riguarda la sede processuale.» Il giudice sta chiedendo se abbiamo intenzione di provare a far spostare
il processo in un'altra città, un cambio di sede per ovviare alla pubblicità negativa in fase pre-processuale. «Abbiamo valutato l'idea di un cambiamento di sede, vostro onore. Tuttavia, considerato il tipo di attenzione che la stampa ha dedicato a questo caso, il fatto che il marito della mia cliente fosse noto a livello nazionale e che le notizie della sua morte e di queste accuse siano state trasmesse ripetutamente sui circuiti televisivi nazionali, non sono certo che un cambio di sede possa servire a qualcosa.» «Sono incline a credere che lei abbia ragione», dice Acosta. Intuisco cosa sta pensando: la faccenda è più facile di quanto dovrebbe essere. «Allora mi pare di capire che lei rinuncia a qualsiasi mozione per un cambiamento di sede?» «Non ho detto questo, vostro onore. Ho soltanto detto che non chiederemo un cambiamento in questo momento. Ci riserviamo il diritto di presentare debita mozione in tempi successivi, durante l'esame preliminare dei giurati, se risultasse evidente che non riusciamo a comporre una giuria imparziale.» Harry e io abbiamo utilizzato diecimila dollari delle nostre magre risorse per pagare una società di ricerche di mercato specializzata in demografia della selezione dei giurati. La società condurrà un sondaggio fra la popolazione sul caso di Talia. Nel giro di dieci giorni sapremo quale percentuale della contea di Capitol ha sentito parlare di Talia, ha letto notizie sul delitto e si è formata un'opinione sulla sua colpevolezza o innocenza. Conosceremo lo status socioeconomico di coloro che la ritengono innocente e di quelli che invece pensano sia colpevole. Scopriremo gli effetti di cinque mesi di infuocata copertura quotidiana sui giornali. Rilevamenti identici verranno effettuati in altre quattro contee di dimensioni analoghe alla nostra, dove è lecito aspettarsi venga spostato il dibattimento nel caso si ordinasse un cambiamento di sede. Questo ci dirà se cambiare sede processuale offra qualche vantaggio. Quindi, per il momento, giostro per tenere aperte varie strade. Acosta è incerto sulla decisione da prendere sull'argomento, la questione aperta e irrisolta della sede processuale. Non se ne parla nel regolamento, nella cartellina di appunti che gli hanno fornito assieme alla toga e che lui tiene come una Bibbia sullo scanno. Come la maggior parte delle personalità compulsive, gli piacciono le cose bene incasellate. Si schiarisce un po' la gola e guarda in direzione di Nelson. «La cosa le crea qualche problema?»
Nelson sta conferendo con i suoi discepoli all'altro tavolo. Alla fine alza gli occhi. «No, vostro onore. Per me va bene.» «Benissimo.» Acosta sperava in un piccolo aiuto. Controlla gli appunti che ha davanti. Punto successivo. «La pubblicità», dice. «È un problema in questo caso.» Sta guardando i giornalisti seduti in prima fila. In una repubblica delle banane avrebbe a disposizione una facile soluzione. Qui le sue scelte sono più limitate. «Impongo di nuovo l'ordine che era stato annullato a conclusione dell'udienza preliminare», dice. «Le parti e i loro legali non dovranno discutere alcun particolare riguardante questo processo né commentarlo in alcun modo con la stampa o con chiunque altro fuori da quest'aula, fatta eccezione per la consueta preparazione dei testimoni e la collaborazione fra avvocati. È chiaro?» Dalla prima fila si alza un forte gemito. A quanto pare, è finita l'era del giornalismo intraprendente. Per me va bene. Acosta ci ha liberati dalla necessità di sparare bordate di risposta in una guerra di parole a uso e consumo del pubblico. Data la disparità delle risorse, le nostre contro quelle della pubblica accusa, non sono certo ansioso di sprecare il mio tempo, o quello di Harry, per escogitare convincenti dichiarazioni quotidiane. Nelson e io accettiamo ufficialmente i termini dell'ordine del silenzio. In fondo all'aula si apre la porta. Mi giro appena sulla sedia e vedo Harry che si affretta lungo il corridoio centrale, madido di sudore e trafelato. «Avvocato Hinds, sono lieto che lei abbia potuto raggiungerci.» «Chiedo scusa, vostro onore. Stavo interrogando un cliente in carcere. Ho avuto qualche problema a uscire.» «La gente che si presenta qui mi dice che è proprio così.» Acosta sorride, generoso e paterno. Harry sbatte la sua cartella sul tavolo della difesa e scosta una sedia. «Ho imposto un ordine di silenzio per questo caso. Non vorremmo che lei tornasse in carcere in veste di ospite, quindi le converrà farsi comunicare i particolari dall'avvocato Madriani.» Harry annuisce. Sta rovistando all'interno della sua cartella, in cerca di un blocco per appunti. «La documentazione presentata è completa?» «No, vostro onore.» Parlo prima che Nelson riesca ad aprire bocca. Lui mi guarda un po' sbalordito.
Da un tavolo all'altro gli sussurro qualcosa a proposito del suo teste segreto. Strizzo l'occhio per evitare i particolari. Penne indaffarate stanno lavorando in prima fila. «Sì, certo.» Adesso Nelson ricorda. La sua fonte che sul matrimonio di Talia ne sa più di Talia stessa. «C'è un testimone che abbiamo scoperto tardi», dice. «Ho già informato la difesa sulla natura della deposizione che verrà fornita da questo teste. Farò seguire una lettera. Non esiste alcuna dichiarazione scritta del teste. Se la cosa può essere utile alla difesa, sono disposto a rendere nota l'identità del testimone, il nome e l'indirizzo, al termine di questa udienza.» «Lo ritiene accettabile, avvocato Madriani?» «Va bene, vostro onore.» Mi stringo nelle spalle. «Ha reso noto tutto il resto, signor Nelson?» «Sì, vostro onore.» «E lei, avvocato Madriani, ha messo a disposizione della pubblica accusa la sua lista di testimoni?» In questo Stato non si tratta di un requisito prescritto per legge alla difesa, bensì di una cortesia imposta da quasi tutti i giudici. Nelson e io abbiamo infarcito le nostre rispettive liste di una dozzina di esche, nomi di testimoni che non abbiamo alcuna intenzione di chiamare a deporre. In questo modo occultiamo la nostra strategia, le nostre rispettive teorie sul caso. Ci costringiamo a vicenda a sprecare tempo prezioso a prepararci per testimoni che la giuria non vedrà mai. Sono questi i giochi degli avvocati. Informo la Corte di aver consegnato la mia lista dei testimoni e tutte le prove concrete scoperte dalla difesa nella preparazione della propria linea. Quest'ultima affermazione è completamente gratuita. Mi sto riferendo in termini oscuri alla piccola pistola, alla calibro venticinque di Talia. Le nostre supposizioni erano esatte. La balistica non è riuscita a stabilire alcun collegamento con il frammento di proiettile ritrovato nel corpo di Ben; il frammento è risultato troppo piccolo per poter fare qualsiasi confronto. Le uniche impronte trovate sull'arma erano quelle di Talia e di Tod Hamilton, e la loro presenza è giustificata dal nostro rapporto che accompagnava la pistola quando è stata consegnata alla polizia. Nelson userà queste circostanze per dimostrare che Talia aveva accesso a una pistola, ma dovrà affrontare una dura battaglia. Non c'è alcuna prova concreta che colleghi quest'arma al delitto. Io sosterrò che l'arma è priva di qualsiasi valore probatorio, che il suo inserimento fra le prove potrebbe condurre a conclusioni erronee da parte della giuria, supposizioni pregiudizievoli alla mia cliente.
In questo modo, credo di poter tenere fuori la pistola. «Ci sono altre mozioni da parte della pubblica accusa?» chiede Acosta. Nelson guarda il suo pool di consulenti, i suoi passacarte. Se la pubblica accusa solleverà una bufera di carta durante il processo, saranno quei due a far funzionare la macchina del vento. «Non in questo momento, vostro onore.» «Avvocato Madriani, c'è dell'altro?» «No, vostro onore.» «Allora il cancelliere ci darà una data disponibile.» Il cancelliere di Acosta fa parte dell'arredamento dell'aula. Harriet Bloom è già sopravvissuta a tre predecessori di Nocedicocco schiantati rispettivamente dalla morte, dalla pensione e dall'ira degli elettori. È seduta direttamente sotto lo scanno, a un'ingombra scrivania messa di traverso in modo da poter vedere sia i tavoli dei legali sia il giudice. Legge da un grande calendario plastificato. «La prima data disponibile è il tre ottobre.» Fra due settimane. Acosta guarda Nelson, che annuisce e dice, per gli atti: «Per noi va bene, vostro onore». Tocca a me. Harry e io stiamo controllando le nostre agende. Io sono libero, e anche Harry. «Benissimo. Il processo è fissato per il tre ottobre alle nove del mattino, in questa sezione. Se non c'è altro, la Corte si aggiorna.» Qualche giornalista scatta verso la porta e i telefoni a gettone in corridoio. Altri provano a sondare i limiti e i confini dell'ordine di Acosta. Prima calano su Nelson. «Non ho niente da dire.» Il procuratore sta uscendo dall'aula con Meeks, lasciando l'altro assistente a raccattare i libri e le carte dal tavolo e a rimetterli in due grandi raccoglitori. «Scusate, signore e signori.» Nelson si fa strada a fatica tra i cronisti e si dirige alla porta. Quasi tutti cominciano a chiudere i blocchi per appunti. Due di loro si avvicinano, mi guardano. Non faccio neppure un cenno che possa invitare una domanda. Se ne stanno lì come vagabondi in fila per il pane, sperando di raccattare qualche briciola. «Bella giornata», dico. Uno dei due si mette a ridere e chiude il blocco. Il vice di Nelson, quello lasciato indietro a fare ordine, si avvicina, silenzioso come un indiano in avanscoperta. Mi allunga un pezzo di carta pie-
gato e sparisce nel nulla. Talia e Harry si stanno dirigendo alla porta. Lui la sta facendo uscire prima che la stampa la blocchi in corridoio. Sento le voci e gli schiamazzi mentre loro due vengono immortalati dalle macchine fotografiche in attesa all'esterno. «Siete sicuri di poter vincere?» Harry sta dicendo: «Permesso, per favore». «Che sensazioni prova?» «È fantastico. Amiamo questa attenzione.» È la voce di Harry che si sta dirigendo all'ascensore. «Oh, Cristo, mi spiace.» Probabilmente ha pestato il piede a una signora o ha dato una ginocchiata nei testicoli a un uomo. Harry è grande nelle scene di folla. Apro il biglietto che mi è stato passato dall'uomo di Nelson. È scritto a grandi lettere maiuscole, con una penna a sfera blu, su un pezzo di carta protocollo gialla. IL NOSTRO TESTE RIGUARDO IL DIVORZIO DELL'INDIZIATA È ANTHONY R. SKARPELLOS. LO CONFERMEREMO CON NOTA SCRITTA A SEGUIRE. Ci sono anche l'indirizzo e il numero di telefono dello studio, come se ne avessi bisogno. Per qualche ragione non sono sorpreso. Il Greco è partito all'offensiva, ha sparso il primo sangue. 26. «Per noi pessimisti», dice Harry, «è l'assioma numero uno: la merda esiste.» È la legge di gravità cinica di Harry, il suo modo di dirmi che quest'ultima notizia era al di là del mio controllo, o forse il presentimento di cose peggiori a venire. Con Harry è difficile capirlo. Subito dopo la rivelazione di Nelson che il suo teste a sorpresa è Skarpellos, ho appreso che l'ufficio del procuratore ha garantito l'immunità a Susan Hawley. Nel corso di una telefonata di un'ora l'ho spiegato a Susan in termini cristallini comprensibili anche al gobbo di Notre Dame, il tutto fra un coro di: «Niente da fare, ragazzo», ed esclamazioni irripetibili. Benché l'immunità, in questo caso, significhi che Susan sarà prosciolta, la cosa ostacola certi
suoi interessi commerciali. Pare esista un'etica anche nella cerchia delle adescatoci. Le prostitute che spifferano i nomi dei clienti, perlomeno negli esclusivi circoli politici frequentati da Susan Hawley, finiscono sulla lista nera per sempre. «Tanto vale che pubblichino il mio nome nell'elenco delle vittime dell'AIDS», mi dice. Susan Hawley è convinta che, se parlasse, verrebbe relegata a smerciare la sua mercanzia sui sedili posteriori delle auto, o a tirare su la gonna nei vicoli bui. Sono stato più che attento a evitare la minima conversazione con Susan riguardo al suo alibi per Skarpellos. Su questa faccenda ho un serio conflitto di interessi. Harry e io abbiamo eretto quella che in giurisprudenza è nota come «muraglia cinese». Da quando ho saputo che è lei l'alibi del Greco, ho tenuto, nei limiti del possibile, Harry all'oscuro dei miei rapporti di lavoro con Susan Hawley, delle informazioni sul suo passato che lei mi ha confidato quando la rappresentavo. Toccherà a Harry trattare con Susan, se verrà chiamata a deporre. Dovrà screditarla, distruggere la sua credibilità agli occhi della giuria. Io rivelerò alla Corte di avere rappresentato questa donna e mi esimerò da ogni partecipazione al suo interrogatorio. Come rimedio è discutibile, ma credo che la Corte sarà costretta ad accettarlo. In termini inflessibili, mi ha detto che non testimonierà. Le sue ultime parole prima di riappendere mi risuonano ancora alle orecchie: «Prima dovranno trovarmi». Da un'ora ho cominciato a chiedermi se quel verbo al plurale includa anche me. Successive telefonate di Dee al suo appartamento non hanno avuto risposta. «Ci mancava solo questa», dico a Harry. «Chiedi l'esonero», commenta lui. Si riferisce alla prassi che permette a un avvocato, con debito preavviso, di ritirarsi da una causa. «Sarà difficile», rispondo. Se la signora non si presenta puntuale, so che il giudice vorrà andare sino in fondo per sapere dove si trova, cominciando da me. Per il momento devo mettere da parte le mie preoccupazioni su Susan Hawley. È arrivata Delia Barns, che Dee fa accomodare nel mio ufficio. Delia è una stenografa diplomata alla quale ricorro regolarmente per le deposizioni. È qui su mia richiesta per trascrivere una dichiarazione giurata di Tony Skarpellos. La rivelazione fatta all'ultimo momento da Nelson, la possibilità che Skarpellos sia un teste chiave nella linea dell'accusa, mi lascia poco tempo
per valutare il danno potenziale della deposizione di Tony. Ho chiesto alla Corte un po' di margine, una piccola eccezione alla regola dovuta a questa sorpresa. Acosta ha sentenziato che posso farmi rilasciare una dichiarazione giurata da Skarpellos. Di norma questo non è concesso, a meno che non ci sia motivo di credere che un teste possa non presentarsi a deporre: qualcuno sul letto di morte, ad esempio. Ma voglio incastrare il Greco prima che capisca dove sto puntando con la mia difesa. Se aspettiamo fino al processo, temo che il suo temperamento mediterraneo lo spinga ad abbellire qualsiasi prova sostenga di avere. Sarebbe degno di lui aggiungere alla sua storia alcune rifiniture inventate, un colpo a tradimento non appena verrà a sapere che ho scoperto la sua lite con Ben, che sono al corrente della minaccia di Ben di rivolgersi all'ordine degli avvocati. Facciamo passare il tempo con un po' di pettegolezzi di tribunale, mentre Delia prepara la sua macchina e inserisce una sottile risma di carta piegata a ventaglio per la trascrizione stenografica. Le offro un caffè. Lei rifiuta, e intanto abbiamo esaurito gli argomenti di conversazione. Dopo alcuni minuti arriva Nelson. L'ho informato ufficialmente di questa dichiarazione. È qui per proteggere i suoi interessi, per assicurarsi che io non metta parole in bocca al suo teste. «Dov'è il signor Skarpellos?» chiede. Gli rispondo che evidentemente non è abituato a trattare con Tony. Scuote il capo, leggermente incuriosito dal mio commento. «La vita di Tony è una saga di tempo sprecato», gli spiego. «Il tempo degli altri.» È la verità. È il modo di Skarpellos di far rispettare la gerarchia sociale. Farebbe aspettare anche il papa. Delia comincia a irritarsi. Sta controllando l'orologio. Gli stenografi del tribunale percepiscono la paga di un'intera giornata per un massimo di mezza giornata di lavoro, e quelli bravi guadagnano più degli avvocati che li ingaggiano. Ma a Delia non piace il tempo improduttivo. In ufficio, ha troppi appunti in attesa di essere trascritti. Il Greco è ormai in ritardo di quaranta minuti. Nel mio ufficio, il silenzio è pesante. Finalmente sento voci provenienti dall'esterno, dalla reception: la spavalda millanteria di Tony che scherza con Dee. Aspettiamo. Lui non entra. Si odono risatine acute. Pare che Dee sia occupata a farsi intrattenere. Nelson mi guarda come per chiedermi chi è che dirige la baracca. Sto per alzarmi e urlarne quattro, quando finalmente Dee si sgancia.
«La stanno tutti aspettando in ufficio. Da questa parte, prego», cinguetta, come se lui potesse perdersi nel tragitto dalla sua scrivania alla porta. Dee lo annuncia, poi scompare, come un'ombra al crepuscolo. La richiamo per vedere se qualcuno desidera del caffè. Dee mi informa che lo abbiamo finito. Pare che si sia dimenticata di ordinarlo. La manderei anche fuori, al negozio dall'altra parte della strada ma, conoscendola, non la vedrei più per giorni. «Magnifico», le dico. «Perché non rispondi al telefono?» Tony sta stringendo la mano a tutti come il cordiale segretario generale di un sindacato. Il suo sorriso è ampio, mendace. Non offre il minimo accenno di scuse per averci fatto aspettare, non dimostra alcun imbarazzo per il suo ruolo dell'ultimo minuto nella tesi dell'accusa, nonostante il precedente coinvolgimento del suo studio nella difesa di Talia. Su questo punto intendo andare a fondo. Esauriamo le presentazioni. Tony resta in piedi, a guardare la dura sedia di legno che ho messo di fronte alla mia scrivania, in diagonale rispetto alla stenografa e alla sua macchinetta. «La sedia bollente?» Mi guarda. «Potresti anche avere un po' di pietà per un povero vecchio con le emorroidi.» «Credevo fossero i bozzi della sapienza», gli rispondo. Si ridacchia un po' a spese di Tony. Nelson si è alzato. Vorrebbe uscire un paio di minuti con il suo testimone. «Va bene», gli dico. «Manderò la mia segretaria a incipriarsi il naso.» È una delle poche cose che Dee fa davvero bene. Ci vogliono parecchi minuti per il colloquio fra Nelson e Skarpellos. Quando rientrano, Tony ha tutta l'aria di qualcuno che ha fatto un giretto nella legnaia in compagnia del papà. Le sue vele non sono più tanto gonfie. Occupa la sedia libera. «Siamo pronti?» chiedo. «Siamo pronti», risponde Nelson. Apre un blocco poggiato sulle ginocchia e si piega in avanti. Harry prenderà degli appunti, che useremo fino a che non ci verrà ritornata la trascrizione autenticata. Apro il documento dichiarando il mio nome, la data, l'indirizzo e il motivo dell'incontro. Identifico tutti i presenti a eccezione di Skarpellos al quale chiedo di identificarsi da sé, sillabando il cognome per l'atto. Esau-
riamo velocemente lo sfondo, il fatto che Tony e Ben erano soci; delineiamo il panorama generale, la storia del loro rapporto. Nelson siede in silenzio, buttando giù qualche appunto. È molto improbabile che faccia domande sue, salvo per rimediare a eventuali danni. Potrà conferire con il suo teste tutte le volte che vorrà, e non desidera certo aprire argomenti che a noi non siano venuti in mente. «Signor Skarpellos, come ha fatto la pubblica accusa a identificarla come teste per questo caso?» Tony guarda Nelson, quasi a chiedere via libera. «La polizia mi ha fatto alcune domande», dice. «Ho dovuto rispondere.» Si stringe un po' nelle spalle, come per dire: «Cosa può fare un povero diavolo?» «E quando le hanno fatto queste domande?» «Oh, dunque, mi faccia pensare», dice, come se la cosa si perdesse nella notte dei tempi. «Dopo che Ben è stato ucciso.» Guardo Nelson, che sorride all'ovvietà della risposta. «Quanto tempo dopo l'omicidio di Ben?» «Mi faccia pensare.» «Forse posso essere di aiuto», interviene Nelson. «Il signor Skarpellos è stato informato della morte della vittima il giorno seguente. Poi abbiamo interrogato il signor Skarpellos il ventisette ottobre, una settimana dopo l'omicidio, dopo la morte del signor Potter. C'è poi stato un altro colloquio tre settimane fa.» Rivolgo un'ulteriore domanda a Nelson. «Approfitto della sua disponibilità. Mi pare di capire che questo teste non ha rilasciato alcuna dichiarazione giurata dopo questi interrogatori?» «Esatto. Soltanto rapporti di polizia. Immagino ne abbia copia.» Nelson sorride. Niente di scritto che possa essere scoperto dalla difesa. «Torniamo al primo colloquio, quello che ha avuto luogo nell'ottobre dell'anno scorso. Ricorda ciò che ha detto alla polizia in quell'occasione?» «Dichiarazioni molto generiche. Mi chiesero se fossi a conoscenza di un motivo qualsiasi per il quale Ben, il signor Potter, potesse desiderare di togliersi la vita. Stavano ancora partendo dal presupposto di un suicidio.» «E lei cosa ha detto?» «Ho detto che no, non me ne venivano in mente. Non ho mai creduto che Ben si fosse ucciso.» «Perché?» «Perché non lo avrebbe fatto e basta.»
«Intuito?» «Lo chiami come vuole.» «Che altro le hanno chiesto allora, in ottobre?» «Hanno voluto sapere se avessi visto o sentito qualcosa la sera in cui è morto.» «E lei aveva visto o sentito qualcosa?» «Non ero in ufficio. Ero fuori città, a Oakland, a una partita di basket con un'amica.» «Nient'altro durante quel colloquio?» Tony ci pensa su un istante. «È tutto.» «Bene, rivolgiamo la nostra attenzione al colloquio più recente, quello di tre settimane fa. È stata la polizia a venire da lei?» «Sono venuti nel mio ufficio, se è questo che intende.» «Un momento», si intromette Nelson. «Se possiamo conferire un attimo...» Interrompiamo la deposizione. Nelson porta una mano all'orecchio di Tony, sussurra qualcosa, poi si scosta. Gli occhi di Tony, quando tornano a posarsi su di me, sono fessure strette, cattive. «Mi sono confuso», dice. «La polizia è venuta nel mio ufficio, ma sono stato io a chiamarla.» Confuso un corno. Nelson lo sta costringendo a essere sincero. «L'ha chiamata lei?» «Sì.» «Perché ha chiamato la polizia?» «Mi ero ricordato di qualcosa, qualcosa che ho pensato potesse essere importante.» «E cos'era?» «Prima di morire, Ben mi aveva detto che stava pensando di chiedere il divorzio da sua moglie, Talia.» «Così, di punto in bianco.» «Be', non è stato di punto in bianco. Cioè, stavamo parlando di qualcos'altro. Affari o qualcosa del genere, la sua candidatura alla Corte Suprema, non ricordo con esattezza. E lui mi disse che doveva procurarsi un buon avvocato divorzista.» «Perché glielo ha detto?» «Eravamo soci. Non c'erano molti segreti fra noi. Sapevo che il suo matrimonio non era esattamente felice.» «E lei come faceva a saperlo?»
«Diavolo, ma sono cose che sa anche lei.» «No. Mi dica.» «Tutti sanno che Talia andava a letto con tutti.» Il mio sangue sta cominciando a ribollire. «Allora sono voci quelle che lei ha sentito?» «Sì, voci che sentivo.» «Pettegolezzi.» «Li chiami come vuole.» «Lei come li chiamerebbe?» «Non so. So solo che lui voleva il divorzio.» «Quando ha avuto questa conversazione con il signor Potter?» «All'inizio dell'estate. Mi pare fosse giugno.» «E quando la polizia ha parlato con lei, subito dopo la morte di Ben, in ottobre, non ha pensato di riferire questo episodio?» «No.» «Stando al suo racconto, un uomo sta contemplando il divorzio, ha una vita matrimoniale orribile, e quando la polizia le chiede se lei sia a conoscenza di qualche motivo che potesse spingerlo al suicidio, lei risponde che non le viene in mente nessun motivo?» «Non ci stavo pensando», dice. «Questo è ovvio. Cosa le ha fatto pensare che questa informazione fosse improvvisamente importante, tre settimane fa?» «Non lo so.» «Potrebbe avere qualcosa a che fare col fatto che nel frattempo la signora Potter era stata rinviata a giudizio, con l'accusa di avere ucciso il marito?» «Forse», dice. «Può essere stato un motivo.» «Dunque questa informazione non era importante quando si pensava che il signor Potter si fosse suicidato, ed è diventata importante solo quando si è pensato che qualcun altro lo avesse ucciso?» «Be', non saprei.» Lascio perdere. Cibo per la giuria. «Signor Skarpellos, ha raccontato alla polizia di avere preso parte alle prime discussioni del gruppo della difesa, con l'avvocato Cheetam e con il sottoscritto, durante l'udienza preliminare della signora Potter?» «Non ha mai fatto parte della difesa.» Nelson si è intromesso. «Lei può mettere la cosa in discussione durante il processo, ma la nostra opinione è che fra il signor Skarpellos e l'indiziata non ci sia mai stato un rapporto
professionale. Il signor Skarpellos ha anticipato le spese e l'ha aiutata a ottenere una difesa, tutto qua. Non l'ha mai rappresentata.» Credo che Nelson abbia le argomentazioni migliori su questo punto. Tentare di impedire al Greco di testimoniare con queste motivazioni è probabilmente un'impresa azzardata. È stato molto attento a tenersi ben lontano, dietro le quinte, tanto da indurmi adesso a pensare che dietro quelle folte sopracciglia si stesse elaborando un piano d'azione. «Sulla questione del divorzio, ha avuto una sola conversazione con il signor Potter, più di una, quante?» «Una sola», dice. Skarpellos è maestro in questo. Sa che quando si tratta di mentire, i furbi non si allargano troppo. Così si limitano le possibilità di cadere in contraddizione. «Nel corso di questa unica conversazione, la vittima le disse nient'altro a proposito della propria vita coniugale?» Mi sta guardando, indagatore. Cerca di capire a cosa voglio arrivare. Credo che Nelson lo sappia, ma non può aiutarlo. Le battaglie si vincono avanzando metro dopo metro. «Che era infelice. Che voleva uscire da quel matrimonio.» «Aveva fatto qualche passo in questa direzione, all'epoca in cui parlò con lei? Assunto un avvocato, preparato una documentazione?» Faccio una finta, paro, e mi muovo a zigzag, allontanandomi per un attimo dal mio obiettivo. Conosco già la risposta a questa domanda. «No. Se l'aveva fatto, non me l'ha detto.» «E lei non sa se avesse intrapreso azioni esplicite dopo quella data, fino al momento della sua morte, per porre fine al suo matrimonio. È vero?» «Sì, è vero, non lo so», risponde. «Quindi tutto quello che Ben le ha detto è che aveva intenzione di chiedere il divorzio? Sono questi il contenuto e la sostanza della vostra conversazione sull'argomento? È esatto?» Skarpellos sta guardando Nelson, in cerca di aiuto. Intuisce che si sta avvicinando a un precipizio ma, come un uomo al buio, non sa dove sia questo precipizio. «Sono questi il contenuto e la sostanza della sua conversazione col signor Potter sull'argomento del divorzio, è esatto?» ripeto. «Esatto», dice. «Quindi, da quanto lei dichiara, non sa se Ben avesse mai messo al corrente la moglie, Talia Potter, delle sue intenzioni di divorziare, è esatto?» È troppo tardi. Skarpellos è scivolato dall'orlo del precipizio. A questo
punto, un ricordo fortuito porterebbe la sua credibilità al punto di rottura. «No», dice. È questo l'essenziale. Respiro un po' meglio. Nelson non ha modo di dimostrare che Talia fosse al corrente dei presunti piani di divorzio. Non si uccide per impedire cose di cui non si sa niente. Il movente zoppica su tre zampe. «Però forse glielo ha detto», aggiunge Skarpellos. È troppo tardi, e Nelson lo sa. La sua espressione è piombata a terra come un angelo caduto. «Ma lei non sa se la signora Potter fosse al corrente della cosa?» «Si suppone che un marito informi la moglie, se sta pensando di divorziare da lei.» «Non siamo qui per supporre, ma per scoprire quello che lei sa e quando l'ha saputo.» A queste parole rispondono due scure fessure mediterranee. Il proverbiale «Se uno sguardo potesse uccidere...» «Abbiamo finito?» chiede Skarpellos. Guardo Nelson, che fa un gesto con la mano a indicare che per lui va bene. «Penso che abbiamo finito.» «Bene.» La stenografa estrae la carta e comincia a chiudere la macchina. Skarpellos sta ancora bruciando dentro. Vedo il fumo che gli esce dalle orecchie. È il momento di infilare la lancia, di vedere cosa bolle sotto la superficie. «Tony», gli dico. «Dimmi, quanto erediterai del patrimonio di Ben se Talia ci lascia le penne in questa faccenda?» Lui gira di scatto la testa verso di me. Salta su dalla sedia. Nelson lo ha afferrato per un braccio. Harry gli blocca il gomito dietro la schiena. «Piccolo stronzo», sibila. La sua voce ha tutto l'acido dell'aceto. «Non riesci proprio a credere che Ben possa aver fatto fiasco anche una sola volta, vero?» Nelson sta cercando di trascinarlo verso la porta. Il Greco oppone viva resistenza. «Oh, questo posso anche crederlo», dico. «Quello che non riesco a credere è che abbia scelto per confidente uno come te.» Due braccia schizzano in avanti. Il Greco trascina Nelson e Harry verso il mio lato della scrivania. Delia protegge la sua macchina stenografica,
bloccando Skarpellos con il corpo. Si sta proprio guadagnando la giornata. «Figlio di puttana. Riapri la deposizione. Te ne dirò di cose, testa di cazzo che non sei altro.» «Zitti, tutti e due.» Nelson ha il suo daffare a cercare di tenermelo alla larga. Non ho alcuna intenzione di riaprire la deposizione. Nonostante l'opinione comune, una deposizione non è un tentativo di ricerca della verità. È un tentativo di ricostruire i fatti nei termini più favorevoli alla tua parte. E per il momento ho quello che voglio: l'ammissione che il Greco non può testimoniare che Ben e Talia si siano trovati nella stessa stanza a parlare di divorzio. Skarpellos, accecato dalla rabbia, forse metterebbe su carta più verità di quanta mi serva. Mentalmente, prendo nota di quello che dice, e misuro la sua temperatura di combustione per occasioni future. «L'hai sempre messo su un fottuto piedistallo», urla Tony, riferendosi a Ben. L'invidia di una vita intera che si riversa sulla mia scrivania. «Be', non era perfetto, se lo vuoi sapere. Aveva un matrimonio del cazzo. E andava a letto con una delle ragazze dello studio. Questo non lo sapevi, eh, stronzo?» Si stanno avvicinando alla porta. Nelson e Harry lo trascinano all'indietro. Harry è riuscito ad aprire la porta. Con il ginocchio puntato contro lo stipite, fa leva mentre spinge fuori il Greco. «Si scopava le impiegate. Perché non lo metti in quella deposizione?» Skarpellos sta rantolando come un animale in calore. «Mettilo in quella fottuta dichiarazione, ti dispiace?» Vedo Dee alla scrivania. Mi fissa a occhi spalancati, chiedendosi cosa io abbia fatto a questo uomo brillante e affascinante. Nelson lo ha trascinato alla porta d'ingresso. Skarpellos si libera, ma non torna verso di me. Ha ritrovato la compostezza. Si guarda attorno. E ridisceso a terra e, un po' imbarazzato, si rende conto di essere al centro dell'attenzione di altre quattro persone in questo ufficio. È accaldato, ha la faccia rossa come una rapa. Si sforza di mettere assieme un po' di dignità, aggiusta la giacca che si è strappata alla cucitura dietro, vicino alla scapola; lo stesso stile dell'Incredibile Hulk. Un abito italiano, e lui lo sta indossando a sghimbescio. Dà uno strattone alla cravatta. Una causa persa. Tony mi guarda, al di là della porta aperta. «Ci vediamo in tribunale, stronzo.» «Non vedo l'ora, Tony.» È scomparso.
Nelson mi guarda. So cosa gli sta passando per la testa: un testimone incontrollabile. Si sta chiedendo se sia il caso di chiamare Skarpellos a deporre. Ma la barca ha già spiegato le vele. Se non sarà lui a chiamare il Greco, lo chiamerò io. 27. Apprensione per te stesso, per la tua cliente, per la qualità delle prove in tuo possesso, per gli apparenti difetti della tesi del tuo avversario: sono tutti tormenti che affliggono un avvocato il primo giorno di un dibattimento. Prendete dunque ciascuno di questi tormenti ed elevatelo all'ennesima potenza: capirete così che cosa accade quando si ha a che fare con la morte, quando si difende un caso che prevede la pena capitale. Per me, l'ultimo caso in cui la posta in gioco era così alta risale a più di sei anni fa; per Harry è passato molto più tempo. Nel mio stomaco svolazzano farfalle grandi come pterodattili. Sono carico di elettricità nervosa fino alle ginocchia, mentre con Harry raccolgo i nostri fascicoli di appunti e i pochi testi di riferimento che ci occorreranno al tavolo della difesa. Eseguiamo questo lavoro in silenzio, e intanto ciascuno di noi affronta i propri demoni del dubbio. Sono giunto alla conclusione che questo nervosismo è universale, perenne. Si presenta a ogni processo, colpisce ogni avvocato. I più composti hanno semplicemente imparato a rivestirlo della grazia che accompagna l'esperienza. «Sei pronto?» mi chiede Harry. «Non lo sarò mai», gli rispondo. Ho la bocca secca, arida. Prendo un bicchiere e lo riempio d'acqua. Bevo un piccolo sorso. Ho dovuto bloccare Talia, tenerla lontana da Tod che è fuori in corridoio, e farla restare qui al tavolo con me e Harry. Non sarebbe opportuno che la stampa prendesse appunti sulle sue conversazioni in aula con altri uomini, e peggio ancora sarebbe se ne fosse testimone la giuria. Una scena innocente acquisterebbe tutto un altro significato, dopo che la pubblica accusa avrà lanciato al galoppo il cavallo della complicità. Harry si è tenuto alla larga da Hamilton, ha continuato a scrutarlo con una sospettosità che è palpabile, dopo la nostra conversazione sugli eccessi di indiscrezione fra Tod e Talia. Il comportamento di Harry mi spinge a chiedermi se in Hamilton non ci sia davvero un lato più calcolatore. Se sa più di quello che dice, se conosce qualcosa che potrebbe discolpare Talia,
e lo tiene nascosto, il suo affetto per lei è solo una facciata accuratamente costruita. Harry ha sollevato il problema con me; mi ha chiesto se ad alimentare il desiderio di Tod per Talia sia l'amore o l'avidità. Esistono cacciatori di fortuna, e uomini anche peggiori, talmente sfrontati da restare in attesa fra le quinte, anche se dovessero correre qualche rischio, pronti a impadronirsi di questa donna e di ciò che erediterà se vinceremo il processo. Tod si è presentato alla polizia per il confronto, per essere identificato dal loro impiegato del motel. Ma da allora la polizia ha mantenuto un sorprendente silenzio. Tod non è stato arrestato e nemmeno ulteriormente interrogato. Forse l'impiegato del motel è cieco, mi viene da pensare. È più probabile che Nelson preferisca far scattare la trappola nel corso del processo, quando noi non potremo più prepararci. Nelle prime file, subito dietro il tavolo dell'accusa, è riunita la stampa, occupatissima a catturare scene di colore locale con penne e blocchetti. I disegnatori con i loro blocchi grandi hanno preteso le sedie laterali, per avere un po' di spazio di manovra. Le altre sedie dell'aula, la più grande dell'intero Palazzo di Giustizia, sono state riservate ai potenziali giurati. Il pubblico, per entrare, dovrà attendere fino a che non avremo composto una giuria. La stenografa del tribunale è pronta alla sua macchinetta. Harriet Bloom, cancelliere di Acosta, sta sistemando carte sulla sua scrivania. Acosta esce veloce da una porta dietro il banco. In un guizzo di frusciante toga nera, prende posto allo scanno. «Tutti in piedi.» Il messo è al suo posto. Il giudice si accomoda sulla sedia dall'alto schienale e scruta velocemente i presenti in aula. «La sezione 16 della Corte Superiore è ora in seduta. Presiede il giudice Armando Acosta. Seduti, prego.» Il giudice si aggiusta gli occhiali a mezza lente appollaiati sulla punta del naso. Fa un breve cenno del capo a indicare che è pronto, e il cancelliere annuncia il caso. Un breve silenzio per creare il clima adatto, poi Acosta prende il comando. «Il cancelliere mi informa che per questo caso abbiamo un gruppo più consistente del solito di potenziali giurati.» À quanto pare, si sono dati un gran daffare, prevedendo che, con la pubblicità pre-processuale e la conferma della sede, elimineremo un buon nu-
mero di persone selezionate dall'elenco dei cittadini che hanno diritto alla carica di giurato. È noto a chiunque si occupi di legge che, in un caso che prevede la pena capitale, il destino di un imputato, come l'armatura in acciaio del cemento, è legato alla scelta della giuria. Questo, credo, è uno di quei luoghi comuni che si trasformano in profezia solo quando il risultato diventa noto, a conclusione del processo. Ma non voglio correre rischi. La mia precedente concessione di evitare un cambiamento di sede processuale non era, dopo tutto, motivata da spirito civico. Ho preteso un piccolo favore in cambio, in una mozione preparata a regola d'arte da Harry, vincendo le animate obiezioni di Nelson e con suo notevole dispiacere. Acosta ha sancito che in caso la difesa non fosse convinta dell'imparzialità di questa giuria, a tempo debito prenderà in considerazione qualche ricusazione perentoria extra da concedere sia a noi sia all'accusa. È il suo tentativo di pareggiare un po' le forze in gioco, dopo tutta la pubblicità negativa contro Talia. Per un avvocato impegnato nella scelta della giuria, la ricusazione perentoria è come un missile Stinger. Viene usata per scartare un giurato discutibile senza bisogno di dimostrare il motivo, pregiudizio o altro. È un'arma da conservare gelosamente e usare con discrezione. In questo Stato, nella maggioranza dei casi, a ciascuna parte vengono concesse dieci ricusazioni perentorie. Tuttavia nei casi che prevedono la pena di morte, il numero viene raddoppiato. «Prima di chiamare la giuria, vostro onore, la pubblica accusa ha una questione da sottoporre. Una mozione iniziale», dice Nelson. Acosta alza lo sguardo. «Qui o in privato?» chiede. «In privato sarebbe meglio, vostro onore.» Questo significa che si tratta di qualcosa che Nelson non vuole rendere noto alla stampa. Dalla prima fila giunge un forte mormorio di disapprovazione. Molti grugniti. Le penne pronte sui fogli non hanno ancora cominciato a scrivere, e siamo già alle pause morte. Mi chiedo quale problema mi stia preparando Nelson. Il giudice è sceso dal banco. Nelson e Meeks sono alle sue spalle; Harry e io chiudiamo la fila. Nel suo studio privato, Acosta non accenna nemmeno a togliersi la toga. Se le cose andranno come vuole lui, sarà una riunione breve. «Di che si tratta?» chiede, con una velata impazienza nella voce. «Vostro onore», esordisce Nelson. «La pubblica accusa presenta mozio-
ne per annullare l'ingiunzione della difesa tesa a ottenere le registrazioni contabili del conto fiduciario dello studio legale Potter & Skarpellos. La difesa sta procedendo tentoni. Queste registrazioni non sono pertinenti al caso.» Acosta mi guarda. «La cosa ha dato da pensare anche a me», commenta. «Cosa mi dice, avvocato?» «Siamo pronti a offrire una dimostrazione di prova, vostro onore.» È un piccolo rituale, una spiegazione del perché questi documenti siano attinenti alla difesa di Talia, per soddisfare la Corte sulla questione della pertinenza. «Allora parli.» Acosta non vuole perdere tempo a chiamare la stenografa nel suo studio o far sgomberare l'aula per una discussione da mettere agli atti. Se perdo, insisterò. «Vostro onore, in base alla deposizione di un teste credibile che chiameremo durante il processo, abbiamo ragione di ritenere che il conto fiduciario in questione rivelerà gravi sbilanci, ammanchi che sono il diretto risultato di un'appropriazione indebita.» Nelson mi guarda meravigliato, come a dire: «E con ciò?» «Riteniamo che questi ammanchi siano direttamente collegati al movente per la morte di Ben Potter e che abbiano un peso determinante per stabilire l'innocenza della mia cliente.» Nelson sta guardando Meeks, che si stringe ostentatamente nelle spalle. Per lui è un mistero. Ho calibrato con la massima cura la mia risposta. Il minor numero di rivelazioni possibile. Acosta guarda Nelson, che resta zitto. «Mozione respinta», dichiara il giudice. «L'ingiunzione rimane valida.» Poi punta lo sguardo su di me, più severo questa volta. «L'ammissione dell'ingiunzione sarà soggetta a una dimostrazione di pertinenza da parte del suo teste, in un momento successivo», conclude. «Certo, vostro onore.» «Bene. Allora componiamo la giuria.» Guardo Nelson, che sta facendo una smorfia a Meeks. Le fotocopiatrici dello studio Potter & Skarpellos lavoreranno molto, stasera. E anche Jimmy Lama sarà piuttosto occupato a raccogliere stralci di queste registrazioni da sottoporre ai contabili di Nelson. Io ho già chiamato i miei e ho detto loro di prepararsi. Mi servirà una veloce revisione dei conti. Sistemate le cose nel suo studio, Acosta è di nuovo al banco.
In questa contea la selezione della giuria avviene con il procedimento detto del «pacco da sei»: tre file di sei persone nel banco dei giurati. «Entrino i primi diciotto», dice Acosta Il cancelliere chiama i primi diciotto nomi della lista. Come pecore alla tosatura, si staccano dal pubblico e si sistemano nel banco della giuria. Gli altri, le altre duecentottantadue anime, restano sedute e guardano, per scoprire cosa le attende. Undici donne e sette uomini si accomodano. La realtà demografica ci è già avversa. Nelle giurie di questa contea c'è una propensione alle donne anziane, ai militari in pensione e ai dipendenti della società dei telefoni. Diffido di tutte queste categorie. Per i miei gusti, persone del genere hanno già visto troppo spesso l'interno delle aule di tribunale. A quanto pare, le aziende dei servizi pubblici amano fare il proprio dovere civico. Mandano i loro dipendenti a sciami, pagandoli a stipendio pieno per tutto il periodo in cui assolvono il loro dovere di giurati. Una cospirazione, penso, da parte delle grandi imprese per ridurre i danni economici dei procedimenti civili; e adesso che mi occupo della difesa, queste persone arrivano a frotte e compaiono troppo spesso anche nei processi penali. Nel migliore dei casi, nel nostro sistema, anche utilizzando i metodi e gli strumenti più scientifici, la selezione di una giuria è un terno al lotto affidato in maniera totale alla casualità. Ho letto e studiato ogni metodo: dai costosissimi pescecani del diritto civile con le loro teorie sul linguaggio del corpo e sui paramessaggi umani, ai guru che difendono le grandi aziende e scelgono i giurati in compagnia di strizzacervelli che sussurrano melense stupidaggini alle loro orecchie. In ultima analisi, l'accettazione di ogni potenziale giurato dipende dal fegato dell'avvocato. Gli stessi fattori che rendono un giurato desiderabile a un certo livello, per un determinato aspetto della propria tesi, possono trasformarlo in un nemico a un altro livello. È la psicodinamica dei pregiudizi umani moltiplicata per dodici. Le svolte imprevedibili che sono comuni a troppi processi possono, in una giornata sfortunata, trasformare la migliore delle giurie in una banda di boia. In questo Paese, un buon quarto dei probi cittadini chiamati a fare parte di una giuria arriva in aula già con la convinzione che gli imputati non sarebbero qui se non fossero colpevoli, anche se, nel caso della pena di morte, questi stessi giurati non lo ammetterebbero mai davanti al giudice. Harry e io sappiamo che in questo caso esistono precisi parametri per la nostra giuria. La maggior parte delle donne tenderà ad appendere una lette-
ra scarlatta al collo di Talia. Non le perdoneranno mai le infedeltà, o quel rapporto di convenienza economica che era il suo matrimonio. I maschi dal sangue caldo, d'altro canto, possono identificarsi non con Talia, bensì coi suoi amanti. Possono immaginare se stessi con questa donna, e quindi perdonarle le sue indiscrezioni. Più sono giovani, meglio è, credo. Le menti dei giovani non sono ancora distorte dalle convenzioni. Nei miei sogni più sfrenati, ho visualizzato la giuria perfetta per questo caso: un gruppo di uomini giovani e celibi, una confraternita di dodici stalloni che sprizzano ormoni di libidine. Mentre cominciamo, Harry gira senza posa la matita che tiene in mano, la fa scivolare tra le dita, la rigira da gomma a punta, la posa di nuovo sul tavolo. Questa prima parte compete alla Corte. In termini oscuri, Acosta riassume il caso e conduce un breve esame preliminare, non diretto ad alcun giurato in particolare. È la prassi comune, volta a prevenire alcune delle nostre domande. Si sofferma sull'impegno a cui andranno incontro. «Con ogni probabilità si tratterà di un processo lungo. Se esistono motivi per i quali chiunque di voi potrebbe avere difficoltà a essere presente per un esteso periodo di tempo, questo è il momento di dirlo.» Tre mani schizzano in alto come razzi. Donne con bambini piccoli; due di loro si barcamenano tra figli e lavoro. Acosta abbatte tutti i missili. «Queste non sono difficoltà», annuncia. «Voi avete un dovere civico da compiere. Far parte di una giuria è un privilegio.» Lo afferma un giudice che ha la cameriera fissa. Acosta mette in scena un piccolo spettacolo, stabilisce il tono generale per gli altri nel pubblico; il suo messaggio vuol far intendere che sarà meglio trovare ottime scuse. In concreto, visto che entrambe le parti abbondano di ricusazioni perentorie, è probabile che ben poche di queste persone, o magari nessuna, entreranno a far parte della giuria. Acosta tocca altri argomenti: conoscono l'imputata? Conoscono qualcuno degli avvocati? Hanno letto molto sul caso? Una donna alza la mano. «E cosa ha letto, signora?» «I giornali.» «Credo che tutti noi leggiamo i giornali. Cosa in particolare?» «Dove dicevano che lei è colpevole.» La vecchia signora tiene la mano vicino al petto, e punta un indice un po' incerto in direzione di Talia, come se non fosse del tutto sicura che quella bella donna sia l'imputata.
«Deve essermi sfuggito, quell'articolo», rimugina Acosta. «Che giornale l'ha pubblicato?» «Non ricordo di preciso.» Il maldestro tentativo di un giurato ansioso di tornarsene a casa. «Capisco. E lei ritiene che questo interferirebbe con la sua capacità di giudicare in maniera obiettiva le prove di questo caso?» «Non so», risponde la signora. «Non posso essere sicura.» «La esorto a non pensarci più», proclama Acosta. «Vostro onore.» Sono scattato in piedi. Sto guardando un pezzo di carta su cui è disegnata una piccola griglia; c'è un nome in ciascun quadrato, per ogni giurato al banco. Harry e io abbiamo preparato questi schemi in base agli elenchi dei giurati, usando il numero assegnato a ciascun giurato. «Chiedo che la signora Douglas venga congedata per pregiudizio.» «Avvocato Madriani, se lo facciamo per ogni teste che abbia letto del caso, finiremo per far sfilare in quest'aula l'intera popolazione della contea senza trovare dodici giurati.» «Vostro onore, la giurata asserisce di non essere certa della propria capacità di giudicare le prove in maniera obiettiva.» Su questo punto Acosta mi asseconda, ma chiarisce che non dovrò considerarlo un precedente. Sarà lui a giudicare ciascun giurato, e a deciderne l'eventuale pregiudizio in base alle risposte individuali. Gli dico che capisco. «Benissimo. Signora Douglas, lei è congedata.» Una in meno, penso. La donna si allontana e incrocia il suo sostituto che si sta dirigendo al banco. Harold Parry siede ora al posto della signora Douglas. Ha cinquantacinque anni e ne dimostra settanta. Porta un minuscolo farfallino. Non è certo un membro della confraternita degli stalloni, ma forse è ancora capace di fantasie. Guardo Talia che siede impassibile, fulgida sulla sedia accanto a me. Sì, penso, il signor Parry sa sognare. Dopo l'intervallo per il pranzo, è quasi metà pomeriggio prima che Acosta concluda i preliminari e consegni la giuria ai duellanti. Passiamo in rassegna i giurati, palleggiandoli dall'uno all'altro. Prima tocca a me, poi a Nelson. Trovo che sia bravo a fare le domande, che usi un approccio raffinato. Si serve del suo portamento nobile non per sopraffare la giuria ma per accattivarsela. C'è un'arte nell'esame preliminare dei giurati, una prassi molto diversa
dall'esame dei testimoni, ed è un'arte nella quale Duane Nelson eccelle. Diversamente dall'interrogatorio diretto, che spesso vuole come risposta un «sì» o un «no», la domanda rivolta in maniera abile a un potenziale giurato è aperta, tesa a stimolare una conversazione, un racconto dal quale l'avvocato possa dedurre sottili pregiudizi. Nelson si lavora il suo primo giurato, Mark Felding, un uomo sulla trentina, disegnatore in uno studio di architetti. «Mi parli della sua famiglia, signor Felding.» «Mi dica, lei ha frequentato l'università?» «Mi parli un po' delle materie che ha studiato.» Come il ragno alla mosca: «Mi dica...» «Mi dica...» «Mi dica...» Nelson sa il fatto suo. Passa alle questioni più decisive. Le ricerche dimostrano che più che in qualsiasi altro luogo, più che in organismi quali la famiglia, la scuola, la chiesa, o le organizzazioni sociali, il pregiudizio manifesto nasce soprattutto sul posto di lavoro. «Ci parli un po' del suo lavoro», chiede. «Ci racconti dei suoi colleghi. Ci sono molte donne? Qualcuno dei suoi superiori è donna?» È alla ricerca di segnali: il sogghigno latente, la chiara condiscendenza, il risentimento nel dover sottostare a un superiore coi tacchi a spillo; segnali significativi, cose che potrebbero, nel corso del processo, portare allo sfogo inconsapevole di un desiderio represso di vendetta. Felding se la cava bene: normale, equilibrato da tutti i punti di vista, maschio. Forse è lui stesso un cacciatore di gonnelle. Un buon giurato per noi. Nelson passa in rassegna altri tre giurati in un'ora, poi li cede di nuovo a me. Torno a Felding, e uso i guanti di velluto. Qualche domanda ulteriore giusto per fingere di voler approfondire l'esame di Nelson. Gli lancio una manciata di bocconcini prelibati. «Può giudicare questo caso in maniera imparziale?» «Può concentrarsi esclusivamente sulle prove presentate?» Domande che richiedono solo un veloce «sì» o «no». Cerco di proiettare un'aura di vago sospetto, di far credere a Nelson che in fondo quest'uomo non è esattamente ciò che speravo. Passo al giurato numero quattro, Mary Blanchard, ventisette anni, segretaria in una piccola azienda di elettronica. Il pericolo con le donne, sposate o peggio ancora divorziate, è che Talia possa essere vista come la mitica «altra», una donna capace di portare via il marito se solo le si presenta l'occasione. Nella secolare battaglia del ses-
so femminile, l'uomo è il premio che va alla vincitrice, e Talia ha dimostrato una straordinaria abilità nel vincere in questa guerra. Sarà percepita come una minaccia nella competizione per l'uomo. Un avvocato difensore prudente eviterà come la peste la presenza nella giuria di persone che si sentano minacciate dall'imputato. Nel mio caso, ammettere troppe donne in giuria significa correre il rischio di trasformare il processo in una silenziosa e micidiale guerra fra tigri. «Signora Blanchard, mi parli della sua famiglia.» Tre figli, un cane, divorziata. Rabbrividisco e mi sposto su argomenti più allegri. In un'ora ho passato in rassegna altri tre giurati. Li affido a Nelson e lui comincia con la Blanchard, poi passa a Susan Hoskins, casalinga, sposata con il pastore di una chiesa. Adesso sta procedendo più in fretta. Alle tre del pomeriggio abbiamo esaminato il primo gruppo di giurati, e Acosta ci invita a non sollevare problemi di pregiudizio. «Qualche ricusazione perentoria, signori?» Guardo Nelson e faccio un cenno del capo, concedendo a lui la prima bordata. Il procuratore si ferma per un attimo al tavolo e consulta i suoi fogli con le piccole caselle. Poi, come un fulmine scagliato da una nuvola nera: «L'accusa ringrazia e congeda il giurato numero uno, vostro onore, il signor Felding». «Lei può andare, signor Felding.» Puff, e Felding non c'è più. Gli altri si guardano attorno, evitano gli occhi di questo indesiderato che si allontana; si chiedono cosa abbia detto per spingere Nelson a colpire e trasformarlo in un emarginato da un istante all'altro. Gli restituisco il favore. Mary Blanchard e Susan Hoskins diventano storia, sostituite da un uomo e una donna. Se la guerra di logoramento reciproco procederà come spero, finiremo con l'avere una piccola predominanza maschile in questa giuria. Tocca a Nelson, e altri tre giurati vengono eliminati. È il mio turno, e ne faccio fuori altri quattro. Alla fine, il banco della giuria si presenta decimato. La chiamano teoria del «fattore alfa». In questi ultimi anni sono diventato uno dei suoi sostenitori. Gli psicologi - e coloro che lavorano al loro fianco - hanno isolato caratteristiche individuali che permettono ad alcune persone di assumere il do-
minio sulle altre, imperativi territoriali che conferiscono loro influenza. Tale quoziente di autorità umana è stabilito da un certo numero di fattori. Età, sesso, storia finanziaria, istruzione, posizione sociale, padronanza della lingua parlata e numero di persone alle proprie dipendenze sul lavoro: tutti questi elementi, e altri ancora, sono le chiavi che indicano che la persona può possedere il «fattore alfa». Avere a che fare con personalità di tipo autoritario è un gioco pericoloso, al quale la maggior parte degli avvocati difensori non si sente spontaneamente incline. Il trucco consiste nel trovare lo spirito dominante che sostenga la vostra tesi, provi compassione per la vostra cliente, o comunque accetti il vostro patrimonio di prove. Sbagliate scelta, e questa figura di semidio può portare l'intero gruppo della giuria a impiccare il vostro cliente. Stamattina pensavo di averlo trovato. Sessant'anni, in pensione, capelli grigio argento, la parlantina del diavolo, professore emerito presso una piccola università privata. La manna di un sociologo. Una montagna di saggezza e sensibilità in una confezione che assomigliava a Maurice Chevalier. Si è imposto immediatamente all'attenzione, uno spirito umanitario di prim'ordine. Senza che lui lo dicesse esplicitamente, ho intuito che per quest'uomo la violenza umana, la stessa capacità di uccidere, sono pecche del carattere che debbono essere raddrizzate, curate, e subito perdonate. Nelson lo ha trasformato all'istante in cibo per cani, carne da cannone. Mi è venuta voglia di sputare quando ha eliminato quest'uomo con una ricusazione perentoria. Le nostre risorse si stanno assottigliando. Le ricusazioni per pregiudizio stanno assumendo un'importanza sempre più critica, ma sono difficili da ottenere. Per Acosta la parzialità, lo spettro del pregiudizio, è una cosa del passato, un fantasma che non appende di certo il lenzuolo nella sua aula. In cinque giorni di esame abbiamo confermato nove giurati, sei uomini e tre donne. La scelta degli altri tre, più due sostituti, occuperà la maggior parte della giornata. La composizione di questa giuria sta cominciando a logorarci; come in un combattimento aereo ravvicinato, mitragliamo il banco dei giurati, ci dividiamo i morti, ne facciamo altri, scegliendo da questa zona così ricca di «bersagli strategici», come si suol dire. I pezzi grossi del Pentagono direbbero che ci si sta consumando per attrito. La giuria definitiva, i nove che sono qui da maggior tempo, cominciano ad avere l'aspetto di feriti che camminano.
