ELIZABETH GEORGE E LIBERACI DAL PADRE (A Great Deliverance, 1988) A Natalie, in onore dell'arricchimento dello spirito e...
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ELIZABETH GEORGE E LIBERACI DAL PADRE (A Great Deliverance, 1988) A Natalie, in onore dell'arricchimento dello spirito e del trionfo dell'anima Egli rispose: «Avete portato via gli dèi che mi ero fatti e il mio sacerdote e ve ne siete andati. Che cosa mi rimane? Come potete dunque dirmi: 'Che hai?'» Giudici 18, 24 1 Era stato proprio un gran maleducato. Le aveva starnutito fragorosamente in faccia, inondandola di schizzi, dopo aver resistito allo stimolo per almeno tre quarti d'ora, neanche fosse stato l'avanguardia di Enrico Tudor nella battaglia di Bosworth. Purtroppo alla fine era stato costretto alla resa. Non solo, ma subito dopo lo starnuto, per andare di male in peggio, si era anche messo a tirar su col naso. La donna adesso lo stava fissando. Apparteneva a quel genere di persone alla cui presenza si sentiva un perfetto idiota. Era alta almeno uno e ottanta e vestiva con la trascurata eleganza tipica dell'alta società inglese. L'età era indefinibile; quella creatura senza tempo lo scrutava con occhi d'un azzurro acciaio, occhi in grado di far scoppiare in lacrime più d'una cameriera. Doveva aver passato da un pezzo i sessanta. Forse era addirittura vicina agli ottanta, chissà. Stava seduta impettita con le mani serrate in grembo in una perfetta postura da scuola di portamento che non concedeva niente alla comodità dell'individuo. Non gli toglieva quegli occhi di dosso. Fissò il suo collarino da prete, poi il naso che indiscutibilmente gli gocciolava. Oh, scusi tanto, carissima. Non vorremo permettere che un inconveniente come uno starnuto rovini questo nostro felice incontro, no? Era sempre spiritosissimo quando si limitava a fare mentalmente le sue considerazioni. Il disastro accadeva quando cercava di esprimerle a parole. Lui tirò ancora su con il naso. E lei lo guardò ancora. Perché diavolo viaggiava in seconda classe? Era salita con grazia a Doncaster, come una vecchia Salomè con più di sette veli addosso, e aveva passato il resto del
viaggio a sorseggiare il caffè imbevibile delle ferrovie e a osservare con aria di disapprovazione il prete cattolico che aveva di fronte, come a voler enfatizzare la superiorità della Chiesa d'Inghilterra. E poi gli era venuto da starnutire. Da Doncaster a Londra si era comportato così bene, da sperare di farsi perdonare la sua appartenenza alla Chiesa cattolica. Ma, ahimè, lo starnuto aveva sancito un'irrevocabile condanna. «Io... eh... cioè... se vuole scusarmi...» Inutile. Il fazzoletto era ficcato in fondo alla tasca. Per prenderlo avrebbe dovuto allentare la presa sulla consunta ventiquattrore che teneva sulle ginocchia; cosa impensabile. Lei avrebbe dovuto capire. Qui non si tratta di un'offesa all'etichetta, signora. Si tratta di OMICIDIO. A quel pensiero riprese a tirar su col naso con rinnovato vigore. Al che la donna assunse una posizione ancora più rigida sul sedile, trasudando disapprovazione. Lo sguardo diceva tutto. Era la registrazione esatta dei pensieri che le passavano per la mente, e lui li leggeva uno per uno: poveretto. Patetico. Settantacinque anni, non un giorno di meno, e li dimostra tutti. E proprio quello che ci si aspetta da un prete cattolico: un viso segnato dai graffi di una cattiva rasatura; una briciola di pane all'angolo della bocca, residuo della colazione mattutina; un abito nero, liso, rammendato sui gomiti e sui polsi; un cappello schiacciato con la tesa impolverata. E quell'orribile valigetta sulle ginocchia! Fin da Doncaster si era comportato come se lei fosse salita sul treno con la precisa intenzione di strappargliela di mano e involarsi dal finestrino. Gesù! Sospirò e distolse lo sguardo da lui come in cerca di scampo. Ma non ce n'era. Il naso continuò a gocciolargli finché il rallentamento del treno indicò che si stavano finalmente avvicinando alla conclusione del viaggio. Lei si alzò in piedi e gli lanciò un'ultima occhiata tagliente. «Adesso capisco che cosa intendete voi cattolici per purgatorio», sibilò prima di dirigersi a passo svelto verso lo sportello. «Oddio», borbottò padre Hart. «Oddio, credo proprio di aver...» Ma lei era scomparsa. Il treno si era arrestato completamente sotto il tetto a volta della stazione di Londra. Era giunto il momento di portare a termine la sua missione. Diede un'occhiata in giro per assicurarsi di non aver dimenticato nulla: operazione inutile, dato che dallo Yorkshire aveva portato con sé soltanto la ventiquattrore che non aveva mai mollato. Sbirciò fuori del finestrino la vastità della stazione di King's Cross. Era più preparato a una stazione come Victoria o almeno la Victoria che
ricordava dai tempi della sua gioventù: con i rassicuranti muri di vecchi mattoni, le bancarelle e i suonatori ambulanti, sempre a un passo di distanza dalla polizia metropolitana. Ma King's Cross era qualcosa di totalmente diverso: lunghi tratti di pavimento piastrellato, invitanti cartelli pubblicitari appesi al soffitto, edicole, tabaccai, rivendite di hamburger. E tutta la gente - molta più di quanto si fosse aspettato - che faceva la coda per i biglietti e ingollava veloci spuntini mentre correva per prendere il treno, litigando, ridendo e scambiandosi baci di commiato. Tante razze, tanti colori. Era tutto così differente. Non era sicuro di poter sopportare il rumore e la confusione. «Scende, padre, o ha intenzione di passarci la notte?» Colto di sorpresa, padre Hart alzò lo sguardo verso il volto rubizzo del facchino che lo aveva aiutato a trovare il posto sul treno quella mattina alla partenza da York. Era un viso simpatico, tipicamente settentrionale, segnato da un'infinità di venuzze, conseguenza inevitabile dei venti delle brughiere. Aveva occhi blu oltremare, vivaci e intuitivi. E padre Hart li sentì tangibilmente scorrere con espressione amichevole ma penetrante dal suo volto fino alla valigetta. Stringendo con forza la maniglia, s'irrigidì; sperando di riuscire a muoversi, ma sentendo un terribile crampo al piede sinistro. Quando il dolore raggiunse il culmine, si lasciò sfuggire un gemito. Il facchino parlò con un tono preoccupato. «Forse non dovrebbe viaggiare solo. È sicuro di non aver bisogno di aiuto?» Ne aveva, eccome se ne aveva. Ma nessuno poteva farci niente. Neanche lui. «No, no. Me ne vado subito. E lei è stato fin troppo gentile. Il posto, sa. La confusione iniziale.» Il facchino accomiatandosi rispose: «Non si preoccupi. Ci sono un sacco di persone che non si rendono conto che il biglietto fornisce una prenotazione. Niente di male, non le pare?» «No. Immagino...» Padre Hart fece un rapido respiro per darsi coraggio. Percorrere il corridoio, uscire, trovare la metropolitana, si disse. Nessuna di quelle azioni doveva essere impossibile come sembrava. Si trascinò fino all'uscita. La sua valigetta, che teneva stretta sulla pancia con entrambe le mani, rimbalzava a ogni passo. Dietro di sé sentì la voce del facchino. «Ehi, padre, anche la porta è un po' dura. Ci penso io.» Si tirò da parte per lasciar passare l'uomo nel corridoio. Dalla porta po-
steriore si stavano già infilando due addetti alle pulizie dall'aria scorbutica, con i sacchi della spazzatura sulle spalle, pronti a riordinare il treno per il viaggio di ritorno a York. Erano pachistani e, benché parlassero inglese, padre Hart non riusciva a capirli a causa dello strano accento. La constatazione lo riempì di paura. Che cosa ci faceva lui in quella città, la capitale del Paese, dove gli abitanti erano stranieri che lo guardavano con occhi torvi e ostili e volti da immigrati? Che cosa sperava di poter fare? Che sciocchezza era mai quella? Chi avrebbe mai creduto... «Ha bisogno di aiuto, padre?» Padre Hart alla fine si mosse deciso. «No. Tutto a posto. Tutto a posto.» Discese con successo i gradini, approdò integro sul marciapiede di cemento, vide i piccioni che volavano alti sotto la volta della stazione. Cominciò a dirigersi distratto verso l'uscita di Euston Road. Alle spalle udì nuovamente la voce del facchino. «Qualcuno viene a prenderla? Sa dove andare? Dov'è diretto, adesso?» Il prete raddrizzò le spalle. Fece un cenno di saluto con la mano. «Scotland Yard», rispose con sicurezza. La stazione di St. Pancras, esattamente dirimpetto a King's Cross, era dal punto di vista architettonico l'antitesi di quest'ultima e padre Hart rimase per alcuni minuti abbagliato ad ammirarne la magnificenza neogotica. Il rumore del traffico di Euston Road e la puzza prodotta dallo scarico di due camion proprio sul bordo del marciapiede erano del tutto trascurabili per lui: appassionato di architettura, considerava quell'edificio un delirio architettonico. «Mio Dio, è meraviglioso», mormorò inclinando la testa per poter osservare meglio le guglie e gli avvallamenti della stazione ferroviaria. «Una bella ripulita e sarebbe un palazzo a posto.» Si guardò intorno con aria meditabonda, come se volesse fermare il primo passante e fargli un discorso sui mali che generazioni di locomotive a carbone avevano prodotto sul vecchio edificio. «Ora, mi chiedo...» Il suono monotono di una sirena della polizia echeggiò d'improvviso lungo Caledonian Road e aumentò d'intensità all'incrocio con Euston Road. Il prete fu riportato alla realtà. Si riscosse dai suoi pensieri con irritazione ma ancora più con paura: gli capitava sempre più spesso di vagare con la mente. Non era forse quello l'inizio della fine? Soffocò un groppo di terrore e cercò di farsi forza. Lo sguardo gli cadde sul titolo a lettere cubitali del giornale del mattino esposto in un'edicola vicina. Si avvicinò incu-
riosito. LO SQUARTATORE COLPISCE ALLA STAZIONE DI VAUXHALL! Squartatore! Rabbrividì a quelle parole, diede un'occhiata in giro e poi cominciò a leggere un breve paragrafo dell'articolo, scorrendolo velocemente per timore che una più attenta lettura tradisse un interesse per il morboso, disdicevole in un uomo di Chiesa. Parole, non frasi, attirarono il suo sguardo. Squarciati... corpi seminudi... arterie... recise... vittime di sesso maschile... Un brivido lo percorse. Si portò una mano alla gola e ne valutò l'effettiva vulnerabilità. Anche il collarino da prete cattolico non l'avrebbe protetto dal coltello di un assassino. Sarebbe affondato comunque nelle sue carni. Quel pensiero fu devastante. Barcollando, si allontanò dall'edicola e fortunatamente vide l'insegna della metropolitana a pochi metri di distanza. Gli risvegliò la memoria. Frugò nella tasca alla ricerca della pianta della metropolitana e si mise a studiarne scrupolosamente la superficie stropicciata. «La Circle Line per St. James's Park», si disse. E poi di nuovo, in tono più deciso: «La Circle Line per St. James's Park. La Circle Line per St. James's Park». Scendendo le scale, ripeté più e più volte la frase, come fosse un canto gregoriano. Mantenne il ritmo e la cadenza fino allo sportello dei biglietti e non smise finché non fu al sicuro sul convoglio. Lì diede un'occhiata agli altri occupanti della carrozza, si accorse che due anziane signore lo stavano guardando con evidente interesse e abbassò la testa. «Ci si confonde», spiegò lui, abbozzando un sorriso amichevole. «Non ci si orizzonta più.» «Di tutti i generi ce ne sono, credimi, Pammy», commentò la più giovane delle due donne all'amica. Lanciò all'ecclesiastico uno sguardo esperto di gelido disprezzo. «Si dice che siano camuffati in tutte le maniere.» Senza distogliere gli occhi inespressivi dal prete disorientato, trascinò in piedi l'amica rinsecchita, si attaccò al corrimano vicino alla porta e la spinse fuori con forza dalla vettura alla fermata successiva. Con rassegnazione padre Hart le osservò allontanarsi. Non le biasimava, pensò. Non ci si può fidare. Non sempre. Non del tutto. Era andato a Londra per quello: per dire che non era la verità. Sembrava soltanto la verità. Un corpo, una ragazza e un'ascia insanguinata. Ma non era la verità. Doveva convincerli, e... Oddio, in queste cose ci sapeva fare così poco. Ma Dio era dalla sua parte. Ciò che faccio è giusto, ciò che faccio è giusto, ciò che faccio è giusto. Ripetendosi questa nuova formula, si ritrovò davanti alle porte di New Scotland Yard.
«Che io sia dannato, se non abbiamo fra le mani un altro confronto Kerridge-Nies», concluse il commissario Malcolm Webberly. Fece una pausa per accendersi un grosso sigaro che diffuse subito nell'aria una nuvola di fumo puzzolente. «Cristo santo, Malcolm, apri una finestra se vuoi continuare a fumare quella roba», replicò il suo interlocutore. In qualità di commissario capo, Sir David Hillier era il superiore di Webberly, ma preferiva lasciare che i suoi uomini dirigessero le sezioni a modo loro. Lui personalmente non si sarebbe mai sognato di lanciare un simile attacco all'olfatto prima di un interrogatorio, ma i sistemi di Malcolm non erano i suoi, e comunque si erano sempre dimostrati efficaci. Spostò la sedia per evitare il punto in cui il fumo era maggiormente concentrato e si mise a osservare l'ufficio in tutti i suoi aspetti peggiori. Hillier si domandava come Malcolm potesse dirigere in modo così efficiente il suo dipartimento, data la propensione che aveva per il caos. Ogni superficie disponibile era coperta da dossier, fotografie, rapporti e libri. C'erano tazze di caffè sporche, portacenere traboccanti e persino un paio di vecchissime scarpe da tennis su un ripiano. Come era nelle intenzioni di Webberly, la stanza aveva l'aspetto e l'odore del rifugio caotico di uno studente universitario: pieno di roba, accogliente e con la puzza di chiuso. Mancava soltanto un letto sfatto. Era il tipo di posto che invitava alle chiacchiere, allo stare insieme in tutto relax, che favoriva il cameratismo tra uomini che devono lavorare in squadra. Furbo Malcolm, pensò Hillier. Molto più scaltro di quanto il suo aspetto banale, le spalle cadenti, i chili di troppo facessero sospettare. Webberly si allontanò dalla scrivania e si mise ad armeggiare con la finestra finché, dopo qualche grugnito e un po' di sforzi, non riuscì ad aprirla. «Scusami, David. Mi dimentico sempre.» Ritornò a sedere al suo posto, diede un'occhiata malinconica a tutto il disordine e disse: «Non ci voleva proprio, in questo momento». Si passò una mano tra i radi capelli, un tempo rossicci, adesso quasi del tutto grigi. «Problemi a casa?» chiese Hillier con una certa cautela, tenendo gli occhi fissi sull'anello d'oro con sigillo. Era una domanda imbarazzante per entrambi, dal momento che avevano sposato due sorelle e quasi nessuno a Scotland Yard era informato della cosa e loro stessi raramente vi facevano cenno. Il loro rapporto era frutto di uno di quei capricci del destino per cui due
uomini si trovano legati in molti modi di cui però non amano parlare. La carriera di Hillier era stata lo specchio del suo matrimonio. Entrambi un successo, pienamente soddisfacenti. Sua moglie era la perfezione in persona: assolutamente fedele, una valida interlocutrice, una madre affettuosa, una partner eccellente a letto. Doveva ammettere che lei era il vero centro della sua esistenza, che i suoi tre figli erano soltanto elementi marginali, piacevoli e divertenti, ma privi di un'effettiva importanza se paragonati a Laura. Si rivolgeva a lei - il suo primo pensiero al mattino, l'ultimo alla notte - per ogni suo bisogno. E lei sapeva far fronte a tutto. Per Webberly le cose erano andate diversamente: una carriera che tirava avanti in qualche modo, non brillante ma prudente, costellata di innumerevoli successi di cui lui raramente si prendeva il merito, perché non aveva le doti di diplomazia necessarie per riuscire a Scotland Yard. Perciò sul suo orizzonte professionale non balenava accattivante nessun titolo di baronetto, e questo fatto aveva creato un'enorme tensione nel suo matrimonio. Frances Webberly non riusciva a sopportare che la sorella minore fosse Lady Hillier. La cosa l'aveva trasformata da timida ma docile casalinga della media borghesia in un'arrampicatrice sociale della peggior specie. Si ostinava a organizzare cene, cocktail, terribili rinfreschi, che a malapena si potevano permettere, in onore di persone per cui non avevano alcun interesse ma che secondo Frances potevano essere utili all'ascesa sociale del marito. A queste iniziative mondane gli Hillier partecipavano immancabilmente, Laura per un senso di triste lealtà nei confronti di una sorella con cui non aveva più rapporti affettuosi e Hillier per proteggere il più possibile Webberly dai commenti crudeli che Frances spesso faceva in pubblico sulla carriera poco brillante del marito. L'incarnazione di Lady Macbeth, pensò Hillier con un brivido. «No, non è questo il punto», stava rispondendo Webberly. «È che pensavo di aver sistemato Nies e Kerridge anni fa. Mi preoccupa che sorga di nuovo l'occasione di un confronto tra i due.» Come era tipico di Malcolm assumersi la responsabilità delle manchevolezze altrui, pensò Hillier. «Rinfrescami la memoria sulla loro ultima lite», disse. «Si trattava di un fatto accaduto nello Yorkshire, vero? Zingari coinvolti in un omicidio?» Webberly annuì. «Nies comanda la polizia di Richmond.» Fece un greve sospiro, dimenticando per un momento di espirare il fumo del sigaro in direzione della finestra aperta. Hillier si sforzò di non tossire. Webberly allentò un po' la cravatta e con gesto distratto si toccò il colletto logoro della
camicia bianca. «Tre anni fa da quelle parti fu uccisa una vecchia zingara. Nies dirige un nucleo della squadra omicidi. I suoi uomini sono meticolosi, precisi all'eccesso. Condussero un'indagine e arrestarono il genero della vecchia. In apparenza si trattava di una disputa per il possesso di una collana di granati.» «Granati? Erano stati rubati?» Webberly scosse la testa e fece cadere la cenere del sigaro nel portacenere di latta sulla scrivania. Il gesto provocò lo spostamento di cenere di precedenti sigari che si sparse come polvere su carte e cartellette. «No. La collana gliel'aveva data Edmund Hanston Smith.» Hillier si sporse in avanti. «Hanston Smith?» «Sì, ti ricordi adesso, vero? Ma quel fatto avvenne in un secondo tempo. Per l'assassinio della vecchia era stato arrestato un uomo, Romaniv, mi pare fosse il suo nome, che aveva moglie. Venticinque anni e bella come solo quelle donne sanno essere: scura, pelle olivastra, aria esotica.» «Una bella tentazione per un uomo come Hanston Smith?» «Davvero. Lei riuscì a convincerlo che Romaniv era innocente. Ci vollero alcune settimane; Romaniv non era ancora comparso in Corte d'Assise. Persuase Hanston Smith che il caso doveva essere riaperto. Sosteneva che lei e il marito erano perseguitati soltanto perché zingari, e che Romaniv era stato con lei l'intera notte in questione.» «Immagino che con il suo fascino sia stata molto convincente.» Webberly fece una smorfia. Spense il sigaro nel portacenere e intrecciò le dita lentigginose sullo stomaco, riuscendo in tal modo a nascondere la macchia sul panciotto. «Secondo la successiva testimonianza del cameriere personale di Hanston Smith, la buona signora Romaniv non aveva nessuna difficoltà a tenere 'occupato' per un'intera notte anche un uomo di sessantadue anni. Ricorderai che Hanston Smith era un uomo di considerevole ricchezza e influenza politica. Non gli fu difficile convincere la polizia dello Yorkshire a interessarsi al caso. Allora Reuben Kerridge - è ancora capo della polizia dello Yorkshire nonostante tutto quello che è successo - ordinò che venissero riaperte le indagini in precedenza effettuate da Nies. E per giunta fece rilasciare Romaniv.» «Come reagì Nies?» «Kerridge era il suo superiore, dopotutto. Cosa poteva fare? Nies era livido di rabbia, ma rilasciò Romaniv e ordinò ai suoi uomini di mettersi di nuovo al lavoro.» «Il rilascio di Romaniv, se da una parte rese felice la moglie, mise fine
prematuramente alla gioia di Hanston Smith», commentò Hillier. «Be', certo, la signora Romaniv si sentì in dovere di ringraziare Hanston Smith nel modo cui lui era abituato. Passò la notte con lui un'ultima volta, esaurì le energie del poveraccio - se è giusta la versione che mi hanno riferito - e fece entrare Romaniv in casa.» Webberly alzò lo sguardo sentendo bussare alla porta. «Il resto è una storia raccapricciante. I due uccisero Hanston Smith, presero tutto ciò che erano in grado di portar via, raggiunsero Scarborough, e furono fuori del Paese prima dell'alba.» «E la reazione di Nies?» «Richiese le immediate dimissioni di Kerridge.» Di nuovo si sentì bussare. Webberly ignorò la cosa. «Non le ottenne, ma da allora non aspetta altro che l'occasione buona.» «E adesso abbiamo di nuovo a che fare con loro.» Bussarono una terza volta, con maggiore insistenza. Webberly fece entrare Bertie Edwards, il responsabile della sezione di medicina legale della polizia, che si avvicinò con aria sbrigativa, scribacchiando sul taccuino e parlandovi assieme allo stesso tempo. Il taccuino per Edwards era come la segretaria per qualsiasi altro uomo. «Forte contusione alla tempia destra», stava riferendo in tono allegro, «seguita dalla totale lacerazione della carotide. Nessun documento d'identità, niente denaro, e addosso soltanto gli indumenti intimi. È lo Squartatore della Ferrovia, di sicuro.» Finì la frase con uno svolazzo. Hillier osservò l'omino con profondo disgusto. «Cristo, questi appellativi da giornalaccio. Saremo perseguitati da Jack lo Squartatore fino alla fine dei nostri giorni.» «Questo è il cadavere della stazione di Waterloo?» domandò Webberly. Edwards guardò Hillier, il suo viso era un libro aperto su cui si poteva leggere l'esitazione a discutere sul fatto se fosse giusto o no dare appellativi a ignoti assassini in nome della pubblica informazione. Apparentemente scartò quell'ipotesi perché si asciugò la fronte con la manica del camice e si rivolse al suo diretto superiore. «Waterloo.» Annuì. «Vittima numero undici. Non abbiamo ancora finito con quella di Vauxhall. Entrambe presentano le caratteristiche delle vittime dello Squartatore che abbiamo visto finora. Vagabondi. Unghie rotte. Sporche, Capelli tagliati male. Anche pidocchi. Quella di King's Cross, l'unica che stona, è davvero un rebus dopo tutte queste settimane. Nessun documento d'identità. Non risulta tra le persone scomparse. Non ci capisco niente.» Si grattò la testa con la penna. «Vuole la foto della vittima della
stazione di Waterloo? L'ho portata.» Webberly indicò la parete su cui erano già appese le fotografie delle dodici vittime dei più recenti omicidi, tutte uccise allo stesso modo, tutte all'interno o nelle immediate vicinanze delle stazioni ferroviarie londinesi. Tredici omicidi in poco più di cinque settimane. I giornali chiedevano a gran voce un arresto. Come se la cosa gli fosse del tutto indifferente, Edwards si mise a fischiettare mentre rovistava sulla scrivania di Webberly alla ricerca di una puntina da disegno. Appuntò l'ultima vittima al muro. «Niente male.» Fece un passo indietro per ammirare il proprio lavoro. «Cucito proprio per bene.» «Gesù!» esclamò esasperato Hillier. «Lei è un amante dell'orrido! Almeno abbia la decenza di togliersi quel camice sporco, quando viene qui! Non ha proprio un po' di riguardo? Ci sono donne su questi piani!» Edwards aveva l'aria di chi ascolta con paziente attenzione, ma i suoi occhi non fissavano più il commissario, si erano invece soffermati sulle pieghe di grasso che traboccavano dal colletto e sulla folta chioma che Hillier amava definire leonina. Il patologo alzò le spalle, facendo un cenno d'intesa a Webberly. «Ha parlato il gentiluomo!» commentò prima di lasciare la stanza. «Licenzialo!» urlò Hillier quando la porta si chiuse alle spalle di Edwards. Webberly scoppiò a ridere. «Prenditi uno sherry, David», disse. «È nel mobiletto dietro di te. Non dovremmo essere qui di sabato.» Due sherry riuscirono a placare notevolmente l'irritazione di Hillier nei confronti del patologo. Era in piedi davanti alla parete su cui erano appuntate le fotografie delle vittime e le osservava con aria imbronciata. «È un vero ginepraio», commentò irritato. «Victoria, King's Cross, Waterloo, Liverpool, Blackfriars, Paddington. Che Dio lo fulmini, perché almeno non segue l'ordine alfabetico!» «I maniaci difettano spesso di organizzazione», rispose serafico Webberly. «Cinque vittime non hanno neanche un nome, perdio», si lamentò Hillier. «Le spoglia sempre dei documenti d'identità, del denaro e dei vestiti. Se non c'è una denuncia di persona scomparsa, cominciamo con le impronte digitali. Lo sai quanto tempo ci vuole con questo sistema, David. Stiamo facendo del nostro meglio.»
Hillier si voltò. La sola cosa che sapeva per certo era che Malcolm avrebbe sempre fatto del suo meglio e si sarebbe messo da parte al momento della premiazione. «Scusami. Stavo parlando a vanvera?» «Un po'.» «Come al solito. Allora questo nuovo confronto Nies-Kerridge? Di che si tratta?» Webberly guardò l'orologio. «Un altro assassinio nello Yorkshire oggetto di contesa, niente di più. Ci mandano qualcuno con tutti i dati. Un prete.» «Un prete? Cristo, che razza di caso è?» Webberly scrollò le spalle. «Forse è l'unica persona su cui si sono trovati d'accordo Nies e Kerridge perché ci portasse le informazioni.» «Perché?» «Pare abbia trovato il corpo.» 2 Hillier si avvicinò alla finestra. La luce del sole gli illuminò il volto, mettendone in risalto le rughe, segno di troppe notti di veglia, e la pelle rosacea e gonfia, indice di una passione eccessiva per il cibo e per il porto. «Perdio, questo non è regolare. Kerridge è per caso impazzito?» «Se è per questo, Nies lo dice in giro da anni.» «Inviare la prima persona che è arrivata sulla scena del delitto... e neanche un poliziotto! Ma che cos'ha in testa quell'uomo?» «Che un prete è l'unica persona di cui entrambi si possono fidare.» Webberly guardò di nuovo l'orologio. «Dovrebbe essere qui tra non molto, in effetti. Ecco perché ti ho chiesto di venire.» «Per sentire la storia di questo prete? Non è certo nel tuo stile.» Webberly scosse la testa lentamente. Era arrivato alla parte più complicata. «Non per sentire la storia. A dir la verità, per sentire il piano.» «Mi intriga.» Hillier si versò un altro sherry e fece il gesto di porgere la bottiglia all'amico, ma lui rifiutò. Allora ritornò al suo posto e accavallò le gambe, attento a non rovinare la piega perfetta dei pantaloni dall'impeccabile fattura. «Il piano?» incalzò. Webberly indicò un pacco di pratiche sulla scrivania. «Vorrei che se ne occupasse Lynley.» Hillier alzò un sopracciglio. «Lynley e Nies per assistere a un nuovo scontro? Non abbiamo avuto già abbastanza guai in quel settore, Malcolm?
Inoltre Lynley non è in servizio questo weekend.» «Si può rimediare.» Webberly esitò. Guardò l'altro. «Mi stai tenendo sulla corda, David», disse alla fine. Hillier fece un sorriso. «Perdonami. Volevo proprio vedere come avresti fatto a chiederlo.» «Accidenti a te», imprecò Webberly, senza acredine. «Mi conosci fin troppo bene.» «Diciamo che so che sei troppo onesto. Permettimi di darti un consiglio, Malcolm. Lascia Barbara Havers dove l'hai messa.» Webberly trasalì e finse di scacciare con la mano una mosca inesistente. «Mi rimorde la coscienza.» «Non fare lo sciocco. O, peggio ancora, il sentimentale. Barbara Havers si è rivelata incapace di andare d'accordo anche con un solo investigatore durante tutta la sua permanenza nella squadra omicidi. È tornata a lavorare in pattuglia in questi ultimi otto mesi e va benissimo così. Lasciala stare.» «Non l'ho messa alla prova con Lynley.» «Se è per questo, neanche con il principe di Galles! Non è compito tuo continuare a cambiare di posto i sergenti investigativi finché non trovano una piccola nicchia in cui possono invecchiare felici. Il tuo compito è di far portare a termine il lavoro. E nessun lavoro è stato portato a termine quando a occuparsene è stato il sergente Havers. Ammettilo!» «Credo che abbia imparato dall'esperienza.» «Imparato che cosa? Che essere una stronza aggressiva e ostinata non le serve a fare carriera?» Webberly lasciò che le parole di Hillier rimanessero per un po' sospese nell'aria. «Be'», disse poi, «è sempre stato questo il problema, vero?» Hillier riconobbe il suono della sconfitta nella voce dell'amico. Quello era davvero il problema: fare carriera. Dio, com'era stato sbadato. «Perdonami, Malcolm.» Finì in fretta lo sherry, gesto che gli permise di non guardare in faccia il cognato. «Tu ti meriti il mio posto. Lo sappiamo entrambi, vero?» «Non essere assurdo.» Ma Hillier si alzò in piedi. «Farò chiamare Havers.» Il sergente investigativo Barbara Havers chiuse con un colpo secco la porta dell'ufficio del commissario, passò impettita davanti alla sua segretaria e uscì nel corridoio. Era livida di rabbia. Dio! Dio, come osavano! Urtò un impiegato senza darsi la pena di fer-
marsi quando le cartellette che quello aveva in mano gli caddero e si sparsero a terra. Le calpestò come se niente fosse. Con chi pensavano di avere a che fare? Credevano che lei fosse così stupida da non capire la manovra? Accidenti a loro! Accidenti a loro! Strizzò gli occhi, dicendosi che non avrebbe versato una lacrima, che non avrebbe pianto, che non avrebbe reagito. La scritta SIGNORE le apparve come per miracolo e lei s'infilò nel locale. Non c'era nessuno. Ecco, era fresco lì. Faceva davvero così caldo nell'ufficio di Webberly? O era stata la sua indignazione? Armeggiò con la cravatta, allentò il nodo e si chinò sul lavandino. Un getto di acqua fredda schizzò dal rubinetto e le bagnò la gonna dell'uniforme e la camicetta bianca. Ci mancava solo quello. Si guardò allo specchio e scoppiò in lacrime. «Vacca», berciò contro se stessa con aria beffarda. «Stupida, brutta vacca!» Non era una donna facile alle lacrime, perciò quelle erano calde e amare, avevano un sapore strano e sembravano ancora più strane mentre le rigavano le gote, tracciando dei rivoletti sul volto banale, dai tratti schiacciati come quelli di un pugile. «Che bello spettacolo sei, Barbara», rimproverò alla sua immagine. «Sei davvero uno splendore!» Singhiozzando, si allontanò dal lavandino e appoggiò la testa alle fredde piastrelle del muro. A trent'anni, Barbara Havers era una donna poco attraente, ma sembrava anche che facesse di tutto per essere tale. I bei capelli, di un castano luminoso, avrebbero potuto avere un'acconciatura che si adattasse al suo viso. Invece erano tagliati in modo molto squadrato appena sotto le orecchie, come se per tagliarglieli le avessero messo in testa una scodella troppo piccola. Non usava trucco. Le sopracciglia troppo folte e non curate mettevano in risalto più la piccolezza degli occhi che l'intelligenza che questi esprimevano. La bocca sottile, mai ravvivata da un po' di colore, era sempre atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Nell'insieme dava l'impressione di una donna tarchiata, solida e del tutto inavvicinabile. Così ti hanno affidato il ragazzo d'oro, pensò. Che fortuna per te, Barb! Dopo otto mesi insopportabili ti tolgono dal lavoro di pattuglia nelle strade «per darti un'altra possibilità»... e niente meno che con Lynley! «Non lo farò», borbottò, «non lo farò! Non lavorerò con quel damerino schifoso!» Si staccò dal muro e ritornò al lavandino. Questa volta aprendo il rubinetto fece attenzione, si sciacquò la faccia con acqua fredda per cancellare
i segni rivelatori delle lacrime. «Vorrei darle un'altra opportunità nella squadra omicidi», aveva detto Webberly. Stava giocherellando con un tagliacarte sulla scrivania, ma lei aveva notato le foto delle vittime dello Squartatore sulle pareti e il suo cuore aveva fatto un balzo. Occuparsi dello Squartatore! Oh, Dio, sì! Quando comincio? Sarò insieme con MacPherson? «E un caso un po' particolare che riguarda una ragazza dello Yorkshire.» Oh, allora non è lo Squartatore. Ma, lo stesso, si tratta di un caso. Una ragazza, dice? Certo che posso essere d'aiuto. Allora lavorerò con Stewart? È uno pratico dello Yorkshire. Lavoreremmo bene insieme. Lo so. «In effetti, sto aspettando di ricevere delle informazioni nel giro di un'ora. Avrò bisogno di lei qui, cioè, se è interessata.» Se sono interessata! In tre quarti d'ora faccio in tempo a cambiarmi. A mangiare un boccone. A tornare qui. Poi prendere un treno per York a tarda sera. Ci incontreremo là? Devo procurarmi una macchina? «Però, prima, deve fare una scappatina a Chelsea.» La conversazione si era interrotta bruscamente. «A Chelsea, signore?» Che diavolo c'entrava Chelsea? «Sì», aveva detto Webberly con indifferenza, lasciando cadere il tagliacarte in mezzo al caos della scrivania. «Lei lavorerà con l'ispettore Lynley e purtroppo dobbiamo andare a prelevarlo al matrimonio di St. James, a Chelsea.» Aveva guardato l'orologio. «Il matrimonio era previsto per le undici. Adesso sarà in corso il ricevimento. Abbiamo cercato di raggiungerlo telefonicamente, ma a quanto pare il ricevitore è staccato.» Lui aveva alzato lo sguardo in tempo per notare lo stupore sul volto della donna. «Qualcosa non va, sergente?» «L'ispettore Lynley?» Allora aveva capito di colpo il motivo per cui avevano bisogno di lei, perché nessun altro sarebbe andato bene. «Sì, Lynley. Qualche problema?» «No, nessun problema.» E poi, come soprappensiero: «Signore». Con occhi scaltri Webberly aveva valutato la risposta di lei. «Bene. Sono lieto che sia così. Può imparare molto, lavorando con Lynley.» L'aveva osservata ancora, studiandone la reazione. «Cerchi di tornare il più in fretta possibile.» Aveva rivolto la sua attenzione alle pratiche sulla scrivania. Era il segnale del congedo. Barbara si guardò allo specchio e frugò in tasca alla ricerca del pettine. Lynley. Si passò con rabbia quell'oggetto di plastica tra i capelli, tirando senza pietà, graffiandosi la cute, felice della sofferenza che provava.
Lynley! Era fin troppo chiaro il motivo per cui l'avevano tolta dal servizio di pattuglia. Volevano che fosse Lynley a occuparsi del caso. Ma avevano anche bisogno di una donna. E tutti in Victoria Street sapevano che non esisteva donna della squadra investigativa che fosse al sicuro vicino a Lynley. Si era fatto strada nel dipartimento e nella divisione passando da un letto all'altro, lasciandosi alle spalle una schiera di donne abbandonate. Aveva la reputazione di un cavallo da corsa messo a riposo per fare lo stallone e, a quanto si diceva, ne aveva anche la resistenza. Con irritazione, si rimise in tasca il pettine. Allora, che cosa si prova, chiese alla sua immagine riflessa nello specchio, a essere la fortunata che non ha niente da temere per la propria virtù in presenza dell'onnipotente Lynley? Niente mani fuori posto quando Barbara è in macchina! Niente cenette intime per «rivedere i nostri appunti». Nessun invito in Cornovaglia per «valutare il caso». Niente paura, Barb. Non ci sono dubbi che sei al sicuro con Lynley. Nei cinque anni in cui avevano lavorato nella stessa divisione, lei era certa che quell'uomo aveva perfino evitato di pronunciare il suo nome, figurarsi un repellente contatto anche di un solo secondo, come se un semplice diploma e un accento da classe operaia fossero malattie sociali che avrebbero potuto infettarlo, se non fòsse stato scrupolosamente attento a tenersene lontano. Uscì dalla stanza e si diresse con passo deciso verso l'ascensore. C'era qualcuno in tutta New Scotland Yard che lei odiasse più di Lynley? Quell'uomo era un sorprendente concentrato di tutto ciò che lei detestava profondamente: studi a Eton, laurea in storia con il massimo dei voti a Oxford, un accento da scuola di dizione e un albero genealogico che affondava le radici appena poco prima della battaglia di Hastings. Alta borghesia. Intelligente. E così affascinante che lei non riusciva a capire perché i criminali della città non si arrendessero soltanto per fargli piacere. Giustificava il suo lavoro a Scotland Yard con una motivazione che lei considerava una battuta, una sorta di favola cui non aveva creduto nemmeno per un momento. Voleva rendersi utile, dare un contributo. Preferiva farsi una posizione a Londra piuttosto che vivere nella sua tenuta di campagna. Da sganasciarsi dal ridere! L'ascensore si aprì e lei schiacciò con forza il bottone del garage. E la carriera di Lynley non era forse stata facile e priva di ostacoli, favorita in tutto e per tutto dai soldi di famiglia? Era arrivato all'attuale posizione grazie al denaro e sarebbe diventato un alto funzionario in un batter d'occhio. Ereditare quel prezioso titolo non aveva nuociuto minimamente alle sue
possibilità di successo. Era passato dal grado di sergente a quello di ispettore in tempo record. Tutti sapevano perché. Si diresse verso la macchina, una Mini arrugginita parcheggiata nell'angolo più lontano del garage. Com'era bello essere ricchi, titolati, come Lynley, lavorare solo per hobby e poi tornare a casa con calma, nella residenza londinese di Belgravia, o meglio ancora prendere l'aereo e andare nella tenuta in Cornovaglia. Con maggiordomi e cameriere, cuochi e valletti. Ma pensaci, Barb: immaginati alla presenza di un tale personaggio. Che cosa farai? Ti verrà uno svenimento o prima vomiterai? Buttò la borsetta sul sedile posteriore della Mini, sbatté la portiera e avviò la macchina con uno scoppiettio e un rombo. Le ruote stridettero sul selciato mentre imboccava la rampa di uscita, fece un cenno del capo al poliziotto di guardia nel gabbiotto e si diresse verso la strada. Dato il traffico scarso del weekend, da Victoria Street raggiunse l'Embankment in pochi minuti e, una volta là, la dolce brezza del pomeriggio autunnale attenuò la sua irritazione, le calmò i nervi e la portò a dimenticare l'indignazione. Fu un tragitto piacevole, davvero, quello fino alla casa di St. James. A Barbara piaceva Simon Allcourt St. James, le era piaciuto fin dalla prima volta che l'aveva visto dieci anni prima, quando lei era una nervosa poliziotta di vent'anni in periodo di prova, sin troppo consapevole di essere una donna in una roccaforte maschile. Una roccaforte maschile in cui le donne poliziotto venivano ancora chiamate «bambole», dopo qualche bicchiere di troppo. E lei aveva ricevuto appellativi peggiori di quello; lo sapeva. Al diavolo tutti. Per loro qualsiasi donna che aspirasse al corpo investigativo era una squilibrata in buona fede e la facevano sentire tale. Ma per St. James, due anni più vecchio di lei, era stata una collega come gli altri, perfino un'amica. St. James era adesso un esperto legale che lavorava in proprio, ma aveva iniziato la sua carriera a Scotland Yard. A ventiquattro anni era il migliore degli uomini della Scientifica, sveglio, osservatore, intuitivo. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi ramo: investigativo, medico, amministrativo. Ma tutto era finito una notte di otto anni prima, durante un giro in macchina con Lynley, una folle gincana sulle vie di campagna del Surrey. Erano entrambi ubriachi; St. James era sempre stato pronto ad ammettere la cosa. Ma tutti sapevano che quella notte c'era Lynley al volante, che era stato Lynley a perdere il controllo dell'auto in una curva, Lynley che se l'era ca-
vata senza un graffio mentre il suo amico d'infanzia, St. James, ne era uscito storpio. E pur potendo continuare la carriera a Scotland Yard, St. James si era invece ritirato nella casa di famiglia di Chelsea, dove nei quattro anni successivi aveva condotto una vita da recluso. Merito del vecchio Lynley, pensò con acredine. Non riusciva a capire come St. James fosse riuscito a mantenere l'amicizia con quell'uomo. Eppure l'aveva fatto e qualcosa d'inspiegabile, per qualche oscuro motivo, aveva cementato il loro legame quasi cinque anni prima e St. James era tornato a occuparsi della sua attività precedente. Anche questo merito di Lynley, pensò con riluttanza. Parcheggiò la Mini in uno spazio libero in Lawrence Street e s'incamminò lungo Lordship Place verso Cheyne Row. Non lontano dal fiume c'era una zona della città dove gli edifici in mattoni scuri erano decorati con elaborati stucchi bianchi e le strutture in ferro battuto delle finestre e dei balconi ridipinte di nero. Per non modificare l'aspetto di villaggio della vecchia Chelsea, le strade erano strette e chiuse a volta dall'intreccio di foglie e rami degli alti olmi e platani che le fiancheggiavano. La casa di St. James era sull'angolo della strada e, passando accanto all'alto muro di mattoni che delimitava il giardino, Barbara sentì i suoni della festa. Una voce invitava a un brindisi. Agli applausi seguirono grida di entusiasmo. La porta di quercia incassata nel muro era chiusa, ma non importava. Vestita com'era, non voleva apparire sul luogo dei festeggiamenti come se dovesse fare un arresto. Girò l'angolo e trovò la porta principale dell'edificio aperta ai raggi del sole del tardo pomeriggio. Dall'interno giungevano scrosci di risate, tintinnare di argenti e porcellane, schioccare di tappi di champagne e, da qualche parte del giardino, la musica di violini e flauti. C'erano fiori dappertutto, anche sulla scalinata d'ingresso, sulle cui balaustre erano intrecciate rose bianche e rosa che emanavano un profumo inebriante. Anche sulle balconate dei piani superiori c'erano vasi di convolvoli che ricadevano a grappoli oltre il parapetto in una festa di colori. Barbara tirò un respiro e salì i gradini. Sarebbe stato inutile bussare perché, anche se molti ospiti che erano vicino alla porta le lanciavano occhiate incuriosite mentre lei esitava a entrare con la sua goffa uniforme, questi poi si allontanavano verso il giardino senza rivolgerle la parola, e divenne presto chiaro che, se voleva trovare Lynley, avrebbe dovuto introdursi nel ricevimento. Al pensiero si sentì male. Era sul punto di tornarsene vigliaccamente alla macchina per prendere
un vecchio impermeabile che le avrebbe almeno coperto gli abiti - troppo attillati sui fianchi, la stoffa tirava anche sulle spalle e sul collo -, quando la sua attenzione fu attratta dal suono di passi e risa provenienti dalla scalinata dell'atrio. Una donna stava scendendo i gradini e nel contempo si rivolgeva a qualcuno che era rimasto al piano di sopra. «Andiamo solo noi due. Devi venire anche tu, così faremo una bella compagnia, Sid.» La donna si voltò, vide Barbara, si fermò dov'era, tenendo una mano sulla balaustra. Sembrava quasi si fosse messa in posa: era il tipo di donna che sarebbe riuscita a far passare qualche metro di seta acconciato in qualche maniera per l'ultimo grido in fatto di alta moda. Non era particolarmente alta, ma molto snella, una cascata di capelli castano chiaro le incorniciava un volto dall'ovale perfetto. Per il numero di volte che era stata a prendere Lynley a Scotland Yard, Barbara la riconobbe subito. Era l'amante di Lynley e l'assistente di laboratorio di St. James, Lady Helen Clyde. Lady Helen discese fino in fondo le scale e si avvicinò alla porta. Così sicura, notò Barbara, così padrona di sé. «Ho l'orribile sospetto che lei sia venuta per Tommy», disse subito porgendo la mano. «Salve. Sono Helen Clyde.» Barbara si presentò, sorpresa dalla stretta decisa della donna. Aveva le mani sottili, molto fredde. «Lo vogliono a Scotland Yard.» «Poverino. Che cosa triste. Davvero ingiusta.» Lady Helen parlò più con se stessa che con l'altra donna, perché d'un tratto fece un sorriso di scusa a Barbara. «Ma non è colpa sua, vero? Venga, è da questa parte.» Senza attendere una risposta, si diresse attraverso il corridoio verso la porta del giardino, non lasciando a Barbara altra scelta che seguirla. Tuttavia, non appena vide quella serie di tavoli ricoperti di tovaglie di lino attorno ai quali gli ospiti vestiti con eleganza impeccabile ridevano e chiacchieravano, Barbara si affrettò a ritirarsi nell'ingresso poco illuminato. Si portò la mano al collo. Lady Helen si fermò con uno sguardo pensoso. «Vuole che vada io a cercare Tommy?» propose con un altro rapido sorriso. «C'è una gran confusione là fuori, vero?» «Grazie», replicò Barbara rigidamente e la osservò mentre attraversava il prato in direzione di un gruppo di persone che stavano conversando amabilmente, tra le quali spiccava un uomo alto che aveva l'aria di portare il tight come se ci fosse nato dentro. Lady Helen gli toccò il braccio e disse poche parole. L'uomo si voltò verso la casa mostrando il viso che aveva un'innegabile impronta aristocra-
tica. Era un volto da scultura greca, un'immagine senza tempo. Si scostò i capelli biondi dalla fronte, posò la coppa di champagne su un tavolo vicino e, dopo aver scambiato una battuta con uno degli amici, si diresse verso la casa con Lady Helen al fianco. Al sicuro nell'ombra, Barbara osservò Lynley avvicinarsi. I suoi movimenti erano aggraziati, morbidi come quelli di un gatto. Era l'uomo più bello che avesse mai visto. Lo odiava. «Sergente Havers.» Lui fece un cenno di saluto quando la raggiunsero. «Non sono in servizio questo weekend.» Barbara capì subito che cosa intendesse con quelle parole: Lei mi sta disturbando, Havers. «Mi ha mandato Webberly, signore. Gli telefoni, se vuole.» Non lo guardò dritto negli occhi mentre gli rispondeva, ma fissò un punto indefinito al di sopra della sua spalla. «Ma di sicuro sa che oggi c'è il matrimonio, Tommy», protestò debolmente Lady Helen. Lynley sibilò irritato: «Ma certo che lo sa, dannazione». Guardò verso il prato e poi di scatto verso Barbara. «Si tratta del caso dello Squartatore? Mi avevano detto che John Stewart avrebbe lavorato con MacPherson.» «È un affare successo al nord, per quanto ne so. C'è in ballo una ragazza.» Barbara immaginava che quell'informazione gli avrebbe fatto piacere. Un po' di pepe nella faccenda, proprio come piaceva a lui: la ciliegina sulla torta. Attese che le chiedesse i particolari che senza dubbio considerava di primaria importanza: età, stato civile e misure della damigella la cui sofferenza era prontissimo ad alleviare. Strinse gli occhi. «Al nord?» Lady Helen fece una risata di rincrescimento. «Be', sono andati all'aria i nostri piani di andare a ballare stasera, caro Tommy, e stavo giusto per convincere Sidney a venire con noi.» «Immagino sia inevitabile», replicò Lynley, ma si spostò bruscamente dall'ombra alla luce e Barbara vide dalla rigidità del movimento e dallo sforzo di soffocare la reazione del suo volto quanto fosse seccato. Doveva essersene accorta anche Lady Helen perché riprese a parlare in tono allegro. «Certo, io e Sid potremmo anche andare a ballare da sole. Visto che è di moda il tipo androgino, una di noi potrebbe benissimo essere scambiata per un uomo, indipendentemente da come è vestita. Altrimenti c'è Jeffrey Cusick. Potremmo telefonargli.» Doveva essere un gioco allusivo tra loro due e ottenne l'effetto desiderato perché Lynley si lasciò andare a un sorriso, seguito poi da una risatina subito controllata.
«Cusick? Mio Dio, siamo veramente alla disperazione.» «Oh, ridi pure», rispose Lady Helen ridendo a sua volta, «ma ci ha accompagnate al Royal Ascot quando eri troppo impegnato sulla scena di un certo sanguinoso assassinio alla stazione di St. Pancras. Quelli di Cambridge, vedi, hanno un mare di buone qualità.» Lynley scoppiò in una sonora risata. «Tra cui la tendenza a sembrare dei pinguini quando indossano lo smoking.» «Sei un mostro!» Lady Helen rivolse la sua attenzione a Barbara. «Posso almeno offrirle un po' di squisita insalata di granchio prima che lei trascini Tommy con sé? A Scotland Yard anni fa mi propinarono un orribile sandwich all'uovo; se la quaKtà del cibo nel frattempo non è migliorata, questa potrebbe essere la sua ultima occasione per mangiare bene, oggi.» Barbara guardò l'orologio. Avvertì in Lynley una sottile vena di nervosismo e sapeva bene che avrebbe voluto che lei accettasse l'invito per poter passare ancora qualche minuto con i suoi amici prima di essere richiamato al dovere. Non aveva la minima intenzione di accontentarlo. «C'è una riunione tra venti minuti, mi dispiace.» Lady Helen fece un sospiro. «Be', non c'è proprio il tempo di renderle l'onore che si merita. Devo aspettarti, Tommy, o devo chiamare Jeffrey?» «Non farlo. Tuo padre non ti perdonerebbe mai se tu mettessi il tuo futuro nelle mani di Cambridge.» Lei sorrise. «Molto bene. Se te ne vai, allora, vado a chiamare gli sposi, così li saluti.» Il volto di Lynley cambiò improvvisamente espressione. «No, Helen. Io... fa' loro le scuse da parte mia.» Si scambiarono un'occhiata più significativa delle parole. «Devi salutarli, Tommy», mormorò Lady Helen. Ci fu un altro silenzio, la ricerca di una soluzione di compromesso. «Dirò loro che li aspetti nello studio.» Si allontanò in fretta senza dare a Lynley la possibilità di replicare. Lui borbottò qualcosa d'incomprensibile e con lo sguardo seguì la donna mentre scompariva tra la folla. «Ha portato la macchina?» chiese d'improvviso a Barbara e si diresse verso l'ingresso, allontanandosi dal centro dei festeggiamenti. Sconcertata, gli andò dietro. «La mia Mini. Non è vestito proprio in sintonia con la sua bellezza.» «Mi adatterò, ne sono certo. Come un camaleonte. Di che colore è?» Rimase sorpresa dalla domanda, un malcelato tentativo di intavolare una conversazione mentre raggiungevano la parte anteriore della casa. «Ruggi-
ne, direi.» «Il mio colore preferito.» Le tenne aperta una porta e la fece entrare in una stanza buia. «Aspetterò in macchina, signore. L'ho lasciata...» «Resti qui, sergente.» Era un ordine. Con riluttanza lo precedette. Le tende erano tirate; l'unica luce proveniva dalla porta che avevano aperto. Ma Barbara notò che era la stanza di un uomo, le pareti avevano un rivestimento in legno di quercia, ed erano piene di scaffali di libri, i mobili vecchi ma in buono stato, e un'aria che odorava piacevolmente di cuoio vecchio e di scotch. Lynley si avvicinò con fare assente a un muro che era ricoperto di fotografie in cornice e rimase lì in silenzio a contemplare un ritratto che si trovava al centro. La fotografia era stata scattata in un cimitero, e l'uomo ritratto nell'immagine era chino sull'iscrizione di una pietra tombale i cui caratteri erano stati ormai cancellati dal tempo. L'orchestrazione della foto era tale da attirare lo sguardo dell'osservatore non sul goffo apparecchio applicato alla gamba dell'uomo che ne alterava il portamento, ma sull'espressione di vivo interesse dipinta sul suo volto scarno. Osservando l'immagine, Lynley sembrava essersi dimenticato della presenza di lei. Il momento era buono come un altro per comunicargli la notizia, concluse Barbara. «Non faccio più il lavoro di pattuglia», gli annunciò in tono neutro. «Ecco perché sono qui, se mai se lo stesse chiedendo.» Lui si voltò lentamente verso Barbara. «Di nuovo nella squadra investigativa?» le chiese. «Buon per lei, Barbara.» «Ma non per lei.» «Che intende dire?» «Be', visto che non l'ha fatto Webberly, qualcuno glielo deve dire. Congratulazioni: lei lavorerà con me.» Attese di leggere la sorpresa sul suo viso. Quando fu evidente che non sarebbe successo niente, continuò. «Certo, è molto imbarazzante che io sia stata assegnata a lei; non creda che non lo sappia. Non riesco a immaginare che cosa voglia Webberly.» Parlava a scatti, senza quasi sentire le proprie parole, non sapendo se anticipare o provocare l'inevitabile reazione di lui: la furiosa esplosione d'ira, il gesto in direzione del telefono per chiedere spiegazioni o, peggio ancora, la glaciale cortesia che sarebbe durata fin quando avesse potuto avere un colloquio a porte chiuse con il commissario. «Posso solo pensare che non ci sia nessun altro disponibile ò che io abbia qualche talento nascosto di cui soltanto
Webberly è a conoscenza. O forse è uno scherzo.» Si mise a ridere, un po' troppo forte. «O forse lei è la persona più qualificata per il lavoro», concluse Lynley. «Che cosa sa del caso?» «Io... niente. Solo che...» «Tommy?» Si voltarono di scatto al suono della voce, quell'unica parola pronunciata d'un fiato. Sulla soglia c'era la sposa, un mazzetto di fiori in mano e gli altri infilati nella cascata di capelli color rame che le ricadeva sulle spalle e sulla schiena. Illuminata dalla luce del corridoio, nel suo abito color avorio sembrava come circondata da una nuvola, una creatura tizianesca divenuta realtà. «Helen mi ha detto che te ne stai andando...?» Lynley pareva non avesse nulla da dire. Si toccò le tasche, tirò fuori un portasigarette d'oro, lo aprì, e poi lo chiuse di scatto con un senso di fastidio. Durante quest'operazione la sposa lo osservava e le tremavano i fiori in mano. «È Scotland Yard, Deb», Lynley si decise infine a rispondere. «Devo andare.» Lo guardò senza parlare, giocherellando con un ciondolo che aveva al collo. Solo quando i loro occhi s'incontrarono, lei rispose. «Che peccato. Non è un'emergenza, spero. Simon mi ha detto ieri sera che potresti essere assegnato di nuovo al caso dello Squartatore.» «No. Solo una riunione.» «Ah.» Sembrava che stesse per aggiungere qualcosa, e in effetti lo fece, rivolgendosi però a Barbara con un sorriso cordiale: «Sono Deborah St. James». Lynley si strofinò la fronte. «Dio, mi dispiace.» In tono meccanico completò le presentazioni. «Dov'è Simon?» «Era proprio dietro di me, ma penso che papà l'abbia bloccato. Ha un sacro terrore di lasciarci andare per conto nostro. È convinto che non saprò occuparmi di Simon.» Scoppiò in una risata argentina. «Forse avrei dovuto considerare i problemi che sarebbero derivati dal fatto di sposare un uomo di cui mio padre va pazzo. 'Gli elettrodi', continua a ripetermi. 'Non devi dimenticare di occuparti della sua gamba ogni mattina.' Credo me l'abbia detto dieci volte, oggi.» «Immagino che sia il massimo che sei riuscita a fare per impedirgli di venire con voi in luna di miele.» «Be', certo, non sono stati divisi per più di un giorno da quando...» Si bloccò di colpo, imbarazzata. I loro sguardi s'incontrarono. Lei si morse il
labbro e arrossì violentemente. Tra loro cadde un silenzio teso, del tipo in cui la comunicazione viene affidata al linguaggio del corpo e alla tensione nell'aria. Alla fine - per fortuna, pensò Barbara - il silenzio venne rotto dal suono di passi lenti e irregolari nel corridoio, segno penosamente inequivocabile dell'arrivo del marito di Deborah. «Vedo che sei venuta a catturare Tommy.» St. James si fermò sulla soglia, ma continuò a parlare con calma, com'era sua abitudine, per distogliere l'attenzione dalla sua infermità e mettere gli altri a proprio agio. «Questo è uno strano ribaltamento della tradizione, Barbara. Un tempo erano le spose a essere rapite, non il testimone dello sposo.» Se Lynley poteva essere paragonato ad Apollo, St. James doveva esserlo a Efesto, pensò Barbara. A parte gli occhi azzurro cielo e le mani, sensibili strumenti di un artista, Simon Allcourt St. James era decisamente brutto. I capelli erano scuri, ricci in modo ribelle, e con un taglio che non contribuiva certo a tenerli in ordine; i lineamenti, spigolosi, erano duri quando assumeva un'espressione serena e torvi quando era arrabbiato, ma, se addolciti da un sorriso, lasciavano trasparire grande bontà d'animo. Era esile come un adolescente, ma non altrettanto vigoroso, un uomo che aveva conosciuto troppo dolore e sofferenza in età troppo giovane. Barbara sorrise quando si unì a loro, il primo autentico sorriso di quel pomeriggio. «Ma anche i testimoni dello sposo di solito non vengono rapiti per essere portati a New Scotland Yard. Come stai, Simon?» «Bene. O almeno così continua a ripetermi mio suocero. E dice anche che sono fortunato. Pare che abbia previsto tutto dall'inizio. L'ha saputo direttamente il giorno della sua nascita. Ti hanno presentato Deborah?» «Solo da pochi minuti.» «E non possiamo trattenerti più a lungo?» «Webberly ha convocato una riunione», s'intromise Lynley. «Sai com'è.» «Eccome. Allora non ti chiederemo di restare. Ce ne andremo anche noi tra poco. Helen ha l'indirizzo, se dovesse succedere qualcosa.» «Non pensarci...» Lynley s'interruppe come se non sapesse che cosa fare. «Le mie più sincere congratulazioni, St. James», disse alla fine. «Grazie», rispose l'altro. Fece un cenno a Barbara, diede un rapido colpetto alla spalla della sposa e uscì dalla stanza. Che strano, pensò Barbara. Non si sono neanche stretti la mano. «Andrai a Scotland Yard vestito così?» chiese Deborah.
Si guardò gli abiti con aria desolata. «Farei qualsiasi cosa pur di mantenere la mia reputazione di playboy.» Entrambi scoppiarono a ridere. Per un momento tra loro si stabilì un contatto che svanì in fretta. Seguì un altro silenzio. «Bene», esordì Lynley. «Avevo preparato un discorso», disse rapidamente Deborah, abbassando lo sguardo verso i fiori. Le tremarono di nuovo in mano e una pioggia di petali cadde a terra. Lei sollevò la testa. «Qualcosa... il tipo di cose che potrebbe dire Helen. Un discorso sulla mia infanzia, su papà, su questa casa. Non alla mia altezza. Un'incapace senza speranza.» Abbassò ancora lo sguardo e vide che era entrato nello studio un piccolissimo bassotto che teneva in bocca una borsetta di lustrini. Il cane posò la borsetta ai piedi di Deborah, convinto di essersi meritato un premio. Dimenava la coda tutto felice. «Oh, no! Pesca!» Ridendo, Deborah si chinò per raccogliere l'oggetto sottratto, ma quando si raddrizzò i suoi occhi verdi erano pieni di lacrime. «Grazie, Tommy. Di tutto. Davvero. Di tutto.» «Tanti auguri, Deb», le rispose con disinvoltura. Si avvicinò a lei, la strinse per un attimo a sé e le sfiorò i capelli con un bacio. E a Barbara, mentre stava a guardare, venne in mente che per qualche motivo St. James li aveva lasciati soli proprio perché Lynley potesse fare quel gesto. 3 Il corpo era privo di testa. Quell'unico e macabro dettaglio era il solo elemento rilevante delle foto che i tre poliziotti della squadra investigativa, riuniti attorno al tavolo rotondo di Scotland Yard, si stavano passando. Padre Hart guardava nervoso ora l'uno ora l'altro, e intanto sgranava il minuscolo rosario d'argento che aveva in tasca. Era stato benedetto da Pio XII nel 1952. Non era stata un'udienza privata, ovviamente. Impossibile sperarci. Ma certo quella mano tremante, pervasa da un'aura di immanenza divina, che faceva il segno della croce verso duemila pellegrini reverenti, aveva un potere indefinibile. Con gli occhi chiusi aveva sollevato il rosario sopra la testa come per rendere più efficace la benedizione del papa. Aveva già iniziato la terza decade dei misteri dolorosi quando l'uomo alto e biondo intervenne. «'Che colpo è stato inferto'», mormorò, e padre Hart guardò dalla sua parte.
Era un poliziotto? Il prete non riusciva a capire perché l'uomo fosse vestito in modo così elegante, ma adesso, sentendo le parole, lo fissò con aria speranzosa. «Ah, Shakespeare. Sì. Proprio così.» L'uomo robusto con quel terribile sigaro lo osservò con sguardo inespressivo. Padre Hart si schiarì la gola e gli altri continuarono a esaminare le fotografie. Era con loro da quasi un quarto d'ora e in quell'arco di tempo quasi non si erano scambiati parola. L'uomo più anziano si era acceso un sigaro, la donna era stata due volte sul punto di dire qualcosa, ma non l'aveva fatto, e nient'altro aveva interrotto il silenzio prima di quel verso di Shakespeare. La donna tamburellava nervosamente con le dita sul tavolo. Almeno lei aveva l'aspetto della poliziotta. Padre Hart lo capiva dall'uniforme che indossava. Ma aveva un'aria sgradevole con quegli occhi piccoli e sfuggenti e la bocca minuscola e cattiva. Non sarebbe mai andata bene. Non gli poteva essere utile. Né poteva esserlo a Roberta. Cosa avrebbe dovuto dire? Continuavano a passarsi le fotografie. Padre Hart non aveva bisogno di vederle. Sapeva fin troppo bene che cosa ritraevano. Era arrivato là per primo e gli era rimasto tutto indelebilmente impresso nella memoria. William Teys disteso su un fianco - per tutto il suo metro e novanta - in una posizione spaventosa, quasi fetale, il braccio destro allungato come per prendere qualcosa, il braccio sinistro piegato sullo stomaco, le ginocchia rannicchiate contro il petto, e dove c'era stata la testa... assolutamente nulla. Come Cloten in persona. Ma non c'era stata nessuna Imogene a svegliarsi inorridita al suo fianco, come nel Cimbelino di Shakespeare. Solo Roberta. E quelle spaventose parole: «Sono stata io. Non me ne pento». La testa era rotolata in un mucchio di fieno sporco in un angolo della stalla. E quando l'aveva vista... Oh, Dio, nella cavità brillavano gli occhi furtivi di un topo di granaio - piccolo certo -, ma il muso grigio e tremolante era imbrattato di sangue e le zampette scavavano! Padre nostro, che sei nei Cieli... Padre nostro, che sei nei Cieli... Oh, c'era dell'altro, c'era dell'altro, e non riesco a ricordare, adesso! «Padre Hart.» L'uomo biondo in tight si era tolto gli occhiali e dalla tasca aveva tirato fuori un portasigarette d'oro. «Fuma?» «Io... sì, grazie.» Il prete fece un gesto rapido perché non voleva che gli altri si accorgessero del tremolio delle sue mani. L'uomo offrì il portasigarette alla donna che rifiutò con un cenno deciso del capo. Comparve un accendino d'argento. In tutto fu questione di pochi secondi, ma gli bastarono per raccogliere i pensieri sconnessi. L'uomo biondo si rilassò sulla sedia e si mise a studiare una lunga serie
di fotografìe appese a una parete dell'ufficio. «Perché andò alla fattoria quel giorno, padre Hart?» chiese con aria pacata, muovendo lo sguardo da una foto all'altra. Padre Hart si guardò intorno con la tipica espressione da miope. Quelle erano le foto degli indiziati? si chiedeva speranzoso. Scotland Yard era già sulle tracce di quella malefica bestia? Non era in grado di dirlo, non era neanche certo, da quella distanza, che si trattasse di foto di persone. «Era domenica», rispose come se la cosa spiegasse tutto. L'uomo biondo si voltò. I suoi occhi erano di un marrone accattivante. «Era solito recarsi alla fattoria dei Teys la domenica? A pranzo o altro?» «Oh... io... mi scusi, pensavo che il rapporto, sa...» Così non andava bene. Padre Hart aspirò avidamente dalla sigaretta. Si guardò le dita. Erano tutte macchiate di nicotina. Non c'era da meravigliarsi che gliene avessero offerta una. Non avrebbe dovuto dimenticare le sue, avrebbe dovuto comprarne un pacchetto alla stazione di King's Cross. Ma aveva tante altre cose cui pensare... Tirò alcune boccate nervose di fumo. «Padre Hart?» fece l'uomo più anziano. Era evidentemente il superiore del biondo. Erano state fatte le presentazioni, ma stupidamente aveva dimenticato i nomi. Si ricordava quello della donna: Havers. Sergente, dai gradi sull'uniforme. Gli altri due gli erano sfuggiti. Guardò i loro volti seri con crescente panico. «Mi scusi. Ha chiesto...?» «Andava alla fattoria dei Teys tutte le domeniche?» Padre Hart fece un grosso sforzo per pensare in modo chiaro, in ordine cronologico e in maniera sistematica, per una volta. Cercò il rosario nella tasca. La croce premette contro il suo pollice. Sentiva il corpicino inchiodato nell'agonia. Oh, Signore, morire in quel modo. «No», rispose d'un fiato. «William è... era il nostro primo cantore. Era un fantastico basso profondo. Sapeva far vibrare la chiesa con la sua voce e io...» Padre Hart fece un respiro agitato per riprendere il filo. «Non era venuto a messa quella mattina, e neppure Roberta. Ero preoccupato. I Teys non mancavano mai alla messa. Così sono andato alla fattoria.» L'uomo col sigaro lo guardava di sottecchi attraverso il fumo acre. «Fa questo per tutti i suoi parrocchiani? Li deve tenere ben in riga, allora.» Padre Hart aveva fumato la sigaretta fino al filtro. Non gli rimaneva che spegnerla. L'uomo biondo fece la stessa cosa anche se ne aveva fumata solo metà. Tirò fuori il portasigarette e ne offrì un'altra. Fece di nuovo la sua comparsa l'accendino; la sigaretta si accese, produsse il fumo che gli scese
bruciando in gola, gli distese i nervi, gli intorpidì i polmoni. «Be', soprattutto perché Olivia era preoccupata.» Un'occhiata al rapporto. «Olivia Odell?» Padre Hart annuì ansioso. «Lei e William Teys, vede, si erano appena fidanzati. L'annuncio doveva essere fatto durante un piccolo ricevimento nel pomeriggio. Gli aveva telefonato parecchie volte dopo la messa, ma non aveva avuto risposta. Allora venne da me.» «Perché non andò lei stessa?» «Avrebbe voluto, certo. Ma c'era la storia di Bridie e dell'anatra. Si era persa, la solita crisi in famiglia, e non si poteva tranquillizzarla finché non fosse stato ritrovato l'animale.» Gli altri tre si guardarono a vicenda incuriositi. Il prete arrossì. Sembrava tutto così assurdo! Continuò. «Dunque, Bridie è la bambina di Olivia. Ha un'anatra domestica. Be', non proprio domestica, non nel vero senso della parola.» In che modo poteva spiegare loro questa cosa, e tutte le stranezze della vita di paese? L'uomo biondo parlò, con gentilezza. «Così, mentre Olivia e Bridie cercavano l'anatra, lei andò alia fattoria.» «Proprio così. Grazie», sorrise grato padre Hart. «Ci dica che cosa è successo quando è arrivato.» «Andai prima alla casa, ma non c'era nessuno. La porta non era chiusa a chiave e ricordo che trovai strana la cosa. William sprangava sempre tutto, se usciva. Era proprio fissato. Insisteva che facessi lo stesso con la chiesa quando non c'ero. Anche quando il coro provava il mercoledì, non se ne andava mai prima che tutti fossero usciti e io avessi chiuso le porte. Era fatto così.» «Immagino che quando trovò la porta aperta abbia provato un senso d'inquietudine», disse l'uomo biondo. «In effetti, sì. Anche all'una del pomeriggio. Così, quando, dopo aver bussato, non ottenni risposta...» li guardò tutti con aria di scusa, «sono entrato.» «Niente di strano all'interno?» «No. Era tutto pulito, come sempre. C'era, tuttavia...» Volse gli occhi verso la finestra. Come spiegarlo? «Sì?» «Le candele erano spente.» «Non avevano la corrente elettrica?» Padre Hart li guardò, molto serio. «Erano candele votive. Erano sempre
accese. Sempre. Ventiquattr'ore su ventiquattro.» «Per un altarino, intende dire?» «Sì, proprio così. Un altarino», confermò prontamente e continuò in fretta: «Quando lo notai, capii subito che qualcosa non andava. Né William né Roberta avrebbero mai lasciato spegnere le candele. Allora feci il giro della casa. E poi andai nel fienile». «E lì...?» Che cosa c'era ancora da riferire? Il silenzio inquietante era stato subito eloquente. Fuori, nel vicino pascolo, il belato delle pecore e il canto degli uccelli erano segno di armonia e pace, ma nel fienile la quiete assoluta era segno del maligno. Subito dalla porta l'aveva raggiunto un puzzo intenso e nauseante di sangue che prevaleva sull'odore di letame, grano e fieno in decomposizione. Si era mosso attratto da una forza irresistibile. Roberta era seduta su un secchio rovesciato in uno dei box, una ragazzona della tempra di suo padre, abituata alle fatiche del lavoro in una fattoria. Era immobile e non guardava quell'orrore senza testa che c'era ai suoi piedi, ma il muro di fronte a sé e le crepe che ne segnavano la superficie. «Roberta?» l'aveva chiamata in tono pressante. Aveva avvertito un senso di nausea salirgli dallo stomaco alla gola e gli intestini rilasciarsi. Non aveva risposto, non un respiro, non un movimento. Solo la vista della sua larga schiena, le gambe robuste piegate sotto di lei, l'ascia al suo fianco. E poi, sbirciando al di sopra della sua spalla, aveva guardato bene il corpo per la prima volta. «Sono stata io. Non me ne pento.» La sola cosa che aveva detto. Padre Hart chiuse gli occhi per allontanare il ricordo. «Andai subito in casa e telefonai a Gabriel.» Per un momento Lynley credette che il prete stesse parlando dell'arcangelo in persona. Quello strano ometto sembrava davvero in contatto con altri mondi mentre cercava di districarsi a fatica nel resoconto dei fatti. «Gabriel?» chiese Webberly incredulo. Lynley capiva che la pazienza del commissario stava per esaurirsi. Diede una scorsa al rapporto, alla ricerca di quel nome, e lo trovò abbastanza in fretta. «Gabriel Langston. Poliziotto del villaggio», lesse. «E mi risulta, padre, che Langston abbia chiamato subito la polizia di Richmond.» Il prete annuì. Guardò timidamente il portasigarette di Lynley che con prontezza lo aprì porgendolo ancora agli astanti. Barbara Havers rifiutò e il prete stava per fare la stessa cosa quando Lynley se ne prese una. Aveva la gola secca, ma sapeva che non sarebbero mai arrivati alla fine della storia
se il religioso non avesse ricevuto la sua dose di nicotina, ed era chiaro che voleva qualcuno che gli facesse compagnia. Lynley aspirò malvolentieri, aveva una voglia pazza di whisky, e poi lasciò che la sigaretta si consumasse nel portacenere. «Arrivò la polizia da Richmond. Avvenne tutto molto in fretta. Fu... portarono via Roberta.» «Be', che cosa si aspettava? Aveva confessato il delitto.» Era stata Barbara a parlare. Si era alzata dalla sedia e si era avvicinata alla finestra. Dal tono della sua voce si capiva che secondo lei stavano perdendo tempo con quel vecchio sciocco e che invece avrebbero dovuto precipitarsi al nord seduta stante. «Tante persone confessano dei delitti», disse Webberly, facendole segno di rimettersi a sedere. «Finora ho ricevuto venticinque confessioni per gli omicidi dello Squartatore.» «Intendevo solo far notare...» «Questo si può fare più tardi.» «Roberta non ha ucciso suo padre», continuò il prete come se gli altri due non avessero parlato. «Non è proprio possibile.» «Ma capitano degli omicidi in famiglia», replicò Lynley con tatto. «Non in caso di baffi.» Alla bizzarra affermazione del prete - così scontata ed esauriente ai suoi occhi - nessuno fece commenti. Nessuno aprì bocca o scambiò con gli altri uno sguardo d'intesa. Ci fu una pausa di silenzio lunga e insopportabile, interrotta da Webberly che si allontanò di scatto dal tavolo. «Gesù», mormorò. «Mi dispiace, ma...» Si avvicinò con passo deciso a un mobiletto che si trovava nell'angolo della stanza e tirò fuori tre bottiglie. «Whisky, sherry o brandy?» chiese agli altri. Lynley ringraziò mentalmente Bacco. «Whisky», rispose. «Havers?» «Niente per me», disse lei con aria compassata. «Sono in servizio.» «Sì, certo. Padre, che cosa desidera?» «Oh, uno sherry sarebbe davvero...» «Sherry, allora.» Webberly ingollò d'un fiato un bicchierino di whisky prima di versarsene un altro e tornare al tavolo. Fissavano tutti con aria pensosa i bicchieri come in attesa che qualcuno si decidesse a fare la domanda. Alla fine fu Lynley a parlare, ristorato dal gusto unico e piacevole del malto. «Ah... baffi?» lo sollecitò a una chiarificazione.
Padre Hart guardò le carte sparse sul tavolo. «Non è nel rapporto?» azzardò con aria mesta. «Il cane?» «Sì, si parla del cane.» «Era lui Baffi», spiegò il prete, e l'equilibrio venne ristabilito. Fu un sollievo per tutti. «È stato trovato morto nella stalla con Teys», rilevò a voce alta Lynley. «Sì, non capite? Ecco perché tutti noi sappiamo che Roberta è innocente. A parte il fatto che amava il padre, c'è da considerare Baffi. Non avrebbe mai fatto del male a Baffi.» Padre Hart cercava ansiosamente le parole per farsi intendere. «Era un cane di fattoria, faceva parte della famiglia da quando Roberta aveva cinque anni. Era vecchio, certo, un po' cieco, ma non si uccidono cani come quello. Tutti al villaggio conoscevano Baffi. Era la nostra mascotte. Al pomeriggio trotterellava fino alla casa di Nigel Parrish, si riposava per un po' al sole mentre Nigel suonava l'organo; è l'organista della nostra chiesa, sapete. O di tanto in tanto andava da Olivia all'ora del tè.» «Andava d'accordo con l'anatra, allora?» domandò Webberly con espressione impassibile. «Oh, moltissimo!» rispose con un sorriso padre Hart. «Baffi era amico di tutti. E quando Roberta andava in giro, la seguiva dappertutto. Per questo quando hanno arrestato Roberta, ho sentito di dover fare qualcosa. Ed eccomi qua.» «Sì, proprio, eccola qua», concluse Webberly. «Ci è stato di grande aiuto, padre. Credo che l'ispettore Lynley e il sergente Havers abbiano per il momento tutti gli elementi di cui necessitano.» Si alzò in piedi e aprì la porta dell'ufficio. «Harriman?» Il rumore dei tasti del computer simile all'alfabeto Morse s'interruppe. Una sedia venne spostata. La segretaria di Webberly fece la sua comparsa nella stanza. Dorothea Harriman aveva una vaga rassomiglianza con la principessa di Galles che amava accentuare fino a un livello sconcertante, tingendosi i capelli dello stesso colore di Diana ed evitando di mettere gli occhiali in presenza di chiunque fosse in grado di notare che il suo naso e il suo mento avevano la stessa forma di quelli della Spencer. Era impaziente di fare passi avanti, di fare «c'rriera», come diceva lei, mangiandosi la vocale. Era abbastanza intelligente da potersi mettere in luce nel lavoro ed era probabile che così sarebbe stato, se si fosse decisa a rinunciare al suo modo di vestire che tutti definivano «una brutta copia di quello della principessa».
Quel giorno indossava un abito rosa acceso dalla vita bassa che sembrava un vestito da ballo accorciato per l'uso quotidiano. Era davvero orrendo. «Sì, commissario?» domandò. Nonostante le minacce e le imprecazioni, Harriman insisteva a chiamare tutti i dipendenti di Scotland Yard con il loro grado per esteso. Webberly si rivolse al prete. «Si ferma a Londra o ritorna nello Yorkshire?» «Prendo un treno stasera. Vede, avevo le confessioni oggi pomeriggio e poiché mi sono assentato, mi sono impegnato a stare a disposizione dei miei parrocchiani fino alle undici.» «Certo.» Webberly fece un cenno. «Chiami un taxi per padre Hart», disse a Dorothea Harriman. «Oh, ma io non ho abbastanza...» Webberly fece un gesto con la mano per impedirgli di continuare. «È a carico di Scotland Yard, padre.» «Di Scotland Yard.» Il prete scandì con enfasi le parole come per esprimere la sua riconoscenza e il suo apprezzamento per un gesto che a lui sembrava dovuto a spirito di fratellanza. Si lasciò docilmente accompagnare fuori della stanza dalla segretaria del commissario. «Cosa beve quando beve, sergente Havers?» domandò Webberly quando padre Hart se ne fu andato. «Acqua tonica, signore», rispose lei. «Bene», borbottò e aprì di nuovo la porta. «Harriman», gridò in tono perentorio, «procuri una Schweppes per il sergente Havers... Non mi dica che non sa dove trovarla. Lo faccia e basta.» Sbatté la porta, si avvicinò al mobiletto e prese la bottiglia di whisky. Lynley si passò una mano sulla fronte e si premette forte le tempie. «Dio, che mal di testa», mormorò. «Qualcuno di voi ha per caso un'aspirina?» «Io», rispose prontamente Barbara e si mise a frugare nella borsetta tirandone fuori una scatoletta di metallo. La gettò sul tavolo verso di lui. «Ne prenda quante ne vuole, ispettore.» Webberly li guardò pensoso. Si chiedeva, e non per la prima volta, se questo abbinamento di due personalità così opposte avesse la minima probabilità di successo. Barbara Havers era come un riccio e si rinchiudeva in se stessa alla minima provocazione. Tuttavia, sotto quell'apparenza scostante, si celava una mente acuta e sensibile. Restava da chiedersi se Tho-
mas Lynley rappresentasse la giusta combinazione di pazienza e compatibilità necessarie a indurre la mente del sergente Havers a prevalere sull'aspetto bisbetico del suo carattere che fino ad allora le aveva impedito di collaborare profìcuamente con qualsiasi altra persona. «Mi dispiace di averla costretta ad abbandonare il ricevimento di nozze, Lynley, ma non avevo alternative. Questa è la seconda volta che Nies e Kerridge sono obbligati a collaborare, su al nord. La prima è stata un disastro: Nies pretendeva sempre di aver ragione, e ne è seguita una crisi. Pensavo», stava giocherellando con la montatura degli occhiali e soppesava le parole, «che la sua presenza potrebbe risultare utile a ricordare a Nies che qualche volta può sbagliare anche lui.» Webberly attese attento una reazione da parte dell'altro: un irrigidimento dei muscoli, un movimento della testa, un battito di palpebre. Ma niente lo tradì. Non era certo un segreto tra i funzionari di Scotland Yard che l'unico contatto che Lynley aveva avuto con Nies, quasi cinque anni prima a Richmond, si era concluso con l'arresto dello stesso Lynley. E, per quanto intempestivo e in un certo senso assurdo fosse stato quell'arresto, era l'unica macchia in una scheda personale altrimenti ammirevole, una nota di demerito con cui Lynley avrebbe dovuto convivere per il resto della sua carriera. «Va bene, signore», rispose tranquillo Lynley. «Capisco.» Un colpo alla porta annunciò che la signorina Harriman era riuscita a trovare la Schweppes che mise con aria trionfante sul tavolo davanti al sergente Havers. Poi guardò l'orologio. Erano quasi le sei. «Siccome questo non è previsto come giorno lavorativo, commissario», cominciò, «pensavo di poter...» «Sì, sì, vada pure a casa», le fece segno Webberly. «Oh, no, non si tratta di questo», disse con aria mielosa Harriman. «Ma credo che l'articolo 65 A del regolamento preveda per il recupero...» «Se si prende lunedì, le spezzo un braccio, Harriman», le rispose Webberly con uguale gentilezza. «Non durante questa faccenda dello Squartatore.» «Non ci pensavo proprio, signore. Posso soltanto segnarlo? L'articolo 65C del regolamento dice che...» «Faccia come vuole, Harriman.» Gli fece un sorriso. «Certo, commissario.» La porta si chiuse alle sue spalle. «Quella strega le ha fatto l'occhiolino uscendo, Lynley?» domandò Webberly.
