MICHAEL MOORCOCK ELRIC DI MELNIBONÉ (Elric Of Melniboné, 1972)
A Poul Anderson per La spada infranta e Tre cuori e tre ...
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MICHAEL MOORCOCK ELRIC DI MELNIBONÉ (Elric Of Melniboné, 1972)
A Poul Anderson per La spada infranta e Tre cuori e tre leoni Al compianto Fletcher Pratt per La fonte dell'unicorno. Al compianto Bertold Brecht per il Romanzo da tre soldi, che, per oscuri motivi, considero al pari degli altri libri quale principale ispirazione per le prime storie di Elric. PARTE PRIMA Nel regno isolano di Melniboné vengono ancora osservati i vecchi rituali, sebbene la potenza della nazione sia svanita da cinquecento anni e ora il suo tenore di vita sia mantenuto soltanto dai commerci con i Regni Giovani e dal fatto che la città di Imrryr è divenuta il luogo d'incontro dei mercanti. Quei rituali non sono più utili? È possibile annullarli ed evitare la fine? Qualcuno che vorrebbe regnare al posto dell'imperatore Elric preferisce pensare di no. Costui afferma che Elric attirerà la distruzione su Melniboné col rifiuto di onorare tutti i rituali (Elric ne onora molti). E
così si apre la tragedia che si concluderà tra molti anni e causerà la distruzione di questo mondo. PROLOGO Questa è la storia di Elric prima che venisse chiamato Uccisore di Donne, prima dello sfacelo finale di Melniboné. Questa è la storia della sua rivalità con il cugino Yyrkoon e del suo amore per la cugina Cymoril, prima che la rivalità e l'amore facessero sì che Imrryr, la Città Sognante, precipitasse tra le fiamme, violentata dai devastatori venuti dai Regni Giovani. Questa è la storia delle due spade nere Tempestosa e Luttuosa, e della loro scoperta e della parte che ebbero nel destino di Elric e di Melniboné: un destino foriero di un destino più grande, quello del mondo stesso. Questa è la storia di quando Elric era re, comandante dei draghi, delle flotte e di tutto il popolo di quella razza semiumana che aveva dominato il mondo per diecimila anni. È una storia tragica, questa storia di Melniboné, l'Isola del Drago. Questa è una storia di emozioni mostruose e di ambizioni eccelse. Questa è una storia di stregonerie e di tradimenti e di ideali onorevoli, di sofferenze e di piaceri spaventosi, di amore amaro e di dolce odio. Questa è la storia di Elric di Melniboné. Gran parte di questa storia, lo stesso Elric l'avrebbe ricordata soltanto nei suoi incubi. La Cronaca della Spada Nera CAPITOLO PRIMO UN RE MALINCONICO: UNA CORTE SI ADOPERA PER ONORARLO Ha il colore di un teschio sbiancato, la sua pelle; e la lunga chioma che gli fluisce giù per le spalle è candida come il latte. Nella bella testa affusolata brillano due occhi obliqui, cremisi e cupi, e dalle maniche sciolte della veste gialla spuntano due mani sottili, pure del colore dell'osso, posate sui braccioli di un seggio che è stato ricavato e scolpito da un unico enorme rubino. Gli occhi cremisi sono turbati, e talvolta una mano si leva per toccare l'elmo leggero posato sulle ciocche di capelli bianchi: un elmo foggiato in una lega verdastra e scura, e squisitamente modellato nelle sembianze di un drago che sta per spiccare il volo. E la mano che accarezza distratta-
mente la corona è ornata da un anello nel quale è incastonata una rara gemma di Actorios, il cui nucleo talora cangia torpidamente e si riassesta come se fosse fumo senziente, irrequieto nella prigione gemmata quanto è irrequieto il giovane albino sul suo Trono di Rubino. Il giovane guarda giù per la lunga scalinata di quarzo, guarda la sua corte che si diverte, danzando con tanta delicatezza e grazia frusciante che quasi potrebbe essere una corte di spettri. Mentalmente dibatte quesiti morali, e già questa attività lo divide dalla grande maggioranza dei suoi sudditi, perché costoro non sono umani. Questo è il popolo di Melniboné, l'Isola del Drago, che ha dominato il mondo per diecimila anni e ha cessato di dominarlo da meno di cinque secoli. E costoro sono crudeli e astuti, e per loro «morale» significa ben poco di più del dovuto rispetto per le tradizioni di dieci millenni. Al giovane, 428° in linea di discendenza diretta dal primo imperatorestregone di Melniboné, i loro assunti appaiono non soltanto arroganti ma anche sciocchi; è evidente che l'Isola del Drago ha perduto quasi tutto il suo potere e presto sarà minacciata, tra un secolo o due, da un conflitto diretto con le nazioni umane emergenti, che loro chiamano, con una certa superiorità sprezzante, i Regni Giovani. Già flotte di pirati hanno tentato e fallito attacchi contro Imrryr la Bella, la Città Sognante, capitale dell'isola del Drago, Melniboné. Eppure anche gli amici più intimi dell'imperatore rifiutano di prendere in esame la prospettiva della caduta di Melniboné. Non sono soddisfatti, quando lui accenna all'idea, e considerano le sue affermazioni non soltanto impensabili ma anche di uno straordinario cattivo gusto. Perciò, solo, l'imperatore medita e rimugina. Si duole che suo padre, Sadric LXXXVI, non abbia generato più figli, perché in tal caso ci sarebbe stato un monarca più adatto per prendere il suo posto sul Trono di Rubino. Sadric è morto da un anno, mormorando un lieto benvenuto a ciò che veniva a prendere la sua anima. Per quasi tutta la vita non aveva conosciuto altra donna che sua moglie, perché l'imperatrice era morta mettendo al mondo la sua unica creatura dal sangue indebolito. Ma, con i suoi sentimenti melniboneani (bizzarramente diversi da quelli dei nuovi venuti umani), Sadric aveva amato la moglie e non era riuscito a trovare piacere nella compagnia di nessun'altra persona, neppure in quella del figlio che l'aveva uccisa e che era tutto quanto rimaneva di lei. Aveva fatto nutrire quel figlio con pozioni magiche e salmodiare d'incantesimi ed erbe rare, sostenendone artificialmente la forza con tutte le arti note ai re-stregoni di
Melniboné. Ed Elric era vissuto - e vive ancora - grazie soltanto alla stregoneria, poiché è per natura valetudinario e senza le sue droghe riuscirebbe a malapena a sollevare la mano dal fianco, in quasi tutti i giorni normali. Se il giovane imperatore ha riscontrato qualche vantaggio nella debolezza che lo opprime da sempre, questo sta nel fatto che, per forza, ha letto molto. Prima di compiere i quindici anni aveva letto tutti i libri della biblioteca paterna: taluni anche più di una volta. I suoi poteri magici, appresi inizialmente da Sadric, ora sono più grandi di quelli posseduti dai suoi antenati per molte generazioni. La sua conoscenza del mondo, oltre le rive di Melniboné, è profonda, sebbene per ora lui ne abbia una scarsa esperienza diretta. Se lo volesse, potrebbe far risorgere l'antica potenza dell'Isola del Drago, e dominare la sua terra e i Regni Giovani da tiranno invulnerabile. Ma le letture gli hanno insegnato anche a porre in discussione l'uso che si può fare del potere, a porre in discussione i propri moventi, a chiedersi se non sarebbe meglio non far uso del potere per nessuna causa. Le letture l'hanno portato a questa «morale», che tuttavia lui comprende a malapena. Perciò, per i suoi sudditi, lui rappresenta un enigma, e per taluni una minaccia, poiché non pensa e non agisce in armonia con la loro concezione del modo in cui deve pensare e agire un vero melniboneano e tantopiù un imperatore melniboneano. Suo cugino Yyrkoon, per esempio, più di una volta si è fatto sentire a esprimere seri dubbi sul diritto dell'imperatore di regnare sul popolo di Melniboné. «Questo fiacco erudito attirerà il disastro su tutti noi» ha detto una sera a Dyvim Tvar, signore delle Grotte dei Draghi. Dyvim Tvar è uno dei pochi amici dell'imperatore, e ha doverosamente riferito la conversazione; ma il giovane ha dichiarato che quei commenti erano solo «un tradimento di poco conto», mentre ognuno dei suoi antenati avrebbe ricompensato simili sentimenti con un'esecuzione pubblica lentissima e raffinata. L'atteggiamento dell'imperatore è ulteriormente complicato dal fatto che Yyrkoon, il quale ancora adesso non fa segreto delle sue aspirazioni al potere, è fratello di Cymoril, la fanciulla che l'albino considera la sua più cara amica e che un giorno diventerà la sua imperatrice. Laggiù, nella sala pavimentata a mosaico, si può vedere il principe Yyrkoon in tutte le sue sete e le sue pellicce più splendide, con i suoi gioielli e i suoi broccati: danza con cento donne, e si dice che prima o poi sono state tutte sue amanti. Il suo volto scuro, nel contempo bellissimo e
saturnino, è incorniciato da lunghi capelli neri, ondulati e lucenti, e la sua espressione è come sempre sardonica, il suo portamento arrogante. Il pesante mantello di broccato ondeggia qua e là, e colpisce con una certa forza gli altri danzatori. Lui lo indossa come se fosse un'armatura, o magari un'arma. Molti cortigiani provano qualcosa di più di un certo rispetto per il principe Yyrkoon. Pochi si offendono per la sua arroganza: e costoro tacciono, perché è noto che anche Yyrkoon è un temibile stregone. Inoltre, il suo comportamento è quello che la corte esige e approva in un nobile melniboneano: è quello che approverebbe nell'imperatore. L'imperatore lo sa. Vorrebbe essere capace di compiacere la sua corte, che si sforza di onorarlo con le danze e l'allegria, ma non riesce a partecipare a ciò che segretamente considera una sequenza noiosa e irritante di pose rituali. In questo, forse, Elric è un poco più arrogante di Yyrkoon, il quale almeno è uno zotico tradizionale. Dalle gallerie la musica giunge più forte e complessa, mentre gli schiavi, appositamente addestrati e modificati chirurgicamente per cantare ciascuno una sola nota perfetta, vengono stimolati a sforzi ancor più appassionati. Perfino il giovane imperatore è toccato dall'armonia sinistra del loro canto, che somiglia pochissimo a quanto è mai stato proferito dalla voce umana. Perché la loro sofferenza deve produrre una bellezza tanto prodigiosa?, si chiede. O forse tutta la bellezza viene creata mediante la sofferenza? È questo il segreto della grande arte, umana e melniboneana? L'imperatore Elric chiude gli occhi. C'è un certo trambusto, nella sala sottostante. Le porte si sono spalancate e i cortigiani che danzavano si fermano, facendosi da parte e profondendosi in inchini mentre entrano alcuni soldati. Questi sono tutti abbigliati di celeste, hanno elmi ornamentali modellati in fogge fantastiche, e le loro lunghe lance a lama larga sono decorate di nastri ingemmati. Circondano una giovane donna il cui abito azzurro s'intona con la loro uniforme e le cui braccia nude sono cinte da cinque o sei braccialetti di diamanti, zaffiri e oro. Fili di diamanti e di zaffiri sono intrecciati nella sua chioma. A differenza di quasi tutte le dame della corte, non ha motivi dipinti sulle palpebre e sulle guance. Elric sorride. Questa è Cymoril. I soldati formano la sua guardia cerimoniale personale che secondo la tradizione deve scortarla a corte. Salgono la scalinata che porta al Trono di Rubino. Lentamente, Elric si alza e tende le mani. «Cymoril! Pensavo che avessi deciso di non allietare la corte con la tua presenza, questa sera.»
Lei ricambia il sorriso. «Mio imperatore, mi sono accorta che avevo voglia di conversare, dopotutto.» Elric le è grato. Cymoril sa che lui si annoia, e sa anche di essere una delle poche persone di Melniboné la cui conversazione lo interessi. Se il protocollo lo consentisse, lui le offrirebbe il suo trono: ma lei deve sedere sul gradino più elevato, ai suoi piedi. «Accomodati, ti prego, dolce Cymoril.» Elric riprende posto sul trono e si protende verso di lei, che si siede e lo guarda negli occhi con un'espressione frammista di gaiezza e di tenerezza. Parla a voce bassa, mentre la sua guardia si ritira mescolandosi con la guardia di Elric ai lati della scalinata. Soltanto Elric può udire la sua voce. «Vuoi venire a cavalcare con me nella regione più selvaggia dell'isola, mio signore?» «Ci sono cose cui devo dedicare la mia attenzione...» L'idea lo attira. Sono trascorse molte settimane dall'ultima volta che ha lasciato la città per cavalcare con lei, mentre la loro scorta si teneva discretamente a distanza. «Sono urgenti?» Lui scrolla le spalle. «Quali cose sono urgenti, in Melniboné? Dopo diecimila anni, si possono vedere quasi tutti i problemi in una certa prospettiva.» Il suo sorriso è quasi un sogghigno, è simile a quello di un giovane studentello che intenda sottrarsi all'istitutore. «Benissimo: partiremo domattina presto, prima che gli altri si alzino.» «L'aria intorno a Imrryr sarà limpida e frizzante. Il sole sarà caldo, per questa stagione. Il cielo sarà azzurro e senza nuvole.» Elric ride. «Devi aver operato un grande incantesimo!» Cymoril abbassa gli occhi e traccia un ghirigoro sul marmo del podio. «Ecco, forse un poco. Non sono priva di amicizie tra i più deboli spiriti elementari.» Elric si piega fino a sfiorarle i finissimi capelli. «Yyrkoon lo sa?» «No.» Il principe Yyrkoon ha vietato alla sorella di occuparsi di cose magiche. Il principe Yyrkoon ha amici tra i più tenebrosi esseri soprannaturali, e sa che sono pericolosi: perciò presume che ogni attività magica comporti un identico fattore di rischio. Inoltre detesta pensare che altri possiedano un potere come il suo. Forse è proprio questo, che odia soprattutto in Elric. «Speriamo che tutta Melniboné abbia bisogno di un tempo splendido, per domani» dice Elric. Cymoril lo fissa incuriosita. È pur sempre una melniboneana. Non ha mai pensato che il suo incantesimo potrebbe essere
sgradito a qualcuno. Poi scrolla le belle spalle e sfiora delicatamente la mano del suo signore. «Questa "colpa"» dice. «Questo frugare nella coscienza. Il suo scopo trascende la mia intelligenza piuttosto semplice.» «E anche la mia, devo ammetterlo. Sembra che non abbia nessuna funzione pratica. Tuttavia più di uno dei nostri antenati aveva predetto un mutamento, nella natura della nostra terra. Un mutamento spirituale, e non soltanto fisico. Forse io provo i primi baluginii di questo cambiamento, quando covo i miei pensieri estranei, così poco melniboneani?» La musica si fa più intensa. La musica svanisce. I cortigiani continuano a danzare, sebbene molti occhi siano posati su Elric e Cymoril, che conversano in cima al podio. Si formulano ipotesi. Quando annuncerà, Elric, che Cymoril è la sua futura imperatrice? Elric riesumerà la tradizione trascurata da Sadric, sacrificando dodici coppie di sposi ai Signori del Caos per assicurare un propizio matrimonio ai sovrani di Melniboné? È evidente che il rifiuto di Sadric di continuare la tradizione ha portato infelicità a lui e morte alla sua consorte; gli ha portato un figlio malaticcio e ha minacciato la continuità stessa della monarchia. Elric deve riesumare la consuetudine. Perfino Elric deve temere la ripetizione della sorte che ha colpito suo padre. Ma alcuni dicono che Elric non farà nulla in armonia con la tradizione, e che minaccia non soltanto la propria vita ma anche l'esistenza di Melniboné e di tutto ciò che rappresenta. E quanti parlano così si fanno vedere spesso in buoni rapporti con il principe Yyrkoon, che continua a danzare, apparentemente ignaro della conversazione, ignaro addirittura del fatto che sua sorella parla sommessamente con il cugino assiso sul Trono di Rubino; il quale siede sull'orlo del trono, dimentico della propria dignità, e non mostra l'orgoglio feroce e sdegnoso, un tempo segno distintivo di ogni altro imperatore di Melniboné; e chiacchiera animatamente, dimentico della corte, la quale danza per divertirlo. E poi all'improvviso il principe Yyrkoon si immobilizza a metà di una piroetta e leva gli occhi scuri per guardare il suo imperatore. In un angolo della sala l'attenzione di Dyvim Tvar viene attratta dalla posa calcolata e drammatica di Yyrkoon, e il signore delle Grotte dei Draghi si rabbuia in volto. La sua mano scende dove normalmente ci dovrebbe essere la spada, ma non si portano spade a un ballo di corte. Dyvim Tvar osserva guardingo e attento il principe Yyrkoon, che comincia a salire la scalinata del Trono di Rubino. Molti occhi seguono il cugino dell'imperatore e ormai quasi nessuno danza più, sebbene la musica divenga più frenetica via via che i
maestri degli schiavi musicali li pungolano affinché si sforzino ulteriormente. Elric alza la testa e scorge Yyrkoon ritto un gradino più in basso di quello su cui è seduta Cymoril. Yyrkoon esegue un inchino sottilmente insultante. «Mi presento al mio imperatore» dice. CAPITOLO SECONDO UN PRINCIPE RIBELLE AFFRONTA IL CUGINO «Il ballo ti piace, cugino?» chiese Elric, sapendo che la presentazione melodrammatica di Yyrkoon era stata calcolata apposta per coglierlo alla sprovvista e, se possibile, per umiliarlo. «La musica è di tuo gusto?» Yyrkoon abbassò gli occhi e lasciò che le labbra gli si atteggiassero a un sorrisetto segreto. «È tutto di mio gusto, mio sovrano. Ma tu? C'è qualcosa che ti dispiace? Non hai partecipato alla danza.» Elric si portò al mento un pallido dito e fissò gli occhi velati di Yyrkoon. «Tuttavia l'apprezzo molto, cugino. Sicuramente è possibile trovare piacere nel piacere degli altri.» Yyrkoon parve sinceramente sbalordito. I suoi occhi si aprirono completamente e incontrarono quelli di Elric. Elric provò una lieve scossa e poi distolse lo sguardo, indicando con un languido gesto della mano le gallerie dei musicanti. «O forse è la sofferenza degli altri, a darmi piacere. Non temere per me, cugino. Sono compiaciuto. Sono compiaciuto. Puoi continuare a danzare, nella certezza che il tuo imperatore si gode il ballo.» Però Yyrkoon non era disposto a lasciarsi distogliere dal proprio scopo. «Ma certo l'imperatore dovrebbe dimostrare il suo gradimento, affinché i suoi sudditi non debbano andarsene rattristati e turbati per non aver allietato il loro sovrano.» «Vorrei ricordarti, cugino» disse sommessamente Elric, «che l'imperatore non ha nessun dovere nei confronti dei suoi sudditi, eccettuato quello di governarli. Sono loro, ad avere doveri verso di lui. Questa è la tradizione di Melniboné.» Yyrkoon non aveva previsto che Elric avrebbe avuto simili argomenti contro di lui, ma si riprese prontamente. «Sono d'accordo, mio signore. L'imperatore ha il dovere di governare i suoi sudditi. Forse è per questo che molti di loro non godono il ballo quanto potrebbero.» «Non ti seguo, cugino.»
Cymoril si era alzata: con le mani contratte, stava un gradino più in alto del fratello. Era tesa e ansiosa, preoccupata per il tono impertinente di Yyrkoon e per il suo atteggiamento sdegnoso. «Yyrkoon...» disse. Il principe mostrò di accorgersi della sua presenza. «Sorella. Vedo che condividi con il nostro imperatore la riluttanza a danzare.» «Yyrkoon» mormorò lei, «ti spingi troppo oltre. L'imperatore è tollerante, ma...» «Tollerante? Oppure noncurante? È noncurante delle tradizioni della nostra grande stirpe? Disprezza l'orgoglio di questa razza?» Dyvim Tvar stava salendo la gradinata. Evidentemente anche lui aveva intuito che Yyrkoon aveva scelto quel momento per mettere alla prova il potere di Elric. Cymoril era sgomenta. Si affrettò a dire: «Yyrkoon. Se vuoi vivere...» «Non vorrei vivere, se l'anima di Melniboné dovesse perire. E la custodia dell'anima della nostra nazione è affidata all'imperatore. E cosa accadrebbe, se avessimo un imperatore incapace di reggere tale responsabilità? Un imperatore del tutto incurante della grandezza dell'Isola del Drago e della sua gente?» «Domanda ipotetica, cugino.» Elric aveva ritrovato la compostezza, e la sua voce era gelida e strascicata. «Perché un tale imperatore non si è mai seduto sul Trono di Rubino e non vi siederà mai.» Dyvim Tvar si avvicinò e posò una mano sulla spalla di Yyrkoon. «Principe, se tieni alla tua dignità e alla tua vita...» Elric alzò la mano. «Non è necessario, Dyvim Tvar. Il principe Yyrkoon si limita ad allietarci con un dibattito intellettuale. Temendo che fossi annoiato dalla musica e dalla danza (ma non è così), ha pensato di offrirmi l'argomento per una discussione stimolante. Sono certo che siamo molto stimolati, principe Yyrkoon.» Elric colorò quest'ultima frase con un tono di calorosa superiorità. Yyrkoon arrossì per la collera e si morse le labbra. «Ma continua, caro cugino Yyrkoon» disse Elric. «M'interessa moltissimo. Amplia pure l'argomento.» Yyrkoon si guardò intorno, come in cerca di un appoggio. Ma tutti i suoi sostenitori erano giù nella sala. Vicini c'erano soltanto gli amici di Elric, Dyvim Tvar e Cymoril. Eppure Yyrkoon sapeva che i suoi sostenitori udivano ogni parola, e che avrebbe perso la faccia se non avesse reagito. Elric capiva che Yyrkoon avrebbe preferito abbandonare quel confronto e sce-
gliere un altro giorno e un altro terreno per continuare la battaglia, ma ciò non era possibile. Lo stesso Elric non provava il desiderio di continuare la sciocca discussione che, per quanto dissimulata, non era meglio del litigio di due bambine per disputarsi il diritto di giocare per prima con gli schiavi. Decise di troncarla. Yyrkoon incominciò: «Mi sia consentito osservare che un imperatore fisicamente debole potrebbe esserlo anche nella volontà di governare come si conviene...» Ed Elric alzò la mano. «Hai già fatto abbastanza, caro cugino. Più che abbastanza. Ti sei stancato con questa conversazione, mentre avresti preferito danzare. Sono commosso dalla tua premura. Ma ora anch'io mi sento prendere dalla stanchezza.» Rivolse un cenno al suo vecchio servitore Ossastorte, che stava in un angolo sul podio del trono, fra i soldati. «Ossastorte! Il mio mantello!» Si alzò. «Ti ringrazio di nuovo per la tua premura, cugino.» Poi si rivolse alla corte, in generale. «Mi sono divertito. Ora mi ritiro.» Ossastorte portò il mantello di volpe bianca e lo drappeggiò sulle spalle del suo padrone. Ossastorte era molto vecchio e molto più alto di Elric, sebbene avesse la schiena curva e tutti gli arti nodosi e ripiegati su se stessi come i rami di un albero vecchio e robusto. Elric attraversò il podio e varcò la porta che dava sul corridoio del suo appartamento privato. Yyrkoon rimase lì, esasperato. Si girò di scatto e aprì la bocca, come per rivolgere la parola ai cortigiani in attesa. Alcuni, che non l'appoggiavano, sorridevano apertamente. Yyrkoon strinse i pugni contro i fianchi e si oscurò in volto. Lanciò un'occhiata feroce a Dyvim Tvar e aprì le labbra sottili per parlare. Dyvim Tvar ricambiò impassibile l'occhiata, sfidandolo ad aggiungere qualcosa. Yyrkoon ributtò la testa all'indietro, cosicché le ciocche dei capelli ricciuti e lucidi gli ondeggiarono sulle spalle. E rise. Quel suono aspro riempì la sala. La musica si arrestò. La risata continuò. Yyrkoon salì gli altri gradini e si fermò sul podio. Si drappeggiò addosso il pesante mantello, in modo che gli avvolgesse il corpo. Cymoril gli si accostò. «Yyrkoon, ti prego, non...» Lui la respinse con un movimento della spalla. Yyrkoon si avviò a passi rigidi verso il Trono di Rubino. Era evidente che stava per sedervisi, compiendo una delle azioni più proditorie possibili
secondo il codice di Melniboné. Cymoril salì di corsa quei pochi gradini e l'afferrò per il braccio. La risata di Yyrkoon si fece più forte. «È Yyrkoon, che costoro vorrebbero vedere sul Trono di Rubino» disse alla sorella. Lei soffocò un grido e guardò inorridita Dyvim Tvar, che era cupo e furioso. Dyvim Tvar fece un cenno alle guardie, e immediatamente due file di uomini armati e corazzati si pararono tra Yyrkoon e il trono. Yyrkoon fissò indignato il signore delle Grotte dei Draghi. «Avevi maggiori speranze di perire con il tuo padrone» sibilò. «Questa guardia d'onore ti scorterà fuori dalla sala da ballo» disse tranquillo Dyvim Tvar. «Siamo stati tutti stimolati dalla tua conversazione di questa sera, principe Yyrkoon.» Yyrkoon indugiò, si guardò intorno, poi si rilassò. Scrollò le spalle. «C'è tempo. Se Elric non abdicherà, sarà necessario deporlo.» La snella figura di Cymoril era irrigidita. Le sfolgoravano gli occhi. Disse al fratello: «Se farai del male a Elric in qualsiasi modo, ti ucciderò io stessa.» Lui inarcò le sottili sopracciglia e sorrise. In quel momento pareva odiare la sorella più ancora di quanto odiasse il cugino. «La tua devozione a quell'essere ha segnato la tua sorte, Cymoril. Preferisco che tu muoia, piuttosto che metta al mondo la sua progenie. Non permetterò che il sangue della nostra stirpe sia svilito, contaminato, o anche solo sfiorato, dal suo sangue. Pensa alla tua vita, sorella, prima di minacciare la mia.» E scese tempestosamente la scalinata, facendosi largo a spintoni tra coloro che salivano per congratularsi con lui. Sapeva di aver perso, e i mormorii dei suoi adulatori servivano solo a irritarlo di più. Le grandi porte della sala sbatterono e si chiusero. Yyrkoon se n'era andato. Dyvim Tvar alzò le braccia. «Continuate a danzare, cortigiani. Allietatevi con tutto ciò che questa sala può offrire. L'imperatore se ne compiacerà.» Ma era evidente che per quella notte non ci sarebbero state molte altre danze. I cortigiani erano già passati alle conversazioni, discutendo animatamente sull'accaduto. Dyvim Tvar si rivolse a Cymoril. «Elric rifiuta di rendersi conto del pericolo, principessa Cymoril. L'ambizione di Yyrkoon potrebbe attirare il disastro su noi tutti.» «Compreso Yyrkoon» sospirò Cymoril.
