OCTAVIA BUTLER SEME SELVAGGIO (Wild Seed, 1980) Ad Arthur Guy A Ernestine Walker A Phyllis White per aver ascoltato. LIB...
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OCTAVIA BUTLER SEME SELVAGGIO (Wild Seed, 1980) Ad Arthur Guy A Ernestine Walker A Phyllis White per aver ascoltato. LIBRO PRIMO Il patto 1690 1 Doro scoprì la donna per caso, quando andò a vedere che cosa era rimasto di uno dei suoi villaggi vivaio. Il villaggio era un luogo accogliente dalle mura di fango, circondato da praterie e da alberi radi. Ma, prima ancora di raggiungerlo, Doro intuì che la popolazione era scomparsa. I mercanti di schiavi erano passati di lì prima di lui. Con le loro armi e la loro avidità, avevano distrutto in poche ore il lavoro di mille anni. Gli abitanti del villaggio che non avevano portato via, erano stati massacrati. Doro trovò ossa umane, capelli, lembi di carne essiccata sfuggiti ai predatori. Abbassò gli occhi su uno scheletro minuscolo — le ossa di un bambino — e si chiese dove fossero stati portati i superstiti. In quale paese o colonia del Nuovo Mondo? Fin dove avrebbe dovuto spingersi nei suoi viaggi per trovare i resti di quello che era stato un popolo sano e vigoroso? Alla fine si allontanò dalle rovine incespicando, in preda a una collera amara, senza sapere dove andava, senza nemmeno curarsene. Era una questione di orgoglio, per lui, proteggere la sua gente. Non i singoli individui, forse, ma i gruppi. Loro gli tributavano lealtà e obbedienza, e lui li proteggeva. Era venuto meno al suo compito. Si diresse a sud ovest, senza una meta precisa, verso la foresta, partendo così com'era arrivato: solo, disarmato, senza provviste, accogliendo la savana e più tardi la foresta con la stessa facilità con cui accettava ogni terreno. Fu ucciso più volte da malattie, da animali, da popolazioni ostili. Quella era una terra aspra. Pure continuò ad avanzare verso sud ovest, al-
lontanandosi inavvertitamente dal tratto di costa dove lo attendeva la nave. Dopo qualche tempo, si rese conto che non er a più la collera per la perdita del villaggio vivaio a spingerlo. Era qualcosa di nuovo: un impulso, una sensazione, una sorta di deriva mentale che lo attirava. Avrebbe potuto resisterle senza sforzo, ma non lo fece. Sentiva che c'era qualcosa in serbo per lui più avanti, ancora più avanti, proprio sul suo cammino. Si fidava di certe sensazioni. Da parecchie centinaia di anni non si spingeva tanto a ovest, quindi era sicuro che qualsiasi cosa, qualsiasi essere trovasse, sarebbero stati nuovi per lui, nuovi e potenzialmente preziosi. Avanzava con impazienza. La sensazione diventava sempre più intensa e acuta, tramutandosi in una sorta di segnale, come normalmente si sarebbe aspettato di ricevere soltanto da persone che conosceva. Persone come gli abitanti del villaggio perduto che avrebbe dovuto rintracciare subito, prima che fossero costretti a mescolare il loro seme con estranei e diluire tutte le qualità speciali che apprezzava in loro. Ma proseguì lo stesso verso sud ovest, avvicinandosi lentamente alla preda. Anyanwu aveva occhi e orecchie più acuti di quelli degli altri. Ne aveva affinato la sensibilità di proposito, fin dalla prima volta che gli uomini erano venuti a darle la caccia, con i machete pronti, le intenzioni evidenti. Aveva dovuto uccidere sette volte, quel terribile giorno — sette uomini spaventati che avrebbero potuto essere risparmiati — ed era stata sul punto di morire lei stessa, e tutto perché aveva lasciato che le si avvicinassero senza essere notati. Non sarebbe accaduto mai più. In quel momento, per esempio, sentiva perfettamente il solitario intruso che si aggirava fra i cespugli accanto a lei. Si teneva nascosto, si avvicinava come il fumo, ma Anyanwu lo sentiva, lo seguiva con l'udito. Senza dare alcun segno esteriore, continuò a curare l'orto. Finché sapeva dove si trovava l'intruso, non avrebbe avuto nessuna paura di lui. Forse si sarebbe scoraggiato e sarebbe andato via. Intanto, c'erano delle erbacce fra le patate dolci e le erbe medicinali. Le erbe non erano quelle tradizionali coltivate o raccolte dal suo popolo. Lei sola le coltivava come rimedi per risanare, e le usava quando la gente le portava i malati. Spesso non aveva bisogno di medicine, ma questo lo teneva per sé. Serviva il suo popolo offrendo sollievo dal dolore e dalla malattia. Inoltre lo arricchiva, consentendogli di spargere la voce delle sue doti fra i popoli confinanti. Lei era un oracolo. Una donna per bocca della quale parlava un dio. Gli stranieri pa-
gavano cari i suoi servigi. Pagavano il suo popolo, poi pagavano lei. Era così che doveva essere. Il popolo si rendeva conto che traeva beneficio dalla sua presenza, e che aveva ragione di temere le sue doti. In quel modo Anyanwu si proteggeva da loro — e loro da lei — per la maggior parte del tempo. Ma di tanto in tanto uno di loro vinceva la paura e trovava un pretesto per tentare di porre fine alla sua lunga vita. L'intruso si stava avvicinando, e ancora non si lasciava vedere. Nessuna persona con intenzioni oneste si sarebbe accostata in modo tanto furtivo. Chi era allora? Un assassino? Qualcuno che la incolpava della morte di un parente o di qualche altra disgrazia? Durante le sue numerose gioventù, era stata accusata più volte di portare sfortuna. Le avevano somministrato veleno per sottoporla alla prova della stregoneria. Ogni volta lei aveva affrontato la prova di buon grado, sapendo di non avere stregato nessuno, e sapendo che nessun uomo comune, con la sua scarsa conoscenza dei veleni, poteva nuocerle. Lei ne sapeva più di tutti: nella sua lunga vita aveva ingerito più veleni di quanti potesse escogitarne chiunque nel suo popolo. Ogni volta che aveva superato la prova, gli accusatori erano stati ridicolizzati e multati per le false accuse. In ognuna delle sue vite, a mano a mano che lei era invecchiata, la gente aveva smesso di accusarla, anche se non tutti avevano smesso di credere che fosse una strega. Alcuni avevano tentato di forzare la situazione e di ucciderla senza preoccuparsi delle prove. L'intruso uscì finalmente sul sentiero angusto per avvicinarsi allo scoperto: ne aveva abbastanza di spiarla. Anyanwu alzò gli occhi come se si accorgesse di lui per la prima volta. Era uno sconosciuto, un uomo aitante, più alto della media e più largo di spalle. Aveva la pelle scura come quella di Anyanwu, e il viso era largo e attraente, con la bocca atteggiata a un leggero sorriso. Era giovane... non ancora trentenne, pensò Anyanwu. Certamente troppo giovane per costituire una minaccia per lei. Tuttavia qualcosa la impensieriva in quell'uomo. Forse la sua improvvisa disinvoltura dopo tanta circospezione. Chi era? Che cosa voleva? Quando fu abbastanza vicino, le parlò, e le sue parole le fecero aggrottare la fronte per la confusione. Erano parole straniere, del tutto incomprensibili per lei, ma avevano una strana familiarità, come se avesse dovuto capirle. Si raddrizzò, mascherando un nervosismo insolito. — Chi sei? — domandò. L'uomo alzò leggermente la testa quando lei parlò, parve ascoltare.
— Come possiamo intenderci? — chiese Anyanwu. — Devi venire da molto lontano, se il tuo modo di parlare è così diverso. — Molto lontano — rispose lui nella lingua di Anyanwu. Le parole adesso le giungevano chiare, anche se l'uomo aveva un accento che le rammentava quello del suo popolo, tanto tempo prima, quando lei era veramente giovane. Questo non le piacque. Tutto, nell'uomo, la metteva a disagio. — Allora sai parlare — osservò. — Sto ricordando. Era molto tempo che non parlavo la tua lingua. — Si avvicinò, scrutandola. Infine sorrise e scosse la testa. — Tu sei qualcosa di più che una vecchia — disse. — Forse non sei affatto una vecchia. Lei si ritrasse, confusa. Come poteva sapere qualcosa di ciò che lei era? Come poteva anche solo intuire, senza avere altre prove che il suo aspetto e poche parole? — Sono vecchia — ribatté, mascherando la paura con l'ira. — Potrei essere la madre di tua madre! — Avrebbe potuto essere un'antenata della madre di sua madre, ma questo lo tenne per sé. — E tu chi sei? — domandò. — Potrei essere il padre di tua madre — rispose lui. Anyanwu fece un altro passo indietro, controllando in qualche modo la paura crescente. Quell'uomo non era ciò che sembrava. Le parole che aveva pronunciato avrebbero dovuto suonare come una battuta divertente, ma invece sembravano rivelare tanto — e nello stesso tempo tanto poco — quanto le sue. — Sta' calma — le disse. — Non intendo farti del male. — Chi sei? — ripeté Anyanwu. — Doro. — Doro? — Lei ripeté due volte quella strana parola. — È un nome? — È il mio nome. Presso il mio popolo, indica l'oriente: la direzione dalla quale sorge il sole. Lei si portò una mano al viso. — Questo è uno scherzo — esclamò. — Qualcuno sta ridendo. — Tu non sei tanto ingenua. Quando è stata l'ultima volta che ti sei lasciata spaventare da uno scherzo? Era passato più tempo di quanto riuscisse a ricordare; aveva ragione lui. Ma i nomi... La coincidenza era come un segno. — Sai chi sono? — domandò. — Sei venuto fin qui sapendolo, oppure...? — Sono venuto qui per te. Non sapevo niente, se non che eri insolita ed eri qui. La percezione di te mi ha fatto deviare di molto dal mio cammino.
— Percezione? — Ho avuto una sensazione... La gente diversa come te mi attira, non so come, mi chiama, anche a grande distanza. — Io non ti ho chiamato. — Esisti e sei diversa. Questo è stato sufficiente ad attirarmi. Ora dimmi chi sei. — Devi essere l'unico uomo in questo paese che non ha sentito parlare di me. Sono Anyanwu. Lui ripeté il nome e lanciò un'occhiata in alto, comprendendo. Sole, significava il suo nome. Anyanwu: il sole. Annuì. — I nostri popoli sono separati da molti anni e da una grande distanza, Anyanwu, e tuttavia, chissà come, hanno scelto bene i nostri nomi. — Come se fossimo destinati a incontrarci. Doro, qual è il tuo popolo? — Ai miei tempi si chiamavano Kush. Il loro territorio è lontano, a est di qui. Io nacqui fra loro, ma da molto tempo, ormai, non sono più il mio popolo. Non li vedo forse da dodici volte il tempo della tua vita. Quando avevo 13 anni, venni separato da loro. Ora il mio popolo è formato da quelli che mi giurano lealtà. — E pensi di conoscere la mia età — osservò lei. — È qualcosa che il mio stesso popolo ignora. — Senza dubbio ti sei spostata da una città all'altra per aiutarli a dimenticare. — Si guardò attorno, vide un albero caduto poco lontano. Andò a sedervisi. Anyanwu lo seguì quasi suo malgrado. A tal punto quell'uomo la confondeva e la spaventava, a tal punto la incuriosiva. Era molto tempo che non le accadeva qualcosa che non fosse già accaduto prima, e più di una volta. Lui riprese a parlare. — Io non faccio niente per nascondere la mia età — le disse — eppure alcuni del mio popolo hanno trovato più comodo dimenticare, dato che non possono né uccidermi né diventare come me. Lei si avvicinò per scrutarlo attentamente. Era chiaro che si stava proclamando simile a lei, longevo e potente. In tutta la sua vita, Anyanwu non aveva conosciuto una sola persona simile a lei. Aveva rinunciato da tempo a cercarne, accettando la solitudine. Ma ora... — Continua a parlare — lo invitò. — Hai molte cose da dirmi. L'uomo la stava guardando, la fissava negli occhi con una curiosità che la maggior parte delle persone tentava di nascondere. La gente diceva che i suoi occhi somigliavano a quelli dei bambini piccoli... con il bianco troppo bianco, il bruno dell'iride troppo profondo e limpido. Nessun adulto, e tan-
to meno una vecchia, avrebbe dovuto avere occhi simili, dicevano. Ed evitavano il suo sguardo. Gli occhi di Doro non erano affatto insoliti, ma lui la fissava come facevano i bambini. Non aveva nessuna paura, e probabilmente nessuna vergogna. La sorprese, prendendola per mano e attirandola vicino a sé sul tronco d'albero. Lei avrebbe potuto sciogliersi facilmente dalla stretta, ma non lo fece. — Oggi ho fatto molta strada — le disse l'uomo. — Questo corpo ha bisogno di riposo, se deve continuare a servirmi. Lei rifletté. «Questo corpo ha bisogno di riposo.» Che strano modo di esprimersi. — L'ultima volta che sono venuto in questo territorio è stata circa tre secoli fa — riprese l'uomo. — Stavo cercando un gruppo della mia gente che si era smarrito, ma furono uccisi tutti prima che li ritrovassi. Allora il tuo popolo non viveva qui, e tu non eri nata. Lo so perché non fui attratto dalla tua diversità. Penso, però, che tu sia frutto del passaggio del mio popolo presso il tuo. — Vuoi dire che potrei essere imparentata con il tuo popolo? — Sì. — Le stava studiando il viso con molta attenzione, forse in cerca di una somiglianza. Non l'avrebbe trovata. Quello non era il suo vero volto. — Il tuo popolo ha attraversato il Niger — lui esitò, corrugando la fronte, poi diede al fiume il nome esatto — l'Orumili. L'ultima volta che l'ho visto, viveva dalla parte opposta, nel Benin. — Passammo il fiume molto tempo fa — confermò lei. — I bambini nati in quel tempo sono invecchiati e morti. Eravamo Ado e Idu, soggetti ai Benin prima della traversata. Poi combattemmo con i Benin e attraversammo il fiume a Onita per diventare un popolo libero, padroni di noi stessi. — Che cosa ne è stato del popolo Oze che viveva qui prima di voi? — Alcuni sono fuggiti. Altri sono diventati nostri schiavi. — Così, siete stati scacciati dai Benin, poi, a vostra volta, avete scacciato degli altri da qui, o li avete ridotti in schiavitù. Anyanwu distolse lo sguardo, parlò con voce legnosa. — Meglio essere un padrone che uno schiavo. — Lo aveva detto suo marito al tempo della migrazione. Si era immaginato di diventare un grand'uomo, padrone di una grande casa con molte mogli, figli e schiavi. Anyanwu, d'altra parte, era stata schiava due volte in vita sua, ed era fuggita solo cambiando completamente identità e trovandosi un marito in un'altra città. Sapeva che alcune
persone erano padroni e altre schiavi. Era sempre andata così. Ma la sua esperienza personale le aveva insegnato a odiare la schiavitù. Negli ultimi anni aveva perfino trovato difficile essere una buona moglie, per il modo in cui una donna doveva chinare la testa e sottomettersi al marito. Era meglio essere così com'era, una sacerdotessa che parlava con la voce di un dio ed era temuta e obbedita. Ma in fondo di che si trattava? Era diventata anche lei una specie di padrone. — A volte si deve diventare padroni per non diventare schiavi — disse a voce bassa. — Sì — riconobbe lui. Anyanwu dedicò deliberatamente la sua attenzione ai nuovi argomenti sui quali le aveva dato da riflettere. L'età, per esempio. Aveva ragione lui. Anyanwu aveva circa 300 anni, cosa che nessuno del suo popolo avrebbe creduto. E l'uomo aveva detto qualcos'altro, qualcosa che ridestava uno dei suoi ricordi più antichi. Si erano fatti pettegolezzi, quando lei era ragazza, a proposito del fatto che suo padre non poteva generare figli, che lei era figlia non solo di un altro uomo, ma addirittura di uno straniero di passaggio. Aveva chiesto spiegazioni alla madre e, per la prima e unica volta in vita sua, lei l'aveva picchiata. Da quel momento, lei aveva accettato la storia come vera. Ma non era mai riuscita a sapere niente dello straniero. Non ne aveva sofferto — il marito della madre la considerava sua figlia ed era un brav'uomo — ma si era sempre chiesta se il popolo dello straniero le assomigliasse di più. — Sono tutti morti? — domandò a Doro. — Questi... miei parenti? — Sì. — Allora non mi assomigliavano. — Forse sarebbero stati simili a te dopo molte altre generazioni. Tu non sei la loro unica figlia. Anche i tuoi parenti Onisha dovevano essere insoliti, a modo loro. Anyanwu annuì lentamente. Le vennero in mente parecchi aspetti insoliti della madre. La donna aveva avuto peso e influenza, nonostante i pettegolezzi sul suo conto. Il marito apparteneva a un clan molto rispettato, ben noto per le sue capacità magiche, ma in casa era la madre di Anyanwu a operare la magia. Faceva sogni profetici molto precisi. Preparava rimedi per curare malattie e proteggere la gente dal male. Al mercato, nessuna sapeva contrattare meglio di lei. Sembrava sapere per istinto come condurre gli affari, come se potesse leggere nel pensiero delle altre donne. Era diventata molto ricca.
Si diceva che il clan di Anyanwu, il clan del marito di sua madre, contasse membri che sapevano cambiare forma e assumere l'aspetto di animali a loro piacimento, ma Anyanwu non aveva visto in loro nessuna stranezza del genere. Era nella madre che aveva trovato una stranezza, una vicinanza, un'empatia che andavano al di là di quanto ci si poteva aspettare fra madre e figlia. Lei e la madre avevano vissuto un'unità spirituale che portava perfino a uno scambio di pensieri e di sentimenti, anche se badavano a celare la cosa di fronte agli altri. Se Anyanwu provava dolore, sua madre, impegnata a commerciare in un mercato distante, sentiva quel dolore e tornava a casa. Anyanwu aveva avuto soltanto una pallida ombra di contatti così intimi con i propri figli e con tre dei suoi mariti. E aveva cercato per anni nel suo clan, nel clan della madre e in altri, anche solo un accenno della sua particolarità più notevole, la capacità di cambiare forma. Aveva raccolto molte storie impressionanti, ma non aveva incontrato nessun'altra persona che, come lei, potesse dare dimostrazione di quell'abilità. Fino a quel momento, forse. Fissò Doro. Che cosa sentiva in lui, quale stranezza? Non aveva condiviso con lui nessun pensiero, ma possedeva qualcosa che le ricordava sua madre. Un altro spettro. — Sei mio parente di sangue? — gli domandò. — No — rispose lui. — Ma i tuoi parenti mi avevano giurato lealtà. Non è poca cosa. — È per questo che sei venuto quando... quando la mia differenza ti ha attirato? Lui scosse la testa. — Sono venuto per vedere che cosa eri. Anyanwu si accigliò, improvvisamente cauta. — Io sono me stessa. Mi vedi. — Come tu vedi me. Pensi di vedere tutto? Lei non rispose. — La menzogna mi offende, Anyanwu, e quello che vedo di te è menzogna. Mostrami quello che sei realmente. — Vedrai quello che vedrai! — Hai paura di mostrarmelo? — ...No. — Non era paura. Cos'era? Una vita intera passata a nascondersi, a imporsi di non giocare mai con le proprie facoltà davanti agli altri, a non esibirle mai come semplici trucchi, a evitare sempre che il suo popolo, o qualunque altro popolo, conoscesse la vastità del suo potere, a meno che non fosse costretta a lottare per la vita. E ora doveva infrangere la tra-
dizione solo perché quello sconosciuto glielo chiedeva? Aveva fatto molte chiacchiere, ma in fondo che cosa le aveva mostrato di sé? Niente. — Può la mia maschera essere una menzogna se la tua non lo è? — gli chiese. — La mia lo è — ammise lui. — Allora fammi vedere che cosa sei. Dammi la stessa fiducia che mi chiedi di dare a te. — Hai la mia fiducia, Anyanwu, ma sapere che cosa sono potrebbe soltanto spaventarti. — Allora sarei una bambina? — ribatté lei infuriata. — Sei forse mia madre, per proteggermi da verità riservate agli adulti? Lui rifiutò di ritenersi offeso. — La maggior parte del mio popolo mi è grata di proteggerlo da questa particolare verità. — Lo dici tu. Io non ho visto niente. Lui si alzò in piedi e Anyanwu gli si parò di fronte, con il piccolo corpo avvizzito nella sua ombra. Era alta poco più della metà dell'uomo, ma per lei non era una novità fronteggiare persone più grandi e piegarle alla sua volontà con le parole o indurle alla sottomissione con mezzi fisici. In effetti, avrebbe potuto diventare grande come qualsiasi uomo, ma preferiva che la bassa statura continuasse a trarre in inganno la gente. Il più delle volte metteva gli estranei a loro agio perché la faceva sembrare innocua. Inoltre, spingeva i potenziali aggressori a sottovalutarla. Doro la fissò dall'alto. — A volte soltanto una scottatura insegna a un bambino a rispettare il fuoco — disse. — Vieni con me in uno dei villaggi della tua città, Anyanwu. Là ti mostrerò quello che pensi di voler vedere. — Che cosa farai? — chiese lei con diffidenza. — Ti farò scegliere qualcuno... un nemico o semplicemente qualche persona inutile di cui il tuo popolo farebbe volentieri a meno. Poi lo ucciderò. — Uccidere! — Io uccido, Anyanwu. È così che conservo la gioventù, la forza. Posso fare una cosa sola per mostrarti che cosa sono, e cioè uccidere un uomo e indossare il suo corpo come una veste. — Respirò a fondo. — Questo non è il corpo con cui sono nato. Non è il decimo che indosso, e nemmeno il centesimo o il millesimo. Il tuo dono sembra gentile. Il mio non lo è. — Sei uno spirito — esclamò lei allarmata. — Te l'avevo detto che eri una bambina — osservò Doro. — Vedi come ti spaventi?
Lui somigliava a un ogbanje, lo spirito di un bambino maligno che nasceva e rinasceva da una donna, soltanto per morire e far soffrire la madre. Una donna tormentata da un ogbanje poteva partorire molte volte senza avere mai un figlio vivente. Ma Doro era adulto. Non entrava e rientrava nel grembo della madre. Non voleva corpi di bambini. Preferiva rubare corpi di uomini. — Sei uno spirito! — insistette lei, con la voce acuta per la paura. Frattanto una parte della sua mente si domandava come mai gli credeva così facilmente. Lei stessa conosceva molti trucchi, molte menzogne spaventose. Perché allora doveva reagire come il più ignorante degli stranieri portato di fronte a lei, convinto che un dio parlasse per suo tramite? Eppure gli credeva, e aveva paura. Quell'uomo era molto più insolito di lei. Quell'uomo non era un uomo. Quando le sfiorò il braccio, inaspettatamente, lei gridò. Doro emise un verso di disgusto. — Donna, se richiamerai qui la tua gente facendo chiasso, non avrò altra scelta che uccidere alcuni di loro. Lei rimase immobile, credendo anche a quello. — Hai ucciso qualcuno mentre venivi qui? — mormorò. — No. Mi sono dato molta pena per non uccidere a causa tua. Ho pensato che qui potevi avere dei parenti. — Generazioni di parenti. I figli, i loro figli e perfino i figli dei nipoti. — Non vorrei uccidere uno dei tuoi figli. — Perché? — Lei ne fu sollevata ma incuriosita. — Che cosa sono per te? — Come mi accoglieresti, se venissi a te vestito della carne di uno dei tuoi figli? Lei si ritrasse, non sapendo come immaginare una cosa simile. — Vedi? In ogni caso, i tuoi figli non dovrebbero essere sprecati. Potrebbero essere un buon ... — Pronunciò una parola in un'altra lingua. Anyanwu la udì chiaramente, ma non significava niente per lei. La parola era seme. — Che cos'è un "seme"? — domandò. — Sono persone troppo preziose per essere uccise per caso — rispose lui. Poi, in tono più dolce: — Devi mostrarmi che cosa sei. — Come possono i miei figli essere preziosi per te? Lui le lanciò una lunga occhiata silenziosa, poi parlò con quella stessa dolcezza. — Potrei essere costretto a rivolgermi a loro, Anyanwu. Forse sarebbero più malleabili della madre.
Lei non ricordava di essere mai stata minacciata in modo così gentile... o così efficace. I suoi figli... — Vieni — sussurrò. — Questo è un luogo troppo esposto per farti vedere. Mascherando l'eccitazione, Doro seguì la donna piccola e avvizzita nel minuscolo recinto della sua abitazione. Il muro del recinto — fatto di argilla rossa e alto più di sei piedi — avrebbe garantito loro la discrezione voluta da Anyanwu. — I miei figli non ti servirebbero a niente — gli disse mentre camminavano. — Sono uomini in gamba, ma sanno ben poco. — Non sono come te? Nessuno di loro? — Nessuno. — E le tue figlie? — Nemmeno loro. Le ho studiate attentamente finché si sono trasferite nelle città dei mariti. Sono come mia madre. Esercitano grande influenza sui mariti e sulle altre donne, ma nient'altro. Vivono la loro vita e poi muoiono. — Muoiono...? Lei aprì la porta di legno e lo condusse oltre il muro, poi sprangò la porta dietro di sé. — Muoiono — ripeté con tristezza. — Come i padri. — Forse, se i tuoi figli e le tue figlie si sposassero fra loro... — Abominio! — esclamò lei allarmata. — Qui non siamo animali, Doro! Lui scrollò le spalle. Aveva trascorso gran parte della sua vita a ignorare simili proteste e convincere chi le pronunciava a cambiare idea. Di rado l'etica della gente resisteva a uno scontro con lui. Per il momento, comunque, era meglio andare cauti. Quella donna era preziosa. Se avesse avuto anche solo la metà degli anni che lui pensava, doveva essere la persona più vecchia che avesse mai conosciuto, ed era ancora vitale. Discendeva da un popolo la cui eccezionale longevità, la cui resistenza alle malattie e le cui particolari abilità ancora in boccio lo avevano reso molto importante ai suoi occhi. Un popolo che come tanti altri, era caduto vittima di mercanti di schiavi o tribù nemiche. Erano rimasti in pochi. Nulla doveva accadere a quell'unica superstite, a quel piccolo ibrido fortunato. Soprattutto, doveva essere protetta dallo stesso Doro. Non doveva ucciderla per ira o per un incidente, e gli incidenti capitavano facilmente in quel paese. Doveva portarla via con sé in una delle sue città vivaio più sicure. Forse, nella sua singo-
larità, poteva ancora dare alla luce dei figli e forse, con i compagni potenti che poteva procurarle, stavolta i figli sarebbero stati degni di lei. Se no, c'erano sempre i suoi figli viventi. — Vuoi guardare, Doro? — chiese lei. — È questo che volevi vedere. Concentrò l'attenzione su di lei, e Anyanwu cominciò a sfregarsi le mani. Queste sembravano artigli di uccello, con dita lunghe, rugose e ossute. Sotto gli occhi di Doro, cominciarono a riempirsi, a diventare lisce e giovani. Le braccia e le spalle di Anyanwu cominciarono ad arrotondarsi e i seni cadenti divennero tondi e alti. I fianchi diventarono sinuosi sotto il perizoma, scatenando in lui il desiderio di strapparglielo di dosso. Da ultimo, lei si toccò il viso e spianò le rughe con le dita. Una vecchia cicatrice sotto un occhio svanì. La carne diventò levigata e soda, e la donna acquistò una bellezza sorprendente. Infine gli si piantò davanti con l'aspetto di una ragazza non ancora ventenne. Si schiarì la gola e gli parlò con la voce morbida di una donna giovane. — È sufficiente? Per un attimo lui riuscì soltanto a fissarla. — Sei veramente tu, Anyanwu? — Come sono realmente. Come sarei sempre, se non m'invecchiassi o mi trasformassi per gli altri. Questa forma mi torna molto facilmente. Altre sono più difficili da assumere. — Altre! — Credevi che potessi assumerne una sola? — Lei cominciò a plasmare il suo corpo malleabile in un'altra forma. — Ho assunto la forma di animali per spaventare il mio popolo quando voleva uccidermi — spiegò. — Diventai un leopardo e sputai su di loro. Credono in certe cose, ma non amano vederle con i propri occhi. Poi diventai un pitone sacro, e nessuno osò farmi del male. La forma del pitone mi portò fortuna. Allora avevamo bisogno di pioggia per salvare il raccolto di ignami, e mentre ero un pitone cadde la pioggia. La gente decise che la mia magia era buona, e ci volle molto tempo perché provasse di nuovo il desiderio di uccidermi. — Mentre parlava, stava diventando un uomo piccolo di statura ma muscoloso. Ora Doro tentò davvero di strapparle di dosso il perizoma, muovendosi lentamente in modo che lei capisse. Sentì per un attimo la sua forza quando lei gli afferrò la mano e, senza nessuno sforzo particolare, quasi gliela spezzò. Poi, quando lui dominò la sorpresa e si impedì di reagire al dolore, Anyanwu si sciolse da sola il perizoma e se lo tolse. Per alcuni secondi, Doro rimase più impressionato da quella presa casuale che dal suo corpo,
ma non poté fare a meno di notare che era diventata maschio in tutto e per tutto. — Potresti essere padre di un figlio? — le domandò. — Col tempo. Non subito. — Lo hai fatto? — Sì. Ma ho avuto solo figlie femmine. Lui scosse la testa, ridendo. Quella donna era superiore a ogni immaginazione. — Mi sorprende che il tuo popolo ti abbia lasciato in vita — disse. — Pensi che gli avrei permesso di uccidermi? — ribatté lei. Doro rise di nuovo. — E ora che farai, Anyanwu? Resterai qui con loro, convincendo ogni nuova generazione che è meglio lasciarti in pace, o verrai con me? Lei si annodò nuovamente il perizoma intorno ai fianchi, poi lo fissò, con i grandi occhi limpidissimi che sembravano ingannevolmente gentili nel viso di giovane uomo. — È questo che vuoi? — domandò. — Che venga con te? — Sì. — Allora è questa la vera ragione per cui sei venuto qui. A lui parve di sentire un tono di paura nella sua voce, e la mano ancora indolenzita lo convinse che non doveva spaventarla senza motivo. Era troppo forte. Poteva costringerlo a ucciderla. Parlò francamente. — Mi sono lasciato attirare qui perché alcune persone che mi avevano giurato fedeltà erano state trascinate via in schiavitù — spiegò. — Sono andato al loro villaggio per prenderli e portarli in una casa più sicura, e ho trovato... solo quello che i mercanti di schiavi avevano lasciato. Sono andato via, senza curarmi di dove mi portavano i piedi. Quando mi hanno portato qui, sono rimasto sorpreso e, per la prima volta in tanti giorni, mi sono sentito contento. — Pare che la tua gente ti venga sottratta spesso. — Non è solo un'impressione: è la verità. È per questo che li sto radunando tutti in un posto nuovo. Laggiù mi sarà più facile proteggerli. — Io mi sono sempre protetta da sola. — Questo lo vedo. Sarai molto preziosa per me. Penso che potresti proteggere altri, oltre a te stessa. — Dovrei lasciare il mio popolo per aiutarti a proteggere il tuo? — Dovresti lasciarlo per essere finalmente insieme ai tuoi simili.
— Insieme a chi uccide uomini e si veste della loro pelle? Noi non ci somigliamo, Doro. Lui sospirò, guardò in direzione della casa di Anyanwu, una piccola costruzione rettangolare con il tetto spiovente che scendeva fino a pochi piedi dal terreno. Le pareti erano della stessa terra rossa del muro del recinto. Si chiese distrattamente se la terra rossa era la stessa argilla che aveva visto nelle abitazioni indiane delle regioni sud occidentali del continente nordamericano. Ma quel che era più urgente, si chiese se c'erano letti in casa di Anyanwu, e cibo e acqua. Era quasi troppo stanco e affamato per continuare a discutere con la donna. — Dammi da mangiare, Anyanwu — le disse. — Allora avrò la forza per indurti a venire via da questo posto. Lei parve sorpresa, poi rise, quasi suo malgrado. Capì che non voleva che lui si trattenesse a mangiare, che non voleva affatto che si fermasse lì. Credeva a quello che le aveva detto, e aveva paura che potesse indurla ad andare via. Voleva che se ne andasse... o almeno, una parte di lei lo voleva. Di sicuro c'era un'altra parte di lei che era affascinata, che si domandava cosa sarebbe successo se avesse lasciato la sua casa e fosse partita con quello straniero. Era troppo sveglia, troppo viva per non avere quel tipo di mente che indagava e sondava e ogni tanto la cacciava nei guai. — Almeno un po' di patate dolci, Anyanwu — le disse sorridendo. — Oggi non ho mangiato niente. — Sapeva che lo avrebbe sfamato. Senza dire una parola, lei si allontanò dirigendosi verso un'altra costruzione più piccola e tornò con due grosse patate dolci. Poi lo condusse in cucina e gli offrì una pelle di cervo su cui sedersi, dato che lui non portava con sé nient'altro che il perizoma intorno ai fianchi. Ancora in forma maschile, lei divise cortesemente con lui una noce di cola e un po' di vino di palma. Poi cominciò a preparare il cibo. Oltre alle patate dolci, aveva verdure, pesce affumicato e olio di palma. Accese un fuoco con i carboni che ardevano nel tripode di pietra che le faceva da focolare, poi mise a bollire una pentola di coccio piena d'acqua. Cominciò a sbucciare le patate dolci. Le avrebbe tagliate a pezzi per lessarle finché fossero diventate abbastanza tenere da essere schiacciate, come piacevano al suo popolo. Forse poteva preparare una minestra con le verdure, l'olio e il pesce, ma quello avrebbe richiesto tempo. — Che cosa fai? — gli chiese mentre lavorava. — Rubi il cibo, quando hai fame?
— Sì — rispose Doro. Rubava ben altro che il cibo. Se nelle vicinanze non c'erano persone che conosceva, o se si recava fra persone che conosceva e non lo accoglievano bene, lui prendeva semplicemente un corpo nuovo e forte. Nessuna persona, nessun gruppo poteva impedirglielo. Nessuno poteva impedirgli di fare nulla. — Un ladro — osservò Anyanwu, con un disgusto che a lui non sembrò del tutto autentico. — Tu rubi, uccidi. Che altro fai? — Costruisco — rispose a bassa voce. — Cerco la terra per le persone che sono un po' diverse... o molto diverse. Le scovo, le riunisco in gruppi, comincio a fare di loro un popolo nuovo e forte. Lei lo fissò con sorpresa. — E loro te lo lasciano fare? Si lasciano portar via dal loro popolo, dalle loro famiglie? — Alcuni portano con sé le famiglie. Molti non hanno famiglia. Le loro differenze ne hanno fatto dei paria. Sono lieti di seguirmi. — Sempre? — Abbastanza spesso. — Che succede quando la gente non vuole seguirti? Che succede se dicono: «Pare che molti dei tuoi muoiano, Doro. Noi vogliamo restare dove siamo e vivere.»? Lui si alzò e andò verso la soglia della stanza attigua, dove due letti d'argilla duri ma invitanti erano stati scavati nelle pareti. Doveva dormire. Malgrado la giovinezza e la forza del corpo che occupava, era soltanto un corpo comune. Se lo avesse trattato con cura — se gli avesse concesso cibo e riposo adeguato, e non lo avesse lasciato ferire — gli sarebbe durato ancora qualche settimana. Se lo sfiancava, però, come aveva fatto per raggiungere Anyanwu, lo avrebbe logorato molto prima. Tenne le mani davanti a sé, con le palme rivolte in basso, e non fu sorpreso di vedere che tremavano. — Anyanwu, devo dormire. Svegliami quando sarà pronto il cibo. — Aspetta! Il tono secco della sua voce lo fermò, lo indusse a voltarsi. — Rispondi — ordinò lei. — Che succede se la gente non vuole seguirti? Tutto lì? Lui la ignorò, salì su uno dei letti, si stese sulla stuoia che lo copriva e chiuse gli occhi. Prima di scivolare nel sonno gli sembrò di sentirla entrare nella stanza e uscire di nuovo, ma non ci badò. Aveva scoperto da tempo che le persone erano molto più disposte a collaborare se le costringeva a rispondere da sé a domande come quella. Soltanto gli stupidi
avevano davvero bisogno di sentire la risposta, e quella donna non era stupida. Quando lo svegliò, la casa era pervasa dall'odore del cibo e lui si alzò sveglissimo e affamato. Sedette insieme a lei, si lavò distrattamente le mani nella ciotola d'acqua che gli porse, poi si servì delle dita per raccogliere un boccone di patate dolci schiacciate dal suo piatto e intingerlo nel recipiente comune di zuppa piccante. Il cibo era buono e nutriente, e per qualche tempo si concentrò su di esso, ignorando Anyanwu se non per notare che mangiava anche lei e non sembrava in vena di parlare. Ricordava vagamente che c'era stata una breve cerimonia religiosa fra il lavaggio delle mani e la cena, l'ultima volta che era stato fra la sua gente. Un'offerta di cibo e vino di palma agli dei. Una volta saziato l'appetito iniziale, glielo chiese. Lei gli lanciò un'occhiata. — Quali divinità rispetti? — Nessuna. — E perché no? — Mi aiuto da solo — rispose lui. Anyanwu annuì. — In almeno due sensi, è vero. Anch'io faccio da sola. Lui sorrise appena, ma non poté fare a meno di chiedersi quanto poteva rivelarsi difficile domare almeno in parte una donna selvaggia che si aiutava da sola da trecento anni. Non sarebbe stato difficile indurla a seguirlo. Aveva dei figli e li amava, quindi era vulnerabile. Ma poteva benissimo fargli rimpiangere di averla presa con sé, soprattutto perché era troppo preziosa per ucciderla, se appena avesse potuto farne a meno. — Agli occhi del mio popolo — riprese lei — rispetto le divinità. Parlo con la voce di un dio. Per quanto riguarda me... con gli anni, ho capito che ognuno dev'essere il proprio dio e deve costruirsi la propria fortuna da solo. Il male verrà o non verrà, in un modo o nell'altro. — Sei davvero fuori posto, qui. Lei sospirò. — Torniamo sempre allo stesso discorso. Io sono contenta qui, Doro. Ho già avuto dieci mariti che mi dicevano cosa fare. Per quale motivo dovrei prendere te come undicesimo? Perché se rifiuto mi ucciderai? È così che gli uomini trovano moglie nel tuo paese? Minacciandole di morte? Be', forse non puoi uccidermi. Forse dovremmo scoprirlo! Lui ignorò il suo scoppio di collera, e notò invece che aveva dato per scontato che la volesse in moglie. Era una congettura naturale da parte sua, forse una congettura esatta. Lui si era chiesto con quale dei suoi uomini doveva farla accoppiare per primo, ma ora sapeva che l'avrebbe presa per
sé, almeno, per qualche tempo. Spesso teneva con sé, per qualche mese, magari un anno, le persone più potenti del suo popolo. Se erano bambini, imparavano ad accettarlo come padre. Se erano uomini, imparavano a obbedirgli come a un padrone. Se erano donne, lo accettavano come marito o amante. Anyanwu era una delle donne più belle che avesse mai visto. Aveva intenzione di portarsela a letto quella notte, e molte notti ancora finché non l'avesse portata nel villaggio vivaio che stava costituendo nella colonia britannica di New York. Ma perché avrebbe dovuto finire lì? La donna era una perla rara. Le parlò con dolcezza. — Allora dovrò ucciderti, Anyanwu? Tu mi uccideresti, se potessi? — Forse posso! — Eccomi qui. — La guardò con occhi che ignoravano la forma maschile che ancora aveva. Occhi che parlavano alla donna che c'era dentro, o almeno così sperava. Sarebbe stato molto più piacevole indurla a venire a lui perché lo voleva, anziché per paura. Lei non disse niente, come se la sua mitezza la confondesse. Era stata proprio quella la sua intenzione. — Insieme staremmo bene, Anyanwu. Non hai mai desiderato un marito che fosse degno di te? — Hai un concetto molto alto di te stesso. — E di te. Altrimenti perché sarei qui? — Ho avuto mariti che erano grandi uomini — disse lei. — Uomini nobili, di provato coraggio, anche se non avevano qualità speciali come le tue. Ho figli che sono sacerdoti, uomini ricchi, uomini influenti. Perché mai dovrei volere un marito che deve depredare gli altri uomini come una belva? Lui si sfiorò il torace. — Quest'uomo è venuto a depredare me. Mi ha attaccato con un machete. Questo la fermò per un attimo. Lei rabbrividì. — Sono stata ferita in quel modo. Quasi tagliata in due. — Che cosa hai fatto? — Mi sono... mi sono risanata. Non pensavo di poter guarire così in fretta. — Voglio dire che cosa hai fatto all'uomo che ti ha ferito? — Uomini. Vennero in sette per uccidermi. — Che cosa hai fatto, Anyanwu? Lei parve raggrinzirsi al ricordo. — Li ho uccisi — mormorò. — Per avvertimento agli altri e perché... perché ero in collera.
Doro rimase a guardarla, scorgendo nei suoi occhi il ricordo del dolore. Lui non riusciva a ricordare quando aveva provato dolore per l'ultima volta nell'uccidere un uomo. Collera, forse, quando un uomo ricco di potere e di capacità potenziali diventava arrogante e doveva essere distrutto. Collera per lo spreco. Ma non dolore. — Capisci? — le disse piano. — Come li hai uccisi? — Con le mani. — Le allargò di fronte a sé, ormai mani comuni, nemmeno tanto brutte come quando era una vecchia. — Ero in collera — ripeté. — Da allora sono stata attenta a non andare troppo in collera. — Ma che cosa hai fatto? — Perché vuoi conoscere tutti i dettagli vergognosi? — sbottò lei. — Li ho uccisi. Sono morti. Facevano parte del mio popolo e li ho uccisi! — Come può essere vergognoso uccidere quelli che avrebbero voluto uccidere te? Lei non replicò. — Certamente quei sette non sono i soli che hai ucciso. Lei sospirò, fissò il fuoco. — Quando posso li spavento, uccido soltanto quando mi costringono. Il più delle volte hanno già paura, ed è facile respingerli. Sto facendo arricchire tanto gli abitanti del posto, che da anni ormai nessuno di loro mi vuole morta. — Dimmi come hai ucciso quei sette. Lei si alzò e uscì all aperto. Ormai era buio fuori, un oscurità fonda e senza luna, ma Doro non dubitava che Anyanwu potesse vedere con i suoi occhi. Dov'era andata, però, e perché? Lei tornò, si sedette di nuovo e gli porse una pietra. — Spaccala — disse con voce atona. Era un pezzo di roccia, non fango indurito, e anche se con un altro sasso o con un arnese di metallo avrebbe potuto spaccarlo, con le mani non riuscì a ottenere nessun risultato. Gliela restituì intatta. E lei la sbriciolò con una mano sola. Doveva avere quella donna. Era seme selvaggio della specie migliore. Avrebbe rafforzato qualunque stirpe le facesse generare, l'avrebbe rafforzata immensamente. — Vieni con me, Anyanwu. Tu appartieni a me, al popolo che sto radunando. Noi siamo persone di cui puoi fare parte, persone che non avrai bisogno di spaventare o corrompere perché ti lascino vivere. — Sono nata fra questa gente — ribatté lei. — Appartengo a loro. — E insistette: — Tu ed io non ci assomigliamo.
— Ci assomigliamo più di chiunque altro. Non abbiamo bisogno di nasconderci l'un l'altro. — Guardò il suo corpo muscoloso da giovane uomo. — Ridiventa donna, Anyanwu, e ti mostrerò che cosa saremmo insieme. Lei riuscì a fare un pallido sorriso. — Ho avuto 47 figli da dieci mariti — disse. — Che cosa pensi di potermi mostrare? — Se verrai con me, penso che un giorno ti potrò mostrare figli che non dovrai mai seppellire. — Fece una pausa, capì che ora aveva tutta la sua attenzione. — Una madre non dovrebbe vedere i figli invecchiare e morire — continuò. — Se vivi tu, dovrebbero vivere anche loro. Se muoiono, è colpa dei padri. Lascia che io ti dia figli che vivranno! Anyanwu si portò le mani al viso, e per un attimo lui pensò che stesse piangendo. Ma quando lo guardò aveva gli occhi asciutti. — Figli di lombi rubati? — bisbigliò. — Non questi lombi. — Lui accennò al suo corpo. — Questo era soltanto un uomo. Ma te lo prometto, se verrai con me ti darò figli della tua specie. Seguì un lungo silenzio. Lei fissava di nuovo il fuoco, forse stava prendendo una decisione. Infine, lo guardò, lo studiò con tanta intensità che lui cominciò a sentirsi a disagio. E quel disagio lo stupì. Era abituato a mettere gli altri a disagio, e non gli piaceva il suo sguardo di valutazione, come se lei stesse decidendo se comprarlo o meno. Se fosse riuscita ad averla viva, un giorno o l'altro le avrebbe insegnato le buone maniere! Fu soltanto quando cominciò a farsi crescere i seni che lui seppe con certezza di aver vinto. Allora si alzò e, appena il cambiamento fu completo, la guidò verso il letto. 2 Il giorno dopo si svegliarono prima dell'alba. Anyanwu diede un machete a Doro e ne prese uno per sé. Sembrava contenta, mentre disponeva una parte dei suoi averi in un lungo cesto da portare con sé. Ora che aveva preso una decisione, non espresse altri dubbi sulla partenza insieme a lui, benché fosse preoccupata per il suo popolo. — Devi lasciarti guidare da me oltre i villaggi — gli disse. Aveva riassunto l'aspetto di un giovane uomo, e si era annodata il perizoma intorno ai fianchi e fra le gambe alla maniera di un uomo. — Qui ci sono villaggi tutt'intorno alla mia casa, in modo che nessuno straniero possa raggiungermi senza pagare un tributo. Sei stato fortunato ad arrivare da me senza essere
fermato. O forse è stato fortunato il mio popolo. Devo fare in modo che abbia fortuna anche oggi. Lui assentì. Purché lo facesse procedere nella direzione giusta, poteva guidarlo fin quando voleva. Gli aveva dato delle patate dolci schiacciate avanzate dalla sera prima, per rompere il digiuno, e durante la notte era riuscita a sfinire il suo corpo giovane e forte facendo l'amore. «Sei un uomo in gamba» aveva osservato soddisfatta. «Ed era troppo tempo che non lo facevo.» Lui era sorpreso di quanto gli avesse fatto piacere quel piccolo complimento, e di quanto gli piacesse la donna. Era una scoperta preziosa sotto molti aspetti. La guardò dare un'ultima occhiata alla casa, lasciata pulita e in ordine, al recinto, arioso e piacevole malgrado le piccole dimensioni. Si domandò da quanti anni quella fosse la sua casa. — I miei figli mi aiutarono a costruire questa casa — raccontò lei con voce sommessa. — Dissi loro che mi serviva una casa tutta per me per essere libera di preparare le medicine. Vennero tutti ad aiutarmi, tranne uno. Era il maggiore dei miei figli ancora in vita, e sosteneva che dovevo vivere nel suo recinto. Quando lo ignorai, rimase sbalordito. È ricco, arrogante e abituato a essere ascoltato anche quando dice sciocchezze, come fa spesso. Non capiva niente di me, così gli mostrai un po' di quello che ho mostrato a te. Soltanto un poco. Gli chiuse la bocca. — Lo credo — replicò Doro con un sorriso. — Ormai è molto vecchio. Penso che sarà l'unico dei miei figli a non sentire la mia mancanza. Sarà contento di scoprire che me ne sono andata, come alcuni altri del mio popolo, anche se li ho fatti diventare ricchi. Pochi di quelli che vivono ora sono abbastanza vecchi da ricordare le mie grandi metamorfosi, da donna a leopardo a pitone. Hanno soltanto leggende e paura. — Prese due ignami e li mise nel cesto, poi ne prese parecchi altri e li gettò alle capre, che prima si sbandarono per evitarli, poi per prenderli. — Non hanno mai mangiato così bene — esclamò ridendo. Poi ridivenne seria, si avvicinò a una piccola nicchia dove erano disposte delle statuine di argilla che rappresentavano divinità sedute. — Queste sono fatte perché le veda il popolo — spiegò a Doro. — Queste e quelle all'interno. — Accennò con un gesto alla casa. — Non ho visto le altre, dentro. Gli occhi di lei parvero sorridere attraverso l'espressione seria. — C'eri quasi seduto sopra.
Sorpreso, lui ci ripensò. Di solito cercava di non urtare troppo le credenze religiose della gente, anche se Anyanwu non pareva avere molte credenze religiose. Ma pensare che si era quasi seduto su oggetti religiosi senza riconoscerli... — Vuoi dire quegli ammassi di argilla nell'angolo? — Quelli — confermò lei con semplicità. — Le madri. Simboli di spiriti ancestrali. Ora ricordava. Scosse la testa. — Sto diventando sbadato — disse in inglese. — Che stai dicendo? — Che mi dispiace. Sono rimasto lontano dal tuo popolo troppo a lungo. — Non importa. Come ho detto, queste cose servono per farle vedere agli altri. Devo mentire un po', anche qui. — Ora non più — ribatté lui. — Questa città penserà che io sia finalmente morta — disse lei fissando le figurine di argilla. — Forse costruiranno un tempio e gli daranno il mio nome. Altre città lo hanno fatto. Poi, la notte, quando vedranno ombre e rami muoversi al vento, potranno raccontarsi l'un l'altro di avere visto il mio spirito. — Un tempio con gli spiriti li spaventerà meno della donna in carne e ossa, credo — osservò Doro. Senza sorridere, Anyanwu lo precedette oltre la porta del recinto, e cominciarono la lunga marcia in un dedalo di sentieri così stretti che potevano camminare soltanto l'uno dietro l'altro fra gli alberi alti. Anyanwu portava il cesto sulla testa e il machete nel fodero al fianco. I piedi nudi dei due non facevano quasi nessun rumore sul sentiero, niente che confondesse le orecchie sensibili di Anyanwu. Più volte, mentre si spostavano al passo stabilito da lei, un'andatura veloce, Anyanwu si voltava e scivolava in silenzio nella boscaglia. Doro la seguiva con altrettanta abilità e poco dopo, infatti, passava qualcuno. C'erano donne e bambini che portavano sulla testa giare d'acqua o legna da ardere. C'erano uomini che impugnavano zappe e machete. Era come aveva detto Anyanwu. Si trovavano al centro della sua città, circondata da villaggi. Nessun europeo avrebbe riconosciuto una città, comunque, dato che per la maggior parte del tempo non si vedevano in giro abitazioni. Ma mentre andava da lei, Doro si era imbattuto nei villaggi, un grande recinto dietro l'altro, e li aveva superati furtivamente, oppure li aveva attraversati con aria baldanzosa come se avesse affari legittimi da sbrigare. Per fortuna, nessuno lo aveva sfidato. La gente spesso esitava a fermare un uomo che esibiva un'aria importante e decisa. Non
avrebbe esitato, però, a sfidare sconosciuti che si nascondessero, che dessero l'impressione di spiare. In quel momento, mentre seguiva Anyanwu, Doro si preoccupava ancora al pensiero di poter essere costretto a indossare il corpo di uno dei suoi parenti, e dei problemi che sarebbero sorti con lei. Si sentì sollevato quando gli disse che si erano lasciati alle spalle il territorio del suo popolo. Da principio, Anyanwu condusse Doro lungo sentieri sgombri, attraverso un territorio che conosceva perché un tempo vi era vissuta o perché vi erano vissute le sue figlie. Una volta, mentre camminavano, gli raccontò di una figlia che aveva sposato un giovane bello e forte ma pigro, e poi era fuggita con un uomo molto meno imponente che aveva delle ambizioni. Lui ascoltò per un certo tempo, poi domandò: — Quanti dei tuoi figli sono vissuti fino all'età adulta, Anyanwu? — Tutti — rispose lei con orgoglio. — Erano tutti forti e sani e non c'erano cose proibite che non andassero in loro. I bambini che avevano cose "proibite" che non andavano... i gemelli, per esempio, e i neonati venuti alla luce con i piedi in avanti, i bambini con una qualsiasi deformità, i bambini nati con i denti, venivano tutti esposti dopo la nascita. Doro aveva ricavato alcuni dei suoi capi migliori da culture più antiche che, per un motivo o per l'altro, esponevano i neonati per farli morire. — Hai avuto 47 figli — disse incredulo — e tutti sono vissuti ed erano perfetti? — Perfetti nel corpo, almeno. Sono sopravvissuti tutti. — Sono i discendenti del mio popolo! Forse alcuni di loro e la loro progenie dovrebbero venire con noi, dopo tutto. Anyanwu si fermò tanto bruscamente che lui rischiò di urtarla. — Tu non molesterai i miei figli — disse a voce bassa. Lui la fissò dall'alto — Anyanwu non si era curata di alzare la propria statura, anche se gli aveva detto che poteva farlo — e tentò di respingere una collera improvvisa. Gli parlava come se fosse uno dei suoi figli. Non comprendeva ancora il suo potere! — Io sono qui — aggiunse lei con la stessa voce pacata. — Hai me. — Davvero? — Per quanto è possibile a qualsiasi uomo. Questo lo fermò. Non c'era sfida nella voce di Anyanwu, ma lui si accorse subito che non gli stava dicendo di essere tutta sua, di sua proprietà. Gli stava dicendo soltanto che possedeva quella piccola parte di lei, qua-
lunque fosse, che riservava agli uomini. Non era abituata a compagni che pretendessero di più. Anche se proveniva da una cultura in cui le mogli appartenevano letteralmente ai mariti, lei aveva potere, e il potere l'aveva resa indipendente, abituata a essere padrona di se stessa. Non aveva ancora capito di aver abdicato all'indipendenza quando si era allontanata dal suo popolo insieme a lui. — Proseguiamo — le disse. Ma lei non si mosse. — Hai qualcosa da dirmi — insistette. Lui sospirò. — I tuoi figli sono al sicuro, Anyanwu. — Per il momento. Lei si voltò e riprese il cammino. Doro la seguì, pensando che avrebbe fatto bene a metterla incinta il più presto possibile. La sua indipendenza sarebbe svanita senza contrasti. Allora lei avrebbe fatto tutto ciò che le avesse chiesto, pur di salvare il figlio. Era troppo preziosa per ucciderla e, se avesse portato via uno dei suoi discendenti, lei lo avrebbe provocato fino a farsi uccidere. Ma una volta isolata in America, con un neonato da accudire, avrebbe imparato a essere sottomessa. I sentieri divennero un lusso occasionale, quando si addentrarono in un territorio che Anyanwu non conosceva. Dovevano usare sempre più spesso i machete per aprirsi la strada. I torrenti divennero un problema. Scorrevano rapidi entro solchi profondi che dovevano essere superati in qualche modo. Nei punti in cui i corsi d'acqua interrompevano i sentieri, gli abitanti del posto avevano gettato ponti di tronchi. Ma dove Doro e Anyanwu non trovavano né sentieri né ponti, dovevano tagliare i tronchi da sé. Il viaggio divenne più lento e più pericoloso. Una caduta non avrebbe ucciso direttamente nessuno dei due, ma Doro sapeva che se fosse caduto non sarebbe riuscito a trattenersi dal prendere il corpo di Anyanwu. Lei gli era troppo vicina. Durante il viaggio verso nord, aveva attraversato parecchi fiumi semplicemente abbandonando il suo corpo e occupando il corpo più vicino a lui sulla riva opposta. E dato che in quel momento era lui a guidare la marcia, lasciandosi dirigere dal suo senso dell'orientamento verso l'equipaggio a bordo della nave, non poteva mandarla avanti o lasciarla indietro. In ogni caso non lo avrebbe voluto. Si trovavano nel territorio di popoli che combattevano guerre per procurarsi schiavi da vendere agli europei. Erano capaci di farla a pezzi, se avesse cominciato a cambiare forma davanti a loro. Alcuni di loro avevano perfino fucili europei e polvere da sparo. La lenta avanzata non era una totale perdita di tempo, però. Offriva a Doro la possibilità di sapere di più su Anyanwu, e c'era ancora molto da imparare. Scoprì che non aveva bisogno di rubare cibo finché era con lei.
Una volta arrostiti e consumati i due ignami, lei trovò cibo dovunque. Ogni giorno di viaggio, lei riempiva il cesto di frutti, noci, radici, tutto ciò che trovava di commestibile. Lanciava sassi con la velocità e la forza di una fionda e abbatteva volatili e piccoli animali. Alla fine della giornata, c'era sempre un pasto sostanzioso. Se una pianta non le era familiare, l'assaggiava e la sperimentava su di sé per capire se era velenosa. Mangiava parecchie erbe che secondo lei erano velenose, solo che nessuna sembrava nuocerle. Ma a lui non dava niente che non fosse buon cibo. Doro mangiava tutto ciò che gli dava, confidando nelle sue capacità. E quando un piccolo taglio sulla mano gli s'infettò, lei gli fornì ancora nuove ragioni per concederle la sua fiducia. La mano infettata aveva iniziato a gonfiarsi, quando lei la notò, e cominciava a farlo star male. Doro stava già meditando su come procurarsi un corpo nuovo senza mettere in pericolo Anyanwu. Poi, con sua sorpresa, lei si offrì di aiutarlo a guarire. — Avresti dovuto dirmelo — lo ammonì. — Hai voluto soffrire senza motivo. Lui la guardò dubbioso. — Puoi procurarti anche qui le erbe che ti servono? Anyanwu incontrò il suo sguardo. — A volte le erbe servivano per il popolo, come gli dei nel recinto. Se mi lasci fare, posso aiutarti anche facendone a meno. — D'accordo. — Le porse la mano gonfia e infiammata. — Sentirai dolore — lo avvertì. — D'accordo — ripeté. Lei gli morse la mano. Doro sopportò, irrigidendosi per dominare la propria reazione letale al dolore improvviso. Aveva fatto bene ad avvertirlo. Era la seconda volta che si trovava vicina alla morte più di quanto potesse immaginare. Per qualche tempo, dopo averlo morso, lei non fece niente. La sua attenzione sembrava rivolta all'interno, e non rispose quando lui le parlò. Alla fine, si portò di nuovo alla bocca la mano di lui, e ci furono ancora dolore e pressione, ma non più morsi. Lei sputò tre volte, e dopo ognuna tornò a dedicarsi alla sua mano, poi parve accarezzare la ferita con la lingua. La saliva bruciava come il fuoco. Dopo di che tenne d'occhio la mano, curandola ancora due volte con quel dolore sorprendente, bruciante. Quasi subito, gonfiore e malessere sparirono e la ferita cominciò a cicatrizzarsi.
— Nella tua mano c'erano cose che non avrebbero dovuto esserci — gli disse. — Esseri viventi troppo piccoli per essere visibili. Non ho un nome per indicarli, ma riesco a sentirli e riconoscerli quando li accolgo nel mio corpo. Appena li riconosco, posso ucciderli dentro di me. Ti ho dato un po' dell'arma prodotta dal mio corpo contro di loro. Minuscoli esseri viventi, troppo piccoli per essere visibili ma abbastanza grandi per farlo stare male. Se la ferita non avesse cominciato a guarire così presto e in modo così pulito, lui non avrebbe creduto a una parola di quanto aveva detto. Così stando le cose, invece, la fiducia che nutriva in lei crebbe. Era una strega, non c'era dubbio. In qualsiasi cultura sarebbe stata temuta. Avrebbe dovuto lottare per salvarsi la vita. Anche la gente sensata che non credeva nelle streghe si sarebbe rivoltata contro di lei. E Doro, da quell'allevatore di streghe che era, comprese ancora una volta quale tesoro rappresentasse Anyanwu. Niente e nessuno doveva impedirgli di tenerla con sé. Fu solo quando raggiunse uno dei suoi contatti vicino alla costa, che qualcuno decise di tentare. Anyanwu non disse mai a Doro che avrebbe potuto superare con un salto quasi tutti i fiumi che avevano attraversato. Dapprima pensò che lui potesse intuirlo, giacché aveva visto la forza delle sue mani. Gambe e cosce erano altrettanto forti. Ma Doro non era abituato alle sue doti, non era abituato a dare per scontata la sua forza e la sua capacità di effettuare metamorfosi. Non intuì mai, non chiese mai che cosa era in grado di fare. Anyanwu mantenne il silenzio perché temeva che anche lui fosse in grado di saltare quelle gole ma che, per farlo, dovesse lasciare indietro il proprio corpo. Non voleva vederlo uccidere per una ragione così banale. Aveva ascoltato i suoi racconti durante il viaggio, e le sembrava che uccidesse molto facilmente. Fin troppo facilmente, a meno che i racconti non fossero menzogne. Ma non pensava che lo fossero. Non sapeva se lui avrebbe preso una vita soltanto per attraversare in fretta un fiume, anche se temeva di sì. E quel timore la induceva a meditare la fuga. La faceva pensare con nostalgia al suo popolo, al suo recinto, alla sua casa... Eppure, di notte, Doro la faceva sentire donna. Non aveva mai dovuto insistere. Lei acconsentiva perché ne aveva voglia, perché, nonostante dubbi e timori, lui le piaceva molto. Andava a lui come era andata al suo primo marito, un uomo al quale aveva voluto molto bene e, con sua sorpresa, Doro la trattava, sotto molti aspetti, come il suo primo marito. A-
scoltava con rispetto le sue opinioni, e con rispetto e amicizia le parlava, come avrebbe fatto con un altro uomo. Il primo marito aveva sopportato molti scherni segreti per averla trattata in quel modo. Il secondo marito era stato arrogante, sprezzante e brutale, eppure veniva considerato un grand'uomo. Lei lo aveva abbandonato, fuggendo proprio come ora voleva fuggire da Doro. Doro non poteva sapere quali uomini diversi facesse rivivere nella memoria di Anyanwu. Lui non le aveva dato ancora nessuna prova del potere che sosteneva di avere, nessuna prova che i suoi figli corressero pericoli maggiori da parte sua piuttosto che da un uomo qualsiasi, se lei fosse riuscita a fuggire. Tuttavia continuava a credergli. Non aveva il coraggio di alzarsi, mentre lui dormiva, per dileguarsi nella foresta. Per il bene dei suoi figli doveva restare con lui, almeno finché non avesse avuto una prova decisiva. Lo seguiva quasi con cupa determinazione, chiedendosi come sarebbe stato, alla fine, essere sposata con un uomo al quale non poteva sfuggire e non poteva sopravvivere. La prospettiva la rendeva cauta e gentile. I mariti precedenti non l'avrebbero riconosciuta. Cercava di fare in modo che lui l'apprezzasse e le si affezionasse. In quel modo avrebbe potuto avere una certa influenza, un certo controllo, quando in seguito ne avesse avuto bisogno. Per quanto sposata, sapeva che prima o poi ne avrebbe avuto bisogno. Ormai si trovavano nelle terre paludose, e attraversavano un territorio più umido. C'era più pioggia, più caldo, molte più zanzare. Doro si ammalò e cominciò a tossire sempre più spesso. Anyanwu fu colpita da una febbre, ma la scacciò dal proprio corpo non appena l'avvertì. C'erano già sufficienti disagi da sopportare senza la malattia. — Quando usciremo da questa terra? — domandò disgustata. In quel momento pioveva. Procedevano su un sentiero aperto da qualcun altro, sprofondando fino alla caviglia nel fango vischioso. — Non molto più avanti c'è un fiume — le disse Doro. Si fermò un momento per tossire. — Ho un accordo con la gente di una cittadina sul fiume. Ci porteranno in canoa per il resto del tragitto. — Estranei — disse lei allarmata. Erano riusciti a evitare quasi tutti i contatti con i popoli di cui attraversavano il territorio. — Qui sarai tu l'estranea — le disse Doro. — Ma non devi preoccuparti. Queste persone mi conoscono. Ho dato loro dei doni, dash li chiamano, e ne ho promessi altri se avessero traghettato i miei uomini sul fiume.
— Ti conoscono con questo corpo? — chiese lei, approfittando della domanda per sfiorargli il muscolo piatto e duro della spalla. Le piaceva toccarlo. — Mi conoscono — rispose Doro. — Io non sono il corpo che indosso, Anyanwu. Lo capirai quando cambierò. Presto, credo. — Fu interrotto da un altro accesso di tosse. — Mi riconoscerai in un altro corpo appena mi sentirai parlare. — In che modo? — Lei non aveva voglia di parlare del suo cambiamento, del suo modo di uccidere. Aveva tentato di curare la sua malattia in modo che non cambiasse corpo, ma anche se aveva alleviato la tosse e gli aveva impedito di aggravarsi, non era riuscita a guarirlo. Ciò significava che, probabilmente, presto avrebbe saputo di più sul suo cambiamento, che lo volesse o meno. — Come farò a riconoscerti? — domandò. — Non ci sono parole per spiegartelo, come per i tuoi minuscoli esseri viventi. Quando sentirai la mia voce, mi riconoscerai. È tutto. — Sarà la stessa voce? — No. — Allora come...? — Anyanwu... — Lui si girò a guardarla. — Ti dico che lo saprai! Sorpresa, rimase in silenzio. Gli credeva. Ma per quale motivo? Il villaggio in cui la portò era un piccolo centro abitato che non sembrava molto diverso dalle comunità costiere conosciute nel territorio più vicino alla sua casa. Là alcuni abitanti fissarono lei e Doro, ma nessuno li infastidì. Qua e là sentì parlare, e a volte le parole avevano un suono familiare. Pensava che sarebbe riuscita a capire qualcosa se avesse potuto avvicinarsi a chi parlava per ascoltare. Ma così non capiva niente. Si sentiva esposta, stranamente inerme in mezzo a gente tanto estranea. Camminava seguendo da vicino Doro. Lui la guidò verso un grande recinto e vi entrò come se gli appartenesse. Un giovane alto e snello gli sbarrò subito il passo. Rivolse la parola a Doro e quando lui rispose spalancò gli occhi. Fece un passo indietro. Doro continuò a parlare nella lingua sconosciuta, e Anyanwu scoprì che riusciva a capire qualche parola, ma non abbastanza da seguire la conversazione. Quella lingua, almeno, era più simile alla sua della lingua nuova, l'inglese, che Doro le stava insegnando. L'inglese era una delle lingue parlate nella sua patria, le aveva spiegato. Lei doveva impararlo. In quel momento, però, lei intuiva quel che poteva dalla mimica dei due uomini, dai volti e dalle voci. Era evidente che invece della cortese accoglienza che si
era aspettato, Doro stava affrontando una discussione con il giovane. Alla fine, Doro voltò le spalle disgustato. Si rivolse ad Anyanwu. — L'uomo col quale ho trattato è morto — le disse. — Questo idiota è suo figlio. — S'interruppe per tossire. — Il figlio era presente quando il padre e io abbiamo concluso l'accordo. Ha visto i doni che ho portato. Ma ora che il padre è morto, non si sente in obbligo con me. — Penso che abbia paura di te — suggerì Anyanwu. Il giovane era spaccone e arrogante; era evidente, malgrado la differenza di lingua. Tentava con tutte le sue forze di darsi un'aria d'importanza. Mentre parlava, però, i suoi occhi guizzavano e dardeggiavano e sostenevano solo a tratti lo sguardo di Doro. Gli tremavano le mani. — Sa che sta facendo una cosa pericolosa — riprese Doro. — Ma è giovane. Suo padre era un re. Ora il figlio pensa di usarmi per dare prova di sé. Ha scelto il bersaglio sbagliato. — Gli hai promesso altri doni? — Sì. Ma lui vede solo le mie mani vuote. Allontanati da me, Anyanwu, ho esaurito la pazienza. Lei avrebbe voluto protestare, ma si sentì di colpo la bocca arida. Muta e spaventata, si allontanò da lui, incespicando. Non sapeva cosa aspettarsi, ma era sicura che il giovane sarebbe stato ucciso. In che modo sarebbe morto? Che cosa avrebbe fatto esattamente Doro? Doro passò accanto al giovane e si diresse verso un bambino di circa sette anni che stava guardando parlare gli uomini. Prima che il giovane o il bambino potessero parlare, Doro si accasciò a terra. Il suo corpo cadde quasi addosso al bambino, ma il piccolo si scostò appena in tempo con un salto. Poi s'inginocchiò sul terreno e prese il machete di Doro. La gente stava cominciando a reagire quando il bambino si alzò appoggiandosi al machete. Il chiasso delle voci perplesse e della gente che accorreva soffocò quasi la voce del bambino quando si rivolse al giovane. Quasi. Il bambino parlò in tono pacato, sommesso, nella sua lingua. Ma, appena lo udì, Anyanwu provò l'impulso di gridare. Il bambino era Doro. Non c'erano dubbi. Lo spirito di Doro era entrato nel corpo del bambino. E cosa ne era stato dello spirito del bambino? Lei guardò il corpo steso a terra, poi si avvicinò, lo rivoltò. Era morto. — Che cosa hai fatto? — disse al bambino. — Quest'uomo sapeva quanto poteva costargli la sua arroganza — ribatté Doro. E la sua voce era acuta e infantile. Non somigliava affatto all'uo-
mo che Doro era stato. Anyanwu non capiva che cosa udisse, che cosa riconoscesse nella voce del bambino. — Sta' lontana da me — le disse Doro. — Resta lì vicino al corpo, finché non sarà chiaro quanti altri della sua casa questo idiota vorrà sacrificare alla sua arroganza. Anyanwu non desiderava altro che stare lontano da lui. Desiderava rifugiarsi a casa sua e dimenticare di averlo mai visto. Chinò la testa e chiuse gli occhi, lottando contro il panico. Intorno si levarono delle grida, ma lei le udiva appena. Presa dal suo terrore, non prestò attenzione a nient'altro finché qualcuno la fece cadere. Poi qualcuno l'afferrò rudemente, e lei capì che doveva pagare per la morte del bambino. Respinse l'aggressore e balzò in piedi pronta a lottare. — Basta così! — urlò Doro. E poi, più piano: — Non ucciderlo! Lei vide che la persona che aveva respinto era il giovane, e che lo aveva spinto con forza maggiore di quanto pensasse. Ora giaceva disteso contro il muro del recinto, semisvenuto. Doro gli si avvicinò e l'uomo alzò le mani come per parare un colpo. Gli parlò in un tono pacato e raggelante che non sarebbe mai potuto uscire dalla bocca di un bambino. L'uomo si fece piccolo piccolo, e Doro riprese a parlare in tono ancora più aspro. L'uomo si alzò in piedi, guardò i membri della casa che aveva ereditato dal padre. Erano chiaramente allarmati e confusi. La maggior parte di loro non aveva visto abbastanza da capire cosa stesse succedendo, e s'interrogavano l'un l'altro. Fissavano il nuovo capo della casa. C'erano parecchi bambini piccoli, donne, alcune delle quali dovevano essere mogli o sorelle del giovane, uomini che probabilmente erano fratelli e schiavi. Tutti erano venuti a vedere. Forse il giovane sentiva di essersi coperto di disonore di fronte alla sua gente. Forse stava pensando a come si era ritratto e aveva piagnucolato davanti a un bambino. O, forse, era semplicemente un idiota come Doro aveva giudicato. Qualunque fosse il suo ragionamento, commise un errore fatale. Gridando parole che dovevano essere imprecazioni, l'uomo strappò il machete dalla mano di Doro, lo alzò e lo calò in un fendente sul collo del bambino, che non oppose resistenza. Anyanwu distolse lo sguardo, assolutamente certa di quello che sarebbe accaduto. C'era stato tempo a sufficienza perché il bambino schivasse il machete. Il giovane, forse ancora stordito dal colpo di Anyanwu, non si era
mosso molto in fretta. Ma il bambino era rimasto immobile e aveva atteso il colpo con una scrollata di spalle piena di adulta consapevolezza. Ora lei udì il giovane parlare alla folla, e nella sua voce avvertì Doro. Naturalmente. La folla fuggì. Molti corsero fuori dalla porta del recinto o scavalcarono il muro. Doro li ignorò e si avvicinò ad Anyanwu. — Ora ce ne andremo — le disse. — Prenderemo una canoa e remeremo da soli. — Perché hai ucciso il bambino? — gli chiese sottovoce. — Per dare un avvertimento a questo giovane sciocco — rispose lui battendo sul torace del suo nuovo corpo snello. — Il bambino era figlio di uno schiavo e non era una gran perdita per la casa. Volevo lasciarmi dietro un uomo che avesse autorità e che mi conoscesse, ma quest'uomo non ha voluto capire. Vieni, Anyanwu. Lei lo seguì alla cieca. Doro era in grado di voltare le spalle a due omicidi casuali e di parlarle come se non fosse accaduto niente. Era chiaramente seccato di aver dovuto uccidere il giovane, ma il fastidio sembrava l'unica emozione che provava. Oltre le mura del recinto, li attendevano degli uomini armati. Anyanwu rallentò, permise a Doro di precederla mentre si avvicinava. Era certa che ci sarebbero state altre uccisioni. Ma Doro parlò agli uomini — disse soltanto qualche parola — e loro si allontanarono dal suo cammino. Poi Doro fece un breve discorso a tutti, e la gente si allontanò ancor più da lui. Infine guidò Anyanwu verso il fiume, dove rubarono una canoa e due pagaie. — Dovrai remare tu — gli disse mentre calavano in acqua l'imbarcazione. — Io cercherò di aiutarti quando saremo fuori vista da questo posto. — Hai mai remato su una canoa? — Forse tre volte, da quando questo tuo nuovo corpo è vivo. Lui annuì e cominciò a pagaiare da solo. — Non avresti dovuto uccidere il bambino — disse Anyanwu in tono triste. — È stato uno sbaglio, per qualunque motivo tu l'abbia fatto. — Anche il tuo popolo uccide i bambini. — Soltanto quelli che devono essere uccisi: gli esseri abominevoli. E anche quelli... a volte quando il difetto del bambino era piccolo, sono riuscita a impedire che fosse ucciso. Parlavo con la voce del dio e, finché non violavo troppo la tradizione, la gente mi dava ascolto.
— Uccidere bambini è uno spreco — ammise lui. — Chi può sapere che adulti utili potrebbero diventare? Ma ciò nonostante a volte si deve sacrificare un bambino. Anyanwu pensò ai suoi figli e ai loro bambini, e capì con certezza che aveva fatto bene ad allontanare Doro da loro. Lui non avrebbe esitato a ucciderne alcuni per intimidire gli altri. In genere i suoi discendenti erano più che capaci di badare a se stessi. Ma non avrebbero potuto impedire a Doro di ucciderli, di andarsene in giro oscenamente rivestito della loro carne. Che cosa poteva fermare un tale essere, uno spirito? Lui era uno spirito, qualunque cosa sostenesse. Non aveva una carne propria. Per l'ennesima volta nei suoi trecento anni di vita, Anyanwu rimpianse di non avere dei da pregare, dei che potessero aiutarla. Ma aveva solo se stessa e la magia che poteva compiere col proprio corpo. A che serviva, contro un essere che poteva rubarle il corpo? E cosa avrebbe provato, lui, se avesse deciso di "sacrificarla"? Fastidio? Rammarico? Lei lo guardò e fu sorpresa di scoprire che stava sorridendo. Doro trasse un respiro profondo ed espirò con evidente soddisfazione. — Per un po' non c'è bisogno che remi — le disse. — Riposati. Questo corpo è forte e sano. È davvero un piacere non avere la tosse. 3 Doro era sempre di buon umore, dopo aver cambiato corpo, specie quando ne cambiava più d'uno in rapida successione o quando occupava uno dei corpi speciali che allevava per il proprio uso. Quella volta, le sensazioni piacevoli lo accompagnavano ancora quando raggiunse la costa. Notò che Anyanwu era stata molto taciturna, ma lei aveva i suoi momenti di silenzio. E aveva appena visto qualcosa che le era nuovo. Doro sapeva che le persone impiegavano del tempo ad abituarsi ai suoi cambiamenti. Soltanto i bambini sembravano accettarli con naturalezza. Era disposto a lasciare ad Anyanwu tutto il tempo di cui aveva bisogno. Sulla costa c'erano dei mercanti di schiavi. Viveva lì un rappresentante inglese, un dipendente della Royal African Company e, incidentalmente, un uomo di Doro. Si chiamava Bernard Daly. Aveva tre mogli negre, parecchi bambini mezzosangue e, chiaramente, una grande resistenza alle numerose malattie locali. Aveva anche una mano sola. Anni prima, Doro gli aveva mozzato l'altra.