«Non me ne sono accorto, signore.» Erano le otto e mezzo quando cominciarono a raccogliere le carte sul tavolo di Webberly. Si era fatto buio e la luce al neon metteva ancora più in risalto il disordine nella stanza. Se possibile, era peggio di prima, essendosi infatti aggiunte le carte del caso su al nord e una nuvola di fumo acre prodotta dalle sigarette e dal sigaro che, mescolata all'aroma di whisky e sherry, creava un'atmosfera da club di seconda categoria. Barbara notò i segni della stanchezza sul volto di Lynley e ne dedusse che l'aspirina aveva sortito ben poco effetto. Si era avvicinato al muro dove erano appese le foto delle vittime dello Squartatore e le studiava con attenzione, passando dall'una all'altra. Alzò la mano verso una di esse - era la vittima di King's Cross, notò lei - e fece scorrere il dito lungo l'orribile squarcio che il coltello dell'assassino aveva prodotto. «La morte è la fine di tutto», mormorò lui. «È un evento radicale, la carne senza più vita. Chi potrebbe mai riconoscere in questa massa inerte un essere umano?» «Oppure in questa, tanto per dire», rispose Webberly indicando con gesto brusco le fotografie che aveva portato padre Hart. Lynley si riunì a loro. Fisicamente era accanto a Barbara, ma non si accorgeva neanche della sua presenza, e lei lo sapeva bene. Notò sul suo viso il succedersi di emozioni mentre dava un'ultima occhiata alle fotografie: repulsione, incredulità, pietà. Era così facile intuire dalle espressioni del suo volto ciò che gli passava per la testa che lei si domandava come avesse fatto a condurre con successo un'indagine senza tradirsi con l'indiziato. Ma così era stato. Sapeva il numero dei suoi successi, la serie di arresti effettuati. Era il ragazzo d'oro in più di un senso. «Andremo sul posto domattina, allora», disse al commissario. Prese una cartelletta e c'infilò tutto il materiale. Webberly stava studiando un orario dei treni che aveva tirato fuori dal caos della sua scrivania. «Prendete il treno delle 8.45.» Lynley si lamentò. «Abbia un po' di pietà, signore. Mi servono almeno dieci ore per farmi passare l'emicrania.» «Allora quello delle 9.30. E non più tardi.» Webberly diede un'ultima occhiata in giro mentre s'infilava il soprabito di tweed. Come il resto dei suoi abiti, era logoro in più punti e sul risvolto sinistro, dove senza dubbio era caduta la cenere del sigaro, era cucita in qualche modo una toppa. «Faccia rapporto martedì», disse, andandosene. L'uscita del commissario
sembrò rinvigorire subito Lynley, notò Barbara, perché si precipitò con sorprendente vivacità al telefono non appena l'uomo si fu allontanato. Compose un numero e si mise a tamburellare con le dita sulla scrivania sbirciando il quadrante dell'orologio a muro. Dopo quasi un minuto il suo viso fu illuminato da un sorriso. «Hai davvero aspettato, amore», disse al telefono. «Hai finalmente rotto con Jeffrey Cusick?... Ah! Lo sapevo, Helen. Ti ho detto tante volte che un avvocato non può renderti felice. Si è concluso bene il ricevimento?... Lui ha fatto questo? Oh, Signore, che scena dev'essere stata. Andrew ha mai pianto in vita sua?... Povero St. James. Era mortificato da morire?... Be', è colpa dello champagne, lo sai. Sidney si è ripresa?... Be', sì, mi ha dato l'impressione che alla fine fosse un po' commossa. Non aveva mai nascosto che Simon è il suo fratello preferito... Ovvio che il programma di andare a ballare è ancora valido. Ce lo siamo promesso, vero?... Puoi darmi, diciamo, un'oretta almeno?... Hmm, cos'era quella roba?... Helen! Mio Dio, che monella sei!» Si mise a ridere e riattaccò. «Ancora qui, sergente?» le chiese quando si voltò verso di lei. «Lei è senza macchina, signore», rispose impassibile. «Pensavo di aspettare per vedere se aveva bisogno di un passaggio.» «È davvero gentile da parte sua, ma siamo stati trattenuti qui fin troppo a lungo e immagino che abbia di meglio da fare il sabato sera che accompagnare me a casa. Prenderò un taxi.» Si chinò sulla scrivania di Webberly per scrivere in fretta qualcosa su un pezzo di carta. «Ecco il mio indirizzo», le disse, dandoglielo. «Venga qui domattina alle sette, d'accordo? Dovremmo avere così un po' di tempo per chiarirci le idee prima di partire per lo Yorkshire. Buonasera, allora.» Uscì dall'ufficio. Barbara guardò il foglio di carta che aveva in mano e studiò la scrittura i cui tratti, seppure vergati in fretta, avevano un'impronta di eleganza. Lo osservò per oltre un minuto prima di farlo a pezzi e buttarlo nella spazzatura. Sapeva molto bene dove abitava Thomas Lynley. Il senso di colpa cominciò a farsi sentire in Uxbridge Road. Era sempre così. Quella sera fu ancora peggio quando vide che l'agenzia di viaggi era chiusa e che così non poteva raccogliere il materiale sulla Grecia come aveva promesso di fare. Empress Tours. Come avevano fatto a dare un nome simile a quel negozio sudicio dove gli impiegati sedevano dietro scrivanie di plastica dipinte in modo da sembrare di legno? Rallentò per sbirciare attraverso il parabrezza sporco eventuali segni di vita. I proprietari
vivevano sopra il negozio. Forse, se avesse picchiato alla porta, sarebbe riuscita a svegliarli. No, era troppo ridicolo. Mamma aveva tante possibilità di andare in Grecia quante ne aveva di andare sulla luna; avrebbe aspettato i dépliant ancora un po'. Eppure quel giorno era passata davanti a dozzine di agenzie in città. Perché non si era fermata? Che cos'altro restava a mamma se non quegli stupidi sogni? Sopraffatta dal bisogno di ovviare in qualche modo alla propria mancanza, Barbara fermò l'auto davanti a Patel, il negozio di frutta e verdura, un postaccio cadente verniciato di verde, con le mensole arrugginite e le casse accatastate in modo precario che emanavano quel miscuglio di odori tipico delle verdure non più fresche. Patel era ancora aperto, almeno. Tipico da parte sua, non perdere mai l'occasione di guadagnare dieci pence. «Barbara!» la salutò dall'interno del negozio mentre lei si chinava a prendere della frutta esposta sul marciapiede. Perlopiù mele. Alcune pesche tardive di provenienza spagnola. «Cosa fai ancora in giro a quest'ora?» Non credeva certo che avesse un appuntamento. Nessuno lo riteneva possibile. Neanche lei. «Ho dovuto lavorare fino a tardi, signor Patel», rispose. «Quanto costano le pesche?» «85 mezzo chilo, ma per te, bel faccino, facciamo ottanta.» Ne scelse sei. Le pesò, le avvolse nella carta e gliele porse. «Ho visto tuo padre, oggi.» Alzò subito lo sguardo e notò che lui si era fatto impenetrabile quando aveva visto l'espressione di lei. «Si è comportato bene?» gli domandò con aria indifferente, mettendosi a tracolla la borsetta. «Ma certo. Si comporta sempre bene!» Il signor Patel prese il denaro, lo contò due volte attentamente e lo mise in cassa. «Sta' attenta adesso, Barbara. Gli uomini vedono una ragazza carina come te e...» «Sì, starò attenta», lo interruppe Barbara. Buttò le pesche sul sedile anteriore della macchina. Ragazza carina come te, Barb. Sta' attenta. Tieni strette le ginocchia. La virtù è davvero facile da perdere, e una donna perduta è perduta per sempre. Scoppiò in una risata amara, avviò la macchina e si rimise in marcia. Ad Acton c'erano due aree residenziali, che gli abitanti definivano semplicemente strade giuste e strade sbagliate. Era come se una linea immaginaria dividesse in modo arbitrario il sobborgo. Nelle strade giuste di Acton le case erano in mattoni veri e avevano le
decorazioni in legno che alla luce del sole sfavillavano sempre in una miriade di colori. Le rose crescevano rigogliose. Le fucsie lussureggiavano nei vasi appesi. I bambini giocavano su marciapiedi puliti e in giardini curati. La neve d'inverno trasformava i tetti spioventi in meringhe appuntite, mentre d'estate gli olmi frondosi creavano una galleria verde entro la quale la gente passeggiava sul calar della sera. Non scoppiava mai una lite nelle strade giuste di Acton, non si ascoltava mai la musica a volume troppo alto, non si sentiva l'odore di pesce fritto e non si faceva mai a pugni. Tutto era perfetto, un oceano impareggiabile su cui navigava placida la nave dei sogni di ogni famiglia. Ma soltanto una strada più in là le cose erano molto diverse. La gente diceva che le strade sbagliate di Acton subivano la calura del giorno e per questo le cose erano così differenti lì. Era come se dal cielo fosse scesa un'enorme mano e avesse mescolato persone, strade e case, creando un'aria generale di mestizia. Nessuno faceva niente per salvare le apparenze: le case venivano lasciate andare in rovina. I giardini appena piantati venivano presto ignorati, poi dimenticati del tutto e lasciati inselvatichire. I bambini giocavano rumorosamente sui marciapiedi sporchi, i giochi erano spesso violenti al punto da richiedere l'intervento energico delle madri. D'inverno il vento penetrava dalle fessure delle finestre e d'estate la pioggia filtrava dai buchi del tetto. Gli abitanti delle strade sbagliate non pensavano molto a cambiare casa perché pensare di cambiare casa avrebbe significato nutrire una speranza. E la speranza era morta nella parte sbagliata di Acton. Barbara era diretta lì e con la sua Mini imboccò una strada ai cui lati le macchine erano ruggine come la sua. Davanti alla sua casa non c'era né un giardino né uno steccato, ma un cumulo di sporcizia duro come il marciapiede su cui parcheggiò la macchina. Nell'abitazione vicina, la televisione della signora Gustafson era sintonizzata sul primo canale della BBC. Dato che l'anziana donna era quasi sorda, l'intero vicinato era costretto ogni notte a seguire le vicende dei suoi eroi televisivi. Dall'altra parte della strada i Kirby erano impegnati nella solita lite che precedeva il rapporto coniugale, mentre i quattro figli facevano del loro meglio per ignorarli, gettando stracci sporchi verso un gatto disteso sul davanzale di una finestra del primo piano. Barbara tirò un sospiro, cercò la chiave di casa ed entrò. Per cena la aspettavano pollo e piselli. Aveva sentito subito l'odore come una zaffata di alito cattivo.
«Sei tu, amore?» le domandò la voce della madre. «Un po' tardi, vero, cara? Fuori con amici?» Che assurdità! «Al lavoro, mamma. Sono tornata alla squadra investigativa.» Sua madre comparve con passo strascicato sulla soglia del salotto. Come Barbara, era piccola di statura ma molto magra, come se una malattia avesse devastato il suo corpo e l'avesse consumato fibra dopo fibra in una marcia implacabile verso la tomba. «Squadra investigativa?» domandò con una nota querula nella voce. «Oh, è proprio indispensabile, Barbara? Lo sai come la penso in proposito, amore.» Mentre parlava si passò la mano scheletrita tra i capelli sottili con un gesto nervoso che le era abituale. I suoi occhi erano gonfi e arrossati come se avesse passato la giornata a piangere. «Ti ho portato delle pesche», rispose Barbara, indicando il sacchetto. «L'agenzia di viaggi era chiusa, purtroppo. Ho anche picchiato alla porta per farli scendere dal piano di sopra, ma dovevano essere usciti.» Distratta dal pensiero della squadra investigativa, la signora Havers cambiò espressione e il suo volto si illuminò debolmente. Afferrò la stoffa del suo squallido abito e la tenne stretta come per trattenere l'eccitazione. «Oh, non importa proprio. Aspetta e vedrai. Va' in cucina e arrivo subito. La tua cena è ancora calda.» Barbara attraversò il salotto, provando un moto di fastidio per le chiacchiere della televisione e per l'odore di chiuso che impregnava la stanza. La cucina, che emanava un fetore di pollo arrosto stantio e di piselli anemici, non era certo molto meglio. Guardò con tristezza il piatto sul tavolo, toccò con il dito la carne rinsecchita. Era fredda congelata, viscida e raggrinzita come i reperti conservati in formaldeide per l'esame necroscopico. Il grasso si era solidificato ai bordi e un pezzetto di burro rancido non si era sciolto sui piselli che sembravano cotti almeno dieci anni prima. Fantastico, pensò. La «squisita insalata di granchio» avrebbe mai retto il confronto con quella delizia epicurea? Cercò il quotidiano e lo trovò, come sempre, su una delle traballanti sedie della cucina. Afferrò la prima pagina, la aprì nel mezzo e buttò la cena sul volto sorridente della duchessa di Kent. «Amore, non avrai buttato via la cenetta!» Accidenti! Barbara si voltò e vide il volto della madre alterato dal dolore, le labbra strette, le rughe profonde che le arrivavano fino al mento, gli occhi azzurri pieni di lacrime. Si stringeva al petto un album di finta pelle.
«Mi hai beccato, mamma.» Barbara si sforzò di sorridere e mise un braccio attorno alle spalle della madre, accompagnandola verso il tavolo. «Ho mangiato un boccone a Scotland Yard e allora non ho fame. Avrei dovuto metterlo da parte per te o per papà?» La signora Havers chiuse gli occhi. Il senso di sollievo dipinto sul suo viso era patetico. «Io... non credo. No, certo che no. Pollo e piselli due sere di seguito è un po' troppo, non ti pare?» Fece un debole sorriso e appoggiò l'album sul tavolo. «Papà mi ha portato il materiale sulla Grecia», dichiarò. «Davvero?» Ecco che cosa ci faceva fuori della gabbia. «Da solo?» domandò Barbara casualmente. La madre distolse lo sguardo e si mise a tormentare nervosamente la copertina dorata dell'album. Un movimento improvviso, un sorriso vivace e scostò la sedia. «Siediti qui, tesoro, ti faccio vedere il nostro itinerario.» Aprì l'album, girò velocemente le pagine riguardanti l'Italia, la Francia, la Turchia e - meta più bizzarra - il Perù, finché non arrivò alla parte più nuova dedicata alla Grecia. «Ecco, questo è l'albergo in cui alloggeremo a Corfù. Vedi com'è situato proprio sulla baia? Avremmo potuto andare a Kanoni, in uno più nuovo, ma mi piaceva la vista; anche a te, cara?» A Barbara bruciavano gli occhi. Non ce la faceva a sopportare. Quanto tempo ci vorrà? Non finirà mai? «Non mi hai risposto, Barbara.» Nella voce di sua madre c'era una nota di angoscia. «Ho lavorato tanto al viaggio, oggi. Avere una bella vista era meglio che scegliere l'albergo nuovo a Kanoni, vero, tesoro?» «Molto meglio, mamma.» Barbara si sforzò di rispondere e poi si alzò in piedi. «Domani ho un caso da seguire. Non possiamo occuparci dopo della Grecia?» Avrebbe capito? «Che genere di caso?» «Si tratta... di un problema con una famiglia dello Yorkshire. Starò via alcuni giorni. Pensi di cavartela o devo chiedere alla signora Gustafson di venire qui?» Idea fantastica, la sorda che aiuta la pazza. «La signora Gustafson?» Sua madre chiuse l'album e s'irrigidì. «Penso di no, tesoro. Io e papà ce la facciamo da soli. È sempre stato così, lo sai. Tranne in quel breve periodo in cui Tony...» La stanza era calda in modo insopportabile e soffocante. Oh, Dio, Barbara pensò, una boccata d'aria. Solo questa volta. Per un attimo. Si diresse verso la porta posteriore che dava sul giardino infestato dalle erbacce. «Dove vai?» le chiese subito la madre con una nota isterica nella voce.
«Non c'è niente là fuori! Non devi uscire quando è buio!» Barbara raccolse la cena che aveva scartato. «Spazzatura, mamma. Ci metterò un attimo. Puoi aspettare sulla porta e controllare che non mi succeda niente.» «Ma io... Sulla porta?» «Se vuoi.» «No, non devo restare sulla porta. La lasceremo aperta un poco, però. Grida, se hai bisogno.» «Ottima idea, mamma.» Prese il pacchetto e uscì in fretta nella notte. Pochi minuti. Inalò l'aria fresca, ascoltò i rumori familiari del vicinato e cercò in tasca il pacchetto accartocciato di sigarette. Ne tirò fuori una, la accese e guardò il cielo. Che cosa aveva provocato quella lenta discesa nella follia? Era stato Tony, certo. Un monello intelligente con il visetto coperto di lentiggini. Aria fresca e primaverile nel buio perenne dell'inverno. Guardami, guardami, Barbie! So fare tutto! Il piccolo chimico e le palle da rugby. Cricket sui prati e chiapparello al pomeriggio. E quella stupida, orribile corsa dietro una palla proprio in mezzo a Uxbridge Road. Ma non era morto per quello. Solo un ricovero in ospedale. Una febbre insistente, uno strano sfogo sulla pelle. Il bacio insinuante e devastante della leucemia. La cosa più assurda e ridicola: entrare con una gamba rotta e uscire con la leucemia. Era morto dopo quattro anni di sofferenze. Quattro anni per scivolare nella pazzia. «Tesoro?» Le tremava la voce. «Sono qui, mamma. Stavo solo guardando il cielo.» Barbara spense la sigaretta per terra e tornò in casa. 4 Deborah St. James fermò la macchina e, ridendo, si voltò verso il marito. «Simon, non ti hanno mai detto che sei il peggiore ufficiale di rotta del mondo?» Lui sorrise e chiuse l'atlante stradale. «Mai. Ma concedimi un'attenuante. Considera la nebbia.» Lanciò un'occhiata attraverso il parabrezza al grosso edificio scuro che si profilava davanti a loro. «Debole scusa per non essere capace di leggere una carta stradale, se proprio lo vuoi sapere. Siamo nel posto giusto? Non sembra che ci sia qualcuno ad aspettarci.»
«Non c'è da sorprendersi. Ho detto che saremmo arrivati alle nove e adesso sono le...» Sbirciò l'ora alla debole luce interna della macchina. «Accidenti, sono le undici e mezzo.» Lo disse con un'intonazione scherzosa nella voce. «Sei pronta, amore mio? Vuoi che passiamo la prima notte di nozze in macchina?» «Come adolescenti che si avviticchiano eccitati sul sedile posteriore, intendi dire?» Scuotendo il capo buttò indietro i lunghi capelli. «Mmm, è un'idea. Ma temo che in tal caso avresti dovuto noleggiare qualcosa di più spazioso di una Escort. No, Simon, penso che purtroppo non ci resti che bussare nella speranza che qualcuno si svegli. Ma tu farai le scuse da parte nostra.» Scese dalla macchina nell'aria fresca della notte e rimase per un attimo a osservare l'edificio di fronte a sé. La struttura originaria era di epoca pre-elisabettiana, ma aveva subito rimaneggiamenti in epoca giacobita che le conferivano un tocco di stravaganza. Le finestre con montanti riflettevano la luce della luna che filtrava tra i banchi di nebbia addensatisi sulla brughiera e che adesso scivolavano verso le valli. I muri erano ricoperti da rampicanti le cui foglie rossicce davano una nota di colore vivo alle vecchie pietre. I camini svettavano nel cielo buio della notte con un gioco disordinato di forme bizzarre. La costruzione sembrava come ribellarsi al tempo, facendo dimenticare di essere nel ventesimo secolo, e questo carattere si era trasmesso alle terre circostanti. Possenti querce stendevano i loro rami su prati in cui statue circondate da fiori interrompevano l'uniformità del terreno. Dalla casa si dipartivano sentieri che si perdevano tortuosi nei boschi ed esercitavano sul visitatore il fascino del canto ammaliante delle sirene. Nella quiete assoluta soltanto lo zampillio di una fontana vicina e il belato di un agnello da una fattoria lontana accompagnavano il sussurro della brezza notturna. Avrebbero potuto essere il deforme Riccardo III e la bellissima consorte Anna, finalmente a casa, al castello di Middleham. Deborah tornò alla macchina. Suo marito aveva aperto la portiera e la osservava in paziente attesa di vedere la sua reazione alla bellezza del luogo. «È meraviglioso», disse lei. «Grazie, amore.» Lui sollevò la gamba sinistra, che aveva l'apparecchio, la appoggiò con un tonfo sul selciato e tese la mano verso la moglie. Con un gesto esperto, Deborah lo aiutò ad alzarsi. «Ho l'impressione che abbiamo girato in tondo per ore», osservò St. James, stiracchiandosi. «In effetti, è stato proprio così», disse lei in tono scherzoso. «'Solo due ore dalla stazione, Deborah. Un giro fantastico.'»
Lui ridacchiò. «Be', è stato così, amore. Ammettilo.» «Certo. La terza volta che ho visto l'abbazia di Rievaulx, l'ho trovata davvero incantevole.» Lanciò un'occhiata alla porta di quercia chiusa davanti a loro. «Dobbiamo provare, allora?» Imboccarono il vialetto di ghiaia che portava al recesso buio in cui era situata la porta. Una panca di legno era rovesciata contro il muro vicino, e ai due lati della porta facevano la guardia due enormi vasi. Per l'imprevedibile comportamento delle piante, un vaso conteneva fiori in pieno rigoglio, l'altro invece ospitava gerani mezzi appassiti che, al passaggio di Deborah e del marito, lasciarono cadere alcune foglie secche. St. James picchiò con energia il grosso battente di ottone al centro della porta. L'eco dei colpi si perse nel silenzio. «C'è anche un campanello», gli fece notare Deborah. «Prova con quello.» Lo squillo raggiunse i più lontani recessi della casa e destò quello che sembrava un intero branco di segugi ululanti. «Be', questo ha funzionato», rise St. James. «Accidenti, Casper! Jason! È solo il campanello, demoni!» Da dietro la porta si udì una voce roca che urlava secchi rimproveri, con un timbro molto basso e l'inconfondibile cadenza di una donna di campagna. «A cuccia! Fuori! Tornate in cucina.» Un silenzio, poi rumori confusi. «No, accidenti! Tornate indietro! Per la miseria, furfanti matricolati! Ridatemi le ciabatte! Andate al diavolo!» Dopo di che si sentì cigolare un catenaccio dall'interno e la porta si spalancò di colpo. Una donna a piedi nudi saltellava avanti e indietro sulle pietre gelide dell'ingresso, con i capelli grigi e crespi che le rimbalzavano sulle spalle come percorsi da scariche elettriche. «Signor Allcourt St. James», disse senza preamboli. «Entrate pure. Accidenti!» Si tolse lo scialle che aveva sulle spalle e lo lasciò cadere a terra e diventò subito uno straccio per i piedi. Si strinse addosso i lembi di una voluminosa vestaglia cremisi e non appena gli ospiti furono entrati, sbatté con energia la porta. «Ecco, così va meglio, grazie a Dio.» Si mise a ridere, un muggito, incontrollato e volgare. «Scusatemi. Non sembro sempre Emily Brontë. Vi siete perduti?» «A più riprese», ammise St. James. «Signora Burton Thomas, questa è mia moglie, Deborah», aggiunse. «Dovete essere freddi gelati», constatò la padrona di casa. «Be', procederemo subito. Intanto andiamo in sala. C'è un bel fuoco, lì. Danny!» urlò. «Venite, da questa parte. Danny!» La seguirono attraverso una stanza antica dal pavimento lastricato. Pareti
bianche, travi scure; c'era un freddo agghiacciante, le finestre erano incassate e senza tende, al centro un tavolo scuro da refettorio, e nella parete più lontana s'incuneava un caminetto spento sopra il quale erano appese armi di vario tipo ed elmi dalla forma stranamente appuntita. La signora Burton Thomas fece un cenno quando vide che St. James e Deborah ne erano rimasti attratti. «Oh, sì, le Teste Rotonde di Cromwell sono state qui», disse. «Hanno occupato Keldale Hall per dieci mesi durante la guerra civile. 1644», aggiunse in tono funereo, come se si aspettasse che s'imprimessero nella mente l'anno dell'infamia nella storia del clan dei Burton Thomas. «Ma ce ne siamo liberati non appena abbiamo potuto. Furfanti matricolati, quella gente!» Li guidò attraverso una sala da pranzo buia e poi in una stanza lunga dalle pareti rivestite in legno in cui la strombatura delle finestre era nascosta da tendaggi scarlatti e un fuoco di carboni scoppiettava dietro la grata. «Be', Gesù, dov'è andata a finire?» borbottò la signora Burton Thomas, e si diresse verso la porta da cui erano appena entrati. «Danny!» A questo richiamo risposero passi affrettati e sulla soglia comparve una ragazza dai capelli arruffati che doveva avere poco meno di vent'anni. «Scusami!» esclamò ridendo la nuova venuta. «Ti ho recuperato le ciabatte, però.» Le lanciò verso la donna che le afferrò con destrezza. «Sono mangiucchiate qua e là, purtroppo.» «Grazie, cara. Vuoi portare del brandy per i nostri ospiti? Quell'orribile Watson si è fatto fuori un terzo della caraffa prima di buttarsi a letto stasera. Adesso è vuota, ma ce n'è dell'altro in cantina. Ci pensi tu?» Allontanatasi la ragazza, la signora Burton Thomas si mise a esaminare le sue ciabatte e s'incupì nel notare un buco in un tacco. Borbottò tra i denti, s'infilò le ciabatte ai piedi e rimise lo scialle - che le era servito da tappeto volante a terra per muoversi nella casa - sulle spalle. «Accomodatevi pure. Non ho voluto accendere il fuoco nella vostra stanza prima che arrivaste, così possiamo fare due chiacchiere in attesa che si riscaldi un po' l'ambiente. Un freddo terribile per essere in ottobre, vero? L'inverno è in anticipo, dicono.» La cantina doveva essere più vicina di quanto facesse pensare il termine stesso, perché dopo qualche secondo la giovane Danny ricomparve con una bottiglia di brandy. L'aprì e ne travasò il contenuto in una caraffa appoggiata su un tavolo Hepplewhite dove si trovava il ritratto di un antenato dal naso aquilino; poi tornò da loro con un vassoio su cui scintillavano tre
bicchieri da brandy e la caraffa. «Devo occuparmi della stanza, zietta?» domandò. «Per favore. Chiama Eddie per i bagagli. E fai le scuse alla coppia americana se per caso è stata svegliata dal rumore.» Dopo che la ragazza se ne fu di nuovo andata, la signora Burton Thomas versò tre bicchieri abbondanti. «Ah, ma loro vengono qui per l'atmosfera e, perdio, io posso offrirgliene a profusione!» Scoppiò in una fragorosa risata e ingollò il suo drink in un sol colpo. «Cerco di conservare il colore locale», ammise con soddisfazione la signora Burton Thomas, versandosene un altro. «Basta puntare sull'atmosfera vecchio stile e ti mettono in tutte le guide turistiche.» L'aspetto della donna era la conferma vivente dell'ultima osservazione. Era un miscuglio tra la proprietaria di una dimora signorile e una creatura del genere horror gotico: imponente nella statura, con le spalle larghe di un uomo, si muoveva con scioltezza e indifferenza tra i mobili di valore inestimabile con cui era arredata la stanza. Aveva le mani di un contadino, le caviglie di una ballerina e il viso di un'attempata valchiria. Aveva gli occhi blu, infossati, e gli zigomi marcati. Il naso adunco con il passare degli anni era diventato più pronunciato, così in quel momento alla luce incerta della camera sembrava proiettare un'ombra su tutto il labbro superiore. Dimostrava circa sessantacinque anni, ma l'età per la signora Burton Thomas era ovviamente una questione irrilevante. «Be'», li osservò, «neanche un po' di fame? Vi siete persi la cena da circa...» - un'occhiata all'orologio a muro del nonno che ticchettava rumorosamente - «due ore.» «Hai fame, amore?» chiese St. James a Deborah che notò nei suoi occhi una luce divertita. «Ah... no, neanche un po'.» Si rivolse ala signora Burton Thomas. «Ha altri ospiti qui?» «Solo una coppia di americani. Li vedrete a colazione. Conoscete il genere. Poliestere e vistose catene d'oro. Un diamante al mignolo dell'uomo che grida vendetta al cielo. Ieri sera mi ha intrattenuto con un discorso su questioni di denti. Voleva che me li facessi incapsulare, a quanto ho capito. L'ultima moda.» La signora Burton Thomas rabbrividì e ingollò un altro drink. «Suona un po' antico Egitto. Qualcosa per la posterità, sapete. Oppure per proteggersi dalla carie?» Scrollò le spalle con grande indifferenza. «Non ci penso nemmeno. Cos'è questa fissa che hanno gli americani per i denti? Tutti dritti e scintillanti. I denti storti danno un tocco personale
a un viso, dico io.» Cercò di attizzare il fuoco e mandò sul tappeto uno spruzzo di scintille, che si affrettò a spegnere, camminandoci sopra con estrema energia. «Be', sono felice che siate qui, è tutto quello che posso dire. Non che il nonno non si rivolti ancora nella tomba perché ho aperto la casa ai turisti. Ma, o così, o l'Ente nazionale per la difesa del patrimonio artistico.» Strizzò loro l'occhio da sopra il bicchiere. «E perdonatemi se lo dico, ma questo tipo di vita è un sacco più divertente.» In direzione della porta si sentì qualcuno che si schiariva la gola: era un ragazzo con un pigiama di flanella scozzese e una vecchia giacca da camera troppo grande per lui legata in vita in maniera approssimativa. Era visibilmente imbarazzato, anche se il suo abbigliamento gli conferiva un'aria démodé. Aveva in mano un paio di stampelle. «Cosa c'è, Eddie?» chiese con impazienza la signora Burton Thomas. «Ti sei occupato del bagaglio, vero?» «Le ho trovate nel bagagliaio, zietta», rispose lui. «Devo sistemare anche queste?» «Certo, sciocchino!» Lui si girò e scomparve alla vista. Rabbuiata, la donna scosse la testa. «Sono la martire della famiglia. Una vera e propria martire. Be', venite adesso, piccolini, vi faccio vedere la vostra stanza. Dovete essere stanchi morti. No, no, portate pure con voi il brandy.» Passarono di nuovo per la sala da pranzo, l'ingresso in pietra e poi per un corridoio che portava alla scalinata. I gradini in lucido legno di quercia conducevano alla parte superiore della casa che era avvolta da una profonda oscurità. «Scala padronale», li informò la signora Burton Thomas, picchiando con il palmo il corrimano di legno massiccio. «Non ne fanno più oggi, di questa qualità. Venite, è da questa parte.» Al piano superiore li guidò lungo un corridoio poco illuminato in cui i ritratti degli antenati si disputavano lo spazio con tre arazzi fiamminghi. La signora Burton Thomas fece un cenno immusonito verso questi ultimi. «Devo proprio toglierli. Sono appesi lì dal 1822, ma nessuno è mai riuscito a convincere la bisnonna che queste cose fanno un effetto migliore da lontano. La tradizione. Capita. Mi trovo a combatterla dappertutto. Eccoci arrivati, piccolini.» Spalancò una porta. «Vi lascerò qui. Tutti i comfort moderni a vostra disposizione.» Con queste parole si congedò con la vestaglia svolazzante sulle caviglie e le ciabatte che rimbombavano sul pavimento. Furono accolti nella stanza da un ruzzolare di carboni accesi nel caminetto. Era la più bella camera che avesse mai visto, pensò Deborah entrando. Le pareti erano ricoperte di pannelli di quercia, alle due estremità del
locale erano appesi i ritratti sorridenti di due dame, opera di Gainsborough; i due sposi si sentirono stretti in un abbraccio che aveva il calore e la grazia dei secoli passati. Piccoli abat-jour con il paralume rosa diffondevano una luce morbida che conferiva un colore vivo al mogano del letto a baldacchino. L'ombra di un imponente armadio si stagliava sul muro e sulla toilette c'era un ricco assortimento di portaprofumi di cristallo e spazzole dal manico d'argento. Vicino a una delle finestre su un tavolino Luigi XV era deposta con cura una composizione di gigli. Deborah si avvicinò e sfiorò con le dita i petali di un fiore eburneo. «C'è un biglietto», notò lei, lo tirò fuori e lo lesse. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Si voltò verso il marito. Era andato a sedersi su una poltrona imbottita accanto al caminetto. Stava osservando la moglie come spesso faceva, con quel riserbo che gli era naturale, lasciando ai propri occhi il compito di esprimere i suoi sentimenti. «Grazie, Simon», sussurrò lei. Rimise il biglietto tra i fiori, trattenne un moto dell'animo che non sapeva definire e cercò di parlare con disinvoltura. «Come hai fatto a trovare questo posto?» «Ti piace?» le chiese a sua volta. «Non avresti potuto scegliere niente di più bello.» Lui non rispose. Bussarono alla porta, lui la guardò, un sorrisetto che gli increspava le labbra e lo sguardo che diceva chiaramente: Che c'è ancora? «Avanti», invitò ad alta voce. Era la ragazza, Danny, con una pila di coperte in braccio. «Scusate. Non fateci caso. C'è già una trapunta, ma la zia pensa che tutti abbiano freddo, come lei.» Entrò nella stanza con la sicurezza della padrona di casa. «Eddie vi ha portato i bagagli?» domandò aprendo l'armadio e lasciando cadere di colpo le coperte all'interno. «È un po' tonto, sapete. Dovete scusarlo.» Si osservò allo specchio sagomato che si trovava all'interno dell'anta dell'armadio, si aggiustò i capelli leggermente fuori posto e si accorse che la stavano guardando. «Adesso sarà meglio che stiate attenti al pianto del bambino», disse con gravità. Aveva parlato come a comando. Di sicuro subito dopo si sarebbero messi a ululare i cani. «Il pianto del bambino? Gli americani hanno un bambino?» domandò Deborah. Danny spalancò gli occhi scuri. Guardò la donna e poi l'uomo. «Non lo sapete? Nessuno ve l'ha detto?» Deborah intuì dal comportamento della ragazza che presto sarebbero stati informati, perché Danny si pulì le mani nel vestito come per prepararsi a
una spiegazione, si guardò attorno per assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete e poi si avvicinò alla finestra. Nonostante il freddo, tolse la sicura e spalancò le imposte. «Nessuno ve ne ha parlato?» chiese in tono melodrammatico, indicando fuori il buio della notte. Non restava che aspettare che venisse chiarito il mistero. Deborah e Simon raggiunsero la ragazza alla finestra da cui si vedevano, in lontananza, le rovine scheletrite di un'abbazia che emergeva dalla nebbia. «L'abbazia di Keldale», dichiarò Danny e poi si mise vicino al focolare per avviare una chiacchierata confidenziale. «È da lì che viene il pianto del bambino, non da qui.» St. James chiuse le imposte, tirò i pesanti tendaggi e accompagnò Deborah vicino al caminetto. Lei si accoccolò per terra accanto a lui, cercando di riscaldarsi al calore delle fiamme. «Il fantasma di un bambino, suppongo», disse Deborah alla ragazza. «Sì, proprio così, l'ho sentito io stessa. Lo sentirete anche voi. Aspettate e vedrete.» «I fantasmi sono sempre legati a una leggenda», commentò St. James. Proprio qui vi volevo, fu l'implicita risposta di Danny che si appoggiò allo schienale della sedia. «E anche questo lo è», affermò con solennità. «Keldale era monarchico durante la guerra civile, sapete.» Parlò come se il diciassettesimo secolo fosse stato solo una settimana prima. «Fedeli al re fino all'ultimo uomo. Il villaggio di Keldale, a un miglio da qui. Non l'avete visto?» St. James trattenne una risata. «Avremmo dovuto, ma temo che siamo arrivati... da un'altra direzione.» «La strada panoramica», aggiunse Deborah. Danny preferì ignorare la divagazione. «Be', fu verso la fine della guerra», continuò. «E quel vecchio furfante di Cromwell», ovviamente la ragazza ripeteva la storia che la zia le aveva raccontato da bambina, «fu informato che i nobili del nord stavano progettando una sommossa. Allora calò nelle valli un'ultima volta e s'impadronì di manieri, distrusse castelli, rase al suolo villaggi fedeli al re. Però Keldale era ben nascosto.» «Ce ne siamo accorti», s'intromise St. James. La ragazza annuì seria. «Ma giorni prima al villaggio era arrivata la notizia che le crudeli Teste Rotonde stavano arrivando. Non era il villaggio che Cromwell voleva, bensì gli abitanti, tutti fedeli a re Carlo.» «Per ucciderli, naturalmente», suggerì Deborah quando la ragazza interruppe il racconto per prendere fiato.
«Per ucciderli fino all'ultimo uomo!» dichiarò. «Quando si sparse la voce che Cromwell stava cercando Kel, il villaggio approntò un piano. Si sarebbero rifugiati tutti nei pressi dell'abbazia. Così quando le Teste Rotonde fossero arrivate, avrebbero trovato, sì, Keldale, ma non i suoi abitanti.» «Un piano piuttosto ambizioso», osservò St. James. «E funzionò!» replicò Danny con orgoglio. I suoi begli occhi erano pieni di eccitazione, le gote rosee, ma abbassò il tono di voce. «A parte la storia del bambino!» Si sporse in avanti: era chiaro che si trattava del momento culminante della storia. «Arrivarono le Teste Rotonde. Tutto stava andando come gli abitanti avevano sperato. Era tutto deserto, e silenzioso per la fitta nebbia. E nell'intero villaggio non c'era anima viva. E poi», Danny con un'occhiata si assicurò che la stessero ascoltando, «un bambino cominciò a piangere nell'abbazia dove si erano rifugiati gli abitanti del villaggio. Oh, Dio!» Si strinse il delizioso petto. «Il panico! Erano sfuggiti a Cromwell soltanto per essere traditi da un bambino! La madre tentò di mettere a tacere il bambino offrendogli il seno. Ma fu inutile. Il neonato piangeva e piangeva. Erano terrorizzati all'idea che i cani, disturbati dal pianto, si mettessero ad abbaiare e che in tal modo Cromwell li scoprisse. Così fecero tacere il bambino. Lo strangolarono!» «Buon Dio!» mormorò Deborah, stringendosi di più alla sedia del marito. «Proprio il genere di storia che si desidera sentire la prima notte di nozze, vero?» «Ah, ma dovete saperlo.» Danny aveva un'espressione eccitata. «Perché sentire il pianto del bambino porta sfortuna a meno che non si sappia che cosa fare.» «Mettersi dell'aglio?» domandò St. James. «Dormire con un crocifisso in mano?» Deborah gli diede un colpetto sul ginocchio. «Io voglio saperlo. Insisto per saperlo. Devo rovinarmi la vita perché ho sposato un cinico? Mi dica cosa devo fare, Danny, se dovessi sentire il bambino.» La ragazza annuì con aria grave. «Il pianto del bambino si sente sempre di notte e proviene dalle rovine dell'abbazia. Lei deve dormire sul fianco destro, suo marito sul sinistro. E dovete tenervi stretti finché il pianto non smette.» «Interessante», riconobbe St. James. «Una specie di amuleto vivente. Possiamo sperare che questo bambino pianga spesso?» «Non troppo spesso. Ma io...» Inghiottì e di colpo si accorsero che non era un aneddoto per sposi innamorati in viaggio di nozze, perché lei aveva
davvero paura e alla storia ci credeva. «L'ho sentito io stessa circa tre anni fa! È una cosa che non dimenticherò tanto presto!» Si alzò in piedi. «Vi ricorderete cosa fare? Non ve lo dimenticherete?» «Non ce lo dimenticheremo», Deborah rassicurò la ragazza prima che questa scomparisse dalla stanza. Rimasero in silenzio. Deborah appoggiò la testa contro il ginocchio di St. James. Lui le accarezzò i capelli con le dita sottili, scostandole dal volto la massa di ricci. Lei lo guardò. «Ho paura, Simon. Non pensavo che mi sarebbe capitato, non quest'anno, ma è così.» Lesse nei suoi occhi che lui capiva. Certo che capiva. Aveva mai dubitato che fosse così? «Anch'io», rispose lui. «Oggi mi sentivo in preda al panico. Non ho mai voluto lasciarmi andare, né con te, né con nessun altro, in realtà. Ma, ecco. È accaduto.» Sorrise. «Mi hai conquistato il cuore con la tua forza alla Cromwell e non ho saputo resistere, Deborah, e adesso credo di aver più paura di perdere te che me stesso.» Le sfiorò il ciondolo che le aveva regalato quella mattina, appoggiato nell'incavo del collo. Era un piccolo cigno d'oro, per loro simbolo della dedizione assoluta: una scelta, e una scelta per sempre. Spostò lo sguardo dal ciondolo agli occhi di lei. «Non aver paura», le sussurrò con dolcezza. «Facciamo l'amore, allora.» «Con estremo piacere.» Jimmy Havers aveva occhi porcini che si mettevano a saettare quando era nervoso. Poteva anche credere di fare l'interpretazione più strepitosa della sua vita quando raccontava frottole per cavarsela nelle varie situazioni, dall'accusa di furto da quattro soldi all'essere colto con le mani nel sacco, ma la realtà era che i suoi occhi lo tradivano sempre, anche in quel momento. «Non sapevo che saresti arrivata a casa in tempo per portare a mamma il materiale sulla Grecia, allora c'è andato Jim, ragazza.» Era sua abitudine parlare di sé in terza persona. Gli permetteva di sottrarsi alle responsabilità ogni volta che gli si presentava qualche inconveniente. Come adesso, per esempio. No, non sono andato dall'allibratore. Non ho neanche comprato il tabacco da fiuto. Se è accaduto, allora è stato Jimmy, non io. Barbara vide che il padre aveva lo sguardo sfuggente. Dio, che luogo funereo quel salotto: una stanza di tre metri per quattro e mezzo, con finestre sempre sigillate su cui gli anni avevano accumulato sudiciume, arredata in
modo soffocante con le classiche due poltrone e un divano - elementi essenziali per un minimo di comodità -; ma quelli erano mobili reclamizzati come «crine artificiale» trentacinque anni prima, quando perfino il crine naturale era ritenuto di pessimo gusto. Le pareti avevano una tappezzeria con un allucinante disegno di boccioli di rosa intrecciati che si protendevano verso il soffitto. Riviste sulle corse di cavalli affollavano tavoli e pavimento, e si disputavano lo spazio con quindici album in finta pelle che documentavano ogni tappa del lento cammino della madre verso la rovina fisica e mentale. E, in mezzo a tutto questo, Tony sorrideva e sorrideva e sorrideva. In un angolo della stanza c'era l'altarino a lui dedicato. L'ultima sua fotografia prima dell'insorgere della malattia - l'immagine sfocata e distorta di un ragazzo che calcia un pallone in una rete improvvisata, in un giardino un tempo traboccante di fiori - era un ingrandimento. Ai due lati, in cornice di finta quercia, erano appesi gli attestati scolastici, tutte le note di merito che aveva ricevuto dagli insegnanti, e - che Dio ci perdoni -, massimo orgoglio, il suo certificato di morte. Sotto, in segno di omaggio, una composizione di fiori, un omaggio piuttosto polveroso, considerate le condizioni in cui si trovava la stanza. La televisione andava a tutto volume, come sempre, nell'angolo opposto della stanza, e stava lì «perché Tony la potesse guardare». Veniva sintonizzata sui suoi programmi preferiti, come se il tempo non fosse passato, come se niente fosse accaduto, come se niente fosse cambiato. Mentre porte e finestre erano chiuse e sbarrate per non far entrare la verità di quel pomeriggio d'agosto e di Uxbridge Road. Barbara attraversò decisa la stanza e spense il televisore. «Ehi, ragazza, Jim la stava guardando!» protestò suo padre. Lo osservò. Dio, faceva schifo. Quand'era l'ultima volta che si era fatto un bagno? Sentiva la puzza fin da lì: il sudore, l'unto che impregnava i capelli e si era accumulato sul collo, dietro le orecchie; gli abiti non lavati. «Il signor Patel mi ha detto che sei passato da lui», disse mettendosi a sedere sull'orribile divano. Il rivestimento le pizzicava la pelle. Gli occhi dell'uomo guizzavano. Dal televisore spento, ai fiori di plastica, alle rose oscene che si arrampicavano sul muro. «Jim è andato da Patel, certo.» Annuì. Regalò alla figlia un largo sorriso. Aveva i denti tutti macchiati e Barbara vide che una schiuma scura gli stava coprendo le gengive. Teneva vicino alla sedia un barattolo che aveva contenuto caffè, nascosto in qualche
modo da una schedina delle corse. Sapeva che lui avrebbe voluto che distogliesse lo sguardo per un attimo in modo di avere il tempo di liberarsene senza farsi sorprendere. Lei si rifiutò di stare al gioco. «Sputa, papà», disse con tono paziente. «Non serve inghiottire quella roba e poi star male, non ti pare?» Barbara si accorse che suo padre provò un immenso sollievo quando poté prendere il barattolo e sputare la poltiglia marrone prodotta dal tabacco. Si pulì la bocca con un fazzoletto sporco, diede un forte colpo di tosse e si sistemò le cannule dell'ossigeno nel naso. Con aria mesta guardò la figlia, sperando di trovare un'espressione d'affetto, ma non ne lesse nessuna sul volto di lei. Allora distolse in fretta lo sguardo e riprese a guardarsi intorno. Barbara lo osservò pensosa. Perché non moriva? si domandò. Perché gli ultimi dieci anni della sua vita erano stati un progressivo decadimento anziché un balzo definitivo nel buio eterno? Lui sarebbe stato contento. Non avrebbe avuto più problemi a respirare, niente più enfisema. Niente più tabacco da fiuto per placare il vizio. Soltanto il vuoto, il nulla, il nulla assoluto. «Ti verrà il cancro, papà», lo ammonì lei. «Lo sai, vero?» «Ehi, Jim sta bene, Barb. Non preoccuparti, ragazza.» «Non pensi alla mamma? Che succederebbe se dovessi andare ancora all'ospedale?» Come Tony. Quelle parole rimasero sospese nell'aria. «Devo parlare col signor Patel? Non vorrei farlo, ma lo farò, lo sai, se insisti con questa faccenda del tabacco da fiuto.» «E stato Patel a dare l'idea a Jim», protestò suo padre. La sua voce aveva una nota piagnucolosa. «Dopo che gli hai detto di non dare più a Jim le sigarette.» «Lo sai che l'ho fatto per il tuo bene. Non puoi fumare, se hai bisogno della bombola dell'ossigeno per respirare. Te l'hanno detto i dottori.» «Ma Patel ha detto che il tabacco da fiuto andava bene per Jim.» «Il signor Patel non è un medico. Ora dammi il tabacco.» Allungò la mano per riceverlo. «Ma Jim vuole...» «Niente storie, papà. Dammi il tabacco.» Lui inghiottì. Due volte. Con forza. I suoi occhi non stavano fermi. «Devo avere qualcosa, Barbie», frignò. Lei sobbalzò, sentendosi chiamare in quel modo. Solo Tony usava quel diminutivo. In bocca a suo padre suonava come una bestemmia. Comun-
que gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e si costrinse a toccargli i capelli sporchi. «Papà, cerca di capire. Dobbiamo pensare alla mamma. Senza di te non potrebbe vivere. Perciò dobbiamo fare in modo che tu stia bene. Non lo vedi? Mamma... ti ama. Tanto.» Ci fu un luccichio a quelle parole? Riuscivano ancora a vedersi in quel piccolo inferno che si erano proprio meritati, oppure la nebbia era troppo fitta? Lui si lasciò sfuggire un singhiozzo sommesso. Infilò la mano sporca nella tasca e tirò fuori una scatoletta rotonda. «Jim non lo fa per cattiveria, Barbie», disse consegnando la scatola alla figlia. Guardava ora la figlia, ora l'altarino, i fiori di plastica e i vasi che li contenevano. Barbara si precipitò lì, buttò via i fiori e confiscò le altre tre scatolette di tabacco nascoste. «Parlerò col signor Patel domattina», disse poi in tono gelido e uscì dalla stanza. Non poteva che essere Eaton Terrace. Eaton Place faceva troppo Belgravia, e Lynley detestava l'ostentazione. Inoltre questa era solo la residenza di città. Howenstow - la tenuta in Cornovaglia - era la vera casa dei Lynley. Barbara si fermò a guardare l'elegante edificio bianco. Come era tutto deliziosamente pulito a Belgravia, pensò. L'eleganza dell'alta borghesia. Era l'unica zona della città in cui la gente si adattava a vivere in stalle riattate e se ne vantava con gli amici! Stiamo a Belgravia, adesso. Non l'avevamo detto? Oh, venite a prendere un te da noi! Niente di speciale. Solo trecentomila sterline, ma noi lo consideriamo un investimento. Cinque stanze. E la stradina ha un acciottolato che è una vera delizia! Facciamo alle quattro e mezzo. Riconoscerete il posto. Ho messo cassettine di begonie su tutti i davanzali. Barbara salì gli scalini di marmo immacolato e, vedendo il piccolo blasone Asherton sotto il lume d'ottone, scosse la testa con disprezzo. Titolato, Lynley! Niente stalla riattata per te. Alzò la mano per suonare il campanello, ma si bloccò e si mise a osservare la strada. Dal giorno precedente non aveva avuto tempo di considerare la propria posizione. Il primo incontro con Webberly, il recupero di Lynley al ricevimento nuziale, e poi la riunione a Scotland Yard con quello strano prete si erano succeduti con tale rapidità che non aveva avuto tempo di valutare le proprie emozioni ed escogitare una strategia per supe-
rare questo nuovo cimento. Certo, Lynley non era rimasto inorridito per l'incarico come s'era immaginata, di sicuro non inorridito e indignato quanto lei. Ma del resto lui aveva avuto altri pensieri per la testa: il matrimonio del suo amico, l'appuntamento a tarda sera con Lady Helen Clyde. Adesso, dopo aver avuto il tempo per riflettere, avrebbe scaricato su di lei tutta la sua irritazione perché come collega di lavoro gli era stato accollato un paria. Allora che fare? Eccola finalmente, l'occasione che aveva tanto atteso in cui aveva tanto sperato, per cui aveva pregato -, l'opportunità di dare prova di sé nella squadra investigativa una volta per tutte. Era l'occasione per rimediare ai contrasti, alle parole fuori posto, alle decisioni impetuose, agli errori sciocchi degli ultimi dieci anni. «Può imparare molto lavorando con Lynley.» Ripensando alle parole di Webberly, aggrottò la fronte. Che cosa avrebbe mai potuto imparare da Lynley? Il vino giusto da ordinare con la cena, qualche passo di danza, come incantare una stanza piena di persone con una conversazione accattivante? Che cosa avrebbe potuto imparare da Lynley? Niente, di sicuro. Ma lei sapeva bene che lui rappresentava la sua unica possibilità di tornare a far parte della squadra investigativa. Così, mentre se ne stava sulla soglia, pensava a come comportarsi per andare d'accordo con lui. Sarebbe stata disponibile al massimo, decise. Non avrebbe dato suggerimenti, avrebbe approvato ogni sua idea, ogni sua affermazione. Questione di sopravvivenza, si disse, e suonò il campanello. Si aspettava che le andasse ad aprire una cameriera in uniforme, impettita e insolente, così rimase sorpresa. Perché alla porta si presentò Lynley in persona, con in mano un toast, le ciabatte ai piedi e gli occhiali da vista appoggiati sulla punta del suo aristocratico naso. «Ah, Havers, è in anticipo. Perfetto», esclamò guardandola al di sopra delle lenti. Le fece strada nella casa e la condusse in un soggiorno spazioso, con uno zoccolo bianco fresco di vernice, le pareti verde pallido, e il soffitto Adams insolitamente sobrio. Le porte a vetri non avevano le tende perché si vedesse il giardino ancora in fiore e la colazione era servita in piatti d'argento disposti su un mobile in noce. Nella stanza c'era un invitante profumo di pane caldo e di bacon, e a questo stimolo lo stomaco di Barbara si mise a borbottare. Si premette un braccio sull'addome e cercò di non pensare alla sua colazione di quella mattina: un uovo troppo cotto e una fetta
di pane tostato. La tavola era apparecchiata per due, cosa che per un attimo sorprese Barbara, ma poi si ricordò dell'appuntamento serale di Lynley con Lady Helen Clyde. La signora in quel momento era senza dubbio ancora a letto, certo non abituata ad alzarsi prima delle dieci e mezzo. «Si serva.» Lynley fece un gesto distratto verso il buffet con la forchetta e raccolse alcuni fogli del rapporto sparsi tra il servizio di porcellana. «Non conosco nessuno che non ragioni meglio con lo stomaco pieno. Ma le sconsiglio le aringhe affumicate. Mi sembrano poco fresche.» «No, grazie», rispose con gentilezza. «Ho già mangiato, signore.» «Neanche una salsiccia? Quelle almeno sono proprio buone. Non trova che i macellai si siano decisi finalmente a mettere più carne di maiale che farina, adesso? E confortante, quanto meno. Sono passati quasi cinquant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale ed era ora che la facessimo finita con il razionamento.» Prese una teiera. Come tutti gli altri oggetti sul tavolo, era di porcellana antica, senza dubbio eredità di famiglia. «Che ne dice di bere qualcosa? Devo avvertirla, sono maniaco del tè Lapsang Souchong. Helen sostiene che ha il sapore di calzini sporchi.» «Io... ne berrei volentieri una tazza. Grazie, signore.» «Bene», dichiarò lui. «Ne beva un po' e mi dica che cosa ne pensa.» Stava per mettere una zolletta di zucchero nell'infuso quando suonò ancora il campanello. Si sentirono dei passi provenire da una scala sul retro della casa. «Vado io, signore», gridò una voce di donna. Aveva l'accento della Cornovaglia. «Mi scusi per la volta scorsa. Il bambino e tutto il resto,.» «È il crup, Nancy», disse tra sé Lynley. «Porta il bambino dal dottore.» Si sentì arrivare dall'ingresso una voce di donna. «Colazione?» Una risata argentina. «Che tempismo ho avuto nell'arrivare, Nancy. Non crederà mai che è una pura coincidenza.» Dopo queste ultime parole, Lady Helen fece il suo ingresso nella stanza e Barbara rimase per un momento raggelata, senza fiato, in preda alla più totale disperazione. Avevano un abito della stessa foggia, ma mentre quello di Helen era stato confezionato su misura per lei dallo stilista, quello di Barbara era dozzinale, un modello da grandi magazzini con le cuciture in vista e l'orlo malfatto. Solo il diverso colore l'avrebbe forse salvata da un'umiliazione cocente, pensò. Afferrò la tazza di tè, ma non ebbe la forza di portarla alle labbra. Lady Helen si bloccò solo per un attimo alla vista della poliziotta. «Sono in un guaio», disse senza mezzi termini. «Meno male che c'è qui anche lei,
sergente, perché ho l'impressione che ci vorrà del bello e del buono per togliermi dal pasticcio in cui mi sono cacciata.» Detto questo, depositò una grossa borsa sulla sedia più vicina e andò subito al buffet dove cominciò a curiosare tra i piatti coperti come se bastasse il cibo a toglierla dai guai. «Pasticcio?» domandò Lynley. Lanciò un'occhiata a Barbara. «Come le è parso il Lapsang?» Con le labbra tirate rispose: «Molto buono, signore». «Ancora quell'orribile tè!» esclamò Lady Helen. «Davvero, Tommy. Sei un uomo senza pietà.» «Se avessi saputo che saresti venuta, sarei stato meno pigro e non l'avrei fatto servire soltanto due volte in una settimana», replicò caustico Lynley. Per nulla offesa, Lady Helen scoppiò a ridere. «Non lo trova irritante, sergente? Da come si esprime si potrebbe pensare che io sia qui tutti i giorni ad abboffarmi a sue spese.» «È ciò che è accaduto ieri, Helen.» «Che uomo perfido sei.» Rivolse di nuovo l'attenzione al buffet. «Queste aringhe hanno un odore spaventoso. Le ha portate per caso Nancy nella sua valigia?» Li raggiunse a tavola con un piatto che traboccava di un assortimento gastronomico di uova e funghi, pomodori e bacon alla griglia. «Che cosa ci fa qui, a proposito? Perché non è a Howenstow? Dov'è Denton questa mattina?» Lynley intanto sorseggiava il suo tè, leggendo il rapporto che aveva sul tavolo. «Visto che sarò fuori città, ho lasciato qualche giorno di libertà a Denton», rispose distrattamente. «Non era il caso che venisse con me.» Lady Helen rimase con un pezzo di bacon croccante bloccato a mezz'aria. «Stai scherzando, vero? Dimmi che non parli sul serio, tesoro.» «Me la cavo benissimo senza il mio maggiordomo. Non sono del tutto imbranato, Helen.» «Ma non intendevo questo!» Lady Helen bevve un sorso del Lapsang Souchong, fece una smorfia e appoggiò la tazza. «Si tratta di Caroline. Si è presa l'intera settimana di ferie. Non pensi... Tommy, se se ne è andata con Denton, sono perduta. No», lo bloccò prima che parlasse, «so che cosa stai per dire. Hanno tutto il diritto di avere una vita privata. Sono d'accordo anch'io. Ma dobbiamo arrivare a una sorta di compromesso a questo proposito - io e te - perché se si sposano e si stabiliscono da te...» «Allora ci sposeremo anche noi», rispose placido Lynley. «E saremo felici e contenti, tutti e quattro.» «Trovi la cosa divertente, vero? Ma guardami. Un giorno senza Caroline
in casa e vedi come mi riduco. Certo non penserai che lei approverebbe una mise di tal genere.» Lynley osservò la mise in questione. Barbara non ne aveva bisogno: aveva l'immagine di Lady Helen stampata nella mente. Un completo bordeaux di ottimo taglio, una camicetta di seta e una sciarpa color malva che le scendeva fino alla vita. «Che cosa c'è che non va?» domandò Lynley. «Ti sta bene. In effetti, considerata l'ora», guardò il suo orologio da tasca, «direi che sei fin troppo elegante.» Lady Helen si rivolse a Barbara, esasperata. «Non è un comportamento tipico da uomini, sergente? Questa mattina sembro una fragola troppo matura e lui commenta: 'ti sta bene, secondo me' e si immerge nella lettura del dossier di un delitto.» «Molto meglio questo che occuparmi del tuo abbigliamento per i prossimi giorni.» Lynley fece cenno alla borsa dimenticata sulla sedia, che si era rovesciata e aveva sparso sul pavimento vari pezzi di stoffa. «È per questo che sei venuta?» Lady Helen si tirò vicino la borsa. «Vorrei che fosse così», sospirò lei. «Ma è molto peggio della faccenda Denton-Caroline; a proposito, non abbiamo ancora chiuso la questione. Sono nei pasticci. Ho mischiato i campioni con i fori di proiettile di Simon.» Barbara cominciava a pensare di essere finita in una commedia di Wilde. Abituato ai bizzarri salti logici di Lady Helen, Lynley non si scompose. «I campioni con i fori di proiettile di Simon?» «Lo sai. Stavamo lavorando sulle possibili forme che una macchia di sangue prodotta da una ferita di arma da fuoco assume in base a traiettoria, angolazione e calibro del proiettile. Te lo ricordi, vero?» «Il lavoro da presentare il mese prossimo?» «Proprio quello. Simon aveva lasciato tutto pronto per me al laboratorio. Avrei dovuto buttar giù la serie dei dati preliminari, attaccare le etichette a ogni campione di stoffa, e allestire il lavoro in laboratorio per gli studi conclusivi. Ma io...» «Hai mischiato i campioni di stoffa», terminò la frase Lynley. «St. James avrà bisogno di quella roba per continuare, Helen. Che proponi di fare?» Lei gettò uno sguardo sconsolato ai campioni che aveva buttato senza tanti riguardi sul pavimento. «Certo, non sono del tutto ignorante in materia. Dopo quattro anni di laboratorio, so riconoscere almeno una calibro
ventidue e non ho difficoltà con una quarantacinque o con un fucile da caccia. Ma per quanto riguarda gli altri... e ancor peggio quando si tratta di abbinare il tipo di macchia di sangue alla relativa traiettoria...» «E un guaio», concluse Lynley. «Esattamente», assentì lei. «Così ho pensato di fare un salto qui stamattina per vedere se era possibile sistemare le cose.» Lynley si chinò e diede una rapida occhiata al materiale. «E impossibile, tesoro. Mi dispiace, ma qui sono necessarie ore di lavoro e noi dobbiamo prendere il treno.» «Allora che posso dire a Simon? Ci sta lavorando da secoli.» Lynley rifletté sul problema. «Una soluzione ci sarebbe...» «Quale?» «Il professor Abrams del Chelsea Institute. Lo conosci?» Al cenno negativo di lei, Lynley continuò: «Lui e Simon hanno testimoniato in qualità di esperti. È stato l'anno scorso per il caso Melton. Si conoscono. Forse potrebbe esserti d'aiuto. Potrei telefonargli prima di partire». «Davvero, Tommy? Te ne sarei tanto grata. Farei qualsiasi cosa per te.» Lui alzò un sopracciglio. «Certo non è una cosa da dire a un uomo a colazione.» Lei si mise a ridere in modo seducente. «Anche i piatti! Rinuncerei anche a Caroline, se necessario.» «E a Jeffrey Cusick?» «Anche a lui. Poveretto. Barattato per fori di proiettile senza un attimo di esitazione.» «D'accordo, allora. Me ne occuperò non appena avremo finito di mangiare. Allora adesso possiamo continuare la nostra colazione?» «Oh, sì, certo.» Si buttò con gioia sul piatto, mentre Lynley s'infilava gli occhiali e dava ancora un'occhiata alle sue carte. «Per quale caso partite così di buon mattino?» chiese Helen a Barbara, versandosi una seconda tazza di tè e aggiungendoci zucchero e panna in abbondanza. «Una decapitazione.» «Mi sembra davvero una cosa orrenda. Andate lontano?» «Nello Yorkshire.» La tazza rimase sospesa in aria e poi venne appoggiata lentamente sul piattino. Lady Helen guardò per un attimo Lynley prima di parlare. «Esattamente dove, Tommy?» domandò con aria impassibile. Lynley cercò il nome sul dossier. «Un posto di nome... ecco, Keldale. Lo conosci?»
Ci fu un minuto di silenzio. Lady Helen soppesò la domanda. Aveva lo sguardo fisso sul tè e, anche se il suo volto era privo di espressione, la vena del collo cominciò a pulsarle. Fece un sorriso, ma gli occhi rimasero impassibili. «Keldale? No, affatto.» 5 Lynley lasciò da parte il giornale e si mise a osservare Barbara Havers. Non aveva bisogno di farlo di nascosto, perché lei era china sul tavolino di formica verdina del treno a leggere il rapporto sull'omicidio di Keldale. Per un momento si fermò a considerare quanto fossero cadute in basso le ferrovie inglesi nell'attuale scelta dei colori, destinati al massimo utilizzo con il minimo di manutenzione, ma poi ritornò con il pensiero alla poliziotta seduta di fronte a lui. Era informato sul conto di Havers. Lo erano tutti. Aveva fallito miseramente nel primo incarico alla squadra investigativa, alienandosi in breve le simpatie di MacPherson, Stewart e Hale, tre compagni di lavoro ideali. MacPherson, in special modo, con il suo travolgente humour e l'atteggiamento paterno, avrebbe dovuto essere un maestro straordinario per una come Barbara. Quell'uomo era davvero un bonaccione. Quale sergente dell'investigativa aveva fallito al suo fianco? Solo Barbara Havers. Lynley ricordava il giorno in cui Webberly aveva deciso di rimandarla al servizio di pattuglia. Tutti sapevano che sarebbe successo, naturalmente. Ma nessuno era preparato alla reazione della donna. «Se fossi una signorina di buona famiglia uscita da Eton, mi avreste tenuto», aveva gridato nell'ufficio di Webberly con un tono di voce così alto che l'intero piano l'aveva sentita. «Se avessi un sostanzioso conto in banca e un titolo nobiliare e non avessi remore a fottermi chiunque si trovasse sulla mia strada - donna, uomo, bambino o animale -, andrei proprio bene per il vostro prezioso dipartimento!» Al nome di Eton tre teste si erano voltate verso Lynley. Alla fine della discussione tutti nella stanza avevano interrotto il lavoro e guardavano nella sua direzione. Lui si trovava accanto a uno schedario e stava cercando il dossier su quel miserabile verme di Harry Nelson, ma a quel punto si era accorto di muoversi in modo impacciato. Certo non aveva proprio bisogno di quel dossier. Non in quel momento, perlomeno. Non poteva rimanere lì all'infinito; doveva tornare alla sua scrivania. Si era costretto a farlo, a dire con disinvoltura: «Buon Dio, mi affidano sempre gli animali», e aveva at-
traversato la stanza con nonchalance. La sua osservazione era stata accolta da risate nervose e impacciate. Si era sentita sbattere violentemente la porta di Webberly e Havers era comparsa come una furia nel corridoio. Aveva la bocca contratta dalla rabbia e il volto rigato di lacrime che si asciugava irata con la manica del cappotto. Quando Lynley aveva incontrato lo sguardo di lei, si era sentito riversare addosso tutto il suo odio e il suo disprezzo. Era come essere colpiti da una malattia incurabile. Un momento dopo, MacPherson era arrivato con la solita andatura goffa vicino alla sua scrivania, gli aveva buttato il dossier su Harry Nelson e con un borbottio amichevole gli aveva detto: «Sei un attore formidabile, ragazzo». Ma ciononostante erano occorsi almeno dieci minuti prima che le mani smettessero di tremargli e lui potesse formare il numero di Helen. «Ci vediamo per pranzo, tesoro?» le aveva chiesto. Aveva capito. Se n'era accorta subito. «Certo, Tommy. Simon mi ha costretto per tutta la mattina ad analizzare i più ributtanti campioni di capelli immaginabili... Sapevi che il cuoio capelluto si stacca davvero quando strappi i capelli a qualcuno, amore? Un pranzetto mi sembra la cosa più opportuna. Facciamo al Connaught?» Per fortuna c'era Helen. Dio, che ancora di salvezza era stata per lui in quell'ultimo anno! Lynley cacciò quei pensieri dalla mente e riprese a studiare Barbara. Gli ricordava un po' una tartaruga. Specialmente quella mattina, quando era entrata Helen nella stanza. La poverina era rimasta raggelata, aveva balbettato qualche parola e si era ritirata nel suo guscio. Che comportamento strano! Come se avesse qualcosa da temere da Helen! Cercò in tasca il portasigarette e l'accendino. Notando quel gesto, il sergente Havers alzò lo sguardo poi ritornò al suo rapporto, il volto impassibile. Lei non fumava e non beveva, pensò Lynley e fece un sorriso ironico. Be', abituati, sergente. Non sono proprio l'uomo che trascura i suoi vizi. Non da un anno a questa parte, almeno. Non era mai riuscito a capire la notevole antipatia che la donna nutriva nei suoi confronti. C'era, a voler ben vedere, la faccenda ridicola della classe sociale; e solo Dio sa quanto era stato preso in giro dai colleghi quando avevano scoperto che aveva ereditato un titolo nobiliare. Tuttavia, dopo che per una settimana, a ogni sua comparsa, l'avevano accolto con inchini beffardi e suono di fanfare, la questione del titolo aveva perso d'interesse. Ma non per Havers, che sembrava udire le magniloquenti parole ottavo conte di Asherton come un ritornello ossessivo tutte le volte che lui
passava nei suoi paraggi, cosa che aveva evitato accuratamente di fare da quando lei era tornata al servizio di pattuglia. Lynley fece un sospiro. Ed eccoli di nuovo insieme. Che cosa aveva mai in mente Webberly, costringendoli a lavorare in coppia? Il commissario era di gran lunga l'uomo più intelligente che avesse mai conosciuto a Scotland Yard, per cui questa accoppiata alla Don Chisciotte doveva avere un senso. Guardò fuori del finestrino bagnato di pioggia. Se riesco a stabilire chi di noi due è Sancho Panza, andremo d'accordo magnificamente. Si mise a ridere. Il sergente Havers sollevò lo sguardo incuriosita, ma non aprì bocca. Lynley sorrise. «Cercavo i mulini a vento», le disse. Stavano bevendo il caffè quando Barbara sollevò con cautela la questione dell'ascia. «Nessuna impronta sull'attrezzo», osservò lei. «Sembra strano, vero?» replicò Lynley. Fece una smorfia per il sapore della bevanda e spinse da parte la tazza. «Uccidi il cane, uccidi il padre, aspetti l'arrivo della polizia, ma togli le impronte digitali dall'impugnatura dell'ascia. Non ha senso.» «Perché pensa che abbia ucciso il cane, ispettore?» «Per farlo star zitto.» «Suppongo sia così», assentì lei, riluttante. Lynley notò che voleva aggiungere qualcosa. «Che ne pensa?» «Io... niente. Sarà proprio come dice lei, signore.» «Ma lei ha un'altra idea. Sentiamo.» Havers lo stava osservando con circospezione. «Sergente?» Barbara si schiarì la gola. «Stavo solo pensando che non aveva bisogno di metterlo a tacere. Voglio dire... era il suo cane. Perché avrebbe dovuto abbaiare a lei? Potrei sbagliarmi, ma avrebbe abbaiato contro un intruso e un intruso avrebbe dovuto farlo star zitto.» Lynley si guardò la punta delle dita affusolate. «La strana faccenda della morte del cane nella notte», mormorò. «Avrebbe abbaiato anche alla ragazza che conosceva, se questa stava per uccidere il padre», obiettò. «Ma... pensavo, signore.» Havers si tirò i capelli dietro le orecchie, un gesto che la rese ancor meno attraente del solito. «Non sembra che il cane sia stato ucciso prima?» Frugò tra le carte che aveva riposto nella cartelletta e tirò fuori una fotografia. «Il corpo di Teys è caduto proprio sopra il cane.»
Lynley esaminò l'immagine. «Sì, certo. Ma lei avrebbe potuto montare la messinscena.» Barbara spalancò gli occhi intelligenti, sbalordita. «Non lo ritengo possibile, signore. No davvero.» «Perché no?» «Teys era alto un metro e novantadue.» Con una certa goffaggine estrasse altri fogli del rapporto. «Pesava... ecco qui, novantun chili. Non riesco a immaginarmi questa Roberta che solleva novanta chili di peso morto per creare la scena del delitto. Soprattutto se aveva intenzione di confessare subito dopo. Non mi sembra possibile. Inoltre, il corpo era senza testa e allora ci sarebbe dovuto essere del sangue sui muri, se l'avesse spostato. Ma non ce n'era.» «Un punto a suo favore, sergente», disse Lynley tirando fuori gli occhiali dalla tasca. «Credo che abbia ragione. Mi lasci dare un'occhiata alla pratica.» Lei gli passò l'intero dossier. «L'ora della morte è stata fissata tra le dieci e mezzanotte», dichiarò più a se stesso che a lei. «Aveva mangiato pollo e piselli a cena. Qualcosa non va, sergente?» «Niente, signore. L'idea mi fa star male.» Le lanciò un'occhiata affascinante. «Ah.» Continuò a leggere. «Presenza di barbiturici nel sangue.» Alzò lo sguardo, corrugò la fronte e fissò Barbara, senza vederla, al di sopra delle lenti. «È difficile pensare che un uomo del genere abbia bisogno di pillole per dormire. Si sobbarca una giornata di duro lavoro alla fattoria, all'aria fresca delle valli. Fa una cena abbondante e si addormenta accanto al fuoco. La pace bucolica. Allora perché il sonnifero?» «Pare che l'avesse appena preso.» «È ovvio. Non può essere andato nel fienile in stato di sonnambulismo.» Lei si raggelò a quella battuta, si ritirò nel suo guscio. «Intendevo solo dire...» «Mi scusi», la interruppe subito Lynley. «Stavo scherzando. Lo faccio qualche volta. Allenta la tensione. Dovrà cercare di abituarsi.» «Certo, signore», rispose lei con affettata cortesia. L'uomo si accostò a loro mentre si stavano dirigendo verso l'uscita. Era molto magro, aspetto anemico, tipico di chi è afflitto da almeno un migliaio di vari problemi di stomaco che gli avvelenano l'esistenza. Anche nel momento in cui li raggiunse, s'infilò in bocca una pasticca e cominciò a masticarla con grande accanimento.
«Commissario Nies», lo apostrofò Lynley in tono affabile. «Ha fatto tutta questa strada da Richmond per venirci a prendere? È quasi un viaggio per lei.» «Sessanta fottute miglia, perciò chiariamo subito le cose, ispettore», esordì secco Nies. Si era fermato davanti a loro, bloccando l'accesso alle scale che portavano fuori della stazione. «Non la voglio qui. Questo è un maledetto scherzo di Kerridge e io non c'entro nel modo più assoluto. Se vuole qualcosa, la chieda a Newby Wiske, non a Richmond. Sono stato chiaro? Non voglio vederla. Non voglio sentir parlare di lei. Se è venuto qui con lo scopo di vendicarsi, se lo ficchi subito nel culo. Capito? Non ho tempo da dedicare a studentelli ruffiani ansiosi di vendicarsi.» Ci fu un momento di silenzio. Osservando il volto da dispeptico di Nies, Barbara si chiese se mai qualcuno si fosse rivolto in modo così colorito a Lord Asherton nella sua tenuta in Cornovaglia. «Sergente Havers», disse in tono conciliante Lynley, «non credo che lei conosca il commissario capo Nies, della polizia di Richmond.» Non aveva mai visto un uomo messo così in difficoltà da una simile eleganza di modi. «Felice di conoscerla, signore», rispose Barbara Havers doverosamente. «Vai all'inferno, Lynley», ringhiò Nies. «Stammi fuori dai piedi.» Con questo, girò sui tacchi e si fece largo tra la folla verso l'uscita. «Ben fatto, sergente.» Lynley non era per niente turbato. Frugò con lo sguardo tra la marea umana che affollava la stazione di York. Era quasi l'una e il solito andirivieni era accentuato dai molti che, compatibilmente con gli orari di lavoro, approfittavano dell'ora di pranzo per comprare biglietti, trattare il prezzo del noleggio delle automobili con il personale addetto, andare a prendere amici e conoscenti in arrivo. Lynley individuò la persona che cercava, disse: «Ah, vedo Denton, laggiù», e fece un cenno con la mano a un giovanotto che si stava avvicinando. Denton era appena uscito dalla tavola calda, interrotto nel mezzo del pranzo. Mentre si faceva largo tra la folla, finì di masticare, ingoiò il boccone e si pulì la bocca con un tovagliolino di carta. Riuscì anche a pettinarsi i folti capelli neri, sistemarsi la cravatta e dare una rapida occhiata alle scarpe prima di raggiungerli. «Fatto buon viaggio, signore?» domandò, consegnando a Lynley un mazzo di chiavi. «La macchina è qui fuori.» Fece un sorriso gentile, ma Barbara notò che evitava di incontrare lo sguardo di Lynley. Lynley scrutò con occhio critico il maggiordomo. «Caroline», disse.
Gli occhi grigi e rotondi di Denton divennero ancora più rotondi. «Caroline, signore?» ripeté con aria innocente. Il suo volto da cherubino divenne, se possibile, ancora più angelico. Lanciò un'occhiata nella direzione da cui era venuto. «Non faccia il finto tonto. Dobbiamo sistemare alcune cose prima che lei parta per la sua vacanza. Questo è il sergente Havers, a proposito.» Denton inghiottì e fece un breve cenno a Barbara. «Piacere, sergente», disse, e riportò lo sguardo su Lynley. «Signore?» «La smetta di essere così ossequioso. Non lo fa a casa, e in pubblico mi da un fastidio terribile.» Con impazienza, Lynley si passò la valigetta nera da una mano all'altra. «Mi scusi.» Denton sospirò e vuotò il sacco. «Caroline è nella tavola calda. Ho affittato un cottage nella Robin Hood's Bay.» «Com'è romantico», osservò seccamente Lynley. «Mi risparmi i dettagli. Le dica solo di telefonare a Lady Helen per rassicurarla che non siete fuggiti a Gretna Green. Lo farà, Denton?» Il giovanotto fece un largo sorriso. «Ma certo, lo farò subito.» «Grazie.» Lynley infilò la mano in tasca ed estrasse dal portafoglio una carta di credito. La diede all'uomo. «Non si metta in testa strane idee», lo avvertì. «Paghi solo la macchina con questa. È chiaro?» «Chiarissimo», rispose Denton secco. Guardò verso la tavola calda da cui era uscita una giovane donna assai graziosa che li stava osservando. Era vestita e pettinata alla moda, come la stessa Lady Helen. Praticamente il suo doppione, a voler ben vedere, pensò Barbara irritata e si chiese se fosse un requisito indispensabile per ottenere il lavoro: ancella della figlia minore di un conte, proprio una creatura uscita dal diciannovesimo secolo. L'unica reale differenza tra Caroline e la sua padrona era una minore sicurezza di sé, evidenziata dal modo in cui Caroline teneva la borsetta: stringeva i manici con entrambe le mani come se la dovesse usare a mo' di arma. Denton parlò. «Posso andare allora?» «Vada», rispose Lynley e, mentre l'uomo si allontanava nella direzione da cui era venuto, aggiunse: «Stia attento». «Non si preoccupi, signore», fu la rapida risposta. Lynley lo guardò sparire tra la folla con la giovane donna al braccio. Si voltò verso Barbara. «Credo che questa sia stata l'ultima interruzione. Andiamo.» E, detto questo, la guidò fuori in Station Road e poi verso una lucida Bentley d'argento.
«Ho... i... dati di fatto», disse in confidenza Hank Watson dal tavolo vicino. «I dati di fatto... sicuri... certificati... verificati!» Soddisfatto di aver attirato l'attenzione di tutti i presenti nella sala da pranzo, continuò: «Sulla storia del bambino dell'abbazia. Io e JoJo li abbiamo appresi da Angelina questa mattina». St. James guardò sua moglie. «Ancora caffè, Deborah?» le chiese gentilmente. Quando lei fece cenno di no, ne versò un po' per sé e riportò la sua attenzione sull'altra coppia. Hank e JoJo Watson non avevano perso tempo a instaurare un rapporto di amicizia con gli unici ospiti di Keldale Hall. La signora Burton Thomas aveva provveduto in tal senso facendoli sedere a due tavoli affiancati nell'immensa sala da pranzo. Non si era preoccupata di fare le presentazioni. Sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno. Le belle modanature in rilievo dei rivestimenti in legno della stanza, la credenza Sheraton, e le sedie William e Mary persero d'interesse agli occhi dei due americani quando entrarono St. James e Deborah. «Hank, tesoro, forse non hanno voglia di sentire la storia del bambino dell'abbazia.» JoJo si toccava la collana d'oro da cui pendeva un incredibile numero di ciondoli. Le parole «Mamma», «Torta di mele» e «Zuccherino» facevano compagnia a un simbolo della Mercedes-Benz, a un minuscolo cucchiaio e a una Tour Eiffel in miniatura. «Impossibile che non vogliano!» fu la replica di Hank. «Basta che tu glielo chieda, Chicchina.» JoJo si scusò con lo sguardo con l'altra coppia. «Hank è affascinato dall'Inghilterra. Proprio incantato», spiegò. «L'adoro», annuì Hank. «Se solo riuscissi ad avere dei toast caldi, il posto sarebbe perfetto. Perché diavolo voi inglesi mangiate i toast freddi?» «Ho sempre pensato che fosse una carenza culturale», replicò St. James. Hank urlò la sua approvazione, la bocca aperta a mostrare una fila di denti incredibilmente bianchi. «Carenza culturale! Questa è buona! Questa è davvero buona! Sentito, Chicchina? Carenza culturale!» Hank ripeteva sempre qualsiasi osservazione lo facesse ridere: Così aveva l'impressione di esserne un po' l'autore. «Adesso torniamo all'abbazia.» Non era neanche facile distoglierlo da un pensiero. «Hank», mormorò sua moglie. Sembrava un po' un coniglio, con gli occhi sporgenti e il nasino all'insù che muoveva continuamente come se non fosse abituata all'aria che respirava.
