ALICE BLANCHARD RESPIRO (The Breathtaker, 2003) Per Doug, la mia luce nel buio Spirito, vieni dai quattro venti e soffia...
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ALICE BLANCHARD RESPIRO (The Breathtaker, 2003) Per Doug, la mia luce nel buio Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti... Libro di Ezechiele PROLOGO Danzando nell'aria Rob Pepper entrò nella cucina dipinta di un allegro colore giallo e disse: «Ehi, Jenna, cosa aspetti?». Il tono era quello di chi si sforza di non attaccare briga. Senza abbassare il ricevitore, la moglie lo guardò infastidita. "Al telefono. Sempre al telefono!" pensò lui. Quel giorno si era messa troppo rossetto color champagne, e la spessa patina di ombretto verde muschio che si stava già squagliando sulle sue palpebre le dava un'aria trasandata se non equivoca. «Arrivo, arrivo» rispose lei. Con aria indolente, sollevò la testa e soffiò verso il soffitto una nuvoletta di fumo. Rob guardò l'orologio. La moglie era al telefono da quindici minuti esatti; si era già persa l'inizio del film. E aveva rovinato il divertimento alla figlia. Sabato pomeriggio, pioggia in arrivo. Popcom e Jackie Chan alla TV. Rob e Jenna avevano stabilito una tregua. Avevano promesso alla figlia Danielle di non litigare e di tornare a essere una famiglia normale. Sì. Come se fosse facile. «Con chi stai parlando?» «Rita» rispose lei. «Be'. Di' ciao a Rita e vieni a vedere il film con noi. Ti perdi tutto il divertimento.» Jenna lo guardò come se fosse un idiota. Usava come portacenere una vecchia ciotola e sedeva su una seggiola della cucina, rannicchiata come una scimmia: le ginocchia premute contro il petto e le graziose dita dei piedi curvate sul bordo di finta pelle rossa della sedia. La maglietta color pesca e i vecchi jeans scoloriti la rendevano ancora più sexy. Rob si era in-
namorato di Jenna Kulbeck ai tempi delle medie. Aveva perso la testa, nella maniera più sciocca e disperata. Lei era una ragazzina sciatta e confusa, destinata a non combinare mai niente nella vita, svogliata e civetta. La puttanella della scuola; avrebbe dovuto capirlo fin da allora. Ma era così piccola, e Rob scherzava sempre dicendo che avrebbe potuto infilarsela in tasca. Evidentemente, lei doveva aver fatto breccia nel suo istinto di protezione. Poco dopo il diploma si erano sposati su una collinetta in mezzo ai pioppi e un mese più tardi Jenna gli aveva annunciato di essere incinta. Poi, dopo Danielle, aveva abortito tre volte di fila, bum, bum, bum. Tre maschietti, che erano stati battezzati con i nomi di Robert Jr, Victor, come il padre di Jenna, e Farley, come lo zio preferito di Rob. «Allora, Sua Altezza Reale» disse Rob, cercando di mantenere un tono ironico anche se stava quasi per esplodere «pensa di potersi unire a noi plebei, nell'immediato futuro?» «Sì» sbuffò Jenna. «Un minuto.» «L'hai già detto un quarto d'ora fa.» Lei finse di non avere sentito. «Va bene. Fa' come ti pare.» Rob aprì il frigo e prese una birra; con l'apribottiglie, tolse il tappo di metallo. In casa faceva caldo, era umido. Un'afa quasi tropicale. Guardò dalla finestra. Il cielo, coperto, era sempre più scuro. "Nubi e acquazzone, al raccolto fan benone" pensò. Gettò il tappo nella spazzatura e si allontanò, manifestando il suo disgusto con un gesto della mano. Poi, nel corridoio, si fermò per qualche istante e, soffocando il senso di colpa, tese l'orecchio. «... non si può mai parlare...» diceva la moglie. «Quello stronzo...» Stronzo? Si era preso dello "stronzo" da Jenna? Si guardò alle spalle e si domandò se lei non stesse volutamente cercando di scatenare la rissa. Rob vide la sua calotta di capelli scuri e morbidi, che le arrivavano sotto le orecchie. Stava al telefono e fissava la sigaretta senza vederla. Poi, senza alcun bisogno, Jenna vi batté sopra con il dito per far cadere la cenere. "Ma non le importa più di niente?" si chiese Rob. "Non le importa più di sua figlia?" Cominciava a sospettare che la moglie avesse un amante. Troppe telefonate misteriose, negli ultimi tempi, troppe uscite di casa per comprare cose di cui c'era bisogno "assolutamente" e "subito", come il burro di arachidi, la carta igienica o la guida ai programmi TV. Era fermo nel corridoio, brancolando alla ricerca della verità. Era colpa sua, se il matrimonio era a pezzi? Be', sì... forse. Forse era davvero colpa sua. Rob non era ricco. In primavera doveva alzarsi alle quattro e mezzo
del mattino per seminare, riparare il trattore e spargere i fertilizzanti secondo il programma prescritto. Lavorava diciotto ore al giorno e a mezzanotte crollava addormentato. Dormiva come un sasso. Russava. Da tempo non facevano sesso. Per quell'attività era meglio l'estate. O l'inverno. In ogni caso, perché punire Danielle? Perché non punire lui ed evitare di ferire i sentimenti della figlia? Incollerito, si girò per tornare in cucina. «Resta in linea» disse Jenna, al telefono. Poi, rivolta a lui: «Che hai, adesso?». «Allora?» «Allora cosa?» «Ti decidi?» «Mi decido cosa?» «A venire di là.» Jenna chiuse gli occhi. Gelida, sprezzante. «Non vedi che sono al telefono?» "Vedo che sei incazzata." «Con Rita?» «Per piacere.» Mosse le dita dei piedi, uno indipendentemente dall'altro, come i tasti di una pianola meccanica. «Vattene, Rob.» «Benissimo. Da' questo dispiacere a tua figlia!» Dalla sua faccia desolata capì di essere finalmente riuscito a ferirla. "Era ora, brutta troia." Tornato in soggiorno, rivolse un sorriso alla figlia quattordicenne e si sedette per terra, sotto la finestra. Danielle preferiva la vecchia poltrona di vimini con gli ampi braccioli, mentre Jenna amava raggomitolarsi sul sofà e stringersi le gambe come se fosse in pericolo. Rob premette la bottiglia sulla moquette in modo che non cadesse, poi alzò gli occhi e vide Jackie Chan fare qualcosa di straordinario con una seggiola. «Cos'è successo?» domandò alla figlia. Danielle roteò gli occhi. «Quel tizio ha cercato di prenderlo a calci, ma Jackie gli è saltato addosso.» «Credevo che intendesse offrirgli una sedia.» «Ah-ah. Divertente.» «Non sapevi che sono il padre più spiritoso del mondo?» «Spirito di patata.» «Passami il popcorn, signorina.» «Mamma non viene?» «Tra un minuto.»
Lei gli lanciò un'occhiata poco convinta. «Mica avete litigato?» «Niente affatto. Va tutto a gonfie vele.» Rob aveva avuto una tale quantità di lavoro, negli ultimi tempi, ed era così preoccupato per la semina, che non aveva più pensato alle esigenze della moglie. Quando guidi il trattore per otto ore di fila, poi non hai più la capacità di combinare granché. Ti fischiano le orecchie, ti fa male la schiena. Se Jenna era stanca della fattoria, Rob non poteva fare molto. Parecchi anni prima, nel costume da bagno bianco intero, Jenna si stendeva davanti a lui, appoggiando la schiena abbronzata sulla moquette color cannella e puntava i piedi come una danzatrice classica. Aveva le caviglie sottili e i piedi piccoli, con le dita lunghe e straordinariamente flessibili, mobili al punto da poterle incrociare tra loro o aprirle a ventaglio. A quell'epoca appoggiava i piedi sulle sue gambe e piegava tutt'e dieci le dita intorno al suo pene muovendole poi su e giù. Prensili come le mani di un bambino. Con le dita dei piedi riusciva addirittura a raccogliere da terra piccoli oggetti come pezzetti di legno e bottiglie vuote, o anche oggetti minuscoli come un fermaglio per capelli. A un tratto, il vento cessò. Danielle girò di scatto la testa. «Che cos'era?» Rob guardò fuori e fissò le foglie che cadevano davanti alla finestra. Ormai aveva sviluppato un'indifferenza zen nei riguardi del tempo. Bisogna prendere quello che viene. «Nuvole e acquazzone al raccolto fan benone» commentò. Danielle posò sul bracciolo la scodella del popcorn. «Non era la sirena del municipio?» Rob premette sul telecomando il pulsante che toglieva il sonoro. «Oh, quella. Vediamo se ti ricordi. Cos'è successo l'ultima volta che è suonata?» Lei lo fissò. «Niente.» «E la penultima?» «Niente.» «E quella ancora prima? E quella ancora prima di quella prima?» Danielle sorrise. «Va bene, va bene, ho capito.» «Okay. Adesso dammi il popcorn.» Lei gli porse la ciotola e Rob passò lo sguardo sulla stanza, con le sue piante rampicanti, le sedie consumate, il tavolino coperto di cianfrusaglie, l'attrezzatura da campeggio nell'angolo, il vecchio sacco a pelo, l'orologio a pile. Erano le due del pomeriggio e non avevano una cantina dove riparare: un'altra delle sue tante colpe, probabilmente. Rob Pepper non s'era
premurato di fornire un rifugio alla famiglia, proprio laggiù, nel Tornado Alley. Che imbecille. Forse era uno dei motivi per cui Jenna lo odiava tanto. Colpa di tutte le generazioni di falliti che gli scorrevano nelle vene. Guardò dalla finestra e vide che adesso le nubi attraversavano veloci il cielo. «Ehi, papà.» Danielle s'era fatta la coda di cavallo, quel giorno, e con la tutina e la maglietta color caramello sembrava una bambina piccola. Ma aveva la stessa figura tutta curve della madre, la stessa carnagione stupefacente e luminosa, le stesse gambe sottili e nervose, e con i suoi capelli rossi sarebbe stata il tormento di tutti i maschi che avrebbe incontrato a partire da allora. «Sta diventando decisamente brutto, là fuori.» Rob si portò alle labbra la bottiglia e tese l'orecchio al fruscio del vento. L'aria vibrava come un diapason. Forse Jenna aveva ragione. Forse il suo vero problema stava nel fatto di non avere mai capito nulla. Si alzò e si accostò alla finestra. All'esterno, le nubi ruotavano e si torcevano, il grano si piegava e si increspava: sembrava di vedere le onde del mare. Osservò, dall'altra parte della strada, la casa con le finestre chiuse da assi di legno, disabitata da anni. La porta continuava ad aprirsi e a chiudersi come se ne uscisse una processione di spettri. I Pepper abitavano alla fine di Shepherd Street a Promise, Oklahoma, il posto più isolato della terra. Per chilometri, tutt'intorno, c'erano solo grano e falchi in volo nel cielo, serpenti a sonagli e la vecchia autostrada che a sud portava a El Reno e a nord nel paese dei Mastichini, dritto nel film Il mago di Oz. «Papà?» Danielle lo tirava per la manica della camicia. Aveva gli occhi dilatati. «Accidenti, questa volta viene giù il mondo!» Rob seguì la direzione del suo sguardo e vide la nube a forma di proboscide che veniva verso di loro lungo i campi. Gli si drizzarono i capelli. La tromba d'aria era ancora a parecchi chilometri di distanza, ma si avvicinava in fretta. E lasciava dietro di sé una scia di polvere. Dovevano trovare subito un rifugio, non c'era neppure il tempo di liberare gli animali. «Jenna!» gridò. «Vieni qui, maledizione!» «Mamma!» piagnucolò Danielle. Jenna comparve sulla porta, più infastidita che mai. «Che avete? Cos'è successo di nuovo?» «Un tornado» rispose Rob. «E si avvicina in fretta.» «Stai scherzando, vero?» Si avviò verso la porta d'ingresso. Ma lui la tirò indietro bruscamente. «Ahi!» Tese le mani verso il braccio di Rob, pie-
gando le dita come artigli. Aveva unghie lunghe e affilate; lui la lasciò. «Non tirarmi, imbecille!» «Mamma» gemette di nuovo Danielle, guardando i genitori con la preoccupazione di una bambina che in qualche modo era giunta a una maturità e a una sensibilità emotiva superiori alle loro. Jenna si toccò il braccio per massaggiarsi una ferita immaginaria. Sgranò gli occhi, con espressione irata. «Andiamo nel bagno, in fretta!» «No, aspetta» disse Rob. «Bisogna stare al centro della casa, non in un angolo esposto a sudovest.» «Consigliano di mettersi in una stanza piccola e senza finestre, al pianterreno. Un ripostiglio o un bagno.» «Non perdere tempo a discutere, Jenna! Quell'angolo della casa sarà il primo a crollare!» Lei lo guardò con diffidenza. «Nel corridoio, presto!» Nel cassetto sotto il televisore c'era una torcia; Rob andò a prenderla e l'accese. Una raffica di vento sbatté le veneziane contro il telaio delle finestre. Rob afferrò i cuscini del sofà e il vecchio sacco a pelo. Era coperto di peli di gatto che lo fecero starnutire. Aveva letto da qualche parte che le coperte, le trapunte e i materassi offrivano riparo dalle schegge volanti. Raggiunse il breve corridoio d'ingresso, dove fece una sorta di nido con i cuscini e il sacco a pelo. Danielle si raggomitolò all'interno, con il mento contro il petto, mentre Jenna avvolgeva protettivamente le braccia intorno a lei. «Torno subito» disse Rob correndo verso la scala. Il primo piano mandava gemiti quasi umani. Alcune finestre erano aperte e Rob si trovò subito in mezzo a un folle gioco di correnti, bloccato sulla porta, incapace di muoversi. Che cos'era quel rumore? Sembrava che cento elicotteri volassero sopra la loro casetta di assi verniciate di bianco e che si spostassero ora da un lato ora dall'altro. Per alcuni istanti terribili le correnti d'aria lo scossero come un albero nella tempesta, poi, altrettanto improvvisamente, lo abbandonarono. Con un dolore bruciante nel petto, Rob corse in camera da letto, tolse le coperte, afferrò per le maniglie il materasso di poliestere e lo posò sul pavimento, poi frugò nel cassetto per recuperare il portafoglio che conteneva le carte di credito e le polizze dell'assicurazione, se lo infilò nella cintura dei pantaloni e infine trascinò il materasso giù per le scale. Quando arrivò nel corridoio dell'ingresso, lo appoggiò in diagonale con-
tro una parete e tutt'e tre si rifugiarono sotto quel riparo. Rob circondò moglie e figlia con le braccia e attese. Al mondo non c'era nulla di più dolce, pensò, che il respiro leggero della sua bambina. «Merda!» Jenna cercava di ascoltare la radio ma riceveva solo scariche elettrostatiche, per quanto ruotasse la manopola. «Avanti, di' qualcosa...» Rob si curvò verso di lei, in quel miserabile corridoio, e incontrò il suo sguardo incollerito. Jenna serrava le labbra come se fosse colpa sua. "Avanti, accusami" pensò lui. Sapeva di non essere un granché, con il suo naso storto e i pantaloni fuori moda. Ma non le aveva mai fatto mancare niente, maledizione. Avrebbe dovuto mostrare un po' più di riconoscenza. «Dov'è Bullette?» domandò all'improvviso Danielle. «Non pensarci, cara. I gatti sono intelligenti. Si sarà trovato un buon nascondiglio» la rassicurò Rob. Come se aspettasse proprio quelle parole per farsi vivo, in mezzo al rumore delle finestre che sbattevano si levò un miagolio terrorizzato. «Bullette!» Gli occhi di Danielle si riempirono di lacrime. «Papà, corri a salvarlo!» «Ssh, dobbiamo stare uniti.» Danielle cominciò a singhiozzare e Jenna fissò Rob, da dietro la figlia. Anche alla luce incerta della torcia, si scorgeva perfettamente la sua collera. «Vai a prendere il gatto» gli disse. «Cosa?» «Bullette!» gridò Danielle, portandosi il pugno alla bocca. «Papà, vai ad aiutarlo!» Oh, magnifico. Anche senza fare nulla, era riuscito ad attirare su di sé tutto il disprezzo della moglie. Prima che Jenna si inferocisse davvero, prese la lunga torcia e strisciò fuori da quel rifugio approssimativo. Venne subito inghiottito da un vento gelido che gli fece accapponare la pelle. Passò lentamente il raggio di luce sul tavolino di mogano costruito da suo nonno, mezzo secolo prima; sull'attaccapanni di legno, soffocato dagli impermeabili di plastica; sulle vecchie foto incorniciate che battevano sulla carta da parati sbiadita, ma sentì solo il soffio del vento, che portava rumore di tuoni e di acqua scrosciante. "Vai a prendere il gatto" si disse. "Ridicolo." A quattro zampe, strisciò sul pavimento di legno, muovendosi in direzione della cucina come un robot costruito male. Il tuono aveva un suono strano: non si udiva l'eco, il rimbombo prolungato, solo un basso bum. Bum. Secco e improvviso come lo scoppio di una bomba. Il vento soffiava
forte, era difficile muoversi. "Gesù mio, aiutami tu." Passò davanti alla sedia nell'ingresso, con le massicce gambe di quercia, e puntò il raggio di luce dentro la cucina. Il gatto si era infilato nella fessura tra il forno e l'armadio. Rob vedeva luccicare i suoi occhi. «Micio, micio...» L'animale abbassò la testa e lo fissò. Sbatté gli occhi. «Micio, qui...» Il gatto fremette. «Vieni qui, stupida bestia!» Il felino inarcò la schiena e fuggì. «Cazzo.» Rob aveva un diavolo per capello. Allungò il collo e dopo qualche istante sentì un forte crepitio, lontano ma sinistro, e un tonfo assordante che lo fece tremare tutto. Si coprì la testa mentre un vetro andava in frantumi sopra di lui e un vento violentissimo entrava nella casa, soffiandogli dritto in faccia. Furono secondi di paura. Quando infine riuscì a sollevare la testa, vide che un grosso ramo aveva sfondato la finestra della cucina. «Gesù Cristo» mormorò, guardando le tendine strappate e svolazzanti. Gli pareva di essere all'interno di un aspirapolvere, e sentiva crescere la pressione contro i timpani. Il vento faceva dondolare il frigorifero, che minacciava di cadere; Rob tornò a puntare la torcia nei vari angoli della stanza, ma Bullette sembrava scomparso. "'fanculo il gatto." Si voltò e vide che una fila di capocchie dei chiodi era uscita dalla parete, vicino alla sua testa; a quella vista, la sua tensione aumentò ancora di più. «Rob?» lo chiamò Jenna. La voce sembrava lontanissima. Un rotolo di carta igienica si srotolò sul pavimento e venne verso di lui, sollevandosi come un cobra. Una lunga, sinuosa scia danzò sulla sua testa, priva di peso. Rob la guardò a occhi sgranati. Le sue orecchie erano sul punto di scoppiare. Tornò indietro, per raggiungere il corridoio e la pressione aumentò ancora. Se ne fossero usciti vivi, si ripromise, avrebbe costruito un rifugio. O avrebbe comprato una di quelle "stanze sicure", prefabbricate, che si vedevano nella pubblicità. Avrebbe donato il sangue, fatto offerte per i senzatetto, pregato il Padreterno ogni sera... qualunque cosa. "Dio, ti supplico, abbi pietà della mia famiglia..." Mentre strisciava all'indietro, carponi, continuò a puntare la torcia intorno a sé, sulle gambe del tavolino, sul tappeto rosso e verde, su un paio di scarpe da ginnastica vicino alla porta d'ingresso... Un momento. Scarpe da
ginnastica? Scarpe nuove, con la tomaia bianca e champagne, così pulite da far venire voglia di pestarle per sporcarle. Guardò con stupore i lacci accuratamente annodati e le gambe dei jeans sopra di essi, poi gemette perché gli era entrata la polvere negli occhi. Non riusciva più a vedere. La porta era aperta, foglie e detriti gli colpivano con violenza la faccia. «Sì?» Batté gli occhi, con ansia, per allontanare le lacrime. Chi era quella persona? Qualcuno della Protezione civile? Un intruso? All'idea sentì un nodo allo stomaco. "Cieco" pensò. "Sono maledettamente cieco." Fece un breve respiro, ansimando, mentre l'uomo con le scarpe da ginnastica veniva avanti, da padrone, camminando sulle schegge di vetro che andavano in frantumi sotto i suoi piedi. Poi la porta si chiuse con un fortissimo tunk. APRILE È IL PIÙ CRUDELE DEI MESI 1 Il capo della polizia Charlie Grover era stupito nel constatare che gli edifici di granito sulla Main Street erano ancora in piedi. Che le finestre d'alluminio e i tetti multicolori erano intatti. Dall'interno della stazione di polizia aveva avuto l'impressione che crollasse il cielo, ma adesso poteva vedere con i suoi occhi che il centro della città era sopravvissuto alla furia della natura. L'aria era immobile, carica di umidità; alla luce dei fari, Charlie vedeva il fango e i rottami depositati ovunque dal tornado, come addobbi natalizi. Lunghi nastri video attorcigliati ai rami degli alberi, cavi scuri che strisciavano sulla strada, palline di plastica isolante che vorticavano ancora nell'aria. Era piuttosto scosso e sentiva il bisogno di bere. Aveva promesso a Maddie, sul letto di morte, di non toccare mai più una goccia d'alcol, ma l'aveva fatto. Non per ripicca, non era un ubriacone impenitente, ma di tanto in tanto sentiva la voglia di un bicchiere. E quello era il momento giusto. Meno di mezz'ora prima, un tornado bianco come la neve e dall'aspetto innocente - un semplice F1 sulla scala Fujita - era piombato dal cielo su Promise, Oklahoma, e in pochi istanti si era trasformato in un fremente F3 che si era mosso a zigzag sulla campagna aperta a sud della città, creando il caos. Secondo i rapporti che gli stavano arrivando, i danni si concentra-
vano in una fascia lunga quindici chilometri e larga mezzo. Charlie si stava dirigendo laggiù per coordinare i soccorsi e valutare i danni. Tra le scariche della radio della sua auto giungeva la voce roca e concitata dell'agente Tyler, Drumright: «Il tetto è sparito... abbiamo una casa dove non è restato in piedi neppure uno dei muri interni... Capo? Mi senti, capo?». Charlie prese il microfono a mano. «Continua, Tyler.» «Sono nella frazione di Black Kettle. C'è un uomo di cinquantotto anni con dolori al torace e non si vede neanche un'ambulanza.» «Se smette di respirare, prova con la compressione del torace. I soccorsi stanno arrivando.» «Abbiamo un mucchio di residenti sotto choc, anche se hanno solo pochi graffi.» «Resta lì, amico, stai lavorando bene. Arrivo tra cinque minuti.» Appoggiò il microfono al supporto e per qualche ignoto motivo pensò alla sorellina, a come l'aveva vista l'ultima volta. La piccola Clara Grover era morta trent'anni prima, all'età di due anni. La ricordava nella culla, che lo fissava con occhi enormi, verdi. "Cerca di dimenticare..." Il tornado lo aveva gettato nel caos. Un milione di cose da fare ed era lui a dover dare gli ordini. Sotto la sua divisa era spaventato. Cercò nuovamente di telefonare alla figlia e trovò occupato. Le linee telefoniche erano intasate. Trasse un profondo respiro e si augurò che Sophie, ormai sedicenne, fosse capace di badare a se stessa. Sentiva però il bisogno di ascoltare la sua voce, la sua ostentata indifferenza: "Oh, papà, ma certo che sto bene. Perché, è successo qualcosa?". Serrò le mani sul volante e tornò a concentrarsi sulla guida. La vita, a volte, può toglierti tutto. Questo pensiero lo spaventava, maledizione. Colpa della fiamma di ansia che si sentiva allo stomaco. I tuoi cari ti vengono strappati via in piena notte. Il massimo dell'ingiustizia. Ruotò le spalle e il dolore gli corse lungo la parte sinistra del corpo come una fila di formiche di fuoco. Era causato dai residui dell'antica ustione e dei trapianti di pelle. Aveva sentito quel dolore fin dal mattino: i crampi e i problemi alle articolazioni che di solito annunciavano brutto tempo. Avrebbe dovuto intuire fin da allora la forza della tempesta che si preparava: non aveva mai avvertito tanto fastidio come quel giorno. Trent'anni prima, Charlie Grover aveva subito ustioni di secondo e terzo grado alla parte sinistra del corpo - torace, braccio e gamba -, uno strano mosaico di pelle che gli andava dal lobo dell'orecchio all'anca, dove la ci-
catrice terminava bruscamente, come una calza con il piede tagliato. Per sua fortuna, genitali e faccia erano stati risparmiati ("Grazie a Dio"), ma una parte della pelle trapiantata dei donatori non aveva attecchito bene e la mancanza di elasticità lo costringeva, per un'abitudine ormai consolidata, a non girare mai il busto di scatto. Come se le sue vertebre fossero saldate insieme. Uno strano handicap, che aveva sempre destato qualche esitazione nei grandi capi, quando si era trattato di dargli una promozione. Non che li biasimasse, ma Charlie Grover era in grado di maneggiare un'arma, stendere un verbale e indagare su un omicidio come gli altri; tuttavia, aveva sempre dovuto faticare più di tutti per provare le sue capacità al sindaco Whitmore e ai suoi compari. Non li aveva mai denunciati per discriminazione, anche se avrebbe potuto farlo molte volte. Ma aveva stretto i denti e aveva continuato con decisione, e alla fine i suoi capi lo avevano accettato. Se c'era una cosa di cui Charlie si sentiva sicuro, era di essere perfettamente idoneo a svolgere quel lavoro. I malfattori di Promise dovevano temerlo. «Capo?» gracchiò di nuovo la radio dell'auto. «Rispondi!» Charlie sollevò il microfono. «Sì, Tyler?» «C'è un morto! Una donna anziana è stata portata via di peso dalla casa e il vento l'ha spinta dall'altra parte della strada, contro una rete metallica.» «Sono sulla Willow Road. Sono quasi arrivato.» «Dov'è l'ambulanza? Dove diavolo sono finiti tutti?» «Gli infermieri stanno arrivando, te lo assicuro.» «Pare che le case distrutte siano una quindicina, forse venti. Il danno è grave. Sono tutti fuori che corrono di qua e di là, in preda al panico.» «Tra dieci minuti sarò lì. Continua così, per ora, te la stai cavando bene.» Dopo la curva si trovò sulla strada per la frazione di Black Kettle e da quel punto poté godere di un'ampia vista sulla prateria. Un'enorme quantità di grano invernale e di erba selvatica si stendeva davanti ai suoi occhi. La ricchezza dei colori lo lasciò senza fiato. Il verde dei pascoli, i fiori selvatici rossi e arancione, i cornioli fioriti. Le piogge di primavera erano essenziali, se si voleva che i fiori selvatici raggiungessero in aprile il loro massimo splendore. Charlie premette sull'acceleratore. Il pietrisco della strada colpì la scocca della vettura, sotto di lui, quando scese tra i campi chiusi entro filari di alberi, le cui foglie nuove erano coperte dalla polvere sollevata dalla tromba d'aria. La strada passava su un ponte di ferro, poi incontrava una serie di dossi. Aprile era il mese della rinascita, e fino a quel momento l'erba aveva
mantenuto la promessa, era cresciuta verde e folta nascondendo le erbacce con le loro grandi infiorescenze. Le ultime chiazze di neve nei boschi si erano finalmente disciolte e al loro posto era spuntato un tappeto di castilleje rosse e di centauree azzurre. Curioso come si potesse tenere d'occhio con attenzione l'inizio della primavera e finire per non accorgersene, pensò Charlie, mentre guardava allontanarsi verso l'orizzonte le nubi di tempesta. Si fermò al segnale di stop, decapitato dal tornado, e da lassù guardò la scia di distruzione. La tromba d'aria era passata come una falce gigantesca, scavandosi una traiettoria irregolare ma mortale attraverso i pascoli, e aveva pressoché tagliato in due la frazione. Molte delle costose casette a due piani ne avevano perso uno e alcune erano state divelte dalle fondamenta. La cisterna dell'acqua era rovesciata; polli, mucche e maiali feriti, fuggiti dalle fattorie vicine, vagavano senza meta in mezzo alle rovine. Lastre di lamiera ondulata erano sparse per l'intero paesaggio, accartocciate. Charlie percorse rapidamente la strada e infine bloccò la macchina con un fischio delle gomme. Due ambulanze e un'auto della polizia erano parcheggiate al centro della carreggiata, in mezzo a un groviglio di fili elettrici strappati dai pali. Scese dalla vettura salutando, ma evidentemente tutti avevano già lasciato gli automezzi. Salì sul tronco di una quercia sradicata dal tornado e osservò la frazione semidistrutta. Il vento era così forte da costringerlo a tenere fermo il berretto sulla testa. Due o tre gruppi di case risultavano interamente sventrati. Era uno spettacolo spaventoso: pareti esterne scomparse, porte dei garage sfondate, tetti crollati. I giardini erano coperti di macerie, le auto erano accartocciate contro gli edifici e gran parte dei frassini, particolarmente folti nella frazione di Black Kettle, erano stati spogliati di tutte le foglie e i loro tronchi nudi avevano l'aspetto contorto degli stracci strizzati. All'improvviso, Charlie si rammentò che Mike Rosengard abitava laggiù. Terza casa sul lato sud della strada, in un punto che adesso era diventato la "Città degli Stuzzicadenti". «Mio Dio» mormorò. Della casa di Mike non rimaneva in piedi nulla, a parte la rampa centrale, che adesso si ergeva in mezzo alle rovine come una scala per il cielo. Con il cuore che batteva sempre più forte scese in direzione degli edifici, calpestando schegge di vetro e rami spezzati. Il vento che soffiava dietro di lui sollevava i frammenti e puzzava di gas. Ossia della sostanza che si mette nel gas per renderne riconoscibile la presenza. Allarmato, prese di tasca il cellulare e compose il numero del suo dipartimento.
«Polizia di Promise» gli rispose Hunter Byrd, con la solita voce nasale. «Hunter, sono a Black Kettle. Senti, devi mandare subito una squadra della società del gas. E requisisci tutti i bulldozer e le scavatrici che trovi, perché bisogna aprire un passaggio per la polizia e i pompieri. Telefona anche alla Guardia Nazionale. Ci servono delle attrezzature per i soccorsi.» «Va bene, capo.» Il sergente Hunter Byrd, un ex linebacker che adesso aveva messo su pancia, con i capelli rossi ricci e il mento squadrato, era uno che si divertiva a fare scherzi idioti come ordinare cinquanta pizze o tenere acceso il microfono fingendo che qualcuno lo stesse strangolando, con il risultato di mettere in allarme l'intero dipartimento. Non si riusciva mai a capire quando fosse serio, ma Charlie aveva l'impressione che in quel momento lo fosse. «Abbiamo anche bisogno di qualcuno che venga a ripristinare l'energia elettrica. E dove diavolo si sono cacciati i pompieri?» «Sono in viaggio, capo!» «Bene, mettigli il fuoco sotto il sedere. Per modo di dire, naturalmente.» Come se li avesse evocati, sentì le loro sirene. Si girò e vide arrivare due camion dei pompieri e un'auto della polizia. I lampeggianti azzurri e rossi sciabolavano l'aria. Senza abbassare il telefono, si fece strada in mezzo al pantano e alle macerie verso la casa di Mike, che era ridotta a una catasta di legna sulle fondamenta di cemento. Nel giardino era caduto un grosso albero, come se un bulldozer l'avesse abbattuto; da dietro il tronco spuntò una donna alta e sottile. Jill Rosengard era pressoché irriconoscibile, coperta di fango dalla testa ai piedi. «Jill?» gridò Charlie, ma lei non rispose. Era intenta a riempire di cocci un sacco per la spazzatura. «Jill, sei tu?» In quel momento, un uomo si affacciò dalla cantina. «Capo?» Charlie riconobbe la voce di Mike Rosengard, profonda e musicale come le note di un violoncello. Aveva tra le braccia due bambini piccoli: due maschietti, talmente coperti di fango che sembravano due statue di cioccolato. «Merda, non riesco ancora a crederci.» Mike attraversò il giardino pieno di cocci, schegge di vetro e cavi elettrici. Era a piedi nudi e incespicava. Il fango gli colava ancora lungo la faccia e gli appiccicava i capelli alla fronte. Charlie lo afferrò per il braccio. «Stai bene?» «Sì, bene. Tutto considerato.»
I figli di Mike, Sammy e Jerry, fissarono Charlie con gli occhi spalancati, surreali. «Ce l'abbiamo fatta, ragazzi» disse loro il padre, appoggiandoseli affettuosamente sui fianchi. «Grazie a Dio ce l'abbiamo fatta, eh?» Rise di sollievo mentre i bambini muovevano la testa all'unisono, in segno affermativo. Il sergente investigativo Mike Rosengard era un caro amico e un poliziotto esperto. Aveva il mento poco pronunciato e undici anni di esperienza nella polizia, sei come agente di pattuglia e cinque come agente in borghese. Si era occupato praticamente di tutto, dal taccheggio nei supermercati ai casi di suicidio. Gli piaceva presentarsi come l'unico ebreo dell'Oklahoma, ed era il tipico poliziotto che non molla mai un caso finché non l'ha risolto. Di taglia media, con i vestiti sempre perfettamente stirati, Mike mostrava una calma e una sicurezza che non sfociavano mai nella superbia. Charlie aveva la massima fiducia in lui. «Ehi, la mia famiglia sta bene» disse, facendo dondolare i bambini. «Ed è la cosa più importante, no?» Indicò l'auto coperta di fango parcheggiata nel vialetto d'accesso. «Non trovi che è un bel mucchio di rottami?» «Come sta Jill?» domandò Charlie, preoccupato per lei. «Cerca di recuperare i pezzi della sua vita» rispose Mike, parlando a bassa voce. «Da' un'occhiata. Metà di quel che avevamo in casa, adesso è nel ciclone Helena.» «Ma lei sta bene?» «Penso di sì, perché?» Tutt'a un tratto, guardò Charlie con aria preoccupata. «Faccio venire qualcuno che le dia un'occhiata.» Con la radio chiamò uno degli infermieri, poi si fermò a guardare le rovine della casa. Era un miracolo che non fossero tutti morti. «Ho sentito un sibilo acuto, penetrante» disse Mike. «Poi ho visto volare via i bidoni della spazzatura. Il vento mi ha sbattuto la porta sulla faccia e all'improvviso è sceso un silenzio profondo. Da far accapponare la pelle, capo. Siamo andati in cantina e io ho preso in braccio i bambini. La casa saltava e ballava, si sentivano scricchiolare tutte le giunzioni. Avevo paura che i bambini mi venissero strappati dalle braccia, perciò li ho stretti ancora più forte. Così forte che riuscivano appena a respirare. Vero, ragazzi?» Gli luccicavano gli occhi. «Posso dire in tutta onestà di non essere mai stato così terrorizzato, capo. C'è stato un movimento assurdo delle pareti e del soffitto, poi ho sentito uno stridore terribile, come se cento macchine aves-
sero preso troppo velocemente la stessa curva nello stesso momento. A quel punto è esploso tutto. Ho alzato gli occhi e al posto del tetto c'era solo un buco. Era sparito. Sparito! In un batter d'occhio abbiamo perso ogni cosa. Metà delle case del vicinato sono state spazzate via» continuò, scuotendo la testa come se non riuscisse ancora a crederci. «Questa mattina c'erano, ora non ci sono più.» A destra della proprietà di Mike, una casa era stata sradicata dalle fondamenta e spinta per sette-otto metri. Adesso era piegata su se stessa, come un vecchio al termine di una lunga e faticosa giornata. «I vicini stanno bene?» domandò Charlie. «Sì. Quelli qui intorno.» La radio portatile di Charlie gracchiò. «Capo? Sono Lester. È meglio che tu venga subito qui.» Charlie sollevò la radio portatile. «"Qui" dove, Lester? Da dove chiami?» «La casa dei Pepper, in Shepherd Street.» Gli tremava la voce. «Oh, mio Dio... è da non credere... non riesco a descriverlo, capo... Fai in fretta, per favore.» 2 Si era alzato il vento; uscendo dall'auto, Charlie venne investito da foglie e scorie che lo colpirono sulla faccia. Era alla fine di Shepherd Street, davanti alla fattoria in rovina dei Pepper, e aveva l'impressione di trovarsi ai margini delle terre abitate. Gran parte degli edifici era stata divelta dalle fondamenta: il granaio, la stalla, il pollaio, il capanno degli attrezzi. Le travi del tetto erano dappertutto, scagliate via come pagliuzze. Gli alti alberi che un tempo proteggevano la casa dal sole estivo erano stati sradicati. Il camioncino dei Pepper era rotolato fin sulla strada per fermarsi contro un'asciugatrice capovolta. Grandi aree dei campi erano completamente spoglie, maiali morti e galline spennate dal vento giacevano qua e là: Chester White, Berkshire, Spotted Poland China, tutte razze da esposizione. Solo la casa dei Pepper era ancora intatta in mezzo al caos. Charlie camminò con cautela sui rami degli alberi che coprivano il terreno, evitò una pentola d'alluminio completamente deformata, poi si soffermò a fissare la costruzione di assi di legno verniciate di bianco sullo sfondo del cielo coperto. Quella fattoria era simile a tante altre della zona: la soletta del pianterreno era costituita da una gettata di cemento, senza vere e proprie
fondamenta che permettessero di ricavare una cantina dove rifugiarsi. Il tornado le era passato accanto, a un centinaio di metri di distanza. I vetri di alcune finestre erano andati in frantumi, il camino era crollato e parte del tetto era volata via, ma la struttura aveva resistito alla pressione che aveva abbattuto tutto il resto. Com'era potuto succedere? Si passò la mano sulla fronte. Aveva sentito parlare di tornado con più vortici, e gli pareva che questa potesse essere la spiegazione. Di tanto in tanto, una singola tromba d'aria poteva contenere due o più piccoli, intensi sottovortici che orbitavano intorno al suo centro; questi, che si formavano e sparivano nel giro di pochi secondi, erano la causa della maggior parte di quei corti archi accanto alla traiettoria del vortice principale responsabili dei danni maggiori. «Capo» lo chiamò il suo vice, Lester Deere, dall'ingresso dell'edificio. «Credo che siano morti tutti.» «Cosa?» «I Pepper.» Solo allora Charlie si accorse del fango sui calzoni di Lester, del sangue sulle mani. Il suo vice era una di quelle persone insofferenti alle piccole regole della vita comune; arrivava sempre in ritardo e con qualche scusa. Quel giorno non era di servizio e indossava la camicia di flanella e i jeans di chi lavora nei campi. Passata da tempo l'epoca in cui giocava nella squadra di football dell'università, anche lui aveva messo su pancia; era un uomo dalle spalle enormi, con un ciuffo ribelle di capelli grigi, sempre accuratamente fissato con il gel. «Sono morti» ripeté meccanicamente; aveva gli occhi rossi, fissi nel vuoto. «Sono sconvolto. Guarda le mie mani. Continuo a tremare e non riesco a fermarmi.» Charlie gli guardò le mani insanguinate. «Cosa vuol dire che sono tutti morti? La casa è ancora in piedi. Che cos'è successo?» «Vai a vedere.» Aveva la voce così incrinata da dare l'impressione che stesse soffocando. La porta non era chiusa a chiave, l'interno era buio e a Charlie occorse qualche istante perché i suoi occhi si abituassero alla penombra. Sentì un brivido quando fiutò un acuto odore di rame: l'odore del sangue. Puntò la torcia sul pavimento dell'ingresso. Il tavolino e l'attaccapanni erano rovesciati a terra, i quadri caduti dalla parete, dappertutto si scorgevano schegge di vetro. Attraversò lentamente il corridoio e passò il raggio della torcia sulla carta da parati rosa. Alcune fotografie rimanevano ancora tenacemente attac-
cate alle pareti, innocenti istantanee dei Pepper la vigilia di Natale: Rob Pepper che tagliava il tacchino; Danielle e la madre vestite da straccione per qualche lontano Halloween. In mezzo al corridoio c'erano un mucchio di cuscini, un materasso fradicio, un sacco a pelo arrotolato. In terra c'erano una radiolina rotta e una torcia ancora accesa, con il raggio che illuminava le assi del pavimento. Charlie si avvicinò al materasso e scorse le macchie di sangue. Trovò anche una pozza di sangue e solo allora vide le strisce che si allungavano verso le scale. Salì i gradini due alla volta, seguendo la striscia dall'ingresso alla camera da letto, e si fermò sulla soglia per riprendere fiato. Nel soffitto c'era un foro enorme: lassù le travi, le tegole e parte della parete erano state portate via. Si scorgevano il cielo grigio e, in basso, il cortile posteriore. La stanza era nel caos: vetri rotti, mobili rovesciati, ogni superficie coperta di fango. Uno dei vortici del tornado doveva avere colpito il soffitto, come un gigante delle favole che avesse staccato un morso da una casa di marzapane. La figlia dei Pepper era raggomitolata in un angolo, dietro il letto matrimoniale, con le braccia intorno alla testa, come per proteggersi. Danielle Pepper era stata trafitta da frammenti volanti: cocci di vetro delle finestre, lunghe schegge di legno. Una scena macabra. Orribile. Ferite da penetrazione causate da quelli che sembravano la gamba di una seggiola e il paletto di una staccionata. Charlie si inginocchiò davanti a lei e le tastò il polso. Aveva la pelle lucida e trasparente, allo stadio iniziale del lividore cadaverico. Gli occhi erano spalancati ma non reagivano alla luce, anche se la sclera era chiara. La mandibola era rigida: i primi sintomi del rigor mortis. Guardando Danielle Pepper gli venne in mente Sophie e sentì un nodo allo stomaco. La ragazzina aveva i capelli rossi, lunghi, raccolti in una coda di cavallo; quando le ripulì la faccia dal fango, Charlie vide alcuni lunghi graffi sulla fronte e sulla guancia, dalla parte destra. Con una sorta di capogiro, si alzò arretrando di un passo. Osservò meglio la stanza. Il materasso mancava e la rete era bagnata dalla pioggia. In quell'istante sentì uno strano cigolio che giungeva dal tetto. In mezzo a una pioggia di schegge, sopra di lui, dove iniziava lo squarcio, qualcosa di pesante sfondò il bordo dell'intonaco. Con un grido, il capo della polizia fece un passo indietro. Il torso di Rob Pepper dondolava dal soffitto come la versione capovolta di uno di quei pupazzi a molla che scattano fuori dalla scatola quando si apre il coperchio. Sembrava un puntaspilli, per come faccia, collo e petto
erano infilzati da ogni genere di frammenti. Le gambe e i fianchi erano ancora incastrati nelle macerie del soffitto, ma la parte superiore del corpo dondolava orrendamente. Charlie si portò la mano davanti alla bocca, spaventato. Per un momento ebbe l'impressione che il mondo si fosse fermato. Poi notò come la casa vibrasse sotto la spinta del vento; forse non era sicura come aveva creduto. Forse i danni erano maggiori di quanto non apparisse dall'esterno. Fece per allontanarsi dai corpi e incespicò in una sedia a dondolo rovesciata. Riprese l'equilibrio con una piroetta, per poi accorgersi di essere finito sull'orlo di un precipizio: le assi del pavimento sporgevano nel vuoto. Jenna Pepper era stata scagliata dal vento contro un albero a poca distanza dalla casa; il suo corpo era incuneato tra i rami contorti, a non molta distanza da Charlie. Era una donna piccola, un metro e cinquantacinque per una quarantina di chili. Aveva i capelli neri e lisci, corti, e indossava un paio di Levi's scoloriti e una maglietta color pesca; ai piedi sottili non portava né calze né scarpe. Charlie inghiottì a vuoto alla vista della scheggia di mogano - a quanto pareva, la gamba di un letto - che le sporgeva dal collo come il manico di un coltello. Aveva un'altra ferita al petto, causata da quello che sembrava un pezzo di ringhiera di legno, e varie macchie rosse sulla maglietta, come rose. Aguzzando la vista, Charlie ebbe l'impressione di vedere sulle mani e sugli avambracci ferite causate dal tentativo di difendersi. C'era qualcosa che non andava. Mentre le vecchie veneziane sbattevano al vento, Charlie ritornò dove il corpo di Rob Pepper pendeva dal soffitto. Gli prese le mani e le girò. Anche sui suoi avambracci c'erano ferite da difesa, i tipici tagli praticati da una lama. E al piano di sotto, pensò, c'erano le scie lasciate da corpi trascinati verso le scale... Accese la radio e disse in fretta: «Lester? Fai delimitare l'area». «È arrivata una squadra di soccorso, capo.» «Mandali via. La zona è inaccessibile. Metti un uomo a ciascuna estremità della strada. Se qualcuno fa domande, digli che c'è una perdita di gas.» Guardò Rob Pepper. I suoi occhi immobili parevano fissare lontano, per ritirarsi in un infinito dolore. «Lester, è tutto chiaro?» «Sono morti?» domandò il vice con voce strozzata. «Sì» rispose Charlie, e non riuscì a evitare un tono di meraviglia nella voce. «Sono tutti morti.» 3
Quella notte i militari pattugliarono le strade sulle loro jeep verde oliva mentre i furgoni delle TV si aggiravano tra le rovine alla ricerca di qualche scena commovente o impressionante da trasmettere nel telegiornale delle ventitré. Volontari con seghe a motore aiutarono a togliere dalla strada gli alberi caduti per far passare le auto della società del gas incaricate di riparare le condotte danneggiate. Gli agenti che quel giorno erano di servizio non tornarono a casa alla fine del turno e i vigili del fuoco lavorarono tutta la notte per spegnere qualche sporadico incendio. Intanto le sirene delle ambulanze e delle auto della polizia non smettevano di suonare. Verso le otto di sera la temperatura scese e una pioggia forte e gelida colpì la città. Un migliaio di residenti lasciò le case prive di luce e di riscaldamento per rifugiarsi nelle tende della Croce Rossa, dove i volontari servivano costolette di maiale del Babe's Barbecue e toast alla texana preparati dal ristorante Roadside Diner. Nella zona del disastro, la gente continuava a guardarsi intorno stupita, mentre scendeva una nebbia densa come la zuppa di piselli, illuminata a intermittenza dal lampeggiare dei segnali d'emergenza. Gli uomini si passavano sacchetti di carta con una bottiglia di liquore nascosta all'interno e parlavano a bassa voce tra loro, mentre le massaie, prive di una casa dove rientrare, fumavano frugando tra le macerie per recuperare gli oggetti di valore prima che venisse dato l'ordine di evacuare la zona. Qualcuno pregava, i piccoli contratti che si fanno con Dio: "Ti supplico, fa' che sia finita. Fa' che il peggio sia passato". I cronisti delle TV locali piazzavano il microfono davanti alla faccia di Charlie e lo seguivano dovunque andasse. Lui cercava di rispondere alle domande come meglio poteva, ma teneva per sé i sospetti sugli omicidi. Era una notizia troppo grossa; non voleva commettere errori, non voleva fare la figura dello sciocco sui teleschermi di tutta la nazione. Prima di fare l'annuncio avrebbe aspettato i risultati delle autopsie, per sapere con certezza che cosa si trovassero di fronte. «Le parti della città con i cavi interrati riavranno l'elettricità per prime» disse ai reporter, davanti alla stazione di polizia. Era rauco a forza di ripetere quei particolari. «Per le case e gli uffici serviti da linee esterne ci vorrà un po' più di tempo. Parte del problema sta nel dover sgomberare dalle strade una grande massa di detriti. Ci occorrono altri volontari con bulldozer e trattori. Voi potreste spargere la voce.» «Capo, può confermare il numero di morti?» «Ne abbiamo contati sei.»
«E gli indennizzi per le vittime?» «Un rappresentante del Fondo per i soccorsi alle vittime di calamità naturali sarà qui domani per valutare i danni.» «Capo, perché avete chiuso al traffico Shepherd Street?» domandò un reporter che, a giudicare dallo sguardo di sfida, intendeva chiarire la faccenda, con o senza l'aiuto di Charlie. «Dobbiamo controllare alcune fughe di gas nella zona» spiegò, poi abbassò gli occhi sul suo taccuino, talmente coperto di appunti che lui stesso faticava a leggerlo. «Ci sono più di novecento persone che passeranno la notte nelle tende, e ci occorrerebbe una quarantina di uomini della Guardia Nazionale. Abbiamo avuto un preavviso di una ventina di minuti e questo ci ha aiutato a contenere il numero delle vittime. I vigili del fuoco hanno terminato la ricerca di cadaveri e di superstiti nella frazione di Black Ketde e abbiamo portato via i cani addestrati al recupero. Potete mettervi in contatto con il municipio per tutta la notte. Ci sarà sempre qualcuno per darvi le ultime informazioni.» Fece per allontanarsi, ma un elegante cronista della KVMX gli bloccò la strada. «Che ci può dire delle voci che circolano, capo? Continuiamo a sentire che dietro una delle vittime del tornado di oggi c'è qualcosa di sospetto.» «Per ora non ho nessun commento da fare.» «Capo!» Venne assalito dalle domande dei giornalisti che lo seguivano. «Dall'elicottero abbiamo visto un'area chiusa sulla Shepherd Street. Può dirci qualcosa?» «Domattina sarò in grado di fornire maggiori dettagli. Buonanotte, ragazzi.» «Capo? Capo?» Altri giornalisti circondavano la sua auto; gli impedirono di partire finché non vennero allontanati dai suoi agenti. Charlie premette sull'acceleratore, cercando di non badare alle facce spettrali che, illuminate dai fari, chiedevano ad alta voce chiarimenti. Nuove folate di vento colpirono l'auto e lui si sentiva sulle labbra il sapore del whisky. "Pessima idea" pensò. "Uno dei giornalisti poteva accorgersene, e a quel punto che cosa avrei fatto?" Un'ora prima, alla stazione di polizia, si era cambiato la camicia e aveva buttato giù un paio di sorsi dalla bottiglia che il suo addetto al coordinamento del traffico teneva in un cassetto della scrivania. Ora, mentre attraversava le strade del centro, lucide di pioggia e chiuse tra le facciate di pietra degli edifici, rifletté sui molti punti oscuri del caso. Jenna, Rob e Danielle Pepper avevano ferite prodotte nel tentati-
vo di difendersi, sulle mani, sugli avambracci e sulla faccia. Sul pavimento del pianterreno c'erano tracce di corpi trascinati - almeno due - che arrivavano fino alla scala, e Danielle aveva graffi sulle braccia e fango sulla schiena, segno che uno era il suo. Non poteva dire nulla degli altri finché non fosse arrivato sulla scena il medico legale e non avesse dato loro il permesso di portare via i cadaveri. Sentì un brivido lungo la schiena. L'ultimo caso di omicidio era di sei mesi prima, una resa dei conti tra spacciatori. L'ultimo tornado che aveva colpito Promise, Oklahoma, risaliva al 1924. Svoltò a destra lungo una strada male asfaltata e i fari della sua macchina illuminarono un paesaggio devastato. Alcune persone venivano spinte dagli incubi dell'infanzia a diventare preti o criminali; Charlie invece era diventato un poliziotto, aveva un diploma in criminologia conseguito all'Università dell'Oklahoma e aveva fatto il suo apprendistato a Tulsa, dove era stato di ronda per diversi anni prima di fare ritorno a casa. Quella cittadina di ventiduemila anime poteva vantare la sua percentuale di delinquenti e gravi problemi di droga, soprattutto anfetamine e hashish. Charlie aveva lavorato con informatori, prostitute e tossicodipendenti. Una volta aveva dovuto affrontare tre malviventi in uno scontro a fuoco, la classica situazione in cui puoi fartela addosso. S'era occupato di furti, rapine, ferimenti d'arma da fuoco e da taglio. Aveva capito che laggiù, per cavarsela, occorreva portare un manganello più o meno robusto, a seconda del quartiere dove ci si trovava. Aveva persino ucciso un uomo, una volta, anche se non era un atto di cui andasse particolarmente fiero. Cinque anni prima, un operaio disoccupato aveva preso in ostaggio i propri figli. Charlie aveva studiato all'università come negoziare il rilascio degli ostaggi, ed era quasi riuscito a convincerlo ad arrendersi quando l'uomo aveva improvvisamente puntato la pistola contro la figlia di quattro anni e lui era stato costretto a sparare. Aveva ricevuto una medaglia, ma quell'episodio si affacciava ancora nei suoi incubi. Rivolse un cenno della testa al membro della Guardia Nazionale che sorvegliava l'imbocco di Shepherd Street. Charlie aveva spedito sulla scena del crimine tutti gli agenti che non gli servivano per compiti diversi, ne aveva dislocati alcuni lungo la Main Street e altre zone molto frequentate per scoraggiare iniziative indebite. Un altro piccolo gruppo passava al setaccio i vicini dei Pepper, recandosi di porta in porta per cercare testimoni che quel pomeriggio avessero notato qualcosa di sospetto. La scena del crimine era un'area virtualmente irraggiungibile, avvolta
dal bagliore dei fari e dal rumore dei generatori elettrici. Una mezza dozzina di agenti e ufficiali investigativi con i guanti e le apposite soprascarpe era all'interno della casa per fare fotografie e raccogliere indizi. Nonostante la nebbia, un elicottero della televisione continuava a girare sopra di loro; Charlie si augurò che finisse presto il carburante e si togliesse dai piedi. Verso mezzanotte, finalmente l'elicottero si allontanò. Tutti i rapporti riferivano che adesso la città era silenziosa. Gran parte dei cittadini si era chiusa in casa, se ancora ne aveva una. La pioggia cessò verso le tre del mattino, il cielo si schiarì e comparvero le stelle. Esausti ma determinati, Charlie e i suoi uomini continuarono a raccogliere indizi fino alle cinque, quando giunse Roger Duff, il medico legale, per portare via i cadaveri. Charlie avrebbe voluto accompagnarlo all'obitorio, ma Duff gli disse: «Va' a casa e dai un bacio a tua figlia, Charlie. Questi corpi non scappano». Erano ormai le cinque e mezzo quando giunse in Red Bud Road. Il sole dell'alba gli colpì gli occhi e la peluria delle dita, che parve diventare luminescente. Gli faceva male la gola perché aveva parlato troppo, aveva i vestiti sporchi di fango, le unghie nere di sudiciume. Voleva solo infilarsi nel letto e chiudere gli occhi doloranti, ma sapeva che non avrebbe potuto dormire almeno per le successive quarantott'ore. Quando parcheggiò nel vialetto d'accesso, Charlie vide con dispiacere che la bandiera era stata strappata via dalla sua sede, sulla porta d'ingresso, e che era finita contro il ramo di un corniolo; persino l'asta di ferro si era piegata. Il tornado aveva lasciato ovunque i segni del suo passaggio, come un veleno incolore. Pezzi bianchi e rosa di plastica isolante coprivano il giardino, insieme a una moltitudine di tegole del tetto. C'erano buste dappertutto. "Fa piacere vedere che la posta viene consegnata regolarmente" pensò con ironia. Il cielo azzurro e privo di nuvole gli dava un senso di smarrimento. Guardò la casa di legno con la vernice scrostata, gli scuri dipinti di verde e sospirò. Se non altro, niente d'importante era stato spazzato via. Una parte della facciata aveva subito danni e sull'erba erano sparsi rami che sembravano bastoni da croquet abbandonati, ma la casa era intatta. Sua figlia era sana e salva. L'aria d'aprile era corroborante. Mentre attraversava il cortile, una rondine gli passò davanti, all'inseguimento di qualche insetto. Charlie s'era quasi aspettato di sentire la voce melodiosa di Maddie, mentre apriva la porta. Ma non ci furono saluti o abbracci. E neppure il calore del suo corpo, o l'orribile vestaglia di flanella marroncina che indossa-
va negli ultimi mesi di vita. Maddie: bellissima, più intelligente di lui, migliore di lui in tutto. "I dottori" ripensò "hanno provato ogni cura disponibile, e alla fine, quando nessuna è risultata efficace, hanno suggerito di impiantarle in testa aghi irradiati." Aghi che dovevano spazzare via tutte le cellule tumorali, distruggerle insieme a metà del suo cervello. Sophie non aveva avuto il permesso di visitare la madre all'ospedale durante la terapia perché era troppo pericoloso e lui poteva vederla soltanto per un quarto d'ora al giorno, Maddie era rimasta per più di una settimana in quella stanza e gli aghi nella sua testa avevano continuato a emettere radiazioni. Probabilmente le avevano fatto più male che bene. Nell'ingresso si sentiva il solito odore di toast bruciati. Le assi del pavimento cigolavano nei soliti posti; solo che Maddie non c'era. Il momento in cui Charlie sentiva di più la sua mancanza era la sera, quando ritornava a casa. Lungo la parete si snodava una fila di fotografie impolverate; Charlie si soffermò a raddrizzarne una: una giovane Maddie che gli sorrideva con lo sguardo divertito. Aggrottò la fronte e lasciò che il dolore e il senso di colpa lo avvolgessero. Se fosse rimasto immobile, presto quella sensazione sarebbe sparita. «Charlie?» disse Peg Morris uscendo dalla cucina e tenendosi con una mano la scollatura del kimono. «Oh, mio Dio. Mi hai spaventato!» Dopo la morte di Maddie, Peg era venuta a riempire il vuoto con il suo ruvido istinto materno e il suo vecchio kimono di seta con le tasche piene di sigarette e di chissà che altro. Era una cugina di sua moglie e abitava dall'altra parte della città, ma di tanto in tanto veniva a dormire da loro quando lui doveva lavorare la notte. Non aveva figli e aveva preso Sophie sotto la sua ala protettiva, cosa per cui Charlie le sarebbe stato eternamente grato. «Grazie per esserti occupata di lei, Peg.» «Oh, per favore, non dirlo neppure.» Aveva i capelli color rame e un neo a un lato della bocca per niente bello a vedersi. «Hai l'aria di uno che è finito sotto lo schiacciasassi. Che ne diresti di pane tostato con uova e pancetta?» «Non ho neppure il tempo di pensare alla colazione, Peg.» Lei rise. Una risata che sapeva di whisky annacquato. «Allora un caffè? Hai il tempo di pensare a quello?» «Ne berrei con piacere una tazza.» «Tutto a posto?» «Qualche danno grave. Alcune persone morte.» «Mary Jo Crider, Rob e Jenna Pepper, Danielle. Oh, mio Dio, quando lo
abbiamo sentito per radio non credevamo alle nostre orecchie.» Scosse la testa, sconvolta. «Per tutta la vita senti parlare di tornado, ma non pensi che potrebbe capitare a te.» «Come sta Ben?» domandò Charlie, ricordandosi del fidanzato di Peg. «Ha perso qualche cavallo, ma ce l'hanno fatta.» Charlie si fermò accanto alla scala. «Puoi fermarti questa notte?» «Mi dispiace, Charlie. Ho promesso a Ben che sarei tornata.» «Sì, certo, non preoccuparti. Mi organizzo io.» Salì gli scalini a due a due, poi bussò sul cartello ZONA DISASTRATA incollato sulla porta della figlia. «Sophie? Sei sveglia?» «Avanti» rispose lei, con voce assonnata. Entrare nella stanza della figlia, con le pareti rosa, le tende avorio e il pavimento di legno giallino era come tuffarsi in una piscina dalle pareti chiare. "Zona disastrata" era il termine giusto: c'erano vestiti sparsi ovunque, giornaletti e lattine vuote, mescolati con vasetti di cosmetici e CD. Il tutto assomigliava all'interno di un cassonetto della spazzatura, ma lei sapeva sempre dove trovare le cose. Sophie era raggomitolata sotto le coperte in posizione fetale. Dormiva sempre con i pugni chiusi, come se si afferrasse a un sottile filo di coscienza. «Ehi, fagiolino.» «Papà!» Sophie si rizzò a sedere e lo abbracciò. «Ero preoccupata per te!» Aveva gli occhi grandi e la bocca sensuale della madre, il medesimo aspetto di innocenza e di fiducia in se stessa. Aveva i capelli castani lunghi e la pelle di porcellana con le guance rosa di Maddie, ma non bisognava lasciarsi trarre in inganno, perché in tutto il resto era uguale al padre. Ostinata, metodica, con la stessa ruga di preoccupazione tra gli occhi. Con il suo metro e settanta di altezza era già la più alta della classe, ma per fortuna non aveva ereditato la goffaggine del padre: aveva invece la grazia atletica di Maddie, e sembrava avere l'argento vivo addosso. «Come puzzi» gli disse, coprendosi la faccia con il cuscino. Charlie si passò la mano sulla barba. «Stavo andando a fare la doccia, grazie.» «Una doccia bella lunga, spero. E con tanto sapone» rispose lei, ridendo. «Ti fermi a fare colazione, vero?» «Non posso, purtroppo.» Sophie spostò il cuscino e guardò suo padre con espressione delusa. «Ho bisogno di parlare un po' con te.» «Sì, certo, ne ho bisogno anch'io.»
«E allora?» «Che ne diresti di questa sera? Penso di potermi liberare.» Lei aggrottò la fronte. «"Penso" non mi è sufficiente.» «Vedrò cosa posso fare. Vieni qui.» L'abbracciò a lungo, per assicurarsi che stesse bene. Sapendo che era uscita più o meno illesa dal disastro, sarebbe tornato al lavoro con maggiore serenità e avrebbe smesso di preoccuparsi. «La casa tremava come una foglia» gli disse Sophie. «Sentivamo battere la grandine contro la porta della cantina. Io e Peg continuavamo a chiederci cosa stesse succedendo. Avevamo una fifa del diavolo. A un certo punto ho avuto l'impressione che il cuore mi scoppiasse dalla paura.» «Per fortuna c'era Peg» commentò il padre. Lei lo guardò con aria disperata. «Ho provato a chiamare il nonno, ma non ci sono riuscita.» Charlie inarcò le sopracciglia. «Non pensarci» le disse. «Quell'area non è stata colpita.» «Certo, ma... non dovresti andare a dare un'occhiata?» «Sono sicuro che non gli è successo niente.» «Per piacere.» Afferrò la catenina d'argento che portava al collo, con un medaglione a forma di cuore. Gliel'aveva regalata la madre in occasione del suo decimo compleanno. Sophie non se la toglieva mai. Ci dormiva e probabilmente ci faceva anche la doccia. Un attaccamento che mostrava anche per tutti gli altri oggetti per i quali nutriva un valore affettivo: la lampada a forma di cowgirl con il paralume rotto, il tappeto indiano mangiato dalle tarme, con i suoi simboli magici. E tra cent'anni, Charlie era pronto a scommetterlo, sarebbe morta con quella catenina al collo. «Tuo nonno sta benissimo» ripeté. «Ti prego, papà, vai a controllare. Non vuoi farlo per me?» «Dormi, ora.» «Va bene, va bene. Del resto è solo tuo padre.» Charlie la guardò socchiudendo gli occhi. «Non starai cercando di farmi sentire in colpa?» «Be', non saprei. Perché, funziona?» «D'accordo, andrò a trovarlo» le rispose. «Contenta?» «Digli di telefonarmi, d'accordo?» «Prima, però, ho altre cose da fare. Ma te lo prometto, sei soddisfatta? Adesso dormi. Sei proprio una piaga.» Sophie ridacchiò. «Sapessi quanto lo sei tu!»
4 Cercando di non badare al puzzo dell'obitorio, Charlie osservò con gli occhi socchiusi quella scena orribile. Le tre vittime giacevano l'una accanto all'altra su tre tavoli di metallo cromato: Jenna Pepper, Rob e la figlia quattordicenne Danielle. I corpi erano stati passati ai raggi X, pesati e misurati, ed erano stati annotati i segni identificativi come tatuaggi o cicatrici. Gli abiti sporchi di sangue, insieme ai teli in cui avevano avvolto i corpi, erano stati inviati al laboratorio di Stato per le analisi, e adesso le vittime giacevano nude ed esposte alla vista, con schegge di tutti i tipi conficcate orribilmente nella carne. «Scusa il ritardo» disse Roger Duff, allacciandosi il camice. «Come sta Sophie?» «Bene.» «Mi fa piacere. Danni alla casa?» «Niente di grave. E tu?» «Non troviamo più il gatto.» Duff era un uomo grassoccio e di bassa statura, pieno di sé. Insieme alla sua faccia sempre cupa, Charlie aveva imparato da anni a non badare alla sua arroganza. L'aveva accettata come parte del lavoro. Duff era il medico legale dell'intera contea e spesso lo tiravano giù dal letto in piena notte per raggiungere il luogo di qualche delitto, fin su a Camargo. Tra lui e Charlie c'era sempre una sorta di sfida, una specie di braccio di ferro intellettuale. Duff prese dalla parete la cartellina e lesse il foglio informativo, poi si accarezzò il mento, con aria pensosa. «Bene, Charlie. Riassumiamo i particolari.» «Tutt'e tre le vittime hanno ferite alle mani, alla faccia e agli avambracci, tipiche di chi ha cercato di difendersi da un'aggressione.» «Un momento.» Il medico lo guardò con aria scettica. «Possono essere state prodotte da schegge di vetro. Sei piegato in posizione di difesa, con le braccia davanti al viso, e la finestra scoppia. Questo potrebbe spiegare i tagli.» «Abbiamo trovato sangue nel corridoio d'ingresso, sui cuscini del sofà e sul materasso che avevano usato per proteggersi.» «Infatti, tagli e abrasioni da schegge di vetro. Frammenti volanti, portati dal vento all'interno della casa attraverso le finestre rotte, le porte aperte e quel grosso foro nel soffitto.»
«E i segni di trascinamento sulle scale?» Duff si strinse nelle spalle. «Forse Jenna e Danielle erano ferite e Rob le ha trasportate al piano superiore. Si fanno cose strane quando si è spaventati. Per questo si dice che il panico fa perdere la ragione.» Ma Charlie non era disposto ad accettare quelle spiegazioni. «E i graffi sulla schiena di Rob? Se ha trascinato sulle scale gli altri due corpi, lui come se li è procurati?» Duff sospirò rumorosamente. «Giusta osservazione, Charlie. Non dico che non sia un mistero. Ma i tornado sono famosi per compiere le cose più strane. Per esempio, qualche anno fa nel Kansas un tornado ha preso una torta da una casa, l'ha portata in giro e poi l'ha posata sul tetto di un'automobile con tanta delicatezza che non s'è neppure rovinata la glassatura. Caffè?» Charlie scosse la testa. «Non ne bevo mai quando sono in servizio qui sotto.» «Perché, per la puzza? Oh, ci si abitua. Va bene, niente caffè.» Posò la cartellina. «Vediamo cosa ci dice l'autopsia.» Charlie lo accompagnò al tavolo con le rotelle, mentre Duff si agganciava alla cintura un registratore e s'infilava le cuffie. «Rob Pepper ha subito una perforazione sulla parte destra del torace, causata da una scheggia di legno della lunghezza approssimativa di settanta centimetri» dettò al microfono. «Quello che sembra il colonnino di una ringhiera gli è entrato nella parte destra del petto ed è uscito posteriormente. Polmone destro lacerato e contuso. L'esame interno permetterà di valutare il danno al parenchima polmonare.» S'interruppe per un istante e si passò il dito sul mento. «Ricordi il tornado di Oklahoma City nel '99? Una quantità di traumi da penetrazione causati da frammenti volanti. Terribile. Che incubi ho avuto. E adesso vedo lo stesso tipo di ferite, Charlie, ma...» «Ma cosa?» «Pazienta ancora un momento.» Nel sotterraneo cominciava a fare caldo. Charlie si tolse la giacca mentre Duff girava lentamente intorno al tavolo, respirando rumorosamente a bocca chiusa. Doveva avere le adenoidi o qualche altro disturbo al naso. Attraverso gli stretti lucernari dell'obitorio, il sole del mattino proiettava scacchi di luce sul pavimento. I tavoli erano provvisti di rotelle e venivano usati per sezionare gli organi ed esaminarli; nei pressi c'era la bilancia per pesare le parti del corpo; i liquidi corporei venivano raccolti dentro un recipiente.
Agenzia di pompe funebri di Ripley, due anni prima. Madeleine distesa su un lettino con le rotelle, morta di un tumore al cervello. Il lenzuolo bianco inamidato tirato fino alle spalle. "Maddie?" Aveva una lunga cicatrice sulla testa, simile a un nastro. Era stata rasata per l'operazione e i capelli castani le erano ricresciuti più scuri e a chiazze. Strani come i fiori nati sulle macerie di Hiroshima. Folti, scuri e minacciosi. Un berretto funebre fatto di capelli. "Maddie?" Odiava la gente che faceva sempre domande, che voleva sapere del tumore. Non voleva parlarne. Preferiva essere solo la moglie di Charlie e la madre di Sophie. Una persona normale, non la sua malattia. Charlie si era curvato sul lettino e per un momento si era sentito staccato da tutto. Poi aveva pensato all'uomo e alla donna che lo aspettavano nel corridoio. Avevano aperto la camera ardente esclusivamente per lui. Charlie aveva fissato le sopracciglia arcuate di Madeleine, il disegno delle sue labbra, il naso con la gobba. "Gesù, Maddie, quanto mi dispiace" aveva detto, sperando che lei l'avesse perdonato e aprisse gli occhi. Che si svegliasse strappandolo alla disperazione. Duff guardava il colonnino che aveva estratto dal corpo di Rob. «Strano» diceva, guardandolo. «Che cosa?» Charlie notò che un'estremità del cilindro di legno, quella che aveva trafitto Rob e che era sporca di sangue, era affilata come un coltello. «Mio padre si divertiva a fabbricare coltelli di legno» spiegò Duff. «Si tratta di un procedimento semplice, in realtà. Trovi un pezzo di legno duro che non abbia nodi e lo intagli in modo da ottenere una lama. Poi lo fai asciugare sul fuoco, all'aperto, finché non comincia a carbonizzarsi. Più il legno è asciutto, più dura è la punta. E non farla mai nel centro esatto, perché è la parte più debole.» «Quindi, secondo te» disse Charlie trattenendo il fiato «quella che abbiamo davanti è un'arma?» Il medico indicò il petto di Rob. «Vedi quelle ferite multiple accanto alla zona di penetrazione, Charlie?» «Sì.» «Per me quelle ferite superficiali indicano che l'omicida cercava un punto di ingresso. A un normale coltello d'acciaio non occorre molta velocità
per trapassare pelle e muscolo, ma un coltello di legno richiede una velocità molto superiore.» Charlie lo fissò. «Un colpo assestato con tutta la forza del braccio, vuoi dire?» Duff annuì. «Inoltre, un coltello di legno riesce a penetrare meglio se evita le ossa.» Charlie rabbrividì. Duff posò il pezzo di legno. «Aspetta ancora un secondo» disse. Il suo naso fischiava come un vento malinconico. «Questa cosa non mi convince.» Prese una lente d'ingrandimento e si chinò sulla faccia rigida di Rob Pepper. «Vedi quell'arrossamento intorno alla bocca?» Charlie allungò il collo e scorse una macchia all'angolo delle labbra. «Mmh.» Stranamente, il medico non fece commenti. «Che cos'hai visto, Duff?» «Scusami, Rob» disse, afferrando con entrambe le mani la faccia del morto. Con un gesto secco spalancò le mascelle, spezzando il rigor mortis. Charlie tirò indietro la testa, disgustato. Duff sollevò le labbra di Rob e gli osservò la bocca. «Qui c'è qualcosa che non va» commentò. Charlie si sforzò di guardare. «Vedi quel dente?» continuò il medico. «Be', non è suo.» 5 Il dentista della famiglia Pepper, Peter Forgaard, era un omaccione con la faccia butterata dall'acne che fumava sigarette senza filtro e amava giocare alle corse dei cavalli, quando non era occupato a trapanare e otturare. I tre - Charlie, Duff e Peter Forgaard - guardavano con aria cupa il corpo di Rob Pepper, disteso sul tavolo con un blocco sotto la testa per tenerla ferma. «Hai ragione» disse Forgaard. Una volta tanto parlava piano, anziché con la solita voce stentorea. «Quel dente non è suo.» «Ho notato dapprima il rigonfiamento» spiegò Duff. «Poi ho visto che il canino superiore destro era fuori allineamento rispetto agli incisivi e che c'era sangue sulla gengiva.» Il dentista si tirò il labbro inferiore mentre rifletteva su quelle parole. Indossava ancora la tuta da jogging; guardò Charlie con interesse. «Posso?» gli domandò.
«Fa' pure.» «Lo estraggo?» «Sì, toglilo.» Peter s'infilò i guanti, scelse un paio di pinze e afferrò il dente. Facendo forza prima in un senso e poi nell'altro, in pochi istanti lo tirò via. «Quando si estrae un dente» spiegò «nell'alveolo si forma un grumo di sangue. Ma questo non accade se il paziente è già morto. Nel caso di Rob, pare che ci sia stato sanguinamento.» «Cioè...» disse Charlie guardando Peter con aria desolata «era vivo, quando è successo?» Peter annuì. Charlie era sconvolto. «Vivo, ma privo di sensi» aggiunse Duff. «Probabilmente» confermò Peter. Charlie sudava; la camicia gli si era incollata alla schiena. Sentiva montare varie emozioni: repulsione, collera e soprattutto un senso di confusione. Guardò la pelle rossa e porosa della faccia di Peter. «Che è successo? Come può essere finito lì, quel dente? Rispondimi con le parole più semplici che puoi.» «Be', il canino superiore destro di Rob è stato estratto e un canino "sostitutivo" è stato inserito nel tessuto fibroso della mandibola. La radice del dente sostitutivo è morta da molti anni.» Charlie e Duff lo accompagnarono fino a un grosso lavandino; Peter prelevò da una busta una radiografia dentaria. «Rob aveva tre capsule e venticinque denti in buone condizioni. Ossia ventotto denti in tutto; mancano i quattro del giudizio. Come si vede dalla radiografia, questo dente sostitutivo è più piccolo del corrispondente di sinistra, più curvo nel versante labiale. La radice è lunga e sporge dal punto di inserimento. La corona è larga e a becco di flauto. Sulle cuspidi labiali ci sono tre creste longitudinali.» Abbassò lo sguardo. «È evidente, si tratta di due dentature completamente diverse.» Charlie espirò lentamente. Era sempre più scioccato. «E Jenna?» domandò. «Vuoi che dia un'occhiata anche a lei?» «Sì. Controlliamoli tutti.» Senza parlare, raggiunsero il tavolo dove giaceva il corpo immobile di Jenna Pepper. Peter inghiottì a vuoto prima di aprirle la bocca ed esaminarle metodicamente i denti. Non impiegò molto tempo. «Eccolo» indicò. «Il secondo molare.»
«L'ho visto» confermò Charlie. Duff scattò alcune foto, poi Peter riprese la pinza ed estrasse il dente in pochi secondi. «Come si può vedere dalla panoramica» disse indicando la busta che aveva prelevato nel suo studio «aveva una grossa otturazione nel secondo molare, mentre questo è in condizioni perfette.» Lo accostò alla luce e lo esaminò strizzando gli occhi. «Assolutamente privo di difetti.» «E visto che manca l'otturazione puoi affermare con certezza che non è il suo.» Peter annuì. «Questo non è il suo dente.» Charlie aveva irrigidito tutti i muscoli, per paura di sembrare vulnerabile. Solo ora cominciava a capire la gravità dell'accaduto, l'entità del crimine. Leggeva l'allarme sulla faccia di Duff e su quella severa di Peter. Anche se non lo dicevano, entrambi erano scossi. «I suoi sono consumati sulle cuspidi linguali. Vedi che non sono ben allineati all'interno della bocca e che le parti consumate sono diverse? È diversa anche la forma. Il colletto, la corona.» «Anche il colore è diverso» aggiunse Duff. Peter fissò Charlie. «Penso che non sia stato il tornado, vero?» Charlie lanciò un'occhiata a Duff, poi disse: «Dobbiamo chiederti di tenerlo per te, Peter». «Naturalmente. Potete contare sulla mia discrezione.» «Non sappiamo esattamente che cosa sia successo. Stiamo ancora mettendo insieme i pezzi. Ma il crimine è avvenuto all'incirca nello stesso lasso di tempo in cui il tornado ha colpito.» Peter rifletté su quelle parole. «Posso chiederti una cosa, Charlie?» «Certo.» «Che cos'è successo ai denti originali?» «È una sorta di omicidio rituale» intervenne Duff. «Ecco di che si tratta.» «Non abbiamo ancora terminato le autopsie» disse Charlie. «Non disponiamo di tutti i dati.» «Ce n'è abbastanza» lo interruppe Duff «per essere certi che chi ha commesso gli omicidi ha portato via come trofei i denti originali.» «Accidenti» disse Peter. «Ma è normale che qua sotto faccia questo caldo, Roger? Io sto bollendo.» Duff accese la ventola, mentre Peter si tamponava il sudore sulla faccia con il fazzoletto. «Vuoi che facciamo una pausa?» domandò Charlie.