Sto ribattendo con una ricusazione perentoria a ogni ricusazione di Nelson. Ne abbiamo a disposizione ancora due a testa, e io comincio a chiedermi se dovrò tornare al pozzo a rifornirmi, ricordare ad Acosta il suo impegno iniziale per alcune ricusazioni in più se ci servissero, per amore di imparzialità. «Signora Jackson...» Apro le ali e mi lancio; un altro volo. «Mi parli un po' di lei. Che lavoro fa?» Il questionario allegato alla lista dei giurati dice «amministratore scolastico». Voglio vedere quante variazioni riesce a suonare su questo tema, voglio farla uscire allo scoperto. «Sono amministratore presso il provveditorato scolastico», risponde. Secca e concisa, e non troppo creativa, come se stesse seguendo un copione. «Lo so, ma cosa fa esattamente?» «Controllo i bilanci.» È evidente che la signora Jackson non viene pagata un tanto a parola. Potrei fare questo commento ad alta voce, magari strappare qualche risata. Ma ho imparato che le battute a spese di un singolo giurato non fanno buona impressione sul resto della giuria. Fra queste persone, fino a poco tempo prima estranee le une alle altre, la minaccia di domande personali e insinuanti da parte di un avvocato crea subito un legame fraterno. La signora Jackson mi guarda con occhi di fuoco dal banco della giuria. «Vedo che lei è sposata. Vuole dirci qualcosa della sua famiglia?» «Abbiamo tre figli. Mio marito è nella sicurezza.» Alzo un sopracciglio. «Che tipo di sicurezza?» «Polizia militare», risponde. Mi giro e guardo Acosta. Gli occhi gli stanno roteando nelle orbite. «Signora Jackson», interviene il giudice, «non mi ha sentito quando ho chiesto se voi o qualche membro delle vostre famiglie facciate parte delle forze dell'ordine?» È stato uno dei capitoli del discorso generale di Acosta. La donna fissa il giudice con sguardo inespressivo. «Sì.» «Be', non ci ha detto che suo marito è nella polizia militare. È piuttosto importante.» «Pensavo intendesse vere forze dell'ordine», ribatte la signora Jackson. Dal pubblico si alzano risate. Il giudice sta scuotendo la testa. «Prosegua, avvocato Madriani.» Rivolgo a Nocedicocco un'occhiata che dice: «Grazie dell'aiuto». «Nel suo lavoro, suo marito esegue arresti?»
«Alla base militare», risponde lei. «Depone in tribunale?» «Nelle Corti Marziali dell'esercito.» La signora fa una breve pausa, si sforza di riflettere. Non ha nessuna intenzione di farsi cogliere con le mani nel sacco due volte. «Una volta ha deposto presso la Corte Federale», ammette. «Si rende conto, signora Jackson, che molte delle deposizioni che saranno fornite dalla pubblica accusa in questo dibattimento verranno fatte da agenti appartenenti alle forze dell'ordine?» Fa cenno di sì con la testa. «Deve parlare ad alta voce, in modo che la stenografa la senta», le dico. «Sì, so delle deposizioni da parte della polizia.» «Secondo lei, signora Jackson, quanto è affidabile la testimonianza di un agente di polizia?» «Ha una buona affidabilità», dichiara. Come la sacra Bibbia, penso. «Sarebbe incline a pensare che sia più credibile della testimonianza offerta, diciamo, da un idraulico?» «No, se si sta parlando del modo in cui aggiustare un lavandino», risponde. Dal resto della giuria e dal pubblico viene qualche risatina. Mi unisco al coro, come un maestro di cerimonie senza troppa classe. «Crederebbe a suo marito, signora Jackson?» «Dipenderebbe da quello che mi racconta.» Altre risate dal pubblico. La donna si sta sciogliendo; è una vera comica da cabaret. «Tenderebbe a pensare che la testimonianza di un agente di polizia sia più credibile, diciamo, della testimonianza di una segretaria?» «Dovrei sentire la testimonianza.» Guardo Acosta. C'è un sorrisetto tirato sul suo viso, un sorriso che significa: «Qui non posso essere d'aiuto». Parto alla carica con una manciata di domande essenziali. «Immagino che lei condivida molte esperienze di lavoro con suo marito, che lui le racconti degli arresti che esegue, delle sue comparizioni in aula o davanti alla Corte Marziale.» «Sì», dice. «Immagino che se lei dovesse vedere un giovane agente di bell'aspetto, magari in uniforme, comparire in quest'aula, potrebbe essere incline a pensare a suo marito.» «Può darsi», risponde.
Acosta sta ruotando lentamente la testa, come se fosse alle strette, vicino a una decisione. «E se lo stesso agente dovesse testimoniare, lei potrebbe fare una gradevole associazione d'idee con suo marito?» La donna scrolla le spalle. «Forse», ammette. «Vostro onore...» «D'accordo, avvocato Madriani, non c'è bisogno che li metta a letto assieme.» Acosta sposta alcuni documenti che ha davanti. «Comunque, eravamo arrivati al punto del pregiudizio per questo gruppo. Qualche candidato, avvocato Madriani?» «La signora Jackson», annuncio. «Signora Jackson, lei è congedata, per pregiudizio.» La donna mi scocca un'occhiataccia mentre lascia il banco dei giurati. Nelson e io non solleviamo altri problemi di pregiudizio. Stiamo arrivando in dirittura finale. Il posto della Jackson viene occupato da un'altra donna, una casalinga della zona vicino al delta. Nelson spara un'altra ricusazione perentoria, un giovanotto in prima fila. Per noi andava bene, lingua sciolta. Un tipo che non avrebbe dovuto lavorare molto di fantasia per vedersi Talia fra le braccia. Il cancelliere chiama un altro, un uomo anziano, che si muove con lentezza. A Nelson è rimasta una sola ricusazione. Ci stiamo avvicinando alla nostra giuria. Comincio a fare domande al vecchio. La sua età è un ovvio problema, anche se non mi sento di azzardare ipotesi. Nelson si è immediatamente messo a esaminare la lista dei giurati. «Signor Kauffman», esordisco. Mi mette a fuoco da dietro le lenti spesse e piega la testa di lato, nella speranza che le mie parole gli possano arrivare un po' più distinte all'orecchio buono. Pare che abbia capito il suo nome. Al tavolo dell'accusa, Meeks sta scartabellando in tutta fretta un fascio di carte, in cerca del questionario di Kauffman. Quando lo trova, il suo dito corre frenetico sino ad arrivare al punto in cima, dove c'è la data di nascita. Scambia occhiate d'intesa con Nelson, come a voler intendere: «Forse questo tizio era un tamburino dei Confederati». È un serio problema per l'accusa: il giurato che impedisce la formulazione di un verdetto, il candidato che per ragioni di età potrebbe non essere all'altezza del rigore e dell'elasticità mentale richiesti dal compito. La paura,
in questo caso, non è il pregiudizio bensì l'indecisione, il rischio di dover celebrare un nuovo processo; mesi di lavoro in fumo, lo spreco di una piccola fortuna in dollari dei contribuenti. Nelson potrebbe sperare in un po' di comprensione da parte di Acosta, un'eliminazione per pregiudizio, ma Nocedicocco sa che le persone anziane votano. Quel che è più importante, hanno il tempo di organizzarsi per ogni forma di vendetta politica. Vengono a sciami ad assistere ai dibattimenti. In questa contea, l'indice di ascolto delle sedute penali batte quello delle soap-opera. Il piccolo bus che ogni ora si ferma davanti al Palazzo di Giustizia scarica un mare di capelli grigi, tutti in marcia verso l'ultimo dramma in atto alla Corte Superiore. Questi anziani sono fuori in corridoio in attesa che termini la selezione della giuria. Il giudice-politico lo sa. «Signor Kauffman, mi sente?» dico. «Oh, sì, la sento.» «Sa qualcosa di questo caso, signore?» «No.» «Vede l'imputata seduta là?» Lui allunga un po' il collo per guardare, per scrutare Talia da cima a fondo, non particolarmente colpito da ciò che vede. «Ha mai sentito parlare dell'imputata, ha letto qualcosa sul suo conto?» «No.» Vede fulmini e sente tuoni, penso. «È tutto, vostro onore.» Torno a sedere e lascio il problema a Nelson. «Signor Kauffman, so che lei all'inizio ha sentito il giudice parlare della probabile durata di questo dibattimento. Ritiene davvero di essere in grado di affrontare l'impegno di una presenza quotidiana, l'attento ascolto di lunghe ore di deposizione?» «Come?» «Voglio dire...» Nelson si volta verso il tavolo a guardare Meeks. «Non importa.» Torna al tavolo e sfoglia un blocco sul quale ha buttato giù alcuni appunti. «Signor Kauffman, ha problemi di salute, questioni che la obbligano a vedere regolarmente un medico?» Data l'età, è una buona ipotesi. «Un po' di costipazione», risponde Kauffman. «Mi dà delle pillole.» «Quando è stato ricoverato l'ultima volta in ospedale, signor Kauffman?»
Questo dà da riflettere al potenziale giurato. Alza gli occhi al soffitto, osserva uno per uno i piccoli pannelli traforati. Passa un minuto buono mentre lui conta sulle dita. «Nov-e-e-ecento... cinquantasei. No, no, deve essere stato nel cinquantasette. Emorroidi.» «Ne è certo?» chiede Nelson. «Come no, emorroidi. Un male», risponde Kauffman. Risate fra il pubblico. «No, intendo dire se è certo dell'anno.» «Sicuro, cinquantasei, cinquantasette.» Nelson torna al suo blocco sul tavolo, scuotendo la testa. «Lei vive con qualcuno, signore?» «Cosa c'entra questo?» «Signor Kauffman, la prego, si limiti a rispondere alla domanda.» Acosta gli rivolge un piccolo rimprovero e un sorriso benevolo. «Vivo alla Pioneer Home per anziani», risponde Kauffman. È il grattacielo nel centro della città, la pensione un passo prima dell'ospizio, per quelli che hanno bisogno di qualcuno che cucini per loro, ma non sono ancora pronti al confino definitivo. «Signore, crede davvero che riuscirà a venire qui tutti i giorni, magari per settimane, forse per mesi, ad ascoltare deposizioni dettagliate di medici, agenti di polizia, testimoni...» Mentre Nelson parla, gli occhi di Kauffman cominciano a brillare. Un nuovo interesse gli illumina il viso. Nelson sta reclamizzando più divertimento di quanto quest'uomo abbia visto in un decennio. «Sicuro, lo posso fare.» «È un lavoro duro, signor Kauffman. Un lavoro pesante.» Nelson, severo, sta cercando di placare questo piccolo scoppio di entusiasmo. «Lo posso fare, so di poterlo fare.» C'è vita nella voce di Kauffman, come se con tutto questo ben di Dio a riempirgli le giornate potesse arrivare fino al prossimo secolo. «Sa», ammicca Nelson, grondando simpatia e charme, «un tempo i cittadini anziani come lei venivano esentati dal dovere di presenziare in giuria. La legge riteneva che le persone oltre i settant'anni avessero lavorato sodo, avessero già dato il proprio contributo alla società, e che ora toccasse agli altri lavorare. Che questi bravi cittadini», gesticola in direzione di Kauffman, «meritassero di riposare, di rilassarsi nei loro ultimi anni.» Lo sguardo di Kauffman è l'equivalente somatico di uno sputo. Il populi-
smo geriatrico di Nelson non gli va giù. «Un tempo davano anche i cristiani in pasto ai leoni. Questo non significa che fosse una cosa giusta.» Risate in aula, un piccolo applauso da tre donne anziane nell'ultima fila. La faccenda non sta andando bene. Nelson si ritira al tavolo e conferisce con Meeks. Se eliminano Kauffman per pregiudizio, devono mettere in conto il prezzo: si alienerebbero le simpatie di altri giurati. «È tutto, vostro onore.» Nelson torna a sedere. Acosta guarda verso di me. «Avvocato Madriani, pregiudizio?» «Questo giurato per me è accettabile, vostro onore.» Guardo Kauffman e sorrido. Gli farei un cenno con la mano, ma qualche giurato potrebbe ritenerlo inopportuno. È un rischio calcolato, la supposizione che Nelson non possa assolutamente accettare Kauffman. «Avvocato Nelson?» «Vostro onore, chiederemmo che il signor Kauffman venga esentato per pregiudizio.» «Non mi risulta che ne abbia dato segno», dice Acosta. «Vostro onore, è ovvio che questo processo andrà avanti per settimane. Sarà estremamente faticoso.» «E io spero che lei ce la faccia, signor Nelson.» Altre risate dal pubblico. «Benissimo, vostro onore.» Nelson non vuole diventare bersaglio di ruffianate politiche. Si siede. Il giudice guarda di nuovo me. «Ricusazione perentoria?» «No, vostro onore.» «Signor Nelson?» Nelson sta conferendo con Meeks. Pare che non siano d'accordo. Alla fine il procuratore si districa dalla discussione. «Vostro onore, la pubblica accusa desidera ringraziare il signor Kauffman e congedarlo.» «Signor Kauffman, lei è congedato.» Gli altri giurati stanno fissando Nelson come se fosse un primo ufficiale tirannico che abbia appena gettato fuori della scialuppa di salvataggio il più vecchio e infermo. Kauffman si sta guardando attorno; non deve aver capito bene cosa sia successo. Un altro giurato gli sussurra qualcosa nell'orecchio buono. «Devo andare, giudice?»
«Sì, signor Kauffman, credo proprio di sì. Forse lei può accompagnarlo all'uscita.» Acosta sta sollecitando il messo a dare un po' d'aiuto. L'ufficiale giudiziario e due uomini della giuria accompagnano Kauffman oltre la transenna, lo dirigono verso la porta. Il suo posto è subito occupato da un uomo alto, ben proporzionato, con un cardigan color cuoio e pantaloni marrone chiaro. Kauffman sta ancora camminando, strascicando i piedi come relitti galleggianti verso la porta, mentre altri potenziali giurati gli rivolgono la parola dalle sedie laterali del pubblico, gli danno pacche sul braccio. È diventato un eroe popolare. Sono in piedi alla transenna della giuria, e comincio a lavorarmi il cardigan. «Dovrà scusarmi, signore, ma non ho la lista dei giurati. Può dirmi qual è il suo nome?» «Robert Rath», risponde. È calvo come una palla da biliardo, con un volto allungato e intelligente, la fronte percorsa da sottili rughe di espressione. «Può dirci qualcosa di sé? Che lavoro fa?» «Sono in pensione.» Cammino avanti e indietro vicino al banco dei giurati. La lista e i questionari dei giurati sono in possesso di Harry, e così non so assolutamente nulla di Rath. «Che lavoro faceva, allora?» «Ero militare», spiega Rath. «Sono un pensionato della Air Force.» Brutte sensazioni mi percorrono le ossa. Questo volto gentile, penso, è ingannevole. Rath non offre nulla di sua spontanea volontà. Nelson ha preso il questionario dalle mani di Meeks e lo sta studiando. Lascia cadere il foglio sul tavolo e alza lo sguardo verso il giudice, a occhi sgranati, come se ci fossero problemi. «Ci parli del lavoro che faceva in aviazione, prima di andare in pensione.» «AM», dichiara. «Come, scusi?» «Facevo parte dell'ufficio del primo consulente dell'esercito, della marina e dell'aeronautica. Ero avvocato militare», spiega. Mi giro e lo guardo. C'è una sorta di espressione sicura, impertinente, sulla sua faccia, come se sapesse di avermi sbalordito.
«Che tipo di mansioni legali svolgeva nell'esercito?» «Quando si resta in un posto ventisette anni, si fa un po' di tutto», risponde. «Ma, negli ultimi dieci anni, ho rappresentato gli aviatori processati in base alle norme del codice penale militare. La vostra controparte dell'avvocato d'ufficio», dice. «Avvocato per la difesa.» Mi fa un sorriso, grande, benevolo. Un fratello di toga. Scocco un'occhiata a Nelson. Sta cercando di fare l'indifferente. È composto, distaccato, restio ad avvelenare il dente degli altri giurati con un'esplosione di animosità. Ma so che gli si stanno torcendo le budella, come le viti della Love Boat. Cerco di adeguarmi alla sua compostezza. Dentro di me, però, tutto urla, esulta, salta, scoppia. Un avvocato difensore in giuria, e la pubblica accusa non ha più ricusazioni perentorie. Nelson non sta proprio urlando ma, per quanto io ricordi, la sua è l'imitazione più verosimile di urla rivolte da un avvocato a un giudice che io abbia mai sentito. Acosta vuole risolvere il problema nel suo studio, a porte chiuse. Questa volta con noi c'è anche la stenografa. «Lei non può permettere che faccia parte della giuria.» Sembra che Nelson stia dando un ordine. Il procuratore cammina in su e in giù davanti alla scrivania del giudice, con le mani che svolazzano nell'aria. «Se la cosa non viola la lettera della legge, di certo ne viola lo spirito. La politica è chiara», afferma Nelson. «L'autorità giudiziaria non perdonerebbe mai un avvocato che eserciti un certo tipo di influenza, che detti risultati a una giuria di comuni cittadini riuniti per deliberare. Non posso credere che lei voglia accettare una situazione simile.» «Il punto non è quello che voglio io o l'autorità giudiziaria in generale, signor Nelson. Il punto è quello che prescrive la legge.» Per decenni, le leggi di questo Stato non hanno ammesso avvocati nelle giurie. Era opinione generale che avrebbero contaminato la giustizia equanime dispensata dai comuni cittadini, che avrebbero dominato gli altri giurati. L'ordine di categoria ha assecondato questa situazione, più interessato a stare di fronte al banco dei giurati ed essere pagato che a sedere gratis tra le file della giuria. Per quarant'anni, tutti sono stati soddisfatti di questo stato di cose. Poi, alcuni anni fa, un legislatore in cerca di grossi titoli sui giornali ha scoperto questa esenzione sepolta nei codici e si è mesfo a strillare allo scandalo. Sostenendo che gli avvocati sono tenuti ad adempiere il dovere civico di presenziare in una giuria come chiunque altro, ha costretto
l'ordine al silenzio, è riuscito a sopprimere ogni opinione razionale sull'argomento, ha fatto approvare la sua proposta di legge, dopo di che è morto. Si è trattato, a quanto si dice, dell'unico atto degno di nota in una breve carriera, per il resto del tutto insignificante. Da allora, gli avvocati maledicono quel legislatore da entrambi i lati del banco della giuria. Mi inserisco nella discussione, cercando di deviare da Acosta un po' di quella foga. «Mi chiedo se la pubblica accusa sarebbe qui a protestare, vostro onore, se il signor Rath fosse un ex avvocato dell'accusa», dico. «No», ribatte Nelson. «Non sarebbe necessario. Lei lo avrebbe già eliminato con una ricusazione perentoria.» È la cosa più difficile che un avvocato possa trovarsi a fare, quella di controbattere una sacrosanta verità. L'accusa si è lanciata in un attacco contro il giurato Rath che avrebbe fatto impallidire una legione romana, nel tentativo di farlo esonerare per pregiudizio. Rath ha scansato tutti i colpi con la destrezza di un prestigiatore. Abbiamo di fronte, penso, un uomo in pensione, più giovane di Kauffman, eppure per certi versi simile a lui, con molto tempo a disposizione; un uomo che arde dal desiderio di poter tornare in aula. Nelson torna all'assalto. Rivolge ad Acosta un'appassionata supplica perché gli siano concesse ulteriori ricusazioni perentorie. Adesso sta mirando al ventre molle. Se la Corte non può cambiare la legge per escludere il signor Rath, può tuttavia esercitare la propria discrezione per garantire un numero supplementare di ricusazioni, sostiene. Quelle di cui la Corte aveva parlato all'inizio. «Obiezione. Assolutamente no, vostro onore. La decisione della Corte a questo proposito è stata chiara», dico ad Acosta. «Lei ha accettato di prendere in considerazione una mozione della difesa per ricusazioni aggiuntive, da concedere a entrambe le parti, qualora si fosse ritenuto di non riuscire a comporre una giuria equa per la pubblicità ricevuta dal caso. Per quanto mi riguarda, sono soddisfatto di questa giuria. La difesa non avanza questa mozione.» Informo Acosta che ogni ricusazione aggiuntiva concessa su richiesta della pubblica accusa verrebbe considerata altamente dannosa all'imputata. Acosta sente i campanelli tintinnare: la voce dell'appello. «L'avvocato Madriani ha ragione», afferma. «La mia concessione di ricusazioni aggiuntive era limitata ai motivi avanzati, e solo nel caso di una mozione della difesa.»
«Oltretutto», aggiungo, «è ora di concludere con questa giuria e passare al processo.» Celerità, procedere: l'imperativo categorico di ogni giudice. «Certo», commenta Nelson. «Lei sarebbe capace di mettere sua madre in giuria e sostenere che io sto deliberatamente ritardando se cercassi di farla eliminare.» «Avvocato Nelson, se ha commenti da fare, li faccia a me.» Acosta lo punge sul vivo. La discussione sta degenerando. «Non posso certo riscrivere le disposizioni di legge ed esentare il signor Rath perché è un avvocato, e lei ha esaurito le sue ricusazioni. Mi dica, ritiene di avere argomenti per sostenere il pregiudizio?» Acosta sta guardando Nelson, le pesanti sopracciglia rivolte all'ingiù. La risposta è scritta nell'espressione della faccia del procuratore. «Fa violenza a ogni senso di equità, vostro onore.» Nelson sta scuotendo la testa, ma il tono imperioso è scomparso dalla sua voce. Il piccolo dramma di questo momento è qualcosa che Nelson può mettere da parte e tirare fuori più avanti, qualcosa da usare in una schermaglia futura, per ricordare alla Corte come su questo punto sia stato preso a calci, e dove. Il giudice si sta dirigendo alla porta. Nelson è due passi indietro. «Proprio come un maledetto avvocato. Quando tutto il resto non funziona, rifarsi alla lettera della legge.» Pronuncio queste parole quasi all'orecchio di Nelson. Recito la mia parte: un po' di lamentele fasulle. Sorride, concede una risatina a questo commento. È bello vedere, almeno a questo stadio iniziale, che Nelson ha ancora un certo senso dell'umorismo. «La legge è legge. Lei e io dobbiamo entrambi tenerne conto, signor Nelson.» Acosta sta borbottando fra sé, senza rendersi conto che gli abbiamo dato addosso tutti e due. Sta dando la colpa alla legge, infelice di non poter concludere la disputa circondato dall'amore di entrambe le parti. Ma per il momento ha il mio caloroso affetto, e io ho Robert Rath, il mio «fattore alfa». 28. Tutto sommato le cose sono andate bene, molto meglio di quanto avessimo diritto di aspettarci. So che il futuro ci riserva giorni più bui, ma per il momento ci crogioliamo nella buona sorte. Harry è entusiasta della giuria. Ho usato l'ultima ricusazione perentoria per una donna anziana e ho spuntato una giuria composta di otto uomini e
quattro donne. I due sostituti, in caso di malattia, morte o esonero, sono entrambi uomini. Le quattro donne sono, apparentemente, tipi seri, equilibrati, persone che non dovrebbero nutrire irragionevoli preconcetti nei confronti di Talia, se riusciremo a toccare le corde giuste. Non c'è nulla di più incline all'errore delle previsioni su quello che una giuria volubile può fare. Ma in questo momento, scommetterei la testa che non ci vorranno più di venti minuti a porte chiuse perché Robert Rath venga nominato capo dei giurati. Anche se tende a mettersi in secondo piano, a incarnare il tipo di avvocato alla Jefferson per il quale il silenzio è d'oro, Rath è una persona pronta, intuitiva. Possiede il genere di competenza che gli altri possono fiutare. Stamattina Nelson è tutto eleganza: un costoso abito grigio scuro e polsini doppi, con mezzo chilo d'oro su ciascuno. Oggi dovrà rivolgere la sua dichiarazione iniziale alla giuria, e le prime impressioni sono determinanti. Dal mio posto, lo vedo all'altro lato dell'aula, immagine in negativo di me stesso, avvolto in un'aura di eccitazione, quasi che fosse al centro della luce dei riflettori. Qualcuno gli parla, ma lui non ascolta, è troppo occupato: un po' di iperventilazione mentale, la preparazione al combattimento. Giro gli occhi e vedo che Harry sta scambiando qualche parola con Meeks. Alla maniera dei diplomatici a un summit, stanno già mettendo a punto i termini delle istruzioni alla giuria. Si tratta di piccole citazioni di legge, tagliate su misura per il nostro caso, che verranno stampate e che la Corte fornirà alla giuria come istruzioni per deliberare. Nelson e io dobbiamo arrivare a un accordo su queste istruzioni ora, se vogliamo essere padroni dei fatti di questo dibattimento, conformare le reciproche teorie sul delitto alla legge vigente. Questa mattinata verrà usata dal giudice. Comunicherà in lunghi dettagli le regole basilari ai giurati. Dirà loro che non potranno discutere il caso con nessuno; spiegherà cosa potranno vedere e leggere; definirà i limiti delle conversazioni fra di loro. Poi esporrà in termini generali il caso e le procedure che verranno seguite dalla Corte durante il processo, in modo da evitare ogni sorpresa. Harry lascia Meeks in piedi all'altro tavolo e si avvicina. «Abbiamo un problema», annuncia. «Vogliono un'istruzione su favoreggiamento e complicità, la definizione esatta di complice.» Questo significa che Nelson tenterà di presentare alla giuria la tesi di una cospirazione: vuole convincere i giurati che Talia ha agito assieme a un
amante, nonostante il fatto che nessun complice sia ancora stato arrestato. «Hai detto qualcosa?» «Non una parola.» «Bene. Lascia perdere. Lasciamo che avanzino la loro tesi. Vediamo che prove hanno.» Harry annuisce. Non è un rischio calcolato. Se la pubblica accusa non riuscirà a provare la presenza di un complice, muoveremo obiezione quando questa istruzione verrà presentata alla Corte. Sosterremo che presuppone fatti non dimostrati. Talia, seduta al tavolo della difesa, è l'immagine della solitudine. Nei suoi occhi c'è un vuoto disperato. Nonostante la sua innata avvenenza, la tensione di sei mesi sotto accusa e l'ansia del primo giorno del processo le conferiscono lo sguardo spento tipico di chi vive su una strada, dei vagabondi. Oggi, Talia ha l'aspetto di un tempio disabitato alla ricerca di un'anima. Se non avessi già ragioni a sufficienza per non farla deporre, il suo attuale stato mentale sarebbe il motivo decisivo. Gli avvocati difensori che si occupano regolarmente di casi che prevedono la pena di morte definiscono lo stato di Talia «suicidio da pena capitale». Un'asserzione sconfortata dell'imputata davanti alla giuria, anche se del tutto innocente, una semplice giustificazione per qualcosa che non ha fatto, possono dare origine a sospetti di colpevolezza. Negli ultimi anni, abbassamenti della guardia di questo tipo sono stati causa di più di un'esecuzione in questa contea. Temo che Talia, viste le sue condizioni di oggi, sia capace di questo comportamento così fatalistico. Le tocco il braccio. «Abbiamo qualche minuto. Usciamo.» Superiamo le macchine fotografiche e il trambusto del corridoio principale. Talia mi precede in corridoio: osservo la sua sagoma morbida. Ho letto il resto del rapporto di Bowman su di lei. Altri segreti. All'età di quattordici anni, Talia venne a vivere con la zia, la sorella di Carmen, a Capitol City. Le due sorelle, a quanto pare, erano diverse come il giorno e la notte. Luisa era una donna matronale, a suo modo attraente, che era riuscita a trovare una via d'uscita da una vita di povertà e aveva sposato un insegnante d'inglese di scuola superiore, John Pearson. La coppia diede a Talia tutto ciò che le era sempre mancato quando viveva con
Carmen: amore, anche se un po' a distanza, un solido ambiente familiare, e l'incoraggiamento a migliorare se stessa. Anni di incuria avevano inferto colpi terribili alla sua istruzione scolastica ma, con l'aiuto dello zio, Talia riguadagnò in fretta il terreno perduto. Possedeva una di quelle menti capaci di eccellere in tutto con il minimo sforzo. Al diploma era quasi la migliore della classe. Il punteggio ottenuto nei test attitudinali allo studio e le buone votazioni della maturità le valsero una borsa di studio in una piccola università della zona della Baia. Si iscrisse a economia e commercio. Talia intuiva che una laurea in questa materia le avrebbe concesso indipendenza e libertà in un mondo dominato dai maschi. Continuò a nutrire diffidenza riguardo ogni rapporto stretto, soprattutto con gli uomini. Non si era liberata dagli orrori dell'infanzia, dal ricordo delle mani che la toccavano. Laureata con lode, Talia tornò a casa, all'unica famiglia che avesse, Luisa e John Pearson, e all'età di ventidue anni decise di disfarsi delle sue radici. Versò due dollari, presentò richiesta alla Corte Superiore, e rinunciò ufficialmente al cognome di un padre che non aveva mai conosciuto. Cambiò il proprio cognome da Griggs a Pearson e, almeno a livello mentale, entrò nel mondo della gente rispettabile. Nel giro di quattro mesi ottenne il primo vero lavoro, un posto di apprendista dirigente in una piccola stazione televisiva via cavo della capitale. Prima di conoscere e sposare Ben, ebbe due seri interludi romantici con uomini di età più vicina alla sua. Entrambi gli episodi comportarono un balzo in avanti nella sua carriera. Il primo durò un anno: una storia apparentemente indolore con Harold Simpson, suo supervisore sul lavoro. Si lasciarono da amici, e tutto indica che siano rimasti in contatto nel corso degli anni. Il secondo uomo, James Tarantino, era un dirigente di un'associazione commerciale della capitale, un lobbista a tempo perso, nonché esperto di relazioni pubbliche per il Wine Institute. Talia stava imparando a contare sulla propria bellezza, oltre che sul proprio talento, per fare strada. Visse con Tarantino per quattro mesi. Lui commise lo sfortunato errore di esibirla al galà annuale del Wine Institute, una festa all'Hilton: tavoli con sculture di ghiaccio, un mare di salse, e gamberetti grandi come aragoste. Agli antipasti, Tarantino presentò la sua accompagnatrice a un ospite di riguardo, il socio fondatore dello studio legale dell'Institute, Benjamin Potter. Incapace di rapporti duraturi con gli uomini, Talia aveva finalmente trovato la figura paterna che non aveva mai conosciuto. O così sembrereb-
be. Il resto è storia. Sto guidando Talia a una piccola area ben delimitata: un atrio, qualche cespuglio e un po' di piante, il tutto circondato dagli uffici dei dirigenti, nel cuore del Palazzo di Giustizia. È un luogo proibito a pubblico e stampa. Alcuni giudici a volte pranzano qui: la calma in un oceano di conflitti. Talia si siede su una delle piccole panchine in pietra. Ha tirato fuori una sigaretta dalla borsa. Ha ripreso a fumare. Si era liberata di questo vizio, ma ora sembra una stampella indispensabile. Accende e mi guarda, l'immagine della fiducia più totale. «Voglio prepararti», le dico. La sua espressione mi dice che non ha proprio nessuna voglia di sentire la lunga sfilza di avvertimenti del suo avvocato. «Fra pochi minuti sentirai un mucchio di brutte accuse. Nelson si alzerà davanti alla giuria e dirà che tu hai ucciso Ben, che hai premeditato il delitto, che hai aspettato il momento giusto per farlo, e che tu o un tuo amante gli avete sparato alla testa con una piccola pistola, e poi avete mutilato il corpo in modo da farlo sembrare un suicidio.» A queste parole si fa piccola, e distoglie lo sguardo dal mio. «È importante, è fondamentale, che tu tenga i nervi saldi, mantenga il sangue freddo, controlli le emozioni. È probabile che oggi la giuria si formi delle prime impressioni che potrebbero essere determinanti.» «Tenterò», mormora. «Non devi tentare. Devi farlo. Non possiamo permetterci di dare a questa giuria l'immagine di un'imputata che ha perso il controllo.» A ogni buon conto, considerate le statistiche e i fatti concreti dei procedimenti che prevedono la pena capitale, Talia dovrebbe avere un grosso vantaggio, per lo meno sulla questione della pena di morte. È ricca, è bella, e si esprime bene, anche se la giuria potrebbe non avere l'opportunità di sentirla parlare in prima persona. Di solito, i giurati non odiano le persone che assomigliano a loro. Sin dall'udienza preliminare l'ho fatta vestire in maniera sempre più dimessa: una sfilata di moda all'incontrario, al punto che oggi Talia è una sinfonia per gli occhi dell'uomo comune. Indossa una semplice gonna grigia a pieghe e una camicia bianca, con una balza al colletto, come Maria regina di Scozia pronta per le ingiustizie di questo processo. «Per un po' sembrerà che le cose si mettano male per noi», l'avverto. «La situazione apparirà un po' sbilanciata.»
Il procuratore ci bastonerà a morte nella sua dichiarazione iniziale. La strategia ci impone di rimandare la nostra dichiarazione fino al momento della presentazione della nostra tesi. «All'inizio la giuria avrà una veduta parziale delle cose. Ecco perché è tanto importante che noi non facciamo il loro gioco, che non ci abbandoniamo alle emozioni.» Mi chiede dell'espressione che deve adottare, dell'impressione che deve dare. «Devi sembrare preoccupata», le rispondo. «Come una donna sotto processo, che rischia la vita per un crimine che non ha commesso.» Distoglie lo sguardo. Soffiando anelli di fumo, si esercita in una gamma di espressioni; le finestre in vetro scuro che ci circondano riflettono i vari volti della preoccupazione. «Non recitare», le dico. «Una giuria se ne accorge. Non ne avrai bisogno, credimi.» Scommetto che Talia si spaventerà a morte quando sentirà la prima bordata di Nelson. Le anticipo qualche altra cosa che si può aspettare. Le spiego che il procuratore distrettuale farà sfilare una parata di testimoni prima che a noi venga concesso di chiamare i nostri a deporre. «Hai già visto la maggior parte dei testimoni all'udienza preliminare», proseguo. «Ma questa è la grande occasione. Ci daranno sotto, non ci risparmieranno niente. Ci saranno delle sorprese.» «Tony?» chiede. Annuisco. «Cosa dirà?» «Hai visto la sua deposizione.» Ho mostrato a Talia la trascrizione della dichiarazione di Skarpellos, le sue parole prima che io gli sferrassi il colpo di lancia, colpendolo a sangue a livello personale. Farle leggere la deposizione è stata una piccola assicurazione contro la sorpresa di Talia, per non avere al mio fianco un volto atterrito che non sfuggirebbe agli occhi della giuria. «Mi occuperò io di Tony», la rassicuro. «Tu preoccupati della giuria e di quello che vedrà quando guarderà verso il nostro tavolo. Quella, ad esempio», le dico, indicando la sigaretta. «Lo so che non puoi fumare in aula, ma non dovrai farlo neanche fuori, in corridoio durante le pause. I giurati hanno occhi. Ti fa sembrare insensibile», le spiego. «È più facile che una giuria giudichi colpevole e condanni qualcuno che sembra insensibile.»
I suoi occhi mi seguono, con l'espressione di un uccellino spaventato. Poi Talia schiaccia la sigaretta sul cemento. «Questo, signore e signori, è stato un delitto violento, calcolato, premeditato.» La sua voce è tonante, l'apice di un'ondata verbale che si frange sul banco dei giurati. Nelson sta immobile davanti alla transenna, una sorta di fosco punto esclamativo che sottolinea questa accusa per la giuria. Le menti che avevano cominciato a distrarsi, con lo stomaco ancora pieno del pranzo, vengono violentemente riportate alla realtà. Passano secondi di silenzio. Nelson lascia alla giuria il tempo di assimilare la piena portata di questo pensiero. «Ben Potter era un brillante avvocato, una stella in ascesa. Un uomo che aveva ogni ragione per vivere, un fiorente studio legale, amici che gli volevano bene e lo ammiravano. In quest'aula udrete testimonianze, signore e signori, che vi confermeranno che Benjamin Potter era tenuto in alta considerazione non solo qui, in questa comunità, fra amici di lunga data, ma anche su un piano più ampio, nel cuore stesso del nostro governo nazionale. Quando gli è stata tolta la vita, faceva parte di una ristrettissima rosa di candidati selezionati per la nomina alla più alta Corte di questo Paese, la Corte Suprema degli Stati Uniti.» Nelson non fatica troppo a superare l'ostacolo presentato dal fatto che la candidatura non è mai stata annunciata ufficialmente. Scavalca questa difficoltà come se fosse una cosa del tutto insignificante. Offre alla giuria la posizione sociale di Ben quasi fosse una dichiarazione di danni, un'incalcolabile perdita per tutta la comunità. Le ricerche dimostrano che, nel caso di una vittima molto amata, tenuta in grande stima all'interno della comunità, la giuria tende a emettere un verdetto di colpevolezza; in termini più crudi, dimostrano che c'è un'alta probabilità che l'assassino venga condannato a morte. «Signore e signori, la pubblica accusa fornirà prove, deposizioni rilasciate da periti, che dimostreranno come la vittima, Ben Potter, sia stato brutalmente assassinato in un altro luogo. Gli è stato sparato un colpo alla nuca, come in un'esecuzione, e il suo corpo è stato trasportato fino al suo studio legale in questa città. I periti vi diranno che è stato poi usato un fucile calibro dodici, che alla vittima è stata inserita in bocca la canna di quel fucile e che è stato sparato un altro colpo nel tentativo di mutilare il corpo, di nascondere la precedente ferita da proiettile, di far credere che la vittima si fosse tolta la vita.»
Alcuni giurati rabbrividiscono a questa immagine. «Le prove vi mostreranno, signore e signori, che un capello trovato nel meccanismo di chiusura di questo fucile corrisponde in tutto e per tutto a campioni prelevati dalla testa dell'imputata, Talia Potter.» Nelson accompagna queste parole con il braccio teso, puntando un solo dito verso Talia, come una pistola. Adesso i giurati la stanno guardando, chiedendosi come sia possibile che questa donna abbia potuto perpetrare un atto tanto spregevole. Talia tiene gli occhi puntati sul piano del tavolo. Mi chino verso di lei, con un sorriso indifferente in faccia: sembra che Nelson ci abbia appena offerto tè e biscotti. A denti stretti le sussurro: «Guarda i giurati diritto negli occhi. A uno a uno». Lei alza lo sguardo, in un'espressione di sfida. Non va bene, penso, ma è sempre meglio di un'aria da cane bastonato. Nelson parla di altre prove dalle quali si potranno trarre conclusioni che collegheranno Talia a questo orrore. Dice alla giuria che un testimone, una vicina, dichiarerà che l'auto della vittima è stata vista all'incirca all'ora della morte davanti alla residenza che Ben condivideva con l'imputata. «Benché Talia Potter sostenga di essere stata fuori città a quell'ora, signore e signori, la polizia, in mesi di indagine, non è riuscita a verificare la sua storia.» Nelson depone l'alibi zoppicante di Talia sul banco dei giurati come un pezzo di carne più che frollata, che già comincia a emanare un odore nauseabondo. Il suo senso dei tempi è meticoloso; fa pause d'effetto in tutti i punti giusti. Il suo discorso rasenta l'arringa conclusiva, ma non tanto da permettermi di scompigliarlo con qualche obiezione. È ben calcolato, provato alla perfezione: sembra una commedia che arrivi finalmente a Broadway dopo il giro in provincia. Racconta dell'accordo prematrimoniale, del fatto che Talia avrebbe perso ogni cosa ottenuta dal rapporto con Ben a meno che non fosse sposata con la vittima al momento della sua morte. Parla di questo documento in toni sommessi, quasi si trattasse delle Sacre Scritture. Si dilunga sul matrimonio, sull'innegabile differenza di età fra i due. Si muove disinvolto nel giardino della reputazione di Talia, in gran parte illazioni, allusioni, ma tutte confermate da testimoni, dice; niente con cui possa attirarsi un'obiezione plausibile. C'è il perizoma in pelle di leopardo tro-
vato dalla cameriera nel letto di Talia, indumento che la cameriera testimonierà non apparteneva alla vittima. Questo basta a far alzare qualche sopracciglio, solleticare qualche libido. Nelson gioca sulle tinte sfumate, poi diventa più esplicito. «Un teste che chiameremo a deporre, signore e signori, vi dirà che l'imputata è stata vista in numerose occasioni in compagnia di uomini, che non erano il marito, ed è stata vista fermarsi in un motel locale con questi uomini.» Gioca sull'argomento per ottenere il massimo effetto, lasciando che la forza piena di queste parole penetri a fondo nella giuria. Sta diventando chiaro che qui non si processa Talia, bensì le sue passioni. Nelson deve ancora spiegare in termini chiari come Talia abbia fatto a uccidere Ben, e poi da sola a spostare il corpo e portare a termine il macabro compito del fucile infilato in bocca alla vittima. Ma a questo punto alla giuria non occorre un balzo quantico per chiudere il cerchio delle deduzioni, per pensare che deve averla aiutata un amante. Nelson dà un'occhiata di sbieco all'orologio, spostandosi di lato, fuori della visuale dei giurati. Tutto perfettamente calcolato. Ha impiegato quaranta minuti, il tempo ottimale perché una giuria ricordi gli elementi critici. «E infine, signore e signori, la pubblica accusa chiamerà a deporre un teste, amico intimo e socio della vittima, il quale vi dirà che, al tempo della sua morte, Ben Potter, per motivi che a tutti voi risulteranno chiari, stava seriamente valutando l'idea di divorziare dall'imputata, Talia Potter, e che quando venne ucciso si stava accingendo a cercare un buon avvocato divorzista proprio a quello scopo. Un divorzio, signore e signori, che abbinato all'accordo prematrimoniale avrebbe lasciato l'imputata Talia Potter in completa rovina finanziaria. «Le prove dimostreranno», prosegue, «che per evitare questo divorzio, per evitare l'eventualità di perdere tutto ciò che per lei era veramente importante - ricchezza, posizione sociale, un rapporto matrimoniale che considerava non impegnativo e conveniente - Talia Potter ha elaborato un piano tanto complesso quanto diabolico, e con fredda premeditazione ha assassinato Ben Potter.» Rimane fermo un momento, di nuovo al centro del palcoscenico, vicino alla transenna, guardando i giurati negli occhi, scrutando l'anima collettiva di questa giuria, poi si avvia al suo tavolo e si siede. Come minimo metà della giuria sta guardando Talia in maniera più stu-
diata e cauta, abbinando queste parole alla figura seduta al nostro tavolo. La sento tremare sulla sedia accanto alla mia. Con molta cautela, sposto la mano e la metto sopra le sue, sul bracciolo della sedia, al sicuro dagli sguardi dei giurati. È come se in qualche modo fossi riuscito ad ancorarla a terra, e il tremore svanisce. «Avvocato Madriani, la sua dichiarazione di apertura?» Acosta mi sta guardando. Mi alzo. «Vostro onore, la difesa preferisce rimandare la propria dichiarazione alla conclusione dell'esposizione della tesi dell'accusa.» L'attesa è un rischio calcolato. Una teoria sostiene che sia meglio disperdere le vivide impressioni lasciate da Nelson prima che questi pensieri si cristallizzino nella giuria. Ritengo di poter essere più calcolato, più nocivo alla tesi dell'accusa dopo che il procuratore avrà concluso, dopo che avrà presentato tutte le sue prove. Sono appostato in agguato, per colpire a morte l'accusa con il Greco. Nelson può anche avere delle teorie, fondati sospetti sulle mie intenzioni. Per il momento, scelgo di lasciargli soltanto questi. Acosta guarda l'orologio. Sono le tre del pomeriggio passate. «Se non ci sono obiezioni, la Corte si aggiorna per riunirsi alle nove di domani mattina. La pubblica accusa dovrà presentare il suo primo teste a quell'ora.» 29. Nella ricerca di Susan Hawley, Jimmy Lama è arrivato a un punto morto. La ragazza è scomparsa. Lui mi tiene il dito puntato contro e mi sputa addosso imprecazioni sui gradini di fronte al Palazzo di Giustizia, in modo cne tutti possano vedere. È un incontro casuale. Lama sta uscendo e io sto entrando. Con me c'è Nikki. Si è presa la giornata libera per assistere alle prime battute del processo di Talia. Un interesse puramente commerciale, sostiene. «Dov'è, furbacchione? Dove la nascondi?» Lama sta gratificando la mia cliente di tutti i peggiori epiteti che gli vengono in mente, e ne inventa anche qualcuno di suo da rivolgere a me, a voce tanto alta da farsi sentire dai pochi passanti in strada. Susan Hawley gli è sfuggita, come del resto è sfuggita a me. È scappata dal suo appartamento senza lasciare un indirizzo o un numero di telefono. L'immunità induce la gente a far strane cose. Nel caso di Susan, ha provo-
cato una grave smania di viaggiare. Se Lama nutre ambizioni di carriera basate sulla sua parte nello «scopagate», la scomparsa di Susan ha aperto un grosso buco nei suoi piani. L'accusa lo sta martellando perché la trovi, prima di dover chiudere il caso. A quanto pare, senza Susan a loro salta il caso e a Skarpellos l'alibi. Mi sono messo davanti a Nikki, con Lama che ancora mi incombe sulla faccia. Sta passando in rassegna la versione della polizia dell'Anatomia di Gray, chiamandomi con nomi che non riconosco. Finalmente interrompe le invettive e formula quella che per lui è una domanda coerente. «Dov'è la puttanella?» chiede. Non credo che l'interrogativo meriti una risposta, anche se ne avessi una, e comincio ad aggirarlo per salire le scale, tenendomi fra lui e Nikki, proteggendo Nikki come meglio posso da questa scarica di insulti. «Stai diventando un po' parziale?» sbotta Lama. «Lo sappiamo che scopa bene, ma ci serve solo per un'ora. Prometto che te la restituiamo appena abbiamo finito.» Questo mi fa fermare di colpo. Per un fuggevole attimo scruto il marciapiede a pochi metri di distanza e gli autobus che passano a buona andatura. Renderei un enorme favore all'umanità, ma Nikki mi sta tirando per il braccio. «Dovresti proprio rivolgerti a qualcuno», gli lancio. «Per cosa?» chiede lui. «Dovresti cercarti un'assistenza qualificata per impedire che ti coli la bava sul mento.» Siamo sotto tensione, il collo incurvato come due montoni pronti a una lotta primordiale. Con la coda dell'occhio vedo una figura che si sta avvicinando. Afferra Nikki per il braccio e la trascina su per i gradini. È George Cooper, arrivato in soccorso, che porta via mia moglie da questa brutta scena. «Incastreremo il suo bel culo con un'ingiunzione, e te lo serviremo su un vassoio», dice Lama. «Lo sputo è sempre sputo», gli rispondo. A queste parole mi viene ancora più vicino, a pochissimi centimetri dalla mia faccia, senza toccarmi. «Un giorno», sibila. «Hai un giorno per tirarla fuori. Se non ce la porti, ti prendo a calci in culo.» Coop è tornato da me, dopo aver lasciato Nikki più in alto.
«Jimmy», mormora, posandogli la mano sulla nuca, dove si rizzano i capelli. «Non è questo il posto.» Coop mi strizza l'occhio, giocando al matador con questo toro impazzito, fornendo a entrambi una dignitosa via di ritirata. Porta Lama indietro di alcuni centimetri, verso il marciapiede, dove i due si parlano con calma. Coop il conciliatore. Una cosa che piace sempre di George Cooper è che la sua amicizia non si ferma mai davanti ai gradini del Palazzo di Giustizia. Con una scrollata di spalle, Lama si toglie di dosso la mano di Coop. Poi gira la schiena e va in direzione del semaforo all'angolo. Coop è tornato da me. «Con quello lì non si scherza», dice. «Con Jimmy Lama sono guai seri.» Tremo di rabbia. Cooper e io ci dirigiamo verso Nikki, che aspetta in cima alle scale. Sta guardando Lama in lontananza. «Uomo delizioso», commenta. «Già, un vero principe», dice Coop. Scotto fino alla punta delle orecchie. All'udienza preliminare, la comparsa del capitano Mason Canard si è conclusa in un batter d'occhio. Pareva che lo avessero aggiunto per un ripensamento dell'ultimo minuto, infilandolo tra l'esperto di prove materiali e il perito balistico. Con la sola O'Shaunasy a giudicare le prove durante l'udienza preliminare, l'enfasi di Nelson e l'ordine di presentazione erano adattati alla prospettiva tecnico-legale. Ora, con dodici nuovi segnapunti al banco, Canard è stato schierato in posizione di apertura. È di statura media, magro, mani curate, ben vestito. L'abito di lana pettinata scivola alla perfezione sulla sua figura snella. I radi capelli grigio argento sono pettinati all'indietro e girati di lato, in uno stile che ricorda i reali inglesi degli anni '30. Se l'aspetto personale conta, è facile capire come Mason Canard abbia raggiunto un posto di autorità nel dipartimento e perché Nelson lo abbia scelto quale primo teste da presentare alla giuria. La regola fondamentale: partire a tutta forza. Nelson fa dire al teste il proprio nome per gli atti, poi si lancia a presentarlo. Con trent'anni di servizio sulle spalle, Canard è un veterano della polizia. Da dodici anni è a capo della squadra speciale omicidi, un gruppo di investigatori scelti che seguono i casi più importanti. Dato il peso sociale della vittima e l'interesse iniziale dei federali per il delitto, Canard ha preso
in mano le redini nell'ufficio di Ben la sera in cui è stato trovato il corpo, assieme a Nelson. Gli è stata affidata la conduzione del caso, e ha delegato la maggior parte del lavoro di routine ai suoi subalterni. «Allora non è stato il primo ad arrivare sulla scena del delitto, detective Canard?» «No. Quando sono arrivato c'erano già tre auto di pattuglia e la squadra di pronto intervento medico. C'era anche qualche altra persona, dipendenti dell'edificio.» «Ma lei ha preso il comando della situazione.» «Esatto. Ero il funzionario di polizia più anziano presente.» Nelson conduce i giurati in un giro verbale sulle procedure usate dalla polizia per isolare l'edificio e fare in modo che le prove non vengano compromesse o contaminate. Secondo Canard c'era un vero e proprio spiegamento di nastro giallo e sentinelle, il tutto studiato per sigillare ogni entrata e ogni uscita dell'edificio. «Lei sa chi ha scoperto il corpo?» Qui non ci sono sorprese. Canard identifica Willie Hampton, il giovane custode. «Ha interrogato personalmente il signor Hampton e gli altri agenti per accertarsi che niente fosse stato spostato o toccato sulla scena prima del suo arrivo?» «Sì. Mi è stato assicurato che la vittima e quanto la circondava erano precisamente come erano stati trovati dal signor Hampton.» «Lei ha supervisionato il lavoro del fotografo sulla scena del delitto?» «Sì.» Nelson torna al tavolo dell'accusa, dove Meeks gli porge una grossa busta. È dall'inizio della deposizione del teste che il procuratore punta a questo. Un po' di sangue per la giuria. Estrae tre serie di stampe fotografiche, ciascuna fissata sul bordo in alto da una graffa a molla. Mi porge una serie di foto e ne dà un'altra all'usciere perché la consegni al giudice. Talia è al mio fianco, tutta occhi. Io ho già visto quasi tutte le fotografie. Mi sono state consegnate durante la fase preparatoria, ma non ho concesso a Talia il beneficio di un'anteprima. Non sarebbe opportuno, al cospetto di una giuria, mostrarle queste scene di carneficina e ottenere un'apparente indifferenza. La prima foto è una panoramica dell'ufficio scattata col grandangolo dal-
la porta, da una distanza un po' troppo eccessiva per scorgere i dettagli. Si vedono la scrivania di Ben, un po' di disordine, carte sul pavimento, e la poltrona dietro la scrivania, piegata ad angolo rispetto all'obiettivo. Tolgo la graffa e passo alla successiva. Questa è una macabra foto venti per venticinque, una lucida foto a colori. Un primo piano di Ben dal piano della scrivania in su: ombre smorzate di sangue rappreso, il colore della ruggine. Talia inspira una boccata d'aria, porta le dita alle labbra, ha un'espressione di cupo orrore. È proprio quello che avevo sperato. Presto una tenera sollecitudine alla mia cliente, un braccio sulla spalla, una parola incoraggiante all'orecchio. La mia preoccupazione è reale, ma è anche essenziale, in un caso che prevede la pena di morte, sottolineare a ogni stadio l'umanità dell'imputato agli occhi della giuria, dimostrare che prova emozioni sincere. È per questo motivo che poche donne vengono condannate a morte: non è che siano il sesso più onesto e più debole, è solo che sono capaci di esprimere apertamente le proprie emozioni in aula. Contrariamente a quanto accade agli uomini, sanno superare le convenzioni sociali e inondare l'aula di lacrime. Ai giurati non piace uccidere la gente vera, ma solo i criminali incalliti, quelli del tutto privi di ogni sentimento o rimorso. Passo alla foto successiva. Un altro primo piano, testa e spalle. È questa che Nelson vuole per infiammare la giuria. Non c'è niente del vero Ben in questa foto, solo l'immagine di una testa distorta e sfigurata, il ritratto di quella che i medici di un pronto soccorso definirebbero «massiccia perdita di tessuti»: una grande parte della volta cranica non esiste più, i tratti del viso sono tirati e distorti come una maschera di gomma strappata. Talia sta per sentirsi male. «Vostro onore, ci concede un momento?» Talia è in piedi. Aiutata da una delle sue amiche, si sta dirigendo verso la porta, verso la toilette delle signore. Mi ha preparato il terreno. «Vostro onore, vorrei conferire in privato.» Acosta ferma la stenografa. Con l'imputata assente, alla Corte rimane ben poco altro da fare. Acosta, Nelson e io ci ritiriamo sul retro, assieme alla stenografa, che si porta dietro la sua macchina. Incarico Harry di intrattenere Talia quando rientrerà, per impedirle di farsi consolare da Tod. La porta è chiusa. Acosta mi guarda. «Bene, avvocato Madriani, la giuria sta facendo un'altra pausa per il caf-
fè. Se continuiamo a conferire in questo modo, i giurati usciranno da questo processo con i reni distrutti.» Do qualche colpetto alle foto che tengo in mano. «Vostro onore, la difesa ammette che la vittima è morta.» Questo gli strappa una risatina. «Troppe foto?» chiede. Annuisce, come se condividesse l'ovvia risposta alla sua stessa domanda. Nelson ha fatto quello che ogni bravo penalista fa quando usa le foto: ne produce in abbondanza, ne offre trenta e spera in segreto di ottenerne tre. «Non si tratta soltanto del numero», preciso. «È il contenuto di qualcuna di queste foto a preoccuparmi. Non altamente probatorie, ma gravemente pregiudizievoli.» Nelson è il ritratto dell'esasperazione. «Vostro onore, non è un festino. È la scena del delitto, di un omicidio efferato. Se l'imputata vuole qualche foto piacevole, dovrebbe andare a un matrimonio.» In questo Stato i giudici hanno ampio spazio di manovra per l'ammissibilità delle prove. Secondo le norme del codice che regola le prove, fasci di documenti tutti intesi a dimostrare lo stesso punto possono essere ridotti a un singolo documento o a un paio, per risparmiare tempo. E, cosa ancora più pertinente, le prove che possono essere ritenute di valore marginale nel dimostrare il punto di una tesi, ma che siano altamente incendiarie, che tendano a influenzare la giuria, possono anche essere del tutto escluse. Su questo punto, il giudice è Dio. «Persino il giurato più equanime», dico ad Acosta, «di certo non guarderà con occhio benevolo un'imputata accusata di una simile brutalità.» Gli ricordo che queste foto, da tutti i punti di vista, non riescono a stabilire alcun legame fra la mia cliente e il delitto in questione. «Me le faccia vedere», ordina Acosta. Ha lasciato le sue copie in aula. Gli do le mie. Sventola in direzione di Nelson quella scattata con il grandangolo, pochi particolari e molti mobili da ufficio. «Se vuole la scena del delitto, questa mi pare buona», dice. Comincia a fare una pila con gli altri primi piani, tutti a faccia in giù sulla sua scrivania. Ne trova un'altra, un'immagine del fucile sul pavimento, e il piede di Ben in un angolo dell'inquadratura. «Questa va bene», afferma. Giocherella con la successiva. Un duro primo piano, ma finora il più pulito del mucchio.
