MILDRED DAVIS SCORPION (Scorpion, 1977) 16 aprile Appesa alla parete c'era la foto di una ragazza nuda, di spalle e, sot...
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MILDRED DAVIS SCORPION (Scorpion, 1977) 16 aprile Appesa alla parete c'era la foto di una ragazza nuda, di spalle e, sotto, la scritta: "Andate a vedere anche l'altra parte delle Isole Vergini". Mi sentii scivolare di dosso nove anni di vita e mi ritrovai, diciottenne, a respirare a fatica quell'aria umida mentre, sopra di me, risplendeva lo stesso astro rovente di allora e, lì davanti, lo stesso mare turbolento passava dall'azzurro acquamarina al grigio nerastro dell'ardesia, come due sostanze coloranti che si fondessero l'una nell'altra. Persino la donna nella baracca immigrazione pareva la stessa. Un donnone dal viso nero e rotondo che esprimeva qualcosa in più del normale riserbo. Esprimeva ostilità. E i tre isolani distesi nel gioco d'ombre e di luci a scacchiera erano la copia identica degli altri uomini che avevo lasciato lì alla partenza, parlavano lo stesso loro incomprensibile dialetto e mostravano la stessa inimicizia. Mentre guardavo gli aerei fermi sul campo, residui riadattati della seconda guerra mondiale, e le barche che passavano in lontananza, mi aspettavo di vedermelo ricomparire davanti da un momento all'altro: col suo corpo abbronzato da atleta, i capelli di un biondo quasi stinto, i denti bianchi e radi e il solito sorriso da presa in giro. E invece vidi soltanto la strada polverosa, la fila di taxi in attesa, gli altri passeggeri che sbarcavano e i miei nonni. Patricia e Nicholas Eban arrivavano dal molo e, visti in distanza, parevano due persone sulla trentina. Perché erano giovanili di fisico: poco più alti della media, magri e abbronzati. Ma man mano che si avvicinavano, i loro sessant'anni passati gli cascavano addosso, come due personaggi di James Hilton scacciati dall'utopica Shangri-La. «Holly, tesoro!» Mia nonna mi sfiorò la guancia con un bacio e poi fece un passo indietro, per guardarmi bene. «Sei rimasta tale e quale. Mi par quasi di averti messa sull'aereo in partenza solo ieri. Sono tanto felice di rivederti.» Per me, fu come se mi si stesse afflosciando sotto gli occhi un soufflé. Non so che cosa mi aspettassi di preciso, ma certo non quello. Inconsciamente me l'ero immaginata con almeno un po' di partecipazione emotiva a versare due lacrimucce sulla mia spalla per il lutto che mi aveva colpita,
mentre mi stringeva forte tra le braccia chiamandomi la sua adorata nipotina. E invece era gentile e cordiale come lo sarebbe stata nell'atto di accogliere un conoscente, neanche un amico, che si presentava senza preavviso a passare due settimane da lei. Mio nonno si dimostrò invece più affettuoso, e tutti insieme recitammo il solito rituale della gente che si rivede dopo molto tempo: notavamo reciprocamente i cambiamenti avvenuti in ognuno di noi e, contemporaneamente, ne negavamo l'evidenza. A interrompere il cerimoniale fu l'uomo che stava dietro il bancone di legno della baracca, che voleva sapere se avevo con me dei generi alimentari o dei liquori. Gli mostrai le cinque bottiglie di rum comprate a St. Thomas che non gli interessarono per niente, e lui mi porse un modulo sul quale dovevo scrivere da che paese venivo, quanti anni avevo, che mestiere facevo e qual era il motivo del mio viaggio fin lì. Il caldo e la luce accecante mi facevano girare la testa, anche perché indossavo ancora il completo pantalone e l'impermeabile che mi ero messa partendo da New York. Tolsi l'impermeabile e la giacca e andai al banco a ordinarmi una Coca Cola. C'era sempre il solito cartello che avvisava che lì non si faceva credito e gli uomini intenti a giocare a carte, ne ero sicura, erano gli stessi che avevo lasciato partendo nove anni prima. Mentre mio nonno sbrigava le formalità io mi misi a studiare la stranezza dei contrasti di quel posto: turisti equipaggiati di tutto punto spiccavano in mezzo agli indigeni in leggeri abiti di rayon; manifesti che mi garantivano di trovarmi in paradiso si mescolavano ad altri che mettevano in discussione i diritti dell'individuo in base al Patto di Varsavia; colibrì neri e azzurri volavano in mezzo a blocchi di cemento, carriole e badili. Senza dubbio, erano le stesse carriole e gli stessi badili di allora. Pareva proprio che su quell'isola non ci fosse nessuno in grado di amalgamare tutti quei materiali per ottenerne un'opera compiuta. Alta su tutto, sventolava la bandiera del Regno Unito. «I tuoi bagagli li lasciamo qui» disse mio nonno. Nonostante il caldo, era impeccabile: la camicia e i pantaloni non gli facevano una grinza. «Harold tornerà a prenderci alle quattro.» «Che cosa facciamo fino alle quattro?» «Dobbiamo comprare dei viveri. Pensavamo che ti facesse piacere rivedere la città dopo tutti questi anni.» Nel mio ricordo l'isola era andata riducendosi a una capocchia di spillo che emergeva dall'oceano e ora, mentre la attraversavamo in taxi, mi me-
ravigliai che fosse tanto lunga. Il primo tratto di strada era pianeggiante e sporco e dai finestrini abbassati entrava polvere. Davanti a una casupola decorata a stucco vidi un uomo con in mano due bottiglie di rum: mentre ne faceva dondolare una, si portava l'altra alla bocca. «Che cos'è, il suo spuntino delle dieci?» chiesi, ma l'unico a sorridere fu il taxista. Mentre passavamo sopra un ponte di legno, superando un uomo a cavalcioni di un asino e le baracche stuccate di verde e rosa e i cortili zeppi di cianfrusaglie e le capre che vagavano in libertà, i ricordi cominciarono a rifluire nella mia mente. L'ultima volta che ero passata per quella strada era stato con Algie, di ritorno da un ballo in uno degli alberghi. La sua vecchia Ford sferragliava con un rumore assordante e ci sbatacchiava a destra e a sinistra, mentre lui cantava stonato con tutto il fiato che aveva: "Diciott'anni soltanto di ragazzo, ma nessuno può negare, perché rischia la vita come un pazzo, che a testa alta può andare..." Evidentemente mia nonna sapeva leggere nel pensiero, perché disse: «Sai che anche Algernon Vincent è sull'isola?» Anche se pensavo di esserci preparata, anche se avevo pregato che così fosse e temuto che così fosse, mi sentii torcere le budella e temetti di sentirmi male. Mi voltai a guardare dal finestrino e la mia mano, inconsciamente, si sollevò furtiva per nascondere il mio viso al loro sguardo. «Con sua moglie e sua figlia» aggiunse Patricia Eban. La strada cominciava a salire. Sotto, il porto a semicerchio pareva una mezzaluna piena di barche. Le montagne verdi scivolavano nell'oceano azzurro, unica linea di demarcazione una striscia di sabbia. Poi la strada tornò a scendere e ci trovammo di nuovo immersi nello squallore. Sale cinematografiche, stazioni di rifornimento, caserme, alberghi, uffici, scuole e la sede di un quotidiano, nascondevano mare e montagne. Il taxi si fermò in una stradina brulicante di ragazzini scalzi che giocavano a palla. Una casa era coperta di vistosi affreschi murali. Mentre Nicholas chiedeva al taxista di passare a riprenderci al supermercato alle tre e mezzo, io seguii mia nonna: oltrepassammo un'insegna che garantiva trattarsi di un "Ristorante con cucina casalinga", salimmo una scala esterna e ci trovammo in una tetra stanza col pavimento in linoleum. In un angolo c'era un flipper, nell'altro un bar miserissimo e, in mezzo, dei tavoli e delle sedie con le gambe in metallo. Eravamo gli unici clienti, eppure i tre indigeni non ci prestarono alcuna attenzione. Mio nonno, per fare l'ordinazio-
ne, dovette andare al bar. Nell'attesa che ci servissero scacciammo le mosche dalla tovaglia di plastica e ascoltammo i rumori che arrivavano, lontani, dalla strada. Gli argomenti di conversazione si erano esauriti, e sembravamo isolati dal resto del mondo, sia esterno sia interno. Le parole mi uscirono di bocca prima che mi rendessi conto che stavo per dirle. «Perché mia madre mi raccomandava sempre di non tornare più sull'isola?» 16 aprile Loro due non si scambiarono neanche un'occhiata. Si misero invece a scrutare le macchie della tovaglia. Alla fine mio nonno mi chiese: «Tua madre ti raccomandava di non tornare più a Scorpion?» «Sì.» «E non ti ha mai detto perché?» «No.» Sul suo bel viso si dipinse un'espressione a metà tra il beffardo e qualcos'altro difficile da definire. «E allora perché lo chiedi a noi? Come facciamo a saperlo, tua nonna ed io?» «Saprete pure la ragione per cui aveva rotto i rapporti con voi.» Fu mia nonna a rompere il silenzio. «Holly, tesoro, qualsiasi cosa noi ti dicessimo di tua madre sarebbe orribile, adesso che lei non può più difendersi. Non bisogna parlar male dei morti.» La stavo ancora fissando quando arrivò la cameriera con tre piatti colmi di cibo e le nostre birre. Quando se ne fu andata, dissi: «Non vi piaceva molto vostra nuora, vero?» Mio nonno intervenne di nuovo. «E lei, di noi, che cosa ti ha detto, Holly?» «Be'... quasi niente. Vi nominava di rado. E ogni volta che io le chiedevo qualcosa mi rispondeva che un giorno o l'altro mi avrebbe parlato di tutto. Ma non l'ha mai fatto.» Svelta, mi infilai in bocca la mistura di crostacei e salsa rossa. Fu un ottimo antidoto contro la commozione. «Caspita! Com'è che non mi avete avvisato?» «Non ti piace?» «Mmm. Un momento. Lasciatemi superare lo choc iniziale.» Bevvi un sorso di birra e riprovai a mangiare, con maggiore prudenza. «Ebbene, sì. È fantastico. E pensare che quando ho letto "Cucina casalinga" non ci ho
creduto.» «Che cosa ne diresti adesso di concedere a noi un po' di credito e di lasciar cadere l'argomento che stavamo trattando?» A mio nonno, quando sorrideva, il viso diventava più triste, perché le rughe attorno agli occhi si facevano più profonde. Per alcuni minuti pensai soltanto al mio pesce bollente e pieno di spezie. Dalla finestra, vedevo i cancelli della prigione. I turisti che si fermavano a osservarla a loro volta o erano appena arrivati, e quindi pallidi come lenzuola e super-vestiti, oppure già sul posto da una settimana, e di conseguenza semisvestiti e coperti di vesciche. Di nuovo le parole mi uscirono di bocca senza che me ne rendessi conto. «Com'è morto mio padre?» «Hai proprio deciso di pestar duro tutto in una volta, vero, Holly?» Voleva essere una domanda, quella di mio nonno, anche se per lui era una certezza. Strascicando le parole, mia nonna disse: «Holly, tesoro, sei venuta da noi solo per farci un sacco di domande?» Il suo appunto mi raggelò. Mia nonna mi aveva parlato con gentilezza, eppure mi chiesi se non volesse ricordarmi che era partita da me l'idea di andare a trovarli, e non da loro. Mi passai una mano sulla fronte per pulirmela, anche se non c'era niente da pulire. «Mi sono messa in contatto con voi perché mia madre era appena morta, non avevo altri parenti, ero sola...» Lei mi prese la mano. «Ma certo, tesoro.» «E il rivedervi mi ha riportato tutto alla mente. Mi sono sempre chiesta il motivo... il motivo della frattura insanabile tra mia madre e i miei nonni.» «Ci vorrebbero ore per spiegare le cose. Prima di tutto lei era sempre stata convinta, una fissazione irrazionale la sua, che noi non volessimo che nostro figlio la sposasse. Non siamo riusciti a convincerla che non ci importava che fosse figlia di un bottegaio e nemmeno che lei e tuo padre non avessero neppure vent'anni, e fossero quindi troppo giovani per pensare a formarsi una famiglia.» «Non voleva che stessimo vicini a Dorsey» aggiunse mio nonno. «Era come se fosse gelosa di noi. E infatti ha rifiutato qualsiasi regalo e offerta di aiuto economico da parte nostra.» «E ti ha tenuta lontana da noi.» Spostavo gli occhi dall'uno all'altra. Erano due giocatori che correvano per il campo passandosi la palla a vicenda, per non farla cadere in mano all'avversario.
Fuori passava un corteo funebre. Un carro mortuario nero avanzava lento, fiancheggiato da uomini in abito e giacca. Dentro al carro era deposta una bara color porpora e argento. All'improvviso due mani mi coprirono gli occhi, qualcuno mi baciò sulla guancia e una voce gridò stridula: «Holly!» Nel girarmi per poco non rovesciai la mia birra. Per un attimo nella mente mi si fece il vuoto, poi le immagini cominciarono a mettersi a fuoco nelle pagine dei ricordi. «Selina! Selina Morris!» «Ehi, stupidella! Selina Morris, appunto! Come credi che abbia messo a profitto questi nove anni? Adesso sono Selina McKnown, e questo è il sottoprodotto delle mie fatiche.» Abbassai lo sguardo su un bambino coi capelli castani, in jeans con le toppe, camicina scolorita e sandali di plastica. «Oh, Cielo!» «No, per la verità si chiama Beanie.» Tra lei e suo figlio c'era Ted McKnown, sempre con la sua aria da ragazzo, i capelli biondi e un modo di guardare fisso che mi metteva leggermente a disagio, come se avessi fatto qualcosa di disdicevole. Selina era alta come lui e aveva dei lineamenti tutti sbagliati, dalla bocca troppo grande al naso troppo prominente agli occhi troppo piccoli, ma che tuttavia si fondevano in un gradevole insieme. «Ehi, non è una tragedia, credimi» disse Ted. «Siamo tutti invecchiati, ma non piangerci sopra.» Io presi la mia borsa, trovai un fazzoletto di carta e mi ci soffiai il naso. «Non riesco a crederci. È passato tanto tempo. Non sapevo nemmeno che voi due vi foste sposati.» «Ho cercato di fartelo sapere, ma avevi traslocato. E Patty e Nicholas non sapevano...» si interruppe. «Patty e Nicholas non hanno saputo dove fosse finché non hanno ricevuto la lettera con cui li informava della morte di sua madre» terminò per lei mia nonna. «Holly, abbiamo tante cose da raccontarci per recuperare il tempo perduto. Voglio sapere tutto quello che hai fatto. Hai un aspetto splendido, ma sei un po' magretta. Fammi vedere la mano. Non sei sposata?» Mentre ascoltavo la sua voce familiare, sentivo la mia calotta di ghiaccio che si scioglieva. Mi accorsi che era aumentata leggermente di peso ma, quanto alla persona fisica, le differenze con allora erano del tutto trascurabili. Aveva sì qualcosa di nuovo, ma non mi riusciva facile stabilire di che cosa si trattasse di preciso. Era sparita una certa luminosità in lei, e non perché
fosse invecchiata ma perché non aveva più la passione di un tempo. Mio nonno si alzò e pagò il conto. «È meglio andare. Abbiamo da fare un sacco di cose.» «Non mi scapperai di nuovo tanto facilmente» disse Selina. «Quanto ti fermi con noi, Holly?» «Ho due settimane di ferie. Fino al primo di maggio.» «Ah, Beltane» disse Ted, e io lo guardai senza capire. «Non fargli caso» mi disse Selina. «Gli sta prendendo la stessa pazzia di D. J. Quella è sempre in mezzo a tutte le buffonate possibili, ma ti racconteremo poi. L'hai già vista? Be', al massimo la rivedrai domani sera. Vi aspetto tutti per cena.» Tornammo all'aperto, nel sole, giù per la scaletta traballante e poi verso la via principale. Mi guardavo attorno e ogni cosa era un punto di riferimento che si tirava dietro dei ricordi, come una corda trascina un aquilone. La banca in cui Algie aveva riscosso l'assegno che mio nonno gli aveva dato per ricompensarlo dell'aiuto a costruire un certo muro, il negozio di ferramenta dove andava a comprare gli aggeggi per la sua auto, la chiesa Episcopale coperta di buganvillea nella quale mi aveva detto che ci saremmo sposati. Quando i McKnown se ne furono andati a fare le loro commissioni, mia nonna disse: «Probabilmente dai McKnown ci sarà anche Algie. Ti dispiace?» «No di certo. Guarda, su quella panca c'è una gallina. E là ecco la gelateria. Oh, prendiamo un taglio di limone al seltz.» «Dopo tutto quel pesce e quella birra, tesoro?» «Oh, per piacere, corriamo questo rischio in memoria dei vecchi tempi!» Entrammo nel fresco negozio Danese, diviso in due settori: il primo, la gelateria, piena di tavolini dalle gambe affusolate e il secondo di porcellane, gioielli, biancheria da tavola e indumenti. «Sapete che ho sognato per anni di tornare qui a mangiare il gelato? Non ho mai trovato un posto in cui li facessero altrettanto buoni. Patty, Nicholas, non so dirvi quanto sia felice di essere di nuovo qui.» «È così che intendi dunque chiamarci? Patty e Nicholas?» Mio nonno succhiò quel che restava di gelato sul fondo del bicchiere, senza farsi nessun riguardo. «Selina vi chiama per nome. E, del resto, voi mi chiamate Holly, no?» «Proprio non mi riesce di afferrare la tua logica.» «Per me non fa differenza» disse mia nonna. «Mi piace.»
Arrivati al supermarket li vidi riempire il carrello di succhi di frutta, carne congelata, frutta fresca, verdura, cibi in scatola, sacchetti di riso, farina e zucchero. «Vi aspettate un assedio?» Siccome nessuno dei due apriva bocca, continuai: «Perché tutti questi viveri? Io non mangio così tanto.» «Be'... non sappiamo mai con certezza quando potremo ritornare.» «E perché? Che cos'è che ve lo impedisce?» Stavo esaminando le etichette dei succhi di frutta, tutti con nomi esotici, e non sentendomi rispondere alzai lo sguardo. Stavano scambiandosi delle occhiate. «Oh, a volte il mare è troppo agitato.» «Se non sbaglio ai vecchi tempi non ci è mai capitato di restare senza provviste.» «E altre volte le barche si guastavano... adesso che mi viene in mente, sarà meglio che compriamo del carburante già che siamo qui.» «Credevo ne tenessi sempre una tanica di scorta.» «Sì, ma non sempre, quando occorre, si trova Phil per aprire il capannone.» «Chi è Phil?» «Phil di Bitteto è il sovrintendente di Scorpion. Siccome vive sull'isola tutto l'anno...» «Ma non ci state anche voi due tutto l'anno?» «Sì, ma solo da poco. E gli altri vengono solo per qualche mese, quindi occorreva una persona che tenesse sotto controllo gli impianti idraulici, assumesse operai, comprasse il materiale da costruzione...» Eravamo arrivati alla cassa e la nostra conversazione venne sospesa mentre ci facevano il totale dell'importo da pagare. Ci dirigemmo verso il posteggio dei taxi ciascuno con un sacco tra le braccia. Stavo guardando la gente che sbarcava da un traghetto e si riversava al controllo doganale quando, all'improvviso, ci trovammo in mezzo alla calca. In un primo momento credetti si trattasse di un inconsueto afflusso di turisti ma poi mi resi conto che tutta quella gente era nera. Facevano ressa davanti al ristorante in riva all'oceano, sui gradini dell'ospedale e persino sul prato antistante la residenza del governatore. «Che cosa succede?» Mio nonno fece spallucce. «C'è sempre in ballo qualcosa.» Dal fondo di un camion un oratore arringava la folla, ma le sue parole si perdevano nel baccano generale. Ero solo un po' curiosa, finché non lessi il cartello con scritto: "Bianchi, tornatevene a casa vostra!"
Fu come se mi dessero una mazzata in testa. Mi voltai lentamente e mi accorsi che eravamo gli unici bianchi. «Andiamo via» dissi a mio nonno. E lui, senza neppure abbassare la voce, disse: «Tutti hanno una buona causa da perseguire. Io ho deciso che un giorno o l'altro sfilerò per le strade con un cartello che dica: "Il mondo è cattivo con la gente che ha superato i sessant'anni".» Mi caddero gli occhi su una donna alta e massiccia con una veste larga di colore vivace che ci guardava fisso. E la vidi farsi largo tra la folla nella nostra direzione. Contemporaneamente notai un poliziotto, nero anche lui, che se ne stava ai margini della calca. Pareva non essersi accorto della nostra presenza perché si appoggiò a un negozio, le membra rilassate e le braccia conserte, ma il saperlo là mi diede un certo conforto. «Siete di Scorpion?» Era la donna che ci fissava. Mia nonna la guardò un istante e poi fece un cenno d'assenso. «Abbiamo una casa a Scorpion, sì.» Come per caso, il poliziotto cominciò a venire verso di noi. Non aprì bocca, ma si fermò a poca distanza. Mia nonna e la donna continuavano a fissarsi, avvinte in uno strano legame di correlazione. E poi la donna sputò. Finalmente il poliziotto si decise a muoversi, ma prima che potesse intervenire la donna aveva già girato sui tacchi finendo inghiottita tra la massa di gente. 16 aprile Passando dal verde pallido all'azzurro al blu quasi nero, l'acqua luccicava sotto il sole del tardo pomeriggio. Vicino a riva esplodeva in schiuma lambendo gli scogli. Un ragazzo che passava su uno sloop agitò la mano in segno di saluto e io, soprappensiero, gli risposi. Ero tesa nello sforzo di vedere appena possibile Scorpion e, al tempo stesso, di assicurarmi che Harold, l'uomo tuttofare di Phil di Bitteto, sapesse l'esatta ubicazione di tutti gli scogli. Le mani di Harold si muovevano con noncuranza, quasi con sprezzo, sul timone. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, mai una volta che si guardasse attorno mentre avanzavamo fendendo le onde. In lontananza scorgevo delle colline, pochi tratti sfumati alla maniera dei pittori impressionisti, e una fila compatta di pellicani con la testa ritratta che volavano rasente all'acqua. Mi voltai a osservare i contorni dell'isola
principale appena lasciata e rabbrividii. «Qualcuno sta camminando sulla tua tomba?» I lineamenti di mia nonna parevano cesellati e enigmatici sotto i raggi obliqui del sole. «Ho la sensazione di aver lasciato la civiltà per mai più ritornarvi.» «Hai sempre avuto una fantasia molto fervida.» «Che pesci ci sono in queste acque?» «Di tutti i generi. Perché?» «Pescecani?» Rise tranquillamente. «Sei anche sempre stata paurosa come un coniglio.» «Non lo nego. Che cosa sono questi?» Stava risistemando i suoi acquisti e avevo notato due scatole in confezione regalo. «Due sciocchezze per Lisa e Beanie» disse. «Chi è Lisa?» Senza darle il tempo di rispondere, mio nonno esclamò esasperato: «Vorrei proprio che la smettessi di coprire il prossimo di regali!» Seguì un breve silenzio. Mia nonna teneva gli occhi bassi e quindi non potei vederla subito in viso, ma quando alzò la testa provai uno strano senso di disagio. Non aveva cambiato né voce né espressione, eppure pareva la gemella della donna di prima, con le stesse fattezze sì, ma con un'anima diversa. «A me fa piacere far felici gli altri» disse con garbo. «Chi è Lisa?» chiesi di nuovo. «Comprare un oggetto di poco valore per un bambino è...» Un colpo violento mi fece dolere la colonna vertebrale. Guardai di sfuggita Harold. Pareva infilarsi deliberatamente nei cavalloni per sbatacchiarci e inzupparci d'acqua. Poi, sulla sinistra, vidi i contorni familiari dell'isola. Nonostante il nome, non somigliava particolarmente a uno scorpione, ma ai miei occhi apparve come un insetto mostruoso inarcato su se stesso, che meditava cupo sulla sua prossima mossa. Man mano che ci avvicinavamo, dalla foresta uscirono gli alberi e dall'insieme i particolari, finché vidi il molo. Quell'attimo di sinistra impressione cedette il posto ai ricordi e nella mia mente fu di nuovo una notte afosa con una luna arancione sospesa nel cielo. Ero seduta sulla terrazza antistante la casa in cerca di refrigerio e il silenzio era tale che sentivo arrivare dal molo voci e risate. D'istinto, avevo preso una torcia elettrica ed ero scesa giù per il sentiero tortuoso sino alla spiaggia. E là, senza farmi vedere, li avevo guardati tuffarsi sollevando spruzzi di schiuma: erano Al-
gie e un gruppo di ragazzi e di ragazze. «Ti fa tornare alla mente dei ricordi?» mi chiese mio nonno. Chiusi gli occhi per celare i miei pensieri ma prima che trovassi una risposta da dargli il motore si spense e avanzammo svelti in silenzio. Mia nonna afferrò l'anello sul molo e balzò a terra mentre mio nonno calava l'ancora. Io porsi i sacchi delle provviste a Harold che li ammucchiò sulle assi di legno senza sorridere né guardarmi. Poi, saltato su un'altra barca, partì di nuovo alla volta dell'isola principale. «Non ditemi che avete ancora quell'affare» feci io mentre mio nonno si accostava al pontile al volante di un'auto vecchissima. «Ma certo. È una macchina fatta per durare.» Si trattava di una jeep inglese della Seconda Guerra Mondiale col motore di una Rolls-Royce. Dotata solo dei sedili anteriori, dietro era vuota tra i parafanghi posteriori. E non c'era nemmeno un cuscino, solo lamiera. Caricammo sulla jeep i miei bagagli e i viveri e salimmo anche noi, loro due davanti e io dietro. Non facevo che voltare la testa di qua e di là per guardare tutto: il capannone, la stretta striscia di spiaggia, il minuscolo ufficio postale nel quale si trovava l'unico telefono di Scorpion. Sopra di noi torreggiava il folto d'alberi verde cupo, punteggiato qua e là di case. Feci correre gli occhi su per le colline, ma non scorsi segno di vita. Le nuvole si rincorrevano precipitose nel cielo e l'acqua batteva con dei tonfi contro i pali. «Certo è un po' diverso da Miami Beach! Qui non ci si può lamentare né del lusso né del frastuono.» «Non ti piace la vita dura, Holly?» Chinandomi in avanti, strinsi tra le braccia mia nonna. «Non hai idea di quanto sia stata felice quando ho saputo che mi volevate qui. Mi facevo una tale pena, e poi mi sono ricordata di avere una famiglia.» Le lacrime che non facevano che cogliermi alla sprovvista come ospiti indesiderate, da quando era morta mia madre, erano di nuovo in arrivo e io mi voltai a guardare giù dalla collina. Con molto interesse osservai il contrasto tra latte d'olio e poinsezia, motori demoliti e piante centenarie, barattoli di vernice e colombe, litorine e fili arrugginiti. Serenamente, dissi: «Quando l'uomo e la natura si mescolano, è sempre la natura a perderci.» Nessuno fece commenti. Mio nonno pensava solo alle due tracce parallele asfaltate che costituivano l'unica strada carrozzabile della montagna. «Che cosa si fa se si incontra un'auto in discesa?» chiesi io. «Uno dei due fa marcia indietro fino a uno spiazzo.» Passammo su un rettilineo pianeggiante: lì gli alberi si aprivano facendo
da cornice a un'estensione di palme lungo una distesa di sabbia semicircolare, acqua verde mela e cielo color cobalto. In secondo piano, come dipinta su uno scenario, oziava una barca a remi. Poi gli alberi si richiusero e cominciò una ripida salita. Procedevamo avendo da un lato un muro intricato di arida vegetazione e dall'altro uno strapiombo a picco sul mare. L'auto avanzava scoppiettando diligente, quasi in posizione verticale, e ogni buca era un colpo violento per le mie natiche. «E che cosa succede se le ruote slittano giù da questa... chiamiamola strada?» «L'anno scorso è capitato, e due operai sono rimasti uccisi» disse mia nonna. «Deve essere divertente con la neve.» Mio nonno cambiò marcia, e le ruote girarono a vuoto un istante. Afferrai i bordi della jeep e chiusi gli occhi, per non riaprirli finché non fui certa che quello non era stato l'ultimo istante della mia esistenza. Terminò l'asfalto e percorremmo l'ultimo tratto con la ghiaia che slittava sotto le ruote. Dopo una curva ci fermammo dietro la casa. Nell'improvviso silenzio prese vita un mondo invisibile: il fruscio delle lucertole in corsa nel sottobosco, il ronzare degli insetti, il verso delle sterne. «Com'è che non l'hanno chiamata Lucertola, quest'isola?» chiesi io guardando sfrecciare un dinosauro in miniatura. «Lo scoprirai abbastanza presto.» «Oh, i miei ricordi fanno acqua da tutte le parti. Gli scorpioni entrano anche in casa?» «Come si fa a tenerli fuori?» Pareva si divertisse, mia nonna. Mi avviai verso la porta di servizio. In casa non c'erano porte, tranne che nelle due stanze da letto e nel bagno. In stucco bianco, era arroccata su una collina che sovrastava la baia. Si entrava dal retro e, per arrivare nell'ampio locale di soggiorno, bisognava passare dalla cucina. La bellezza del panorama mi colpì come una forza fisica: i colori mutavano confondendosi l'uno nell'altro, dall'acqua si sollevavano spruzzi simili a perle e isole dai contorni mossi emergevano dal mare. Mentre mi infilavo una maglietta girocollo e un paio di scarpe da tennis, notai che la stanza degli ospiti aveva un aspetto stranamente precario. C'era da chiedersi se i miei nonni fossero a corto di mezzi, dato che l'arredamento consisteva in due letti e due cassettoni, nient'altro. Sistemai le provviste nella credenza che serviva da divisorio tra la cuci-
na e la zona pranzo tenendo d'occhio due pellicani che calavano in picchiata sull'acqua. Nel chiarore arancio rosato del tardo pomeriggio scorsi, a sinistra, una spiaggia. Pareva che non ci fosse un sentiero per raggiungerla. «Dio, ma è stupendo. Che spiaggia è?» «La Baia di Sabbat.» «La Baia di Sabbat?» Senza sapere quel che facevo, mi misi a raccogliere rotocalchi e tascabili, a vuotare portacenere e a piegare gli asciugamani e i costumi da bagno stesi sulla ringhiera della terrazza. «Patty, perché quella donna in città è stata così villana con te?» Mia nonna stava dicendo: «Dato che abbiamo fatto quello splendido pasto in città, forse...» ma si interruppe. «È tutta colpa di D. J.» disse mio nonno. «Colpa di D. J.? Come sarebbe a dire?» «Ti ricordi che razza di... di...» «Pazzoide è sempre stata, vuoi dire?» Sì, me lo ricordavo. Era stata D. J. Walsh che per poco non ci aveva fatte affogare tutte e due spingendosi troppo al largo con la sua minuscola barca a vela. Era stata D. J. a fondare il club degli esploratori che doveva scoprire tutti i giorni un'isola nuova. Per fortuna non ci eravamo mai fermati più di quindici giorni di fila sull'isola. «Indovina qual è l'ultimo hobby di D. J.» proseguì Nicholas. «Paracadutismo?» azzardai io. «No, riprova.» «Roulette russa?» «Stregoneria.» «Bella, questa» fu il mio commento. Non sapendo cos'altro fare, mi misi a spalmare del paté di carne sui crackers mentre mio nonno preparava i ponce al rum. «Siete proprio sicuri di voler mangiare ancora?» chiese mia nonna. «Il pranzo di oggi era uno sproposito.» «Io mangio» disse mio nonno. «Sono passate delle ore.» «Io invece credo proprio che salterò la cena» continuò lei «ma vi preparerò un'omelette, se ci tenete a diventare due ciccioni.» «Faccio io, Patty, lascia stare» dissi. «No, tu sei ospite. E quindi mettiti seduta e goditi la vacanza, insisto. In fin dei conti hai solo due settimane per riposarti.» Tornai da mio nonno, mi misi a sedere con i piedi appoggiati alla ringhiera, unico riparo dallo strapiombo sul mare e ascoltai la sua dissertazio-
ne su D. J. «Qualche anno fa» continuò lui «mi sono accorto che D. J. tornava dalla città carica di strani articoli da drogheria, come rosmarino secco, muschio, valeriana, basilico, salvia...» «Be', io uso sempre rosmarino, basilico e salvia...» «E anche radici di giaggiolo?» ribatté lui con tono di sfida. Alle nostre spalle sentii Patricia chiedermi: «Ti sei data anche tu alle arti magiche, Holly?» «Non ho abbastanza cervello per capire tutta la sequela dei loro maneggi» dissi io. Nicholas continuò a parlare di D. J. «Tu la prendi sul ridere, d'accordo. E io pure, la prendo sul ridere. Ma per D. J. la cosa è serissima. Dovresti vedere casa sua. È piena di cianfrusaglie assurde. Comunque, sai che è divorziata?» «Non sapevo nemmeno che si fosse sposata.» «Il matrimonio è durato un paio d'anni.» «Bene, decisamente è una che si dà da fare.» «Comunque» proseguì lui «la sua casa, o meglio la casa che i suoi genitori le hanno più o meno regalato, è piena di teschi, maschere africane, carte astrologiche e erbe. E ha un gatto che si chiama Hulda.» «E chi non ha un gatto? Ma che cosa c'entra tutto questo con la donna che ha assalito Patty?» «Abbi pazienza» disse lui. «Stiamo arrivandoci.» «Per fortuna ho due settimane di tempo.» «All'inizio D. J. non faceva misteri sul suo invasamento. Ha tentato di farci entrare tutti a far parte della sua... come la chiama... congrega, ma l'unica che ha mostrato interesse per la cosa è stata Gertrude, la moglie di Algie, ma ha finito per stancarsi presto anche lei. Gertrude è il classico tipo che non si interessa a niente... nemmeno di sua figlia.» «Non parlar male del prossimo» disse mia nonna dalla cucina. «Gertrude è una bella donna molto intelligente...» Nicholas la interruppe. «E così, non riuscendo a convincere nessuno di noi a far parte del suo sodalizio, D. J. si è messa a far proseliti tra i manovali e le domestiche... tutti indigeni che vengono dall'isola principale. L'abbiamo scoperta ad aspettare il traghetto giù al molo, e ci siamo accorti che andava in città di nascosto, senza chiederci di accompagnarla...» «Sei proprio sicuro» chiesi «di non aver perso di vista la domanda che ti ho fatto? Ti ho chiesto perché quella donna in città si è comportata in ma-
niera così incivile con Patty, tu mi hai risposto che la colpa è tutta di D. J. ma ancora non capisco...» «Ci sto arrivando» disse Nicholas. «Phil di Bitteto, che come ti abbiamo già detto è il sovrintendente di Scorpion, ci ha riferito che gli indigeni più anziani, genitori dei seguaci di D. J., cominciavano a preoccuparsi per le strane pratiche che avevano luogo qui sull'isola. Non vogliono che i loro figli si trovino coinvolti in quelli che per loro sono riti antichi...» «Riti antichi?» chiesi io. «Se gli dai corda su questo argomento» disse mia nonna «passeremo tutta la notte in piedi.» «Prometto di non dargli corda.» «Quasi tutti i vecchi indigeni sono cristiani praticanti» proseguì imperterrito mio nonno «e non credono nella stregoneria...» «Ancora non capisco perché se la prendano con Patty...» feci io. «Odiano tutti quelli che abitano a Scorpion. Non sanno di chi sia realmente la colpa.» «E poi» aggiunse mia nonna «siccome per tradizione le streghe sono tutte vecchie megere coi capelli bianchi, è naturale che se la prendano con me più che con gli altri.» Guardando il suo viso ancora grazioso e la sua figura snella, dissi: «Giusto, tu hai proprio l'aria della strega.» Con un cenno della mano ci invitò a sederci a tavola. «Avanti, ciccioni. Le uova sono pronte.» Nicholas e io stavamo mangiando e guardavamo la grigia cappa della notte calare con rapidità sorprendente sulla baia. Dal sentiero sotto la casa arrivò un rumore di passi. Di colpo persi ogni interesse per il cibo. Rimasi con la tazza di caffè sospesa a mezz'aria e poi la appoggiai sul piattino e mi misi a armeggiare, invano, alla ricerca di una sigaretta. Il fascio di luce della torcia elettrica che danzava tra il fogliame scomparve dietro la casa e un attimo dopo sentii la porta della cucina aprirsi e mio nonno dire: «Salve, Phil.» Lasciai uscire lentamente l'aria dai polmoni. Poi, scoprendo mia nonna a guardarmi, mutai il sospiro in un accesso di tosse. Phil di Bitteto era sulla trentina, alto, ben fatto e robusto. Nero di capelli, abbronzato al punto che non si poteva stabilire il colorito della sua carnagione, aveva degli occhi di un azzurro incredibile. «Holly, questo è Phil. La persona che si occupa dell'isola. Holly Eban,
nostra nipote.» Mi osservò con una insistenza che esulava di parecchio dalle norme della buona creanza. E poi disse: «Sono venuto a vedere se il vostro generatore funziona. Quello dei McKnown ha qualcosa che non va.» Mio nonno si alzò, andò nella piccola dispensa dietro la cucina e premette un pulsante. Lentamente, alcune spie elettriche si illuminarono. «Tutto a posto.» «Stiamo giusto terminando di cenare, Phil. Prendete una tazza di caffè con noi.» «Sì, grazie.» Mia nonna si mise subito in movimento: versò il caffè, tagliò una fetta di torta e posò sul tavolo lo zucchero e la panna liquida. Appena si rimise a sedere cominciarono a parlare fra loro di costi del materiale da costruzione, di ipoteche e della scarsezza di carburante. Gli occhi del nostro ospite continuavano a sfrecciare nella mia direzione. Per evitarli mi alzai, sparecchiai e mi misi a lavare i piatti. Stavo riponendo l'ultimo cucchiaino quando si decise ad alzarsi. «Devo andare. Volevo solo assicurarmi che il generatore fosse a posto. Piacere di avervi conosciuta, Holly.» Sentimmo i suoi passi perdersi giù per il sentiero e un istante dopo vedemmo il fascio di luce allontanarsi zigzagando, fino a sparire inghiottito dalla notte. «Quello voleva soltanto dare un'occhiata a Holly» disse Nicholas. «Holly, tesoro» disse Patricia «se è così che hai l'abitudine di trattare i giovanotti, non mi sorprende che non ti sia ancora sposata.» Mi chinai per colpire con la mano qualcosa che mi saliva su per una gamba. «E lui allora che scusante ha? È sposato, forse?» Mia nonna rise. «Ah, ma allora ti interessa! Il suo è un amore infelice. È innamorato di Gertrude, la moglie di Algie.» Scopai il pavimento della cucina e spensi le luci per godermi tutta la cupa bellezza dell'oscurità della notte. Seduti in terrazza sentivamo il palpito di milioni di creature che lottavano per la vita. «Io vado a leggere il mio libro» disse Patricia dopo un po'. «Decidi tu quel che desideri fare domani, Holly. Dato che ti fermerai così poco con noi, consideraci a tua completa disposizione.» Nella stanza degli ospiti trovai tre o quattro creature brunastre che strisciavano sul copriletto. Le scostai con una manata decisa e riuscii ad ammazzarne un paio, le altre si dileguarono. Poi, nel dubbio che l'acqua potabile scarseggiasse, mi lavai i denti ma rinunciai alla doccia. Mi infilai sotto
le lenzuola solo dopo essermi accertata che non vi fossero altri insetti nel letto. Avevo appena terminato la prima pagina di "Delitto e castigo", un dovere che mi ero imposta di assolvere durante le vacanze, quando sentii mia nonna chiedermi: «Holly, tesoro, posso spegnere il generatore?» «Oh, mi pareva che avessi detto che volevi leggere il tuo libro... non importa. Certo, spegni pure.» La luce si spense lentamente, lasciandomi negli occhi il suo bagliore. Mi venne in mente che non avevo chiuso le imposte: cauta, misi i piedi giù dal letto e schiacciai qualcosa di molliccio. Agitai il piede, lo strofinai contro la colonnina del letto e riprovai. Pian piano andai alla finestra e la chiusi. Scrutavo il pavimento rimpiangendo ad ogni passo di non essermi procurata una torcia elettrica. Scorsi una bomboletta di insetticida in un angolo della stanza, la afferrai di scatto e spruzzai cuscino, lenzuola e pavimento fino a restare quasi asfissiata. Una cosa lunga con delle appendici sparì guizzando in una fessura. Dal letto, fissavo il cielo striato e ascoltavo il rumore della risacca e il gemito del vento che salivano dal mare. Faceva caldo, gettai via le lenzuola. Dalla stanza accanto arrivava un leggero russare. Non sapevo che cosa mi avesse svegliato. Sudata, ansante come dopo una corsa, sentivo il sapore salato delle lacrime che mi scorrevano giù dalle guance e finivano a inzuppare il cuscino. Mi misi una mano sulla bocca per soffocare un gemito e premetti il viso contro la federa. «Che cosa ci faccio qui?» bisbigliai disperata. Come se solo in quel momento mi rendessi conto di aver percorso tutti quei chilometri per ritrovare mia madre e invece ritrovarla era impossibile. Qualcosa di ripugnante mi si posò sulla lingua: d'istinto sputai e balzai dal letto. Strappai le lenzuola dal materasso, corsi nel soggiorno e andai a scuoterle giù dalla terrazza. La porta della camera dei miei nonni era chiusa e adesso non ne usciva nessun rumore. Mi pareva di essere l'unica abitante di quell'isola. Faceva fresco e il paesaggio era di una bellezza inaudita. Il grigiore dell'alba scalzava l'oscurità dalle colline. L'acqua, buia presso gli scogli e chiara nelle secche, era marezzata di colori. Le basse palme si piegavano quasi dolorosamente sotto la persecuzione del vento. Ero agitata, inquieta, come se dovessi andare da qualche parte, da qualcuno. E fu allora che vidi, proprio sotto di me, seminascosta dai cactus, qual-
cosa che si muoveva. Mi uscì dalla gola un verso tra l'urlo e il singhiozzo, e balzai in piedi. Ma quella creatura era più spaventata di me. Mimetizzata dal verde e dal castano delle foglie del sottobosco corse giù per la montagna, agile come una capra. Ma non era una capra. Era un essere umano. 17 aprile «Qualcuno che correva giù per la montagna» chiese mia nonna «prima dell'alba? Devi avere sognato.» Bevvi un sorso di caffè e accesi una sigaretta. «Algie diceva sempre...» sentii che la voce mi tremava, ma ormai avevo cominciato e non potevo far marcia indietro. «Diceva: "Mai fidarsi di chi ti guarda dritto negli occhi". Credo che tu mi stia nascondendo qualcosa.» «Tutto ti ricorda Algie. È per lui che sei tornata, Holly?» «Senti, Patty, io le tattiche diversive le riconosco a fiuto. Sei molto abile, ma adesso Algie non c'entra. Sei proprio sicura di non avere idea di chi possa essere fuggito giù per la montagna?» «Se non stavi sognando, sarà stata una capra.» «Te l'ho già spiegato: camminava eretto. E non venirmi a dire che era una scimmia.» «Che fosse un manovale?» azzardò lei. Mai una volta che apprezzasse il mio senso dell'umorismo. «Che cosa ci faceva a quell'ora sull'isola? Non ce ne sono, di manovali, che abitano a Scorpion. E inoltre ho avuto la netta sensazione che questo... questo "essere" mi stesse spiando.» «E tu che cosa facevi alzata a quell'ora, Holly?» Ci voltammo entrambe sentendo un battito. Era un uccello grigio con macchie bianche, nere e gialle che picchiava il becco sulla porta. «Disse il corvo...» cominciai io. «Non è un corvo, ochetta» fece lei. «È un tordo. Perché ti sei alzata così presto, Holly?» Respirai a fondo. «Non lo so... ero presa da una sorta di irrequietezza... sai, quando si è appena arrivati in un posto nuovo...» «Parli come una vecchia signora, tesoro.» Tenendo gli occhi fissi su un gheppio che pareva appeso immobile nel cielo, proseguii: «Non riesco più a dormire bene da quando... ci ha messo tanto a morire, mia madre. Mesi e mesi. E alla fine pesava solo trenta chili.