«No, sono a posto. Si tratta di questi poveretti.» «Continuiamo, allora?» Peter annuì. «Se i signori vogliono seguirmi.» Charlie e Roger lo seguirono fino al tavolo di Danielle e in silenzio lo osservarono lavorare. «La corona è sormontata da due cuspidi separate da un solco» spiegò infine Peter, in tono privo di emozione, ma profondamente scosso. «Il colletto è ovale, le radici sono compresse di lato. Il primo premolare è il più grosso, ma il secondo... vedete dove lo smalto è consumato? Ci si aspetterebbe che il primo sia nelle stesse condizioni, ma non è così. Dalle radiografie risulta che è consumato, ma questo non lo è.» Si schiarì la voce. «Aveva ancora i denti del giudizio; sulla mia scheda è indicata un'otturazione...» Era molto pallido; per timore che perdesse i sensi, Charlie gli portò una seggiola. «Questi poveretti» disse Peter sedendosi «hanno la sorpresa dipinta in faccia, come se non capissero perché dovevano morire.» «Aiutami a trovare chi ha fatto questo» lo pregò Charlie. «Dimmi tutto quello c'è da sapere.» Peter si strinse nelle spalle. «Non c'è molto da aggiungere. Questi denti "sostitutivi" sono umani. E non sono stati estratti di recente, ma almeno un anno fa, o anche di più. Non posso sapere a chi appartenessero, ma non erano nella bocca dei miei pazienti, questo è certo.» Tornò a tirarsi il labbro. «In generale non mi piace estrarre i denti. Fa sembrare la gente più vecchia della sua età, non vi pare? Preferisco salvare il dente, quando è possibile.» «Occorre essere un dentista o avere conoscenze tecniche particolari per estrarre un dente? È difficile?» volle sapere Charlie. «No, niente affatto.» Peter scosse la testa. «Il dente è tenuto nel suo alveolo da un legamento che fissa la radice all'osso. Io preferisco usare uno strumento chiamato sindesmotomo. Serve ad allargare lo spazio tra radice e osso e a rompere le piccole fibre che li uniscono. Ma in un'estrazione semplice non c'è bisogno, basta afferrare il dente con un paio di pinze e spingerlo avanti e indietro, ruotarlo a sinistra e poi a destra e alla fine tiri. Non occorre altro.» «E puoi usare anche delle normali pinze, anziché quelle dei dentisti?» «Naturalmente, ne basta un paio qualsiasi. Soprattutto se non ti devi preoccupare dei denti vicini. C'è il rischio di batterci contro.» Fissò di nuovo i corpi. «Avete ancora bisogno di me?» «No, grazie, puoi tornare al tuo studio.» Peter si alzò e si avviò alla porta. «Mi auguro di poter dimenticare quello
che ho visto.» «Arrivederci» lo salutò Charlie, che si sentiva un nodo allo stomaco nel constatare lo stupore e l'allarme del vecchio dentista. «Grazie dell'aiuto.» 6 La Dakota Road cominciava bene, con una tavola calda che vantava le sue costolette dell'Oklahoma, poi vagabondava per chilometri tra grandi silos per il grano e vecchi pozzi di petrolio prosciugati, lungo la propaggine occidentale di Promise, che nella forma ricordava una gamba allungata: una zona dove nessuno portava vestiti firmati e di notte non c'era bisogno di chiudere la porta perché in quelle case non c'era niente da rubare. Charlie parcheggiò nel vialetto dissestato e si soffermò a guardare la fattoria, così perfetta da sembrare dipinta, sotto il cielo che si andava progressivamente rischiarando. Era bianca con le finestre rosse e l'abbaino sul tetto. In quella zona l'energia elettrica non era stata ancora ripristinata, ma la fattoria di suo padre era pressoché intatta. Il pickup Loadmaster del '51, basso sul terreno e dipinto color pelle di pescecane, era parcheggiato davanti al granaio; al di là si stendeva il terreno fangoso dove Isaac Grover aveva passato metà della sua vita cercando di trasformare in campi fertili centotrenta ettari di terreno incolto. Charlie rimase seduto nella sua auto di servizio, rabbrividendo, mentre il motore si raffreddava. Si sentiva le braccia pesanti come tronchi marci. Era ancora sconvolto dall'accaduto. Un triplice omicidio. Omicidio rituale. Laggiù in Oklahoma. Chiuse gli occhi e immediatamente gli parve di sentire i colpi, i pugni pesanti del padre. Si affrettò a riaprirli e scorse uno scoiattolo che saltellava sul prato. Era la casa dove si erano trasferiti dopo che la precedente, in Kidwell Road, era completamente bruciata in un incendio che s'era portato via la madre e la sorella di Charlie: Adelaide e Clara Grover. Charlie sentiva ancora la collera e il dolore ribollire sotto la superficie, e le sue cicatrici erano un costante ricordo del passato. Gli bastava abbassare lo sguardo. Era stato segnato da Dio con un immenso ferro rovente, di quelli per marchiare le mucche. Sul braccio e sul petto aveva grossi cordoni di pelle; su una natica c'era una zona gialla, in rilievo, dove gli era stata trapiantata la pelle; sulla gamba sinistra la cute era ancora contratta. Ricordava gli insulti dei compagni di scuola: "Grover Graticola", "Charlie Carbonella". Tornava a casa da scuola e si sedeva stoicamente sul letto, appoggiava i palmi sulle varie parti del corpo per misurare la percen-
tuale di ustioni di terzo grado: uno per cento sulla testa, otto per cento sul braccio, undici per cento sulla gamba, otto per cento sul torace. E per quanto contasse e ricontasse, il totale faceva sempre ventotto per cento. Scese dall'auto e si accostò con cautela alla casa, fissando il prato perfettamente curato, che si allungava davanti a lui come una pausa d'imbarazzo nella conversazione. Il padre ne andava orgoglioso, era sempre intento a falciarlo e a togliere le erbacce: era diventato un uomo del tutto diverso, da quando aveva smesso di bere trent'anni prima. E aveva smesso di bere quando la casa aveva preso fuoco. "Una sveglia piuttosto rude" pensò Charlie. Certo, ma ormai era troppo tardi per gli altri, aggiunse. I vicini di Isaac, quelli che andavano in chiesa con lui tutte le domeniche, si complimentavano per il suo prato ("da fare invidia a un campo da golf) e la sua astinenza. Avevano accolto fra loro il peccatore e l'avevano perdonato sin troppo in fretta. Charlie aveva l'impressione di poter udire tutte quelle radici perfette mentre aspiravano l'acqua dal terreno. Arrivò all'ingresso e bussò sul telaio della porta a zanzariera. «Papà?» Non ebbe risposta. La casa era buia e silenziosa. Il solo rumore fu il cigolio della porta. Charlie si pulì le scarpe sullo stuoino ed entrò. L'ingresso profumava di cera. Sentì un nodo allo stomaco quando guardò il tavolino della posta, sul quale si accumulava una pila di lettere. Tutte bollette da pagare. Presto il padre gli avrebbe chiesto nuovamente dei soldi. «Papà, sei in casa?» chiamò. Poi passò in rassegna le fotografie appese alla parete: vecchie immagini sbiadite della famiglia, con il dolore ancora visibile negli occhi della madre. La povera Adelaide, e la piccola Clara con il suo immenso amore. E un Isaac più giovane, con i capelli neri, che sorrideva all'obiettivo con l'indifferenza del beone. Poi, non appena uscito dall'inquadratura, nello sguardo gli ritornava la furia. Avevano avuto troppa fretta di perdonarlo. Isaac aveva smesso di bere all'indomani dell'incendio, ma si era limitato a sostituire un vizio con un altro: dal bere al dare la caccia agli uragani. Ogni volta che poteva, andava a inseguirli. La domenica correva in chiesa e tutto il resto della settimana correva dietro i tornado; e padre e figlio non avevano mai più parlato di quella notte. La casa era pulita e in ordine, ogni cosa al suo posto. Charlie ricordava ancora quella trascurata e piena di cianfrusaglie di Kidwell Road. I pompieri erano giunti alla conclusione che l'incendio fosse iniziato in cantina, dove erano ammucchiati gli stracci, i vecchi giornali e i lumi a petrolio, e che fosse stato appiccato da una scintilla della stufa a carbone. D'inverno il
padre scendeva tre volte al giorno ad alimentarla, imprecando come un pazzo: "Ti vuoi accendere, brutta puttana?". Al piano di sopra, nel soggiorno, il soffio di aria calda che arrivava dalla grata di ghisa era come il respiro del diavolo. «Charlie?» Una voce roca, familiare. Si voltò in quella direzione. «Ehi. Non sparare.» Isaac abbassò il fucile. Quello che usava per andare a caccia di cervi. «Pensavo che ci fossero i ladri.» «No, sono soltanto io.» «Va' fuori e siediti. Io intanto prendo due birre.» Isaac Grover era un robusto sessantaduenne con la faccia segnata dalle traversie. Duro come una bistecca troppo cotta e sempre pronto alla collera, era noto per la sua insonnia, che lo teneva sveglio fino a notte fonda a parlare via radio con le sole persone sulla faccia della terra che non fossero a letto a quell'ora - i tedeschi e i cinesi -, scambiando frasi in un inglese sgrammaticato fino alle prime ore del mattino. Possedeva centotrenta ettari, ma il reddito era scarso. Aveva qualche mucca, le galline e coltivava anche la soia, ma la sua principale fonte di reddito era il grano. Inutile dire che non era mai stato ricco. «Ieri ti ho visto» disse Isaac, incrociando le mani grandi e possenti. «Però, non credo che tu abbia visto me.» «Dov'eri?» «Black Kettle Road. Aiutavo a togliere i rami dalla strada.» Charlie aggrottò la fronte. «Perché non sei venuto a salutarmi?» «Mi parevi già abbastanza impegnato. Dài, va' ad aspettarmi sotto il portico.» «Non posso fermarmi a lungo, papà.» «Va' bene, allora dimmi tutto e togliti il pensiero.» Charlie si sforzò di vincere l'irritazione. «Cinque minuti, poi devo davvero andarmene.» Tornò all'esterno della casa e si sedette su una delle vecchie poltroncine di vimini che erano lì da sempre, come le piramidi. Sentiva il padre in cucina, che metteva via qualche periodico per agricoltori e frugava nel frigorifero. Gli tornò in mente l'eterna lotta del padre per la fattoria. Gli insetti e le erbacce gli mangiavano il raccolto e gli intermediari gli mangiavano il guadagno. "Se avessi dei soldi" diceva sempre "non farei il contadino. Mi comprerei una barca e girerei il mondo." Isaac lasciò che la zanzariera si chiudesse con un tonfo mentre porgeva al figlio una birra analcolica. Le bottiglie di vetro tintinnarono per un i-
stante. «Povera Mary Jo» disse, sedendosi davanti a Charlie. La vecchia poltroncina cigolò sotto il suo peso. Intendeva Mary Jo Crider, l'anziana donna che era volata via di casa il pomeriggio precedente. «Faceva da baby sitter a me e a Bo-Bo, te l'ho mai detto? Una volta ha lasciato mangiare a Bo-Bo tre scatole di maiale e fagioli. Lui stravedeva per quella vecchia. Ogni giorno della settimana si metteva un golf di colore diverso.» A quel ricordo, allargò gli occhi. «Scagliata a venti metri dalla sua casa. Tutta attorcigliata nel filo spinato. Incredibile. Mio Dio, è una cosa che ti fa pensare.» Charlie assaggiò con cautela la birra analcolica. «Ieri» disse. «Mi sembra che siano passati mesi.» «Ieri il cielo è caduto sulla terra.» Isaac diede al figlio una rapida occhiata. «Allora, come l'hai presa? L'hai presa bene?» «Sto ancora cercando di valutare quello che è successo» ammise. «Non stare ad aspettare che tutto vada a posto da solo. Raccontami.» Incrociò per un istante lo sguardo del padre, poi distolse gli occhi. «È stato orribile.» «La morte è sempre orribile.» «Sì, ma questo è un caso speciale.» "Non gli ho detto quello che è successo" pensò. "Non gli ho detto la verità. Ma presto la sapranno tutti." Più tardi, per quella mattina, aveva convocato una conferenza stampa. Quando Isaac batteva gli occhi gli si potevano contare le rughe sulla faccia. Indossava una vecchia giacca e una camicia spiegazzata: il prato ben curato e l'ordine domestico erano una cosa, la sua igiene personale un'altra. Portava sempre le stesse scarpe finché non cadevano a pezzi, e ogni nuovo paio cominciava lentamente a morire non appena se lo infilava ai piedi pieni di calli. Era come un senzatetto che avesse trovato libera quella casa e avesse rivendicato il suo diritto di occupazione. «Sei andato a caccia di tornado, ieri?» chiese Charlie. Il padre annuì. «Ho preso l'interstatale 10, mi sono diretto a nord verso Cradle Rock. La prima tempesta si è diretta a sinistra e allora sono tornato indietro. Accidenti, per poco non la prendevo. Sono passato dalla posizione perfetta, quasi sotto l'occhio del ciclone, a fuori zona in circa dieci minuti.» «Hanno detto che era un F3.» Isaac guardò in direzione del sole che si levava; socchiuse gli occhi. «Quel cumulo è letteralmente esploso verso il cielo. Vedevi la torre salire a
velocità vertiginosa. Cristo, conoscevo Rob Pepper da quando era alto così.» Scosse la testa e sui capelli bianchi si rifletté la luce. Adesso li portava lunghi fino alle spalle, mentre in passato li tagliava a spazzola. «Ricordo che Stretch Pepper lanciava in aria i ferri di cavallo roventi e li prendeva al volo con le tenaglie. Rob è stato il suo primo figlio. Quando nacque, Stretch distribuì bottiglie di soda invece che sigari. Fu lo stesso giorno in cui Bob Schul vinse i cinquemila metri alle Olimpiadi di Tokyo.» Si batté un dito sulla fronte. «Qui dentro ho un mucchio di stupidaggini come queste.» Tutti sapevano che i Pepper erano rimasti vittime del tornado. Nessuno immaginava quello che Charlie aveva scoperto. Isaac si tolse la dentiera e la posò sul bracciolo della poltroncina. Aveva perso i denti prima che Charlie nascesse. Amava spaventare i bambini spingendo fuori la protesi con la lingua. Diceva sempre per scherzo che i suoi denti veri lo aspettavano nell'aldilà, con Adelaide. «Conoscevo anche la madre di Jenna» proseguì Isaac. «Celine Kulbeck. Una vera gatta selvatica. Tale madre, tale figlia.» «Sì?» Charlie lo fissò. «Che cosa intendi dire?» «Non intendo dire niente. Solo... girano delle voci.» «Che voci?» Isaac si strinse nelle spalle. «Di tutti i generi.» Non aveva intenzione di parlarne. A Charlie, la bevanda troppo fredda faceva dolere i denti. Il padre era coriaceo come un vecchio paio di stivali texani, ma quel giorno appariva emaciato: pallido e magro, con le guance incavate. Charlie si domandò se mangiasse a sufficienza. Il vento soffiava attraverso le assi della veranda. Nel cielo i corvi volavano in cerchio, e la tuta, i boxer e i piccoli asciugamani appesi al filo erano bagnati dalla rugiada. "Qual è il suono di niente?" pensò Charlie e sentì un nodo allo stomaco che non voleva abbandonarlo. All'improvviso gli tornarono in mente i tempi andati, gli anni miserabili in cui i suoi genitori litigavano sempre e spaccavano i piatti. "Dio, ti prego, falli smettere..." Charlie era nella sua stanza in soffitta e sentiva i genitori gridare, di sotto. Qualcosa si era rotto e lui aveva fatto un sobbalzo. La bambina piangeva. Clara aveva due anni e piangeva sempre. Aveva i capelli biondi e gli occhi verdi, e il padre non conosceva nessuno della famiglia che li avesse. "Questa figlia è mia? Rispondi, donna!" Ai piedi di Charlie c'erano i suoi giocattoli rotti. Aveva appena compiuto sette anni e sotto di lui era scoppiata una tempesta. "Dio, ti prego, falli smettere, sarò buono..."
Ogni volta che Isaac la picchiava, la madre di Charlie si nascondeva nella sua stanza e piangeva; il mascara le correva lungo le guance dandole l'aspetto di un clown. Ora il padre saliva rumorosamente la scala che portava in soffitta. Veniva per lui, e Charlie lo sapeva. Si era messo a piangere quando l'uomo dallo sguardo severo e dalle mani callose lo aveva sollevato in piedi, prendendolo per il colletto, e lo aveva trascinato lungo le scale, un urto per ogni scalino. Bump, bump, bump, fino al primo piano, per poi gridargli in faccia: "Qual è il suono di niente, piscialletto?". E continuava a ripeterlo, mentre Charlie lo fissava terrorizzato. Poi il padre aveva perso la pazienza, si era sfilato la cintura e lo aveva picchiato. Lui aveva cercato di proteggersi la testa e aveva gridato mentre i colpi piovevano su di lui. "Qual è il suono di niente, piscialletto!" Infine, Isaac Grover era uscito con furia dalla casa. Quando il padre era partito, il bambino aveva sentito la porta che sbatteva e il fischio delle gomme, fischio che era durato per tutta Kidwell Road. Charlie, raggomitolato in un angolo del corridoio, tremava fra i singhiozzi e aspettava che qualcuno arrivasse a consolarlo; ma quella sera la madre non era venuta come le altre volte. L'aveva guardato con distacco, senza riconoscerlo, e si era allontanata. Più tardi, quella sera stessa, si era dimenticata di dargli il bacio della buonanotte. Solo nella sua stanza in soffitta, Charlie stava sotto le coperte, perfettamente immobile; aveva freddo, era impaurito e non sapeva che cosa fare. Forse, con un po' di fortuna, il padre poteva aver avuto un incidente mentre tornava a casa. Forse era finito contro la grossa quercia all'angolo della casa. Passata da poco la mezzanotte, il padre era tornato; era ubriaco e cantava a voce spiegata mentre saliva le scale. Charlie aveva sentito le porte che sbattevano, poi la voce spaventata della madre. Si erano messi a discutere, la madre aveva lanciato un urlo, uno solo, seguito da uno strano silenzio. Mentre tratteneva il fiato, Charlie aveva sentito cigolare le molle del letto, nella stanza sottostante. Avevano cigolato a lungo, poi era sceso di nuovo il silenzio. Charlie giaceva immobile come una pietra, sbattendo meccanicamente le palpebre nel buio e seguendo le ombre che la mezza luna proiettava sulla parete. Da un minuto all'altro, lo sapeva, il padre sarebbe salito a picchiarlo di nuovo. Ne era certo, ogni volta che chiudeva gli occhi udiva già i suoi passi. Poi aveva sentito l'odore del fumo. L'aria era diventata irrespirabile. Il
fumo proveniva dalle scale, sinuoso, come le scie di crema di latte versata nel caffè. Charlie si era precipitato fuori della stanza, ma non era riuscito a vedere nulla in mezzo al fumo. "Mamma!" aveva gridato. "Mamma!" Era corso alla finestra e aveva guardato di sotto, nella pacifica notte illuminata dalla luna, e all'improvviso aveva compreso che a nessuno importava di lui. Alle mucche non importava. Ai gufi nemmeno. E neppure alla mezza luna che spargeva sui campi la sua polvere fatata. Presto il fuoco era salito sulle scale della soffitta, accompagnato da un fumo acre che gli aveva tolto l'aria dai polmoni. Charlie si era affacciato alla finestra e aveva gridato aiuto, ma quando una fiammata era uscita dalle fessure del pavimento e gli aveva colpito i calcagni, era saltato giù. Era saltato giù per salvarsi la pelle, ma la sua pelle, come poi avevano scoperto, si era salvata solo al settanta per cento. Adesso erano l'uno davanti all'altro, padre e figlio. Due completi estranei. Charlie voleva andarsene. S'erano detti tutto, rimaneva solo un punto difficile da affrontare: i giri di frase tortuosi, esitanti, con cui il padre gli chiedeva sempre un prestito, Per accelerare la cosa, Charlie domandò: «Vuoi che ti firmi un assegno?». Isaac si mostrò immediatamente offeso. «Se avessi voluto il tuo aiuto, te lo avrei chiesto.» «Va bene, papà. Non importa.» Il padre puntò verso di lui un dito artritico. «Non farmelo mai più.» «Farti cosa?» «Trattarmi come un poveraccio. Se avrò bisogno del tuo maledetto aiuto, te lo chiederò.» «Va bene, va bene.» «E non assumere quell'aria di superiorità!» «Non ho alcuna aria di superiorità, papà.» Rosso in viso e irritato, Isaac scolò con una lunga sorsata il resto della birra. «Sei morti. È la sola cosa di cui parlano tutti. Nessuno si preoccupa delle centinaia di feriti; a volte sarebbe meglio morire.» Charlie studiò per un momento il profilo del padre, il naso lungo e dritto che lui stesso aveva ereditato, le vene sporgenti del collo, la fronte alta e spaziosa, gli occhi indecifrabili. Anche le sue sopracciglia erano destinate a farsi bianche come la neve e ad allargarsi come ali? E le sue guance a diventare così cascanti? Gli si sarebbero gonfiate le articolazioni per l'artrite? Solo allora notò al polso del padre l'orologio dall'aria costosa, con il bracciale d'argento.
«È nuovo?» «Questo?» Isaac guardò l'orologio. «Ieri ho dato una mano a una famiglia. Hanno voluto dimostrarmi la loro riconoscenza.» «Te l'hanno dato loro?» Lo guardò con scetticismo, pensando: "Probabilmente l'hai raccolto in mezzo al fango". «Che famiglia era?» «Non lo ricordo.» Charlie serrò le labbra. «Non ricordi come si chiamano?» «Non mi pare che me l'abbiano detto.» Charlie posò la bottiglia e si alzò. «Devo andare.» Isaac lo guardò come se fosse un insetto caduto nella sua minestra. «Perché mi tratti così?» «Così come?» «Come una persona di cui non ci si può fidare.» «Ho forse detto qualcosa del genere?» «Non hai bisogno di dirlo.» Si spostò leggermente sulla poltroncina per sistemarsi la patta dei calzoni. «Ehi, che cittadino ligio.» «Che significa?» «Non mi credi per l'orologio? Vuoi dire che la gente non ha più riconoscenza? Che non può più dimostrare la sua gratitudine?» «E tu non ne ricordi neppure il nome?» «Ho detto di no, ma forse suonava come un sì.» Charlie si guardò intorno con fastidio. «Sophie era preoccupata per te e allora sono venuto ad assicurarmi che fosse tutto a posto.» Nel sentire nominare la nipote, la collera di Isaac svanì. Scosse la testa e rise. «Davvero? Era preoccupata per il suo vecchio nonno?» «Sì. Ha provato a telefonarti, ma le linee erano guaste.» «Il mio angelo custode.» «Vuole parlarti. Falle uno squillo.» «Sta bene?» «Ci vediamo, papà.» Il vecchio posò le mani sui braccioli e si sollevò minacciosamente. «Charlie, mia nipote sta bene?» «Era la prima cosa che avresti dovuto chiedermi, maledizione» gli rispose Charlie, allontanandosi. 7 Non appena montò in macchina, Charlie sentì gracchiare la radio. «Sì?»
rispose con irritazione. «Capo?» Era Hunter Byrd. «Abbiamo trovato un numero di telefono scritto su un tovagliolino nella borsa di Jenna Pepper. Niente nome, solo il numero. Scommetto che non immagini a chi appartiene.» «Non farla tanto lunga, Hunter. Dimmi chi è.» «Jake Wheaton.» «Come?» «Vuoi che andiamo da lui?» «No, ci vado io» rispose Charlie. Posò il microfono e partì. I Wheaton abitavano dall'altra parte della città, in un appezzamento di terra battuta piena di carcasse di automobili. I vecchi edifici della fattoria erano pieni di graffiti e Charlie non sapeva che cosa vi si coltivasse. Era noto, però, che nel parcheggio delle roulotte, di fronte alla casa, fioriva il piccolo spaccio. Trovò Jake Wheaton nel vialetto, curvo sul motore di un pickup Chevrolet dalle cromature scrostate che pareva pronto per lo sfasciacarrozze. Il diciannovenne aveva una torcia in bocca e con le dita sottili sporche di grasso regolava la cinghia di trasmissione. «Jake?» La torcia gli cadde dalla bocca, ma la recuperò con una mano. Rivolse a Charlie un sorriso privo di allegria. «Salve, il nostro amico agente.» Doveva aver bevuto o fumato spinelli, o entrambe le cose. I suoi occhi erano un intrico di capillari gonfi. «Hai un minuto?» «Per cosa?» «Solo qualche domanda.» «Certo. Va bene.» Aveva un piercing sulla lingua - una sferetta d'acciaio - ed era così magro da sembrare uno scheletro. I suoi tatuaggi erano molto belli: sottili strisce nere sul braccio e simboli mistici sugli avambracci scarni. Portava i capelli lunghi, raccolti dietro le orecchie, e indossava una maglietta nera troppo grande e un paio di jeans macchiati ad arte con la candeggina. «Hai saputo dei Pepper, vero?» disse Charlie. Jake annuì. «Per favore, vuoi spegnere quel motore?» Il camioncino verde scuro era in folle, in mezzo a una pozzanghera di benzina e olio per motori. Jake salì a spegnere il motore, poi si appoggiò al volante e accese una sigaretta. «Vietato fumare.»
Il ragazzo la spense. Charlie attese che scendesse dal pickup, ma Jake non accennò a muoversi. «Che fai?» «Fuori c'è troppa aria.» Batté le dita sul volante foderato di pelle. «Esci di lì.» Il ragazzo obbedì, poi si fermò con aria sfuggente davanti a lui. «Hai sentito che i Pepper sono morti nel tornado?» «L'ho visto alla TV, sì.» Abbassò la testa e sospirò. «Brutto modo di andarsene.» «Tu li conoscevi?» «Certo. Danielle.» Fece un cenno d'assenso. «E la mia ragazza ha la signora Pepper come insegnante di economia domestica.» «Economia domestica? La conoscevi di persona, la signora Pepper? O solo attraverso la tua ragazza?» Jake socchiuse gli occhi. «Che cosa vuole dire?» «Ti sto chiedendo se tu e Jenna Pepper avevate qualche tipo di relazione personale.» Jake non si scompose. Fissò la strada. «Mi lasciava mangiare quello che cucinavano le sue allieve. Patate fritte. Dolci. Quel tipo di roba.» «Perciò andavi a prenderne un assaggio dopo la scuola?» «Sì, esatto.» «E chiacchieravi con lei?» Il ragazzo sollevò le sopracciglia, con finta innocenza. «Proprio così.» «E voi due di cosa parlavate?» «Chi, io e la signora Pepper?» «Sì, tu e la signora Pepper.» Si strinse nelle spalle. «Le solite cose.» «Che tipo di cose?» «La vita, quel genere di cazzate. E poi c'è stata la volta che mi ha portato a fare un giro sulla sua Pontiac.» «Oh, davvero? E quando è successo?» Jake strizzò gli occhi, come se la risposta fosse scritta nell'aria davanti a lui. «Sei mesi fa.» «Sei mesi? Ed era uno di quegli incontri dopo le lezioni?» «Sì, dopo le lezioni.» «E?» «E cosa?» Si fissarono con intensità.
«E dove ti ha portato, la signora Pepper?» «Fuori, in campagna. Siamo andati a cercare delle zucche.» «Zucche?» disse Charlie. «Sì, l'ho aiutata a comprarle per la scuola. Voleva insegnare alle sue studentesse come si fa la torta di zucca. Ne abbiamo comprate una tonnellata e abbiamo riempito il baule.» «Ed è successo altro, mentre cercavate le zucche?» A quella domanda, il ragazzo lo guardò con fastidio. «Cosa, per esempio?» «Per esempio... non saprei. Per esempio, perché abbiamo trovato nella sua borsa il tuo numero di telefono?» «D'accordo.» Si passò la mano sugli occhi, con aria preoccupata. «Perché aveva nella borsa il tuo numero, Jake?» Il ragazzo socchiuse gli occhi, cercando di riflettere. «Non lo so.» «No?» Il ragazzo scosse la testa. «Jake, tu sorridi un po' troppo.» Il ragazzo fece la faccia seria. «Sì? E allora?» «In generale, ti piacciono i denti?» «Come?» «Era solo una domanda.» «Se mi piacciono i denti?» «Dimmi perché aveva il tuo numero nella borsetta.» Jake si strinse nelle spalle. Negli occhi non gli si leggeva alcuna emozione. «Meglio dire tutto» gli suggerì Charlie. Dopo un attimo di esitazione, il ragazzo abbassò le spalle e ammise: «Mi ha portato a cercare le zucche e c'è stato qualcosa». «Subito?» «Sì.» «Tu e la signora Pepper? Tu e l'insegnante di economia domestica?» «Sì. Sul serio.» «E siete andati fino in fondo?» «In fondo?» «Avete avuto rapporti completi?» «No, eravamo... no.» «Dunque, avete amoreggiato quando siete andati a cercare le zucche. L'hai più vista, da allora?»
«Due volte. L'abbiamo vista due volte.» «Chi?» «Non capisco.» «Hai parlato al plurale. "L'abbiamo vista due volte."» «Volevo dire "io". Io l'ho vista due volte.» «C'era qualcun altro con te?» Il ragazzo non rispose. Si limitò a guardarsi le scarpe, un paio di scarponcini con i lacci che pendevano sul terreno fangoso. «Jake?» «Mi pare di aver detto abbastanza.» «Vuoi venire con me alla stazione di polizia?» «Sono in arresto?» «Non ancora.» Il ragazzo non pareva sorpreso, né in collera o altro. Salì sul camioncino e avviò il motore. «Dov'eri ieri pomeriggio?» domandò Charlie, appoggiandosi al tettuccio e guardandolo attraverso il finestrino. Jake accese la radio. Trasmettevano un rap, e il ragazzo cominciò a dondolare con forza la testa al ritmo della musica. Probabilmente era quel movimento a mandargli in pappa il cervello. «Più avanti, può darsi che ti chieda di passare per chiarire le tue affermazioni» lo informò Charlie. Jake continuò a tambureggiare con le dita sul volante. «D'accordo?» «Sì, d'accordo.» «E sei disposto a collaborare?» «Ci penserò.» Batté la mano sulla portiera in segno di saluto. 8 Charlie concluse la mattinata con una conferenza stampa in cui parlò degli omicidi e cercò di rispondere come meglio poteva alle domande dei giornalisti. La notizia si diffuse come un incendio tra la comunità stupefatta; Charlie scommise che ci sarebbe stata una corsa ad acquistare serrature di sicurezza nel negozio di ferramenta e di munizioni all'armeria. A mezzogiorno, centinaia di curiosi si erano riuniti nell'area, l'istituto per lo studio delle calamità naturali era intento a registrare il percorso del tornado, mentre la squadra federale per la valutazione dei danni cercava di
stabilire l'intensità della tromba d'aria sulla scala Fujita. Nella frazione di Black Kettle era andata distrutta una quarantina di case, altre centocinquanta avevano subito ingenti danni e cinquecento persone erano ancora senza energia elettrica. La rovina era distribuita lungo una fascia di varie centinaia di ettari coltivati; laggiù il promettente verde dell'aprile aveva lasciato il posto al marrone del fango. All'obitorio, Charlie e Duff estrassero dai corpi il resto dei frammenti e li esaminarono con cura prima di mandarli al laboratorio dello Stato per ulteriori indagini. Nel complesso, i frammenti trasformati in armi erano otto. «Speriamo di trovare un'impronta almeno su uno» disse Duff. Dall'obitorio, Charlie raggiunse Shepherd Street, dove il frastuono del generatore gli giunse alle orecchie prima ancora che scendesse dall'auto. Si avviò verso il cortile posteriore dei Pepper, dove una parte del tetto giaceva a pezzi per terra e i pochi alberi rimasti in piedi erano pieni di detriti; i rami superiori erano completamente privi di foglie. Si tolse gli occhiali scuri ed entrò nella cucina. Mike Rosengard lo salutò. «Salve, capo.» «Mike, che cosa ci fai qui?» «Cerco tracce di guanti, innanzi tutto.» Si chinò sul lavandino e fissò con attenzione la cannella e i rubinetti, poi vi soffiò la polverina azzurra per rilevare le impronte. Mike aveva la fronte simile a granito lucido e folti capelli neri con una striscia prematuramente imbiancata, come se qualche preoccupazione sorgesse da un punto specifico del suo cervello. Come richiesto, indossava un completo ben stirato. «Chiunque sia stato conosceva le procedure che si seguono sulla scena di un delitto. Cazzo, odio queste cose.» «Inacidiscono anche me, che già sono scarsamente incline alla dolcezza.» «Ho sentito dei denti. Me l'ha detto Hunter.» «Ti ha detto dei frammenti, dei denti e di tutto il resto?» «Sì, l'intera storia.» Charlie sentì il fruscio malinconico del vento che soffiava attraverso le travi del tetto. «Lo so che mi hai detto di prendermi una settimana di vacanza, capo» riprese Mike «ma cosa vuoi, che stia a girarmi i pollici mentre qui tutto va a catafascio?» Undici anni prima, Mike si era trasferito laggiù da Boston, dove le cose si facevano in grande. Crimini veri, non spaccio di droga da pochi soldi,
furti con scasso e liti domestiche con i protagonisti che cambiavano versione ogni volta. Charlie spesso temeva che il suo miglior investigatore si stancasse di dover risolvere solo qualche caso di omicidio all'anno; ma ora sembrava che avessero sotto mano il tipo di delitto capace di soddisfare anche un poliziotto di Boston. «Dove vi siete sistemati, tu e Jill?» domandò Charlie. «Da mio cognato. Abbiamo dovuto accordarci sul parcheggio e sui turni per la doccia. Mi sembra di vivere in un dormitorio.» Si grattò la fronte lasciando nel centro una striscia di polvere azzurra, come un terzo occhio. «Questa notte ho cercato di tenere calmi i ragazzi, ma Sammy ha continuato a piangere. Comunque, non posso lamentarmi, capo. Abbiamo un tetto sulla testa e tre pasti caldi al giorno. Siamo contenti di essere vivi.» «Se posso fare qualcosa per voi» si offrì Charlie. «Qualunque cosa.» «Grazie, capo.» Abbassò le braccia e Charlie notò che le maniche della sua giacca grigia erano di qualche centimetro troppo corte. La cravatta era azzurra a pallini verdi. Mike sorrise. «Che posso farci? Più che prenderla con ironia...» «Posso prestarti qualche cravatta. Non credo che le giacche ti vadano bene.» «Le cravatte, sì» rispose Mike. «Questa è la più tradizionale che mio cognato possieda.» «Allora l'assassino aveva i guanti?» domandò Charlie. «Sì, e questo significa che il crimine è premeditato.» «Ferite multiple di punta; ha colpito con rabbia. Ed è un attacco personale.» «Pensi che conoscesse le vittime?» «Questo non possiamo ancora dirlo.» «La premeditazione, unita alla crudeltà dell'attacco, di solito indica che l'assassino conosceva le vittime.» «È possibile.» Charlie aprì il frigorifero e ne osservò l'interno: contenitori con avanzi indecifrabili, un piatto di polpette indurite, una fetta di torta al limone avvolta nella pellicola trasparente. Chiuse il frigo e solo allora notò le figurine magnetiche sullo sportello. Erano collocate in modo simmetrico, a parte lo spazio vuoto centrale, dove sembrava che ne mancasse una. Charlie archiviò l'informazione in un angolo del cervello. «Non appena riprenderai fiato» disse a Mike «devi telefonare ai tuoi amici del Servizio meteorologico nazionale e procurarci qualche fotografia del tornado di ieri.»
«Buona idea» disse Mike. «Tutti quei cacciatori di tornado con le loro telecamere digitali.» «Anche le TV locali. C'era un sacco di gente che cercava di riprendere la tromba d'aria. Può darsi che il colpevole sia su qualche filmato, solo che noi non lo sappiamo ancora.» Mike annuì. «Marca, modello e targa.» «Magari potremmo trovare qualche testimone.» Il sole si rifletteva sui vetri caduti sul davanzale. Il ramo dell'albero aveva strappato le tendine, con il loro semplice disegno di cavalli, e l'intonaco sopra il telaio della finestra si era scrostato. Il ripiano dell'acquaio era stato deformato da un'ondata di pioggia e fango. Charlie rivedeva Rob Pepper nel cortile, che potava gli alberi con le cesoie e la seghetta ad arco. Era un individuo tranquillo, gran lavoratore, le cui ambizioni non andavano oltre il confine dei suoi campi, mentre Jenna sembrava volere di più dalla vita e aveva sempre uno sguardo sfuggente. Charlie si domandò: "Rob sapeva che la moglie lo tradiva?". E con un ragazzo, per di più. Sui campi, un falco dalla coda rossa volteggiava nell'aria. «Da qui si arriva subito all'autostrada» commentò Charlie. «Dalla ferrovia all'autostrada, si passa davanti a cinque o sei fattorie, tutte lontane dalla carreggiata.» «Questo spiega perché nessuno ha notato niente di strano. Nessun veicolo sospetto. Nessuna attività anomala.» Fece un breve respiro. «Duff dice che non è per niente difficile fabbricare un coltello di legno. Mi ha spiegato come si fa.» «È l'arma del delitto? Un coltello di legno?» Un coltello, una lancia, una picca, un paletto... occorreva trovare un nuovo termine. «Abbiamo trovato otto frammenti volanti trasformati in arma. Colonnini di ringhiera, gambe di seggiole, assi delle staccionate, hai solo da chiedere. E sono stati fabbricati con grande abilità. Se non li avessimo esaminati attentamente, non ce ne saremmo accorti.» «Sì, ma si può trafiggere un corpo umano con una lama di legno?» «Duff pensa che le vittime fossero prive di conoscenza, quando le ha colpite. Questo avrebbe reso le cose più facili. Basta evitare le ossa e continuare a colpire finché il coltello non entra.» Mike posò il pennellino per le impronte. «Con che razza di mente malata abbiamo a che fare?» Charlie si portò le dita alle tempie. «Le radiografie hanno rivelato traumi da oggetto contundente. Fratture, lacerazioni, graffi. Pensiamo che prima
abbia stordito le vittime con un colpo alla testa, ma sono state le pugnalate a ucciderle. Jenna è morta per soffocamento, gli altri dissanguati.» Mike lo guardò meravigliato. «Che cosa può avere usato per tramortirle? Un'asse, una mazza da baseball?» «In alcune delle ferite provocate nel tentativo di difendersi Duff ha trovato frammenti di legno con il bordo irregolare.» «Schegge?» «Forse provenienti da un ramo.» Mike aggrottò la fronte. «Un ramo con un grosso nodo a una delle estremità può servire da mazza. Il nodo serve per avere un impatto maggiore.» Charlie annuì. «Potrebbe essere ancora qui.» «Ti rendi conto di che cosa significa?» domandò Mike, fissandolo. «Significa che ha portato con sé le armi; significa che sapeva che una tromba d'aria sarebbe scesa dal cielo, ieri pomeriggio. In qualche modo lo sapeva, maledizione.» «Setacciamo di nuovo l'area. Cerchiamo un ramo con macchie di sangue o tracce di materia cerebrale.» Charlie riusciva a malapena a capire il significato delle ultime parole. Sbuffò, come se avesse trattenuto il respiro. «Dov'è Lester?» «Di sopra. Passa l'aspirapolvere per cercare capelli e fibre di tessuto.» «Hunter lo tiene d'occhio? Questa volta non voglio che gli sfugga un solo capello o un solo filo.» «Sì, capo, gli è stato dietro tutta la mattina.» Charlie si avviò verso la scala. Lester era piuttosto approssimativo quando si trattava di raccogliere le prove, e, come Charlie sapeva, non era per niente contento del fatto che il suo capo non riponesse molta fiducia in lui; ma le cose stavano in quel modo, quando si era un pigro bastardo con un glorioso passato da eroe del football. La tensione fra loro era cresciuta negli ultimi tempi, a partire dalla promozione di Lester l'anno prima. Mike era il principale candidato per il posto di vice, ma a quel punto, come c'era da aspettarsi, la politica ci aveva infilato lo zampino. Charlie voleva promuovere Mike, il sindaco Whitmore voleva Lester, che era un suo parente, e l'aveva avuta vinta. A Charlie non piacevano quelle imposizioni e adesso ciascuno dei due era irritato con l'altro. Al piano di sopra, le assi del pavimento cigolavano per la vecchiaia. Lester era nella camera di Danielle, una stanza con le pareti dipinte di chiaro e le finestre che davano sull'esterno. Nelle giornate di sole era probabil-
mente il punto più allegro della casa. Lester era disteso sul letto, con la schiena rivolta alla porta. «Lester?» L'uomo si alzò, con in mano il piccolo aspirapolvere a batteria. Aveva gli occhi rossi, come se negli ultimi tempi avesse dormito male. «Salve» disse. «Gesù, Lester, posso contare su di te?» L'uomo aggrottò la fronte. «Certo, capo.» «Fa' quello che ti dice Hunter, d'accordo?» Lester lo guardò con aria offesa. «Perché non dovrei farlo?» Il letto sfatto era coperto di animali di peluche, quelli economici fabbricati a Taiwan. Charlie studiò la collezione di bambole di porcellana che, con i loro occhi severi, parevano voler dare un giudizio su di lui. Sulla scrivania in disordine c'era un cubo di plexiglas con varie foto di Danielle al campo estivo della chiesa locale. Aveva una maglietta con la scritta GESÙ TI AMA e socchiudeva gli occhi con un sorriso privo di preoccupazioni. Sul tavolino c'era una pila di musicassette, tutte di rock and roll. Nel vederla, Charlie si sentì mancare il fiato. Qualcuno era stato nella stanza, recentemente. Ne era certo. Un estraneo era entrato e aveva messo in ordine le musicassette. Era un'idea folle, ma Charlie non riuscì a liberarsene. La pila era troppo precisa per essere opera di una ragazzina. «Hai toccato queste cassette, Lester?» «Nossignore.» «Ne sei certo?» Lester accolse con un sorriso la velata ammonizione. «No, capo. Perché?» «Passa molto attentamente l'aspirapolvere per cercare capelli e fibre. E non toccare le cassette. Di' a Mike di cercarvi le impronte. Chiaro?» Lester aggrottò la fronte. «Perché non ti fidi di me, capo?» Nel silenzio che fece seguito a quelle parole si udì il ronzio del generatore in cortile. «Da dove veniva il sangue?» gli domandò Charlie. «Che sangue?» «Il sangue che avevi sulle mani ieri. Quando sono arrivato, avevi fango sui vestiti e sangue sulle mani.» «Devo avere toccato il corpo... la ragazza, Danielle.» Si strinse nelle spalle. «Lo so che non dovrei toccare nulla, ma dovevo assicurarmi che fosse morta, capo. Può darsi che abbia toccato il materasso.»
Charlie annuì lentamente. «Va bene, ho sbagliato» continuò Lester. «So che non bisogna toccare nulla, ma al momento non sapevo se fossero morti.» «Ma lo sapevi quando sono arrivato io.» «Come?» «Quando sono entrato nella camera da letto ho visto nell'angolo il corpo di Danielle, ma non quello di Rob. Il suo corpo è caduto dal tetto mentre ero lì nella stanza.» «Io l'avevo visto, capo. Il soffitto non c'era più e io guardavo con la torcia verso il tetto quando ho visto un corpo in mezzo alle travi. E ho anche visto Jenna, su quell'albero.» Assunse un'aria dura, come se non avesse mai riso una volta in vita sua. «Gesù, una cosa orribile.» «Ma perché eri qui, ieri pomeriggio?» domandò Charlie. «Non era il tuo giorno di riposo?» «Ero andato a caccia di tornado» spiegò Lester, in tono difensivo. Aveva l'aria esausta. «Viaggiavo verso nord sull'interstatale quando sopra di me ho visto le nubi di tempesta. Mi ricordo che a un certo punto mi sono detto: "Ehi, guarda quante foglie che volano". Ma non erano foglie, erano pneumatici, rami e altra roba. Poi ho visto un'auto che faceva le capriole su un campo e ho pensato: "Maledizione. È finita. È così che morirò". Credo di essere fuggito a duecento all'ora. Ho preso l'uscita per Shepherd Street e sono arrivato qui.» «Sei tornato indietro e sei venuto qui?» «Ho preso a est, sulla 412. Ho imboccato l'uscita per Shepherd Street e ho visto questo macello. Mi sono fermato e ho pensato di dare una mano. Credevo di poter...» Scosse la testa. I suoi occhi erano pieni di rimpianto, ma anche di qualcos'altro che Charlie non riuscì a identificare. «Tu conoscevi i Pepper, vero?» Lester annuì seccamente. «Ho sentito di Jake Wheaton» aggiunse. «Vorrei partecipare all'interrogatorio.» «Ce ne occuperemo io e Mike.» «Mi piacerebbe esserci» insistette Lester. «Vedremo.» Charlie gli diede una pacca sulla spalla, e per il momento rinunciò a fargli altre domande. «Cerca di trovarmi qualche buon indizio.» «Dove vai, capo?» «A parlare con un esperto di venti.» 9
Il reparto che si occupava di studi eolici era ospitato nei sotterranei del laboratorio di scienze ambientali del Dryden Technical College di Montoya, Oklahoma. Charlie entrò nell'ingresso dipinto di giallo e salì su un montacarichi che lo portò due piani più in basso, poi imboccò il corridoio che conduceva alla sezione test: il serbatoio dell'acqua, la camera di lancio degli oggetti volanti, le gallerie del vento. Laggiù l'aria era fredda e secca, e dalle pareti giungeva il ronzio di numerosi generatori. «Attento allo scalino» lo avvertì Rick Kripner, mentre entravano insieme nella galleria del vento. Poco più che trentenne, Rick aveva un'espressione inguaribilmente distratta e quel tipo di andatura rigida che suggeriva un'educazione severa. Come tutti i maniaci della scienza collezionava penne come un cane colleziona pulci. Si erano già visti due volte in passato e Rick si era sempre comportato in modo molto amichevole, dandogli tutte le spiegazioni richieste, ma non era lui la persona che Charlie cercava. «Willa sarà qui tra poco» disse Rick. «Dieci minuti al massimo. Stiamo facendo una prova.» Parlava a bassa voce e intanto si tastava le tasche del camice, come se avesse perso qualcosa. «Da questa parte, capo.» Passarono per uno stretto corridoio pieno di tubi e di cavi elettrici che portava verso il fondo del reparto, dove si scorgeva una galleria del vento, di metallo, posata su appoggi di sei metri. In quella sala il soffitto era alto venti metri. Charlie vide altri due corridoi che portavano all'interno del reparto, grande come un magazzino - quel luogo era davvero enorme -, mentre seguiva Rick fino a una sala di metallo dipinta di bianco e a una cabina di controllo delimitata da ampie vetrate. Rick si sedette dietro il quadro di comando e cominciò a regolare alcune manopole. «Ti spiace chiudere la porta?» Charlie eseguì e il ronzio scomparve immediatamente. Si accomodò su una delle gelide sedie pieghevoli di metallo e si guardò intorno. La galleria del vento aveva finestre d'osservazione lungo tutti i lati, e da una di esse si vedeva Willa Bellman. Era ferma nella sezione test, accanto a un modellino di grattacielo. Sotto il camice obbligatorio, lasciato aperto, indossava una maglietta bianca attillata, calzoni con cerniere lampo sulle tasche e sul fondo, e ballerine nere. Un abbigliamento inconsueto; a Charlie piaceva il suo gusto inconsueto. «Indovina chi è venuto a trovarci?» disse Rick. «Vi raggiungo subito» rispose Willa senza alzare la testa. Soltanto in quel momento Charlie si accorse che l'interfono era aperto.
«Nessuna fretta» le disse Charlie. Sentì l'eco delle proprie parole, riflesse dalla parete di cemento. Sottile, graziosa, trent'anni compiuti da poco, con la pelle simile a porcellana e gli occhi azzurri pieni di curiosità, Willa aveva i capelli neri e ricci e una struttura ossea così elegante da ricordare a Charlie certe rare razze di gatti. Sei mesi prima avevano passato un intero pomeriggio insieme nel laboratorio sperimentale, per discutere delle procedure di emergenza in caso di tornado. Il laboratorio sperimentale era una torre meteorologica alta cinquanta metri con una sala per la raccolta dei dati, dove avevano lavorato così vicini che Charlie ricordava ancora i profumi di Willa. Lo shampoo alla fragola, le caramelle alla menta che succhiava, la canfora del pullover, così rigido che probabilmente poteva stare in piedi da solo. «Stamattina ti ho visto alla TV» disse Rick. Charlie annuì, ma non cambiò espressione. «Quelle persone sono state assassinate?» «Non posso rivelare i particolari.» «Certo. Lo so.» Appoggiò la schiena alla spalliera della sedia. «Non so come fai, capo, a stare sempre in mezzo ai morti. Io svengo solo a vedere qualcuno che perde sangue dal naso.» Charlie si strinse nelle spalle. «Fa parte del lavoro.» «Anche questo fa parte del lavoro? La tua visita di oggi?» Rick si sporse in avanti. «Sarei lieto di aiutarti. Se vuoi sapere qualcosa sui tornado, sono il tuo uomo.» Charlie era abituato ai cittadini zelanti che volevano aiutare. Diede un'occhiata all'orologio da polso e disse: «Allora, parlami di queste gallerie del vento». Rick annuì. «Quella che abbiamo davanti a noi è un bel macchinario. Il flusso dell'aria è creato da un'elica di B-39 collocata all'interno della sezione motore. La velocità del vento arriva a quasi duecento chilometri l'ora, e possiamo simulare ogni sorta di anomalie atmosferiche, inversioni termiche, stratificazioni dell'aria e così via.» All'interno della galleria, Willa cercava di scuotere il modellino e imprecava. «Vaffanculo!» «Calma» le disse Rick. «Ricordati che non siamo soli.» «Come rispondono quei misuratori di pressione?» domandò Willa. L'uomo digitò un comando sul computer. «La risposta è che non rispondono.» «Proprio niente?»
«Nada. Zero.» «Dio mi salvi» mormorò Willa. Charlie sorrise nonostante il senso di colpa che cominciava a provare. Sei mesi. Perché non aveva telefonato? «Quei rilevatori non mi piacciono» diceva Willa. Regolò qualcosa sulla facciata del modellino, poi sbuffò. «Allora, cosa facciamo, Rick?» «Non lo so. Chiediamo a Gordo di metterli a posto?» «Sono stufa di aspettare che Gordo metta a posto le cose! Ci sono almeno cento rilevatori fuori uso. Volevo che questa simulazione fosse la più precisa possibile.» Sollevò il modello e gli diede una scossa. «Fa' attenzione. Rischi di cavarti un occhio.» Willa posò il modellino e, sfilatasi le scarpe, attraversò la stanza. «È tutto maledettamente inutile.» «Calma, calma.» Rick spense l'interfono e tornò ad appoggiarsi alla spalliera. «È una perfezionista. I suoi dati sono corretti, ma questo contrattempo rallenta l'intero processo. La cosa non avrebbe importanza, ma abbiamo poco tempo. Sento già il commento di Jacobs: "Cosa significa non ha completato il test?» Si frugò di nuovo in tasca. «Chiavi, dove siete finite?» «Jacobs?» chiese Charlie, mentre Willa usciva dalla galleria del vento e scendeva lungo la scaletta. Aveva lasciato le scarpe all'interno. «Sì, il professor Jacobs. Il tizio che dirige la baracca.» Willa entrò di corsa nella sala di controllo. Aveva gli occhi attenti, le guance arrossate. «Oh, ciao» disse. «Salve, capo.» Gli diede la mano. «È un sacco di tempo che non ci si vede.» «Charlie, non "capo"» la corresse lui. «Okay, Charlie. Ah, il mio amico Charlie, il poliziotto.» Gli rivolse un largo sorriso, poi gettò sul tavolo della console una cartella di cuoio. «Ti va di farmi un favore, Rick?» disse, estraendo un mucchio di cartelline. «Puoi completare per me queste statistiche sull'impatto degi oggetti volanti? Sono talmente in ritardo che la cosa ha perso tutto il suo fascino.» Mike si appoggiò alla spalliera della sedia. «Solo se mi sostituisci venerdì.» «Va bene.» «Affare fatto?» «Venerdì.» Rick prese le cartelline, una notevole mole di materiale, e se le infilò sotto il braccio. «Statistiche d'impatto?» domandò Charlie.
«Una nuova linea di prodotti che stiamo provando» spiegò Willa. «C'è un mucchio di gente che viene da noi per avere la certificazione dei rifugi antitornado non sotterranei e delle stanze sicure. Questi qui si chiamano Schott, Industrie Schott.» «Industrie Spot, direi» mormorò Rick. «Proprio così. Sei in vena, oggi.» Rise, poi rivolse a Charlie un'occhiata che gli fece mancare il fiato. «Parlo sul serio, queste ditte si fanno pubblicità, ma i loro prodotti non dovrebbero mai arrivare sul mercato, Charlie. Promettono di proteggere i loro clienti da ogni tipo di rischio portato dal vento, ma ti giuro che se un topo ci scoreggia contro, puf, crolla tutto.» «Com'è deliziosamente femminile, vero?» disse Rick con orgoglio. «Noi siamo l'ultima linea di difesa del consumatore.» «Ecco dov'eravate, traditrici» disse Rick, raccogliendo le chiavi dalla console. «Davanti ai miei occhi.» «Dove vai?» gli domandò Willa. «Nel mio ufficio, nel caso la notizia interessi a qualcuno, a mangiare il mio sandwich, sepolto sotto un mucchio di scartoffie.» «Piantala di rompere le balle» ribatté lei. «Hai il venerdì libero. A proposito, prima che me ne dimentichi. Mi servono per le cinque, ce la fai?» «Può darsi.» Si rivolse a Charlie. «Piacere di averti rivisto, capo.» «Il piacere è mio, Rick.» Rick si allontanò dalla sala di controllo, e Charlie e Willa si ritrovarono soli. Tra loro ci fu un attimo di imbarazzo; lei lo superò con disinvoltura, lui non sapeva dove mettere le mani. Le infilò in tasca, poi inclinò la sedia all'indietro fino a farla battere contro la parete. «Vuoi una coca?» Willa si aggiustò i capelli in una crocchia; qualche ciuffo le rimase sulle orecchie: orecchie curve e perlacee come l'interno di una conchiglia. «È il nostro tonico contro il sonno.» «Sì, grazie.» Willa aprì il minifrigo, prese due lattine e, dopo aver staccato la linguetta, ne porse una a Charlie. Per un attimo le loro dita si sfiorarono e lui si accorse che aveva gli occhi grigi, non azzurri. Grigi come il crepuscolo, senza macchie. Una persona rischiava di perdersi in quegli occhi immersi nel crepuscolo. «Ieri c'ero anch'io» disse Willa. «A Promise.» Quelle parole riportarono Charlie alla realtà. «Inseguivo una tempesta su a nord, quando mi sono fermata a fare benzina e sono riuscita a malapena ad aprire la portiera, tanto era forte il ven-
to.» Rabbrividì e si strinse il camice al collo. «Da quel soffio gelato ho capito che ero a nord del fronte freddo e che dovevo spostarmi a sud fino a sentire sulla faccia il forte vento meridionale. Per vederlo scontrarsi con il fronte freddo. Sono arrivata appena in tempo. Aveva il classico aspetto a spirale da insegna del barbiere. Direi che fosse un F3. Almeno per quanto riguarda i danni.» «Sì, sono stati gravissimi.» «Abbiamo sentito la notizia degli omicidi. Devi aver avuto una giornata terribile.» Fece una pausa. «Come sta tua figlia?» «Bene, grazie» rispose Charlie. Allora si ricordava i particolari dalla conversazione di sei mesi prima? La cosa era promettente. «Mia madre è morta quando avevo dodici anni» commentò Willa. «Può essere duro, per una ragazza.» «Sophie se la cava bene.» «Da' retta a me, Charlie. Non è così.» A parte gli occhi, la sua faccia era immobile. «Dunque che cosa ti porta qui, stamattina?» «Avrei alcune domande da porti.» Lei aggrottò la fronte e appoggiò la schiena alla seggiola. «Spara.» «Devo sapere se un cacciatore di tornado può stabilire, e con quale precisione, il punto in cui uno colpirà.» Lei aggrottò di nuovo la fronte. «Se potessimo prevedere esattamente dove un tornado sta per colpire, metà del divertimento svanirebbe. Per questo ci chiamano "cacciatori", Charlie. Ci piace l'azione. Ci piace l'azzardo.» «Allora tirate a indovinare?» Lei sollevò la testa per bere. «La meteorologia è una scienza imperfetta, però madre natura ci fornisce qualche suggerimento. Per esempio, più una tempesta è organizzata, più è probabile che sia forte. E dato che i tornado si accompagnano spesso alle tempeste più violente, per prima cosa cerchi quelle. Cerchi una tempesta organizzata.» «E in pratica cosa si deve fare?» Lei sorrise. «Ti alzi presto e ascolti il bollettino meteorologico.» «Tutto qui?» «No.» Willa sorrise di nuovo. «Poi devi collegarti in rete e controllare i modelli al computer. Studi le mappe delle analisi per vedere come si sono organizzati gli schemi di perturbazione dell'atmosfera. Quindi guardi ancora le immagini dal satellite, quelle radar e ti fai la tua previsione.» «In che modo, esattamente?»
Willa appoggiò i gomiti sui braccioli della sedia e lasciò pendere le mani, con le dita curve sotto il palmo. Zampe di un felino. Era rilassata come una gatta, vicino a lui. «Va bene, torniamo ai concetti basilari» disse la donna. «Per creare un tornado ti occorrono tre cose, Charlie. Sufficiente umidità, dinamiche che sollevino l'aria e correnti a getto per creare la rotazione. Oggi qualunque bar per camionisti ha una postazione a cui puoi collegare il portatile e scaricare tutte le informazioni meteorologiche che ti occorrono. Chiunque può mettersi in rete e controllare gli schemi dell'aria a livello del suolo e ad alta quota, ma devi avere una certa conoscenza degli eventi climatici per cavarne un senso. Perciò, prima passi in rassegna i dati, poi studi il cielo con i tuoi occhi prima che inizi la caccia.» «Va bene. Diciamo che ho le mie previsioni. A questo punto, cosa faccio, esattamente?» «A questo punto ti porti sotto una forte tempesta e aspetti.» «Aspetto e basta?» «Rimani laggiù e osservi.» «E poi? Che cosa cerco, esattamente?» Lei rise. «Tu dici un mucchio di "esattamente".» «Davvero?» «Sì.» Charlie sorrise. Anche lei sorrise. «Pareti di nubi, torri, incudini. Devi cercare l'instabilità, il movimento, la rotazione. A volte il cielo è talmente coperto che non riesci a vederti neppure la mano davanti alla faccia. Altre volte ci sono così tanti gruppi nuvolosi in cielo che è quasi impossibile decidere dove andare, una direzione vale l'altra. Ma se hai la fortuna di individuare qualcosa di interessante, allora puoi stabilire una traiettoria d'intercettazione.» «Sì, come dice sempre il capitano Kirk.» Willa rise. «Ti ho confuso le idee?» «Un poco.» «Non sai nulla di queste cose, vero?» Charlie si strinse nelle spalle. «Una volta mio padre mi portò a dare la caccia ai tornado. Fu un disastro.» «Un disastro?» «Un fiasco assoluto.» «Cosa successe?» «Ci cacciammo in un vicolo cieco. Acqua, tuoni, grandine. Avevamo poca benzina e si stava avvicinando una tempesta violentissima.»
Willa sorrise. «Dev'essere stato divertente.» «Sì, come una stanza piena di scimmie.» «Che veicolo usa?» «Un pickup Loadmaster del 1951, grigio.» Gli occhi di Willa si illuminarono. «Porta un cappello da cowboy e ha i capelli bianchi? Uno di quei tipi tosti che fanno a meno della tecnologia e si fidano solo dell'istinto?» «Lo conosci?» «L'ho visto in giro.» Sorrise e si morse il labbro inferiore. «Ammiro i vecchi coriacei come lui. Alcuni dei migliori cacciatori che conosco lasciano perdere tutti gli ammennicoli e seguono il proprio naso.» «E tu?» «Io? No. A me piacciono gli ammennicoli.» I suoi occhi parevano lanciare scintille. Per un momento Charlie ebbe paura di lei. «Come sei entrata in questa attività?» le domandò. Sentiva che le mani gli sudavano. «Sono cresciuta nel Texas. Terra rossa, tempeste di sabbia... quel genere di roba. Non c'era granché da fare nella mia piccola cittadina. La chiesa, i film pomeridiani e la caccia agli uragani.» «Perciò sei stata colpita presto dal vizio?» «Lo ammetto. Sono adrenalina-dipendente.» «E vai spesso a caccia?» «Tutte le volte che posso.» Continuò a sorridergli con calore. «Fondamentalmente, non ci sono regole fisse. Dare la caccia ai tornado è una forma d'arte.» Charlie fece girare la coca all'interno della lattina; non voleva ancora andare via. Desiderava invitarla a uscire, ma era un po' nervoso. Alcune persone trovavano repellenti le sue cicatrici. Glielo leggeva negli occhi. E non voleva farle questo effetto. Alla stazione di polizia di tanto in tanto si arrotolava le maniche e usava le cicatrici per intimidire i furfantelli di strada, per minare la loro spavalderia; ma con le donne non si poteva mai dire. Dopo la morte di Maddie aveva avuto qualche breve relazione con segretarie o commesse incontrate in qualche bar: il nervoso armeggiare con i bottoni, l'alito che sapeva di liquore... ogni volta non aveva visto l'ora di andarsene. Si vergognava di non averle mai più richiamate, neppure per un atto di cortesia, ma non voleva fare la figura del cascamorto. «Perciò, in tutta la tua vita, sei stato solo una volta a dare la caccia ai tornado?» domandò lei sollevando le sopracciglia.
«Non lo giudico un difetto.» Willa arrossì. «Ti piacerebbe, Charlie. Non scherzo. È talmente emozionante quando il cielo cambia da così a così e all'improvviso la strada ti sembra tanto piccola; insegui la coda del drago, centoventi chilometri l'ora... la grandine rimbalza sulla strada, i fulmini si rincorrono lungo la nube a parete...» «Mi sembra una cosa terribile.» «Lo è.» Willa lanciò un'occhiata all'orologio. «Ti faccio perdere tempo?» domandò Charlie. «Sì, e in un modo molto piacevole.» La stanza pareva attraversata da una corrente elettrica, ma Charlie era abilissimo nel non cogliere mai l'occasione. «Un'altra cosa» disse. «Conosci qualcuno che è davvero bravo a trovare i tornado? Voglio dire, eccezionalmente bravo.» Willa bevve un sorso di coca e si asciugò le labbra con il dorso della mano. «Non conosco nessuno che sia capace di prevedere in modo affidabile quando e dove un tornado colpirà.» Si guardarono per un attimo, Willa aveva un'espressione incuriosita e Charlie provò un senso di piacere. Si alzò e posò sulla sedia la lattina vuota. «Bene. Grazie dell'aiuto.» «Solo grazie? Non merito altro?» Gli rivolse uno strano sorriso. «Come siamo diventati ufficiali tutt'a un tratto. Ascolta, Charlie, mi piacerebbe portarti a caccia, uno di questi giorni. Farti vedere i trucchi. Così potresti capire da te quanto un tornado sia imprevedibile.» «Fa' attenzione, potrei prenderti sul serio.» «Sai dove trovarmi, giusto?» Charlie sentiva che una corrente di emozioni passava tra loro, e la cosa lo allarmava. Era un momento di disagio, ma stranamente piacevole. L'ultima occasione in cui si era sentito così era con Maddie. La prima volta che avevano fatto l'amore, lei aveva insistito nei suoi tentativi di spogliarlo, ma lui le aveva sempre allontanato le mani. Si era tolto le scarpe, solo quelle, poi si era sdraiato sul letto, tutto vestito, e si era appoggiato a lei con la paura che lo vedesse. Aveva le mani chiuse a pugno, e lei gliele aveva aperte baciandogli i palmi sudati. Gli aveva preso il dito medio in bocca e lo aveva succhiato a lungo, dolcemente. Alla fine Charlie si era lasciato spogliare e le aveva permesso di prendere l'iniziativa mentre si sentiva la pelle bruciare. Maddie aveva passato le mani, leggere come piume, sulle sue cicatrici. "Sono come una cartina... una cartina viva e amabile." Con stupore,
Charlie le aveva poi lasciato esplorare tutto il suo corpo, e alla fine il timore se n'era andato e la passione aveva prevalso. Ora, mentre si dirigeva alla porta, Willa lo fermò. «Charlie?» Lui notò come le unghie delle sue mani fossero dipinte dello stesso colore azzurro di quelle dei piedi, visibili sotto i collant chiari. «Questa mattina, quando ho sentito parlare degli omicidi, mi è tornato in mente qualcosa.» Charlie attese. «Ricordi quell'F3 dello scorso anno, nel Texas?» Charlie scosse la testa. «Un mucchio di persone erano intrappolate nelle macerie e i soccorsi non arrivavano abbastanza in fretta; alcuni di noi hanno formato una squadra di salvataggio. E poi c'era quella casa. Era costruita in modo convenzionale, né fasce d'ancoraggio né viti. Ci pensi? Una casa del genere nel Tornado Alley? A fissarla alle fondamenta c'erano solo alcuni chiodi.» Scosse la testa, incollerita. «È crollata su se stessa.» «La casa era sul percorso del tornado?» Willa annuì. «Non ricordo come si chiamassero. Una coppia giovane. Una cosa molto triste. Comunque, siamo andati a cercare i superstiti. Le vittime erano state trafitte da oggetti volanti. Una scena orrenda. L'uomo era morto, ma la donna era ancora parzialmente cosciente.» Charlie annuì. «Va' avanti.» «La donna è morta cinque ore più tardi. Non ce l'ha fatta.» Willa s'interruppe per riflettere. «Ma mentre la portavo all'ospedale, ha detto alcune frasi prive di senso. Frasi che davvero mi hanno turbata.» «Che frasi?» «"Ti supplico, non uccidermi." Frasi del genere. Sembrava terrorizzata. "C'è qualcuno nella casa... Oh, no... Ti supplico, non farmi del male." Continuava a ripeterle. Io ho pensato che delirasse o che avesse le allucinazioni, ma adesso credo che potesse esserci qualcos'altro.» Charlie socchiuse gli occhi davanti a quella possibilità. «Dove hai detto che era, quel posto?» 10 Quel pomeriggio lasciò il paese del grano e dei girasoli per attraversare la frontiera con il Texas, dove la maggior parte delle stradine di terra battuta che correvano nella prateria terminavano nei pressi di pozzi di petrolio che producevano pochi, ma preziosi, barili al giorno. Vedeva il movimento
delle pompe, simili a grandi uccelli che alzavano e abbassavano la testa, nelle lontane alture di roccia silicea, dove l'erba cresceva selvatica senza avere mai conosciuto una falce. Una lepre passò di corsa davanti all'auto e sparì oltre il ciglio della strada; con un tuffo al cuore, Charlie serrò le mani sul volante. Imboccò lo svincolo per Wink, dove mulinelli di polvere correvano sui campi pieni di stoppie e le case abbandonate erano coperte di graffiti: "Ti amo Dorothy" e "Bill è stato qui". Il tornado dell'anno precedente aveva tracciato una scia di venti chilometri, irregolare ma distruttiva, attraverso le contee di Parson e di Cribbs, lasciando dietro di sé appezzamenti vuoti e file di pali di legno quasi scarnificati dalla furia del vento. Il centro di Wink era costituito da un gruppo di edifici a un solo piano, sotto un basso cielo grigio. Fin dalla prima occhiata si vedeva che la città non s'era ancora ripresa. La Main Street era ampia e invitante, con insegne e annunci appesi alle vetrine che lasciavano supporre ipotetiche resse. FERMATEVI A GUARDARE! IMPOSSIBILE TROVARE PREZZI PIÙ BASSI! Seguendo le indicazioni, Charlie oltrepassò l'unica banca della città e si avviò lungo una solitaria strada di campagna, dove alcuni cani cominciarono a rincorrere l'auto, con la lingua penzoloni. Dopo qualche altro chilometro, entrò in un parcheggio per roulotte dove lo sceriffo aveva fissato la sua sede provvisoria dal momento che il tornado aveva fatto volare via il tetto del municipio. Il Mirador Motor-In disponeva di allacciamento elettrico per i camper, di toilette centralizzate e di una tavola calda con dieci posti. Specialità del giorno, torta di patate dolci. Il termometro della Pepsi sopra l'entrata indicava la gradevole temperatura di ventotto gradi. Charlie trovò senza difficoltà la roulotte che cercava, una Bluebird Wanderlodge color argento e azzurro, con la parte posteriore butterata dalla grandine. Lo sceriffo Jimmy L'Amoureux lo salutò sulla soglia. Era uno di quegli indiani d'America dall'aspetto rude e dai capelli folti, lunghi fino alla vita, che ti fanno venire l'invidia. Guardando lungo i campi pieni di polvere da cui veniva Charlie, L'Amoureux commentò: «Una volta si vedeva la mia casa, da qui. Poi madre natura è passata con il suo bulldozer». Si strinsero la mano. Con il suo metro e novanta, Charlie era sempre il più alto di tutti, ma L'Amoureux lo batteva di almeno un paio di dita. Abbassarono la testa ed entrarono. «Stavo facendo un lavoro, ma qualche minuto ce l'ho» disse L'Amoureux, senza troppo calore. «Grazie.» Charlie si tolse il cappello e lo seguì all'interno della roulotte, ingombra di mobili per ufficio e rivestita di legno chiaro. In fondo c'era
uno spazio per la cucina, dall'aria abbastanza attrezzata, con una pila di piatti sporchi nell'acquaio di acciaio. Qualcuno, con il dito, aveva scritto "Lavami" su una delle finestre. «Prendi una sedia» gli disse L'Amoureux, appoggiando gli stivali da cowboy su una scrivania occupata da cartelline di vecchi casi e da scatole di munizioni. «Vedo che la città si sta riprendendo» commentò Charlie senza grande entusiasmo, e lo sceriffo lo guardò con aria interrogativa. «Perché, per te è progresso se un cannibale usa il tovagliolo?» domandò, con un forte accento texano. Charlie aggrottò la fronte. Non s'aspettava tanto sarcasmo. L'Amoureux incrociò le braccia sul petto. «Senti, lo so cosa pensi. La città si rimetterà, tornerà meglio di prima. È quello che hai pensato, vero?» Con riluttanza, Charlie gli rivolse un cenno di assenso. «Lo scorso anno, i negozianti spazzavano via i cocci di vetro, era tutto a pezzi. La montagna di macerie ci arrivava alla vita. Le case erano scoperchiate e i negozi distrutti. E anch'io pensavo: "Ce la caveremo, torneremo meglio di prima". Tutto quel bla-bla-bla.» Si strinse nelle spalle, con indifferenza. «Aspetta a parlare.» «Va così male?» L'Amoureux gli rivolse un sorriso storto e continuò con gli occhi socchiusi. «Quando scopri che la fabbrica non verrà più ricostruita, la cosa ti rovina un po' la giornata. Ci lavoravano settantacinque persone. Quattro altre ditte hanno rinunciato alle loro filiali. Insomma, ci stiamo rimettendo proprio bene» concluse in tono amaro. Charlie drizzò la schiena. «Ascolta, mi trovo nei guai fino al collo, sceriffo. Vengo qui con spirito amichevole, sperando in un po' di coUaborazione, e trovo soltanto uno che mi tiene una lezioncina.» L'Amoureux puntò di scatto lo sguardo su Charlie. «Allora, di che si tratta? A cosa devo il piacere della tua visita?» Charlie si schiarì la voce. «Mi interessa tutto quello che puoi dirmi sulla coppia che è morta lo scorso anno.» «I Keel?» L'Amoureux si umettò le labbra. «Audra era una casalinga. Una donna graziosa. Era nel giro di quelli che vanno a salvare le balene e in tutte quelle altre cause da hippy. Matt faceva il rappresentante di commercio. Aveva sempre le tasche piene di cellulari e di cercapersone che squillavano e ronzavano. Era anche un fotografo dilettante e sembrava un ballerino professionista. Sempre tutto azzimato.»
«A quanto ne so, la loro casa è crollata.» «Sì.» «E lei era ancora viva quando l'hanno estratta dalle macerie.» «Esatto.» «E ha detto alcune frasi.» L'Amoureux lo guardò di traverso. «Dove diavolo vuoi arrivare, capo?» Charlie capì di dover perorare la propria causa, se voleva un po' di collaborazione. «Ascolta» disse, sporgendosi verso di lui. «Avrai sentito del nostro triplice omicidio, giusto?» L'Amoureux gli rivolse un impercettibile cenno affermativo. «È successo più o meno quando il tornado ci ha colpito. Una famiglia è stata uccisa a sangue freddo, in modo rituale. Sono stati colpiti con armi fatte di legno, ma sembravano oggetti trascinati dal vento.» «Allora sei venuto in amicizia a dirmi che anche i Keel sonò stati uccisi?» «Sono qui per saperlo.» L'Amoureux sbuffò in tono d'irrisione e scosse la testa. I lunghi capelli grigi si mossero lungo la sua schiena come argento vivo. «Ne sei sicuro? Perché, lascia che ti dica una cosa, nessuno può commettere un omicidio nascondendosi dietro un F3. Fine. I tornado sono imprevedibili. Sono indiscriminati e pericolosi. Pensa a noi, Grover. Abbiamo distintivi e fucili, ma quando si tratta di un tornado non possiamo farci niente. La gente muore, le costruzioni crollano. Succedono casini di ogni sorta. Nel tempo impiegato dal tornado a combinare tutto questo casino, la lancetta dei secondi non ha fatto neppure un giro.» Indicò vagamente con la testa l'esterno della roulotte e fece una smorfia. «Chi ha ucciso i Pepper sapeva che stava per scatenarsi una forte tempesta. E con il progredire della tempesta è riuscito a migliorare la sua previsione.» L'Amoureux roteò gli occhi, disperato. Charlie continuò: «Abbiamo trovato tracce di guanti di gomma e armi fabbricate a mano sulla scena del delitto, e questo significa che era premeditato. È stato preparato ed eseguito così bene da farmi sospettare che non fosse la prima volta. Perciò vorrei sapere che cosa ha dichiarato Audra Keel prima di morire». L'Amoureux incrociò le sue grosse mani. «Qualunque cosa abbia detto quel giorno, non aveva molto senso.» «E che cosa disse?»
«Balbettii.» Charlie aprì la cartellina che aveva portato con sé. «I referti di queste autopsie sono stati secretati dal giudice. Alcuni particolari sono stati ritenuti confidenziali. Preferirei che lo rimanessero.» Con uno sbuffo di impazienza, L'Amoureux abbassò i piedi sul pavimento. «Passameli» disse, tendendo la mano. Dopo alcuni minuti di intensa concentrazione, alzò lo sguardo. «Va bene, ti ascolto. Dimmi, esattamente, che cosa speravi di ottenere, qui?» «Vorrei far riesumare i corpi.» L'Amoureux unì i polpastrelli. «Ascolta, il tuo è un caso strano, pieno di aspetti incomprensibili. Ma devi fidarti di me. Abbiamo esaminato i corpi sulla scena del disastro. La morte è stata causata da ferite traumatiche dovute a raffiche di vento superiori a trecento chilometri l'ora.» «Hai trovato ferite da difesa? Hai esaminato i frammenti volanti? Il tuo coroner ha guardato dentro la bocca delle vittime?» Lo sceriffo si sporse verso di lui. Gli si erano gonfiate le vene del collo. «Vuoi mettere in dubbio i miei metodi, capo?» «No di certo.» Charlie scelse con attenzione le parole. «Ma, come hai detto tu stesso, quel giorno avevi già abbastanza da fare. Non c'era ragione di fermarsi in mezzo a tutto quel caos per sospettare un atto di violenza. Centinaia di feriti, distruzioni su grande scala. Eravate praticamente abbandonati a voi stessi. La ricerca dei sopravvissuti, i bulldozer, le autogrù. E le fughe di gas. Conosco la musica, ci sono passato anch'io. Ti butta a terra.» L'Amoureux rispose con un filo di dubbio nella voce: «Otto morti. Parecchi, per una città così piccola. Centinaia di feriti. Nessun ospedale. Eravamo letteralmente al buio». Charlie si osservò i palmi delle mani, solcati da quelle linee che secondo qualcuno permettono di prevedere il futuro. «Quello che voglio dire è che se i Keel sono stati uccisi dallo stesso assassino, lo potremmo capire subito esaminando i loro denti.» «E se ti sbagliassi?» «Allora il problema riguarderebbe soltanto me.» L'Amoureux alzò gli occhi e fissò un punto sulla parete, riflettendo sulle parole di Charlie. Aveva lineamenti marcati, con zigomi larghi e occhi che sembravano non avere mai conosciuto un istante di esitazione. «Va bene» decise. «Sentirò i parenti.» «Grazie.»