«Rilassati, Chicchina», le intimò il marito. «Queste persone sono il sale... della... terra.» «Penso che prenderò altro caffè, Simon», disse Deborah. Lui glielo versò, la guardò negli occhi e disse: «Latte, cara?» «Sì, grazie.» «Latte caldo nel caffè!» osservò Hank. «Un'altra cosa cui non ero abituato. Ehi! Ecco Angelina!» La ragazza nominata - data la rassomiglianza fisica con Danny, non poteva che essere un altro membro del sempre più curioso clan Burton Thomas - portava un largo vassoio con grande serietà. Non era carina come Danny: una ragazzina rossa e cicciottella con le guance colorite e le mani ruvide che la facevano apparire più adatta alla vita di fattoria che all'eccentrica atmosfera della sua famiglia. Buttò lì un nervoso buongiorno, evitando il loro sguardo, e in modo goffo distribuì la colazione mordendosi intanto il labbro inferiore. «Timida creatura», osservò ad alta voce Hank lasciando cadere una fetta di toast in mezzo all'uovo fritto. «Ma ci ha dato le informazioni giuste, ieri sera dopo cena. Allora avete sentito la storia del bambino, vero?» Deborah e St. James si guardarono per decidere chi dovesse prendere in mano il filo della conversazione. Toccò a Deborah. «Sì, certo», rispose. «Il pianto che proviene dall'abbazia. Danny ce ne ha parlato subito dopo il nostro arrivo.» «Ah! Ci avrei scommesso», affermò Hank in modo vago, e poi aggiunse: «Bel musetto. Sapete, le piace attirare l'attenzione su di sé». «Hank...» mormorò la moglie, tenendo la testa abbassata sul porridge; le orecchie, che le spuntavano dai corti capelli biondo rossicci, erano diventate rosse. «JoJo-Chicchina, questa gente non è stupida», replicò Hank. «Capiscono come vanno le cose.» Agitò la forchetta verso gli altri due commensali. Un pezzo di salsiccia era in equilibrio precario sulla punta. «Dovete scusare la Chicchina», spiegò lui. «Voi penserete che vivendo a Laguna Beach dovrebbe essere spregiudicata, vero? Conoscete Laguna Beach, in Califomia?» Non aspettò una risposta. «È il posto più bello del mondo per viverci, senza offesa per questi luoghi, certo. JoJo-Chicchina e io viviamo lì da... quanti anni sono adesso, bel musino? Ventidue?... E diventa ancora rossa, ve lo dico io, quando vede due finocchi in atteggiamento confidenziale! 'JoJo', le dico, 'non devi arrossire e sentirti imbarazzata per i finocchi.'» Abbassò il tono di voce. «Ci escono dalle orecchie, a Laguna», con-
fidò lui. St. James non aveva il coraggio di guardare Deborah. «Scusi?» domandò, non essendo sicuro di aver capito bene. «Finocchi, diamine! Invertiti! Omosessuali! Ce ne sono a milioni dichiarati, a Laguna! Vogliono vivere tutti lì! Adesso, torniamo alla faccenda dell'abbazia.» Hank s'interruppe per ingollare una sorsata di caffè. «Pare che in realtà sia andata così: Danny e il suo amichetto si incontravano regolarmente all'abbazia. Sapete che intendo dire. Per uno scambio di effusioni. E nella notte in questione di tre anni fa avevano deciso che era tempo di consacrare la loro relazione. Mi seguite?» «Perfettamente», rispose St. James. Evitava volutamente lo sguardo di Deborah. «Dunque, Danny, vede, è un po' reticente su questo punto. Dopotutto essere vergine la prima notte di nozze conta ancora, non è d'accordo? Specialmente da queste parti. E se la piccola Danny lascia fare a questo tipo quello che vuole... be', non si torna più indietro, non le pare?» Era in attesa della risposta di St. James. «Immagino di no.» Hank annuì approvando. «Così quando sua sorella Angelina dice che...» «Era presente anche lei?» domandò incredulo St. James. Hank scoppiò in una risata fragorosa a quell'idea, picchiando il cucchiaio forte sul tavolo. «Lei è uno spasso, giovanotto!» Si rivolse a Deborah. «È sempre così?» «Sempre», rispose lei subito. «È grandioso! Be', torniamo all'abbazia.» Certo, fu la risposta implicita nello scambio di occhiate tra Deborah e St. James. «Allora c'è questo tizio con Danny.» Hank rappresentò nell'aria la scena con il coltello e la forchetta. «L'arma è carica e il grilletto tirato. Quando, ecco, tutto d'un tratto lo strillo violento del bambino! Se lo immagina? Eh, ci riesce?» «Perfettamente», replicò St. James. «Be', quei due sentono il bambino e pensano che sia un segno del Signore. Scappano dall'abbazia come se avessero il diavolo alle calcagna. E questo, amici miei, mise fine alla cosa.» «Al pianto del bambino, vuol dire?» domandò Deborah. «Oh, Simon, speravo che l'avremmo sentito stanotte. O magari anche questo pomeriggio. Scansare il male ha dato una ricompensa maggiore di quanto io pen-
sassi.» Sfacciata, voleva dire il suo sguardo. «Non al pianto del bambino», precisò Hank. «Alla cosuccia tra Danny e il tizio. A proposito, come si chiamava, Chicchina?» «Un nome strano. Ezra qualcosa.» Hank annuì. «Be', comunque, Danny ritorna a casa tutta sconvolta. Vuole confessare i suoi peccati e morire. Così chiamano il prete. È il momento dell'esorcismo!» «Per l'abbazia, la casa, o Danny?» domandò St. James. «Per tutti e tre, giovanotto! Allora il prete arriva di corsa qui e compie il rito con l'acqua benedetta, va all'abbazia, e...» S'interruppe di colpo, il volto raggiante di gioia, gli occhi entusiasti: un narratore eccellente, con l'uditorio che pende dalle sue labbra. «Ancora caffè, Deborah?» «No, grazie.» «E lei che ne pensa?» domandò Hank. St. James soppesò la domanda. Sentì che la moglie gli toccava con il piede la gamba sana. «E, dannazione, se non c'era davvero un bambino in carne e ossa lì! Un neonato con il cordone ombelicale ancora attaccato. Non poteva avere più di due ore di vita. Morto stecchito quando arrivò là il vecchio prete. Abbandono, dicono.» «Spaventoso.» Deborah impallidì. «Che cosa orribile!» Hank annuì con gravità. «Lei dice bene, pensate al povero Ezra! Immagino che non sia riuscito più a fare sapete-cosa per altri due anni!» «Di chi era il bambino?» Hank scrollò le spalle. Rivolse la sua attenzione alla colazione ormai fredda. Era chiaro che a lui interessavano solo i particolari piccanti della storia. «Nessuno lo sa», rispose JoJo. «L'hanno seppellito nel cimitero della chiesa del villaggio. Con un epitaffio assurdo sulla pietra tombale. Non me lo ricordo, così su due piedi. Dovete andare a vederlo.» «Sono sposi novelli, Chicchina», intervenne Hank, schiacciando l'occhio a St. James. «Immagino che abbiano ben altre cose in mente che andare per cimiteri.» Era ovvio: Lynley aveva una predilezione per i russi. Avevano cominciato con Rachmaninov, erano passati a Rimskij-Korsakov ed erano arriva-
ti al furibondo fragore dell'Ouverture 1812. «Ecco. Se n'è accorta?» le domandò una volta che la musica era cessata dopo un rimbombante finale. «Un suonatore di piatti era in ritardo di un controtempo. Ma è il mio unico appunto a questa incisione della 1812.» Spense lo stereo. Barbara notò per la prima volta che non portava alcun oggetto d'oro, nessun anello con il sigillo in rilievo, nessun orologio costoso che gli scintillasse al polso. Per qualche strano motivo, il fatto era per lei irritante quanto uno sfoggio smaccato di ricchezza. «Non me ne sono accorta. Mi dispiace. Non me ne intendo molto di musica.» Si aspettava davvero che lei - con il suo retroterra culturale - fosse in grado di discutere di musica classica? «Non me ne intendo molto neanch'io», ammise Lynley con spontaneità. «Ma la ascolto spesso. Temo di essere uno di quegli ignoranti che dicono: 'Non ne so niente, ma so cosa mi piace'.» Ascoltò sorpresa le parole di lui. Quell'uomo era laureato con il massimo dei voti in storia, aveva studiato a Oxford. Perché mai avrebbe dovuto definirsi un ignorante? A meno che, naturalmente, lo facesse per metterla a suo agio con un tocco di eleganza, cosa che gli riusciva molto bene. Non gli costava alcuna fatica, naturale come respirare. «Devo aver sviluppato questo interesse durante l'ultima fase della malattia di mio padre. C'era sempre musica in casa quando andavo a trovarlo.» S'interruppe, tolse la cassetta e il silenzio che era calato nella macchina era diventato assordante quanto la musica, solo molto più irritante. Passarono alcuni minuti prima che riprendesse a parlare, e quando lo fece continuò il discorso interrotto. «Si è spento come una candela. Quanta sofferenza.» Si schiarì la gola. «Mia madre non volle prendere in considerazione l'idea di farlo ricoverare in ospedale. Anche verso la fine, quando sarebbe stato molto più facile per lei, non ne volle sentir parlare. Sedeva accanto a lui senza sosta, giorno e notte, e lo vedeva morire a poco a poco. Penso che sia stata la musica a non farli impazzire nelle ultime settimane.» Teneva gli occhi fissi sulla strada. «Le stringeva la mano e ascoltava Čajkovskij. Alla fine non riusciva neanche a parlare. Mi è sempre piaciuto pensare che la musica parlasse per lui.» Divenne di colpo fondamentale modificare la piega che la conversazione aveva assunto. Barbara strinse con le dita calde e secche i rigidi bordi della mappa stradale, cercando un altro argomento di conversazione. «Conosce quel Nies, vero?» Fu una frase maldestra, un tentativo palese
di dare un altro indirizzo al dialogo tra loro due. Gli lanciò un'occhiata circospetta. Lui strinse gli occhi, ma non ebbe altra reazione alla domanda. Abbandonò il volante con una mano. Per un momento Barbara pensò, assurdamente, che con quel gesto volesse imporle il silenzio, invece lui scelse a caso un altro nastro e lo infilò nello stereo. Non lo accese, però. Lei guardava il paesaggio, mortificata. «Sono sorpreso che non lo sappia», disse alla fine. «Sappia cosa?» La guardò, allora. Cercava sul suo volto una nota di insolenza o di sarcasmo o forse un desiderio di ferire. Apparentemente soddisfatto di ciò che vide, riportò lo sguardo sulla strada. «Circa cinque anni fa, mio cognato, Edward Davenport, fu assassinato nella sua casa a nord di Richmond. Il commissario Nies ritenne opportuno arrestarmi. Non fu una faccenda lunga, solo questione di pochi giorni. Ma abbastanza per me.» Un'occhiata verso di lei, un sorriso di disprezzo verso se stesso. «Non ha sentito quella storia, sergente? Sgradevole, tanto da diventare oggetto di pettegolezzo alle feste.» «Io... no... no, non l'avevo sentita. E comunque non vado alle feste.» Si voltò verso il finestrino. «Mi pare che la deviazione sia vicina. Forse tre miglia», disse inutilmente. Era profondamente scossa. Non sapeva dire perché, non ci voleva pensare e si concentrò sul paesaggio circostante per evitare di essere costretta a continuare la conversazione. Quella che era una scappatoia divenne un piacere perché la bellezza della campagna cominciò a esercitare una seduzione su di lei, abituata alla vita frenetica di Londra e allo squallore di Acton, il suo quartiere: lo Yorkshire rappresentava un contrasto formidabile. La natura offriva infinite tonalità di verde, dagli appezzamenti coltivati che disegnavano tanti rettangoli, alla desolazione delle brughiere. La strada scendeva in avvallamenti dove le foreste circondavano immacolati villaggi, e poi risaliva con una serie di curve repentine negli spazi aperti dove il vento del mare del Nord spazzava inclemente eriche e ginestre: l'unica forma di vita era costituita dalle pecore. Giravano libere per terreni privi di qualsiasi forma di recinzione, persino quella costituita dalle antiche pietre allineate che delimitavano invece i confini delle terre da pascolo nelle valli sottostanti. C'erano elementi contrastanti dappertutto. Nelle aree coltivate la vita germogliava da ogni fessura e da ogni cespuglio, una fitta vegetazione che
in un'altra stagione avrebbe prodotto la bellezza variegata dei trifogli, della licnide, della veccia e della digitale. Era una terra in cui le macchine venivano fatte aspettare quando due cani conducevano un gregge di grasse pecore al di fuori dei pascoli, giù per la collina, lungo la strada per una passeggiata di qualche miglio fino al centro del villaggio, guidati soltanto dal fischio del pastore che veniva dietro, e che affidava il proprio destino e quello dei suoi animali all'abilità dei cani. E poi di colpo le piante, i villaggi, le magnifiche querce, gli olmi e i castagni sparivano nel nulla lasciando il posto alla selvaggia e primitiva bellezza delle brughiere. Il cielo azzurro era un'esplosione di nubi: si abbassava a incontrare la terra rude e indomita. Terra e aria: non c'era nient'altro, se non la placida presenza delle pecore dal muso scuro, gagliardi abitanti di quel luogo solitario. «Bello, vero?» le domandò Lynley dopo qualche minuto. «Nonostante tutto quello che mi è successo qui, mi piace ancora lo Yorkshire. Penso che sia per il senso di solitudine che comunica. La totale desolazione.» Barbara di nuovo resistette al tono confidenziale, all'implicito messaggio nascosto dietro quelle parole: lui era un uomo che sapeva capire. «E molto carino, signore. Non ho mai visto niente di simile. Credo che questa sia la deviazione.» La strada per Keldale procedeva con percorso tortuoso verso il punto più basso della vallata. Subito dopo la deviazione, i boschi si chiusero su di loro. I rami degli alberi formavano una volta sopra la strada e ai lati crescevano le felci. Arrivarono al villaggio dalla parte da cui era giunto Cromwell, e lo trovarono come lo aveva trovato lui: deserto. Dal suono delle campane della chiesa di St. Catherine capirono subito perché non c'era segno di vita nel villaggio. Non appena cessarono i rintocchi, che a Lynley parvero interminabili, le porte della chiesa si aprirono e ne uscirono gli sparuti membri della congregazione. «Finalmente», mormorò. Era in piedi, appoggiato alla macchina, e con aria meditabonda stava osservando il villaggio. Aveva parcheggiato di fronte a Keldale Lodge, una linda locanda, tutta coperta di edera e con le finestre a vetri multipli, da dove si godeva una panoramica completa in quattro direzioni. A suo parere, non ci poteva essere al mondo posto più improbabile per un delitto. A nord c'era la strada principale, piuttosto stretta, fiancheggiata da edifici in pietra grigia con i tetti spioventi, che ospitavano tutto il necessario alla vita del paese: un minuscolo ufficio postale; un
indescrivibile ortolano; un negozio che sull'insegna giallastra faceva pubblicità alle barrette di cioccolato Lyons e sembrava fornire di tutto, dall'olio per automobile al cibo per bambini; una cappella dell'epoca di John Wesley, incuneata con deliziosa disarmonia tra la Sala da tè di Sarah e il Salone di Bellezza di Sinji («Per ogni ragazza tenere i capelli con cura dev'esser la prima premura»). Il marciapiede da entrambi i lati era di poco più alto del fondo stradale e l'acqua della pioggia mattutina formava pozzanghere davanti all'entrata delle case. Ma il cielo era ormai sereno e l'aria così fresca che Lynley poteva assaporarne la purezza. A ovest, una strada chiamata Bishop Furthing portava in aperta campagna ed era chiusa da entrambi i lati dai soliti muri in pietra a secco della zona. All'angolo un cottage circondato da alberi la cui porta d'ingresso era distante solo pochi passi dalla strada. Su un lato aveva un giardino recintato da cui proveniva, a intervalli regolari, il guaito di cagnolini, come se qualcuno stesse giocando con loro in maniera brusca. Sull'edificio c'era un'insegna poco appariscente con la parola POLIZIA, caratteri blu su fondo bianco, che si protendeva da una finestra. La casa dell'arcangelo Gabriel, concluse Lynley, trattenendo un sorriso. A sud, due strade si dipartivano da un terreno incolto di proprietà del villaggio: Keldale Abbey Road, che portava evidentemente all'abbazia omonima, e, al di là del ponte ad arco che attraversava il pigro corso del fiume Kel, Church Street, con la chiesa di St. Catherine costruita su un leggero rilievo all'angolo della via. Anch'essa era circondata da un basso muretto in pietra in cui era incassata una lapide commemorativa dei caduti della prima guerra mondiale, la gente comune di ogni villaggio del Paese. A est, c'era la strada che avevano percorso per arrivare in quell'angolo di paradiso dello Yorkshire. Prima era deserta, ma adesso c'era la forma china di una donna che arrancava su per la salita con una sciarpa infilata nel cappotto nero. Calzava scarpe massicce e calzini di un blu acceso, su un braccio portava una borsa a rete. Pendeva lì molle, vuota. La domenica pomeriggio non c'era molta possibilità di riempirla con generi alimentari acquistati dal droghiere, perché tutti i negozi erano chiusi, e anche se non fosse stato così, andava nella direzione sbagliata per fare acquisti: fuori del villaggio, verso la brughiera. La moglie di un fattore, forse, che aveva consegnato qualcosa. Il villaggio era circondato da boschi, da prati digradanti, da un'atmosfera di sicurezza e pace. Quando le campane smisero di suonare, gli uccelli incominciarono a cantare dai tetti delle case e dagli alberi. Da qualche parte
era stato acceso un fuoco e il fumo della legna, il fantasma del suo profumo, era come un sussurro nell'aria. Era diffìcile credere che tre settimane prima, a un miglio dal paese, un uomo era stato decapitato dalla sua unica figlia. «Ispettore Lynley? Spero di non averla fatta attendere troppo. Chiudo sempre quando vado in chiesa perché non c'è nessun altro che sorvegli il posto. Sono Stepha Odell. Sono la proprietaria della locanda.» Sentendo quella voce, Lynley si voltò, ma alla vista di lei rimase senza parole. Una donna alta, ben fatta - di forse quarant'anni - era in piedi di fronte a lui. Indossava un vestito di lino grigio, di buon taglio, con il colletto bianco. Il resto dell'abbigliamento era nero: scarpe, cintura, borsetta e cappello. I capelli, rosso rame, le ricadevano sulle spalle. Era stupenda. L'uomo ritrovò la voce. «Thomas Lynley», si presentò con aria ebete. «Questo è il sergente Havers.» «Entrate pure.» Stepha Odell aveva una voce calda e piacevole. «Le vostre camere sono pronte. Troverete la locanda molto tranquilla in questo periodo dell'anno.» All'interno, la casa era fredda, a causa dei muri spessi e dei pavimenti di pietra; questi ultimi erano coperti da un tappeto Axminster stinto. La donna li condusse in una minuscola reception muovendosi con grazia spontanea e diede loro un ingombrante registro da firmare. «Vi hanno detto che io servo solo la colazione, vero?» chiese con aria seria, come se il pensiero predominante in lui in quel momento fosse placare la fame. Ho un aspetto così disperato? «Ci arrangeremo, signora Odell», rispose Lynley. Mossa astuta, ragazzo mio. Trasparente come l'aria. Al suo fianco Barbara era muta, il volto privo di espressione. «Signorina», precisò la proprietaria della locanda. «Stepha, più semplicemente. Potete trovare da mangiare al Dove and Whistle in St. Chad's Lane o al Santo Graal. O, se volete qualcosa di speciale, c'è Keldale Hall.» «Il Santo Graal?» Lei sorrise. «Il pub di fronte alla chiesa.» «Quel nome deve certo propiziarsi gli dèi astemi.» «Almeno la cosa vale per padre Hart. È risaputo che si fa una pinta o due lì, alla sera. Volete vedere le vostre stanze?» Senza attendere una risposta fece strada su per una scala tortuosa mettendo in mostra, notò Lynley, un bel paio di caviglie sopra le quali c'era un paio di gambe ancora più belle. «Vedrà che si troverà bene qui al villaggio,
ispettore», dichiarò aprendo la porta della prima camera, e poi con un gesto della mano indicò la camera accanto lasciando intendere che stava a loro mettersi d'accordo sulla scelta della stanza. «È già qualcosa. Mi fa piacere sentirlo.» «Sa, nessuno di noi ha qualcosa contro Gabriel. Ma non è più molto amato da queste parti da quando hanno portato Roberta all'ospedale psichiatrico.» 6 Lynley era livido di rabbia, ma nella sua voce non ce n'era la minima traccia. Barbara osservò la sua esibizione al telefono con riluttante ammirazione. Un maestro, dovette ammettere. «Il nome dello psichiatra che ha autorizzato il ricovero?... Nessuno? Una procedura ineccepibile. Allora con quale autorità... Quando si aspettava esattamente che io incappassi in questa informazione, commissario, visto che l'ha lasciata opportunamente fuori del rapporto?... No, lei ha fatto le cose nel senso inverso, temo. Lei non può far rinchiudere un indiziato in un istituto senza le pratiche necessarie... È un peccato che la sua poliziotta sia in ferie, ma trovi una sostituta. Lei non può far ricoverare in un ospedale psichiatrico una ragazza di diciannove anni per la semplice ragione che si rifiuta di parlare con chicchessia.» Barbara si domandava se si sarebbe concesso uno scatto di nervi, se avrebbe avuto un cedimento in quell'armatura di buona fattura marca Savile Row. «Credo che fare quotidianamente il bagno non sia segno peculiare di saldo equilibrio mentale, né... Non tiri in ballo il grado con me, commissario. Se questo è indice del modo in cui lei ha condotto il caso, non mi meraviglio che Kerridge voglia la sua pelle... Chi è il suo avvocato?... Non dovrebbe procurargliene uno lei, allora?... Non mi dica quello che non ha intenzione di fare. Mi hanno affidato questo caso e d'ora in avanti verrà condotto correttamente. Sono stato chiaro? Adesso mi ascolti bene. Lei ha esattamente due ore per farmi avere tutto qui, a Keldale: ogni mandato, ogni documento, ogni deposizione, ogni appunto che è stato preso su questo caso da tutti gli agenti. Mi ha capito? Due ore... Webberly. Webberly. Gli telefoni, allora, e la faccia finita.» Con volto impassibile Lynley restituì il telefono a Stepha Odell. Lei lo rimise dietro il banco della reception e sfiorò il ricevitore più volte
con le dita prima di alzare lo sguardo. «Non avrei dovuto dire niente?» azzardò con una nota di ansia nella voce. «Non voglio creare problemi tra lei e i suoi superiori.» Lynley fece scattare l'apertura del suo orologio da tasca e controllò l'ora. «Nies non è il mio superiore. E sì, lei ha fatto bene a dirmelo. Grazie per averlo fatto. Mi ha risparmiato un inutile viaggio a Richmond che senza dubbio Nies non vedeva l'ora io facessi.» Stepha non ebbe la pretesa di capire. Fece invece un gesto vago in direzione di una porta alla loro destra. «Io... posso offrirle qualcosa da bere, ispettore? Anche a lei, sergente? Abbiamo una birra che, come ama dire Nigel Parrish, 'ti rimette in sesto'. Da questa parte.» Li accompagnò in una saletta tipica da locanda inglese di campagna, dove si sentiva forte l'odore di un fuoco appena spento. La stanza aveva un aspetto accogliente e familiare che faceva sentire a proprio agio gli ospiti, tuttavia conservava una certa atmosfera formale che teneva alla larga gli abitanti del villaggio. Era arredata con svariati divani molto imbottiti e sedie coperte da cuscini a piccolo punto; i tavolini d'acero, disposti senza un criterio preciso, erano in buone condizioni anche se la superficie mostrava talvolta i segni di bicchieri appoggiati senza protezione; la moquette aveva un disegno floreale in cui i colori erano più scuri dove di recente erano stati spostati i mobili; alle pareti erano appese stampe altrettanto noiose: scene di caccia a cavallo con i cani, un giorno a Newmarket, una vista del villaggio. Ma dietro il bar, all'estremità della stanza e sopra il caminetto, c'erano due acquerelli che dimostravano un notevole talento e un rimarchevole gusto. Entrambi rappresentavano le rovine di un'abbazia. Lynley si avvicinò a uno dei due mentre Stepha armeggiava dietro il bancone del bar. «Deliziosi», commentò lui. «Un artista locale?» «Li ha fatti un giovanotto che si chiama Ezra Farmington», rispose lei. «È la nostra abbazia. Con quelli si è pagato l'alloggio qui un autunno. Adesso vive stabilmente al villaggio.» Barbara notò come era abile la donna a versare la birra alla spina e a togliere la schiuma da quella bevanda che sembrava assumere vita propria nel bicchiere. Stepha scoppiò in una risatina deliziosa quando la schiuma traboccò dall'orlo del boccale e le bagnò la mano, e lei con un gesto automatico si portò le dita alla bocca per leccare il residuo. Barbara si domandò quanto tempo Lynley ci avrebbe impiegato a portarsela a letto. «Sergente?» chiese Stepha. «Anche per lei una birra?» «Acqua tonica, se ce l'ha», rispose Barbara. Guardò fuori della finestra.
In strada c'era il vecchio prete venuto a Scotland Yard, impegnato in una concitata conversazione con un altro uomo. Dai gesti che facevano in direzione della Bentley d'argento si capiva che la notizia del loro arrivo era l'argomento del giorno al villaggio. Una donna arrivava dal ponte verso di loro. Aveva l'aspetto delicato, un effetto prodotto dal vestito troppo leggero per la stagione e dai capelli finissimi che si scompigliavano al minimo alito di vento. Si strofinava le braccia per riscaldarsi e invece di partecipare alla conversazione dei due uomini si limitava ad ascoltare come se aspettasse che l'uno o l'altro se ne andasse. Dopo poco il prete disse ancora qualche parola e si allontanò verso la chiesa. Rimasero le altre due persone. La loro conversazione aveva un ritmo frammentario, l'uomo diceva qualcosa alla donna lanciandole un'occhiata e poi basta, la donna dava una breve risposta. Durante i lunghi silenzi, la donna guardava la riva del fiume e l'uomo concentrava la sua attenzione sulla locanda, oppure sulla macchina parcheggiata davanti. Qualcuno era decisamente interessato all'arrivo della polizia, concluse Barbara. «Un'acqua tonica e una birra», annunciò Stepha, appoggiando i bicchieri sul bancone. «E un prodotto casalingo, la ricetta è di mio padre. La chiamiamo Odell's. Deve dirmi cosa ne pensa, ispettore.» Era un liquido corposo, di colore marrone con sfumature dorate. «È molto energetica, vero?» dichiarò Lynley dopo averla assaggiata. «È sicura che non ne vuole una, Havers?» «Mi va bene l'acqua tonica, grazie, signore.» Le si sedette accanto sul divano davanti al quale aveva sparpagliato il contenuto del dossier sull'assassinio di Teys per controllare se nelle carte ci fossero gli elementi per il ricovero di Roberta Teys nell'ospedale psichiatrico di Barnstingham. Non ce n'erano. Tale constatazione l'aveva indotto a telefonare a Richmond. Adesso riprese a esaminare la documentazione suddividendola per argomento. Dal bar Stepha Odell li guardava con genuino interesse, sorseggiando una birra. «Abbiamo i mandati originali, il rapporto della Scientifica, le deposizioni firmate, le fotografie.» Lynley toccava il materiale che di volta in volta nominava. Alzò lo sguardo verso Barbara. «Niente chiavi della fattoria. Accidenti a quell'uomo.» «Richard ne ha un mazzo, se v'interessa», intervenne Stepha come se sperasse di rimediare a quanto detto prima riguardo Roberta che aveva provocato lo scontro tra Lynley e la polizia di Richmond. «Richard Gibson. Era... è il nipote di William Teys. Vive in una delle case del comune
in St. Chad's Lane. A due passi dalla strada principale.» Lynley la guardò. «Come mai ha le chiavi della fattoria?» «Avendo arrestato Roberta... Be', immagino le abbiano date a Richard. E in ogni caso l'erede, quando avranno sistemato le cose», aggiunse lei. «In base al testamento di William. Suppongo che nel frattempo si occupi della fattoria. Qualcuno deve pur farlo.» «E l'erede? A Roberta che cosa spetta secondo il testamento?» Stepha passò lo straccio sul bancone. «Era stato concordato tra Richard e William che la fattoria sarebbe andata a Richard. Era un giusto accomodamento. Lui lavora lì con William... ha lavorato lì», si corresse, «da quando è tornato a Keldale, due anni fa. Quando hanno messo fine alla lite per Roberta, tutto si è sistemato nel migliore dei modi. William aveva qualcuno che lo aiutava, Richard aveva un lavoro e un futuro garantito, e Roberta un posto dove poter passare tutta la vita.» «Sergente.» Lynley indicò il taccuino appoggiato vicino all'acqua tonica. «Se per cortesia...» Stepha arrossì quando vide che Barbara prendeva in mano la penna. «Mi vuole interrogare, allora?» chiese abbozzando un sorrisetto imbarazzato. «Non so in che cosa posso esserle d'aiuto, ispettore.» «Ci parli della lite e di Roberta.» Uscì da dietro il bancone e li raggiunse, mettendosi a sedere su una poltroncina all'altro lato del tavolo. Lo sguardo le cadde sul mucchio di fotografie davanti a lei. Lo distolse subito. «Le dirò ciò che so, ma non è molto. Olivia ne sa di più.» «Olivia Odell... sua...» «Cognata. La vedova di mio fratello Paul.» Stepha appoggiò il bicchiere di birra sul tavolo e allo stesso tempo coprì le fotografie con un pacco di rapporti della Scientifica. «Se non le spiace...» «Mi scusi», si affrettò a dire Lynley. «Siamo talmente abituati a vedere certi spettacoli orrendi che non ci facciamo più caso.» Rimise tutto nella cartelletta. «Perché hanno avuto una lite a causa di Roberta?» «Olivia me l'ha raccontato poi; era con loro al Dove and Whistle quando è successo. La causa di tutto era l'aspetto di Roberta.» Giocherellava con il bicchiere tracciando linee sul velo di umidità che si era formato sul vetro. «Richard è di Keldale, vede, ma è stato via molti anni per tentare la fortuna con l'orzo nelle paludi. Si è sposato là e ha anche avuto due bambini. Quando la faccenda non funzionò più, ritornò a Kel.» Fece un sorriso ai due poliziotti. «Dicono che Kel non lascia mai andare la gente facilmente e
così fu per Richard. Rimase via per otto o nove anni e quando tornò fu scioccato nel vedere come fosse cambiata Roberta.» «Lei ha detto che la questione riguardava il suo aspetto?» «Non è sempre stata così com'è oggi. Certo, è sempre stata una ragazza robusta, anche a otto anni quando se ne andò Richard. Ma non era mai stata...» Stepha esitò, cercava la parola giusta, l'eufemismo che fosse pertinente, ma allo stesso tempo non offensivo. «Obesa», terminò Barbara. Come una vacca. «Sì», continuò Stepha liberata da un peso. «Richard è sempre stato molto amico di Roberta, nonostante le sia maggiore di dodici anni. E tornare e trovare la cugina così conciata - in senso fisico, intendo, per il resto non era cambiata - fu un terribile choc per lui. Accusò William di aver trascurato la ragazza. Disse che lei si era ridotta così per attirare l'attenzione di suo padre. A quelle parole William s'imbestialì. Olivia dichiarò che non l'aveva mai visto così infuriato. Pover'uomo, aveva avuto abbastanza problemi nella sua vita senza bisogno di quell'orribile accusa da parte del nipote. Ma sistemarono la cosa. Richard si scusò il giorno dopo. William non volle portare Roberta da un dottore - non si sarebbe mai piegato fino a quel punto -, ma Olivia trovò una dieta per la ragazza e da quel momento tutto andò bene.» «Fino a tre settimane fa», osservò Lynley. «Se lei crede che Roberta abbia ucciso suo padre, allora sì, è andato tutto bene fino a tre settimane fa. Ma io non sono convinta che l'abbia ucciso. Neanche per sogno.» Lynley parve sorpreso dal tono fermo delle sue parole. «Perché no?» «Perché a parte Richard - che sa il cielo quanti problemi abbia già per conto suo con la famiglia -, William era tutto quello che Roberta aveva. Oltre alla lettura e ai suoi sogni, aveva soltanto il padre.» «Non aveva amici della sua età? Ragazze delle fattorie vicine o del paese?» Stepha scosse la testa. «Stava per i fatti suoi. Quando non lavorava alla fattoria con suo padre, leggeva. È venuta qui ogni giorno per il Guardian, in effetti, per anni di seguito. Non portavano mai il giornale alla fattoria, allora lei veniva ogni pomeriggio e dopo che l'avevano letto tutti, glielo lasciavamo portare a casa. Penso che abbia letto tutti i libri di sua madre che c'erano in casa, tutti quelli di Marsha Fitzalan, e le era rimasto soltanto il giornale. Non abbiamo una biblioteca con il sistema del prestito, sapete.» Abbassò lo sguardo sul bicchiere, rabbuiandosi. «Smise di interessarsi al
giornale alcuni anni fa, però. Quando mio fratello morì. Non posso fare a meno di pensare...» I suoi occhi grigio azzurro s'incupirono. «... che forse Roberta era innamorata di Paul. Quando lui morì, quattro anni fa, non vedemmo la ragazza per un bel po' di tempo. E non venne più a chiedere il Guardian.» Se in un villaggio piccolo come Keldale poteva esistere una zona per nulla ambita, da cui i residenti sarebbero scappati volentieri, quella era St. Chad's Lane. Si trattava più di un vicolo che di una strada, una via sterrata che non portava da nessuna parte, con l'unico elemento distintivo di un pub all'angolo. Era il Dove and Whistle con le porte e le strutture in legno dipinte di un color porpora accecante, e anch'esso aveva l'aria di desiderare di essere situato da qualche altra - da qualsiasi altra - parte. Richard Gibson e la sua famiglia abitavano nell'ultima casa della strada, un edificio in pietra con i davanzali delle finestre scheggiati e l'ingresso principale che un tempo doveva essere stato dipinto di blu, ma che era ormai diventato decisamente grigio. Benché fosse quasi sera e la temperatura piuttosto bassa, la porta era aperta e dall'interno della minuscola casa provenivano i rumori tipici di una lite in famiglia. «Accidenti a te, fa' qualcosa con lui, allora. È anche tuo figlio. Gesù Cristo! Sembrerebbe che sia nato per opera dello Spirito Santo da quanto t'interessi alla sua educazione!» Era la voce di una donna che sembrava non sapersi decidere tra una scena isterica o, in alternativa, una risata fragorosa. In mezzo al frastuono rispose con un borbottio incomprensibile una voce maschile. «Oh, sarà meglio, allora? Non farmi ridere, Dick. Quando avrai tutta quella fottuta fattoria da usare come scusa? Come la scorsa notte! Non vedevi l'ora di arrivare là, vero? Perciò non parlarmi della fattoria! Non ti vedremo mai quando avrai a disposizione cinquecento acri per nasconderti!» Lynley picchiò un colpo deciso con il battente arrugginito sulla porta aperta, e la scenata fu interrotta di botto. Un uomo era seduto su un divano malandato con un piatto sulle ginocchia e tentava di mangiare una cena dall'aspetto poco invitante; di fronte a lui, in piedi, c'era una donna con il braccio alzato e una spazzola in mano. Entrambi si voltarono a guardare i visitatori inattesi. «Ci avete colto nel momento migliore. Il secondo round sarebbe stato a letto», disse Richard Gibson.
I Gibson erano il ritratto degli opposti: lui era enorme, alto quasi un metro e novantacinque, aveva i capelli neri, la pelle scura, gli occhi castani e sardonici; il collo taurino e la corporatura dell'uomo dedito alle fatiche manuali. La moglie, invece, era una biondina minuta, con i lineamenti duri e in quel momento livida di rabbia. Ma c'era una tensione palpabile tra i due che avvalorava quanto aveva detto l'uomo. Era un tipo di rapporto in cui ogni lite e discussione non erano altro che una schermaglia che preludeva alla battaglia principale che avrebbe stabilito chi doveva avere il comando tra le lenzuola. E la risposta, a giudicare da quanto vedevano Lynley e Barbara Havers, era affidata alla sorte. Dopo aver lanciato un'ultima occhiata invelenita al marito che esprimeva desiderio oltre che rabbia, Madeline Gibson uscì dalla stanza, sbattendosi la porta della cucina alle spalle. L'omone sogghignò quando se ne fu andata. «Una tigre di cinquanta chili», commentò lui, alzandosi in piedi. «Un diavolo di donna.» Porse la grossa mano. «Richard Gibson», disse in tono cordiale. «Dovete essere di Scotland Yard.» Quando Lynley ebbe fatto le presentazioni, Gibson continuò: «La domenica è sempre il giorno peggiore da queste parti». Fece cenno con la testa alla cucina da cui proveniva il suono di un pianto inarrestabile che era chiaro indice di come andavano le cose tra la madre e quelli che sembravano quattordici bambini. «Roberta ci dava una mano. Ma adesso siamo rimasti senza di lei. Certo, voi lo sapete. Siete venuti per questo.» Con l'aria dell'anfitrione indicò due sedie vecchiotte da cui usciva l'imbottitura. Lynley e Barbara si fecero strada tra giocattoli rotti, giornali sparsi, e almeno tre piatti di cibo mangiato a metà che giacevano sul nudo pavimento. Da qualche parte avevano lasciato troppo a lungo nella stanza un bicchiere di latte, perché l'odore acido sovrastava quello di cibo malcotto e di scarichi in cattivo stato. «Lei ha ereditato la fattoria, signor Gibson», esordì Lynley. «Ha intenzione di trasferirsi là presto?» «Mai abbastanza presto. Non sono sicuro che il mio matrimonio reggerà un altro mese in questo posto.» Gibson con il piede allontanò il piatto dal divano. Un gatto pelle e ossa sbucato dal nulla annusò il pane secco e le sardine piccanti, ma rifiutò quanto gli veniva offerto tentando di sotterrarlo. Gibson guardò divertito l'animale. «Vive qui da molti anni?» «Due, per l'esattezza. Due anni, quattro mesi e due giorni, per essere an-
cora più precisi. Potrei anche calcolare le ore, ma ho reso l'idea.» «Non ho potuto fare a meno di sentire che sua moglie non sembra entusiasta della fattoria Teys.» Gibson scoppiò a ridere. «Lei è una persona ben educata, ispettore Lynley. Mi piacciono un po' di buone maniere quando arriva la polizia in visita.» Si passò le mani tra i capelli, guardò il pavimento e trovò una bottiglia di birra che nella confusione generale era rimasta appoggiata in modo precario al bracciolo del divano. La prese e la vuotò d'un fiato, poi si pulì la bocca con il dorso della mano. Era il gesto di un uomo abituato a mangiare fuori nei campi. «No. Madeline vorrebbe tornare alle paludi. Ama gli spazi aperti, l'acqua e il cielo. Ma non posso accontentarla. Allora devo darle ciò che mi è possibile.» Gibson lanciò un'occhiata al sergente Havers che teneva la testa china sul taccuino. «Sembrano le parole di uno che ucciderebbe lo zio, vero?» chiese con aria amabile. Hank alla fine li sorprese nella sala dei novizi. St. James alzò lo sguardo dopo aver baciato la moglie - la sua pelle aveva il profumo inebriante dei gigli, le sue dita gli accarezzavano con tocco vellutato i capelli, e lei gli infiammava il sangue quando gli mormorava sulle labbra: «amore mio» - ed ecco l'americano che sghignazzava con aria ammiccante verso di loro dalla sua postazione sul muro del refettorio. «Beccati», ammiccò Hank. St. James provò un desiderio omicida. Deborah spalancò la bocca per la sorpresa. Hank saltò giù, senza essere invitato, per raggiungerli. «Ehi, Chicchina», gridò. «Ho trovato i piccioncini.» JoJo Watson apparve qualche secondo più tardi sull'ingresso dell'abbazia in rovina barcollando pericolosamente sui tacchi alti. Appesa al collo, oltre la catena e i ciondoli, aveva una Instamatic. «Stiamo facendo delle fotografie», spiegò Hank, indicando la macchina fotografica. «Ancora qualche minuto e ne avremmo avute alcune deliziose di voi due!» Scoppiò in una fragorosa risata e diede una pacca affettuosa sulla spalla a St. James. «Non se ne faccia una colpa, giovanotto! Se fosse mia, non riuscirei a tener giù le mani.» Diede un'occhiata a sua moglie. «Accidenti, Chicchina, sta' attenta, donna! Romperti il collo in questo posto.» Si voltò verso gli altri due e notò l'equipaggiamento di Deborah: la borsa della macchina fotografica, il treppiede; l'ottica intercambiabile. «Ehi, anche voi fate le fotografie? Vi siete distratti, eh? Siete in luna di miele. Vieni giù, Chicchina. Raggiungi la compagnia.»
«Siete tornati così presto da Richmond?» riuscì alla fine a dire St. James con forzata cortesia. Deborah, notò lui, si stava sistemando i vestiti senza dare nell'occhio. I loro sguardi si incontrarono, divertiti e pieni di malizia, accesi dal desiderio. Che diavolo ci facevano lì gli americani adesso? «Be'», ammise Hank quando alla fine JoJo li raggiunse, «devo dirle, giovanotto, che Richmond non era come lei mi aveva fatto credere. Non che la gita non ci sia piaciuta. Cosa dici, JoJo-Chicchina? Non è stato bello?» «Hank adora viaggiare sulla corsia sbagliata», spiegò lei, arricciando il naso. Notò lo scambio di occhiate tra i due giovani. «Hank, perché non facciamo una bella passeggiata fino a Bishop Furthing Road? Non sarebbe un modo carino per concludere il pomeriggio?» Appoggiò la mano ingioiellata sul braccio del marito per portarlo lontano dall'abbazia. «Caspita, no», rispose Hank. «Ho camminato fin troppo durante questa gita: mi basta per il resto della vita.» Fissò con aria sorniona St. James. «Bella carta stradale ci avete dato, giovanotto! Se Chicchina non fosse stata svelta a leggere i cartelli, saremmo a Edimburgo adesso. Be', niente di male. Siamo arrivati in tempo per mostrarvi il buco della morte.» Non restava altro che assecondarlo. «Il buco della morte?» domandò Deborah. Si era messa in ginocchio per sistemare nella borsa l'equipaggiamento, dimenticato per un attimo nell'azzurro degli occhi di Simon. «Il bambino, ricordate?» disse Hank paziente. «Anche se, considerato quello che stavate facendo qui voi due, vedo che la storia del bambino non vi ha certo impressionato, vero?» Ammiccò con aria lasciva. «Ah, il bambino», rispose St. James. Prese la borsa di Deborah. «Adesso ho suscitato il vostro interesse!» approvò Hank. «All'inizio mi sembravate un po' infastiditi dalla mia improvvisa intrusione. Ma adesso ho la vostra attenzione, ne sono certo.» «Sì, proprio», rispose Deborah, ma pensava ad altro. Strano come tutto fosse successo in un attimo. Lo amava, l'aveva amato fin da quando era bambina. Ma con l'incredibile velocità di un lampo, si era accorta che le cose erano cambiate tra loro, non erano più come prima. Tutt'a un tratto lui non era più il dolce Simon che con la sua tenera presenza le riempiva il cuore di gioia, ma un amante di tutto rispetto che con il solo sguardo era capace di eccitarla. Cielo, Deborah, sei diventata schiava dei sensi, pensò. St. James sentì che sua moglie ridacchiava. «Deborah?» la chiamò. Con aria saputa Hank gli diede una gomitata tra le costole. «Non si preoccupi per la sposa», gli confidò. «Sono tutte timide all'inizio.» Cammina-
va tutto tronfio come fosse stato Stanley che incontrava Livingstone, indicando alla moglie le cose interessanti da fotografare. «Prendi quello, Chicchina. Inquadralo!» «Scusami, amore mio», mormorò St. James mentre seguivano gli altri due attraverso le rovine. «Pensavo di essermene liberato almeno fino a mezzanotte. Cinque minuti ancora e ci avrebbe sorpreso in una situazione davvero imbarazzante.» «Che idea!» Lei si mise a ridere. «Oh, Simon, se fosse andata così! Avrebbe gridato: 'Inquadrali, Chicchina!' e la nostra vita amorosa avrebbe potuto essere rovinata per sempre!» Aveva gli occhi che scintillavano di gioia. I capelli rischiarati dalla luce del sole pomeridiano mandavano bagliori e le accarezzavano il collo e le spalle. St. James tirò un profondo sospiro. Era come volesse esternare un dolore. «Non credo», disse imperturbabile. Il buco della morte si trovava in ciò che rimaneva della sacrestia. Quest'ultima non era altro che uno stretto corridoio senza tetto, coperto di erba e fiori selvatici, appena al di là del transetto sud dell'antica chiesa. Lì, lungo il muro, c'era una serie di cavità dalla volta ad arco, e furono queste che Hank additò con un gesto melodrammatico di orrore. «In una di quelle», dichiarò. «Inquadrale, Chicchina.» Avanzò tra l'erba e si mise in posa sfoderando un sorriso a trentadue denti. «Pare che in questo posto i monaci tenessero gli arredi sacri. Una specie di credenza o giù di lì. E nella notte in questione il bambino venne buttato proprio lì dentro e lasciato morire. Orribile, a pensarci bene, eh?» Ritornò al loro fianco con un balzo. «Proprio la misura giusta per un bambino, però», aggiunse pensoso. «Come una... Come dite voi? Offerta sacrificale.» «Non penso che i monaci cistercensi avessero certe abitudini», commentò St. James. «E i sacrifici umani sono passati di moda da un bel po' di anni.» «Be', che ne pensate? Di chi era il bambino?» «Non ne ho la più pallida idea», rispose St. James rassegnato a sorbirsi l'ipotesi dell'americano. «Allora lasci che le dica com'è andata perché io e Chicchina l'abbiamo immaginato fin dal primo giorno. Vero, Chicchina?» Attese che la donna ubbidiente annuisse. «Venite qui. Lasciate che vi mostri una cosetta, piccioncini.» Hank li condusse attraverso il transetto nel presbiterio e poi all'esterno
dell'abbazia attraverso un buco nel muro. «Eccolo lì!» Indicò trionfante uno stretto sentiero che portava verso nord su per i boschi. «Sì, vedo», confermò St. James. «Capito allora?» «Ah, no.» Hank lanciò un urlo. «Certo che no. Perché non avete riflettuto sulla cosa come abbiamo fatto io e Chicchina, vero, Zuccherino?» Zuccherino annuì con aria mesta, guardando mortificata con i suoi occhi da coniglietto ora Deborah ora St. James. «Zingari!» continuò imperterrito suo marito. «Okay, okay, lo ammetto. Io e Chicchina non ci siamo arrivati del tutto fino a quando non li abbiamo visti oggi. Sapete chi intendo dire. Nelle roulotte parcheggiate sul ciglio della strada. Be', abbiamo pensato che potevano essercene altre parcheggiate lì quella notte. Doveva essere loro il bambino.» «Mi pare che gli zingari amino moltissimo i propri bambini», commentò asciutto St. James. «Be', non quel bambino, comunque», replicò Hank irremovibile. «Dunque cerchi di immaginarsi la scena, giovanotto. Danny e Ezra sono più o meno laggiù», indicò vagamente la direzione da cui erano venuti, «che si preparano al gran salto; ci siamo? E in punta di piedi da questo sentiero arriva una vecchia zingara con un bambino.» «Vecchia zingara?» «Be', certo, non capisce?» «Messo al mondo in un fossato, senza dubbio», disse St. James. «In un che?» Hank si scrollò di dosso il riferimento letterario al Macbeth come avrebbe fatto con un capello dal cappotto. «La vecchia si guarda intorno, a destra e a sinistra», l'americano mimò l'azione, «e s'infila nell'abbazia. Cerca un luogo adatto a depositare il fardello e, tombola! eccolo lì.» «È senza dubbio un'ipotesi interessante», affermò Deborah. «Ma mi dispiace un po' per gli zingari. Sembra che la colpa di tutto sia sempre loro, vero?» «Questo, cara sposina, mi porta direttamente all'ipotesi numero due.» JoJo chiese scusa con gli occhi. Gembler Farm era in eccellenti condizioni, cosa di cui non c'era da stupirsi dal momento che Richard Gibson aveva continuato a lavorarci nelle tre settimane successive alla morte dello zio. Dopo aver aperto i cancelli
ben oliati, sostenuti da due pilastri di pietra, Lynley e Barbara entrarono e si guardarono intorno. Sarebbe stata una bella eredità. Alla loro sinistra c'era la fattoria, un edifìcio in mattoni scuri tipici della zona, con le strutture in legno verniciate di fresco e la clematide ben potata che cresceva su un telaio a graticci, ornando porte e finestre. Rispetto a Gembler Road era spostata verso l'interno ed era separata dalla strada da un giardino ben curato recintato per tener lontano le pecore. Vicino alla casa c'era un basso fabbricato e alla loro destra si ergeva il fienile che costituiva un altro lato del quadrilatero che racchiudeva il cortile. Come la casa, il fienile era in mattoni con il tetto molto spiovente. Aveva due piani: al primo si vedevano attraverso le aperture delle finestre le estremità superiori delle scale; il pianterreno era chiuso da porte divise a metà orizzontalmente perché era un edificio destinato unicamente ad attrezzi e animali. Le macchine agricole erano sistemate nel fabbricato adiacente alla casa. Attraversarono il cortile e Lynley infilò la chiave nel lucchetto appeso alla porta del fienile. Si aprì senza far rumore. All'interno regnava uno strano silenzio, un odore di muffa, faceva freddo e c'era poca luce, il luogo ideale per la fine violenta di un uomo. «Tranquillo», osservò Barbara. Esitò sulla porta mentre Lynley entrava. «Mmm», rispose lui dal terzo box. «Immagino sia dovuto alle pecore.» «Signore?» Era accovacciato sul pavimento di pietra e alzò lo sguardo verso di lei. Era molto pallida. «Pecore, sergente», disse lui. «Sono nel prato superiore, ricorda? Ecco perché c'è tanto silenzio. Dia un'occhiata qui, le spiace?» Vedendo che era riluttante ad avvicinarsi, aggiunse: «Aveva ragione lei». Si fece avanti e osservò il box. In fondo c'era un mucchio di fieno marcio. Al centro si notava una macchia di sangue secco marrone, non rosso. Non c'era nient'altro. «Ragione, signore?» domandò Barbara. «Morto sul posto, se mi perdona l'espressione. Non c'è una goccia di sangue sulle pareti. Non credo che il corpo sia stato mosso. Non c'è stata nessuna messinscena. Bella deduzione, Havers.» Notò la sorpresa sul volto di lei che arrossì, confusa. «Grazie, signore.» Lui si rialzò e rivolse di nuovo l'attenzione al box. Il secchio capovolto su cui sedeva Roberta quando l'aveva trovata il prete era ancora al suo posto. Il fieno sul quale era rotolata la testa non era stato toccato. La chiazza
di sangue secco recava i segni dell'intervento della Scientifica e l'ascia non c'era più, ma per il resto tutto era come nelle fotografie della polizia. Tranne che per i corpi. I corpi. Buon Dio. Sentendosi uno sciocco, com'era nelle intenzioni di Nies, Lynley fissò sbalordito il bordo esterno della macchia dove molti peli bianchi e neri erano stati schiacciati nel sangue coagulato dall'impronta di un tacco. Si voltò verso Barbara. «Il cane», disse. «Ispettore?» «Havers, che cosa diavolo ha fatto Nies del cane?» Anche lei osservò la stessa impronta, vide gli stessi peli. «Era nel rapporto, vero?» «Non c'era», replicò lui, imprecando tra i denti, e capì che avrebbe dovuto strappare ogni briciola di informazione da Nies come un chirurgo che cercasse di estrarre le schegge di uno shrapnel. Un vero e proprio inferno. «Andiamo a dare un'occhiata alla casa», aggiunse con aria cupa. Entrarono dall'ingresso principale in un corridoio dalla forma a portico in cui erano appesi vecchi cappotti e impermeabili e sotto una panca erano allineati stivali da lavoro. La casa non era riscaldata da tre settimane, perciò sembrava di essere in una tomba. Si sentì passare una macchina in Gembler Road, ma il rumore giunse attutito e distante. Dal corridoio arrivarono subito in cucina. Era una stanza grande con il pavimento ricoperto da linoleum rosso, i mobiletti erano in frassino scuro e gli elettrodomestici brillavano come se fossero stati lucidati ogni giorno. Non c'era niente fuori posto. Non c'era un piatto fuori della credenza, non una briciola sul tavolo, neanche una macchiolina imbrattava la superficie del lavandino di ghisa bianca. Al centro del locale c'era un tavolo di pino grezzo la cui superficie era segnata dalle lame dei coltelli che avevano tagliato migliaia di verdure, e scolorita dalla preparazione di cibi nel corso di generazioni. «Non mi meraviglio che Gibson voglia questo posto», osservò Lynley guardandosi intorno. «Neanche da paragonare a St. Chad's Lane.» «Gli ha creduto, signore?» domandò Barbara. Lynley interruppe l'ispezione delle credenze. «Che era a letto con sua moglie quando Teys fu ucciso? Data la natura del loro rapporto, è un alibi credibile, non le pare?» «Io... suppongo di sì, signore.» Le lanciò un'occhiata. «Ma non ci crede.» «È solo che... be', sembrava che lei stesse mentendo. Come se fosse ar-
rabbiata anche con lui. O con noi.» Lynley valutò quell'affermazione. In effetti Madeline Gibson aveva parlato con loro malvolentieri, sputando le parole senza quasi cercare l'assenso del marito. Da parte sua il contadino, durante la recita di lei, aveva fumato impassibile; un'espressione di disinteresse era dipinta sul suo volto, ma senza dubbio una luce divertita balenava negli occhi scuri. «C'è qualcosa che non va in quella famiglia, sono d'accordo con lei, sergente. Continuiamo la nostra ispezione qui.» Attraverso una pesante porta entrarono nella sala da pranzo dove un tavolo di mogano era coperto da una tovaglia di pizzo color crema. Su di esso c'era un vaso di rose gialle ormai appassite che spargevano i loro petali sul ricamo della tovaglia. Da un lato un mobile basso, in stile con il tavolo, aveva un centrotavola d'argento posto esattamente nel mezzo, come se qualcuno avesse misurato le distanze da ciascuna estremità. Una vetrinetta conteneva una bella collezione di piatti che era ovvio non essere stata mai usata dagli abitanti della casa. Erano antichi pezzi Belleek, disposti in modo tale da apparire nella luce migliore. Come nella cucina, tutto era in ordine. Se si faceva eccezione per i fiori, sembrava di essere in un museo. Fu dalla parte opposta della sala da pranzo, sull'altro lato del corridoio, che trovarono i primi segni di vita della casa. Perché là, nel salotto, i Teys avevano il loro sacrario. Barbara precedette Lynley nella stanza, ma a quella vista le sfuggì un grido, e fece subito un passo indietro, alzando un braccio come per parare un colpo. «Qualcosa non va, sergente?» Lynley diede un'occhiata alla stanza per scoprire che cosa l'avesse spaventata, ma non vide altro che mobili e una serie di fotografìe in un angolo. «Mi scusi. Penso...» Fece una smorfia che voleva essere un sorriso. «Mi scusi, signore. Io... dev'essere la fame. Mi gira un po' la testa. Sto bene.» Si diresse verso l'angolo in cui erano appese le fotografie, davanti alle quali le candele erano spente e sotto le quali i fiori erano morti. «Questa deve essere la madre», disse lei. «Che tributo.» Lynley la raggiunse accanto a un tavolo triangolare incassato nel muro. «Bella ragazza», commentò lui studiando le fotografie. «Non c'è che dire. Guardi le foto del matrimonio. Sembra una bambina di dieci anni! Una creatura delicata.» Nessuno osò dirlo, ma era implicito. Come aveva fatto ad avere una figlia grassa come Roberta?
«Non trova che sia un po'...» Barbara s'interruppe e lui la guardò. Si prese le mani dietro la schiena. «Voglio dire, se aveva intenzione di sposare Olivia, signore.» Lynley tratteggiò quello che doveva essere il ritratto definitivo della donna. Dimostrava circa ventiquattro anni: un viso fresco e sorridente; una spruzzatina di lentiggini d'oro sul naso; capelli lunghi di un biondo luminoso legati dietro e arricciati. Affascinante. Si allontanò dalla collezione di fotografie. «E come se Teys avesse istituito una nuova religione nell'angolo di questa stanza», commentò lui. «Macabro, non crede?» «Io...» Distolse gli occhi dalla fotografia. «Sì, signore.» Lynley rivolse l'attenzione al resto del locale. Si vedeva che alcune persone l'avevano abitato. C'erano un divano reso comodo dall'uso, parecchie sedie, un portariviste, un televisore e uno scrittoio da donna. Lynley lo aprì. Oggetti di cancelleria tutti ordinati, una scatola di francobolli, tre conti non pagati. Gli diede un'occhiata: una ricetta del farmacista per il sonnifero di Teys, la bolletta della luce, quella del telefono. Controllò quest'ultima, ma non trovò niente d'interessante. Nessuna chiamata interurbana. Tutto chiaro e in ordine. Dopo il salotto c'era un piccolo studio-libreria; aprirono la porta e restarono sorpresi da ciò che videro. Tre pareti erano coperte da scaffali che arrivavano fino al soffitto, e ogni scaffale era carico di libri. Libri ammucchiati. Libri impilati. Libri caduti di lato. Libri dritti in piedi. Libri dappertutto. «Ma Stepha Odell ha detto...» «Che non c'era una biblioteca con il prestito dei libri, allora Roberta andava a prendere il giornale», finì Lynley. «Aveva letto tutti i suoi libri com'era possibile? - e tutti quelli di Marsha Fitzalan. Chi è, a proposito, Marsha Fitzalan?» «Un'insegnante», rispose Barbara. «Vive in St. Chad's Lane. Vicino ai Gibson.» «Grazie», mormorò Lynley ispezionando gli scaffali. S'infilò gli occhiali. «Mmm. Un po' di tutto. Ma soprattutto le Brontë, vero?» Barbara lo raggiunse. «Austen», lesse, «Dickens, un po' di Lawrence. Amavano i classici.» Prese in mano Orgoglio e pregiudizio e lo aprì. DI TESSA! era scarabocchiato con grafia infantile sul risguardo. Le stesse parole figuravano sui libri di Dickens, Shakespeare, due antologie di Norton e su tutti quelli delle Brontë.
Lynley si avvicinò a un leggio sistemato sotto l'unica finestra della camera. Era del genere usato di solito per i grossi dizionari, ma c'era appoggiata un'enorme Bibbia miniata. Fece scorrere le dita lungo la pagina cui era aperto il libro. «'Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto'», si mise a leggere. «'Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi perché sia conservato di voi un residuo sulla terra, e per salvare la vita a molti scampati.'» Alzò lo sguardo verso il sergente Havers. «Non capirò mai perché abbia perdonato i suoi fratelli», disse lei. «Dopo quello che gli avevano fatto, meritavano di morire.» C'era una grande amarezza in quelle parole. L'uomo chiuse lentamente il libro, mettendo il segno con un pezzo di carta trovato sulla scrivania. «Ma lui aveva qualcosa di cui loro avevano bisogno.» «Il cibo», affermò lei con sarcasmo. Lynley si tolse gli occhiali. «Non credo che c'entrasse affatto con il cibo. Non proprio», ribadì. «Che cosa c'è al secondo piano?» Il secondo piano era semplice: quattro camere da letto, un gabinetto, un bagno, che davano tutti su un ballatoio quadrato rischiarato da un lucernario di vetro opaco. Era stato un intervento di modernizzazione della casa; quest'ultimo elemento architettonico creava l'impressione di trovarsi in una serra. Non poi così sgradevole, ma insolito in una fattoria. La camera alla loro destra doveva essere la stanza degli ospiti. Un letto, rifatto accuratamente con un copriletto rosa acceso, piuttosto piccolo considerata la mole degli occupanti della casa, era addossato al muro su un tappeto con un disegno a rose e felci. Era assai vecchio e i verdi e i rossi, un tempo brillanti, si erano mescolati e avevano assunto una colorazione marroncina. I muri avevano una tappezzeria a fiorellini, margherite e calendule. Sul comodino c'era una piccola lampada appoggiata su un centrino di pizzo. Nel cassettone non c'era niente, come pure nell'armadio. «Sembra la camera di una locanda», osservò Lynley. Barbara guardò quale vista si godeva dalla finestra: una panoramica poco interessante del cortile e del fienile. «Sembra che non sia mai stata usata.» Lynley stava esaminando il copriletto. Lo tirò indietro e scoprì un mate-
rasso pieno di macchie e un cuscino ingiallito. «Non si aspettavano ospiti, qui. Strano lasciare un letto disfatto, non le pare?» «No, affatto. Perché mettere le lenzuola se non verrà mai usato?» «Tranne nel caso in cui...» «Senta, vado nella stanza successiva, ispettore?» chiese Barbara con fare impaziente. L'atmosfera della casa la stava opprimendo. Lynley alzò lo sguardo, colpito dal tono della donna. Rimise a posto il copriletto esattamente come prima e si sedette sul bordo del letto. «Che c'è, Barbara?» le chiese. «Niente», rispose, ma si accorse che c'era un'ombra di panico nella sua voce. «Vorrei soltanto continuare l'ispezione. È ovvio che questa camera non è stata usata da anni. Perché esaminarne ogni centimetro alla maniera di Sherlock Holmes, come se l'assassino potesse sbucare dalle assi del pavimento?» Lui non rispose subito, così la nota stridula indugiò nell'aria a lungo dopo che ebbe finito di parlare. «Che c'è che non va?» ripeté lui. «Posso esserle d'aiuto?» La fissava con uno sguardo dolce e carico di preoccupazione. Sarebbe stato davvero facile... «Va tutto bene!» esplose lei. «Non ho voglia di seguirla di qua e di là come un cane. Non so che cosa si aspetti da me. Mi sento un'idiota. Ho un cervello, maledizione! Mi dia qualcosa da fare!» Lynley si alzò in piedi e, senza distogliere lo sguardo da lei, le propose: «Perché non si occupa della stanza di fronte?» Barbara fu sul punto di aggiungere qualcosa, ma decise altrimenti e uscì fermandosi per un attimo sul pianerottolo. Si accorse di avere il respiro affannoso e temette che potesse notarlo anche lui. Quel dannato sacrario! Già la fattoria era opprimente con la sua agghiacciante immobilità, ma il sacrario le aveva proprio fatto saltare i nervi. Era stato collocato nell'angolo più bello del locale. Con la vista sul giardino, pensò Barbara rassegnata. Tony ha la televisione e lei ha il dannato giardino! Come l'aveva chiamata Lynley? Una religione. Sì, Gesù santo! Un tempio a Tony! Si sforzò di riportare il respiro al suo ritmo normale, attraversò il pianerottolo ed entrò nella stanza successiva. Hai rovinato tutto, Barb, si disse. Che ne era stato della decisione di essere sempre pronta ad approvare, a ubbidire, a cooperare? Come ti sentirai di nuovo con l'uniforme addosso la settimana prossima? Si guardò attorno infuriata, le labbra le fremevano dal disgusto. Be', chi
se ne fregava? Dopotutto era un fallimento previsto. Si era davvero illusa che sarebbe stato un successo? Andò alla finestra e armeggiò con il chiavistello. Che cosa aveva detto? Che c'è che non va? Posso esserle d'aiuto? La follia era che per un attimo aveva davvero pensato di parlargli, di raccontargli tutto. Ma, ovviamente, era impensabile. Nessuno poteva aiutarla, meno di tutti Lynley. Aprì la finestra, la spalancò perché l'aria le rinfrescasse le gote in fiamme, poi si girò decisa a fare il suo lavoro. Quella era la stanza di Roberta, ordinata come l'altra, ma con un'aria vissuta. Un grande letto a baldacchino era coperto da una trapunta con un disegno a colori vivaci: sullo sfondo di un cielo blu zaffiro erano dipinti il sole, le nuvole e l'arcobaleno. Nell'armadio erano appesi alcuni vestiti e, sotto, erano allineate varie paia di scarpe, scarpe robuste: scarpe da lavoro, da passeggio, ciabatte. C'erano poi una toilette con uno specchio a bilico e un cassettone con sopra una fotografia in cornice, a faccia in giù, come se fosse caduta. Barbara la guardò incuriosita. La madre, il padre, Roberta in fasce in braccio al padre. Ma la fotografia era sistemata nella cornice come se non fosse della misura giusta. Rigirò fra le mani la cornice e sollevò la parte posteriore. Ci aveva azzeccato. La fotografia era troppo grande, perciò era stata ripiegata. Nella sua versione integrale era molto diversa, perché alla sinistra del padre compariva l'immagine speculare della madre della neonata, una versione più giovane, certo, ma senza dubbio la figlia di Tessa Teys. Barbara stava per chiamare Lynley quando questi apparve sulla porta con un album di fotografie in mano. Si fermò come se stesse pensando al modo di riportare la loro relazione alla normalità. «Ho trovato una cosa stranissima, sergente», disse lui. «Anch'io», rispose Barbara determinata quanto lui a dimenticare lo sfogo di poco prima. Si scambiarono gli oggetti. «Il suo spiega il mio, direi», osservò Lynley. Barbara guardò con interesse le pagine aperte dell'album. Era la storia in immagini di una famiglia, del tipo che documenta i matrimoni e le nascite, Natale, Pasqua e i compleanni. Ma ogni fotografia in cui compariva più di un bambino era stata tagliata, aveva subito strane mutilazioni, a volte mancava la parte centrale, a volte erano state tolte strisce o quadratini, e in ogni caso la famiglia era stata privata di un membro. L'effetto era agghiacciante. «Una sorella di Tessa, direi», affermò Lynley.
«Forse la sua prima figlia», suggerì Barbara. «Mi pare troppo grande per essere figlia di Tessa, a meno che l'avesse avuta quando era ancora una bambina.» Appoggiò la cornice, s'infilò la fotografia in tasca e rivolse l'attenzione ai cassetti. «Ah», esclamò, «almeno sappiamo perché Roberta fosse così interessata al Guardian. Ha foderato i suoi cassetti con il giornale. E... Havers, guardi qui.» Nel cassetto in basso, sotto un mucchio di pullover molto vecchi, trovò qualcosa che era stato messo a faccia in giù, nascosto. «Ancora la ragazza misteriosa.» Barbara prese la fotografia che lui le passò. Era la stessa persona, ma più grande questa volta, un'adolescente. Lei e Roberta erano nel cortile della chiesa di St. Catherine, c'era la neve per terra, e tutte e due sorridevano alla macchina fotografica. La ragazza più grande teneva le mani sulle spalle di Roberta e la attirava a sé. Era un po' chinata - anche se non molto perché Roberta era alta quasi quanto lei - e premeva la guancia contro quella dell'altra ragazza. I capelli biondo scuro di lei accarezzavano i riccioli castani di Roberta. Davanti a loro c'era un pastore scozzese che sembrava sorridere anche lui al fotografo. Baffi. Roberta aveva la mano infilata in mezzo al suo pelo. «Roberta non è poi male qui», commentò Barbara passando la foto a Lynley. «Robusta ma non grassa.» «Allora la foto deve essere stata scattata prima che Gibson se ne andasse. Si ricorda cosa ha detto Stepha? Non era grassa una volta, non prima che Richard partisse.» S'infilò anche quella foto in tasca e diede un'occhiata alla stanza. «Qualcos'altro?» le chiese. «Abiti nell'armadio. Niente d'interessante.» Come aveva fatto lui nell'altra camera, Barbara tirò indietro la trapunta del letto. A differenza dell'altro, però, questo era fatto e le lenzuola, fresche di bucato, avevano un profumo di gelsomino. Ma sotto di esso, come se il gelsomino fosse incenso che brucia lentamente per nascondere l'odore della canapa indiana, c'era l'odore nauseante di qualcos'altro. Barbara guardò Lynley. «Lei...» «Sì», replicò lui. «Mi aiuti a spostare il materasso.» Fece come le aveva detto, coprendosi la bocca e il naso quando il fetore riempì la stanza e videro che cosa c'era sotto il vecchio materasso. Il rivestimento delle molle era stato tagliato e arrotolato in un angolo del letto, e all'interno c'era un deposito di cibo. Frutta marcia, pane ammuffito, biscotti e caramelle, pasticcini mangiucchiati, sacchetti di patatine. «Oh, Gesù», mormorò Barbara. Era più una preghiera che un'esclamazione e benché fosse abituata a spettacoli poco piacevoli da quando lavo-
rava nella polizia, ebbe un conato di vomito e si allontanò. «Mi scusi», disse con un sorriso stentato. «Una bella sorpresa.» Lynley lasciò ricadere al suo posto il materasso. «È un sabotaggio», disse tra sé. «Signore?» «Stepha ha parlato di dieta.» Come aveva fatto prima Barbara, Lynley si avvicinò alla finestra. Stava calando la sera e, approfittando dell'ultimo debole barlume di luce, tirò fuori dalla tasca le fotografìe e le esaminò. Rimase immobile, forse nella speranza che osservando le due ragazze senza essere interrotto o disturbato potesse capire chi aveva ucciso William Teys e perché, e che cosa c'entrasse un deposito di cibo marcio. Barbara lo guardava e notò che con quel filo di luce che gli illuminava i capelli, le gote e la fronte, appariva molto più giovane dei suoi trentadue anni. E tuttavia niente, neanche l'oscurità, intaccava minimamente l'intelligenza e l'acume che trasparivano dai suoi occhi. L'unico rumore nella stanza era il respiro di lui, calmo e regolare, molto sicuro. Si voltò, si accorse che lei lo stava fissando e fece per parlare. Lei lo prevenne. «Bene», disse decisa, tirandosi i capelli dietro le orecchie con un gesto energico, «notato qualcosa di interessante nelle altre camere?» «Solo una scatola di vecchie chiavi nell'armadio e un vero e proprio museo di Tessa», rispose lui. «Abiti, fotografie, ciocche di capelli. Tra le cose di Teys, ovviamente.» Si rimise le foto in tasca. «Chissà se Olivia Odell sapeva a che cosa andava incontro.» Avevano percorso a piedi il miglio che separava il villaggio dalla fattoria di Teys. Al ritorno Lynley cominciò a pentirsi di non aver preso la macchina. Non perché si era fatto buio, ma perché sentiva la mancanza della musica che lo distraesse. Senza di essa si trovò a osservare la donna che camminava in silenzio al suo fianco, e pensò con riluttanza a quello che aveva sentito dire di lei. «Una vergine collerica», aveva detto MacPherson. «Ciò di cui ha bisogno è una bella rotolatina nel fieno.» Poi era scoppiato in una grassa risata e aveva sollevato la pinta di birra con la sua mano da orso. «Ma non io, ragazzi. Non ho intenzione di saggiare quelle acque. Lascio il piacere a un uomo più giovane!» Ma MacPherson si sbagliava, pensò Lynley. Non si trattava di una vergine collerica. C'era qualcos'altro. Non era la prima volta che Havers si occupava di un caso di omicidio,
per cui non riusciva a capire la sua reazione alla fattoria: l'iniziale riluttanza a entrare nel fienile, lo strano comportamento nel salotto, l'inspiegabile scatto di nervi al piano superiore. Per la seconda volta si chiese che cosa diavolo avesse in mente Webberly mettendoli a lavorare insieme, ma si accorse che era troppo stanco per trovare una spiegazione. In fondo all'ultima curva della strada apparvero le luci del Dove and Whistle. «Andiamo a mangiare qualcosa», propose lui. «Pollo arrosto», annunciò il proprietario. «È il piatto della domenica sera. Ve lo faccio portare subito, se vi accomodate in sala.» Il Dove and Whistle stava facendo buoni affari, quella sera. Nella zona bar, su cui era caduto un improvviso silenzio al loro ingresso, gravava una densa cortina di fumo che pareva una nuvola carica di pioggia. I contadini erano riuniti in un angolo a chiacchierare, appoggiando gli stivali incrostati di fango ai pioli delle sedie, due uomini più giovani giocavano chiassosamente a freccette vicino a una porta su cui era scritto TOILETTE, mentre un gruppo di donne di mezza età confrontava ciò che restava la domenica delle acconciature che si erano fatte fare il sabato al Salone di Bellezza di Sinji. Attorno al bancone del bar erano radunati i clienti abituali, la maggior parte dei quali scherzava con la ragazza addetta al servizio. Era senza dubbio l'eccentrica del villaggio. Aveva capelli nero corvino dal taglio punk, occhi pesantemente truccati di viola e vestiti in stile Sohoby-night: minigonna di pelle nera, camicetta bianca scollata, calze nere di pizzo con spille di sicurezza, scarpe nere stringate. Aveva quattro orecchini a ciascun lobo, sette a forma di borchia, l'ottavo, quello in basso a destra, era una piuma che le arrivava alla spalla. «Crede di essere una cantante rock», disse il proprietario del pub. «E mia figlia, ma non amo farlo sapere in giro.» Appoggiò pesantemente una pinta di birra sul tavolino traballante davanti a Lynley, diede l'acqua tonica a Barbara e sogghignò. «Hannah!» urlò verso il bancone del bar. «Smettila di metterti in mostra, ragazza! Fai impazzire dal desiderio tutti gli uomini presenti!» Gli schiacciò l'occhio con aria maliziosa. «Oh, papà!» scoppiò a ridere lei. Gli altri fecero la stessa cosa. «Digli di non rompere, Hannah!» urlò qualcuno. E un altro: «Che cosa ha mai capito di stile quel poveretto?» «Stile, quello?» replicò divertito il padrone. «Vestirla mi costa poco, certo. Ma mi costa un patrimonio in gel per capelli.»
«Come fai a tenerli ritti in testa, Han?» «Ho preso uno spavento all'abbazia, direi.» «Hai sentito piangere il bambino, vero, Han?» Una risata. Una mossetta scherzosa a beneficio di chi aveva parlato. Questo significava: Vedete, siamo tutti amici qui. Barbara si chiese se fosse tutto preparato. Lei e Lynley erano gli unici clienti della sala da pranzo e quando il padrone se ne fu andato avrebbe voluto sentire ancora il rumore della zona bar, ma Lynley stava dicendo qualcosa. «Doveva avere una fame nevrotica.» «E ha ucciso il padre perché l'ha messa a dieta?» Barbara non poté fare a meno di replicare. Con una pesante nota di sarcasmo nella voce. «E mangiava molto di nascosto, è ovvio», continuò Lynley senza scomporsi. «Be', io non la penso così», ribatté lei. Lo stava provocando e lo sapeva. Era uno stupido gesto di difesa, ma non poteva farci niente. «Che ne pensa lei?» «Quel cibo è stato dimenticato. Chissà da quanto tempo era lì.» «Credo che possiamo dire che è lì da tre settimane, e in tre settimane è altamente probabile che qualsiasi cibo lasciato fuori dal frigorifero si deteriori.» «D'accordo, questo lo accetto», disse Barbara. «Ma non la fame nevrotica.» «Perché no?» «Perché non può provarlo, accidenti!» Contando sulle dita ciò che avevano trovato, elencò: «Abbiamo due mele marce, tre banane nere, qualcosa che forse un tempo è stata una pera matura, una pagnotta, sedici biscotti, tre pasticcini mangiucchiati, e tre sacchetti di patatine. Adesso mi dica lei a che cosa ci troviamo di fronte, sergente». «Non ne ho idea», rispose lei. «Allora se lei un'idea non ce l'ha, forse vorrà prendere in considerazione la mia.» Stette zitto. «Barbara...» Capì subito dal tono della sua voce che doveva fermarlo. Non poteva, non avrebbe capito. «Mi dispiace, ispettore», si affrettò a dire. «Ho avuto paura alla fattoria e io... me la sono presa con lei. Mi... mi scusi.» Lui apparve sorpreso. «D'accordo. Ricominciamo da capo, va bene?» Arrivò il taverniere e mise i piatti sul tavolo. «Pollo e piselli», annunciò
con orgoglio. Barbara si alzò e uscì con passo malfermo dalla stanza. 7 «No! Ezra, fermati! Non posso!» Imprecando con rabbia, Ezra Farmington si sollevò dalla ragazza che si dibatteva sotto di lui, si rotolò sul bordo del letto, si mise a sedere cercando di prendere fiato e di ricomporsi, mentre tutto il suo corpo - ma in particolare, notò con ironia, la testa - palpitava. Si prese il capo tra le mani e si infilò le dita tra i capelli biondi. Adesso si metterà a piangere, pensò. «D'accordo, d'accordo!» esclamò, e aggiunse esasperato: «Non sono uno stupratore, per l'amor del cielo!» A quell'affermazione lei scoppiò a piangere, teneva il pugno stretto davanti alla bocca e il suo corpo era scosso da tremendi singhiozzi. Lui fece per accendere la lampada. «No!» lo fermò la voce di lei. «Danny», esordì lui cercando di parlare con calma, ma sapendo di farlo a denti stretti. Non riusciva a guardarla. «Scusami!» implorò lei tra le lacrime. Era sempre la stessa storia. Non poteva andare avanti così. «È ridicolo, lo sai.» Prese l'orologio, vide sul quadrante luminoso che erano quasi le otto, e se lo mise. Cominciò a vestirsi. A quel gesto il pianto aumentò d'intensità. La mano di lei gli toccò la schiena nuda. Lui si ritrasse. I singhiozzi continuarono. Raccolse il resto degli abiti, andò in bagno e dopo essersi vestito indugiò per cinque minuti davanti allo specchio buio a osservare la sua immagine riflessa. Quando tornò, il pianto si era placato. Lei era ancora sdraiata sul letto, il corpo eburneo scintillante alla luce della luna, e guardava il soffitto. Con occhi d'artista, Ezra passò in esame la figura di lei: le gote rotonde, i seni pieni, i fianchi ben modellati, le cosce morbide. Uno studio obiettivo in bianco e nero trasferito in fretta sulla tela. Era un esercizio cui si dedicava spesso, che gli permetteva di scindere la mente dal corpo; cosa di cui aveva molto bisogno in quel momento. Lo sguardo gli cadde sul triangolo scuro e riccio. L'obiettività finì fuori della finestra. «Per l'amor di Dio, vestiti», le intimò. «Devo stare qui a guardarti come punizione?» «Lo sai perché succede», disse lei con un sussurro. Non si mosse. «Lo sai perché.»