Quando Doro e Anyanwu approdarono sulla spiaggia con la canoa, Daly era intento a sovrintendere alla marcatura a fuoco dei nuovi schiavi. Nell'aria si sentiva odore di carne bruciata e si udivano le grida di uno schiavo. — Doro, questo è un luogo malvagio — bisbigliò Anyanwu. Rimase molto vicina a lui. — Nessuno ti farà del male — le rispose. La guardò. Di giorno assumeva sempre l'aspetto di un uomo piccolo e muscoloso, ma, chissà come, lui non riusciva mai a considerarla mascolina. Una volta le aveva chiesto per quale motivo insisteva ad andare in giro in vesti maschili. «Non mi pare di averti mai visto andare in giro in un corpo femminile» aveva ribattuto lei. «La gente ci pensa due volte, prima di attaccare un uomo, anche uno piccolo. E non va in collera, se è un uomo a colpire.» Doro aveva riso, ma sapeva che aveva ragione lei. Era un po' più sicuro nelle vesti di un uomo, anche se là, fra mercanti di schiavi africani ed europei, nessuno si poteva dire veramente al sicuro. Lui stesso poteva essere separato a forza dal suo nuovo corpo prima di raggiungere Daly. Ma Anyanwu non sarebbe stata toccata. Avrebbe provveduto lui. — Perché ci fermiamo? — domandò lei. — Ho un uomo, qui, che dovrebbe sapere che cosa è accaduto al mio popolo, il popolo che ero venuto a prendere. Questo è il porto di mare più vicino a loro. — Porto di mare... — Ripeté la parola come l'aveva pronunciata lui, in inglese. Doro non conosceva la parola che significava mare nella lingua di Anyanwu. Le aveva descritto la vasta massa d'acqua, apparentemente sconfinata, che dovevano attraversare, ma nonostante la descrizione lei rimase a fissarla in reverente silenzio. Il suono della risacca pareva spaventarla, mescolandosi alle urla degli schiavi marchiati. Per la prima volta, aveva l'impressione che le tante cose nuove intorno a lei la sopraffacessero completamente. Aveva l'aria di voler voltare le spalle per rifugiarsi nella foresta, come tentavano spesso di fare gli schiavi. Completamente in contrasto col suo carattere, appariva terrorizzata. Lui si fermò, le si mise davanti, la prese saldamente per le spalle. — Niente ti farà del male, Anyanwu. — Parlò con profonda convinzione. — Non questi mercanti di schiavi, né il mare, né nient'altro. Non ti ho portato fin qui solo per perderti. Tu conosci il mio potere. — La sentì rabbrividire. — Nemmeno quel potere ti farà del male. Ti ho accettato come moglie. Devi soltanto obbedirmi.
Lei lo fissò mentre parlava, come se quegli occhi potessero leggere la sua espressione e distinguere la verità. La gente comune non poteva farlo con lui, ma Anyanwu era tutt'altro che comune. Aveva avuto tempo a sufficienza, nella sua lunga vita, per imparare a leggere bene nella mente degli altri, come aveva imparato a fare anche Doro. Alcuni dei suoi uomini credevano che sapesse leggere i loro pensieri inespressi, tanto trasparenti erano per lui le menzogne. Le mezze verità, però, erano tutt'altra faccenda. Anyanwu parve rilassarsi, rassicurata. Poi una persona in disparte attirò la sua attenzione e lei s'irrigidì. — Quello è uno dei tuoi bianchi? — sussurrò. Le aveva parlato degli europei, spiegandole che nonostante la pelle chiara non erano né albini né lebbrosi. Lei aveva sentito parlare di persone simili, ma non ne aveva mai viste fino ad allora. Doro lanciò un'occhiata all'europeo che si avvicinava, poi rispose ad Anyanwu. — Sì — disse — ma è soltanto un uomo. Può morire con la stessa facilità di un negro. Allontanati da me. Lei obbedì prontamente. Doro non intendeva uccidere il bianco, se poteva farne a meno. Aveva già ucciso abbastanza uomini di Daly, al tempo del loro primo incontro, per domare l'inglese. Daly si era rivelato trattabile, comunque, e Doro lo aveva aiutato a sopravvivere. — Benvenuto — disse il bianco in inglese. — Hai altri schiavi da venderci? — Chiaramente, il nuovo corpo di Doro non era sconosciuto, lì. Doro lanciò un'occhiata ad Anyanwu, vide come guardava il mercante di schiavi. L'uomo era barbuto, sporco e magro come se fosse devastato da una malattia... il che era probabile. Quella terra divorava i bianchi. Il mercante di schiavi era un misero esemplare della sua specie, ma Anyanwu non lo sapeva. Lo fissava con attenzione. La sua curiosità in quel momento sembrava più strana della paura. — Sei sicuro di conoscermi? — chiese Doro all'uomo, a bassa voce. E la sua voce ebbe l'effetto atteso. L'uomo si fermò, accigliato per la confusione e la sorpresa. — Chi sei? — domandò. — Chi... che cosa vuoi qui? — Non aveva paura. Non conosceva Doro. Presumeva semplicemente di aver fatto uno sbaglio. Stava fermo, scrutando il negro alto e sprigionando ostilità. — Sono un amico di Bernard Daly — rispose Doro. — Ho degli affari con lui. — Doro parlava in inglese come il mercante di schiavi, e non c'erano dubbi che l'uomo lo avesse capito. Così, quando lo schiavista rimase
con lo sguardo fisso, Doro fece per superarlo e si avviò verso il luogo della marcatura, dove scorgeva Daly parlare con qualcun altro. Ma il mercante di schiavi non aveva finito. Estrasse la spada. — Vuoi vedere il capitano? — chiese. Daly non comandava una nave da 15 anni, ma gradiva ancora quel titolo. Il mercante di schiavi rivolse un sogghigno a Doro, scoprendo una fila di denti gialli. — Lo vedrai anche troppo presto! Doro guardò la spada, seccato. Con un solo movimento quasi troppo rapido per l'occhio, alzò il pesante machete e fece volar via l'arma più leggera dalla mano del mercante di schiavi. Poi il machete fu puntato alla gola dell'uomo. — Avrebbe potuto essere la tua mano — disse piano Doro. — Avrebbe potuto essere la tua testa. — I miei uomini ti ucciderebbero sui due piedi. — Che vantaggio sarebbe per te, all'inferno? Silenzio. — Voltati, e andremo a trovare Daly. Il mercante di schiavi obbedì a malincuore, brontolando delle oscenità sugli antenati di Doro. — Un'altra parola ti costerà la testa — minacciò Doro. Ancora una volta, ottenne il silenzio. I tre superarono in fila indiana gli schiavi incatenati, il fuoco dove la marchiatura si era interrotta, gli uomini di Daly che li fissavano. Raggiunsero la tettoia a tre lati, ombreggiata dagli alberi, dove Daly stava seduto su una cassa di legno, bevendo da una brocca di terracotta. Abbassò la brocca, però, per fissare Doro e Anyanwu. — Vedo che gli affari vanno bene — osservò Doro. Daly si alzò. Era basso, tarchiato e bruciato dal sole, con la barba lunga. — Parla ancora — ringhiò. — Chi sei? — Era un po' duro d'orecchi, ma Doro capì che aveva sentito abbastanza: riconosceva in lui la strana miscela di apprensione e anticipazione che aveva imparato ad aspettarsi dai suoi uomini. Sapeva che quando lo salutavano in quel modo erano ancora suoi servitori, leali e sottomessi. — Tu mi conosci — replicò. Il mercante di schiavi fece un passo indietro. — Ho lasciato in vita il tuo uomo — disse Doro. — Insegnagli le buone maniere. — Lo farò. — Congedò con un gesto l'uomo confuso e infuriato. L'altro guardò con odio Doro e il machete ormai abbassato. Infine si allontanò.
Quando se ne fu andato, Doro chiese a Daly: — Il mio equipaggio è stato qui? — Più di una volta — rispose il mercante di schiavi. — Proprio ieri, tuo figlio Lale ha scelto due uomini e tre donne. Negri forti e giovani... valevano molto di più di quanto glieli ho fatti pagare. — Fra poco lo vedrò — disse Doro. All'improvviso Anyanwu lanciò un grido. Doro la guardò un attimo per controllare che non fosse molestata. Poi tenne gli occhi fissi su Daly e i suoi uomini. — Donna, mi farai commettere un errore! — borbottò. — È Okoye — mormorò lei. — Il figlio della mia figlia più giovane. Questi uomini devono aver fatto razzia nel suo villaggio. — Dov'è? — Laggiù! — Indicò un giovane che era stato appena marchiato a fuoco. Giaceva sul terreno, sporco, stremato e contuso per gli sforzi fatti per sfuggire al ferro rovente. — Andrò da lui — disse piano Anyanwu — anche se non mi riconoscerà. — Va' pure — le disse Doro. Poi passò di nuovo all'inglese. — Forse avrò altri affari per te, Daly. Quel ragazzo. — Ma... quello è già preso. Una nave della compagnia... — Peccato — ribatté Doro. — Il profitto non sarà tuo, allora. L'uomo sollevò il moncherino per grattarsi il mento irsuto. — Qual è la tua offerta? — Era sua abitudine arrotondare il magro salario commerciando con trafficanti non autorizzati — non agenti della Compagnia — come Doro. Soprattutto Doro. Era un'attività pericolosa, ma l'Inghilterra era lontana ed era improbabile che fosse colto sul fatto. — Un momento — gli disse Doro, poi passò a un'altra lingua. — Anyanwu, il ragazzo è solo o ci sono qui altri membri della tua famiglia? — È solo. Gli altri sono stati portati via. — Quando? Lei parlò brevemente con il nipote, poi si rivolse di nuovo a Doro. — Gli ultimi sono stati venduti a uomini bianchi molti giorni fa. Doro sospirò. Era fatta, allora. I parenti del ragazzo, estranei per lui, erano perduti in modo ancor più definitivo della gente del suo villaggiovivaio. Si voltò e fece un'offerta a Daly per il ragazzo, un'offerta che indusse il mercante di schiavi a leccarsi le labbra. Avrebbe ceduto il ragazzo senza coercizione e avrebbe trovato un rimpiazzo per chiunque lo avesse
comprato. Il solco annerito e bruciato sul petto del ragazzo era diventato privo di significato. — Liberalo dalle catene — ordinò Doro. Daly fece un cenno a uno dei suoi uomini, e quello tolse le catene. — Manderò indietro uno dei miei uomini con il denaro — promise Doro. Daly scosse la testa e uscì dal riparo della tettoia. — Ti accompagnerò io — disse. — Non è lontano. Uno dei tuoi uomini potrebbe spararti, se ti vedesse con quell'aspetto e soltanto con due negri per compagnia. Doro rise e accettò la compagnia dell'uomo. In ogni caso voleva parlare con Daly del villaggio-vivaio. — Pensi che voglia truffarti? — gli chiese. — Dopo tutto questo tempo? Daly sorrise, si volse a guardare il ragazzo che camminava a fianco di Anyanwu. — Potresti ingannarmi — rispose. — Potresti derubarmi ogni volta che tu lo volessi, eppure paghi bene. Perché? — Forse perché sei abbastanza saggio da accettare quello che non riesci a capire. — Te? — Me. Che cosa racconti a te stesso sul mio conto? — Una volta pensavo che fossi il diavolo in carne e ossa. Doro rise di nuovo. Aveva sempre lasciato ai suoi uomini la libertà di dire ciò che pensavano, a patto che smettessero quando lui ordinava di tacere e obbedissero quando lui dava ordini. Daly gli apparteneva da tempo sufficiente per saperlo. — Chi sei tu, allora? — chiese al mercante di schiavi. — Giobbe? — No. — Daly scosse la testa tristemente. — Giobbe era un uomo più forte. Doro si fermò e si voltò a guardarlo. — Sei soddisfatto della tua vita — disse. Daly distolse lo sguardo, rifiutandosi di incontrare ciò che lo guardava dagli occhi comunissimi del corpo occupato. Ma quando Doro riprese a camminare, lo seguì. Lo avrebbe seguito fino alla nave, e anche se Doro si fosse offerto di pagare il giovane schiavo, avrebbe rifiutato di accettare il prezzo. Il ragazzo sarebbe diventato un dono. Daly non aveva mai accettato denaro dalle mani di Doro. E aveva sempre cercato la sua compagnia. — Perché l'animale bianco ci segue? — chiese il nipote di Anyanwu a voce abbastanza alta perché Doro sentisse. — Che cosa ha a che fare con noi, adesso?
— Il mio padrone deve pagarlo — rispose Anyanwu. Si era presentata al ragazzo come un lontano parente di sua madre. — E inoltre — aggiunse — penso che quest'uomo sia in qualche modo un suo servitore. — Se l'uomo bianco è uno schiavo, per quale motivo dovrebbe essere pagato? Doro rispose personalmente alla domanda. — Perché io decido di pagarlo, Okoye. Un uomo può decidere di fare quello che vuole con i suoi schiavi. — Mandi i tuoi schiavi a uccidere i nostri parenti e a portarci via? — No — rispose Doro. — I miei uomini si limitano a comprare e vendere schiavi. — E solo certi schiavi, per giunta, se Daly gli aveva obbedito. Fra poco lo avrebbe saputo. — Allora mandano altri a fare razzie fra noi. È la stessa cosa! — Quello che permetto ai miei uomini è affar mio — ribatté Doro. — Ma loro...! Doro si fermò di colpo, si voltò per fronteggiare il giovane, che fu costretto a sua volta a fermarsi goffamente. — Quello che permetto loro è affar mio, Okoye. Questo è tutto. Forse quel periodo di schiavitù aveva insegnato al ragazzo la prudenza. Non disse niente. Anyanwu fissò Doro, ma tacque anche lei. — Che cosa stavano dicendo? — chiese Daly. — Disapprovano la tua professione — gli rispose Doro. — Selvaggi pagani — brontolò Daly. — Sono come animali. Sono tutti cannibali. — Questi no — replicò Doro — anche se alcuni dei loro vicini lo sono. — Tutti — insistette Daly. — Basta offrirgliene l'opportunità. Doro sorrise. — Be', senza dubbio i missionari alla fine li raggiungeranno e insegneranno loro a praticare solo il cannibalismo simbolico. Daly trasalì. Si considerava un uomo pio, a dispetto della sua professione. — Non dovresti dire certe cose — sussurrò. — Nemmeno tu sei fuori della portata di Dio. — Risparmiami la tua mitologia — ribatté Doro — e la tua indignazione ipocrita. — Daly era l'uomo di Doro da troppo tempo per trovare indulgenza su certe questioni. — Se non altro noi cannibali siamo onesti su quello che facciamo — continuò Doro. — Non facciamo finta, come voi mercanti di schiavi, di agire a beneficio dell'anima delle nostre vittime. Non ripetiamo a noi stessi che li abbiamo catturati per insegnare loro la religione dei popoli civili.
Daly sgranò gli occhi. — Ma... io non intendevo dire che eri... un... un... Non intendevo... — Perché no? — Doro lo guardò dall'alto della sua statura godendosi la sua confusione. — Te lo assicuro, sono il cannibale più efficiente che incontrerai mai in vita tua. Daly non replicò. Si asciugò la fronte e guardò verso il mare. Doro seguì il suo sguardo e vide che ormai c'era una nave in vista, all'ancora in una piccola insenatura. La nave di Doro, la Silver Star, era piccola, robusta e più adatta dei grandi vascelli ad andare dove ufficialmente non era bene accetta per impadronirsi del carico di schiavi che la Royal African Company aveva riservato per sé. Doro vide a poca distanza alcuni dei suoi uomini caricare ignami su una scialuppa. Fra poco sarebbe stato in viaggio verso casa. Doro invitò Daly a bordo della nave. Là, per prima cosa sistemò Anyanwu e il nipote nella propria cabina. Poi mangiò e bevve con Daly e interrogò il mercante di schiavi sulla sorte del villaggio vivaio. — Non è una popolazione costiera — spiegò Doro. — Una tribù interna delle savane, oltre le foreste. Te l'ho mostrata alcuni anni fa, quando ci siamo conosciuti. — Quei neri si somigliano tutti — rispose Daly. — È difficile dirlo. — Bevve un sorso di brandy. Doro si sporse oltre il tavolino e afferrò il polso di Daly poco più su dell'unica mano che restava all'uomo. — Se non sai fare di meglio — disse — non mi servi a niente. Daly rimase impietrito, atterrito, frenando un tentativo inconsulto di liberare la mano di scatto. Rimase immobile, forse ricordando com'erano morti i suoi uomini anni prima, che Doro li toccasse o meno. — Era una battuta — mormorò con voce roca. Doro non disse niente, si limitò a fissarlo. — Il tuo popolo ha del sangue arabo — si affrettò a dire Daly. — Ricordo il loro aspetto e le parole della loro lingua che mi hai insegnato e la loro irascibilità. Non è un popolo facile da ridurre in schiavitù e da mantenere in vita. Nessuno simile a loro è mai passato fra le mie mani senza essere sottoposto alla prova. — Ripeti le parole che ti ho insegnato. Daly le pronunciò — parole nella lingua di quel popolo, che chiedevano agli uomini se erano seguaci di Doro, se erano del "seme di Doro" — e
Doro lasciò andare il suo polso. Il mercante di schiavi aveva ripetuto le parole alla perfezione, e nessuno degli abitanti del villaggio vivaio di Doro aveva mancato di rispondere. Erano, come aveva detto Daly, individui difficili, irascibili, più sospettosi della norma nei confronti degli estranei, più inclini della media a uccidersi a vicenda o ad attaccare i vicini molesti, più propensi a seguire le loro usanze e soddisfare la fame con carni umane. Doro li aveva isolati nella savana scarsamente popolata proprio per quella ragione. Se fossero stati più vicini alle tribù più grandi e più forti che li circondavano, sarebbero stati spazzati via come una seccatura. Erano anche un popolo altamente dotato di intuito, che leggeva nel pensiero altrui senza volerlo e combatteva le reciproche cattive intenzioni, anziché le cattive azioni. E tutto ciò senza mai rendersi conto di fare qualcosa di insolito. Doro era stato il loro dio fin da quando li aveva riuniti, alcune generazioni prima, e aveva ordinato loro di sposarsi soltanto fra loro e con gli estranei che portava loro. Gli avevano obbedito, scartando i bambini chiaramente difettosi nati da quegli incroci e rafforzando i doni che li rendevano tanto preziosi per lui. Se quegli stessi doni li rendevano insolitamente pronti alla collera, crudeli e ferocemente intolleranti nei confronti delle persone diverse da loro, non aveva importanza. Doro era stato molto soddisfatto di loro, e loro avevano accettato da tempo l'idea che soddisfare lui era la cosa più importante che potessero fare. — Il tuo popolo è morto senz'altro, se è stato catturato — disse Daly. — I pochi che hai portato qui con te anni fa si erano fatti nemici dovunque fossero andati. Doro aveva portato via cinque abitanti del villaggio per farli incrociare con altri che aveva raccolto. Avevano offeso tutti con la loro arroganza e la loro ostilità, ma si erano anche riprodotti come Doro aveva ordinato loro e avevano avuto degli ottimi figli, bambini con una sensibilità ancor più grande e più controllabile. — Alcuni di loro sono vivi — ribatté Doro. — Sento le loro esistenze che mi attirano, quando ci penso. Dovrò rintracciarne il maggior numero possibile prima che qualcuno li uccida davvero, però. — Mi spiace — disse Daly. — Vorrei che li avessero portati da me. Per quanto selvatici possano essere, li avrei trattenuti per te. Doro annuì, sospirò. — Sì, so che lo avresti fatto. E la tensione del mercante si dissolse definitivamente. Capì che Doro non incolpava lui per la fine di quel popolo, capì che non sarebbe stato pu-
nito. — Che cos'è quel piccolo Igbo che hai portato a bordo? — domandò incuriosito. Ormai c'era spazio per la curiosità. — Seme selvaggio — rispose Doro. — Rappresenta una linea di sangue che credevo estinta e, credo, un'altra di cui ignoravo l'esistenza. Dovrò fare delle esplorazioni nella sua terra natale, una volta che lei sarà al sicuro. — Lei! Ma... quel negro è un uomo. — A volte. Ma è nata donna. Per la maggior parte del tempo è donna. Daly scosse la testa, incredulo. — Le mostruosità che collezioni! Immagino che ora alleverai creature che non sanno se pisciare stando in piedi o accovacciate. — Lo sapranno, se riesco a farle nascere. Lo sapranno, ma non avrà importanza. — Creature simili dovrebbero essere bruciate. Sono contro Dio! Doro rise senza rispondere. Sapeva quanto Daly che il mercante di schiavi desiderava ardentemente essere una delle mostruosità di Doro. Daly era ancora vivo grazie a quel desiderio. Dieci anni prima, aveva affrontato quello che considerava uno dei tanti selvaggi negri a capo di altri cinque uomini dalla pelle meno scura ma dall'aspetto altrettanto selvaggio. Tutti e sei apparivano giovani e sani: cinque schiavi potenziali. Daly aveva mandato i suoi dipendenti neri a catturarli. Quel giorno aveva perduto tredici uomini. Li aveva visti falciati come spighe di grano davanti a una falce. Poi, atterrito, affrontato da Doro nel corpo dell'ultimo uomo ucciso, aveva estratto la spada. La mossa gli era costata la mano destra. Non aveva mai capito perché non avesse perso la vita. Non conosceva l'abitudine di Doro di lasciare sparsi in tutto il mondo uomini d'autorità ridotti all'obbedienza e pronti a servirlo ogni volta che aveva bisogno di loro. Tutto ciò che Daly capiva era che era stato risparmiato, che Doro gli aveva cauterizzato la ferita e lo aveva assistito finché non si era ripreso. E una volta guarito, si era reso conto che non era più un uomo libero. Doro avrebbe potuto riprendersi in qualsiasi momento la vita che aveva risparmiato. Daly era riuscito ad accettarlo, così come avevano fatto altri prima di lui. «Lasciami lavorare per te» aveva detto. «Prendimi a bordo di una delle tue navi, o riportami nel tuo paese. Sono ancora forte. Anche con una mano sola, posso lavorare. Posso tenere a bada i negri.» «Ti voglio qui» gli aveva detto Doro. «Mentre eri convalescente ho preso accordi con alcuni dei re locali. D'ora in poi commerceranno esclusivamente con te.»
Daly lo aveva fissato, sbalordito. «Perché dovresti fare una cosa del genere per me?» «Perché tu faccia certe altre cose per me» aveva risposto Doro. E Daly era tornato in attività. Doro gli mandava trafficanti negri che gli vendevano schiavi e la compagnia gli mandava trafficanti bianchi che li compravano. «Se te ne andassi tu, qualcun altro installerebbe un centro di smistamento qui» gli aveva detto Doro. «Non posso impedire il traffico, anche se dovesse toccare il mio popolo, ma posso controllarlo.» Altro che controllo. Né l'appoggio prestato a Daly né le spie che aveva lasciato lungo la costa — persone che avrebbero dovuto fare rapporto a Daly — erano state sufficienti. Ormai erano inutili. Se si fosse trattato di un lotto speciale, di persone con doti insolite, Doro le avrebbe trasferite in America, dove avrebbero potuto essere utili. Ma erano soltanto persone qualsiasi, comprate con il denaro o la paura o la fede che Doro fosse un dio. Le avrebbe dimenticate. Avrebbe dimenticato anche Daly, una volta che fosse tornato nel paese natale di Anyanwu e avesse scovato tutti i suoi discendenti che fosse riuscito a trovare. Al momento, però, Daly poteva ancora essere utile, e ci si poteva ancora fidare di lui; Doro ormai lo sapeva. Forse il suo popolo era stato portato a Bonny o a New Calabar o in qualche altro porto schiavista, ma non era passato vicino a Daly. Nemmeno i figli più dotati e subdoli di Doro sarebbero riusciti a mentirgli quando stava in guardia. Inoltre, Daly aveva scoperto che gli piaceva essere un braccio del potere di Doro. — Ora che il tuo popolo se n'è andato — disse Daly — perché non mi porti in Virginia o a New York, dove hai dei negri al lavoro? Sono stufo marcio di questo paese. — Resta qui — ordinò Doro. — Puoi essermi ancora utile. Tornerò. Daly sospirò. — Vorrei quasi essere una di quelle strane creature che chiami il tuo popolo — ammise. Doro sorrise e fece pagare il ragazzo, Okoye, dal capitano della nave, John Woodley, e rimandò Daly a terra. — Piccolo bastardo viscido — borbottò Woodley quando Daly se ne fu andato. Doro non disse niente. Woodley, uno dei figli normali di Doro, privi di doni, aveva sempre detestato Daly. Questo divertiva Doro, perché lui li trovava molto simili. Woodley era il figlio nato da una relazione casuale che Doro aveva avuto 45 anni prima con la figlia di un mercante londinese. Doro aveva sposato la donna e aveva provveduto a lei quando aveva sapu-
to che gli avrebbe dato un figlio, ma l'aveva lasciata ben presto vedova, agiata ma sola, a parte il figlio di pochi mesi. Doro aveva visto John Woodley solo due volte mentre il ragazzo si avviava all'età adulta. Quando, alla seconda visita, Woodley aveva espresso il desiderio di andare per mare, Doro lo aveva sistemato come apprendista presso uno dei suoi comandanti. Woodley si era fatto strada da solo. Avrebbe potuto diventare ricco, comandare una grande nave, anziché una delle più piccole di Doro. Invece aveva scelto di restare al suo fianco. Come Daly, godeva nell'essere un braccio del potere di Doro. E come Daly, era invidioso di chi poteva scalzarlo nella stima di Doro. — Quel piccolo pagano salperebbe con te oggi stesso, se lo lasciassi fare — disse Woodley a Doro. — Non è migliore di uno dei suoi neri. Non capisco che pregi possa avere ai tuoi occhi. — Lavora per me — rispose Doro. — Proprio come te. — Non è lo stesso! Doro scrollò le spalle e lasciò in sospeso la contraddizione. Woodley sapeva meglio di Daly fino a che punto fosse lo stesso. Aveva lavorato troppo a stretto contatto con i figli più dotati di Doro per sopravvalutare il proprio valore. E sapeva che le generazioni dei figli e delle figlie viventi di Doro avrebbero popolato una città intera. Sapeva con quanta facilità lui e Daly potevano essere rimpiazzati. Un istante dopo, sospirò come aveva fatto Daly. — Immagino che i nuovi negri che hai portato a bordo abbiano qualche talento speciale — disse. — Sì — rispose Doro. — Qualcosa di nuovo. — Animali senza Dio! — brontolò Woodley con amarezza Voltò le spalle e si allontanò. 4 La nave spaventò Anyanwu, ma spaventò ancor di più Okoye. Aveva visto che gli uomini a bordo erano quasi tutti bianchi e in vita sua non aveva avuto buone esperienze con i bianchi. Inoltre i compagni di schiavitù gli avevano detto che i bianchi erano cannibali. — Ci porteranno nel loro paese e ci metteranno all'ingrasso per mangiarci — disse ad Anyanwu. — No — lo rassicurò lei. — Non è loro abitudine mangiare gli uomini. E anche se lo fosse, il nostro padrone non ci lascerebbe mangiare. È un uomo potente.
Okoye rabbrividì. — Non è un uomo. Anyanwu lo fissò. Come aveva fatto a scoprire così presto la singolarità di Doro? — È stato lui che mi ha comprato, poi mi ha venduto ai bianchi. Me lo ricordo; mi ha picchiato. È lo stesso viso, la stessa pelle. Ma all'interno vive qualcosa di diverso. Uno spirito. — Okoye. — Anyanwu parlò a voce molto bassa e attese che si riscuotesse dal terrore, smettendo di guardare nel vuoto per guardare lei. — Se Doro è uno spirito — disse — ti ha reso un servigio. Ha ucciso il tuo nemico per te. È una ragione per temerlo? — Anche tu lo temi. L'ho visto nei tuoi occhi Anyanwu gli rivolse un sorriso mesto. — Non quanto dovrei, forse. — È uno spirito! — Lo sai che sono parente di tua madre, Okoye. Lui la fissò per qualche istante senza replicare. Alla fine chiese: — Anche la sua gente è stata ridotta in schiavitù? — Non quando l'ho vista per l'ultima volta. — Allora come sei stato catturato? — Ricordi la madre di tua madre? — È un oracolo. Il dio parla attraverso lei. — È Anyanwu, la madre di tua madre — ribatté Anyanwu. — Ti dava da mangiare patate dolci schiacciate e ha guarito la malattia che minacciava la tua vita. Ti raccontava storie sulla tartaruga, la scimmia, gli uccelli... E a volte, quando la guardavi alle ombre del fuoco e della lampada, ti sembrava che lei diventasse quelle creature. Tu da principio ti spaventavi. Poi eri contento. Chiedevi le storie e i cambiamenti. Volevi cambiare anche tu. — Ero un bambino — disse Okoye. — Sognavo. — Eri sveglio. — Non puoi saperlo! — Lo so. — Non l'ho mai detto a nessuno! — Non ho mai pensato che lo avresti fatto — disse Anyanwu. — Anche da bambino, pareva che tu sapessi sempre quando parlare e quando stare zitto. — Lei sorrise, ricordando il piccolo bambino stoico che si era rifiutato di piangere per i dolori della malattia, che si era rifiutato di sorridere quando gli raccontava le vecchie favole che sua madre le aveva raccontato. Soltanto quando lo aveva sorpreso con i cambiamenti, lui aveva cominciato a prestare attenzione.
Anyanwu parlò a bassa voce. — Ti ricordi, Okoye, che la nonna aveva un segno qui? — Tracciò con il dito la vecchia cicatrice seghettata che un tempo aveva sotto l'occhio sinistro. Mentre la disegnava, invecchiò e riempì di solchi la pelle, in modo che apparisse la cicatrice. Okoye si slanciò verso la porta. Anyanwu lo afferrò, lo tenne fermo facilmente, malgrado la taglia maggiore e la forza disperata del giovane. — Che cosa sono che non fossi anche prima? — gli domandò, quando i suoi sforzi per dibattersi ebbero perso la violenza iniziale. — Sei un uomo! — disse lui ansimando. — O uno spirito. — Non sono uno spirito — ribatté lei. — E sarebbe tanto difficile, per una donna che può diventare una tartaruga o una scimmia, diventare un uomo? Lui ricominciò a dibattersi. Era un giovanotto, ormai, non più un bambino. La naturale accettazione infantile dell'impossibile era svanita, e lei non osava lasciarlo andare. Nello stato in cui era, Okoye poteva lanciarsi in acqua e annegare. — Se resterai calmo, Okoye, ridiventerò la vecchia che tu ricordi. Lui si dibatteva ancora. — Ndwadiani, figlio della figlia, ricordi che nemmeno il dolore della malattia ti faceva piangere quando tua madre ti portava da me, ma piangevi perché non potevi trasformarti come me? Lui smise di dibattersi, rimase fermo e ansimante nella sua stretta. — Tu sei figlio di mia figlia — gli disse. — Non ti farei del male. — Ormai era immobile, quindi lo lasciò andare. Il legame fra un uomo e la famiglia della madre era forte e gentile. Ma per la sicurezza del ragazzo, tenne il proprio corpo fra lui e la porta. — Devo diventare com'ero? — gli chiese. — Sì — mormorò il ragazzo. Per lui ridiventò una vecchia. La forma era familiare e facile da assumere. Era stata una vecchia per tanto tempo. — Sei tu — disse Okoye sbalordito. Lei sorrise. — Vedi? Perché dovresti avere paura di una vecchia? Con sua sorpresa, lui scoppiò a ridere. — Hai sempre avuto troppi denti per essere una vecchia, e occhi strani. La gente diceva che il dio guardava attraverso i tuoi occhi. — Tu che cosa pensi?
Lui la fissò con grande curiosità, le girò intorno per guardarla. — Non riesco a pensare a niente. Perché sei qui? Come sei diventata la schiava di questo Doro? — Non sono la sua schiava. — Non riesco a immaginare come un uomo possa tenerti in schiavitù. Che cosa sei? — Sua moglie. Il ragazzo fissò senza parole i suoi seni penduli. — Io non sono questa donna avvizzita, Okoye. Mi sono lasciata diventare così quando morì il mio ultimo marito, il padre di tua madre. Pensavo di avere avuto abbastanza mariti e abbastanza figli; sono più vecchia di quanto tu possa immaginare. Volevo riposare. Dopo un riposo di molti anni come oracolo per il popolo, Doro mi ha trovata. A modo suo, è diverso come me. Ha voluto che diventassi sua moglie. — Ma lui non è semplicemente diverso. È qualcosa di diverso da un uomo! — E io sono qualcos'altro che una donna. — Tu non sei come lui! — No, ma l'ho accettato come marito. Era quello che volevo, avere un uomo che fosse diverso dagli altri uomini quanto io lo sono dalle altre donne. — Se anche non era del tutto vero, non c'era bisogno che Okoye lo sapesse. — Fammi vedere... — Okoye fece una pausa come se non fosse certo di quello che voleva dire. — Fammi vedere quello che sei. Obbediente, Anyanwu lasciò che tornasse a lei la sua vera forma, ridiventò la giovane donna il cui corpo aveva cessato di invecchiare quando aveva circa vent'anni. A vent'anni, aveva sofferto di una malattia violenta e terribile durante la quale udiva voci, sentiva dolori in tutte le parti del corpo, una dopo l'altra, gridava e balbettava in dialetti stranieri. Il giovane marito aveva avuto paura che morisse. Lei era Anasi, la prima moglie, e anche se era in disgrazia presso la famiglia di lui, perché dopo cinque anni di matrimonio non aveva ancora avuto figli, aveva lottato con tutte le sue forze per non perderla. Aveva cercato aiuto per lei, pagando freneticamente, con denaro preso a prestito, il vecchio che allora era l'oracolo, sacrificando bestie pregiate. Nessun uomo l'aveva mai amata quanto lui. Ed era sembrato che la medicina agisse. Il suo corpo aveva smesso di dibattersi e di lottare e aveva ripreso i sensi, ma si era ritrovata enormemente cambiata. Aveva sul proprio corpo un controllo di gran lunga superiore a quello di
chiunque altro. Poteva guardare dentro di sé e controllare o modificare ciò che vi vedeva. Finalmente era degna di suo marito e della propria femminilità: poteva restare incinta. Aveva dato a suo marito dieci figli forti. Nei secoli che erano seguiti, non aveva mai fatto di più per nessun altro uomo. Quando si era accorta che gli anni non lasciavano più tracce sul suo corpo, aveva fatto esperimenti e aveva imparato a invecchiarsi a mano a mano che il marito invecchiava. Aveva appreso in fretta che non era bene essere troppo diversa. Le grandi differenze suscitavano invidia, sospetto, paura, accuse di stregoneria. Ma finché era vissuto il primo marito, lei non aveva mai rinunciato del tutto alla sua bellezza. E a volte, quando veniva a lei di notte, lasciava che il suo corpo riacquistasse la forma giovanile che le veniva così facile, così naturale: la sua vera forma. In quel modo, il marito aveva avuto una prima moglie giovane per tutta la vita. E ora Okoye aveva una nonna che sembrava più giovane di lui. — Nneochie? — disse il ragazzo in tono dubbioso. — Madre della madre? — Zitto — disse Anyanwu. — Questo è l'aspetto che ho quando non faccio niente. E questo è l'aspetto che ho quando sposo un nuovo marito. — Ma... tu sei vecchia. — Gli anni non mi toccano. — E nemmeno lui...? Il tuo nuovo marito? — Nemmeno lui. Okoye scosse la testa. — Io non dovrei stare qui. Sono soltanto un uomo. Che cosa farà di me? — Tu appartieni a Doro. Deciderà lui che cosa si deve fare con te, ma non devi preoccuparti. Vuole che sia sua moglie Non ti farà del male. L'acqua lo faceva star male. Poco dopo che Anyanwu si fu rivelata, lui cominciò a sentirsi male. Gli vennero le vertigini. Gli faceva male la testa. Disse che avrebbe vomitato, se non lasciava lo spazio ristretto della piccola cabina. Anyanwu lo portò sul ponte, dove l'aria era più pura e fresca. Ma anche lì il lieve rollio della nave sembrava infastidirlo e iniziò a dar fastidio anche lei. Cominciò a sentirsi male. Si aggrappò subito alla sensazione, esaminandola. C'erano torpore, vertigine, e un improvviso sudore freddo. Chiuse gli occhi e, mentre Okoye vomitava in mare, lei esaminò con cura il proprio corpo. Scoprì che c'era un'imperfezione, una specie di squilibrio nelle orecchie. Era un disturbo lievissimo, ma lei conosceva il proprio cor-
po abbastanza bene da notare il minimo cambiamento. Per un attimo, studiò quel cambiamento con interesse. Chiaramente, se non avesse fatto niente per correggerlo, il malessere sarebbe peggiorato; lei si sarebbe unita a Okoye, vomitando oltre la murata. Ma no. Si concentrò sul proprio orecchio interno e ricordò la perfezione che vi regnava, ricordò organi e fluidi e pressioni in equilibrio, prima che insorgesse il disturbo. Ricordare e correggere fu tutt'uno; l'equilibrio era ristabilito. Le aveva richiesto molto esercizio — e molto dolore — apprendere una simile facilità di controllo. Ogni cambiamento che operava nel suo corpo doveva essere compreso e visualizzato. Se era malata o ferita, non poteva semplicemente sperare in bene. Poteva restare uccisa con la stessa facilità di chiunque altro, se il suo corpo rimaneva danneggiato in qualche modo che lei non riuscisse a comprendere abbastanza in fretta per porvi rimedio. Così, aveva dedicato gran parte della sua lunga vita a studiare le malattie, i disordini e le ferite che potevano affliggerla, imparando spesso col sistema di assumere blande versioni delle stesse e poi, lentamente, dolorosamente, attraverso tentativi ed errori, arrivando a capire che cosa esattamente non andasse e come operare la guarigione. Così, quando i nemici venivano a ucciderla, ne sapeva di più lei sulla sopravvivenza che loro sull'arte di uccidere. E in quel momento sapeva come correggere quel nuovo disturbo che avrebbe potuto causarle considerevoli fastidi. Ma la sua conoscenza non era di alcun aiuto a Okoye, per il momento. Cercò di ricordare qualche sostanza che potesse aiutarlo. Nella sua lunga memoria c'era un catalogo di rimedi e veleni: spesso erano le stesse sostanze, somministrate in quantità differenti, con preparazione diversa, o in combinazioni variabili. Molti di quei rimedi poteva produrli nel suo stesso corpo, come aveva prodotto un unguento cicatrizzante per la mano di Doro. Quella volta, però, prima che lei potesse pensare a qualcosa di utile, venne da lei un uomo bianco che portava un piccolo contenitore pieno di liquido. L'uomo guardò Okoye, annuì e pose il contenitore fra le mani di Anyanwu. Fece segni per indicare che doveva indurre Okoye a bere. Anyanwu guardò il contenitore, poi ne bevve un sorso lei stessa. Non avrebbe dato a nessuno una medicina che non conosceva. Il liquido era una sostanza sorprendentemente forte, che al primo sorso la fece tossire, poi pian piano la scaldò piacevolmente, la fece sentire bene. Somigliava al vino di palma, ma era molto più forte. Una piccola dose avrebbe fatto dimenticare a Okoye la sua infelicità. Un'altra lo avrebbe fatto
dormire. Non era una cura, ma non gli avrebbe fatto male e poteva aiutarlo. Anyanwu ringraziò l'uomo bianco nella sua lingua e lei vide che le guardava i seni. Era un bianco senza barba e con i capelli gialli, un tipo fisico del tutto sconosciuto ad Anyanwu. In un altro momento, la curiosità l'avrebbe spinta ad apprendere di più sul suo conto, a tentare di comunicare con lui. Si sorprese a chiedersi vagamente se i peli fra le gambe erano gialli come quelli sulla testa. Rise forte fra sé, e il giovanotto, senza capire, guardò i suoi seni sussultare. Basta così! Lei riportò Okoye in cabina, e quando l'uomo con i capelli gialli li seguì, gli si piantò davanti e gli fece segno di andarsene in modo inconfondibile. Lui esitò e Anyanwu decise che se la toccava senza essere stato invitato, lo avrebbe scaraventato in mare. Mare, sì. Quella era la parola inglese per indicare il mare. Se la diceva, avrebbe capito? Ma l'uomo se ne andò senza prove di forza. Anyanwu indusse Okoye a inghiottire qualche sorso di liquido. Dapprima tossì e boccheggiò, ma poi lo mandò giù. Quando Doro entrò nella cabina, Okoye dormiva. Doro aprì la porta senza avvertire ed entrò. La guardò con piacere evidente e disse: — Tu stai bene, Anyanwu. Lo immaginavo. — Io sto sempre bene. Lui rise. — Mi porterai fortuna in questo viaggio. Vieni a vedere se i miei uomini hanno comprato altri dei tuoi parenti. Lei lo seguì più in fondo nelle viscere della nave attraverso grandi locali che contenevano soltanto alcune persone divise in base al sesso. Le persone stavano stese su stuoie o riunite a coppie o a gruppetti per parlare fra loro, perlomeno quelli che avevano trovato altri che parlassero la loro lingua. Nessuno era incatenato come gli schiavi sulla spiaggia. Nessuno sembrava ferito o spaventato. Due donne erano sedute ad allattare i piccoli. Anyanwu udì molte lingue, compresa, infine, la sua. Si fermò alla stuoia di una giovane donna che stava cantando piano fra sé. — Chi sei? — chiese alla donna. La donna balzò in piedi, prese le mani di Anyanwu. — Tu sai parlare — esclamò con gioia. — Credevo che non avrei sentito mai più una parola comprensibile. Sono Udenkwo. La lingua della donna era in parte estranea ad Anyanwu. Pronunciava alcune parole in modo diverso o usava termini differenti, cosicché Anyanwu
doveva ripetere tutto dentro di sé per essere certa di quello che era stato detto. — Come sei arrivata qui, Udenkwo? — le domandò. — Questi bianchi ti hanno rapito da casa tua? — Con la coda dell'occhio, vide Doro voltarsi verso di lei indignato. Ma lasciò che Udenkwo rispondesse. — Non questi — spiegò. — Sconosciuti che parlavano proprio come te. Mi hanno venduta ad altri. Sono stata venduta quattro volte... alla fine a questi. — Si guardò attorno come stordita, sorpresa. — Qui nessuno mi ha picchiata o legata. — Come ti hanno catturata? — Ero andata al fiume con le amiche a prendere l'acqua. Siamo state catturate tutte, e con noi i bambini. Mio figlio... — Dov'è? — Me lo hanno portato via. Quando sono stata venduta per la seconda volta, non lo hanno venduto insieme a me. — Lo strano accento della donna non serviva a mascherare il dolore. Spostò lo sguardo da Anyanwu a Doro. — Che cosa mi faranno, adesso? Questa volta Doro rispose. — Verrai nel mio paese. Ora appartieni a me. — Sono nata libera! Mio padre e mio marito sono uomini importanti. — Questo appartiene al passato. — Lasciami tornare dal mio popolo! — Il mio popolo diventerà il tuo popolo. Tu mi obbedirai come fanno loro. Udenkwo restò seduta, immobile, ma in qualche modo sembrò ritrarsi da lui. — Sarò legata di nuovo? Sarò picchiata? — No, se obbedisci. — Sarò venduta? — No. Lei esitò, studiandolo come per decidere se credergli o meno. Alla fine, in tono incerto, domandò: — Comprerai mio figlio? — Lo farei — rispose Doro — ma chi può sapere dove è stato portato? Un bambino... quanti anni aveva? — Quasi cinque. Doro scrollò le spalle. — Non saprei come ritrovarlo. Anyanwu aveva guardato Udenkwo, incerta. In quel momento, mentre la donna sembrava sprofondare nella depressione alla notizia di aver perduto per sempre suo figlio, Anyanwu domandò: — Udenkwo, chi sono tuo padre e il padre di lui? La donna non rispose.
— Tuo padre — ripeté Anyanwu. — Il suo popolo. In tono indifferente, Udenkwo disse il nome del suo clan, poi elencò parecchi dei suoi antenati maschi. Anyanwu ascoltò finché i nomi e il loro ordine cominciarono a suonarle familiari, finché uno di essi fu il nome del suo ottavo figlio, poi quello del suo terzo marito. Anyanwu interruppe l'elenco con un gesto. — Ho conosciuto alcuni dei tuoi parenti — disse. — Qui sei al sicuro. Sarai trattata bene. — Cominciò ad allontanarsi. — Verrò di nuovo a trovarti. — Attirò Doro con sé e, quando furono fuori della portata dell'orecchio della donna, chiese: — Non potresti cercare suo figlio? — No — rispose Doro. — Le ho detto la verità. Non saprei da dove cominciare. E non so nemmeno se il bambino è ancora vivo. — Lei è una dei miei discendenti. — Come hai detto tu, sarà trattata bene. Non posso offrire di più. — Doro le lanciò un'occhiata. — Il paese dev'essere pieno dei tuoi discendenti. Anyanwu assunse un'aria severa. — Hai ragione. Sono tanto numerosi, così ben distribuiti e così lontani da me nelle generazioni, che non riconoscono me e non si conoscono fra loro. A volte si sposano fra loro e io vengo a saperlo. È un abominio, ma non posso parlarne senza attirare sui giovani il genere sbagliato di attenzione. Non possono difendersi come me. — Fai bene a mantenere il silenzio — disse Doro. — A volte gli usi devono essere diversi, per la gente diversa come noi. — Noi — ripeté lei pensierosa. — Hai avuto figli da... dal corpo nato da tua madre? Lui scosse la testa. — Sono morto troppo giovane — rispose. — Avevo tredici anni. — È triste, anche per te. — Sì. — Ormai erano sul ponte, e lui guardò in lontananza verso il mare. — Ho vissuto per più di 3 mila e settecento anni e ho avuto migliaia di figli. Sono diventato una donna e ho partorito. Eppure rimpiango ancora di non sapere che cosa avrebbe potuto produrre il mio corpo. Un altro essere come me? Un compagno? — Probabilmente no — disse Anyanwu. — Forse saresti stato come me, e avresti generato un figlio comune dietro l'altro. Doro scrollò le spalle e cambiò argomento. — Devi portare tuo nipote a conoscere quella ragazza, quando si sentirà meglio. L'età della ragazza è sbagliata, ma è ancora un po' più giovane di Okoye. Forse si conforteranno l'un l'altra.
— Sono parenti! — Non lo sapranno, a meno che non glielo dica tu, e tu dovresti tacere ancora una volta. Hanno solo se stessi, Anyanwu. Se lo desiderano, potranno sposarsi secondo le usanze della loro nuova terra. — E quali sono? — Si celebra una cerimonia. Loro s'impegnano reciprocamente di fronte a un... — pronunciò una parola inglese, poi tradusse — un sacerdote. — Non hanno altra famiglia che me, e la ragazza non mi riconosce. — Non ha importanza. — Sarà un misero matrimonio. — No. Darò loro terra e sementi. Altri insegneranno loro a vivere nel nuovo paese. È un buon posto. La gente non deve necessariamente restare povera, se ha voglia di lavorare. — I miei figli hanno voglia di lavorare. — Allora andrà tutto bene. Lui la lasciò e Anyanwu si aggirò per il ponte guardando la nave, il mare e la linea scura di alberi sulla riva. La costa sembrava molto lontana, ormai. La fissò con un principio di paura, di nostalgia. Tutto ciò che conosceva era laggiù fra quegli alberi, oltre foreste sconosciute. Stava lasciando tutto il suo popolo in un modo molto più definitivo che se si fosse semplicemente allontanata a piedi. Volse le spalle alla riva, spaventata dall'emozione improvvisa che minacciava di sopraffarla. Guardò gli uomini, alcuni negri, altri bianchi, che si spostavano sul ponte facendo lavori che lei non capiva. Il bianco dai capelli gialli venne a sorriderle e fissarle i seni finché lei si domandò se non aveva mai visto una donna prima di allora. Le parlò molto lentamente, in modo molto chiaro. — Isaac — disse, indicandosi il petto. — Isaac. — Poi puntò un dito verso di lei, ma senza toccarla. Sollevò le folte sopracciglia chiare con espressione interrogativa. — Isaac? — ripeté lei incespicando sulla parola. — Isaac. — Lui si batté la mano sul petto. Poi puntò di nuovo il dito. — Tu? — Anyanwu! — esclamò lei comprendendo. — Anyanwu. — Sorrise. E lui sorrise, ripeté il suo nome pronunciandolo male e la portò in giro per il ponte indicandole il nome inglese degli oggetti. La nuova lingua, così diversa da tutte quelle che aveva conosciuto prima, l'aveva affascinata fin da quando Doro aveva cominciato a insegnargliela. Ora lei ripeté le pa-
role con molta cura e si sforzò di ricordarle. Isaac dai capelli gialli sembrava entusiasta. Quando alla fine qualcuno lo chiamò lontano, la lasciò a malincuore. La solitudine tornò appena lui fu scomparso. C'erano persone tutt'intorno a lei, ma si sentiva completamente sola su quell'enorme vascello che si inoltrava in acque sconfinate. Solitudine. Per quale motivo doveva sentirla così forte, in quel momento? Era sempre stata sola, dal momento in cui si era accorta che non sarebbe morta come gli altri. L'avrebbero lasciata sempre... amici, mariti, figli. Non riusciva a ricordare il volto della madre o del padre. Ma in quel momento la solitudine parve chiudersi su di lei come le acque del mare si sarebbero chiuse sulla sua testa se vi fosse balzata dentro. Lei abbassò gli occhi sull'acqua in costante movimento, poi li spostò sulla costa lontana. La riva sembrava ancor più distante, ormai, anche se Doro aveva detto che la nave non aveva ancora preso il largo. Anyanwu sentì che se si fosse allontanata più di così dalla sua patria, forse sarebbe stata già troppo lontana per tornare. Si aggrappò alla murata, con gli occhi fissi sulla riva. Che cosa stava facendo, si domandava. Come poteva lasciare la sua terra natia, sia pure per Doro? Come poteva vivere fra quegli estranei? Pelle bianca, capelli gialli: che cos'erano per lei? Peggio che sconosciuti. Esseri diversi, persone che per quanto fossero intorno a lei lavorando e gridando, la lasciavano con la sensazione di essere sola. Si issò sul parapetto. — Anyanwu! Non vi badò. Fu come se una zanzara avesse ronzato vicino al suo orecchio. Una lievissima distrazione. — Anyanwu! Lei voleva lanciarsi in mare. Le acque l'avrebbero riportata a casa, o l'avrebbero inghiottita. In un modo o nell'altro, avrebbe trovato la pace. La solitudine la faceva soffrire come una malattia fisica, un dolore che la sua particolare abilità non riusciva a trovare e a sanare. Il mare... Delle mani l'afferrarono, la tirarono indietro e in basso sul ponte. Delle mani la tennero lontana dal mare. — Anyanwu! I capelli gialli ondeggiavano sopra di lei. La pelle bianca. Che diritto aveva di metterle le mani addosso? — Ferma, Anyanwu! — gridò lui.
Lei riconobbe la parola inglese "ferma", ma la ignorò. Lo scostò bruscamente e tornò alla murata. — Anyanwu! Una voce nuova. Mani diverse. — Anyanwu, non sei sola qui. Forse altre parole non l'avrebbero fermata. Forse nessun'altra voce avrebbe potuto placare la necessità di porre fine con tanta urgenza a quella terribile solitudine. Forse soltanto la sua lingua avrebbe potuto sopraffare il richiamo della riva lontana. — Doro? Si ritrovò fra le sue braccia, tenuta stretta. Si rese conto che era stata sul punto di spezzare quelle braccia per liberarsi, se necessario, e ne fu atterrita. — Doro, mi è successo qualcosa. — Lo so. Il suo furore era spento. Si guardò attorno, stordita. I capelli gialli: che ne era stato di lui? — Isaac? — chiese spaventata. Aveva forse gettato il giovane in mare? Ci fu uno scoppio di parole straniere alle sue spalle, in tono spaventato e difensivo. Lei si voltò e lo vide vivo e asciutto e fu troppo sollevata per stupirsi del suo tono. Lui e Doro scambiarono qualche parola in inglese, poi Doro si rivolse a lei. — Non ti ha fatto del male, Anyanwu? — No. — Lei guardò il giovane che teneva la mano sopra un punto arrossato sul braccio destro. — Penso di avergli fatto male io. — Gli voltò le spalle vergognandosi, fece appello a Doro. — Mi ha aiutato. Non avrei dovuto fargli male, ma... uno spirito si era impadronito di me. — Devo fargli le tue scuse? — Doro sembrava divertito. — Sì. — Lei si avvicinò a Isaac, pronunciò il suo nome con dolcezza, gli sfiorò il braccio ferito. Non era la prima volta che rimpiangeva di non poter placare il dolore altrui come poteva fare con il proprio. Sentì Doro parlare per lei, vide la collera svanire dal viso del giovane. Le sorrise, rivelando denti guasti ma buon umore. Evidentemente la perdonava. — Dice che sei forte come un uomo — le riferì Doro. Lei sorrise. — Posso essere forte come molti uomini, ma non c'è bisogno che lo sappia. — Può saperlo — ribatté Doro. — Ha anche lui la sua forza. È mio figlio.
— Tuo... — Il figlio di un corpo americano. — Doro sorrise come se avesse detto una battuta. — Un corpo di sangue misto, bianco e negro e indiano. Gli indiani sono un popolo scuro di pelle. — Ma lui è bianco. — La madre era bianca. Tedesca e bionda. Lui è più figlio suo che mio, almeno in apparenza. Anyanwu scosse la testa, guardando con nostalgia la costa distante. — Non hai niente da temere — le disse Doro a bassa voce. — Non sei sola. I figli dei tuoi figli sono qui. Io sono qui. — Come puoi sapere quello che provo? — Dovrei essere cieco per non sapere, per non vedere. — Ma... — Credi di essere la prima donna che ho strappato al suo popolo? Ti ho osservata da quando abbiamo lasciato il tuo villaggio, sapendo che per te sarebbe venuto questo momento. La nostra specie ha una particolare necessità di stare con i propri parenti o con i propri simili. — Tu non sei simile a me! Lui non disse niente. Aveva già ribattuto una volta a quella obiezione, rammentò lei. A quanto pareva, non aveva intenzione di ribattere ancora. Lo guardò, quel giovane corpo alto, ben fatto e attraente. — Potrò vedere, un giorno, come sei quando non ti nascondi nella pelle di un altro uomo? Per un attimo, le parve che un leopardo la guardasse attraverso i suoi occhi. Una cosa la guardò, ed era fredda e ferale, uno spirito che parlò con voce sommessa. — Prega i tuoi dei di non vederlo mai, Anyanwu. Lascia che io sia un uomo. Accontentati che sia un uomo. — Tese la mano per toccarla e lei si sorprese di non ritrarsi: tremò, ma rimase dov'era. Lui l'attirò a sé e, con sua sorpresa, Anyanwu trovò conforto fra le sue braccia. La nostalgia per la sua casa, per il suo popolo, che aveva minacciato di impadronirsi di lei nuovamente, si ritirò. Come se Doro, qualunque cosa fosse, le bastasse. Dopo aver mandato Anyanwu a occuparsi del nipote, Doro si volse e sorprese il figlio che la guardava allontanarsi, che seguiva con gli occhi l'ondeggiare dei suoi fianchi. — Le ho appena detto quanto è facile leggerle nel pensiero — disse Doro.
Il ragazzo abbassò gli occhi, sapendo quello che lo aspettava. — Anche nel tuo è abbastanza facile leggere — continuò Doro. — Non posso farci niente — brontolò Isaac. — Dovresti farle mettere qualcos'altro addosso. — Lo farò, prima o poi. Per ora, controllati. È una delle poche persone a bordo che probabilmente potrebbe ucciderti, così come tu sei uno dei pochi che potrebbe uccidere lei. E preferirei non perdere nessuno dei due. — Non le farei del male. Mi piace. — È evidente. — Voglio dire... — Lo so, lo so. Pare che anche tu piaccia a lei. Il ragazzo esitò, fissò per un attimo l'acqua azzurra, poi affrontò Doro quasi con aria di sfida. — Hai intenzione di tenerla per te? Doro sorrise dentro di sé. — Per qualche tempo — rispose. Quello era il suo figlio preferito, un giovanotto raro: talento e temperamento erano maturati esattamente secondo le intenzioni di Doro. Lui aveva controllato la stirpe di Isaac per millenni, ottenendo ogni tanto dei parziali successi, che potevano essere usati per la riproduzione, e dei fallimenti pericolosi e distruttivi che dovevano essere eliminati. Poi, finalmente, il successo autentico. Isaac. Un figlio sano di mente e di corpo ribelle non più di quanto fosse saggio per un figlio di Doro, ma abbastanza possente da sospingere una nave al sicuro in mezzo a un uragano. Isaac guardò nella direzione in cui era sparita Anyanwu. Scosse la testa lentamente. — Non riesco a immaginare in che modo la tua abilità e la sua si combinerebbero — disse Doro, osservandolo. Isaac si girò con una speranza improvvisa. — A me pare che le operazioni piccole e complesse che compie all'interno del suo corpo richiederebbero una parte della stessa abilita che usi tu per spostare oggetti grandi all'esterno del tuo corpo. Isaac si accigliò. — Come può sapere che cosa fa dentro di sé? — A quanto pare, somiglia un po' a una delle mie famiglie della Virginia. Sanno dirti che cosa succede in luoghi chiusi o in posti lontani miglia e miglia. Ho progettato di unirti a un paio di loro. — Capisco il perché. Sarei più abile anch'io, se potessi vedere in quel modo. Non avrei lasciato finire su quegli scogli la Mary Magdalene, l'anno scorso.
— Te la sei cavata abbastanza bene. Ci hai tenuti a galla finché abbiamo raggiunto il porto. — Se avessi un figlio da Anyanwu, forse avrebbe quell'altro genere di vista. Preferirei lei alle tue virginiane. Doro rise forte. Gli piaceva accontentare Isaac, e lui lo sapeva. A volte Doro era sorpreso dai sentimenti che provava per il migliore dei suoi figli. E, accidenti alla curiosità, voleva davvero sapere che genere di figlio potevano generare Isaac e Anyanwu. — Avrai le virginiane — gli disse. — E avrai anche Anyanwu. La dividerò con te. In seguito. — Quando? — Isaac non fece nulla per mascherare l'impazienza. — In seguito, ho detto. Questo è un momento pericoloso per lei. Si sta lasciando alle spalle tutto ciò che ha sempre conosciuto, e non ha un'idea chiara di quello che le toccherà in cambio. Se la forziamo troppo, potrebbe uccidersi prima di esserci stata di qualche utilità. 5 Okoye rimase nella cabina di Doro, dove Anyanwu poteva curarlo, finché il malessere si placò. Allora Doro lo mandò sottocoperta insieme con il resto degli schiavi. Una volta che la nave fu in navigazione e lontano dalla vista della costa africana gli schiavi furono lasciati liberi di spostarsi dove volevano sui ponte o sottocoperta. In effetti, dato che avevano poco o nulla da fare, godevano di maggiore libertà dell'equipaggio. Così Okoye non ebbe motivo di trovare restrittivo il cambiamento Da principio Doro lo osservò con attenzione, per vedere se era abbastanza intelligente — o abbastanza spaventato — da non creare guai. Ma Anyanwu lo aveva presentato a Udenkwo, e da quel momento in poi la giovane donna sembrò occupare gran parte del suo tempo. Non sembrava affatto sfiorato dall'idea di ribellarsi. — Forse non si piacciono quanto sembra — disse Anyanwu a Doro. — Chi sa che cosa c'è nella loro mente? Doro si limitò a sorridere. Quello che i due giovani avevano in mente era evidente a tutti. Anyanwu era ancora preoccupata per la loro parentela. Era prigioniera delle credenze del suo popolo più di quanto pensasse. Sembrava provare un particolare senso di colpa per quella unione, dato che avrebbe potuto impedirla con facilità. Ma era chiaro anche a lei che in quel momento Okoye e Udenkwo avevano bisogno l'uno dell'altra come lei aveva bisogno di Doro. Come lei, si sentivano molto vulnerabili e ancor più soli.
Dopo alcuni giorni di viaggio, Doro portò Okoye sul ponte lontano da Udenkwo, e gli disse che il capitano della nave aveva l'autorità di celebrare un matrimonio. — Il bianco, Woodley? — domandò Okoye. — Che cosa c'entra con noi? — Nel tuo nuovo paese, se desideri sposarti, devi presentarti davanti a un sacerdote o a un'autorità come Woodley. Il ragazzo scosse la testa, dubbioso. — Qui è tutto diverso. Non so. Mio padre aveva scelto una moglie per me, ed ero contento di lei. Erano già state fatte delle offerte alla sua famiglia. — Non la rivedrai mai più. — Doro parlò con profonda convinzione. Affrontò con calma lo sguardo furioso del ragazzo. — Il mondo non è un posto gentile, Okoye. — Devo sposarmi perché lo dici tu? Per un attimo, Doro non parlò. Lasciò che il ragazzo riflettesse per un momento sulle sue parole sciocche. Infine Doro disse: — Quando parlerò per essere obbedito, giovanotto, lo saprai, e obbedirai. Ora toccava a Okoye, che restò in silenzio riflettendo e, anche se tentava di nasconderlo, spaventato. — Devo sposarmi? — disse alla fine. — No. — Lei ha già avuto un marito. Doro scrollò le spalle. — Cosa farai di noi in questa tua terra? — Forse niente. Vi darò campi e sementi e qualcuno della mia gente vi aiuterà a imparare le usanze della vostra nuova patria. Continuerete a studiare l'inglese e forse l'olandese. Vivrete. Ma in cambio di quello che vi darò, mi obbedirete anche se venissi da voi fra quaranta o cinquant'anni. — Che cosa dovrò fare? — Ancora non lo so. Forse ti darò un bambino senza casa da allevare, o una serie di bambini. Forse fornirai asilo agli adulti che ne avranno bisogno. Forse porterai messaggi o consegnerai merci o terrai in consegna proprietà per conto mio. Forse niente. Niente del tutto. — Tanto cose giuste quanto sbagliate? — Sì. — Allora forse non obbedirò. Anche uno schiavo a volte deve seguire le proprie idee. — La decisione spetta a te — ammise Doro. — Che cosa farai? Mi ucciderai?
— Sì. Okoye distolse lo sguardo, si sfregò il petto nel punto in cui il ferro rovente aveva impresso il marchio. — Obbedirò — mormorò. Rimase in silenzio per un attimo, poi parlò di nuovo con voce stanca. — Desidero sposarmi. Ma dev'essere il bianco a celebrare la cerimonia? — Vuoi che lo faccia io? — Sì. — Okoye sembrò sollevato. Così fu. Doro non aveva nessuna autorità legale. Ordinò semplicemente a John Woodley di assumersi il credito per la celebrazione della cerimonia. Era la cerimonia che Doro voleva far accettare agli schiavi, non il comandante della nave. Così come avevano cominciato ad accettare cibi non familiari e strani compagni, dovevano accettare nuove usanze. Non fu offerto vino di palma come la famiglia di Okoye avrebbe provveduto a fare, se Okoye avesse preso moglie in una casa del suo villaggio, ma Doro offrì del rum e furono servite le familiari patate dolci e altri cibi meno conosciuti; ci fu una piccola festa. Non c'erano altri parenti tranne Doro e Anyanwu, ma ormai gli schiavi e alcuni membri dell'equipaggio avevano fatto conoscenza e furono bene accetti come ospiti. Doro spiegò, nella loro lingua, che cosa stava accadendo e tutti si radunarono intorno con risa e gesti e commenti nei diversi idiomi o in un inglese smozzicato. A volte il significato era inconfondibilmente chiaro, e Okoye e Udenkwo erano in bilico fra l'imbarazzo e il riso. Nell'atmosfera benevola della nave, tutti gli schiavi cominciavano a riprendersi dalle esperienze invariabilmente aspre vissute in patria. Alcuni di loro erano stati rapiti dal loro villaggio. Altri erano stati venduti per stregoneria o crimini di cui in genere erano innocenti. Alcuni erano nati schiavi. Altri erano stati ridotti in schiavitù durante una guerra. Tutti erano stati trattati duramente, prima o poi, durante la prigionia. Tutti avevano sofferto, più di quanto amassero ricordare. Tutti avevano lasciato in patria dei parenti... mariti, mogli, genitori, figli... persone che, ormai se ne rendevano conto, non avrebbero rivisto mai più. Ma sulla nave c'era gentilezza. C'era cibo sufficiente... anzi troppo, dato che gli schiavi erano così pochi. Non c'erano catene. C'erano coperte per tenerli al caldo e l'aria di mare sul ponte per rinfrescarli. Non c'erano fruste né armi. Nessuna donna veniva violentata. Avrebbero voluto tornare a casa, ma, come Okoye, temevano troppo Doro per lamentarsi o ribellarsi. La maggior parte di loro non avrebbe saputo dire perché lo temeva, ma era l'unico uomo che conoscessero tutti, l'unico che sapesse parlare, sia pure in misura limitata, con tutti. E una volta che aveva parlato con loro, si astene-
vano dall'attaccarlo, dal fare qualsiasi cosa che potesse attirare su di loro la sua collera. — Che cosa gli hai fatto per spaventarli tanto? — gli chiese Anyanwu la sera del matrimonio. — Niente — rispose Doro con sincerità. — Tu mi hai visto insieme a loro. Non ho fatto del male a nessuno. — Si accorse che non era soddisfatta della risposta, ma quello non aveva importanza. — Tu non sai come potrebbe essere questa nave — le disse. E cominciò a descriverle una nave negriera: gli schiavi stipati al punto da riuscire a stento a muoversi e incatenati al loro posto così da dover giacere nei propri escrementi, le percosse, le donne stuprate regolarmente, la tortura... il gran numero di schiavi che morivano. Tutte sofferenze. — Che spreco! — concluse Doro disgustato. — Ma quelle navi trasportano schiavi da vendere. I miei sono soltanto per uso personale. Anyanwu lo fissò per un attimo in silenzio. — Devo congratularmi che i tuoi schiavi non vadano sprecati? — domandò. — Oppure devo temere per l'uso che ne farai? Lui rise della sua serietà e le offrì un po' di cognac per festeggiare le nozze dei nipoti. Avrebbe eluso la sua curiosità fin quando avesse potuto. Lei non voleva risposte alle sue domande. Avrebbe potuto rispondere da sé. Per quale motivo lo temeva, lei? A quale uso si aspettava di servire, lei? Anyanwu capiva. Si stava semplicemente risparmiando. Anche lui l'avrebbe risparmiata. Era il suo carico più prezioso, e lui era incline a trattarla con gentilezza. Okoye e Udenkwo erano sposati da due giorni appena, quando li colpì la grande tempesta. Anyanwu, che dormiva accanto a Doro su un letto troppo soffice, fu svegliata dal tamburellare della pioggia e da piedi che correvano sul ponte. La nave sussultò e rollò in modo pauroso, e Anyanwu si rassegnò a sopportare un'altra bufera. La sua prima tempesta in mare era stata breve, violenta e terrificante, ma, se non altro, l'averla sperimentata le dava un'idea di quello che poteva aspettarsi adesso. L'equipaggio doveva trovarsi sul ponte, a gridare, lottare con le vele, correre qua e là in una confusione controllata. Gli schiavi dovevano essere nei loro alloggi, sofferenti e spaventati, e Doro si sarebbe riunito con Isaac e alcuni altri membri dell'equipaggio i cui doveri sembravano consistere semplicemente nello stare insieme, osservare i guai e aspettare che finissero.
«Che cosa fai quando ti riunisci con loro?» gli aveva chiesto una volta, pensando che forse perfino lui aveva degli dei a cui rivolgersi nei momenti di pericolo. «Niente» le aveva risposto. «Allora... perché vi riunite?» «Potrebbe esserci bisogno di noi» aveva risposto. «Gli uomini con cui mi riunisco sono miei figli. Hanno qualità speciali che potrebbero risultare utili.» Non intendeva dirle nient'altro, non intendeva parlare di quei figli riconosciuti da poco, se non per ammonirla. «Lasciali stare» aveva detto. «Isaac è il migliore di loro, sicuro e stabile. Gli altri non sono sicuri, nemmeno per te.» In quel momento salì di nuovo dai figli, indossando in fretta, mentre correva, gli abiti da uomo bianco che aveva cominciato a portare. Anyanwu lo seguì, contando sulla propria forza e agilità per tenersi in salvo. Sul ponte, scoprì che il vento e la pioggia erano più violenti di quanto avesse immaginato. C'erano fulmini di un bianco azzurrino seguiti da un'oscurità assoluta. Grandi ondate spazzavano il ponte e l'avrebbero certamente risucchiata fuori bordo, se non fosse stato per la sua prontezza e per la sua forza. Si tenne saldamente, adattando la visione all'oscurità il più velocemente possibile. C'era sempre un po' di luce, anche quando la vista ordinaria non percepiva nulla. Finalmente riuscì a vedere e riuscì a udire al di sopra del vento, della pioggia e delle onde. Le giunsero frasi smozzicate in inglese dal tono disperato, e rimpianse di non poter capire. Ma se le parole erano prive di significato, era impossibile fraintendere il tono. Quelle persone pensavano di morire presto. Qualcuno la urtò con violenza, gettandola a terra, poi cadde sopra di lei. Si accorse che era soltanto un marinaio, travolto dal vento e dalle onde. Quasi tutti gli uomini si erano assicurati a qualsiasi oggetto ben saldo fossero riusciti a trovare, e ormai si sforzavano soltanto di resistere. Il vento si levò improvviso, e con esso giunse un'enorme montagna d'acqua, un'ondata che riuscì quasi a piegare la nave su un fianco. Anyanwu afferrò il braccio del marinaio e con l'altra mano si aggrappò alla murata. Se non lo avesse fatto, tanto lei quanto l'uomo sarebbero stati spazzati fuoribordo. Attirò l'uomo più vicino a sé in modo da poterlo circondare con un braccio. Poi per alcuni secondi si limitò a tenere duro. Più indietro, oltre il terzo dei grandi alberi, su quello che Isaac aveva chiamato il cassero di poppa, Doro stava ritto insieme a Isaac e altri tre uomini — i figli — in at-
tesa di vedere se potevano rendersi utili. Sicuramente era tempo che facessero tutto quel che potevano. Riusciva a distinguere facilmente Isaac dagli altri. Se ne stava ritto in disparte, con le braccia sollevate, il viso rivolto in basso e di lato per sottrarsi in parte al vento e alla pioggia, i vestiti e i capelli biondi frustati dal vento. Per un attimo, pensò che guardasse lei — o almeno nella sua direzione — ma di sicuro non poteva vederla, in mezzo al buio e alla pioggia. Lo guardò, affascinata. A differenza degli altri, non si era legato a niente, eppure continuava a restare in quella strana posa, mentre la nave rollava sotto di lui. Il vento soffiava più forte. Le onde si gonfiavano sul ponte e c'erano momenti in cui Anyanwu sentiva che perfino la sua grande forza veniva messa alla prova, momenti in cui sarebbe stato facile lasciar andare il marinaio semiannegato. Ma non aveva salvato la vita a quell'uomo solo per gettarla via. Vide che altri marinai si tenevano aggrappati con le dita e le cime. Non vide nessuno finire fuoribordo. Ma Isaac restava ancora eretto, solo, senza nemmeno aggrapparsi con le mani, e del tutto indifferente al vento e alle onde. La nave parve muoversi più in fretta. Anyanwu sentì aumentare la pressione del vento, sentì il corpo sferzato dalla pioggia con tanta violenza che tentò di ripararsene stringendosi al corpo del marinaio. Pareva che la nave navigasse controvento, muovendosi come uno spirito, sollevando anch'essa delle onde. Terrorizzata, Anyanwu non poté fare altro che reggersi forte. Poi, pian piano, la copertura di nuvole si squarciò, e apparvero le stelle. C'era la luna piena, che rifletteva frammenti di luce sulle acque calme. Le onde erano diventate gentili e lambivano innocue la nave, e il vento si ridusse a poco più di una brezza fredda sul corpo bagnato e seminudo di Anyanwu. Lei lasciò andare il marinaio e si alzò in piedi. In tutta la nave, la gente improvvisamente gridava, si liberava dai legacci, si precipitava da Isaac. Il marinaio salvato da Anyanwu si rialzò lentamente, guardò Isaac, poi lei. Stordito, alzò la testa verso il cielo sereno, la luna. Poi, con un grido roco e senza voltarsi a guardare Anyanwu, corse da Isaac. Anyanwu osservò per un attimo quell'esultanza — ormai la riconosceva come tale — poi scese incespicando sottocoperta per tornare nella cabina. Lì trovò acqua dappertutto. Sciabordava sul pavimento, e il letto era fradicio. Lei rimase in piedi a guardare impotente il disastro finché Doro la raggiunse, vide le condizioni della cabina e la portò in un'altra più asciutta.