Nelson è furibondo. «Un foto della vittima non ci starebbe male», ironizza. «Così si ricorderebbero che non si è trattato di un omicidio senza vittima.» Acosta lo guarda con occhi cattivi. Lascia cadere la foto sul mucchio degli scarti, vittima del sarcasmo e del pessimo tempismo di Nelson. Siamo di nuovo in aula davanti alla giuria. Nelson ha avuto la sua lista ideale di fotografie massacrata da Nocedicocco, anche se Acosta non è stato del tutto assolutista. Ha severamente limitato il numero di fotografie che la pubblica accusa può usare a questo punto del processo, ma ha lasciato aperto l'uso di altre immagini se l'accusa stabilirà un convincente nesso fra l'imputata e il delitto. Talia è al suo posto, fragile, le guance velate da un leggero pallore grigiastro. Si tiene lo stomaco con una mano. Credo abbia vomitato la prima colazione. Da un ventaglio di ventisei foto, a Nelson ne rimangono soltanto otto da mostrare a Canard per l'identificazione. Sono tutte foto relativamente innocue: panoramiche dell'ufficio, punti da cui l'assassino potrebbe essere entrato e uscito dall'edificio, una grande quantità di cartelli di uscita. Un album sterilizzato. Vengono velocemente identificate dal teste e contrassegnate come prove. «Vostro onore, la pubblica accusa chiede che le restanti foto vengano contrassegnate come prove.» Nelson prenderà tutto quello che può, almeno per il momento. «Qualche obiezione, avvocato Madriani?» «Nessuna, vostro onore.» Le immagini cominciano a girare fra i giurati, passando di mano in mano. Una delle donne più anziane cerca di aggiustarsi gli occhiali per vedere i particolari della foto a grandangolo. Per riuscirci le occorrerebbe una lente di ingrandimento. Nelson e Canard si addentrano in ulteriori preliminari. Il teste identifica il fucile trovato sulla scena del delitto, il Bernardelli calibro dodici a canne sovrapposte. Poi Nelson affronta una questione più urgente. «Detective Canard, ha avuto occasione di interrogare o di parlare con l'imputata la sera del delitto?» «Obiezione, vostro onore. La domanda sottintende fatti non dimostrati.» «Mi scusi», dice Nelson. «Detective, ha avuto occasione di parlare con l'imputata la sera in cui il signor Potter è morto?»
«Sì.» «In che modo è avvenuto il colloquio?» Nelson spiega che un'auto di pattuglia è stata mandata a casa di Ben, dove però non c'era nessuno. L'agente di pattuglia ricevette ordine di attendere alla residenza fino a che qualcuno, un qualsiasi membro della famiglia o un amico, non fosse arrivato. A quel punto avrebbe dovuto chiamare Canard via radio; lui si sarebbe recato alla casa e avrebbe comunicato la notizia ai familiari. Salvo nei casi di emergenza, in cui la vittima sia ancora in bilico fra vita e morte, questa è una prassi standard del suo dipartimento, dice. Spiega alla Corte che Talia è arrivata a casa alle dieci di sera circa, e che lui ha lasciato immediatamente l'ufficio di Ben per recarsi all'indirizzo dei Potter. «E quello fu il primo contatto che lei ebbe con l'imputata, Talia Potter?» «Sì.» Nelson procede lento, metodico; sviscera ogni particolare, costruisce fondamenta di pietra. «Ebbe occasione di informare l'imputata che suo marito era morto?» «Sì.» «Che lei sappia, qualcuno le aveva già comunicato la notizia?» «No», afferma Canard. «Il nostro agente stazionato davanti alla casa aveva ordini precisi di non parlare con i familiari.» «Può dire alla giuria qual è stata la reazione dell'imputata, Talia Potter, quando la informò che il marito era morto?» Canard assume un'espressione pensierosa. «L'ha presa in maniera piuttosto fredda», risponde. «Fredda?» «Sì, nessuna manifestazione emotiva.» «Niente lacrime? L'imputata non è scoppiata a piangere?» «Non subito», dice Canard. «Ha aspettato un po'?» «Obiezione, vostro onore. Domanda tendenziosa. Il procuratore sta cercando di mettere le parole in bocca al teste.» «Accolta.» «Cosa ha detto l'imputata quando le ha comunicato che il marito era morto?» «Ha chiesto come era successo.» «E lei che le ha detto?» «Le ho detto che era morto in seguito a un colpo di fucile, in quello che
al momento sembrava un probabile suicidio.» «E quale è stata la sua reazione?» «Non ha avuto grandi reazioni. Sembrava che potesse aspettarselo.» «Obiezione, vostro onore. Chiedo che venga cancellata la seconda parte della risposta come non pertinente alla domanda, semplice speculazione», tuono. «Accolta. Il teste si attenga alle domande che gli vengono fatte.» Acosta sta guardando Canard dall'alto. «La stenografa cancelli la seconda parte della risposta del teste. La giuria non dovrà tener conto delle opinioni del teste su ciò che l'imputata poteva o meno aspettarsi. Non è una prova.» «Quando le disse che forse il marito si era suicidato, l'imputata si mise a piangere in quello stesso momento?» «No», risponde Canard. Nelson sta cercando di trasformare questa assenza di emozione in qualcosa che non è, vale a dire l'idea che Talia sapesse più di quanto non desse a vedere, che arrivando a casa sapesse già che Ben era morto. «Di fatto, pianse in sua presenza, in un momento o nell'altro, durante il primo colloquio alla residenza della vittima?» «No», ripete Canard. «Nel corso di quel colloquio, lei chiese all'imputata dove fosse stata quella sera?» «Sì.» È inevitabile che tutto questo venga a galla. Quando ha parlato con Canard, Talia non era sotto interrogatorio, non era al centro dei sospetti. Non c'era alcun bisogno di seguire la prassi ufficiale e informarla dei suoi diritti. Non avrò modo di tenere segreto il suo alibi alla giuria, la falsa informazione che ha fornito alla polizia. «E cosa le disse?» «Disse di essere stata fuori città per lavoro, di avere lasciato il suo ufficio ore prima e di essersi recata a Vacaville per esaminare, o credo abbia detto 'visitare', una certa proprietà. Una casa in vendita.» «L'imputata si occupava di affari immobiliari?» «Per quanto mi risulta, sì.» «Secondo le informazioni che l'imputata le fornì, non andò da nessun'altra parte? Solo a Vacaville a esaminare questa proprietà, e poi tornò a casa?» «È esatto.»
«Detective Canard, può dirci che distanza c'è, in chilometri, fra Capitol City e Vacaville, più o meno?» «Un'ottantina di chilometri fino alla proprietà in questione. È appena fuori città.» «Ha controllato?» «Sul mio contachilometri», risponde il teste. «Quanto occorre per coprire quella distanza e fare ritorno, secondo i suoi calcoli, rispettando i limiti di velocità?» «Due ore, forse meno, a seconda del traffico.» «Ha chiesto all'imputata a che ora fosse partita per questo viaggio?» «Ci ha detto che erano circa le quattro del pomeriggio.» «Quindi, se è partita alle quattro del pomeriggio, l'imputata avrebbe potuto recarsi alla proprietà di Vacaville, visitarla magari in fretta, e rientrare a Capitol City per, diciamo...» Nelson si stringe nelle spalle. «Le sei e mezzo di sera?» «È possibile.» «Detective Canard, lei o i suoi agenti avete intrapreso qualche azione per verificare in maniera indipendente i movimenti dell'imputata nel giorno in questione?» «Sì, certo. Ci siamo procurati copie degli estratti conto della carta di credito dell'imputata per il periodo in questione e abbiamo controllato se ci fossero stati rifornimenti di benzina, conti di ristorante, articoli che l'imputata potesse avere acquistato mentre si spostava fra le due città.» «E cosa avete trovato?» «Non abbiamo riscontrato nessun acquisto fatto dall'imputata con la carta di credito fra Capitol City e Vacaville in quella data.» «Avete fatto altri controlli?» «Abbiamo richiesto gli estratti conto bancari dell'imputata per vedere se per caso avesse emesso assegni lungo il tragitto nella data in questione.» «Ne avete trovati?» «No.» Al mio fianco, Talia si sta dimenando sulla sedia. Si china verso di me. «Sanno tutto», mormora. Le sorrido, a beneficio della giuria, come se lei mi avesse detto qualcosa di divertente, una battutina per alleviare la monotonia. Poi le do un colpo con il ginocchio, forte, sotto il tavolo. Se anche la assolvessero, potrebbe sempre restarle un'escoriazione a vita. «Quali altri passi avete intrapreso per verificare questo alibi?»
«Secondo il racconto dell'imputata, era entrata nella proprietà di Vacaville servendosi di una tastiera elettronica che sbloccava la serratura. La combinazione le era stata fornita dall'agenzia immobiliare di Vacaville. Abbiamo rilevato le impronte per vedere se riuscivamo a identificare quelle dell'imputata sulla tastiera.» «Avete trovato le sue impronte sulla tastiera?» «No. Non c'erano.» «Quindi non siete riusciti a stabilire in alcun modo che l'imputata fosse davvero a Vacaville il giorno in cui Ben Potter morì, è esatto?» «Precisamente.» Questo è il segnale di alta marea della deposizione di Canard, il tassello centrale di un mosaico, un diluvio di circostanze dalle quali la giuria dovrà dedurre che Talia non rimase sorpresa dalla morte di Ben perché vi aveva preso parte, che anzi aveva mentito alla polizia sui propri movimenti, che ha avuto l'occasione per commettere il delitto. Nelson mi guarda. «A lei il teste.» Per un avvocato, in un processo non c'è niente di più difficile dell'affrontare una bugia raccontata dal proprio cliente alle autorità. Non posso chiamare Talia a deporre per confutare la testimonianza precedente. Interrogarla sarebbe istigazione alla falsa testimonianza. Non mi resta che rosicchiare ai margini delle deduzioni e delle conclusioni tratte dalla polizia in base a questa informazione erronea. «Agente Canard...» «Detective», corregge lui: un piccolo tentativo di presa d'autorità agli occhi della giuria. Mi alzo, mi dirigo al banco dei testimoni. «Mi scusi. Detective Canard. Quante indagini su casi di omicidio ha condotto nella sua carriera?» «Non saprei con precisione.» «Un centinaio?» «Di più», dice. «Duecento?» «Non so.» Canard è diffidente. Non capisce dove voglio andare a parare. «Un buon numero, suppongo. Una quantità tale di casi da farla considerare un esperto, un veterano delle indagini per omicidio?» «Sì», dichiara, certo che astrazioni simili siano un terreno sicuro. «Quindi si può affermare con sicurezza che lei ha trattato un buon numero di casi in cui erano coinvolti familiari addolorati, parenti di vittime?»
«Sì.» «Quanti, secondo lei? Un centinaio di parenti?» «Non saprei.» Siamo di nuovo alle cifre, e Canard ripiomba nell'incertezza. «Una stima approssimativa?» «Obiezione.» Nelson rimane seduto. «Il teste ha già risposto alla domanda.» «Accolta.» «Lei è a capo della squadra speciale omicidi da dodici anni, è esatto?» «Sì.» «Suppongo che in questi dodici anni le sarà capitato in svariate occasioni di dover comunicare cattive notizie ai parenti della vittima di un delitto, di dire a una moglie o a un figlio che il marito o il padre erano stati uccisi. È esatto?» «È la parte peggiore del mio lavoro», dice. «Immagino che a una notizia simile alcuni di questi parenti possano entrare in stato di shock, vero?» «Immagino di sì.» «Lei sa, detective, quali sono i sintomi fisici dello shock? Ad esempio, sa se un membro della famiglia che sia preda di uno stato di shock dopo una notizia così terribile si metterebbe a piangere? Se ci sarebbero lacrime immediate al momento della comunicazione della notizia?» «Obiezione, vostro onore. Il teste non è un medico.» «Accolta.» Ho quello che volevo. Ho piantato il seme del dubbio nella giuria. Cambio marcia, passo dall'ipotesi all'esperienza. «Detective Canard, in tutti i casi di omicidio della sua lunga carriera, è sua esperienza, dichiarerebbe qui, che alla notizia di una tragedia, la morte di un familiare stretto, chi la riceve, sempre e senza alcuna eccezione, scoppia a piangere non appena viene informato?» Uno degli assiomi del controinterrogatorio: formulare la domanda in termini assoluti, spingerla al limite dell'assurdo, e oltre. «Non sempre», risponde. «Quindi ci sono state persone, nella sua esperienza di investigatore di omicidi, che alla notizia della morte di un loro caro di fatto non si sono messe immediatamente a piangere?» «È vero», conferma Canard. Qualunque altra risposta farebbe ridere la giuria.
«E da questo lei ha sempre e invariabilmente concluso che il parente che non scoppia immediatamente a piangere sia in qualche modo implicato nella morte della vittima? Presume sempre che la persona che non piange sia un assassino?» «Obiezione, vostro onore. La difesa sta travisando la deposizione del teste.» «Non credo, vostro onore. Se l'assenza di lacrime istantanee da parte di Talia Potter non è stata offerta a questa giuria all'unico e manifesto scopo di sottintendere la sua colpevolezza nell'omicidio, vorrei che il procuratore distrettuale ci spiegasse per quale motivo se ne è parlato.» Nelson sta agitando le mani, fa smorfie. Cerca di guadagnare tempo per pensare. «Per chiarire l'atteggiamento dell'imputata», dice. «Esattamente», ribatto. «Per sottintendere con ogni mezzo, lecito o illecito, che la mia cliente avesse un atteggiamento colpevole.» «La domanda è corretta. Il teste risponda», proclama Acosta. Canard non ricorda più la domanda. «Gliela rifaccio», gli dico. «Deduce sempre che la persona che non piange sia un assassino?» «No.» Guardo Nelson. Secondo me, sta cominciando a chiedersi se per caso non abbia affrontato dal lato sbagliato questa cosa con la quale ha cercato di colpirci a morte. «Quindi di fatto non esiste alcun teorema di scienza criminologica, nessuna formula affidabile adottata dalle forze dell'ordine, che permetta di prendere una tazza e misurare la produzione dei condotti lacrimali di una persona allo scopo di determinare se sia o no responsabile della morte del suo caro?» «Vostro onore, devo fare obiezione.» Nelson ce la sta mettendo tutta per cercare di frenare il mio impeto. Canard è un fascio di risentimento seduto al banco dei testimoni. Prima che il giudice possa decidere sull'obiezione di Nelson, Canard risponde. «No», ammette a denti stretti. Acosta ignora l'obiezione, visto che non era stato specificato su quale base si fondasse. «Quindi è del tutto possibile, in base alla sua esperienza di navigato investigatore di omicidi, che il motivo per cui la mia cliente Talia Potter non
sia scoppiata immediatamente a piangere alla notizia della morte del marito non avesse nulla a che fare con ogni eventuale teoria che la veda implicata nel delitto. È esatto?» «Immagino di sì», dice. «È possibile che la sua reazione possa essere dovuta ad altri fattori, allo shock che questa notizia ha inflitto al suo sistema nervoso, alle differenze di struttura emotiva individuale, a tutte le cose che lei, non essendo un medico, non saprebbe?» Guardo Nelson. Sta cercando di fare buon viso, di mostrarsi indifferente; allungato sulla sua sedia, giocherella con una matita. «Non lo so», concede Canard. «Immagino di sì.» «Bene.» Concedo un attimo di respiro, una piccola pausa per far capire alla giuria che sto passando a un altro argomento, che ritengo conclusa questa campagna. Ora premo l'interruttore della cordialità, mi rilasso, lascio intendere a Canard che forse il peggio è passato. Entro nella fase successiva e ottengo una veloce ammissione. Canard è stanco di essere tartassato. Ammette che potrebbero occorrere molto più di due ore per spostarsi da Capitol City a Vacaville e fare ritorno, se una qualsiasi parte del viaggio si verificasse all'ora di punta. Ammettendolo, conferma anche che per il giorno del delitto non si possono escludere problemi di traffico, visto che l'ora del decesso è stata fissata attorno alle sette di sera. Un altro punto in meno per Nelson. Chiedo a Canard se nell'inventario degli effetti personali rinvenuti sulla vittima risultassero anche le sue chiavi, quelle dell'auto, dell'ufficio e di casa. Il teste conferma che le chiavi sono state trovate sul cadavere rinvenuto in ufficio. «Detective Canard, lei ha dichiarato in precedenza che nel corso della sua indagine ha esaminato il rendiconto della carta di credito dell'imputata, per vedere se avesse fatto rifornimento di carburante, al fine di verificare il suo alibi, il suo viaggio a Vacaville, è esatto?» «È esatto.» «Lei ha inoltre dichiarato che la distanza fra Capitol City e la proprietà visitata dall'imputata è di circa ottanta chilometri, per un totale di centosessanta chilometri fra andata e ritorno. È esatto?» «Sì.» «Sa quale tipo di automobile l'imputata guidasse nel giorno in questione, il giorno in cui il marito morì?»
«Credo fosse una Mercedes, la piccola spider a due porte. 500 SL», dice. «Nel corso della sua indagine ha per caso controllato la capacità del serbatoio di quella vettura?» «No.» «La sorprenderebbe sapere che quel modello possiede un serbatoio da ottanta litri di benzina, che fa sette chilometri con un litro in autostrada, che ha un'autonomia di cinquecentosessanta chilometri, e che potrebbe andare da Capitol City a Vacaville più di sette volte senza bisogno di rifornimento?» «Se lo dice lei.» «Ma lei non ha controllato questi dati?» «No», risponde. «E allora perché la sorprende non aver trovato ricevute di carta di credito per il viaggio in questione?» «Non ho detto di essermi sorpreso. Ho solo detto che abbiamo controllato.» «Capisco», gli dico. «Stavate eseguendo controlli alla cieca, non è vero?» A questa domanda Canard non risponde. Non mi aspetto che lo faccia. Alcuni giurati stanno sorridendo. È come se Canard fosse sulla poltrona del dentista. Non se la sta certo spassando. Gli chiedo quanti giorni siano trascorsi prima che cercassero le impronte di Talia sulla tastiera della serratura. Non lo sa, ma ammette che ne erano passati parecchi. Gli chiedo se abbia una vaga idea di quanti agenti immobiliari potrebbero aver usato quella tastiera nel frattempo. Di nuovo, non ne ha la più pallida idea. «Ha pensato di chiedere all'imputata se si sia fermata a mangiare durante questo viaggio, all'andata o al ritorno?» «No.» «Capisco. Era più facile venire qui e dire a questa giuria che avete tentato di verificare l'alibi dell'imputata senza riuscirci, non è vero, detective Canard?» «No», obietta. «Abbiamo fatto un lavoro meticoloso. Abbiamo cercato di verificare l'alibi e non ci siamo riusciti.» «Però non avete mai chiesto all'imputata se si fosse fermata a mangiare da qualche parte, magari pagando in contanti... O magari non aveva fame,
magari voleva aspettare di arrivare a casa e cenare tardi con il marito. Non le avete mai fatto queste domande, vero? Eravate troppo occupati a supporre che fosse colpevole di omicidio perché non aveva pianto a comando.» «No.» «Obiezione, vostro onore. La difesa sta tormentando il teste.» Canard ha smesso di tentare di parare i colpi, di difendersi. Ora vuole solo andarsene. La miopia della loro indagine comincia a essere lampante. È il prezzo che la pubblica accusa paga quando vuole a tutti i costi inchiodare qualcuno in un caso importante. È la mia prima manche nel gioco del botta e risposta, la prima occasione di battere sul tasto della cieca ossessione della pubblica accusa nei confronti di Talia come unica possibile autrice del delitto. E dalle espressioni che vedo al banco dei giurati, alcuni di loro stanno già ascoltando la mia musica. 30. Terzo giorno di esposizione della tesi dell'accusa; intravedo con la coda dell'occhio una scena sinistra. Eli Walker, il decano del giornalismo spazzatura, e Jimmy Lama stanno conversando nel corridoio antistante l'aula. Lama, appoggiato alla parete, con una mano in tasca, sta fumando una sigaretta. Particolare più singolare, Walker sembra sobrio. Non è poi così strano: Walker e Lama a braccetto, il giornalista corrotto e il cattivo poliziotto, ciascuno a suo modo un emarginato dal rispettivo clan. Dopo la sfuriata sui gradini del tribunale, Lama non mi ha più detto una sola parola, non mi si è mai avvicinato. La sua scadenza è passata senza conseguenze; il suo ultimatum era solo una spacconata. Ho fatto un diligente sforzo per trovare Susan Hawley, più per prevenire ogni possibile critica da parte della Corte che per assecondare Lama, ma la signora sa come far perdere le sue tracce. Ho il sospetto che abbia levato le tende e si sia trasferita in un'altra città, forse in un altro Stato. Harry arriva con Talia. Da un po' di giorni le fa da scorta dall'ufficio all'aula, mentre io confondo le acque entrando da un'altra porta. Abbiamo l'impressione che gli squali delle notizie facciano meno domande, siano meno insistenti, se Talia e io non siamo assieme. Dopo la prima settimana, si tengono alla larga da Harry. Harry sa molto bene come trattarli, a forza di gomiti e ginocchia. Qualche cameraman comincia a pensare di aver avuto un incontro ravvicinato con Magic Johnson.
Ci facciamo largo fino all'aula, lasciando lo scalpore fuori della porta. Oggi Nelson chiama a deporre Willie Hampton. Il giovane custode è uno splendore: camicia nera e cravatta bianca, pantaloni con le pieghe, tessuto a sufficienza per una mongolfiera, e mocassini italiani, lati neri e mascherina bianca, a mo' di ghette. È pronto per salire in palcoscenico assieme a Michael Jackson. Questa volta Hampton è più sicuro di sé. Nessuna esitazione, nessun segnale palese da parte di Nelson su quello che ci si attende da lui. Hampton ha memorizzato bene il suo copione. Racconta alla giuria di aver trovato il corpo e di essersi recato con calma all'area della reception, dove ha chiamato la polizia. L'immagine che dipinge è di composta professionalità, quello che ogni amministratore condominiale sogna in un custode pagato quattro dollari e trenta cent l'ora. Senza mettergli le parole in bocca, Nelson ottiene da questo teste l'unico elemento critico, e cioè che Hampton udì la detonazione del fucile nell'ufficio di Ben alle otto e venticinque precise di sera: un'ora e venti minuti dopo l'ora del decesso fissata dal medico legale. Hampton ha i suoi quindici minuti di gloria. Nelson me lo passa, e io rinuncio al controesame. Regola cardinale del controinterrogatorio: non alzarti a parlare se non ne hai motivo. Hampton non ci ha recato alcun danno. Niente fallo, niente punizione. Lo lascio andare, e lui appare sollevato. Nelson chiama Mordecai Johnson, l'esperto che ha esaminato le prove, per parlare del sangue nell'ascensore e del capello che sembra appartenere a Talia, impigliato nel dispositivo di chiusura del fucile. «Il sangue nell'ascensore...» esordisce Nelson. «Dalla macchia di sangue lei è in grado di dire se il corpo si muoveva o veniva mosso?» «Sì», risponde Johnson. «Con ogni probabilità il corpo è stato spostato. Tutto lascia pensare che la vittima fosse già morta.» «E lei può affermare tutto questo da una sola goccia di sangue?» «Sì. Data la minima quantità di sangue caduta a terra, riteniamo che il cuore si fosse già fermato. Questo sangue non sembra fuoriuscito da una ferita che stesse ancora sanguinando.» Johnson chiede il permesso di usare un disegno, e l'usciere strappa un foglio di carta da un cavalletto appoggiato vicino al banco dei testimoni. Sotto appare il foglio col disegno. Con una bacchetta, Johnson esegue un commento dettagliato per la giuria. Il disegno è l'immagine di una gigantesca macchia nera su uno sfondo bianco candido, una goccia di sangue ingrandita in bianco e nero, una ri-
pugnante macchia di Rorschach. Attorno ai margini, a un lato della macchia, ci sono comete sottili come aghi che si irradiano dalla goccia principale. Johnson spiega alla giuria che le caratteristiche del bordo della goccia, le piccole comete, indicano la direzione di spostamento quando il sangue in caduta colpisce una superficie orizzontale liscia. Dall'esame della goccia rinvenuta nell'ascensore di servizio, Johnson può concludere che Ben era già morto, e che la goccia è caduta mentre il corpo veniva trasportato fuori dell'ascensore. Qualche cordiale domanda da parte di Nelson, poi Johnson depone la bacchetta e torna al banco. Rispetto all'udienza preliminare, hanno cambiato tattica sul campione di capello. Nelson ha fatto di tutto per puntellare questa prova determinante, uno dei pochi elementi che colleghino direttamente Talia alla scena del delitto. Quello che non sa è che anche noi abbiamo cambiato musica su questo argomento. «Agente Johnson, può dire alla giuria in quale modo avete scoperto questo capello?» «Durante l'esame di laboratorio sul fucile rinvenuto sulla scena del delitto, è stata condotta un'indagine di routine alla ricerca di fibre e capelli sull'arma.» «E cosa avete trovato?» «Un unico capello incastrato nella culatta del fucile.» «Ha avuto modo di confrontare quel capello con campioni presi dall'imputata, Talia Potter?» «Sì, abbiamo preso vari campioni dei capelli dell'imputata e abbiamo eseguito confronti al microscopio.» «E quali sono i risultati di questi confronti?» «Il capello trovato incastrato nel fucile corrisponde in tutto e per tutto alle caratteristiche rivelate al microscopio degli esemplari presi dall'imputata, Talia Potter.» Questa notizia provoca espressioni sgomente al banco della giuria. Parecchi giurati lanciano occhiate di chiara delusione a Talia. Robert Rath, il mio «fattore alfa», è seduto in seconda fila, distaccato, e studia il teste. «Agente Johnson, può cortesemente spiegare con esattezza alla giuria come era incastrato questo capello nel fucile?» Harry e io ci aspettavamo questa domanda. Nelson sta tentando di smantellare la nostra teoria secondo la quale non c'è nulla di strano nel fatto che un capello dell'imputata venga ritrovato su un oggetto normalmente conservato a casa sua.
Johnson si lancia in una conferenza sulle armi da fuoco. Sollevo un'obiezione: il teste non è stato qualificato come perito balistico. Nelson controbatte con una sfilza di corsi seguiti e credenziali guadagnate dal teste, compreso un periodo di servizio a Quantico, all'accademia dell'FBI, dove Johnson ha portato a termine un corso in balistica e armi da fuoco. Tutto questo è sufficiente per Acosta. «Se possiamo procedere, allora», dice Nelson. Come un disco rotto, Johnson ricomincia da dove era stato interrotto. «La maggior parte delle armi a canna lunga che si aprono alla culatta, compreso il fucile ritrovato sulla scena del delitto, hanno un meccanismo, chiamato blocco di culatta, che chiude ermeticamente la culatta quando l'arma è pronta per lo sparo. C'è una piccola lingua di metallo, all'estremità della canna verso la culatta, che si inserisce perfettamente in una scanalatura nella cassa dell'arma. Quando il blocco di culatta è chiuso, l'arma è pronta a sparare. Il capello è stato ritrovato nella scanalatura, tenuto fermo dalla lingua di metallo. Sporgeva verso l'interno della culatta.» Nelson ha una fotografia al microscopio, scattata con un obiettivo macro prima che il capello venisse rimosso dal fucile. Fa identificare la fotografia a Johnson, e la foto viene contrassegnata per una successiva introduzione fra le prove. «Secondo il suo parere professionale, agente Johnson, in base alla sua esperienza e al suo addestramento nelle armi da fuoco, è possibile che questo capello possa essere capitato per caso in quel meccanismo, diciamo quando l'arma era sulla rastrelliera o in una custodia a casa della vittima?» «No.» Johnson è deciso, immediato nella sua risposta. «Perché quel capello andasse a incastrarsi nell'arma nel modo in cui lo abbiamo trovato, era necessario che la culatta del fucile venisse aperta, che il capello in qualche modo vi si appoggiasse sopra, e che quindi il fucile venisse chiuso di nuovo.» «Come se l'arma venisse caricata e usata, è esatto?» «Esatto.» La giuria sta rivolgendo a Talia occhiate ancora più dure. In seconda fila, Rath è sempre impassibile. Nelson medita per un attimo, esplora ogni possibile via di fuga da queste conclusioni. «Agente Johnson, supponendo per amore di discussione che questo capello si sia casualmente incastrato nell'arma in precedenza, prima del giorno in cui il signor Potter venne ucciso, non è probabile che quando l'arma
venne aperta per caricarla prima di sparare il colpo nell'ufficio del signor Potter, il capello sarebbe caduto e quindi non sarebbe stato ritrovato sull'arma quando lei ha in seguito esaminato il fucile?» «È possibile», ammette Johnson. «Dipenderebbe da un certo numero di fattori, dalla quantità di olio o grasso presente sull'arma che avrebbe potuto trattenere il capello.» «Ma secondo lei non è possibile che questo capello possa essersi posato casualmente sull'arma in quella posizione?» Nelson torna su un terreno sicuro. «No.» «Grazie.» Con questo teste, Nelson ha fatto tutto il danno che poteva. Nel timore di porre una domanda di troppo e ribaltare la situazione, si siede. Mi alzo, con un blocco di carta in mano, qualche dozzina di domande. Senza troppa fatica riesco a far ripetere a Johnson l'ammissione che ha già fatto nell'udienza preliminare. Dice alla giuria che i capelli, a differenza delle impronte digitali, non posseggono un numero di caratteristiche specifiche sufficiente per poterli assegnare esclusivamente a un determinato individuo, o escludere tutti gli altri individui come possibile fonte di provenienza di un certo capello. Ammette di non poter sostenere con assoluta certezza che questo campione di capello appartenga a Talia. Lo interrompo prima che possa ripetere la sua opinione sulle somiglianze al microscopio. È chiaro che ci terrebbe a rafforzare l'idea agli occhi della giuria. «Agente Johnson, può dirci in quali condizioni era questo capello, quello ritrovato sull'arma?» Mi guarda, confuso. «Voglio dire, era rotto, la punta era spezzata, era perfettamente intero?» «Era in buone condizioni.» Lo dichiara come per assicurarmi che ha avuto un buon campione da esaminare, che non c'è nessuna base sulla quale impugnare la qualità della prova. «Non era né rotto né frammentato?» «No.» «Non le verrebbe addirittura da dire che questo capello fosse in condizioni straordinariamente buone, dato il trauma che doveva aver sofferto, e cioè restare impigliato nel meccanismo del fucile dopo essere presumibilmente stato strappato dalla testa?»
«Era in buone condizioni.» Johnson resta fedele alla risposta originale. Non capisce dove io lo voglia portare. Risulta che i capelli abbiano un ciclo di vita, proprio come gli esseri umani. Harry e io ci siamo dati un gran daffare a studiare i follicoli. In modo simile a tante altre cose pertinenti alla scienza, questo ciclo viene suddiviso in fasi. Nella fase finale, o telogeno, prima di cadere, il capello è completamente maturo ed è ancorato al follicolo solo dalla protuberanza dell'estremità della radice, come un bulbo oculare nell'orbita. Sotto questa protuberanza sta già cominciando a formarsi il nuovo capello anagene. Quando il capello vecchio cade, il nuovo capello comincia a sostituirlo, e il ciclo inizia da capo; però non per Harry, il quale sostiene che i suoi follicoli hanno finito le cartucce. Faccio fare a Johnson un giretto verbale. Conferma che questo canovaccio è sacrosanto nella vita di un capello umano. «Agente Johnson, può dirci se il campione di capello ritrovato nel meccanismo di chiusura del fucile comprendesse la parte conosciuta come 'radice telogenica'?» È l'estremità con protuberanza del capello. Chiede che gli venga ridata la fotografia e la esamina. La radice c'è, grande come un macigno. «Sì, la comprendeva.» «Questa radice telogenica era completamente intatta?» «Sì.» «Non è strano trovare la radice telogenica di un capello che, come in questo caso, si suppone sia stato strappato a forza dalla testa?» «Potrebbe succedere.» «Non è quello che ho chiesto. Io le ho chiesto se non sia inconsueto trovare la radice telogenica ancora attaccata a un capello strappato violentemente dalla testa.» «Immagino di sì», ammette Johnson. Un'ammissione riluttante. «Sì.» «Non è più probabile che questa radice si stacchi da sola, magari sotto l'azione di una spazzola o un pettine, all'approssimarsi della fine del suo ciclo vitale, e che un capello che venga strappato dalla testa sia con ogni probabilità frammentato, spezzato?» Johnson fa un po' di smorfie: un viaggio mentale alla ricerca di eccezioni a questa norma. «Sì», concede, «sarebbe normale.» «Non sarebbe molto più probabile, se questo capello si fosse davvero incastrato nell'arma e fosse stato strappato a forza dalla testa di Talia Potter,
rinvenirlo frammentato, spezzato in un punto al di sopra della radice?» «È possibile.» «Non le sto chiedendo se sia possibile. Le sto chiedendo se non sia di fatto più probabile.» «Non saprei», dice. Un pizzico di evasività. «Non ritiene possibile, agente Johnson, che se qualcuno voleva che la polizia o questa giuria credessero che Talia Potter abbia usato quell'arma il giorno in cui Ben Potter venne ucciso, quel qualcuno avrebbe benissimo potuto prendere un capello da una spazzola o da un pettine che appartenevano all'imputata, per poi collocarlo nell'arma?» Il teste fa una smorfia, come se l'ipotesi fosse pura fantasia. «È o non è possibile, agente Johnson?» «Possibile», ripete. «In base alla sua stessa deposizione, agente, questa teoria, e cioè che qualcuno possa avere sistemato il capello sull'arma, non è forse più coerente con le prove concrete scoperte sulla scena del delitto, rispetto alla teoria proposta dalla pubblica accusa secondo la quale il capello rimase intrappolato nell'arma dopo essere stato strappato dalla testa?» A questo, Johnson resta di sasso. «Non capisco la domanda», balbetta. Sta attendendo segnali da Nelson. Mi frappongo col corpo tra i due. «Agente Johnson, in base a questo unico capello, considerando le sue condizioni e la presenza della radice telogenica, non è più coerente credere che qualcuno possa aver messo il capello nel fucile, anziché pensare che sia stato strappato dalla testa dell'imputata? È semplicissimo.» «Non so se posso trarre questa conclusione.» «Però può sedere al banco dei testimoni e giungere alla conclusione... fare un balzo quantico... che questo capello sia rimasto impigliato nella culatta e sia stato strappato dalla testa dell'imputata quando quest'ultima ha presumibilmente usato l'arma per uccidere il marito?» A queste parole Johnson non offre alcuna risposta. Insisto, a costo di correre rischi. «Agente Johnson, se in questo preciso istante io dovessi allungare una mano e strapparmi un capello dalla testa, lei si aspetterebbe di trovare la radice telogenica attaccata al capello se lo esaminasse al microscopio?» Mi guarda e non risponde. «Agente, se preferisce possiamo chiamare il nostro perito, un medico, se vuole, per la risposta a questa domanda.»
«No», afferma infine. «Non mi aspetterei di trovare la radice attaccata.» «E perché?» «Perché nella maggior parte dei casi il capello si frammenterebbe, si spezzerebbe sopra la radice.» «Grazie.» Johnson fa per alzarsi. «Non ho ancora finito.» Si risistema sulla sedia. «Agente, nel corso della sua precedente deposizione lei ha affermato che questo capello era impigliato nella culatta del fucile. È esatto?» Fa una smorfia. Non è del tutto a suo agio. «Sì.» «Vuole dare un'altra occhiata alla fotografia per rinfrescarsi la memoria?» «Non è necessario.» «Le spiace guardare la fotografia, agente Johnson?» Lui la studia di nuovo. «Da quanto ha potuto osservare quando ha rimosso il capello, una parte si trovava all'interno della culatta dell'arma?» «Sì», risponde. Sarebbe difficile negarlo. La verità è davanti a lui a colori sgargianti: quattro centimetri di capello che occupano la culatta aperta. «Quindi una parte di questo capello si sarebbe trovata nella zona direttamente dietro o attorno alla cartuccia, nella culatta?» Annuisce, emettendo più un educato grugnito che una risposta. Il segno di un teste che non vuole sbilanciarsi. «Quando lei ha esaminato l'arma, c'erano cartucce in entrambe le canne?» «C'era il bossolo di una sola cartuccia. L'altra canna era vuota. A quella distanza, sparando in bocca», dice, «basta un colpo.» Qualche risatina morbosa dal pubblico. «Quindi, a quanto pare, l'arma non è stata scaricata dopo avere sparato?» «No», risponde Johnson. «Abbiamo già stabilito che questo capello era in buone condizioni. Ne deduco che non fosse strinato, che non avesse bruciature in nessun punto.» Guarda di nuovo la fotografia: il capello intatto, ingrandito un centinaio di volte, quasi trasparente nella sua lucentezza sulla carta. «No.» «Non c'era alcun segno di strinatura o bruciatura?» «No.»
Vedo dai suoi occhi che ora intuisce dove sto andando a parare. «Lei ha stabilito in precedenza di essere qualificato come esperto di armi. In base alle sue conoscenze, non è vero che quando un'arma spara emette gas surriscaldati, e che quei gas si propagano nella culatta dell'arma?» C'è un lungo sospiro. «È vero.» «Allora, agente Johnson, in che modo spiega l'assenza di bruciature o strinature su quel campione di capello?» C'è una lunga pausa, del tipo che attira l'attenzione del giurato. «Non lo so», sbotta Johnson. La cosa sembra chiaramente sorprenderlo. Forse è arrabbiato con se stesso per non avere mai preso in considerazione il problema. «Una possibile spiegazione non potrebbe essere che il capello non ci fosse quando è stato sparato il colpo, ma che invece sia stato messo lì dopo?» «Non lo so.» «È lei l'esperto, agente. Non è una spiegazione possibile?» «Sì», ammette. «È possibile.» «Grazie.» Adesso ho concluso. Sono in estasi. Cerco di restare con i piedi per terra mentre torno al tavolo della difesa. Harry sta facendo sforzi disumani per trattenere un sorriso raggiante. Talia non ci riesce. Mi afferra per il braccio quando mi avvicino alla sedia. Nelson si sente inchiodato; non può lasciare le cose come stanno. Sa che, se il vento non cambia, potrebbe non sopravvivere a una richiesta di proscioglimento al termine della sua esposizione. C'è un'impetuosa consultazione al tavolo dell'accusa, fra Nelson e Meeks. «Controinterrogatorio?» chiede Acosta. Nelson si alza e si avvicina al banco dei testimoni. «Agente Johnson, secondo la sua deposizione soltanto una canna del fucile fu trovata carica, è esatto?» «Sì.» «Allora non è possibile che il capello in questione possa essere entrato nella canna vuota, e che questo possa spiegare perché non era bruciacchiato o strinato?» Johnson ha un'aria sofferente: sembra che abbia appena visto cadere un amico. «Non credo proprio», dice.
Negli occhi di Nelson c'è l'espressione attonita che segnala un guaio molto concreto. Spinto dalla disperazione, ha violato la regola cardinale: mai fare una domanda se non sai già la risposta. Ma è troppo tardi per fermarsi. La giuria sta aspettando il seguito. «Perché?» chiede. «Il fucile in questione era a canne sovrapposte. Due canne l'una sopra l'altra, non affiancate. Il colpo è partito dalla canna superiore.» Il dilemma di Nelson è dolorosamente ovvio a chiunque abbia seguito questo piccolo scambio di frasi. Il capello non avrebbe potuto raggiungere la canna inferiore, vuota, senza che una sua parte passasse attraverso la canna superiore, bollente. Non riescono a spiegare perché il capello non sia bruciacchiato, fritto come un croccante tagliolino cinese. 31. Il telefono sta squillando. Sabato mattina. Mi rotolo, solo, fra le lenzuola. Sono in uno stato di semistordimento. La tetra alba grigia penetra dalla garza bianca che Nikki chiamava tende e che ha appeso alla finestra della nostra camera da letto. Intontito, afferro il ricevitore e mi stropiccio via il sonno dagli occhi. «Pronto.» «Hai visto i giornali?» Una voce femminile, ostile, fredda, come un esattore di crediti con le zanne affondate in qualche poveraccio. È Nikki. «Che ore sono?» «Le nove passate. Hai visto il giornale di oggi?» «No.» «Farai meglio a dargli un'occhiata», dice. Poi mette giù, uno scatto secco al mio orecchio. Mi giro e appoggio il ricevitore sulla cornetta. È sabato mattina. Concedetemi una tregua. Gemendo, comincio ad alzarmi. Prima che mi riesca di trovare le ciabatte, suona il campanello. Una dozzinale imitazione dello scampanio di Westminster, con qualche nota mancante. Un'altra cosa da riparare. Percorro il corridoio ripassando il mio repertorio di bestemmie. Allaccio la vestaglia e cammino a piedi scalzi verso la porta, inciampando in biancheria sporca e scarpe abbandonate. Giorno di bucato. Controllo dallo spioncino prima di aprire: una piccola precauzione, un obbligo per un pe-
nalista. George Cooper, la testa trasformata in un ovale distorto sormontato da un cappello a punta, è in piedi sui gradini, sotto una pioggerellina leggera. Tiro il catenaccio e apro. «Coop, figlio di puttana», esclamo. Un sorriso contraffatto sul viso, come per dire che sono felice di vederlo a quest'ora di sabato mattina. «Brutto momento?» chiede lui. «Posso tornare dopo.» Sbadiglio, mi stiracchio. «Non dire fesserie.» Adesso sono sui gradini accanto a lui, cerco il giornale del mattino. Non si vede. Tempo umido e piovoso. È molto probabile che il ragazzo lo abbia gettato di nuovo fra i cespugli. Lo fa sempre, quando il tempo è umido e piovoso. Sono stato buono, non mi sono mai lamentato, sperando che l'involucro di plastica rovini le sue intenzioni. «Pensavo volessi questa roba», dice Coop. Tiene una grossa busta sotto il braccio, all'interno dell'impermeabile, al riparo dagli elementi. La apre; sembra la bocca di un pesce. Dentro ci sono foglietti di carta, striscioline minuscole. Speravo in una migliore organizzazione. «Per le tasse?» chiedo. Annuisce. Gli volto le spalle e mi dirigo verso la cucina. «Vieni dentro. Chiudi la porta.» Coop sa che non dovrebbe essere qui. È un teste chiave per l'accusa. Se Nelson lo sapesse, gli farebbe saltare i fondelli. Abbiamo dovuto sospendere i nostri saltuari pranzi assieme, gli incontri due o tre volte al mese in un ristorante messicano che noi chiamiamo il «Chevy '57»: séparé stile Naugahyde, intagliati dai coltelli e macchiati di salsa piccante e formaggio fuso. Gli ricordo che non dobbiamo vederci. Lui è d'accordo. Una visita di cortesia, insiste. «Un processo non sospende il primo emendamento, no?» ironizza. «Libertà di associazione.» Gli dico che questi sono concetti elevati, ignoti ad Armando Acosta, i cui antenati hanno perfezionato lo stritolapollici e hanno scoperto di quale utilità possa essere il piombo liquefatto versato nell'orecchio umano. Nonostante le sue invocazioni dei diritti fondamentali, Coop ha tanto buonsenso da venire qui, a casa mia, un posto dove nessuno ci vedrà. «Caffè?» gli chiedo. «No, se lo devi fare per me.» Dopo avermi tirato giù dal letto, è troppo educato per disturbarmi.
«Credimi, lo devo fare.» In cucina, sotto la fredda luce al neon, la mia faccia è una selva di barba lunga. «Hai fatto le ore piccole?» chiede. «Harry ha voluto celebrare», gli rispondo. «È contento di come sta andando il processo.» Abbiamo chiuso la settimana su una nota positiva. Nelson ha chiamato a deporre il suo esperto balistico. Il teste ha confermato che gli esami condotti sulla piccola pistola trovata a casa di Talia non sono riusciti a stabilire un legame preciso con il frammento di proiettile rinvenuto nel corpo di Ben. La pubblica accusa è stata costretta a farlo, per impedirci di segnare punti su questo argomento durante l'esposizione della nostra tesi. Non avrebbe fatto bella impressione, nasconderlo alla giuria. Nonostante tutto il suo esercito di periti balistici, Nelson è riuscito soltanto a rendere noto alla giuria che l'imputata poteva disporre di un'arma di quel tipo. Il suo grosso problema è che in questa città le pistole che potrebbero avere sparato il proiettile e il frammento sono sufficienti per armare la legione straniera, un punto sul quale abbiamo insistito come Dio comanda nel controinterrogatorio. Dopo la seduta, Harry e io siamo andati a piedi al Cloakroom, e lì, verso l'ora di chiusura, siamo finiti sotto il tavolo. Non so bene se sia stato davvero un festeggiamento o un semplice sfogo di tensione. Tutti e due non avevamo più toccato alcool dall'inizio del processo. «Allora deduco che le cose stanno andando bene?» Coop è stato esiliato dal processo, chiuso fuori. Testimoni e periti sono esclusi dall'aula per ingiunzione del giudice. Questo per impedire che si influenzino a vicenda con le loro deposizioni. Nella tensione di un processo, la suggestione è un potente ipnotico. Lo informo che sta andando meglio di quanto potessimo aspettarci, ma non gli fornisco alcun dettaglio, niente che possa compromettermi, che possa fornirgli un vantaggio quando dovremo affrontarci in aula. È chiaro che a Coop l'idea non è molto gradita, il fatto che dobbiamo darci battaglia davanti al giudice e alla giuria. Mi dice che in questo modo gli amici rischiano di raffreddare il loro rapporto. «È una questione professionale», gli spiego. «Tu fai il tuo lavoro, io faccio il mio. Quando è tutto finito, non ci pensiamo più. Semplicissimo.» A queste parole fa una smorfia, come se le avesse già sentite in passato da altri amici. Stamattina Coop sembra cupo, giù di corda. Lo attribuisco al motivo della sua visita, l'eredità di Sharon.