Non ho mai voluto angosciare gli amici col mio dispiacere e non avevo nessuno con cui parlare...» «Povera cara. Ti capisco, deve essere stato orribile. Faremo di tutto per distrarti, vedrai. Non parlarne più. Ti fa male. Com'è strana la vita: io e Nicholas siamo ancora qui mentre sia nostro figlio sia nostra nuora sono morti. Fai in modo che non succeda mai niente a te, Holly.» «Terrò presente il tuo consiglio, non dubitare.» «Forse oggi non ce la faremo a portarti in barca... dobbiamo parlare di affari con Phil di Bitteto, Nicholas e io, e io voglio finir di leggere il mio libro sulla vita delle piante...» «Non preoccuparti per me, ti prego. Sono ben lieta di starmene tranquilla: prenderò un po' di sole... e quanto ai piatti e al resto, lascia stare, penso io a tutto. Ci metto un attimo a riordinare...» Sulla ghiaia risuonarono dei passi. Mi ravviai i capelli: bastò un'occhiata per accorgermi che sul caftano c'era una macchia e stavo per alzarmi, ma la porta si spalancò e una persona mi si gettò addosso stringendomi in un abbraccio. «Holly! Holly Eban! Non riesco a crederci. Proprio non riesco a crederci!» E mi trovai soffocata di baci, abbracci, esclamazioni, domande che non richiedevano risposte e complimenti. «Holly, fatti guardare. Sono passati cent'anni dall'ultima volta che ci siamo viste. Dio, ma sei stupenda! Mi fai crepare d'invidia. È stupenda, vero signora Eban?» Ridendo e piangendo contemporaneamente abbracciai anch'io D. J. e ad ogni suo complimento risposi con un complimento, a ogni idiozia con un'altra idiozia. Non era cambiata per niente. Sempre snella e coi capelli corti e ricci aveva un viso talmente mobile che non si riusciva a stabilire se fosse grazioso. La spinsi su una sedia, le porsi una tazza di caffè e le sedetti di fronte. «... safari in Africa. Non è pazzesco?» disse. «Immaginatevi i miei che fanno un safari. Me la vedo, mia madre, col suo abitino senza maniche immacolato che tiene in bilico una tazza di tè e intanto chiede agli indigeni se negli ultimi tempi hanno mangiato qualche missionario.» La sua risata andava a frangersi contro la montagna, in ondate continue. «Ma lasciamo stare i miei. Tu piuttosto, Holly, come stai? Come te la sei passata? Sei sposata? Hai dei figli? Sei innamorata di qualcuno?» «Niente marito. Niente figli. Niente amori.» E a quel punto, cosa da non credere, i miei occhi si alzarono di scatto su per la montagna, verso la casa di Algie. Mi affrettai a riabbassarli sulla tovaglia e balbettai: «Prendi una
fetta di pane tostato, D. J. Vuoi della marmellata di guaiava? L'ha fatta Patty.» D. J. non si era accorta di nulla. «Io ho divorziato. Dio se sono contenta di esserne venuta fuori! Non credo nel matrimonio. Solo nel peccato. Il matrimonio è una farsa inscenata dalla chiesa, dalle donne insicure e dalla gente complessata. Holly, ricordi la volta che per poco non ti facevo morire affogata con la mia barca a vela? E poi il mare ci ha gettato sulla spiaggia e Algie Vincent è venuto a recuperarci? O quella volta che avevamo deciso di far pesca subacquea in apnea e tu non volevi starci e allora ti abbiamo gettata in acqua di sorpresa? O quella volta che ti ho costretta a tuffarti dagli scogli e quasi ci lasciavi la pelle?...» «D. J., mia cara, ti hanno scritto i tuoi genitori?» chiese mia nonna. «Dimmi di loro. Come mi sarebbe piaciuto seguirli in questo viaggio. Ci avevano invitato, ma a parte la questione economica, non potevamo allontanarci da qui con tutto quello che c'è da fare...» Mentre D. J. blaterava sull'Africa io terminai di riordinare. Mi accorgevo che a mia nonna l'argomento interessava poco e quindi, appena D. J. fece una pausa, intervenni. «D. J., a te che piacciono i misteri: sai che stamattina mi è capitata una cosa stranissima? Ho visto qualcuno correre sotto la mia finestra e poi precipitarsi giù per la montagna.» «Non le definiscono paranoiche, le ragazze che si immaginano inseguite dagli uomini?» chiese mia nonna. «Non proprio» dissi io. «E poi chi ha detto che fosse un uomo? Poteva benissimo essere una donna.» «Sei sicura che fosse un essere umano?» chiese D. J. con interesse. «La stessa domanda me l'ha fatta Patty. Direi di sì, visto che camminava in posizione verticale.» «La mia idea» continuò D. J. «è che possa essere lo spettro di qualche infelice naufragato molto tempo fa su quest'isola e qui morto di stenti.» «D. J., sei sempre la solita svitata.» «Senti, Holly» continuò D. J. «non puoi vivere credendo solo in quello che vedi. Sarebbe come rifiutare di credere di avere un rene solo perché non lo puoi vedere coi tuoi occhi.» «C'è qualcosa che mi lascia perplessa, in effetti» dissi «ma non so definirla. Mi viene in mente, a questo proposito, quel bellissimo ragazzo che ci aveva trattate come pezze da piedi. Te lo ricordi, D. J.? Evidentemente non gli andavamo a genio. Tu gli hai lanciato una maledizione e il giorno dopo si è rotto una gamba.»
«Sì che mi ricordo, non è stato meraviglioso? Sai, io ho un dono di natura: non che gli abbia fatto direttamente del male, ma la mia mente ha trasmesso alla sua l'antipatia che provavo e lui, da solo, ha finito per rompersi la gamba.» «Io ci credo» dichiarò mia nonna. «Se esiste l'energia elettrica, perché non dovrebbe esistere un'energia a livello psichico?» Evitando di guardare D. J. negli occhi dissi: «Andiamo alla spiaggia. Abbiamo tante cose da raccontarci e io, dopo il freddo di New York, non vedo l'ora di immergermi in questo bel caldo.» «Sì, ragazze, correte a divertirvi. D. J., quando sei sola, vieni a cena da noi. Ci farai molto piacere.» Mi infilai il costume da bagno, una camicia e le scarpe da tennis, presi un asciugamano e la lozione solare e seguii D. J. giù per il sentiero roccioso che portava alla strada principale. Lei prese un sentiero che non conoscevo puntando in direzione opposta al molo e poi, curvando, cominciò a scendere. Dopo un primo tratto asfaltato cominciava la terra battuta, come se chi aveva costruito quella strada si fosse trovato all'improvviso a corto di materia prima. Poi anche la terra battuta sparì in un intrico di vegetazione con qualche sporadica radura. Insistendo nel volermi illustrare la flora e la fauna locale, D. J. disse: «Questa è cannella» e indicò degli arbusti con dei baccelli bruno grigiastro «e questo un fringuello» indicando un uccello giallognolo con una fascia nera attorno agli occhi. «E questa è una lucertola» dichiarai io desiderosa di dare il mio contributo e intanto badai ad aggirare il piccolo rettile verde. Un groviglio di filo metallico arrugginito ostruiva il sentiero. «E questo cos'è?» chiesi io. «Oh, serve a tener fuori le capre. Oppure a non farle uscire. Qualcosa del genere. Te lo tengo abbassato, salta.» «Quest'isola è il più gran guazzabuglio di bellezze e orrori che abbia mai visto» dissi. Neanche volessero esemplificare concretamente il mio pensiero, gli alberi si aprirono su una spiaggia completamente isolata, una striscia ricurva di sabbia separata dal verdeazzurro dell'acqua da una fila continua di bottiglie, lattine e altri rifiuti del mare. Ci ungemmo di olio solare, stendemmo gli asciugamani sulla sabbia e ci sdraiammo al sole. D. J. mi raccontò del suo lavoro di assistente conservatore in un museo, dell'uomo con cui viveva sporadicamente, di un articolo
di giornale che parlava del rimedio contro la morte e, tra una chiacchiera e l'altra, infilò il ritornello: «Attenta, Holly: il primo giorno solo quindici minuti di sole davanti e quindici di dietro.» «Sta' tranquilla, non mi fa niente. Sono anni che mi abbronzo.» «E domani mi toccherà venirti a trovare con lozioni calmanti e il solito "te l'avevo detto". Vieni a cena da Selina stasera?» «Sì.» «Ci sarà Algie Vincent con Gertrude. Ho sempre pensato che tu e Algie avreste finito per sposarvi. Ti ricordi come gli morivi dietro?» Non c'era malizia nella sua voce, solo interesse. Rotolai su me stessa e nascosi il viso tra le braccia. «Basta non far caso ai rifiuti e ci si può quasi convincere di essere su un'isola deserta del Pacifico. Mi pare che tutta la tensione accumulata a New York mi stia uscendo dai pori.» «Se non ti metti all'ombra finirai per sentirti staccare la pelle dalle ossa, piuttosto.» «D. J., sai che una donna ha sputato addosso a mia nonna? Perché gli indigeni odiano la gente di Scorpion?» Se avessi creduto alle onde psichiche quel momento mi sarebbe servito da conferma. Il nostro affiatamento scomparve di colpo e fu come se nell'aria si sprigionasse una spiacevole scarica elettrica. D. J. non rispose subito, fatto di per sé già insolito, e quando lo fece fu per dire in tono evasivo: «Oh, sai, cose del genere capitano dappertutto. Il solito antagonismo verso chi ha la pelle bianca.» Lascia perdere e provai per un altro verso. «Perché Nicholas e Patty si comportano come se non tutto procedesse regolarmente qui sull'isola? Per esempio hanno fatto una tale scorta di provviste che pareva temessero un assedio...» L'atmosfera si fece più rilassata. Alzatasi a sedere, D. J. intrecciò le mani attorno alle ginocchia e disse piena di animazione: «Alla base c'è un complotto. Non si discute. Capita che le automobili diano i numeri senza un motivo, e quando un'auto si guasta su una montagna c'è poco da stare allegri; poi ci sono le barche in avaria e le merci che arrivano con sei mesi di ritardo sul previsto. Prendi i poveri Dinhofer... te li ricordi?... sono stati costretti a vendere la casa per poco o niente perché non potevano più continuare a pagare sedici dollari l'ora i carpentieri in attesa che arrivasse il carico di legname. E nemmeno comprarsi una jeep nuova dato che la loro continuava a guastarsi misteriosamente, e neanche sostituire la barca che si
era sciolta dall'ormeggio e era andata a schiantarsi contro uno scoglio. E poi...» «Ma perché, insomma? Chi può avere interesse a boicottare il prossimo?» «Be'... di recente ho rivisto i Dinhofer a una cena dai McKnown... sai com'è Selina, si prende cura sempre di tutti... e mi hanno detto che hanno venduto la loro casa a Phil di Bitteto per un decimo del suo valore.» «Quindi secondo te è lui che combina tutti questi guai?» «Tirate le vostre conclusioni, Watson. Sta dando gli ultimi ritocchi alla casa dei Dinhofer, non ha problemi né con le barche, né con le jeep, né con le consegne dei materiali, e probabilmente rivenderà la casa per una cifra tre o quattro volte superiore a quella che l'ha pagata.» «Perché non gli date il benservito?» «Noi... be', ogni tanto ne discutiamo. Non hai idea di come sia difficile mettere d'accordo diverse persone. Poi c'è il problema di assumere un nuovo sovrintendente, una persona che resti qui tutto l'anno, che sappia trattare con gli indigeni e che conosca bene l'isola... per farla breve, siccome quasi tutti stiamo qui solo qualche settimana all'anno, è un affar serio.» Ero riuscita a scioglierle abbastanza la lingua e quindi potevo tentare un'altra mossa. Senza cambiare tono di voce, le chiesi: «Tu sai com'è morto mio padre?» Guardò lontano socchiudendo gli occhi. Io seguii il suo sguardo ma tutto quel che mi riuscì di vedere fu una minuscola barca a vela. «Che cosa stai fissando?» Lei, sfregandosi la sabbia dalle mani, balzò in piedi. «Su, Holly. All'ombra.» Obbediente, raccolsi la lozione solare e l'asciugamano e li trasferii all'ombra di una pianta dalle foglie carnose e lucenti con dei grossi fiori color porpora. «È un rampicante della gomma» mi informò D. J. «Magnifico. Di che cosa è morto mio padre?» «A me lo chiedi?» «Pensavo che avessi sentito qualche voce in proposito in questi anni. Mia madre è sempre stata evasiva e quando ho fatto questa domanda ai miei nonni, non mi hanno neppure risposto.» D. J. smise di interessarsi alla vela. Tornando a rivolgere a me la sua attenzione prese un'aria affranta, come se avesse appena saputo che avevo i giorni contati. «Per essere sincera una volta ne ho sentito parlare.»
«Davvero?» «Non so quanto credito si possa dare alla cosa... insomma, si sa che alla gente piace spettegolare.» «Sì, ci ho fatto caso.» «È stato molto tempo fa... non ricordo chi... ma qualcuno mi ha detto che si era suicidato.» 17 aprile Dopo un istante ripetei: «Suicidato?» «Forse non avrei dovuto dirtelo.» «Non fare la preziosa con me, D. J. Voglio sapere. Io, mio padre, l'ho conosciuto appena. Com'è successo? In che modo si è suicidato?» «Be'...» La voglia di parlare era combattuta da migliori istinti, ma stavolta vinse il peggiore. «Ha infilato la testa nel forno, pare. E quanto al motivo che l'ha spinto, ho paura che non ti piacerà.» «Credi forse che quello che ho già sentito mi abbia fatto piacere?» «Pare... ma bada, potrebbe anche non essere vero... che sia stata tua madre a spingerlo al suicidio.» Questa volta rimasi in silenzio più a lungo. Alla fine le chiesi: «Chi te l'ha detto?» «Non riesco a ricordare. Aspetta... non lo so. Tutti lo davano per scontato.» «D. J., mia madre...» inspirai a fondo e buttai fuori il fiato di colpo. «Se l'avessi conosciuta... non è mai venuta su quest'isola... ma se tu l'avessi conosciuta, be', sapresti che non sarebbe stata capace di spingere nemmeno una mosca sul miele.» Mi alzai e tolsi la camicia. «Andiamo a fare il bagno.» «Ho nella borsa dei boccagli e due paia di pinne. Ti ricordi come si usano?» «Mi tornerà in mente.» L'acqua era fredda, inaspettatamente. Rabbrividendo mi strofinai le braccia mentre le onde si frangevano contro il mio corpo. «Andiamo agli scogli» mi gridò D. J., allontanandosi a nuoto. Ebbi un attimo di perplessità: cercavo di stabilire a che distanza fossero. Poi, convinta di riuscire a farcela, sistemai le pinne e il boccaglio e mi gettai a nuoto dietro D. J., muovendo poco i piedi per timore di ferirmi contro gli scogli. E immersi il viso sott'acqua.
Immediatamente mi trovai in un languido mondo fluttuante di alghe, gorgonelle e coralli. In quella giungla glauca passavano sfrecciando minuscole mennelle, scorfani brillanti e pesci giallo limone. Alcuni si mimetizzavano a tal punto nell'ambiente che li si poteva vedere solo quando si muovevano, altri invece avevano dei colori simili a quelli delle pietre dure. La maschera si riempì d'acqua e fui costretta a riemergere, tossendo e sputando. Non riuscii subito a orientarmi e mi guardai attorno in cerca della spiaggia, ben più lontana di quanto pensassi. In uno stato d'animo molto vicino al panico spinsi la maschera sulla fronte e cominciai a nuotare freneticamente verso riva. Appena sentii che toccavo mi misi in piedi, ansando e tossendo e, attenta a evitare i ricci, mi trascinai fin sulla spiaggia e mi ci lasciai cadere. Ero approdata su una striscia di sabbia non molto distante da quella da cui eravamo partite. Cercavo di riprendere fiato e intanto guardavo il boccaglio di D. J. che galleggiava tranquillo sull'acqua come il periscopio di un sottomarino. All'improvviso vidi qualcosa di metallico luccicare sulla montagna, quasi immobile. D. J. tirò fuori la testa dall'acqua e puntò a riva con lunghe, decise bracciate. Vedendomi, cambiò rotta e venne verso di me. Si scosse l'acqua dai capelli e dalle orecchie. «Che cosa fai qui? Ci eravamo sistemate laggiù.» «D. J., che cos'è quel bagliore? Lo vedi?» le chiesi in parte per curiosità e in parte perché non notasse da sola quanto ero codarda di natura. D. J. guardò in alto. «Oh, quello. È la C.I.A. locale. Qualcuno ci sta osservando col binocolo.» «Vorresti dire che è un servizio di guardia a distanza?» «Noi lo chiamiamo "mutuo soccorso". Il fatto è che dopo un po' che sei qui non sai più cosa fare. E poi è una misura di sicurezza. Ognuno di noi fa dei turni per tenere sotto controllo chi esce in barca o fa il bagno, e così in caso di bisogno si può stare tranquilli.» «E chi si occupa della nostra incolumità in questo momento?» «Phil di Bitteto.» «Quello non manca proprio mai.» «Come ti sembra?» «Be'... lo conosco appena. È terribilmente bello.» Le lanciai un'occhiata. Col viso calmo e senza espressione si sdraiò sulla sabbia per non perdersi nemmeno un attimo di sole. «Ma?...» «Che cosa ti fa credere che ci sia un "ma"?»
«Il tuo tono. Anche se sono passati nove anni ti conosco ancora bene.» «Be'... mi è sembrato che ci fosse una certa tensione tra lui e i miei nonni. E poi mi hai appena raccontato la storia della casa dei Dinhofer che si è comprato per poco o niente.» «Non ho prove che sia lui a sabotare le barche e le auto. Potrebbero essere solo banali incidenti o semplici coincidenze.» Un gabbiano in volo emise un verso rauco. Mi spostai all'ombra: i raggi del sole, filtrando tra il fogliame del platano, mi disegnavano sulle gambe un ricamo in chiaroscuro. «Che aria triste hai» disse lei all'improvviso. Guardavo lontano senza vedere niente, né il mare né il cielo. Mi voltai. «Io? No, non sono triste. Cioè, a volte non riesco a non pensare a mia madre...» Ma era ad Algie invece che stavo pensando. «Holly, ti prego, non far caso a quel che ti ho detto di tuo padre e di tua madre. Esagero sempre e sai che mi piacciono i pettegolezzi.» «Non è questo che mi angoscia, perché so che non c'è niente di vero. Assurdo. Lei amava il sole e il caldo e l'oceano eppure non è mai venuta qui.» «Giusto, non ci avevo mai pensato. Perché?» «Non lo so. A volte provo il desiderio disperato di rivederla almeno una volta. Per parlarle. Per farle delle domande. Per dirle che mi dispiace.» «Ti dispiace? Di che cosa ti dispiace?» Un aereo passò rombando sopra di noi e prima di rispondere attesi che si fosse allontanato. «Non lo so. Per le solite ragioni, credo. Mi dispiace di non essere andata a farle visita più spesso in ospedale. Mi dispiace di averla lasciata sola tante volte. Mi dispiace che non sia seduta qui con noi al sole in questo momento. Maledizione! Eppure se fosse ancora viva mi comporterei come mi sono comportata!» Con aria sognante, D. J. disse: «Che differenza c'è tra il non essere ancora nati e l'essere morti? lo non sono venuta al mondo per milioni d'anni e non ho mai provato dispiacere per questo.» «Sei matta da legare.» D. J. rovistò in un groviglio di sterpi e di alghe ed estrasse un insetto nero dai riflessi purpurei grosso come una moneta. «Scarafaggio» mi informò. «Oh. Bello.» «Il modo per stabilire di che sesso sia è...» «Niente mi ha mai affascinato quanto il sesso degli scarafaggi.» «... è guardare come è formata la parte terminale dell'addome. Nella
femmina l'ultimo segmento è più grosso che nel maschio.» «To', pensavo che fosse proprio il contrario.» «Una volta non eri tipo da battute pesanti. Sai una cosa? Se gli tagli la testa, continua a muoversi per tre o anche quattro giorni.» «Lo vedi quindi che è la testa la parte più importante?» «Quello è un topo di palma.» Mi guardai attorno. «Dov'è?» «Là. Quell'affanno grigio. Pare un topo.» «Dio santo, D. J.! Ma c'è qualcosa che non sai o che non sei in grado di fare?» «Tenermi un marito.» La guardai per capire, ma aveva preso da terra una latta arrugginita. Dentro, c'era un ragno. «La vedi la macchia arancione sul dorso e sull'addome?» «Carina.» «È una vedova nera.» Senza volere, feci un balzo indietro. «Sai dove si trovano spesso queste creaturine?» continuò D. J. «Aspetta. Lasciami indovinare. Dentro le latte arrugginite?» «No, nelle tazze dei gabinetti.» Mi figurai la scena e rabbrividii. Mentre D. J. proseguiva nella sua conferenza, osservai le colline. Il bagliore era scomparso. Con cura, come se stesse manipolando un oggetto prezioso, D. J. rimise la latta al suo posto. Poi mi balzò addosso afferrando qualcosa. Quando aprì la mano vidi che aveva il palmo pieno di minuscoli insetti in corsa. «Termiti. Quelle con la testa nera sono i soldati, quelle con la testa chiara gli operai. Le scure proteggono le chiare dalle formiche. Perché le scure non sono commestibili, le chiare sì...» «Be', io non mangerei nemmeno quelle.» «...e per mostrare la loro riconoscenza gli operai ficcano il cibo in bocca ai soldati.» «Come faccio a essere certa che non mi racconti un sacco di frottole? Sono così ignorante, io... magari me le bevo tutte!» Spalancai le braccia per cingere in un immaginario abbraccio l'isola intera, il cielo e il mare. «Quanta vita! Quanta attività nascosta ai nostri occhi! E questo splendore... cielo azzurro, mare verde, sole d'oro... ecco che viene fuori il pubblicista che c'è in me... e sotto tanta meraviglia, invisibile a tutti ma non a te,
questi mostruosi esseri voraci, questa terra con le tazze dei gabinetti infestate dai ragni e le termiti operaie commestibili...» Un grido di saluto arrivò dal fondo della spiaggia e un attimo dopo apparve la figura di mia nonna, minuscola per la distanza, che veniva decisa verso di noi. Aveva in mano un sacco di plastica. D. J. si liberò delle termiti e le andammo incontro per alleggerirla di quel peso. «Che cos'è?» Esaminai le conchiglie cilindriche grigie, nere e bianche. «Holly, tesoro, ma non sai proprio niente? Sono buccine.» «Molto graziose.» Mia nonna guardò D. J. e scosse la testa, abbozzando un sorriso. «Non sono da guardare. Sono da mangiare. Le hai mangiate ieri.» «Dove le hai prese?» E, gettando altra paglia sul fuoco, aggiunsi: «Le hai comprate ieri in città?» Di nuovo lei guardò D. J. «Si trovano attaccate alle rocce lungo gli scogli.» «Sono per pranzo? Muoio di fame.» «Noi non pranziamo in casa, di solito. Soprattutto quando abbiamo un invito a cena. Ne faccio un paté speciale da portare a Selina.» «Bene, per essere il primo giorno ho preso abbastanza sole. Andiamo, D. J.?» E raccolsi la mia roba. «Io mi fermo ancora un po'» disse D. J. «Ci vediamo dopo.» Salimmo su per il sentiero, con mia nonna che mi precedeva. Aveva gambe muscolose e avanzava senza fatica. «Riposiamoci un momento» dissi io, ansimando. Mi sedetti per riprendere fiato sotto lo sguardo canzonatorio di mia nonna. Da uno spiraglio tra gli alberi si vedeva la spiaggia. Non eravamo salite di molto, eppure pareva distante e le rocce e le palme si erano rimpicciolite. D. J. pareva scomparsa. «Questa è un'ixora» disse mia nonna. «La piccola...» «Com'è che vi siete tutti messi in mente di istruirmi?» Mi parve che qualcosa si muovesse in fondo all'isola e mi alzai per vedere meglio. Era una piccola barca a vela. D. J. corse verso riva e salì a bordo. Ma i due uomini di colore non salparono: rimasero lì tutti e tre, a chiacchierare a prua. «Che cosa succede laggiù?» chiesi. Mia nonna osservò la scena un momento. Poi, accigliata, riprese a salire. «Quando c'è di mezzo D. J. tutto è possibile.»
17 aprile Il suo sguardo consapevole mi fece capire chiaramente che tutti i miei sforzi per fingere indifferenza erano stati vani. «Com'è che hai deciso per la gonna pantalone dopo un'ora e mezzo di dubbi?» mi chiese Patricia. Mentre mi limavo le unghie risposi: «Be', ho pensato che dei pantaloni e una camicetta sarebbero stati un po' poco, e l'abito di seta lungo un po' troppo. Così sono arrivata al compromesso della gonna pantalone.» Il suo sorriso malizioso mi indusse ad aggiungere: «Mi sono messa anche un bel po' di fondotinta, poi l'ho tolto quasi tutto per apparire splendidamente naturale.» Nicholas disse: «Ma tu sei già splendida. Come mai non me ne sono accorto prima?» «Distrazione? Peccato che tu ci sia arrivato solo adesso che sono in fase di declino.» «Venticinque anni segnerebbero dunque la fase di declino?» «Ventisette, vado per i ventotto.» «Bevi qualcosa prima di uscire?» Teneva un bicchiere pieno a metà nell'incavo del gomito, e in mano un portacenere colmo di mozziconi. «No, grazie. Non ti sembra di fumare un po' troppo?» «Di brontolona ne basta una sola. E poi avete impiegato tanto di quel tempo per prepararvi che ho finito per diventare nervoso. Patty, anche per andare da Selina vale il "ritardo di convenienza"?» Nonostante mia nonna avesse fatto notare a me che per vestirmi mi ci era voluta un'ora e mezzo, fummo costretti ad aspettarla altri venticinque minuti. Era più vanitosa di sua nipote, fuor di dubbio. Coi sandali ai piedi non facevo che scivolare sulla ghiaia, anche nei tratti pianeggianti. A una curva dissi: «Adesso capisco perché non siamo venuti in jeep, ma potevate avvisarmi, mi sarei messa le scarpe da tennis». Ero letteralmente senza fiato, e invece loro due camminavano in salita senza il minimo sforzo. Mia nonna continuava a guardare tra i cespugli in cerca di tesori di ogni genere. «Domani torno a prendere qualche arbusto da piantare in giardino.» Finalmente, dopo un'altra curva, apparve in cima alla salita una piccola casa stuccata di bianco: nel giardino sul retro alle piante esotiche si mescolavano i fili con stesi costumi da bagno e asciugamani. «Perché si accede sempre dal retro in queste case?» Ansavo. Evitando di guardare dalle finestre chi c'era dentro, mi misi a osservare l'ibisco come
se, nottetempo, si fosse sviluppato in me un improvviso interesse per la vegetazione. «La facciata delle case è sempre sopraelevata per favorire la vista. Se arrivassimo in macchina davanti alla porta principale dovremmo poi salire dei gradini. Invece in questo modo si entra direttamente in casa.» Patricia aggiunse: «L'unica che fa eccezione è la casa di Phil di Bitteto. È la più grande dell'isola. Si trova sul versante della collina e tutto il piano centrale è occupato dal soggiorno, da cui si accede attraverso porte scorrevoli.» «Come mai Phil è il più ricco...» Mi interruppi vedendo Selina McKnown, in jeans tagliati sopra il ginocchio e camicia da uomo annodata in vita, uscire dalla cucina con un sacco di plastica della spazzatura. «Oh! Oh! Salve. È tutta la vita che sogno di ricevere i miei ospiti scendendo da uno scalone avvolta in una nube di chiffon, ma in un modo o nell'altro finisco sempre per trovarmeli davanti mentre scarico le immondizie con addosso gli abiti smessi di Ted. Holly, accidenti, tu invece sei l'incarnazione dei miei sogni.» Entrando in casa i miei occhi si rifiutarono di mettere a fuoco le immagini: sapevo solo che c'era gente, una confusione di gente. Poi, gradatamente, ogni persona prese un nome: Ted McKnown, D. J., Phil di Bitteto e Beanie. Algie e la sua famiglia non erano ancora arrivati. Patricia porse a Selina il suo piatto di paté di buccine e poi si inginocchiò davanti a Beanie. «Indovina che cosa ti ho portato dalla città.» Beanie non aveva certo la stoffa del mattatore. La fissò con aria ottusa e non indovinò un bel niente. Imperterrita, mia nonna gli disse: «Tieni. Una volta ti ho sentito chiedere alla mamma di comprarti una cosa come questa.» Beanie armeggiò invano con la cordicella, sempre più impaziente, finché Selina non si decise a tagliarla. Finalmente dal pacco uscì una minuscola Kodak. «Caspita!» gridò il bambino, mentre Selina diceva in tono di protesta: «Patty, non dovevi... insomma, una macchina fotografica! Neanche fosse il suo compleanno!» «Sapevo che desiderava tanto averla. L'ultima volta che siamo andati in città assieme non ha fatto che tormentarti perché gliela comprassi.» «Ma è troppo piccolo... bene. Non ti ho sentito ringraziare, Beanie.» «Grazie. Fammi vedere come si carica, papà. Facciamo una foto...» Siccome Ted stava servendo i ponce, D. J. si prese Beanie sulle ginocchia e cominciò a spiegargli come funzionava. Io ero seduta sul divano ac-
canto a Phil e tentavo di farmi sempre più piccola. Troppo tardi, purtroppo, mi ero accorta che i presenti erano vestiti molto più semplicemente di me. «Se io» stava dicendo Ted «faccio lo sgambetto a una persona e qualcuno fotografa la scena e qualche altro chiede di comprare la foto, allora si tratta di arte. Dico bene?» «Se si parte dall'idea che fare dell'arte significhi mettere in atto quel che si è studiato o visto...» cominciò Selina, ma D. J., che era capace di concentrarsi contemporaneamente su diversi argomenti, la interruppe. «Guardate, io sto facendo dell'arte» disse, trafiggendosi con un immaginario pugnale. Cercavo di seguire i loro discorsi, ma i miei occhi continuavano a puntarsi sulla porta. Selina, lasciata la discussione sull'arte a Ted e D. J., stava chiedendo a Patricia: «Non hai più avuto notizie degli Elwyn? Ho chiesto di loro a mia madre, ma lei non li ha più né visti né sentiti.» Fingendomi interessata, chiesi: «Chi sono gli Elwyn?» «Non te li ricordi? Avevano quella casa giù sul mare. Un Natale la signora Elwyn è dovuta tornare nel Connecticut perché suo padre era malato, e ha portato con sé i figli. Suo marito invece si è fermato qui perché aveva da finire dei lavori in casa. E da allora lei non l'ha più rivisto.» «Che cosa gli è successo?» «Probabilmente l'ha lasciata. Ha abbandonato lei e i figli.» «Oh» feci io, allibita. C'era qualcosa che non riuscivo a capire. Selina, rivolgendosi a Phil, assunse un tono di voce volutamente indifferente. «Avete comprato voi la loro casa, vero Phil?» Phil, come me, pareva aspettasse qualcosa o qualcuno. Sbattendo le palpebre, disse: «Cosa?» «Non avete comprato voi la casa degli Elwyn?» «Oh, sì. Certo. Perché?» «Mi stavo chiedendo che cosa avete in progetto di farne.» «Cercherò di venderla, naturale.» Gli altri avevano smesso di parlare e ascoltavano. D. J. incontrò il mio sguardo e subito distolse gli occhi. «Per quanto?» continuò Selina con la stessa falsa indifferenza. Phil non rispose subito. Selina, che stava chinandosi per infilare un tegame nel forno, alzò gli occhi e lo fissò. Immediatamente arrossì. «Non volevo far la ficcanaso... ma, be', qui non facciamo che discutere di costi e di prezzi e mi piacerebbe sapere...»
«Non ho ancora deciso. Dipende da quanto ci metterò dentro. È in uno stato pietoso.» Dopo una pausa di silenzio D. J. disse a voce troppo forte: «Ho sentito parlare di un artista che, con un escavatore, ha divelto il selciato davanti al museo in cui stavano per esporre le sue opere. E quello è stato l'evento più importante della mostra.» «E» continuò Ted «Walter de Maria ha riempito una galleria d'arte di Monaco con mezzo metro di fango: è stata la sua opera d'arte.» Si sentirono dei passi alla porta della cucina, ma io non mi voltai. Tutti i muscoli della nuca mi si contrassero, come se sapessi che stavano per spararmi alle spalle. Poi una voce infantile domandò: «Potete aprirmi la porta?» Mi voltai lentamente. Era una bambina con in mano la scatola di cartone di un gioco. «Ho portato "Candy Land"» annunciò. «Beanie è in camera sua, Lisa.» Prima che la bambina avesse il tempo di andarsene, Patricia si era messa in ginocchio un'altra volta. «Ti ho comprato un regalo, Lisa.» «Che cosa?» Questa volta mia nonna tirò fuori un pacchetto più piccolo. Per la smania di vedere il regalo Lisa lasciò cadere il suo gioco e io lo presi al volo. Lacerata la carta trovò una catenina d'argento con delle pietruzze colorate. «Oooh!» sospirò estasiata. «Oooh!» «Ci sai fare coi bambini, Patty» dissi io. «Ho una certa esperienza: sono nonna. Questa è Lisa Vincent, la figlia di Gertrude e Algie. Saluta Holly, Lisa.» «Ciao» disse Lisa e scomparve. Era arrivata sola e nessuno le chiese notizie di suo padre né di sua madre. Mi riempii di nuovo il bicchiere e chiesi a Phil: «Ma voi comprate tutte le case in vendita a Scorpion?» «Comprare, vendere, restaurare... è il mio mestiere.» «Credevo che il vostro mestiere fosse quello di occuparvi dei problemi dei proprietari delle case.» «Anche.» I suoi occhi azzurri perforavano i miei, e fui costretta a guardare altrove. Come se volesse venirmi in aiuto, Selina chiese: «Quante case possedete attualmente, Phil?» «Avete intenzione di farmi concorrenza, Selina?» Ignorando la sua battuta, Selina si rispondeva da sola contando le case sulle dita: «Quella dei Llewellyn, quella dei Dinhofer, quella degli
Elwyn...» Ted, tutto d'un fiato, intervenne. «Ho sentito» disse «che un artista italiano ha mandato a una mostra i suoi escrementi, in vasetti, con la scritta "Mierda d'artista".» «Perché tutta questa gente ha venduto?» dissi io. «Con la fatica che si fa a costruire su quest'isola era più logico tener duro.» Non so perché volevo surriscaldare l'ambiente. Forse l'ansia mi stava logorando i nervi. Sforzandomi di non stare con le orecchie tese ad aspettare rumore di passi all'esterno, feci girare il vassoio. «I Dinhofer non hanno resistito. Gli andava tutto storto. Una volta alla signora Dinhofer si sono rotti i freni della jeep e per poco non si è ammazzata giù per la montagna. Un'altra volta ha perso l'aereo perché la barca non partiva...» Non sentii i passi. Mi accorsi che era arrivato qualcuno udendo una voce di donna che diceva: «Salve a tutti. Scusate il ritardo.» Accento del Middle West, snella, i capelli lisci lunghi fino alla vita. Non era perfetta di lineamenti, anzi, ma nel complesso pareva un uccello esotico. E, per giunta, indossava un abito lungo verde che le fluttuava contro il corpo come fanno le onde contro la costa. «Salve, Gertrude. Non ti aspettavamo certo in orario. E Algie dov'è?» «A casa.» Si strinse nelle spalle. «Ha deciso di farsi venire mal di stomaco e non viene.» Non mossi un muscolo del viso ma, voltandomi per sfuggire agli occhi inquisitori di mia nonna, feci cadere dal tavolino il bicchiere di Phil, che si fracassò sul pavimento. Nei momenti di confusione che seguirono aiutai a raccogliere i cocci, versai un altro drink a Phil, lasciai che Selina mi presentasse a Gertrude e, chiedendo scusa, andai a lavarmi le mani. In bagno mi guardai allo specchio: avevo il viso in fiamme. «Non è poi così bella» dissi alla mia immagine. Aprii con cautela l'armadietto dei medicinali per evitare che gli sportelli cigolassero, mi infilai in bocca due aspirine, mi lavai il viso con l'acqua fredda e tornai in soggiorno. «...come una mela abbattuta dal vento» stava dicendo Selina. «Chi è come una mela abbattuta dal vento?» chiesi io. «E poi, che cosa vuol dire?» «È una ragazza di città, lei» disse in confidenza mia nonna ai presenti. «Sto parlando di quest'isola. Sai come sono le mele abbattute dal vento, no? Belle rosa sopra ma, quando le raccogli, scopri che sotto sono marce e piene di vermi.»
«E un'immagine di questo tipo ti ricorda Scorpion?» Selina fece un cenno d'assenso. «Credevo l'amassi.» «Prima l'amavo.» «E adesso non più? Perché? Che cosa è successo?» «Non hai sentito abbastanza? Incidenti, gente che ci odia, amici che vendono la loro casa, uomini che abbandonano la moglie...» «Io non credo affatto che Robert Elwyn abbia lasciato sua moglie» disse improvvisamente Gertrude. «Deve essergli accaduto qualcosa.» 18 aprile Nicholas guidava il motoscafo lungo il canale, tenendo a dritta le innumerevoli boe nere. Il sole splendeva ma soffiava un forte vento e quindi l'acqua era mossa: lui, in piedi davanti al timone, portava la barca con molta prudenza mentre Patricia gli dava consigli. «Lì c'è uno scoglio... attento alla barca... Nicholas! Piano. Per poco non gli sei andato addosso.» Coi capelli che le svolazzavano sul viso nonostante li avesse legati con un fazzoletto pareva una Valchiria che conduceva gli eletti al Walhalla. «Se non la smetti entro un minuto ti cedo il timone» sbottò lui senza rancore. «È quello che desidero da sempre. Ma tu non mi hai mai permesso di toccarlo.» «Per forza: ogni volta che ti ci sei provata abbiamo avuto un incidente.» Nicholas spense il motore, e le parole di lei echeggiarono sull'acqua. «... Sono quarantacinque anni che mi bistratti. Se non fossi di carattere forte a quest'ora sarei al tappeto...» Si interruppe, rossa in viso, accorgendosi che un'intera famigliola che sbarcava sul molo da uno yacht di quindici metri si era voltata a guardarla. Si chinò e infilò la testa nel boccaporto per prendere la nostra roba. Nicholas balzò a terra e legò la fune con una gassa d'amante, io calai l'ancora e sistemai i parabordi. «Stai prendendoci la mano» mi disse Nicholas. Non aveva fatto che tenermi d'occhio tutta la mattina, quasi fossi il barometro che segnava il successo dell'impresa. A terra c'era molta vita: viaggiatori abbronzati si imbarcavano e sbarcavano, uomini e donne chiacchieravano seduti ai tavolini bianchi e verdi della terrazza sul mare e dall'emporio entrava e usciva gente in un flusso continuo. Un uomo che stava innaffiando la buganvillea per sbaglio schiz-
zò dei ragazzini e questi, con grida di gioia, corsero sotto l'acqua. Le minuscole palme ondeggiavano in sincronia, come se il getto della canna fosse una bacchetta che dirigeva una sinfonia di movimenti anziché di suoni. «Che posto allegro» dissi io. «È molto più verde e rigoglioso di Scorpion, e meno austero. In questo momento sono veramente felice.» «A volte mi sorge il dubbio» disse Nicholas «che ti sarebbe andata meglio una vacanza più convenzionale.» «Oh, no» cominciai a dire io. «Mi piace tanto...» Ma Patricia mi interruppe: «Forse Scorpion le riuscirebbe più gradevole se tu non continuassi a muovermi delle critiche.» E si guardò attorno per accertarsi che nessuno stavolta l'avesse sentita. «Avanti, ragazzi» dissi io. «Dove si va? Alla spiaggia o da qualche altra parte?» «A piedi, intendi?» Mia nonna fece uno sforzo tremendo per ridere. «Tesoro, ma non sai proprio niente. La nostra meta è lontana, prenderemo un taxi. Vedrai che ti piacerà. Peccato non essere riusciti a convincere D. J. a venire con noi... almeno avresti avuto un'amica.» «Voi due mi bastate, come amici» dissi io, prendendola sottobraccio. Salimmo su una Dune Buggy e partimmo: la strada caldissima e piana brillava nel sole. Passammo davanti alle inevitabili stazioni di servizio Esso e agli scarichi di rifiuti, ma ben presto ci lasciammo alle spalle le tracce più deplorevoli della nostra civiltà. Lì non c'erano colline come a Scorpion: solo rocce, arbusti e alberi nani. Mentre guardavo un edificio antiquato che portava il nome di un lord inglese, dissi: «Quando ero bambina... probabilmente sui quattro anni... c'era ancora papà... non era ancora morto... mi ricordo di un viaggio. Prima eravamo immersi in un bosco così fitto che pareva la giungla: il terreno era paludoso, gli alberi ci precludevano la vista del cielo e l'aria era umida. Mi aspettavo da un momento all'altro di veder strisciare serpenti e alligatori dentro l'automobile. E poi, all'improvviso, ci trovammo all'aperto, su un ponte stretto che portava all'oceano. Non se ne vedeva la fine, di quel ponte. Mi pareva di essere in cammino verso l'eternità, circondata dall'oceano senza fondo. Avevo molta paura, forse perché mamma e papà avevano appena finito di litigare e nell'automobile c'era un'atmosfera molto tesa. La paura, aggiunta alla stranezza del percorso e al cielo che imbruniva, mi dava l'impressione di vivere un incubo.» «Probabilmente si è trattato proprio di un incubo. Non ricordo che tuo padre e tua madre abbiano mai fatto un viaggio.»