— Eri sul ponte? — le chiese. Lei annuì. — Allora hai visto. Lei si voltò a guardarlo, senza capire. — Che cosa ho visto? — Il migliore dei miei figli — rispose lui con fierezza. — Isaac che faceva quello che è nato per fare. Ci ha portati attraverso la tempesta, più veloci di qualsiasi nave mai creata. — In che modo? — In che modo! — la schernì Doro, ridendo. — E tu come cambi forma, donna? Come hai vissuto per trecento anni? Lei batté le palpebre, andò a stendersi sul letto. Alla fine, guardò la cabina in cui l'aveva portata. — Di chi è questa? — Del capitano — rispose Doro. — Ne farà a meno per un po'. Rimani qui. Riposati. — Tutti i tuoi figli sono così potenti? Lui rise di nuovo. — Stanotte la tua mente salta da un argomento all'altro. Ma non c'è da stupirsi, immagino. Gli altri miei figli fanno cose diverse. Nessuno di loro sa usare le sue qualità bene come Isaac, però. Anyanwu si stese, sfinita. Non era particolarmente stanca: il suo corpo non era stanco. La tensione che aveva sopportato era di un genere che non avrebbe dovuto turbarla affatto, una volta superata. Era il suo spirito che era stanco. Aveva bisogno di tempo per dormire. Poi doveva andare a trovare Isaac per guardarlo e scoprire che cosa riusciva a scorgere in quel giovanotto sorridente con i capelli biondi. Chiuse gli occhi e dormì, senza sapere se Doro fosse disteso accanto a lei o no. Fu soltanto dopo, quando si svegliò sola, che si rese conto della sua assenza. Qualcuno stava bussando alla porta. Lei si riscosse facilmente dal sonno e si alzò per aprire. Nell'attimo in cui lo fece, un marinaio molto alto e magro le gettò fra le braccia Isaac semisvenuto. Lei barcollò per un attimo, più per la sorpresa che per il peso del ragazzo. Lo aveva afferrato per un riflesso istintivo. Ora sentì la consistenza fredda e cerea della sua pelle. Non sembrava riconoscerla, e nemmeno vederla. Aveva gli occhi socchiusi e sbarrati. Senza le braccia di lei che lo circondavano, sarebbe crollato a terra. Lo sollevò come se fosse un bambino, lo depose sul letto e lo coprì con una coperta. Poi alzò gli occhi e vide che il marinaio magro era ancora lì. Era un uomo con gli occhi verdi, la testa troppo lunga e ossa che sembra-
vano sul punto di spuntare dalla pelle scura, foruncolosa e non rasata. Era un bianco, ma il sole lo aveva scurito in modo irregolare e sembrava malato. Era uno degli uomini più brutti che Anyanwu avesse mai visto. Ed era uno di quelli che erano a fianco di Doro durante la tempesta... un altro figlio. Un figlio molto meno riuscito, se l'aspetto contava qualcosa. Quello era uno dei figli che Doro le aveva ordinato di evitare. Bene, lei lo avrebbe evitato volentieri, se soltanto se ne fosse andato. Le aveva portato Isaac. Ora avrebbe dovuto andarsene e lasciarla libera di prestare al ragazzo le cure che poteva dargli. In fondo alla sua mente, si domandava che cosa poteva esserci che non andava in un ragazzo che riusciva a sospingere sull'acqua grandi navi. Che cosa era successo? Perché Doro non le aveva detto che Isaac era malato? Il pensiero di Doro risuonava stranamente come una specie di eco nella sua mente. All'improvviso vide Doro o, meglio, una sua immagine. Lo vide come un uomo bianco con i capelli biondi come Isaac e gli occhi verdi come il marinaio brutto. Non aveva mai visto Doro bianco, non gli aveva mai sentito descrivere uno dei suoi corpi bianchi, ma seppe con assoluta certezza che lo stava vedendo con l'aspetto che aveva in uno di essi. Vide l'immagine che le consegnava Isaac, deponendole fra le braccia il ragazzo semisvenuto. Poi bruscamente con uno stacco improvviso, vide se stessa impegnata in un selvaggio e frenetico amplesso, prima con Isaac, poi con quell'uomo brutto dagli occhi verdi che si chiamava Lale. Lale Sachs. Come lo sapeva? Che cosa stava succedendo? L'uomo dagli occhi verdi rise, e in qualche modo la sua risata aspra echeggiò dentro di lei come aveva fatto il pensiero di Doro. Chissà come, quell'uomo era dentro i suoi stessi pensieri! Si lanciò contro di lui e lo respinse oltre la porta, con una spinta sufficiente a spostare un uomo molto più pesante. Lui volò all'indietro perdendo l'equilibrio, e lei sbatté la porta nell'istante in cui l'altro la superò. Anche così, il terribile legame che aveva con lui non era spezzato. Sentì dolore quando lui cadde e batté la testa, un dolore accecante che la fece cadere in ginocchio sul pavimento, dove rimase rannicchiata tenendosi la testa fra le mani, stordita. Poi il dolore svanì. Lui era scomparso dai suoi pensieri Ma stava rientrando dalla porta, gridando parole che lei riconobbe come imprecazioni. L'afferrò per la gola, la sollevò letteralmente da terra tenendola per il collo. Non era un uomo debole ma la sua forza non era nulla in confronto a quel-
la di Anyanwu. Lei lo colpì a casaccio, liberandosi, e lo sentì urlare dal dolore. Lo guardò e, per un attimo, lo vide con chiarezza, il viso troppo lungo stravolto dal dolore e dalla collera, la bocca spalancata, il naso schiacciato e sanguinante. Gli aveva fatto più male di quanto fosse nelle sue intenzioni, ma non le dispiaceva affatto. Nessuno aveva il diritto di venire a intromettersi nei suoi stessi pensieri. Poi il viso insanguinato sparì. Di fronte a lei si eresse una creatura, un essere più orribile di qualsiasi spirito che lei potesse immaginare. Una sorta di grande lucertola, cornuta e scagliosa, di forma vagamente umana, ma con una grossa coda che oscillava e una testa di cane squamosa, con enormi denti piantati in mascelle che potevano senz'altro spezzare il braccio di un uomo. In preda al terrore, Anyanwu si trasformò. Era doloroso cambiare forma così in fretta. Era una sofferenza straziante. Sopportò il dolore con un mugolio che le sfuggì trasformato in ringhio. Era diventata un leopardo, agile e forte, veloce e con i denti affilati come rasoi. Si avventò. La creatura gridò, si accasciò e ridivenne un uomo. Anyanwu esitò, rimase piantata sul suo petto fissandolo dall'alto. Aveva perso i sensi. Era un essere maligno, letale. Meglio ucciderlo adesso, prima che venisse di nuovo a controllare i suoi pensieri. Era sbagliato uccidere un uomo inerme, ma se quell'uomo si riprendeva, l'avrebbe fatto. — Anyanwu! Doro. Lei chiuse le orecchie alla sua voce. Con un ringhio, lacerò la gola dell'essere ai suoi piedi. Sotto un certo aspetto, quello fu un errore. Lei sentì il gusto del sangue. La rapidità del cambiamento l'aveva stremata come nient'altro al mondo. Doveva nutrirsi presto. Subito! Lacerò la camicia che la ostacolava e strappò la carne dal petto dell'uomo. Si nutrì disperatamente, alla cieca, finché qualcosa non la colpì in faccia con violenza. Lei sputò per il dolore e la collera, si rese conto vagamente che Doro l'aveva colpita con un calcio. I suoi muscoli si tesero. Poteva ucciderlo. Poteva uccidere chiunque interferisse con lei in quel momento. Doro era fermo a pochi passi da lei, con la testa all'indietro, come se le offrisse la gola. Ed era esattamente ciò che stava facendo, naturalmente. — Vieni — la sfidò. — Uccidi ancora. È passato molto tempo dall'ultima volta che sono stato donna.
Lei gli volse le spalle, spinta dalla fame, e strappò ancora della carne dal corpo di suo figlio. Lui la sollevò di peso e la gettò lontano dal cadavere. Quando tentò di riavvicinarsi, la prese a calci, la percosse. — Controllati! — ordinò. — Ridiventa donna! Lei, senza sapere come, operò il cambiamento. Non seppe che cosa la trattenesse dal farlo a pezzi. Paura? Non avrebbe mai pensato che la paura potesse trattenerla in un momento simile. Doro non aveva visto lo scempio che lei aveva fatto del proprio popolo tanto tempo prima, quando l'aveva attaccata e costretta a cambiare forma troppo in fretta. Lei stessa aveva quasi dimenticato quell'aspetto dell'uccisione... la vergogna! Il suo popolo non mangiava carne umana, ma lei allora ne aveva mangiata. Li aveva terrorizzati inducendoli a dimenticare, e il suo popolo era sopravvissuto alla leggenda di ciò che aveva fatto... o che aveva fatto sua madre, o sua nonna. Le persone morivano. I loro figli non sapevano più con certezza che cosa fosse accaduto. La storia diventava un intreccio di spiriti e divinità. Ma ora che cosa avrebbe fatto? Non poteva terrorizzare Doro al punto da fargli dimenticare il macabro cadavere sul pavimento. Ridiventata umana, Anyanwu giacque sul pavimento, col viso rivolto in basso, dalla parte opposta al cadavere. La sorprendeva che Doro non continuasse a colpirla, che non la uccidesse. Non dubitava che avrebbe potuto farlo. Lui la sollevò di peso, ignorando il sangue che copriva gran parte del suo corpo, e l'adagiò sul letto a fianco di Isaac. Lei rimase distesa, inerte, senza guardarlo. Ma la carne le scaldava ancora lo stomaco. Nutrimento. Gliene occorreva altro! — Come mai Isaac è qui? — chiese Doro. Nella sua voce non c'era nulla. Neppure collera. — Lo ha portato l'altro. Lale Sachs. Ha detto che tu mi mandavi Isaac e... — S'interruppe, confusa. — No. Non lo ha detto, lui... era nei miei pensieri, lui... — Lo so. Si voltò infine a guardarlo. Aveva l'aria stanca, stravolta. Aveva l'aspetto di un uomo addolorato, e lei provò il desiderio di toccarlo, di consolarlo. Ma aveva le mani coperte di sangue. — Che altro ti ha detto? Anyanwu scosse la testa avanti e indietro contro il letto. — Non so. Mi ha mostrato un'immagine di me stessa che giacevo con Isaac, e poi con lui.
Me l'ha fatta vedere... me lo ha fatto quasi desiderare. — Distolse di nuovo lo sguardo. — Quando ho tentato di mandarlo via senza... fargli del male, ha fatto qualcos'altro. Doro, ho bisogno di cibo! — Quell'ultimo grido fu di sofferenza. Lui intese. — Resta qui — le disse. — Ti porterò qualcosa. Uscì. Quando se ne fu andato, a lei parve di fiutare l'odore della carne sul pavimento. La invitava. Gemette e affondò il viso nel pagliericcio. Al suo fianco, Isaac emise un lieve gemito e si avvicinò a lei. Sorpresa, Anyanwu alzò la testa a guardarlo. Era ancora semisvenuto. In quel momento aveva gli occhi chiusi, ma lei si accorse che si muovevano sotto le palpebre. E anche le labbra si muovevano, formavano parole mute. Aveva una bocca quasi da negro, con le labbra più piene di quelle degli altri bianchi che lei aveva visto. Sulla faccia gli spuntava un'ispida peluria bionda, segno che non si radeva da qualche tempo. Aveva un viso largo e squadrato che non dispiaceva ad Anyanwu, e il sole gli aveva conferito un bel colorito bruno e regolare. Lei si domandò che cosa pensavano di lui le donne bianche. Si domandò che aspetto avevano le donne bianche. — Cibo, Anyanwu — disse Doro a voce bassa. Lei trasalì, sorpresa. Stava diventando sorda! Prima di allora Doro non era mai riuscito ad avvicinarsi senza che lo sentisse. Ma non aveva importanza. Non in quel momento. Strappò dalle sue mani il pane e la carne. Erano entrambi secchi e duri, il genere di cibo che l'equipaggio mangiava in continuazione, ma non rappresentavano un problema per i suoi denti e le sue mascelle. Doro le offrì del vino e lei lo tracannò d'un fiato. La carne fresca sul pavimento sarebbe stata meglio, ma ormai era padrona di sé, e niente l'avrebbe più indotta a toccarla. — Raccontami che cos'è successo — la invitò Doro, dopo che ebbe mangiato quello che le aveva portato. Lei raccontò. In quel momento aveva bisogno di dormire, ma non con la stessa intensità con la quale aveva avuto bisogno di cibo. E lui meritava di sapere per quale motivo suo figlio era morto. Quando finì, si aspettava da lui un commento o una reazione, ma Doro si limitò a scuotere la testa e sospirare. — Ora dormi, Anyanwu. Porterò via Lale, e Isaac. — Ma...
— Dormi. Sei già quasi addormentata, è come se parlassi nel sonno. — Si protese su di lei per sollevare di peso Isaac dal letto. — Che cosa gli è successo? — sussurrò lei — Si è sforzato troppo, proprio come hai fatto tu. Si riprenderà. — È freddo... così freddo. — Se io lo lasciassi qui lo scalderesti. Lo scalderesti proprio com'era nelle intenzioni di Lale. Nemmeno la tua forza basterebbe a fermarlo, una volta che cominciasse a svegliarsi. E prima che la sua mente intorpidita e insonnolita potesse mettere in dubbio quell'affermazione, Doro e Isaac non c'erano più. Non lo sentì tornare a prendere Lale, non seppe nemmeno se fosse tornato a dormire accanto a lei, quella notte, e non se ne curò. Lale Sachs fu sepolto in mare il giorno dopo. Anyanwu era presente alla breve cerimonia officiata dal capitano Woodley. Non voleva, ma Doro glielo impose. Raccontò a tutti quello che lei aveva fatto, poi la fece comparire di fronte a loro. Anyanwu credette che lo facesse per svergognarla, e si vergognò. Ma in seguito lui le spiegò. — È stato per proteggerti — le disse. — Tutti a bordo erano stati ammoniti di non molestarti. I miei figli erano stati ammoniti doppiamente. Lale ha deciso di ignorare i miei ordini. A quanto pare non riesco a estirpare la stupidità da alcuni dei miei uomini. Lui ha pensato che sarebbe stato interessante osservare Isaac svegliarsi, affamato di una donna quanto tu lo eri di cibo. Forse ha pensato che avrebbe potuto averti anche lui, quando Isaac avesse finito. — Ma come ha potuto arrivare a cambiare i pensieri nella mia mente? — Era la sua abilità particolare. Ho visto uomini più abili di lui in questo, tanto abili da controllarti in tutto e per tutto, da controllare perfino i tuoi cambiamenti. Nelle mani di un uomo del genere tu non saresti nient'altro che argilla da modellare. Ma Lale era il migliore della sua generazione che fosse sopravvissuto. Quelli come lui non sopravvivono a lungo. — Non riesco a capire! — esclamò Anyanwu. — No, non puoi — le disse Doro. — Ma capirai. Lei distolse il viso. Erano sul ponte, così guardò verso il mare dove alcuni pesci di grandi dimensioni stavano balzando in aria e ricadendo ad arco nell'acqua. Aveva già osservato quelle creature, le aveva osservate con desiderio. Pensava di fare quello che facevano loro, pensava di diventare una di loro. Le pareva quasi di avvertire la sensazione di umidità, di forza,
di muoversi nell'acqua con la stessa velocità di un uccello nell'aria. Desiderava intensamente provare, e nello stesso tempo ne aveva paura. In quel momento, però, non pensava a quello. Pensava soltanto al corpo di Lale Sachs, avvolto nella tela, con gli squarci nascosti. I pesci guizzanti avrebbero finito ciò che lei aveva cominciato? Avrebbero consumato il resto di quell'uomo sciocco, brutto, maligno? Chiuse gli occhi. — E ora che faremo, Doro? Che cosa farai di me? — Che cosa farò di te? — ripeté lui scherzosamente. Le cinse la vita con le mani e l'attirò contro di sé. Sorpresa, lei si scostò. — Ho ucciso tuo figlio. — Pensi che ti biasimi per questo? Lei non disse niente, si limitò a fissarlo. — Volevo che vivesse — aggiunse Doro. — Quelli come lui sono così difficili e hanno una vita così breve... Ha avuto solo tre figli. Ne volevo altri da lui, ma, Anyanwu, se non lo avessi ucciso tu, se fosse riuscito nel suo intento, lo avrei ucciso io stesso. Lei abbassò la testa, in un certo senso per nulla sorpresa. — Avresti potuto farlo? A tuo figlio? — A chiunque — rispose lui. Lei alzò la testa a guardarlo, con espressione interrogativa, eppure senza desiderare risposte. — Io controllo persone potenti — spiegò Doro. — La mia gente. La distruzione che possono causare se mi disobbediscono oltrepassa la tua immaginazione. Chiunque di loro, qualsiasi gruppo di loro che si rifiuta di obbedirmi è inutile per me e pericoloso per gli altri. Lei si mosse, a disagio, comprendendo quello che le diceva. Ricordò la sua voce, quando le aveva parlato la notte prima. «Vieni. Uccidi ancora. È passato molto tempo dall'ultima volta che sono stato donna!» Avrebbe consumato il suo spirito così come lei aveva consumato la carne del figlio. Oggi avrebbe indossato il suo corpo. Si volse a guardare di nuovo i pesci che saltavano, e quando lui l'attirò di nuovo a sé, non si ritrasse. Non aveva paura; era sollevata. Una parte della sua mente si domandava come fosse possibile, ma non aveva una risposta. Le persone non reagivano a Doro in modo razionale. Quando non faceva niente lo temevano. Quando le minacciava, gli credevano, ma non lo odiavano né fuggivano. — Isaac sta bene — le disse. — Davvero? Che cosa ha fatto per la sua fame?
— L'ha sopportata finché è passata. Con sua sorpresa, le parole di Doro suscitarono in lei una scintilla di colpa. Provò lo sciocco impulso di andare a cercare il giovane per scusarsi di non averlo tenuto con sé. Lui avrebbe pensato che era uscita di senno. — Dovresti trovargli una moglie — disse a Doro. Doro annuì con aria assente. — Presto — promise. Poi venne un tempo in cui Doro disse che la terra era vicina, un tempo in cui il cibo si era ormai guastato ed era pieno di vermi e l'acqua da bere puzzava e la nave puzzava e gli schiavi litigavano fra loro e i marinai pescavano disperatamente per variare il vitto disgustoso e il calore del sole s'intensificava, mentre il vento aveva smesso di soffiare. In mezzo a tutti quei disagi, ci furono episodi che Anyanwu avrebbe ricordato con piacere per tutta la vita. Accadde quando riuscì a capire con chiarezza qual era la particolare abilità di Isaac, e lui riuscì a capire la sua. Dopo la morte di Lale, lei aveva evitato il ragazzo per quanto le era possibile nello spazio angusto della nave, pensando che forse lui non era indifferente alla morte di un fratello quanto Doro lo era alla morte di un figlio. Ma fu Isaac a venire da lei. La raggiunse presso il parapetto, un giorno che lei stava guardando i pesci saltare. Li guardò anche lui per un attimo, poi scoppiò a ridere. Anyanwu lo guardò con espressione interrogativa, e lui puntò il dito verso il mare. Quando anche lei guardò di nuovo, vide uno dei grandi pesci sospeso in alto sull'acqua, che si dibatteva a mezz'aria. Era come se la creatura fosse stata imprigionata in una rete invisibile. Ma non c'era nessuna rete. Non c'era niente. Lei guardò sbalordita Isaac. — Tu? — domandò in un inglese incerto. — Tu fai questo? Isaac si limitò a sorridere. Il pesce, dibattendosi furiosamente, si avvicinava sempre più alla nave. Alcuni marinai se ne accorsero e cominciarono a lanciare grida a Isaac. Anyanwu non riusciva a capire quasi niente di ciò che dicevano, ma sapeva che volevano il pesce. Isaac fece un gran gesto offrendolo ad Anyanwu, anche se era ancora sospeso sull'acqua. Lei guardò i marinai ansiosi intorno, poi sorrise. Fece segno che il pesce fosse portato a bordo. Isaac lo fece cadere ai suoi piedi. Quella sera fecero tutti un buon pasto. Anyanwu mangiò meglio di tutti, perché a lei la carne del pesce svelava tutto ciò che desiderava sapere sulla
struttura fisica della creatura, tutto ciò che le occorreva sapere per assumere la sua forma e vivere come lui. Una quantità minima di carne cruda le rivelava più di quanto riuscisse a spiegare a parole. A ogni boccone, la creatura le raccontava chiaramente la sua storia infinite volte. Quella notte, nella loro cabina, Doro la sorprese intenta a trasformare una delle braccia in una pinna, a titolo sperimentale. — Che cosa stai facendo? — domandò, con un tono che sembrava esprimere repulsione. Lei rise come una bambina e si alzò per andargli incontro, mentre il braccio riassumeva agevolmente la forma umana. — Domani — rispose — dirai a Isaac in che modo aiutarmi, e io nuoterò con i pesci! Sarò un pesce! Ora so come fare! È tanto tempo che lo desidero. — Come fai a sapere che puoi? — La curiosità cancellava in fretta qualsiasi emozione negativa da parte sua, come sempre. Lei gli parlò dei messaggi che aveva letto nelle carni del pesce. — Messaggi chiari e belli come quelli dei tuoi libri — gli spiegò. Dentro di sé pensava che i messaggi della carne fossero ancor più precisi dei libri che lui le aveva insegnato a conoscere dai quali le leggeva. Ma i libri erano l'unico esempio che le venisse in mente di qualcosa che lui poteva comprendere. — Pare che voi possiate fraintendere i libri — aggiunse. — Sono stati altri uomini a scriverli. Altri uomini possono mentire o commettere errori. Ma la carne non può che dirmi com'è. Non ha altra storia. — Ma come la leggi? — chiese lui. Leggere. Doro aveva usato la parola inglese, anche lui vedeva l'affinità. — Il mio corpo la legge, legge tutto. Lo sapevi che quei pesci respirano come noi? Io pensavo che respirassero acqua come quelli che pescavamo ed essiccavamo a casa. — Quello era un delfino — mormorò Doro. — Ma somigliava di più a una creatura terrestre che a un pesce. Dentro, era quasi come un animale terrestre. I cambiamenti da fare non saranno grandi come pensavo. — Hai dovuto mangiare carne di leopardo per imparare a diventare un leopardo? Lei scosse la testa. — No. Ho visto com'era fatto il leopardo e ho plasmato me stessa nella forma che vedevo. Non sono stata un vero leopardo, però, finché non ne ho ucciso uno e l'ho assaggiato. Da principio, ero una
donna che fingeva di essere un leopardo, argilla modellata a forma di leopardo. Ora, quando mi trasformo, sono un vero leopardo. — E sarai un delfino. — Lui la fissò. — Non puoi immaginare quanto sei preziosa per me. Devo lasciarti fare? Quello la sorprese. Non le era venuto in mente che potesse disapprovare. — È una cosa innocua — protestò. — Una cosa pericolosa. Che cosa sai del mare? — Niente. Ma domani comincerò a imparare. Fa' restare di guardia Isaac; io mi terrò vicina alla superficie. Se vedrà che sono in difficoltà, potrà sollevarmi dall'acqua e lasciare che mi trasformi sul ponte. — Perché vuoi farlo? Lei cercò una ragione che si potesse esprimere a parole, una ragione che non fosse il desiderio lancinante che aveva provato guardando i delfini che saltavano e s'immergevano. Ormai non poteva più sopportare di limitarsi a guardare. Una volta aveva ucciso un'aquila e l'aveva mangiata per imparare a volare, come non era mai stato concesso a un essere umano. Era volata via, sfuggendo alla sua città, ai doveri, ai parenti. Ma qualche tempo dopo era tornata fra la sua gente. In quale altro luogo sarebbe potuta andare? In seguito, però, quando le stagioni con loro erano diventate lunghe e i doveri noiosi, quando i parenti da soli erano diventati una grande tribù, lei era fuggita ancora. Voleva volare. Era pericoloso. Gli uomini le davano la caccia e una volta per poco non l'avevano uccisa. Si era trasformata in un'aquila eccezionalmente grande e bella. Ma la paura non l'aveva mai tenuta lontana dal cielo. E nemmeno in quel momento l'avrebbe tenuta lontana dall'acqua. — Lo voglio — disse a Doro. — Lo farò senza Isaac, se gli impedirai di aiutarmi. Doro scosse la testa. — Facevi così con gli altri tuoi mariti? Dicevi loro quello che avresti fatto e lo facevi, nonostante i loro desideri? — Sì — rispose lei in tono serio, e fu molto sollevata quando lui rise forte. Meglio divertirlo che suscitare la sua collera. Il giorno dopo, si affacciò al parapetto, osservando Doro e Isaac discutere fra loro in inglese. Era soprattutto Isaac a discutere. Doro disse soltanto alcune parole, e poi le ripeté alla lettera. Anyanwu riuscì a trovare una sola parola ripetuta in quello che diceva Isaac. La parola era "squalo", e Isaac la pronunciava con veemenza. Ma smise quando vide quanta scarsa attenzione Doro gli dedicava. E Doro si rivolse a lei. — Isaac ha paura per te — le spiegò.
— Mi aiuterà? — Sì. Anche se gli ho detto che non è tenuto a farlo. — Credevo che parlassi a mio favore! — In questo, mi limito a tradurre. Il suo atteggiamento la sconcertava. Non era in collera, nemmeno seccato. Non sembrava neppure preoccupato per lei come Isaac, eppure diceva di ritenerla preziosa. — Che cos'è uno squalo? — domandò. — Un pesce — rispose Doro. — Un grosso pesce carnivoro, un assassino letale in mare almeno quanto i tuoi leopardi lo sono sulla terra. — Non mi avevi detto che esistevano creature simili. Lui guardò l'acqua. — Laggiù c'è pericolo come nelle tue foreste — le disse. — Non sei tenuta ad andare. — Non hai tentato di impedirmelo con molta convinzione. — No. — Perché? — Voglio vedere se puoi farcela o no. Le rammentò uno dei suoi figli che, quando era molto piccolo, aveva gettato parecchi pulcini nel fiume per vedere se sapevano nuotare. — Resta vicino ai delfini, se te lo permetteranno — suggerì Doro. — I delfini sanno come affrontare gli squali. Anyanwu si tolse il perizoma e si tuffò in mare prima che la fiducia in se stessa l'abbandonasse del tutto. Laggiù, si trasformò quanto più in fretta le era possibile senza provare disagio. Divenne il delfino di cui aveva mangiato la carne. E si muoveva nell'acqua lungo la fiancata della nave spingendo in avanti il corpo lungo e snello con agili colpi di coda. Vedeva in modo diverso, con gli occhi situati ai lati della testa anziché davanti. La testa si era estesa, prolungandosi in un becco duro. Respirava in modo diverso, o, meglio, non respirò affatto finché non ne sentì la necessità, e allora si ritrovò ad affiorare in superficie con una lenta capriola in avanti che lasciò scoperto per un attimo il naso a sfiatatoio e le permise di espellere il fiato e immettere aria pura nei polmoni. Si studiò con attenzione, vide che il suo corpo di delfino usava l'aria che respirava in modo molto più efficiente di un normale corpo umano. Il corpo del delfino conosceva trucchi che il suo corpo umano aveva imparato in modo lento e doloroso. In che modo espellere e rinnovare una porzione molto più grande di aria nei polmoni a ogni inspirazione. Come imparare a filtrare una parte maggiore di aria utilizzabile dal resto, le scorie, e usarla per alimentare il corpo. Altri espedienti. Nes-
suno di essi le era sconosciuto, ma pensò che avrebbe imparato tutto molto prima e in modo molto più facile con l'aiuto di un pezzetto di carne di delfino. Invece, aveva conosciuto solo uomini che tentavano di affogarla. Godette della forza e della velocità del nuovo corpo, e del suo udito fine. Nella forma umana, Anyanwu manteneva il proprio udito eccezionalmente acuto, manteneva acuti tutti i suoi sensi. Ma l'udito del delfino era superiore a qualsiasi facoltà avesse mai sviluppato in se stessa. Da delfino, lei poteva chiudere gli occhi e percepire intorno a sé con le orecchie interne un mondo solo un po' meno nitido. Poteva produrre suoni che rimbalzavano alle orecchie come echi, portando con sé la storia di tutto ciò che si trovava davanti a lei. Non aveva mai immaginato un udito simile. Infine distolse l'attenzione da se stessa per dedicarla agli altri delfini. Li aveva anche sentiti chiacchierare a poca distanza, tenendosi a fianco della nave come faceva lei. Stranamente, il loro chiacchierio le sembrava più umano, più simile a una conversazione, come una lingua straniera. Nuotò verso di loro, con incertezza. Come salutavano gli sconosciuti? Come avrebbero accolto una femmina piccola e ignorante? Se in qualche modo parlavano fra loro, l'avrebbero giudicata muta o pazza. Un delfino nuotò per venirle incontro, si dispose parallelo a lei, osservandola con uno dei suoi occhi vivaci. Quello era un maschio, si rese conto lei, e lo guardò con interesse. Un attimo dopo, lui si avvicinò e strofinò il corpo contro il suo. La pelle dei delfini, scoprì Anyanwu, era piacevolmente sensibile. Non era squamosa come la pelle dei veri pesci, che lei non aveva mai imitato, ma di cui comprendeva i corpi. Il maschio la sfiorò di nuovo, chiacchierando in un tono che le parve interrogativo, poi si allontanò. Lei si volse, controllando la posizione della nave, e vide che, tenendosi vicina ai delfini, poteva mantenersi all'altezza della nave. Inseguì il maschio. C'erano dei vantaggi, pensò, a essere una femmina di animale. I maschi di alcune specie lottavano fra loro, ciecamente possessivi riguardo al territorio o alle femmine. Da femmina ricordava di essere stata tiranneggiata, inseguita da maschi insistenti, ma soltanto in forma umana era stata seriamente ferita dai maschi, dagli uomini. Era stato un puro caso che l'aveva fatta diventare una femmina di delfino; aveva mangiato la carne di una femmina. Ma un caso fortunato. Un delfino molto piccolo, nato da poco, immaginò, venne a fare la sua conoscenza, e lei nuotò lentamente, lasciandosi esaminare. Alla fine, la madre lo richiamò e lei si trovò di nuovo sola. Sola, ma circondata da crea-
ture come lei, creature che trovava sempre più difficile considerare animali. Nuotare con loro era come trovarsi in mezzo a un altro popolo. Un popolo cordiale. La non c'erano schiavisti con marchi roventi e catene. Non c'era Doro con le minacce gentili e terribili contro i suoi figli, contro di lei. Col passare del tempo, parecchi delfini si avvicinarono per sfiorarla, sfregarsi contro di lei, fare conoscenza. Quando il maschio che l'aveva toccata per primo tornò, lei fu sorpresa di accorgersi che lo riconosceva. Il suo tocco era inconfondibile diverso da quello di qualsiasi altro, dal momento che non erano affatto uguali fra loro. D'improvviso, lui balzò in alto fuori dall'acqua e s'inarcò all'indietro, ricadendo a una certa distanza da Anyanwu. Si domandò come mai non ci aveva provato anche lei e tentò un breve salto. Il suo corpo di delfino era meravigliosamente agile. Le sembrò di volare nell'aria, rituffandosi sinuosamente e balzando di nuovo senza tensione o stanchezza. Quello era il corpo migliore che avesse mai avuto. Se soltanto la lingua dei delfini fosse stata facile come il loro modo di muoversi! Una parte della sua mente si domandava come mai non fosse così si domandava se sotto quell'aspetto Doro non fosse superiore a lei. Quando assumeva un corpo nuovo acquisiva anche una nuova lingua, nuove conoscenze, dal momento che possedeva effettivamente il corpo, e non si limitava a riprodurlo? Il delfino maschio venne a toccarla di nuovo e scacciò dalla sua mente ogni pensiero di Doro. Lei comprese che l'interesse del delfino era diventato più che casuale. Ora le restava vicino, sfiorandola, assecondando i suoi movimenti con i propri. Si rese conto che le sue attenzioni non le dispiacevano. In passato aveva evitato gli accoppiamenti con animali. Lei era una donna. I rapporti sessuali con un animale erano un abominio. Si sarebbe sentita impura nel tornare alla forma umana col seme di un animale maschio dentro di sé. Ma in quel momento... era come se i delfini non fossero animali. Eseguì una sorta di danza con il maschio, muovendosi e sfiorandolo, certa che nessuna cerimonia umana l'aveva mai assorbita tanto in fretta. Si sentiva nello stesso tempo impaziente e controllata, vogliosa ed esitante. Lo avrebbe accettato, lo aveva già accettato. Certamente il delfino non le era più estraneo di quanto fosse l'ogbanje, Doro. Quello sembrava un periodo di strani accoppiamenti. Continuò la danza, rammaricandosi di non avere un canto con cui accompagnarla. Il maschio sembrava averlo. Si domandò se l'avrebbe lasciata dopo l'accoppiamento, e pensò che probabilmente lo avrebbe fatto. Ma
non sarebbe stato un addio definitivo. Lui non avrebbe lasciato il gruppo come invece avrebbe fatto lei, abbandonando tutti. Ma quella era un'idea su cui meditare in futuro. Non aveva importanza. Soltanto ciò che accadeva in quel momento aveva importanza. Poi, a un tratto, ci fu un uomo nell'acqua. Sorpresi, tanto Anyanwu quanto il maschio si allontanarono di un breve tratto, interrompendo la danza. Il gruppo di delfini si allontanò dall'uomo, ma lui li inseguì, a volte sott'acqua, a volte sopra. Non nuotava né balzava o si tuffava, ma, chissà come, sfrecciava nell'acqua e nell'aria, tenendo il corpo immobile, apparentemente senza usare i muscoli. Infine, Anyanwu si staccò dal branco e si accostò all'uomo. Era Isaac, lo sapeva. In quel momento le sembrava molto diverso... un essere goffo, rigido e strano, ma non particolarmente brutto o pauroso. Era una minaccia, però. Non aveva motivo di rinunciare al suo debole per la carne di delfino, ma lei sì. Isaac poteva fare un'altra vittima, se non lo distraeva. Si volse per nuotare verso di lui, avvicinandosi molto lentamente in modo che la vedesse e capisse che non intendeva fargli del male. Era certa che non poteva distinguerla dagli altri delfini. Nuotò in un piccolo cerchio intorno al punto in cui lui era sospeso, poco più su dell'acqua. Lui parlava a voce bassa, in tono strano, e ripeté il suo nome parecchie volte prima che lei lo riconoscesse. Allora, senza fermarsi a chiedersi come facesse, Anyanwu si drizzò per un attimo sulla coda e riuscì a fare una specie di cenno di assenso. Nuotò verso di lui, e Isaac si calò nell'acqua. Gli nuotò accanto, superandolo, tanto vicina da sfiorarlo. Isaac le afferrò la pinna dorsale e disse qualche altra cosa. Lei ascoltò con attenzione. — Doro ti rivuole sulla nave. Così, era la fine. Guardò indietro verso i delfini con rammarico, tentando di individuare il maschio. Lo trovò straordinariamente vicino, pericolosamente vicino. Sarebbe stato così bello tornare da lui, restare con lui soltanto un po'. Sarebbe stato bello accoppiarsi. Si domandò se Doro aveva saputo o sospettato quello che lei stava facendo, quando aveva mandato Isaac a prenderla. Non aveva importanza. Isaac era lì, e occorreva allontanarlo prima che notasse gli altri delfini vicini in modo così allettante. Tornò a nuoto verso la nave, consentendogli di mantenere la presa sulla pinna. Non le dispiaceva trainarlo. — Salirò io per primo — disse lui quando raggiunsero la nave. — Poi ti solleverò.
S'innalzò dall'acqua in verticale e arrivò a bordo della nave Volava senza ali con la stessa facilità con cui aveva portato la nave fuori dalla tempesta. Lei si domandò se poteva sentirsi male e avere bisogno di una donna anche dopo quello sforzo. Poi qualcosa la toccò, l'afferrò con fermezza ma non in modo doloroso, la sollevò dall'acqua. Non era, come lei aveva pensato, la stessa cosa che essere sollevata da una rete o dalle braccia di uomini. Non si provava nessuna particolare sensazione di pressione su qualche parte del corpo. Era come essere sostenuta dall'aria stessa, con una morbidezza che sembrava avvolgere il corpo intero, con una fermezza da cui non riusciva a liberarsi nonostante la sua forza. Ma lei non ricorse alla forza, non lottò. Aveva visto la futilità degli sforzi del delfino il giorno prima, e aveva sentito la velocità della grande nave mentre fendeva la tempesta, sospinta dalla forza di Isaac. Nessuna forza muscolare poteva resistere a una potenza simile. Inoltre, lei aveva fiducia nel ragazzo. La teneva con maggiore precauzione di quanto avesse fatto con l'altro delfino e fece segno ai marinai di allontanarsi prima di deporla con delicatezza sul ponte. Poi i marinai, Doro e Isaac rimasero a guardare, affascinati, mentre lei cominciava a farsi ricrescere le gambe. Aveva dovuto assorbirle in sé quasi del tutto, lasciando soltanto le ossa superflue dell'anca che erano naturali nel corpo del delfino, come se il delfino stesso cominciasse lentamente a sviluppare delle gambe, o a perderle. Cominciò subito da quel cambiamento fondamentale. E le pinne cominciarono a somigliare di più a braccia. Il collo, il corpo intero, si snellirono di nuovo e le minuscole ed eccellenti orecchie da delfino si ingrossarono per diventare orecchie umane, meno efficienti. Il naso tornò a spuntarle sul viso e lei riassorbì becco, coda e pinna dorsale. C'erano dei cambiamenti interni che quegli osservatori non potevano notare. E la pelle grigia cambiò colore e grana. Quel cambiamento la fece pensare a quello che forse sarebbe stata costretta a fare, se un giorno avesse deciso di dileguarsi in quella terra di bianchi alla quale si stava avvicinando. In seguito avrebbe dovuto fare qualche esperimento. Era sempre utile essere in grado di mimetizzarsi per nascondersi, o imparare le cose che gli altri non volevano o non potevano insegnarle sul loro conto. Tutto ciò quando fosse riuscita a imparare bene l'inglese, naturalmente. Doveva impegnarsi di più nella lingua. Quando la metamorfosi fu completa, lei si alzò in piedi, e Doro le porse la fascia del perizoma. Sotto gli occhi degli uomini, lei se l'avvolse intorno ai fianchi e l'annodò. Erano secoli che non andava in giro nuda come le ragazze nubili. Ora si vergognava di essere vista da tanti uomini, ma com-
prendeva che, ancora una volta, Doro aveva voluto che i suoi vedessero la potenza di Anyanwu. Se non poteva estirpare da loro la stupidità, li avrebbe almeno spaventati. Lei li guardò uno per uno, senza permettere che la vergogna trasparisse dalla sua espressione. Perché mai avrebbero dovuto sapere che cosa provava? Lesse nelle loro espressioni un timore reverenziale, e due che erano vicini indietreggiarono addirittura quando li guardò. Poi Doro strinse a sé il suo corpo umido e lei si rilassò. Isaac rise fragorosamente, spezzando la tensione, e disse qualcosa a Doro. Lui sorrise. Nella sua lingua, le disse: — Che figli mi darai! — Lei fu colpita dall'intensità che avvertiva dietro le sue parole. Le rammentava che era qualcosa di più del desiderio di un uomo normale di avere dei figli. Non poté fare a meno di pensare ai propri figli, forti e sani, ma mortali e deboli come i figli di qualsiasi altra donna. Sarebbe riuscita a regalare a Doro ciò che voleva — ciò che lei stessa desiderava da tanto tempo — dei figli che non morissero? — Che figli mi darai tu, marito mio — sussurrò, ma il suo tono era più interrogativo di quello di Doro. E stranamente anche Doro sembrò diventare incerto. Lo guardò e sorprese sul suo viso un'espressione ansiosa. Lui guardava al largo verso i delfini che saltavano di nuovo, alcuni proprio davanti alla prua della nave. Scosse lentamente la testa. — Che cosa c'è? — chiese Anyanwu. Lui distolse lo sguardo dai delfini, e per un attimo la sua espressione fu così intensa, così letale, che lei si domandò se odiava gli animali, oppure la invidiava perché poteva unirsi a loro. — Che cosa c'è? — ripeté. Lui parve imporsi di sorridere. — Niente — rispose. Le attirò la testa sulla propria spalla in un gesto rassicurante, e accarezzò la massa di capelli lucidi, appena ricresciuti. Per nulla rassicurata, Anyanwu accettò la carezza e si domandò per quale motivo Doro mentisse. 6 Anyanwu aveva troppo potere. Malgrado il fascino che esercitava su di lui il suo primo istinto era di ucciderla. Non aveva l'abitudine di lasciare in vita persone che non era in grado di controllare del tutto. Ma se l'avesse uccisa e se avesse assunto il
suo corpo, avrebbe avuto solo uno o due figli da lei, prima di dover cambiare corpo. La longevità di Anyanwu non lo avrebbe aiutato a mantenerne in vita l'organismo. Con la trasmigrazione, Doro non acquisiva l'uso delle facoltà speciali delle sue vittime. Ne abitava i corpi. Ne consumava le vite. Quello era tutto. Se avesse ucciso Lale, non avrebbe acquistato la capacità del figlio di trasferire il pensiero. Sarebbe stato soltanto in grado di trasmettere quella capacità ai figli del corpo di Lale. E se avesse ucciso Anyanwu, non avrebbe acquisito la sua malleabilità, longevità o capacità di risanare. Avrebbe conservato soltanto la propria speciale facoltà, ospitata nel suo piccolo corpo resistente, finché non avesse ricominciato ad avere fame... una fame che Anyanwu non sarebbe mai riuscita a comprendere. Avrebbe avuto fame, e avrebbe dovuto sfamarsi. Un'altra vita. Un nuovo corpo. Anyanwu non sarebbe durata più a lungo di qualsiasi altra buona preda. Pertanto, Anyanwu doveva vivere e partorire piccoli preziosi. Ma aveva troppo potere. Nella forma di delfino e, prima ancora, nella forma di leopardo, Doro aveva scoperto che la sua mente non riusciva a trovarla. Anche quando la vedeva con gli occhi, la mente e il senso dell'orientamento gli dicevano che non era lì. Era come se fosse morta, come se lui si trovasse davanti un vero animale: era una creatura al di là della sua portata. E se non poteva raggiungerla col pensiero finché era in forma animale, non poteva ucciderla e prendere il suo corpo. Sotto forma umana, era vulnerabile per lui come chiunque altro, ma come animale gli sfuggiva, così come era sempre stato con tutti gli animali. Ora desiderava ardentemente uno dei sensitivi di animali che di tanto in tanto venivano prodotti dai suoi incroci selezionati. Erano persone le cui capacità si estendevano alla mente degli animali, da cui ricevevano sensazioni ed emozioni, persone che soffrivano ogni volta che qualcuno tirava il collo a una gallina o castrava un cavallo o sgozzava un maiale. Vivevano vite brevi e tutt'altro che invidiabili. A volte Doro le uccideva prima che potessero sprecare i loro preziosi corpi in un suicidio. Ma in quel momento gliene avrebbe fatto comodo uno vivo. Senza uno di loro, il suo controllo su Anyanwu era pericolosamente limitato. E, se mai Anyanwu avesse scoperto quel limite, sarebbe potuta fuggire lontano da lui, in qualsiasi istante. Avrebbe potuto andarsene nel momento in cui le avesse chiesto più di quanto fosse disposta a dargli. Oppure avrebbe potuto andarsene se avesse scoperto che era deciso ad avere tanto lei quanto i figli che aveva lasciato in Africa. Anyanwu era convinta di avere pagato la loro libertà con la decisione di collaborare, era convinta che
lui avrebbe rinunciato a persone potenzialmente così preziose. Se avesse scoperto la verità, sarebbe certamente fuggita, e lui l'avrebbe perduta. Non gli era mai accaduto prima di allora, almeno in quel modo. Poteva perdere qualcuno a causa di malattie, incidenti, guerre... fattori che sfuggivano al suo controllo. C'erano persone che gli venivano rubate o uccise, come era accaduto al popolo della savana. E questo era già abbastanza grave. Era uno spreco, e intendeva porvi rimedio trasferendo il suo popolo in comunità sparse nel continente americano. Ma nessun individuo era mai riuscito a sfuggirgli. Quelli che riuscivano a scappare venivano catturati e il più delle volte uccisi. Il suo popolo lo conosceva troppo bene per sfuggirgli. Ma Anyanwu, da quel "seme selvaggio" che era, non lo sapeva. Non ancora. Avrebbe dovuto insegnarglielo, istruirla alla svelta e cominciare a usarla subito. Voleva il maggior numero possibile di figli prima che fosse necessario ucciderla. Prima o poi, gli esseri selvaggi come lei dovevano sempre essere eliminati. Non riuscivano mai a uniformarsi come i bambini nati nel suo popolo. Ma a differenza di tutti gli altri "selvaggi", Anyanwu avrebbe imparato a temerlo e a piegarsi alla sua volontà. L'avrebbe usata per la riproduzione e la guarigione dei malati. Avrebbe usato i suoi figli, presenti e futuri, per produrre campioni più accettabili, in grado solo di vivere a lungo. Probabilmente la sua sconcertante capacità di metamorfosi poteva essere cancellata dalla discendenza, se fosse ricomparsa. Il fatto che finora non si fosse presentata gli faceva pensare che sarebbe riuscito a estinguerla del tutto. Ma, del resto, nessuna delle sue qualità particolari era ricomparsa nei figli. Non avevano ereditato nient'altro che capacità potenziali, un buon ceppo che poteva produrre doti particolari dopo qualche generazione di incroci. Forse con loro avrebbe fallito. Forse avrebbe scoperto che Anyanwu non poteva essere duplicata, o che non poteva esistere longevità senza capacità di metamorfosi. Forse. Ma per ogni scoperta, positiva o negativa che fosse, bisognava attendere alcune generazioni. Nel frattempo, Anyanwu non avrebbe mai dovuto scoprire il suo limite, non avrebbe mai dovuto sapere che le era possibile sfuggirgli, evitarlo, vivere libera da lui, sia pure sotto forma animale. Ciò significava che lui non avrebbe dovuto opporsi alle sue trasformazioni più di quanto limitasse i figli nell'uso delle loro capacità. Non le si doveva permettere di mostrare quello che sapeva fare in mezzo a persone normali o di danneggiare il suo popolo se non per autodifesa. Quello era tutto. Lo avrebbe temuto, gli avrebbe obbedito, lo avrebbe considerato quasi onnipotente, ma nel suo at-
teggiamento non avrebbe notato nulla di sospetto. Non ci sarebbe stato niente da notare. Così, mentre il viaggio volgeva al termine, permise ad Anyanwu e Isaac di indulgere a giochi sciocchi e impossibili, usando liberamente le loro facoltà, comportandosi da quei figli di strega che erano. I due s'immersero insieme parecchie volte quando il vento era sufficiente e non c'era bisogno di Isaac per spingere la nave. Il ragazzo in quei momenti non doveva lottare contro la tempesta. Senza sforzarsi troppo, era in grado di aiutare la nave a procedere, e di sprecare energie a fare capriole nell'acqua insieme ad Anyanwu trasformata in delfino. Poi Anyanwu si librava nell'aria sotto forma di una grande aquila, e Isaac la seguiva, facendo acrobazie che Doro non gli avrebbe mai permesso sulla terraferma. In mare non c'era nessuno che potesse abbattere il ragazzo in volo, non c'era una folla che potesse dargli la caccia e bruciarlo vivo come una strega. Sulla terraferma doveva controllarsi tanto che Doro, in quel periodo, non gli impose nessuna restrizione. Doro si preoccupava per Anyanwu quando lei si avventurava sott'acqua da sola, e si preoccupava di perderla per l'attacco di squali o di altri predatori. Ma quando infine fu attaccata da uno squalo, accadde vicino alla superficie. Lei riportò soltanto una ferita, che guarì subito. Poi riuscì a urtare con violenza col becco duro contro le branchie dello squalo. Doveva essere anche riuscita a mordere lo squalo, in modo del tutto estraneo alle abitudini del delfino, perché subito dopo si trasformò assumendo la forma affusolata e letale dello squalo. In realtà, il cambiamento non era necessario. Lo squalo era mutilato, forse morente. Ma la metamorfosi era avvenuta, e troppo in fretta. Anyanwu doveva nutrirsi. Con forza e rapidità fece a pezzi il vero squalo e se ne cibò con voracità. Quando ridivenne donna, Doro non riuscì a trovare traccia della ferita che aveva subito. La trovò insonnolita e appagata, del tutto diversa dalla creatura tremante e tormentata che aveva ucciso Lale. Stavolta il suo bisogno di cibo era stato soddisfatto subito. Evidentemente, era importante. Lei adottò i delfini, vietando a Isaac di portarne altri a bordo perché fossero uccisi. — Somigliano alle persone — insistette, in un inglese che aveva fatto rapidi progressi. — Non sono pesci! — Giurò che non avrebbe voluto più avere a che fare con Isaac se ne avesse ucciso un altro. E Isaac, che amava la carne di delfino, non portò più delfini a bordo. Doro ascoltò i borbottii di protesta del ragazzo, sorrise e non disse niente. Isaac ascoltò le proteste dei marinai, scrollò le spalle e procurò loro altri
pesci. Continuò a trascorrere il suo tempo libero con Anyanwu, insegnandole l'inglese, volando o nuotando con lei, semplicemente standole assieme ogni volta che poteva. Doro non li incoraggiava né scoraggiava, pur non approvando. Aveva riflettuto molto su Isaac e Anyanwu, su come andavano d'accordo malgrado i problemi di comunicazione, malgrado le loro capacità potenzialmente pericolose, malgrado le differenze razziali. Isaac avrebbe sposato Anyanwu, se Doro glielo avesse ordinato. L'idea sarebbe perfino piaciuta al ragazzo. E una volta che Anyanwu avesse accettato, la presa di Doro su di lei sarebbe stata salda. Sarebbero venuti dei figli — figli desiderabili e potenzialmente ricchi di talenti — e Doro avrebbe potuto viaggiare come gli pareva per vegliare sugli altri suoi popoli. Ogni volta che fosse tornato al villaggio di Wheatley, presso New York, Anyanwu sarebbe stata ancora lì. L'avrebbero trattenuta i figli, anche se non ci fosse riuscito il marito. Poteva diventare un animale o cambiare aspetto al punto da poter viaggiare liberamente fra i bianchi o gli indiani, ma parecchi figli l'avrebbero certamente ostacolata. E lei non li avrebbe abbandonati. Aveva troppo senso materno per farlo. Sarebbe rimasta, e se Doro avesse trovato un altro uomo da farle sposare, avrebbe potuto presentarsi a lei nel corpo di quell'uomo. Sarebbe stato semplice. Quello che non sarebbe stato semplice era impartire ad Anyanwu la prima dura lezione di obbedienza. Si sarebbe rifiutata di accettare Isaac. Presso il suo popolo, una donna poteva divorziare dal marito fuggendo lontano da lui e facendo in modo che gli fossero restituiti i doni nuziali che aveva offerto per lei. Oppure il marito poteva ripudiarla scacciandola. Se il marito era impotente, poteva, con il consenso della moglie, darla a un altro uomo, in modo che lei potesse generare figli con il nome del marito. Se il marito moriva, lei poteva sposarne il successore, di solito il primogenito, purché questi non fosse anche suo figlio. Ma non erano previste norme per quello che aveva intenzione di fare Doro: darla in moglie a suo figlio mentre lui, Doro, era ancora vivo. Anyanwu ormai considerava Doro suo marito. Non era stata celebrata nessuna cerimonia, ma non era necessario. Lei non era una fanciulla che passava dalle mani del padre a quelle del primo marito. Era sufficiente che lei e Doro si fossero scelti. Le sarebbe sembrato sbagliato passare a Isaac. Ma avrebbe cambiato modo di pensare, così come avevano fatto altre persone forti e indipendenti che Doro aveva reclutato. Avrebbe imparato che il giusto e l'ingiusto dipendevano dal parere di Doro.
Nel luogo che Doro aveva chiamato "porto di New York", tutti, tranne l'equipaggio, dovevano cambiare nave, trasferendosi su un paio di battelli fluviali più piccoli, per risalire il "fiume Hudson" fino al villaggio di Doro, chiamato "Wheatley". Se avesse avuto minore esperienza nell'assorbire cambiamenti e imparare nuovi dialetti — se non nuovi linguaggi Anyanwu pensava che sarebbe rimasta del tutto frastornata. Si sarebbe spaventata, al punto da rannicchiarsi vicino agli schiavi e guardarsi attorno con sospetto e terrore. Invece, rimase in coperta con Doro, attendendo con calma il trasferimento sui nuovi battelli. Isaac e parecchi altri erano scesi a terra per prendere accordi. «Quando cambieremo?» aveva chiesto a Doro in inglese. Ora tentava spesso di parlare inglese. «Dipende da quanto tempo ci metterà Isaac a noleggiare i battelli» aveva risposto lui. Il che significava che non lo sapeva. Meglio così. Anyanwu sperava che l'attesa fosse lunga. Perfino lei aveva bisogno di tempo per assimilare le tante novità di quel nuovo mondo. Dal punto in cui si trovava, poteva vedere alcune altre grosse navi a vela quadra ancorate nel porto. E c'erano battelli più piccoli, che si muovevano sospinti da gonfie vele triangolari o erano ormeggiati alle lunghe banchine che Doro le aveva fatto notare. Ma ormai navi e barche le apparivano familiari. Era ansiosa di vedere come vivevano a terra quelle persone nuove. Aveva chiesto di scendere a terra con Isaac, ma Doro aveva rifiutato. Aveva deciso di tenerla con sé. Lei fissava con desiderio le file e file di edifici sulla riva, alti per lo più due, tre, o addirittura quattro piani, e affiancati l'uno all'altro come una fila di formiche, come se la gente non potesse sopportare di stare lontana. Nella maggior parte del suo paese, si poteva stare in piedi al centro di un villaggio e vedere quasi soltanto foresta. I villaggi che costituivano le città erano ben organizzati, a volte antichi, ma facevano parte della terra che occupavano, non rappresentavano un'intrusione. — Dove finisce un recinto e ne comincia un altro? — domandò, fissando le file diritte di tetti a spiovente. — Alcuni di quegli edifici servono come magazzini o per altri scopi — spiegò Doro. — Gli altri, devi considerarli ciascuno come un recinto separato. Ogni casa ospita una famiglia. Lei si guardò attorno, stupita. — Dove sono le fattorie per nutrire tante persone?
— Oltre la città. Vedremo le fattorie risalendo il fiume. Inoltre molte case hanno un orto. E guarda laggiù. — Indicò un punto in cui la grande concentrazione di costruzioni si diradava e cessava. — Quello è terreno agricolo. — Sembra vuoto. — Ora è seminato a orzo, credo. E forse un po' di avena. Quei nomi inglesi le erano familiari perché lui e Isaac gliene avevano parlato. Orzo per preparare la birra che l'equipaggio beveva in così grande quantità, avena per nutrire i cavalli che la popolazione di quel paese cavalcava, frumento per il pane, mais per il pane e per mangiarlo sotto altre forme, tabacco per fumare, frutta e verdure, noci ed erbe. Alcuni di quegli alimenti erano soltanto versioni straniere di cibi che le erano già noti, ma molti erano nuovi per lei come lo era la città formicaio. — Doro, lasciami andare a vedere tutto questo — implorò. — Lasciami camminare di nuovo sulla terraferma. Ho quasi dimenticato che sensazione si prova a stare su una superficie che non si muove. Doro le passò un braccio sulle spalle con un gesto intimo. Gli piaceva toccarla davanti agli altri più che a qualsiasi altro uomo che avesse conosciuto, ma pareva che nessuno dei suoi uomini fosse divertito dal suo comportamento o lo disprezzasse. Perfino gli schiavi sembravano accettare tutto ciò che faceva come se fosse giusto. E Anyanwu godeva delle sue carezze anche in quel momento, quando pensava che tendessero più a imprigionare che a carezzare. — Ti porterò a vedere la città un'altra volta — le promise. — Quando conoscerai meglio le usanze della gente, quando potrai vestirti come loro e comportarti come una di loro. E quando mi sarò procurato un corpo bianco. Non ci tengo a dimostrare a un bianco sospettoso dopo l'altro che sono padrone di me stesso. — Allora tutti i negri sono schiavi? — Quasi tutti. Tocca ai negri provare che sono liberi, se lo sono. Un negro che non possa provarlo viene considerato schiavo. Lei si accigliò. — Come viene considerato Isaac? — Come un bianco. Lui sa che cos'è, ma è stato allevato come un bianco. Questo non è un posto facile per un negro. Presto non sarà un posto facile nemmeno per un indiano. Lei restò in silenzio per un attimo, poi chiese con timore: — Dovrò diventare bianca? — Lo desideri? — Lui la guardò. — No! Pensavo che con te avrei potuto rimanere me stessa.
Doro sembrò compiaciuto. — Con me, e con la mia gente, potrai farlo. Wheatley è molto più a monte di qui. Ci vive soltanto il mio popolo, e loro non hanno schiavi. — Dato che in effetti appartengono tutti a te — ribatté lei. Doro si strinse nelle spalle. — Ci sono negri oltre che bianchi? — Sì. — Allora vivrò lì. Non potrei vivere in un posto dove essere me stessa significasse essere considerata una schiava. — Sciocchezze — disse Doro. — Sei una donna potente. Potresti vivere in qualsiasi posto tu decidessi. Gli lanciò una rapida occhiata per capire se stava ridendo di lei, parlando del suo potere e nello stesso tempo ricordandole la propria capacità di controllarla. Ma lui osservava l'avvicinarsi di uno sloop piccolo e veloce. Quando la barca accostò l'unico passeggero si librò in verticale con i suoi numerosi fagotti e saltò a bordo della nave. Isaac, naturalmente. Anyanwu si accorse subito che il ragazzo non aveva usato né remi né vele per sospingere la barca. — Sei in mezzo a sconosciuti! — gli disse Doro seccamente, e il ragazzo ricadde, sorpreso, sul ponte. — Non mi ha visto nessuno — disse. — Ma guarda, a proposito di trovarsi fra estranei... — Svolse uno dei fagotti che aveva portato a bordo con sé, e Anyanwu vide che era una veste lunga e ampia di una stoffa azzurro intenso, del tipo di quelle che avevano dato alle schiave quando avevano cominciato a sentire freddo a mano a mano che la nave si dirigeva a nord. Anyanwu sapeva proteggersi dal freddo senza indumenti del genere, anche se aveva tagliato una veste per ricavarne dei perizomi nuovi. Detestava l'idea di coprire così completamente il suo corpo, soffocandosi, come diceva lei. Pensava che le schiave avessero un'aria stupida, così coperte. — Sei arrivata nella civiltà — le stava dicendo Isaac. — Ora devi imparare a portare i vestiti, come fa la gente di qui. — Che cos'è la civiltà? — chiese lei. Isaac lanciò un'occhiata sconsolata a Doro, e lui sorrise. — Non badarci — disse Isaac un attimo dopo. — Vestiti e basta. Vediamo come stai con gli abiti addosso. Anyanwu toccò il vestito. Il tessuto era liscio e fresco sotto le dita, diverso dalla stoffa rozza e grossolana delle vesti delle schiave. E il colore le piaceva: era un azzurro luminoso che si accordava con la sua pelle scura.
— Seta — spiegò Isaac. — Della migliore. — A chi l'hai rubata? — chiese Doro. Isaac arrossì sotto l'abbronzatura e guardò il padre con ira. — L'hai rubata, Isaac? — domandò Anyanwu allarmata. — Ho lasciato il denaro — rispose lui sulla difensiva. — Ho trovato una persona della tua taglia, e ho lasciato il doppio di quanto valgono queste cose. Anyanwu lanciò un'occhiata incerta a Doro, poi si allontanò da lui quando vide come guardava Isaac. — Se mai ti sorprenderanno e ti abbatteranno mentre combini una bravata come questa — disse Doro — ti lascerò bruciare sul rogo. Isaac si leccò le labbra, mise il vestito fra le braccia di Anyanwu. — Giusto — rispose a bassa voce. — Se ci riusciranno. Doro scosse la testa, disse qualcosa di brusco in una lingua diversa dall'inglese. Isaac trasalì. Guardò Anyanwu come per vedere se aveva capito. Lei lo fissò di rimando con aria innocente, e Isaac riuscì a rivolgerle un breve sorriso che secondo lei esprimeva sollievo per la sua ignoranza. Doro raccolse i fagotti di Isaac e parlò in inglese ad Anyanwu. — Avanti. Andiamo a vestirti. — Sarebbe più facile diventare un animale e non indossare niente — brontolò lei, e restò sorpresa quando lui la spinse verso il boccaporto. Nella loro cabina, Doro sembrò rilassarsi e dimenticare la collera. Aprì con cura gli altri pacchi. Un secondo vestito, un gilet da donna, un cappellino, biancheria, calze, scarpe, dei semplici gioielli d'oro... — I vestiti di un'altra donna — osservò Anyanwu, tornando alla sua lingua. — Ora sono tuoi — ribatté Doro. — Isaac diceva la verità. Li ha pagati. — Anche senza chiedere prima alla donna se voleva venderli. — Anche così. Ha corso un rischio stupido e superfluo. Potevano sparargli mentre era in aria o prenderlo in trappola, metterlo in carcere e alla fine giustiziarlo per stregoneria. — Avrebbe potuto fuggire. — Forse. Ma probabilmente avrebbe dovuto uccidere delle persone. E a che scopo? — Doro tenne sollevato il vestito. — Ti preoccupi di certe cose? — chiese lei. — Anche se tu uccidi con tanta facilità? — Mi preoccupo per il mio popolo — replicò lui. — Ogni caccia alle streghe scatenata dalla stupidità di qualcuno può far soffrire molti. Agli
occhi della gente comune noi siamo tutti streghe e stregoni, e io sono l'unico che non potranno mai uccidere definitivamente. Inoltre, voglio bene a mio figlio. Non vorrei che Isaac restasse marchiato a vita. Marchiato ai propri occhi, oltre che a quelli degli altri. Lo conosco. È come te. Ucciderebbe, poi ne soffrirebbe e si consumerebbe per la vergogna. Lei sorrise, gli posò una mano sul braccio. — È soltanto la giovinezza che lo rende sciocco. È buono. Mi fa sperare bene per i nostri figli. — Non è un bambino — disse Doro. — Ha venticinque anni. Consideralo un uomo. Lei scrollò le spalle. — Per me è un ragazzo. E per te, lui e io siamo bambini. Ti ho visto guardarci come un padre onnisciente. Doro sorrise, senza smentirla. — Togliti il perizoma — le disse. — Vestiti. Lei si spogliò, sbirciando con fastidio gli abiti nuovi. — Abitua il tuo corpo a questi oggetti — le disse lui mentre cominciava ad aiutarla a vestirsi. — Sono stato donna abbastanza spesso per sapere quanto possono essere scomodi i vestiti femminili, ma perlomeno questi sono olandesi, e non sono opprimenti come quelli inglesi. — Che significa olandesi? — Sono un popolo, come gli inglesi. Parlano una lingua diversa. — Un popolo bianco? — Oh, sì. Soltanto una diversa nazionalità... una diversa tribù. Se dovessi essere una donna, però, penso che preferirei passare per olandese anziché per inglese. Qui, almeno. Lei guardò il suo corpo nero, alto ed eretto. — È difficile pensare che tu sia mai stato una donna. Lui scrollò le spalle. — E per me sarebbe difficile immaginarti come un uomo, se non ti avessi visto in quella forma. — Ma... — Lei scosse la testa. — Tu non saresti una vera donna, qualsiasi aspetto avessi. Non vorrei vederti nelle vesti di donna. — Succederà, però, prima o poi. Lascia che ti mostri come si allaccia questo. In quel momento fu quasi possibile dimenticare che non era una donna. La vestì con cura di strati soffocanti di vestiario, fece un passo indietro per lanciarle una rapida occhiata critica, poi commentò che Isaac aveva buon occhio. I vestiti le stavano quasi a pennello. Anyanwu sospettava che Isaac avesse usato ben altro che gli occhi per studiare le proporzioni del suo corpo. Il ragazzo l'aveva sollevata, perfino gettata in aria molte volte senza
che la sua mano si avvicinasse mai a lei. Ma chi poteva sapere che cosa poteva misurare e ricordare con la sua strana abilità? Si sentì avvampare in viso. Già, chi poteva saperlo? Decise di non permettere più al ragazzo di usare tanto liberamente la sua capacità con lei. Doro le tagliò un po' i capelli e pettinò il resto con un pettine di legno acquistato in una regione vicina alla terra di Anyanwu. Lei aveva visto il pettine da bianco di Doro, più piccolo, fatto di osso. Si sorprese a ridacchiare come la fanciulla che sembrava, al pensiero di Doro che le pettinava i capelli. — Sai farmi una treccia? — gli domandò. — Dovresti essere senz'altro capace di fare anche quella. — Certo che sono capace — ribatté lui. Le prese il viso fra le mani, la guardò, le inclinò la testa per vederla da un'angolatura leggermente diversa. — Ma non lo farò — decise. — Stai meglio con i capelli morbidi e pettinati in questo modo. — Esitò. — Che cosa fai dei capelli quando cambi? Cambiano anche loro? — No, li assorbo dentro di me. Le altre creature hanno altri generi di peli. Io assimilo capelli, unghie, altre parti del mio corpo che non posso usare. Poi, in seguito, le ricreo. Mi hai visto far ricrescere i capelli. — Non avevo mai capito se ti ricrescessero o se fossero... in qualche modo gli stessi capelli. — Le porse lo specchietto. — Tieni, guardati. Lei lo prese con impazienza, con desiderio. Fin dalla prima volta che gliene aveva mostrato uno, aveva desiderato uno specchio tutto suo. Lui aveva promesso di comprarglielo. Ora vide che le aveva tagliato e acconciato i capelli in una nuvola nera dolcemente arrotondata intorno alla testa. — Starebbero meglio raccolti in una treccia — osservò. — Una donna dell'età che dimostro io raccoglierebbe i capelli a treccia. — Un'altra volta. — Doro guardò due piccoli gioielli d'oro. — O Isaac non ha guardato le tue orecchie, oppure è convinto che per te non sia un problema creare dei piccoli buchi per applicare questi orecchini. Puoi farlo? Lei guardò gli orecchini, i piccoli perni destinati a fissarli alle orecchie. Portava già una collana d'oro e dei piccoli gioielli. Di quello che indossava, erano l'unica cosa che le piacesse. Ora le piacquero anche gli orecchini. — Tocca il punto in cui dovrebbero essere i buchi — disse. Lui strinse ciascuno dei suoi lobi nei punti giusti, poi ritrasse di scatto le mani, sorpreso.
— Che cosa c'è? — chiese Anyanwu, sorpresa anche lei. — Niente. Io... immagino che sia soltanto perché finora non ti avevo mai toccato mentre cambiavi. La consistenza della tua carne è... diversa. — La consistenza dell'argilla non è forse diversa quando è malleabile e quando si è consolidata? — ...Sì. Lei scoppiò a ridere. — Toccami adesso. La stranezza è scomparsa. Lui obbedì esitando, e stavolta parve trovare più familiare ciò che toccava. — Non è stato sgradevole, poco fa — precisò. — Soltanto inatteso. — Ma non del tutto nuovo per te — ribatté lei. Distolse lo sguardo, senza incontrare i suoi occhi, sorridendo. — Ma lo è. Non ho mai... — Lui s'interruppe e cominciò a decifrare la sua espressione. — Che cosa vorresti dire, donna? Che cosa hai combinato? Lei rise di nuovo. — Ti ho soltanto dato piacere. Me lo hai detto tu quanto riesco a farti godere. — Alzò la testa. — Una volta sposai un uomo che aveva sette mogli. Dopo avere sposato me, però, non andò più tanto spesso dalle altre. Pian piano, l'espressione di incredulità di Doro si tramutò in divertimento. Le si avvicinò con gli orecchini e cominciò ad applicarli ai buchi appena aperti nei lobi delle orecchie. — Un giorno o l'altro — mormorò, vagamente assorto — cambieremo tutti e due. Io diventerò una donna e scoprirò se tu diventi un uomo particolarmente dotato. — No! — Anyanwu si allontanò di scatto da lui, poi lanciò un grido di dolore e di sorpresa quando il movimento improvviso le procurò un dolore all'orecchio. Placò subito il dolore e rimediò alla leggera ferita. — Non faremo niente di simile! Lui le rivolse un sorriso di gentile condiscendenza, raccolse l'orecchino caduto e glielo mise all'orecchio. — Doro, non lo faremo! — D'accordo — disse lui acconsentendo. — Era solo un suggerimento. Potrebbe piacerti. — No! Lui scrollò le spalle. — Sarebbe una cosa disgustosa — mormorò lei. — Una vera infamia. — D'accordo — ripeté Doro. Lei lo guardò per vedere se sorridesse ancora, e difatti era così. Per un attimo, si domandò come sarebbe andata in un caso simile. Sapeva di poter
diventare un uomo adeguato, ma quello strano essere sarebbe mai potuto diventare veramente femminile? E se...? No! — Faccio vedere i vestiti a Isaac — disse in tono gelido. Lui annuì. — Va' pure. — E il sorriso non svanì dal suo volto. Negli occhi di Isaac, quando Anyanwu gli comparve davanti con quell'abbigliamento estraneo, comparve uno sguardo che le ricordò il rischio di un altro genere di infamia. Il ragazzo era schietto e si faceva accettare facilmente come figliastro. Anyanwu, tuttavia, sapeva bene che avrebbe preferito un altro tipo di rapporto. In un ambiente meno ristretto, lei lo avrebbe evitato. Sulla nave, aveva fatto la scelta più facile, più piacevole, e aveva accettato la sua compagnia. Doro spesso non aveva tempo per lei, e gli schiavi, ora che conoscevano la sua potenza, avevano paura di lei. Tutti loro, perfino Okoye e Udenkwo, la trattavano con grande formalità e rispetto, e la evitavano più che potevano. Gli altri figli di Doro le erano proibiti e non sarebbe stato decoroso che passasse del tempo con i membri dell'equipaggio. A bordo aveva poche incombenze casalinghe. Non cucinava e non faceva le pulizie. Non aveva nessun bambino da accudire. Non c'erano mercati dove andare... sentiva molto la mancanza della folla e della compagnia dei mercati. Durante parecchi dei suoi matrimoni era stata un'ottima commerciante. I prodotti del suo orto e i vasi e gli arnesi che fabbricava erano sempre molto belli. Le capre e il pollame erano sempre grassi. In quel momento non c'era niente da fare. Neppure mali da curare o divinità da evocare. Tanto gli schiavi quanto i marinai sembravano eccezionalmente sani. Fra gli schiavi non aveva notato altre malattie, a parte quella che Doro chiamava mal di mare, e quella non era niente. Annoiata, Anyanwu aveva accettato la compagnia di Isaac. Ma in quel momento si rese conto che era tempo di finirla. Era sbagliato tormentare il ragazzo. Le faceva piacere, però, notare che vedeva in lei della bellezza perfino in quel modo, soffocata com'era da tanti strati di vestiti. Aveva temuto di apparire ridicola a occhi diversi da quelli di Doro. — Grazie per tutto questo — disse piano in inglese. — Ti rende ancora più bella — replicò lui. — Mi sento come una prigioniera. Tutta legata. — Ti ci abituerai. Ora puoi essere una vera signora. Anyanwu rifletté su quelle parole. — Una vera signora? — ripeté, accigliandosi. — E prima cos'ero? Isaac arrossì. — Voglio dire che sembri una signora di New York.
Il suo imbarazzo le fece capire che prima aveva detto qualcosa di sbagliato, qualcosa di offensivo. Lei aveva creduto di fraintendere l'inglese. Ora si rese conto di avere capito fin troppo bene. — Dimmi che cos'ero prima, Isaac — insistette. — E spiegami la parola che hai usato poco fa: civiltà. Che cos'è la civiltà? Lui sospirò, la fissò negli occhi dopo aver guardato per un attimo alle spalle di lei, verso l'albero maestro. — Prima, eri Anyanwu — rispose — madre di non so quanti figli, sacerdotessa del tuo popolo, donna rispettata e apprezzata della tua città. Ma per la gente di qui, saresti una selvaggia, quasi un animale, se ti vedessero indossare soltanto il perizoma. La civiltà è il modo in cui vive il proprio popolo. Lo stato selvaggio è il modo in cui vivono gli stranieri. — Sorrise con aria esitante. — Tu sei già un camaleonte, Anyanwu. Capisci quello che intendo dire. — Sì. — Non ricambiò il sorriso. — Ma in una terra dove gli uomini sono quasi tutti bianchi, e dei pochi negri la maggior parte sono schiavi, è possibile che qualche pezzo di stoffa mi faccia diventare una "vera signora"? — A Wheatley sì! — fu pronto a rispondere lui. — Io sono bianco, negro e indiano, e vivo qui senza problemi. — Ma tu sembri un "vero uomo". Lui fece una smorfia. — Non sono come te — replicò. — Non posso cambiare il mio aspetto. — No — ammise lei. — E in ogni caso non ha importanza. Wheatley è il villaggio "americano" di Doro. Lui scarica sulle nostre braccia tutte le persone per cui non riesce a trovare posto nelle famiglie pure. Mescolare e agitare. Nessuno si può permettere di preoccuparsi dell'aspetto che può avere chiunque altro. Non sanno con chi potrebbe accoppiarli Doro o che aspetto potrebbero avere i loro stessi figli. Anyanwu si lasciò distrarre dal suo argomento. — Le persone si sposano addirittura secondo i suoi desideri? — domandò. — E nessuno gli resiste? Isaac le rivolse una lunga occhiata solenne. — Il "seme selvaggio" a volte resiste — rispose piano. — Ma vince sempre lui. Sempre. Anyanwu tacque. Non c'era bisogno di ricordarle quanto poteva essere pericoloso ed esigente Doro. I moniti ridestavano il suo timore di lui, il timore di un futuro con lui. I moniti suscitavano in lei il desiderio di dimenticare il benessere dei figli, la cui libertà aveva comprato con la propria servitù. Dimenticare e fuggire!