Ha un giornale arrotolato nella tasca dell'impermeabile. Lo indico con un cenno. Mi sembra meglio che strisciare a quattro zampe attorno a un cespuglio di ginepro bagnato. «È il giornale di oggi?» chiedo. Sto pensando alla telefonata di Nikki. «Il giornalino pubblicitario dei supermarket», risponde. Ha messo la busta sul piano della cucina. Pare che dovrò proprio andare in cerca del giornale fra i cespugli. Sto riempiendo il filtro di carta con il caffè macinato. Nero e fangoso, ricetta di Jo Ann Campanelli. «Penso che ci sia tutto», dice Coop. Sta aprendo la busta. È piena fino all'orlo di ricevute, le carte che servono a Peggie Conrad per chiudere la dichiarazione dei redditi conclusiva di Sharon. «Qualcosa di nuovo nelle indagini?» gli chiedo. Scuote la testa. «Niente.» Coop è conciso. Non vuole parlarne, ma il messaggio è chiaro. L'uomo della scientifica che la polizia gli ha prestato per passare al setaccio l'auto di Sharon ha fatto un buco nell'acqua. Questo significa che il caso è a un punto morto. Il contribuente medio non crederebbe mai al numero di casi irrisolti che affliggono la maggior parte dei dipartimenti di polizia di questo Paese. Stando così le cose, il guidatore dell'auto di Sharon può rilassarsi. «L'altra cosa», prosegue, «lo scontrino. Ho guardato. Non ce n'è traccia. Così ho chiamato il ferramenta. Un vecchio tostapane. Sharon deve averlo lasciato lì per farlo riparare. Lascia perdere.» Coop ha già troppe cose di Sharon attorno a sé, a ricordargli il suo dolore. Lo prendo in parola. La macchina del caffè sta emettendo rumori sinistri. Il piccolo foro in alto gorgoglia mentre la poltiglia gocciola nella boccia. Coop sta girovagando in cucina in cerca di qualche boccone, qualcosa da mettere sotto i denti. Stacca un pezzetto di pane da una pagnotta rafferma che sta sul banco e si mette a masticare. «Raccontami del caso, delle tue piccole vittorie.» Lo guardo di sbieco. «Perché non mi chiedi cosa ho intenzione di fare quando Nelson ti chiamerà a deporre?» «D'accordo. Cosa hai intenzione di fare?» Gli rivolgo un sorriso grosso così. Non capisco se stia scherzando o se semplicemente abbia una gran faccia tosta. «Fatti un favore», dice. «Invoca la clemenza della Corte.» «Neanche per sogno», gli rispondo. «Non ho sudato sangue per la scelta
della giuria per poi darmela a gambe. Nelson è allo sbando. Se ci fossi stato, lo sapresti. La sua situazione ha tutti i segni di una disfatta.» Sta tirando fuori il giornale dalla tasca, il giornalino pubblicitario, e lo stende sul tavolo della cucina per leggerlo. «Fai colazione?» gli chiedo. «No, grazie», risponde Coop. «Penso che forse ti interesserà vedere questo, prima di mangiare. Potresti perdere l'appetito.» Ha sistemato il giornale sul tavolo, e ci ha messo sopra la pagnotta per tenerlo fermo. Riesco a vedere soltanto la testata e una firma. The Camp Town News è un giornalino usato dai supermercati per pubblicizzare le offerte di tonno e maionese. La firma è quella di Eli Walker. Questo è uno dei fogliacci locali che ancora comprano la colonna «di agenzia» di Walker e la mettono in prima pagina, neanche si trattasse di notizie importanti. Tutta la stampa rispettabile a grande diffusione non vuole più saperne di lui. Pare che Eli finisca sempre abbracciato a una bottiglia e non sappia più rispettare le date di consegna. Coop si taglia un'altra fetta di pane, afferra la pagnotta e la mette vicino al lavandino. Il titolone a quattro colonne colpisce il mio sguardo come Mosè è stato colpito dall'infuocato dito di Dio sul Sinai: AVVOCATO IMPLICATO NELL'OMICIDIO POTTER La storia è coperta da copyright. Coop mi scruta impassibile, come per dire: «Leggi». Punto lo sguardo sull'inizio dell'articolo, sui primi paragrafi: CAPITOL CITY. In un'esclusiva a questo reporter, fonti vicine al gruppo che indaga sull'omicidio del quale è accusata Talia Potter hanno identificato Paul Madriani, avvocato della difesa nel caso Potter, come uno degli uomini con i quali la signora Potter ha avuto una lunga e importante relazione extraconiugale nel periodo precedente la morte del marito. La polizia sta cercando da mesi un complice non identificato che si ritiene abbia agito di concerto con Talia Potter per uccidere Benjamin G. Potter, il noto avvocato. Fonti di Washington hanno rivelato che, prima della sua morte, Potter era il maggior favorito per la nomina alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Un fiotto di adrenalina. Sulla mia faccia appare un sorriso cretino, tipo
quelli che si vedono nei film un secondo dopo il sibilo della freccia che si conficca nel petto del personaggio. «Cristo», impreco. È tutto quello che mi viene in mente. «Allora è vero?» chiede Coop. Io non l'ho detto, ma lui ha tratto le proprie conclusioni. Non è affatto sorpreso. Per George Cooper, l'articolo di Eli Walker non rappresenta una rivelazione. Forse mi sbaglio, ma credo sospetti da tempo che il mio rapporto con Talia, oggi esclusivamente di lavoro, possa essere stato qualcosa di più in un passato recente. «Questo è uscito ieri sera?» gli chiedo. Annuisce. «Che effetto sta facendo?» Posso sperare che, venendo da Walker, la stampa seria stia trattando questo materiale come cibo offerto da un paria. «Il Journal e il Trib hanno pubblicato la notizia stamattina, tutti e due in prima pagina. Dovrebbe arrivare in televisione stasera, al notiziario delle sei», mi risponde. Eli Walker si starà prendendo la sbronza più gigantesca della sua vita, sognando di riconoscimenti televisivi, il suo nome alla ribalta. Torno al tavolo e leggo un altro pezzo. È scottante, una strabiliante serie di congetture, tutte ottenute da persone accomunate sotto l'etichetta generica di «fonti estremamente attendibili». La cosa ancor più irritante è che Walker, in modo deliberato o per caso, si è avvicinato di molto alla verità. Solo Duane Nelson è citato per nome. Si è limitato a un unico e secco: «No comment». Nelson ha preso molto sul serio l'ordine di silenzio stampa imposto dalla Corte, anche se non si può dire lo stesso di parte del suo personale. Non vengono fatti nomi, ma riesco lo stesso a individuare qualcuno dei suoi uomini. Secondo l'articolo, un testimone imprecisato mi ha identificato come uno dei tanti uomini che in un arco di alcuni mesi sono stati visti prendere una stanza in un motel locale in compagnia di Talia. Il nome del motel non è specificato, ma Walker sostiene che il teste si presenterà al processo. L'impiegato di motel scovato da Lama. Jimmy Lama ha tenuto fede alle sue minacce. Mi ha legato a un formicaio. Passo le mani sull'orlo del giornale. Se questo articolo viene incluso fra le prove, la giuria mi concederà tutta la credibilità che darebbe a un venditore di olio di serpente. Un'altra fonte non identificata ha raccontato a Walker che io sono stato licenziato dallo studio quando Ben Potter ha scoperto che avevo una relazione con sua moglie. Evidentemente, il Greco è riuscito a mettere assieme
tutti i pezzi, almeno quanto basta per tirare a indovinare sui motivi che mi hanno spinto a lasciare lo studio, e lanciare le sue accuse, non provate, dal suo bunker di anonimato. Guardo Coop. La mia espressione è quella di un bambino alla ricerca di un padre confessore. Provo il bruciante desiderio di parlare, il prepotente impulso di sgravarmi la coscienza su una spalla comprensiva, un orecchio amico. Lui lo intuisce. Le sue mani sono sulle mie spalle, la sua faccia vicina alla mia. «Non posso ascoltarti», mormora. «Non ora.» Non è arrabbiato. Mi sta proteggendo. Nelson può costringerlo a ripetere in aula tutto quello che sa, tutto quello che gli dico. E lui lo sa. In questo momento di panico, la mia lucidità di avvocato mi abbandona. Coop sta pensando da avvocato più di quanto non riesca a fare io. «Perché non tiri i remi in barca?» chiede. «Se la giuria lo viene a sapere, se Nelson riesce a far includere l'articolo tra le prove, lei è finita.» Le sue parole hanno un tono definitivo. «E tu puoi andare a fondo con lei. Patteggia ora.» «Che tipo di patteggiamento riuscirei a ottenere dopo questo?» Con una mano, spazzo via il rotocalco dal tavolo, lo butto sul pavimento. «L'unica cosa peggiore di un imputato colpevole», mi rammenta Coop, «è un imputato colpevole rappresentato da un avvocato in disgrazia.» La telefonata di Nikki. Ha visto la notizia. Devo parlare con Nikki. «Cosa posso risponderti?» chiedo. «Niente.» Adesso voglio solo che se ne vada, così potrò telefonare a Nikki. Per lei, essere a conoscenza della mia relazione è un conto. Vedersela sbattere sul muso, essere umiliata in pubblico sulla stampa, è tutta un'altra faccenda. L'ironia è che Nikki è l'unica persona con la quale potrei impunemente mettere a nudo la mia anima, da marito a moglie. Ma temo che non vorrà sentire. Coop si sta avviando alla porta. Mi consiglia di nuovo di chiedere un patteggiamento, e mi rimprovera un po'. «Il buonsenso avrebbe dovuto dirti di non accettare il caso, almeno per lei, se non per te.» Ovviamente ha ragione, ma adesso voglio solo che se ne vada. «Cosa farai?» mi chiede. «Non so. Parlerò con Harry, con il giudice. Valuterò i danni», gli rispondo. «Ho bisogno di pensare.» «Se c'è qualcosa che posso fare per te», dice, «entro i limiti consentiti...»
Ha tirato fuori la pipa, pronto a inquinarmi la casa. Lo ringrazio e lo spingo più vicino alla porta. «Non dimenticarti di dare un colpo di telefono a quella donna, a quell'assistente legale», mi ricorda mentre chiudo la porta. «Dille di lasciare perdere lo scontrino e il ferramenta.» «Sicuro, sta' tranquillo», gli rispondo. È l'ultima cosa che io abbia in mente. Mi lancio sul telefono e faccio il numero di Nikki. È occupato. Le amiche hanno cominciato a chiamare, le donne del suo giro, tutte a dare addosso alla mia carcassa. 32. Eli Walker avrà forse sognato la gloria, ma mai, nei suoi momenti di maggiore sobrietà, se la sarebbe aspettata. Siamo di nuovo nello studio privato del giudice, Nelson e Meeks, Harry e io, Acosta e la stenografa del tribunale. Walker ha il posto d'onore, a fianco del suo avvocato, direttamente di fronte alla scrivania del giudice. Acosta gli sta dando una lavata di capo. Gli tiene una lezione sugli ordini di silenzio stampa e su come funzionano. Anche se l'ordine della Corte non vincola direttamente Walker, gli è stato trasmesso un mandato di comparizione per rispondere ad alcune domande, fuori della portata delle orecchie della giuria. Nocedicocco vuole conoscere l'identità di alcune delle fonti di Walker, soprattutto di quelle indicate come vicine alle indagini. Il giudice ha dedotto che queste persone facciano parte del gruppo dell'accusa e che quindi siano vincolate dall'ordine di silenzio. Eli sta sfruttando al massimo questa notorietà. Ha fatto la sua comparsa in tribunale, passando attraverso il fuoco incrociato delle macchine fotografiche nel corridoio antistante l'aula: una lenta processione, neanche indossasse l'ermellino e avesse in mano lo scettro. Ora conferisce con il suo avvocato, mano a coppa sull'orecchio, come un boss della mala a un'udienza davanti al Senato. Queste pagliacciate stanno cominciando a dare sui nervi a Nocedicocco. Dalle sue orecchie esce un fumo mentale. L'avvocato di Eli informa Acosta che Walker rivendica la «legge scudo» dello Stato: le informazioni sono confidenziali, Walker non può essere costretto a rivelare l'identità dei suoi informatori. Equivale a sventolare una bandiera rossa sotto il naso di un toro infuriato.
«Signore.» Acosta sta ora guardando l'avvocato di Eli. «Lei sta camminando su un ghiaccio molto sottile. Continui di questo passo, e forse si troverà a dividere una cella con il suo cliente.» Sta parlando di oltraggio alla Corte, l'arma decisiva di ogni giudice. La «legge scudo», il cosiddetto «privilegio del cronista», occupa una sola sezione dei codici. È passata grazie alle pressioni di corridoio degli editori dei giornali, promulgata dai politici e schernita dalla magistratura, che l'ha fatta a pezzi a furia di eccezioni in una dozzina di sentenze. È quello che succede quando il ramo legislativo tenta di limitare i poteri e le prerogative di chi indossa la toga. La padronanza dei cavilli legali dimostrata da Acosta in questo frangente mi induce a pensare che abbia trascorso il fine settimana, da quando è uscito l'articolo di Walker, a studiare casi analoghi e passare al setaccio la legge. Sta gettando le fondamenta per gli atti, parlando con voce sommessa e usando termini limpidi che un bambino di due anni potrebbe capire, con un occhio all'appello, nel caso Walker scegliesse di andare in prigione piuttosto che parlare. «Per evitare ogni malinteso, signor Walker, la 'legge scudo', è soltanto un privilegio limitato», dice Acosta. «Il che significa che laddove, come in questo caso, sia in gioco l'equità di un processo, deve cedere il passo. In breve, la 'legge scudo' non si estende a proteggere queste fonti. Ha capito?» Altre consultazioni, fra Walker e il suo avvocato. «Vostro onore, il mio cliente vorrebbe collaborare, ma non può.» «Non può o non vuole, avvocato? Mi sta dicendo che non conosce l'identità delle sue fonti?» Trattandosi di Walker, non stenterei a crederlo. «No, vostro onore. Glielo impedisce l'etica professionale.» Questo invece non riesco a crederlo. «Non può, in tutta coscienza, rivelare l'identità di queste fonti.» Nelson, seduto in un angolo, è furibondo. Tutto lascia pensare che abbia messo a soqquadro il suo ufficio alla ricerca del colpevole. È stato preso in contropiede quando l'impiegato del motel mi ha identificato, la settimana scorsa, da una foto d'archivio trasmessa in televisione. Presumibilmente, il teste non avrebbe dovuto guardare i notiziari. Io sono qui a chiedermi quanti giurati abbiano visto l'articolo di Eli Walker. È difficile far osservare l'ordine della Corte che imporrebbe loro di coprirsi gli occhi. Somiglia al guardare l'acqua che si trasforma in vapore: puoi anche non scoprirne
mai la causa, vedi soltanto il risultato, in questo caso una veloce condanna. Potrei dare a Nelson un piccolo aiuto nella sua ricerca della talpa, indicargli la direzione giusta, ma stamattina il procuratore distrettuale mi guarda come se fossi spazzatura. Anche Acosta è urtato dal fatto che io mi sia lasciato compromettere in questo modo, non perché si preoccupi per la mia reputazione, ma per paura che questo disgraziato episodio possa risultare in un vizio procedurale. La Corte sta tenendo d'occhio i dieci giorni di tempo e soldi buttati via, e tutta la pubblicità negativa che accompagnerebbe la sospensione del dibattimento. Per non parlare dei mesi di preparazione. Non è qualcosa che Acosta desideri nel curriculum della sua carriera di magistrato, qualcosa che possa portare a ulteriori promozioni. Alcuni giudici sono orientati a favore della difesa, altri dell'accusa. Armando Acosta ha un solo partito che voglia far prosperare: se stesso. È deciso a scoprire i responsabili di queste indiscrezioni e a punirli come meritano. «È questa la sua ultima risposta, signor Walker?» Eli annuisce. «Deve parlare a voce alta per gli atti.» «Sì, vostro onore. Ho degli obblighi nei confronti della mia professione. Non posso dirglielo.» Parla in tono nobile, come George Washington parlava a suo padre dell'albero di ciliegie. Chissà se il suo avvocato lo ha informato che non servono liquori nella prigione di contea, nemmeno nella stanzetta relativamente passabile riservata ai pensionanti d'alto bordo. In quarantotto ore l'etica cederà il passo al delirium tremens: se conosco Eli, e del mio intuito mi fido, consegnerà Lama a Nocedicocco. «Allora lei non mi lascia altra scelta, signor Walker. La accuso di oltraggio alla Corte e la affido alla custodia dello sceriffo di contea per un periodo di tre giorni, al termine dei quali ci ritroveremo per conferire di nuovo. Non ci resta che sperare che a quel momento lei sarà rinsavito.» «Vostro onore, chiedo che al mio cliente sia concesso di restare in libertà, in attesa di appello per l'ordine della Corte.» «Richiesta respinta.» All'avvocato occorreranno minimo tre giorni per arrivare alle Corti d'Appello con la richiesta di rimedi straordinari. L'avvocato chiede l'assicurazione che Walker non venga messo in una cella comune, assieme ad altri detenuti. In quel suo modo inimitabile, Aco-
sta lo rassicura che Eli non sarà violentato, poi fa un cenno all'usciere, segno che per Eli è giunta l'ora di andare. L'usciere lo conduce fuori per un braccio. Attraverseranno l'aula e scenderanno alle celle del Palazzo di Giustizia. L'avvocato di Walker si allontana lentamente, torna in aula e raggiunge il corridoio, per raccontare alla folla, all'orda dei media, quello che il loro eroe ha fatto. «E ora passiamo ad argomenti più urgenti», annuncia Acosta. «Cosa facciamo con il suo teste, signor Nelson?» Prima che Nelson possa aprire bocca, Harry si alza dal suo divano e presenta mozione perché il processo venga inficiato per vizio di procedura. Abbiamo concordato che sia Harry a gestire questa faccenda, per disinnescare l'ovvia rabbia di Acosta nei miei confronti, e per eliminare il sospetto che io voglia autogiustificarmi, data la sgradevole situazione in cui mi trovo. «Grazie, signor Hinds. Prenderò in esame la sua mozione. Però adesso vorrei sentire cosa ha da dire il procuratore distrettuale, se non le spiace.» Harry si rimette a sedere. Noi due sembriamo fermalibri sul divano di Nocedicocco. «James Preston ha chiaramente identificato il signor Madriani come uno dei numerosi uomini che sono stati visti fermarsi con l'imputata all'Edgemont motel», dice Nelson. «E con ciò?» chiede Harry. Acosta gli lancia un'occhiata che bloccherebbe un toro alla carica, ma non Harry Hinds. È di nuovo in piedi: sembra un pupazzo a molla. «Non c'è niente, nemmeno un briciolo di prova che colleghi il signor Madriani al delitto. Questi sono puri e semplici pettegolezzi. L'accusa è nei guai, e così cerca di mettere sotto processo le passioni dell'imputata, di screditare il suo avvocato», dice. «Avvocato Hinds, l'avviso che quella cella...» ribatte Acosta. «Quella che al momento è occupata dal signor Walker, è grande a sufficienza per due. Si sieda e stia zitto.» Questo fa ripiombare Harry sul divano. Acosta guarda la stenografa. «Tolga dagli atti le ultime frasi. Dalla parte riguardante la cella in poi.» La stenografa fissa Nocedicocco, come se queste non fossero cose da farsi. Acosta le scocca un'altra occhiata raggelante, e le dita della stenografa prendono a battere sui tasti della macchinetta. La storia viene riscritta. Nelson azzanna le argomentazioni di Harry. «Questa è una prova perti-
nente e rilevante», sostiene. «È qualcosa che la giuria dovrebbe sentire. Un dato sul quale si dovrebbe permettere alla giuria di giungere alle proprie conclusioni.» Cerca di indorare la pillola per Acosta, assicurandogli che la pubblica accusa non si soffermerà eccessivamente sulla mia mancanza di discrezione. Sa bene quanto me che un unico accenno a questa faccenda segnerà per sempre il destino di Talia agli occhi della giuria. Sarebbe come se all'improvviso saltasse fuori il diavolo a difendere la sua causa. Ammette che io sono soltanto uno di una lunga serie di uomini che il suo teste identificherà come coloro che hanno frequentato il motel con l'imputata. Ciò che vogliono mettere in evidenza, dice alla Corte, non sono le mie debolezze, bensì la sequela di infedeltà di Talia. «Il fatto che l'imputata fosse impegnata in attività extraconiugali spiega il suo atteggiamento mentale», continua Nelson. «Il motivo per cui voleva porre fine a quello che era chiaramente un matrimonio insoddisfacente.» Acosta riflette su queste parole alcuni secondi, soppesando i pro e i contro del ragionamento. «Adesso tocca a lei», annuncia. Harry fa per alzarsi. «No, no. Non lei», dice il giudice. «Lui.» Nocedicocco concentra tutto il disprezzo possibile in questo pronome personale, gesticolando nella mia direzione con il dorso della mano. Mi vuole vedere con il cilicio e il capo cosparso di cenere. Mi alzo, inciampando verbalmente. La cosa più difficile che un avvocato si possa trovare a fare: difendere se stesso. «Mi scuso con la Corte», inizio, «per la situazione in cui mi trovo.» Tento di spiegare che la relazione con la mia cliente è qualcosa che fa ormai parte della preistoria, come i druidi a Stonehenge. Nocedicocco non la beve, o forse è solo che non gliene importa niente. «Però non l'ha resa nota alle autorità, alla Corte, non è vero, signor Madriani?» «No, vostro onore, non l'ho fatto.» «E perché?» Comincio ad addentrarmi nella storia. Risalgo indietro, a partire dalla mia ultima conversazione con Ben da Wong's, la sera prima che lui morisse. Nelson mi interrompe prima che io abbia concluso una sola frase. «Vostro onore, se dobbiamo proseguire voglio ricordare all'avvocato
Madriani i suoi diritti.» «Naturalmente», dice Acosta. Questo mi raggela. Oltre all'idea che forse dovrò mettere a nudo la mia anima, ammettere la mia relazione con Talia, c'è l'ovvio fatto che Acosta ha accettato la richiesta perché pensa che nel rispondere potrei incriminare me stesso. Resto lì a fissarlo in un silenzio assoluto, sapendo che il giudice che presiede il processo di Talia ora ritiene possibile che io possa averla aiutata nel delitto. «È ridicolo», sbotta Harry. «No, vostro onore, non lo è affatto. Abbiamo motivo di essere preoccupati», insiste Nelson. «L'avvocato Madriani ha sviato gli agenti che lo hanno interrogato dopo l'omicidio. Gli è stato chiesto il motivo per cui se n'era andato dallo studio legale Potter & Skarpellos, se avesse avuto disaccordi con la vittima. Ha negato. Ora sembra che abbia lasciato lo studio perché era stata scoperta la sua relazione con la moglie della vittima. Questo chiarirebbe il movente», dice. «Il movente di chi? Stiamo parlando dell'imputata o di me?» Nelson mi guarda diritto negli occhi. «Come preferisce lei», risponde. Non riesco a trattenermi. «Ben lo sapeva», mormoro. «Sapeva di Talia e me, ma ne abbiamo discusso. Ci siamo lasciati da amici, prima che lui morisse. Altrimenti perché pensa che avrebbe raccomandato proprio me per amministrare la donazione alla facoltà di legge?» «Signor Madriani.» Acosta sta cercando di zittirmi. «Lei è avvertito», dice. «Non dica un'altra parola, o lo farà a suo rischio e pericolo. Ha capito?» Vuole impedirmi di inquinare gli atti. Fa cenno a Nelson di elencarmi i miei diritti, ma a quanto pare nessuno ha il foglietto con la formula a portata di mano. Una mezza dozzina di avvocati nella stanza, e nessuno che sappia declamare quello che ogni piedipiatti recita a memoria a uno schiocco di dita. Nelson enuncia i miei diritti, corretto all'ottanta per cento. Tocca i punti principali: il diritto di avere un avvocato e di restare in silenzio. Harry mi sta bofonchiando all'orecchio di sedermi e di tenere la bocca chiusa. Mi spinge sul divano. «Se ha il diritto di restare in silenzio, e il diritto a un avvocato, allora sono il suo avvocato, e gli consiglio di non dire un'altra parola.» Nocedicocco guarda Harry, con gli occhietti neri e luccicanti. Lo bolla come un cercaguai. «Benissimo», ribatte. «Che mi dice di questa prova? Ha sentito il procuratore distrettuale. Perché non dovrei ammetterla?»
Harry non se lo fa ripetere due volte. Dimostra più sangue freddo di quanto mi sarei aspettato. Punta diritto alla giugulare, delucidando Nelson sui danni che questa rivelazione potrebbe provocare nella giuria. È un fascio di domande retoriche. «Abbiamo una testimonianza isolata», attacca. «Un teste sostiene di aver visto l'imputata con il signor Madriani al suo motel, quante volte? Una?» «Tre», risponde Nelson. «Tre volte.» «Bene. Tre, sei, venti. Che differenza fa? Il problema è cosa dimostri questa testimonianza. Che i due hanno cospirato per uccidere Ben Potter?» Harry scuote la testa. «È sotto questa luce che il procuratore distrettuale vorrebbe farla passare. Ma è una testimonianza che non dimostra quel fatto, e permettere che la giuria balzi a questa conclusione significa soltanto fuorviarla. No», continua Harry. «Questa testimonianza dimostrerà una cosa, e una cosa soltanto. Che Paul Madriani è stato in un motel con l'imputata... D'accordo, tre volte.» Da ciò, anche se non è detto a priori, forse la giuria potrà dedurre che noi due ci siamo infilati in un letto, dice al giudice. Magari invece eravamo alle prese con questioni d'affari, spiega. Si chiede ad alta voce quanto questo impiegato possa dichiarare; se sosterrà di avere spiato dal buco della serratura. «Non stiamo celebrando un processo per alienazione di affetti. Questo è un processo per omicidio. Vorrei fare alla Corte una sola domanda. Questo fatto, il fatto che l'imputata e il suo avvocato siano andati in un motel, dimostra che l'imputata abbia commesso l'omicidio di Ben Potter?» «In sé, no», concede Nelson. «Ma, unito alle altre prove, permetterà di trarre giuste deduzioni.» «No», controbatte Harry. «Permetterà di trarre ingiuste deduzioni. Ed è quello che lei sta cercando di fare qui, offrendo questo tipo di prova. Non è probante rispetto ad alcun fatto concreto del caso ed è altamente pregiudizievole all'imputata.» «In che senso?» chiede Acosta. «Nel senso che la priva di una difesa competente.» «Questo è ridicolo», sbotta Nelson. «La signora Potter ha scelto il signor Madriani quale suo rappresentante legale e ha avuto il signor Madriani.» Harry fa un passo avanti e si appoggia alla scrivania di Acosta, quasi a conferire un po' più di peso al punto successivo. «La priverebbe di una difesa competente non perché l'avvocato Madriani sia meno abile oggi di quanto fosse prima della presentazione di questa
prova, ma perché non sarebbe più credibile agli occhi della giuria. Se la Corte ammette questa testimonianza, trasformerà l'avvocato della difesa nell'essenza stessa del complice non incriminato. Lo sa lei e lo so io e, se lo permetterà, lo saprà anche una Corte d'Appello», conclude Harry. Nelson ride, ironico, superiore. «Le cose stanno proprio così», riprende Harry. «Un piccolo incitamento al linciaggio morale ha un effetto notevole agli occhi di una giuria.» Si rivolge ad Acosta. «Non abbia dubbi su questo», insiste. «La pubblica accusa vuole presentare questa testimonianza per un solo e unico motivo, per screditare l'avvocato della difesa agli occhi della giuria. È il solo modo che hanno per vincere una causa persa.» Nelson si ribella violentemente. Sostiene che Harry si sta spingendo troppo oltre, che sta cercando di trasformare l'articolo di Walker e la testimonianza del suo teste in qualcosa di più di ciò che sono. «Bene», dice Harry. «Allora rinunciate al teste.» «E perché dovremmo?» «Basta così», interviene Acosta. Ha lo sguardo cattivo. Coi gomiti sul piano della scrivania, le dita a piramide, scruta Harry. Non occorre un indovino per dedurre che sta cercando con tutte le sue forze un modo per ammettere questa testimonianza, e che si sta puntualmente ritrovando a sbattere contro la logica di Harry. «Ha qualcos'altro da aggiungere, signor Nelson?» «Credo sia stato detto tutto.» «Lei?» chiede Acosta a Harry. «No, vostro onore.» Per un po', il mio destino sembra appeso in aria, sospeso nel sibilo dell'aria condizionata che esce dal diffusore sopra la scrivania di Acosta. «Quando vorrebbe chiamare questo teste, signor Nelson?» Il procuratore distrettuale alza le spalle, come se calcolare i tempi in un processo fosse una cosa complicata. «Fra due giorni», dichiara. «Bene. Prenderò in esame la questione. Le comunicherò la mia decisione sul problema se questo testimone possa essere chiamato a deporre o no e, se sì, fino a dove possa spingersi la sua testimonianza, prima di quella data.» «Grazie, vostro onore.» «È tutto.» Siamo congedati dal quartier generale del giudice. Harry e Nelson si stanno dirigendo alla porta. Io mi sono alzato. La stenografa sta mettendo via la sua macchinetta.
«Non lei, signor Madriani. Con lei voglio parlare.» Adesso siamo soli, gli occhi scuri e pensierosi di Armando Acosta e io. «Lo ammetto, lei ha fegato», dice. Con un semplice tocco di luce dal basso, potrebbe facilmente essere scambiato per uno dei luogotenenti di Lucifero. Gli scuri toni mediterranei della carnagione assumono un che di malvagio, tanto che trovarmi solo con lui in questa stanza mette paura, diventa un cattivo presagio. «Imparerà che queste cose a me non si fanno. Non quando presiedo io.» Resto zitto. È meglio lasciarlo sfogare senza opporre resistenza. Acosta ha le caldane. È pronto per la nomina alla Corte d'Appello, e questo non è certo il momento per un processo inficiato per vizio di procedura, soprattutto con un caso tanto pubblicizzato. Vede la faccenda - la mia storia con Talia - come qualcosa che potrebbe compromettere il suo futuro, e non è disposto ad accettarlo. Per Nocedicocco non è una questione d'affari o professionale; è una faccenda personale. «Lei crede di avermi messo alle strette?» Mi rivolge un sorriso perfido. «È convinto che se io ammetto questa testimonianza lei otterrà l'annullamento del processo per vizio di procedura, oppure che io verrò stroncato in appello, non è vero?» Aspetta una risposta, ma io lo fisso in silenzio, cancellando dai miei occhi l'apprensione. È sempre meglio non scappare davanti ai cani rognosi che digrignano i denti, e non mostrare paura ad Armando Acosta. «Lei ha commesso un grosso errore. Un grosso errore.» Poi, senza tante cerimonie, mi dice di andarmene, di uscire dal suo studio. La procedura si chiama «presentare un affidavit». L'affidavit è il documento usato dagli avvocati per rifiutare un giudice prima dell'inizio del procedimento. La legge ne concede uno a entrambe le parti in qualunque processo. È una procedura che, adesso lo so, userò regolarmente in futuro, tutte le volte che avrò la sfortuna di imbattermi in Armando Acosta. Credo di avere toccato il fondo. Dopo tutti questi colpi, professionali e personali, la mia carriera sembra allo sfascio. Non mi resta che chiedermi se anche a me verrà inviato un mandato di comparizione, se sarò accusato assieme a Talia dell'omicidio di Ben. Posto tutto ciò, potrà parere strano che la cosa che più mi tormenta sia il fallimento del mio matrimonio; la mia solitudine e quel vuoto pauroso che è la mia vita da quando Nikki se
ne è andata. È un rituale notturno. Vago senza meta nelle stanze della casa, per poi finire sempre nello stesso posto, sulla soglia della camera di Sarah. Piccoli orsacchiotti marroni su uno sfondo di losanghe rosa decorano le pareti della stanza, spoglia di ogni mobile. Sarah ha dimenticato qualche giocattolo quando è venuta qui l'ultima volta. Una bambola senza vestiti, con i capelli che sembrano sciogliersi, con le braccia e le gambe sistemate ad angoli innaturali, giace abbandonata al centro della moquette. Stasera ho l'impressione di condividere un fato simbiotico con questa creatura rifiutata, derelitta e sola. Sempre più spesso la mia mente analitica da avvocato si chiede in quale modo io sia arrivato a un matrimonio fallito e a spezzare una famiglia, cose che mai avrei pensato la vita potesse riservarmi. Come il cancro e l'AIDS, sono malattie che affliggono gli altri, mai noi stessi. Per quanto la storia con Talia fosse un sintomo della mia condizione, non l'ho mai considerata la causa determinante della mia attuale infelicità domestica. Talia è arrivata dopo, dopo che Nikki mi aveva lasciato. I miei problemi avevano un nucleo più centrale: la mia ossessione per il lavoro, il continuo bisogno dell'approvazione di Ben, e l'illusione del successo che sembrava accompagnare queste due pulsioni. Sono state queste cose, credo, a culminare in un'irrimediabile perdita di rispetto agli occhi di Nikki. Al pari di troppi uomini della nostra generazione, ho cercato approvazione e stima solo nei posti sbagliati. Nikki è ora pesantemente coinvolta nel processo di Talia, non soltanto da un punto di vista economico ma anche emotivo. È l'unico risultato positivo che sia venuto dal martellamento della stampa e dalle frustate che mi sono preso da Nocedicocco. L'avevo del tutto fraintesa in quella conversazione telefonica. Nella sua voce non c'era rabbia, ma paura; paura per me, il timore che venissi accusato. Abbiamo parlato. Adesso, chiaramente, Nikki vede la mia vita legata al destino della donna che ha tanto disprezzato. Ciò che è successo ha placato il suo rancore e l'ha ammorbidita in un modo che non avrei potuto prevedere. Nonostante tutta la mia logica da avvocato e le mie intuizioni a posteriori, mi perdo in giochi infantili, patteggio con il diavolo per restaurare la mia vita. In questi episodi faustiani, nei recessi della mente, offro la mia anima per un'altra occasione: Nikki e Sarah di nuovo nella mia vita. Come un bambino che salta le crepe del marciapiede, convinto che quei balzi in-
significanti possano alterare le sorti dell'esistenza, immagino interminabili scenari nella mia mente, studio i modi per farle tornare da me. E ottengo sempre la stessa risposta. Il mio destino è legato al processo di Talia. Successo o fallimento, questa competizione tiene in sospeso il mio destino. È l'incudine sulla quale devo spezzare la catena mentale di dubbio e dipendenza che mi legava a Ben, per riacquistare l'autonomia della mia anima, per riportare Nikki e Sarah nella mia vita. 33. Un giudice ostile può farti fuori in migliaia di modi. Oggi Acosta ce ne sta dando una dimostrazione; ci guida in un'escursione turistica nell'esercizio arbitrario del potere. Ha respinto l'istanza di Harry, basata sull'articolo di Eli Walker, per inficiare il processo per vizio di procedura. Usando parole oscure, senza mai fare il nome di Walker o citare il titolo dell'articolo, Acosta generalizza sulla pubblicità pre-processuale avversa in maniera tale da far pensare a chi lo ascolti che stia parlando in termini puramente astratti. Accenna ai giurati che l'imputata ha messo in discussione la loro integrità, ha sollevato questioni sull'eventualità che qualcuno di loro possa aver visto certi articoli relativi al processo, in diretta violazione dei precedenti ammonimenti della Corte. Chiede se sia vero, ottenendo dal banco dei giurati un coro di cenni negativi con la testa e di espressioni irate rivolte a Talia. Trasformando il processo in una partita di calcio, con loro (il giudice, la giuria, e la pubblica accusa) contro di noi, Acosta afferma subito la propria fiducia. Dice di essere convinto che non sia così, che ci si trovi di fronte a giurati retti che prendono sul serio il loro giuramento. È una spudorata esibizione di palese abuso di potere, uno spettacolo sinistro; un'anteprima, temo, di ciò che ci attende. Talia è chiaramente scossa da queste pagliacciate. I suoi occhi guizzano da me a Harry, chiedono frenetici che facciamo qualcosa per mettere fine a tutto questo. Per un imputato in un processo penale, non c'è nulla di più snervante del vedere lo spettro del potere che gli si rivolta contro sotto forma di un giudice canaglia. Questo atteggiamento sta già dando i suoi frutti: sento Talia tremare sulla sedia accanto alla mia. Nocedicocco sfrutta al massimo l'occasione di assestare colpi alla difesa. Respingendo la nostra istanza, la indica alla giuria come: «Un tentativo dell'imputata di guadagnare tempo».
Mi alzo in piedi e mi risiedo con la velocità di uno yo-yo. Mi oppongo a questa definizione della nostra istanza e il martelletto di Acosta mi rimanda a sedere. «Vostro onore, chiediamo che la giuria venga sondata, interrogata individualmente, per stabilire se i giurati hanno visto la notizia in questione.» «Mozione respinta», dice Acosta. «Mette in discussione l'integrità di questa giuria? Ha sentito che l'ho chiesto. Dal primo all'ultimo, hanno negato di aver visto l'articolo in questione.» Mi guardano, e leggo i segni di una folla quasi in rivolta; tutti, a eccezione di Robert Rath, il mio «fattore alfa». Che è un enigma. Sento che forse sa, o intuisce, cosa è successo ieri dietro le porte chiuse dello studio del giudice, che forse ha visto l'articolo di Walker. «Devo obiettare, vostro onore, per il modo in cui si sta trattando la questione.» «Ora vuole contestare questa Corte?» ribatte Nocedicocco. «Non c'è limite alla sua arroganza, signore?» In termini pacati e deferenti gli ricordo che la Corte ha il dovere di indagare su certe cose, di assicurare un processo equo. Rifinisco questa obiezione per gli atti, con un occhio all'appello. «La sua obiezione è passata agli atti», mi rassicura Acosta. «E adesso si sieda.» Si rivolge alla pubblica accusa, tutto sorrisi dolci. «Signor Nelson, chiami il suo prossimo teste.» Puff, è fatta. L'articolo di Walker eliminato in un attimo, come briciole di pane spazzate via dal tavolo. Noi restiamo a chiederci quanti della giuria abbiano visto quest'opera di Eli Walker, e quale effetto possa avere avuto. Studio le espressioni dei giurati, un mare di aperta ostilità messa in fermento dalla Corte. Se avevo sperato di poter capire cosa pensassero, di mettere assieme qualche idea sull'impatto che può avere avuto l'articolo di Walker, di stabilire se la giuria si fidi ancora di me, le esibizioni di Acosta lo hanno reso impossibile. Il teste successivo è un Coop scuro in volto. Si vede che non ha la minima voglia di essere qui. Nelson e lui sbrigano i preliminari come Ginger e Fred nel passo doppio. Approvo i requisiti di Coop in qualità di esperto. Nelson mi ringrazia e poi chiede che le venti pagine del curriculum vitae di Coop vengano ammesse fra le prove. Sollevo obiezione, sostenendo che la cosa è inutile e irrilevante, data la nostra approvazione. Acosta la respinge e ordina che venga fatta una copia del curriculum per ciascun giurato. Tan-
to varrebbe che lo facesse affiggere alla porta dell'aula. La deposizione di Coop è una replica della testimonianza resa in udienza preliminare, niente di nuovo o di inatteso. Parla della lividezza, della legge di gravità e della morte, e del frammento di proiettile conficcato nel ganglio basale, la causa della morte. Esibisce fotografie: un minuscolo pezzetto di metallo in mezzo alle varie sfumature di rosso e marrone del sangue rappreso, prima che il frammento venisse estratto. Con la testimonianza di Coop, Nelson fissa in fretta l'ora della morte, fra le sette e le sette e dieci di sera. Nelson sta costruendo le mura della sua arringa finale. Coop spiega alla giuria che a Ben Potter è stato sparato un colpo alla testa con la pistola di piccolo calibro, che il corpo è stato spostato e che il colpo di fucile è stato esploso in ufficio. Con questa testimonianza e la deposizione di Willie Hampton, i giurati ora capiscono che fra i due spari è intercorso un lasso di tempo di un'ora e quindici minuti, il tempo sufficiente per spostare il corpo su una distanza considerevole. Nelson si muove con cautela, guidando per mano i giurati verso la sua teoria dell'omicidio. Ha fatto portare da Coop ulteriori fotografie, un vero e proprio album all'insegna del repellente. Ci sono istantanee dell'autopsia, nelle quali si vede il minuscolo frammento di proiettile conficcato alla base del cervello, inquadrature più dettagliate del viso dilatato e della volta cranica fratturata dopo che il fucile ha fatto il suo lavoro. Nelson le lascia cadere sul mio tavolo e ne consegna una seconda serie al giudice. Chiede a Coop di identificarle a una a una e di spiegare in termini chiari quello che si vede. Coop dice alla giuria che un colpo di fucile alla testa a distanza molto ravvicinata, sia alla tempia sia in bocca, provoca l'asportazione di grandi porzioni del cervello. In questi casi, la massa dei pallini e la borra fuoriescono. «Ciò che rende le ferite da fucile da caccia a distanza ravvicinata così devastanti», spiega, «è che virtualmente tutta l'energia cinetica della cartuccia viene trasferita alla vittima, e aumenta enormemente i danni. Con una carabina è diverso. In quel caso, il proiettile può trapassare la vittima da parte a parte scaricando energia fuori dal corpo.» Coop alza una delle foto più grandi perché la giuria possa vedere da lontano. «Questo tipo di ferita inflitta dalla bocca verso l'alto produce estese fratture comminute del cranio e lo spappolamento del cervello. In questi casi, le spaccature della testa sono la regola. Lo potete vedere qui», dice,
indicando la foto con una penna. «Il cranio è stato ampiamente fratturato. Parti della calotta cranica e una porzione di entrambi gli emisferi cerebrali sono state espulse dalla testa. Il cuoio capelluto ha subito una vasta lacerazione.» Saranno pochi i giurati a fare un pranzo abbondante, oggi. Questo danno, prosegue Coop, spiega perché il primo proiettile, quello che ha causato la morte, fosse così frammentato e perché sia andato perso. Secondo Coop, a parte il piccolo frammento, le autorità non ne hanno trovato traccia. Vorrei tanto interrompere questa esibizione, ma non ho modo di porre fine alla minuziosa descrizione delle ferite. Tenterò di impedire l'osservazione diretta delle foto da parte della giuria, non lasciandole inserire tra le prove. Coop fruga tra altre foto del mucchio, fino a che non trova quella che cercava. «Da qui si può vedere che il colpo è stato sparato in bocca», mostra. «È stata rilevata fuliggine sul palato, sulla lingua, qui, qui, e qui, anche sulle labbra, qui.» Sta indicando i punti con la penna. Gli animi più impavidi della giuria allungano il collo per vedere meglio. «Qui sono evidenti strie di strappo o lacerazioni superficiali della pelle periorale e delle pieghe nasolabiali. Sono provocate dal gonfiarsi del volto in seguito alla rapida espansione dei gas surriscaldati al momento dello sparo.» Chiunque abbia ucciso Ben può anche avere impostato la sua falsa pista, la messinscena del suicidio, in maniera approssimativa, ma la tecnica del colpo di fucile ha una sua precisione clinica, un particolare che prima non avevo preso in considerazione. Coop ha finito con le foto. Nelson chiede che vengano incluse fra le prove. «Vostro onore, solleviamo obiezione riguardo alle fotografie, per lo meno a parte delle fotografie», dico. Ci sono doppioni, varie immagini con minime variazioni di angolatura, tutte scattate a varie distanze dal cadavere, ma tutte molto più esplicite di quelle offerte da Canard. Chiarisco nei dettagli la nostra obiezione, l'effetto pregiudizievole che queste foto avrebbero sulla giuria, e ne scelgo tre che ritengo possano essere usate. Acosta le sta sfogliando, ignorandomi in maniera totale. Guarda Nelson, in attesa di argomenti contrari. Il procuratore fa uno sforzo non molto convinto, lasciando intendere con il linguaggio del corpo e con l'assenza di en-
tusiasmo che rinuncia alla maggior parte delle foto. Tutto qui. Il giudice mi guarda, per la prima volta in questo dialogo, quasi a sottolineare quello che sta per sancire. «L'obiezione della difesa è respinta», annuncia. L'intero pacco di foto verrà sottoposto alla giuria. Tale è la discrezionalità della Corte, e questo è un esempio del modo in cui se ne possa abusare. C'è una traccia di allarme nell'espressione di Coop. Trapela dal suo interesse celato ma sbalordito, come se stesse vedendo per la prima volta l'effetto delle rivelazioni dell'articolo di Eli Walker, non tanto sulla giuria quanto sul giudice. Le foto vengono contrassegnate come prove e fatte passare tra i giurati. Come il vento che fruscia in un campo di grano, lasciano il loro segno. «Dottore.» Nelson è tornato al suo interrogatorio. «Secondo la sua opinione professionale, è possibile che una donna della statura fisica dell'imputata, Talia Potter, possa reggere un fucile da caccia in modo tale da infliggere l'estesa ferita alla testa riscontrata in questo caso?» «Sì.» Coop lo afferma senza alcuna esitazione. Nelson incalza, acquista velocità. «A suo giudizio, e supponendo che sia stata aiutata da un complice, sarebbe stato fisicamente possibile a una donna della corporatura e della forza dell'imputata infliggere la ferita mortale, spostare il corpo per un certo tragitto, mettere la vittima su quella poltrona, infilarle la canna in bocca e sparare il colpo?» «Senz'altro», dice Coop. «Ma la sua supposizione non è necessaria.» Nelson gli ha girato le spalle e si sta allontanando dal banco dei testimoni quando arriva questa frase. Così riesco a vedere l'espressione della sua faccia. Irritazione, un po' di incredulità. «Mi scusi?» «L'imputata può avere fatto tutte quelle cose senza l'assistenza di un complice», chiarisce Coop. C'è agitazione in aula. Chi ha seguito il caso, per settimane ha letto le speculazioni della stampa su un amante segreto, un complice che dovrebbe avere aiutato e spalleggiato Talia nell'omicidio. Adesso sentono per la prima volta, e dal perito medico della pubblica accusa, che potrebbe anche non essere così. I giurati mettono giù le foto, consapevoli che è appena stato detto qual-
cosa di importante. Riportano l'attenzione sul teste. «È fisicamente possibile che una donna della corporatura e della forza dell'imputata abbia potuto commettere questo delitto da sola», continua Coop. Sottolinea l'ultima parola, a beneficio di quei giurati che fossero stati distratti dalle scene di orrore che stanno ancora circolando nel banco della giuria. Nelson lo guarda a bocca aperta, chiaramente irritato da questo allontanamento dal copione. Si erano ripassati la deposizione. Coop lo ha imbrogliato, depistato. «Certo, ma vorrà ammettere, dottore...» Nelson sfoggia il suo sorriso più conciliante, per strappare un'ammissione. «Che è senz'altro più plausibile ritenere che l'imputata possa essere stata aiutata in ciò che ha fatto.» Il procuratore procede tentoni. Forse Coop non ha afferrato il segnale. «È una domanda?» «Sì.» «Allora le devo rispondere di no», ribatte Coop. «Nel corso del mio esame, non sono riuscito a trovare alcuna prova concreta che indichi la presenza di una seconda persona nell'esecuzione di questo delitto.» Nelson sta guardando verso il suo tavolo, in direzione di Meeks, in cerca d'aiuto. C'è una muta alzata di spalle del viceprocuratore, una specie di: «Che ne so?» mentale da parte di Meeks. «Ho l'impressione che ci sia una certa confusione su questo punto, dottore. Forse non mi sono spiegato bene.» Nelson sta facendo di tutto, salvo inginocchiarsi al banco dei testimoni: la sua teoria del complice sta andando in fumo. «L'imputata è una donna che pesa, quanto, cinquantadue, cinquantaquattro chili?» «Non ne ho idea», dice Coop. «Non l'ho mai pesata.» Dal pubblico giungono risate. Acosta le spegne con qualche colpo di martelletto. «Per essere del tutto chiari, dottore, lei non starà dicendo a questa giuria che una donna della corporatura dell'imputata avrebbe potuto sparare alla vittima, un uomo alto più di un metro e ottanta, che pesava più di novanta chili, per poi spostare il corpo da sola, trasportando Ben Potter dal luogo in cui è stato ucciso fino all'ufficio, e che una volta là, avrebbe potuto sistemarlo sulla poltrona e sparargli con un fucile, e tutto questo da sola, senza l'aiuto di qualcuno?» «A quanto pare, lei ha idee sorpassate sul sesso debole», replica Coop. «È esattamente questo che sto dicendo. È del tutto possibile che una donna
da sola abbia potuto commettere questo delitto.» Nelson è palesemente nei guai. Sin dall'inizio, la teoria della donna debole è stata il punto centrale della sua tesi. La logica gli dice che nessuna giuria ragionevole accetterà l'idea che una donna sola, tanto meno una donna con l'aspetto di Talia, possa aver portato a compimento questo orrendo delitto senza l'aiuto di qualcun altro. Qualche giurato prende appunti. Cooper, sfrontato, se ne sta seduto al banco dei testimoni, con il paradosso scritto in faccia. Al tavolo dell'accusa, Nelson e Meeks si consultano in un turbine di panico. Tutto questo ha per me un vago sapore di déjà vu: la situazione che si capovolge, un teste incontrollabile. Eppure, in tutto questo, so a cosa punta Coop. Mi sta lanciando un'ancora, sta dando un colpo di grazia alla teoria del complice impostata da Nelson. Se più avanti dovessero accusare me o qualcun altro di questo delitto, l'accusa si troverebbe a inciampare sulla deposizione del suo stesso teste, scritta sulla pietra, immutabile negli atti. Coop sta neutralizzando la mia storia con Talia, elargendo la sua singolare forma di clemenza. Mi scocca una velocissima occhiata, di sbieco, lanciata con la coda dell'occhio, mentre se ne sta seduto in silenzio. È chiaro che Acosta non lo trova affatto divertente. «Ha bisogno di un po' di tempo, avvocato Nelson? Magari una sospensione?» chiede. Sarei tentato di obiettare, ma non servirebbe a niente. Acosta ordinerebbe subito una sospensione per permettere a Nelson di modificare la sua tattica, per averla vinta con Cooper in qualche stanza sul retro dell'aula. «Un momento solo, vostro onore.» Nelson non ha alcun interesse a prolungare la faccenda. Accettare la sospensione significherebbe imprimere quelle dichiarazioni nella psiche collettiva della giuria, e sarebbe un errore. Deve affrontarla adesso, in fretta, o correre il rischio che l'idea si fissi in maniera indelebile, che diventi una verità accettata: se è stata Talia, ha fatto tutto da sola. Una teoria che nella mente di questi giurati, e Nelson lo sa, può portare a un non sequitur. «No, vostro onore, siamo pronti.» Il procuratore torna al banco dei testimoni. «Dottor Cooper, le spiacerebbe spiegare alla giuria come possa una donna della corporatura dell'imputata spostare un corpo che pesa quasi il doppio di lei?» «Esistono diverse soluzioni», risponde Coop, «che renderebbero possibile la cosa.»
«Ad esempio?» «Durante il mio esame del corpo, ho scoperto leggere abrasioni su entrambe le braccia, esattamente negli stessi punti su ciascun braccio, e sul petto della vittima. Queste abrasioni erano in linea retta. Appena sotto i capezzoli sul petto, fra il gomito e la spalla sulle braccia.» «Abrasioni?» chiede Nelson. «Tipo segni di corda?» «No, segni di una cinghia larga, alta circa cinque centimetri.» Nelson sta di nuovo guardando Meeks. «Dottore, perché non ci ha riferito questi particolari quando ha deposto all'udienza preliminare?» «Nessuno me lo ha chiesto.» Coop ha ragione. Cheetam era troppo occupato a farsi fuorviare dal teste, e a Nelson interessava solo quel minimo che gli serviva per incriminare Talia. Ma l'accusa non fa l'altra ovvia domanda, e cioè perché Coop non abbia comunicato questi fatti nelle ore di preparazione al processo. È chiaro che li ha raggirati. E adesso Nelson ha le mani legate. Non sarebbe una buona mossa far presente alla giuria che i testimoni dell'accusa sono stati sottoposti a ore di estenuanti prove. I giurati hanno uno strano atteggiamento, da questo punto di vista: amano pensare che le deposizioni in aula siano spontanee. «Questi segni di cinghia», riprende Nelson. «Quando li ha notati per la prima volta?» «Durante l'autopsia.» «Nei suoi appunti non se ne parla. Perché?» «Una svista», risponde Coop. Nelson lancia un'occhiataccia: sembra che Coop gli abbia appena detto che il Coniglietto Pasquale ha ricevuto un ordine di comparizione e che sarà il prossimo teste. Il procuratore sta scuotendo il capo. Per quanto la cosa sia sgradevole, non può lasciarla in sospeso. Ha aperto il vaso di Pandora, e ora deve esaminarne il contenuto sino in fondo, altrimenti sa che lo farò io per lui. Nelson torna al tavolo dell'accusa e a Meeks, per una piccola verifica dei danni. «Possiamo conferire in privato, vostro onore?» Acosta acconsente. Meeks e Nelson bisbigliano, ma le voci si sentono. Meeks è furibondo, imbarazzato davanti al suo capo, per non essere riuscito a neutralizzare questa sorpresa mentre impostavano la loro linea. Piovono parecchie im-
precazioni. Stando a Meeks, la deposizione di Cooper dovrebbe essere trascritta su quadratini di carta molto sottile ed essere avvolta attorno a un cilindro di cartone nel bagno degli uomini. È, per farla breve, una bugia, dice. In due minuti di consultazione, è l'unico punto su cui si trovino d'accordo, a quanto pare. Nelson torna al teste, e si riaprono gli atti ufficiali del processo. «E cosa ha dedotto da questi segni di cinghia che non figurano nel suo rapporto?» «Che la vittima è stata trasportata per mezzo di un piccolo carrello, forse un carrello per mobili leggeri. Del tipo con cinghie e fermagli a dentelli per fissarle.» «Un carrello?» Nelson annuisce. C'è un divertito assenso nella sua espressione, quello che di solito i genitori riservano a un racconto di fantasia del figlio. Lancia il messaggio alla giuria: un invito a unirsi a lui in questo volo dell'immaginazione. «Sì. Un carrello di quel tipo, appoggiato per terra o sul pavimento, dopo averci fatto rotolare sopra il corpo, fornirebbe la potenza di una leva. Permetterebbe a una persona di sollevare pesi di gran lunga superiori al proprio», illustra Coop. È una faccenda delicata, non distruggere i propri testimoni. Se Nelson insiste con eccessivo vigore su un complice che la polizia non ha ancora identificato, corre il rischio di screditare Cooper al punto di vedersi sfuggire l'imputata, il proverbiale uccellino che stringeva già in pugno. «Capisco. E lei ritiene che l'imputata possa avere spostato il corpo con l'aiuto di un simile carrello?» «È possibile», concede Coop. «Con un tappeto o qualcosa del genere avvolto attorno alla struttura del carrello, per nascondere il corpo.» «Un tappeto.» Nelson ha ripreso ad annuire. La sua incredulità cresce a ogni nuovo particolare di questo racconto. «Non starebbe bene passeggiare per strada con un cadavere legato a un carrello senza qualcosa che lo copra», aggiunge Coop. «Lei lo farebbe?» «No, io no», dice Nelson. Risate dal pubblico; qualche giurato sorride. Nelson sta di nuovo scuotendo la testa. Torna verso il tavolo dell'accusa. Ride compostamente, cercando di fare buon viso a questo disastro. Accorda fiducia alla giuria. Tratta quest'ultima uscita di Cooper come una battuta fra vecchi amici, un po' di comicità in una giornata piena dei macabri particolari di un omicidio. È l'unica via di scampo che gli resti, e la gioca da maestro.
«Ho concluso con il teste», annuncia. «Avvocato Madriani?» Valuto i pro e i contro, i vantaggi e gli svantaggi di affrontare Coop quando è in preda a questi umori. Adesso è difficile stabilire cosa pensi la giuria, quanto si sia guastata la credibilità di Coop. Nel suo tentativo di silurare la teoria della cospirazione, credo abbia aiutato notevolmente Talia, anche se non era affatto sua intenzione, ne sono certo. Ringrazio il cielo per i piccoli favori, e preferisco lasciare le cose come stanno. «Nessuna domanda, vostro onore.» Coop mi sorride dal banco, mentre scende. Di sicuro gli sparirà il sorriso, dopo la batosta che si prenderà da Nelson. Quando esce dall'aula, Meeks lo segue nel corridoio centrale, a debita distanza, come si stesse recando al bar o alla toilette. So che ci sarà un violento diverbio in corridoio, spintoni e strattoni verbali fra Meeks e Cooper. È stato un gesto nobile da parte di un amico, ma avventato. La sua carriera, penso, potrebbe risultarne compromessa oltre misura. Chiamano a deporre Matt Hazeltine. Questa testimonianza non è certo a nostro favore. A Nelson occorrono esattamente cinque domande, e l'accordo prematrimoniale firmato da Ben e Talia viene incluso tra le prove. È chiaro che Nelson e Meeks hanno dedicato un po' di tempo a questo teste, dopo l'udienza preliminare. L'ambiguità che ha contraddistinto la precedente deposizione di Hazeltine è scomparsa. Hanno eliminato ogni briciola di galanteria dal suo atteggiamento. Ho il sospetto che ci sia lo zampino del Greco. Hazeltine è ora certo del motivo dell'insistenza di Ben per questo accordo. Non fa una piega alla definizione di «clausola dell'accaparratrice», anzi l'accetta guardando Talia quasi che il termine le si addicesse alla perfezione. Ci sono alcuni svolazzi, ricordi di conversazioni fra il teste e Ben, che mettono questo accordo sotto un'altra luce, cose non dette durante l'udienza preliminare. Non c'è niente di concreto, niente che possa essere attaccato direttamente in controinterrogatorio; solo deduzioni e allusioni dalle quali si ricava che Ben non si fidava del tutto di sua moglie. Nelson si affida pesantemente all'interpretazione di Hazeltine di questo accordo. «Il fatto è», spiega Hazeltine, «che Talia sarebbe stata spogliata di tutto quello che aveva acquisito con il matrimonio, diseredata, se non fosse stata legalmente sposata con Ben Potter al momento della morte di quest'ultimo.»