«Eppure è abbastanza reale per me. Non lo dimenticherò mai. Anche se ero molto piccola ricordo benissimo che ogni tanto la strada si allargava e, tra gli alberi, si intravvedevano delle case. Ma non ci fermammo mai, e ogni volta che vedevo passare una casa mi pareva di lasciarmi alle spalle l'ultima traccia dell'umanità. Ero sicura che fossimo condannati a viaggiare per sempre nel nulla.» «Come mai ti è tornato in mente proprio adesso?» chiese Nicholas. «Non è che questa gita ti faccia lo stesso effetto, vero?» Mi bastò un'occhiata per accorgermi che era dispiaciuto. «Non lo so, accidenti. Mi pare di ricordare che quel giorno fosse nuvolo e buio. Niente a che vedere con oggi. Forse è questa strada così deserta, così arida...» «So io che cosa direbbe D. J. a questo punto» fece Patricia, ridendo. Faceva di tutto perché dimenticassi il suo scatto d'ira di poco prima. «Direbbe che la tua sensazione di disagio è dovuta agli spiriti dei pirati che sono morti assassinati su questa costa.» La strada girava attorno a dei campi punteggiati di strane formazioni rocciose. Vedemmo alcune case ma nemmeno un'auto. E poi, in mezzo al nulla, la Dune Buggy si fermò. Mi guardai attorno in cerca di un cartello che indicasse una località. Ma appena il motore si spense ci trovammo immersi nel ronzio degli insetti, e vidi solo un colibrì che sbatteva furiosamente le ali sopra un cespuglio. «Tornate a prenderci alle tre e mezzo» disse Nicholas al conducente mentre gli pagava la corsa. L'uomo fece un cenno, girò la macchina e se ne andò. Eravamo come persi tra l'arida vegetazione, le distese sconfinate di sabbia e il cielo senza nubi. L'oceano pareva scomparso. C'era un cartello con scritto "Lizard Hall" e, in lontananza, si scorgevano dei minuscoli condomini. «E chi ha il coraggio di vivere a Lizard Hall?» chiesi. «E chi ha il coraggio di vivere sull'isola di Scorpion?» ribatté Patricia. Seguendo Nicholas attraversammo uno stretto passaggio tra i cespugli. Poi scendemmo per un sentierino tutto curve, rocce, arbusti e palme. Le cime delle palme ondeggiavano al vento ma l'aria non riusciva a filtrare fin sul sentiero. Si moriva di caldo. Di tanto in tanto ci imbattevamo nelle solite lattine di birra e scatole di canditi vuote. «Scommetto che quando metteremo piede su Marte» dissi «la prima cosa che vedremo sarà un sacchetto di carta.» «E se già non vi fosse» aggiunse Nicholas «stai pur certa che penseranno
a lasciarcelo subito.» Di colpo, ci trovammo allo scoperto. Esterrefatta, mi fermai con gli occhi spalancati. Il sentiero non mi aveva certo preparata a uno spettacolo simile. Rocce enormi, monoliti grigi emergevano dalle acque. Si aveva l'impressione che un dio preistorico si fosse divertito a spargere qua e là massi come sassolini, formando un complesso colossale al punto da far sembrare gli uomini che si muovevano sotto piccoli come nani. Incastonata tra i titani di granito si estendevano una striscia di sabbia piena di sole e, al di là, il cielo e l'oceano più azzurri che avessi mai visto. Senza parole, fissavo la bellezza soprannaturale delle onde che si frangevano sulle rocce e le vele che passavano nella baia. Mio nonno mi guardava. «È uno spettacolo, vero?» «Un vero spettacolo. È il termine giusto. Mi fa pensare a come si è concluso il viaggio di cui vi parlavo prima. Quando arrivammo a destinazione... be', provai la stessa emozione che provo in questo momento... una felicità assoluta. Anche se allora si trattava di un isolotto pieno di gente, di motel e di ristoranti. Fu la più bella vacanza che avessi mai passato. Perché non eravamo mai venuti qui ai vecchi tempi?» «Allora non possedevamo un cinquanta cavalli. E anche adesso bisogna scegliere una giornata col tempo giusto.» «Guardate quelli» disse Patricia, indicando una barca ancorata nella baia. Un uomo portava a riva un bambino su un canotto a remi, e intanto alle sue spalle la barca si alzava e si abbassava come un guscio di noce in un gorgo. «Se non ci fosse stata la nostra fifona con noi, avremmo potuto gettare l'ancora nella baia e risparmiare la corsa in auto.» «Io non sarei comunque stato dell'idea» disse Nicholas, stendendosi sotto una palma per schiacciare un pisolino. Patricia si sdraiò a sua volta e aprì un libro di poesie, e io continuai a seguire l'eroica lotta dell'uomo sul canotto come se fosse stato un incontro di calcio. Ad ogni ondata il guscio di noce rischiava di venire sommerso; dalla spiaggia altre persone seguivano la scena. Finalmente il canotto raggiunse la zona riparata delle rocce e l'uomo balzò a terra. Mentre prendeva in braccio il bambino io fissai la sua pelle abbronzata, le spalle larghe e i capelli biondissimi e per un attimo mi mancò il respiro. Poi si mise di profilo. Non era Algie. Stavo per guardare altrove ma lo vidi risalire sul canotto e puntare di nuovo in direzione della barca. Mi sfuggì un gemito, e Patricia guardò
prima me poi il mare. «Probabilmente torna a prendere l'altro. Oggi i bambini si crescono così.» Non riuscii a staccare gli occhi anche dalla seconda faticosa traversata. Una testa emergeva ogni tanto dall'acqua; dalla barca qualcuno arrivava a nuoto verso riva. Il canotto incrociò la persona che nuotava e continuò la sua corsa verso la prua della barca dove c'era una minuscola figura in attesa. Metà della gente sulla spiaggia stava seguendo lo spettacolo, e mi venne da chiedermi se i protagonisti ne fossero consapevoli. «Vieni» disse Patricia, deponendo il suo libro. «Voglio mostrarti una delle meraviglie di questo mondo.» «Aspetta. Voglio vedere come finisce.» «Potrai goderti l'ultima puntata dalle grotte.» «Grotte?» Mi alzai e infilai le scarpe da tennis. Passammo davanti al chiosco con la sua mostra di cappelli di paglia e noci di cocco, e puntammo verso le rocce. Man mano che ci avvicinavamo gli enormi massi grigi perdevano l'aspetto di rocce terrestri per assumere quello di meteoriti cadute lì dallo spazio. «Dobbiamo entrare lì dentro?» Accucciandosi, mia nonna si infilò nella prima stretta apertura. «Senti, Patty, ma dove si va?» «Una persona di vent'anni dovrebbe essere in grado di andare ovunque vada una di sessanta. Muoviti, ragazza di città.» «Mettiamo che la persona di sessant'anni sia esperta nello scalare montagne e che invece quella di venti abbia scalato al massimo un formicaio, saresti sempre... lasciamo perdere.» Rassegnata, la seguii. Sopra di noi vedevo i massi impilati a casaccio, e i raggi del sole che filtravano dagli interstizi. L'eco di urla e risate spettrali arrivava alle nostre orecchie, rimandata dalle rocce. Poi il labirinto si aprì su uno stagno sotterraneo. La poca luce che riusciva a penetrare dall'esterno riempiva la caverna di una verde luminescenza. Mentre fissavo il riflesso dell'acqua sul viso di mia nonna dissi: «Che bello.» Inconsciamente, parlavo sottovoce. «Mi par d'essere... come si chiama... sì, Collins.» «Chi è Collins?» «Oh, un esploratore. Gli è caduta addosso una roccia e ci è rimasto sotto per un mese, poi è morto. Lo nutrivano, ma non sono riusciti a tirarlo fuori. Migliaia di persone sono andate sul posto a curiosare: e quella città, sulla sua pelle, ha fatto un mucchio di quattrini.»
Lei si tuffò nello stagno e cominciò ad attraversarlo a nuoto. La imitai, cercando di vedere se l'acqua era profonda per sapere se rischiavo di morire affogata. Ma mi accorsi che era molto bassa. «Perché non mi hai detto che non c'era pericolo?» le chiesi in un lamento. «Non ho mai detto che ci fosse.» Mentre uscivamo carponi, un raggio di sole mi batté su un braccio scaldandomelo e, di colpo, provai un gran freddo in tutto il resto del corpo. Sulle rocce scivolose intravidi due bambini che ci spiavano da una fessura e poi fuggivano agili e veloci come capre. Sopra di noi le foglie delle palme ondeggiavano, e altri esploratori comparivano e scomparivano. «Conosci la strada per tornare indietro, vero?» chiesi. «No» disse lei ridendo. «Probabilmente resteremo bloccate qui per un mese come il tuo esploratore.» La luce del sole e il buio si alternavano mentre ci arrampicavamo sugli scogli e guadavamo delle pozze d'acqua. Seguivo mia nonna come se fossi legata a lei da un'invisibile fune. E finalmente arrivammo su una roccia proprio sopra la baia. Anche se il panorama era di una bellezza assoluta, non mi riuscì di apprezzarlo. L'acqua mulinava sotto di noi ribollendo di schiuma e dovevamo tenerci aggrappate alle rocce. Eravamo giusto in tempo per vedere il giovane padre che sbarcava il secondo bambino e, nello stesso istante, la testa che prima emergeva dall'acqua si rivelò appartenere a una robusta donna bionda. Un grido di saluto si levò dagli spettatori sulla spiaggia. «Bene» dissi con falsa allegria «immagino che adesso dovremo farci il percorso a ritroso. O sbaglio?» «Possiamo tornare a nuoto.» Attonita, guardai la schiuma che ribolliva sotto di me. Aprii la bocca per dire qualcosa ma mi affrettai a richiuderla prima che mi potesse sfuggire anche una sola parola. «Qui il mare è sicuro. Non ci sono scogli.» Valutai le alternative che avevo. O mi tuffavo nelle ignote profondità di quei gorghi o me ne tornavo da sola sui sassi viscidi e riattraversavo a nuoto le gelide pozze. Il vento spirava forte dal mare, congelandomi. «Okay» dissi. «Torniamo a nuoto.» «No, per me va bene anche ripassare per le grotte.» Sotto di noi dei bambini di colore si arrampicarono sulle rocce e, senza un attimo di esitazione, tre di loro si tuffarono in acqua, uno dopo l'altro. La quarta sembrò dubbiosa. Poi si tuffò anche lei.
Quasi subito tre teste riemersero. I bambini si scostavano i capelli dagli occhi e stavano a galla muovendo appena le gambe. La quarta non compariva. Inebetita, aspettavo, con un senso di oppressione crescente alla bocca dello stomaco. «Dov'è Margate?» gridò un bambino. «Non lo so. Non la vedo.» Senza riflettere, mi tuffai. L'acqua mi accolse con un gelido impatto e mi parve di scendere all'infinito giù per gli abissi verdi e muschiosi pieni di forme fluttuanti. Mossi i piedi freneticamente per risalire, coi polmoni che mi scoppiavano e emersi, boccheggiando. Cercai subito di orientarmi. Per un istante non vidi che mare e cielo, poi scorsi i tre bambini che si tenevano a galla. Uno di loro mi indicò un punto col dito. Inspirai a fondo, mi piegai su me stessa e mi tuffai sotto. Lottando con l'acqua mossa cercai di distinguere la vegetazione da altre forme di vita. Di nuovo fui costretta a risalire in superficie, sputacchiando. I bambini erano ancora lì, perplessi, ma non allarmati. Poi la intravidi che galleggiava appena sotto la superficie. La afferrai per i capelli e tirai forte, cercando di estrarle il viso. Era rigida, e quindi più facile da aiutare. Tenendole una mano sotto il mento mi lanciai verso riva nuotando freneticamente. L'acqua ribolliva attorno a noi, riempiendomi la bocca e il naso. Soffocavo. Non sapendo cosa fare per me gli altri tre bambini si diressero verso riva. Mi chiedevo quanto sarei riuscita a resistere. Sulla spiaggia, lo vedevo, c'era un gran fermento. Misero in mare un canotto che venne verso di noi a tutta velocità. Quasi mi misi a piangere di sollievo quando delle braccia si protesero per togliermi il corpicino. «Tutto bene, Holly?» Ero troppo sfinita per restare sorpresa: c'era Patty sul canotto. Tirò su la bambina. «Ho attraversato di corsa le grotte per procurarmi una barca. Ce la fai a continuare a nuoto o vuoi aggrapparti?» Non potendo parlare, le feci cenno di andarsene senza di me. Adesso che non avevo più il mio fardello da sostenere non c'era problema. Il cielo, il sole, le voci dalla spiaggia mi turbinavano nel cervello e mi pareva di guardare la terra da una distanza infinita. Bagnanti e fanatici del sole convergevano verso un unico punto come tante formiche su uno schizzo di miele. Mi pareva che alcuni trasportassero degli equipaggiamenti di salvataggio. E, finalmente, i miei piedi toccarono terra e, ansando, mi trascinai sulla spiaggia.
I curiosi facevano ressa attorno al canotto. Una scacchiera di visi bianchi e neri guardavano in basso, gli occhi fissi a qualcosa che c'era sulla sabbia. Mi fermai esitante, dilaniata dal desiderio di sapere se la bambina era viva e da una violenta riluttanza ad avvicinarmi. In quel momento qualcosa ruppe l'immobilità della scena. «Lasciatemi passare. Sono sua madre. Sono sua madre.» Due uomini cercarono di fermarla, ma lei si liberò dalla loro presa. Alto, si levò un grido di assoluta disperazione. Aveva tra le braccia il corpicino senza vita e singhiozzava. «No, no, no, no, no...!» 19 aprile Nicholas guardò l'ora, tolse il walkie-talkie dalla custodia bianca, alzò l'antenna e premette il bottone d'ascolto. Scoppiettii e ronzii indistinti uscirono dall'apparecchio, poi la voce di D. J. «Basso chiama Alto. Basso chiama Alto. Rispondete. Passo.» «Alto chiama Basso.» Riconobbi la voce di Ted McKnown. «Riceviamo chiaramente. Passo.» «Avete sentito la notizia?» chiese D. J. «Della bambina di colore che è affogata? Patty Eban ha cercato di portarla in salvo, ma era troppo tardi. Passo.» Patty Eban? E come mai quella bugia? Non che volessi dei meriti per il mio insuccesso, ma ero stata io a portarla in salvo, non lei. «Com'è successo?» chiese Ted. «Passo.» «Non conosco i particolari. Cercherò di informarmi. Siete in ascolto, Punto Nord? Passo.» Una pausa di silenzio. Seduta al tavolo bevevo del caffè e guardavo il cielo screziato. Una sola tra la miriade di isole era illuminata dal sole, le altre erano tutte in ombra. L'acqua, mossa, passava dall'acquamarina al verde oliva al nero ardesia. Non si vedevano barche e, all'improvviso, cominciò a piovere a dirotto. «Basso chiama Alto» disse D. J. «Non riesco a mettermi in contatto col Punto Nord. Probabilmente uno degli altri bambini l'ha spinta in acqua. Passo.» «Direi che la nostra gita alla Baia del Pirata è terminata» disse Ted. «Torniamo e veniamo da te più tardi. Passo e chiudo.» Si sentirono due clic. Nicholas, fermo accanto alla credenza della cucina, rimase immobile a fissare la pioggia. Poi si decise a spegnere il walkie-
talkie. «Perché tanti misteri?» chiesi io dopo un istante. «Alto, Basso... non potrebbero dire "Sono D. J." oppure "Sono Ted"?» Per un istante pensai che Nicholas non mi avesse sentito. Poi, a fatica, disse: «Be', prima di tutto le onde radio non sono destinate a comunicazioni personali. E poi è un sistema aperto. Supponiamo, per esempio, che io fossi un uomo famoso e non volessi far sapere che mi trovo sull'isola di Scorpion il diciannove di aprile...» «Chi è il Punto Nord?» «Noi.» Lo fissai. «E allora perché non hai risposto?» Tolse dalla padella le fette di pancetta affumicata e le posò su un foglio di carta assorbente. «Non mi va di parlare della morte di una bambina come se... come se fosse un argomento da colonna scandalistica.» Lanciò un'occhiata verso la camera da letto in cui dormiva ancora mia nonna. «Patty è rimasta parecchio sconvolta da questa vicenda.» Mi limitai a un cenno d'assenso e mangiammo in silenzio. Poi riordinai la cucina. All'improvviso com'era venuta la pioggia si spostò sul mare e le nuvole cominciarono ad aprirsi, simili a fiocchi di ovatta macchiati d'azzurro cielo. La striscia d'acqua tra le due isole alla mia sinistra divenne turchese mentre dall'oceano si alzavano spruzzi d'argento. Persino i cactus passarono da un colore terreo a un brillante verde giada. Spettinata e con gli occhi pieni di sonno mia nonna uscì dalla sua camera. Aveva in braccio un gattino nero. «Com'è entrato in casa questo?» chiese, lasciandolo cadere ai miei piedi. Lo raccolsi e gli grattai la nuca. «Non ne ho idea. Forse appartiene a D. J.» Mi guardò sospettosa. «Non l'hai per caso raccolto tu da qualche parte? Hai sempre avuto un debole per i derelitti.» «Forse era degli Elwyn, e l'hanno lasciato qui» disse Nicholas. «Se è un gatto abbandonato possiamo adottarlo noi.» Versai del latte in un piattino e glielo avvicinai. Leccò il latte con voracità. «Oh, guardala...» Patricia si interruppe e mi fissò. «D'accordo, cara. Anche se do l'impressione di avere un cuore di sasso, in realtà è di pastafrolla.» «A proposito. Credete sia vero quel che ha detto Gertrude di Robert Elwyn? Che potrebbe essergli capitata una disgrazia?» «A proposito di che?» chiese mio nonno. «A proposito del fatto che
Patty è di pastafrolla?» Prima che mi potessi spiegare, Patricia disse: «Com'è quel detto... ah, sì... "Prendi per buono metà di quel che senti e niente di quel che vedi". Qualcosa del genere, insomma. Be', quanto a Gertrude Vincent non bisogna credere a niente né di quel che dice né di quel che mostra.» «Quello che non riesco a spiegarmi» disse Nicholas pensieroso «è come mai quella bambina si sia gettata in acqua se non sapeva nuotare. Non ha senso.» «Per me ne ha, eccome» disse mia nonna. «Un bambino che vede nuotare i suoi amici crede di poterlo fare anche lui. Io, da bambina, mi sarei comportata come lei.» «Per fortuna qualcuno aveva pensato a insegnarti a nuotare.» Le misi davanti un piatto con uova, pancetta e del pane tostato. Appena terminò di mangiare si alzò. «Devo andare a cercare Harold per chiedergli se può darmi una mano a mettere i tramezzi per la pioggia. Tu che cosa hai voglia di fare oggi, Holly?» «Posso esserti utile?» «Assolutamente no. Sei in vacanza. Perché non chiedi agli altri se c'è qualche gita in programma?» «Il vostro ritmo di vita mi distrugge. Preferirei starmene seduta al sole. Devo preparare qualcosa per cena?» «Cuocerò del pane, ma non credo proprio che tu ti intenda di faccende di questo genere, ragazza di città. Nicholas andrà a pescare del pesce, e io prenderò delle papaie dal giardino...» «Basta così, ragazza di campagna. Ho capito la lezione.» Mentre si vestiva lavai i piatti. «Nicholas, se noi siamo il Punto Nord, e i McKnown il Punto Alto eccetera eccetera, come fate quando i punti di riferimento non vi bastano più?» «I Dinhofer, finché sono stati qui, erano il Granchio. E i Llewellyn lo Scorpione, gli Elwyn la Strega...» «Perché non scegliete qualche pseudonimo tipo: rosa di maggio o valle della felicità? Con dei nomi simili non c'è da stupirsi che la gente tagli la corda: qui la tensione spacca i nervi. Non è che anche tu e Patty finirete per farvi cacciare...» «Hai parlato con D. J., figuriamoci. Quella ragazza ha il buontempo. Le starebbero bene un uomo e una dozzina di figli, almeno avrebbe qualcosa a cui pensare.» «Forse volevi dire un marito e una dozzina di figli.»
«Be', conoscendo D. J...» cominciò Nicholas, ma lasciò l'argomento in sospeso. Sparì a lavorare in giardino e io terminai le mie pulizie. Poi infilai il costume, misi nella borsa un asciugamano, la lozione solare e un libro e partii alla volta della spiaggia. Sforzandomi di ricordare dove fosse il sentiero che mi aveva indicato D. J. risalii la strada principale e poi voltai a destra, in cerca dello sbocco sulla Baia di Sabbat. Scesi giù per la stradina ripida e tortuosa, camminando nel centro dove l'erba era più alta per non scivolare. Nel bosco trovai il filo spinato e lo scavalcai nel punto più basso. I gabbiani volteggiavano sopra le onde e gli alberi si addossavano l'uno all'altro sotto le sferzate del vento. La spiaggia pareva ancora più striata dai detriti rossicci ma, più in là, la sabbia color crema scendeva dolcemente nell'acqua azzurra. Le gambe mi prudevano terribilmente. Le esaminai con cura senza riuscire a capire perché. Lasciai cadere a terra la borsa e corsi nell'acqua. Il mare mi fu di sollievo. Nuotai e rimasi a galleggiare finché il prurito cessò. Mentre toccavo la riva scorsi, lontana, una figura che camminava nelle secche. 19 aprile Tornai indietro con gli anni, a quando, adolescente, guardavo Algie occupato nella stessa impresa. Nonostante ci separassero la sabbia e il mare, non avevo il minimo dubbio. Era lontano: una figura minuscola grande come una bambola che dava leggeri strattoni alla canna da pesca e camminava lungo la riva. Come sempre quel che faceva lo assorbiva a tal punto da non accorgersi di niente e di nessuno. I suoi occhi scandagliavano l'acqua come se la sua vita dipendesse da quel che riusciva a pescare. Man mano che mi si avvicinava notai che era vestito con la solita trasandatezza: i pantaloni arrotolati sopra il ginocchio, la camicia che gli svolazzava sui fianchi e un cappelluccio informe in testa per ripararsi dal sole. Algie Vincent, colui al quale non importava nulla di quel che poteva pensare di lui il prossimo, indifferente al mondo intero. Mi lasciai cadere sull'asciugamano e frugai nella borsa alla ricerca del pettine e del rossetto. Non li avevo, e quindi mi distesi e chiusi gli occhi. Era inutile controllare il respiro, perché ci aveva già pensato da solo. Anzi, nei polmoni mi entrava così poca aria che mi pareva di soffocare. Quando riaprii gli occhi stava girando il mulinello: l'eccitazione traspariva dai muscoli tesi del suo corpo, teneva la canna puntata alla vita per far
forza, e la sottile asta metallica era curva come un arcobaleno. Si chinò per esaminare la preda. Raddrizzatosi, ributtò in mare quel che aveva preso. Più si avvicinava, più mi si stringeva lo stomaco. Guardai interessatissima un piro-piro immobile su una roccia. Avevo le braccia coperte di pelle d'oca e di rivoli di sudore: passavo di continuo dal caldo al freddo. Memore dell'episodio di due giorni prima, cercai sulla montagna il bagliore di un eventuale binocolo. Voltandomi vidi Algie a pochi passi di distanza che mi guardava. Come Selina, d'aspetto era sempre lo stesso. Aveva i capelli schiariti dal sole, forse non color oro come allora ma sempre biondi, e un'abbronzatura rossiccia che arrivava fino al collo e ai gomiti. Lui non stava certo a preoccuparsi dell'estetica, mai. E quegli occhi che mi scrutavano da sotto le sopracciglia scolorite erano dello stesso incredibile, intenso azzurro. «Ciao, Holly.» «Ciao, Algie.» «Meglio che tu ti tolga dal sole.» «Preso qualcosa?» Aprì il sacchetto di plastica che aveva in mano. «No, a meno che non contino queste nicchie.» Le guardai attentamente. «Che cosa ne fai?» Non rispose subito e quando alzai gli occhi gli vidi dipinta in viso un'espressione che era un misto di rassegnazione e fastidio. «Sempre la stessa vecchia Holly. Non che sia ottusa, ma se solo c'è la possibilità di fare una domanda ottusa non perde mai l'occasione.» Sempre lo stesso vecchio Algie. Non proprio crudele, ma a volte lo sembrava. Ma non lo dissi e non me ne andai. Invece, per nascondere il sangue che mi affluiva al viso, mi voltai a pancia sotto. «Posso farne parecchie cose. O tenere le conchiglie per bellezza, o farne una zuppa di pesce, o cuocerle stufate. Come posso sapere adesso che uso ne farò, dannazione?» Non riuscendo più a star ferma mi alzai di scatto e mi tuffai in acqua. Sentii un tonfo alle mie spalle e vidi Algie tuffarsi di testa in un'onda e poi riemergere. Come un automa nuotai verso di lui. Si era tolto solo la camicia e mi aspettava stando a galla col naso stretto tra il pollice e l'indice, un gesto tutto suo. «Ehi, Holly, ti ricordi chi ti ha insegnato a nuotare quando eri alta come un soldo di cacio?» «Certo. Nicholas.» «Che ingrata! Sono stato io.»
«Tu! Ma se non hai mai fatto altro che darmi della stupida!» «Quando penso alle ore che ho passato...» «Dopo l'unica tua lezione avevo giurato che non mi sarei mai più accostata all'acqua.» Puntai verso riva, nuotando con la maggior grazia possibile. Toccai terra con lui accanto che scuoteva la testa per liberare dall'acqua gli occhi e i capelli. «Che lavoro fai, Algie? Non insegni, spero.» «Sarei un ottimo insegnante. Basta vedere come hai imparato a nuotare bene tu.» Non potei trattenere una risata. Irrazionalmente felice sedetti sulla sabbia, slegai i capelli, li ravviai con le mani e tornai ad annodarli. «Che cosa fai?» «Un'altra domanda ottusa. Sai bene che sono avvocato.» «Non avrei mai creduto che finissi l'università.» «Mi mancherà tutto, ma non la perseveranza.» Si distese intrecciando le mani sotto la testa e io vidi lo stomaco che si ritraeva e il torace che si gonfiava. «E tu che mestiere fai, Holly?» «Scrivo massime.» «Massime? Di chi?» «Mie. Per esempio: "Esplosione di fiordalisi questa primavera negli abiti di chiffon di Molly Parnis".» «Vuoi scherzare.» «Oh, chiudi il becco.» Feci l'atto di alzarmi per spostarmi all'ombra e Algie mi afferrò la mano. «Non ti arrabbiare.» Mi parve che il suo sangue defluisse nel mio attraverso il contatto delle nostre dita, e rimasi paralizzata. Lentamente, senza volere, mi lasciai scivolare verso di lui ma, all'improvviso, vidi un bagliore sulla collina. «Che cosa guardi?» «Qualcuno ci osserva con un cannocchiale.» «E allora? Hai intenzione di commettere atti scorretti?» E così mi venne la forza di togliere la mia mano dalla sua. «Perché devi sempre fare a pezzi il tuo prossimo?» «E perché tu stai a preoccuparti di quel che possono pensare i vicini? E poi che cosa significa: far a pezzi il prossimo?» Batté una mano sul suo accappatoio. «Siediti qui, Holly. Voglio che mi racconti tutto quello che hai fatto. Abbiamo nove anni da recuperare.» «Perché non sei venuto a cena dai McKnown, allora?» Mi sarei mangiata la lingua. Sgomenta, restai in attesa della sua solita risposta di scherno e
invece lui emise un suono che, se non si fosse trattato di Algie, avrei definito un sospiro. Si voltò sul fianco e, reggendosi il mento nel palmo della mano, mi fissò. «Perché sei tornata a Scorpion, Holly?» Il piro-piro si era fatto più vicino, quasi volesse sentire i nostri discorsi, le esili zampine pronte a staccarsi da terra per librarsi in volo. La risposta vera sarebbe stata: "Per rivedere te, Algie", ma quella che invece gli concessi fu: «Per rivedere i miei nonni.» «Come mai, dopo tanto tempo?» «Non era possibile, prima. Mia madre aveva rotto i rapporti con mia nonna...» «E ora si sono rappacificate?» Cominciai a spalmarmi di lozione solare. Lui mi prese di mano la bottiglia e mi unse la schiena. Mi parve di sentire la pelle tendersi come sotto i colpi di una frusta, colpi dolorosi e piacevoli assieme. «Mia madre è morta da poco.» «Oh, maledizione! Mi dispiace, Holly.» Mise il tappo alla bottiglia. «Allora sei orfana.» «Se ti pare il caso di definire orfana una ragazza di ventisette anni...» «Ventisette? Davvero? Credevo ne avessi diciassette.» «Tu invece ne hai trentadue.» «Per gli uomini l'età non conta. Le donne invece non dovrebbero mai superare i vent'anni. Massimo i venticinque.» E di nuovo le parole mi uscirono di bocca prima che potessi fermarle. «Tua moglie quanti ne ha?» «Gertrude è molto più giovane di te. Ne ha ventisei.» Risi ancora. Più per l'espressione da tonto che si era dipinto in viso che per la battuta. Stavo per sdraiarmi ma mi fermò con un urlo. «Non rompermi la canna da pesca! Sei la donna più maldestra che abbia conosciuto in vita mia!» Sentimmo un fruscio tra i cespugli e apparvero due capre, una bianca pezzata di nero e l'altra tutta nera. Si misero comode sulla sabbia, gli occhi fissi sul mare. Decisa a non abboccare ad ogni sua provocazione dissi: «Sembrano una coppia di persone anziane in una casa di riposo. Gli manca solo la sedia a dondolo.» Appoggiò la canna contro un albero. «Me l'ha regalata tua nonna per il mio compleanno.» La guardai meglio. Non mi intendevo di canne da pesca, ma dalla levigatezza del legno si sarebbe detta un oggetto costoso. «È stata gentile.»
«È molto generosa. Sei sposata, Holly? O legata a qualcuno?» «No.» «E non sei mai nemmeno stata sposata?» Sembrava non riuscisse a crederci. «Perché tanta meraviglia? Ho solo...» «Ma sei così attraente. E non tutti gli uomini sono di gusti difficili come me. Molti non avrebbero fatto caso alla tua stupidità e alle domande ottuse che fai...» «Stando a quel che ricordo del matrimonio dei miei genitori, direi che come istituzione non è delle migliori. E poi, chi se la sente di farsi mettere sotto i piedi da...» Mi interruppi. «Da un bastardo come me?» terminò lui. Sogghignò. «Sono sempre stato convinto che avessi molto più buon senso di quanto vuoi far credere.» «Dio, ma che razza di rompiscatole sei! Quasi me l'ero dimenticato! Come fa a sopportarti... come si chiama... tua moglie, insomma.» Una capra belò. Io mi diedi una pacca sul braccio per liberarmi da qualcosa che mi si arrampicava sopra. Algie pareva addormentato. Alla fine, non potendo più sopportare quel silenzio, dissi: «La tua Lisa è un amore.» «Di solito non fa che rompere.» Rotolò su se stesso e, nel muoversi, mi sfiorò. E di nuovo provai quel misto di sofferenza e di piacere, e mi ritrassi in modo che tra noi due ci fosse dello spazio. «Dovresti proprio tornartene a casa, Holly.» Smisi di asciugarmi il sudore che mi colava sugli occhi e lo fissai. «Non lo dico per me, credimi. Solo, su quest'isola c'è qualcosa che non quadra.» Ero talmente immersa nei ricordi che non mi venne niente da dire. «È un'isola schifosa.» Si mise seduto strofinando le mani sporche di sabbia. «I miei genitori stanno pensando di vendere. E hanno ragione.» «Vendere?» «È un brutto posto. Sembra puerile, ma è proprio vero che esistono posti buoni e posti cattivi a questo mondo.» «È la gente che è cattiva, non i posti.» Aprì la bocca per continuare ma la richiuse, mentre i suoi occhi fissavano qualcosa dietro le mie spalle. Io mi voltai piano, di malavoglia, e lasciai sfuggire un sospiro come fa un bambino quando si sente annunciare che la festa è finita. Gertrude Vincent, in bikini e con un asciugamano sul braccio, stava uscendo dal bosco. Non si accorse certo della tensione che si era creata sulla
spiaggia. Se il proprio marito era a colloquio privato con una sua ex ragazza non era cosa che potesse preoccupare una persona sicura di sé come Gertrude. «Sono passata adesso davanti a casa tua e ho visto un gruppo di negri fermi di fuori.» «Degli operai, intendi dire?» «Non avevano l'aria di essere operai, e certo non si comportavano come se lo fossero. Ho chiesto che cosa volessero e mi hanno risposto che stavano aspettando la vecchia.» «Patty ha detto che aveva bisogno di aiuto per i tramezzi...» «No, Holly, c'è qualcosa sotto. Avevano più l'aria di essere pronti a un linciaggio che a dare una mano.» Algie era già quasi in piedi, ma Gertrude lo fermò. «No, siccome non era in casa se ne sono andati. Hanno detto che torneranno domani.» 20 aprile Che cosa ci faccio qui? Unica risposta il frangersi delle onde e il vento che ululava unendosi alle grida di angoscia di tutti quelli che erano morti per mare dal giorno della Creazione. Sotto il cielo sempre più chiaro vedevo la bianca schiuma contro gli scogli. Un mostruoso albero centenario col fusto incappucciato da una ghirlanda di foglie appuntite divideva a metà la collina. Pian piano anche gli scogli apparvero: dall'orizzonte saliva il disco arancio del sole. In un attimo fu visibile nella sua pienezza, e diffuse sulle rocce una luce giallastra. I miei nonni, anche se mi avevano accolta con piacere, parevano non aver nessun bisogno di me. D. J., Ted e Selina erano presi da interessi che non avevano niente in comune con quelli che ci legavano un tempo. E Algie mi aveva detto di tornarmene a casa. E allora che cosa ci facevo lì, io? Depressa com'ero non sentii nulla finché i cespugli sotto di me si mossero. Se fosse stato ancora buio mi sarei spaventata, ora invece mi limitai a togliere i piedi dalla ringhiera, a controllare che il pigiama fosse ben abbottonato e ad aspettare. Dai cespugli emerse un gruppo di gente di colore: un uomo, quattro donne e un bambino. Alzandomi, lanciai un'occhiata alla baia. Nemmeno una barca. Camminavano silenziosi e furtivi, come cannibali che assalivano di sorpresa un villaggio.