— Alcuni fuggono — disse Isaac, come se le leggesse nel pensiero. — Ma lui li cattura sempre e, di solito, torna nella loro città natale con il loro corpo, in modo che i concittadini possano vedere e imparare la lezione. L'unico modo sicuro per sfuggirgli e defraudarlo della soddisfazione di indossare il tuo corpo, immagino, è quello scelto da mia madre. — Fece una pausa. — Si è impiccata. Anyanwu lo fissò. Isaac aveva pronunciato quelle parole senza particolare emozione, come se non si curasse di sua madre più di quanto si era curato del fratello Lale. E le aveva raccontato che non riusciva a ricordare un tempo in cui lui e Lale non si fossero odiati. — Tua madre è morta a causa di Doro? — domandò, osservandolo con attenzione. Isaac scrollò le spalle. — Non lo so, per la verità. Avevo appena quattro anni. Ma non credo. Lei era come Lale, capace di trasmettere e ricevere pensieri. Ma era più abile di lui, soprattutto nel ricevere. Da Wheatley, a volte poteva sentire persone di New York, a più di centocinquanta miglia di distanza. — Lanciò un'occhiata ad Anyanwu. — Una grande distanza. Una distanza maledettamente grande per quel genere di fenomeni. Poteva sentire qualunque cosa. Ma a volte non riusciva a escludere i pensieri. Ricordo che mi faceva paura. Si accovacciava sempre in un angolo e si stringeva la testa fra le mani, oppure si graffiava il viso a sangue e urlava, urlava, urlava. — Rabbrividì. — È tutto quello che ricordo di lei. È l'unica immagine che mi torna alla mente quando penso a lei. Anyanwu gli posò una mano sul braccio provando simpatia per la madre e per il figlio. Si domandò come avesse fatto a restare sano di mente, provenendo da una famiglia simile. Che cosa stava facendo Doro al suo popolo, ai suoi stessi figli, nel tentativo di renderli più simili ai figli che il suo corpo perduto avrebbe potuto generare? Per uno come Isaac, quanti altri somigliavano a Lale e alla madre? — Isaac, c'è stato qualcosa di buono nella tua vita? — gli chiese con dolcezza. Lui batté le palpebre. — C'è stato molto. Doro, i genitori adottivi a cui mi ha affidato quando ero piccolo, il viaggio, questo. — S'innalzò di qualche spanna dal ponte. — È stato bello. Ho sempre temuto di diventare pazzo come mia madre o crudele come Lale, ma Doro diceva che non sarebbe successo. — Come poteva saperlo? — Per generare me ha usato un corpo diverso. Voleva sviluppare in me una diversa capacità, e a volte sa con precisione quali famiglie mettere in-
sieme per ottenere il risultato voluto. Sono contento che nel mio caso lo abbia saputo. Lei annuì. — Non avrei voluto conoscerti, se fossi stato come Lale. Isaac la guardò con quella stessa fastidiosa intensità che aveva assunto durante il viaggio, e lei gli tolse la mano dal braccio. Nessun figlio doveva guardare in quel modo la moglie del padre. Com'era stato sciocco Doro a non trovargli una brava ragazza. Doveva sposarsi e cominciare a mettere al mondo figli con i capelli biondi. Doveva lavorare nella sua fattoria. A che serviva andare avanti e indietro sul mare, trasportare schiavi e arricchirsi, se non aveva figli? Nonostante i venti deboli e incerti, il viaggio a monte del fiume fino a Wheatley richiese soltanto cinque giorni. I comandanti olandesi degli sloop fluviali e i loro equipaggi di schiavi negri che parlavano olandese scrutavano le vele flosce, poi si scambiavano occhiate, chiaramente spaventati. Doro, fingendosi sprovveduto, si complimentò con loro per l'ottima media che mantenevano. Poi, in inglese, ammonì Isaac: — Non spaventarli troppo, ragazzo. Casa nostra non è tanto lontana. Isaac gli rispose con un largo sorriso e continuò a sospingere le imbarcazioni esattamente alla stessa velocità. Scogliere, colline, montagne, terreno agricolo e foreste, gole e approdi, altri sloop e battelli più piccoli, pescatori, indiani... Doro e Isaac, avendo ben poco da fare come passeggeri su imbarcazioni altrui, intrattenevano Anyanwu insegnandole il nome inglese di tutto ciò che attirava il suo interesse. Lei aveva un'ottima memoria e quando raggiunsero Wheatley scambiava perfino qualche parola con l'equipaggio afro olandese. Era molto bella, e le insegnavano volentieri, finché Doro o Isaac o i loro doveri non li allontanavano da lei. Infine giunsero a Gilpin, come i comandanti e i marinai chiamavano il villaggio di Wheatley. Gilpin era il nome attribuito all'insediamento sessant'anni addietro dai primi coloni europei, un piccolo gruppo di famiglie guidate da Pieter Willem Gilpin. Ma i coloni inglesi che Doro aveva cominciato a portare sul posto ben prima della conquista britannica del 1664 avevano ribattezzato il villaggio Wheatley, dato che il frumento, o wheat, era la coltura principale, e Wheatley era il nome della famiglia inglese di cui Doro aveva appoggiato l'autorità. Gli Wheatley appartenevano da generazioni al popolo di Doro. Avevano vaghe capacità di lettura del pensiero, non troppo invadenti, che miglioravano il loro già acuto senso degli af-
fari. Con un po' di aiuto da parte di Doro, il vecchio Jonathan Wheatley ora possedeva poco meno terreno dei Van Rensselaer. Il popolo di Doro aveva spazio per allargarsi e crescere. Senza quel villaggio ricco di pascoli, non si sarebbero moltiplicati in fretta come sperava Doro, ma c'erano anche altre genti, tipi strani, stirpe di streghe. Persone di nazionalità olandese, tedesca, inglese, di vari popoli africani e indiani. Erano tutti di buon ceppo fertile oppure, come gli Wheatley, servivano ad altri scopi utili. Con tutta la sua varietà, Wheatley piaceva a Doro più di ogni altro dei suoi insediamenti nel Nuovo Mondo. In America, Wheatley era casa sua. Ora, accolto dal suo popolo con un sereno benvenuto, distribuì i nuovi schiavi in varie case distinte. Alcuni furono tanto fortunati da finire in una casa dove si parlava la loro lingua di origine. Altri non avevano compagni di tribù nel villaggio o nelle vicinanze, e dovettero accontentarsi di una casa più estranea a loro. I gruppi familiari furono lasciati uniti. Doro spiegava esattamente a ciascun individuo o gruppo che cosa stava accadendo. Tutti sapevano che avrebbero potuto rivedersi. Le amicizie nate durante il viaggio non dovevano necessariamente finire in quel momento. Erano tutti apprensivi, incerti, restii a lasciare quello che era diventato un gruppo sorprendentemente compatto, ma obbedirono a Doro. Lale li aveva scelti bene, li aveva selezionati uno per uno, individuando piccole singolarità, germogli, accenni di talenti simili al suo. Aveva esaminato tutti i gruppi di nuovi schiavi portati dalla foresta a Bernard Daly, mentre Doro era lontano; li aveva esaminati scegliendo e selezionando e senza dubbio terrorizzando la gente più del necessario. Di sicuro se n'era lasciati sfuggire parecchi che avrebbero potuto essere utili. L'abilità di Lale era stata limitata e il suo temperamento bizzarro lo aveva intralciato spesso. Ma non aveva incluso nessuno che non lo meritasse. Soltanto Doro in persona avrebbe potuto fare un lavoro migliore. E ora, fino a quando non fossero maturati alcuni degli altri giovani lettori del pensiero potenzialmente dotati, Doro avrebbe dovuto fare quel lavoro da solo. Lui non cercava le persone come aveva fatto Lale, in modo deliberato e meticoloso. Le trovava quasi senza sforzo, come aveva trovato Anyanwu, anche se non alla stessa distanza. Li percepiva allo stesso modo in cui un lupo fiuta un coniglio quando il vento è favorevole, e all'inizio li aveva stanati esattamente per la stessa ragione per cui i lupi stanano i conigli. Da principio, li aveva allevati per lo stesso motivo per cui la gente allevava conigli. Quei tipi strani, le sue streghe, erano buone prede. Gli offrivano il cibo e il riparo più soddisfacente e durevole. Li cacciava ancora. Presto ne avrebbe preso uno a Wheatley. La po-
polazione di Wheatley se lo aspettava, lo accettava, lo considerava una specie di sacrificio religioso. Tutte le sue città e i suoi villaggi lo nutrivano volentieri, ormai. E i progetti di allevamento che portava avanti fra loro lo tenevano impegnato come nessun'altra attività riusciva a fare. Li aveva spinti avanti in modo incredibile, da infinitesimali capacità cieche, latenti, fino a Lale, a Isaac e perfino, indirettamente, ad Anyanwu. Si costruiva un popolo, e si nutriva bene. Se anche a volte si sentiva solo, mentre i suoi protetti vivevano la loro breve vita, almeno non si annoiava. Le persone che avevano una vita breve, le persone che potevano morire, non sapevano quali nemici fossero la solitudine e la noia. Ai margini della cittadina sorgeva una grande fattoria bassa di mattoni gialli riservata a Doro, una ex fattoria olandese che era più confortevole che bella a vedersi. L'abitazione di Jonathan Wheatley era molto più sontuosa, così come la sua residenza di New York, ma Doro si accontentava della fattoria. In un anno favorevole, la visitava anche due volte. Nella casa di Doro viveva una coppia inglese, che la curava e serviva Doro quando lui era presente. Erano un agricoltore, Robert Cutler, e sua moglie, la minore delle figlie di Wheatley Sarah. Erano persone robuste e resistenti alla fatica, e avevano allevato Isaac negli anni peggiori. Il ragazzo era stato difficile e pericoloso negli anni dell'adolescenza, mentre le sue capacità maturavano. Doro era sorpreso che la coppia fosse sopravvissuta. I genitori adottivi di Lale non ce l'avevano fatta ma del resto Lale era stato maligno in continuazione. Isaac aveva fatto del male solo incidentalmente. Inoltre, nessuno dei genitori adottivi di Lale era stato un Wheatley. Il lavoro di Sarah con Isaac aveva riconfermato il valore della sua stirpe: persone dotate di facoltà troppo scarse per essere buoni capi da riproduzione o da nutrimento. A Doro era venuto in mente che se i suoi progetti di allevamento fossero riusciti, sarebbe venuto un tempo — in futuro — in cui avrebbe dovuto adoperarsi perché persone simili continuassero a esistere. Persone dotate, ma non al punto che quelle doti potessero ritorcersi contro di loro e menomarli o ucciderli. Per il momento, però, erano le sue streghe che doveva proteggere, anche da se stesso. Anyanwu, per esempio. Quella sera le avrebbe detto che doveva sposare Isaac. Nel dirglielo, non avrebbe dovuto trattarla come un qualsiasi essere selvaggio recalcitrante, ma come una delle sue figlie. Sarebbe stato difficile, ma ne sarebbe valsa la pena. Valeva la pena di persuaderla e di piegarla con maggiore gentilezza e pazienza di quanto si sarebbe curato di fare con persone meno preziose. Le avrebbe parlato dopo
una delle buone cene di Sarah, mentre erano soli nella sua stanza, comodi e al caldo davanti al fuoco. Avrebbe fatto tutto ciò che poteva per indurla a obbedire e a vivere. Pensò a lei, preoccupato per la sua ostinazione, mentre si dirigeva a piedi verso casa, dove Anyanwu lo aspettava. Aveva appena sistemato Okoye e Udenkwo in una casa con un paio di compatrioti di mezza età, persone da cui la giovane coppia poteva imparare molto. Camminava lentamente, rispondendo ai saluti della gente che riconosceva il suo nuovo corpo e preoccupandosi per l'orgoglio di una contadinella uscita dalla foresta. La gente stava seduta all'aperto, uomini e donne, secondo l'usanza olandese, chiacchierando sui gradini dell'ingresso. Le donne tenevano le mani occupate con il cucito o la maglia mentre gli uomini fumavano la pipa. Isaac si alzò da una panca dov'era seduto insieme a una donna più anziana e s'incamminò a fianco di Doro. — Anneke si avvicina alla transizione — disse il ragazzo in tono preoccupato. — La signora Waeman dice che ha avuto molti problemi. — C'era da aspettarselo — replicò Doro. Anneke Strycker era una delle sue figlie, una figlia con un buon potenziale. Con un pizzico di fortuna, avrebbe potuto rimpiazzare Lale, una volta completata la transizione e portate a maturazione le sue capacità. In quel momento viveva con la madre adottiva, Margaret Waeman, una vedova sulla cinquantina, massiccia e fisicamente forte, stabile sul piano mentale. La donna aveva indubbiamente bisogno di tutte le sue risorse, in quel periodo, per tenere testa alla ragazza. Isaac si schiarì la gola. — La signora Waeman teme che possa... fare qualcosa contro di sé. Ha parlato di morire. Doro annuì. Il potere arrivava allo stesso modo in cui arriva un bambino, con una sofferenza straziante. Le persone che affrontavano la transizione erano aperte a ogni pensiero, a ogni emozione, a ogni piacere, a ogni dolore che provenisse dalla mente degli altri. Avevano la testa piena di un continuo frastuono urlante di "rumore" mentale. Non trovavano pace, ma ben poco sonno e molti incubi: gli incubi di tutti. Alcuni degli elementi migliori di Doro — troppi — si fermavano a quello stadio. Potevano trasmettere il loro potenziale ai figli, se vivevano abbastanza da averne, ma non riuscivano a trarne beneficio in prima persona. Non riuscivano mai a controllarlo. Diventavano corpi pronti a ospitare Doro, o stalloni e fattrici. Doro portava loro dei compagni da insediamenti lontani e privi di contatti, perché quel genere di incroci produceva molto spesso figli come Lale. Soltanto una grande cura e un'eccezionale fortuna potevano produrre un figlio come
Isaac. Doro guardò il ragazzo con affetto. — Domani per prima cosa andrò a trovare Anneke — gli disse. — Bene — disse Isaac sollevato. — Questo l'aiuterà. La signora Waeman dice che a volte ti chiama, quando arrivano gli incubi. — Esitò. — Fino a che punto sarà brutto per lei? — Quanto lo è stato per te e per Lale. — Mio Dio! — esclamò Isaac. — È soltanto una ragazza. Morirà. — Ha le stesse probabilità che avevate tu e Lale. Isaac guardò Doro con improvvisa collera. — A te non importa quello che le succede, non è vero? Se muore, ci sarà sempre qualcun altro. Doro si voltò a guardarlo e, un istante dopo, Isaac distolse lo sguardo. — Continua pure a fare il bambino, se ti piace — gli disse Doro. — Ma quando entreremo in casa comportati secondo la tua età. Ho intenzione di sistemare le cose fra te e Anyanwu stasera. — Sistemare... allora me la darai, finalmente? — Mettiamola in un altro modo. Voglio che la sposi. Il ragazzo spalancò gli occhi. Si fermò di colpo, si appoggiò a un alto acero. — Tu... tu hai deciso, immagino. Voglio dire... sei certo che è questo che vuoi? — Naturalmente. — Doro si fermò accanto a lui. — A lei lo hai detto? — Non ancora. Glielo dirò dopo cena. — Doro, lei è selvaggia. Potrebbe rifiutarsi. — Lo so. — Potresti non riuscire a farle cambiare idea. Doro scrollò le spalle. Per quanto fosse preoccupato, non gli venne in mente di dividere la sua ansia con Isaac. Anyanwu gli avrebbe obbedito oppure no. Avrebbe voluto essere in grado di controllarla con una forma perfezionata del potere di Lale, ma non poteva... e nemmeno Isaac. — Se non riesci a convincerla — disse Isaac — se non vuole proprio capire, lascia tentare a me. Prima di... fare qualsiasi altra cosa, lasciami provare. — D'accordo. — E... non indurla a odiarmi. — Non credo che potrei. Forse odierebbe me per un po', ma non te. — Non ferirla.
— No, se potrò farne a meno. — Doro sorrise leggermente, compiaciuto della preoccupazione del ragazzo. — L'idea ti piace — osservò. — Ci tieni proprio, a sposarla. — Sì. Ma non ho mai pensato che me lo avresti permesso. — Sarà più felice con un marito che non venga a trovarla solo una o due volte l'anno. — Mi lascerai restare qui, a fare l'agricoltore? — Fa' pure l'agricoltore, se vuoi, o apri un emporio o torna a fare il fabbro. Nessuno può decidere meglio di te. Fa' quello che ti pare, ma ho intenzione di lasciarti qui, almeno per un po'. Avrà bisogno di qualcuno che l'aiuti a inserirsi qui, quando me ne andrò. — Bene — esclamò Isaac. — Sposato. — Scosse la testa, poi cominciò a sorridere. — Vieni. — Doro si avviò verso la casa. — No. Doro si voltò a guardarlo. — Non posso vederla prima che tu le dica... ora che lo so. Non posso. Mangerò con Anneke. Un po' di compagnia le farà bene, in ogni caso. — Sarah non lo apprezzerà molto. — Lo so. — Isaac lanciò un'occhiata un po' colpevole verso la casa. — Falle le mie scuse, per favore. Doro annuì, si voltò ed entrò per sedersi alla tavola ricoperta di lino e riccamente imbandita di Sarah Cutler. Anyanwu osservava con attenzione la donna bianca mentre disponeva prima un panno chiaro, poi piatti e posate sul tavolo lungo e stretto intorno al quale la famiglia doveva mangiare. Anyanwu era contenta che alcuni dei cibi e delle usanze dei bianchi le fossero già familiari, dalla traversata in nave. Poteva sedersi e consumare un pasto senza sembrare completamente ignorante. Non avrebbe saputo cucinare il pasto, ma col tempo sarebbe venuto anche quello. Avrebbe imparato. Per il momento, si limitava a osservare e a lasciare che quegli aromi invitanti stuzzicassero il suo appetito. Era una sensazione familiare e consolante. Le impediva di fissare troppo la donna bianca, le impediva di concentrarsi sul proprio nervosismo e sull'incertezza per il nuovo ambiente, l'aiutava a mantenere l'attenzione rivolta alla minestra densa di carne e verdure, e alla carne di cervo arrosto — cacciagione, l'aveva chiamata la donna bianca — e a un enorme volatile da cortile, un tacchino. Anyanwu ripeteva fra sé le parole, si rassicurava che
ormai facessero parte del suo vocabolario. Nuove parole, nuove abitudini, nuovi cibi, nuovi vestiti... Finalmente era contenta degli abiti ingombranti, però. La facevano somigliare di più alle altre donne, nere e bianche, che aveva visto nel villaggio, e quello era importante. Nei suoi vari matrimoni aveva vissuto in molte città diverse, quanto bastava per conoscere la necessità di imparare a comportarsi come facevano gli altri. Quello che in un luogo era comune poteva essere ridicolo in un altro e disgustoso in un terzo. L'ignoranza si poteva pagare cara. — Come devo chiamarti? — chiese alla donna bianca. Doro le aveva detto il nome della donna una volta sola, molto in fretta, durante la presentazione, poi se n'era andato in tutta fretta a sbrigare i suoi affari. Anyanwu ricordava il nome — Sarahcutler — ma non era certa di saperlo pronunciare bene senza sentirlo di nuovo. — Sarah Cutler — rispose la donna con molta chiarezza. — Signora Cutler. Anyanwu corrugò la fronte, confusa. Era giusto. — Signora Cutler? — Sì. Lo pronunci bene. — Sto cercando di imparare. — Anyanwu si strinse nelle spalle. — Devo imparare. — Come pronunci il tuo nome? — Anyanwu. — Lo disse molto lentamente, ma la donna chiese lo stesso: — È tutto un nome? — Uno solo. Ne ho avuti altri, ma Anyanwu è il migliore. Torno sempre a usare quello. — Gli altri sono più brevi? — Mbgafo. Questo è il nome che mi diede mia madre. E una volta mi chiamavo Atagbusi, ed ero onorata da quel nome. Mi hanno chiamato... — Non importa. — La donna sospirò, e Anyanwu sorrise fra sé. A Isaac aveva dovuto recitare cinque dei suoi nomi precedenti prima che lui scrollasse le spalle e decidesse che Anyanwu, dopo tutto, era un bel nome. — Posso aiutare a fare queste cose? — domandò. Sarah Cutler stava cominciando a disporre il cibo sulla tavola. — No — rispose la donna. — Per ora sta' a guardare. Lo farai fin troppo presto. — Lanciò un'occhiata curiosa ad Anyanwu. Non la fissava, ma si concedeva rapidi sguardi curiosi. Anyanwu pensò che tutte e due, probabilmente, avevano altrettante domande da fare l'una sul conto dell'altra. Sarah Cutler chiese: — Per quale motivo Doro ti ha chiamato "Donna di Sole"?
Doro aveva cominciato a usare quel soprannome affettuoso quando le parlava in inglese, anche se Isaac si lamentava che quel nome la faceva sembrare un'indiana. — La parola inglese che equivale al mio nome è "sole" — rispose lei. — Doro ha detto che mi avrebbe trovato un nome inglese, ma io non ne ho voluto nessuno. Ora ha trasformato il mio nome in inglese. La donna bianca scosse la testa e rise. — Sei più fortunata di quanto credi. Con tutto l'interesse che ha per te, mi sorprende che tu non sia già diventata Jane o Alice o qualcosa del genere. Anyanwu scrollò le spalle. — Non ha cambiato il suo nome. Perché dovrebbe cambiare il mio? La donna le rivolse quella che sembrò un'occhiata di commiserazione. — Che cos'è Cutler? — chiese Anyanwu. — Che cosa significa? — Sì. — Cutler significa fabbricante di coltelli. Suppongo che mio marito avesse degli antenati che fabbricavano coltelli. Tieni, assaggia questo. — Offrì ad Anyanwu un pezzo di un dolce oleoso, ripieno di frutta, dal sapore delizioso. — È molto buono! — esclamò Anyanwu. Il dolce non somigliava a nessuno dei cibi che aveva assaggiato in precedenza. Non sapeva che cosa dire, tranne qualche parola di cortesia che le aveva insegnato Doro. — Grazie. Come si chiama? La donna sorrise, compiaciuta. — È un tipo di dolce che non avevo mai preparato prima. È un piatto speciale per il ritorno a casa di Isaac e Doro. — Hai detto... — Anyanwu rifletté un momento. — Hai detto che la famiglia di tuo marito era di fabbricanti di coltelli. Cutler è il suo nome? — Sì. Qui, una donna prende il nome del marito dopo il matrimonio. Io ero Sarah Wheatley, prima di sposarmi. — Quindi Sarah è il nome che tieni per te. — Sì. — Posso chiamarti Sarah, con il tuo nome personale? La donna la guardò in tralice. — E io devo chiamarti... Mbgafo? — Lo pronunciò in modo orribile. — Se vuoi. Ma ci sono molte Mbgafo. Quel nome indica soltanto il giorno della mia nascita. — Come... lunedì o martedì?
— Sì. Voi ne avete sette, noi soltanto quattro: eke, oye, afo, nkwo. Spesso la gente prende il nome del giorno in cui è nata. — Il tuo paese deve straripare di persone con lo stesso nome. Anyanwu annuì. — Ma molti hanno anche altri nomi. — Penso che Anyanwu sia davvero meglio. — Sì. — Anyanwu sorrise. — Anche Sarah è bello. Ogni donna dovrebbe avere qualcosa di suo. Doro entrò in quel momento, e Anyanwu notò che la donna s'illuminava. Non che prima fosse stata triste o accigliata, ma in quell'istante sembrò scrollarsi di dosso gli anni. Si limitò a sorridergli e dire che la cena era pronta, ma nella sua voce si era acceso un calore che prima non c'era, malgrado tutta la cordialità. In un certo periodo, quella donna era stata moglie o amante di Doro. Probabilmente amante. C'era ancora molto affetto fra loro, anche se la donna non era più giovane. Anyanwu si chiese dove fosse suo marito. Come mai una donna in quel paese poteva cucinare per un uomo che non era suo parente, né di sangue né acquisito, mentre il marito, probabilmente, stava seduto insieme ad altri davanti a una delle case del paese a soffiare fumo dalla bocca? Poi entrò il marito, portando con sé due figli adulti e una figlia, insieme con la moglie giovanissima e timida di uno dei figli. La ragazza era snella e olivastra, con i capelli neri e gli occhi scuri, bellissima perfino agli occhi di Anyanwu. Quando Doro le parlò in tono cortese, la sua risposta fu un semplice movimento delle labbra. Non lo guardò mai, tranne quando lui le volse le spalle. Ma l'occhiata che gli lanciò allora parlava chiaro come l'improvvisa vivacità di Sarah Cutler. Anyanwu batté le palpebre e cominciò a chiedersi che razza di uomo aveva sposato. Le donne a bordo della nave non avevano trovato Doro tanto desiderabile. Erano terrorizzate da lui. Ma quelle donne del suo popolo... Era come un gallo, che passava da una gallina all'altra? Dopo tutto, non erano suoi parenti o amici. Erano persone che gli avevano giurato lealtà o persone che aveva acquistato come schiavi. In un certo senso, erano sue proprietà, più che essere il suo popolo. Gli uomini ridevano e parlavano con lui, ma nessuno mostrava la sicurezza di Isaac. Erano tutti rispettosi. E se le loro mogli o sorelle o figlie guardavano Doro, non ci badavano. Anyanwu aveva il forte sospetto che se Doro avesse ricambiato le occhiate, se avesse fatto qualcosa di più che guardare, loro avrebbero fatto uno sforzo per non badare neanche a quello. O forse ne sarebbero stati onorati. Chi poteva sapere quali strane usanze praticavano?
Ma in quel momento Doro dedicò la sua attenzione a Anyanwu. Lei era timida in quella compagnia, fatta di uomini e donne che mangiavano cibi strani e parlavano in una lingua che lei parlava male e capiva in modo imperfetto. Doro conversò con lei, parlando di argomenti futili. — Senti la mancanza degli ignami? Qui non c'è niente di simile. — Non ha importanza. — La sua voce somigliava a quella della ragazza giovane, poco più che un movimento delle labbra. Si vergognava a parlare di fronte a tutti quegli sconosciuti, eppure aveva sempre parlato di fronte a sconosciuti. Occorreva parlare bene e in modo deciso, quando la gente veniva a chiedere medicine e guarigione. Che fede si poteva avere in qualcuno che bisbigliava o chinava la testa? Con decisione, rialzò la testa e smise di concentrarsi con tanta intensità sulla minestra. Gli ignami le mancavano davvero. Anche la strana minestra le faceva desiderare una montagnola di ignami schiacciati come accompagnamento. Ma non aveva importanza. Si guardò attorno, incontrando gli occhi prima di Sarah Cutler, poi di uno dei figli di Sarah, e trovando soltanto cordialità e curiosità in entrambi. Il giovanotto, sottile e castano di capelli, sembrava all'incirca dell'età di Isaac. Il pensiero di Isaac indusse Anyanwu a guardare in giro. — Dov'è Isaac? — chiese a Doro. — Hai detto che questa era casa sua. — È da un amico — le rispose Doro. — Verrà più tardi. — Lo spero bene! — esclamò Sarah. — La prima sera dopo il ritorno, e non può venire a casa per cena. — Aveva dei buoni motivi — le disse Doro. E lei non replicò. Ma Anyanwu trovò altre cose da dire. E smise di bisbigliare. Prestò una certa attenzione per sorbire la minestra col cucchiaio come gli altri e mangiare le altre portate di carne e il pane e i dolci correttamente con le dita. La gente lì mangiava con maggiore cura degli uomini a bordo della nave; quindi anche lei mangiò con maggiore cura. Parlò con la ragazza timida e scoprì che era indiana, una mohawk. Doro l'aveva fatta sposare a Blake Cutler perché entrambi avevano un accenno della sensitività che Doro apprezzava. Sembravano entrambi contenti dell'unione. Anyanwu pensò che sarebbe stata più felice della propria unione con Doro, se il suo popolo fosse stato poco lontano. Sarebbe stato un bene per i loro figli conoscere il suo mondo oltre a quello di Doro, sapere che esisteva un luogo in cui essere negri non era un marchio di schiavitù. Decise di far vivere la sua patria per loro, che Doro le permettesse di mostrarla loro o meno. Prese la decisione di non permettere loro di dimenticare chi erano.
Poi si sorprese a chiedersi se la ragazza mohawk non avrebbe preferito dimenticare chi era, quando la conversazione si spostò sulla guerra con gli indiani. I bianchi a tavola erano ansiosi di spiegare a Doro come, qualche mese prima, gli "indiani che pregavano", di religione cattolica, e un gruppo di bianchi chiamati francesi avessero fatto irruzione dalle porte di una cittadina a ovest di Wheatley — una cittadina dal nome impronunciabile di Schenectady — e avessero massacrato alcuni degli abitanti e portato via gli altri. Se ne discusse molto, furono espressi molti timori, finché Doro promise di lasciare Isaac nel villaggio, e di far rimanere una delle sue figlie, Anneke, che presto sarebbe stata molto potente. La promessa parve calmare un po' tutti. Anyanwu sentiva di avere compreso soltanto a metà la discussione fra tante persone estranee, ma chiese lo stesso se Wheatley fosse stata mai attaccata. Doro sorrise con un'espressione sgradevole. — Due volte, dagli indiani — rispose. — Per caso mi trovavo qui tutt'e due le volte. Abbiamo avuto la pace dopo quel secondo attacco, trent'anni fa. — È un periodo abbastanza lungo da far dimenticare qualsiasi cosa — osservò Sarah. — Comunque, questa è una nuova guerra. Francesi e indiani che pregano! — scosse la testa, disgustata. — Papisti! — borbottò il marito. — Bastardi! — Il mio popolo potrebbe raccontare loro quali spiriti potenti vivono qui — mormorò la ragazza mohawk, sorridendo. Doro la guardò come se non fosse certo delle serietà di quelle parole, ma lei chinò la testa. Anyanwu sfiorò la mano di Doro. — Vedi? — esclamò. — Lo avevo detto che eri uno spirito! Tutti scoppiarono a ridere, e Anyanwu si sentì più a suo agio fra loro. In un altro momento avrebbe scoperto che cos'erano esattamente francesi e "indiani che pregavano", e che motivo avevano di contesa con gli inglesi. Ne aveva abbastanza di novità, per un giorno solo. Si rilassò e si godette la cena. Se la godette troppo. Dopo tanto mangiare e bere, dopo che tutti si erano riuniti intorno all'imponente focolare di mattonelle azzurre del salotto per parlare, fumare e lavorare a maglia, cominciò a sentire un dolore allo stomaco. All'ora in cui la riunione si sciolse, doveva controllarsi con molta attenzione per non vomitare il cibo che aveva mangiato e coprirsi di vergogna davanti a tutte quelle persone. Quando Doro le mostrò la stanza con il caminetto e i soffici materassi alti che coprivano un letto matrimoniale, lei
si spogliò e si mise subito distesa. Là scoprì che il suo corpo aveva reagito male a un cibo particolare, un dolce sostanzioso di cui non conosceva il nome, ma che le era piaciuto molto. Sopra l'enorme quantità di cibo che aveva già mangiato, era stato troppo per il suo stomaco. Ora, però, Anyanwu controllò la digestione, allontanò il malessere dal proprio corpo. Il cibo non doveva essere riportato a galla. Soltanto utilizzato. Lo analizzò lentamente, così assorta nella propria coscienza interna da sembrare addormentata. Se qualcuno le avesse parlato, non avrebbe sentito. Aveva gli occhi chiusi. Era per quello che aveva atteso, che non si era risanata al piano di sotto, in presenza di tutti. Lì, invece, quello che faceva non aveva importanza. Era presente soltanto Doro, dalla parte opposta della grande stanza, seduto a una grande scrivania di legno, più bella di quella che aveva a bordo della nave. Stava scrivendo, e lei sapeva per esperienza che tracciava segni diversi da quelli di qualsiasi libro. «È un linguaggio molto antico» le aveva spiegato una volta. «Tanto antico che nessun essere vivente può leggerlo.» «Nessuno tranne te» aveva replicato lei. E lui aveva annuito e sorriso. «Le persone da cui l'ho appreso mi rapirono per farmi schiavo quando ero appena un ragazzo. Ora sono tutti morti. I loro discendenti hanno dimenticato l'antica saggezza, l'antica scrittura, gli antichi dei. Io solo ricordo.» Allora lei non aveva capito se era amarezza o soddisfazione quella che captava nella sua voce. Era molto strano quando parlava della sua gioventù. Faceva provare ad Anyanwu il desiderio di toccarlo e dirgli che non era il solo a essere sopravvissuto a tante cose. Ma le ispirava anche paura, le rammentava la sua letale differenza. Così, non aveva detto niente. In quel momento, mentre restava distesa e immobile, intenta ad analizzare, a scoprire non solo quale cibo, ma anche quale ingrediente di quel cibo le avesse fatto male era piacevolmente conscia della vicinanza di Doro. Se lui avesse lasciato la stanza in perfetto silenzio, lo avrebbe saputo, avrebbe sentito la sua mancanza. La stanza sarebbe diventata più fredda. Era stato il latte a farla stare male. Latte animale! Quella gente cucinava molte cose con latte di animali! Lei si coprì la bocca con la mano. E Doro lo sapeva? Ma certo che lo sapeva! Come poteva ignorarlo? Era il suo popolo! Ancora una volta le occorse tutto il suo autocontrollo per impedirsi di vomitare, stavolta per autentica repulsione. — Anyanwu?
Si accorse che Doro era in piedi vicino alle lunghe tende che si potevano chiudere per nascondere il letto. E si accorse che non era la prima volta che la chiamava per nome. Comunque, fu sorpresa di averlo sentito senza che gridasse o la toccasse. Aveva parlato soltanto a bassa voce. Anyanwu aprì gli occhi, li alzò su di lui. Era bello, lì in piedi, con la luce delle candele alle spalle. Si era spogliato fino a restare con il perizoma che indossava ancora, a volte, quando erano soli. Ma se ne accorse con uria parte soltanto della mente. La sua attenzione era rivolta ancora alla cosa abominevole che era stata indotta a fare con l'inganno: consumare latte animale. — Perché non me lo hai detto? — domandò. — Che cosa? — Lui si accigliò, confuso. — Che questa gente mi avrebbe dato da mangiare latte di animale! Doro scoppiò a ridere. Lei si ritrasse come se l'avesse colpita. — È uno scherzo, allora? Ora anche gli altri stanno ridendo senza che possa sentirli? — Anyanwu... — Lui riuscì a smettere di ridere. — Mi dispiace — le disse. — Stavo pensando a qualcos'altro, altrimenti non avrei riso. Ma, Anyanwu, abbiamo mangiato tutti lo stesso cibo. — Ma perché una parte era cotta con... — Ascolta. So dell'usanza del tuo popolo di non bere latte di animali. Avrei dovuto avvertirti. Lo avrei fatto, se ci avessi pensato. Nessun altro di quelli che hanno mangiato con noi sapeva che il latte ti avrebbe offeso. Te lo assicuro, non stanno ridendo. Anyanwu esitò. Lui era sincero, ne era certa. Allora era stato un errore. Ma ciò nonostante... — Questa gente cucina sempre con latte animale? — Sempre — rispose Doro. — E beve latte. È la loro usanza. Tengono degli animali apposta per mungerli. — Sacrilegio! — esclamò Anyanwu disgustata. — Non per loro — le fece notare Doro. — E tu non li offenderai accusandoli di commettere un sacrilegio. Lo guardò. Di solito non dava ordini, ma lei non aveva dubbi che questo lo fosse. Non replicò. — Tu puoi diventare un animale ogni volta che lo desideri — osservò lui. — Sai che non c'è niente di male nel latte degli animali. — È destinato agli animali — ribatté lei. — E adesso non sono un animale! Non ho consumato un pasto in compagnia di animali!
Lui sospirò. — Sai che devi cambiare per adattarti alle usanze di qui. Non sei vissuta trecento anni senza imparare ad accettare usanze nuove. — Non prenderò più latte! — Non è necessario. Ma lascia che gli altri lo facciano in pace. Lei gli voltò le spalle. In tutta la sua lunga vita non era mai vissuta fra gente che violasse quella proibizione. — Anyanwu! — Obbedirò — borbottò lei, poi lo affrontò con aria di sfida — Quando avrò una casa tutta mia? Un focolare per cucinare? — Quando avrai imparato che cosa fartene. Che genere di pasti cucineresti ora, con cibi che non hai mai visto prima? Sarah Cutler ti insegnerà quello che devi sapere. Dille che il latte ti fa male e lei lo lascerà fuori da quello che ti insegnerà. — La voce di Doro si raddolcì un po', e si sedette accanto a lei sul letto. — Ti ha fatto star male davvero, non è così? — Sì. Perfino la mia carne riconosce l'infamia. — Non ha fatto male a nessun altro. Lei si limitò a fissarlo con ira. Doro allungò una mano sotto la coperta, le massaggiò delicatamente lo stomaco. Il corpo di Anyanwu era quasi affondato nel materasso di piume troppo soffice. — Ti sei guarita? — domandò. — Sì. Ma con tanto cibo ci è voluto molto per scoprire che cosa mi dava la nausea. — Devi saperlo? — Certamente. Come posso sapere cosa fare per guarire, finché non so quale rimedio è necessario e perché? Credo di conoscere tutte le malattie e i veleni del mio popolo. Devo imparare a riconoscere quelli di qui. — È doloroso per te... imparare? — Oh, sì. Ma solo al principio. Una volta che ho imparato, non fa più male. — La sua voce cominciò a diventare insinuante. — No, dammi ancora la tua mano. Puoi toccarmi anche se sto bene. Lui sorrise, e non ci fu più tensione fra loro. Le sue carezze divennero più intime. — Così va bene — sussurrò lei. — Mi sono risanata appena in tempo. Ora stenditi qui e fammi capire per quale motivo tutte quelle donne ti guardavano. Lui rise piano, si sciolse il perizoma e la raggiunse sul letto troppo soffice.
— Stasera dobbiamo parlare — le disse più tardi, quando furono entrambi appagati e distesi fianco a fianco. — Hai ancora la forza di parlare, marito mio? — chiese lei insonnolita. — Credevo che ti saresti addormentato per non svegliarti fino all'alba. — No. — Nella sua voce non c'era più allegria. Anyanwu gli aveva posato la testa sulla spalla perché in passato le aveva fatto capire che la voleva vicina, voleva che lo accarezzasse finché si addormentava. In quel momento, però, lei alzò la testa e lo guardò. — Sei arrivata nella tua nuova casa, Anyanwu. — Lo so. — A lei non piacque il tono piatto e strano della sua voce. Quella era la voce che usava per spaventare, la voce che le ricordava di non considerarlo un semplice uomo. — Tu sei a casa, ma io devo ripartire fra alcune settimane. — Ma... — Devo partire. Ho altre persone che hanno bisogno di me perché le liberi da nemici, o che hanno bisogno di vedermi per sapere se mi appartengono ancora. Ho un popolo disperso cui dare la caccia per radunarlo. In tre città diverse ho donne che potrebbero generare figli possenti, se darò loro i compagni giusti. E altro ancora. Molto d'altro. Lei sospirò e affondò ancor più nel materasso. Aveva intenzione di lasciarla lì fra estranei. Aveva preso la sua decisione. — Quando tornerai — disse in tono rassegnato — qui ci sarà un figlio per te. — Sei incinta? — Potrei esserlo adesso. Il tuo seme vive ancora dentro di me. — No! Lei sussultò, sorpresa dalla sua veemenza. — Non è questo il corpo a cui voglio far generare i tuoi primi figli qui — le disse. Lei s'impose di scrollare le spalle, parlare in tono casuale. — Va bene. Aspetterò finché avrai... finché diventerai un altro uomo. — Non ce n'è bisogno. Ho un altro progetto per te. I capelli di Anyanwu cominciarono a formicolare e drizzarsi sulla nuca. — Quale progetto? — Voglio che ti sposi — le disse. — Lo farai secondo l'uso della gente di qui, con una licenza e una festa di nozze. — Non fa nessuna differenza. Seguirò la tua usanza. — Sì. Ma non con me.
Lei lo fissò, senza parole. Doro si stese sulla schiena fissando una delle grandi travi che sostenevano il soffitto. — Sposerai Isaac — le disse. — Voglio dei figli da voi due. E voglio che tu abbia un marito che fa ben altro che venirti a trovare ogni tanto. Vivendo qui, potresti restare un anno o due senza vedermi. Non voglio che tu sia tanto sola. — Isaac? — mormorò lei. — Tuo figlio? — Mio figlio. È un brav'uomo. Ti vuole, e io lo voglio con te. — È un ragazzo! E... — Quale uomo non è un ragazzo per te, a parte me? Isaac è più uomo di quanto credi. — Ma... è tuo figlio! Come posso sposare il figlio quando il padre, mio marito, è ancora vivo? È un'infamia! — Non se lo impongo io. — Non puoi! È un sacrilegio! — Hai lasciato il tuo villaggio, Anyanwu, e la tua città e la tua terra e il tuo popolo. Ti trovi qui, dove comando io. Qui esiste un solo sacrilegio: la disobbedienza. Tu obbedirai. — Non lo farò! Ciò che è sbagliato è sbagliato! Certe cose cambiano da un paese all'altro, ma questa no. Se il tuo popolo desidera degradarsi bevendo latte di animali, io volterò la testa dall'altra parte. La loro vergogna non è la mia. Ma ora tu vuoi che disonori me stessa, che mi renda ancora peggiore di loro. Come puoi chiedermelo, Doro? La terra stessa ne sarà offesa. I tuoi raccolti avvizziranno e moriranno! Lui emise un suono di disgusto. — Queste sono sciocchezze! Credevo di aver trovato una donna troppo saggia per credere a simili idiozie! — Hai trovato una donna che non è disposta a insozzarsi! Come si vive, qui? I figli giacciono anche con le proprie madri? Sorelle e fratelli dormono insieme? — Donna, se glielo ordino io, dormono insieme volentieri! Anyanwu si allontanò da Doro in modo da non sfiorarlo con nessuna parte del corpo. Lui aveva già parlato di quell'argomento. Di incesto, di far accoppiare i figli di Anyanwu fra loro con bestiale disprezzo per i legami di sangue. E per la repulsione lei si era lasciata portare via subito dalla sua terra. Aveva salvato i propri figli, ma ora... chi avrebbe salvato lei? — Voglio dei figli dal tuo corpo e dal suo — ripeté Doro. S'interruppe, si appoggiò su un gomito in modo da chinarsi su di lei. — Donna di Sole, ti direi di fare qualcosa che nuoccia al mio popolo? Qui la terra è diversa.
È la mia terra! La maggior parte degli abitanti di qui esiste perché io ho indotto i loro antenati a sposarsi in modi che il tuo popolo non accetterebbe. Eppure tutti vivono bene, qui. Nessun dio indignato li punisce. Le colture crescono e i raccolti sono ricchi tutti gli anni. — E alcuni di loro sentono tanto i pensieri altrui che non riescono ad averne di propri. Alcuni di loro s'impiccano. — Anche nel tuo popolo alcuni s'impiccano. — Non per ragioni così terribili. — Ciò nonostante, muoiono. Anyanwu, obbediscimi. La vita qui può essere molto bella per te. E non troverai un marito migliore di mio figlio. Lei chiuse gli occhi, ignorando la sua preghiera come aveva fatto con i suoi ordini. Lottò per ignorare anche la paura che cominciava a germogliare, ma non ci riuscì. Sapeva che, una volta falliti ordini e preghiere, lui avrebbe cominciato a minacciare. Dentro il proprio corpo, uccise il seme di Doro. Chiuse i due tubicini attraverso i quali il proprio ovulo viaggiava fino al grembo. Lo aveva fatto già molte volte, quando pensava di aver dato a un uomo un numero sufficiente di figli. Ora lo fece per evitare del tutto di avere figli, per non essere usata. Quando ebbe finito, si mise seduta e lo guardò dall'alto. — Non hai fatto che mentirmi dal giorno che ci siamo conosciuti — disse a bassa voce. Lui scosse la testa sul cuscino. — Non ti ho mentito. — «Lascia che ti dia figli che vivranno», hai detto. «Ti prometto che se verrai con me, ti darò figli della tua specie» hai detto. E ora mi mandi da un altro uomo. Non mi dai niente. — Avrai figli da me, oltre che da Isaac. Lei lanciò un grido come di dolore, e scese dal letto. — Trovami un'altra stanza! — sibilò. — Non voglio stare qui con te. Piuttosto preferisco dormire sul pavimento. Preferirei dormire per terra! Lui rimase immobile come se non l'avesse sentita. — Dormi dove ti pare — replicò dopo qualche istante. Lei lo fissò, con il corpo squassato dalla paura e dalla collera. — Che cosa vorresti fare di me, Doro? Il tuo cane? Io ti volevo bene. Sono passate vite intere dall'ultima volta che mi ero affezionata tanto a un uomo. Lui taceva. Anyanwu si avvicinò al letto, guardò dall'alto il suo viso impassibile, pregando anche lei, ormai. Non pensava che fosse possibile intenerirlo con
le preghiere, una volta che aveva deciso, ma la posta era troppo alta. Doveva tentare. — Sono venuta qui come tua moglie — disse. — Ma c'erano sempre altri che cucinavano per te, altri che ti servivano quasi come una moglie. E, se anche non ci fossero state altre persone, so così poco di questo posto che avrei compiuto i miei doveri in modo inadeguato. Tu sapevi che sarebbe stato così per me, ma mi hai voluto lo stesso... e io ti ho voluto al punto da ricominciare daccapo come una bambina, completamente ignorante. — Sospirò e guardò la stanza intorno a sé, provando la sensazione di inseguire vanamente parole capaci di toccarlo. C'erano soltanto i mobili estranei: la scrivania, il letto, il grande armadio di legno vicino alla porta che si chiamava kas, una parola olandese che indicava il guardaroba. C'erano due poltrone e varie stuoie — tappeti — di tessuto pesante, colorato. Era tutto estraneo come Doro. Le comunicava una sensazione di impotenza, come se fosse venuta in quello strano luogo soltanto per morire. Guardò il fuoco nel caminetto, l'unica cosa familiare nella stanza, e parlò a voce bassa. — Marito mio, forse è un bene che tu parta. Un anno non è tanto lungo, e nemmeno due. Non per noi. Sono rimasta sola così a lungo già molte volte. Quando tornerai, saprò come essere una moglie per te qui. Ti darò figli forti. — Riportò gli occhi su di lui, vide che la guardava. — Non accantonarmi prima che ti dimostri che buona moglie posso essere. Doro si mise a sedere, appoggiò i piedi sul pavimento. — Tu non capisci — disse piano. L'attirò giù per farla sedere al suo fianco sul letto. — Non ti ho forse spiegato quello che sto costruendo? Nel corso degli anni, ho preso persone con poteri così deboli da essere quasi insignificanti, e le ho fatte unire e poi unire ancora, finché nei loro discendenti le qualità deboli si sono rafforzate, ed è nato un uomo come Isaac. — E un uomo come Lale. — Lale non era cattivo come sembrava. Usava molto bene la capacità che aveva. E ne ho creati altri del suo genere che avevano maggiore abilità e un temperamento migliore. — Li hai creati, allora? Da cosa? Mucchietti di argilla? — Anyanwu! — Isaac mi dice che i bianchi credono che il loro dio abbia creato i primi uomini dall'argilla. Parli come se pensassi di essere tu quel dio!
Lui inspirò a fondo, la guardò con tristezza. — Quello che sono o che penso non deve riguardarti affatto. Ti ho detto quello che devi fare. No, sta' zitta. Ascoltami. Lei chiuse la bocca, soffocò una nuova protesta. — Ho detto che non capivi — continuò lui. — Ora penso che tu mi fraintenda di proposito. Credi davvero che ti voglia accantonare perché sei stata una moglie insufficiente? Anyanwu distolse lo sguardo. No, naturalmente non lo credeva. Aveva soltanto sperato di commuoverlo, di farlo desistere dalle sue pretese impossibili. No, non la stava accantonando per un motivo o per l'altro. La stava semplicemente trattando come uno dei suoi animali da allevamento. Aveva detto: «Voglio dei figli dal tuo corpo e dal suo.» Quello che desiderava lei non contava nulla. Forse si chiedeva a una mucca o a una capra se desiderava figliare? — Ti do il migliore dei miei figli — le disse Doro. — Mi aspetto che tu sia una buona moglie per lui. Non ti avrei mai data a lui se avessi pensato che non avresti potuto esserlo. Anyanwu scosse lentamente la testa. — Sei tu che non hai capito me. — Lo fissò. Fissò i suoi occhi del tutto normali, il viso lungo e attraente. Fino a quel momento, era riuscita a evitare un confronto del genere cedendo un po', obbedendo. Ora non poteva obbedire. — Tu sei mio marito — disse con calma — oppure non ho marito. Se avrò bisogno di un altro uomo, ne troverò uno. Mio padre e tutti gli altri miei mariti sono morti da tempo. Tu non hai doni da offrire per me. Puoi mandarmi via, ma non puoi dirmi dove devo andare. — Certo che posso. — La calma tranquilla di Doro eguagliava la sua, ma in lui c'era una determinazione assoluta. — Sai che devi obbedire, Anyanwu. Devo prendere il tuo corpo e ottenerne io stesso i figli che voglio? — Non puoi. — Dentro di sé, lei alterò ancor più gli organi di riproduzione, fece di sé non più una donna in senso letterale, ma nemmeno del tutto un uomo, per maggior sicurezza. — Puoi anche riuscire a scacciare il mio spirito dal corpo — aggiunse. — Penso che tu possa, anche se non ho mai captato il tuo potere. Ma il mio corpo non ti darà soddisfazione. Ci vorrebbe troppo tempo per imparare a riparare tutti i danni che gli ho fatto, ammesso che tu possa imparare. Ormai non concepirà più figli. Non vivrà neppure molto a lungo, senza che ci sia io a prendermene cura. L'ira nella voce di Doro non le sfuggì, quando parlò di nuovo. — Sai che prenderò i tuoi figli, se non potrò avere te.
Anyanwu gli voltò le spalle, per non fargli vedere la sua paura e il suo dolore, per non vederlo. Era una creatura disgustosa. Doro venne a mettersi dietro di lei, le posò le mani sulle spalle. Lei se le scrollò di dosso con violenza. — Uccidimi! — sibilò. — Uccidimi adesso, ma non toccarmi più in quel modo! — E i tuoi figli? — ribatté lui imperturbabile. — Nessuno dei miei figli commetterebbe le infamie che tu desideri — mormorò Anyanwu. — Ora chi è che mente? — esclamò lui. — Sai che i tuoi figli non hanno la tua forza. Otterrò ciò che voglio da loro, e i tuoi figli saranno miei quanto gli abitanti di questo paese. Lei non replicò. Aveva ragione lui, naturalmente. Anche la forza di Anyanwu era una pura bravata, una facciata che copriva un terrore assoluto. Era soltanto l'ira che le faceva tenere la testa alta. E a che servivano l'ira o la sfida? Lui avrebbe consumato il suo stesso spirito; non ci sarebbe stata più vita per lei. Poi avrebbe usato e pervertito i suoi figli. Si sentì sull'orlo del pianto. — La collera ti passerà — disse Doro. — Qui la vita per te sarà ricca e piacevole. Resterai sorpresa nel vedere quanto ti riuscirà facile mescolarti a questa gente. — Non sposerò tuo figlio, Doro! Per quante minacce tu possa fare, per quante promesse tu possa fare, non sposerò tuo figlio! Lui sospirò, si annodò il perizoma e si diresse alla porta. — Resta qui — le disse. — Mettiti qualcosa addosso e aspetta. — Che cosa? — domandò lei con amarezza. — Isaac — rispose Doro. E quando Anyanwu si voltò per affrontarlo, aprendo la bocca per maledire lui e suo figlio, si avvicinò e la colpì sul viso con tutta la sua forza. Ci fu un momento, prima che il colpo arrivasse a segno, in cui lei avrebbe potuto afferrargli il braccio e spezzarne le ossa come bastoncini secchi. Ci fu un momento, prima che il colpo arrivasse a segno, in cui avrebbe potuto lacerargli la gola. Invece subì il colpo, lo assecondò, smorzandolo senza rumore. Era molto tempo che non desiderava uccidere un uomo con tanta intensità. — Vedo che sai mantenere il silenzio — le disse. — Vedo che non sei pronta a morire come pensavi. Bene. Mio figlio ha chiesto una possibilità di parlarti, se rifiutavi di obbedire. Aspetta qui.
— Che cosa può dirmi che tu non abbia già detto? — chiese lei con asprezza. Doro si fermò sulla porta per lanciarle un'occhiata di disprezzo. Il suo colpo l'aveva ferita meno di quello sguardo. Quando la porta si chiuse dietro di lui, Anyanwu andò verso il letto e si sedette con lo sguardo fisso sul fuoco, senza vederlo. Quando Isaac bussò alla porta, aveva il viso rigato di lacrime che non ricordava di avere versato. Lo fece attendere finché non si fu messa un perizoma e asciugata il viso. Poi, oppressa da una stanchezza pesante e disperata, aprì la porta e fece entrare il ragazzo. Lui sembrava esausto quanto lei. I capelli biondi gli ricadevano inerti sugli occhi, e aveva perfino gli occhi arrossati. La pelle abbronzata dal sole sembrava pallida come Anyanwu non l'aveva mai vista. Non appariva soltanto stanco, ma addirittura malato. Rimase in piedi a fissarla, senza dire niente, facendole provare l'impulso di avvicinarsi a lui come a Okoye, per cercare di consolarlo. Invece prese posto su una delle poltrone della stanza in modo che non potesse sedersi accanto a lei. Docilmente, Isaac si sedette di fronte sull'altra poltrona. — Ti ha minacciato? — chiese a voce bassa. — Naturalmente. È tutto quello che sa fare. — E ti ha promesso una vita piacevole se obbedirai? — ...Sì. — Manterrà la parola, sai. In entrambi i casi. — Ho visto in che modo mantiene la parola. Ci fu un lungo silenzio imbarazzato. Alla fine Isaac mormorò: — Non costringerlo a farlo, Anyanwu. Non gettare via la tua vita! — Credi che io voglia morire? — ribatté lei. — La mia vita è stata molto piacevole e molto lunga. Potrebbe essere ancor più lunga e piacevole. Il mondo è molto più vasto di quanto pensassi: ci sono tante cose da vedere e da conoscere per me. Ma non voglio diventare il suo cane! Commetta pure le sue infamie con altri! — Con i tuoi figli? — Non minacciarmi anche tu, Isaac. — No! — esclamò lui. — Ti conosco troppo bene, Anyanwu.
Lei girò il viso dalla parte opposta. Se soltanto se ne fosse andato! Non voleva dire cose che potevano ferirlo. Isaac parlò a bassa voce: — Quando mi ha detto che ti avrei sposato, sono rimasto sorpreso e un po' spaventato. Tu sei stata sposata tante volte, e io nemmeno una. So che Okoye è tuo nipote, uno dei tuoi nipoti più giovani, e lui ha almeno la mia età. Non vedevo come avrei potuto misurarmi con tutta la tua esperienza. Ma volevo tentare! Non sai quanto desideravo tentare. — Ti lascerai usare come una bestia, Isaac? Questo non significa niente per te? — Non sai che ti desideravo molto tempo prima che decidesse di farci sposare? — Lo sapevo. — Lo guardò. — Ma ciò che è male è male. — Qui non è male. È... — Si strinse nelle spalle. — La gente di fuori fa sempre fatica a capirci. Qui non ci sono molte cose proibite. La maggior parte di noi non crede in dei e spiriti e demoni che si devono compiacere o temere. Abbiamo Doro, e ci basta. Lui ci dice cosa fare, e se non è quello che fanno gli altri, non importa, perché non vivremmo a lungo se non lo facessimo, qualunque cosa pensino di noi gli estranei. Si alzò in piedi, andò a mettersi vicino al caminetto. Il fuoco basso sembrava confortare anche lui. — Non ignoro le abitudini di Doro — disse. — Le conosco da tutta la vita. Ho diviso delle donne con lui. La mia prima donna... — Esitò, la guardò di sfuggita come per vedere in che modo accoglieva quei discorsi, se era offesa. Lei era quasi indifferente. Aveva preso la sua decisione. Niente di quanto il ragazzo diceva l'avrebbe cambiata. — La mia prima donna — riprese Isaac — me l'aveva mandata lui. Le donne qui sono contente di andare da lui. Non erano dispiaciute neppure di venire da me, quando vedevano in che modo mi favoriva. — Allora va' da loro — ribatté calma Anyanwu. — Lo farei — rispose lui, imitando il suo tono. — Ma non voglio. Preferisco stare con te per il resto della mia vita. Lei aveva voglia di fuggire dalla stanza. — Lasciami sola, Isaac! Lui scosse lentamente la testa. — Se lascio questa stanza stanotte, morirai stanotte. Non chiedermi di affrettare la tua morte. Anyanwu non replicò. — Inoltre, voglio che tu abbia la notte per riflettere. — La guardò accigliato. — Come puoi sacrificare i tuoi figli?
— Quali figli, Isaac? Quelli che ho avuto o quelli che mi farà avere con te e con lui? Isaac batté le palpebre. — Oh. — Non posso ucciderlo, e nemmeno capire che cosa ci sia da uccidere. L'ho morso una volta, quando occupava un altro corpo, e sembrava nient'altro che carne, nient'altro che un uomo. — Non lo hai mai raggiunto davvero — disse Isaac. — Lale lo fece una volta. Si proiettò in quel suo modo all'esterno per cambiare i pensieri di Doro. Per poco non ne morì. Penso che sarebbe morto, se Doro non avesse lottato con tutte le sue forze per non ucciderlo. Doro si veste di carne, ma non è di carne, e non è nemmeno uno spirito, dice lui. — Non riesco a capirlo — ribatté Anyanwu. — Ma non ha importanza. Non posso salvare i miei figli da lui. Non posso salvare me stessa. Ma non gli darò altre persone da degradare. Isaac volse le spalle al fuoco, tornò alla sua poltrona e la spostò più vicino a lei. — Potresti salvare generazioni non ancora nate se lo volessi, Anyanwu. Potresti avere una vita piacevole per te, e potresti impedirgli di uccidere tanti altri. — E come posso impedirglielo? — esclamò disgustata. — Si può impedire a un leopardo di fare quello che è nato per fare? — Lui non è un leopardo! Non è una specie di animale privo di coscienza! Lei non poté fare a meno di sentire l'ira nella sua voce. Sospirò. — È tuo padre. — Oh, Dio — mormorò Isaac. — Come posso farti capire... non mi risentivo per un insulto a mio padre, Anyanwu, volevo dire che, a modo suo, può essere una creatura ragionevole. A proposito dell'uccidere hai ragione: non può farne a meno. Quando ha bisogno di un corpo nuovo, se lo prende, che lo voglia o no. Ma il più delle volte si trasferisce perché lo vuole, non perché deve; e ci sono alcune persone, quattro o cinque, che a volte riescono a influenzarlo in modo da impedirgli di uccidere, e salvare alcune delle sue vittime. Io sono uno di loro. Tu potresti essere un'altra. — Tu non intendi fermarlo — disse lei con voce stanca. — Tu vuoi dire... — cercò nella memoria la parola giusta — vuoi dire ritardarlo. — Voglio dire quello che ho detto! Ci sono persone a cui dà ascolto, persone che apprezza al di là del loro valore di capi da riproduzione o servitori. Persone che possono dargli... giusto quel po' di compagnia di cui ha bisogno. Sono fra le poche persone al mondo che può ancora amare, o al-
meno a cui può affezionarsi. Anche se in confronto a quello che tutti noi sentiamo quando amiamo o odiamo o invidiamo o altro, non credo che lui senta granché. Non credo che possa. Temo che verrà il momento in cui non sentirà più nulla. Se questo accadrà, non ci sarà limite al male che potrebbe fare. Sono lieto di non dover vivere tanto da vederlo. Tu, però, potresti vivere per vederlo. O vivere per impedirlo. Potresti rimanere con lui, farlo restare umano almeno nella misura in cui lo è adesso. Io invecchierò, morirò come tutti gli altri, ma tu no. Non è necessario che tu lo faccia. Sei un tesoro inestimabile per lui. Non credo che lui lo abbia ancora capito davvero. — Lo sa. — Lo sa, certo, ma non... non lo sente ancora. Non è ancora reale per lui. Non capisci? Vive da più di 3.700 anni. Quando è nato Cristo, il figlio di Dio per la maggior parte dei bianchi di queste colonie, Doro era già incredibilmente vecchio. Per lui tutti sono stati sempre temporanei: mogli, figli, amici, perfino tribù e nazioni, dei e demoni. Tutto muore, tranne lui. E forse tu, Donna di Sole, forse tu. Fagli capire che non sei come tutti gli altri, faglielo sentire. Dimostraglielo, anche se per un po' dovrai fare certe cose che non ti piacciono. Tenta di raggiungerlo, non smettere di tentare. Fagli capire che non è più solo! Seguì un lungo silenzio, infranto solo dal rumore dei ceppi nel caminetto che scivolavano, poi sibilavano e crepitavano quando cominciava ad ardere la legna nuova. Anyanwu si coprì il viso, scosse la testa lentamente. — Vorrei saperti bugiardo — mormorò. — Sono spaventata e infuriata e disperata, e tu continui ad accumulare fardelli sulle mie spalle. Lui non replicò. — Che cosa è proibito, qui, Isaac? Che cosa deve fare un uomo di tanto malvagio per essere catturato e giustiziato? — L'omicidio — rispose Isaac. — A volte il furto, alcuni altri delitti. E naturalmente sfidare l'autorità di Doro. — Se un uomo uccidesse qualcuno e Doro dicesse che non dev'essere punito, che cosa succederebbe? Isaac corrugò la fronte. — Se l'uomo dovesse restare in vita, magari per generare figli, probabilmente Doro prenderebbe il suo corpo. Oppure, se fosse troppo presto, se dovesse essere risparmiato per una ragazza ancora troppo giovane, Doro lo allontanerebbe dalla colonia. Non ci chiederebbe di sopportarne la presenza. — E una volta che non ci fosse più bisogno dell'uomo, morirebbe?
— Sì. Anyanwu trasse un respiro profondo. — Forse tentate di conservare un briciolo di decenza, allora. Forse non vi ha ancora trasformato del tutto in animali. — Sottomettiti a lui adesso, Anyanwu, e in seguito potrai impedirgli per sempre di trasformarci in animali. Sottomettiti a lui. Quelle parole avevano un sapore disgustoso nella sua bocca, ma Anyanwu guardò il viso stravolto di Isaac, e la sua evidente infelicità e il suo timore per lei la calmarono un po'. Parlò a voce bassa. — Quando ti sento parlare di lui, penso che lo ami più di quanto lui ama te. — Che importanza ha? — Non ha importanza. Tu sei un uomo per il quale non deve averne. Pensavo che lui potesse essere un buon marito. Sulla nave, mi preoccupavo di non poter essere la moglie di cui aveva bisogno. Volevo compiacerlo. Ora posso soltanto pensare che non mi lascerà mai libera. — Mai? — ripeté Isaac con gentile ironia. — È un periodo lungo, anche per te e per lui. Anyanwu gli volse le spalle. In un altro momento forse l'avrebbe divertita sentire Isaac consigliare pazienza. Non era un giovanotto paziente. Ma in quel momento, per amor suo, era disperato. — Avrai la libertà, Anyanwu — le disse — ma prima dovrai raggiungerlo. È come una tartaruga racchiusa in una corazza che ogni anno si fa più spessa. Ci metterai molto tempo per raggiungere l'uomo all'interno, ma tu hai molto tempo, e dentro c'è un uomo che deve essere raggiunto. È nato come tutti noi. È menomato, perché non può morire, ma è pur sempre un uomo. — Isaac s'interruppe per riprendere fiato. — Prendi tempo, Anyanwu. Spezza quel guscio, entra. Potrebbe rivelarsi l'uomo di cui hai bisogno, proprio come penso che tu sia la donna di cui ha bisogno lui. Lei scosse la testa. Ormai sapeva che cosa avevano provato gli schiavi quando si trovavano incatenati sulla panca, con il ferro rovente del negriero che bruciava le carni. Nel suo orgoglio, aveva negato di essere una schiava. Ora non poteva più negarlo. Il marchio di Doro era impresso su di lei fin dal giorno in cui si erano incontrati. Poteva liberarsi di lui soltanto morendo e sacrificando i propri figli e lasciandolo libero di diventare sempre più un animale. Tanto di ciò che Isaac diceva sembrava giusto. Oppure era la vigliaccheria, la paura del terribile modo di uccidere di Doro, a far sembrare tanto ragionevoli le sue parole? Come poteva saperlo? Qualunque cosa facesse avrebbe avuto risultati terribili.
Isaac si alzò, si avvicinò a lei, la prese per le mani e la tirò in piedi. — Non so che specie di marito potrei essere per... per una come te — le disse. — Ma se il desiderio di accontentarti conta qualcosa.. Stanca, disperata, Anyanwu gli permise di attirarla a sé. Se fosse stata una donna comune, l'avrebbe schiacciata togliendole il fiato. Un attimo dopo, lei disse: — Se Doro lo avesse fatto in modo diverso, Isaac, se quando ci siamo conosciuti mi avesse detto che voleva una moglie per suo figlio e non per sé, non ti avrei disonorato rifiutandoti. — Io non mi sento disonorato — sussurrò lui. — Purché tu non lo costringa a ucciderti... — Se avessi il coraggio di tua madre, mi ucciderei. Isaac la fissò allarmato. — No, vivrò — lo rassicurò lei. — Non ho il coraggio di morire. Prima d'ora non ho mai pensato di essere vile, ma lo sono. Vivere è diventata un'abitudine troppo preziosa. — Tu non sei più vile di tutti noi — disse Isaac. — Voi altri, almeno, non commettete il male ai vostri stessi occhi. — Anyanwu... — No. — Lei gli appoggiò la testa sul petto. — Ho deciso. Non dirò più menzogne coraggiose, neppure a me stessa. — Alzò la testa per guardare il suo viso giovane, il suo viso da ragazzo. — Ci sposeremo. Sei un brav'uomo, Isaac. Io sono la moglie sbagliata per te, ma forse, non so come, in questo luogo, fra queste persone, non avrà importanza. Lui la sollevò soltanto con la forza delle braccia e la portò di peso sul grande letto soffice, per concepire là i figli che avrebbero prolungato la schiavitù di lei. LIBRO SECONDO I figli di Lot 1741 7 Doro era venuto a Wheatley per vegliare sul benessere di una delle figlie. Aveva la sensazione che qualcosa non andasse in lei e, come al solito, si lasciava guidare da certe sensazioni.
Arrivando a cavallo in città dall'approdo, sentì un'accesa disputa in corso, qualcosa che riguardava la vacca di un uomo che aveva devastato l'orto di un altro. Doro si avvicinò lentamente ai contendenti, osservandoli. Erano in piedi di fronte a Isaac, seduto su una panca davanti alla casa che lui e Anyanwu avevano costruito più di cinquant'anni prima. Isaac, snello e giovanile nonostante l'età e i folti capelli grigi, non aveva nessuna autorità ufficiale per comporre liti. Era stato agricoltore, poi mercante, mai giudice. Ma anche quando era più giovane, la gente gli aveva sottoposto le proprie controversie. Questo lo aveva reso potente e influente. Inoltre, era noto per la sua onestà e la sua giustizia. La gente lo trovava simpatico, cosa che non poteva fare con Doro. Poteva adorare Doro come un dio, poteva dimostrargli amore, paura, rispetto, ma lui incuteva troppo timore per poter piacere. Una delle ragioni per cui Doro tornava da un figlio come Isaac, vecchio e ormai privo di utilità, era che Isaac era un amico oltre che un figlio. Era una delle poche persone che godessero della compagnia di Doro senza paura o falsità. E Isaac era vecchio, prossimo alla morte. Morivano tutti così presto... Doro raggiunse la casa e rimase fermo un istante in sella alla giumenta nera, un bell'animale che si era procurato insieme al suo ultimo corpo, tutt'altro che bello. I due uomini che discutevano per la vacca si erano ormai calmati. Isaac aveva un modo tutto suo di calmare le persone irragionevoli. Un altro uomo poteva dire e fare esattamente le stesse cose che diceva e faceva lui, ed essere preso a pugni per tutto ringraziamento. Invece a Isaac la gente dava ascolto. — Pelham — stava dicendo al più anziano dei due uomini, un contadino sparuto, dall'ossatura pesante, che Doro ricordava come un esemplare da riproduzione insoddisfacente. — Pelham, se ti serve aiuto per riparare quello steccato, ti manderò uno dei miei figli. — Può occuparsene il mio ragazzo — rispose Pelham. — Tutto quello che ha a che fare con il legno, lui lo sa fare. Il figlio di Pelham, rammentò Doro, aveva appena il buon senso sufficiente a non farsela addosso. Era un gigante possente con la mente di un bambino, un bambino timido e gentile, per fortuna. Doro fu lieto di sentire che sapeva cavarsela in qualche attività. Isaac alzò gli occhi, notò per la prima volta il piccolo straniero dai lineamenti angolosi che Doro era in quel momento e fece quello che aveva sempre fatto. Pur senza avere il talento del fratello Lale a guidarlo, Isaac
riconosceva immancabilmente Doro. — Bene — disse — era ora che tornassi fra noi. — Poi si girò verso la casa e gridò: — Peter, vieni qui. Si alzò agilmente e prese le redini del cavallo di Doro, consegnandole al figlio Peter quando il ragazzo uscì dalla casa. — Un giorno o l'altro, dovrai dirmi come fai a riconoscermi sempre — osservò Doro. — Non può essere qualcosa di visibile. Isaac rise. — Te lo direi se lo sapessi. Tu sei tu, ecco tutto. Ora che Doro aveva parlato, Pelham e l'altro uomo lo riconobbero e cominciarono a parlare insieme in un confuso balbettio di benvenuto. Doro alzò la mano. — Sono qui per vedere i miei figli — dichiarò. I convenevoli cessarono. I due uomini gli strinsero la mano, gli augurarono la buona sera e si affrettarono ad andarsene per spargere la notizia del suo ritorno. In poche parole, li aveva informati che la visita non era ufficiale. Non era venuto per prendere un nuovo corpo, e quindi non avrebbe tenuto udienza per sistemare vertenze serie o per offrire aiuto finanziario o di altro genere, com'era diventata sua abitudine a Wheatley e in qualche altro insediamento. In quella visita, era soltanto un uomo venuto a trovare i figli. Lì ne vivevano 42, di età compresa fra l'infanzia e la vecchiaia di Isaac. Era difficile che venisse in città senza altro scopo che quello di vederli, ma, quando lo faceva, gli altri lo lasciavano in pace. Se qualcuno aveva un bisogno disperato di aiuto, si rivolgeva a uno dei figli di Doro. — Entra pure — lo invitò Isaac. — Prendi un po' di birra, un po' di cibo. — Non aveva la voce acuta e tremolante di un vecchio. La voce gli era diventata più profonda e piena, e accresceva la sua autorità. Ma tutto ciò che Doro poteva sentirvi, in quel momento, era un piacere sincero. — Non ho ancora voglia di mangiare — rispose Doro. — Dov'è Anyanwu? — Sta assistendo il bambino degli Sloane. La signora Sloane lo ha lasciato ammalare e quasi morire prima di chiedere aiuto. Anyanwu dice che ha la polmonite. — Isaac riempì due boccali di birra. — Andrà tutto bene? — Anyanwu dice di sì, anche se era sul punto di strangolare gli Sloane. Perfino loro, ormai, sono stati qui abbastanza a lungo per sapere che non c'è bisogno di lasciar soffrire così un bambino, con lei a poche case di distanza. — Isaac fece una pausa. — Hanno paura del fatto che sia negra e della sua potenza. Considerano lei una strega, e la sua pozione un veleno. Doro si accigliò, bevve un sorso di birra. Gli Sloane erano i suoi ultimi esemplari di "seme selvaggio", una coppia che si era formata prima che
Doro la trovasse. Erano persone pericolose, instabili, dolorosamente sensitive, che udivano i pensieri altrui a scoppi intermittenti. Quando uno dei due riceveva un impeto di dolore, ira, paura, qualsiasi emozione intensa, lo trasmetteva subito all'altro, e soffrivano entrambi. Niente di tutto ciò era voluto o controllato. Accadeva e basta. Disperati, gli Sloane non facevano che litigare e bere e piangere e pregare che tutto finisse, ma non accadeva. Mai. Era per quello che Doro li aveva portati a Wheatley. Per essere "seme selvaggio", erano sorprendentemente adatti alla riproduzione. Lui sospettava che per un verso o per l'altro discendessero tutti e due dal suo popolo. Di sicuro somigliavano abbastanza al suo popolo da costituire una preda eccellente. E non appena avessero generato qualche altro figlio, Doro aveva intenzione di prenderli entrambi. Sarebbe stata quasi una grazia. Ma per il momento avrebbero continuato a essere pessimi genitori, che trascuravano e maltrattavano i figli non per crudeltà, ma perché soffrivano troppo loro stessi per accorgersi della sofferenza dei figli. Anzi, era probabile che notassero quella sofferenza soltanto come una nuova aggiunta alla propria. Così, a volte, quelli della loro specie uccidevano i figli. Doro non aveva pensato che gli Sloane fossero pericolosi in quel senso. Ora ne era meno sicuro. — Isaac...? Isaac lo guardò, comprese la domanda inespressa. — Presumo che tu intenda mantenere in vita i genitori per qualche tempo. — Sì. — Allora faresti meglio a trovare un'altra casa per il bambino. E per tutti gli altri figli che avranno. Anyanwu dice che non avrebbero mai dovuto averne. — Il che significa, naturalmente, che dovrebbero averne il più possibile. — Dal tuo punto di vista, sì. Brave persone, utili. Ho già cominciato a parlare loro di cedere il bambino. — Bene. E allora? — Sono preoccupati per quello che potrebbe pensare la gente. Ho avuto l'impressione che sarebbero contenti di liberarsi del bambino se non fosse per quello... e per un'altra cosa. — Che cosa? Isaac distolse lo sguardo. — Sono preoccupati di avere chi li assisterà quando saranno vecchi. Ho detto loro che gliene avresti parlato tu. Doro fece un lieve sorriso. Isaac si rifiutava di mentire alle persone che a suo parere Doro aveva scelto come preda. Il più delle volte, si rifiutava ad-
dirittura di parlare con loro. A volte quelle persone intuivano ciò che veniva loro nascosto, e fuggivano. Doro provava piacere a dar loro la caccia. Lann Sloane, pensò Doro, sarebbe stato una selvaggina particolarmente interessante. L'uomo aveva una sorta di acuta percettività animale. — Anyanwu direbbe che ora hai l'espressione del leopardo. Doro scrollò le spalle. Sapeva che cosa avrebbe detto Anyanwu, e che cosa intendeva quando lo paragonava a un tipo di animale o all'altro. Un tempo aveva fatto quelle osservazioni per paura o per collera. Ora le faceva per puro e semplice odio. Era diventata ciò che lui aveva di più simile a un nemico. Obbediva. Era cortese. Ma sapeva tener duro più di chiunque altro Doro avesse mai conosciuto. Era viva grazie a Isaac. Doro non dubitava che, se avesse tentato di darla a un altro qualsiasi dei suoi figli, si sarebbe rifiutata e sarebbe morta. Le aveva domandato che cosa avesse detto Isaac per farle cambiare idea e, quando lei si era rifiutata di rispondere, lo aveva chiesto a Isaac. Con sua sorpresa, anche Isaac si era rifiutato di dirglielo. Il figlio gli rifiutava ben poco, lo faceva andare in collera molto di rado. Ma quella volta... «Me l'hai data tu» aveva detto Isaac. «Ora lei e io dobbiamo avere qualcosa di esclusivamente nostro.» Il suo viso e la sua voce avevano fatto capire a Doro che non gli avrebbe detto altro. Doro aveva lasciato Wheatley il giorno dopo, sicuro che Isaac si sarebbe occupato dei dettagli... sposare la donna, costruirsi una casa, aiutarla a imparare a vivere nell'insediamento, decidere a quale lavoro dedicarsi, allevare i figli che sarebbero venuti. Già a venticinque anni Isaac era molto capace. E Doro non si era fidato di restare vicino a Isaac o Anyanwu. L'intensità della sua collera lo stupiva. Di solito, bastava che la gente lo infastidisse una volta sola per pagarne lo scotto con la morte. Doveva riflettere per ricordare quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva provato un'autentica ira e aveva lasciato in vita chi l'aveva causata. Ma il figlio e quella fastidiosa contadinella uscita dalla foresta che, per sua fortuna, era il migliore "seme selvaggio" che avesse mai trovato, erano sopravvissuti. Anyanwu non aveva perdonato, però. Se aveva imparato ad amare il marito, non aveva imparato a perdonare il padre del marito. Di tanto in tanto, Doro tentava di scalfire la sua ostilità cortese e distaccata, tentava di spezzarla, di riportarla al punto in cui era quando l'aveva rapita al suo popolo. Non era abituato a gente che gli resisteva, non era abituato a essere odiato. Quella donna era un enigma che non aveva ancora risolto, ed era per quella ragione che, dopo avergli dato otto figli, e averne dati cinque a Isaac, era ancora viva. Sarebbe tornata a
lui, senza freddezza. Sarebbe ridiventata giovane senza che glielo dovesse dire, e sarebbe venuta a lui. Allora, soddisfatto, l'avrebbe uccisa. Si leccò le labbra al pensiero, e Isaac tossì. Doro guardò il figlio con l'antico affetto e corresse i suoi pensieri. Anyanwu sarebbe vissuta fino alla morte di Isaac. Stava mantenendo Isaac sano, forse lo stava mantenendo in vita. Lo faceva per se stessa, naturalmente. Isaac l'aveva conquistata molto tempo prima, come conquistava tutti, e lei non voleva perderlo prima del necessario. Ma le sue ragioni non contavano. Senza volerlo, stava rendendo un servigio a Doro. Neanche lui voleva perdere Isaac prima del necessario. Scosse la testa, parlò per distrarsi dal pensiero della morte del figlio. — Ero giù in città per affari — spiegò. — Poi circa una settimana fa, quando avrei dovuto partire per l'Inghilterra, mi sono ritrovato a pensare a Nweke. — Era la figlia minore di Anyanwu. Doro sosteneva che era anche figlia sua, anche se Anyanwu lo contraddiceva. Doro aveva occupato il corpo che aveva dato vita alla figlia, ma non al momento in cui era stata concepita. L'aveva preso dopo. — Nweke sta bene — disse Isaac. — Almeno per quanto è possibile, immagino. Presto verrà per lei la transizione e ha delle giornate negative, ma Anyanwu sembra capace di confortarla. — Non ti è sembrato che avesse qualche problema particolare negli ultimi giorni? Isaac rifletté un momento. — No, non che io ricordi. Non l'ho vista molto. Sta aiutando a cucire il corredo per un'amica che si sposa. La ragazza Van Ness, sai. Doro annuì. — E io ho aiutato a costruire la casa dei Boyden. Immagino che si possa dire che ho costruito casa Boyden. Ogni tanto devo usare le mie facoltà, per quanto Anyanwu mi tormenti per farmi rallentare il ritmo. Altrimenti mi ritrovo a camminare a una spanna da terra o a sollevare gli oggetti. L'abilità non sembra diminuire con la vecchiaia. — Me ne sono accorto. Ti diverte ancora? — Non puoi immaginare quanto — rispose Isaac, sorridendo. Distolse lo sguardo, col ricordo del piacere che gli balenava sul viso, facendolo apparire più giovane di anni. — Lo sai che a volte voliamo ancora, Anyanwu e io? Dovresti vederla sotto forma di un uccello inventato da lei. Dei colori da non credere.