«Ma dovranno essere loro a concedere l'autorizzazione. Hanno già avuto un mucchio di guai. Se dicono di no, non insistere.» «Mi sembra giusto.» Il frigorifero emise un ronzio e nello stesso istante il cercapersone di Charlie prese a suonare. Trasse un profondo respiro e controllò il numero. Era Mike. «Posso fare una telefonata?» chiese Charlie «Certo.» L'Amoureux spinse verso di lui il vecchio telefono, ancora con il disco combinatore, poi si alzò, andò in fondo alla roulotte e cominciò a riempire d'acqua l'acquaio con i piatti. «Capo» gli disse Mike «buone notizie. I nostri amici del servizio meteorologico nazionale ci hanno inviato un mucchio di immagini del tornado su Promise. Ne hanno un sacco di quel genere di foto, a quanto pare. Gli arrivano con una certa regolarità. I maghi della meteorologia hanno dato una mano a noi profani.» «Bene. Metti subito Nick al lavora Guarda se riesce a trovare qualche immagine di veicoli e di facce, targhe automobilistiche, lo sai anche tu. Poi spedisci tutto a casa mia, appena possibile.» «Vuoi il materiale a casa?» «Sì, questa sera lavoro a casa. L'ho promesso a Sophie, che altrimenti rimarrebbe sola.» «Salutamela. E, ascolta, capo, ho chiesto a Jake Wheaton di venire qui per rispondere a qualche domanda, ma lui minaccia di presentarsi con l'avvocato.» «Lascia perdere. Non provocarlo. Il fratello di Rob Pepper?» «Ha un alibi. Ci siamo scusati per il disturbo. Non ci ha fornito informazioni significative.» «Sono già arrivate le analisi del sangue?» «Troppo presto, capo.» «Chiama Art Danbury. Fagli fretta.» «Va bene, capo.» «Metti sotto torchio qualcun altro.» Chiuse la comunicazione, poi telefonò alla figlia. «Sono io» rispose Sophie, senza fiato, come se aspettasse la telefonata. «Ciao, anch'io sono io.» «Papà! Ho deciso cosa cucinare per cena. Lasagne vegetariane.» «Mmh. Sembra una cosa un po' insolita.» «Magari per te, che sei un carnivoro. Vieni a casa, questa sera, vero?» «Scherzi? Non ho intenzione di perdermele per niente al mondo.»
«Bene, perché sto preparando le lasagne.» «Sì, l'hai detto anche prima.» «Be', è perché non ho voglia di buttarle di nuovo via.» «Ascolta, signorina So-Tutto-Io. Aggiungi un posto in più, abbiamo un ospite.» «Un ospite?» domandò lei, insospettita. «Che tipo di ospite?» «Non ho ancora telefonato a questa persona.» «Dio, papà. Che hai, una crisi di mezz'età o che cosa? Chi è questa persona misteriosa?» «La tratterai bene, vero?» «"La"? È una donna?» «Sarai gentile, educata e non troppo ironica?» «Ma cosa credi?» ribatté lei, profondamente offesa. «Credo che tu sia una normale ragazza della tua età. Ed è questo a preoccuparmi.» «Alle sei precise» rispose lei. «Non fate tardi, tu e Lady Mistero.» Charlie agganciò e fissò il disco del telefono, cercando di formulare nella mente le parole. "Parla disinvolto" si disse. Non gli piaceva il nodo che sentiva allo stomaco. "Dài, hai trentasette anni e non sei ancora capace di fissare un appuntamento? Te l'ha detto lei di chiamarla. Che altro vuoi?" Sollevò il telefono e fece il numero del laboratorio meteorologico, poi chiese l'interno di Willa. «Pronti» rispose una voce maschile. Rick Kripner. Fregato. Charlie sentì il sangue defluire dalla sua testa. «Ehi, Rick, sono Charlie Grover. C'è Willa?» «Ha detto che non torna in ufficio, capo.» «Oh.» Parlò rapidamente per nascondere la delusione. «Volevo chiederle se veniva a dare un'occhiata ad alcune fotografie. Immagini di veicoli di cacciatori che abbiamo ricevuto dal servizio meteorologico nazionale. Pensavo che potesse identificare qualcuno dei proprietari.» «Senti, sarei lieto di aiutarti io. Vado a caccia di tornado da anni. Conosco quella gente e i loro veicoli.» Charlie ebbe un attimo di esitazione, poi disse: «Ti piacciono le lasagne?». «Certo.» «Ti va bene alle sei?» «Ottimo. Dove abiti?» Charlie si sentiva un idiota, ma gli diede l'indirizzo.
11 «Ti piacerebbe un cane?» chiese Sophie a Rick, che sedeva sorridente davanti a lei. «Non particolarmente.» Le sorrise. «Dài» insistette Sophie. «Solo cinquanta dollari.» «Che cane?» volle sapere Charlie. La figlia aveva messo sulla tavola le candele, in previsione dell'"appuntamento galante" del padre, che non si era materializzato. «Noi non abbiamo mai avuto cani.» Le candele davano alle loro facce un alone giallognolo come il burro. Il crepuscolo aveva lentamente lasciato il posto all'oscurità. I due uomini si erano divisi una bottiglia di vino e Charlie si sentiva allegro e vivace, anche se un po' confuso per quella faccenda dei cani. «Mi sono offerta volontaria per gli orfani, papà.» «Orfani? Che orfani?» Non aveva idea di cosa intendesse dire la sua adorabile figliola. «Tutti i cani che hanno perso la casa nel tornado» spiegò. «Nessuno è venuto a riprenderli e al canile non c'è abbastanza posto, perciò dobbiamo trovare loro un nuovo padrone.» Si rivolse a Rick. «Alcuni hanno problemi respiratori, ma stanno migliorando. Sono tutti vaccinati e sono davvero carini.» Rick scosse la testa. «Troppa responsabilità. Non puoi piantare tutto e andare a caccia di tornado se hai un cane, ma grazie per avermelo chiesto.» «Fammi sapere se cambi idea, d'accordo?» Rick rise. «È davvero abile.» «Con un paio di sorrisi» si vantò Charlie «mia figlia riuscirebbe a farsi regalare persino la parrucca da un travestito.» Sophie si era pettinata all'indietro i capelli castani e, alla luce delle candele, era l'immagine perfetta della madre. La sua innocente bellezza commosse profondamente Charlie. Erano le sette e mezzo e avevano quasi finito la teglia delle lasagne. Di pane all'aglio ne rimaneva ben poco e anche i piselli erano finiti. «Cosa c'è nel medaglione?» domandò Rick. «Questo?» Sophie sorrise e arrossì. Aprì il medaglione d'argento e mostrò la foto di lei e Maddie che sorridevano verso l'obiettivo, guancia a guancia. «Mia madre. Non è bella?» «Bellissima.»
Sophie parve soddisfatta della risposta. «La gente ci chiedeva se eravamo sorelle» disse. Fissò il padre, mentre chiudeva il medaglione. «È morta due anni fa.» «Oh, mi dispiace.» Rick la guardò con aria triste, da dietro gli occhiali con la montatura di metallo. Indossava una camicia di flanella blu infilata nei jeans e sui suoi capelli castano scuro si vedeva ancora il segno del berretto da baseball che si era tolto entrando in casa. Sophie sbadigliò e Charlie provò un improvviso moto d'affetto per lei. Sbadigliava ogni volta che era nervosa o che non voleva parlare di qualcosa. Tra le altre sue abitudini c'erano quelle di mangiarsi le unghie e di rimanere sveglia fino a tardi per guardare Conan alla TV. Era molto brava in matematica, biologia, inglese e danza, e se esisteva una cosa di cui Charlie si sentiva convinto era l'enorme potenziale della figlia. Sophie poteva diventare un medico, un avvocato, un'insegnante, una ballerina, qualunque cosa avesse voluto. Curiosamente, da piccola era sempre stata grassoccia, una vera palla. Charlie ricordava come Maddie se l'appoggiava sulle ginocchia per controllare se si reggesse sulle gambe; sopra le ginocchia della piccola c'erano due piccole tasche di pinguedine infantile. Sophie lo fissava. «Pronto, pronto? Base Terra a papà.» Charlie sbatté le ciglia per allontanare il ricordo. «Eh?» «Ti ho chiesto che cosa sei andato a fare oggi nel Texas.» «Ah. Sono andato a controllare alcune cose.» «Che cosa?» «Quella città lo scorso anno è stata colpita da un tornado. Sono andato a vedere come hanno organizzato la ricostruzione» mentì. Sophie sapeva degli omicidi, ma lui non intendeva fornirle i macabri particolari. «Spero che adesso costruiscano case più robuste» disse la ragazza. «In modo che la prossima volta non caschino più.» «Puoi progettare un edificio in modo che resista a venti che superano i quattrocento chilometri l'ora, se vuoi» le disse Rick. «Ma il prezzo è proibitivo.» «Non capisco.» Sophie lo guardò con l'onesto stupore di una Miss Universo che volesse risolvere il problema della fame nel mondo. «Perché non costruiscono tutte le scuole dell'Oklahoma in modo che resistano ai tornado? Perché le case non hanno tutte un seminterrato?» Rick si strinse nelle spalle. «Il mondo è fatto così, ragazzina.» Sophie guardò il padre e aggrottò la fronte. Com'era dolce, pensò Charlie. Dolce come la cerbiatta che nella foresta guarda tranquilla il fucile del
cacciatore e non riconosce il pericolo. Sorrideva in modo invitante agli estranei, desiderava la pace per tutto il mondo, ferma nella convinzione che il suo caro papà avesse tutte le risposte. «Boone dice che la maggior parte della gente non si preoccupa delle cose finché non è troppo tardi» commentò Sophie. Charlie fece un salto sulla sedia. «Boone?» «Papà...» «Boone Pritchett? Da quando t'importa di quello che pensa Boone Pritchett?» Senza badare a lui, Sophie si rivolse a Rick: «È anche lui un cacciatore di tornado. Lo conosci?». «Sì, l'ho visto, da qualche parte.» Rick roteò gli occhi. «Direi che è uno che guarda troppe gare di velocità alla TV.» «Non è vero, non corre così tanto» lo difese Sophie, mentre beveva un sorso d'acqua. Da dietro l'orlo del bicchiere, lanciò un'occhiata al padre. Charlie provava già una vaga apprensione. Boone Pritchett era un giovane con problemi che contribuiva a dare una brutta fama all'intera categoria. Il padre girava in motocicletta e lavorava in una fabbrica di prodotti chimici e la madre era un'alcolizzata che stava in piedi per miracolo; quanto allo stesso Boone, il ragazzo amava dare un'idea di sé attraverso le sue attività preferite: rubare nei supermercati, marinare la scuola e fumare spinelli. Prima o poi si sarebbe cacciato in qualche guaio serio, e Charlie non voleva che la figlia frequentasse gente del genere. «Ha un vecchio pickup Ford, vero?» domandò Rick. «Rosa shocking. È a malapena entro i limiti legali... un veicolo del tipo "circolo finché regge". Guida tenendo basso il sedile e con il cappello calato sugli occhi, non so cosa riesca a vedere.» «Perché tutto questo interesse per Boone Pritchett?» domandò Charlie rivolto alla figlia. «Papà...» cominciò lei, arrossendo. Con eleganza e compostezza, unite a un leggero sorriso sulle labbra. «Non è nulla.» «Come, nulla? Un giorno o l'altro quel ragazzo salirà su un terrazzo e si metterà a sparare sulla folla.» «Oh, piantala» rispose lei, con l'espressione impassibile di una bambola di porcellana. «Inoltre, nessuno oserebbe scherzare con me. Sono la figlia del capo della polizia.» «Infatti. Farà meglio a non prendere alcun tipo di iniziativa.» Sophie si schiarì la voce e cambiò discorso. «Allora, tu sei un ingegnere
del vento?» domandò a Rick. «Che cosa ti ha spinto a occuparti proprio del vento, con tutto quello che c'era da studiare?» Lui le rispose con un'altra domanda: «Conosci la scala Fujita, vero?». Sophie annuì. «Allora sai che F1 significa moderato, F2 considerevole, F3 grave e F4 è... be', devastante, tipo quello del Mago di Oz.» Si spostò leggermente sulla sedia. «Quanto a un F5» proseguì in tono grave «è preferibile non doverne fare la conoscenza.» Gli occhi di Sophie si accesero. «Ne hai visto uno?» «Quando avevo tredici anni.» Si asciugò la bocca con un tovagliolo di carta, poi lo piegò accuratamente. «Quella tempesta anomala si scatenò dal nulla e la sua grandine appiattì il grano per chilometri e chilometri intorno alla nostra casa. A quell'epoca c'eravamo solo io e mio padre. Mia madre era morta da tempo, povera anima. Dopo la grandine uscimmo per valutare il danno, ma non c'era niente da vedere. La distruzione era completa, e a giudicare dal cielo non era ancora finita.» Alzò gli occhi al soffitto. «Ricordo che il vento mi ruggiva nelle orecchie. Non sentivo neppure una parola di quello che diceva mio padre, ma vedevo la terribile forza che si raccoglieva alle sue spalle nel cielo. Io avrei voluto fuggire, ma lui non mi ascoltava. Il raccolto era andato distrutto. Quell'anno, il raccolto significava tutto, per lui; si era indebitato molto. Ricordo che i cani uggiolavano, poi sentii un rombo basso, orribile, e tutta un tratto il cielo diventò nero come la notte. Si vedevano parecchi piccoli tornado che spuntavano dalla base di quell'enorme nube a parete rotante... come dei lazo che ruotavano sul terreno. Poi uno scese bruscamente. Prima aveva la forma di una corda. Poi di un cono. Alla fine si trasformò nel più grande cuneo che abbia mai visto. Parlo di venti da quattrocentotrenta chilometri l'ora, che si precipitavano contro di noi urlando.» Abbassò la voce. «Queste tempeste riescono a spostarsi a una velocità spaventosa. Il vortice correva avanti a una sessantina di chilometri l'ora. Incredibile. Fulmini che partivano in tutte le direzioni e mio padre non si muoveva. Continuai a tirarlo per il braccio, ma lui mi cacciò via e si mise a imprecare contro il cielo. Una scena che non mi scorderò mai. Era come una pulce che insulta un elefante. Ansimava e gridava, agitando i pugni. Poi prese il fucile e sparò contro la tromba d'aria, come se fosse un cervo che si può abbattere. «Io mi gettai a terra e sentii in bocca il sapore della polvere» continuò Rick. «Il cuneo era sopra di noi, in quel momento. Ricordo che faceva un suono strano, acuto, quasi umano. Un attimo dopo, ero dentro quel muli-
nello urlante. All'interno era tutto cavo e illuminato, girava su se stesso come l'insegna a spirale di un barbiere, a strisce prima arancione, poi viola, poi rosso fluorescente, con linee spezzate di fulmini che andavano da una parte all'altra.» S'interruppe e si limitò a fissare Charlie e la figlia. «E allora?» domandò Sophie, senza fiato. «Il turbine si risucchiò mio padre lasciando solo le scarpe. I suoi scarponi da lavoro, sporchi di fango. Un istante, ed era sparito.» Sophie si portò la mano davanti alla bocca. «Poi passò su di me e si abbatté sulla stalla» continuò Rick. «Le porte volarono via dai cardini. Il tetto si sollevò come se fosse di carta. I cani furono spazzati via; uggiolavano ancora. Più tardi dovetti abbattere tre cavalli. Vedete questo?» Sollevò la mano destra e mostrò loro la punta piegata del mignolo. «Un frammento volante per poco non me lo staccò di netto, non è mai guarito bene.» «E cosa successe a tuo padre?» domandò Sophie, con un'esitazione che Rick parve trovare piacevole. «Mi dispiace» rispose lui «ma non sono discorsi da fare a tavola.» Charlie si schiarì la voce. «Penso che sia ora di cambiare argomento.» «Oh, papà» disse Sophie, a bassa voce «non sono una poppante!» «Vedete» spiegò Rick. «Per me non sono semplici tempeste. Sono universi in miniatura, tutti particolari. Pareti larghe cento chilometri e alte quindici. Aria e vapore che corrono a formare quelle masse ribollenti in grado di oscurare un intero Stato. Cioè, pensate, qualcosa di ancora più grosso dell'Empire State Building non dovrebbe essere in grado di muoversi tanto rapidamente.» Sophie lo guardava rapita. «Sembra incredibile.» Charlie spinse avanti il piatto e si schiarì la voce. «Quelle lasagne erano spettacolari, cara.» «Mmh, deliziose» aggiunse Rick. «Grazie.» Sophie rivolse loro un sorriso timido; la pelle della sua fronte si increspò delicatamente. «Forse così la smetterete di mangiare carne, eh?» «Intendi dire che non c'era carne nelle lasagne?» Rick finse la massima sorpresa. Lei rise. «Ho usato la soia» rispose orgogliosamente, incrociando le braccia. A Charlie tornò in mente che da piccola aveva sempre paura del buio, credeva che l'uomo nero fosse nascosto sotto il suo letto. Lui e Maddie do-
vevano tranquillizzarla tutte le sere con una serie infinita di favole e la promessa di non muoversi dalla camera accanto. Allora era piccola e impaurita, adesso prendeva le difese di Boone Pritchett, addirittura. Charlie rimpiangeva i giorni in cui aveva le efelidi e la massima sfiducia nei ragazzi. Non poteva fermarsi e smettere di crescere? Il passare del tempo era come precipitare in un pozzo: potevi aggrapparti alle pareti finché volevi, ma non potevi interrompere la caduta. «Non hai dei compiti da fare?» le domandò. «Papà...» «Il capo è tuo padre» disse Rick, con un sorriso conciliante. «Quello che dice lui, si fa.» «Non quando c'era ancora mia madre» mormorò Sophie, ma si alzò e cominciò a sparecchiare. «Sparecchiamo noi, cara» disse Charlie. «Tu va' pure nella tua stanza.» Con riluttanza, lei posò i piatti. «Lieta di avere fatto la tua conoscenza» disse, stringendo la mano a Rick. «Il piacere è mio, Sophie.» La ragazza si morse il labbro inferiore, poi guardò il padre. «Peg dice che la grondaia è intasata, papà.» «Grazie, cara.» «Be'... buonanotte.» «Buonanotte» le augurò Rick, mentre Sophie si avviava verso le scale. «Vieni, possiamo parlare nel mio studio.» Charlie accompagnò l'ospite attraverso il salotto, che Maddie aveva arredato con cuscini e folti tappeti, un antico moschetto sopra la mensola del caminetto e mobili in stile Old America. Dopo la sua morte, tutte le piante esotiche della casa erano morte, le viole africane, le amarillidi bianche come neve. No, non era andata così. Dopo la morte di Maddie, impazzito dal dolore, Charlie aveva spaccato tutti i vasi, dal primo all'ultimo. Non era giusto che lei fosse morta. Perché le sue piante dovevano sopravvivere e fiorire? «Hai una figlia che è un fenomeno» disse Rick. «Riesce a essere deliziosamente morbosa.» Rick sorrise e fece il giro dello studio, esaminando gli scaffali di pino coperti dalle medaglie e dagli encomi di Charlie. C'erano le fotografie dei bisnonni, orgogliosamente impettiti davanti alla loro baracca; la nonna che ancora adolescente, negli anni della Grande Depressione, vendeva pomodori a cinque centesimi la cassetta; i lontani parenti con gli occhi sfocati a causa della lunga esposizione, come se il passare del tempo avesse sbiadito
il loro ricordo. Guardando i vecchi dagherrotipi, Rick disse: «Il mio bisnonno ha vinto la casa di famiglia in una partita a poker. Pensi che potrebbe succedere anche oggi?». «Dove abiti?» gli domandò Charlie. «A Pixley, e provo un po' di imbarazzo a confessarlo. Io discendo da una lunga progenie di persone sbagliate. Ormai potrei andare a stare dove mi pare, ma sono cresciuto laggiù. Pixley è soltanto una chiesa, un ufficio postale e la stazione dei pompieri, ma c'è ancora spazio a sufficienza.» «Non so darti torto.» Rick indicò una foto di Adelaide. «Tua madre?» «Sì.» «Io non ho ricordi della mia. Dicono che era piccola come uno scricciolo. Quando ero ragazzino, c'era sempre qualcuna che cercava di consolarmi. Evidentemente, alcune donne si sentono attratte dai ragazzi senza madre. Risveglia il loro istinto materno.» Prese in mano una delle targhe di Charlie. «Duecento metri, eh?» «Sì, all'epoca dei dinosauri. Era una buona terapia.» «Oh, già.» Rick lanciò un'occhiata alle cicatrici. «Il mio rapporto con lo sport si limita alla poltrona del salotto, temo.» Posò la targa. «Hai un mucchio di medaglie, capo.» Charlie sedette alla scrivania e appoggiò le braccia sul piano rivestito di cuoio blu. «Non mi rendono più coraggioso degli altri.» «Forse no.» Rick sedette davanti a lui. «Ma di certo ti rendono più coraggioso di me.» «Non le ho ancora guardate.» Aprì la busta che uno dei suoi agenti gli aveva lasciato quel pomeriggio e ne estrasse una serie di fotografie. Le scorse rapidamente, poi disse: «Queste sono state scattate da varie squadre di giornalisti e dai cacciatori di tornado ieri pomeriggio. Guarda se riconosci...». S'interruppe perché aveva visto la foto di un pickup Loadmaster del '51: il camioncino di suo padre. Era solo l'immagine sfocata di un veicolo che si allontanava dalla zona del disastro, ma a Charlie si drizzarono i capelli. "No, aspetta" si disse. "È innocente; mi ha già spiegato che era a caccia, ieri pomeriggio. Ha preso parte ai soccorsi. Ha rubato un orolo..." «Qualcosa non va?» «No, tutto a posto.» Infilò nel cassetto la foto, poi passò a Rick le altre. «Guarda se riconosci qualcuna di queste auto.» Rick prese le foto. «Sai, capo, in gran parte si tratta di una categoria di
persone composita, e con una certa disponibilità economica. Lo dico perché sia messo agli atti.» «Prendo debitamente nota.» «Bene, attacchiamo.» Cominciò a esaminarle. «Okay, questo è uno di quelli incalliti. L'ho visto dappertutto. Si chiama Paul qualcosa, magari tra un minuto mi verrà in mente. Questa Range Rover appartiene a un ragazzino completamente privo di cervello, un riccastro che non ha niente da fare e allora si diverte a rompere le scatole agli altri. Preston J. Hale, di Kansas City. Mmh. Quest'auto non la conosco... Neanche questa.» Charlie faceva scattare continuamente la molla della biro. «A Promise c'eri anche tu, ieri?» «Sì.» Rick alzò gli occhi. «Eravamo laggiù a raccogliere dati.» «Tu e Willa?» Rick annuì. «Hai scattato qualche foto?» L'uomo scosse la testa. «Non mi piace mettere una macchina fotografica tra me e la tempesta, capo. È come infilarsi un preservativo.» Charlie sorrise. «Lavoriamo in squadra, ma a volte ci separiamo. Da una singola tempesta si devono raccogliere dati diversi, e così ci alterniamo al furgone. Ieri lo ha preso lei e io avevo il mio Sierra GMC. Ci vogliono quattro ruote motrici, perché non sai mai su che terreno puoi finire.» Charlie aveva visto il pickup di Rick parcheggiato nel vialetto; un Sierra GMC nero, irto di antenne come un porcospino. «Sono arrivato a otto chilometri dall'uragano, capo, correvo sulla 412 quando la tempesta è diventata EP. Significa "elevate precipitazioni", compresa la grandine, sul fianco posteriore della corrente discendente. Ho imboccato la Wichita Avenue e ho cercato di raggiungere il fianco più vicino, quando sono salito su una collinetta e ho visto quel bel "tubo di stufa" che si muoveva verso nordest.» «E poi?» «È risalito nelle nubi e si è dissolto. Così ho ripreso l'interstatale, sono passato da Cleo Springs e da Ringwood per cercare di intercettarne un altro prima del buio. Ma le correnti discendenti erano troppo forti, perciò sono tornato indietro e ho deciso che la giornata era finita.» Guardò Charlie. «Eri un po' deluso, quando ti ho risposto io, oggi, vero?» Charlie sorrise, ma non rispose. Incrociarono lo sguardo, a disagio. «Le sarebbe piaciuto venire.» Rick esaminò le altre foto. «Bene, questa
Mustang azzurra appartiene a un cacciatore della domenica, una donna che si chiama Becky Callahan. Ah, ecco Conrad Holzman. Di Tulsa. Un tizio a posto, un cacciatore regolare; degli altri, non saprei. Questo è un ingegnere, dovrebbe essere dello Utah.» Batté i polpastrelli sulla prima foto del gruppo, l'immagine sfocata di un furgoncino bianco che correva verso la lontana tromba d'aria. «Sì, Jonah Gustafson. Meglio stare alla larga.» «Gustafson?» Charlie annotò il nome sul suo taccuino. «Un caratteraccio. Non rispetta i limiti di velocità. Un prepotente. Gli piace tenere lontani gli altri cacciatori di uragani.» Incrociò le braccia sul petto. «Un tizio dall'aria sospetta. Non so che lavoro faccia e dove abiti. Nulla di illegale in lui, capo; soltanto, non mi piace. E non piace a nessuno. Si tiene alla larga dagli altri. Un vero lupo solitario.» Charlie annuì. «Puoi descrivermelo?» «Un metro e ottanta, forse di più. Magro, anzi emaciato; sembra una camicia appesa all'attaccapanni. Ha sempre un berretto da baseball sudicio con la scritta NIGHT TRAIN.» Charlie prese nota di tutto. «Ed è spesso brillo.» «Cicatrici, tatuaggi?» «Non mi sono mai avvicinato a sufficienza per scoprirlo.» «E non hai idea di dove abiti.» Rick scosse la testa, poi spostò le foto. «Posso chiederti una cosa? Pensi davvero che un cacciatore di tornado abbia il tempo di fermarsi ad ammazzare qualcuno?» «Sei tu l'esperto. Dimmelo tu.» Rick si toccò il mento, con aria pensosa. «Penso che sia una possibilità.» Fece un respiro breve, a denti stretti. «Sarebbe davvero strano se una delle persone che ho visto tante volte risultasse un assassino a sangue freddo, a parte Jonah Gustafson. Ma la cosa avrebbe un suo senso.» Charlie unì le mani sopra la scrivania. «Che pensi di Boone Pritchett?» Rick si strinse nelle spalle. «Gli piace mirare al centro. Va a caccia anche di notte. È un'attività strana, ma richiede una certa abilità.» «E tu come te la cavi, con questa faccenda della previsione?» «Io?» Rick si strinse nelle spalle. «Sono migliore di tanti altri.» «Sei mai riuscito a prevedere con precisione dove avrebbe colpito una tromba d'aria?» Rick sbuffò. «Sì, certo. È difficile, la mattina dello stesso giorno, prevedere le influenze di mesoscala che sorgeranno in seguito, ma ho visto al-
cune persone farlo con un anticipo di trentasei ore. O sono dei chiaroveggenti o sono dei geni.» «Quali persone?» «Le sole che riescano a farlo con una certa frequenza sono Jonah Gustafson, Conrad Holzman e Willa.» Charlie serrò le labbra. «Willa?» Rick incrociò lo sguardo con il suo. «Ha tutto quello che serve, no? Cervello, bellezza, palle.» Charlie decifrò immediatamente il messaggio tra le righe: "C'ero prima io. È mio territorio esclusivo. Gira alla larga". «La prossima volta che usciamo a caccia, saremo lieti di portarti con noi.» «Posso venire anch'io?» domandò Sophie dalla porta. Il suo sorriso era un po' troppo eccitato e Charlie fece una smorfia. «Posso? Per piacere!» «Va bene, Holly Golightly» rispose Charlie, alzandosi. «Andiamo a lavare quei piatti.» 12 Jake Wheaton filava con il suo pickup Chevrolet a ottanta chilometri l'ora in una zona dove il limite era di cinquantacinque e aspettava che arrivassero le dieci. Aveva un appuntamento con una fornitura di marijuana. Nello specchio retrovisore vide avvicinarsi il pickup Blazer Chevrolet guidato da Lester Deere. «Sì, sì, ti ho visto, signor agente Coglione.» Lester accese il lampeggiante e superò la mezzeria fino a portarsi accanto al camioncino di Jake. Poi gli fece segno di fermarsi. Jake sollevò la lattina di birra. «Alla tua salute, stronzo.» Lester lo guardò con ira da dietro il finestrino. «Come?» disse Jake. «Non ti sento.» Lester accelerò e poi si bloccò davanti a lui con un mezzo testacoda. «Cristo!» Jake azionò il freno e sentì un forte dolore al naso quando batté la faccia contro il volante. Le gomme del pickup slittarono sulla strada mentre si fermava. Per un istante rimase a sedere, stupefatto, con i piedi coperti fino alla caviglia da lattine di birra; poi, all'improvviso, Lester aprì la portiera, infilò la mano all'interno dell'abitacolo e tirò fuori il ragazzo, afferrandolo per la camicia. «Te la sei fatta?» gridò, colpendo Jake allo stomaco. Il ragazzo si afflosciò con un forte soffio. «Te la sei scopata, bugiardo figlio di puttana?»
Per il dolore, Jake stava per vomitare. «Cosa c'è, stronzetto, hai detto qualcosa?» Il pugno di Lester scattò, più veloce di un battito di ciglia. Jake sentì la testa sollevarsi, e solo dopo un attimo un forte dolore alla mascella. Si portò le mani al mento e incespicò, malfermo sulle gambe. «No, no...» «Non mentire a me, Jake!» Lester ansimava e aveva gli occhi allucinati. «Te la sei scopata, vero? Alla stazione di polizia lo dicono tutti.» «No!» «Non raccontarmi balle, ragazzino!» Afferrò Jake per il colletto e strinse. «Vorresti mentire a me?» Jake aveva paura di guardarlo in faccia; c'era qualcosa di crudele e di folle dietro quegli occhi lucidi. «Va bene, sì» ammise, impaurito. «Ma solo quella volta delle zucche, Lester, lo giuro su Dio...» Con un ruggito orribile, il poliziotto lo colpì alla mascella con un sinistro. Il ragazzo indietreggiò e finì a terra, di schiena. Con un sibilo, tutto l'ossigeno gli sfuggì dai polmoni. Quando riaprì gli occhi, vide il cielo notturno, con i suoi milioni di stelle. Era stordito e non capiva cosa gli fosse successo. Lester gli diede un calcio nelle costole. «Non una parola di quello che è successo. Neppure un fiato» disse con voce stridula. «Hai capito, sfigato? Sono stato chiaro?» Jake gemette e sputò sangue. Rotolò su se stesso e cercò di allontanarsi, ma un piede pesante gli si appoggiò sulla nuca, schiacciandogli la faccia nel fango. «Non una parola» strillò Lester. «Hai capito?» «Sì.» «Non ho sentito.» Jake cercò di respirare; al posto dei polmoni gli pareva di avere delle vecchie corde, strettamente annodate. «Nossignore» ansimò. «Non lo farò.» «Non farai cosa?» «Dire una sola parola. Lo giuro.» Lester lo costrinse a girarsi e si chinò a guardarlo in faccia. Le sue palpebre continuavano ad andare su e giù come le dita di una dattilografa. «Non sognarti neppure di denunciarmi» minacciò, in un sibilo. «Sarebbe una cosa molto pericolosa.»
«No, no, non dirò nulla» promise Jake, mentre il suo odio e la sua paura crescevano. «Noi non ci conosciamo neppure.» Lester gli sputò in faccia, poi tornò al suo camioncino e si allontanò in una nube di polvere. 13 L'indomani, verso sera, Charlie ricevette una telefonata dallo sceriffo Jimmy L'Amoureux. «Questa notte esumiamo i cadaveri» gli disse. «Casomai ti interessasse.» «Questa notte?» Alzò gli occhi al soffitto, in direzione della stanza di Sophie. «Non puoi aspettare fino a domani?» «Adesso o mai più, capo. Ti interessa oppure telefono ai parenti e dico che lasciamo perdere?» «No, mi interessa. Parto subito.» Era un lungo viaggio, fino all'orribile cittadina di Wink, nel Texas, con le sue strade fantasma e i marciapiedi dissestati. Charlie continuò a girare la manopola della radio, cercando qualche stazione in grado di coprire il rumore della valvola bruciata, mentre i coni di luce dei fari frugavano nella notte; sulle lontane alture punteggiate di cespugli lampeggiavano i fulmini. Uscì dall'autostrada a quattro corsie e imboccò la strada per Drury, dritta come se l'avessero tracciata con la riga. Dopo qualche altro chilometro assai monotono si fermò davanti a un cimitero, nella parte meno popolosa della città, e osservò il cancello arrugginito con la scritta PARCO DEL RIPOSO CELESTE. Non aveva affatto l'aspetto di un parco. In mezzo alle lapidi si vedevano le luci di emergenza. Lo sceriffo L'Amoureux lo aspettava al cancello. La sua uniforme era sbiadita per i troppi lavaggi; portava una spessa cintura di cuoio con la fibbia d'argento, decorata con agate del Montana. «Tu bevi whisky?» gli domandò. «Non bevo liquori forti» rispose Charlie, mentre scendeva dall'auto. «Be', qualche volta, ma la mattina dopo mi vergogno di me.» «Pensavo che finché si tratta soltanto di disseppellire qualche cadavere potevamo farci un po' di caffè corretto nell'ufficio del coroner.» «Mi pare una buona idea.» Il cimitero era un labirinto di querce nane e di lapidi secolari ormai vacillanti. L'umidità prendeva alla gola. Mentre camminavano tra innumerevoli canaletti di scolo intasati di rami e bottiglie vuote, i raggi delle loro
torce sciabolavano come duellanti all'interno del cimitero, illuminando angeli di pietra calcarea, con le punte delle ali spezzate dai vandali, e solenni proclami incisi nel granito: "Il timore di Dio è il primo passo verso la saggezza". «I parenti abitano fuori della contea» spiegò L'Amoureux, passandosi il dito sul labbro. «Hanno preferito rimanere a casa. Non so dargli torto.» Erano giunti a una strada lastricata, segnata dagli skateboard dei ragazzi che venivano a esibirsi nelle loro figure. Dalla strada si passava alla parte nuova del cimitero, dove i Keel erano stati sepolti più di un anno prima. Dopo qualche minuto trovarono le loro modeste lapidi. Sulle tombe non cresceva erba, come per rispetto nei confronti dei morti. Entrambe le lastre di granito portavano la stessa data di morte: 31 marzo. Le sepolture erano tristemente dimenticate. Una vecchia corona era appoggiata contro la lapide di Matthew Keel e un orsacchiotto di pezza faceva la muffa davanti a quella di Audra. Davanti a ciascuna lastra era infilata una rosa ormai secca. Un arco di luce fendette l'aria e Charlie si girò. Un'escavatrice veniva verso di loro, i suoi fari trapassavano l'oscurità e dal tubo di scappamento usciva una nuvola di fumo. «Ed Olson, l'impresario delle pompe funebri» spiegò L'Amoureux. Olson aveva le guance cascanti come certi cani boxer. Parcheggiò l'escavatrice sul ciglio della strada e scese dalla cabina. I denti della benna erano grossi come pugni. Piccolo e curvo, con folti capelli grigi, Ed trascorse i successivi minuti ad ascoltare le istruzioni dello sceriffo, poi rimontò in cabina e rimise in moto. Charlie si portò di lato mentre il motore rombava e l'escavatrice dondolava sui cingoli come un pachiderma perplesso. Illuminato da due fasci di luce fluorescente, il braccio oscillava come la gigantesca chela di un granchio mentre i denti mordevano il terreno. Altre luci si aggiunsero quando comparvero due nuovi veicoli. Prima un pickup bianco sporco, con al volante una donna di mezz'età dai capelli rossi cotonati. Frenò e la coda del veicolo scivolò di lato. «Ti ho portato le pale, Jimmy» disse la donna, scendendo dalla cabina e sbattendo forte la portiera. «Bonnie è la custode» spiegò L'Amoureux. La donna li raggiunse camminando precariamente sui tacchi a spillo e portò loro due pale dall'aspetto pesante, mentre una Mustang nera si fermava dietro il pickup. Il guidatore suonò il clacson e tutti i cani delle vici-
nanze presero ad abbaiare. «Ed ecco Hodge, il nostro coroner.» Un uomo grasso in jeans scese dalla Mustang e li raggiunse. Aveva la faccia tonda, gli occhi da gufo e una stretta talmente piena di buone intenzioni da richiedere due mani. «Ehi, Jimmy, come va?» «Non mi lamento, Hodge. Ti presento Charlie Grover, l'uomo di cui ti ho parlato. Hodge Rogers, il nostro coroner.» «Lieto di fare la sua conoscenza.» Doppia, calorosa stretta di mano. «Brutta notte per un lavoro come questo, vero? Ciao, Bonnie! Ciao, Ed!» «Ciao, Hodge» gli risposero i due all'unisono. Giunto accanto a L'Amoureux, il coroner alzò la testa, con aria indignata. Gli tremava il doppio mento. «Dio, Jimmy, mi hai messo in agitazione. Cos'è questa storia di denti cavati e di schegge volanti?» «È il capo Grover a chiederselo.» Hodge si rivolse a Charlie e alzò la voce per difendere le sue buone ragioni. «Lo scorso anno non ho tralasciato nulla, parola mia. Non troverà nessun dente estraneo o altre stranezze, in quei corpi. Mi dia retta.» «Bisogna tentarle tutte» osservò Charlie. «Certo. Ciascuno ha il suo ordine del giorno. Senza riguardi per i sentimenti della famiglia.» «Non sono venuti, Hodge» lo informò L'Amoureux. Il coroner si strinse nelle spalle. Un'enorme luna gialla, simile a una scodella, uscì improvvisamente dalle nuvole e Charlie sentì una fitta al braccio sinistro; cominciò a ruotare la spalla per ripristinare la circolazione. A volte gli succedeva: un dolore nuovo dalle vecchie ferite. L'Amoureux era molto robusto, sembrava un armadio; lui, Ed e Charlie fecero la maggior parte del lavoro. Nonostante l'argano a motore, occorse parecchio tempo per disseppellire le due bare e portarle all'obitorio. Il viaggio di ritorno a Wink fu breve. Charlie si fermò davanti a un vecchio edificio battuto dal vento, dietro l'auto dello sceriffo con ancora il lampeggiante acceso che proiettava ombre livide. Il cancello si aprì con un cigolio e Charlie scorse un prato dove l'erba era tutta piegata e calpestata, come dal passaggio di intere folle. In lontananza si sentivano gridare i ragazzini che giocavano a baseball. Controllò l'orologio: le nove di un venerdì sera. Sophie era uscita con le amiche e doveva ritornare entro mezzanotte; Charlie si augurò di essere a casa prima di allora. S'infilarono in
un viottolo scuro, fiancheggiato da arbusti, con qualche quercia che sporgeva al di sopra della staccionata. Negli squarci tra una nuvola e l'altra compariva qualche ottimistica striscia di stelle. In fondo c'era un cartello: VIETATO L'INGRESSO O SPARO. La facciata dell'edificio aveva bisogno di essere riverniciata. Le tendine alle finestre erano tirate. Charlie sentì un rivoletto di sudore corrergli lungo il collo mentre saliva sul portico. «Seguimi» gli disse L'Amoureux a bassa voce, come se fossero in una biblioteca. Nel corridoio, un odore di muffa colpì l'olfatto di Charlie. Alle pareti erano appesi i ritratti di antichi funzionari della contea; sul soffitto era accesa un'unica lampadina, impolverata e priva di paralume. Scesero in un sotterraneo male illuminato dove un ventilatore muoveva l'aria fetida da un angolo all'altro. All'interno dell'obitorio si aveva l'impressione che dietro le pareti ci fosse qualche cadavere in decomposizione. Le bare sigillate erano sporche di terra. Al momento dell'apertura, l'odore di decomposizione aumentò. I corpi erano vestiti con i loro abiti migliori e parevano straordinariamente ben conservati. Audra Keel aveva minuscoli orecchini d'oro e tra le mani un mazzolino di fiori appassiti. La sua pelle era coperta di una fine muffa bianca. Alta e dall'ossatura robusta, indossava una gonna rosa e una camicetta bianca con il colletto largo. Matthew Keel era qualche centimetro più basso della moglie e portava un abito blu immacolato. I capelli neri erano tagliati cortissimi. Nei successivi minuti, Hodge esaminò i denti dei Keel, controllando le radiografie messe a disposizione dal loro dentista. Ansimando come se facesse ginnastica, aprì la bocca di ciascuno. Controllò le otturazioni, passò strumenti sulle superfici. Annotò con mani tremanti i risultati e alla fine si rivolse a L'Amoureux. «Molari e premolari sono presenti, a parte i denti del giudizio. La dentatura è nelle stesse condizioni di prima della morte.» «Grazie, Hodge» disse L'Amoureux, versandosi una tazza di caffè e aggiungendovi una robusta dose di whisky. «Serviti pure» disse a Charlie. «Vuoi ancora rifare l'autopsia?» Charlie sentiva le sue gambe piegarsi sotto il peso della rivelazione. Nessun dente estraneo significava che non era stato commesso alcun delitto. «No, chiudiamo qui la cosa» rispose. Tutti e tre si raccolsero intorno al corpo di Matthew Keel per rimetterlo nella cassa, quando Charlie sentì qualcosa di ruvido sul dorso della mano del morto. «Un istante» disse, girandola. Sulle nocche di Matthew c'erano
dei graffi giallognoli, color della pergamena. «Che cosa sono questi?» «Mmh» fece Hodge, avvicinandosi. «Mi sembrano abrasioni, di quelle che si producono dopo la morte.» «Cosa intendi dire?» domandò L'Amoureux. «Questi graffi si hanno dopo che la vittima è morta, quando un corpo viene trascinato sul pavimento.» Si scambiarono un'occhiata perplessa, poi Hodge girò sul fianco il corpo di Matthew. Dopo avergli tolto la giacca e la camicia, trovò analoghi graffi sulla schiena del cadavere. Nell'obitorio scese il silenzio. «Forse converrebbe rifare l'autopsia» disse Charlie. Hodge guardò L'Amoureux. «Devi dirlo tu, Jimmy.» «Sì, rifacciamola.» L'atmosfera all'interno dell'obitorio divenne sempre più soffocante a mano a mano che le vittime venivano spogliate e riesaminate. Hodge riaprì ogni corpo come se fosse una rana sezionata, tagliando suture e spostando sacchetti di plastica pieni di organi interni. Controllò le vecchie ferite e riesaminò le radiografie, mentre i miasmi che salivano dalla cavità toracica facevano lacrimare gli occhi. «Se partite dall'idea che si tratti di un omicidio, dico se, allora si tratta di ferite multiple di punta al petto e all'addome. L'autopsia parlava di impalamento da parte di due gambe di sedia, un pezzo di ringhiera e un palo di staccionata. C'è una foto delle schegge piantate nel corpo... Non so, difficile stabilirlo. Bisognerebbe esaminare quelle schegge, ma credo che siano state distrutte, vero Jimmy?» «Non vedevo alcuna ragione per conservarle.» «E io ero pieno di lavoro con i morti e i feriti» disse Hodge, a sua discolpa. «Abbiamo perso il segretario municipale e sua moglie, l'organista della chiesa e tre ragazzi. Tre meravigliosi membri della nuova generazione. Maledizione, queste sembrano ferite da difesa alle mani e alle braccia. Come possono esserci sfuggite, Jimmy?» «Mi venga un colpo se lo so.» «Potevano essere state causate da frammenti volanti» continuò Hodge, dedicandosi agli organi interni. Charlie prese il vecchio referto autoptico e osservò le immagini. La ferita di Audra Keel, causata da un palo di staccionata, era particolarmente orribile. La punta era entrata nel petto della vittima, spingendo all'interno del corpo il tessuto della camicia, e aveva lacerato muscolo e polmone. «Queste sono le radiografie di Matthew» disse Hodge, sollevando alla
luce una lastra. «Abrasione da impatto sopra l'orbita destra. Anche un ematoma sopra la guancia destra. Evidenti lacerazioni del cuoio capelluto.» Posò le lastre e si tolse i guanti di gomma. «Trauma alla testa, molteplici ferite da penetrazione. Non saprei, potrebbe essere anche dovuto alla casa che gli è crollata addosso.» Incrociò le braccia. «Inoltre, non ci sono denti sostituiti.» Un'idea nuova si fece strada nella mente di Charlie. «Il tornado potrebbe averlo colto di sorpresa» disse. «La casa è stata investita in pieno, vero?» L'Amoureux batté gli occhi. «Forse ha sbagliato i calcoli, quel giorno. Forse il tornado l'ha interrotto nel bel mezzo del rituale e questa volta non ha potuto terminare il lavoro che aveva iniziato, il suo rituale dei denti. Può darsi che sia dovuto fuggire prima che il tornado lo colpisse.» «La cosa non ci fornisce alcuna prova definitiva.» Charlie si passò la mano sulla fronte, cercando di riflettere. «Direi di chiudere qui» brontolò Hodge. «Sono d'accordo» disse L'Amoureux. «I parenti hanno dato il permesso di effettuare l'autopsia e l'abbiamo effettuata. Adesso rimettiamo i corpi dove li abbiamo presi.» «Va bene, però aspetta un attimo.» Charlie si morse il labbro inferiore. «Che cosa faresti se ti interrompessero durante il lavoro?» «Non lo so. Tornerei più tardi a finirlo?» «Esattamente.» «E allora?» «Hai un setaccio?» Erano ormai le undici passate quando Bonnie, la custode dell'agenzia di pompe funebri, arrivò con vari setacci: uno per la farina, due passini, uno scolapasta e il cestello di una friggitrice. Cominciarono a setacciare la terra del cimitero, alla ricerca di un oggetto più piccolo di una bilia. Premolari, canini, molari, incisivi, denti di latte, qualsiasi cosa. L'idea era che l'assassino fosse andato nel cimitero dopo il funerale e avesse lasciato un dente su ciascuna tomba. Anche questa era un'ipotesi poco probabile, ma occorreva basarsi su quel poco che avevano a disposizione. Verso mezzanotte il cielo era un po' più sgombro dalle nubi, ma in lontananza si scorgevano ancora i lampi. L'Amoureux beveva qualche sorso da una bottiglia di Black Jack, mentre Charlie e l'impresario delle pompe funebri spalavano la terra e la passavano al setaccio. Dopo qualche tempo, Charlie cominciò a
sentire un indolenzimento alle reni: iniziò come una sensazione indolore, poi i muscoli gli si contrassero in un crampo. «Passami la bottiglia» disse. «Se potessi scegliere come nascere» rifletté L'Amoureux «vorrei uscire sotto forma di un'eruzione dal fondo dell'oceano, come uno zampillo di roccia fusa...» Charlie lo guardò. «Sei ubriaco.» «Non ancora. Ma quasi.» «Passami quella bottiglia.» All'improvviso, Charlie sentì il desiderio di rifarsi del tempo perduto. Bevve alcuni sorsi, con avidità, ma il dolore non fece che aumentare in tutta la gamba. La vecchia cicatrice ritornava a farsi sentire. Il dolore gli scese fino al piede, come se glielo avessero immerso nel ghiaccio secco. Hodge tornò a casa verso mezzanotte e portò con sé Bonnie, che lasciò al cimitero il camioncino. Charlie e L'Amoureux continuarono a lavorare e a bere, come se anche quello facesse parte del lavoro. Il dovere di ogni buon cittadino. Quando Ed l'impresario se ne andò, un'ora più tardi, Charlie non provava più alcun dolore. Aveva i muscoli saturi di adrenalina per la collera. L'aria sapeva di terra umida e portato dal vento giungeva il latrato nervoso dei cani. «Qui non troviamo proprio niente, amico mio» si lamentò L'Amoureux. «La sola ragione per cui rimango è perché mi rifiuto di tornare a casa prima di essere ubriaco. Ho sempre un incubo. Mia madre brandisce un coltello sui miei gioielli di famiglia. La lama cala mentre lei dice: "Questi, tanto, non ti servono, vero?". A quel punto mi sveglio.» Charlie rise. Ormai il cielo era limpido e le stelle erano troppo numerose per contarle. Il pianeta Venere brillava come se fosse di brace e qualcuno vi soffiasse sopra. Charlie era sporco di terriccio e tossiva a causa della polvere sospesa nell'aria. «Devo riconoscerlo» disse L'Amoureux. «Hai tenacia, amico mio.» «Te lo dico io cos'ho. Un bel pugno di mosche.» Nel cimitero si sentiva solo il loro respiro e le due pale che raschiavano sul terreno. Troppe lapidi, troppe lastre di granito lucido che si perdevano nell'oscurità intorno a loro. Negli aloni luminosi delle lampade volavano le falene e Charlie aveva le vesciche alle mani. L'ansia gli attanagliò il cuore quando esalò un respiro che sapeva di morte, mentre una goccia di sudore gli rotolava sul viso da una tempia. Nel silenzio, tra i respiri e il rumore delle pale, sentiva che i morti li spiavano. Legioni di morti. Bastava un i-
stante, una mossa sbagliata, e si finiva in mezzo a loro, orizzontale invece che verticale e con la terra che prosciugava lentamente la tua carcassa di ogni colore. «Rinunciamo?» «Non ancora» rispose Charlie. «C'è un cheeseburger che mi aspetta da Ruby.» «Alle due del mattino?» «Ruby è sempre aperto. Ci sono tante di quelle mosche che i suoi cheeseburger mettono le ali.» Si era alzato il vento e le foglie volavano da tutte le parti. Charlie smise di spalare. Gli pareva che gli avessero versato sulle braccia del piombo fuso. Il bruciore saliva fino al collo e alle spalle, concentrandosi sulle scapole. «La bottiglia» ansimò. L'Amoureux gliela porse. «Siamo entrambi esausti, amico» disse lo sceriffo. «È ora di posare la pala. Dobbiamo ancora riseppellire quelle bare.» Accesero il motore del camioncino e svolsero la pesante catena, la fissarono alle maniglie della cassa di Audra e la calarono nella fossa. La carrucola cigolava, il motore ruggiva, e alla fine la cassa toccò il fondo. Charlie dovette scendere a sganciare le catene. Gli sterpi secchi crepitavano sotto i suoi piedi nei pressi della buca. Quando si affacciò sullo scavo, venne colpito da un forte odore di terra smossa; alla luce della sua torcia, le ombre parvero balzare in movenze bizzose. Saltò giù ed ebbe l'impressione di essere inghiottito; si affrettò a sganciare la catena e nel risalire sentì un brivido, come se l'ombra di Audra gli si aggrappasse alla schiena. Calarono anche l'altra cassa e riempirono le fosse. Alla fine del lavoro, Charlie aveva tutta la parte sinistra del corpo rigida e infiammata. «E con questo abbiamo finito» disse L'Amoureux, ripulendosi le mani dalla polvere. «Vieni, allora?» «Dai cheeseburger volanti?» «Soffitto grigio di fumo, sei diversi tipi di torta di mele, purea di patate vere. Mmh.» Alla luce delle lampade, un nuovo dubbio si affacciò alla mente di Charlie. I due casi erano pressoché identici, a parte l'assenza dei denti estranei. Spesso i criminali psicopatici amano lasciare qualche prova, in una sorta di sfida alla polizia. O perché inconsciamente vogliono essere scoperti, oppure come beffa nei riguardi delle autorità. Si guardò intorno, illuminando le altre lapidi. "Moglie e madre adorata" diceva una. Maledizione, s'era scordato di Sophie. Che ora era? Poi gli
parve di vedere un luccichio sul terreno. Ma certo, le rose. Si inginocchiò e cominciò a scavare. «Che cerchi?» «Le rose.» «Rose? Che rose?» Sentì sotto le dita un cilindretto di plastica ed estrasse la prima rosa. Lo stelo era infilato in un tubicino da fiore reciso. I fiorai tagliano le rose quando sono ancora chiuse perché non vi entrino le api, poi le infilano in quei tubicini pieni d'acqua. Lo stelo era fermato in alto da un tappino di gomma, in modo che i fiori rimanessero freschi per almeno una settimana. «Oh» disse L'Amoureux «quelle rose.» Con le mani che gli tremavano Charlie illuminò il tubo di plastica e lo scorse immediatamente, in fondo al cilindretto. Un dente umano. Un pezzetto di smalto, dentina e polpa. «Guarda» disse, mostrandolo come un trofeo. «Ecco la prova che cercavamo.» 14 Charlie arrivò a casa alle tre del mattino e la trovò vuota. «Sophie?» La figlia non era nella sua stanza. Non era in soggiorno e neppure in cucina o in salotto. Poi notò che nello studio la luce era accesa e che il ripiano della scrivania era coperto di raccapriccianti foto dei delitti. «Merda.» Lui non le aveva lasciate così. Non lasciava mai quel tipo di fotografie dove la figlia potesse vederle. Uscì dalla porta posteriore e accese la torcia. Attraversò il cortile con i bidoni della spazzatura, passò in mezzo ai fagioli e al mais dell'orto, ai pomodori e ai meloni, e infine illuminò i fiori selvatici del campo dove probabilmente Sophie s'era rifugiata. Anni prima, quando Maddie era ancora viva, andavano a fare i picnic in quel campo, dove l'erba alta sembrava un mare che li volesse inghiottire. Laggiù c'era anche l'albero preferito della figlia, il posto dove andava a piangere da sola dopo la morte della madre. Arrivò ai folti sambuchi, dietro i quali si stendeva un'ininterrotta prateria, e non appena vide il pioppo e la figurina raggomitolata sotto di esso cominciò a rilassarsi. «Sophie?» disse a bassa voce, per non allarmarla. Lei si voltò; aveva la faccia gonfia. «Papà?» Era rannicchiata ai piedi dell'albero, con le ginocchia sollevate, strette protettivamente tra le braccia
sottili. L'albero era massiccio, più di un metro di diametro, e la corteccia brulicava di afidi e di formiche. Dal tronco si allargava l'ampia chioma, con migliaia di foghe appuntite che ondeggiavano lentamente. Quando soffiava il vento sembravano luccicare e, se si chiudevano gli occhi, il fruscio imitava le onde dell'oceano. Si sedette accanto a lei e sentì immediatamente che i calzoni gli si bagnavano di rugiada. Quando il suo respiro tornò normale, protestò: «Ma lo sai che ora è?». Si concesse il lusso della collera. «Mi hai spaventato. Era questo che volevi, farmi venire un infarto?» «Sì, e il mio diabolico piano ha funzionato.» Sophie fece una smorfia. «Dio come ti puzza il fiato! Hai bevuto?» Charlie si girò dall'altra parte. «Sei tornato in macchina ubriaco e ti preoccupi di me?» «Non dovresti stare qui in piena notte» ribatté Charlie. «Dico sul serio, Sophie. Che diavolo ti passa per la testa?» «Non cambiare argomento.» «Ah, sì? E qual è l'argomento?» «Che sei ubriaco. E che mi hai mentito. Avevi promesso di arrivare a mezzanotte. Sei un ubriacone bugiardo.» Non si aspettava quelle parole e ne rimase colpito. Si massaggiò il mento. «Ti sei di nuovo scordato di accendere il cellulare. Non avevo modo di raggiungerti» continuò lei. Charlie la fissò. «Perché non hai telefonato a Peg?» «Perché non volevo disturbarla. Volevo soltanto che tu tornassi a casa.» «Non prendertela con me, cara. Questa notte ho dovuto fare un lavoro molto sgradevole.» Lei lo guardò con sgomento. «Che lavoro?» «Non posso dirtelo.» «Perché no?» A quel punto era allarmata. «Ci sono alcune cose che non posso condividere con te, Sophie.» Gli passò per la mente un'intera serie di immagini, quelle che di solito gli apparivano in piena notte, quando era meno in grado di proteggersi. «Comunque... la mamma sarebbe andata in collera.» «Lo so.» Charlie abbassò la testa. «Io ti voglio bene, papà, ma mi fai perdere la pazienza.» Charlie non poté fare a meno di sorridere. Si sforzò di tornare serio, ma lei se n'era già accorta e lo guardava con un leggero disprezzo.
«Ti sembra divertente?» «No. Niente affatto.» Lei scosse la testa, disgustata. I rimproveri della figlia lo avevano colpito come un pugno in pieno petto. Charlie osservò la sua faccia cupa. Profumava di colonia dei grandi magazzini, i campioncini che regalavano alle clienti. «Ehi» le disse. «Perdonami.» «La mamma non te l'avrebbe lasciata passare.» «Lo so.» Le parole gli uscirono dalle labbra e scivolarono nel vento, come fumo. «Hai ragione. Basta con le scuse.» Alla luce della luna i campi vibravano di nuova vita, le foglioline verdi si aprivano come pugni chiusi. «Sono venuta qui e per un po' è stato bellissimo» disse Sophie. «Poi le ombre hanno cominciato a muoversi.» «Adesso è tutto a posto. Ci sono qui io.» Sophie si nascose la faccia tra le mani. «Non succederà più. Te lo prometto, cara.» Le accarezzò i capelli. «Tua madre non avrebbe mai voluto che tu fossi infelice.» «Ricordi i nostri picnic sotto questo albero?» disse Sophie, asciugandosi gli occhi e cercando di farsi coraggio. «Non ne abbiamo più fatti.» Charlie sentì una stretta al cuore. «Negli ultimi tempi non mi sembra di essere stato un granché come padre, vero?» Lei si raggomitolò su se stessa, con espressione ferita, e per qualche istante non si parlarono. Charlie aveva appoggiato un piede nel fango e si sentiva risucchiare la scarpa. A poca distanza si udiva un coro di grilli; i loro richiami di accoppiamento erano ritmici e dissonanti. Spense la torcia; la notte si rivelò loro lentamente, l'aria era tersa sotto la luna piena. In lontananza si scorgeva la zona centrale di Promise, riconoscibile dalle luci ammiccanti e giallastre. Era così il mondo quando finalmente riprendeva fiato? «Vuoi sapere che cosa mi dà più dispiacere?» disse Sophie, con la voce incrinata. «Che cosa?» «Di non essere stata con lei il giorno della sua morte.» «Tua madre era ridotta molto male, verso la fine.» Lei si asciugò una lacrima. «Sognavo sempre di lei, ma ora non mi succede più.» Charlie annuì in silenzio. Neanche lui la sognava più. Pensava molto a
Maddie, ma i suoi sogni svanivano con la nebbia del mattino. Solo gli incubi persistevano. Sophie lo guardò, serrando le labbra. «Il nonno dice che tutti noi, in fin dei conti, siamo solo cibo per i vermi.» «Tuo nonno è un imbecille, non dargli retta.» Lei guardò in alto; nei suoi occhi si rifletterono due lune in miniatura, due sfere scintillanti. Una lacrima le scivolò lungo la guancia. «Mi sono dimenticata di dirle una cosa» ammise. «Che cosa?» «Che era una mamma fantastica.» «Davvero? Diglielo adesso.» Con un brivido la vide concentrarsi per inviare nell'aria i suoi pensieri tristi e affettuosi. Poi, con un nodo alla gola, dovette distogliere lo sguardo. Il vento scavava fossi e canali nell'erba, lungo la prateria. Giungeva fino a lui l'attività delle creature notturne: pipistrelli che battevano le ali e procioni che scavavano, e il fruscio di qualche astuta moffetta. Aveva la gola secca e all'improvviso, con chiarezza cristallina, rivide l'incendio, la cenere che scendeva come fiocchi di neve. Gli tornò in mente la faccia paonazza del padre, la sua furia e i suoi pugni. Forse era stato talmente maltrattato, da bambino, da non poter più riconoscere le sofferenze della figlia. «Pensi che mi abbia sentito?» domandò Sophie, a bassa voce. «Certo» le rispose, chiedendoselo a sua volta. La strinse fra le braccia e sentì che si rilassava. Quando Sophie scoppiò a piangere, ognuno dei suoi profondi singhiozzi era una nota argentina come il suono di una campana. GEMME DI MAGGIO DAI VENTI SFERZATE 1 Tutte le assi della casa gemettero, come se mille chiodi venissero estratti nello stesso istante. Poi giunse un terribile colpo sordo, e la cinquantaquattrenne Birdie Rideout pensò con preoccupazione al suo mobilio svedese moderno, le basse seggiole con la seduta di tela, la poltrona reclinabile di suo marito Sailor, il tavolo del soggiorno, la camera da letto con la carta da parati rosa e cachi. La sua casa, la sua bellissima casa, stava andando in pezzi. Il tornado doveva essere molto vicino. «Qui siamo al sicuro?» domandò al marito per la centesima volta. Era passata da poco la mezzanotte del 10 maggio e faceva freddo; la tempesta
si era scatenata all'improvviso, inaspettata. Avevano avuto solo dieci minuti di tempo, dopo avere udito le sirene del municipio, poi era mancata la corrente. Sailor Rideout si massaggiò il naso tra pollice e indice. Era irritato con la moglie e il suo sguardo era fermo come quello di una statua di granito, nello sforzo di trasmettere una sorta di rude coraggio maschile. Si erano chiusi nello sgabuzzino e sedevano sulla stretta panca imbottita che sporgeva dalla parete. Birdie teneva in mano la torcia. La faccia di Sailor, illuminata dal basso, le richiamava alla mente una zucca di Halloween: sinistra, ma in modo teatrale. «È tutto a posto, piccola» le disse. «Ci colpirà, ne sono sicura!» «Dio ci ha protetti, finora, no?» Posò la mano su quella della moglie; lei sentì quanto fosse fredda. Da anni Sailor non si vedeva più le scarpe a causa della pancia, ma lei sentiva ancora accelerare i battiti del cuore quando lo guardava nei momenti in cui non pensava di essere osservato, mentre si passava una mano tra i capelli grigi o controllava le galline, con lo stomaco che gli tracimava dalla cintura dei calzoni. Qualcosa picchiò sul tetto come se volesse entrare; per qualche istante di terrore, Birdie immaginò che entrambi fossero portati via dal vento, come semi di soffione. Si strinse a Sailor. Quaranta minuti prima era comodamente seduta sul divano a guardare un film sul loro vecchio televisore Zenith. Sailor riusciva a dormire come un ciocco di legno davanti alla TV, ma non lei, che per entrare nel buio regno del sonno aveva bisogno di un bicchiere di latte caldo, qualche cuscino e le sue brave ore di programmi notturni. E adesso erano nel loro sgabuzzino, stretti come bambini spaventati, in attesa che il tornado li masticasse per poi risputarli in qualche altra parte della pianura. Udiva le finestre sbattere come ospiti maleducati. Da ogni punto della casa giungevano rumori sinistri e sentiva riecheggiare nelle ossa ciascuno di quegli urti. Il tornado era come un jet che puntava contro di loro. Quando appoggiò la mano sul braccio di Sailor, si accorse che tremava. «Sailor?» Posò la torcia e gli prese la mano, e in quell'istante sentì un colpo alle ossa pelviche. La panca vibrava. Le travi del tetto gemettero, sopra di loro. Lei non voleva morire. Aveva ancora molte cose da fare. «Guarda lì!» esclamò, fissando l'ovale di luce che filtrava da sotto la porta. Sailor si asciugò la fronte con la manica della camicia. «Sono i lampi.» «No, non è vero!» Prima che il marito riuscisse a fermarla, Birdie si alzò
e aprì la porta; i lunghi capelli grigi le batterono sulla faccia. Le parve di scorgere una figura che si muoveva all'interno della casa buia e in preda al caos; cercò di seguire con lo sguardo il fantasma, ma non vide più nessuno. Le tornarono alla mente alcune immagini della sua gioventù. I vestiti da sera... i barbecue di Natele... il suo primo rossetto... l'emozione di essere guardata dai ragazzi... la nascita dei figli. Birdie era sempre vissuta a Dogtooth, nel Texas; le sue due sorelle maggiori, invece, erano finite a Houston. Una aveva sposato un dottore, l'altra un avvocato. Lei aveva sposato il suo fidanzatino del liceo. Rabbrividì e chiuse la porta per proteggersi dal vento, poi si rivolse al marito. «Ti voglio bene!» gli gridò, cercando di farsi sentire in mezzo al sibilo dell'aria. «Lo sapevi?» «Non fare la stupida» gridò lui. «È tutto a posto!» 2 Giù nelle viscere del reparto di studi eolici, nella camera di lancio degli oggetti volanti regnava il silenzio della concentrazione, ma, incredibile a dirsi, lo stomaco di Willa Bellman continuava a rumoreggiare. Quella mattina aveva mangiato solo un po' di pane tostato e bevuto troppo caffè. Non riusciva a ingoiare il cibo, era colpa del tempo. La metteva in agitazione. "Sta' zitto, stomaco!" gli ordinò. Rick era intento a fissare uno zoccolo di plastica alla base del loro proiettile da sette chili. Sul lavoro era tutto concentrazione e puntiglio. "E dài, Rick, cerca di essere spontaneo, per una volta." Lavoravano bene insieme e sapevano prevedere ciascuno le mosse dell'altro, come due parti dello stesso meccanismo a orologeria. Come una danza complessa. «Pronto» disse. Insieme infilarono il cilindro di legno, lungo un metro e ottanta, nella canna del cannone ad aria. Legno di pino con un raggio di trenta centimetri in corrispondenza del punto di impatto. «Quanti test ci rimangono?» domandò Willa. «Impatto e sollecitazione ripetuta.» «Mio Dio, ci vorrà tutto il giorno.» «Questa era l'intenzione, baby.» «Ancora tre o quattro ore, come minimo.» Guardò l'orologio. Erano le dieci di lunedì mattina, in piena stagione dei tornado, e lei sentiva il sudore raccogliersi sotto le braccia, nonostante il costoso deodorante comprato in
profumeria. Quel giorno si sentiva uno straccio. S'era infilata in fretta un paio di calzoni da lavoro e due grandi orecchini a cerchio; i capelli unti, che sapevano di cocco, le scendevano sul collo come un canovaccio bagnato. Prese un elastico e li legò a coda di cavallo per evitare che le cadessero sulla faccia, poi guardò con rimpianto il portatile posato sul tavolo coperto di fogli. I dati scaricati dal computer mostravano un forte sistema dinamico che si allargava sul Texas e su parte dell'Oklahoma, un incantevole mulinello rosso. Oh, Dio! Immagini radar così affascinanti da lasciarla letteralmente a bocca aperta. Era andata a caccia di uragani per tutto il weekend ed era ansiosa di tornarci. Ancora e ancora. Non ne aveva mai abbastanza. La droga delle pianure centrali. «Il CFT ha diramato l'allerta tornado per il Texas orientale e l'Oklahoma centrale e nordoccidentale» disse a Rick. Il CPT era il Centro per la previsione delle tempeste di Norman, Oklahoma. «Gordo ha appena telefonato che si è vista una formazione a torre a nord di Texola.» «Il mio peggiore incubo» commentò lui. «Essere bloccato qui dentro in un giorno come questo.» «La radio KXDI ha parlato di un allarme per il Panhandle, ma i collegamenti radar del canale meteorologico non mostrano neppure un'eco, in quella zona.» «È questo il guaio. I loro dati sono sempre vecchi.» «Guarda che rotazione!» Willa si lasciò sfuggire un fischio. La ripresa dal satellite mostrava un bellissimo schema di nubi rotanti, una grande cellula rossa che si dirigeva a nordest. «Andiamo a rincorrerlo, eh, Rick?» Gli rivolse la sua classica occhiata seducente, sbattendo le ciglia. «Come?» disse lui, con irritazione. «Adesso?» «Sì, adesso. Perché no? Vuoi perderti tutto il divertimento?» Lui sorrise, diviso tra emozioni contrastanti. Poi, da perfetto guastafeste e da pignolo insopportabile qual era, scosse la testa. «Taci, diavolo tentatore. Jacobs voleva queste statistiche già ieri. Ci taglierà la gola.» «Be', allora... come direbbe la regina del soul, non sono troppo orgogliosa per supplicare.» Il suo complice aveva quell'espressione seria e calcolatrice che la faceva sempre sorridere, e la camicia infilata alla perfezione dentro i pantaloni, come un bambino piccolo. "Un cervellone in formato ridotto" pensò Willa. "Scommetto che i compagni ti facevano ogni sorta di scherzi, ti mettevano le puntine da disegno sulla sedia e ti appiccicavano bigliettini sulla schiena, perché sono esattamente le cose che facevano a me. Oh, ragazzi, quan-
do si è poveri bisogna sopportare di tutto. Vestiti di seconda mano, fuori moda e della taglia sbagliata. Con due sorelle maggiori, mi toccavano tutti i loro abiti smessi. E siccome non veniva abbastanza acqua dal pozzo potevo lavarmi i capelli non più di una volta la settimana. Con la pubertà sono arrivate anche l'acne e la forfora... Ce l'avevo sempre sulle spalle e le altre ragazze erano cattive con me perché ero povera e intelligente, una doppia maledizione essere 'troppo intelligente per le sue braghe', come dicevano dalle mie parti. Mi prendevano in giro senza pietà, come fanno a volte le ragazze quando scelgono la più debole, e verso la fine della settimana avevo sempre i capelli unti..." Era stato il padre a introdurla in un mondo completamente nuovo, la comunità dei cacciatori di tornado. L'aveva salvata dalle miserie della sua adolescenza e Willa aveva conosciuto persone simpatiche, intelligenti e con un grande senso dell'umorismo. Quando rincorrevi il vento, la terra ti scivolava via da sotto i piedi ed eri trasportata in un altro luogo, molto speciale. Anche suo padre era divertente, citava sempre Shakespeare: "Dovrò dunque assembrarti al dì d'estate? Più amabile tu sei, più temperato: gemme di maggio dai venti sferzate, troppo breve è l'estate in sua durata". Insultava gli altri cacciatori di tornado con versi che imitavano i sonetti di Shakespeare: "Tu sei un serviziale, per certo tu sei tale. Non hai occhi per vedere, o folle?". Era divertente, ma era anche severo e voleva che lei prendesse sempre i voti più alti, anche se all'epoca nessuno pretendeva dalle ragazze una grande intelligenza. «Non mi credi, se ti dico di essere disposta a supplicare Jacobs perché ci lasci andare a seguire l'uragano di oggi?» disse a Rick. «Pensi che non sia capace di inginocchiarmi davanti a lui?» Indicò lo schermo. «Guarda! Mucha attività!» «Mi concedo il beneficio del dubbio.» «È tempo da tornado, ragazzo mio. Garantito.» «Facciamo una cosa per volta. Concentriamoci sul lavoro che dobbiamo svolgere qui.» «Bene. È il tuo funerale, cocco.» La camera per il lancio degli oggetti volanti conteneva un cannone ad aria compressa capace di dare a un pezzo di legno una velocità di duecento e più chilometri l'ora in direzione del pannello sottoposto al test, per valutare la sua resistenza. La camera era lunga dodici metri e alta cinque, e quando si parlava al suo interno si sentiva l'eco. Le pareti spoglie erano verniciate di arancione per ravvivare l'ambiente, ma era un'allegria forzata
e riusciva soltanto a farlo sembrare ancora più opprimente. Dopo qualche ora trascorsa lì si provava il forte desiderio di uscire. Erano laggiù dalle sette del mattino. Willa attivò il timer elettronico, uno strumento che serviva a misurare la velocità dell'oggetto sparato prima dell'impatto. Poi passò alla parte posteriore del cannone e scelse il tasso di pressione dell'aria. La canna era lunga sei metri: un tubo di PVC dipinto d'arancione e bloccato da due supporti di metallo a ciascuna estremità. Il cannone era protetto dal rinculo mediante tre supporti angolari che correvano sul pavimento fino al fondo della camera, dove erano ancorati a vari sacchetti di sabbia. Quel giorno Rick e Willa dovevano provare la resistenza di alcuni pannelli in schiuma di cemento, ma il materiale non era all'altezza delle aspettative. La ditta produttrice, la KeepSafe, era specializzata in rifugi antitornado e si augurava di ottenere il certificato del laboratorio federale, ma quella speranza era destinata ad andare delusa. Almeno finché il giudizio fosse spettato a Willa. «Perché non possiamo scrivere sul modulo "Questo prodotto è una merda"?» disse la donna. Rick perse la sua espressione contrariata e sorrise. «Ah-ah! Una prima crepa nella facciata. Due sorrisi in un'ora!» commentò lei. «Sei un caso disperato.» «Perché non dai un'occhiata?» Indicò lo schermo con le immagini radar. «Masse d'aria in collisione! Si annunciano brutte e grosse tempeste!» Rick continuava ad aggirarsi scrupolosamente intorno all'apparecchiatura, controllando tutto due volte e annotando i dati, ma Willa si rese conto che la sua fermezza cominciava a vacillare. «Lo vuoi anche tu» gli disse all'orecchio. «Lo vuoi da pazzi.» «Basta.» «Dài, ammettilo.» Dalla radio giunse la voce bassa e bellissima di Lou Reed quando era nei Velvet Underground. «Questa volta proviamo a una velocità più bassa» suggerì Rick. «Più bassa? Quanto più bassa? Perché non lo colpiamo con un uovo marcio? È ovvio che questa merda non soddisfa gli standard federali. Gli ultimi due pannelli non li raggiungevano neppure lontanamente, muchacho.» «Consideralo un favore personale.» Willa sospirò; si sentiva morire di frustrazione. Voleva sentire sulla faccia l'aria carica di umidità, il vento nei capelli. Se ci fosse stato suo padre,
avrebbe preso lei e la macchina fotografica e sarebbero partiti sulla sua vecchia Rambler malconcia; loro due soli, per dirigersi al di là dell'orizzonte. Suo padre riusciva a muovere le orecchie. E a fiutare i fulmini. Lei abbassava il finestrino e sollevava la faccia verso il cielo, in modo che le grosse gocce di pioggia la baciassero sulle labbra e sulle palpebre. Un rombo di tuono significava un'altra fermata per montare il treppiede. "Il bacio della morte" le diceva suo padre. "Preparare la macchina fotografica per riprendere un lampo è il bacio della morte. L'istante in cui apri l'otturatore... fizz. Fine del lampo." In fondo alla camera, sotto le mattonelle acustiche del soffitto, c'era un pannello con la scritta "KeepSafe", fissato con otto morsetti gialli a un telaio. Il telaio aveva due funzioni: primo, reggere il pannello sotto esame; secondo, impedire all'oggetto di colpire la parete posteriore. Willa attese con impazienza che salisse la pressione dell'acqua nel serbatoio da trecento litri nella stanza adiacente. Era una stanza delle dimensioni di un ripostiglio, con un ampio finestrino di vetro infrangibile. Il serbatoio era collegato al cannone ad aria mediante una valvola comandata a distanza. «Alto rischio di trombe d'aria nell'area della previsione» disse Willa. «Ci si aspetta che le supercelle isolate diventino tornadiche nel pomeriggio.» «Basta.» Rick allineò accuratamente la canna con il centro del pannello. «Mi fai morire.» «Seguimi, se hai il coraggio.» «Che cos'hai, oggi?» «Nubi di tempesta.» «Torna in te, donna.» «Vuoi davvero che lasci perdere?» Rick la fissò per un istante, con preoccupazione. «Vuoi la verità?» «Solo quella.» «No.» «Oh, questa sì che è una bella notizia! Spicciamoci. Gli dèi delle tempeste ci sorridono.» «Però, prima finiamo questa prova, d'accordo?» «D'accordo.» Con un soffio, Willa spostò alcune ciocche di capelli che le erano cadute sugli occhi. «Aspetto che raggiunga la pressione» disse, dando un'occhiata all'orologio e poi allo schermo del portatile. Mentre la minaccia di trombe d'aria aumentava, poteva immaginare tutti gli avvertimenti che correvano da uno Stato all'altro. Una buona notizia per qualcuno, una cattiva notizia per la maggioranza. Perdere in un batter d'occhio
tutti i propri beni non era una bella cosa. Willa aveva visto infinite volte la forza tremenda di quei fenomeni. Eppure le statistiche parlavano chiaro. I tornado causavano solo ottanta morti l'anno, in America; le piscine domestiche quattromila; gli incidenti d'auto quarantamila. «Questa volta ho fissato la velocità d'impatto a centosessanta» lo informò Willa. «È abbastanza bassa.» Rick accese la telecamera e cercò il telecomando. «Preparati all'impatto.» Willa s'infilò le cuffie e fece un profondo respiro mentre Rick premeva il pulsante del telecomando. Immediatamente la valvola si aprì liberando l'aria compressa; con un colpo sordo, il proiettile di prova uscì dal cannone ad aria. Il cannone aveva sparato il proiettile di legno a una velocità spaventosa. Talmente rapido che l'occhio non riusciva a seguirlo. E il fragile materiale della KeepSafe era andato in pezzi. Willa emise un fischio. «L'avresti mai pensato?» disse Rick, prendendo nota sul suo taccuino. «Perforazione totale del pannello di prova.» La donna si tolse le cuffie, si ravviò i capelli e si diresse al pannello rotto. Constatò che il telaio di legno non era stato danneggiato. Aprì i morsetti e posò a terra il pannello. «Ha forato la superficie e attraversato l'isolante» comunicò. «La superficie posteriore si è staccata a scaglie.» «Sì, lo pensavo anch'io. L'ho cronometrato a 165,4 chilometri l'ora. Un altro test fallito.» «Questa gente farebbe meglio a ritornare al tecnigrafo» disse Willa, togliendosi gli occhiali protettivi e massaggiandosi il naso. Raccolse il taccuino e annotò con cura i risultati. Perché un rifugio ottenesse il certificato, pareti, tetto e porte dovevano resistere alla penetrazione da parte dei frammenti portati dal vento. Se il materiale non superava il test sull'impatto di frammenti volanti, eseguito secondo un regolamento del novembre 1993, il certificato non veniva assegnato. E senza certificato non poteva essere messo in commercio. «"Io sottoscritta, Willa Bellman"» lesse sul modulo «"dipendente del laboratorio eccetera, testimonio sotto la mia diretta responsabilità eccetera, e dichiaro che, per quanto da me verificato, i test di impatto sugli elencati pannelli non soddisfano i requisiti... E sottolineo non."» «Con quei pannelli puoi farci un aquilone; basta legarci un cordino.» «Metti il timbro "Test non superato" su questo pannello.» Guardò di
nuovo l'orologio. «Adesso vado a cercare Jacobs. Puoi finire di compilare il modulo per me? Voglio andare via per luna, altrimenti mi perderò tutto il divertimento.» Rick rise con aria incredula. «Dio, come siamo fiduciose.» «Non preoccuparti. Herr Professor è creta da modellare, nelle mie mani.» S'interruppe per un momento, con le mani sui fianchi. «Cosa ne dici, devo invitare Charlie?» Lui la guardò con aria di superiorità. «Charlie?» Socchiuse gli occhi e sorrise. «Sei in calore per lui, vero?» Willa arrossì. «Non è così? Puoi ammetterlo, sei tra amici.» «Ti rispondo con quattro parole. Piantala di dire cazzate.» «Mio Dio, quanto siamo permalose.» «Smettila! Gli ho offerto di portarlo a caccia. Diceva che poteva essergli utile per l'indagine. Che c'è di strano? Oggi è una giornata buona come un'altra, n'est-ce pas?» «Certo.» Rick abbassò la testa e tornò a compilare il modulo. Willa lo fissò ancora per qualche istante, come se avesse bisogno della sua approvazione. Le girava un po' la testa e si sentiva agitata. «Mmh, lasciamici pensare e rimandiamo per un momento.» Rick alzò lo sguardo. «Mi fai impazzire. Cosa aspetti?» «Non lo so. Che cosa aspetto?» Distrattamente, si sciolse la coda di cavallo e lasciò che i capelli le cadessero sulle spalle. «Forse non è affatto una buona idea.» «E perché non dovrebbe esserlo?» «Non lo so.» «Guardati, sei adorabile.» Lei fece una smorfia. «Ho la faccia tonda come una scodella. E le orecchie a sventola.» «Piantala di vantarti, mi fai venire il voltastomaco.» Le porse il cellulare. «Ecco qui. E scatenati.» Lei si spostò verso il portatile, dove l'immagine radar continuava a ripetere il suo vortice seducente: inseguimi, inseguimi. Una massa di nubi così grande da ricoprire due Stati. Rick finse di non ascoltare mentre lei componeva il numero della stazione di polizia. «Pronto?» disse. Si sentì avvampare e dovette sedersi. «Charlie? Sono io, Willa Bellman. Ascolta, ti va di venire a caccia con noi?» Charlie ebbe qualche istante di esitazione. «Adesso?» La comunicazione
era disturbata da scariche elettrostatiche. «Adesso è un momento buono come un altro. Il cielo è perfetto. Che ne dici dell'una?» Una lunga pausa. «Ascolta, le immagini del satellite sono grandiose.» Willa sentiva il cuore accelerare il battito. «La temperatura di condensazione è salita intorno ai diciotto gradi. Ci aspettiamo una zona pre-tornado nell'Oklahoma occidentale, oggi pomeriggio, per la componente est dei venti di superficie a nord del confine del fronte...» Charlie rise. «Non ho capito niente. Che lingua parlavi?» «Sei molto spiritoso per essere un poliziotto.» «E tu per essere un quello-che-sei del vento.» «Ingegnere del vento.» Willa sorrise. «Allora, d'accordo per l'una? Passo a prenderti.» «Mi pare ottimo.» Le diede l'indirizzo e lei lo annotò. La penna minacciava di sfuggirle dalle mani. «Bene» disse chiudendo la comunicazione. Si guardò intorno. Si sentiva un po' assurda. Gli aveva promesso una battuta di caccia prima ancora di parlare con Jacobs. Aveva perso la testa? Rick si aggiustò gli occhiali che gli erano scivolati sul naso. «Allora? Viene anche lui?» «Sì. Ecco il programma. Io vado a supplicare Jacobs e tu prepari la batmobile.» Cercò le chiavi e gliele lanciò. Rick le afferrò al volo. «D'accordo?» «Dopo di lei, contessa.» Mentre si avviava alla porta, Willa non poté fare a meno di sorridere. 3 Mike Rosengard comparve sulla soglia, con il completo ben stirato e lo sguardo stanco. «Buone nuove?» domandò, notando il sorriso di Charlie. «Pare che questo pomeriggio debba andare a caccia di tempeste.» Il suo migliore amico, nonché coscienza morale, guardò in direzione della finestra. «Madre Natura è irascibile, oggi. Meglio non andarle tra i piedi.» «Forse potrò annotare qualche altra targa. Parlare con i cacciatori. Farmi un'idea.» Si tirò il labbro, poi notò la busta che Mike teneva in mano.