«Salve» dissi io, e subito mi irritai sentendo che la voce mi tremava. Si fermarono di colpo e sei paia di occhi si alzarono verso di me. Non si aspettavano di trovare qualcuno sveglio a quell'ora. Non avendo risposta al mio saluto frenai l'impulso di mettermi a correre e mi avviai verso la porta della cucina, che chiusi a chiave alle mie spalle. Non che questo rendesse la casa inespugnabile: bastava che si arrampicassero sulla terrazza se volevano entrare, ma perlomeno avrebbero impiegato più tempo. Poi, a passi felpati, andai verso la camera dei miei nonni e, senza bussare, entrai. Dormivano supini, e il viso di entrambi pareva più vecchio e più rugoso per le grinze prodotte dai cuscini. Misi loro una mano sulla bocca, mi piegai e sussurrai: «Patty, Nicholas. Svegliatevi.» Mia nonna aprì gli occhi per prima e per un attimo mi guardò senza riconoscermi. Poi, pian piano, la mente le si schiarì e emise un gemito. «Silenzio» la ammonii. «Che cosa c'è?» «C'è della gente fuori. Vengono dall'isola principale.» Adesso aveva gli occhi ben aperti, e sbadigliò rumorosamente. Sentendomi completamente ridicola, mi guardai attorno alla ricerca di un'arma, ma tutto quello che mi riuscì di trovare fu un'asta delle tende. In cucina la maniglia della porta cigolava. Non avevano bussato, tentavano direttamente di aprire. «Nicholas... hai una pistola? Dio santo: niente armi, niente telefono, come si fa a chiedere aiuto...» «Ma che cosa ti prende?» disse Nicholas spazientito. Scesero tutti e due dal letto. Patricia si infilò la vestaglia, Nicholas invece andò in soggiorno con addosso soltanto i pantaloni del pigiama e, senza esitare, puntò verso la porta. «Nicholas, aspetta...» cominciai io, ma lui l'aveva già spalancata. Si fermò sulla soglia, sorpreso. La delegazione lo spinse da parte e entrò in casa, immersa nella penombra. «Che cosa ci fate qui a quest'ora, voi?» chiese Nicholas. «Per quale famiglia lavorate?» A me la sua voce pareva normalissima. Il bambino, che anzi era una bambina, puntò un dito scarno e disse: «È lei.» In un primo momento pensai che quel dito accusatore fosse rivolto a me, ma poi mi accorsi che era indirizzato verso mia nonna. «Come?» domandò
Patricia. Si avvicinò alla bambina, ma questa fece un passo indietro e si aggrappò al vestito di una delle donne. «Non voglio che mi tocchi, fermala!» «Che cosa succede?» chiese Nicholas. «È lei» ripeté la piccina. «È lei quella che ha ucciso Margate.» «Ucciso chi?» Fu la volta in cui vidi Patricia più vicina a perdere il controllo dei suoi nervi. «Ma che cosa dici?» E fu anche la volta in cui vidi Nicholas più vicino ad andare su tutte le furie. «Lei. La vecchia signora» disse la bambina, facendo capolino da dietro la donna. «Ha fatto affogare Margate. L'ha spinta lei.» Allibita, io dissi: «È una dei bambini delle grotte. Era assieme alla piccola che è morta.» «Io ho cercato di salvarla» urlò stridula Patricia. «L'ho portata a riva sul canotto e ho tentato di farle la respirazione artificiale.» Una donna si staccò dal gruppo e venne avanti di un passo. La riconobbi: era quella che gridava sulla spiaggia. «Ti conosciamo, strega. Insegni cose cattive ai nostri figli. E adesso li uccidi, anche. Devi andartene da quest'isola. Torna tra la tua gente. Ti diamo dieci giorni di tempo: o te ne vai o morirai.» E come un esercito ben addestrato girarono sui tacchi, uscirono e tornarono a sparire tra i cespugli. 21 aprile «Perché dieci giorni?» chiesi a D. J. «Quella gente ha dato a mia nonna come termine massimo dieci giorni. In altre parole, il trenta aprile. Se non sbaglio una volta ti ho sentita dire che il trenta aprile era una specie di ricorrenza per le streghe.» Il motore della barca faceva un tale fracasso che dovevo piegarmi a urlarle nell'orecchio. «Sì» disse lei pronta. «Si chiama Beltane.» «D. J., è vero che riunisci in congreghe i giovani di colore?» Il viso di D. J. rimase tranquillo e inespressivo per un istante, poi lei scoppiò in una risata. «Se ti dicessi di no non mi crederesti. Se dicessi di sì, romperei un voto.» «Per di là» urlò Nicholas a Ted che era al timone. Ted fece un cenno col capo, mentre seguiva con gli occhi il volo dei pellicani che sfioravano l'ac-
qua e vi si tuffavano. Gli occhi riparati dalle lenti da sole, stava in piedi per avere una miglior visibilità. Ogni volta che girava il timone per virare gli spruzzi ci inzuppavano. Algie e Selina badavano a non ingarbugliarsi a vicenda i fili delle rispettive canne da pesca. «D. J.» continuai io «non c'è niente da ridere. Quelli sono convinti che Patty abbia a che fare coi vostri imbrogli. E hanno minacciato di ucciderla.» «Non crederai che lo facciano veramente, spero. La morte di quella bambina li ha sconvolti e devono per forza sfogarsi su qualcosa o qualcuno. Non avrebbero mai il coraggio di far niente di serio.» «Se sono così contrari alla stregoneria, perché sono andati a scegliere proprio una ricorrenza simile per attuare la loro vendetta?» «Giustizia poetica, o qualcosa del genere. E poi la loro struttura religiosa non è che un impasto di cristianesimo, superstizione e vuduismo...» «Che cos'hai sul braccialetto?» Mi ero accorta che nel rame era inciso un complicato disegno. «Una decorazione, niente altro.» Cercai di guardare più da vicino ma, con un brivido, D. J. si alzò e si infilò la giacca a vento di nailon. Quando tornò a sedersi il braccialetto era coperto dalla manica. Eravamo accucciate a prua per stare più calde, mentre Beanie e Lisa cantavano beati sul ponte. «Quel bastardo di Phil ha alzato di nuovo il prezzo del carburante» disse Algie a Ted. Con la mano libera afferrò Lisa per il fondo dei pantaloni e la sistemò in un posto più sicuro. Gertrude, protetta dal sole da un ampio cappello e con addosso la camicia e l'asciugamano, continuò a leggere imperterrita. Beanie, giratosi di tre quarti, chiese: «Che cos'è una cosa in... tan...» «Intangibile» terminò Gertrude svagata. Fu sua madre a rispondergli. «Tutto quel che si rompe per te dovrebbe essere intangibile.» Ad Algie, Ted disse: «Vorrei potermi fermare qui un paio di mesi per vederci chiaro una buona volta e farla finita.» Algie gli manifestò la sua approvazione con un cenno del capo e poi disse secco a Gertrude: «Perché non tieni d'occhio questi dannati bambini invece di startene con la testa infilata nel tuo libro?» «Non hanno bisogno di niente» disse lei con la testa altrove, e ricominciò a leggere. Mia nonna posò la sua rivista di psicologia e si prese tra le braccia i due
bambini cercando di tenerli fermi. Guardai di sfuggita la rivista e mi sembrò che non fosse mai stata aperta. Avevo l'impressione che Patty si portasse sempre appresso qualcosa da leggere più per vezzo che per altro, senza mai farne l'uso a cui era destinato. Passavo dal freddo del vento al caldo del sole e intanto guardavo tutti quelli che si trovavano a bordo, tranne Algie. I miei occhi gli giravano attorno scansandolo, come si fa quando si incontra una pozzanghera sulla strada. Il vento mi scompigliava i capelli e non c'erano elastici né fazzoletti che servissero a tenerli fermi. «D. J.» dissi «quando parto lo prendi tu il gattino che ho trovato?» «Come faccio, Holly? Prima di tutto devo tornare al lavoro tra poco e poi ho già la mia Hulda.» «Oh, è vero. Me ne ero scordata.» «Perché non te lo porti a casa?» «Nel mio appartamento non è permesso tenere animali. E quello cos'è?» Stavo guardando le palme che si muovevano ondeggiando come se seguissero il ritmo di silenziose zampogne e avevo visto muoversi qualcosa in cima alla montagna di Scorpion. «Deve essere Phil di Bitteto.» «E l'altro chi è?» Poco distante da una delle due figure ce n'era un'altra, un'ombra che si muoveva rapida. D. J. si guardò attorno, contando i presenti. «Siamo tutti qui, tranne Phil. E so che Harold, l'aiutante di Phil, oggi non è arrivato col traghetto.» Continuai a guardare finché entrambe le figure scomparvero. Poi, accorgendomi che Beanie si sporgeva dalla barca, mi precipitai ad afferrarlo, e l'ombra senza nome mi passò di mente. «Stai sottovento» consigliò Patricia a Ted. «Dicono che i pesci da quel lato siano velenosi.» «Giusto» feci io. «Come se fosse facile tenere i pesci sempre dalla stessa parte.» «Preso!» Selina era in piedi e girava il mulinello. Nicholas la tenne per la camicia perché non finisse in acqua. Ted, virando ad arco, impedì che le due lenze si incrociassero. Selina uscì in un'imprecazione. Dall'acqua emergeva un lungo pesce, sottile come un ago e coi denti aguzzi. «Barracuda» disse disgustata. «Tienilo come esca» disse Patricia. Angie mi tese la sua canna, spinse da parte i bambini e andò a prendere un martello. Prima che avesse il tempo di abbatterlo sulla minuscola testa,
il pesce azzannò una gamba a Beanie. Le urla di Beanie si unirono ai colpi del martello. In un attimo il fondo della barca fu rosso di sangue. Velocissima, Selina affidò la sua canna a Nicholas e lavò il sangue dal ginocchio di Beanie con un fazzoletto umido. Io cercai di fare un po' d'ordine. «È solo un graffio, Beanie» gli disse dolcemente Patricia. «Lo dici tu che è solo un graffio» singhiozzò lui. «Ma intanto il male lo sento io.» «Ascoltami, Beanie. Appena torniamo a casa ti farò un piatto di dolcini tutti per te. Quali ti piacciono di più?» Lisa, che guardava attenta la ferita, disse: «Il guaio è che non hai pazienza. Aspetta e vedrai che ti passa. Io sono capace di aspettare, sempre.» Beanie le sferrò un calcio talmente forte che la fece cadere all'indietro, e così ai gemiti suoi si unirono quelli di Lisa. Alzando gli occhi al cielo Gertrude si ritirò dalla scena voltandosi di spalle e reimmergendosi nella lettura. «Chi ha avuto la bella idea di andare a pescare con questi dannati bambini?» brontolò Algie mentre tagliava a pezzi il barracuda. «Lisa, tesoro» disse Patricia «metà dei dolcini di Beanie saranno per te.» «È tutta colpa tua» gridò Beanie a mia nonna. «Sei stata tu a dire di tirare su il barracuda.» «Beanie!» sbottò Selina. «Smettila subito.» «I bambini dell'isola hanno detto che la signora Eban è una strega» si difese Beanie tirando su col naso. «Vi ho sentiti quando ne parlavate.» «Quella è gente stupida e ignorante» gli disse sua madre. «Hai sempre detto che non bisognava avere pregiudizi. E tu invece li hai.» «Cosa c'entrano i pregiudizi col fatto che la gente non colta è superstiziosa?» «A volte lo è anche la gente colta» dissi io. «Come D. J.» «Questa è la conversazione più assurda che io abbia mai sentito» disse Ted in tono stanco. «Beanie, sta' tranquillo. Appena possibile ti porteremo dal medico.» «Non voglio. Detesto i dottori. Non ci andrò. Mai.» «Neanche quando avrai un bambino?» chiese Lisa con un interesse che la fece smettere di piangere. «Ci manderò il bambino dal dottore. Ma io non ci andrò.» Ridevo di gusto: un istante dopo Selina si unì alla mia risata, e poi anche
Algie. Gli altri invece erano divisi tra l'irritazione, come Ted e i bambini, e lo stupore, come Patty, D. J. e Gertrude. Ted virò di nuovo con un ampio arco, sulla scia dei pellicani. Io guardavo gli uccelli che volavano in tondo, l'acqua increspata, il cielo senza una nube. «Preso!» disse esultante Algie. «Pare grosso.» Persino Beanie e Lisa si tranquillizzarono. La canna si inarcò e il pesce uscì dall'acqua. Questa volta era un bel tonno blu grigio, lungo all'incirca mezzo metro. Algie gli tenne testa e lo lasciò cadere sul fondo della barca, e Nicholas si precipitò a ucciderlo a martellate. «Ancora uno e stasera faremo baldoria» disse Algie. Intervenne Gertrude con voce lamentosa. «Se tu potessi staresti in mare a pescare per una settimana filata. C'è da morire di noia.» «Perché non vai a stabilirti a St. Thomas, dove la gente si diverte come piace a te, bevendo e ballando?» «Lo farei se avessi dei quattrini.» «Non ti mancherebbero se non li sperperassi in vestiti e ricevimenti e stupide associazioni...» «Concedeteci un'altra mezz'ora» intervenne Selina. «Il pesce fresco mi piace da impazzire.» Ted continuò a seguire i pellicani, Algie e Selina a pescare, Lisa e Beanie a giocare ai nomi dei fiori, Gertrude a leggere e noi, gli inattivi, piombammo in uno stato di semicoma. Finalmente i pescatori dissero che ne avevano abbastanza e Ted tornò verso Scorpion. «Se ci aggiungiamo della verdura, il pesce basterà per tutti» disse Algie. «Potete venire a cena da noi stasera...» Gertrude si rizzò di scatto, allarmata. «No, stasera no, Algie. Proprio non è possibile. In casa c'è un disordine pazzesco.» «Allora venite tutti da noi» disse Patricia «anche se avevo in programma una cena più avanti per salutare la partenza di Holly...» «Tocca a me» disse D. J. «Ma bisognerà che la verdura me la portiate voi e... vediamo un po'... sono a corto di pane e dato che tu Patty hai già deciso di fare dei dolci...» Eravamo vicino al molo: afferrai l'anello e balzai a terra mentre Nicholas calava l'ancora. Mentre iniziavamo l'inevitabile opera di scarico, stile vigili del fuoco, vedemmo ripartire il barcone per il trasporto del legname, e Phil di Bitteto fermo sulla riva. «È arrivato il tuo carico» disse Phil a Ted.
«Finalmente! Quanto?» «Ottocentocinquanta.» «Ottocentocinquanta dollari?» «Precisamente.» «Ma se avevi fatto un conto approssimativo di cinquecento...» Phil si strinse nelle spalle. «Appunto. Era un conto approssimativo.» «Non capisco come...» Selina gli toccò il braccio. E, dura, disse: «Bisogna andare a casa a medicare la gamba di Beanie.» «Come hai fatto a star sotto di trecentocinquanta dollari?» Senza lasciare a Phil il tempo di rispondere, intervenni io. «Mentre eravamo fuori a pesca ho visto qualcuno muoversi sulla montagna. Ci sono dei manovali sull'isola?» «Probabilmente avete visto me.» E fece per andarsene. «Ho visto due persone.» Lui mi fissò un istante e di nuovo si strinse nelle spalle. «Per quel che ne so io, sono stato solo tutto il giorno.» In silenzio, abbacchiati, raccogliemmo gli arnesi da pesca, le borse e i panieri vuoti e li portammo verso le auto parcheggiate accanto al capannone. Poi le jeep si avviarono una dietro l'altra su per la montagna, come perline infilate su un filo. Io presi i nostri costumi e le nostre spugne, li risciacquai e li stesi dietro la casa. Poi, seguendo le raccomandazioni di Patricia, non sciupai troppa acqua per farmi una brevissima doccia e mi cambiai. Era ancora troppo presto per andare da D. J., e girovagavo impaziente, incapace di mettermi seduta a leggere un libro. Mia nonna, coi capelli scuri ben pettinati e la figura snella avvolta in un completo pantalone a fiori, era seduta in terrazza con un libro in grembo: "Walden" di Thoreau. Non voltava mai pagina. Mi fermai alle sue spalle e la baciai sulla guancia. «Patty, ma tutti questi libri che ti porti sempre dietro sono materiale di scena o li leggi veramente?» Sorpresa, si girò. Pareva offesa. «Certo che li leggo. Che cosa ti fa pensare che...» «Scherzavo, cara. Potrei cominciare io a preparare i dolci, vuoi?» «Mi faresti un vero piacere, Holly. Tanto non hai niente da fare. Io vado a cercare Harold: voglio che mi faccia dei lavori in giardino domani.» Si gettò sulle spalle un golfino e disse: «Di' a Nicholas che ci vediamo da D.
J.» Lietissima di avere qualcosa di concreto in programma, presi un libro di cucina e decisi per dei dolci di arachidi, anche perché avevo sottomano tutti gli ingredienti. Nicholas entrò in cucina vestito di tutto punto. Si mise a decorare ogni pasticcino con dei canditi, chiodi di garofano e pezzetti di noce. «Senti, Nicholas, non fare troppo il fantasioso. È ora di andare.» «Sono sicuro che sarei stato un ottimo chef.» «Pensa a piatti poco complicati.» «Facciamo così: tu andrai avanti, e io ti seguirò dopo poco.» Quando i pasticcini furono cotti, li sistemai con molta cura su un piatto, dividendo uno strato dall'altro con dei fogli di carta oleata. Poi uscii. Avanzavo adagio, fermandomi ad ogni incrocio per ripetere mentalmente le istruzioni di Nicholas. In nove anni le case e le strade erano cambiate, e non volevo passare la notte in compagnia di lucertole e scorpioni. Poi, da sinistra, sentii arrivare delle voci. Non riuscivo a distinguere nulla tra la fitta vegetazione, e per giunta stava imbrunendo. Ero sul punto di farmi sentire quando riconobbi la voce di Phil, più alta adesso perché era irritato. «... tutte le colpe e che cosa ne ricavo? Il venti per cento.» L'altra voce era solo un mormorio indistinto e non capii nemmeno se fosse di un uomo o di una donna. «Le so già queste panzane.» Phil quasi urlava. «I soldi non sono tutto. Io però faccio la parte più schifosa del lavoro, e per che cosa? Per poche migliaia di luridi dollari.» Di nuovo l'altra persona mormorò qualcosa. Phil rise. «Scherzerai. Tu hai bisogno di me, tanto per cominciare. E poi ricordati che so dov'è sepolta la cara salma.» Rise ancora più forte. «E non ti conviene proprio parlare in questo modo.» Stando ben attenta a non far rumore, mi allontanai, poi mi misi a correre. Da D. J. non c'era nessuno. In cucina, sulla credenza, vidi un guazzabuglio di posate e di piatti. Infilati i dolci nel forno cominciai ad apparecchiare la tavola. «Che cosa diavolo...» D. J. entrò di colpo, il viso in fiamme e senza fiato. «Salve. Siccome ero in anticipo ho pensato di rendermi utile.» «Oh, magnifico. I bicchieri sono lassù. Sono dovuta andare da Selina a chiederle dei maccheroni. Ti dispiace riempire d'acqua quella pentola...» Senza un preciso motivo non le dissi della conversazione che avevo sen-
tito. Non mi intendevo di affari e quelle parole facevano pensare a qualcosa di losco. Non pensavo certo che la frase "so dov'è sepolta la cara salma" significasse veramente che c'era di mezzo un cadavere. E, per giunta, non avevo riconosciuto l'altro interlocutore. 22 aprile «Tutto quello che ti chiedo» dissi a mia nonna con insistenza «è di lasciare l'isola per un po'. Specialmente in prossimità di quella maledetta festa. Belladonia o come diavolo si chiama.» «Beltane» mi corresse D. J. Patricia, D. J. ed io stavamo guardando mio nonno che ammassava della terra attorno alla base di quello che lui chiamava un albero di limoni e che a me invece sembrava un pezzo di legno secco. «Supponiamo che io ti dia retta» disse Patricia. «E che venga da te per qualche settimana come mi hai proposto. E poi? Ogni volta che ci sarà una ricorrenza legata al calendario delle streghe che cosa dovrò fare? Andarmene da Scorpion? Quand'è la prossima, D. J.?» Senza espressione D. J. disse: «Il ventun giugno. La notte di Mezza Estate.» «O magari dovrei fare come i Dinhofer» continuò Patricia. «Vendere la casa a Phil.» «Non sarebbe neanche una cattiva idea» dissi io. Nicholas, ansimando, smise un attimo di scavare. «Ma come no! Idea grandiosa davvero. E io dovrei prendere i risparmi di tutta la mia vita e consegnarli a Phil di Bitteto. Così poi ci trasferiremmo a New York nel tuo appartamento, Holly, e passeremmo gli anni della vecchiaia su e giù per la sotterranea a respirare i gas di scarico dei motori e a prenderci a pugni con i rapinatori...» «Potete sempre trovare un'altra isola in cui stabilirvi» dissi io. «Questa non è più quella di una volta. Allegra, romantica...» «Anche tu non sei più quella di una volta, ragazza di città.» Gli tolsi di mano la pala. «Okay, ragazzo di campagna. La prossima la pianto io.» «Nessuno te l'ha chiesto.» «Come faccio a lasciare che un povero vecchio zappi la terra mentre io me ne sto seduta bella comoda?» Patricia, sistemando in maniera artistica delle conchiglie attorno ai limo-
ni, disse: «Il giardinaggio o piace o non piace. Se a te non va, corri ad arrostirti al sole o a berti un rum.» Presi la pala a Nicholas e cominciai la mia lotta col terreno pieno di sassi. «Ancora non riesco a capire» disse Patricia «perché, se odiano tanto le streghe, mi abbiano dato come termine ultimo una delle loro festività.» D. J., tranquilla, disse: «Probabilmente per impedirne la celebrazione.» Mia nonna le lanciò un'occhiata dura. «Pare proprio che qualcuno stia imbottendo loro la testa di assurde superstizioni. Hai letto di quel funerale che si è svolto sull'isola principale la scorsa settimana?» Io, tra uno sforzo e l'altro, dissi: «Se ben ricordo... noi l'abbiamo visto... un funerale... mentre eravamo in città.» Grondavo sudore in tutto il corpo. «La donna che viene a farmi le pulizie mi ha detto che quella donna era morta perché una sua nemica le aveva lanciato un maleficio...» «Hanno... anche qui... delle liste... coi nomi... dei nemici?» Selina, tenendo Beanie per mano, apparve sul sentiero. Beanie aveva la gamba fasciata e zoppicava. «Che cosa... ha detto... il medico?» chiesi a Selina. Nicholas si riprese la pala e mi spinse da parte. «Non siamo ancora andati dal medico» rispose Selina. «Il mare è troppo mosso per uscire con la nostra barca, e sto cercando Phil per chiedergli se ci presta la sua. È la più grossa che ci sia sull'isola.» «Comunque» proseguì D. J. «la nemica di quella donna è andata da lei una notte, ha appoggiato la bocca a una fessura della porta d'ingresso e le ha risucchiato l'anima.» «Oh, poveri noi!» feci io ridacchiando. Senza prestarmi attenzione D. J. continuò: «Il giorno dopo la vittima è morta.» «E tu ci credi?» chiesi io. «Credo a che cosa? Che la prima donna sia andata a casa della seconda donna? Oppure che la seconda donna sia morta?» «Che tra i due fatti ci sia una relazione» feci io. «"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio..." eccetera. Holly, molti secoli prima che nascesse il cristianesimo, esistevano delle religioni che evocavano lo spirito degli antenati...» Patricia sbuffò, ma non era chiaro se la sua insofferenza dipendesse dalle parole di D. J. o dalle sue conchiglie. «Lascia fare un po' a me, Nicholas» disse Selina. Presa la pala, cominciò
a lavorare molto meglio di me. «Non ho mai capito perché certa gente si ostini a comprare sementi e attrezzi, costruire palizzate, trasportare letame e scavare nella roccia quando, con un sedicesimo di spesa, potrebbero avere tutto fresco... oooh!» mi interruppi. «Prosegui, D. J.» «Poi, la notte dopo il funerale, i nemici della vittima sono andati al cimitero e hanno chiamato per nome il cadavere, rendendolo loro schiavo. Lo sapete che chi vende l'anima di qualcuno al diavolo ha un anno di fortuna assicurato?» «No» cominciai io. «In effetti proprio non sapevo che se si vende...» Ma evidentemente la sua era una domanda retorica, perché proseguì: «C'è gente che vende l'anima dei propri figli.» «Un anno!» disse ansando Selina mentre scavava. «Non è un granché in cambio dell'anima di un figlio.» «Dovrebbero essere almeno due» convenni io. D. J., senza scomporsi, disse: «Avete sentito parlare degli Zombie, vero? I morti resuscitati per magia. Naturalmente il fenomeno viene spiegato razionalmente asserendo che non erano morti ma gli era stata somministrata qualche sostanza che, pur paralizzando il cervello, permetteva di proseguire nella funzionalità fisica per un certo periodo.» Quella proprio non riuscii a reggerla. «Ci rinuncio. Conosco un sacco di gente che ha il cervello atrofizzato.» Selina si raddrizzò. «Ecco, Nicholas, puoi piantare il tuo albero.» Nicholas infilò l'albero nel terreno e ammassò la terra tutt'attorno per fissarlo. Lo aiutammo a radunare i suoi attrezzi e entrammo in casa. «Vi è mai capitato» chiesi io all'improvviso «di vedere qualcosa con la coda dell'occhio e poi... paff... appena girate la testa, è sparito?» Patricia, che teneva sempre in serbo un barattolo di dolci per i casi di emergenza, tolse una tavoletta di cioccolata e prese Beanie in grembo. Lui si lasciò andare, masticando svogliatamente. «Sì» disse D. J. «Ma quel che si vede con gli occhi non è necessariamente tangibile.» «Ci risiamo» sospirai io. «Se ti rifiuti di accettare l'esistenza di qualcosa che non si possa o toccare o sentire o udire o odorare allora escludi i nove decimi dell'universo.» «Da un momento all'altro mi aspetto di sentirti dire che risate si sono fatte alle spalle di Edison» dissi e mi girai a guardare la collina. «Ma perché
solo qui mi capita di avere questa sensazione? E lo strano è che comincio a ricordare che non mi è del tutto nuova. Anche anni fa avevo l'impressione di una presenza estranea. Come se sull'isola ci fosse qualcuno in più...» «Ascoltate» disse Selina. Dei passi sulla ghiaia. Beanie scese di corsa dalle ginocchia di mia nonna e si rifugiò da sua madre. Come se avessimo tutti paura di rompere qualcosa di fragile, aspettammo immobili. La porta della cucina si chiuse con un tonfo. Non riconoscemmo subito l'uomo che ci stava davanti: era Harold, l'aiutante di Phil. E non solo a causa del sangue rappreso che aveva in viso e gli abiti a brandelli e perché il gonfiore gli mutava le fattezze. A renderlo quasi irriconoscibile era la rabbia che gli sprizzava di dosso, insolita in un uomo che era sempre chiuso come un'ostrica. Lui era il tranquillo Harold che ci portava all'aeroporto, che ci comprava le provviste, che ci sistemava le tubazioni. «Vecchia» disse a Patricia, e quella parola ci raggelò. «Mi hanno detto: liberati da quella strega. Mi hanno detto: fai vedere alla vecchia che cosa le capita se non se ne va dall'isola. La vecchia uccide i loro bambini. Loro uccidono la vecchia.» Era talmente sconvolto e infuriato che si guardò attorno in cerca di qualcosa da spaccare. Ma prima che allungasse una mano Selina gli disse decisa: «Harold, la signora Eban non ha fatto niente a quella povera bambina. Hanno le idee confuse, in questo momento. È stata la signora Eban a...» «Ditelo a loro. Non a me. Trovatevi un altro aiutante. Io sarò in Guadalupa quando prenderanno la vecchia.» Rimanemmo ad ascoltare i suoi passi in corsa giù per la collina finché fu di nuovo silenzio. Poi io guardai Patricia. «Adesso ti deciderai a partire?» Era sconvolta, senza dubbio. Sedeva fissando la baia lontana. Dopo un istante disse come in sogno: «Vorrei tanto capire... è tutto così... così inspiegabile...» «Patty, non cercare di spiegarti niente» le dissi. «Hai visto cosa hanno fatto a Harold...» «Come posso... come posso abbandonare la nostra casa, la nostra terra, tutto ciò per cui abbiamo lavorato?» «Una cosa è certa» mormorò Nicholas con una voce quasi inudibile «non ti lasceremo sola nemmeno un minuto.» «Ma non puoi... non puoi star qui seduta ad aspettare...» Mi si inceppava la lingua, tanto mi sentivo impotente. «Prima di tutto bisogna informare la polizia» disse Nicholas.
«Voi due mi volete rovinare la salute» dissi furiosa. «Con quello che è successo a Harold...» «Calma, tesoro» disse Nicholas. «Bisogna riflettere.» «Be', cerca di non impiegarci troppo tempo.» 23 aprile Il fascio di luce della torcia elettrica mi precedeva a balzelloni. Ero andata dai McKnown per discutere con Ted e Selina su quel che aveva riferito Harold, e a chiedere come potevo persuadere Patty e Nicholas a rinunciare a una proprietà che valeva all'incirca sessantamila dollari. E poi volevo anche sapere di che utilità potesse essere la polizia, visto che la centrale era in città. Improvvisamente vidi qualcosa che brillava. Non lasciai cadere la torcia e non urlai. Mi limitai a fissare raggelata quegli occhi lucenti. Mi occorsero un paio di secondi per stabilire a chi appartenevano. Un sospiro di sollievo mi sfuggì di bocca. Il Labrador nero di Phil di Bitteto uscì saltellando dai cespugli: dimenava la coda e tentava di leccarmi mentre io cercavo di tenerlo lontano. Poi un raggio di luce, per caso, illuminò quello che il cane aveva già visto. Il mio gattino giaceva immobile in un groviglio di felci, rampicanti e sparto. Mi avventai furibonda sul cane, volevo colpirlo alla testa. «Tu... bestiaccia... infame animale...» Si allontanò incolume, per poi tornare subito sui suoi passi agitando la coda tutto contento. Obbediente all'usanza antichissima che vuole i cadaveri celati alla vista, cercai tra gli arbusti dei sassi e dei rami. Vidi prima i vitrei occhi sporgenti e la lingua penzoloni, poi la cordicella stretta attorno alla piccola gola. Per quasi un minuto rimasi accucciata accanto a quel povero cadavere. E poi, spinto via il cane, lo coprii. «Scusami» dissi al Labrador e tornai sul sentiero. Frammenti di immagini e suoni mi passavano per la mente senza che riuscissi a ordinarli in un organico insieme. Una bambina che, da una roccia, si tuffava nell'eternità. Massi enormi in equilibrio precario, come in attesa di un terremoto per precipitare. Un'ombra, una presenza furtiva che si muoveva in cima a una collina lontana. Un lungo pesce trasparente che azzannava la gamba di un bambino. Un dito nero puntato: vattene dall'isola: dieci giorni di tempo, poi morirai. Un gatto strangolato. Famiglie che vendevano la loro casa quasi per niente e abbandonavano l'isola. Una voce
beffarda che diceva: «Ricordatelo bene, io so dov'è sepolta la cara salma.» Al termine del bosco mi fermai per riposare un momento. La bellezza del panorama, le nuvole che si rincorrevano nel cielo, l'acqua che batteva ritmica sulla riva mutarono immagini e suoni. Ora pensavo a un ragazzo snello, con un'abbronzatura rossiccia e i capelli talmente chiari da sembrare una bianca effervescenza che diceva: «Voglio fare qualcosa che valga, girare il mondo, lanciarmi da un aereo, scalare montagne, e non finire come tutti gli altri.» E pensavo a un gruppo di adolescenti che cantavano attorno a un falò sulla spiaggia. E fu allora che, come lo spettro di quel falò spento da tanti anni, vidi un fuoco sulla Baia di Sabbat. Stavo per correre dai miei nonni ma mi resi conto che non c'era pericolo: il fuoco ardeva in una zona ben delimitata, formando un cono di luce. Forse fu il ricordo dell'altro falò. Oppure la consapevolezza che il buio mi avrebbe protetta. O magari il ricordo di Algie che rideva delle mie eterne paure. Qualunque sia stata la causa, sta di fatto che passai davanti alla casa dei nonni e scesi alla spiaggia. Mi prudevano gambe e braccia, come se esseri indefiniti vi brulicassero sopra, eppure spensi la torcia e mi affidai al chiarore del cielo. Badando a scansare l'Aristolochia, l'erba che già mi aveva causato un eczema, mi aggrappavo agli arbusti e cercavo di non smuovere pietre. Foglie e rami mi graffiavano il viso, e ad un certo punto dovetti fermarmi perché sentivo sotto il piede qualcosa di morbido che cercava di divincolarsi. Scossa dai brividi scrutavo attraverso la vegetazione finché vidi la spiaggia. Per un istante credetti di sognare. Erano nudi. Vedevo i corpi neri luccicare al riverbero delle fiamme. In mezzo al circolo c'erano due figure, una vestita e l'altra, nuda, con una corda legata ai polsi che saliva attorcigliandosi al collo e scendeva a cingere la caviglia destra. Appena vidi la corda mi ritirai cercando riparo tra gli alberi, decisa a correre in cerca d'aiuto, ma la pacatezza della scena mi trattenne. La figura legata cantilenava. Intravidi il bagliore di una strana croce sul suo petto, e in una mano un coltello. Quella gente era assorbita a tal punto nella cerimonia che mi passò il timore di venire scoperta e, carponi, mi spinsi fino all'albero più vicino alla spiaggia. Un'improvvisa folata di vento portò fino a me l'aroma dell'incenso e il suono delle parole, in purissimo inglese: «Sì, o Signori delle Torri d'Oriente, io vi invoco...» Anche se la voce era bas-
sissima e contraffatta ero quasi certa che appartenesse a una donna. Notte che odi e luna che splendi, Oriente, Nord, Sud e Levante, ascoltate i magici segni delle streghe: io qui vengo a invocarvi. Terra e acqua e aria e fuoco, bacchetta e pentacolo e lancia, esaudite il mio desiderio, ascoltate la mia parola. Automaticamente, cominciai a contarli: erano tredici, compresa la sacerdotessa e... la definizione mi si presentò spontanea alla mente... l'iniziato. Il ritmo di quel canto propiziatorio si fondeva con il frangersi delle onde in una sorta di ipnotica pulsazione. A fatica mi trattenevo dal battere il tempo. Eko, Eko Azarak Eko, Eko Zamilak Eko, Eko Karnayna Eko, Eko Aradia La figura incappucciata esortava quella legata, ma le parole si perdevano nel rumore del mare, tranne qualche frase occasionale. "... in un luogo segreto... regina di tutte le streghe... la bianca luna, il mistero delle acque... tutte le cose da lì hanno inizio, tutte le cose lì hanno fine..." Toccando l'iniziato all'altezza del cuore con la lama del suo coltello, la sacerdotessa intonò: "... il mondo degli uomini e il terribile dominio dei morti... meglio gettarsi contro la mia lama e perire..." Nonostante l'aspetto selvaggio di quella spiaggia, di quel fuoco, di quei corpi nudi, la scena mi ricordava la cerimonia di ordinazione di un postulante. All'improvviso la figura vestita baciò l'iniziato e lo fece girare su se stesso, come se il rituale fosse giunto a termine e ora iniziassero una partita a mosca cieca. Da un punto indefinibile arrivò il tintinnio di un campanello, che batté undici tocchi: la sacerdotessa si inginocchiò ai piedi dell'iniziato. E, cantilenando, gli baciò il corpo in quattro punti: bocca, petto, inguine e piedi. «Vuoi tu dunque superare la prova per raggiungere la purificazione?»
«Sì, lo voglio.» Gli passò una corda attorno al braccio sinistro, alla caviglia sinistra e poi alla destra e lo costrinse a inginocchiarsi e a piegare la testa sulle ginocchia. Di nuovo il tintinnio del campanello si perse verso il mare oscuro e agitato. La sacerdotessa prese qualcosa dall'altare: era una frusta. Istintivamente mi ritrassi sentendo lo staffile sibilare nell'aria. Avvinghiata all'albero, nascosi il viso contro la ruvida corteccia. Mare, vento e fuoco mescolavano il loro rumore a quello delle sferzate, ma dalla vittima non uscì un solo gemito. Di tanto in tanto, al di sopra delle onde, si levava il canto magico della sacerdotessa: "... aiuta e difendi i tuoi fratelli e le tue sorelle del Wicca... ti dovesse costare la vita... alla presenza degli Onnipotenti... giuro solennemente che manterrò il segreto... e che le armi che mi sono date si rivoltino contro di me se mai rompessi questo sacro voto". La figura inginocchiata biascicava inudibili risposte; finalmente si decisero a rimetterla in piedi, a slegarla, a toglierle la benda dagli occhi. L'iniziato barcollò ma riuscì a non cadere, e lasciò che gli ungessero tutto il corpo con una sostanza che pareva olio. E cantando "Ora io ti offro gli strumenti della stregoneria" la sacerdotessa gli porse degli oggetti presi dall'altare. "... per formare i magici cerchi, per sottomettere, per dominare e per punire..." Nella poca luce intravidi un coltello con l'impugnatura bianca, un altro con l'impugnatura nera, una frusta e un oggetto scintillante a cinque punte. "Corpo a corpo, bocca a bocca, piede a piede..." Ora l'iniziato stava stringendo tra le braccia una donna, e teneva il coltello serrato tra i seni di lei e il suo torace. "... bandisci gli spiriti maligni... segno di potere o di dominio... purificazione e luce... per insegnarti che bisogna soffrire... ti saluto nel nome di Karnayna e Aradia, nuovo maliardo." Mentre faceva girare su se stesso l'iniziato, la sacerdotessa disegnò nell'aria una stella a cinque punte. "O Signore delle Torri dell'Est, portiamo al tuo cospetto Albert, novello maliardo. E prima che tu riparta per il dolce tuo reame ti diciamo addio e arrivederci. Addio e arrivederci. A voi, Signori delle Torri del Nord... Addio e arrivederci. Addio e arrivederci..." Si passarono di mano in mano un calice: ognuno di loro bevve un sorso di quel che conteneva e baciò il suo vicino. Le celebrazioni erano giunte al termine: mi misi carponi e cominciai a risalire prudentemente il pendio. Mi ero appena messa in movimento quando udii il motore di una barca che si allontanava. Stavo per rimettermi in piedi e darmela a gambe ma, giusto in tempo, mi accorsi che uno dei
partecipanti era rimasto a terra. Era la figura incappucciata. Restò immobile sulla spiaggia finché il rumore della barca si perse nel mare, poi puntò nella mia direzione. Trattenendo il respiro, mi feci tutt'uno col fusto di un albero. La figura mi passò a pochi centimetri e, per strega che fosse, non si accorse di me. Nel chiarore del cielo vidi distintamente che aveva le mani e i piedi bianchi. 24 aprile Dalla terrazza, finalmente lo vidi. Mi guardai di sfuggita allo specchio del bagno, mi ripettinai e lasciai un appunto per i miei nonni per informarli che andavo a fare una nuotata prima di colazione. La Baia di Sabbat, alla luce del giorno, era ben diversa: il vento non soffiava violento come la notte prima, non c'erano resti d'incenso e nessuna traccia sulla sabbia di quel che era avvenuto. Avevano coperto persino la cenere del falò. Lui pescava in fondo alla baia. Andai verso di lui lungo la spiaggia che si restringeva fino a terminare in un bassofondo limaccioso. Non avevo scelta: o mi infilavo nel sottobosco o guadavo l'acqua melmosa. Scelsi la seconda alternativa, ma procedetti con molta cautela. «Una cosa che non finisce mai di stupirmi» dissi quando fui abbastanza vicina perché mi potesse sentire «è quanta pazienza dimostri con i pesci e quanta irascibilità invece riservi al tuo prossimo.» Dava leggeri strattoni alla canna e girava il mulinello: mi pareva di rivedere la stessa sequenza del film a cui avevo assistito giorni prima. Disse: «Ti sta venendo una passione a scoppio ritardato per la pesca, Holly?» Quello "scoppio ritardato" significava molto per me, e quindi ignorai il suo tono di scherno. «Ritardato? Ritardato in che senso?» «Ricordo benissimo che un tempo a te della pesca non importava un accidente.» Si sbagliava. Sarei andata a pesca di scarafaggi, se Algie me l'avesse chiesto. «Che cosa ti fa credere che adesso me ne importi?» «È la seconda volta che vieni a pescare con me.» «Be', non direi proprio che la cosa stia in questi termini... l'altro giorno si è trattato di una gita in barca, niente altro. Ma lasciamo perdere. Comunque, ancora non capisco cosa significhi il tuo "scoppio ritardato".» «Ah, Holly, se soltanto tu allora avessi dimostrato interesse per la pe-
sca... chissà... ma come hai ben detto tu, lasciamo perdere.» In quegli otto giorni di permanenza a Scorpion non avevo fatto che passare da sensazioni di caldo torrido a freddo gelido, e non era finita. Sudata e gelata avanzai faticosamente, gli occhi fissi sulla sabbia impregnata d'acqua e i pesci che mi saettavano tra i piedi. «Non è strano che, su un'isola così piccola, capiti tanto di rado di incontrare dei visi familiari?» «Vuoi forse dire che hai sentito la mia mancanza, Holly?» «Ho bisogno di parlare con qualcuno. E non trovo Ted.» Mutevole come sempre, chiuse col sarcasmo e scoppiò in una risata. «Quel che mi è sempre piaciuto da morire in te, Holly, è la spontaneità.» «Mia nonna non mi dà retta, mio nonno non ha mai avuto un gran ascendente su di lei, e Selina è tutta presa coi suoi problemi...» «Chi non lo è?» «Che cosa?» «Prosegui.» «Hai dei problemi, Algie?» «Sentiamo i tuoi, Holly.» «Be', sono molto preoccupata per le minacce che hanno fatto a Patty, ma lei non le prende sul serio. E non darà certo più ascolto a Nicholas di quanto ne dia a me.» «E poi, cos'altro ti tormenta?» Gli raccontai della cerimonia a cui avevo assistito la notte prima. Stava girando il mulinello e pareva, con mia massima indignazione, che non prestasse orecchio ad una sola parola. Invece, quando ebbe ben visto che gli era riuscito di pescare solo delle alghe, disse: «E con ciò? Ciascuno è libero di fare quel che vuole. Se c'è della gente che si diverte a danzare nuda attorno a un falò, che cosa possiamo farci? Gli lanciamo un perizoma?» «Perché dovevano scegliere proprio Scorpion per i loro subdoli riti? Non potevano starsene sulla loro isola?» «Probabilmente perché Scorpion è poco popolata.» «E allora l'isola di Crab? Lì addirittura non abita nessuno!» Gettò di nuovo l'amo. «Questa è l'annata più stramaledettamente nera per la pesca di tutta la mia vita. Non è che quei tizi abbiano lanciato un maleficio sulla nostra costa, eh?» Sbirciai nel cesto. Non aveva preso niente. «Non hai risposto alla mia domanda.» «Secondo me, hanno scelto Scorpion perché qui risiede il loro capo.» «Allora sei convinto che si tratti di D. J.»
«Chi altro riuscirebbe a fare un pandemonio simile?» «Be'... comunque la cosa mi interessa relativamente. È mia nonna che mi preoccupa.» «Sono tutte chiacchiere.» «Hanno picchiato Harold.» «Non c'entra. Lui è uno di loro. Ma fare qualcosa di analogo a Patty sarebbe folle.» «Non è bello fare discriminazioni di razza.» «Ma insomma, da che parte stai?» E cominciò a indietreggiare lentamente. Io lo seguii cauta. «Non ne sarei tanto sicura. I capri espiatori occorrono. Soprattutto alla gente ignorante.» L'acqua, per una volta non agitata dal vento, mi lambiva dolcemente le caviglie. Sopra di noi un uccello nero e bianco con una corona rossa e il ventre giallo emise un triste gemito. L'isola, in quel momento, era un paradiso verdazzurro. Arrivati sulla sabbia asciutta, Algie si tolse la camicia e si sdraiò al sole con gli occhi chiusi e, con la voce piena di sonno, mi domandò: «Sei davvero venuta fin qui solo per parlare di tua nonna?» «Come?» «Ecco un'altra cosa di te che mi irrita: l'abitudine che hai di chiedere: "Come?" quando invece hai sentito benissimo la domanda che ti si fa.» «Tu per che cosa credi che sia venuta qui, sentiamo.» Non avevo la forza di alzarmi e andarmene. Così disteso pareva proprio quello di nove anni prima: spalle larghe, corpo snello e muscoloso. Cominciò a parlare sottovoce e con una tale monotonia che a stento riuscivo a capire quel che diceva. Il mio cervello vagava all'impazzata e non mi riuscì di afferrare una sola parola finché lo sentii dire: "Sposare". «Quando tu avevi sedici anni avevo deciso che ci saremmo sposati, un giorno o l'altro. Ma tu ci mettevi tanto a crescere. Nemmeno adesso sei matura... c'è qualcosa in te di acerbo, come se ti occorressero dieci anni in più del normale per raggiungere la maturità degli anni che hai... e siccome io ne ho cinque in più di te anagraficamente parlando, be', ho finito per scocciarmi. Di aspettare, intendo. Ma sei sempre stata l'unica nei miei pensieri. Hai attributi fisici più che considerevoli, caspita. E cervello, anche se non lo usi sempre. E poi da te emana... come dire, un senso di pace... dannazione come si fa a analizzare le ragioni per cui si ama una persona?»
Amare. Il termine risuonò metallico e secco come una corda che vibrava. Da un ribollire di emozioni confuse uscii gelida come una statua. E di nuovo persi il filo del suo discorso, finché ripresi coscienza sentendolo dire: «... E poi tua madre ti ha trascinata in California. Io ero all'università e Gertrude al liceo. L'ho incontrata in uno snack bar vegetariano, pensa un po'! Gertrude non era immatura per niente. Ed era tremendamente sveglia. Lo puoi constatare tu stessa anche adesso. E siccome era la miglior ballerina dell'università, la migliore atleta, la migliore collezionista di oggetti inutili, mi è parsa l'antidoto più efficace alle mie faticate sui libri. Ci siamo sposati il giorno dopo la mia laurea, lei ha piantato gli studi e mi ha seguito a New York.» Tacque, come se non ci fosse altro da dire. Io, che invece aspettavo un seguito, appoggiai la testa sulle braccia e fissai i granelli di sabbia. Ma lui non apriva più bocca. Non resistendo più, dissi: «E allora?» «E allora» continuò lui come se non ci fossero state interruzioni nella cronistoria della sua esistenza «un bel mattino mi sono svegliato e ho capito che mi ero rovinato la vita.» Sospirai. Il bubbone era stato inciso, il pus colava fuori e, anche se il dolore era intenso, era certo un dolore sopportabile. Il preludio alla convalescenza. Avevo trovato quello che cercavo, dopo nove anni di attesa e quattromila chilometri di strada. Con un tono irritante mi chiese: «Sei stata a sentirmi oppure ho parlato al vento?» Fissavo una colonia di formiche. Allungai la mano e le seppellii sotto una valanga di sabbia. «Non sei sorpresa?» Ero alla ricerca della risposta giusta. Conoscendo la sua natura mutevole temevo di rompere l'incantesimo e di ritrovarmelo irritato o sprezzante. Un minuscolo piro-piro ci si avvicinò saltellando, le piume grigiastre che si confondevano con la sabbia. E poi, senza che me ne accorgessi, mi trovai Algie steso accanto che mi baciava piano, quasi con nostalgia, come tanto tempo prima quando mi posava la testa in grembo, allungava le braccia e avvicinava il mio viso al suo. Ricordo e realtà si confusero e io non seppi più se avevo diciassette anni oppure ventisette, se lui era o non era sposato, se erano o non erano passati nove, amari anni. Chiusi gli occhi e mi abbandonai ma poi, di colpo, lo spinsi via. «Adesso hai una moglie e una figlia.» «Dio santo, sì.»