— Temo che vedrò te cadavere, se continuerete a fare certe prodezze. Le armi da fuoco stanno migliorando, un po' alla volta. Volare è un rischio stupido. — Mi piace lo stesso — ribatté calmo Isaac. — Mi conosci troppo bene per chiedermi di rinunciare del tutto. Doro sospirò. — Immagino di sì. — Comunque, Anyanwu viene sempre con me, e vola sempre leggermente più in basso. Anyanwu la protettrice, pensò Doro con un'amarezza che lo sorprese. Anyanwu che difendeva chiunque avesse bisogno di lei. Doro si chiese che cosa avrebbe fatto, se le avesse detto che aveva bisogno di lei. Avrebbe riso? Molto probabile. Avrebbe avuto ragione, naturalmente. Con gli anni era diventato quasi altrettanto difficile per lui farle accettare una bugia quanto per lei mentirgli con successo. L'unico motivo per cui non sapeva della colonia di suoi discendenti africani che Doro aveva creato nella Carolina del Sud, era che non le aveva offerto occasioni di fare domande. Neppure Isaac sapeva. — Ti dà fastidio? — chiese a Isaac. — Che lei ti protegga a quel modo? — All'inizio sì, me ne dava — rispose Isaac. — Cercavo di distanziarla. Io sono più veloce di qualsiasi uccello, se voglio. La lasciavo indietro e la ignoravo. Ma lei era sempre lì, sforzandosi di tenersi al passo, ostacolata da venti che a me non davano nessun fastidio. Non si dava mai per vinta. Dopo qualche tempo, ho cominciato ad aspettarmi di trovarla lì. Ora penso che mi darebbe più fastidio se non venisse. — È stata mai colpita? Isaac esitò. — È quello lo scopo dei colori, immagino — rispose infine. — Distogliere l'attenzione da me. Sì, è stata colpita un paio di volte. Precipita di qualche spanna, svolazza per darmi il tempo di allontanarmi. Poi si riprende e mi segue. Doro alzò gli occhi verso il ritratto di Anyanwu appeso alla parete di fronte al camino alto e poco profondo. Lo stile della casa era inglese qui, olandese là, igbo un po' dappertutto. Anyanwu aveva fabbricato vasi di terracotta, varianti di quelli che un tempo aveva venduto al mercato nella sua terra natia, e bei cesti solidi. La gente li comprava da lei e li disponeva in casa come faceva lei. Le sue opere erano nello stesso tempo decorative e pratiche e là in casa sua, fra caminetti e kas olandesi, panche e seggioloni di legno simili a troni, evocavano ricordi di una terra che non avrebbe più rivisto. Anyanwu non aveva mai cosparso il pavimento di sabbia come fa-
cevano le massaie olandesi. La terra era da spazzare via, diceva con disprezzo, non da spargere sul pavimento. Era più fiera della propria casa della maggior parte delle inglesi che Doro conosceva, ma le olandesi scuotevano la testa e spettegolavano della sua maniera "trasandata" di tenere la casa e commiseravano ostentatamente Isaac. In effetti, nell'ambiente piuttosto elastico di Wheatley, quasi tutte le donne commiseravano Isaac, al punto che se avesse voluto avrebbe potuto spargere dovunque il suo prezioso seme. Solamente Doro attirava di più l'attenzione femminile, e solamente Doro ne approfittava. Ma del resto, Doro non doveva preoccuparsi di mariti indignati... o di una moglie indignata. Il ritratto di Anyanwu era straordinario. Chiaramente, l'artista olandese era stato affascinato dalla sua bellezza. L'aveva avvolta in un drappeggio di un azzurro luminoso che faceva risaltare meravigliosamente le pelle scura, come fa sempre l'azzurro. Perfino i capelli erano nascosti dalla stoffa azzurra. Teneva in braccio un bimbo, il primo figlio di Isaac. Anche il bambino, di pochi mesi appena, era coperto in parte dalla stoffa azzurra. Con i suoi grandi occhi, guardava gli spettatori dalla cornice del ritratto, più bello di quanto avrebbe dovuto essere un bambino. Anyanwu concepiva di proposito soltanto figli belli? Erano tutti bellissimi, anche se Doro ne aveva concepiti alcuni con corpi disgustosi. Il ritratto era in tutto e per tutto l'immagine di una madonna con bambino dalla pelle nera, fino agli occhi limpidi e in apparenza innocenti di Anyanwu. Gli estranei erano indotti a fare commenti su quel parallelo. Alcuni erano di apprezzamento, accompagnati da un'occhiata all'ancora bella Anyanwu. Lei si manteneva attraente per Isaac, pur invecchiandosi di pari passo con lui. Altri s'indignavano profondamente, nella convinzione che qualcuno avesse realmente tentato di ritrarre la Madonna col Bambino prendendo a modello due "negri selvaggi". I pregiudizi razziali stavano aumentando nelle colonie, anche in quella ex colonia olandese, dove la situazione un tempo era stata tanto pacifica. Qualche mese prima, c'erano state esecuzioni in massa a New York. Qualcuno aveva cominciato ad appiccare incendi e i bianchi avevano deciso che dovevano essere stati i negri. Con scarse prove, o anche senza, erano stati uccisi trentuno negri, di cui tredici bruciati vivi. Doro cominciava a preoccuparsi per quella cittadina a monte del fiume. Fra tutti i suoi insediamenti coloniali inglesi, soltanto in quello i negri non avevano la protezione di potenti padroni bianchi. Quanto tempo sarebbe passato, prima che i bianchi di altre regioni cominciassero a considerarli selvaggina da cacciare?
Doro scosse la testa. Quando alzava gli occhi, la donna del ritratto sembrava guardarlo. Aveva troppi pensieri per la testa per pensare a lei o alla figlia Ruth, detta Nweke. Non avrebbe dovuto lasciarsi attirare di nuovo a Wheatley. Era bello rivedere Isaac... ma quella donna! — Era la moglie giusta per me, dopo tutto — stava dicendo Isaac. — Ricordo che mi disse il contrario una volta, prima che ci sposassimo, ma che io sappia, quella fu una delle poche volte in cui si sbagliava. — Voglio vederla — disse bruscamente Doro. — E voglio vedere Nweke. Penso che la ragazza sia molto più vicina al cambiamento di quanto vi rendiate conto. — Pensi che sia stato questo ad attirarti qui? A Doro non piaceva la parola "attirare", ma annuì senza fare commenti. Isaac si alzò in piedi. — Prima Nweke, mentre sei ancora di umore abbastanza buono. — Uscì di casa senza attendere la risposta di Doro. Amava Doro e amava Anyanwu, e lo turbava il fatto che andassero così poco d'accordo. «Non capisco come fai a essere tanto stupido con lei» aveva detto una volta a Doro, con sua grande sorpresa. «Quella donna non è temporanea. Può essere tutto ciò di cui hai bisogno, se glielo permetti: amante, compagna, socia in affari. Le sue doti completano le tue. E invece non fai che umiliarla.» «Non le ho mai fatto del male» aveva ribattuto Doro. «Non ho mai fatto del male a uno dei suoi figli. Mostrami un'altra donna di "seme selvaggio" a cui abbia permesso di vivere tanto a lungo dopo la nascita dei figli.» Non aveva toccato i suoi figli, perché fin dal primo lei gli aveva giurato che se avesse fatto del male a uno qualsiasi di loro, non ne avrebbe dati alla luce altri. Qualsiasi cosa le facesse, non ne avrebbe dati alla luce altri. La sua sincerità era indubbia; quindi si era astenuto dal predare i suoi figli meno riusciti, si era astenuto dal far accoppiare le figlie con i figli maschi, o dal portarsele a letto lui stesso. Anyanwu non sapeva quanta pena si fosse dato per accontentarla. Lei lo ignorava, ma Isaac avrebbe dovuto saperlo. «La tratti un po' meglio delle altre perché è un po' più utile» aveva replicato Isaac «Ma la umili lo stesso.» «Se lei decide di sentirsi umiliata da quello che le faccio fare, si crea da sé il suo problema.» Isaac lo aveva guardato con fermezza, quasi con ira, per alcuni secondi. «So del padre di Nweke» aveva detto. Lo aveva detto senza paura. Con gli
anni, aveva finito col capire che era una delle poche persone che non dovevano avere paura. Doro si era allontanato da lui in preda alla vergogna. Non aveva pensato che gli fosse ancora possibile provare vergogna, ma la presenza di Anyanwu sembrava ridestare un po' alla volta emozioni che dormivano dentro di lui da tempo. Da quante donne aveva mandato Isaac, senza provare nulla? Isaac aveva obbedito ed era tornato a casa. A casa dalla Pennsylvania, dal Maryland, dalla Georgia, dalla Florida spagnola... nemmeno a Isaac dispiaceva. Non gli piaceva stare lontano da Anyanwu e dai figli per lunghi periodi, ma le donne non gli dispiacevano. E senza dubbio lui non dispiaceva a loro. A lui non importava che Doro avesse generato otto dei figli di Anyanwu. O sette. Soltanto ad Anyanwu dispiaceva. Soltanto lei si sentiva umiliata. Ma il padre di Nweke, forse, era un caso a parte. La ragazza, diciottenne, piccola e scura di pelle come la madre, varcò la soglia, col braccio di Isaac intorno alle spalle. Aveva gli occhi rossi come se avesse pianto o come se non avesse dormito. Probabilmente l'uno e l'altro. Quello era un brutto periodo per lei. — Sei tu? — bisbigliò, vedendo lo sconosciuto dai lineamenti angolosi. — Certamente — rispose Doro, sorridendo. La sua voce, la certezza che era davvero Doro, fecero sgorgare le lacrime. Si avvicinò a lui piangendo sommessamente, cercando conforto fra le sue braccia. Lui la strinse e guardò Isaac al di sopra della sua spalla. — Qualunque rimprovero tu abbia da farmi, me lo merito — disse Isaac. — Non me n'ero accorto, e invece avrei dovuto. Dopo tutti questi anni, avrei proprio dovuto. Doro non rispose, accennò a Isaac di uscire. Isaac obbedì in silenzio, probabilmente sentendosi più in colpa di quanto avrebbe dovuto. Quella non era una ragazza qualsiasi. Nessuno dei suoi fratelli o delle sue sorelle aveva raggiunto Doro a miglia di distanza con la propria disperazione, al momento di affrontare la transizione. Che cosa provava per lei? Ansia, pena, qualcosa di più. La sensazione indefinibile che lei non fosse soltanto vicina alla transizione, ma che fosse sul punto di diventare qualcosa che lui non aveva mai conosciuto prima. Qualcosa di nuovo. Era come se da New York lui avesse captato un'altra Anyanwu — nuova, diversa — che lo attirava, che lo chiamava. Non aveva mai seguito una sensazione più volentieri. La ragazza si mosse fra le sue braccia e lui la portò verso la panca dall'alta spalliera vicino al caminetto. La panca stretta era scomoda quasi
quanto i seggioloni di legno. Doro si chiese per l'ennesima volta come mai Isaac e Anyanwu non acquistassero o facessero fabbricare dei mobili moderni e comodi. Di sicuro se lo potevano permettere. — Che cosa devo fare? — mormorò la ragazza. Gli aveva appoggiato la testa sulla spalla, ma nonostante la vicinanza Doro riusciva a stento a sentirla. — Fa così male. — Sopportalo — rispose lui semplicemente. — Finirà. — Quando! — Da un sussurro quasi a un grido. Poi di nuovo al sussurro. — Quando? — Presto. — La tenne un po' scostata da sé in modo da poter vedere il visetto gonfio e stanco. Il colorito della ragazza era grigiastro, anziché del solito marrone intenso e lucente. — Non dormi? — Poco. A volte. Gli incubi... solo che non sono incubi, vero? — Lo sai che cosa sono. Lei si ritrasse contro lo schienale della panca. — Conosci David Whitten, a due case di distanza? Doro annuì. Il ragazzo Whitten aveva vent'anni. Un ceppo abbastanza buono. La sua famiglia avrebbe avuto un valore maggiore nelle generazioni a venire. Avevano una sensitività che sconcertava Doro. Non sapeva bene che cosa stessero diventando, ma la sensazione che riceveva da loro era buona. C'era un piacevole mistero che un'attenta selezione avrebbe dissipato. — Quasi tutte le notti — disse Nweke — David... entra nel letto della sorella. Sorpreso, Doro rise forte. — Davvero? — Proprio come se fossero sposati. Perché questo è divertente? Potrebbero mettersi nei guai. Sono fratello e sorella. Potrebbero... — Staranno benissimo. Lei lo guardò con attenzione. — Lo sapevi? — No. — Doro stava ancora sorridendo. — Quanti anni ha la ragazza? Circa sedici? — Diciassette. — Nweke esitò. — A lei piace. — Anche a te — osservò Doro. Nweke si dimenò, imbarazzata. Non c'era civetteria in lei; l'imbarazzo era autentico. — Non volevo saperlo. Non ho cercato di sapere! — Immagini che ti stia criticando perché lo sai? Io? Lei batté le palpebre, si leccò le labbra. — Non tu, credo. Avevi intenzione di... di metterli insieme comunque?
— Sì. — Qui? — No. Volevo trasferirli giù in Pennsylvania. Ora vedo che farò meglio a preparare un posto per loro al più presto. — Loro erano quasi un sollievo — riprese Nweke. — Era così facile lasciarsi coinvolgere in quello che facevano, che a volte non dovevo sentire altre cose. Ieri notte, però... ieri notte c'erano degli indiani. Hanno catturato un bianco. Aveva fatto qualcosa, forse aveva ucciso una delle loro donne o qualcosa di simile. Io ero nei suoi pensieri, e all'inizio erano tutti confusi. Lo hanno torturato. Ci ha messo tanto... tanto tempo a morire. — Aveva le mani strette l'una intorno all'altra, gli occhi dilatati al ricordo. — Gli hanno strappato le unghie, poi lo hanno tagliato e bruciato e le donne lo hanno azzannato. Gli hanno strappato dei brandelli di carne con i denti, come lupi. Poi... — S'interruppe, con la voce strozzata. — Oh, Dio! — Sei stata con lui tutto il tempo? — chiese Doro. — Tutto il tempo... fino alla fine. — Stava piangendo in silenzio, senza singhiozzi, limitandosi a restare con gli occhi fissi davanti a sé, mentre le lacrime le scorrevano sul viso e le unghie affondavano nel palmo delle mani. — Non capisco come posso essere viva dopo tutto questo — mormorò. — A te non è successo niente — osservò Doro. — È successo tutto a me, tutto! Doro le prese le mani e distese le lunghe dita sottili. C'erano segni insanguinati sulle palme, nei punti in cui erano penetrate le unghie. Doro fece scorrere un dito lungo le unghie dure, tagliate corte. — Tutte e dieci — disse — là dove dovrebbero essere. A te non è successo niente. — Tu non capisci. — Sono passato anch'io per la transizione, ragazza. Anzi forse sono la prima persona che l'abbia mai superata, più anni fa di quanti tu ne possa immaginare. Capisco benissimo. — Allora hai dimenticato! Forse quello che succede non lascia tracce sul corpo, ma lascia dei segni. È reale. Oh, Dio, è così reale! — Cominciò a singhiozzare. — Se qualcuno frusta uno schiavo o un criminale, io lo sento, ed è reale per me come per la persona sotto la frusta! — Ma per quante volte gli altri possano morire — disse Doro — tu non morirai. — Perché no? C'è chi muore durante la transizione. Tu sei morto!
Doro sogghignò. — Non del tutto. — Poi ridivenne serio. — Ascolta, l'unica cosa di cui non devi preoccuparti è diventare come me. Sarai qualcosa di speciale, senz'altro, ma niente di simile a me. Lei lo guardò timidamente. — A me piacerebbe essere come te. Soltanto Nweke diceva cose del genere. Lui le spinse di nuovo la testa sulla propria spalla. — No — disse — non sarebbe bene. Io so che cosa dovresti essere. Non sarebbe una buona idea farmi una sorpresa. Lei comprese e non replicò. Come la maggior parte del suo popolo, non tentava di allontanarsi da lui quando ammoniva o minacciava. — Che cosa sarò? — chiese. — Una persona capace di fare per gli altri quello che tua madre sa fare per sé, spero. Una guaritrice. La prossima tappa per ottenere una guaritrice. Ma anche se erediterai il talento di uno solo dei tuoi genitori, sarai formidabile, e non somiglierai affatto a me. Tuo padre, prima che lo prendessi, non solo sapeva leggere nel pensiero, ma riusciva a vedere nei luoghi chiusi, "vedere" con la mente. — Sei tu mio padre — lo contraddisse lei. — Non voglio sentir parlare di nessun altro. — Ascolta! — disse lui con asprezza. — Quando la transizione sarà finita, lo vedrai nella mente di Isaac e di Anyanwu. Dovresti sapere da Anneke che chi legge nel pensiero non può ingannare se stesso a lungo. — Anneke Strycker Croon. Avrebbe dovuto essere lei a fare questo discorso a Nweke. Era stata la più abile nella lettura del pensiero nelle ultime cinque o sei generazioni, dotata di un controllo perfetto. Una volta completata la transizione, non entrava mai nella mente di un altro a meno che non lo volesse. Il suo unico difetto era la sterilità. Anyanwu aveva cercato di aiutarla. Doro le aveva portato un corpo maschile dopo l'altro, tutto invano. Così alla fine Anneke aveva quasi adottato Nweke. La ragazza e la vecchia avevano scoperto l'una nell'altra un'affinità che faceva piacere a Doro. Era raro che una persona dotata del dono di Anneke traesse piacere dalla compagnia dei bambini. Doro vedeva in quell'amicizia un buon presagio per i talenti immaturi di Nweke. Ma ormai Anneke era morta da tre anni, e Nweke era sola. Senza dubbio le parole che pronunciò subito dopo scaturivano almeno in parte dalla solitudine. — Tu ci ami? — domandò. — Tutti voi? — chiese Doro, sapendo benissimo che non si riferiva a tutti, a tutto il suo popolo.
— Quelli di noi che cambiano — rispose lei senza guardarlo. — Quelli diversi. — Siete tutti diversi. È solo questione di gradazioni. Nweke parve imporsi di incontrare il suo sguardo. — Ti stai prendendo gioco di me. Noi sopportiamo tanto dolore... a causa tua, e tu ridi. — Non del tuo dolore, ragazzina. — Lui trasse un respiro profondo e controllò il divertimento. — Non del tuo dolore. — Tu non ci ami. — No. — La sentì trasalire contro di sé. — Non tutti. — Me? — bisbigliò lei alla fine, timidamente. — Ami me? La domanda preferita delle sue figlie... soltanto delle figlie. I figli maschi speravano che li amasse, ma non lo chiedevano. Forse non osavano. Ah, ma quella ragazza... Quando stava bene, i suoi occhi sembravano quelli di sua madre, occhi di bambina, con il bianco e la pupilla limpidi. Aveva le ossa più fini di Anyanwu, polsi e caviglie più sottili, zigomi più sporgenti. Era la figlia di uno dei figli maggiori di Isaac, un figlio che lui aveva avuto da una donna indiana capace di leggere nel pensiero e di vedere in luoghi chiusi e distanti. Gli indiani erano ricchi di "seme selvaggio" allo stato libero, che tendevano a tollerare o addirittura a onorare, anziché a distruggere. Alla fine, avrebbero imparato a diventare civili, e a pensare — come i bianchi — che sentire voci, avere visioni, muovere oggetti inanimati senza che nessuna mano li toccasse, tutte quelle strane sensazioni, sensibilità e capacità, erano maligne o pericolose, o quanto meno immaginarie. Allora avrebbero estirpato o schiacciato quelli fra loro che erano diversi, congelandosi così nel tempo, privando la loro specie di tutti i sensi che non fossero quelli già familiari, privando i loro figli e i figli dei loro figli di ogni arma utile per affrontare il popolo di Doro. E certamente, in futuro, il giorno dello scontro sarebbe arrivato. Quella ragazza, rara e preziosa per il sangue del padre come per quello della madre, poteva benissimo vivere fino a vedere quel giorno. Se mai aveva desiderato avere una discendente longeva da Anyanwu, era quella ragazza. Si sentiva assolutamente sicuro di lei. Con gli anni aveva imparato a non illudersi che un nuovo incrocio sarebbe riuscito, finché la transizione non fosse finita e non avesse avuto sotto gli occhi il successo. Ma le sensazioni che gli arrivavano da quella ragazza erano troppo intense per dubitarne. Non conosceva nessun impulso più infallibile di quello che lo spingeva verso la preda migliore. Ora quell'impulso gli parlava come non gli aveva mai parlato prima, nemmeno per Isaac o An-
yanwu. Il talento della ragazza lo solleticava e lo affascinava. Non l'avrebbe uccisa, naturalmente. Non uccideva i suoi figli migliori. Ma avrebbe preso subito da lei quello che poteva. E lei avrebbe avuto quello che voleva da lui. — Sono tornato per te — le disse sorridendo. — Non per uno qualsiasi degli altri, ma perché sentivo quanto tu fossi vicina al cambiamento. Volevo vedere con i miei occhi se stavi bene. Questo evidentemente le bastava. Lo strinse in un abbraccio pieno di gioia e lo baciò, ma non come una figlia bacerebbe il padre. — Mi piace davvero — disse timidamente. — Quello che fanno David e Melanie. A volte cerco di sapere quando lo fanno. Cerco di dividerlo con loro. Ma non ci riesco. Mi viene da sé, oppure non viene affatto. — E fece eco alle parole del patrigno, del nonno. — Devo avere qualcosa di mio! — La sua voce aveva assunto un tono fiero, come se Doro le dovesse quello che chiedeva. — Perché dirlo a me? — ribatté Doro, giocando con lei. — In questo momento non sono nemmeno bello. Perché non scegliere uno dei ragazzi della città? Lei gli serrò le braccia, con le piccole unghie dure che gli affondavano nella carne. — Stai ridendo di nuovo! — sibilò. — Sono tanto ridicola? Per favore...? Con suo disgusto, Doro si ritrovò a pensare ad Anyanwu. Fino a quel momento aveva sempre resistito alle avances delle figlie di lei. Era diventata un'abitudine. Nweke era l'ultima figlia che Doro aveva costretto Anyanwu a generare, ma Doro aveva continuato a rispettare le superstizioni di Anyanwu, sebbene lei non apprezzasse la cortesia. Ebbene, Anyanwu stava per perdere la sua posizione con lui a favore di quella giovane figlia. Qualunque cosa lui avesse cercato di ottenere, di strappare con le lusinghe alla madre, gliel'avrebbe fornita la figlia. La figlia non era un essere selvaggio, reso ostinato dagli anni di libertà che aveva alle spalle. La figlia era stata sua fin dal momento del concepimento, una sua proprietà, come se avesse portato il suo marchio impresso a fuoco nella carne. Si considerava lei stessa una sua proprietà. I figli di Doro, giovani e vecchi, maschi e femmine, molto spesso gli semplificavano al massimo la questione della proprietà. Accettavano la sua autorità e sembravano avere bisogno di essere rassicurati, per quanto strani fossero, di appartenere pur sempre a qualcuno. — Doro? — disse piano la ragazza.
Portava un fazzoletto rosso legato intorno ai capelli. Lui lo spinse indietro per scoprire la folta capigliatura scura, più liscia di quella della madre ma non quanto quella del padre. L'aveva pettinata all'indietro e la teneva stretta in un grosso nodo. Soltanto un ricciolo pesante le ricadeva libero sulla spalla scura e levigata. Lui resistette all'impulso di sfilare le forcine, di liberare gli altri riccioli. Lui e la ragazza non avrebbero avuto molto tempo da passare insieme. Non voleva sprecare quello che avevano ad appuntarle di nuovo i capelli. E non voleva nemmeno che fosse il suo aspetto a rivelare subito ad Anyanwu quello che era successo. Anyanwu lo avrebbe scoperto — probabilmente molto in fretta — ma non lo avrebbe scoperto dalla sfrontatezza della figlia. La colpa doveva ricadere su Doro. Sua figlia aveva ancora troppo bisogno di lei per alienargliene l'affetto. Nessuno, in uno qualsiasi degli insediamenti di Doro, era abile quanto Anyanwu nell'aiutare chi attraversava la fase di transizione. Il suo corpo poteva assorbire la terribile fatica fisica di immobilizzare una persona giovane e violenta, di solito molto forte. Lei non faceva del male a quelli che le erano affidati e non permetteva loro di farsi del male. Non la spaventavano e non la disgustavano. Era per loro compagna, sorella, madre, amante, durante la terribile sofferenza. Se riuscivano a sopravvivere allo sconvolgimento mentale, finivano per scoprire che si era presa buona cura del loro corpo fisico. Nweke avrebbe avuto bisogno di quelle cure, e di qualunque cosa le fosse necessaria in quel momento. Lui sollevò di peso la ragazza, la portò in un letto ad alcova in una delle camere dei bambini. Non sapeva se fosse il suo letto, e non se ne curava. La spogliò, scostando le sue mani quando tentava di aiutarlo, ridendo piano quando lei osservò che sembrava sapere benissimo come si liberava una donna dai vestiti. Lei non sapeva granché di come si spoglia un uomo, ma si diede da fare goffamente e tentò di aiutarlo. E fu adorabile come lui si aspettava. Vergine, naturalmente. Anche a Wheatley le ragazze di solito si conservavano per i mariti, o per Doro. Era pronta per lui. Provò un po' di dolore, ma non parve preoccuparsene. — Meglio che con David e Melanie — sussurrò una volta, e si aggrappò a lui quasi temendo che potesse lasciarla. Quando Isaac e Anyanwu rientrarono, Nweke e Doro erano in cucina ad arrostire granturco e bere birra. Il letto era stato rifatto e Nweke era stata rivestita decentemente e ammonita a non mostrare nemmeno un apparenza
di sfrontatezza. «Lascia che vada in collera con me» le aveva detto Doro «non con te. Non dire nulla.» «Non so che pensare di lei, ora» aveva osservato Nweke. «Le mie sorelle mormoravano che non potevamo averti a causa sua. A volte la odiavo. Pensavo che volesse tenerti per sé.» «Ed era così?» «...No.» Gli aveva lanciato un'occhiata incerta. «Credo che tentasse di proteggerci da te. Pensava che ne avessimo bisogno.» Nweke rabbrividì. «Che cosa proverà per me, adesso?» Doro non lo sapeva, e non intendeva andarsene senza averlo prima scoperto. Finché non avesse potuto constatare che, per quanta collera Anyanwu provasse, non avrebbe fatto del male alla figlia. «Forse non se ne accorgerà» aveva detto la ragazza speranzosa. Era stato allora che Doro l'aveva portata in cucina per indagare sullo stufato che Anyanwu aveva lasciato cuocere a fuoco basso e sul pane incustodito nella teglia, caldo e soffice, ben cotto sul carbone. Avevano apparecchiato la tavola, poi Nweke aveva suggerito birra e granturco soffiato. Doro aveva accettato, assecondandola, sperando che si rilassasse e non si preoccupasse all'idea di affrontare la madre. Sembrava calma e soddisfatta quando Isaac e Anyanwu entrarono, ma evitò gli occhi della madre. Abbassò lo sguardo sul boccale di birra. Doro vide Anyanwu accigliarsi, la vide avvicinarsi a Nweke e prenderle fra le dita il piccolo mento per sollevarlo in modo da vedere gli occhi spaventati della ragazza. — Ti senti bene? — chiese a Nweke nella sua lingua. Ormai parlava perfettamente l'inglese, oltre all'olandese e a qualche parola di alcuni dialetti indiani e africani, ma in casa con i figli parlava spesso come se non si fosse mai allontanata dal suo paese. Non voleva adottare un nome europeo o chiamare i figli con nomi europei, anche se aveva accettato di dare loro dei nomi in quelle lingue, dietro insistenza di Doro. I figli sapevano parlare e capire la sua lingua come lei. Anche Isaac, dopo tanti anni, sapeva capirla e parlarla abbastanza bene. Senza dubbio, percepiva con la stessa chiarezza di Doro e Nweke la cautela e la tensione nella domanda sommessa di Anyanwu. Nweke non rispose. Spaventata, lanciò un'occhiata a Doro. Anyanwu seguì la direzione dello sguardo e i suoi occhi limpidi e luminosi come quelli di un bambino assunsero un'espressione di assurda ferocia. Non disse nien-
te. Si limitò a fissare con crescente comprensione. Doro affrontò il suo sguardo con calma finché lei si girò a guardare la figlia. — Nweke, piccola mia, ti senti bene? — ripeté lei con insistenza. Qualcosa accadde nell'animo di Nweke. Prese le mani di Anyanwu fra le sue, le tenne strette per un momento, sorridendo. Infine rise forte. Una risata entusiasta da bambina, senza neanche una punta di falsità o di risentimento. — Sto bene — rispose. — Fino a questo momento non sapevo quanto. È tanto tempo che non sento più voci, niente che mi attiri o che mi faccia soffrire. — Il sollievo le faceva dimenticare la paura. Fissò gli occhi di Anyanwu con i suoi, colmi di stupore per la pace appena ritrovata. Anyanwu chiuse gli occhi per un attimo, trasse un lungo sospiro fremente. — Sta bene — disse Isaac dal suo posto a tavola. — È sufficiente. Anyanwu lo guardò. Doro non riuscì a decifrare quello che passava fra loro, ma un attimo dopo Isaac ripeté: — È sufficiente. E pareva che fosse così. In quel momento arrivò il figlio ventiduenne Peter, che portava l'assurdo nome di Chukwuka — Dio è supremo — e fu servita la cena. Doro mangiò lentamente, ricordando come aveva riso del nome igbo dato al ragazzo. Aveva chiesto ad Anyanwu dove avesse trovato tanta repentina devozione a Dio, a un qualsiasi dio. Chukwuka era un nome abbastanza comune nella sua patria, ma non era un nome che ci si sarebbe aspettati da una donna che sosteneva di aiutarsi da sola. Com'era prevedibile, Anyanwu era rimasta in silenzio, tutt'altro che divertita dalla domanda. Lui ci aveva messo un tempo sorprendentemente lungo per cominciare a chiedersi se il nome non fosse destinato a fare da talismano, un patetico tentativo di proteggere il ragazzo da lui. Dove aveva trovato, Anyanwu, quella improvvisa devozione a Dio? Dove, se non nel terrore di Doro? Doro sorrise fra sé. Poi smise di sorridere quando la breve pace di Nweke finì. La ragazza gridò, lanciando un lungo urlo straziato e terribile che ricordò a Doro una stoffa lacerata. Poi lasciò cadere il piatto di granturco che stava portando a tavola e si accasciò sul pavimento, svenuta. 8 Nweke giaceva, contorcendosi, ancora incosciente, al centro del letto di Isaac e Anyanwu. Anyanwu aveva detto che sarebbe stato più facile assi-
sterla lì, in un letto racchiuso semplicemente da cortine, che non in uno di quelli ad alcova. Indifferente alla presenza di Doro, aveva spogliato Nweke lasciandole solo la camicia e le aveva tolto le forcine dai capelli. Ora la ragazza sembrava ancor più piccola di quanto fosse, sperduta nell'alto materasso soffice di piume. Sembrava una bambina. Doro provò un attimo di disagio, perfino di paura per lei. Ricordava la risata di pochi minuti prima e si domandava se l'avrebbe udita ancora. — È la transizione — gli disse Anyanwu con voce neutra. Le lanciò un'occhiata. Stava in piedi vicino al letto con aria stanca e preoccupata. L'ostilità di poco prima era stata accantonata, ma solo accantonata. Doro la conosceva troppo bene per pensare che fosse stata dimenticata. — Sei sicura? — domandò. — È già svenuta altre volte, non è vero? — Oh, sì. Ma questa è la transizione. Lo so. Pensò che probabilmente aveva ragione lei. Ora percepiva la ragazza con molta intensità. Se il corpo che lui indossava fosse stato meno forte o più sfruttato, non avrebbe osato restare così vicino a lei. — Resterai? — chiese Anyanwu, quasi sentendo i suoi pensieri. — Per un po'. — Perché? Non sei mai rimasto prima, quando i miei figli cambiavano. — Questa è speciale. — Ho visto. — Gli lanciò un'altra delle sue occhiate velenose. — Perché, Doro? Lui non finse di fraintendere. — Lo sai che cosa riceve? Quali pensieri capta? — Mi ha parlato dell'uomo di ieri notte, della tortura. — Non quello. Capta le persone che fanno l'amore, le succede spesso. — E tu hai pensato che per una ragazza nubile non bastasse! — Ha diciott'anni. Non bastava. Nweke emise un lieve gemito, come se stesse facendo un brutto sogno. Senza dubbio era così. Il peggiore dei sogni. E non avrebbe potuto svegliarsi finché non fosse finito. — Non avevi mai molestato i miei figli, prima d'ora — osservò Anyanwu. — Mi chiedevo se lo avessi notato. — È per questo? — Si voltò a fronteggiarlo. — Volevi punirmi per la mia... ingratitudine? — ...No. — I suoi occhi guardarono per un attimo alle spalle di lei, anche se non si mosse. — Punirti non m'interessa più.
Anyanwu si voltò un po' troppo in fretta e sedette accanto al letto. Si sedette su una sedia che Isaac aveva costruito per lei, più alta del normale, in modo, che nonostante la sua piccola statura e l'altezza del letto, potesse vedere e raggiungere facilmente Nweke. Alla fine si sarebbe trasferita sul letto con la ragazza. Le persone che attraversavano la transizione avevano bisogno di un contatto fisico ravvicinato, che garantisse loro una certa presa sulla realtà. Ma per il momento lo spostamento di Anyanwu sulla sedia serviva a mascherare l'emozione. Paura, si chiese Doro, oppure vergogna o ira o odio... Il suo ultimo tentativo serio di punire Anyanwu aveva coinvolto il padre di Nweke. Di tutte le cose che lei aveva previsto che le avrebbe fatto, quella era stata la peggiore. Eppure era stato uno scontro che Anyanwu era arrivata molto vicina a vincere. Forse l'aveva vinto. Forse era per quello che l'incidente riusciva ancora a metterlo a disagio. Doro scrollò la testa, rivolse la sua attenzione alla ragazza. — Pensi che ne uscirà sana e salva? — Non ho mai lasciato morire nessuno che fosse affidato alle mie cure. Lui ignorò il sarcasmo nella sua voce. — Che cosa provi, Anyanwu? Come puoi aiutarli così bene, se non riesci a raggiungere la loro mente neppure nel modo confuso in cui la raggiungo io? — Le ho dato un piccolo morso. È forte e sana. Non c'è niente, nessun senso di morte in lei. — Doro aveva aperto la bocca, ma Anyanwu alzò una mano per fermarlo. — Se potessi spiegartelo in modo più chiaro, lo farei. Forse troverò un modo, il giorno in cui tu ne troverai uno per spiegarmi come ti trasferisci da un corpo all'altro. — Touché — rispose lui, e strinse le spalle. Prese una sedia accanto al caminetto e la portò ai piedi del letto. Lì rimase in attesa. Quando Nweke si riscosse, tremando e piangendo disperatamente, le parlò, ma lei non sembrava udirlo. Anyanwu si chinò sul letto in silenzio, col volto cupo, e tenne ferma la ragazza finché le lacrime rallentarono, finché smise di tremare. — Stai attraversando la transizione — Doro sentì sussurrare Anyanwu. — Resta con noi fino a domani e avrai i poteri di una dea. — Fu tutto quello che ebbe il tempo di dire. Il corpo di Nweke s'irrigidì. Emise suoni di conati di vomito, e Anyanwu si scostò leggermente da lei. Ma invece di vomitare, Nweke si accasciò nuovamente, mentre la sua coscienza andava a raggiungere quella di qualcun altro.
Infine parve ritornare in sé, ma i suoi occhi aperti erano vitrei e lei emetteva quel genere di suoni allucinanti che Doro aveva udito nei manicomi, specie in quelli dove erano stati consegnati i suoi protetti, quando la transizione li aveva sorpresi al di fuori degli insediamenti. Anche il viso di Nweke sembrava uscito da un manicomio, contorto e irriconoscibile, coperto di sudore, con gli occhi, il naso e la bocca che colavano. Stanco e triste, Doro si alzò per andarsene. C'era stato un tempo in cui doveva assistere lui stesso alle transizioni, un tempo in cui non c'era nessun altro di cui fidarsi, nessuno che non fuggisse o assassinasse la persona tremante che gli era affidata o compisse qualche pericoloso e stupido rito di esorcismo. Ma era successo in un remoto passato. Ormai non era soltanto lui a costruire un popolo: si costruiva da sé. Non era più necessario che facesse tutto lui, che vedesse tutto lui. Si voltò a guardare indietro, una volta raggiunta la porta, e vide che Anyanwu lo stava fissando. — È più facile condannare un figlio a questo che restare ad assistere mentre succede, non è vero? — gli disse. — L'ho visto accadere ai tuoi antenati! — gridò lui con ira. — E lo vedrò accadere ai tuoi discendenti quando anche tu sarai polvere! — Si volse e la lasciò. Una volta che Doro se ne fu andato, Anyanwu scese a fatica dal letto e si diresse verso il lavabo. Lì versò l'acqua dalla brocca nel catino e inumidì una salvietta. Nweke stava già attraversando un momento difficile, povera ragazza. Ciò significava una notte lunga, terribile. Non c'era dovere che Anyanwu odiasse più di quello, specie con i propri figli. Ma nessun altro sapeva compierlo meglio di lei. Inumidì il viso della ragazza, pensando, pregando: "Oh, Nweke, piccola mia, resta fino a domani. Domani il dolore sparirà." Nweke si calmò, come se udisse i pensieri disperati della madre. Forse era così. In quel momento il suo viso era cinereo e calmo. Anyanwu lo accarezzò, scorgendovi come sempre le tracce del padre della ragazza. Ecco un uomo condannato fin dal giorno della nascita, e tutto per colpa di Doro. Apparteneva a un buon ceppo da riproduzione, oh, sì. Era un animale della foresta incapace di sopportare la compagnia del prossimo, incapace di trovare scampo ai pensieri altrui. Non era come Nweke in quel momento, capace di ricevere soltanto grandi emozioni, grandi tensioni. Riceveva tutto. E inoltre aveva visioni di cose lontane, al di là della portata dei suoi occhi,
di cose invisibili agli occhi di chiunque. In una città, persino in una piccola cittadina, sarebbe diventato pazzo. E la sua vulnerabilità non era passeggera, non era una transizione dalla mancanza di poteri a un potere divino. Era una condizione che aveva dovuto sopportare fino al giorno della morte. Aveva amato Doro in modo patetico perché Doro era l'unica persona i cui pensieri non potevano impadronirsi di lui. La sua mente non poteva insinuarsi in quella di Doro. Doro affermava che era una questione di autoconservazione; la mente che riusciva a raggiungere la sua diventava sua. Veniva consumata, estinta, e Doro s'impadroniva del corpo che aveva animato. Diceva che perfino gente come quell'uomo — si chiamava Thomas perfino gente la cui capacità telepatica sembrava del tutto incontrollabile, chissà come non raggiungeva mai i suoi pensieri. Chi era dotato di controllo poteva imporsi di tentare, come poteva imporsi di mettere la mano sul fuoco, ma non poteva compiere il tentativo senza prima sentire il "calore" e capire che stava facendo una cosa pericolosa. Thomas non poteva imporsi di mettere le "mani" su nulla. Viveva da solo in una lercia capanna ben nascosta in un bosco tetro e oscuro della Virginia. Quando Doro gliel'aveva portata lui l'aveva insultata. Le aveva detto che non poteva avere niente a che ridire per il modo in cui viveva lui, dato che veniva dall'Africa, dove la gente si appendeva agli alberi e andava in giro nuda come le bestie. Aveva chiesto a Doro che male avesse fatto per vedersi affibbiare una negra. Ma non era stato per colpa sua che aveva ricevuto in sorte Anyanwu. Era stato per colpa di lei. Di tanto in tanto, Doro la corteggiava a modo suo. Arrivava con un corpo nuovo, a volte attraente. Le prestava attenzione la trattava come se fosse qualcosa di più di un animale da riproduzione. Poi, a corteggiamento concluso, la portava dal letto di Isaac nel proprio e ve la teneva finché non era certo che fosse incinta. Isaac la sollecitava ancora a sfruttare quelle occasioni per legare Doro a sé e rafforzare qualunque influenza avesse su di lui. Ma Anyanwu non aveva mai imparato a perdonare le uccisioni non necessarie di Doro, la sua violenza distratta quando non la corteggiava, l'aperto disprezzo per tutte le convinzioni di lei che non coincidevano con le sue, i colpi ai quali non poteva reagire e ai quali non poteva sfuggire, gli atti che doveva compiere per lui contro tutte le sue convinzioni. Si era congiunta a Doro sotto forma di uomo, mentre lui occupava il corpo di una donna. Non era riuscita ad avere un'erezione naturale. Lui era una donna bellissima, ma le ispirava repulsione. Niente di ciò che Doro aveva fatto le aveva dato piacere. Niente.
No... Sospirò e fissò il viso placido della figlia. No, i figli le davano piacere. Li amava, ma aveva anche paura per loro. Chi poteva sapere che cosa avrebbe deciso di fare loro Doro? Che cosa avrebbe fatto a Nweke? Si stese sul letto vicino a lei, in modo che la ragazza non si svegliasse sola. Forse, perfino in quel momento una parte dello spirito di Nweke sapeva che Anyanwu era vicina. Anyanwu aveva notato che le persone che affrontavano la transizione si dibattevano di meno, se restava vicino a loro, e a volte le teneva abbracciate. Se la sua vicinanza, il suo contatto, davano loro un po' di pace, era disposta a restare vicina. I suoi pensieri tornarono a Thomas. Doro era stato in collera con lei. Sembrava che non si adirasse mai sul serio con nessun altro, ma del resto il suo popolo lo amava. Non poteva dirle che era infuriato perché lei non lo amava. Nemmeno lui poteva pronunciare simili sciocchezze. Di certo, Doro non amava lei. Non amava nessuno, tranne forse Isaac e qualcun altro dei suoi figli. Tuttavia voleva che Anyanwu fosse come le sue tante altre donne e lo trattasse come un dio in forma umana, gareggiasse per attirare la sua attenzione, per quanto ripugnante fosse il suo ultimo corpo o per quanto potesse cercare corpi nuovi. Si sapeva che occupava indifferentemente corpi di donne e di uomini. In particolare, prendeva le donne che gli avevano già dato ciò che voleva da loro, di solito parecchi figli. Loro lo servivano e non pensavano mai di poter essere le prossime vittime. Qualcun altro. Non loro. Più di una volta, Anyanwu si era chiesta quanto tempo le restava. Doro aveva aspettato semplicemente che aiutasse quell'ultima figlia a superare la transizione? Se era così, poteva darsi che ricevesse una sorpresa. Una volta che Nweke avesse avuto il potere e avesse potuto badare a se stessa, Anyanwu non aveva più intenzione di restare a Wheatley. Ne aveva abbastanza di Doro e di tutto ciò che lo riguardava; e nessuno meglio di lei era in grado di sfuggirgli. Se solo Thomas fosse stato in grado di fuggire... Ma Thomas non aveva avuto nessun potere: soltanto un potenziale, inattuato e inattuabile. Il giorno che Doro l'aveva portata da lui, aveva la barba lunga e rada, e lunghi capelli neri impastati dal grasso e dal sudiciume di anni di incuria. I suoi vestiti avrebbero potuto stare in piedi da soli, incrostati com'erano da strati di terriccio e sudore, ma erano troppo laceri per reggersi. In certi punti sembravano tenuti insieme dallo sporco. Sul corpo aveva delle piaghe, trascurate e sporche, come se stesse andando in putre-
fazione mentre era ancora vivo. Era giovane, ma aveva quasi tutti i denti guasti. Il suo alito e tutto il suo corpo puzzavano in modo indescrivibile. E lui non se ne curava. Non si curava di nulla che non fosse il bicchiere successivo. Ricordava un indiano, a parte la barba rada, ma si considerava un bianco. E considerava Anyanwu una sporca negra. Doro sapeva ciò che faceva quando, esasperato, le aveva detto: «Tu pensi che ti chieda troppo? Pensi che ti maltratti? Ti farò vedere quanto sei stata fortunata!» L'aveva data a Thomas. Ed era rimasto a controllare che non fuggisse o uccidesse quel grottesco relitto d'uomo, invece di dividere il suo letto infestato dai vermi. Ma Anyanwu non aveva mai ucciso nessuno se non per autodifesa. Non era suo compito uccidere. Lei era una guaritrice. Sulle prime, Thomas aveva imprecato contro di lei e aveva disprezzato la sua pelle nera. Lei lo aveva ignorato. «Doro ci ha messi insieme» gli aveva detto con calma. «Se fossi verde, non farebbe nessuna differenza.» «Chiudi il becco!» aveva gridato lui. «Sei una cagna nera portata qui per figliare e nient'altro. Non sono tenuto ad ascoltare i tuoi strilli!» Lei non aveva reagito. Dopo i primi istanti, non aveva provato neppure collera. E nemmeno pietà o repulsione. Sapeva che Doro si aspettava da lei repulsione, ma ciò non faceva che dimostrare che pur conoscendola da decenni non la conosceva affatto. Quello era un uomo affetto da una dozzina di malattie un relitto d'uomo. Guaritrice com'era, creatrice di medicine e veleni, risanatrice di ossa spezzate, consolatrice, sarebbe riuscita a prendere quel relitto e rifarne un uomo? Doro guardava le persone, sane o malate, e si chiedeva che genere di figli potevano produrre. Anyanwu guardava i malati — soprattutto quelli i cui problemi non aveva mai visto prima — e si chiedeva se sarebbe riuscita a sconfiggere la loro malattia. Senza volerlo, Thomas aveva captato i suoi pensieri. «Sta' alla larga da me!» aveva borbottato allarmato. «Pagana! Va' ad agitare i tuoi ossicini sul muso di qualcun altro!» Pagana, sì. Lui era un uomo timorato di Dio. Anyanwu si era rivolta al suo dio e gli aveva detto: «Trova una città e compra per noi del cibo. Quest'uomo non potrà generare dei figli nello stato in cui è. Vive quasi solo di birra, sidro e rum che probabilmente ruba.» Doro l'aveva fissata come se non riuscisse a pensare a niente da dire. In quel momento aveva un corpo
massiccio e pesante, e, mentre Anyanwu e Thomas facevano conoscenza, si era dedicato a spaccare legna. «Qui c'è cibo a sufficienza» aveva protestato alla fine. «C'è carne di cervo e orso, volatili e pesci. Thomas coltiva qualcosa. Ha tutto quello che gli occorre.» «Se lo ha, non ne mangia!» «Allora morirà di fame. Ma non prima di averti dato un figlio.» Quella notte, infuriata, Anyanwu aveva assunto la forma di leopardo per la prima volta da anni. Era andata a caccia di cervi, braccandoli come aveva fatto nel suo paese tanto tempo prima, muovendosi con l'antica andatura furtiva, usando occhi e orecchie in modo ancor più efficiente di un autentico leopardo. Il risultato era stato lo stesso che al suo paese. I cervi erano cervi. Aveva abbattuto una cerbiatta snella, poi aveva riassunto la forma umana, si era caricata in spalla la preda e l'aveva portata alla capanna di Thomas. Al mattino, quando i due uomini si erano svegliati, la cerbiatta era già scuoiata, pulita e macellata. La capanna era piena dell'aroma della cacciagione arrostita. Doro aveva mangiato di buon appetito ed era uscito. Non aveva chiesto da dove veniva la carne fresca, né aveva ringraziato Anyanwu. L'aveva semplicemente accettata. Thomas era meno fiducioso. Aveva bevuto un po' di rum, annusato la carne che Anyanwu gli aveva offerto, ne aveva mangiucchiata un po'. «E questa da dove viene?» aveva chiesto. «La notte scorsa sono andata a caccia» aveva risposto Anyanwu. «Qui non hai niente.» «A caccia con che cosa? Col mio moschetto? Chi ti ha dato il permesso...» «Non sono andata a caccia col tuo moschetto. È lì, non vedi?» Aveva indicato l'arma, l'oggetto più pulito della capanna, appeso a un piolo vicino alla porta. «Io non vado a caccia con le armi» aveva aggiunto. Lui si era alzato lo stesso per controllare il moschetto. Quando era stato soddisfatto, era andato a mettersi vicino a lei, costringendola col suo lezzo a respirare il minimo indispensabile. «Con che cosa sei andata a caccia, allora?» aveva chiesto. Non era un uomo robusto, ma a volte, come in quel momento, parlava con una voce profonda e tonante. «Che cosa hai usato?» ripeté. «Le unghie e i denti?» «Sì» aveva risposto Anyanwu a bassa voce.
Lui l'aveva fissata per un attimo, sbarrando improvvisamente gli occhi. «Un felino» aveva sussurrato. «Da donna a gatta e poi di nuovo a donna. Ma come...?» Doro le aveva spiegato che dal momento che quell'uomo non aveva mai completato la transizione, non aveva alcun controllo sulle proprie facoltà. Non poteva guardare di proposito nei pensieri di Anyanwu, ma non poteva neppure impedirsi di guardarvi. Anyanwu era vicina a lui e i suoi pensieri, a differenza di quelli di Doro, erano aperti e privi di protezione. «Ero un leopardo» aveva detto semplicemente. «Posso diventare qualunque cosa. Devo mostrartelo?» «No!» «È simile a quello che fai tu» lo aveva rassicurato. «Tu puoi vedere quello che penso. Io posso cambiare forma. Perché non vuoi mangiare la carne? È molto buona.» Lo avrebbe lavato, aveva deciso. Quel giorno lo avrebbe lavato e avrebbe cominciato a curare le piaghe. Il fetore era intollerabile. Lui aveva afferrato la sua porzione di cibo e l'aveva gettata nel fuoco. «Cibo da strega!» aveva brontolato, e si era portato la brocca alle labbra. Anyanwu aveva represso l'impulso di lanciare nel fuoco il rum. Invece si era alzata e glielo aveva tolto dalle mani appena lui aveva abbassato la brocca. Thomas non aveva tentato di impedirglielo. Lei aveva messo da parte il rum e lo aveva affrontato. «Siamo tutti delle streghe» aveva detto. «Tutto il popolo di Doro. Perché mai dovrebbe accorgersi di noi se fossimo normali?» Si strinse nelle spalle. «Vuole un figlio da noi perché non sarà normale.» Lui non aveva replicato. Si era limitato a fissarla con inconfondibile sospetto e avversione. «Ho visto quello che sai fare» aveva continuato lei. «Continui a captare i miei pensieri, sapendo quello che non dovresti sapere. Ora ti mostrerò quello che so fare io.» «Non voglio...» «Vederlo te lo farà apparire più reale. Non è uno spettacolo orribile. Non divento brutta. La maggior parte dei cambiamenti avviene dentro di me.» Mentre parlava, si era spogliata. Non era necessario. Poteva sgusciare fuori dei vestiti mentre si trasformava, liberarsene come un serpente si libera della pelle, ma voleva muoversi molto lentamente per quell'uomo. Non si aspettava che la sua nudità lo eccitasse. L'aveva vista svestita la notte precedente e si era voltato dall'altra parte addormentandosi, lasciandola libera di andare a caccia. Lei aveva il sospetto che fosse impotente. Aveva reso il
proprio corpo snello e giovane per lui, sperando di ricevere dentro di sé il suo seme e di potersene andare presto, ma la notte precedente l'aveva convinta che lì aveva da fare più del previsto. E se l'uomo fosse stato impotente, tutto quello che avrebbe fatto forse non sarebbe bastato. Che avrebbe fatto Doro, allora? Si era trasformata con molta lentezza, aveva assunto la forma di leopardo, tenendo sempre il proprio corpo fra Thomas e la porta. Fra Thomas e il fucile. Era stato saggio, perché quando aveva finito, quando aveva stirato il piccolo corpo possente da felino e sfoderato gli artigli, lasciando i segni nel pavimento di terra battuta, lui si era tuffato verso il fucile. Con gli artigli sguainati, Anyanwu lo aveva costretto ad arretrare. Thomas aveva gridato e si era ritratto da lei. A giudicare dall'atteggiamento, con il braccio sollevato a proteggere la gola e gli occhi dilatati, sembrava aspettarsi che gli balzasse addosso. Si aspettava di morire. Invece, lei si era avvicinata lentamente, con il corpo rilassato. Facendo le fusa, gli aveva sfregato la testa contro il ginocchio. Lo aveva guardato dal basso, aveva visto il braccio abbassarsi dalla gola. Gli aveva strofinato il mantello contro la gamba e aveva continuato a fare le fusa. Alla fine, quasi involontariamente, la mano di lui le aveva sfiorato la testa, in una carezza esitante. Dopo essersi lasciata grattare il collo — che non le dava prurito — mentre lui mormorava fra sé: «Mio Dio!», Anyanwu si era scostata, era andata a prendere un pezzo di cacciagione e glielo aveva portato. «Non lo voglio!» aveva esclamato lui. Lei aveva cominciato a ringhiare, con un suono basso, di gola. Thomas era indietreggiato, ma così facendo si era ritrovato addossato alla rozza parete di tronchi. Quando Anyanwu lo aveva seguito, non gli era rimasto altro spazio dove rifugiarsi. Lei aveva tentato di mettergli la carne in mano, ma lui aveva ritirato la mano di scatto. Infine, sempre tenendo la carne fra i denti, Anyanwu aveva lanciato un profondo ruggito. Thomas era scivolato a terra terrorizzato, fissandola. Lei gli aveva lasciato cadere la carne in grembo e aveva ruggito di nuovo. Lui l'aveva presa e aveva mangiato: per la prima volta da chissà quanto tempo, si disse Anyanwu. Se voleva uccidersi, perché lo stava facendo in quel modo lento e terribile, lasciandosi marcire vivo? Oh, quel giorno lo avrebbe lavato e avrebbe cominciato a curarlo. Se voleva davvero morire, che s'impiccasse e la facesse finita. Quando ebbe finito la cacciagione, lei ridiventò donna e si rivestì con calma sotto i suoi occhi.
«L'ho visto» aveva mormorato Thomas dopo un lungo silenzio. «Ho visto il tuo corpo cambiare dentro. Tutto trasformato...» Aveva scosso la testa senza capire, poi aveva chiesto: «Potresti diventare bianca?» La domanda l'aveva sorpresa. Gli importava davvero tanto del suo colore? Di solito il popolo di Doro non vi badava. Avevano quasi tutti delle origini troppo miste per guardare con alterigia qualcuno. Anyanwu non conosceva le origini di quell'uomo, ma era sicura che non fosse bianco come sembrava convinto di essere. Le caratteristiche indiane erano troppo marcate. «Non sono mai diventata bianca» aveva risposto. «A Wheatley mi conoscono tutti. Chi potrei ingannare... e perché dovrei farlo?» «Non ti credo» aveva ribattuto lui. «Se potessi diventare bianca, lo faresti.» «Perché?» Lui l'aveva fissata con ostilità. «Io sono contenta così» aveva detto alla fine Anyanwu. «Se devo diventare bianca qualche giorno per sopravvivere, divento bianca. Se devo diventare un leopardo per andare a caccia e uccidere, divento un leopardo. Se devo viaggiare in fretta sulla terra, mi trasformo in una grande aquila. Se devo attraversare il mare, divento un pesce.» Sorrise leggermente. «Un delfino, magari.» «Diventerai bianca per me?» aveva chiesto Thomas. La sua ostilità era svanita mentre lei parlava. Sembrava crederle. Forse leggeva nei suoi pensieri. Se era così, non li leggeva abbastanza chiaramente. «Penso che dovrai accettare, in un modo o nell'altro, che sono nera» aveva replicato lei, ostile a sua volta. «Questo è il mio aspetto. Nessuno mi ha mai detto che sono brutta.» Lui aveva sospirato. «No, non lo sei. Almeno a una certa distanza. È solo che...» Si era interrotto, umettandosi le labbra. «Pensavo soltanto che saresti potuta diventare simile a mia moglie... solo per un po'.» «Hai una moglie?» Lui si era grattato una piaga coperta da una crosta sul braccio. Anyanwu la intravedeva attraverso un buco nella manica, e le sembrava che non stesse guarendo bene. La carne intorno alla crosta era molto rossa e gonfia. «Avevo una moglie» le aveva risposto lui. «Una bella ragazzona con i capelli biondi come l'oro. Penso che sarebbe andato tutto bene, se non avessimo abitato in una città e non avessimo avuto dei vicini. Lei non apparteneva al popolo di Doro, ma lui mi aveva permesso di sposarla. Mi a-
veva dato soldi sufficienti per comperare della terra, avviare una piantagione di tabacco. Pensavo che le cose sarebbero andate bene.» «Lei sapeva che potevi leggere i suoi pensieri?» Le aveva lanciato un'occhiata sprezzante. «Se lo avesse saputo, mi avrebbe sposato? Lei o chiunque altra?» «Una del popolo di Doro, forse sì. Una che sapesse sentire i pensieri anche lei.» «Non capisco di che cosa parli» le aveva risposto lui con amarezza. Il suo tono l'aveva fatta riflettere, le aveva fatto ricordare che alcuni degli elementi più terribili del popolo di Doro erano come Thomas. Non erano altrettanto sensibili, forse. Vivere in città non sembrava infastidirli. Ma bevevano troppo, litigavano e maltrattavano o trascuravano i figli e a volte si uccidevano l'un l'altro prima che Doro passasse a prendere il loro corpo. Thomas, probabilmente, aveva fatto bene a sposare una donna più comune. «Perché tua moglie se n'è andata?» aveva domandato. «E perché, secondo te? Non riuscivo a restare fuori dei suoi pensieri più di quanto riesca a stare fuori dai tuoi. Tentavo di non farglielo capire, ma a volte le cose mi arrivavano con tanta chiarezza... Rispondevo, pensando che avesse parlato a voce alta, invece non era così e lei non capiva e...» «E si spaventava.» «Dio, sì. Dopo un po', era terrorizzata. Tornò a casa dai genitori e non volle nemmeno vedermi quando andai a cercarla. Immagino di non poterla biasimare. Dopo ci sono state solo... donne come te, che mi porta Doro.» «Non siamo tanto male. Io non lo sono.» «Non vedi l'ora di andartene lontano da me!» «Tu che cosa proveresti per una donna coperta di sudiciume e di piaghe?» Lui aveva battuto le palpebre, si era guardato. «Immagino che sarai abituata meglio!» «Certo che lo sono! Lascia che ti aiuti e starai meglio. Di sicuro non eri così, con tua moglie.» «Tu non sei lei!» «No. Lei non poteva aiutarti. Io sì.» «Non ti ho chiesto...» «Ascolta! Lei è fuggita lontano da te perché sei di Doro. Sei uno stregone e lei era spaventata e disgustata. Io non sono spaventata né disgustata.»
«Non avresti nessun diritto di esserlo» borbottò lui imbronciato. «Sei più strega di quanto mai lo sarò io. Non riesco ancora a credere a quello che ti ho visto fare.» «Se i miei pensieri ti arrivano anche solo per una parte del tempo, dovresti credere a quello che faccio e a quello che dico. Non ti ho detto bugie. Sono una guaritrice. Vivo da più di 350 anni. Ho visto lebbra, tumori enormi che procurano sofferenze atroci e bambini nati con un enorme buco al posto della faccia e altri mali. Tu non sei certo lo spettacolo peggiore che ho visto in vita mia.» Lui l'aveva fissata, aveva corrugato intensamente la fronte come per raggiungere un'idea che gli sfuggiva. Le era venuto in mente che stava tentando di leggerle nel pensiero. Alla fine, però, era sembrato che si desse per vinto. Si era stretto nelle spalle e aveva sospirato. «Sei riuscita ad aiutare qualcuno di quegli altri?» «A volte ci sono riuscita. A volte posso far scomparire tumori pericolosi o aprire occhi ciechi o guarire piaghe che non guariscono da sole...» «Non puoi mandar via le voci o le visioni, vero?» «I pensieri che ti arrivano dagli altri?» «Sì, e quello che "vedo". A volte non riesco a distinguere la realtà dalle visioni.» Lei aveva scosso la testa con tristezza. «Vorrei poterlo fare. Ho visto altri tormentati come te. Sono qualcosa di più di quello che il tuo popolo chiama un medico. Molto di più. Ma non sono abile come vorrei davvero essere. Penso di avere una pecca, come te.» «Tutti i figli di Doro hanno una pecca: idoli con i piedi d'argilla.» Anyanwu aveva afferrato il riferimento. Aveva letto il libro sacro della sua nuova terra, la Bibbia, nella speranza di migliorare la comprensione della gente che la circondava. A Wheatley, Isaac diceva alla gente che lei stava diventando cristiana. Alcuni di loro non capivano che scherzava. «Io non sono nata da Doro» aveva detto a Thomas. «Sono quello che lui chiama "seme selvaggio". Ma non fa differenza. Ho comunque una pecca.» Lui l'aveva guardata per un attimo, poi aveva abbassato gli occhi a terra. «Be', io non ho la pecca che tu credi.» Aveva parlato a voce bassissima. «Non sono impotente.» «Bene. Se lo fossi e Doro lo scoprisse... potrebbe decidere che non gli servi più.» Era stato come se avesse detto qualcosa di sorprendente. Lui era trasalito, l'aveva scrutata in un modo che l'aveva indotta a ritrarsi allarmata, poi
aveva chiesto: «Ma che cosa c'è in te? Come puoi curarti di quello che mi succede? Come puoi lasciare che Doro ti usi come una vacca da monta? E con me, poi! Tu non sei come gli altri.» «Hai detto che ero una cagna. Una cagna nera.» Malgrado lo strato di sporco, lo aveva visto arrossire. «Ti chiedo scusa» aveva detto lui dopo parecchi istanti. «Bene. Per poco non ti ho colpito quando lo hai detto, e sono molto forte.» «Non ne dubito.» «M'importa di quello che Doro mi fa. Lui sa che me ne importa. Glielo dico.» «Di solito la gente non lo fa.» «Sì. Ecco perché sono qui. Per me le cose non sono giuste semplicemente perché lui dice che lo sono. Non è il mio dio. Mi ha portato da te come punizione per il mio sacrilegio.» Aveva sorriso. «Ma non capisce che preferisco andare a letto con te che con lui.» Thomas era rimasto muto così a lungo che lei aveva allungato il braccio e gli aveva sfiorato la mano, preoccupata. Lui l'aveva guardata, aveva sorriso senza scoprire i denti guasti. Non lo aveva mai visto sorridere prima di allora. «Sii prudente» le aveva detto. «Doro non deve mai scoprire quanto lo odi.» «Lo sa da anni.» «E sei ancora viva? Devi essere molto preziosa.» «Evidentemente» aveva riconosciuto lei in tono amaro. Lui aveva sospirato. «Dovrei odiarlo anch'io. Non so perché, non posso. Ma... penso di essere contento che tu lo odi. Non avevo mai conosciuto nessuno che lo odiasse.» Aveva esitato di nuovo, levando su di lei gli occhi neri come la notte. «Solo, sii prudente.» Lei aveva annuito, pensando che le ricordava Isaac. Anche lui l'ammoniva sempre di essere prudente. Poi Thomas si era alzato ed era andato alla porta. «Dove vai?» gli aveva chiesto. «Al ruscello là fuori, a lavarmi.» Di nuovo quel sorriso, esitante. «Pensi davvero di potermi curare queste piaghe? Alcune le ho da molto tempo.» «Posso guarirle. Torneranno, però, se non resti pulito. E smetti di bere tanto. Mangia qualcosa!» «Non so se sei qui per concepire un bambino o per farmi tornare come un bambino!» aveva brontolato lui, e si era chiuso la porta alle spalle.
Anyanwu era uscita a fabbricarsi una rudimentale scopa di fuscelli. Aveva spazzato fuori della capanna il mucchio di rifiuti, poi aveva lavato tutto quello che si poteva lavare. Non sapeva che fare per i vermi. Le pulci da sole erano già terribili. Se avesse potuto fare a modo suo, avrebbe bruciato la capanna per costruirne un'altra. Ma probabilmente Thomas non avrebbe approvato. Aveva pulito e pulito e pulito ancora, ma quella piccola capanna terribile non le andava proprio a genio. Non c'erano panni puliti, non c'era nessun vestito pulito per Thomas. Alla fine, lui era rientrato indossando gli stessi stracci sudici sulla pelle chiara, sfregata fin quasi alla carne viva. Era sembrato profondamente imbarazzato quando Anyanwu aveva cominciato a strappargli di dosso gli stracci. «Non essere idiota» gli aveva detto. «Quando comincerò a curarti quelle piaghe, non avrai tempo per la vergogna, né per nient'altro.» Lui aveva avuto un'erezione. Per quanto macilento e malato fosse il suo corpo, non era impotente, come aveva detto. «Bene bene» aveva mormorato Anyanwu con gentile divertimento. «Prendi il tuo piacere subito e il dolore dopo.» Le dita goffe di Thomas avevano cominciato ad armeggiare con i suoi vestiti, ma si erano fermate di colpo. «No!» aveva gridato, come se il dolore dovesse venire per primo, dopo tutto. «No.» Le aveva voltato le spalle. «Ma... perché?» Anyanwu gli aveva posato una mano sulla spalla. «Tu lo vuoi, e va tutto bene. Per quale altro motivo sono qui?» Lui aveva parlato a denti stretti come se ogni parola lo facesse soffrire. «Hai ancora tanta fretta di allontanarti da me? Non puoi restare ancora un po'?» «Ah.» Anyanwu gli aveva massaggiato la spalla, sentendo sporgere le ossa sotto il sottile strato di carne. «Le donne accolgono il tuo seme e ti lasciano appena possibile.» Lui non aveva parlato. Anyanwu gli si era avvicinata. Era più basso di Isaac, più piccolo della maggior parte dei corpi maschili che Doro le portava. Era strano guardare un uomo negli occhi senza alzare la testa. «Sarà così anche per me» aveva detto. «Io ho un marito. Ho dei figli. E inoltre... Doro sa con quanta facilità riesco a concepire. Con lui faccio presto di proposito. Devo ricevere il tuo seme e lasciarti. Ma non ti lascerò oggi.» Lui l'aveva fissata per un attimo, con gli occhi neri intenti, come se ancora una volta stesse cercando di controllare la sua abilità, di sentire i pen-
sieri di Anyanwu, ora che voleva sentirli. Lei si era sorpresa a sperare che suo figlio — il figlio di Thomas — avesse quegli occhi. Erano l'unica cosa in lui che non avesse bisogno di pulizia o di guarigione per svelare la propria bellezza. Era sorprendente, considerato quanto beveva. L'aveva afferrata bruscamente, come se gli fosse appena venuto in mente che poteva farlo, e l'aveva tenuta stretta per lunghi istanti prima di condurla verso il lettuccio scheggiato. Doro era rientrato ore dopo, portando farina, zucchero, caffè, farina di granturco, sale, uova, burro, piselli secchi, frutta e verdura fresca, coperte, stoffa da cui si potevano ricavare dei vestiti e, incidentalmente, un corpo nuovo. Aveva comprato o rubato il piccolo carro rudimentale di qualcuno per trasportare il carico. «Grazie» gli aveva detto Anyanwu con aria grave, desiderando fargli capire che la sua gratitudine era autentica. Era raro, in quei giorni, che facesse quanto gli chiedeva. Si era domandata come mai quella volta si fosse disturbato a farlo. Di sicuro il giorno prima non ne aveva l'intenzione. Poi lo aveva visto guardare Thomas. Il bagno aveva operato il cambiamento più evidente nell'aspetto di Thomas, e Anyanwu lo aveva rasato, gli aveva tagliato gran parte dei capelli e pettinato gli altri. Ma c'erano anche cambiamenti più sottili. Thomas sorrideva, stava aiutando a portare le provviste nella capanna invece di starsene in disparte apatico, invece di brontolare contro Anyanwu quando gli passava accanto, con le braccia cariche. «E adesso» aveva detto, beatamente indifferente allo sguardo di Doro fisso su di lui «adesso vedremo come sai cucinare, Donna di Sole.» «Quello stupido soprannome» aveva pensato lei disperata. Perché l'aveva chiamata così? Doveva averglielo letto nel pensiero. Non gli aveva rivelato che era il nome inventato da Doro per lei. Doro aveva sorriso. «Non avrei mai pensato che lo sapessi fare così bene» le aveva detto. «Ti avrei portato prima i miei malati .» «Sono una guaritrice» aveva replicato lei. Il sorriso di Doro la terrorizzava, per il bene di Thomas. Era un sorriso tutto denti e niente umorismo. «Ho concepito» aveva annunciato, anche se non aveva progettato di dirglielo prima di alcuni giorni, o forse settimane. Tutt'a un tratto, però, voleva allontanarlo da Thomas. Conosceva Doro. Nel corso degli anni era arrivata a conoscerlo molto bene. L'aveva data a un uomo che, sperava, le avrebbe ispirato repulsione, per farle capire quanto fosse stata fortunata fino
a quel momento. Invece lei aveva cominciato subito ad aiutare l'uomo, risanandolo in modo che alla fine non avrebbe ispirato repulsione a nessuno. Chiaramente, non era stata punita. «Di già?» aveva detto Doro con finta sorpresa. «Allora ce ne andiamo?» «Si.» Lui aveva lanciato un'occhiata alla capanna in cui si trovava Thomas. Anyanwu aveva fatto il giro del carro per afferrare Doro per le braccia. In quel momento lui aveva il corpo di un bianco molto giovane dalla faccia rotonda. «Perché hai portato le provviste?» aveva domandato. «Tu le volevi» aveva risposto Doro in tono ragionevole. «Per lui. In modo che potesse guarire.» «E ora vuoi lasciarlo prima che la guarigione sia completa.» Thomas era uscito dalla capanna e li aveva visti vicini. «C'è qualcosa che non va?» aveva chiesto. Anyanwu si era accorta troppo tardi che probabilmente la sua espressione o i suoi pensieri lo avevano messo all'erta. Se solo avesse potuto leggere nel pensiero di Doro... «Anyanwu vuole tornare a casa» aveva detto Doro in tono blando. Thomas l'aveva fissata con incredulità e dolore. «Anyanwu...?» Lei non sapeva che fare, cosa potesse convincere Doro che le aveva inflitto abbastanza dolore, che l'aveva punita a sufficienza. Che cosa lo avrebbe fermato, ora che aveva deciso di uccidere? Aveva guardato Doro. «Partirò con te oggi» sussurrò. «Ti prego, partirò con te subito.» «Non ancora» aveva risposto Doro. Lei aveva scosso la testa, aveva implorato disperatamente: «Doro, che cosa vuoi da me? Dimmelo e te lo darò.» Thomas si era avvicinato a loro, guardando Anyanwu, con un'espressione incerta fra collera e dolore. Lei avrebbe voluto gridargli di stare lontano. «Voglio che tu ricordi» le aveva detto Doro. «Sei arrivata a convincerti che non posso toccarti. Questo tipo di convinzione è sciocco e pericoloso.» Lei era nel bel mezzo di una guarigione. Aveva sopportato le offese di Thomas. Aveva tollerato di passare parte della notte vicino al suo corpo sudicio. Alla fine, era riuscita a toccare il suo cuore e a cominciare a guarirlo. Non erano soltanto le piaghe sul corpo che cercava di raggiungere. Doro non le aveva mai sottratto prima di allora un paziente nel corso della cura, mai! In un certo senso, aveva pensato che non avrebbe mai fatto una cosa simile. Era come se avesse minacciato uno dei suoi figli. E natural-
mente stava minacciando proprio i suoi figli. Stava minacciando tutto ciò che le era caro. Non aveva ancora finito con lei, evidentemente, e quindi non intendeva ucciderla. Ma poiché gli aveva fatto capire chiaramente che non lo amava, che gli obbediva solo perché lui aveva il potere, Doro sentiva la necessità di rammentarle quel potere. Se non poteva farlo dandola a un uomo crudele — visto che l'uomo smetteva capricciosamente di essere crudele — le avrebbe tolto quell'uomo proprio nel momento in cui il suo interesse per lui era più forte. E, inoltre, forse anche Doro aveva capito quello che lei aveva detto a Thomas: che preferiva dividere il suo letto che quello di Doro. Per un uomo abituato a essere adorato, quella scoperta doveva essere stata un duro colpo. Ma lei che cosa poteva fare? «Doro» lo aveva implorato «è sufficiente. Capisco. Ho sbagliato. Me ne ricorderò e mi comporterò meglio verso di te.» Ora gli stava aggrappata a tutt'e due le braccia, e chinava la testa di fronte a quel viso giovane e liscio. Dentro di sé, gridava di rabbia, paura e avversione. Esteriormente, il suo viso era inespressivo come quello di lui. Ma Doro, per pura ostinazione o fame o desiderio di ferirla, non intendeva desistere. Si era rivolto verso Thomas. E Thomas, a quel punto, aveva capito. Era indietreggiato, con l'incredulità ancora evidente nell'espressione. «Perché?» aveva detto. «Che cosa ho fatto?» «Niente!» aveva gridato Anyanwu di colpo, e le sue mani sulle braccia di Doro si erano strette all'improvviso in una morsa che Doro non avrebbe potuto spezzare con le sole forze umane. «Tu non hai fatto nient'altro, Thomas, che servirlo per tutta la vita. Ora lui non esita un secondo a gettare via la tua vita nella speranza di ferirmi. Scappa!» Per un attimo, Thomas era rimasto paralizzato. «Scappa!» aveva gridato Anyanwu. Doro aveva cominciato davvero a lottare contro di lei, senza dubbio in un riflesso istintivo di collera. Sapeva di non poter spezzare la sua morsa o sopraffarla soltanto con la forza fisica. E non voleva usare l'altra sua arma. Non aveva ancora finito con lei. Nel suo grembo c'era un figlio potenzialmente prezioso. Thomas era fuggito attraverso i boschi. «La ucciderò!» aveva gridato Doro. «La tua vita o la sua.» Thomas si era fermato, voltandosi indietro. «Sta mentendo» aveva detto Anyanwu quasi con gioia. Uomo o demonio, non poteva mentirle senza farsi scoprire. Non più. «Scappa, Thomas. Sta mentendo!»
Doro aveva tentato di colpirla, ma lei gli aveva fatto lo sgambetto e mentre lui cadeva aveva cambiato la presa sulle braccia in modo che non potesse più muoversi senza sentire dolore. Molto dolore. «Mi sarei sottomessa!» gli aveva sibilato all'orecchio. «Avrei fatto qualunque cosa!» «Lasciami andare» aveva ribattuto lui «o non vivrai neanche per sottometterti. È la verità, ora, Anyanwu. Alzati.» Nella sua voce c'era la morte, paurosamente vicina ad affiorare in superficie. Era così che risuonava quando aveva davvero intenzione di uccidere. La sua voce diventava atona e strana, e Anyanwu sentiva che la sua vera essenza, lo spirito, il ferale demone affamato, l'ogbanje maligno era pronto a balzare fuori dal corpo del giovane per entrare nel suo. Lo aveva provocato troppo. Poi Thomas le arrivò vicino. «Lascialo andare, Anyanwu» le aveva detto. Lei aveva alzato la testa di scatto, fissandolo. Aveva rischiato tutto per offrirgli la possibilità di fuggire, almeno una possibilità, e lui era tornato indietro. Aveva tentato di staccarla da Doro. «Lascialo andare, ti dico. Passerebbe dentro di te e prenderebbe me due secondi dopo. Qui non c'è nessun altro a confonderlo.» Anyanwu si era guardata attorno e aveva capito che era vero. Quando si trasferiva, Doro prendeva la persona che gli stava più vicina. Ecco perché a volte toccava le persone. In mezzo a una folla, il contatto gli consentiva di prendere la persona che aveva scelto. Se decideva di trasferirsi, però, e la persona più vicina a lui era distante cento miglia, la prendeva. La distanza non contava. Se era deciso a passare attraverso Anyanwu, poteva raggiungere Thomas. «Io non ho niente» aveva detto Thomas. «Il mio futuro è questa capanna, restare qui, invecchiare, diventare sempre più ubriaco e più pazzo. Non ho niente per cui morire, Donna di Sole, anche se la tua morte potesse salvarmi.» Con una forza molto inferiore a quella che Doro aveva nel suo nuovo corpo, l'aveva rimessa in piedi, liberando Doro. Poi l'aveva spinta dietro di sé, in modo da trovarsi più vicino a lui. Doro si era alzato lentamente, guardandoli come per sfidarli a fuggire, o spingerli a lasciarsi prendere dal panico e correre disperatamente. Dai suoi occhi non traspariva nulla di umano.