«Sì, compreso Yyrkoon. Ma come possiamo evitarlo, Cymoril, se Elric non darà ordine di arrestare tuo fratello?» «È convinto che a quelli come Yyrkoon debba essere consentito di dire ciò che vogliono. Fa parte della sua filosofia. Io la comprendo appena, ma sembra che faccia parte integrante delle sue convinzioni. Se uccìde Yyrkoon, distrugge la base su cui opera la sua logica. Almeno, signore dei Draghi, è quanto ha cercato di spiegare a me.» Dyvim Tvar sospirò e aggrottò la fronte. Sebbene fosse incapace di comprendere Elric, temeva di accostarsi qualche volta al punto di vista di Yyrkoon. Le motivazioni e gli argomenti del principe, almeno, erano relativamente chiari. Tuttavia conosceva troppo bene il carattere di Elric per credere che agisse spinto dalla debolezza o dal lassismo. Era un paradosso: Elric tollerava il tradimento di Yyrkoon perché era forte, perché aveva il potere di annientarlo quando avesse voluto. E il carattere di Yyrkoon era tale da spingerlo continuamente a mettere alla prova la forza di Elric, perché sapeva istintivamente che se Elric si fosse indebolito e avesse ordinato di ucciderlo, allora lui avrebbe vinto. Era una situazione complessa, e Dyvim Tvar avrebbe desiderato ardentemente di non esservi coinvolto. Ma la sua devozione alla stirpe reale di Melniboné era grande, e ancor più grande era la sua fedeltà personale verso Elric. Aveva preso in considerazione la possibilità di far assassinare segretamente Yyrkoon, ma sapeva che un simile piano sarebbe andato sicuramente a vuoto. Yyrkoon era uno stregone dai poteri immensi, e senza dubbio sarebbe stato preavvertito di ogni attentato alla sua vita. «Principessa Cymoril» disse, «posso soltanto pregare che tuo fratello trangugi tanta rabbia da avvelenarsi.» «Mi unisco a te in questa preghiera, signore delle Grotte dei Draghi.» Uscirono insieme dalla sala. CAPITOLO TERZO CAVALCATA MATTUTINA: UN MOMENTO DI SERENITÀ La luce del primo mattino toccava le alte torri di Imrryr e le faceva scintillare. Ogni torre aveva una sfumatura diversa: c'erano mille colori morbidi. C'erano i rosa delle rose e i gialli del polline, c'erano i porpora e i verdi chiari, i malva e i bruni e gli arancioni, gli azzurri nebulosi, i bianchi e gli ori polverosi, tutti incantevoli nella luce del sole. Due cavalieri lasciarono
la Città Sognante e si allontanarono dalle mura, sui prati verdi, in direzione di una pineta dove, fra i tronchi scuri, sembrava rimanere ancora qualcosa della notte. Gli scoiattoli saltellavano e le volpi strisciavano furtivamente verso le tane; gli uccelli cantavano e i fiori della foresta schiudevano i petali e saturavano l'aria di delicati profumi. Pochi insetti volavano pigramente. Il contrasto tra la vita nella città vicina e quella torpida rusticità era grandissimo, e sembrava rispecchiare alcuni dei contrasti esistenti almeno nella mente di uno dei cavalieri: il quale ora smontò e condusse a mano il suo destriero avanzando in una massa di fiori azzurri che gli arrivavano all'altezza delle ginocchia. L'altro cavaliere, che era una fanciulla, arrestò il cavallo ma non smontò. Invece si appoggiò con disinvoltura all'alto pomo della sella melniboneana e sorrise all'uomo, il suo innamorato. «Elric? Vuoi fermarti così vicino a Imrryr?» Lui si voltò per ricambiare il sorriso. «Per il momento. La nostra fuga è stata frettolosa. Vorrei raccogliere i miei pensieri, prima di proseguire.» «Come hai dormito, questa notte?» «Abbastanza bene, Cymoril, anche se devo aver sognato senza saperlo, perché c'erano... c'erano vari accenni nella mia mente, quando mi sono svegliato. Ma del resto l'incontro con Yyrkoon non è stato piacevole...» «Pensi che intenda usare la stregoneria contro di te?» Elric scrollò le spalle. «Lo saprei, se operasse contro di me un incantesimo cospicuo. E conosce il mio potere. Non credo che oserebbe ricorrere alla stregoneria.» «Ha ragione, a credere che tu non useresti il tuo potere. Ha riflettuto molto a lungo sulla tua personalità: non c'è pericolo che incominci a preoccuparsi delle tue capacità? Che metta alla prova la tua magia, come ha messo alla prova la tua pazienza?» Elric aggrottò la fronte. «Sì, suppongo che tale pericolo esista. Ma penso che non sia ancora così.» «Non sarà felice se non quando tu sarai stato annientato.» «O quando verrà annientato lui stesso, Cymoril.» Elric si chinò e colse un fiore. Sorrise. «Tuo fratello è portato agli assoluti, non è vero? Il debole odia la debolezza.» Cymoril comprese ciò che lui intendeva dire. Smontò da cavallo e gli si appressò. La sua veste sottile si armonizzava quasi alla perfezione con il colore dei fiori tra cui camminava. Elric le porse il fiore e lei lo prese, sfiorando i petali con le labbra perfette. «E il forte odia la forza, amore mio. Yyrkoon è del mio sangue, eppure ti do un consiglio: usa la tua forza con-
tro di lui.» «Non potrei ucciderlo. Non ne ho il diritto.» Il volto di Elric si atteggiò alla solita espressione pensierosa. «Potresti esiliarlo.» «Ma l'esilio non è identico alla morte, per un melniboneano?» «Tu, proprio tu, hai parlato di viaggiare nelle terre dei Regni Giovani.» Elric rise, amaramente. «Ma forse io non sono un vero melniboneano. Yyrkoon l'ha detto... e altri fanno eco ai suoi pensieri.» «Ti odia perché sei un contemplativo. Tuo padre era un contemplativo, eppure nessuno negava che fosse un degno imperatore.» «Mio padre aveva deciso di non trasfondere nelle sue azioni personali il risultato della sua contemplazione. Regnava come deve regnare un imperatore. Anche Yyrkoon, devo ammetterlo, regnerebbe come si conviene a un imperatore. E ha anche la possibilità di rendere di nuovo grande Melniboné. Se fosse il sovrano, intraprenderebbe una campagna di conquista per riportare i nostri commerci al volume di un tempo, per estendere il nostro potere sulla terra. Ed è quanto desidera la maggioranza del nostro popolo. Ho il diritto di negare la realizzazione di un simile desiderio?» «Hai il diritto di fare ciò che credi, perché tu sei l'imperatore. Tutti coloro che ti sono fedeli la pensano come me.» «Forse la loro fedeltà è malriposta. Forse Yyrkoon ha ragione e io tradirò quella fedeltà portando la sventura sull'Isola del Drago.» I tristi occhi cremisi di Elric fissarono direttamente gli occhi di lei. «Forse avrei dovuto morire appena uscito dal grembo di mia madre. Allora Yyrkoon sarebbe divenuto imperatore. Il Fato è stato frustrato?» «Il Fato non è mai frustrato. Ciò che è avvenuto è avvenuto perché così ha voluto il Fato... se in verità il Fato esiste e se le azioni degli uomini non costituiscono soltanto una reazione alle azioni di altri uomini.» Elric tirò un profondo sospiro e la guardò con un'espressione sfumata d'ironia. «La tua logica ti conduce molto vicina all'eresia, Cymoril, se dobbiamo credere alle tradizioni di Melniboné. Forse sarebbe meglio che tu dimenticassi la tua amicizia per me.» Lei rise. «Incominci a parlare come mio fratello. Vuoi mettere alla prova il mio amore per te, mio signore?» Elric si accinse a risalire in sella. «No, Cymoril, ma ti consiglierei di metterlo tu stessa alla prova, perché sento che nel nostro amore è implicita la tragedia.» Mentre Cymoril rimontava a cavallo, gli sorrise e scosse il capo. «Tu
vedi la sventura in ogni cosa. Non sei capace di accettare i bei doni che ti sono stati concessi? Non sono molto numerosi, mio signore.» «Sì. Ne convengo.» Si girarono sulle selle udendo dietro di loro uno scalpitio di zoccoli. A una certa distanza scorsero una compagnia di cavalieri giallovestiti che procedevano piuttosto in disordine. Era la scorta, che loro avevano lasciato indietro desiderando procedere da soli. «Vieni!» esclamò Elric. «Attraverso i boschi e quella collina! Non ci troveranno mai!» Spronarono i destrieri attraverso la foresta trafitta dai raggi del sole e su per le ripide pendici della collina sfrecciando giù per l'altro versante e lungo una pianura dove crescevano arbusti di noidel, con i lucidi frutti velenosi che splendevano di un azzurro purpureo: un colore notturno che neppure la luce del giorno bastava a disperdere. In Melniboné c'erano molte bacche ed erbe strane, ad alcune delle quali Elric doveva la vita. Altre venivano usate per preparare pozioni incantate, ed erano state seminate molte generazioni prima dagli antenati di Elric. Ormai ben pochi melniboneani lasciavano Imrryr anche solo per raccogliere quelle messi. Soltanto gli schiavi visitavano quasi tutta l'isola, alla ricerca delle radici e degli arbusti che facevano sognare agli uomini sogni mostruosi e magnifici, perché era nei sogni che i nobili di Melniboné trovavano gran parte dei loro piaceri: erano sempre stati una razza cupa e introspettiva, e per questa caratteristica Imrryr era stata soprannominata la Città Sognante. Là perfino gli schiavi più umili masticavano droghe che portavano l'oblio, e perciò era facile dominarli poiché erano asserviti ai loro sogni. Soltanto Elric rifiutava quelle droghe, forse perché era costretto a usarne tante altre solo per rimanere in vita. Le guardie giallovestite si erano perse, dietro di loro; quando i due ebbero attraversato la pianura su cui crescevano gli arbusti di noidel rallentarono la loro corsa e giunsero finalmente agli strapiombi e poi al mare. Il mare splendeva luminoso, e bagnava languidamente le bianche spiagge ai piedi dei precipizi. Gli uccelli marini volteggiavano nel cielo limpido, e le loro lontane grida parevano sottolineare il senso di pace che adesso avvolgeva Elric e Cymoril. In silenzio gli innamorati guidarono i cavalli giù per i ripidi sentieri fino alla spiaggia; poi li legarono e presero a camminare sulla sabbia. I loro capelli - bianchi quelli di lui, quelli di lei neri come il giaietto - ondeggiavano al vento dell'est. Trovarono una grande caverna asciutta che raccoglieva i suoni del mare
e rispondeva in un'eco mormorante. Si tolsero le vesti seriche e fecero l'amore, teneramente, nelle ombre della grotta. Poi giacquero l'uno nelle braccia dell'altra mentre il giorno si riscaldava e il vento cadeva. Infine andarono a bagnarsi nelle onde, riempiendo il cielo vuoto con le loro risa. Quando si furono asciugati e presero a rivestirsi, notarono che l'orizzonte incominciava a oscurarsi. Elric disse: «Ci bagneremo di nuovo, prima di ritornare a Imrryr. Per quanto possiamo cavalcare veloci, il temporale ci coglierà.» «Forse dovremmo rimanere in questa grotta fino a quando sarà passato» propose Cymoril, avvicinandosi e stringendosi a lui. «No» replicò Elric. «Devo ritornare presto, perché a Imrryr ci sono pozioni che devo prendere affinché il mio corpo conservi la sua forza. Ancora un'ora o due e incomincerò a indebolirmi. Mi hai già visto debole altre volte.» Lei gli accarezzò il volto, guardandolo con occhi colmi di comprensione. «Sì. Ti ho visto debole altre volte, Elric. Vieni, andiamo a prendere i cavalli.» Quando raggiunsero i cavalli, il cielo era già grigio sopra le loro teste e pieno di un tenebrore ribollente non molto lontano, verso est. Si udivano il brontolio del tuono e lo schianto del fulmine. Il mare si dibatteva, come se fosse stato contagiato dall'isterismo del cielo. I cavalli sbuffavano e raspavano la sabbia con gli zoccoli, ansiosi di ritornare. Mentre Elric e Cymoril montavano in sella, grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere sulle loro teste e a spargersi sui mantelli. Poi, all'improvviso, cavalcarono di gran carriera verso Imrryr, mentre i fulmini balenavano intorno a loro e il tuono ruggiva come un gigante furibondo, come un grande e vecchio Signore del Caos che tentasse di fare inaspettatamente irruzione nel Reame della Terra. Cymoril lanciò un'occhiata al pallido volto di Elric, illuminato per un momento da un lampo del fuoco celeste, e si sentì prendere da un brivido di freddo: un freddo che non era dovuto al vento o alla pioggia, perché in quell'istante le parve che il mite erudito da lei amato fosse stato trasformato dagli elementi in un demone dell'inferno, in un mostro che conservava appena una parvenza di umanità. I suoi occhi cremisi divampavano nel biancore del suo volto come le fiamme dell'Inferno Superiore; i capelli erano spinti in alto dal vento della corsa, diventando la cresta di un elmo si-
nistro; e per uno scherzo della luce della tempesta, la sua bocca appariva contorta in un miscuglio di rabbia e d'ironia. E all'improvviso Cymoril comprese. Comprese, profondamente, che la loro cavalcata mattutina era stata l'ultimo momento di pace che loro due avrebbero mai più vissuto. Il temporale era un segno degli dèi, un presagio delle tempeste future. Guardò il suo innamorato. Elric rideva. Aveva la faccia rivolta in alto, cosicché la tiepida pioggia la irrorava e l'acqua scrosciava nella bocca dischiusa. La risata era quella spontanea e semplice di un bambino felice. Cymoril si sforzò di ridere a sua volta, ma dovette distogliere di nuovo il volto affinché lui non vedesse: aveva cominciato a piangere. Piangeva ancora quando comparve in lontananza Imrryr: un profilo nero e grottesco contro una linea di fulgore che era l'orizzonte occidentale, ancora incontaminato. CAPITOLO QUARTO PRIGIONIERI: VENGONO ESTORTI I LORO SEGRETI Gli uomini dall'armatura gialla videro Elric e Cymoril quando si avvicinarono alla più piccola delle porte orientali. «Ci hanno trovati, finalmente» commentò Elric, sorridendo nella pioggia. «Ma piuttosto in ritardo, eh, Cymoril?» Cymoril, ancora oppressa da quel presagio di sventura, si limitò ad annuire e si sforzò di sorridere a sua volta. Elric interpretò il sorriso come null'altro che un'espressione di disappunto, e gridò alle guardie: «Ehilà, uomini! Presto saremo di nuovo asciutti!» Ma il capitano della guardia si spinse al galoppo verso di lui, gridando: «L'imperatore mio signore è desiderato alla Torre di Monshanjik, dove sono tenute le spie.» «Le spie?» «Sì, mio signore.» L'uomo era pallidissimo in volto. L'acqua gli ruscellava dall'elmo e oscurava il sottile mantello. Il cavallo era bizzoso, e continuava a scartare zampettando nelle pozzanghere che si erano formate in ogni punto dove la strada era dissestata. «Catturate nel labirinto questa mattina. Barbari del sud, a giudicare dalle vesti a scacchi. Li abbiamo trattenuti in attesa che l'imperatore possa interrogarli personalmente.» Elric agitò la mano. «E allora precedici, capitano. Vediamo gli sciocchi
temerari che hanno osato sfidare il labirinto marino di Melniboné.» La Torre di Monshanjik aveva preso il nome dall'architetto-stregone che millenni prima aveva progettato il labirinto marino. Quel labirinto era l'unica via per raggiungere il grande porto di Imrryr, e i suoi segreti erano sempre stati guardati scrupolosamente perché costituivano la protezione più valida contro un attacco inaspettato. Era un labirinto complicato, e occorrevano piloti esperti e ben addestrati per condurvi le navi. Prima che il labirinto fosse stato costruito, il porto era una specie di laguna interna alimentata dal mare che penetrava attraverso un sistema di grotte naturali nelle scogliere torreggianti tra la laguna stessa e l'oceano. C'erano cinque diversi percorsi che conducevano attraverso il labirinto, e ogni pilota ne conosceva soltanto uno. Nella muraglia esterna delle scogliere si aprivano cinque ingressi. Là le navi dei Regni Giovani attendevano fino a quando saliva a bordo un pilota. Poi si sollevava la saracinesca di una delle cinque entrate: tutti coloro che si trovavano a bordo venivano bendati e mandati sottocoperta a eccezione del maestro dei rematori e del timoniere, i quali dovevano calzare un pesante elmo d'acciaio in modo che non potessero vedere nulla e non potessero far altro che ubbidire alle complicate istruzioni del pilota. E se una nave dei Regni Giovani disubbidiva a tali istruzioni e andava a schiantarsi contro le muraglie di roccia, Melniboné non ne piangeva la perdita e i superstiti venivano tenuti come schiavi. Tutti coloro che volevano commerciare con la Città Sognante erano consci dei rischi, ma ogni mese decine di mercanti venivano a sfidare i pericoli del labirinto e a scambiare le loro povere merci con le splendide ricchezze di Melniboné. La Torre di Monshanjik dominava il porto e il massiccio molo che si protendeva verso il centro della laguna. Era una torre verdemare, tozza in confronto alla maggioranza delle altre di Imrryr, ma tuttavia era una struttura bellissima e affusolata, con ampie finestre da cui si poteva vedere tutto il porto. Nella Torre di Monshanjik si svolgevano quasi tutti gli affari del porto, e nelle cantine inferiori venivano tenuti i prigionieri che avevano violato le migliaia di norme dalle quali l'attività del porto era regolata. Dopo aver lasciato Cymoril, che fece ritorno al palazzo con una guardia, Elric entrò nella torre, passando a cavallo dal grande voltone senza disperdere alcuni mercanti che attendevano il permesso d'iniziare i loro baratti: infatti tutto il pianterreno era pieno di marinai, mercanti e funzionari melniboneani impegnati nelle attività commerciali, sebbene non fosse lì che venivano
messe in mostra le mercanzie. Il grande brusio echeggiante di mille voci impegnate in mille aspetti separati della contrattazione tacque quando Elric e la sua guardia passarono arrogantemente a cavallo da un altro arco buio, in fondo allo stanzone. L'arco si apriva su una rampa che scendeva incurvandosi nelle viscere della torre. I cavalieri scesero sferragliando la rampa, e incrociarono schiavi, servitori e funzionari che si affrettavano a trarsi in disparte, inchinandosi profondamente appena riconoscevano l'imperatore. Grandi fiaccole rischiaravano la galleria, crepitando e fumando e gettando ombre deformate sulle levigate pareti di ossidiana. Ora nell'aria aleggiava un freddo umido, perché l'acqua lambiva le mura esterne al disotto dei moli di Imrryr. E l'imperatore continuava a discendere attraverso la roccia vitrea. E poi un'ondata di calore salì a incontrarli, e più avanti si scorse una luce mutevole: entrarono in una grande camera che era piena di fumo e dell'odore della paura. Dal basso soffitto pendevano catene; e da otto di quelle catene, appesi per i piedi, penzolavano quattro individui. I panni erano stati strappati loro di dosso, ma i loro corpi erano come rivestiti dal sangue sgorgato da minuscole ferite, precise ma dolorose, incise dall'artista che «con in mano la lancetta» stava osservando i risultati del suo lavoro. L'artista era alto e magrissimo, quasi scheletrico negli indumenti bianchi macchiati. Le labbra erano sottili, gli occhi simili a fessure, le dita esili, i capelli radi; e anche la lancetta che stringeva era sottile, quasi invisibile tranne quando lampeggiava nella luce del fuoco che eruttava da una fossa, in fondo alla caverna. L'artista veniva chiamato dottor Scherzo, e l'arte che praticava era più teatrale che creativa (sebbene lui usasse sostenere altrimenti, con una certa convinzione): l'arte di estorcere segreti a coloro che ne avevano. Il dottor Scherzo era il capoinquisitore di Melniboné. Si girò, sinuosamente, quando Elric entrò, tenendo la lancetta fra il pollice sottile e il sottile indice della mano destra: stava pronto, in attesa, quasi come un danzatore. S'inchinò dalla cintola in su. «Mio dolce imperatore!» La sua voce era sottile. Gli usciva precipitosamente dall'esile gola come se volesse fuggire; e quasi ci si domandava se si erano udite davvero quelle parole, venute e andate con tanta rapidità. «Dottore. Sono questi i meridionali catturati questa mattina?» «In verità sì, mio signore.» Un altro inchino sinuoso. «Per il tuo piacere.» Freddamente, Elric esaminò i prigionieri. Non provava compassione per loro. Erano spie. Erano state le loro azioni a portarli lì. Avevano saputo co-
sa sarebbe accaduto se fossero stati catturati. Ma uno era un ragazzo e un altro una donna, sembrava, sebbene si contorcessero tanto nelle loro catene che a prima vista era difficile capirlo. Gli parve una vergogna. Poi la donna fece scattare verso di lui i denti che ancora le restavano e sibilò: «Demonio!» Elric indietreggiò, chiedendo: «Dottore, ti hanno informato su cosa stavano facendo nel nostro labirinto?» «Continuano tuttora a provocarmi con allusioni. Hanno uno splendido senso teatrale. Lo apprezzo. Erano qui, direi, per scoprire attraverso il labirinto un percorso che poi possa essere seguito in forze dagli scorridori. Ma finora non hanno rivelato i particolari. Il gioco è questo, e sappiamo tutti come lo si deve giocare.» «E quando te lo diranno, dottor Scherzo?» «Oh, molto presto, mio signore.» «Sarebbe meglio saperlo, se dobbiamo aspettarci un attacco. Prima lo sapremo, e meno tempo perderemo nel respingerlo quando verrà. Non sei d'accordo, dottore?» «Sono d'accordo, mio signore.» «Benissimo.» Elric era irritato da quella spiacevole interruzione della sua giornata. Aveva guastato il piacere della cavalcata, l'aveva portato troppo presto a faccia a faccia con i suoi doveri. Il dottor Scherzo ritornò ai suoi pazienti. Tesa la mano libera, afferrò con una mossa esperta i genitali di uno dei prigionieri. Poi la lancetta balenò. Ci fu un gemito. Il dottor Scherzo gettò qualcosa nel fuoco. Elric si sedette sul seggio preparato per lui. Era più annoiato che disgustato dai rituali connessi alla raccolta delle informazioni; e gli urli discordanti, lo scroscio delle catene, i sottili bisbigli del dottor Scherzo, contribuivano a distruggere il senso di benessere che aveva conservato anche mentre entrava in quella camera. Ma era uno dei suoi doveri di sovrano presenziare a rituali del genere, e a quello doveva assistere fino a quando gli fosse stata presentata l'informazione e lui avesse potuto congratularsi con il suo capoinquisitore e impartire ordini sul modo di sventare qualunque attacco; e dopo aver finito avrebbe dovuto conferire con ammiragli e generali, probabilmente per il resto della notte, scegliendo tra le argomentazioni, decidendo la disposizione di uomini e navi. Con uno sbadiglio malamente dissimulato si appoggiò allo schienale e guardò il dottor Scherzo che passava su quei corpi dita e lancetta, tenaglie e pinze. Presto cominciò a pensare ad altre cose: problemi filosofici che finora non era riuscito a risolvere.