«Buone notizie, mi auguro.» «Finalmente sono arrivati i rapporti dal laboratorio. Il sangue è stato analizzato: appartiene alle vittime.» «Anche quello in terra?» «In terra e sulle pareti, le strisce, le macchie, le gocce e quello sugli scalini.» Non era una buona notizia. «E le impronte?» Mike prese dalla busta un mazzetto di fogli e si sedette. «Delle novantatré impronte che abbiamo rilevato sul luogo del delitto, diciotto appartengono a Rob Pepper, ventuno a Jenna, dodici a Danielle e le altre ad amici, parenti e investigatori. Non è stato possibile ricavare impronte dai frammenti di legno.» «Significa che non si è mai tolto i guanti.» «Così pare.» Charlie si guardò intorno e ogni particolare dell'ufficio gli ricordò le settimane trascorse a esaminare i noiosi dettagli del caso. Deposizioni dei testimoni, foto scattate sulla scena del crimine, tazze da caffè vuote, cestini pieni di fogli. Occorreva una grande pazienza per affrontare un caso come quello. Avrebbero avuto bisogno di maggiori mezzi: più personale, più fondi per gli straordinari, più fortuna. «E i capelli?» domandò. «Abbiamo dei capelli che probabilmente appartengono a Jenna, Rob e Danielle. Più un capello biondo e altri sette castani di varie lunghezze di provenienza ignota.» Charlie scosse la testa. «Anche se riuscissimo ad attribuirli al sospettato, in tribunale non reggerebbe. Potrebbe essere stato il tornado ad averli depositati nella casa.» Mike lesse il resto del rapporto. «Nessun capello ha la radice, impossibile fare la prova del DNA.» Anche Charlie sapeva che nessun esaminatore forense poteva determinare con assoluta certezza l'appartenenza di un singolo capello senza la prova del DNA, e che per eseguire questa prova occorreva una radice o un frammento del tessuto follicolare. «Allora, riassumendo, non abbiamo macchie di sangue, non abbiamo impronte e non abbiamo sospetti.» Alzò lo sguardo al soffitto, come in cerca di una risposta. «Sono tentato di chiamare un chiaroveggente.» «Lo sai che la maggior parte di loro non si accorge neppure che sei un poliziotto?» Charlie sorrise. Le tapparelle vibrarono sotto un forte soffio di vento.
Dalla finestra dell'ufficio, Charlie godeva di un'incantevole vista sul parcheggio, compreso il cartellone pubblicitario delle fosse settiche di Bemie. Annidata nelle viscere di granito del tribunale, la stazione di polizia comprendeva quattro piccole celle, una sala per gli agenti che serviva anche da refettorio e la scrivania per le denunce nell'ingresso. L'ufficio di Charlie al pianterreno era pieno fino al soffitto di scatoloni contenenti vecchi dossier e di pannelli con affissi i turni di servizio. A causa dei tagli al bilancio, i cestini venivano svuotati solo una volta la settimana. «E poi abbiamo questa.» Mike gli passò la foto di un'impronta parziale di scarpa, di colore rosa perché era stata trattata con la diaminobenzidina. «Dove l'hai trovata?» «I ragazzi del laboratorio di Stato sono incredibili» disse Mike. «Ricordi quel mucchio di vetri rotti in cucina? Li hanno rimessi insieme come se si fosse trattato di un puzzle, lo chiamano accoppiamento delle superfici di frattura, e hanno trovato questa impronta parziale. Bel colpo, vero? Risulta appartenere a una scarpa da jogging di una marca molto diffusa, piede sinistro. I tecnici del laboratorio, però, non sono d'accordo sul numero.» Charlie annuì. «Non sono d'accordo?» «Sono indecisi tra il quarantaquattro e il quarantacinque, maschio. Per avere la certezza dovrebbero compararla con la scarpa del sospettato.» «Intendi dire la scarpa del sospettato che non abbiamo?» «Sì, proprio lui.» Rise ironicamente, poi prese di tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte. Aveva la faccia gonfia e sudata. «Come mai questo caso fa sudare me e non te?» Charlie sorrise. «Sei riuscito a dormire la notte scorsa?» «Scherzi? Non ho fatto che rigirarmi nel letto, e poi, quando stavo per addormentarmi, hanno cominciato a battere.» Charlie sapeva che cosa intendesse dire. La giornata iniziava con il rumore dei martelli pneumatici. La mattina presto, ancora prima che si svegliassero le galline, il ruggito dei bulldozer annunciava l'arrivo dei falegnami, degli idraulici e dei muratori. Un terzo della città assomigliava a una zona di guerra con i falò e gli alberi spogli, le scritte IN VENDITA INFORMAZIONI IN CANTIERE. C'era un tale numero di cartelli da far pensare che si fosse in un anno di elezioni. La gente abbandonava la zona a sciami, e la stima dei danni continuava a salire. L'agenzia federale per gli interventi di emergenza aveva comunicato le cifre relative all'intera contea: 137 case monofamiliari erano andate distrutte, altre 420 erano state danneggiate; 65 fattorie su 760 erano in rovina. A Promise la cisterna dell'ac-
qua, schiacciata come una lattina di birra, era caduta dall'altro lato della strada e aveva spazzato via un intero allevamento di polli. I danni erano valutati in quaranta milioni di dollari, ma la cifra continuava a salire, e ogni giorno c'era ressa allo sportello dei mutui agevolati. «Ho lasciato la città» disse Mike «perché a Boston la sola cosa che si vedeva erano le finestre dei vicini. Quaggiù spazi fino all'orizzonte, ma adesso quell'orizzonte mi mette paura.» «Non trasferirti sulle colline come fanno gli altri.» «Scherzi? Noi rimetteremo tutto in sesto rimboccandoci le maniche. Noi siamo Rosengard.» Sorridendo, Charlie gli riconsegnò la fotografia. «Che altro hai per me, Mike?» «Questa ti piacerà, capo. Le fibre trovate sugli abiti delle vittime.» Estrasse dalla busta un altro rapporto. «Numerose fibre di lana, di colore blu scuro, sono presenti su tutte tre le vittime.» «Il mio cuore ha ripreso a battere.» Rapidamente, ma con attenzione, Charlie lesse il rapporto. «Allora cerchiamo un capo d'abbigliamento di lana blu scuro. Guanti, golf, sciarpa, magari un passamontagna.» Mike aggrottò la fronte. «Faceva un po' caldo per vestirsi di lana, non credi?» «Non faceva molto caldo il 15 aprile. Prima che la tempesta colpisse c'era abbastanza afa, ma poi la temperatura calò bruscamente.» «In ogni caso, chi vuoi che si vesta di lana con quegli sbalzi di temperatura?» Charlie sentiva la tensione della giornata irrigidirgli le spalle, all'attaccatura del collo, e annodargli i muscoli. "Avrei dovuto capire che c'era qualcosa che non andava, prima che Maddie si ammalasse. C'erano tutti i segni: mal di testa, nausea, confusione, insonnia e incubi. I sintomi di un tumore al cervello. 'È l'influenza' ripeteva lei. 'Ultimamente mi sono affaticata. Passerà.' Ma non era passata. Le brutte notizie arrivano in quel modo, accompagnate da segni, e per tutto il tempo ho avuto un vago presentimento che non avrei dovuto ignorare." «Siamo passati di porta in porta in tutte le case nel raggio di cinque chilometri» disse Mike, sbattendo gli occhi come le ali di una falena. «Non hanno visto nessun estraneo. Nessun veicolo sospetto.» «Cosa mi dici di Conrad Holzman?» «Ha un alibi solido come una roccia, capo.» «E Jonah Gustafson?»
Mike si massaggiò un occhio e poi si guardò le unghie. «È stato fermato un paio di volte per guida in stato di ebbrezza e ha alle spalle una denuncia per tentato stupro, ma risale al 1981. Abbiamo un numero di telefono ma non risponde.» Charlie batté i polpastrelli sulla scrivania. «Continua a cercarlo. Voglio parlargli.» «Ti ho lasciato il meglio per ultimo.» Mike prese un altro rapporto del laboratorio e ne esaminò le pagine. «Hanno trovato liquido seminale nella vagina di Jenna Pepper, e non è quello di Rob. È di qualcun altro. AB positivo.» Charlie si passò la mano sul mento. Si ricordò di non essersi fatto la barba. «E la ragazzina?» Mike esaminò un altro foglio. «Qui dice che non hanno trovato graffi o contusioni, nessuna ferita da penetrazione alla vagina. All'interno del corpo o sulla pelle non c'erano tracce di liquido seminale. L'imene era intatto. Questo mi toglie un peso.» Scosse la testa. A nessuno piaceva pensare alla ragazzina uccisa. «Per quanto riguarda Jenna, presto dovrebbero avere i risultati sul DNA.» «Fammi vedere.» Mike gli passò il rapporto. Charlie lo lesse con attenzione. All'inizio si era aspettato che entrambe le vittime mostrassero segni di violenza, dato che quel tipo di ferite - ripetuti tagli e pugnalate al corpo - suggeriva una motivazione sessuale. «Anche sul corpo di Jenna niente lacerazioni né contusioni, nessuna prova di ferite o mutilazioni sessuali. Solo liquido seminale all'interno del corpo.» Si strinse nelle spalle. «Quando arriveranno i risultati sul DNA?» «Tra una settimana.» «Non puoi mettergli un po' di fretta?» «Parlerò con Art Danbury.» Sorrise. «Ho qualcos'altro per te, capo.» Charlie lo guardò. «Oggi sei pieno di sorprese.» «Indovina chi c'è nella stanza degli interrogatori?» «Che cos'è, un quiz?» «Jake Wheaton.» Charlie lo guardò aggrottando la fronte. «Si è presentato di sua spontanea volontà?» «L'abbiamo arrestato per possesso di sostanze stupefacenti. Hai un minuto?» «Scherzi?» Charlie si alzò. «Andiamo subito a dargli questo dispiacere.»
4 Jake Wheaton sedeva davanti alla scrivania e si guardava le unghie. Portava una giacca a vento con il cappuccio, jeans e un paio di scarpe da ginnastica da poco prezzo. «Che numero di scarpe porti?» gli domandò Charlie. «Eh?» «Il numero di scarpe. Svegliati.» Jake fece spallucce. «Quarantaquattro e mezzo. Ma perché?» Charlie gli sedette davanti mentre Mike andava alla finestra e tirava le tendine. La stanza era piccola e spartana. Un tavolo e alcune sedie, una lampada appesa al soffitto e il pavimento di assi di legno. Nient'altro. «Voglio telefonare a mio padre» disse Jake. Alcune ciocche dei suoi lunghi capelli erano pettinate verso l'alto e irrigidite dal gel, e sotto gli occhi aveva occhiaie profonde. Charlie annuì. «Prima parliamo un attimo.» «Non credo proprio.» «Ascoltami, Jake. Ti sei fatto beccare per possesso di sostanze stupefacenti, ma noi potremmo lasciar cadere la cosa.» Il ragazzo lo fissò; nei suoi occhi si leggeva il primo accenno di dubbio. «Ti interessa?» «Come sarebbe... Una sorta di scambio?» «Può darsi» annuì Mike. «Se farai il bravo e collaborerai, potremmo scordarci di quello che è successo.» «Nessuno ha ancora steso un verbale» aggiunse Charlie. Il ragazzo abbassò il cappuccio della giacca a vento e se lo passò sul mento. «Prima voglio parlare con mio padre.» disse. «Non ho diritto a una telefonata o qualcosa del genere?» «Ti offriamo un'occasione unica.» «Dagli retta» intervenne Mike. «Ti sta trattando bene.» «Rifletti» disse Charlie. «Stiamo parlando del tuo futuro.» Nella stanza scese il silenzio. Jake osservò Charlie con aria critica, come se fosse uno specchio. «Che cosa volete che faccia?» «Parlaci di Jenna Pepper.» Il ragazzo distolse lo sguardo. Dopo una lunga pausa, disse: «Okay, d'accordo».
«Sei disposto a rivelarci tutto? Chi frequentava? Quante volte? Le date? I particolari?» Il ragazzo chinò la testa. «Va bene, vuol dire che farò la spia al mio amico.» Charlie e Mike si scambiarono una rapida occhiata. «Che amico?» 5 Sophie Grover si sedette sul muretto dietro il liceo e bevve un altro sorso di coca light. Boone Pritchett la guardava con occhi talmente blu che sembravano usciti dal sacchetto delle bilie. Aveva gli stivaletti da motociclista tinti di bianco e il portafoglio legato a una catena. «Vieni a caccia di tornado con me, Sophie» implorò. Lei sentì crescerle in gola un accenno di risata. Il calcagno delle sue scarpe rosa batteva il ritmo contro i blocchi di cemento del muro, mentre ascoltava il vecchio motivo jazz suonato dalla brutta radio di plastica di Boone. «Mio padre non vuole che venga con te» gli disse. «Pensa che sei di cattivo esempio.» «E probabilmente lo sono.» Lei lo guardò con la coda dell'occhio. «Mi piace andare contro il sistema. Che cosa c'è di tanto sbagliato?» Il muretto era pieno di ragnatele; reti più sottili della garza, disseminate di frammenti di foglie e carcasse di insetti. «Dai» la incitò lui. «Una volta tanto, cerca di avere uno spirito avventuroso.» «Non posso.» «Perché?» «Perché non ho mai bigiato la scuola in vita mia.» «Bah. Non si accorgeranno nemmeno della tua mancanza.» Sophie gli rivolse un sorriso nervoso. Dall'altra parte della strada, su un cavo telefonico era posata una fila di passeri e al di là c'era solo l'orizzonte. Tra le nubi si scorgevano grosse strisce nere. Presto sarebbe piovuto. «Vedi quel cirrostrato lassù in alto?» disse Boone. «È l'aria che vogliamo. Oggi verrà giù il finimondo, lo sento.» «Davvero?» «C'è tutto il necessario: calore, umidità e masse d'aria in collisione, non occorre altro. Il tempo di prendere un po' di soldi al bancomat e via.»
«Dico sul serio, Boone. Mio padre mi ammazzerebbe.» «E come fa a scoprirlo?» Lei lo guardò. «Lo informerebbero dell'assenza.» «No. Io conosco tutti i trucchi. Che lezione hai?» Lei rise. «Non ti arrendi mai?» Boone aveva gli incisivi leggermente inclinati, come i bambini piccoli, e ogni volta che rideva gli s'illuminava l'intera faccia, e diventava un'altra persona. Più dolce. «Puoi seguire le regole per tutta la vita e finire come un sorcio» disse. «Oppure puoi inseguire i tuoi sogni e venire con me.» La tentazione era forte. Il sole si affacciò per un momento attraverso le nuvole e Sophie inclinò la testa per assorbire quel tepore fuggevole. Dietro di loro, dalla scuola, veniva il rumore degli armadietti che si chiudevano; l'intervallo per la colazione era quasi terminato. «Ehi» disse Boone, spegnendo la terza sigaretta. «Tuo padre è appena sceso dall'auto.» Sophie aprì gli occhi. Suo padre aveva parcheggiato accanto al pickup di Boone, verniciato di rosa. Adesso si dirigeva verso di loro; sotto il berretto da poliziotto si scorgeva la sua espressione severa. Aveva la fronte solcata da quelle che sono chiamate "rughe di preoccupazione", e amava dire che gliene veniva una ogni anno da quando lei ne aveva compiuti tredici. A Sophie dava fastidio la sua abitudine di nascondere dietro la schiena il braccio sinistro perché non si vedesse la cicatrice; le dava l'idea che cercasse protezione. «Papà» disse, alzandosi. «Ciao, tesoro.» Rivolse un'occhiataccia a Boone, ma continuò a parlare alla figlia. «Hai lezione, adesso?» «Sì. Stavo giusto andando.» Charlie abbassò lo sguardo e contò i mozziconi di sigaretta ai piedi di Boone. Il ragazzo fece per allontanarsi. «Resta qui, figliolo» disse Charlie. «Dobbiamo parlare. Hai un minuto?» «Sì, signore.» «Ci vediamo più tardi, Sophie.» «Sì, ora vado a lezione. Ciao.» Scivolò all'interno dell'edificio buio e li osservò da dietro la porta a vetri. Il padre indicò il parcheggio e Boone lo seguì dall'altra parte della strada, fino al pickup rosa. Arrivato là, appoggiò protettivamente la mano sul cofano. Sophie li guardò per parecchi secondi, perplessa, chiedendosi se qualcun altro nella scuola fosse in grado di sentire il suo cuore, tanto batteva forte.
6 Nel corso di un interrogatorio non si devono mostrare segni di tensione. Bisogna rimanere impassibili e fare cinque domande fuorvianti per ciascuna seria. Non si deve avere fretta; la verità viene fuori da sé, gradualmente. Ma Charlie aveva il cuore in fiamme. Sua figlia era infatuata di un ragazzo che aveva fatto sesso con una donna con il doppio dei suoi anni. Dio solo sapeva quali altri orrori si nascondevano dietro quella sua faccia dall'apparenza innocente. «Hai fatto sesso con Jenna Pepper» gli disse senza mezzi termini. «Tu e Jake Wheaton.» Boone si guardò intorno con indifferenza, come sé riflettesse su quanto era appena successo. «Vuoi spiegare meglio la cosa?» Charlie inghiottì la saliva e si passò una mano tra i capelli, poi si rimise il cappello. «Parlami. Parlami di te e Jenna che fate le porcherie sul sedile posteriore della sua Pontiac.» Senza battere ciglio, Boone si accese una sigaretta, poi lanciò un'occhiata alla scuola, come se sentisse il desiderio di trovarsi laggiù... una cosa ridicola, considerato che era l'allievo che nel corso dell'anno aveva collezionato il più alto numero di assenze ingiustificate. Festoni di muschio spagnolo pendevano elegantemente dalle querce di fianco all'ingresso, mentre gli studenti rientravano a gruppetti di tre o di quattro. Charlie conosceva Boone fin da quando era un ragazzino smunto con una perfetta aria da chierichetto. Fin da piccolo mostrava tendenze asociali, e già allora aveva il fuoco negli occhi. Charlie si era impegnato molto per rimetterlo in carreggiata. Lo aveva inserito nel programma scolastico per il tempo pieno, con un percorso didattico personalizzato, e aveva costretto varie volte la madre a entrare in comunità. Non era servito a molto. Boone era l'ultima persona al mondo che avrebbe voluto vedere insieme a sua figlia; arrogante e pieno di sé, a volte simpatico, sempre infido. Charlie guardò il teppistello con una tale ira che, se si fosse concentrata ancora un po', gli avrebbe scavato un buco nel cranio. «Parlami del 15 aprile» gli disse. «Dov'eri, quel giorno?» «Io?» rispose Boone in tono difensivo. «A caccia di tornado.» «Qui a Promise?» «No, amico. Ero giù a sud.» «Dove, esattamente?» «Questa cosa durerà a lungo? Ho la lezione di matematica.»
«Farai in tempo per l'appello» rispose Charlie, ironicamente. «Adesso, per favore, illuminami, dov'eri il 15 aprile? Dammi qualche particolare.» Boone si infilò le mani nelle tasche. «C'era quel sistema temporalesco che si stava accumulando, una bella fila di nubi di tempesta intorno a Burns Flat, Roll e Reydon. Quella zona.» «C'era qualcuno con te?» «No, amico.» «Un'altra cosa. Io non sono un "amico", per te. Io sono il tuo peggiore incubo. Quando ti rivolgi a me, di' "signore".» «Sì, signore» mormorò il ragazzo. «Hai fatto benzina?» Si passò la mano nei capelli. «Sì, probabilmente.» «Sì o no?» Boone lo guardò con espressione ostile e annoiata. «Ehi, mi hai scambiato per un muro? Ti sto dando fastidio, Pritchett? O eri intento a pensare? Già, forse pensavi. Sento puzza di bruciato. Hai fatto benzina?» Boone lo guardò con aria minacciosa. «Sì, l'ho già detto.» «Quante volte?» «Due, mi pare.» «E come hai pagato?» «In che senso?» «Siamo nel Ventunesimo secolo, Pritchett. Io inserisco la carta di credito, infilo la pompa nel serbatoio e faccio il pieno. E tu?» «Ho pagato in contanti.» «Bene, ce l'abbiamo fatta. Ora veniamo alla domanda successiva, Einstein. A che distributore ti sei fermato?» Il ragazzo alzò le spalle. «Non lo so. Shell, mi pare.» «Tutt'e due le volte?» «Mi pare di sì.» «Faresti meglio a non raccontarmi balle.» Boone mormorò qualcosa di incomprensibile. «Cos'hai detto?» Il ragazzo gli rivolse un sorriso di sfida e Charlie gli mollò un ceffone, con una tale forza da farlo indietreggiare. Fissò la carotide del ragazzo, che pulsava freneticamente, e sentì il desiderio di strappargliela. Davanti a lui c'era l'ennesimo ragazzino drogato, proveniente da una famiglia disgregata, che trattava senza alcun rispetto le ragazze come Sophie. Usale e gettale
via. «Ho questa passione per le tempeste» gridò Boone. «Vuoi arrestarmi per questo? E tieni giù quelle manacce!» Charlie sentì che i vecchi trapianti di pelle si tendevano. Avrebbe voluto prendere per la gola quel maledetto ragazzo finché non fosse diventato di un bel colore paonazzo. «Gira alla larga da mia figlia» aggiunse, a bassa voce. «Hai sentito?» «Sì, ho sentito.» «Hai sentito, ma hai anche capito?» Lo guardò minacciosamente. «Non ha alcun bisogno che tu le rovini la vita. È una persona seria. Io non permetterò che succeda.» Anche a distanza, Charlie, sentì nettamente che inghiottiva a vuoto. «E, ricorda, ti ho chiesto informazioni con le buone maniere.» Proprio in quel momento sentì suonare il cellulare. Voltò la schiena al ragazzo. «Sì?» rispose con irritazione. «Capo?» Riconobbe subito il tono petulante del suo vice Lester Deere. «Che c'è, Lester? Sono occupato.» «Dio, ho da dirti una cosa veramente importante.» «Cos'è, Lester?» «Ho la pistola sulle ginocchia e sono qui che guardo la porta.» 7 Charlie entrò nel bar e aspettò per qualche istante che i suoi occhi si abituassero alla penombra. Lester sedeva in un angolo dell'Howling Dog Saloon: aveva la sedia girata di lato e teneva la pistola infilata nella cintura dei calzoni. Non c'era niente di strano in quella posizione. Molti poliziotti siedono con la schiena al muro e rivolti verso la porta perché non si sa mai chi può entrare. «Due caffè» disse Charlie alla cameriera, una rossa dalle gambe lunghe che dava l'impressione di avere qualche problema di relazione. Quando lo vide arrivare, Lester si premette le mani contro le tempie e disse: «Attento, attento, non fare qualche stupidaggine davanti al capo». Charlie si sedette davanti a lui e lo guardò con irritazione. «Quale sarebbe il problema?» «Sono in uno stato molto precario» ammise Lester. «L'ho notato.»
Lester indicò Charlie. «Tu capo» disse, poi puntò il dito su se stesso. «Io ottanta per cento whisky.» «Va bene, ho capito. Mi devo abbassare al tuo livello di idiozia.» Appoggiò i gomiti sulla tovaglia a scacchi di tela cerata, preparandosi ad ascoltare frasi complicate quanto senza senso. Lester teneva la sigaretta con la punta rivolta verso il basso come la maggior parte dei cattivi attori. Il tavolino rotondo era così piccolo che avrebbero potuto tenersi per mano. Il locale vecchio e malandato era vuoto, a parte la cameriera e il barista barbuto vicino alla cassa. Sulla parete dietro il banco c'era l'immagine di un atollo corallino, in contrasto con il resto dell'arredamento che era in stile Old West. Lester fissò per qualche istante Charlie. Un tempo il suo vice era stato un bel ragazzo, ma poi era successo qualcosa, e in poco tempo era diventato bolso e trascurato. Adesso aveva la barba lunga e gli occhi rossi. «Mi piaceva giocare a football» disse. «Davvero, capo. Mi piaceva la competizione, sai? Il gioco, la divisa, gli applausi, le ragazze. Però, cosa puoi fare dopo avere smesso?» «Non lo so Lester. Vuoi darmi la pistola?» Non rispose. Charlie si voltò verso la cameriera e, alzando la voce per farsi sentire in mezzo al chiasso del jukebox, le ripeté: «I due caffè, signorina?». La donna gli rivolse un cenno, breve e disinteressato. «La signorina Quasi» gli disse Lester. «Come?» «Mi stava raccontando che era quasi stata colpita dal tornado, perciò la chiamo signorina Quasi.» «Ah, capisco.» L'alcol. Gli ubriachi non gli piacevano. Gli ricordavano suo padre che si sfilava la cinghia. Prese il bicchiere di Lester e scolò il resto del contenuto. Scotch, senza ghiaccio. Bruciava in gola. "Aaah. Ecco, così adesso posso vergognarmi di me" si disse. E ad alta voce: «Finito». Posò il bicchiere davanti a Lester, che lo fissava con stupore. «Ehi... il mio liquore è sparito!» «Dammi la pistola.» Lester lo fissò senza capire. «Sei un bravo poliziotto, Lester. Va' a casa, fatti passare la sbronza e rimettiti a lavorare.» «Volevo chiederti una cosa.» Agli angoli dei suoi occhi si scorgevano sottili rughe causate dal continuo socchiudere le palpebre durante le ronde
in pieno sole; tutti i poliziotti le avevano. I suoi capelli chiari, di lunghezza media, brillavano anche nella penombra. Usava qualche tipo di gel. Misure disperate per recuperare la gioventù perduta: fissatore, gel. Quale sarebbe stato il passo successivo? Mascara? La pancera per nascondere la trippa? Sul tavolo c'erano una candela spenta, in una sfera di vetro rosso, e un piattino di carta con le noccioline salate: quelle che, come diceva sempre Maddie, fanno male al fegato. Charlie assaggiò una delle noccioline proibite. Era secca e sapeva di olio fritto. Lester batté il pugno sul tavolo. Le noccioline saltarono in aria e ricaddero sul piattino. «Cristo, capo. Sto cercando di dirti una cosa, ma tu non mi ascolti.» «Perché, ti sei deciso anche tu a fare il bravo e a collaborare?» Lester sedeva come se fosse pronto a scattare; i suoi occhi erano lucidi per la concentrazione. «Avevo tutti i vantaggi e adesso sono un miserabile. Ho perso tutto quello che avevo. Tu pensi che la tua vita debba andare in un certo modo, capo, pensi che sarà sempre così, non hai idea che possa cambiare. Poi, qualche anno più tardi, ti trovi in un posto completamente diverso da quello da cui sei partito.» Fece un segno alla cameriera. «Ehi, un altro scotch! Avanti-march!» «"Avanti-march" dillo a qualcun altro.» La cameriera li guardò con ira. «No, solo i caffè» intervenne Charlie. «... signorina Quasi.» «Piantala, Lester.» Mancava un quarto all'una, Charlie si domandò se non fosse il caso di chiamare Willa per dirle che sarebbe arrivato un po' in ritardo. Il bar puzzava di chiuso, come se non l'avessero più aperto da Natale. La vasca dei pesci conteneva solo acqua. Era una tradizione del locale: se eri troppo ubriaco per recuperare dal fondo le chiavi, eri troppo ubriaco anche per guidare. Un paio di piranha avrebbero aggiunto un po' d'interesse al locale, pensò Charlie. La cameriera portò i caffè: le tazze di ceramica tintinnavano sui piattini sottili come fogli di carta. «Tre e cinquanta» disse, con la mano sul fianco. «La mia salvatrice! Io prendo gli ziti con il sugo alla vodka.» «Non gli dia retta» disse Charlie, estraendo un biglietto da cinque dollari dal portafoglio. «Tenga il resto.» La donna si addolcì leggermente. Prese il bicchiere vuoto, lo posò sul vassoio laccato e si allontanò. «È vero?» domandò Lester. Adesso pencolava a destra.
«È vero cosa?» ribatté Charlie, che perdeva in fretta la pazienza. «Quello che si dice.» «E che cosa si dice?» «Che da bambino sei saltato giù dal secondo piano. Perché... voglio dire, un salto da sette metri, capo, ti dà una percentuale di sopravvivenza del cinquanta per cento. Sette metri è un suicidio.» Charlie si asciugò le mani con un tovagliolo di carta. «Se fossi in te, amico mio, mi terrei lontano dal bancone del bar.» Lester puntò minacciosamente il dito contro la faccia di Charlie. «Ero soltanto curioso. Che c'è di tanto grave?» Charlie sentiva montare la collera. «Non abbiamo mai parlato di questo.» «Rispondi solo alla mia domanda, capo. Sei davvero saltato da quell'altezza? Eh? Che cos'è, un segreto di Stato?» Charlie si limitò a osservare il lento battito del cuore di Lester dietro la pelle sottile delle tempie. Lester era un perdente nato, un codardo, uno di quegli esperti nel gettare la spugna che trovano il coraggio nel terzo o quarto bicchiere. A quanto pareva, non aveva ancora capito che Charlie se ne fregava di chi avesse come parente. «Perché non parliamo mai?» disse Lester, drizzandosi con poca sicurezza sulle gambe. «Perché ce l'hai con me?» Charlie sentì giungere fino a lui l'odore dell'alcol e gli tornarono alla mente tutti i suoi orribili ricordi. Gli atteggiamenti da macho, le farneticazioni. Fissò le labbra di Lester. «Dimmi qualcosa, capo.» «Non rompere i coglioni e siediti.» «Allora?» Lester si lasciò cadere sulla sedia. «L'hai fatto? Eh?» Charlie non mosse neppure un muscolo. «Allora, sei saltato o no, brutto stronzo?» Charlie gli afferrò il colletto per tenerlo fermo, poi gli mollò un pugno sul naso. Lester venne proiettato all'indietro, con il sangue che gli colava sulle labbra. Si portò la mano alla faccia. «Oh, mio Dio... oh, Dio, perché l'hai fatto?» Fissò Charlie con incredulità. Charlie si guardò la mano; le nocche cominciavano a gonfiarsi. «Cristo, perdo sangue!» Charlie gli passò un fazzoletto. «Sai cos'è un'ustione per tutto lo spessore, Lester?»
Il suo vice lo fissò con gli occhi gonfi di lacrime e si tamponò il naso con il fazzoletto. «Vuol dire che è tutta pelle morta, fino allo strato di grasso sottocutaneo. Quando sono arrivato, la mia pelle era bruciata e secca, perdevo liquidi e mi hanno dovuto fare quattordici flebo solo per mantenermi in vita. La pelle del braccio sinistro era talmente tesa che hanno dovuto farmi un'incisione di trenta centimetri perché il sangue potesse circolare. Sarebbe bastata una piccola infezione per farmi crepare, sempre che non mi uccidesse prima il dolore. Poi è venuta l'eliminazione dei frammenti, termine che significa grattare, tagliare e pelare via la pelle morta.» «Mi sento male» disse Lester. Abbassò la testa e vomitò sul pavimento; Charlie non pensò di togliere il piede. «Oh, merda.» Prese qualche tovagliolino di carta dal tavolino e si pulì alla meglio la scarpa. Un po' del vomito era finito tra i lacci penetrando negli occhielli delle stringhe, dove Charlie non riusciva a pulirlo. Lester dondolava sulla sedia, tenendosi lo stomaco; il barista li raggiunse e sparse della segatura sul pavimento. Charlie guardò l'orologio. Mancava poco all'una, e lui aveva un appuntamento a cui non intendeva mancare. «Dammi la pistola, Lester.» «Non la voglio neanch'io. Tieni.» La porse a Charlie, il quale verificò che ci fosse la sicura. «Avevo una storia con Jenna Pepper» continuò Lester. «Come?» «Avevo una relazione con Jenna Pepper.» Charlie rabbrividì fino alla punta dei piedi. La confessione era talmente inattesa che lo lasciò senza parole. Lester era pallido. «Rob non ha mai avuto alcun sospetto. Lei trovava qualche scusa per uscire di casa. Intendeva piantarlo. Rob era dispotico, cercava sempre di farla sentire in torto. Avevano smesso di fare sesso. Lei lo chiamava l'Imbranato e si sentiva prigioniera in casa propria.» «Lester...» «Io ho capito che mi avrebbe creato solo casini, e con la C maiuscola, fin dal primo momento che l'ho vista, ma mi faceva sentire maledettamente sicuro di me, capisci? Con lei mi sentivo di nuovo forte. Coraggioso. Quel genere di cose.» Charlie ebbe come un flash: Lester era stato il primo agente sulla scena, aveva le mani sporche di sangue, non era mancino, era un appassionato cacciatore di tornado e adesso saltava fuori anche un movente. Il numero
di scarpe? Quarantaquattro, pareva. Charlie si alzò. «Prendi il berretto.» «Perché?» «Alzati. Ti sto facendo un favore» Lester si alzò in piedi, barcollando un po'. «L'avreste scoperto in qualunque caso» disse con voce da ubriaco. «Mike dice che stanno facendo i test del DNA. Io ho fatto sesso con lei la sera prima, dentro di lei c'è il mio sperma.» «Tutto quello che dici potrebbe essere usato contro di te. Lo capisci?» Lo prese per il braccio. «Vieni via.» «Dove andiamo?» «Ti porto a casa.» «Sì, ma cosa devo fare, adesso?» «Andare a casa» gli disse Charlie, con fermezza. «Fatti passare la sbornia e procurati un buon avvocato.» 8 Dopo avere dato la caccia per una ventina di minuti a false torri e a rotoli trasversi - tubi d'aria orizzontali che ruotavano lentamente - lasciarono l'autostrada e presero una malandata statale, dove l'auto faceva un mucchio di rumore e di fumo e ogni sobbalzo spingeva Charlie a stringere i denti. Il calcio della pistola continuava a colpirgli le costole e gli occhi gli bruciavano perché aveva guardato troppo a lungo il cielo. Il sedile anteriore era ingombro: cartine stradali, cartelline plastificate di numeri telefonici, una cassetta del pronto soccorso e un computer portatile. Il sedile posteriore era pieno di materiale da imballaggio, torce, nastro isolante, binocoli, macchine fotografiche e insetticidi. «Come mai siamo finiti su questa carretta?» domandò a Willa, che s'era raccolta i capelli dietro le orecchie, le sue bellissime orecchie di madreperla. «Scherzi?» gli rispose lei, guardandolo con la coda dell'occhio. «Ti serve qualcosa per correre anche fuori della strada.» «E questo riesce a raggiungere la velocità di curvatura?» «Sai, Charlie, le tue battute da Star Trek cominciano a essere un po' fuori moda.» Gli sorrise. «Abbi pazienza. Non esco spesso dalla mia tana.» «Il motore è buono, gli servirebbe solo una nuova auto tutt'intorno.»
Willa osservò il cielo. «Mmh, stratocumuli spezzati, nebbia. Cima a fungo. Niente di entusiasmante.» La Ford station wagon dell'82 con le porte di colore diverso aveva l'interno spazioso, anche se puzzava un po' di muffa e sembrava avere percorso trecentomila chilometri. La vernice era piena di piccole ammaccature e il tetto era coperto di macchie di ruggine che sembravano contagiose. Sul cruscotto era montata ogni sorta di apparecchiature dall'aria costosa. Radio, scanner, ricevitori satellitari, una videocamera su un supporto fisso. Willa seguì il suo sguardo. «Il mio portafoglio piange ancora, ogni volta che penso a quello che ho speso in attrezzature. Ma discendo da molte generazioni di amanti di quegli aggeggi.» «Allora è la tua auto, non quella del laboratorio?» «Ehi, non criticarla. Negli ultimi sette anni ho cambiato sei tornadomobili. Mi durano giusto una stagione.» Gli lanciò un'occhiata. «Più di certi matrimoni.» «Sei divorziata?» Willa si strinse nelle spalle. «Era il mio professore di meteorologia. Io ero giovane e sciocca. Se ci ripenso, mi rendo conto che lo ammiravo professionalmente, ma non ero innamorata.» «Siete ancora amici?» «Sì. Passiamo alla prossima domanda.» Sollevò la mano; con il dito indice, dall'unghia laccata di rosso scuro, indicò davanti a loro. «Guarda laggiù, Charlie. Vedi quella calotta, quella più grossa? Vedi come la base delle nuvole, da lineare, s'incurva a formare una torre di cumuli, con l'estremità arrotondata?» «Sì.» Le ruote passarono su un'altra buca e la testa di Charlie sbatté contro l'imbottitura interna del tettuccio, che già cominciava a disintegrarsi. «Ouch!» «La cosa potrebbe diventare interessante.» Accelerarono in una nube di gas di scarico. Il cielo aveva il colore del cemento bagnato e il punto di condensazione era sui sedici gradi, che secondo Willa era una buona cosa. Il bollettino meteorologico radiofonico aveva promesso qualche emozionante sviluppo nella parte occidentale dell'Oklahoma, ma finora la caccia si era limitata a seguire un gruppo di nuvole, vedere che si assottigliavano fino a scomparire, e poi seguirne un altro gruppo. Durante le loro occasionali fermate a qualche stazione di servizio, Willa si faceva dare gli aggiornamenti dal furgone guidato da Rick: un veicolo marrone con sul fianco la scritta LABORATORIO DI SCIENZE
AMBIENTALI. Lo avevano perso di vista cinque minuti prima. In quel momento la radio li interruppe con un altro aggiornamento. "È stato appena annunciato un avviso di tornado per l'Oklahoma occidentale, centrale e settentrionale" diceva una voce maschile, in tono stanco. «Ah, sembra promettente.» Willa gli passò la cartina stradale, tutta stropicciata. «Okay. Charlie, tu fai da navigatore. Dobbiamo evitare le strade sterrate e le vie senza sbócco, mantenere aperte le vie di fuga.» «Vie di fuga? Non si è mai parlato di vie di fuga.» Lei lo guardò. «Non preoccuparti, ti proteggo io. Sono molto brava in questo. Appoggiati allo schienale e rilassati.» Indossava una tuta color avorio e una maglia di lana nera. Le scarpe dalla suola di corda continuavano a scivolare sul pedale del freno. «A cosa ci serve una via di fuga?» «Be', possono succedere tante cose. Inondazioni, grandinate, cavi dell'elettricità caduti, roba di questo genere. Qual è la strada più breve per Lawton?» Charlie studiò la cartina. «Devi prendere... ehm... la prossima a destra.» Lei premette sull'acceleratore. Dallo svincolo ritornarono sull'autostrada coperta da una patina d'acqua e s'infilarono tra i camion che cambiavano marcia tra grandi nuvole di fumo. L'auto sbandava per il vento. Charlie cercava di non pensare alle rivelazioni di Lester, che collocavano il suo vice tra le "persone oggetto di indagine". Adesso avrebbero dovuto interrogarlo ufficialmente e magari sottoporlo alla macchina della verità per eliminarlo dai sospetti. Charlie non pensava che Lester Deere, per quanto sciocco e sventato, fosse capace di uccidere. Ma non significava niente; solo mezz'ora prima si sarebbe messo a ridere all'idea di una tresca tra Lester e Jenna Pepper. Si pensa di conoscere gli amici, ma in realtà non si sa mai tutto. «Seguiamo un fronte di tempesta lento, sedici chilometri a sudest della nostra posizione» disse Willa. «Punto di condensazione 22, movimento nord-nordest. Sto studiando una rotta di intercettazione. Dobbiamo trovare una strada a sud per arrivare dietro la tempesta.» Rivolse un'occhiata a Charlie. «Tutto a posto?» «Sì.» «Sei pentito?» «Scherzi? Mi piace da pazzi.» Lei sorrise. «Parlami di Maddie.» Charlie la guardò e capì che diceva sul serio. «Era onesta e non presun-
tuosa.» "Come te" pensò. «Un giorno svenne all'improvviso, io pensai che fosse un infarto e la portai all'ospedale. In auto continuava ad alzare e abbassare la testa. "Sì, sì" ripeteva a qualsiasi domanda. Mi mise una gran paura. Fermai l'auto e chiamai un'ambulanza. Pensavo che avesse bisogno di immediata assistenza medica. Non ricordava più il suo nome. Continuava a cincischiare con la borsetta e il portafoglio per trovare il suo documento d'identità.» Il cielo era pieno di turbolenze e di contrasti, ma Charlie non se ne accorgeva; rivedeva Maddie che cercava di aprire la borsetta, tutto il contenuto che le cadeva sulle ginocchia. «Non riusciva a ricordare il suo nome» ripeté, rivivendo lo choc di quel giorno. «Seguii l'ambulanza e mentre la mettevano dentro mi disse: "Sei davvero gentile a prenderti un giorno di permesso per portarmi qui".» «Mi dispiace» disse Willa, con la voce piena di comprensione. «Mia madre è morta quando avevo dodici anni e la perdita continua a sembrarmi enorme, ma non è niente, paragonata a quello che hanno dovuto sopportare alcune persone. Mi sento un po' egoista a parlarne, come se fossi l'unica persona al mondo che ha avuto quel genere di preoccupazioni. Comunque, sono sopravvissuta. E l'esperienza mi ha rafforzato. In un certo senso mi ha aiutato, capisci?» Viaggiarono in silenzio per qualche tempo; poi, attraverso un'apertura fra le nuvole, Charlie scorse per un istante le torri. Un pittoresco panorama di nubi si stendeva davanti a loro e copriva gli interi centottanta gradi dell'orizzonte. I torreggianti cumulonembi si alzavano come la colonna di un'esplosione atomica e spingevano Charlie a riflettere. Si sentiva minuscolo, davanti a quello spettacolo. Cominciò a piovere. In pochi secondi, una fitta pioggia investì l'auto e oscurò tutto ciò che li circondava. «Non vedo nulla» disse Willa, con la voce tesa. «Ci occorre una rotta a sud. Charlie?» «Sì, giusto.» Aprì la cartina e cercò di individuare la loro posizione. «Aspetta un attimo...» «Vedi niente?» «Aspetta...» «Charlie?» «La prossima... a sinistra» tirò a indovinare. Quella che sulla cartina era indicata come una strada asfaltata risultò essere in realtà una pista di terra battuta, con il fondo ridotto a un fiumiciattolo. Willa inchiodò e la vettura scivolò fino a fermarsi contro qualcosa di
duro. Per qualche istante, tutt'e due rimasero storditi, mentre la pioggia batteva sull'auto e la nebbia entrava dal finestrino, arricciandosi intorno alla loro faccia come fumo di sigaretta. Charlie si aspettava che lei lo insultasse perché aveva sbagliato strada, ma Willa si limitò a ridere e a dire: «Tutto bene?». «Sì, credo.» Si massaggiò la mascella; si era morso la lingua così forte da sentire il sapore del sangue. La pioggia colpiva l'auto come se si fossero trovati sotto una cascata. «Qualunque cosa abbiamo urtato non era sulla cartina.» «Questo è l'Oklahoma, Charlie. Un mucchio di cose non sono sulla cartina.» Prese un impermeabile dal sedile posteriore e se lo infilò, poi uscì dall'auto e fece una rapida ispezione, mentre la pioggia li chiudeva nel suo abbraccio gelido e argenteo. Grandi gocce brillavano nel cono di luce dei fari, come se il cielo si liberasse di tutti i suoi elementi. Willa aprì la portiera e disse: «La marmitta si è staccata. La sistemo in un attimo». Charlie uscì per darle una mano. «Cosa abbiamo urtato?» «La radice di un albero.» Lo fissò come capita che una donna talvolta fissi un uomo. «Niente di grave. Il mio tubo di scappamento vola via almeno un paio di volte l'anno. Meglio che tu lo sappia subito, Charlie.» Lui rise e commentò: «Questa strada è una zuppa di fango». Il paraurti anteriore era accartocciato come una lattina di alluminio. Willa afferrò un rotolo di nastro isolante e Charlie non poté fare altro che guardare mentre lei fissava la marmitta al telaio. Il fango le inghiottiva le scarpe. Quando ebbe finito, Charlie l'aiutò ad alzarsi. «Come diceva mio padre, non c'è nulla che non si possa riparare con un po' di carta vetrata. Qualunque cosa significhi.» Charlie la baciò. Lei lo guardò sorpresa; la pioggia le grondava lungo la faccia. «Che cos'era?» «Presunzione. Mi dispiace.» «Non è il caso. Sono molto selettiva quando si tratta di portare qualcuno a caccia di uragani.» Lo abbracciò e gli restituì il bacio. Le sue labbra erano dolci, morbide e ansiose. Un fulmine colpì il terreno a meno di un chilometro di distanza. Charlie si tirò indietro, senza staccare la mano dalla sua spalla. «Accidenti, com'era vicino.» «Meglio muoversi.» Risalirono in auto e Willa fece una veloce inversione a U. Imboccarono
una strada dritta e asfaltata, dove gli alberi erano scuri e gocciolanti, le foglie verdi e lucide sotto la pioggia torrenziale. Da un piccolo varco nella coltre di nuvole, Charlie scorse nubi compatte "a cavolfiore" e lo sfondo azzurro del cielo. Guardò l'indicatore della benzina. Metà serbatoio. «Un tornado a terra» annunciò la radio. Charlie osservò il cielo, ma non vide nulla. «Un mucchio di belle strutture, però nessun tornado» commentò Willa. «Vedi qualcosa, Charlie?» «No.» «Allora deve essere il "vortice invisibile", perché qui intorno non si vedono tornado.» Le torri di nubi che per tanti chilometri erano perfettamente visibili si erano ridotte a uno strato uniforme. Willa controllò l'indicatore della frequenza sulla sua radio e afferrò il microfono. «Rick?» disse. «Sei sempre in ascolto? Ho l'impressione che si prepari qualcosa di importante.» «Assicurati di rimanere sulla parte meridionale a mano a mano che si intensifica» rispose lui, in mezzo alle scariche elettrostatiche. Willa premette il pulsante del microfono. «I venti in ingresso sono forti, i lampi si avvicinano. L'avviso è già stato dato due ore fa.» «Io ho una nube a parete proprio davanti a me. Prosegui verso sud. Il radar doppler di Amarillo rileva un vortice a una distanza di circa cento chilometri. Hai un altro terribile sistema di livello superiore con venti da centocinquanta nodi in avvicinamento da dietro. Pare che abbiamo un doppio tornado, Bellman.» Un segnale di avvertimento interruppe la trasmissione del canale meteorologico. Willa infilò il microfono nel supporto e voltò di nuovo l'auto, piegando sotto il paraurti anteriore l'erba alta. «Questa volta ci avvicineremo alla tempesta dalla massa di aria chiara al di là della zona di contatto fra aria umida e aria secca» spiegò lei. «In questo modo c'è una maggiore visibilità. Per te va bene?» «E come potrei non essere d'accordo?» Willa sorrise. «Puoi essere in disaccordo con me quando ti pare, Charlie. Non me la prendo.» Lui le sorrise. Attraversarono il centro di un'altra tranquilla cittadina della prateria, poi un'orribile fila di edifici fatiscenti, con quei vecchi empori di campagna dove si può comprare di tutto, dal tabacco da masticare alla birra e alla licenza di caccia. Dietro i tetti, il cielo color canna di fucile ri-
bolliva come una pentola sul fuoco. «Vedi quella sporgenza sul fianco destro, a sudovest?» Con una leggera esitazione, Charlie confermò. «Sono le correnti di convezione posteriori che cominciano a mascherare la parte alta dei Cb.» «Cb?» «Cumulonembi. Nubi che mostrano una forte crescita verticale, con la forma di montagne o di torri sormontate da un'incudine. Quelle che sono comunemente chiamate "teste di tuono".» Si morse il labbro inferiore. «Non so quale scegliere. Pare che la seconda tempesta più a sud abbia mesocicloni. Faremmo meglio a ritornare sulla 277.» Attese un istante, poi aggiunse: «Charlie?». «Ah, sì, il mio lavoro.» Prese la cartina; la superficie era umida al tatto. L'auto aveva ripreso a fare un rumore strano. «Ma quest'auto è davvero sicura?» «Sicura come qualsiasi tornado-mobile.» Charlie la guardò senza capire. «Cosa intendi dire?» «Partiamo dalla premessa che il posto più pericoloso in cui trovarsi durante un tornado è l'interno della tua auto...» Lo guardò con aria divertita. «Non è abbastanza sicura.» «Gesù, è davvero tranquillizzante.» «Benvenuto nel mio mondo.» «Ricordami di portarti a fare un giro di pattuglia, uno di questi giorni.» Dalle nubi nere cadevano scrosci di pioggia; il cielo assunse un aspetto frastagliato. Un gradevole odore di terra umida riempì l'abitacolo. Grasse nubi a cumulo salivano sempre più alte, masse d'aria calda si scontravano con masse d'aria fredda, e sull'orizzonte era minacciosamente sospeso uno strato di nubi simile a un piatto da portata. Presto entrarono in un'altra fitta cortina di pioggia e vennero subito avvolti dall'aria umida e fredda. Alzando alti muri d'acqua, passarono davanti a un cartello: BENVENUTI A SPLITBACK, OKLAHOMA, 2830 AB. Ai margini di quello sparuto insediamento scorsero una piccola nube a imbuto pendere sotto lo strato di nuvole in rotazione dall'aspetto poco rassicurante. Serpeggiò fino a terra e sollevò in aria una cortina di rosso: la leggendaria polvere rossa dell'Oklahoma. Una stazione radio locale lanciò l'avvertimento: "Raggiungete subito un rifugio! Ci comunicano che un tornado ha toccato terra!". La tromba d'aria, simile a un pezzo di corda, passò sui campi verdi a
meno di cinque chilometri da loro, attraversò la strada lunga e dritta, poi si sollevò elegantemente nell'aria, ritornando a essere un semplice "imbuto". Charlie trattenne il fiato. L'aria era frizzante, carica di energia. L'illusione era un rischio non trascurabile: da che parte era diretta la tromba d'aria? Il meteorologo della radio riprese: «Datemi retta, amici, cercatevi un rifugio. Queste tempeste possono uccidere». Charlie guardò Willa, che correva a cento chilometri l'ora. Il vento gli ruggiva nelle orecchie. Qualche chicco di grandine colpì il tetto dell'auto, i cespugli volavano nell'aria a un metro d'altezza. Sul ciglio della strada c'era una fila di cacciatori di tornado, tutti intenti a guardare la nube a parete e i filamenti che ne fuoriuscivano. Quei filamenti facevano strani, eleganti movimenti intorno al cono principale e subito dopo sparivano. Il cono principale si avvicinò verso il terreno e lo toccò di nuovo, sollevando polvere, piante e cespugli: in sostanza, tutto ciò che incontrava sul suo cammino. «Lo giudicherei un F1 sulla scala Fujita» disse Willa. «Decisamente non male, per l'11 maggio.» L'atmosfera era quella di una giornata di festa: auto piene di bambini dagli occhi sgranati, telecamere che sporgevano dai finestrini. Tutti guardavano l'ombra sottile come uno stiletto che scivolava elegantemente sulla pianura, cambiando direzione secondo il suo capriccio. Il cielo era divenuto così buio che Charlie poteva vedere le luci del cruscotto all'interno dell'auto. Sentì la pavimentazione stradale vibrare leggermente come se si stesse avvicinando un treno. Qualche momento più tardi, l'F1 risalì in mezzo alle nubi e scomparve. «Stupefacente» commentò Charlie. «Guarda laggiù, in mezzo agli squarci dello stratocumulo» disse Willa, indicando a sudovest. «Vedi le piccole gobbe in quell'altra torre che si sta sviluppando? Vedi come la pioggia gira intorno alla nube a parete? E c'è un cilindro di grandine a nord della coda. Dobbiamo evitarlo.» Premette sull'acceleratore e l'auto corse verso sud, dove un'altra nube a parete, ancora più grande e a forma di coda di castoro, mulinava scura all'orizzonte. «Mentre noi parliamo» disse in tono ansioso il meteorologo locale «queste tempeste uccidono delle persone.» Svoltarono in una stradina a due corsie e Charlie notò una coppia di fari che li seguiva a distanza. Si ricordò di avere in mano una macchina fotografica e si voltò a scattare qualche foto. Un pickup blu della Mazda e una
vecchia Buick Electra venivano dietro di loro, poi una Chevrolet Caprice Classic testa di moro e un altro pickup. Rosa. Quello di Boone. Lo stronzetto gli aveva mentito. «Troppi rompiballe in giro, oggi» si lamentò Willa, dando un'occhiata allo specchietto retrovisore. «Andate a impiccarvi, idioti! Saltate dentro un fosso e lasciateci soli!» Si diresse veloce in direzione della seconda nube a parete, sotto cui avevano breve vita turbini di polvere e tubi di condensazione. La cima della torre saliva ben più in su dell'incudine di cirri, mentre pezzi di nubi, sotto la base della tempesta, si staccavano e venivano trascinati a sud. Le rimanenti nubi basse collocate più a est si muovevano veloci verso nord. Immense scariche di lampi color platino solcavano il cielo, poi attraversavano la nube a parete e colpivano la terra. Charlie sentì un fremito di eccitazione mentre guardava una nube di polvere, in rotazione violenta, formarsi improvvisamente a livello del suolo e rimescolare la terra come un frullino elettrico. Il vortice si alzò con una velocità stupefacente: era a otto chilometri di distanza, ma perfettamente visibile. Si restrinse e divenne più compatto, poi avanzò sul terreno, con la classica forma a proboscide d'elefante. Dai campi in mezzo a cui si faceva strada si levò una nube di detriti. «Tombola. Abbiamo trovato il tornado del giorno» disse Willa con un misto di attrazione incontenibile e di rispetto professionale nella voce. Schiacciò il freno e Charlie finì quasi contro il parabrezza. «Muovetevi, pidocchi!» gridò. Davanti a loro si era formata una fila di auto: numerose persone ostruivano la strada davanti a loro, guardando a bocca aperta il tornado e non prestando attenzione a chi li seguiva. «Ha paura di cappottarsi a trenta all'ora, quel beccamorto» disse Willa, suonando ripetutamente il clacson. Davanti a loro, due auto di cacciatori di tornado superarono la colonna e Willa seguì il loro esempio. «Siediti qui sopra e gira!» gridò, mostrando ai curiosi il dito medio alzato. Charlie la guardò con stupore. «Che c'è?» domandò lei. Era leggermente agitata e le sue guance avevano preso un incantevole colore rosso. Charlie rise. «Ti trovo alquanto diversa.» «Ah, be'. Mi hanno detto anche di peggio.» All'interno dell'auto, l'aria era carica di elettricità. Charlie sentiva sollevarsi i capelli. L'auto faceva rumori che sembravano colpi di tosse mentre
passavano davanti a pascoli abbandonati dove filari di pioppi neri e di sambuchi erano piegati dal vento e illuminati da scariche quasi continue di lampi. Le foglie marrone, strappate dai rami, volteggiavano follemente a mano a mano che si avvicinavano alla tromba d'aria. Charlie strinse i denti nel vedere che il tornado si allargava rapidamente, raccogliendo forza. Capiva perché la caccia agli uragani creasse una sorta di dipendenza, come la droga. Tutt'intorno a loro, folgori biancazzurre scaturivano dalle nubi ed enormi gocce colpivano il parabrezza. Poi cominciò a cadere la grandine. «Tienti forte il cappello» si raccomandò Willa, mentre la grandine si sparpagliava intorno all'auto. Rimbalzava sul tetto e sul cofano. «Quando un chicco grosso come un uovo ti colpisce in testa fa male» disse. «Ma non preoccuparti, quelli con due centimetri di diametro non causano danni alla maggior parte delle carrozzerie e dei parabrezza. Se diventano più grossi, però, siamo nei guai.» «Grazie di avermelo detto.» Charlie riprese la cartina e distolse lo sguardo dalla tromba d'aria per cercare un cartello segnaletico, ma si accorse che la strada era riportata con il nome sbagliato. Il motore della Ford ansimava e tossiva, l'indicatore della temperatura dell'acqua saliva. Uscirono dalla grandinata e si trovarono in un'ampia zona di luce. All'altra estremità si vedeva chiaramente il tornado: aveva forma conica, era scuro, con i margini rossi, sullo sfondo di un cielo color carbone. Il frastuono era incredibile. Il vento piegava l'erba fino a terra e l'aria era piena di frammenti di foglie. «Notevole convergenza di cacciatori» disse Willa, guardando nello specchietto la fila di auto dietro di loro che correva a raggiungerli. Charlie si girò a scattare qualche altra foto. Aveva le mani sudate e si sentiva i capelli come se avesse messo la testa nel frullatore. Svoltarono a sinistra lungo Eyebright Road, dove per un attimo poterono scorgere la prateria punteggiata di fiori rossi e gialli. Quando il sole uscì dalle nubi, il vortice scuro divenne all'improvviso bianco come il latte. Il sole baciò per qualche istante il loro viso, poi sparì di nuovo. Il rumore del vento divenne forte come quello di un tuono mentre si muovevano parallelamente al tornado, che era a pochi chilometri di distanza. Charlie rimase senza fiato nel vedere quanto fossero vicini. «Sento chiaramente la sua voce» disse Willa. «Lo senti come ci sta parlando?» Charlie tese l'orecchio e udì la voce della tromba d'aria. Gorgogliava e
scrosciava. Come acqua. L'aria aveva un odore freddo e pesante. Il tornado si apriva la strada lungo la pianura, in mezzo all'erba e ai cespugli, e sollevava tutto nell'aria come un'invasione di locuste. Era avvolto in una cortina di piogge torrenziali e di venti urlanti; all'interno del margine nordorientale del mesociclone, grandi mulinelli di nubi scendevano verso il terreno e poi si dissipavano. Willa serrò le mani sul volante per mantenersi ad angolo retto rispetto alla linea del movimento. «Oh, cazzo» disse, mentre perdeva il controllo della vettura. Il veicolo ruotò su se stesso e scivolò sulla strada bagnata, Charlie alzò automaticamente il braccio per proteggere Willa che aveva schiacciato il freno; entrambi vennero proiettati in avanti. Dal parabrezza, Charlie vide con stupore che il tornado si restringeva. Si allungò come gomma, divenne sottile come una corda e risalì nelle nubi, dove bruscamente scomparve. Willa aveva le guance rosse e gli occhi velati. «Non riesco a credere di avere slittato» disse. «Scherzi? Sei stata magnifica.» Lei riprese il volante mentre i lampi attraversavano di nuovo le nubi temporalesche in lenta ritirata, dando loro riflessi argento e oro al sole del pomeriggio; la tempesta stava progressivamente lasciando posto alla calma. «E adesso?» domandò Charlie, il cui cuore riprendeva lentamente il ritmo regolare. «Adesso ci fermiamo in qualche tavola calda e analizziamo i dati.» Lo guardò e gli sorrise in tutta la sua goffa bellezza. Charlie si sporse avanti sul sedile, con l'intenzione di darle un altro bacio, quando all'improvviso un'ambulanza passò davanti a loro a sirene spiegate, diretta nel senso opposto. Senza esitare, Willa cambiò marcia e fece un'inversione a U. Seguirono i lampeggianti dell'ambulanza lungo una stradina di campagna priva di traffico finché, a qualche chilometro dall'abitato, il veicolo si fermò sul ciglio di un sentiero e Charlie si sporse a guardare. Il pickup di Boone era attorcigliato a una quercia spogliata di tutte le foglie. Tutt'intorno all'albero, il terreno era devastato dal passaggio del tornado. Uscirono dall'auto e corsero verso il luogo dell'incidente, dove due infermieri, un uomo e una donna, stavano già immobilizzando Boone su una barella rigida. Il ragazzo giaceva sulla schiena con un'espressione stupita. Aveva perso il cappello da cowboy e i suoi capelli erano pieni di pallini di
plastica isolante. Pareva soffocare a causa del sangue che aveva nella gola. L'infermiere gli esaminò la bocca, mentre la sua collega gli metteva un collare rigido. «Stabilizziamo la testa...» «Non ha perso denti. Aspiriamogli il sangue dalla gola.» Charlie aveva la camicia madida di sudore. Il cielo era pieno di nubi basse che si spostavano veloci. Il tornado aveva lasciato nella sua scia una striscia di erba intrecciata, erba alta più di un metro avvolta in modo impossibile intorno a steli di arbusti. Nelle vicinanze, alcune querce erano state completamente spogliate e nei campi di grano si scorgevano scie sinuose. Il vento doveva avere sollevato il pickup come un giocattolo e l'aveva sbattuto contro il massiccio albero, che ancora lo tratteneva tra i suoi rami. La lamiera era stata sfondata da oggetti volanti e tutti i finestrini erano rotti. «Bradicardia, cinquanta pulsazioni al minuto...» «Carichiamolo e portiamolo via.» Il vento sferzava l'erba. Al di sopra del sibilo, Charlie sentì qualcos'altro: un grido umano. "Clara" pensò "che grida d'indignazione perché è stata abbandonata; le punte dei suoi denti sono come conchiglie bianche nel rosa delle gengive." «Papà?!» Il suo sguardo si fissò su un punto del campo appena riconobbe la voce di Sophie. Si girò di scatto, con il cuore che gli martellava pericolosamente nel petto. La figlia uscì barcollando da un gruppo di alberi. Era coperta di fango e di sangue; il grano intorno a lei si piegava al soffio del vento. Charlie sentì in gola il sapore amaro del panico; cercò di inghiottire. «Sophie?» Attraversò di corsa la strada e la prese tra le braccia. La strinse così forte da toglierle il fiato. «Come stai? Sei ferita?» «È morto?» gemette lei, guardando dietro la figura del padre. Aveva gli occhi dilatati dal terrore. Charlie credeva di impazzire. Il cuore continuava a rimbombargli nelle orecchie. Che ci faceva laggiù? Era tutta piena di tagli. Le controllò il cuoio capelluto sotto i capelli bagnati e spettinati. «Hai battuto la testa?» Lei inarcò le sopracciglia, sorpresa. «È morto?» ripeté. «È ferito a morte?» «No» rispose Charlie. Sentiva raggelarsi il sangue. «Ha perso conoscenza.»
«È in pericolo di vita, papà?» «Ssh. Calmati, cara.» Si sforzò di soffocare la collera. «Eravamo sul pickup. È diventato tutto buio, pioveva forte. Ci stavamo avvicinando al tornado» disse «quando il ramo di un albero ci è finito addosso e ha rotto il parabrezza. Boone ha cercato di evitare che il pickup si rovesciasse, ma il tornado ci ha investito.» Scoppiò a piangere e Charlie continuò a tenerla tra le braccia; avrebbe voluto proteggerla per sempre dal vento, dall'uomo nero, da tutte le cose brutte. «Io avevo la cintura di sicurezza» disse con un brivido. «Ma Boone non si era messo la sua. È finito fuori dalla macchina, ma io avevo la cintura di sicurezza, papà, e non mi è successo niente. Mi sono sganciata e sono scesa a terra.» «Grazie a Dio.» Per un momento, Sophie parve perdere l'equilibrio. «Tornerà come prima?» «Ssh.» «Come sta?» singhiozzò, con la testa contro la sua spalla. «Hai battuto la testa? Ti fa male? Ti gira la testa?» Con un senso di irrealtà, tornò a controllarle il cuoio capelluto. «Venite qui!» ordinò agli infermieri; la donna si avvicinò subito. «Hai male da qualche parte?» domandò, prima di auscultare con lo stetoscopio il battito di Sophie. «Riesci a respirare bene?» «Portatela all'ospedale» le disse Charlie. «Noi vi seguiamo.» «Papà?» «Saremo dietro di te, cara.» 9 Charlie seguì gli infermieri nel pronto soccorso; Sophie, sulla barella, si guardava intorno confusa. «Che cosa succede?» chiedeva. «Dov'è Boone?» Lui le prese la mano, mentre una mezza dozzina di medici e di infermiere sciamavano intorno a loro ordinando TAC, raggi X ed esami del sangue. Poi un'infermiera cominciò a tagliarle i vestiti. «Papà!» gridò lei, sopraffatta dall'emozione e dallo choc. «Non avere paura, cara.» Charlie sudava copiosamente, ora. «Andrà tutto bene.» «Che cosa fanno?» «Ti vogliono aiutare.» Non le lasciò la mano finché non arrivò una delle infermiere. «Adesso ce
ne occupiamo noi» disse la donna. «Lei può aspettare fuori.» Nel corridoio, Willa si ravviava i capelli scompigliati dal vento come se volesse calmarli. «Charlie, sta bene?» «Credo di sì. Lo spero. Cristo, tremo ancora.» Lei gli posò la mano sul braccio. La sala d'attesa puzzava di fiori marci ed era virtualmente identica a quella che Charlie era giunto a odiare tanti anni prima: la sala d'attesa all'esterno del reparto di rianimazione. All'epoca non c'erano reparti per la cura delle ustioni, e lui aveva trascorso settimane in rianimazione prima di essere trasferito in pediatria al sesto piano. Sala d'attesa. Anche il nome era odioso. Un posto dove il tempo si trascinava, dove le sedie non avevano pietà. Meglio andare avanti e indietro per il corridoio, trascinandoti dietro la piantana della flebo. «Io quello lo ammazzo» ringhiò Charlie. Aveva i calzoni e la camicia sporchi del sangue della figlia. Willa lo fissò negli occhi. «Sophie tornerà perfettamente a posto.» «Non deve succedere mai più.» «Charlie» disse lei, stringendogli la mano. «Vedrai che non ha niente. Aveva la cintura di sicurezza. È vigile, parla in modo coerente e cammina senza impedimenti.» «Ho perso mia sorella. Mia madre. Maddie. Non intendo perdere mia figlia per colpa di quello stronzetto.» Guardò davanti a sé, profondamente scosso. Dopo qualche minuto si alzò e andò a parlare all'impiegata dell'accettazione, una donna dai capelli scuri. Lei gli promise che tra qualche momento sarebbe arrivato un dottore. "Tra qualche momento." Charlie sapeva cosa significava. Tornò a sedere sulla panca di plastica verde e fissò le pareti bianche sporche e le mattonelle marrone del pavimento. Willa attese con lui in silenzio, mentre il brusio del televisore forniva un costante rumore di fondo, come pioggia sul tetto. Si accorse di avere la bocca asciutta e mentre andava a prendersi un bicchiere d'acqua cercò di fare un piano. Per un mese le avrebbe proibito di uscire di casa, l'avrebbe iscritta a una scuola privata, l'avrebbe chiusa in cima a una torre del castello e avrebbe buttato via la chiave. Cercò di raffreddare i bollori e si spostò i capelli dalla fronte. Sala d'attesa. Quante operazioni gli avevano fatto? Venti? Venticinque? Come giovane ustionato imprecava contro le infermiere che lo costringevano a piegare gli arti doloranti. Imprecava contro le medicazioni, la pomata antibiotica, la pulizia quotidiana delle ferite. Due volte al giorno, una robusta infermie-
ra in particolare - una svedese dall'aspetto bovino, dura come un sergente istruttore - lo costringeva a fare i suoi esercizi in una stanza che puzzava di disinfettante. Non muovere gli arti significava fibrosi delle articolazioni. L'infermiera Natalie, con gli occhi del colore delle pere acerbe, gli aveva reso la vita insopportabile, costringendolo a faticare come mai in precedenza. Ma oggi, tutti i giorni, Charlie la ringraziava in silenzio. «Capo Grover?» Un movimento, ai margini del suo campo visivo, gli fece alzare gli occhi. Un medico dall'aria preoccupata, molto giovane, veniva verso di loro; la sua targhetta d'identificazione diceva "Dr Russ Pressler". Charlie si alzò. «Come sta?» Pressler aveva gli occhi piccoli e infossati e i capelli corti. «Lei è fortunato.» La sua voce aveva un tono distaccato, professionale. «Né ossa rotte né commozione cerebrale. L'abbiamo medicata e le abbiamo fatto un'antitetanica. Domani sarà a posto. Consiglierei un po' di riposo a letto e qualche tranquillante.» «E quei tagli sulla faccia e sulle braccia?» «Il vetro temperato è progettato per rompersi in piccoli cubi in conseguenza di un forte urto. I segni sulla sua pelle sono lineari, ad angolo retto e molto superficiali.» «Perciò tornerà a posto?» Il medico annuì seccamente. «Guariranno. Aspettiamo la TAC, ma la dimetteremo subito dopo quel controllo. Adesso è con l'altro paziente, che è in coma ma stabilizzato. È collegato al respiratore artificiale e controlliamo le sue funzioni vitali.» Charlie aggrottò la fronte. «Dove sono?» Il medico lo accompagnò al reparto di rianimazione, poi indicò una tenda gialla in un angolo. Boone Pritchett giaceva immobile sul letto, con il tubo per la respirazione artificiale fissato alla bocca. Aveva gli occhi leggermente aperti, ma era incosciente. Il respiratore si alzava e si abbassava, con un forte sibilo. Sophie era ferma accanto al letto e indossava un camice dell'ospedale. Si era tolta i capelli dalla faccia e in mano teneva un sacchetto di plastica contenente i suoi vestiti sporchi di sangue. «Entrava aria fredda da sotto» disse senza alzare la testa. «Quell'aria mi gelava i piedi.» Charlie la fissò per qualche istante, osservò la sua pelle liscia come quella di un neonato, il suo viso privo di espressione. «È successo in un attimo.» Sophie si asciugò una lacrima. «All'improv-
viso si è fatto buio, poi è arrivata la pioggia. Ho sentito che il camioncino veniva sollevato in aria. Ho chiuso gli occhi...» «Ti ha fatto correre un gravissimo rischio» le disse Charlie. «Non glielo perdonerò mai.» Sophie si girò. Aveva un aspetto così fragile da fargli venire il desiderio di portarla via e di non perderla mai di vista. «Non è cattivo come pensi.» «Sophie... quel ragazzo è il peggio del peggio.» Vide il panico nei suoi occhi. «È più intelligente di quanto credono tutti... Solo perché suo padre è un troglodita...» «Cara, non devi più frequentarlo.» Per la collera, gli occhi di lei si riempirono di lacrime. «È una visione così miserabile» esclamò. «Come fai a essere così intollerante?» «Tua madre non sarebbe contenta. Io non sono contento.» Lei incrociò le braccia e cercò di non piangere. «Non deve più succedere» ripeté Charlie. «Perché mi fai una cosa del genere?» domandò lei, con la voce incrinata. Non si rendeva ancora conto del pericolo corso, di avere rischiato di morire. «Mi hai mentito» insisté Charlie. «Hai detto che ritornavi a lezione.» «E allora?» Scioccato dalla risposta, Charlie contò fino a dieci e fece un lungo respiro. «Come hai detto?» «La rivelazione del giorno, papà. Non sono perfetta.» Charlie si impose di non replicare. «Non è il momento di discutere di queste cose. Ne parleremo più tardi.» Sophie abbassò la testa. «Non hai alcun diritto di ordinarmi chi devo o non devo frequentare» disse, portando la mano al medaglione, alla sottile catena d'argento. «Siamo in un paese libero.» «Non hai capito quello che ti ho detto?» «Sei tu che non capisci!» Il cercapersone di Charlie suonò e lui lo prese per vedere chi lo chiamava. Era Mike. «Cara» disse alla figlia, avvicinandosi a lei per baciarla «devo sentire che cosa vuole.» «Non toccarmi!» esclamò Sophie. «Vai a fare la tua stupida telefonata.» Charlie accese il cellulare. «Che cos'è successo, Mike?» «C'è stato un duplice omicidio, capo. La notte scorsa nel Texas. Una coppia di mezz'età. E le circostanze sono inconsuete. Un tornado ha colpito a circa trecento metri dalla casa.»
La notizia gli fece drizzare i capelli. «Quanto ci metti ad arrivare qui all'ospedale?» domandò a Mike. 10 Quando giunsero sulla scena del delitto era buio. Furono accolti dai lampeggianti blu e rossi delle auto della polizia locale, in uno strano, irreale silenzio. A Dogtooth mancava ancora l'elettricità perché le linee erano cadute, e la casa era velata da una nebbia grigia. Charlie sentiva il cuore accelerare il battito mentre con Mike saliva gli scalini davanti all'ingresso e le ombre si allontanavano dai raggi delle loro torce. L'interno della casa era completamente buio. Charlie rabbrividì nello scorgere la vecchia carta da parati dell'ingresso, gli stivali sporchi di fango e gli impermeabili appesi all'attaccapanni. Gli tornarono in mente gli anni Settanta, quando vide le margherite che ornavano la porta della cantina e la ringhiera verniciata di rosso che conduceva al piano di sopra; una fila di luci del Natale scorso era ancora avvolta intorno ai colonnini della ringhiera, ma tutto il colore e l'allegria sparivano nel buio in cima alle scale. Notò che mancavano un paio di colonnini, come i vuoti grotteschi nella dentatura di una maschera. Quando il vento sbatté la porta alle loro spalle, entrambi sobbalzarono. «Oh, merda» disse Mike, guardando Charlie e sorridendo con aria idiota. Una voce irritata echeggiò nel buio. «Non toccate nulla.» Giungeva dalla porta in fondo al corridoio. Attraversarono una piccola anticamera e giunsero in un ampio soggiorno, dove non c'erano due mobili dello stesso stile. Erano di mogano e di quercia, con le gambe scanalate, e l'aria sapeva di chiuso, di muffa e di qualcosa di familiare, qualcosa che fece accapponare la pelle a Charlie. «Lei è Grover?» Lo sceriffo Chester McNeese aveva un aspetto delicato, era di bassa statura e agitato da qualche problema. Aveva i capelli chiari tagliati cortissimi, la faccia segnata dall'acne e la brutta abitudine di succhiarsi i denti anteriori. «Sceriffo.» Stringersi la mano al buio dava un'impressione di strana intimità. «Il sergente investigativo Rosengard.» «Come va?» McNeese strinse la mano anche a Mike. «Rosengard, è un nome ebreo?» «Sì» disse Mike, ripetendo il solito rituale. «Sono l'unico ebreo dell'Oklahoma.»