Guardandolo, Anyanwu aveva pensato che sarebbe morta comunque. Tanto lei che Thomas sarebbero morti. «Sono stato leale» gli aveva detto Thomas, come se si rivolgesse a un uomo ragionevole. Doro aveva concentrato lo sguardo su di lui. «Ti ho dato la mia lealtà» aveva ripetuto Thomas. «Non ho mai disobbedito.» Aveva scosso la testa lentamente. «Ti ho amato, pur sapendo che poteva arrivare questo giorno.» Aveva teso una mano notevolmente ferma. «Lasciala tornare a casa dal marito e dai figli» aveva detto. Senza una parola, Doro aveva afferrato quella mano. A quel contatto, il corpo giovane e sodo che aveva occupato si era accasciato al suolo e il corpo di Thomas, gracile e coperto di piaghe, era diventato un po' più eretto. Anyanwu lo aveva fissato a occhi spalancati, terrorizzata suo malgrado. In un attimo, gli occhi di un amico erano diventati occhi di demone. E ora l'avrebbe uccisa? Doro non aveva promesso niente. Non aveva offerto al suo adoratore nemmeno una parola di clemenza. «Seppelliscilo» aveva detto Doro, parlando dalla bocca di Thomas. Indicava con un gesto il suo corpo precedente. Lei era scoppiata a piangere. Vergogna e sollievo l'avevano indotta a nascondergli il viso. L'avrebbe lasciata in vita. Thomas aveva comprato la sua vita. La mano di Thomas l'aveva afferrata per la spalla e spinta verso il cadavere. Lei odiava le lacrime. Perché era tanto debole? Thomas era stato forte. Non era vissuto più di trentacinque anni, eppure aveva trovato la forza di affrontare Doro e di salvarla. Lei aveva vissuto tante volte trentacinque anni, eppure aveva pianto e avuto paura. Ecco come l'aveva ridotta Doro. E non riusciva nemmeno a capire perché lo odiasse. Era venuto a mettersi vicino a lei, e in qualche modo Anyanwu era riuscita a imporsi di non rattrappirsi impaurita. Sembrava più alto di Thomas, nel corpo di Thomas. «Non ho niente con cui scavare» aveva sussurrato lei. Non era sua intenzione sussurrare. «Usa le mani!» le aveva ordinato. Lei aveva trovato nella capanna una vanga, e un'ascia che poteva vibrare sul terreno per spezzare le zolle. Probabilmente era lo stesso arnese che Thomas aveva usato per sgrossare i tronchi della capanna. Mentre lei scavava la fossa, Doro era rimasto in piedi a guardarla. Non si era mosso per aiutarla, non aveva detto una parola, non aveva distolto lo sguardo. Quan-
do ebbe finito di scavare una fossa adatta — approssimativa e oblunga anziché rettangolare, ma abbastanza grande e profonda — Anyanwu tremava. Scavare quella tomba l'aveva stancata più di quanto avrebbe dovuto. Era un lavoro duro e lo aveva compiuto troppo in fretta. Un uomo, la cui taglia fosse stata la metà della sua, non avrebbe finito così in fretta. O forse sì, sotto la sorveglianza di Doro. A che cosa stava pensando? Aveva intenzione di ucciderla, dopo tutto? Avrebbe seppellito il corpo di Thomas insieme al precedente, senza nome, e se ne sarebbe andato rivestito della sua carne? Lei si era avvicinata al corpo del giovane, lo aveva raddrizzato e avvolto in un pezzo del tessuto portato da Doro. Poi, alla bell'e meglio, lo aveva trascinato nella fossa. Era tentata di chiedere a Doro di aiutarla, ma una sola occhiata al suo viso l'aveva dissuasa. Non l'avrebbe aiutata. Avrebbe imprecato contro di lei. Aveva rabbrividito. Non lo vedeva uccidere dal tempo del viaggio dalla sua terra natia. Lui uccideva, certo, e anche spesso. Ma lo faceva in privato. Arrivava a Wheatley con un corpo e se ne andava con un altro, ma non compiva il cambiamento in pubblico. Inoltre, di solito se ne andava subito dopo il cambiamento. Se intendeva restare in città per qualche tempo, vi restava adottando il corpo di un forestiero. Non permetteva a nessuno di dimenticare quello che era, ma i moniti erano discreti e sorprendentemente gentili. Se non lo fossero stati, pensava Anyanwu mentre riempiva la tomba, se Doro avesse ostentato il suo potere davanti agli altri come lo ostentava ora davanti a lei, perfino i suoi adoratori più fedeli si sarebbero ritratti da lui inorriditi. Il suo modo di uccidere avrebbe terrorizzato chiunque. Lei lo aveva guardato e aveva visto il viso sottile di Thomas, che aveva rasato da poco con le sue mani, a cui aveva insegnato da poco un sorrisetto a labbra strette. Aveva distolto lo sguardo, tremante. Chissà come, era riuscita a riempire la fossa. Aveva tentato di pensare a una preghiera dei bianchi da recitare per il corpo anonimo e per Thomas. Ma sotto gli occhi di Doro la sua mente si rifiutava di funzionare. Era rimasta svuotata, stanca e spaventata sull'orlo della tomba. «Ora farai qualcosa per queste piaghe» aveva ordinato Doro. «Ho intenzione di tenermi questo corpo per un po'.» Allora sarebbe vissuta, per qualche tempo! Le stava dicendo che sarebbe vissuta. Aveva incontrato il suo sguardo. «Ho già cominciato a curarle. Fanno male?» «Non molto.» «Ci ho messo la medicina.»
«Guariranno?» «Sì, se le mantieni molto pulite e mangi bene e non... non bevi come faceva lui.» Doro era scoppiato a ridere. «Curale di nuovo» aveva detto. «Voglio che guariscano il più presto possibile.» «Ma ora c'è dentro il rimedio. Non ha avuto il tempo di agire.» Non aveva voglia di toccarlo, sia pure per curarlo. Non le aveva dato fastidio toccare Thomas, era arrivata presto ad apprezzare l'uomo, malgrado le sue condizioni pietose. Se non fosse stato danneggiato dalla sua capacità incontrollata, sarebbe stato un brav'uomo. Alla fine, era stato un brav'uomo. Lei avrebbe seppellito volentieri il suo corpo, una volta che Doro lo avesse lasciato, ma non voleva toccarlo mentre lo abitava Doro. Forse lui lo intuiva. «Ti ho detto di medicarle piaghe!» le aveva ordinato. «Che altro dovrò fare per insegnarti a obbedire?» Lei lo aveva portato nella capanna, lo aveva spogliato e aveva esaminato di nuovo il corpo malaticcio e sparuto. Quando ebbe finito, Doro la fece spogliare e giacere con lui. Lei non pianse perché sapeva che gli avrebbe fatto piacere. Ma dopo, per la prima volta da secoli, si sentì assalire da una nausea irrefrenabile. 9 Nweke aveva cominciato a gridare. Doro ascoltava con calma, accettando il fatto che la sorte della ragazza sfuggisse momentaneamente al suo controllo. Non poteva fare nient'altro che attendere e ricordare a se stesso quello che aveva detto Anyanwu. Non aveva mai perso nessuno, affidato alle sue cure, che affrontasse la transizione. Era improbabile che guastasse quel primato con la morte di uno dei suoi figli. E Nweke era forte. Tutti i figli di Anyanwu erano forti. Quello era importante. L'esperienza personale di Doro con la transizione gli aveva insegnato il rischio della debolezza. Per sfuggire all'ansia per Nweke, lasciò vagare il pensiero all'indietro fino al tempo della propria transizione. La ricordava in modo molto nitido. C'erano lunghi anni successivi che non riusciva a rammentare, ma l'infanzia e la transizione che aveva concluso quel periodo della sua vita erano ancora nitidi. Era stato un bambino malaticcio e stentato, l'ultimo di dodici figli e l'unico che fosse sopravvissuto. Proprio l'ideale per il nome che a volte gli
dava Anyanwu: ogbanje. La gente diceva che i fratelli e le sorelle erano stati bimbi robusti dall'aria sana, ed erano morti. Lui era nato macilento, minuto e strano, e soltanto i genitori sembravano trovare giusto che fosse sopravvissuto La gente mormorava su di lui. Diceva che era qualcosa di diverso da un bambino: uno spirito. Si mormorava che non fosse figlio del marito di sua madre. La madre lo aveva protetto come meglio poteva finché era molto piccolo, e il padre — se quell'uomo era davvero il padre — lo aveva rivendicato come suo ed era stato contento di avere un figlio maschio. Era povero e aveva ben poco d'altro. I genitori erano l'unico lato buono che riuscisse a ricordare della sua fanciullezza. Entrambi lo avevano amato e coccolato in modo straordinario, dopo undici figli morti da piccoli. Gli altri lo avevano evitato il più possibile. Il suo era un popolo di uomini alti e imponenti, nubiani, come sarebbero stati chiamati molto tempo dopo. Era apparso subito evidente che Doro non sarebbe mai stato alto o imponente. Alla fine, divenne chiaro che era anche posseduto. Udiva voci. Cadeva al suolo dibattendosi in preda alle convulsioni. Parecchie persone, temendo che potesse scatenare contro di loro i suoi demoni, volevano ucciderlo, ma, in un modo o nell'altro, i genitori lo avevano protetto. Anche in quel caso, non sapeva come. Ma c'era ben poco, forse niente, che non avrebbero fatto per salvarlo. Aveva tredici anni quando era stato colpito dalla terribile sofferenza della transizione. Ora sapeva che era troppo presto. Che lui sapesse, nessuna delle sue streghe si era salvata, quando la transizione era arrivata così presto. Ma, a differenza di tutti coloro che era riuscito ad allevare fino a quel momento, non era neppure morto del tutto. Era morto il suo corpo e, per la prima volta, lui si era trasferito nel corpo vivente più vicino al suo. Era il corpo della madre, in grembo alla quale aveva posato la testa. Si era ritrovato a guardare dall'alto se stesso — il proprio corpo — e non aveva capito. Aveva urlato. Terrorizzato, aveva tentato di fuggire. Il padre lo aveva fermato, lo aveva trattenuto, aveva voluto sapere che cosa era successo. Lui non aveva saputo rispondere. Aveva abbassato gli occhi, si era visto i seni da donna, il corpo da donna, ed era stato preso dal panico. Senza sapere come o cosa faceva, si era trasferito di nuovo, stavolta nel corpo del padre. Nel suo villaggio in riva al Nilo, un tempo tranquillo, aveva ucciso e ucciso e ucciso. Alla fine, i nemici dei suoi concittadini li avevano involontariamente liberati di lui. Degli scorridori egiziani lo avevano catturato durante un attacco al villaggio. A quel punto, lui si trovava nel corpo di una
fanciulla, una delle sue cugine. Forse aveva ucciso anche alcuni egiziani. Lo sperava. Il suo popolo era vissuto senza interferenze da parte degli egiziani per quasi due secoli, mentre l'Egitto era in preda al caos. Ma ormai l'Egitto era alla riscossa, e voleva terreno, risorse minerarie, schiavi. Doro sperava di averne uccisi molti. Non lo avrebbe mai saputo. I suoi ricordi si arrestavano all'arrivo degli egiziani. C'era un vuoto, di cui in seguito aveva calcolato la durata in una cinquantina di anni, prima che ritornasse in sé e scoprisse di essere stato gettato in una prigione egiziana, scoprisse che in quel momento occupava il corpo di uno straniero di mezza età, scoprisse che era nello stesso tempo qualcosa di più e qualcosa di meno di un uomo, scoprisse che non poteva avere e fare assolutamente niente. Aveva impiegato anni a stabilire in modo approssimativo per quanto tempo avesse perso la coscienza di sé. C'era voluto ancora di più per scoprire con precisione dove si fosse trovato il suo villaggio e per apprendere che non esisteva più. Non aveva mai ritrovato nessuno dei suoi parenti, nessuno del villaggio. Era assolutamente solo. Infine aveva cominciato a rendersi conto che alcune uccisioni gli procuravano un piacere maggiore di altre. Alcuni corpi lo sostentavano più a lungo. Studiando le proprie reazioni aveva capito che età, razza, sesso, aspetto fisico e, salvo casi estremi, salute, non influivano sul suo apprezzamento delle vittime. Poteva prendere chiunque, e lo faceva. Ma ciò che gli dava il massimo piacere era una dote che era arrivato a definire stregoneria o potenziale attitudine alla stregoneria. Cercava persone spiritualmente affini a lui, possedute o folli o anche solo un po' strane. Udivano voci, avevano visioni o altro. Lui non faceva più nessuna di quelle cose, dal giorno della transizione. Ma si alimentava di coloro che le facevano. Aveva imparato a individuarli senza sforzo, come se seguisse l'aroma del cibo. Poi aveva imparato a radunarli nelle riserve, ad allevarli, a fare in modo che fossero protetti e accuditi. Essi, a loro volta avevano imparato ad adorarlo. Dopo una sola generazione, erano suoi. Questo non lo aveva capito, ma lo aveva accettato. Alcuni di loro sembravano captarlo con la stessa chiarezza con cui Doro sentiva la loro presenza. Il loro potere magico li avvertiva, ma non sembrava mai in grado di farli fuggire come sarebbe stato ragionevole. Invece accorrevano da lui, gareggiavano per ottenere la sua attenzione, lo amavano come dio padre, compagno, amico. Aveva imparato a preferire la loro compagnia a quella di persone più normali. Aveva scelto fra loro i suoi compagni e limitato le uccisioni agli altri. Pian piano, aveva creato gli Isaac, le Anneke, i suoi figli migliori. Li
amava come loro amavano lui. Lo accettavano come le persone normali non potevano fare, gioivano di lui, provavano poco o punto timore di lui. In un certo senso, era come se replicasse in ogni generazione la propria storia. I figli migliori lo amavano senza limiti, come avevano fatto i genitori. Gli altri, come gli abitanti del suo villaggio, lo vedevano attraverso il filtro delle loro varie superstizioni, anche se, almeno in quel caso, le superstizioni erano favorevoli a lui. E in quella situazione non erano i suoi cari a saziare la sua fame. Sceglieva dai vari insediamenti gli altri, come frutti dolci e maturi, e teneva i suoi favoriti al riparo da tutto, tranne malattie, vecchiaia, guerre e a volte gli effetti pericolosi delle loro stesse capacità. Di tanto in tanto, quell'ultima eventualità lo costringeva a uccidere uno degli esemplari speciali. Uno di loro, inebriato dal suo stesso potere, faceva sfoggio delle sue doti, attirava l'attenzione su di sé e metteva a repentaglio gli altri. Un altro rifiutava di obbedire. Un altro ancora semplicemente impazziva. Accadeva. Erano quelle le uccisioni che avrebbe dovuto apprezzare di più. Certamente, a livello sensoriale, erano le più piacevoli. Ma nella mente di Doro quelle uccisioni erano troppo simili a ciò che aveva fatto accidentalmente ai genitori. Non teneva mai a lungo quei corpi. Evitava coscientemente gli specchi finché non riusciva a trasferirsi un'altra volta. In quei momenti, più che in altri, si sentiva di nuovo assolutamente solo, solo per sempre, col desiderio insostenibile di morire e farla finita. Che senso aveva, si domandava, possedere tutto tranne la fine? Le persone come Isaac, e fra poco Nweke, non sapevano fino a che punto erano al sicuro da lui. Le persone come Anyanwu — "seme selvaggio" buono e stabile — non sapevano fino a che punto erano al sicuro, anche se per Anyanwu era troppo tardi. Troppo tardi da anni, malgrado le suppliche occasionali di Isaac. Doro non voleva più quella donna, non voleva il suo sguardo di condanna, il suo odio silenzioso, quasi palpabile, la sua presenza longeva e immusonita. Appena non fosse stata più di utilità a Isaac, sarebbe morta. Isaac passeggiava avanti e indietro per la cucina, irrequieto e spaventato, incapace di escludere dalla mente il suono delle grida di Nweke. Gli riusciva difficile non andare da lei. Sapeva che non c'era niente che potesse fare, nessun aiuto che potesse dare. Le persone che affrontavano la transizione non reagivano bene a lui. Anyanwu poteva tenerle abbracciate e coccolarle e diventare per loro come una madre, che lo fosse o meno. E loro,
nella sofferenza, si aggrappavano a lei. Invece, se Isaac tentava di confortarle, reagivano. Lui non lo aveva mai capito. Eppure sembrava che fosse abbastanza simpatico a tutti loro, prima e dopo la transizione. Nweke lo amava. Era cresciuta chiamandolo padre, pur sapendo che non era suo padre, e senza mai badarci. Non era neanche figlia di Doro, ma Isaac le voleva troppo bene per dirglielo. In quel momento desiderava ardentemente stare con lei per far cessare le grida e scacciare il dolore. Si sedette di schianto e guardò verso la camera da letto. — Si rimetterà benissimo — disse Doro dalla tavola dove stava mangiando un dolce che Issac aveva trovato per lui. — Come fai a saperlo? — lo sfidò Isaac. — Ha sangue buono. Se la caverà. — Ho sangue buono anch'io, ma per poco non morivo. — Sei qui — osservò Doro in tono pacato. Isaac si passò una mano sulla fronte. — Non mi sentirei tanto nervoso nemmeno se avesse le doglie del parto. È una creaturina così piccola, così simile ad Anyanwu. — Anche più piccola — disse Doro. Guardò Isaac, sorrise come a uno scherzo segreto. — Sarà la tua prossima Anyanwu, non è vero? — chiese Isaac. — Sì. — Doro non cambiò espressione. Il sorriso rimase imperturbabile. — Non è all'altezza — disse Isaac. — È una ragazza bellissima e vivace. Dopo stanotte, sarà una ragazza potente. Ma tu hai detto che conserverà una parte della capacità di leggere nel pensiero. — Credo di sì. — Uccide. — Isaac fissò la porta della camera da letto, immaginando la giovane figliastra preferita diventare crudele e amareggiata come il fratello Lale, che era morto da tempo, come la madre che si era impiccata. — Quel dono uccide — ripeté con tristezza. — Forse non uccide subito, ma uccide. — Povera Nweke. Neppure la transizione avrebbe posto fine alla sua sofferenza. Doveva augurarle la vita o la morte? E cosa doveva augurare alla madre? — Ho avuto altri elementi abili nella comunicazione mentale come lo sei tu nello spostare oggetti — obiettò Doro. — Anneke, per esempio. — Pensi che lei sarà come Anneke? — Completerà la transizione. Avrà un certo controllo. — È imparentata con Anneke?
— No. — Il tono di Doro indicava che non desiderava discutere le origini di Nweke. Isaac cambiò approccio. — Anyanwu ha un perfetto controllo di ciò che fa — osservò. — Sì, entro i limiti delle sue capacità. Ma è selvaggia. Sono stanco delle sforzo necessario per controllarla. — Ah, sì? Nweke aveva smesso di gridare. La stanza fu improvvisamente tranquilla e silenziosa, a parte le due parole di Isaac. Doro finì di mandare giù il dolce. — Tu hai qualcosa da dire? — Che sarebbe stupido ucciderla. Che sarebbe uno spreco. Doro lo guardò, con uno sguardo che Isaac aveva imparato a riconoscere, uno sguardo che lo autorizzava a dire ciò che Doro non intendeva ascoltare da altri. Con gli anni, l'utilità e la lealtà di Isaac gli erano valse il diritto di dire quello che sentiva, e di essere ascoltato, anche se il suo consiglio non sarebbe stato necessariamente seguito. — Non te la porterò via — disse Doro con calma. Isaac annuì. — Se lo facessi, non vivrei a lungo. — Si strofinò il petto. — Ho qualcosa che non va al cuore. Lei prepara un rimedio per curarlo. — Al cuore! — Se ne occupa lei. Dice che non ha intenzione di restare vedova. — Io... pensavo che potesse aiutarti un po'. — Mi aiutava "un po'" vent'anni fa. Quanti figli ti ho procreato, negli ultimi venti anni? Doro non parlò. Guardò Isaac senza espressione. — Ha aiutato entrambi — disse Isaac. — Che cosa vuoi? — chiese Doro. — La sua vita. — Isaac fece una pausa, ma Doro non disse niente. — Lasciala vivere. Dopo un po' di tempo si risposerà. Lo fa sempre. Allora avrai altri figli da lei. È capace di riprodurre se stessa, dopo tutto. Qualcosa che nemmeno tu hai mai visto prima d'ora. — Una volta ho avuto un'altra guaritrice. — È vissuta fino a trecento anni? Ha avuto decine di figli? Era capace di cambiare forma a suo piacimento? — Era un uomo. E la risposta a tutt'e tre le domande è no. No. — Allora tienila in vita. Se ti infastidisce, ignorala per un po'. Ignorala per venti o trent'anni. Che differenza può fare per te, o per lei? Quando tornerai sarà cambiata, in un senso o nell'altro. Ma non ucciderla, Doro. Non commettere l'errore di ucciderla.
— Non la voglio e non ne ho più bisogno. — Ti sbagli. Ne hai bisogno. Perché se la lasci sola non morirà e non si lascerà uccidere. Non è temporanea. Tu non hai ancora accettato questa realtà. Quando lo farai, e quando ti prenderai la pena di riconquistarla, non sarai mai più solo. — Non sai di che cosa parli! Isaac si alzò, si avvicinò al tavolo per guardare Doro dall'alto. — Se non conosco voi due e le vostre esigenze io, chi può conoscerle? Lei è proprio quello che fa per te: non tanto potente da doverti preoccupare di lei, eppure abbastanza potente da provvedere a se stessa e agli altri da sola. Potreste non vedervi per anni di fila, ma finché sarete vivi entrambi, nessuno dei due sarà solo. Doro aveva cominciato a guardare Isaac con maggiore interesse, inducendolo a chiedersi se fino a quel momento era stato davvero troppo fossilizzato nel suo modo di vivere per rendersi conto del valore della donna. — Hai detto che sapevi del padre di Nweke — osservò Doro. Isaac annuì. — Me lo ha detto Anyanwu. Era così furente e frustrata... penso che avesse bisogno di parlarne a qualcuno. — Qual è la tua opinione? — Che differenza fa? — domandò Isaac. — Perché riportarlo a galla adesso? — Rispondi. — E va bene. — Isaac si strinse nelle spalle. — Ho detto che ti conoscevo, e conoscevo lei, quindi non mi ha sorpreso quello che hai fatto. Siete tutti e due ostinati, a volte anche vendicativi. Lei ti ha fatto infuriare e ti ha frustrato per anni. Tu hai tentato di renderle la pariglia. Ogni tanto lo fai, e questo non fa che rinfocolare la sua ira. L'unica persona da commiserare è l'uomo, Thomas. Doro inarcò un sopracciglio. — Era fuggito. Si era schierato con lei. Aveva esaurito la sua utilità. Isaac udì la minaccia sottintesa e affrontò Doro con fastidio. — Pensi proprio che sia necessario? — chiese in tono pacato. — Sono tuo figlio, non sono "seme selvaggio", non sono malato, non sono rimasto arenato a metà della transizione. Non potrei mai odiarti o fuggire da te, qualsiasi cosa tu faccia, e sono uno dei pochi fra i tuoi figli che potrebbe sfuggirti. Credevi che non lo sapessi? Sono qui perché voglio esserci. — Deliberatamente, Isaac tese la mano a Doro. Lui lo fissò per un attimo, poi emise
un lungo sospiro e strinse per un attimo la mano grossa e callosa nella sua, senza fargli del male. Per qualche tempo rimasero seduti insieme in un silenzio rilassato. Doro si alzò una sola volta per mettere un altro ceppo sul fuoco. Isaac lasciò che i suoi pensieri tornassero ad Anyanwu, e gli venne in mente che ciò che aveva detto di sé era vero anche per lei. Era un'altra delle pochissime persone in grado di sfuggire a Doro: il modo in cui poteva cambiare forma e viaggiare dovunque... Forse era uno degli aspetti di lei che impensierivano Doro. Anche se non avrebbe dovuto. Doro avrebbe dovuto lasciarla libera di andare dove voleva, di fare ciò che preferiva. Avrebbe dovuto vederla solo ogni tanto, e cioè quando si sentiva solo, quando la gente moriva e lo lasciava, come avrebbero fatto tutti, tranne lei. Anyanwu era una guaritrice in senso più ampio di quanto Doro avesse intuito, evidentemente. Il padre di Nweke, probabilmente, lo aveva capito. E in quel momento, nel suo dolore, senza dubbio Nweke lo capiva. Per ironia della sorte, spesso pareva che fosse Anyanwu stessa a non capirlo. Pensava che i sofferenti venissero a lei solo per le medicine e la conoscenza. Aveva in sé qualcosa che ignorava di possedere. — Nweke sarà una guaritrice migliore di quanto Anyanwu potrebbe mai essere — disse Doro come in risposta ai pensieri di Isaac. — Non credo che la capacità di leggere nel pensiero la danneggerà. — Lascia che Nweke diventi quello che può — replicò Isaac in tono stanco. — Se sarà capace come pensi che sia, avrai due donne molto preziose. Saresti un vero idiota a sprecarne una Nweke ricominciò a gridare, emettendo suoni rauchi, orribili. — Oh, Dio — mormorò Isaac. — Perderà presto la voce se continua di questo passo — commentò Doro con disinvoltura. — Hai per caso un altro di quei dolci? Isaac lo conosceva troppo bene per stupirsi. Si alzò per andare a prendere il vassoio di olijkoecks olandesi ripieni di frutta che Anyanwu aveva preparato poco prima. Era raro che la sofferenza di un'altra persona turbasse Doro. Se la ragazza fosse stata moribonda, si sarebbe preoccupato per il buon seme che stava per essere perduto. Ma se era soltanto sofferente, non aveva importanza. Isaac si sforzò di riportare il pensiero su Anyanwu. — Doro? — Parlava così piano che le grida della ragazza quasi soffocarono quell'unica parola. Ma Doro alzò la testa Sostenne lo sguardo di Isaac, senza domande né sfida, senza rassicurazione né compassione. Si limitava a ricambiare il suo sguardo. Isaac aveva visto dei gatti guardare la
gente a quel modo. Gatti. Un'immagine giusta. Sempre più spesso, gli occhi di Doro non avevano nulla di umano. Quando Anyanwu era in collera, diceva che Doro era soltanto un uomo che fingeva di essere un dio. Ma sapeva che non era così. Nessun uomo riusciva a spaventarla, e Doro, qualunque obiettivo avesse mancato con lei, le aveva insegnato a temerlo. Aveva insegnato a Isaac a temere per lei. — Che cosa ci rimetti — disse Isaac — lasciando in vita Anyanwu? — Sono stanco di lei. Tutto qui. È abbastanza. Sono semplicemente stanco di lei. — Sembrava davvero stanco: buona, onesta, umana stanchezza, fastidio e frustrazione. — Allora lasciala andare. Mandala via e lasciale fare la sua vita. Doro si accigliò, sembrò angustiato come Isaac non lo aveva mai visto. Era senz'altro un buon segno. — Riflettici — disse. — Avere finalmente qualcuno che non sia temporaneo. E per quanto sia selvaggia, avrai vite intere per domarla. Sicuramente anche lei sentirà la solitudine. Potrebbe essere una sfida, più che una seccatura. Non disse altro. Non era bene tentare di strappare promesse a Doro. Isaac lo aveva imparato molto tempo prima. Era meglio spingerlo fin quasi ad accettare, poi lasciarlo in pace. A volte funzionava. A volte Isaac lo faceva tanto bene da salvare delle vite. E a volte falliva. Restarono seduti insieme. Doro mangiava lentamente olijkoecks e Isaac ascoltava i suoni di dolore che provenivano dalla camera da letto. Finché quei suoni cessarono, e la voce di Nweke non si sentì quasi più. Passarono ore. Isaac preparò il caffè. — Dovresti dormire — gli disse Doro. — Prendi uno dei letti dei ragazzi. Quando ti sveglierai sarà finita. Isaac scosse stancamente la testa. — Come potrei dormire senza sapere? — E va bene allora, non dormire, ma almeno stenditi. Hai un aspetto orribile. — Doro prese Isaac per la spalla e lo guidò verso una delle camere da letto. La stanza era buia e fredda, ma Doro preparò il fuoco e accese una candela. — Vuoi che aspetti qui con te? — domandò. — Sì — rispose Isaac grato. Doro portò una sedia. Le urla ripresero, e per un attimo Isaac rimase confuso. La voce della ragazza si era ridotta da tempo a un bisbiglio roco, e a parte l'occasionale cigolio o scricchiolio del letto e il respiro affannoso e irregolare delle due donne, la casa era rimasta silenziosa. Ora si levavano delle grida. Isaac si drizzò di scatto e posò i piedi sul pavimento.
— Che cosa c'è? — chiese Doro. Isaac lo udì appena. Di colpo si era alzato e correva verso l'altra camera da letto. Doro tentò di fermarlo, ma Isaac respinse le mani che lo trattenevano. — Non senti? — gridò — Non è Nweke. È Anyanwu! A Doro sembrava che la transizione di Nweke dovesse volgere alla fine. Il tempo era giusto: primo mattino, alcune ore prima dell'alba. La ragazza era sopravvissuta alle consuete dieci dodici ore di sofferenza straziante. Ormai da qualche tempo era rimasta in silenzio, senza gridare, senza gemere e agitarsi al punto da scuotere il letto. Questo non voleva dire, però, che non potesse muoversi. Anzi, le ore finali della transizione erano le più pericolose. Erano le ore in cui si perdeva il controllo del proprio corpo, e non solo si sentiva quello che sentivano gli altri, ma ci si muoveva come si muovevano gli altri. Era il momento in cui una persona come Anyanwu, forte fisicamente, senza paura e capace di confortare, era essenziale. Anyanwu era l'ideale perché non poteva essere ferita o, almeno, non in modo permanente. I protetti di Doro gli avevano anche detto che quello era il momento in cui soffrivano di più. Era il momento in cui la follia di assorbire le sensazioni di tutti gli altri sembrava senza fine, in cui, per la disperazione, avrebbero fatto qualunque cosa pur di porre fine al dolore. Eppure era anche il momento in cui cominciavano a sentire che esisteva una via, appena al di là della loro portata, per controllare la follia, per isolarsene. Una via per trovare la pace. Ma invece della pace, per Nweke vi furono altre grida, e Isaac che scattava in piedi come un ragazzo, correva verso la porta, urlando che le grida non erano di Nweke, ma di Anyanwu. E aveva ragione. Che cosa era accaduto? Anyanwu non era riuscita a mantenere in vita la ragazza, malgrado la sua abilità di guaritrice? O era qualcos'altro, qualche altro problema della transizione? Che cosa poteva far gridare in quel modo la formidabile Anyanwu? — Oh, mio Dio! — gridò Isaac dall'interno della camera da letto — Che cosa hai fatto? Mio Dio! Doro entrò di corsa nella stanza, e si fermò vicino alla porta, guardando. Anyanwu giaceva sul pavimento, perdendo sangue dal naso e dalla bocca. Aveva gli occhi chiusi e non emetteva più alcun suono. Sembrava moribonda.
Sul letto, Nweke era seduta, con il corpo nascosto a metà dal materasso di piume. Fissava dall'alto Anyanwu. Isaac si fermò vicino alla figura inerte. La scosse come per ridestarla, e la testa di lei si rovesciò mollemente all'indietro. Lui alzò gli occhi e vide il viso di Nweke sopra un rigonfiamento di tessuto imbottito di piume. Prima che Doro intuisse quello che intendeva fare, Isaac afferrò la ragazza, la schiaffeggiò con forza sul viso. — Smettila! — le gridò. — Smettila! È tua madre! Nweke si portò una mano al viso, con espressione sorpresa, senza capire. Doro si rese conto che prima del colpo di Isaac il suo viso era del tutto inespressivo. Nweke aveva guardato Anyanwu, caduta e sanguinante, con interesse non maggiore di quello che avrebbe potuto mostrare per una pietra. Aveva guardato, ma quasi certamente non aveva visto, e non vedeva nemmeno allora. Forse sentiva il dolore del colpo di Isaac. Forse lo udiva gridare, anche se Doro dubitava che fosse in grado di distinguere le parole. Tutto ciò che le arrivava era dolore, rumore, confusione. E ne aveva abbastanza di tutti e tre. Il suo visetto grazioso e assente si contorse, e Isaac urlò. Era già accaduto. Doro lo aveva visto accadere. Il corpo di alcuni sopravviveva abbastanza bene alla transizione, ma la mente no. Riuscivano ad acquistare il potere e il controllo di quel potere, ma perdevano tutto ciò che avrebbe reso quel potere utile o significativo. Come mai Isaac era stato così lento a capire? E se il danno fatto a Isaac fosse stato irreparabile? Se tanto Isaac quanto Nweke fossero stati perduti? Doro scavalcò il corpo di Anyanwu e aggirò Isaac, che si contorceva sul pavimento, per raggiungere la ragazza. L'afferrò, la schiaffeggiò come aveva fatto Isaac. — Basta così! — le disse, senza minimamente gridare. Se la sua voce le fosse arrivata, sarebbe vissuta. Se no, sarebbe morta. "Dei, fate che la raggiunga. Che abbia la possibilità di riacquistare la lucidità, ammesso che gliene resti." Lei si ritrasse da Doro come un animale braccato. Qualunque cosa avesse fatto per ferire Isaac e forse uccidere Anyanwu, non lo fece a Doro. La sua voce le era arrivata, in un certo senso. In parte saltò e in parte cadde dal letto per allontanarsi da lui e, chissà come, finì addosso a Isaac. Anyanwu era più lontana, come se avesse tentato di fuggire quando Nweke l'aveva atterrata. Per giunta, Anyanwu era incosciente. Probabilmente se la ragazza fosse finita sopra di lei non se ne
sarebbe nemmeno accorta. Ma Isaac se ne accorse, e reagì subito a quel nuovo dolore. Afferrò Nweke, la scagliò in alto per allontanarla dal proprio corpo squassato dal dolore, la scagliò in alto con tutta la potenza che aveva usato tante volte per sospingere grandi navi fuori dalle tempeste. Non sapeva quello che faceva più di quanto lo sapesse lei. Non la vide urtare il soffitto, non vide il suo corpo schiacciarvisi contro, distorto, schiantato, non vide la sua testa urtare contro una delle grandi travi e spaccarsi e ricadere giù in una macabra pioggia di sangue, frammenti di osso e cervello. Il suo corpo cadde verso Doro, inerte e distrutto. In qualche modo lui riuscì ad afferrarlo, a evitare che ripiombasse su Isaac. La ragazza era perduta. Con quelle ferite, sarebbe stata perduta anche se fosse stata una guaritrice due volte più abile di quanto Doro avesse sperato. Depose in fretta il suo corpo sul letto e si chinò per vedere se anche Isaac era perduto. Più tardi avrebbe provato delle reazioni. Più tardi, forse, avrebbe lasciato Wheatley, e l'avrebbe lasciata per parecchi anni. Isaac aveva il viso pallidissimo, di un brutto colore grigiastro. Era immobile, ormai, assolutamente immobile anche se non del tutto incosciente. Doro lo sentiva ansimare, tentare di riprendere fiato. Disturbi al cuore, aveva detto. Nweke poteva averli aggravati in qualche modo? Perché no? Chi era in grado di causare malattie più di una persona nata per curarle? Doro si rivolse disperatamente ad Anyanwu. Nell'attimo in cui concentrò la sua attenzione su di lei, capì che era ancora viva Lo sentiva. Gli dava la sensazione di una preda, non di un cadavere inutile. Doro le prese la mano, poi la lasciò andare perché sembrava inerte e morta. Le toccò il viso, si chinò per parlarle all'orecchio. — Puoi sentirmi, Anyanwu? Lei non diede segni di vita. — Anyanwu, Isaac ha bisogno di te. Senza il tuo aiuto morirà. Lei aprì gli occhi. Lo fissò per un secondo, forse leggendo la disperazione sul suo viso. — Mi trovo su un tappeto? — bisbigliò alla fine. Lui si accigliò, chiedendosi se era uscita anche lei di senno. Ma era l'unica speranza di Isaac. — Sì — rispose. — Allora usalo per tirarmi vicino a lui. Il più vicino possibile. Per il resto non toccarmi. — Tirò un respiro profondo. — Per favore, non toccarmi. Lui si scostò e la tirò verso Isaac sopra il tappeto. — È impazzita — mormorò Anyanwu. — Non so come, la sua mente ha ceduto.
— Lo so — disse Doro. — Allora ha tentato di distruggere tutto dentro di me. È stato come essere tagliata e lacerata dall'interno. Cuore, polmoni, vene, stomaco, vescica... Lei era come me, come Isaac, come... forse come Thomas, anche. Arrivava nella mente, vedeva nel mio corpo. Doveva essere in grado di vedere. Sì. Nweke era stata tutto ciò che Doro aveva sperato e anche di più. Ma era morta. — Aiuta Isaac, Anyanwu! — Portami da mangiare — disse lei. — È avanzato dello stufato? — Puoi raggiungere Isaac? — Sì. Va'! Tentando di avere fiducia in lei, Doro lasciò la stanza. In qualche modo, Anyanwu riuscì a risanarsi abbastanza perché il movimento non facesse riprendere l'emorragia interna. C'erano tanti danni, ed erano avvenuti tutti troppo in fretta, in modo troppo violento. Quando lei cambiava forma, trasformava organi che esistevano già e formava tutti i nuovi organi necessari sulla base di quelli vecchi. In quasi tutti i cambiamenti, restava in parte ancora umana anche dopo che aveva smesso di averne l'aspetto. Ma Nweke aveva quasi distrutto un organo dopo l'altro. Se la ragazza si fosse messa all'opera sul suo cervello, Anyanwu sapeva che sarebbe morta prima di riuscire a risanarsi. Anche così, c'erano imponenti riparazioni da fare e gravissime malattie da evitare. Anche senza toccare affatto il cervello, Nweke l'aveva quasi uccisa. Come poteva ora rimettersi in condizioni di aiutare Isaac? Eppure doveva. Durante il primo anno di matrimonio aveva capito di essersi sbagliata sul suo conto. Era stato il miglior marito possibile. Unendo i loro poteri, avevano costruito quella casa. La gente era venuta a osservarli e a montare di guardia per loro, in modo che nessun estraneo capitasse per caso a vedere la stregoneria. La sua forza aveva affascinato Isaac, ma non lo aveva mai infastidito. Anyanwu aveva una fiducia assoluta nel potere di lui. Lo aveva visto trasportare grossi tronchi dalla foresta e scortecciarli. Lo aveva visto uccidere lupi senza toccarli. Una volta, in una rissa, lo aveva visto uccidere un uomo, un idiota che aveva bevuto troppo e aveva deciso di offendersi per il calmo, tranquillo rifiuto di Isaac di lasciarsi insultare. Il pazzo aveva un fucile e Isaac no. Isaac non andava mai in giro armato. Non ce n'era bisogno. L'idiota era morto come i lupi, all'istante, con la testa fracassata e insanguinata come se fosse stato colpito a randellate. In seguito, Isaac stesso era rimasto nauseato dall'uccisione.
Anyanwu aveva visto quegli spettacoli, ma nessuno le aveva fatto temere il marito come temeva Doro. A volte Isaac la lanciava in aria, e lei gridava o rideva o lo insultava, qualunque cosa le sembrasse giusta per l'occasione, ma non lo temeva mai. E non lo aveva mai disprezzato. «Ha più buon senso di uomini che hanno il doppio e il triplo della sua età» aveva detto a Doro quando Isaac era giovane e loro due erano in rapporti leggermente migliori. Sotto certi aspetti, Isaac aveva più buon senso di Doro. E Isaac capiva anche meglio di lei che avrebbe dovuto dividerla, almeno con Doro. E lei avrebbe dovuto dividere Isaac con le donne che Doro gli offriva. Era abituata a dividere un uomo, ma non si era mai divisa fra più uomini. Non le piaceva. Era arrivata a detestare il suono distintivo della voce di Doro, che la avvertiva che doveva dargli un altro figlio. Isaac aveva accettato ognuno dei figli di Anyanwu come se fossero suoi. L'aveva accettata senza amarezza e senza ira quando tornava da lui, dopo essere uscita dal letto di Doro. E, in un certo senso, l'aveva aiutata a sopportare anche i tentativi di Doro di piegarla e rimodellarla, quando la sua obbedienza sempre più silenziosa non gli era bastata più. Stranamente, anche se lei non poteva più perdonare a Doro neanche le piccole colpe, non provava alcun risentimento quando Isaac lo perdonava. Il legame fra Isaac e Doro era saldo almeno quanto quello fra un padre normale e un figlio del suo sangue. Se Isaac non avesse amato Doro, e se quell'amore non fosse stato ricambiato con intensità, nella maniera peculiare di Doro, lui sarebbe apparso del tutto disumano. Anyanwu non voleva pensare a quello che sarebbe stata la sua vita senza Isaac, a come avrebbe sopportato Doro senza Isaac. Dopo la morte del primo marito non si era mai lasciata dipendere tanto da qualcuno, marito o figlio. Gli altri erano temporanei. Morivano. Tutti tranne Doro. Perché, perché non poteva essere Isaac a vivere all'infinito, e Doro a morire? Baciò Isaac. Gli aveva dato tanti baci simili, a mano a mano che lui invecchiava. Non erano soltanto d'amore. Dentro il proprio corpo, sintetizzava la medicina per lui. Lo aveva osservato con molta attenzione, aveva invecchiato se stessa, organo per organo, per studiare gli effetti dell'età. Era stato un lavoro pericoloso. Un errore di calcolo avrebbe potuto ucciderla prima che lo comprendesse abbastanza da correggerlo. Aveva ascoltato con attenzione quando Isaac descriveva il dolore che provava, la terribile sensazione di costrizione, la stretta al torace, le vertigini, il battito troppo accelerato del cuore, il modo in cui il dolore si diffondeva dal petto al braccio e alla spalla sinistra.
La prima volta che aveva avvertito il dolore, vent'anni prima, lui aveva creduto di morire. La prima volta che era riuscita a riprodurre quel dolore nel proprio corpo, anche lei aveva creduto di morire. Era stato terribile, ma era sopravvissuta, così come Isaac, ed era arrivata a capire in che modo la vecchiaia e il cibo troppo buono e sostanzioso potevano combinarsi per distruggere la flessibilità giovanile dei vasi sanguigni, e soprattutto, se le sue simulazioni non l'avevano ingannata, i vasi sanguigni che alimentavano il cuore. Che cosa si doveva fare, allora? Come si potevano ripristinare i vasi sanguigni invecchiati e ristretti dal grasso? Lei poteva ripristinare i propri, naturalmente. Dal momento che il dolore non l'aveva uccisa, e dal momento che capiva quello che aveva fatto per riprodurre il disturbo, poteva semplicemente rimettere a posto con cura i vasi danneggiati, poi dissolvere il tessuto superfluo sclerotizzato, ridiventando la donna fisiologicamente giovane che era fin dal momento della transizione. Ma la transizione non aveva fermato Isaac alla gioventù. Gli aveva fruttato altri doni, ottimi doni, ma non era servita ad allungargli la vita. Se soltanto fosse riuscita a trasmettergli una parte del suo potere... Era inutile sognare. Se non poteva guarire il danno causato dall'età e dalle cattive abitudini, poteva almeno tentare di prevenire ulteriori danni. Isaac non doveva mangiare più tanto, non doveva mangiare affatto certi cibi. Non doveva fumare o lavorare tanto, né con i muscoli né con il suo potere speciale. Entrambi richiedevano un pedaggio fisico. Non doveva salvare altre navi dalle tempeste. I compiti più lievi andavano bene, purché non provocassero dolore, ma lei aveva detto con molta fermezza a Doro che, se non voleva uccidere Isaac, doveva trovarsi un uomo più giovane per sollevare e trasportare carichi pesanti. Fatto ciò, Anyanwu aveva passato lunghe ore penose a scoprire o creare una medicina che alleviasse il dolore di Isaac quando si presentava. Alla fine, era così stanca e indebolita lei stessa che perfino Isaac l'aveva pregata di smettere. Non aveva smesso. Si era avvelenata più volte, provando sostanze vegetali e animali che non aveva mai usato prima, annotando minuziosamente ogni sua reazione. Aveva ricontrollato sostanze familiari, scoperto che una pianta semplice come l'aglio aveva una certa utilità, ma non sufficiente. Aveva continuato a lavorare, aveva acquisito conoscenze che in seguito erano state utili ad altri. Per Isaac, alla fine, aveva creato quasi per caso una medicina potenzialmente pericolosa che dilatava i vasi sanguigni sani che gli erano rimasti, riducendo così la pressione sul cuore sot-
toalimentato e alleviando il dolore. Quando il dolore era tornato, gli aveva somministrato la medicina. Il dolore era scomparso e lui era rimasto sbalordito. L'aveva portata a New York e le aveva fatto scegliere la stoffa più bella. Poi l'aveva portata da una sarta, una donna negra liberata che l'aveva fissata con aperta curiosità. Anyanwu aveva cominciato a spiegarle che cosa voleva, ma quando si era fermata a riprendere fiato, la sarta l'aveva interrotta. «Tu sei la donna Onisha» aveva detto nella lingua natia di Anyanwu. E aveva sorriso della sorpresa di Anyanwu. «Stai bene?» Anyanwu si era trovata a salutare una conterranea, forse una parente. Quello era un altro dono che Isaac le faceva. Una nuova amica. Era buono, Isaac. Non poteva morire adesso e lasciarla. Ma stavolta il rimedio che aveva sempre funzionato sembrava inefficace. Isaac non dava alcun segno che il dolore si stesse attenuando. Restava disteso col viso esangue, sudando e ansimando per ritrovare il fiato. Quando Anyanwu sollevò la testa, lui aprì gli occhi. Lei non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non poteva. Nei suoi esperimenti, aveva scoperto complicazioni cardiache che potevano uccidere con molta facilità, e che potevano sorgere dal problema che lui aveva già. Si era quasi uccisa nel tentativo di studiarle. Era stata tanto attenta negli sforzi per tenere in vita Isaac e ora, chissà come, la povera Nweke aveva distrutto tutto il suo lavoro. — Nweke? — sussurrò Isaac come se avesse sentito il suo pensiero. — Non so — rispose Anyanwu. Si guardò attorno, vide come il materasso di piume era rigonfio. — È addormentata. — Bene — ansimò lui. — Credevo di averle fatto male. Ho sognato... Stava morendo! Nweke lo aveva ucciso. Nella sua follia lo aveva ucciso, e lui si preoccupava di averle fatto del male! Anyanwu scosse la testa, rifletté disperatamente. Che cosa poteva fare? Con tutte le sue immense conoscenze, ci doveva pur essere qualcosa... Isaac riuscì a toccarle la mano. — Hai perso altri mariti — le disse. Lei cominciò a piangere. — Anyanwu, io sono vecchio. Ho avuto una vita lunga e piena. Secondo il metro comune, almeno. — Il suo viso si contrasse per il dolore. Fu come se lo stesso dolore trafiggesse il petto di Anyanwu. — Stenditi vicino a me — la pregò lui. — Stenditi qui vicino a me. Lei obbedì continuando a piangere in silenzio. — Non puoi sapere quanto ti ho amato — disse Isaac.
Chissà come, lei riuscì a controllare la voce. — Con te è stato come se non avessi mai avuto un altro marito. — Tu devi vivere — disse lui. — Devi fare la pace con Doro. Il pensiero la nauseava. Non rispose. Con uno sforzo, lui le parlò nella sua lingua. — Ora sarà tuo marito. China la testa, Anyanwu. Vivi! Non disse altro. Ci furono soltanto lunghi momenti di dolore prima che scivolasse nell'incoscienza, e poi nella morte. 10 Anyanwu si era appena alzata in piedi, tremando, quando arrivò Doro con un vassoio di cibo. Era in piedi vicino al letto e fissava i resti del corpo di Nweke. Sembrò che non udisse Doro quando posò il vassoio su un tavolino accanto a lei. Lui aprì la bocca per chiederle come mai non stava assistendo Isaac, ma nell'attimo in cui pensò a lui, la sua percettività gli disse che Isaac era morto. La percettività non lo aveva mai tradito. In passato, aveva impedito che alcune persone fossero sepolte vive proprio affidandosi a quella capacità. Eppure ora s'inginocchiò vicino a Isaac e gli tastò il collo per sentire il battito del cuore. Naturalmente non ce n'era. Anyanwu si volse e lo fissò con aria vacua. Era giovane. Nel rinnovare il corpo semidistrutto, era tornata alla sua vera forma. Sembrava una ragazza che piangeva il nonno e la sorella, anziché una donna che piangeva il marito e la figlia. — Lui non sapeva — mormorò. — Pensava che fosse solo un sogno in cui l'aveva ferita. Doro alzò gli occhi verso il punto in cui il corpo di Nweke aveva lasciato tracce di sangue sul soffitto. Anyanwu seguì il suo sguardo, poi riabbassò gli occhi in fretta. — Era fuori di sé dal dolore — disse Doro. — Poi, per caso, lei lo ha colpito di nuovo. È stato troppo. — Un terribile incidente dopo l'altro. — Lei scosse la testa, stordita. — È tutto finito. Sorprendentemente, si diresse verso il cibo e portò il vassoio in cucina, dove si sedette e cominciò a mangiare. Lui la seguì e la guardò meravigliato. I danni che Nweke le aveva inflitto dovevano essere stati ancor più gravi di quanto avesse pensato, se mangiava in quel modo, divorando il cibo
come una donna che moriva di fame mentre i corpi delle persone che aveva amato di più erano ancora caldi nella stanza vicina. Qualche istante dopo, lei disse: — Doro, devono avere dei funerali. Stava mangiando un dolce preso dal vassoio che Isaac aveva posato sul tavolo per Doro. Anche lui era affamato, ma non poteva toccare cibo. Soprattutto, non quei dolci. Si rese conto che la sua fame non riguardava il cibo. Aveva assunto solo di recente il corpo che occupava. Era un buon corpo forte, preso dal suo insediamento nella colonia della Pennsylvania. In condizioni normali, gli sarebbe durato parecchi mesi. Avrebbe potuto usarlo per concepire il primo figlio di Nweke. Sarebbe stato un bell'accoppiamento. Nei suoi coloni della Pennsylvania c'erano stabilità e solida forza. Un buon ceppo. Ma lo stress, fisico o emotivo, imponeva il suo pedaggio, lo rendeva affamato quando non avrebbe dovuto, lo faceva anelare al conforto di un altro cambiamento. Non aveva necessità di cambiare. Il suo corpo attuale lo avrebbe sostentato ancora per qualche tempo. Ma si sarebbe sentito affamato e a disagio fino al prossimo passaggio. E non aveva nessuna ragione pressante per tollerare quel disagio. Nweke era morta; Isaac era morto. Guardò Anyanwu. — Dobbiamo fargli un funerale — ripeté lei. Doro assentì. "Lasciamole celebrare il rito. È stata buona con Isaac. Poi..." — Ha detto che dovremmo fare la pace — aggiunse Anyanwu. — Che cosa? — Isaac. Sono state le sue ultime parole: che dovremmo rappacificarci. Doro scrollò le spalle. — Faremo la pace. Lei non disse altro. Furono presi gli accordi per i funerali, informati i numerosi figli sposati. Non aveva importanza se erano figli di Isaac o di Doro, erano cresciuti accettando Isaac come padre. E c'erano parecchi figli adottivi, quelli che Anyanwu aveva preso in casa perché i genitori erano inadatti o erano morti. E c'erano tutti gli altri. Tutti gli abitanti della città avevano conosciuto Isaac e lo avevano apprezzato. Tutti ora dovevano venire a rendergli omaggio. Ma il giorno del funerale nessuno riuscì a trovare Anyanwu. Per il senso dell'orientamento di Doro, era come se avesse cessato di esistere. Volò per qualche tempo come una grande aquila. Poi, in alto mare, si lasciò planare stancamente verso l'acqua e assunse la forma di delfino che ri-
cordava da tanto tempo prima. Era scesa vicino a un branco di delfini che aveva visto saltare nell'acqua. L'avrebbero certamente accettata, e sarebbe diventata una di loro. Si sarebbe ingrossata fino a diventare grande come la maggior parte di loro. Avrebbe imparato a vivere nel loro mondo. Non poteva esserle estraneo più del mondo che aveva appena lasciato. E forse, una volta appreso il loro modo di comunicare, avrebbe scoperto che erano troppo onesti o troppo innocenti per dire menzogne e tramare omicidi sul cadavere ancora caldo dei propri figli. Si chiese per un attimo fino a quando avrebbe potuto sopportare la lontananza dai parenti, dagli amici, da tutti gli esseri umani. Per quanto tempo avrebbe dovuto nascondersi in mare, prima che Doro smettesse di darle la caccia, o la trovasse. Ricordava il suo panico improvviso quando Doro l'aveva allontanata dal suo popolo. Ricordava la solitudine che Doro e Isaac e i due nipoti ormai morti avevano alleviato. Come avrebbe resistito da sola in mezzo ai delfini? Com'era possibile desiderare tanto vivere che perfino una vita sotto il mare le sembrava preziosa? Doro l'aveva rimodellata. Lei si era sottomessa e aveva continuato a sottomettersi per non essere uccisa, anche se aveva cessato da tempo di credere a quello che le aveva detto Isaac: che, cioè, la sua longevità faceva di lei la compagna giusta per Doro. Che in qualche modo poteva impedirgli di diventare un animale. Lui era già un animale. Ma Anyanwu aveva assunto l'abitudine alla sottomissione. Per amore di Isaac e dei figli, e per paura della morte — soprattutto del tipo di morte che Doro le avrebbe inflitto — gli aveva ceduto tante volte. Le abitudini erano difficili da cancellare. L'abitudine di vivere, l'abitudine di avere paura... perfino l'abitudine all'amore. Bene. I suoi figli ormai erano uomini e donne, in grado di badare a se stessi. Lei avrebbe sentito la loro mancanza. Nessuna sensazione poteva eguagliare quella di essere circondati dai propri cari. Figli, nipoti e pronipoti. Non sarebbe mai stata felice spostandosi in continuazione come faceva Doro. La sua inclinazione naturale era sistemarsi e formare intorno a sé una tribù e restare in seno a quella tribù più a lungo che poteva. Sarebbe stato possibile, pensò, formare una tribù di delfini? Doro le avrebbe concesso il tempo necessario per tentare? Lei aveva commesso quello che fra il suo popolo era considerato un peccato grave: era fuggita lontano da lui. Non aveva importanza che lo avesse fatto per salvarsi la vita, che si fosse resa conto che Doro intendeva ucciderla. Dopo tutta la sua sottomissione, lui era ancora deciso a ucciderla. Credeva che fosse suo di-
ritto fare vittime nel suo popolo a proprio piacimento. Lo credevano anche moltissime delle sue genti, e non fuggivano quando veniva a prenderle. Erano spaventate, ma lui era il loro dio. Tentare di sfuggirgli era inutile. Catturava immancabilmente il fuggitivo e lo uccideva, oppure, molto di rado, lo riportava a casa vivo e lo puniva per dimostrare agli altri che non c'era scampo. Inoltre, per molti fuggire era un'eresia. Erano convinti, dato che era il loro dio, che fosse suo diritto fare di loro quel che voleva. "Giobbe", li chiamava Anyanwu dentro di sé. Come il Giobbe della Bibbia, consideravano positiva la loro condizione. Non potevano sfuggire a Doro, quindi trovavano virtuoso sottomettersi a lui. Anyanwu non trovava virtuoso niente che avesse a che fare con Doro. Non era mai stato il suo dio, e se anche avesse dovuto fuggire per un secolo, senza mai fermarsi abbastanza da fondare le tribù che le procuravano tanta consolazione, lo avrebbe fatto. Doro non avrebbe avuto la sua vita. La gente di Wheatley avrebbe capito che non era onnipotente. Non si sarebbe mai pavoneggiato fra loro con la sua carne. Forse altri avrebbero notato il suo fallimento e capito che non era un dio. Forse sarebbero fuggiti anche loro. E a quanti altri Doro poteva dare la caccia? Certamente qualcuno gli sarebbe sfuggito e sarebbe riuscito a vivere la sua vita in pace con i comuni timori umani. Quelli potenti come Isaac potevano sfuggirgli. Forse anche alcuni dei suoi figli... Respinse dalla mente l'idea che Isaac non avesse mai desiderato fuggire. Isaac era Isaac, occupava un posto a parte rispetto agli altri ed era escluso da ogni giudizio. Era stato il migliore dei suoi mariti, e lei non aveva potuto nemmeno assistere al suo funerale. Pensando a lui, rimpiangendolo, si pentì di non avere conservato più a lungo la forma di aquila, di non aver trovato un luogo solitario, magari qualche isola rocciosa dove poter piangere il marito e la figlia senza temere per la propria vita. Dove poter pensare e ricordare e stare sola. Aveva bisogno di passare un po' di tempo da sola, prima di essere una compagnia adatta ad altre creature. Ma i delfini l'avevano raggiunta. Si erano avvicinati in parecchi, chiacchierando in modo incomprensibile, e per un attimo Anyanwu aveva avuto paura che la attaccassero. Ma erano venuti soltanto a sfregarsi contro di lei per fare conoscenza. Nuotò insieme a loro e nessuno la molestò. Si nutrì insieme a loro, addentando i pesci di passaggio con lo stesso appetito con cui aveva mangiato le pietanze più fini a Wheatley e nella sua terra natia. Era un delfino.
Se Doro non l'aveva giudicata adatta come compagna, l'avrebbe trovata un'avversaria alla sua altezza. Non l'avrebbe ridotta di nuovo in schiavitù. E lei non sarebbe stata una sua preda. LIBRO TERZO Canaan 1840 11 Il vecchio viveva da anni nella parrocchia di Avoyelles, nello stato della Louisiana, dissero i vicini a Doro. Aveva delle figlie sposate, ma nessun figlio maschio. La moglie era morta da tempo e lui viveva solo nella piantagione con gli schiavi, molti dei quali si diceva fossero figli suoi. Se ne stava appartato. Non aveva mai tenuto molto ai contatti sociali, anche quando la moglie era viva... e lei neppure. Warrick, si chiamava il vecchio, Edward Warrick. Nel giro di un secolo, era il terzo essere umano verso il quale Doro si sentiva attratto con la sensazione di essere vicino ad Anyanwu. Anyanwu. Per anni non aveva nemmeno pronunciato il suo nome a voce alta. Non c'era nessun essere vivente nello stato di New York che l'avesse conosciuta. I figli erano morti. I nipoti che erano nati prima della sua fuga erano morti anche loro. Alcuni se li erano portati via le guerre. La guerra d'indipendenza. La stupida guerra del 1812. La prima aveva ucciso molti del suo popolo e aveva indotto altri a fuggire nel Canada, perché erano troppo isolati e apolitici per i gusti di tutti. I soldati inglesi li avevano considerati ribelli e i coloniali li avevano considerati sostenitori dell'Inghilterra. Molti avevano perduto tutte le loro proprietà fuggendo nel Canada, dove Doro li aveva ritrovati mesi dopo. Ora Doro possedeva un insediamento in Canada, oltre ad avere ricostruito Wheatley nello stato di New York. Inoltre aveva anche degli insediamenti in Brasile, in Messico, nel Kentucky e in altri stati, sparsi qua e là nei due grandi continenti deserti. La maggior parte dei suoi elementi migliori si trovava ormai nel Nuovo Mondo, dove c'era spazio per permettere loro di moltiplicarsi e sviluppare la loro potenza, dove c'era spazio per la loro stranezza. Ma niente di tutto ciò compensava la distruzione quasi totale di Wheatley, proprio come non poteva esservi compensazione per la perdita nel
1812 di molti dei suoi elementi migliori del Maryland. Quei coloni del Maryland erano i discendenti delle persone che aveva perduto quando aveva trovato Anyanwu. Li aveva riuniti faticosamente e li aveva indotti di nuovo a riprodursi. Avevano cominciato a dimostrarsi promettenti. Poi, all'improvviso, i più promettenti erano morti. Lui aveva dovuto immettere sangue nuovo per ricostruire per la terza volta persone il più possibile simili a loro. Ciò aveva causato dei problemi, perché quelli che si erano rivelati più simili a loro nelle doti erano bianchi. Erano scoppiati risentimento e odio da entrambe le parti, e Doro aveva dovuto uccidere in pubblico un paio dei peggiori piantagrane per terrorizzare gli altri e riportarli all'obbedienza. Altri preziosi capi da riproduzione perduti. Dispute, vertenze da sistemare con i bianchi confinanti che non immaginavano affatto che cosa vivesse fra loro... Tanto tempo sprecato. C'erano stati anni in cui aveva quasi dimenticato Anyanwu. Se si fosse imbattuto in lei l'avrebbe uccisa, naturalmente. Ogni tanto aveva perdonato persone che gli sfuggivano, persone che erano abbastanza brillanti e forti da tenergli testa per parecchi giorni e assicurargli una buona caccia. Ma li perdonava solo perché, una volta catturati, si sottomettevano. Non che pregassero per avere salva la vita. Quasi nessuno lo faceva. Semplicemente smettevano di lottare contro di lui. Arrivavano finalmente a capire e riconoscere il suo potere. Prima gli avevano offerto un buon divertimento, poi, pienamente consapevoli, gli offrivano se stessi. Una volta perdonati, gli assicuravano una sorta di lealtà, addirittura di amicizia, pari a quella che riceveva dai figli migliori. Quanto ai figli, dopo tutto, aveva dato loro la vita. C'erano stati dei momenti in cui pensava di poter risparmiare Anyanwu. C'erano stati momenti in cui, con stupore e disgusto, ne sentiva semplicemente la mancanza e desiderava rivederla. Più spesso, però, pensava a lei quando accoppiava fra loro i suoi discendenti africani e americani. Si stava sforzando di creare una Nweke più stabile e controllata, e aveva ottenuto alcuni successi: erano nati individui in grado di percepire e, in una certa misura, di controllare il funzionamento interno non solo del proprio corpo, ma anche dei corpi altrui. Ma le loro capacità non erano affidabili. Causavano sofferenze atroci tanto spesso quanto portavano sollievo. Uccidevano tanto spesso quanto risanavano. Potevano compiere quelli che i medici comuni consideravano miracoli, oppure, con altrettanta facilità, quelle che il più brutale mercante di schiavi avrebbe giudicato atrocità. Inoltre, non vivevano a lungo. A volte commettevano errori mortali nei loro stessi cor-
pi e non riuscivano a correggerli in tempo. A volte i parenti dei loro pazienti morti li uccidevano. A volte si suicidavano. Ed erano i migliori che si suicidavano, spesso dopo un fallimento particolarmente atroce. Difettavano del controllo di Anyanwu. Perfino in quel momento, se avesse potuto, Doro l'avrebbe fatta accoppiare volentieri con alcuni di loro, le avrebbe fatto generare dei figli umani di livello superiore, tanto per cambiare, invece dei giovani animali che doveva aver generato negli anni di libertà. Ma era troppo tardi per quello. Era rovinata. Aveva assaporato troppo la libertà. Come la maggior parte dei suoi esemplari selvaggi, era guasta già molto tempo prima che lui la conoscesse. E ora, finalmente, stava per completare la faccenda rimasta in sospeso della sua uccisione e della raccolta di tutti i nuovi discendenti umani. Aveva localizzato la sua casa, la sua piantagione, rintracciandola mentre era in forma umana. Non era stato facile. Lei cambiava forma in continuazione, per quanto apparentemente non si spostasse di molto. Poi era ridiventata umana, e lui aveva intuito che non si era spostata geograficamente. Aveva ridotto le distanze, temendo che lei assumesse forma di uccello o di pesce e si dileguasse di nuovo per anni. Invece era rimasta, attirandolo attraverso il paese fino al Mississippi, alla Louisiana, fino alla parrocchia di Avoyelles, poi ancora attraverso pinete e vasti campi di cotone. Quando raggiunse la casa che secondo i suoi sensi ospitava Anyanwu, rimase immobile in sella al cavallo per parecchi minuti, osservandola da lontano. Era una grande casa di assicelle bianche, con alte colonne decorative e un portico con galleria superiore e inferiore: una dimora dall'aria solida e duratura. Scorse le capanne degli schiavi che si stendevano lontano dalla casa, seminascoste dagli alberi. C'erano anche una stalla, una cucina e altre costruzioni che Doro non riuscì a identificare in lontananza. Vide alcuni negri che si muovevano nei campi, bambini che giocavano, un uomo che spaccava la legna, una donna che raccoglieva qualcosa nell'orto della cucina, un'altra donna che sudava sopra un calderone fumante di panni sporchi che sollevava ogni tanto col bastone. Un ragazzo con le braccia non più lunghe degli avambracci si chinava qua e là raccogliendo rifiuti con mani minuscole. Doro guardò a lungo quell'ultimo schiavo. La sua deformità era forse il risultato di qualche progetto di riproduzione di Anyanwu? Senza sapere bene per quale motivo lo facesse, Doro proseguì a cavallo. Aveva progettato di prendere Anyanwu non appena l'avesse trovata, di sorprenderla mentre era senza difese, ancora umana e vulnerabile. Invece
si allontanò, trovò alloggio per la notte nella capanna di uno dei vicini poveri di Anyanwu, un uomo che viveva con la moglie, i quattro figli minori e alcune migliaia di pulci. Doro trascorse una notte infelice e insonne, ma a cena e a colazione trovò nella famiglia una buona fonte di informazioni sulla ricca vicina. Fu da quell'uomo e da quella donna che Doro apprese delle figlie sposate, dei figli bastardi schiavi, del comportamento poco cordiale del signor Warrick... un peccato grave agli occhi di quella gente. E poi c'erano la moglie morta, i frequenti viaggi che Warrick faceva chissà dove e, ancor più strano, il fatto che la proprietà Warrick fosse infestata da quello che gli acadiani del posto chiamavano un loup-garou, un lupo mannaro. La creatura sembrava soltanto un grosso cane nero, ma il capofamiglia, nato e cresciuto nel raggio di poche miglia dalla casa dove abitava, giurava che lo stesso cane si aggirava per la proprietà fin da quanto lui era bambino. Si sapeva che aveva disarmato uomini adulti, poi si era accucciato sui loro fucili ringhiando e sfidandoli a riprendersi ciò che era loro. Correvano voci che il cane fosse stato colpito parecchie volte, anche a bruciapelo, ma mai abbattuto. I proiettili lo attraversavano come se fosse stato di fumo. Ciò era sufficiente per Doro. Da quanti anni Anyanwu trascorreva gran parte del suo tempo lontana da casa o sotto forma di grosso cane? Quanto tempo aveva impiegato per rendersi conto che lui non poteva trovarla quando si trasformava in animale? Cosa ancor più importante, che cosa sarebbe accaduto ora, se lo avesse individuato in un modo o nell'altro, se avesse assunto la forma di un animale e fosse fuggita? Avrebbe dovuto ucciderla subito! Forse gli avrebbero fatto comodo ancora una volta degli ostaggi, lasciando che i suoi sensi individuassero fra gli schiavi quelli che avrebbero costituito una buona preda. Forse poteva costringerla a tornare minacciandoli. Dovevano essere certamente i migliori tra i suoi figli. La mattina dopo, Doro diresse il suo castrato nero lungo il sentiero verso la residenza di Anyanwu. Appena la raggiunse, un adolescente venne a prendere in consegna il cavallo. Era il ragazzo con le braccia deformi. — Il tuo padrone è in casa? — chiese Doro. — Sì, signore — rispose il ragazzo con voce pacata. Doro posò una mano sulla spalla del ragazzo. — Lascia qui il cavallo. Starà benissimo. Portami dal tuo padrone. — Non aveva previsto di prendere una decisione così rapida, ma il ragazzo era perfetto per i suoi scopi. Nonostante la deformità, era una preda altamente desiderabile. Senza dubbio Anyanwu lo aveva molto caro: doveva essere un figlio prediletto.
Il ragazzo lo guardò senza paura, poi si avviò verso la casa. Doro mantenne la presa sulla sua spalla, anche se non dubitava che il ragazzo avrebbe potuto liberarsi facilmente. Doro occupava in quel momento il corpo di un francese piccolo e snello, mentre il ragazzo era muscoloso e possente, malgrado la bassa statura. Tutti i figli di Anyanwu tendevano a essere bassi. — Che cosa è successo alle tue braccia? — chiese Doro. Il ragazzo lanciò un'occhiata a lui, poi alle proprie braccia corte. — Un incidente, massa — rispose a bassa voce. — Ho tentato di salvare i cavalli da una stalla in fiamme. Prima che li portassi fuori, mi è caduta addosso una trave. — A Doro non piacque l'accento da schiavo. Aveva un suono falso. — Ma... — Doro si accigliò fissando le minuscole braccia da bambino sul corpo da giovane uomo. Nessun incidente poteva causare una simile deformità. — Non sei nato con le braccia così? — No, signore. Sono nato con due braccia buone, lunghe come le sue. — Allora perché adesso hai le braccia deformi? — domandò Doro esasperato. — Per colpa della trave, massa. Le vecchie braccia si sono spezzate e sono bruciate. Ho dovuto farmene ricrescere due nuove. Tempo qualche settimana, e saranno abbastanza lunghe anche queste. Doro fece girare di scatto il ragazzo per guardarlo in faccia, e il ragazzo sorrise. Per un attimo, Doro si chiese se fosse demente, minorato nella mente come lo era nel corpo. Ma gli occhi erano intelligenti, in quel momento addirittura beffardi. Il ragazzo era del tutto sano di mente, e sembrava ridere di lui. — Dici sempre alla gente che puoi fare cose simili, come farti ricrescere braccia nuove? Il ragazzo scosse la testa, si raddrizzò in modo da incontrare gli occhi di Doro alla pari. Nel suo sguardo non c'era niente di servile. Quando parlò di nuovo, smise di fare anche quel minimo sforzo per parlare come uno schiavo. — Non l'ho mai detto a un estraneo prima d'ora — rispose. — Ma mi è stato detto che se le faccio sapere quello che posso fare e che sono l'unico che può farlo, avrò maggiori probabilità di sopravvivere fino alla fine della giornata. Non era necessario chiedere chi glielo avesse detto. Chissà come, Anyanwu lo aveva individuato. — Quanti anni hai? — chiese al ragazzo.
— Diciannove. — Quanti anni avevi al momento della transizione? — Diciassette. — Che cosa sai fare? — Risanarmi. Sono più lento di lei, però, e non posso cambiare forma. — Perché no? — Non lo so. Forse perché mio padre non poteva. — Che cosa poteva fare? — Non l'ho mai conosciuto. È morto. Ma lei dice che poteva sentire quello che pensava la gente. — E tu ci riesci? — A volte. Doro scosse la testa. Anyanwu era quasi arrivata al successo come lui, e con molto meno materiale grezzo. — Portami da lei! — ordinò. — È qui — rispose il ragazzo. Sbalordito, Doro si guardò attorno, cercando Anyanwu, sapendo che doveva aver assunto una forma animale dal momento che non aveva avvertito la sua presenza. Era a una decina di passi di distanza, alle sue spalle, vicino a un giovane pino. Era un grosso cane nero dal muso aguzzo, che lo guardava restando immobile come una statua. Lui le parlò con impazienza. — Non posso certo parlare con te mentre sei così! Lei cominciò a cambiare. Se la prese comoda, ma lui non protestò. Aveva aspettato troppo perché qualche minuto facesse differenza. Finalmente, umana, femmina e nuda senza imbarazzo, lei gli passò accanto precedendolo verso il portico. In quel momento, Doro era deciso a ucciderla. Se avesse assunto una qualsiasi altra forma, se fosse diventata diversa dalla sua vera natura, sarebbe morta. Ma in quel momento era identica a com'era stata più di centocinquant'anni prima: un secolo e mezzo! Era la stessa donna con cui aveva diviso un giaciglio di argilla a migliaia di miglia di distanza, a vite intere di distanza. Alzò la mano verso di lei. Anyanwu non la vide. Avrebbe potuto prenderla lì e subito, senza avere altri fastidi. Ma abbassò la mano prima che sfiorasse la sua spalla scura e levigata. La fissò, furente con se stesso, accigliato. — Entra in casa, Doro — lo invitò lei. Anche la voce era la stessa, sommessa e giovane. Lui la seguì sentendosi stranamente confuso, sospeso nel tempo, con il solo figlio, vigile e protettivo, a riportarlo bruscamente alla realtà.
Guardò il figlio, lacero, scalzo e impolverato. Il ragazzo sarebbe dovuto apparire fuori posto nella casa arredata in modo sontuoso, ma stranamente non era così. — Entri nel salotto — disse, prendendo il braccio di Doro con le sue mani da bambino. — La lasci vestire. Tornerà. Doro non ne dubitava. A quanto pareva, il ragazzo comprendeva il proprio ruolo di ostaggio. Doro sedette su una poltrona imbottita e il ragazzo prese posto di fronte a lui su un sofà. In mezzo a loro c'erano un tavolino di legno e un camino di pietra nera scolpita. Sul pavimento c'era un grande tappeto orientale e parecchie altre poltrone e tavoli erano disposti qua e là nella stanza. Una cameriera che indossava un vestito azzurro semplice e pulito e un grembiulino bianco portò il brandy e guardò il ragazzo come per sfidarlo a servirsi. Lui sorrise e non lo fece. Anche la cameriera sarebbe stata una buona preda. Una figlia? — Lei che cosa sa fare? — domandò appena fu uscita. — Nient'altro che sfornare figli — rispose il ragazzo. — Ha avuto una transizione? — Non l'avrà più. Non alla sua età. Una latente, allora. Una che avrebbe trasmesso il suo patrimonio ai figli, ma che non poteva usarlo per sé. Avrebbe dovuto unirsi a un parente stretto. Doro si chiese se Anyanwu avesse superato la propria schifiltosità al punto di farlo. Era da lì che proveniva quel ragazzo che si faceva ricrescere le braccia? Da un incrocio tra consanguinei? Il padre era forse uno dei figli maggiori di Anyanwu? — Che cosa sai di me? — chiese al ragazzo. — Che lei non è quello che sembra più di quanto lo sia Anyanwu. — Il ragazzo scrollò le spalle. — Qualche volta ha parlato di lei, di come l'ha portata via dall'Africa, di come è stata sua schiava a New York, quando a New York esisteva la schiavitù. — Non è mai stata mia schiava. — Lei pensa di sì. Pensa che non lo sarà mai più, però. Nella sua camera da letto, Anyanwu si vestì da uomo in fretta e con disinvoltura. Mantenne il corpo di donna — voleva essere se stessa di fronte a Doro — ma dopo la piacevole libertà priva di costrizioni del corpo di cane, non avrebbe potuto sopportare gli strati di abiti attillati che ci si aspettava dalle donne. In ogni caso, l'abbigliamento maschile accentuava la sua
femminilità. Anche vestita così, nessuno l'aveva mai scambiata per un uomo o per un ragazzo. Con un gesto brusco gettò la camicia sul pavimento e rimase ferma, con la testa fra le mani, davanti al tavolo da toeletta. Doro avrebbe fatto a pezzi Stephen, se fosse fuggita in quel momento. Probabilmente non lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe fatto schiavo. Lì in Louisiana e negli altri stati del Sud c'erano persone che allevavano schiavi come faceva Doro. Davano a un uomo una donna dopo l'altra e, quando nascevano i figli, l'uomo non aveva alcuna autorità su ciò che veniva fatto loro, nessuna responsabilità verso di loro o verso le madri. Autorità e responsabilità erano una prerogativa dei padroni. Doro avrebbe fatto questo a suo figlio, lo avrebbe ridotto a nient'altro che un animale da allevamento. Anyanwu pensò ai figli e alle figlie che aveva lasciato nelle mani di Doro. Era improbabile che qualcuno di loro fosse ancora vivo, ma non aveva dubbi sul modo in cui Doro li aveva usati finché erano in vita. Lei non avrebbe potuto aiutarli. Tutto quello che era riuscita a ottenere era indurre Doro a dare la sua parola che non avrebbe fatto loro del male durante il suo matrimonio con Isaac. Dopo di che, avrebbe potuto restare con loro e morire, ma non avrebbe potuto aiutarli. E cresciuti com'erano a Wheatley, loro non avrebbero voluto il suo aiuto. Doro seduceva la gente. La induceva a desiderare di compiacerlo, a sforzarsi di ottenere la sua approvazione. La sottometteva col terrore soltanto quando non riusciva a sedurla. E quando non riusciva a terrorizzarla... Che cosa poteva fare, lei? Non poteva fuggire di nuovo e lasciargli Stephen e gli altri. Ma restando non avrebbe potuto aiutarli più di quanto fosse stata in grado di aiutare i figli a Wheatley. Non poteva aiutare nemmeno se stessa. Che cosa le avrebbe fatto, quando fosse scesa al pianterreno? Era fuggita e lui uccideva i fuggiaschi. Le aveva concesso di vestirsi solo per risparmiarsi l'incomodo di prendere un corpo nudo? Che cosa poteva fare? Doro e Stephen stavano conversando come vecchi amici quando Anyanwu entrò nel salotto. Con sua sorpresa, Doro si alzò in piedi. In passato era sempre apparso pigramente refrattario a certi gesti di cortesia. Lei sedette accanto a Stephen sul divano, notando automaticamente che le braccia del ragazzo sembravano rigenerarsi bene. Era stato così bravo, così controllato, quel terribile giorno in cui le aveva perdute. — Ora torna al tuo lavoro — gli ordinò a bassa voce. Lui la guardò, sorpreso.