«E quindi che senso ha venirmi a dire tutte queste cose?» «Che senso ha? Non farti passare per cretina, Holly. Il senso c'è, eccome: ho commesso un errore. Non provo niente per lei. Lei non prova niente per me. Ci tiene uniti solo il denaro. Io lo guadagno, lei lo spende. Nell'istante in cui trovasse qualcuno che le offrisse un futuro più roseo del mio mi lascerebbe. E io le sto favorendo la ricerca...» Tacque. Ci voltammo tutti e due sentendo muoversi qualcosa tra i cespugli che ci stavano alle spalle. Ted apparve: guardò a destra e a sinistra e, come ci vide, venne verso di noi. Aveva la canna da pesca. «Credevo portassi Beanie dal medico stamattina» gli dissi io acida. Conoscendo l'instabilità del temperamento di Algie, c'era il rischio che non tornasse mai più sul discorso e io, al solo pensiero che Ted avesse scelto proprio quel momento per interromperci, sentivo una gran voglia di affogarlo in mare. «Non posso.» Con una calma esasperante aprì la borsa che si portava a tracolla e vi guardò dentro. «Non puoi? E perché?» «La barca è a secco di carburante.» «Come sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che qualcuno ha vuotato il serbatoio.» Mi tesi in avanti per guardarlo più da vicino. «Di proposito?» «Di proposito o meno, sta di fatto che il serbatoio è vuoto.» «Prendi la nostra.» «Vuota anche la vostra. E anche quella di Algie. D. J. è introvabile e Phil pure.» Algie si era alzato. «Vieni, Ted. Scassiniamo il lucchetto del capannone, così avrai tutto il carburante che ti serve.» Ted non si mosse di un millimetro. Guardando Algie con gli occhi semichiusi disse: «Non mi pare una gran buona idea.» «Perché no? È legale. Phil è nostro dipendente, accidenti!» «Quando finisci le ferie, Algie?» «Che cosa diavolo c'entrano le ferie, adesso?» «Tra un paio di settimane al massimo saremo tutti di nuovo al lavoro, e Holly ha proposto ai suoi nonni di andare da lei per un po'. Vale a dire che Phil regnerà incontrastato sull'isola. E così la prossima volta non si tratterà magari più solo di carburante, ma di un'avaria alla barca. O di una casa andata a fuoco.» I due uomini si guardarono un momento: uno fremeva d'ira, l'altro era
forzatamente calmo. Poi Algie si lasciò cadere sulla sabbia. «Altro che casa a fuoco» mormorò. «Quello comprerà tutto per un'inezia e lo rivenderà per un... un...» «Capitale» feci io. Il silenzio si prolungava. Loro erano immersi in una sorta di cupa riflessione che in effetti era un dialogo muto e io mi sentivo in preda a una crescente sensazione di claustrofobia. Come se, nonostante le smisurate distese di sabbia e di mare e di cielo, fossi imprigionata in uno spazio angusto. 25 aprile «Sembri un Lotofago» dissi a Selina. Beanie, che scavava nella sabbia con Lisa, chiese: «Che cos'è un Lotofago?» «Tutti noi siamo dei Lotofagi.» Selina si avviò verso il mare e fissò l'orizzonte con occhi che non vedevano. «Stiamo sdraiati al sole a fantasticare, e intanto ogni giorno che passa ci porta più vicini alla...» non disse a che cosa ci portava più vicini ogni giorno che passava. Invece, entrò in acqua e si inginocchiò e poi, senza nemmeno fare due bracciate, tornò indietro. «L'esercizio fisico mi ha fatto venire appetito. Mangiamo.» D. J., unta d'olio, si arrostiva al sole. «Porti Beanie dal medico oggi? Perché nel caso verrei insieme con te, ho da comprare della roba...» «Ieri non abbiamo potuto portarlo perché mancava il carburante. Oggi Phil ce l'ha venduto, ma il medico non è di turno. Ve lo dico io, c'è sotto una congiura.» «E perché dovrebbe esserci una congiura ai danni di Beanie?» «Perché se la gamba gli fa infezione noi ci prenderemo uno spavento d'inferno e finiremo per vendere la casa.» «Sei matta da legare» dissi io, non perché ne fossi davvero convinta, ma perché mi sembrava la cosa giusta da dire. «Sì, lo dicevano anche di Ellie Elwyn, che era pazza. E poi si è visto che cosa le è capitato.» «Chi lo diceva? E che cosa le è capitato?» «Continuava a dire che c'era qualcosa che non andava in questo posto. Voleva che Robert vendesse la loro proprietà ma lui non sentiva ragioni. E poi... puff, è scomparso.» «Credevo l'avesse piantata in asso.» «Voci che circolano, ma io non ci credo. Era pazzo di lei e dei suoi fi-
gli.» «A proposito di Ellie Elwyn» disse D. J. «Io l'ho invitata a venire qui da me coi bambini, ma mi ha risposto che non rimetterà mai più piede a Scorpion né nel raggio di mille chilometri.» Selina, steso un asciugamano sulla sabbia, cominciò a scartare le nostre provviste. Aveva appena finito di distribuire succo di frutta, panini imbottiti, uova, formaggio e dolce quando sentimmo qualcuno che gridava: «Salve a tutti!» e Gertrude uscì da una curva lungo la riva. Indossava una vecchia camicia di Algie sopra il bikini e aveva i capelli raccolti in una crocchia, ma l'abbigliamento non le rovinava certo l'aspetto. «Vi ho visti dalla collina e ho deciso di raggiungervi. Sono talmente stufa che tra un po' mi metto a urlare.» Evidentemente non si rendeva conto che ci saremmo anche potute offendere. Lisa, alzatasi di scatto, corse verso sua madre. «Guarda che bella conchiglia ho trovato, mamma. Ha le punte.» «Oddio, Lisa, la spiaggia è piena di conchiglie come questa!» Qualcosa che lesse nell'espressione di Selina la costrinse ad affrettarsi ad aggiungere: «Però è molto carina, Lisa. Portala a casa. Vedi, ho portato una borsa proprio per metterci le conchiglie.» Lisa, istintivamente, la baciò. Poi, come se Selina fosse la madre naturale di tutti noi, Gertrude le sedette accanto e le chiese: «Che cosa c'è di buono? In casa siamo quasi a zero e muoio di fame.» «Ecco. Serviti.» «È un ponce al rum?» «No, solo succo di frutta.» «A caval donato non si guarda in bocca» disse lei ridendo, come se quel proverbio l'avesse inventato lei, e prese un sandwich di pollo. «Che cosa si fa, dopo?» «Io dovevo portare Beanie dal medico, ma oggi non lavora. Il medico intendo, non Beanie.» E di colpo si chinò a baciare suo figlio sul naso. «Sei la cosa più bella che mi sia capitata in vita mia.» Lisa, tra un boccone e l'altro d'insalata, chiese: «Come mai ti è capitato?» «Non so. Forse perché mi ero comportata bene.» «Domani Phil mi porta a pranzo in città» disse Gertrude. «Puoi portare con te dal medico anche Lisa?» Rimasi sbalordita dall'espressione di D. J. Nonostante le critiche di cui
faceva oggetto Phil pareva risentirsi del fatto che Gertrude si accaparrasse l'unico uomo disponibile dell'isola. Una strana ruga le si formò attorno alla bocca, come se stesse tentando di reprimere una forza violenta. Io, invece, ero cambiata. Non ero più gelosa. Per Gertrude provavo un sentimento molto vicino alla compassione. Come se riuscisse sempre a captare l'umore di chi le stava attorno, Gertrude aggiunse: «Algie domani ha da fare non so bene che cosa. Se non spendesse tanti quattrini e tante ore per quella casa, avremmo tempo e modo di divertirci un po'.» Guardò una nave da crociera che passava all'orizzonte. Procedeva con una tale lentezza che pareva ferma. «Vorrei essere là sopra. Credevo fosse divertente stare qui, e invece è una noia mortale. Se solo i genitori di Algie vendessero quella topaia e ci dessero i quattrini per andare dove vogliamo...» D. J. aveva metà viso affondato nelle braccia incrociate. La sua voce suonò smorzata. «Probabilmente tu ti annoieresti anche su una nave da crociera.» Selina, rapidissima, intervenne. «Prendi un cracker integrale.» Gertrude non aveva tatto, ma non era permalosa. «Che cos'è un cracker integrale?» «È un cracker fatto di grano che cresce vicino ai campi di marijuana» spiegai io serissima. Ripulendosi dalle briciole, Gertrude si alzò. «Vado a esplorare l'altro lato dell'isola. Qualcuno vuol venire con me?» «Io.» Mi era scappato di bocca senza accorgermene. Infilai la camicia e le scarpe da ginnastica e seguii Gertrude per una parvenza di sentiero che portava nel bosco. Partiva dritto dalla spiaggia, ad angolo retto. Stravagante com'era quell'isola, passammo dal paesaggio paradisiaco dei Caraibi alla giungla equatoriale. Il ronzio degli insetti smorzava il frangersi delle onde e al posto delle distese sconfinate di terra e mare ora c'era un groviglio di minuscole foglie lanceolate di tasso, di arbusti grigio bluastri fioriti di giallo, di fogliame argenteo maculato di pigne. Il sole, filtrando attraverso la vegetazione, rendeva le felci simili a splendenti gioielli. Il terreno era umido e paludoso, e affondavamo camminando. «Non finiremo risucchiate dalle sabbie mobili, vero?» dissi, cercando di sembrare spiritosa. Gertrude, perversa, cominciava a divertirsi. E io, altrettanto perversa, cominciavo a trovarla gradevole e la guardavo camminarmi davanti impavida, girando la testa qua e là per guardare un colibrì, ascoltare il verso di
una sterna, stanare una conchiglia rotonda e grigiastra. «Questa tellina la porto a Lisa.» «Come fai a riconoscere le conchiglie?» «Sono un'enciclopedia di cose inutili.» Districò i capelli da un rampicante e, rannicchiata su se stessa, proseguì il suo cammino. Avevo pensato che, una volta sole, Gertrude avrebbe parlato di Algie. Invece era un impasto di egoismo e estroversione, stupidità e intelligenza, pigrizia e vigore, suscettibilità e inaccessibilità. Se aveva qualche sospetto che tra me e Algie ci fosse o ci fosse stato qualcosa non lo diede minimamente a vedere. «Mi credi?» balbettai io. «Ogni volta che decido di piantare un albero di limoni scavo e non trovo che sassi; e quando muovo i piedi non faccio che finire nel fango. Perché...» Gertrude alzò una mano, e io mi interruppi. Per un momento tutto quello che riuscii a sentire furono le legioni di creature carnivore, erbivore, onnivore che banchettavano nella vegetazione in cui eravamo immerse. Poi, un tonfo smorzato, come di fango. Restammo immobili, in ascolto. I secondi passavano, ma non accadeva nulla. «Un animale» disse Gertrude, e si chinò a raccogliere qualcos'altro. «Un Doglio. Lo si capisce dal colore.» Continuammo la marcia nel fango che ci si attaccava ai piedi come se volesse risucchiarceli. Ma mi attirava la distesa lontana del cielo, e non proposi di tornare indietro. Macchie d'ombra e di luce si alternavano in rapida successione sul viso di Gertrude, facendola sembrare un soldato col viso tinto di lucido da scarpe. Un serpente ci tagliò la strada. «Sentilo di nuovo.» Ascoltai, ma non udii nulla. «Ma hai delle orecchie da... da... falco.» Gertrude rideva raramente. Piegate in due, finalmente uscimmo dall'intrico di alberi e arbusti e ci fermammo, senza fiato. Non finiva mai di stupire con la sua bellezza, quel posto: la striscia di sabbia limitata dalle palme, il cielo color cobalto e quel mare in eterno movimento. «È incredibile» dissi io, e proseguii con la mia frase trita e ritrita «quel che Dio... o chi per esso... ha saputo fare prima che l'uomo arrivasse a rovinare la sua opera.» «Eccoti uno dei contributi dell'uomo» disse Gertrude, indicando una bottiglia di Coca Cola. Senza riflettere, mi misi a raccogliere tutto quel che trovavo, almeno quelle che erano le offese più gravi al paesaggio.
«Guarda che non ce la fai a ripulire il mondo intero» disse lei. «Non ti basterebbe una vita.» «Sì, tanto vale smettere subito.» «Holly! Vieni qui!» Raddrizzandomi, la vidi accucciata poco distante: esaminava qualcosa sulla sabbia. Quando le fui accanto scoprii i resti di un falò. «Okay. Quindi qualcuno ci ha precedute. Non siamo Louis e Clark.» Eppure, pareva che avessimo il mondo intero nelle nostre mani: niente aerei, niente barche e, con il bosco alle spalle che chiudeva l'accesso, nessun segno di civiltà. L'unico movimento era quello dell'oceano e dei gabbiani. «So benissimo che mi riderai dietro» disse Gertrude. Mi voltai. Parlava tranquilla, ma con una voce intensa e fremente di significato. Aveva in mano un lungo osso bianco. «Non ti sembra il femore di un uomo?» 26 aprile Era strano eppure naturale rivedere Algie e Ted che lavoravano con Nicholas in giardino. Come se fossimo sposati e Algie aiutasse i suoi nonni acquisiti. Vedendo quel che avevo in mano, Algie si asciugò il sudore con la manica della camicia e disse: «Molto carino da parte tua, Holly, ma ho appena iniziato una dieta.» Appoggiai l'osso davanti a loro con la massima cautela. «A rischio di apparire ingrato, direi comunque che non è rimasto un granché da mangiare.» «Sei davvero a dieta?» chiese Nicholas. «Mi sono guardato allo specchio stamattina» fece Algie «e ho deciso che per una settimana non prenderò che acqua. Naturalmente, nell'acqua, potrò metterci un po' di spaghetti...» «Secondo voi che cosa può essere?» chiesi io. «Credevo avessimo stabilito che...» «Intendo dire, che tipo di osso può essere?» Mentre Algie si chinava per guardarlo meglio, Ted mi chiese: «È quello che avete trovato tu e Gertrude ieri?» «Fatemi vedere» disse Algie. «Ho fatto un corso di specializzazione. A mio avviso, è un osso di mastodonte. Che cos'è un mastodonte?» «Non vi pare un osso umano?»
«Sì, adesso che me lo fai notare, direi di sì. Di una gamba. È una tibia. O un femore? Be', nel corso ho preso insufficiente.» «È possibile che un tempo qui sull'isola facessero dei sacrifici umani?» chiesi io. «Non solo possibile, ma probabile» mi garantì Algie. Posò una pietra sull'altra, indietreggiò per studiarne l'effetto e poi, soddisfatto, cominciò a buttare sopra il cemento. «Perché il primo giorno in cui non avremo niente di meglio da fare non ci mettiamo a ricostruire l'intero corpo?» «Zombie» disse Patty. «Piantala con le tue morbosità.» Uscì dalla cucina reggendo un vassoio carico di ponce al rum. «Il tuo difetto, Patty» le disse Algie «è quello di non voler accettare i fatti della vita. O della morte. Che cos'è un osso? Nient'altro che qualcosa che ci portiamo attorno sotto la nostra carne mortale.» «Perché lo chiami Zombie?» chiesi io a mia nonna. «Perché lo chiamo Zombie? Non lo so. Gli Zombie appartengono a queste isole, sono gli spiriti dei loro morti, no? Non ti dai pace se non sai sempre tutto, vero, Holly?» «Con noi c'è ben poco da sapere» disse Ted. «Selina è andata dal medico con Beanie?» gli chiesi. «Sì» rispose. «Speriamo non sia niente di grave. La gamba era piuttosto malconcia stamattina...» «Andrà tutto bene» lo rassicurò Patricia. «Ho fatto un dolce di cioccolato per quel povero tesoro, e anche una bella zuppa di pesce per voi, così Selina e Gertrude non dovranno mettersi a cucinare questa sera. Siete così gentili ad aiutarci a costruire questo muro. Ma quando avrete bisogno voi, ditecelo: io e Nicholas verremo a darvi una mano.» «Su di me non fate conto» disse Nicholas. «Verrà Patty da sola. Voi due siete giovani e lavorare non vi pesa, io sono un povero vecchio.» Tolsi di tasca le sigarette e ne offrii una a Ted. «Non dirlo a Selina» mi raccomandò lui accettandola. «E perché?» «Non vuole che mi venga il cancro.» «Il fumo fa venire soltanto un po' di tosse.» «La gente pensa troppo alla salute» disse Patricia. «Guardate me: tutti a dirmi di non mettermi in un'impresa come questa, a dichiarare che mi sarebbe venuto un attacco di cuore, che ho la pressione troppo alta... che cos'hai da ridere, Holly?» «Niente, Patty.»
«Sta ridendo di te, Patty» disse Nicholas. «Noi non diciamo...» Intervenni io rapidissima. «Non bisogna prendere sottogamba della gente come questa. Insomma, gli indigeni hanno una sola generazione di civiltà alle spalle, ed è stupido da parte di D. J. imbottire di fesserie le loro teste semplici.» «Mi sono forse mai lamentata, io?» insistette Patricia. «Ma che cosa diavolo dice?» chiese Ted mentre preparava dell'altro cemento. Algie, volonteroso, spiegò: «Patty vuole sapere che cosa ha detto di male.» «No, io mi riferivo a Holly.» «Oh, Holly brancola nelle tenebre. È convinta che un uomo sia stato sepolto su quella spiaggia.» «Avete lavorato a sufficienza» disse Patricia. «Adesso basta, venite in casa. Ho fatto un delizioso soufflé...» Si interruppe sentendo una jeep che risaliva la collina. «Speriamo che Gertrude abbia comprato dei viveri» disse Algie. «Credevo fossi a dieta» dissi io. «Certo, ma come faccio a misurare la mia forza di volontà se non ho modo di metterla alla prova?» Bevevamo i ponce in quel buco rovente che era il giardino dietro la casa, e aspettavamo la jeep. Ma non era Gertrude. Erano Selina, Beanie e Lisa. Selina aveva l'aria depressa e tesa, gli altri due irritata. «Sono venuta a prenderti, andiamo a casa» disse Selina a Ted. Patricia la prese per mano e la fece sedere. «Sembri sfinita, Selina. Siediti. Bevi qualcosa, ti sentirai meglio. I bambini mangeranno un sandwich...» «Che cosa ha detto il medico?» chiesi io. Selina si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Non allungò la mano per prendere il bicchiere. «Neanche visto. L'infermiera ci ha detto che l'avevano chiamato d'urgenza poco prima del nostro arrivo. E che sarebbe tornato in ambulatorio solo domani.» 27 aprile Il temporale scoppiò prima di mezzogiorno. All'improvviso il cielo divenne nero e il vento si abbatté sulla terrazza, inzuppando di pioggia sedie, tavolo e panche. Ritirammo le sedie e ci sistemammo nella mia stanza.
«Quell'Harold. Lo ammazzerei. Per mesi mi ha promesso di aiutarci a mettere i tramezzi per la pioggia. E adesso che se ne è andato non li potremo più mettere.» Patricia guardò suo marito. «Come vorrei che sapessi far qualcosa di pratico, Nicholas!» «Anziché essere bello, affascinante, intelligente com'è?» chiesi io, baciando mio nonno sulla guancia. E lui mi batté una mano sulla spalla, con l'aria di quello che condivide in pieno. La lunga stanza spoglia era buia negli angoli e la candela disegnava strane ombre sul soffitto, fantasie di teste di draghi e code di serpenti, grifoni, centauri. «Sulle isole dovrebbe sempre splendere il sole» dissi. «Mai visto niente del genere in aprile, comunque» disse Nicholas. Risi. «Ogni volta che vado in vacanza in un posto regolarmente mi sento dire dai locali che le condizioni atmosferiche del momento sono del tutto insolite.» Quelle parole echeggiarono fastidiosamente nel mio cervello, e mi affrettai ad aggiungere: «Ma voglio essere onesta: non ho motivo di lamentarmi. Sarà piacevole accoccolarmi in poltrona a leggere un libro, tanto per cambiare. Da bambina una giornata di pioggia per me significava comprarmi un giallo e una tavoletta di cioccolato, e poi sparire dalla circolazione per tutto il pomeriggio.» «Povera piccola» disse Patricia. «Perché dovevi sparire? Tua madre non ti permetteva di leggere?» «No, dicevo tanto per dire.» Non riuscendo a trovare di meglio da fare, tolsi le provviste dalla dispensa di Patricia, pulii l'interno e gli scaffali e poi sistemai in bell'ordine le bottiglie, le lattine e le scatole. Un'ombra balenò su una parete, sbandò sul soffitto, ridiscese per l'altra parete: era il vento che agitava la fiamma della candela. «Vado a fare due passi» annunciai. Infilai un impermeabile di Patricia e le mie scarpe da tennis e mi coprii la testa con un foulard. «Tesoro, vai a invitare tutti a cena qui da noi per domani sera» disse Patricia. «Diamo un ricevimento in tuo onore.» «Anche gli operai? E le domestiche?» Rise. «Faccio sempre una festa anche per loro. Tutti gli anni, prima di Natale compriamo birra e cibo e facciamo un picnic sulla spiaggia, vicino al pontile. Ma domani sera loro non c'entrano.» Quando aprii la porta il vento quasi me la strappò di mano. Soffiava con una tale violenza che quasi non riuscivo a respirare. A testa bassa salii su per la collina, verso il sentiero più riparato. L'agave sisalana, che aveva
dalle foglie appuntite come denti, pareva digrignarle disperatamente: era bassa, ma il vento non la risparmiava lo stesso. Una volta tanto non c'era segno di vita animale. Cominciavo a godermi quel paesaggio solitario e selvaggio: alzai la testa e lasciai che la pioggia mi bagnasse quanto voleva. Passai davanti a una casa, deserta e, adesso che il sole col suo splendore non ne copriva i difetti, molto malandata. Tutto mostrava segno di abbandono: dall'intonaco scrostato, al giardino incolto, ai cumuli di sabbia zuppa e inusata. Poi sentii un battito di martelli. Da una finestra vidi all'interno della gente di colore. Scesi il sentiero, aprii la porta e me la richiusi alle spalle per ripararmi dalla pioggia. Degli operai neri installavano gli armadietti della cucina. «Buon giorno.» Come se si muovessero tutti grazie ad un'unica carica elettrica, smisero di lavorare all'unisono. Nessuno rispose al mio saluto. «Che giornataccia» continuai io con falsa disinvoltura. Come un coniglio che tentasse di distrarre una donnola, chiesi: «Di chi è questa casa?» «Del signor Bitteto.» «Credevo abitasse in quella grande, col patio...» «È sua anche questa.» «Oh. Quante ne ha in tutto?» L'uomo si strinse nelle spalle e ricominciò a lavorare col martello. Sul suo esempio, tutti fecero altrettanto. «Il signor Bitteto, lui ne ha un sacco, di case. Cinque, sei forse.» Il mio interlocutore disse qualcosa ai suoi compagni e tutti risero. Senza voltarmi, retrocedetti verso la porta. «Lui vende. Già vendute due. La gente non è ancora venuta. Il signor Bitteto, lui è ricco.» Ebbi un attimo d'esitazione. Il vento era calato ma la pioggia scendeva più forte. Con la mano sulla maniglia, dissi: «Be', l'altro giorno ho visto i resti di un falò sull'altro lato dell'isola. Voi sapete chi... chi va a fare dei picnic su quella spiaggia?» La parola picnic quasi mi morì in bocca. Il martellare si fece più forte. Questa volta neppure una stretta di spalle. Sempre senza voltarmi, aprii la porta e uscii camminando svelta. Appena sentii la loro risata mi misi a correre, scivolai in una pozzanghera e caddi a terra. Col fazzoletto che trovai nella tasca di Patricia mi pulii le ginocchia sporche di sangue e di fango. Mi fermai a riprendere fiato solo quando fui uscita dal bosco. Una volta
tanto la baia non metteva paura. Acqua, mare e cielo erano di un grigio uniforme e, se al molo c'erano ancorate delle barche, la cortina di pioggia le nascondeva alla vista. Continuai a camminare, la testa incassata nelle spalle come una tartaruga, con l'acqua che mi colava dal naso e dalle ciglia e la mente fradicia come il terreno. Sapevo dov'ero diretta, ma non volevo ammetterlo. Ma quando arrivai alla casa, la trovai deserta. Dopo un solo attimo di perplessità, girai la maniglia della porta sul retro, che si aprì immediatamente. Non entrai: rimasi sulla soglia a guardarmi attorno. Uno dei motivi dello scontento di Algie mi fu subito chiaro: la casa era quel che si dice un vero macello. Piatti sporchi nell'acquaio e sulla credenza, puzza di cibo andato a male, croste di sudiciume in tutti gli angoli e in tutti gli interstizi; indumenti, giocattoli, giornali sparsi sul pavimento, sul divano e sulle sedie; polvere ovunque. Non solo non si sapeva dove mettere i piedi, ma la casa era infestata di insetti vari che sfrecciavano dappertutto. Richiusi svelta la porta e presi la strada che portava dai McKnown. L'ibisco era in fiore: soprappensiero mi fermai a cogliere una corolla gialla, la odorai e poi me la misi in tasca. Il suono di una chitarra mi fece fermare. Dall'alto arrivavano il ritmo di un calipso e la voce di Algie. Cantava: "Ho una ragazza, si chiama Gertrude. Ha la faccia d'angelo ma il cuore rude". E poi uno scoppio di risa. Mi ritrovai a diciotto anni. Era una giornata come quella e io, costretta a letto con la febbre, guardavo dalla finestra la pioggia che cadeva a tutto spiano. E poi erano arrivati tutti in casa Eban: Algie, Selina, D. J. e altri due di cui non riuscivo a ricordare il nome. Mi avevano portato dei regali... canditi fatti in casa, un braccialetto di conchiglie... e con Algie che suonava la chitarra avevano passato il pomeriggio cantando. Così il mondo, da quella pozza oscura d'acqua che mi sembrava, si era trasformato in un fulgido astro. Mai, in tutta la vita, ero stata tanto felice. Mi diressi verso la porta di servizio dei McKnown, passai sotto le lenzuola stese ad asciugare fradice di pioggia e, senza bussare, entrai. Algie era seduto sul pavimento a gambe incrociate, la testa china sulla chitarra e le dita che pizzicavano le corde. Gertrude, con una mano in aria e l'altra appoggiata sul ventre, ballava e cantava: «Algie come Alghe, le piante del mare. Un fungo parassita che tenta ma non ce la sa fare.» Selina, con i bambini tra le braccia, era sul divano; Ted e D. J. stavano sdraiati sul tap-
peto. Vincendo ogni inibizione, avanzai verso il centro della stanza a passo di rumba. «Selina, Selina, da conto bisogna tenerla. Ha il cuore d'oro ed è madre di una perla.» «E io? Cantate di me» gridò Beanie. «L'ha appena fatto, stupido» gli disse Selina. «Ti ha chiamato perla.» Ted balzò in piedi a sua volta ballando la rumba mentre Algie teneva il tempo. La musica, le risate, il canto si confondevano col ticchettio insistente della pioggia sul tetto. Mi pareva che persino le lucertole sfrecciassero sulle travi del soffitto al ritmo della chitarra. Accarezzando la testa dei bambini, Selina cominciò: «Teddy, Teddy, come un orso...» Si interruppe gemendo: «Non sono tagliata per questo genere di cose.» Algie le venne in aiuto. «Teddy, Teddy, un gran lavoratore. Bravo papà e bravo amatore.» «Bada a come parli» lo ammonì Selina. «Non fa niente anche se sento» disse Lisa. «Tanto non capisco niente lo stesso.» «Canta tu adesso» le disse Selina. «Non posso. Non sono brava a cantare.» «E tu Beanie?» «Ho già abbastanza guai.» Si toccò la gamba fasciata. Parlava di malavoglia. Sempre ballando, riprovai io. «Un invito a tutti i presenti: domani dagli Eban per dei festeggiamenti. Si canta, si balla e si gioca alla palla.» «Permesso?» Phil era sulla soglia, fradicio d'acqua. «Ho sentito la musica e non ho saputo resistere.» Un attimo di silenzio. Chitarra, canto e ballo, tutto cessò all'improvviso. «Accomodatevi, prego» disse Selina con la massima indifferenza. «Trovatevi un buco sul tappeto.» «Non dovrebbe essere particolarmente difficile» disse Ted. «Quel tappeto pare un colabrodo.» Come se la presenza di Phil facesse dell'alchimia a rovescio, l'atmosfera mutò da oro in piombo. Dopo un istante Algie riprese a suonare, ma stonato. Selina e Ted parvero contrarsi quasi fisicamente e gli occhi dei bambini divennero vitrei. Solo Gertrude e D. J. migliorarono d'umore: piene di animazione, avevano il viso splendente e radioso. Ma D. J. ebbe la peggio. Gertrude slegò il nastro che le legava i capelli e quella folta cascata di seta aggiunse altro splendore alla sua bellezza. Phil era magnetizzato. Lei gli
prese la mano. «Balliamo.» «Che ore sono?» chiese D. J. «Adesso?» fece Algie. «No, dopo» intervenni io. «E allora? Che differenza fa? Non devi andare da nessuna parte, no?» «No, infatti. Ma la musica del calipso mi fa venire in mente il daiquiri alla banana. Hai delle banane, Selina?» Scostando dal suo grembo le teste dei bambini Selina si alzò e andò in cucina; io e D. J. la seguimmo a ruota. Sentimmo la risata di Gertrude e Beanie chiedere a suo padre: «Se tu e la mamma divorziate, tu continuerai a vivere qui?» e Ted che gli rispondeva: «Certo: basterà non dire a nessuno che dormiamo nella stessa stanza.» Fissavo la pioggia. Dalla baia arrivò lo scoppiettio del motore di una barca e dagli alberi di papaia lo strido di un uccello tropicale. Selina accese il generatore di corrente e D. J. versò del rum nel miscelatore. Algie cominciò a cantare: «Teddy, Teddy, mi sono stufato. Avanti, coraggio, prendiamo commiato. Anche i pesci ballano in mare; vieni con me, andiamo a pescare.» Lo guardai. Aveva cambiato umore. Col viso duro, irritato, triste, passò accanto a sua moglie e a Phil dicendo: «Io vado a pescare.» Selina intervenne con voce lamentevole: «Ma non puoi andartene adesso: stiamo preparando i daiquiri, la festa è appena cominciata.» «Bisognerà che prosegua senza di me.» «Possiamo andare a pescare anche io e Beanie?» chiese Lisa. «No, tu rimani con la mamma. Può darsi che a un certo punto crolli e ti dia qualcosa di giusto da mangia...» Gli si mozzò il fiato in gola. «Che cos'è?» disse. L'avevo visto anch'io. Un viso che ci fissava al di là della terrazza. Rapido come era apparso, scomparve nei cespugli fradici di pioggia. Quegli occhi folli, la barba incolta, i capelli grigi visti per una frazione di secondo mi pareva quasi di averli sognati. Algie uscì correndo sotto la pioggia. «Ted! Phil!» dissi io bruscamente. «C'è qualcuno là fuori. Andate ad aiutare Algie...» «Qualcuno lì fuori?» Ted entrò in cucina, sconcertato. «Sbrigati! Uno sconosciuto. Uno che ci stava guardando.» Ted e Phil si precipitarono fuori e in un attimo scomparvero tutti e tre. Noi aspettammo in silenzio: sentivamo rumore di rami smossi, grida, una gran confusione. E all'improvviso un tremendo schianto, accompagnato da
imprecazioni. «Ted!» gridò Selina. «Tutto bene?» Fu Algie a risponderle. «L'abbiamo preso.» Dai cespugli uscirono lottando. In mezzo a loro qualcosa o qualcuno si dibatteva ferocemente e, nonostante fossero tre contro uno, non era facile tenerlo a freno. Mi sentii stringere stranamente lo stomaco, mi parve di non riuscire più a respirare, e urlai: «Lasciatelo andare. Lasciatelo andare.» I tre uomini rimasero talmente sorpresi che allentarono la presa. In un attimo quella creatura fu libera e, con un salto, si inerpicò su per la collina. Vedendo Algie che si lanciava all'inseguimento, gridai: «Fermati! Lascialo. Non è una bestia, è un uomo.» Algie esitò, poi si decise a fermarsi. Perplesso, alzò gli occhi verso di me. Non era più irritato. «Che cosa c'è, Holly?» Dalla ringhiera del portico stetti ad ascoltare i passi che si perdevano in lontananza, finché l'unico rumore rimase l'insistente ticchettio della pioggia sulle foglie. E con una voce che non aveva più vita dissi: «Quello era mio padre.» 27 aprile «Perché non mi avete detto che era vivo?» Come forze opposte, energia e inerzia, io giravo in tondo, loro stavano fermi al centro. «Per proteggerti.» Questa volta era Nicholas che parlava. «Proteggermi da che?» «Dalle preoccupazioni. Sapendolo vivo, per te sarebbe stata una fonte costante di pensieri, un peso...» «Un peso! Ma è mio padre, sant'iddio!» «Non sai niente, per fortuna, perché allora eri tanto piccola. È stata una cosa lunga, penosissima. Liti tra lui e tua madre, e lui che si ubriacava e perdeva un impiego dopo l'altro. E poi non voleva più uscire di casa, né alzarsi dal letto, né mangiare, né lavarsi...» «Perché non l'avete fatto ricoverare?» «Quando ha avuto l'esaurimento nervoso...» «Esaurimento nervoso! Che cosa diavolo è un esaurimento nervoso? Sai benissimo che vuol dir tutto e niente.» «Quando ha tentato di uccidersi, l'abbiamo messo in un ospedale.»
«E allora che ci fa qui ora?» «Sono passati tanti anni. Non migliorava. Non potevamo tenerlo là dentro in eterno. Sai quanto costa un ospedale? Tua madre si era trovata un lavoro a mezza giornata per mantenere te e lei, ma Patty ed io dovevamo pagare le spese di degenza di tuo padre. E così, quando sono stato costretto ad andare in pensione, l'abbiamo portato con noi.» «Per ridurlo come una bestia.» Nicholas si alzò e tentò di prendermi la mano, ma io lo respinsi perché non intendevo smettere di camminare. «Una bestia?» ripeté lui. «Avevamo sempre avuto l'intenzione di stabilirci a Scorpion, e non volevamo lasciarlo. Lui, comunque, è un'altra delle ragioni per cui non possiamo andarcene da qui...» «E quindi lo lasciate vagare ramingo, pazzo, sporco e lacero come il mio povero gatto.» «È lui che lo vuole. Non abbiamo avuto scelta: o incatenarlo o lasciargli vivere la vita che voleva. E lui vuole vivere come un eremita. Dorme sulla spiaggia o nelle case che trova disabitate. Gli teniamo sempre del cibo pronto e lui viene a mangiare quando noi non ci siamo. Nessuno l'aveva mai visto prima del tuo arrivo. Deve aver saputo di te. E la curiosità di vederti l'ha stanato dai suoi abituali rifugi.» Li guardavo entrambi, uno dopo l'altra. Avvolti nel vapore che il sole del mattino alzava dalle assi bagnate della terrazza, parevano due creature di un altro mondo. «Non è una vita poi così grama la sua, Holly» continuò Nicholas, quasi carezzevole. «C'è della gente a cui piace vivere alla ventura, senza lavorare e senza avere responsabilità. E lui, di ambizione, non ne ha mai avuta.» Per la prima volta parlò Patricia. Con garbo e tristezza disse: «Chi credi l'abbia ridotto in questo stato, Holly?» «Patty!» intervenne Nicholas per fermarla. Io smisi di vagare in tondo. «Chi?» chiesi. Ci fissammo finché lei non abbassò gli occhi. «Cara, Nicholas ed io abbiamo fatto tutto il possibile. Hai sentito che gli abbiamo pagato l'ospedale ma poi, ogni volta che tornava a casa, aveva una ricaduta. Ho letto tutti i libri di psicologia che sono riuscita a trovare per aiutarlo. È il mio unico figlio, del resto.» «Chi l'ha ridotto nello stato in cui è, Patty?» «Mia povera cara. L'ultima cosa al mondo che voglio è farti del male, proprio adesso che ci siamo ritrovate dopo tanti anni...»