Disumano non era, Elric: ma era ancora un melniboneano. Era abituato a quegli spettacoli fin dall'infanzia. Non avrebbe potuto salvare i prigionieri, se anche l'avesse voluto, senza andar contro a tutte le tradizioni dell'Isola del Drago. E in quel caso si trattava semplicemente di una minaccia da parare con i migliori metodi a disposizione. Si era abituato a escludere i sentimenti che entravano in conflitto con i suoi doveri d'imperatore. Se ci fosse stato qualche motivo per liberare i quattro che ora danzavano secondo il capriccio del dottor Scherzo, li avrebbe liberati: ma non ce n'era ragione, e i quattro sarebbero rimasti sbalorditi se avessero ricevuto un trattamento diverso da quello che ricevevano. Per quanto riguardava le decisioni morali, in generale Elric era molto pratico. Prendeva la decisione nel contesto dell'azione che poteva compiere. In quel caso, non poteva far nulla. Una simile reazione era diventata per lui una seconda natura. Non desiderava riformare Melniboné ma se stesso; non iniziare un'azione, ma conoscere il modo migliore per reagire alle azioni degli altri. Lì, era facile prendere la decisione. Una spia era un aggressore. Bisognava difendersi dagli aggressori nel modo migliore. I metodi adottati dal dottor Scherzo erano appunto i migliori. «Mio signore?» Distrattamente, Elric alzò la testa. «Ora abbiamo l'informazione, mio signore.» La sottile voce del dottor Scherzo frusciava nella camera. Adesso due coppie di catene erano rimaste libere, e gli schiavi stavano raccogliendo cose dal pavimento e le gettavano nel fuoco. Le due masse informi che ancora rimanevano ricordavano a Elric la carne scrupolosamente preparata da uno scalco. Una delle masse fremeva ancora, leggermente, ma l'altra era immobile. Il dottor Scherzo ripose i suoi strumenti in un sottile astuccio che portava in una borsa appesa alla cintura. I suoi indumenti bianchi erano quasi completamente coperti di macchie. «Sembra che ci siano state altre spie, prima di costoro» disse al suo signore. «Questi erano venuti esclusivamente per confermare il percorso. Se non ritorneranno in tempo, i barbari alzeranno ugualmente le vele.» «Ma senza dubbio sapranno che li aspettiamo» replicò Elric. «Probabilmente no, mio signore. Tra i mercanti e i marinai dei Regni Giovani è stata diffusa la voce che quattro spie sono state avvistate nel labirinto e trafitte con le lance: uccise mentre cercavano di fuggire.» «Capisco.» Elric aggrottò la fronte. «Allora il piano migliore, per noi, sarà di preparare una trappola per gli scorridori.»
«Sì, mio signore.» «Conosci il percorso che hanno scelto?» «Sì, mio signore.» Elric si rivolse a una delle sue guardie. «Fa' inviare messaggi a tutti i nostri generali e ammiragli. Che ore sono?» «È appena trascorsa l'ora del tramonto, mio sovrano.» «Di' loro che si radunino davanti al Trono di Rubino, due ore dopo il tramonto.» Stancamente, Elric si alzò. «Hai fatto un buon lavoro come al solito, dottor Scherzo.» Il magro artista si inchinò profondamente, e parve piegarsi in due. La sua risposta fu un sospiro sottile e un po' untuoso. CAPITOLO QUINTO UNA BATTAGLIA: IL RE DIMOSTRA IL PROPRIO VALORE Yyrkoon fu il primo ad arrivare, tutto abbigliato con marziale eleganza e accompagnato da due enormi guardie che reggevano gli ornati stendardi di guerra del principe. «Mio imperatore!» Il grido di Yyrkoon fu fiero e sdegnoso. «Vuoi lasciare che sia io a comandare i guerrieri? Ciò ti esimerebbe almeno da questo compito, dato che senza dubbio hai molti altri problemi che occupano il tuo tempo.» Elric rispose spazientito: «Sei molto premuroso, principe Yyrkoon, ma non temere per me. Io comanderò gli eserciti e le flotte di Melniboné, perché questo è il dovere dell'imperatore.» Yyrkoon s'incupì e si trasse in disparte mentre entrava Dyvim Tvar, signore delle Grotte dei Draghi. Non aveva guardie con sé, e sembrava che si fosse vestito affrettatamente. Reggeva l'elmo sotto il braccio. «Mio imperatore, porto notizie dei draghi...» «Ti ringrazio, Dyvim Tvar, ma attendi che siano radunati tutti i miei comandanti e riferisci tali notizie anche a loro.» Dyvim Tvar s'inchinò e andò a mettersi sul lato della sala di fronte a quello su cui stava il principe Yyrkoon. I guerrieri arrivarono alla spicciolata, finché una ventina di grandi capitani si trovarono ad attendere ai piedi della scalinata che portava al Trono di Rubino su cui sedeva Elric. Elric indossava ancora gli abiti con cui era
uscito a cavallo quel mattino. Non aveva avuto tempo di cambiarsi, e fino a poco prima aveva consultato le piante dei labirinti: piante che lui solo poteva leggere, e che in tempi normali erano nascoste con mezzi magici per sottrarle a chiunque potesse tentare di scovarle. «I meridionali vorrebbero rubare le ricchezze di Imrryr e massacrarci tutti» cominciò Elric. «Credono di aver trovato una via per attraversare il nostro labirinto marino. Una fiotta di cento navi da guerra sta già veleggiando verso Melniboné. Domani attenderà sotto l'orizzonte fino al crepuscolo, e poi si accosterà al labirinto ed entrerà. Per mezzanotte conta di raggiungere il porto, per prendere la Città Sognante prima dell'alba. È possibile, mi domando?» «No!» Furono molti a pronunciare quella parola. «No.» Elric sorrise. «Ma come potremo meglio goderci la piccola guerra che costoro ci offrono?» Yyrkoon, come sempre, fu il primo a gridare. «Usciamo per andare loro incontro, subito, con i draghi e le chiatte da battaglia. Inseguiamoli fino alla loro terra, portandovi la guerra che vorrebbero combattere contro di noi. Attacchiamo le loro nazioni e incendiamo le loro città! Sconfiggiamoli, garantendoci in tal modo la sicurezza!» Dyvim Tvar riprese la parola. «Niente draghi» disse. «Cosa?» Yyrkoon si girò di scatto. «Cosa?» «Niente draghi, principe. Non si sveglieranno. I draghi dormono nelle loro grotte, esausti dall'ultimo scontro sostenuto per te.» «Per me?» «Sei stato tu a volerli usare nel nostro conflitto con i pirati vilmiriani. Io ti avevo detto che avrei preferito riservarli per qualche impegno di maggiore portata. Ma tu li hai lanciati contro i pirati e hai incendiato le loro modeste imbarcazioni, e ora i draghi dormono.» Yyrkoon si oscurò in volto. Alzò la testa verso Elric. «Non sapevo...» Elric levò la mano. «Non dobbiamo usare i nostri draghi fino al momento in cui avremo veramente bisogno del loro intervento. Questo attacco della flotta meridionale è cosa da nulla. Ma conserveremo la nostra forza, se prenderemo tempo. Lasciamoli nella convinzione che siamo impreparati. Lasciamo che penetrino nel labirinto. Quando tutte le cento navi saranno passate, piomberemo loro addosso bloccando tutti i percorsi che permettono di entrare e uscire dal labirinto. Dopo averli presi in trappola, potremo facilmente schiacciarli.»
Yyrkoon riabbassò gli occhi, stizzito: evidentemente avrebbe voluto trovare qualche lacuna in quel piano. Il vecchio ammiraglio Magum Colim, alto nella sua armatura verdemare, si fece avanti e s'inchinò. «Le auree chiatte da battaglia di Imrryr sono pronte a difendere la loro città, mio sovrano. Tuttavia ci vorrà tempo per disporle in posizione. Non è certo che possano stare tutte nel labirinto.» «Allora fanne salpare alcune e nascondile intorno alla costa, in modo che restino in attesa degli eventuali superstiti sfuggiti al nostro attacco» gli ordinò Elric. «Un piano molto utile, mio sovrano.» Magum Colim s'inchinò e arretrò tra la folla dei suoi pari. Il dibattito continuò per qualche tempo, e quando tutto fu pronto si accinsero ad andarsene. Ma il principe Yyrkoon gridò di nuovo: «Ripeto la mia offerta all'imperatore. La sua persona è troppo preziosa perché possa rischiare in battaglia. La mia persona... non vale nulla. Permettimi di comandare i guerrieri di terra e di mare mentre il mio imperatore potrà rimanere nel palazzo, indisturbato dalla battaglia e sicuro che verrà vinta e che i meridionali verranno annientati. Forse c'è un libro che desidera finire di leggere?» Elric sorrise. «Ti ringrazio ancora una volta per la tua premura, principe Yyrkoon. Ma un imperatore deve usare il proprio corpo, e non soltanto la propria mente. Domani comanderò personalmente i guerrieri.» Quando Elric ritornò ai propri appartamenti, vide che Ossastorte aveva già preparato le sue armi nere e pesanti. C'era l'armatura che era servita a cento imperatori melniboneani, un'armatura forgiata con incantesimi che le conferivano una forza inuguagliata nel Reame della Terra: a quanto si diceva, poteva resistere perfino al morso delle mitiche lame stregate Tempestosa e Luttuosa, che erano stata impugnate dai più perversi dei tanti perversi sovrani di Melniboné prima di essere prese dai Signori dei Mondi Superiori e nascoste per l'eternità in un reame dove perfino quei Signori potevano raramente avventurarsi. Il vecchio servo aveva il volto pieno di gioia mentre toccava con le lunghe dita nodose ogni pezzo dell'armatura e ogni arma splendidamente bilanciata. Quella faccia rugosa sì levò poi verso il volto di Elric, scavato dalle preoccupazioni. «Oh, mio signore! Oh, mio re! Presto conoscerai la gioia della battaglia!» «Sì, Ossastorte... e speriamo che sia davvero una gioia.» «Io ti ho insegnato tutte le arti: l'arte della spada e del pugnale, l'arte del-
l'arco, l'arte della lancia, a cavallo e a piedi. E tu hai imparato bene, sebbene dicano che sei debole. Eccettuato uno soltanto, non esiste in Melniboné uno spadaccino che sia migliore di te.» «Il principe Yyrkoon può essere migliore di me» disse Elric in tono riflessivo. «No?» «Ho detto "eccettuato uno soltanto", mio signore.» «E quell'uno è Yyrkoon. Bene, forse un giorno potremo accertare la cosa. Farò il bagno, prima d'indossare tutto questo metallo.» «È meglio che ti affretti, padrone. A quel che sento, c'è molto da fare.» «E dopo aver fatto il bagno, dormirò.» Elric sorrise della costernazione del vecchio amico. «Sarà meglio così, poiché non posso comandare personalmente le chiatte per farle appostare. A me toccherà comandare lo scontro, e vi riuscirò meglio se sarò riposato.» «Se tu giudichi che sia bene, mio signore e re, allora è bene.» «E tu sei sbalordito. Sei troppo impaziente, Ossastorte: non vedi l'ora d'infilarmi in quell'armatura e di vedermi pavoneggiare come se fossi Arioch in persona...» Ossastorte si portò la mano alla bocca, di scatto, come se fosse stato lui a pronunciare quelle parole e ora cercasse di trattenerle. Spalancò gli occhi. Elric rise. «Tu pensi che io proferisca eresie temerarie, eh? Be', ho detto di peggio senza che mi sia mai accaduto del male. In Melniboné, Ossastorte, sono gli imperatori a comandare i demoni, non viceversa.» «Se lo dici tu, mio sovrano.» «È la verità.» Elric uscì frettolosamente dalla stanza, chiamando i suoi schiavi. La febbre della guerra lo invadeva, e lui era giubilante. Ora aveva addosso l'armatura nera: la massiccia corazza, il giustacuore imbottito, i lunghi schinieri, i guanti di maglia. Al fianco gli pendeva uno spadone lungo un metro e mezzo, appartenuto - si diceva - a un eroe umano di nome Aubec. Sul ponte, contro l'aurea balaustrata della tolda, c'era il suo grande scudo rotondo con il simbolo del drago volteggiante. Sulla testa portava un elmo: un elmo nero, con una testa di drago per cimiero, e ali di drago che si allargavano all'indietro e in alto, e una coda di drago che scendeva arricciolata. Tutto l'elmo era nero, ma all'interno c'era un'ombra bianca in cui brillavano terribili due sfere cremisi, e dai lati dell'elmo scendevano ciocche sfuggenti di capelli lattei, quasi simili al fumo che si leva da un edificio incendiato. E quando l'elmo assorbì quel poco di luce proveniente dalla lanterna appesa alla base dell'albero maestro, l'ombra
bianca diventò più nitida e rivelò i lineamenti... lineamenti fini e bellissimi, naso diritto, labbra incurvate, occhi obliqui. L'imperatore Elric di Melniboné scrutava l'oscurità del labirinto, in attesa di captare i primi suoni dell'avvicinarsi degli scorridori dei mari. Era ritto sull'alta tolda della grande e aurea chiatta da battaglia, simile a uno ziggurat galleggiante dotato di alberi e veli e remi e catapulte. La nave si chiamava Figlio del Pyaray, ed era l'ammiraglia della flotta. Accanto a Elric stava ritto il grandammiraglio Magum Colim. Come Dyvim Tvar, l'ammiraglio era uno dei pochi amici intimi di Elric. Lo conosceva da sempre e l'aveva incoraggiato ad apprendere tutto ciò che poteva sull'arte di comandare le navi e le flotte da guerra. In segreto, forse, temeva che Elric fosse troppo erudito e introspettivo per governare Melniboné: ma accettava il suo diritto di regnare, e s'incolleriva e si spazientiva ai discorsi di quelli come Yyrkoon. Anche il principe Yyrkoon era a bordo dell'ammiraglia, ma in quel momento era sottocoperta a ispezionare le macchine belliche. Il Figlio del Pyaray era all'ancora in un'enorme grotta, una tra le centinaia inserite nelle muraglie del labirinto all'epoca della sua costruzione e ideate appunto per quello scopo: nascondere una chiatta da battaglia. L'altezza era appena sufficiente per gli alberi, la larghezza permetteva appena che i remi si muovessero liberamente. Ognuna delle auree chiatte da battaglia era munita di più file di remi; ogni fila aveva da venti a trenta remi per lato. Le file dei remi potevano essere quattro, cinque o sei, e - come nel caso del Figlio del Pyaray - potevano esserci tre sistemi di timoneria indipendenti, a poppa e a prua. Poiché erano tutti corazzati d'oro i vascelli erano virtualmente indistruttibili, e nonostante le dimensioni massicce potevano muoversi rapidamente ed eseguire manovre delicate quando se ne presentava la necessità. Non era la prima volta che attendevano il nemico in quelle grotte. E non sarebbe stata l'ultima... anche se, la volta successiva, le circostanze sarebbero state molto diverse. Le chiatte da battaglia di Melniboné si vedevano soltanto raramente sui mari aperti, di quei tempi: ma in passato avevano navigato sugli oceani del mondo, come terribili e auree montagne galleggianti, e avevano portato il terrore dovunque venissero avvistate. A quei tempi la flotta era assai più numerosa: comprendeva centinaia di vascelli. Adesso erano meno di quaranta navi. Ma sarebbero state sufficienti. Nell'oscurità satura d'umidità, attendevano i nemici. Mentre ascoltava il cavernoso sciabordio dell'acqua contro i fianchi della
nave, Elric si rammaricò di non aver potuto ideare un piano migliore. Era sicuro che quello avrebbe funzionato: ma rimpiangeva lo spreco di vite, melniboneane e barbare. Sarebbe stato meglio se, in un modo o nell'altro, avesse potuto ideare un mezzo per spaventare i barbari e volgerli in fuga invece di intrappolarli nel labirinto marino. La flotta meridionale non era la prima a essere stuzzicata dalla favolosa ricchezza di Imrryr. I suoi equipaggi non erano i primi a nutrire la convinzione che i melniboneani, poiché adesso non si avventuravano mai lontano dalla Città Sognante, fossero divenuti decadenti, incapaci di difendere i loro tesori. Perciò era necessario annientare i meridionali, per impartire una lezione. Melniboné era ancora forte. Era abbastanza forte, secondo l'opinione di Yyrkoon, da riconquistare l'antico dominio sul mondo... forte per la sua stregoneria, se non per i suoi soldati. «Silenzio!» L'ammiraglio Magum Colim protese la testa in avanti. «Era lo sciacquio di un remo?» Elric annuì. «Mi pare.» Poi udirono scrosci regolari, file di remi che si immergevano nell'acqua e ne emergevano, e lo scricchiolio del fasciame. I meridionali si stavano avvicinando. Il Figlio del Pyaray era la nave più vicina all'entrata, e sarebbe stata la prima a muoversi quando l'ultimo dei vascelli meridionali fosse passato. L'ammiraglio Magum Colim si chinò e spense la lanterna: poi prontamente, senza far rumore, scese a informare l'equipaggio dell'appressarsi dei barbari. Poco prima, Yyrkoon si era servito della sua magia per evocare una nebbia bizzarra, che nascondeva alla vista le chiatte d'oro ma che non ostacolava la visuale di coloro che stavano a bordo delle navi melniboneane. Elric, adesso, vedeva le torce che ardevano nel canale, più avanti, mentre i rematori avanzavano cautamente nel labirinto. Nel volgere di pochi minuti, dieci galee passarono davanti alla grotta. L'ammiraglio Magum Colim raggiunse Elric sulla tolda: con lui c'era il principe Yyrkoon. Anche Yyrkoon portava un elmo ornato da un drago, sebbene meno magnifico di quello di Elric, poiché Elric era il più eminente dei pochi principi-draghi superstiti di Melniboné. Yyrkoon sogghignava nell'oscurità, e gli occhi gli brillavano nell'attesa dell'imminente massacro. Elric avrebbe preferito che il principe Yyrkoon avesse scelto un'altra nave: ma aveva il diritto di stare a bordo dell'ammiraglia, e lui non poteva negarglielo. Ormai erano passati metà dei cento vascelli. L'armatura di Yyrkoon cigolava mentre lui, spazientito, camminava a-
vanti e indietro sulla tolda, tenendo la mano guantata sull'elsa dello spadone. «Tra poco» continuava a ripetersi. «Tra poco.» E poi l'ancora salì scricchiolando e i remi s'immersero nell'acqua, mentre l'ultima nave dei meridionali passava oltre: uscirono fulmineamente dalla grotta ed entrarono nel canale, speronando di fianco la galea nemica e schiantandola in due. Dall'equipaggio barbaro si levò un grande urlo. Molti uomini vennero scagliati in tutte le direzioni. Le torce danzavano irregolarmente su ciò che restava del ponte, mentre gli uomini tentavano di salvarsi lasciandosi scivolare nelle acque scure e gelide del canale. Qualche ardimentoso scagliò la lancia contro le fiancate dell'ammiraglia di Melniboné, che cominciava a girare tra i relitti dello sfacelo da lei stessa creato. Ma gli arcieri di Imrryr ricambiarono i tiri, e i pochi superstiti caddero. Il frastuono di quel rapido conflitto fu il segnale per le altre chiatte da battaglia. In ordine perfetto, uscirono da entrambi i lati delle alte muraglie di roccia: ai barbari attoniti dovette sembrare che le grandi navi auree fossero uscite dalla pietra compatta... navi fantasma cariche di demoni che facevano grandinare su di loro lance, frecce e torce. Tutto il canale tortuoso era un caos di grida di guerra, riecheggianti e tonanti, e lo scroscio dell'acciaio contro l'acciaio era simile al sibilo selvaggio di un serpente mostruoso, e la stessa flotta degli incursori sembrava un serpente mozzato in cento pezzi dalle alte e implacabili navi dorate di Melniboné. Quelle navi apparivano quasi imperturbabili mentre muovevano contro i nemici, con i grappini d'abbordaggio che si protendevano lampeggiando per agganciarsi ai ponti di legno e ai parapetti e per attirare più vicine le galee al fine di distruggerle. Ma i meridionali erano coraggiosi, e non persero la testa dopo lo sbalordimento iniziale. Tre delle loro galee puntarono direttamente sul Figlio del Pyaray, riconoscendolo per l'ammiraglia. Le frecce incendiarie volarono alte e caddero sui ponti, che erano lignei e non protetti dalla corazzatura d'oro, appiccando incendi dovunque piombassero o recando una morte fiammeggiante agli uomini che colpivano. Elric si alzò lo scudo sopra la testa: due frecce lo colpirono, e ancora fiammeggianti rimbalzarono via su un ponte inferiore. Scavalcò d'un balzo il parapetto, seguendo le frecce, e saltò sul ponte più esposto e affollato, dove i suoi guerrieri si raggruppavano preparandosi ad affrontare le galee lanciate all'attacco. Le catapulte fecero udire i loro tonfi, e globi di fuoco azzurro sibilarono nelle tenebre mancando di pochissimo tutt'e tre le galee.
Seguì un'altra raffica: una massa di fuoco colpì l'albero della galea più lontana ed esplose sul ponte, sparpagliando dovunque fiamme altissime. I grappini scattarono e agganciarono la prima galea trascinandola vicina, e Elric fu tra i primi a saltar giù sul ponte: si avventò verso il capitano, rivestito da una rozza armatura a scacchi e drappeggiato in una sopravveste pure a riquadri, che con uno spadone stretto tra le enormi mani urlava ai suoi uomini di resistere ai cani di Melniboné. Mentre Elric si avvicinava al ponte di comando, tre barbari armati di spade ricurve e di piccoli scudi rettangolari sì avventarono verso di lui. I loro volti esprimevano paura ma anche decisione, come se sapessero di dover morire ma intendessero causare ogni possibile distruzione prima di rendere l'anima. Infilato sul braccio lo scudo, Elric afferrò lo spadone con entrambe le mani e caricò i marinai, rovesciandone uno con l'orlo dello scudo e fracassando la clavicola a un altro. Il terzo barbaro spiccò un balzo a lato e con la spada a lama curva sferrò un affondo contro il volto di Elric. Quest'ultimo evitò il colpo di stretta misura: il filo tagliente della lama gli scalfì la guancia, facendo sprizzare una o due gocce di sangue. Elric brandì lo spadone come una falce, e la lama affondò nel fianco del barbaro tagliandolo quasi in due. Per un momento quello si dibatté, come se non sapesse rendersi conto che era morto; ma poi, mentre Elric ritraeva la spada con uno strattone, chiuse gli occhi e si accasciò. L'uomo che Elric aveva colpito con lo scudo si stava rimettendo in piedi, barcollante: il melniboneano si girò di scatto, lo vide, e gli sfasciò il cranio con un fendente. Ormai la via verso il ponte di comando era libera. Elric prese a salire la scaletta, notando che il capitano l'aveva scorto e lo stava attendendo lassù. Levò lo scudo, per parare il primo colpo del comandante barbaro. Nel frastuono, ebbe l'impressione di udire le grida di quell'uomo. «Muori, demonio dalla faccia bianca! Muori! Su questa terra non c'è più posto per te!» Quelle parole per poco non distolsero Elric dall'impegno di difendersi. Gli sembravano fin troppo vere. Forse non c'era posto per lui, sulla terra. Forse era per questo, che Melniboné declinava lentamente e ogni anno le nascite erano sempre meno numerose e perfino i draghi non si riproducevano più. Lasciò che il capitano vibrasse un altro colpo contro lo scudo, poi con un allungo avventò un fendente alle gambe dell'avversario. Ma il capitano, che aveva previsto quella mossa, spiccò un balzo indietro. Questo, comunque, diede a Elric il tempo di salire precipitosamente gli ultimi
scalini e di piazzarsi sul ponte, di fronte all'avversario. Il volto dell'uomo era pallido quasi quanto quello di Elric. Sudava e ansimava, e i suoi occhi erano colmi di tristezza e di una paura frenetica. «Dovevate lasciarci in pace.» Elric udì la propria voce pronunciare queste parole. «Noi non vi abbiamo fatto nulla di male, barbaro. Quand'è stato che Melniboné ha fatto vela per l'ultima volta contro i Regni Giovani?» «Voi ci fate del male con la vostra sola presenza, Faccia Bianca. C'è la vostra stregoneria. Ci sono le vostre consuetudini. E c'è la vostra arroganza.» «È per questo che siete venuti qui? L'attacco è stato motivato dal disgusto che provate per noi? Oppure vorreste impossessarvi delle nostre ricchezze? Ammettilo, capitano: è stata l'avidità, a condurvi a Melniboné.» «L'avidità, almeno, è una qualità onesta e comprensibile. Ma voi non siete umani. Peggio: non siete dèi, sebbene vi comportiate come se lo foste. Il vostro tempo è finito: verrete spazzati via, la vostra città sarà distrutta, le vostre stregonerie dimenticate.» Elric annuì. «Forse hai ragione tu, capitano.» «Ho ragione. Lo dicono i nostri santoni. I nostri veggenti predicono la vostra caduta. E a causarla saranno gli stessi Signori del Caos che voi servite.» «I Signori del Caos non si interessano più della sorte di Melniboné. Hanno ritirato il loro potere quasi mille anni fa.» Elric scrutò attentamente il capitano, calcolando la distanza che li divideva. «Forse è per questo che la nostra potenza è tramontata. O forse ci siamo semplicemente stancati di possederla.» «Sia come sia» disse il capitano, tergendosi la fronte sudata, «il vostro tempo è finito. È necessario annientarvi, una volta per tutte.» E poi lanciò un gemito, perché lo spadone di Elric s'era infilato fulmineamente sotto la corazza a scacchi piantandosi dal basso in alto nello stomaco e nei polmoni. Con un ginocchio piegato e l'altra gamba protesa all'indietro, Elric incominciò a ritirare la lunga lama, levando gli occhi verso il volto del barbaro che aveva assunto una strana espressione conciliante. «Non è corretto, Faccia Bianca. Avevamo appena incominciato a parlare e tu hai troncato la conversazione. Sei molto abile. Possa tu contorcerti per sempre nell'Inferno Superiore. Addio.» Elric quasi non comprese perché, dopo che il capitano era caduto prono sul ponte, gli colpì due volte il collo finché la testa si staccò dal busto roto-
lando sulla tolda e lui la gettò fuoribordo con un calcio, facendola precipitare nell'acqua fredda e profonda. E poi Yyrkoon salì dietro Elric, sogghignando ancora. «Hai combattuto con impeto e valore, mio imperatore. Quell'uomo aveva ragione.» «Ragione?» Elric fissò cupamente il cugino. «Ragione?» «Sì... nel giudicare il tuo valore.» E ridacchiando Yyrkoon andò a dirigere l'attività dei suoi uomini, che stavano liquidando gli ultimi nemici. Elric non sapeva perché avesse rifiutato di odiare Yyrkoon, prima d'ora. Ma adesso lo odiava. In quel momento, sarebbe stato lieto di ucciderlo. Era come se Yyrkoon avesse scrutato nelle profondità della sua anima e avesse espresso disprezzo per ciò che vi aveva visto. All'improvviso Elric fu sopraffatto da un'infelicità rabbiosa, e si augurò con tutto il cuore di non essere melniboneano e di non essere imperatore, e soprattutto desiderò che Yyrkoon non fosse mai nato. CAPITOLO SESTO INSEGUIMENTO: UN TRADIMENTO PREMEDITATO Come maestosi leviatani, le grandi e auree chiatte da battaglia mossero tra i relitti della flotta nemica. Alcune navi bruciavano e altre stavano ancora affondando, ma quasi tutte erano state inghiottite dalle insondabili profondità del canale. Le navi in fiamme facevano danzare strane ombre sulle umide muraglie delle caverne marine, come se gli spettri dei caduti lanciassero un ultimo saluto prima di scendere negli abissi del mare dove si diceva che regnasse ancora un re del Caos, il quale creava gli equipaggi delle sue flotte stregate con le anime di tutti coloro che erano morti combattendo sugli oceani del mondo. O forse si avviavano verso una sorte più benigna, al servizio di Straasha, signore degli spiriti elementari dell'acqua, che governava la superficie del mare. Ma alcuni si erano salvati. I marinai meridionali erano passati tra le massicce chiatte da battaglia, ritornando attraverso il canale: e ormai dovevano aver raggiunto il mare aperto. L'annuncio venne dato all'ammiraglia dove Elric, Magum Colim e il principe Yyrkoon s'erano ritrovati sul ponte e osservavano la distruzione da loro causata. «Allora dobbiamo inseguirli e finirli» disse Yyrkoon. Sudava, e il suo volto scuro era lucido; gli occhi brillavano di febbre. «Dobbiamo inseguirli.»