È uno dei momenti importanti di un processo, uno spartiacque riconosciuto dalla giuria. I giurati più attenti, compreso Robert Rath, capiscono che è appena stata fornita loro una tessera decisiva del puzzle, una parte del movente per un omicidio. Con questo Nelson conclude il suo esame del teste, e io vengo invitato a entrare in gioco. «Signor Hazeltine, oltre all'accordo prematrimoniale, lei ha anche redatto un testamento per Ben Potter?» «Sì.» «E secondo i termini di quel testamento, nel caso che la signora Potter dovesse in qualche modo perdere il diritto all'eredità, veniva nominato un altro erede?» «Non credo di capire la sua domanda.» Hazeltine sta eludendo l'argomento, per proteggere Skarpellos. «Devo fare obiezione a queste domande, vostro onore. Non sono pertinenti.» Nelson si è alzato in piedi. «Vostro onore, abbiamo ascoltato ampie testimonianze concernenti le intenzioni testamentarie della vittima», illustro alla Corte. «L'accusa ha esibito prove che dimostrano che, se la mia cliente non fosse stata sposata con la vittima al momento della sua morte, avrebbe perso ogni diritto all'eredità, avrebbe perso tutto ciò che aveva ottenuto con il matrimonio. L'illazione è chiara. La pubblica accusa sta tentando di dimostrare che l'imputata ha ucciso il marito per garantire il proprio diritto all'eredità. Date le circostanze, abbiamo tutti i diritti di esaminare le intenzioni della vittima in proposito, di determinare se ci fossero altri che avrebbero potuto guadagnare dalla sua morte, trarre vantaggio da una condanna della mia cliente.» «Obiezione accolta», dice Acosta. Lo guardo a bocca aperta. Non è una buona mossa da parte di un avvocato, di fronte a una giuria. Ma non riesco a controllarmi. «Vostro onore, questa testimonianza è stata ammessa durante l'udienza preliminare, proprio in seguito alla stessa obiezione. Ho qui una trascrizione, vostro onore.» «Non sono responsabile degli errori avvenuti in fase preliminare», ribatte Nocedicocco. «Allora era allora, e adesso è adesso. L'obiezione è accolta. Prosegua o si sieda.» Se non riesco a dimostrare che il Greco trarrebbe vantaggio dalla morte del suo socio e dalla condanna di Talia, mancherà un elemento vitale alla mia tesi. Acosta mi avrà spezzato la schiena.
«Vostro onore, si tratta di una testimonianza determinante.» Il piacere è ancora maggiore. Nocedicocco mi guarda e sorride, un cattivo ghigno mediterraneo. «Proceda, avvocato Madriani.» «Voglio che questa parte degli atti venga evidenziata per l'appello», dico alla stenografa. «Avvocato Madriani, proceda o l'accuserò di oltraggio alla Corte.» Nelson ha un'espressione disgustata: l'aria di chi ama vincere, ma non in questo modo. Evita il mio sguardo, ma anche quello del giudice. Si guarda attorno, giocherellando con pezzetti di carta, al tavolo dell'accusa. Però, da bravo avvocato, accetta senza tante storie quello che gli viene regalato. E io torno a sedermi. Non ho nient'altro da ottenere da questo teste. Talia è chiaramente agitata. Quando riapprodo al banco della difesa, mi passa un biglietto. C'è scritto: «Perché il giudice fa così?». Mi chino a sussurrarle all'orecchio: «Tu e io. La storia dell'articolo. Ha offeso il suo senso della dignità». Sente il sarcasmo nella mia voce e capisce di essere nei guai fino al collo. 34. Dal giorno in cui Coop è venuto a trovarmi con l'articolo di Walker, il mattino che Nikki mi ha telefonato e mi ha svegliato, il punto di vista di mia moglie sul processo è completamente cambiato. È qui in aula da tre giorni di seguito, due file più indietro rispetto a me, a osservarmi. Brucia il poco che le è rimasto di ferie, e si chiede se suo marito, il padre di sua figlia, sarà presto incriminato per omicidio. Ho cercato di assicurarle che non hanno niente in mano, che Walker e i suoi informatori stanno solo facendo un gioco di sconsiderate allusioni. Le ho ricordato Lama e le sue minacce, consolandola con l'idea che si sia limitato a un po' di pubblicità negativa. Ma Nikki è un'ansiosa nata. Ha seguito il processo di Talia, lo ha visto scivolare dall'ottimismo all'abbraccio della morte, e ha accumulato tutti i pensieri nefasti che basteranno a renderci entrambi disperati per il prossimo decennio. Nella sua mente, io ho già i ceppi ai piedi e la divisa a righe, e Sarah mi viene a trovare nei weekend e mi parla da dietro lo schermo di sottile rete metallica. L'unica consolazione che riesca a trarre da questa e-
sperienza è il concetto che io sia artefice del mio destino, che nel difendere Talia in un certo senso stia difendendo me stesso. Nikki ha una rinnovata fiducia nelle mie capacità di avvocato; più fiducia, temo, di quanta ne abbia io stesso. Stamattina mi siedo per un po' al suo fianco e le parlo, tenendole la mano, assicurandole ancora una volta che si tratta solo di una bufera giornalistica; ma io stesso mi chiedo come finirà tutto questo. Talia è al tavolo della difesa con Harry. Ogni tanto intercetto il suo sguardo posato su di noi. Intuisco che prova un po' di imbarazzo per il dolore che ha provocato, non soltanto a me ma anche a Nikki. Le due donne usano una cauta cortesia l'una con l'altra; Talia è incerta sui sentimenti di Nikki. Ma mia moglie è stata sorprendentemente cordiale, addirittura amichevole, nei pochi commenti che ha fatto. Sono le otto del mattino, e l'usciere ci fa cenno di prepararci. Raggiungo Harry, che sta approntando la nostra piccola biblioteca sul tavolo della difesa. È arrivato il momento della verità. Due giorni dopo il mio scontro con Acosta, il giudice ci richiama nel suo studio per annunciare la sua decisione su James Preston, l'impiegato del motel. Ci comunicherà se potrà deporre o no. Quando entro, Nelson ha l'aria depressa, come se lui e Acosta avessero appena finito di scambiarsi qualche parola vivace. Nocedicocco è in pompa magna per la sua giornata sullo scanno. Una camicia talmente inamidata che potrebbe dormirci dentro in piedi, gemelli d'oro, e larghe bretelle rosse. Non ha ancora indossato la toga nera. L'aria cordiale del suo viso si trasforma quando entro nello studio al seguito di Harry. La bocca e gli occhi assumono un'espressione torva. «Accomodatevi, signori.» Sta scartabellando tra i documenti sulla sua scrivania, come se non gli riuscisse di trovare quello che gli serve. «Abbiamo un vero problema», annuncia. «Il signor Preston.» Sta ancora cercando i suoi appunti. Mi scocca una rapida occhiata da sotto le sopracciglia aggrottate. «Naturalmente, non sarebbe un problema se il signor Madriani avesse imparato a tenere l'uccello nei pantaloni», chiosa. Oggi non c'è la stenografa, quindi Acosta è libero di lasciarsi andare, di sparare frecciate dozzinali. Metterà a verbale la sua decisione con un semplice promemoria, un'unica pagina battuta a macchina dal suo cancelliere. Meeks e Nelson stanno conducendo una campagna di sussurri all'angolo
opposto della stanza: in apparenza sembrano già al corrente di quello che la Corte sta per comunicare. «Ho riflettuto molto su questa faccenda», sostiene Acosta. Sta recitando la parte di Salomone. Si accarezza il mento con le dita di una mano, sfoggia l'espressione del saggio. «Le varie argomentazioni, e il pregiudizio che ne verrebbe all'imputata se accordassi una testimonianza illimitata al signor Preston. Dopo avere preso in esame tutti questi fattori, è mia opinione che James Preston debba testimoniare...» C'è un sospiro palpabile da parte di Harry. Negli ultimi due giorni, dopo tutti i cattivi auspici, ha lavorato sodo per prepararsi alla fase successiva al verdetto. La morte incombe sempre più maestosa all'orizzonte, oggi come non mai dall'inizio del processo. «Ritengo», prosegue Acosta, «che le relazioni che l'imputata sembra aver avuto durante il suo matrimonio siano pertinenti e rilevanti. Alla giuria dovrebbe essere concesso trarre le proprie conclusioni in merito.» Guarda Nelson con rispetto, quasi che il procuratore distrettuale avesse ottenuto un punteggio notevole nella questione. Il martello della vendetta, penso. «Ma c'è un aspetto problematico. La parte dell'avvocato Madriani in tutto ciò.» Intuisco un altro cilicio e lo spolverio di nuova cenere. «L'avvocato Hinds ha offerto una tesi convincente. Permettere al teste di identificare il signor Madriani equivale a screditare completamente il legale della signora Potter, al punto di negarle un equo processo. Credo ci sia del vero in questo», conclude. Adesso, la fronte è segnata da solchi profondi, a sottolineare quanto sia grave, meditato, questo momento nella progressione logica delle cose. Come se il concetto di equità fosse il prodotto di un'elevata ispirazione, un pensiero partorito direttamente da Nocedicocco. «Quindi la deposizione del teste sarà limitata. Non gli sarà permesso identificare il signor Madriani. Tutti gli altri sono selvaggina ammessa», decreta Acosta. Esibisce un ampio sorriso dalla scrivania. Le braccia sono aperte in un gesto espansivo nei confronti di Nelson, come per dire: «Vada pure a caccia». Questo spiega l'espressione infelice di Nelson al nostro ingresso. La Corte gli aveva concesso un'anteprima della decisione. «Una condizione», aggiunge Acosta. «Se dovesse esserci qualche prova che colleghi il signor Madriani al delitto, tutto questo non varrebbe più.
Potrei cambiare la mia decisione.» «Cosa significa?» chiedo. «Significa che è meglio che lei non c'entri niente», risponde. «Se dovessi scoprire che lei e la sua cliente avete escogitato un piano per ingannare questa Corte, permetterò che il signor Preston venga richiamato e che punti il dito verso di lei davanti alla giuria. Sono stato chiaro?» Dovremo condurre il processo sotto la nube dei sospetti personali di Nocedicocco. «Chiarissimo», replico. «Bene.» La polizia ce la sta mettendo tutta per scoprire dei buchi nel mio alibi per la sera in cui Ben venne ucciso. Nell'assistermi in questo arduo compito, Dee è stata peggio che inutile. L'unico appunto sulla sua agenda per la sera in questione riguarda un appuntamento dal parrucchiere, una cosa talmente normale e di routine da non risvegliarle alcun ricordo. Invece dell'ovvia verità, e cioè che lei è uscita alle cinque e che io ero qui a lavorare quando lei se n'è andata, Dee ha detto alla polizia di non avere la minima idea di dove io fossi la sera in questione. Questo ha alimentato più intrighi che risposte, e la polizia ha raddoppiato gli sforzi per trovare collegamenti fra me e Talia. Con mia sorpresa, dopo tutto il disastro che ha provocato, la deposizione di James Preston è una grande delusione. Persino i miei timori che riconoscesse Tod si sono rivelati infondati. Al banco dei testimoni, identifica due uomini: l'illustre Raul, il maestro di tennis di Talia, residente a Rio quando Ben venne ucciso; e un altro uomo, Joseph Blackborn, il commercialista di Talia. L'accusa dovrebbe fare miracoli per stabilire un legame romantico fra Blackborn e Talia. Lui ha cinquantotto anni e ne dimostra novanta, corporatura esile, sottili labbra imbronciate, una faccia priva di qualunque attrattiva. Talia mi dice che con Blackborn si trattava proprio di lavoro, che hanno usato il motel per concludere alcune pratiche per la dichiarazione dei redditi un anno fa, perché nell'ufficio del commercialista c'erano gli imbianchini, ed era più comodo andare in un motel che a casa di Talia. Le credo. A quanto pare, Raul e io siamo stati gli ultimi due ad avere il privilegio di assaggiare la torta di Talia prima di Tod, ed eravamo passato remoto molto prima della morte di Ben. La giuria sembra trovare di una noia mortale la testimonianza di Preston.
Per il breve tempo in cui è al banco dei testimoni, lui continua a guardarmi male. Evidentemente al signor Preston non va giù che il giudice gli abbia negato il suo momento di gloria. Lancia occhiate ad Acosta, con espressione inquieta. Secondo me, pensa che Nocedicocco e il sottoscritto siano impegnati in un'iniqua cospirazione per imbrogliare la giustizia: la corporazione degli avvocati che protegge i suoi adepti. E la cosa lo offende. Sembra che nessuno gli abbia spiegato perché non gli è permesso additarmi, o forse non accetta la spiegazione logica, l'idea di un processo equo per Talia. In un caso o nell'altro, Preston ha il portamento e la serenità di un candelotto di dinamite che trasudi esplosivo. Mentre Nelson lo congeda, io mi sporgo oltre Talia per parlare all'orecchio di Harry. Scegliamo di non sfidare la sorte e quindi rinunciamo al controesame. Non c'è nulla da guadagnare e, se per caso dovessi provocare l'ira di Preston, ci sarebbe un bel po' da perdere. Nelson chiama a deporre la vicina di Talia. Mildred Foster ha quasi ottant'anni, e praticamente non ha nulla da fare se non guardare la saga delle esistenze altrui dalle finestre di casa sua. Vive nella proprietà vicina a quella di Ben e Talia, due acri di terreno, da quando loro si sono trasferiti lì, cinque anni fa, e per Talia la signora è un mistero. «Che strana donna», commenta. «Cinque anni, e non l'ho mai vista, nemmeno fuori in cortile.» «Però lei ha visto te», dico, «e, cosa più importante, ha visto l'automobile di Ben la sera in cui è stato ucciso.» Mildred Foster è il tipo di persona che vive con il cannocchiale alla finestra. Sarei pronto a scommettere che le sue tende sono consunte a forza di essere scostate tutte le volte che in strada viene sbattuta la portiera di un'auto. Nelson l'ha chiamata a deporre per un'unica ragione. Lei dichiara di aver visto l'auto di Ben davanti alla casa dei Potter, la sera dell'omicidio. L'ha vista nel vialetto d'accesso, ma non ha visto Ben. Non è chiaro se l'artrite abbia rallentato la sua corsa alla finestra, o se semplicemente la donna fosse distratta. «Signora Foster, può dirci che ore erano quando ha guardato fuori della finestra e ha visto l'auto del signor Potter?» «Le otto circa.» «L'ha sentita fermarsi?» «No», risponde lei. «Il mio udito non è più tanto buono.»
«Capisco. Però lei ha guardato fuori della finestra e ha visto l'auto parcheggiata?» La signora annuisce. «Si indichi negli atti che la teste ha risposto in maniera affermativa.» Acosta fa gli onori di casa, dà una mano alla stenografa. «Quindi lei non ha idea dell'ora in cui l'auto potrebbe essere arrivata?» «Alle cinque, quando ho guardato fuori, non c'era.» «Quindi in un momento fra le cinque, quando lei ha guardato fuori della finestra, e le otto, quando ha guardato di nuovo, il signor Potter è arrivato in auto e ha parcheggiato nel vialetto di accesso?» «Obiezione. La domanda suppone fatti non dimostrati, cioè che alla guida dell'auto ci fosse il signor Potter.» «Accolta.» «Mi correggo. Signora Foster, è vero che in un momento fra le cinque e le otto, qualcuno arrivò con l'auto del signor Potter fino al vialetto d'accesso e la parcheggiò?» «È vero.» «E che quella persona non era in auto quando lei guardò fuori della finestra e vide il veicolo?» «È esatto.» Un gioco meticoloso. Nelson sta lavorando in base a deduzioni ad ampio raggio: che Talia e un amante fossero in agguato in casa, che Ben sia entrato, che i due lo abbiano ucciso con la pistola di piccolo calibro e poi abbiano trasportato il corpo in ufficio. Tutte prove indiziarie, ma sono il tipo di cose che una giuria può usare per giungere a conclusioni sconcertanti. «A lei la teste.» «Signora Foster, è assolutamente certa che la vettura che ha visto parcheggiata nel vialetto d'accesso della casa dei Potter fosse l'auto del signor Potter?» «Oh, sì, era la sua macchina. Conosco benissimo quell'auto. L'ho vista molte volte.» Ha un mucchio di rughe e macchie senili, ma è una persona gradevole. Ogni tanto sorride a Talia, e verrebbe da pensare che per la signora Foster comparire qui in aula sia un obbligo di buon vicinato. È il tipo di testimone che può danneggiarti agli occhi della giuria, il testimone senza motivi personali ovvi o remoti. «Vostro onore, posso avvicinarmi alla teste?» Acosta mi fa un cenno affermativo.
Lascio cadere una busta sul tavolo di Nelson e ne porto un'altra al banco del testimoni, dove la apro ed estraggo tre fotografie. «Signora Foster, ho qui tre fotografie di automobili, tutte dello stesso colore, modelli recenti. Può guardarle e dirmi se una di queste è l'auto del signor Potter, l'auto che lei ha visto parcheggiata nel vialetto quella sera?» Le guarda, le studia attentamente da cima a fondo, aggiustandosi gli occhiali appesi a una catena d'oro attorno al collo. Le esamina come se si trattasse di un test a scelta multipla; prima ne scarta una, poi un'altra, quindi riprende in mano la prima, cercando di escludere almeno una delle automobili intruse, per avere una buona probabilità di indovinare fra le altre due. «Obiezione, vostro onore.» Nelson vede che la sua teste è in difficoltà. «La signora Foster non è un'esperta di automobili. Afferma di avere visto l'auto del signor Potter nel vialetto, quella sera. È un'automobile che ha visto molte volte e che le sarebbe facile riconoscere. L'avvocato della difesa sta cercando di confonderla.» «Vostro onore, voglio solo sapere se la teste è in grado di identificare l'auto.» Acosta mi sta guardando da sopra gli occhiali. «Proceda pure», consente. «Signora Foster, può dirmi se una delle auto di queste fotografie assomiglia all'auto che lei ha visto davanti alla casa dei Potter quella sera?» «Questa qui mi pare di conoscerla», risponde. «È questa l'auto?» le chiedo. Mi sta guardando, incerta, implorando un suggerimento. «Si assomigliano un po' tutte», esita. «Succede, con le auto», le rispondo. «Sia in fotografia sia nei vialetti d'accesso.» «Credo che sia questa», dice. Giro la fotografia e leggo il numero scritto sul rovescio. «Vostro onore, chiedo venga messo agli atti che la teste ha identificato un recente modello di Toyota Cressida di proprietà della mia segretaria.» Poi mi rivolgo di nuovo alla teste. «Ne sarà felice, signora Foster.» La vecchia signora mi guarda. «La mia segretaria. Sarà felice di sapere che guida un'auto che somiglia a una Rolls. Forse questo le impedirà di tormentarmi per un aumento di stipendio.» Ci sono sorrisi e anche qualche risata nel banco della giuria.
La signora Foster si stringe nelle spalle. Un gesto tranquillo, come se avesse fatto del suo meglio. Harry è stato un po' infido. Ha scattato tutte le foto in modo da evitare la griglia del radiatore dell'auto di Ben, troppo riconoscibile. «La foto numero tre, signora Foster. Era quella l'auto del signor Potter.» «Oh», esclama. «Anche i poliziotti esperti hanno difficoltà a distinguere certe auto l'una dall'altra», la consolo. Una spalmata di balsamo per un ego ferito. Nelson non solleva obiezioni. La signora Foster sembra accettare la cosa di buon grado. Sono di nuovo al tavolo della difesa. «Signora Foster, se non erro lei ha dichiarato che la sera in cui ha visto questa automobile, qualunque fosse, nel vialetto d'accesso, non ha mai effettivamente visto il signor Potter, all'interno dell'auto o nelle vicinanze, è esatto?» «Sì, è esatto.» «Lo ha visto nei pressi della casa o dentro casa da qualcuna delle sue finestre?» «No.» «Quindi lei non sa se il signor Potter fosse o no a casa quella sera?» «C'era la sua macchina.» «C'era un'auto che sembrava la sua», la correggo. «Se lo dice lei.» Fa una smorfia. Il cammino verso la longevità, penso, dovrebbe essere simile a quello della signora Foster, caparbio e risoluto. «Però lei di fatto non ha visto il signor Potter?» «No.» «Ha visto la signora Potter quella sera, attorno all'ora in cui ha visto quest'auto nel vialetto?» «No», risponde la signora. «La sua macchina non c'era.» A quanto pare, per la teste il possesso di un'automobile è qualcosa di più di un simbolo di status sociale: è l'unica prova dell'esistenza di una persona. «Quindi, di fatto, lei non ha visto né il signor Potter né la signora Potter dentro o nelle vicinanze di casa Potter, la sera in questione?» «No.» «Ha sentito qualcosa di insolito quella sera, rumori provenienti dalla casa dei Potter?» «No.» Scuote la testa. «Nessun suono forte e secco, come un botto, o un'esplosione provocata da un tubo di scappamento?»
«Non ho sentito nessuno sparo, se è questo che vuole sapere.» «È proprio quello che volevo sapere, signora Foster.» La signora non è del tutto andata di cervello come il suo aspetto lascerebbe credere. «L'auto che era parcheggiata nel vialetto di accesso della casa dei Potter... Ha notato a che ora se n'è andata?» «Ho guardato fuori alle nove circa. Non c'era più.» «Ma lei non ha visto chi l'ha portata via?» «No.» «Non ho altre domande, vostro onore.» «Controinterrogatorio, avvocato Nelson?» «Solo un paio di domande, vostro onore.» Nelson si è alzato e si sta avvicinando alla teste. «Signora Foster, quanto dista la sua casa da quella dei Potter, all'incirca?» Lei guarda Nelson come se le stesse chiedendo un'altra volta di distinguere un'automobile dall'altra. «Vediamo se riesco a renderle il calcolo più facile.» Nelson riflette un momento. «Ha mai visto un campo da tennis, da una estremità all'altra?» Lei annuisce. «Bene. Quanti campi da tennis ci potrebbero stare, uno in fila all'altro, fra la sua casa e quella dei Potter?» La signora medita un bel po' prima di rispondere. «Tre, forse quattro.» «Quindi c'è una bella distanza fra le vostre case. Non sono casette residenziali su lotti grandi come fazzoletti, vero?» «Oh, no. C'è parecchia strada da fare tra una casa e l'altra.» «Quindi se qualcuno avesse sparato con una piccola rivoltella all'interno della casa dei Potter, non è inconcepibile che lei possa non avere sentito?» «Obiezione. L'accusa chiede alla teste di fare speculazioni.» «Accolta.» La donna si stringe nelle spalle, ma non è esattamente una risposta. Nelson prosegue. «Immagino lei stesse guardando la televisione la sera che ha visto l'auto del signor Potter nel vialetto.» «Obiezione. L'accusa influenza la teste. Inoltre la domanda sottintende fatti non dimostrati, cioè che la vettura osservata dalla teste fosse l'auto della vittima.» «Accolta.»
«Va bene», dice Nelson. «Signora Foster, stava guardando la televisione la sera in questione, quando ha visto l'auto nel vialetto?» «Non guardo mai la televisione», risponde la teste. «Cosa stava facendo quella sera?» «Giocavo con i miei gatti. Ne ho sei.» «Ah.» Nelson annuisce, per far intendere che capisce. Una vecchia signora e i suoi gatti. Ma la cosa non gli fa fare un solo passo nella direzione in cui vorrebbe andare: che se Talia avesse sparato a Ben, in casa, con un bazooka, la signora Foster non avrebbe sentito. «Ma è possibile», prosegue, «che se qualcuno avesse sparato all'interno di quella casa, lei potrebbe non aver sentito?» Si è deciso a lanciarsi a testa bassa. «Obiezione», esclamo. «Si chiede alla teste di fare speculazioni. Ha già affermato di non aver sentito alcuno sparo. La giuria può trarre le proprie conclusioni.» Nocedicocco sta facendo smorfie, come se in effetti potesse concedere alla teste di azzardare una risposta. La signora Foster atteggia le labbra, pronta a rispondere. «Se in una foresta cade un albero, ma non c'è nessuno a sentire, fa rumore o no?» chiedo. «Prego?» dice Acosta. «È un antico rebus filosofico, vostro onore. Tanto vale che il procuratore lo sottoponga alla teste, già che c'è. Sono cinquemila anni che i filosofi ci speculano sopra senza ottenere risposta», dico. Acosta è irritato dal mio sarcasmo. Però ho raggiunto il mio scopo. La teste è ora completamente confusa. Ho l'impressione che preferirebbe guardare un'altra volta le foto delle auto. «L'obiezione è respinta. La teste può rispondere alla domanda.» La signora Foster guarda Nelson, non più sicura di quale fosse la domanda. Nelson sta sorridendo. Acosta mi ha infilato un altro paletto nel cuore e gli ha dato il via libera. «Signora Foster, è possibile che se fosse stato sparato un colpo di pistola all'interno della casa dei Potter, lei potrebbe anche non averlo sentito?» La signora Foster guarda verso di me, chiedendosi se poi ci sarà la domanda sugli alberi e le foreste. «Non so», risponde. Con due semplici parole distrugge l'osso per il quale ci stavamo accapi-
gliando. «Visto?» dico. «Non lo sa.» Acosta mi lancia un'occhiata che potrebbe uccidere. C'è una sospensione per il pranzo. Quando rientriamo, Acosta ha tolto Eli Walker dalla stanzetta delle celebrità della prigione e lo ha fatto riportare nel suo studio. Walker non si fa la barba da tre giorni. Sul davanti dei pantaloni ci sono macchie che fanno tanto pensare che sia diventato incontinente. Gli tremano le mani, e ha uno sguardo allucinato. È uno spettacolo patetico, insomma. Provo più compassione di quanta mi sarei aspettato, soprattutto considerata la parte che Walker ha avuto in tutto questo. Nelson e Meeks sembrano avvoltoi appollaiati su un ramo. Sono in piedi in un angolo, nell'attesa che Walker consegni la sua fonte. Meeks ha pronto il blocco per appunti, come se stesse per annotare il nome di uno sconosciuto e lontano subalterno, un burocrate sepolto in mezzo alle carte che lui ritiene la fonte alla quale Walker ha attinto per l'articolo in cui identificava me quale amante di Talia. «Ha mangiato qualcosa, signor Walker?» Acosta sembra sinceramente preoccupato per le condizioni del suo prigioniero. Non starebbe bene che un membro della stampa morisse mentre è affidato alla sua custodia. Chi nomina e promuove i giudici potrebbe fargli domande imbarazzanti. «Non ho fame», risponde Walker. I suoi occhi sembrano sonde in cerca di qualcosa che possa lontanamente somigliare a un bicchiere e una bottiglia. Ma, per lo meno nel suo studio, Nocedicocco ha tutta l'aria di essere astemio. L'avvocato di Walker chiede che un medico visiti il suo cliente prima che venga riportato in cella. «Riportato in cella?» Walker lo dice col tono di chi ha tutt'altre intenzioni. Ci sono svariate imprecazioni, rivolte all'avvocato. «In cella ci torni lei», conclude. «La provi un po' e poi mi faccia sapere com'è.» Ogni parola è uno sputo in direzione del suo avvocato, un vero e proprio bagno di saliva. Walker guarda il giudice. «Posso avere un pezzo di carta e una penna?» Acosta lo accontenta. La mano di Walker trema al punto che deve tenere ferma la penna con entrambe le mani, mentre traccia uno scarabocchio di gallina sul foglio
bianco che Acosta gli ha passato. «Non dirà a nessuno chi le ha dato questa informazione, vero?» chiede Walker. Acosta sorride. «Parola d'onore», risponde. L'avvocato di Eli è scosso. Teme che il suo cliente non si renda conto delle implicazioni di ciò che sta facendo. «Signor Walker, lei rischia una denuncia per danni», gli comunica. «Se ha garantito la segretezza alla sua fonte, e ora rivela quella fonte, e se la persona dovesse subire qualche conseguenza, una retrocessione di grado o la perdita del posto di lavoro, lei potrebbe dover rispondere di danni civili.» È un punto di legge incerto, ma è una possibilità; qualcosa sul filo delle decisioni di appello, in questo Stato. Walker gli lancia un'occhiata che significa: «Se la fonte voleva riservatezza, avrebbe dovuto portarmi da bere in galera». Piega in due il foglietto di carta e lo spinge sul piano della scrivania, verso Nocedicocco. Acosta lo guarda e poi lo passa a Nelson. Meeks legge, ma non prende appunti. È chiaro che Harry e io non dobbiamo sapere chi sia l'informatore di Walker. «Signor Walker, sono molto preoccupato per lei.» Adesso Acosta è tutto sollecitudine. Non ci tiene affatto a far tornare Walker tra i suoi colleghi, in attesa in corridoio, con un aspetto simile. Chiama l'usciere e dà istruzioni minuziose. Lo sceriffo accompagni Walker al ristorante più vicino e gli offra tutto quello che desidera, da mangiare o da bere, e metta tutto sul conto del tribunale. Consegna all'usciere la carta azzurra della contea, una carta di credito accettata da commercianti e ristoratori nei paraggi del Palazzo di Giustizia. Acosta indica ai due la porta sul retro. «Poi lo accompagni a casa, così potrà rinfrescarsi», chiede all'usciere. «E non lo riporti qui prima che lo abbia fatto.» Queste ultime parole sono sussurrate. Come se a Eli importasse qualcosa. La contea sta per ricevere un conto di bar delle dimensioni di un paracadute. Acosta si rivolge a Nelson. «Cosa facciamo con quello?» Il giudice sta indicando il foglietto in mano a Meeks. «Ci penso io», dice Meeks. A quanto pare, l'informatore di Walker sta per essere abbrustolito.
35. Nel pomeriggio Nelson chiama il suo ultimo teste, Tony Skarpellos. Su di lui abbiamo combattuto nelle nostre mozioni in limine, prima che il processo iniziasse. Harry e io abbiamo presentato mozione alla Corte per impedire a Skarpellos di deporre, sulla base del fatto che la sua collaborazione iniziale alla difesa di Talia, la scelta di Cheetam e la parte da lui avuta nell'ingaggiare me, lo squalifichino come teste per conflitto di interessi. Acosta ha respinto la mozione prima ancora che io venissi colpito dalla mia attuale lebbra legale. Ha accettato la tesi di Nelson: il Greco non ha mai avuto un ruolo diretto nel caso e, anche se ha fatto da intermediario nel finanziare le prime fasi della difesa, non ha mai ricevuto la minima confidenza da Talia, e quindi non è vincolato dal segreto professionale. Questo potrebbe rappresentare un appiglio per l'appello, in caso di sconfitta. Ho fatto un'altra cosa per accecare Tony sugli sviluppi del caso. Tra le esche contenute nella mia lista dei testimoni ho incluso il nome di Ron Brown, il tirapiedi di Tony nello studio. Questo ha tenuto Brown fuori dell'aula, segregato come gli altri testimoni. Non può stare qui ad ascoltare, a fungere da occhi e orecchie per Skarpellos, per poi portargli i resoconti delle testimonianze e permettergli di adattare la sua deposizione. È improbabile che gli altri giovani avvocati dello studio siano disposti ad assecondare richieste del genere da parte di Tony. Il prezzo del biglietto che porta alla pratica professionale è troppo salato per rischi simili. Oggi il Greco sprizza spavalderia e aceto, tronfio pavone in un abito grigio a righine da mille dollari. Non è un bravo avvocato, ma è sempre riuscito a calarsi nella parte alla perfezione. Percorre con aria tracotante il corridoio centrale e raggiunge il banco dei testimoni, dove presta giuramento. Non mi degna di un'occhiata fino a quando non si è seduto. Poi fa un cenno a Nelson, un piccolo saluto. Sembra pronto a scavarci la fossa. I suoi tratti marcati appaiono più grandi in questo ambiente; un portamento e un atteggiamento che corrispondono al suo ego. Nelson gli fa abilmente ripercorrere il suo primo periodo nello studio: in quali circostanze conobbe Ben, come fra loro sia subito nata una solida amicizia e una fiorente società. A sentire Tony, il loro rapporto era tutto amicizia e allegria. Due giganti del foro sull'autostrada che porta al successo. Cita l'imminente nomina di Potter alla Corte Suprema. Il Greco si sta inondando di fama riflessa a beneficio della giuria. L'ovvio sottinteso è che Ben non avrebbe potuto farcela senza di lui.
Su questo sfondo, Nelson appone il tocco da grande orafo alla deposizione del Greco. Naturalmente, questo è un uomo di cui la vittima si fidava senza alcuna riserva, un uomo al quale Ben Potter confidava le sue azioni e i suoi pensieri più segreti. Il procuratore non perde tempo ad arrivare al cuore della questione. «Nel corso delle indagini la polizia l'ha interrogata due volte, non è vero?» «Esatto», conferma Tony. «Una prima volta una settimana circa dopo l'omicidio, e una seconda volta in tempi più recenti, quando lei chiamò la polizia per riferire alcune cose di cui si era dimenticato?» «Sì, infatti.» Purtroppo Nelson ha tratto qualche vantaggio dalla dichiarazione di Tony nel mio ufficio. Un prezzo che devo necessariamente pagare per la grande ricompensa: il fatto che Skarpellos non possa affermare con certezza che Talia fosse a conoscenza dei presunti progetti di divorzio di Ben. Un buco nero nel loro movente. Nelson sta puntellando i punti più deboli. La comoda amnesia di Tony fino a pochi giorni prima del processo, quando ha chiamato la polizia per rivelare che Ben era sull'orlo del divorzio, diventa soltanto una svista innocente. «Nel corso del secondo colloquio con la polizia...» Nelson cerca la data e la precisa. «Lei ha riferito che la vittima, Benjamin Potter, aveva avuto un colloquio privato con lei. Può illustrare alla Corte il contenuto di quella conversazione?» «Obiezione, vostro onore. Voci riferite. Dicerie.» Harry è scattato in piedi. Abbiamo deciso che sarà Harry a occuparsi di Skarpellos, adesso e in controinterrogatorio. Con Harry, è meno probabile che il Greco prenda fuoco. Io assumerò il comando in seguito, quando lo richiameremo come teste della difesa. «Eccezione», tuona Nelson. «Atteggiamento mentale.» Harry sta scuotendo la testa. «In queste circostanze, vostro onore, sono la stessa identica cosa.» Acosta fa cenno ai due di avvicinarsi al banco, di lato, lontano dal teste. Segue un duello verbale fra Harry e Nelson. Talia si china sul mio orecchio. «È una bugia bella e buona. Ben non ha mai parlato di divorzio.» Lo dice a voce tanto alta da farsi udire dalla giuria, ma il giudice è occupato con Nelson e Harry. Meeks ci spara occhia-
tacce dall'altro tavolo. È la cosa più vicina a una deposizione che si potrà avere da Talia in questo processo. Al banco del giudice stanno ancora discutendo. Il problema è se questa testimonianza, i ricordi del Greco su quello che Ben gli ha detto, sia solo una diceria, o se la cosa rientri in una delle migliaia di eccezioni alla regola. Nelson sostiene che l'obiezione è improponibile. Secondo la legge, se per provare la verità di un argomento viene offerta la dichiarazione di qualcuno non presente in aula, si tratta di dicerie. La sostanza è che la parte che avrebbe fatto la dichiarazione non è presente, e quindi non può essere sottoposta al controesame. Nelson argomenta che le dichiarazioni di Ben sul divorzio non vengono offerte per dimostrare che lui di fatto volesse divorziare, ma per chiarire il suo atteggiamento mentale, per mettere in evidenza che stava pensando al divorzio. La differenza è inesistente, e Harry lo sta dicendo al giudice. L'argomentazione è sottile, e di certo sprecata con Acosta. Nocedicocco fa cenno ai due di tornare ai propri posti. «Obiezione respinta. Ammetto la domanda.» «Signor Skarpellos, ci racconti della sua conversazione con Potter», riprende Nelson. «Ben e io stavamo parlando di lavoro, nel mio ufficio, e lui di punto in bianco mi fa: 'Tony, voglio che tu sappia che ho intenzione di divorziare da Talia'. Naturalmente sono rimasto colpito da queste parole. Cioè, non sapevo proprio cosa dire.» Il Greco è sovreccitato. Fa un sacco di gesti con le mani, i palmi rivolte all'insù. Per far capire che lui non è un esperto in queste cose. «Quando ebbe luogo questa conversazione?» Skarpellos fissa la data a circa quattro mesi prima della morte di Ben. «Quando lui glielo confidò, lei cosa gli disse?» «Non ricordo», risponde Tony. «Probabilmente ero troppo scioccato per parlare.» Da qui in poi, la cosa diventa più elaborata. Skarpellos dice alla giuria che lui e Ben hanno esplicitamente parlato di un bravo avvocato divorzista, Pare che nello studio non ci fosse nessuno in grado di fare quel lavoro, quindi Potter contava su Tony perché gli indicasse il nome di qualche buon avvocato. Per lo meno, questa è la versione di Tony. «Sta mentendo.» Talia mi parla di nuovo all'orecchio. «E lei gli ha fornito questi nomi?» «Mi sono informato, e il giorno dopo gli ho fornito tre nomi fra i miglio-
ri in città.» «Perché era così importante avere un buon avvocato?» chiede Nelson. «L'accordo prematrimoniale», risponde Skarpellos. «Ben e Talia avevano firmato un accordo prematrimoniale e Ben era sicuro che lei, Talia, avrebbe cercato di farlo annullare. Di aggirarlo per non restare del tutto a mani vuote.» Talia mi guarda con l'aria di chi cade dalle nuvole. «Lei sa perché il signor Potter volesse il divorzio?» «Girava voce nello studio...» «Obiezione. Dicerie», interviene Harry. «Accolta.» «Lei sa personalmente perché Ben Potter volesse il divorzio, signor Skarpellos?» Tony guarda diritto verso di me. I suoi occhi sono piccole fessure cattive. «Come no», replica. «Ben mi disse che voleva sposare un'altra donna.» C'è agitazione fra il pubblico. «Chi?» «Non so. Non me l'ha detto. So solo che voleva tenerlo nascosto fino alla conferma della nomina.» «La nomina alla Corte Suprema?» «Esatto.» Trambusto in aula. Due giornalisti, nel lanciarsi verso la porta e le telecamere esterne, hanno urtato cinque colleghi che occupavano il corridoio centrale. Dalla mia sedia fisso il Greco, esterrefatto. Una storia simile non me la sarei aspettata nemmeno da uno come lui. Talia è sconvolta. «Non è vero», dice. «Lo avrei saputo.» Le parole sono rivolte a me, ma le pronuncia a voce alta. Acosta ci zittisce con il suo martelletto. «Avvocato Madriani, chieda alla sua cliente di stare zitta.» Il giudice distoglie lo sguardo, e a questo punto c'è un pandemonio nei posti dietro di noi. Le due file di sedie riservate alla stampa si sono svuotate. Se qualcuno dovesse sparare al giudice in questo momento, nessuno se ne accorgerebbe. Il grande spirito di iniziativa della stampa intruppata è entrato in azione. Nel pubblico, quelli che hanno sentito le parole del Greco le stanno ripetendo a chi non le ha udite. Il messaggio rimbalza, ripetuto un centinaio di volte, come uscisse da un registratore di poco prezzo, con fruscii di sottofondo.
«Ho concluso con il teste, vostro onore.» Nelson ha ottenuto tutto ciò che poteva sperare: l'ombra minacciosa di un movente per il delitto. «Una breve sospensione, vostro onore?» Harry si è alzato. «Ordine, o faccio sgomberare l'aula», dice Acosta. Dà due colpi di martelletto, e il frastuono delle voci si abbassa di alcuni decibel. «I giornalisti che sono usciti, quando vorranno rientrare, dovranno mettersi in fondo alla coda degli spettatori.» La punizione definitiva. La coda all'esterno di quest'aula è più lunga della libertà vigilata in tanti casi. Acosta sta facendo cenni con il martelletto all'usciere vicino alla porta, per accertarsi che capisca questa sua ultima modifica alle regole del gioco. Il funzionario annuisce. I giornalisti non sono abituati a fare la fila dietro i semplici mortali per avere accesso alle notizie. Acosta sta mandando loro un messaggio. Chi scombussola la sua aula, dovrà sudare sette camicie per poter rientrare. Tre giornalisti, ormai quasi arrivati alla porta quando è risuonato questo ordine, tornano ai loro posti. Adesso il giudice sta guardando Harry con estremo distacco. «Nessuna sospensione», annuncia. «Concluderemo subito. Faccia il suo controesame, avvocato Hinds.» Harry mi guarda. Sembra dire: «Lasciatemi respirare». Poi, voltandosi verso di me mentre mi passa davanti per raggiungere il teste, mi sussurra: «E se mi scoppiasse la vescica?» «Questa sì che è una storia notevole», esordisce. «Non so quasi da dove cominciare.» «Potrebbe cominciare con una domanda», suggerisce Acosta. «Giusto, vostro onore», risponde Harry. La faccia tosta dei suoi momenti migliori. «Signor Skarpellos, lei afferma che quando il suo socio le ha riferito di voler divorziare dalla moglie, lei non è riuscito a pronunciare parola perché era troppo scioccato, è così?» «Già. Ero sorpreso.» «Allora, apparentemente, il loro era un matrimonio felice?» «Che ne so io?» ribatte il Greco. «È quello che stiamo cercando di scoprire, signor Skarpellos.» «Il teste risponda alla domanda.» «Non so. Ben di certo non era felice il giorno che mi ha parlato del divorzio.» «Torniamo a quel giorno», riprende Harry. «Lei sostiene che il signor Potter le ha detto che avrebbe divorziato dalla moglie, e che le ha chiesto il
nome di qualche buon avvocato divorzista, è esatto?» «Esatto.» «E il giorno successivo lei gli ha fornito il nome di tre bravi avvocati?» «Esatto.» «Molto sollecito da parte sua», commenta Harry. «Secondo lei si trattava di un'emergenza a cui prestare attenzione immediata?» «Quando un amico chiede aiuto, io glielo do», risponde Tony. «Capisco. Chi erano questi avvocati?» «Cosa vuol dire?» «Come si chiamano i tre avvocati che lei ha raccomandato al suo socio?» «Non ricordo. È passato tanto tempo. Non erano persone che conoscevo. Ho dovuto informarmi in giro per avere i nomi. Li ho trascritti e li ho dati a Ben, tutto qui.» «Li ha controllati a fondo, eh?» Skarpellos risponde con un sogghigno. «Che a lei risulti, Ben Potter ha mai assunto uno di questi avvocati?» «Non lo so.» «Le ha parlato altre volte dell'intenzione di divorziare da Talia Potter?» «No, soltanto quella volta.» Harry lo sollecita a spiegare come mai non abbia riferito subito questa conversazione alla polizia, nel corso del suo primo colloquio con gli agenti. Skarpellos ribatte di essersene scordato, e Harry riprende alcuni punti per sottolinearli alla giuria, una rilettura della deposizione. «Si presume che un uomo si sia suicidato, e lei non ritiene importante il fatto che pensasse al divorzio, che il suo matrimonio fosse naufragato? Non ritiene che queste cose avrebbero potuto deprimerlo?» «L'ho già detto: stava pensando di sposare un'altra.» Skarpellos agita un po' le mani, si stringe leggermente nelle spalle, come a dire: «Che ci vuol fare?» «Non ci ho pensato», afferma. «Però si è ricordato in tutta fretta di questa conversazione dopo che l'imputata è stata accusata di omicidio?» «Certo. Ho pensato che potesse essere importante.» Vedo che alcuni giurati stanno mentalmente prendendo nota di questo scambio di battute. Oggi il Greco non vincerà il premio della credibilità. «Le risulta per certo che Ben Potter abbia comunicato alla moglie la sua intenzione di divorziare?» «No.»
«Quindi non le ha mai detto di aver discusso l'argomento del divorzio con Talia Potter, è esatto?» «Vero.» «Quindi, per quanto le risulta, è possibile che Talia Potter non abbia mai saputo che Ben Potter stesse contemplando il divorzio?» «Obiezione.» Nelson è in piedi. «Si chiede al teste di fare supposizioni.» «Accolta.» Non importa. Harry è riuscito a comunicare quello che gli premeva alla giuria. «Signor Skarpellos, non è forse vero che durante le prime fasi della difesa di Talia Potter, lei si è incontrato con gli avvocati che la difendevano e ha anticipato gli onorari e gli altri costi dell'azione legale?» «Obiezione», tuona Nelson. «Questo va oltre i limiti dell'esame diretto.» «La questione riguarda la credibilità del teste, vostro onore. Si tratta di stabilire se sia viziato da pregiudizio o se questa testimonianza possa essere interessata.» «Accetto la domanda», dice Acosta, «ma sarà soggetta a mozione di cancellazione dagli atti se la difesa non riuscirà a dimostrarne la pertinenza.» Harry guarda Skarpellos, in attesa di una risposta. «Ho anticipato parte delle spese. Si è trattato di un accordo d'affari. Un anticipo sull'acquisto della quota del signor Potter nello studio.» «E a un certo punto lei ha smesso di anticipare le spese, è esatto?» «Sì.» «Perché?» «Non potevo più permettermelo.» «Andiamo, signor Skarpellos. Non è vero che lei ha smesso di anticipare le spese all'imputata perché credeva che sarebbe stata condannata e che, se questo fosse accaduto, lei avrebbe ereditato la quota dello studio del signor Potter senza bisogno di doverla acquistare?» «No», replica il Greco. «Non so di cosa stia parlando.» «Non è forse vero, signor Skarpellos, che se Talia Potter verrà condannata a seguito di questo processo, in virtù del testamento di Ben Potter lei erediterà il nucleo più sostanzioso del suo patrimonio, l'intera quota di partecipazione nello studio, una fortuna che vale milioni di dollari?» «Obiezione», s'impenna Nelson. «Non saprei. Non ho idea di cosa ci sia in quel testamento.» «Capisco. Ben Potter si confida con lei sul divorzio, ma non sul testa-
mento.» «Obiezione, vostro onore.» «Si cancelli l'ultimo commento. La giuria dovrà ignorare l'ultimo commento fatto dall'avvocato della difesa.» «Non ho nient'altro da chiedere al teste, vostro onore.» Harry ha impostato lo scenario generale. «Controinterrogatorio, signor Nelson?» «No, vostro onore.» Nelson preferisce lasciare le cose come stanno. Harry si rivolge al giudice. «Ci riserviamo il diritto di richiamare il teste durante l'esposizione della nostra tesi. Chiediamo che la Corte lo tenga a disposizione.» «Così si ordina», dichiara Acosta. «Signor Skarpellos, lei resterà a disposizione fino a che non verrà chiamato a deporre per la difesa o la difesa non rinuncerà a interrogarla. Ha capito?» Il Greco è arrabbiato. Credeva di aver finito. Pensava di cavarsela con poco. Nelson ha concluso la sua esposizione. La parte dell'accusa è terminata. 36. Scruto i volti delle dodici anime che presto decideranno il futuro di Talia, magari diranno se dovrà vivere o morire. È la grande maledizione di un avvocato difensore: giurie condizionate da una generazione di violenza televisiva e da politici molto cordiali che impostano le loro campagne elettorali sul tema del crimine che dilaga nella nostra vita. Non c'è da stupirsi se oggi si crede che ci sia del marcio sotto ogni sasso. I giurati arrivano qui guidati dall'idea che sia loro compito condannare, che sia il loro dovere civico. È la spada che devo allontanare dalla testa di Talia nella mia dichiarazione di apertura. Stamattina Acosta si è ritirato per soli dieci minuti, poi è rientrato e ha respinto la nostra richiesta di proscioglimento presentata a conclusione dell'esposizione di Nelson. Per noi è stata una semplice formalità, una mozione rituale, una prassi seguita da ogni difesa in ogni processo. Ho sostenuto che l'accusa non è riuscita a dimostrare la sua tesi, a comprovare ciascun elemento del delitto oltre ogni ragionevole dubbio, a giungere a una certezza morale e che, per questa ragione, non esiste un argomento plausibile sul quale la giuria debba decidere. Per Acosta, considerati i suoi attuali sentimenti nei miei confronti, re-
spingere questa mozione è stato un giochetto da ragazzi. È stata avanzata e discussa non in presenza della giuria, l'unica cosa che ci è stata risparmiata. Non ci hanno visti sconfitti su questo punto vitale. Diventerà un'altra freccia nella nostra faretra in appello, se Talia venisse condannata. Così ora sono in piedi davanti alla giuria, al centro del banco, con uno sguardo così intenso da uccidere persone troppo sensibili. «Si è trattato di un grave delitto.» Chiamo a raccolta tutta la fermezza che mi riesce, tengo testa ai loro sguardi, aggancio la loro attenzione. «E, come voi, crediamo che i delitti gravi debbano essere puniti. Talia Potter lo crede. Un brutale omicidio le ha tolto il marito. Chi è la vittima principale qui, la società o la vedova lasciata al suo dolore?» chiedo. Guardo Talia che tiene gli occhi bassi, doverosamente addolorata. Al suo fianco c'è Harry, a consolarla gentilmente. «Comprendiamo il desiderio di una condanna», dico loro. «Ma per soddisfare questo desiderio non dovete punire la parte sbagliata. Farlo significherebbe perpetrare un'ingiustizia più mostruosa del crimine stesso.» Vedo alcune teste annuire tra queste file di grano. «Sì, siamo d'accordo che chiunque abbia commesso questo delitto lo ha fatto con fredda e calcolata premeditazione.» Qui porto la mia voce a un'altezza poderosa. «Ma le prove dimostreranno che questa persona, quest'assassino, non è l'imputata, non è Talia Potter.» Mi soffermo sulla scena del delitto, l'ufficio di Ben, l'ascensore di servizio, le distanze che l'assassino ha dovuto percorrere per portare a termine ciascuna fase del suo crimine, l'uso di un fucile. E chiedo: «Sono le azioni di una donna? Sono le azioni compiute da Talia Potter? «Mentre ascolterete le prove che stiamo per sottoporvi, voglio che riflettiate sul fatto che ci sono molti modi per uccidere», proseguo, «molti modi più facili, più puliti di questo per uccidere. Mentre vedrete sfilare queste prove, dovrete porvi una domanda: 'È possibile, è probabile, che se Talia Potter avesse avuto intenzione di uccidere il marito lo avrebbe fatto in questo modo?'» Li lascio pensare all'improbabile carrello per mobili di Coop, e osservo Nelson e Meeks che si consultano, con le penne posate sui blocchi. È un problema per la loro tesi. Nell'aiutarmi, nello smantellare la teoria del complice, Coop ha aperto, volente o nolente, un grosso squarcio nella tesi di accusa contro Talia. Mi ritiro al tavolo della difesa per bere un sorso d'acqua e poi torno alla giuria.
«Chi è Talia Potter?» chiedo. Questo è essenziale: rendere Talia umana ai loro occhi. Ripercorro con loro la sua vita, gli inizi in cui ha dovuto contare unicamente sulle sue forze e il suo progredire, grazie agli sforzi e all'istruzione, sino a diventare una ricca donna d'affari; sino a diventare, per meriti propri, un rispettato membro della comunità. Ricordo loro che se l'imputata è qui a rispondere di quest'accusa è solo perché lo Stato le ha negato la possibilità di respingere le accuse davanti al gran giurì che l'ha incriminata. «Si è trattato di procedure segrete», spiego, «procedure alle quali alla mia imputata non è stato concesso il diritto di presenziare, procedure controllate esclusivamente dalla pubblica accusa, davanti alla quale non le è stato permesso di essere rappresentata da un avvocato. Ecco perché Talia Potter è oggi qui davanti a voi.» Dalle espressioni, capisco che questa è una cosa che non avevano mai considerato: l'elementare assenza di imparzialità nel procedimento che ha portato Talia alla sua attuale situazione. «Il giudice che l'ha rinviata a giudizio non ha applicato la norma delle prove oltre ogni ragionevole dubbio», dico, «ma si è semplicemente limitato a vedere se esistessero prove qualsiasi, non importa quanto deboli, non importa quanto remote, che potessero incriminare Talia Potter.» Guardo di sottecchi Acosta. Non ha nessuna intenzione di disquisire con me sulle sottigliezze della causa probabile. «Voi, signore e signori della giuria, siete le prime persone a esaminare i fatti di questo caso e ad applicare il critico requisito imposto dalla legge, a decidere se siamo in presenza di prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Sotto ogni punto di vista, questa è la prima occasione imparziale offerta a Talia Potter di dimostrare la sua innocenza. Sì, ho detto dimostrare la sua innocenza, e questo nonostante il fatto che per legge l'onere della prova competa alla pubblica accusa. «Ecco perché», sottolineo, «è essenziale che voi vi presentiate qui senza idee preconcette.» Tocco il tema sottinteso da ogni pubblica accusa in ogni causa, l'implicita allusione che la società sia devastata dall'epidemia di criminalità che ha invaso la nostra vita. «Dovete sgomberare la mente da simili pensieri. Questi concetti violano il giuramento che avete fatto in qualità di giurati. Non siete qui nelle vesti di un comitato di vigilantes», dico loro, «incaricati di esigere vendetta per conto della società.»
Poi passo a punti più concreti e immediati. «La pubblica accusa sta tentando di processare le passioni. Ha fatto davvero di tutto, e anche di più, per metterei al corrente delle relazioni con due uomini consumate in un motel.» È un punto che non posso ignorare. Farlo significherebbe conferire al tema dell'infedeltà di Talia una patina di prova concreta, permettere a Nelson di dipingerla come parte del movente per il delitto. «Non siamo bambini, signore e signori. Nessuno di noi è così ingenuo da credere che queste cose non accadano. Sappiamo che tutti i matrimoni non sono modelli costruiti in cielo. Le immagini di coppie idilliache... Grace e Ranieri, Bogart e Lauren Bacall, visioni che conserviamo dalla nostra giovinezza... Signore e signori, sono miti. Lo sappiamo benissimo. Che l'infedeltà possa, di tanto in tanto, insinuarsi in un matrimonio non significa che due persone non si amino, che siano qualcosa di più o di meno di semplici esseri umani con tutti i loro difetti e le loro debolezze. «Ma qui stiamo parlando di omicidio. E, nonostante quello che il procuratore distrettuale vuole farvi credere, il fatto che Talia Potter possa essere stata vista in un motel in compagnia di un uomo, o di un esercito di uomini, non fa di lei un'assassina.» Ora fisso il mio sguardo su di loro. «Talia Potter non è un'assassina», ripeto, «nonostante le affermazioni della pubblica accusa.» È arrivata l'ora di Nelson. Gli punto contro un indice minaccioso. Sotto le spoglie di una dichiarazione di apertura, sto fornendo alla giuria un infuocato riepilogo della tesi della pubblica accusa, dei suoi punti deboli e delle sue affrettate conclusioni. È questo il vantaggio di avere posticipato la nostra apertura. Ci vado pericolosamente vicino, poi varco il confine, mi addentro in una vera e propria arringa; ma Nelson non solleva obiezioni, attento a non dimostrarsi ingiusto nei rapporti con la difesa. Dopo tutto, noi non abbiamo sollevato obiezioni durante il suo discorso alla giuria. Il suo continuo silenzio è un invito. Mi prendo ampie libertà. Acosta mi sta guardano furibondo. Obiezione o meno, non riesce a trattenersi oltre. «Avvocato Madriani, l'esposizione della sua tesi avverrà in seguito», tuona. «Questo è il momento della dichiarazione di apertura. Vale a dire l'enunciazione di quanto stiamo per ascoltare, niente di più.» Rivolgo un cenno d'assenso al giudice. Ho ricevuto un piccolo rimprovero, però ho detto quello che avevo da dire.