«Mia madre?» «Tesoro, perché continuare questo discorso? Nicholas ed io ti vogliamo bene e intendiamo fare di tutto perché la tua vacanza sia un'esperienza felice...» Corsi fuori. Sentii Nicholas che mi chiamava ma non mi fermai. Mi infilai nel bosco. Le foglie gocciolavano ancora, ma il sole già filtrava anche là dentro. Rami grossi e piccoli mi graffiavano e dovetti rallentare e procedere aggrappandomi agli alberi. Ansante, arrivai alla Baia di Sabbat con le braccia e le gambe coperte di sangue. La spiaggia era deserta. Trovai il sentiero che avevamo percorso due giorni prima io e Gertrude. Mi immersi nella vegetazione, fermandomi ogni tanto per tendere l'orecchio: ma questa volta non c'era ragione di pensare che qualcuno mi seguisse. Tutta l'energia che mi aveva sorretta si dileguò appena vidi l'altra sponda dell'isola. Una sterna lanciò un rauco strido, mentre una capra mi fissava dalla spiaggia. Camminando nell'acqua per rinfrescarmi i piedi, prendevo a calci le minuscole mennelle. Stavo cercando mio padre, e invece arrivai ai resti del falò scoperto da Gertrude. Le ceneri avevano qualcosa di diverso. Accucciandomi per guardarle meglio, mi accorsi che erano state quasi tutte coperte di sabbia e che rimaneva solo qualche pezzo di legno carbonizzato. Per un attimo dimenticai tutto, tesa nello sforzo di ricordare che cosa mancasse. Come in quel gioco che mi faceva fare mia madre: mi mostrava un certo numero di oggetti per pochi secondi, poi li nascondeva e io dovevo enumerargliene il maggior numero possibile. C'era qualcosa di bianco... Con la coda dell'occhio vidi un movimento sulle rocce in fila che dividevano in due la spiaggia. Mi voltai di scatto. Non c'era più nulla, ma balzai lo stesso in piedi e corsi a ripararmi dietro i cactus. Un minuscolo topo fuggì via e un uccello si levò dall'albero della iucca. Sulle rocce mi arrampicai carponi. Poi, con la massima cautela, sbirciai di sotto. Mi tirai indietro di colpo. Avevo riconosciuto la schiena muscolosa e abbronzata di Phil. Mi tenni aggrappata per qualche momento, col cuore che mi scoppiava nel petto. Poi, vinta l'indecisione, strisciai su per le rocce. Le mie dita, nello sforzo, smossero dei sassi e delle conchiglie, ma il rumore della risacca
coprì quello del mio annaspare. Phil stava legando con una corda l'imboccatura di un sacco per i rifiuti di plastica verde. Poi, alzato il braccio destro, lanciò il sacco in mare. Doveva essere pesante, perché affondò subito al di là degli scogli. Svelta, mi lasciai scivolare giù dalle rocce, sentendo le ferite alle ginocchia che mi si riaprivano. Stavo correndo a nascondermi tra i cespugli quando udii la sua voce. «Holly!» 27 aprile Scattai indietro, come un cane tirato da un guinzaglio. Senza voltarmi, scrutai la montagna, in cerca di un segno di vita. «Come mai siete quaggiù?» Dovetti voltarmi e guardarlo. Fissando i suoi ipnotici occhi azzurri dissi: «Sono venuta a cercare mio padre.» La mia risposta inaspettata lo mise in imbarazzo. «Vostro padre?» «Voi sapevate che mio padre vive sull'isola?» Mi osservò un altro istante e poi si mise a camminare. «Come l'avete scoperto?» «È venuto a dare un'occhiata a me e io sono riuscita a darne una a lui. Eravate al corrente di tutto, vero?» Si strinse nelle spalle. «Io abito qui tutto l'anno. Ogni tanto gli Eban devono andare a New York, e io lo tengo d'occhio.» Poi, come se gli avessi fatto un'altra domanda, disse: «Stamattina non ho consegnato il sacco della spazzatura, così ho dovuto buttarla in mare.» Eravamo arrivati al canale che riportava sull'altro lato dell'isola, ma non accennai a attraversarlo. Lui attese. «Non tornate?» «No, rimango un po' qui.» Inspiegabilmente, non mi andava di inoltrarmi in quel terreno paludoso assieme a lui. Non riuscì a trattenersi dal guardare il punto in cui aveva gettato il sacco, ma subito distolse lo sguardo. «Arrivederci.» Rimasi dov'ero, cercando di calcolare di quanto si allontanava dallo sciaguattio dei suoi piedi nel fango. Poi, rigida e impettita come se fossi convinta di essere tenuta d'occhio, mi misi a sedere e rimasi a fissare un piro-piro azzurro iridescente. Il canto ammaliatore del mare e del vento mi intorpidirono i sensi: mi distesi con gli occhi socchiusi per ripararli dal sole. Mi svegliò un grido lontano. Vacillando mi misi seduta e vidi una barca
a vela con a bordo delle minuscole figure che avanzava leggera. Mi salutarono con la mano. Non li conoscevo, ma risposi al loro saluto. Poi mi alzai, mi pulii dalla sabbia e, all'ombra degli alberi, tornai allo scoglio. Mi ci arrampicai per vedere, se possibile, il sacco di plastica, ma in quelle oscure acque profonde non c'erano altro che le solite, onnipresenti mennelle. Mentre cercavo di localizzare il punto preciso in cui era caduto il sacco vidi una casa. Una casetta bianca, maltenuta, con dei gradini che scendevano a un molo privato. Le finestre mi fissavano come orbite vuote. Non sapevo che qualcuno abitasse su quel lato dell'isola e, smettendo per il momento di pensare al sacco, mi inerpicai sulle rocce in direzione della casa. Un piro-piro era fermo su una roccia: pareva non mi avesse visto ma, appena mi avvicinai, saltellò via, attese, e poi si allontanò di nuovo mantenendosi a distanza di tre metri. Pareva quasi mi facesse cenno di entrare. «Stai cercando di dirmi qualcosa?» chiesi e, in risposta, lui saltò sul primo gradino della casa. Come se fossi sotto l'influenza di un incantesimo seguii l'uccello grigiastro su per gli scalini. In quella casa, a differenza da tutte le altre dell'isola, si entrava dal portico sulla facciata. La porta d'ingresso era coperta di vernice scrostata e ad ogni raffica di vento cigolava su un unico cardine. Ebbi un attimo di esitazione, ma entrai. Nel soggiorno c'era solo la gamba di una sedia, una pila di rotocalchi e degli stracci sporchi. I vetri delle finestre erano talmente imbrattati che avevano perso la trasparenza. Tutto quel che vedevo rivelava uno stato di abbandono, tranne la cucina. Lì, sulla credenza, trovai una latta con del succo di frutta, i resti di una pagnotta e delle ossa di pollo. Avevo trovato la casa in cui viveva mio padre. Rimasi immobile, poi girai appena la testa. Non si muoveva nulla. In punta di piedi, chissà perché, mi avvicinai a una finestra e tentai di aprirla, ma invano. Allora pulii un angolo del vetro e scrutai la lunga striscia di sabbia. Non vidi che due capre. Nella stanza da letto c'era un giaciglio sconquassato: sul pavimento un materasso con l'imbottitura fuori. Pareva proprio che di insetti non ce ne fossero: come i topi fuggono dalle navi in disarmo, loro disertavano le case in rovina. In un cassetto trovai un lenzuolo pulito e ben piegato, una bambola senza braccia e dei libri stracciati. Tolsi i libri per vedere che cosa c'era dietro
e una lettera cadde sul pavimento. Di nuovo rimasi immobile, in attesa di qualcosa che non sapevo definire. Poi raccolsi la lettera e la lessi. Martedì Carissimo, ma che vada tutto a farsi fottere! Ci manchi tanto. Perk continua a chiedere di papà. Capisco che ti girino le scatole all'idea di rinunciare a tutto quel denaro, ma che cos'è il denaro? (Voce sul fondo: solo undici anni della mia vita, ecco cos'è.) Eppure io insisto: vada tutto alla malora! Non è solo per via di Phil di Bitteto. C'è qualcosa che non quadra in quella stramaledetta isola. È l'ambiente che puzza di marcio, scusa l'espressione. Per l'amor di Dio (e anche per amor mio) torna a casa prima che sia troppo tardi. Dico sul serio. Ti prego. Ti bacio, ti abbraccio eccetera eccetera. Ellie. (Non è che ti aspettassi un'altra, magari Raquel?) 27 aprile Istintivamente mi avvicinai a Patricia e la baciai sulla guancia. Non mi aveva sentita arrivare e rimase un attimo senza fiato e con le posate a mezz'aria. Stava preparando un'insalata di pesce. «Chi... che cosa...» «Sono solo io. Per chiederti scusa.» «Oh!» Tornò alla sua insalata. «Non c'è bisogno che ti scusi con me, tesoro. Né adesso né mai. È bello difendere la propria madre indipendentemente da quello che ha fatto. E poi, dei morti non si deve parlar male.» Mi misi ad apparecchiare la tavola facendo molto più fracasso del necessario. «Chi è Ellie?» «Come?» Aprii il rubinetto e feci scorrere l'acqua perché diventasse fredda, e poi bevvi avidamente. «Torno dall'altra sponda dell'isola...» «Non dovresti sprecare l'acqua in quel modo, cara. Ce n'è sempre in frigorifero. Cosa dicevi?» «Torno adesso dall'altra sponda dell'isola, dove ho trovato una casa che non avevo mai visto. Una casa col molo privato. Di chi è?» «Che cosa ci facevi laggiù, si può sapere?» Evitando di guardarla negli occhi, mi misi a sgranocchiare un gambo di
sedano. «Oh... be'... esploravo la zona.» «Tesoro... siamo a corto di verdura. Metti giù quel sedano. L'unica casa con un molo privato è quella degli Elwyn.» «Oh, giusto. L'uomo che ha piantato sua moglie. Perlomeno così si dice.» «Come? Perché perlomeno così si dice?» «Qualcuno... non ricordo chi... ha detto che è piuttosto improbabile che il signor Elwyn abbia lasciato sua moglie.» «Perché improbabile? In quale altro modo si spiegherebbe la sua scomparsa?» In silenzio le porsi la lettera trovata in casa Elwyn. Patricia cercava un canovaccio in cui asciugarsi le mani mentre entrò Nicholas. «Quando si mangia?» Porsi a lui la lettera. «Leggi questa.» Osservai il suo viso e, quando ebbe terminato di leggere, gli chiesi: «Ti pare la lettera di una moglie che sta per essere abbandonata dal marito?» Perplesso, guardava me e mia nonna alternativamente. «Che cos'è? Dove l'avete trovata?» Patricia la lesse da sopra la spalla di lui. «L'ho trovata io in casa degli Elwyn.» Gli occhi di Patricia si spalancarono. «Holly! Mi sorprendi, davvero! Tua madre non ti ha insegnato che non si deve leggere la corrispondenza degli altri?» «E tantomeno entrare di soppiatto in casa degli altri» aggiunse Nicholas. Mescolò del succo di guava con del rum e me ne offrì, ma io scossi la testa. «Nicholas! È l'ultima latta di succo di guava che ci resta» protestò Patricia. «Se non ti tenessi d'occhio mi finiresti le provviste in un giorno. Così poi faremmo la fame per il resto della settimana.» «Da un punto di vista tecnico» dissi io «non ho violato il domicilio di nessuno. La porta era aperta. Ricordo di aver letto che gli abitanti di Pompei erano stati avvisati più volte del pericolo che correvano e che, invece di tagliare la corda, sono rimasti ad aspettare che la catastrofe si abbattesse su di loro.» Patricia, appoggiando sul tavolo l'insalata di pesce, pareva meno sicura di sé. «Parli come se noi non avessimo niente da perdere, andandocene.» «Voglio solo dire che, anche voi, siete stati messi in guardia ma continuate a far finta di niente.» «Holly» disse Nicholas, mettendosi seduto con davanti il bicchiere e le
sigarette «perché mi hai chiesto "ti sembra la lettera di una moglie che sta per essere abbandonata dal marito"?» «Non lo capisci? È una lettera affettuosa... insomma, perché una persona scriva a un'altra in questi termini bisogna che tra i due ci sia un vero, profondo...» «A me sembra un biglietto molto volgare» disse Patricia. «E terribilmente sgrammaticato.» «Lascia perdere la grammatica. Ascoltami. Questa lettera l'ha scritta la signora Elwyn a suo marito che era rimasto a Scorpion. Lei invece era tornata a casa. Perché?» «Probabilmente lui doveva terminare dei lavori nella casa, e lei è dovuta partire perché Perk, il loro figlio, ricominciava la scuola. Oppure lui aveva ancora delle ferie. Era insegnante, lei invece aveva un negozio d'abbigliamento. Ma a noi che cosa importa? È ovvio che l'ha abbandonata, perché non ha mai più dato sue notizie. E allora, perché star qui a discuterne?» «Non ha mai più saputo niente di suo marito, Nicholas?» chiesi io. «No, che io sappia. Non vediamo Ellie da... aspetta... da almeno due anni. Ho detto più volte a Patricia di invitare qui da noi lei e Perk, ma...» «Non ci verrà mai» disse Patricia. «Per lei questo posto è pieno di dolorosi ricordi. Io lo so. D. J. le ha chiesto...» «E la casa che fine farà?» «Ellie l'ha già venduta a Phil di Bitteto.» Nella pausa che seguì gli unici rumori furono quelli di Patricia che toglieva il pane dal forno e i miei che preparavo del tè freddo. Poi Nicholas, guardandomi da sopra gli occhiali, chiese: «Dove vuoi arrivare, Holly?» «Sono convinta che l'osso che Gertrude ha trovato sulla spiaggia appartenesse al signor Elwyn. Appartenesse o appartenga, si tratta solo di stabilire se i morti hanno diritto di proprietà sulle loro ossa. In fin dei conti, il corpo è sempre loro...» «Ma lo sai che è una gran chiacchierona tua nipote?» disse Nicholas a Patricia. E a me: «Se pensi che qualcuno abbia ucciso il signor Elwyn, non mi resta che chiederti come spieghi il fatto che l'assassino non abbia nascosto un po' meglio i suoi resti.» «Be'... lui o lei che sia, ha cercato di bruciarli, mi pare chiaro. Forse non è un tipo molto astuto e gli è riuscito male, o forse era convinto che nessuno avrebbe mai messo piede sull'altra sponda dell'isola. Oppure l'hanno interrotto. Coma faccio a saperlo?» Tacqui e poi ripartii all'attacco. «O ma-
gari mi stanno semplicemente prendendo per... per... insomma, ci siamo capiti.» «Holly, tesoro, il tuo linguaggio è decisamente mutato da quando...» «Mi riferivo al fatto che oggi ho visto Phil gettare un sacco pieno di qualcosa nell'acqua di quella baia.» Dal mare arrivò una leggera brezza e le foglie delle palme si mossero scintillando al sole, come gocce di pioggia che cadessero in senso orizzontale. Calata la brezza, anche le foglie ricaddero. «Tesoro, che genere di film hai visto di recente?» «Quest'isola» continuai io «mi fa pensare all'opera di uno scienziato pazzo, che ha isolato un gruppo di esseri umani, li tiene in vita e resta in attesa di vedere quali perniciose conseguenze ne seguiranno.» «Ma che cosa dice questa bambina?» disse Patricia. «Be', mangiamo, è pronto.» «Prima ti ricordiamo gli abitanti di Pompei» disse Nicholas «e adesso tiri in ballo esperimenti scientifici. Senti, quell'osso, sempre ammettendo che si tratti di un osso umano, potrebbe essere di qualche vagabondo venuto qui a lavorare, che in una rissa... con dei compagni è finito ammazzato...» La porta della cucina si aprì di colpo e Selina apparve sulla soglia, accaldata e coi capelli scarmigliati. Entrò e si mise a sedere, senza fiato. «Ho appena telefonato al medico. Quello da cui ho cercato di portare Beannie per la gamba...» Si interruppe fissando le mie ginocchia. «E a te che cosa è successo?» «Come?» confusa, abbassai gli occhi e capii. «Niente. Sono caduta.» «Stacci attenta. Le infezioni sono facili qui a Scorpion.» Le porsi un bicchiere di tè ghiacciato. «D'accordo, ma dicci del medico.» «Volevo un appuntamento per domani, e sapete che cosa mi ha detto?» «Che cosa ti ha detto, cara?» incalzò Patricia. «Mi ha detto che la chiamata urgente che ha ricevuto il giorno in cui Beanie ed io siamo andati da lui era falsa.» «Non capisco» feci io. «Non capisci? Qualcuno l'ha chiamato per non lasciargli visitare Beanie.» «Sei sicura?» chiese Patricia. «Ma chi può fare una cosa simile a un bambino? Non riesco a crederci...» «Io comincio a pensare che ci sia qualcosa che non va nell'aria, da queste parti» disse Nicholas con disgusto. «State tutti uscendo di senno. Prima
Holly col suo osso, e adesso Selina e Beanie.» Selina lo guardò senza capire. Il rossore stava sparendole dal viso, e sudava molto meno. «Selina» dissi io «domani vengo dal medico con te e Beanie. E niente ci fermerà.» 28 aprile Prendemmo i nostri posti: io alla gomena, D. J. all'ancora e Selina al timone. Da esperta, Selina virò abilmente attorno alle altre barche e alle boe e in un attimo fummo nella baia. Inaspettatamente, un forte vento si abbatté sul Boston Whaler. Guardando Scorpion alle nostre spalle provai un tale senso di repulsione che mi venne l'idea di balzare sul primo aereo e tornarmene a casa. Se non fosse stato per Algie l'avrei fatto senz'altro. Pensando ad Algie, guardai sua moglie. Come un gatto, trovava sempre il posto migliore per accoccolarsi a leggere un libro. Proseguivamo la traversata, fendendo delle onde così alte che mi dolevano le natiche per i colpi. «Bisogna proprio andare così forte?» gridai a Selina. La bocca serrata, gli occhi fissi, parve non udirmi neppure. Ogni tanto si guardava alle spalle, come se avesse paura che ci inseguissero. Guardai i pellicani che si tuffavano nell'acqua. «Dovremmo pescare con la dirlindana.» «Non abbiamo portato gli arnesi da pesca» disse D. J. «Non siamo particolarmente attrezzate per nessuna eventualità, eh?» «Cosa vuoi dire?» «Non lo so nemmeno io.» Beanie cominciò a borbottare tra sé: «Che giornata schifosa. Neanche il pranzo, oggi.» «Pranzeremo sull'isola, Beanie.» «Detesto pranzare.» «Avremo il tempo per andare al supermarket, vero?» chiese Gertrude. «Algie mi ha dato una lista di provviste che non finisce più. Non abbiamo più niente in casa.» Mentre D. J. sbirciava sotto coperta nella speranza di trovare qualche canna da pesca dimenticata e Beanie brontolava e Gertrude leggeva, Selina disse: «C'è qualcosa che non va.» Con una voce strana. «E cioè?» chiesi io.
«Non posso andare né avanti né indietro.» Spense il motore e noi girammo a vuoto, rimbalzando sulle onde. Guardai la baia, e poi l'oceano: pareva stessimo allontanandoci dalle isole. «Mamma, affonderemo?» chiese Beanie con voce tremante. Guardando prima suo figlio poi l'acqua turbolenta, Selina disse: «No, certo che no.» Vedemmo passare in distanza uno sloop: Selina alzò le braccia gridando: «Aiuto! Aiuto!» Tutti noi la imitammo, ma la barca continuò ad allontanarsi all'orizzonte. Guardando bene l'isola più vicina a noi, Gertrude disse: «Quella che isola è? Pare una bella spiaggia.» «Non so di preciso» disse Selina. «L'Isola del Ragno, o del Gambero, qualcosa del genere.» «Per me faremmo bene a gettare l'ancora e andare a riva a nuoto, prima che la corrente ci porti troppo lontano» disse Gertrude. «Non posso gettare l'ancora. È troppo profondo qui» disse D. J. «E poi Beanie non ce la farebbe a nuotare fin là. E forse nemmeno io.» «Allora quella che nuota meglio dovrà tentare la traversata per andare in cerca d'aiuto.» Da prua, Gertrude scrutava l'isola e la corrente. La probabilità di finire in mare aperto era del cinquanta per cento, l'altro cinquanta quella di affondare. Senza una sola parola, Gertrude si tuffò in acqua e cominciò a nuotare verso riva con decise, possenti bracciate. La fissavo con lo stomaco contratto per la paura. Mi ci volle tutta la forza di volontà che possedevo per non tuffarmi dietro di lei. «Mamma, mi lasci solo?» Beanie cominciò a piangere aggrappandosi ai pantaloni di sua madre. «Che sciocchezze dici» sbottò Selina. «Zia Gertrude sta andando a cercare aiuto.» «No, non è vero» singhiozzò Beanie. «Sta solo mettendosi in salvo.» «Prendi una pagaia» disse Selina a nessuno in particolare. «Vediamo se serve a qualcosa.» D. J. ed io prendemmo una pagaia e cercammo di tenere ferma la barca, ma il mare era troppo mosso. Continuavamo ad allontanarci. In distanza, vedevamo la testa di Gertrude emergere e immergersi nell'acqua. «Ci sono dei salvagente a bordo?» chiesi io, sforzandomi di mantenere un tono di voce normale. Selina non rispose. Fissava il mare. Sopra di noi il sole splendeva e i gabbiani roteavano tranquilli ma, sotto, l'acqua era un'opaca oscurità. «Quella pinna!» gridai io. «Proprio dietro Gertrude!»
«È un pappagallo marino» disse D. J. «Piantala di agitarti.» Fissò preoccupata Beanie, che aveva smesso di singhiozzare per guardare anche lui. Gli occhi gli si erano fatti enormi. Poi mi accorsi di qualcos'altro: di un bagliore sulla sommità della collina di Scorpion. «Qualcuno ci vede! Guardate! Lassù!» Si voltarono di scatto. Non c'era modo di stabilire da quale delle case ci guardassero col cannocchiale. «Siamo salvi!» Ma qualcosa non andava. Il bagliore era fermo, fisso. Sottovoce, D. J. disse: «Anche se ci vede, non si può certo dire che stia precipitandosi a salvarci.» «Forse ci tiene sotto controllo e ha mandato altri in nostro aiuto.» Continuammo a guardare quella luce fissa. Poi cercammo di vedere se dal molo si staccava qualche barca. Niente. Gertrude si avvicinava all'isola sconosciuta. «Gertrude troverà aiuto» disse Selina. «Vorrei che non avessero mai inventato le barche» disse Beanie in lacrime. Me lo presi in grembo e lo strinsi forte a me mentre D. J. e Selina tentavano di controllare la barca con le pagaie. Non serviva, ma loro proseguivano nella lotta. Attorno a noi i pellicani volavano e si tuffavano in acqua col massimo disinteresse. Mi accorsi che avevo le nocche bianche e cercai di articolare le dita. «Selina!» gridò D. J. «Siamo in balia della corrente. Puntiamo sulla spiaggia.» I singhiozzi di Beanie cessarono. «Attenta agli scogli» gridò Selina e tirò su dall'acqua il motore mentre io e D. J. ci arrampicavamo a prua per tenere la barca distante dalle rocce. Poco dopo balzavo a terra, afferravo la cima e tiravo la barca verso di me. 28 aprile Guardammo Gertrude percorrere a nuoto gli ultimi metri, ed emergere dall'acqua con gli abiti e i capelli grondanti. Il viso di Selina pareva di cera, fisso in una strana espressione. Accarezzava la testa di Beanie, distratta. «Ho fame» disse lui. «Beanie» intervenne D. J. «Stai vivendo una vera avventura. Quanti bambini conosci che, come te, si sono arenati su un'isola deserta?» «Sei sicura che sia proprio deserta?» chiesi io. Mi arrampicai su una roccia per dare un'occhiata all'isola, ma tutto quel che mi riuscì di vedere fu una lunga striscia di sabbia, cespugli e mare. «Niente telefoni, peccato!»
«Sei stupida come una gallina» disse Beanie, non si sapeva se a D. J. o a me. E per una volta Selina non lo rimproverò. «Non è che siamo in mezzo al Pacifico» dissi io. «Insomma, di barche ne passano di continuo. E siamo circondati da altre isole.» «Accidenti» fece Gertrude, scuotendo i capelli e togliendosi gli shorts e la camicia per farli asciugare al sole. «Che nuotata!» E si lasciò cadere sulla sabbia, ansimando. «Almeno tu hai fatto ginnastica per oggi» disse D. J. Mi misi a camminare lungo i cespugli, in cerca di un passaggio: appena lo trovai mi infilai nel bosco. Foglie spinose mi si infilavano nei capelli e rami laceravano i miei abiti. Attraversai la stretta lingua di terra e mi trovai sull'altra sponda dell'isola. La spiaggia era identica a quella su cui eravamo approdati. Salii sugli scogli, aggrappandomi con le mani e, una volta in cima, ebbi la visione completa dell'isola. Era piccola e completamente disabitata. Tornai sui miei passi, e raggiunsi i compagni di sventura da un'altra direzione. I loro occhi si rivolsero a me pieni di speranza. «È proprio deserta.» «Che cosa facciamo, mamma?» «Io direi di accendere un fuoco» disse Gertrude. «Nei libri c'è scritto che si fa così.» Si passò le dita tra i capelli e li spostò su una spalla. «Come possono vedere un fuoco in pieno giorno?» chiese D. J. «E poi chiunque penserebbe che si stia facendo un picnic.» «Un falò è forse l'unica cosa che siamo in grado di fare» dissi io e mi diressi verso la barca. Frugai nella mia borsa e, tra i cosmetici, il portafoglio, il libretto degli assegni e l'agenda, trovai una scatola di fiammiferi. Raccogliemmo dei ramoscelli gettati alla deriva dal mare e, con alcune pagine strappate dalla mia agenda, accendemmo il fuoco. Poi ci mettemmo seduti attorno al falò a guardare quella fiamma quasi invisibile. Di tanto in tanto uno di noi si alzava per aggiungere un altro legnetto. «Strano, vero?» dissi io. «Il proprietario di quel binocolo ancora non si vede.» «Ti odio» disse Beanie. Io lo guardai, ma si rivolgeva a sua madre. «Non mi fai guarire la gamba, ci siamo persi. Sei una scema.» Selina, senza una parola, lo strinse tra le braccia e lui, istintivamente, la baciò sulla guancia. D. J. gli prese una mano. «Vieni con me, Beanie. Andiamo a sederci sotto quell'albero. Faremo un bel gioco.» E lo condusse all'ombra. «È arrivato un bastimento carico di... comincia per P e finisce per I.» «Panini.»
«No, pulcini.» «Io voglio dei panini.» Quasi con lo stesso tono piagnucoloso di Beanie, Gertrude chiese: «Non puoi riparare la barca, Selina? Dovresti capire dov'è il guasto. Sei molto più pratica di noi in fatto di barche, vieni qui da un sacco di tempo, no?» Selina si limitò a guardarla. «Non si dovrebbe mai andare da nessuna parte senza un uomo» continuò Gertrude. «Sono sicura che se ci fosse Algie la saprebbe riparare.» Di colpo, D. J. scattò in piedi e si allontanò dal cespuglio accanto al quale si era seduto Beanie. «Adesso mi ricordo: questo cespuglio deve essere uno di quelli che stilla gocce di veleno quando è umido!» «Dio santo, che bella vacanza!» gemette Gertrude. «Alberi che colano veleno, barche che non funzionano, ragni capaci di mandarti all'altro mondo, pesci che ti divorano...» «Chissà cos'è successo alla barca» dissi io, più a me stessa che agli altri. «Naturale che anche la barca non funzioni, invece!» proseguì Gertrude. «Se solo Algie non fosse tanto attaccato ai suoi soldi potremmo farci una vacanza come si deve. Andare da qualche parte dove ci siano ristoranti e della musica...» «Era già capitato che la barca si fermasse?» insistetti io. «Ossignore, e chi se ne importa?» Tornando a infilarsi gli shorts e la camicia, Gertrude prese dalla barca un mio fazzoletto, se lo legò in testa e si distese al sole con gli occhi chiusi. Passò tutto il pomeriggio. Beanie pianse finché poté, poi si addormentò. D. J., Selina ed io continuammo ad alimentare il fuoco e a scrutare il mare in attesa di soccorsi. Più aumentavano la fame e la sete, meno parlavamo e, quando il sole cominciò a tramontare, ci mettemmo vicine per scaldarci. Era quasi buio quando Algie e Ted, che passavano e ripassavano sulla barca dei Vincent, avvistarono il fuoco. 28 aprile «Ted» disse Selina con una voce priva di espressione «io dico a Phil di Bitteto che vogliamo vendere la casa.» Stavamo attraccando con la barca guasta al traino. Algie balzò a terra mentre D. J. gettava l'ancora. Evidentemente l'argomento era già stato trattato, perché Ted, senza la minima sorpresa, disse: «Non è nostra, e quindi non possiamo venderla.»
«Tuo padre e tua madre ci hanno fatto chiaramente intendere che ce la regalavano.» «Magari i genitori di Algie fossero altrettanto generosi!» disse Gertrude. «La venderei domani.» Non perché volessi evitare una discussione tra Algie e Gertrude, ma perché seguo sempre una sola linea di pensiero, dissi: «Algie, hai visto Phil oggi?» «Forse se avessero una nuora diversa... come? Oh, Phil. È stato occupato tutto il giorno con degli operai.» «Occupato in che senso?» chiese D. J. «Da come lo dici sembrerebbe che faccia affari con loro.» «Visto come distorce le cose a suo favore, non è escluso. E quindi non hai comprato niente, Gertrude. E questo significa che per cena in casa non c'è una briciola...» «Venite da noi» dissi io. «Patty sarà felicissima. Ti ho chiesto di Phil perché stamattina qualcuno ha seguito col binocolo le nostre peripezie eppure non ci è venuto in aiuto.» Legando la barca, Algie disse: «Ne sei sicura?» «Sì, abbiamo visto il bagliore delle lenti di un cannocchiale.» Ci ammassammo tutti sulla jeep dei McKnown e iniziammo a salire la collina. Non avevo certo la forza di camminare. Mentre guardavo il precipizio sotto di noi, mi chiedevo che cosa potesse capitare se una macchina si guastava. Ted guidava svagato: grattava ogni volta che cambiava marcia e aveva gli occhi vacui e la mente altrove. «E così neanche oggi Beanie è stato dal medico» disse Ted con la stessa voce con cui Algie aveva detto "E quindi non hai comprato niente, Gertrude". Nessuno rispose. Arrivati all'incrocio in cui dovevamo scendere sia io sia D. J., dissi a Selina: «Pensi che Phil ti lascerà portare Beanie dal medico quando gli offrirete la vostra casa per niente?» Non avevo idea di come mi fossero uscite di bocca quelle parole, e nemmeno mi spiegavo l'amarezza con cui le avevo pronunciate. Probabilmente la colpa era della fame e della stanchezza. «Speriamo» disse calma Selina. «Ricordatevi... Algie... Gertrude. Vi aspettiamo per cena. Vi daremo anche dei viveri, in modo che possiate tirare avanti.» «Se tu non fossi maledettamente disorganizzata, Gertrude...» «Che cosa posso farci io se la barca dei McKnown non andava?»
«Nessuno resterebbe senza niente in casa come te...» Ted innestò la marcia e la jeep schizzò su per la collina in una nuvola di polvere. Rimasi a guardarla finché non scomparve dalla vista. Chissà perché. Forse avevo paura che slittasse giù dalla montagna. «Ho una strana sensazione» dissi a D. J. mentre ci incamminavamo «che non solo Selina non andrà in città domani, ma nessuno di noi riuscirà mai più ad andarci. Mai più.» D. J. non mi fece la domanda che mi aspettavo, e invece disse: «Vorrei proprio sapere che cosa è successo alla barca...» Seguendo il corso dei miei pensieri, continuai: «Altro che andato via dall'isola, Robert Elwyn!» Questa volta D. J. chiese quel che era logico chiedere: «Cosa intendi dire?» «Per me Robert Elwyn è stato ucciso qui a Scorpion, hanno bruciato il suo cadavere e poi hanno messo in giro la voce che aveva abbandonato sua moglie.» «E perché?» «O perché non voleva vendere la sua casa, o perché aveva scoperto qualcosa.» Arrancammo su per il sentiero, scostandoci invano dal viso il nugolo di insetti ronzanti che ci perseguitava. Arrivati al secondo incrocio, D. J. mi salutò con la mano e io proseguii da sola. Mentre mi avvicinavo alla casa sentivo i miei nonni chiacchierare tra loro, un dialogo pigro e intermittente inframmezzato da un acciottolio di posate e piatti. Le voci familiari e quei rumori che per me significavano l'approssimarsi di una cena mi calmarono. Entrai in cucina. Patricia si voltò e si asciugò le mani in un canovaccio. «Ti sei divertita in città? Avresti dovuto dirci che cenavi fuori. Non sapevamo se aspettarti.» Nicholas alzò gli occhi da un fascio di progetti sparsi sul tavolo. «Che cosa ha detto il medico della gamba di Beanie?» Per un attimo non mi riuscì di rispondere. Mi avvicinai all'acquaio e bevvi d'un fiato due bicchieri d'acqua, sotto gli occhi sorpresi di Patricia. «Vuoi vedere il progetto per ingrandire la casa?» continuò Nicholas. «Volete ampliarla?» «Sì, per poter ospitare i nostri pronipoti.» «Non farei conto su dei pronipoti prima ancora che siano concepiti.» Nicholas appoggiò i disegni e mi guardò da sopra gli occhiali. «Come
mai una bella ragazza come te non si è ancora sposata?» «A questa domanda potrei rispondere con quarantasei risposte standard.» Aprii il frigorifero e cominciai a divorare un pezzo di pane. «La numero trentatré è la seguente: "Ho promesso a mia madre che non mi sarei sposata prima di lei".» Alle mie parole seguì il silenzio. Poi Patricia disse: «Hai ancora fame? Ma hai mangiato in città, vero?» «No, non ho mangiato in città, e neppure i Vincent, e siccome non hanno più niente in casa, tra qualche minuto saranno qui per cenare. Spero non ti dispiaccia.» «I Vincent stanno venendo a cena!» Patricia non avrebbe potuto sembrare più scioccata se le avessi detto che intendevo partire il giorno dopo, cosa che però aggiunsi subito. Le strida di un gabbiano coprirono le parole di Nicholas ma non il tonfo sul pavimento delle gambe anteriori della sua sedia. «Perché vuoi tornare a casa domani?» «Se non riesco a convincere Patty ad andarsene da qui prima della festa di Beltane, voglio almeno evitare di assistere agli eventi.» «Ma Holly, tesoro» disse Patricia «perché hai invitato a cena i Vincent se già devono venire domani sera? Non abbiamo niente da dargli da mangiare...» «Holly, perché vuoi tornare a casa, Cristo?» «E non venirmi a dire che sono pazza. Comunque, solo i pazzi si salvano a questo mondo.» Cominciai ad apparecchiare la tavola. «Salvarsi da cosa?» «Da qualunque cosa li minacci.» Tolsi dal frigorifero del pollo avanzato, dell'insalata e del pane. Poi cercai nella dispensa delle lattine di minestra. «Holly, ricordi come piangevi l'ultima volta che sei partita da Scorpion?» disse Nicholas e, contemporaneamente, Patricia gemette: «Holly, tesoro, se usi tutto stasera non ci rimarrà niente per domani. Non è che io non voglia dividere quel che abbiamo coi Vincent, ma non conosci Gertrude. Quella non fa mai niente per nessuno... perché non ha fatto la spesa al supermarket?» Presi il rum e il miscelatore. Dissi a Nicholas: «Lo so, lo so. Un tempo amavo Scorpion. Ma qui è successo qualcosa. Quest'isola è marcia... in decomposizione. Mi pare quasi che, se la prendessi a calci, andrebbe in pezzi. Patty, non siamo arrivati in città. La barca si è rotta. Abbiamo passato il pomeriggio seduti su una spiaggia deserta in attesa di essere tratti in salvo.
Alla fine Algie e Ted ci hanno trovati.» «Oh, cara, che cosa tremenda! Certo, certo, daremo da mangiare ai Vincent. Quella povera Lisa. Probabilmente è tutto il giorno che non mangia. Farò un budino per dessert, tu taglia del salame da servire con l'aperitivo...» Nicholas mise via i progetti e tolse il walkie-talkie dalla scatola. «Che cosa è successo alla barca? Forse qualcuno lo sa...» Estrasse l'antenna, premette il bottone e rimase ad ascoltare il gracidio dell'apparecchio. Decifrare le parole non era impresa facile. Abbracciai mia nonna. «Sei un tesoro. Ma al posto tuo non amplierei la casa. Perlomeno non per i miei figli. Anche ammettendo che io mi sposi, cosa che per il momento è decisamente improbabile, e anche ammettendo che io abbia dei figli, cosa altrettanto improbabile, non intendo portarli a Scorpion.» La mia affermazione era stata talmente categorica che mi accingevo a trovare un modo per raddolcirla, ma entrò Gertrude. «Salve!» Algie e Lisa la seguivano. «Speriamo di non esservi troppo di disturbo...» cominciò Algie, ma Patricia lo fermò subito. «Figuriamoci! Non una parola in più. Siamo felicissimi di avervi con noi. C'è del pollo avanzato e stavo giusto per preparare un budino per Lisa. Nicholas, vuoi offrire da bere, per cortesia? Holly ci stava raccontando l'accaduto. Dovete essere proprio...» Le morirono le parole in bocca. Dal walkie-talkie arrivava uno strano sibilo, così lontano da sembrare di un altro mondo, come se passasse oltre la barriera del tempo e dello spazio. «Holly...» mi irrigidii sentendo quel mormorio sibilante. «Holly, torna a casa. Torna a casa. Torna a casa...» Ripeté quelle parole per una trentina di secondi, e noi rimanemmo ad ascoltare, raggelati. Poi si udì un clic e calò il silenzio. 29 aprile Ted, con in mano una ciotola di insalata e una brocca, fu il primo ad arrivare. «Ho degli ordini ben precisi da eseguire: primo: dare l'insalata a Patty, secondo: rendermi utile, terzo: non cominciare subito a mangiare.» Posò l'insalata sul tavolo. «E quindi non offritemi niente. Perché, se mi offrite qualcosa, sarebbe scortese da parte mia rifiutare.» Nicholas gli porse delle tartine di salame. «Rum?» «Hai violato l'ordine numero tre» disse Patricia «e quindi cerca almeno
di non trasgredire agli altri due. Puoi cominciare andandomi a cogliere dei fiori per il centrotavola.» Mentre usciva, Ted andò a sbattere contro D. J. che arrivava con una torta di mele. La posò con cautela sulla credenza e si mise ad aiutare Nicholas a spuntare gli stoppini delle lanterne e a riempirle di cherosene. Ted tornò con le braccia piene di fiori d'ibisco e di oleandro. «Oddio» gemette Patricia «mi hai distrutto il giardino. Pazienza. Dalli a Holly: lei coi fiori è legata a doppio filo.» «Sì, siamo della stessa razza, e abbiamo anche delle affinità elettive.» Stavo ammirando il mio capolavoro quando arrivarono Algie, Gertrude e Lisa. Gertrude, più che vestita, sembrava dipinta di chiffon verde, e somigliava più che mai a una ninfa dei boschi. Gaia come un fringuello, disse a Patricia: «Non mi sono ricordata di fare il pane che ti avevo promesso. Tanto, non abbiamo più farina.» «Non preoccuparti, cara. Che cosa dicevi a proposito delle affinità elettive?» Gli occhi di Algie e i miei si incontrarono, per staccarsi di botto come se avessero toccato una piastra bollente. Nella luce tremolante, sembravamo dei militari in divisa: le donne più giovani in abito lungo, gli uomini più giovani in magliette e pantaloni sportivi e le due persone anziane in lindi abiti stile nautico; la bambina con un abitino che le andava stretto da morire sopra il pigiama. Le lanterne proiettavano mobili ombre sulla terrazza e il vento, ogni tanto, si abbatteva sulle fiammelle. Le nostre facce sembravano alternativamente maschere bianche e cavità oscure: pareva lo scenario voluto da un regista folle. «Siete stati dal medico oggi?» chiese Nicholas. Ingollando un sorso di rum, Ted gli rispose: «Mare troppo grosso.» Notai che D. J. non mangiava. «Una volta» dissi «ho letto qualcosa a proposito dei digiuni che fanno le streghe. In altre parole, quando le streghe hanno in ballo i loro incantesimi non possono né mangiare né bere.» Per un'improvvisa folata di vento il viso di D. J. si illuminò. Non pareva lei, ma una sua maschera scolpita che sorrideva fissa e innaturale. «Che cosa era successo alla barca?» Arrivarono Selina e Beanie e Nicholas offrì del succo di frutta ai bambini e ponce al rum agli adulti. «Oggi le mettiamo negli ospizi» stava dicendo D. J. a Ted. La sua voce frusciava, come le foglie secche sulla superficie di uno stagno. «Ma a quei tempi, quando una donna diventava vecchia e inutile la portavano nella fo-
resta. E lì lei si trovava una grotta o una capanna abbandonata e per sopravvivere doveva imparare le leggi della natura. Si nutriva di radici, erbe, bacche...» «Stai parlando di ospizi?» chiese Patricia. «Ho appena letto un libro tremendo... come si intitola, Nicholas?» «No, stiamo parlando di streghe» disse imperturbabile D. J. «Non l'hai proprio letto, Patty» commentò ridendo Nicholas. «Ne hai sentito parlare da me...» «...e siccome quella donna era sola, finiva per prendere con sé qualche animaletto come un rospo o un gatto. La gente che passava dalle sue parti la sentiva parlare con lui e allora mettevano in giro la voce che comunicava con gli spiriti del male. Man mano che passava il tempo lei, per reggersi, aveva bisogno di un bastone. E così ne è uscita la classica immagine della brutta...» «Vorrei tante che tu non continuassi a darmi contro, Nicholas. Ho letto quel libro, lo sai benissimo... aspettate, deve avermelo prestato Ellie Elwyn...» «Patty» feci io, decisa. «Hai mai invitato Ellie Elwyn qui a Scorpion dopo la scomparsa di suo marito? Cioè... insomma... hai il suo indirizzo...» «Oh, cara, so benissimo che non accetterebbe mai. Sarei felicissima di averla qui in qualsiasi momento, ma prova un vero orrore per Scorpion da quando Robert se ne è andato...» «L'ho io, il suo indirizzo» disse Selina. Si alzò per far girare le tartine. «Per dire la verità, comincia a superare la crisi. Ha detto che verrà a trovarci la prossima volta che torneremo a Scorpion... se ci sarà una prossima volta. Perché vuoi il suo indirizzo, Holly?» Mi alzai e cominciai a riempire i piatti per Lisa e Beanie. «Be'... io... è difficile spiegare...» «E quindi, se nel villaggio capitava qualche disgrazia» disse D. J. a Ted a voce bassa «che so, se il raccolto andava male, se moriva un bambino o qualcuno si ammalava, davano la colpa alla vecchia della foresta.» «Una disgrazia come la mia gamba?» chiese Beanie. D. J. si interruppe e lo guardò, e io rimasi coi piatti sospesi a mezz'aria. Con garbo Patricia me li tolse di mano e stese una tovaglia per i bambini. «Qui, miei cari. Se volete qualcosa, non avete che da chiedere. Ma tenetevi un posticino per il mio favoloso budino.» «È stata una strega a farmi male alla gamba?» chiese Beanie. «Beanie» intervenne Selina. «D. J. sta cercando di spiegare che alle stre-
ghe sono state attribuite delle colpe che non avevano, capisci?» «La signora Eban è una strega?» Patricia, china davanti al forno a guardare il suo budino, si alzò svelta. «Le streghe guardano sempre nel forno» continuò Beanie. «Come in quella figura nel libro di favole.» Patricia si lasciò cadere in ginocchio accanto a Beanie. «Beanie, angelo mio, pensi davvero che potrei farti del male?» Lo prese tra le braccia, ma lui si divincolò. «Se tu fossi una strega, sì che me ne faresti.» «Ma come puoi pensare una cosa simile di me?» «L'ha detto quella gente.» Gertrude si versò il terzo ponce e chiese: «Dov'è Phil?» «Se senti tanto la sua mancanza, perché non vai a cercarlo?» disse Algie. Sprofondato nel divano con le gambe allungate davanti a sé, aveva gli occhi velati e stanchi. Era ancora al primo drink. Accorgendoci solo allora dell'assenza di Phil ci guardammo perplessi. «Io l'ho invitato» disse Patricia. «Perché?» chiese Algie. «Perché? Sarebbe stato scortese non farlo.» Selina riempì un piatto di pesce stufato e insalata e lo porse a Ted. «Magari pensa di non essere gradito.» «Quest'idea non l'ha mai fermato, prima. Grazie, cara.» «A uno di noi è gradito di certo» specificò Algie. «Gertie, hai notato come sono sollecite col proprio marito certe mogli?» «Ci sono anche dei mariti solleciti con le proprie mogli» ribatté ridendo Gertrude. «Ma non preoccuparti. Per il momento non ho fame.» «Per forza, sei troppo occupata a bere. Comunque, Gertie, qual è stato il tuo contributo a questa cena? D. J. ha portato una torta, e Selina l'insalata...» «Va tutto benissimo, miei cari» disse Patricia. «Ognuno dà quello che ha e noi, finché avremo delle provviste, le divideremo coi nostri amici...» «... la spogliavano in pubblico» continuò D. J. salottiera. «Di solito sulla piazza del paese, a mezzogiorno, alla presenza di tutti gli abitanti. E le cercavano sul corpo il marchio della strega. Andava bene qualunque cosa: una verruca, una vescica...» «D. J.» la rimproverò Selina «non mi pare l'argomento più adatto da trattare in presenza dei bambini.» «A proposito» dissi io «a proposito di bambini, intendo. Uno dei due ha
giocato col walkie-talkie ieri sera?» Lisa e Beanie non si accorsero che parlavo di loro, ma Selina disse: «Perché? Che è successo?» Mi scostai dalla fronte qualcosa di invisibile. «Oh... una voce lugubre mi ha detto di andarmene dall'isola.» «Beanie non può essere stato. Teniamo il walkie-talkie sullo scaffale più alto dell'armadio.» «Il nostro è sopra il frigorifero» disse Gertrude. «Secondo me dovremmo andare a cercare Phil.» Algie si mosse di scatto e, col gomito, urtò un bicchiere pieno di rum che cadde frantumandosi sul tappeto. Lui si chinò e cominciò a pulirlo con le mani. «Che nessuno cammini scalzo. Visto che sei tanto preoccupata, Gertrude, perché non ci vai da sola?» Parve accorgersi solo in quell'istante dell'abbigliamento di Lisa. «E perché non ti decidi a vestire quella bambina come un essere umano?» «Nel primo processo di Chlemsford, il ventisei luglio millecinquecento e sessantasei» proseguì D. J. «le imputate furono Agnes Waterhouse e sua figlia Joan, e in quell'occasione si stabilirono certi precedenti. Il più importante fu che l'accusatore accettò la non comprovata deposizione di alcuni bambini e condannò a una morte orribile molti vecchi.» «Accidenti, guardiamoci dai bambini» disse Algie. Come sempre, il suo umore oscillava come un pendolo. Mi appoggiai alla ringhiera, seguendo con gli occhi le luci di una nave che passava e il riflesso della luna sul mare. Mentre fantasticavo e mi vedevo con Algie in luna di miele su una nave come quella, alle mie spalle la conversazione si accendeva e languiva, come la fiamma delle lanterne. «Non hai fame?» Algie mi era venuto vicino, ma io non mi voltai. Sentivo il calore del suo braccio contro il mio. «No, per il momento. Hai trovato il guasto alla barca dei McKnown?» «Si è rotta la spina di sicurezza.» «Che cos'è una spina di sicurezza? E se solo fai un accenno alla stupidità della povera Holly ti mollo un pugno.» Gertrude balzò in piedi. «Non so voi, ma io sono preoccupata per Phil. Non è mai mancato a una cena. Vado a cercarlo. Posso prendere una torcia elettrica, signora Eban?» Nessuno cercò di fermarla e nessuno si offrì di accompagnarla. «La spina è un dispositivo di sicurezza» stava dicendo Algie. «Se si allenta anche di pochissimo, quando inverti la marcia si trancia e salva l'al-
bero dell'elica.» «L'hai riparata?» «No. Non c'è stato niente da fare, Ted l'ha dovuta sostituire.» «Come ha fatto a rompersi?» Si piegò verso di me. I suoi occhi erano così vicini, così vicini che mi accecavano. Dietro di noi, la voce di D. J. si mescolava al frangersi delle onde in lontananza. «... perlomeno non era legale... nel millecinquecentosettantanove Elizabeth Stile accusò altre donne di stregoneria... torturate finché non confessarono e poi bruciate sul rogo... la Samuel, con suo marito e sua figlia...» «Mi fa venire mal di testa» protestò Beanie. «Io scappo» disse Lisa. «Vai.» «Non voglio. Da sola ho paura.» «L'hai detto tu» «Quando?» Rivolto a me, Algie disse: «Probabilmente avete urtato un banco di coralli.» «Credi che Selina potrà portare Beanie dal medico domani?» «E perché non dovrebbe?» «Per la stessa ragione per cui non l'ha portato ieri.» Sotto di noi i cespugli si mossero, lasciando filtrare un fascio di luce. Aspettammo che Gertrude comparisse. Vedendoci affacciati alla ringhiera, disse: «Phil non è in casa, e la sua barca è ancorata al molo.» La voce di D. J. si spense. Sulla terrazza calò il silenzio: unico rumore quello delle tazzine da caffè smosse. Poi io, serena, dissi: «Forse gli è successo qualcosa. Così domani si potrà far curare la gamba di Beanie.» 30 aprile La barca di Phil ondeggiava tranquilla all'ormeggio. La esaminammo come se sperassimo di ottenere da lei una risposta alla domanda che non avevamo formulato. «Vorrei che tu venissi con me» disse Selina a Ted. «Ho troppo da fare, credimi.» «Sei sicuro che la barca sia in ordine?» «Te l'ho già detto: l'ho passata in rassegna da cima a fondo stamattina presto.»