Elric scrollò le spalle. Si sentiva debole. Non aveva portato con sé una scorta di droghe, per riaccendere le proprie forze. Desiderava far ritorno a Imrryr per riposare. Era stanco di massacri, stanco di Yyrkoon; e soprattutto era stanco di se stesso. L'odio per il cugino lo svuotava ancora di più... e lui odiava quell'odio: era la cosa peggiore. «No» disse. «Lasciali andare.» «Lasciarli andare? Impuniti? Suvvia, mio signore e sovrano! Non è questa la nostra consuetudine!» Il principe Yyrkoon si rivolse all'anziano ammiraglio. «È forse la nostra consuetudine, ammiraglio Magum Colim?» Magum Colim si strinse nelle spalle. Anche lui era stanco, ma segretamente concordava con Yyrkoon. Un nemico di Melniboné doveva venire punito già per aver osato pensare di attaccare la Città Sognante. Tuttavia disse: «Dev'essere l'imperatore, a decidere.» «Lasciateli andare» ripeté Elric. Si appoggiò pesantemente al parapetto. «Lasciate che portino l'annuncio alla loro terra barbara, che raccontino come fi hanno sconfitti i principi-draghi. La notizia si diffonderà. Credo che per diverso tempo gli scorridori non ci daranno fastidio.» «I Regni Giovani sono pieni di pazzi» replicò Yyrkoon. «Non crederanno all'annuncio. Continueranno le loro scorrerie. Il modo migliore per dissuaderli consiste nell'assicurarci che non un solo meridionale sfugga alla morte o alla cattura.» Elric tirò un profondo respiro, cercando di lottare contro la debolezza che minacciava di sopraffarlo. «Principe Yyrkoon, tu metti alla prova la mia pazienza...» «Ma, mio imperatore, io penso soltanto al bene di Melniboné. Certo non vorrai che il tuo popolo ti accusi di essere debole, di temere uno scontro con cinque misere galee delle terre del sud!» Questa volta la collera di Elric gli restituì la forza. «Chi dirà che Elric è debole? Forse tu, Yyrkoon?» Sapeva che quanto stava per dire era insensato, ma non poté trattenersi. «Benissimo, inseguiamo pure quelle misere imbarcazioni e affondiamole. Ma affrettiamoci. Sono stanco di tutto questo.» C'era una luce misteriosa negli occhi di Yyrkoon, mentre si allontanava per trasmettere gli ordini. Il cielo stava cangiando dal nero al grigio quando la flotta di Melniboné raggiunse il mare aperto e rivolse la prua a sud, in direzione del Mare Bollente e del continente meridionale. Le navi barbare non avrebbero attraversato il Mare Bollente - si diceva che nessuna nave dei mortali ne fosse in
grado - ma l'avrebbero circumnavigato. Tuttavia non avrebbero neppure raggiunto il limitare di quel mare, perché le. enormi chiatte da battaglia erano molto veloci. Gli schiavi che manovravano i remi erano saturi di una droga che moltiplicava le loro forze e la loro velocità per una ventina di ore prima di ucciderli. E ormai le vele si gonfiavano, prendendo il vento. Erano come montagne auree che sorvolassero rapide il mare, quelle navi: i metodi di costruzione costituivano un segreto perduto perfino per i melniboneani, che avevano dimenticato gran parte delle antiche tradizioni. Era facile immaginare che gli uomini dei Regni Giovani odiassero Melniboné e le sue invenzioni, poiché le chiatte da battaglia parevano appartenenti a un'epoca più antica, estranea, mentre si avvicinavano alle galee in fuga avvistate all'orizzonte. Il Figlio del Pyaray precedeva il resto della flotta, e stava già caricando le catapulte molto prima che dalle altre chiatte si avvistasse il nemico. Gli schiavi, in un bagno di sudore, maneggiavano cautamente la sostanza viscosa delle sfere infuocate, deponendole nelle bronzee conche delle catapulte per mezzo di lunghe tenaglie dalle estremità a cucchiaio. La luminosità di quella sostanza balenava nell'oscurità che precede l'alba. Altri schiavi salirono le scale del ponte di comando e portarono vino e piatti di platino colmi di cibo ai tre principi-draghi che erano rimasti lassù fin dall'inizio dell'inseguimento. Elric non riusciva a trovare l'energia necessaria per mangiare: ma prese un alto calice di vino giallo e lo vuotò. Il liquido era forte, e lo rianimò un poco. Se ne fece versare un altro calice e lo bevve altrettanto in fretta. Scrutò davanti a sé. Era quasi l'alba. All'orizzonte si scorgeva una linea di luce purpurea. «Al primo apparire del disco solare» ordinò, «lanciate le sfere incendiarie.» «Darò io l'ordine» disse Magum Colim, asciugandosi le labbra e deponendo l'osso carnoso che stava spolpando. Lasciò il ponte, e Elric udì il suo passo pesante sui gradini. All'improvviso si sentì circondato da nemici. Era stato piuttosto strano, l'atteggiamento di Magum Colim durante la discussione con il principe Yyrkoon. Elric cercò di scacciare quei pensieri assurdi. Ma la stanchezza, il dubbio, l'aperto sarcasmo di suo cugino, tutto contribuiva ad accrescere la sensazione di essere solo, senza amici al mondo. Perfino Cymoril e Dyvim Tvar, in fondo, erano melniboneani, e non potevano comprendere le bizzarre preoccupazioni che lo motivavano e che dettavano le sue azioni. Forse sarebbe stato saggio abbandonare tutto ciò che era melniboneano e girare il mondo come un anonimo soldato di ventura, servendo chiunque avesse bisogno del suo aiuto?
Il rossocupo semicerchio del sole spuntò sopra la linea nera delle acque, all'orizzonte. Dai ponti anteriori dell'ammiraglia salirono in successione i suoni tonanti via via che le catapulte scagliavano i proiettili incendiari: ci fu un sibilo urlante che svanì in lontananza, e parve che una decina di meteore balzassero attraverso il cielo piombando verso le cinque galee, che ormai erano a una distanza di poco superiore a trenta lunghezze di nave. Elric vide due galee avvampare, ma le altre tre presero a seguire una rotta zigzagante evitando le sfere infuocate, che caddero sull'acqua e bruciarono convulsamente per qualche attimo prima di affondare. Vennero preparate altre sfere, e Elric udì Yyrkoon gridare dall'altra parte del ponte ordinando agli schiavi d'impegnarsi di più. Poi i vascelli in fuga cambiarono tattica, rendendosi evidentemente conto che non avrebbero potuto salvarsi in nessun caso: e divergendo veleggiarono verso il Figlio del Pyaray, come avevano fatto altre navi nel labirinto marino. Elric non ammirava soltanto il loro coraggio, ma anche l'abilità della manovra e la velocità con cui avevano preso quella decisione logica anche se disperata. Il sole era alle spalle delle galee meridionali, quando queste virarono. Le tre sagome ardimentose si avvicinarono all'ammiraglia melniboneana, mentre il mare si chiazzava di scarlatto, quasi in un presagio dell'imminente spargimento di sangue. Dall'ammiraglia partì una nuova raffica di sfere incendiarie: la prima galea tentò di bordeggiare per evitarle, ma due globi fiammeggianti piovvero sul ponte e poco dopo l'intera nave fu avvolta dalle vampe. Uomini in fiamme si buttarono in acqua. Uomini in fiamme scagliarono frecce contro l'ammiraglia. Uomini in fiamme caddero lentamente dalle loro postazioni tra le sartie. Gli uomini morivano, ma la nave che bruciava continuava ad avanzare: qualcuno aveva legato la barra del timone e aveva puntato la prua della galea verso il Figlio del Pyaray. La galea si scontrò con l'aurea fiancata della chiatta da battaglia e il fuoco schizzò sul ponte, dov'erano piazzate le principali catapulte. Un calderone pieno di sostanza incendiaria avvampò, e subito accorsero da ogni parte uomini che cercarono di domare l'incendio. Elric sogghignò nel vedere ciò che avevano fatto i barbari. Forse avevano permesso deliberatamente che la loro nave venisse incendiata. Ormai quasi tutto l'equipaggio dell'ammiraglia era impegnato nel tentativo di spegnere le fiamme... mentre le navi meridionali si accostavano, alzavano i grappini, e si agganciavano alle fiancate. «Attenti all'abbordaggio!» gridò Elric, molto più tardi di quanto avrebbe potuto avvertire i suoi uomini. «I barbari attaccano!»
Vide Yyrkoon che si girava di scatto, valutava la situazione, e scendeva precipitosamente la scaletta del ponte di comando. «Rimani lì, mio sovrano!» gridò a Elric, prima di scomparire. «Sei troppo debole per combattere.» Ma Elric chiamò a raccolta tutte le forze che gli rimanevano e seguì barcollando il cugino per contribuire alla difesa della nave. I barbari non combattevano per salvarsi la vita: sapevano di averla già perduta. Combattevano soltanto per orgoglio. Volevano trascinare a fondo, insieme a loro, una nave melniboneana: e doveva essere l'ammiraglia. Era difficile provare disprezzo per uomini come quelli. Sapevano che anche se avessero preso l'ammiraglia le altre navi della flotta dorata sarebbero riuscite ben presto a sopraffarli. Ma le altre navi si trovavano ancora a una certa distanza: molte vite sarebbero andate perdute prima che riuscissero a raggiungere l'ammiraglia. Sul ponte inferiore, Elric si trovò di fronte a due barbari imponenti: ognuno era armato di una spada ricurva e di un piccolo scudo rettangolare. Spiccò un balzo in avanti ma l'armatura pareva opprimere le sue membra, e lo scudo e la spada erano così pesanti che riusciva a malapena a sollevarli. Due spade gli colpirono l'elmo, quasi simultaneamente. Spiccò un balzo indietro, e ferì al braccio uno degli uomini urtando l'altro con lo scudo. Una lama ricurva sferragliò contro la parte dorsale della sua corazza e per poco non gli fece perdere l'equilibrio. Dappertutto c'erano fumo soffocante e calore insopportabile e il tumulto della battaglia. Elric girò disperatamente su se stesso, e sentì lo spadone mordere a fondo le carni del suo nemico. Uno dei suoi avversari cadde gorgogliando: fiotti di sangue gli uscivano dalla bocca e dal naso. L'altro si avventò. Elric indietreggiò, inciampò sul corpo dell'uomo che aveva ucciso, e cadde, tenendo levato davanti a sé lo spadone con una mano sola. E mentre il barbaro, trionfante, gli balzava addosso per finirlo, l'imperatore albino lo infilzò con la punta della lama, trapassandolo. Il morto crollò addosso a Elric, che non sentì neppure l'urto perché era già svenuto. Non era la prima volta che il suo sangue insufficiente, non più arricchito dalle droghe, lo tradiva. Sentì un sapore salato, e in un primo istante pensò che fosse sangue. Ma era acqua di mare. Un'ondata aveva investito il ponte, rianimandolo momentaneamente. Si sforzò per scrollarsi da dosso il cadavere, e poi udì una voce che riconobbe. Girò la testa e alzò lo sguardo. Era il principe Yyrkoon. Sogghignava. Si rallegrava della situazione di
Elric. Il fumo nero e oleoso aleggiava ancora dovunque, ma i suoni dello scontro erano cessati. «Abbiamo... abbiamo vinto, cugino?» chiese Elric, faticosamente. «Sì. Ormai tutti i barbari sono morti. Stiamo per far vela verso Imrryr.» Elric provò un senso di sollievo. Presto avrebbe incominciato a morire, se non poteva disporre della sua scorta di pozioni. Quel sollievo dovette essere molto evidente, perché Yyrkoon rise: «È un bene che la battaglia non si sia protratta più a lungo, mio signore, altrimenti saremmo rimasti senza il nostro comandante.» «Aiutami a rialzarmi, cugino.» Elric detestava l'idea di dover chiedere un favore al principe Yyrkoon, ma non aveva scelta. Protese la mano. «Sono abbastanza in forze per ispezionare la nave.» Yyrkoon si avvicinò, come per prendergli la mano, poi esitò, senza smettere di sorridere. «Non sono d'accordo, mio signore. Sarai morto prima che questa nave diriga di nuovo a oriente.» «Sciocchezze. Anche senza le droghe posso vivere per un tempo considerevole, sebbene mi sia difficile muovermi. Aiutami a rialzarmi, Yyrkoon. Te lo ordino.» «Tu non puoi darmi ordini, Elric. Ora l'imperatore sono io, capisci?» «Sta' in guardia, cugino. Io posso perdonare un simile tradimento, ma altri non lo perdonerebbero. Sarò costretto a...» Yyrkoon scavalcò il corpo giacente di Elric e si diresse al parapetto. Lì c'erano i bulloni che inchiavardavano una sezione della balaustrata quando non veniva usata come passerella. Lentamente Yyrkoon svitò i bulloni e con un calcio fece cadere in acqua la sezione del parapetto. Elric si sforzò freneticamente di liberarsi, ma quasi non riusciva a muoversi. Yyrkoon, invece, sembrava posseduto da una forza soprannaturale. Si chinò e senza difficoltà scagliò lontano da Elric il cadavere. «Yyrkoon» disse l'imperatore, «questa è una pazzia.» «Non sono mai stato un uomo prudente, cugino, come tu ben sai.» Yyrkoon appoggiò il piede contro le costole di Elric e cominciò a spingere. Elric scivolò verso il varco nella balaustrata. Poteva vedere il nero mare che si gonfiava, laggiù. «Addio, Elric. Ora un vero melniboneano prenderà posto sul Trono di Rubino. E chissà, potrebbe anche fare di Cymoril la sua regina. Dopotutto, non è cosa inaudita...» Elric si sentì rotolare, si sentì cadere, si sentì piombare nell'acqua, sentì il peso dell'armatura che lo trascinava sotto la superficie. E le ultime parole
di Yyrkoon tambureggiarono negli orecchi dell'imperatore come il tuono insistente delle onde contro i fianchi dell'aurea chiatta da battaglia. PARTE SECONDA Più incerto che mai di se stesso e del suo destino, il sovrano albino è costretto a ricorrere ai suoi poteri magici, nella consapevolezza di aver compiuto una scelta in contrasto con la sua concezione originaria del modo in cui voleva vivere la sua vita. E ora è inevitabile regolare i conti Il sovrano deve incominciare a regnare. Deve diventare crudele. Ma perfino in questo si ritroverà frustrato. CAPITOLO PRIMO LE CAVERNE DEL RE DEL MARE Elric affondò rapidamente, sforzandosi con disperazione di trattenere il fiato. Non aveva forza di nuotare, e il peso dell'armatura gli toglieva ogni speranza di risalire alla superficie e di essere avvistato da Magum Colim o da qualcuno degli altri che ancora gli erano fedeli. Il rombo si attenuò gradualmente nei suoi orecchi e divenne un sussurro, come se voci sottili gli parlassero: le voci degli spiriti elementari dell'acqua, con cui in gioventù aveva stretto una certa amicizia. E la sofferenza svanì dai suoi polmoni; la nebbia rossa si diradò davanti ai suoi occhi, e gli parve di scorgere il volto di suo padre Sadric, di Cymoril, e fuggevolmente di Yyrkoon. Sciocco Yyrkoon: sebbene si vantasse tanto di essere un vero melniboneano, era privo della sottigliezza tipica della razza di Melniboné. Era brutale e diretto come alcuni dei barbari dei Regni Giovani che tanto disprezzava. E ora Elric cominciò quasi a provare un senso di gratitudine per il cugino. La sua vita era conclusa. I conflitti che dilaniavano la sua mente non l'avrebbero più turbato. Le sue paure, i suoi tormenti, i suoi affetti e i suoi odii appartenevano tutti al passato, e davanti a lui si schiudeva soltanto l'oblio. Mentre l'ultimo soffio di respiro esalava dal suo corpo, si abbandonò completamente al mare: a Straasha, signore di tutti gli spiriti elementari dell'acqua, un tempo compagno del popolo di Melniboné. E in quel momento rammentò l'antico incantesimo che i suoi antenati avevano usato per evocare Straasha. L'incantesimo affiorò nel suo cervello morente senza che lui lo cercasse.