«Be', e io non sono uno di quelli che hanno sempre la Bibbia in mano. Ho molto rispetto per tutte le religioni.» Mike gli rivolse un pallido sorriso. «Amen, fratello.» «Dopo di voi» disse McNeese. Charlie osservò in silenzio la scena raccapricciante. Due corpi privi di vita erano seduti fianco a fianco su un vecchio sofà di cuoio, con la bocca aperta, lo sguardo sospettoso. L'uomo indossava un pigiama di flanella e aveva la faccia molto abbronzata, tanto che le sue labbra sembravano quasi bianche. La donna teneva le gambe piegate sotto il corpo e sembrava volersi appoggiare all'uomo. Indossava pantacollant verdi e scarpette bianche; entrambi avevano già superato la cinquantina. L'uomo reggeva tra le dita un mozzicone di sigaro; la donna aveva la faccia che sembrava un'albicocca secca. Alcune delle ferite da impalamento non attraversavano il corpo; altre l'avevano trapassato, con una ferita d'ingresso e una d'uscita. Da ciascun corpo sporgevano vari pezzi di legno disposti ad angoli sghembi, con un effetto bizzarro. Charlie rabbrividì. Le vecchie ferite gli mandarono una fitta, come per obbligarlo a immedesimarsi in ciò che vedeva. «Penso che sia il tizio che cercate, giusto?» disse McNeese, e il tremolio della sua voce rivelò la paura che tentava di mascherare. Teneva una mano sulla fondina. «Quello che è su tutti i giornali.» Charlie annuì, con una smorfia. Quel duplice omicidio l'aveva colpito come un pugno al plesso solare. Ormai l'assassino non si preoccupava di nascondere gli omicidi. Aveva collocato le vittime sul sofà come per metterle in posa. Li sfidava apertamente. «Il tornado ha colpito a trecento metri da qui» proseguì McNeese. «La scia dei danni è lunga più di dieci chilometri. Ha distrutto un parcheggio di roulotte, e da ieri notte abbiamo concentrato laggiù la maggior parte delle nostre energie. Tre morti, e non abbiamo ancora contato i feriti. Ossa rotte, ferite alla testa. Gente che vagava, lamentandosi, con i vestiti a brandelli. Questi due li abbiamo trovati solo oggi pomeriggio, quando ci ha chiamato un vicino, preoccupato perché non li aveva ancora visti.» S'interruppe per grattarsi la testa; Charlie sentì il rumore delle unghie sulla pelle secca. «Se non si tratta della più assurda...» «Non c'è molto sangue nel soggiorno» osservò Charlie. «E nemmeno mobili rovesciati.» Mike gli rivolse un cenno d'assenso. «A nessuno è venuto in mente di venire qui» disse McNeese. «La casa
non è stata colpita. Per tutta la notte abbiamo spento fuochi ed estratto superstiti dalle macerie. Mio cugino è morto. Io sono ancora sconvolto.» Charlie seguì una scia di gocce di sangue e di segni di trascinamento che portavano dal tappeto persiano alla cucina. Là tutti gli adesivi magnetici e le ricette erano caduti dallo sportello del frigorifero finendo in una pozza di sangue. La pentola era gelida al tatto. Una tazza di tè, adesso a temperatura ambiente, era posata sulla tavola di legno. La rubrica del telefono era tutta scarabocchiata. Sul pavimento, sulle pareti e sul soffitto c'era un'enorme quantità di schizzi di sangue. Poi qualcosa di diverso. Sul ripiano di formica rosa erano allineati lo sbattitore, l'apriscatole elettrico, il macinacaffè e l'impastatrice. Ciascun elettrodomestico aveva la spina inserita e all'interno del frullatore e della macchina per fare la pasta c'erano decine di posate. Charlie osservò lo spettacolo, senza capire, poi abbassò il raggio della torcia. In alcune zone, il sangue era stato ripulito: sul linoleum si scorgevano i segni lasciati da uno straccio. Lo straccio era in un secchio di metallo nella dispensa. Se avessero spruzzato il pavimento di luminol, pensò, avrebbero evidenziato un anello circolare di sangue, lasciato dal fondo del secchio. Nel soggiorno, tre uomini dello sceriffo si aggiravano nel buio, fotografando la scena con il flash. Nessuno aveva molta voglia di parlare. Charlie passò il raggio della torcia sul sofà sporco di sangue. «Che cos'è questa faccenda delle posate?» «Ne so quanto lei.» Lo sceriffo si strinse nelle spalle. «Forchette e cucchiai nel frullatore? Che cosa può significare?» Charlie guardò gli occhiali della donna, luccicanti di Strass e insanguinati, infilati di sghimbescio. «Chi sono le vittime?» «Birdie e Sailor Rideout.» McNeese aspirò rumorosamente attraverso i denti anteriori. «Sono agricoltori, e lui è anche muratore. È il più tranquillo della città e lei fa la peggior torta di noci della contea. Hanno allevato quattro figli, tutti cittadini integerrimi. Mia figlia più piccola è compagna di classe di uno dei loro nipotini. Io e Sailor siamo anche lontani parenti. Per via di un bisnonno, un prozio o quello che era.» Un gatto balzò verso il telaio della finestra, cercando disperatamente di aggrapparvisi, e Charlie sentì la paura salirgli lungo la spina dorsale. «Via» gli gridò McNeese, avvicinandosi per cacciarlo. Colto da un grottesco senso di complicità, Charlie si avvicinò ai due cadaveri e studiò i cuscini imbottiti, la scatola di fazzolettini di carta sul ta-
yolino, le tapparelle difettose che non salivano del tutto. I diversi orologi in disaccordo sull'ora. Il davanzale era ingombro del tipo di vecchi utensili che si trovano lavorando nei campi. Frammenti di vasellame e punte di freccia. I resti di antiche civiltà. Per un istante ebbe l'impressione che il braccio di Sailor si muovesse, e gli si drizzarono i capelli in testa. Un'illusione creata dai raggi di luce che si incrociavano. Si chinò sui cadaveri e scoprì un arrossamento sospetto sulla bocca di Sailor. Anche la mascella di Birdie era leggermente gonfia. «Dica al suo coroner di controllare i denti delle vittime» suggerì allo sceriffo. «E forse deciderà di non fare troppa pubblicità alle sue scoperte. Mi piacerebbe avere una copia del referto dell'autopsia, se è possibile.» «Certo, capo. Non sono mai stato un egoista.» Il televisore era collocato direttamente davanti alle vittime e dalle impronte sul tappeto appariva chiaro che era stato spostato da poco. A poche decine di centimetri dallo Zenith c'era un aspirapolvere, in piedi, collegato alla stessa presa. Charlie puntò la torcia sul televisore coperto di polvere, con in cima un assortimento di oggetti: mucche di ceramica e funghetti dall'aspetto allegro con larghi sorrisi dipinti a pennello. L'aspirapolvere era un grosso Hoover, ritto in piedi sul tappeto. In un angolo c'era una libreria di legno con una vasta collezione di dischi in vinile e, al centro, uno stereo Pioneer con due casse rivolte verso la stanza. Charlie ignorò le conversazioni che si svolgevano intorno a lui e si concentrò sulla scena. Gli omicidi erano ovvi, questa volta, e ciò dimostrava che il modus operandi dell'assassino era cambiato. Un pensiero preoccupante. Stava diventando più ardito. Charlie osservò l'aspirapolvere. L'assassino aveva colpito Birdie Rideout mentre lei stava pulendo? Gli pareva poco probabile. Gran parte del sangue era in cucina, dove aveva avuto luogo l'attacco iniziale. Perché, allora, preparare una simile messinscena? Perché l'assassino recitava la parte di Dio. Le vittime erano i suoi giocattoli, le sue bambole. Di loro poteva fare quello che voleva. Charlie comprese che era una persona calma e metodica. Disponeva di tutto il tempo che voleva e non temeva gli uragani. Era nel suo elemento. Sfidava la polizia. Anche gli assassini guardano la TV e leggono i giornali. Mentre ripassava mentalmente i particolari, sentiva che la sua diversità dagli altri era soltanto una sottile pellicola di coscienza, esile come la parete di una bolla di sapone. All'improvviso si udì un forte rumore e in tutta la zona ritornò la corrente: ogni lampada e ogni elettrodomestico della casa si accesero. Charlie
impugnò la .38 tenendola lungo il fianco com'era sua abitudine. Una cacofonia di metallo urlante gli colpì le orecchie. In cucina era entrato in funzione lo sbattitore, le posate ballavano dentro il frullatore come se si fossero scontrati due treni, altri elettrodomestici sibilavano come shrapnel, una risata giungeva dalla TV, l'aspirapolvere girava su se stesso nel soggiorno e, in mezzo alla confusione, Charlie udiva anche lo stereo suonare una canzone lenta e dolce. Si sentì accapponare la pelle. Strinse la pistola e cercò di vincere la paura che gli saliva come bile nella gola. Sudando per il terrore, lanciò un'occhiata agli altri, che si erano bloccati come cervi alla luce del proverbiale faro. Il volume dell'amplificatore era basso, come se l'assassino avesse voluto sussurrare nelle loro orecchie quella canzone: una registrazione anni Cinquanta di Smoke Gets in Your Eyes, dei Platters. Charlie sentì un nodo allo stomaco, bruciante come un carbone acceso. Con il dito indice sfiorò il grilletto. L'intera casa vibrava. Anche i due morti sembravano stranamente attenti. Madido di sudore, si rivolse a Mike e disse: «Okay... ecco la reazione che voleva ottenere». 11 Sophie andò a letto con indosso una maglietta da football extralarge. Aveva la faccia gonfia e coperta di minuscoli graffi, le braccia bendate. Charlie si sentiva spezzare il cuore. «È carina» gli disse, guardandolo a occhi socchiusi, come se lo osservasse dal fondo di un pozzo. «La tua Lady Mistero.» Lui sorrise e le rivolse un cenno d'assenso. Sophie aveva ancora sulla fronte varie ciocche di capelli umidi: glieli spostò con la mano. «Cerca di dormire» le disse. Lei si voltò verso la parete; era ancora irritata con il padre. «Ti lascio aperta la porta?» «No. Buonanotte.» Charlie chiuse la porta e attraversò la casa vuota, poi posò la giacca sul bracciolo del sofà e andò in cucina. Il frigorifero gemeva e vibrava. Probabilmente, uno dei prossimi giorni si sarebbe fermato. In tal caso, Charlie non sarebbe stato capace di aggiustarlo. Era felicemente all'oscuro di ogni cosa che riguardasse la meccanica: fili elettrici, motori. Una grande delusione per suo padre, che, quando Charlie gli aveva detto di voler fare il po-
liziotto, l'aveva guardato con gli occhi sgranati. Prese due birre dal contenitore di cartone e raggiunse Willa sulla veranda, dove l'aria era fresca e le stelle brillavano. Le nubi del pomeriggio erano quasi scomparse. Sedettero sul dondolo di legno, al debole chiarore della lanterna antizanzare e Charlie si sentì nello stesso tempo greve e leggero. «Tutto a posto?» gli domandò lei. «Mi sembri un po' scombussolato.» «Oggi mi hanno accusato di essere un fanatico.» Si massaggiò la faccia, poi si appoggiò ai cuscini. «Grazie per esserti presa cura di lei.» «Nessun problema. Hai una gran figlia.» «Ha preso dalla madre.» «Oh, vedo in lei anche molto del padre.» Si tolse le scarpe sporche di fango e appoggiò sul pavimento i piedi nudi. Charlie sorrise. «Ha una personalità tutta sua.» «All'età di Sophie ero senza tette, avevo i foruncoli e mi piaceva andare sullo skateboard. Ero la ragazza più strana della scuola. Disegnavo cazzi sui margini dei compiti in classe e passavo il tempo a cancellarli prima di consegnarli.» Charlie si appoggiò allo schienale e lo fece dondolare leggermente. Si sentiva bene. I lunghi capelli neri di Willa brillavano al chiarore della lanterna antizanzare; sotto il pesante pullover si scorgeva la forma del seno. Willa si portò alle labbra la bottiglia e inclinò la testa, rivelando la pelle chiara della gola. Charlie osservò il pomo d'Adamo salire e scendere. Dopo qualche tempo, lei domandò: «Allora, cos'è successo, oggi?». «Un duplice omicidio nel Texas.» Fece una smorfia. «Due brave persone. Non un nemico al mondo.» «Età?» «Sulla cinquantina.» Udì in lontananza il richiamo dell'oca selvatica, un suono che lo colpiva sempre. Un suono magnifico. Gli piaceva l'atmosfera selvaggia delle notti nell'Oklahoma. Gli piaceva il modo in cui li avvolgeva: erano circondati dall'oscurità, la luce del portico si fermava ai margini del vialetto d'accesso. «Sono stati uccisi come gli altri?» domandò lei, con voce tremante. «Sì.» Willa faticava a trattenere le emozioni. «Potrebbe essere una persona che conosci» aggiunse Charlie. Willa aveva preso fra le dita l'etichetta della birra e la stava staccando. «Uno dei cacciatori di tornado?» «Domattina ti manderò alcune foto. Vorrei che tu le guardassi e cercassi
di riconoscere alcuni dei veicoli che non siamo riusciti a identificare. Hai voglia di farlo?» «Certo.» Charlie sentiva il fresco della bottiglia passare dal vetro alle sue dita. «Non voglio spaventarti.» Lei guardò nell'oscurità e rabbrividì. «Gran parte dei cacciatori che conosco è gente che lo fa per pura passione. Amano le tempeste. Sono capaci di percorrere migliaia di chilometri per guardare un tornado anche solo cinque minuti, e partono senza la minima esitazione.» Charlie alzò gli occhi oltre la luce del portico, per fissare il grande mistero della notte. In qualche punto di quell'oscurità, nell'immenso paesaggio delle pianure, c'era un uomo che esprimeva se stesso attraverso la morte degli altri. «Il tornado è arrivato a trecento metri dalla casa, questa volta. Come può essere così preciso?» Willa rifletté per un momento. «Probabilmente gioca a un livello superiore. Padroneggia un'arte, e precede di dieci mosse tutti gli altri.» «Ma come può fare?» Lei si strinse nelle spalle. «Forse capisce in modo straordinario i principi del radar, l'interpretazione doppler della velocità e l'ambiente pre-tempesta, oppure...» «Oppure che cosa?» «Oppure ha un forte intuito, che lo porta nel punto giusto al momento giusto.» Charlie la guardò, senza parlare. Sentiva il vento fischiare tra gli alberi, il leggero fruscio delle foglie. Lei gli prese la mano, cominciò a far correre sul suo palmo l'unghia dell'indice e questo richiamò finalmente l'attenzione di Charlie, che cercò di immaginare il luogo dov'era cresciuta. Con l'occhio della mente, vide una cittadina tra i campi, una vecchia casa diroccata e un gruppo di bambini turbolenti: in mezzo a loro il maschiaccio del Texas, con le trecce e i calzini corti, in attesa che cominciasse a piovere. Sempre con un occhio rivolto al cielo. «È diventato un cliché» disse Willa. «L'effetto farfalla. Ne hai sentito parlare, vero?» «Una farfalla batte le ali in Cina e l'indomani scoppia un uragano in Oklahoma?» Lei annuì. «Il clima è un sistema straordinariamente sensibile. Ogni regione influenza le altre. Non puoi controllarlo, non puoi prevederlo in senso globale. Spero di poter visitare la Cina, prima o poi, e di vedere quella
famosa farfalla battere le ali. Voglio assistere alla genesi dei nostri tornado.» La sua mano era calda in quella di Charlie. «È un vero mistero come qualcosa di tanto piccolo e bello possa portare a tanta devastazione.» Charlie continuò a studiare l'incantevole insieme dei suoi lineamenti mentre sedeva accanto a lei e si dondolavano lentamente. Poi le palpebre di Willa si abbassarono per il sonno. Diede un'occhiata all'orologio e lasciò la mano di Charlie, che si sentì come nudo. Tornò a infilarsi le scarpe e si alzò. «Davvero, adesso devo andare, Charlie.» Lui cercò di nascondere la delusione. «È stata una lunga giornata.» Willa posò la bottiglia di birra vuota per metà e giocò distrattamente con le chiavi. «Magari potremmo cenare insieme, una volta o l'altra.» «Ottima idea.» «Davvero?» «Ti telefono.» Si sporse verso di lei per darle un bacio. Si baciarono a lungo, e alla fine fu lei a staccarsi. Fece un respiro profondo e sorrise, «Sì, telefonami tu» confermò. Charlie rise. «Vieni con me, Pocahontas. Ti accompagno alla macchina.» 12 Tre giorni più tardi, Sophie andò a trovare Boone all'ospedale. Era a letto con gli occhi chiusi, e ogni volta che il suo respiratore si fermava la ragazza tratteneva il fiato e contava i secondi finché lui non riprendeva a respirare. "Morte cerebrale" significa mancanza del riflesso della deglutizione e di quello corneale. Chiacchiere da infermieri. Dicevano un mucchio di cose. "In questi casi è meglio essere realisti. Le probabilità sono contro di lui, statisticamente parlando." Passavano da un letto all'altro, somministrando medicine ai malati, controllando le cartelle cliniche e pronunciando giudizi infausti. Lei non voleva ascoltarli. Quel giorno intendeva pensare soltanto in positivo. "Aprirà gli occhi e mi sorriderà." La sua preoccupazione andava e veniva, a sprazzi. Il sole che filtrava attraverso le tende le dava speranza, allora si sedeva curva su una sedia accanto al letto e teneva la mano di Boone, umida di sudore e inerte. Ripensava al periodo in cui sua madre era all'ospedale. Sophie aveva sentito enormemente la sua mancanza, ma quando lei era ritornata, due settimane più tardi, si era sentita imbarazzata e distante. Quasi in collera. Solo più tardi s'era resa conto che la riluttanza ad avvicinarsi alla madre era dovuta
al fatto che non voleva essere costretta a dirle addio. Ma aveva dovuto dirglielo, alla fine. E dopo, tutto era cambiato. Il mondo era diventato più buio. Ma nessuno sembrava preoccuparsene, nessuno aveva capito che cosa provasse lei. Neppure la sua migliore amica, Katlin, che riusciva a condividere il dolore di Sophie solo per breve tempo e poi cambiava argomento. "Devi cercare di uscirne. Devi cercare di pensare ad altro." Era la lezione più dura che avesse dovuto imparare: che la gente non ama farsi coinvolgere più di tanto nel dolore degli altri, per quanto ti vogliano bene. Ma Boone era diverso. Ascoltava per ore i discorsi su sua madre. Era la sola persona al mondo che capisse ciò che lei provava, e per questa amicizia Sophie continuava a deludere chi la conosceva. Suo padre le aveva proibito di uscire per due settimane, le sue amiche si erano dimostrate di mentalità ristretta. Storcevano il naso davanti a chiunque non avesse l'università nei propri progetti, anche se tutti dicevano che l'America non era una società classista. Con il mento appoggiato sul braccio, Sophie osservò Boone mentre dormiva. Aveva la carnagione rosea, simile a quella di un bambino, e i capelli ben pettinati. Di solito sembravano gli aculei di un istrice, ma la madre era passata all'ospedale, quella mattina, e lo aveva pettinato con i capelli dietro le orecchie come un bambino. Gli aveva lasciato una scatola con i suoi divertimenti preferiti: il Game Boy, lo skateboard e i videogiochi dai nomi minacciosi come Doom e Resident Evil. Come se quelle cose fossero più utili dell'affetto di una madre. In quel momento, probabilmente la donna era in qualche bar a ubriacarsi. Sophie sentì che questo li avvicinava: anche Boone aveva dovuto imparare a vivere senza madre, proprio come lei. Un'infermiera con la faccia cosparsa di efelidi entrò nella stanza e aprì le tendine. Il sole colpì le palpebre di Sophie. «Come sta?» domandò, sbattendo gli occhi. «Finora, nessun cambiamento» rispose l'infermiera, leggendo la cartella clinica e regolando la flebo. «Ma la pressione sul cervello comincia a diminuire.» «È un buon segno?» «Forse. Ma non farti troppe illusioni.» Controllò il polso di Boone, sistemò il cuscino e uscì. Sophie ebbe una stretta allo stomaco e abbassò la testa. Forse la morte non era brutta come diceva la gente. Forse la morte era come addormentarsi a metà giornata. Forse ti scioglievi lentamente al sole, come un ghiaccio-
lo, e tutte le tue molecole si disperdevano nell'aria soffice e tiepida. Forse la morte era un senso di completezza, di pienezza. Era persa in questi pensieri, quando all'improvviso sentì muoversi la mano di Boone. Drizzò di scatto la testa. «Boone?» Lui sbatté le palpebre. «Infermiera!» gridò Sophie. Gli strinse la mano e sentì sotto le dita le ossa, i tendini e i muscoli. Nel silenzio, attese che reagisse. «Boone?» Lui mosse le dita e Sophie sorrise. «Ti voglio bene» gli disse. Sul volto di Boone comparve un accenno di sorriso. Sophie sentì qualcosa torcersi dentro di lei. Boone aprì i suoi profondi occhi blu. 13 «Dove diavolo si è cacciato Lester?» domandò Charlie, uscendo in fretta dall'ufficio. Il sergente Hunter Byrd alzò gli occhi dalla scrivania. «Non ne ho idea, capo.» Sotto la luce fluorescente, i suoi capelli rossi sembravano di rame, come se se li fosse tinti. «Quanti messaggi gli hai lasciato in segreteria?» «Tre.» «Fammi un favore, lasciagliene un altro. Digli di venire qui per una chiacchierata amichevole.» «Amichevole?» «Che c'è, non ti piace la parola?» Hunter si strinse nelle spalle e sollevò il telefono. «No, capo, amichevole va benissimo.» «Ho i risultati dell'autopsia dei Rideout» li interruppe Mike. «Andiamo nel mio ufficio.» Arrivati in ufficio, Charlie sedette alla scrivania e fece girare il ghiaccio nel bicchiere di plastica. Sentiva dentro una fastidiosa tensione. Non vedevano né sentivano Lester da giorni e lui temeva che il suo vice gli avesse nascosto dell'altro, oltre alla sua relazione con la vittima. «Volevo chiederti una cosa» disse Mike. Sedeva con le gambe incrociate e dalla tasca della giacca gli usciva una cravatta rossa. «Perché proprio Smoke Gets in Your Eyes? Il disco sullo stereo dei Rideout.» Charlie scosse la testa. «Non ne ho idea.»
«Pensaci, capo. L'assassino poteva scegliere tra centinaia di altre canzoni. Ho guardato gli album della loro collezione. Perché non Little Things Mean a Lot di Kitty Kallen, o Wake Up Little Susie degli Everly Brothers?» Charlie posò il bicchiere. La sua scrivania era coperta di documenti. Avevano raccolto tanto materiale sul triplice omicidio da riempire una decina di dossier. Le pale di un ventilatore ruotavano silenziosamente sul soffitto, muovendo le carte. Fuori era una bellissima giornata; il sole forte del pomeriggio filtrava attraverso le veneziane, ma niente riusciva a cancellare l'inquietudine di Charlie. «Che cosa intendi dire, Mike?» «Penso che significhi qualcosa. Quel disco, quelle parole. "Fumo nei tuoi occhi." Pensaci, capo.» Charlie sentì un brivido: tutte le sue paure tornarono ad affliggerlo all'improvviso. «Questo è uno psicopatico audace, che ci prende in giro. Vuole vedere quante informazioni può rivelare su se stesso senza essere preso. Penso che faccia tutto parte del suo folle piano.» «Allora credi che l'autore dei delitti mi conosca? Intendi dire questo?» Mike si strinse nelle spalle. «"Fumo nei tuoi occhi." A chi altri potrebbe rivolgersi?» Charlie si soffermò su quel pensiero sgradevole. "Lester Deere, Boone Pritchett, Jake Wheaton, Jonah Gustafson." Non era una grande lista. Dovevano avere interrogato almeno un centinaio di cacciatori di tornado che erano stati fotografati vicino alla scena del delitto, quel giorno, ma finora non avevano trovato nulla. La maggior parte degli interrogati aveva fornito un alibi. Il pubblico, la stampa e i superiori chiedevano qualche azione immediata, ma Charlie non poteva fare nulla. Nulla di nulla. Sulla sua scrivania c'era una foto dell'autopsia di Danielle; la capovolse per non doverla guardare. «Forse conosce te, capo» rifletté Mike. «Forse ha visto la tua foto sui giornali e ha deciso di mandarti un messaggio. Non lo so. Ho soltanto la sensazione che abbia scelto appositamente quel disco.» Aveva la faccia lucida di sudore. «C'è sempre una ragione per ogni cosa. Magari contorta, ma c'è.» Charlie alzò gli occhi, con espressione preoccupata, e guardò fuori della finestra. Il parcheggio era pieno di auto, dall'asfalto si alzavano ondate di calore. Lui e i suoi uomini avevano meticolosamente messo in relazione le ferite dei Pepper con le macchie di sangue trovate all'interno della casa e
ne avevano dedotto senza possibilità di dubbio che l'assassino usava la mano destra. Erano riusciti a ricostruire la dinamica del triplice omicidio a partire dai rapporti del laboratorio, dalle fotografie e dalla traiettoria degli schizzi di sangue. Per primo, l'assassino aveva aggredito Rob Pepper nel corridoio, colpendolo al petto, alle braccia, all'addome e alla testa. Una seconda botta alla testa gli aveva fatto perdere i sensi. L'assassino aveva poi assalito Jenna Pepper con la stessa arma - un ramo nodoso, che gli agenti avevano poi trovato nelle vicinanze - assestandole crudeli colpi alla testa, al petto e alle braccia, fino a farle perdere i sensi. Entrambe le vittime avevano lasciato macchie di sangue sulla parete del corridoio e sul tappeto mentre cercavano di sfuggire ai colpi. Intanto, Danielle era scappata in cucina; l'assassino l'aveva seguita e le aveva vibrato un tremendo colpo alla nuca. Nonostante la ferita, in qualche modo la ragazzina era riuscita a raggiungere il soggiorno e a nascondersi dietro il piano. I capelli le si erano riempiti di polvere quando l'assassino l'aveva trascinata via. Poi le aveva assestato un colpo alla fronte facendole perdere i sensi e aveva trasportato al piano di sopra tutte tre le vittime, nella camera da letto, dove con incredibile ferocia aveva compiuto il suo lavoro più macabro. L'assassino doveva essere abbastanza robusto, pensava Charlie, temerario e completamente privo di coscienza. Quel triplice omicidio era un mostruoso atto di follia, un atto di sfida molto rischioso e del tutto insensato. Mike aprì la cartellina e lesse. «"Birdie e Sailor Rideout, rispettivamente di cinquantaquattro e cinquantasei anni. Le macchie di sangue corrispondono al gruppo AB positivo delle vittime. Ferite da difesa sulle braccia e sulle mani, contusione traumatica alla testa. Ferite da impalamento che hanno attraversato il corpo totalmente o parzialmente, con ritenzione dell'oggetto..."» Alzò la testa. «Va avanti nella stessa maniera. Ti dirò solo le parti più importanti.» Lesse in fretta le pagine seguenti. «Dice che hanno trovato reperti interessanti di terra e di specie botaniche. Fibre di isolante, di amianto e piccole tracce di gesso. Queste ultime molto vecchie, risalgono a circa un secolo fa. Nessuna di esse appartiene alla casa, però.» «Non ci serve. Possono essere arrivate da altre parti.» Mike si appoggiò alla spalliera della poltroncina. «Nessuna fibra di lana blu, capo. Solo qualcuna di cotone bianco.» Charlie si strinse nelle spalle. «Sono talmente comuni da essere inutili.» «Tutti i capelli che hanno recuperato dagli scarichi appartenevano alle vittime, ma nella casa ce n'erano alcuni che non sono stati riconosciuti.
Due capelli di lunghezza media, castani, uno biondo corto, uno nero corto e uno bianco di media lunghezza, tutti appartenenti a individui di razza bianca.» Charlie aggrottò la fronte. Per qualche motivo gli era venuto in mente il padre. Capelli bianchi di lunghezza media. «Inoltre, vari peli neri di coniglio.» «Coniglio?» «Secondo il laboratorio dello Stato.» «I Rideout avevano conigli?» «No, che io sappia. Ecco perché la cosa ha risvegliato il mio interesse.» S'interruppe per voltare la pagina. «Hanno trovato una fibra verde, proveniente da un tappeto, nei capelli di Birdie Rideout e fibre di blue jeans sotto le sue unghie.» «Non ci offrono alcun indizio, Le fibre di blue jeans sono comuni come quelle di cotone bianco. Inutili, per la nostra indagine.» «E adesso veniamo ai denti» continuò Mike, aprendo di nuovo il rapporto. «Il canino superiore destro della donna è stato estratto e sostituito con un altro dente che non è ancora stato identificato. Un incisivo inferiore dell'uomo è stato sostituito in modo analogo.» «I denti» disse Charlie, facendo girare il ghiaccio nel bicchiere. «Ecco il nostro indizio. Saranno i denti a portarci all'assassino.» «Sono d'accordo.» «Fammi un favore. Chiedi a McNeese se ci presta quei denti per controllarli.» «Certo.» Mike scorse il resto del rapporto. «Nessuna violenza sessuale, niente sperma. Nessun indumento fuori posto che potrebbe indicare uno stupro. Nessun testimone. Nessun rapporto di attività sospette. Nessuna impronta. Più o meno è tutto qui.» Charlie sentì una pulsazione dolorosa nelle vene del collo. «E che mi dici dei Pepper? C'è qualcosa di nuovo nel loro caso?» «A parte un milione di telefonate di pazzoidi?» Mike sorrise. «Tutti hanno una loro teoria. Tutti hanno scoperto all'improvviso di possedere percezioni extrasensoriali.» «Qualcosa su Gustafson?» «Sì, abbiamo un indirizzo.» Si sporse verso Charlie; gli tremava il doppio mento. «Volevo andare a parlargli di persona, visto che non risponde alle nostre telefonate.» Charlie si alzò. «Cosa aspettiamo?»
Mentre uscivano, Hunter li fermò. «Capo? C'è una donna al telefono... insiste per parlare con te personalmente. Dice che riguarda le indagini.» «Aspettami fuori» disse Charlie, rivolto a Mike. Poi si fece dare il telefono da Hunter. «Pronto?» «È il capo Grover?» Charlie sentì uno scatto sulla linea. «Come posso esserle d'aiuto, signora?» «Volevo riferire un fatto che forse ha a che fare con gli omicidi del mese scorso.» «Sì, l'ascolto.» «Ecco» rispose lei, con un forte accento texano. «Quando ero piccola, ci fu un tornado qui a Dime Box, nel Texas. Un F2, ma ce la vedemmo brutta. Io, mamma e Dickie ci nascondemmo nello sgabuzzino. Era sotto la scala, così pensavamo di essere al sicuro. Fu una giornata terribile, non so se lei se ne ricorda, ma metà della città venne spazzata via.» Charlie aggrottò la fronte. «Sì?» «Eravamo laggiù, ammucchiati dentro lo sgabuzzino, spaventati a morte, quando guardai dallo spiraglio della porta e vidi un omino che girava in casa nostra. Pensai che fosse un elfo... che avessimo in casa un elfo... ma adesso credo che fosse piuttosto un bambino. Si aggirava nell'ingresso, un bambino di... non saprei dire... cinque o sei anni.» Charlie aggrottò la fronte. Il racconto non aveva alcun senso. «Quando il tornado si allontanò, naturalmente non trovammo né elfi né bambini. Mi convinsi di averlo sognato, ma con grande stupore poi scoprimmo che erano sparite le posate d'argento, e anche il televisore e la radio. Voglio dire, eravamo vicino al percorso del tornado, ma la casa non aveva subito danni. Quegli oggetti erano scomparsi come per magia. Come se qualcuno fosse entrato in casa e li avesse fatti sparire. Volevo solo informarla...» «Bene, signora, grazie della telefonata. Le sono davvero riconoscente.» «Non so se sia una cosa importante. Forse è stato il vento a portarsi via la roba. Ma non riesco a togliermi dalla mente quella giornata.» «Terrò presente il suo racconto. Grazie ancora della telefonata.» «No, sono io che la ringrazio, capo Grover» disse la donna. «Grazie a lei e ai suoi uomini per l'ottimo lavoro che fate.» «Vorrei potermi meritare il complimento» le rispose Charlie, e chiuse la comunicazione.
14 Jonah Gustafson abitava tra due svincoli dell'autostrada in un punto a est di Tulsa. Aveva i capelli castani, di media lunghezza, le giunture sporgenti e una luce di pazzia nello sguardo. Sedeva su un divano coperto di plastica, e il sole già basso sull'orizzonte filtrava dalle finestre. Indossava un paio di jeans, un gilet di cuoio ed era senza scarpe. Guardandogli i piedi sporchi di terra, Charlie giudicò che portasse un numero quarantacinque. Sulla parete dietro di lui c'era un poster incorniciato raffigurante un paesaggio lunare; quando Jonah si arrotolò una sigaretta, Charlie notò che gli tremavano le mani. «Grazie per aver accettato di parlare con noi» disse Charlie. «Oh, nessun problema.» Nel vialetto era parcheggiato un furgone bianco così lucido che avrebbe potuto bucare la retina se uno l'avesse guardato troppo a lungo. Charlie sentiva dei bambini che giocavano nella stanza vicina. «Ha figli?» gli domandò. «Tre maschi. Tre diavoli.» Jonah non lo guardava direttamente. Era occupato con un grosso bicchiere di bourbon e soda e riusciva a malapena a bere. Charlie annuì. I ragazzini gridavano e il suono delle loro voci calava su di lui come uno sciame d'api. «Abbiamo parlato ad altri cacciatori di tornado che erano nelle vicinanze di Promise il 15 aprile. Tutto quello che lei potrà dirci ci sarà utile.» «È solo routine, giusto?» «Sì, semplice routine.» Jonah aveva una cicatrice bianca al posto del sopracciglio destro. «Cosa volete sapere?» «Dov'era quel giorno?» «Ho iniziato a Ponca City.» «Kansas?» Jonah annuì. «Le reti d'avvertimento cominciavano a riscaldarsi, così ho preso il portatile e ho visto due avvertimenti di tornado a sudovest della mia posizione. Il riassunto della Nexrad e i radar doppler locali l'hanno confermato, Così sono tornato indietro e, prima ancora che me ne accorgessi, ho sentito i colpi sul tettuccio. E ho pensato tra me: "Finora, tutto male".» «Con "tutto male" intende dire tutto bene?»
«Sì, bene.» Sorrise. Bevve un sorso e soffiò una nuvoletta di fumo. «Male significa sempre bene.» Charlie si guardò intorno nel soggiorno. L'arredamento era scarno, limitato all'essenziale. Niente piante, niente tendine, niente suppellettili. Solo qualche vecchia tapparella, mobili di poco prezzo e scaffali e armadietti fatti a mano. «Lei lavora il legno?» domandò. «Diavolo, sì. Ho costruito il tavolo della cucina con un panforte di recupero. Vede il porta CD? L'ho fatto io. E il mobiletto del televisore? Posso fargliene uno per cinquanta dollari più il materiale. Ehi, cosa combinate là dietro?» gridò in direzione della stanza dei ragazzi. Riprese il bicchiere e sorrise come per scusarsi. «Tre figli, e uno non è neppure mio.» Charlie gli rivolse un cenno d'assenso, senza compromettersi. "L'assassino usa la mano destra" pensò. "In due delle scene del crimine sono stati trovati capelli castani. Anche il numero delle scarpe corrisponde." «Veniva sempre a caccia con me, mia moglie. Ci siamo conosciuti durante una grandinata. Siamo corsi fuori come due ragazzini e abbiamo portato a casa un secchio pieno di grandine. L'abbiamo messa nel freezer. Sei mesi più tardi, quando ci siamo sposati, mia moglie ha servito cocktail alla grandine.» Tirò una boccata dalla sigaretta arrotolata a mano. Inalò profondamente il fumo. «La prima cosa che mi ha detto è stata: "Un furgone bianco?". Il bianco si sporca da matti. Ma non c'è niente che una bella tempesta non metta a posto. Una bella pioggia è meglio dell'autolavaggio. Gran bella donna, mia moglie. Il più bel culo che abbia mai visto.» «Cos'è successo?» «La troia se n'è andata con uno scimmione di italiano.» «No, parlavo del 15 aprile» disse Charlie. «Ah, giusto.» Con la sua faccia affilata e triangolare, sembrava nello stesso tempo astuto e stupido. «Allora sono tornato in Oklahoma, dove sembrava salire la tempesta. Si vedevano già la cupola e l'incudine. Sul fianco nord c'era una bella torre e il fianco nordovest saliva fino alla stratosfera... un'esplosione incredibile.» «Quindi, lei era a Promise, quel giorno?» chiese Mike. Jonah annuì. «A sud del centro. Dopo un momento mi trovo in mezzo alla pioggia e con la strada che balla sotto le ruote. Come un terremoto. Avevo paura di essere mangiato vivo. Le cose possono cambiare in modo molto rapido, sapete? L'ho visto arrivare da dietro l'autostrada. Poi, tutt'a un tratto, un grosso pezzo di muro casca giù dal cielo proprio sopra di me.» Si sporse in avanti, tendendo tutto il corpo. «Ho lasciato la posizione,
quel detrito per poco non mi veniva addosso.» «Ha lasciato la zona?» «Diavolo, sì, me la sono data a gambe, non scherzo.» «E dov'è andato?» «C'era un altro allarme nella zona di Burns Flat e Reydon, da quelle parti. Sapete che hanno un Parco dei Tornado a Burns Flat? La cosa mette tristezza, no?» «Lei è stato nei pressi di Shepherd Street il 15 aprile?» domandò Charlie. Jonah gli rivolse un'occhiata priva di espressione. «Assolutamente no.» «Non è passato vicino alla casa dei Pepper, quel giorno?» continuò Charlie, in tono impassibile. Jonah lo guardò con sospetto. «Non mi piace la piega che ha preso questo discorso. Queste insinuazioni.» «Le dispiace se diamo un'occhiata in giro?» «Sì, mi dispiace.» Sembrava offeso. Un rumore di passi. «Papà?» Sulla soglia comparve un bambino. Gli mancavano due incisivi e questo richiamò l'attenzione di Charlie. «Vieni qui, tu.» Jonah prese il piccolo e lo abbracciò: nel piegarsi, l'elastico dei boxer gli spuntò dalla cintura dei calzoni. Il bambino si voltò verso Charlie con espressione ostile. Fissò con odio il suo distintivo lucente. «Come ti chiami?» gli domandò. «Capo Grover. E tu?» Jonah lo guardò a occhi sgranati. «Grover? Parente di Izzy Grover?» Charlie annuì. «Sì, è mio padre.» «Gente, ecco un vero pericolo pubblico» rise Jonah. «Quel tizio può essere pericoloso, lo sa? Butta fuori strada quelle macchinette giapponesi, e poi come fai a dire di chi è la colpa? Quel tizio andrebbe fermato. Lui e il suo vecchio giaccone.» Charlie sentì un brivido alla schiena, come se fosse stato investito da un soffio di aria gelida. Rivide il padre che toglieva dall'armadio il vecchio giaccone che puzzava di naftalina. «Stiamo parlando di Isaac Grover, giusto? Sessantadue anni, capelli bianchi?» «Sì, sì. Fai uno sbaglio, e lui ti spiaccica sotto quella sua vecchia carretta.» Charlie avvertiva un malessere allo stomaco, come se avesse mandato giù qualcosa di indigesto. Suo padre in autunno tirava fuori dalla naftalina quel giaccone blu e a volte continuava a portarlo fino a giugno. "Il giacco-
ne blu" pensò all'improvviso. "Le fibre di lana blu sul luogo del delitto." «Izzy Grover, proprio lui, e il suo merdoso Loadmaster. L'ultima volta che abbiamo smontato il motore c'era un cuscinetto rotto che gli aveva guastato l'albero. Quella carretta ha percorso almeno un miliardo di chilometri. Farebbe meglio a rimetterla a posto. Senza aspettare, però.» A Charlie girava la testa, come se fosse cambiata la pressione dell'aria. «Grazie del tempo che ci ha concesso» disse, alzandosi. 15 Le ruote della sua auto di servizio si sporcarono di fango abbordando le curve tra la Prima Chiesa Battista e il vecchio boschetto di noci per raggiungere la casa del padre. Entrò nel vialetto e parcheggiò, restando a sedere con il motore in folle e osservando il prato falciato da poco, gli alberi dai rami scuri. Alla luce della luna la casa lo inquietava. Invece di un senso di conforto e di calore, vi scorgeva il pericolo. Vi scorgeva il dolore. Scese dall'auto, con il cuore in gola, e salì in fretta gli scalini. «C'è qualcuno?» Bussò alla porta. Quando nessuno gli rispose, si avvicinò a una delle finestre e guardò all'interno. Suo padre era sul sofà del soggiorno e dormiva nella luce azzurrina del televisore. La scena era immobile come una fotografia. Charlie batté sul vetro e il padre si destò di scatto. «Papà? Dobbiamo parlare.» Lui si alzò e si avvicinò muovendosi come un sonnambulo. «Charlie, sei tu?» Dopo qualche istante si sentì cigolare la porta a zanzariera. «Che ci fai qui?» gli domandò il padre con voce assonnata. Charlie studiò il modo in cui la luce del portico gli illuminava la testa, ne metteva in risalto la struttura - la fronte alta, le guance scavate, le labbra sottili che affondavano sulle gengive senza denti - e all'improvviso comprese che cosa avesse voluto evitare per tutto quel periodo. Suo padre usava la mano destra; aveva le scarpe numero quarantacinque; era un fanatico cacciatore di tornado; era un uomo collerico, con un passato violento. Il suo pickup Loadmaster era stato fotografato vicino alla scena del crimine, il 15 aprile, e un capello bianco - di lunghezza media, appartenente a un individuo di razza bianca - era stato trovato nella residenza dei Rideout. E adesso il giaccone. Di lana blu. "Mio padre?" pensò. "Ridicolo." «Non stare lì impalato» gli disse Isaac. «Entra.»
Charlie entrò; le pareti lo avvolsero in una cappa di vecchiaia che sapeva di muffa. Non riusciva a entrare in casa del padre senza mettersi sulla difensiva. Aveva ancora sulla schiena decine di piccole cicatrici, simili a fili d'erba, lasciate da una cinghia di cuoio. Il corpo ricorda tutto, anche quando la mente dimentica. «Qualcosa da bere?» «No, grazie.» Il soggiorno era pulito e in ordine, con piccole isole di mobili riuniti insieme. Lo stile era sgraziato, il legno scuro, la stanza piccola e soffocante. Non c'erano tocchi che dessero allegria, né fiori, né quadri, né libri. Solo un piattino pieno di monetine e pile di vecchie riviste, un po' di attrezzatura radio e un televisore sul cui schermo la gente aveva la faccia viola. Charlie si soffermò a guardare. Il lettore CD era nuovo. Anche il computer portatile. «Dove li hai presi?» domandò. «Da Dirty Ed. Sono usati. Qualcosa in contrario?» Il portatile era aperto sul tavolino. Sullo schermo si scorgeva l'immagine dal satellite di una massa di nubi in rotazione. Charlie lo guardò con sospetto. «Da quando in qua ti sei messo online? Pensavo che odiassi tutti questi aggeggi.» «Evidentemente, mi conosci male» grugnì Isaac. «È l'attrezzatura base del cacciatore: computer portatile, localizzatore satellitare, telefono cellulare. Ho comprato anche un treno di gomme nuove per il camioncino. Ti dispiace?» C'erano distanze siderali tra lui e suo padre. Intere epoche di malintesi. «Dobbiamo parlare, papà.» «E di che?» «Dove hai preso l'orologio?» Isaac lo guardò con aria di sfida. «Te l'ho già detto.» «Sì, certo. E se invece mi raccontassi la verità, questa volta?» Isaac fece scorrere il cinturino di metallo lungo l'avambraccio, fino a nascondere l'orologio sotto il golf. «Come ti ho detto, quella coppia gentile...» «Te l'ha regalato, lo so. Come si chiamano?» Il padre lo fissò con ira. «Papà... so che l'hai rubato.» Il padre lo guardò con aria dura. «Esci dalla mia casa.» «Ascolta, ho sentito un mucchio di orribili storie sui poliziotti e i paramedici che rubano nelle zone dei disastri, e si tratta di una delle cose più
spregevoli che si possano fare. I parenti delle vittime non hanno mai il coraggio di dire: "Allora, chi si è preso i gioielli e il portafoglio?". Perciò, dimmi, papà, hai rubato l'orologio? O l'hai trovato nel fango? Per favore, dimmi che l'hai trovato nel fango.» «Vuoi la verità? Ti dirò la verità.» Il padre lo guardò con ira, poi si sedette sul brutto sofà a fiori davanti al tavolino. «Guarda te, che torni a casa tardi tutte le sere e pensi che lei ti stia ad aspettare in quella casa grande e vuota. Credi che le piaccia, crescere senza genitori?» Era il tipo di colpo basso che Charlie non si aspettava. «Lei soffre ancora e tu non sei mai a casa. Ha bisogno di suo padre, che la consoli e che stia ad ascoltarla. Da quello che mi ha detto, tu non eri mai a casa neppure quando Maddie era viva. Sentiva la sua povera madre piangere nel letto, ma Maddie si rifiutava di dare la colpa a te. Diceva che è il destino della moglie di un poliziotto. Diceva...» «Sta' zitto!» gridò al vecchio, con un'occhiata di odio omicida. «Non dire un'altra parola! Non osare!» «Pensavo che volessi la verità» ribatté il padre, con un'indifferenza così fasulla da fargli male allo stomaco. «Con che coraggio mi fai la predica, papà? Proprio tu? Cristo, una volta mi battevi come un tamburo, tutti i santi giorni!» «Da anni non ti tocco più» mormorò Isaac. «Dal giorno dell'incendio.» «Ah, tutto perdonato, adesso?» Per la collera, le narici di Charlie si dilatavano e si chiudevano. «Non tratterei neppure un cane nel modo in cui tu hai trattato me. Dicevi che ero una molecola di sterco. Te lo ricordi?» Isaac aspirò l'aria attraverso la dentiera. «La verità, ora. Mettiamo tutto in chiaro. Parlami dell'incendio, papà. L'incendio che ha ucciso mamma e Clara. L'hai appiccato tu, vero? O eri troppo ubriaco per ricordare i particolari di quella notte?» Il padre si limitò a fissare Charlie negli occhi. «Su, parlami dell'incendio.» Charlie si accorse di avere in mano qualcosa di freddo e appuntito. Le chiavi dell'auto. «Sei stato tu? Hai dato fuoco tu alla casa?» Isaac distolse lo sguardo. «È stato un incidente.» «Avanti, nega tutto. Sei sempre stato bravo in questo.» «Non sai di che diavolo parli.» «Oh, certo» rispose Charlie, ironicamente. «Io non c'ero, come potrei saperlo? Dopo che tu picchiavi la mamma, dopo che la battevi fino a lasciarla a terra sai cosa facevo, papà? Andavo a sedere sulla sponda del suo
letto e le tenevo lo specchio mentre lei si dava il rossetto e il fondotinta per nascondere i lividi. Aveva tanti pennellini del trucco e tante scatolette laccate. Una volta, dopo un'esperienza particolarmente brutale di quel che può succedere mettendo insieme ormoni maschili, alcol e mio padre, la sentii piangere nella sua stanza e sai cosa feci? Mi infilai sotto il letto, lei continuò a chiamarmi, ma io restai nascosto e immaginai di abitare a mille chilometri di distanza... ed ero orgoglioso di averlo pensato.» Isaac abbassò la testa e batté con il pugno sui cuscini. «Smettila...» «Papà?» li interruppe una vocina. Mentre si girava, Charlie arrossì fino alle orecchie. Sophie era ferma sulla soglia, con gli occhi gonfi dal sonno. Indossava il suo pigiama di cotone. «Che ora è?» domandò. Aveva ancora i capelli schiacciati, a causa del cuscino. Charlie non credeva ai propri occhi. «Che ci fai, qui?» «Sono venuta a trovare il nonno. Tu non eri a casa, e allora...» «Prendi la giacca» ordinò lui, brusco. «E mettiti le scarpe.» «Perché, dove andiamo?» «A casa» rispose Charlie. «Ti porto a casa tua.» «Che cosa c'è che non va?» Lui l'afferrò per il braccio e la trascinò verso l'ingresso. Il suo cuore aveva accelerato furiosamente i battiti; cercò di fare dei respiri lenti, per rallentarlo. Aprì l'armadio e frugò tra giacche, soprabiti e maglie che puzzavano di sudore. «Non avevo nessuna giacca» protestò Sophie. «Papà?» Il giaccone blu non c'era. «Andiamo via» disse Charlie. «Le mie scarpe!» «A casa hai tutte le scarpe che vuoi.» «Papà!» Tirandola per il braccio, Charlie la portò fuori. 16 «Che cos'è successo?» volle sapere Sophie, mentre tornavano a casa. Aveva un'espressione di condanna. «Niente.» «Ah, no? Urlavate l'uno contro l'altro.» «Non urlavamo.»
Sulla strada, davanti a loro, un'enorme station wagon Polara bianca del '60 continuava a sbandare da una parte all'altra, con quattro adolescenti pigiati sul sedile anteriore. Al volante c'era un'idiota dalla pettinatura punk con il telefonino incollato all'orecchio, che diceva ai suoi amici di stare zitti. Charlie avrebbe dovuto azionare i lampeggianti e farla fermare, ma lui e Sophie erano nel bel mezzo di una discussione e in quel momento non gli importava nulla delle infrazioni al codice della strada. «Per cosa litigavate?» gli chiese Sophie. «Sai cosa significa "non uscire di sera"?» «Mi sentivo sola! Peg ha una sua vita, lo sai anche tu, non può stare con me ogni istante del giorno. Che altro dovevo fare? Tu non sei mai a casa.» La station wagon slittò di coda all'improvviso davanti a loro, e Charlie dovette inchiodare. «Cristo, gente!» «Quella ragazza non ha idea di quanto sia pericolosa al volante» commentò a bassa voce Sophie. Charlie suonò il clacson; la station wagon svoltò a destra, lungo una stradina di terra battuta, e sparì in una nuvola di polvere. «Papà... non li arresti?» «No.» Proseguirono in un silenzio glaciale; il ronzio del motore gli dava il mal di testa. Avrebbe dovuto inventare qualche scusa per tornare a casa di suo padre, cercare il giaccone e prelevare alcuni campioni di fibra da mandare al laboratorio di Stato. Se le fibre fossero risultate diverse, il problema si sarebbe risolto. Voleva dimenticare quella folle idea e ritornare allo studio degli omicidi. «Allora» disse all'improvviso Sophie. «Non vuoi proprio dirmelo?» «Che cosa?» «La questione fra te e il nonno. Questa avversione che hai sempre avuto per lui.» Charlie impallidì. Qualche minuto prima aveva accusato il padre di non voler affrontare il loro passato, eppure, per tutta la vita, aveva cercato di nascondere a Sophie quella verità. «Fra noi» ammise «le cose non sono mai andate molto bene.» «Uff.» Sophie continuò a fissarlo, senza abbassare gli occhi. «Tuo nonno non è sempre stato quello che è oggi.» «Cosa intendi dire?» «Tutti noi siamo persone a tre dimensioni, Sophie. Siamo complicati.» I muscoli del collo gli si irrigidirono. «A un certo punto della sua vita, tuo
nonno era un violento e un ubriacone.» Sophie non disse nulla: pareva ancora incredula. «Parlo del periodo prima dell'incendio. Da quel momento in poi, ha smesso di bere, ma prima era un uomo brutale.» Lei lo fissò; la sua fronte alta era segnata dalla preoccupazione. «Ti faceva del male?» Charlie sentì come un pezzo di ghiaccio alla bocca dello stomaco. "Il naso rotto" pensò. "Le fratture. La cintura. Sì, mi faceva del male." «Faceva quello che si chiama abuso di mezzi correttivi» disse. «Mi puniva in modo esagerato.» «Perché non me l'hai mai detto?» «Perché preferivo evitarlo. Non volevo che tu lo odiassi.» Sophie non disse nulla. Era impaurita; rabbrividì. «Ho imparato tre cose da mio padre» le disse Charlie. «Non parlare, non fidarti, non avere sentimenti. Ho dovuto faticare per superare quelle vecchie lezioni. Provavo una profonda vergogna, come se le sue azioni fossero colpa mia. Pensavo che tutto dipendesse da me e che nessuno avrebbe mai potuto volermi bene.» Lei gli rivolse una strana occhiata, piena di pietà. «Vivere con un alcolizzato è come vivere con un animale selvaggio» continuò Charlie, cercando di spiegarsi. «Non sai mai quando si rivolgerà contro di te. Quando lui era a casa, io vivevo in un perpetuo stato di ansia.» Sophie si avvicinò a lui. «Io ti voglio un bene enorme, cara. Non te ne ho mai parlato perché erano cose brutte.» Sophie appoggiò la testa contro la sua spalla e Charlie ripensò a sua madre. Era rimasto fedele a Maddie per diciassette anni, anche se il loro matrimonio a volte aveva tentennato un po'. Avevano avuto i loro alti e bassi, come tutti, ma lui l'aveva amata con tutto il cuore. Lei l'aveva accettato così com'era, con cicatrici, fobie e tutto il resto. Quando si erano conosciuti, lui era quasi un caso psichiatrico: a ventun anni, beveva e sprecava la sua vita. Lei l'aveva aiutato a maturare, a diventare un uomo. «So che il nonno ha i suoi difetti» disse infine Sophie «ma questo mi dà la nausea.» «Non devi odiarlo» le rispose Charlie. «Perché no?» «Perché... ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene.»
«Però...» «È acqua passata. Da trent'anni non tocca più un bicchiere. Ma tu me l'hai chiesto. E io non voglio mentirti.» Cercò di rallentare il respiro. «Ascolta» continuò «mi dispiace di avere esagerato, questa notte. Non avevo il diritto di perdere la calma.» «Va bene così.» «No, non va bene. E mi dispiace di non poter essere a casa con te ogni sera.» «A volte mi dai l'impressione di avercela con me.» «No, niente affatto. È solo colpa del troppo lavoro.» Lei sorrise, aveva le braccia elegantemente appoggiate in grembo. «Sai cos'è strano?» «Che cosa, cara?» Sophie respirava a scatti. «Lo scorso mese, durante il tornado... tutte le rose di mamma si sono aperte, ed erano bellissime. Il vento le ha scosse e i petali sono saliti nel cielo. È stato bellissimo e inquietante, tutto in un momento... come se lei fosse in giardino, a vegliare su di me.» Charlie sorrise, ma in quel momento squillò il suo cellulare, rovinando l'incanto. «Scusa» le disse. Lei lo guardò senza collera. «Fa' pure. Rispondi.» Il telefono era gelido nella sua mano. «Pronto?» «Charlie» gli disse Roger Duff «ho bisogno che tu venga subito all'obitorio.» «Che è successo, Doc?» «È meglio che tu lo veda di persona. Fidati di me.» Sophie roteò gli occhi. «Va'» gli disse. «Sei sicura?» Charlie infilò in tasca il telefono. «Non ci metterò molto.» 17 «Ho pensato che volessi vederlo subito, Charlie» lo accolse Duff, con un leggero tremore nella voce. «Il dottor Robles del laboratorio di Stato è un esperto in questo genere di cose. Sono stato al telefono con lui per più di un'ora.» Charlie era fermo davanti al tavolo autoptico, sul cui ripiano c'erano cinque denti umani, ciascuno nella sua bustina. Disposti in quel modo, sembravano una mano vincente a poker. «Due incisivi, un canino, un premolare e un molare.» Duff li indicò con
la matita, a uno a uno. «Ecco cosa abbiamo finora. Cinque biglietti da visita.» «I denti sostitutivi?» Duff si asciugò la fronte, poi raddrizzò le spalle, con aria di importanza. «Ciascuno di noi ha due serie di denti, quelli decidui, o di latte, e quelli permanenti. In genere a tre anni si hanno tutti quelli decidui, ma fra i tre e i sei anni cominciano a spuntare gli altri. E a tredici anni abbiamo quasi tutti denti permanenti. Mi segui, finora?» Charlie gli rivolse un cenno d'assenso. «Okay. I denti sono diversi da persona a persona» continuò. «La loro forma, la giustapposizione all'interno della bocca e così via. Ora, analizzando e confrontando, senza distruggere alcun dente, il dottor Robles ha concluso che, con un ragionevole grado di certezza, tutti e cinque i denti appartengano alla stessa bocca.» Il cuore di Charlie saltò un battito. Una nuova paura si impadronì di lui. «Ma...» Duff indicò le varie bustine di plastica «ciascuno è stato estratto a un'età diversa.» Charlie lo guardò, mentre la fronte gli si bagnava di sudore. «Due sono denti decidui, tre permanenti. I tre permanenti sono stai estratti a un'età inferiore ai dieci anni.» «E come puoi dirlo?» «Il dottor Robles ha confrontato le imperfezioni delle superfici a contatto: fori microscopici, piccole lesioni, abrasioni da usura. Inoltre, ha ricostruito il loro allineamento all'interno della bocca.» Charlie fissò i denti. Al suo occhio inesperto, ciascuno sembrava uguale all'altro. «Come fa a dire che alcuni sono denti di latte e gli altri no?» «I denti di latte sono più piccoli, ovviamente. Ma si può capire dalla radice.» Duff prese un rapporto di laboratorio dal mucchio di fogli posato sulla scrivania. «Servendosi di quella che viene chiamata una radiografia panoramica, il dottor Robles è riuscito a misurare la dentina secondaria all'interno della polpa. C'è una relazione tra la riduzione della cavità della polpa e l'età della vittima, ma pare che il metodo abbia un margine di precisione relativo. Il metodo più comune per determinare l'età si basa sull'esame microscopico dei cambiamenti strutturali all'interno del dente. Ci sono anche dei test chimici, ma ciascuno di comporta la distruzione del dente. E noi non siamo pronti a distruggerli, vero, Charlie?» «Ho capito bene?» reagì lui, con collera. «C'è qualche povero bambino a cui, anno dopo anno, strappano via i denti?»
Duff si portò la mano al mento, su cui spuntava la barba bianca del giorno prima. «Sì. Il dottor Robles ha trovato segni di pinze su alcune superfici dello smalto. Adesso ascoltami. Non è sicuro al cento per cento che tutti i denti vengano dalla stessa bocca, è solo un'ipotesi, al momento. Per esserne assolutamente certo dovrebbe studiare il loro DNA mitocondriale, cosa che però richiederebbe la distruzione del dente.» «Perciò, è possibile che provengano da più soggetti?» «È un'eventualilità da tenere in considerazione, Charlie.» Posò il foglio. «E può anche darsi che la persona o le persone siano morte.» Charlie ripensò a Jonah Gustafson che abbracciava il figlio. «Ho appena interrogato un sospetto. Al figlio mancavano alcuni denti.» «Che età ha il bambino?» «Sette anni, otto. Per sua ammissione, quell'uomo era a caccia di uragani il 15 aprile. Mi dicono che è uno dei pochi in grado di prevedere dove e quando un tornado colpirà. Ha tre figli. Non conosco la loro età, ne ho visto soltanto uno.» «Okay, ascolta. La tua principale preoccupazione deve essere per quei bambini» disse Duff. «Se vengono maltrattati, li voglio via di lì.» Charlie annuì. «Mi metterò in contatto con la polizia locale.» Duff si infilò la matita nel taschino. «Ho promesso di restituire questi reperti al laboratorio non appena possibile.» Charlie incrociò le braccia. «Perciò, abbiamo un'altra vittima di cui preoccuparci? Il bambino, o i bambini, a cui appartengono questi denti?» I tubi al neon del soffitto proiettavano una luce abbagliante, spietata. «In tutta la mia carriera come medico legale della contea non mi è mai capitato niente di simile, Charlie. E ho visto un muccliio di malvagità, crudeltà e ferocia. Ma questo... non so neppure quali ipotesi fare. Che senso ha?» «Non ha alcun senso, Duff» rispose Charlie, mentre si chiedeva per quanto tempo l'assassino si fermasse davanti alle vittime, a guardarle in faccia. «Non ne ha mai.» 18 L'indomani, i servizi sociali portarono via i figli di Jonah Gustafson. Motivo ufficiale: abbandono di minore. La casa era pulita, ma la dispensa vuota. In frigo c'erano quattro confezioni di birra da sei bottiglie, ma niente latte. Parecchie bottiglie di bourbon, ma nessun integratore vitaminico.
Una donna grassa dei servizi sociali infilò in una borsa da ginnastica i vestiti dei bambini. Nel frattempo alcuni agenti di polizia trattenevano Jonah, che continuò a lamentarsi in mezzo alle erbacce del giardino mentre il furgone della contea s'allontanava; tre piccole facce erano incollate come decalcomanie al finestrino posteriore. Jonah si piegò su se stesso come se l'avessero colpito allo stomaco, poi fissò Charlie negli occhi. «Che cosa mi ha fatto?» gli urlò. La protesta ferì la coscienza di Charlie; sapeva esattamente che cosa avrebbe provato se qualcuno gli avesse tolto la figlia. Si sarebbe sentito strappare una grossa fetta di cuore. Per un breve periodo, dopo la morte di Maddie, si era comportato in modo irresponsabile, non certo come un padre. Aveva continuato a bere per qualche mese, nella segreta speranza di affogare in una bottiglia di liquore. Per tre settimane, Mike lo aveva seguito da un bar all'altro, continuando a spiegargli pazientemente: "Va bene, capo, è ora di andare via" e ricordandogli: "C'è Sophie che ti aspetta". Il suo migliore amico, nonché coscienza morale, gli aveva fatto passare la sbornia e l'aveva riportato a casa più di una volta, ascoltando con pazienza i suoi vaneggiamenti da ubriaco. Lo aveva consolato. "Nessuno è innocente. Tutti abbiamo le nostre colpe." «I miei ragazzi» disse Jonah, con ira. «Che cosa mi ha fatto?» «È stato lei a farselo» rispose Charlie, la cui comprensione per un povero padre privato dei figli si era esaurita. Jonah aveva un lungo elenco di condanne per aggressione e violenza, era stato più volte sorpreso a guidare in stato di ebbrezza ed era stato fermato per possesso e sospetto traffico di stupefacenti. Anche se era un noto spacciatore, la polizia di Tulsa non aveva prove sufficienti ad arrestarlo. E dato che Charlie non poteva ancora collegarlo agli omicidi, per il momento era a piede libero. La cosa importante era mettere al sicuro i ragazzi. Charlie andò a fare visita ai figli di Gustafson presso un istituto locale. I tre bambini dalla testa rapata, tutti sotto i dieci anni, sedevano insieme su un letto e si guardavano la punta delle scarpe. «Come va?» domandò. «Bene» risposero. Charlie sapeva per esperienza che vivere con un alcolizzato era come giocare a campana in un campo minato. Avrebbe voluto dire loro che si sarebbero trovati meglio, lontano dal padre che li maltrattava, ma non lo fece. Non era suo compito. La borsa da ginnastica era ai piedi del letto, ancora chiusa, e Charlie notò sui manici blu una sostanza gialla simile a gesso.
«Cos'è quella roba gialla?» domandò, indicando la borsa. I bambini guardarono a loro volta, poi si strinsero nelle spalle. Il più grande aveva nove anni, gli altri sette e cinque. Tutti e tre avevano perso qualche dente e quando sorridevano si vedevano parecchie carie. «Vostro padre vi picchia?» domandò al maggiore. «Vi dà mai botte?» «Sì» ammise. Aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, con i lineamenti delicati di una bambina, ma quando apriva la bocca si vedevano i denti neri. «Con le mani o con la cinghia?» Il bambino si strinse nelle spalle. «Con tutt'e due, penso.» Charlie li guardò con grande affetto e sentì il desiderio di proteggerli. Avevano calzoni di velluto, felpe blu e berretti da baseball. «Ti dispiace se ti guardo la schiena?» domandò al più vecchio. Colse lo sguardo che si scambiarono gli altri due. «Solo un'occhiata.» Il bambino serrò le labbra. Scese dal letto e si avvicinò a Charlie, poi si girò, sollevò la felpa e la T-shirt. Aveva vari segni sulla schiena, di un colore rosato, lunghi qualche centimetro. «Come te li sei fatti?» «Giocavamo da qualche parte, sono caduto su una rete o qualcosa del genere.» «Qualcosa del genere? Non ne sei sicuro?» Era esattamente il tipo di bugia che anche Charlie soleva dire. «Va bene, torna a sedere.» Il bambino si riunì ai fratelli. «Possiamo andare a casa, adesso?» domandò in tono lamentoso. Charlie fece un respiro. «No, mi dispiace. Rimarrete qui per qualche tempo.» «Perché?» «È meglio così.» Il bambino di sette anni premette con la lingua contro l'interno della guancia. «Come te le sei fatte?» domandò, indicando le cicatrici sul braccio di Charlie. Lui guardò in basso. «Sono ustioni di secondo e terzo grado causate da un incendio.» «E facevano male?» «Quelle di secondo grado erano molto dolorose. Quelle di terzo grado non facevano male perché i nervi erano stati distrutti. Vostro padre non vi ha mai tolto nessun dente?» I tre fratelli si scambiarono un'occhiata, parvero confusi dalla domanda.
«No» disse il maggiore. «Non ha mai aiutato i vostri denti a uscire? A nessuno di voi?» «Sì, l'ha fatto» ammise il più piccolo. «Sta' zitto» intervenne il fratello maggiore «se vuoi rivedere papà.» Charlie fissò negli occhi il bambino di cinque anni e gli domandò: «Come ha fatto a far venire fuori quei denti?». Lui si indicò la bocca. «Li ha tirati via con una pinza.» Charlie sentì un brivido lungo la schiena. «L'ha fatto perché quel dente ballava e non voleva venire via da solo» disse il bambino di nove anni. «E non dobbiamo parlare di queste cose.» «Ancora una domanda...» «Papà ci ha ordinato di non parlare con i poliziotti» sbottò con ira. Si voltò verso i fratelli. «Se dite ancora una parola, lo riferirò a nostro padre, capito?» Charlie lasciò perdere, e per qualche tempo parlarono di sport. Ai bambini piaceva il baseball. Erano tifosi dei Sooners e di Greg Dobs. Dissero che la madre li aveva lasciati un bel giorno di primavera e che non era mai tornata indietro. «E voi non l'avete più vista?» domandò Charlie. Tutti e tre scossero la testa «Neppure una telefonata?» Gli occhi del bambino di nove anni si riempirono improvvisamente di lacrime. «Penso che ormai si sia dimenticata di noi.» La polizia non era riuscita a rintracciare la moglie di Gustafson. A quanto risultava, era scomparsa alcuni anni prima, svanita senza lasciare traccia. Jonah non era stato accusato, perché non si era trovato alcun corpo. Nessun indizio di un delitto. Ma la cosa era sospetta, puzzava di losco, e Charlie si propose di darsi da fare per scoprire che cosa fosse successo esattamente. Tornò a casa di Jonah per interrogarlo, ma l'uomo era al telefono, impegnato nel tentativo di riavere i figli. L'avvocato di Jonah uscì a parlare con Charlie in cortile. Mentre si avvicinavano l'uno all'altro, dovettero fare attenzione a non inciampare nei giocattoli rotti. L'avvocato, Andrew Findale, aveva così tanti ciuffi di capelli trapiantati che la sua testa somigliava a quella di una bambola. Portava una giacca sportiva e un paio di occhiali con la montatura di corno, e i suoi occhi avevano lo sguardo nervoso di un uomo in piena crisi di mezz'età. «Jonah non intende parlarle, in questo momento» disse, scandendo ogni sillaba. «Jonah
si sente tradito.» «Quell'uomo è una merda di spacciatore e Dio sa che altro» ribatté Charlie con ira. «Gli dica che mi assicurerò personalmente che i suoi figli stiano al sicuro.» Quando se ne andò era il tramonto; si sentiva così stanco da non riuscire a pensare, poi squillò il cellulare. «Pronto?» «Papà?» era Sophie. «Sei in ritardo.» 19 Willa Bellman abitava a tre cittadine di distanza. Trentacinque minuti d'auto. Gli aveva dato lei le indicazioni: dopo il Racket Roadside Diner, attraversa la città e prendi la prima a sinistra, una stradina di campagna tutta curve. La casa sembrava uscita da un libro di favole: la staccionata dipinta di fresco, i fiori in giardino, i gatti raggomitolati accanto alla porta. Il barbecue era nel cortile posteriore: lanterne di carta, fumo che saliva dal grill, fette di carne rossa pronte per la cottura. Con stupore, Charlie scorse Rick Kripner davanti al barbecue, con una birra in una mano e un forchettone nell'altra. Indossava un paio di shorts e una T-shirt con la scritta IL DRYDEN TECH BATTE TUTTI! «Salve, capo.» Si strinsero la mano. «Come va l'indagine? Qualche progresso?» «Si va avanti» rispose Charlie, che non voleva condividere l'inquietudine e il crescente sospetto che l'assassino fosse a poca distanza da loro. «Birra?» Willa aveva un aspetto terribilmente sexy, con il golfino rosso e i jeans sbiaditi, ma i grossi orecchini d'argento attirarono lo sguardo di Charlie sul suo viso. «Pronto?» disse lei, ridendo. «Scusa. Mi godevo il panorama.» «Tu non t'immagini in che pasticcio ti vuoi cacciare» rispose lei, con un sorriso di sfida. «Ce l'hai fatta!» esclamò Sophie, galoppando verso di lui come una cavallina e stringendolo tra le braccia sottili. Aveva un aspetto migliore; i tagli sulla faccia e sul collo erano quasi guariti, sulle braccia rimaneva solo qualche piccola crosta. «Rick ci stava raccontando delle storie straordinarie... sulle galline e su altro... raccontale anche a lui!» disse, voltandosi verso Kripner.
«Alcune galline si prendono un tale spavento, quando passa un tornado» spiegò lui «che perdono tutte le penne. Si chiama "muta da paura".» Sophie arricciò il naso. «E l'altra cosa, quella delle rane?» «Certe volte i tornado sollevano in aria centinaia di rane e le portano via. Anche rospi, pesci. Una volta, nel Colorado, sono venute giù migliaia di anatre morte. Piovevano letteralmente dal cielo. Durante quello stesso tornado, un portacravatte è stato portato via dal vento; l'hanno ritrovato a sessanta chilometri di distanza, e le cravatte c'erano ancora tutte.» Sophie aveva sulla faccia un'espressione di ispirato stupore. Si morse il labbro inferiore e si sporcò gli incisivi con il rossetto. Charlie sapeva perché s'interessasse tanto dei tornado, da un paio di settimane. Due parole: Boone Pritchett. Boone si stava riprendendo dal coma e Charlie sospettava che tra lui e la figlia continuasse un dialogo segreto, attraverso il telefono e Internet. Alcune volte si era avvicinato a Sophie e lei aveva coperto il microfono aspettando che si allontanasse. Charlie aveva deciso di lasciar perdere. Aveva l'impressione che aumentando le proibizioni sarebbe riuscito soltanto a farla finire tra le braccia tatuate di Boone. «Ricordale quanto possa essere pericoloso un tornado, per favore» disse Charlie. «Papà» protestò lei. «La vuoi smettere di preoccuparti?» «Mi serve una mano con la borsa termica, bell'uomo» intervenne Willa, portando via Charlie. In cucina aleggiava il profumo delle crostate di mirtilli che fumavano sul tavolo. Charlie l'aiutò a portare all'esterno la borsa termica con le bevande, poi sedettero al tavolo da picnic, mentre Sophie e Rick finivano di cuocere le bistecche. «Mi voglio scusare per tutte le cose antipatiche che farò in futuro» disse Willa, mentre sorseggiava una birra. «Che cosa intendi dire?» «Sono una di quelle perfezioniste che finiscono per dare sui nervi alle altre persone. Non posso farci niente. Perciò preferisco mettere le mani avanti.» Charlie sorrise. «Allora, per dirla chiara, sei una tale perfezionista da prepararti una scorta di scuse?» «Vedo che hai capito.» Lui rise, poi guardò sua figlia e Rick, intenti a discutere. «L'hai invitato tu?» domandò, cercando di non dare alcun tono particolare alla domanda. «Non io» rispose lei. «Sophie.» Charlie inarcò le sopracciglia per la sorpresa. «L'ha invitato Sophie?»