E Selina, guardando il molo e le colline circostanti: «Non vedo Phil» disse. «Forse questa volta ce la faremo. A meno che non sia acquattato in una grotta con un fucile carico.» Beanie si mise a piangere. «Per uccidere un bambino!» Ted lo prese in braccio, mentre Lisa, scesa da sola dalla montagna, lo guardava con occhi solenni. «Se ti dovesse torcere un solo capello» lo rassicurò Ted «io lo ucciderei all'istante.» «Vedi di ucciderlo un istante prima» disse Selina. «Strano, no, che nessuno abbia visto Phil da... da quando?» Scrutava la lunga striscia di spiaggia sotto il sole a picco come se si aspettasse di non rivederlo mai più. «Io l'ho visto, fatemi pensare...» e mi interruppi per collegare le idee. Sì, quando gettava quel sacco in mare, quella era stata l'ultima volta. «Mi pare l'altro ieri. No, il giorno prima.» «Forse dovremmo andarlo a cercare» disse Ted senza il minimo entusiasmo. «Magari si è fatto male oppure, che so, gli è venuto un crampo nuotando...» Selina non lo ascoltava. «Una volta questo posto era così piacevole» disse con aria sognante. «Ti ricordi come ci divertivamo? Ma ultimamente, è diventato proprio...» «Strano?» suggerii io. «Precisamente. Riesci sempre a trovare il termine giusto tu, Holly.» Selina slegò la cima dal pontile e salì a bordo con Beanie. Mentre tirava la corda d'avviamento del motore, disse: «L'ultima volta che una donna ha lasciato solo suo marito sull'isola di Scorpion, lui è sparito. Vorrei che ci legassimo tutti e tre a doppio filo fino al momento in cui torneremo a casa.» «Mi dà l'aria che staremmo scomodi» disse Ted. «Come mai Beanie è così rosso in viso?» Col motore già avviato, Selina si piegò su suo figlio. «Dio mio, non lo so. Per il sole, spero. È bollente.» «Be', state andando dal medico; a che ora sarai di ritorno?» «Devo comprare della roba al supermarket. Nel tardo pomeriggio.» Ted, Lisa ed io rimanemmo a guardare la barca che si allontanava scoppiettando sull'acqua increspata. Poi io domandai: «Capita, a Scorpion, di perdere di vista qualcuno per due o tre giorni?» «Che cosa?» «Credi che sia accaduto qualcosa a Phil? Insomma... anche mio padre non lo si vede, ma lui si nasconde di proposito.»
«Se Phil non compare entro stasera, chiederò ad Algie e a tuo nonno di accompagnarmi a cercarlo. Ciao, Holly.» Mentre Ted si avviava su per la collina, Lisa mi disse: «Che strana faccia hai.» La figura di Ted brillava tremula nella calura, perdeva consistenza e, per un attimo, mi parve diventasse trasparente. Prendendo Lisa per mano mi avviai verso casa. «Dove sono mamma e papà?» «La mamma dorme e papà è andato a prendere degli alberi da piantare in giardino. Dici che Beanie migliorerà?» «Ma certo!» Grappoli di nubi pendevano dal cielo come se stessero per staccarsi da un momento all'altro e cadere in mare. L'aria era umida e non spirava un alito di vento: le due strisce di strada asfaltata mi ipnotizzavano con le loro curve su per la montagna. Il ronzio degli insetti faceva da accompagnamento al canto dei tordi americani. Arrivata al sentiero che portava alla casa di Phil di Bitteto mi fermai. Poi, decisa anche se a malincuore a scoprire dove fosse finito, mi avviai verso la casa. Immersa in una roccaforte di Coccoloba Uvifera, poinsezia e pini australiani, la casa si ergeva silenziosa e pareva disabitata da anni. Posta sul versante della collina, era un blocco enorme di vetri e stucco. Al di là del sontuoso patio centrale si vedeva il mare grigiazzurro. Seguita da Lisa che non mostrava il minimo segno di curiosità, percorsi il sentiero e bussai all'imponente portone in legno intagliato a mano. Nessuno rispose. Quel portone non aveva senso: una barriera impenetrabile non serve se è circondata da finestre che come niente si possono mandare in frantumi. Comunque, non era chiuso a chiave. Avanzando passo passo sul lucido pavimento mi trovai a vivere un sogno fatto vent'anni prima. Ne avevo sette quando avevo sognato un castello che si ergeva sulle nuvole, immenso, avvolto in un chiarore da abisso marino. Quel mondo di cielo infinito, mare senza fondo e alberi di un verde mai visto era immerso in una luce irreale. E una meraviglia simile apparteneva al sovrintendente di un isola? Pian piano i particolari andavano perdendo il loro aspetto etereo e acquistavano concretezza. Un divano color madreperla, paesaggi marini che macchiavano di colore le pareti, una scultura contorta e affusolata come una verga.
Fissavo l'ambiente, ipnotizzata, e contemporaneamente avvertivo del l'altro: un senso di provvisorietà. Non c'erano né libri né rotocalchi, niente che provasse che chi abitava la casa aveva qualche interesse. E, per giunta, mancavano sia una scrivania sia uno schedario: un particolare importante, quello, dato che Phil, col lavoro che faceva, doveva pur tenere da qualche parte le ricevute e i promemoria. Invece pareva la copia dell'ingresso ai Campi Elisi. Oppure era il tempio del guardiano di un castello, in attesa che il vero proprietario ne rivendicasse l'appartenenza? «Quanti anni hai, Holly?» Mi voltai sorpresa. Mi ero dimenticata di Lisa. «Ventisette.» «La mia mamma ventisei.» «Lo so.» «Sta per lasciare il mio papà.» Un minuscolo granchio terrestre le passò sui piedi, e lei si lanciò all'inseguimento. All'improvviso l'aria si riempì di rumori d'animali: insetti, lucertole, uccelli. «Holly, Dio è nato tanto tempo fa?» Era una domanda che si adattava perfettamente al mio stato d'animo. «Sì.» Tre delle bianche stanze da letto erano vuote, nella quarta invece aveva abitato qualcuno. Sparsi sul pallido copriletto c'erano un paio di mutande, dei calzini nuovi a scacchi e una maglietta verde col collo alto. Sul pavimento, davanti al letto, un paio di sandali lucidi. Ma dov'era il loro proprietario? E quando aveva messo la sua roba sul letto? Rabbrividii. Mentre insistevo a fissare gli indumenti sentii una voce d'uomo alle mie spalle chiedermi: «Cercate il signor Bitteto?» Mi sfuggì un singhiozzo. Voltandomi di scatto mi trovai davanti un operaio che non avevo mai visto. «Sì. Sapete dove sia?» L'uomo scosse la testa. «Ha detto che aveva del lavoro per me oggi. Ho guardato. Non c'è da nessuna parte.» «Non c'è da nessuna parte» ripetei a me stessa. Poi, temendo che pensasse che gli stavo facendo il verso, mi affrettai ad aggiungere: «Se vedete il signor Bitteto, volete essere tanto gentile da dirgli che... che i suoi amici sono in pensiero per lui?» Afferrai la mano di Lisa e me ne andai svelta. La strada saliva ripida, cominciai a sudare. Morivo dalla voglia di voltarmi, ma non lo feci. Lisa, al mio fianco, teneva il passo senza lamentarsi. Al bivio che portava a casa
sua le dissi: «Forse la mamma è in pensiero. È meglio che vada a farti vedere.» «Tu, dopo, vai a fare il bagno?» «Sì.» «Posso venire con te?» «Certo.» Rimasi a guardarla salire su per la strada. Si voltò e mi gridò: «Ventisette anni non sono tanti. Hai ancora un sacco di tempo da vivere.» I miei nonni non c'erano. La casa mi fece l'effetto di una doccia fredda: ferma in mezzo al soggiorno consideravo quanto sembrasse piccola e miserabile in confronto al Walhalla da cui provenivo. Poi mi misi a lavare i piatti della prima colazione, rifeci i letti e pulii i pavimenti. Mi cadde l'occhio sul binocolo, uscii in terrazza e guardai la Baia di Sabbat. Di Algie nessuna traccia. Nel mio inquieto vagare passai in rassegna i numerosi libri che avevo visto aperti in mano a Patricia e che ero convinta non avesse mai letto: libri di psicologia, arte, poesia. Poi aprii il frigorifero: c'era della senape, della maionese e una bottiglia di Ketchup, niente frutta né verdura né carne, solo due uova. Non volendo dar fondo a quel poco, chiusi il frigorifero e cercai sugli scaffali della dispensa. Mi scaldai del passato di verdura in scatola, lo bevvi e, con una gran fame in corpo, mi infilai il costume da bagno. Augurandomi che i miei nonni fossero andati a far la spesa in città, frugai nel cassettone alla ricerca della lozione solare e del mio libro. Sentii qualcosa arrampicarmisi strisciando su un braccio: lo scossi di dosso con tutta la forza che avevo, disgustata. I raggi del sole che filtravano dalle fessure delle imposte illuminarono quel che c'era nascosto nel mio cassetto: un ragno nero con un cerchio rosso sul dorso. Improvvisamente ricordai che i dieci giorni di tempo concessi a Patricia erano giunti al termine. «O te ne vai o morirai» aveva detto la donna. Era il 30 aprile, la festa di Beltane. 30 aprile «Non avevo mai trovato in casa una vedova nera.» D. J., che avevo letteralmente tirato giù dal letto, si stiracchiò, sbadigliò e, in camicia da notte, andò in cucina. «Nemmeno io.» «E allora che cosa ci faceva oggi quella bestiaccia nel mio cassettone?» domandai.
D. J. preparò due tazze di caffè solubile e sedette al tavolo. «Forse è una mossa che rientra nella solita guerra di logoramento.» «Ma Phil è scomparso. Non può essere stato lui a mettercela.» «Non è che lui sia scomparso. Siamo noi che non riusciamo a trovarlo, è diverso.» «Dove può essere? Forse dovremmo chiamare la polizia. A proposito: oggi ricorre quella maledetta festa delle streghe. Mi auguro che Nicholas tenga d'occhio Patty.» D. J. mi guardò con maggior attenzione. «Che cos'hai? Sei nervosa come un gatto.» «A proposito anche di questo, mi piacerebbe proprio sapere chi ha ammazzato il mio gattino. Certo che sono nervosa: vedove nere, gatti strangolati, indigene che minacciano di morte il prossimo, sovrintendenti che scompaiono...» «Non pensavo che Phil ti interessasse tanto.» «Come no! Sono pazza di lui. Hai niente da mangiare? Crepo di fame.» «Sono quasi a zero di tutto. Ho dato a Selina una lista di viveri da comprarmi.» Frugammo dappertutto ma l'unica cosa che ci riuscì di trovare fu un pane raffermo che infilammo nel forno a tostare e poi mangiammo bevendo il caffè. «La situazione sta diventando allarmante» proseguii. «O il mare è troppo mosso o si guastano le barche. E se restiamo senza viveri che cosa sarà di noi?» «Dovremo ingegnarci. Come Robinson Crusoe.» «Nessuno ha una pistola? Potremmo sparare alle capre. D. J., perché non fai un incantesimo o qualcosa del genere per scoprire dov'è finito Phil di Bitteto?» Il viso di D. J. era tranquillo come uno stagno in una foresta, ma ebbi l'impressione che, sotto la superficie, qualcosa si agitasse. «Stupefacente, vero, come quelli che non credono alla stregoneria nei momenti di bisogno invece ci credano in pieno?» «Non direi che sia il mio caso...» «Se i suoni e le immagini possono essere trasmessi per migliaia di chilometri, perché non potrebbero esserlo anche i pensieri?» «Tu sì che sei pazza di lui.» Mi versai nella tazza un altro cucchiaino di caffè solubile, vi aggiunsi dell'acqua bollente e tornai al tavolo. «So che mi darai della matta, D. J. Ma tu, di natura, sei talmente svitata che solo a te mi sento di dire quel che
ho in mente.» «Be', credo non mi resti che prenderlo come un complimento.» «Secondo me Phil ricatta qualcuno.» Anche D. J., a quel punto, decise di bere un'altra tazza di caffè. «Eccitantissimo. Racconta.» «Ho sentito Phil fare delle velate minacce a una persona che abita sull'isola...» «A chi?» «Non ho visto. Erano nel bosco e il suo interlocutore parlava a voce bassissima.» «Prosegui.» «Be', sai bene che cosa capita sovente ai ricattatori. Finiscono male.» «Sembri molto ferrata sul tema. Vuoi forse dire che Phil è morto? Assassinato?» Parlava spigliata e serena. «Mi è venuto questo pensiero, non lo nego.» «Cosa hai sentito di preciso?» «Diceva che gli toccava fare quel lurido lavoro con in cambio solo il venti per cento, poi ha aggiunto che sapeva dove era sepolta la "cara salma".» Mi guardava fissa. «E tu non hai fatto niente? Non l'hai raccontato a nessuno?» «Chiunque, eccetto te, avrebbe trovato una spiegazione plausibile per quel "lurido lavoro": è una frase di uso corrente. E quanto alla "cara salma", presa per un certo verso può sembrare una battuta.» «A me non lo sembra affatto. Bene, e la tua opinione qual è? Che cosa credi che ci sia sotto?» Andai di nuovo a perlustrare il frigorifero, ma tutto quel che trovai furono dei ravanelli mezzi marci. «Ho del tonno in scatola» disse D. J. «Tienilo in serbo. Potresti averne bisogno per cena. Ci ho pensato e ripensato. A meno che non mi stia dando di volta il cervello, sono arrivata alla seguente conclusione: qualcuno che ha degli interessi su quest'isola ha deciso di arricchirsi e, per riuscirci, ha escogitato e messo in atto un suo piano, che consiste nel logorare i nervi della gente che qui possiede una casa, in modo che, uno dopo l'altro, decidano di andarsene. Questa persona, indifferentemente uomo o donna, è già riuscita a far sloggiare tre o quattro famiglie, e sta per riuscirci anche con Selina e Ted...» «Una persona? Ma non eravamo sicure che si trattasse di Phil?»
«Aspetta un minuto. Mettiamo che, al momento, sull'isola ci siano dieci case...» «Dodici.» «Dodici, va bene. Per costruire una casa di questo tipo approssimativamente ci vogliono cinquantamila dollari: ma se il materiale deve arrivare tutto da fuori e la mano d'opera non è specializzata, quanto viene a costare...?» «Di più.» «Benissimo. Allora: questa persona mette i proprietari delle case già costruite nella necessità di svenderle, apporta ad ognuna delle migliorie e poi, aggiungici l'inflazione, le rivende con un enorme margine di guadagno. Anche se ricavasse da ogni casa solo venticinquemila dollari... e potrebbe essere di più... si troverebbe in tasca duecentocinquantamila dollari.» «Trecentomila» mi corresse D. J. «Sì. Be', l'aritmetica non è mai stata il mio forte. Comunque, siccome questa persona non vive fissa sull'isola, che cosa fa? Si trova qualcuno che curi i suoi interessi, un poco di buono come Phil di Bitteto, e si fa aiutare... a sabotare le barche, a far tardare le consegne del materiale da costruzione e a scassare le jeep.» «Perché escludi che Phil faccia tutto questo da solo?» «Perché io so che lavora per qualcun altro. Il suo discorso sul venti per cento soltanto che gli toccava... te l'ho appena riferito, no? Evidentemente il cervello di quest'impresa disponeva di fondi sufficienti a comprare le case messe in vendita e, intanto, è rimasto nell'ombra e ha lasciato ricadere tutta la colpa su Phil di Bitteto.» «Fila. Fila tutto a meraviglia. Com'è che non è venuta a me un'idea del genere?» «Oh, tu non avevi il capitale necessario.» «Sì, certo, dev'essere per questo.» «Poi passa il tempo e Phil diventa collerico. Comincia a dire che è lui che fa "il lurido lavoro" e non ne ricava abbastanza e, per di più, sa dov'è sepolta la "cara salma".» «La salma di chi?» «Di Robert Elwyn.» Rimase tranquilla un istante, poi scoppiò in una risata stridula. «Sei fantastica, Holly. Proprio fantastica.» «In un modo o nell'altro» continuai con calma «Robert Elwyn deve aver
scoperto chi era il cervello dell'impresa... potrebbe averli sorpresi a colloquio o aver visto dei documenti... e così l'hanno tolto di mezzo...» «E quello che Gertrude ha trovato sulla spiaggia era un osso suo?» «Precisamente.» «Non ti pare un po' eccessivo arrivare all'omicidio? In teoria, nessuno dei proprietari di case di Scorpion è stato costretto a venderle, e niente prova che le avarie delle barche o i ritardi del materiale da costruzione siano stati dolosi, no?» «Questo punto ancora non l'ho preso in esame» ammisi. «Comunque, qualcosa di illecito deve esserci per forza. Quindi Robert Elwyn era stato assassinato, e siccome Phil aveva minacciato di parlare, andava ammazzato anche lui.» «Allora non sarebbe stato Phil a uccidere Robert Elwyn, ma la misteriosa figura dietro le quinte?» «Appunto.» «Ascoltami, Holly: stasera, Phil ci comparirà davanti vivo e vegeto, e sai le risate che mi farò sulle tue congetture!» «Non sai ancora che cosa ho trovato a casa di Phil.» Stava per alzarsi, ma rimase seduta. «Che cosa hai trovato?» «I suoi indumenti stesi sul letto...» «I suoi indumenti! Poco poco credevo che avessi scoperto delle prove scritte dei suoi loschi maneggi!» «... come se stesse preparandosi per venire da noi, ma qualcosa gliel'avesse impedito. Qualcosa o qualcuno.» «Come fai ad essere tanto sicura che stesse vestendosi per la cena di ieri sera?» «Be'...» riflettei. «Di giorno non si vestiva così. Non era roba da mettere a Scorpion per lavorare. E c'era anche un operaio al quale aveva promesso del lavoro che lo stava cercando ma non riusciva a trovarlo.» D. J. mescolò il suo caffè, anche se era senza zucchero. «Che cosa intendi fare?» «Ho forse detto che intendo fare qualcosa?» Mi alzai e sciacquai la mia tazza. «Credo proprio che andrò a fare una nuotata. No, prima torno a casa a vedere se Patty e Nicholas sono ricomparsi. Magari hanno comprato da mangiare.» «Non capisco perché ti preoccupi tanto di Phil.» «Non mi preoccupo affatto di Phil. Mi preoccupo di voi, che dovrete vendere la vostra roba. Dei McKnown, dei miei nonni, dei Vincent, di te...
vieni alla spiaggia più tardi? Ho promesso a Lisa di portarla con me.» Assunse un'aria leggermente sarcastica. «Certo. A che ora?» «Passo io a prenderti.» Tornai a casa a passi lenti, occhieggiando tra gli arbusti del lepidimium. Un colombo dalle penne maculate di porpora, nero e marrone, tubò lugubre nella mia direzione. Cominciai a raccogliere dei fiori di ibisco, ma gli aculei di un cactus mi si impigliarono nella camicia facendomi balzare indietro spaventata, come se ad attaccarmi fosse stato un animale. I miei nonni erano ancora fuori. Mentre sistemavo i fiori in una ciotola mi accorsi che la cucina non era come l'avevo lasciata. Uno sportello dell'armadio era socchiuso, e la credenza coperta di briciole. Rimasi immobile un istante. Una lucertola sfrecciò sulle travi del soffitto e, fuori, cinguettò un usignolo. L'isola brulicava di invisibili forme di vita. Non avevo sentito nulla: né un suono, né un odore, né un fremito, ma ero certa di non essere sola. E quella certezza mi veniva da una percezione al di là di quella sensoriale. Mi dolevano i muscoli del collo e, per voltarmi, dovetti costringermi. Arruffato, scarmigliato, lacero e sporco me lo vidi davanti. Era mio padre. 30 aprile Una volta ero andata a far visita al padre di un amico ricoverato in manicomio. Gli uomini rinchiusi là dentro, anche se puliti e ben vestiti, assomigliavano alla creatura che avevo di fronte. Scaricati dalla civiltà come i rifiuti che il mare scarica sulle spiagge, sembravano persi, lasciati soli a marcire nell'oblio. «Sono Holly» dissi stupidamente. Parevo una che avesse paura dei cani e cercasse di accattivarsene uno che le dimostrava la sua ostilità. I suoi occhi, in quel viso sudicio, erano umidi e vacui come se i nervi che li collegavano al cervello fossero stati recisi. Poi qualcosa si mosse in quegli abissi oscuri sulla spinta di chissà quale stimolo e dalla bocca gli uscì un suono, imperioso ma incomprensibile. Mi misi a sedere: non volevo disturbare il suo processo mentale, di qualunque natura fosse. Mi sembrava di essere tornata a vegliare la salma di mia madre, piena di disperazione e di rimorsi. Stava piangendo. Le lacrime gli colavano giù dagli occhi spenti fin nella barba folta. Poi alzò una mano. Dovetti esercitare su me stessa tutto il con-
trollo che possedevo per non balzare indietro. Il suo alito sapeva di rum. Ma non era un gesto di tenerezza: mi afferrò un braccio e tirò forte e io, senza resistergli, mi alzai e lo seguii. Appena fu certo che andavo con lui mi lasciò il braccio e imboccò un sentierino stretto e tortuoso che non avevo mai visto. Scendeva dalla collina verso una meta precisa. Ogni sua mossa era calcolata. Di tanto in tanto passavamo davanti a una grotta abitata soltanto dai pellicani eternamente affamati che scivolavano in fila indiana sull'acqua. I cactus e gli alberi della canapa mi graffiavano, e invece la figura che mi precedeva avanzava senza difficoltà. Sopra di noi volavano delle cannaiole, e parevano incitarci a proseguire. A poca distanza dalla spiaggia mi fermò con un cenno della mano. Ci acquattammo tra le foglie maculate del trifoglio, in attesa. Non vedevo nulla che potesse mettermi paura, ma la figura che mi stava accanto mi contagiava con la sua tensione. Poi vidi il Boston Whaler legato a un albero. Non mi pareva appartenesse a nessuno degli abitanti di Scorpion. Ondeggiava tranquillo, come se aspettasse qualcosa anche lui. Le gambe e la schiena cominciavano a dolermi: il mio compagno, invece, se ne stava accucciato con l'infinita pazienza tipica di chi è abituato a lunghi periodi di inattività. Gli uomini che uscirono dai cespugli camminavano con una tale leggerezza di passo e indossavano degli abiti con dei colori talmente simili a quelli della vegetazione che li distinsi solo quando furono vicini alla barca. Sette negri che si muovevano con furtiva agilità. Pareva proprio una squadra di ricognizione nemica che, eseguita un'ispezione preliminare del territorio, stesse abbandonando la zona per tornarvi in seguito coll'intero contingente. Uno si voltò e io mi acquattai tra le foglie. La figura che mi stava accanto alzò una mano per invitarmi alla prudenza. Quegli estranei slegarono la barca, in cinque salirono a bordo e due la spinsero in mare. Il motore si accese scoppiettando e la barca partì verso l'isola principale. In un attimo la spiaggia rimase deserta sotto il sole accecante. Non ci muovemmo finché la barca non fu scomparsa. Poi ci avviammo sulla sabbia. Aveva la voce rauca, arrugginita dal lungo silenzio, ma appena parlò non ebbi dubbi: era stato lui a trasmettermi il messaggio al walkie-talkie. «Vai via» mi supplicò. «Vai a casa.» Poi, senza attendere risposta, sparì nel bosco.
30 aprile Tornando dalla spiaggia con Lisa e D. J. sentii il generatore acceso. Entrai di corsa in cucina, e Patricia si voltò: davanti alla credenza, stava pulendo del pesce. «Dove siete stati tutto il giorno?» le domandai. «A pescare, cara. Guarda che bel luccio abbiamo preso. Non è una meraviglia?» «Chi ti ha autorizzato a parlare al plurale?» intervenne Nicholas. «Il pesce l'ho preso io.» «Se Selina non torna con le provviste...» «Perché non dovrebbe tornare con le provviste?» «Volevo solo dire, tesoro, che magari non riuscirà a comprare la roba per tutti. Nel qual caso andrai a invitarli da noi anche stasera. Certo non ho più verdura, ma nel giardino ci sono delle papaie, tu potresti fare del pane e qualcuno forse ha un dessert...» «Mio padre è stato qui.» Le mani di Patricia rimasero paralizzate a mezz'aria e Nicholas, che stava versandosi da bere, posò piano la bottiglia e si voltò a guardarmi. «È stato qui? L'hai visto?» «Sì. In carne ed ossa, come vedo te.» Mi scostai i capelli dal viso e mi grattai: mi era rimasta della sabbia nel costume. «È venuto a... mangiare... e a bere...» Lanciai un'occhiata alle bottiglie dei liquori, poi guardai i miei nonni. Nessuno dei due fece commenti. «E poi mi ha costretta a seguirlo giù alla spiaggia.» «Perché?» «Voleva farmi vedere una cosa: della gente è uscita dal bosco, è salita in barca e se ne è andata.» «Della gente?» «Dei negri.» «Non erano... erano degli operai, vero? E poi, su quale spiaggia?» chiese Patricia. «La Baia di Sabbat.» «Gli operai sbarcano sempre al molo principale.» «Forse era un gruppo di accoliti di D. J.» suggerì mio nonno. «Direi invece che erano alcuni di quelli che hanno minacciato Patty.» «Li hai riconosciuti?»
«No, erano troppo distanti. Parevano tornare da un giro di ricognizione. Sai, come se avessero studiato la zona per ripresentarsi qui stasera...» «Stasera?» «È il trenta aprile. I dieci giorni concessi a Patty sono terminati. E oggi ricorre quella assurda festa delle streghe... lo sapete anche voi, Beltane.» Nicholas si versò da bere. «Credi davvero che abbiano delle cattive intenzioni?» «Diciamo che è meglio tenersi pronti. Mio padre, indubbiamente, ha voluto mettermi in guardia.» «Pronti a che?» chiese Patricia. «Mi pare buona la tua idea di dare un pranzo qui stasera. Almeno saremo tutti uniti.» «Be', potrebbero rimandare a domani i loro nefandi progetti, no?» «Forse, passata la festa di Beltane, desisteranno. E se invece dovessero tentare qualcosa stasera, ci saranno Algie e Ted. Oh, come vorrei convincervi a lasciare quest'isola per qualche tempo!» «Cara, stai facendo di una mosca un elefante. Perché invece non la smetti di grattarti, ti cambi e vai a invitare gli altri? Non sprecare troppa acqua...» «Avete visto Phil, oggi?» «No, tesoro, ma certo inviteremo anche lui. Non vogliamo irritarlo...» «Sono andata a casa sua e ho trovato i suoi indumenti stesi sul letto. Come se stesse preparandosi per venire qui da noi e qualcuno l'avesse fermato.» Tutta presa dal suo pesce, Patricia disse, assente: «Sei stata a casa sua, tesoro, e non l'hai trovato? Non voglio certo muoverti delle critiche, ma hai proprio l'abitudine di intrufolarti nelle case degli altri e di spiare le loro mosse?» Cominciai a camminare in tondo. «Perché mio padre mi ha detto di andare a casa?» «È malato, Holly» disse Nicholas. «Non devi badare a quel che dice.» «Ma lui circola per l'isola e vede cose che noi non vediamo.» «Nei tempi antichi» disse Nicholas «si credeva che i malati di mente possedessero un istinto che le persone normali non avevano. È a questo che vuoi arrivare?» «Assolutamente no. Volevo solo dire...» Mi interruppi sentendo una jeep che risaliva la collina. Aspettammo, gli occhi fissi alla porta, senza sapere che cosa.
Era solo Selina: ferma sulla soglia, teneva Beanie per mano. Pallidissima, dimostrava dieci anni in più di quando l'avevo rivista arrivando a Scorpion. Patricia, sollecita quanto mai, disse: «Come siamo contenti di vederti, Selina! Holly risparmierà un viaggio. Vi vogliamo tutti qui a cena stasera. C'è da mangiare questo bel pesce che ho preso io. Mi hai comprato la roba che c'era scritta sulla lista? Beanie, sai che cosa ho trovato in un cassetto? Delle vecchie monete. Volevo conservarle per i figli di Holly, ma siccome lei pare proprio decisa a non sposarsi, le dividerò tra te e Lisa.» Aspettò uno slancio da parte del bambino, che invece, per tutta risposta, si limitò a nascondere il viso nella gonna di sua madre. «No, non ho comprato la roba che volevate, signora Eban» disse Selina. «Be', non importa, cara, non preoccuparti. Che sciocchezza darti tante incombenze in una sola volta! Ci arrangeremo. Vedrai...» «Il motivo per cui non ho comprato quel che avevate scritto sulla lista, signora Eban» proseguì Selina con la stessa voce spenta «è che non sono riuscita ad arrivare in città.» Si piegò su Beanie, gli accostò il mento alla fronte e guardò preoccupata la gamba del bambino. Attorno alla fasciatura la pelle era arrossata. «È bollente.» Le porsi una sedia e allungai una mano verso la fronte di Beanie, ma lui me la spinse via. «Questa volta che cosa è successo?» chiesi. Mi guardò come se solamente allora si accorgesse della mia presenza. «Questa volta sono rimasta senza carburante. Strano, ero sicura di averne una tanica piena.» «E invece ti sbagliavi.» «Appunto. Mi sono trovata a secco a metà strada.» «E poi?» «E poi sono rimasta in balia della corrente quasi tutto il giorno, finché sono passati degli indigeni che hanno legato la mia barca alla loro e mi hanno trainata fin qua. Ma ormai era troppo tardi per andare dal medico.» «Che cosa tremenda, cara. Che la tanica perdesse? Siediti e rilassati. Holly andrà ad avvertire Ted. C'è una cenetta deliziosa per voi. Tu non dovrai fare niente.» Mentre Patricia si metteva all'opera e Nicholas porgeva a Selina un bicchiere pieno di rum, io mi infilai un paio di pantaloni e una camicia e uscii. Adesso, quando ero con Algie, non mi sentivo più nervosa. Pareva che tra noi si fosse stabilito un accordo, di che tipo io almeno non avevo idea, e dessimo entrambi per scontato che tutto sarebbe andato per il meglio.
Phil non si vedeva ancora: attesi Algie, Lisa e Gertrude e, insieme, andammo da Ted e D. J. Algie prese con sé una zuppa di nicchie fatta da lui. Fu una strana cena. Non triste come se presagissimo una disgrazia, ma ci aspettavamo tutti qualcosa, e io non sapevo, ancora una volta, che cosa. I più taciturni erano Ted, Selina e Algie; D. J., Gertrude ed io non facevamo che parlare. Patricia sembrava convinta di dover rimpinzare di cibo i presenti. Nicholas vagava come un'anima in pena, scrutando l'oscurità. I bambini litigavano. In proporzione all'età, tutti bevemmo enormi quantità di rum o di succo di frutta. Non facevo che guardare l'orologio, come se dallo scorrere del tempo dipendesse la nostra vita e, a mezzanotte, trassi un profondo sospiro. «Tutto a posto. La festa di Beltane è finita.» Algie scoppiò in una risata rauca. «Sei proprio un bel tipo!» Curioso, Ted domandò: «Sei sicura che Patty non corra più rischi adesso che è terminata quell'assurda festa?» «Non lo so. Non so niente. Di una cosa soltanto sono certa: vorrei che Patty se ne andasse per un mese da quest'isola.» «Forse è meglio che restiamo qui stanotte» propose Algie. «Io non posso» disse Gertrude, srotolandosi dal divano e sbadigliando. «Sono esausta, ho bisogno del mio letto.» «Miei cari» disse Patricia. «È tutto a posto. Vi ringrazio per le vostre attenzioni. Ma Holly ha ragione. I dieci giorni sono finiti.» Cominciò a portare i piatti nell'acquaio. «E poi sapete com'è fatta quella gente: prende fuoco in fretta, ma ha la memoria corta.» Gli ospiti se ne andarono e io mi misi a lavare i piatti. 1° maggio Uscii in terrazza e guardai la lunga distesa di mare battuta dal vento che alzava onde di un metro. La luna, ancora visibile, era l'unico punto luminoso di quel paesaggio selvaggio e desolato. Tutti gli alberi, dalle minuscole palme alle piante centenarie, si torcevano sotto le raffiche ululanti. Poi all'orizzonte si alzò il sole e la luna scomparve, come una sentinella che avesse terminato il suo turno di guardia. Le cime delle colline alla mia destra splendettero in un tripudio di rosa e arancio e, in un attimo, la terra si illuminò. Mare e cielo erano passati dal grigio cupo al colore dell'oro liquido. Ma il vento non si calmava. Un biglietto sul tavolo della cucina diceva: "Tesoro: siamo andati di
nuovo a pescare. Non c'è niente per cena e il mare è troppo mosso per poterci avventurare in città. Patty". Per prima colazione mi preparai una tazza di latte solubile con dei fiocchi d'avena. Poi appoggiai il libro alla zuccheriera e bevvi altre tre tazze di caffè per riempirmi lo stomaco. Ogni tanto alzavo gli occhi e guardavo le onde frangersi violente. La giornata si annunciava molto calda. Alle nove pulii la cucina, rifeci i letti, scopai i pavimenti. I nonni non comparivano. Infilai il costume da bagno, una camicia e le scarpe da tennis, misi nella borsa la lozione solare, il libro, la spazzola e la maschera e uscii, diretta alla spiaggia vicino al molo. Era presto, ma sulla strada faceva già un caldo terribile. Non vedevo operai al lavoro e le case vuote languivano nella calura incombente. C'erano dei sacchi di cemento e delle carriole lasciati qua e là all'aperto, come se le avessero abbandonate di fretta. Arrivata ai piedi della collina, percorsi il molo deserto e raggiunsi la spiaggia oltre lo stabilimento balneare. Lasciando sulla sabbia la mia roba entrai in acqua per rinfrescarmi. Prima nuotai pigramente, poi misi la maschera e mi immersi, ma lì i pesci non erano interessanti come quelli della Baia di Sabbat. Così uscii dall'acqua, mi sdraiai sulla sabbia e cominciai a leggere. Col passare del tempo in me aumentava una certa inquietudine, una sensazione di disagio. Non riuscivo a chiarire il motivo di quell'ansia, ma presi la borsa e mi incamminai verso casa. Passando davanti al pontile notai un fatto strano: tutte le barche erano ormeggiate, compresa quella dei miei nonni. Mi incamminai sul pontile fissandole, come se sperassi in una loro risposta. Forse i miei nonni non se l'erano sentita di mettersi in mare e stavano pescando sulle secche. Saltai sulla barca e esaminai con attenzione il ponte e la stiva. Era in perfetto ordine, come Nicholas l'aveva lasciata il giorno prima. Senza un perché cercai le chiavi dell'accensione, ma invano. Dietro il capannone erano allineate tutte le jeep, in mezzo a una confusione di pneumatici, pezzi di motore arrugginito e latte di carburante. Il capannone era chiuso, come sempre, e in nessuna jeep erano inserite le chiavi. «E adesso che cosa faccio?» dissi ad alta voce, spaventando una lucertola che si diede alla fuga. Un tordo cinguettava sopra di me mentre risalivo la collina. Ad ogni passo alzavo una nuvola di polvere. Giunsi a casa sudata fradicia.