Acqua del mare, tu ci hai dato vita, sei stata il nostro latte e nostra madre nei giorni quando il cielo era coperto: e l'ultima sarai, tu che sei prima Re del mare, antenato del mio sangue, chiedo il tuo aiuto, sì, chiedo il tuo aiuto: sangue è il tuo sale, il nostro sangue è sale, e il sangue tuo è sangue anche dell'Uomo. Straasha, eterno re ed eterno mare, chiedo il tuo aiuto, sì, chiedo il tuo aiuto; perché i nemici tuoi, nemici miei, voglion toglierci il fato e il nostro mare. Quelle parole avevano un antico significato simbolico; o forse alludevano a un episodio della storia di Melniboné che neppure Elric aveva avuto la possibilità di leggere. Erano parole che significavano ben poco, per lui: eppure continuavano a ripetersi mentre il suo corpo scendeva a profondità sempre maggiori nelle acque verdi. Anche quando la tenebra lo sopraffece e i polmoni gli si riempirono d'acqua, quelle parole continuarono a sussurrare nei meandri del suo cervello. Era strano che lui fosse morto e tuttavia continuasse a udire l'incantesimo. Era trascorso moltissimo tempo, gli parve, quando i suoi occhi si schiusero rivelando l'acqua turbinante e più oltre immani figure indistinte che aleggiavano verso di lui. La morte, a quanto pareva, impiegava molto tempo a venire: e mentre lui moriva, sognava. La prima di quelle figure aveva la barba e la chioma color turchese, la carnagione verdepallida che sembrava fatta di mare, e - quando parlò - una voce simile al suono delle onde. Sorrise a Elric. «Straasha risponde al tuo appello, mortale. I nostri destini sono uniti. Come posso aiutarti, e aiutando te aiutare anche me stesso?» Elric aveva la bocca piena d'acqua, e tuttavia sembrava ancora capace di parlare: questo dimostrava che stava sognando. Disse: «Re Straasha. I dipinti nella Torre di D'a'rputna... nella biblioteca. Li ho visti quando ero bambino. Re Straasha.» Il re del mare protese le verdi mani. «Sì. Tu hai lanciato l'appello. Tu hai
bisogno del nostro aiuto. Noi onoriamo l'antico patto con la tua gente.» «No. Non intendevo chiamarti. L'invocazione è venuta nella mia mente moribonda senza che io la cercassi. Sono felice di annegare, re Straasha.» «Non è possibile. Se la tua mente ci ha invocati, significa che tu desideri vivere. Noi ti aiuteremo.» La barba di re Straasha ondeggiava nella corrente, e i suoi profondi occhi verdi erano miti, quasi teneri, mentre fissavano l'albino. Elric richiuse le palpebre. «Sto sognando» disse. «Mi illudo con fantasie di speranza.» Si sentiva l'acqua nei polmoni, e sapeva che non respirava più. Quindi era logico che fosse morto. «Ma se tu fossi reale, vecchio amico, e se desiderassi aiutarmi, mi riporteresti a Melniboné affinché io possa sconfiggere l'usurpatore Yyrkoon e salvare Cymoril prima che sia troppo tardi. È il mio unico rimpianto... il tormento che soffrirà Cymoril se suo fratello diverrà imperatore di Melniboné.» «È tutto ciò che tu chiedi agli spiriti elementari dell'acqua?» Re Straasha sembrava quasi deluso. «Non chiedo neppure questo. Esprimo soltanto ciò che avrei desiderato se questa fosse la realtà e io stessi parlando, mentre invece so che è impossibile. Ora morirò.» «Questo non può essere, nobile Elric, perché i nostri destini sono veramente intrecciati e io so che non è ancora tuo destino perire. Perciò ti aiuterò come hai proposto.» Elric si stupì della nitidezza dei dettagli di quella fantasia. Si disse: «Quale tormento crudele impongo a me stesso! Ora devo decidermi ad ammettere che sono morto...» «Tu non puoi morire. Non ancora.» Gli parve che le premurose mani del re del mare l'avessero afferrato e lo trasportassero lungo tortuosi corridoi di delicato corallo roseo leggermente ombrato, non più nell'acqua. E si sentì svanire l'acqua dai polmoni e dallo stomaco, e respirò. Possibile che fosse stato veramente portato nel leggendario livello degli spiriti elementari, un livello che s'intersecava con quello della Terra e in cui gli spiriti stessi dimoravano quasi sempre? Giunsero infine in un'immensa caverna circolare, che splendeva di madreperla rosata e azzurrina. Il re del mare depose Elric sul pavimento della caverna, che sembrava coperto di finissima sabbia bianca: e tuttavia non era sabbia, poiché cedeva e si risollevava, elastica, quando lui si muoveva. Quando re Straasha si muoveva, produceva un suono simile alla risacca che si ritira sulla ghiaia. Il re del mare attraversò la bianca sabbia avvian-
dosi verso un grande trono di giada lattea. Si sedette sul trono, appoggiò la verde testa sulla mano pure verde, e guardò Elric con occhi sconcertati e tuttavia colmi di pietà. Elric era ancora fisicamente debole, ma poteva respirare. Sembrava quasi che l'acqua marina l'avesse saturato e poi purificato quando era scomparsa. Si sentiva la mente limpida. Adesso era assai meno certo di sognare. «Mi è ancora difficile comprendere perché tu mi abbia salvato, re Straasha» mormorò, disteso sulla sabbia. «L'incantesimo. L'abbiamo udito, su questo livello, e siamo venuti a te. Questo è tutto.» «Sì. Ma la magia non è questo soltanto. Ci sono canti, simboli, rituali di ogni tipo. Un tempo tutto questo era sempre vero.» «Forse i rituali prendono il posto della necessità urgente, come quella che ha portato a noi il tuo appello. Benché tu affermi che desideravi morire, era evidente che in verità non lo volevi, altrimenti l'invocazione non sarebbe stata tanto chiara e non sarebbe giunta così rapidamente fino a noi Ma ora dimentica tutto questo. Quando ti sarai riposato, faremo ciò che ci hai chiesto.» Faticosamente, Elric si sollevò a sedere. «Prima hai parlato di "destini intrecciati". Dunque sai qualcosa del mio destino?» «Qualcosa, credo. Il nostro mondo invecchia. Un tempo gli spiriti elementari erano potenti, sul vostro livello, e tutto il popolo di Melniboné condivideva quel potere. Ma ora la nostra potenza si dilegua, e così pure la vostra. Qualcosa sta mutando. Tutto indica che i signori dei Mondi Superiori provano di nuovo interesse per il tuo mondo. Forse temono che la gente dei Regni Giovani li abbia dimenticati. Forse i popoli dei Regni Giovani minacciano di introdurre un'epoca nuova in cui non ci sarà più posto per gli dèi e gli esseri come me. Sospetto che ci sia una certa inquietudine, sui livelli dei Mondi Superiori.» «Non sai altro?» Re Straasha levò la testa e guardò direttamente negli occhi di Elric. «Non c'è altro che io possa dirti, figlio dei miei vecchi amici, se non che tu saresti più felice se ti abbandonassi interamente al tuo destino quando lo comprenderai.» Elric sospirò. «Credo di sapere di cosa stai parlando, re Straasha. Cercherò di seguire il tuo consiglio.» «E ora che hai riposato, è tempo di ritornare.» Il re del mare si alzò dal trono di giada lattea e con movimenti fluidi si
avvicinò a Elric, sollevandolo tra le forti braccia verdi. «Ci incontreremo ancora prima che la tua vita abbia fine, Elric. Spero di poterti aiutare ancora una volta. E ricorda che anche i nostri fratelli dell'aria e del fuoco cercheranno di aiutarti. E rammenta le bestie: anche loro potranno esserti utili. Non devi sospettare del loro aiuto. Ma guardati dagli dèi, Elric. Guardati dai signori dei Mondi Superiori, e ricorda che il loro aiuto e i loro doni devono sempre essere pagati.» Furono le ultime parole che Elric sentì pronunciare dal re del mare prima che si precipitassero nuovamente per le sinuose gallerie di quel livello, con tale velocità che Elric non riusciva a distinguere i particolari e talvolta non sapeva neppure se erano ancora nel regno di re Straasha o se erano tornati ai profondi abissi del mare del suo mondo. CAPITOLO SECONDO UN NUOVO IMPERATORE E UN IMPERATORE RINNOVATO Strane nubi riempivano il cielo e il sole era pesante ed enorme e rosso dietro di loro e l'oceano era nero e le auree galee avanzavano verso la loro patria precedendo la malconcia ammiraglia, il Figlio del Pyaray, la quale si muoveva lentamente, con schiavi morti ai remi e le vele a brandelli che penzolavano afflosciate dagli alberi e uomini sporchi di fumo sui ponti e un nuovo imperatore sulla tolda devastata dal combattimento. Il nuovo imperatore era l'unico uomo giubilante della flotta: ed era veramente giubilante. Adesso era il suo vessillo, e non quello di Elric, ad avere il posto d'onore sul pennone, perché lui non aveva perso tempo nel proclamare Elric morto e se stesso sovrano di Melniboné. Per Yyrkoon quello strano cielo era un presagio di cambiamento, del ritorno alle vecchie consuetudini e all'antica potenza dell'Isola del Drago. Quando impartiva ordini, la sua voce era un autentico canto di gioia; e l'ammiraglio Magum Colim, che aveva sempre diffidato di Elric ma che adesso doveva ubbidire agli ordini di Yyrkoon, si domandava se forse non sarebbe stato preferibile trattare Yyrkoon nello stesso modo in cui sospettava che quello avesse trattato Elric. Dyvim Tvar stava appoggiato al parapetto della sua nave, la Soddisfazione Particolare di Terhali: anche lui osservava attento il cielo, sebbene vi scorgesse presagi di sventura, poiché era addolorato per Elric e si chiedeva in che modo avrebbe potuto vendicarsi del principe Yyrkoon se fosse risul-
tato che aveva assassinato il cugino per impadronirsi del Trono di Rubino. Melniboné apparve all'orizzonte: un cupo profilo di picchi, un mostro scuro accovacciato nel mare, che richiamava i suoi ai piaceri ardenti del suo grembo, la Città Sognante di Imrryr. Le grandi scogliere a strapiombo torreggiarono; la porta centrale del labirinto marino si aprì e l'acqua sciaguattò e ansimò quando le auree prue la sconvolsero, e le navi furono inghiottite dall'oscura umidità dei canali dove galleggiavano ancora i relitti dello scontro della notte precedente e dove si scorgevano ancora cadaveri bianchi e gonfi, sfiorati dalla luce delle fiaccole. Le prue si infilavano arroganti tra i resti delle loro prede, ma non c'era gioia a bordo delle auree chiatte da battaglia perché portavano l'annuncio che il loro vecchio imperatore era morto in combattimento: così aveva detto Yyrkoon. Quella notte, e poi per sette notti in tutto, la Danza Selvaggia di Melniboné avrebbe impazzato per le vie. Pozioni e lievi incantesimi avrebbero fatto sì che nessuno dormisse, poiché il sonno era vietato a tutti i melniboneani vecchi o giovani quando si osservava il lutto per un imperatore morto. Nudi, i principi-draghi si sarebbero aggirati per la città prendendo tutte le donne giovani che trovavano e riempiendole del proprio seme, poiché la tradizione voleva che se moriva l'imperatore i nobili di Melniboné generassero il maggior numero possibile di figli dal sangue aristocratico. Gli schiavi musici avrebbero ululato dall'alto di ogni torre. Altri schiavi sarebbero stati uccisi, alcuni divorati. Era una danza spaventosa, la Danza dell'Infelicità: e toglieva tante vite quante ne creava. Durante quei sette giorni, una torre sarebbe stata abbattuta e ne sarebbe stata eretta una nuova: e questa avrebbe preso il nome da Elric VIII, l'imperatore albino, ucciso sul mare mentre difendeva Melniboné contro i pirati delle terre meridionali. Ucciso sul mare, e il suo corpo era stato preso dalle onde. Non era un buon auspicio, poiché significava che Elric era andato a servire Pyaray, il Mormoratore Tentacolato dei Segreti Impossibili, il Signore del Caos che comandava la Flotta del Caos (navi morte, marinai morti, per sempre in suo potere): e non era giusto che una simile sorte fosse toccata a un membro della famiglia reale di Melniboné. Ah, ma il cordoglio sarebbe durato a lungo, pensò Dyvim Tvar. Era stato affezionato ad Elric, sebbene talvolta avesse disapprovato i metodi con cui governava l'Isola del Drago. In segreto, quella notte si sarebbe recato alle Grotte dei Draghi e avrebbe trascorso il periodo del lutto con i draghi dormienti: ora che Elric era morto, gli restavano da amare soltanto quelli. E poi Dyvim Tvar pensò a Cymoril, che attendeva il ritorno di Elric.
Le navi cominciarono a emergere nella mezza luce della sera. Già torce e bracieri ardevano sui moli di Imrryr, completamente deserti. C'era soltanto un gruppo di figure intorno a un carro che era stato condotto fino all'estremità del molo centrale. Spirava un vento freddo. Dyvim Tvar comprese che era la principessa Cymoril, venuta con le sue guardie ad attendere l'arrivo della flotta. Sebbene l'ammiraglia fosse l'ultima a uscire dal labirinto, le altre navi dovettero attendere fino a quando fu possibile rimorchiarla nella posizione prescritta e farla attraccare per prima. Se non fosse stato per quella tradizione, Dyvim Tvar avrebbe lasciato la sua nave e sarebbe andato a parlare a Cymoril: l'avrebbe accompagnata via dal molo e le avrebbe detto tutto ciò che sapeva delle circostanze della morte di Elric. Ma era impossibile. Prima ancora che la Soddisfazione Particolare di Terhali avesse calato l'ancora, la passerella principale del Figlio del Pyaray era stata abbassata e l'imperatore Yyrkoon - tutto orgoglio arrogante - era sceso levando le braccia in un saluto trionfante alla sorella, che ancora continuava a cercare con lo sguardo sui ponti delle navi l'amato imperatore albino. All'improvviso Cymoril comprese che Elric era morto, e sospettò che Yyrkoon, in un modo o nell'altro, ne fosse responsabile. Yyrkoon aveva lasciato che Elric rimanesse travolto da un gruppo di scorridori della terra del sud, oppure era riuscito a ucciderlo lui stesso. Cymoril conosceva il fratello, e quell'espressione le era nota. Yyrkoon era soddisfatto di sé, come sempre quando riusciva a perpetrare un tradimento. La collera si accese negli occhi di Cymoril, pieni di lacrime; lei ributtò all'indietro la testa e gridò al cielo inquieto e infausto: «Oh! L'ha ucciso Yyrkoon!» Le sue guardie rimasero sbalordite. Il capitano parlò, sollecito. «Signora?» «È morto... e mio fratello l'ha ucciso. Cattura il principe Yyrkoon, capitano. Uccidi il principe Yyrkoon, capitano.» Incerto e irrequieto, il capitano posò la mano sull'elsa della spada. Un giovane guerriero più impetuoso sfoderò la lama mormorando: «Lo ucciderò io, principessa, se è ciò che desideri.» Il giovane guerriero amava Cymoril con grande e cieca intensità. Il capitano lanciò un'occhiata ammonitrice al guerriero, ma quello non se ne accorse. Altri due sguainarono la spada, mentre Yyrkoon, avvolto in un mantello rosso, con il cimiero a forma di drago che rifletteva la luce delle fiaccole agitate dal vento, avanzava gridando:
«Ora Yyrkoon è imperatore!» «No!» gridò sua sorella. «Elric! Elric! Dove sei?» «Al servizio del suo nuovo padrone, Pyaray del Caos. Le sue mani morte spingono il remo di una nave del Caos, sorella. I suoi occhi morti non vedono più nulla. I suoi orecchi morti odono soltanto lo schioccare delle fruste di Pyaray, e la sua carne morta rabbrividisce sentendo solo quella sferza ultraterrena. Elric è sprofondato negli abissi del mare con la sua armatura.» «Assassino! Traditore!» cominciò a singhiozzare Cymoril. Il capitano, che era un uomo pratico, disse sottovoce ai suoi guerrieri: «Rinfoderate le armi e salutate il vostro nuovo imperatore.» Solo il giovane che amava Cymoril disubbidì. «Ma ha ucciso l'imperatore! L'ha detto Cymoril, la nostra signora!» «E con questo? Ora l'imperatore è lui. Inginocchiati, o tra un attimo sarai morto.» Il giovane guerriero lanciò un grido furibondo e balzò verso Yyrkoon, che indietreggiò cercando di liberare le braccia dalle pieghe del mantello. Questo non l'aveva previsto. Ma fu il capitano a gettarsi avanti, con la spada sguainata: e colpì il giovane, il quale lanciò un grido soffocato, fece un mezzo giro su se stesso e poi cadde ai piedi di Yyrkoon. Il gesto del capitano era una conferma del potere di Yyrkoon, che si lasciò quasi sfuggire un ghigno di soddisfazione quando abbassò lo sguardo sul cadavere. Il capitano piegò un ginocchio a terra, stringendo ancora la spada insanguinata. «Mio imperatore» disse. «Hai dimostrato un'opportuna fedeltà, capitano.» «La mia fedeltà va al Trono di Rubino.» «È così.» Cymoril tremava d'angoscia e di furore, ma il suo furore era impotente. Sapeva di non avere più amici, ormai. Beffardo, l'imperatore Yyrkoon si presentò a lei. Tese la mano e le accarezzò il collo, la guancia, la bocca. Lasciò ricadere la mano sfiorandole il seno. «Sorella» disse, «ora sei interamente mia.» E Cymoril fu la seconda a cadere ai suoi piedi, poiché era svenuta. «Raccoglietela» ordinò Yyrkoon alle guardie. «Riportatela alla sua torre e accertatevi che vi rimanga. Due guardie dovranno restare sempre con lei: dovranno sorvegliarla anche nei momenti più intimi, perché potrebbe tramare un tradimento contro il Trono di Rubino.»
Il capitano s'inchinò e fece cenno ai suoi uomini di ubbidire all'imperatore. «Sì, mio signore. Sarà fatto.» Yyrkoon si voltò a guardare il cadavere del giovane guerriero. «E quello datelo da mangiare agli schiavi di lei, questa notte, in modo che possa continuare a servirla.» Sorrise. Anche il capitano sorrise, apprezzando la battuta scherzosa. Pensava che era molto bello avere di nuovo un degno imperatore di Melniboné. Un imperatore che sapeva come comportarsi, che sapeva come trattare i suoi nemici e accettava l'impassibile fedeltà come un suo diritto. Il capitano si raffigurò nella mente i fulgidi tempi marziali che attendevano Melniboné. Le auree chiatte da battaglia e i guerrieri di Imrryr potevano andare di nuovo a far bottino, a instillare nei barbari dei Regni Giovani un dolce e soddisfacente senso di paura. Già, nella sua mente, il capitano s'impadroniva dei tesori di Lormyr, Argimiliar, Pikarayd, di Ilmiora e di Jadmar. Poteva addirittura divenire governatore - per esempio - dell'Isola delle Città Purpuree. Quali tormenti raffinati avrebbe inflitto a quei signori del mare venuti dal nulla, soprattutto al conte Smiorgan il Calvo, che già adesso cercava di fare della propria isola la rivale di Melniboné come porto commerciale! Mentre scortava alla torre il corpo inerte della principessa Cymoril, il capitano lo guardava e si sentiva invadere da ondate di concupiscenza. Yyrkoon avrebbe ricompensato la sua devozione: non c'era da dubitarne. Nonostante il vento freddo, il capitano cominciò a sudare. Avrebbe sorvegliato personalmente la principessa Cymoril. Sarebbe stata una cosa deliziosa. Marciando alla testa del suo esercito, Yyrkoon si diresse alla Torre di D'a'rputna, la Torre degli Imperatori, che racchiudeva il Trono di Rubino. Aveva preferito rifiutare la lettiga che gli avevano portato e andare a piedi, per poter assaporare ogni momento del suo trionfo. Si avvicinò alla torre altissima tra le altre al centro di Imrryr - come si sarebbe accostato a una donna amata. Si avvicinò con un senso di delicatezza, e senza fretta perché sapeva che era sua. Si guardò intorno. Dietro di lui marciava il suo esercito. Magum Colim e Dyvim Tvar guidavano le truppe. La gente affollava le strade tortuose e si inchinava davanti a lui. Gli schiavi si prostravano. Perfino le bestie da soma venivano fatte inginocchiare al suo passaggio. Yyrkoon aveva la sensazione di assaporare il potere come se fosse stato un frutto maturo. Aspirava l'aria a pieni polmoni. Anche l'aria era sua. Tutta Imrryr era sua. Tutta Melniboné. E presto sarebbe stato suo tutto il mondo. E lui l'avrebbe sper-
perato. Come l'avrebbe sperperato! Avrebbe riportato sul mondo un terrore grandioso, la munificenza della paura! Quasi accecato dall'estasi, l'imperatore Yyrkoon entrò nella torre. Esitò davanti alle grandi porte della sala del trono. Con un cenno ordinò di aprirle, e mentre si schiudevano assorbì lentamente la scena, palmo a palmo. Le pareti, i trofei, le gallerie, erano tutti suoi. La sala del trono era deserta, per ora: ma presto lui l'avrebbe riempita di colori e di festeggiamenti e di autentici svaghi melniboneani. Da troppo tempo il sangue non addolciva più l'atmosfera di quella sala. Poi lasciò che il suo sguardo indugiasse sui gradini che portavano al Trono di Rubino; ma prima di guardare il trono udì il gemito soffocato di Dyvim Tvar, alle sue spalle, e i suoi occhi puntarono all'improvviso su quel trono. Rimase a bocca aperta. Spalancò gli occhi per l'incredulità. «Un'illusione!» «Un'apparizione» disse Dyvim Tvar, in tono cupamente soddisfatto. «Eresia!» gridò l'imperatore Yyrkoon, e avanzò barcollante, puntando il dito verso la figura ammantata e incappucciata che sedeva immota sul Trono di Rubino. «È mio! È mio!» La figura non replicò. «È mio! Vattene! Il trono appartiene a Yyrkoon! Ora è Yyrkoon, l'imperatore! Cosa sei? Perché vuoi frustrarmi così?» Il cappuccio ricadde all'indietro rivelando un volto bianco come l'osso, incorniciato dai fluenti capelli bianchi come il latte. Gli occhi cremisi guardarono serenamente la cosa urlante e barcollante che avanzava. «Tu sei morto, Elric! So che sei morto!» L'apparizione non replicò, ma un sorriso sottile sfiorò quelle labbra bianche. «Non potevi sopravvivere. Sei annegato. Non puoi essere ritornato. Pyaray possiede la tua anima!» «Ci sono altri, che regnano nel mare» disse la figura sul trono. «Perché mi hai ucciso, cugino?» La prontezza di spirito aveva abbandonato Yyrkoon, lasciando posto al terrore e alla confusione. «Perché è mio diritto regnare! Perché non eri abbastanza forte, abbastanza crudele, abbastanza gaio...» «Questo non è forse un bello scherzo, cugino?» «Vattene! Vattene! Vattene! Non mi lascerò spodestare da uno spettro! Un imperatore morto non può governare Melniboné!» «Vedremo» disse Elric, rivolgendo un cenno a Dyvim Tvar e ai suoi soldati.