«Sì.» Charlie sorrise. «Perché sorridi?» domandò Willa. «Niente. È solo... C'è sempre una leggera tensione tra me e Rick quando si tratta di te.» Lei rise. «Oh, via. È come se fosse mio fratello.» «E lui lo sa?» Lei si chinò a dargli un rapido bacio. Tra loro c'era un po' di timidezza, quella sera. Il sole era sceso dietro l'orizzonte e Charlie ammirava il modo in cui la luce ambrata del tramonto si rifletteva sulle sue labbra. Quella sera Willa era così bella che lui non sapeva dove posare lo sguardo. Il cellulare squillò proprio in quel momento, rovinando l'incanto. Era posato sul tavolo, in mezzo a loro. «Non rispondi?» domandò Willa. «Non è nulla di importante.» Lei prese il cellulare. «Pronto? Un momento.» Lo porse a Charlie. «Per te.» Lui alzò gli occhi al cielo, ma prese la comunicazione. «Dev'essere successo qualcosa» gli disse Mike. «Io ho una mia vita privata, lo sai?» «Certo. Anch'io. Lester è sparito.» «Come?» «Ho parlato al telefono con i suoi. Sono molto preoccupati. Il sindaco è preoccupato.» «Gesù...» «Nessuno lo ha più visto da parecchi giorni. Genitori, zii, cugini. Hanno telefonato a tutti. Sono in preda al panico. Che cosa vuoi che faccia?» Guardando in alto, Charlie vide l'inizio della sera, il pianeta Venere. Le stelle ammiccavano, i pianeti no. «Manda qualcuno a casa sua perché faccia un controllo.» «Tyler è tornato adesso. La casa era un po' in disordine, ma nella normalità di Lester. Però, il suo camioncino manca.» «Va bene, dirama un avviso agli sceriffi di contea e alle pattuglie della Stradale. Non credo che sia qualcosa di serio. Vediamo cosa succederà domani.» 20
L'indomani mattina, Charlie e Mike andarono a casa di Lester per dare un'occhiata. Abitava lontano dalla città, in piena campagna, dove l'unico rumore era quello dei tetti metallici dei pollai che si dilatavano al calore del sole. In quella giornata di maggio, sotto un cielo privo di nubi, a Charlie dolevano gli occhi per avere fissato troppo a lungo il cofano chiaro dell'auto e la striscia di asfalto davanti a essa. Era una di quelle belle giornate primaverili in cui un leggero vento lasciava il cielo terso e le erbe della prateria ondeggiavano ai lati della strada. Imboccarono un sentiero pieno di buche e con ciuffi di erba alta che frusciavano sotto il paraurti dell'auto. Attorno alla casa bianca di legno a due piani non c'erano alberi. Sul tetto si scorgeva un'antenna satellitare e nel cortile, accanto all'ingresso, c'erano due altoparlanti. Da un granaio nelle vicinanze si levavano in volo le rondini e il vialetto aveva gradoni di pietra. Sul portico c'erano tre sedie di alluminio, disposte verso est. «Lester?» chiamò Charlie, bussando alla porta. «C'è nessuno?» Non ci fu risposta. Mike e Charlie entrarono. Nella casa c'era odore di birra rovesciata; il vento agitava le tendine. Il soggiorno era pieno di piatti sporchi, scatole per la pizza vuote e panni da lavare. «Ci dev'essere stata una bella festicciola» commentò Charlie, dando un calcio a una lattina. Controllarono il pianterreno, alla ricerca di segni di lotta. Le pareti della cucina erano dipinte di un turchino uguale a quello del cielo estivo. Non trovarono tracce sospette, né macchie di sangue sulle pareti o in terra, né mobili rovesciati. Il soggiorno dava una confortevole sensazione di vissuto, nel videoregistratore c'era una cassetta ancora da riavvolgere. Charlie la tolse e guardò l'etichetta. Una partita, Pirates contro Tigers. Lester amava rivedere i suoi gloriosi momenti da giocatore di football. Riusciva a essere borioso e schivo nello stesso momento, il tipo di persona che vive costantemente nel passato: il campioncino sportivo del liceo, il vicepresidente dell'associazione studentesca, il cicisbeo. Era come tutti quelli che gettano la spugna, il genere di persone con cui Charlie si era scontrato molte volte in passato. Era come Hoyt Bledlin... Mentre esaminava la casa, Charlie cercò di non pensare al vecchio Hoyt, il suo torturatore delle scuole elementari, medie e superiori. Dopo l'incendio, Charlie aveva perso i capelli; era passato molto tempo prima che gli
ricrescessero. La terza elementare era stata dura. "Ehi, Monte Calvo! Ehi, Kojak!" Lui sentiva la gamba contrarsi perché la pelle cicatrizzata non cresceva con la stessa rapidità del resto del corpo, e Hoyt sussurrava: "È contaminato. È infetto, non avvicinatevi". Difficile fare finta di niente, quando hai otto anni. Poi, alle superiori, il principale divertimento di Hoyt era consistito nel gettargli in faccia fiammiferi accesi. Inoltre, faceva scoppiare petardi dietro la sua schiena. "Ehi, Carbonella! Ti viene in mente qualcosa?" Altre volte, Hoyt prendeva del cellofan e glielo stropicciava dietro le orecchie, facendogli credere che fosse il crepitio del fuoco. Il buon vecchio Hoyt, ormai morto e sepolto: si era piantato in gola il tubo dell'aspirapolvere, cinque anni prima, dopo un'ennesima ubriacatura. Ma il dolore da lui causato sopravviveva ancora. Salirono al piano di sopra ed esaminarono rapidamente ciascuna stanza. In camera da letto i cassetti erano aperti e i vestiti sparsi tutt'intorno. Portafogli, arma di ordinanza, l'altra arma non di ordinanza e l'orologio mancavano. Lester non usciva mai senza orologio, un Eagleton impermeabile, digitale, antiurto, garantito fino a una profondità di duecento metri. «Ho un brutto presentimento» disse Charlie. «Doveva presentarsi a un interrogatorio. Volevo ufficialmente eliminarlo dalla lista dei sospetti.» Mike lo guardò con incredulità. «Pensi che sia fuggito?» «Non si può mai dire.» «E per nascondere cosa? Aveva una relazione con una delle vittime, e allora? Non lo rende mica colpevole di omicidio.» «Chiediamo l'autorizzazione a controllare il tabulato delle sue telefonate.» Mike aggrottò la fronte. «Ma perché quell'idiota dovrebbe aver fatto una cosa simile?» «Non lo so.» Mike sospirò. «Che cosa diremo al sindaco?» Charlie scosse la testa. Non era la sua giornata. IN GIUGNO FINO AL GINOCCHIO 1 Il diciassettenne Toby Lake infilò nella lavatrice la biancheria sporca, aggiunse il detersivo, chiuse lo sportello e premette il pulsante di avvio. La madre era andata alla drogheria e la giornata stava prendendo un aspetto
strano. Prima il freddo, poi la nebbia, e adesso le nubi nere lungo l'orizzonte. Rabbrividì e s'infilò il maglione che la madre gli aveva fatto l'autunno precedente, quando aveva seguito un corso per televisione. La lavatrice cominciò a vibrare come sempre e Toby le assestò un paio di pugni. S'infilò le cuffie e tornò in soggiorno per stendersi sul sofà. Un improvviso soffio di vento mosse le tendine; il ragazzo si alzò e si sfilò le cuffie. «Duke?» gridò, cercando il cane. «Vieni qui, Duke.» Quello stupido Labrador, ormai quasi cieco, era probabilmente andato a dare la caccia ai conigli. Abbassò sugli occhi la visiera del berretto dei Texas Rangers e mosse un piede al ritmo della canzone di Eminem. Alla TV, un giornalista vestito con un costoso abito firmato, continuava a parlare della tempesta in arrivo. Per quei tizi, qualunque cosa era sempre la "tragedia del secolo". Sollevò le cuffie e ascoltò per un istante. "... esperto che ci parlerà dei tornado e del tipo di danni che possono fare. Ecco il dottor..." In quel momento, la luce si spense. «Ehi» mormorò Toby alzandosi dal sofà e andando alla finestra, dove le tendine gli sbatterono in faccia. Pioveva forte. Il vapore del suo respiro si fermava sul vetro; lo pulì con la mano e in fondo al pascolo vide i primi lampi. La loro era l'ultima di tutte le grandi fattorie di Wolf Pass, nel Texas, e si trovava dove finiva l'autostrada e cominciavano le strade di ghiaia. Ma lui non aveva certo intenzione di fare il contadino come suo padre. Lui voleva fare il disc jockey. La porta d'ingresso si spalancò e Toby corse a chiuderla. Il vento era forte e il ragazzo dovette faticare. Alla fine riuscì a far scattare la serratura e si appoggiò contro la porta per riprendere fiato. «Duke?» Si guardò intorno. La casa era troppo buia, per quell'ora del pomeriggio. Con la coda dell'occhio colse un movimento e si voltò da quella parte. Per qualche istante si domandò se davvero avesse visto una persona che entrava in cucina. Oh, merda! Probabilmente era un'allucinazione. Toby impugnò la sua mazza da baseball, di alluminio. «Chi c'è?» mormorò. Stringendo la mazza, si avviò lentamente verso la porta della cucina. «C'è qualcuno?» Si fermò per qualche istante sulla soglia, ma vide solo il tavolo e le sedie, il frigo, i mobiletti. «Uff!» mormorò, alzando le spalle. A volte era davvero uno sciocco. Sentì il colpo alla testa, forte e rabbioso, e s'immobilizzò per lo choc. «Oh, Dio...» Con il sangue che gli scorreva lungo la faccia, indietreggiò fino al soggiorno e là, in preda al panico, si nascose dietro il sofà. Rimase immobile parecchi secondi, rabbrividendo per il terrore, mentre la grandine
colpiva il soffitto e il vento fischiava in modo insopportabile. Era steso sui giocattoli da masticare del cane, la polvere gli entrava nel naso; poi sentì Duke che abbaiava, all'esterno. «Duke?» gridò. Qualcosa lo colpì alla nuca e la mazza gli sfuggì di mano. Qualcuno lo afferrò, nonostante lui gridasse e si divincolasse, e lo tirò fuori per i capelli. Continuò ad agitarsi e alla fine si liberò, ma un altro colpo lo prese alla fronte e gli occhi gli si riempirono di sangue. Gridò e cercò di colpire intorno a sé, nell'oscurità. Girò su se stesso. Riuscì a uscire dalla porta e si trovò nel cortile posteriore, dove cresceva l'erba medica e nei fossi spuntavano funghi di colore marrone. «Duke!» urlò, sbattendo gli occhi per allontanare il sangue. Oltrepassò lo steccato caduto a terra e si trovò nel pascolo delle mucche. In lontananza si scorgeva un carrello da supermarket che fluttuava sulla strada, sospinto dal vento. Tutto il grano alto e biondo pareva fischiare la stessa nota, gli uccelli si erano nascosti sotto gli alberi e il vento gli schiacciava i capelli su un lato della testa. Alzò gli occhi al cielo e vide volare, come fiocchi di neve, i fiori bianchi della prateria. «Duke? Dove sei, bello?» Nessun cane venne verso di lui dalla cortina di foschia. Invece, in un campo vicino, si addensò una fitta nebbia che cominciò a mulinare. Poi accadde la cosa più incredibile: dalla nebbia uscì una larga colonna a forma di imbuto e si mosse lentamente verso di lui, come se venisse da un sogno. Toby la guardò a bocca aperta. Dalla base del tornado schizzavano via schegge e detriti, che volavano nell'aria, e uno veniva verso di lui. Viaggiava ad almeno sessanta chilometri l'ora. Il ragazzo non riusciva a muoversi, non riusciva a pensare. L'ultimo grido gli si spense nella gola mentre la lastra di metallo gli tagliava il collo. 2 Quando parcheggiò sul ciglio della strada, Charlie era di umore nerissimo. La cassetta della posta diceva LAKE. Un ragazzo di meno di vent'anni era morto. Il pensiero lo ferì di nuovo con un dolore sordo. Le nubi di tempesta che si allontanavano sembravano materia cerebrale, il sole del tardo pomeriggio proiettava tutt'intorno una corona di raggi: quelli che alcuni chiamavano "i raggi di Gesù". Una Buick blu notte era rovesciata sul fianco, nel vialetto della casa. L'F2 del giorno prima aveva girato intorno
all'edificio, gli era arrivato a ottanta metri e aveva riempito di detriti l'intero paesaggio. La fattoria era vecchia e malridotta: vernice scrostata, zanzariere arrugginite. Charlie scese dall'auto e salì nel portico. La maniglia non era bene avvitata e ballava nell'infisso. Charlie attraversò un corridoio buio e si fermò sulla soglia del soggiorno. La stanza aveva il pavimento di assi e conteneva una grossa stufa; il sole la illuminava da dietro le tendine. La vittima era seduta su un vecchio sofà rivestito di una stoffa scozzese, collocato in mezzo alla stanza e rivolto verso la parete opposta. Charlie vedeva la nuca del ragazzo, appoggiata a un cuscino. Aveva un berretto da baseball dei Texas Rangers e le cuffie hifi. Davanti al sofà c'era un televisore sporco di sangue. «Il capo Grover?» Charlie si voltò. Massiccio e muscoloso, con la pelle scura, rugosa e gli occhi gelidi, lo sceriffo Dorsey era fermo sulla soglia della cucina. «Abbiamo ricostruito la scena grazie alle tracce di sangue» disse. «Pensiamo che fosse qui dove mi trovo io, quando ha ricevuto il primo colpo.» C'erano macchie di sangue sulle pareti e macchie "volanti" sul soffitto: sangue e tessuti proiettati da un'arma quando veniva alzata e poi calata per il colpo successivo. «Ha preparato lui la scena del delitto?» «Guardi lei.» Quando si spostò davanti al sofà, Charlie venne colto da un moto d'orrore e di repulsione. Il corpo del ragazzo mancava. La testa era appoggiata a un cuscino ricamato e un palo proveniente da una staccionata era piantato nel collo mozzato e insanguinato. Sulla faccia del ragazzo c'era un'espressione di stupore, come se l'avessero sorpreso con il cucchiaio nel barattolo della marmellata. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle di un colore biondo chiaro, come il grano a fine estate; gli occhi erano castani, le ciglia lunghe. Charlie inghiottì a vuoto. «Come si chiama?» «Toby.» «Dov'è il corpo?» «In cucina» rispose lo sceriffo Dorsey. «Quando la madre è arrivata a casa e l'ha visto, ha avuto uno choc.» Charlie entrò nella cucina. In terra, sul pavimento di linoleum, c'erano tre sacchetti che avevano perso una parte del contenuto. Il cibo per cani,
nella ciotola di plastica, aveva ancora la forma della scatoletta. C'erano strisce di sangue che andavano dalla porta di servizio al tavolo della cucina e seduto al tavolo c'era il ragazzo senza testa, con i gomiti appoggiati al ripiano. Davanti a lui c'era un computer e qualcuno lo aveva collegato a un sito di previsioni del tempo. Si scorgevano dati dal satellite, un'immagine radar che ruotava sullo schermo. Charlie cercò di vincere il disgusto. Di solito, nei serial killer, il modus operandi cambiava di volta in volta, ma per alcuni aspetti manteneva una sua coerenza. Invece, quella decapitazione era diversa da tutti gli altri omicidi: l'assassino stava diventando più temerario, correva più rischi. Il taglio era troppo netto per essere stato praticato con un'ascia o anche con una sega. Dietro di lui, lo sceriffo Dorsey disse: «Abbiamo trovato una lastra di metallo nel giardino. Pare che sia stato decapitato dal tornado». Charlie rifletté sull'accaduto. Probabilmente la decapitazione aveva stimolato l'immagine malata che il killer aveva di se stesso. Ora, sia lui sia il vento erano assassini; erano una cosa sola. «Chiamano questo assassino il Killer delle Schegge, si rende conto?» Lo sceriffo scosse la testa. «Quel pazzo bastardo ha anche un soprannome.» «Il Killer delle Schegge, il Killer del Tornado, il Pugnalatore delle Praterie» rispose Charlie, infilandosi un paio di guanti di lattice. «Hanno inventato un mucchio di soprannomi per questo tizio. Posso?» «Certo, faccia pure.» Charlie tornò nel soggiorno e, con grande attenzione, prese la testa del ragazzo. Le labbra erano al primo stadio del rigor mortis. Charlie le sollevò ed esaminò i denti. «Eccolo.» Un incisivo inferiore mancava e al suo posto c'era un altro dente, sporco di sangue. Lo sceriffo Dorsey si avvicinò per osservare meglio. «Che cosa?» «L'assassino ha sostituito questo dente.» Lo sceriffo fischiò. «Dica al suo coroner di mandarlo al laboratorio di Stato per l'esame. Hanno già gli altri denti.» Dorsey lo guardò senza capire. «Gli altri denti?» «Sì, siamo riusciti a nasconderlo alla stampa. Tenga segreti i risultati.» Dall'esterno giunsero i latrati di un cane e lo sceriffo Dorsey si avvicinò alla porta. «Ehi, bello» disse, inginocchiandosi per accarezzare il cane. «Mi spiace, ma tu non puoi entrare, amico.» Tutta un tratto, nella mente di Charlie si affacciò una strana ipotesi. Il killer aveva risparmiato il cane. C'era stato un periodo in cui risparmiava
gli esseri umani e ammazzava i cani? 3 «Raccogliamo statistiche sui morti e sui feriti da circa sei anni.» Rick si piegò sulla tastiera del computer. «Totale dei morti per il tornado, perdite di ammali d'allevamento, quel tipo di cose.» Charlie tamburellava con i polpastrelli sulla scrivania. L'ufficio di Rick era situato in un angolo del sotterraneo, era il cervello del laboratorio, come lui stesso l'aveva chiamato ironicamente. Sulla parete c'era un falso cartello stradale che diceva GENIO AL LAVORO, e appiccicati un po' ovunque si scorgevano Post-it gialli e attrezzature ultimo modello. Fissati con una puntina al quadro delle comunicazioni c'erano un cartello scritto a mano con il pennarello nero: "Fuori a caccia", e un foglio stampato al computer: "Ricetta per un fronte a movimento lento. Ingredienti: formazione a campana medio-lenta senza precipitazioni + venti da 700 millibar superiori a 20 nodi + cumuli (oltre i 4000 piedi); agitare con venti a 500 millibar e aspettare 3 ore". «Vediamo... cavalli, bovini, maiali...» Rick batté un comando e i dati comparvero sullo schermo. «A volte le carcasse sono così numerose che bisogna scavare una fossa nei campi e seppellirle tutte insieme.» Charlie guardò un altro monitor, dove si scorgeva una nube a forma di virgola. «Quelle riprese radar sembrano venire da un altro pianeta, eh?» domandò Rick. «Non saprei.» Rick rise. «Non preoccuparti, capo. Riuscirai a leggerle anche tu. Willa dice che sei un talento naturale.» Charlie si limitò a guardarlo. «Be'?» fece Rick. «Cosa c'è tra voi due?» chiese Charlie. «Niente. Non preoccuparti.» «Eppure ho l'impressione che ci sia qualcosa.» «No. Io e Willa siamo soltanto amici.» «Nient'altro? Forse è qualcosa di cui dovremmo discutere.» «Dai, capo. È come una sorella, per me.» «Va bene» disse Charlie, non del tutto soddisfatto. «Meglio così.» «Senti, sono un po' irritabile, oggi. Sono stato sveglio tutta la notte a la-
vorare su questi algoritmi. Ho i crampi alle mani e mi bruciano gli occhi.» «Grazie dell'assistenza.» «Bene, ci siamo. Animali domestici. Cani e gatti. Controlliamo. Qualcuno una volta ha perso un lama domestico... trafitto da un palo di staccionata. È stato necessario procedere all'eutanasia.» «Vorrei un elenco di tutti gli animali domestici che sono stati uccisi da schegge volanti negli ultimi sei anni.» «Tutti gli Stati Uniti o solo il Tornado Alley?» «Nel raggio di ottocento chilometri da Promise. Me lo puoi stampare?» «Certo.» Le sue dita corsero sulla tastiera, poi premette il comando per stampare i risultati. Si voltò verso Charlie e si aggiustò gli occhiali. «Cerchi qualche schema, vero? Perché è quello che facciamo qui. Cerchiamo gli schemi delle tempeste come voi cercate gli schemi dei delitti.» «Penso che abbia cominciato con gli animali. Molti serial killer iniziano con gli animali e poi passano agli esseri umani.» Rick rabbrividì. «Perciò stai facendo ricerche sul suo apprendistato, per così dire?» Charlie si strinse nelle spalle. «Si seguono tutte le piste e si spera che una porti a un risultato.» Prelevò le pagine dalla stampante. Studiò per qualche istante i dati, poi aggrottò la fronte. «Che c'è, capo?» «Un mucchio di cani morti, a cominciare da tre anni fa. Adesso devo solo convincere qualcuno a lasciarmi esumare il suo animale.» 4 Tredici persone dell'elenco si rifiutarono di collaborare, ma cinque dissero di sì e Charlie trascorse il resto della settimana recandosi in varie parti del Texas, dell'Oklahoma e del Nebraska, a scavare nei cortili e a controllare i denti dei cani morti. Alle quattro del pomeriggio di un venerdì si trovò in una cittadina del Kansas che sembra uscita da una pubblicità delle torte di mele fatte in casa e che ha più lettere nel nome che abitanti. I Cavitt avevano perso il loro golden retriever quattro anni prima e la fattoria era piena di galline, capre, ragazzi in bicicletta e ragazze sullo skateboard. Il signor Cavitt aveva gli occhi infossati, i capelli bianchi lisci e il pomo d'Adamo sporgente. Accolse Charlie con un'energica stretta di mano e una pala arrugginita. «Andiamo sul retro» gli disse, con una certa solennità.
Girarono dietro l'angolo ed entrarono in un cortile fresco, dove un olmo proiettava una grande ombra. «Quando si tratta di bambini, bisogna essere franchi» continuò il signor Cavitt mentre raggiungevano la fossa, coperta da una grossa lastra di pietra, «Non si devono addolcire le cose. Se dice loro che il cane è stato "messo a dormire", può darsi che abbiano paura a chiudere gli occhi, la notte, perciò è meglio parlare chiaro: il vostro povero cane è morto.» Charlie lo aiutò a sollevare la pietra, poi il signor Cavitt infilò la pala nel terreno. «Salem era un bravo cane» disse, mentre scavava. «Quando tornavo a casa, veniva sempre ad accogliermi alla porta.» Si fermò per riprendere fiato, e posò sulle anche le mani callose. «Più invecchio e più divento sentimentale» proseguì, con gli occhi che luccicavano. «È più difficile di quanto mi aspettassi.» «Lasci fare a me.» Charlie si fece dare la vanga e all'ombra del vecchio olmo disseppellì i resti scheletrici del cane. C'erano larve di mosche in mezzo alle ossa; raccolse il cranio, aprì le mascelle e lo vide subito: un dente umano, molto più piccolo di quello che intendeva sostituire. 5 Quella sera Sophie andò a una festicciola in cui i suoi coetanei bevevano birra e amoreggiavano al suono della musica heavy metal. Seguì Boone nel cortile posteriore, privo d'illuminazione, dove sugli alberi stavano ricrescendo le foglie, come se su tutto fosse scesa una nebbia verde. Sedettero su due sedie affiancate e Boone posò le stampelle sull'erba. «Continuo a prendere diazepam e Skelaxin» le disse. «Non sento male.» Aspirò con aria pensosa il fumo della sigaretta, come se stesse partecipando a una gara nazionale tra assaggiatori. Portava un paio di scarpe da ginnastica slacciate, una maglietta scura e jeans con la gamba tagliata in modo da poterci far passare il gesso. «Oh, maledizione, hai visto che cielo?» brontolò. «Non va bene, eh?» «Fa schifo.» Sophie osservò la stella della sera che si alzava al di sopra della pianura e la luna che faceva capolino da una massa di nuvole. «In ogni caso, non puoi andare a caccia di uragani» gli ricordò «con il gesso alla gamba e il pickup distrutto.»
«Potresti portarmi tu, Sophie.» Lei rise, ma provò un segreto sollievo per il fatto che la stagione dei tornado fosse quasi finita. Non voleva altre morti. Il vento che soffiava tra gli alberi le metteva un nodo allo stomaco. «In casa si divertono, eh?» commentò. Boone si avvicinò a lei e la baciò. Sophie sentì il gusto di sale sulle sue labbra e provò una strana sensazione, come dopo essere stati sott'acqua per un tempo prolungato. Si tirò indietro. Aveva il cuore pieno di confusione e di ansia. «Ti va di andare di sopra?» Sophie lo fissò intensamente negli occhi, poi rispose: «Okay». La casa apparteneva a un amico di Boone; i genitori erano andati via per il weekend. Al piano di sopra trovarono una stanza con un grosso letto, un televisore e una sedia di colore arancione vicino alla finestra. Sophie andò in bagno e cercò di calmare il respiro; la luce era forte e le feriva gli occhi. Il lavandino era candido e brillava come il bianco degli occhi. Non capiva i cambiamenti che il suo corpo andava attraversando, nonostante i corsi di educazione sessuale frequentati a scuola. In un certo senso, la vita è sempre diversa da come viene descritta nei libri. Aveva letto da qualche parte che una donna, in media, andava a letto con venti uomini prima di sposarsi, ma lei non voleva crederlo. Non aveva mai dormito con un ragazzo e ce n'era uno solo che le interessasse. In camera, Boone era nudo davanti al televisore; la luce azzurrina gli illuminava la pelle come un'aura. «Ho il preservativo» le disse. Lei annuì e attraversò la stanza. «Posso spogliarti?» domandò Boone, con la voce roca, e lei lasciò che le sfilasse i jeans. All'inizio le fece male, quando entrò in lei, poi uno spazio si aprì e Sophie sentì il cuore di Boone accanto al suo. Boone si mosse avanti e indietro, con il respiro che usciva sotto forma di sibili e brontolii. A un certo punto Sophie cominciò a tremare e non riuscì a fermarsi. Dovette chiudere gli occhi a causa del piacere inatteso. Più tardi, Boone si divertì a scrivere con le dita parole sulla sua schiena nuda. Lei non riuscì a indovinarne neppure una. «A che cosa pensi?» le domandò. Sophie si strinse nelle spalle. Si sentiva tranquilla e in pace con il mondo intero. «Tu pensi che tuo padre sia una brava persona, vero?»
«Come?» Sophie si girò a guardarlo. «Tu pensi che tutti i poliziotti siano brave persone?» «Che cosa intendi dire?» Ma lui si ritirò in se stesso. Rabbrividendo, Sophie si coprì con il lenzuolo fino al collo. Sentiva un bruciore in mezzo alle gambe che non voleva andarsene. «Boone, che significa?» «Ci sono cose che vorrei dirti, ma non posso.» «Che tipo di cose?» «Lascia perdere.» Lei gli passò il dito sulla guancia. «Noi ci apparteniamo» disse lui. «Lo so» rispose Sophie, abbracciandolo e premendo il proprio corpo contro il suo. Un'ora più tardi, Sophie attraversava di corsa il cortile per rientrare. La lampada davanti alla porta era circondata da farfalle notturne e l'aria era piena del profumo dei lillà. La casa era la stessa, ma lei si sentiva in qualche modo diversa. Dentro, si fermò sulla soglia del soggiorno, dove il padre, seduto sul sofà, stava leggendo un libro. Lo chiuse e guardò la figlia. «Ciao» disse lei. «Vado a dormire. Buonanotte.» «Non sei andata da Katlin, questa sera» rispose il padre, in tono ostile. Sophie si sentì tremare le ginocchia. Lui la fissò con ira, per un istante. «Papà, mi dispiace.» «Ho telefonato a Katlin. Mi ha detto che eri andata a una festa con Boone Pritchett. Non tollero le bugie, Sophie. Tu sei superiore a queste piccolezze.» Il silenzio era talmente profondo che Sophie aveva l'impressione di sentirne l'eco, come dentro una conchiglia. «Era solo una festa, papà. Niente di particolare.» «Solo una festa?» La risata di Sophie suonò falsa anche a lei. Sentiva ancora dolore fra le gambe e i suoi slip erano macchiati di sangue. «Mi hai mentito» proseguì Charlie, infuriato. «Mi hai preso in giro. Io sono rimasto qui ad aspettarti, tendendo l'orecchio a ogni macchina che passava, pensando che fossi tu. Sperando che fossi tu.» La fissò. «Cristo, sei ubriaca?»
Lei si appoggiò alla parete. «Un poco... credo, ho bevuto una birra.» Charlie si alzò. «Basta così, signorina. Non esci per un mese.» I pensieri di Sophie si allungarono come braccia, braccia con i pugni, pugni che si agitavano contro di lui. «Ti odio!» gridò. «Ogni volta che passa un'auto, io ho paura di sentire le sirene» continuò Charlie. «Non farmelo più.» «Farlo a te?» «Non puoi più vederlo. Te lo proibisco.» «Ti odio!» «Bene. Odiami pure, non importa, ma non ti permetto di rovinarti la vita.» «La vita è mia e me la rovino come voglio!» Sophie corse al piano di sopra e si gettò sul letto. Era così esausta e in collera da non avere neppure la forza di piangere. 6 Superati gli ultimi supermercati e negozi di utensili Charlie si trovò in piena campagna, dove l'unico rumore era il placido coro dei grilli. Arrivò a un bivio e svoltò, incappando a tutta velocità in una buca che per poco non gli ruppe una sospensione. In quelle stradine secondarie non c'era praticamente traffico, e perciò nessuno veniva a ripararle. Boone abitava nella zona peggiore della città, dove la povertà contribuiva a mettere l'uno contro l'altro i membri delle famiglie e le chiamate che giungevano alla polizia riguardavano liti domestiche o legate all'uso di droga. Charlie si impose di rimanere calmo. "Respira lentamente" si disse. Dopotutto, era colpa sua. Aveva cresciuto una figlia troppo innocente. Sophie non giudicava mai nessuno. Era troppo aperta, onesta e fiduciosa. Non abbastanza giudiziosa. Che tipo fosse Boone Pritchett era evidente agli occhi di tutti, ma non a quelli di lei. Era stata allevata in una campana di vetro. Tutta colpa sua. Parcheggiò l'auto e scese. Dietro il filo spinato con la scritta VIETATO L'INGRESSO c'era una distesa troppo selvaggia per essere chiamata prato. In mezzo all'erba e ai rifiuti c'era il pickup di Boone, una sorta di fisarmonica rosa. Parcheggiato sul vialetto, a poca distanza, c'era quello più grosso, color ruggine, appartenente al padre. Charlie aveva arrestato Eddie Pritchett diverse volte per piccoli reati e per guida in stato di ebbrezza. Spinse il cancello, che cigolò sui cardini, e attraversò il cortile per dirigersi alla
casa a un solo piano. Bussò alla porta. «Polizia! Aprite!» Venne ad aprire il ragazzo, che lo guardò con una sorta di sorriso furbetto e ironico. «Che cosa vuole?» domandò con irritazione. Con il dito indice, Charlie gli fece segno di avvicinarsi. «Vieni fuori.» «Perché?» «Dobbiamo parlare.» «Sono in arresto?» «Non ancora.» Fissandolo senza battere ciglio, Boone rispose: «Allora non ho niente da dirle». Charlie gli allungò un pugno sul naso e Boone si afflosciò come un sacco. Afferrandolo per il cappuccio della felpa lo trascinò all'esterno, sul prato soffocato dalle erbacce. Boone si lamentò e si portò le mani al naso, sporcandosi le dita di sangue. Puntò in terra i piedi per rallentare Charlie, ma riuscì solo a irritarlo ancora di più. «Pare che tu abbia bisogno di altre lezioni di danza, socio» gli disse Charlie, sollevandolo. Erano illuminati dai fari delle auto che passavano lontano e dalla luce che filtrava dalla porta d'ingresso. Charlie lo avvertì: «Se vedi ancora mia figlia, sei morto». I denti del ragazzo erano sporchi di sangue. «Devo girare al largo perché sei un uomo grosso e cattivo? E perché prendi a pugni la gente come un cazzone? Pfft... datti una regolata.» Charlie lo prese per le orecchie e con grande serietà disse: «La cosa è molto semplice. Tu non ti vedrai più con Sophie. Chiaro?». Il ragazzo protestò, in tono stridulo: «Ma che ti ho fatto?». «Non è quello che hai fatto a me, insignificante pezzo di merda. È quello che pensi di fare a mia figlia.» «Non intendo farle nulla, pervertito.» Un uomo robusto comparve sulla porta, bloccando la luce. «Che cazzo succede qui?» Eddie Pritchett parlava come se fosse in mezzo a una piazza; pareva abituato a rivolgersi alla folla in tono belligerante. «Sto parlando con tuo figlio» rispose Charlie, frenando la collera. «Stattene dentro.» «Non puoi parlare a un minore senza il permesso dei genitori» gli gridò Eddie dalla porta. Aveva una chioma incolta, con qualche ciuffo infilato dietro le orecchie. Portava un paio di jeans stretti, guanti senza dita, non aveva la camicia e il suo corpo era coperto di tatuaggi di teschi. «O lo arre-
sti o togli il tuo culo dalla mia proprietà.» Charlie fissò ancora Boone con sguardo torvo. Dopo un attimo di esitazione, lo lasciò libero. «Torna dentro, stronzo» disse Eddie Pritchett rivolto al figlio. Mentre il ragazzo indietreggiava, il vento faceva ondeggiare l'erba intorno a lui. Prima di entrare, si rivolse a Charlie per dire: «Non le torcerei un capello». «Ti ho avvertito» gli ripeté lui, agitando il dito per sottolineare le proprie parole. «Fatti rivedere con lei e piomberò su di te come un falco.» «Queste sono intimidazioni» disse il padre, dalla porta. «Avrai notizie dal mio avvocato!» «Tu sta' zitto!» «Abuso di potere! Sporgeremo denuncia!» «Certo, certo» mormorò Charlie. «Ringraziate il cielo di esservela cavata con così poco, brutti bastardi.» 7 A Charlie si chiudevano gli occhi per il sonno. La caffeina non faceva più effetto su di lui. Forse avrebbe dovuto iniettarsela direttamente in vena. Aveva un suo modo di stare alla scrivania per non far sospettare che si stesse addormentando. Fissava il foglio che aveva sul tavolo e appoggiava la mano alla fronte, come se fosse profondamente assorto nei suoi pensieri. In quel modo poteva chiudere gli occhi e riposare, a patto di non scivolare con la testa sulla scrivania. «Toc, toc.» Charlie rizzò di scatto la schiena. «Ti sei di nuovo addormentato al volante?» disse Mike, sorridendo. «Non mi scocciare, Mike. Dormo meno di un pescecane.» «Benvenuto nel mio club. Sai che canzone c'era sul walkman di Toby Lake?» Charlie scosse la testa in segno di diniego. «I'm on Fire di Bruce Springsteen.» Charlie alzò le spalle, ma la notizia lo aveva turbato: prima il fumo, poi le fiamme... «Una semplice coincidenza» commentò. Dalla finestra vedeva il baluginio della calura sull'asfalto; dagli alberi si levò improvvisamente un grosso stormo di uccelli, che s'innalzò nel cielo privo di nuvole. «Qualche notizia di Lester?»
«Abbiamo diramato un ordine di ricerca per la sua auto. Abbiamo controllato un'ampia zona intorno alla sua casa. Abbiamo trasmesso la sua foto in tutta la contea e interrogato più di cento persone tra amici e parenti. Ancora nessuna notizia.» «Dev'essersi nascosto da qualche parte fuori della contea.» «Che cosa facciamo, allora?» Charlie brontolò tra sé, infastidito. Erano sommersi dal solito lavoro di giugno, violenze sessuali, guida in stato di ebbrezza, furti, rese dei conti tra spacciatori e adesso anche quella grana. Lester era sparito. La cosa più antipatica era che nessuno sembrava disposto a dare una mano con il resto mentre cercavano di risolvere il loro caso più importante. «Le sue telefonate?» domandò. «Nick se ne sta ancora occupando. Anche delle carte di credito.» «Bene, aspettiamo di vedere se trova qualcosa.» Rimpiangeva l'assenza dei vecchi tempi: una birra, il giornale, i piedi sul tavolo. Un lusso ormai inimmaginabile. «Hai il rapporto sull'autopsia di Toby Lake?» «Le ferite seguono lo schema già noto» rispose Mike, prendendo una sedia e aprendo la cartellina che aveva con sé. «Contusioni traumatiche alla testa, ferite difensive su entrambe le braccia, impalamento con un palo lungo novanta centimetri...» Charlie lo ascoltò sperando in qualche indizio rivelatore. «Tre impronte di guanti» proseguì Mike. «Nessuna traccia di sangue oltre all'AB positivo della vittima. Niente liquido seminale, niente segni di scasso sulle porte. Una maledetta replica degli altri delitti.» «Qualche traccia?» «Qui siamo fortunati.» Prese una pagina. «Hanno trovato qualche puntino microscopico sui calzini della vittima e nei risvolti dei calzoni.» «Puntini microscopici?» «Una plastica molto comune. Cloruro di polivinile, usato in numerosi prodotti, dalle canne per innaffiare a vari utensili domestici. Qui parla di microscopici puntini gialli.» Charlie drizzò la schiena. «Una polverina gialla?» Mike si strinse nelle spalle. «Qui dice "puntini".» «Sulle caviglie?» «Calze e risvolti dei pantaloni.» Le ruote della poltroncina di Charlie cigolarono mentre prendeva il telefono. «Hunter? Passami la polizia di Tulsa.»
8 Il sergente Dwight D. Harbuck, della squadra investigativa della polizia di Tulsa, era stato il compagno di Charlie nei vecchi e poco gloriosi tempi in cui uscivano di ronda. Dato che il caso del Killer delle Schegge riguardava più giurisdizioni, avevano unito le forze e adesso stavano per fare insieme un arresto. D.D. era un uomo ordinato, ma soprattutto un uomo d'ordine. Manteneva impeccabile l'uniforme e cristallini i pensieri. «Spero che gli friggano il culo sulla sedia elettrica» disse a Charlie mentre svoltava nel vialetto di Jonah Gustafson. «Schiaccio io stesso l'interruttore, se occorre. Non ho nessun problema a farlo. Mi sono rotto le balle di tutta questa merda che c'è in fondo al barile della società.» Un'altra auto di pattuglia si fermò dietro di loro e ne uscirono un paio di agenti, con la pistola in pugno. «Voi due controllate l'uscita posteriore» disse Harbuck ai suoi. Il furgone bianco del presunto colpevole era parcheggiato davanti alla casa. Charlie si toccò il taschino della camicia per controllare che il mandato d'arresto fosse ancora al suo posto, poi abbassò la pistola lungo la gamba per nasconderla alla vista. Seguì il sergente sugli scalini del portico, poi aspettò mentre Harbuck batteva con il pugno sul pannello della porta. «Polizia! Aprite!» Senza aspettare la risposta, il sergente di Tulsa spalancò con un calcio la porta ed entrò senza perdere altro tempo. Il sole filtrava dalle ampie finestre e dava a tutto l'interno una sfumatura dorata, come in certe tele di Vermeer. Harbuck attraversò in fretta il corridoio, agitando minacciosamente la .38 a canna corta. «Polizia! Siete circondati!» Nella mano di Charlie, l'arma era gelida come la nebbia. Seguì Harbuck in cucina, dove il bricco del tè fischiava e i due agenti avevano circondato il presunto colpevole. Jonah Gustafson era fermo davanti al fornello, con le braccia alzate, e teneva in mano una tazza da caffè sbreccata. «Che cazzo volete?» domandò, stupefatto. Harbuck rimise l'arma nella fondina e prese Jonah per il braccio, girandoglielo dietro la schiena. «Sei in arresto. Qualcuno vuole chiudere il gas, per favore?» Uno dei suoi uomini ruotò la manopola. «E di che cosa mi accusate?» domandò Jonah, in tono seccato. «Fagli vedere il mandato.»
Charlie posò sul tavolo la copia, poi tolse all'uomo il sudicio berretto da baseball con la scritta NIGHT TRAIN. Jonah era magrissimo e aveva i capelli castani, di lunghezza media. "Capelli castani, razza bianca" ricordò Charlie. Eseguì una perquisizione sommaria e trovò del denaro, sparso nelle varie tasche, un cercapersone e un sigaro della Repubblica Dominicana, Opus X Pyramid. «Ti piace questa marca?» domandò Harbuck, infilandosi in tasca il sigaro. «Perché cazzo mi arrestate?» protestò Jonah. «Non me l'avete ancora detto.» «Un ragazzo è stato ucciso il 9 giugno» spiegò Charlie. «A Wolf Pass, Texas. Abbiamo degli indizi che ti collegano alla scena del crimine.» «Io?» disse Jonah, profondamente scosso. «La polvere gialla sulla tua sacca da ginnastica.» «Polvere gialla? Che polvere gialla?» «È chiamata PVC. Cloruro di polivinile, una plastica comunemente usata per utensili casalinghi. Il laboratorio di Stato ha rilevato l'identità tra le due tracce. Lo stesso materiale lo abbiamo trovato sulle calze e sulle caviglie della vittima. È stata lasciata quando il corpo è stato trascinato nella casa.» «Un momento, un momento. Il 9 giugno? Sono stato in casa tutto il giorno.» Aveva i capelli pettinati con la riga e tenuti in piega con il gel; faceva ogni sforzo per parlare con calma e dare l'impressione di collaborare. «Hai qualche testimone?» Jonah Gustafson scosse la testa. «Sentite, io voglio solo riavere indietro i miei figli. Mi sono iscritto a un programma di recupero. Mi sto dando una ripulita... e ora sto anche collaborando.» «Ti credi molto furbo, eh?» commentò Harbuck. «No» ammise Jonah. «Sono il peggiore dei cazzoni.» Dall'espressione della sua faccia sembrava sul punto di vomitare. «Sentite, io non ho ucciso nessuno... Andiamo, ragazzi, è ridicolo!» «È buffo, perché sei in arresto per omicidio premeditato.» Harbuck gli mise le manette, stringendole bene. Jonah chiuse gli occhi. «Oh, Dio... va bene, ascoltate. Avevo un paio di guanti gialli da lavoro» disse. «Erano molto vecchi. Il tessuto è bianco, be', almeno lo era quando li ho comprati, e i palmi erano di plastica gialla. Ma la plastica è diventata secca e ha cominciato a sfarinarsi, okay? Penso che ne sia rimasto un po' sul manico della borsa. Ma giuro davanti a Dio... ho
perso quegli stupidi guanti mesi fa.» «Persi?» ripeté Charlie. «Sì, due o tre mesi fa, lo giuro su Dio. Sapete cosa vi dico, 'fanculo tutto quanto. Voglio parlare con il mio avvocato.» Harbuck puntò contro la faccia di Jonah un dito nodoso. «Pezzo di merda. Vieni nel cortile con noi.» «Bene, datemi una ragione per fare causa alla città!» Perquisirono la casa e raccolsero le prove: residui di una polvere bianca su un bilancino, bustine di plastica vuote, più di mille dollari in contanti. Charlie frugò negli armadi e nei cassetti, alla ricerca di qualche capo di abbigliamento blu, ma nessuno corrispondeva alla descrizione. Non c'erano macchie di sangue nella casa. Né fibre verdi di un tappeto. I tappetini del furgone erano marrone. Cercarono dei guanti bianchi con il palmo giallo, ma non trovarono neppure quelli. Jonah portava scarpe da ginnastica numero quarantacinque, Nike e Adidas. Le portarono via. Portarono via anche l'attrezzatura per lavorare il legno; portarono via quanto più possibile, poi presero in consegna il presunto colpevole e lo infilarono nell'auto. Jonah cominciò a dondolare avanti e indietro come se avesse le fiamme nel cervello. «Questa è una macchinazione della polizia! Non ho ucciso nessuno!» Harbuck mise in folle e si girò verso di lui. «Chiudi quel cesso di bocca.» «Non sono un assassino pazzoide!» gridò Jonah, con le vene del collo che gli si gonfiavano per lo sforzo. «Merdose teste di cazzo! Avanti, portatemi in città e arrestatemi! Finite di rovinarmi la vita!» Il cellulare di Charlie squillò. «Pronto?» «Capo?» Era Mike, che gli gridava nell'orecchio per via di un collegamento difettoso. «Hanno trovato il pickup di Lester...» 9 A una trentina di chilometri dal confine tra Oklahoma e Texas, un agente della polizia di Stato aveva trovato il pickup Chevrolet di Lester Deere, parcheggiato dietro i ruderi di una fattoria abbandonata. Charlie attraversò la prateria in direzione della casa, rischiò di finire in un fosso e per fortuna riuscì a raddrizzare l'auto appena in tempo. Parcheggiò e scese, poi scrutò l'orizzonte. Alcune nubi proiettavano la loro ombra sulla distesa di terra, macchie nere sfilacciate che attraversavano rapidamente i campi. Il vento
era così caldo da dare l'impressione di trovarsi davanti a una fornace. Quella regione conservava l'aspetto che aveva sempre avuto, quello che le avevano dato il bisonte, la pioggia e il vento: levigata come una pietra sul letto di un fiume. In mezzo a quella zona isolata si poteva far correre una locomotiva. Pochi istanti più tardi, Mike lo raggiunse in mezzo all'erba alta. «Ho controllato le immediate vicinanze, capo. Non ci sono tracce di pneumatici estranei e neppure di passi. Si può vedere dov'è uscito dalla strada per parcheggiare dietro la casa, ma lì le tracce si fermano. E sembrano di pochi giorni fa.» «Andiamo a dare un'occhiata.» Salirono su una piccola altura, mentre nugoli di cavallette saltavano davanti a loro. Discesero con cautela dall'altura per incontrare infine una stradina sterrata con l'uva selvatica che cresceva ai lati. Seguirono insieme le tracce del battistrada e trovarono il pickup di Lester parcheggiato dietro l'antica rovina circondata dall'erba. «Nessun danno alla carrozzeria» disse Charlie, mentre esaminavano insieme il veicolo. «Portiere aperte. Le chiavi sono ancora nel cruscotto.» «Questo significa che non può essere lontano, vero?» Mike guardò all'interno. «Il contachilometri parziale segna cinquecentotré.» «Da qui a Promise ce ne sono soltanto centosessanta. Probabilmente, per tutto questo tempo si è rifugiato in qualche nascondiglio fuori della contea.» «Nessuna macchia di sangue sui sedili o all'interno.» Charlie fece un passo indietro. Il vento gli agitava il fondo dei calzoni; osservò le alture coperte di artemisia e le rocce in lontananza. Riusciva quasi a immaginare i dinosauri che attraversavano le antiche paludi e venivano inghiottiti dalle sabbie mobili, dove le loro ossa, nel corso di milioni di anni, si trasformavano in roccia. Quella terra aveva originariamente preso forma dal movimento del mare: le alture a trapezio, la prateria agitata dal vento. I moderni cacciatori di fossili trovavano ancora grandi quantità di creature marine racchiuse nel calcare. Brachiopodi, trilobiti e fusulinidi grossi come chicchi di grano. Poi Charlie vide un uccello che volteggiava pigramente nel cielo. Per ingannare le prede, i falchi locali si erano evoluti fino ad assomigliare agli avvoltoi, ma le zampe degli avvoltoi erano grigie e non gialle. Sforzando la vista, osservò l'uccello dalle zampe grigie svanire dietro un'altura. "Avvoltoi" pensò.
Si lanciò di corsa nella direzione in cui aveva visto sparire l'uccello, senza curarsi dell'erba in cui rischiava di incespicare, e cercò di non badare al nodo allo stomaco, che già lo rendeva consapevole, prima ancora di rendersene conto, del significato di quella presenza. Quando giunse sulla cima dell'altura successiva e guardò in basso, verso il terreno calcinato dal sole, non riusciva quasi a respirare. «Che cosa c'è?» gli domandò Mike, dietro di lui. Il nodo allo stomaco di Charlie si era trasformato in terrore. Nella radura sotto di lui giacevano due cadaveri, bocconi. Charlie scese lungo il pendio, con i piedi che affondavano nella terra friabile, provocando negli ultimi metri una piccola frana di polvere e pietrisco. Infine arrivò in fondo, dove l'avvoltoio era indaffarato a beccare i resti sanguinolenti di una testa. «Sciò, sciò!» gridò, agitando le braccia, e l'uccello lasciò con riluttanza la carcassa e volò via, agitando l'erba con il movimento delle ali. Mike era arrivato in cima all'altura. Aveva la faccia cupa, le labbra serrate. «È Lester?» Charlie aveva l'impressione di essere finito sotto un treno. Si inginocchiò accanto al cadavere dai capelli biondi; in mezzo all'odore di morte sentì anche odore di cordite. La nuca del cadavere era una massa di sangue e materia cerebrale nel punto in cui era passato il proiettile, e nel terreno, accanto alla mano destra, c'era un revolver d'ordinanza. Scarpe Nike, cintura di cuoio nero, maglietta infilata in un paio di jeans nuovi firmati. L'orologio Eagleton funzionava ancora. Charlie sentiva le ossa del cranio stringersi intorno al proprio cervello, strizzarlo come un limone. Fece un respiro e girò il corpo. La vista della faccia devastata di Lester Deere lo fece vacillare per un momento. Il rigor mortis era già svanito, le mosche avevano deposto le uova. "Morto da alcuni giorni" si disse. "Come minimo." Si passò nervosamente la mano sulla bocca e cercò di non vomitare, mentre dentro di lui si apriva come uno spazio vuoto. Lasciò che il corpo ricadesse nella sua posizione originale, poi lo frugò alla ricerca dei documenti. Nella tasca posteriore trovò il portafoglio con la patente e le carte di credito. Mike scese a precipizio verso di lui, sollevando nuvolette di polvere, poi si chinò a raccogliere dal terreno un pezzo di carta. Lo aprì. «Guarda cos'abbiamo qui. Un biglietto da cento dollari.» Charlie fu costretto ad allentarsi la cravatta perché sentiva un nuovo attacco di nausea. Alzò gli occhi e si guardò intorno. La prateria si stendeva
per chilometri intorno a loro, interrotta soltanto da qualche solco lasciato dai trattori. Vicino ai corpi vide altre banconote, agitate dal vento. Un avvoltoio emise il suo richiamo a poca distanza; alto sopra le loro teste, l'uccello mosse le ali per cercare una corrente ascensionale. Con un senso di irrealtà, Charlie si chinò sull'altro corpo per girarlo. «Chi è?» gli domandò Mike. «Jake Wheaton.» Fissò il ragazzo, aggrottando la fronte. La faccia di Jake era liscia come quella di un manichino; indossava una maglietta con la scritta NON CHIEDETE FUMO A ME. Era tutta sporca di sangue. Gli occhi erano spalancati e aveva le mani strette a pugno a causa di uno spasmo cadaverico. Charlie sentì irrigidirsi i muscoli della mascella, una reazione fisica che si verificava ogni volta che era scosso e che il sangue correva nei punti in cui era stato bruciato dalla sua biancheria che aveva preso fuoco trent'anni prima. «Delimitiamo l'area e andiamo a parlare con la polizia locale.» «Pensi che si siano uccisi a vicenda per i soldi?» domandò Mike, raccogliendo altri biglietti da cento dollari. «Non so più che cazzo pensare» rispose Charlie, e sentì la polvere della prateria scricchiolargli tra i denti. 10 Più tardi, quello stesso giorno, Charlie era nel corridoio d'ingresso della casa di suo padre e, passando davanti a uno specchio, scorse il proprio riflesso. Le cicatrici gli facevano male. Il cervello gli faceva male per le troppe ipotesi rivelatesi inutili. Era assolutamente convinto di essere un mostro, ma che il "vero" Charlie Grover vivesse al di sotto della deformità. Sotto la pelle simile a formaggio fuso. L'abitazione era vuota. Suo padre era fuori, a coltivare il campo dietro la casa. Charlie aprì l'armadio del corridoio e cercò tra giacche e soprabiti, spostando le grucce prima da un lato e poi dall'altro. Nessun giaccone. Non ho fortuna. Chiuse l'armadio e tese l'orecchio, ma sentì solo il cinguettio di innumerevoli uccelli. La luce del tardo pomeriggio proiettava una macchia a forma di foglia sulla parete opposta. Salì al primo piano ed entrò nella stanza del padre, un luogo proibito. Tutto taceva. Il suo sguardo si posò sulle spazzole sul ripiano del cassettone, sulle pantofole sotto il letto, sul bic-
chiere appoggiato sopra il comodino, per la dentiera. "Denti falsi. Denti sostitutivi" pensò. Scacciò subito quel pensiero. Avevano già trovato il killer. L'udienza per la cauzione di Jonah Gustafson era fissata per l'indomani. Il giudice avrebbe stabilito una cauzione alta. Jonah sarebbe rimasto in galera. Charlie poteva rilassarsi. Avevano l'assassino. A parte il fatto che... a Charlie era stato insegnato di non fermarsi mai a un solo sospetto. "Volta una qualunque pietra" pensò "e sotto ci troverai un'intera rete di vita che pulsa e che striscia. Vita segreta... tutto un mondo nascosto." Frugò nell'armadio del padre: camicie, calzoni. Una decina di cravatte scure che non metteva più. La cintura con la fibbia di metallo. Nel vederla, Charlie tornò a provare l'antica paura; da decenni non vedeva quella cintura, ma ne ricordava ancora il morso. "Niente giaccone" pensò. "Non ho fortuna." Diede un'ultima occhiata alla stanza e si rese conto che probabilmente era nel pickup del padre, parcheggiato davanti al granaio dove il vecchio teneva gli arnesi per lavorare il legno. Sentì irrigidirsi i muscoli della schiena. Avrebbe fatto meglio a uscire per andare a controllare, ma aveva paura. L'idea che il padre potesse scoprirlo lo faceva sentire nuovamente come un bambino di sette anni. Notò ai piedi del letto il baule da marinaio, dove il padre teneva i vestiti invernali. Sollevò il coperchio e frugò in mezzo alle pile di golf, di guanti e di sciarpe, con gli occhi che lacrimavano per l'odore di naftalina. Una vecchia coperta dell'esercito. Niente giaccone. In fondo al baule c'era un vecchio sacchetto di carta. Incuriosito, Charlie lo aprì. All'interno c'erano decine di palloncini sgonfi, rossi, verdi, blu, gialli. Strano. Perché suo padre aveva conservato tutti quei palloncini? La cosa non aveva senso. Rimise a posto il sacchetto e chiuse il coperchio, poi sentì un rumore e s'immobilizzò. Tese l'orecchio, quasi senza respirare. Dal piano di sotto gli giunsero i passi del padre che si aggirava per la casa. Le assi del pavimento cigolavano sotto i suoi piedi. Charlie fece una smorfia. Come spiegare la sua presenza lassù? La porta del frigorifero si aprì e si chiuse. I passi si allontanarono. La porta di servizio venne sbattuta con forza. Charlie riprese finalmente a respirare e corse alle scale, con il cuore che gli martellava nelle orecchie. E, per la fretta di allontanarsi da quella casa,
per poco non finì a gambe all'aria. 11 I cadaveri erano all'obitorio, impacchettati nel ghiaccio secco. «Nel sangue e nell'umor vitreo di entrambi abbiamo trovato alti livelli di alcol etilico» disse Duff. «Questo indica che erano ubriachi quando si sono uccisi a vicenda.» Charlie alzò gli occhi. «Ne sei certo?» «Sulla pistola c'erano le impronte di entrambe le vittime e la prova all'acido nitrico è risultata positiva.» Duff iniziò a esaminare sotto il cuoio capelluto; l'osso del cranio era fratturato come un uovo. «Lester ha sparato due volte a Jake nello stomaco mentre lottavano per impadronirsi della pistola. Poi Jake è riuscito a strappargli l'arma e gli ha sparato alla testa. Un colpo in bocca è il modo migliore per porre fine a un litigio. Vi sono resti di polvere sulla lingua. A forma di ventaglio.» Cercando di non immaginare in modo troppo realistico la scena, Charlie si appoggiò al lavandino e incrociò le braccia sul petto. Il corpo di Jake era disteso sul tavolo autoptico accanto a quello di Lester e presentava due fori, tondi e netti, sull'addome, ciascuno con un alone grigio. I fori d'uscita, di forma irregolare, erano sulla schiena, circondati da sangue. «A quando risale la morte?» «Dalla sfumatura verde dei quadranti bassi dell'addome, dal rigonfiamento della faccia e dalla marezzatura della pelle penso che fosse morto da tre giorni, quando l'hai trovato. Lo stesso vale per il ragazzo.» Charlie posò i certificati di morte. «Allora, Lester ha sparato a Jake, poi il ragazzo gli ha strappato l'arma e l'ha ucciso, ma poco più tardi è morto per le ferite?» «Sì, a causa della violenta emorragia.» Dopo avere estratto il cervello, simile a una massa gommosa, Duff tolse anche la dura madre ed esaminò l'interno della scatola cranica, seguendo la traiettoria del proiettile. «Il cranio è frantumato in corrispondenza del foro d'entrata, in questo punto» spiegò, indicandolo con il bisturi. «I frammenti d'osso hanno causato un'ulteriore distruzione dei tessuti. La ferita di uscita, sulla nuca, dove tutto quel tessuto sotto pressione si è aperto la strada, è grossa e irregolare. Quanti bossoli avete trovato?» «Quattro.» «Tutti della pistola d'ordinanza di Lester?»
Charlie annuì. «Due allo stomaco di Jake, uno alla testa di Lester e il quarto in aria.» Duff girò verso l'alto la faccia di Lester. «Ferite da difesa sul corpo, morsi sul braccio. I colpi sono stati sparati a bruciapelo. Jake ha macchie del sangue di Lester sulle mani.» Si grattò il collo. «Non ho alcun dubbio, Charlie. Questi due imbecilli si sono uccisi a vicenda.» «Abbiamo trovato più di millecinquecento dollari sparsi intorno ai corpi, oltre a marijuana e cocaina nel pickup di Lester.» Charlie si massaggiò l'attaccatura del naso. «Sono diventato cieco? Uno dei miei uomini spaccia droga sotto i miei occhi e io non me ne accorgo?» «Non prendertela.» Duff si sfilò i guanti e li buttò nel sacco dei rifiuti. «Nessuno ci riesce, Charlie.» Una vecchia orchestra, quella di Jimmy Dorsey, suonava alla radio. Se ci si imbatteva in Duff all'esterno dell'obitorio, si sentiva subito la sua puzza di formalina. L'odore della morte si appiccicava a lui come il fumo di sigaro. «Jenna Pepper doveva essere coinvolta nel traffico. E anche Boone Pritchett. È tutta la mattina che cerco di rintracciarlo...» Aveva avvertito più volte Sophie di tenersi alla larga da Boone, e adesso si preoccupava di non essere stato abbastanza chiaro. Duff coprì con un lenzuolo il corpo di Lester e cominciò a mettere in ordine i suoi strumenti. «Sembra che nelle ultime quarantottore tu abbia risolto due casi importanti, Charlie. Congratulazioni.» Quelle parole non fecero che accrescere l'irritazione di Charlie: Duff non capiva la parte più importante. Lui avrebbe dovuto immaginare. Avrebbe dovuto evitare quel disastro. Lester aveva cercato di parlargli, ma Charlie si era concentrato solo sulla procedura: avvocati, macchina della verità, alibi. Si massaggiò il mento, il suo sguardo si perse lontano. «Charlie?» «Sì?» «Jonah Gustafson. Il Killer delle Schegge.» «Sì, certo.» Duff incrociò le braccia. «Che cosa ti rode?» Charlie si strinse nelle spalle. «Solo un dubbio.» «Avanti, sputa il rospo.» «Non siamo riusciti a trovare i guanti. Gustafson afferma di averli persi da mesi.» «Ed è plausibile?»
Charlie scosse la testa. «Questa è gente abituata a mentire da una vita. È difficile dirlo.» Puntini gialli, fibre di lana blu, peli neri di coniglio, una singola fibra verde proveniente da un tappeto, scarpe numero quarantaquattro o quarantacinque. Nella sua mente, quei minuscoli indizi erano collocati l'uno sopra l'altro, formando un insieme confuso. Sospirò. «Non so, Duff. Forse sono soltanto un po' stanco.» L'uomo più anziano tamburellò con le nocche sul ripiano del tavolo. «Segui il tuo istinto, Charlie.» «Il mio istinto? Il mio istinto mi dice che abbiamo una sovrabbondanza di indizi. Puntini gialli, lana blu, pelo di coniglio, capelli di sconosciuti, una singola fibra di un tappeto...» Duff annuì. «E allora?» «E allora non c'è un nesso. L'assassino conosce le nostre procedure a sufficienza per sapere che avremmo trovato quei puntini gialli microscopici, giusto? Nel suo modo di procedere è meticolosissimo. Se il colpevole è Gustafson, perché ha fatto quell'errore?» «L'assassino sembra attentissimo a non lasciare tracce dietro di sé. Mette i guanti, cancella le impronte delle sue scarpe...» «Perciò, mi chiedo... e se avesse rubato i guanti di Gustafson per far ricadere la colpa su di lui e per confondere noi? Voglio dire, è difficile rubare qualcosa a un cacciatore di tornado? Ci sono un sacco di posti dove si fermano: motel, stazioni di servizio, tavole calde. Sarebbe così impossibile portagli via un paio di guanti? Ruba l'oggetto che può costituire una prova e più tardi lo lascia sulla scena del delitto. E se Gustafson ci avesse detto la verità, Duff? E se fosse innocente?» Nel silenzio dell'obitorio, Charlie sentì il respiro nasale di Duff, simile al fischio del vento fra le piante di pabbio. «Ricordi il principio di Locard?» disse il medico legale. «"Ogni contatto lascia una traccia. Nessuno, per intelligente che sia, può eliminarle tutte dalla sua persona"» citò Charlie. «Di conseguenza, il criminale lascerà sempre qualcosa sulla scena del delitto e raccoglierà su di sé qualcosa. Tocca a te scoprire qual è l'indizio importante.» «L'indizio che è stato lasciato per caso?» domandò Charlie. «Proprio così.» Capelli bianchi. Fibre di lana blu. Che fosse suo padre? L'espressione del medico legale si addolcì impercettibilmente. «Sai cosa
dovresti fare, Charlie? Dovresti prenderti una giornata di vacanza. Tornare a casa e abbracciare tua figlia.» Charlie inghiottì a vuoto, confuso. «Segui il mio consiglio» lo incitò Duff. «Non discutere.» Charlie prese la giacca, appoggiata alla spalliera della sedia. «E tu, Duff? Dove vai?» «Io? A casa a fare le bolle di sapone per divertire il mio gatto.» 12 Sophie era nella sua stanza al piano di sopra. Era seduta a gambe incrociate sul letto perfettamente rifatto e mordicchiava una matita. «Ciao, cara» le disse Charlie dalla porta. «Ciao» rispose lei, senza alzare la testa. Aveva un'espressione seria e concentrata; da come stringeva le labbra, Charlie capì che era ancora in collera con lui. «Che cosa fai?» «Studio.» «Studi cosa?» «Ho il compito di storia.» «Com'è andato quello di inglese?» «Bene.» «Sì?» «Ho preso il voto più alto.» «Ottimo. Complimenti.» Cercò di guardare che cosa leggeva. «Allora domani hai il compito in classe?» «Mmh.» S'era infilata un paio di calzini di lana pesante, di un orribile colore rosa, lo stesso del suo maglione. Charlie si guardò intorno. Un gruppo di orsacchiotti di peluche complottavano tra loro in un angolo dimenticato; in alcuni punti avevano perso il pelo, consumato dall'eccessivo affetto della piccola proprietaria. Computer, televisore, lettore CD. Oggigiorno i ragazzi non avevano bisogno di lasciare la propria stanza. «Tutto il resto è a posto?» Lei mosse con fastidio il piede. «Che cosa vuoi?» «Be', non so, non vuoi fare la pace con me?» Lei gli lanciò un'occhiata carica di veleno. "Esattamente come la madre" pensò lui. "Fin nei minimi particolari."
«Il perdono è una pratica salutare, non te l'hanno mai detto?» «Willa ti ha chiamato tre volte. Ho lasciato accesa la segreteria telefonica. Ti si è rotto il cellulare?» Charlie si tastò le tasche. «Non so più dove l'ho lasciato.» La figlia sollevò le spalle, indignata. «Non controlli mai i messaggi che ricevi? Sei addirittura peggio del nonno.» «Ultimamente sono incasinato fino al collo, casomai non te ne fossi accorta. Che cos'ha detto Willa?» «Cosa sono, adesso, la tua centralinista?» «Pensavo che non ce l'avessi più con me.» Lei lo fissò con uno sguardo spietato. «Non vedi con che maturità mi comporto? Come approvo le tue scelte anche se tu non approvi le mie?» «Ascolta» le disse Charlie, in tono più gentile. «Promettimi di non frequentare Boone.» «Papà, è una richiesta ingiusta!» «Giusto e ingiusto non c'entrano, va bene? Non posso vedere le cose con distacco, quando si tratta di te.» «Boone non ha niente a che fare con quanto è successo.» «Devi darmi retta, Sophie.» Lei roteò gli occhi per l'esasperazione. «Un grosso voto di fiducia, papà.» «Io ho la massima fiducia in te.» Lei lo guardò con ostinazione. «Vuoi perdere anche Willa? Va' a telefonarle.» Con una smorfia, tornò ad abbassare gli occhi sul libro che stava leggendo. Charlie si soffermò ancora per un istante sulla porta, pensando che aveva di nuovo sbagliato tutto, che aveva soltanto aumentato la distanza tra loro. «Piantala di spiarmi» disse Sophie. «Lascio aperto?» «No.» Chiuse la porta e scese ad ascoltare i messaggi di Willa. Mezz'ora più tardi, Charlie saltò da incosciente uno stop e poi prese a tamburellare impazientemente con le dita sul volante a ogni semaforo, prendendosela con il rosso perché non si sbrigava a diventare verde. Il cielo notturno gravava su di lui come uno strato di ghiaccio nero, con soltanto il debole chiarore di una luna avvolta nella nebbia. Attraversò a tutta velocità il centro della cittadina, poi prese una strada di campagna non illumi-
nata, dove si scorgeva solo il baluginio di qualche lucciola. Parcheggiò nello spiazzo circolare in fondo alla strada, poi ebbe un attimo di esitazione mentre la luna spariva dietro una nube più grossa delle altre. Scese dall'auto, si allargò il nodo della cravatta e guardò la casetta color pesca, con le rifiniture verdi e le aiole piene di fiori. Viole, tulipani, iris selvatici. «Salve» disse lei, aprendo la porta a zanzariera. Portava una maglietta con i bottoni sul davanti, i calzoni della tuta e un paio di ciabatte di plastica, da doccia. Serrava le labbra con aria di rimprovero. «Sei davvero un esperto, nell'arte di non farti trovare.» Lui l'abbracciò e le diede un bacio. Poi la strinse a lungo, lieto di ritornare alla complessa realtà di Willa Beliman. «Ho sentito la tua mancanza» le disse. Due gatti saltarono giù dalla ringhiera della veranda e cominciarono a girarle intorno alle caviglie. «Il mio fan club» spiegò lei. «Tutte due.» Le farfalle notturne volavano intorno alla luce della porta; i gatti miagolavano per richiamare l'attenzione. «Sono il più grande stronzo del mondo» disse Charlie. «Bevi qualcosa? Birra? Tè freddo?» Gli strinse la mano e rise. «Non so cosa piace ai poliziotti.» «Mi piaci tu.» Willa sorrise. «Sediamoci qui, dentro ci sono troppi libri.» «Libri?» «Un mucchio di libri e nessun posto dove metterli.» Sedettero sul dondolo cigolante, nel portico sul retro, e ascoltarono le rane che gracidavano vicino all'acqua: un fiume o un ruscello. Il cielo si schiarì e intere costellazioni sbocciarono come fiori sopra le loro teste. Charlie respirò a pieni polmoni il profumo inebriante della terra e dell'erba, poi fissò la curva rosea e sinuosa delle labbra di Willa. Profumava di viola. Le sue mani erano un delicato mistero. «Ti fa male?» sussurrò, toccandogli la cicatrice sul braccio. «No.» Passò il dito sulla parte sinistra del collo di Charlie. «Quante operazioni ti hanno fatto?» «Non ricordo. Un mucchio.» Lei rabbrividì, in un moto di comprensione. «Già che c'erano, mi hanno anche fatto la plastica al mento.»
La risata di Willa era così incantevole, la sua bocca così morbida e dolce che Charlie non poté fare a meno di baciarla. Con un desiderio disperato, si lasciò scivolare sulle ginocchia e le abbracciò le gambe per poi tuffare la testa nel suo grembo. Perdonato. 13 Il giorno seguente, Charlie strascicava irrequieto i piedi sul pavimento mentre studiava la foto poggiata sul tavolo dell'ufficio: un'immagine del Loadmaster di suo padre che passava in mezzo alla zona del disastro. Era una di quelle giornate afose e senza sole in cui i capelli si appiccicano sulla nuca e gli oggetti scivolano via dalle mani sudate. Era teso e irrequieto. Continuava a chiedersi: dopo che suo padre aveva smesso di bere, trent'anni prima, come sfogava tutta la rabbia che aveva in corpo? Mike si affacciò alla porta. «Riguardo alle prove che abbiamo trovato in casa di Lester» disse. «Tracce di cocaina e una pistola non denunciata. Stiamo ancora cercando di scoprire dove si sia nascosto nell'ultimo mese. Pensiamo di arrivarci attraverso i prelievi al bancomat e i tabulati del cellulare. Prima del 15 aprile ha fatto numerose telefonate a Jenna Pepper, e dopo ha chiamato varie volte Jake Wheaton e Boone Pritchett.» Charlie si tirò il labbro inferiore. «Dobbiamo interrogare Pritchett.» Mike annuì. «Secondo me, Lester otteneva la droga dagli spacciatori locali in cambio del silenzio. Poi Jake e Boone la distribuivano nella scuola.» Si mosse a disagio sulla soglia. «Avrei affidato a Lester la mia vita. Questo ti fa capire quanto poco io sappia.» Charlie annuì, con aria afflitta. «Che cos'hai lì?» Mike batté la mano sulla cartellina che reggeva. «Hanno trovato alcune impronte di battistrada nel vialetto dei Lake e le hanno inviate al laboratorio di Stato per l'analisi. Lo sceriffo Dorsey ci ha mandato i risultati. Sono giunti alla conclusione che si tratta di un pickup di grosse dimensioni con un treno di gomme Michelin nuove.» Charlie fece un lento respiro. Suo padre aveva un pickup di quelle dimensioni ed era un uomo da Michelin. Inoltre, aveva appena comprato dei pneumatici nuovi. Un grumo di ansia gli si formò alla bocca dello stomaco. «Questo escluderebbe Gustafson» disse. Mike gli rivolse un'occhiata interrogativa. «Gustafson guida un furgone, non un pickup, e le gomme sono Goodyear» spiegò. Il dubbio era sempre più forte. «E se dicesse la verità, Mike?
Se il Killer delle Schegge avesse rubato i guanti di Gustafson per lasciare quelle tracce e metterci sulla pista sbagliata?» Mike tacque per un istante, poi rispose: «Tutto è possibile». Charlie abbassò la testa e si massaggiò gli occhi. «Mio padre ha un pickup così» spiegò, mostrando la foto sfocata. «E ha appena comprato un treno di gomme Michelin.» Mike inspirò profondamente. «Ah, sì, e allora?» «Eravamo poveri in canna, quando ero bambino. Mia madre conservava tutto, non buttava via niente. La nostra casa era talmente piena di cianfrusaglie che persino quelli dei servizi sociali avevano paura a entrare. I pompieri che ricostruirono la dinamica dell'incendio erano convinti che il fuoco fosse iniziato in cantina, dove c'erano tutti gli stracci, i giornali vecchi e le lampade a petrolio.» Mike era immobile come un palo. «Ma io mi chiedevo...» riprese Charlie «e se non fosse stato un incidente? Se fosse stato mio padre a dare fuoco alla casa?» «È solo la stanchezza a suggerirti queste cose, capo.» «Durante la stagione dei tornado porta sempre lo stesso giaccone. Di lana blu. Usa la mano destra. È un cacciatore di tornado.» Abbassò le spalle. «È una persona violenta, Mike. Di scarpe porta il numero quarantacinque e perciò rientra nel profilo. Un capello bianco come i suoi è stato trovato nella casa dei Rideout. E per quanto riguarda i denti sostitutivi, mio padre porta la dentiera.» «Ascolta, capo. È una situazione difficile.» Mike lo guardava dalla porta, immobile e senza sorridere. «Tuo padre sarà stato un gran figlio di buona donna, certo. Avrà anche commesso qualche reato, ai suoi tempi. Ma devi guardarti dalle reazioni eccessive.» Il vento si alzò e scosse le tende. Quel pomeriggio sembrava volesse piovere, rovinando così il funerale di Lester. «Nel granaio tiene un mucchio di utensili per lavorare il legno» proseguì Charlie, tornando a guardare la foto del Loadmaster. «Se soltanto tu lo conoscessi come lo conosco io...» Mike non si curò di nascondere lo scetticismo. «Senti, dovrebbe essere abbastanza facile da verificare. Confronteremo i battistrada e vedremo se corrispondono. Possiamo anche confrontare le fibre e i capelli. Rilassati, capa Non sarà la prima volta che ci siamo arrampicati sull'albero sbagliato.» «Sì» disse Charlie. «Un pensiero assurdo.»
«Dovresti parlargli, però. Ho l'impressione che faresti meglio a toglierti qualche sassolino dalla scarpa.» Charlie controllò l'orologio. «Il funerale è tra un'ora» disse. «Meglio darci una mossa.» 14 Per i funerali di Lester Deere si presentarono diverse centinaia di persone. I suoi genitori erano due pilastri della comunità e nessuno voleva ancora credere il peggio sul comportamento del figlio. Dopo la cerimonia funebre, una lunga fila di auto attraversò la città in direzione del cimitero, dove Charlie passò con il padre in mezzo alle lapidi, in coda al gruppo. Isaac portava un cappello Stetson grigio chiaro e un informe impermeabile marrone sul suo vestito nero da poco prezzo. «Charlie, quando morirò lascia perdere tutte le formalità e limitati a spargere le mie ceneri nell'occhio di un ciclone» disse. «Non vuoi un funerale, papà?» Aggrottando la fronte, Isaac si guardò intorno per osservare gli altri partecipanti. «Posso fare a meno di tutte le belle parole e le brutte messe in piega.» Una biscia nera era attorcigliata su una delle lapidi, per godersi gli ultimi raggi del sole prima che sparisse dietro le nuvole. Il tempo cominciava a volgere veramente al brutto, i cumuli si stendevano lungo l'orizzonte per chilometri: una forza rabbiosa che giungeva da sudovest. Charlie si tolse il cappello e lasciò che l'aria gli passasse tra i capelli. «Dobbiamo parlare, papà.» «Parlare?» il padre lo guardò con scetticismo. «E di che?» «Di alcune cose che hanno bisogno di un chiarimento.» Il vecchio succhiava qualcosa, una caramella o una pastiglia per la tosse, e da parecchi minuti continuava a tenerla in bocca come un brutto segreto. «Ho una teoria su di te» disse a Charlie. «Vuoi sentirla?» "Ecco che arriva la mazzata" pensò lui. «Questo è un paese libero.» «Ricordi quel ragazzino con il moccio al naso che ti tormentava sempre?» disse Isaac. «Che ti chiamava con tutti quei soprannomi, "Charlie Carbonella", "Grover Graticola"... Sai, avevo una dannata voglia di sparargli, a quel piccolo figlio di puttana.» Era un'osservazione stupefacente, considerato che veniva da suo padre: la cosa più vicina a un moto d'affetto che lui sentisse da anni. Si coglieva
già l'odore sulfureo della tempesta in avvicinamento. Un lampo, e da una torre di cumuli color violetto giunse un sordo brontolio. «La mia teoria è questa. Da tutta la vita aspetti di pareggiare il conto.» Picchiò il dito contro il petto di Charlie; con ostilità e insistenza. «Adesso hai la possibilità di vendicarti di tutti quegli anni di tormenti. Guardati, Charlie, sei il maledetto capo della maledetta polizia. E, come comandante di tutta la baracca, sei l'arbitro morale di tutta la maledetta città. Puoi ordinare di fare così e cosà, puoi cacciare in galera la gente, rompere le scatole a chi vuoi... compreso tuo padre.» Con ira, Charlie si ficcò le mani nelle tasche. «E perché dovrei rompere le scatole a te, papà?» La faccia rugosa del padre si voltò a cogliere l'ultimo raggio prima che il sole sparisse definitivamente dietro le nubi. «Per cose che forse ho fatto e forse non ho fatto in passato.» «Cose di che tipo? Per esempio, picchiare la mamma fino a farla svenire?» «Non sono un mostro, Charlie. Non dipingermi come se lo fossi.» Rivolse un'occhiata gelida alla folla. «Non hai idea di quello che ho passato con tua madre. Non puoi saperlo...» Charlie sentì fremere dentro di sé gli anni di collera. I ricordi di violenza. Con dolorosa chiarezza, gli tornò alla mente un'immagine: la faccia crudele di suo padre, le labbra sprezzanti. «La funzione è iniziata» disse con voce neutra. Si riunirono al gruppo, davanti alla tomba. Sam Deere aveva una cravatta chiara e un sorriso amaro; Tammy Deere aveva un'espressione così incredula e disperata che Charlie avrebbe voluto prenderla tra le braccia come un uccellino ferito. «Ci siamo raccolti in questo luogo di pace per rendere l'estremo saluto a un bravo tutore dell'ordine e a un figlio affezionato» cominciò il reverendo Cavenaugh. «Lester Deere camminava a testa alta, e tutti eravamo orgogliosi di lui...» Proprio in quel momento iniziò a piovere, e decine di ombrelli neri si aprirono come funghi. Quindici minuti più tardi, una volta calata la bara nella fossa e pronunciate le ultime parole d'addio, i genitori di Lester si avvicinarono a Charlie con la faccia addolorata e l'espressione ancora attonita per lo choc. Lui cercò qualcosa di ispirato da dire, ma nella testa gli si affacciarono solo le solite frasi fatte. L'argomento preferito di Lester era sempre stato se stesso, ma, proprio nel momento in cui ne avrebbe avuto
bisogno, Charlie non riuscì a trovare un solo aneddoto su cui basare qualche parola di conforto. «Eravamo orgogliosi di lui» disse, prendendo loro le mani. «Era un buon poliziotto e un caro amico.» «Allora lo proscioglierà da quelle accuse, vero, capo?» Charlie si rifugiò in alcune frasi di circostanza, e loro accolsero con immensa gratitudine quelle briciole, la qual cosa era assai più di quanto Charlie meritasse. Si allontanò, disgustato di se stesso, stanco di quella tensione. La sofferenza ti appiattisce come le ruote di un treno, e a volte la sola salvezza è una bottiglia piena con un bicchiere. Sapeva per esperienza che, non appena il dolore fosse guarito, qualcosa sarebbe spuntato per fargli rivivere un altro ricordo. Bastava la pioggia che con il suo odore gli ricordava i capelli della madre, il singhiozzo di uno sconosciuto che gli ricordava la risata della sorellina nella culla, e di nuovo la forza gli svaniva dalle gambe. Ormai pioveva forte. Si tolse il cappello, sollevò la faccia al cielo e lasciò che le gocce lo colpissero. Per qualche istante ebbe l'impressione di essere uscito dal proprio corpo... poi sentì il fischio delle gomme sull'asfalto e si voltò in tempo per vedere il Loadmaster del padre scomparire nella foschia. Si lanciò di corsa attraverso il trifoglio in fiore, oltrepassò un'aiola dissodata e arrivò al parcheggio del cimitero, dove saltò sull'unica auto civetta posseduta dalla polizia, una Chevrolet Cavalier giallo limone. Uscì dal parcheggio dopo il padre e seguì nella pioggia le sue luci di posizione rosse. Arrivò in vista del camioncino su un lungo rettilineo, con i tergicristalli che andavano furiosamente avanti e indietro. Era assurdo. "Mio padre colpevole di omicidio?" si domandò. Una follia. Le gocce di pioggia uscivano turbinando dalla nebbia come migliaia di dubbi. Un tempo Isaac era un uomo pessimo, ma adesso non si era pentito? Non aveva sofferto? Charlie sbagliava a dubitare di lui, sbagliava a sospettarlo colpevole di qualcosa che andasse oltre l'appropriazione indebita. L'orologio. Eppure, quale miglior alibi che trovarsi sulla scena del delitto, insieme a decine di altri cacciatori di tornado? E quale modo migliore per evitare le domande del figlio che metterlo sulla difensiva? "Ho una teoria su di te..." La strada scendeva dolcemente, poi risaliva altrettanto dolcemente fra campi verdi, pieni di bovini Angus, nelle vaste aree aperte a sud della città dove si trovavano poche fattorie a parecchia distanza l'una dall'altra. Che suo padre avesse ragione? Che tutta la sua carriera fosse stata mossa dal desiderio di vendicarsi? Perché non era rimasto a Tulsa? E perché entrare
nella polizia, per prima cosa? Per scoprire la verità... la verità su quanto era successo quella notte... la notte dell'incendio. Se l'era chiesto per tutta la vita... aveva sepolto i suoi dubbi anno dopo anno... Charlie seguì le luci di posizione del padre, cercando di tenersi a una distanza di almeno trenta metri per non essere scoperto. Passò davanti a negozi di mangimi e a concessionarie di trattori e i suoi timori aumentarono quando vide, sul piano di carico del pickup, un sacco scuro di quelli per l'immondizia. Mentre il vento agitava la plastica del sacco, non poté fare a meno di pensare al modus operandi dell'assassino. Aveva portato con sé le schegge di legno utilizzate per i delitti: gambe di sedie, colonnini di ringhiera, pali di staccionata. E come li aveva portati? In un sacco per l'immondizia, sul ripiano del suo camioncino? Il Loadmaster rallentò, poi svoltò lungo una strada piena di curve che portava alla discarica cittadina. Quando frenò per seguirlo, Charlie si accorse di essere accaldato per la tensione. Oltrepassarono una rete, dietro cui due montagnole di cenere, una per lato, crescevano implacabili come ghiacciai, e l'aria divenne fetida per la puzza di frutta marcia e il fumo della legna che bruciava. Arrivarono a un'ampia radura, dove il Loadmaster si fermò con stridore di gomme. Da qualche decina di metri di distanza, Charlie osservò il padre che scendeva dal veicolo, prendeva il sacco dell'immondizia, lo portava giù per la scarpata e scompariva alla vista. Spense il motore e scese a sua volta. La pioggia, gelida e pungente, lo colpì sulla faccia e gli scivolò lungo il collo. Prese un impermeabile di plastica dal sedile posteriore e seguì Isaac. Al di là delle collinette di rifiuti che bruciavano, i campi di grano ondeggiavano al vento e si piegavano sotto la pioggia. Quando si avvicinò al pickup, il fumo dell'immondizia che bruciava gli fece lacrimare gli occhi. Una rapida occhiata non gli rivelò nulla. Il cofano e i parafanghi erano pieni di ammaccature causate dalla grandine; le gomme Michelin erano nuove. Una pila di giornali bagnati era appoggiata a una borsa termica da picnic in fondo al piano di carico, accanto a una cassetta degli attrezzi e a una pala arrugginita. Charlie non aveva l'autorità legale di perquisire il camioncino, dato che le sue ragioni per farlo non si basavano su prove sufficienti. In mancanza di un mandato, non si poteva perquisire un veicolo o prelevarne qualche oggetto senza il permesso del proprietario. Le perquisizioni dei veicoli a motore causavano sempre gravi problemi in tribunale, perciò occorreva limitare la ricerca a quello che si poteva vedere dai finestrini.