«Certo», rispose. Era in piedi dall'altra parte della stanza, accanto alla porta del bagno. Era più sicuro lì. Se si fosse avvicinato di qualche passo, le sarebbe stato di nuovo addosso e niente l'avrebbe più fermato. Sentì che gli si serrava la mascella, ogni muscolo vibrava di vita propria. «Non perdi occasione di ricordarmelo.» Danny si alzò a sedere e si girò verso di lui. «Perché dovrei?» gridò. «Sai che cosa hai fatto!» «Stai zitta! Vuoi che la Fitzalan riferisca tutto a tua zia? Cerca di avere un po' di buon senso.» «Perché dovrei? Ne hai avuto tu?» «Se non vuoi lasciar perdere, allora a che serve, Danny? Perché ci vediamo ancora?» «Hai il coraggio di chiedermelo? Anche adesso? Quando tutti sanno?» Lui incrociò le braccia davanti al petto, irrigidendosi alla vista di lei. La ragazza aveva i capelli arruffati sulle spalle, le labbra dischiuse, le gote bagnate di lacrime scintillavano alla luce fioca. I seni... S'impose di tenere lo sguardo fisso sul suo volto. «Sai che cosa è successo. Ne abbiamo parlato un migliaio di volte. Parlarne ancora non cambierà il passato. Se non puoi lasciar perdere, allora dobbiamo smettere di vederci.» Le lacrime tornarono a sgorgare copiose e a rigarle le guance. Ezra non sopportava di vederla piangere. Avrebbe voluto correre da lei e stringerla tra le braccia, ma a che cosa sarebbe servito? Sarebbe ricominciato tutto da capo e finito in un disastro. «No.» Stava ancora piangendo, ma aveva abbassato il tono di voce. Chinò la testa. «Non voglio.» «Allora che cosa vuoi? Devo saperlo perché io so molto bene che cosa voglio, Danny, e se noi due non vogliamo la stessa cosa, allora è tutto inutile, non ti pare?» Il ragazzo stava cercando di ritrovare il controllo, ma il poco che aveva stava venendo meno. Si sarebbe messo quasi a piangere dalla frustrazione. «Voglio te», sussurrò lei. Oh, Dio, questo è troppo. Davvero. «Non è questo che vuoi», rispose mesto. «Perché anche se fosse così, e anche se tu mi avessi, a ogni occasione mi rinfacceresti il passato. E io non lo posso sopportare, Danny. Ne ho abbastanza.» Con orrore si accorse di aver calcato sull'ultima parola. Lei alzò di scatto la testa. «Mi dispiace», sussurrò. Scivolò fuori del letto e avanzò nella stanza, il suo corpo scolpito dalla luna. Lui distolse lo
sguardo. Lei gli accarezzò la gota e poi risalì fino ai capelli. «Non penso mai alla tua sofferenza», gli disse. «Solo alla mia. Mi dispiace tanto, Ezra.» Lui guardò il muro, il soffitto, lo scampolo di cielo buio al di là della finestra. Se avesse incrociato gli occhi di lei, sapeva che sarebbe stato perduto. «Ezra?» La voce della ragazza era come una carezza nella notte. Gli scostò i capelli dal volto, fece un passo avanti. Sentiva il suo profumo di muschio, la punta dei seni contro il suo petto. Lei portò la mano sulla sua spalla e lo attirò a sé. «Non pensi che entrambi dobbiamo perdonare?» Era davvero troppo. Non sapeva dove guardare. L'ultimo suo pensiero equilibrato fu: Meglio perduto che solo. Nigel Parrish aspettò che tornassero dalla sala in cui avevano cenato. Quando comparvero, era ancora seduto nel suo solito angolo a sorseggiare con calma un Courvoisier. Li scrutò con l'interesse che di solito riservava agli abitanti del villaggio, come se avessero deciso di vivere lì per qualche anno. Valeva davvero la pena di passare un po' di tempo a osservarli perché formavano proprio una coppia bizzarra. L'uomo era «elegante da morire», pensò Nigel ridacchiando tra sé per la definizione di cattivo gusto. Vestito scuro, fatto su misura, senza dubbio di marca Savile Row; orologio d'oro da tasca con la catena in bella mostra sul gilet; Burberry buttato con nonchalance sulla spalliera della sedia - perché la gente che ha i soldi per comprarsi un Burberry lo butta sempre di qua e di là senza badarci? -; scarpe lucide ma non troppo. Quello era Scotland Yard? In un certo senso, la donna rispondeva meglio alla sua idea di investigatore di polizia. Era bassa e tarchiata, una specie di bidone dell'immondizia ambulante. Indossava un vestito spiegazzato e macchiato che non le stava bene. Persino del colore sbagliato per lei, notò Nigel. Il celeste è un bel colore, ma non su di te, botticella. La camicetta era gialla e non s'intonava affatto alla sua carnagione olivastra, per non dire che era infilata in modo maldestro nella gonna. E le scarpe! Un paio di rozze scarpe comode del tipo che ci si poteva aspettare dalla polizia, e lei le portava. Ma con le calze blu per essere in tinta con il vestito? Signore, quella poveretta faceva proprio una pessima figura. Fece schioccare la lingua in segno di disapprova-
zione e si alzò. Con calma si diresse verso il loro tavolo. «Scotland Yard?» esordì disinvolto senza presentarsi. «Nessuno vi ha mai parlato di Ezra?» Quando alzò la testa per guardare il nuovo venuto, il primo pensiero di Lynley fu: No, ma immagino che lo stia per fare tu. Davanti a lui c'era un uomo con un bicchiere di cognac in mano in evidente attesa di un invito a sedersi. Non appena il sergente Havers fece il gesto di aprire il taccuino, si sentì parte della compagnia e si prese una sedia. «Nigel Parrish», si presentò. L'organista, ricordò Lynley. Doveva essere sulla quarantina e aveva dei lineamenti che la mezza età valorizzava. I capelli castani, un po' radi, spruzzati di grigio sulle tempie, erano pettinati all'indietro in modo da lasciar libera la fronte che esprimeva intelligenza; il naso dritto e deciso dava al volto di Parrish un'aria di distinzione; la mascella volitiva e il mento squadrato evocavano un'idea di forza. Era snello, non molto alto, un tipo interessante più che bello. «Ezra», lo sollecitò a continuare Lynley. Parrish diede un'occhiata in giro ai presenti come se si aspettasse che entrasse qualcuno. «Farmington. L'artista che vive al villaggio. Ogni villaggio non ospita un artista, un poeta, uno scrittore o qualcosa del genere? Pensavo fosse un requisito indispensabile della vita di campagna.» Parrish scosse le spalle. «Ezra è il nostro. Acquerelli. Qualche volta oli. Non male, a dir la verità. Ne vende anche qualcuno a una galleria di Londra. Veniva qua tutti gli anni per circa un mese, ma adesso è diventato uno di noi.» Sorrise fissando il bicchiere. «Caro, caro Ezra», ripeté con aria meditabonda. Lynley non aveva intenzione di essere menato per il naso. «Quali informazioni vuole darci sul conto di Ezra Farmington, signor Parrish?» Dalla sorpresa che si lesse nello sguardo di Parrish era evidente che non si aspettava un approccio così diretto. «A parte il fatto che è un Casanova di paese, dovreste sapere ciò che è successo alla fattoria di Teys.» Lynley pensò che le inclinazioni romantiche di Ezra non c'entrassero niente, anche se era ovvio che interessavano a Parrish. «Cos'è successo alla fattoria di Teys?» domandò ignorando l'altra allusione. «Be'...» Parrish si animò all'idea del racconto, ma la vista del bicchiere vuoto gli smorzò l'entusiasmo. «Sergente», disse Lynley con voce neutra, gli occhi fissi sull'altro uomo,
«potrebbe portare al signor Parrish un altro...» «Courvoisier», rispose Parrish con un sorriso. «E uno per me.» Barbara ubbidì con sollecitudine. «Niente per lei?» chiese Nigel con aria preoccupata. «Non beve.» «Che persona noiosa!» Quando lei tornò, Parrish le rivolse un sorriso compiacente, bevve con grazia un sorso di cognac, e si apprestò a raccontare. «A proposito di Ezra», disse appoggiandosi al tavolo con aria confidenziale, «fu una sgradevole scenata. La sola ragione per cui ne sono a conoscenza è perché vi ho assistito. Baffi, sa.» Lynley aveva già sentito quel discorso. «Il cane che amava la musica?» «Mi scusi?» «Padre Hart ci ha detto che a Baffi piaceva ascoltarla suonare l'organo.» Parrish scoppiò a ridere. «Non è ridicolo? Mi rovino le dita a furia di esercizi, cari miei, e il mio spettatore più entusiasta è un cane.» Le sue parole avevano un tono vivace, come se non ci fosse niente di più divertente. Tuttavia Lynley si accorse che era una recita, neanche troppo mascherata, perché dietro la facciata si avvertiva un'amarezza strisciante. Parrish faceva il gioviale, ma si notava lo sforzo. «Be', così stanno le cose», continuò. Si rigirò tra le mani il bicchiere, contemplando le sfumature di colore che assumeva il cognac quando lo illuminava la luce. «In quanto a interesse per la musica, questo paese è un Sahara. In realtà suono la domenica in chiesa solo per una soddisfazione personale. Sa Dio se qualcuno è in grado di distinguere una fuga da uno scherzo. Sa che St. Catherine ha l'organo più bello dello Yorkshire? Tipico, vero? Sono sicuro che sia stato acquistato direttamente da Roma per tenere sotto controllo i cattolici di Keldale. Io personalmente sono anglicano.» «E Farmington?» chiese Lynley. «Ezra? Non penso che Ezra sia religioso. Ma», aggiunse vedendo che Lynley non aveva un'aria divertita, «immagino lei voglia sapere ciò che ho da dire sul suo conto.» «Mi ha letto nel pensiero, signor Parrish.» «Ezra.» Parrish sorrise e bevve un sorso, forse per farsi coraggio, forse per consolarsi. Difficile dirlo. Abbassò la voce per un attimo, però, e in quel frangente venne alla luce la vera natura dell'uomo, volubile e meditabondo. Ma si riprese quasi subito ritornando al pettegolezzo. «Vediamo,
sarà passato un mese da quando William Teys ha buttato Ezra fuori dalla fattoria.» «Era entrato nella proprietà senza permesso?» «Certo. Ma secondo Ezra, lui ha una sorta di 'licenza artistica' che gli dà il diritto di entrare dappertutto. E intendo dire dappertutto. Stava facendo quella che lui definisce pittura d'azione di High Kel Moor. Tipo le Cattedrali di Rouen. Iniziare un disegno ogni quindici minuti.» «Conosco Monet.» «Allora sa che cosa voglio dire. Be', l'unica strada - diciamo la più veloce - per High Kel Moor passa per i boschi dietro la Gembler Farm. E la strada per i boschi...» «Passa attraverso la terra di Teys», terminò Lynley. «Esatto. Stavo camminando a passo svelto lungo la strada con Baffi appresso. Aveva fatto la solita comparsa al paese e, poiché era un po' tardi per lasciare tornare il vecchio Baffi da solo, lo stavo accompagnando. Avevo sperato che fosse la nostra cara Stepha a portarlo con la Mini, ma era introvabile. Così ho dovuto trascinarmi fin là quella vecchia bestia con le mie povere gambe stanche.» «Lei non ha una macchina?» «Non una affidabile, purtroppo. Comunque, arrivo alla fattoria e li trovo lì che stanno litigando furiosamente in mezzo alla strada. C'era William in pigiama...» «Scusi?» «Pigiama, ispettore. O era in vestaglia?» Parrish diede una sbirciatina al soffitto e rifletté sulla domanda. «Era in vestaglia. Mi ricordo di aver pensato: 'Dio, che gambe pelose ha il vecchio William', quando lo vidi. Proprio come un gorilla.» «Capisco.» «Ed Ezra era lì che gridava, agitava le braccia e bestemmiava in un modo che deve aver fatto rizzare i capelli al povero William. Il cane s'intromise nella discussione e strappò un pezzo dei pantaloni di Ezra. Intanto, William fece a pezzi tre preziosi acquerelli di Ezra e buttò il resto della sua cartella sul bordo della strada. Fu una cosa orribile.» Parrish abbassò lo sguardo quando arrivò alla conclusione della storia, con una nota di tristezza nella voce; ma quando sollevò la testa, dall'espressione degli occhi si capiva che, secondo lui, Ezra aveva avuto ciò che si meritava da tempo. Lynley seguì con lo sguardo il sergente Havers salire le scale e scompa-
rire alla vista. Si strofinò le tempie e si recò nella saletta dove una luce in fondo alla stanza illuminava il capo chino di Stepha Odell. Lei alzò gli occhi dal libro quando udì i passi. «L'abbiamo tenuta alzata per chiudere la porta?» domandò Lynley. «Mi dispiace moltissimo.» Lei fece un sorriso e stiracchiò le braccia. «S'immagini», rispose in modo amabile. «Stavo sonnecchiando un po' sul mio romanzo, comunque.» «Cosa sta leggendo?» «Una storia di poco conto.» Rise con disinvoltura e si alzò, e lui notò che era a piedi scalzi. Si era cambiata: non aveva più l'abito grigio che aveva messo per andare in chiesa, ma una semplice gonna di tweed e un maglione. Al collo aveva una catena d'argento con una sola perla di fiume che le ricadeva tra i seni. «E il mio modo di evadere dalla realtà. I romanzi d'amore sono sempre a lieto fine.» Lui rimase dov'era, vicino alla porta. «Lei come evade dalla realtà, ispettore?» «Non lo faccio, purtroppo.» «Allora cosa fa con i fantasmi della sua vita?» «I fantasmi?» «Dare la caccia agli assassini. Non può essere un lavoro piacevole. Perché lo fa?» La domanda era giusta, ammise, e lui conosceva la risposta. È una penitenza, Stepha, l'espiazione di peccati che ho commesso che tu non puoi capire. «Non ci ho mai pensato.» «Ah.» Annuì con aria pensosa e lasciò perdere. «Be', è arrivato un pacco per lei. L'ha portato da Richmond un uomo poco gradevole. Non ha voluto dire il suo nome, ma sembrava una grossa pastiglia digestiva.» Una descrizione eccellente di Nies, pensò Lynley, quando lei andò dietro il bancone. La seguì. Doveva aver lavorato nella sala nel tardo pomeriggio perché si sentiva un profumo di cera d'api e di birra. Quel miscuglio di odori lo riportò con la memoria alla sua infanzia in Cornovaglia, quando, bambino di dieci anni, divorava pasticci di sfoglia nella cucina della fattoria Trefallen. Erano ghiottonerie per lui, carne e cipolle in un involto di sfoglia, frutto proibito e sconosciuto nella formale sala da pranzo di Howenstow. «Ordinari», li definiva suo padre con disprezzo. E lo erano davvero, e per quello ne andava pazzo. Stepha appoggiò una grossa busta sul bancone. «Ecco qui. Vuole farmi compagnia per il bicchiere della staffa?» «Grazie. Con piacere.»
Lei fece un sorriso. Notò che le rendeva più tonde le guance e le sottili rughe attorno agli occhi sembravano scomparire. «Bene. Si sieda allora. Ha l'aria molto stanca.» Si andò a sedere su un divano e aprì la busta. Nies non si era preoccupato di fare ordine nel materiale. C'erano tre blocchi pieni di appunti, altre fotografie di Roberta, rapporti della Scientifica che aveva già e assolutamente niente su Baffi. Stepha Odell appoggiò un bicchiere sul tavolo e si sedette di fronte a lui sollevando le gambe sulla sedia. Che cosa è successo a Baffi? si domandò Lynley. «Perché non c'è niente sul conto del cane?» «Gabriel lo sa», rispose Stepha. Per un momento pensò che fosse un modo di dire del paese ma poi si ricordò del nome del poliziotto locale. «L'agente Langston?» Lei annuì sorseggiando il drink. Le sue dita erano lunghe e sottili, senza anelli. «Ha seppellito Baffi.» «Dove?» Scrollò le spalle e scostò i capelli dal viso. Mentre quel gesto fatto da Barbara era brutto, fatto da Stepha aveva una grazia che allontanava le cose tristi. «Non lo so con precisione. Mi pare che sia nelle terre della fattoria.» «Ma perché non è stata fatta l'autopsia sul cane?» meditò Lynley. «Suppongo che non ce ne fosse bisogno. La causa della morte della povera bestia era evidente.» «Qual era?» «Gli hanno tagliato la gola, ispettore.» Frugò tra il materiale alla ricerca delle fotografìe. Non c'era da meravigliarsi che non se ne fosse accorto prima. Il corpo di Teys copriva quello del cane. Studiò la fotografia. «Capisce adesso dove sta la questione, vero?» «Che intende dire?» «Si può mai pensare che Roberta abbia tagliato la gola a Baffi?» Un'espressione di disgusto si dipinse sul volto di Stepha. «È impossibile. Mi scusi, ma è proprio impossibile. Inoltre non è mai stata trovata l'arma. Certo non può avergli tagliato la gola con l'ascia!» Mentre lei parlava, Lynley si trovò a domandarsi per la prima volta chi fosse la vittima designata del delitto: William Teys o il suo cane?
Supponiamo che fosse in atto un furto, pensò. Il cane doveva essere messo a tacere. Era vecchio, certo incapace di attaccare qualcuno, ma ancora in grado di fare baccano, se avesse individuato una presenza estranea sul suo territorio. Quindi il cane doveva essere sistemato. Ma forse non abbastanza in fretta, cosicché quando Teys si precipitò nel fienile per scoprire il motivo dell'abbaiare del cane, dovette essere sistemato anche lui. Forse, pensò Lynley, non si trattava di omicidio premeditato, ma di un crimine di tutt'altra natura. «Stepha», disse con aria pensierosa. Infilò la mano in tasca. «Chi è questa?» Le mostrò la fotografia che lui e il sergente Havers avevano trovato nel cassettone di Roberta. «Dove diamine l'ha trovata?» «Nella camera di Roberta. Chi è?» «È Gillian Teys, la sorella di Roberta.» Diede un leggero colpetto alla foto, come per dare maggiore enfasi alle sue parole. «Roberta deve averla tenuta ben nascosta dalla portata di William.» «Perché?» «Perché dopo che Gillian scappò, fu come morta per William. Buttò via i suoi vestiti, i suoi libri e distrusse anche ogni sua fotografia. Bruciò il suo certificato di nascita e ogni altra cosa in un grande falò in mezzo al cortile. Come diavolo ha fatto Roberta a salvarla?» domandò più a se stessa che a lui, gli occhi fissi sulla fotografia. «Forse è ancora più importante il perché.» «Semplice. Roberta adorava Gillian. Sa Dio perché. Gillian era la pecora nera della famiglia. Crescendo era diventata una ribelle. Beveva e bestemmiava, ed era sempre in giro, a spassarsela, una notte a una festa a Whitby, la successiva con qualche poco di buono dio-sa-dove. Abbordava gli uomini e concedeva loro ciò che volevano. Poi una notte, circa undici anni fa, partì. E non tornò più.» «Partì? O scomparve?» chiese Lynley. Stepha si appoggiò allo schienale della sedia. Si portò una mano al collo, ma si bloccò temendo che il gesto la tradisse. «Partì», disse decisa. «Perché?» incalzò lui. «Suppongo perché non andava d'accordo con William. Lui era piuttosto severo e Gillian pensava solo a divertirsi. Ma Richard, suo cugino, potrebbe dirle senz'altro qualcosa di più. Loro due erano in rapporti molto stretti prima che lui partisse per le paludi.» Stepha si alzò, si stiracchiò e si diresse verso la porta; lì si fermò. «Ispettore», disse con studiata lentezza.
Lynley sollevò lo sguardo dalla fotografia quasi aspettandosi che lei aggiungesse qualcosa sul conto di Gillian Teys. Lei esitò. «Desidera... qualcos'altro stasera?» La luce della reception alle sue spalle rendeva di un rosso acceso i suoi capelli. La sua pelle appariva liscia e vellutata. Gli occhi avevano un'aria gentile. Sarebbe stato così facile. Un'ora di beatitudine. Un consenso appassionato. Un oblio semplice e agognato. «No, grazie, Stepha», si costrinse a dire. Il fiume Kel era un corso d'acqua tranquillo, a differenza di molti altri che scendevano in modo precipitoso dalle pendici delle colline giù per le valli. Passava silenzioso attraverso Keldale, scorreva accanto alle rovine dell'abbazia e continuava il suo cammino verso il mare. Amava il villaggio e lo trattava bene, poche volte era straripato. Gli faceva piacere che la locanda si trovasse sulle sue sponde, mandava i saluti al villaggio con i suoi spruzzi, e partecipava all'esistenza delle persone che vivevano nelle case costruite sui suoi argini. Olivia Odell abitava in una di queste, oltre il ponte della locanda, con vista panoramica sul villaggio e la chiesa. Era la casa più bella del paese, con un delizioso giardino davanti alla facciata principale e un prato che digradava verso il fiume. Era ancora mattina presto quando Lynley e Barbara varcarono il cancello, ma dal pianto costante di un bambino proveniente dal retro della casa dedussero che gli abitanti erano già alzati. Si diressero verso la fonte di quel lamento disperato. Sui gradini posteriori dell'abitazione era seduta una bambina in lacrime. Era tutta raggomitolata su se stessa, la testa china sulle ginocchia, la fotografia di una rivista accartocciata sotto le scarpe sporche. Alla sua sinistra aveva uno spettatore, una maestosa anatra maschio che la guardava con comprensione. La sua testa era l'evidente causa del dispiacere, perché si era tagliata i capelli - o piuttosto qualcuno glieli aveva tagliati - e li aveva appiccicati al cranio con abbondante gel. In base a quanto si poteva dedurre dai boccoli ribelli al trattamento, prima dovevano essere rossi e decisamente ricci, ma adesso, con quell'odore sgradevole di gel da quattro soldi, erano orribili a vedersi. Barbara e Lynley si scambiarono un'occhiata. «Buongiorno», disse l'ispettore con garbo. «Devi essere Bridie.» La bambina alzò lo sguardo e afferrò la fotografia, tenendola stretta al
petto con un gesto materno. L'anatra si limitò a sbattere le palpebre. «Che c'è che non va?» le chiese Lynley con dolcezza. L'atteggiamento di sfida di Bridie sparì al suono gentile della voce dell'uomo. «Mi sono tagliata i capelli!» disse piagnucolando. «Ho messo da parte i soldi per andare da Sinji, ma non poteva farmi questa pettinatura e non ha voluto tagliarmi i capelli, allora me li sono tagliati io e, guardatemi, anche la mamma si è messa a piangere. Ho cercato di sistemarli con questa roba di Hannah ma non vogliono andare a posto!» Dopo aver pronunciato quelle ultime parole, scoppiò in singhiozzi strazianti. Lynley annuì. «Capisco. Il risultato non è dei migliori, Bridie. Di preciso quale taglio volevi?» Provò un brivido di orrore al pensiero dell'acconciatura punk di Hannah. «Questo!» Gli mostrò la fotografia e si mise a piangere di nuovo. Lui prese la fotografia e si trovò davanti l'immagine impeccabile e sorridente della principessa Diana, elegante nell'abito da sera nero e i gioielli di diamanti, non un capello fuori posto. «Certo», borbottò lui. Senza la sua fotografia, Bridie cercò conforto nell'anatra, le buttò un braccio al collo e se la tirò vicino. «A te non importa, vero, Dougal?» domandò all'uccello. Come risposta Dougal sbatté le palpebre e fece un'ispezione dei capelli di Bridie per appurare se avessero qualità commestibili. «Dougal Duck?» domandò Lynley. «Angus McDougal McDuck», precisò la bambina. Fatta la presentazione ufficiale, si pulì il naso con la manica del pullover e sbirciò con apprensione la porta chiusa alle spalle. Una lacrima le rigò la guancia mentre continuava: «E lui ha fame. Ma non posso entrare a prendergli da mangiare. Ho qui solo delle altee. Vanno bene per uno spuntino, ma il suo vero pasto è dentro e io non posso metterci piede». «Perché no?» «Perché la mamma ha detto che non mi vuole rivedere finché non ho messo a posto i capelli e io non so cosa fare!» La bambina si rimise a piangere davvero angosciata. Dougal sarebbe morto di fame - un'eventualità improbabile date le sue dimensioni -, se non si fosse trovata in fretta una soluzione. Comunque non fu necessario procedere a un piano d'azione perché in quel momento la porta del retro si aprì di colpo. Olivia Odell diede un'occhiata a sua figlia - la seconda quel giorno - e scoppiò in lacrime. «Non riesco a capacitarmi come abbia potuto fare una cosa simile! Non posso proprio crederci! Fila in casa a lavarti i capelli!» La sua voce crebbe
di tono a ogni parola rasentando alla fine l'isteria. «Ma Dougal...» «Portatelo pure dietro», disse la donna piangendo. «Ma fai come ti dico!» La bambina prese in braccio l'anatra e i due colpevoli scomparvero. Olivia tirò fuori un fazzoletto dal cardigan, si soffiò il naso e fece un sorriso stentato ai due visitatori. «Che scena spaventosa», commentò, ma dicendo quello si mise di nuovo a piangere ed entrò in cucina lasciandoli in piedi sulla soglia. Si diresse barcollando verso il tavolo e si mise le mani sul volto. Lynley e Barbara si guardarono e decisero di entrare. A differenza di Gembler Farm, non c'era il minimo dubbio che in quella casa ci vivesse della gente. La stanza era in condizioni pietose: la cucina a gas era coperta di pentole e padelle, gli elettrodomestici erano da pulire, i fiori aspettavano di essere messi nell'acqua, i piatti erano ammucchiati nel lavandino. Il pavimento era appiccicoso, le pareti avevano bisogno di essere imbiancate, e si sentiva un forte odore di bruciato. La fonte di quell'odore si trovava su un piatto, una piccola massa nerastra che sembrava fosse stata spenta in fretta da una tazza di tè. Oltre la cucina, quello che si poteva vedere del salotto non era in condizioni migliori. Tenere in ordine la casa non era certo un'attività congeniale a Olivia Odell. Né allevare un bambino, se l'avvenimento di quella mattina poteva essere indicativo. «Non riesco a tenerla a bada!» si disperò Olivia. «Nove anni e non riesco a tenerla a bada!» Fece a pezzetti il fazzoletto di carta, come in trance ne cercò un altro e, non trovandone, pianse ancora più forte. Lynley prese un fazzoletto dalla sua tasca. «Tenga», glielo offrì. «Grazie», rispose lei. «Oh, mio Dio, che mattinata!» Si soffiò il naso, si asciugò gli occhi, si passò una mano tra i capelli e guardò la propria immagine riflessa nel tostapane. Vedendosi, si lasciò sfuggire un gemito, e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Dimostro cinquant'anni. Come avrebbe riso Paul!» E poi, senza alcun nesso logico, aggiunse: «Vuole assomigliare alla principessa Diana». «Ce l'ha fatto vedere», rispose imperturbabile Lynley. Scostò una sedia dal tavolo, tolse da sopra i giornali e si mise a sedere. Dopo un attimo Barbara fece la stessa cosa. «Perché?» domandò Olivia più al soffitto che ai suoi ospiti. «Che cosa ho mai fatto perché mia figlia arrivasse a credere che la chiave della felicità sia assomigliare alla principessa Diana?» Premette le dita sulla fronte.
«William avrebbe saputo che cosa fare. Sono perduta senza di lui.» Desiderando evitare un altro scoppio di lacrime, Lynley si affrettò a intervenire per distrarla. «Le bambine hanno sempre idoli cui vorrebbero assomigliare, non crede?» «Sì», confermò Olivia. «Oh, sì, è proprio vero.» Aveva cominciato ad arrotolare il fazzoletto. Lynley trasalì nel vedere come lo stava riducendo. «Non so mai trovare la cosa giusta da dire alla bambina. Finisce sempre tutto in una scena isterica. William sapeva sempre cosa dire e cosa fare. Quando era qui lui, andava tutto liscio, ma non appena usciva, eravamo di nuovo come cane e gatto! E adesso se n'è andato per sempre! Che ne sarà di noi?» Non attese una risposta. «E per i suoi capelli. Non sopporta di avere i capelli rossi. Ha manifestato questa avversione sin da quando ha cominciato a parlare. Non lo capisco. Perché una bambina di nove anni deve infiammarsi così per i capelli!» «Le rosse di solito s'infiammano per qualsiasi cosa», commentò Lynley. «Oh, ecco! Ecco! Stepha è lo stesso. Si direbbe che Bridie sia sua figlia, non sua nipote.» Trattenne il respiro e si raddrizzò sulla sedia. Si sentirono dei passi di corsa nel corridoio. «Signore, dammi la forza», mormorò Olivia. Bridie entrò nella stanza con una salvietta arrotolata in qualche modo sulla testa, il maglione - che per ubbidire agli ordini della madre non si era data la pena di togliere - era bagnato sulle spalle e giù per la schiena. Era seguita dalla sua anatra che camminava come un marinaio, con una strana andatura dondolante. «È zoppo», comunicò Bridie notando che Lynley stava osservando l'animale. «Quando nuota, gira sempre in circolo, perciò non gli permetto di nuotare a meno che non sia presente anch'io. La scorsa estate, però, l'abbiamo portato a nuotare un sacco di volte. Nel fiume. Abbiamo fatto una diga appena fuori e non si è mai divertito tanto. Si buttava nell'acqua e girava girava. Eh, Dougal?» L'anatra espresse con una strizzata d'occhi la sua approvazione e cominciò a cercare sul pavimento qualcosa da mangiare. «Avanti, fatti vedere, MacBride», le disse la madre. La bambina si avvicinò, la madre le tolse l'asciugamano e controllò il danno. Di nuovo le vennero le lacrime agli occhi nel vedere il triste spettacolo, ma si trattenne. «C'è solo bisogno di una spuntatina», intervenne subito Lynley. «Che ne dice, sergente?» «Una spuntatina dovrebbe bastare», concordò il sergente Havers.
«Io penso che la cosa da fare, Bridie, sia rinunciare all'idea di assomigliare alla principessa Diana. E devi ricordare che i tuoi capelli sono ricci», aggiunse Lynley quando vide che le tremava il labbro inferiore. «I suoi sono dritti. E quando Sinji ti ha detto che non poteva pettinarti a quel modo, diceva la verità.» «Ma è così carina», protestò Bridie. Stava di nuovo per scoppiare a piangere. «Lo è. Certamente. Ma il mondo sarebbe strano se ogni donna fosse esattamente uguale a lei, vero? Credimi, ci sono molte donne che sono assai carine e non le assomigliano per niente.» «Davvero?» Bridie lanciò un'occhiata piena di rimpianto alla fotografia accartocciata. Sul naso della principessa c'era una grossa macchia di gel. «Se te lo dice l'ispettore, devi crederci, Bridie», aggiunse Barbara, e dal tono si deduceva il resto della frase: Lui è un esperto in materia. Bridie guardò prima la donna poi l'uomo, avvertendo che c'erano sottintesi che non capiva. «Be'», dichiarò, «credo che dovrò dar da mangiare a Dougal.» L'anatra, almeno, sembrava essere d'accordo. Il salotto della Odell era solo poco meglio della cucina. Era difficile credere che una donna e una bambina potessero creare un tale caos. Sulle sedie erano ammucchiati vestiti come se madre e figlia fossero sul punto di traslocare; gingilli in equilibrio precario sul bordo dei tavoli e sui davanzali; un'asse da stiro aperta sembrava avesse lì la sua collocazione permanente; un pianoforte verticale lasciava cadere sul pavimento spartiti musicali. Era un caos totale, la polvere era così alta che se ne sentiva persino l'odore. Olivia fece loro cenno di sedere, apparentemente incurante della confusione, ma prima di prendere posto a sua volta si diede un'occhiata in giro e, rassegnata, tirò un sospiro. «Di solito non è così conciato. Io sono stata... è stato...» Si schiarì la voce e scosse la testa come se volesse riordinare i pensieri. Si passò ancora una volta le dita tra i capelli sottili e scomposti. Era un gesto da ragazza, che stonava in una donna da tempo non più adolescente. Aveva la pelle sottile, i lineamenti delicati, ma il tempo non si era mostrato clemente con lei: parecchie rughe le solcavano la pelle che non era più elastica, come se avesse perso troppi chili e troppo in fretta. Le guance e i polsi erano ossuti. «Sapete», disse all'improvviso, «quando morì Paul, non fu così brutto.
Non riesco invece ad accettare la morte di William.» «Il fatto improvviso», le suggerì Lynley. «Lo choc.» Lei annuì. «Forse ha ragione. Mio marito Paul era malato da molti anni. Ho avuto il tempo di prepararmi. E Bridie, poi, era troppo piccola per capire. Ma William...» Fece uno sforzo per controllarsi, fissò lo sguardo sul muro, si raddrizzò a sedere. «William era una presenza importante nella nostra vita, un punto di riferimento. Credo che tutte e due avessimo cominciato a dipendere da lui e adesso non c'è più. Ma sono egoista a reagire in questo modo. Come faccio a comportarmi così quando c'è Bobby cui pensare?» «Roberta?» Lei lo guardò per un attimo e poi distolse gli occhi. «Veniva sempre qui con William.» «Com'era?» «Tranquilla. Simpatica. Non carina d'aspetto. Robusta, sapete. Ma era sempre molto buona con Bridie.» «Richard Gibson e suo zio ebbero una discussione a causa del peso eccessivo di Roberta, però, vero?» Olivia aggrottò la fronte. «Una discussione? Che intende dire?» «La lite che scoppiò tra loro per quel motivo. Al Dove and Whistle. Vuole raccontarci l'episodio?» «Oh, quello. Deve essere stata Stepha a dirvelo. Ma quel fatto non c'entra con la morte di William», si premurò di aggiungere quando vide che il sergente Havers annotava qualcosa. «Non si può mai dire. Ce ne vuole parlare?» Alzò la mano come per protestare, ma poi se la rimise in grembo. «Richard non tornava dalle paludi da lungo tempo. Ci trovò al Dove and Whistle. Ebbero uno scontro verbale. Una sciocchezza. Tutto finì in un attimo. Ecco la storia.» Fece un sorriso vago. «Che cosa si dissero?» «All'inizio Roberta non c'entrava affatto. Eravamo tutti seduti a un tavolo quando William, purtroppo, fece un apprezzamento sul conto di Hannah. La ragazza che sta al bar. L'avete vista?» «Ieri sera.» «Allora avrete notato che ha un aspetto... insolito. William non approvava il suo modo di vestire né il comportamento del padre nei suoi confronti. Insomma, come se la cosa lo divertisse. Così William disse qualcosa in proposito. Del tipo: 'Non capisco come mai suo padre le permetta di girare
conciata come una sgualdrina'. Qualcosa del genere. Niente di grave. Richard aveva un po' bevuto. Aveva il viso tutto graffiato, per cui pensai che doveva aver litigato con la moglie. Era di pessimo umore. Disse che non era così stupido da giudicare dalle apparenze, che - se non ricordo male un angelo può avere l'aspetto di una prostituta e dietro un viso da cherubino può nascondersi una puttana.» «E William come interpretò quell'affermazione?» Lei sorrise con aria stanca. «Come un'allusione a Gillian, la sua figlia più grande. Pretese di sapere che cosa intendesse Richard con quelle parole. Richard e Gilly erano stati grandi amici, sapete. Io credo che, per evitare di rispondere, Richard sviò il discorso su Roberta.» «Come?» «Come un esempio del fatto che non si deve giudicare dalle apparenze. Richard voleva sapere perché Roberta si era ridotta in quelle condizioni. A sua volta William voleva sapere che cosa lui intendeva insinuare sul conto di Gilly. Richard pretendeva una risposta da William. William pretendeva una risposta da Richard. Sa come vanno queste cose.» «E poi?» Lei si mise a ridere. Era un suono soffocato, come quello di un uccello preso in trappola. «Pensavo che si sarebbero presi a pugni. Richard disse che non avrebbe mai permesso che un figlio suo si scavasse prematuramente la fossa a furia di mangiare e che William avrebbe dovuto vergognarsi dei risultati che aveva ottenuto come padre. William si arrabbiò e ribatté qualcosa a proposito del fatto che Richard avrebbe dovuto vergognarsi di non essere all'altezza del ruolo di marito. Fece un... un apprezzamento un po' brutale sul fatto che Madeline rimaneva insoddisfatta - è la moglie di Richard, l'avete conosciuta? - e a quel punto mi aspettavo che Richard avrebbe colpito lo zio e invece scoppiò a ridere. Dichiarò che era uno sciocco a preoccuparsi tanto di Roberta e se ne andò.» «Questo è tutto?» «Sì.» «Ma, secondo lei, che cosa intendeva dire esattamente Richard?» «Col definirsi sciocco?» Come se avesse capito dove andava a parare la domanda, lei si rabbuiò. «Vuole farmi dire che si sentiva uno sciocco perché se Roberta fosse morta avrebbe ottenuto la fattoria.» «Intendeva dire questo?» «No, certo che no. William rifece testamento subito dopo che Richard era tornato dalle paludi. Richard sapeva molto bene che sarebbe stato lui a
ereditare la fattoria e non Roberta.» «Ma se lei avesse sposato William, allora il testamento avrebbe dovuto essere rifatto un'altra volta. Non è vero?» Lei capì la trappola. «Sì... ma so che cosa sta pensando. Per Richard sarebbe stato meglio che William morisse prima che noi ci sposassimo. Ma non è sempre così quando c'è di mezzo un'eredità? E la gente di solito non ammazza solo perché aspetta un'eredità.» «Invece sì, signora Odell», obiettò Lynley con cortesia, «le persone lo fanno in continuazione.» «Non in questo caso. Penso solo che... be', che Richard non è molto felice. E le persone infelici dicono un sacco di cose che non pensano veramente e fanno un sacco di cose che altrimenti non farebbero, solo per cercare di dimenticare la loro infelicità, non è vero?» Lynley e Havers non risposero subito. Olivia si muoveva inquieta sulla sedia. Fuori si sentì la voce di Bridie che chiamava l'anatra. «Roberta era a conoscenza di questa faccenda?» domandò Lynley. «Se così era, non ne fece mai parola. Quando era qui, perlopiù parlava con quella sua voce bassa - del matrimonio. Penso fosse ansiosa che William e io ci sposassimo. Per trovare in Bridie una sorella. Per avere qualcuno che prendesse il posto di Gillian. Sentiva molto la mancanza della sorella. Non credo che abbia mai superato il trauma della fuga di Gillian.» Si accorse che le pendeva un filo dall'orlo della gonna e lo arrotolò finché non si ruppe. Allora lo guardò in silenzio, come sorpresa di quanto era successo. «Bobby - William la chiamava sempre così e noi facevamo lo stesso - portava con sé Bridie, perché William e io potessimo stare un po' da soli. Lei e Bridie, l'anatra e Baffi se ne andavano tutti insieme. S'immagina la scena?» Fece un sorriso e lisciò le pieghe della gonna. «Andavano al fiume o all'abbazia per fare un picnic. Loro quattro. E allora William e io potevamo parlare.» «Di che cosa parlavate?» «Di Tessa, perlopiù. Certo, era un problema, ma l'ultima volta che venne qui - il giorno della sua morte - disse che era stato risolto.» «Non mi pare di capire», osservò Lynley. «Che genere di problema? Psicologico, vuol dire? L'incapacità di accettare la sua morte?» Olivia stava guardando fuori della finestra, ma quando sentì l'ultima parola si girò verso di loro. «Morte?» domandò perplessa. «Tessa non è morta, ispettore. Ha abbandonato William poco dopo la nascita di Roberta. Lui aveva ingaggiato un detective per rintracciarla in modo da poter far annul-
lare il matrimonio dalla Chiesa e sabato pomeriggio era venuto a dirmi che finalmente l'aveva trovata.» «York», disse l'uomo. «E non sono obbligato a dirle altro. Sa, devo essere ancora pagato per le mie prestazioni.» Lynley strinse forte il ricevitore. Sentiva la rabbia montargli dentro. «Che ne dice di una richiesta di comparizione in tribunale?» chiese con aria cortese. «Ascolti, vecchio mio, non cerchi di tirar fuori 'sta stronzata con me...» «Signor Houseman, vorrei ricordarle che, nonostante ciò che può pensare, lei non è il personaggio di un romanzo di Dashiell Hammett.» Lynley già s'immaginava il tipo, piedi sulla scrivania, una bottiglia di bourbon nel cassetto dell'archivio, intento a giocherellare con la pistola mentre tiene in equilibrio sulla spalla il ricevitore del telefono. Non era molto lontano dalla verità. Harry Houseman guardava fuori della finestra dell'ufficio situato sopra il negozio di Jackie, il barbiere, nella Trinity Church Square di Richmond. Stava cadendo una leggera pioggerella, non sufficiente a eliminare il sudiciume della finestra, ma perfetta per farlo risaltare. Che brutta giornata, pensò. Aveva in programma una puntata sulla costa - una certa signora di Whitby era molto ansiosa di fare accurate indagini personali con lui -, ma quel tempo non lo metteva dell'umore giusto. Fece un sorriso che mise in mostra un incisivo con una brutta capsula. Dava un tocco piratesco a un aspetto per il resto anonimo: capelli castani, occhi marrone spento, pelle cadaverica e, nota stonata in quel contesto, una bocca carnosa e sensuale. Giocherellava con una matita masticata sulla scrivania piena di segni. Lo sguardo gli cadde sulla foto della moglie che lo fissava con aria imbronciata. Con la matita la fece cadere a faccia in giù. «Sono certo che si possa arrivare a un accordo soddisfacente per entrambi», disse Houseman. «Vediamo. Signorina Doalson?» Fece una pausa per creare un attimo di suspense. «Oggi ho tempo per... Be', lo annulli. Può di sicuro aspettare finché...» Poi di nuovo al telefono: «Come ha detto che è il suo nome?» «Noi non ci vedremo», rispose paziente Lynley. «Lei mi darà l'indirizzo di York e qui finirà il nostro rapporto.» «Oh, non vedo come potrei...» «Ma si che può.» La voce di Lynley era tagliente. «Perché, come ha detto, lei non è ancora stato pagato. E se un giorno vuole essere pagato, quan-
do sarà stata sistemata la questione ereditaria - il che, detto tra parentesi, può richiedere anni se non andiamo in fondo alla faccenda -, mi dovrà dare l'indirizzo di Tessa Teys.» Silenzio all'altro capo del filo. «Che c'è, signorina Doalson?» chiese la voce fremente con accento mellifluo. «Sull'altra linea? Be', lo faccia aspettare.» Un sospiro rassegnato. «Vedo, ispettore, che non è facile trattare con lei. Tutti dobbiamo guadagnarci il pane, lo sa.» «Mi creda, lo so», rispose secco Lynley. «L'indirizzo?» «Devo solo cercarlo tra le mie carte. Posso chiamarla tra... diciamo un'ora?» «No.» «Be', buon Dio, insomma...» «Sto per partire per Richmond.» «No, no, non è necessario. Aspetti solo un istante, vecchio mio.» Houseman si appoggiò alla sedia, guardando per un attimo il cielo grigio. Prese lo schedario, aprì e chiuse alcuni cassetti per fare un po' di scena. «Che c'è, signorina Doalson?» gridò. «No, la faccia aspettare fino a domani. Non mi interessa se sta piangendo a dirotto, tesoro, non ho tempo per lei, oggi.» Prese un pezzo di carta dalla scrivania. «Ah, eccolo qui, ispettore», esclamò, e diede l'indirizzo a Lynley. «Ma non si aspetti che l'accolga a braccia aperte.» «Non m'interessa molto come mi accoglierà, signor Houseman. Buon...» «Oh, ma dovrebbe interessarle, ispettore. Solo un pochino, sa. Il marito è andato su tutte le furie quando ha ricevuto la notizia. Pensavo che mi avrebbe strangolato seduta stante, quindi sa Dio cosa farà quando si troverà davanti Scotland Yard. È uno studioso, tutto paroloni e profonde meditazioni. Ma, mi dia retta, ispettore, quell'uomo è subdolo. C'è un animale dentro di lui.» Lynley strinse gli occhi. Era un sasso buttato lì, una manovra da esperto. Avrebbe voluto far finta di niente, ma dovette ammettere la sconfitta. «Di che cosa sta parlando? Che cosa ha saputo?» «La notizia dell'esistenza di un marito numero uno, ovviamente.» «Che sta cercando di dirmi, Houseman?» «Che Tessa Teys è bigama, vecchio mio», finì Houseman con soddisfazione. «Si è sposata con il numero due senza divorziare ufficialmente dal nostro William. S'immagina la sorpresa quando sono comparso sulla porta di casa?»
La casa non era affatto come se la sarebbe aspettata. Le donne che abbandonano il marito e i figli dovrebbero finire in case popolari che puzzano d'aglio e di urina. Dovrebbero mettere a tacere la coscienza con abbondanti libagioni di gin. Dovrebbero essere appassite e rovinate, col fisico distrutto dalla vergogna. In ogni caso, Lynley era certo che non avrebbero dovuto essere come Tessa Mowrey. Aveva parcheggiato di fronte alla casa, e si fermarono a guardarla in silenzio finché Barbara non parlò. «Non si può dire che sia finita male, vero?» osservò. L'avevano trovata facilmente, un quartiere nuovo, medioborghese, a poche miglia dal centro cittadino; il genere di posto in cui le case hanno un nome oltre che un numero. La casa dei Mowrey si chiamava Jorvik View. Era la realizzazione del sogno della gente comune: la facciata in mattoni, il tetto spiovente coperto da tegole rosse; ai due lati della porta principale ben lucidata c'erano la sala da pranzo e il salotto che si vedevano attraverso i bovindo con le tende bianche. Attiguo alla casa c'era il box con un solo posto macchina, sopra di esso un terrazzo con una ringhiera bianca, cui si accedeva tramite una porta posta al piano superiore della casa. Fu su questo terrazzo che videro per la prima volta Tessa. Uscì dalla porta, i capelli biondi scompigliati dal vento, per innaffiare i vasi di fiori: crisantemi, dalie e calendule che creavano un mosaico di colori autunnali che facevano contrasto con la ringhiera bianca. Quando vide la Bentley ebbe un attimo di esitazione, rimase con l'innaffiatoio a mezz'aria e nella luce del tardo mattino sembrò una creatura sorpresa dal pennello di Renoir. E, notò severo Lynley, non dimostrava un giorno di più che in quella fotografia scattata diciannove anni prima e custodita con cura religiosa a Gembler Farm. «E poi dicono che i peccati si scontano», mormorò lui. 8 «Forse c'è un ritratto in soffitta», replicò Barbara. Lynley la guardò sorpreso. Fino a quel momento aveva tenuto sempre un comportamento ineccepibile, aveva eseguito tutti i suoi ordini senza discutere e con grande sollecitudine, e quell'inattesa battuta spiritosa, lo lasciò di stucco. Carina, però. «Complimenti, sergente», ridacchiò. «Vediamo che cos'ha da dire la signora Mowrey.» Aprì loro la porta e si mise a osservare ora l'uno ora l'altra con aria con-
fusa e - traspariva dallo sguardo? - un pizzico di paura. «Buongiorno», disse. Da vicino si vedeva che era una donna non più giovane. Ma i capelli erano ancora biondi, la figura sottile e la pelle un po' lentigginosa e praticamente senza rughe. Lynley le mostrò la tessera di riconoscimento. «Scotland Yard. Squadra omicidi. Possiamo entrare, signora Mowrey?» Guardò prima Lynley e poi la faccia arcigna del sergente Havers e quindi ancora l'uomo. «Certo.» Aveva la voce calma, gentile e cordiale, ma una certa esitazione, una rigidità nei movimenti lasciavano intuire forti emozioni represse. Fece strada verso una porta che dava nel salotto e con un gesto li invitò ad accomodarsi. Era una stanza arredata con gusto, mobili in stile moderno di pino e noce che ben si armonizzavano con i colori autunnali. Si sentiva il ticchettio di un orologio, leggero e rapido come il battito di un polso accelerato. Lì non c'era il disordine caotico di Olivia Odell né la precisione esasperata di Gembler Farm. Quel locale era invece il luogo di ritrovo di una famiglia ben affiatata, c'erano in mostra fotografie, souvenir di viaggi e in mezzo ai libri erano ammucchiate scatole di giochi e di carte. Tessa Mowrey si sedette su una sedia nel luogo più distante della stanza, dove la luce era più debole. Era seduta sul bordo, la schiena rigida, le gambe accavallate, le mani raccolte in grembo. Aveva una semplice fede matrimoniale. Non chiese la ragione della visita di Scotland Yard. Seguì invece con lo sguardo Lynley che si avvicinava al piano del caminetto per osservare le fotografie esposte. «I suoi figli?» chiese lui. Erano due, un maschio e una femmina, ritratti durante una vacanza della famiglia a St. Ives. Riconobbe la ben nota curva della baia, le case bianche e grigie sul litorale, e le barche rimaste all'asciutto con la bassa marea. «Sì», rispose. Non aggiunse altro. Rassegnata, aspettava l'inevitabile. Continuò il silenzio. Lynley non aveva intenzione di intervenire. Alla fine, spinta dal nervosismo, riprese a parlare. «Vi ha telefonato Russell?» Si sentiva la disperazione nella sua voce. Aveva un suono spento, come se avesse sperimentato tutte le sfumature del dolore e non le fosse rimasto più niente, nessun ulteriore baratro di emozioni dove poter precipitare. «Pensavo che l'avesse fatto. Sono passate tre settimane. Avevo cominciato a sperare che volesse soltanto punirmi finché non avessimo sistemato le cose.» Mostrò un certo disagio quando il sergente Havers tirò fuori il taccuino. «Oh, è necessario?» chiese con un filo di voce.
«Temo di sì», rispose Lynley. «Allora vi racconterò tutto. È la cosa migliore.» Si guardò le mani e le serrò più forte. Strano, pensò Lynley, come noi umani ricorriamo agli stessi gesti per esprimere angoscia. Una mano che tocca il collo, le braccia strette attorno al corpo in atteggiamento protettivo, una veloce aggiustatina ai vestiti, un trasalimento per difendersi da uno choc emotivo. Tessa, notò lui, stava raccogliendo le forze per affrontare quella prova, come se stringere più forte le dita intrecciate servisse a trasfondere coraggio. Parve che funzionasse. Alzò lo sguardo con espressione decisa. «Avevo appena compiuto sedici anni quando lo sposai. Potete immaginare che cosa voglia dire per una ragazza di sedici anni essere sposata con un uomo di diciotto anni più vecchio? Di sicuro no. Nessuno potrebbe. Neanche Russell.» «Non voleva continuare a studiare?» «Ne avevo l'intenzione, ma avevo lasciato la scuola per alcune settimane per aiutare alla fattoria quando la schiena di papà era peggiorata. Doveva essere una soluzione temporanea. Sarei dovuta ritornare dopo un mese. Marsha Fitzalan mi aveva assegnato dei compiti, in modo che non rimanessi indietro. Ma rimasi indietro ed ecco William.» «Che intende dire?» «Era venuto per comprare un montone da papà. Lo accompagnai io a vederlo. William era... molto bello. Io ero romantica. Lui per me era Heathcliff venuto infine a portar via Cathy.» «Certo suo padre non sarà stato molto contento che la figlia sedicenne avesse deciso di sposarsi, e per giunta con un uomo maggiore di lei di tanti anni, no?» «In effetti fu così. Anche la mamma non voleva. Ma io ero ostinata, e William era un uomo responsabile, rispettabile e forte. Penso fossero convinti che se non mi avessero permesso di sposarlo, avrei dato i numeri e sarei finita comunque male. Così diedero il loro consenso e ci sposammo.» «Come andò il matrimonio?» «Che ne sa una ragazza di sedici anni del matrimonio, ispettore?» replicò. «Non sapevo neanche come nascono i bambini, quando sposai William. Lei penserà che una ragazza che vive in una fattoria debba essere un po' più informata, ma deve sapere che io trascorrevo la maggior parte del tempo sui libri delle Brontë. Charlotte, Anne ed Emily stavano sempre un po' sul vago quando si entrava nel vivo. Ma lo scoprii molto in fretta. Gil-
lian nacque prima che io compissi diciassette anni. William era al settimo cielo. La adorava. Era come se la sua vita fosse cominciata nel momento in cui aveva visto Gilly.» «Tuttavia passarono un bel po' di anni prima che lei avesse un secondo bambino.» «Perché la nascita di Gilly cambiò completamente il rapporto tra me e mio marito.» «In che senso?» «Non so come, ma quell'esserino piccolo e fragile suscitò in William un profondo senso religioso e da allora niente fu più uguale a prima.» «Avevo l'impressione che fosse sempre stato legato alla religione.» «Oh, no. Non prima della nascita di Gillian. Era come se non si sentisse a sufficienza un buon padre, come se dovesse purificarsi l'anima per essere degno della bambina.» «Che cosa faceva?» Fece una breve risata a quel ricordo, ma non c'era né piacere né divertimento in quel suono. «La Bibbia, la confessione, la comunione tutti i giorni. A un anno dal nostro matrimonio era diventato la colonna portante della chiesa di St. Catherine e un padre devoto.» «E lei era lì, un'adolescente che cercava di vivere con una neonata e un santo.» «La situazione era proprio questa. Tranne che non dovevo badare alla bambina. Non ero ritenuta all'altezza di accudirla. O forse non ero santa abbastanza: in ogni caso, se ne occupava lui.» «Lei che cosa fece?» «Mi rifugiai nella lettura.» Durante la parte iniziale del colloquio era rimasta immobile sulla sedia, ma adesso si era alzata e si era avvicinata al bovindo dal quale si scorgeva in lontananza il duomo di York. Secondo Lynley, Tessa non vedeva la cattedrale ma il suo passato. «Sognavo che William diventasse il signor Darcy. Sognavo che il signor Knightley mi facesse perdere la testa. Speravo di incontrare un giorno Edward Rochester, se solo avessi creduto con forza ai miei sogni.» Incrociò le braccia sul petto come se avesse potuto in tal modo scacciare il dolore di quel periodo. «Avevo un bisogno estremo di essere amata. Quanto volevo essere amata! Riesce a capirlo, ispettore?» «Chi non ci riuscirebbe?» rispose Lynley. «Pensavo che se avessimo avuto un altro bambino, ciascuno di noi avrebbe avuto qualcuno in particolare da amare. Allora io... attirai nuova-
mente William nel nostro letto.» «Nuovamente?» «Oh, sì, nuovamente. Mi aveva lasciato subito dopo la nascita di Gilly e aveva cominciato a dormire da solo. Sul divano, in guardaroba, dovunque tranne che con me.» «Perché?» «La scusa che adduceva era che la nascita di Gilly era stata molto faticosa per me. Non voleva che rimanessi incinta di nuovo e dovessi soffrire ancora tanto.» «Esistono i contraccettivi...» «William era cattolico, ispettore. I contraccettivi non sono contemplati.» Smise di guardare dalla finestra e si voltò verso di loro. La luce tolse il colore dalle sue guance, cancellò il segno delle sopracciglia e delle ciglia e accentuò le rughe ai lati della bocca. Se se ne accorse, non si spostò per evitare quell'effetto impietoso, preferì rimanere ferma, come se volesse evidenziare la propria età. Continuò. «Ma, ripensandoci, ritengo che a spaventare William fosse il sesso e non il possibile concepimento. In ogni modo, alla fine riuscii a farlo tornare nel mio letto. E, otto anni dopo Gilly, nacque Roberta.» «Se lei aveva avuto ciò che desiderava - un altro bambino da amare -, perché se n'è andata?» «Perché era tutto ricominciato come prima. Anche la mia seconda bambina venne allontanata da me, proprio come era successo con Gillian. Io amavo le mie figlie, ma non potevo esser loro vicino, non nel modo in cui avrei voluto. Non avevo niente.» Anche se la sua voce ebbe un tremito sull'ultima parola, si piegò su se stessa e mantenne il controllo. «Ciò che mi restava era Darcy. I miei libri.» «Allora decise di andarsene.» «Mi svegliai una mattina, poche settimane dopo la nascita di Roberta, e capii che, se fossi rimasta, mi sarei annientata. Avevo quasi venticinque anni. Avevo due bambine che non mi era concesso di amare e un marito che aveva cominciato a consultare la Bibbia prima di vestirsi al mattino. Guardai fuori della finestra, vidi il sentiero che portava a High Kel Moor ed ebbi la certezza che sarei partita quel giorno.» «Non cercò di fermarla?» «No. Certo, avrei voluto che lo facesse, ma lui non l'ha fatto. Uscii dalla porta e dalla sua vita portando con me soltanto una valigia e trentaquattro sterline. Venni a York.»
«Non è mai venuto a trovarla? Non ha mai cercato di rintracciarla?» Scosse la testa. «Non gli dissi mai dov'ero. Semplicemente cessai di esistere. Ma avevo smesso di esistere per William già molti anni prima, se è per quello.» «Perché non ha divorziato da lui?» «Perché non avevo intenzione di risposarmi. Venni a York con l'idea di riprendere gli studi, non di riprendere marito. Avevo in progetto di lavorare per un po', di metter da parte dei soldi, di andare a Londra o addirittura emigrare negli Stati Uniti. Ma sei settimane dopo il mio arrivo a York, tutto cambiò. Conobbi Russell Mowrey.» «Come vi conosceste?» Lei si mise a sorridere al ricordo. «Avevano chiuso parte della città per effettuare gli scavi dei ritrovamenti vichinghi.» «Sì, mi ricordo.» «Russell era un neolaureato di Londra. Faceva parte del gruppo archeologico. Avevo infilato la testa in un buco dello steccato di recinzione per dare un'occhiata ai lavori. E lì c'era Russell. Le prime parole che mi rivolse furono: 'Gesù, una dea scandinava!' e poi arrossì fino alla radice dei capelli. Penso che m'innamorai di lui in quel momento. Aveva ventisei anni. Portava gli occhiali, che continuavano a scivolargli sul naso, indossava pantaloni sporchissimi, e una maglietta con il nome dell'università. Quando si avvicinò per parlarmi, scivolò nel fango e finì con il sedere per terra.» «Non certo un Darcy», commentò Lynley con gentilezza. «No. Molto di più. Quattro settimane dopo eravamo sposati.» «Perché non gli ha raccontato di William?» Aggrottò le sopracciglia e sembrò cercare le parole più adatte per farsi comprendere da loro. «Russell era una persona ingenua. Si era fatto... un'idea di me. Vedeva in me una specie di principessa vichinga, una principessa delle nevi. Come avrei potuto dirgli che avevo un marito e due figlie che avevo abbandonato in una fattoria tra le valli?» «Che cosa sarebbe cambiato, se l'avesse saputo?» «Niente, suppongo. Ma all'epoca immaginavo che sarebbe successo di tutto. Pensavo che non mi avrebbe più voluta, che non sarebbe stato disposto ad aspettare che ottenessi il divorzio. Cercavo l'amore, ispettore, e alla fine l'avevo trovato. Potevo rischiare di perderlo?» «Ma qui siamo a sole due ore da Keldale. Non temeva che un giorno William potesse ricomparire? Magari di incontrarlo per caso in strada?»
«William non lasciava mai le valli. Nemmeno una volta, in tutti gli anni che sono stata con lui. Lì aveva tutto: le sue figlie, la sua religione, la fattoria. Perché mai sarebbe dovuto venire a York? Inoltre all'inizio pensavo che saremmo andati a Londra. La famiglia di Russell si trova là. Ma rimanemmo qui. Rebecca nacque cinque anni dopo. E poi William, diciotto mesi più tardi.» «William?» «Si può immaginare quello che provai quando Russell decise di chiamarlo William. È il nome di suo padre. Come potevo oppormi?» «E allora lei è qui da diciannove anni?» «Sì», rispose Tessa. «Prima in un piccolo appartamento nel centro città, poi in una villetta a schiera vicino a Bishopthorpe, e l'anno scorso abbiamo comprato questa casa. Avevamo... risparmiato per tanto tempo. Russell faceva due lavori, e anch'io avevo un posto al museo. Siamo stati», trattenne una lacrima, «così felici. Dio, così felici. Fino a ora. Siete venuti per me, vero? O avete delle notizie da comunicarmi?» «Nessuno glielo ha detto? Non lo ha letto?» «Letto che cosa? Qualcosa è... Lui non è...» Tessa guardò prima Lynley poi Barbara. Era ovvio che capì qualcosa dalla loro espressione, perché sul suo volto apparve un lampo di paura prima di continuare a parlare. «La notte in cui Russell se ne andò, era molto arrabbiato. Pensai che se non avessi detto niente, fatto niente, gli sarebbe passata. Sarebbe tornato a casa e...» Lynley si accorse di colpo che stavano parlando di due cose diverse. «Signora Mowrey», la interruppe, «sa che cosa è successo a suo marito?» Spalancò gli occhi che divennero cupi per l'ansia. «Russell», mormorò. «Se n'è andato il sabato in cui l'investigatore mi ha trovato. Tre settimane fa. Da allora non è più tornato.» «Signora Mowrey», disse Lynley con cautela, «William Teys è stato assassinato tre settimane fa. Sabato notte, tra le dieci e mezzanotte. Sua figlia Roberta è stata incriminata per il delitto.» Se si aspettavano che svenisse, si sbagliavano. Li fissò per quasi un minuto senza parlare, poi si voltò verso la finestra. «Rebecca sarà a casa tra poco», dichiarò con voce opaca. «Torna a casa per pranzo. Chiederà notizie di suo padre. Lo fa ogni giorno. Ha capito che c'è; qualcosa che non va, ma sono riuscita a tenerla all'oscuro della cosa il più possibile.» Si toccò la guancia con mano tremante. «So che Russell è andato a Londra. Non ho telefonato alla sua famiglia perché non volevo assolutamente che capissero
che qualcosa non andava. Ma so che è andato da loro a Londra. Lo so.» «Ha una fotografia di suo marito?» domandò Lynley. «L'indirizzo della sua famiglia a Londra?» Si girò di scatto verso l'investigatore. «Non è stato lui!» gridò con forza. «È un uomo che non ha mai alzato un dito sui suoi bambini! Era arrabbiato - sì, l'ho detto -, ma era arrabbiato con me, non con William! Non sarebbe andato, non avrebbe potuto...» Cominciò a piangere, disperatamente, forse erano le prime lacrime dopo tre settimane di tortura. Appoggiando la fronte contro il vetro della finestra, pianse sconsolata. Il sergente Havers si alzò e uscì dalla stanza. Buon Dio, dove stava andando? si chiese Lynley, aspettandosi quasi una scena analoga a quella avvenuta al pub la sera prima. Invece tornò poco dopo con una caraffa di succo d'arancia e un bicchiere. «Grazie, Barbara», le disse. Lei fece un cenno con la testa, abbozzò un sorriso diffidente e riempì il bicchiere per la donna. Tessa Mowrey lo prese ma, invece di bere, lo tenne stretto come fosse stato un talismano. «Rebecca non deve vedermi in queste condizioni. Devo riprendermi. Devo essere forte.» Guardò il bicchiere che aveva in mano, bevve un sorso e fece una smorfia. «Non sopporto il succo d'arancia in scatola. Perché devo tenerlo in casa? Oh, Russell dice che non è poi tanto male. Forse ha ragione.» Quando si girò verso Lynley, lui notò che dimostrava tutti i suoi quarantatré anni. «Non ha ucciso William.» «Questo è quanto dicono a Keldale a proposito di Roberta.» Lei trasalì. «Non la considero mia figlia. Mi dispiace. Non l'ho mai conosciuta.» «E stata messa in un ospedale psichiatrico, signora Mowrey. Quando hanno trovato William, lei ha dichiarato di averlo ucciso.» «Allora, se ha confessato l'omicidio, perché siete venuti da me? Se dice di aver ammazzato William, allora Russell di sicuro...» La sua voce svanì. Era come se avesse d'improvviso afferrato il senso delle sue parole e si fosse accorta di essere pronta a barattare la figlia per il marito. In fondo non poteva biasimarla. Lynley pensò al box della stalla, alla Bibbia miniata, agli album delle fotografie, al freddo silenzio della casa malinconica. «Ha mai più visto Gillian?» le chiese di colpo aspettando un segno, la più piccola indicazione che Tessa sapesse della scomparsa di Gillian. Non ce ne fu nessuno. «Mai.»
«Non l'ha mai contattata in alcun modo?» «No, assolutamente. Anche se avesse voluto, William non gliel'avrebbe mai permesso, ne sono certa.» Probabilmente no, pensò Lynley. Ma una volta che se ne era andata, una volta che aveva tagliato i ponti con il padre, perché non aveva cercato la madre? «Un fanatico della religione», dichiarò Barbara decisa. Si tirò i capelli dietro le orecchie e guardò la fotografia che aveva in mano. «Ma questo non è niente male. La seconda volta ha scelto bene. Peccato che non si sia preoccupata di chiedere il divorzio.» Russell Mowrey le sorrideva dall'istantanea che Tessa aveva dato loro. Era un uomo di bell'aspetto, vestito con una certa cura, a braccetto della moglie. Domenica di Pasqua. Barbara infilò la foto nella cartelletta e tornò a osservare il paesaggio. «Almeno sappiamo perché Gillian se n'è andata.» «A causa del fanatismo religioso del padre?» «Io la penso così», rispose lei. «È ovvio che poi c'entra anche la nascita della seconda bambina. Per otto anni era stata il centro della vita del padre - non sembra che la mamma abbia contato molto - quando tutt'a un tratto arriva la sorellina. Dovrebbe essere la mamma a occuparsene, ma papà non si fida della mamma, allora accudisce personalmente anche la seconda figlia. La mamma se ne va, e Gillian fa lo stesso.» «Non proprio, Havers. Ha atteso otto anni prima di sparire.» «Be', non si può pensare che lo facesse a otto anni! Ha aspettato il momento opportuno, covando nel frattempo l'odio per la piccola Roberta che le aveva rubato l'affetto di papà.» «Questa ipotesi non ha senso. Prima lei sostiene che Gillian è scappata perché non sopportava il fanatismo religioso del padre. Poi dice che se ne è andata perché Roberta le ha sottratto l'amore del padre. O lo ama e vuole essere di nuovo la sua preferita, oppure non riesce a sopportare il suo fanatismo religioso e capisce che deve scappare. Non possono essere entrambe le cose.» «Non è mai o bianco o nero!» protestò Barbara vivacemente. «Queste cose non lo sono mai!» Lynley la guardò sorpreso dall'indignazione che traspariva dalla sua voce. I suoi lineamenti grossolani sembravano di gesso. «Barbara...» «Mi scusi! Accidenti! Sto ricominciando da capo! Perché me la prendo? Sono incorreggibile. Lo faccio sempre. Ma io...»
«Barbara», la interruppe con fermezza. Lei guardò fisso davanti a sé. «Sì, signore?» «Stiamo parlando del caso, non litigando in un tribunale. È giusto avere un'opinione. Desidero che lei l'abbia, in effetti. Ho sempre trovato molto utile discutere di un caso con qualcuno.» Non era solo quello, in realtà. Era confrontarsi, ridere, sentire la dolce voce dire: «Oh, tu pensi di aver ragione, Tommy, ma dimostrerò che hai torto!» Si sentì avvolgere dalla solitudine come da un sudario freddo e bagnato. Il sergente Havers si mosse inquieta sul sedile. Senza la musica la tensione era fortissima. «Non so che cosa mi succeda», disse alla fine. «Mi lascio trascinare e dimentico che cosa sto facendo.» «Capisco.» Lasciò cadere l'argomento e si mise a seguire con lo sguardo il percorso a serpentina disegnato dalle pietre che delimitavano gli spazi lungo le pendici delle colline. Pensò a Tessa. Stava cercando di capirla, ma sapeva di non essere la persona adatta. Niente della sua vita in Cornovaglia e a Howenstow, a Oxford e a Belgravia, anche a Scotland Yard, poteva aiutarlo a comprendere quanto fosse limitata l'esistenza in una fattoria e come una ragazza di sedici anni potesse arrivare a credere che l'unico sbocco futuro fosse un matrimonio precoce. E tuttavia questo era alle origini di ciò che era successo. Nessuna romantica interpretazione dei fatti disponibili - nessuna considerazione su Heathcliff, per quanto pertinente - poteva nascondere la vera spiegazione. Dopo quelle settimane di dura fatica e di tedio alla fattoria anche un banale contadino dello Yorkshire le era apparso affascinante al confronto. Così era passata semplicemente da una trappola a un'altra. Sposata a sedici anni, madre a diciassette. Quale donna non avrebbe voluto fuggire da una simile esistenza? Però, se le cose erano andate così, perché risposarsi con tanta fretta? Barbara interruppe il filo dei suoi pensieri. Nella voce di lei era percepibile una notevole tensione e angoscia, e Lynley non poté fare a meno di guardarla incuriosito. Minuscole gocce di sudore le imperlavano la fronte. Lei deglutì rumorosamente. «Ciò che non riesco a capire è il... sacrario di Tessa. La donna lo abbandona - non che non avesse le sue buone ragioni e lui allestisce un vero e proprio Taj Mahal di fotografie in un angolo del salotto.» Lynley ebbe un improvviso lampo di genio. «Come facciamo a essere sicuri che sia stato William ad allestire il sacrario?»
Il sergente Havers fece sua l'ipotesi. «Potrebbe essere stata una delle ragazze», rispose. «Chi, secondo lei?» «Dev'essere stata Gillian.» «Per vendetta? Per ricordare ogni giorno a William che la mamma se n'era andata? Una sottile tortura perché aveva cominciato a prediligere Roberta?» «Niente di più probabile, signore», approvò lei. Fecero ancora molte miglia prima che Lynley parlasse di nuovo. «Può essere stata lei, Havers. Qualcosa mi dice che era disperata al punto da esserne capace.» «Tessa, intende dire?» «Quella notte Russell se n'era andato. Lei afferma di aver preso un'aspirina e di essere andata subito a letto, ma nessuno lo può verificare. Avrebbe potuto recarsi a Keldale.» «Perché uccidere il cane?» «Non l'avrebbe riconosciuta. Non c'era diciannove anni prima. Chi era Tessa per lui? Una sconosciuta.» «Ma decapitare il suo primo marito!» Barbara aggrottò la fronte. «Non sarebbe stato più facile chiedere il divorzio?» «No. Non per un cattolico.» «Secondo me, Russell è un colpevole più probabile. Chi sa dove è andato?» Quando Lynley non replicò, lei lo sollecitò: «Signore?» «Io...» esitò l'ispettore, fissando la strada davanti a sé. «Tessa ha ragione. E andato a Londra.» «Come può esserne certo?» «Perché credo di averlo visto, Havers. A Scotland Yard.» «Allora è davvero andato a denunciarla. Suppongo che lei avesse sempre saputo che l'avrebbe fatto.» «No. Non penso.» Havers ebbe un'altra idea. «Be', allora c'è Ezra.» Lynley le fece un sorriso smagliante. «William in pigiama in mezzo alla strada che fa a pezzi gli acquerelli di Ezra mentre quest'ultimo lo copre di insulti e maledizioni? Ci sarebbe il motivo per un assassinio in tal caso. Non credo che un artista la prenderebbe alla leggera se qualcuno gli distruggesse la sua opera.» Barbara aprì la bocca per parlare, ma si bloccò. Meditò per un istante. «Ma non era in pigiama.»
«Sì, lo era.» «No, non lo era. Era in vestaglia. Ricorda? Nigel ha detto che le sue gambe gli facevano venire in mente quelle di un gorilla. Allora che cosa stava facendo William in vestaglia? Era ancora chiaro. Non era ora di andare a letto.» «Si stava cambiando per la cena, direi. È in camera sua, guarda fuori della finestra, vede Ezra che sconfina nella sua proprietà, e scende furibondo in cortile.» «È un'ipotesi plausibile.» «Cos'altro?» «Stava facendo ginnastica, forse?» «Piegamenti sulle ginocchia in mutande? E difficile immaginarlo.» «O forse... Con Olivia?» Lynley sorrise. «Non nel caso in cui tutto quello che abbiamo scoperto sul suo conto sia vero. William mi sembra il classico tipo che non fa niente prima del matrimonio. Non penso che abbia tentato qualche giochetto con Olivia, prima.» «Che ne dice di Nigel Parrish?» «Che ne dice di lui?» «Accompagna il cane alla fattoria per buon cuore, come un membro dell'Ente protezione animali? L'intera storia non le sembra un po' strana?» «Sì. Ma pensa davvero che Parrish avrebbe voluto sporcarsi le mani con il sangue di William Teys? Per non parlare poi della testa che rotola sul pavimento del fienile.» «A essere sinceri sembra il tipo da svenire a una vista del genere.» Scoppiarono a ridere, primo segno di un'autentica comunicazione tra loro. Si zittirono subito in un silenzio imbarazzato di fronte all'improvvisa consapevolezza che sarebbero potuti diventare amici. La decisione di andare all'ospedale psichiatrico di Barnstingham scaturì dal fatto che Lynley era convinto che Roberta avesse in mano tutte le carte del gioco: l'identità dell'assassino, il movente del delitto e la scomparsa di Gillian Teys. Si era fermato un'ora dopo aver lasciato York per prendere gli accordi per telefono, e adesso, dopo aver fermato la macchina sul vialetto di ghiaia di fronte all'edificio, si rivolse a Barbara. «Sigaretta?» le chiese presentandole il portasigarette d'oro. «No, grazie, signore.» Lui annuì, lanciò un'occhiata all'imponente costruzione, poi di nuovo a
lei. «Aspetta qui, sergente?» le domandò, accendendosi la sigaretta con l'accendino d'argento. Lo fissò con occhi indagatori. «Perché?» Lui scrollò le spalle con indifferenza. Troppa, notò lei. «Ha l'aspetto provato. Pensavo desiderasse riposarsi un po'.» L'aspetto provato. Aveva assunto l'atteggiamento da damerino di scuola privata. Aveva fatto caso che se ne serviva ogni tanto qualora la circostanza lo richiedesse. Aveva smesso da un po'. Perché ostentarlo di nuovo in quel momento? «Se parliamo di stanchezza, ispettore, lei mi sembra sul punto di crollare. Che cosa c'è sotto?» Lui si guardò nello specchietto: la sigaretta gli pendeva dalle labbra, gli occhi erano socchiusi per difendersi dal fumo, sembrava un po' Sam Spade, un po' Algernon Moncrieff. «Sono davvero un bello spettacolo.» Si occupò per un attimo del suo aspetto: si sistemò la cravatta, si osservò i capelli, si tolse un immaginario pelino dai risvolti della giacca. Lei attese. Alla fine i loro sguardi si incrociarono. Il damerino, come pure l'altro personaggio, era scomparso. «La fattoria l'ha turbata un po', ieri», le disse in tutta sincerità. «Ho la sensazione che quello che troveremo qui sarà molto peggio di ciò che abbiamo visto alla fattoria.» Per un attimo non riuscì a distogliere gli occhi da quelli di lui, ma poi spinse la portiera dell'auto e la spalancò. «Saprò affrontarlo, signore», affermò decisa, e uscì nella frizzante aria autunnale. «L'abbiamo tenuta in isolamento», stava dicendo il dottor Samuels a Lynley mentre percorrevano il corridoio che attraversava l'edifìcio in tutta la sua lunghezza da est a ovest. Li seguiva Barbara, contenta che Barnstingham non fosse proprio come se l'era immaginato quando aveva sentito per la prima volta le parole ospedale psichiatrico. Non aveva affatto l'aspetto di un ospedale; era una costruzione in stile barocco inglese ad assi incrociate. Erano entrati nell'atrio principale che s'innalzava per due piani con pilastri scanalati, sorretti da plinti addossati ai muri. Luce e colore sembravano le parole d'ordine in quel luogo, perché la stanza era dipinta di un rilassante color pesca, gli stucchi decorativi erano bianchi, la moquette era ruggine chiaro, e i quadri di scuola fiamminga erano scuri e cupi, ma i personaggi ritratti avevano l'aria di volersi scusare del fatto. Tutto questo era motivo di sollievo per Barbara, perché quando Lynley
aveva per la prima volta fatto presente l'opportunità di vedere Roberta, di andare in quel luogo, lei si era sentita mancare, afferrare insidiosamente dal panico. Lynley se n'era accorto, ovviamente. Accidenti a lui. Non gli sfuggiva mai niente. Adesso che si trovava all'interno del palazzo, si sentiva meglio e la sensazione di sicurezza si accentuò quando, oltrepassato l'atrio, imboccarono il corridoio. Qui l'atmosfera accogliente era assicurata da tranquilli paesaggi di Constable, da vasi con fiori freschi e da voci ovattate. Da lontano giungeva il suono di canti e di musica. «Il coro», spiegò il dottor Samuels. «Da questa parte.» Lo stesso Samuels si era rivelato per lei fonte di sollievo e di sorpresa. Fuori delle mura dell'ospedale, Barbara non avrebbe mai detto che fosse uno psichiatra. La parola psichiatra evocava in lei in un certo qual modo l'immagine di Freud: un volto vittoriano con la barba, un sigaro e gli occhi indagatori. Ma Samuels aveva l'aspetto dell'uomo più a suo agio in sella a un cavallo o a passeggio nella brughiera che nello studio di menti malate. Aveva un bel fisico, era sciolto nei movimenti, ben rasato, con la tendenza, intuì Barbara, a non essere molto paziente con la gente la cui intelligenza non era all'altezza della sua. Doveva anche essere un tennista imbattibile. Aveva cominciato a sentirsi del tutto a suo agio nell'ospedale quando il dottor Samuels aprì una porta stretta - strano come fosse mimetizzata dal rivestimento - e li condusse nell'ala nuova dell'edificio. Quel settore corrispondeva nell'aspetto e nell'odore all'idea che Barbara aveva di un reparto di isolamento. La moquette era di un colore marrone scuro funzionale. Le pareti invece erano color sabbia bruciata, disadorne e interrotte soltanto da porte con finestrini ad altezza occhi. L'aria era satura dell'odore di disinfettanti, detersivi e medicinali. Si sentiva un lamento tenue che sembrava non venisse da un punto preciso, ma da ogni parte. Avrebbe potuto essere il vento. Avrebbe potuto esser qualsiasi cosa. Ecco qui, si disse. Il posto per gli psicopatici, per le ragazze che decapitano i papà, per le ragazze che uccidono. Ma ci sono molti modi di uccidere, Barb. «Non ha più aperto bocca dopo la sua prima dichiarazione», stava dicendo il dottor Samuels a Lynley. «Non era in stato catatonico. Ha detto semplicemente ciò che intendeva dire, penso.» Diede un'occhiata alla sua cartella. «'Sono stata io. Non me ne pento.' Questo il giorno in cui il corpo fu trovato. Da allora non ha più parlato.» «Non c'è una causa patologica? È stata visitata?»
Il dottor Samuels serrò le labbra, offeso. Era chiaro che questa intrusione di Scotland Yard era quasi un insulto e, se era costretto a fornire delle informazioni, si sarebbe limitato al minimo indispensabile. «È stata visitata», disse. «Nessuna paresi, nessun colpo apoplettico. È in grado di parlare. Non vuole farlo.» Se era rimasto infastidito dalla risposta laconica del dottore, Lynley non lo diede a vedere. Era abituato a trovarsi di fronte ad atteggiamenti analoghi a quello dello psichiatra, che facevano capire che i poliziotti erano nemici da ostacolare e non alleati da aiutare. Rallentò il passo e parlò al dottor Samuels del nascondiglio in cui Roberta teneva il cibo. Questo fatto, almeno, suscitò l'interesse dell'uomo. Quando riprese a parlare, aveva un tono tra il frustrato e il riflessivo. «Non so che cosa dirle, ispettore. Il cibo potrebbe essere, come lei suppone, una forma di nevrosi. Potrebbe essere uno stimolo o una reazione. Potrebbe essere una fonte di gratificazione o una forma di sublimazione. Se Roberta non ci dà uno spunto da cui partire, potrebbe essere qualsiasi cosa.» Lynley cambiò argomento. «Perché l'avete tolta alla polizia di Richmond? Non è un procedimento irregolare?» «Non quando la parte responsabile ha firmato per il ricovero», replicò il dottor Samuels. «Siamo un ospedale privato.» «La parte responsabile. Allude al commissario Nies?» Spazientito, Samuels scosse la testa. «Nient'affatto. Non accettiamo gente a caso impostaci dalla polizia.» Diede una scorsa alla scheda di Roberta. «È stato... mi lasci vedere... Gibson, Richard Gibson. Ha dichiarato di essere il parente più stretto. È stato lui a ottenere il consenso del tribunale e a riempire i moduli necessari.» «Richard Gibson?» «Questo è il nome che risulta sulla scheda, ispettore», rispose Samuels, secco. «Ha firmato per il ricovero della ragazza, in attesa del processo. Lei è sotto terapia. Finora non ci sono stati progressi, ma non è detto che non ce ne saranno mai.» «Ma perché Gibson avrebbe...» Lynley stava parlando più con se stesso che con gli altri due, ma Samuels continuò, forse presumendo che si stesse rivolgendo a lui. «È suo cugino, dopotutto. E più in fretta si riprende, più in fretta ci sarà il processo. A meno che non venga dimostrato che non è assolutamente in grado di affrontare un processo.» «E in tal caso», concluse Lynley con lo sguardo serio fìsso sul volto del dottore, «rimarrà rinchiusa a vita, vero?»
«Fino a quando non sarà guarita.» Samuels li accompagnò fino a una porta pesante e chiusa a chiave. «E qui dentro. È un peccato che debba restare sola, ma date le circostanze...» Armeggiò con la chiave e spalancò la porta. «Roberta, ci sono visite per te», le annunciò. Aveva scelto Prokofiev - Romeo e Giulietta - e la musica partì quasi contemporaneamente alla macchina. Grazie a Dio, pensò Barbara sentendosi a pezzi. Grazie a Dio. Possa la musica di violini, violoncelli e viole cancellare ogni pensiero, ogni ricordo, qualsiasi cosa in modo totale e irreversibile, così che non esista altro che suoni, senza dover pensare alla ragazza in quella stanza e, ancora più spaventoso, all'uomo nella macchina. Pur guardando risolutamente avanti, riusciva a vedere le mani sul volante, la peluria bionda che le ricopriva - ancora più sottile dei capelli -, le dita, e notarne i movimenti mentre compiva le manovre della guida lungo il tragitto di ritorno a Keldale. Quando lui si chinò per modificare il volume, vide il suo profilo. Era leggermente abbronzato. Oro e bruno. Pelle, capelli e occhi. Naso dritto, classico. Mascella decisa. Un viso che esprimeva chiaramente una grande forza interiore, risorse personali che lei non era in grado di comprendere. Come ce l'aveva fatta? Si trovava accanto alla finestra, ma non guardava fuori bensì fissava il muro: una ragazza goffa, alta quasi un metro e ottanta, che doveva pesare più di novanta chili. Era seduta su uno sgabello, con la schiena curva di chi ha subito una sconfitta, e si dondolava. «Roberta, mi chiamo Thomas Lynley. Sono venuto qui per parlare di tuo padre.» Continuava a oscillare. I suoi occhi non guardavano nulla, non vedevano nulla. Impossibile stabilire la sua capacità di sentire. Aveva i capelli sporchi, puzzavano. Erano trattenuti da una fascia elastica che metteva in risalto la faccia larga da luna piena; alcuni riccioli unti, ribelli, le ricadevano rigidi sul collo, tra le cui pieghe di grasso era incastrata, assurdo ornamento, una sottile catenina d'oro. «Padre Hart è venuto a Londra, Roberta. Ci ha chiesto di aiutarti. È sicuro che non hai fatto del male a nessuno.» Niente. La faccia larga era priva di espressione. Le guance e il mento erano coperti di foruncoli. Aveva la pelle tumefatta da strati di grasso che avevano cancellato quasi ogni traccia di quelli che un tempo erano i suoi lineamenti. Aveva un aspetto informe, grigio e sporco.