CAPITOLO TERZO UN GIUDIZIO TRADIZIONALE «Ora regnerò veramente come tu avresti voluto che regnassi, cugino.» Elric osservò, impassibile, mentre i soldati di Dyvim Tvar circondavano l'aspirante usurpatore e l'afferravano per le braccia togliendogli le armi. Yyrkoon ansimava come un lupo catturato. Si guardò intorno, quasi sperasse di ottenere l'appoggio dei guerrieri radunati: ma quelli ricambiavano il suo sguardo con impassibilità o con aperto disprezzo. «E tu, principe Yyrkoon, sarai il primo a trarre beneficio dal mio nuovo modo di governare. Sei soddisfatto?» Yyrkoon abbassò la testa. Tremava, adesso. Elric rise. «Parla, cugino.» «Che Arioch e tutti i duchi dell'inferno possano tormentarti per l'eternità» ringhiò Yyrkoon. Ributtò la testa all'indietro, roteando follemente gli occhi e aggricciando le labbra. «Arioch! Arioch! Maledici questo debole albino! Arioch! Annientalo, o vedrai cadere Melniboné!» Elric continuò a ridere. «Arioch non ti ode. Ora il Caos è debole, sulla terra. Occorre una magia più potente della tua per chiamare i Signori del Caos in tuo aiuto, come un tempo aiutavano i nostri antenati. E ora, Yyrkoon, dimmi: dov'è la principessa Cymoril?» Ma Yyrkoon era ripiombato in un cupo silenzio. «È nella sua torre, mio imperatore» disse Magum Colim. «L'ha condotta là un fedele di Yyrkoon» disse Dyvim Tvar. «Il capitano della guardia di Cymoril: ha ucciso un guerriero che tentava di difendere la sua padrona contro Yyrkoon. Può darsi che la principessa Cymoril sia in pericolo, mio signore.» «Allora affrettati a recarti alla torre. Porta con te numerosi guerrieri. E conduci qui Cymoril e il capitano della sua guardia.» «E Yyrkoon, mio signore?» chiese Dyvim Tvar. «Rimarrà qui fino al ritorno di sua sorella.» Dyvim Tvar s'inchinò, scelse una squadra di guerrieri e lasciò la sala del trono. Tutti notarono che il suo passo era più leggero e la sua espressione meno torva di quando era giunto nella sala del trono al seguito del principe Yyrkoon. Yyrkoon rialzò la testa e girò lo sguardo sulla corte. Per un momento parve un bambino patetico e frastornato. L'espressione di odio e di collera era svanita, e Elric si sentì crescere di nuovo nell'animo la pietà per il cu-
gino. Ma questa volta represse l'impulso. «Sii lieto, cugino, di essere stato onnipotente per qualche ora, di aver goduto del dominio su tutto il popolo di Melniboné.» Yyrkoon disse, con un filo di voce sconcertata: «Come hai potuto salvarti? Non hai avuto tempo di operare un incantesimo, non ne avevi la forza. Potevi muoverti a malapena, e l'armatura avrebbe dovuto trascinarti in fondo al mare, dove saresti affogato. È ingiusto, Elric. Avresti dovuto affogare.» Elric scrollò le spalle. «Ho amici, nel mare. E anche se tu non lo fai, loro riconoscono il mio sangue reale e il mio diritto di regnare.» Yyrkoon si sforzava di dissimulare lo sbalordimento. Evidentemente il suo rispetto per Elric era cresciuto, insieme all'odio. «Amici.» «Sì» disse Elric, con un sogghigno a labbra strette. «Io... io credevo anche che avessi giurato di non usare i tuoi poteri magici.» «Ma lo consideravi un voto indegno di un monarca melniboneano, non è forse vero? Ebbene, sono d'accordo con te. Come vedi, Yyrkoon, dopotutto hai conseguito una vittoria.» Yyrkoon scrutò l'imperatore albino a occhi socchiusi, come se cercasse di indovinare un significato segreto dietro quelle parole. «Richiamerai i Signori del Caos?» «Nessun incantatore, per quanto potente, può invocare i Signori del Caos (o, se è per questo, i Signori della Legge) se non desiderano essere chiamati. Lo sai. Devi saperlo, Yyrkoon. Non hai tentato tu stesso? E Arioch non è venuto, vero? Ti ha portato forse il dono cui aspiravi... il dono delle due spade nere?» «Lo sai?» «Non lo sapevo. L'intuivo. Ora lo so.» Yyrkoon tentò di parlare, ma la sua voce non riusciva a modellare le parole poiché era troppo infuriato. Un ringhio soffocato gli sfuggì dalla gola, e per qualche istante si dibatté nella stretta delle guardie. Dyvim Tvar ritornò in compagnia di Cymoril. La fanciulla era pallida, ma sorrideva. Entrò di corsa nella sala del trono. «Elric!» «Cymoril! Ti hanno fatto del male?» Cymoril diede un'occhiata al capitano della guardia, che era stato condotto lì insieme a lei e che aveva un'espressione depressa. Una smorfia di disgusto le passò sul bel volto. Poi scosse il capo. «No, non mi hanno fatto
del male.» Il capitano della guardia di Cymoril tremava di terrore. Guardò con aria supplichevole Yyrkoon, quasi sperasse di ottenerne l'aiuto. Ma Yyrkoon continuò a tenere lo sguardo fisso sul pavimento. «Fatelo avvicinare.» Elric additò il capitano della guardia. L'uomo venne trascinato ai piedi della scalinata che portava al Trono di Rubino. Emise un gemito. «Sei un meschino traditore» disse Elric. «Almeno Yyrkoon ha avuto il coraggio di tentare di uccidermi. E le sue ambizioni erano grandi. La tua ambizione era soltanto di diventare uno dei suoi cani da guardia prediletti. Perciò hai tradito la tua padrona e hai ucciso uno dei tuoi uomini. Come ti chiami?» L'uomo aveva difficoltà a parlare, ma alla fine mormorò: «Mi chiamo Valharik. Cosa potevo fare? Io servo il Trono di Rubino e chiunque vi sta assiso.» «Dunque il traditore sostiene di essere stato spinto dalla fedeltà. Io non ci credo.» «Sì, mio signore, sì.» Il capitano cominciò a piagnucolare. Cadde in ginocchio. «Uccidimi in fretta. Non punirmi di più.» Elric provò l'impulso di accogliere la richiesta dell'uomo, ma guardò Yyrkoon e ricordò l'espressione che aveva scorto sul volto di Cymoril quando lei aveva guardato il capitano. Comprese che adesso doveva dimostrare qualcosa, dando un esempio. Scosse il capo. «No. Ti punirò di più. Questa notte morirai qui, secondo le tradizioni di Melniboné, mentre i miei nobili banchetteranno per festeggiare la nuova epoca del mio regno.» Valharik cominciò a singhiozzare. Poi smise e si rialzò lentamente: era ridiventato un melniboneano. S'inchinò profondamente e arretrò, abbandonandosi alla stretta delle guardie. «Devo riflettere sul modo in cui il tuo fato possa essere condiviso da colui che desideravi servire» proseguì Elric. «Come hai ucciso il giovane guerriero che voleva ubbidire a Cymoril?» «Con la mia spada. L'ho abbattuto. È stato un colpo preciso. Uno solo.» «E il cadavere?» «Il principe Yyrkoon mi ha ordinato di darlo da mangiare agli schiavi della principessa Cymoril.» «Capisco. Benissimo, principe Yyrkoon: potrai partecipare con noi al banchetto di questa notte, mentre il capitano Valharik ci divertirà con la sua morte.» Il volto di Yyrkoon era pallido quasi quanto il volto di Elric. «Cosa vor-
resti dire?» «I pezzetti di carne che il nostro dottor Scherzo taglierà dalle membra del capitano Valharik saranno il cibo con cui banchetterai. Puoi impartire istruzioni sul modo in cui preferisci che ti venga preparata la carne del capitano: non pretendiamo che la mangi cruda, cugino.» Perfino Dyvim Tvar apparve sbalordito della decisione di Elric. Era sicuramente nello spirito di Melniboné, ed era un ironico miglioramento rispetto all'idea che aveva avuto lo stesso principe Yyrkoon: ma era inaspettato, da parte di Elric... almeno, da parte dell'Elric che lui aveva conosciuto fino al giorno prima. Quando udì la sorte che l'attendeva, il capitano Valharik lanciò un grande urlo di terrore e guardò il principe Yyrkoon, come se il mancato usurpatore stesse già assaporando la sua carne. Yyrkoon cercò di voltarsi: gli tremavano le spalle. «E questo sarà l'inizio» disse Elric. «Il banchetto incomincerà a mezzanotte. Fino a quel momento, tenete rinchiuso Yyrkoon nella sua torre.» Dopo che il principe Yyrkoon e il capitano Valharik vennero condotti via, Dyvim Tvar e la principessa Cymoril si avvicinarono a Elric, che si era abbandonato sul grande trono e guardava amaramente nel vuoto. «È stata una crudeltà ingegnosa» disse Dyvim Tvar. Cymoril disse: «È quello che meritano entrambi.» «Sì» mormorò Elric. «È ciò che avrebbe fatto mio padre. È ciò che avrebbe fatto Yyrkoon, se le nostre posizioni fossero invertite. Ma io seguo le tradizioni. Non pretendo più di appartenere a me stesso. Rimarrò qui fino alla morte, prigioniero sul Trono di Rubino... e servirò il Trono di Rubino come affermava di servirlo Valharik.» «Non potresti ucciderli entrambi rapidamente?» chiese Cymoril. «Tu sai che non intercedo per mio fratello per il fatto che sia mio fratello. È lui, che odio soprattutto. Ma porre in atto il tuo piano, Elric, potrebbe distruggerti.» «È con questo? Non importa, se verrò distrutto. Non importa, se diventerò una cieca e irragionevole proiezione dei miei antenati. La marionetta degli spettri e dei ricordi, che danza mossa da fili estesi nel passato per diecimila anni.» «Forse, se dormissi...» suggerì Dyvim Tvar. «Sento che non dormirò per molte notti. Ma tuo fratello non morirà, Cymoril. Dopo la sua punizione, dopo che avrà mangiato la carne del capitano Valharik, intendo inviarlo in esilio. Andrà nei Regni Giovani, da solo,
e non verrà autorizzato a portare con sé i suoi arnesi di magia. Dovrà arrangiarsi alla meglio nelle terre dei barbari. È una punizione non troppo severa, credo.» «È troppo clemente» disse Cymoril. «Faresti meglio a ucciderlo. Manda subito i soldati. Non lasciargli il tempo di tramare un'altra congiura.» «Non temo le sue congiure.» Elric si alzò, stancamente. «Ora vi sarei grato se mi lasciaste solo fino a un'ora prima dell'inizio del banchetto. Devo riflettere.» «Ritornerò alla mia torre e mi preparerò per questa notte» disse Cymoril. Sfiorò con un lieve bacio la pallida fronte di Elric. Lui alzò la testa, pieno d'amore e di tenerezza. Levò la mano, le toccò i capelli e la guancia. «Ricorda che ti amo, Elric» sussurrò Cymoril. «Provvederò a fornirti una scorta sicura» le disse Dyvim Tvar. «E dovrai scegliere un nuovo comandante della tua guardia. Posso aiutarti?» «Te ne sarei grata, Dyvim Tvar.» Lasciarono Elric sul Trono di Rubino, ancora intento a fissare il vuoto. La mano che di tanto in tanto si portava alla fronte tremava un poco, e un'espressione di tormento traspariva negli strani occhi cremisi. Più tardi si alzò dal Trono di Rubino e si avviò lentamente, a testa bassa, verso i suoi appartamenti, seguito dalle guardie. Esitò davanti alla porta che conduceva alla scalinata della biblioteca. Desiderava istintivamente la consolazione e l'oblio di un certo tipo di sapienza; ma in quel momento, all'improvviso, sentì di odiare i suoi rotoli e i suoi libri. Attribuiva loro la responsabilità delle assurde preoccupazioni per la «morale» e la «giustizia»; attribuiva loro la responsabilità del senso di colpa e di disperazione che l'aveva invaso dopo la decisione di comportarsi come doveva comportarsi un monarca melniboneano. Perciò passò davanti alla porta della biblioteca ed entrò nei suoi appartamenti: ma anche quelli, adesso, non gli piacevano più. Erano troppo austeri. Non erano arredati secondo il gusto lussuoso di tutti i melniboneani (eccettuato suo padre); non erano una mescolanza di colori vivaci e di linee bizzarre. Avrebbe dovuto farli cambiare, al più presto possibile. Si sarebbe arreso ai fantasmi che lo dominavano. Per qualche tempo si aggirò da una stanza all'altra, cercando di reprimere quella parte di sé che invocava misericordia per Valharik e per Yyrkoon: ucciderli, semplicemente, e farla finita, o meglio ancora inviarli entrambi in esilio. Ma ormai era impossibile annullare la sua decisione. Alla fine si adagiò su un divano accanto a una finestra affacciata sul panorama della città. Il cielo era ancora pieno di nubi turbolente, ma adesso
vi faceva capolino la luna, come l'occhio giallo di una belva malsana. Sembrava che lo guardasse con ironia trionfante, quasi allietandosi della sconfitta della sua coscienza. Elric nascose la testa fra le braccia. Più tardi, i servitori vennero ad annunciargli che i cortigiani stavano arrivando per il banchetto celebrativo. Lasciò che lo vestissero con i regali abiti gialli e gli ponessero sul capo la corona del drago. Poi tornò nella sala del trono, dove fu accolto da una grande acclamazione, la più sincera e sentita che avesse mai ricevuto. Rispose con un cenno al saluto, e poi si sedette sul Trono di Rubino guardando le tavole che erano state disposte nella sala. Venne portata un'altra tavola, che gli fu piazzata davanti; e altri due seggi, perché Dyvim Tvar e Cymoril avrebbero preso posto accanto a lui. Ma Dyvim Tvar e Cymoril non erano ancora giunti, e il rinnegato Valharik non era ancora stato introdotto. E dov'era Yyrkoon? Avrebbero già dovuto trovarsi al centro della sala, Valharik in catene e Yyrkoon seduto sotto di lui. C'era il dottor Scherzo: riscaldava il braciere su cui stavano i tegami, e provava e affilava i coltelli. La sala era tutta un brusio di conversazioni eccitate: la corte attendeva lo spettacolo. I servi cominciarono a entrare con le portate. Elric chiamò con un cenno il comandante della sua guardia. «La principessa Cymoril e il nobile Dyvim Tvar non sono ancora giunti alla torre?» «No, mio signore.» Cymoril arrivava raramente in ritardo: Dyvim Tvar mai. Elric aggrottò la fronte. Forse non gradivano la prospettiva di quello spettacolo. «E i prigionieri?» «Li abbiamo mandati a prendere, mio signore.» Il dottor Scherzo alzò la testa, ansioso, col magro corpo teso nell'anticipazione. Poi Elric udì un suono, più forte del brusio della conversazione. Era un suono lamentoso, che sembrava provenire da ogni punto della torre. Chinò il capo e ascoltò attentamente. Anche gli altri l'udirono. Smisero di parlare e ascoltarono a loro volta. Ben presto l'intera sala fu avvolta nel silenzio, e il gemito si fece più forte. Poi, all'improvviso, i battenti della grande porta si spalancarono e apparve Dyvim Tvar, ansimante e insanguinato, con gli abiti strappati e le carni straziate. E dietro di lui veniva una nebbia... una nebbia turbinante di porpora cupo e di azzurri sgradevoli: ed era quella nebbia, a gemere. Elric balzò dal trono, rovesciando la tavola. Scese di corsa i gradini, incontro all'amico. La nebbia gemente cominciò ad avanzare nella sala del
trono, come se si protendesse per inghiottire Dyvim Tvar. Elric strinse l'amico tra le braccia. «Dyvim Tvar! Cos'è questo incantesimo?» Il volto del signore delle Grotte dei Draghi era pieno di orrore: le sue labbra sembravano raggelate, ma finalmente parlò: «È l'incantesimo di Yyrkoon. Ha evocato la nebbia gemente perché l'aiutasse a fuggire. Ho tentato di seguirlo fuori dalla città, ma la nebbia mi ha avviluppato e ho perso i sensi. Ero andato alla sua torre per condurre qui lui e il suo complice, ma l'incantesimo si era già compiuto.» «Cymoril? Dov'è?» «L'ha portata via, Elric. È con lui. È con lui anche Valharik, e così pure cento guerrieri che in segreto gli erano rimasti fedeli.» «Allora dobbiamo inseguirlo. Lo cattureremo presto.» «Non puoi far nulla, contro la nebbia gemente. Ah! Eccola!» E infatti la nebbia stava cominciando a circondarli. Elric tentò di disperderla agitando le braccia, ma ormai s'era addensata fitta intorno a lui e il suo gemito malinconico gli saturava gli orecchi e i suoi colori orrendi gli accecavano gli occhi. Tentò di fenderla precipitosamente, ma la nebbia non lo lasciò. E poi gli parve di udire parole, tra i gemiti. «Elric è debole. Elric è sciocco. Elric deve morire!» «Basta!» gridò. Urtò contro un altro corpo, e cadde in ginocchio. Cominciò a trascinarsi, sforzandosi disperatamente di vedere attraverso la nebbia. Ora stavano prendendo forma volti spaventosi... volti più terrificanti di quanti avesse mai visto perfino negli incubi più atroci. «Cymoril!» gridò. «Cymoril!» E uno di quei volti divenne il volto di Cymoril... una Cymoril che lo guardava sarcastica e si faceva beffe di lui, e intanto invecchiava lentamente finché Elric vide una sudicia megera e poi un teschio su cui la carne imputridiva. Chiuse gli occhi, ma l'immagine rimase. «Cymoril» bisbigliarono le voci. «Cymoril.» E Elric divenne sempre più debole, mentre cresceva la sua disperazione. Gridò per chiamare Dyvim Tvar, ma udì soltanto un'eco beffarda del nome, come aveva udito quello di Cymoril. Chiuse le labbra e gli occhi, e senza smettere di trascinarsi tentò di liberarsi dalla nebbia gemente. Ma parve che trascorressero ore prima che i gemiti si mutassero in fiochi lamenti e i lamenti divenissero fievoli suoni: tentò di alzarsi, aprendo gli occhi per veder svanire la nebbia, ma le ginocchia gli si piegarono e lui cadde sul primo gradino che portava al Trono di Rubino. Ancora una volta non
aveva ascoltato il consiglio di Cymoril nei riguardi di suo fratello... e ancora una volta lei era in pericolo. L'ultimo pensiero di Elric fu semplice. «Non sono degno di vivere» pensò. CAPITOLO QUARTO L'APPELLO AL SIGNORE DEL CAOS Appena si fu ripreso dal colpo che gli aveva fatto perdere i sensi, causando altro spreco di tempo, Elric mandò a chiamare Dyvim Tvar. Era ansioso di conoscere le ultime notizie. Ma Dyvim Tvar non seppe dirgli nulla. Yyrkoon aveva ottenuto un aiuto magico per liberarsi, un aiuto magico per realizzare la fuga. «Deve aver avuto a disposizione qualche mezzo incantato per lasciare risola, poiché non può essere andato per nave» concluse Dyvim Tvar. «Devi inviare spedizioni» disse Elric. «Manda mille distaccamenti, se è necessario. Manda tutti gli uomini di Melniboné. Cerca di svegliare i draghi, in modo che sia possibile servirsene. Invia le auree chiatte da battaglia. Ricopri il mondo intero con i tuoi uomini, se è necessario, ma trova Cymoril.» «Tutte queste cose le ho già fatte» replicò Dyvim Tvar. «Eppure non ho ancora trovato Cymoril.» Trascorse un mese, e i guerrieri imrryriani partirono e attraversarono a cavallo i Regni Giovani, cercando notizie di un compatriota rinnegato. «Mi preoccupavo più per me stesso che per Cymoril, e questa la chiamavo «morale»» pensava l'albino. «Avevo messo alla prova la mia sensibilità, non la mia coscienza.» Trascorse un altro mese, e i draghi imrryriani volteggiarono nei cieli verso sud e verso est, verso ovest e verso nord; ma sebbene sorvolassero montagne e mari e foreste e pianure, e arrecassero involontariamente terrore a molte città, non trovarono traccia di Yyrkoon e dei suoi compagni. «Perché, in fondo, un individuo può giudicare se stesso solo tramite le proprie azioni» pensò Elric. «Ho considerato ciò che ho fatto, non ciò che intendevo fare o supponevo che mi sarebbe piaciuto fare: e nel complesso ciò che ho fatto è stato sciocco, distruttivo e inutile. Yyrkoon aveva ragione di disprezzarmi, ed era per questo che io l'odiavo tanto.» Venne il quarto mese, e molte navi imrryriane fecero scalo in porti remoti, e molti marinai imrryriani interrogarono altri viaggiatori ed esploratori, cercando notizie di Yyrkoon. Ma l'incantesimo usato da Yyrkoon era
stato molto forte, e nessuno l'aveva visto o ricordava di averlo visto. «Ora devo considerare le implicazioni di tutti questi pensieri» si disse Elric. Stanchissimi, i suoi soldati più veloci incominciarono a far ritorno a Melniboné, portando le loro inutili notizie. E via via che la fiducia svaniva e la speranza si dileguava, cresceva la decisione di Elric. Si rese forte, fisicamente e mentalmente. Fece esperimenti con nuove droghe che avrebbero accresciuto la sua energia anziché fornirgli soltanto quella che non aveva in comune con gli altri uomini. Passò moltissimo tempo nella biblioteca, sebbene questa volta leggesse soltanto certi libri di magia e anzi li rileggesse più e più volte. Quei libri erano scritti nell'Alta Lingua di Melniboné: l'antico linguaggio della stregoneria, mediante il quale gli antenati di Elric avevano potuto comunicare con gli esseri soprannaturali da loro evocati. E finalmente Elric ebbe la certezza di comprenderli pienamente, sebbene talvolta ciò che leggeva minacciasse di farlo desistere dalla linea d'azione prescelta. E quando fu sicuro di aver capito - perché i pericoli comportati dalla mancata comprensione delle implicazioni di quanto era descritto nei testi erano catastrofici - dormì per tre notti, immerso in un pesante sonno drogato. E poi si sentì pronto. Ordinò a tutti gli schiavi e i servitori di allontanarsi dal suo appartamento. Mise sentinelle alle porte con l'ordine di non lasciar passare nessuno, per nessuna ragione. Sbarazzò una grande camera di tutti i mobili, lasciandola completamente vuota: c'era soltanto un libro di magia che lui aveva collocato esattamente al centro. Poi si sedette accanto al volume e cominciò a pensare. Quando ebbe meditato per oltre cinque ore, prese un pennello e un vasetto d'inchiostro e cominciò a dipingere sulle pareti e sul pavimento simboli complicati, alcuni dei quali erano così intricati che sembravano scomparire a una certa angolazione rispetto alla superficie su cui erano tracciati. Quando ebbe terminato, Elric si distese bocconi al centro di quell'enorme motivo magico, con una mano sul libro e l'altra (con la gemma di Actorios) aperta a palmo in giù. Era il plenilunio. Un fascio di luce cadeva sulla testa di Elric, trasformando in argento i suoi capelli. E poi incominciò l'Invocazione. Elric spinse la mente nei meandri tortuosi della logica, attraverso sconfinate pianure di idee, oltre montagne di simbolismi e infiniti universi di verità alternate: spinse la mente sempre più lontano, e l'accompagnò con le
parole che gli uscivano dalle labbra frementi... parole che pochissimi dei suoi contemporanei avrebbero compreso, anche se il loro suono sarebbe bastato ad agghiacciare il sangue a qualunque ascoltatore. E il suo corpo tendeva a sollevarsi mentre lui lo costringeva a rimanere nella posizione voluta, e di tanto in tanto gli sfuggiva un lamento. E dalle labbra uscivano ancora alcune parole. Una delle parole era un nome. «Arioch.» Arioch, il demone protettore degli antenati di Elric; uno dei più potenti tra tutti i duchi dell'inferno, chiamato Cavaliere delle Spade, Signore delle Sette Tenebre, Signore dell'Inferno Superiore, e con molti altri nomi ancora. «Arioch!» Era Arioch che Yyrkoon aveva invocato, chiedendo al Signore del Caos di maledire Elric. Era Arioch che Yyrkoon aveva cercato di chiamare in aiuto nel tentativo di usurpare il Trono di Rubino. Arioch era conosciuto come Custode delle Due Spade Nere: le spade di manifattura ultraterrena e dal potere infinito che un tempo erano state impugnate dagli imperatori di Melniboné. «Arioch! Io t'invoco.» Gli incantesimi, ritmici e frammentari, ululavano adesso nella gola di Elric. La sua mente aveva raggiunto il livello in cui dimorava Arioch, e ora cercava il Signore del Caos. «Arioch! È Elric di Melniboné che ti invoca.» Elric scorse un occhio che lo guardava dall'alto. L'occhio fluttuò, e un altro gli si aggiunse. I due occhi lo fissarono. «Arioch! Mio Signore del Caos! Aiutami!» Gli occhi ammiccarono... e svanirono. «Oh, Arioch! Vieni a me! Vieni a me! Aiutami, e io ti servirò!» Un contorno che non era una forma umana si trasformò lentamente fino a quando una testa nera, senza volto, guardò Elric dall'alto. La testa era aureolata da un alone di luce rossa. Poi anche quella svanì. Esausto, Elric lasciò che l'immagine si dileguasse. La sua mente tornò indietro a precipizio, livello dopo livello. Le sue labbra non cantilenavano più gli incantesimi e i nomi. Giaceva esausto sul pavimento della camera, incapace di muoversi, in silenzio. Era certo di aver fallito. Udì un piccolo suono. Faticosamente, alzò la testa appesantita.
Una mosca era entrata nella camera. Svolazzava qua e là a casaccio, come se seguisse le linee dei simboli tracciati da Elric. La mosca si posò prima su un simbolo magico e poi su un altro. Doveva essere entrata dalla finestra, pensò Elric. Quella distrazione lo irritava e tuttavia lo affascinava. La mosca si posò sulla sua fronte. Era un grosso insetto nero, dal ronzio sonoro, osceno. Si stropicciò le zampette anteriori, e parve dimostrare un particolare interesse per il volto di Elric mentre vi camminava sopra. L'imperatore albino rabbrividiva, ma non aveva la forza di schiacciarla. Quando compariva entro la sua visuale, la guardava. Quando non era visibile, ne sentiva le zampe percorrere la sua faccia. Poi l'insetto s'innalzò in volo, e ronzando con forza si librò a poca distanza dal naso di Elric. Allora Elric poté scorgere gli occhi della mosca, e vide qualcosa che riconobbe. Erano e tuttavia non erano - gli occhi che aveva visto sull'altro livello. Cominciò a sospettare che quella mosca non fosse una creatura ordinaria. Aveva lineamenti che in un certo senso erano vagamente umani. La mosca gli sorrise. Con la gola rauca e le labbra riarse, Elric riuscì a proferire una sola parola: «Arioch?» E dove prima aleggiava la mosca stava ora un bellissimo adolescente. Il bellissimo adolescente parlò con una bellissima voce... sommessa e comprensiva e tuttavia virile. Indossava una veste che era una gemma liquida e che pure non abbagliava, perché in un certo senso pareva che non se ne irradiasse luce. Portava alla cintura una spada sottile, e sul capo non aveva l'elmo ma un cerchietto di fuoco rosso. I suoi occhi erano saggi e vecchi, e guardandoli attentamente si scopriva che racchiudevano un male antico e trionfale. «Elric.» L'adolescente non disse altro; ma ciò bastò a rianimare l'albino, che poté risollevarsi sulle ginocchia. «Elric.» E Elric poté alzarsi in piedi. Si sentiva pieno di energia. L'adolescente, adesso, era più alto di Elric. Abbassò lo sguardo sull'imperatore di Melniboné e sorrise, con lo stesso sorriso della mosca. «Tu solo sei degno di servire Arioch. È passato molto tempo dall'ultima volta che sono stato invitato su questo livello, ma ora che sono qui ti aiuterò. Diventerò il tuo patrono. Ti proteggerò e ti darò la forza e la sorgente della forza,
benché io sia il padrone e tu lo schiavo.» «Come devo servirti, duca Arioch?» chiese Elric, con un mostruoso sforzo per controllarsi, poiché i sottintesi delle parole di Arioch l'avevano riempito di orrore. «Per il momento mi servirai servendo te stesso. In seguito verrà un tempo in cui t'ingiungerò di servirmi in modo specifico, ma per il momento ti domando ben poco: solo che tu giuri di servirmi.» Elric esitò. «Devi giurarlo» disse Arioch, in tono ragionevole, «se no non potrò aiutarti per quanto riguarda tuo cugino Yyrkoon o sua sorella Cymoril.» «Giuro di servirti» mormorò Elric. E il suo corpo venne inondato da un fuoco d'estasi: tremando di gioia, cadde in ginocchio. «Allora ti dico che di tanto in tanto potrai contare sul mio aiuto: io verrò, se ne avrai veramente un bisogno disperato. Verrò nella forma più appropriata; o senza forma, se così fosse più adatto. E ora puoi rivolgermi una domanda, prima che io me ne vada.» «Mi occorrono le risposte a due domande.» «Alla prima domanda non posso rispondere. E non risponderò. Devi accettare l'idea che ormai hai giurato di servirmi. Non ti dirò cos'ha in serbo il futuro. Ma non avrai nulla da temere, se mi servirai bene.» «Allora la mia seconda domanda è questa: dov'è il principe Yyrkoon?» «Il principe Yyrkoon è al sud, in una terra di barbari. Grazie alla magia e alla superiorità datagli dalle armi e dall'intelligenza, ha conquistato due piccole nazioni: una si chiama Oin e l'altra Yu. Sta già preparando gli uomini di Oin e gli uomini di Yu a muovere contro Melniboné, perché sa che le tue forze sono disperse su tutta la terra per cercarlo.» «Come si è nascosto?» «Non si è nascosto. Ma si è impadronito dello Specchio della Memoria, un oggetto magico di cui ha scoperto il nascondiglio con le sue stregonerie. Lo specchio sottrae i ricordi a coloro che lo guardano. Contiene un milione di ricordi: i ricordi di tutti quelli che l'hanno guardato. Perciò chiunque si avventura in Oin o Yu o si reca per via di mare alla capitale comune delle due nazioni si trova di fronte allo specchio e dimentica di aver visto in quelle terre il principe Yyrkoon e i suoi imrryriani. È il modo migliore per non essere scoperto.» «È vero.» Elric aggrottò le sopracciglia. «Perciò sarebbe opportuno pensare di distruggere quello specchio. Ma cosa accadrebbe, poi?» Arioch levò la bella mano. «Sebbene io abbia risposto a una seconda
domanda che si potrebbe considerare parte della prima, non aggiungerò altro. Potrebbe essere nel tuo interesse distruggere lo specchio, ma potrebbe essere meglio esaminare altri mezzi per annullarne gli effetti, perché ti rammento che contiene molti ricordi, alcuni dei quali imprigionati da migliaia d'anni. Ora devo andare. Anche tu devi andare: nelle terre di Oin e di Yu, che si trovano a parecchi mesi di viaggio da qui, al sud, oltre Lormyr. È meglio raggiungerle con la nave che veleggia su terra e mare. Addio, Elric.» E una mosca ronzò per un momento sulla parete prima di scomparire. Elric si precipitò fuori dalla stanza, urlando per chiamare i suoi schiavi. CAPITOLO QUINTO LA NAVE CHE VELEGGIA SU TERRA E MARE «E quanti draghi dormono ancora nelle caverne?» Elric camminava impaziente, avanti e indietro, nel loggiato che si affacciava sopra la città. Era mattina, ma il sole non penetrava attraverso le nubi oscure che aleggiavano basse sulle torri della Città Sognante. La vita di Imrryr continuava immutata nelle vie sottostanti, malgrado l'assenza della maggior parte dei soldati, che non erano ancora tornati dalle vane ricerche e non sarebbero ritornati ancora per molti mesi. Dyvim Tvar si appoggiò alla balaustrata della loggia e fissò le strade senza vederle. Il suo volto era stanco: teneva le braccia conserte sul petto, come se cercasse di conservare la forza che ancora gli restava. «Forse due. Sarebbe difficile svegliarli, e anche in tal caso non sono certo che ci sarebbero utili. Cos'è quella "nave che veleggia su terra e mare" di cui ha parlato Arioch?» «Avevo già letto qualcosa in proposito, nel Libro d'Argento e in altri testi. Una nave magica. Usata da un eroe melniboneano prima ancora che esistessero Melniboné e l'impero. Ma dove si trova, e se esiste, non lo so.» «Chi potrebbe saperlo?» Dyvim Tvar si raddrizzò e voltò la schiena al panorama. «Arioch?» Elric scrollò le spalle. «Ma non me lo direbbe.» «E i tuoi amici, gli spiriti elementari dell'acqua? Non ti hanno promesso il loro aiuto? E non sono forse esperti, in fatto di navi?» Elric aggrottò la fronte, e le rughe che ora segnavano il suo volto si fecero più profonde. «Sì... Straasha può saperlo. Ma non vorrei invocare di nuovo il suo aiuto. Gli spiriti elementari dell'acqua non sono potenti come
i Signori del Caos. La loro forza è limitata; e per giunta sono spesso capricciosi, come gli stessi elementi. Soprattutto, Dyvim Tvar, esito a far ricorso alla magia, a meno che sia assolutamente indispensabile...» «Tu sei un mago, Elric. E hai dimostrato di recente la tua grandezza sotto questo aspetto, con il più potente degli incantesimi, l'invocazione di un Signore del Caos. Eppure esiti ancora? Ti consiglierei, mio sovrano, di riflettere sulla tua logica e di riconoscere che è infondata. Hai deciso di ricorrere alla magia per ritrovare il principe Yyrkoon. Il dado è già tratto. Ora sarebbe opportuno continuare a servirti della magia.» «Non puoi immaginare lo sforzo fisico e mentale che ciò comporta...» «Posso immaginarlo, mio signore. Ti sono amico. Non desidero vederti soffrire, eppure...» «E inoltre, Dyvim Tvar, c'è la difficoltà della mia debolezza fisica» gli rammentò Elric. «Per quanto tempo potrò continuare a ricorrere alle fortissime pozioni che ora mi sostengono? Mi danno energia, sì... ma vi riescono consumando le mie scarse risorse. Potrei morire prima di ritrovare Cymoril.» «Ti chiedo perdono.» Ma Elric si avvicinò e posò la bianca mano sul manto color burro di Dyvim Tvar. «Ma cos'ho da perdere, eh? No. Hai ragione tu. Sono un vile, perché esito quando è in gioco la vita di Cymoril. Continuo a commettere stupidaggini... le stupidaggini che hanno causato tutte le nostre sventure. Verrai con me in riva all'oceano?» «Sì.» Dyvim Tvar cominciava a sentirsi oppresso, a sua volta, dal peso della coscienza di Elric. Era una sensazione strana, per un melniboneano, e Dyvim Tvar si accorgeva che non era affatto gradevole. Elric aveva percorso per l'ultima volta quei sentieri quando era felice insieme a Cymoril. Sembrava che fosse trascorso molto, molto tempo. Era stato uno sciocco, a fidarsi di quella felicità. Girò il bianco stallone verso le scogliere e il mare. Cadeva una pioggerella sottile. L'inverno stava scendendo rapido su Melniboné. Lasciarono i cavalli sulle scogliere, perché non disturbassero Elric mentre operava i suoi incantesimi, e scesero sulla spiaggia. La pioggia cadeva sul mare. Una nebbia aleggiava sulle acque, poco oltre la distanza di cinque lunghezze di nave dalla riva. C'era un silenzio di morte, e dietro di loro sorgevano le scogliere alte e scure e davanti si ergeva la muraglia di neb-
bia: Dyvim Tvar aveva l'impressione che fossero entrati in un silenzioso aldilà, dove avrebbero potuto facilmente incontrare le malinconiche anime di coloro che secondo la leggenda si erano suicidati ricorrendo a un processo di lenta automutilazione. Il suono degli stivali dei due uomini sui ciottoli era netto, ma subito veniva attutito dalla nebbia che pareva risucchiare i rumori e assorbirli avidamente come se ne traesse nutrimento e vita. «Ecco» mormorò Elric. Sembrava che non notasse neppure quell'ambiente cupo e deprimente. «Ora devo ricordare l'incantesimo che non molti mesi orsono mi è venuto alla mente con tanta facilità senza che lo cercassi.» Lasciò Dyvim Tvar e scese fino al punto in cui l'acqua gelida lambiva la terra. Si sedette a gambe incrociate e fissò lo sguardo nella nebbia, senza vedere nulla. Dyvim Tvar ebbe l'impressione che l'imperatore albino rimpicciolisse mentre si sedeva. Parve diventare un bambino vulnerabile, e Dyvim Tvar si commosse come se Elric fosse stato un ragazzo innervosito e coraggioso; e provò l'impulso di suggerirgli di rinunciare alla magia e di cercare le terre di Oin e di Yu con mezzi normali. Ma Elric stava già alzando la testa, come un cane leva il muso verso la luna. E strane parole agghiaccianti cominciarono a uscirgli precipitosamente dalle labbra: era chiaro che, se anche Dyvim Tvar avesse parlato, Elric non l'avrebbe udito. Dyvim Tvar non ignorava l'Alta Lingua (poiché era un nobile melniboneano, ovviamente l'aveva imparata in gioventù); ma quelle parole gli suonavano incomprensibili, perché Elric usava inflessioni e accenti stranissimi conferendo alle parole un peso speciale, segreto, e cantilenandole con una voce che andava da mugolii di basso a stridii in falsetto. Non era piacevole udire quei suoni che uscivano da una gola mortale, e Dyvim Tvar cominciò a comprendere perché Elric esitava a far ricorso alla stregoneria. Il signore delle Grotte dei Draghi, sebbene fosse melniboneano, provò l'impulso di indietreggiare di qualche passo, o addirittura di ritirarsi in cima alle scogliere per osservare Elric da lassù; e dovette farsi forza per non muoversi, mentre l'invocazione continuava. La recitazione dell'incantesimo si protrasse per qualche tempo. La pioggia batteva più violenta sui ciottoli della spiaggia, facendoli luccicare. Si abbatteva ferocemente sul mare cupo e immobile, turbinando intorno alla fragile testa e ai candidi capelli di Elric; e Dyvim Tvar rabbrividì e si strinse il mantello intorno alle spalle.