«Molto bene, vostro onore.» Riporto lo sguardo sulla giuria. Modulo un po' la voce e cambio tattica. «Quando avremo concluso, vi porrò un'unica domanda centrale, un quesito che costituisce il nocciolo di questo caso e che vi condurrà al verdetto conclusivo. Desidero chiedervi di prepararvi, ora e per tutta la seconda parte del processo, a rispondere a quell'unica domanda.» Adesso ho la loro piena attenzione. Si stanno chiedendo cosa sia questo proiettile magico che guiderà la ragione. «Vi chiederò se, nell'esposizione della sua tesi, la pubblica accusa...» Guardo e indico il loro tavolo, dove Meeks appare lievemente smarrito «... abbia presentato qualche prova schiacciante, una pur minima prova convincente della colpevolezza di Talia Potter. «Oh, in questo caso ci sono cose sulle quali il signor Nelson e io non siamo affatto in disaccordo», dico. «Siamo d'accordo con la pubblica accusa che Ben Potter è stato assassinato.» Ancora non perfettamente certo che la mia sia davvero una dichiarazione di apertura, Acosta sembra comunque soddisfatto di avermi strappato almeno una piccola ammissione. «Su questo siamo d'accordo», continuo. «Non si è trattato di suicidio. Siamo d'accordo che chiunque abbia perpetrato questo infame delitto lo ha fatto con fredda e calcolata premeditazione. «Ma avete anche visto le incongruenze nella tesi dell'accusa, le falle nelle loro prove, i fatti rimasti senza spiegazione. Cosa dimostrano queste prove, signore e signori? Cosa vi dicono?» «Avvocato Madriani.» Nocedicocco mi incalza dal suo banco, mi lancia un altro avvertimento. Lo ignoro e rispondo io stesso alla domanda. «Rivelano, come dimostreremo con le prove in nostro possesso...» Adesso mi rivolgo ad Acosta. Il mio linguaggio è rientrato nella carreggiata della formula di una dichiarazione di apertura, si limita a quello che esibiremo «... che qualcuno ha fatto di tutto per far apparire che sia stata Talia Potter a commettere questo omicidio. Qualcuno che aveva moltissimo da guadagnare, qualcuno con forti ragioni per uccidere Ben Potter. «Quello che avete finora ascoltato è di natura esclusivamente indiziaria. Informazioni sconnesse dalle quali l'accusa si aspetta che voi facciate balzi quantici di logica, che traiate conclusioni che sfidano la ragione, che troviate Talia Potter colpevole di un omicidio che non ha commesso.» Acosta è nero. «Ma vi chiedo di aspettare, signore e signori, di aspettare fino a che non
avrete sentito e visto tutte le prove, comprese quelle che noi ora vi sottoporremo. «A conclusione del dibattimento, vi chiederò di mettere a confronto le circostanze descritte dalla pubblica accusa con quello che vedrete e sentirete nei prossimi giorni. Da questo momento in poi, signore e signori, vi verranno fornite prove concrete, convincenti, schiaccianti, prove che dimostreranno oltre ogni ragionevole dubbio chi ha ucciso Ben Potter, e perché.» A queste parole, dodici paia di occhi mi fissano dal banco dei giurati. Facendo questa promessa non corro un rischio calcolato. Fin dall'inizio abbiamo abbracciato questa teoria. Ora dobbiamo dimostrare che è esatta, o pagare le conseguenze del fallimento. Mi viene messo un altro bastone fra le ruote. La decisione di Acosta che i termini del testamento di Ben siano irrilevanti, nonché il suo rifiuto a permettermi di interrogare Matt Hazeltine sull'argomento, costituiscono un grave intralcio alla nostra tesi. Se non riesco a dimostrare che Skarpellos erediterà somme enormi dal patrimonio di Ben se Talia venisse condannata, non potrò condurre la giuria all'ovvia conclusione che il Greco l'ha incastrata. «Sa tutto, per filo e per segno», afferma Harry. Siamo fuori dell'aula, in corridoio. Nocedicocco è in pausa, per esigenze corporali. Harry ha parlato con Jo Ann Campanelli. Jo è al corrente dei termini del testamento di Ben. Era uno dei due testimoni che hanno firmato nell'ufficio il giorno in cui il testamento è stato redatto. Non so perché non ho pensato prima ai testimoni che sottoscrivono. In questo Stato, per autenticare un testamento ne occorrono due, e il nome di Jo Ann era in calce a questo. Harry lo ha scoperto mentre io ero occupato a tirarmi fuori dalle varie fosse che mi ha scavato Acosta. «Non solo lo ha firmato», spiega, «ma ha anche battuto a macchina il testo dagli appunti che le aveva fornito Hazeltine dopo aver visto Potter.» Harry è al settimo cielo. Gli dico di riportare i piedi per terra. Dobbiamo ancora affrontare Acosta, per il quale ogni discussione sul testamento di Ben è assolutamente esclusa. Ho chiesto e ottenuto copia del testamento, ma non posso farlo includere tra le prove senza un teste preliminare. Jo Ann è chiaramente la mia carta migliore, ma quest'ultima rivelazione influisce sull'ordine dei miei testimoni. Fin dall'inizio sono stato combattuto, incapace di decidere se chia-
mare il Greco per primo, inchiodarlo per l'alibi, fargli raccontare i suoi calorosi rapporti con Potter, e poi distruggerlo con le prove e i testimoni successivi (Jo Ann che ha sentito Ben e Tony urlare in ufficio, i libri contabili del conto fiduciario dai quali risulta che il Greco si è appropriato regolarmente di quel denaro); o se invece chiamare Skarpellos per ultimo, in uno spettacolare interrogatorio che gli darebbe il vantaggio di sapere in anticipo chi siano questi testimoni, leggere i resoconti delle loro deposizioni sui giornali, e adeguare le sue risposte alla situazione. All'inizio i miei piani erano di chiamare Tony per primo. Ora la musica è cambiata. Ho bisogno di qualcosa che lo distragga, che gli faccia credere che sto per distruggere la sua credibilità, ma con qualcosa di meno importante di quello che in realtà ho in mano. Kim Palmer è una di quelle donne dall'ossatura minuta, snella e abbronzata, asciutta, con il tipo di bellezza sportiva che nasce soltanto nelle stazioni termali e nelle palestre frequentate dal jet set femminile. Prima dell'arresto di Talia, lei e Kim erano inseparabili. Ora il rapporto è più contenuto, però non ho dovuto ricorrere alle maniere forti per farla venire qui a parlare a favore di una vecchia amica. Kim è uno dei vari testimoni secondari che ho in serbo. Due dei colleghi dell'agenzia immobiliare di Talia hanno già regalato ottime dosi di buona reputazione, dipingendola come una retta e seria donna d'affari. Entrambi hanno dichiarato che sarebbero pronti ad affidarle vita e averi. Kim Palmer è un caso speciale. L'unico membro della cerchia sociale di Talia che userò. «Dunque lei conosce Talia Potter da un certo numero di anni?» le chiedo. «Otto», risponde. «E per tutto questo periodo siete state amiche intime?» «Buone amiche», dice Kim. «Con quale frequenza si incontrava con la signora Potter, nell'arco di questo periodo?» «Almeno due volte a settimana. Andavamo assieme in palestra e pranzavamo assieme almeno una volta a settimana.» «A quanto le risulta, è una persona sincera?» «Ho una fiducia cieca in lei.» «In quanto amiche, vi facevate confidenze, cose che non avreste detto ad altre amiche meno strette?»
«Credo proprio di sì.» «La signora Potter le ha mai parlato del suo matrimonio?» «Oh, sì.» «E cosa le diceva?» «Che era molto felice, che amava suo marito. Me lo ha ripetuto molte volte. La sua vita era tutta incentrata sul marito.» «La signora Potter le ha mai detto che negli anni del suo matrimonio, mentre era sposata con Ben Potter, usciva anche con altri uomini?» «Assolutamente no. Come ho detto, era felicemente sposata.» C'è qualche sorriso al banco della giuria. Robert Rath, il mio «fattore alfa», si è portato la mano alla bocca, incapace di scacciare l'allegria dal viso. Questa testimonianza può anche non valere un granché, ma funzionerà da diversivo con il Greco, gli farà pensare che il mio unico punto di attacco riguardi la sua credibilità sull'intenzione di divorzio di Ben. «Signora Palmer, Talia Potter le ha mai detto che il marito stava pensando al divorzio?» «Mai», dichiara. «Data la natura del vostro rapporto, pensa che, se il marito avesse chiesto il divorzio, lei glielo avrebbe raccontato?» «Senz'altro. Eravamo come sorelle.» Qualche giurato ha alzato gli occhi al soffitto e si è messo a contare i pannelli. «Ma non le ha mai detto, mai, che Ben Potter stava contemplando un divorzio?» «No, mai. Assolutamente no.» «Lei conosceva Ben Potter?» «L'ho incontrato in svariate occasioni. Mio marito e io siamo andati a qualche festa dai Potter. Loro sono stati nostri ospiti a cena almeno tre o quattro volte.» «I signori Potter le sembravano una coppia innamorata?» «Obiezione.» Nelson è in piedi. «Si chiede alla teste di esprimere un'opinione.» «Tantissimo. Lui la adorava, e questo a lei piaceva molto», risponde Kim. «Accolta», sospira Acosta. Sorride a Kim Palmer. «Quando l'altro avvocato solleva un'obiezione...» Lei annuisce vigorosamente, attenta a ogni istruzione del giudice. «Lei non deve parlare fino a che io non ho espresso una decisione.»
«Mi scusi», dice Kim. «D'accordo.» Acosta sorride, un grande sorriso vorace. Poi, con il suo tono di voce più virile, dà ordine alla stenografa di cancellare dagli atti la risposta della teste. Ho l'impressione che sia attratto da questa donna. Mi passano per la mente visioni di un Don Giovanni in filanca nera che insidia Kim Palmer in una palestra. Non è un bello spettacolo. Mi fermo a meditare sulla domanda successiva, cerco una tattica per aggirare l'obiezione di Nelson. «Cosa avrebbe detto se qualcuno che non fosse il signor Potter o lo signora Potter l'avesse informata che Ben Potter stava contemplando un divorzio?» «Avrei detto che si sbagliava di grosso, oppure che mentiva.» Kim alza la testa e sorride ad Acosta. Lui annuisce, come a dire: «Così va bene». Kim si sta comportando proprio nel modo giusto, Poi la consegno a Nelson. «Signora Palmer, è vero o non è vero che l'imputata ha avuto varie relazioni con altri uomini?» «Non è vero.» «È vero o non è vero che lei stessa ha avuto relazioni con altri uomini e che voi due, lei e Talia Potter, di fatto vi siete concesse incontri a quattro in svariate occasioni?» «Assolutamente no. Le sue insinuazioni mi offendono», dice Kim. Ha alzato gli occhi verso il giudice in cerca di protezione. Dal banco del giudice piove una stupenda indignazione. Acosta sta riservando a Nelson la sua espressione di massima disapprovazione, lo sguardo di un uomo chiamato ad affrontare il bullo della città per difendere l'onore di una donna vilipesa. «Signora Palmer...» Nelson mette l'accento sul «signora», a sottolineare il fatto che Kim è sposata, che anche lei è una donna perduta. «Conosce un uomo che si chiama Raul Sanchez?» A questa domanda Kim Palmer sgrana gli occhi. «Non ricordo...» Sta parlando lentamente, pensando o facendo finta di pensare. «È un nome che mi dice qualcosa.» «Più che logico», ironizza Nelson. «Il maestro di tennis del club che lei e la signora Potter frequentavate.» «Ah, già. Adesso ricordo.» «Bene. Che lei sappia, la signora Potter è mai uscita con Raul Sanchez?»
Nelson rotola il nome «Raul» sulla lingua neanche fosse un elisir esotico, un afrodisiaco latino. Kim ride. Una risata alta, squillante, che fa sorridere metà dei giurati. «Non credo», dice. «Molto improbabile.» Sembra che l'idea la diverta. «La sorprenderebbe se le dicessi che l'imputata è stata vista prendere una stanza in un motel in più di un'occasione in compagnia di Raul Sanchez?» «Ah, ecco», cinguetta Kim. Ride di nuovo. «È tutto qui? No, non mi sorprenderebbe affatto.» Nelson è preso in contropiede da questo improvviso scoppio di sincerità. Si gira a guardare Meeks, chiedendosi se per caso non si sia messo nei guai. «E perché la cosa non la sorprenderebbe?» «Raul, il signor Sanchez», spiega Kim, «andava con molte delle sue clienti in quel motel.» Ci pensa un attimo e poi salta fuori con il nome del posto, senza alcun aiuto da parte di Nelson. «E perché mai, di grazia?» chiede Nelson. «Perché là c'erano dei campi da tennis liberi.» «Scusi?» «Lui era un maestro di tennis», chiarisce Kim. «Quando il circolo era pieno, quando tutti i campi erano occupati, quel motel era il più vicino che avesse i campi privati. Il circolo aveva un accordo con il motel. Non c'erano spogliatoi, e nemmeno docce pubbliche, così prendevamo delle stanze.» Nelson si volta e scocca a Meeks un'occhiata assassina. A quanto pare, siamo di fronte a un altro lavoro approssimativo della polizia, qualcosa di cui il loro impiegato del motel non ha parlato, o una domanda che Lama, nella sua fretta di correre in tribunale, ha dimenticato di fare. Talia si sta godendo questo interrogatorio. Evidentemente, queste piccole sorprese nella tesi di Nelson sono proprio gli stimoli positivi che le servono. A ogni piccola novità svelata dalla teste, fra Talia e Kim Palmer corrono occhiate, come se ciascuna rivelazione fosse uno schiaffetto in faccia a Nelson. «Comunque», continua Nelson, «ammetterà che è strano, un po' inverosimile che un uomo e una donna sposata vadano insieme in una stanza di motel.» Sta tentando di recuperare qualcosa, almeno l'ammissione di un comportamento scorretto. «Il nome di Raul non compariva mai sul registro», dice Kim. «In giro c'è gente che vede porcherie dappertutto.» Qualcuno ride fra il pubblico, i giurati sorridono.
Talia mi sta guardando con un grande sorriso: sembra volermi dire che Duane Nelson non è all'altezza di gestire Kim Palmer. «Per giunta, Raul era assolutamente sicuro», continua Kim. «Prego?» «Non so in che modo dirlo», esita Kim. Nelson la sta guardando, come un animale inseguito, accecato e ormai in trappola. «Aveva una predilezione per gli uomini. Come un cancello dai cardini arrugginiti... Si apriva da una parte sola.» A questo punto, dalla giuria giungono aperte risate. Anche Acosta se la sta godendo. Nelson non gode affatto. Quando Kim mi ha detto di Raul e delle sue tendenze, stavamo preparando la sua testimonianza. Non sapevo se crederle o no. Kim possiede una fervida immaginazione, è uno di quegli spiriti inventivi per i quali la licenza è tutto. Talia sosteneva di non saperlo. Ma io sono partito dal presupposto che Raul fosse tanto lontano da rendere alquanto improbabile che la polizia o la Corte spedissero qualcuno a Rio a controllare. Tutto sommato, le imprese sessuali di Talia stanno cominciando ad assumere il fantasioso aspetto della polverina magica. Non c'è nulla di più letale dell'umorismo per le serissime teorie dell'accusa. Nelson ne ha abbastanza. È una battaglia persa, con Kim Palmer. Conclude, e io rinuncio a fare altre domande. È improbabile che riesca a fare più danni di quelli che sono già stati fatti. La Corte si aggiorna. Kim scende dal banco dei testimoni, e non fa mistero del suo affetto per Talia. Le due donne si abbracciano a pochi metri dai giurati che stanno sciamando dal banco. Con mia meraviglia, alzo gli occhi e vedo una terza donna unirsi alla scena. Stringe calorosamente la mano a Kim Palmer, poi l'abbraccia e si presenta. È Nikki che si è sporta dalla transenna. C'è cameratismo, una complicità femminile che rivela come Kim Palmer abbia spezzato una lancia a favore di tutte le donne. Anche se la sua testimonianza non sarà fatale per la tesi di Nelson, sono le piccole pugnalate come questa che, assieme ad altre, possono far vincere una causa. «È stata magnifica», esclama Nikki. Sta guardando Kim. Colgo uno sguardo ammirato e una strizzatina d'occhi da parte di mia moglie. Penso stia cominciando a provare un rinnovato ottimismo, a convincersi che forse ci sarà vita dopo questo caso. 37.
Skarpellos ha appena fatto in tempo a cambiarsi d'abito che già deve tornare al banco dei testimoni. Questa volta lo affronto io sin dall'inizio. Harry è al tavolo a prendere appunti. Non giro attorno alla questione: questo teste è mal disposto. Con il consenso di Acosta, per quanto a denti stretti, Tony viene ufficialmente definito teste ostile, dopo di che posso procedere con le mie domande. «Questa storia», esordisco. «Questo episodio di Ben Potter che le parla dei suoi progetti di divorzio, in realtà non è avvenuto, non nel modo che ha raccontato lei, non è così?» «Assolutamente sì, parola per parola.» Il Greco sembra inflessibile. «Le ha mai detto di averne informato la moglie? Le ha mai confidato di avere detto a Talia di volere il divorzio?» Qui cammino su un terreno sicuro. Se risponde con qualcosa di diverso da un semplice «no», lo inchioderò con una copia della trascrizione della deposizione che ha reso nel mio ufficio. Ammette che Ben non gli ha mai detto che Talia fosse al corrente dei suoi progetti di divorzio. Però poi tenta di abbellire la realtà, di ricamarci sopra qualche ipotesi. «Il divorzio non è qualcosa che un marito tenga nascosto alla moglie. Non quando è già in cerca di un avvocato.» Offre tutto questo alla giuria senza che gli sia stata fatta alcuna domanda. «Chiedo che vengano cancellate le ultime due frasi», dico. «Il teste sta facendo pure congetture.» «Accolta. La stenografa cancelli dagli atti questa risposta. Signor Skarpellos, si limiti a rispondere alle domande che le vengono fatte.» Il Greco si strofina il naso con il pollice e annuisce, bellicoso, come un ragazzino di strada costretto da qualcuno ad abbassare un po' la cresta. «Per quanto le risulta, signor Skarpellos, in base alla sua esperienza personale, a quello che ha saputo o sentito, Ben Potter non ha mai parlato a Talia Potter dell'intenzione di divorziare, è così?» «Sì, certo», risponde. Adesso sta diventando arcigno. «Nella fase iniziale di questo caso, lei ha prestato del denaro alla signora Potter per la difesa, non è vero?» «Maledettamente vero. E non mi ha ancora restituito un centesimo.» «Vostro onore.» Mi aspetto che Acosta tiri di nuovo la catena che il Greco ha al collo. «Signor Skarpellos. Nel seminterrato abbiamo una piccola cella che ri-
serviamo ai testimoni che non collaborano. Non voglio ripeterglielo un'altra volta.» Il Greco gli punta addosso due occhi al laser. «Quanto ha prestato a Talia Potter per la difesa?» chiedo. «Non so. Settantacinque, ottantamila dollari.» «Ottantamila dollari?» esclamo. Lui annuisce. «Non sono spiccioli», commento. «Lo ha fatto per generosità di cuore e per nessun'altra ragione?» Mi guarda aggressivo. Sa che ho copie degli accordi per il prestito che ha costretto Talia a firmare, gli accordi nei quali la quota di Ben nella società risulta come garanzia. «Le ho anticipato il denaro perché le proprietà del marito erano bloccate. Aveva bisogno di quei soldi per pagare lei, avvocato», spiega. Gira le carte in tavola, dà l'impressione che io sia una specie di sanguisuga. Gli rivolgo un sorriso e proseguo. «In questa città, lei ha fama di essere un uomo d'affari avveduto. In quel caso non si è trattato di prestiti concessi senza garanzie, vero? Avevano garanzie collaterali, erano garantiti dalle proprietà dell'imputata, non è vero?» «Non si danno via ottantamila dollari per un bel faccino», risponde. Emette una sola, robusta risata a beneficio della giuria. «E quali garanzie collaterali ha preteso per questi prestiti?» «Un pagherò cambiario per la quota di Potter nello studio.» «Uno studio che vale molti milioni, e lei ha anticipato ottantamila dollari. Qualcuno definirebbe questa mossa ben più che avveduta, signor Skarpellos. Qualcuno potrebbe addirittura definirla una rapina.» «La chiami come vuole. Talia aveva bisogno del denaro, e io gliel'ho dato quando non c'era nessun altro a farlo.» Annuisco, faccio una smorfia in direzione della giuria, suggerendo implicitamente che deve essere qualcosa che soltanto uno squalo riesce a capire. «Immagino abbia prestato quei soldi all'imputata perché pensava che fosse innocente del crimine di cui era accusata.» «No», risponde. «Le ho prestato i soldi perché le servivano.» Mentre lui pronuncia queste parole, io mi sto dirigendo a grandi passi verso la giuria. Mi fermo di botto, gli occhi spalancati a guardare i giurati.
Un po' di finto stupore. «Quindi lei credeva che Talia Potter avesse ucciso il suo socio, che avesse assassinato uno dei suoi migliori amici, e ha pensato di prestarle un po' di soldi per la difesa, così, tanto per ridere? O era un'occasione economica che semplicemente non poteva lasciarsi sfuggire, un affare che capita una sola volta nella vita e che lei voleva afferrare al volo?» «Non lo so. Non ci ho pensato. Non ho riflettuto. Le cose stavano succedendo molto in fretta», risponde. «Bene, qualunque fosse il motivo, lei pensava che Talia Potter avesse commesso il delitto o no?» «Obiezione. Si chiede al teste di esprimere un parere», interviene Nelson. Ma la sua reazione è un po' lenta. «No, niente affatto», dico. «Sto cercando di scoprire cosa pensasse il teste quando ha concesso i prestiti. Cosa lo abbia spinto a dare denaro a una donna accusata di avere ucciso il suo socio.» Acosta dal suo scranno fa un gesto con la mano, come un papa che impartisca una pigra benedizione; quindi mi permette di sondare questo terreno. A quanto sembra, parte del suo rancore sta cominciando a sbollire. «Quando ho fatto il prestito, non sapevo se avesse commesso il delitto o no», si giustifica Skarpellos. «Ammetto di essere confuso», ribatto. «Lei è qui in veste di testimone in questo processo, e ha dichiarato a questa giuria che Ben Potter stava per divorziare dalla moglie, fornendo alla signora Potter quello che sembrerebbe un ottimo movente per un omicidio, salvo il fatto che apparentemente la signora Potter non era a conoscenza del divorzio, e al tempo stesso lei non sa dire se pensa che Talia Potter abbia ucciso il marito o no. Un giorno lei finanzia la difesa di Talia Potter, e il giorno dopo è qui a testimoniare contro lei.» «Obiezione», dice Nelson. «Dov'è la domanda?» «Ho ricevuto un mandato di comparizione», spiega Skarpellos. «Il teste sembra avere afferrato la domanda», informo Nelson. Il procuratore si siede. «Però lei non era sotto ingiunzione del tribunale, non era obbligato a chiamare la polizia, a riferire la storia che dice di avere in un primo tempo dimenticato, questo racconto di un'infelicità coniugale che lei sostiene le sia stata confidata dal signor Potter. Vero o no?» «Infatti. Ho chiamato la polizia perché pensavo fosse importante.»
«Abbiamo già chiarito queste cose», interviene Nelson. «Esatto», conferma Acosta. «Avvocato Madriani, proceda.» «Certamente, vostro onore. Parliamo del patrimonio del signor Potter. Era al corrente del fatto che il suo socio, l'avvocato Hazeltine, aveva redatto il testamento di Ben?» «Obiezione», sbotta Nelson. «Credevo avessimo già deciso che questo è irrilevante.» «Forse l'ha deciso lei, non io», ribatto. «Sono disposto a fornire la prova, vostro onore, non alla presenza del teste, che la cosa non soltanto è rilevante, ma addirittura vitale per la difesa di Talia Potter.» Acosta ci fa cenno di avvicinarci: una piccola conferenza all'altra estremità del banco del giudice, lontano da Skarpellos. Gli dico che altri testimoni che chiameremo a deporre chiariranno i collegamenti, mostreranno la rilevanza. A voce sommessa, preciso che il Greco aveva moltissimo da guadagnare dalla morte di Ben Potter. Mostro a tutti e due il paragrafo del testamento di Ben che dichiara Skarpellos beneficiario principale, ma solo nel caso che la beneficiaria non possa essere Talia. Nelson ribatte a denti stretti, fino a che non lo metto a tacere. «Questo teste ha mentito ai suoi stessi investigatori», gli dico. «Avete controllato il suo alibi per la sera dell'omicidio?» «Certo. È di ferro», risponde Nelson. «È una menzogna», replico. «Ha corrotto un'altra testimone, e lo proverò.» Sono accuse gravi, e Acosta ne sta prendendo ampiamente nota. Ci allontaniamo dal banco. «Ammetto la domanda», annuncia il giudice. Una grossa vittoria ottenuta con una brevissima discussione a base di sussurri. Vedo che ha un certo effetto sui giurati. Si stanno chiedendo cosa io possa avere detto a Nocedicocco per provocare un cambiamento del genere. «Signor Skarpellos, era informato che il suo socio, l'avvocato Hazeltine, aveva redatto un testamento per Ben Potter?» «Non so. Può darsi.» «Ha mai discusso del testamento con l'avvocato Hazeltine?» Il Greco resta zitto a guardarmi. Ha la bugia scritta negli occhi, ma non gli è ancora arrivata alle labbra. Si sta chiedendo se ho parlato con Hazeltine, se lo richiamerò al banco. Soprattutto si sta chiedendo se Hazeltine dichiarerà il falso per nascondere quello che succede in ogni studio legale: la prassi di scambiarsi confidenze proibite, fra avvocati che si ritengono
esentati dalla norma che sancisce come sacro il segreto di un cliente. «Può darsi.» «Può darsi che lei abbia discusso del testamento di Ben Potter con l'avvocato Hazeltine. Ricorderebbe senz'altro una cosa del genere, no?» «Si parla di un sacco di cose, in ufficio. Non posso ricordarle tutte.» «Capisco. In ufficio discutete apertamente delle informazioni confidenziali tra cliente e avvocato. Cos'è, amore del pettegolezzo?» «No.» Tony pronuncia questo monosillabo con una bella dose di sprezzo. «A volte è necessario parlare fra colleghi, discutere le cose, chiedere consigli», dice. «Lei lo sa.» «Ci sta dicendo che l'avvocato Hazeltine si è presentato da lei e le ha chiesto consiglio sul modo in cui redigere il testamento di Ben Potter?» Improvvisamente le sue spalle si animano di vita propria, si agitano come se il Greco stesse tentando di scrollarsi di dosso questa particolare scimmia. «Potrebbe averlo fatto.» «Ma lei non lo ricorda?» «No, non lo ricordo.» «Allora chiariamo le cose, per gli atti», proclamo. «Signor Skarpellos, è vero o non è vero che lei e l'avvocato Hazeltine avete discusso il testamento del signor Potter e che l'avvocato Hazeltine le riferì che lei era stato nominato principale beneficiario del signor Potter nel caso fosse successo qualcosa alla signora Potter? È vero o non è vero?» È un rischio calcolato. Però io conosco le dinamiche di quel posto, dello studio, e so cosa Tony Skarpellos può ottenere dagli altri soci. «Può darsi che lo abbiamo fatto.» «Può darsi?» gli tuono addosso. «D'accordo, ne abbiamo parlato. Va bene?» «Va bene», concedo. Abbasso il tono della voce, sorrido un poco, come per dire: «Visto che non era difficile?» Mi giro e vado al tavolo della difesa a bere un sorso d'acqua, quasi volessi brindare a un punto importante appena segnato. Mentre riempio il bicchiere, Harry mi fa scivolare sotto il naso il suo blocco per appunti. Il punto successivo in scaletta. Deposito la copia del testamento di Ben, che tenevo in mano, ed estraggo un altro documento dai fascicoli che Harry ha sistemato sul tavolo. Torno da Tony al banco. «Signor Skarpellos, lei è stato interrogato dalla polizia poco dopo la morte del signor Potter, è esatto?»
«La mattina dopo, molto presto», conferma. Ci racconta che la polizia lo ha tirato giù dal letto alle tre del mattino per informarlo della morte di Ben. «Immagino che lei si sia recato immediatamente in ufficio.» «Immediatamente.» «Con chi ha parlato?» «Con la persona che dirigeva le indagini. Il detective Canard.» «Bene», dico. Mi muovo davanti al banco dei testimoni, apparentemente contento di averlo portato a questo punto. «Ricorda di cosa ha parlato con il detective Canard?» «C'era una gran confusione», dice. «Un caos enorme in ufficio. Poliziotti dappertutto.» «Ma di cosa avete parlato?» «Mi ha chiesto se fossi a conoscenza di qualche motivo che potesse spingere Ben a togliersi la vita.» «E lei cosa ha risposto?» «Non ho mai creduto alla storia del suicidio, e gliel'ho detto.» Faccio un cenno d'assenso, gli indico che almeno su questo punto siamo d'accordo; gli lascio intendere che forse ho finalmente sotterrato l'ascia di guerra, che forse stiamo facendo la pace. Skarpellos respira un po' meglio. «E di che altro avete parlato?» «Ha chiesto se sapessi di qualcuno che potesse volere la morte di Ben, qualcuno con motivi di rancore.» A detta del Greco, la domanda gli era parsa un po' strana, ma poi aveva considerato le domande su un eventuale omicidio prassi standard della polizia. Secondo Tony, Ben era un principe, un uomo amato da tutti, e lo disse a Canard. «È stata soltanto routine?» chiedo. «Le domande che si sarebbe aspettato?» «Certo.» «Immagino le abbiano chiesto dov'era lei quella sera.» Questo è nel rapporto della polizia che ho preso dalla pila di documenti preparata sul tavolo da Harry. «Sì, me lo hanno chiesto.» «Cosa ha risposto?» «Che ero andato a una partita di pallacanestro fuori città, quella sera.» «A Oakland?» Annuisce. Gli ricordo gli atti e la stenografa, e lui pronuncia ad alta voce la rispo-
sta. «Qual era la squadra ospite, quella sera?» chiedo. Mi guarda, con un bel po' di disprezzo negli occhi. «I Lakers», dice. «Di Los Angeles.» Sta sorridendo, come a dire: «Prendi questa». «Chi ha vinto?» «Sa, non ricordo. Era soltanto una partita amichevole. Ce ne siamo andati prima che finisse, e con tutta la confusione che c'è stata poi quella notte... la mattina dopo», si corregge, «non mi è sembrato affatto importante.» «Comprensibile», ammetto. «Lei ha detto: 'Ce ne siamo andati'. È andato alla partita in compagnia di qualcuno?» «Perché non legge il rapporto di polizia che ha in mano?» chiede Skarpellos. Sorride alla giuria come per dire: «Cosa crede, che sia scemo?» «Il rapporto afferma che lei è andato alla partita con una donna. Susan Hawley. Questa Hawley è una sua amica?» «Già, è un'amica.» «La conosce da molto tempo?» «Vostro onore, dove stanno portando queste domande?» Nelson si è alzato in piedi. «Buona domanda, avvocato. Dove vuole arrivare, avvocato Madriani?» «Se ha pazienza, vostro onore...» «La mia pazienza si sta esaurendo», risponde Acosta. «Conosce la signorina Hawley da molto tempo?» «Un paio d'anni.» «La definirebbe un'amica di lavoro o personale? I vostri sono rapporti d'affari?» «Personale», dice Tony. È tutto ringalluzzito: si sta esibendo nella sua versione del macho, neanche che questa donna fosse, in un modo o nell'altro, il suo distintivo di virilità. «Quindi lei non l'ha pagata per quella serata?» I suoi occhi sono tizzoni ardenti. «Vostro onore, obiezione. Il teste non deve essere sottoposto a questo tipo di insulti», protesta Nelson. Sta tentando di intromettersi verbalmente fra noi due. Una replica del ruolo che ha svolto nel mio ufficio il giorno della deposizione del Greco. Tony fa per alzarsi dalla sedia. «Avvocato Madriani.» Acosta ha afferrato il martelletto, come se anche lui stesse per prendersela con me. A fatica, riesco a farmi concedere un po' di spazio di manovra da Noce-
dicocco. «Però che sia una cosa veloce», ordina. Nelson è furibondo. Sussurra discorsi di fuoco all'orecchio di Meeks. Torno al tavolo della difesa. Quando arrivo, Harry ha già pronto il documento. Lo infilo tra le pagine del rapporto di polizia. «Signor Skarpellos, con Susan Hawley ha mai avuto rapporti che possano in qualche modo essere definiti commerciali?» Indugio leggermente sull'ultima parola. «Vostro onore, la domanda mi offende», si spazientisce il Greco. Sa cosa penserebbe la giuria se vedesse questa donna. La polizia sta ancora cercando Susan. Scommetterei che la pescheranno molto presto. «Risponda alla domanda», ordina Acosta. Skarpellos lo guarda come per chiedergli: «Cos'è oggi, il giorno del santo testimone martire?» «Ha mai avuto con Susan Hawley transazioni che possano in qualche modo essere definite commerciali? È mai stata cliente dello studio?» Credo che sappia cosa ho in mano. Sa che abbiamo richiesto ufficialmente i libri contabili del conto fiduciario dello studio. Si sono rivelati una miniera che Harry e io non ci saremmo mai aspettati. Come minimo, rivelano fino a che punto Tony Skarpellos abbia considerato il conto fiduciario dello studio alla stregua di un suo fondo personale a cui attingere liquido. «È un'amica, niente di più.» «È sicuro di volersi attenere a questa risposta?» Mi guarda, in silenzio. Le folte sopracciglia sono montagne di disprezzo. «Signor Skarpellos, ho qui la copia autenticata di un assegno.» La estraggo dalle pagine del rapporto di polizia. «Vorrei chiederle di guardarla e dire se la firma è la sua.» La esamina attentamente per parecchi secondi, scrutando il nome del beneficiario e la sua firma vergata con mano sicura sulla riga in fondo all'assegno. «Possiamo chiamare un perito e confrontare un campione della sua firma con quella dell'assegno, se vuole.» «È la mia firma», ammette. «Allora saprà spiegare alla giuria perché mai il tredici novembre dello scorso anno lei abbia emesso questo assegno, dal conto fiduciario del suo studio, per la somma di venticinquemila dollari, pagabili a Susan Hawley?» Riprendo la copia dell'assegno incassato e la sventolo un po' nell'aria.
Ha capito dove voglio arrivare. Il suo cervello ha lavorato talmente in fretta che intuisco che si è inventato qualcosa. Si tira su a sedere in tutta la sua statura, la testa piegata di lato con aria arrogante. «Era un prestito personale», dichiara. «Un prestito personale», ululo. «Fa spesso prestiti personali agli amici prendendo i soldi dal conto fiduciario dei clienti, signor Skarpellos? Secondo le leggi di questo Stato, è un conto bloccato. Il denaro appartiene ai suoi clienti, non a lei. Se ne rende conto?» «Vostro onore, il teste dovrebbe essere avvertito», grida Nelson, che si è alzato in piedi. Acosta, pare, è ipnotizzato da quest'ultima rivelazione, dalla sfacciataggine del Greco e dal suo palese, totale disprezzo per la fiducia accordata dai clienti. «Senz'altro», dice. È tornato alla realtà e ai doveri che gli competono. «Signor Skarpellos, può non rispondere all'ultima domanda. Se desidera, può appellarsi al privilegio del quinto emendamento contro l'autoincriminazione.» Acosta gli sta dicendo, in termini che Tony e la giuria possano comprendere, che in questo Stato il fatto che un avvocato usi il conto fiduciario dei clienti è non soltanto contrario all'etica, ma è anche un reato. Skarpellos grugnisce, come per rilevare che l'avvertimento di Acosta gli sembra proprio un buon consiglio. «Immagino che lei non desideri rispondere alla domanda», dice Acosta. «Esatto», conferma Tony. Guardo la giuria. Volti severi, rigidi. Dalle espressioni truci capisco che il Greco gode ora della credibilità di un imbonitore da fiera. «Dimentichiamo per un momento la provenienza di questi soldi e concentriamoci invece sul motivo del pagamento. Lei ha detto che si è trattato di un prestito. Perché alla signorina Hawley serviva un prestito?» «Non lo so», risponde. «Lei le ha firmato un assegno per venticinquemila dollari e non le ha mai chiesto, nemmeno una volta, a cosa le servissero?» «È esatto.» «Ora, quando ha testimoniato sul prestito fatto all'imputata per le spese legali, lei ha affermato, e cito...» Leggo dal mio blocco per appunti. «'Non si danno via ottantamila dollari per un bel faccino.' Ma in questo caso, evidentemente, non ha avuto problemi a dar via venticinquemila dollari avendo quale unica garanzia un bel faccino. Qual è il metro in base al quale de-
cide, signor Skarpellos? L'ammontare del debito o l'avvenenza del debitore?» Dalle prime file del pubblico giungono alcune risate, e si vede qualche sorriso al banco dei giurati. Il Greco mi sta davvero lanciando il malocchio. Lo osservo seduto al banco, con la cattiveria dipinta in faccia, dalla mandibola alla fronte, e mi viene in mente che forse questa è stata l'ultima immagine che Ben Potter ha visto nella sua vita. «Quali erano i termini del prestito?» domando. «Come sarebbe a dire?» ribatte lui. «I termini», ripeto. «Che interesse ha applicato? Era semplice o composto? Quanto tempo aveva Susan Hawley per rimborsare il prestito?» «Non ne abbiamo mai parlato.» «C'era qualcosa di scritto, oltre all'assegno del conto fiduciario?» «No.» «Capisco. Quindi lei compila un assegno per venticinquemila dollari, senza alcun pagherò cambiario, nessun accordo scritto sugli interessi da applicare, o sui termini del rimborso, nessuna domanda sulla destinazione del denaro, e poi viene qui e si aspetta che questa giuria creda che l'assegno di venticinquemila dollari fosse solo un prestito a Susan Hawley?» «Era esattamente questo.» «No», ribatto. «Non lo era, e lo sappiamo tutti e due. Quei venticinquemila dollari sono serviti a comprare un alibi da Susan Hawley, un alibi per la sera in cui Ben Potter venne ucciso. Non è così?» «È una menzogna.» «Davvero?» «È una maledetta balla», esclama il Greco, sperando che messa in questi termini, la sua risposta faccia più colpo sulla giuria. Ma il suo linguaggio tanto colloquiale manca il bersaglio, non riesce a trasmettere né rabbia né indignazione. Se il comportamento può dire qualcosa, l'unica emozione che il Greco riesce a comunicare è la paura. Sta ancora blaterando dal banco dei testimoni. «È falso», ribadisce. «Lei mi odia fin dall'inizio perché ero amico di Ben...» Acosta ha impugnato il martelletto e lo picchia vigorosamente sul banco. Intuisce cosa sta per udire. «Eravate voi i suoi nemici», sibila il Greco. «Lei e quella signora laggiù.» Acosta si è alzato dallo scanno e troneggia sul Greco, picchiando con il martelletto sulla ringhiera che circonda il banco dei testimoni, a pochi cen-
timetri dall'orecchio di Tony. «Signor Skarpellos, un'altra parola e la faccio arrestare per oltraggio alla Corte», minaccia. Skarpellos è a una sola frase, a un solo scoppio di rabbia di distanza da un processo inficiato per vizio di procedura, e Acosta lo sa. Le sue ambizioni, la promozione, gli passano davanti agli occhi. Se avesse un bavaglio, addirittura una garrotta, ora li userebbe. Skarpellos bofonchia qualcosa, si ferma a metà della frase, guarda il giudice infuriato, e imbriglia l'ira. «Non accetterò un altro episodio simile», annuncia Acosta. Punta il martelletto, come una spada smussata, in direzione di Skarpellos. I loro sguardi si incontrano, e Nocedicocco chiarisce chi comanda qui. Implacabile, senza distogliere lo sguardo un secondo, quasi che stia tenendo a bada un cane bastardo che sta cercando una via d'attacco, il giudice finalmente si risiede. «Avvocato.» Mi guarda. «Ha terminato?» «Non ancora, vostro onore.» «Allora proceda.» Faccio includere tra le prove la copia autenticata dell'assegno del Greco. Nelson non solleva alcuna obiezione. Meeks sta prendendo appunti. Capisco, dalle occhiate che lancia al Greco, che quello che scrive è un promemoria per ricordarsi di studiare a fondo le norme sull'appropriazione indebita. Guardo Skarpellos. «Da quanto ricordo, lei, la mattina successiva all'omicidio, ha detto alla polizia che non le veniva in mente nessuno che potesse voler uccidere Ben Potter. È esatto?» Lui mi guarda. Adesso ansima. In quel suo petto a botte sta scorrendo un bel po' di adrenalina. «Sì, esatto.» «Non è forse vero, signor Skarpellos, che lei stesso ha avuto un violento litigio con la vittima, Ben Potter, solo pochi giorni prima dell'omicidio?» Tony dà un'occhiata ad Acosta. «Questa è una stronzata», sbotta. «Non devo star qui a sentire queste cose.» «Il teste risponda alla domanda», ingiunge Acosta. «E moderi il linguaggio, fintanto che è nella mia aula.» «Mi spiace, vostro onore. Mi scusi. Ma non è vero. Non ho mai litigato con Ben Potter. Eravamo soci in ottimi rapporti.» «Allora è quello che deve dichiarare», gli risponde Acosta. «Ma tenga a freno la lingua.» Acosta mi fa cenno di proseguire.
«Non è vero, signor Skarpellos, che il signor Potter aveva scoperto che lei aveva sottratto somme considerevoli dal conto fiduciario dei clienti, utilizzando quelle somme per suo uso personale, e che le aveva dato un ultimatum, ingiungendole di rimborsare il denaro, di rimetterlo sul conto fiduciario? Il signor Potter non aveva minacciato di deferirla all'ordine degli avvocati, se lei non lo avesse fatto?» «Questa è solo spazzatura. Non sono tenuto a rispondere.» «Non è vero che Ben Potter l'ha scoperta a sottrarre denaro dal conto fiduciario e l'ha minacciata di denunciarla all'ordine degli avvocati, di farla espellere?» «Spazzatura», ripete il Greco. «Non so dove abbia sentito questa merda.» «L'ho già avvertita una volta, signor Skarpellos. Non lo farò un'altra. Non accetto questo linguaggio nella mia aula.» Fra il giudice e la giuria corrono un bel po' di occhiate indignate, come se i giurati e la Corte fossero rappresentanti della lega contro le parolacce. «A quella domanda si può rispondere con un semplice sì o no», conclude Acosta. «No», dice Skarpellos. «Ci sta dicendo di non avere mai prelevato denaro dal conto fiduciario?» «Mi appello al quinto emendamento.» Vado al mio tavolo e recupero l'ultimo documento. «Oltre all'assegno che ha emesso a favore di Susan Hawley», proseguo, «non è forse vero che lei non ha rimborsato i fondi di proprietà di un altro cliente, un certo Melvin Plotkin, per conto del quale il suo studio era entrato in possesso di una liquidazione di duecentocinquantamila dollari relativi a un caso di lesioni personali?» «E questa dove l'ha sentita? Tutti pettegolezzi.» Gli consegno la copia di una lettera di esposto formale presentata da Plotkin all'ordine. Il signor Plotkin, in un arco di sette mesi, aveva fatto cinque richieste di pagamento allo studio. Gli avvocati che seguivano il caso si erano recati dal Greco, implorandolo di consegnare i fondi al cliente, ma Skarpellos li aveva ignorati. È stato Tod, ansioso di implicare il suo boss, a fornirmi i particolari sul caso. Abbiamo cercato la lettera dettata da Ben a Jo Ann e indirizzata all'ordine. Finora non siamo riusciti a trovare questa specie di pistola fumante. Ma la lettera di Plotkin è quasi altrettanto micidiale. «Le chiedo di esaminare questa lettera, signor Skarpellos, e di dirmi se ne ha già visto una copia in precedenza.»
La guarda di nuovo, ma i suoi occhi non seguono le parole. Il Greco sta cercando di guadagnare tempo. «Dove l'ha presa?» chiede. «Non c'è stato nessun provvedimento disciplinare in questo caso, l'ordine non ha intrapreso nessuna azione. Le indagini dell'ordine dovrebbero essere confidenziali.» «Non in presenza di un'ingiunzione della Corte Penale», ribatto. «Vostro onore, questa è una terribile infrazione alla segretezza, un'invasione della privacy», protesta Tony. Non ottiene la minima comprensione dal giudice. «Glielo chiedo un'altra volta: ha mai visto una copia di questa lettera, signor Skarpellos? Noterà che sul fondo è scritto che le è stata inviata una copia per conoscenza.» «Sì, ne ho ricevuto una copia», ammette. «E la faccenda è stata risolta.» «Già. Lei l'ha composta in via privata, non è vero?» «Ma certo», afferma. «Ci teniamo ai nostri clienti. Si è trattato di un semplice malinteso.» «Capisco. Lei si è preso il denaro del signor Plotkin e l'ha usato per diciotto mesi, e chissà perché lui non ha capito cosa le desse il diritto di farlo. È così?» A questa domanda, Tony non risponde, ma scuote continuamente la testa, come se volesse dire: «No», e non sapesse in che modo fare. «Anche l'ordine ha fatto un po' fatica a capirlo, vero?» Anche a questo non viene data risposta. «Non è vero che lei ha composto questo reclamo, che ha consegnato al signor Plotkin il denaro che gli spettava solo dopo che l'ordine degli avvocati aveva dato inizio alle indagini, e che lei ha rimborsato il suo cliente soltanto a condizione che ritirasse il suo esposto, per togliersi di dosso l'ordine degli avvocati? Non è vero?» «No.» «Posso convocare il signor Plotkin e farci raccontare da lui cosa è successo.» Il Greco mi sta guardando. Gli occhi mandano lampi. «Non è vero che per sistemare questa faccenda lei ha preso altro denaro dal conto fiduciario, che è ricorso a un giochetto di prestigio, derubando un cliente per rimborsarne un altro, e che questo è quanto Ben Potter aveva scoperto?» Adesso sono entrato nel regno dell'immaginazione. Tiro a indovinare, cerco di colmare i vuoti con un po' di fantasia.
«No.» «In che modo ha perso il denaro, signor Skarpellos? Gioco d'azzardo?» Gli verso addosso un altro po' di vizio e lo giro lentamente sullo spiedo. «Non è vero che Ben Potter ha scoperto le sue appropriazioni di denaro e che avete litigato furiosamente in ufficio, e che lui le ha dato quarantotto ore per rimborsare il denaro, altrimenti si sarebbe rivolto all'ordine?» Gli offro un altro motivo di preoccupazione, un piccolo dettaglio: il termine di quarantotto ore di cui mi ha parlato Jo Ann. Mi guarda a occhi spalancati ora, pronto a uccidere, credo. «Se questo fosse accaduto, lei avrebbe dovuto dire addio alla professione, alla sua quota nello studio, e magari finire in prigione. Per un motivo simile, qualcuno potrebbe anche uccidere, non le pare, signor Skarpellos?» «No», dice. «Non è vero.» Dovrei metterlo in guardia sulle conseguenze della falsa testimonianza, ma cos'è una bugia quando è detta per nascondere un omicidio? Gli volto le spalle e mi rivolgo al giudice. «Vostro onore, questa è una copia autenticata di una lettera ricevuta dall'ordine degli avvocati, firmata da Melvin Plotkin, cliente dello studio legale Potter & Skarpellos. Il signor Plotkin ha ricevuto un mandato di comparizione ed è disposto a testimoniare sull'autenticità della lettera e sulle circostanze che lo hanno indotto a rivolgersi all'ordine. Chiediamo a questo punto che la lettera venga inclusa fra le prove.» «Verrà inclusa, previa una testimonianza preliminare», assicura Acosta. Mi giro e guardo il Greco per un lungo momento; poi scuoto la testa, un leggero segno di disprezzo a beneficio della giuria. «Non penso di avere ancora bisogno del teste», dico. C'è qualcosa di più di una traccia di derisione nella mia voce. Nelson è immerso in una vivace consultazione con Meeks. Ci vorrebbe un piccolo miracolo per riabilitare Skarpellos. A Nelson e Meeks bastano meno di cinque secondi per giungere alla mia stessa conclusione. Il meglio che possano fare è portarlo fuori dell'aula, lontano dagli occhi della giuria, il più in fretta possibile, e sperare che i ricordi, come le buie giornate invernali, abbiano vita breve. 38. Susan Hawley è stata presa dalla polizia. Una sua foto d'archivio, trasmessa da un telegiornale della sera in un servizio sul processo, l'ha fregata
a Los Angeles. Quando i poliziotti l'hanno pizzicata, come al solito era al seguito di altra bella gente, a un galà con un magnate del cinema. Per Harry e me è un serio dilemma, se chiamarla o no a deporre. Siamo trincerati nel mio ufficio a discutere di strategia. Skarpellos ha provocato un tale disastro con la sua deposizione che è difficile immaginare di riuscire a guadagnare qualcos'altro da un'eventuale deposizione di Susan. Harry è contrario. «È astuta», commenta, «intelligente e pronta.» La stoffa di cui sono fatte le ragazze squillo costose. Se applicassero i loro talenti in altri campi, la maggior parte di loro farebbe strada nell'alta finanza, credo. «È un rischio», continua Harry. «Skarpellos non è riuscito a salvarsi, ma Susan ce la potrebbe fare.» Il timore è che possa venirsene fuori con una storia plausibile per il «prestito» di venticinquemila dollari, magari un acconto per un appartamento, o un'automobile nuova. Potrebbe dichiarare di averlo detto al Greco. «Poi punterà gli occhioni verso la giuria», dice Harry. «Posso già sentirla. Direbbe: 'Tony, quel tesoruccio, se n'è semplicemente dimenticato, punto e basta'.» E così potremmo perdere tutto quello che abbiamo guadagnato dal Greco. Harry mi guarda in modo freddo e risoluto, come se avesse una premonizione. È una delle cose che mi piacciono di più in Harry. Ha un buon istinto. È questo uno dei motivi per cui non sono stato più esplicito nel puntare il dito su Skarpellos nella mia dichiarazione iniziale. Nelson avrebbe fatto di tutto per coprirlo. Adesso questo gli è più difficile. Siamo a un punto molto avanzato della tesi della difesa, e Nelson ha sulle spalle la zoppicante spiegazione del Greco per quel «prestito» di venticinquemila dollari. Ritengo molto improbabile che chieda alla Corte di riaprire la sua esposizione per chiamare a deporre Susan Hawley. «Se la potessimo torchiare sul banco dei testimoni», dico a Harry, «costringerla ad ammettere che si è trattato di un imbroglio, di una falsa testimonianza comprata da Skarpellos, che lei e Tony non erano assieme la sera in cui Ben è stato ucciso, sarebbe come mettere la pistola fumante in mano al Greco.» Harry mi guarda con un sorrisetto ironico sulle labbra. È questo il vero patrimonio del penalista, l'invenzione bella e buona, la bugia, non quello che realmente succede ogni giorno nella maggior parte dei tribunali di questo Stato. Le cause si vincono o si perdono non in base alla verità, ma in
base alla quantità di false testimonianze offerte dai testimoni chiamati a deporre, i quali mentono e poi se ne vanno impuniti. Questo vale soprattutto per i procedimenti penali. Se chiamiamo a deporre Susan e facciamo fiasco, lei potrebbe tagliare le gambe alla nostra tesi, devo ammetterlo. Harry ha ragione. Il rischio è troppo grosso. Susan Hawley non verrà a testimoniare. Il telefono squilla. Alzo il ricevitore. È Nikki. La saluto e le chiedo di aspettare un attimo in linea. Harry è soddisfatto della mia decisione su Susan. Dice che abbiamo schivato un proiettile. Torna al suo ufficio in fondo al corridoio. Tolgo la mano dal microfono del ricevitore. «Ciao», la saluto. «Come va?» mi chiede Nikki. Ha bruciato troppe ferie ed è tornata al lavoro, almeno per un po' di giorni. «Te lo so dire fra una settimana», le rispondo. «Ho letto di Skarpellos sul giornale di stamattina. Dicono che forse l'ordine potrebbe aprire un'inchiesta sui suoi movimenti finanziari.» «Sarebbe ora», commento. «Sembri stanco.» «Lo sono.» Nikki sa fino a che ora lavoro. Nel mio periodo allo studio, e prima ancora quando ero nell'ufficio del procuratore, ha fatto da tappezzeria nella mia vita quanto basta per sapere che divento uno straccio quando sono nel mezzo di un processo. «È un po' che non vieni a trovarci. Sarah pensa che tu sia morto.» Mi sento in colpa. Sono due settimane che non vedo mia figlia. Prometto che farò ammenda quando tutto sarà finito. «Che ne dici di una cena», propone Nikki, «qui da noi, stasera? Sarà una cosa veloce. Preparo qualcosa che ti piace.» «Vorrei tanto poter venire. Stasera, Harry e io dobbiamo rivedere gli appunti per i testimoni di domani», le spiego. Non se la prende, dice che capisce. Quanto a Sarah, non ne è altrettanto certa. «Ancora una settimana, e il caso passa alla giuria. Recupererò tutto il tempo perso», le assicuro. «Può aspettare un'altra settimana?» «Immagino che non abbia molta scelta.» «Prometto.» «Glielo dirò. Cerca di dormire un po'», mi raccomanda. Poi riappende. Mi sento uno stronzo di prima categoria. Il destino dei familiari del pe-
nalista. Nikki ha ripreso a sostenere vecchie battaglie, a combattere coi propri demoni di dipendenza: la sensazione che, con l'ingombrante presenza della mia carriera, nel nostro matrimonio lei fosse soltanto un'appendice secondaria, qualcosa di cui io mi occupavo tra le serate trascorse in ufficio e i weekend consumati su esposti e mozioni. Oggi, forse, ha una nuova consapevolezza non solo di se stessa, ma anche di me, adesso che io non giro più come un satellite nell'orbita di Ben. Ho l'impressione di essere diventato, ai suoi occhi, padrone del mio destino, per quanto minaccioso questo destino possa essere. Se davvero ognuno di noi è solo l'immagine speculare di ciò che vediamo riflesso negli occhi degli altri, oggi posso dire di vedere un senso di stima molto maggiore, ogni volta che mi scopro riflesso nello sguardo di Nikki. Nelle settimane trascorse dall'inizio del processo, si è trovata presa fra il desiderio crescente di una riconciliazione e il pensiero che tutti e due, ciascuno a modo proprio, abbiamo pagato un prezzo altissimo per trovare noi stessi. A Nikki è occorso più di un anno per esorcizzare l'immagine che, nella nostra società, fa della moglie un'appendice invisibile del marito. E recalcitra all'idea di fare marcia indietro. Ultimamente, ha mandato messaggi molto chiari, come un emissario incaricato di porre fine a una guerra: se la rivoglio con me, devo accettare le sue condizioni. Alzo il telefono e la chiamo. Nikki mi risponde. «Cosa c'è per cena?» chiedo. Lievi segni di giubilo all'altro capo della linea. «Sembri arrivato fresco fresco dall'inferno», dice Harry. Sta commentando le grosse borse che ho sotto gli occhi e la camicia spiegazzata. Gli spiego che Nikki ha dimenticato di mettere la sveglia. La cena è consistita in un'ora di gioco con Sarah e una lunga serata di conversazione con Nikki davanti a una bottiglia di vino. Lei era tutta perdono e comprensione. Siamo saltati giù dal letto alle otto e trenta, e io dovevo essere in tribunale per le nove. È stata Sarah a svegliarci. Con gli occhi lucidi di meraviglia e gioia, si è messa a strisciare sulle lenzuola e sul mio corpo per infilarsi tra sua madre e me. Non si è dormito molto, stanotte. A quanto pare, abbiamo riscoperto antiche passioni, acceso un nuovo interesse per una vita assieme.