Sul sedile c'era soltanto l'attrezzatura per dare la caccia agli uragani. Né macchie di sangue, né tracce di sfregamento, né armi, a quanto poteva vedere. Mentre arrivava all'orlo della scarpata, un fulmine sopra di lui annullò le ombre: guardando in basso, scorse lo Stetson del padre. Isaac parve esitare un momento, prima di gettare il sacco lungo la discesa. Charlie lo osservò rotolare fino a fermarsi contro un vecchio sgabello da piano. Adesso che era ufficialmente abbandonato, poteva recuperarlo e controllarne il contenuto. «Papà?» Isaac si voltò con grande stupore. «Che c'è nel sacco?» Il padre si girò verso di lui, sforzando la vista; la pioggia gli colpì la faccia e lo costrinse a battere gli occhi. «Niente che ti riguardi, maledizione!» «Papà» gli disse Charlie mentre scendeva lungo la scarpata scivolosa «non ho bisogno di un mandato per guardare in quel sacco.» «Ma che cosa fai?» gridò Isaac. «Mi spii perfino quando butto l'immondizia?» 15 Con il battito accelerato e il corpo teso al massimo dell'attenzione, Charlie scese lungo il pendio, scivolando sulle bucce di patata e i fondi di caffè, cercando di non badare ai pensieri cupi che gli si insinuavano nel cervello. «Che c'è nel sacco?» ripeté. «Niente che t'interessi, maledizione.» «Fammi passare, papà.» Isaac lo guardò con ira. «Va' al diavolo.» Charlie passò di fianco al padre e scese fino al sacco, poi lo aprì con un calcio; ne uscirono decine di bottiglie - vodka, whisky - che puzzavano di alcol. Alcune rotolarono ancora più in basso, urtandosi tra loro. Charlie si voltò, con aria affranta. «Da quando hai ripreso a bere?» Isaac distolse lo sguardo. Un forte rossore gli salì alla faccia. «Non ho mai smesso.» Un pesante silenzio scese su di loro mentre si fissavano come a volte fanno i bambini. Poi il padre lo guardò con aria malevola e distolse gli occhi. Charlie sentiva avvicinarsi la tempesta: un odore metallico che faceva pensare al rame bagnato. Nell'aria c'era uno strano calore, quello che precede l'uragano.
«Adesso ti chiederò una cosa» disse «ma voglio la risposta esatta.» La faccia di suo padre era coperta di sudore. «Cos'è successo il 15 aprile?» Il padre lo guardò con espressione offesa. «Sai benissimo dov'ero quel giorno. Te l'ho già detto.» Charlie annuì. «E l'11 maggio?» «Quel fronte di tempesta ha prodotto quattro tornado in tre Stati, se ben ricordi. Io non mi sono spinto più a sud di Ardmore e Durant. Ho rincorso falsi allarmi per tutta la notte.» «Puoi dimostrare che quella notte non sei stato nel Texas?» «Come posso dimostrare qualcosa che non ho fatto?» «Ti sei fermato a fare benzina, a mangiare o a dormire? Hai parlato con qualche altro cacciatore di tornado?» «Quello che intendi realmente sapere...» il padre lo fissò negli occhi «è se sono un assassino a sangue freddo? La vera domanda è questa, non è così?» Sembrava assurdo, detto da suo padre. Charlie sentiva l'impulso di abbracciarlo, di stringerlo a sé, e la domanda successiva gli metteva paura. Sentì un nodo alla gola. Tutt'intorno a loro, i fuochi ardevano nelle montagnole di cenere. «Be'?» Inghiottì a vuoto. «Lo sei?» Gli occhi di Isaac si ridussero a due fessure. «Nella mia vita mi hanno chiamato in mille modi, Charlie. Posso essere un gran figlio di puttana, ma certo non ho abbastanza ghiaccio nelle vene per quel tipo di hobby.» «Voglio crederti, papà.» Mentre aggrottava la fronte, la faccia di Isaac si coprì di rughe. «Vaffanculo.» Si strinse nel vecchio impermeabile e fece per risalire la scarpata, ma Charlie lo prese per il braccio e lo costrinse a girarsi. «Che cos'è successo la notte che la nostra casa è bruciata?» La faccia ostinata di Isaac si chiuse come un pugno. «Sono cose che preferiresti non sapere.» Charlie gli strinse il braccio finché non lo vide trasalire e non gli sentì tirare il fiato attraverso i denti finti. «Non ti lascio andare se non me lo dici.» Isaac si divincolò con uno strattone e si aggiustò l'impermeabile stropicciato, poi si raddrizzò il cappello sulla testa. «Avevo i miei sogni» rispose con collera. «Grandi sogni, Charlie. Volevo vedere il mondo. Entrare nella Guardia costiera. Le navi, l'oceano... ecco cosa mi faceva bollire il sangue. Ma per colpa di calcoli sbagliati, Adelaide rimase incinta.»
Charlie sentiva il sangue pulsare sotto la pelle sottile delle tempie, mentre brandelli di rifiuti svolazzavano sollevati dal vento e il rumore della pioggia diveniva più forte. «Rimanemmo incastrati. Fu uno di quei matrimoni con il fucile alla schiena. Io onestamente le volevo bene, ma il matrimonio? È un impegno serio.» Guardò il figlio e le rughe intorno ai suoi occhi si fecero più profonde. «Ricordi la malattia di tua madre, vero?» Charlie trasalì. «Che malattia?» «Malattia di nervi, la chiamavano. Ricordi quanto riuscisse a essere insopportabile? Piena di sé? C'erano giornate in cui non aveva voglia di alzarsi dal letto neppure per bollire un uovo. Altre volte schizzava per tutta la casa cercando di fare cento cose insieme.» Charlie sentiva nella testa il ronzio di un'attività frenetica, come un milione di mosche intrappolate in un vasetto. «Quando aveva questi alti e bassi, non si poteva ragionare con lei.» Isaac si massaggiò il mento. «In quei momenti io me ne andavo. Che cuocia nel suo brodo, mi dicevo. Non capivo quanto fosse malata. Con le malattie mentali è sempre così. Tu pensi che una persona cerchi di darti fastidio volutamente. Pensi che abbia il controllo delle sue emozioni...» Charlie aveva i vestiti umidi di sudore; ora la pioggia gelida gli scivolava lungo il collo. «Divenne un circolo vizioso» disse il padre, in tono distante. «Lei era depressa e io andavo a bere. Io andavo a bere e lei era depressa. Poi un giorno, non ricordo il motivo esatto...» Si passò la lingua sulle labbra secche. «Mi vergogno di me. Un giorno, ho l'impressione di aver esagerato.» "Brutto bastardo bugiardo" pensò Charlie. "L'hai violentata, intendi dire." Cercò di inghiottire, ma aveva la bocca troppo secca. Il vecchio aveva lo sguardo perso nelle nebbie della memoria. «Quella notte, tua madre si prese una sorta di vendetta orrenda. Terribile, autodistruttiva. Non sono mai riuscito a piangere per l'accaduto. Era troppo spaventoso. Le autorità non hanno mai sospettato che l'incendio fosse doloso. Dissero che era stata colpa di un corto circuito e del troppo materiale in cantina. Lampade a petrolio e prese difettose. Io non ho mai raccontato nulla. Per quale motivo avrei dovuto farlo? Avevamo bisogno dei soldi dell'assicurazione. Perché punire noi di quanto aveva fatto quella povera anima tormentata?» «Bugiardo!» Charlie si lanciò contro di lui e finirono entrambi a terra, in una confusione di braccia e di gambe. Rotolarono sui mucchi di spazzatura
e di cenere finché non giunsero in fondo, dove i fiori di luppolo spuntavano dallo strato grigio. Afferrando il padre per il colletto, Charlie gli gridò: «Maledetto bugiardo!». Lo Stetson venne portato via dal vento. Isaac fissò il figlio con disperazione. «L'ultima cosa che ricordo è di essermi addormentato su di lei. Quando mi svegliai, la stanza era piena di fumo. Così denso che non si riusciva a respirare. Saltai giù dal letto e corsi alla porta, e allora la vidi... con i capelli che le coprivano la faccia. E le fiamme che salivano da dietro di lei, dalla scala. Spaventoso. Nei suoi occhi non c'era più alcuna luce... non un briciolo di ragione, Charlie. Mi fissò e se ne andò, e fu l'ultima volta che la vidi.» Il fiato del padre sapeva di limone, ma anche di alcol; questo lo disgustò. Il trucco più vecchio del mondo. Come aveva fatto a non accorgersene? Lo afferrò per il collo e strinse, con il cuore che ribolliva di odio. «Charlie...» Soffocò le parole che il vecchio stava per dire; tremava di collera e ansimava, mentre Isaac cercava disperatamente di liberarsi dalla stretta. Le labbra del vecchio diventarono blu. Tentava di divincolarsi, ma era debole e impotente. La faccia odiosa e sprezzante. Le narici dilatate. In un attimo, Charlie pensò che avrebbe potuto spezzargli il collo, togliergli il respiro per sempre. "Qual è il suono del niente? Qual è il suono del niente, brutto bastardo?" Inghiottì a vuoto e strinse ancora. "Smettila, lo stai uccidendo..." Ritornò all'improvviso in sé e si alzò, barcollando. Umiliato. Furioso. Con le mani che gli tremavano per la rivelazione. La constatazione di quanto fosse terribile scoprire i propri istinti più bassi. Alzò gli occhi verso il cielo coperto di nubi, poi li abbassò sulle colline vicine, dove i cespugli e le querce nane erano anneriti dalla fuliggine della spazzatura che bruciava. "Controllati. Resisti" si impose. «Charlie?» ansimò il padre. Dietro i suoi occhi si leggeva una lotta terribile. Senza cappello, i ciuffi di capelli bianchi e bagnati gli si erano incollati alle guance. «Aiutami ad alzarmi.» Charlie gli tese la mano. «Perché non me l'hai mai detto?» domandò con la voce roca. «Maledetto idiota, perché non me l'hai mai detto?» «Charlie, seriamente, credi che sarebbe servito a qualcosa?» Si fissarono, mentre il vento soffiava su di loro e una cupa constatazione passava dall'uno all'altro. Come se fosse qualcosa nell'aria. Quando il cellulare suonò, Charlie sentì improvvisamente il dolore alla
testa, come una corona di punte di coltello. «Pronto?» rispose bruscamente. «Charlie?» disse una voce femminile, con esitazione. «Sono Peg. Senti, sono a casa tua...» Pareva senza fiato. Charlie se la immaginava appoggiata al tavolo della cucina, nella sua tuta da jogging blu e gialla, anche se non aveva mai fatto un minuto di jogging in vita sua. «Che cosa c'è, Peg? Stavo facendo una cosa.» «Sophie non c'è. Doveva essere a casa, ma non c'è.» Charlie sentì un brivido d'allarme lungo la schiena. «Dovevamo andare a fare compere, oggi pomeriggio. Avevamo già combinato.» Charlie evitò di incrociare lo sguardo del padre. «Hai controllato in cortile?» «In cortile, di sopra, in cantina. Ho trovato un biglietto.» «Che biglietto?» «C'è scritto che è andata a caccia di uragani.» «A caccia di uragani?» gridò Charlie. «Tutta sola?» «Dice soltanto che è andata a caccia di uragani, punto.» Charlie si sentì invadere da una forte apprensione, quella che ti coglie quando succede qualcosa di completamente inatteso. «Ha preso l'auto?» «No, è ancora parcheggiata davanti alla casa» rispose Peg, con voce irritata. «E dire che per uscire con lei ho rinunciato a una partita a bridge.» La paura echeggiava nella mente di Charlie come un campanello d'allarme. "Boone Pritchett" pensò. Doveva essere andata a caccia di uragani con Boone Pritchett. L'odioso ragazzino aveva la gamba ingessata e non poteva guidare. La loro auto era parcheggiata davanti alla casa. Il pickup rosa di Boone era completamente distrutto, ma il padre ne aveva uno più grosso: Charlie lo conosceva bene perché lo aveva fermato molte volte. E Sophie sapeva guidare. Ma, onestamente, l'avrebbe fatto? Era in collera con lui, ma sarebbe arrivata a disobbedirgli lasciandogli un semplice biglietto? Che ormai l'avesse completamente persa? «Resta lì» disse a Peg. «Ti richiamo subito.» Riagganciò e chiamò Willa al laboratorio, ma trovò la segreteria. Con impazienza, la cercò sul cellulare. Isaac tentava di ascoltare, con aria preoccupata. «Che cos'è, Charlie? Che cosa succede?» Trovò la segreteria anche sul cellulare e lasciò un messaggio: «Sono io. Chiamami appena mi senti». Infine, con le dita che gli tremavano, compo-
se il numero del cellulare di Rick Kripner. «Pronti.» «Rick? Sono Charlie Grover.» «Salve» rispose con calore Rick. «Che cos'è successo?» «Penso che mia figlia sia nei guai. È andata a caccia di uragani senza il mio permesso, aveva il divieto di uscire. Credo che sia con Boone Pritchett» aggiunse, con la voce che gli tremava. «Devo rintracciarla subito.» «Mmh. Probabilmente si saranno diretti a ovest» disse Rick. «Ovest?» «Oggi pomeriggio è arrivata una segnalazione di area rossa per il Texas orientale.» «Che cos'è un'"area rossa"?» «Avviso di tornado. Significa che le condizioni sono favorevoli.» Charlie chiuse con forza gli occhi. «Dov'è Willa?» «Sta lavorando nella galleria a strato limite.» «Puoi dirle che l'ho chiamata?» «Sì, certo. Posso fare altro?» «Forse sì. Oggi pomeriggio vai a caccia di uragani?» «A dire il vero sono già per strada. Perché?» «Bene. Daresti un'occhiata per me, nel caso incontrassi mia figlia?» «Certo. Che veicolo è?» «Un grosso pickup Ford color ruggine con targa dell'Oklahoma.» «Certo. Starò all'erta.» «Mi chiami se lo vedi?» «Sicuro.» Charlie chiuse la comunicazione. Aveva un'espressione allucinata. «Sophie è in qualche guaio?» Isaac batteva le palpebre per liberarsi gli occhi dalle gocce di pioggia. «Mi vuoi dire qualcosa o no?» Charlie s'infilò in tasca il cellulare. «Vieni con me.» Afferrò il padre per l'impermeabile sudicio e lo spinse in cima alla collinetta. «Dove diavolo stiamo andando, adesso?» «Mi stai portando a caccia di uragani, papà.» 16 «Hai freddo?» Sophie rabbrividì. «Un po'.» «Vuoi il mio giaccone?»
«No, grazie» rispose lei, educatamente. «Chi era al telefono?» «Un collega cacciatore.» Rick Kripner la guardò con profondo interesse attraverso gli occhiali dalla montatura di metallo. «Sicura di non volere il giaccone?» «No, grazie, sto bene così.» Cercò di non tremare. La camicia di flanella di Rick era ben infilata nei jeans, ma il vento che entrava dal finestrino gli aveva spettinato i capelli. Si tolse gli occhiali e si massaggiò le due macchie di pelle rosa all'attaccatura del naso. Senza gli occhiali era più carino, pensò Sophie, con grandi occhi castani e un bel sorriso, e la corporatura sorprendentemente muscolosa. Abbastanza bello, in effetti, da far venire un accidente a Boone. Pritchett l'aveva piantata tre giorni prima senza scomodarsi a spiegarle il perché. Le aveva semplicemente detto che era finita. Sophie era impazzita per capirlo. Non aveva pianto tanto dal giorno in cui era morta sua madre. Boone non le rispondeva al telefono e a scuola non voleva parlarle. Lei sospettava che suo padre ci avesse messo lo zampino. Quel giorno Boone non si era presentato alle lezioni e Sophie pensava che fosse andato a caccia di uragani con uno dei suoi amici. Così, quando Rick era passato e l'aveva invitata a caccia, lei aveva accettato immediatamente. Se si fossero imbattuti in Boone e lui l'avesse vista con Rick sarebbe impazzito. E a quel punto, forse, si sarebbe reso conto di amarla. Sophie non riusciva a smettere di tremare. Sull'interstatale pioveva forte, e al momento di uscire di casa, in mezzo a tutta l'emozione, si era dimenticata di prendere il golf. Ora l'aria fredda che penetrava all'interno le faceva venire la pelle d'oca. Erano sul Sierra nero di Rick, un pickup a quattro ruote motrici, irto di antenne, e lei cominciava a pentirsi della propria impulsività. Suo padre si sarebbe infuriato. "Bene" si disse Sophie. "Che pensi pure il peggio. Che soffra come ho sofferto io." «Che cosa sono tutte queste attrezzature?» domandò. Il petto di Rick si gonfiò d'orgoglio. «Qui abbiamo quello che si può considerare l'equipaggiamento fondamentale di una tornado-mobile pronta per mettersi al lavoro. Il radar doppler in banda C, con impulsi da 350.000 watt; la radio... e questa Icom 2100 è grande. Ha una sintonia con codifica e decodifica di frequenza, memoria alfanumerica. Splendide prestazioni. Poi c'è un sistema per la localizzazione satellitare di un veicolo in movimento, un cellulare Nokia con il collegamento al portatile per il contatto continuo con il Nexrad, un telefono satellitare per l'accesso ai dati sul clima dai punti del Tornado Alley dove non c'è campo per il cellulare. Un'an-
tenna per avere polarità omnidirezionale sull'orizzonte. Una telecamera con registratore a mini DVD con montatura stabilizzata per registrare la caccia senza che l'immagine balli... E che altro, vediamo... Un navigatore satellitare per trovare la strada in qualunque territorio sconosciuto. Un palmare Cassiopeia per il collegamento wireless a Internet, un monitor piatto a cristalli liquidi da quindici pollici e...» fece un sospiro «un mucchio di eleganti software.» «Uau!» esclamò lei, ridendo. «Sei davvero uno smanettone.» «Il termine giusto è "aficionado delle trombe d'aria", ragazzina.» Lei rise. «D'accordo, signor Aficionado.» «Vedi quei rotoli trasversi?» Attraverso il parabrezza sferzato dalla pioggia, Sophie si sforzò di osservare il cielo, in direzione delle nubi che parevano intente a parlarsi fitto fitto, tanto si addensavano. «Ecco... là dietro... ora assisterai alla nascita di una supercella megatornadica.» «Mega che?» «Megatornadica.» «Alla faccia!» Rick la guardò e sorrise. «Ragazza intelligente. Vedi quella fila di mammatus che segue la supercella?» «Mammuth?» «Mammatus.» Le rivolse un sorriso storto. «Sapevi che una debolezza nel flusso ad alto livello permette a una tempesta di riciclare le particelle delle precipitazioni, trasformandole in quelle che sono note come masse EP?» Lei roteò gli occhi. «È un termine scientifico che non conosco. "Masse EP"?» «Basta chiedere.» «Sei davvero un secchione.» Poi gli rivolse un sorriso di scusa. «Ma non preoccuparti, anch'io mi difendo bene.» «Allora sono in buona compagnia. Ehi» disse Rick «tremi come una foglia. Prendi il mio giaccone. E niente discussioni.» «Ma così avrai freddo tu» protestò lei. «A caval donato non si guarda in bocca.» Si sfilò il pesante giaccone da marinaio tenendo sempre una mano sul volante; prima uno, poi l'altro braccio. Lo passò a lei. «Mettilo» le disse. «Mio nonno ne ha uno uguale.»
«Tutte le grandi menti ragionano allo stesso modo.» Nonostante il timore di Sophie, il giaccone non pungeva affatto e le maniche avevano un vago profumo di pino. Quando se lo infilò, la catena della sua collanina d'argento s'agganciò al tessuto. Sophie si affrettò a prendere il medaglione, ma con sua sorpresa le rimase in mano. «Oh, no» mormorò. «Cos'è successo?» «S'è rotto il gancio.» «Posso riparartelo.» «Sei capace?» Lui annuì. «Siamo diretti laggiù.» «Laggiù dove?» «Al reparto di studi eolici.» Tese la mano. «Vado dentro e te lo aggiusto subito. Puoi aspettare nel pickup. Ci metto un secondo.» Lei lo guardò con una leggera preoccupazione. «Non me lo sono mai tolto» disse. «Almeno da quando è morta mia madre. Non so cosa farei, se dovessi perderlo. Grazie.» «Nessun problema.» Lei gli consegnò la collanina. Pochi istanti più tardi sentì che tutto il suo corpo cominciava a rilassarsi al tranquillo mormorio del motore, mentre la pioggia scendeva dal cielo sotto forma di pennellate verticali. DENTRO IL TORNADO 1 Stringendo il cellulare tra la spalla e il collo, Charlie viaggiava a centotrenta chilometri l'ora sulla I-40. Le nubi di tempesta erano di un grigio piombo, solo lungo l'orizzonte assumevano una sfumatura color bronzo. Non riusciva a interpretare il cielo. Come poliziotto era in grado di leggere il linguaggio del corpo e della faccia, ma non quello del cielo. L'umidità incollava i vestiti alla pelle. La pioggia oscurava l'aria come un'invasione di moscerini. Parlava al telefono con Mike e cercava di sembrare razionale. «Boone Pritchett è partito con mia figlia nonostante glielo avessi proibito espressamente. Entrambi se ne sono infischiati delle mie parole.» «Vuoi che li cerchiamo?» «Sì, roviniamo la giornata al ragazzino.» «Sono d'accordo con te.»
Charlie riattaccò e continuò a guidare in silenzio, chiuso nella sua preoccupazione. Isaac bevve un sorso dalla fiaschetta da viaggio. «È con Boone Pritchett?» Charlie lanciò un'occhiata nella sua direzione. «Lo conosci?» «Uno stronzetto punk pieno di sé.» Isaac aggrottò la fronte. «Sophie mi ha parlato dell'incidente. Oggigiorno, ogni imbecille con quattro ruote sotto il culo vuole diventare un cacciatore di tornado. Non ci sono patenti o certificati, e alcuni di quei dilettanti si credono i padroni della strada.» Guardò Charlie come se avesse qualcos'altro da dirgli. Qualcosa di importante che voleva confessargli, ma Charlie non era nello spirito adatto. Era consumato dalla preoccupazione per la figlia. «Quella prima notte all'ospedale non mi permisero di vederti finché non mi fossi lavato da cima a fondo.» Charlie continuò a fissare la strada. Non aveva voglia di ascoltare il padre. «Mi dovetti lavare le mani e la faccia, infilare un camice di carta. Dissero che le tue possibilità di sopravvivenza erano del cinquanta per cento. Ricordo che, quando entrai nel reparto di rianimazione, sul letto c'era un bambino irriconoscibile. La pelle gli veniva via. Tubicini da tutte le parti. Macchine rumorose. E io riuscivo a pensare soltanto: "Cinquanta per cento. Cinquanta per cento...".» Scosse la testa. «Rimasi accanto al letto e ti tenni la mano... quella che non era bruciata.» Si girò verso di lui. «Ricordi qualcosa?» Charlie gli fece segno di no. «Non permettevano di portare giocattoli all'interno della stanza. Per il rischio di infezione. E neanche fiori, né giocattoli, né dolci. Con una sola eccezione: i palloncini. Non chiedermi perché, ma i palloncini erano permessi.» Sorrise debolmente al ricordo. «Così uscii e andai a comprarne un mucchio. Di tutti i colori dell'arcobaleno.» Charlie guardò il padre e pensò al baule, ai palloncini sgonfi. Si poteva imparare a vivere con le cicatrici, ma non con la sofferenza che ti si è ancorata nel cuore. «Mi dispiace per tutti quegli anni che non posso cancellare» disse Isaac, con la voce roca. «E mi dispiace di averti nascosto la verità.» Il cellulare di Charlie squillò proprio in quel momento, interrompendo quella straordinaria confessione. «Mike?» rispose, premendo il pulsante della comunicazione. Serrò le dita sull'apparecchio. «Sophie è a posto?»
«Ho appena parlato con Boone Pritchett, capo. Ho telefonato a casa sua e giura di non avere visto tua figlia.» «Mente.» «Ho mandato Tyler a controllare.» «No, manda Hunter con qualcun altro. E di' loro di fare attenzione. Si tratta di mia figlia. Chiamami appena arrivano.» Chiuse la comunicazione e sentì sulla faccia un soffio di aria gelida. «Cos'è successo?» domandò Isaac, quando Charlie schiacciò il freno. «Che cosa fai?» «Torno indietro.» «Perché?» «Non è andata a caccia di uragani. Era un trucco.» «Un trucco?» «È ancora in città.» Fece il numero di Rick. «Pronti.» «Ehi, sono di nuovo io. A quanto pare, Sophie non è andata a caccia di uragani. Tanto per fartelo sapere.» «Non è andata?» «No. Perciò, non preoccuparti.» «Va bene, grand'uomo. Se lo dici tu.» «Grazie, Rick.» Charlie chiuse la comunicazione. «Chi era?» domandò Isaac. «Rick Kripner.» «Vuoi dire il Bambino Miracolo?» Charlie lo guardò. «Come?» «È il suo soprannome alla radio CB. "Bambino Miracolo."» «Come sarebbe a dire?» «Diciassette o diciotto anni fa, a Wewoka, quel ragazzo è sopravvissuto a un F5. Perciò, nei giornali l'hanno chiamato il Bambino Miracolo.» «Wewoka? Non intendi dire Pixley?» Isaac scosse la testa. «Una volta compravo i cavalli da un allevatore di Wewoka, per questo mi ricordo il nome della città. C'era in tutti i giornali. Quel giorno andarono distrutte cento case e morirono ventisei persone, compreso il padre di Rick.» Gli rivolse un sorriso. «Rick volò via da una casa e atterrò su un campo senza farsi niente.» Charlie si irrigidì. «Non è esattamente la storia che ha raccontato a me.» «Sì, be', probabilmente si vergogna di ammettere che il padre era un ladro.»
«Come? Aspetta un attimo. Torna indietro e riprendi dall'inizio.» «Il padre di Rick Kripner era uno svaligiatore, a quanto si è scoperto. Negli anni Settanta e all'inizio degli anni Ottanta, in tutto il Tornado Alley dava la caccia alle tempeste per cercare qualche casa da svaligiare. Entrava dentro, con la più grande faccia di bronzo che si possa immaginare, e approfittava del fatto che la maggior parte della gente era chiusa in cantina o nello sgabuzzino, troppo spaventata dall'arrivo della tromba d'aria per fare altro che nascondersi. Rubava l'argenteria e il resto. Penso che portasse con sé il ragazzo, perché un giorno, mentre svaligiava quella casa di Wewoka, il tornado l'ha colpita in pieno. Morirono sei persone, solo il ragazzo sopravvisse. La stampa dà sempre dei nomignoli» continuò Isaac. «Il Bambino Miracolo. Anche se la gente non se ne ricorda più.» Si toccò la testa. «Qui dentro ho un mucchio di queste informazioni inutili.» Senza fiato, Charlie richiamò il numero di Rick sul cellulare, ma gli rispose la segreteria. Con la mente in subbuglio, chiamò Peg Morris. «Charlie?» si lamentò lei. «È un'ora che aspetto come una scema che tu mi richiami.» «Leggi il biglietto, Peg» la interruppe lui. «Cosa?» «Il biglietto. Leggimelo.» Sentì che la donna cercava gli occhiali. «Dice: "Fuori a caccia".» Si sentì invadere dalla paura. «Nient'altro?» «No. Tre parole: "Fuori a caccia".» Charlie ricordò l'ufficio di Rick, la nota scritta a mano con il pennarello che diceva: "Fuori a caccia". «Mi puoi fare il favore di rimanere lì, Peg?» «Charlie, mi sembri un po' scosso. Sophie sta bene?» «Aspettaci lì.» Chiuse la comunicazione e chiamò di nuovo Mike. «Senti, c'è un nuovo sviluppo. Devi diramare un ordine di ricerca per il pickup GMC Sierra nero di Rick Kripner. Puoi farti dare il suo numero di targa dal Registro automobilistico, o magari dal laboratorio del vento del Dryden Tech.» «Che succede, capo?» «Penso che possa essere andata a caccia di uragani con lui e non con Boone Pritchett.» Mike tacque per alcuni istanti, perplesso. «Ed è andata volontariamente?» «Senti, se è andata come penso... si è presentato a casa mia senza essere
invitato.» Al pensiero, tutti i suoi muscoli si tesero. «Non so dove siano andati. Non so cosa stia succedendo. Devo trovarla il più presto possibile. Quel tizio è sulla trentina... per quale motivo avrà invitato una ragazzina che ha la metà dei suoi anni?» «Va bene, capo. Non preoccuparti. Me ne interesso io.» «Segui entrambe le tracce e poi richiamami.» Charlie tornò a infilarsi in tasca il cellulare. Il padre lo guardò di traverso. «Non sarà mica in pericolo?» «Non lo so, papà. Smettila di fare domande.» Con crescente apprensione, compose il numero del cellulare di Rick, ma gli rispose di nuovo la segreteria. Fissò davanti al camion le linee argentee e inclinate della pioggia, e cominciò a mettere insieme gli elementi: Rick aveva eccezionali competenze nella caccia agli uragani; usava la mano destra; aveva i capelli castani di lunghezza media. E il numero di scarpe? Charlie non era in grado di dirlo. Era molto ordinato e ben organizzato, scientificamente meticoloso, compilava elenchi di tutto ciò che riguardava i tornado e complesse statistiche sui morti. Era un appassionato cacciatore e, il particolare più sospetto, era stato lui a suggerirgli la pista Gustafson. Prima glielo aveva segnalato e poi aveva seminato le prove contro di lui. Gli venne in mente un particolare. «Papà, dove hai messo il tuo giaccone da marinaio?» «Ah, il mio portafortuna? Devo averlo perso chissà dove, maledizione» rispose. «Da allora mi va tutto storto.» A Charlie girava la testa. «Ricordi di avere incontrato Rick Kripner, quando l'hai perso? Gli hai parlato oppure l'hai visto passare?» Isaac aggrottò la fronte. «Di tanto in tanto ci siamo incrociati. Perché?» «E l'hai visto quando ti è sparito il giaccone?» «Dove vuoi arrivare?» domandò Isaac. Charlie cercò di dominare la paura e scosse la testa. Smoke Gets in Your Eyes era stato espressamente scelto per il titolo, e così il disco successivo, I'm on Fire. Come dire: "Messaggio per Charlie. Ehi, capo, so tutto di te. Ti vedo e sorveglio ogni tua mossa". Il modo di camminare e la camicia abbottonata anche con il caldo. Tutto suggeriva un grande dolore di cui non parlava mai. Insieme al padre, il piccolo Rick Kripner aveva imparato a intercettare i tornado e a saccheggiare le case nel momento di massima vulnerabilità degli occupanti. Ricordò la telefonata della signora di Dime Box, Texas: "Eravamo lag-
giù, ammucchiati dentro lo sgabuzzino, spaventati a morte, quando guardai dallo spiraglio della porta e vidi un omino che girava in casa nostra. Pensai che fosse un elfo... che avessimo in casa un elfo... ma adesso credo che fosse piuttosto un bambino...". Il piccolo Rick e suo padre che davano la caccia agli uragani, che si introducevano nelle proprietà altrui e le derubavano mentre suonavano le sirene della città e cresceva la minaccia del disastro. Poi, un giorno, Kripner padre aveva esagerato. Un mostruoso F5 aveva colpito la casa e Rick e suo padre erano stati scagliati come fuscelli nei campi circostanti. "Il Bambino Miracolo." Il trauma e la morte del padre dovevano averlo portato alla follia. Aveva già fatto un patto con il diavolo aiutando il padre a derubare delle persone indifese e non doveva essere stato difficile salire nella scala della violenza. Dal furto alla crudeltà verso gli animali. E dall'uccisione degli animali a quella degli esseri umani. "Fuori a caccia." Chi aveva già scritto quella frase? Rick Kripner. Merda, e adesso sua figlia... No, era inconcepibile. Era ridicolo. Un'altra corsa dietro il serpente di mare. Non Rick. Charlie doveva controllare. Gli servivano altre prove. La dimostrazione che fosse possibile. Si portò nella corsia di destra, preparandosi a uscire allo svincolo successivo. «Dove diavolo vuoi andare, adesso?» si lamentò Isaac. «A Pixley.» «Pixley? E cosa pensi di trovare, a Pixley?» «Una risposta, mi auguro» replicò Charlie. 2 Charlie imboccò una stradina dissestata che attraversava i binari della ferrovia e passava in mezzo a un campo pieno di fiori rossi. Pioveva forte, quando si fermarono davanti alla casa di Rick Kripner. Tra gli scrosci di pioggia, studiò la vecchia abitazione. La porta del capanno degli attrezzi era rotta, il tetto del granaio era sfondato. La sgraziata casa vittoriana sorgeva in splendido isolamento in mezzo a centinaia di ettari di campi incolti. Dal tetto sporgevano alcuni abbaini con il tetto di rame; in cima s'innalzava una banderuola segnavento. I vetri colorati delle finestre ripetevano un motivo di azalee; sopra la porta d'ingresso, la lampada sembrava un faro in mezzo a un fortunale. «Resta dentro» disse al padre.
«Dove vai?» «Torno subito.» Scese dal furgone, con la pioggia che gli batteva con un suono secco sul cappello. Alla scarsa luce del giorno, la facciata sembrava una maschera mostruosa: il portico era la bocca dall'espressione infelice, la porta il naso, le finestre gli occhi. Charlie salì rapidamente gli scalini, poi si fermò ad ascoltare il rumore della pioggia che si raccoglieva nelle grondaie di alluminio. Oltre il rumore dell'acqua si distingueva un suono metallico; Charlie alzò lo sguardo nella direzione da cui veniva. Decine di campanelle erano appese alle travi del portico e tintinnavano al vento; con le loro note dissonanti gli fecero correre un brivido lungo la schiena. La porta d'ingresso era pesante, e accanto a essa, su entrambi i lati, c'erano due finestrini stretti e alti, anch'essi di vetro colorato, ma dalla superficie smerigliata. Batté il pugno sulla porta; quando non venne nessuno ad aprire, raggiunse una finestra e guardò all'interno, appoggiando le mani al vetro per evitare i riflessi. Quello che vide lo stupì: il davanzale era rovinato, come se qualcuno l'avesse colpito con un'accetta. Una delle pareti portanti, nella piccola stanza rettangolare dietro la finestra, era priva di intonaco e si scorgevano le vene e le interiora della casa: fili a vista, tubature che perdevano. Tornò alla porta e batté il pugno sul pannello di quercia. «Polizia! Aprite!» Non avendo risposta, provò ad aprire e scoprì che non era chiuso a chiave, poi, sulla soglia, ebbe qualche istante di esitazione. "Al diavolo la causa sufficiente" si disse, ed entrò. «Sophie?» gridò nell'immensa sala d'ingresso. «Sei qui?» Tacque, ma gli rispose solo l'eco delle sue parole. Il soffitto, alto quasi quattro metri, era decorato a cassettoni e il pavimento di legno aveva ancora le assi di quercia originali. Un improvviso frullio d'ali fece trasalire Charlie, ma era solo un piccione che volava via, sopra la scala centrale. Dalla ringhiera di legno mancavano alcuni colonnini: rimanevano solo le schegge alle estremità, come se fossero state strappate via. Con timore crescente, Charlie aprì la fondina della pistola e raggiunse la stanza che aveva visto dalla finestra; si fermò sulla soglia. Sembrava che qualcuno avesse infierito sulle pareti. Gli stucchi parevano spaccati a martellate e in alcune zone l'intonaco aveva ceduto lasciando intravedere le strutture portanti. Non si vedevano mobili, solo una scala appoggiata contro una parete e una fila di formiche che entrava nell'intercapedine. Tornò nell'ingresso, senza staccare la mano dalla pistola. La vecchia casa era piena di suoni. Il vento fischiava fra le travi del soffitto facendo da
contrappunto al gocciolio dell'acqua piovana. Interi pezzi d'intonaco erano caduti anche dalle pareti dell'ingresso, lasciando a vista macchie che contrastavano con la severa carta da parati vittoriana. A destra c'era un salotto pieno di mobili ordinari e spartani, con alte cataste di libri, di giornali ripiegati con precisione e di videocassette. Le vecchie finestre avevano ancora i serramenti originali, e sui vetri scorrevano rivoli d'acqua. Dietro quei rivoli si scorgevano altre campanelle; dietro le campanelle solo il grigio della giornata. Da una piccola anticamera, Charlie entrò in un soggiorno dall'aria severa. Il vecchio focolare di pietra era stato usato di recente: in mezzo alla cenere c'erano pezzi di carta bruciata. Il pavimento era coperto da uno spesso tappeto di lana e le finestre, alte da terra fino al soffitto, avevano tende scure con una ricca passamaneria. L'arredamento era un guazzabuglio di pezzi in stile diverso: una lampada art déco, un tavolino massiccio, un orologio a pendolo e una serie di sedie dallo schienale dritto. Dal ripiano di un'antica scrivania, in un angolo, mancava il computer, sul pavimento, però, correvano ancora i cavi. A terra c'erano varie bollette non pagate e i cassetti erano aperti. Charlie esaminò un tavolino lungo e basso, affollato di ogni sorta di strumenti: riconobbe un localizzatore satellitare, un anemometro, barometri. Passò le dita sul legno lucido: non un granello di polvere. Quando entrò in cucina, prima strinse gli occhi per leggere, poi inarcò le sopracciglia per la sorpresa. C'erano elenchi dappertutto, come se le cose acquisissero il loro diritto a esistere soltanto quando venivano messe in lista. C'erano una dispensa all'antica, tipo armadio a muro, un paio di credenze con le ante a vetri e un lavandino inizio secolo. I cibi in scatola erano impilati con le etichette in vista per poterne distinguere il contenuto alla prima occhiata. Charlie aprì il frigorifero e vi scorse solo alcune confezioni di birra e qualche avanzo. Invece, il freezer era pieno di chicchi di grandine, ciascuno accuratamente etichettato nella sua bustina di plastica. "Formato biglia", "formato palla da golf, "formato palla da baseball", "superficie rugosa", "liscia". Ciascuno con il luogo e la data. La porta della cucina dava su un portico che cadeva letteralmente a pezzi. Il piano superiore era una rivelazione. In cima alla scala c'era un sottotetto così basso che Charlie fu costretto a chinarsi per passare. Le stanze, piccole e anonime, erano piene fino al soffitto e ogni pila era ordinatamente etichettata. Un ordine caotico. In una camera, Charlie scorse un fascio di rami d'albero contorti, una pila di disegni tratti da vecchi periodici della
scuola di religione, una ventina di contenitori di plastica spaccati o deformati dal vento e una montagnola di cavi di gomma nera. Rick aveva accuratamente etichettato ogni oggetto: data, luogo, livello sulla scala Fujita. E poi... gambe di sedia e colonnini di ringhiere, ammucchiati come legna da ardere. Sacchetti di plastica pieni di vecchi adesivi magnetici, sia quelli dati in regalo dalle ditte sia quelli rappresentanti personaggi dei fumetti: Felix il Gatto, il Mio Piccolo Pony. Gli venne la pelle d'oca. Se quel pazzo ti avesse invitato a mangiare a casa sua, portandoti il cucchiaio alla bocca avresti trovato l'etichetta "cucchiaio". Nella stanza successiva c'erano: una specie di ziggurat di pezzi di cemento, ciascun livello più deteriorato del sottostante; una raccolta di bottigliette di cristallo; un mucchio di orologi, con le lancette ferme sull'ora esatta del tornado. C'erano fagotti di abiti lacerati dal vento e mucchietti di pagine strappate dai libri. Collari per cani e per gatti. Segnali stradali piegati. Giradischi e radio degli anni Settanta e Ottanta. Vasellame di ceramica e di peltro. Una figurina del campione di baseball Mickey Mantle che probabilmente valeva parecchi dollari nel mercato dei collezionisti. La ricevuta di un anello-ricordo scolastico, 1984. Nel bagno, dipinto di verde avocado e con il pavimento di piastrelle a mosaico, trovò alcune bustine di plastica piene di unghie tagliate. A Charlie si drizzarono i capelli. Che grande stronzo, malato e perverso. Ogni cosa doveva avere il suo posto. Dietro il wc c'erano almeno cinquanta rotoli di carta igienica. Tutto era in coppia. Due spazzolini, due rasoi, due vaschette per il sapone. Nell'armadietto delle medicine, tutti i prodotti erano disposti in ordine alfabetico, con l'aspirina per prima. Charlie guardò i sanitari originali in ghisa smaltata, luccicanti e privi di macchie. Se nel lavandino fosse rimasta una particella di dentifricio ci sarebbe stato il rischio che crollasse il mondo? Be', in un certo senso sì. Solo la piccola stanza alla fine del corridoio sembrava abitata. Aveva un'imprevista innocenza: gli scaffali di pino reggevano file di modellini di plastica, quelli che un tempo si trovavano dentro i pacchetti delle merendine. Da un'ampia finestra entrava la luce grigia del giorno. C'erano ancora il caminetto e il focolare in pietra originali. Inframmezzato al rumore della pioggia si sentiva il vento che filtrava dal tetto, nei punti dove le travi si erano crepate. Il letto era accuratamente rifatto. La biancheria, nella cassettiera, era ben divisa tra bianca e colorata, le pareti erano dipinte di uno strano azzurro elettrico. Sul vecchio giradischi della RCA era posato un disco di Gloria Swanson del 1932, I Love You So Much I Hate You. Sul co-
modino c'era un bicchiere di liquido chiaro, pieno a metà. Charlie lo sollevò e lo annusò. Acqua. Lo posò nello stesso punto da cui lo aveva prelevato. Aprì il baule ai piedi del letto e trovò mucchi di ritagli di giornale ingialliti, articoli sulle persone uccise dai tornado e sulla recente serie di omicidi. Rimise tutto all'interno del baule, con le orecchie che gli fischiavano. Inspirò a fondo, ed esalò lentamente il fiato. Si alzò. La porta dell'armadio era chiusa. Attraversò la stanza e l'aprì. I vestiti pendevano da grucce di plastica distanziate fra loro per evitare che si aggrinzassero; le scarpe erano in file ordinate sul fondo. Quattro paia di Nike apparentemente identiche, con la tomaia bianca e color champagne. Con la punta di una biro, Charlie esaminò una delle calzature. Numero quarantacinque, con del cotone idrofilo all'interno della punta. Le altre tre paia erano numero quarantatré. Con il cuore in gola, ritornò nel corridoio. Pensò: "Causa insufficiente. Perquisizione illegale". Aveva paura dei propri impulsi, delle proprie trasgressioni. L'ultima cosa che desiderava era che l'accusa potesse decadere in base a qualche scappatoia legale; ma sua figlia era sparita. Sua figlia. Non c'era nient'altro che contasse. Fissò per qualche istante il soffitto. «Sophie?» gridò. «Sei lassù?» Abbassò la scala che portava alla soffitta e salì gli scalini a due a due. La soffitta sapeva di naftalina. E di cose vecchie. Di antiche offese, dolore, lacrime. Il pavimento era di legno e in corrispondenza della parete esterna si scorgeva il chiarore di un lucernario. Travi antiche a vista. Un'unica lampada, nuda, che proiettava ombre minacciose sul soffitto. Charlie abbassò la testa. A destra della scala c'era una fila di bottiglie di whisky impolverate, ciascuna con un residuo di liquore color ambra. Ciascuna con una strana etichetta: "1981, canino superiore destro". Charlie fece un brusco respiro. Sentiva l'atmosfera opprimente all'interno della casa. Dirimpetto alle bottiglie c'era una vecchia pianola meccanica che pareva dimenticata da decenni; sul suo legno color mogano c'era uno spesso strato di polvere. Come un solletico in fondo alla gola, giungevano a Charlie le note dissonanti di altre campanelle: evidentemente erano una sorta di antenne, esploravano l'aria alla ricerca dei movimenti del vento. L'intera casa vibrava come una campana; o forse come una creatura viva, attenta al mutare delle correnti. In fondo alla soffitta, una stretta finestra si affacciava sui campi incolti che si stendevano a perdita d'occhio, fino all'orizzonte. Davanti alla fine-
stra c'era una pesante sedia di un legno scuro e robusto. Alla spalliera erano fissate due vecchie cinghie di cuoio, indurite dal passare degli anni in una posizione grottesca. Mentre le girava intorno e si chinava a osservarla, Charlie ebbe l'impressione che il tempo si fosse fermato. Qualcosa di gelido gli toccò il collo e lui sollevò di scatto la testa, mentre gli si accapponava la pelle. Ma era solo una goccia che cadeva dal tetto; in quel momento si accorse del continuo gocciolio. Il pavimento intorno alla sedia era sporco di sangue: macchie che si infittivano vicino alle gambe, come gli echi concentrici di un grido sempre più fioco. Le gambe della sedia erano sporche di muffa verde e macchiate di sangue raggrumato e secco. Su un tavolo di legno, a poca distanza, c'era una serie di vecchi strumenti da dentista: divaricatori, uno specchietto, pinze e bisturi, aghi e filo da sutura, e due vaschette di vetro con il coperchio. Nella prima c'era una pila di tamponi di garza, ingialliti dal tempo. E nell'altra... Quando la sollevò e la scosse Charlie ebbe un sussulto. Non riusciva a credere ai propri occhi. Nella vecchia vaschetta c'erano decine di denti umani, insieme a denti di animali. Di cani, di bovini. Per quanto cercasse di mantenere un distacco professionale, non riuscì a impedire alle mani di tremare o alla mente di ritrarsi da quella definitiva prova di malvagità. Fece un passo indietro, con l'impressione che le anime dei morti roteassero intorno a lui. Conosceva la loro offesa. Nella testa gli saliva un dolore quasi intollerabile. Senza riuscire a muovere un solo muscolo, come se fosse pietrificato, cercò di riprendere il controllo di sé, e in quel momento comprese quanto fossero profonde le ferite, fin dove risalissero quei delitti così spaventosamente inumani. 3 Charlie prese una deviazione per evitare un ingorgo e finì su una stradina di Mayberry, dove fu costretto a rallentare a causa della forte pioggia. Proseguì su lunghi tratti di strada bagnata, mentre i tergicristalli faticavano a togliere l'acqua dal parabrezza. «Il Texas orientale sembra promettente» disse Isaac, che aveva aperto il computer portatile e lo teneva sulle ginocchia. «Solo promettente? Non hai niente di più sicuro, papà?» Charlie si massaggiò la fronte. Era ancora senza fiato. Gli orrori di quella casa. La raggelante rivelazione. Rick era il Killer delle Schegge. Ormai non c'erano dub-
bi. «Non abbiamo neppure una segnalazione di tempesta» disse con ira. «Non sappiamo neppure dove diavolo andare!» «Cerco di scoprire dove possa formarsi un tornado, in che posizione si possa muovere. Dobbiamo sapere dove essere e dove non essere. La rete del Texas è quella con i più alti punti di rugiada. Penso che una tempesta possa formarsi intorno a Matador e diventare tornadica intorno ad Aberdeen o nelle vicinanze, ma mi occorre una conferma.» Prese il microfono della radio CB e, portandoselo alle labbra, disse: «Qui Papà Vein, mi date la linea? Chiedo un'interruzione uno-zero». Aumentò il volume e la potenza, mentre dall'altoparlante venivano altre voci. «Linea? Uno-zero. Unozero.» Charlie spinse a fine corsa il pedale dell'acceleratore. I vari strati di cumuli correvano nel cielo, spinti da un veloce vento di nordest che avvolgeva il pickup nella sua aria leggera e tiepida. Erano quasi le cinque e mezzo. Soffocò il panico e pensò con tenerezza a Sophie, quando tirava calci a tutto il mondo nella culla; i suoi occhi azzurri erano due pozzi profondi di amore e di curiosità. Charlie faticava ancora a comprendere il significato di ciò che aveva visto poco prima. Era ancora sotto choc. Gli tremavano le mani. «L'autista del Wilson rosso è in linea?» domandò suo padre, regolando il volume. «Un'interruzione uno-zero. Posso avere un'interruzione unozero?» «Chi chiede l'interruzione?» chiese secca una voce. «Papà Vein» rispose Isaac, dandogli il suo soprannome CB. «Ehi, Papà, sono Nuvola. Attento al didietro, oggi. Per strada ci sono un mucchio di cowboy sbandati.» «Com'è nel Texas? Hai una tempesta obiettivo per me, Nuvola?» «Dove sei?» «Sono nella Hardeman County, direzione ovest.» «Ho delle nubi di tempesta qui a Childress...» «No, cerco quell'uno per cento speciale, una supercella da un terawatt che crea un tornado nella sua corrente ascensionale. Che mi dici di Aberdeen?» «Aberdeen è bella forte» rispose Nuvola. «Una grossa tempesta circolare con cime da quindici chilometri in direzione nordest a circa cinquantacinque chilometri l'ora.» «Mi pare promettente.» «È la migliore su cui tu possa puntare.»
«Ci vediamo laggiù.» Isaac posò il microfono. «Quella è la nostra tempesta obiettivo» disse, mentre il sudore gli scendeva lungo le profonde rughe ai lati della bocca. «Abbiamo forse un'ora, se non vogliamo perderci lo spettacolo.» «Un'ora? Non di più?» Isaac socchiuse gli occhi, come se fosse una domanda trabocchetto. «Aberdeen è il posto dove vogliamo essere, figliolo.» Charlie studiò con espressione cupa la strada davanti a loro; si restringeva come se la guardasse dal lato sbagliato del cannocchiale. Se la polizia di Stato o le pattuglie stradali non fossero riuscite a rintracciare il GMC Sierra nero, lui poteva solo cercare il più vicino tornado nella speranza di trovare Rick prima che facesse qualcosa a Sophie. Tutto si basava sulla speranza che il killer non intendesse agire finché non avesse trovato un tornado di suo gusto, e di poter intervenire prima di allora. Charlie preferiva non soffermarsi sull'assurdità di quelle speranze. Distrattamente, passò davanti alla deviazione per l'autostrada, quindi schiacciò il pedale del freno e slittò lungo la carreggiata come se corresse sul burro. Con un'imprecazione, inserì la retromarcia e, a zigzag, tornò indietro. I fari illuminarono le gocce di pioggia quando una ruota finì fuori strada e la parte anteriore del Loadmaster si inclinò precariamente verso l'alto. «Che diavolo combini?» Isaac sollevò le mani e le premette contro il tetto per non battere la testa mentre scivolavano sul pendio. «Torno sulla I-40» rispose Charlie mentre riportava il veicolo sulla carreggiata. Diede gas, ma a quel punto, con un forte sibilo, esplose il tubo del radiatore. L'indicatore della temperatura dell'acqua si impennò. «Merda!» disse mentre frenava. «Cosa succede, adesso?» «Lo metto a posto, lo metto a posto io!» Il padre saltò giù dal veicolo e, in mezzo alla pioggia, frugò nel piano di carico. Trovò un rotolo di nastro isolante e se ne servì per riparare il tubo, poi risalì a bordo e sbatté la portiera. «Okay, possiamo andare!» Charlie schiacciò sull'acceleratore e sentì le ruote slittare sull'orlo di un fosso e poi ritornare sulla carreggiata. Corsero verso lo svincolo per l'autostrada: dai finestrini si scorgeva solo una confusa macchia di verde. «Sarebbe ora che cambiassi i freni, non ti pare?» domandò. «E magari anche la trasmissione.» «Non tiene bene il minimo quando sono fermo al semaforo, ma una volta in moto fa il suo dovere.»
«Non vedo un cazzo» si lamentò Charlie, sforzandosi di scrutare davanti a sé. «Tanto varrebbe mettere al volante Ray Charles.» «Portaci dritti nel Texas, figliolo.» «Mi auguro che tu abbia ragione, papà» gli disse, colto all'improvviso da un dubbio profondo, paralizzante. «Continuerò a controllare la mia previsione per renderla più precisa» promise Isaac. Qualche momento più tardi, erano di nuovo sulla I-40, diretti a ovest, con le luci stradali che venivano galleggiando verso di loro, accompagnate dal riflesso sulle gocce di pioggia. Il cellulare squillò, Charlie rispose con ansia. «Mike?» «Abbiamo diramato un ordine di ricerca per l'intero Stato, capo. Sono tutti sulle tracce di quel veicolo.» «Ascolta, ci siamo sbagliati su Gustafson. Sono appena stato a casa di Rick Kripner. Ho trovato i denti che mancavano.» «Gesù Cristo, senza un mandato?» «Maledizione, ha rapito mia figlia!» «Capo...» «Mi hai sentito, Rick Kripner è il Killer delle Schegge.» «Ne sei sicuro?» Charlie fece un profondo respiro. Era ancora scosso e non riusciva a pensare a causa del panico. «Mike, in questo momento devi fidarti di me.» «Sì, certo.» «La mia convinzione è che sia diretto ad Aberdeen.» «Aspetta, mi suona l'altro telefono.» «Richiamami.» Charlie posò il cellulare. Sulla polvere del cruscotto c'era un'impronta: una mano piccola e delicata. L'impronta di Sophie, lasciata l'ultima volta che era salita sul pickup del nonno. «Avevi ragione su di me» disse al padre, mentre scrutava in mezzo alla cortina di pioggia. «Se fossi stato di più a casa, forse questo non sarebbe successo.» «Certo.» Isaac lo guardò senza ira. «E io sono stato eletto il Padre dell'Anno. Tutti facciamo degli errori. Sono stato un idiota a cercare di insegnarti come condurre la tua vita.» Charlie inghiottì a vuoto e per un momento non riuscì a udire alcun suono. Si sentiva messo a nudo ed esposto, come la cartina stradale aperta sul sedile. «Ti troverò un tornado» gli promise il padre. «Te lo troverò e la riavremo indietro, te lo prometto.»
Charlie pensò a tutte le bugie consolatorie che aveva detto a Sophie nel corso degli anni. "Vedrai che tua madre tornerà come prima..." Lo squillo del telefono li fece trasalire entrambi. Era Mike. «Capo? Hanno appena visto un Sierra nero a Montoya» disse. «Diretto a est sulla I-40. L'hanno perso di vista cinque minuti fa, ma penso che sia diretto...» «Al laboratorio del vento» terminò per lui Charlie. «Esattamente.» Charlie controllò lo specchietto retrovisore; ormai la sua agitazione aveva superato il livello di guardia. Non vedendo veicoli dietro di loro, schiacciò sul freno. Il padre lo guardò con sorpresa. La sua espressione era cupa come le nubi sopra di loro. «Dio santo, cosa fai, adesso?» «Torno indietro.» «E perché mai?» «Rick è a Montoya.» «Montoya? Ma non hai detto che era...» Charlie si avvicinò alla striscia centrale, in attesa che un autoarticolato della birra Mack passasse davanti a loro. Con il suo spostamento d'aria, il pesante veicolo fece tremare il Loadmaster. Charlie ripartì e imboccò la corsia diretta a est. Sentì lo squillo del telefono. Era di nuovo Mike. «Capo? Vuoi che informi le autorità locali?» «No, non ancora. Cerchiamo di fare una cosa tranquilla.» «Non hai bisogno di rinforzi?» «Non voglio che qualche poliziotto dal grilletto facile metta a rischio la vita di mia figlia. Informa i guardiani del laboratorio e di' che mi mandino qualcuno al parcheggio.» «Certo.» «E manda un elicottero sull'autostrada.» Chiuse la comunicazione, poi controllò che la pistola fosse carica. Sentiva che il padre, accanto a lui, ansimava per la preoccupazione. «C'è stato un cambiamento» lo informò. «Così mi sembrava di aver capito.» «Tienti forte, papà» gli disse Charlie, e diede gas. 4 Erano ormai le cinque e tre quarti quando si fermarono nel parcheggio del laboratorio di scienze ambientali, con il motore che dava un ultimo
ruggito prima di spegnersi, le gomme nuove che stridevano sull'asfalto. Charlie scorse il pickup Sierra di Rick fermo davanti all'ingresso dell'edificio. «Resta qui» disse al padre, mentre una gelida furia lo spingeva fuori del veicolo. Dopo tre passi venne bloccato da una luce abbagliante. «Il capo Grover?» «Che diavolo?...» Si coprì gli occhi con la mano. «Mi tolga quella maledetta luce dalla faccia.» La guardia di sicurezza abbassò la lampada. «Mi hanno detto di aspettarla qui, signore.» Era un uomo tozzo e curvo, con la pelle chiara dopo anni di lavoro al turno di notte. «Mi hanno detto di...» «Mi ascolti con attenzione» lo interruppe Charlie. «All'interno dell'edificio abbiamo un ostaggio. Mi segue?» L'uomo annuì. «Lei mi accompagnerà all'interno. Non dovrà agire di sua iniziativa. E dovrà attenersi alle mie istruzioni. Sono stato chiaro?» La guardia s'irrigidì. «Sì, signore.» «Segua me e faccia esattamente quello che le dico.» L'uomo aveva l'espressione confusa; gli rivolse un sorriso tirato. Pioveva forte. Charlie impugnò la pistola e si diresse in fretta verso il Sierra nero. Il motore era in folle, le chiavi nel cruscotto. Quando scorse la zampa di coniglio portafortuna appesa all'anello delle chiavi, serrò le labbra. Pelo di coniglio nero. Con le tempie che gli pulsavano, illuminò l'interno del pickup, scorse i tappetini verdi e ricordò la fibra proveniente dal tappeto. Il principio di Locard. Spense il motore, s'infilò in tasca le chiavi e si diresse all'ingresso a forma di ferro di cavallo dell enorme edificio di cemento, con la scritta SCIENZE AMBIENTALI incisa sul marmo rosa, al di sopra. Salì gli scalini e spinse la porta a vetri, ma era chiusa per la notte. «La apra» disse alla guardia. «Prima non ci conviene chiedere assistenza?» L'uomo lo guardava con nervosismo. Erano fermi sotto un cono di luce gialla, così vicini che Charlie avrebbe potuto contare i pori sulla sua faccia. «Apra la porta» gli rispose, calcando l'accento sull'ultima parola. La guardia si affrettò a obbedire. Si accostò al pannello di comando, batté il codice di sicurezza e inserì nella fenditura il suo tesserino magnetico. Poi sbloccò la serratura e aprì. «Tu no» disse Charlie, bloccando l'accesso al padre. Isaac era comparso
dal nulla, dal buio della notte. «Aspetta nel pickup.» «Vengo con te» rispose il vecchio, con aria decisa. «Non possiamo correre rischi, papà.» «È mia nipote» replicò Isaac, con ostinazione. Charlie aveva imparato a non contraddirlo molto tempo prima. Una decina di colpi di cinghia sulla schiena potevano essere molto convincenti. «Non ti verrò tra i piedi» promise Isaac. Charlie guardò l'orologio. Avevano poco tempo. Seguito dagli altri due, entrò nell'enorme atrio dipinto di giallo e le porte si chiusero dietro di loro; il rumore di passi echeggiò nello spazio vuoto. «Da questa parte» disse la guardia, ma Charlie si diresse al corridoio che portava ai montacarichi, tra pareti coperte di legno scuro e foto incorniciate di scienziati orgogliosi dei loro macchinari. Giunto al montacarichi, continuò a premere il pulsante di chiamata. «Presto, maledizione!» disse a denti stretti. «Sì, più schiacci, più arriva in fretta» commentò ironicamente Isaac. «Sta' zitto, papà.» Puntò il dito contro di lui. «Tu aspetti qui.» «Vengo con te, Charlie.» «Non è un argomento aperto al dibattito.» Uno dei montacarichi arrivò al loro piano e le porte si aprirono. Entrarono tutti e tre. Passò un tempo infinito prima che le porte si chiudessero; poi, spalla contro spalla, il gruppetto scese nelle viscere dell'edificio. Charlie fissò con ira il padre, ma Isaac si limitò a guardare da un'altra parte, mentre la guardia teneva la mano sul calcio della pistola. «Ha mai usato quell'arma?» gli domandò Charlie. «Certo, signore. Ho fatto un corso di addestramento.» «Bene. Mi protegga le spalle.» «Chi cerchiamo, signore?» «Un uomo bianco, trent'anni o poco più, altezza e costituzione medie, capelli castani, occhi castani, occhiali con montatura di metallo. Ha con sé una ragazza... mia figlia.» L'ascensore si fermò con un sobbalzo e un ronzio meccanico. Charlie fissò negli occhi la guardia. «Se fa del male a mia figlia, se le causa qualche danno... io le sparo.» Sul labbro superiore dell'uomo si formò una goccia di sudore. «Io... farò attenzione.» «Sarà meglio.» Le porte si aprirono e Charlie uscì per primo nel corridoio. Gelide dita di luce erano attaccate al soffitto e attraverso le pareti si udiva un brusio, co-
me da un piano scordato. Svoltò in un corridoio dal soffitto più alto e si guardò attentamente intorno prima di fare segno ai compagni di avvicinarsi. Il reparto test era sprangato. Charlie provò le varie porte, mentre la guardia cercava la chiave giusta. Passarono davanti a una fila di stanze chiuse, ciascuna con una targhetta di metallo: il serbatoio, l'apparecchiatura misuratrice a raggi di luce, le gallerie del vento. «Apra qui.» Charlie attese con impazienza che la guardia aprisse la porta e accendesse le luci. Quando guardò la sala, grande come un hangar, qualcosa colpì i suoi occhi: un ricciolo di fumo che si alzava dal fondo. Si lanciò di corsa in mezzo al labirinto di cavi e di tubi che coprivano le pareti e raggiunse la galleria a strato limite, lunga venticinque metri. Attraverso i finestrini, scorse all'interno della galleria una nube di fumo bianco. «Mi porti un estintore!» gridò alla guardia, mentre saliva la scaletta. «Non è fumo» gli gridò la guardia. «È la sostanza chimica che usano per rendere visibile il vento. La stessa che serve per scrivere nel cielo.» La porta non voleva aprirsi. Charlie notò una matita incastrata tra la maniglia e la placca metallica dello scrocco. Dopo ripetute insistenze, tutt'a un tratto la punta della matita si spezzò. Con uno scatto la porta si aprì, e dall'interno della stanza uscì una densa nebbia bianca che per poco non lo soffocò. Tossendo, Charlie indietreggiò di un passo. «Willa?» Sentì un'improvvisa paura. Paura di perderla. Esitava a entrare. Poi corse all'interno e si perse in mezzo alla nebbia; incespicando, agitò le braccia per far uscire l'aria, ma senza grossi risultati. Riuscì ad azionare il comando del ventilatore. «Willa?» ripeté, poi tossì come se gli esplodessero i polmoni. «Sei qui dentro?» Inciampò in un paio di gambe distese sul pavimento e cadde in ginocchio. Willa non aveva la maschera protettiva. Era immobile, in jeans e camice da laboratorio, con le tasche piene di chiavi, penne e quadernetti per appuntì su cui scriveva in continuazione. Charlie la prese per le braccia e la trascinò verso l'uscita, ma la sua faccia era così pallida, bianca come il latte, che si piegò a tastarle il polso. Le mani gli tremavano per la paura. Willa era priva di sensi. Aveva gli occhi chiusi e le labbra bluastre. «Respira» le disse. Le chiuse il naso, le piegò all'indietro la testa e le fece la respirazione bocca a bocca. Nessuna reazione. «Ehi.» Le diede qualche buffetto sulla faccia. «Willa?» Con il cuore in
gola. Terrorizzato. "Abbiamo appena scoperto di amarci e tu mi stai già lasciando?" pensò. «Willa!» La sua voce echeggiò sulle pareti piastrellate mentre il fumo bianco continuava a uscire dalla porta, sotto forma di lunghi riccioli e tentacoli. Si chinò ancora su Willa e soffiò di nuovo nei suoi polmoni. Lei tossì. Sputò, si alzò a sedere. «Charlie?» «Ti senti bene?» le domandò lui. Aveva voglia di ridere per il sollievo. «No, sono... sì.» Aveva l'aria confusa. Charlie si voltò verso la guardia. «Chiami un'ambulanza!» L'uomo compose subito il numero sul telefono portatile. «La mia maschera ha smesso di funzionare» spiegò Willa «e non riuscivo più a respirare. Ho provato ad aprire la porta, ma era bloccata.» Turbato e incollerito, Charlie la sollevò tra le braccia. «Devo trovare Rick. Sai dov'è?» Lei scosse la testa, poi gli si strinse al collo, a lungo, come se avesse capito i sottintesi della domanda, ma non volesse ancora affrontarli. «Ha preso le chiavi del furgone doppler» disse. Charlie si voltò verso la guardia. «Il furgone manca dal parcheggio?» L'uomo inarcò le sopracciglia. «Non era nell'elenco delle vetture da controllare, ma ho visto che non c'è.» «Da quanto?» «Circa un quarto d'ora. È una cosa che succede spesso. Prendono il furgone senza avvertire. Ma lo riportano sempre indietro.» La sua voce si alzò, in tono di difesa. «Ho segnalato la cosa sul mio rapporto.» In quel momento, dal fondo del corridoio, giunse un grido: «Charlie!». Era suo padre. «Torno subito» disse a Willa. «Sì, va'.» Gli sorrise per mostrare coraggio. «Sto bene.» «Rimanga con lei» disse Charlie alla guardia, poi scese dalla scaletta e corse nel corridoio. «Papà?» «Sono qui.» Poco più avanti, il padre era fermo accanto a una porta aperta. Dall'interno, un rettangolo di luce bianca si proiettava sul pavimento del corridoio. La targhetta diceva: CAMERA DI LANCIO CORPI VOLANTI. Isaac aveva gli occhi dilatati dalla paura. «Era aperta.» «Resta indietro.» Puntando la pistola, Charlie si avvicinò alla soglia con estrema cautela, come se stesse per entrare in una tana di serpenti a sonagli. Respirando con la bocca, fece un passo nella stanza e si guardò intor-
no, senza abbassare l'arma. «Polizia!» La camera di lancio sembrava vuota. Un lungo tubo arancione, tenuto in posizione da due sostegni metallici, occupava il centro della camera rettangolare. Charlie aveva il cuore in gola, quasi al punto di soffocare, mentre si dirigeva verso la finestra di vetro infrangibile all'altra estremità, e il rumore dei suoi passi echeggiava sulle pareti. All'interno della camera, non più grossa di un ripostiglio, si scorgeva, attraverso il vetro appannato, un grosso serbatoio d'acqua e nient'altro. Abbassò la pistola. «Tutto a posto» disse. Con cautela, Isaac entrò nella stanza. In quel momento Charlie scorse qualcosa, con la coda dell'occhio. Un riflesso. In fondo alla stanza, al centro di un grosso pannello di compensato, pendeva un oggetto che gli era stranamente familiare. Il medaglione d'argento di Sophie, il gioiello che lei non si toglieva mai. Pendeva da una puntina da disegno e oscillava lentamente per il movimento dell'aria. Con la faccia coperta da un sudore freddo, Charlie mormorò: «Gesù Cristo...». Suo padre, intanto, aveva raggiunto il pannello. «No!» Nell'udirlo, Isaac si voltò verso di lui e lo guardò con aria interrogativa. Con uno schiocco di aria compressa, il cannone sparò. Un palo di legno lungo due metri uscì dal tubo e colpì in pieno suo padre, con un fortissimo suono di ossa spezzate. Mentre veniva colpito e spinto contro il muro, dalle labbra di Isaac uscì solo un breve grido di protesta. Charlie cadde in ginocchio e per un istante tutto si annebbiò. Il cuore gli batteva follemente. Non riusciva a respirare. Come dall'interno di una galleria nera, sentì qualcuno gridare, in lontananza: «Oh, mio Dio... Oh, mio Dio...». Poi comprese che quelle urla venivano da lui. Batté gli occhi per schiarirsi la vista e abbassò lo sguardo. Il petto della sua uniforme era macchiato di sangue. Si alzò e si avvicinò al padre, inchiodato alla parete come un insetto. «Papà?» Gli tastò il polso. «Papà?» La luce rivelava troppo. Il proiettile di legno era entrato nel petto di Isaac; dalla ferita d'ingresso si scorgeva il cuore, che pulsava debolmente; si scorgeva anche un polmone collassato. C'era sangue dappertutto. Formava già una pozza intorno ai suoi piedi. «Papà?» Charlie fissò la faccia del padre. Le sue labbra erano talmente grigie da sembrare di fumo. Isaac cercò di parlare, poi rimase immobile. Charlie tentò di togliere dalla parete il lungo cilindro di legno, ma non ci
riuscì. Sostenendo il padre tra le sue braccia, cercò di tamponare la ferita, ma era troppo larga. Il cuore lacerato aveva smesso di battere. Si potevano contare le costole spezzate. «Papà?» Le pupille del vecchio erano di dimensione diversa; quando Charlie gli toccò con delicatezza un occhio non ci fu reazione. Fisso e dilatato. I capelli di Isaac sembravano l'infiorescenza di un dente di leone. Con dita tremanti spostò una ciocca di capelli dalla fronte immobile, poi sentì una voce che gli parlava dentro la testa. La voce di suo padre. "Non preoccuparti di me. Va' a salvare la nostra bambina." 5 Rumore di piedi sull'asfalto. Con il cuore che gli martellava, Charlie attraversò di corsa il parcheggio per raggiungere il pickup. "Non è ancora finita" si disse con furia, mentre saliva. Infilò la chiave nel cruscotto, ingranò la marcia e si allontanò dal parcheggio, cercando per tutto il tempo di calmarsi. Sentì una voce, dentro il cervello: "Testa alta. Respira profondamente. Sii uomo". Suo padre che gli parlava all'ospedale, mentre gli teneva la mano. La sua voce che giungeva fino a lui attraverso il dolore. Il vento scagliava la pioggia contro il parabrezza. Sul cellulare compose il numero della stazione di polizia. «Mike?» «Che è successo, capo?» «Niente di buono.» Sentiva le labbra tremare a ogni parola. «Mio padre è morto.» «Cosa?» gli rispose Mike, in tono incredulo. «Rick Kripner ha preparato una trappola: un cannone ad aria comandato da un filo a livello del terreno. Ha usato come esca il medaglione di Sophie, quello che lei non si toglie mai.» Sentì la gola chiudersi, mentre pronunciava parole che non avrebbe voluto dire. «Non so che cosa le abbia fatto, ma non posso credere che le abbia fatto del male. La conosce. Come potrebbe farle del male?» «Capo, cerca di calmarti.» «Adesso seguo le tracce della tempesta, ad Aberdeen.» «Aspetta un momento, capo. Che cos'è successo?» «Rick è stato al laboratorio del vento. Noi siamo arrivati qualche minuto dopo la sua partenza, ha lasciato il Sierra e ha preso il furgone doppler. Ha sabotato il laboratorio. Willa Bellman per poco non ci ha rimesso la pelle. Mio padre è morto. E non sono riuscito a trovare Sophie. Penso che l'abbia
portata con sé. La mia impressione è che... Gesù Cristo, sapevo che stava cambiando modus operandi, ma questo...» Si sentì avvolgere dalla paura, come in una rete. «Non può essere morta.» «Calmati, capo.» «La mia impressione è che voglia trovare un tornado, prima di... fare qualcosa a un'altra vittima.» «Il dipartimento è con te. Tutto ciò che possiamo.» «C'è un avviso di tornado nelle vicinanze di Aberdeen. Probabilmente sarà a metà strada, ormai. Un vantaggio di una quarantina di minuti... Devo fare in fretta... riguadagnare il tempo perduto. Informa la polizia locale, di' loro che sono in viaggio.» Provò un improvviso senso di stanchezza. Non poteva più fare nulla... «La mia impressione è che sia diretto ad Aberdeen, che cerchi un tornado. Trasmetti l'avviso di rintracciare un furgone scuro con la scritta "Laboratorio di Scienze Ambientali" sulla fiancata. E fa' controllare la strada da qualche elicottero, avverti del pericolo. Di' che ha un ostaggio. Sedici anni, un metro e settanta, capelli castani, occhi azzurri... Gesù, Mike, hai sentito tutto?» «Sì, ho sentito, capo.» «Rimani in un posto dove possa trovarti.» «Sono qui, capo. Stiamo attaccati ai telefoni. Troveremo quel pazzo, non aver paura.» «Di' a tutti di fare attenzione, si tratta di mia figlia.» «Non preoccuparti.» Chiuse il telefono e guardò il cielo. "Una supercella. Trova una supercella." Doveva arrivare ad Aberdeen il prima possibile. Una volta nel Texas orientale, doveva cercare una di quelle nubi rotanti che assomigliano a un'esplosione atomica. Una goccia di sudore gli scivolò lungo la fronte mentre osservava il cielo attraverso il parabrezza sferzato dalla pioggia. Vide un lontano ammasso di cumuli, che nella parte bassa sembrava lana color malva. Gli rimaneva forse un'ora di luce. Prese la cartina stradale. Era nervoso. Tremava. "Lasciala perdere. Lascia perdere la cartina." La lasciò cadere sul sedile, mentre i secondi gli rimbombavano nella testa. Tic. Tac. Tic. Tac. Non riusciva a impedire ai denti di battere. Il mondo era immenso, confuso e fuori portata. Il solo movimento, in lontananza, era quello di un autocarro che si arrampicava lentamente su una strada di campagna. Sophie non poteva essere morta. Charlie era convinto che fosse ancora viva in qualche punto davanti a lui, dietro i campi di erba medica e
gli allevamenti di bovini. Quando scende il buio e una persona che ami è laggiù da sola... ti impedisce di agire. Ti sconfigge. "Basta perdite. Basta sofferenze." L'odore codardo della sua paura era talmente forte da fargli venire voglia di vomitare. Prese il cellulare e fece di nuovo, con dita tremanti, il numero di Rick. Non si aspettava di trovare libero. «Pronti?» La risposta era priva di qualsiasi tono particolare. Charlie scorse nello specchietto retrovisore la propria faccia sudata, l'aria interrogativa. I suoi occhi gli restituirono lo sguardo, inorriditi. «Rick?» Dopo un istante di diffidenza: «Sì?». «Sono Charlie Grover.» Una risata sforzata. «Oh... salve.» Il cuore di Charlie batteva a un ritmo folle. «Posso parlare con Sophie, per favore?» Una breve pausa. «Be'» rispose infine Rick «questa notte ho dato un'occhiata alle nuvole e mi è parsa un'occasione da non perdere.» Charlie si irrigidì. La risposta evasiva gli faceva capire che Sophie era ancora viva... e che poteva ascoltare. Altrimenti, Rick non si sarebbe preoccupato di evitare la domanda. «Fammi parlare con lei.» «Non lo penso affatto.» «Sta bene?» «Perfettamente.» Rick era molto astuto. Non aveva fatto il nome di Charlie, in modo che Sophie, se stava ascoltando, non sapesse che c'era suo padre all'altro capo. Da questo, Charlie poteva dedurre due cose: primo, che sua figlia ignorava di correre un pericolo; secondo, che non era legata e imbavagliata. Se Rick l'avesse legata, non si sarebbe preoccupato di nasconderle l'identità del suo interlocutore. Charlie era stato addestrato, anche se brevemente e molto tempo prima, a negoziare la liberazione degli ostaggi. La persona con cui aveva a che fare era uno psicopatico che non aveva rispetto per nessuno, tranne per se stesso. Il suo rapporto con gli altri era manipolatorio e utilitaristico. Voleva ciò che voleva, e quando voleva lui. Attribuiva agli altri la colpa del proprio comportamento e non provava rimorso, diversamente dalla maggior parte degli esseri umani. Sapeva essere molto abile. "Attento" si disse Charlie. "Potrebbe finire per essere lui a interrogare te." Le minacce di punizione non sarebbero servite a cambiare il suo comportamento. La soluzione che Charlie gli avrebbe proposto doveva salvargli la faccia, altrimen-
ti avrebbe finito per spingerlo a scelte estreme. Le soluzioni tattiche erano preferibili. "Cercare di rimanere calmi. Cercare di essere pazienti" diceva il suo manuale. «Che cosa stai facendo?» domandò Charlie, con voce tranquilla. «Pensavo che fossimo amici.» «Sì, certo, due amiconi.» "Permettigli di dare voce a quello che prova." «Che cos'è successo? Ti ho fatto incazzare in qualche modo?» «Ehi, ehi. Non metterti a fare il filosofo.» «Vorrei sapere che cosa ti preoccupa. Dimmi come posso aiutarti. Rick.» «In realtà, non puoi fare proprio niente.» "Convincilo che gli conviene rilasciare l'ostaggio. Non mentire. Reagisce alle figure che rappresentano l'autorità, introdurre un negoziatore esterno alla polizia potrebbe peggiorare la situazione. Tienilo occupato. Offrigli qualcosa in cambio di una concessione." «Se la lasci andare» disse Charlie «chiudo il caso, lascio perdere le indagini.» Di nuovo la risata strozzata. «Non ti inseguirò. Potrai andare dove vuoi, basta che la lasci libera. Ti prego. Ti supplico.» «Be', certo... questo è credibile.» Charlie serrò le mani sul volante mentre passava davanti a una stazione di rifornimento e la pioggia continuava a cadere. Scorse di nuovo la propria faccia nello specchietto retrovisore e non riuscì a sopportare quell'espressione disperata. «Per piacere... Trattiamo.» «Niente da fare.» Charlie strinse ancora di più il volante. Si sentiva dissolvere, sgretolare. "Non irritarsi. Non interrompere la trattativa." «So dove sei diretto» disse a Rick «Ti sto dietro.» «Oh, ne dubito molto.» «Sono dietro di te.» «Uh-uh.» "Non usare parole offensive." «Pazzo bastardo, ti sono proprio dietro, invece. Tra poco vedrai la mia faccia nello specchietto, testa di cazzo! Tanto perché tu lo sappia, sono su un pickup Loadmaster.» «Cosa? Quella vecchia carretta? Quel mucchio di rottami perde come una cascata. E parlo di rottami da Terzo Mondo. No, aspetta. Anche nel
Terzo Mondo farebbe ridere.» "Mai incollerirsi, mai accendere una discussione." «Ti salto addosso e ti strappo il cuore con i denti, maledetto rotto in culo, figlio di puttana.» «Ah, sì? Tu dici?» "Non mettersi a fare il duro, non metterlo sulla difensiva." «Ti sto dietro, maledetto mostro da baraccone... ti ammazzerò con le mie mani, non illuderti di cavartela.» «Ascolta» gli disse Rick, impassibile. «Visto che sei una così cara persona, ecco cosa intendo fare. Ti rivelo un segreto del mestiere. Non lasciare che siano i modelli a fare la previsione al posto tuo. Devi usarli in base a una scelta. Si sono scottati in molti. Voglio dire... li osservi e ti fai una prima idea. Come oggi, per esempio. Sono tutti in fregola per Aberdeen. Controlla tu stesso. Guarda se le previsioni delle ventiquattrore precedenti corrispondono alla tua analisi attuale. Ma, soprattutto, ascolta cosa ti dice l'intuito. È a quel punto che entra in gioco il destino.» Charlie si massaggiò gli occhi e batté le palpebre per allontanare le lacrime. «Aspetta un secondo.» «Buona fortuna.» Con un crepitio di scariche elettrostatiche, la comunicazione si interruppe. «Pronto? Figlio di puttana!» Charlie gettò sul sedile il telefono e allungò la mano verso il vecchio selettore analogico della radio CB; tutta una serie di voci gli giunse dall'altoparlante. Prese il microfono e, cercando di mantenere la voce sotto controllo, disse: «Posso avere un'interruzione unozero? Com'è nel Texas? Com'è ad Aberdeen? Nessuno ha informazioni aggiornate?». In mezzo ai disturbi di trasmissione, gli giunsero alcuni rapporti sporadici: «Siamo sul viale, andiamo avanti... Attenti dietro, piovono palle di grandine... rallenta, dietro la prossima area di sosta ci sono un mucchio di boy scout...». Charlie osservò il cielo che si stava oscurando, poi batté il pugno sul volante fino a farsi male. Abbassò le spalle, confuso. Era una missione disperata, come cercare un ago in un pagliaio. La sua mente continuava a vagare. Il suo corpo era privo di forze, come se fosse stato preso a pugni. Il tempo scorreva via, come le gocce di pioggia sul parabrezza. Esausto e traumatizzato, pensò al furgone doppler; immaginò di vedere Rick Kripner al volante. In quella visione si affiancava al furgone, puntava la pistola
contro la tempia di Rick e gli faceva saltare le maledette cervella. "Cerca soltanto di trovarla" gli disse una voce nella testa. "Lascia perdere queste sciocchezze e trova Sophie." La voce di suo padre. Venne preso da una nuova furia. Suonò il clacson e superò un semaforo giallo, con lo scappamento che rombava. Una Pontiac che lo seguiva dovette inchiodare per non passare con il rosso, mentre Charlie imboccava l'interstatale a tutta velocità. 6 Sophie si toccò il punto alla base della gola dove in precedenza c'era il medaglione. Rick le aveva detto di aspettarla nel furgone, che avrebbe riparato la catenina in pochi minuti; ma quando era uscito dal laboratorio non aveva con sé la catenina. «La riprenderemo al ritorno» le aveva promesso. Questo era successo venti minuti prima. Adesso erano diretti a ovest, lungo la I-40, e Rick continuava a parlare di tornado, ma lei riusciva a pensare soltanto alla collana. Non avrebbe mai dovuto dargliela. «Come?» gli domandò, distratta. «Catastrofico.» Rick pulì con il pollice una macchiolina sul parabrezza. «Cataclismico.» «Ti piacciono le parole che cominciano con "cata"?» Lui rise. «Devi ammetterlo» proseguì Sophie, quando un tuono echeggiò sulla pianura. «Dare la caccia agli uragani è un hobby abbastanza strambo.» Lui la guardò di traverso. «Sono tutti eroi, nel mio libro.» «Perché, hai un libro con i giudizi sulle persone?» «Certo. Un libro e un motto. "Cogito, ergo zoom."» «"Penso, dunque inseguo." Visto? Non sono neanch'io un'imbranata. L'altro giorno, per inseguire un F2, mi sono quasi fatta ammazzare.» «Lo so. Me l'hai raccontato. E ti sei quasi fatta ammazzare perché il tuo amico Boone Pritchett non sa distinguere il suo culo da un moto elicoidale. Hai fame?» «No, grazie.» «C'è sempre del cioccolato nel vano del cruscotto, assaggialo» la invitò. «Non preoccuparti.» «No, lascia stare.» «Dico sul serio. Non fare complimenti.»