«Straasha... Straasha... Straasha...» Le parole si mescolavano al rumore della pioggia. Ormai non erano più parole ma suoni quali poteva produrre il vento, in una lingua che il mare poteva parlare. «Straasha...» Dyvim Tvar provò di nuovo l'impulso di muoversi, ma questa volta desiderava avvicinarsi a Elric per dirgli di smettere, di ideare qualche altro mezzo per raggiungere le terre di Oin e di Yu. «Straasha!» C'era una sofferenza enigmatica, in quel suono. «Straasha!» Il nome di Elric si formò sulle labbra di Dyvim Tvar, ma lui si accorse che non poteva pronunciarlo. «Straasha!» La figura che sedeva a gambe incrociate vacillò. L'invocazione diventò il grido del vento che spirava nelle Caverne del Tempo. «Straasha!» Dyvim Tvar si accorse che l'incantesimo, per qualche ragione inspiegata, era inoperante, e che Elric consumava invano tutte le sue forze. E tuttavia il signore delle Grotte dei Draghi non poteva far nulla. Aveva la lingua immobilizzata e i piedi inchiodati al suolo. Guardò la nebbia. Si era avvicinata alla spiaggia? Aveva assunto una sfumatura strana, verdognola, quasi luminosa? Osservò più attentamente. Nell'acqua iniziò una perturbazione violenta. Il mare si avventò sulla spiaggia. I ciottoli scricchiolarono. La nebbia si ritrasse. Luci indistinte palpitarono nell'aria, e Dyvim Tvar ebbe la sensazione di scorgere il lucente profilo di una figura gigantesca che emergeva dal mare, e si accorse che la cantilena di Elric s'era interrotta. «Re Straasha» stava dicendo l'imperatore, in un tono quasi normale. «Sei venuto. Ti ringrazio.» La figura parlò: la voce ricordava a Dyvim Tvar il suono di onde lente e pesanti sotto un sole benigno. «Noi spiriti elementari siamo preoccupati, Elric, perché si dice che tu abbia richiamato i Signori del Caos sul tuo livello, e gli spiriti degli elementi non hanno mai amato costoro. Tuttavia so che se l'hai fatto eri predestinato a farlo, e perciò non ti serbiamo rancore.» «Sono stato costretto a prendere tale decisione, re Straasha. Non potevo
fare null'altro. Perciò, se sei riluttante ad aiutarmi, lo comprenderò e non t'invocherò più.» «Ti aiuterò, sebbene aiutarti sia ora più difficile: non per quanto avverrà nel futuro immediato, ma per ciò che si intuisce che avverrà negli anni a venire. Ora dimmi rapidamente in che modo possiamo esserti d'aiuto noi dell'acqua» «Sai qualcosa della nave che veleggia su terra e mare? Devo trovarla per realizzare il voto di ritrovare il mio amore, Cymoril!» «So molto di quella nave, poiché è mia. Anche Grome la rivendica. Ma è mia. Secondo giustizia, è mia.» «Grome della Terra?» «Grome della Terra Sotto le Radici. Grome del Suolo e di tutto ciò che vi vive. Mio fratello Grome. Ormai è molto, anche secondo il modo in cui computiamo il tempo noi spiriti elementari, che io e Grome costruimmo quella nave per poter viaggiare tra i reami della Terra e dell'Acqua, dovunque volessimo. Ma poi litigammo, maledetta sia la nostra stoltezza: e combattemmo. Ci furono terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, tifoni, e battaglie cui parteciparono tutti gli spiriti elementari: e nuovi continenti emersero, mentre sprofondavano continenti antichi. Non era la prima volta che combattevamo l'uno contro l'altro: ma fu l'ultima. Alla fine, per non annientarci a vicenda, concludemmo una pace. Io cedetti a Grome parte del mio dominio, e lui mi diede la nave che veleggia su terra e mare. Ma me la diede controvoglia: perciò ora naviga sul mare assai meglio che sulla terra, perché Grome ne ostacola l'avanzata ogni volta che può. Tuttavia, se la nave può esserti utile, l'avrai.» «Ti ringrazio, re Straasha. Dove la troverò?» «Verrà. Ora sono stanco, perché più mi allontano dal mio regno e più mi è difficile conservare l'aspetto di mortale. Addio, Elric... e sii prudente. Tu possiedi un potere più grande di quanto immagini, e molti vorrebbero servirsene per i loro scopi.» «Devo attendere qui la nave che veleggia su terra e mare?» «No...» La voce del re del mare si affievoliva, mentre la sua figura si dileguava. La grigia nebbia rifluì dove fino a un attimo prima c'erano l'immagine e le luci verdi. Il mare era ridiventato immobile. «Attendi. Attendi nella tua torre... La nave verrà...» Alcune onde minuscole lambirono la riva, e poi fu come se il re degli spiriti elementari dell'acqua non fosse mai apparso. Dyvim Tvar si soffregò gli occhi. Dapprima lentamente, cominciò ad avvicinarsi al punto dove
sedeva ancora Elric. Si piegò, e offrì gentilmente la mano all'albino. Elric levò la testa, con aria sorpresa. «Ah, Dyvim Tvar. Quanto tempo è trascorso?» «Alcune ore, Elric. Tra poco sarà notte. Quel poco di luce che c'è comincia ad affievolirsi. Sarà meglio che riprendiamo i cavalli e ritorniamo a Imrryr.» Elric si rialzò, irrigidito, con l'aiuto di Dyvim Tvar. «Sì...» mormorò distrattamente. «Il re del mare ha detto...» «Ho udito il re del mare, Elric. Ho udito il suo consiglio, e ho udito il suo avvertimento. Dovrai ricordarli entrambi. Non mi piace molto l'idea di quell'imbarcazione magica. Come molte cose di origine incantata, sembra dotata di vizi oltre che di virtù, come un coltello a doppia lama che tu impugni per trafiggere il nemico e che invece trafigge te...» «È inevitabile, quando c'è di mezzo un incantesimo. Sei stato tu a esortarmi a farvi ricorso, amico mio.» «Sì» disse Dyvim Tvar, quasi parlando a se stesso, mentre s'incamminava su per il sentiero che saliva tra le scogliere, per raggiungere i cavalli. «Sì, non l'ho dimenticato, mio signore e sovrano.» Elric sorrise, stancamente, e sfiorò il braccio di Dyvim Tvar. «Non preoccuparti. L'invocazione si è conclusa, e ora abbiamo il vascello che ci porterà velocemente al principe Yyrkoon e alle terre di Oin e Yu.» «Speriamolo.» Segretamente, Dyvim Tvar dubitava dei benefici che avrebbe arrecato loro la nave che veleggiava su terra e mare. Raggiunsero i cavalli, e lui si mise ad asciugare l'acqua sui fianchi del suo roano. «Mi dispiace» disse, «che ancora una volta abbiamo permesso ai draghi di sprecare le loro energie in un'impresa inutile. Con una squadriglia delle mie bestie potremmo fare molto contro il principe Yyrkoon. E sarebbe meraviglioso, amico mio, volare ancora nei cieli a fianco a fianco, come facevamo un tempo.» «Quando tutto sarà finito e avremo riportato in patria la principessa Cymoril, lo rifaremo» disse Elric, issandosi stancamente in sella allo stallone bianco. «Tu suonerai il Corno del Drago, e i nostri fratelli draghi lo udranno, e io e te canteremo il Canto dei Padroni dei Draghi, e i nostri pungoli lampeggeranno, mentre noi staremo in groppa a Zannadifuoco e alla sua compagna Dolceartiglio. Ah, sarà come ai tempi della vecchia Melniboné, quando non equipareremo più la libertà al potere e lasceremo che i Regni Giovani vadano per la loro strada, nella certezza che anche loro ci lasceranno andare per la nostra!»
Dyvim Tvar tirò le redini del cavallo. La sua fronte si rannuvolò. «Preghiamo perché venga davvero quel giorno, mio signore. Ma non riesco a sfuggire al tormentoso presentimento che i giorni di Imrryr siano contati e che la mia vita si avvicini alla fine...» «Sciocchezze, Dyvim Tvar. Tu mi sopravviverai. Su questo non c'è dubbio, anche se sei più vecchio di me.» Mentre galoppavano nel crepuscolo, Dyvim Tvar disse: «Io ho due figli. Lo sapevi?» «Non me ne hai mai parlato.» «Li ho avuti da due vecchie amanti.» «Ne sono lieto per te.» «Sono veri melniboneani.» «Perché dici questo, Dyvim Tvar?» Elric cercò di leggere nell'espressione dell'amico. «Perché li amo, e vorrei che potessero godere dei piaceri dell'Isola del Drago.» «E perché non dovrebbero goderne?» «Non so.» Dyvim Tvar guardò intensamente Elric. «Posso dire che il fato dei miei figli è affidato alla tua responsabilità.» «Mia?» «Mi sembra, da quanto ho capito dalle parole dello spirito elementare dell'acqua, che le tue decisioni potrebbero determinare il destino dell'Isola del Drago. Ti prego di ricordarti dei miei figli, Elric.» «Me ne ricorderò, Dyvim Tvar. Sono certo che cresceranno e diventeranno superbi padroni dei draghi, e che uno di loro ti succederà come signore delle Grotte dei Draghi.» «Penso che tu non abbia afferrato bene ciò che intendevo, mio imperatore.» Elric guardò solennemente l'amico e scosse il capo. «Non mi è sfuggito ciò che intendevi, vecchio mio. Ma penso che tu mi giudichi male, se temi che io sia disposto a minacciare Melniboné e tutto ciò che rappresenta.» «Allora perdonami.» Dyvim Tvar abbassò il capo, ma l'espressione dei suoi occhi non mutò. Quando rientrarono a Imrryr, si cambiarono d'abito, bevvero vino bollente e si fecero portare vivande ricche di spezie. Elric, nonostante la debolezza, era d'umore migliore di quanto fosse mai stato in quegli ultimi mesi. Eppure qualcosa, sotto quello stato d'animo superficiale, faceva ancora
pensare che lui si sforzasse di parlare gaiamente e d'infondere vitalità nei propri movimenti. Senza dubbio, rifletté Dyvim Tvar, adesso le prospettive erano migliorate, e presto avrebbero affrontato il principe Yyrkoon. Ma i pericoli che li attendevano erano ignoti, e probabilmente c'erano considerevoli trabocchetti. Tuttavia, per l'affetto che portava all'amico, non voleva disperdere il buonumore di Elric. Era lieto, anzi, che l'imperatore fosse in uno stato d'animo più positivo. Parlarono dell'equipaggiamento di cui avrebbero avuto bisogno per la spedizione nelle terre di Yu e Oin, e si scambiarono ipotesi sulle capacità della nave che veleggiava su terra a mare: quanti uomini poteva trasportare, quante provviste avrebbero dovuto caricare a bordo, e così via. Quando Elric si alzò per andare a letto, non camminava più con la pesante stanchezza che prima accompagnava il suo passo; e nell'augurargli la buonanotte, Dyvim Tvar fu colpito di nuovo dalla stessa emozione che si era impadronita di lui sulla spiaggia, mentre osservava Elric che dava inizio all'incantesimo. Forse non era stato il caso a spingerlo a parlare dei suoi figli, quel giorno, perché provava quasi un sentimento protettivo, come se Elric fosse stato un ragazzo nell'ansiosa attesa di una festa che forse non gli avrebbe dato la felicità desiderata. Dyvim Tvar scacciò quei pensieri e andò a letto a sua volta. Elric poteva rimproverare se stesso per quanto era accaduto riguardo a Yyrkoon e Cymoril: ma Dyvim Tvar si chiedeva se in parte non era stata anche colpa sua. Forse avrebbe dovuto insistere di più, nel dare i suoi consigli: anzi, darglieli prima e tentare d'influenzare il giovane imperatore. Poi, secondo la caratteristica consuetudine dei melniboneani, scacciò quei dubbi e quei problemi, giudicandoli inutili. C'era una sola legge: cercare il piacere, ovunque si volesse. Ma era sempre stata quella, la consuetudine di Melniboné? All'improvviso Dyvim Tvar si chiese se Elric non rappresentasse un caso di regressione atavica piuttosto che di debolezza. Possibile che fosse la reincarnazione di uno dei loro antenati più remoti? Era sempre stata una caratteristica dell'indole melniboneana, pensare soltanto a se stessi e alla propria soddisfazione? E ancora una volta scacciò quei pensieri. Tanto, a cosa serviva porsi domande simili? Il mondo era il mondo. Un uomo era ciò che era. Prima di coricarsi andò a far visita a tutt'e due le sue amanti, svegliandole e insistendo per vedere i suoi figli, Dyvim Slorm e Dyvim Mav. E quando gli vennero condotti i figli, assonnati e sbalorditi, li guardò a lungo prima di congedarli. Non disse nulla né all'uno né all'altro, ma aggrottò la fronte e si
soffregò il volto e scosse il capo. E quando se ne furono andati disse a Niopal e a Samarai, le sue amanti, sbalordite quanto le loro creature: «Voglio che domani vengano condotti alle Grotte dei Draghi e incomincino l'apprendistato.» «Così presto, Dyvim Tvar?» chiese Niopal. «Sì. Ci rimane poco tempo, temo.» Non si spiegò meglio, poiché non era in grado di farlo. Aveva solo un presentimento. Ma era un presentimento così forte che cominciava a diventare quasi un'ossessione. Il mattino dopo, Dyvim Tvar ritornò alla torre di Elric e trovò l'imperatore che camminava inquieto avanti e indietro nel loggiato affacciato sulla città, intento a chiedere ansiosamente notizie di qualche nave avvistata al largo della costa. Ma nessuna nave era stata avvistata. I servitori rispondevano premurosamente che se il loro imperatore avesse descritto la nave sarebbe stato loro più facile capire cosa dovevano cercare; ma lui non sapeva descriverla, e poteva solo accennare che forse non sarebbe apparsa sull'acqua ma sulla terra. Era vestito per la guerra, tutto di nero; e Dyvim Tvar si accorse che aveva ingurgitato in quantità più abbondanti del solito le pozioni che gli rinvigorivano il sangue. Gli occhi cremisi brillavano di una vitalità ardente, il suo eloquio era concitato, e le mani bianche come l'osso si muovevano con sveltezza innaturale a ogni minimo gesto. «Ti senti bene questa mattina, mio signore?» chiese il padrone dei draghi. «Sono di ottimo umore: grazie, Dyvim Tvar.» Elric sorrise. «Tuttavia mi sentirei ancora meglio se la nave che veleggia su terra e mare fosse già qui.» Si accostò alla balaustrata e si affacciò, scrutando oltre le torri e le mura della città, guardando prima il mare e poi la terraferma. «Dove può essere? Vorrei tanto che re Straasha fosse stato più preciso.» «Sono d'accordo.» Dyvim Tvar, che non aveva fatto colazione, si servì una porzione delle succulente portate disposte sul tavolo. Si vedeva che Elric non aveva assaggiato nulla. Dyvim Tvar cominciò a chiedersi se le troppe pozioni non avessero per caso influito sul cervello del suo vecchio amico: forse la follia causata dal ricorso ai complicati incantesimi, o l'ansia per la sorte di Cymoril, o l'odio per Yyrkoon, avevano incominciato a sopraffare Elric. «Non sarebbe meglio riposare e attendere che venga avvistata la nave?»