— Va' — ripeté. — Ora sono qui io. Chiaramente, era proprio questo che lo preoccupava. Gli aveva parlato molto di Doro. Non voleva lasciarla, ma alla fine obbedì. — Bravo ragazzo — commentò Doro, bevendo un sorso di cognac. — Sì — confermò lei. Doro scrollò la testa. — Che cosa devo fare di lui, Anyanwu? Che cosa devo fare di te? Lei non rispose. Quando mai aveva contato quello che gli diceva? Doro faceva come voleva. — Hai ottenuto più successo di me — disse. — Tuo figlio sembra controllato, molto sicuro di sé. — Gli ho insegnato a tenere la testa alta — ribatté lei. — Mi riferivo alla sua abilità. — Sì. — Chi era il padre? Lei esitò. Era naturale che lo chiedesse. S'informava sugli antenati dei suoi figli come sul pedigree di un cavallo. — Suo padre era stato portato illegalmente dall'Africa — rispose. — Era un brav'uomo, ma... molto simile a Thomas. Poteva vedere e udire e sentire troppe cose. — Ed era sopravvissuto a una traversata su una nave negriera? — Solo una parte di lui era sopravvissuta. Per la maggior parte del tempo era pazzo, ma docile. Era come un bambino. I mercanti di schiavi fingevano che fosse strano solo perché non aveva ancora imparato l'inglese. Mi mostrarono com'erano forti i suoi muscoli: io avevo la forma di un uomo bianco, allora. — Lo so. — Mi mostrarono i denti, le mani e il pene e dissero che sarebbe stato un ottimo stallone. Ti sarebbero piaciuti, Doro. La pensavano proprio come te. — Ne dubito — ribatté lui in tono gentile. Si stava comportando in modo incredibilmente amabile. Era al primo stadio: cercava di sedurla come aveva fatto quando l'aveva strappata al suo popolo. Senza dubbio, in base ai suoi criteri si stava mostrando estremamente generoso. Lei gli era sfuggita, aveva fatto quello che nessun altro poteva fare, era rimasta fuori delle sue mani per oltre una vita; eppure, invece di ucciderla subito, sembrava pronto a ricominciare da capo con lei, a offrirle una possibilità di accettarlo come se niente fosse stato. Ciò significava che la voleva viva, se era disposta a sottomettersi.
Il senso di sollievo che provò a quella scoperta la sorprese. Aveva disceso le scale aspettandosi di morire, pronta a morire, ed ecco che lui la corteggiava di nuovo. Ed ecco lei che rispondeva... No. Non più. Nessun'altra Wheatley. E allora cosa? — E così hai comprato uno schiavo che sapevi pazzo perché aveva una sensibilità che ti piaceva — riprese Doro. — Non puoi immaginare quante volte ho fatto anch'io cose del genere. — Lo comprai a New Orleans perché mentre mi passava davanti in catene, diretto ai recinti degli schiavi, mi chiamò per nome. Disse: «Anyanwu! Quella pelle bianca ti copre anche gli occhi?» — Parlava inglese? — No. Era uno del mio popolo. Non un discendente, penso: era troppo diverso. Nel momento in cui mi parlò, era lucido e sentiva i miei pensieri. Gli schiavi mi passavano davanti tutti incatenati, e io stavo pensando: "Devo ripescare dal mare dell'altro oro sommerso, poi andare a trovare i banchieri per comprare la terra confinante con la mia. Devo comprare dei libri, libri di medicina, soprattutto per vedere che cosa fanno adesso i medici..." Non vedevo gli schiavi davanti a me. Non avrei mai immaginato di poter essere indifferente a uno spettacolo simile. Era troppo tempo che ero un bianco. Avevo bisogno di qualcuno che dicesse quello che mi disse lui. — Così lo portasti a casa e gli desti un figlio. — Gli avrei dato molti figli. Sembrava che il suo spirito si stesse riprendendo da quello che gli avevano fatto sulla nave. Alla fine, era lucido quasi tutto il tempo. Allora fu un buon marito. Ma poi morì. — Di quale malattia? — Nessuna che conoscessi. Vide suo figlio e disse lodandolo: «Ifeyinwa! che figlio.» Così diedi a Stephen come secondo nome Ifeyinwa. Poi Mgbada morì. A volte sono una pessima guaritrice. Non sono affatto capace di guarire, a volte. — Senza dubbio l'uomo è vissuto molto più a lungo e meglio di quanto avrebbe fatto senza di te. — Era giovane — ribatté lei. — Se fossi la guaritrice che desidero essere, sarebbe ancora vivo. — Che genere di guaritore è il ragazzo? — Meno potente di me, sotto certi aspetti. Più lento. Ma ha una parte della sensitività del padre. Non ti ha stupito il fatto che ti abbia riconosciuto?
— Ho pensato che tu mi avessi visto e lo avessi avvertito. — Gli ho parlato di te. Forse ha riconosciuto la tua voce per averla sentita nei miei pensieri. Non gli chiedo che cosa sente. Ma non ti avevo visto prima che arrivassi, non in modo da riconoscerti, almeno. — Credeva davvero che sarebbe rimasta ad aspettarlo, che avrebbe tenuto lì i figli in modo che lui potesse minacciarli? Credeva che fosse diventata stupida con gli anni? — A volte tocca le persone e sa dire che cos'hanno che non va — riprese. — Quando dice che qualcosa non va, è così. Ma a volte si lascia sfuggire cose che a me non sfuggirebbero. — È giovane — disse Doro. Lei scrollò le spalle. — Diventerà mai vecchio, Anyanwu? — Non lo so. — Lei esitò, espresse la sua speranza in un sussurro. — Forse ho generato finalmente un figlio che non dovrò seppellire. — Alzò la testa, vide che Doro la stava fissando con intensità. C'era una sorta di brama nella sua espressione, una fame che dissimulò in fretta. — È capace di controllare la lettura del pensiero? — domandò con voce neutra. — In questo è il contrario del padre. Mgbada non poteva controllare ciò che sentiva, proprio come Thomas. Ecco perché la sua gente lo aveva venduto come schiavo. Per loro era uno stregone. Invece Stephen deve fare uno sforzo per udire i pensieri degli altri. Non è più accaduto per caso, dopo la transizione. Ma a volte, quando tenta, non succede niente. Dice che è come non sapere mai quando diventerà sordo. — È un difetto accettabile — osservò Doro. — A volte potrà sentirsi frustrato, ma non diventerà mai pazzo per il peso dei pensieri altrui che lo opprimono. — Gliel'ho detto. Ci fu un lungo silenzio. Stava per arrivare qualcosa, e aveva a che fare con Stephen, Anyanwu lo sapeva. Voleva chiedere di che si trattava, ma allora Doro glielo avrebbe detto e lei avrebbe dovuto trovare un modo per sfidarlo. Quando lo avesse fatto... quando lo avesse fatto avrebbe fallito, e lui l'avrebbe uccisa. — È per me tutto quello che Isaac era per te — mormorò. Lui l'avrebbe intesa per quella che era: una supplica? La fissò come se lei avesse detto qualcosa di incomprensibile, come se stesse cercando di capire. Infine abbozzò un sorriso, privo d'incertezza
come suo solito. — Hai mai pensato, Anyanwu, a quanto sono lunghi cento anni per una persona qualsiasi, o centocinquant'anni? Lei si strinse nelle spalle. Sciocchezze. Stava dicendo sciocchezze, mentre lei aspettava di sentire che cosa aveva intenzione di fare a suo figlio! — Come ti sembrano gli anni? — le domandò. — Lunghi come giorni? Mesi? Che cosa provi quando buoni compagni improvvisamente diventano vecchi e grigi e svuotati? Lei strinse ancora una volta le spalle. — La gente invecchia. Muore. — Tutti — convenne lui. — Tutti tranne te e me. — Tu muori in continuazione — replicò lei. Lui si alzò e andò a sedersi vicino a lei sul sofà. Chissà come Anyanwu riuscì a restare immobile, frenò l'impulso di alzarsi, di allontanarsi da lui. — Io non sono mai morto — disse. Lei guardò oltre, in direzione di uno dei candelieri sulla mensola del caminetto. — Sì — ribatté. — Avrei dovuto dire che uccidi in continuazione. Lui fu ridotto al silenzio. Anyanwu lo affrontò, lo guardò negli occhi, che erano grandi, castani e distanti. Aveva gli occhi di un uomo più massiccio o, meglio, il suo corpo attuale li aveva. Gli davano una falsa espressione di gentilezza. — Sei venuto qui per uccidermi? — domandò. — Devo morire? I miei figli devono diventare stalloni e fattrici? È per questo che non sei riuscito a lasciarmi sola? — Perché vuoi restare sola? — le chiese. Lei chiuse gli occhi. — Doro, dimmi che cosa deve accadere. — Forse niente. Forse, alla fin fine, porterò a tuo figlio una moglie. — Una moglie? — ripeté lei incredula. — Una moglie, come con te e Isaac. Non gli ho mai portato donne a Wheatley. Quello era vero. Di tanto in tanto, portava via con sé Isaac, ma non gli aveva mai portato delle donne. Anyanwu sapeva che il marito che aveva amato aveva generato decine di figli con altre donne. «Non t'importa di loro?» gli aveva chiesto una volta, tentando di capire. Lei amava ognuno dei suoi figli, allevava tutti quelli che dava alla luce e li amava. «Non li vedo mai» aveva risposto lui. «Sono figli suoi. Io li genero in suo nome. Lui provvede perché loro e le madri siano trattati bene.» «Così dice lui!» Anyanwu era amareggiata, quel giorno, furente con Doro perché l'aveva messa incinta quando l'ultimo figlio di Isaac aveva meno
di un anno, furente con lui perché aveva ucciso subito dopo una ragazza alta e bella che Anyanwu aveva conosciuto e apprezzato. La ragazza, pur sapendo quello che stava per accaderle, lo aveva trattato ugualmente come un innamorato. Era stato osceno. «Ti risulta che abbia mai trascurato le necessità dei figli che rivendica?» aveva chiesto Isaac. «Hai mai visto i suoi protetti restare senza terra o affamati? Si prende cura della sua gente.» Lei si era allontanata da Isaac per volare ore e ore sotto forma di aquila, e guardare dall'alto la vasta terra deserta, chiedendosi se esistesse un luogo in tutte quelle foreste e fiumi e montagne e laghi, un luogo in quella terra sconfinata dove rifugiarsi per trovare pace e pulizia. — Stephen ha diciannove anni — disse. — È un uomo. I tuoi figli e i miei crescono molto in fretta, credo. È uomo fin dal tempo della transizione. Ma è ancora giovane. Lo farai diventare un animale, se lo usi come hai usato Isaac. — Isaac aveva quindici anni quando gli ho dato la sua prima donna — ribatté Doro. — Allora era tuo già da quindici anni. Per te, Stephen sarà "seme selvaggio" come lo ero io. Doro annuì docilmente. — Per me è meglio averli prima che raggiungano la transizione, ammesso che abbiano la transizione. Che cosa mi darai allora, Anyanwu? Lei si girò a guardarlo, sorpresa. Si offriva di mercanteggiare con lei? In passato non aveva mai mercanteggiato. Le aveva detto quello che voleva e le aveva fatto sapere che cosa avrebbe fatto a lei o ai suoi figli se non obbediva. Stava mercanteggiando, adesso, oppure voleva giocare con lei? Che cosa poteva perdere, presumendo che facesse sul serio? — Porta la donna a Stephen — disse. — Una sola. Quando sarà più vecchio, forse potranno essercene altre. — Immagini che adesso non ce ne siano? — Certo. Ma se le sceglie da solo. Non gli ordino di riprodursi. Non gli mando delle donne. — Sembra che piaccia alle donne. Lei si sorprese a sorridere un po'. — Ad alcune sì. Non abbastanza per lui, naturalmente. C'è una vedova che in questo momento gli presta molte attenzioni. Sa il fatto suo. Lasciato a se stesso, si troverà una buona moglie qui, quando sarà stanco di correre la cavallina.
— Forse non dovrei lasciarlo sfiancarsi. — Te lo ripeto, ne farai un animale se non lo lasci stare! — esclamò lei. — Non hai visto gli schiavi usati per l'allevamento in questo paese? Non hanno la possibilità di imparare che cosa significhi essere un uomo. Non hanno il permesso di occuparsi dei figli. Fra il mio popolo, i figli sono ricchezza, sono meglio del denaro, meglio di qualsiasi cosa. Ma per questi uomini, menomati e pervertiti dai padroni, i figli non sono quasi niente. Servono per vantarsene con gli altri. Uno pensa di essere superiore a un altro perché ha più figli. Esagerano il numero delle donne che hanno dato loro dei figli, e non fanno niente di quello che un padre dovrebbe fare per i figli, e il padrone che vende con indifferenza i suoi stessi figli di pelle scura ride e dice: "Vedete? I negri sono proprio come animali!" La schiavitù di questo paese ti apre gli occhi, Doro. Come potrei desiderare una vita simile per mio figlio? Ci fu silenzio. Lui si alzò in piedi, si aggirò per la vasta sala esaminando i vasi, le lampade, il ritratto di una donna bianca snella, con i capelli scuri e l'espressione solenne. — Era tua moglie? — domandò. Anyanwu avrebbe voluto scrollarlo. Aveva voglia di usare la forza, di costringerlo a dirle che cosa intendeva fare. — Sì — mormorò. — Ti piaceva essere un uomo, avere una moglie? — Doro...! — Ti piaceva? — Lui non intendeva lasciarsi mettere fretta. Se la stava godendo. — Era una brava donna. Ci facevamo buona compagnia. — Sapeva che cos'eri? — Sì. Lei stessa non era una donna comune. Vedeva fantasmi. — Anyanwu! — esclamò Doro, disgustato e deluso. Lei ignorò il suo tono, alzò gli occhi verso il ritratto. — Aveva appena sedici anni quando la sposai. Se non l'avessi sposata, penso che prima o poi sarebbe finita in manicomio. La gente parlava di lei con lo stesso tono in cui hai appena pronunciato il mio nome. — Non li biasimo. — Invece dovresti. La maggior parte della gente crede in una vita oltre la morte del corpo. Si fa sempre un gran parlare di fantasmi. Anche persone che si ritengono troppo sofisticate per spaventarsi non ne sono immuni. Parla con cinque persone e almeno tre avranno visto quello che credono fosse un fantasma, o conosceranno un'altra persona che ne ha visti. Ma Denice li vedeva davvero. Era molto sensitiva; scorgeva immagini che
nessun altro vedeva, e così la gente diceva che era pazza. Io penso che avesse avuto una specie di transizione. — E le aveva concesso una vista privata sull'aldilà. Anyanwu scosse la testa. — Dovresti essere meno scettico. Sei tu stesso una specie di fantasma, dopo tutto. Che cosa c'è di te che si possa toccare? — È un discorso che ho già sentito. — Naturalmente. — Lei fece una pausa. — Doro, ti parlerò di Denice. Ti parlerò di chiunque, di qualsiasi cosa. Ma prima, per favore, dimmi che cos'hai in mente per mio figlio. — Ci sto pensando. Sto pensando a te e al tuo potenziale valore per me. — Guardò di nuovo il ritratto. — Avevi ragione, sai. Ero venuto qui per chiudere un vecchio conto in sospeso: uccidere te e portare i tuoi figli in uno dei miei insediamenti. Nessuno ha mai fatto quello che mi hai fatto tu. — Ti sono sfuggita e sono sopravvissuta. Lo hanno fatto altri. — Soltanto perché ho deciso di lasciarli vivere. Hanno avuto la libertà solo per pochi giorni, prima che li catturassi. Tu lo sai. — Sì — ammise lei con riluttanza. — Ora, un secolo dopo averti perduto, ti ritrovo giovane e sana, che mi saluti come se ci fossimo visti appena ieri. Ti trovo in competizione con me, che allevi streghe per tuo conto. — Non esiste competizione. — Allora perché ti sei circondata del genere di persone che io vado cercando? Perché hai figli da loro? — Queste persone... hanno bisogno di me. — Lei deglutì, pensando ad alcuni dei torti inflitti alla sua gente prima che lei la trovasse. — Hanno bisogno di qualcuno che le aiuti, e io posso. Tu non vuoi aiutarle, vuoi usarle. Ma io le posso aiutare. — Perché lo fai? — Sono una guaritrice, Doro. — Questa non è una risposta. Tu hai scelto di essere una guaritrice. Ciò che sei in realtà è quello che da queste parti si chiama loup-garou, un lupo mannaro. — Vedo che hai parlato con i miei vicini. — Sì. Hanno ragione, sai. — Le leggende dicono che i lupi mannari uccidono. Io non ho mai ucciso se non per salvarmi. Sono una guaritrice. — In genere i... guaritori non hanno figli dai loro pazienti.
— In genere i guaritori fanno quello che vogliono. I miei pazienti sono più simili a me di chiunque altro. Perché non dovrei trovare dei compagni fra loro? Doro sorrise. — Hai sempre la risposta pronta, eh? Ma non importa. Parlami di Denice e dei suoi fantasmi. Lei inspirò a fondo e lasciò che il respiro le uscisse lentamente, calmandosi. — Denice vedeva quello che la gente si lascia alle spalle. Entrava nelle case e vedeva le persone che l'avevano preceduta lì. Se qualcuno aveva sofferto o era morto in una casa, lei lo vedeva con molta chiarezza. Questo la terrorizzava. Entrava in una casa e vedeva un bambino correre, con i vestiti in fiamme, ma non c'era nessun bambino. Solo che due, dieci, venti anni prima, un bambino era bruciato vivo in quel luogo. Vedeva persone che rubavano oggetti, giorni o anni prima. Vedeva schiavi percossi e torturati, schiave violentate, persone squassate dalle febbri malariche o sfigurate dal vaiolo. Non sentiva, come coloro che attraversano la transizione. Vedeva soltanto. Ma non riusciva a distinguere se quello che vedeva accadeva realmente o se era accaduto nel passato. Stava diventando pazza, pian piano. Poi i suoi genitori offrirono un ricevimento e m'invitarono perché avevo un aspetto giovane, ricco e attraente: forse rappresentavo una buona prospettiva per una famiglia con cinque figlie. Ricordo che ero vicino al padre di Denice, raccontando frottole sulle mie origini, e Denice mi sfiorò. Mi toccò, capisci. Lei poteva vedere il passato delle persone quando le toccava, così come poteva vedere il passato del legno e dei mattoni. Vide qualcosa del mio passato, in quel contatto fuggevole, e svenne. Io non seppi che cosa fosse successo finché non venne da me qualche giorno dopo. Ero l'unica persona che avesse mai conosciuto più strana di lei. Prima che ci sposassimo, seppe tutto quello che ero. — Per quale motivo ti sposò? — Perché le credetti quando mi disse quello che poteva fare. Perché non mi spaventai e non la misi in ridicolo. E perché dopo qualche tempo cominciammo a desiderarci. — Anche se sapeva che tu eri una donna ed eri negra? — Anche così. — Anyanwu alzò lo sguardo verso la giovane donna solenne, ricordando quel delizioso, timoroso corteggiamento. Avevano avuto tanta paura di sposarsi quanta di perdersi. — Da principio pensava che non potessimo avere figli, e questo la rattristava perché aveva sempre desiderato dei bambini. Poi si rese conto che potevo darle delle figlie. Impiegò molto tempo a comprendere tutte le mie capacità. Ma pensava che le figlie
sarebbero state negre e la gente avrebbe detto che lei era stata con uno schiavo. Gli uomini bianchi seminano dappertutto bambini scuri di pelle, ma una donna bianca che lo fa diventa quasi una bestia agli occhi degli altri bianchi. — Le donne bianche devono essere protette — riconobbe Doro — che lo vogliano o meno. — Come si protegge una proprietà. — Anyanwu scosse la testa. — Riservata esclusivamente all'uso dei proprietari. Denice disse che si sentiva come una proprietà, come una schiava che progettasse la fuga. Io le dissi che potevo darle dei figli che non avessero alcuna parentela con me, se lo desiderava. Il suo timore mi mandava in collera, anche se sapevo che non aveva colpa della situazione. Le spiegai che il mio Warrick non era la copia di qualcuno. Mi ero plasmata liberamente per crearlo, ma se lo desiderava potevo assumere la forma esatta di uno dei bianchi che avevo curato a Wheatley. Poi, come con i delfini, avrei potuto avere dei figli che non ereditassero niente da me. Anche giovani maschi. Lei non lo capiva. — Nemmeno io — disse Doro. — Questa è una novità. — Solo per me. Tu lo fai in continuazione, di generare o partorire figli che non sono tuoi parenti di sangue. Sono i figli dei corpi che occupi, anche se tu li definisci tuoi. — Ma... tu hai un corpo solo. — E tu non hai capito fino a che punto quell'unico corpo può cambiare completamente. Io non posso abbandonarlo come fai tu, ma posso rinnovarlo. Posso trasformarlo così completamente nell'immagine di qualcun altro da non essere più realmente legata ai miei genitori. Mi chiedo che cosa io sia... per poter fare una cosa simile e tuttavia riconoscermi lo stesso, tornare ugualmente alla mia vera forma. — Questo non potevi farlo prima, a Wheatley. — L'ho sempre fatto. Ogni volta che assumevo una nuova forma animale, lo facevo. Ma non l'ho capito molto bene finché non ho cominciato a fuggire da te. Finché non ho cominciato a nascondermi. Ho avuto dei piccoli di delfino, ed erano delfini. Per nulla umani. Erano i piccoli del delfino che Isaac catturò e ci diede da mangiare tanto tempo fa. Il mio corpo era una copia del suo fino nei minimi particolari. Non ci sono parole per spiegarti quanto profondo e completo sia un cambiamento del genere. — Così sei riuscita a diventare un'altra persona in modo così completo che i figli che hai dato a Denice non erano realmente tuoi.
— Avrei potuto farlo. Ma quando lei comprese, non volle. Disse che preferiva non avere affatto dei figli. Ma quel sacrificio non fu necessario. Potevo darle delle figlie con il mio corpo. Figlie che avrebbero avuto il suo colorito. Fu un lavoro difficile predisporre tutto. Ci sono tante cose minuscole anche in una sola cellula di un corpo umano. Se fossi stata negligente, avrei potuto darle un mostro. — Ti ho indotto a studiare tutto questo, costringendoti a fuggire? — Sì. Mi hai spinto a imparare molto. Per gran parte del tempo non avevo altro da fare che studiare me stessa, tentare cose a cui non avevo mai pensato prima. — Se allora avessi duplicato il corpo di un uomo, avresti potuto avere figli maschi. — Figli di un altro. Lentamente, Doro atteggiò la bocca a un sorriso. — Ecco la risposta, allora, Anyanwu. Prenderai il posto di tuo figlio. Prenderai il posto di moltissime persone. — Vuoi dire... andare qua e là a mettere al mondo figli per poi dimenticarmi di loro? — O vai tu, oppure ti porterò le donne qui. Lei si alzò stancamente, senza nemmeno l'indignazione a renderla rigida e ostile. — Sei un perfetto idiota — gli disse piano, e si allontanò lungo il corridoio, attraversò la casa e uscì dalla porta posteriore. Da lì, oltre gli alberi, poteva vedere il bayou con la sua acqua pigra. Più vicino, c'erano le dipendenze e le capanne degli schiavi, che non erano abitate da schiavi. Anyanwu non ne possedeva. Aveva portato con sé alcune delle persone che lavoravano per lei e reclutato le altre fra gli schiavi liberati, ma quelli che comprava li liberava. Restavano sempre a lavorare per lei, sentendosi più a loro agio con lei e fra loro di quanto lo fossero mai stati altrove. Quello sorprendeva sempre i nuovi arrivati. Non erano abituati a sentirsi a loro agio con gli altri. Erano spostati, scontenti, piantagrane, anche se non creavano problemi ad Anyanwu. La trattavano come una madre, una sorella maggiore, una maestra e, quando li invitava, come un'amante. Stranamente, neppure quell'ultima intimità intaccava la sua autorità. Conoscevano il suo potere. Lei era quello che era, qualsiasi ruolo scegliesse. E tuttavia non li minacciava, non faceva strage fra loro come Doro fra il suo popolo. Il peggio che facesse era licenziare qualcuno ogni tanto. Il licenziamento significava lo sfratto. Significava lasciare la sicurezza e l'at-
mosfera confortevole della piantagione e ridiventare degli spostati nel mondo esterno. Significava l'esilio. Pochi di loro sapevano quanto fosse difficile per Anyanwu scacciare uno di loro o, peggio ancora, una famiglia. Pochi di loro sapevano quanto la loro presenza le fosse di conforto. Lei non era come Doro, che allevava persone come se fossero capi di bestiame. Anche se, forse, quel suo riunire tutte quelle persone speciali, leggermente strane, avrebbe raggiunto lo stesso scopo dell'allevamento di Doro. Lei era se stessa, e radunava una famiglia. Senza dubbio alcune di quelle persone appartenevano alla sua famiglia, erano suoi discendenti. Le davano l'impressione di essere figli. Forse c'erano stati dei matrimoni fra consanguinei, poiché i suoi discendenti erano attirati da una consolante ma indefinibile somiglianza e ignoravano la propria origine comune. E c'erano altre persone che probabilmente non erano imparentate con lei, dotate di una sensitività rudimentale che dopo qualche generazione sarebbe potuta diventare autentica lettura del pensiero. Mgbada glielo aveva detto: lei stava radunando persone che erano come i suoi nonni. Le aveva detto che stava allevando streghe. Le si avvicinò una vecchia, una donna bianca, avvizzita e grigia, Luisa, che faceva quel poco di cucito che poteva per pagarsi il mantenimento. Era una delle cinque persone bianche della piantagione. Avrebbero potuto esserci molti altri bianchi, che si sarebbero inseriti senza difficoltà, ma la cultura dei pregiudizi razziali lo rendeva pericoloso. I quattro bianchi più giovani cercavano di attenuare il pericolo sostenendo di avere un ottavo di sangue negro. Luisa era creola — un misto di francese e spagnolo — e troppo vecchia per curarsi di chi lo sapeva. — Ci sono guai? — chiese Luisa. Anyanwu annuì. — Stephen ha detto che era qui Doro, quello di cui mi hai parlato. — Va' a dire agli altri di non tornare dai campi finché non li chiamerò io. Luisa la fissò intensamente. — E se chiama lui, dalla tua bocca? — Allora dovranno decidere se fuggire o no. Sanno di lui. Se vogliono fuggire adesso, possono farlo. In seguito, se vedranno di nuovo il cane nero nei boschi, potranno tornare. — Se Doro l'avesse uccisa, non avrebbe potuto usare le sue capacità di guarigione o di metamorfosi. Questo lo aveva appreso dal soggiorno a Wheatley. Lui poteva impossessarsi del corpo di qualcuno e usarlo per avere figli, ma poteva usare soltanto il corpo. Quando si era impossessato di Thomas, tanto tempo prima, non aveva ac-
quisito la capacità di leggere nel pensiero che aveva Thomas. Che lei sapesse, non aveva mai usato le facoltà straordinarie dei corpi che occupava. La vecchia prese per le spalle Anyanwu e l'abbracciò. — Che cosa farai? — domandò. — Non lo so. — Non l'ho mai visto, eppure lo odio. — Va' — le disse Anyanwu. Luisa si allontanò in fretta fra l'erba. Si muoveva bene per la sua età. Come i figli di Anyanwu, aveva avuto una vita lunga e sana. Colera, malaria, febbre gialla, tifo e altre malattie imperversavano nella regione, ma lasciavano quasi indisturbati i protetti di Anyanwu. Se prendevano una malattia, sopravvivevano e si rimettevano in fretta. Se si ferivano, Anyanwu era lì ad assisterli. Quando Luisa scomparve fra gli alberi, Doro uscì dalla casa. — Posso inseguirla — le disse. — So che l'hai mandata ad avvertire i tuoi braccianti. Anyanwu si voltò per affrontarlo con ira. — Tu sei tanto più vecchio di me. Devi avere qualche difetto innato che ti impedisce di diventare saggio con gli anni. — Prima o poi sarai tanto benevola con me da dirmi quale saggezza hai acquisito tu? — C'era una nota tagliente nella sua voce, finalmente. Stava cominciando a irritarlo e a porre fine alla fase della seduzione. Così andava bene. Era stato stupido da parte sua pensare che Anyanwu potesse lasciarsi sedurre di nuovo. Era possibile, comunque, che fosse lei a sedurlo. — Sei stato contento di rivedermi, non è vero? — gli disse. — Penso che tu sia rimasto sorpreso di scoprire quanto eri contento. — Dimmi quello che hai da dire, Anyanwu! Lei scrollò le spalle. — Isaac aveva ragione. Silenzio. Lei sapeva che Isaac gli aveva parlato parecchie volte. Isaac aveva desiderato disperatamente che tornassero insieme le due persone che amava di più. Quello significava qualcosa per Doro? Anni prima no, ma in quel momento... Doro era stato contento di vederla. Si era meravigliato del fatto che sembrava intatta, come se stesse cominciando soltanto allora a rendersi conto che era poco più probabile che morisse di quanto lo fosse per lui, e del tutto improbabile che diventasse decrepita per la vecchiaia. Come se la sua immortalità fosse stata emotivamente irreale per lui fino a quel momento, un fatto che aveva accettato soltanto con una parte della mente.
— Doro, io continuerò a vivere, se non mi ucciderai tu. Non c'è motivo per cui debba morire, se non mi uccidi. — Pensi di potermi soppiantare in un lavoro al quale ho dedicato millenni? — Pensi che lo voglia? — ribatté lei. — Dicevo la verità. Questa gente ha bisogno di me, e io di loro. Non ho mai avuto intenzione di fondare un insediamento come i tuoi. Perché dovrei? Non ho bisogno di corpi nuovi come te. Tutto ciò che mi serve sono i miei simili. La mia famiglia, oppure persone che mi sembrano una famiglia. Per te, la maggior parte delle persone che ho qui non sarebbe adatta nemmeno per la riproduzione, credo. — Quarant'anni fa, quella vecchia lo sarebbe stata. — Il fatto che ora le offra una casa mi fa entrare in competizione con te? — Ne hai altre. La cameriera... — Mia figlia! — Lo immaginavo. — Non è sposata. Portale un uomo. Se le piacerà, faglielo sposare e falle mettere al mondo figli interessanti. Se non le piacerà, trovale qualcun altro. Ma le serve un solo marito, Doro, così come mio figlio ha bisogno di una moglie sola. — È questo l'esempio che dai loro col tuo modo di vivere? Oppure devo pensare che dormi da sola, visto che i tuoi mariti sono morti? — Se i miei figli daranno segno di diventare vecchi come me, potranno fare come vorranno. — Lo faranno in ogni caso. — Ma non sotto la tua guida, Doro. Non con te che ne faresti degli animali. Che cosa diventerebbe mio figlio nelle tue mani? Un altro Thomas? Te ne vai dappertutto a curare dieci, venti insediamenti diversi, e non dai abbastanza di te stesso a nessuno di essi. Io me ne sto qui a badare alla mia gente e mi offro di lasciare che i tuoi figli sposino i miei. E se i rampolli saranno strani e difficili da accudire, li accudirò io. Mi occuperò io di loro. Non c'è bisogno che vivano soli nei boschi e bevano troppo e trascurino il loro corpo fin quasi a morirne. Con sua sorpresa, Doro l'abbracciò proprio come Luisa, e scoppiò a ridere. La prese per il braccio e la portò verso gli alloggi degli schiavi, sempre ridendo. Si calmò, però, mentre apriva a caso una porta e sbirciava in una delle capanne solide e ordinate. C'era un grande focolare di mattoni con una teglia per il pane fra le braci quasi spente. Il pane per la cena di qualcuno. In un angolo c'era un grande letto, con un altro, sottostante, montato
su rotelle. C'erano un tavolo e quattro sedie, evidentemente tutte fatte in casa, ma adeguate. C'era una culla che sembrava anch'essa fatta in casa, e molto usata. C'erano una cassetta per la legna e un secchio dell'acqua con il mestolo. C'erano mazzi di erbe odorose e pannocchie appese al soffitto a essiccare e utensili da cucina sul camino e intorno. In generale, la capanna dava l'impressione di essere un posto semplice, ma confortevole per viverci. — È sufficiente? — chiese Anyanwu. — Ho parecchie persone, negri e bianchi, che non vivono così bene. — Io no. Lui tentò di attirarla nella capanna verso le sedie o il letto — non sapeva quale dei due — ma Anyanwu resistette. — Questa è la casa di qualcun altro — disse. — Possiamo rientrare nella mia, se vuoi. — No. Più tardi, forse. — Le passò un braccio intorno alla vita. — Dovrai sfamarmi di nuovo e trovare un altro giaciglio di terra per stenderci. "Per sentirti di nuovo minacciare i miei figli" pensò lei. Come in risposta, Doro aggiunse: — E devo spiegarti per quale motivo ho riso. Non perché la tua offerta non mi lusinghi, Anyanwu; al contrario. Ma tu non sai quale genere di creature ti stai offrendo di accudire. Ah no? Non le aveva viste a Wheatley? — Ti porterò alcuni dei tuoi discendenti — riprese Doro. — Penso che ti sorprenderanno. Ho lavorato molto su di loro, dopo Nweke. Penso che ti stancherai presto di assistere loro o i loro figli. — Perché? Che cosa c'è di nuovo in loro che non va? — Forse niente. Forse la tua influenza è proprio quello di cui hanno bisogno. D'altra parte, forse distruggeranno la famiglia che ti sei costruita qui con più efficacia di qualsiasi altra cosa. Li terrai lo stesso con te? — Doro, come posso saperlo? Non mi hai detto niente. Lei portava i capelli sciolti, corti e arrotondati a formare un'aureola intorno al viso, come la prima volta che Doro glieli aveva pettinati. Ora le posò le mani sulle tempie, premendole sulla testa. — Donna di Sole, o accetterai la mia gente nel modo che tu stessa hai stabilito o verrai con me, accettando compagni di letto quando e dove te lo ordinerò, oppure mi darai i tuoi figli. In un modo o nell'altro, mi servirai. Che cosa scegli? "Sì" pensò lei con amarezza. "Ora le minacce." — Portami i miei nipoti — disse. — Anche se non mi hanno mai visto, mi riconosceranno. I loro
corpi si ricorderanno di me fin nelle strutture più intime della carne. Non puoi sapere fino a che punto i corpi delle persone ricordano i loro avi. — Me lo insegnerai — rispose lui. — Pare che tu abbia imparato molto dall'ultima volta che ci siamo visti. Ho allevato persone per quasi tutta la vita e ancora non so perché alcuni metodi funzionino e altri no, oppure perché un sistema funzioni soltanto alcune volte anche con la stessa coppia. Tu me lo insegnerai. — Non farai del male alla mia gente? — domandò, osservandolo con attenzione. — Che cosa sanno di me? — Tutto. Ho pensato che se mai ci avessi trovato, non ci sarebbe stato tempo per me di spiegare il pericolo. — Ordina loro di obbedirmi. Lei fece una smorfia come di dolore e distolse lo sguardo. — Non puoi prenderti sempre tutto — disse. — Oppure prenditi semplicemente la mia vita. Che senso ha continuare a vivere senza avere niente? Ci fu silenzio per un attimo. — Obbedivano a Denice? — chiese lui alla fine. — O a Mgbada? — A volte. Sono persone molto indipendenti. — Ma obbediscono a te. — Sì. — Allora di' loro di obbedire a me. Se non lo farai tu, dovrò dirglielo io stesso. In qualsiasi modo possano capire. — Non fargli del male! Lui scrollò le spalle. — Se mi obbediranno, non lo farò. Stava costruendo una nuova Wheatley. Aveva insediamenti ovunque, famiglie ovunque. Lei ne aveva una sola, e Doro gliela stava prendendo. L'aveva portata via da un popolo e scacciata da un altro, e ora stava allungando la mano con noncuranza, per privarla di un terzo. E lei si sbagliava. Poteva continuare a vivere senza niente. Lo avrebbe fatto. Ci avrebbe pensato lui. 12 Anyanwu non aveva mai visto disgregarsi un gruppo come il suo. Non sapeva nemmeno se fosse mai esistito un gruppo come quello. Certo, una volta che Doro ebbe cominciato a trascorrere del tempo alla piantagione, esercitando la sua autorità mentre Anyanwu stava a guardare senza dir
niente, il carattere del gruppo cominciò a cambiare. Quando portò con sé Joseph Toler per farlo sposare a una delle figlie di Anyanwu, il giovane modificò ancor più il gruppo, rifiutandosi di fare qualsiasi genere di lavoro. I genitori adottivi lo avevano viziato, gli avevano permesso di passare il suo tempo a bere, giocare d'azzardo e portarsi a letto giovani donne. Ma era un bel giovanotto: pelle color miele, capelli neri e ricci, alto e snello. La figlia di Anyanwu, Margaret Nneka, fu affascinata da lui. Lo accettò subito. Ma nella piantagione furono in pochi altri ad accettarlo. Non faceva la sua parte di lavoro, eppure non poteva essere licenziato e mandato via. Poteva invece creare un gran numero di guai. Si trovava nella piantagione solo da poche settimane, quando si spinse troppo in là e fu sconfitto in uno scontro con il figlio di Anyanwu, Stephen. Anyanwu era sola, quando Stephen venne a riferirle quello che era successo. Era appena rientrata dopo aver curato un bambino di quattro anni che si era spinto fino al bayou e aveva spaventato un mocassino d'acqua. Era riuscita facilmente a produrre nel proprio corpo un rimedio per combatterne il veleno, dato che una delle prime cose che aveva fatto stabilendosi in Louisiana era stata lasciarsi mordere da un serpente di quella specie. Ormai, combattere il veleno era quasi una seconda natura per lei. Subito dopo, però, aveva l'abitudine di concedersi un pasto. Fu così che Stephen, contuso e scarmigliato, la trovò che mangiava in sala da pranzo. — Devi liberarti di quel pigro bastardo buono a nulla — le disse. Anyanwu sospirò. Non c'era bisogno di chiedere a chi si riferiva il ragazzo. — Che cosa ha fatto? — Ha tentato di violentare Helen. Anyanwu lasciò cadere il pezzo di pane di granturco che era sul punto di addentare. Helen era la sua figlia minore, di undici anni. — Cosa? — Li ho sorpresi nella capanna dei Duran. Le stava strappando i vestiti di dosso. — Lei sta bene? — Sì. È nella sua stanza. Anyanwu si alzò. — Allora andrò a vederla fra poco. Lui dov'è? — Steso di fronte alla capanna dei Duran. Lei uscì, senza sapere se avrebbe dato un'altra lezione al giovane o se lo avrebbe aiutato, nel caso che Stephen gli avesse fatto male sul serio. Ma che razza di animale era, per tentare di violentare una bambina? Come poteva tollerarlo dopo quell'episodio? Doro avrebbe dovuto portarselo via, e al diavolo i progetti di riproduzione.
Il giovanotto non era troppo bello, quando Anyanwu lo trovò. Era grande una volta e mezza Stephen, e forte, malgrado l'indolenza, ma Stephen aveva ereditato molta della forza di Anyanwu. E sapeva come somministrare una buona battuta, anche con le braccia e le mani nuove, che avevano appena completato lo sviluppo. Il viso del giovane era una massa informe di tessuti tumefatti. Aveva il naso rotto e sanguinante. La carne intorno all'occhio era gonfia in modo grottesco. L'orecchio sinistro era quasi strappato. Lo avrebbe perso e avrebbe assunto l'aspetto di uno degli schiavi marchiati e venduti al Sud come fuggiaschi. Il suo corpo era così ammaccato sotto la camicia che Anyanwu era certa che avesse le costole spezzate. E gli mancavano parecchi denti, davanti. Non sarebbe più stato bello. Cominciò a rinvenire mentre Anyanwu gli tastava le costole. Grugnì, imprecò, tossì, e a ogni colpo di tosse si contorceva per il dolore lancinante. — Sta' fermo — ordinò Anyanwu. — Respira in modo superficiale, e cerca di non tossire più. Il giovane piagnucolò. — Ringrazia che ti abbia sorpreso Stephen — disse lei. — Se fossi stata io, non avresti più nessun interesse per le donne, te lo assicuro. Per il resto della tua vita. Nonostante il dolore, il giovane si ritrasse istintivamente da lei, raggomitolandosi in un gesto protettivo. — Che cosa ci può essere in te che valga la pena di infliggere ai tuoi discendenti? — chiese lei disgustata. Gli ordinò di alzarsi, ignorando la sua debolezza, i suoi gemiti di dolore. — Ora entra in casa! — ordinò. — Oppure va' a stenderti nella stalla insieme agli altri animali. Lui riuscì a raggiungere la casa, e non svenne finché raggiunse le scale. Anyanwu lo trasportò di peso in una stanzetta angusta nella soffitta, lo lavò, gli fasciò le costole e lo lasciò lì con acqua, pane e un po' di frutta. Avrebbe potuto dargli qualcosa per alleviare il dolore, ma non lo fece. La bambina, Helen, era addormentata sul letto, con indosso ancora il vestito strappato. Aveva il viso gonfio da una parte, come per un forte colpo, e quella vista fece desiderare ad Anyanwu di infliggere al giovane un'altra lezione. Invece, svegliò dolcemente la bambina. Nonostante la sua gentilezza, Helen si riscosse con un sussulto e lanciò un grido. — Sei al sicuro — le disse Anyanwu. — Ci sono qui io.
La bambina si aggrappò a lei, senza piangere, solo tenendola stretta, abbracciandola con tutte le sue forze. — Sei ferita? — chiese Anyanwu. — Ti ha fatto male? La bambina non rispose. — Obiageli, sei ferita? La bambina si stese di nuovo lentamente sul letto e la guardò. — È entrato nei miei pensieri — disse. — L'ho sentito entrare. — ...nei tuoi pensieri? — Lo sentivo. Sapevo che era lui. Voleva che entrassi nella casa di Tina Duran. — Ti ha costretto ad andarci? — Non lo so. — Finalmente, la bambina cominciò a piangere. Nascose il viso gonfio nel cuscino e vi pianse dentro. Anyanwu le accarezzò le spalle e il collo e la lasciò sfogare. Non pensava che piangesse perché era stata sul punto di essere violentata. — Obiageli — sussurrò. Prima della nascita della bambina, una donna bianca senza figli che si chiamava Helen Matthews aveva chiesto ad Anyanwu di dare il suo nome a una figlia. Quel nome non era mai piaciuto ad Anyanwu, ma la donna bianca era stata una buona amica, una di quelle che avevano superato i pregiudizi dell'educazione e le chiacchiere del vicinato per venire a vivere nella piantagione. Non era mai riuscita ad avere figli, e quando aveva conosciuto Anyanwu aveva già superato l'età fertile. Così, la figlia minore di Anyanwu era stata chiamata Helen. E Helen era la figlia che Anyanwu chiamava più spesso col secondo nome, Obiageli. Chissà come, con gli altri aveva perso l'abitudine. — Obiageli, dimmi tutto quello che ha fatto. Dopo qualche minuto, la bambina tirò su col naso, si girò e si asciugò il viso. Rimase distesa, immobile, guardando il soffitto, con una piccola ruga scavata in mezzo agli occhi. — Stavo prendendo l'acqua — raccontò. — Volevo aiutare Rita. — Era la cuoca os rouge, risultato di incroci fra negri e indiani, dall'aspetto spagnolo. — Aveva bisogno di acqua, così ero al pazzo. Lui è venuto a parlarmi. Ha detto che ero graziosa. Ha detto che gli piacevano le bambine. Ha detto che era molto tempo che gli piacevo. — Avrei dovuto buttarlo nel porcile — borbottò Anyanwu. — Lasciare che il suo corpo si rotolasse nello sterco come sarebbe consono alla sua mente.
— Ho tentato di andare a portare l'acqua a Rita — continuò la bambina. — Ma mi ha detto di andare con lui. Sono andata. Non mi piaceva andare, ma lo sentivo dentro i miei pensieri. Poi mi sono sentita separata da me stessa: ero in qualche altro posto, a guardare me stessa camminare con lui. Ho tentato di tornare indietro, ma non potevo. Le mie gambe camminavano senza di me. — S'interruppe, guardò Anyanwu. — Non mi sono mai accorta se Stephen guardava nei miei pensieri. — Ma Stephen può soltanto guardare — disse Anyanwu. — Non può costringerti a fare niente. — In ogni caso non vorrebbe. — No. La bambina riprese, a occhi bassi. — Siamo entrati nella capanna di Tina e lui stava per chiudere la porta quando ho scoperto che potevo muovere di nuovo le gambe. Sono corsa fuori della porta prima che la chiudesse. Poi mi ha ripreso le gambe e io ho urlato e sono caduta. Credevo che volesse farmi tornare indietro con le mie gambe, invece è uscito, mi ha afferrato e mi ha trascinato di nuovo dentro. Penso che sia stato allora che Stephen ci ha visti. — Alzò gli occhi. — Stephen lo ha ucciso? — No. — Anyanwu rabbrividì, non volendo pensare a quello che Doro avrebbe potuto fare a Stephen se avesse ucciso l'indegno Joseph. Se ci fosse stato da uccidere, lo avrebbe fatto lei. Probabilmente, nessuno nella piantagione detestava uccidere più di lei. Ma doveva proteggere la sua gente sia dai malvagi estranei portati da Doro, sia da Doro stesso. Tuttavia, sperava che Joseph si sarebbe comportato bene finché Doro non fosse tornato a portarlo via. — Stephen avrebbe dovuto ucciderlo — disse piano Helen — Ora forse mi farà muovere di nuovo le gambe. O forse farà qualcosa di peggio. — Scosse la testa, col viso infantile indurito e invecchiato. Anyanwu le prese la mano, ricordando... ricordando Lale, il fratello indegno di Isaac, tanto diverso da lui. In tutto il tempo trascorso con Doro, non aveva conosciuto nessun altro dei suoi figli deliberatamente crudele come Lale. Fino a quel momento, forse. Perché Doro le aveva affidato un uomo del genere? E per quale motivo non l'aveva almeno avvertita? — Che cosa gli farai? — chiese la bambina. — Lo farò portare via da Doro. — E Doro lo farà solo perché lo dici tu? Anyanwu fece una smorfia. Solo perché lo dici tu... Da quanto tempo la piantagione andava avanti solo perché lo diceva lei? La gente si era accon-
tentata di quello che diceva lei. Se avevano dei problemi che non riuscivano a risolvere, venivano da lei. Se litigavano e non riuscivano a mettersi d'accordo da soli, venivano da lei. Non li aveva mai invitati a sottoporle i loro guai, ma non li aveva mai nemmeno respinti. Avevano fatto di lei l'autorità suprema. E ora la sua figlioletta undicenne voleva sapere se una cosa sarebbe successa soltanto perché lo diceva lei. Undicenne! Era occorso tempo, pazienza e almeno una certa dose di saggezza per costruire la fiducia della gente in lei. Erano bastate poche settimane di presenza di Doro per corrodere quella fiducia, al punto che perfino i figli dubitavano di lei. — Doro lo porterà via? — insistette la bambina. — Sì — rispose piano Anyanwu. — Ci penserò io. Quella notte, Stephen camminò nel sonno per la prima volta in vita sua. Uscì sulla galleria superiore del portico e cadde, o saltò, nel vuoto. Non ci fu trambusto; Stephen non gridò. All'alba, la vecchia Luisa lo trovò steso al suolo, con il collo così contorto che Luisa non fu sorpresa di sentire il corpo freddo. La vecchia salì di persona le scale per svegliare Anyanwu e portarla in un salottino al piano di sopra, lontano dalla figlioletta che dormiva insieme a lei. La figlia, Helen, continuò a dormire, contenta, occupando un po' del posto caldo lasciato libero da Anyanwu. Nel salotto, Luisa rimase in silenzio di fronte ad Anyanwu, esitando, sperando di trovare un modo per attenuare la terribile notizia. Anyanwu non sapeva quanto era amata, pensò Luisa. Raccoglieva le persone intorno a sé, si occupava di loro e le aiutava a occuparsi l'una dell'altra. Luisa aveva una natura sensitiva che, per quasi tutta la vita, le aveva reso la vicinanza degli altri una vera tortura. In qualche modo, aveva sopportato l'infanzia e l'adolescenza in una vera piantagione, dove le crudeltà normalmente commesse dai padroni sugli schiavi l'avevano spinta ad allontanarsi, accettando un matrimonio che non faceva per lei. La gente pensava che fosse semplicemente gentile e romantica in modo tutto femminile, per provare tanta comprensione verso gli schiavi. Non capivano che per gran parte del tempo, forse troppo, lei pativa letteralmente ciò che pativano gli schiavi, condivideva frammenti dei loro magri piaceri e fin troppi frammenti della loro sofferenza. Non aveva affatto l'autocontrollo di Stephen, non aveva mai completato il tormentoso processo di transizione che, come sapeva, era sopraggiunto nel giovane due anni prima. L'essere di nome Doro le aveva spiegato che ciò dipendeva dal fatto che la sua ascendenza era sba-
gliata. Aveva detto che lei discendeva dal suo popolo. Dunque era colpa di Doro se lei aveva vissuto per tutta la vita cosciente del disprezzo del marito e dell'indifferenza dei figli. Era colpa sua se aveva raggiunto i sessant'anni prima di scoprire persone di cui poteva sopportare la presenza, senza soffrire, persone che poteva amare e da cui poteva essere amata. Era la "nonna" di tutti i bambini, lì. Alcuni di loro vivevano addirittura nella sua capanna, perché i genitori non potevano o non volevano occuparsi di loro. Luisa pensava che certi genitori fossero troppo sensibili a ogni emozione negativa o ribelle nei propri figli. Anyanwu pensava che fosse qualcosa di più, che certe persone non volessero fra i piedi dei bambini, ribelli o meno. Diceva che alcuni dei protetti di Doro erano così. Anyanwu stessa raccoglieva bambini abbandonati, oltre agli adulti smarriti. Suo figlio aveva mostrato segni di voler diventare come lei. Ora, quel figlio era morto. — Che c'è? — le chiese Anyanwu. — Cos'è successo? — Un incidente — rispose Luisa, rammaricandosi di non poterla risparmiare. — Si tratta di Joseph? — Joseph! — Quel figlio di buona donna che Doro aveva portato per fargli sposare una delle figlie di Anyanwu. — Mi angustierei, se si trattasse di Joseph? — E di chi allora? Dimmi, Luisa. La vecchia trasse un respiro profondo. — Tuo figlio — rispose. — Stephen è morto. Seguì un lungo, terribile silenzio. Anyanwu rimase immobile, stordita. Luisa avrebbe desiderato che lanciasse un grido di dolore materno, così da poterla confortare. Ma Anyanwu non gridava mai di dolore. — Com'è potuto morire? — bisbigliò Anyanwu. — Aveva diciannove anni. Era un guaritore. Com'è potuto morire? — Non lo so. È... caduto. — Da dove? — Dal primo piano. Dalla galleria. — Ma come? Perché? — Come faccio a saperlo, Anyanwu? È successo la notte scorsa... dev'essere così. L'ho trovato appena pochi istanti fa. — Fammi vedere! Sarebbe scesa in camicia da notte, ma Luisa afferrò un mantello dalla camera da letto e glielo gettò addosso. Mentre usciva con Anyanwu notò
che la bambina si muoveva irrequieta nel sonno, gemendo piano. Un incubo? All'esterno, altri avevano scoperto il corpo di Stephen. Due bambini si ritrassero, fissandolo con gli occhi sbarrati, e una donna s'inginocchiò accanto a lui, ululando di dolore come Anyanwu non avrebbe mai fatto. Era Iye, una donna alta, bella e imponente di origini terribilmente confuse... francesi e africane, spagnole e indiane. La miscela si era fusa fin troppo bene in lei. Luisa sapeva che aveva trentasei anni, ma sarebbe potuta passare facilmente per una donna di ventisei o anche meno. I bambini erano suo figlio e sua figlia, e quello che aveva nel ventre sarebbe stato il figlio o la figlia di Stephen. Aveva sposato un uomo che amava il vino più di quanto avrebbe mai potuto amare qualsiasi donna, e alla fine il vino lo aveva ucciso. Anyanwu l'aveva trovata insieme ai due bambini, in miseria, che si vendeva per procurare loro da mangiare, e meditava con molta serietà se fosse il caso di prendere il coltello arrugginito del marito e tagliare la gola prima a loro e poi a se stessa. Anyanwu le aveva dato una casa e la speranza. Stephen, quando era cresciuto abbastanza, le aveva dato qualcosa di più. Luisa ricordava Anyanwu che scuoteva la testa pensando a quella unione, e diceva: «Lei gli sta intorno come una cagna in calore! Da come si comporta non si direbbe davvero che potrebbe essere sua madre.» E Luisa era scoppiata a ridere. «Dovresti sentirti, Anyanwu. Meglio ancora, dovresti vederti quando trovi un uomo che ti piace.» «Io non sono così!» Anyanwu si era indignata. «Certo che no. Sei molto meglio. E molto più vecchia.» E Anyanwu, essendo Anyanwu, era passata da un silenzio incollerito a una risata allegra. «Un giorno sarà senza dubbio un marito migliore perché avrà conosciuto lei» aveva detto. «O forse ti farà una sorpresa e la sposerà» aveva ribattuto Luisa. «Nonostante l'età, fra loro c'è molto di più della solita attrazione. Lei gli somiglia. Ha una parte di ciò che ha lui, una parte del potere. Non può usarlo, ma c'è. Lo sento in lei, a volte, soprattutto nei momenti in cui è più appassionata verso di lui.» Anyanwu aveva ignorato quella osservazione, preferendo credere che alla fine il figlio avrebbe fatto un matrimonio adatto a lui. Perfino in quel momento, Luisa non sapeva se Anyanwu fosse al corrente del bambino in arrivo. Non si vedeva ancora niente, ma Iye lo aveva detto a Luisa. Ad Anyanwu non lo avrebbe detto.
In quel momento, Anyanwu si avvicinò al corpo, si chinò a toccare la carne fredda della gola. Iye la vide e fece per allontanarsi, ma Anyanwu la trattenne per la mano. — Abbiamo entrambe un lutto — disse a voce bassa. Iye nascose il viso e continuò a piangere. Fu il figlio minore, un bambino di otto anni, che con un grido interruppe il suo pianto e il dolore più silenzioso di Anyanwu. Al grido del bambino, tutti lo guardarono, poi spostarono lo sguardo in alto, verso la galleria dove stava guardando lui. Lassù, Helen stava lentamente salendo sulla balaustra. Anyanwu si mosse all'istante. Luisa non aveva mai visto un essere umano muoversi così in fretta. Quando Helen saltò, Anyanwu era in posizione sotto di lei. La afferrò al volo con una presa perfetta, smorzando la caduta, cosicché, anche se la bambina si era tuffata dalla balaustra a capofitto, non urtò con la testa il terreno. Non si fece male né alla testa né al collo. Era grande quasi quanto Anyanwu, ma la madre non aveva fatto caso né alla taglia né al peso. Tutto era già finito prima che Luisa avesse il tempo di rendersene conto. Anyanwu stava calmando la figlia in lacrime. — Perché lo ha fatto? — chiese Luisa. — Che sta succedendo? Anyanwu scosse la testa, chiaramente spaventata, confusa. — È stato Joseph — spiegò infine Helen. — Ha mosso di nuovo le mie gambe. Credevo che fosse soltanto un sogno finché... — Alzò gli occhi verso la galleria, poi verso la madre che la teneva ancora stretta. Ricominciò a piangere. — Obiageli — disse Anyanwu. — Resta qui con Luisa. Resta qui. Io vado su da lui. Ma la bambina si aggrappò ad Anyanwu e gridò quando Luisa tentò di allentare la presa. Anyanwu avrebbe potuto liberarsi facilmente dalla sua stretta, ma decise di dedicare ancora alcuni minuti a consolarla. Quando Helen diventò più calma, fu Iye, non Luisa, a prenderla in consegna. — Tienila con te — le disse Anyanwu. — Non farla entrare in casa. Non lasciar entrare nessuno. — Che cosa farai? — chiese Iye. Anyanwu non rispose. Il suo corpo aveva già cominciato a trasformarsi. Gettò via il mantello e la camicia. Quando fu nuda, il suo corpo non era già più umano. Stava cambiando molto in fretta, diventando stavolta un grosso felino invece del cane familiare. Un grosso felino maculato.
Quando la metamorfosi fu completa, andò alla porta e Luisa gliela aprì. Luisa fece per seguirla all'interno c'era almeno un'altra porta da aprire, dopo tutto, ma il felino si voltò e lanciò un profondo ruggito. Le sbarrò il passo finché lei non si volse e uscì nuovamente. — Mio Dio — bisbigliò Iye quando Luisa tornò. — Mi fa paura quando fa cose simili proprio sotto i miei occhi. Luisa la ignorò, si avvicinò a Stephen e gli raddrizzò il collo e il corpo, quindi lo ricoprì col mantello gettato via da Anyanwu. — Che cosa intende fare? — chiese Iye. — Uccidere Joseph — rispose Helen con gentilezza. — Uccidere? — Iye fissò senza capire il visetto solenne. — Sì — rispose la bambina. — E dovrebbe uccidere anche Doro, prima che ci porti qualcuno peggiore. Trasformata in leopardo, Anyanwu attraversò l'atrio e salì lo scalone principale a passi felpati, poi salì la scala più stretta fino alla soffitta. Era affamata. Si era trasformata un po' troppo in fretta, e sapeva che avrebbe dovuto mangiare presto. Doveva controllarsi, però; non voleva mangiare neanche un boccone della disgustosa carne di Joseph. Meglio mangiare carne marcia brulicante di larve! Doro: come aveva potuto portarle un verme umano come Joseph? La porta era chiusa, ma Anyanwu l'aprì con una sola zampata. Dall'interno si levò un roco ansito di sorpresa. Poi, mentre si avventava nella stanza, qualcosa le intralciò le zampe anteriori, e lei finì per scivolare sul muso e sul petto, urtando contro la base del lavabo. Si fece male, ma poteva ignorare il dolore. Quello che non poteva ignorare era la paura. Aveva sperato di coglierlo di sorpresa, di afferrarlo prima che potesse sfruttare la sua capacità. Aveva addirittura sperato che non potesse fermarla quando era in forma non umana. Ora lanciò un ruggito furioso e lacerante che esprimeva collera e timore di fallire. Per un attimo, sentì le zampe libere. Forse lo aveva spaventato al punto da fargli perdere il controllo. Non aveva importanza. Spiccò un balzo, con gli artigli sfoderati, come sul dorso di un cervo in fuga. Joseph urlò e alzò le braccia di scatto per proteggersi la gola. Nello stesso momento, controllò di nuovo le zampe di lei. La disperazione lo rese incredibilmente rapido. Anyanwu lo capì perché lei stessa era stata sorprendentemente veloce.
Le zampe persero la sensibilità, e Anyanwu rischiò di cadergli sopra. Mantenne la presa con i denti, affondandoli in un braccio, dilaniando la carne, con l'intento di arrivare alla gola. Riacquistò la sensibilità alle zampe, ma d'un tratto non riuscì più a respirare. La gola le sembrava chiusa, bloccata chissà in quale modo. Individuò all'istante l'occlusione, aprì un orifizio appena al di sotto, un foro nella gola attraverso il quale respirare. E strinse la sua gola fra i denti. In preda alla disperazione, Joseph ficcò le dita nel foro che lei aveva appena creato per respirare. In un altro momento, con un'altra preda, forse Anyanwu si sarebbe accasciata sentendo quel dolore improvviso e atroce. Ma in quel momento aveva davanti agli occhi l'immagine del figlio ucciso, e della figlia che aveva rischiato di morire allo stesso modo. E se lui avesse semplicemente chiuso loro la gola come aveva appena fatto con lei? Forse non lo avrebbe saputo mai con certezza. Forse lui l'avrebbe fatta franca. Gli dilaniò la gola. Stava morendo, quando lei si lasciò sommergere dal dolore. Lui era troppo vicino alla morte per farle ancora del male. Morì con lievi gorgoglii sommessi e una terribile emorragia, mentre lei gli stava stesa sopra rianimandosi, risanandosi. Era affamata. Dio, com'era affamata. L'odore del sangue le riempì le narici appena ristabilì le normali funzioni respiratorie, e l'odore e la carne sotto di lei la tormentarono. Si alzò rapidamente e scese la scala stretta fino allo scalone principale. Lì esitò. Voleva del cibo prima di cambiare nuovamente forma. Ormai stava per svenire dalla fame. Ne sarebbe impazzita, se avesse dovuto trasformarsi per ordinare da mangiare. Luisa entrò in casa, la vide e si fermò. La vecchia non aveva paura di lei. Non c'era quell'odore invitante di paura a farle cambiare forma in fretta prima di perdere la testa. — È morto? — domandò la vecchia. Anyanwu abbassò la testa da felino in quello che sperava sarebbe stato inteso come un cenno di assenso. — Grazie al cielo — disse Luisa. — Hai fame? Altri due rapidi cenni. — Va' in sala da pranzo. Ti porterò da mangiare. — Attraversò la casa e uscì diretta verso la cucina. Era una buona amica, solida e sensata. Faceva ben più che cucire, per guadagnarsi il mantenimento. Anyanwu l'avrebbe tenuta con sé anche se non avesse fatto niente. Ma era così vecchia. Oltre i
settanta. Presto qualche debolezza per la quale Anyanwu non riusciva a trovare un rimedio le avrebbe tolto la vita, e un'altra amica se ne sarebbe andata. La gente era temporanea. Troppo temporanea. Disobbedendo agli ordini, Iye e Helen entrarono dalla porta d'ingresso e videro Anyanwu, insanguinata dall'uccisione, che non era ancora entrata in sala da pranzo. Se non fosse stato per la bambina, Anyanwu avrebbe espresso con un ruggito la collera e lo scontento verso Iye. Non le piaceva che i bambini la vedessero in momenti come quello. Sgattaiolò attraverso l'atrio fino alla sala da pranzo. Iye rimase dov'era, ma permise a Helen di seguire Anyanwu. Lei, che lottava contro l'odore della paura, l'odore del sangue, la fame e l'ira, non notò la figlia finché non furono entrambe nella sala da pranzo. Allora, esausta, Anyanwu si lasciò cadere su un tappeto di fronte al camino spento. Senza timore, la bambina venne a sedersi sul tappeto vicino a lei. Anyanwu alzò la testa, sapendo di avere il muso imbrattato di sangue e rimpiangendo di non essersi pulita prima di scendere le scale. Di non essersi ripulita e di non aver lasciato la figlia alle cure di una persona più fidata. Helen la strofinò, le toccò le macchie, l'accarezzò come se fosse una grossa gatta domestica. Come la maggior parte dei bambini della piantagione, aveva visto Anyanwu cambiare forma molte volte. In quel momento accettava il leopardo, così come aveva fatto con il cane nero e l'uomo bianco di nome Warrick che aveva dovuto fare qualche apparizione per tranquillizzare i vicini. Chissà come, sotto le mani della piccola, Anyanwu cominciò a rilassarsi. Dopo un po', cominciò a fare le fusa. — Agu — disse piano la bambina. Era una delle poche parole della lingua di Anyanwu che Helen conoscesse. Significava semplicemente "leopardo". — Agu — ripeté. — Presentati così a Doro. Non oserà farci del male mentre sei così. 13 Doro tornò un mese dopo che il cadavere dilaniato di Joseph Toler era stato sepolto nel riquadro erboso che un tempo era stato un cimitero di schiavi, e Stephen Ifeyinwa Mgbada era stato seppellito nel terreno riservato un tempo al padrone e alla sua famiglia. Joseph sarebbe stato molto solo nel cimitero degli schiavi. Nessun altro era stato seppellito come schiavo da quando Anyanwu aveva comprato la piantagione.
Doro arrivò sapendo già, grazie alle sue percezioni speciali, che tanto Joseph quanto Stephen erano morti. Arrivò con dei sostituti, due bambini non più grandi di Helen. Arrivò senza farsi annunciare ed entrò dalla porta principale come se fosse il padrone di casa. Anyanwu, ignara della sua presenza, era in biblioteca a stendere un elenco di provviste necessarie per la piantagione. C'erano tanti articoli che si acquistavano, ormai, invece di farli in casa: sapone, tela, candele. Ci si poteva fidare, perfino, di alcune medicine comprate bell'e pronte, anche se a volte non venivano utilizzate per gli usi a cui le destinavano i fabbricanti. E, naturalmente, occorrevano nuovi attrezzi. Erano morti tre muli e altri tre erano vecchi, e presto avrebbero dovuto essere sostituiti. I braccianti avevano bisogno di scarpe, cappelli... Era più redditizio far lavorare la gente nei campi che producevano grandi raccolti, anziché tenerli occupati a fabbricare oggetti che si potevano comprare altrove a buon mercato. Questo era particolarmente importante in quella piantagione, dove non esistevano schiavi, dove i lavoranti erano pagati per il loro lavoro e ricevevano un alloggio decente e un buon vitto. Mantenere la gente in modo decoroso costava di più. Se Anyanwu non avesse avuto un buon amministratore, avrebbe dovuto tornare molto più spesso al mare per il faticoso lavoro di trovare e spogliare vascelli affondati, per poi trasportare via oro e pietre preziose, di solito all'interno del proprio corpo. Stava sommando una lunga colonna di cifre, quando entrò Doro con i due bambini. Si girò sentendo un suono di passi e vide un uomo pallido, ossuto, angoloso, con i capelli lisci e neri e due dita mancanti dalla mano che usò per calarsi sulla poltrona più vicina alla sua scrivania. — Sono io — disse Doro con voce stanca. — Ordina un pasto per noi, per favore. È parecchio tempo che non mangiamo insieme. Com'era cortese da parte sua chiederle di dare l'ordine, pensò lei amareggiata. Proprio allora una delle sue figlie arrivò alla porta, si fermò e guardò allarmata Doro. Anyanwu aveva la sua vera forma di giovane donna, dopo tutto. Ma si sapeva che Edward Warrick aveva un'amante negra bella e istruita. — Ceneremo presto — disse Anyanwu alla ragazza. — Fa' portare da Rita tutto quello che può preparare il più in fretta possibile. La ragazza sparì obbediente, recitando il ruolo di cameriera, senza sapere che il bianco sconosciuto era soltanto Doro. Anyanwu fissò il corpo più recente di Doro, col desiderio di gridare contro di lui, di ordinargli di uscire da casa sua. Era per colpa sua che il figlio
era morto. Aveva liberato un serpente in mezzo ai suoi figli. E cosa aveva portato con sé, stavolta? Giovani serpi? Dio, come desiderava liberarsi di lui! — Si sono uccisi a vicenda? — le chiese Doro, e i due bambini lo guardarono a occhi sbarrati. Se non erano giovani serpi gli avrebbe insegnato lui a strisciare. Chiaramente, non si curava dei discorsi che si facevano di fronte a loro. Lei lo ignorò. — Avete fame? — chiese ai bambini. Uno annuì, un po' timidamente. — Io sì! — disse in fretta l'altro. — Venite con me, allora — disse. — Rita vi darà pane e conserva di pesche. — Notò che non guardarono Doro per chiedergli il permesso di uscire. Saltarono in piedi, la seguirono e corsero via verso la cucina quando lei gliela indicò. Rita non sarebbe stata contenta. Era già abbastanza chiederle di affrettare la cena. Ma avrebbe sfamato i bambini e forse li avrebbe affidati a Luisa, finché Anyanwu non li avesse mandati a chiamare. Sospirando, Anyanwu tornò da Doro. — Hai sempre avuto la tendenza a proteggere troppo i bambini — commentò lui. — Li lascio semplicemente restare bambini finché lo desiderano — ribatté lei. — Cresceranno e scopriranno la sofferenza e il male fin troppo presto. — Parlami di Stephen e Joseph. Anyanwu si diresse alla scrivania, sedette e si chiese se sarebbe riuscita a discutere con calma di quell'argomento con lui. Aveva pianto e imprecato tante volte. Ma né il pianto né le imprecazioni lo commuovevano. — Perché mi hai portato un uomo senza dirmi quello che poteva fare? — gli chiese con calma. — Che cosa ha fatto? Anyanwu glielo disse, gli riferì tutto, e concluse con la stessa domanda apparentemente calma. — Perché mi hai portato un uomo senza dirmi quello che poteva fare? — Chiama Margaret — disse Doro, ignorando la domanda. Margaret era la figlia che aveva sposato Joseph. — Perché? — Perché quando ho portato qui Joseph, non poteva fare niente. Niente di niente. Era soltanto un buon esemplare da riproduzione con la capacità potenziale di procreare figli utili. Deve aver avuto una transizione, nonostante l'età, e deve averla avuta qui.
— Io lo avrei saputo. Qui chiamano me, ogni volta che qualcuno sta male. E non ci sono stati segni che si avvicinasse alla transizione. — Fa' venire Margaret. Parliamo con lei. Anyanwu non voleva chiamare la ragazza. Margaret aveva sofferto più di chiunque altro per le uccisioni. Aveva perduto tanto il bellissimo e indegno marito che aveva amato, quanto il fratello che aveva adorato. Non aveva neppure la consolazione di un figlio. Joseph non era riuscito a metterla incinta. Nel mese trascorso dalla morte del marito e di Stephen, la ragazza era diventata smunta e seria. Era sempre stata una ragazza vivace, che parlava troppo e rideva e divertiva chi le stava intorno. Ormai non parlava quasi più. Era letteralmente malata di dolore. Di recente, Helen aveva preso l'abitudine di dormire insieme a lei e di seguirla durante il giorno, aiutandola nel lavoro o semplicemente tenendole compagnia. Da principio, Anyanwu aveva osservato con diffidenza quella novità, temendo che Margaret potesse nutrire rancore per Helen che era stata la causa del problema di Joseph — Margaret non era nello stato mentale più lucido — ma chiaramente non doveva essere così. «Sta migliorando» aveva confidato Helen ad Anyanwu. «Prima stava troppo da sola.» La bambina possedeva un'interessante combinazione di durezza, gentilezza e acuta percettività. Anyanwu sperava disperatamente che Doro non la notasse mai. Ma la ragazza più grande era penosamente vulnerabile. E, in quel momento, Doro intendeva riaprire ferite che avevano appena cominciato a cicatrizzarsi. — Lasciala in pace per un po', Doro. Questa storia l'ha fatta soffrire più di chiunque altro. — Chiamala, Anyanwu, oppure lo farò io. Detestandolo, Anyanwu andò a cercare Margaret. La ragazza non lavorava nei campi, come alcuni dei figli di Anyanwu, quindi doveva essere nelle vicinanze. La trovò nella lavanderia, sudata e intenta a stirare un vestito. Helen le stava vicino spruzzando d'acqua e arrotolando altri panni. — Lascia stare per un po' — disse Anyanwu a Margaret. — Vieni dentro con me. — Che cosa c'è? — chiese Margaret. Mise a scaldare un ferro e, senza riflettere, ne prese un altro. — Doro — disse Anyanwu a bassa voce. Margaret rimase paralizzata, tenendo il pesante ferro immobile e verticale nell'aria. Anyanwu glielo tolse di mano, e lo posò sui mattoni del focolare lontano dal fuoco. Allontanò gli altri due ferri dal punto in cui si stavano scaldando.
— Non cercare di stirare niente — disse a Helen. — Per ora ne ho abbastanza di conti per la stoffa. Helen non disse una parola, si limitò a seguirla con gli occhi, mentre Anyanwu portava via Margaret. Fuori della lavanderia, Margaret cominciò a tremare. — Che cosa vuole da me? Perché non ci lascia in pace? — Non ci lascerà mai in pace — rispose Anyanwu con voce piatta. Margaret batté le palpebre, guardò Anyanwu. — Che cosa devo fare? — Rispondi alle sue domande. A tutte, anche se sono personali e offensive. Rispondi e digli la verità. — Mi fa paura. — Bene. La paura è molto utile. Rispondi e obbedisci. Lascia a me ogni critica o disaccordo con lui. Rimasero in silenzio fino a poco prima di raggiungere la casa. Poi Margaret disse: — Siamo noi il tuo punto debole, vero? Potresti sfuggirgli per altri cento anni, se non fosse per noi. — Non sarei felice senza avervi attorno — ribatté Anyanwu. Incontrò lo sguardo degli occhi castano chiaro della ragazza. — Per quale motivo pensi che abbia tutti questi figli? Potrei avere mariti e mogli e amanti fino al prossimo secolo senza mai avere un figlio. Per quale motivo dovrei averne tanti, se non perché li voglio e li amo? Se fossero fardelli troppo pesanti per me, non sarebbero qui. Tu non saresti qui. — Ma... lui si serve di noi per farti obbedire. So che è così. — È vero. Questo è il suo metodo. — Sfiorò la pelle liscia, di un bruno rossiccio, del viso della figlia. — Nneka, niente di tutto questo dovrebbe preoccuparti. Va' e digli quello che vuole sentire, poi scordati di lui. L'ho già sopportato altre volte. Sopravviverò. — Tu sopravviverai fino alla fine del mondo — disse la ragazza in tono solenne. — Tu e lui. — Scrollò la testa. Entrarono insieme in casa e nella biblioteca, dove trovarono Doro seduto alla scrivania di Anyanwu intento a esaminare i suoi registri. — In nome di Dio! — esclamò Anyanwu disgustata. Lui alzò la testa. — Sei una donna d'affari migliore di quanto pensassi, con tutte le tue opinioni antischiaviste — osservò. Con suo stupore, la lode le fece piacere. Non era contenta che fosse andato a curiosare nei suoi affari, ma si sentì d'un tratto meno seccata. Si avvicinò alla scrivania e rimase lì in silenzio finché lui sorrise, si alzò e tornò alla sua poltrona. Margaret scelse un'altra poltrona e si sedette in attesa.
— Glielo hai detto? — chiese Doro ad Anyanwu. Lei scosse la testa. Lui si rivolse a Margaret. — Noi pensiamo che Joseph possa aver superato la transizione mentre era qui. Ne ha dato qualche segno? Margaret stava osservando il nuovo volto di Doro, ma appena lui disse la parola transizione, distolse lo sguardo per mettersi a studiare il disegno del tappeto orientale. — Parlamene — disse Doro con calma. — Come può essere? — domandò Anyanwu. — Non c'è stato nessun segno! — Lui sapeva che cosa stava succedendo — mormorò Margaret. — Lo sapevo anch'io perché lo avevo visto succedere a... a Stephen. Per Stephen ci volle molto di più, però. Con Joe successe quasi tutto d'un tratto. Si sentiva male da una settimana, forse un po' di più, ma nessuno se n'era accorto, tranne me. Mi fece promettere di non dirlo a nessuno. Poi una notte, quando era qui da un mese circa, affrontò la crisi peggiore. Credevo che sarebbe morto, ma mi scongiurò di non lasciarlo solo e di non dirlo a nessuno. — Perché? — domandò Anyanwu. — Io avrei potuto aiutarlo insieme a te. Tu non sei forte. Deve averti fatto male. Margaret annuì. — Sì. Ma... aveva paura di te. Pensava che lo avresti detto a Doro. — Non sarebbe stato molto saggia se non lo avesse fatto — osservò Doro. Margaret continuò a fissare il tappeto. — Finisci — le ordinò Doro. Lei s'inumidì le labbra. — Aveva paura. Disse che tu avevi ucciso suo fratello non appena aveva superato la transizione. Ci fu silenzio. Anyanwu spostò lo sguardo da Margaret a Doro. — È vero? — chiese accigliata. — Sì. Immaginavo che potesse essere quello il problema. — Ma suo fratello! Perché, Doro? — Impazzì durante la transizione. Fu... una versione su scala ridotta di Nweke. Per il dolore e la confusione uccise l'uomo che lo stava assistendo. Io lo raggiunsi prima che potesse uccidersi accidentalmente e lo presi. Ho avuto cinque figli dal suo corpo, prima di doverlo abbandonare. — Non avresti potuto aiutarlo? — chiese Anyanwu. — Non sarebbe tornato in sé, se gli avessi lasciato tempo?
— Mi aveva attaccato, Anyanwu. Le persone recuperabili non lo fanno. — Ma... — Era pazzo. Avrebbe aggredito chiunque lo avesse avvicinato. Avrebbe spazzato via la sua famiglia, se non ci fossi stato io. — Doro si appoggiò allo schienale e si leccò le labbra, e Anyanwu rammentò quello che lui stesso aveva fatto alla propria famiglia, tanto tempo prima. Le aveva raccontato quella storia terribile. — Io non sono un guaritore — disse piano lui. — Salvo la vita nell'unico modo che mi è possibile. — Non mi sono mai accorta che ti preoccupassi di salvarla — replicò Anyanwu con amarezza. Lui la guardò. — Tuo figlio è morto — disse. — Mi dispiace. Sarebbe stato un uomo eccellente. Non avrei portato qui Joseph, se avessi saputo che si sarebbero danneggiati a vicenda. Sembrava profondamente sincero. Lei non riusciva a ricordare di averlo mai sentito scusarsi per qualcosa. Lo fissò, confusa. — Joe non mi disse niente della pazzia del fratello — osservò Margaret. — Joseph non viveva con la famiglia — spiegò Doro. — Non riusciva ad andare d'accordo con loro, così gli avevo trovato dei genitori adottivi. — Oh... — Margaret distolse lo sguardo, comprendendo, in apparenza accettando. Meno della metà dei bambini della piantagione viveva con i genitori. — Margaret? Lei alzò gli occhi su di lui, poi li riabbassò subito. Doro era notevolmente gentile con lei, ma le faceva ancora paura. — Sei incinta? — le chiese. — Vorrei esserlo — sussurrò lei. Stava cominciando a piangere. — Va bene — disse Doro. — Va bene, è tutto. Lei si alzò in fretta e lasciò la stanza. Quando fu uscita, Anyanwu disse: — Doro, Joseph era troppo vecchio per la transizione! Stando a tutto quello che mi hai insegnato, era troppo vecchio. — Aveva ventiquattro anni. Prima d'ora non ho mai visto nessuno cambiare a quell'età, ma... — Esitò, cambiò argomento. — Non mi hai mai chiesto niente sulle sue origini, Anyanwu. — Non ho mai voluto sapere. — Certo che lo sai. Era un tuo discendente, naturalmente. Lei s'impose di scrollare le spalle. — Avevi detto che mi avresti portato i miei nipoti.