«Abbiamo parlato con un'infinità di persone a Keldale. Abbiamo conosciuto tuo cugino Richard, Olivia e Bridie. Bridie si è tagliata i capelli, Roberta. Ha combinato un bel guaio, purtroppo, nel tentativo di assomigliare alla principessa Diana. Sua madre ha provato un grosso dispiacere. Ha detto che sei sempre stata molto buona con Bridie.» Nessuna risposta. Roberta indossava una gonna troppo corta che metteva in mostra cosce bianche, flaccide e foruncolose la cui carne tremolava a ogni oscillazione del corpo. Ai piedi portava pianelle da ospedale, ma erano troppo piccole e le dita grassocce dalle unghie troppo lunghe sporgevano di un po'. «Siamo stati a casa tua. Hai letto tutti quei libri? Stepha Odell ha detto che li hai letti tutti. Sono davvero tanti. Abbiamo visto le foto di tua madre, Roberta. Era bella, vero?» Silenzio. Le braccia abbandonate lungo i fianchi. I seni enormi premuti contro la stoffa scadente della camicetta. I bottoni tenevano a fatica chiuso l'indumento quando la pressione prodotta dal movimento di oscillazione, come in una ripugnante pavana, si faceva più forte. «Credo sia una notizia un po' difficile per te da accettare, Roberta, ma siamo stati da tua madre, oggi. Sai che abita a York? Hai un altro fratello e una sorella, là. Ci ha detto quanto tuo padre amasse te e Gillian.» Il movimento cessò. Il volto non cambiò espressione e non c'era modo di intuire se avesse capito, ma cominciarono a scenderle le lacrime. Erano rivoli silenziosi di muto dolore che affondavano tra le pieghe di grasso e salivano sulle protuberanze dell'acne. Con le lacrime venne il muco. Cominciò a scendere dal naso in un filo viscido che le bagnò le labbra e raggiunse il mento. Lynley si accovacciò davanti a lei. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto immacolato e le pulì la faccia. Le prese la mano grassoccia e senza vita nella sua e la strinse forte. «Roberta.» Non ottenne risposta. «Troverò Gillian.» Si alzò in piedi, ripiegò il fazzoletto elegante con le sue iniziali e se lo rimise in tasca. Che cosa aveva detto Webberly? pensò Barbara. Può imparare molto lavorando con Lynley. E adesso sapeva perché. Non poteva guardarlo. Non poteva incrociare i suoi occhi. Sapeva che cosa ci avrebbe trovato e il pensiero che un sentimento simile fosse presente in quell'uomo che lei aveva deciso di considerare un damerino snob dell'alta borghesia la raggelava completamente. Lui era quello che andava a ballare nei locali notturni, che dispensava favori sessuali, risate e allegria, che si muoveva con disinvoltura in un
mondo dorato dove regnavano il denaro e i privilegi. Ma era impensabile che fosse - mai - l'uomo che aveva visto quel giorno. Era uscito dal cliché che lei gli aveva appiccicato addosso e l'aveva distrutto senza un minimo di esitazione. Lei doveva ricondurlo all'immagine che si era fatta di lui. Altrimenti il fuoco che le aveva bruciato dentro e l'aveva tenuta viva per tanti anni si sarebbe spento in fretta. E a quel punto, lo sapeva bene, sarebbe morta nel gelo. Con questo pensiero in testa si avvicinava a Keldale e non vedeva l'ora di liberarsi della presenza di Lynley. Ma quando la Bentley imboccò l'ultima curva prima del villaggio, capì subito che non avrebbe potuto svignarsela tanto presto. Perché Nigel Parrish e un altro uomo stavano litigando con violenza sul ponte, proprio sul percorso della macchina. 9 La musica d'organo sembrava venire direttamente dagli alberi. Si gonfiò in un crescendo, si smorzò, poi tornò nuovamente forte: una barocca combinazione di accordi e pause che diede a Lynley l'impressione che da un momento all'altro il fantasma sarebbe apparso dondolandosi dal lampadario del teatro. All'apparire della Bentley i due si separarono e uno si allontanò lanciando un'ultima, violenta imprecazione in direzione di Nigel Parrish prima di sparire verso la strada principale. «Credo che andrò a scambiare due parole con il nostro Nigel», dichiarò Lynley. «Non c'è bisogno che venga, Havers. Vada a riposare un po'.» «Posso benissimo...» «E un ordine, sergente.» Accidenti a lui. «Sissignore.» Lynley attese che Barbara Havers entrasse in albergo prima di attraversare a piedi il ponte, diretto a quella strana casetta situata ai limiti del paese. Era davvero una costruzione particolare, si disse. La facciata era ricoperta da un graticcio su cui si arrampicavano le rose. Crescevano libere in direzione delle strette finestre da entrambi i lati della porta. Risalivano la parete circondando con magnificenza l'architrave e arrivavano stupende fino al tetto, dove formavano una fitta macchia rosso sangue e riempivano l'aria di un profumo così intenso da dare quasi fastidio. L'effetto, nell'insieme, era quasi osceno. Nigel Parrish era già entrato e Lynley lo seguì, fermandosi sulla soglia a guardare la stanza. La musica che continuava a risuonare a tutto volume
veniva da un impianto che lasciava a bocca aperta: in tutti e quattro gli angoli della stanza c'erano enormi amplificatori che creavano al centro un vortice di musica. All'infuori di un organo, un registratore, una radio e un giradischi, in quel locale non c'era altro che un tappeto consunto e vecchie poltrone. Parrish spense il registratore, la fonte della musica. Riavvolse il nastro, lo estrasse e lo ripose al suo posto. Agì con calma, eseguendo ogni movimento con una precisione che fece capire a Lynley che sapeva benissimo che qualcuno si trovava sulla soglia. Ben recitato. «Signor Parrish?» Un moto di sorpresa, un voltarsi rapido, un sorriso di benvenuto sul viso... ma non riuscì a nascondere il tremito delle mani. Lo vide Lynley, e anche Parrish se ne accorse perché si affrettò a infilarsele nelle tasche dei pantaloni di tweed. «Ispettore! Una visita di cortesia, spero. Mi spiace che abbia assistito a quella scenata con Ezra.» «Ah, era Ezra dunque.» «Sì. Il piccolo, dolce Ezra. Il caro ragazzo pensava che la 'licenza artistica' gli desse libero accesso al mio giardino sul retro per studiare la luce sul fiume. Capisce? Ero qui tutto intento a entrare in armonia con Bach, quando ho guardato fuori della finestra e l'ho visto tirar fuori armi e bagagli. Per tutti i diavoli.» «È un po' tardi per mettersi a dipingere», constatò Lynley, avvicinandosi distrattamente alla finestra. Da lì non si riusciva a vedere né il giardino né il fiume; chissà perché Parrish gli aveva mentito. «Be', Dio solo sa che cos'hanno in mente questi grandi maghi del pennello», commentò Parrish allegro. «Whistler non ha dipinto il Tamigi in piena notte?» «Non credo proprio che Ezra Farmington possa essere paragonato a Whistler.» Lynley osservò Parrish estrarre di tasca un pacchetto di sigarette e tentare di accenderne una con dita tremanti. Gli si avvicinò e gli offrì la fiamma dell'accendino. Gli occhi di Parrish incrociarono i suoi, poi si nascosero dietro un sottile velo di fumo. «Grazie», mormorò. «Una scena davvero incivile. Be', non le ho ancora dato il benvenuto a Rose Cottage. Vuole bere qualcosa? No? Spero non le spiaccia, se mi servo.» E scomparve in una stanza adiacente. Rumore di vetro che s'infrange. Ci fu un lungo silenzio seguito nuovamente dal tintinnio di bottiglie e bicchieri, poi Parrish tornò con un abbondante
dito di whisky in un bicchiere. Doveva essere il secondo o il terzo, sospettò Lynley. «Perché beve al Dove and Whistle?» La domanda colse Parrish di sorpresa. «Si sieda, ispettore. Io ho bisogno di sedermi e mi fa tremare di paura il pensiero che lei se ne stia lì in piedi, incombente come se fosse la Nemesi.» Ottima tattica per prendere tempo, notò Lynley. Ma era una partita che potevano giocare entrambi. Si avvicinò allo stereo e con calma studiò i nastri di Parrish: una notevole collezione di Bach, Chopin, Verdi, Vivaldi e Mozart, oltre a una notevole presenza di contemporanei. A Parrish piaceva un genere musicale piuttosto vario, concluse. Riattraversò la stanza diretto verso una delle massicce poltrone imbottite e contemplò le travi di noce scuro del soffitto. «Perché vive in questo paese così isolato? Un uomo con i suoi gusti e il suo talento musicale dovrebbe trovarsi sicuramente meglio in un ambiente più cosmopolita.» Parrish si lasciò sfuggire una risatina, passandosi una mano sui capelli perfettamente pettinati. «Credo di preferire l'altra domanda. Posso scegliere a quale delle due rispondere?» «Il Santo Graal è proprio girato l'angolo, ma lei ha attraversato tutto il paese sulle... com'era?... sulle sue povere gambe stanche per andare a bere nell'altro pub in St. Chad's Lane. Che cosa l'attira là?» «Niente di particolare. Be', potrei raccontarle che si tratta di Hannah, ma dubito che mi crederebbe. La verità è che preferisco l'atmosfera del Dove. C'è qualcosa di profano nell'ubriacarsi proprio di fronte a una chiesa, non le pare?» «Vuole forse evitare qualcuno al Santo Graal?» «Evitare...?» Lo sguardo di Parrish passò da Lynley alla finestra. Una turgida rosa stava baciando il vetro con le sue enormi labbra. I petali stavano cominciando a rivoltarsi all'indietro. Lo stigma, lo stilo, l'antera e il filamento si erano fatti neri. Era da recidere. Presto sarebbe morta. «Buon Dio, no. Chi mai dovrei evitare? Padre Hart, magari? O il caro, defunto William? Lui e il prete avevano l'abitudine di alzare un po' il gomito un paio di volte la settimana, laggiù.» «Non le andava molto a genio Teys, vero?» «No, non molto. Le persone più sante di me non sono il mio genere. Non so come Olivia potesse sopportarlo.» «Forse voleva un padre per Bridie.»
«Forse. Dio sa se quella ragazzina non ha bisogno di un po' d'influenza paterna e anche il vecchio e duro William probabilmente era meglio che niente. Liv non sa come fare con lei. Me ne occuperei io, ma a essere sincero non amo molto i bambini. E non mi piacciono affatto le anatre.» «Lei però è comunque molto legato a Olivia.» Lo sguardo di Parrish non tradì nessuna emozione. «Sono stato a scuola con suo marito, Paul. Che uomo! Paul lo scatenato, Paul il buontempone.» «È morto quattro anni fa, giusto?» Parrish annuì. «Ballo di san Vito. Alla fine non riusciva nemmeno a riconoscere la moglie. È stato orribile... per tutti. Vederlo morire a quel modo ha cambiato la vita di tutti noi.» Sbatté varie volte le palpebre e si concentrò sulla sigaretta che teneva in mano, poi sulle unghie. Avevano tutti mani ben curate, notò Lynley. L'altro sorrise nuovamente. Era la sua arma difensiva, il suo modo per negare qualsiasi emozione si affacciasse alla superficie della sua malcelata indifferenza. «Immagino che la prossima domanda sarà dov'ero io quella notte fatale. Mi piacerebbe molto produrle un alibi, ispettore; dichiarare che ero a letto con la bella del paese sarebbe carino, ma temo di non avere saputo per tempo che il nostro beneamato William quella sera avrebbe incocciato in un'ascia, perciò me ne sono rimasto qui a suonare l'organo. Solo soletto. Ma devo pur trovare qualcuno che sostenga il mio alibi, no? Così penso di poter dichiarare che chiunque mi abbia sentito potrà dar credito alla mia storia.» «Come oggi, forse?» Parrish ignorò la domanda e vuotò il bicchiere d'un fiato. «Poi, quando mi sono sentito stanco morto, mi sono infilato a letto. E ancora una volta, purtroppo, solo soletto.» «Da quanto tempo abita a Keldale, signor Parrish?» «Ah, torniamo alla domanda originaria, non è così? Mi lasci pensare. Saranno quasi sette anni.» «E prima?» «Prima, ispettore, abitavo a York. Facevo l'insegnante di musica in una scuola media. E se vuole frugare nel mio passato alla ricerca di qualche particolare piccante, posso già dirle che non sono stato licenziato; ho deciso io di andarmene. Avevo voglia di campagna, avevo voglia di pace.» Nel pronunciare quell'ultima parola la sua voce crebbe un poco di tono. Lynley si alzò. «Sarò io ora a lasciarla in pace. Buonasera.» Mentre si allontanava dal cottage, sentì la musica riprendere - più bassa questa volta -, ma non prima che il fragoroso rumore di vetro infranto sulla
pietra gli facesse capire in che modo Nigel Parrish aveva festeggiato la sua uscita di scena. «Spero che non le dispiaccia», lo salutò Stepha Odell, «ma per cena le ho prenotato un tavolo a Keldale Hall.» Chinò la testa di lato e lo fissò con aria pensierosa. «Sì, credo proprio di aver fatto la cosa giusta; ha l'aria di averne bisogno.» «Sto dimagrendo a vista d'occhio?» Lei chiuse un registro che aveva davanti e lo ripose dietro il banco della reception. «Niente affatto. Il cibo è ottimo, naturalmente, ma non è per questo che le ho prenotato un tavolo lì. Il locale è la nostra grande attrattiva, gestito dalla pazza del luogo.» «Non vi manca niente qui, vero?» La donna scoppiò a ridere. «Abbiamo tutti i piaceri che la vita concede, ispettore. Beve qualcosa o è ancora in servizio?» «Accetterei volentieri una pinta della sua birra.» «Bene.» Gli fece strada nel soggiorno e armeggiò dietro il bar. «Keldale Hall è gestito dalla famiglia Burton Thomas. Famiglia in senso lato, naturalmente. La signora Burton Thomas ha al suo servizio una mezza dozzina di giovani e insiste nel farsi chiamare da tutti zia. Fa parte di quell'aura di eccentricità di cui ama circondarsi, secondo me.» «Sembra un gruppo dickensiano», commentò Lynley. Lei gli porse la birra e ne versò un po' anche per sé. «Aspetti di averli conosciuti. E senza dubbio li conoscerà, perché la signora Burton Thomas cena sempre con i suoi ospiti. Quando l'ho chiamata per prenotarle un tavolo era fuori di sé all'idea che un membro di Scotland Yard cenasse da lei. Sono sicura che avvelenerà qualcuno solo per il gusto di vederla all'opera. I sospetti non saranno molti, però. Mi ha detto di avere ospiti solo due coppie al momento: un dentista americano e due tipi 'cippi cippi', per ripetere l'espressione che ha usato lei.» «Proprio il genere di serata che desideravo.» Lynley si avvicinò alla finestra, il bicchiere in mano, e lasciò correre lo sguardo lungo quella tortuosa strada che era Keldale Abbey Road. Non vedeva granché perché svoltava subito a destra per scomparire nella semioscurità. Stepha gli si accostò. Per qualche istante rimasero in silenzio. «Suppongo che abbia visto Roberta», mormorò lei alla fine a bassa voce. Lui si voltò, immaginandosi di trovarla intenta a osservarlo, ma si sbagliava. Teneva lo sguardo fisso sul bicchiere di birra che aveva in mano e
lo roteava lentamente nel palmo, attenta a non spillarne neanche una goccia. «Come lo sa?» «Ricordo che da bambina era piuttosto alta. Alta quasi quanto Gillian. Una ragazzona.» Con la mano umida per la condensa del bicchiere, si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, lasciando sulla pelle una traccia di bagnato che poi asciugò con gesto impaziente. «È accaduto tutto a poco a poco, ispettore. Dapprima ha cominciato a riempirsi... era rotondetta, direi. Poi è diventata... così come l'ha vista oggi.» Il brivido che la scosse la diceva lunga e, come se si fosse resa conto delle implicazioni della propria reazione, aggiunse: «È orribile da parte mia, non è vero? Ho un'avversione fastidiosa per tutto ciò che è brutto. Francamente è una parte di me che non mi piace». «Lei però non mi ha risposto.» «No? Che cosa mi ha chiesto?» «Come sapeva che ho visto Roberta.» Un vago rossore comparve sulle sue gote. Spostò il peso da un piede all'altro con l'aria di essere così a disagio che Lynley si pentì di avere insistito. «Lasci perdere», le disse. «È che... lei ha un'aria diversa da stamattina. Sembra più depresso e ha delle rughe all'angolo della bocca.» Il rossore si accentuò. «Prima non c'erano.» «Capisco.» «Perciò mi sono chiesta se l'avesse vista.» «Ma conosceva già la risposta senza bisogno di domandarlo.» «Sì, credo di sì. E mi sono chiesta come fa a sopportare di guardare tutto il brutto che c'è nella vita degli altri.» «Lo faccio ormai da molti anni. Ci si abitua, Stepha.» L'uomo grande e grosso strangolato mentre siede alla scrivania, la ragazza lacera, morta con l'ago nel braccio, la selvaggia mutilazione del cadavere di un giovane. Ci si può mai abituare al lato oscuro dell'umanità? Lei lo fissò con sorprendente franchezza. «Sono sicura che dev'essere come affacciarsi alla porta dell'inferno.» «Un po'.» «E lei non ha mai avuto voglia di scappare? Di fuggire a gambe levate nella direzione opposta? Mai? Neanche una volta?» «Non si può continuare a scappare.» Lei gli voltò le spalle, tornando a fissare fuori della finestra. «Io posso»,
mormorò. Un secco bussare alla porta fece correre Barbara a spegnere la terza sigaretta. Si guardò intorno in preda al panico, aprì la finestra e corse in bagno, dove vuotò rapidamente il portacenere. Bussarono nuovamente e la voce di Lynley la chiamò. Quando gli aprì la porta, lui esitò, lanciando un'occhiata curiosa nella stanza prima di parlare. «Ah, Havers», le disse. «Pare che la signorina Odell abbia pensato bene di trovarci qualcosa di più commestibile per questa sera. Ci ha prenotato un tavolo a Keldale Hall.» Guardò l'orologio. «Tra un'ora.» «Come?» sbottò Barbara, in un'involontaria esclamazione d'orrore. «Io no... non ho... non credo...» Lynley inarcò un sopracciglio. «La prego, non faccia tutte queste storie per dirmi che non ha niente da mettersi, Havers.» «Ma non ce l'ho!» protestò lei. «Vada da solo. Io prenderò qualcosa al Dove and Whistle.» «Visto come ha reagito ieri sera, le pare sia saggio?» Un colpo basso. Accidenti a lui! «Non amo granché il pollo. Non mi è mai piaciuto.» «Splendido. Ho saputo che la cuoca del locale è davvero brava. Non credo proprio che vedremo apparire nulla con le ali. A meno che, naturalmente, non sia Hannah a servire ai tavoli.» «Ma io non posso proprio...» «È un ordine, Havers. Fra un'ora.» E girò sui tacchi. Accidenti a lui! Barbara sbatté con forza la porta per fargli capire bene come la pensasse. Magnifico! Che prospettiva di serata attraente: a gingillarsi imbranata con sedici posate d'argento, bicchieri di vino ovunque, camerieri e cameriere che portavano via coltelli e forchette ancor prima di aver avuto l'opportunità di decidere come usarli. Al confronto, l'idea di pollo e piselli al Dove and Whistle le sembrava un sogno. Si avvicinò a grandi passi all'armadio e lo spalancò. Divino. Che cosa mettersi per una serata mondana? La gonna di tweed marrone con il pullover in tinta? I jeans e gli stivali con la para? E se avesse messo l'abito blu? Ah! Chi mai avrebbe potuto ricordargli Helen, con il suo guardaroba impeccabile, i capelli in ordine, le mani ben curate, la voce armoniosa? Prese dall'armadio un abito di lana bianco e lo gettò sul letto disfatto.
C'era quasi quasi da riderne. Chi mai avrebbe potuto pensare che lei fosse la sua ragazza? Apollo che porta a cena Medusa? Come avrebbe sopportato le occhiate e i commenti a bassa voce? Un'ora dopo, puntualissimo, Lynley bussò alla porta. Barbara si guardò allo specchio, lo stomaco sottosopra. Oddio, quel vestito era orribile. Assomigliava a una botte bianca con le gambe. Spalancò la porta e lo fissò con aria furiosa. Lui era vestito in modo impeccabile. «Si porta sempre dietro abiti del genere?» gli domandò, incredula. «Proprio come i boy scout.» Le sorrise. «Andiamo?» La scortò con galanteria lungo le scale e fuori, dove le aprì la portiera dell'auto facendola accomodare sui morbidi sedili di pelle della Bentley. Un vero gentiluomo, lo prese in giro tra sé. Viaggiava con il pilota automatico inserito: ora era il Signore del Castello che aveva completamente dimenticato l'uomo di Scotland Yard. Come se le avesse letto nel pensiero, prima di mettere in moto lui si voltò a guardarla. «Havers, vorrei che per questa sera lasciassimo da parte il caso di cui ci stiamo occupando.» E di che cosa diavolo avrebbero parlato se l'assassinio di Teys era tabù? «Va bene», assentì in tono brusco. Lui annuì e mise in moto. «Adoro questa parte d'Inghilterra», affermò mentre percorrevano Keldale Abbey Road. «Lo sa che sono un appassionato dello Yorkshire e della sua storia?» «Davvero?» «La guerra delle Due Rose. Siamo proprio nel bel mezzo di quella terra, ora. Lo sceriffo Hutton non è lontano da qui e Middleham è praticamente a un tiro di voce.» «Oh.» Splendido. Una digressione storica. Tutto quanto sapeva lei della guerra delle Due Rose cominciava e finiva con il nome del conflitto. «Naturalmente so bene che si è portati a pensare male degli York. In fondo, hanno fatto fuori Enrico VI.» Con aria pensierosa tamburellò con le dita sul volante. «Solo che non riesco a fare a meno di dirmi che in tutto ciò c'è stata una certa giustizia. Riccardo II, ammazzato dal suo stesso cugino. L'uccisione di Enrico VI sembra aver chiuso il cerchio.» Barbara strapazzò tra le mani l'abito bianco e sospirò con aria sconfitta. «Senta, signore, non sono molto brava in queste cose. Io... be', me la caverei molto meglio al Dove and Whistle. Se per favore...» «Barbara.» Con una sterzata, accostò al marciapiede. La stava fissando, lei lo sapeva, ma continuò a guardare davanti a sé nell'oscurità, contando i
moscerini che danzavano alla luce dei fari. «Vuole almeno per una sera essere quello che è? Qualunque cosa sia.» «Che intende dire?» Buon Dio, che aria bisbetica aveva. «Significa che può smetterla di fare tutte queste scene. O perlomeno vorrei che la smettesse.» «Quali scene?» «Sia se stessa.» «Come osa...» «Perché finge di non fumare?» la interruppe lui. «E lei perché finge di fare il damerino?» Non avrebbe voluto essere così pungente. Dapprima lui non replicò, come se stesse soppesando quel commento. Ci fu un momento di silenzio. Poi lui gettò indietro la testa e scoppiò a ridere. «Touché. Dichiariamo tregua per il resto della serata e ricominciamo a disprezzarci domattina all'alba?» Lei lo fissò per un istante, poi, suo malgrado, sorrise. Sapeva che le stava facendo fare quello che voleva, ma al momento le sembrò irrilevante. «E va bene», si arrese, riluttante. Non le sfuggì il fatto che nessuno dei due aveva risposto alla domanda dell'altro. A Keldale Hall furono ricevuti da una donna che fugò tutti i dubbi di eleganza di Barbara che Lynley non era riuscito a vincere. Indossava una gonna di camoscio dal colore indistinto, una camicia zingaresca decorata di stelle e uno scialle ricamato che le pendeva dalle spalle come una coperta indiana. I capelli grigi erano raccolti con due elastici sotto le orecchie e, a completare l'insieme, sul capo aveva infilato un elaborato pettine spagnolo di tartaruga. «Scotland Yard?» chiese, squadrando Lynley con occhio critico. «Buon Dio, non li impacchettavano così quando ero giovane io.» La sua risata era fragorosa. «Entrate! Siamo in pochi stasera, ma avete evitato che commettessi un omicidio.» «Come mai?» volle sapere Lynley, lasciando il passo a Barbara. «C'è una coppia di americani che muoio dalla voglia di uccidere, ma dovremo sopportarli. Se ne accorgerà presto. Siamo riuniti qui.» Fece strada in un imponente atrio di pietra dove aleggiava il profumo delle varie carni cotte nella vicina cucina. «Non ho detto una sola parola sul fatto che siete di Scotland Yard», confidò ad alta voce, sistemandosi meglio lo scialle sulle spalle. «Quando conoscerete i Watson capirete il perché.» Prosegui-
rono attraverso la sala da pranzo, dove la luce delle candele gettava lunghe ombre sulle pareti. Sul tavolo con la tovaglia di lino facevano bella mostra il servizio di porcellana e l'argenteria. «L'altra è una coppia di sposini di Londra. Mi piacciono. Non si sbaciucchiano in pubblico come fanno molti. Sono riservati, molto teneri. Ho l'impressione che non amino attirare l'attenzione perché lui è invalido. La moglie è una creatura adorabile.» Barbara sentì Lynley trattenere il respiro e rallentare il passo alle sue spalle fino a fermarsi. «Chi sono?» domandò a mezza voce. La signora Burton Thomas si voltò proprio sulla soglia della grande sala. «Il nome è Allcourt St. James.» E spalancò la porta. «Ecco un altro po' di compagnia!» annunciò a voce alta. Barbara rimase colpita dall'immagine che le si parò davanti. Un fuoco ardeva luminoso nel camino, con le fiamme che sibilando consumavano il carbone. Tutt'intorno erano disposte le poltrone. All'altro capo della stanza, sfiorata dalle ombre, Deborah St. James era chinata su un pianoforte e sfogliava con piacere un album di famiglia. Si voltò con un sorriso mentre gli uomini si alzavano in piedi... e l'immagine si bloccò. «Signore», sussurrò Lynley: preghiera e imprecazione. Barbara si girò a guardarlo e di colpo capi. Che buffo che non se ne fosse resa conto prima: Lynley era innamorato della moglie di quell'uomo. «Salve! Che eleganza», esclamò Hank Watson, tendendo la mano a Lynley: era grassa e sudaticcia, un po' come stringere la mano di un pesce umido e crudo. «Mi occupo di odontoiatria», spiegò. «Siamo qui per il congresso che si tiene a Londra. Lo detraggo dalle tasse. Questa è JoJo, mia moglie.» In un modo o nell'altro superarono le presentazioni. «Per me è imperativo bere champagne a cena», dichiarò la signora Burton Thomas. «Anche prima di colazione, se si fa a modo mio. Danny, porta da bere!» urlò in direzione della porta, e qualche istante dopo apparve una ragazza con un cestello per ghiaccio, champagne e bicchieri. «In che ramo è lei, amico?» s'informò Hank mentre veniva servito da bere. «Credevo che il nostro Si fosse una specie di professore universitario. Mi è venuta la pelle d'oca quando mi ha detto che lavora all'obitorio.» «Il sergente Havers e io lavoriamo per Scotland Yard», rispose Lynley. «Ehi, JoJo-Chicchina. Hai sentito, donna?» Poi si voltò a osservare Lynley con rinnovato interesse. «Siete qui per la faccenda dell'infante?» «Come?»
«È un caso di tre anni fa; immagino che ormai la pista sia fredda.» Hank strizzò l'occhio a Danny, che stava infilando la bottiglia di champagne nel secchiello del ghiaccio. «Il neonato morto nell'abbazia. Senz'altro lo sa.» Lynley non ne sapeva niente e nemmeno ne voleva sapere. Non sarebbe riuscito a proferire parola neanche se ne fosse andato della sua vita. Si accorse di non sapere come comportarsi, dove guardare, che cosa dire. Era consapevole solo della presenza di Deborah. «Siamo qui per la storia della decapitazione», spiegò Barbara Havers in maniera incredibilmente educata. «Decapitazione?» scandì Hank. «Che zona calda! Non ti pare, Chicchina?» «Puoi ben dirlo», ribatté la moglie, annuendo con solennità. Giocherellò con la lunga collana bianca che portava al collo e si voltò con aria supplichevole verso i St. James, silenziosi. Hank si sporse in avanti sulla poltrona per farsi più vicino a Lynley. «Be', dia la stura!» sbottò. «Mi scusi?» «Dia la stura. Ci racconti la verità nuda e cruda.» Hank batté una manata sul bracciolo della poltrona di Lynley. «Chi è stato, amico?» Era troppo. Quell'ometto disgustoso che si eccitava così gli era insopportabile. Aveva un abito di poliestere con una camicia a fiori e al collo portava una pesante catena d'oro con un medaglione che rimbalzava sulla folta peluria del petto. Al dito luccicava un brillante grosso come una nocciola e l'uomo lo fissava con denti bianchissimi che sembravano ancora più bianchi in quel viso abbronzato. L'eccitazione gli dilatava le narici. «Non ne siamo del tutto certi», rispose Lynley con aria seria, «ma lei corrisponde alla descrizione dell'assassino.» Hank lo fissò a occhi spalancati. «Io?» mormorò a mezza voce. Poi scrutò Lynley attentamente e sorrise. «Accidenti a voi inglesi! Non riesco ad abituarmi al vostro humour! Ma me la cavo sempre meglio, non è così, Si?» Solo allora Lynley si girò verso l'amico e lo vide sorridere. Un lampo divertito gli illuminava lo sguardo. «Certamente», rispose Si. Mentre nell'oscurità della notte tornavano alla pensione, Barbara studiò Lynley di sottecchi, rendendosi conto che fino a quella sera le era stata totalmente inconcepibile l'idea che un uomo come lui potesse avere mai fallito in amore. Eppure lì, ai limiti del paese, c'era l'innegabile prova di tutto
ciò: Deborah. Al ristorante c'era stato un terribile momento in cui loro tre erano rimasti a fissarsi prima che lei riuscisse a fare un passo avanti con un vago sorriso sul viso, la mano tesa a salutare. «Tommy! Che cosa ci fai a Keldale?» gli aveva chiesto Deborah St. James. Lui era rimasto assolutamente impietrito. Barbara se n'era accorta ed era intervenuta prontamente. «Si tratta di un'indagine», aveva spiegato. Poi quell'orribile americano si era gettato nella mischia - salutare intervento, a essere sinceri - e gli altri tre avevano ritrovato il respiro. St. James era comunque rimasto al proprio posto vicino al camino, salutando l'amico in maniera educata, ma senza muoversi, limitandosi a seguire con lo sguardo la moglie. Il suo viso non aveva tradito la minima preoccupazione per l'improvviso arrivo di Lynley e se in lui vi era stato un moto di gelosia di fronte agli evidenti sentimenti di quest'ultimo, non l'aveva lasciato trasparire. Tra i due era stata chiaramente Deborah la più nervosa. Era arrossita, aveva stretto ripetutamente le mani in grembo, il suo sguardo aveva continuato a spostarsi dall'uno all'altro e non era riuscita a nascondere un moto di sollievo quando Lynley alla prima occasione possibile, dopo la conclusione del pasto, aveva suggerito di andarsene. Ora stavano fermandosi davanti alla pensione e Lynley spense il motore. Si appoggiò allo schienale del sedile e si passò una mano sugli occhi. «Credo che potrei dormire un anno intero. Come pensa che riuscirà la signora Burton Thomas a liberarsi di quell'orrendo dentista?» «Con l'arsenico?» Lui scoppiò a ridere. «Dovrà ben fare qualcosa. Quello parlava come se ciò che più gli stesse a cuore fosse restare qui un altro mese. Che uomo terribile!» «Non esattamente il tipo in cui si ha voglia di imbattersi in luna di miele», convenne lei. Si chiese se lui avrebbe ripreso il filo di quella conversazione, se avrebbe detto qualcosa su St. James e Deborah e l'imbarazzante coincidenza che li aveva fatti incrociare sul suo cammino. Ancora di più, si chiese se si sarebbe lasciato sfuggire qualcosa su come avesse finito per ritrovarsi nella posizione peggiore di quell'insolito triangolo amoroso. Invece di rispondere, Lynley scese dall'auto e chiuse con un tonfo la portiera. Barbara lo guardò girare intorno alla macchina per aprire la sua. Niente turbava la sua calma. Aveva il pieno controllo di sé. Era tornato il
perfetto gentiluomo. La porta della pensione si spalancò e un rettangolo di luce illuminò Stepha Odell. «Mi pareva di avere sentito la sua auto», esclamò. «C'è una visita per lei, ispettore.» Deborah fissò la propria immagine riflessa nello specchio. Lui non aveva pronunciato nemmeno una parola da quando erano tornati in camera; si era limitato ad avvicinarsi al camino e a sedersi in poltrona con in mano un bicchiere di brandy. Lei l'aveva osservato senza sapere che cosa dire, temendo di infrangere quel muro che l'aveva improvvisamente isolato. Non andartene, Simon, avrebbe voluto gridare. Non staccarti da me. Non tornare nell'oscurità. Ma come poteva pronunciare quelle parole rischiando che lui le rinfacciasse Tommy? Fece scorrere l'acqua nel lavandino del bagno e rimase a fissarla. Che cosa stava pensando, da solo, in quella stanza? Si sentiva perseguitato da Tommy? Si domandava se lei chiudeva gli occhi quando facevano l'amore per poterlo sognare? Non gliel'aveva mai chiesto, nemmeno una volta, non aveva mai fatto domande. Accettava semplicemente tutto quello che lei gli diceva, tutto quello che lei gli dava. E ora che poteva dirgli o dargli, con il suo passato e Tommy tra loro? Si spruzzò ripetutamente l'acqua sul viso, si asciugò, chiuse il rubinetto e si sforzò di tornare in camera. Provò un tuffo al cuore vedendo che lui era già a letto. La pesante protesi era sul pavimento vicino alla poltrona e le grucce appoggiate alla parete vicino al letto. La stanza era buia, ma alla luce morente del fuoco vide che era ancora sveglio, seduto con i cuscini dietro la schiena a contemplare il bagliore dei tizzoni. Si accostò al letto e si sedette. «Sono molto agitata», confessò. Lui tese una mano a stringere la sua. «Lo so. Me ne sono rimasto seduto qui a cercare il modo per poterti aiutare, ma non so come comportarmi.» «Gli ho fatto del male, Simon. Non l'ho fatto apposta, ma è accaduto lo stesso e non riesco a dimenticarlo. Quando lo vedo, mi sento terribilmente responsabile del suo dolore. Vorrei cancellarlo. Io... credo che solo allora mi sentirei meglio, meno in colpa per tutto quanto è successo.» Lui le sfiorò la guancia con una carezza. «Se solo fosse così semplice, amore mio. Ma tu non puoi cancellare quel dolore; non puoi aiutarlo. Deve cavarsela da solo, ma è dura perché è innamorato di te, e la fede che porti al dito non cambia questo dato di fatto.» «Simon...»
Non la lasciò finire. «Mi angustia vedere l'effetto che ha su di te. Vedo il tuo senso di colpa e vorrei liberartene, ma non so come fare. Vorrei trovare il modo. Non mi piace vederti così sconvolta.» Lei lo scrutò in viso, trovando pace e tranquillità nelle rughe familiari della sua espressione. Non era affatto bello: una serie di sofferenze vissute e superate e rivissute ancora. Il cuore le si gonfiò d'amore per lui e un nodo le chiuse la gola di fronte all'improvvisa intensità di quelle emozioni. «Davvero te ne sei stato seduto qui al buio a preoccuparti per me? È proprio da te, Simon.» «Perché dici così? Che cosa pensavi che stessi facendo?» «Che ti tormentassi con... il passato.» «Ah.» La prese tra le braccia, posandole la guancia sulla testa. «Non voglio mentirti, Deborah. Non è facile per me, sapendo che Tommy è stato il tuo amante. Se si fosse trattato di qualcun altro avrei potuto attribuirgli ogni genere di difetto per convincermi che non ti meritava. Ma non è così, vero? È un brav'uomo, ti meriterebbe e nessuno lo sa meglio di me.» «E così questo pensiero ti tormenta. Lo immaginavo.» «Non mi tormenta. Niente affatto.» Con dita leggere le accarezzò i capelli e la gola fino a farle scivolare dalla spalla la camicia da notte. «All'inizio ne sono stato tormentato, lo ammetto, ma francamente fin dalla prima volta che abbiamo fatto l'amore mi sono reso conto che non avrei dovuto pensare mai più a te e Tommy. Dipendeva solo da me. E ora», Deborah lo sentì sorridere, «ogni volta che ti guardo mi viene in mente il presente, non il passato. E allora scopro che desidero spogliarti, respirare il profumo della tua pelle; baciare le tue labbra, i tuoi seni e le tue cosce. In tutta sincerità, devo ammettere che questa frenesia sta diventando un bel problema nella mia vita.» «Anche nella mia.» «Allora forse, amore mio», sussurrò lui, «dovremo concentrare tutti i nostri sforzi per cercare una soluzione.» Deborah fece scivolare una mano sotto le coperte e alla sua carezza lui trattenne il respiro. «Un buon inizio», riconobbe e la baciò sulla bocca. 10 Il visitatore era il commissario Nies. Aspettava in soggiorno, con tre bicchieri da una pinta vuoti posati su un tavolo lì vicino e uno scatolone ai suoi piedi. Se ne stava eretto, non si era seduto; un uomo teso e attento,
mai rilassato. Alla vista di Lynley le sue labbra si curvarono in un ghigno e le narici si dilatarono come se avesse sentito un cattivo odore. Era la personificazione del disprezzo. «Lei voleva tutto, ispettore», sbottò. «Ecco qui.» Diede un calcio secco allo scatolone, non tanto per spostarlo, ma per attrarre l'attenzione verso quel punto. Nessuno si mosse. Parevano tutti immobilizzati dall'odio che traspariva dalle parole di Nies. Barbara sentì la tensione di Lynley al suo fianco crescere mentre ogni muscolo dell'ispettore si tendeva come una corda di violino. Il viso però rimase privo di espressione nell'osservare attentamente l'uomo che aveva di fronte. «È questo che voleva, non è vero?» insistette Nies in tono tagliente, rovesciando il contenuto dello scatolone sul pavimento. «Immagino che quando lei chiede di avere tutto, intenda proprio tutto, ispettore. Qualcosa in lei mi dice che è un uomo di parola. O forse sperava che io mandassi qui qualcun altro in modo da evitarle di scambiare altre due parole con me?» Lo sguardo di Lynley si posò sugli oggetti che si erano sparsi a terra. Abiti femminili, apparentemente. «Forse lei ha bevuto troppo», mormorò. Nies fece un passo avanti, il viso arrossato. «Le piacerebbe pensarla così, vero? Le piacerebbe vedermi cedere al bere, disperato perché la devo sopportare per un po' di giorni. Non è proprio il trattamento cui è abituata sua altezza, vero?» Barbara non aveva mai sentito in modo così acuto in un uomo il desiderio di ferire un altro essere umano. In quel momento riconobbe quel sentimento in Nies, nel suo atteggiamento, nelle mani semichiuse a pugno con le dita simili ad artigli, nei muscoli del collo gonfi. Quello che non riusciva a comprendere era la reazione di Lynley: dopo la tensione iniziale, pareva essere stato colto da una calma imperturbabile e questo sembrava aumentare ulteriormente l'astio di Nies. «Ha risolto il caso, ispettore?» sibilò l'uomo. «Ha effettuato qualche arresto? No, certamente no. Non senza avere in mano tutti i fatti. Allora lasci che gliene fornisca qualcuno io, facendole risparmiare tempo: Roberta Teys ha ucciso il padre. Gli ha tranciato di netto la testa, si è seduta lì e ha aspettato che la scoprissero. E non c'è fottuta prova che lei possa tirare fuori dal cappello che riuscirà mai a dimostrare che le cose sono andate diversamente. Né per Kerridge, né per Webberly, né per nessun altro. Però si diverta pure a scavare qui intorno, ragazzo. Da me non tirerà fuori nient'al-
tro. E adesso, levatevi di mezzo.» A passo deciso, passò loro davanti, spalancò la porta e raggiunse la sua auto. Il motore ruggì, lui inserì con rabbia la marcia e si allontanò nella notte. Lynley osservò le due donne: Stepha era pallidissima, mentre Barbara aveva un'espressione stoica, ma sui visi di entrambe si leggeva chiaramente che si aspettavano da lui una qualche reazione. Lynley però si accorse di non riuscire ad averne nessuna. Quali che fossero i demoni che spingevano Nies a comportarsi in quel modo, non voleva averci a che fare. Avrebbe voluto trovare la giusta definizione per quell'uomo: paranoico, psicopatico, matto, erano i termini che gli venivano in mente, ma sapeva fin troppo bene che cosa significasse arrivare al punto di rottura per la fatica e la stanchezza che si provano durante le indagini su un caso. Lynley capiva che Nies era sul punto di venire schiacciato dallo stress provocato dall'attento esame della sua professionalità da parte di Scotland Yard. Quindi se lo sfogarsi liberamente per lo scontro che avevano avuto cinque anni prima gli dava un attimo di sollievo, era ben felice di lasciarlo fare. «Le spiacerebbe andare a prendere i documenti del caso Teys in camera mia, sergente?» chiese, rivolto a Barbara. «Li troverà sulla cassettiera.» Lei lo fissò attonita. «Signore, quell'uomo...» «Sono sulla cassettiera», ripeté Lynley. Poi attraversò la stanza e dal pavimento raccolse l'abito per lasciarlo cadere sul divano. Era una stoffa stampata, dai pallidi colori pastello, con un colletto bianco da marinaio e maniche lunghe che terminavano con polsini bianchi. La manica sinistra aveva una grossa macchia bruna, mentre un'altra incrostazione irregolare era sulla gonna all'altezza delle cosce. Anche il fondo della gonna presentava delle macchie: sangue. Si passò tra le dita la stoffa e ne riconobbe la qualità senza dover cercare un'etichetta che lo confermasse: un delicato batista. Nello scatolone c'era anche un paio di scarpe: grandi scarpe nere scollate con il tacco alto, incrostate di fango vicino alla cucitura della suola sinistra. Anch'esse macchiate dalla stessa sostanza scura. Una sottoveste e biancheria intima completavano il tutto. «È il suo abito da chiesa», dichiarò Stepha Odell, aggiungendo in tono privo di emozione: «Ne aveva due: uno per l'inverno e uno per la primavera». «Il suo abito migliore?» chiese Lynley.
«Per quanto ne so io, sì.» Stava cominciando a comprendere il testardo rifiuto degli abitanti del paese a credere che fosse stata la ragazza a commettere il crimine. Più ne sapeva, più si rendeva conto che il tutto non aveva senso. Barbara Havers tornò con il dossier, inespressiva. Prima ancora di cominciare a sfogliare le carte, Lynley si convinse che l'informazione che cercava non sarebbe stata lì. Infatti non c'era. «Accidenti a lui», borbottò fissando il sergente. «Non ci ha fornito le analisi delle macchie.» «Ma dovrebbe averle fatte eseguire, no?» ribatté lei. «Le ha eseguite, ma non ha nessuna intenzione di passarcele. Non so se questo può facilitarci il lavoro.» Lynley imprecò a denti stretti e ributtò tutti gli indumenti nello scatolone. «E adesso?» chiese Barbara. Lynley conosceva già la risposta. Aveva bisogno di St. James, della meccanica precisione della sua mente attenta, della sua provata esperienza. Gli serviva un laboratorio dove far effettuare le analisi e un esperto medico legale di cui fidarsi a eseguirle. Il suo era un girare a vuoto perché, comunque la mettesse, la pista lo portava incontestabilmente a St. James. Fissò lo scatolone aperto ai suoi piedi e si concesse l'effimero piacere di maledire l'uomo di Richmond. Webberly aveva torto, pensò. Sono l'ultima persona che avrebbe dovuto coinvolgere in questo caso. Nies comprende fin troppo bene la condanna di Londra e vede in me il suo unico, grave errore. Per qualche istante esaminò le possibili alternative. Avrebbe potuto passare il caso a un altro ispettore: MacPherson sarebbe certamente arrivato in un attimo a Keldale e avrebbe preso in mano le indagini nel giro di un paio di giorni, ma MacPherson era assegnato agli omicidi dello Squartatore. Era inconcepibile pensare di spostarlo da quel caso in cui erano disperatamente necessarie le sue capacità solo perché Nies non riusciva ad accettare il passato. Avrebbe potuto telefonare a Kerridge a Newby Wiske. Kerridge, in fondo, era il superiore di Nies. Ma coinvolgere Kerridge, offrendogli un'occasione per rifarsi dopo il caso Romaniv, era ancora più assurdo. E poi Kerridge non aveva in mano tutti i documenti, i risultati degli esami di laboratorio, le deposizioni. Non aveva altro che un odio smisurato per Nies e l'incapacità di andare d'accordo con lui. Tutta quella situazione non era altro che un irritante e fastidioso guazzabuglio politico di ambizioni frustrate, errori e vendette. Ne aveva la nausea.
Sul tavolo al suo fianco venne posato un bicchiere. Lynley alzò lo sguardo e incrociò quello sereno di Stepha. «Credo che ci voglia un po' di birra.» Lynley sorrise. «Sergente», chiamò, «vuole favorire?» «No, signore», replicò lei, e proprio quando lui temette che fosse sul punto di ricominciare l'esasperante tiritera del sono-in-servizio, la sentì aggiungere: «Ma fumerei volentieri una sigaretta, se non le spiace». Lui le tese il portasigarette d'oro e l'accendino d'argento. «Tutte quelle che vuole.» Lei se ne accese una. «Mettersi in ghingheri per tranciare via la testa di papà? Non ha senso.» «Il fatto che fosse vestita così, però, sì», osservò Stepha Odell. «Perché?» «Perché era domenica. Era pronta per andare in chiesa.» Lynley e Barbara si voltarono di scatto verso di lei, simultaneamente consapevoli del peso delle parole della donna. «Ma Teys è stato ucciso sabato sera», fece notare il sergente Havers. «Perciò Roberta deve essersi alzata come al solito domenica mattina, aver indossato l'abito della festa ed essere rimasta ad aspettare il padre.» Lynley fissò l'abito. «Lui non era in casa, perciò lei avrà immaginato che fosse da qualche altra parte nella fattoria. Non c'era di che preoccuparsi perché sarebbe tornato in tempo per portarla in chiesa. Probabilmente non era mai mancato a una messa in tutta la sua vita. Ma quando non si è fatto vedere, la ragazza ha cominciato a essere in ansia ed è uscita a cercarlo.» «E l'ha trovato nel granaio», concluse Barbara. «Ma quel sangue sull'abito... come pensa che possa esserci finito?» «Immagino fosse sotto choc. Deve aver raccolto il corpo e averlo cullato in grembo.» «Ma era senza testa! Come ha potuto...» Lynley continuò: «Ha posato di nuovo il corpo per terra e, ancora sotto choc, se n'è rimasta seduta lì finché padre Hart non l'ha trovata». «Ma allora perché ha detto di averlo ucciso?» «Non l'ha mai detto», puntualizzò Lynley. «Che cosa intende dire?» «Quello che ha detto è stato: 'Sono stata io. Non me ne pento'.» La voce di Lynley aveva un tono sicuro. «Sa proprio di confessione.» «Non è detto.» Lynley esaminò più attentamente le macchie sull'abito e
la distanza tra l'una e l'altra sulla gonna. «Ma ha un significato.» «Quale?» «Che Roberta sa benissimo chi ha assassinato suo padre.» Lynley si svegliò di soprassalto. La luce del primo mattino filtrava nella stanza e i raggi illuminavano il pavimento fino al letto. Una fresca brezza gonfiava le tende e portava con sé il piacevole cinguettio degli uccellini e lontani belati di pecore. Ma Lynley non percepì niente di tutto ciò. Rimase sdraiato, consapevole solo della propria schiacciante disperazione e del desiderio che bruciava in lui. Avrebbe voluto voltarsi e trovarla lì, la massa di capelli sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi nel sonno. Desiderò essere lui a risvegliarla, ad assaporare con la bocca e la lingua i tenui mutamenti che conosceva così bene quando il corpo di lei rivelava tutto il proprio desiderio. Di scatto gettò indietro le coperte. Pazzia, si disse. Frenetico, incurante di tutto e di tutti, cominciò a vestirsi, un indumento dopo l'altro, così come gli capitavano in mano. Sentiva un impellente bisogno di fuga. Afferrò un maglione pesante e corse fuori della stanza, scendendo rumorosamente le scale per uscire. Solo una volta in strada si rese conto dell'ora: le sei e mezzo. Una leggera nebbiolina sovrastava la valle, accarezzando le case e ricoprendo il fiume. Alla sua destra la strada alta era silenziosa, abbandonata. Nemmeno il fruttivendolo stava preparando la mercanzia sul marciapiede. Le vetrine di Sinji erano buie, la cappella era sbarrata e il bar vuoto e silenzioso. Si avviò fino al ponte e trascorse cinque minuti a lanciare nervosamente sassolini nel fiume finché la vista della chiesa non attirò la sua attenzione. Sulla cima della collina, St. Catherine sovrastava armoniosamente tutto il paese; proprio l'esorcista di cui aveva bisogno per i demoni del passato. Vi si diresse con passo deciso. Era una bella chiesetta. Circondata dagli alberi e fiancheggiata da un antico cimitero ormai in rovina; levava al cielo la splendida architettura normanna. L'abside faceva bella mostra di una grande vetrata piombata a semicerchio mentre nel campanile sul lato opposto avevano fatto il nido le colombe. Rimase per qualche istante a osservarle agitarsi sul bordo del tetto, poi prese a percorrere il sentiero in pietrisco che conduceva all'entrata del cimitero. La oltrepassò e fu permeato dalla pace di quel luogo. Distrattamente cominciò a girovagare tra le tombe, guardando le lapidi a
malapena leggibili, consunte dal tempo. Dovunque erano cresciute erbacce selvatiche ora bagnate dalla brina del mattino. La folta vegetazione ricopriva in parte le tombe e il muschio era cresciuto abbondante su quelle superfici che non vedevano mai il sole, mentre gli alberi assicuravano un tranquillo riposo eterno a gente ormai da tempo dimenticata. Un bizzarro gruppo di cipressi si incurvava sopra alcune tombe in rovina a una certa distanza dalla chiesa. Gli alberi così contorti avevano un aspetto quasi umano, come se cercassero di proteggere le tombe stesse. Incuriosito, si avviò in quella direzione e fu allora che la vide. Era tipico di lei avere arrotolato sopra le caviglie i jeans stinti, essersi tolta le scarpe ed essersi immersa a piedi nudi nell'erba alta e bagnata per cogliere le tombe sotto la migliore angolazione e luce possibile. Era tipico di lei immergersi nella natura totalmente dimentica di ciò che la circondava: dimentica del fango che le macchiava le gambe dalla caviglia al polpaccio, della foglia che si era bizzarramente infilata tra i suoi capelli, del fatto che lui fosse a qualche metro di distanza, inebriato da ogni suo movimento e divorato dall'inutile speranza che lei tornasse a prendere il posto di una volta nella sua vita. La nebbia bassa lasciava apparire qua e là la natura che li circondava. Il sole del mattino illuminava a tratti le lapidi. Da una tomba lì vicino un uccello curioso osservava la scena con occhio attento. Lynley era solo vagamente consapevole di tutto ciò, ma sapeva che con la sua macchina fotografica lei sarebbe riuscita a cogliere completamente quell'atmosfera. Si guardò intorno alla ricerca di St. James. Doveva certamente essere lì da qualche parte, a osservare con amore la moglie al lavoro. Ma di lui non c'era traccia. Era completamente sola. Di colpo Lynley ebbe l'impressione che la chiesa non avesse mantenuto fede alla sua promessa di pace e tranquillità. Non serve a niente, Deb, pensò guardandola. Niente riesce a cancellarlo. Voglio che tu lo lasci. Che lo tradisca. Che torni da me. Il tuo posto è qui con me. Lei alzò il viso, si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e lo vide. Dall'espressione del volto Lynley capì che era come se lui avesse pronunciato ad alta voce quelle parole. Lei gliele aveva lette in faccia. «Oh, Tommy.» Era naturale che lei non fingesse, che non riempisse - come al suo posto avrebbe fatto Helen - quel momento imbarazzante con qualche battuta divertente che sarebbe servita a diminuire la tensione. Invece si morse il labbro, con la stessa espressione che avrebbe avuto se lui l'avesse colpita, e
tornò ad armeggiare intorno al cavalietto, nervosa. Le si avvicinò. «Mi dispiace molto», mormorò. Lei continuò a darsi da fare con il suo equipaggiamento, la testa bassa, il viso nascosto dai capelli. «Non riesco a superarlo. Cerco di vedere le cose in maniera obiettiva, ma non serve a niente.» Lei era voltata dall'altra parte e sembrava intenta a esaminare le colline circostanti. «Mi dico che è finita nel modo più giusto per tutti noi, ma non ci credo. Ti voglio ancora, Deb.» Lei allora si voltò verso di lui, il viso pallidissimo, gli occhi pieni di lacrime. «Non è possibile. Devi dimenticare.» «Razionalmente so che hai ragione, ma non ci riesco.» Una lacrima le scivolò lungo la guancia. Lui fece per asciugargliela, ma si frenò lasciando ricadere il braccio. «Stamattina mi sono svegliato con un desiderio così disperato di fare ancora l'amore con te che mi sono detto che se non fossi uscito immediatamente avrei cominciato a prendere a pugni il muro, per pura frustrazione adolescenziale. Ho pensato che la chiesa potesse calmarmi. Quello che non immaginavo era che tu stessi girovagando per il cimitero all'alba.» Lo sguardo gli cadde sull'attrezzatura fotografica. «Che cosa stai facendo qui? Dov'è Simon?» «E ancora in albergo. Io... io mi sono svegliata presto e sono uscita per dare un'occhiata al paese.» C'era qualcosa di falso. «Sta male?» le chiese secco. Lei fissò i rami dei cipressi. Poco dopo le sei, era stata svegliata da un respiro trattenuto di Simon. Era talmente immobile che per un istante aveva temuto che stesse morendo. Respirava piano piano, misurando ogni singolo respiro, e lei aveva compreso immediatamente che il suo unico pensiero era stato quello di non svegliarla. Ma non appena aveva teso la mano lui gliel'aveva stretta. «Vado a prenderti la medicina», aveva sussurrato, e così aveva fatto, per poi restare a studiare la sua espressione sofferente mentre cercava di vincere la battaglia con il dolore. «Ti spiace... per un'ora, amore mio?» Era quella parte della sua vita in cui lei non poteva entrare, che non avrebbe mai potuto condividere, e così lo aveva lasciato solo. «Lui... soffriva un po' stamattina.» Lynley provò un tuffo al cuore nel comprendere appieno il significato di quelle parole, ogni loro implicazione. «Cristo, non c'è proprio modo di venirne fuori, non è così?» constatò in tono amaro. «Anche questo.» «No!» ribatté lei, angosciata. «Non dire così! Non pensarlo mai! Non farti del male! Non è colpa tua!» Aveva parlato d'impulso, senza pensare alla reazione che le sue parole avrebbero provocato in lui, e all'improvviso
fu come se avesse avuto l'impressione di aver parlato troppo, più di quanto avesse voluto; tornò allora ad armeggiare con la macchina fotografica, staccandola dal cavalietto per poi separare il corpo dall'obiettivo e riporre il tutto. Lui rimase a osservarla. Deborah si muoveva a scatti, come un vecchio film proiettato alla velocità sbagliata. Forse rendendosene conto e comprendendo di rivelare così il proprio disagio, s'interruppe, la testa china, una mano sugli occhi. I suoi capelli brillarono illuminati da un raggio di sole. Avevano il colore dell'autunno: la morte dell'estate. «È ancora in albergo? L'hai lasciato là, Deb?» Non che gli importasse di saperlo, ma lei aveva bisogno di parlarne e lui non riusciva ancora a ignorare i suoi bisogni. «Voleva... è stato per il dolore. Non vuole che io lo veda. Crede di proteggermi se mi manda via.» Alzò gli occhi al cielo, come alla ricerca di un segno. «Sentirmi tagliata fuori in questo modo è molto duro. Non lo sopporto.» Lui comprese. «E perché lo ami.» Lei lo fissò per un istante prima di rispondere. «Sì. Lo amo, Tommy. E l'altra mia metà, parte della mia anima.» Con mano tremante gli sfiorò il braccio, in una leggerissima carezza. «Voglio che trovi qualcuno che ti ami così. Ne hai bisogno, è quello che ti meriti. Ma non... non posso essere io quel qualcuno per te. Non voglio nemmeno esserlo.» Lynley impallidì a quelle parole e tremò nel sentirle così decise. Cercando di recuperare una certa dignità, si salvò distraendosi con la tomba ai loro piedi. «E questa la fonte della tua ispirazione mattutina?» chiese. «Sì», rispose lei in tono altrettanto disinvolto. «Ho sentito parlare tanto del neonato dell'abbazia che ho pensato di dare un'occhiata alla sua tomba.» «'Come la fiamma al fumo'», lesse lui. «Strano epitaffio per un neonato.» «Sono un appassionato di Shakespeare», mormorò una voce alle loro spalle. Si voltarono. Padre Hart, simile a uno gnomo spirituale con la tonaca e la cotta, era fermo sul sentiero a pochi passi di distanza, le braccia incrociate sul petto. Era arrivato alle loro spalle in silenzio, come un'apparizione che prende corpo dalla nebbia. «Se sta a me decidere, mi rivolgo sempre a Shakespeare per le iscrizioni tombali. Un poeta senza tempo. Dà significato alla vita e alla morte.» Si tastò le tasche della tonaca e ne estrasse un pacchetto di Dunhill, accen-
dendone una con aria distratta e rimettendo nella scatola il fiammifero prima di reinfilare il tutto in tasca. L'operazione fu eseguita meccanicamente, come soprappensiero. A Lynley non sfuggì il colorito giallastro della sua pelle e lo sguardo malato. «Questa è la signora St. James, padre Hart», li presentò. «Sta scattando fotografie alla vostra tomba più famosa.» Il prete sembrò tornare al presente. «Più famosa?» Stupito, fissò l'uno poi l'altra prima che il suo sguardo cadesse sulla tomba e s'incupisse. La sigaretta continuava a bruciare tra le dita macchiate di nicotina. «Ah, sì, capisco», mormorò corrugando la fronte. «Che azione terribile da compiere contro un neonato, lasciarlo lì nudo al freddo a morire. Ho avuto bisogno di un permesso speciale per seppellirlo qui.» «Di un permesso speciale?» «Non era battezzato. Era una femminuccia e l'ho chiamata Marina.» Poi passò ad altro. «Ma se sono le tombe famose che è venuta a vedere, signora St. James, allora quello che cerca si trova nella cripta.» «Sembra uscita da un libro di Edgar Allan Poe», osservò Lynley. «Niente affatto. E un luogo sacro.» Il prete lasciò cadere la sigaretta a terra e la spense. Con gesto automatico si chinò a raccogliere il mozzicone, lo infilò in tasca e si avviò verso la chiesa. Lynley raccolse l'attrezzatura fotografica di Deborah e, insieme, lo seguirono. «Si tratta del posto dov'è sepolto san Cedda», stava spiegando padre Hart. «Entrate. Mi stavo preparando per dire messa come tutte le mattine, ma prima ve lo mostrerò.» Aprì le porte della chiesa con un'enorme chiave e li fece passare. «Nei giorni feriali ormai non sono in molti a venire alla funzione. Non è come la domenica. William Teys era l'unico dei miei fedeli a venire tutti i giorni e ora che se n'è andato... be', mi sono ritrovato piuttosto spesso a dire messa in una chiesa vuota durante la settimana.» «Era un suo caro amico, vero?» disse Lynley. Il sacerdote tastò la parete alla ricerca dell'interruttore. «Era... come un figlio.» «Le ha mai parlato dei suoi problemi di insonnia? Del suo bisogno di prendere sonniferi?» Il prete esitò, la mano gli tremava. Una pausa troppo lunga, si disse Lynley, e si spostò di lato per osservare meglio il viso del vecchio. Aveva lo sguardo fisso sull'interruttore della luce, ma le sue labbra si muovevano silenziosamente, come se stesse pregando. «Si sente bene, padre Hart?»
«Io... sì, sto bene. È solo che... il suo ricordo...» Con uno sforzo ritrovò l'autocontrollo, come uno che rimette insieme i pezzi di un rompicapo. «William era un brav'uomo, ispettore, ma un'anima in pena. Non... non mi ha mai raccontato di avere difficoltà a dormire, ma non mi sorprende affatto.» «Perché?» «Perché, a differenza di molte anime in pena che si annegano nell'alcol o fuggono in altri modi le difficoltà, William le affrontava sempre a testa alta e faceva del proprio meglio per superarle. Era un brav'uomo, forte, ma aveva tremendi fardelli sulle spalle.» «Come Tessa che l'ha lasciato e Gillian che è scappata?» Nel sentire quel secondo nome, il prete chiuse gli occhi. Deglutì a fatica, in un singhiozzo soffocato. «Tessa l'ha ferito; ma Gillian l'ha distrutto. Dopo che se n'è andata non è più stato lo stesso.» «Lei com'era?» «Lei... era un angelo, ispettore. Un raggio di sole.» La mano tremante si affrettò ad accendere le luci e il prete indicò loro l'interno della chiesa. «Be', che ne pensate?» Decisamente non era quello che ci si aspettava di trovare all'interno di una chiesa di paese. Le chiese di paese di solito sono piccole, quadrate, funzionali, con una totale assenza di colore, linee o bellezza. Questa era l'opposto. Chiunque l'avesse costruita aveva in mente una cattedrale, perché sul lato occidentale c'erano due grandi colonne che nelle intenzioni originarie avrebbero dovuto sicuramente sostenere un peso ben più tremendo di quello del tetto di St. Catherine. «Ah, se n'è accorto», constatò padre Hart, seguendo lo sguardo di Lynley che passava dalle colonne all'abside. «È qui che avrebbe dovuto sorgere l'abbazia; St. Catherine avrebbe dovuto essere la grande abbazia, ma un conflitto tra i monaci portò alla costruzione della cattedrale vicino a Keldale Hall. È stato un miracolo.» «Un miracolo?» ripeté Deborah. «Un vero miracolo. Se avessero costruito l'abbazia qui, dove sono i resti di san Cedda, ai tempi di Enrico VIII sarebbe stato distrutto tutto. Immaginate che cosa sarebbe stata la distruzione della chiesa in cui è sepolto san Cedda?» La voce del prete lasciava trasparire tutto il proprio orrore. «No, è stato un atto di Dio a dar vita al disaccordo tra i monaci. Dal momento però che le fondamenta di questa chiesa erano già state gettate e la cripta completata, non c'era motivo di disinterrare il corpo del santo. Così l'hanno
lasciato qui, in una piccola cappella.» A passi lenti si avviò verso una scala in pietra che dalla navata principale scendeva nel buio. «Da questa parte.» La cripta era una seconda minuscola chiesa nelle profondità del corpo principale di St. Catherine. Era a volta, in stile normanno, sostenuta da colonne con pochi ornamenti. Sul fondo c'era un semplice altare di pietra adornato da due candele e un crocifisso, e lungo le pareti pietre della vecchia chiesa preservate per i posteri. Era un luogo umido e cupo, scarsamente illuminato, che sapeva di chiuso. Un velo di muschio copriva le pareti. Deborah rabbrividì. «Poveretto. Fa freddo, qui. Forse avrebbe preferito essere sepolto altrove, al sole.» «Qui è più al sicuro», ribatté il prete. Si avvicinò con reverenza alla balaustra dell'altare, s'inginocchiò e trascorse qualche minuto in meditazione. I due restarono a osservarlo. Le sue labbra si muovevano, poi a un tratto si bloccò, come se fosse in comunicazione con un dio sconosciuto. Completata la preghiera, sorrise con aria angelica e si rialzò. «Gli parlo ogni giorno, dato che è a lui che dobbiamo tutto», confidò padre Hart. «Perché?» volle sapere Lynley. «Ci ha salvati. Il paese, la chiesa, la vita stessa del cattolicesimo qui a Keldale», spiegò, il viso illuminato dall'ardore. «Lui in persona o le sue reliquie?» chiese Lynley con un certo scetticismo. «Lui, la sua presenza, le sue reliquie, tutto.» Padre Hart spalancò le braccia, come a circondare l'intera cripta, e la sua voce crebbe di tono. «Ha dato al popolo il coraggio di mantenere la propria fede, ispettore, di rimanere fedele a Roma nei terribili giorni della Riforma. A quel tempo i preti si sono nascosti qui. L'imboccatura della scala è stata coperta da un falso pavimento e i preti del villaggio sono rimasti nascosti per anni. Ma il santo è rimasto con loro tutto il tempo e St. Catherine non è mai caduta in mano ai protestanti.» Aveva gli occhi colmi di lacrime e con mano tremante cercò il fazzoletto in tasca. «Lei... io... vi prego di scusarmi. Quando parlo di Cedda... il fatto di essere così fortunato ad avere qui le sue reliquie... di essere in comunione con lui... non so se riuscite a comprendere.» L'essere in così stretto rapporto con un santo del cristianesimo primitivo evidentemente era troppo per il vecchio e Lynley cercò un diversivo. «I confessionali al piano di sopra sembrano scolpiti in stile elisabettiano», osservò. «Sbaglio?»
L'altro si asciugò gli occhi, si schiarì la voce e offrì loro un tremulo sorriso. «Ha ragione. All'inizio non dovevano essere dei confessionali ed è per questo che sono decorati con un tema così laico. Normalmente non ci si aspetta di vedere tra le sculture in legno di una chiesa giovani stretti in un ballo, ma sono deliziosi, non trovate? Credo che la luce in quella parte della chiesa poi sia così bassa che i penitenti non riescono a distinguere con chiarezza la lavorazione. Secondo me, c'è chi ritiene che sia la rappresentazione degli ebrei rimasti soli quando Mosè è salito sul monte Sinai.» «E in realtà invece che cosa rappresentano?» volle sapere Deborah, seguendo il prete su per le scale. «Temo si tratti di un baccanale pagano», rispose il vecchio. Sorrise con aria di scusa, li salutò e scomparve al di là di una pesante porta scolpita vicino all'altare. I due rimasero a fissare la porta che si richiudeva. «Che strano ometto. Come fai a conoscerlo, Tommy?» Lynley seguì Deborah fuori della chiesa, alla luce del sole. «È stato lui a darci tutte le informazioni sul caso. Ha trovato lui il corpo.» Rapidamente le raccontò dell'omicidio e lei ascoltò come aveva sempre fatto, lo sguardo fisso sul suo viso. «Nies!» sbottò quando lui ebbe terminato. «Che cosa terribile per te! Tommy, che ingiustizia!» Era proprio da lei, pensò Lynley, andare dritto al cuore del problema, vedere al di là della superficie ciò che lo tormentava. «Webberly ha pensato che la mia presenza potesse renderlo più cooperativo, Dio sa come», commentò in tono asciutto. «Purtroppo sembra che io eserciti su di lui l'effetto opposto.» «Ma per te è terribile! Dopo tutto quello che Nies ti ha fatto passare a Richmond, perché hanno assegnato proprio te a questo caso? Non potevi rifiutare?» Lui sorrise nel vederla così indignata. «Di solito non ci offrono queste possibilità, Deb. Ti riaccompagno in albergo?» «Oh, no», rispose lei all'istante, «non ce n'è bisogno. Io ho...» «Certo, non ci pensavo.» Lynley posò a terra la sacca della macchina fotografica e osservò con sguardo vacuo le colombe che tornavano svolazzanti al campanile. «Non è per questo», mormorò lei in tono gentile, sfiorandogli il braccio. «Ho la macchina proprio qui fuori. Probabilmente non l'hai notata.» Solo allora lui vide la Escort blu parcheggiata sotto un nocciolo che sta-
va ricoprendo il terreno circostante di secche foglie autunnali. Riprese la borsa e la portò fino all'auto, mentre lei lo seguiva a qualche passo di distanza. Deborah aprì il bagagliaio e rimase a guardarlo riporre la borsa. Poi impiegò più tempo del necessario a sistemare il tutto in modo che non rotolasse durante il breve tragitto fino all'albergo e soltanto in quel momento, poiché non poteva più evitarlo, si girò verso di lui. La stava osservando, come se stesse per scomparire per sempre. «Ricordo l'appartamento di Paddington», mormorò, «e quando facevamo l'amore là, al pomeriggio.» «Non l'ho dimenticato, Tommy.» Aveva un tono tenero e per qualche strana ragione questo non fece che ferirlo ancora di più. Lynley si voltò da un'altra parte. «Gli dirai che mi hai visto?» «Certo.» «E di che cosa abbiamo parlato? Questo glielo dirai?» «Simon sa quello che provi. È tuo amico. E anch'io lo sono.» «Non voglio la tua amicizia, Deborah.» «Lo so, ma spero che un giorno cambierai idea. E io ci sarò.» Ancora una volta gli posò la mano sul braccio e lo strinse, poi aprì la portiera, scivolò al volante e se ne andò. Rimasto solo, Lynley tornò a piedi verso la pensione, sentendosi sempre più schiacciato dal peso della propria disperazione. Era appena arrivato a casa Odell quando la porta del giardino si aprì e una figuretta scese a passo deciso gli scalini, seguita qualche istante dopo dall'anatra. «Tu aspetta qui, Dougal», urlò Bridie. «La mamma ieri ha messo del cibo fresco per te nel capanno.» L'anatra, incapace comunque di scendere i gradini, sedette con aria paziente in attesa, mentre la bambina spalancava la porta del capanno ed entrava. Tornò un attimo dopo, trascinandosi dietro un grande sacco. Lynley vide che indossava un grembiule da scuola, stropicciato e non particolarmente pulito. «Ciao, Bridie», la salutò. Lei si girò di scatto. Lynley notò che aveva i capelli un po' più composti del giorno prima e si chiese chi se ne fosse occupato. «Devo dar da mangiare a Dougal», gli spiegò la bambina. «Oggi devo anche andare a scuola. Odio la scuola.» Lui la raggiunse nel cortile. L'anatra lo osservò avvicinarsi con aria so-
spettosa, un occhio fisso su di lui e l'altro sulla colazione che le era stata promessa. Bridie versò a terra una porzione gigantesca e l'animale cominciò a sbattere le ali, tutto felice. «E va bene, Dougal, ecco qui», esclamò Bridie. Raccolse con affetto l'anatra dai gradini e la piazzò a terra, restando a guardarla mentre si lanciava a capofitto sul cibo. «La colazione è quella che preferisce», confidò a Lynley, sedendosi come al solito sul primo gradino. Posato il mento sulle ginocchia, fissò con aria adorante l'animale. Lynley le sedette accanto. «Come sei ben pettinata», osservò. «È stata Sinji?» La bambina scosse la^testa, lo sguardo sempre fisso sull'anatra. «No di certo. È opera di zia Stepha.» «Davvero? E stata brava.» «In queste cose è brava», riconobbe Bridie con un tono che indicava che c'erano altri campi in cui zia Stepha non eccelleva. «Ora però devo andare a scuola. La mamma non mi ha lasciato andare ieri. Ha detto che era 'troppo umiliante'.» Gettò indietro i capelli con aria di disprezzo. «Sono i miei capelli, non i suoi», aggiunse. «Be', le mamme hanno l'abitudine di prendere tutto troppo sul serio. Non te n'eri accorta?» «Avrebbe potuto prenderla come l'ha presa zia Stepha. Quando mi ha visto, si è limitata a ridere.» Saltò giù dai gradini e riempì d'acqua una bacinella. «Tieni, Dougal.» L'anatra la ignorò. Se non avesse mangiato tutto più in fretta che poteva, correva il rischio che le portassero via il cibo e Dougal era un'anatra cui non piaceva rischiare. L'acqua poteva aspettare. Bridie tornò accanto a Lynley. Insieme osservarono l'animale che s'ingozzava e la bambina sospirò. Stava esaminandosi la punta rovinata delle scarpe e ci passò sopra inutilmente un dito sporco. «Proprio non capisco perché debba andare a scuola. William non ci è mai andato.» «Mai?» «Be', non dopo aver compiuto i dodici anni. Se la mamma avesse sposato William, io non avrei dovuto andare a scuola. Bobby non ci andava.» «Mai?» Bridie si corresse. «William non l'ha mai costretta ad andarci dopo i sedici anni. Non so come farò se dovrò aspettare fino a sedici anni. E poi la mamma vuole che io ci vada. Vuole che vada all'università, ma io non voglio.» «Che cosa preferiresti fare?»
«Occuparmi di Dougal.» «Ah. Non che si possa dire che non sia il ritratto della salute, Bridie, ma le anatre non vivono in eterno. Fa sempre piacere avere qualcosa su cui contare.» «Posso sempre aiutare zia Stepha.» «Alla pensione?» La ragazzina annuì. Dougal aveva finito la colazione e adesso stava bevendo l'acqua. «L'ho detto alla mamma, ma non serve. 'Non voglio che passi la vita in quella pensione.'» Bridie fece un'incredibile imitazione della voce di Olivia Odell. Poi scosse la testa. «Se William e la mamma si fossero sposati, sarebbe stato tutto diverso. Io avrei potuto lasciare la scuola e imparare tutto a casa. William era davvero intelligente e avrebbe potuto insegnarmi. L'avrebbe fatto, lo so.» «Come fai a esserne sicura?» «Perché ha sempre letto molto a me e a Dougal.» L'anatra, sentendo il suo nome, li raggiunse soddisfatta con quella sua strana camminata sbilenca. «Perlopiù roba della Bibbia, però.» Bridie si lucidò una scarpa sulla calza. «Non mi piace molto la Bibbia. Specie il Vecchio Testamento. William diceva che era perché non lo capivo e ha detto alla mamma che avrei dovuto avere un'educazione religiosa. Lui era molto gentile e mi spiegava tutto, ma io non capivo molto bene. Più che altro non capisco perché nessuno ha mai avuto dei problemi dicendo bugie.» «Come sarebbe?» Lynley cercò inutilmente in quel poco che ne sapeva di religione di trovare qualche bugiardo biblico che l'avesse scampata. «Mentono sempre tutti a tutti. Almeno è questo che c'è scritto. E nessuno viene mai scoperto.» «Ah, sì. Le bugie.» Lynley studiò l'anatra, che fissava i lacci delle sue scarpe con aria interessata. «Be', le cose sono un po' simboliche nella Bibbia», commentò. «Che cos'altro hai letto?» «Niente. Solo la Bibbia. Credo che William e Bobby non leggessero altro. Io ho tentato di farmela piacere, ma inutilmente. Non l'ho detto a William, però, perché lui cercava di essere gentile e io non volevo essere scortese. Credo che stesse cercando di conoscermi meglio», aggiunse con aria saggia. «Perché se avesse sposato la mamma, io gli sarei sempre stata intorno.» «Volevi che sposasse la tua mamma?» La bambina prese in braccio l'animale e lo posò sul gradino in mezzo a loro. Dougal si mise a pulirsi le penne.
«Papà mi leggeva», mormorò Bridie in tutta risposta. Aveva la voce un po' più bassa del solito e pareva totalmente concentrata sulla punta delle proprie scarpe. «Poi se n'è andato.» «Se n'è andato?» Lynley si chiese se si trattasse di un eufemismo per parlare della sua morte. «Un giorno se n'è andato.» Bridie posò una guancia sul ginocchio, attirò a sé l'anatra e fissò il fiume. «Non mi ha neanche detto ciao.» Si voltò a baciare la testa dell'animale che per tutta risposta le becchettò la guancia. «Io avrei voluto dirgli ciao», sussurrò. «Userebbe il termine angelo o raggio di sole per descrivere qualcuno che beveva, imprecava e se la spassava in giro?» chiese Lynley. Il sergente Havers alzò lo sguardo dall'uovo che stava mangiando per colazione, versò dello zucchero nel caffè e ci pensò su. «Immagino che dipenda da che cosa s'intende quando si parla di pioggia, non crede?» Lui sorrise. «Penso di sì.» Allontanò da sé il piatto che aveva davanti e osservò con aria pensierosa Barbara. Non era poi così male quella mattina: aveva un accenno di colore sulle palpebre, le guance e le labbra, e i capelli erano pettinati meglio del solito. Anche gli abiti erano notevolmente migliorati: indossava una gonna di tweed marrone con un pullover in tinta che, anche se non era esattamente la sfumatura più adatta per il suo incarnato, era comunque un notevole miglioramento rispetto all'orrendo completo blu del giorno prima. «Perché questa domanda?» volle sapere lei. «Stepha ha parlato di Gillian come di un essere selvaggio, una beona.» «Che si dava un gran da fare.» «Sì, ma padre Hart ha detto che era un raggio di sole.» «Davvero strano.» «Ha detto che Teys è rimasto sconvolto quando è scappata.» Barbara aggrottò le sopracciglia e, senza pensare a come questo avrebbe potuto modificare il loro rapporto, versò una seconda tazza di caffè a Lynley. «Be', questo spiega perché le sue foto sono scomparse, non le pare? Quell'uomo aveva dedicato la vita alle figlie e guardi che cosa ne ha guadagnato in cambio: una delle due è svanita nella notte.» Le ultime tre parole colpirono particolarmente l'attenzione di Lynley, che si mise a sfogliare i documenti che aveva sul tavolo finché non trovò la foto di Russell Mowrey che Tessa gli aveva dato. «Vorrei che oggi mostrasse questa in paese», le chiese.
Il sergente Havers prese la foto, senza capire. «Ma lei ha detto che si trovava a Londra.» «Ora sì, ma non necessariamente anche tre settimane fa. Se Mowrey allora si trovava qui, deve pure aver chiesto a qualcuno come arrivare alla fattoria. Qualcuno deve averlo visto. Si dia da fare soprattutto nei bar. Se vuole, vada anche a Keldale Hall. Se nessuno l'ha visto...» «In questo caso torniamo a Tessa», concluse Barbara. «O a qualcun altro con un movente. Sembra che ce ne siano parecchi.» Madeline Gibson rispose al bussare di Lynley. L'ispettore era riuscito a farsi largo scavalcando due bambini che litigavano nel giardino distrutto davanti alla casa, aveva aggirato un triciclo rotto e una bambola senza braccia e aveva evitato un piatto di uova fritte ormai fredde posato sui gradini. La donna osservò l'intera scena con aria annoiata e sistemò la sottoveste verde smeraldo sui seni appuntiti. Sotto non portava niente e non fece nulla per nascondere il fatto che l'ispettore non avrebbe potuto arrivare in un momento meno opportuno. «Dick», chiamò senza distogliere lo sguardo da Lynley, «rimettiti i pantaloni. E Scotland Yard.» Con un sorriso pigro gli aprì la porta. «Entri, ispettore.» E lo lasciò nel minuscolo ingresso tra giocattoli e abiti sporchi per avviarsi verso le scale. «Dick!» chiamò di nuovo. Poi si voltò con le braccia incrociate sul petto, continuando a fissare Lynley. Un sorriso le aleggiava sul viso. Tra le pieghe di raso sottile si intravedevano un bel ginocchio e una coscia rotonda. Ci fu del tramestio al piano di sopra, si sentì un uomo brontolare e apparve Richard Gibson. Scese rumorosamente le scale e vide la moglie. «Gesù Cristo, mettiti addosso qualcosa, Mad.» «Cinque minuti fa non volevi che avessi addosso niente», ribatté lei, fissandolo con un sorriso carico di sottintesi e deliberatamente salì le scale, rivelando il più possibile del proprio corpo snello. Gibson la guardò divertito. «Deve vederla quando fa sul serio», confidò. «Ora sta solo scherzando.» «Ah, sì, immagino.» L'agricoltore rise di gusto. «Perlomeno così è felice, ispettore. Almeno per un po'.» Si guardò intorno nella confusione della casa e aggiunse: «Usciamo in giardino». Lynley si disse che il giardino era un posto ancora meno adatto per il loro incontro di quanto non lo fosse la casa maleodorante, ma evitò ogni
commento e lo seguì fuori. «Andate da vostra madre», ordinò Gibson ai due bambini. Con il piede spostò il piatto da un lato. In un attimo dai cespugli balzò fuori il gatto di casa, che divorò i resti delle uova e del pane tostato. Lo fece con avidità, e questo fece tornare in mente a Lynley la donna al piano di sopra. «Ieri ho visto Roberta», disse. Gibson si era seduto sui gradini davanti a casa e si allacciava le scarpe. «Come sta? C'è qualche segno di miglioramento?» «No. La prima volta che ci siamo parlati non mi ha detto che era stato lei a firmare per ricoverare Roberta in manicomio, signor Gibson.» «Lei non me l'ha chiesto, ispettore.» Aveva finito di allacciarsi le scarpe e si alzò in piedi. «Pensava che la lasciassi nelle mani della polizia a Richmond?» «Non proprio. Si è incaricato anche di trovarle un avvocato?» Gibson non era uomo da aspettarsi che la polizia si preoccupasse che le assassine confesse avessero un rappresentante legale e quella domanda lo sorprese. Lynley se ne accorse. Lo vide sbattere le palpebre e impegnarsi per qualche momento a infilare la camicia nei pantaloni. «Un avvocato? No», rispose dopo qualche istante. «E curioso che abbia organizzato il suo ricovero in casa di cura, ma che non si sia occupato dei suoi interessi legali. Direi che è stato anche comodo, non le pare?» Sul viso di Gibson comparve un'espressione dura. «No, non mi pare.» «Allora mi spieghi.» «Non credo di avere bisogno di spiegarle nulla», ribatté l'uomo in tono tagliente. «Comunque ho ritenuto che i problemi psicologici di Bobby fossero un po' più pressanti di quelli legali.» «Infatti. E se fosse giudicata incapace di intendere e di volere e impossibilitata a sostenere un processo, come senza dubbio accadrà, lei si troverebbe in una buona posizione, non le pare?» Gibson lo affrontò a muso duro. «Perdio, certo», sibilò con rabbia. «Libero di prendermi quella fottuta fattoria, libero di avere quella fottuta casa, libero di scopare la mia fottuta moglie sul tavolo del salotto, se ne ho voglia. E tutto senza avere Bobby tra i piedi. E questo che vuole sentirmi dire, ispettore?» Lo fissò infuriato, ma quando Lynley non reagì a quella aggressività si calmò. Il suo tono però continuò a essere tagliente. «Ne ho abbastanza della gente che crede che io abbia voluto fare del male a Bobby, della gente che crede che Madeline e io saremmo fin troppo felici
di vederla rinchiusa per tutta la vita. Crede che non sappia che è quello che pensano tutti? Crede che Madeline non lo sappia?» Rise con amarezza. «No, io non le ho trovato un avvocato. Me ne sono trovato uno per me e ho tutte le intenzioni di farla dichiarare incapace di intendere e di volere, se posso. Crede che sia peggio che vederla finire in prigione per il resto della sua vita?» «Quindi pensa che sia stata lei a uccidere il padre?» chiese Lynley. Gibson scosse la testa. «Non so che cosa pensare. Tutto quello che so è che Bobby non è la stessa ragazza che conoscevo quando ho lasciato Keldale. Quella ragazza non avrebbe fatto del male a una mosca. Ma questa... è un'estranea.» «Forse è per la sparizione di Gillian.» «Gillian?» Gibson rise con aria incredula. «Direi che la fuga di Gilly è stata un sollievo per tutti quelli che avevano a che fare con lei.» «Perché?» «Diciamo che Gilly era più avanti della sua età, la vogliamo mettere così?» Lanciò un'occhiata guardinga verso casa. «Diciamo che in confronto a lei Madeline sarebbe apparsa come la Vergine Maria. Sono stato abbastanza chiaro?» «Perfettamente. Gillian l'ha sedotta?» «Lei non ha proprio mezzi termini. Mi offra una cicca e glielo racconto.» Accese la sigaretta che Lynley gli offrì e contemplò i campi che iniziavano al di là della strada. Sul fondo, il sentiero che portava a High Kel Moor si snodava tra gli alberi. «Avevo diciannove anni quando me ne sono andato da Keldale, ispettore. Non volevo andarmene. Dio solo sa che era l'ultima cosa che desideravo fare. Ma sapevo che se non l'avessi fatto avrei finito per ritrovarmi all'inferno.» «Ma prima di andarsene è andato a letto con sua cugina Gillian?» Gibson fece un versaccio. «Non mi sembra il termine esatto da usare con una ragazza come Gilly. Voleva avere lei il controllo e lo aveva, ispettore. Riusciva a fare di quelle cose a un uomo... meglio di una puttana di alto bordo. Mi faceva impazzire quattro volte al giorno.» «Quanti anni aveva?» «Dodici, la prima volta che ha posato su di me uno sguardo non proprio da cugina e tredici la prima volta che... si è data da fare. Poi nei due anni seguenti mi ha fatto impazzire.» «Intende dire che se n'è andato per sfuggire a Gillian?» «Non sono così nobile. Me ne sono andato per sfuggire a William. Era
solo una questione di tempo prima che se ne accorgesse e io non volevo che accadesse. Volevo darci un taglio.» «Perché non ne ha mai parlato con William?» Gibson lo fissò spalancando gli occhi. «Per come la pensava lui, nessuna delle due ragazze avrebbe mai potuto fare niente di sbagliato. Come facevo a dirgli che Gilly, la proverbiale luce dei suoi occhi, mi si strusciava contro come una gatta e mi eccitava come una puttana? Non mi avrebbe mai creduto. Spesso non riuscivo a crederci nemmeno io.» «Gillian se n'è andata da Keldale un anno dopo di lei, vero?» Gibson gettò il mozzicone di sigaretta in strada. «Così mi hanno detto.» «L'ha mai più rivista?» L'altro abbassò lo sguardo. «Mai. Ed è stata una benedizione.» Marsha Fitzalan era una donna curva e segnata dal tempo, con un viso che a Lynley fece venire in mente quel genere di bambole americane scolpite nelle mele: un insieme di rughe delicate le risaliva dalle guance fino agli occhi azzurri, che danzavano nel suo viso illuminati dall'interesse e dal divertimento e lasciavano capire a chiunque la guardasse che il corpo era segnato dagli anni, ma il cuore e la mente non erano diversi da quelli che erano stati in gioventù. «Buongiorno», salutò sorridendo, poi guardò l'ora e aggiunse: «O forse dovrei dire buon pomeriggio. Lei è l'ispettore Lynley, vero? Immaginavo che prima o poi sarebbe passato. Ho preparato una torta di mele». «Per l'occasione?» chiese lui. «Sì. Si accomodi.» Viveva in una delle case comunali di St. Chad's Lane, ma quell'abitazione era del tutto diversa da quella dei Gibson. Nel giardino c'erano aiuole di fiori: in primavera sarebbero fioriti alissi e primule, bocche di leone e gerani. In vista dell'imminente inverno, erano stati potati e la terra era stata girata con affetto intorno a ogni piantina. Sui due gradini che portavano all'entrata c'erano graziose pianticelle di erba calderina, mentre campanelline di metallo erano appese vicino a una finestra e le loro sei note risuonavano leggere malgrado il frastuono dei figli dei Gibson nella casa accanto. Il contrasto con l'abitazione dei vicini proseguiva all'interno, dove il profumo di pot-pourri nell'aria ricordò a Lynley i lunghi pomeriggi trascorsi nella camera da letto della nonna a Howenstow. Il minuscolo soggiorno era arredato in maniera piacevole, anche se non costosa, e due pareti erano interamente ricoperte di scaffalature ricolme di libri. Sotto l'unica finestra
faceva bella mostra un tavolinetto su cui erano posate varie fotografie e sopra un vecchio apparecchio televisivo erano appesi numerosi quadretti a piccolo punto. «Vuole accomodarsi in cucina, ispettore?» propose Marsha Fitzalan. «So che non si dovrebbero intrattenere gli ospiti in cucina, ma io lì mi sono sempre trovata molto meglio che qui. I miei amici dicono che è perché sono cresciuta in una fattoria e la vita di una fattoria ruota sempre attorno alla cucina. Credo di non essere mai riuscita a staccarmi da questo concetto. Prego, si sieda. Caffè e torta? Ha l'aria affamata. Immagino che lei sia scapolo. Gli scapoli non mangiano mai bene come dovrebbero, non è così?» Ancora una volta nella mente di Lynley riaffiorò il ricordo della nonna che gli dava quell'incredibile sicurezza di amore incondizionato. Mentre osservava la donna affaccendarsi con mani calme e sicure intorno a un vassoio, Lynley capì con assoluta certezza che Marsha Fitzalan aveva la risposta che cercava. «Vuole parlarmi di Gillian Teys?» La donna si bloccò e si voltò verso di lui con un sorriso. «Di Gilly? Sarà un vero piacere. Gillian Teys era la creatura più adorabile che abbia mai conosciuto.» 11 Si voltò nuovamente verso il tavolo, dove sistemò un vassoio. Un'attenzione superflua. La cucina era così piccola che bastavano pochi passi per attraversarla, eppure grazie a quel vassoio la donna riuscì a dimostrare tutta la sua cortesia, facendo dimenticare le ristrettezze della povertà. Il vassoio era coperto da un vecchio merletto su cui era sistemato un servizio di porcellana per due. Entrambi i piatti erano sbeccati, ma le tazze e i piattini erano riusciti chissà come a superare indenni il passare degli anni. Al centro del tavolo in pino c'era un vaso di coccio con alcune foglie autunnali e Marsha Fitzalan lo spostò per apparecchiare con ordine. Versò il caffè fumante nelle tazze, aggiungendo zucchero e latte alla propria, prima di iniziare a parlare. «Gilly era esattamente come la madre. Sono stata l'insegnante anche di Tessa. Ammetterlo, naturalmente, fa capire quanti anni ho, ma è inutile nasconderlo. Quasi tutti gli abitanti del paese sono stati miei allievi, ispettore.» Con un lampo divertito negli occhi, aggiunse: «Tranne padre Hart. Io e lui siamo della stessa generazione».