I miei nonni non c'erano ancora e nessuno, a quanto vedevo, era stato in casa dopo che ne ero uscita io. Girai sui tacchi e infilai il sentiero che portava alla casa di Algie. Per me quella casa era solo sua, di nessun altro. Vi arrivai ansando, sia per il caldo sia per la ripida salita. Il giardino, con gli alberi di limoni e di papaia, sarebbe stato bello se non l'avessero rovinato i giocattoli di Lisa sparsi ovunque e una fila di panni grigiastri stesi ad asciugare. «Algie!» chiamai. Poi, come se ci avessi ripensato, aggiunsi: «Gertrude! Lisa!» Le mie parole, invece di perdersi nell'eco, caddero nell'aria come pesi morti. La porta della cucina si aprì sotto la mia spinta e entrai. Sulla credenza vidi gli avanzi di un pasto raffazzonato alla meglio, e la solita schiera in movimento di bestioline nere. Le ragnatele pendevano come ornamenti agli angoli della stanza e gli sportelli degli armadietti erano sporchi e unti. Istintivamente raccolsi i calzini, gli asciugamani e i costumi da bagno sparsi sul pavimento, poi li arrotolai e li infilai in un sacco appeso alla porta della lavanderia. E passai una spugna sulla credenza. Poi, finalmente, mi resi conto di quel che stavo facendo. Lasciata cadere la spugna bevvi due bicchieri d'acqua e uscii. La casa dei McKnown era pulita, ma vuota anch'essa. Il respiro mi usciva a fatica, quasi in un rantolo. Sentivo i ronzii, i pigolii, lo strisciare e il correre di quella che sembrava l'unica forma di vita rimasta sull'isola: gli animali che, attorno a me, si ingozzavano, si uccidevano, si accoppiavano. Mentre mi rimettevo in cammino il caldo calò su di me come una pesante cappa. La testa mi doleva, ma non abbastanza perché me ne rendessi conto, e quindi mi sentivo male senza sapere perché. Passai davanti a un'altra casa vuota, ma ormai le case disabitate mi si confondevano nella mente con quelle che mi aspettavo di trovare abitate. Terrorizzata all'idea di finire su una spiaggia deserta o su una strada che non conoscevo, controllavo continuamente se mi ero persa. Nemmeno D. J. era in casa. «La pestilenza si è abbattuta su di noi!» dissi a voce alta. Accaldata e senza fiato, sedetti su una sdraio. Sentivo un picchio battere sul fusto di un albero giù per la collina. Qualche minuto dopo mi alzai per bere altri due bicchieri d'acqua e andare in bagno. Mentre attraversavo la camera da letto di D. J. mi cadde l'occhio sullo scaffale sopra il letto. Conteneva degli oggetti, alcuni dei quali mi parvero noti come dei visi familiari, ma non osai prenderli in mano. C'era un col-
tello dall'impugnatura nera con sopra dipinti dei simboli, una corda rossa a nodi intervallati, un turibolo d'ottone con la base cesellata, una tazza e un quaderno rivestiti di tessuto nero. Stavo per allungare la mano verso il quaderno ma cambiai idea, e rimasi là, le dita intrecciate dietro la schiena, a guardare le altre cose: candele, sale, bende per coprire gli occhi, arnesi e materiale da cucito, penna, pennelli, inchiostro indelebile nero, compasso, goniometro e regolo. E sotto, in bottiglie contrassegnate con delle etichette, un'imponente collezione di erbe. Seminascoste dietro la salvia, il rosmarino e il finocchio, c'erano quattro assicelle piatte che dall'odore sembravano di legno di melo lunghe una dozzina di centimetri e larghe mezzo, levigate e brillanti. Vidi che, al centro di entrambi i lati, avevano una macchia nera. «Merda!» mi scappò detto e mi guardai attorno, con la sensazione che, per un istante, sull'isola fosse calato un assoluto silenzio. Restai con le orecchie tese, chiedendomi se fosse uno scherzo della mia immaginazione oppure il gesto di disappunto di una creatura dell'al di là, irritata dalla mia espressione volgare. Passai in rassegna tutta la stanza per assicurarmi di non aver dato fastidio a niente e a nessuno, poi tornai fuori sulla strada sonnolenta. Continuai a salire senza una meta. Un aereo passò nel cielo e io lo guardai con struggente desiderio: non sapevo dove avrei desiderato essere, sapevo soltanto che avrei desiderato non essere lì. Un fruscio tra i cespugli mi fece girare di scatto. Mi guardai attorno. Invece della solita lucertola questa volta era un lungo serpente verde che mi tagliava la strada. Come un prigioniero costretto alla marcia forzata, ripresi a salire sotto il sole cocente. Arrivata a un bivio che non avevo mai visto, esitai un istante, poi girai a sinistra. I sensi e l'intelletto mi si erano talmente intorpiditi che non mi rendevo conto di essere ormai molto in alto sulla montagna. Poi, sbirciando tra gli alberi, mi fermai a orientarmi. Il molo era così lontano che sembrava un modellino da bambini e le barche ancorate piccole come pulci. Mi passai febbrilmente le mani nei capelli. «Dio!» dissi forte. «Dio!» Guardai il sentiero che scendeva, un sentiero come tutti gli altri. Troppo esausta per proseguire, mi sedetti su un sasso e passai la lingua sulle labbra aride. E dopo un istante, piena di speranza, gridai: «Ehi, c'è nessuno?» Attesi, poi riprovai. «Ehi, c'è nessuno? C'è nessuno?» Niente. Solo l'eterno ronzio degli insetti e il rauco strido delle sterne. Mi alzai di scatto e mi precipitai giù per la collina. Gli occhi ormai vedevano senza vedere e, inconsciamente, dalle labbra cominciarono ad uscirmi as-
surdi mugolii. Scivolai sul terreno polveroso e pieno di sassi e caddi bocconi sul ripido sentiero. Per proteggermi il viso mi graffiai le mani e le ginocchia: il dolore mi fece salire le lacrime agli occhi. Mi rimisi in piedi a fatica e guardai la pelle insanguinata e sporca di polvere, poi, con l'estremità finale della camicia, cercai di pulirmi le ferite. Riuscii soltanto a espandere lo sporco. Stanca e assetata, mi pareva di essere in cammino da giorni e giorni. Arrivata a una biforcazione, scesi un pezzetto e mi fermai a guardare da sotto la strada nella speranza di riconoscerla. Inutile: non mi restava che scendere alla spiaggia e, da lì, risalire alla casa dei miei nonni, anche se non ero affatto sicura che ne avrei avuto la forza. All'improvviso le gambe cominciarono a prudermi. Le grattai freneticamente: ero finita contro un'aristolochia. Il prurito e l'indolenzimento della pelle irritata dalle unghie mi spinsero di nuovo in corsa. Vidi una pianta secolare che mi pareva di conoscere. I suoi bulbi gialli, come un miraggio nel deserto, mi incitarono a proseguire, ma il sentiero terminò in un cespuglio. Per poco non mi misi a urlare dalla disperazione. Era un sogno. Impossibile passare un giorno intero su un'isola piccola come quella senza incontrare anima viva. Mi sentivo sospesa nel nulla, avvolta nel nulla. Se solo mi fossi potuta risvegliare sentendo le voci dei miei nonni nella stanza accanto! O, meglio ancora, se fossi stata a New York e mi fossi immaginata tutto quanto, dall'inizio alla fine! Il viaggio a Scorpion, la creatura che vagava raminga sull'isola con le sembianze di un'istantanea sbiadita, le avarie alle jeep e alle barche, l'uomo scomparso, le minacce degli indigeni, i riti primordiali, gli indizi e i presentimenti che mi portavano a una deduzione a cui non volevo arrivare... non era vero niente, solo uno scherzo della mia fantasia. Algie compreso. Finalmente vidi il mare brillare tremulo oltre gli alberi. Percorsi correndo gli ultimi metri, mentre mi toglievo di dosso la camicia, e mi tuffai in acqua. Estasiata nuotavo, mi immergevo, riemergevo per respirare e tornavo sott'acqua. Stesa sul dorso guardavo le nubi, tese nel cielo come fibre sottili su un telaio. Facendo un conto approssimativo del tempo, doveva essere più o meno mezzogiorno. Mi lasciavo galleggiare tra mare e cielo, e nemmeno il bruciore dei graffi riusciva a rovinarmi la gioia di quel refrigerio. Urtai qualcosa con una gamba: spaventata, mi raddrizzai. Coralli. Mi pulii gli occhi dall'acqua e vidi che mi ero spinta troppo lontano. Con molta più energia di quanto fosse necessario nuotai verso riva, guardando
costantemente sott'acqua per vedere con quali creature dividessi l'oceano. Appena scorsi il lungo pesce grigio con la testa stretta e i denti affilati come rasoi notai anche la scia di sangue che mi lasciavo dietro. Sapevo che mi sarei dovuta muovere appena. Sapevo che avrei dovuto serrare le mani a pugno perché il pesce non vedesse l'anello che portavo al dito. E invece, neanche a dirlo, mi agitai a tal punto da far diventare l'acqua schiuma, lasciai che il mio anello riflettesse i raggi del sole e, coi polmoni che mi bruciavano e le braccia che mi si staccavano dal corpo, mi precipitai verso riva. Aspettavo di sentire da un momento all'altro le sue zanne nelle mie gambe. Appena sentii che toccavo il fondo mi misi in piedi e, un po' camminando un po' nuotando, mi trascinai in salvo sulla spiaggia. Caddi supina sulla sabbia e chiusi gli occhi. Quando li riaprii i raggi del sole erano più obliqui. Mi misi seduta con un gemito e esaminai le ferite. Nessuna era profonda, ma dolevano tutte. Mi sembrava di non avere un solo centimetro di carne che non bruciasse o prudesse. Riuscii a rimettermi in piedi, e cercai di orientarmi. Non sapevo su che spiaggia fossi finita e non trovavo più il sentiero per il quale ero discesa. Avevo molta sete. Andai svelta verso una fila di rocce, mi arrampicai carponi nella speranza di vedere un segno di vita. Niente, solo gabbiani. Il profilo incerto di un'isola lontana mi pareva sconosciuto. Non riuscivo a raccogliere le idee. I pensieri mi turbinavano nella mente come una giostra impazzita, giravano forte, sempre più forte, e le cose che mi stavano attorno si annebbiavano e il rumore cresceva di intensità fino a un livello insopportabile. In cima alle rocce mi fermai: sulla sabbia di sotto c'erano due barche che non avevo mai visto. Respiravo a singhiozzi, rapidi e irregolari. Al di sopra della confusione e della stanchezza avvertivo non un senso di vera paura, ma un vago disagio, impalpabile, indefinibile. Di nuovo scrutai la montagna e, questa volta, vidi due capre che mi fissavano. Dovevo tornare a casa. Mi infilai nel bosco; i cactus mi graffiavano ma ormai stavo diventando insensibile al dolore. Le colline parevano tranquille, addormentate, eppure era come se quella calma fosse anticipatrice di eventi. Continuavo a voltarmi di scatto ma, se anche c'era qualcosa, non riuscivo mai a vederla. Sarà così per sempre, mi dissi. Questo è il mio destino. E poi intravidi una macchia di colore sulle foglie aguzze di un tasso. Avevo la vista annebbiata e dovetti sbattere le palpebre per metterla a fuo-
co. Per raggiungerla in fretta mi tagliai una mano contro un cactus. Il ronzio degli insetti era così forte che quasi copriva il rumore del mare e mi trovavo immersa in una vegetazione così fitta che mi sentivo come chiusa in un bozzolo. Una luce diffusa filtrava tra le piante, dando al bosco la fosforescenza di un paesaggio sottomarino. La macchia di colore era un pezzo di stoffa. «Mi hanno lasciato una traccia» dissi forte, esaminando il tessuto come se sperassi di trovarvi sopra un messaggio. Non mi fu difficile riconoscere quei fiori rosa, neri e bianchi: era un brandello della camicetta di mia nonna. Piegai la stoffa, la infilai in tasca e continuai a salire. Non vedevo la fine di quella giungla, non c'era segno di sentieri né di strade. Un insetto mi punse il collo, lo uccisi lanciando un urlo. Grondavo sudore da tutto il corpo. Frastornata mi chiedevo cosa avrei fatto se, invece di arrivare in un posto che conoscevo, mi fossi ritrovata al punto di partenza. Mi bastò un'occhiata per assicurarmi che l'insenatura era ancora in pieno sole, ma sapevo per esperienza che lì il buio calava di colpo. Ora camminavo su un terreno duro, forse su quello che era stato un sentiero, ma era ancora solo un'illusione. La schiena mi doleva e avevo il palato così secco che non riuscivo quasi più a deglutire. Da quando mi ero svegliata, e mi pareva fossero passati degli anni, non avevo visto un essere umano. Quel giorno era trascorso dipanandosi come una matassa interminabile. E se la notte fosse calata mentre ero lì, persa, sola in mezzo agli esseri striscianti che infestavano l'isola mordendo, pungendo, divorando? Dapprima mi si sarebbero avvicinati con diffidenza e poi, sentendomi impotente, mi si sarebbero arrampicati addosso. «Non è possibile» mormorai tra me. «Devono essere da qualche parte, gli altri.» Forse li avevano avvisati di un pericolo imminente e loro mi avevano cercata ma, non trovandomi, se ne erano andati senza di me. E allora di chi erano le barche ferme là sotto? Cercai di dividermi la mente in settori come uno che, sapendo di abitare in una casa infestata dai fantasmi, chiude una stanza dopo l'altra e si rifugia nell'ala più sicura e più calda. Ma io, appena chiudevo una porta, ne trovavo un'altra spalancata: la voce di Phil che minacciava un ricatto; e poi dei nomi: Dinhofer, Elwyn, Llewellyn... gente che aveva venduto la propria casa per poco o niente; e tanti altri pensieri sconnessi e insistenti. «Devo tornare a casa» dissi a un uccello di passaggio. Avevo bisogno di
sentire la mia voce. Appena a casa avrei mangiato quel che trovavo, qualsiasi cosa, mi sarei bevuta qualcosa di forte e sarei andata a dormire. E l'indomani tutto sarebbe tornato normale. La collina sembrava più buia, ma la baia era ancora immersa nel sole. Rantolando, grattavo le punture degli insetti e asciugavo il sudore dal viso. Stava diventando difficile stabilire dove finisse la vegetazione e cominciasse l'oscurità. Mi trovai stesa a terra. Avevo inciampato in una cosa morbida, cedevole. Mi rialzai e mi chinai a guardare da vicino come se, da quel giorno, fossi diventata miope. La mia mente confusa recepì i contorni dei pantaloni, della camicia, della mano aggrappata a un ramoscello. Non mi fu necessario girarlo per sapere che quello era il cadavere di Phil. 1° maggio Stranamente, anziché farmi prendere dal panico, mi irrigidii in un'assoluta immobilità. Ormai mi pareva di non respirare nemmeno più, avevo smesso di grattarmi e di borbottare tra me. Indietreggiai finché un rampicante mi impedì di continuare: ferma, mi guardavo intorno con un senso di colpa, come se fossi stata io a ucciderlo. La testa, dietro, era quasi concava, tanto forte era stato il colpo infertole e, dalla ferita, colava una materia spugnosa e ripugnante. Gli coprii il capo con delle foglie. Il cadavere era in una strana posizione: come se l'assassino l'avesse piantato in asso per correre a fare qualcosa di più urgente. Continuai il mio cammino. Ogni tanto mi strofinavo gli occhi per vedere dove mettevo i piedi, quasi temessi di imbattermi in altri cadaveri. Se avessi camminato nel fango mi sarei mossa con la stessa lentezza. E poi mi trovai su una strada asfaltata. Mi appoggiai a un cespuglio per riprendere fiato, con gli occhi chiusi. Qualche istante dopo mi rimettevo in marcia, mettendo a prova tutta la mia forza di volontà. Arrivai a un incrocio che imbruniva. In quella folle giornata anche i punti di riferimento familiari parevano alterati da una forza soprannaturale, e vivevo nel terrore di prendere la strada sbagliata. Poi, chissà come, mi ritrovai all'ufficio postale. Allibita, guardai il pontile, il capannone, lo stabilimento balneare. Non c'era in giro anima viva e niente pareva cambiato da quel mattino, ma ero così felice di sapere dove mi trovavo che quasi non mi importava. Adesso potevo chiedere aiuto per telefono.
Entrai nel piccolo edificio coperto di buganvillea. Puzzava di muffa, come se nelle scansie non ci fosse mai stata della posta, il pavimento non avesse mai visto acqua e sapone e al banco non ci fosse mai stato del personale. Ecco il telefono a muro. Istruzioni per chiamare da questo apparecchio: Alzare il ricevitore, attendere il segnale di libero, inserire una moneta da dieci o da venticinque centesimi, formare il numero. In caso di mancata risposta o collegamento, premere il bottone rosso, la moneta verrà restituita. Per chiamare il centralino, formare lo 0. Per chiamate d'emergenza, formare il numero 999. Non avevo un soldo. Alzai la cornetta e rimasi in ascolto. Non dava il segnale di libero. Premetti i pulsanti, ma invano. Dovevo andare a casa, prendere il denaro e tornare. Evidentemente il mio cervello era fuori uso come il telefono, perché mi occorsero parecchi minuti per accorgermi che i fili erano stati tagliati. Trascinando a fatica le mie membra stanche fino alla porta; fissai il mare che scintillava sotto i raggi obliqui del sole. Gli occhi mi bruciavano alla luce. Passai di nuovo in rassegna le barche per vedere se qualcuna avesse le chiavi nell'accensione anche se era inutile: facevo quel giro solo per fare qualcosa, tanto non sarei stata in grado di condurre una barca. Poi guardai il capannone che serviva da rimessa per le barche. Attraversai il portico in legno e entrai nel ripostiglio, alla ricerca di chissà cosa. C'erano i salvagente, i cuscini per i sedili, le coperte e le spugne. E un walkie-talkie. Dimenticato su uno scaffale. Lo tolsi dalla custodia, estrassi l'antenna e premetti il bottone della trasmissione. «Sono Holly. Parla Holly. Venite. Venite.» Premetti il pulsante della ricezione. Niente. Riprovai. «Per piacere, rispondetemi. Che qualcuno mi risponda, per piacere. Venite. Rispondete.» Dopo un po' dovetti desistere. Lo rimisi nella custodia e mi appoggiai alla parete. Avevo il viso in fiamme e la pelle d'oca sulle braccia. Ero allibita, incapace sia di pensare sia di muovermi. C'era uno specchio: mi guardai. Avevo la faccia piena di graffi, i capelli arruffati e gli occhi cerchiati di rosso. Riflessa nello specchio vidi una luce: era una nave che passava. Dovevo assolutamente accendere un fuoco. Ma chi avrebbe fatto caso a un fuoco su un'isola disabitata? Me ne accorgevo solo in quel momento: non c'era una sola luce accesa in tutta l'isola, anche se ormai era quasi buio. Il buio. Al pensiero sobbalzai. Dovevo far presto, tornare a casa prima di
notte. Affamata, assetata, la grottesca drammaticità di quel giorno mi scosse dalla mia apatia e mi misi a correre. Erbe spinose che uscivano dal selciato mi graffiavano le gambe, a un certo punto scivolai su delle bacche. Non vedevo più nemmeno gli uccelli, come se anche loro, imitando gli esseri umani, avessero abbandonato l'isola. Senza frenare i gemiti che mi uscivano di bocca tentavo di scansare le foglie aguzze dei tassi, i gusci di conchiglie rotte sul mio cammino, i granchi. Ormai era talmente buio che avevo paura di perdermi di nuovo. Poi arrivai alla casa di Phil. Infilai il sentiero e corsi giù verso il portone massiccio. Una cosa era certa: Phil non mi avrebbe mai potuta accusare di violazione di proprietà. Con la testa leggera, sentendomi come drogata, bevvi un bicchiere d'acqua e passai in rassegna quel che c'era sugli scaffali. Solo sale, pepe, zucchero e caffè. E, nel frigorifero, qualche foglia di lattuga e del latte in scatola. Vagavo disperata, alla ricerca. Trovai il bottone del generatore ma, come tutto il resto, neanche quello funzionava. Mi scoprii a ridere. Poi, nella camera da letto, mi accorsi che tutti gli armadi erano chiusi con pesanti lucchetti. Questa volta non ebbi esitazioni. Corsi in cucina, presi un'accetta dalla cassetta degli attrezzi e mi avventai contro gli sportelli. Dopo una dozzina di colpi, scoprii che cosa nascondevano: provviste sufficienti a sostenere un mese d'assedio. Sacchi di farina, zucchero, riso; scatole di latte in polvere, pasta, lattine di minestre di verdura, scatolette di pesce e di carne; scaffali pieni di rum, gin e Scotch. Ero troppo sconvolta per mettermi a cercare un apriscatole. Presi dei crackers, mi versai un'abbondante dose di rum e ingollai il tutto. E quando l'ambiente non mi parve più così bello da mozzare il fiato ma anzi brutto al punto da farmi rabbrividire, mi alzai e, a passi malfermi, puntai verso il letto. «Bene» dissi ad alta voce «visto che hai sempre sognato di abitare in una casa come questa, adesso goditela!» Caddi sul letto e mi misi distesa come una vittima pronta al sacrificio, gli occhi fissi al soffitto. Tentai di mettermi in posizione fetale, poi mi girai bocconi. Nonostante il rum, non prendevo sonno. Mi alzai, aggrappandomi ai muri tornai in cucina e cercai di chiudere a chiave la porta, ma non aveva serratura. A quel punto, convinta di non riuscire a tranquillizzarmi perché avevo le membra intorpidite, decisi di fare
un bagno. Anche se il generatore non funzionava, ci doveva essere acqua sufficiente nel serbatoio. Con le mani tese davanti a me, cercai di trovare la strada del bagno. Avevo fatto solo pochi passi quando le mie dita incontrarono un viso. L'effetto di quella giornata e del rum svanì all'istante: non ero più né confusa né ubriaca. Mi misi a urlare. E stavo ancora urlando quando un'ombra si profilò davanti a me e un lampo di dolore mi trafisse il capo. 1° maggio Era soltanto paura. Il cervello, i nervi, le ossa, i muscoli, tutte le cellule del mio organismo pesavano come piombo stretti nella morsa della paura. La paura atavica del lupo che ulula al margine del cerchio di luce di un falò; la paura di un battito alla porta in piena notte; la paura degli inquisitori venuti a prendere il prigioniero per portarlo davanti ai raffinati strumenti dell'ingegno umano; la paura di tutto ciò che era forza bruta, ineluttabile. Ero nel dormiveglia. Mi pareva di percorrere carponi un tunnel senza uscita nel quale l'aria ristagnava, sapendo di non poter tornare sui miei passi. Immaginavo figure incappucciate disposte in cerchio che fissavano il frutto delle loro nefandezze. E la piazza di un paese in cui facce avide assistevano a un macabro spettacolo. A quell'atmosfera da incubo si aggiungeva un gran caldo, una temperatura in costante aumento che non mi sapevo spiegare ma che faceva da scenario, da dimensione aggiunta agli altri orrori. Attraverso le maglie di queste sensazioni qualcosa di tangibile cercava di farsi strada. Mi sentivo male fisicamente come all'inizio di una malattia, quando non si riesce a trovare una posizione in cui mettersi o ai primi sintomi di un violento attacco di vomito. La coscienza rimaneva al di là della sensazione. Sospiri, suoni, odori del mondo esterno si mescolavano con le visioni. Il reale e l'irreale si fondevano e si separavano come i colori nel mare. A danzare nell'aria offuscata c'erano bianche immagini più scure di altre bianche immagini, e una fiammata color arancio accendeva a più riprese degli occhi grotteschi, dei nasi e delle labbra che non parevano uniti a mani o a corpi. Tra i tonfi e gli scoppiettii una risata fendette l'aria. Niente era come sarebbe dovuto essere: il fuoco sulla spiaggia era la parodia del solito falò; i visi fluttuanti, la parodia di un ballo in maschera; la
risata la parodia di un'autentica ilarità. Pian piano distinsi la musica. Una strana, stridula vibrazione che saliva di tanto in tanto al di sopra delle onde e del vento. Un pianto mesto, senza gioia e bellezza, evocava immagini di mondi lontani nel tempo e nello spazio, ormai preclusi al genere umano. Dovevo andar via. Qualsiasi evento stesse per aver luogo, non era per me. Non era adatto alle donne e ai bambini, pensai, e cercai di ridere, ma il riso non si materializzò. Era bloccato sul nascere, inspiegabilmente. Poi, quando cercai di muovermi, mi resi conto che tutto di me era bloccato. Bocca, lingua, mani, gambe; tutto immobilizzato. Lentamente al torpore tra sonno e veglia subentrò un mal di testa infernale. Cominciavo a capire che non potevo parlare perché avevo la bocca piena di qualcosa di peloso e arido. Non potevo cambiare posizione perché avevo i polsi e le caviglie legati con del filo di ferro. Ero seduta, la schiena contro il fusto di un albero, le gambe tese in avanti sul terreno ruvido. Mi divincolai. Rantolando, tentai di sputare dalla bocca quella porcheria. La pelle attorno ai polsi e alle caviglie divenne umida e appiccicosa, ma non sapevo che fosse per il sangue. Sopra di me il cielo era tranquillo, incastonato di diamanti. Ogni tanto una folata di vento si abbatteva sulla fiamma o spingeva le nubi a correre veloci davanti alla luna lontana, e allora le figure vestite e la musica flautata si affievolivano. Era un gioco misterioso, uno spettacolo messo in scena da D. J. per ovviare alla noia di quei giorni piatti. Oppure uno stratagemma ideato da Phil per spaventarci e farci sloggiare dall'isola. No, impossibile: Phil era morto. Smisi di lottare, di colpo. I pensieri inframmezzati dal dolore, decisi che era meglio non dare nell'occhio, fare in modo che si dimenticassero di me. La musica cessò. Le figure non danzavano più, convergevano verso qualcosa sulla spiaggia, ma non riuscivo a vedere di che cosa si trattasse. Non si udivano voci umane, solo il rumore delle onde e del vento. Poi un urlo ruppe quel silenzio d'attesa. 1° maggio Brandelli dei racconti di D. J., chiacchiere che avevo sentito distrattamente, all'improvviso coincisero con quel che stava avvenendo. Mentre le figure si allontanavano, vidi che cosa c'era nel recinto di pali sulla sabbia, la posizione in cui stava e quello che le facevano. Come se un elaboratore
mi avesse tradotto la scheda cifrata. Fissavo quel che le avevano reciso dal corpo e mi sentivo sprofondare, giù fin al centro della terra. Ma non potevo precipitare abbastanza velocemente da non udire le grida che mi squarciavano i timpani, che mi strappavano dall'oblio con suppliche non di vita ma di morte. Il corpo si dimenava in preda a un tale parossismo che nemmeno le corde con cui era legato riuscivano a tenerlo fermo. E al tutto si aggiungeva l'interminabile fragore delle onde, l'ululato del vento, il torcersi delle palme in uno spasimo terrificante. Per un istante le nuvole coprirono la luna, oscurando la scena mostruosa, poi l'astro riapparve, inondando la spiaggia di una luce morta che sbiadiva i colori dell'universo. E, sugli altri, emerse un suono nuovo: una cantilena misteriosa così intensa che, anziché uscire dalla gola di quelle figure, pareva il pulsare delle viscere della terra. Poi, come se avessi deciso di accorgermi di un solo orrore alla volta, vidi il simbolo fallico puntato verso il cielo. Attorno a me, sia nel bosco sia sull'acqua, l'atmosfera palpitava di movimenti, di forme, del fruscio di esseri che non esistevano. Su tutto gravava il nauseabondo, fetido odore del male, un male estratto dalla melma esterna che adesso tornava alla sua origine. Tutto quanto di più atroce e satanico era uscito dai suoi nascondigli per riversarsi, in quei momenti, su quella spiaggia e, come il pus di una ferita, anticipava ulteriori brutture. Un urlo di trionfo si alzò dagli inquisitori. Avevano trovato il marchio della strega. Il corpo mutilato venne alzato dal suolo, sollevato in alto e poi legato al palo, macabro albero della cuccagna. Urlava e implorava: avvicinarono il palo al fuoco. La cantilena aumentò di volume mentre le fiamme, alimentate di fresco, aumentavano di lucentezza. Davanti a quella nuova atrocità forzavo disperatamente i miei legami, lacerandomi la carne per liberarmi. Vedevo la buia cavità della bocca, nera tra la pelle bianca, i capelli scomposti dal vento che frustavano un viso irriconoscibile, il corpo che si contorceva e lottava con pazza disperazione. Il delirio si spense mentre la torcia umana veniva piantata nel falò, e finalmente persi conoscenza. 2 maggio A levante il cielo divenne color arancio e le nubi, solo qualche attimo
prima simili a un blocco di fango secco e screpolato, si colorarono di rosa, mentre il nero contorno dell'isola si stagliava sull'acqua maculata. Dalle palme si alzarono nuvolette di vapore e, dopo pochi istanti, il mondo splendette alla luce del sole. Aprii gli occhi a fatica. Fissai i fiori di ibisco sopra la mia testa. Il sole trasformava le gocce di rugiada in perle e quella vista insolita mi sbalordiva. Poi quella notte mi tornò alla mente, come un conato di vomito che rientrasse anziché uscire. Mi piegai su me stessa e detti di stomaco. Tentai di cancellare quegli orrori ma mi era impossibile: potevo solo tessere un bozzolo attorno alle figure, al bagliore dei coltelli, ai suoni che mi sarei portata dentro finché non fossi morta. Il sole mi bruciava la schiena in più punti e gli arbusti mi pungevano. Mi misi in ginocchio, non ero più legata. Esaminai le caviglie e i polsi e poi, evitando quel punto della spiaggia che mai più sarei riuscita a guardare, scrutai la montagna dietro di me. Aggrappandomi a una palma mi alzai in piedi e rimasi con la fronte appoggiata alla corteccia per riprendere le forze. Qualcosa scese strisciando lungo il fusto, alzai la testa. Macchie nere mi oscurarono la vista, chinai svelta il capo per far defluire il sangue. Poi guardai la baia. In lontananza passavano tranquille due barche a vela. Mi avviai sulla spiaggia a passi incerti. Avevo le gambe imbrattate di polvere e di sangue e indossavo ancora la camicia e il costume da bagno che mi ero messi una vita prima. Mi immersi nell'oceano rannicchiandomi all'impatto gelido dell'acqua. Non nuotavo, preferendo star stesa sul dorso a riposare, a guardare in alto senza vedere nulla; poi mi voltai e mossi braccia e gambe quel tanto che mi consentisse di stare a galla. Qualcosa mi sfiorò le gambe: una colonia di lucci passava fluttuando. Li guardai un attimo, poi cominciai a strofinarmi le braccia e le gambe per pulirli fino a escoriarmi la pelle. Non sapevo cos'altro fare. Una voce umana mi risvegliò da quello stato di inerzia mentale. Sputando acqua, asciugandomi naso e occhi, tornai a nuoto fin dove toccavo e lì mi guardai attorno confusa, come se avessi dimenticato l'esistenza dei miei simili. Scrutai mare e cielo prima di girarmi verso la spiaggia. Formavano un piccolo gruppo, a cinquecento metri di distanza. Il mio cervello, di proposito, confuse le immagini in modo che non distinguessi subito chi c'era e chi invece mancava. Poi uno di loro venne verso riva e gridò: «Holly?» Era una domanda.
Cercai di far lavorare le corde vocali, ma non mi uscì suono di bocca. Avanzai verso riva. Si davano un gran da fare. Andavano e venivano sulla spiaggia come formiche, chiamando e dando direttive. Ero ferma con l'acqua alle caviglie e li guardavo da una distanza di sicurezza. Una figura stava seduta rigida contro un albero, come una marionetta di legno. Immobile. Una persona sbucò dal sentiero della montagna. Mi venne in mente un romanzo che parlava di un mondo distrutto da esplosioni atomiche nel quale, spontaneamente, aveva cominciato a riprodursi una nuova razza. Il nuovo arrivato disse: «Ho dato da mangiare a tutti e due e li ho lasciati là.» «Non andranno in giro, vero?» «No. Evidentemente erano drogati. Dormono ancora.» La mia decisione di non vedere niente, non sentire niente, non sapere niente, mi bloccava dov'ero. Tremavo, la camicia mi stava appiccicata al corpo ma non la levai. «Non fate avvicinare Holly.» «Ormai è tutto a posto.» Le parole mi martellarono nel cervello senza che riuscissi a spiegarmele. Sedetti sulla sabbia. Adesso tremavo forte. Algie entrò nel mio campo visivo. Gli vidi in mano una pala e distolsi subito gli occhi. Lui non aveva certo fatto un bagno in mare ed era sporco al punto da non essere quasi riconoscibile. Solo i polsi e le caviglie erano rosa e escoriati. Ci fissavamo, ma lo strato di sporco sul suo viso era tale che non potevo vedere che espressione avesse. Finalmente disse: «C'è un riccio vicino al tuo piede.» Mi spostai. Alle spalle di Algie apparve Ted. Era nelle stesse condizioni, solo che i suoi occhi, molto più grandi di quelli di Algie, erano di un azzurro stupefacente in mezzo alle cornee arrossate. Esaminava la sabbia come un prospettore per essere sicuro di non aver dimenticato nulla. Adesso che mi ero riabituata a guardare le cose, osservavo tutto, tranne quella striscia di sabbia. La figura addossata all'albero era viva. La vidi alzare una mano e poi lasciarla ricadere. Dal mare arrivò lo scoppiettio di un motore. Mi voltai e vidi la barca gettare l'ancora nella baia, poco lontano. Da prua, D. J. gridò: «La polizia sta arrivando.» Si tuffò e venne verso riva. Uscendo dall'acqua disse a Algie: «Sai che cosa ho scoperto? Gli indigeni credevano che aprile avesse trentun giorni. Ecco perché hanno aspettato fino al primo di maggio...» Vedendomi, si zittì. Sulla difensiva, come un bambino sorpreso a rubare,
disse: «Non è colpa mia. Come potevo immaginare che un giochetto innocuo... insomma, volevo soltanto divertirmi un po'... non sapevo che i miei... i miei "ragazzi" riferissero tutto ai loro genitori e che i loro genitori...» Feci per alzarmi e Algie, pronto, tese una mano per sorreggermi. Vedendo l'impronta nera che mi aveva lasciato sul braccio incominciai a strofinarla via stizzita. Poi li guardai bene tutti e due. Facevano pensare a due minatori usciti da una miniera dopo un'esplosione. «Sono dei barbari» proseguì lei. «Appena un gradino più in su della giungla...» «Come gli inglesi che cacciavano le streghe?» chiese Algie. «Come gli inquisitori spagnoli?» «Ammetto che non avrei dovuto riempir loro la testa con quelle sciocchezze, ma chi poteva prevedere che...» «Hai detto alla polizia di portare un medico?» La persona scesa dalla montagna, quella che aveva detto di aver "dato da mangiare a tutti e due" era Selina. Si avvicinò adagio, con riluttanza. Anche i suoi polsi e le sue caviglie mostravano i segni del filo di ferro. «Beanie ha quaranta di febbre.» «Sì, gliel'ho detto» disse D. J. «Strano, vero, che stavolta sia potuta andare in città senza avere fastidi?» Le avrei potuto dire che non era strano affatto. Non c'era più nessuno che sabotava le barche o che vuotava i serbatoi. Phil di Bitteto era morto. Ma anche se avevo riacquistato la capacità di osservazione, mi facevano ancora difetto le corde vocali. Ascoltai il ronzio degli insetti, il verso del cuculo, il mare che avanzava a lambire la costa e poi si ritraeva. D. J. cicalava, nel tentativo di far dimenticare agli altri la sua parte di responsabilità. «Volevo soltanto organizzare... oh, d'accordo, era una congrega. Ma non c'era niente di male. Non avevamo mai ammazzato una mosca. E loro non avrebbero dovuto dir niente a nessuno. Chi poteva immaginare che tutto venisse distorto, rivoltato...» «Se Beanie dovesse... se succede qualcosa alla gamba di Beanie, io troverò Phil di Bitteto e lo ucciderò con le mie mani» disse Selina. Non c'è bisogno, le dissi io in silenzio. Qualcun altro ti ha tolto il fastidio. «Pensate alla scaltrezza con cui hanno steso il piano!» D. J. insisteva sull'argomento. «Approdare qui di notte, prenderci tutti di soppiatto, uno dopo l'altro, legarci come polli e poi portarci giù ad assistere alla loro be-
stiale...» «Dov'è Gertrude?» chiese Algie. Ma non gliene importava Voleva soltanto arginare il fiume di parole di D. J. «È andata a dormire» gli disse Selina. Come se stessero facendo un inventario i miei occhi correvano su e giù per la spiaggia, ma la mente non mi concedeva di sapere alla ricerca di che cosa. Mi pareva che gli altri mi osservassero in attesa di una domanda. Ascoltavo i suoni che erano stati dell'isola fin da prima che l'uomo arrivasse ad aggiungervi i suoi rumori sgradevoli. Poi mi accorsi che la figura appoggiata all'albero era Nicholas. Avvicinatami a lui, finalmente ritrovai la mia voce. «Dov'è Patty?» chiesi. Parve non vedermi. Aveva gli occhi vacui, persi. «Ha pagato per i suoi peccati» disse. E allora ebbi un colpo di fortuna. Il mondo divenne nero davanti ai miei occhi e caddi svenuta sulla sabbia. 10 maggio Per l'ultima volta guardai la schiena della ragazza nuda con sotto la scritta: "Andate a vedere anche l'altra parte delle Isole Vergini". Pareva che sul campo di volo ci fossero gli stessi aerei riadattati della Seconda Guerra Mondiale, e sul banco polveroso le stesse cartoline, carte da giuoco, bottiglie di Coca Cola e sigarette, e gli stessi indirizzi dei taxi, dei charter e dei ristoranti. Persino l'usignolo sulla buganvillea pareva lo stesso. Diverso, era il gruppo di gente proveniente da Scorpion. Nessuno, comunque, dava segno di notare le nostre stimmate né mostrava la minima curiosità nei nostri confronti. Persino mio padre, vestito alla meglio con indumenti di Ted e di Algie, passava inosservato. Era pulito, rasato, ben pettinato. Pagammo la tassa d'imbarco e i nostri bagagli vennero pesati e spediti a New York. Salimmo sul piccolo aereo che ci avrebbe portati a St. Thomas. Ci sistemammo in un ordine piuttosto strano, nel senso che mio padre aveva Lisa su un ginocchio e Beanie, con la gamba fasciata e tesa nel corridoio, sull'altro; D. J. sedeva sola, io pure, Gertrude con Selina e Ted con Algie. Mio nonno era stato trattenuto sull'isola principale. Il motore aumentò di giri, l'aereo rullò per il piccolo campo e poi partì rombando sulla pista di decollo. E, quando sembrava che non sarebbe mai
riuscito a farcela, si alzò in volo. Mi voltai per dare un'ultima occhiata alle isole: parevano perline infilate sul verde cangiante dell'acqua. Prima scomparvero le persone, poi le automobili e da ultimo le case, lasciando le isole pure e incontaminate sotto il sole. Non mi accorsi che Algie mi si era seduto accanto finché non lo sentii dire: «Gertrude chiederà il divorzio appena arriveremo a casa. Vuoi sposarmi?» «Prima o dopo?» «Prima o dopo che cosa?» «Prima o dopo il divorzio?» «Mi va bene in qualsiasi momento.» Guardai i tagli che aveva sul viso, ai lati del naso e sul mento. Alzai una mano per toccarli, ma ci ripensai e intrecciai le mani in grembo. «La solita brava Holly. Eternamente inibita.» «Il solito bravo Algie. Sempre sgradevole anche quando fa una domanda di matrimonio. Com'è che ti sei fatto quei tagli?» «Quando mi hanno preso mi sono ribellato. Sono stato il primo. Stavo pescando.» «Io invece l'ultima. Stavo per andare a farmi un bagno, nella vasca, non in mare.» «Meglio prima che durante.» Mi voltai a guardare dal finestrino. Mi resi conto che stava ancora parlando solo quando disse: «... due forze opposte come treni in collisione. Da una parte gli indigeni, con la testa piena di chiacchiere sugli strani riti che avevano luogo a Scorpion e convinti che tua nonna avesse operato un maleficio ai danni di quella bambina. Dall'altra tua nonna, decisa ad arricchirsi comprando per poco o niente tutte le case di Scorpion e rivenderle a due o tre volte quel che le aveva pagate.» Non lo guardavo. Lui, interpretando erroneamente il mio silenzio, disse: «Non sto dicendo che ha avuto quel che si meritava. Nessuno si merita una cosa simile. Ma era una donna malvagia, questo sì. Tra l'altro, sai che la casa di Phil di Bitteto era di tua nonna?» A quel punto mi voltai a guardarlo. Avevo ancora negli occhi le distese infinite, la strana luce nata dall'unione del cielo e del mare. «Aveva intenzione di trasferirvisi appena tolti di mezzo i vecchi proprietari. Che Phil la abitasse faceva parte del piano: lui era il capro espiatorio, quello che si arricchiva a spese degli altri. Era un complice utile. Viveva tutto l'anno sull'isola già molto tempo prima che tuo nonno andasse in pen-
sione e vi si stabilissero definitivamente. E quindi poteva prendersi tutta la colpa.» Stavo pensando alla casa, chiedendomi chi, adesso, si sarebbe goduto quella magica incandescenza, ma la sua voce tornò a filtrare nei miei pensieri. «A tuo padre aveva rovinato non solo il matrimonio ma anche la vita, col suo senso di possesso. Tiranneggiava suo marito, pretendendo o che accondiscendesse o che chiudesse gli occhi davanti alle sue malefatte... chissà che ne sarà di lui. È stata lei a uccidere Robert Elwyn, perché l'aveva sorpresa a dare istruzioni a Phil su come sabotare una jeep. L'ha confessato tuo nonno alla polizia. E poi anche Phil perché pretendeva una fetta più grossa del bottino. E c'è mancato poco che facesse perdere la gamba a Beanie impedendogli di andare dal medico.» L'aereo cominciò a girare in cerchio sopra la grande isola ricca di edifici, centri commerciali, aziende. Fissai quella confusione e tornai a guardarmi un istante alle spalle. La fila di piccole isole e il Canale di Drake erano scomparsi. «Ciononostante» continuò lui come se lo contestassi «teneva a farsi credere una donna integerrima. Voleva che tutti la amassero. Era una stucchevole idealista che doveva recitare la parte di Lady Bountiful, elargendo doni a destra e a manca.» «Me lo sentivo» lo interruppi io, e lui tacque, fissandomi. «Sapevo che qualcosa non andava in lei. L'immagine che proiettava di sé non coincideva con la sua natura. Per esempio, non aveva mai cercato di venire incontro a me, sua nipote. Sono stata io ad avvicinarmi a lei. E, mettendo assieme certe frasi che avevo sentito, sapevo per certo che non aveva mai invitato a casa sua né i Dinhofer né i Llewellyn né Ellie Elwyn... la gente che aveva costretto a vendere la propria casa... mentre D. J. e i suoi genitori l'avevano fatto. Voleva che tutti l'ammirassero ma non aveva un solo amico. E poi il mio gatto...» «Il tuo gatto! Ma che cosa diavolo...» «Quando hai fatto l'elenco dei suoi delitti ti sei dimenticato del mio gatto. Doveva per forza conservare la sua maschera di dolcezza, ma io sapevo che non lo voleva. Aveva paura che, partendo, glielo lasciassi e non voleva tra i piedi una creatura che non le serviva.» Atterrammo con un brusco tonfo e girammo attorno all'aerostazione. L'aereo si fermò. Prendemmo i bagagli a mano e infilammo nel corridoio mio padre e i bambini. Non dovevamo passare subito la dogana perché alla coincidenza mancavano due ore. Mi allentai il colletto della camicia e pas-
sai da un braccio all'altro l'impermeabile. Accaldati e sudaticci confermammo il volo e ci mettemmo seduti, fissando la strada piatta, la collina, l'albergo, le baracche, i pescherecci. Marinai, coppiette e bambini andavano e venivano e l'aria era pregna di un miscuglio di odori: pesce marcio, hot dogs, profumi e umanità. Con tristezza, dissi: «Non è Scorpion, eh?» «Quello è un mio amico!» Gertrude balzò in piedi e si fece strada tra la folla. Afferrò per un braccio un uomo in piedi davanti allo sportello delle linee aeree, che si voltò uscendo in un'esclamazione deliziata. Dal colorito della pelle doveva essere appena arrivato. «Mi ricordo la prima volta che sono venuta qui» dissi a Algie. «Nicholas mi aveva offerto un succo d'arancia. Offriamone uno ai bambini.» «Il guaio con te» disse Algie «è che berrai succo d'arancia per tutta la vita.» Si alzò. «D'accordo. Per Lisa e Beanie va bene. Ma, quanto a te, è arrivato il momento di passare a una bevanda da adulti.» FINE