Melvin Plotkin, che è alto un metro e cinquantacinque, è una vera meraviglia. Un dinamico uomo d'affari rimasto ferito in un grave incidente automobilistico quattro anni fa. Né il trauma psichico dell'incidente né i danni permanenti sono riusciti a smorzare il vigore di questo ometto. Ha cicatrici da ustioni su entrambi gli avambracci e sul collo, punti dove gli innesti di pelle hanno lasciato chiazze stinte. Per il suo caso venne accettata una liquidazione di un quarto di milione di dollari dagli avvocati dello studio Potter & Skarpellos, due anni fa. Ha ottenuto il suo denaro diciotto mesi più tardi, dopo un'aspra battaglia con Skarpellos. Tony ha probabilmente derubato un'altra dozzina di clienti, ma Plotkin non è tipo da farsi prendere in giro. È proprietario di una piccola agenzia di riscossione di crediti e sopravvive come un pesce pilota in mezzo a un banco di squali. Harry sospetta che Plotkin, astuto, non estraneo a pratiche poco pulite, falsifichi i suoi registri, che probabilmente lui stesso rubi ai negozietti a conduzione familiare che gli affidano le loro riscossioni, e che quindi sappia benissimo in quale modo si fanno certe cose. È logico che sia lui a strillare per primo e a voce più alta, se viene imbrogliato. Abbiamo i nostri problemi con Plotkin. Pare che un tempo avesse un'agenzia di riscossione molto più grande, creata con pochi mezzi e portata avanti con tanto duro lavoro. Dieci anni fa ha tentato il colpo grosso con una fusione, è entrato in un'agenzia a livello nazionale, e alla fine si è trovato sbattuto fuori dalla sua stessa ditta. Due avvocati dell'agenzia più grande gli hanno indicato la porta. Da allora Plotkin nutre un odio sviscerato per gli avvocati. È qui su mandato di comparizione. Gli faccio vedere la lettera inviata all'ordine, quella in cui presentava un esposto su Skarpellos per la questione del conto fiduciario. «Sì, l'ho scritta io», afferma. «Licenza di rubare.» Un'accusa generale rivolta a tutti gli avvocati. Alza gli occhi su Acosta e, dall'espressione arcigna, si direbbe che l'opinione valga anche per i giudici. «Ha parlato con il signor Skarpellos prima di scrivere la lettera?» «Prima ho parlato con il mio avvocato, quello che ha seguito il caso.» Si riferisce a uno dei soci più giovani dello studio. «E lui cosa le ha detto?» «Cosa vuole che dicesse? I suoi soldi sono qui, i suoi soldi sono là, le assicurazioni ci mettono molto a liquidare... Tutto per prendere tempo», risponde. «Ho passato una vita a correre dietro a chi non vuole pagare i debiti. Riconosco una scusa fasulla quando la sento.»
«Poi ha parlato con il signor Skarpellos?» «No, poi ho parlato con la sua segretaria. Il signor Skarpellos è un uomo difficile da trovare.» «E cosa ha detto alla sua segretaria?» «Mi sono un po' scaldato, probabilmente. Lei mi dice che il signor Skarpellos è occupato. Allora richiamo. Richiamo tre volte. E intanto quelli tengono in mano duecentocinquantamila dollari miei», dice. «Così alla fine mi trovo a litigare con questa... questa segretaria.» Pare che non gli riesca di escogitare una parola migliore per definirla. Ho l'impressione che la signora si sia guadagnata lo stipendio, quel giorno. Plotkin dice di avere cominciato a usare un linguaggio «colorito», al che la segretaria buttò giù il telefono. Lui la richiamò, e sostiene di essere stato gentile, questa volta, ma non so se credergli, perché lei riappese di nuovo. Mezz'ora più tardi, Tony chiamò Plotkin e gli insegnò alcune parole che non erano nel suo vocabolario. Il giorno seguente, Plotkin mandò dei fiori alla segretaria, e a Skarpellos un biglietto che rasentava una minaccia di morte. Questa missiva non ebbe alcun effetto sul Greco. Continuò a tenersi i soldi e diede ordine alla sua segretaria di non passargli Plotkin al telefono. Dopo altre due lettere allo studio rimaste senza risposta, Plotkin si rivolse all'ordine degli avvocati, che lo invitò a presentare un esposto ufficiale. Lui lo fece, e una settimana dopo un investigatore si presentò agli uffici dello studio Potter & Skarpellos. Questo ebbe finalmente l'effetto di far ragionare Skarpellos. Il giorno successivo, stando al suo racconto, Plotkin ricevette una telefonata dallo studio. «Volevano che andassi da loro per un incontro», dice. «Loro chi?» «Mi aveva chiamato un altro socio. Hazeltine. Ha detto che voleva che andassi a prendere il mio assegno.» «E lei lo ha fatto?» «Sicuro. Ci sono andato la mattina dopo.» «E cosa è successo?» «Mi fanno entrare in una sala riunioni. Io do un'occhiata in giro e capisco che fine hanno fatto i miei soldi.» «Chi era presente a quell'incontro?» «L'avvocato che mi aveva rappresentato, Daniel Liston. È l'unica persona decente di quel posto.» È un collega che conoscevo, ma non bene, quando ero allo studio.
«Sembrava davvero imbarazzato», prosegue Plotkin. «Mi ha detto che aveva un assegno circolare per la mia parte della liquidazione, ma che prima dovevo firmare dei documenti.» «Documenti?» «Già, una ricevuta e qualcos'altro.» Lo guardo come per dire: «La prego, continui». «Aveva questa lettera, battuta su carta non intestata, indirizzata all'ordine degli avvocati, in cui si chiedeva di annullare il mio esposto, e si dichiarava che l'intera faccenda era stata solo un malinteso. Il mio nome era battuto a macchina in fondo, dove avrei dovuto firmare.» Guardo la giuria. Sembrano ipnotizzati. Forse abbiamo svoltato l'angolo. Si ha l'impressione che adesso sotto processo sia Tony Skarpellos, non Talia Potter. «Lei ha firmato quella lettera?» «Dovevo avere i miei soldi. Un branco di sanguisughe», dice Plotkin. «Obiezione», protesta Nelson. «Si preferirebbe che il teste testimoniasse senza fare commenti.» «Accolta. L'ultima frase sia cancellata dagli atti», dice Acosta. «Si limiti a rispondere alle domande, signor Plotkin.» Mostro al teste una copia di questa lettera. Ho fatto richiedere anche questa all'ordine. La riconosce come quella da lui firmata durante l'incontro. «Dopo aver firmato la lettera l'avvocato Liston le ha dato il suo denaro?» «Quello, e nient'altro. La mia parte della liquidazione, meno il terzo che spettava a loro, e niente interessi. Si sono tenuti i miei soldi per un anno e mezzo e non mi hanno pagato un cent di interessi.» «Non li ha citati in giudizio?» «Mi sono ritenuto fortunato di uscire da quella tana di ladri con qualcosa in mano», risponde Plotkin. Nelson valuta se fare o no obiezione. È già quasi in piedi, poi cambia idea. Si può discutere sulla definizione di Plotkin, ma i fatti sono chiari. In effetti, si è verificato qualcosa di più di una piccola ruberia. Faccio contrassegnare la seconda lettera, quella con la quale si ritira l'esposto, e chiedo che entrambe le lettere, l'esposto e il suo ritiro, vengano annoverate fra le prove. Nessuna obiezione da parte di Nelson. «A lei il teste.» Guardo Nelson. Il procuratore si consulta con Meeks per non più di un secondo. «Non abbiamo domande per questo teste», dice. «Ma vorremmo conferire in pri-
vato.» Acosta dà un'occhiata all'orologio. «È ora di una pausa. L'udienza è sospesa per mezz'ora.» Nelson capisce benissimo che sto scavando una fossa molto profonda per il Greco, che sto trasformando in spettacolo principale quello che era cominciato come un numero secondario. Il prossimo teste è il mio revisore dei conti. È in possesso di fatti e cifre che documentano ogni discrepanza nel conto fiduciario dello studio per gli ultimi sei anni. Questo confermerà alla giuria in maniera inattaccabile la disinvoltura finanziaria del Greco. Abbiamo individuato più di mezzo milione di dollari che sono stati «presi a prestito» in vari momenti, tutti usciti dal conto fiduciario tramite assegni firmati da Tony. Non tutti questi soldi sono stati rimborsati. Nell'uso arbitrario di questo denaro, Skarpellos è stato più implacabile di quanto avessi mai immaginato. Per anni ha operato una notevole truffa ai danni del conto fiduciario. Ripensandoci, Ben non mi ha mai dato nessuna vera indicazione delle dimensioni di un tale ladrocinio. Si tratta di prove che suscitano una domanda inquietante. Mi chiedo se Ben sapesse di queste pratiche e le avesse tollerate per anni, ribellandosi soltanto quanto le sue ambizioni rischiavano di venirne compromesse. Ci rifletto e mi domando, come succede spesso con chi è morto, se davvero lo conoscevo bene quanto pensavo. Acosta prende la parola per primo. «Vorrei risparmiare un po' di tempo», dice. I tasti della stenografa fanno un rumore smorzato. Nelson annuisce. I due hanno escogitato qualcosa, non occorre un genio per capirlo. Nelson interviene come se avesse ricevuto la battuta d'entrata. «Siamo pronti ad ammettere che il signor Skarpellos sembra avere tenuto una condotta riprovevole.» «In chiara violazione alla deontologia professionale stabilita dall'ordine», sottolinea Acosta. Scuote la testa, i tratti del volto tirati in una smorfia; un'espressione di disgusto tesa a convincermi che ho colpito a morte il Greco, e che proseguire significherebbe solo infierire. «Stiamo sprecando molto del tempo della Corte per questa faccenda», ribatte Nelson. «Adesso che lei ha finito di esporre la sua tesi, il tempo diventa improvvisamente un problema?» gli chiedo. Esiste una norma per le prove cumulative, per i fatti che sono ridondanti,
che tendono tutti a dimostrare la stessa cosa. In nome del tempo, i giudici hanno ampia discrezionalità nell'escludere queste prove, e Nelson dice chiaramente che baserà su questo la sua obiezione se insisto sul mio contabile. «Noi riteniamo che tutto questo sia più che vagamente cumulativo», interviene Meeks, nel tentativo di aiutare il suo capo. A conferma, cita la deposizione di Plotkin e gli stessi balbettii di Tony che hanno rasentato la confessione. «Noi riteniamo?» Lo guardo. «Il signor Nelson e io.» Meeks è svelto a coprire il giudice, come se Acosta non c'entrasse niente e stesse udendo queste parole per la prima volta. «Non sto tentando di mettere il bavaglio alla sua tesi», spiega Nelson. «La prego di capire.» «Già, Dio non voglia!» esclama Harry. Nelson gli lancia una veloce vampata di sdegno. «La Corte vi ha concesso ampio spazio.» Guarda Acosta, il quale annuisce, come davanti a un punto ben precisato. «È solo che si potrebbe risparmiare un po' di tempo se accettassimo di concordare su qualche punto.» È una mossa tattica di Nelson per rendere innocua buona parte di queste prove. Ho il sospetto che i revisori dei conti dell'ufficio del procuratore siano stati occupati quanto i nostri. Nelson vorrebbe tanto escludere la questione dal dibattimento, ma non può. La cosa migliore che gli resta da fare è escogitare un modo pulito e asettico di sottoporre queste prove alla giuria, una presentazione neutra che tolga loro tutto il lustro, che faccia cascare dal sonno la giuria al pari della monotona recitazione di un rosario. «Cosa propone?» «Dichiareremo in una stipulazione...» dice Nelson, consultando i suoi appunti, «che nei due anni immediatamente precedenti la morte di Benjamin Potter, Tony Skarpellos ha prelevato circa duecentoventimila dollari dal conto fiduciario clienti dello studio legale Potter, Skarpellos, Edwards & Hazeltine. Che questi prelievi appaiono non autorizzati, e che i fondi, a quanto risulta, sono stati destinati a uso personale. Ritengo che questo chiarisca il punto con la stessa efficacia di ogni testimone che lei possa chiamare a deporre. Ovviamente, lei capisce che questa stipulazione sarebbe vincolante soltanto in questo caso. Non avrebbe alcun effetto sul signor Skarpellos.» «Ovviamente», rispondo.
Acosta mi guarda e annuisce, leccandosi le labbra, come se questo potesse fargli risparmiare una mezza giornata buona. Ma tutti quanti sappiamo benissimo cosa c'è sotto. C'è sotto la condanna di Talia. A ogni nuovo teste chiamato a deporre, Tony Skarpellos occupa sempre più spazio nella mente dei giurati, e il suo movente diventa sempre più convincente. Harry si sta dando da fare. Controlla sui nostri appunti che non ci siano altre bombe non previste dalla stipulazione proposta da Nelson. «Vostro onore, gradiremmo un'equa possibilità di presentare la cosa alla giuria», dico. «Direi che la stipula del signor Nelson serva proprio a questo.» Nocedicocco è tutto morbidezza: mi ricorda una fetta di brie squagliato. La sua voce trasuda ragionevolezza e buona volontà. «Con tutto il rispetto per il mio avversario», insisto, «non è giusto. Ci deve essere concesso di sviluppare la nostra tesi difensiva.» «Sono convinto che queste siano prove cumulative», ribatte Acosta. Il che porta la faccenda nell'ambito della sua discrezionalità, permettendogli di decidere che il nostro contabile può essere ostacolato, bloccato a ogni piè sospinto dalle obiezioni di Nelson. E noi non avremmo scampo. O stiamo al loro gioco, o ci faranno a pezzi. Così contratto. «All'altra nostra testimone, la signora Campanelli, deve essere permesso deporre senza riserve sulla sua conoscenza di quanto è successo fra il signor Skarpellos e la vittima.» Nelson guarda Acosta. Non è contento, ma non ha modo di impedire questa testimonianza. Non è affatto cumulativa; è una nuova testimonianza sul violento litigio e sullo scontro fra Tony e Ben. In base alla nostra teoria, questo litigio è la scintilla che ha fatto scattare l'omicidio. «D'accordo», acconsente Nelson. «Bene.» Acosta è contento. Un'altra decisione che non dovrà prendere. Nocedicocco legge in tono monotono, come un bovino in calore. La stipulazione di Nelson viene messa agli atti, in modo che la giuria possa sentirla. Fra i giurati ci sono molti sguardi interrogativi, molte facce perplesse. Ma Robert Rath, il mio «fattore alfa», sta prendendo appunti. Forse questa piccola scappatoia di Nelson potrebbe dare qualche ritorno di fiamma. Con Rath a spiegarne il significato dietro le porte chiuse, la stipulazione lascerà ben poco spazio alla fantasia. È scolpito su pietra che, per quello che ci interessa in questa sede, Tony Skarpellos ha spudoratamente fatto man bassa del conto fiduciario dei clienti: uno dei cardini centrali della nostra linea di
difesa. «Non mi interessa quello che dici tu. Testimonierò. Devo farlo», s'impunta Talia. Talia insiste perché le permetta di deporre. Nonostante i miei consigli, ha ricominciato a fumare una sigaretta dopo l'altra. Ma intuisco che è una cosa sulla quale non ha più alcun controllo. È in preda ad attacchi di ansia, episodi maniacali, umori euforici ed espansivi subito seguiti da irritabilità e depressione. Questi alti e bassi non sembrano legati a particolari momenti critici o positivi del processo. Credo siano invece attribuibili al fatto che con l'avvicinarsi del verdetto, Talia si trovi ogni giorno di più sull'orlo del collasso emotivo. «Non puoi andare a deporre. Nelson ti mangerebbe in un solo boccone.» La cosa difficile è che questa decisione spetta a lei. In qualità di suo legale, manovro i fili; posso decidere quali testimoni chiamare a deporre, quali prove presentare. Ma il diritto di un imputato a deporre è suo e soltanto suo. Le raccomando di non farlo. Le dico che non accetterò di essere coinvolto in una falsa testimonianza. Esistono norme precise a questo riguardo. Un avvocato che sappia che il suo cliente mentirà al banco dei testimoni non si ritira, ma, con il permesso della Corte, può starsene al tavolo della difesa e guardare il proprio cliente che inventa la sua storia. Rifiutandosi di partecipare, l'avvocato assolve il proprio dovere di funzionario della Corte. I giurati curiosi, ovviamente, si chiedono cosa stia succedendo, e a tempo debito si fanno una propria opinione. Di solito è un disastro. Glielo dico. Cerco di farla ragionare, di calmarla. Le dico che sta soffrendo di un attacco acuto di isteria da verdetto. A eccezione di quelli talmente imbottiti di droga da avere il cervello fritto, tutti gli imputati soffrono di questi attacchi, all'avvicinarsi del verdetto. In Talia, la tensione si manifesta in un bisogno di controllo. Ha una voglia disperata di difendersi in prima persona, è paralizzata dalla mancanza di controllo sulla propria vita. Discutiamo in maniera accesa. Io insisto. Non posso chiamarla a deporre. Ha mentito alla polizia sul suo alibi. La avverto che questo farà sembrare ogni singolo punto della sua deposizione del tutto indegno di fiducia agli occhi della giuria. Con questa rivelazione a mo' di mazza, e tre chiodi, le dico, Nelson la inchioderà alla croce. Le spezzerà la schiena in controesame, facendole domande su ogni aspetto della sua serata con Tod. Hanno dormito assieme? Hanno fatto l'amore? Non occorrerebbe un grosso salto
logico per permettere a Nelson di portare la giuria a chiedersi se Talia e Tod non abbiano commesso assieme l'omicidio di Ben. «Non m'importa», ribatte. «Dirò la verità. Ho sbagliato a mentire alla polizia. Tutti hanno il diritto di fare almeno un errore.» C'è già un'altra sigaretta fra le sue dita; la prima, fumata solo a metà, è stata schiacciata nel portacenere sulla mia scrivania meno di un minuto fa. «Se vai a deporre, ti condanneranno», la avverto. Per esprimere questa predizione, chiamo a raccolta tutta l'autorità possibile nel mio sguardo. Non mi capita spesso di fare il chiaroveggente, ma in questo caso faccio un'eccezione. Perché è quello che credo. «Cosa penseranno se non mi alzo a deporre a mia difesa? Qualche mio amico ha detto loro che sono degna di fiducia. Che razza di persona permette che siano gli altri a parlare per lei e rifiuta di dire lei stessa qualcosa?» «Riceveranno l'ordine di non considerare questo aspetto», la informo. «Il giudice dirà loro che non dovranno trarre alcuna conclusione dal tuo silenzio.» «E tu ti aspetti che accettino l'idea?» mi chiede. Non discuterò con lei di questo. Su questo punto avrebbe la meglio, e lo sappiamo tutti e due. Così faccio l'avvocato del diavolo. «Abbiamo già parlato del tuo alibi durante il processo, nel corso della deposizione di Canard.» Le ricordo di come io abbia spinto il detective a discutere le caratteristiche della sua automobile, la capienza del serbatoio, il fatto che lei potesse non avere tanta fame da fermarsi a cena sulla via del ritorno da Vacaville. Questi particolari hanno spiegato perché la polizia non sia riuscita a verificare il suo viaggio di quel giorno. «Se adesso facciamo marcia indietro, ci sarà un'ovvia conseguenza. Penseranno immediatamente che abbiamo tentato di ingannarli.» Le domande che ho posto a Canard sono state tanto astratte da non potermi far accusare di istigazione alla falsa testimonianza. Ma i giurati potrebbero ritenere che io abbia superato i limiti della buona difesa. Potrebbero vedere quel particolare interrogatorio per ciò che era, e cioè un tentativo di portarli in una direzione sbagliata. Ai giurati non piace che si menta o che si cerchi di fuorviarli. In più di un'occasione, una giuria ha punito l'imputato per licenze simili prese dal suo legale. «Abbiamo oltrepassato questo fiume di fuoco», le dico. «Non possiamo tornare indietro.» Nei suoi occhi è scritta la rassegnazione. Sa che sono nel giusto. Tutta-
via, per la prima volta, intravedo qualcos'altro nella sua espressione, qualcosa che prima non c'era: una mancanza di fiducia, non in se stessa, ma in me. Si sta chiedendo se, nel farle prendere questa decisione, io non la stia consegnando al carcere per il resto dei suoi giorni, o peggio, se non la stia condannando a morte. Stamattina, Jo Ann Campanelli sfavilla. Vestita di un tailleur che probabilmente non ha più indossato da quando ha lasciato il lavoro, è la nostra ultima teste. È qui per dare il colpo di grazia, per fissare le ultime viti della nostra linea contro Skarpellos. Truccata, senza l'immancabile sigaretta e la retina per i capelli, Jo Ann dimostra vent'anni di meno di quando le ho parlato a casa sua, due mesi fa. Le unghie sono lucide, curate. I capelli biondi, a dispetto delle ciocche grigie, sono pettinati con tale cura che è chiaro che ha speso tempo e denaro per prepararsi a questa apparizione. Indossa l'obbligatorio foulard di seta, annodato a fiocco attorno al collo. Evidentemente, da quando è uscita dal giro, nessuno le ha detto che questa moda è superata. Anche se non vede l'interno di un ufficio da quasi un anno, stamattina Jo Ann Campanelli è la personificazione dell'efficienza commerciale. Sbrighiamo in fretta i preliminari, la sua storia allo studio. Spiego che lei non lavora più, che dopo vent'anni di fedele servizio è stata scaricata in fretta e furia subito dopo la morte di Ben Potter e che ha dovuto assumere un avvocato per ottenere il riconoscimento della pensione. Esponiamo questa realtà senza mezzi termini, invece di nasconderla, nella speranza di togliere un'arma a Nelson, che di certo si metterebbe a battere sul tema che Jo Ann è qui per vendicarsi. Jo racconta che lo studio, nei giorni dopo la morte di Ben, si è trasformato in un campo di battaglia. Dice che stare lì era come lavorare in uno Stato di polizia. La riporto alla settimana precedente l'omicidio e imposto lo scenario per il litigio nell'ufficio di Ben. «I due soci litigavano spesso per questioni di lavoro?» «Negli ultimi mesi, prima che io me ne andassi, c'erano state molte discussioni accese», risponde. «Le cose non andavano bene allo studio.» Jo Ann parla della crescente ostilità fra Ben e Tony, della lampante invidia di Tony che si manifestava in modi che a lei e agli altri dipendenti erano molto evidenti. La conduco alla discussione avvenuta fra i due pochi giorni prima che Ben venisse ucciso.
«Non ho potuto fare a meno di sentire. Urlavano a squarciagola... e si insultavano a parolacce», dice. «La mia scrivania era appena fuori dell'ufficio del signor Potter.» «Quanto è durato questo litigio?» «L'incontro è durato venti minuti. Il signor Skarpellos è rimasto nell'ufficio del signor Potter per quel periodo di tempo. La discussione, la parte che ho sentito, è andata avanti per cinque minuti, forse di più.» «È riuscita a sentire qualcosa di quello che si dicevano?» «Il signor Potter dava del ladro al signor Skarpellos. Mi pare che le parole esatte fossero 'un maledetto ladro'.» Jo guarda i giurati, per accertarsi che abbiano colto questa sfumatura. «E il signor Skarpellos ha detto qualcosa?» «Ha parlato quasi sempre il signor Potter. Sembrava molto arrabbiato. A un certo punto ho sentito il signor Skarpellos parlare di soldi, dire che si sarebbe procurato il denaro e lo avrebbe rimesso immediatamente a posto.» «Cos'altro ha sentito?» «Solo il signor Potter che diceva al signor Skarpellos di uscire dal suo ufficio.» «E lui è uscito?» «Sì. A razzo», puntualizza. Dalla giuria giunge qualche risatina, molto sommessa. Questa è la gerarchia dello studio che conosco anch'io. Il Greco si nutriva dei pesciolini come Hazeltine e gli avvocati più giovani, ma non riusciva a tenere testa a Ben, soprattutto quando Potter era arrabbiato. «Che aspetto aveva il signor Skarpellos quando uscì dall'ufficio del signor Potter quel giorno?» chiedo. «Rosso in faccia, anzi quasi scarlatto. Il signor Skarpellos aveva un soprannome fra il personale», dice. «Lo chiamavamo il lebbroso rosso. Quando si arrabbiava o era imbarazzato diventava molto rosso in faccia, paonazzo si potrebbe dire.» «E perché lebbroso?» «Quando era in quello stato, era meglio girargli al largo.» Altre risate dalla giuria. «Aveva un carattere irascibile?» «Obiezione. Si chiede di esprimere un parere.» Prima che Acosta possa decidere, riformulo la domanda. «Lo ha mai visto perdere le staffe?»
«Parecchie volte.» «Lo ha mai visto diventare violento?» «Una volta l'ho visto tirare un libro a uno degli altri avvocati dello studio.» Inarco leggermente le sopracciglia e mi giro verso la giuria. «Non lo ha colpito», aggiunge Jo. La mira del Greco deve essere pessima quasi quanto il suo carattere. «Il giorno del litigio nell'ufficio del signor Potter, lei ha avuto modo di parlare con il signor Potter dopo la discussione col signor Skarpellos?» «Sì.» «Di che avete parlato?» «Mi ha chiamato nel suo ufficio e mi ha detto che doveva dettarmi una lettera.» «Questa lettera aveva qualcosa a che fare col litigio fra il signor Potter e il signor Skarpellos?» «Obiezione. Dicerie», interviene Nelson. «Se la Corte concede la testimonianza, soggetta a mozione di cancellazione, penso risulterà chiaro, vostro onore, che non si tratta di diceria.» Acosta sventola una mano. «Domanda concessa, soggetta a mozione di cancellazione.» Nelson si rimette a sedere. «Era una lettera indirizzata al signor Skarpellos.» «Ricorda cosa diceva?» «Il signor Potter voleva dare conferma della loro precedente conversazione.» «Il litigio?» Jo annuisce. «Sì. La lettera accusava il signor Skarpellos di essersi appropriato di grosse somme di denaro dal conto fiduciario dei clienti. Precisava che il signor Potter lo aveva appena scoperto e che aveva ingiunto al signor Skarpellos di restituire il denaro entro quarantotto ore, altrimenti il signor Potter sarebbe stato obbligato a riferire all'ordine.» «Obiezione. Si chiede la cancellazione», protesta Nelson. «Questa è chiaramente diceria, vostro onore. Non possono essere ammesse dichiarazioni del signor Potter rese al di fuori di quest'aula. Non è qui di persona per essere controinterrogato.» «Niente affatto», replico. «È già stato stabilito, nella stipulazione del signor Nelson letta alla giuria da questa Corte, che si ritiene che il signor Skarpellos si sia appropriato di ingenti somme di denaro dal conto fiducia-
rio dei clienti. Questa testimonianza non è intesa a dimostrare la verità della questione sopraddetta, e cioè che Skarpellos si è appropriato dei fondi. Questo è già stato dimostrato, grazie alla generosa concessione del procuratore distrettuale. Questa deposizione viene offerta per chiarire lo stato d'animo di Ben Potter, per dimostrare che sapeva, o almeno credeva, che il suo socio aveva preso tali somme dal conto fiduciario. Una testimonianza sullo stato d'animo non è soggetta alle norme sulla diceria, vostro onore.» È un punto sottile, ma ampiamente riconosciuto dalla legge: le convinzioni personali di un dichiarante, non essendo fatti bensì questioni di fede, esulano dalle norme sulla diceria. Acosta guarda Nelson, che è in piedi in silenzio al tavolo dell'accusa. Gli ho ficcato in gola la sua stessa stipulazione, e adesso Nelson, a bocca semiaperta, sembra sul punto di restarne soffocato. «Il furto del denaro dal fondo è un punto stabilito», dichiara Acosta. «A quanto sembra, qui si sta cercando una testimonianza sullo stato d'animo.» Spera che Nelson sia d'accordo, o che almeno se ne stia zitto. «Stato d'animo», commenta il procuratore. «È assurdo.» A meno che non tiri fuori qualcosa di più convincente, si andrà avanti. Acosta solleva il martelletto come un banditore d'asta. «Mozione respinta», dichiara. L'unico tra i giurati che riesca a cogliere la finezza della cosa è Robert Rath. Per un attimo ho l'impressione che mi abbia rivolto una brevissima, quasi impercettibile, strizzatina d'occhi. «Signora Campanelli, ricorda a quale somma di denaro si facesse riferimento nella lettera?» «Non con esattezza, ma era ingente», risponde Jo. Scuote la testa, cercando di ricordare la cifra. «Erano più di centomila dollari. Di questo sono sicura.» «Ha poi battuto a macchina la lettera?» «Sì.» «E il signor Potter l'ha firmata?» «In mia presenza, e mi ha chiesto di consegnarla in busta chiusa alla segretaria di Tony... del signor Skarpellos.» «E lei lo ha fatto?» «Sì.» Questa lettera comincia a sembrare un po' una MSC (Mossa Salva Culo) da parte di Ben. Se qualcuno avesse protestato con troppa foga, o se l'ordine avesse dato l'avvio a un'indagine, Potter poteva nascondersi dietro que-
sta lettera, dire che non appena aveva scoperto il furto aveva fatto la cosa giusta. Anche se qualcuno potrebbe chiedersi se aspettare quarantotto ore fosse davvero la cosa giusta. Vista la fine che ha fatto, magari se lo chiederebbe anche Potter, adesso. «Il giorno in cui ha battuto a macchina questa prima lettera, il signor Potter gliene ha dettato anche una seconda?» «Sì.» «E a chi era indirizzata?» «All'ordine degli avvocati.» «E cosa diceva?» «Conteneva gran parte delle informazioni presenti nella prima lettera, ma sotto forma di esposto all'ordine. Informava l'ordine che la stesura di quella lettera era fonte di grande dolore per il signor Potter, ma che era necessaria data la condotta del signor Skarpellos.» «Il signor Potter le ha dato istruzioni riguardanti la seconda lettera?» «Mi disse di postdatarla.» «Le spiace spiegare alla giuria?» «Volle che mettessi la data di due giorni dopo il giorno in cui l'avevo effettivamente battuta a macchina e che poi la consegnassi a lui.» «Il signor Potter le spiegò il motivo per cui volle postdatare la lettera?» «Obiezione. Diceria.» Nelson è di nuovo all'attacco. «E non mi dica che questo è uno stato d'animo.» Mi stringo leggermente nelle spalle e gli concedo la vittoria. «Mi ha preso in fallo. Cosa vuole che le dica?» Qualche risata allegra dal banco della giuria. Non occorre un genio per capire quale fosse il motivo di Ben, al di là del dare al Greco il tempo di mettere assieme i soldi e rispettare la scadenza di quarantotto ore imposta dalla prima lettera. È l'immagine di un socio che fa tutto il possibile per salvare un amico dai suoi stessi demoni. «Ha più rivisto questa lettera, quella indirizzata all'ordine?» «No. L'ho battuta a macchina e l'ho data al signor Potter.» «Quindi lei non sa se poi lui abbia avuto occasione di imbucarla...» Faccio una piccola pausa d'effetto. «Prima di essere ucciso?» «No», dice Jo. Guardo verso la giuria. I giurati hanno afferrato il punto. Prima di terminare, faccio identificare a Jo Ann il testamento di Ben, la sua firma in qualità di testimone, posta in calce. Stranamente, Nelson non tenta nemmeno di opporsi. Visto che il Greco ha ammesso di fronte alla
Corte di essere al corrente dei termini di questo documento, di sapere del proprio ruolo nell'eredità di Ben, probabilmente Nelson ritiene che ci sia ben poco da guadagnare dalla non inclusione del documento fra le prove. Fila tutto liscio. È uno dei punti più imprevedibili dei processi: i problemi non nascono mai dove te li aspetti. «A lei la teste», dico. Non ci sono sorprese. Nel suo approccio a Jo Ann, Nelson è del tutto scontato. «Signora Campelli», esordisce, mutilandole il cognome. «Campanelli», corregge lei. «Mi scusi. Signora Campanelli. È vero che lei è stata licenziata dallo studio Potter & Skarpellos per atti di indisciplina?» «No», nega Jo, «non è vero.» «Non è un fatto che lei stava assumendo informazioni su questioni confidenziali riguardanti i clienti che sapeva di non avere alcun diritto di conoscere, che le era stato ordinato di non immischiarsi, e che è stata licenziata per questo motivo?» «No. Sono stata licenziata dopo aver fatto domande sul conto fiduciario dei clienti. Dopo la morte del signor Potter, ne ho parlato con uno dei soci. Nessuno mi ha mai spiegato il motivo del licenziamento. Lei può trarre le conclusioni che preferisce.» Nelson non la sta spuntando. «Non è vero che dopo essere stata licenziata lei ha cominciato a covare un profondo odio per Tony Skarpellos?» «Non lo chiamerei odio», precisa Jo. «Era più che altro disprezzo.» Ci sono risate represse fra i giurati. «Bene, lei nutriva disprezzo per il signor Skarpellos. Mi dica, questo disprezzo non ha avuto un ruolo nella sua deposizione di oggi?» «Ho risposto il vero a ogni domanda che mi è stata fatta.» Jo ha l'espressione perfetta di chi manifesta una giusta indignazione: che solo le donne di una certa età riescono a trasmetterla bene. «Andiamo, non vorrà raccontarci che non le è piaciuto dire alcune delle cose che ha detto oggi sul conto del signor Skarpellos?» «Mi piace dire la verità», risponde lei. «Mi dica, signora Campanelli, se queste informazioni, se la sua testimonianza era così importante, perché non ha riferito tutto alla polizia non appena il signor Potter è stato ucciso?» «Non...» Qui Jo incespica un po'. «Non pensavo di avere prove suffi-
cienti.» «Capisco. Lei non pensava che la sua testimonianza valesse qualcosa fino a che l'avvocato Madriani non l'ha avvicinata e le ha detto che gli serviva per la sua difesa, è così?» «No.» «Però lui si è rivolto a lei, no?» «Sì.» L'indignazione è scomparsa. Nelson sta cominciando a scavare, a lasciare il segno. «Parliamo di quelle lettere», dice. «Erano due, esatto?» «Sì.» «Ne ha copie?» «No.» «Be', lei è una segretaria. Normalmente non tiene copia della corrispondenza che prepara? Non la archivia in qualche modo?» «Erano lettere riservate. Molto personali. Non sono state archiviate nel solito modo.» «Capisco. Quindi il signor Potter si fidava di lei tanto da farle battere queste lettere, ma non abbastanza per lasciarle tenere delle copie?» Adesso Nelson sta infierendo. Jo Ann lo guarda con occhi cattivi. Non ha modo di rispondere alla domanda. È come se lui le stesse chiedendo se picchia suo marito. «È vero che lei non ha mai sentito alcun litigio fra il signor Potter e il signor Skarpellos a proposito di conti fiduciari o altro?» «Questo non è vero...» «Non è un fatto che lei si è inventata tutta la storia per fornire all'avvocato Madriani una linea di difesa e al tempo stesso vendicarsi del signor Skarpellos, che l'ha licenziata?» «È stato lui?» chiede Jo. Nelson la guarda, colto per un attimo alla sprovvista. «Non mi hanno mai detto chi sia stato a licenziarmi», spiega Jo. «Non ne hanno avuto il fegato.» Nelson ha lasciato la guardia scoperta. Non so se la giuria la stia bevendo, ma Jo Ann gioca la carta per tutto quello che vale. «Se lo avessi saputo, sarei venuta qui prima», dice. «Ma la mia testimonianza sarebbe stata la stessa.» Tiene il collo piegato: sembra un gallo in un combattimento. Guarda Nelson diritto negli occhi. E, dopo parecchi secondi, è Nelson a sbattere le palpebre e infine a distogliere lo sguardo. No, penso, questa deposizione non puzzerà di marcio.
Dopo la pausa per il pranzo, Acosta mi chiede se la difesa abbia altri testimoni. L'ho lasciato all'oscuro sulle intenzioni di Talia, non gli ho comunicato se si presenterà a deporre o meno. «Vostro onore.» Mi alzo e abbasso gli occhi sulla mia cliente con uno sguardo colmo di significati, come se stessi valutando in questo preciso istante cosa fare, se chiamare Talia o no. «Date le prove presentate, vostro onore, non vedo motivo di sottoporre la signora Potter a ulteriori traumi. Ha già dovuto sopportare molto. Abbiamo deciso che, alla luce della tesi dell'accusa, non vediamo alcuno scopo nel chiamarla a deporre.» La faccio sembrare una decisione dell'ultimo minuto, qualcosa che ho stabilito adesso, al momento, in base alla debolezza della tesi dell'accusa. Nelson mi guarda sbalordito. I miei commenti sono assolutamente inopportuni, solo che in un caso che prevede la pena capitale, tutto è lecito. «Vostro onore», dice, «obiezione.» «A cosa? Al fatto che la mia cliente non deporrà? È un suo privilegio. Spetta a voi l'onere di provare la vostra tesi, e non ci siete riusciti.» A queste parole quasi gli schizzano gli occhi fuori delle orbite. «No», afferma. «Mi oppongo a questi commenti gratuiti, alle giustificazioni addotte a motivo della decisione di non chiamare a deporre la sua cliente.» Sta implorando Acosta. Mi rivolgo ad Acosta. «Alla pubblica accusa non è concesso fare commenti in questo ambito. Il signor Nelson sta chiedendo un processo inficiato per vizi di procedura.» Dopo avere provocato Nelson, ora mi lamento della sua reazione. Acosta picchia il suo martelletto, per ordinare a entrambi di stare calmi. «Basta così», dichiara. «L'imputata ha scelto di non testimoniare. È un suo diritto. Ordino alla giuria di ignorare tutti i commenti fatti dagli avvocati di entrambe le parti. Non sono prove e voi, nell'emettere il vostro verdetto, non dovrete prenderli in considerazione.» Qualche penalista definisce queste istruzioni limitative «la norma della zebra verde». Se si dicesse a una giuria che può pensare a qualunque cosa, a qualsiasi cosa al mondo, tranne che a una zebra verde, ovviamente la giuria penserà solo a una zebra a strisce bianche e verdi, escludendo tutti gli altri oggetti presenti nell'universo. Non è facile per Acosta uccidere il seme che io ho piantato. Come minimo, i giurati adesso hanno una spiegazione plausibile per il silenzio di Talia, una spiegazione che è stato ingiunto loro
di non tenere in considerazione; quindi la terranno in considerazione, non a livello di gruppo, ma negli oscuri meandri delle singole coscienze. Almeno è una spiegazione, qualcosa da contrapporre alla tendenza naturale a pensare che solo chi è colpevole preferisca il silenzio. «Avvocato Madriani, ha altri testimoni?» «La difesa ha concluso», rispondo. «Molto bene», dice Acosta. Dà un'occhiata all'orologio, chiedendosi se continuare oggi o riprendere domani mattina. «Domani ascolteremo le arringhe conclusive, con inizio alle ore nove del mattino. Consiglio a entrambe le parti di essere pronte. La Corte si aggiorna.» 39. È occorsa quasi un'intera mattinata, a porte chiuse con Acosta, per definire le istruzioni da dare alla giuria. Sono una miscellanea di brevi paragrafi, norme sull'onere della prova, sulla presunta innocenza, sulle prove indiziarie e sul peso che possono avere, sulle conclusioni che se ne devono trarre. Alla fine, abbiamo ottenuto un bel pacchetto giuridico, punti di riferimento ai quali attingeremo, sia Nelson sia io, nella nostra arringa conclusiva. Nell'arringa conclusiva ci artigliamo a vicenda come due gatti infuriati che si azzuffino per una testa di pesce. È una lotta all'ultimo sangue. La posta in gioco è alta. Le buone maniere sono rimaste fuori della porta. Nell'arringa conclusiva di un caso che prevede la pena capitale, tutto è permesso. Nelson è in piedi davanti alla giuria. Cerca di aumentare il peso delle prove. Il suo primo ostacolo è il capello di Talia, l'unico collegamento concreto fra lei e il delitto. La difficoltà, ovviamente, sta nello spiegare in quale modo questo capello sia rimasto intatto nella canna del fucile, come sia sfuggito al calore del colpo che ha fatto saltare le cervella di Ben. Nelson vuole mettersi alle spalle questo problema subito, in modo che la giuria non si soffermi più di tanto sull'argomento. A mio giudizio è un errore tattico, una deviazione dal principio di cominciare sempre con un attacco deciso per concludere su una nota alta. Nelson incespica un po', poi si riprende, prosegue con la sua arringa. Dice alla giuria che questa prova è suscettibile di molte interpretazioni. «Il capello può essersi infilato in un lato della camera di caricamento prima che venisse premuto il grilletto. Forse l'imputata ha aperto la culatta e poi l'ha
richiusa dopo lo sparo», sostiene, anche se non riesce a dare una spiegazione al gesto, visto che il bossolo non è stato estratto. «Il capello potrebbe essersi impigliato in quel momento. Non ci si può sempre aspettare che una persona che ha appena commesso un delitto così brutale e spietato pensi e agisca in maniera logica.» Tutte queste spiegazioni sono estremamente deboli. Ma Nelson le ammanta di sicurezza e le rifila alla giuria da vero esperto. Con estrema agilità verbale, passa alla piccola pistola trovata da Tod in casa di Talia dopo l'omicidio. Cita la perizia di Coop, ricorda che il rivestimento standard di un proiettile calibro venticinque è perfettamente compatibile con il frammento rinvenuto nel cranio della vittima. «Questa», dice, «questa pistola trovata a casa dell'imputata è l'arma che ha ucciso Ben Potter. Potete dubitarne? «Avete sentito la signora Foster, la vicina dei Potter, che ha detto di aver visto l'auto della vittima nel vialetto d'accesso della casa, attorno all'ora in cui è stato commesso l'omicidio. L'avvocato Madriani...» Mi rivolge uno sguardo carico di scherno. «L'avvocato Madriani ha fatto tutto quello che poteva per confondere quella povera signora, sottoponendole fotografie di automobili che nessuno di noi, in circostanze analoghe, avrebbe potuto distinguere. Ma, nonostante questa confusione, la testimonianza resta. Era un'auto che la signora Foster aveva visto molte volte, un'auto sulla quale era estremamente improbabile che potesse sbagliarsi.» Nelson è un maestro nell'elaborare ciò che ha in mano. Sfiora appena le varie circostanze: sembra un virtuoso ai tasti di un pianoforte. La sua arringa è esplicita, e quasi cronologica. «Abbiamo sentito la testimonianza riguardante un alibi...» Mette l'accento su questa parola, per conferirle tutte le connotazioni peggiorative che può assumere agli occhi della giuria. «Un alibi per l'imputata, una storia raccontata alla polizia, e che dalla polizia è stata controllata a fondo. Ma io vi chiedo di vagliare attentamente la trascrizione di questo processo. Non c'è un briciolo di prova che confermi la storia dell'imputata, niente che ci dica che si trovasse fuori città al momento dell'omicidio. L'imputata non ci ha fornito nulla, non uno straccio di prova, che ci dica dove fosse quella sera.» Si ferma, le mani appoggiate alla transenna, e abbraccia con lo sguardo l'intera giuria. La legge non gli permette di chiedere a parole quello che sta chiedendo con il linguaggio del corpo: perché l'imputata non si è fatta avanti a dirci dov'era la sera in cui Ben Potter è stato ucciso?
Intuisco che questo fa effetto sulla giuria. Persino Rath schiva il mio sguardo, mentre valuta la cosa. Nelson insiste pesantemente sull'accordo prematrimoniale e si arrampica sugli specchi per riempire le falle delle sue prove. «L'avvocato Madriani punta molto sulla teoria secondo la quale l'imputata non avrebbe mai saputo delle intenzioni di divorzio di Ben Potter. Però è solo una teoria, una congettura. Perché noi non sappiamo cosa l'imputata sapesse o non sapesse a questo riguardo. Possiamo soltanto fare supposizioni», afferma. Gira le spalle alla giuria e guarda Talia, in una muta accusa per la sua mancata deposizione. «Sappiamo che aveva molto da perdere», prosegue. «La casa dove viveva, una sontuosa residenza degna di una regina. La quota dello studio legale diretto dal marito, un'attività che vale milioni di dollari. Uno stile di vita privo di problemi, qualcuno potrebbe addirittura dire disinvolto, al quale era abituata. Tutto questo sarebbe stato spazzato via in un attimo, se Ben Potter avesse divorziato.» Nelson torna al centro della transenna. «Chiedetevi, signore e signori, se la perdita di tutte queste cose, la perdita di ogni sicurezza economica all'avvicinarsi di un'età che non è più giovane, non sia un motivo sufficiente per uccidere.» Indietreggia lentamente, annuendo. Un pizzico di linguaggio gestuale per fornire la risposta alla sua stessa retorica. Passa velocemente in rassegna le deposizioni dei testimoni secondari a favore di Talia, deposizioni che, a suo giudizio, sono: «...tendenziose. L'approvazione incondizionata degli amici del country club, i cui costumi, come quelli dell'imputata, sono alquanto facili». Il commento è acido, e vedo che Talia gli punta addosso uno sguardo cattivo. Mi chino a parlarle all'orecchio, per segnalarle l'errore di comportamento. «Non assumere atteggiamenti che possono non piacere alla giuria.» La sua espressione si fa più pacata. «Signore e signori, chiedetevi se potete davvero credere a una teste la quale sostiene che le soste in un motel della zona nel bel mezzo di una giornata, in compagnia di altri uomini, fossero innocentissime lezioni di tennis.» La sua voce trasuda derisione. Si scosta dalla transenna scuotendo la testa, emette una risatina forzata. «Queste persone ci prendono per zoticoni... No. Questo non è il comportamento di una moglie fedele e premurosa, bensì uno stile di vita edonistico condotto sotto il naso di un marito che se ne vergognava ed era imbarazzato nei confronti della comunità in
cui viveva, un marito che per buone e ovvie ragioni ha cercato di porre fine a uno sterile matrimonio, e che per questo è stato assassinato.» Queste ultime parole si depositano come polvere della prateria su un contadino dell'Iowa. Persino a questa giuria a predominanza maschile è difficile giustificare la monumentale mancanza di discrezione dimostrata da Talia. Nelson ha tenuto per ultima la parte più critica, la sua difesa di Tony Skarpellos. Qui assume il ruolo di avvocato difensore. Se non riesce a scagionare il Greco agli occhi della giuria, a smantellare la logica dei due possibili esecutori del delitto, ciascuno con l'occasione, ciascuno con un ottimo movente per uccidere, darà adito a più dubbi di quanti le prove indiziarie dell'accusa possano reggere. «L'avvocato Madriani si è fatto in quattro per attirare il teste Anthony Skarpellos nel cerchio del sospetto. È vero, abbiamo sentito cose inquietanti sulla condotta del signor Skarpellos, sulla sua disinvoltura con il denaro dei clienti. Ma non sono prove che indichino un omicidio. Questa...» la mia teoria del delitto, intende Nelson - «è una tattica fuorviante, chiaramente escogitata per distogliere l'attenzione della giuria dal vero colpevole.» Nel giro di due minuti, da che Nelson si è lanciato in quest'ultimo argomento, risulta chiaro che ha fatto un errore madornale. Non ha nulla da opporre alla nostra teoria sulla possibile colpevolezza del Greco. Il consiglio di Harry su Susan Hawley si sta rivelando d'oro. Mentre Nelson ripercorre l'alibi di Tony, la partita di pallacanestro a Oakland, il suo racconto ha tutta l'aria di una storia priva di senso. Il destino di Talia può non essere ancora deciso, ma una cosa è chiara: Tony Skarpellos soffre di irrimediabile mancanza di credibilità agli occhi della giuria. Non mi piacerebbe trovarmi a doverlo difendere in questa sede. Invece di chiudere su una nota alta, Nelson ha sbagliato i conti. Il culmine della sua arringa alla giuria cola a picco come un sasso lanciato in un laghetto di montagna. Credo che se ne renda conto. Quando volta le spalle alla giuria e si dirige al tavolo dell'accusa, Nelson ha l'aria di chi desidera un'altra possibilità. Sfortunatamente per noi, l'avrà. L'accusa ha diritto a due arringhe conclusive: la prima per riassumere la propria tesi, e la seconda per confutare la nostra arringa. È uno dei vantaggi di chi ha l'onere della prova. Nelson va a sedersi e Acosta mi guarda. Il mio piano prevede due tattiche principali: primo, colpire la tesi del-
l'accusa nei suoi punti deboli, in modo da mettere Nelson sulla difensiva; e secondo: dargli il minor numero possibile di appigli per la sua confutazione. Mi porto di fronte alla giuria e sorrido. Parlo in tono disinvolto, come se stessi chiacchierando con un vicino al di là della staccionata. «C'è una costante onnipresente nel diritto penale», esordisco. «È uguale dal Maine alla California, dalle Aleutine all'Alaska. È una delle poche leggi di questa nazione che sia universale e indiscussa: la regola che l'imputato in un processo penale ha il diritto di essere ritenuto innocente fino a che lo Stato non dimostri la sua colpevolezza, con prove che vadano al di là di ogni ragionevole dubbio.» Comincio sempre dai dati fondamentali. Faccio un cenno d'assenso, anticipando la domanda che so essersi fatta strada nelle loro menti. «Certo, avete ragione. È un compito molto arduo quello che il nostro governo ha imposto ai vari Stati, soprattutto in casi come questo, quando le prove sono indiziarie, quando non ci sono testimoni diretti del delitto. «Ma i nostri padri fondatori volevano che nessun innocente, uomo o donna, fosse vittima di un'ingiusta condanna, finisse ingiustamente incarcerato, o peggio giustiziato, per colpa di un avvocato eccessivamente zelante o di un errore da parte della pubblica accusa. È un buon sistema, il migliore al mondo.» Chiarisco che non è il caso di temere che Nelson abbia il ruolo del povero cristo. Ricordo loro che ha un esercito di funzionari di polizia che indagano per lui, un ufficio pieno di avvocati professionisti, tutte le risorse dello Stato, contro Harry e me da soli. Indico il «signor Hinds» seduto al tavolo della difesa, solitario a fianco di Talia. «È giusto che con tutte queste risorse l'onere della prova spetti allo Stato.» Sembrano accettare queste parole, considerarle un fatto scontato. Passo a disinnescare la bomba rappresentata dal silenzio di Talia. «Il signor Nelson ha girato attorno alla questione. Con insinuazioni e allusioni ha messo in discussione ciò che la legge non gli permette di discutere direttamente. Con sottili accenni ha contestato il silenzio di Talia Potter in questo processo.» «Vostro onore, non è vero.» Nelson è scattato in piedi. Sa che il tipo di comportamento da me appena descritto è assolutamente proibito. Se solo risultasse implicito nella trascrizione, basterebbe per inficiare immediatamente il processo per vizio procedurale. Non può permettersi di non conte-
stare la mia affermazione. «La trascrizione parlerà da sé», dichiara Acosta. «Non ho sentito obiezioni durante l'arringa del signor Nelson.» «Come si può fare obiezione ai gesti e alle intonazioni della voce, vostro onore?» Sono cose che non risulteranno di certo dagli atti, gli dico. «Proceda», ribatte lui. Riporto lo sguardo sulla giuria. «Affronterò la questione in modo franco e diretto», continuo. «Fra poco il giudice vi leggerà alcune istruzioni. Una di queste riguarda il diritto di Talia Potter di mantenere il silenzio per l'intero processo. È un suo innegabile, assoluto diritto. «Ha il diritto di contare sulle prove presentate dalla pubblica accusa, o sulla mancanza di queste prove. Se lo Stato non è riuscito a dimostrare ogni elemento essenziale dell'accusa contro di lei, in base alla legge il signor Nelson non può aspettarsi che sia proprio l'imputata a colmare le sue carenze. Questo la legge non lo ammette.» Prendo le istruzioni alla giuria dal tavolo della difesa, scelgo uno dei due paragrafi che Acosta leggerà su questo punto. «'Un imputato in un processo penale'», leggo, «ha il diritto garantito dalla costituzione di non essere obbligato a deporre. Non dovrete trarre alcuna conclusione dal fatto che un imputato non si presenti a deporre. Non dovrete né discutere questo argomento, né permettere che entri nelle vostre decisioni in alcun modo di sorta.» Qui aggiungo un abbellimento, un paio di parole che rafforzano il concetto. «Questa è la legge», ribadisco, «a parte le allusioni o le implicazioni che la pubblica accusa può suggerirvi, a parte i gesti che pensate di potere aver visto.» Mi giro a guardare Nelson. «Questo è un diritto basilare e inviolabile che lo Stato non può mettere in discussione.» Torno al tavolo della difesa, metto giù il foglio di carta con le istruzioni, bevo un sorso d'acqua e mi dirigo di nuovo verso la transenna. Ci sono altre ragioni, dico loro, che spiegano il silenzio della mia cliente. Faccio notare che ha risposto alle accuse dichiarandosi innocente, impostando una solida difesa, producendo testimoni che hanno garantito la sua estraneità al fatto. «E c'è ancora un'altra ragione per la quale non ha deposto. È una donna orgogliosa, sottoposta per mesi al peggiore trauma che lo Stato e la società possano infliggere a uno dei propri cittadini, l'accusa di un grave crimine, una totale e completa invasione di ogni aspetto della privacy. Non voglio sottoporla a qualcosa di ancora peggio. Questo
non lo posso fare.» In questo modo mi assumo la responsabilità per il suo silenzio, me ne addosso la colpa, e cerco di disperderla al vento. Faccio una breve pausa e rivolgo loro uno sguardo serio e misurato. Mi raddrizzo in tutta la mia statura e riprendo a parlare. «Quando abbiamo cominciato, vi ho fatto una sola difficile domanda, su un problema chiave per il risultato di questo processo. Vi ho chiesto se nella presentazione della tesi dell'accusa avevate sentito o visto una qualsiasi prova schiacciante, una qualsiasi prova sufficiente a condannare Talia Potter per il crimine del quale è accusata.» È giunta l'ora di riportarli a questa domanda. Il mio sguardo risoluto percorre tutta la giuria. «Chiedetevi, nel silenzio della mente, se la pubblica accusa ha fornito un barlume, anche la minima traccia di prova convincente che dimostri che Talia Potter sia legata in qualche modo alla morte del marito, Benjamin Potter.» Li guardo in assoluto silenzio per un lungo momento, lasciando a questo interrogativo il tempo di penetrare. «Cosa è riuscita a dimostrare la pubblica accusa in quasi tre settimane del vostro tempo, con un'incalcolabile spesa di denaro pubblico?» chiedo loro. «Il signor Nelson vi ha fornito fotografie dell'orripilante violenza che vorrebbe far credere perpetrata dalla mia cliente, Talia Potter. Le fotografie avevano lo scopo di spingervi a punire ciecamente chiunque fosse accusato di questo omicidio. È questa una prova convincente della colpevolezza di Talia Potter? «Ha fornito un capello umano talmente intatto che i suoi stessi periti non sanno spiegare l'assenza di bruciature, sebbene il capello fosse impigliato nella camera di caricamento di un fucile che ha sparato nella bocca della vittima. È questa una prova convincente della colpevolezza di Talia Potter?» Riprendo l'improbabile spiegazione che Nelson ha fornito nella sua arringa conclusiva, una spiegazione, affermo, che non è sostenuta dalla testimonianza dei suoi stessi esperti. «Non ho fatto obiezione a questo suo ragionamento, anche se avrei potuto, perché non c'è alcuna prova agli atti che lo sostenga. Non ho fatto obiezione perché sapevo che potevate vedere con i vostri occhi e sentire con le vostre orecchie l'assenza di qualsiasi prova su questo punto.» Rivolgo loro un sorriso e annuisco lentamente, a dimostrare che mi fido della loro capacità di giudizio, del loro buonsenso
in cose del genere. Senza dubbio ho guadagnato di più procedendo così, seguendo questa tattica, che con ogni possibile obiezione. «Il signor Nelson ha presentato un teste il quale ci ha detto che la vittima era sul punto di divorziare dalla moglie, il che ha offerto un presunto movente per un omicidio. Però lo stesso teste non può affermare se Talia Potter fosse in realtà a conoscenza di questa supposta intenzione di porre fine al suo matrimonio, col che abbiamo un movente talmente segreto che la stessa imputata ne ignorava l'esistenza. È questa una prova convincente della colpevolezza di Talia Potter?» Ricordo loro la signora Foster, che non è riuscita a identificare l'auto della vittima, che non ha visto né Ben né Talia in casa la sera dell'omicidio, ma la cui testimonianza è stata offerta proprio per ciò che implicava. Parlo di impiegati di motel e di insinuazioni su amanti nella notte, di complici che la pubblica accusa, con tutte le sue risorse, non è riuscita a identificare. E tutto questo con lo stesso ritornello finale: «È questa una prova convincente della colpevolezza di Talia Potter?» Sono certo che Nelson sta bruciando al tavolo dell'accusa ma, come in tutto il resto del processo, al cospetto della giuria fa buon viso a cattiva sorte, distaccato e indifferente. Dico loro che le prove presentate per questo caso richiedono, esigono a gran voce, un unico verdetto possibile, un verdetto di non colpevolezza. Mi allontano a passi lenti dalla transenna, e li lascio rimuginare questo punto per un breve momento. Poi torno da loro. «Quando mi sono rivolto a voi per la prima volta, nella mia dichiarazione iniziale, non solo vi ho domandato se la tesi della pubblica accusa fosse sostenuta da prove convincenti, ma vi ho anche promesso qualcosa. Vi ho promesso che vi avrei dato la persona che ha perpetrato questo delitto, la persona che ha assassinato Ben Potter, che lo ha ucciso a sangue freddo.» Qui la mia espressione è severa. Non occorre un genio per capire dove sto puntando. Ognuno di quei giurati ha, nella propria mente, percorso questo terreno ormai per giorni, ascoltando le prove contro Tony e ponendosi domande. «Vediamo cosa abbiamo», riassumo. «Il signor Skarpellos ha ammesso, per quanto a malincuore, di essere al corrente dei termini del testamento di Ben Potter, del fatto che avrebbe ereditato enormi somme del patrimonio di Ben Potter, ma soltanto se Talia Potter fosse stata eliminata, se il suo diritto all'eredità fosse scomparso. La sua condanna raggiungerebbe precisamente quello scopo.»