— Era il nipote di tuoi nipoti. Entrambi i suoi genitori fanno risalire la loro ascendenza a te. — Perché me lo dici adesso? Non voglio saperne più niente. È morto! — Era anche discendente di Isaac — continuò Doro implacabile. — Le persone della stirpe di Isaac a volte entrano nella transizione un po' in ritardo, anche se Joseph è il caso limite, che io sappia. I due bambini che ti ho portato sono figli del corpo di suo fratello. — No! — Anyanwu lo fissò. — Portali via! Non voglio più nessuno di quella risma vicino a me! — Ci sono già. Insegna loro e guidali come fai con i tuoi figli. Te lo avevo detto che i tuoi discendenti non sarebbero stati facili da aiutare. Tu hai deciso di farlo ugualmente. Lei non replicò. Doro dava l'impressione che la sua fosse stata una libera scelta, come se non l'avesse costretta a farla. — Se ti avessi trovata prima, li avrei portati da te quando erano ancora più piccoli — riprese. — Visto che non è andata così, dovrai fare il possibile con loro così come sono. Insegna loro la responsabilità, l'orgoglio, l'onore. Insegna loro tutto quello che hai insegnato a Stephen. Ma non essere tanto sciocca da insegnare loro che sei convinta che diventeranno dei criminali. Un giorno saranno uomini potenti, ed è probabile che realizzeranno le tue aspettative, in un senso o nell'altro. Lei rimase ancora muta. Che cosa c'era da dire, o da fare? Doro si sarebbe fatto obbedire, oppure avrebbe reso la sua vita e quella dei suoi figli indegna di essere vissuta, ammesso che non li uccidesse subito. — Hai tempo da cinque a dieci anni prima della transizione dei ragazzi — le disse Doro. — Avranno una transizione; ne sono certo per quanto è possibile esserlo. La loro ascendenza è proprio quella giusta. — Sono miei, oppure interferirai con loro? — Fino alla transizione, sono tuoi. — E poi? — Li userò per l'allevamento, naturalmente. Naturalmente. — Lascia che si sposino e restino qui. Se ci si troveranno bene, vorranno restare. Come possono diventare uomini responsabili, se la loro unica prospettiva è quella di riprodursi? Doro rise fragorosamente, spalancando la bocca per mostrare i vuoti di parecchi denti mancanti. — Ma ti senti, donna? Prima non ne vuoi sapere, ora non vuoi lasciarli andare nemmeno quando saranno cresciuti.
Lei attese in silenzio che smettesse di ridere, poi domandò: — Tu pensi che abbia intenzione di sprecare anche un solo bambino, Doro? Se esiste una possibilità, per questi ragazzi, di crescere meglio di Joseph, perché non dovrei tentare di offrire loro quella possibilità? Se, quando cresceranno, potranno diventare uomini anziché cani che non sanno fare altro che montare una femmina dopo l'altra, perché non dovrei tentare di aiutarli? Lui ridivenne serio. — Sapevo che li avresti aiutati, e non a malincuore. Non credi che ti conosca ormai, Anyanwu? Oh, la conosceva, e sapeva come usarla. — Allora lo farai? Lascerai che si sposino e che restino qui, se si troveranno bene? — Sì. Lei abbassò gli occhi, esaminando il disegno del tappeto che aveva tanto attirato l'attenzione di Margaret. — Li porterai via se non si troveranno bene, se non riusciranno a inserirsi, come Joseph? — Sì — ripeté lui. — Il loro seme è troppo prezioso per andare sprecato. Non pensava a nient'altro. Niente! — Posso restare con te per qualche tempo, Anyanwu? Lei lo fissò sbalordita, e Doro ricambiò lo sguardo con un'espressione neutra, aspettando una risposta. Stava facendo una vera domanda, allora? — Te ne andrai se ti dirò di farlo? — Sì. Sì. Lo stava ripetendo spesso; si stava comportando in modo fin troppo gentile e conciliante, per essere lui. Era ritornato al corteggiamento. — Vattene — gli disse con la massima gentilezza possibile. — La tua presenza qui è distruttiva, Doro. Spaventi la mia gente. — E ora, che mantenesse la parola. Lui scrollò le spalle, annuì. — Domattina — disse. E la mattina dopo se n'era andato. Nemmeno un'ora dopo la sua partenza, Helen e Luisa si presentarono mano nella mano da Anyanwu per dirle che Margaret si era impiccata a una trave della lavanderia. Per qualche tempo, dopo la morte di Margaret, Anyanwu provò un malessere da cui non riusciva a liberarsi. Dolore. Due figli perduti a così breve distanza di tempo. Chissà perché, non si era mai abituata alla perdita dei figli, soprattutto di quelli giovani, figli che sembrava fossero stati con lei solo pochi istanti. Quanti ne aveva seppelliti, ormai?
Al funerale, i due bambini che Doro aveva portato la videro piangere, e vennero a prenderla per mano e a mettersi al suo fianco con aria solenne. Sembrarono adottare lei come madre e Luisa come nonna. Si stavano inserendo straordinariamente bene, ma Anyanwu si chiedeva quanto sarebbero durati. — Vattene per mare — le disse Luisa quando lei perse l'appetito, quando divenne sempre più svogliata. — Il mare ti purifica. Me ne sono accorta. Va' al mare e diventa un pesce per qualche tempo. — Sto benissimo — rispose Anyanwu automaticamente. Luisa liquidò la risposta con un verso disgustato. — Non stai affatto bene! Ti comporti come la bambina che sembri! Vattene da qui per un po'. Riposati e concedi a noi un po' di riposo da te. Quelle parole riscossero Anyanwu dalla sua indifferenza. — Riposo da me? — Quelli di noi che possono sentire il tuo dolore con la tua stessa intensità, hanno bisogno di riposo. Anyanwu batté le palpebre. La sua mente era stata altrove. Naturalmente la gente che traeva conforto dal suo desiderio di proteggerla e tenerla unita, la gente che trovava piacere nel suo piacere, soffriva quando lei soffriva. — Me ne andrò — disse a Luisa. La vecchia sorrise. — Ti farà bene. Anyanwu mandò a chiamare una delle figlie bianche perché le portasse in visita il marito e i bambini. Non erano necessari né desiderati per guidare la piantagione, e lo sapevano. Era per quel motivo che Anyanwu si fidava a lasciarla a loro per qualche tempo. Si sarebbero insediati nella piantagione senza prenderne in mano le redini. Avevano anche loro delle bizzarrie. La donna, Leah, somigliava a Denice, sua madre, e riceveva impressioni da case e mobili, da rocce, alberi e corpi umani, vedendo spettri di episodi che erano avvenuti in passato. Anyanwu l'avvertì di stare alla larga dalla lavanderia. La facciata della casa padronale dove era morto Stephen sarebbe stata già abbastanza dura da affrontare per lei. Apprese in fretta dove non doveva mettere i piedi, che cosa non doveva toccare se non voleva vedere il fratello salire sulla balaustra e tuffarsi a capofitto. Il marito, Kane, era abbastanza sensitivo da leggere ogni tanto nei pensieri di Leah e chiedersi se non fosse pazza, o comunque meno sana di mente di lui. Aveva un quarto di sangue negro, e il padre bianco lo aveva educato, curato e, purtroppo per lui, era morto senza liberarlo, lasciandolo
nelle mani della moglie. Kane era scappato, era riuscito a sfuggire per un soffio alla schiavitù e aveva lasciato il Texas per la Louisiana, dove aveva sfruttato con calma tutto ciò che il padre gli aveva insegnato per farsi passare per un giovane bianco di buona famiglia. Non aveva detto niente del suo passato, finché non aveva cominciato a capire quanto fosse strana la famiglia della moglie. Non la capiva ancora del tutto, ma amava Leah. Con lei poteva essere se stesso, senza allarmarla in alcun modo. Con lei si sentiva a suo agio. Per mantenere quella situazione, accettava senza capire. Era disposto a trasferirsi, di tanto in tanto, in una piantagione che andava avanti senza la sua supervisione, e godersi la compagnia della strana collezione di sbandati di Anyanwu. Si sentiva a casa sua. — Che cos'è questa storia del viaggio per mare? — domandò ad Anyanwu. Si trovava bene con lei finché manteneva la sua identità di Warrick. Altrimenti lo innervosiva. Non riusciva ad accettare l'idea che il padre di sua moglie potesse diventare una donna, anzi, che fosse nato donna. Per lui, Anyanwu impersonava l'anziano e gracile Warrick. — Ho bisogno di andarmene da qui per un po' — rispose lei. — Dove andrai, stavolta? — A trovare il branco di delfini più vicino. — Gli sorrise. L'idea di tornare al mare l'aveva resa di nuovo capace di sorridere. Durante gli anni di fuga, non solo aveva trascorso molto tempo sotto forma di un grosso cane o di un'aquila, ma spesso se n'era andata per nuotare libera in forma di delfino. Dapprima lo aveva fatto per confondere Doro e sfuggirgli, poi per trovare tesori e comprare la terra, e infine perché le piaceva. La libertà del mare placava l'ansia, forniva il tempo per riflettere nei momenti di confusione, scacciava la noia. Si domandò che cosa facesse Doro quando era annoiato. Uccideva? — Volerai fino al mare aperto, non è vero? — chiese Kane. — Volerò e correrò. A volte è più sicuro correre. — Cristo! — borbottò lui. — Pensavo di non invidiarti più. Anyanwu mangiava mentre lui parlava. Mangiava quello che, probabilmente, sarebbe stato il suo ultimo pasto cucinato, per parecchio tempo. Riso e stufato, patate dolci al forno, pane di granturco, caffè forte, vino e frutta. I figli si lamentavano perché mangiava come una donna povera, ma lei li ignorava. Era contenta così. Alzò gli occhi per guardare Kane, attraverso gli occhi azzurri da bianco di Warrick. — Se non hai paura — gli disse — quando sarò tornata cercherò di dividere questa esperienza con te.
Lui scosse la testa. — Non ho il controllo. Stephen era capace di farmi partecipare... collaborando tutti e due, ma da solo... — Si strinse nelle spalle. Scese un silenzio imbarazzato, poi Anyanwu si alzò da tavola. — Parto subito — annunciò bruscamente. Salì nella sua camera da letto dove si spogliò, aprì la porta che dava sulla galleria superiore del portico, si trasformò in uccello e volò via. Passò più di un mese prima che tornasse indietro, sotto forma di un'aquila, ma più grande di qualsiasi altra aquila, ritemprata dal mare e dall'aria, e famelica, perché, nell'impazienza di rivedere la sua casa, non si era fermata abbastanza spesso a cacciare. Prima volò in circolo per controllare che non ci fossero visitatori, estranei che potessero restare sbalorditi, e che, forse, le avrebbero sparato. Durante quel viaggio l'avevano già colpita tre volte. Era più che sufficiente. Quando si fu accertata che il posto era sicuro, calò sullo spiazzo erboso, circondato su tre lati dalla casa, dalle dipendenze e dalle capanne della sua gente. Due bambini la videro e corsero in cucina. Pochi secondi dopo, furono di ritorno, ciascuno tirando Rita per una mano. Rita si chinò su Anyanwu, la guardò e disse senza la minima incertezza: — Immagino che sarai affamata. Anyanwu fece sbattere le ali. Rita scoppiò a ridere. — Sei davvero una bella aquila. Mi domando che effetto faresti sul tavolo della sala da pranzo. Rita aveva sempre avuto uno strano senso dell'umorismo. Anyanwu sbatté di nuovo le ali, spazientita, e Rita tornò in cucina e le portò due conigli spellati e puliti, pronti per la cottura. Anyanwu li tenne fermi con le zampe e li divorò, lieta che Rita non avesse perso tempo a cucinarli. Mentre mangiava, un negro uscì dalla casa a fianco di Helen. L'uomo era uno sconosciuto. Qualche schiavo liberato del posto, forse, o addirittura un fuggiasco. Anyanwu faceva sempre tutto il possibile per i fuggiaschi, sfamandoli, rivestendoli e mandandoli per la loro strada meglio equipaggiati per sopravvivere, oppure, in quelle rare occasioni in cui uno sembrava inserirsi nella casa, acquistandolo. Quello era un negro piccolo, compatto e attraente, non molto più alto di Anyanwu nella sua vera forma. Lei alzò la testa e lo guardò con interesse. Se avesse avuto una mente all'altezza del corpo, avrebbe potuto comprarlo anche se non si fosse inserito bene. Era troppo tempo che non aveva un marito. Gli amanti occasionali cessavano di soddisfarla, dopo un po'.
Tornò a dilaniare i conigli senza il minimo imbarazzo, mentre la figlia e lo sconosciuto stavano a guardare. Quando ebbe finito, si ripulì il becco sull'erba, lanciò un'occhiata finale all'attraente sconosciuto e volò pesantemente su fino alla galleria superiore, verso la sua stanza. Là, piacevolmente sazia, sonnecchiò per qualche ora, offrendo al suo corpo la possibilità di digerire il pasto. Era bello potersela prendere comoda, fare le cose a un ritmo che il corpo trovasse gradevole. Alla fine ridivenne se stessa, piccola e scura, giovane e femminile. A Kane non sarebbe andato a genio, ma non aveva importanza. Allo sconosciuto avrebbe fatto molto piacere. Indossò uno dei suoi abiti migliori e alcuni bei gioielli d'oro, si spazzolò la nuova chioma lucente e scese. Avevano appena finito di cenare, senza di lei. I familiari non l'aspettavano mai, quando sapevano che aveva assunto l'una o l'altra delle sue forme animali. Conoscevano le sue abitudini indolenti. In quel momento, alcuni dei figli adulti, Kane, Leah e il negro sconosciuto erano seduti a mangiare noci e uva passa, bevendo vino e conversando tranquillamente. Le fecero posto, interrompendo la conversazione per i saluti di benvenuto. Uno dei figli andò a prenderle un bicchiere e lo riempì del suo madera preferito. Ne aveva bevuto solamente un sorso, gustandolo, quando lo sconosciuto disse: — Il mare ti ha fatto bene. Hai avuto ragione a partire. Anyanwu lasciò ricadere leggermente le spalle, anche se riuscì a non cambiare espressione. Era soltanto Doro. Lui intercettò il suo sguardo e le sorrise, e lei capì che aveva notato la sua delusione, e senza dubbio l'aveva preordinata. Lei si sforzò di ignorarlo, guardò intorno al tavolo per vedere chi ci fosse esattamente. — Dov'è Luisa? — domandò. La vecchia cenava spesso con la famiglia, dando prima da mangiare ai figli adottivi e arrivando poi, come diceva, per imparare di nuovo a fare conversazione con gli adulti. Ma in quel momento, sentendo nominare Luisa, tacquero tutti. Il figlio più vicino a lei, Julien, che le aveva servito il vino, disse a bassa voce: — È morta, mamma. Anyanwu si girò a guardarlo, giallo bruno e banale eccetto che per gli occhi, limpidissimi come i suoi. Anni prima, quando una donna che desiderava disperatamente non aveva voluto saperne di lui, si era rivolto a Luisa per farsi consolare. Luisa lo aveva riferito ad Anyanwu e lei era rimasta sbalordita di non provare il minimo risentimento verso la vecchia, né collera verso Julien per aver confidato la sua pena a un'estranea. Con la sua
sensibilità, Luisa aveva cessato di essere un'estranea dal giorno in cui era arrivata alla piantagione. — Com'è morta? — mormorò alla fine Anyanwu. — Nel sonno — rispose Julien. — Una sera è andata a letto e la mattina dopo i bambini non sono riusciti a svegliarla. — È successo due settimane fa — aggiunse Leah. — Abbiamo fatto venire il prete perché sapevamo che lo avrebbe voluto. Le abbiamo fatto un bel funerale. — Leah esitò. — Lei... lei non ha sofferto affatto. Mi sono distesa sul suo letto per guardare, e l'ho vista andarsene con serenità... Anyanwu si alzò e lasciò la tavola. Se n'era andata per trovare un po' di respiro dai suoi cari che morivano e morivano, e dagli altri, il cui rapido invecchiare le ricordava che anche loro erano temporanei. Leah, appena trentacinquenne, aveva già troppi fili grigi fra i capelli neri e lisci. Anyanwu andò in biblioteca, chiuse la porta — in casa sua le porte chiuse venivano rispettate — e si sedette alla scrivania a testa china. Luisa aveva settanta... settantotto anni. Per lei era tempo di morire. Che sciocchezza addolorarsi per una vecchia che aveva vissuto quella che, per la sua specie, era una vita lunga. Anyanwu si raddrizzò e scosse la testa. Fin dove poteva risalire con la memoria, aveva visto amici e parenti invecchiare e morire. Perché questa morte la feriva così profondamente, la faceva soffrire come se fosse una novità? Stephen, Margaret, Luisa... Ce ne sarebbero stati altri. Ce ne sarebbero stati sempre altri, ora presenti, subito dopo spariti. Soltanto lei sarebbe rimasta. Come per contraddire il suo pensiero, Doro aprì la porta ed entrò. Lei lo fissò con ira. Tutti gli altri in casa rispettavano le porte chiuse, ma, del resto, Doro non rispettava assolutamente nulla. — Che cosa vuoi? — gli chiese. — Niente. — Avvicinò una sedia al lato della scrivania e si sedette. — Come, non ci sono altri bambini da allevare per me? — ribatté con amarezza. — Non più strani compagni di letto per i miei figli? Niente? — Ho portato una donna incinta con due bambini, e ho aperto un conto in una banca di New Orleans per contribuire al loro mantenimento. Non sono venuto da te per parlare di loro, però. Anyanwu gli volse le spalle, senza curarsi del motivo per cui era venuto. Voleva che se ne andasse. — Continuano, sai — disse lui. — A morire. — Tu non ne soffri.
— Invece sì. Quando muoiono i miei figli, i migliori dei miei figli. — Che cosa fai? — Sopporto. Che altro c'è da fare, se non sopportare? Un giorno, ne avremo altri che non moriranno. — Nutri ancora quel sogno? — Che cosa potrei fare, Anyanwu, se ci rinunciassi? Lei rimase in silenzio. Non aveva risposte. — Una volta ci credevo anch'io — disse. — Quando mi hai portato via dalla mia gente, ci credevo. Per cinquant'anni, ho continuato a crederci. Forse... forse a volte ci credo ancora. — Non ti sei mai comportata come se ci credessi. — Invece sì! Ti ho lasciato fare tutto quello che hai fatto a me e agli altri, e sono sempre rimasta con te, finché non ho capito che avevi deciso di uccidermi. Lui respirò a fondo. — Quella decisione è stata un errore — disse. — La presi per abitudine, come se tu fossi stata semplicemente una delle tante donne selvagge, non del tutto controllabili, che aveva avuto la sua quota di figli. Un'abitudine secolare diceva che era tempo di liberarmi di te. — E che ne è adesso di quell'abitudine? — chiese lei. — È superata, almeno per quanto ti riguarda. — La guardò, guardò oltre. — Voglio che tu viva per tutto il tempo che potrai. Non puoi sapere quanto ho dovuto lottare con me stesso per ammetterlo. Non le importava quanto aveva dovuto lottare. — Ho tentato con tutte le mie forze di convincermi a ucciderti — aggiunse Doro. — Sarebbe stato più facile che cercare di cambiarti. Lei scrollò le spalle. Doro si alzò e la prese per le braccia per costringerla ad alzarsi in piedi. Lei rimase ferma passivamente, sapendo che se lo avesse lasciato fare sarebbero finiti abbracciati sul divano. La voleva. Non si curava che lei avesse appena sofferto per la perdita di un'amica, che volesse restare sola. — Ti piace questo corpo? — le domandò. — È un regalo per te. Anyanwu si chiese chi era morto perché lui potesse farle un simile "regalo". — Anyanwu! — La scrollò una volta, gentilmente, e lei lo guardò. Non fu costretta ad alzare gli occhi. — Sei ancora la piccola contadina della foresta, che cerca di scavalcare il parapetto della nave per tornare a nuoto in Africa — le disse. — Vuoi ancora quello che non puoi avere. La vecchia è morta.
Ancora una volta, lei scrollò le spalle. — Moriranno tutti, tranne me — continuò lui. — Grazie a me, tu non sei stata sola sulla nave. Grazie a me non sarai mai sola. La portò sul divano, finalmente, la spogliò, fece l'amore con lei. Anyanwu scoprì che non le dispiaceva in modo particolare. Fare l'amore la rilassava, e quando fu finito, trovò facilmente scampo nel sonno. Non era passato molto tempo che lui la svegliò. Il sole e le ombre lunghe le fecero capire che era ancora pomeriggio. Si domandò come mai non l'avesse lasciata. Aveva ottenuto ciò che voleva e, di proposito o meno, le aveva dato la pace. Se soltanto ora fosse andato via... Anyanwu lo guardò, seduto accanto a lei seminudo, ancora senza camicia. Non stavano stretti sul grande divano, come sarebbe stato se lui avesse avuto uno dei soliti corpi massicci. Ancora una volta, lei s'interrogò sul proprietario originario di quel nuovo corpo bellissimo, improbabile, ma non fece domande. Non voleva scoprire che era stato uno dei suoi discendenti. Doro l'accarezzò in silenzio per un momento e lei pensò che intendesse ricominciare a fare l'amore. Sospirò e decise che non aveva importanza. C'erano così poche cose importanti, ormai. — Voglio tentare qualcosa con te — disse lui. — Sono anni che lo voglio. Prima che tu fuggissi, pensavo che un giorno o l'altro lo avrei fatto. Ora... ora tutto è cambiato, ma voglio provare lo stesso. — Che cosa? — domandò lei in tono stanco. — Di che stai parlando? — Non posso spiegartelo — le disse. — Ma... guardami, Anyanwu. Guarda! Lei si girò di lato, lo guardò. — Non ti farò del male — le disse. — Cerca di sentire e di vedere tutto ciò che può farti capire che sono onesto con te, qualunque cosa sia. Non ti farò del male. Sarai in pericolo soltanto se mi disobbedirai. Questo corpo è forte, giovane e nuovo per me. Il mio controllo è eccellente. Obbediscimi, e sarai al sicuro. Lei si ridistese. — Dimmi che cosa vuoi, Doro. Che cosa devo fare per te? Con sua sorpresa, lui sorrise e la baciò. — Devi solo restare immobile e fidarti di me. Devi credere che non ho intenzione di farti alcun male. Lei lo credeva davvero, anche se al momento se ne curava a malapena. Che ironia che adesso lui cominciasse a preoccuparsi di lei, cominciasse a
considerarla qualcosa di più di uno dei suoi tanti animali da allevamento. Annuì e sentì le sue mani afferrarla. Di colpo, si ritrovò nel buio, precipitando verso una luce lontana, precipitando. Sentì se stessa contorcersi, dibattersi, cercare freneticamente un appiglio. Lanciò un urlo di terrore istintivo, e non riuscì a sentire la propria voce. All'istante l'oscurità intorno a lei svanì. Era di nuovo sul divano, e Doro ansimava al suo fianco. Aveva dei segni insanguinati sul petto e si stava massaggiando la gola come se gli facesse male. Lei si preoccupò, suo malgrado. — Doro, ti ho fatto male alla gola? Lui prese fiato inspirando a fatica. — Non molto. Ero pronto, o almeno credevo di esserlo. — Che cosa ho fatto? È stato come quel genere di sogno da cui i bambini si svegliano urlando. — Altera le tue mani — disse lui. — Cosa? — Obbedisci. Forma degli artigli con le mani. Con una scrollata di spalle, lei formò possenti artigli di leopardo. — Bene — disse Doro. — Non ti ho nemmeno indebolito. Il mio controllo è saldo come pensavo. Ora trasformati di nuovo. — Si tastava leggermente la gola. — Non vorrei che mi attaccassi con quelli. Ancora una volta, lei obbedì. Si stava comportando come una delle sue figlie, facendo cose che non capiva senza chiedere spiegazioni, soltanto perché lui glielo ordinava. Quel pensiero la spinse a fare una domanda. — Doro, che cosa stiamo facendo? — Vedi — disse lui — che la... la cosa che hai provato non ti ha danneggiato in nessun modo? — Ma che cos'era? — Aspetta, Anyanwu. Abbi fiducia in me. In seguito ti spiegherò tutto quello che potrò, lo prometto. Per ora, rilassati. Voglio rifarlo. — No! — Non ti farò del male. Sarà come se tu fossi a mezz'aria sotto il controllo di Isaac. Lui non ti avrebbe mai fatto del male, e nemmeno io lo farò. — Aveva ricominciato a toccarla e carezzarla, cercando di calmarla, e vi riuscì. Lei non si era fatta male, dopo tutto. — Sta' calma — sussurrò Doro. — Lasciami fare, Anyanwu. — Ti... darà piacere in qualche modo, come se stessimo facendo l'amore? — Anche di più.
— Va bene. — Lei si domandò che cosa stesse accettando. Non aveva niente a che fare con l'abitudine di Isaac di lanciarla in aria e riprenderla al volo con quella sua facoltà innocua e sicura. Questa era una cosa da incubo, una caduta impotente, senza fine. Ma non era reale. Lei non era caduta. Non era rimasta ferita. Infine, Doro voleva da lei qualcosa che non avrebbe fatto male a nessuno. Forse, se lei glielo concedeva — e se fosse sopravvissuta — avrebbe avuto una leva nei suoi confronti, sarebbe stata in grado di proteggere meglio la sua gente da lui. Che vivessero in pace, almeno, la loro breve vita. — Non lottare con me, stavolta — le disse. — Non sono alla tua altezza in fatto di forza fisica. Questo lo sai. Ora che sai cosa aspettarti, puoi stare calma e lasciare che accada. Fidati di me. Lei rimase distesa a guardarlo, tranquilla, in attesa. — Va bene — ripeté. Doro si avvicinò, le passò un braccio intorno alle spalle in modo che le facesse da cuscino alla testa. — Mi piace il contatto — disse lui, senza spiegare niente. — Senza contatto non riesce mai. Lei gli lanciò un'occhiata, poi si mise comoda in modo da toccarlo per tutta la lunghezza del corpo. — Ora — disse lui piano. Ci fu di nuovo l'oscurità, la sensazione di cadere. Ma un istante dopo somigliò piuttosto a un lento fluttuare. Solo fluttuare. Lei non aveva paura. Si sentiva calda, rilassata e non era sola. Eppure pareva che lo fosse. C'era una luce in lontananza davanti a lei, ma nient'altro, nessun altro. Stava fluttuando verso la luce, guardandola aumentare di dimensioni, a mano a mano che lei si avvicinava. Dapprima fu una stella lontana, fioca e tremolante. Alla fine, fu la stella del mattino, luminosa, che dominava il cielo, altrimenti vuoto. Pian piano, la luce divenne un sole, che riempiva il cielo con una luminosità che avrebbe dovuto accecarla. Ma lei non era accecata, non si sentiva affatto a disagio. Avvertiva la presenza di Doro vicino a sé, anche se non sentiva più il suo corpo e nemmeno il proprio, disteso sul sofà. Era un altro tipo di percezione, di un genere che trovava impossibile descrivere a parole. Se non fosse stato per lui, sarebbe stata del tutto sola. Che cosa aveva detto Doro prima di fare l'amore, prima del sonno rilassato e tranquillo? Che grazie a lui non sarebbe mai stata sola. Quelle parole non l'avevano confortata allora, ma la confortarono adesso.
La luce del sole l'avvolse, e non vi fu più oscurità. In un certo senso, adesso, era cieca. Non c'era nient'altro da vedere che la luce abbagliante. Ma anche in quel momento non avvertiva disagio. E c'era Doro con lei, che la toccava come nessuno l'aveva mai toccata prima. Era come se toccasse il suo spirito, avvolgendolo con tutto se stesso, diffondendo la sensazione del suo tocco in ogni parte di lei. Anyanwu si rese conto pian piano della fame che aveva di lei — fame in senso letterale — ma, invece di spaventarla, questo suscitò in lei una strana simpatia. Sentiva non solo la sua fame, ma il suo isolamento e la sua solitudine. La solitudine formava un legame di affinità fra loro. Lui era solo da tanto tempo. Intollerabilmente solo. La solitudine di Anyanwu, la sua lunga vita, sembravano insignificanti. Era come una bambina, al suo confronto. Ma, bambina o no, Doro aveva bisogno di lei. Aveva bisogno di lei come non ne aveva mai avuto di nessun altro. Lei si protese per toccarlo, tenerlo stretto, alleviare la sua lunga, lunghissima solitudine. O le parve di protendersi. Non capiva che cosa facesse lui o che cosa facesse lei stessa, in realtà, ma era incredibilmente bello. Era una fusione che si prolungava indefinitamente, un'unione che ad Anyanwu sembrava di controllare. Soltanto quando si riposò, piacevolmente stanca, cominciò a rendersi conto che si stava perdendo. Sembrava che l'autocontrollo di lui non avesse resistito. L'unione di cui avevano goduto non era sufficiente per lui. La stava assorbendo, consumando, facendola diventare parte della sua stessa sostanza. Era lui la grande luce, l'incendio che l'aveva avvolta. Ora la stava uccidendo, assimilandola a poco a poco. Malgrado tutti i suoi discorsi, la stava tradendo. Malgrado tutta la gioia che si erano appena scambiati, non poteva fare a meno di uccidere. Malgrado il nuovo e più alto valore che aveva tentato di assegnarle, allevare e uccidere erano l'unica cosa che avesse significato per lui. Ebbene, andasse pure così. Facesse pure; lei era stanca. 14 Con cura meticolosa, Doro si staccò da Anyanwu. Era stato molto più facile del previsto: fermarsi nel bel mezzo di quella che sarebbe potuta essere un'uccisione intensamente soddisfacente. Ma lui non aveva mai avuto intenzione di ucciderla. Con lei, però, si era spinto più in là di quanto avesse fatto con i figli più dotati. Con loro, forzava il contatto potenzialmente letale per comprendere i limiti del loro potere, per capire se quel potere a-
vrebbe mai potuto minacciarlo in qualche modo. Lo faceva subito dopo la transizione, in modo da trovarli fisicamente svuotati, emotivamente stanchi, e troppo ignari delle loro doti appena giunte a maturazione per capire in che modo combatterlo, ammesso che potessero combatterlo. Molto di rado trovava qualcuno che ne avesse la capacità, e quella persona moriva. Lui voleva alleati, non rivali. Ma non aveva voluto mettere alla prova Anyanwu. Sapeva che lei non poteva minacciarlo, sapeva che avrebbe potuto ucciderla mentre si manteneva in forma umana. Non ne aveva mai dubitato. Lei non possedeva quel genere di capacità di lettura e controllo del pensiero che Doro giudicava potenzialmente pericoloso. Anyanwu aveva un controllo quasi assoluto di ogni cellula del suo corpo malleabile, ma la sua mente era aperta e priva di difese come la mente di una persona qualsiasi, e ciò significava che, prima o poi, avrebbe avuto problemi con le persone che allevava. Si sarebbero sposati nella sua grande "famiglia" e avrebbero causato discordie. Lui l'aveva messa in guardia. Alla fine, avrebbe avuto figli e nipoti che somigliavano più a Joseph e a Lale che alle persone congeniali e vagamente sensitive che aveva riunito intorno a sé. Ma quella era un'altra faccenda. Ci avrebbe riflettuto in seguito. Ora, l'unica cosa importante era che lei si riprendesse del tutto, e bene. Non doveva accaderle niente. Nessuno scoppio di collera o stupidità da parte sua dovevano indurlo a pensare nuovamente di ucciderla. Lei era troppo preziosa, in tutti i sensi. Anyanwu si svegliò lentamente, aprendo gli occhi, e, guardandosi attorno, trovò la biblioteca immersa nel buio, a parte il fuoco che lui aveva acceso nel caminetto e l'unica lampada sul tavolo vicino alla sua testa. Doro era disteso accanto a lei e la scaldava col suo calore. La voleva vicino a sé. — Doro? — sussurrò lei. Doro le baciò la guancia e si rilassò. Lei stava bene. Nel suo dolore, era stata totalmente passiva. Lui aveva avuto la certezza di poterlo fare senza danneggiarla. Aveva avuto la certezza che, almeno quella volta, non avrebbe resistito e non lo avrebbe costretto a ucciderla o farle del male. — Stavo morendo — disse lei. — No. — Stavo morendo. Tu... Lui le mise la mano sulla bocca, poi gliela lasciò togliere quando vide che sarebbe rimasta calma. — Dovevo conoscerti in quel modo almeno una volta — le disse. — Dovevo toccarti in quel modo. — Perché? — chiese lei.
— Perché è il contatto più profondo che avrò mai con te. Anyanwu rimase a lungo in silenzio. Alla fine, però, spostò la testa per posarla sul suo petto. Doro non riusciva a ricordare che avesse mai fatto quel gesto spontaneamente. La cinse con le braccia, ricordando quell'altro abbraccio più completo. Si chiese come avesse trovato il controllo necessario per fermarsi. — È così... così facile per tutti gli altri? — chiese lei. Doro esitò, non volendo mentirle, non volendo parlare affatto delle uccisioni. — La paura lo rende peggiore per loro — rispose. — E hanno sempre paura. Inoltre... con loro non ho motivo per essere gentile. — Li fai soffrire? È doloroso? — No. Io sento ciò che sentono loro, quindi lo so. Non sentono dolore più di quanto ne hai provato tu. — È stato... bello — disse lei meravigliata. — Finché non ho pensato che volessi uccidermi, era bellissimo. Lui poté soltanto abbracciarla e affondare il viso fra i suoi capelli. — Dovremmo andare di sopra — disse Anyanwu. — Fra poco. — Che cosa farò? — chiese lei. — Ho lottato contro di te per tanti anni. Le ragioni per lottare esistono ancora. Che devo fare? — Quello che voleva Isaac. Quello che vuoi tu. Unisciti a me. A che serve lottare contro di me? Soprattutto adesso. — Adesso... — Lei stava ancora assaporando, forse, il loro breve contatto. Doro lo sperava. Per lui era così. Si chiedeva come avrebbe reagito Anyanwu, se le avesse detto che nessuno prima di allora aveva mai provato piacere in un simile contatto con lui. Nessuno in quasi quattromila anni. I suoi protetti trovavano il contatto con lui terrificante. Le persone dotate della capacità di leggere e controllare il pensiero, che sopravvivevano a un simile contatto, capivano subito di non poter leggere o controllare la sua mente, senza sacrificare la vita. Imparavano a rispettare la vaga diffidenza che provavano verso di lui, appena finita la transizione. Di tanto in tanto, lui trovava un uomo o una donna a cui si affezionava, con cui godeva di un contatto ripetuto. I prescelti, non potendo impedirlo, subivano quello che lui faceva, nonostante che il loro atteggiamento stoico e sofferente lo facesse sentire come uno stupratore. Invece Anyanwu aveva partecipato, aveva goduto, aveva perfino preso l'iniziativa per un po', intensificando sensibilmente il suo piacere. Doro la guardò con stupore e con gioia. Lei ricambiò lo sguardo, con espressione solenne.
— Non abbiamo risolto niente — disse — solo che ora devo lottare contro me stessa, oltre che con te. — Stai dicendo sciocchezze — ribatté lui. Anyanwu si voltò per baciarlo. — Lasciamo che siano sciocchezze, per ora — disse. — Lasciamo che siano sciocchezze, in questo momento. — Alzò la testa per guardarlo nella penombra. — Non vuoi andare di sopra, vero? — No. — Allora resteremo qui. I miei figli mormoreranno su di me. — Ti spiace? — Ora sei tu che dici sciocchezze — replicò lei ridendo. — Se mi spiace! Di chi è questa casa? Io faccio come mi pare! — Ricoprì entrambi con l'ampia gonna del suo abito, spense la lampada con un soffio e si dispose a dormire fra le sue braccia. I figli di Anyanwu mormorarono davvero sul suo conto, e su quello di Doro. Furono sbadati — di proposito, pensò Doro — e lui li udì. Ma, dopo qualche tempo, smisero. Forse Anyanwu aveva parlato con loro. Per una volta, Doro non ci badò. Sapeva di non essere più temibile per loro; era soltanto un altro amante di Anyanwu. Da quanto tempo non era soltanto l'amante di qualcuno? Non riusciva a ricordare. Ogni tanto se ne andava per occuparsi dei suoi affari, per fare una puntata in uno degli insediamenti più vicini. — Riportami questo corpo più a lungo che puoi — gli diceva sempre Anyanwu. — Non ne possono esistere due così perfetti. Lui rideva e non prometteva niente. Chi poteva sapere quale punizione avrebbe dovuto infliggere, quale pazzo avrebbe dovuto sottomettere, quale politicante, uomo d'affari o piantatore stupido e ostinato, o quale altro idiota avrebbe dovuto eliminare? Inoltre, occupare il corpo di un negro, in un paese in cui i negri avevano l'obbligo costante di dimostrare che avevano diritto a una libertà anche solo limitata, era un impedimento. Viaggiava con uno dei suoi figli bianchi maggiori, Frank Winston, la cui bella e antica famiglia virginiana apparteneva a Doro fin da quando l'aveva portata lì dall'Inghilterra, 135 anni prima. L'uomo poteva essere distinto e aristocratico, oppure timido e ingenuo, a sua scelta, o a seconda degli ordini di Doro. Non aveva nessuna particolarità congenita abbastanza marcata da qualificarlo come un buon esemplare da riproduzione. Era semplicemente il miglior attore, il migliore bugiardo che Doro conoscesse. La gente credeva
a quello che lui diceva, anche quando diventava espansivo e pettegolo, quando raccontava che Doro era un principe africano ridotto in schiavitù per errore, ma ora liberato per tornare nella madrepatria e portare il verbo di Dio al suo popolo pagano. Benché colto di sorpresa, Doro recitò il ruolo con un misto di arroganza e umiltà così sconcertante che gli schiavisti da principio restarono indecisi fra sconcerto e collera, poi si convinsero. Doro non somigliava a nessuno dei negri che conoscevano loro. Più tardi, Doro raccomandò a Frank di attenersi a menzogne più convenzionali, anche se pensava che, probabilmente, stava ridendo troppo forte per sentirlo. Si sentiva più a suo agio di quanto fosse da anni, al punto da ridere perfino di se stesso, e il figlio trovava piacevole viaggiare con lui. Valeva la pena di sopportare un piccolo fastidio per fare felice Anyanwu. Lui sapeva che quella sorta di luna di miele nella loro relazione sarebbe finita appena avesse dovuto rinunciare a quel corpo che le piaceva tanto. Non gli avrebbe voltato di nuovo le spalle, ne era certo, ma i loro rapporti sarebbero cambiati. Sarebbero stati compagni di letto occasionali, come a Wheatley, ma con sentimenti migliori. Lei gli avrebbe dato il benvenuto, ora, qualunque corpo occupasse. Avrebbe avuto i suoi uomini e, se voleva, le sue donne... mariti, mogli, amanti. Lui non poteva negarglielo. Ci sarebbero stati anni, multipli di anni, in cui non l'avrebbe vista affatto. Una donna come lei non poteva stare sola. Ma ci sarebbe stato sempre spazio per lui, quando fosse tornato, e sarebbe tornato sempre. Grazie a lei, non era più solo. Grazie a lei, la vita, all'improvviso, era diventata migliore per Doro di quanto fosse da secoli, da millenni. Era come se lei fosse la prima della razza che stava tentando di creare, solo che non l'aveva creata lui, non era stato capace di ricrearla. In un certo senso, Iei era solo una promessa non mantenuta. Ma un giorno... La donna di Doro, Susan, diede alla luce suo figlio un mese dopo che Iye aveva partorito il figlio di Stephen. Erano entrambi maschietti, sani e robusti, che promettevano di diventare bei bambini. Iye accolse il figlio con un amore e una gratitudine che stupirono Anyanwu. Le aveva fatto da levatrice, e l'unica cosa a cui Iye aveva pensato durante il travaglio era che il figlio di Stephen doveva vivere e stare bene. Non era stato un parto facile, ma evidentemente alla donna non importava. Il bambino era sano.
Ma Iye non poteva allattarlo. Non aveva latte. Anyanwu produceva latte facilmente, e durante il giorno andava regolarmente nella capanna di Iye per nutrire il bambino. La notte teneva il bambino con sé. — Sono contenta che possa farlo tu — le disse Iye. — Penso che sarebbe troppo difficile per me dividerlo con qualcun altro. — I pregiudizi di Anyanwu verso la donna si stavano dissolvendo in fretta. Così come i suoi pregiudizi nei confronti di Doro, anche se questo la spaventava e la turbava. Ormai non poteva più guardarlo con l'avversione di un tempo, eppure lui continuava a fare cose odiose. Semplicemente, non le faceva più a lei. Come aveva predetto, Anyanwu era in conflitto con se stessa. Ma non gli rivelava i segni di quel conflitto. Finché Doro occupava quel bel corpo che era stato il suo dono per lei, le faceva piacere compiacerlo. Per quel breve periodo, poteva rifiutarsi di pensare a ciò che faceva quando la lasciava. Poteva trattarlo come l'amante tutto speciale che sembrava. — E ora che cosa farai? — le chiese Doro quando, al ritorno da un breve viaggio, la trovò che allattava il bambino. — Mi caccerai via? Erano soli nel suo salottino al primo piano, quindi lei gli lanciò un'occhiata di falsa irritazione. — Devo farlo? Sì, penso di sì. Vattene. Doro sorrise, senza crederle più di quanto lei desiderasse essere creduta. Guardò il bambino che succhiava. — Fra altri sette mesi sarai padre di un bambino come questo — gli annunciò lei. — Sei incinta, adesso? — Sì. Volevo un figlio da questo tuo corpo. Avevo paura che te ne saresti liberato presto. — Lo farò — ammise lui. — Dovrò farlo. Ma alla fine avrai due bambini da allattare. Non sarà pesante per te? — Posso farlo. Tu non credi? — Certo. — Doro sorrise di nuovo. — Se soltanto ne avessi di più come te e Iye. Quella Susan... — Ho trovato una casa per suo figlio — disse Anyanwu. — Non verrà allevato con i più grandi, ma avrà dei genitori affettuosi. E Susan è grande e forte. È un'ottima lavoratrice dei campi. — Non l'ho portata qui per farla lavorare nei campi. Credevo che vivere qui con la tua gente potesse aiutarla, calmarla e renderla un po' più utile. — È così. — Lei si protese per prendergli la mano. — Qui, se la gente si inserisce, le lascio fare il lavoro che preferisce. Questo aiuta a calmarsi.
Susan preferisce il lavoro nei campi a qualsiasi lavoro al chiuso. È disposta ad avere ancora tutti i figli che vorrai, ma occuparsene è superiore alle sue possibilità. Sembra particolarmente sensibile ai loro pensieri. In qualche modo la fanno soffrire. Per il resto è una brava donna, Doro. Lui scosse la testa come per scacciare Susan dalla mente. Fissò ancora per qualche secondo il bambino che poppava, poi guardò Anyanwu negli occhi. — Dammi un po' di quel latte — disse piano. Lei si ritrasse, sorpresa. Non le aveva mai chiesto una cosa del genere, e quello non era certo il primo bambino che la vedeva allattare. Ma ora c'erano tante cose fra loro. — Ho avuto un uomo che lo faceva spesso — osservò. — Ti dispiaceva? — No. Lui la guardò, in attesa. — Vieni qui — disse piano Anyanwu. Il giorno dopo che Anyanwu gli aveva dato il latte, Doro si svegliò tremando, e capì che quel periodo piacevole nel piccolo corpo compatto che le aveva portato in dono era finito. Non era stato un corpo particolarmente potente. Aveva ben poco della stranezza innata che lui apprezzava. Il figlio di Anyanwu avrebbe potuto essere bello, ma probabilmente sarebbe stato assolutamente ordinario. Ormai quel corpo era logoro. Se lo avesse conservato ancora a lungo, sarebbe diventato pericoloso per quelli che gli stavano intorno. Una semplice eccitazione o un dolore che normalmente avrebbe notato appena avrebbero potuto costringerlo alla trasmigrazione. Qualcuno, la cui vita era importante per lui, avrebbe potuto morire. Guardò Anyanwu, ancora addormentata al suo fianco, e sospirò. Che cosa gli aveva detto, quella notte di alcuni mesi prima? Che in realtà niente era cambiato. Si erano finalmente accettati l'un l'altro. Da allora in poi si sarebbero salvati a vicenda dalla solitudine. Ma a parte quello, aveva ragione lei. Niente era cambiato. Lei non lo avrebbe voluto vicino a sé per qualche tempo, dopo che fosse cambiato. Si rifiutava ancora di capire che — per necessità, per incidente o per scelta — doveva uccidere. Non aveva modo di evitarlo. Un normale essere umano poteva sopportare di morire di fame, ma Doro no. Meglio, allora, un'uccisione controllata che lasciarsi andare al punto di non sapere chi avrebbe preso. Quante vite dovevano passare prima che Anyanwu lo capisse?
Al suo fianco, lei si svegliò. — Ti alzi? — domandò. — Sì. Ma non c'è ragione perché lo faccia tu. Non è ancora l'alba. — Vai via? Sei appena tornato. Doro la baciò. — Forse tornerò fra qualche giorno. — Per vedere come avrebbe reagito lei. Per essere certo che niente fosse cambiato o, forse, nella speranza che si sbagliassero entrambi, che lei fosse cresciuta almeno un poco. — Resta ancora — mormorò lei. Sapeva. — Non posso — rispose lui. Anyanwu rimase in silenzio per un attimo, poi sospirò. — Eri addormentato, quando ho allattato il bambino — gli disse. — Ma c'è ancora latte per te, se ne vuoi. Lui abbassò subito la testa sul suo seno. Probabilmente, non ci sarebbe stato più nemmeno quello. Almeno per molto tempo. Il latte era nutriente, buono e dolce com'era stato quel periodo con lei. Ora, per un po', avrebbero ricominciato la vecchia scaramuccia. Lei gli accarezzò la testa e Doro sospirò. Più tardi uscì e prese Susan. Era il tipo di preda di cui aveva bisogno in quel momento, molto sensitiva. Dolce e buona per la sua mente, come il latte di Anyanwu lo era stato per il suo corpo precedente. Svegliò Frank e insieme trasportarono quel corpo nel vecchio cimitero degli schiavi. Non voleva che la gente di Anyanwu lo trovasse e corresse ad avvertirla. Non c'era bisogno che lo sapesse in quel modo. Se possibile, voleva facilitarle quel momento. Quando lui e Frank partirono, una squadra di braccianti si stava avviando verso i campi di cotone. — Porterai a lungo questo corpo? — gli chiese Frank, guardando il profilo alto e robusto di Susan. — No, ne ho già ricavato quello che mi serviva — rispose Doro. — È un buon corpo, però. Potrebbe durare un anno, forse due. — Ma non sarebbe bene per Anyanwu. — Potrebbe andare, se non si trattasse di Susan. Anyanwu ha avuto delle mogli, dopo tutto. Ma conosceva Susan, le piaceva. Salvo casi di emergenza, non chiedo alla gente di ignorare sentimenti del genere. — Tu e Anyanwu — brontolò Frank. — Sempre a cambiare sesso, a cambiare colore, a figliare come...
— Chiudi il becco — ribatté Doro seccato — o ti racconterò alcune cosette sulla tua famiglia che non ti farebbe piacere sentire. Sbalordito, Frank tacque. Era sensibile sull'argomento delle sue origini, dell'antica famiglia della Virginia. Per qualche stupida ragione, era importante per lui. Doro si trattenne appena in tempo dal distruggere completamente ogni illusione che potesse ancora nutrire sul proprio sangue blu, o sulla propria pelle bianca, se era per quello. Ma non c'era nessun motivo per farlo. Nessun motivo, a parte il fatto che uno dei periodi migliori della sua vita si stava concludendo, e lui non era sicuro di ciò che sarebbe venuto dopo. Due settimane più tardi, quando tornò da Anyanwu, a casa da Anyanwu, era solo. Aveva rimandato Frank dalla sua famiglia, e aveva assunto il corpo più conveniente di un bianco snello dai capelli castani. Era un buon corpo forte, ma Doro conosceva troppo bene Anyanwu per aspettarsi che lo apprezzasse. Quando lo vide, non disse niente. Non lo accusò e non lo maledisse, non si mostrò neppure ostile. D'altra parte, non gli diede neppure il benvenuto. — Hai preso Susan, non è vero? — fu tutto ciò che disse. Quando lui rispose di sì, gli volse le spalle e si allontanò. Doro pensò che, se non fosse stata incinta, se ne sarebbe andata per mare e lo avrebbe lasciato alle prese con i suoi figli tutt'altro che rispettosi. Ormai sapeva che non avrebbe fatto loro del male. Tuttavia, la gravidanza la costringeva a mantenere la forma umana. Portava in grembo un figlio umano. Assumendo una forma animale, lo avrebbe quasi certamente ucciso. Glielo aveva detto durante una delle prime gravidanze con Isaac, e lui l'aveva considerata una debolezza. Non aveva dubbi che lei potesse abortire in qualsiasi momento, senza aiuto e senza rischi per se stessa. Con quel suo corpo, poteva fare tutto ciò che desiderava. Ma non intendeva abortire. Una volta che un figlio era dentro di lei, doveva nascere. In tutti quegli anni, da quando l'aveva conosciuta, Anyanwu era stata premurosa verso i figli, tanto prima che nascessero quanto dopo. Doro decise di restare con lei durante quel periodo di debolezza. Una volta accettati i due cambiamenti più recenti, non credeva che avrebbe avuto altri problemi con lei. Impiegò molti giorni, lunghi e poco comunicativi, per scoprire fino a che punto si sbagliasse. Alla fine, fu la figlia di Anyanwu, Helen, a farglielo capire. La bambina, a volte, sembrava molto più piccola dei suoi dodici anni. Giocava con gli altri bambini, litigava con loro e piangeva per ferite
da poco. In altri momenti, era una donna racchiusa in un corpo di bambina. Ed era in tutto e per tutto la figlia di sua madre. — Non vuole parlarmi — disse la bambina a Doro. — Sa che io so cosa ha intenzione di fare. — Era venuta a sedersi vicino a lui, all'ombra fresca di una quercia gigante. Per un certo tempo, avevano guardato in silenzio Anyanwu che estirpava le erbacce dal giardino dei semplici. Quel giardino era severamente proibito agli altri giardinieri e ai bambini volenterosi che del resto consideravano gran parte delle piante di Anyanwu nient'altro che erbacce. In quel momento, però, Doro distolse lo sguardo dal giardino per fissare Helen. — Che cosa vuoi dire? — le domandò. — Che ha intenzione di fare? Lei lo guardò, e Doro non dubitò che fosse una donna a guardarlo con quegli occhi. — Dice che Kane e Leah verranno a vivere qui. Dice che dopo la nascita del bambino, se ne andrà. — In mare? — No, Doro. Non in mare. Un giorno o l'altro, dovrebbe uscire dal mare. Allora tu la ritroveresti, e lei dovrebbe restare a guardare mentre uccidi i suoi amici, mentre uccidi i tuoi stessi amici. — Di che cosa parli? — L'afferrò per le braccia, si trattenne appena in tempo per non scrollarla. Lei lo guardò con ira, furiosa, con odio evidente. A un tratto abbassò la testa e gli morse la mano con tutta la forza che aveva nei dentini aguzzi. Il dolore indusse Doro a lasciarla libera. Lei non poteva sapere quanto fosse pericoloso causargli un dolore improvviso e inatteso. Se lo avesse fatto poco prima che uccidesse Susan, l'avrebbe presa, inevitabilmente. Ma, ora che si era sfamato da poco, aveva un maggiore autocontrollo. Si strinse la mano insanguinata e la guardò correre via. Poi, lentamente, si alzò in piedi e si avvicinò ad Anyanwu. Lei aveva messo a nudo le radici di parecchie erbe con lo stelo viola e le radici gialle. Doro si aspettava che le gettasse via, invece lei tagliò le piante separandole dai rizomi, ripulì i rizomi dal terriccio e li ripose nel cestino da giardinaggio. — Che cosa sono quelli? — chiese Doro. — Una medicina — rispose — o un veleno, se non si sa che cosa farne. — Tu che cosa ne farai? — Li riduco in polvere, li mescolo con altre sostanze, li faccio macerare in acqua bollente e li somministro ai bambini che hanno i vermi.
Doro scosse la testa. — Pensavo che potessi aiutarli più facilmente, producendo il rimedio nel tuo corpo. — Anche questo funziona altrettanto bene. Insegnerò a qualcuna delle donne a prepararlo. — Perché? — Perché possano guarire se stesse e la loro famiglia senza dipendere da quella che considerano la mia magia. Lui si chinò per sollevarle il viso, in modo da guardarla in faccia. — E perché non dovrebbero dipendere dalla tua magia? I tuoi rimedi sono più efficaci di qualsiasi erba macinata. Lei scrollò le spalle. — Devono imparare ad aiutarsi da soli Lui raccolse il cestello e la tirò in piedi. — Vieni in casa a parlare con me. — Non c'è niente da dire. — Vieni lo stesso. Fammi contento. — Le passò un braccio sulle spalle e la guidò verso la casa. Stava per portarla in biblioteca, ma lì c'era un gruppo di bambini che imparavano a leggere. Erano seduti sul tappeto in un semicerchio irregolare, e guardavano una delle figlie di Anyanwu. Mentre Doro allontanava Anyanwu da loro, sentì la voce di uno dei figli avuti da Susan che leggeva un versetto della Bibbia: — "Siate equanimi l'uno verso l'altro. Non siate alteri, ma benevoli verso gli uomini di bassa condizione. Non eccedete nella stima di voi stessi." Doro guardò all'indietro. — Ho l'impressione che debba essere un passo delle Scritture piuttosto impopolare in questa zona del paese — osservò. — Faccio in modo che imparino anche alcuni dei meno popolari — rispose Anyanwu. — Ce n'è un altro: "Tu non consegnerai al padrone il servo che è sfuggito al padrone per venire da te." Vivono in un mondo che non vuole far sentire loro certe parole. — Li allevi da cristiani, allora? Lei scrollò le spalle. — Quasi tutti i genitori sono cristiani. Vogliono che i figli imparino a leggere per poter leggere la Bibbia. Inoltre... — gli lanciò un'occhiata, con gli angoli della bocca rivolti all'ingiù — ...inoltre, questo è un paese cristiano. Lui ignorò il sarcasmo, la guidò nel salottino sul retro. — I cristiani considerano un peccato mortale togliersi la vita — osservò. — Considerano peccato togliere la vita in ogni caso, eppure uccidono e continuano a uccidere.
— Anyanwu, perché hai deciso di morire? — Non avrebbe mai immaginato di poter pronunciare quelle parole con tanta calma. Che cosa avrebbe pensato lei? Che non gliene importasse? Poteva davvero crederlo? — È l'unico modo che ho di lasciarti — rispose lei semplicemente. Doro assimilò l'idea per un attimo. — Pensavo che restare con te, adesso, ti avrebbe aiutato ad abituarti a... alle cose che devo fare — concluse. — Pensi che non ci sia abituata? — Non le hai accettate. Per quale altro motivo vorresti morire? — A causa di quello che abbiamo già detto. Tutto è temporaneo, tranne te e me. Tu sei tutto quello che ho, forse tutto quello che vorrei mai avere. — Scosse la testa lentamente. — E sei un'oscenità. Lui si accigliò, fissandola. Non aveva detto più certe cose, dopo quella notte insieme nella biblioteca. Non le aveva mai dette in quel tono spassionato, come se stesse osservando: «Sei alto.» Lui scoprì che non riusciva neppure a sentirsi in collera con lei. — Devo andarmene? — domandò. — No. Resta con me. Ho bisogno di averti qui. — Anche se sono un'oscenità? — Anche così. Anyanwu era come dopo la morte di Luisa, stranamente passiva e pronta a morire. Allora erano state solitudine e dolore a opprimerla, a schiacciarla. Ora... che cos'era ora, in realtà? — È per Susan? — le chiese. — Non credevo che le fossi tanto vicina. — Non lo ero. Ma tu sì. Ti aveva dato tre figli. — Ma... — Non avevi bisogno della sua vita. — Non c'era altro modo in cui poteva essermi utile. Aveva avuto abbastanza figli, e non poteva occuparsene. Che cosa ti aspettavi che ne facessi? Anyanwu si alzò e uscì dalla stanza. Più tardi, Doro tentò di nuovo di parlarle. Lei non voleva ascoltarlo. Non era disposta a discutere con lui o a maledirlo. Quando si offrì nuovamente di andarsene, lo pregò di restare. Quando lui entrava nella sua stanza, di notte, lo accoglieva con una strana acquiescenza silenziosa. Eppure meditava ancora di morire. Quella, era un'oscenità. Una immortale, una donna che poteva vivere con lui per millenni e millenni era decisa al suicidio, e lui non era neppure certo del motivo.
Doro era sempre più disperato col progredire della sua gravidanza, perché non riusciva a raggiungerla, non riusciva a toccarla. Anyanwu ammetteva di avere bisogno di lui, diceva di amarlo, ma una parte di lei gli era inaccessibile e niente di ciò che lui diceva riusciva a raggiungerla. Alla fine, Doro si allontanò per alcune settimane. Quello che Anyanwu gli stava facendo non gli piaceva. Non riusciva a ricordare un momento in cui i suoi pensieri fossero stati così confusi, in cui avesse desiderato in modo così intenso, così doloroso, qualcosa che non poteva avere. Aveva fatto quello che, in apparenza, Anyanwu desiderava. Le aveva concesso di toccarlo come se fosse un uomo qualsiasi. Le aveva concesso di ridestare in lui sentimenti che erano rimasti sopiti da un tempo infinitamente superiore alla lunghezza della vita di Anyanwu. In pratica, si era messo a nudo davanti a lei. Era sbalordito di aver potuto fare una cosa simile, e che lei, pur rendendosene conto, non se ne curasse. Proprio lei, fra tutti! Si recò a Baton Rouge a trovare una donna che aveva conosciuto in passato. Ormai era sposata, ma si dava il caso che il marito fosse a Boston, e accolse volentieri Doro. Rimase con lei alcuni giorni, sempre tentato di parlarle di Anyanwu, ma senza mai risolversi a farlo. Assunse un corpo nuovo, quello di un negro libero che possedeva parecchi schiavi e li trattava con brutalità. In seguito, si domandò perché avesse ucciso quell'uomo. Il modo in cui un proprietario di schiavi trattava i suoi beni mobili non lo riguardava affatto. Si liberò del corpo dello schiavista e prese quello di un altro negro libero, uno che sarebbe potuto essere un fratello più chiaro di quello che era piaciuto ad Anyanwu, compatto, attraente, di un bruno rossiccio. Forse lei lo avrebbe respinto perché somigliava troppo all'altro, senza esserlo. Forse lo avrebbe respinto perché somigliava troppo poco all'altro. Chi poteva sapere quale direzione avrebbe preso la sua mente? Ma forse lo avrebbe accettato e avrebbe parlato con lui, per ridurre la distanza che li separava, prima che lei si spegnesse come se la sua utilità si fosse esaurita. Tornò a casa da lei. Il ventre gonfio lo tenne a distanza quando l'abbracciò per salutarla. In qualsiasi altra occasione, Doro sarebbe scoppiato a ridere e lo avrebbe accarezzato, pensando al figlio che vi stava dentro. In quel momento, lo guardò soltanto, rendendosi conto che lei poteva partorire da un momento all'altro. Che stupido era stato ad andarsene, lasciandola sola, a rinunciare a una parte di quelli che potevano essere i loro ultimi giorni insieme.
Lei lo prese per mano e lo guidò in casa, mentre il figlio Julien gli prendeva il cavallo. Julien rivolse a Doro una lunga occhiata spaventata e implorante che Doro non ricambiò. Era evidente che sapeva anche lui. Dentro casa, ricevette lo stesso genere di occhiate da Leah e Kane, che Anyanwu aveva mandato a chiamare. Nessuno disse niente, a parte i soliti saluti, ma la casa era piena di tensione. Era come se la sentissero tutti tranne Anyanwu. Lei sembrava non sentire altro che un piacere solenne nel riavere Doro a casa. La cena fu silenziosa, quasi cupa, e tutti trovarono qualche pretesto per non trattenersi a tavola. Tutti tranne Doro. Lui riuscì a convincere Anyanwu a dividere con lui vino, frutta e noci e a conversare nel salottino più fresco sul retro. Finì che divisero vino, frutta noci e silenzio, ma non aveva importanza. Gli bastava che fosse con lui. Il bambino di Anyanwu, un maschietto minuscolo ma robusto, nacque due settimane dopo il ritorno di Doro, e lui si sentì quasi male per la disperazione. Non sapeva come affrontare i propri sentimenti, non riusciva a ricordare di aver mai provato una tale confusione di sensazioni intense. A volte gli accadeva di osservare il proprio comportamento come da una grande distanza, e di notare, con una confusione ancora maggiore, che esteriormente non c'era nulla di visibile in lui che rivelasse la sofferenza. Trascorreva più tempo che poteva con Anyanwu, guardandola preparare e mescolare le erbe, istruire gruppetti della sua gente sulla coltivazione, l'aspetto e l'uso dei semplici, assistere quei pochi che non potevano aspettare questa o quell'erba. — Che cosa faranno quando avranno soltanto le erbe? — le domandò. — Vivranno o moriranno, come possono — rispose lei. — Tutto ciò che è veramente vivo, prima o poi muore. Trovò una balia per il bambino, e impartì con calma istruzioni alla spaventatissima Leah. Considerava Leah la più forte e la più sveglia delle sua figlie bianche, e la più adatta a succederle. Kane non lo voleva. Si sentiva minacciato, perfino atterrito, al pensiero di trovarsi improvvisamente più in vista. Si sarebbe messo più in mostra agli occhi della gente che apparteneva al ceto del padre, persone che potevano aver conosciuto suo padre. Doro lo trovava troppo improbabile per darsene pensiero. Cercò di spiegare all'uomo che se continuava a recitare bene il suo ruolo, come Doro lo aveva sempre visto fare, e se inoltre possedeva evidentemente tutte le caratteristiche esteriori di un ricco piantatore, alla gente non sarebbe mai ve-
nuto in mente che potesse essere qualcos'altro se non un ricco piantatore. Doro raccontò la storia di Frank che lo aveva fatto passare per un principe africano convertito al cristianesimo, e lui e Kane ne risero insieme. Non si era riso granché in quella casa, negli ultimi tempi, e anche quell'intermezzo finì bruscamente. — Devi fermarla — disse Kane, come se non avessero fatto che discutere di Anyanwu. — Devi. Sei l'unico che può farlo. — Non so che fare — ammise Doro senza finzioni. Kane non aveva idea di quanto fosse insolita per lui una simile ammissione. — Parla con lei! Vuole qualcosa? Dagliela! — Penso che voglia che io non uccida più — rispose Doro. Kane batté le palpebre, poi scosse la testa con aria impotente. Perfino lui capiva che era impossibile. Leah entrò nel salottino sul retro dove stavano parlando e si piantò di fronte a Doro, con le mani sui fianchi. — Non riesco a capire che cosa provi — disse. — Non so perché, non ci sono mai riuscita. Ma se provi qualcosa per lei, va' subito a vederla! — Perché? — chiese Doro. — Perché sta per farlo. È proprio sul punto di fare il passo decisivo. Credo che abbia in mente di non svegliarsi domattina, come Luisa. Doro si alzò per andare, ma Kane lo fermò con una domanda rivolta a Leah. — Tesoro, che cosa vuole? Che cosa vuole realmente da lui? Leah spostò lo sguardo dall'uno all'altro, vide che aspettavano entrambi la sua risposta. — Gliel'ho chiesto anch'io — disse. — Ha risposto soltanto che era stanca. Stanca da morire. Era apparsa stanca, rifletté Doro. Ma stanca di che cosa? Di lui? Lo aveva implorato di non ripartire, anche se lui non aveva progettato di farlo. — Stanca di che cosa? — domandò. Leah tenne le mani sollevate di fronte a sé e lo guardò. Aprì e richiuse le dita come per afferrare qualcosa, ma strinse soltanto aria. A volte faceva dei gesti quando riceveva o ricordava immagini e impressioni che nessun altro poteva vedere. Nella società normale, la gente l'avrebbe senz'altro giudicata folle. — Questo è ciò che posso sentire — disse. — Se mi siedo dove si è seduta lei da poco, o ancora di più se prendo in mano qualcosa che ha indossato. È come se allungasse le mani e le tendesse e cercasse di afferrare, e poi si ritrovasse a mani vuote. Non c'è niente. È tanto stanca.
— Forse è soltanto l'età — osservò Kane. — Forse alla fin ne si fa sentire. Leah scosse la testa. — Non credo. Non ha nessun dolore, non ha rallentato affatto le sue attività. È solo... — Leah si lasciò sfuggire un gemito di frustrazione e tristezza, quasi un singhiozzo. — Non sono affatto brava in questo — disse. — O le impressioni mi arrivano chiare e nitide senza che mi affatichi e mi preoccupi per arrivarci, oppure non arrivano mai. La mamma era in grado di prendere qualcosa di nebuloso e farlo diventare chiaro per se stessa e per me. Io non sono abbastanza brava. Doro non disse niente, rimase immobile, tentando di afferrare il senso dello strano gesto, della stanchezza. — Va' da lei, dannazione! — gridò Leah. E poi, in tono più dolce: — Aiutala. Da quando è arrivata dall'Africa è una guaritrice. Ora ha bisogno di qualcuno che guarisca lei. Chi potrebbe farlo, se non tu? Doro li lasciò e andò a cercare Anyanwu. Prima non aveva pensato a lei in termini di guarigione. Forse era il caso di rovesciare le parti, allora. Avrebbe fatto quello che poteva per guarire la guaritrice. La trovò in camera, già pronta per andare a letto e intenta ad appendere all'aria il vestito. Aveva cominciato a indossare vestiti soltanto quando la gravidanza era diventata evidente. Sorrise con calore quando Doro entrò, come se fosse contenta di vederlo. — È presto — le disse lui. Lei annuì. — Lo so, ma sono stanca. — Sì. Leah mi ha appena parlato di quanto sei... stanca. Anyanwu lo guardò in faccia per un attimo, sospirò. — A volte vorrei tanto avere solo dei figli normali. — Pensavi... stanotte... — Lo penso ancora. — No! — Le si avvicinò, la prese per le spalle come se con la sua stretta potesse trattenere la vita in lei. Anyanwu lo respinse con una forza che non aveva più sentito in lei dopo la morte di Isaac. Fu scagliato contro la parete e sarebbe caduto, se non ci fosse stato un muro a fermarlo. — Non dirmi più di no — disse lei a bassa voce. — Non voglio più sentirti dire quello che devo fare. Lui soffocò un impeto istintivo di collera, la fissò massaggiandosi la spalla che aveva urtato contro il muro. — Che cosa c'è? — sussurrò. — Dimmi che cosa c'è che non va.
— Ho tentato. — Lei salì sul letto. — Allora ritenta! Lei non s'infilò sotto la coperta, ma vi si sedette sopra, guardandolo. Non disse niente, si limitò a guardarlo. Alla fine Doro trasse un lungo respiro irregolare, e sedette sulla poltrona vicino al letto. Stava tremando. Il suo nuovo corpo, forte e perfettamente sano, stava tremando come se l'avesse logorato all'ultimo stadio. Doveva fermarla. Doveva. La guardò e gli parve di vedere della compassione nei suoi occhi, come se fosse sul punto di avvicinarglisi, abbracciarlo non solo come un amante, ma come uno dei suoi figli da consolare. Le avrebbe permesso di farlo. L'avrebbe accettato con piacere. Lei non si mosse. — Ti ho detto — mormorò — che anche quando ti odiavo, credevo in quello che stavi tentando di fare. Credevo che dovessimo ottenere delle persone più simili a noi, che non dovessimo stare soli. Con me hai avuto molto meno problemi di quanto avresti potuto, proprio perché ti credevo. Ho imparato a voltare la testa e a ignorare quello che facevi alla gente. Ma non sono riuscita a ignorare tutto, Doro. Tu uccidi i tuoi servi migliori, persone che ti obbediscono anche quando per loro comporta sofferenza. Uccidere ti dà troppo piacere. Davvero troppo. — Dovrei farlo ugualmente, che mi desse piacere o no — replicò lui. — Lo sai cosa sono. — Tu sei meno di ciò che eri. — Io... — L'aspetto umano di te sta morendo, Doro. È quasi morto. Isaac lo aveva previsto, e me lo disse. È una parte di quello che mi disse la notte in cui mi persuase a sposarlo. Disse che, un giorno o l'altro, non avresti provato più alcun sentimento umano, e disse che era contento di non vivere fino a vedere quel giorno. Mi disse che dovevo sopravvivere, in modo da poter salvare la parte umana di te. Ma si sbagliava. Non posso salvarla. È già morta. — No. — Lui chiuse gli occhi, tentò di dominare il tremito. Alla fine rinunciò al tentativo e la guardò. Se solo avesse potuto indurla a vedere. — Non è morta, Anyanwu. Lo avrei pensato anch'io prima di trovarti per la seconda volta, ma non è vero. Morirà, però, se tu mi lascerai. — Aveva voglia di toccarla, ma nello stato in cui era non osava rischiare di essere scaraventato di nuovo dalla parte opposta della stanza. Doveva toccarlo lei. — Penso che mio figlio avesse ragione — disse. — Parti di me possono
morire a poco a poco. Che cosa farò, quando non resterà altro che fame e necessità di sfamarmi? — Qualcuno troverà un modo per liberare il mondo da te — rispose lei con voce atona. — In che modo? Gli esseri umani migliori, quelli con il maggior potere potenziale, appartengono a me. Li ho collezionati, protetti, sfamati per quasi quattro millenni, mentre la gente comune avvelenava, torturava, impiccava o bruciava sul rogo tutti quelli che mi sfuggivano. — Non sei infallibile — ribatté Anyanwu. — Io ti sono sfuggita per tre secoli. — Sospirò, scosse la testa. — Non importa. Non posso predire quello che accadrà, ma, come Isaac, sono contenta di non vivere per vederlo. Doro si alzò in piedi, furioso con lei, non sapendo se imprecare o pregare. Aveva le gambe deboli e si sentiva sull'orlo di un pianto osceno. Per quale motivo lei non lo aiutava? Aiutava tutti gli altri! Provò un desiderio irresistibile di allontanarsi da lei, o di ucciderla. Come si poteva permetterle di sprecare tutta la sua forza e la sua potenza nel suicidio, mentre lui le stava davanti, col viso madido di sudore, il corpo tremante come un vecchio paralizzato? Ma non poteva lasciarla, né ucciderla. Era impossibile. — Anyanwu, non devi lasciarmi! — Aveva il controllo della voce, almeno. Non era uscito quel suono che sembrava provenire in parte dal suo corpo e in parte no, che atterriva la maggior parte delle persone e avrebbe fatto pensare ad Anyanwu che tentava di spaventarla. Anyanwu scostò la coperta e il lenzuolo e si distese. Lui capì all'improvviso che sarebbe morta in quel momento. Proprio sotto i suoi occhi, si sarebbe distesa lì e avrebbe chiuso i contatti. — Anyanwu! — Era sul letto con lei, e tentava di risollevarla. — Ti prego — disse, senza ascoltare più la propria voce. — Ti prego, Anyanwu. Ascolta. — Lei era ancora viva. — Ascoltami. Non c'è niente che non darei per potermi stendere al tuo fianco e morire quando morirai tu. Non puoi sapere quanto ho desiderato... — Deglutì. — Donna di Sole, ti prego, non lasciarmi. — La sua voce s'incrinò e si ruppe. Pianse. Emise grandi singhiozzi che squassarono il suo corpo, già tremante in modo quasi intollerabile. Era come se piangesse per tutte le altre volte in cui le lacrime non erano volute sgorgare, in cui non c'era stato sollievo. Non riusciva a fermarsi. Non seppe in che momento lei gli sfilò gli stivali e lo ricoprì con la coperta, gli inumidì il viso con acqua fresca. Riconobbe però il conforto
delle braccia di lei, il calore del suo corpo accanto a lui. Dormì finalmente, esausto, con la testa sul seno di lei, e all'alba quando si svegliò, quel seno era ancora caldo, si sollevava e si abbassava ancora lievemente col respiro. EPILOGO Si dovettero fare dei cambiamenti. Anyanwu non poteva avere tutto ciò che voleva, e Doro non poteva più avere tutto ciò che un tempo aveva considerato suo di diritto. Lei gli proibì di distruggere gli esemplari da riproduzione dopo che gli erano serviti. Non poteva impedirgli del tutto di uccidere, ma gli aveva estorto la promessa che non ci sarebbero state altre Susan, altri Thomas. Se qualcuno si era guadagnato il diritto di essere al sicuro da lui, erano loro. Lui non le dava più ordini. Anyanwu non era più una delle sue fattrici, e nemmeno apparteneva al suo popolo nell'antico senso possessivo. Doro poteva chiedere la sua cooperazione, il suo aiuto, ma non poteva più costringerla a darglielo. Non ci sarebbero state più minacce ai suoi figli. Lui non avrebbe interferito in nessun modo con i suoi figli. Su quel punto nacque un disaccordo. Anyanwu voleva fargli promettere che non avrebbe interferito con nessuno dei suoi discendenti, ma lui rifiutò. — Hai idea di quanti discendenti devi avere e di come siano sparsi per il mondo? — le domandò. E naturalmente lei non ne aveva idea, anche se pensava che ormai dovevano essere tanto numerosi da riempire un'intera nazione. — Non ti farò promesse che non posso mantenere — disse Doro. — E non aspetterò di chiedere a qualche sconosciuto che mi interessa chi era la sua tris trisavola. Così, a malincuore, lei si adattò a proteggere soltanto i suoi figli e qualsiasi nipote o anche estraneo che fosse entrato a far parte della sua casa. A lei spettava il compito di proteggerli, di educarli, perfino di trasferirli, se lo avesse desiderato. Quando apparve evidente che nel giro di qualche anno sarebbe scoppiata una guerra fra stati del Nord e del Sud, decise di trasferire la sua gente in California. Il trasferimento dispiacque a Doro. Pensò che lei se ne andasse non soltanto per sfuggire alla guerra imminente, ma anche per rendergli più difficile violare la parola data riguardo ai suoi figli. Attraversare il continente, circumnavigando il Capo Horn o percorrendo l'istmo di Panama per raggiungerla, non sarebbe stato né rapido né semplice, nemmeno per Doro.
L'accusò di non avere fiducia in lui, e Anyanwu lo ammise tranquillamente. — Sei pur sempre il leopardo — disse. — E noi siamo pur sempre la preda. Perché dovremmo esporti alla tentazione? — Poi attenuò il colpo, baciandolo e dicendo: — Mi vedrai quando lo vorrai abbastanza. Lo sai. Quando mai la distanza ti ha fermato? Non lo aveva mai fermato. L'avrebbe vista. Sventò i suoi piani di compiere la traversata via terra, caricando lei e la sua gente su uno dei propri velieri, e restituendole uno dei migliori discendenti di lei e di Isaac perché la tenesse al sicuro dalle tempeste. In California, lei assunse finalmente un nome europeo: Emma. Aveva sentito dire che significava nonna o ava, e questo la divertiva. Divenne Emma Anyanwu. — Così la gente potrà chiamarmi con un nome che sarà capace di pronunciare — gli disse alla sua prima visita. Doro scoppiò a ridere. Non gli importava come si chiamasse, purché continuasse a vivere. E lo avrebbe fatto. Dovunque fosse andata, sarebbe vissuta. Non lo avrebbe mai lasciato. FINE