«Non l'avrei mai detto», commentò Lynley con aria seria e lei scoppiò a ridere. «Chissà come, ma gli uomini davvero affascinanti sanno sempre capire quando una donna desidera un complimento.» Con la forchetta prese un pezzo di torta, che masticò soddisfatta per qualche istante, poi proseguì: «Gillian era l'immagine speculare della madre. Avevano gli stessi deliziosi capelli biondi, quei magnifici occhi e lo stesso spirito fantastico. Ma Tessa era una sognatrice, mentre direi che Gillian era un po' più realista. Tessa aveva sempre la testa fra le nuvole, tutta amore e fantasia. Credo che sia per questo che ha deciso di sposarsi così giovane; per lei nella vita non c'era di meglio che farsi travolgere da un eroe alto e bruno e sicuramente William Teys corrispondeva a questa immagine». «Gillian non desiderava farsi travolgere dall'amore?» «Oh, no, non credo che abbia mai pensato agli uomini. Voleva diventare insegnante. Ricordo che veniva qui il pomeriggio e si raggomitolava sul pavimento con un libro. Come amava le Brontë! A quattordici anni aveva già letto Jane Eyre sei o sette volte. Lei, Jane e il signor Rochester erano molto intimi, a quanto ricordo. E poi le piaceva parlare di tutto ciò che leggeva. Le sue però non erano chiacchiere così per dire: si soffermava sui personaggi, sulle motivazioni, sui significati. Diceva sempre: 'Sono cose che dovrò sapere quando farò l'insegnante, signorina Fitzalan'.» «Perché è scappata?» La vecchia fissò le foglie color del bronzo nel vaso di coccio. «Non lo so», rispose, scandendo bene le parole. «Era una bambina così brava. Sembrava che non ci fosse al mondo problema che non fosse in grado di risolvere con la sua mente sveglia. Sinceramente non so che cosa sia successo.» «Può essere che avesse una relazione con un uomo? Forse qualcuno cui correva dietro?» La signorina Fitzalan rispose con un deciso gesto di diniego della mano. «Non credo che Gillian s'interessasse già agli uomini. Era un po' indietro rispetto alle ragazze della sua età.» «E Roberta? Assomigliava alla sorella?» «No, Roberta era come il padre.» S'interruppe di colpo, aggrottando le sopracciglia. «Era. Non voglio parlare di lei al passato, ma è come se fosse morta.» «Ed è così, non è vero?» La donna sorrise, compiaciuta del fatto che le desse ragione. «Roberta
era grande e grossa come il padre, robusta e silenziosa. C'è chi le dirà che non aveva personalità, ma non è così. Era semplicemente molto timida. Era romantica come la madre e taciturna come il padre. E si perdeva nei libri.» «Come Gillian?» «Sì e no. Leggeva quanto Gillian, ma non discuteva mai di quello che leggeva. Gillian leggeva per imparare; Roberta, secondo me, lo faceva per scappare.» «Scappare da che cosa?» La signorina Fitzalan sistemò il merletto sul vecchio vassoio e Lynley notò le sue mani segnate dal tempo. «Dalla consapevolezza di essere trascurata, direi.» «Da Gillian o dalla madre?» «Da Gillian. Roberta adorava Gillian. Non ha mai conosciuto la madre. S'immagini che cosa dev'essere stato avere Gilly come sorella maggiore: così adorabile, così viva, così intelligente. Tutto quello che Roberta non era e avrebbe desiderato essere.» «Gelosia?» La donna scosse la testa. «Non era gelosa di Gilly, le voleva molto bene. Credo che Roberta abbia sofferto in maniera spaventosa quando la sorella se n'è andata, ma a differenza di Gillian, che avrebbe parlato del suo dolore - Dio sa se Gilly non parlava di tutto e di tutti -, Roberta l'ha interiorizzato. Ricordo infatti la pelle della povera bambina dopo che Gilly se ne andò. Buffo che me ne rammenti ancora.» Lynley ripensò alla ragazza che aveva incontrato in manicomio e non si sorprese che l'insegnante ricordasse lo stato della pelle di Roberta. «Acne?» chiese. «Troppo giovane per l'acne.» «No. Fu una vera e propria esplosione. So che era un fattore nervoso, ma quando gliene parlai, lei incolpò Baffi.» La signorina Fitzalan abbassò lo sguardo e giocherellò con la forchetta, spostando di qua e di là le briciole nel piatto. Lynley attese con pazienza, sicuro che ci fosse dell'altro, e alla fine lei proseguì. «Mi sono sentita così inadeguata, ispettore, un tale fallimento come amica e come insegnante per il fatto che lei non riuscisse a parlarmi di quello che era accaduto a Gilly. Ma proprio non ce la faceva, così preferiva dare la colpa di tutto a un'allergia dovuta al suo cane.» «Lei ne ha discusso con il padre?» «Dapprima no. William era così sconvolto dalla fuga di Gillian che non si riusciva a parlargli di niente. Per settimane e settimane abbiamo temuto
che non riuscisse più a parlare con nessuno tranne che con padre Hart. Alla fine, però, sinceramente, ritenni di doverlo fare, per Roberta. Dopotutto, aveva solo otto anni e non era colpa sua se la sorella era scappata di casa. Mi recai quindi alla fattoria e spiegai a William che ero preoccupata per lei, specie dopo che si era inventata quella patetica storia del cane.» Si versò altro caffè e lo sorseggiò, ripensando a quell'incontro di tanto tempo prima. «Pover'uomo. Non avrei certo dovuto temere la sua reazione. Deve essersi sentito terribilmente in colpa per avere ignorato Roberta, perché si recò direttamente a Richmond a comperare tre o quattro tipi di creme per lei. Forse la bambina non aveva bisogno altro che dell'attenzione del padre, perché da quel momento lo sfogo sparì.» Ma tutto il resto rimase, pensò Lynley. Tra sé, rivide la ragazzina tutta sola in quella cupa fattoria, circondata dai fantasmi e dalle voci del passato, che viveva svuotata, nutrendosi solo di libri. Lynley aprì la porta sul retro ed entrò nella casa. Niente era cambiato e tutto era freddo e immoto come prima. Dalla cucina raggiunse il soggiorno, dove Tessa Teys gli sorrise teneramente dal suo altarino nell'angolo, con un'aria giovanile e infinitamente vulnerabile. Lynley s'immaginò Russell Mowrey che sollevava la testa dagli scavi e si trovava di fronte quel viso delizioso incorniciato dallo steccato. Era facile capire come Mowrey si fosse innamorato, facile capire come fosse ancora innamorato. Non mille navi, ma un marito infuriato, pensò Lynley. È possibile, Tessa? O in un solo pomeriggio hai visto crollare tutto il tuo mondo e ti sei resa conto che non avresti potuto sopportare di doverlo ricostruire? Voltò le spalle all'altarino e salì di corsa le scale. No, la risposta doveva essere in quella casa, doveva essere Gillian. Per prima cosa entrò nella sua camera da letto, ma quel vuoto non gli rivelò nulla. Il letto lo fissò col copriletto in ordine. Sul tappeto non c'erano tracce che portassero al passato. La tappezzeria non nascondeva vecchi segreti. Era come se una giovanetta non avesse mai vissuto in quella stanza, non avesse mai sfogato tutta la sua vitalità in quell'atmosfera. Eppure qualcosa... qualcosa di Gillian restava, qualcosa che lui aveva visto, che sentiva. Si avvicinò alla finestra e fissò, inutilmente, il granaio. «Era scatenata, intrattabile. Era un angelo, un raggio di sole. Era una gatta in calore. Era la creatura più adorabile che abbia mai conosciuto.» Era come se non esistesse una vera Gillian, ma solo un caleidoscopio che, agitato prima di u-
sarlo, appariva diverso a seconda di chi ci guardasse dentro. Desiderò trovare la risposta nella stanza, ma quando voltò le spalle alla finestra non vide altro che mobili, tappezzeria e un tappeto. Com'era possibile che qualcuno venisse cancellato in modo tanto radicale dalla vita della famiglia in cui aveva vissuto per sedici anni? Era inconcepibile. Ma era accaduto. Oppure no? Passò nella stanza di Roberta. Gillian non poteva essere svanita in maniera così totale dalla vita della sorella. L'amore che lei le portava era lì, il legame era forte. Almeno quello era un punto su cui tutti avevano concordato, qualunque fosse il loro giudizio su Gillian, Lynley fece vagare lo sguardo dalla finestra all'armadio e poi al letto. Il letto: era lì che nascondeva il cibo, perché non anche Gillian? Facendosi forza di fronte alla vista e all'odore della putrefazione, spostò il materasso e barcollò per il fetore che lo colpì. Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che gli facilitasse il compito, ma non vide niente che potesse essergli utile. La luce nella stanza era scarsa e, per quanto spiacevole fosse, non gli restava che tirare giù dal letto iJ materasso a molle e squarciarlo. Sbuffando per la fatica, buttò tutto sul pavimento, poi si avvicinò alla finestra e la spalancò. Prima di voltarsi nuovamente verso il letto, respirò a pieni polmoni l'aria fresca. Ignorando con uno sforzo di volontà il fetore, si mise all'opera. Suvvia, vecchio mio. Non è per questo che sei entrato nella polizia? Forza, adesso, un bel colpo deciso. Tirò con forza la copertura del materasso e la stoffa mezza marcia si lacerò, mettendo in mostra tutta la follia che conteneva. I topi scapparono di qua e di là in tutte le direzioni, lasciandosi alle spalle frammenti di frutta decomposta. Un topolino fuggì via tenendo tra i denti qualcosa di marcio, raccolto tra montagne di biancheria femminile sporca, e un furibondo nugolo di tarme, disturbato da tutto quel movimento, invase la stanza, finendo in faccia a Lynley. Attonito, indietreggiò di qualche passo, si trattenne dal lanciare un urlo e corse in bagno, dove si spruzzò acqua fresca in faccia. Poi si guardò allo specchio e sorrise. Meno male che hai saltato il pranzo. Dopo questo spettacolo potresti anche non avere più voglia di mangiare per il resto dei tuoi giorni. Cercò un asciugamano, ma non ne trovò. Con la coda dell'occhio intravide una vestaglia appesa sul retro della porta che chiuse con un calcio. I cardini arrugginiti cigolarono. Si asciugò il viso sull'orlo dell'indumento
con aria pensierosa e dopo qualche istante lasciò la stanza. Gli era venuto in mente qualcosa. La scatola di chiavi era dove l'aveva vista la volta precedente, in fondo all'ultimo ripiano dell'armadio di Teys. La tirò fuori e ne rovesciò il contenuto sul letto. Teys doveva aver messo le cose di Gillian da qualche parte in un baule. Forse in solaio. Le chiavi dovevano sicuramente essere lì, ma la ricerca si rivelò vana. Erano tutte chiavi di porte, le vecchie chiavi di una volta con il buco in mezzo, una strana collezione di ricordi metallici arrugginiti. Di cattivo umore, le ributtò tutte nella scatola e maledisse la cieca determinazione di quell'uomo che aveva cancellato dalla faccia della terra l'esistenza della figlia. Perché? si chiese. Quale angoscia aveva spinto William Teys a negare che la figlia che aveva tanto amato fosse mai esistita? Quale azione poteva avere commesso lei per portarlo a un simile atto distruttivo? E tale allo stesso tempo da provocare nella sorella una reazione così potente eppure disperata come il semplice nascondere una fotografia? Sapeva quale doveva essere il passo successivo. Il solaio è un buco nell'acqua, vecchio mio. Torna in camera da letto. Sai che il segreto è lì. Forse non nel materasso, ma è lì. Rabbrividì al pensiero di quali altre sorprese lo attendevano come spettri in quella stanza sepolcrale. Mentre cercava di farsi forza per tornare là dentro, sentì giungere dall'esterno un fischiettio allegro e disinvolto e si avvicinò alla finestra. Un giovane percorreva il sentiero che scendeva da High Kel Moor con un cavalietto sulle spalle e una valigetta di legno in mano. Lynley si disse che era venuto il momento di conoscere Ezra. Il primo pensiero che lo colpì fu che non fosse poi così giovane come pareva da lontano. Dovevano essere i capelli, pensò, di un biondo caldo e portati più lunghi di quanto si usasse. Da vicino Ezra somigliava molto a quello che era: un uomo che aveva passato la trentina, a disagio per quell'incontro con il detective di Scotland Yard. Glielo si leggeva da come stava in piedi e nello sguardo che si velò, in quegli occhi che cambiavano colore a seconda dell'abito che indossava. In quel momento erano blu scuro, come la camicia, macchiata di pittura. Aveva smesso di fischiettare nell'istante in cui aveva visto Lynley uscire dalla casa. «Ezra Farmington?» chiese cordialmente l'ispettore. Farmington si bloccò. A Lynley venne in mente il ritratto di Fryderyk Chopin eseguito da Delacroix: le stesse labbra ben modellate, l'accenno di
una fossetta sul mento, le sopracciglia ben più scure dei capelli, il naso deciso. «Esatto», rispose, sulla difensiva. «E andato a dipingere in brughiera, oggi?» «Sì.» «Nigel Parrish mi ha detto che studia i riflessi della luce.» A quel nome l'altro reagì; il suo sguardo si fece pungente. «Che altro le ha detto Nigel?» «Che ha visto William Teys che la cacciava dalla sua proprietà. Sembra che ora lei se ne serva liberamente.» «Con il permesso di Gibson», puntualizzò quello in tono tagliente. «Davvero? Non me ne ha parlato.» Lynley si voltò verso il sentiero. Era ripido e roccioso, maltenuto, non certo l'ideale per una passeggiata in campagna. Bisognava essere artisti davvero appassionati per salire fin lassù. La sua attenzione tornò a rivolgersi a Ezra. La brezza pomeridiana che accarezzava i campi scompigliò i biondi capelli di Farmington che il sole faceva rifulgere. Lynley cominciò a capire perché li portasse così lunghi. «Il signor Parrish mi ha detto che Teys ha distrutto alcune sue opere.» «Le ha detto anche che cosa ci faceva lui quaggiù quella sera?» ribatté Farmington. «No, accidenti, che io sia dannato se gliel'ha detto.» «Secondo il suo racconto, stava riportando alla fattoria il cane di Teys.» Sul viso del giovane pittore si dipinse un'espressione incredula. «Riportando alla fattoria il cane? Che ridere!» Con un moto di rabbia piantò il cavalietto nella terra morbida. «Nigel è un maestro nel manipolare i fatti. Mi lasci indovinare che cosa le ha raccontato: che io e Teys stavamo litigando violentemente nel bel mezzo della strada quando lui è apparso, per riportare innocentemente il povero, vecchio cane cieco a casa.» Farmington si passò nervosamente una mano tra i capelli. Tutto il suo corpo era così teso che Lynley si aspettava che da un momento all'altro serrasse i pugni. «Cristo, quell'uomo mi spingerà a commettere qualche pazzia.» L'ispettore inarcò un sopracciglio, interessato, e quel mutamento di espressione non sfuggì all'uomo che aveva di fronte. «Immagino che la ritenga una confessione, vero, ispettore? Be', le suggerisco di tornare da Nigel e chiedergli che cosa ci stesse facendo lui in giro per Gembler Road quella notte. Mi creda, quel cane era in grado di tornare a casa da solo da Timbuctu, se avesse voluto.» Scoppiò a ridere. «Quel cane era molto più in gamba di Nigel. Non che ci voglia tanto.» Lynley si chiese perché Farmington fosse così furibondo. Non c'era
dubbio che quel sentimento fosse sincero, eppure era esagerato rispetto all'argomento di cui stavano parlando. Sembrava un elastico teso su cui si stesse esercitando un'eccessiva pressione; ancora un grammo e si sarebbe rotto. «Ho visto le sue opere a Keldale Lodge. Il suo modo di dipingere l'abbazia mi ha fatto venire in mente Wyeth. È voluto?» Ezra parve rilassarsi un po'. «L'ho eseguito molti anni fa, quando ancora ero alla ricerca di uno stile tutto personale. Non mi fidavo del mio istinto, così copiavo gli altri. Mi sorprende che Stepha lo tenga ancora appeso.» «Mi ha detto che gliel'ha dato in cambio della pensione, un autunno.» «Esatto. Allora pagavo quasi tutto a quel modo. Se guarda bene in giro, vedrà le mie croste appese in ogni negozio della città. Mi sono persino comprato il dentifricio con quel sistema.» Aveva un tono di derisione, di disprezzo, ma diretto a se stesso, non a Lynley. «Mi piace Wyeth», dichiarò Lynley. «Nei suoi lavori c'è una semplicità che trovo gradevole. Mi piacciono la semplicità, la chiarezza delle linee e dell'immagine, i dettagli.» Farmington incrociò le braccia sul petto. «È sempre così chiaro, ispettore?» «Cerco di esserlo», ribatté lui con un sorriso. «Mi parli della sua lite con Teys.» «Se rifiutassi?» «Naturalmente può farlo, ma me ne chiederei il motivo. Ha qualcosa da nascondere, signor Farmington?» Ezra spostò il peso del corpo da un piede all'altro. «Non ho niente da nascondere. Quel giorno ero stato in brughiera e sono sceso quando ha cominciato a fare buio. Teys deve avermi visto dalla finestra. Diamine, non lo so. Mi ha raggiunto qui in strada e abbiamo litigato.» «Ha distrutto qualche suo lavoro.» «Non era un granché, comunque. Non ha importanza.» «Ho sempre pensato che agli artisti piaccia avere il controllo delle proprie opere invece di cederlo ad altri. Non è d'accordo?» Lynley capì subito di avere toccato un punto debole, perché l'altro s'irrigidì suo malgrado. Il suo sguardo si spostò sul sole che stava calando all'orizzonte e lasciò passare qualche istante prima di rispondere. «Ne convengo», mormorò alla fine. «Sì, perdio, ne convengo.» «Allora quando Teys si è concesso l'ardire...» «Teys?» Ezra scoppiò a ridere. «Non m'importava un accidente di quello
che faceva Teys. Gliel'ho detto, non ha distrutto altro che croste. In ogni caso, di certo lui non avrebbe capito la differenza. Chiunque suoni Souza a tutto volume come compagnia per una serata non ha un gran gusto, per come la penso io.» «Souza?» «L'orrendo inno stelle-e-strisce. Cristo, si sarebbe detto che stesse intrattenendo una miriade di americani che agitavano festosi le loro bandierine. Per poi avere l'ardire di prendersela con me perché disturbavo la sua quiete attraversando in punta di piedi la sua terra per raggiungere il sentiero. Gli ho riso in faccia. È stato allora che se l'è presa con i miei quadri.» «E nel frattempo che cos'ha fatto Nigel Parrish?» «Niente. Nigel aveva visto quello che era venuto a vedere, ispettore. Aveva curiosato un po' qua e un po' là e a quel punto poteva anche tornarsene tranquillo a riposare nel suo letto, per quella sera.» «E le altre sere?» Farmington raccolse il cavalietto. «Se non c'è altro, me ne andrei.» «No, c'è un'altra cosa.» Farmington si girò di scatto a fissarlo. «Che cosa?» «Che cosa ha fatto la sera in cui è morto William Teys?» «Ero al Dove and Whistle.» «E dopo la chiusura?» «A casa, a letto a dormire. Da solo.» Si scostò nervosamente una ciocca che gli era ricaduta sulla fronte. Un gesto strano, molto femminile. «Mi spiace non essermi portato dietro Hannah, ispettore. Sarebbe stato un bell'alibi, ma non ho mai avuto una gran passione per fruste e catene.» E con questo si avviò a passo deciso lungo la strada. «Come dicono nei film americani, è stato un clamoroso buco nell'acqua.» Il sergente Havers buttò sul tavolo del Dove and Whistle la fotografia e si lasciò cadere con aria stanca su una sedia di fronte a lui. «Il che significa, suppongo, che nessuno ha visto Russell Mowrey in questa vita.» «Il che significa, a meno che si creda nella reincarnazione, che nessuno l'ha proprio mai visto. Molti comunque hanno riconosciuto Tessa. C'è stato qualche sopracciglio inarcato, qualche domanda pungente.» «E lei che cos'ha risposto?» «Io sono stata nel vago, biascicando un mucchio di interessanti proverbi latini per superare i momenti difficili. Me la sono cavata bene finché non
ho provato con caveat emptor. Non ha avuto l'effetto delle altre frasi.» «Le andrebbe di annegare la delusione in un bicchiere, sergente?» «Solo acqua tonica», rispose lei e, notando la sua espressione, aggiunse: «Davvero. Non bevo molto, signore. Sul serio». E sorrise. «Io invece ho trascorso una giornata affascinante», raccontò Lynley, tornando con il suo bicchiere. «Ho avuto un incontro con Madeline Gibson, che trasudava passione coperta da un négligé verde smeraldo con sotto assolutamente niente.» «La vita dei poliziotti è dura», commentò Barbara. «E Gibson al piano di sopra bello pronto. Sono stati felici di vedermi.» «Immagino.» «Comunque, oggi ho saputo qualcos'altro su Gillian. Era un angelo, un raggio di sole, una gatta in calore o la creatura più adorabile che si sia mai vista. Dipende da chi ne parla. O quella ragazza è un camaleonte, o tra questa gente c'è chi si sta dando un gran da fare per farla apparire così.» «Ma perché?» «Non lo so. A meno che, naturalmente, non abbiano un interesse preciso nel farla apparire il più misteriosa possibile.» Buttò giù il resto della birra e si appoggiò allo schienale della sedia, stirando i muscoli stanchi. «Ma la grande avventura l'ho avuta alla fattoria Gembler, Havers.» «E cioè?» «Ero sulle tracce di Gillian Teys. Pensi un po'. Qualcosa mi ha detto che il segreto era nascosto nella camera di Roberta, per cui mi sono lanciato con passione nell'indagine, ho squartato il materasso e ho rischiato d'impazzire all'istante.» Le descrisse la scena e il sergente Havers fece una smorfia di disgusto. «Fortuna che non c'ero.» «Oh, non abbia paura. Ero troppo sconvolto per rimettere il tutto a posto, quindi domani avrò bisogno di lei. Diciamo... subito dopo colazione?» Lei sorrise. «Canaglia.» Quando arrivarono alla casetta all'angolo di Bishop Furthing Road, era ovviamente l'ora del tè. Quasi ora di cena, a essere sinceri, perché l'agente Gabriel Langston aprì la porta reggendo un piatto con i cibi più disparati: cosce di pollo fredde, formaggio, frutta e una fetta di torta. Langston pareva molto giovane per essere un poliziotto, ma il nome Gabriel gli si adattava perfettamente, perché era magrolino, con sottili capelli biondastri, la pelle chiara e liscia e lineamenti appena accennati, come se
sotto la pelle le ossa fossero morbide. «A-avrei d-dovuto v-venire da lei s-subito», balbettò, arrossendo violentemente. «Ma mi è s-stato d-detto che si s-sarebbe fatto vivo lei, se aavesse avuto b-bisogno di qualcosa.» «Senza dubbio, gliel'avrà detto Nies», commentò Lynley. L'altro annuì a disagio e fece loro cenno di accomodarsi. La tavola era apparecchiata per uno e l'agente posò sul tavolo il piatto, si pulì la mano nei pantaloni e la tese all'ispettore. «F-felice di conoscervi ent-trambi. S-scusatemi per...» Arrossì ancora di più indicando con gesto impotente la propria bocca, come se desiderasse fare qualcosa per quel suo difetto. «V-volete del tè?» offrì gentilmente. «Grazie. Una tazza la prendo volentieri. E lei, sergente?» «Sì, grazie», accettò Barbara. L'agente annuì, evidentemente sollevato; sorrise e sparì in una piccola cucina. L'abitazione era chiaramente per una sola persona, poco più di un monolocale, ma era pulita, lucidata e spolverata. C'era solo un vago odore di cane bagnato. La fonte di quell'odore un po' fastidioso se ne stava sdraiata su un vecchio tappeto mordicchiato a scaldarsi davanti alla stufetta elettrica accesa nel caminetto di pietra. Era un terrier bianco che sollevò il muso, li fissò e sbadigliò, mettendo in mostra una lunga lingua rosa. Dopodiché si voltò nuovamente felice verso la stufetta. Langston tornò con un vassoio e un altro terrier alle calcagna; era identico al primo, ma più vivace, perché si lanciò immediatamente su Lynley facendogli le feste. «Q-qui, giù!» ordinò l'agente, sforzandosi di avere un tono deciso. Il cane ubbidì con riluttanza e attraversò la stanza per unirsi all'altro davanti al fuoco. «S-sono b-bravi ragazzi, ispettore. Mi scusi.» Mentre Langston versava il tè, Lynley fece cenno di non preoccuparsi per il cane. «Continui pure a mangiare, agente. Io e il sergente Havers siamo arrivati un po' tardi. Potremo parlare mentre mangia.» Langston aveva l'aria di non ritenere possibile una soluzione del genere, ma ubbidì timidamente. «Se ho capito bene, padre Hart l'ha chiamata subito dopo aver trovato il corpo di William Teys», cominciò Lynley. L'altro annuì. «Roberta era ancora là quando lei è arrivato?» Un altro cenno di assenso. «Lei ha chiamato immediatamente la polizia di Richmond. Perché?» Lynley si pentì di aver posto quella domanda nell'istante stesso in cui la formulò. Stupido, si disse, immaginandosi che sofferenza dovesse essere stata per l'agente interro-
gare i testimoni, specie quelli come padre Hart, che sembrava sempre fluttuare tra due mondi. Langston stava fissando il piatto, alla ricerca della risposta giusta. «Credo che sia stato il modo più rapido per risolvere la questione», suggerì Barbara e l'agente Langston assentì con aria grata. «Roberta ha parlato con qualcuno?» L'agente scosse la testa. «Neanche con lei? Con nessuno di quelli di Richmond?» Ancora un cenno negativo del capo. Lynley si rivolse a Barbara. «Allora ha parlato solo con padre Hart.» Rimase qualche istante in silenzio, soppesando la situazione. «Roberta se ne stava seduta sul secchio rovesciato, l'ascia era lì vicino e il cane sotto il corpo di Teys. Ma mancava l'arma che aveva tagliato la gola del cane. Esatto?» Un cenno di conferma. Langston addentò la terza coscia di pollo, gli occhi fissi sull'ispettore. «Che ne è stato del cane?» «Io... l'ho s-sepolto.» «Dove?» «Nel retro.» Lynley si sporse in avanti. «Dietro questa casa? Perché? È stato Nies a dirle di farlo?» L'agente deglutì, si pulì le mani sui pantaloni e fissò con aria triste i suoi due compagni vicino al fuoco i quali, vedendosi al centro dell'attenzione, agitarono la coda: «Io...» Questa volta faceva fatica a parlare per l'imbarazzo, più che per la balbuzie. «Amo i c-cani», mormorò. «Non v-volevo che fossero loro a seppellire il vecchio B-Baffi. Lui... era un amico dei miei c-cani.» «Poveretto», mormorò Lynley quando si trovarono di nuovo per strada. Si era fatto buio. In lontananza si udì una voce femminile che chiamava un bambino. «Non c'è da meravigliarsi che abbia fatto intervenire la polizia di Richmond.» «Che cosa mai gli sarà saltato in mente di fare il poliziotto?» domandò Barbara mentre si avviavano alla pensione. «Penso che non si sia mai immaginato di potersi trovare di fronte a un omicidio. Perlomeno non a uno di questo genere. Chi se l'aspetterebbe mai in un posto come Keldale? Probabilmente, prima d'ora i compiti più importanti di Langston consistevano nel pattugliare il villaggio per controllare che di notte le porte dei negozi fossero chiuse a chiave.» «E adesso che cosa facciamo?» chiese Barbara. «Non potremo avere il cane fino a domattina.»
«Giusto.» Lynley lanciò un'occhiata all'orologio. «Il che mi dà dodici ore per convincere St. James ad abbandonare la luna di miele per il brivido della caccia. Che ne pensa, Havers? Ce la faremo?» «Dovrà scegliere tra il cane sgozzato e Deborah?» «Temo di sì.» «Penso che ci vorrà un miracolo, signore.» «Sono un esperto in materia», dichiarò Lynley, torvo. Non le restava che indossare nuovamente l'abito bianco. Barbara lo tolse dall'armadio e lo studiò con aria critica. Con Un'altra cintura non sarebbe stato poi così male, o magari con una sciarpa. Si era portata una sciarpa? Anche un foulard al collo avrebbe dato un tocco di colore, modificando l'insieme e rendendolo un tantino diverso. Fischiettando, frugò tra le sue cose buttate alla rinfusa in un cassetto. Non le fu difficile trovare quello che cercava: una sciarpa a quadretti bianchi e rossi. Sembrava un po' una tovaglia, ma doveva accontentarsi. Si avvicinò allo specchio e rimase piacevolmente sorpresa nel vedere la propria immagine riflessa. L'aria di campagna le aveva dato colore alle guance e lo sguardo era luminoso. Tutto merito del sentirsi utile, si disse. Si era goduta quella giornata in paese da sola. Era stata la prima volta che un ispettore investigativo le aveva permesso di fare qualcosa tutto da sola. Era stata la prima volta che un ispettore investigativo era partito dal presupposto che avesse cervello. Si sentiva rinvigorita da quell'esperienza e si rendeva conto di quanto l'umiliante ritorno ad agente in divisa avesse distrutto la sua fiducia in se stessa. Che periodo orribile: la rabbia che ribolliva dentro di lei, il dolore dell'infelicità, la consapevolezza di non essere valutata sufficientemente dagli altri, di non avere abbastanza fiuto. Fiuto. Gli occhietti da maiale di Jimmy Havers sembrarono fissarla dallo specchio: padre e figlia avevano gli stessi occhi. Barbara voltò di scatto le spalle a quella vista. Ora tutto sarebbe andato meglio. Aveva preso l'avvio e niente l'avrebbe fermata. Avrebbe tentato di nuovo gli esami da ispettore e questa volta li avrebbe superati, ne era certa. Si tolse la gonna di tweed e il pullover e si liberò con un calcio delle scarpe. Certo, nessuno le aveva dato informazioni su Russell Mowrey, ma tutti avevano preso molto seriamente le sue domande. Tutti l'avevano vista per quello che era: una rappresentante di Scotland Yard, una rappresentante in gamba, competente, intelligente, attenta. Era proprio quello che
le ci voleva e ora sì che si sentiva davvero coinvolta nel caso. Terminò di vestirsi, si annodò la sciarpa al collo e scese le scale per incontrare Lynley. Lo trovò in soggiorno, in piedi davanti all'acquerello dell'abbazia, perso nei suoi pensieri. Dietro il bancone, Stepha Odell lo osservava. Sembravano essere anche loro parte di un quadro. Fu la donna a muoversi. «Beve qualcosa prima di uscire, sergente?» chiese in tono cortese. «No, grazie.» Lynley si voltò. «Ah, Havers», mormorò, massaggiandosi con aria distratta le tempie. «Pronta per un altro attacco a Keldale Hall?» «Certamente.» «Allora andiamo.» Con un cenno del capo salutò Stepha e, presa Barbara sottobraccio, uscirono. «Ho pensato a come meglio affrontare l'argomento», le disse quando furono in macchina. «Lei dovrà tenere occupata quella orribile coppia di americani il tempo necessario perché io scambi due parole con St. James. Ce la farà? Mi spiace terribilmente abbandonarla a un tale destino, ma se il vecchio Hank mi sente, ho il terribile sospetto che vorrà entrare anche lui in gioco.» «Nessun problema, signore», replicò Barbara. «Farò in modo che resti incantato.» Lui la fissò con aria sospettosa. «Come farà?» «Lo farò parlare di sé.» Per tutta risposta Lynley scoppiò a ridere e il suo viso parve subito più giovane e molto meno stanco. «Sono sicuro che funzionerà.» «Ora senti, Barbie», esclamò Hank strizzandole l'occhio, «se è il brivido che tu e Tom state cercando quassù, dovreste infilarvi in questo buco per un paio di notti. Che ne dici, tesoro? Qui vengono i brividi quando fa sera, no?» Stavano bevendo un bicchierino dopo cena nella sala perlinata di noce. Hank, con indosso un paio di pantaloni di un bianco accecante, una camicia a fiori aperta fino in vita e la solita catena d'oro al collo, fissò Barbara con l'aria di saperla lunga. Sembrava sperare di diventare tutt'uno con le ghirlande e i cherubini dei montanti scolpiti del caminetto: in una mano teneva un bicchiere di brandy, il terzo o il quarto della serata, mentre l'altra la teneva in vita, il pollice infilato nella cintura dei pantaloni. La moglie sedeva su una poltrona dallo schienale alto e il suo sguardo carico di scuse passava alternativamente da Deborah a Barbara. Barbara si
era accorta con una certa soddisfazione che Lynley e St. James erano riusciti ad allontanarsi verso la sala accanto subito dopo cena e la signora Burton Thomas si era appisolata rumorosamente su un soffice divano. A giudicare dal russare irregolare, Barbara capì che stava solo fingendo di dormire. Non si poteva fargliene una colpa: Hank teneva banco da un buon quarto d'ora. Barbara lanciò una rapida occhiata a Deborah per vedere come avesse preso l'improvviso abbandono del marito che l'aveva lasciata tra le grinfie dell'americano. Aveva un'espressione tranquilla, il viso illuminato dalle fiamme che brillavano nel camino, ma quando sentì lo sguardo di Barbara su di sé, per un istante le s'incurvarono le labbra in un sorriso malizioso. Sapeva benissimo che cosa stava accadendo, pensò Barbara, e Deborah le piacque per la generosità che dimostrava nell'accettare la realtà. Mentre Hank stava aprendo la bocca per proseguire la sua descrizione dei brividi di Keldale Hall, Lynley e St. James li raggiunsero davanti al camino. «Ora, dovete capire bene la situazione che c'è qui», stava dicendo Hank. «Due sere fa vado alla finestra per chiudere fuori quel maledetto stridio. Hai mai sentito pavoni così rumorosi, Debbie?» «Pavoni?» ripeté Deborah. «Buon Dio, Simon, non era affatto il neonato dell'abbazia! Mi hai mentito?» «Sono stato chiaramente tratto in inganno», replicò St. James. «A me sembrava proprio il verso di un neonato. Vuoi dire che ci siamo dati tutto quel da fare per tenere lontano il diavolo per niente?» «Come, un neonato?» domandò Hank, incredulo. «Devi proprio essere perso nelle spire dell'amore, Si. Era decisamente un pavone.» Sedette a gambe larghe, le braccia appoggiate sulle cosce grasse. «Così vado alla finestra per zittirlo, pronto a tirargli una scarpa e farlo fuori. Ho una mira infallibile, io. Ve l'avevo detto? No? Be', vedete, a Laguna abbiamo questo vicolo dove vanno i finocchi.» Attese per vedere se fosse il caso di spiegare ancora una volta al pubblico il genere di abitanti di Laguna Beach, ma erano tutti presi dal suo racconto, così continuò felice. «Lasciate che vi dica che faccio un sacco di esercizio a tirare loro dietro le scarpe. Non è vero, tesoro? È la verità?» «La verità, amore», assentì JoJo. «Riesce a colpire qualunque cosa», giurò, rivolta agli altri. «Non ne dubito», commentò Lynley tra i denti. Hank fece un gran sorriso. «Così eccomi lì alla finestra, pronto a lancia-
re, quando mi accorgo che c'è ben più di un pavone, lì sotto.» «Era qualcun altro a stridere?» s'informò Lynley. «Diavolo, no. Il pavone c'è, ma mi cade l'occhio su qualcos'altro!» Attese che gli chiedessero di che cosa si trattasse, ma ci fu solo un educato silenzio. «Okay, okay!» Scoppiò a ridere e abbassò la voce. «Danny e quel tipo, come si chiama, Ira... Hezekiah...» «Ezra?» «Giusto! E hanno le labbra incollate come non ho mai visto. Wow! 'Non volete riprendere fiato?' gli urlo.» E fischiò con aria di approvazione. Tutt'intorno sorrisi educati. JoJo guardò gli uni e gli altri con l'aria di un cucciolo alla ricerca di amore. «E adesso viene il bello.» Hank abbassò la voce. «Quella che abbiamo fra le mani non è affatto Danny. Ma lui è proprio Ezra.» Sorrise con aria di trionfo: era finalmente riuscito a catturare la loro attenzione. «Altro brandy, Deborah?» domandò St. James. «Grazie.» Hank si chinò in avanti sulla poltrona. «Ma se la sta facendo con Angelina! Capite?» Con una grassa risata, si batté i pugni sulle ginocchia. «Questo Ezra si dà più da fare di un gallo nel pollaio, amici miei. Non so che cos'abbia, ma quali che siano le sue qualità, non le tiene per sé!» Vuotò il bicchiere d'un fiato. «La mattina dopo ho tentato qualche commento con Angelina, ma è muta come una tomba. Neanche un battito di ciglia. Senti, Tom, se cerchi del movimento, vieni qua.» Sospirò soddisfatto, giocherellando con la pesante catena d'oro. «Amore. Che cosa meravigliosa, eh? Niente sconvolge la mente quanto l'amore. Sono sicuro che tu puoi confermarlo, Si.» «Sono sconvolto da anni», riconobbe St. James. A Hank non parve vero. «Ti ha colpito al cuore da ragazzino, vero?» esclamò, indicando con il dito Deborah. «Gli hai dato la caccia per un po', eh?» «Fin dall'infanzia», ammise lei, senza tradire alcuna emozione. «Dall'infanzia?» Hank si alzò e andò a riempire nuovamente il bicchiere. Quando le passò davanti, la signora Burton Thomas si mise a russare ancora più forte. «Voi due eravate a scuola insieme, come me e la mia Chicchina, ci scommetto. Ti ricordi, Chicchina? I nostri... incontri sul sedile posteriore della Chevy. Avete i drive-in qua?» «Credo che si tratti di un fenomeno endemico del suo Paese», rispose St. James.
«Come, come?» Hank scrollò le spalle e tornò a sedersi. Il brandy gli si rovesciò sui pantaloni bianchi, ma lui fece finta di niente. «Così vi siete conosciuti a scuola?» «No. Siamo stati formalmente presentati a casa di mia madre.» St. James e Deborah si scambiarono uno sguardo innocente. «Ehi, scommetto che aveva organizzato tutto la vecchia. Anche io e la mia Chicchina ci siamo conosciuti in un appuntamento alla cieca! Abbiamo qualcosa in comune, Si.» «A essere sinceri, sono nata in casa di sua madre», precisò Deborah in tono educato. «Ma sono cresciuta perlopiù nella casa di Simon a Londra.» Hank spalancò gli occhi. Erano acque pericolose. «Hai sentito, Chicchina? Voi due siete parenti? Cugini o qualcosa del genere?» Nella sua mente già si affacciavano immagini di emofiliaci che languivano dietro porte sbarrate. «Niente affatto. Mio padre è il suo... be', come definiresti papà?» rispose lei voltandosi verso il marito. «Servitore, cameriere, maggiordomo?» «Suocero», rispose St. James. «Hai sentito, Chicchina?» mormorò Hank a mezza voce. «Questo sì che è amore.» Era stato tutto così improvviso, inaspettato, e lei stava ancora cercando di assimilarlo. Il carattere di Lynley si stava rivelando incredibilmente sfaccettato, come un diamante tagliato da un maestro gioielliere che, in ogni occasione, fa brillare una superficie che fino a quel momento non si era vista. Innamorato di Deborah. Be', questo di sicuro. Era comprensibile. Ma innamorato della figlia del cameriere di St. James? Barbara si sforzò di accettare quel dato di fatto. Come aveva potuto accadergli? si domandò. Sembrava aver sempre avuto il pieno controllo della sua vita e del suo destino. Come aveva permesso che accadesse? Ora rivedeva sotto una luce completamente diversa il suo strano comportamento al matrimonio di St. James. Non era ansioso di liberarsi di lei, ma di allontanarsi da quella che era la fonte di una notevole sofferenza: la felicità nuziale che la donna che amava provava per un altro uomo. Adesso perlomeno riusciva a comprendere perché, tra i due, Deborah avesse scelto St. James. Chiaramente non doveva mai avere avuto nemmeno una possibilità di scelta, perché Lynley non si sarebbe mai lasciato andare a parlarle d'amore. Farlo, lo avrebbe portato a parlare di matrimonio,
e lui non avrebbe mai sposato la figlia di un cameriere. Il suo albero genealogico ne sarebbe stato scosso fino alle radici. Eppure certamente doveva aver desiderato che Deborah diventasse sua moglie e come doveva avere sofferto vedendo St. James che tranquillamente infrangeva quel ridicolo codice di comportamento sociale che aveva invece frenato lui. Che cosa aveva detto St. James? Suocero. Con tre semplici sillabe, aveva cancellato ogni distinzione di classe che avrebbe potuto separarlo dalla moglie. Non c'era da chiedersi perché lei lo amasse, si disse Barbara. Tornando alla pensione, si voltò a guardare un Lynley dall'aria stanca. Che cosa doveva provare, sapendo che gli era mancato il coraggio di dire a Deborah che la voleva, sapendo di avere messo davanti all'amore per lei la sua famiglia e il suo titolo? Come doveva odiarsi! Che rimpianti doveva avere! Come doveva sentirsi incredibilmente solo! Lynley si accorse del suo sguardo. «Ha fatto un buon lavoro oggi, sergente. Specie in albergo. L'aver tenuto a bada Hank per un quarto d'ora le farà ottenere una citazione di merito, gliel'assicuro.» Barbara provò un assurdo piacere a quell'apprezzamento. «Grazie, signore. St. James ha accettato di aiutarla?» «Certamente.» Certamente, pensò Lynley. Scosse la testa in un moto di autoderisione e gettò sul comodino il dossier. Vi posò sopra gli occhiali, si passò una mano sugli occhi e sistemò meglio i cuscini dietro la schiena. Deborah aveva parlato con il marito, Lynley se n'era accorto. Avevano già discusso tra loro che cosa rispondere se lui gli avesse chiesto di assisterlo. Era stato un semplice: «Naturalmente, Tommy. Che cosa posso fare?» Era proprio tipico di loro due! Era tipico di Deborah avere capito dalla loro conversazione di quella mattina quanto fosse preoccupato per il caso. Era tipico di lei avergli spianato la strada perché potesse chiedere l'aiuto di St. James. Ed era tipico di St. James avere accettato senza esitare, perché qualsiasi esitazione avrebbe risvegliato il senso di colpa che era sempre in agguato come una pericolosa tigre ferita. Si appoggiò con la schiena ai cuscini e chiuse gli occhi con aria stanca, lasciando che la mente tornasse al passato. Si lasciò andare all'incantevole visione di una felicità che non c'era più e che era stata scevra di sofferenze.
L'incantevole Thais al suo fianco sedeva come una splendente sposa pasquale, nel fiore della gioventù e nell'orgoglio della bellezza. Coppia, coppia felice! Solo chi ha coraggio merita la bellezza. Le parole di Dryden gli tornarono in mente uscendo dal nulla, indesiderate. Tentò di ricacciarle nei recessi più profondi della memoria in uno sforzo che gli costò tutta la sua concentrazione e che gli impedì di sentire la porta che si apriva e i passi che attraversavano la stanza. Non si accorse della sua presenza in camera finché una mano fresca non gli sfiorò dolcemente la guancia. Spalancò gli occhi. «Credo che tu abbia bisogno di una birra, ispettore», sussurrò Stepha. 12 La fissò attonito; si sforzò di tornare alla realtà, attese che si ripresentasse l'uomo che sapeva ridere e ballare e che aveva sempre la risposta pronta... ma non accadde niente. L'apparizione di Stepha, che si era materializzata dal nulla, parve aver distrutto la sua unica arma di difesa e riuscì solo a reggere, senza tremare, il suo sguardo intenso. Aveva bisogno di far diventare realtà quel momento, di accorgersi che lei non era un qualcosa evocato dal sogno, così tese una mano a sfiorarle i capelli. Morbidi, pensò. Lei gli prese la mano e gli baciò il palmo, il polso, con la punta della lingua che risaliva ad accarezzargli le dita. «Lascia che ti ami, stanotte. Lascia che allontani le ombre.» Era stato solo un lieve sussurro e lui si chiese ancora una volta se anche la voce non facesse parte di un sogno; ma le sue mani vellutate gli accarezzavano il viso, la mascella e la gola, e quando si chinò su di lui, sentì la dolcezza della sua bocca, la carezza della sua lingua e capì che Stepha faceva parte di una bruciante realtà, di un dono che era pronto a infrangere le mura del suo passato. Avrebbe voluto sfuggire a quell'attacco, rifugiarsi in quel paradiso di ricordi meravigliosi che gli avevano consentito di superare indenne l'anno appena trascorso, un anno durante il quale ogni desiderio era stato assente, ogni passione morta, ogni attimo di vita incompleto. Ma lei non gli permi-
se nessuna fuga e distrasse deliberatamente i baluardi che lo proteggevano, finché lui ancora una volta provò non la sensazione di una dolce liberazione, ma quel terrificante bisogno di possedere un'altra persona, anima e corpo. Non era possibile. Non avrebbe permesso che accadesse di nuovo. Disperato, cercò di rialzare le proprie difese distrutte, sforzandosi inutilmente di tornare a essere quella creatura insensibile che non aveva più vita. Ma ora al suo posto era rinato, sereno e vulnerabile, l'uomo che, dentro di sé, era sempre stato. «Parlami di Paul.» Lei si sollevò su un gomito e con un dito seguì la linea delle sue labbra. La luce le illuminava i capelli, le spalle, il seno. Era fuoco e tenerezza, profumata quasi impercettibilmente con la dolcezza delle violette del Devon. «Perché?» «Perché voglio saperne di più di te, perché era tuo fratello, perché è morto.» Lei distolse lo sguardo. «Che cosa ti ha raccontato Nigel?» «Che la morte di Paul ha cambiato tutti.» «È vero.» «Bridie mi ha detto che se n'è andato senza nemmeno dirle addio.» Stepha si raggomitolò tra le sue braccia. «Paul si è ucciso, Thomas», sussurrò. Tremava nel pronunciare quelle parole e lui la tenne stretta. «A Bridie non è stato detto. Diciamo sempre che è morto a causa della corea di Huntington, e in un certo senso è stato proprio così. È stata la corea di Huntington a ucciderlo. Hai mai visto qualcuno colpito da questa malattia? La chiamano il ballo di san Vito. Non c'è più controllo sul corpo. Si agitano, barcollano e cadono. Poi alla fine perdono la ragione. Ma non Paul. Perdio, non Paul.» Di colpo la voce le si spezzò in un singhiozzo trattenuto. Lui le accarezzò i capelli e le posò un bacio sul capo. «Mi dispiace.» «Gli era rimasto quel tanto di raziocinio da capire che ormai non riusciva più a riconoscere la moglie, non ricordava il nome della figlia, non aveva più controllo sul proprio corpo. Gli era rimasto quel tanto di raziocinio da farlo decidere che era giunto il momento di morire.» Deglutì a fatica. «E io l'ho aiutato. Ho dovuto farlo: era il mio gemello.» «Non lo sapevo.»
«Nigel non te l'ha detto?» «No. Nigel è innamorato di te, vero?» «Sì», rispose lei con semplicità. «È venuto a Keldale per starti vicino.» Lei annuì. «Abbiamo fatto tutti l'università insieme: Nigel, Paul e io. C'è stato un momento in cui avrei anche potuto sposare Nigel. Allora era meno matto, meno carico di rancore. Temo di essere io la causa della sua pazzia, perché non mi sposerò mai.» «Perché no?» «Perché la corea di Huntington è una malattia ereditaria e io ne sono portatrice sana. Non voglio trasmetterla a un figlio. È già abbastanza terribile vedere Bridie crescere giorno dopo giorno e pensare, ogni volta che inciampa o le sfugge qualcosa di mano, che nel suo sangue scorre la terribile malattia. Non so che cosa farei se avessi un figlio. Probabilmente finirei per impazzire dalla preoccupazione.» «Non è necessario che tu abbia figli. Oppure potresti adottarne.» «Un discorso da uomini, certo. Nigel me lo dice sempre. Ma per quanto mi riguarda, se non posso avere un figlio mio è inutile sposarmi. Voglio avere un bambino mio, sano.» «Il neonato dell'abbazia era sano?» Lei si sedette per osservarlo dritto negli occhi. «In servizio, ispettore? Uno strano momento e uno strano luogo, non ti pare?» Lui sorrise con amarezza. «Scusami, è un riflesso condizionato.» Poi insistette: «Era sano?» «Dove hai sentito parlare del neonato dell'abbazia? No, non dirmelo: a Keldale Hall.» «Da quanto ne ho capito, sembra una leggenda diventata realtà.» «Più o meno. La leggenda, alimentata dai Burton Thomas a ogni possibile occasione, dice che a volte di notte si sente il pianto di un neonato venire dall'abbazia. Temo che la realtà sia molto più terra terra: è il vento che quando soffia con la giusta forza da nord sibila in una fenditura della parete della navata. Succede varie volte l'anno.» «Come fai a saperlo?» «Da ragazzini, una primavera, mio fratello e io ci siamo accampati laggiù per un paio di settimane finché non siamo riusciti a individuare la fonte del 'lamento'. Naturalmente non abbiamo voluto deludere i Burton Thomas raccontando la verità. Comunque, a essere sinceri, ti dirò che quel fischiare del vento non somiglia poi neanche tanto al pianto di un neonato.»
«E il vero bambino?» «Ah, ci risiamo.» Stepha posò la guancia sul suo petto. «Non ne so molto. È accaduto all'incirca tre anni fa. È stato padre Hart a trovarlo e, con il putiferio che ha scatenato, Gabriel Langston si è trovato a dover risolvere il mistero. Povero Gabriel. Non è mai riuscito a scoprire niente. Dopo qualche settimana il furore popolare si è affievolito. C'è stato un funerale cui hanno partecipato tutte le brave persone e questo è tutto. Una storia piuttosto triste.» «E sei stata contenta quando la storia si è chiusa?» «Certo, non mi piace la tristezza, non ne voglio nella mia vita. Voglio che la vita sia piena di risate e di momenti di gioia.» «Forse perché hai paura di provare sentimenti diversi.» «È vero, ma più che altro ho paura di finire come Olivia, ad amare infinitamente qualcuno per poi vedere il destino che me lo strappa di mano. Non riesco più a sopportare di averla vicino. Dopo la morte di Paul si è persa in un mondo tutto suo da cui non è mai riemersa. Non voglio finire così. Mai.» Quell'ultima parola fu pronunciata con rabbia, ma quando sollevò il capo, nei suoi occhi brillavano le lacrime. «Ti prego, Thomas», sussurrò e il suo corpo rispose con appassionato desiderio. L'attirò a sé e la sentì fremere di passione e gridare di piacere mentre le ombre si allontanavano. «E Bridie?» «Che cosa?» «È come una piccola anima persa. C'è solo la piccola Bridie e quell'anatra.» Stepha ridacchiò e si accoccolò su un fianco, rannicchiata tra le sue braccia. «Bridie è speciale.» «Olivia sembra stranamente disinteressarsi a lei. È come se Bridie crescesse senza avere nessuno dei due genitori.» «Liv non è sempre stata così, ma Bridie è come Paul, identica a lui. Credo che Olivia soffra solo a vederla. Non ha ancora superato la perdita di Paul e temo che non ci riuscirà mai.» «E allora perché stava per risposarsi?» «Per Bridie. Paul era un padre dal carattere molto forte e pare che Olivia si sia sentita obbligata a rimpiazzarlo con qualcun altro. Immagino che William fosse ben disposto a fare da sostituto.» Stepha aveva la voce im-
pastata di sonno. «Non so se si è mai soffermata a pensare a come sarebbe stata la vita per lei, ma credo che quello che più la interessava fosse tenere Bridie sotto controllo. E avrebbe anche funzionato. William era molto bravo con Bridie, e anche Roberta.» «Bridie dice che anche tu lo sei.» Lei sbadigliò. «Davvero? Le ho sistemato i capelli, povero tesoro. Non sono sicura di essere brava anche nel resto.» «Sai cacciare via i fantasmi», sussurrò Lynley. «In questo sei molto brava.» Ma lei si era addormentata. Stavolta al risveglio Lynley si trovò ad affrontare la realtà. Stepha era raggomitolata con le ginocchia piegate e le mani chiuse a pugno sotto il mento. Aveva il viso aggrottato nel sonno e una ciocca di capelli le ricadeva sulle labbra. Lynley sorrise. Un'occhiata all'orologio gli disse che erano quasi le sette. Dolcemente si chinò a baciarle una spalla nuda e lei si svegliò all'istante, completamente, per nulla confusa su dove si trovasse. Sollevò una mano ad accarezzargli la guancia e lo attirò a sé. Lui le baciò le labbra, poi il collo e dal suo respiro che si faceva affrettato indovinò il piacere che le dava baciandole il seno. Teneramente le accarezzò il corpo e lei sospirò. «Thomas.» Lui sollevò la testa e vide che aveva le guance arrossate, gli occhi che brillavano. «Devo andare.» «Non ancora.» «Guarda che ore sono.» «Fra un attimo.» Si chinò su di lei e Stepha gli infilò le mani tra i capelli. «Tu... io... Oh, Signore.» Rise nell'accorgersi di come il suo stesso corpo la stesse tradendo e lui sorrise. «Se proprio devi andare, vai.» Stepha si mise a sedere, gli diede un ultimo bacio e s'infilò in bagno. Lynley rimase a letto, rilassato e soddisfatto come non credeva che avrebbe mai più potuto sentirsi e ascoltò i rumori che venivano dal bagno. Si chiese quasi senza rendersene conto come avesse fatto a superare quell'ultimo anno trascorso in isolamento. Poi rieccola lì, sorridente, a spazzolarsi i capelli. La vide afferrare l'abito grigio e cominciare a infilarselo, sollevando con grazia le braccia. Bastò quel movimento alla tenue luce del mattino perché lui vedesse sul suo corpo la prova innegabile di una passata gravidanza.
Barbara si alzò quando sentì la porta di Lynley che si apriva e richiudeva piano piano. Se n'era stata sdraiata su un fianco, lo sguardo disperatamente fisso su un punto preciso della parete, la mascella serrata finché non le aveva fatto male. Si era sforzata con tutta se stessa di non provare assolutamente niente nelle ultime sette ore, dal primo istante in cui li aveva sentiti insieme nella camera accanto. Allora si avvicinò alla finestra con le gambe che le tremavano e fissò il paese senza vederlo. Sembrava senza vita, un posto senza colori né suoni. Così dev'essere, si disse. La vera agonia era stata il letto: il ritmico e riconoscibilissimo cigolio del letto. Aveva continuato a sentirlo fino ad avere voglia di urlare, di prendere a pugni la parete perché la smettessero. Ma il silenzio che era caduto subito dopo era stato anche peggio. Le aveva pulsato violentemente nelle orecchie finché non si era accorta che quel rumore non era altro che il battito furioso del proprio cuore. E poi di nuovo il letto, di continuo. E i gemiti soffocati di lei. Posò una mano calda contro il vetro freddo e bagnato della finestra e rimase a guardare le goccioline di vapore che scendevano lentamente. Per fortuna amava Deborah, pensò acidamente. Cristo, devo essere stata assolutamente fuori di me! Quando mai lui era stato diverso da come si era rivelato ancora una volta la notte precedente: uno stallone, un toro da monta, un uomo che doveva dimostrare la propria virilità tra le gambe di ogni donna che incontrava! Be', stanotte l'hai dimostrato, ispettore. L'hai portata in paradiso tre o quattro volte, se non sbaglio. Sei davvero bravo. Rise tra sé, con amarezza. In fondo era un piacere scoprire che era come lei aveva sempre pensato che fosse: un gatto randagio a caccia di ogni donna in calore e che si mascherava dietro una fulgida apparenza di perbenismo. Ma ci voleva poco per scoprire la realtà: bastava grattare appena appena sotto la superficie dorata. L'acqua scorreva rumorosamente nel bagno della stanza accanto, un suono che a Barbara ricordò lo scoppio di un applauso. Voltando le spalle alla finestra, decise che era venuto il momento di affrontare anche quella giornata. «Dovremo frugare ben bene in tutta la casa, stanza dopo stanza», dichiarò Lynley.
Erano nello studio. Barbara si era avvicinata alla libreria e stava sfogliando distrattamente un vecchio libro di una delle Brontë. Lui la guardò con curiosità. Non aveva detto niente quella mattina, fatta eccezione per qualche risposta secca e a monosillabi alle domande che lui le aveva posto a colazione. Quel fragile filo di comunicazione che si era stabilito tra loro sembrava essersi di colpo spezzato e, a peggiorare la situazione, lei aveva indossato nuovamente l'orribile abito blu e quelle ridicole calze colorate. «Havers», la chiamò in tono secco. «Mi sta ascoltando?» Lei si girò con fare insolente. «Ogni sua parola... ispettore.» «Allora cominci dalla cucina.» «Uno dei due regni della donna.» «Che cosa intende dire?» «Niente, niente.» E uscì. Lui la seguì con lo sguardo, perplesso. Che diavolo le aveva preso? Stavano lavorando bene insieme, ma adesso all'improvviso lei si stava comportando come se non vedesse l'ora di mandare tutto al diavolo per tornare in divisa. Non aveva senso. Webberly le stava offrendo una possibilità di reinserimento. Perché quindi stava deliberatamente cercando di dimostrare che ogni pregiudizio contro di lei era fondato? Imprecando tra i denti, Lynley decise che era meglio lasciar perdere. A quell'ora St. James doveva già trovarsi a Newby Wiske, con il cadavere del cane avvolto in un sacco di poliestere nel bagagliaio della Escort e gli indumenti di Roberta in uno scatolone posato sul sedile posteriore. Avrebbe eseguito l'autopsia, controllato le analisi e gliene avrebbe riferito i risultati con la solita efficienza. Grazie a Dio, il coinvolgimento di St. James avrebbe permesso che almeno qualcosa in quel caso fosse portato avanti correttamente. Kerridge, il capo della polizia del distretto dello Yorkshire, era stato fin troppo felice di sapere che Allcourt St. James si sarebbe servito del loro attrezzatissimo laboratorio. Avrebbe accettato di tutto, pensò Lynley, pur di schiacciare ancora una volta Nies. Scuotendo la testa con disgusto, Lynley aprì il primo cassetto della scrivania di William Teys. Non ci trovò nulla di segreto: forbici, matite, una cartina stropicciata della contea, il nastro di una macchina per scrivere, un rotolo di nastro adesivo. Per un attimo, alla vista della cartina sperò che ci fosse segnato qualcosa d'interessante, forse la strada percorsa da Teys alla ricerca della figlia maggiore. Ma non c'era nessun messaggio cifrato che indicasse dove si trovava la ragazza scomparsa.
Nemmeno negli altri cassetti della scrivania trovò qualcosa d'interessante: una scatola di colla, due confezioni di bigliettini di auguri natalizi mai utilizzati, tre pacchetti di fotografie della fattoria, libri contabili, una scatoletta di vecchie mentine. Ma niente su Gillian. Lo sguardo gli cadde sulla libreria e sul volume della Bibbia che faceva bella mostra di sé. Colpito da un pensiero improvviso, lo aprì alla pagina segnata. «Così il faraone disse a Giuseppe: 'Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c'è nessuno che sia intelligente e savio quanto te. Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te'. Il faraone disse ancora a Giuseppe: 'Vedi, io ti do potere su tutto il paese d'Egitto'. Poi il faraone si tolse l'anello dal dito e lo mise al dito di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: 'In ginocchio'. Così il faraone gli diede autorità su tutto il paese d'Egitto.» «Alla ricerca della guida del Signore?» Lynley alzò lo sguardo. Barbara Havers se ne stava appoggiata allo stipite della porta, il corpo informe stagliato contro la luce del mattino, il viso privo d'espressione. «Ha finito in cucina?» «Ho pensato di fare una pausa.» Ed entrò nella stanza. «Ha da fumare?» Lui le tese distrattamente il portasigarette e tornò a osservare la libreria, alla ricerca di qualche volume di Shakespeare. Ne trovò uno e cominciò a sfogliarlo. «Daze è una rossa, ispettore?» Ci volle un attimo perché lui comprendesse quella strana domanda. Quando si voltò a guardarla, Barbara era già tornata alla porta e ne accarezzava distrattamente il legno, apparentemente indifferente alla risposta che lui le avrebbe dato. «Come, scusi?» Lei aprì il portasigarette e lesse l'iscrizione. «'Caro Thomas. Parigi sarà sempre lì per noi. Daze.'» Con freddezza alzò lo sguardo a incrociare quello di lui. Fu allora che Lynley si accorse di come fosse pallida, di come i suoi occhi fossero segnati dalla stanchezza e le mani le tremassero nel reggere il portasigarette d'oro. «A parte il suo uso piuttosto disinvolto di Bogart, è una rossa?» domandò di nuovo lei. «Lo chiedo solo perché sembra che siano le sue preferite. O in realtà a lei vanno bene tutte?» Lynley si accorse troppo tardi, con orrore, di che cosa aveva provocato quel cambiamento in lei e troppo tardi capì che la colpa era sua. Non sape-
va che cosa dire. Non sapeva come rispondere. Ma comprese immediatamente che non era necessario che rispondesse, perché lei era decisa a proseguire comunque. «Havers...» Lei sollevò una mano a zittirlo. Era di un pallore mortale; il suo viso non tradiva nessuna espressione, ma la voce era tesa. «Sa, non sta bene aspettare che sia la donna a raggiungere l'uomo per soddisfare i suoi bisogni, ispettore. Mi sorprende che lei non lo sappia. Con la sua esperienza, non avrei mai pensato che le sfuggisse questo piccolo segno di buona educazione. Certo, una mancanza da poco e probabilmente una donna non se ne ha a male quando è ricompensata con l'estatica esperienza di scopare con lei.» Lynley rabbrividì alla brutale cattiveria di quelle parole. «Mi spiace, Barbara.» «E perché?» ribatté lei con una risatina gutturale. «Quando si è presi dalla passione non si pensa mai a chi ascolta. Io non ci penso mai.» Le labbra le s'incurvarono in un sorriso acido. «E non si può certo negare che ieri notte ci fosse passione, non è vero? Non riuscivo a crederci quando avete ricominciato a darvi da fare la seconda volta. E dopo così poco tempo! Buon Dio, non le ha dato quasi respiro.» Lynley la osservò avvicinarsi alla libreria e far scorrere le dita sul dorso di un libro. «Non sapevo che ci sentisse. Mi scuso, Barbara. Mi spiace molto.» Lei si girò di scatto a guardarlo. «Perché scusarsi?» disse alzando la voce. «Non è di servizio ventiquattr'ore al giorno, e poi non è stata colpa sua. Come poteva sapere che Stepha geme come un'anima in pena?» «A ogni modo non è mai stata mia intenzione ferire i suoi sentimenti...» «Non ha affatto ferito i miei sentimenti!» lo contraddisse lei con una risatina tremula. «Che cosa diavolo le fa venire in mente un'idea del genere? Diciamo che ha semplicemente acceso il mio interesse. Nell'ascoltare come riusciva a mandare Stepha in paradiso - tre o quattro volte? - mi sono chiesta se anche Deborah avesse l'abitudine di gemere a quel modo.» Un colpo alla cieca, ma che colse nel segno. Lynley sapeva che lei se n'era accorta, perché la vide sorridere trionfante. «Non mi pare che siano fatti suoi.» «Certo che no! Lo so! Ma la seconda volta con Stepha - se non sbaglio è durata almeno un'ora - non ho potuto fare a meno di pensare al povero vecchio Simon. Deve fare una fatica del diavolo per tenere dietro a lei, i-
spettore.» «Brava, Havers, ha fatto bene i compiti. Lo riconosco. E sa come colpire nel segno.» «Non assuma questo tono con me. Non osi!» urlò lei per tutta risposta. «Chi diavolo crede di essere?» «Tanto per cominciare, un suo superiore.» «Oh, certo, ispettore. È venuto il momento di fare leva sui gradi. Bene, che cosa devo fare? Continuo a lavorare qui? Mi scusi se non sarò proprio all'altezza. Non ho dormito bene la notte scorsa.» Afferrò un libro con rabbia, ma le sfuggì di mano. Lui si accorse che stava trattenendo a fatica le lacrime. «Barbara?» Lei continuò a prendere in mano un libro dopo l'altro, a sfogliarli rapidamente per poi lasciarli cadere a terra. Le pagine erano umide e nell'aria si levò un pungente odore di chiuso. «Mi ascolti. Finora ha lavorato bene, adesso non faccia la stupida.» Lei si voltò di scatto, tremante. «E questo che cosa vuol dire?» «Ha la possibilità di tornare alla sezione investigativa. Non getti via tutto solo perché ce l'ha con me.» «Non ce l'ho con lei! Non me ne importa un cazzo di lei.» «Certo che no. Non intendevo il contrario.» «Sappiamo benissimo tutti e due perché mi hanno assegnato a lei. Volevano che ci fosse una donna a occuparsi del caso e sapevano che io ero al sicuro. E non appena questa storia sarà finita mi rimetteranno di pattuglia.» «Di che cosa sta parlando?» «Suvvia, ispettore, non sono stupida. Mi sono guardata allo specchio, qualche volta.» Lui rimase a bocca aperta nel capire che cosa intendeva dire. «Crede che l'abbiano fatta tornare all'investigativa perché Webberly ritiene che mi porterei a letto qualsiasi altra agente?» Lei non rispose. «E questo che pensa?» insistette lui, ma il silenzio continuò. «Maledizione, Havers...» «E la verità!» proruppe lei. «Ma quello che Webberly non sa è che qualsiasi bionda o bruna è al sicuro con lei di questi tempi, non solo i mostri come me. Sono le rosse quelle che lei preferisce, le rosse come Stepha, semplici rimpiazzi per quella che ha perso.» «Questo non c'entra niente con la nostra conversazione!» «Sì, invece! Se lei non fosse stato così disperatamente alla ricerca di Deborah, non avrebbe passato metà notte a sfiancare Stepha e ora non sa-
remmo qui, impegnati in questa ridicola discussione!» «Allora lasciamo perdere. Mi sono scusato. È stata molto esplicita nell'esprimere quello che pensa e prova... per quanto in lei mi sembri strano. Ritengo che sia stato detto abbastanza.» «Oh, le fa comodo chiamare me strana», ribatté Barbara con amarezza. «E lei? Ha rinunciato ha sposare una donna perché è figlia di un cameriere, è rimasto a guardare il suo amico innamorarsi di lei, trascorrerà il resto della vita a soffrirne e poi dice che io sono strana.» «Le cose non stanno esattamente così», replicò lui in tono gelido. «Oh, so fin troppo bene come stanno le cose e, se devo descrivere la situazione, direi che è proprio strana. Uno: lei è innamorato di Deborah St. James e non cerchi di negarlo. Due: lei è sposata con un altro. Tre: è chiaro che avete avuto una storia d'amore, il che ci porta inevitabilmente al quattro: lei avrebbe potuto benissimo sposarla, ma ha scelto di non farlo e pagherà per il resto della sua fottutissima vita quella stupida decisione da snob!» «Sembra che lei abbia molta fiducia nell'attrazione fatale che esercito sulle donne. Chiunque venga a letto con me è prontissima a diventare mia moglie. Non è così?» «Non mi prenda in giro!», «Non la sto prendendo in giro. E non starò qui un minuto di più a discutere con lei di questo argomento.» E si avviò verso la porta. «Oh, certo! Scappi pure! Era proprio quello che mi aspettavo da lei, Lynley! Ci dia ancora sotto con Stepha! E Helen? Si mette una parrucca rossa per farglielo drizzare? Lascia che la chiami Deb?» Lynley si sentì scuotere da capo a piedi dalla rabbia e si sforzò di trattenersi guardando l'orologio. «Havers, vado a Newby Wiske per conoscere i risultati delle analisi di St. James. Questo le da, diciamo, tre ore per ribaltare questa casa da cima a fondo e trovarmi qualcosa... qualsiasi cosa, Havers... che mi porti da Gillian Teys. Dal momento che sembra così brava a estrapolare fatti dal nulla, non dovrebbe avere problemi. Se però nel giro di tre ore non ha niente da riferire, si consideri a spasso. È chiaro?» «Perché non cacciarmi subito e farla finita, allora?» «Perché mi piace attendere con ansia ciò che mi dà piacere.» Le si avvicinò e le tolse di mano il portasigarette. «Daze è bionda», disse. Lei fece una smorfia. «Fatico a crederlo. Nei momenti intimi si mette una parrucca rossa?» «Non lo so.» Rigirò tra le mani il portasigarette rivelando la A maiusco-
la incisa sul coperchio. «Una domanda interessante. Se mio padre fosse ancora vivo, glielo chiederei. Questo era suo. Daze è mia madre.» Raccolse il volume di Shakespeare e se ne andò. Barbara rimase a fissarlo, immobile, in attesa che il cuore smettesse di batterle co'sì forte, rendendosi lentamente conto della terribile enormità di ciò che aveva fatto. Finora ha lavorato bene... ha la possibilità di tornare alla sezione investigativa. Non getti via tutto solo perché ce l'ha con me. Non era proprio quello che aveva appena fatto? Il bisogno di fargli una scenata, di castigarlo, di sfogarsi per l'attrazione da lui provata per una bella donna aveva cancellato in lei ogni buona intenzione di mettersi a lavorare al caso. Che diavolo le aveva preso? Era gelosa? C'era stato un attimo di follia in cui era stata così stupida da credere che Lynley potesse mai guardarla senza vederla per quello che era in realtà: una donna semplice e goffa, furibonda con il mondo, amareggiata, triste e terribilmente sola? Possibile che avesse coltivato la segreta speranza che potesse un giorno interessarsi a lei? Era questo che l'aveva spinta ad aggredirlo in quel modo? Era un'idea assolutamente ridicola. Non era possibile, non era vero. Lo conosceva abbastanza da non essere così sciocca. Si sentiva svuotata. Colpa di quella casa, si disse. Era stato il dover lavorare in quel luogo, dimora di fantasmi. Cinque minuti lì ed eccola pronta a dare in escandescenze. Tornò alla porta e contemplò l'altarino di Tessa all'altro lato del soggiorno. La donna sembrava sorriderle dolcemente. Ma nei suoi occhi non c'era una punta di vittoria? Non era come se Tessa avesse sempre saputo che lei non avrebbe potuto che fallire, una volta in quella casa, con il suo silenzio e il suo gelo? Tre ore, aveva detto Lynley. Tre ore per scoprire il segreto di Gillian Teys. A quel pensiero rise con amarezza e la risata risuonò nell'aria immota. Lui sapeva bene che non ce l'avrebbe mai fatta, che avrebbe provato la gioia di rispedirla a Londra, di nuovo di pattuglia, di nuovo in disgrazia. E allora perché tentare? Perché non andarsene subito senza dargli la soddisfazione di essere lui a cacciarla? Barbara si lasciò cadere sul divano. L'immagine di Tessa la fissava con comprensione. E se... se fosse riuscita a trovare Gillian? Se fosse riuscita dove Lynley aveva fallito? Che importanza avrebbe avuto allora se lui la
rispediva di pattuglia? Non avrebbe forse saputo, una volta per tutte, che almeno valeva qualcosa, che avrebbe potuto far parte di una squadra investigativa? Quel pensiero la stuzzicava e Barbara grattò distrattamente la stoffa del divano con le unghie. A parte quel tenue rumore, tutto era silenzio nella casa. Solo in lontananza si udivano di tanto in tanto i topi che si rincorrevano nel solaio, ma non ci badò. Il suo sguardo era fisso sulle scale. Erano seduti a un tavolino d'angolo del Keys and Candle, il bar più frequentato di Newby Wiske. La folla dell'ora di pranzo se n'era ormai andata e oltre a loro restavano solo alcuni clienti abituali, chini sul bancone a tracannare pinte di birra. Scostarono i piatti e Deborah versò il caffè che era stato appena portato in tavola. Fuori, il cuoco e il lavapiatti vuotavano la spazzatura nei bidoni discutendo animatamente sui meriti di un tre anni che avrebbe corso a Newmarket e sul quale il cuoco aveva evidentemente investito una notevole parte dei suoi ultimi salari settimanali. St. James versò nel caffè la solita montagna di zucchero. Lynley attese il quarto cucchiaino prima di chiedere: «Li conta?» «Che io sappia, no», rispose Deborah. «St. James, è incredibile. Come fai?» «Mi addolcisco la vita», ribatté l'amico, tendendogli i risultati delle analisi. «Devo pur fare qualcosa per riprendermi dopo il tanfo di quel cane. Mi devi un favore, Tommy.» «Senza dubbio. Quali novità?» «L'animale è morto dissanguato per una ferita al collo. Si direbbe che sia stata inflitta con un coltello la cui lama era lunga almeno una decina di centimetri.» «Allora non si trattava di un coltello a serramanico.» «Direi piuttosto un coltello da cucina o da macellaio, qualcosa del genere. La Scientifica ha esaminato tutti i coltelli della fattoria?» Lynley sfogliò le carte che aveva davanti. «Pare di sì, ma non sono riusciti a trovare l'arma in questione.» St. James aveva l'aria pensosa. «È curioso. Si direbbe quasi...» S'interruppe, come cambiando idea. «Be', c'è la ragazza che ha ammesso di avere ucciso il padre, c'è l'ascia proprio lì a terra...» «Senza impronte», gli ricordò Lynley. «D'accordo, ma se non si vuole aprire un procedimento per crudeltà ver-
so gli animali, non c'è bisogno di trovare l'arma che ha ucciso il cane.» «Sembra di sentir parlare Nies.» «Per carità.» St. James mescolò il caffè e fu sul punto di versarci altri cucchiaini di zucchero quando, con un sorriso beato, la moglie gli tolse di mano la zuccheriera. Lui scosse la testa sorridendo e continuò: «Comunque, c'era qualcos'altro. Barbiturici». «Come?» «Barbiturici», ripeté St. James. «Li aveva nel sangue. Guarda.» E gli tese il rapporto tossicologico. Lynley lo lesse, stupito. «Mi stai dicendo che il cane era drogato?» «Sì. Quello che abbiamo trovato nel suo sangue indica che era incosciente quando gli hanno tagliato la gola.» «Incosciente!» Lynley scorse rapidamente il rapporto e lo gettò sul tavolo. «Allora non possono averlo ucciso per zittirlo.» «Non direi proprio. Non era nelle condizioni di emettere alcun suono.» «Una quantità di barbiturici tale da ucciderlo? Qualcuno ha tentato di farlo fuori in quel modo e poi, non essendoci riuscito, ha deciso di tagliargli la gola?» «Ritengo sia probabile. Solo che con quello che mi hai raccontato sul caso, tutto questo non ha senso.» «Perché no?» «Perché questa persona sconosciuta avrebbe dovuto per prima cosa entrare in casa, trovare i barbiturici, somministrarli al cane, aspettare che facessero effetto, accorgersi che non sarebbe morto, tornare con un coltello e portare a termine l'opera. E per tutto questo tempo il cane che cosa avrebbe fatto? Aspettato tranquillo che gli tagliassero la gola? Non credi che si sarebbe messo ad abbaiare furiosamente?» «Aspetta. Non ti seguo. Perché l'assassino avrebbe dovuto entrare in casa per procurarsi i barbiturici?» «Perché sono gli stessi che aveva preso William Teys e immagino che lui il sonnifero lo tenesse in casa, non nel granaio.» Lynley ci pensò su. «Forse l'assassino li aveva con sé.» «Forse. Immagino che questa persona potrebbe aver somministrato i barbiturici al cane, avere atteso che facessero effetto, avergli tagliato la gola e poi essere rimasta ad aspettare Teys nel granaio.» «Tra le dieci e mezzanotte? E che cosa doveva andarci a fare Teys nel granaio tra le dieci e mezzanotte?» «Forse cercava il cane.»