Gioco su questo tema, i comodi ricordi di Tony, il fatto che abbia aspettato mesi prima di dire alla polizia che Ben gli aveva confidato l'intenzione di divorziare. Affronto l'argomento con termini particolari. Definisco Tony «un lestofante». Alcuni dei giurati hanno gli occhi leggermente sgranati. Si stanno chiedendo se questo non violi il bando di Nocedicocco a imprecazioni e linguaggio colorito. «Grande disinvoltura con il denaro dei clienti... Mi pare che il signor Nelson si sia riferito in questi termini alla gigantesca appropriazione indebita, al saccheggio dei soldi dei clienti operato da Anthony Skarpellos. È la prima volta che mi capita di sentire definito in questo modo un vero e proprio furto, soprattutto da un procuratore che sputa fuoco e fiamme. «Non è possibile credere che Ben Potter confidasse i suoi segreti più intimi a un uomo del genere, a un uomo di cui si sa, come abbiamo sentito, che ha rubato apertamente dal conto fiduciario dei clienti del suo stesso studio. Questo furto», insisto, «è una prova concreta che l'accusa stessa ha ammesso e che dovrete considerare, ai fini di questo processo, un dato di fatto.» Vedo una serie di cenni affermativi fra la giuria, lenti, timorosi, ma innegabili. «Abbiamo sentito dalla teste Jo Ann Campanelli del violento litigio avvenuto fra Tony Skarpellos e la vittima poco prima dell'omicidio. Sappiamo che la vittima aveva inviato un ultimatum scritto al signor Skarpellos nel quale gli ingiungeva di rimettere sul conto fiduciario le somme sottratte o di subire le inevitabili conseguenze, conseguenze che avrebbero benissimo potuto includere la perdita della licenza all'esercizio dell'avvocatura in questo Stato. Questo», sottolineo, «era un convincente motivo per uccidere.» Picchio duro sull'alibi del Greco. Insisto sul denaro versato a Susan Hawley, il cosiddetto prestito senza interessi o garanzie collaterali. «Dovrebbe essere concessa a tutti la fortuna di ottenere prestiti dalla banca di Anthony Skarpellos», dico. Questo fa spuntare qualche sorriso al di là della transenna. Mi stupisco della miopia investigativa della pubblica accusa, del perché si siano concentrati sulla mia cliente escludendo un altro ovvio sospettato, un uomo che aveva sia il movente, sia l'occasione. «Chi aveva più da guadagnare?» chiedo. «Talia Potter o Tony Skarpellos? Chi aveva più da perdere? «Considerate i fatti», proseguo. «Non sappiamo se Talia Potter fosse al
corrente dei presunti progetti di divorzio del marito, un'affermazione per la quale abbiamo soltanto la parola di Anthony Skarpellos, un teste che ha molto da guadagnare dalla condanna di Talia Potter. È questa la situazione delle prove della pubblica accusa. Sono ben lontane dall'essere convincenti. «D'altro canto, non c'è dubbio che Tony Skarpellos fosse al corrente della minaccia rappresentata da Ben Potter, una minaccia comunicata per lettera, precisa nei suoi termini, certa nelle sue conseguenze.» Mi allontano dalla transenna fino a portarmi di fronte al banco dei testimoni. «Tony Skarpellos si è seduto là, su quella sedia, signore e signori...» indico il banco - «... e vi ha detto di non avere litigato con Ben Potter prima dell'omicidio. Sappiamo che è una menzogna.» Ricordo loro la testimonianza di Jo Ann, che ha affermato di avere udito un violento litigio. «Si è seduto là...» - punto ancora l'indice, come se si trattasse della scena del delitto - «e ha negato di essersi appropriato del denaro del conto fiduciario del suo stesso studio. Ora sappiamo che era una menzogna.» Abbasso la voce di un'ottava. «Si è seduto là, signore e signori, e ha negato di avere ucciso Ben Potter, e io sostengo che anche quella era una menzogna.» In silenzio, sostengo il loro sguardo per dieci secondi buoni. È qualcosa che Ben mi ha insegnato a fare per tutti i momenti pregnanti dell'arringa. Sembra un'eternità. Quasi tutti i giurati distolgono lo sguardo prima che io abbia concluso la pausa. «Signore e signori, voi avrete un obbligo quando entrerete in quella stanza, quando chiuderete le porte per deliberare, ed è quello di valutare tutte le prove. Se voi, chiunque di voi, è del parere che queste prove dicano che la mia cliente non è colpevole, e dovreste essere di questa opinione, non dovrete desistere da quel parere. Non dovrete essere forzati o indotti ad abbandonare quella posizione per ragioni di convenienza, per adeguarvi agli altri, per essere amichevoli», dico. «Questo non è un tè delle cinque, non è una festa. È un processo che deciderà della vita di Talia Potter. In un anno, sono molti i giurati che siedono dove ora sedete voi, ma pochi si trovano a dover deliberare su questioni così importanti. «Esiste, sepolta nell'inconscio, una dinamica in tutti i casi che ho seguito, una convinzione secondo la quale una giuria, se non raggiunge un verdetto unanime, in qualche modo ha fallito come organismo, ha sperperato il denaro dei contribuenti, ha fatto sprecare un'enorme quantità di tempo
alla Corte, ai colleghi giurati, agli avvocati che hanno partecipato al processo. Non è così. «La legge afferma, per buone ragioni, che si può condannare o assolvere soltanto in base a un voto unanime della giuria, della giuria al completo», ricordo loro. «Questo però non significa che una giuria che non giunga a un voto unanime non sia riuscita a produrre un risultato. Il risultato in tal caso, signore e signori, è che qualche giurato, uno o più di uno, è convinto che la pubblica accusa non sia riuscita a fornire prove sufficienti per dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l'imputato è colpevole. Un risultato di questo tipo, signore e signori, significherebbe che la mia cliente ha diritto a essere ancora ritenuta innocente, lo stesso diritto che ciascuno di noi in questa aula possiede, fino a che, e a meno che, la pubblica accusa non dimostri la nostra colpevolezza.» Ho esposto il mio ultimo punto. Rivolgo una breve occhiata a Talia. «Signore e signori, là vedete seduta una donna innocente.» Indico Talia con il braccio teso, poi lo lascio cadere lungo il fianco, come se avessi offerto un ultimo saluto. «Questa è la mia ultima occasione per rivolgermi a voi», concludo, «quindi vi ringrazio per la generosità con cui ci avete dedicato il vostro tempo, per la vostra pazienza, e soprattutto per la vostra onestà, integrità e saggezza che sono certo esprimerete nelle vostre decisioni.» Con questo alzo i tacchi, torno al tavolo della difesa e mi siedo in fretta. Nelson resta seduto un brevissimo istante prima di alzarsi, dopo aver preso alcuni appunti dell'ultimo minuto sul suo blocco. Quando è davanti alla giuria, non perde tempo. Passa subito all'attacco, per spezzare le reni alla mia arringa. Questa volta va immediatamente al punto cruciale. «Perché mai», chiede, «un uomo che ha appena commesso un omicidio e che ha incastrato la moglie della vittima per quel delitto, perché mai quest'uomo dovrebbe prestare ottantamila dollari per difendere l'imputata proprio dalle accuse sulle quali egli stesso l'avrebbe incastrata?» Sorride alla giuria come se avesse appena fornito loro la mossa iniziale della dama cinese. «Perché mai un essere umano razionale dovrebbe farlo?» Io stesso mi sono posto questa domanda parecchie volte. La risposta è sempre arrivata sotto le spoglie di Gilbert Cheetam e della sua totale incompetenza. Una delle cose imponderabili che non posso discutere di fronte a questa giuria e aspettarmi di essere capito. Secondo me si è trattato di
un colpo da maestro: Cheetam per la sua incompetenza e me per il mio conflitto, la mia relazione con Talia. Il Greco aveva messo assieme la squadra di difesa ideale. Skarpellos è più perspicace di quanto io abbia mai immaginato. Nelson batte su questo: per lui è un cardine essenziale. Non è logico che Skarpellos, se davvero avesse ucciso Ben, abbia finanziato la difesa. Lascia perdere il capello e invece riprende altri argomenti della sua tesi. Dice che non c'è motivo di credere che la somma versata a Susan Hawley fosse qualcosa di diverso da ciò che Tony Skarpellos ha sostenuto, e cioè un semplice prestito. «Potete disapprovare la fonte del denaro, ma lo scopo è chiaro: un puro e semplice prestito.» Si chiede come mai, se siamo convinti che Susan Hawley sia una teste comprata, non l'abbiamo chiamata a deporre. Dice che la polizia, che l'ha interrogata a fondo, non ha mai dubitato del fatto che fosse con Tony Skarpellos la sera dell'omicidio. Nelson si sta dimostrando un avvocato decisamente migliore di quanto mi aspettassi. Quando arriva alla conclusione, ha di nuovo pareggiato le sorti del gioco, e le farfalle gigantesche che mi svolazzavano nello stomaco all'inizio del processo sono tornate. Le decisioni della giuria in questo caso sono, temo, un vero e proprio terno al lotto. 40. Ci aspettavamo il peggio, un verdetto veloce, ma a un certo punto almeno questo è parso improbabile. Dopo un'ora trascorsa ad ascoltare le dita di Harry che ticchettavano sul tavolo, Talia e io non ne potevamo più. Così siamo usciti. Talia non sa che fare, quindi segue Harry e me sino al mio ufficio. Con lei c'è Tod, per darle sostegno morale. Adesso che la giuria è riunita, la facciata di distacco che ho imposto ai due non ha più senso. Talia sembra una bambina malata e atterrita. A guardarla si direbbe che non può succederle nulla di male fino a che rimane con noi. L'ho osservata a sufficienza in questi ultimi giorni per intuire che sta implorando il cielo di salvarle la vita. Si avvicina il momento della verità, e i nervi sono tesi, a fior di pelle. Io stesso ho fatto proponimenti, alle autorità celesti, di una vita migliore, di smetterla con la doppiezza, se solo riusciremo a schivare questo treno che ci sta arrivando addosso. Acosta ha impiegato quasi due ore a dare istruzioni alla giuria, servendosi dell'elenco che avevamo concordato nella nostra consultazione a porte
chiuse. Ha letto le istruzioni, esposte in una forma comprensibile da uno studente di scuola media inferiore, in maniera lenta e metodica. Correttamente, non ci ha ricamato sopra e non ha tentato di spiegarle o interpretarle ulteriormente. Questi preziosi frammenti di legge sono stati elaborati da studiosi di diritto, quasi tutti sono stati sperimentati nelle Corti d'Appello, modificati e rifiniti fino a renderli capaci di reggere alla prova del tempo. I giurati hanno preso la piccola pila di moduli che il messo ha consegnato loro, i moduli per il voto segreto sul verdetto, dove sono stampate le caselle contrassegnate dalle scritte COLPEVOLE e NON COLPEVOLE. Quello che ha luogo dietro le porte chiuse è ora avvolto nel segreto, come accade con il collegio dei cardinali prima della fumata bianca. Nessuno, a parte i dodici riuniti in quella stanza, saprà mai esattamente quello che succede là dentro. Al ritorno nel mio ufficio, Harry trova la bottiglia nell'ultimo cassetto della mia scrivania. Roba buona, Seagram's V.O. Brandisce il liquore e si offre di andare a lavare i bicchieri per tutti. Tod e io rifiutiamo, ma Talia accetta. A questo punto ne ha bisogno. Harry parte in corridoio, alla ricerca di un po' di ghiaccio. Uno degli abitanti del palazzo ha un piccolo frigorifero in ufficio. Per i bevitori di questo piano, quell'apparecchio è diventato proprietà comune, una specie di oasi nel deserto. In un angolo del mio ufficio c'è una grossa borsa di tela per la posta. È lì fin dall'udienza preliminare e, da allora, ogni giorno, ho lasciato cadere lettere nel suo buco nero. Sono missive di gente che ha seguito il caso alla radio, sui giornali, e in televisione. Per me resta sempre un mistero il fatto che ci siano persone, presumibilmente con una vita molto indaffarata, che riescono a trovare il tempo di scrivere a un avvocato. Ho mostrato a Talia le lettere migliori, quelle in cui gente sicura della sua innocenza le fa gli auguri. Ne ho messo da parte alcune per i peggiori momenti di depressione. Le minacce di morte, alcune piene di oscenità, le ho buttate in quella borsa tetra. Sulla mia scrivania ci sono pile di documenti. Quattro sono alte come elenchi del telefono. In molti casi, la busta è graffata alla lettera aperta: lo smistamento della posta in versione Dee. È un misto di corrispondenza, lettere di clienti, fatture, mozioni preparatorie per casi che trascuro da settimane, tutto in attesa di attenzione dopo il processo di Talia. Da quando il processo è iniziato, Harry ha spento qualche fuocherello sulla mia scriva-
nia, risolvendo le cose più urgenti. Sfoglio la prima pila, cerco di eliminare le faccende più semplici, cose sulle quali posso appiccicare bigliettini adesivi con le istruzioni di archivio per Dee. «Quante probabilità ho?» chiede Talia. Mi sta guardando dall'altro lato della scrivania, con occhi che sono grandi smeraldi ovali. Tod si è sistemato su una delle sedie riservate ai clienti. È la prima volta che Talia me lo chiede da quando è stata composta la giuria. Vorrei tanto dirle che andrà tutto bene, che ne uscirà da donna libera. Ma preferisco non cercare di predire cosa farà una giuria. Sarebbe più facile indovinare i numeri estratti al lotto questa settimana. È quello che le dico, ma ammanto un po' la verità dietro qualche saggia considerazione, piccole zattere mentali a cui può aggrapparsi. «Più stanno dentro, meglio è per noi», spiego. «Un segno che forse uno o più giurati non cedono.» «Una giuria divisa?» chiede Tod. «Chissà.» A questo, l'espressione di Talia crolla. «È il meglio che possiamo sperare, dopo tutto questo? Una giuria divisa?» Ci guarda entrambi. La sua fiducia negli avvocati è appena diminuita di un bel po'. «È impossibile saperlo», le rispondo. Annuisce, come se lo accettasse. Ma io so che non è vero. Harry è di ritorno con due bicchieri e del ghiaccio. Versa a Talia una dose robusta, allungata con un goccio d'acqua. Il suo se lo prepara liscio. Nella prima pila di carte c'è una lettera di Peggie Conrad, l'assistente legale per la pratica di Sharon Cooper. Mi allega un fascio di documenti, cose che devo firmare per portare a termine questa successione testamentaria che è ancora in sospeso. Tutti i documenti sono fissati l'uno all'altro, a formare un fascicolo abbastanza spesso. Harry si siede su un angolo della mia scrivania. Talia si è accomodata sul divano appoggiato alla parete. «Secondo me ci vorranno cinque giorni», dice Harry. Sta scommettendo su quanto tempo la giuria resterà riunita. Credo che queste parole siano un sostegno morale per Talia. Le sta dicendo di rilassarsi, di calmarsi, o non dovrà preoccuparsi affatto del verdetto: sarà pronta per il manicomio prima che lo annuncino. Anche se io mi chiedo se in questo preciso momento non stia meglio lei di Harry. «Porca miseria», esclamo.
«Cosa c'è?» Harry mi guarda come se avessi appena lasciato cadere a terra una granata. «Niente», rispondo. «Solo qualcosa che ho dimenticato di dire a Peggie Conrad per la pratica di Sharon Cooper.» Nel caos creato dall'articolo di Eli Walker, la rivelazione della mia storia con Talia, mi ero scordato di chiamare Peggie per dirle che Coop aveva già provveduto per lo scontrino di ritiro del tostapane che Sharon aveva lasciato in riparazione al negozio di ferramenta. Peggie si è data da fare e ha ripetuto gli sforzi di Coop, perché in questo fascio di carte c'è una fotocopia dello scontrino. Deve essere la copia del negozio, un modulo zeppo di parole scritte con una grafia difficile da decifrare. L'interfono si mette a squillare, ma non mi muovo per alzare il ricevitore. I miei occhi stanno lottando con l'enigmatica grafia di un commesso del negozio, riescono a decifrare un'unica parola del modulo. Risponde Harry al mio posto. Appoggia il bicchiere sulla scrivania, e la sua espressione è improvvisamente scura, preoccupata. «È rientrata», mi annuncia. «Come?» «La giuria è rientrata.» «Il verdetto?» chiedo. «Non lo so. È stata Dee a prendere il messaggio. Dice solo che la giuria è rientrata.» Tipico di Dee Magnuson. Ci ha fatto venire un infarto collettivo. Con Dee, è raro che ci si debba preoccupare dei peccati commessi; sono le omissioni che contano. Non le è venuto in mente di chiedere, quando il funzionario del tribunale ha chiamato, perché la giuria sia rientrata. Ci possono essere altri motivi, oltre al verdetto. Quando arriviamo in aula, la giuria è già accomodata al banco. Non parlano, ma ascoltano la stenografa che rilegge una deposizione. Passano parecchi secondi prima che la mia mente identifichi il colloquio. È il perito chiamato da Nelson a testimoniare sul capello, Mordecai Johnson, nel corso del mio controesame. È preoccupante che la giuria si stia concentrando sull'unica prova che lega Talia al delitto, come se stesse esaminando gli atti alla ricerca di qualche appiglio su cui basare una condanna. O forse stanno solo riesaminando la questione per avere la certezza che in realtà non esiste una prova convincente. Ma, più delle parole che vengono lette, nel tono inespressivo e monoto-
no della stenografa, a preoccuparmi è un'altra cosa che vedo oltre la transenna che delimita il banco dei giurati. Seduto al centro della seconda fila, dietro agli altri giurati, c'è Robert Rath, il mio «fattore alfa». Non è dove dovrebbe essere. Guardo la sedia all'estrema sinistra della prima fila, la sedia più vicina al giudice, che dovrebbe essere occupata dal capo dei giurati. Ci sta seduta una delle quattro donne che avevo tentato di escludere dalla giuria. La donna mi guarda, mi lancia un'occhiata di sfuggita, e io la fisso a bocca semiaperta. Bell'affare, la scienza della scelta dei giurati. Ho fatto un enorme errore di valutazione, e mi chiedo se non ne abbia commessi altri. Per la prima volta, comincio a nutrire seri dubbi sul fatto che questa giuria possa credere alla teoria di Tony Skarpellos come omicida. La stenografa conclude con la sua lettura e Acosta guarda la giuria. «Signor capo dei giurati, c'è altro?» «Una delle istruzioni», risponde la donna, «quella che riguarda il silenzio dell'imputata durante il processo. Vorremmo che ci venisse riletta e spiegata di nuovo.» Harry mi guarda. Per la prima volta si trova a pensare seriamente alla fase successiva del processo, quella in cui forse dovrà tentare di evitare una condanna a morte. Non ha bisogno di parlare per farmelo capire. Lo ha scritto negli occhi. Acosta affronta la cosa in maniera cauta. Lascia la giuria al banco, mentre Nelson e Meeks, Harry e io lo raggiungiamo nel suo studio. È una procedura obbligatoria in questo Stato: una volta iniziata la fase di deliberazione, prima che il giudice possa leggere o spiegare una qualsiasi istruzione ai giurati è necessaria una consultazione a porte chiuse. Nocedicocco è preoccupato. In questa richiesta vede il germe di un processo inficiato per vizio di procedura. Sta cominciando a chiedersi se le mie affermazioni sul linguaggio gestuale di Nelson non fossero più vicine ai fatti di quanto lui non si sia reso conto. Salta letteralmente addosso al procuratore. Nelson giura di non avere fatto niente di sbagliato. La riunione è breve. Siamo tutti d'accordo. Acosta leggerà l'istruzione parola per parola; non spiegherà nulla. Risponderà a domande specifiche se ve ne saranno, e forse soltanto dopo un'ulteriore consultazione con gli avvocati. Di ritorno in aula, Acosta legge le istruzioni. Ma questo non risolve il problema. Pare che ci sia un vero e proprio dilemma. Uno dei giurati ha
commesso un grave errore. Ha fatto commenti sul fatto che l'imputata non si sia presentata a deporre. Acosta mi guarda. Ha i guai scritti negli occhi. Ho sentito e visto abbastanza. Scatto in piedi. «Vostro onore, la difesa chiede che il processo venga inficiato per vizio di procedura.» Nelson si alza e oppone un'obiezione. Sostiene che l'errore è rimediabile. «Il fatto che la giuria abbia collettivamente portato il problema all'attenzione della Corte indica che capisce lo spirito, la sostanza di questa istruzione», sostiene. «Senza dubbio ogni problema può essere rimediato con ulteriori istruzioni della Corte. Abbiamo speso troppo tempo e fatica per annullare il processo a questo stadio.» Ma io insisto. «Su questo punto, la legge è chiarissima. Il fatto che la giuria commenti o valuti l'invocazione del privilegio del quinto emendamento da parte dell'imputata costituisce errore pregiudizievole, prima facie.» Acosta è in grave imbarazzo. La legge è tutta dalla nostra parte. Non esiste principio in tutto il diritto che sia stabilito con maggiore chiarezza. Le sentenze della Corte d'Appello sono piene di condanne annullate per motivi meno seri di questi. Acosta ci chiama al suo banco. Si sporge sul bordo, verso le nostre facce, sussurrando in modo che la giuria non possa sentire. «È un problema difficile.» Adesso è tutto consolazione. Sta cercando di rabbonirmi. È un buon argomento, dice, la mia richiesta di annullamento. «Ma ritengo sarebbe meglio sollevarlo in appello, se fosse necessario.» Aggrotta le folte sopracciglia. «In tutta coscienza, non posso interrompere il processo a questo stadio. Devo andare avanti. Si metta al mio posto.» In questo è, come sempre, molto pratico. Ogni gesto, ogni decisione sono calcolati per ottenere un certo effetto. «Vostro onore, trova giusto che la mia cliente debba accollarsi i costi di un appello?» chiedo. «Avere la minaccia di una condanna che le pende sulla testa magari per anni?» «Non è ancora stata condannata», ribatte lui. «Vostro onore, li guardi. Ascolti quello che stanno dicendo.» Fa una smorfia, piega la testa a un angolo di quarantacinque gradi, sorride come per dire che non è lui il responsabile di quelle dodici persone. Il messaggio è chiaro. Se non sono soddisfatto di questa giuria, devo prendermela con me stesso. «La sua richiesta è respinta», mi sussurra.
Ci allontaniamo e lui fa mettere la decisione agli atti. Per tutto questo tempo, ho tenuto in mano un foglio di carta, lo scontrino di ritiro del ferramenta, il pezzo di carta che ho preso dalla pratica di Sharon. L'avevo in mano quando Dee ha tirato la bomba del rientro della giuria. Nell'attesa, ho piegato il foglio in un milione di quadratini. Devono essermi saltati i nervi. Acosta legge l'istruzione controversa un'altra volta e impartisce alla giuria una severa lezione sul suo significato: non possono trarre alcuna conclusione sul silenzio di Talia in questo processo; non possono discutere la cosa né permettere che influenzi in alcun modo le loro decisioni. È come se credesse, con queste parole e queste ammonizioni, di poter sterilizzare gli atti. Per lui equivale a spegnere un allarme antincendio che si sia messo a strillare nella notte. La giuria, leggermente imbarazzata, torna al proprio compito, dietro le porte chiuse. Siamo una compagnia cupa, stracciata, quando torniamo al mio ufficio. Tod e Talia si sono tenuti indietro per tutta la strada dal tribunale a qui, confabulando tra loro. Ho il sospetto che si tratti di piani di appello, modi e mezzi per continuare a vivere in caso di condanna. Quando il cancello pieghevole dell'ascensore si spalanca e Harry spinge la porta che immette in corridoio, Dee è davanti a noi, in piedi, con le braccia sollevate come se ci fosse un'emergenza. «È rientrata», annuncia. «La giuria.» Questa volta pronuncia le parole magiche. «Hanno raggiunto un verdetto.» Guardo Talia, dietro di me in ascensore, paralizzata dallo sgomento. Da quando siamo usciti dal Palazzo di Giustizia, hanno avuto appena il tempo di un unico scrutinio: un segno di pessimo augurio. Il fuoco incrociato delle macchine fotografiche e delle cineprese, con i loro flash e i riflettori che proiettano luci stroboscopiche, è particolarmente sgradevole. Ci bloccano l'accesso all'aula, in cerca di nuove foto e di riprese per i telegiornali della sera. Quando arriviamo la voce sta già girando: è pronto il verdetto. Tod spinge via a forza un giornalista che occupava una sedia dietro la transenna, mentre Harry, Talia e io ci accomodiamo al tavolo. Tod non è dell'umore per mettersi a discutere con il reporter. Visto che è arrivato con noi, come parte del nostro gruppo ufficiale, lancia al cronista uno sguardo cattivo, e il giornalista decide di accucciarsi nel corridoio centrale, piutto-
sto che fare una scenata. Acosta ha dato istruzioni alla giuria di restare nella stanza riservata fino a che non verrà chiamata. Il giudice è nel suo studio. Noi siamo gli ultimi ad arrivare. Nelson e Meeks sono già seduti. Il messo passa parola al cancelliere e, dieci secondi dopo Acosta esce, sale sul suo scanno, seguito dal cancelliere. Fa un cenno d'assenso, e il messo bussa alla porta della stanza della giuria. Escono in due gruppi di sei, raggiungono le due file di sedie e si mettono a sedere. Il capo dei giurati ha in mano un unico foglietto di carta. Il cancelliere è pronto; il giudice picchia il martelletto. «Ordine in aula», chiede. Un centinaio di conversazioni si interrompono a metà frase. «Signor capo dei giurati, avete raggiunto un verdetto?» «Sì, vostro onore.» «Per favore, lo consegni al cancelliere.» C'è uno scambio veloce. Acosta prende il foglietto e lo scruta per quella che sembra un'eternità. Poi guarda Talia, come se in qualche modo fosse quello che si aspettava. «L'imputata si alzi», ordina. Talia e io obbediamo. «Il cancelliere legga il verdetto.» Acosta riconsegna il foglietto. «Nella causa lo Stato contro Talia Potter, per l'accusa di violazione del paragrafo 182 del codice penale, omicidio di primo grado, noi giurati di questa giuria riteniamo l'imputata Talia Potter NON COLPEVOLE.» Dall'aula si alza un boato. Mani si sporgono oltre la transenna alle nostre spalle, per toccare Talia. Sento centinaia di palme che mi battono sulla schiena. Talia si è sporta oltre la transenna ed è fra le braccia di Tod, con le lacrime che le scorrono sul viso. Poi abbraccia me. Mi sussurra all'orecchio, a malapena udibile: «Grazie. Non so come potrò mai ringraziarti». Sento sulla guancia una calda umidità. Non so cosa dire, e quindi sto zitto. Lei si gira ad abbracciare Harry. È vero, non c'è nulla di più spossante della tensione. Mi lascio cadere sulla mia sedia al tavolo della difesa e tiro un unico, lungo respiro. Acosta sta cercando di riportare l'ordine in aula picchiando col martelletto. Due reporter sono riusciti a infilarsi in aula con i loro microfoni. Si stanno sporgendo oltre la transenna alle mie spalle per un'intervista improvvisata. Li ignoro. Alzo gli occhi. Nelson e Meeks al loro tavolo sembrano due orfanelli. È
come se tutti quelli che si trovavano al loro lato dell'aula si siano riversati nel nostro, come se l'edificio si fosse inclinato su di un lato. Nelson potrebbe voler intervistare ogni giurato per chiedergli in che modo ha votato, ma con questo trambusto è difficile che ci riesca. Acosta lo guarda e Nelson si limita a stringersi nelle spalle, come per dire: «A che servirebbe tentare?» Il giudice ringrazia la giuria, ma nessuno lo sente. «L'imputata è prosciolta.» Adesso è in piedi davanti alla sedia sul suo banco, e urla a squarciagola. «La Corte si aggiorna.» E con questo scende i gradini, va dietro lo scanno e sparisce nella sua buia caverna. La giuria è ancora al banco, abbandonata a se stessa. La stampa è addosso ai giurati, oltre la transenna. Giornalisti armati di taccuini cercano di scoprire cosa sia accaduto dietro le porte chiuse. Il capo dei giurati la fa da protagonista alla transenna. Gli uscieri hanno rinunciato a tenere le telecamere fuori dell'aula. Con le loro file di batterie agganciate ai fianchi, i cameramen inquadrano tutto ciò che abbia un sapore giudiziario da usare a mo' di sfondo: lo scanno del giudice, il banco della giuria con la sua scena di indecorosa confusione. Nelson attraversa l'aula, passa davanti alle telecamere, neanche volesse regalare loro qualche inquadratura succulenta. Quando alzo gli occhi, è in piedi davanti al mio tavolo con la mano tesa, come per congratularsi. «Un caso ben dibattuto», commenta. «Bel processo.» C'è qualcosa di sincero, di spontaneo nel suo tono di voce. Qualche giornalista sgomita per fissare sulla carta queste poche parole, scrivendole come se si trattasse del verbo divino. Tendo la mano a stringere la sua. Il gesto viene immortalato per i telegiornali da uno dei cameramen. Poi Nelson se ne va. Così, di punto in bianco, Nelson e Meeks sono scomparsi, lasciando questa bolgia ai vincitori. Per un attimo mi ritrovo solo. I giornalisti si sono assembrati attorno a Talia e Harry, a chiedere le loro reazioni. Talia è senza fiato. Finalmente libera di ogni ansia, è radiosa in questo suo momento di vittoria. Ho ancora in mano il foglio della pratica di successione di Sharon, lo scontrino del negozio con la sua indecifrabile grafia. Riesco a leggere senza problemi un'unica parola: «Bernardelli». Siedo attonito, fissando il carrello con le prove in un angolo dell'aula, i sacchetti di plastica con il capello e il pallino anomalo; e il fucile da caccia dalla linea squisita aperto alla culatta, il fucile che George Cooper è andato a ritirare al negozio di ferramenta dopo la riparazione. Il fucile che Coop ha usato la sera in cui ha uc-
ciso Ben Potter. 41. C'è un ponte alto trecento metri, sull'American River. Qualcuno lo usa per raggiungere Sutter's Hill, il luogo dove James Marshall scoprì l'oro. Qualcuno lo usa per raggiungere l'eternità. È quello che George Cooper ha fatto un martedì mattina, verso la fine di ottobre. La sua casa è nel caos più completo. È più di un anno che non ci vengo. Se ci fossi venuto e avessi visto che manicomio era diventato questo posto, forse mi sarei reso conto di quanto George Cooper avesse ormai oltrepassato i confini della realtà. Ho portato Nikki ad aiutarmi. Alcune parti di questo lavoro richiedono un tocco femminile. Ci sono effetti personali e ricordi sparsi un po' dovunque. Cose accumulate nel corso di una vita spesa al servizio del cittadino. Nikki imballerà parte degli oggetti più delicati, cose per le quali non ci fidiamo dell'agenzia di traslochi. I parenti che vivono all'est sono venuti al funerale e ci hanno chiesto di supervisionare l'imballo e la spedizione degli oggetti di Coop al parente più prossimo. Oggi Harry si è unito a noi, se non altro per soddisfare la sua curiosità. Avevo giurato di non farlo mai più, di non accettare un'altra pratica di successione per un amico; ho accettato quella di Coop. Ma non commetterò errori. Peggie Conrad farà le sue meraviglie con il fascicolo di Coop. Coop mi ha scritto una lettera di considerevole lunghezza, in una grafia a malapena leggibile, e l'ha imbucata il giorno che si è buttato dal ponte. In quelle pagine si dilungava a scusarsi per quello che mi ha costretto a sopportare, per il tormento e l'agonia provocati dall'articolo di Eli Walker, che non erano mai stati nelle sue intenzioni. Ma, come mi ha detto quella mattina a casa mia, non avrebbe mai pensato che accettassi di difendere Talia. «Cristo», esclama Harry. «Che odore.» Sta gironzolando per le stanze della fattoria che Coop e la moglie hanno comperato agli inizi degli anni '50, un posto che ha visto molti momenti felici quando i tre vivevano assieme, quando erano una famiglia. Adesso c'è un fetore cupo, qualcosa che ho fiutato soltanto poche volte in passato: l'odore della morte. Ai tempi del matrimonio di Coop, questa casa era uno specchio. Jessica Cooper era una padrona di casa meticolosa. Ora le stanze sono ingombre di immondizia, confezioni vuote di cibo,
vaschette di alluminio di cene dissurgelate e mangiate a metà. Questo posto è lo specchio del caos che era diventata la vita di George Cooper, negli ultimi mesi di dolore e prima della vendetta finale. Ci sono ritagli di giornale ovunque, pezzetti ingialliti di carta stampata presi dai quotidiani locali e nazionali, tutti con un unico filo conduttore: la morte di Ben e le indagini sul delitto, l'arresto di Talia e l'incriminazione. I ritagli sono sparsi sui tavoli, per terra, sotto piattini di cibo per gatti ormai putrefatto. Del gatto non c'è traccia. Mucchietti di escrementi felini imbrattano la moquette. Su alcuni ha cominciato a crescere una strana muffa bianca. In un angolo della stanza, appoggiata alla parete, c'è una struttura di ferro su ruote, un carrello per mobili, e un grande pezzo di moquette. Qui, in questo ambiente, la storia raccontata da Coop a Nelson, le teorie su come spostare un cadavere, non appaiono più così incredibili. «Quando l'hai saputo», chiede Nikki, «di Cooper?» È una settimana che cerca di far combaciare i pezzi. Non le ho fornito tutte le tessere del mosaico. «Soltanto il giorno del verdetto», le rispondo. «Anche se avrei dovuto intuirlo molto prima.» Non riesco a credere alla mia ottusità. «Lo scontrino del ferramenta?» chiede Harry. Annuisco. «Non fosse stato per Peggie Conrad, per il suo lavoro sulla successione di Sharon, quello che ha fatto Cooper sarebbe passato sotto silenzio», dico loro. «Era un uomo malato», commenta Harry. «Era un uomo che si è perso», ribatto. Harry sta gettando piccoli pezzi di immondizia, in gran parte cibo vecchio, in grandi sacchetti per la spazzatura che ha trovato in cucina. «A quanto pare, Skarpellos ha detto parecchie verità», borbotta. Annuisco. È inquietante che molto di quello che Tony Skarpellos ha dichiarato davanti alla Corte, la storia delle intenzioni di divorzio di Ben, l'affermazione che Ben avesse progetti con un'altra donna, tutte le cose che io ho ridicolizzato agli occhi della giuria facendole apparire false, fossero assolutamente vere, come adesso so. «Chi era la donna del mistero?» chiede Harry. «L'interesse affettivo di Potter?» «Sharon Cooper.» L'idea si fa lentamente strada in lui. Un'espressione pensierosa mi dice
che sta cominciando a mettere assieme tutti i pezzi. «Hai avuto qualche sospetto durante il processo?» mi chiede. «Nessuno. Il Greco aveva ragione su un mucchio di cose», dico. «La mia stima per Ben mi accecava.» Non è che consideri peccaminosa la relazione fra Ben e Sharon; è che attribuivo a Ben una maggiore discrezione e, adesso che le cose si sono chiarite, un carattere decisamente più risoluto. Nella sua lettera di addio, quella che mi ha mandato per posta, Coop mi ha fornito brandelli di informazioni. Ho dovuto colmare i vuoti, ma non è stato difficile. Pare che Ben intendesse davvero divorziare da Talia, ma non prima che venissero concluse le sedute del Senato per la ratifica della sua nomina alla Corte Suprema. Ecco perché Talia non ne era al corrente. Non doveva saperlo, non ancora. «Secondo te, un uomo di sessant'anni può stare con una ragazza di ventisei?» chiede Harry. «Sharon era infatuata, stordita dal denaro, dal potere», rispondo. «Ben...» Faccio una smorfia, come se questa fosse la più azzardata delle ipotesi. «Forse Ben era innamorato, chissà.» «Ma cosa poteva attrarla in un uomo anziano?» insiste lui. «L'insieme dei suoi sogni. Il desiderio di fare l'avvocato, e l'amorosa attenzione del socio gerente dello studio legale più potente della città. Sono cose che danno alla testa, se hai ventisei anni e frequenti la facoltà di giurisprudenza.» Nikki annuisce. Condivide la mia analisi. «Sono molte le giovani donne attratte dal potere», conferma. Dal tono che usa, capisco che questa è una scelta che non ha mai preso in considerazione per se stessa. «Non pensi alla geriatria, quando ti corteggiano davanti a un'anatra muschiata e a champagne in calici di cristallo, il tutto su una tovaglia di raffinato lino», dico a Harry. «Coop ebbe una discussione con la figlia, quando lei gli si presentò per parlargli dei suoi progetti di matrimonio. Non era un romanzetto estivo. Era una follia, e Coop lo sapeva.» Nella sua lettera c'è grande abbondanza di queste considerazioni moraleggianti. Lui e Sharon hanno litigato, come è possibile litigare solo tra genitore e figlia, con una velenosità che lascia una lunga traccia di dolore. Fu l'ultima volta che Coop la vide viva. «Dopo quel litigio», spiego, «lei è corsa da Ben, nonostante gli ammonimenti del padre. Hanno fatto un giro in auto sulla strada che costeggia il fiume. Il resto possiamo solo supporlo. Ma io penso che abbiano litigato.
Forse Sharon voleva rendere di dominio pubblico i loro progetti. Ben si è opposto. Era assolutamente deciso a fare in modo che la cosa non interferisse con la nomina che aspettava da tanto tempo. Da mesi, da quasi un anno andava su e giù da qui a Washington per gettare le fondamenta. Alla Corte Suprema era imminente un pensionamento. Sharon lo ha distratto, e Ben è andato fuori strada. Ha sbattuto con l'automobile contro gli alberi.» Nikki ha trovato foto di famiglia in un cassetto della sala da pranzo. Sta cominciando a commuoversi. Guardo da sopra la sua spalla. Ha in mano una fotografia di Coop e Jessica, una foto di vent'anni fa, forse, prima che il grigio diventasse il colore dominante dei loro capelli. C'è una bambina, Sharon, che non ha più di sei o sette anni. I tre sono in piedi su un molo anonimo, tutti sorrisi e felicità. Un pesciolino minuscolo è appeso alla lenza che Sharon regge in una mano, con un enorme sorriso sdentato sulle labbra. Non c'è genitore che possa guardare questa foto senza provare una fitta di dolore. «Di queste cosa ne facciamo?» chiede Nikki. «Mettile tutte in una scatola», le rispondo. «Ci penseranno i parenti.» Sharon Cooper è morta la sera dell'incidente, sola nella sua auto, l'auto dalla quale Potter è fuggito in preda al panico, mentre le ombre di una carriera giudiziaria che stava andando in frantumi gli scorrevano davanti agli occhi. Ha visto lo scandalo nella morte di una giovane donna, le domande su una relazione sentimentale illecita. Quello che Ben non sapeva quando fuggì dall'auto è che Sharon non era ancora morta, ma solo priva di conoscenza. Sharon è morta nell'incendio che è seguito, provocato dal surriscaldamento del motore e da un tubo del carburante rotto. Avrebbe potuto salvarla. Questo fatto non è sfuggito a George Cooper. Coop si è portato in cuore il suo odio eterno, celato al mondo dal dolore provocato dalla perdita della figlia. E quell'odio abbracciava non solo Ben, ma anche Talia. La polizia è stata particolarmente meticolosa nelle indagini sull'incidente, per fare un favore a un collega. Eppure, anche così, non sono riusciti a trovare alcuna pista. In parte la cosa è dovuta al fatto che Coop ce l'ha messa tutta per mandarli fuori strada. Non voleva vedere Ben Potter processato per semplice omissione di soccorso. Voleva di più. Anche dopo avere ucciso Ben, ha continuato a mentire, a far finta di cercare la persona che era al volante dell'auto di Sharon. Fra le carte personali di Coop, Nikki ha trovato copie di rapporti investi-
gativi. In uno c'è un punto sottolineato con l'evidenziatore giallo, un unico paragrafo. Uno degli addetti alle pompe di benzina di una stazione di servizio a due chilometri e mezzo dal luogo dell'incidente ha affermato di aver visto, poco dopo le sette di sera del giorno dell'incidente, un uomo solo, che indossava un abito costoso, dirigersi al telefono a gettoni in un angolo della sua stazione e fare una telefonata. Venti minuti più tardi è arrivata a prenderlo una donna al volante di una costosa macchina sportiva, una Mercedes 500 SL bianca. Talia e la sua lussuosa vettura. Il loro era davvero un matrimonio di convenienza. Pare che Talia, che la cosa le interessasse o no, fosse ignara dell'infedeltà del marito. Lo ha protetto dalle autorità in nome della carriera, e dopo l'omicidio non è riuscita a capire l'importanza di questi episodi per la sua stessa situazione. È stata, in tutti i sensi, vittima delle circostanze. Non ho riferito nulla di questi fatti alle autorità. Talia Potter ha già pagato un prezzo abbastanza alto per un cattivo matrimonio. Non accade spesso che si arrivi a conoscere la verità vera, dopo un processo delle proporzioni dell'odissea di Talia. Ma con quello che so adesso, sono riuscito a mettere assieme molti degli eventi che riguardano l'omicidio di Ben, anche se ancora non so esattamente dove sia stato consumato il delitto. Se dovessi tirare a indovinare, direi qui, a casa di Coop. Non ho controllato le telefonate, ma ho il sospetto che, la sera in cui morì, Ben abbia ricevuto una chiamata da George Cooper, una telefonata esplicita in cui Coop minacciava di rivolgersi alle autorità per riferire quello che sapeva, se Ben non fosse venuto qui. Ben è venuto, ed è stato ucciso. Ho una nuova ammirazione per la signora Foster, perché adesso è chiaro che l'automobile che ha visto nel vialetto di accesso della casa dei Potter la sera dell'omicidio era davvero quella di Ben Potter. Al volante c'era Coop, che aveva bisogno di una prova concreta che collegasse Talia al delitto con maggiore certezza. Gli occorreva un capello preso da un pettine o da una spazzola. Dopo avere telefonato a casa dei Potter ed essersi accertato che non ci fosse nessuno, ha usato le chiavi di Ben per entrare e andarsene poi indisturbato. Data la sorveglianza esercitata dalla signora Foster, si è trattato di un miracolo divino. Il fucile è entrato in gioco per puro caso. È stato lasciato in riparazione dal ferramenta da Sharon, senza dubbio su richiesta di Ben, e lo scontrino per la riconsegna è arrivato in mano a Coop dopo la morte di Sharon. Il resto è storia. Coop è andato a ritirare il fucile e lo ha usato per mascherare il colpo della sua pistola di piccolo calibro, l'arma del delitto che senza dub-
bio è sparita da tempo. «Secondo te, cosa succederà a Skarpellos?» chiede Harry. «Chissà. Non verrà processato per omicidio. Per appropriazione indebita, forse.» Ho fatto leggere la lettera di Coop a Nelson. Per quanto concerne la morte di Ben, Skarpellos è fuori dei guai, come me, anche se il Greco ha altri problemi. Nelson ha aperto un'indagine per analizzare a fondo il conto fiduciario dello studio, e gira voce che l'ordine stia prendendo in esame la posizione di Tony. A quanto sembra, molto presto lo studio Potter & Skarpellos avrà un nuovo socio gerente. La settimana scorsa ho pranzato con Robert Rath, il mio «fattore alfa». Mi ha telefonato e ci siamo visti per parlare del processo di Talia. Rath è ancora più intelligente di quanto avessi sospettato; possiede la capacità innata di trattare con gli altri. Il capo dei giurati era una donna invadente ed egocentrica, una persona che, a giudizio di Rath, avrebbe dato problemi se avesse perso la gara per presiedere la giuria. Se lui le avesse intralciato la strada, intuiva che si sarebbe potuti arrivare a una giuria divisa sul verdetto, per motivi di ripicca personale. Quindi si è tranquillamente ritirato al primo giro di votazioni. Nonostante questo, alla donna sono occorse tre votazioni per assicurarsi la maggioranza dei voti. «Altrimenti», mi ha detto mentre uscivamo dal ristorante, «lei avrebbe avuto il suo verdetto un'ora prima.» Jimmy Lama ha i suoi problemi. Sospeso dal servizio senza retribuzione, gode delle eccessive attenzioni dell'ufficio degli affari interni. Nelson lo ha estromesso dalla sezione del procuratore distrettuale, e Acosta chiede una severa sanzione per l'intromissione di Lama nel processo. Dovrebbe pagare cara la soffiata a Eli Walker. Eli è tornato, con la testa saldamente infilata in una nuova bottiglia, e scrive articoli di fuoco sulla corruzione dei legislatori, un argomento che non interessa poi molto a nessuno. Nikki e io stiamo parlando di tornare assieme, nella nostra casa. Al pensiero, Sarah fa salti di gioia. Per una bambina di quattro anni, l'idea del paradiso è vivere con la mamma e il papà. Nikki e io abbiamo molte cose da risolvere. Stiamo cercando di rimettere assieme i pezzi della nostra vita. Quando penso a Coop e alla sua infelicità, so che finché c'è vita c'è speranza. Ben una volta mi ha detto che l'esperienza gli aveva insegnato che le giurie non condannano e non assolvono. Semplicemente prestano fede a una certa versione dei fatti che vengono loro presentati. È l'abilità dell'av-
vocato a fare la differenza, mi disse. Per questo caso, aveva ragione. La giuria non ha tanto assolto Talia, quanto condannato Tony, e lo ha fatto per le ragioni sbagliate. Tutto sommato, le parole di Ben hanno il sapore della profezia. Come sosteneva lui, la legge non è uno strumento per divinare la verità. RINGRAZIAMENTI Scrivendo questo romanzo, ho ricevuto assistenza e incoraggiamento da molte persone; senza il loro sostegno l'impresa non mi sarebbe stata possibile. Debbo molti ringraziamenti e una profonda gratitudine in primo luogo a mia moglie, Leah, che durante i lunghi mesi di lavoro è sempre stata al mio fianco, ha ascoltato con orecchio critico e letto con occhio sagace la storia che è diventata questo romanzo. A Marc Berg, ex pubblico ministero e oggi abile avvocato difensore di Auburn, California, per la sua sagacia legale e le delucidazioni sulla dinamica del diritto penale. A Robert E. Garbutt e Ken Mack, criminologi del laboratorio criminale della procura distrettuale della contea di Sacramento, per i loro incisivi consigli e la guida che mi hanno offerto in quel labirinto che è la medicina legale. Al sergente Kent Armbright, assistente amministrativo del direttore della prigione di Stato di San Quintino, per un raggelante incontro ravvicinato con la camera delle esecuzioni capitali, e per le acute osservazioni sull'universo incerto e chiuso della vita quotidiana in un carcere sovraffollato e a corto di personale. Alla provvidenza, per la buona sorte di avermi messo nelle mani di una casa editrice di qualità e fama come la Putnam. A Phyllis Grann, il mio editore, per l'entusiastico sostegno e l'inalterabile entusiasmo. A George Coleman, il mio editor, uno dei «maghi della pioggia» dell'industria editoriale, per l'incoraggiamento nei momenti difficili. A John Hawkins, il mio agente, che con la sua abilità di negoziatore e il perfetto senso degli affari mi ha traghettato su acque pericolose in più d'un'occasione. A Jeff Marschner, ex pubblico accusatore della California, supervisore, e collega alla procura di Stato, per i consigli e l'incoraggiamento. Agli avvocati e a tutto il personale dell'ufficio legale del dipartimento
della California per la tutela dei consumatori per il loro interesse e il sostegno al procedere di questo libro. A Rita Martini, Betty Arnold, Keith e Jo Arnold, e Dave Krizman, per l'occhio critico e l'impeccabile onestà nella lettura delle stesure iniziali del manoscritto. A tutti costoro, e ad altri che ho omesso di menzionare qui, debbo sincera riconoscenza per i consigli e le delucidazioni che mi hanno permesso di scrivere un'opera che assomiglia alla realtà. Di ogni possibile difetto che il lettore possa trovare a questo riguardo, sono io l'unico responsabile. FINE