Lei aprì lo sportellino e cercò il cioccolato, più che altro per educazione. Non aveva molta fame, ma dopo aver scartato l'involucro ne assaggiò un pezzo. «Comincia a essere tardi» disse. «Non ti pare?» «Nah. È la parte migliore della giornata. Inoltre, le condizioni sono perfette. Non vorrai rinunciare a un'occasione simile?» Lei si strinse nelle spalle. «Penso di no.» «Continua, finisci il cioccolato. Dovrai essere in forze.» Lei ne staccò un altro pezzo. Cominciava ad avere seri dubbi su tutta quell'impresa. A pentirsene. Rick era stato molto persuasivo, quando si era presentato da lei. Aveva promesso di telefonare a Charlie, aveva persino scritto di suo pugno il biglietto. «Non so» disse, pensando al padre e alla sua preoccupazione. «Forse faremmo meglio a lasciar perdere.» «Scherzi? Abbiamo ancora quaranta minuti prima del tramonto, e anche dopo... Oh-oh. Non guardare, ma c'è un autoarticolato che cerca di metterci sotto.» Nello specchietto laterale, Sophie vide avvicinarsi un autocarro color cobalto della birra Mack. «È fortunato a trovare una persona gentile come me» disse Rick, rallentando. «Se vedo un grosso camion che mi viene addosso, riduco la mia velocità di cinque o dieci chilometri e lo lascio passare. Non mi piace averli alle spalle.» L'autocarro lo superò e suonò il clacson. «Come se non ti avessi visto, idiota di un mesomorfo!» Premette un pulsante e lo schermo a cristalli liquidi da quindici pollici montato sopra la testa di Sophie si accese. L'immagine mostrava una carta geografica quasi completamente rossa. «Uau. Guarda quante bestie nel Texas orientale» disse. «È ora di dirigerci a nord.» «Nord?» Lo guardò confusa. «Ma pensavo che andassimo ad Aberdeen.» «Nah. Il Texas è per i dilettanti. Prendiamo un'altra strada per il paradiso.» Sophie posò la barretta di cioccolato. Non aveva più fame. «Vedi queste due tempeste?» Rick indicò il monitor. «Guarda quella più a nord. È del tipo che viene chiamato tempesta-madre. Quando la cappa si spezzerà, crescerà in modo esplosivo. Prevedo che tra poco potremo giocare con quel bambino.» «Ma non smettete sempre quando il sole è tramontato?» «Che ti prende, hai la tremarella?»
Sophie gli fece segno di no: tutt'a un tratto si sentiva la testa leggera. Abbassò gli occhi sulla barretta di cioccolato. Non riusciva a pensare a nulla. «Ero convinto che volessi vedere un tornado di persona e da vicino, ragazzina.» «Sì, lo volevo. Voglio dire, lo voglio ancora.» Serrò le labbra. «Credo.» «Credi?» Rick aggrottò la fronte. «Non mi hai appena detto di non essere un'imbranata?» «Non lo sono, ma...» «Ma cosa?» La guardò con la coda dell'occhio. «Non vorrai mica mollarmi adesso, Sophie?» «No...» «Perché sei stata tu a supplicarmi di portarti a caccia di uragani, ricordi?» «Sì, certo.» Gli lanciò un'occhiata. «Ma...» «Ma cosa? Cosa sono tutti questi "ma"?» La guardò con sfida. «Non farmi venire il malumore, ragazzina. Non ti piacerebbe vedermi nei miei momenti neri.» Lei incrociò le braccia sul petto; aveva freddo. C'era qualcosa che le piaceva sempre meno. L'interno del furgone era gelido perché Rick aveva lasciato accesa l'aria condizionata. Passarono davanti a una stazione di servizio abbandonata, con l'insegna metallica che dondolava nel vento. Non aveva alcuna idea di dove si trovassero. La pioggia batteva sul tetto come tante piccole zampe. Rick la guardò. Sul volante, le nocche delle sue dita erano diventate bianche. «Scusa» le disse. «Non volevo spaventarti.» «No» rispose lei. «Non è niente.» Rick aveva delle macchie rosse sulle guance, come se facesse un grande sforzo per trattenersi. «Posso fidarmi di te?» le sussurrò. «Posso confidarti un segreto?» Lei chiuse gli occhi per un istante. Non voleva conoscere i segreti di nessuno. «Ricordi com'è morto mio padre?» «Sì» rispose lei. Il tornado. I campi di grano. La stalla. Lui le strizzò un occhio e Sophie sorrise involontariamente. «Perché?» «Non è vero.» «Cosa vuoi dire?» «È morto in un tornado, ma in circostanze diverse.»
Sophie cominciava ad avere sonno. Il ronzio del motore e il cielo di colore violaceo le facevano quell'effetto. «Non capisco» rispose, senza pensare. L'espressione di Rick era nello stesso tempo imbarazzata ed eccitata. «Mettiamola così.» La guardò socchiudendo gli occhi. «Mio padre era un ladro.» «Come?» Le parole di Rick avevano finalmente ridestato la sua attenzione. «Un ladro di case.» «Davvero?» «Rubava durante gli allarmi per i tornado. Ora, prima di esprimere un giudizio su di me... non mentiresti anche tu, se tuo padre fosse un ladro invece che un poliziotto?» Lei fece un respiro profondo, confusa. Non capiva lo scopo di quella conversazione. Si infilò le mani tra le ginocchia; l'aria all'interno del furgone era così fredda che riusciva a vedere il vapore del suo fiato. «Non importa come sia morto» riprese Rick. «Resta il fatto che si meritava quello che gli è successo.» Lei lo guardò con gli occhi assonnati. «Come puoi dire una cosa del genere?» «Non credi, Sophie, che alcune persone siano talmente malvagie da meritare la morte?» Il silenzio che scese tra loro le fece drizzare i capelli. Era difficile non guardare l'orizzonte. Era come ipnotizzata dalle nubi che ruotavano, si alzavano e si abbassavano. Sentiva solo il tambureggiare della pioggia e il rumore ritmico dei tergicristalli. Qualcosa in Rick era cambiato, ma lei non sapeva che cosa. Aveva la vaga impressione di essere in pericolo, ma adesso desiderava soltanto chiudere gli occhi e dormire, si sarebbe preoccupata dopo. Rick riprese con una leggera esitazione. «Avresti dovuto vedermi a quell'epoca. Ero il bambino più gentile del circondario. Il boy scout della porta accanto. Ma, con il tempo, ho cominciato a odiare tutto il mondo, capisci?» In silenzio, Sophie cercò di chiudersi in se stessa come per divenire invisibile. Il suo sguardo corse alla strada. Erano sulla I-40, in mezzo a praterie incolte e a ruderi di case abbandonate, a recinzioni cadute e a carcasse arrugginite di vecchi autocarri. Non aveva idea di dove si trovassero, la pioggia picchiava con regolarità, mentre tutt'intorno a loro il tuono rim-
bombava come onde che si frangevano. «All'inizio non era così» proseguì Rick. «All'inizio ero aperto e tenero, come te. Be', forse non proprio come te. Tu ti senti al tuo posto, vero?» Sophie non rispose. «Io non mi sono mai sentito al mio posto. Oh, posso fare finta di trovarmi bene, posso fingerlo in modo convincente. Ma è come osservare la propria vita dall'esterno, guardarla dalla finestra.» Osservò la faccia di Sophie, come per decidere se proseguire. Le mostrò la mano. «Vedi questo?» Sophie se ne rammentò. Il dito piegato in cima, deformato in modo permanente dalle schegge volanti. «Me l'ha fatto lui.» Sollevò la manica della camicia, per mostrarle alcune cicatrici grosse come un'unghia, sulla pelle del braccio. «Mi bruciava con la sigaretta quando facevo qualcosa che non andava. Era convinto che fossi incorreggibile. Per andare in bagno dovevo chiedergli il permesso e se non lo facevo mi bruciava.» Sophie aveva l'impressione che le sue mani, appoggiate in grembo, fossero divenute minuscole come le zampe di un gatto. «Ma non è nulla, rispetto a quello che succedeva le volte che facevo veramente qualcosa di brutto.» La guardò. «Quando avevo la tua età, non avevo più un solo dente.» «Cosa?» Sophie rizzò bruscamente la schiena. «Un dente per ogni malefatta.» Batté insieme i denti, come se fossero nacchere. «Una sbadataggine, una ribellione, e lui mi strappava un altro dente.» Sophie gli guardò la bocca: era proprio così. I suoi denti non sembravano veri. Troppo perfetti. Troppo bianchi. «Da bambino, mi guardavo allo specchio e mi dicevo che ero morto» proseguì Rick. «Ero piccolo, per la mia età, e avevo le gambe storte. Mi prendevano tutti in giro. Anche in estate mettevo le maniche lunghe perché i compagni non vedessero i segni delle bruciature. Non ricordo di essere mai stato felice.» Fissò Sophie. «Ma per nulla al mondo rinuncerei a quello che sono adesso... a come io stesso mi sono evoluto.» Sophie sentiva il cuore martellarle alle tempie. «C'era una sedia, in soffitta. Una sedia molto speciale, riservata a me.» Il brusio del motore, in sottofondo, aveva un effetto ipnotico. «Mi legava a quella maledetta sedia e mi chiudeva lì dentro. Mi lasciava in attesa, con tutte le mie terribili paure. Io aspettavo da solo, pazzo di terrore, e m'immaginavo il peggio. La sedia era davanti a una finestra, e io vedevo il ven-
to agitare il grano all'esterno. Pensavo fosse Dio che mi scriveva messaggi con il dito.» Rise. «Pensavo che cercasse di dirmi qualcosa.» Sophie giocherellò oziosamente con i grossi bottoni del giaccone, cercando di non ascoltarlo. "Portami a casa, portami a casa..." pensava. «Ancora oggi non sopporto di essere legato. Non prendo mai l'aeroplano. E mi rifiuto di allacciare le cinture di sicurezza.» Sophie notò che non lo aveva fatto. «Seduto lassù, fissavo le nuove cellule che si sviluppavano lungo l'orizzonte, le incudini squadrate, le cortine di pioggia che correvano lungo la pianura.» I capelli le caddero sulla faccia, nascondendo la sua espressione. «Aspettavo che salisse per punirmi. Aspettavo di sentire i suoi passi sulla scala che portava in soffitta» continuò. «Mi puniva con quello che aveva. Se gridavo, mi puniva ancora di più. Mi versava whisky sulla faccia e sul collo, poi prendeva le pinze. Io gridavo per tutto il tempo. Dopo un po', impari a chiuderti dentro di te, a distaccarti dalle emozioni. Guardi fuori dalla finestra e cominci a vedere cose.» Abbassò la voce. «Ricordo il mio primo tornado. Era solo un minuscolo F1, sottile come una cordicella, ma per me era una vera bestia. Io ero legato alla sedia, non potevo fare nulla, ma all'improvviso compresi che volevo essere quella cosa... la cosa che ti mozzava il respiro... volevo distruggere i campi di grano e correre verso la casa per uccidere tutti quelli che incontravo, compreso mio padre. Sotto i nostri occhi, tutto il raccolto venne distrutto. Mio padre cominciò a piangere. E io gli dissi: "Non preoccuparti, rimetteremo tutto a posto". Ma dentro di me pensavo che ero stato io a distruggergli il grano. Io. Ero stato io a mettergli sulla faccia quell'espressione tormentata, e mi sentivo maledettamente bene.» Un lungo silenzio. Rick si voltò verso di lei. «Ce l'hai con me?» «Perché?» domandò lei, con gli occhi annebbiati dal sonno. «Dovrei?» «Non so, mi sembri un po' distante.» Sophie si sentiva sempre più piccola. «Be', non ce l'ho con te.» «Ti ho spaventato?» Sophie esitò a parlare; non sapeva quale fosse la risposta giusta. «Non volevo spaventarti.» L'espressione di Rick cambiò, il suo sguardo divenne più caldo. «La scorsa notte ho fatto un sogno, Sophie. C'eravamo tutt'e due.» Lei fissò la maniglia della porta. Viaggiavano a novanta chilometri l'ora
e tutt'intorno a loro, fino all'orizzonte, non c'era nulla. Letteralmente nulla, tranne l'erba. Doveva saltare giù dall'auto? «Sophie?» Si avvolse nel silenzio. «Stringi la cintura» le disse, mentre superavano a tutta velocità l'autocarro della Mack. «Sei partita per la corsa della tua vita.» 7 Charlie correva a tutta velocità sulla I-40, ma fu costretto a rallentare quando incontrò un furgone della TV che aveva deciso di parcheggiare in mezzo alla strada e bloccare il traffico in arrivo, mentre il cameraman si era appostato sulla corsia di sorpasso alla ricerca di immagini drammatiche per il cronista che le commentava in diretta. Charlie suonò ripetutamente il clacson, poi entrò e uscì dalla fila, dicendo: «Scusate! Scusate!». Alla fine, disperato, svoltò su un vialetto privato e tagliò attraverso un campo, a sessanta chilometri l'ora. Quando tornò sull'interstatale, piangeva. Patetico. Le lacrime gli scendevano lungo le guance. Una voce gli echeggiava nella testa: "Non lasciare che siano i modelli a fare la previsione al posto tuo. Devi usarli in base a una scelta. Si sono scottati in molti". Perché Rick aveva parlato così? Perché aveva voluto dargli un suggerimento? Quali erano le sue vere intenzioni? Voleva metterlo su una falsa pista? Pensava che l'istinto di Charlie lo avrebbe comunque fatto sbagliare? Quella sera, Aberdeen e il Panhandle erano due centri di attività. Perché non seguire l'esempio di tutti? Forse il suo istinto gli diceva proprio quello. Altre lacrime di frustrazione continuarono a sgorgare, mentre le voci nella sua testa seguitavano a dargli suggerimenti contrastanti. "Controlla di persona. Va' dritto nel Texas, figlio. È lì che il destino ti chiama." TambureUò con le dita sul volante, tentando di concentrarsi. Aveva udito rapporti di avvistamento provenienti fin da Clarendon, nel Texas, dove un grosso sistema di tempesta dava origine a F1 ed F2, tornado più deboli che arrivavano senza fare danni e sparivano subito. A quanto pareva, ogni cacciatore del pianeta si precipitava nel Texas orientale: camioncini pieni di antenne, Explorer, alcune New Yorker della Chrysler, una vecchia Impala con il "Road Runner", il Bip-Bip dei cartoni animati, dipinto sul tetto. E cosa faceva Charlie? Andava anche lui ad Aberdeen, come tutti. "Aberdeen è il posto dove vogliamo essere, figliolo."
Ma anche: "Segui il tuo istinto". Lanciò un'occhiata all'equipaggiamento di cui disponeva il pickup: un computer portatile, un collegamento satellitare Internet e una parabola portatile da novantanove dollari per scaricare le informazioni. Suo padre aveva installato soltanto l'attrezzatura elementare. Un modem con collegamento al cellulare che non superava i 9600 bit per secondo, e questo significava che se non c'era campo o c'era troppo traffico non si poteva ottenere il collegamento. Una radio CB. Charlie ricordò quanto gli aveva detto Willa: "Oggigiorno, le radio CB sono usate molto meno, ma su tutte le strade ci sono dei camionisti, e loro hanno informazioni migliori di quelle dei bollettini meteorologici sulle condizioni della strada e sull'aspetto del cielo. Basta rivolgere loro le domande giuste e possono diventare i tuoi occhi e le tue orecchie". Tenne una mano sul volante e con l'altra accese il portatile per scaricare l'aggiornamento del servizio meteorologico nazionale. Le immagini delle precedenti quarantott'ore mostravano un'impressionante massa d'aria che si avvicinava ad Aberdeen da occidente. Il radar mostrava grandi masse rosse che arrivavano da sudovest e che coprivano il Texas orientale e alcune zone dell'Oklahoma. In lontananza, anche Charlie riusciva a sentire il rombo del tuono. "Segui il tuo istinto." Ma il suo istinto riusciva solo a confonderlo. Aveva bisogno di un esperto, di qualcuno che riuscisse a guidarlo attraverso quell'incubo. Aveva bisogno di Willa. Willa. Dio, sperava che si fosse ripresa; gli pareva che non avesse subito danni, quando l'aveva lasciata. Cercò il cellulare e compose il suo numero, ma non ebbe risposta. Quindi, provò con la stazione di polizia. «Mike? Ho bisogno del tuo aiuto per rintracciare Willa Bellman. Penso che l'abbiano portata all'ospedale... Mike?» In mezzo alle interferenze, sentì: «Capo?... hanno dovuto far rientrare gli elicotteri... troppe nuvole...». «Come?» «... dovuto far rientrare gli elicotteri... non possiamo...» «Non ti sento!» Dal telefono gli giunsero solo scariche. «Mike? La comunicazione è disturbata» disse, ma in risposta gli giunse solo il suono del proprio respiro. «... avvertito le pattuglie dell'autostrada... non pensare che...» Un'ultima scarica, poi la comunicazione s'interruppe definitivamente.
«Maledizione!» Era uscito dalla zona servita. Lasciò cadere sul sedile l'inutile telefonino e scrutò il cielo. Dove andare? Dove diavolo dirigersi? Osservò le nuvole. Gli parvero tutte uguali, il cielo era coperto da una cortina uniforme. Cercò di vincere il panico, mentre immagini di Sophie gli si affacciavano alla mente come le inquadrature di un film da montare. Sophie sottile, con le efelidi, che camminava in punta di piedi; che rideva, che piangeva, che si ritraeva davanti agli estranei. Sophie nel suo costume da "Xena, la principessa guerriera", che cercava di darsi un aspetto minaccioso. Il suo buffo sorriso. La gomma da masticare, le pantofole a forma di animaletto, le recite scolastiche; Sophie sul palcoscenico, che impallidiva perché s'era dimenticata la battuta. E lui che sentiva una stretta al cuore, in apprensione per la figlia. Controllando nello specchietto retrovisore, vide un camion frigorifero che gli veniva addosso. «Guarda 'sto pazzo, che mi mette sotto...» Il camion gli spostò lo specchietto laterale, gli inondò i finestrini e gli diede l'impressione che il suo Loadmaster fosse fermo. Lo spostamento d'aria provocato dal mezzo pesante che si allontanava a tutta velocità fece tremare il pickup. Quando il camion frigorifero l'ebbe superato del tutto, Charlie vide l'adesivo sul paraurti: "Offro birra in cambio di sesso". Prese il microfono del CB e domandò: «Ehi, dov'è l'incendio?». L'autista del camion gli rispose con un semplice: «Com'è il tuo soprannome, lì dietro?». Charlie non aveva un soprannome CB. «Chi è che spazza le foglie dietro di me?» «Charlie Carbonella» rispose infine. «Sì? Non lo cambi? "Sotto le Mie Ruote Charlie" è più indicato.» «Carbonella» insisté lui, con irritazione. «Piacere di conoscerti, Carbonella. Io sono Frigidaire. Vado a Lubbock e poi a Chicago. Nei ristoranti dove va, Wolfgang Puck vuole che la rucola sia tagliata di fresco, lo sai. Attento all'autovelox al chilometro 160.» «Mi serve aiuto per trovare un veicolo» disse Charlie. Dall'altoparlante giunsero solo scariche, Charlie guardò il terreno dolcemente ondulato, al di là del movimento ipnotico dei tergicristalli. Da una parte e dall'altra si scorgeva solo erba: erba selvatica, che si piegava al vento, come se fosse premuta da una cortina invisibile. Grosse gocce di pioggia battevano il parabrezza e chiudevano Charlie come dentro una cappa fatta di suono. Riprese il microfono e cercò di mantenere ferma la voce. «Dicevo che cerco un furgone doppler, con la scritta "Scienze Am-
bientali". «Non ho visto camion doppler.» «Un furgone... un furgone doppler scuro... Si tratta di un'emergenza.» «Spiacente amico, ma devo scrollarmi di dosso le foglie. Per le emergenze c'è il canale nove.» «Canale nove?» Dall'altoparlante giunse uno scatto, poi il silenzio. Charlie guardò il camion frigorifero allontanarsi in mezzo agli schizzi d'acqua, poi si fermò nella corsia di emergenza e lasciò il motore in folle, mentre altre auto di cacciatori di tornado sfrecciavano alla sua sinistra. Appoggiò la mano sulla pistola chiusa nella fondina e di nuovo venne colto dalla paura. Era come una pietra rovente che gli premeva nelle budella. Non voleva pensare alla figlia. Se avesse pensato a lei avrebbe perso la ragione, e questo non sarebbe servito a nessuno. Scrutò il cielo color dell'acciaio, a occidente, poi spostò lentamente lo sguardo a nord, dove nubi più scure pulsavano alla luce dei lampi. Il cielo pareva più promettente a nordest, era vero. Ma non riusciva a capire. Perché tutti continuavano a dirigersi nel Texas, quella sera? Fece scattare il selettore dei canali CB e trasmise un messaggio. «Cerco un furgone doppler.» Diede una breve descrizione. «Qualcuno l'ha visto? Cerco un furgone con la scritta "Scienze Ambientali"... un furgone scuro... Si tratta di un'emergenza.» Alcuni risposero, ma nessuno aveva visto un furgone del genere. Posò il microfono e abbassò la testa. «Chiunque abbia detto "Nessuna nuova buona nuova" era un imbecille» mormorò. Il suono della sua voce lo incollerì. Pensò ai cadaveri che avevano trovato, con pezzi di legno piantati nel corpo. Dalla vergogna si sentì bruciare la testa. Non avrebbe permesso a Rick di fare del male a sua figlia. L'idea divenne come un pugnale nel suo cuore. Non gli avrebbe permesso di torcerle un solo capello. Aveva male alla testa. Batteva in continuazione gli occhi e sentiva un formicolio alle gambe. Quelle piccole comunità agricole nel Nordovest dell'Oklahoma erano costituite perlopiù da un magazzino di prodotti agricoli e una serie di stradine che si perdevano nella prateria. Scrutò l'orizzonte, ma per chilometri e chilometri tutt'intorno scorse solo pascoli e pali del telefono. Tamburellò con le dita sul volante. La radio trasmetteva l'inno dei cacciatori di tornado: Bad Moon Rising. "Fidati del tuo istinto." Il cielo coperto era uniforme, ma l'orizzonte andava facendosi più mi-
naccioso verso nord, dove le nubi erano venate di lampi. Al di sopra dello strato grigio si scorgeva una massa di nubi di tempesta, bianche come l'avorio: si alzavano come il fungo di una bomba atomica. Occorrevano tre cose per avere un tornado, ricordò: sufficiente umidità, dinamiche che sollevassero l'aria e correnti a getto che creassero la rotazione. Occorreva trovarsi al momento giusto nel posto giusto, e avere fortuna. L'istinto gli suggeriva di dirigersi verso nordest, non verso ovest; e questo contrastava con il suggerimento degli esperti. "Fidati del tuo istinto." L'idea gli faceva accapponare la pelle. E se il suo istinto si sbagliasse? "Segui la tua strada." Ma in che direzione? Per un impulso che non avrebbe saputo spiegare, tolse il freno a mano, controllò la strada dietro di sé, poi fece inversione e raggiunse la prima uscita dell'interstatale. Percorse parecchi chilometri in direzione est prima di essere colto dal panico. "È la direzione sbagliata, torna indietro. Va' ad Aberdeen, stupido, non perdere tua figlia." Controllò la cartina posata sul sedile accanto a lui e studiò la zona a nordest della sua. Cambiò di nuovo canale CB, bloccò il microfono sulla posizione di trasmissione e disse: «Interruzione uno-zero. Cerco un furgone doppler nelle vicinanze di Erick o Texola...». "Segui il tuo istinto. Osa." Un pickup Chevrolet El Camino azzurro passava nella corsia opposta. «Ehi, interruzione uno-zero, cerchi un tornado?» gli domandò il guidatore. «Sì, qualunque notizia.» «Ho appena ricevuto una chiamata dal mio informatore. Pare che tutta quell'agitazione sopra il Texas stia scomparendo, ma che a nord si prepari qualcosa di grosso.» «A nord?» «Attorno a Sweetwater. Mi hanno detto che è stato appena dato l'allarme per un tornado. Io rinuncio... Buona fortuna!» Charlie accelerò e cercò una strada che lo portasse a nord, in direzione di Sweetwater. Dopo qualche minuto, il cielo divenne buio e lui dovette accendere la torcia per leggere la cartina. Vari altri veicoli di cacciatori di tornado gli passarono accanto, ma nella direzione opposta, verso il Texas, e Charlie venne ancora assalito dai dubbi. Passò di nuovo sul canale nove. La prima regola, tra gli utenti, era quella di ascoltare prima di trasmettere, ma Charlie commise il peccato capitale e
interruppe di nuovo. «Sono Charlie Carbonella, ho una richiesta di emergenza.» Ripeté la richiesta e udì varie voci: «... essere su un ottovolante, ma viaggiando con le gambe all'aria...». A quella frequenza, le onde radio si propagavano in linea retta e non erano riflesse dal cielo. La distanza massima andava da quaranta a centoventi chilometri, a seconda dell'altezza sul terreno e dell'antenna dei due veicoli. Su ciascun canale poteva trasmettere una persona per volta, altrimenti si creava il caos. Gli rispose una profonda voce maschile. «Carbonella? Qui Ruota di Scorta. Cerchi un furgone doppler?» Charlie afferrò il microfono. «L'hai visto?» «Cinque minuti fa. Passiamo su uno-due.» Il nove era usato anche come canale di chiamata, e questo significava che, dopo avere effettuato il contatto, dovevi passare subito su un altro canale, in modo che gli altri potessero avere campo libero per una vera emergenza. Charlie passò sul canale dodici. «Dov'era?» Una lunga scarica elettrostatica lo fece trasalire. Si udirono varie voci disturbate. «Pronto? Ripeti, per favore, Ruota di Scorta. Qualcuno si è inserito nel canale.» «... diretto a nord...» «Che strada?» Il terrore gli incrinava la voce. «Non ho sentito.» «Diretto a nord, sulla Route 30» disse l'autista che gli aveva risposto. «Non prendo spesso la Route 30, è come viaggiare su una passerella di legno. C'è una buca ogni metro.». «La Route 30?» «Cinque chilometri a ovest di Sweetwater. Quei capoccioni del Dryden Tech non capiscono un cazzo. Oggi, tutto il divertimento è ad Aberdeen. Devono avere le chiappe al posto della testa.» «Un milione di grazie.» Charlie chiuse il microfono, accelerò e proseguì fino a incontrare la Route 30. Poi si diresse a nord, passando su buche talmente grosse che ci si poteva andare a pesca. E se fosse stato troppo tardi? Ebbe un tuffo al cuore. "Mio Dio... fa' che non sia troppo tardi." 8 «Ssh.» Rick strinse le labbra fino a farle diventare bianche. «Come?» disse Sophie, che sentiva soltanto un silenzio cristallino. «Ascolta.» Lei lo fissò senza capire. Le pareva di essere in uno stato di trance. Era-
no parcheggiati sul ciglio della strada e il mondo intorno a loro era verde. Si strinse il giaccone sul collo e trattenne il respiro, ma sentiva solo il fremito del vento, il battito incessante della pioggia sul tetto, il leggero dondolio del furgone sulle sospensioni. «Quella cappa è diventata termonucleare» disse Rick. «Prevedo che saremo colpiti tra poco. Dobbiamo andare via o rimanere qui? A te la scelta, ragazzina.» Lei gli rivolse un'occhiata interrogativa. «Le torri si alzano. Un incredibile pugno contro il cielo.» Aggrottò la fronte. «Per qualche tempo rimarremo tranquilli a osservare.» Sophie annuì. Il cielo divenne improvvisamente buio; un'ombra scese sul furgone, sulla strada, su di loro. «Quando la nube collassa, vengono giù chicchi di grandine grossi come monetine da dieci centesimi, e ovviamente tu vorrai vederla più grossa. Più grossa è la grandine, più forte è la tempesta.» Piegò di lato la testa. «Ascolta.» «Che cosa?» «Eccola che arriva.» Un grosso chicco di grandine colpì il parabrezza e una ragnatela argentea si formò immediatamente sul vetro nero. Sophie sobbalzò. Con le mani strette sul sedile ne sentì la trama del tessuto. Poi le sollevò e le passò sulla lana del giaccone, e sentì il crepitio dell'elettricità statica. «Possiamo andare, adesso?» gli domandò, cercando di allontanare dalla voce la paura. «Per piacere.» La faccia di Rick era stranamente tesa, mentre fissava le scie argentee che cadevano entro il raggio di luce dei fari, due coni di alabastro che fendevano il buio. «Possiamo andare?» «Non ancora.» Era troppo deciso per contraddirlo. «Sarà un bello spettacolo. Chicchi enormi, non vorrai perdertelo.» Il furgone tremò quando una scarica di grandine batté sulla fiancata destra. Sophie portò istintivamente la mano al medaglione, poi ricordò che non lo aveva. Le lacrime le scesero lungo le guance al pensiero di quanto fosse lontana da casa. «Mi piace l'aspetto di questa grandine. Liscia. Qualche chicco appuntito. Oggi potrebbero cadere chicchi anche di sette centimetri.» «Ti prego, non farmi del male» sussurrò Sophie.
Lui le rivolse un'occhiata strana. «Quando il tempo cambia...» i suoi occhi non si staccavano da lei «... perdi il controllo... perdi il controllo e tutto cambia...» Sophie sentiva un urlo crescere dentro di lei. «Non intendo certo negare quello che sono diventato.» Tornò a guardare dal finestrino. «Cresce lentamente dentro di te... poi una voce dice: "Questa casa" oppure: "Quella". Odio vederle ancora in piedi. Voglio che il vento le spazzi via tutte.» Terrorizzata dalla tempesta, da lui, Sophie tentò di aprire la portiera ma dovette lottare a causa del forte vento, poi urlò quando una cortina di grandine sferzò il furgone, con il rumore del ghiaccio sul metallo. Bang, bang, bang. Grossi chicchi di grandine colpirono la sua pelle, pallida e tremante. Con un grido di terrore, si ritrasse all'interno. Bang, bang, bang... Una forte scarica si abbatté sul parabrezza, lasciando resti granulari sul vetro. Sophie gridò mentre la grandine colpiva tutt'intorno a loro. Tambureggiava sul tetto, ammaccava le porte, martellava sul cofano. «Voglio andare via.» Rabbrividì convulsamente. «Portami a casa!» Lui le rivolse un'occhiata scettica. «Credi davvero di essere più al sicuro, laggiù?» Fece una pausa carica di significato. Sophie s'irrigidì nel vedere che Rick le si avvicinava. Gli graffiò la faccia. «Stammi lontano!» Lo respinse con una paura animalesca. «Sta' lontano da me!» Cercò nuovamente di aprire la portiera, ma lui la afferrò per i polsi e la tirò verso di sé... così vicino che Sophie sentì il suo respiro, vide la linea sottile e bianca della sua bocca, sentì che irrigidiva i muscoli delle gambe, vicino a lei. «Quando i fulmini sono così vicini, è inutile dirlo» sibilò sulla sua faccia «si rimane in auto.» Sophie gridò. Gridò fino a sentire male ai polmoni, mentre tutt'intorno a loro il tuono rimbombava e il cielo era attraversato dalle linee spezzate del lampo. Sembrava spaventosamente vicino. Lei cercò di liberarsi, ma Rick la colpì con la mano, di taglio, sulla trachea. Sophie non riuscì più a respirare. Sentì il colpo sui tessuti molli della gola... e venne colta da un fremito... poi tutto divenne nero.
9 La strada dell'inferno, la Route 30, era dritta come una fila di formiche. Charlie finì dentro un'altra buca e sentì in bocca il sapore del sangue. «Maledizione!» Stava attraversando l'ennesima cittadina con una sola luce, saltando sulla strada piena di solchi; i muscoli gli mandavano crampi dolorosi ed era madido di sudore. Un soffio improvviso di vento scagliò contro il camioncino foglie e rami, e alcuni chicchi di grandine rimbalzarono sul tettuccio. Guardando nello specchietto retrovisore, scorse il margine settentrionale di un grosso fronte di tempesta, un'enorme supercella ribollente che giungeva da sudovest a circa quaranta nodi; l'intera atmosfera pareva avere innestato l'"avanti tutta". Un vento sempre più forte scuoteva l'erba e metteva in fuga gli uccelli. Si abbatteva sugli alberi sputando rami e foglie come semi d'anguria. A Charlie bruciavano gli occhi per la stanchezza, la corazza difensiva che si era costruito, con tanta difficoltà, nelle ore precedenti, cominciava adandare in frantumi e lasciava il posto al puro e semplice panico. Mentre accelerava, vide i corvi volare via dalla carcassa di qualche animale ucciso dai veicoli di passaggio e il lampo guizzare tra le nubi. La strada lunga e rettilinea lo trascinava sempre avanti, al di là di macchie di terra e di alberi troppo piccoli per offrire un nascondiglio. In quella regione, la monotonia del paesaggio entrava nel sangue come un veleno ad azione lenta. Un giorno ci si risvegliava e si scopriva di non poter vivere altrove. «Avanti, avanti...» Il pickup risaliva a fatica una piccola altura; nel cambiare marcia, Charlie sentì un crampo doloroso alla schiena. Cercò di non pensare alla figlia, così piccola, così inerme, e si aggrappò a qualche filo di speranza. "È coraggiosa. Si difenderà." A un certo punto scorse un veicolo davanti a sé e ridusse la velocità. Sfilò la pistola dalla fondina e la posò sul sedile. Il veicolo era parcheggiato sul ciglio della strada. Charlie staccò il piede dall'acceleratore e in quel momento scorse sul tetto il disco satellitare. "Il furgone doppler." Provò un'improvvisa euforia. Avrebbe voluto uscire di corsa dal pickup, ma tutti i suoi anni di addestramento e la sua esperienza gli impedirono di agire d'impulso. Se si fosse fermato dietro il furgone, avrebbe lasciato a Rick il vantaggio. Rick avrebbe potuto fare del male a Sophie. Meglio riflettere. "Non cercare di risolvere tutto immediatamente" si disse. "Devi essere paziente. Convincere il criminale ad arrendersi e a rilasciare l'ostag-
gio." Con gli occhi che gli bruciavano di collera, passò accanto al furgone e scorse due figure all'interno, immerse nell'alone giallognolo della luce di cortesia. Sentiva una voce dentro che gli diceva: "Non fermarti. Non fermarti". Dietro di lui, una gigantesca corrente ascensionale si faceva lentamente strada sulla pianura. In qualche modo, erano arrivati ai piedi di una grande supercella EP; pareva un'esplosione atomica degli anni Cinquanta, con la colonna massiccia, l'incudine cumuliforme, la tessitura rugosa. Con la paura che minacciava di fargli perdere la ragione, Charlie oltrepassò il furgone e proseguì ancora per parecchi secondi, fino a essere certo che Rick non lo aveva seguito. La nube a parete rotante cambiò improvvisamente forma, trasformandosi da una nebbia trasparente in una massa bruna e compatta. Era illuminata da dietro: dal fronte in risalita filtravano i "raggi di Gesù". Nella massa scura, un tornado grosso come una matita lasciò le nubi per colpire il terreno, come un piccone da ghiaccio. "Ignorare l'ostaggio. Non prestargli attenzione. Altrimenti il rapitore gli attribuisce maggiore valore" diceva il manuale. Spense le luci, mise in folle per perdere velocità e ruotò di novanta gradi il volante. Il pickup slittò sulla strada bagnata e fece un testacoda; gli oggetti sul piano di carico sbatterono fra loro con un suono metallico. Con un ultimo sussulto, il Loadmaster si fermò. Due lunghi coni d'acqua luccicavano nei raggi di luce proiettati dai fari del furgone doppler. L'aria era piena di pioggia e di foglie. Stringendo i denti, Charlie afferrò la pistola e uscì dal pickup. 10 Al centro della mente di Sophie c'era uno strano silenzio, una strana calma. La mandibola le pulsava dolorosamente. Il vento suonava come un'armonica intorno al furgone. Un'altra scarica di grossi chicchi di grandine colpì il parabrezza. Bang, bang, bang... Ancora semistordita, Sophie aprì gli occhi. Rick Kripner incombeva sopra di lei, con un'espressione rapita che le fece paura. Non lo riconosceva più. Con un grido, lo colpì sulla faccia. Lui fece una smorfia e le prese il braccio. «Qualcuno si è svegliato.» Sophie gridò di nuovo, e la sua bocca si riempì di sangue. «Pensi di poter fare qualcosa per questo tuo sgradevole atteggiamento?»
«Lasciami!» Cercò di colpirlo di nuovo. Ansimando, riprese fiato. «Lasciami andare!» All'improvviso, con indifferenza, Rick la lasciò e portò le mani al volante, stringendolo in modo possessivo. Batté i pollici al ritmo dei tergicristalli e fissò qualcosa all'esterno del veicolo, come se fosse ipnotizzato dal buio della notte. Bang, bang, bang... Ancora grandine che batteva sul furgone. Dalla parte del guidatore, il finestrino si scheggiò e sul vetro si formò una ragnatela. Dietro di loro, Sophie vedeva una spettacolare nube illuminata dal chiarore dei lampi. Afferrò la maniglia, e stava per saltare fuori quando Rick la tirò di nuovo all'interno del veicolo. «Le cose non vanno sempre come vogliamo noi, Sophie» le disse. «La vita è più divertente, così.» Cercando di respingere la propria repulsione, lei tentò nuovamente di afferrare la maniglia. Respirava a spasimi. Bang, bang, bang... Anche questa volta, Rick la tirò indietro. Bang, bang, bang... Poi successe qualcosa di incredibile. Il finestrino accanto a Rick andò in pezzi, i frammenti di vetro esplosero all'interno della cabina come mille cristalli di ghiaccio, e un enorme pugno, grondante acqua, colpì con un orribile schianto la faccia di Rick. La sua testa volò di lato, dal collo giunse uno scricchiolio. Le protesi false schizzarono via. La parte superiore della dentiera colpì Sophie sulla testa, quella inferiore le cadde in grembo. Era rosa, umida e disgustosa, e lei gridò fino a rimanere senza voce. Poi un braccio si infilò attraverso il finestrino rotto e tentò di trascinare Rick fuori dal furgone. Sophie cercò le chiavi, ma Rick tolse il freno a mano, diede gas e il furgone si lanciò in avanti, nella tempesta oscura, in mezzo alla grandine che cadeva a raffiche dal cielo. Il veicolo scivolò sulla strada, con le gomme che stridevano, mentre Rick gridava: «Dendi! Dendi!». «Cosa?» Tese la mano. «Dendi!» Ma lei riuscì solo a fissare inorridita la cavità della sua bocca, simile a un pezzo di carne cruda. Rick afferrò la parte inferiore della dentiera e se la infilò in bocca; si
lanciò nel buio con un grido osceno e acuto, come quello di un toro mentre lo castrano. 11 «Merda!» Charlie sparò tre colpi contro il furgone che si allontanava, nel tentativo di colpire una gomma posteriore. Aveva visto la figlia, e constatato che era viva. La pioggia gli gocciolava lungo il collo e il vento trasformava la sua uniforme in un milione di farfalle danzanti. Si era ferito al naso e gli sanguinavano le nocche. Aveva usato il manico dello sfollagente per spaccare il vetro e sentiva ancora con soddisfazione l'urto del suo pugno contro la mascella di Rick. Per un istante rimase come paralizzato, mentre le luci di coda del furgone si muovevano a zigzag nella nebbia. Poi infilò l'arma nella fondina e si lanciò di corsa, con gli scarponi che sprofondavano nel fango. Tornò in fretta al Loadmaster e saltò dentro. Un soffio di vento chiuse lo sportello dietro di lui. Strinse forte il volante e premette sull'acceleratore. Il pickup sbandò di lato - era come guidare sul ghiaccio - ma Charlie riuscì a raddrizzarlo. Occorreva una combinazione di pessima guida, manto stradale dissestato e carico squilibrato per far rovesciare un veicolo, e Charlie non intendeva permettere che succedesse al suo. Aveva visto che la figlia era viva e che portava la cintura di sicurezza. "Brava ragazza." Aveva anche visto che Rick non se l'era allacciata. Pessima abitudine. Ora Charlie poteva colpire a tutta velocità il retro del veicolo per spingerlo fuori strada e impedire a Rick di fuggire. Avendo la cintura allacciata, Sophie era relativamente al sicuro. Più sicura che se l'avesse lasciata andare via con lui. Il furgone doppler svoltò all'improvviso a sinistra, tagliando per i campi verso una stradina. Charlie si lanciò all'inseguimento. Le Michelin scagliavano nell'aria pezzi di terra e saltavano sui fossi. Quando imboccò a sua volta la stradina, sentì che le ruote posteriori scivolavano pericolosamente; il vecchio motore ansimava e vibrava. Non appena uscì dalla tempesta di grandine, la visibilità aumentò improvvisamente, dagli squarci tra le nubi filtravano raggi di luce rosa. Vedeva i fari posteriori del furgone ammiccare sulla strada e un orribile spettacolo davanti a loro: scariche elettriche color arancione che scaturivano dal centro delle precipitazioni, e il cono scuro di una tromba d'aria che sferzava il paesaggio, come se il cosmo fosse in collera. Una cappa esplo-
siva di venti si allargava sopra la pianura, visibile sullo sfondo vivido dei lampi, con punti di risucchio sui margini esterni. Alla base, la nube di frammenti sollevati dal mulinello era larga almeno ottocento metri; si scorgevano travi di legno e rami d'albero volare come foglie. Il mostruoso mulinello era largo circa il doppio della sua altezza: un'enorme trottola che ruotava a quattrocento chilometri l'ora. Charlie si domandò come fare per togliersi dal suo percorso. Un lampo fendette l'aria e un vento gelido penetrò all'interno del Loadmaster, Charlie lanciò un'occhiata al tachimetro; la lancetta aveva superato i novanta e il serbatoio era quasi vuoto. "Non tradirmi proprio ora, vecchia carretta!" Sentì un raschiamento poco promettente quando cambiò marcia e premette fino in fondo il pedale dell'acceleratore. Nonostante fossero nuove, le gomme scivolavano sull'asfalto bagnato, ma la distanza tra lui e il furgone diminuiva. Passò sulla corsia di sinistra, e quando fu a ridosso della vettura di Rick tenne d'occhio un punto del paraurti posteriore; l'odore di gomma surriscaldata giungeva fino a lui. Attese qualche istante, poi sterzò bruscamente a destra. Con il motore al massimo dei giri, urtò il furgone mentre entrambi viaggiavano a più di cento chilometri l'ora. Quando il Loadmaster entrò in collisione, il contraccolpo gli fece tremare tutte le ossa. Charlie si sentì sollevare. Dal suo paraurti, incastrato in quello del furgone, si levò un suono stridulo, accompagnato dall'urlo delle gomme. Ma dopo alcuni istanti il furgone riuscì a staccarsi e accelerò. Le sue gomme lasciarono sul terreno strisce di fumo bianco. Charlie schiacciò immediatamente sul freno e le quattro ruote si bloccarono. Il pickup incominciò a girare su se stesso, fuori controllo, e tutta l'attrezzatura contenuta nella cabina volò nell'aria in un turbine di pezzi di plastica. Una cassetta degli attrezzi gli finì contro la testa facendogli vedere le stelle. Il tempo parve rallentare. In un assoluto silenzio, nella totale oscurità, il Loadmaster ruotava e sobbalzava sulla carreggiata. 12 Sophie si appiattì contro il sedile mentre il furgone pattinava sulla strada e scodava, sobbalzando sulle buche. Venne attanagliata dalla paura quando si accorse che il veicolo si era fermato. Con un ultimo cigolio, tutto s'immobilìzzò. La schiena le faceva male. Portandosi le mani alla faccia notò che dove-
va ridarsi lo smalto rosso alle unghie perché si era rovinato, un pensiero assurdo. Poi sentì un suono come di acqua che scorre rapidamente. Il rumore aumentò. Subito dopo udì anche altri rumori, più profondi. Il parabrezza era coperto da migliaia di crepe, e attraverso quei riflessi, luminosi come brillanti, le parve di vedere uno sciame di insetti illuminato dai fari. Poi comprese che non erano insetti, ma frammenti aspirati verso l'alto dal feroce risucchio del vento. «Cazzo.» Rick si passò la mano sulla fronte; Sophie lo guardò senza capire. Lui la fissò; gli angoli della sua bocca si sollevarono come un sipario. Sophie provò di nuovo il terrore di poco prima. Il furgone oscillava sotto il vento che lo colpiva di fronte. Si udiva il rumore secco del legno spezzato. Sophie si voltò a guardare dal finestrino. Nell'oscurità, un trasformatore esplose a poca distanza da loro, scagliandoin aria scintille che sembravano fuochi artificiali e illuminando per un istante il tornado che sopraggiungeva. Sophie sentiva un'oppressione alla bocca dello stomaco, come una bolla che non voleva scoppiare. Un lampo squarciò il cielo quando il tornado colpì il primo di una lunga fila di pali telefonici; una scarica di scintille azzurre si allargò orizzontalmente nell'aria. Poi, a uno a uno, i pali vennero risucchiati nel vortice e sparirono. Rick girò la chiavetta dell'accensione e il motore ritornò in vita con un rombo assordante. Sophie cercò di afferrare la maniglia della portiera, ma lui la prese per il braccio e non la lasciò andare, per quanto lei cercasse di liberarsi e gridasse. Un colpo di vento improvviso spalancò la portiera e una figura alta e sparuta infilò all'interno la mano armata di pistola. Aveva la faccia sporca di sangue, i capelli appiccicati al cranio e l'uniforme inzuppata di pioggia. «Papà?» gridò lei. Rick diede gas e il furgone balzò fuori del fosso. Ma Charlie aveva un piede all'interno e afferrandosi con la mano al montante riuscì a non farsi sbalzare a terra. Sophie cercò di slacciarsi la cintura di sicurezza, mentre il padre lottava contro la portiera che gli sbatteva contro. Poi puntò la pistola e premette il grilletto. Il rumore dello sparo li assordò. Il labbro inferiore di Rick sparì. Sophie aveva gli occhi vitrei a causa dello choc. Il sangue era schizzato dappertutto. Il furgone sobbalzò sulla strada, tra una pioggia di scintille. Sophie era finalmente riuscita a sganciare la cintura, ma questo spinse
Rick a serrarle ancora più strettamente il braccio; il dolore la fece lacrimare. Un altro sobbalzo; suo padre per poco non mollò la presa. Con il cuore attanagliato in una stretta gelida, Sophie abbassò la testa e morse selvaggiamente il braccio di Rick. Affondò i denti nella pelle sudata, nei muscoli contratti, e sentì in fondo alla gola il sapore del sangue. Rick tirò indietro la mano di scatto, gridando per il dolore. Nello scorgere la sua faccia devastata, Sophie si sentì raggelare. I denti mancanti, il labbro sbrindellato. Charlie l'afferrò per la vita, la tenne stretta, e insieme si lanciarono nel caos. Lei ebbe l'impressione di cadere fuori del pianeta, a un milione di chilometri l'ora. Urtarono il terreno e cominciarono a rotolare, e Sophie si abbracciò strettamente al collo del padre. Ruzzolarono sull'erba umida finché non si fermarono. Sophie cercò di riprendere fiato, in mezzo a una confusione di fiori di campo, e sentì una fitta lancinante ai polmoni. "Prova ancora" si disse. "Prova ancora." Questa volta, l'aria irruppe nei suoi polmoni. Con le mani che tremavano per la tensione, si strinse al padre e scoppiò in un pianto liberatorio. Lui l'aiutò a sollevarsi, poi si allontanarono, sferzati dal vento. Il cielo era verde, i lampi violacei. L'aria si torceva e urlava. "Dove rifugiarsi?" Sophie sentì un fischio di gomme e si voltò a guardare il furgone. Rick cercava di allontanarsi, ma ormai era stato catturato dal risucchio e le ruote giravano a vuoto. Suo padre le appoggiò il braccio intorno alle spalle. «Non guardare indietro!» le disse. «Corri!» 13 Rick era preso in un perfido risucchio, il turbine urlante dritto davanti a lui. La corrente ascensionale toccava i centotrenta chilometri l'ora; foglie e fango venivano aspirati da quella forte corrente d'aria. Si sentiva già il classico rumore della tromba d'aria, come un treno merci. Spaventoso. Da sudori freddi. La troia... la troia giocava con lui come con lo yo-yo. Era illuminata dai lampi e dalla sua base piovevano scintille mentre ingoiava una fila di pali del telefono nel suo gigantesco vortice di frammenti in rotazione. Boccheggiando come un pesce fuor d'acqua, Rick ingranò la retromarcia e si girò sul sedile per guardare dal lunotto posteriore. «No, no, no!» Cercò
di allontanarsi dalla base della nube color indaco, dove spuntavano numerosi sottovortici, ciascuno dei quali, da solo, era grande a sufficienza da poter essere chiamato tornado. Era completamente frastornato. Quel genere di cose non sarebbe dovuto succedere. Una nube di schegge colpì il furgone, poi qualcosa si ruppe sopra di lui: la parabola satellitare. Rick sentì le arterie gonfiarsi di sangue mentre cercava disperatamente di allontanarsi. I finestrini scoppiarono nello stesso istante, con un forte schianto. Le portiere vennero spalancate dalla pressione dell'aria e poi richiuse con forza. Rick venne colpito da una pioggia di frammenti di vetro, alcuni dei quali gli produssero tagli profondi. Il mondo intorno a lui prese a girare, mentre l'attrezzatura del furgone si frantumava in mille pezzi volanti. Premette sull'acceleratore e il rumore dello scappamento gli ferì le orecchie, ma le ruote giravano inutilmente sulla strada bagnata. La visibilità era pessima, la trazione ancora peggio. Due pneumatici scoppiarono e il furgone prese a scivolare sull'asfalto inclinato su un lato; Rick sentì le vibrazioni scuotergli le ossa. I suoi peggiori timori gli tolsero il fiato. «No!!» Il furgone viaggiava ora su due ruote e minacciava di ribaltarsi. Rick si spezzò le unghie sul volante quando serrò spasmodicamente le mani nel tentativo di riprendere il controllo del veicolo. «Avanti, avanti... porca puttana!» Il furgone venne trascinato di lato, poi la tromba d'aria lo colpì con un suono assordante. Rick riuscì ancora a trarre un respiro mentre veniva inghiottito. Il turbine sollevò nell'aria il veicolo, con un gemito che scioglieva le ossa. I capelli di Rick si drizzarono come pelo toccato da una bacchetta d'ambra strofinata e l'aria gli sferzava la pelle mentre la scocca del furgone scricchiolava e si deformava. Il suo cervello era inondato di messaggi di dolore. Sentì l'urlo del metallo mentre il tetto veniva lacerato, in mezzo a una pioggia di scintille. Poi, con un grande sibilo d'aria, venne aspirato attraverso il foro del tetto e il furgone si allontanò da lui, gettato via come spazzatura. Rick era a testa in giù, poi venne girato su un fianco. Ruotava in un tumulto di vapori. Agitava lentamente braccia e gambe. Al di sopra di tutto. Gli occhi fissi nell'oscurità solcata dai lampi. Sospeso in un mulinello di schegge di vetro, masse di filo spinato, tavole di legno spezzate e chicchi di grandine scuri. Ruotava su se stesso mentre il tempo rallentava sempre più, nel buio sibilante. Finché, con orribile lucidità, capì di scendere prima ancora che la caduta iniziasse.
14 L'enorme vortice del tornado stava sradicando un filare di bassi alberi e li scagliava all'intorno come stuzzicadenti. Sbattendo gli occhi per liberarli dalla polvere, Charlie prese tra le braccia la figlia e corse con lei in mezzo all'erba; il fiato si condensava davanti a loro come se fosse ritagliato nella carta. C'era qualcosa che non andava. La guancia destra di Sophie era gonfia e graffiata, e lei aveva le labbra sporche di sangue. Charlie sentì l'accecante desiderio di sparare di nuovo a Rick. Per quella che gli parve un'eternità, corse nel campo inzuppato d'acqua, continuando a sorreggere sua figlia, finché sentì sotto i piedi l'asfalto della strada. Adesso la pioggia cadeva di sghembo e li colpiva sulla faccia. Charlie posò a terra Sophie e si guardò intorno per cercare il pickup. In mezzo alla pioggia scorse finalmente i coni di luce dei fari, che fendevano l'oscurità. «Corri!» gridò alla figlia. Sophie non voleva lasciargli la mano. Quando si staccarono, tese il braccio per sfiorargli le dita fino all'ultimo istante, poi saltarono all'interno del veicolo. Chiusero le portiere e subito la cabina si riempì del rumore del loro respiro. «Fa' in fretta, papà!» Charlie girò la chiavetta e diede gas, ma il motore si spense. «Papà!» L'aria aveva il colore dell'acqua sporca. Un grosso frammento di tetto danzò per qualche istante sul terreno, poi si allontanò come un uccello incapace di volare. La cima di tutti gli alberi era piegata nella stessa direzione: lontano dall'enorme mulinello che vorticava attraverso la prateria. «Sbrigati!» Non lontano da loro le foglie lucide di un solitario pioppo nero si agitavano come un migliaio di lingue. Il tronco era massiccio, i rami si allargavano maestosamente, e intorno a esso volava uno stormo di uccelli, che si alzava e si abbassava come un ottovolante. Poi Charlie si accorse che non erano uccelli, ma ruote di trattori e rami d'albero. «Papà?» La voce di Sophie era carica di tensione. Charlie girò di nuovo la chiavetta e il motore finalmente diede un segno di vita. Ingranò la retromarcia e lanciò il pickup all'indietro. «Attento!» gridò Sophie. Alle loro spalle un palo telefonico si piegò come fuscello sotto la spinta
del vento, poi si spezzò in due, spargendo schegge di legno nell'aria mentre veniva rimbalzando verso di loro. Charlie sterzò e si tolse dalla sua traiettoria proprio nel momento in cui la parte superiore del palo avanzava mancandoli per un soffio. Completò la manovra di inversione e ingranò la prima per ritornare sulla strada. Le schegge trascinate dal vento urtavano contro il paraurti. Il motore scoppiettava e perdeva colpi. La lancetta della temperatura dell'acqua prese ad alzarsi minacciosamente. «Muoviti, pezzo di merda...» Una raffica di vento colpì l'incrocio, facendo dondolare il semaforo appeso a un sottile cavo d'acciaio. Vicino all'ingresso dell'autostrada, le macchie irregolari di biancospino, davanti al parcheggio di un rivenditore di auto usate, erano piegate a quarantacinque gradi. I fulmini colpivano intorno a loro e la pioggia diventava sempre più forte. Poi tutto parve impazzire. Lampeggiava all'interno del turbine, dietro di esso, ai lati, come l'enorme candela dello smisurato motore a scoppio del cielo. La nube di schegge sollevò una tale quantità di polvere da oscurare il cielo. Charlie controllava con un occhio il vortice e con l'altro cercava un fosso adatto dove buttarsi. Poi lo sentì. Il suono dell'inferno che gratta con le unghie per trovare una presa. Il suono dello spazio che collassa. La polvere passava a ondate davanti ai loro finestrini: una serie di forme e di miraggi volanti. Il rumore divenne assordante. Un grosso oggetto volò sopra di loro, poi toccò terra e continuò a muoversi. Una Mazda del parcheggio delle auto d'occasione rotolò sulla carreggiata e colpì il guard-rail con un'esplosione di scintille. Pochi istanti più tardi, un camper Dodge si alzò nell'aria e ricadde a terra, con un tonfo terribile che Charlie sentì fin nelle ossa. Le automobili del concessionario vagavano lungo la strada, saltando verso di loro come ubriachi. Bum! Bum! Bum! «Merda!» Charlie era costretto ad accelerare per poi subito frenare, mentre pezzi di veicoli volavano contro di loro dalla nube rotante. Le auto rotolavano giù dalla nube nera. Una dopo l'altra, finirono sulla strada, rimbalzando su se stesse come giocattoli e spargendo sulla carreggiata benzina e olio. Era un'immagine bizzarra, luminosa e surreale. Lamiere contorte strisciavano sull'asfalto come dita di metallo. Automezzi piovevano dal cielo come se metà Detroit fosse entrata nella pattuglia volante. Charlie ingranò la retromarcia e arretrò, mentre qualcos'altro si profilava nel cielo: un'auto che ruotava su se stessa, sciabolando l'aria con il raggio dei fari accesi. Frenò e girò bruscamente il volante; il pickup scivolò di lato, proprio mentre una Pontiac verde mela piombava verso di loro.
Le grida di Sophie erano come i tagli della carta: netti, profondi e senza sangue. La Pontiac volante si schiantò appena dietro di loro, la carrozzeria batté con forza sul terreno, la scocca si schiacciò con un suono netto, come quello della campana di una cattedrale. Il metallo lacerò il metallo, il parabrezza esplose, mentre la carcassa continuava a rotolare, piegandosi a fisarmonica. Il battistrada "a denti di coccodrillo" saltò via dalle ruote quando queste si ruppero a causa dell'attrito. «Andiamo via di qui!» Sophie si coprì gli occhi. Charlie frenò e sterzò, poi spinse la figlia verso il pavimento della cabina mentre il pickup cominciava a tremare. Si sentirono scoppiare le orecchie per la pressione mentre il Loadmaster veniva sollevato nella parte posteriore. Il tornado li aveva raggiunti. "Gesù, abbiamo fatto tanto per niente." Il tornado li aveva raggiunti e ora li avrebbe uccisi. Charlie poteva giurare che il pavimento e le portiere si stessero gonfiando. L'aria puzzava di cose rimaste a lungo nascoste sotto una casa. Galleggiavano come in un fiume d'inchiostro, così denso e nero da poterlo quasi toccare. Poi, con un crepitio, il pickup ritornò in vita, sobbalzando e impennandosi lungo la strada. Le schegge colpirono come proiettili il piano di carico. Saltavano e vorticavano, e infine, quando toccarono di nuovo la strada con un tonfo sordo, Charlie si morse la lingua e sentì in bocca il sapore del sangue. Ancora uno scrollone e poi, all'improvviso... incredibilmente, tutto si fermò. Nella strana calma che seguì, rimasero immobili a sedere. Charlie attese un momento, poi guardò il cielo. Il tornado si stava lentamente riducendo, diveniva sempre più piccolo allontanandosi da loro, quindi venne riassorbito nelle nuvole, lasciando solo una scia di vapori, simile allo scarico di un motore da corsa. Charlie rimase immobile ancora per un momento, poi fece rialzare Sophie. «Tutto a posto?» Un pallido sorriso. «Sì.» «Sembra che ce l'abbiamo fatta.» Lei rise e lo abbracciò forte. E Charlie, questa volta, non avrebbe mai voluto lasciarla. 15 Proseguirono in silenzio. Il traffico era interrotto da code che si formavano in prossimità di qualche auto schiantata contro un palo della luce o
incastrata in un cartellone pubblicitario. Charlie lasciò che la figlia appoggiasse la testa contro la sua spalla. Ansimava ancora e tremava ogni volta che si udiva un tuono. Aveva le dita graffiate, la guancia gonfia e le mancava un premolare inferiore; il mostro gliel'aveva strappato. La cosa turbava profondamente Charlie; il modo in cui lei aveva perso l'innocenza. «Andiamo a casa, adesso?» gli domandò Sophie, con aria assonnata. «No, cara, ti porto all'ospedale.» Nei suoi occhi si rifletteva l'ultimo bagliore del sole. «Sto benissimo, papà. Preferirei andare a casa.» «Ssh. Non pensarci, riposati.» Con riluttanza, lei gli rivolse un cenno d'assenso e tornò ad appoggiarsi a lui. «Ma dopo l'ospedale andremo a casa, vero?» «Hai la mia parola.» «Ti voglio bene» disse Sophie, piano. «Ti voglio bene anch'io.» Si concesse qualche istante di rilassamento e venne subito colto da una grande stanchezza. Sentiva l'odore acre del proprio sudore, simile a quello dell'argilla smossa. Era sporco di fango, coperto di ammaccature. Ma ce l'avevano fatta. Erano vivi. Un vero miracolo. Inoltre, Charlie era finalmente riuscito a mettersi in contatto con l'ospedale: Willa stava bene e aveva tirato un grosso sospiro di sollievo nel sapere che Sophie era salva. Se l'erano cavata tutti. Il cielo brillava di colori allegri, gruppi di nuvole che assomigliavano a carboni da poco attizzati seguivano le nubi di tempesta in ritirata. L'aria aveva un profumo dolce, di menta, e la stella della sera si era alzata sopra le pianure. Era felice di essere vivo. E umilmente grato che il suo cuore e la sua testa funzionassero all'unisono. In quel momento lo vide. Il furgone doppler scuro. Accostò al ciglio della strada e frenò. «Che cosa c'è?» domandò Sophie. Dal lato dove s'appoggiava al padre aveva i capelli arruffati. Il furgone era su un campo di fango, capovolto. La maschera del radiatore era ammaccata.e le gomme erano squarciate. Sophie si sporse sul sedile. «Papà?» «Arrivo subito.» «Che cos'è successo?» Sgranò gli occhi. Le sue ciglia erano umide. «Va tutto bene.» L'attirò a sé con un braccio. «Non preoccuparti, cara.» «Non lasciarmi qui, ti prego.» Charlie impugnò la pistola. «Rimarrò a portata di voce.»
«Fa' attenzione» gli sussurrò Sophie. «Okay?» Charlie scese lungo il leggero pendio, fino all'erba che cresceva selvatica e che assumeva sfumature rossastre al sole del tramonto. Si avvicinò con estrema cautela al veicolo rovesciato. La barra dello sterzo sporgeva come un osso fratturato e il paraurti dall'aria minacciosa era sollevato di mezzo metro. Al di sopra del rottame, un fantastico arcobaleno si allargava nel cielo. Puntando davanti a sé la pistola, Charlie disse: «Esci immediatamente dal veicolo! Appoggia le mani dove posso vederle!». I finestrini erano rotti, il tetto era aperto. Charlie puntò la .38 verso l'interno della vettura mentre faceva lentamente il giro del relitto, poi si chinò per osservare meglio. L'interno era vuoto. Charlie si raddrizzò con un brivido e osservò l'orizzonte, con la sua fila di fattorie scure sullo sfondo del cielo chiaro. Una languida nuvola di farfalle si era alzata sul prato, all'ultima luce del giorno. In alcuni punti il tornado aveva strappato via tutta l'erba, lasciando una scia di danni lunga più di un chilometro, che aveva colpito soprattutto la prateria incolta. Lanciò un'occhiata in direzione del pickup, dove la figlia lo guardava con gli occhi dilatati dalla paura. Al sole che la illuminava, la sua faccia sembrava avvampare. Charlie aveva nel taschino il medaglione d'argento della figlia, ma prima di darglielo voleva pulirlo dal sangue. Inoltre, finché tutto non fosse ritornato normale, non intendeva parlarle della morte del nonno. «Papà?» «Arrivo subito.» Lei lo salutò con la mano, con aria triste. Quel momento sarebbe rimasto per sempre inciso nella mente di Charlie. Diede ancora un'occhiata intorno, poi infilò la pistola nella fondina. Era meglio chiamare la polizia locale. Che se ne occupassero loro. La figlia lo aspettava. Poi notò una macchia bianca sulla terra nera e fredda. Impugnò di nuovo l'arma e corse attraverso il campo, sui solchi coperti di foglie bagnate; l'odore della terra arata di fresco gli riempiva le narici. I suoi scarponi affondavano nel terreno soffice; presto cominciò ad ansimare, mentre si allontanava sempre più dalla strada, sempre più dalla figlia. Passò sull'argine di un fosso, mentre un senso di trepidazione gli correva lungo la schiena, poi si chinò a osservare, nella penombra. La camicia di flanella era volata via. E così scarpe e calze. La vittima
indossava solo i blue jeans; a quanto pareva, il resto dei suoi vestiti era stato risucchiato dal turbine. Charlie emise un sospiro secco intanto che si piegava sulle ginocchia per osservare meglio. Il petto della vittima era coperto di steli di frumento, piantati nella pelle come gli aculei di un porcospino. La faccia era troppo danneggiata per essere riconoscibile. L'aspetto più inquietante era l'angolazione impossibile del collo e l'infossatura nel cranio, come se il corpo fosse caduto da una grande altezza, a testa in giù. Gli occhi, neri e lucenti come due insetti, erano fissi e dilatati. Chiunque fosse, era morto; impossibile sbagliarsi. Charlie provò a girare il corpo. Sul tronco e sulle braccia si scorgeva una serie di vecchie cicatrici, alcune grosse come dita. Un'inquietante testimonianza di maltrattamenti infantili. Si sforzò di vincere la collera e lasciò ricadere il corpo. Le gambe erano spezzate e intrappolate in una matassa di filo spinato. Sarebbe stato necessario tagliare quel filo arrugginito per arrivare alle tasche dei calzoni, che forse contenevano ancora un portafoglio con un documento di identità. In lontananza si udiva una sirena, molto debole. Esaminando la bocca fratturata della vittima, Charlie spostò le labbra e vide che non aveva denti, poi passò attentamente la punta del dito sull'arcata della mascella. Era certamente Rick. Non poteva essere che lui. Il furgone nei pressi. Il colore dei capelli. Senza denti. All'attaccatura del naso due macchie rosse, corrispondenti ai punti dove si appoggiavano gli occhiali. Poi, con i capelli mossi dalla leggera brezza, Charlie ricordò un particolare. Afferrò il braccio destro del morto, lo girò e vide ciò che cercava: il segno inequivocabile di un morso. L'impronta dei denti di Sophie, nella pelle bianca come gesso: gli incisivi laterali, riconoscibilissimi perché leggermente accavallati. Era Rick Kripner, non rimanevano dubbi. Charlie lasciò il braccio ormai freddo e cercò di calmarsi, ma il cuore non voleva smettere di martellargli nelle orecchie. Aveva trovato il killer... ma non era ancora soddisfatto. Il suo sguardo indugiò con sospetto sul corpo martoriato che giaceva davanti a lui, gli occhi vuoti, la faccia immobile. La cosa non aveva alcun senso. E anche in futuro, Charlie ne era convinto, la realtà avrebbe continuato ad apparirgli priva di senso. Rick Kripner gli era sempre parso una persona assolutamente ordinaria. Si alzò e sentì all'improvviso tutta la stanchezza di quella giornata. Le sirene erano più forti, adesso. Abbassò lo sguardo al suolo, dove, semisepolta in mezzo al fango, si scorgeva una tazza di plastica. "Tazze di plastica;
punte di freccia" pensò. Su quel terreno si erano combattute battaglie più grandi della sua. La storia era soltanto un posto come un altro dove passava il vento. «Papà?» «Arrivo.» Ci fu un imprevisto movimento dell'aria e Charlie ebbe l'impressione che il vento gli soffiasse sulla spalla, come per toccargli il braccio. Un buffetto amichevole. Un avvertimento. Si voltò, ma non c'era nessuno; solo un corvo che pareva osservarlo. Continuò per un istante a scrutare l'orizzonte, dove una lontana macchia di querce era ancora agitata dal vento. Un improvviso soffio gli spostò i capelli sulla fronte e Charlie se li ravviò. Il vento si allontanò senza fretta, scompigliando i suoi capelli e le sue certezze; scivolava sul terreno arato e, seguendo la sua antica danza, sfiorava le spalle curve della prateria. Aveva spinto Charlie a ricominciare. Gli aveva ridato il dono del respiro, poi era passato ad altro. UNA SETTIMANA DOPO A dividere a metà l'Oklahoma c'è un'area chiamata Cross Timbers, una scia impenetrabile di querce che corre lungo la fascia centrale dello Stato. A est del Cross Timbers ci sono le foreste, dove le precipitazioni annuali a volte superano i mille millimetri. A occidente c'è invece la parte più asciutta dell'Oklahoma, un tempo territorio degli indiani delle praterie, i bellicosi nomadi che seguivano le migrazioni delle mandrie di bisonti. Laggiù iniziava il selvaggio West: nell'arida prateria delle Grandi Pianure. Passando da ovest a est, il terreno scende come una gradinata: gli altipiani del Panhandle lasciano il posto a una serie decrescente di rocce sedimentarie. L'arenaria rossa dei canyon della valle, portata dai fiumi sulla pianura, ha formato una grande distesa di terreno leggermente ondulato. Laggiù la terra è rossa, il grano è giallo, il cielo talvolta verde durante la stagione dei tornado; ma il cuore dell'Oklahoma è fedele al rosso, al bianco e all'azzurro. Charlie era insieme a Willa e Sophie su un'altura e guardava il cielo, verso sud, dove l'orizzonte sfumava in una linea di nubi e la lontana tempesta, punteggiata di lampi, saliva a un'altezza superiore ai cinquantamila piedi. Pioggia battente, nebbia e il brontolio ininterrotto del tuono. Isaac avrebbe approvato.
Sophie teneva fra le braccia l'urna con le ceneri del nonno; il dolore l'ammutoliva. Il medaglione d'argento era di nuovo appeso al suo collo. A nord, il cielo era striato di nubi a coda di cavallo, e ogni volta che il sole usciva da dietro le nuvole si vedevano luccicare i campi, dove centinaia di fiori multicolori, in tutte le sfumature dal rosa al violetto, si agitavano al vento. Charlie, che per l'occasione portava la camicia bianca e la cravatta, aiutò la figlia ad aprire l'urna e insieme si prepararono a spargere nel vento le ceneri di Isaac. Sophie appoggiò tutto il peso del corpo su un piede e sentì un brivido correrle lungo le vertebre, come se fosse un millepiedi, mentre Willa leggeva ad alta voce alcuni versi di Christina Rossetti: Chi ha visto il vento? Non io, non tu. Ma quando chinan gli alberi la testa Allora è il vento a passare laggiù. Sophie tese i muscoli: sul suo viso si disegnò una smorfia di nervosismo. «Devi farlo tu» disse al padre, porgendogli l'urna. Charlie sparse nel vento le ceneri. «Arrivederci, papà.» Salirono nell'aria come uno sciame di insetti, mentre una luce verde filtrava da uno squarcio tra le nuvole. Quel che c'era in lui di giusto e di forte gli veniva dal padre; dal padre gli venivano anche gli errori e le debolezze, ma adesso poteva accettarlo. Willa chiuse il libro e li guardò con grande commozione. Charlie la strinse a sé, pensando alla solitudine che provava la mattina quando lei si alzava per andare al lavoro e lasciava nel letto l'impronta del suo corpo. Una piccola depressione tiepida, a forma di mezzaluna. Willa si alzò in punta di piedi per dargli un bacio; le tremavano le gambe, una lacrima le scivolò lungo la guancia. Il sole illuminò il loro viso e per un trepido momento ebbero la sensazione di essere in pace con il mondo. Charlie Grover aveva ritrovato la sua speranza. «Il nonno è volato via con il vento» mormorò Sophie. «Come ha sempre voluto.» Tutti insieme contemplarono lo spettacolo dell'erba in movimento. Echinacea e lavanda rallegravano la prateria, dove un tempo brucavano mandrie sterminate di bisonti. Le mandrie non c'erano più. E anche il loro dolore parve svanire nel vento.
Ringraziamenti Molti ringraziamenti a Sara Ann Freed, Jamie Raab e Larry Kirshbaum, Carter Blanchard, Helen Fremont, Wendy Weil, Rich Green e Keya Khayatian, Harvey-Jane Kowal, Kristen Weber, Molly Kleinman ed Emily Forland, Eric Brown e Mike Rudell; e soprattutto a mio marito Doug, che con la sua saggezza e il suo intuito ha reso migliori queste pagine. FINE