«E perché? Perché nel granaio? Perché non in paese dove scappava sempre? E poi perché cercarlo? Tutti dicono che l'animale girava liberamente di qua e di là. Perché Teys l'avrebbe dovuto cercare proprio quella sera?» St. James scrollò le spalle. «Che cosa avesse in mente Teys è tutto da vedere, ma se la tua attenzione è concentrata sulla ricerca dell'assassino dell'animale, una sola persona poteva uccidere quel cane: Roberta.» Una volta fuori, St. James stese l'abito sul cofano dell'auto di Lynley, incurante degli sguardi curiosi di un gruppo di anziani turisti che passava, alla ricerca di souvenir fotografici, con gli apparecchi appesi al collo. Con fare deciso, indicò la macchia all'interno del gomito sulla manica sinistra, l'altra tra la vita e le ginocchia e un'altra ancora sul polsino bianco destro. «Tutto questo sangue è risultato essere del cane, Tommy.» Si voltò verso la moglie. «Tesoro mio, vuoi darci una dimostrazione come hai fatto in laboratorio?» Deborah si accovacciò sui talloni e l'ampia gonna dell'abito cadde a terra come un mantello. Il marito le si mise alle spalle. «Sarebbe più facile se avessimo qui un cane, ma faremo del nostro meglio. Roberta, che immagino sapesse dove il padre teneva i sonniferi, deve averli somministrati all'animale nel tardo pomeriggio. Forse con la cena. Voleva essere sicura che restasse nel granaio. Non avrebbe funzionato se se ne fosse andato in giro per il paese. Una volta che il cane ha perso conoscenza, si è accovacciata a terra proprio come Deborah. Solo questa particolare posizione ci dà le macchie sul vestito nei punti esatti in cui le vediamo. Ha sollevato la testa del cane e l'ha tenuta posata contro il braccio.» Dolcemente piegò il braccio di Deborah. «Poi, con la mano destra, gli ha tagliato la gola.» «È una follia», commentò Lynley. «Perché?» «Aspetta un attimo, Tommy. Il cane ha la testa rivolta dall'altra parte. Lei gli infila il coltello in gola ed ecco la macchia di sangue sulla gonna. Poi tira il coltello verso l'alto con la mano destra per portare a termine l'opera.» Tese una mano a segnare un punto preciso sull'abito di Deborah. «C'è del sangue vicino al gomito dov'era appoggiata la testa, sangue sulla gonna schizzato dalla gola dell'animale e sangue sulla manica e il polsino destro che hanno strusciato contro la ferita.» St. James sfiorò i capelli della moglie. «Grazie, amore mio», sussurrò, aiutandola a rialzarsi. Lynley tornò ad avvicinarsi all'auto per esaminare l'abito. «Francamente,
secondo me non ha senso. Perché mai avrebbe dovuto farlo? Mi stai dicendo che la ragazza ha indossato il suo abito della festa, un sabato sera, si è recata con calma nel granaio e ha tagliato la gola al cane che amava fin da bambina?» Si voltò a guardare l'amico dritto negli occhi. «Perché?» «Non so risponderti. Non so dirti che cosa avesse in mente: so solo come sono andate le cose.» «Ma non può essere che si sia recata nel granaio, abbia trovato il cane morto e, in preda al panico, lo abbia raccolto e cullato, riempiendosi così di sangue?» Ci fu una pausa di un attimo. «E possibile, ma improbabile.» «Ma è possibile. È possibile?» «Sì, ma improbabile, Tommy.» «E allora com'è che la pensi tu?» Deborah e il marito si scambiarono uno sguardo imbarazzato e Lynley capì che dovevano aver discusso insieme del caso ed essere giunti a un'ipotesi che erano riluttanti a rivelargli. «Allora?» chiese. «Mi stai dicendo che Roberta ha ucciso il cane, che suo padre l'ha raggiunta nel granaio e ha scoperto tutto, che hanno litigato furiosamente e che lei l'ha decapitato?» «No, no. Ci sono buone probabilità che Roberta non abbia ucciso affatto il padre, ma era sicuramente presente quando è accaduto. Deve esserci stata.» «Perché?» «Perché il sangue del padre le ha macchiato tutto l'orlo dell'abito.» «Forse è entrata nel granaio, ha trovato il suo corpo ed è caduta a terra in ginocchio, scioccata.» St. James scosse la testa. «Non quadra.» «Perché?» L'altro gli indicò l'orlo dell'abito. «Guarda qui. Il sangue di Teys è tutto a schizzi. Sai bene quanto me che cosa significa. C'è un solo modo perché possa esserci finito così.» Lynley rimase in silenzio per qualche istante. «Roberta era lì vicino quando è accaduto il fattaccio», mormorò alla fine. «Dev'essere stato così per forza. Se davvero non è stata lei, era comunque presente quando qualcun altro ha ucciso suo padre.» «Sta proteggendo qualcuno, Tommy?» interloquì Deborah, vedendo l'espressione che si era dipinta sul viso di Lynley. Lui non rispose subito. Era perso nelle sue riflessioni. Stava pensando a che cosa s'impara, quando lo si impara e quando ce ne si serve. Stava pen-
sando a quello che si sa e a come in ultima analisi questo si unisca all'esperienza e porti a quella che è una verità incontrovertibile. Si sforzò di rispondere alla domanda con un'altra domanda. «St. James, che cosa faresti, fino a che punto arriveresti per salvare Deborah?» Era una domanda pericolosa, di un rischio mortale. Quello era un argomento che forse sarebbe stato meglio non sfiorare. «Fino a che punto ti spingeresti?» insistette Lynley. «Tommy, per favore, no!» Deborah cercò di impedirgli di andare oltre, di fermarlo prima che compisse qualche danno irreparabile al delicato cristallo della loro fragile pace. «Nasconderesti la verità? Metteresti in gioco la tua vita? Fin dove arriveresti per salvare Deborah?» St. James si voltò verso la moglie. Era pallidissima, gli occhi pieni di lacrime. E capì: era il momento di fare sul serio. «Farei qualsiasi cosa», rispose, lo sguardo fisso su di lei. «Perdio, sì, certo, farei qualsiasi cosa.» Lynley annuì. «È così che ci si comporta di solito con chi più si ama.» Scelse Čajkovskij: la Sesta sinfonia, la Patetica. Sorrise tra sé nel sentire il primo movimento che risuonava nell'abitacolo dell'auto. Helen non l'avrebbe mai permesso. «Tommy, tesoro, assolutamente no!» avrebbe protestato. «Non lasciamo che la nostra depressione ci porti dritti al suicidio!» Poi avrebbe frugato con decisione tra tutti i nastri per trovare qualcosa di adatto: Strauss, invariabilmente, suonato a tutto volume, mentre lei si sforzava di chiacchierare allegramente. «Immaginateli un po', Tommy, a saltellare tra i boschi. Davvero buffi!» In quel momento, invece, il tema della Patetica, con la sua insistente esplorazione delle umane sofferenze spirituali, ben si adattava al suo umore. Non riusciva a ricordare quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che si era sentito così coinvolto in un caso. Era come se un peso tremendo lo stesse schiacciando, un peso che non aveva niente a che vedere con la responsabilità di riuscire ad arrivare alla soluzione. E sapeva a che cosa era dovuto. L'omicidio, con la sua natura atavica e le ineffabili conseguenze, era un'Idra. Ogni testa, tranciata nello sforzo di raggiungere il «prodigioso corpo a forma di cane» della colpa, faceva nascere al suo posto altre due teste, ancora più sinistre della prima. Ma a differenza di molti altri casi precedenti in cui il semplice lavorare meccanicamente gli aveva consentito
di arrivare al centro del problema, di fermare il flusso di sangue, per impedire un'ulteriore crescita, lasciandolo personalmente indenne dopo lo scontro, questo caso lo colpiva in maniera molto più profonda. Capiva istintivamente che la morte di William Teys era solo una delle molte teste del serpente ed era preso da una sensazione di trepidazione per la consapevolezza che altre otto aspettavano di battersi con lui... e più ancora perché non riusciva a comprendere la vera natura del male che si trovava a fronteggiare. Tuttavia si conosceva abbastanza da sapere che la disperazione non era dovuta solo alla morte di un uomo in un granaio di Keldale. C'era il problema Havers, ma, oltre a questo, c'era la verità. Al di là delle sue accuse amare e infondate, della sua cattiveria e del suo dolore, in quello che aveva detto con rabbia c'era del vero. Non aveva forse davvero trascorso l'ultimo anno nell'inutile tentativo di sostituire Deborah? Non come aveva insinuato Barbara, ma in modo ancora più disonesto di quanto non potesse essere un incontro senza conseguenze in cui due corpi si uniscono, provano un momentaneo piacere e si separano per tornare ciascuno alla propria vita. Quella, se non altro, sarebbe stata l'espressione di qualcosa, di aver dato per un momento, per quanto breve; ma nell'ultimo anno lui non aveva dato niente a nessuno. La realtà era che in quell'ultimo anno era diventato il sacerdote cultore di una religione tutta sua: la devozione al passato. In questo aveva paragonato ogni donna che incontrava a Deborah, non alla vera Deborah, ma a una dea mistica che esisteva solo nella sua mente. In quel momento si accorse che in realtà non aveva mai desiderato dimenticare il passato, che aveva anzi fatto di tutto per tenerlo in vita, come se avesse intenzione di dedicarsi totalmente a quell'immagine e non alla vera Deborah. Quella consapevolezza lo fece stare male. E con questo si rese conto che doveva anche affrontare il problema di Stepha. Ma non ce la faceva. Non ancora. Proprio mentre l'ultimo movimento della sinfonia terminava, svoltò in direzione di Keldale. Le foglie autunnali si sollevavano al passaggio dell'auto, formando alle sue spalle una nuvola di oro, rosso e giallo che annunciava l'inverno. Si fermò davanti alla pensione e rimase un istante a fissare le finestre, chiedendosi come e quando sarebbe riuscito a rimettere insieme i frammenti della propria vita. Barbara doveva essere stata ad aspettarlo alla finestra del soggiorno, perché apparve sulla porta non appena lui spense il motore. Con un sospiro, Lynley si preparò a un altro scontro, ma lei non gli diede il tempo di di-
re niente. «Ho trovato Gillian», annunciò. 13 In un modo o nell'altro era riuscita a superare la mattinata. Il violento litigio con Lynley, seguito dagli orrori della camera da letto di Roberta, era riuscito a smorzare la sua ira e la sua agitazione, trasformandole in un quieto distacco. Sapeva che l'avrebbe comunque rispedita a Londra e certo se lo meritava, ma prima avrebbe dimostrato di essere un bravo sergente investigativo. Però, doveva superare ancora quell'ultimo incontro in cui aveva occasione di dimostrare le sue capacità. Rimase a osservare Lynley che guardava incuriosito quello strano insieme di oggetti sparsi su uno dei tavoli del soggiorno: l'album con le fotografìe di famiglia ritagliate, un romanzo che doveva essere stato letto molte volte, la fotografia presa nel cassettone di Roberta, l'altra che ritraeva le due sorelle e sei pagine ingiallite di un giornale, ripiegate e ridotte alle stesse dimensioni: trenta centimetri per quaranta. Lynley s'infilò distrattamente una mano in tasca alla ricerca delle sigarette, ne accese una e sedette sul divano. «Che cos'è 'sta roba, sergente?» «Credo che qui ci sia quello che voleva sapere su Gillian», rispose lei. Si sforzava di avere un tono sereno e distaccato, ma il tremito della voce la tradì e si schiarì la gola per farsi forza. «Temo che dovrà spiegarsi meglio», osservò lui. «Sigaretta?» Aveva una voglia incredibile di sentirsene una tra le dita e di inspirarne a fondo il fumo, ma sapeva che se l'avesse accesa avrebbe rivelato il tremito delle mani. «No, grazie.» Prima di proseguire, gli occhi fissi sul viso intento di lui, tirò un profondo respiro «Il suo cameriere, Denton, come fodera i cassetti?» «Con della carta, credo. Non ci ho mai fatto molto caso.» «Certo però non con fogli di giornale, vero?» Barbara gli sedette di fronte, stringendo nervosamente le mani a pugno fino a farsi penetrare le unghie nel palmo. «Non lo farebbe mai, perché la stampa macchierebbe i suoi indumenti.» «Giusto.» «Ecco perché mi ha incuriosito il fatto che lei avesse detto che i cassetti di Roberta erano foderati con vecchi giornali. Poi ho ricordato Stepha che raccontava che Roberta aveva l'abitudine di venire qui tutti i giorni a pren-
dere il Guardian.» «Fino alla morte di Paul Odell; poi ha smesso.» Barbara cacciò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Non era molto importante, si disse, se lui non le avesse creduto; se si fosse messo a ridere di fronte alle conclusioni che lei aveva tratto dopo tre ore di ricerche nella camera della ragazza. «Solo che il motivo per cui ha smesso di andare a prendere il Guardian non aveva niente a che vedere con Paul Odell. Credo piuttosto che riguardasse Gillian.» Lo vide posare lo sguardo sui fogli di giornale e capì che anche lui aveva notato lo stesso particolare che aveva colpito lei: Roberta aveva usato solo pagine di annunci economici. C'era un altro particolare rilevante: i sei fogli sul tavolo erano sei copie, tutte delle stesse due pagine del Guardian, come se nell'edizione di quel giorno fosse apparso qualcosa di particolare e Roberta avesse raccolto per ricordo tutte le copie che era riuscita a trovare in paese. «Gli annunci personali», mormorò Lynley tra sé. «Perdio, Havers, Gillian le ha mandato un messaggio.» Barbara prese un foglio e ne scorse gli annunci con il dito. «'R. Guarda la pubblicità. G.'», lesse ad alta voce. «Credo che il messaggio sia questo.» «Guarda la pubblicità? Quale pubblicità?» Barbara prese la seconda pagina. «Credo si tratti di questa.» Lynley la lesse. Portava la data di quasi quattro anni prima ed era un piccolo annuncio di una conferenza a Harrogate, un seminario che riguardava un gruppo facente parte di un'organizzazione chiamata Testament House. Vi erano elencati gli oratori, ma Gillian Teys non figurava tra questi e Lynley alzò lo sguardo perplesso su Barbara. «Non la seguo, sergente.» Lei lo fissò sorpresa. «Non conosce Testament House? Ah, già, continuo a dimenticare che sono anni che lei non è di pattuglia. Testament House è gestita da un pastore anglicano vicino a Fitzroy Square. Un tempo insegnava all'università, ma evidentemente un giorno uno dei suoi studenti gli ha chiesto perché non mettesse in pratica quello che predicava - dar da mangiare agli affamati e vestire gli ignudi - e così ha deciso di impegnarsi in questo senso e ha dato vita a Testament House.» «E cioè?» «Un'organizzazione che raduna i ragazzi fuggiti di casa. Teenager (maschi e femmine) che si prostituiscono, tossicomani di ogni razza e colore e tutti quei minorenni che si aggirano a Trafalgar o a Piccadilly o in qualsia-
si altra stazione in attesa di far da preda a un finocchio o a una puttana. Sono anni che funziona. Tutti gli agenti lo conoscono e portiamo sempre un sacco di ragazzi da lui.» «Immagino che si tratti del reverendo George Clarence, come dice qui.» Lei annuì. «È spesso in giro a tenere conferenze per raccogliere fondi a favore dell'organizzazione.» «Se ho capito bene, ritiene che Gillian Teys sia stata raccolta da questo gruppo a Londra.» «Sì... penso di sì.» «Perché?» Le ci erano voluti secoli per trovare l'annuncio, ancora di più per decifrarne il significato, e ora tutto, specie la sua carriera, doveva ammettere, dipendeva dalla disponibilità di Lynley a crederle. «Per questo nome», spiegò, indicando il terzo nell'elenco degli oratori. «Nell Graham?» «Sì.» «Proprio non capisco.» «Credo che Nell Graham fosse il messaggio che Roberta stava aspettando. Per anni, ogni giorno ha cercato con pervicacia sul giornale in attesa di sapere che cos'era accaduto alla sorella. Nell Graham gliel'ha detto. Significava che Gillian era sopravvissuta.» «Perché Nell Graham? Perché non Terence Hanover, Caroline Paulson o Margaret Crist?» domandò Lynley, leggendo gli altri nomi della lista. Il sergente Havers raccolse il consunto romanzo posato sul tavolo. «Perché nessuno di questi nomi è nato dalla fantasia delle sorelle Brontë. L'affittuaria di Wildfell Hall parla di Helen Huntington, una donna che infrange il codice sociale dei suoi tempi e abbandona il marito alcolizzato per iniziare una nuova vita. S'innamora di un uomo che non sa nulla del suo passato e che conosce solo il nome che lei si è scelta: Helen Graham, Nell Graham, ispettore.» Barbara attese tremante la reazione di lui. E niente avrebbe potuto sorprenderla di più, lasciarla più disarmata. «Complimenti, Barbara», lo sentì dire a bassa voce, lo sguardo acceso e un sorriso sul viso. Lynley si sporse in avanti, incuriosito. «E come pensa che sia finita in questo gruppo?» Barbara era così sollevata che si accorse di tremare dalla testa ai piedi. Con un profondo respiro, si sforzò di ritrovare la voce. «Io... credo che Gillian avesse abbastanza denaro per arrivare fino a Londra, ma deve esserle durato poco. L'avranno trovata da qualche parte per strada o in una
stazione della metropolitana.» «Ma perché non rimandarla dal padre?» «Non è così che funziona Testament House. Incoraggiano, sì, i ragazzi a tornare a casa, o perlomeno a telefonare ai genitori per far sapere che stanno bene, ma non obbligano nessuno a farlo. Se scelgono di restare a Testament House, devono solo ubbidire alle regole. Nessuno fa domande.» «Ma Gillian se n'è andata di casa a sedici anni. Se è questa Nell Graham, doveva averne ormai ventitré quando ha preso parte a questa conferenza a Harrogate. Possibile che sia rimasta a Testament House per tutto quel tempo?» «Se non aveva nessun altro al mondo, è possibilissimo. Se desiderava una famiglia, loro erano l'occasione migliore che potesse avere. Comunque c'è un unico modo per saperlo con certezza...» «Parlarle», concluse lui con aria decisa, e si alzò in piedi. «Prepari i bagagli. Partiamo tra dieci minuti.» Dal dossier tirò fuori una fotografia di Russell Mowrey con la sua famiglia. «La dia a Webberly quando arriva a Londra», le disse mentre scribacchiava qualcosa sul retro. «Quando arrivo a Londra?» Barbara provò un tuffo al cuore. Dunque la stava cacciando. Gliel'aveva promesso già alla fattoria, e d'altronde lei non si era aspettata altro. Lynley si voltò a guardarla, tutto preso dal lavoro. «Lei l'ha trovata, sergente, e lei può riportarla a Keldale. Credo che Gillian sia l'unico modo che abbiamo per riuscire a penetrare il muro che Roberta si è costruita intorno. Non è d'accordo?» «Io... e se...» S'interruppe, temendo di avere male interpretato le sue parole. «Non vuole telefonare lei a Webberly? Far mandare qualcuno? Andare là lei stesso?» «Ci sono troppe cose di cui devo occuparmi qui. A Gillian può pensarci lei. Sempre che Nell Graham sia Gillian. Si sbrighi. La devo portare a York a prendere il treno.» «Ma... come faccio? Come mi presento? Devo semplicemente...» Lui la zittì con un cenno della mano. «Mi fido del suo buon senso, sergente. La riporti qui il più in fretta possibile.» Barbara rilasciò i pugni, stordita dalla gioia. «Sissignore», sussurrò a mezza voce. Lynley tamburellava con le dita sul volante e fissava la casa che sovrastava il prato in discesa. Guidando come un pazzo, era riuscito a far pren-
dere a Barbara il treno delle tre per Londra e ora sedeva di fronte alla casa dei Mowrey, cercando di decidere quale fosse l'approccio migliore con la donna che stava là dentro. Dopotutto, la verità non era forse meglio del silenzio? Non aveva imparato almeno questo? Lei gli andò incontro sulla porta. L'occhiata guardinga che si lanciò alle spalle gli fece capire che questa volta era un ospite molto meno bene accetto della volta precedente. «I bambini sono appena tornati da scuola», spiegò a bassa voce, e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Con mani tremanti, si strinse il maglione attorno al corpo snello. Sembrava una bambina. «Ha... si sa niente di Russell?» Sapeva che non avrebbe dovuto aspettarsi che lei domandasse della figlia. Tessa, tra tutti, era quella che era riuscita a dire addio al passato e a dare un taglio netto a ciò che si era lasciata alle spalle. «Dovrebbe chiamare la polizia, signora Mowrey.» La donna impallidì. «Non avrebbe mai potuto. Non lui.» «Deve chiamare la polizia.» «Non posso. Non posso», ribatté lei, decisa. «Non è dai suoi parenti a Londra, vero?» Lei scosse la testa, fissando per terra. «Loro almeno hanno avuto sue notizie?» Stessa risposta. «Allora non sarebbe meglio scoprire dov'è?» Quando lei non rispose, la prese sottobraccio e si avviò verso il viale. «Perché William teneva tutte quelle chiavi?» «Quali chiavi?» «Ce n'è una scatola sullo scaffale dell'armadio, ma in tutto il resto della casa non ce n'è nemmeno una. Sa perché?» Lei chinò la testa e si portò una mano alla tempia. «Quelle. Me n'ero dimenticata», mormorò. «È... è stato per una scenata di Gillian.» «Quand'è accaduto?» «Doveva avere sette anni. No, quasi otto. Lo ricordo perché ero incinta di Roberta. Si è trattato di una di quelle situazioni che nascono dal nulla e s'ingigantiscono oltre misura, quelle di cui poi, una volta che i figli sono cresciuti, tutta la famiglia ride. Ricordo che William a cena disse: 'Gilly, stasera leggiamo la Bibbia'. Io me ne stavo seduta lì, probabilmente sognavo a occhi aperti, e mi aspettavo che lei rispondesse: 'Sì, papà', come aveva sempre fatto, ma Gillian aveva deciso che quella sera non avrebbe letto la Bibbia e William invece aveva deciso che l'avrebbe fatto. Lei in quel momento perse la ragione, corse in camera sua e chiuse a chiave la porta.» «E poi?»
«Gilly non aveva mai disubbidito al padre. Il povero William rimase lì a tavola, seduto, attonito. Sembrava non sapere come affrontare la situazione.» «E lei che cos'ha fatto?» «Per quanto ricordo, niente che potesse essere d'aiuto. Ho cercato di raggiungere Gilly in camera, ma lei non mi ha lasciato entrare. Continuava a gridare che non avrebbe mai più letto la Bibbia e che nessuno poteva costringerla a farlo. Poi ha cominciato a scagliare di tutto contro la porta. Io... sono tornata da William.» Lo sguardo che posò su Lynley era un misto di perplessità e ammirazione. «Sa, William non la sgridò mai per questo. Non era da lui. Ma in seguito tolse le chiavi da tutte le porte, dicendo che se quella notte la casa avesse preso fuoco e lui non fosse riuscito a raggiungere Gilly perché lei aveva chiuso a chiave la porta, non se lo sarebbe mai perdonato.» «Dopo quella volta ricominciarono a leggere la Bibbia insieme?» Scosse la testa. «Da allora, lui non chiese mai più a Gilly di leggere la Bibbia.» «La leggeva con lei?» «No, da solo.» Mentre parlavano, una bambina era comparsa sulla porta con in mano un pezzo di pane e le labbra sporche di marmellata. Era piccola, come la madre, ma aveva i capelli scuri e lo sguardo intelligente del padre. Li osservò con curiosità. «Mamma», chiamò con voce dolce e squillante. «C'è qualcosa che non va? È per papà?» «No, tesoro», si affrettò a tranquillizzarla Tessa. «Torno subito.» Poi si voltò verso Lynley. «Conosce bene Richard Gibson?» chiese l'ispettore. «Il nipote di William? Bene come chiunque altro l'abbia conosciuto, direi. Era un ragazzo tranquillo, ma molto simpatico, e per quanto ricordo aveva un magnifico senso dell'umorismo. Gilly lo adorava. Perché me lo chiede?» «Perché William ha lasciato a lui la fattoria, non a Roberta.» La donna aggrottò le sopracciglia. «Perché non a Gilly?» «Gillian è scappata di casa quando aveva sedici anni, signora Mowrey, e nessuno ha più avuto sue notizie.» Tessa trattenne il respiro. Le sfuggì un singhiozzo represso, la reazione a un colpo inaspettato. Aveva lo sguardo fisso su Lynley.
«No», gemette, incredula. «Anche Richard se n'era andato da un po'», continuò Lynley. «Alle paludi. Può darsi che Gillian l'abbia seguito là e che poi si sia trasferita a Londra.» «Ma perché? Che cos'è successo? Che cosa può essere accaduto?» Lynley meditò su quanto raccontarle. «Ho l'impressione», disse, scandendo bene le parole, «che in un certo senso lei avesse una storia con Richard.» «E William l'ha scoperto? In tal caso, avrebbe fatto a pezzi Richard.» «Supponiamo che l'abbia scoperto e che Richard sapesse quale sarebbe stata la sua reazione. Sarebbe stato sufficiente a fargli abbandonare il paese?» «Direi di sì, ma questo non spiega perché William abbia lasciato la fattoria a lui e non a Roberta, non le pare?» «Sembra che si sia trattato di un accordo con Gibson. Roberta avrebbe continuato a vivere lì per tutta la vita con Richard e la sua famiglia, ma la terra sarebbe stata dei Gibson.» «Ma Roberta sicuramente si sposerà, un giorno o l'altro. Non mi sembra molto giusto. Sono sicura che William avrebbe voluto che la terra restasse alla sua famiglia, che passasse ai suoi nipoti, ai figli di Roberta, se non a quelli di Gilly.» Nell'ascoltarla parlare, Lynley si rese conto di quale vuoto avessero provocato quei diciannove anni di assenza. Non sapeva niente di Roberta, niente dell'enorme quantità di cibo che la ragazza aveva nascosto, niente della sua catatonia. Roberta non era altro che un nome per la madre, un nome che si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli, sarebbe invecchiato. Non era affatto reale, non esisteva nemmeno. «Non ha mai pensato a loro?» le chiese. Lei abbassò lo sguardo, apparentemente concentrata sulle scarpe di camoscio color ruggine. Rimase in silenzio e lui insistette: «Non si è mai chiesta come stavano, signora Mowrey? Non ha mai immaginato che aspetto avessero o com'erano cresciute?» Lei scosse la testa, con decisione. Quando finalmente rispose, lo fece con una voce così controllata che la diceva lunga su tutto quello che doveva avere provato in passato. Gli occhi rimasero fissi a terra. «Non potevo permettermelo, ispettore. Sapevo che stavano bene, che erano al sicuro, perciò le ho lasciate morire. Ho dovuto farlo per sopravvivere. Riesce a capire?»
Qualche giorno prima avrebbe risposto di no e sarebbe stato sincero, ma ora non più. «Sì», mormorò. «Lo capisco.» La salutò con un cenno del capo e si avviò verso l'auto. «Ispettore...» Lui si girò, una mano già sulla maniglia della portiera. «Lei sa dov'è Russell, vero?» Gli lesse in viso la risposta, ma preferì ascoltare la sua menzogna. «No», rispose l'ispettore. Ezra Farmington viveva proprio di fronte al Dove and Whistle, nella casa comunale che confinava con quella di Marsha Fitzalan. Come quella dell'anziana signorina, anche questa aveva un giardino curato, ma con meno amore, come se il padrone di casa avesse cominciato l'opera per poi abbandonarla a metà strada. I cespugli avevano bisogno di essere potati, la gramigna aveva attecchito nelle aiuole fiorite e l'erba doveva essere falciata. Farmington non fu affatto felice di vederlo. Gli aprì la porta e gli si parò di fronte, impedendogli di entrare. Con un'occhiata, Lynley si rese conto che il pittore stava esaminando le proprie opere, perché dovunque sul divano del soggiorno e sul pavimento c'erano dozzine di acquerelli. Alcuni erano stracciati, altri ridotti a palle accartocciate, altri ancora abbandonati a terra per essere calpestati. L'autore di quelle opere era alquanto ubriaco. «Ispettore?» gli disse con forzata buona educazione. «Posso entrare?» L'altro scrollò le spalle. «Perché no?» Spalancò la porta e lo fece accomodare con un traballante inchino. «Scusi la confusione, ma stavo cercando di mettere ordine in questi orrori.» Lynley calpestò vari dipinti. «Di quattro anni fa?» chiese senza mezzi termini. Aveva colpito nel segno e l'espressione di Farmington glielo confermò apertamente. «Che intende dire?» Aveva chiaramente un tono da ubriaco che si sforzava in ogni modo di nascondere. «Che ora era quando lei e William Teys avete litigato?» ribatté Lynley, ignorando la domanda dell'altro. «Ora?» Ezra scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Beve, i... ispettore?» Si sforzò di sorridere e attraversò la stanza per versarsi un bicchiere di gin. «No? Le spiace se io...? Grazie.» Vuotò il bicchiere in un sorso, tossì e scoppiò a ridere, pulendosi la bocca sulla manica della camicia. «Povero
me. Non reggo neanche un bicchiere.» «Lei stava scendendo da High Kel Moor. Non è una strada che si percorre con l'oscurità, non le pare?» «No di certo.» «E ha sentito della musica venire dalla fattoria?» «Ah!» Le sue mani si agitarono come quelle di un direttore di orchestra. «Tutta la banda, i... ispettore. Sembravano nel bel mezzo di una parata.» «Ha visto solo Teys? Nessun altro?» «Non stiamo tenendo conto del caro Nigel che portava a casa il cagnolino.» «A parte Nigel.» «Nessuno. Certo Roberta doveva essere in casa a cambiare i dischi, povera cicciona. Era tutto quello che sapeva fare. A parte», ed ebbe un lampo cattivo negli occhi acquosi, «sferrare un colpo d'ascia e spedire paparino al Creatore.» Scoppiò a ridere. «Come Lizzie Borden!» aggiunse, ridendo ancora più forte. Lynley si chiese perché quell'uomo si sforzasse di apparire così deliberatamente ripugnante, quali fossero le sue motivazioni, che cosa lo spingesse a far di tutto per mettere in mostra un lato tanto brutto del suo carattere. Alla base c'erano ira, rancore e un disprezzo per il prossimo così violento che pareva che nella stanza fosse presente una terza persona. Farmington era un pittore di talento, eppure era ciecamente deciso a distruggere quell'unica forza creativa che dava significato alla sua vita. Mentre con passo barcollante si dirigeva verso il bagno, Lynley osservò i quadri sparsi attorno e indovinò la causa della sua disperazione nei ritratti che non aveva avuto la forza di distruggere. Erano eseguiti da ogni angolazione possibile: a carboncino, a matita, a pastello e a tempera. Rappresentavano movimento, passione e desiderio e testimoniavano l'angoscia dell'anima dell'artista: erano tutti ritratti di Stepha Odell. Quando l'ispettore sentì i passi di Ezra che tornava in soggiorno, si sforzò di distogliere lo sguardo e l'attenzione da quelle opere e da quello che sottintendevano e quando riportò lo sguardo su Ezra, lo vide per la prima volta con chiarezza: un dongiovanni e un ipocrita che si serviva delle passate sofferenze come scusa per il suo comportamento attuale. Si rese conto che Farmington non era altro che la sua immagine speculare, quel suo secondo essere; l'uomo che avrebbe potuto scegliere di diventare.
Dalla stazione di King's Cross, Barbara prese la Northern Line fino a Warren Street. Fitzroy Square era a pochi minuti di cammino da lì. Avvicinandosi, si sforzò di programmare un piano d'attacco. Era chiaro che Gillian era coinvolta fino al collo nell'accaduto, ma sarebbe stato molto difficile dimostrarlo. Se era stata così abile da scomparire per undici anni, lo era sicuramente abbastanza da essersi procurata un alibi di ferro per la notte in questione. Barbara ritenne che il miglior approccio possibile, se davvero Gillian era Nell Graham e se fosse riuscita a trovarla malgrado le scarse informazioni che aveva, consisteva nel non lasciarle scelta, arrestarla se necessario, per riportarla a Keldale quella sera stessa. Ripensò a tutto quanto avevano sentito dire su Gillian: sul suo comportamento da delinquente, sulla sua licenziosità sessuale e sulla sua capacità di nascondere questi due aspetti del carattere sotto un'esteriorità dolce e angelica. C'era un unico modo per affrontare una persona così abile: essere duri, aggressivi, senza remore. Fitzroy Square, un punto di Camden Town ristrutturato da poco, era uno strano posto per un ricovero per ragazzini scappati di casa. Vent'anni prima, quando la piazza non era che un quadrato di palazzi cadenti distrutti dalla guerra, non ci si sarebbe aspettati di trovare altro che derelitti, lì, ma adesso che le case erano state ricostruite, che l'aiuola al centro della piazza era ben curata, che le facciate degli edifici erano state ridipinte da poco e che i portoni lucidi brillavano nella luce morente del giorno, era difficile credere che gli esseri dimenticati e indesiderati dalla società, spaventati e sofferenti, abitassero ancora lì. Testament House era al numero 11, un palazzo georgiano con la facciata nascosta da impalcature. Un bidone per l'immondizia stracolmo di secchi vuoti di vernice, rimasugli di gesso, scatoloni sfondati e stracci, dimostrava che Testament House stava partecipando alla rinascita architettonica delle case adiacenti. La porta d'ingresso era aperta e dall'interno giungeva della musica: non lo scatenato rock and roll che ci si sarebbe potuti aspettare in un posto del genere, ma le note delicate di una chitarra classica, accompagnate da un silenzio che dimostrava come il pubblico fosse attento e incantato. Chi era di turno in cucina, però, sicuramente si stava dando da fare, pensò Barbara, perché anche dall'esterno si sentiva il profumo di salsa di pomodoro e spezie. Salì i due gradini ed entrò. Il lungo atrio era coperto da una vecchia passatoia rossa, così lisa in certi punti che s'intravedeva il pavimento. Alle pareti erano appese grandi bacheche con offerte di lavoro, messaggi ricevuti
e annunci vari. Tra questi l'orario di una serie di lezioni che si tenevano all'università di Gower Street, con grandi frecce di cartone che attiravano l'attenzione di chi leggeva. C'erano poi gli indirizzi di cliniche della zona, di centri dove si tenevano programmi di riabilitazione per tossicodipendenti e di consultori familiari, oltre al numero di un telefono amico per i tentati suicidi. A Barbara non sfuggì che quell'ultimo numero era stato ricopiato molte volte. «Salve», la salutò una voce allegra alle sue spalle. «Posso esserle d'aiuto?» Si girò e si trovò di fronte una signora cicciottella di mezza età che si sporgeva sopra il bancone dell'ingresso, tirando indietro i capelli grigi con un paio di occhiali. Aveva un sorriso simpatico, che scomparve immediatamente non appena Barbara le mostrò la sua tessera. Al piano superiore la musica continuava. «Ci sono problemi?» volle sapere la donna. «Immagino che voglia il signor Clarence.» «No», rispose Barbara. «Forse non è necessario. Sto cercando questa giovane. Si chiama Gillian Teys, ma credo che si presenti come Nell Graham», spiegò, tendendole la foto. Un gesto superfluo, perché nel momento stesso in cui aveva pronunciato il nome vide l'altra cambiare espressione. La donna comunque abbassò lo sguardo sulla fotografia. «Sì, è Nell.» Malgrado si fosse sentita così sicura fino a quel momento, Barbara provò un moto di trionfo. «Sa dirmi dove posso trovarla? È molto importante che le parli il più presto possibile.» «Non è nei guai, vero?» «È importante che io la trovi», ripeté Barbara. «Oh, sì, certo. Immagino che non possa dirmi niente. E solo che...» La donna giocherellò nervosamente con la collana che aveva al collo. «Le chiamo Jonah. La cosa lo riguarda.» Prima che Barbara potesse replicare, l'altra salì di corsa le scale. Un istante dopo il suono della chitarra s'interruppe, seguito da un coro di proteste e di risate. Poi si udirono dei passi e le voci indistinte della donna all'ingresso e di un uomo. Quando lui apparve in cima alle scale, Barbara vide che si trattava del musicista, perché aveva a tracolla una chitarra. Era decisamente troppo giovane per essere il reverendo George Clarence, ma portava l'abito talare e la notevole somiglianza con il fondatore di Testament House fece intuire a Barbara che si trattava del figlio. Aveva gli stessi lineamenti, la stessa
fronte alta, lo stesso sguardo vivace che sapeva comprendere e valutare all'istante una situazione. Anche i capelli erano uguali, con la riga da una parte e un ciuffo ribelle. Non era grande e grosso; probabilmente non superava il metro e settantacinque ed era piuttosto magro. Ma nel modo in cui si muoveva c'era qualcosa che indicava la presenza di una notevole forza interiore. La raggiunse a passo deciso tendendole la mano. «Jonah Clarence», si presentò. Aveva una stretta decisa. «La mamma mi ha detto che state cercando Nell.» La signora Clarence si era tolta gli occhiali che si era messa in testa e adesso mordicchiava una stanghetta, lo sguardo preoccupato che andava dall'uno all'altra. Barbara gli tese la fotografia. «Questa è Gillian Teys», spiegò. «Il padre è stato assassinato tre settimane fa nello Yorkshire e lei deve venire con me per un interrogatorio.» Clarence parve quasi non reagire a quell'affermazione. Sembrava solo non riuscire a staccare gli occhi dal viso di Barbara. Si costrinse a farlo e a guardare la fotografia. Poi si girò verso la madre. «È Nell.» «Jonah», mormorò la donna. «Tesoro mio...» La voce le tremava. Clarence restituì la fotografia a Barbara, ma le parole che pronunciò erano rivolte alla madre. «Doveva accadere, un giorno o l'altro, non credi?» La sua voce sembrava svuotata di ogni emozione. «Caro, vuoi... io...» Lui scosse la testa. «Stavo comunque per andarmene», disse, e guardò Barbara. «La porto da Nell. È mia moglie.» Lynley fissò il quadro dell'abbazia di Keldale e si chiese come avesse fatto a non capire prima il suo messaggio. La bellezza del dipinto stava nell'estrema semplicità, nella precisione nei dettagli, nel rifiuto di distorcere o rendere più romantica quella rovina cadente, di renderla diversa da quello che era: un vestigio del passato, lasciato lì per essere consumato dal futuro. Le mura scheletriche si alzavano contro un cielo triste, nel disperato tentativo di sfuggire alla fine inevitabile che le attendeva al suolo. Si battevano contro la flora: le felci che prosperavano nelle spaccature; i fiori selvatici che germogliavano sulla cima delle mura del transetto; l'erba che cresceva folta insieme con il prezzemolo di campo su quelle stesse pietre su cui una volta si erano inginocchiati i monaci in preghiera.
I gradini non conducevano più da nessuna parte. Le scale a chiocciola che avevano portato i fedeli dal chiostro al parlatoio, dalla mensa al cortile, ormai erano ricoperte di muschio, trasformate in qualcosa di completamente diverso e atto a un altro scopo. Le finestre erano scomparse. Dove molto tempo prima i vetri piombati avevano orgogliosamente richiuso il presbiterio e il coro, la navata e il transetto, non restavano altro che buchi aperti su un panorama che si proclamava unico vincitore nella battaglia con il tempo. Come definire i resti dell'abbazia di Keldale? Erano le rovine di un glorioso passato o la promessa di un possibile futuro? Non stava forse tutto nella definizione che si voleva dare? pensò Lynley. Si riscosse nell'udire un'auto che si fermava dinanzi alla pensione, le porte che si aprivano e il mormorio delle voci accompagnate dai passi che si avvicinavano. Si accorse che nel soggiorno era calata l'oscurità e accese una delle lampade proprio nel momento in cui St. James entrava nella stanza. Era solo, come aveva immaginato. Si fissarono, l'uno di fronte all'altro, separati da quell'abisso creato e mantenuto dal senso di colpa dell'uno e dalla sofferenza dell'altro. Erano entrambi consapevoli di queste componenti del loro rapporto e, come per sfuggirle, Lynley passò dietro il bancone per versare due bicchieri di whisky. Poi attraversò la stanza e ne tese uno all'amico. «Lei è fuori?» domandò. «È andata in chiesa. Conoscendo Deborah, immagino che sia per dare un'ultima occhiata al cimitero. Domani partiamo.» Lynley sorrise. «Siete stati più coraggiosi di me. Hank mi avrebbe fatto scappare dopo i primi cinque minuti. Andate ai laghi?» «No. Passeremo la giornata a York, poi torneremo a Londra. Lunedì mattina devo essere in tribunale per una deposizione e prima ho bisogno di un po' di tempo per terminare un'analisi.» «Che sfortuna avere avuto così pochi giorni.» «Abbiamo tutta la vita e Deborah lo sa.» Lynley annuì e spostò lo sguardo sulla vetrata in cui erano riflessi: due uomini completamente diversi, che condividevano un pesante passato e che avrebbero potuto, se solo l'avessero voluto, condividere un futuro pieno e ricco. Tutto stava, si disse, nel trovare la giusta definizione del loro rapporto. «Grazie per l'aiuto di oggi, St. James», disse alla fine tendendogli la mano, dopo aver vuotato il bicchiere. «Tu e Deborah siete due amici meravi-
gliosi.» Jonah Clarence guidò la vecchia Morris fino a Islington. Non fu un tragitto molto lungo e per tutto il tempo se ne rimase in silenzio, le mani strette sul volante, le nocche bianche per la tensione. Lui e la moglie vivevano in una stradina che si chiamava Keystone Crescent, appena svoltato Caledonian Road. All'inizio s'incontravano due meravigliosi take-away, da cui si sprigionavano gli aromi succulenti di specialità gastronomiche di vari Paesi, mentre al lato opposto della strada, all'angolo con Pentonville Road, c'era un macellaio. Erano in una parte della città in cui i vecchi complessi industriali stavano lasciando posto a poco a poco a strade e abitazioni che si sforzavano di apparire alla moda, trasformandosi così in quartiere residenziale. Keystone Crescent era una tra queste, una strada curva che da un lato aveva una lunga fila di casette a schiera, tutte con le stesse identiche cancellate di ferro battuto, e dove una volta si estendevano i prati adesso c'erano vialetti cementati per offrire possibilità di posteggio alle auto. Le case erano in mattoni rossi, a due piani, con abbaini e decorazioni in gesso lungo il tetto. In ogni edificio c'era un appartamento nel seminterrato e, mentre alcune case erano state ristrutturate per dare un'impressione di maggiore eleganza, come voleva la zona, quella di fronte al luogo in cui posteggiò Jonah Clarence era una costruzione dall'aria decisamente trascurata, dipinta di bianco con decorazioni che una volta dovevano essere state di un bel verde intenso, ma che erano ormai sporche. Vicino al portone stavano due bidoni della spazzatura senza coperchio. «Da questa parte», fece strada lui, una volta scesi di macchina. Aprì il cancelletto e le fece scendere i ripidi gradini che conducevano a una porticina. A differenza del resto dell'edificio, che era davvero in cattive condizioni, la porta appariva solida, ridipinta da poco e con al centro una lucida maniglia di ottone. Clarence aprì con la chiave che teneva in tasca e fece cenno al sergente di entrare. Barbara si accorse subito che era stata dedicata molta cura nell'arredare quella casetta, come se chi ci viveva avesse voluto segnare un netto confine tra il triste esterno dell'edificio e l'allegra atmosfera all'interno. Le pareti erano appena state imbiancate, a terra c'erano molti tappeti colorati, le finestre, sui cui davanzali erano state sistemate delle piante rigogliose, avevano tendine di pizzo bianco; su uno scaffale che correva lungo una parete c'erano libri, album di fotografie, un giradischi, una collezione di dischi e
tre pezzi antichi di peltro. Il mobilio era scarso, ma ogni elemento era stato scelto per la sua bellezza e la preziosità della lavorazione. Jonah Clarence posò la chitarra in un angolo e si avvicinò alla porta della camera da letto. «Nell?» chiamò. «Mi sto cambiando, tesoro. Sono pronta tra un attimo», rispose la voce allegra di una donna. Lui si voltò verso Barbara e lei si accorse che improvvisamente aveva l'aria di stare male. «Vorrei andare di là...» «No», rispose lei. «Aspetti qui. La prego, signor Clarence», aggiunse, quando gli lesse in viso il disperato desiderio di raggiungere la moglie. L'uomo sedette su una sedia; si mosse a fatica, come se in quegli ultimi venti minuti fosse invecchiato di colpo di mille anni. Aveva lo sguardo fisso sulla porta. Al di là si sentiva un po' di rumore sottolineato da un allegro fischiettio, una piacevole variazione sul tema di Onward Christian Soldiers. I cassetti venivano aperti e richiusi; la porta di un armadio cigolò. Ci fu una pausa nel fischiettio mentre dei passi si avvicinavano. La canzone terminò, la porta si aprì e Gillian Teys tornò tra i vivi. Assomigliava incredibilmente alla madre, ma portava i capelli biondi corti, quasi alla maschietta, e questo le dava l'aria di una ragazzina di dieci anni, una caratteristica che si rispecchiava anche nel suo modo di vestire: gonna a pieghe, maglione blu scuro e scarpe nere con i calzettoni. Sembrava una bambina di ritorno da scuola. «Tesoro, io...» Si bloccò nel vedere Barbara. «Jonah? Che...?» Sembrò che il respiro le si fermasse in gola e con la mano si aggrappò disperatamente alla maniglia alle sue spalle. Barbara si avvicinò di un passo. «Scotland Yard, signora Clarence», si presentò. «Vorrei farle alcune domande.» «Domande?» Gillian si portò la mano alla gola. Un'ombra passò nei suoi occhi azzurri. «A che proposito?» «Su Gillian Teys», rispose il marito. Non si era mosso dalla poltrona. «Chi?» domandò lei a bassa voce. «Gillian Teys», ripeté lui in tono piatto. «Il cui padre è stato assassinato nello Yorkshire tre settimane fa, Nel!» La donna si appoggiò con le spalle alla porta. «No.» «Nell...» «No!» ripeté alzando la voce. Barbara avanzò di un altro passo. «Stia lontana! Non so di che cosa sta parlando! Non conosco nessuna Gillian Teys!»
«Mi dia la fotografia», disse Jonah rivolto a Barbara, alzandosi in piedi, e lei gliela tese. Si avvicinò alla moglie e le posò una mano sul braccio. «Questa è Gillian Teys», mormorò, ma lei distolse lo sguardo. «Non so niente, non so niente!» insistette, la voce colma di terrore. «Guardala, tesoro.» E dolcemente le girò la testa perché guardasse la fotografia. «No!» urlò lei, liberandosi dalla sua stretta, e corse nella stanza accanto. Si sentì una porta che sbatteva e una chiave che girava nella serratura. Splendido, pensò Barbara. A passo deciso, passò davanti a Clarence e si avvicinò alla porta del bagno. Dall'interno veniva solo silenzio. Provò la maniglia, ma inutilmente. Sii dura, sii aggressiva. «Signora Clarence, esca di lì.» Nessuna risposta. «Signora Clarence, deve ascoltarmi. Sua sorella Roberta è accusata dell'omicidio e ora è rinchiusa nel manicomio di Barnstingham. Non dice una parola da tre settimane se non che ha assassinato suo padre. Che ha decapitato suo padre, signora Clarence.» Barbara provò di nuovo la maniglia. «Decapitato, signora Clarence. Mi sente?» Si udì un singhiozzo al di là della porta, l'urlo di un animale terrorizzato e ferito. Poi un grido d'angoscia. «L'ho lasciata per te, Bobby! Mio Dio, l'hai persa?» E ogni rubinetto del bagno fu aperto a tutta forza. 14 Pulita. Pulita! Devo farlo. Devo farlo. In fretta, in fretta, in fretta! Accadrà ora se non mi ripulisco. Urla, pugni contro la porta, urla, pugni contro la porta. In continuo, senza fine. Urla, pugni contro la porta. Ma tutto deve sparire... Dio, deve sparire... una volta che sarò pulita, pulita, pulita. Acqua calda. Molto calda. Il vapore che sale in nuvole. Lo sento sul viso. Lo respiro a fondo per ripulirmi. «Nell!» No, no, no! La maniglia del mobiletto è scivolosa. Aprila. Tira. Le mani tremanti devono trovarle, nascoste al sicuro sotto gli asciugamani. Spazzole dure, quello che ci vuole. Manici di legno, setole di metallo. Spazzolate decise, spazzolate violente. Le spazzole mi ripuliranno. «Signora Clarence!» No, no, no! Respiro affannoso, respiro soffocato. Riempie la stanza, rimbomba nelle
orecchie. Basta, basta! Le mani sulla testa non zittiscono l'eco, i pugni in faccia non smorzano il suono. «Nellie, ti prego. Apri la porta!» No, no, no! Nessuna porta si aprirà ora. Non si può fuggire da lì. C'è un solo modo per fuggire. Essere puliti, puliti, puliti. Prima via le scarpe. Con un calcio. Levale di mezzo in fretta. Poi le calze. Le mani non funzionano. Strappale! In fretta, in fretta, in fretta! «Signora Clarence, mi sente? Mi sta ascoltando?» Non sento, non vedo. Non voglio sentire, non voglio vedere. Nuvole di vapore che s'impadroniscono di me. Nuvole di vapore per bruciare e guarire. Nuvole di vapore per ripulirmi! «E questo quello che vuole che accada, signora Clarence? Perché è esattamente quello che accadrà a sua sorella se continua a rifiutarsi di parlare. Per tutta la vita, signora Clarence. Per tutto il resto della sua vita.» No! Di' loro di no! Di' che nulla ha più importanza. Non riesco a pensare, non riesco ad agire. Fa' in fretta, acqua. Fa' in fretta, ripuliscimi. La sento sulle mani. No, non è ancora abbastanza calda! Non sento, non vedo. Mai, mai sarò ripulita. Lo chiamò Moab. Questi è il padre dei Moabiti, che esistono fino al giorno d'oggi... Lo chiamò Ben-Ammi. Questi è il padre degli Ammoniti, che esistono fino al giorno d'oggi... Un fumo che saliva dalla terra, come il fumo di una fornace... Lot salì da Soar per andare ad abitar sul monte insieme con le sue due figlie, perché temeva di stare in Soar. «Come si chiude questa porta? È un chiavistello? O una serratura a chiave? Come?» «Io...» «Si faccia forza. Dovremo abbatterla.» «No!» Pugni sulla porta, pugni sulla porta, sempre più forti e insistenti. Falli, falli andare via! «Nell, Nell!» Acqua dappertutto. Non sento, non vedo, non è abbastanza calda per ripulirmi, ripulirmi, ripulirmi! Sapone e spazzole, sapone e spazzole. Gratta forte, forte, forte. Su e giù, su e giù. Ripuliscimi, ripuliscimi! «O facciamo così o dovremo chiamare aiuto. È questo che vuole? Una marea di poliziotti che abbattono la porta a spallate?» «Zitta! Guardi che cosa le ha fatto! Nell!» Benedicimi, padre. Ho peccato. Comprendi e perdona. Le spazzole pene-
trano, penetrano, penetrano per ripulirmi. «Non ha scelta! Qui c'è di mezzo la polizia, non è un semplice litigio tra marito e moglie, signor Clarence.» «Che cosa sta facendo? Accidenti a lei, si allontani da quel telefono!» Pugni sulla porta, pugni sulla porta. «Nell!» Lettore, lo sposai e il nostro matrimonio fu tranquillo: io e lui, il pastore e il funzionario, eravamo soli quando siamo tornati dalla chiesa, sono entrata nella cucina della casa padronale dove Mary stava preparando la cena e John puliva i coltelli e ho detto a Mary che quella mattina mi ero sposata con il signor Rochester. «Allora, ha esattamente due minuti per farla uscire, o si ritroverà la casa piena di poliziotti. E chiaro?» Non un'altra volta! Non così presto! Dio, Gilly, Dio! Gilly è morta, Gilly è morta. Ma Nell è pulita, pulita, pulita. Gratta forte, penetra a fondo, ripuliscila, ripuliscila, ripuliscila! «Dobbiamo entrare, Nell. Mi senti? Ora faccio saltare la serratura. Non avere paura.» Dai, piccola Gilly. Stasera non voglio niente di serio. Ridiamo e diamoci alla pazza gioia. Berremo qualcosa e balleremo fino all'alba. Troveremo qualche uomo che ci faccia compagnia e andremo da Whitby. Berremo. Mangeremo. Balleremo nude sulle mura dell'abbazia. Cercheranno di prenderci, Gilly. Faremo le pazze scatenate. Pugni sulla porta ancora più forti, ora. Pugni forti, forti, forti! Le orecchie scoppiano, il cuore scoppia. Gratta forte per ripulirla. «E inutile, signor Clarence. Devo...» «No! Zitta, accidenti a lei!» Notte fonda. Ho detto addio. Mi hai sentito? Mi hai visto? L'hai trovata dove l'ho lasciata? Bobby, l'hai trovata? Trovatatrovatatrovata? Legno che cigola, legno che si rompe. Mai più al sicuro. Un'ultima possibilità prima che Lot mi trovi. Un'ultima possibilità per ripulirmi. «Oh, Dio! Oh, mio Dio, Nell.» «Chiamo un'ambulanza.» «No! Se ne vada!» Mani che afferrano, mani che scivolano. L'acqua rosa e piena di sangue. Braccia che stringono, qualcuno che piange. Qualcosa di caldo intorno al corpo e un abbraccio. «Nellie. Oh, Dio. Nell.»
Stretta contro di lui. Lo sento singhiozzare. E finita? Sono pulita? «La porti qui fuori, signor Clarence.» «Se ne vada! Ci lasci soli.» «Non posso. È parte in causa in un omicidio. Lo sa bene quanto me. Se non altro, la sua reazione a tutto questo dovrebbe...» «Lei non c'entra! Non è possibile! Ero con lei!» «Non si aspetterà che le creda, vero?» «Nell! Non glielo permetterò. Non glielo permetterò!» Lacrime, lacrime. Lacrime che bruciano. Il corpo sconvolto dal dolore fisico e mentale. Basta. Basta. «Jonah...» «Sì, tesoro. Che cosa c'è?» «Nell è morta.» «E poi lui ha abbattuto la porta», gli spiegò Barbara. Lynley si massaggiò la testa che gli doleva. Nelle ultime tre ore gli era venuta una spaventosa emicrania che peggiorava a mano a mano che procedeva la conversazione con il sergente. «E?» Ci fu una pausa. «Havers?» la sollecitò. Si accorse di averlo fatto in modo brusco, con l'aria di essere in collera invece che solo stanco e la sentì trattenere il respiro. Stava piangendo? «Era... lei...» Barbara si schiarì la voce. «Era nella vasca.» «Si era fatta il bagno?» Lynley si chiese se lei si rendesse conto che quanto gli stava raccontando non aveva assolutamente senso. Buon Dio, che cos'era accaduto? «Sì. Solo che si era passata delle spazzole su tutto il corpo, spazzole di metallo, e sanguinava.» «Dio del cielo», borbottò lui tra i denti. «Dov'è, Havers? Sta bene?» «Volevo chiamare un'ambulanza.» «Perché non l'ha fatto, perdio?» «Il marito... lui... È stata colpa mia, ispettore. Ho pensato che avrei dovuto essere dura con lei. Io... è stata colpa mia», concluse con voce rotta. «Havers, per l'amor del cielo. Si calmi.» «C'era sangue ovunque. Si era passata quelle spazzole su tutto il corpo. Lui l'ha avvolta in un asciugamano e l'ha tenuta tra le braccia, piangendo. Lei ha detto di essere morta.» «Cristo», mormorò Lynley. «Ho preso il ricevitore del telefono, ma lui mi ha seguito e...»
«Sta bene? È ferita?» «Mi ha buttato fuori. Sono caduta, ma sto bene. Io... è stata colpa mia. È uscita dalla camera da letto e mi è tornato in mente tutto quello che avevamo detto su di lei. Ho pensato che fosse meglio essere decisi. Non pensavo, non mi sono resa conto che...» «Havers, mi ascolti.» «Ma lei si è chiusa a chiave. L'acqua era tutta sporca di sangue. Era bollente. C'era del vapore... come può aver sopportato un'acqua così calda?» «Havers!» «Pensavo di riuscire a fare qualcosa di giusto, questa volta, ma ho mandato a monte tutto il caso, non è così?» «No di certo», ribatté lui, malgrado non fosse affatto convinto di quanto stava affermando. «Sono ancora là?» «Sì. Devo far mandare qualcuno da Scotland Yard?» «No!» Lynley cercò di prendere rapidamente una decisione. La situazione non avrebbe potuto essere peggiore. Dopo tutti quegli anni, avevano ritrovato la donna e quanto era appena accaduto lo faceva infuriare. Sapeva benissimo che Gillian rappresentava la loro unica speranza di arrivare in fondo al caso. Le pagine di Shakespeare gli avevano dato i suggerimenti giusti, ma solo Gillian poteva confermare la realtà. «Allora che cosa devo...» «Vada a casa. Vada a dormire. Ci penso io.» «La prego, signore.» Nella sua voce c'era disperazione, ma in quel momento lui non poteva farci niente, non poteva agire diversamente. «Faccia quello che dico, Havers. Vada a casa e s'infili a letto. Non telefoni a Scotland Yard e non torni in quell'appartamento. E chiaro?» «Io...» «Poi domani mattina torni qui.» «E Gillian?» «A Gillian penso io», tagliò corto lui in tono cupo, e agganciò. Lo sguardo gli ricadde sul libro che teneva in grembo. Aveva trascorso le ultime quattro ore a sforzarsi di ritrovare nei ricordi i contatti avuti con Shakespeare, ma la sua conoscenza dell'autore era limitata. Il suo interesse per quell'epoca era stato storico, non letterario, e più di una volta durante la serata aveva imprecato per avere tralasciato quell'aspetto anni prima, durante gli studi a Oxford. Approfondire la conoscenza dell'autore allora non gli era sembrato rilevante, considerati i suoi interessi. Alla fine, comunque, aveva trovato quello che cercava e aveva letto e ri-
letto quei versi, cercando di estrapolare un significato attuale da quelle frasi scritte nel diciassettesimo secolo. Un delitto, lo so bene, ne provoca un altro. L'omicidio è vicino alla lussuria come la fiamma al fumo. Dà significato alla vita e alla morte, aveva detto il pastore. Che legame c'era tra le parole del principe di Tiro e una tomba abbandonata a Keldale? E che cosa aveva a che fare una tomba con la morte di un agricoltore? Niente di niente, gli diceva il raziocinio. Tutto, ribatteva l'intuito. Chiuse il libro. Il segreto stava in Gillian: il significato e la verità. Riprese il telefono e compose un numero. Erano le dieci passate quando con passo stanco percorse la strada male illuminata di Acton. Webberly si era sorpreso nel vederla, ma la sua espressione si era immediatamente ripresa non appena aveva aperto la busta che Lynley gli aveva inviato. Aveva scorso il messaggio che c'era all'interno, l'aveva rigirato e poi si era attaccato al telefono. Dopo avere ordinato a Edwards di raggiungerlo subito, l'aveva congedata senza nemmeno chiederle come mai fosse improvvisamente riapparsa a Londra senza Lynley. Era come se non esistesse per lui. Ed era proprio così, ormai era così. Che cosa me ne importa, si disse. Che me ne importa di quello che accade? Era inevitabile. Sei una povera sciocca che si agita cercando di fare l'investigatore. Pensavi di sapere tutto di Gillian Teys, no? L'hai sentita fischiettare nella stanza accanto e nemmeno allora sei riuscita a capire. Il suo sguardo si posò sulla casa. Le finestre erano buie. Dalla porta accanto si sentiva il televisore della signora Gustafson a tutto volume, ma dall'interno della casa di fronte a lei non giungeva nessun segno di vita. Non c'era nessuna indicazione che quel frastuono disturbasse chi vi abitava. Era il nulla assoluto. Il nulla. Proprio così, pensò. Non c'è nulla all'interno, assolutamente nulla, e in particolar modo non c'è quell'unica cosa che tu vorresti trovarci. Per tutti questi anni hai cullato una chimera dentro di te, Barb. Che spreco. Si sforzò di allontanare quei pensieri, rifiutò di accettarne la verità e aprì la porta con la chiave. Nella casa silenziosa fu assalita dal puzzo, un odore di corpi che non si lavavano, di cucina, di aria stantia, di terribile disperazione. Era orrendo e insano, ma era casa sua. Respirò a fondo quell'odore,
così intenso e perfetto per la situazione. Si richiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. Ecco, Barb. Tutto è cominciato qui. Lascia che ti riporti in vita. Posò la borsa sul vecchio tavolino vicino all'entrata e si diresse a passo stanco verso le scale. Aveva appena posato il piede sul primo gradino, quando un lampo di luce nel soggiorno attirò la sua attenzione. Incuriosita, si avvicinò alla porta, ma scoprì che la stanza era vuota e che quel lampo era stato solo il riflesso dei fari di un'auto di passaggio che avevano illuminato per un breve istante il vetro della fotografia. La sua fotografia. La fotografia di Tony. Entrò nella stanza e sedette sulla poltrona del padre che, insieme con quella della madre, si trovava proprio di fronte all'altare. Il viso del fratello le sorrideva sbarazzino, trasudante vitalità. Si sentiva stanca e confusa, ma si sforzò di continuare a guardare la fotografia, di tornare indietro nella memoria per ritrovare Tony, smagrito e incavato, in un bianco lettino d'ospedale. Quell'immagine era scolpita nella sua coscienza e lo sarebbe sempre stata, con tutti quei tubi e gli aghi infilati ovunque, le dita che serravano spasmodiche le coperte. Il collo magro non reggeva più la testa che per contrasto sembrava essere diventata enorme. Le palpebre erano pesanti, chiuse. Le labbra secche sanguinavano. «Coma», avevano sentenziato i medici. «Ormai è quasi arrivato il momento.» E invece no. Non ancora. Non finché aveva riaperto gli occhi e, sforzandosi di accennare un vago sorriso, aveva mormorato: «Non ho paura quando tu sei qui, Barbie. Non mi lascerai, vero?» Le parve che lui fosse lì in quella stanza a ripeterle quelle parole e all'improvviso riprovò quello che provava sempre al ricordo: il crescere del dolore e poi, come in uno scoppio improvviso, la rabbia, quell'unico, profondo sentimento che la manteneva in vita. «Non ti lascerò», giurò. «Non ti dimenticherò mai.» «Tesoro?» Sorpresa, Barbara lanciò un urlo, tornando di colpo al presente. «Tesoro? Sei tu?» Cercando di ignorare i battiti affrettati del cuore, si sforzò di avere un tono normale. Non le fu difficile, ormai, dopo tanti anni di pratica. «Sì, mamma. Mi sto riposando.» «Al buio, tesoro? Aspetta, ti accendo la luce, così...»
«No!» proruppe. Poi si schiarì la voce. «No, mamma. Lascia spento.» «Ma a me non piace il buio, tesoro. Mi... spaventa.» «Perché ti sei alzata?» «Ho sentito la porta che si apriva e ho pensato che potesse...» Comparve di fronte a Barbara una figura spettrale con indosso una camicia da notte rosa tutta macchiata. «A volte ho l'impressione che sia tornato con noi, tesoro, ma non accadrà mai, vero?» Barbara si alzò di scatto. «Torna a letto, mamma.» Si accorse di averle parlato in tono duro e si sforzò, inutilmente, di controllarsi. «Come sta papà?» chiese, prendendo sottobraccio la madre e accompagnandola fuori della stanza. «Oggi per lui è stata una buona giornata. Abbiamo pensato alla Svizzera. Sai, là l'aria è così fresca e pura. Abbiamo pensato che la Svizzera sarebbe il posto migliore dove andare la prossima volta. Certo, dato che è così poco che siamo tornati dalla Grecia, non ci sembra il caso di ripartire subito, ma direi che è una buona idea. Ti piacerà la Svizzera, tesoro? Perché se pensi che non ti piaccia, possiamo scegliere un altro posto. Voglio che tu sia felice.» Felice? Felice? «La Svizzera va benissimo, mamma.» La madre prese a salire le scale, stringendole forte un braccio. «Bene. Ci speravo proprio. Credo che sarebbe meglio cominciare il giro da Zurigo. Questa volta prenderemo un'auto a nolo per visitare quel Paese. Ho molta voglia di vedere le Alpi.» «Per me va bene, mamma.» «Papà lo immaginava, tesoro. Pensa che è persino andato all'agenzia a prendermi i dépliant.» Barbara rallentò il passo. «Ha incontrato il signor Patel?» La mano della madre tremò lievemente. «Oh, non saprei, tesoro. Non me ne ha parlato. Sono sicura che se l'avesse visto me l'avrebbe detto.» Erano arrivate in cima alle scale. La madre si fermò un attimo davanti alla porta della camera da letto. «Diventa un uomo nuovo quando il pomeriggio va a fare un giro, tesoro. Non sai come cambia.» Barbara provò una fitta allo stomaco pensando al significato di quanto la madre le stava dicendo. Jonah Clarence aprì piano la porta della camera da letto, precauzione superflua perché lei era sveglia. Sentendolo entrare, voltò la testa verso di lui e gli sorrise.
«Ti ho preparato della minestra», mormorò il marito. «Jo...» Aveva una voce così debole e fioca che lui le si avvicinò in tutta fretta. «È quella in scatola, ma ti ho portato anche pane e burro.» Posò il vassoio sul letto e l'aiutò a mettersi a sedere, ma quel movimento fece riaprire numerosi tagli. Con un asciugamano premuto sulle ferite, lui si sforzò di tamponare il flusso del sangue e di cancellare il ricordo di quanto era accaduto quella sera. «Io non...» «Ora no, tesoro», la tranquillizzò lui. «Prima devi mangiare qualcosa.» «Poi parliamo?» Lui distolse lo sguardo dal suo viso. Le ferite le ricoprivano le mani, le braccia, il seno, il ventre, le cosce. Nel vederla ridotta così provò una tale angoscia che per un attimo non riuscì a pronunciare una sola parola. Ma lei lo stava guardando, i begli occhi colmi di fiducia e di amore, in attesa della sua risposta. «Sì», sussurrò. «Poi parliamo.» Gli sorrise tremante e lui si sentì spezzare il cuore. Quando la vide cercare di infilare il cucchiaio nella minestra, si accorse che era così debole che non sarebbe mai riuscita a mangiare da sola. Dolcemente le tolse la posata di mano e cominciò a imboccarla. Ogni cucchiaiata deglutita era un piccolo atto di trionfo. Non voleva lasciarla parlare. Aveva troppa paura di quello che avrebbe potuto dire. Cercò invece di calmarla sussurrandole dolci parole d'amore e d'incoraggiamento, chiedendosi per tutto il tempo chi fosse e quale terribile sofferenza avesse sopportato nella sua vita. Erano sposati da meno di un anno, ma gli sembrava di essere sempre stato con lei, di essere stati pronti l'uno per l'altra fin dal momento in cui il padre l'aveva portata a Testament House dopo averla trovata alla stazione di King's Cross: una ragazzina sperduta con l'aria di una dodicenne. Era tutta occhi, si era detto quando l'aveva vista per la prima volta, ma quando sorrideva era come illuminata da un raggio di sole. Si era accorto subito di amarla, ma ci erano voluti quasi dieci anni perché fosse sua. Nel frattempo aveva preso gli ordini, aveva deciso di entrare a far parte dell'organizzazione del padre e si era impegnato come Giacobbe nell'inseguimento di una Rachele il cui cuore non era mai stato certo di riuscire a conquistare. Eppure quel pensiero non lo aveva mai scoraggiato. Come un crociato, si era lanciato nella battaglia e Nell era stato il suo Graal. Non
voleva nessun'altra. Solo che non è Nell, si disse. Non so chi sia e, peggio ancora, non so se voglio saperlo. Si era sempre ritenuto un uomo d'azione, di coraggio, un uomo che si faceva forte delle proprie convinzioni interiori, eppure, intimamente, restava un uomo di pace. Tutto questo era svanito quella sera. La vista della moglie nel bagno, a lacerarsi furiosamente la carne, imbrattando l'acqua di sangue, aveva distrutto in pochi istanti quella facciata costruita con tanta cura. Tutto era crollato nei due minuti che gli ci erano voluti per tirarla fuori, fragile e urlante, dalla vasca, per cercare freneticamente di fermare l'emorragia, per buttare fuori di casa quell'agente sconvolta. In quei due brevi minuti non era più stato il ministro di Dio che offre l'altra guancia, l'immagine dietro cui si era nascosto a lungo, ma era diventato un estraneo isterico che avrebbe potuto uccidere, senza esitare, chiunque avesse cercato di fare del male alla moglie. Quella consapevolezza lo aveva scosso nel profondo, ancora di più quando si era reso conto che, nel proteggerla dai nemici, non riusciva a trovare il modo per proteggere Nell da se stessa. Solo che non è Nell, si ripeté ancora una volta. Lei aveva finito di mangiare, aveva finito da vari minuti, e si era appoggiata nuovamente ai cuscini, macchiati di sangue. Lui si alzò in piedi. «Vado a prenderti qualcosa per le ferite. Torno subito.» Mentre frugava nell'armadietto dei medicinali, si sforzò di ignorare le disastrose condizioni del bagno. Nella vasca sembravano aver macellato un agnello. C'era sangue ovunque, in ogni crepa. Con mani tremanti, prese la bottiglia dell'acqua ossigenata. Si sentì svenire. «Jonah?» Respirò a fondo e a lungo, e tornò in camera da letto. «Reazione a scoppio ritardato.» Si sforzò di sorridere e sedette sul letto, stringendo la bottiglia tra le mani con tanta forza che temette di romperla. «Sono tagli superficiali, perlopiù», osservò, cercando di tranquillizzarla. «Domattina vedremo. Se sarà il caso, ti porterò in ospedale. Che cosa ne dici?» Ma non attese la risposta. Con determinazione, cominciò a disinfettare i tagli. «Pensavo che questo weekend potremmo andare a Penzance, tesoro», propose in tono il più allegro possibile. «Non pensi che ci farebbe bene andarcene via per qualche giorno? Proprio ieri una delle ragazze mi parlava di un albergo dov'è stata da bambina. Se c'è ancora, dev'essere stupendo, proprio di fronte a St. Michael's Mount. Pensavo di prendere il treno e poi
noleggiare un'auto. O delle biciclette. Che ne dici delle biciclette, Nell?» Lei gli accarezzò la guancia e a quel gesto gli si riempirono gli occhi di lacrime. «Jo», sussurrò lei. «Nell è morta.» «Non dire così!» «Ho fatto delle cose terribili e non sopporto che tu le venga a sapere. Pensavo di essere ormai al sicuro, di essermene liberata per sempre.» «No!» ripeté lui, disperato. «Ti amo, Jonah.» La mano che le massaggiava freneticamente le ferite si bloccò di colpo e lui se la portò alla fronte a coprirsi gli occhi. «Come devo chiamarti?» domandò in un bisbiglio. «Non so neanche chi sei!» «Jo, Jonah, amore mio, mio unico amore...» La sua voce era un tormento che non riusciva quasi a sopportare e quando lei tese le braccia per stringerlo a sé crollò e corse fuori della stanza, sbattendosi la porta alle spalle con forza. Si lasciò cadere tremante in poltrona, il respiro affannoso che riempiva l'aria, il panico che gli serrava la gola. Rimase seduto lì a fissare senza vederli gli oggetti che aveva di fronte, sforzandosi di cancellare disperatamente la fonte del suo terrore. Tre settimane fa, aveva detto il sergente. Le aveva mentito, una reazione spontanea scaturita dall'orrore di quella incomprensibile accusa. Allora lui non si trovava a Londra, ma a Exeter, per una conferenza di sei giorni, e poi per altri due giorni era stato in giro a raccogliere fondi per Testament House. Nell avrebbe dovuto andare con lui, ma all'ultimo momento era rimasta a casa con l'influenza. O almeno così aveva detto. Era stata davvero malata? O aveva approfittato dell'occasione per recarsi nello Yorkshire? «No!» Quel grido gli sfuggì involontario dalle labbra, a denti stretti. Si disprezzò per avere anche solo preso in considerazione un'ipotesi del genere e con determinazione si sforzò di calmarsi, di rilassarsi. Tese una mano a prendere la chitarra, non per suonarla, ma per ritrovare la realtà e il posto che aveva nella sua vita. Era seduto sui gradini sul retro di Testament House, nella semioscurità, a suonare la chitarra quando lei gli aveva parlato per la prima volta. «Che bello. Pensi di sapermela insegnare?» Si era accovacciata vicino a lui, gli occhi fìssi sulle sue dita che si muovevano esperte sulle corde, e gli aveva sorriso, il sorriso di un bambino, luminoso. Era stato facile insegnarle a suonare perché apprendeva con naturalezza: non scordava nulla di ciò che aveva visto o sentito. Ormai suonava spesso
per lui, così come lui suonava per lei, non con la sicurezza o la passione del marito, ma con una dolcezza malinconica che avrebbe dovuto rivelargli molto tempo prima quello che adesso non voleva accettare. Jonah si alzò di scatto. Si avvicinò alla libreria e prese un libro dopo l'altro. Sul frontespizio di ognuno, in bella calligrafia, era scritto NELL GRAHAM. Per dichiarare che erano suoi o per convincere se stessa, si chiese. «No!» Dall'ultimo ripiano raccolse un album di fotografie e se lo strinse al petto. Era una parte di Nell, la verifica del fatto che era reale, che non aveva altra vita se non quella che aveva condiviso con lui. Non aveva nemmeno bisogno di aprirlo per sapere che cosa contenevano quelle pagine: l'immagine fotografica dell'amore che li univa, ricordi che erano parte integrante del quadro della loro vita. In un parco, lungo un sentiero, dolcemente addormentata all'alba, ridente sulla spiaggia. Tutto ciò era la testimonianza, l'immagine della vita di Nell e di quello che amava. Il suo sguardo si spostò, alla ricerca di altre rassicurazioni, alle piante che lei teneva sulla finestra. Le violette africane gliel'avevano sempre ricordata. Quei magnifici fiori sbocciavano delicatamente, precari, in cima ai loro steli. Le grandi foglie verdi li proteggevano. Erano piante che davano l'impressione di non poter sopravvivere ai rigori del clima londinese, ma nonostante l'aspetto avevano una forza incredibile. Guardandole, finalmente capì e lottò inutilmente per negare la realtà. Solo allora le lacrime gli rigarono le guance e un singhiozzo gli sfuggì di bocca. Fu in quel momento che sentì bussare alla porta. «Andatevene!» proruppe. Si sentì ancora bussare. «Andate via!» Ma quel battere continuò, come la voce della sua coscienza. Non avrebbe mai smesso? «Maledizione, andate via!» urlò, lanciandosi con foga a spalancare la porta. Una donna se ne stava lì, immobile. Portava un elegante completo nero e una camicia di seta bianca con pizzo intorno al collo. Aveva una borsa nera a tracolla e in mano stringeva un volume rilegato in pelle. Ma fu il suo viso ad attirare l'attenzione di Jonah Clarence: aveva un'espressione tranquilla, lo sguardo sereno, che tradiva tenerezza. Avrebbe potuto essere una missionaria, una visione. Ma gli tese la mano dimostrandosi più che vera.
«Sono Helen Clyde», si presentò, imperturbabile. Lynley scelse un angolo appartato della chiesa. Un po' più in là brillavano le fiammelle delle candele, ma dove si trovava lui era tutto buio. C'era un vago odore di incenso, ma soprattutto di cera bruciata, di polvere. Regnava una gran pace. Anche le colombe, che al suo arrivo si erano agitate sul tetto, adesso se ne stavano immobili e in silenzio e non c'era un alito di vento a muovere i rami degli alberi contro le vetrate. Era solo. I suoi unici compagni erano i giovani greci abbracciati in quell'eterna danza senza musica, scolpiti sulle porte dei confessionali elisabettiani lì accanto. Un terribile peso gli opprimeva il cuore. Era una vecchia storia, una leggenda romana del quinto secolo, ma, in quel momento, reale come lo era stata per Shakespeare quando l'aveva usata come spunto per il proprio dramma. Il principe di Tiro si era recato ad Antiochia, all'inseguimento di un enigma e del matrimonio con una principessa, ma era tornato a mani vuote, in fuga per salvarsi la vita. Lynley s'inginocchiò. Cercò di pregare, ma non gli venne in mente niente. Sapeva di essere vicino al corpo dell'Idra, ma quella consapevolezza non gli dava nessuna soddisfazione. Avrebbe invece voluto evitare il confronto finale con il mostro, perché ormai sapeva che, anche se le teste erano state distrutte, non aveva speranze di uscire indenne da quello scontro. «'Non adirarti a causa dei malvagi.'» Una voce tremante, nata dal nulla, incerta, che parve spezzare l'aria. Ci volle qualche istante prima che Lynley riuscisse a individuare l'uomo in abito talare. Padre Hart s'inginocchiò ai piedi dell'altare e si sporse in avanti a posare la fronte sul pavimento. «'Non avere invidia di quelli che agiscono perversamente; perché presto saranno falciati come il fieno e appassiranno come l'erba verde. Confida nel Signore e fa' il bene; abita il paese e pratica la fedeltà. Trova la tua gioia nel Signore, ed egli appagherà i desideri del tuo cuore. Riponi la tua sorte nel Signore; confida in lui, ed egli agirà. Poiché i malvagi saranno sterminati; ma quelli che sperano nel Signore possederanno la terra. Ancora un po' e l'empio scomparirà.'» Lynley ascoltò angosciato quelle parole, sforzandosi di ignorare il loro significato. Mentre il prete proseguiva nella sua preghiera, cercò con tutto se stesso di ritrovare quel distacco che gli avrebbe permesso di arrivare alla soluzione del caso.
«È venuto a confessarsi?» Quella voce così vicina lo fece sobbalzare. Senza che se ne accorgesse, il prete gli si era materializzato al fianco, nell'oscurità. Lynley si alzò. «No, non sono cattolico», rispose. «Stavo solo cercando di schiarirmi le idee.» «Le chiese sono proprio il luogo adatto a questo scopo.» Padre Hart sorrise. «Prima di chiudere per la notte mi fermo sempre a dire una preghiera. Mi assicuro sempre che in chiesa non rimanga nessuno. Non dev'essere una meraviglia ritrovarsi chiusi qui dentro con questo freddo.» «No», convenne Lynley. «Ha proprio ragione.» Lo seguì fuori della chiesa. Le nuvole nascondevano la luna e le stelle. L'altro non era che un'ombra, senza forma né lineamenti. «Conosce bene Pericle, padre Hart?» Il prete armeggiò un po' con le chiavi e chiuse il grande portone della chiesa prima di rispondere. «Pericle?» ripeté, avviandosi poi verso il cimitero. «Shakespeare, no?» «'Come la fiamma al fumo.' Sì, è Shakespeare.» «Be'... credo di conoscerlo abbastanza.» «Tanto da sapere perché Pericle è fuggito da Antioco? Perché Antioco voleva farlo uccidere?» «Io... non credo di ricordare bene tutti i particolari del dramma.» «Credo invece che li ricordi abbastanza bene. Buonanotte, padre Hart», ribatté Lynley, e si allontanò. Seguì la collina percorrendo il sentiero di ghiaia che, nella pace notturna, scricchiolava assordante sotto i suoi piedi. Arrivato al ponte, si fermò a schiarirsi le idee, contemplando il paese poco distante. Alla sua destra, la casa di Olivia Odell era immersa nell'oscurità e lei e la bambina dormivano un sonno innocente. Al di là della strada si sentiva la musica d'organo venire dalla casetta di Nigel Parrish. Alla sua sinistra, la pensione lo stava aspettando, e più in là ancora c'era la strada alta che piegava verso il pub. Da dove si trovava non riusciva a vedere St. Chad's Lane, con le case popolari, ma poteva immaginarsele. Un'immagine che lo deprimeva, così riprese a camminare verso la pensione. Era stato fuori meno di un'ora, ma appena superò la soglia si accorse che durante la sua assenza Stepha era tornata. Nella casa c'era il suo respiro, che lo aspettava. Lynley dovette farsi forza per entrare. Non sapeva con precisione dove fossero le stanze di Stepha, ma fu l'istinto a dirgli che dovevano trovarsi al pianterreno, oltre la reception, verso la cucina. Oltrepassata la soglia, ricevette le risposte che cercava, palpabili nell'at-
mosfera che lo circondava. Sentiva l'odore del fumo di sigaretta, gli pareva quasi di sentire il sapore del liquore nell'aria. Sentiva la risata, le appassionate parole appena sussurrate, il piacere. Gli pareva di sentire quelle mani che lo attiravano a sé. Non gli restava che guardare in faccia la realtà. Bussò alla porta e immediatamente ci fu silenzio. «Stepha?» Rumore all'interno, rapido e soffocato. Nell'aria risuonò una risatina di Stepha. All'ultimo istante fu sul punto di voltarsi e andarsene, ma poi abbassò la maniglia, per entrare e sapere. «Forse ora potrai darmi tu un alibi che funzioni», rise Richard Gibson, accarezzando con aria di possesso una coscia nuda della donna. «Non penso che l'ispettore abbia creduto neanche per un attimo alla mia piccola Madeline.» 15 Lady Helen lo vide subito, appena scesa sull'affollato marciapiede della stazione. Erano state due ore di viaggio molto pesanti, sempre sospesa tra il timore che Gillian crollasse da un momento all'altro e il disperato tentativo di risollevare il morale al sergente Havers. Quell'esperienza le aveva provocato una tale agitazione che la sola vista di Lynley, che ricacciava dalla fronte una ciocca di capelli biondi mossa dall'aria di un treno in partenza, le aveva fatto tirare un enorme sospiro di sollievo. La gente correva di qua e di là attorno a lui, eppure pareva solo. Sollevò il viso, i loro sguardi s'incontrarono e lei rallentò automaticamente il passo. Malgrado la distanza, non le sfuggì come fosse cambiato: le pesanti occhiaie, la tensione che si leggeva nel suo portamento, le rughe intorno al naso e alla bocca che si erano fatte più profonde. Era Tommy, ma in un certo senso un Tommy completamente diverso. E poteva esserci un unico motivo per quel cambiamento: Deborah. L'aveva incontrata a Keldale, glielo lesse in viso. E per qualche strana ragione, nonostante l'anno che era trascorso da quando lui aveva rotto il fidanzamento con Deborah, nonostante le ore che da quel momento avevano passato insieme, Lady Helen si accorse di non sopportare il pensiero che lui le raccontasse di averla vista. Desiderò disperatamente evitare di dargli l'occasione di parlargliene. Era più forte di lei. In quel momento non volle soffermarsi a riflettere sul perché a un tratto fosse così importante che Tommy non le parlasse più di Deborah.
Lui parve averle letto nel pensiero, com'era solito fare, perché le sorrise strizzandole l'occhio e le raggiunse ai piedi della scalinata. «Che piacere vederti, Tommy», esclamò Lady Helen. «Per metà del viaggio, quando non ero occupata a divorare ogni pasticcino che mi passava davanti, mi maceravo al pensiero che tu potessi essere bloccato a Keldale e che dovessimo prendere un'auto a nolo e girare alla rinfusa per la zona per riuscire a trovarti. Be', è finito tutto per il meglio e avrei potuto evitare di rimpinzarmi di quell'ottimo pain au chocolat per calmare l'ansia. In treno si mangia veramente male, non trovi?» Con un gesto protettivo, cinse Gillian per le spalle. Un'attenzione istintiva perché, anche se sapeva bene che la giovane non aveva niente da temere da Lynley, quelle ultime quattordici ore l'avevano legata a lei e adesso si rendeva conto di non volerla lasciare nelle mani della polizia. «Gillian, questo è l'ispettore Lynley», lo presentò. La ragazza accennò un debole sorriso, poi abbassò lo sguardo. Lynley fece per tenderle la mano, ma Lady Helen lo fermò scuotendo la testa. Fu allora che lui vide le mani di Gillian: le cicatrici rosse che le ricoprivano erano spaventose, ma le ferite non erano profonde o gravi come le abrasioni che le coprivano il collo, il petto e le cosce sotto l'abito che Lady Helen le aveva fatto indossare. «Ho l'auto proprio qui fuori», disse. «Grazie al cielo», esclamò Lady Helen. «Portamici subito prima che i miei piedi subiscano un danno irreparabile per queste terribili scarpe. Sono davvero eleganti, non trovi? Ma non hai idea di come mi facciano soffrire. Continuo a chiedermi perché mi lascio schiavizzare dalla moda.» Con un sorriso scosse la testa. «Pur di togliermi le scarpe, sono disposta anche a sopportare cinque minuti del Čajkovskij più malinconico che hai tra i tuoi nastri.» Lui sorrise. «Me ne ricorderò, amica mia.» «Non ne ho il minimo dubbio, tesoro.» Lady Helen si voltò verso il sergente Havers, che le aveva seguite senza dire una parola fin dal momento in cui erano scese dal treno. «Sergente, devo recarmi un attimo alla toilette a rinfrescarmi il trucco che ho rovinato divorando quell'ultimo pasticcino prima di quell'orribile tunnel. Vuole accompagnare lei Gillian all'auto?» Barbara fissò Lady Helen, poi Lynley. «Certo», rispose in tono impassibile. Lady Helen attese che le due si fossero allontanate prima di riprendere a parlare. «Davvero non so quale delle due sia più pesante da sopportare,
Tommy.» «Grazie per ieri sera», mormorò lui in risposta. «È stato così terribile per te?» Lei lo guardò dritto negli occhi. «Terribile? La tremenda desolazione sul viso di Jonah Clarence; la vista di Gillian con lo sguardo perso, coperta a malapena da un lenzuolo insanguinato, le ferite da cui ancora sgorgava siero; il sangue sul pavimento e sulle pareti del bagno e nelle crepe dei muri da dove non sembrava mai venir via; la porta staccata dai cardini e le spazzole con le loro orribili setole di metallo cui erano ancora attaccati brandelli di pelle.» «Mi spiace di averti coinvolta in questa storia», sospirò lui, «ma eri l'unica di cui potessi fidarmi. Non so che cosa avrei fatto se non ti avessi trovato a casa.» «Ero appena rientrata. Devo ammettere che Jeffrey non è stato molto contento per come è finita la nostra serata.» Lynley la fissò con un sorrisetto, tra il divertito e il sorpreso. «Jeffrey Cusick? Pensavo che te ne fossi liberata.» Lei rise e lo prese sottobraccio. «Ci ho provato, caro Tommy, davvero. Ma Jeffrey è ben deciso a dimostrare che, me ne renda conto o no, lui e io siamo avviati sul viale del vero amore e ieri sera stava tentando di fare passi avanti in quella direzione. E stata una serata davvero romantica: cena a Windsor sulle rive del Tamigi e cocktail champagne nei giardini della Old House. Saresti stato orgoglioso di me. Sono persino riuscita a ricordare che è stata costruita da Wren. Vedi, tutti gli anni che hai passato a cercare di istruirmi non sono andati sprecati.» «Ma non avrei mai pensato che li avresti gettati via con Jeffrey Cusick.» «Non li ho affatto gettati via. È un uomo delizioso, sul serio. E poi mi è stato fin troppo d'aiuto con il mio abbigliamento.» «Non ne dubito», ribatté Lynley in tono secco e lei rise nel vederlo così cupo. «Non nel senso che intendi tu, Jeffrey non ne approfitterebbe mai. È troppo... troppo...» «Un pesce lesso?» «Sì, per dirla in termini squisitamente oxfordiani, Tommy», riconobbe lei. «Ma se devo essere del tutto sincera, non è affatto un pesce lesso, è proprio un tonno. In vita mia non ho mai visto uno di Cambridge preso nel vortice della passione.» «Quando ho telefonato indossava la cravatta del college?» volle sapere
Lynley. «O, dovrei dire, indossava almeno qualcosa?» «Tommy, che malalingua! Ma lascia che ci pensi.» Lady Helen assunse un'espressione pensosa, come se stesse meditando seriamente sulla domanda. «No, temo che fossimo tutti e due completamente vestiti quando hai chiamato. E dopo, be'... non abbiamo proprio avuto tempo. Abbiamo frugato in tutta fretta nel mio armadio alla ricerca di qualcosa che andasse bene. Che te ne pare? Sono riuscita nell'intento?» Lynley osservò il magnifico completo nero che indossava. «Sembri una quacchera.» Poi notò il volume che teneva in mano. «Buon Dio, è davvero una Bibbia?» Lei rise. «Funziona, non ti pare? A dire il vero, è un'edizione di John Donne, regalatami dal mio caro nonno per il mio diciassettesimo compleanno. Forse un giorno o l'altro finirò per aprirla.» «E che cosa avresti fatto se ti avesse chiesto di leggerle qualche verso per aiutarla a superare la notte?» «So assumere un'aria perfettamente biblica, quando voglio, Tommy. Qualche parola giusta qua e là e... Che cosa c'è?» L'aveva sentito irrigidirsi alle sue parole. Lynley stava guardando la sua macchina parcheggiata davanti alla stazione. «Dov'è il marito?» «Non lo so. È svanito. Io sono corsa subito in camera di Gillian per vedere come stava e più tardi, quando ne sono uscita, era sparito. Naturalmente ho trascorso lì tutta la notte e lui non si è più fatto vedere.» «Come ha reagito Gillian?» «Io...» Lady Helen cercò il modo migliore per rispondere. «Tommy, non sono nemmeno sicura che si renda conto che lui se n'è andato. So che ti sembrerà un po' strano, ma credo che abbia cessato di esistere per lei. Non l'ha nominato neanche una volta.» «Ma ti ha detto qualcosa?» «Solo che ha lasciato qualcosa per Bobby.» «Senza dubbio si riferisce al messaggio sul giornale.» Lei scosse la testa. «No. Ho la netta sensazione che si tratti di qualcosa che era in casa.» Lynley annuì pensoso e le fece un'ultima domanda. «Come hai fatto a convincerla a venire, Helen?» «Non ho dovuto fare niente. Aveva già deciso e ritengo che il merito sia del sergente Havers, Tommy, anche se dal modo in cui si è comportata penso che creda che io abbia fatto qualche opera di magia a casa dei Cla-
rence. Le parlerai tu, me lo prometti? Da quando l'ho chiamata stamattina ha parlato solo a monosillabi; credo che si senta in colpa per tutto quello che è successo.» Lui sospirò. «Tipico di Havers. Cristo, ci mancava solo questa in 'sto maledettissimo caso.» Lady Helen lo osservò in tralice. Succedeva molto di rado che lui desse sfogo così apertamente alla frustrazione. «Tommy», mormorò, esitante, «mentre eri a Keldale, per caso... tu...» Non voleva dirlo. Non voleva parlarne. «Scusami, vecchia mia», sorrise lui, mettendole un braccio intorno alle spalle. «Non ti ho ancora detto quanto mi fa piacere averti qui?» Non le aveva nemmeno rivolto la parola; si era limitato a salutarla con un cenno del capo. Ma poi, perché mai avrebbe dovuto parlarle? Ora che «sua signoria» era lì, loro due non avevano nessuna ragione per parlarsi. Avrebbe dovuto capire che Lynley si sarebbe servito di una delle sue amanti invece che degli uomini di Scotland Yard. Era proprio da lui. Un ego così enorme da voler vedere le sue donne scattare ai suoi ordini anche se lui se la spassava in campagna. Chissà se sua signoria sarebbe scattata a quel modo anche dopo aver saputo di Stepha, si chiese Barbara. Guarda che carnagione perfetta, che portamento perfetto, che educazione perfetta... come se i suoi antenati avessero trascorso gli ultimi duecento anni a eliminare gli scarti, abbandonandoli sulle colline come inaccettabili piccoli spartani per arrivare a quel capolavoro che era Lady Helen Clyde. Ma non è bastato perché lui ti fosse fedele, cara mia. Barbara sorrise tra sé. Dal sedile posteriore, non vista, sbirciò Lynley. Scommetto che hai avuto un'altra notte di fuoco con la piccola Stepha. Non c'erano dubbi. Dal momento che non doveva preoccuparsi dei gemiti della donna, sicuramente dovevano avere fatto follie fino all'alba. E ora ecco lì sua signoria per la notte prossima. Be', ce l'avrebbe sicuramente fatta; non avrebbe fatto brutte figure, lui. E poi avrebbe potuto passare direttamente a Gillian. Senza dubbio quel suo maritino anemico sarebbe stato fin troppo felice di cedere le redini a un vero uomo. E guarda un po' come quei due stavano trattando quella puttanella! Certo sua signoria non conosceva tutti i particolari su Gillian Teys, ma Lynley che scuse aveva? Da quando in qua il complice di un omicidio viene trattato con i guanti bianchi dalla polizia? «Scoprirai che Roberta è molto cambiata, Gillian», stava dicendo l'ispet-
tore. Barbara lo ascoltò incredula. Che cosa stava facendo? Di che cosa stava parlando? La stava preparando a incontrare la sorella quando sapevano benissimo tutti e due che si erano incontrate solo tre settimane prima per uccidere William Teys? «Capisco», rispose Gillian con un filo di voce. «È stata rinchiusa in manicomio temporaneamente», continuò Lynley in tono gentile. «Perché ha ammesso di avere compiuto il crimine e poi non ha più voluto aggiungere altro.» «Come... chi...?» Gillian esitò, poi rinunciò a porre la domanda, rannicchiandosi sul sedile. «È stato tuo cugino Richard Gibson a farla ricoverare.» «Richard?» La sua voce parve giungere da lontanissimo. «Sì.» «Capisco.» Nessuno parlava. Barbara attendeva con impazienza che Lynley cominciasse a interrogare la ragazza e non riusciva a capire perché lui fosse così riluttante a farlo. Che cosa aveva in mente? Quello era il genere di conversazione che di solito si tiene con la vittima di un crimine, non con il colpevole! Barbara studiò furtivamente Gillian. Buon Dio, se era furba. Qualche minuto nel bagno la sera prima e li aveva avuti tutti in pugno. Da quanto tempo si preparava a quella sceneggiata? Il suo sguardo tornò a posarsi su Lynley. Perché l'aveva fatta tornare in servizio? Il motivo poteva essere uno solo: metterla al suo posto una volta per tutte, umiliarla facendole riconoscere che anche una dilettante come la sua dolce signoria era più in gamba di lei. E poi condannarla, in eterno, al servizio di pattuglia. Be', messaggio ricevuto, ispettore. Ora non desiderava altro che tornare a Londra e al servizio di pattuglia, lasciando Lynley e sua signoria a rimettere in ordine le carte che lei aveva così confusamente mescolato. Portava i capelli raccolti in due lunghe trecce bionde; ecco perché aveva un'aria così giovane quella sera a Testament House. Non parlava con nessuno, limitandosi a guardare in giro sospettosa prima di decidere se poteva fidarsi di loro. Una volta presa la decisione, aveva detto solo il suo nome: Helen Graham, Nell Graham. Ma lui non aveva forse capito fin dal primo momento che non era il suo
vero nome? Forse a tradirla era stata l'impercettibile esitazione prima di rispondere quando qualcuno la chiamava; forse lo sguardo malinconico quando era lei stessa a pronunciarlo; forse le lacrime che le avevano rigato le guance la prima volta che lui l'aveva posseduta e aveva sussurrato «Nell» nel buio. Comunque, nel profondo del suo cuore, non aveva sempre saputo che quello non era il suo nome? Che cosa lo aveva attratto in lei? Dapprima era stata l'innocenza di bambina con cui aveva affrontato la vita a Testament House. Era stata così ansiosa di imparare e poi così appassionatamente coinvolta nell'opera della comunità. Dopo era stata la sua purezza che lui aveva ammirato, quella purezza che le consentiva di condurre una nuova vita, dimentica delle animosità personali in un mondo in cui aveva semplicemente deciso che tali brutture non dovevano esistere. Poi era stata la sua devozione a Dio... non quel battersi il petto ostentatamente dei convertiti, ma la serena accettazione di un potere più grande del suo, a colpirlo. E infine era stata l'incrollabile fiducia nella sua capacità di arrivare dove voleva, le parole d'incoraggiamento che gli aveva rivolto quando lui si era sentito disperato, l'instancabile amore che gli aveva dimostrato quando più ne aveva avuto bisogno. Come ora, pensò Jonah Clarence. Nelle ultime dodici ore aveva riesaminato a fondo e senza pietà il proprio comportamento e aveva finito per vederlo per quello che era stato: una continua codardia. Aveva abbandonato sua moglie e la sua casa, scappando verso luoghi sconosciuti, fuggendo per non dovere affrontare quello che aveva paura di sapere. Eppure che cosa temere quando Nell, chiunque fosse, non poteva essere né più né meno che la deliziosa creatura che gli era stata al fianco, che aveva ascoltato, rapita, le sue parole e che lo aveva stretto tra le braccia la notte? Nel suo passato non potevano esserci mostri neri che lui doveva temere; ci poteva essere solo quello che lei era ed era sempre stata. Quella era la verità e lui lo sapeva, lo sentiva, ci credeva. E quando il portone del manicomio si aprì, si alzò e attraversò il grande atrio per andare incontro alla moglie. Lynley intuì l'esitazione in Gillian nel momento stesso in cui misero piede in manicomio. Dapprima l'attribuì alla comprensibile ansia all'idea di rivedere la sorella dopo tanti anni, ma poi si accorse che il suo sguardo era fisso su un giovane che stava andando loro incontro. Incuriosito, si voltò verso Gillian e si sorprese di vederle dipinta sul viso un'espressione di pa-
nico. «Jonah», gemette lei, arretrando di un passo. «Scusami.» Jonah Clarence tese una mano per sfiorarle il viso, poi si bloccò. «Perdonami. Scusami, Nell.» Aveva gli occhi arrossati, come se non dormisse da giorni. «Non devi chiamarmi così. Non più.» Lui ignorò quelle parole. «Ho passato la notte seduto su una panchina a King's Cross, cercando di capire, cercando di decidere se potevi ancora amare un uomo che era stato troppo codardo per restare con la moglie nel momento in cui aveva più bisogno di lui.» Lei tese una mano a sfiorargli il braccio. «Oh, Jonah, ti prego. Torna a Londra.» «Non chiedermelo. Sarebbe troppo facile.» «Ti prego. Ti prego, fallo per me.» «Non senza di te. Non me ne vado. Qualunque cosa tu ti senta di dover fare qui, io sarò al tuo fianco.» Si rivolse a Lynley. «Posso restare con mia moglie?» «Sta a Gillian decidere», rispose l'ispettore, e vide che l'altro rabbrividiva a sentirla chiamare con quel nome. «Se vuoi restare, Jonah», sussurrò la ragazza. Lui le sorrise, le sfiorò dolcemente una guancia e distolse lo sguardo dal suo viso solo nel momento in cui si udirono i passi del dottor Samuels che si avvicinava. Teneva in mano un fascio di cartelle che tese a una collega prima di raggiungerli. Li guardò a uno a uno, senza sorridere e senza lasciar trapelare neppure l'ombra di compiacimento all'apparizione della sorella di Roberta Teys e alla possibilità che la sua presenza portasse dei miglioramenti nella paziente. «Ispettore», salutò. «È assolutamente necessario che ci sia tanta gente?» «Sì», ribatté LynJey, sperando in cuor suo che lo psichiatra desse un'occhiata allo stato di Gillian prima di impuntarsi e sbatterli tutti fuori. Una vena pulsava sulla tempia del medico. Era chiaro che non era abituato a fare tanti complimenti e che era diviso tra il desiderio di prendersela con Lynley e il dar vita al programmato incontro tra le due sorelle. Ebbe la meglio la preoccupazione per Roberta. «E questa la sorella?» Senza attendere risposta, prese Gillian sottobraccio e le rivolse tutta la sua attenzione, incamminandosi con lei verso la sezione reclusi. «Ho detto a Roberta che sarebbe venuta a trovarla», spiegò a
bassa voce, la testa abbassata verso di lei, «ma deve essere preparata alla possibilità che non risponda nemmeno a lei. Temo che andrà proprio così.» «Ha...» Gillian esitò, incerta su come proseguire. «Non ha ancora detto niente?» «Assolutamente niente, ma siamo ai primissimi stadi della terapia, signorina Teys, e...» «Signora Clarence», interloquì Jonah in tono secco. Lo psichiatra si bloccò e si voltò verso Jonah. Tra loro corse uno sguardo carico di sospetto e antipatia. «Signora Clarence», si corresse Samuels, senza staccare lo sguardo dal marito della ragazza. «Come le stavo dicendo, signora Clarence, siamo ai primissimi stadi della terapia. Non c'è comunque ragione di dubitare che un giorno o l'altro sua sorella si riprenda del tutto.» A Gillian non sfuggì il sottinteso di quella frase. «Un giorno o l'altro?» ripeté, stringendosi nelle spalle, in un gesto tipico della madre. Lo psichiatra parve soppesare la sua reazione, una reazione che gli disse molto di più di quello che la ragazza gli aveva volutamente comunicato. «Sì, Roberta è molto malata.» La riprese sottobraccio e proseguirono lungo il corridoio. Avanzarono in silenzio; si udivano solo i loro passi e di tanto in tanto il grido soffocato di un paziente al di là di una porta chiusa. Verso la fine del corridoio si fermarono davanti a una porticina che Samuels aprì. Quando accese la luce, si trovarono davanti a una stanza piccolissima dove il medico li fece entrare. «Starete un po' stretti qui dentro», li avvertì, con il tono di non esserne affatto dispiaciuto. Era un locale minuscolo, poco più grande di uno sgabuzzino, cosa che probabilmente un tempo era stato. Una parete era completamente occupata da un grande specchio con a fianco due amplificatori e al centro della stanza c'erano un tavolo e delle sedie. Era un locale che dava la claustrofobia, saturo del pungente odore di cera da pavimenti e disinfettante. «Nessun problema», replicò Lynley, e l'altro annuì. «Quando entrerò con Roberta, spegnerò le luci e voi potrete vedere all'interno della stanza accanto attraverso il finto specchio. Gli amplificatori vi permetteranno di sentire quello che viene detto. Roberta vedrà solo lo specchio, ma l'ho avvertita che siete presenti al di qua. Se non l'avessi fatto, non ci sarebbe stato modo di farla entrare lì dentro.» «Sì, certo.»
«Bene.» Li fissò cupo, intuendo la loro agitazione, e fu soddisfatto nel notare che anche loro, come lui, non si aspettavano certo un incontro facile. «Io sarò nella stanza accanto con Gillian e Roberta.» «È proprio necessario?» chiese Gillian con voce esitante. «Viste le circostanze, sì, temo di sì.» «Le circostanze?» «L'assassinio, signora Clarence.» Lo sguardo di Samuels passò dall'uno all'altro per un'ultima volta, poi lo psichiatra s'infilò le mani in tasca, fissando Lynley. «Dobbiamo chiarire gli aspetti legali?» chiese brusco. «Non è necessario», rispose l'ispettore. «Li conosco bene.» «Sa che niente di quello che dice...» «Lo so.» «Allora vado a prenderla.» Samuels girò sui tacchi, spense le luci e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. La luce della stanza accanto attraversava in parte lo specchio, dando al locale un certo chiarore, ma lì parevano esserci solo ombre. Sedettero sulle dure sedie di legno e attesero: Gillian con le gambe stese davanti a sé, fissandosi il dorso delle mani graffiate; Jonah, al suo fianco, che le circondava le spalle con un braccio; il sergente Havers meditabonda nell'angolo più buio della stanza; Lady Helen vicino a Lynley, intenta a osservare il silenzioso legame che c'era tra moglie e marito; e Lynley, immerso profondamente nei propri pensieri, da cui riemerse solo quando lei gli strinse una mano. Che Dio la benedica, pensò, rispondendo a quella stretta. Capiva. Capiva sempre. Le sorrise, contento che fosse lì con lui con la sua razionalità in un mondo che ben presto avrebbe perso ogni lume della ragione. Roberta non era molto diversa dall'ultima volta che l'avevano vista. Entrò nella stanza accompagnata da due infermiere con il camice bianco; indossava gli stessi abiti della volta precedente: la gonna troppo corta, la camicia stretta, le ciabatte decisamente troppo piccole. In previsione dell'incontro, però, questa volta le avevano fatto il bagno e i folti capelli erano puliti e ancora umidi, raccolti in una coda di cavallo da un nastro rosso, un'incongrua nota di colore in quella stanza, per altri versi monocromatica. Era un locale tutto bianco e spoglio, senza decorazioni, a eccezione di tre sedie e un mobiletto di metallo. Alle pareti non era appeso nulla; nulla che potesse distrarre, nulla che consentisse di fuggire. «Oh, Bobby», mormorò Gillian nel vedere la sorella al di là del vetro.
La voce del dottor Samuels arrivò loro leggermente distorta attraverso gli altoparlanti. «Nella stanza, come puoi vedere, ci sono tre sedie, Roberta. Tra un attimo andrò a chiedere a tua sorella di unirsi a noi. Ricordi tua sorella Gillian, vero, Roberta?» La ragazza sedette e cominciò a dondolarsi avanti e indietro senza rispondere. Le due infermiere se ne andarono. «Gillian è venuta da Londra. Prima di andare a prenderla, però, voglio che ti guardi intorno e ti abitui a questa stanza. Non ci siamo mai incontrati qui, prima d'ora.» Lo sguardo vuoto della ragazza rimase fisso su un punto della parete che aveva di fronte. Le braccia le pendevano, inanimate, lungo i fianchi, senza vita, enormi ammassi di grasso. Samuels, per nulla turbato dal suo silenzio, restò a osservarla con calma. Trascorsero due interminabili minuti prima che lo psichiatra si alzasse. «Ora vado a prendere Gillian, Roberta. Ci sarò anch'io qui quando vi incontrerete. Sei al sicuro.» Quell'ultima frase parve del tutto superflua perché la ragazza non dava nessun segno di paura, né di provare altri sentimenti. Nella stanza accanto, Gillian si alzò. Lo fece in maniera esitante, innaturale, come spinta da una forza che non aveva niente a che vedere con la sua volontà. «Tesoro, sai che non sei obbligata a entrare là dentro, se hai paura», le disse il marito. Lei non rispose, limitandosi ad accarezzargli la guancia con il dorso rovinato delle mani. Pareva volergli dire addio. «Pronta?» domandò Samuels aprendo la porta. Con occhio esperto squadrò Gillian, per valutare la sua forza e le sue debolezze. Quando la ragazza annuì, il medico aggiunse: «Non c'è nulla di cui preoccuparsi. Io sarò lì con voi e fuori della porta ci saranno degli infermieri pronti a intervenire, se necessario». «Si comporta come se pensasse davvero che Bobby possa far del male a qualcuno», mormorò Gillian, e uscì dalla stanza senza attendere oltre. Gli altri rimasero a guardarla al di là dello specchio, in attesa di una reazione di Roberta quando la porta si aprì e la sorella entrò. Ma non vi fu reazione. Il suo corpo massiccio continuò a dondolare avanti e indietro sulla sedia. Gillian esitò, la mano sulla maniglia. «Bobby», chiamò con voce squillante. Parlava con calma, ma con un certo distacco, come un genitore parla
a un figlio disubbidiente. Non ricevendo risposta, prese una sedia e la sistemò davanti alla sorella, direttamente nel suo campo visivo. Sedette. Lo sguardo di Roberta le passò attraverso. Gillian si voltò verso lo psichiatra, che si era seduto in un angolo, in modo da non essere visto da Roberta. «Che cosa devo...» «Le parli di se stessa. La sente.» Gillian stropicciò tra le mani la gonna e si sforzò di guardare in viso la sorella. «Sono venuta da Londra per vederti, Bobby», esordì. Le tremava la voce, ma a mano a mano che proseguiva, il suo tono si fece più risoluto. «E lì che vivo ora, con mio marito. Mi sono sposata il novembre scorso.» Un'occhiata a Samuels, che annuì in segno d'incoraggiamento. «Ti sembrerà strano, ma ho sposato un ministro anglicano. Difficile credere che una ragazza con un pesante passato di cattolica alle spalle possa sposare un ministro anglicano, non ti pare? Che cosa avrebbe mai detto papà?» Il viso di Roberta non tradì né interesse né sorpresa. Era come se Gillian stesse parlando a un muro. Si passò la punta della lingua sulle labbra secche e proseguì. «Abbiamo un appartamentino a Islington. Non è molto grande, ma ti piacerà. Ricordi quanto amavo le piante? Be', ora ne ho tantissime in casa perché la finestra della cucina riceve tanto sole. Ricordi che alla fattoria non riuscivo mai a farle crescere? Non c'era abbastanza luce.» Roberta continuò a dondolarsi e la sedia scricchiolò sotto il suo peso. «Ho anche un lavoro. In un posto che si chiama Testament House. Lo conosci? È dove a volte si rifugiano i ragazzi che scappano di casa. Mi occupo un po' di tutto lì dentro, ma quello che mi piace di più è aiutare i ragazzi a superare i loro problemi. Dicono che è facile parlare con me.» Una pausa. «Bobby, non vuoi parlare con me?» L'altra aveva il respiro pesante, la testa piegata su un lato. Pareva addormentata. «Mi piace Londra. Non l'avrei mai immaginato, ma mi piace. Credo che sia perché ora i miei sogni sono lì. Io... vorrei avere un figlio. E uno dei miei sogni. E... credo che mi piacerebbe scrivere un libro. Dentro di me ci sono mille storie che vorrei scrivere. Come le Brontë. Ricordi quando le leggevamo? Anche loro avevano dei sogni. Credo che sia importante avere dei sogni.» «Non funzionerà», sbottò Jonah Clarence in tono tagliente. Nel momento stesso in cui la moglie aveva lasciato la stanza si era accorto della trappola, aveva capito che l'incontro con la sorella era un ritorno a un passato in cui lui non aveva avuto nessun ruolo, da cui lui non avrebbe potuto sal-
varla. «Per quanto tempo deve restare lì dentro?» «Quanto vuole», rispose Lynley con calma. «Dipende da Gillian.» «Ma può accadere di tutto. Non se ne rende conto?» Jonah avrebbe voluto scavalcare d'un balzo quella parete che li separava e trascinare via la moglie. Era come se il semplice essere in quella stanza, intrappolata con quell'orribile creatura che sembrava una balena e che era sua sorella, potesse essere sufficiente a contaminarla e distruggerla per sempre. «Nell!» la chiamò con decisione. «Voglio parlarti della notte in cui me ne sono andata, Bobby», continuò Gillian, lo sguardo fisso sul viso della sorella, in attesa di un minimo barlume di comprensione e riconoscimento che le avrebbe permesso di smettere di parlare. «Non so se te ne ricordi. È stata la sera dopo il mio sedicesimo compleanno. Io...» Era troppo, non ci riusciva. Fece fatica a riprendere. «Ho rubato del denaro a papà. Te l'ha mai detto? Sapevo dove lo teneva e me lo sono preso. Un gesto sbagliato, lo so, ma io... dovevo andarmene. Dovevo andare via almeno per un po'. Tu lo sai, non è vero? Non è vero?» ripeté, alla ricerca di un po' di rassicurazione. Roberta stava dondolandosi più in fretta ora, o quel cambiamento era solo frutto dell'immaginazione di chi la stava osservando? «Sono andata a York. Ho impiegato tutta la notte per arrivarci, un po' a piedi, un po' con l'autostop. Avevo con me solo lo zaino, sai, quello in cui mettevo i libri di scuola, e così mi ero portata dietro un solo cambio di vestiti. Non so che cosa avessi in mente, a scappare a quel modo. Ora sembra una follia, no?» Gillian sorrise per un istante alla sorella. Aveva il cuore che le batteva all'impazzata e il respiro le si faceva sempre più affannoso. «Sono arrivata a York all'alba. Non dimenticherò mai la vista della città illuminata dalla tenue luce del mattino. Era meravigliosa. Avrei voluto restare lì per sempre.» S'interruppe, le mani in grembo che mettevano in mostra i profondi tagli. Non c'era niente da fare se non andare avanti. «Ho trascorso tutta la giornata a York. Ero così spaventata, Bobby. Non ero mai stata fuori casa un'intera notte da sola e non ero nemmeno certa di volere arrivare fino a Londra. Mi sono detta mille volte che forse tutto sarebbe stato più facile se fossi tornata alla fattoria, ma... non potevo. Non potevo proprio.» «A che cosa serve tutto questo?» domandò Jonah Clarence. «Come può aiutare Roberta?» Lynley gli lanciò un'occhiata infastidita e lui tornò a sedersi, l'espressione tesa.
«Così la sera stessa ho preso il treno. Ha fatto mille fermate e ogni volta ho temuto che la polizia mi trovasse. Pensavo che papà avesse denunciato la mia scomparsa o che fosse venuto lui stesso a cercarmi. Ma non è accaduto niente finché non sono arrivata alla stazione di King's Cross.» «Non sei tenuta a raccontarle del magnaccia», sussurrò Jonah. «A che serve?» «Lì ho incontrato un signore gentile che mi ha comprato qualcosa da mangiare. Gliene sono stata tanto grata. Mi sono detta che era un vero signore, ma mentre mangiavo e lui mi raccontava di una casa che aveva e in cui io avrei potuto vivere, nel bar è entrato un altro uomo. Quando ci ha visto si è avvicinato e ha detto: 'Lei viene con me'. Ho pensato che fosse un poliziotto che mi avrebbe costretto a tornare a casa e ho cominciato a piangere, stringendomi al mio nuovo amico. Ma lui si è liberato di me ed è scappato via.» Gillian tacque qualche istante, ripensando a quella sera lontana. «Quest'altro uomo era molto diverso. Aveva abiti vecchi, un po' lisi, ma la voce era gentile. Mi ha detto di chiamarsi George Clarence, di essere un ministro di Dio e mi ha spiegato che l'altro uomo voleva portarmi a Soho per... portarmi a Soho», ripeté con voce ferma. «Mi ha detto di avere una casa a Camden Town, dove avrei potuto stare.» Jonah ricordava tutto fin troppo bene: il vecchio zaino consunto, la ragazzina spaventata, le scarpe sporche e i pantaloni lisi che indossava. Ricordava l'arrivo del padre e la conversazione che c'era stata tra lui e la moglie. Le parole: «Magnaccia di Soho... non ha nemmeno capito... sembra che non abbia chiuso occhio...» riecheggiavano nella sua mente. Ricordava di averla osservata a colazione, mentre a testa bassa mangiava uova strapazzate. Non guardava in faccia nessuno. Non ancora. «Il signor Clarence è stato molto buono con me, Bobby. Come se fossi parte della sua famiglia. Io... ho sposato suo figlio Jonah. Ti piacerà Jonah. E così dolce e così buono. Quando sono con lui so che niente potrà mai... mai più», concluse. Ora basta. Aveva fatto quello che poteva. Non le restava altro. Si girò verso lo psichiatra in attesa che le facesse cenno di andarsene, ma lui si limitò a osservarla da dietro gli occhiali. Le lenti brillavano alla luce artificiale della stanza. Il suo viso non tradiva emozioni, ma lo sguardo era molto tenero. «Ecco. Tutto qui. Non è servito a niente», commentò Jonah con decisione nella stanza accanto. «L'avete portata fin qui per niente. Ora la riporto a casa.» E fece per alzarsi.
«Si sieda», ordinò Lynley in un tono che non ammetteva repliche. «Bobby, parlami», la implorò Gillian. «Hanno detto che hai ucciso papà, ma so che non può essere. Non sembri... non ce n'era motivo. Io lo so. Dimmi che non c'era nessun motivo per farlo. Ci portava in chiesa, ci leggeva la Bibbia, ci faceva giocare. Bobby, tu non l'hai ucciso, vero?» «Per te è importante che io non l'abbia ucciso, non è così?» mormorò il dottor Samuels a bassa voce. Quelle parole restarono librate nell'aria come una piuma leggera. «Sì», rispose Gillian senza esitazione, lo sguardo fisso sulla sorella. «Ti ho messo la chiave sotto il cuscino, Bobby. Eri sveglia! Ti ho parlato! Ti ho detto: 'Usala domani', e tu hai capito. Non dirmi che non hai capito. So che hai capito.» «Ero troppo giovane e non ho capito», rispose il dottore. «Devi aver capito! Ti ho detto che avrei messo un messaggio sul Guardian che avrebbe parlato di Nell Graham, ricordi? Adoravamo quel libro. Era una donna così coraggiosa e forte. Proprio come volevamo essere noi.» «Ma io non ero forte», dichiarò il medico. «Sì che lo eri! Non sembravi... avresti dovuto venire a Harrogate! Il messaggio ti diceva di venire a Harrogate, Bobby! Avevi sedici anni. Avresti potuto venire!» «Io non ero come te a sedici anni, Gillian. Non avrei mai potuto esserlo.» Lo psichiatra non si era mosso dalla sedia. Il suo sguardo vagava da una sorella all'altra in attesa di un segno, pronto a leggere i messaggi nascosti nei movimenti dei corpi, nella posizione, nel tono della voce. «Non dovevi esserlo per forza! Non dovevi esserlo! Non dovevi fare altro che venire a Harrogate. Non fino a Londra, solo fino a Harrogate. Da lì ti avrei accompagnato io. Ma quando non ti sei fatta vedere, ho pensato... ho creduto... che tutto andasse bene. Che nulla... che tu stessi bene. Tu non eri come la mamma. Tu stavi bene.» «Come la mamma?» «Sì, come la mamma. Io ero come lei, uguale a lei. Lo si vedeva nelle fotografie. Ma tu no e questo deve averti salvato.» «Che cosa intendi per essere come la mamma?» chiese il dottore. Gillian s'irrigidì. Le sue labbra si mossero in rapida successione per tre volte a pronunciare un muto no. Era troppo, non lo sopportava, non poteva andare avanti. «Bobby era come la mamma, malgrado quello che pensavi tu?»
No! «Non rispondergli, Nell», gemette Jonah Clarence. «Non sei obbligata a farlo. Non sei tu la paziente.» Gillian si guardò le mani e si sentì schiacciata dal senso di colpa. Lo scricchiolio della sedia su cui la sorella continuava a dondolarsi riempiva il silenzio insieme con il suo respiro affannoso, con il battito del suo cuore. Sapeva di non poter andare avanti. Sapeva di non poter tornare indietro. «Tu lo sai perché me ne sono andata, vero?» mormorò a bassa voce. «È stato per il regalo del mio compleanno, quel regalo particolare, quello che...» Con una mano tremante si coprì gli occhi e faticò a ritrovare il controllo. «Devi raccontare la verità! Racconta che cos'è successo! Non lasciare che t'ingabbino per il resto della tua vita!» Silenzio. Non ce la faceva. Era tutto nel passato, tutto era accaduto a qualcun altro. La bambina di otto anni che l'aveva seguita dovunque alla fattoria, che aveva osservato ogni suo movimento con occhi pieni di adorazione, era morta. Quella creatura grassa e orribile che aveva davanti non era Roberta. Non c'era bisogno di andare avanti. Roberta non c'era più. Gillian sollevò la testa. Lo sguardo di Roberta si era spostato. Adesso era fisso su di lei e da quel cambiamento Gillian capì di essere riuscita a penetrare quel muro che lo psichiatra non era riuscito a infrangere nelle ultime tre settimane. Ma in quella consapevolezza non c'era nessun sentimento di trionfo, solo di condanna. Non restava che affrontare, per l'ultima volta, l'immutabile passato. «Io non capivo», riprese Gillian con voce rotta. «Avevo solo quattro o cinque anni. Tu non eri ancora nata, allora. Mi ha detto che era qualcosa di speciale, un'amicizia particolare che i padri hanno sempre con le figlie. Come Lot.» «Oh, no», sussurrò Jonah. «Leggeva anche a te la Bibbia, Bobby? A me la leggeva. Veniva in camera mia la sera e sedeva sul letto per leggermi la Bibbia. E mentre leggeva...» «No, no, no!» «... la sua mano s'infilava sotto le coperte. 'Ti piace così, Gilly?' mi chiedeva. 'Ti fa felice? Fa molto felice papà. È così bello, così dolce. Ti piace, Gilly?'» Jonah si batté una mano chiusa a pugno contro la fronte. «Vi prego», gemette. «Io non sapevo, Bobby, non capivo. Avevo solo cinque anni e nella
stanza era buio. 'Girati', mi diceva. 'Papà ti massaggia la schiena. Ti piace? Dove ti piace di più? Qui, Gilly? Qui è speciale, vero?' E poi mi prendeva la mano. 'A papà piace qui, Gilly. Accarezza papà qui.'» «Dov'era la mamma?» domandò il medico. «La mamma dormiva. O era in camera sua. O leggeva. Ma non aveva importanza perché quella era una cosa speciale. Era qualcosa che i papà condividono con le figlie. La mamma non doveva sapere, non avrebbe capito. Lei non leggeva la Bibbia con noi, perciò non avrebbe mai capito. E poi se n'è andata. Io avevo otto anni.» «E tu sei rimasta sola.» Gillian scosse la testa, persa nel passato. Aveva lo sguardo fisso, gli occhi spalancati, senza più lacrime. «Oh, no», rispose con voce spezzata, «io sono diventata la mamma.» A quelle parole, Jonah Clarence si lasciò sfuggire un grido di dolore. Lady Helen si voltò verso Lynley e gli strinse forte la mano e lui rispose immediatamente a quella stretta. «Papà ha messo ovunque le sue foto in soggiorno perché io potessi vederla. 'La mamma se n'è andata', mi diceva, e me le faceva guardare a una a una perché mi rendessi conto di com'era stata carina e di come io avessi peccato spingendola ad andarsene perché ero nata io. 'La mamma sapeva quanto bene ti vuole papà, Gilly, così se n'è andata. Ora devi essere tu la mamma per me.' Non capivo che cosa volesse dire, perciò lui me l'ha mostrato. Mi ha letto la Bibbia. Ha pregato. E me l'ha mostrato. Io ero troppo piccola per essere una vera e propria mamma per lui, così... ho fatto altre cose. Mi ha insegnato lui. E... apprendevo bene.» «Volevi compiacerlo. Era tuo padre. Era tutto quello che avevi.» «Volevo che mi amasse. Diceva di amarmi quando io... quando... 'A papà piace nella tua bocca, Gilly.' E poi pregavamo, pregavamo sempre. Pensavo che Dio mi avrebbe perdonato per aver fatto scappare la mamma se fossi diventata una mamma abbastanza brava per il papà, ma Dio non mi ha mai perdonato. Dio non esisteva.» Jonah chinò la testa e cominciò a piangere. Gillian tornò a fissare in viso la sorella. Lo sguardo di Roberta era su di lei, privo di espressione. Aveva smesso di dondolarsi avanti e indietro. «Così, Bobby, ho fatto cose che nemmeno capivo, perché la mamma se n'era andata e io avevo bisogno... rivolevo la mia mamma. Pensavo che l'unico modo per riaverla fosse di essere come lei.» «È stato questo che è accaduto quando hai compiuto sedici anni?» chiese
il dottor Samuels con affetto. «Papà è venuto in camera mia. Era tardi. Mi ha detto che era giunto il momento di diventare la figlia di Lot, fino in fondo, come diceva la Bibbia, e si è spogliato.» «Non l'aveva mai fatto prima?» «Mai completamente. Non a quel modo. Ho pensato che volesse... quello che io di solito... ma non fu così. Mi... mi ha spalancato le gambe e... 'Sei... non respiro, papà. Sei troppo pesante. Per favore, no. Ho paura. Mi fa male, mi fa male!'» Il marito si alzò in piedi barcollando, spinse indietro la sedia e con passo malfermo si avvicinò alla finestra. «Non è vero!» gemette. «Non è possibile! Non è vero! Sei mia moglie!» «Ma lui mi ha messo una mano sulla bocca. 'Non vorrai svegliare Bobby, cara. Papà vuole più bene a te. Lascia che papà ti mostri che cosa devi fare, Gilly. Lascia che papà venga dentro. Come la mamma, come una vera mamma. Lascia fare a papà.' E faceva male. Faceva male. E io l'ho odiato.» «No!» Quel grido gli si spense in gola e Jonah corse fuori della stanza sbattendo la porta. Poi Gillian cominciò a piangere. «Non ero altro che un guscio, non ero una persona. Che importanza aveva quello che mi aveva fatto? Divenni quello che voleva lui, quello che volevano tutti. Ecco come ho vissuto. Jonah, è così che ho vissuto!» «Compiacendo tutti?» domandò il medico. «Alla gente piace guardarsi allo specchio e io non ero altro che uno specchio per loro. Era lui che mi aveva fatto diventare così. Mio Dio, come lo odiavo. Lo odiavo!» Nascose il viso fra le mani e pianse, schiacciata dal dolore, dando sfogo a quelle lacrime trattenute per undici lunghi anni. Gli altri rimasero immobili ad ascoltare il suo pianto. Dopo lunghi minuti dolorosi, Gillian sollevò il viso a guardare ancora una volta la sorella. «Non lasciare che ti uccida, Bobby. Non permetterglielo. Per l'amor del cielo, di' la verità!» Non ci fu nessuna reazione, assolutamente nulla; solo un'insopportabile eco del tormento personale di Gillian. Roberta era immobile. Pareva sorda. «Tommy», sussurrò Lady Helen, «non lo sopporto. Tutto questo per niente.» Lynley osservò la scena nella stanza accanto. Gli pulsava la testa, un nodo gli serrava la gola, gli occhi gli bruciavano. Avrebbe voluto trovare
William Teys, vivo, e farlo a pezzi. Non aveva mai provato una rabbia così violenta, un odio così profondo. Era come se la sofferenza di Gillian si fosse impadronita di lui. La ragazza ormai aveva smesso di piangere e si stava alzando in piedi. Con passo incerto, si avvicinò alla porta, la mano tesa verso la maniglia. La abbassò e aprì la porta. La sua presenza lì, dopotutto, era stata inutile. Era tutto finito. «Ha fatto fare anche a te la parata nuda, Gilly?» le chiese Roberta. 16 Nell'udire la voce roca della sorella, Gillian si voltò lentamente, come inebetita. «Raccontami», sussurrò, e tornò a sedersi di fronte a lei. Gli occhi di Roberta, nascosti dietro le palpebre grasse, erano fissi su di lei, ma pareva non vederla. Le labbra le tremavano e le dita di una mano continuavano ad aprirsi e chiudersi. «C'era musica. A tutto volume. Lui mi spogliava.» Il suo tono cambiò e si fece suadente e persuasivo. «Bella bambina. Bella bambina, è ora di marciare, bella bambina. Ora di marciare per papà. E lui... ce l'aveva in mano... Guarda che cosa fa papà mentre tu marci, bella bambina.» «Ti ho lasciato la chiave, Bobby», ripeté Gillian con voce rotta. «Quando lui quella sera si è addormentato nel mio letto, io sono entrata in camera sua e ho trovato la chiave. Che cosa ne è stato? L'ho lasciata per te.» Roberta cercò di ricordare quel particolare sepolto tra i terrori della sua infanzia. «Io non... non sapevo. Ho chiuso a chiave la porta, ma tu non mi avevi mai detto perché. Non mi hai mai detto di tenere la chiave con me.» «Oh, mio Dio.» La voce di Gillian tradiva tutta la sua angoscia. «Vuoi dire che di notte chiudevi a chiave la porta ma che di giorno la lasciavi nella serratura? Bobby, è questo che intendi?» Roberta si nascose il viso con un braccio, in cerca di protezione, e annuì. Un singhiozzo trattenuto le sfuggì dalle labbra. «Io non lo sapevo.» «E così lui l'ha trovata e te l'ha portata via.» «L'ha messa nel suo armadio insieme con tutte le altre. Lo teneva chiuso a chiave e io non potevo riprenderla. Non hai bisogno di chiavi, bella bambina. Bella bambina, marcia per papà.» «Quando marciavi?» «Di giorno, di notte. Vieni qui, bella bambina, papà vuole aiutarti a marciare.»
«Come?» Roberta lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. «Bobby, dimmelo», insistette Gillian. «Dimmi che cosa ti ha fatto.» «Voglio bene a papà, voglio bene a papà.» «Non dirlo!» Gillian l'afferrò per un braccio. «Dimmi che cosa ti ha fatto!» «Lo amo. Amo papà.» «Non dirlo! Lui era cattivo!» Roberta rabbrividì a quelle parole. «No. Io ero cattiva.» «Come?» «Quello che gli facevo... lui non poteva evitarlo... pregava e pregava e non poteva evitarlo... tu non c'eri... Gilly sapeva che cosa volevo. Gilly sapeva come fare. Tu non sei brava, bella bambina. Marcia per papà. Marcia su papà.» «'Marcia su papà'?» gemette Gillian. «Su e giù, su e giù. È bello così, bella bambina. Papà è grosso tra le tue gambe.» «Bobby. Bobby.» Gillian distolse lo sguardo. «Quanti anni avevi?» «Otto. Mmm, a papà piace così. Gli piace e gli piace.» «Non l'hai detto a nessuno? Non lo sapeva nessuno?» «La signorina Fitzalan. Gliel'ho detto, ma lei... non poteva...» «Non ha fatto niente? Non ti ha aiutato?» «Non ha capito. Le ho parlato dei baffi... dei peli della barba quando il suo viso grattava contro di me, ma non ha capito. Ne hai parlato in giro, bella bambina? Hai cercato di tradire il papà?» «Oh, mio Dio, lei gliene ha parlato?» «Gilly non ha mai parlato. Gilly non ha mai tradito il papà. Molto male, bella bambina. Papà deve punirti.» «Come?» Roberta non rispose. Riprese invece a dondolarsi avanti e indietro, a rinchiudersi nuovamente in se stessa. «Avevi solo otto anni!» cominciò a piangere Gillian. «Bobby, mi dispiace! Non lo sapevo! Non credevo che l'avrebbe fatto. Tu non eri come me. Non eri come la mamma.» «Ha fatto male a Bobby in quel brutto posto. Non come a Gilly. Non come a Gilly.» «Non come a Gilly?» «Girati, bella bambina. Papà deve punirti.»
«Oh, mio Dio!» Gillian cadde in ginocchio e prese la sorella tra le braccia. Il suo corpo era scosso dai singhiozzi, ma l'altra non reagì. Teneva le braccia molli lungo i fianchi e tutto il suo corpo era teso, come se la vicinanza con la sorella la spaventasse o la disgustasse. «Perché non sei venuta a Harrogate? Non hai visto il messaggio? Perché non sei venuta? Pensavo che tu stessi bene! Pensavo che ti avesse lasciato in pace! Perché non sei venuta?» «Bobby è morta. Bobby è morta.» «Non dire così! Sei viva. Non lasciare che ora lui ti uccida!» Roberta si scosse all'improvviso, liberandosi di scatto dall'abbraccio di Gillian. «Papà non ha mai ucciso, papà non ha mai ucciso, papà non ha mai ucciso!» continuò a ripetere, la voce rotta dal panico. Lo psichiatra si sporse in avanti sulla sedia. «Ucciso che cosa, Roberta?» chiese deciso, senza lasciarsi sfuggire l'occasione. «Che cosa papà non ha mai ucciso?» «Il bambino. Papà non ha ucciso il bambino.» «E che cos'ha fatto?» «Mi ha trovato nel granaio. Ha pianto e pregato e pianto.» «E stato lì che hai avuto il bambino? Nel granaio?» «Nessuno sapeva. Grassa e brutta. Nessuno sapeva.» Gillian era paralizzata dall'orrore, lo sguardo fìsso sul viso del medico. Barcollò portandosi una mano alla bocca e si morse le dita per impedirsi di urlare. «Eri incinta? Bobby! E lui non lo sapeva?» «Nessuno sapeva. Non come Gilly. Grassa e brutta. Nessuno sapeva.» «Che ne è stato del bambino?» «Bobby è morta.» «Che ne è stato del bambino?» «Bobby è morta.» «Che ne è stato del bambino!» urlò Gillian. «Hai ucciso tu il bambino, Roberta?» domandò il dottor Samuels. Niente. Roberta ricominciò a dondolarsi sulla sedia: un movimento sempre più rapido, come se stesse tornando a rinchiudersi nella pazzia. Gillian la guardò e vide il panico che la schiacciava, la psicosi che la proteggeva. E capì. «Papà ha ucciso il bambino», mormorò a bassa voce. «Ti ha trovato nel granaio, ha pianto e pregato, ha letto la Bibbia alla ricerca di una guida e poi ha ucciso il bambino.» Con una mano sfiorò i capelli della sorella. «È così che è andata?» «Non lo so.»
«L'hai mai visto?» «Non ho mai visto il bambino. Maschio o femmina. Non lo so.» «È per questo che non sei venuta a Harrogate? Eri incinta allora?» Roberta smise di dondolarsi. Risposta affermativa. «Bambino morto. Bobby morta. Non importa. A papà dispiace, bella bambina. Papà non ti farà più male. Bella bambina, marcia per papà. Papà non ti farà mai più male.» «Non ha più avuto rapporti completi con te, vero, Roberta?» intervenne il dottor Samuels. «Ma tutto il resto è continuato uguale?» «Bella bambina, marcia per papà.» «Hai marciato per papà, Roberta?» insistette il medico. «Dopo il bambino hai continuato a marciare per lui?» «Ho marciato per papà. Dovevo marciare.» «Perché? Perché dovevi?» La ragazza si guardò intorno con aria furtiva, uno strano sorriso di malcelata soddisfazione che le illuminava il viso. Poi riprese a dondolarsi avanti e indietro. «Papà felice.» «Era importante che papà fosse felice», commentò il dottor Samuels con aria pensierosa. «Sì, sì, molto felice. Papà felice non avrebbe toccato...» S'interruppe e si mise a dondolare ancora più in fretta. «No, Bobby», la implorò Gillian. «Non te ne devi andare proprio ora. Hai marciato per papà perché fosse felice e non toccasse qualcun altro. Chi?» Nella stanza a fianco, in penombra, Lynley capì e fu come essere trafitto da una spada rovente. La verità l'aveva sempre avuta davanti agli occhi. Una ragazzina di nove anni cui veniva letta la Bibbia, il Vecchio Testamento, per insegnarle la lezione delle figlie di Lot. «Bridie!» Quel grido gli sfuggì dalle labbra e finalmente tutto gli fu chiaro. Avrebbe potuto finire lui di raccontare la storia, ma restò invece ad ascoltare il lamento di quell'anima torturata. «Papà voleva Gilly, non una vacca come Roberta.» «Tuo padre voleva una bambina», precisò il dottor Samuels. «Aveva bisogno del corpo di una bambina per eccitarsi. Come quello di Gillian, come quello di tua madre.» «Ha trovato una bambina.» «E che cos'è successo?» Roberta serrò le labbra secche, come per impedirsi di parlare, e una goc-
cia di sangue sgorgò da un taglio. Singhiozzò e le parole parvero uscirle di bocca indipendentemente dalla sua volontà. «Il faraone lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d'oro, e percorse tutto il paese d'Egitto e i fratelli di Giuseppe si recarono a vederlo e lui disse loro che li avrebbe salvati con un grande atto di liberazione.» Gillian le parlò tra le lacrime. «È stata la Bibbia a dirti che cosa fare, proprio come l'aveva sempre detto a papà.» «L'abito della festa. La catena.» «Che cos'è successo?» «L'ho fatto venire nel granaio.» «E come hai fatto?» chiese il dottor Samuels a bassa voce. Roberta ebbe un brivido e gli occhi le si riempirono di lacrime che le rigarono le guance coperte di acne. «Due volte ho provato, ma non è servito. Poi... Baffi», spiegò. «Hai ucciso Baffi per far venire tuo padre nel granaio?» domandò il medico. «Baffi non sapeva. Dato pastiglie di papà. Dormiva. Ho tagliato... tagliato la sua gola. Chiamato papà e papà è corso. Si è inginocchiato vicino a Baffi.» Ancora una volta Roberta ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, sempre più in fretta, cercando di rinchiudersi nel suo isolamento. «Poi, Roberta?» insistette lo psichiatra. «Fai l'ultimo passo. C'è qui Gillian.» Avanti e indietro. Avanti e indietro. Con sempre più forza. Con cieca determinazione. Lo sguardo sul muro. «Amo papà. Amo papà. Non ricordo. Non ricordo.» «Certo che ricordi.» Lo psichiatra aveva un tono calmo, ma deciso. «La Bibbia ti ha detto che cosa fare. Se non avessi agito, tuo padre avrebbe fatto a quella ragazzina tutto quello che aveva fatto per anni a te e a Gillian. L'avrebbe molestata. L'avrebbe sodomizzata. L'avrebbe violentata. Ma tu l'hai fermato, Roberta. Hai salvato quella bambina. Ti sei messa l'abito della festa. Ti sei messa la collana d'oro. Hai ucciso il cane. Hai chiamato tuo padre nel granaio. È arrivato di corsa, non è così? Si è inginocchiato e...» Roberta scattò in piedi rovesciando la sedia, che andò a sbattere contro il mobiletto di metallo. La raccolse immediatamente e, gettandola contro il muro, cominciò a urlare. «Gli ho tagliato la testa! Si è inginocchiato per prendere Baffi e gli ho tagliato la testa! Non m'importa di averlo fatto! Lo volevo morto! Non volevo che toccasse Bridie! Lui voleva farlo. Le leggeva la Bibbia proprio
come aveva fatto con me. Le parlava proprio come aveva fatto con me. Sapevo che l'avrebbe fatto! Ne vedevo i segni! L'ho ucciso! L'ho ucciso e non me ne importa! Non me ne pento! Meritava di morire!» Lasciandosi cadere a terra, nascose il viso tra le mani grasse e pianse. «Ho visto la sua testa sul pavimento e non me n'è importato niente. È arrivato un topo e ha annusato l'odore del sangue. Gli ha mangiato il cervello e a me non importava!» Con un grido strangolato, il sergente Havers scattò in piedi e uscì barcollando dalla stanza. Barbara spalancò la porta della toilette, vacillò fino al lavandino e vomitò. La stanza sembrava girare tutt'intorno a lei. Temette di svenire, ma continuò invece a vomitare. E mentre il suo corpo si contorceva in maniera così dolorosa e spasmodica, capì che si stava liberando della propria disperazione. Aggrappata con mani tremanti al lavandino, continuò a vomitare. Era come se fino a un paio di ore prima non avesse mai visto veramente la vita per quello che era e, trovandosi improvvisamente di fronte a tutto il suo schifo, dovesse liberarsene con quanta più forza poteva. In quella stanza scura e claustrofobica, le voci l'avevano colpita fin nel profondo. Non solo le voci delle sorelle che avevano vissuto quell'incubo, ma le voci del suo stesso passato e dell'incubo che ne restava. Era stato troppo. Non poteva più accettarlo, non poteva più sopportarlo. Non ce la faccio, gemette tra sé. Tony, non ce la faccio più! Dio mi perdoni, ma non ce la faccio! Sentì dei passi alle sue spalle e si sforzò di ritrovare il controllo, ma stava troppo male e si preparò ad accettare l'ulteriore umiliazione di farsi trovare in quello stato dalla sempre perfetta Lady Helen Clyde. Qualcuno dietro di lei fece scorrere l'acqua nel lavandino e poi le passò sul viso un fazzoletto bagnato. «Per favore. No! Se ne vada!» Le veniva ancora da vomitare e, per giunta, scoppiò a piangere. «Non posso! Non ce la faccio! Per favore. Per favore! Mi lasci sola!» Una mano fresca le scostò i capelli dal viso e le sostenne la fronte. «La vita è uno schifo, Barb, e la cosa peggiore è che non migliora», le sussurrò la voce di Lynley. In preda al panico, Barbara si girò di scatto. Negli occhi di Lynley lesse tutta la comprensione e la compassione che gli aveva già visto altre volte:
quando aveva avuto a che fare con Roberta, quando aveva parlato con Bridie, quando aveva interrogato Tessa. E di colpo capì quello che Webberly sapeva che lei avrebbe potuto imparare da Lynley: la fonte della sua forza, al centro della quale sapeva bene esserci un'incredibile umanità. Fu quella sua profonda aria di comprensione che alla fine la fece crollare. «Come hanno potuto?» singhiozzò. «Se è tuo figlio... dovresti amarlo, non farlo soffrire. Non lasciarlo morire. Mai lasciarlo morire! Ed è questo che hanno fatto!» La sua voce crebbe isterica e lui continuò a guardarla senza parlare. «Li odio... non posso... avrebbero dovuto essere lì per lui; era il loro figlio! Avrebbero dovuto amarlo e invece no. E stato ammalato quattro anni e l'ultimo l'ha passato in ospedale e loro non andavano nemmeno a trovarlo! Dicevano che non avrebbero potuto sopportarlo, che li faceva soffrire troppo. Ma io ci sono andata, ci sono andata tutti i giorni. Lui mi chiedeva di loro, mi chiedeva perché mamma e papà non andavano a trovarlo, e io ho mentito. Andavo lì ogni giorno e mentivo. E quando è morto era tutto solo. Io ero a scuola. Non ho fatto in tempo ad arrivare. Era il mio fratellino! Aveva solo dieci anni! E tutti noi... tutti noi... l'abbiamo lasciato morire da solo.» «Mi dispiace molto», mormorò Lynley. «Ho giurato che non avrei mai permesso che dimenticassero quello che avevano fatto. Ho chiesto ai suoi insegnanti i suoi compiti in classe. Ho incorniciato il certificato di morte. Gli ho costruito un altare. E li ho tenuti in quella casa. Ho sbarrato le porte e le finestre e giorno dopo giorno mi sono accertata che se ne stessero lì, a fissare Tony. Li ho fatti impazzire! L'ho fatto di proposito! Li ho distrutti. E ho distrutto me stessa!» Si appoggiò al lavandino e pianse. Pianse per l'odio che aveva riempito la sua vita, per il senso di colpa e la gelosia che erano stati compagni della sua esistenza, per la solitudine in cui si era rinchiusa, per il disprezzo e il disgusto che aveva rivolto al suo prossimo. Alla fine, quando Lynley senza dire nulla la prese tra le braccia, pianse contro il suo petto; pianse soprattutto la morte dell'amicizia che sarebbe potuta nascere fra loro. Al di là delle finestre dell'ufficio del dottor Samuels si vedeva il giardino di rose. Era a terrazze, diversificate per colore e tipo dei fiori. Qualche pianta era ancora in boccio, malgrado la stagione fosse piuttosto avanzata, le notti fredde e cariche di brina. Presto anche quei fiori sarebbero morti. I giardinieri avrebbero potato i rami in attesa dell'inverno. Ma in primavera
sarebbero rinati e il ciclo della vita avrebbe ripreso. Rimasero a osservare quel gruppo che passeggiava nei vialetti di ghiaia, tra i cespugli. Com'erano diverse tra loro: Gillian e la sorella, Lady Helen e il sergente Havers e, qualche passo più indietro, le due infermiere, avvolte nelle lunghe mantelle che le riparavano dal vento pomeridiano. Lynley si distolse da quello spettacolo e si accorse che il dottor Samuels lo fissava pensoso da dietro la scrivania, il viso intelligente accuratamente privo di espressione. «Lei sapeva che aveva avuto un figlio», osservò l'ispettore. «Immagino che l'abbia saputo dalla scheda di ammissione.» «Sì.» «Perché non me l'ha detto?» «Non mi fidavo di lei», rispose Samuels aggiungendo: «Allora. E se c'era un vago modo per arrivare a Roberta tenendo segreto quel particolare, questo per me era più importante di tutto il resto. Non volevo correre il rischio che lei rovinasse tutto parlandogliene. E poi era coperto dal segreto professionale», precisò, a smorzare la durezza di quella dichiarazione. «Che cosa ne sarà di loro?» chiese Lynley. «Sopravvivranno.» «Come fa a dirlo?» «Stanno cominciando a capire di essere state le sue vittime. Questo è il primo passo.» Samuels si tolse gli occhiali e ne pulì le lenti con l'orlo della giacca. Il viso era segnato dalla stanchezza. Era una storia vecchia che aveva già vissuto. «Non riesco a capire come abbiano fatto a sopravvivere finora.» «A modo loro.» «Come?» Il medico controllò con attenzione che le lenti fossero pulite e rimise gli occhiali. Li portava da così tanti anni che sul suo naso ne era rimasto il segno. «Per Gillian sembra che si sia trattato di quella che chiamiamo dissociazione, un modo di reagire che le ha permesso di fingere di essere o avere tutto quello che non poteva essere o avere.» «Per esempio?» «Tanto per cominciare, sentimenti normali, normali rapporti con gli altri. Ha detto di essere uno specchio, di riflettere l'atteggiamento di chi le stava intorno. E stata la sua difesa. Le ha impedito di vivere fino in fondo quello che le stava accadendo.» «Come?»
«Non era una 'persona vera', perciò niente di quello che il padre faceva o diceva poteva davvero coinvolgerla, o ferirla.» «In paese tutti me l'hanno descritta in modo diverso.» «Sì, è tipico. Gillian si limitava a fare da specchio a ognuno di loro. Portato alle estreme conseguenze, questo comportamento finisce per dar luogo alle personalità multiple, ma Gillian sembra essere riuscita a evitarlo. Il che non è uno scherzo, se si tiene conto di che cosa ha dovuto passare.» «E Roberta?» Il medico aggrottò le sopracciglia. «Non è riuscita a reagire bene quanto Gillian», ammise. Lynley lanciò un ultimo sguardo al di là della finestra e tornò a sedere sulla poltrona lisa, posto di riposo, senza dubbio, di mille menti tormentate. «E per questo che mangiava a quel modo?» «Come fuga? No, non credo. Direi piuttosto che si trattava di autodistruzione.» «Non capisco.» «Il bambino maltrattato ritiene di avere commesso qualche colpa e di essere punito per questo. E possibile che Roberta abbia mangiato a quel modo perché quello che ha subito l'ha portata a disprezzare se stessa, la sua 'cattiveria', e si è punita distruggendo il suo corpo. Questa è una spiegazione.» Esitò. «E l'altra?» «Difficile dirlo. Può essere che abbia cercato di uscire da quell'incubo nell'unico modo che conosceva, distruggendo il suo corpo per diventare il più diversa possibile da Gilly. Così il padre non l'avrebbe più desiderata sessualmente.» «Ma non ha funzionato.» «Purtroppo no. Anzi, lui ha aumentato le proprie perversioni per eccitarsi, coinvolgendola sempre più. Il che alimentava il suo bisogno di potere.» «Vorrei farlo a pezzi.» «Anch'io provo la stessa cosa», confidò il medico. «Ma come si può... Non capisco.» «È un comportamento deviante, una malattia; Teys si eccitava con le bambine. Il suo matrimonio con una sedicenne... non una sedicenne voluttuosa e sensuale, ma una che dimostrava meno della sua età... Avrebbe dovuto essere un chiaro segno del suo comportamento aberrante, ma riusciva a mascherarlo bene con la devozione alla religione e l'immagine di padre forte e affettuoso. E tipico di questa gente, ispettore. Non so dirle quanto.»
«E nessuno se n'è mai accorto? Non riesco a crederlo.» «È facile da credere, se considera la situazione: Teys dava alla comunità un'immagine di sé come di uomo di successo. Contemporaneamente le figlie, sentendosi in colpa, mantenevano il segreto. Gillian credeva di essere lei la responsabile dell'abbandono della madre nei confronti del padre e stava cercando di porvi rimedio 'trasformandosi in mamma' per lui, secondo le stesse parole di Teys. Roberta credeva che Gillian avesse soddisfatto il padre e che il suo compito consistesse nel fare altrettanto. E a tutte e due, naturalmente, era stato insegnato dalla Bibbia, grazie all'accurata scelta che Teys faceva dei passi e all'interpretazione distorta che ne dava, che quello che stavano facendo era non solo giusto, ma sancito dalla mano di Dio come uno dei doveri filiali.» «Mi dà la nausea.» «È morboso. La sua era una malattia. Si è scelto una bambina per moglie, così si è creduto al sicuro. Si sentiva minacciato dal mondo degli adulti e in quella sedicenne ha visto chi poteva eccitarlo con il suo aspetto infantile e al tempo stesso gratificare il suo bisogno di autostima con il matrimonio.» «Allora perché poi si è rivolto alle figlie?» «Quando Tessa, la sua moglie bambina, gli ha dato un figlio, Teys ha avuto paura, perché ha avuto la prova inconfutabile che la creatura che lo aveva eccitato e il cui corpo gli aveva dato tali e tante gratificazioni non era più una bambina, ma una donna. E ritengo che si sentisse minacciato dalle donne, la rappresentazione femminile di tutto quel mondo adulto che temeva.» «Tessa mi ha raccontato che aveva smesso di andare a letto con lei.» «Non mi stupisce. Se avesse continuato a farlo senza riuscire ad avere rapporti, ne sarebbe stato incredibilmente umiliato. Perché rischiare, quando in casa c'era una piccola impotente da cui ottenere immenso piacere e soddisfazione?» Lynley provò un tuffo al cuore. «Piccola? Intende dire...» Il dottor Samuels annuì con aria seria. Dopo tutti quegli anni trascorsi a esercitare la sua professione sapeva bene che cosa stava provando Lynley. «Credo che abbia cominciato ad abusare di Gillian fin dall'infanzia. Lei ricorda il primo episodio quando aveva quattro o cinque anni, ma è difficile che Teys abbia atteso così a lungo, a meno che il suo credo religioso non gli abbia dato l'autocontrollo necessario per tutti quegli anni. È possibile anche questo.»
Il suo credo religioso. A mano a mano che quella conversazione andava avanti, Lynley capiva meglio la situazione. Faticò a controllare la rabbia che gli bruciava dentro. «Ora Roberta subirà il processo.» «In definitiva, sì. Roberta guarirà e la riterranno capace di intendere e di volere.» Senza alzarsi, il medico si voltò a osservare il gruppo in giardino. «Ma lei sa bene quanto me, ispettore, che non c'è giuria al mondo che la condannerebbe, una volta conosciuta la verità. Così, forse, si può dire che una qualche forma di giustizia ci sarà, dopotutto.» I rami degli alberi che sovrastavano St. Catherine gettavano lunghe ombre all'esterno della chiesa, oscurandone l'interno, malgrado fuori ci fosse ancora luce. Il rosso scuro e il porpora delle grandi vetrate piombate proiettavano macchie cupe sull'antico pavimento e le candele votive brillavano sotto le statue che immobili lo osservarono percorrere la navata. L'aria era pesante e immota, e Lynley rabbrividì avvicinandosi al confessionale elisabettiano. Ne aprì la porta, entrò, s'inginocchiò e attese. L'oscurità era completa, la tranquillità assoluta. L'ambiente adatto per meditare sui propri peccati. Una grata si scostò nel buio. Una voce dolce mormorò una preghiera a un dio che non esisteva. Poi: «Sì, figliolo?» All'ultimo momento, si chiese se ce l'avrebbe fatta ad arrivare fino in fondo. Poi trovò la voce. «Veniva qui da lei», disse. «Era questo il luogo dove confessava i suoi peccati. Lo assolveva, padre? Quali mistiche configurazioni dicevano a William Teys che era libero dal peccato di abusare delle proprie figlie? Che cosa gli diceva? Gli dava la sua benedizione? Lo lasciava andare dal confessionale, l'anima ancora una volta purgata, per tornare a casa e ricominciare? E così che andava?» Per tutta risposta sentì solo un respiro affannoso che gli disse che all'altro lato della grata c'era una creatura vivente. «E Gillian, si confessava? O era troppo spaventata? Le ha parlato di quello che il padre faceva con lei? Ha cercato di aiutarla?» «Io...» Sembrava che quella voce venisse da molto lontano. «Capire e perdonare.» «È questo che le diceva? Di capire? Di perdonare? E Roberta? Anche lei doveva capire e perdonare? Una ragazzina di sedici anni doveva imparare ad accettare il fatto che il padre la violentasse, la mettesse incinta e poi uccidesse la sua creatura? O questa è stata un'idea sua, padre?»
«Non sapevo della bambina. Non lo sapevo! Non lo sapevo!» La voce era convulsa. «Ma ha capito, una volta che l'ha trovata nell'abbazia. Ha capito benissimo. Lei ha scelto Pericle, padre Hart. Lei sapeva benissimo.» «Non... non me l'ha mai confessato. Mai!» «E come avrebbe reagito, se l'avesse fatto? Quale sarebbe stata la penitenza per l'omicidio della propria creatura? È stato un omicidio. Lei sapeva che si trattava di un omicidio.» «No. No!» «William Teys ha portato la bambina dalla fattoria Gembler fino all'abbazia. Non ha potuto avvolgerla in niente, perché sapeva che qualunque cosa avesse usato sarebbe potuta servire ad arrivare a lui, perciò l'ha portata là nuda e la piccola è morta. Quando lei l'ha trovata, sapeva di chi era figlia, come era arrivata fin là. Ha scelto Pericle per l'epitaffio. L'omicidio è vicino alla lussuria come la fiamma al fumo. Lo sapeva benissimo.» «Ha detto... poi... ha giurato di essere guarito.» «Guarito? Una guarigione miracolosa dalla devianza sessuale, causata dalla morte della sua stessa figlia? E questo che ha pensato? E questo che ha voluto credere? Certo, era guarito. La sua idea di guarigione stava nel fatto che ha smesso di violentare Roberta, ma mi ascolti, padre, perché lei questo ce l'ha sulla coscienza e, perdio, mi ascolterà: tutto il resto è continuato.» «No!» «Sa che è la verità. Era malato. L'unico problema era che aveva bisogno di carne fresca per la sua passione. Aveva bisogno di Bridie, e lei era disposto a lasciare che accadesse.» «Mi aveva giurato...» «Giurato? Su che cosa? Sulla Bibbia che usava per far credere a Gillian che doveva donare il proprio corpo al padre? È su questo che ha giurato?» «Ha smesso di confessarsi. Non sapevo... io...» «Lei sapeva. Da quando ha cominciato a vedere Bridie, lei ha capito. E quando è arrivato alla fattoria e ha visto quello che Roberta aveva fatto, ha capito la verità, non è così, padre?» Ci fu un singhiozzo trattenuto, poi la voce del prete tradì tutto il suo dolore. «Mea... mea culpa!» «Sì!» sibilò Lynley. «È colpa sua, padre.» «Io non potevo... era il silenzio del confessionale. Un giuramento sacro.»
«Non c'è niente di più sacro della vita. Non c'è niente di più importante della rovina di un figlio. L'ha visto, non è vero, quando è arrivato alla fattoria? Ha capito che finalmente era giunto il momento di rompere quel muro di silenzio, perciò ha ripulito l'ascia, si è liberato del coltello ed è venuto a Scotland Yard. Sapeva che così si sarebbe saputa la verità, quella verità che lei non aveva avuto il coraggio di rivelare.» «Mio Dio, io... capire e perdonare.» «Non questo. Non per ventisette anni di maltrattamenti fisici, due vite rovinate, la morte dei loro sogni. Nessuna comprensione, nessun perdono. Perdio, non per tutto questo.» Lynley spalancò con violenza la porta del confessionale e se ne andò. Dietro di sé sentì una voce querula pregare. «'Non adirarti a causa dei malvagi... saranno falciati come il fieno... Confida nel Signore... appagherà i desideri del tuo cuore... i malvagi saranno sterminati...'» Lynley spalancò il portone della chiesa e uscì alla ricerca di aria pura. Lady Helen se ne stava appoggiata allo spigolo di un sarcofago ricoperto di muschio a guardare Gillian, ferma a qualche passo di distanza davanti alla piccola tomba sotto i cipressi, a capo chino, in preghiera. Quando sentì i passi di Lynley che si avvicinavano alle sue spalle, non si girò e nemmeno si mosse quando le posò una mano sul braccio. «Ho rivisto Deborah», mormorò l'ispettore dopo un po'. «Ah.» Il suo sguardo rimase fisso su Gillian. «Immaginavo che l'avessi vista, Tommy. Ho sperato che non accadesse, ma sapevo che sarebbe stato difficile che non v'incontraste.» «Sapevi che erano qui a Keldale; perché non me l'hai detto?» Lei continuò a tenere il viso rivolto dall'altra parte, ma abbassò lo sguardo a terra. «E che cosa c'era da dirti, in fondo? Avevamo già detto tutto, mille volte.» Esitò, desiderando lasciar perdere, lasciar cadere quell'argomento una volta per tutte, ma i lunghi anni della loro amicizia non glielo permettevano. «È stato molto doloroso per te?» si sforzò di chiedergli. «In un primo momento, sì.» «E poi?» «Poi mi sono accorto che lo ama, come tu ti eri accorta tempo fa.» Le labbra di Lady Helen s'incurvarono in un sorriso carico di rimpianto. «Sì, come mi sono accorta tempo fa.» «Dove hai trovato la forza di lasciare andare St. James, Helen? Come sei riuscita a sopravvivere?»
«Oh, me la sono cavata. E poi tu sei sempre stato al mio fianco, Tommy. Mi hai aiutato. Sei sempre stato mio amico.» «E tu sei stata mia amica. La mia migliore amica.» Lei rise tra sé. «Di solito lo si dice dei cani, non so se prenderlo come un complimento.» «Ma lo sei davvero?» «Decisamente, sì», replicò lei, voltandosi a studiare il suo viso. Recava ancora i segni della stanchezza, ma il peso della sofferenza sembrava essersi alleviato. Non era svanito del tutto, ci sarebbe voluto tempo, ma a poco a poco sarebbe riuscito a liberarsi del passato. «Ormai hai superato il momento peggiore, non è così?» «Ho superato il peggio. Credo di essere finalmente pronto ad andare avanti.» Le accarezzò i capelli e sorrise. Il cancello del cimitero si aprì e Lady Helen vide oltre la spalla di Lynley il sergente Havers che si avvicinava. Quando li vide conversare tranquilli, Barbara rallentò il passo, poi si schiarì la gola come per avvertirli della propria presenza e li raggiunse a passo deciso, il busto eretto. «Signore, ho un messaggio di Webberly», annunciò. «L'ha ricevuto Stepha alla pensione.» «Un messaggio? Di che genere?» «I suoi soliti crittogrammi, purtroppo.» E gli tese un foglio. «'Identificazione positiva. Londra conferma. York è stata informata ieri sera'», recitò. «Lei capisce?» Lynley rilesse il messaggio, piegò in due il foglio e si voltò a guardare le colline in fondo al paese, al di là del cimitero. «Sì», rispose a fatica, «capisco benissimo.» «Russell Mowrey?» domandò Barbara, intuendo il nocciolo della questione. Quando lui annuì, il sergente aggiunse: «E così è andato proprio a Londra a denunciare Tessa a Scotland Yard. Che strano. Perché non si è rivolto alla polizia di York? Come poteva Scotland Yard...» «No, era andato a Londra a trovare i suoi, proprio come aveva intuito Tessa, ma non è mai riuscito ad andare oltre la stazione di King's Cross.» «La stazione di King's Cross?» ripeté Barbara. «E lì che ha incontrato lo Squartatore, Havers. La sua foto era appesa alla parete nell'ufficio di Webberly.» Si recò alla pensione da solo. Percorse Church Street e si fermò per qualche istante sul ponte come aveva fatto la sera prima. Il paese era tran-
quillo, ma mentre lanciava un'ultima occhiata a Keldale, sentì una porta sbattere lì vicino. Una ragazzina dai capelli rossi scese di corsa le scale di casa per infilarsi in un capanno. Ne uscì qualche istante dopo, trascinandosi dietro un grande sacco di mangime. «Dov'è Dougal?» le domandò l'ispettore. Bridie si voltò a guardarlo. I suoi riccioli brillarono al sole, un bruciante colore d'autunno contro il verde acceso del maglione, decisamente troppo grande, che indossava. «In casa. Ha mal di stomaco, oggi.» Lynley si chiese come fosse possibile diagnosticare un mal di stomaco a un'anatra, ma decise con saggezza che era meglio evitare di domandarlo alla bambina. «E allora perché gli dai da mangiare?» Grattandosi la gamba sinistra, lei ci pensò su. «Me l'ha detto la mamma. L'ha tenuto al caldo tutto il giorno e ora crede che sia in grado di mangiare qualcosa.» «Mi sembra una brava infermiera.» «Lo è.» Lo salutò con un cenno della mano appiccicosa e scomparve in casa, una bambina piena di vita con ancora tutti i suoi sogni. Lynley riprese il cammino verso la pensione. Quando entrò, Stepha si alzò da dietro il banco della reception e fece per dirgli qualcosa. «È il figlio di Ezra Farmington, quello che hai avuto, vero?» le chiese lui, senza lasciarle il tempo di parlare. «Lui faceva parte del divertimento scatenato che hai cercato dopo la morte di tuo fratello, non è così?» «Thomas...» «Non è così?» «Sì.» «E tu te ne stai lì, a guardarli, mentre lui e Nigel si tormentano l'un l'altro per te? Ti diverte vedere Nigel che si ubriaca al Dove and Whistle, nella speranza di vederti lì di fronte, a casa di Ezra, a spassartela? O fuggi dai loro scontri grazie all'aiuto di Richard Gibson?» «Sei ingiusto.» «Davvero? Sai che Ezra ritiene di non essere più in grado di dipingere? Ti interessa questo, Stepha? Ha distrutto tutte le sue opere; gli unici pezzi che ha tenuto sono i tuoi ritratti.» «Non posso farci niente.» «Non vuoi farci niente.» «Non è vero.» «Tu non vuoi farci niente», ripeté Lynley. «Per qualche strana ragione, lui continua a volerti, e vuole anche il bambino. Vuole sapere dov'è. Vuole
sapere che cosa ne hai fatto, chi ce l'ha. Ti sei almeno preoccupata di dirgli se era un maschio o una femmina?» Lei abbassò lo sguardo. «È... è stata adottata da una famiglia di Durham. Non potevo fare diversamente.» «Immagino che questo sia il tuo modo per punirlo.» Lei tornò a fissarlo di scatto. «E perché? Perché dovrei volerlo punire?» «Per avere interrotto il divertimento, per avere insistito nel volere qualcosa di più da te, per essere pronto a correre dei rischi, per essere tutto quello che tu hai paura di essere.» Stepha non replicò. Non era necessario che lo facesse quando lui poteva leggerle in viso con tanta chiarezza la verità. Non aveva voluto tornare alla fattoria, scenario di tutti i suoi orrori infantili, luogo che voleva seppellire nel passato. Aveva solo voluto vedere la tomba della bambina. Fatto ciò, era pronta a partire. Gli altri, quel gruppo di estranei così gentili che erano improvvisamente entrati nella sua vita, non le fecero domande. Si limitarono a farla salire sulla grande auto argentata e la portarono via da Keldale. Non aveva idea di dove la stessero portando, ma non le importava. Jonah se n'era andato. Nell era morta. E doveva ancora scoprire chi fosse in realtà Gillian. Per il momento era solo un guscio vuoto. Nient'altro. Lynley guardò Gillian nello specchietto retrovisore. Non sapeva bene che cosa sarebbe accaduto, non sapeva bene se fosse il passo giusto. Stava agendo d'istinto, un istinto cieco che gli diceva che qualcosa di buono doveva pur nascere, come una trionfante fenice, dalle ceneri di quella giornata. Sapeva di essere alla ricerca di un significato, di non riuscire ad accettare l'assurdità della morte di Russell Mowrey a King's Cross per mano di un assassino sconosciuto. Davanti a tale vile brutalità, al suo diabolico orrore, alla sua inutilità si sentiva ribollire dentro. Doveva dare un significato a tutto ciò. Non voleva accettare che quelle vite frammentate non riuscissero in un modo o nell'altro a unirsi, superando il vuoto di quei diciannove anni, per trovare finalmente un po' di pace. Era un rischio, ma non gliene importava. Era un rischio che avrebbe corso. Erano le sei di sera quando fermò l'auto davanti alla casa di York. «Ci vorrà solo un attimo», disse rivolto agli altri passeggeri, e fece per aprire la portiera.
Il sergente Havers gli posò una mano sulla spalla per fermarlo. «Lasci fare a me, signore. La prego.» Lui esitò e lei continuò a fissarlo dritto in viso. «La prego», ripeté. Lynley guardò la porta chiusa della casa, consapevole che non poteva rischiare di lasciare la situazione nelle incapaci mani di Barbara. Non lì, non in quel momento, non quando c'era così tanto in gioco. «Havers...» «Posso cavarmela», dichiarò lei. «La prego, abbia fiducia in me.» Si accorse che lei stava mettendo nelle sue mani tutto il proprio futuro, che gli stava permettendo di essere lui a decidere se sarebbe rimasta alla sezione investigativa o se avrebbe dovuto tornare una volta per tutte al pattugliamento. Tutto sarebbe dipeso dai momenti successivi. «Signore?» Lynley era deciso a rifiutarle il permesso, a dirle di restare in macchina, a condannarla per sempre alla vita di pattuglia, ma tutto questo non faceva parte del piano che aveva avuto in mente Webberly. In quel momento capì, fissandola in viso, che Barbara, leggendogli negli occhi le sue intenzioni, si era costruita la propria pira funebre ed era decisa a essere lei ad accendere il fiammifero che avrebbe dimostrato l'esistenza o no delle promesse della fenice. «E va bene», concesse alla fine. «Grazie, signore.» Barbara scese dall'auto e si avvicinò alla porta di casa. Era aperta ed entrò. Cominciò l'attesa. Lynley non si era mai ritenuto un uomo capace di pregare, ma seduto lì nell'auto, con il buio che calava intorno a lui e i minuti che passavano, capì per che cosa doveva pregare: perché il bene nascesse dal male, la speranza dalla disperazione, la vita dalla morte; perché i sogni diventassero realtà e gli spettri morissero; per porre fine all'angoscia e dare inizio alla gioia. Gillian si agitò sul sedile posteriore. «Chi...» La frase le si spense in gola quando la porta si spalancò e Tessa corse fuori, fermandosi poi esitante sul vialetto a guardare l'auto. «Mamma.» Non disse altro. Scese lentamente dalla macchina e fissò la donna come se si trattasse di un'apparizione. «Mamma?» «Gilly! Oh, mio Dio, Gilly!» gridò Tessa e le si fece incontro. Gillian non aveva bisogno d'altro: corse tra le braccia della madre e insieme entrarono in casa.
NOTA DELL'AUTRICE Se una parte del mondo ha ragione di esistere ed è per tale motivo fonte di ispirazione, questa, a mio parere, è lo Yorkshire, in Inghilterra, con la sua bellezza straordinaria e sempre diversa, che occupa un posto così rilevante in questo libro. Sono grata alle persone che hanno letto ed espresso un giudizio critico sulla prima stesura della mia opera: Sheila Hillinger, Julie Mayer, Paul Berger, Susan Berner, Steve Mitchel e Cathy Stephany. Ringrazio i miei genitori e mio marito per la loro pazienza e il loro appoggio, il dottor H.M. Upton per il suo generoso contributo, e in special modo Deborah Schneider e Kate Miciak per aver voluto offrire una chance a un'esordiente. E, naturalmente, Don Martin che, diffidandomi anno dopo anno dal rivolgermi a lui per i miei scritti, alla fine è stato la molla che mi ha portato alla realizzazione del mio intento. FINE