suggerì sommessamente, forbendosi le labbra. «Sì, è un consiglio ragionevole» riconobbe Elric. «Ma non posso. Sono ansioso di partire, Dyvim Tvar, di trovarmi a faccia a faccia con Yyrkoon, di vendicarmi di lui e di ritrovare Cymoril.» «Lo capisco. Tuttavia...» La risata di Elric risuonò forte e convulsa. «Ti preoccupi per me come Ossastorte. Non ho bisogno di due bambinaie, signore delle Grotte dei Draghi.» Con uno sforzo, Dyvim Tvar sorrise. «Hai ragione. Bene, prego che il vascello magico... Cos'è, quello?» Tese il braccio verso l'altra parte dell'isola. «C'è un movimento, in quella foresta laggiù. Come se il vento la fendesse. Ma altrove non c'è la minima traccia di vento.» Elric seguì il suo sguardo. «È vero. Chissà...» E poi vide qualcosa emergere dalla foresta, e la terra stessa parve incresparsi. Era qualcosa che scintillava, bianco e azzurro e nero. Venne più vicino. «Una vela» disse Dyvim Tvar. «Credo che sia la tua nave, mio signore.» «Sì» mormorò Elric, sporgendosi dalla balaustrata. «La mia nave. Preparati, Dyvim Tvar. A mezzogiorno lasceremo Imrryr.» CAPITOLO SESTO CIÒ CHE VOLEVA IL DIO DELLA TERRA La nave era alta e snella e delicata. I parapetti, gli alberi e le frisate erano squisitamente scolpiti: si capiva subito che non erano opera di artigiani mortali. Era tutta di legno non dipinto, che però splendeva di azzurro e di nero e di verde e di una specie di rosso cupo e fumoso; e le sartie avevano il colore delle alghe marine, e le tavole della tolda levigata erano segnate da venature simili a radici d'alberi, e le vele dei tre alberi affusolati erano tondeggianti e candide e leggere come nubi in una bella giornata estiva. La nave era quanto poteva esserci di più incantevole in natura: era quasi impossibile guardarla senza provare un senso di gioia, la gioia che dà la contemplazione di uno spettacolo perfetto. Per dirla in breve, quella nave irradiava armonia, e Elric non sapeva immaginare un vascello più perfetto per muovere contro il principe Yyrkoon e i pericoli delle terre di Oin e di Yu. La nave veleggiava dolcemente sul suolo come sulla superficie di un fiume; e la terra, sotto la chiglia, s'increspava come se venisse trasformata temporaneamente in acqua. Dovunque la chiglia toccava, e per parecchie
spanne intorno, l'effetto diventava evidente: tuttavia, quando era passata, il suolo ritornava all'abituale stato di stabilità. Per questo gli alberi della foresta avevano ondeggiato quando la nave era passata in mezzo a loro, schiudendosi davanti alla prua mentre il vascello veleggiava verso Imrryr. La nave che veleggiava su terra e mare non era particolarmente grande. Senza dubbio era assai più piccola di una chiatta melniboneana da battaglia, e solo un poco più grande di una galea meridionale. Ma per l'eleganza, per la grazia delle linee curve, per la fierezza del portamento, non aveva rivali. Già le passerelle erano state calate al suolo: erano incominciati i preparativi per il viaggio. Elric, con le mani sui fianchi snelli, osservava il dono di re Straasha. Dalle porte della città uscivano gli schiavi che portavano viveri e armi. Dyvim Tvar, intanto, stava radunando i guerrieri imrryriani e assegnava loro le cariche e i doveri per la spedizione. I guerrieri non erano molti. Solo metà di quelli disponibili potevano trovare posto sulla nave, perché l'altra metà doveva rimanere per proteggere la città, al comando dell'ammiraglio Magum Colim. Era improbabile che ci fossero attacchi in forze contro Melniboné dopo la sconfitta della flotta barbara, ma era meglio prendere precauzioni soprattutto perché il principe Yyrkoon aveva giurato di conquistare Imrryr. Inoltre, per qualche strana ragione che nessuno dei presenti sapeva intuire, Dyvim Tvar aveva richiesto dei volontari, veterani che avevano una menomazione in comune, e aveva formato un distaccamento speciale con quegli uomini, che - pensavano tutti i presenti non avrebbero potuto rendersi utili nella spedizione. Tuttavia non sarebbero stati utili neppure per difendere eventualmente la città, e quindi tanto valeva che se ne andassero. I veterani furono condotti a bordo per primi. L'ultimo a salire la passerella fu lo stesso Elric. Camminò lentamente, pesantemente, fiero nell'armatura nera, fino a quando giunse sul ponte. Poi si voltò, salutò la sua città, e ordinò di togliere la passerella. Dyvim Tvar l'attendeva sul ponte di poppa. Il signore delle Grotte dei Draghi si era tolto un guanto, e passava la mano nuda sul legno stranamente colorato del parapetto. «Questa non è una nave fatta per la guerra, Elric» disse. «Non mi piacerebbe vederla danneggiata.» «E cosa può danneggiarla?» chiese in tono leggero Elric, mentre gli imrryriani si arrampicavano sulle sartie per regolare la velatura. «Pensi che Straasha la lascerebbe distruggere? O che lo permetterebbe Grome? Non temere per la nave che veleggia su terra e mare, Dyvim Tvar. Devi temere soltanto per la nostra sicurezza e la riuscita della spedizione. Ora consul-
tiamo le carte. Ricordando l'avvertimento di Straasha a proposito di suo fratello Grome, propongo che navighiamo sul mare fin dove sarà possibile, toccando terra qui.» Indicò un porto sulla costa occidentale di Lormyr. «Così potremo orientarci e scoprire quanto è possibile sulle terre di Oin e di Yu e sui loro sistemi difensivi.» «Pochi viaggiatori si sono avventurati oltre Lormyr, in ogni tempo. Si dice che l'orlo del mondo non sia molto lontano dai confini meridionali di quella regione.» Dyvim Tvar si oscurò in volto. «Non può darsi che questa missione sia una trappola? Una trappola di Arioch? E se fosse d'accordo con il principe Yyrkoon e ci avesse indotti a intraprendere una spedizione che segnerà la nostra fine?» «Ci ho pensato anch'io» disse Elric. «Ma non abbiamo scelta. Dobbiamo fidarci di Arioch.» «Immagino che sia così.» Dyvim Tvar sorrise ironicamente. «Mi è venuta in mente un'altra cosa. Come si muove, questa nave? Non ho visto ancore che poi possiamo salpare, e a quanto ne so non esistono maree che percorrano la terraferma. Il vento gonfia le vele: guarda.» Era vero. Le vele ondeggiavano, e gli alberi scricchiolavano leggermente sotto la tensione. Elric scrollò le spalle e allargò le braccia. «Immagino che dobbiamo dirlo alla nave» suggerì. «Nave: noi siamo pronti per partire.» Notò con gioia l'espressione sbalordita di Dyvim Tvar quando la nave, dopo un sussulto, cominciò a muoversi. Veleggiava dolcemente, come su un mare tranquillo: e istintivamente Dyvim Tvar si aggrappò al parapetto gridando: «Ma ci stiamo dirigendo contro le mura della città!» Elric si affrettò a portarsi al centro della poppa, dove stava una grande leva fissata orizzontalmente a un nottolino d'arresto, assicurato a sua volta a un perno. Quasi certamente, quello era il timone. Elric afferrò la leva come un remo e la spinse, spostandola di un paio di tacche. Immediatamente la nave ubbidì... e puntò verso un'altra parte delle mura! Elric premette di nuovo la leva e la nave s'inclinò, scricchiolando un poco e ondeggiando: poi prese a dirigersi verso l'interno dell'isola. Elric rise, soddisfatto. «Vedi com'è facile, Dyvim Tvar? È bastato un piccolo sforzo di logica!» «Tuttavia» disse sospettoso Dyvim Tvar, «sarei più tranquillo se fossimo a cavallo dei draghi. Almeno sono bestie, e si possono capire. Ma questa magia mi turba.» «Non sono parole degne di un nobile di Melniboné!» gridò Elric, per vincere il sibilo del vento tra le sartie, lo scricchiolio della nave, lo sbattere
delle grandi vele bianche. «Forse no» ammise Dyvim Tvar. «Forse questo spiega perché ora sono al tuo fianco, mio signore.» Elric lanciò all'amico un'occhiata sconcertata prima di scendere in cerca di un timoniere cui potesse insegnare a governare la nave. Il vascello procedeva rapido sui pendii pietrosi e sulle colline ammantate d'erica; si apriva la strada attraverso le foreste e veleggiava maestosamente sulle pianure erbose. Si muoveva come un falco che vola basso, tenendosi rasente al suolo, ma procede con incredibile velocità e precisione in cerca della preda, mutando rotta con un impercettibile scatto di un'ala. I soldati di Imrryr si affollavano sui ponti, lanciando grida di sbalordimento nel vedere la nave che avanzava sulla terra: fu necessario usare la forza per rinviare molti uomini ai loro posti, alle vele e altrove. Il colossale guerriero che fungeva da nostromo sembrava l'unico membro dell'equipaggio che non fosse sconvolto dal miracolo. Si comportava come avrebbe fatto normalmente a bordo di una delle auree chiatte da battaglia: sbrigava le sue mansioni sorvegliando perché tutto si svolgesse nel modo voluto. Il timoniere che Elric aveva scelto, invece, teneva gli occhi sbarrati e sembrava innervosito. Era chiaro che temeva di essere scagliato da un istante all'altro contro uno sperone roccioso, o di fracassare la nave in un groviglio di grossi pini. Si umettava di continuo le labbra e si tergeva il sudore della fronte, sebbene l'aria fosse fresca e pungente e il respiro gli uscisse dalle labbra in una nube di vapore. Tuttavia era un buon timoniere, e a poco a poco si abituò a guidare la nave sebbene i suoi movimenti fossero necessariamente più rapidi poiché c'era poco tempo per prendere le decisioni: la nave procedeva rapidissima. La velocità era tale da mozzare il fiato, superiore perfino a quella dei draghi tanto cari a Dyvim Tvar. Tuttavia quel moto era anche esaltante, come testimoniavano le espressioni di tutti gli imrryriani. La soddisfatta risata di Elric echeggiava in tutta la nave, contagiando molti altri membri dell'equipaggio. «Bene, se Grome delle Radici sta cercando di bloccare la nostra avanzata non so immaginare quale velocità raggiungeremo quando viaggeremo sull'acqua!» gridò a Dyvim Tvar. Dyvim Tvar aveva smarrito un po' del malumore di prima. I lunghi capelli finissimi gli sventolavano intorno al volto mentre rivolgeva un sorriso all'amico. «Sì... verremo scaraventati tutti in mare!» Poi, come in risposta alle sue parole, la nave cominciò improvvisamente
a beccheggiare e nello stesso tempo a ondeggiare di qua e di là, come se fosse stata presa da poderose correnti incrociate. Il timoniere impallidì e si aggrappò alla leva, tentando di riprendere il comando. Ci fu un breve urlo di terrore, e un marinaio cadde dalla coffa dell'albero maestro e piombò sul ponte sfracellandosi. Poi la nave ondeggiò ancora un paio di volte e la perturbazione passò. Ripresero la loro rotta. Elric fissò il corpo del marinaio precipitato. All'improvviso l'umore gaio l'aveva abbandonato completamente: si afferrò al parapetto con le mani guantate di nero e digrignò i denti. Gli occhi cremisi sfolgorarono, le labbra si aggricciarono in una smorfia di autoironia. «Che sciocco! Che sciocco sono, a provocare così gli dèi!» Sebbene la nave procedesse quasi alla stessa velocità di prima, sembrava che qualcosa la frenasse, come se i servitori di Grome si aggrappassero alla chiglia allo stesso modo in cui nel mare si sarebbero aggrappati i cirripedi. Elric percepiva qualcosa intorno a sé nell'aria, qualcosa nel fruscio degli alberi tra cui passavano, nel movimento dell'erba e degli arbusti e dei fiori su cui transitavano, nel peso delle rocce, nell'angolazione delle colline. E comprese che percepiva la presenza di Grome del Suolo, Grome della Terra Sotto le Radici: Grome, che desiderava esclusivamente per sé ciò che un tempo lui e suo fratello Straasha avevano posseduto congiuntamente, che avevano costruito quale simbolo dell'unità esistente tra loro, e che poi li aveva spinti a lottare uno contro l'altro. Grame voleva riprendersi la nave che veleggiava su terra e mare. E Elric, abbassando lo sguardo sul nero suolo, ebbe paura. CAPITOLO SETTIMO RE GROME Ma finalmente, sebbene il suolo si aggrappasse alla chiglia, raggiunsero il mare, scivolando nell'acqua e acquistando velocità da momento a momento finché Melniboné scomparve dietro di loro e avvistarono le dense nubi di vapore che aleggiavano perpetue sul Mare Bollente. Elric pensò che non sarebbe stato saggio far avventurare il vascello magico in quelle strane acque: perciò la nave venne fatta virare e puntò verso la costa di Lormyr, la più mite e tranquilla tra le nazioni dei Regni Giovani, e verso il porto di Ramasaz, sulla sponda occidentale di Lormyr. Se i barbari meridionali contro cui avevano combattuto recentemente fossero venuti da Lormyr, Elric avrebbe deciso di puntare verso qualche altro porto: ma qua-
si sicuramente gli invasori erano arrivati dal sudest, sul lato più lontano del continente, oltre Pikarayd. I lormyriani, sotto il governo del grasso e prudente re Fadan, difficilmente avrebbero preso parte a una scorreria senza prima avere l'assoluta certezza del successo. Mentre entravano lentamente nel porto di Ramasaz, Elric ordinò di amarrare la nave in modo tradizionale e di trattarla come se fosse stata un normale vascello. Tuttavia attirava l'attenzione di tutti per la sua bellezza, e gli abitanti della città portuale rimasero stupiti nello scoprire che l'equipaggio era formato da melniboneani. Sebbene questi fossero detestati in tutti i Regni Giovani, erano anche temuti. Perciò, almeno esteriormente, Elric e i suoi uomini furono trattati con rispetto, e vennero serviti di buon cibo e di buon vino nelle locande in cui entrarono. Nella più grande delle taverne del porto, chiamata Partire e Ritornare in Patria Sani e Salvi, Elric fece conoscenza con un garrulo oste che prima di acquistare quell'esercizio era stato un fortunato pescatore e che conosceva piuttosto bene le coste meridionali. Conosceva le terre di Oin e di Yu, ma non dimostrava di tenerle in grande rispetto. «Si direbbe che si stiano preparando alla guerra, mio signore.» Guardò Elric, inarcando le sopracciglia, prima di nascondere il volto nel boccale di vino. Poi, forbendosi le labbra, scosse la fulva testa. «In tal caso, è ai passeri che dovranno muovere guerra. Oin e Yu sono nazioni molto piccole. La loro unica città quasi decente è Dhoz-Kam, e l'hanno in comune: metà si trova su una sponda del fiume Ar, l'altra metà sull'altra. Quanto al resto di Oin e di Yu è abitato da contadini, quasi tutti così ignoranti e superstiziosi che vivono in miseria. Tra loro non c'è un solo soldato potenziale.» «Non hai sentito parlare di un rinnegato melniboneano che ha conquistato Oin e Yu e si è impegnato ad addestrare alla guerra quei contadini?» Dyvim Tvar si appoggiò al banco, al fianco di Elric, sorseggiando con aria schizzinosa una grossa coppa di vino. «Quel rinnegato si chiama principe Yyrkoon.» «È lui, che cercate?» Il locandiere prese un'aria più interessata. «Una disputa fra principi-draghi, eh?» «Questo è affar nostro» rispose altezzosamente Elric. «Certo, miei signori.» «Sai nulla di un grande specchio che ruba i ricordi degli uomini?» chiese Dyvim Tvar. «Uno specchio magico!» Il locandiere ributtò la testa all'indietro e rise di cuore. «Non credo che esista un solo specchio decente in tutto il territorio
di Oin e di Yu! No, miei signori: penso che siate stati indotti in inganno, se temete qualche pericolo da quella parte!» «Senza dubbio hai ragione» disse Elric, abbassando lo sguardo sul vino che non aveva assaggiato. «Ma sarebbe prudente andare a controllare di persona... e sarebbe anche nell'interesse di Lormyr, se scoprissimo ciò che cerchiamo e potessimo mettervi in guardia.» «Non preoccuparti per Lormyr. Possiamo sventare facilmente ogni sciocco tentativo di muoverci guerra, se Oin e Yu ci si provassero. Ma se ci tenete a constatarlo con i vostri occhi, dovete seguire la costa per tre giorni fino a quando giungerete in una grande baia. Vi si getta il fiume Ar, e sulle sponde di quel fiume sorge Dhoz-Kam: una città miserabile, soprattutto se si pensa che è la capitale di due nazioni. Gli abitanti sono corrotti, sporchi e affetti da ogni tipo di malattie; ma per fortuna sono anche pigri, e quindi non causano molti fastidi, soprattutto se tenete una spada a portata di mano. Quando avrete trascorso un'ora a Dhoz-Kam, capirete che è impossibile che un simile popolo costituisca una minaccia per qualcuno: a meno che quelli vi si avvicinino quanto basta per contagiarvi con una delle loro tante infermità!» Il locandiere rise di nuovo, allegramente, della propria spiritosaggine. Quando smise, aggiunse: «O a meno che temiate la loro marina: consiste di una dozzina di luridi pescherecci, quasi tutti malconci al punto che osano pescare soltanto nelle secche dell'estuario.» Elric spinse da parte la coppa. «Grazie, locandiere.» E posò sul banco un pezzo melniboneano d'argento. «Sarà difficile cambiarlo» disse astutamente il taverniere. «Non c'è bisogno che tu lo cambi per noi» replicò Elric. «Vi ringrazio, padroni miei. Non volete passare la notte nella mia locanda? Posso offrirvi i migliori letti di Ramasaz.» «Credo di no» rispose Elric. «Questa notte dormiremo a bordo della nostra nave, per essere pronti a salpare all'alba.» Il locandiere seguì con lo sguardo i due melniboneani che si allontanavano. Istintivamente addentò il pezzo d'argento; poi, preso dal sospetto di aver sentito un sapore strano, se lo tolse dalla bocca. Fissò la moneta, rigirandola tra le dita. Era possibile che l'argento melniboneano fosse velenoso per un comune mortale? Era meglio non conere rischi. Ripose la moneta nella borsa, e prese le due coppe di vino lasciate dai forestieri. Sebbene detestasse ogni forma di spreco, decise che sarebbe stato più prudente gettarle via, per timore che in qualche modo si fossero contaminate.
La nave che veleggiava su terra e mare raggiunse la baia a mezzodì del giorno seguente e si fermò nei pressi della costa, celandosi alla città dietro un breve istmo su cui cresceva una vegetazione fitta, quasi tropicale. Elric e Dyvim Tvar avanzarono a guado nell'acqua limpida e poco profonda, raggiunsero la spiaggia e si addentrarono nella foresta. Avevano deciso di essere prudenti e di non render nota la loro presenza prima di aver accertato se la sprezzante descrizione di Dhoz-Kam fatta dal locandiere corrispondeva a verità. Presso la punta dell'istmo c'era una collina piuttosto alta, su cui crescevano parecchi alberi di dimensioni imponenti. Elric e Dyvim Tvar si aprirono un varco con le spade in mezzo al sottobosco, e salirono la collina finché si fermarono sotto gli alberi per scegliere quello che sarebbe stato più facile scalare. Elric ne scelse uno il cui tronco si piegava per poi raddrizzarsi. Rinfoderò la spada, si aggrappò con le mani e si inerpicò, finché arrivò a una successione di robusti rami in grado di reggere il suo peso. Dyvim Tvar, intanto, si era arrampicato su un albero vicino. Adesso i due uomini potevano vedere bene, oltre la baia, la città di DhozKam. Senza dubbio corrispondeva alla descrizione del locandiere. Era tozza e lurida, chiaramente molto povera. Era per questo, sicuramente, che Yyrkoon l'aveva prescelta, perché le terre di Oin e di Yu non dovevano essere difficili da conquistare con l'aiuto di un pugno di imrryriani ben addestrati e di alcuni dei soprannaturali alleati di Yyrkoon. Per la verità, ben pochi si sarebbero dati da fare per conquistare un posto simile, poiché era chiaramente poverissimo e la sua posizione geografica non aveva importanza strategica. Yyrkoon aveva scelto bene, se non altro per serbare il segreto. Ma il taverniere si era sbagliato sul conto della flotta di Dhoz-Kam. Perfino a quella distanza, Elric e Dyvim Tvar potevano distinguere nel porto una trentina di grosse navi da guerra: e sembrava che ce ne fossero altre ancorate più oltre, nel fiume. Ma le navi li interessarono meno della cosa che balenava e scintillava sopra la città: qualcosa che era stato montato su enormi pilastri. Era un colossale specchio circolare, sostenuto da un perno e racchiuso in una cornice che non era opera di artigiani mortali, come la nave che aveva condotto fin lì i melniboneani. Non c'erano dubbi: quello era lo Specchio della Memoria, e chiunque era entrato nel porto dopo che l'oggetto magico era stato installato doveva aver perso immediatamente il ricordo di ciò che aveva visto. «Penso, mio signore» disse Dyvim Tvar, arrampicato sul suo albero a un paio di braccia da Elric, «che sarebbe imprudente entrare apertamente nel porto di Dhoz-Kam. Anzi, sarebbe pericoloso avventurarci nella baia. Cre-
do che già a questa distanza possiamo guardare lo specchio solo perché non è rivolto direttamente verso di noi. Ma come avrai notato, c'è un meccanismo che permette di farlo girare in tutte le direzioni volute da chi lo usa... tranne una. Non può essere rivolto verso l'entroterra, dietro la città. Non è necessario, perché chi penserebbe di avvicinarsi a Oin e a Yu dai deserti che si estendono oltre i loro confini? E chi, se non gli abitanti di Oin e Yu, può aver bisogno di raggiungere la capitale dall'entroterra?» «Credo di aver compreso ciò che intendi, Dyvim Tvar. Tu consigli di approfittare delle straordinarie proprietà della nostra nave e di...» «... e di raggiungere Dhoz-Kam per via di terra, attaccando all'improvviso e servendoci dei veterani che abbiamo portato con noi, muovendoci rapidamente e ignorando i nuovi alleati del principe Yyrkoon ma cercando soltanto il principe e i suoi rinnegati. Potremmo farlo, Elric? Piombare nella città, catturare Yyrkoon, liberare Cymoril... e poi andarcene in tutta fretta?» «Poiché disponiamo di pochi uomini per un attacco diretto, non possiamo far altro, sebbene sia pericoloso. Dopo aver compiuto il tentativo, naturalmente, il vantaggio della sorpresa andrebbe perduto. Se il primo colpo di mano fallisse, diventerebbe molto più difficile tentare una seconda volta. L'alternativa consiste nell'intrufolarci in città durante la notte, sperando di rintracciare Yyrkoon e Cymoril: ma in tal caso non potremmo sfruttare la nostra unica arma importante, la nave che veleggia su terra e mare. Credo che il tuo piano sia il migliore. Addentriamoci con la nave nell'entroterra, subito, e auguriamoci che Grome impieghi parecchio tempo a trovarci... perché temo che cerchi di strapparci la nave.» Elric cominciò a ridiscendere dall'albero. Quando fu di nuovo sul ponte di poppa dell'incantevole nave, Elric ordinò al timoniere di puntare la prua verso la terraferma. Con la velatura ridotta, il vascello si mosse elegantemente sull'acqua e salì la curva della spiaggia, mentre gli arbusti della foresta si schiudevano per lasciarlo passare. Poi navigarono tra il verdescuro della giungla: gli uccelli starnazzavano e stridevano sbalorditi e gli animaletti si fermavano stupiti a guardare dall'alto degli alberi, rischiando di perdere l'equilibrio, mentre la nave che veleggiava su terra e mare procedeva tranquillamente sul fondo della foresta deviando solo per evitare le piante più colossali. E così si addentrarono nella terra chiamata Oin, che si estendeva a nord del fiume Ar, il quale costituiva il confine tra Oin e la terra chiamata Yu, con cui Oin aveva in comune la capitale.
Oin consisteva soprattutto di giungle e di pianure infeconde, che gli abitanti coltivavano alla meno peggio poiché temevano la foresta e non osavano penetrarvi, sebbene fosse lì che si trovava la ricchezza della nazione. La nave veleggiò senza difficoltà attraverso la foresta e si avventurò sulla pianura. Ben presto scorsero davanti a loro un grande lago scintillante, e Dyvim Tvar, con un'occhiata alla rozza mappa che si era procurato a Ramasaz, propose di puntare di nuovo la prua verso il sud, per avvicinarsi a Dhoz-Kam in un ampio semicerchio. Elric accettò, e la nave incominciò la virata. Subito il suolo riprese a gonfiarsi in enormi ondate di terra erbosa, che questa volta si levarono intorno alla nave nascondendo la vista del paesaggio circostante. La nave beccheggiò all'impazzata e ondeggiò da un lato all'altro. Altri due imrryriani caddero dalle sartie sfracellandosi sul ponte. Il nostromo urlava sebbene il terribile movimento del suolo si compisse in silenzio, e quel silenzio faceva apparire ancor più minacciosa la situazione. Il nostromo urlò ai suoi uomini di legarsi ai rispettivi posti. «E quelli che non hanno niente da fare scendano subito sottocoperta!» aggiunse. Elric aveva avvolto una sciarpa intorno al parapetto, legandosi al polso l'altra estremità. Dyvim Tvar si era assicurato con una lunga cintura. Tuttavia venivano scagliati in tutte le direzioni, e spesso perdevano l'equilibrio mentre la nave sussultava di qua e di là. Elric aveva l'impressione che ogni osso del suo corpo stesse per spezzarsi, e ogni spanna della sua pelle era intormentita. E la nave scricchiolava e protestava e minacciava di schiantarsi, nello sforzo tremendo di navigare tra le ondate di terra. «È opera di Grome, Elric?» ansimò Dyvim Tvar. «Oppure è una stregoneria di Yyrkoon?» Elric scosse il capo. «Non è Yyrkoon. È Grome. E non conosco il modo di placarlo. Grome pensa meno di tutti gli altri re degli elementi, ma forse è il più potente di tutti.» «Ma senza dubbio, facendo questo viola il patto concluso con suo fratello!» «No, non credo. Re Straasha ci aveva avvertiti che ciò avrebbe potuto accadere. Possiamo solo sperare che Grome esaurisca tutta la sua energia e che la nave sopravviva, così come in mare potrebbe sopravvivere a una tempesta naturale.» «Questo è ben peggio di una tempesta in mare, Elric!» Elric annuì, ma non poté dir nulla perché il ponte si stava inclinando a un angolo pazzesco e lui doveva tenersi aggrappato al parapetto con tutt'e
due le mani per conservare l'equilibrio. E poi il silenzio cessò. Udirono un rombo e un ruggito che avevano un che di simile a una risata. «Re Grome!» gridò Elric. «Re Grome! Lasciaci in pace! Non ti abbiamo fatto niente di male!» Ma la risata divenne più forte e fece vibrare tutta la nave, mentre all'intorno la terra si sollevava e ricadeva e gli alberi e le colline e le rocce precipitavano verso il vascello e poi retrocedevano senza mai inabissarli completamente, senza dubbio perché Grome desiderava la nave intatta. «Grome! Tu non hai motivo di dissidio con i mortali!» gridò di nuovo Elric. «Lasciaci in pace! Chiedici un favore, se desideri, ma in cambio concedi questo favore a noi!» Elric gridava tutto ciò che gli passava per la mente. In realtà non sperava neppure che il dio della terra l'udisse, e non pensava che re Grome si prendesse il disturbo di ascoltarlo. Ma non poteva fare altro. «Grome! Grome! Grome! Ascoltami!» L'unica risposta ottenuta da Elric fu una risata ancor più potente che lo fece tremare in ogni nervo. E il suolo si sollevò ancora più in alto e piombò ancora più in basso, e la nave turbinò e turbinò, finché l'imperatore si sentì sul punto di perdere del tutto i sensi. «Re Grome! Re Grome! È giusto uccidere coloro che non ti hanno mai fatto niente di male?» Allora, lentamente, il suolo si placò, e la nave rimase immobile mentre un'enorme figura bruna la scrutava dall'alto. La figura aveva il colore della terra e sembrava una vecchia quercia immensa. La chioma e la barba avevano il colore delle foglie, gli occhi parevano d'oro, i denti avevano il colore del granito, i piedi erano simili a radici, e la pelle era ricoperta da minuscoli germogli verdi al posto dei peli. Esalava un intenso ma gradevole odore di muffa. Era Grome, re degli spiriti elementari della terra. Sbuffando e aggrottando la fronte, disse con una voce sommessa e poderosa che tuttavia era volgare e burbera: «Voglio la mia nave.» «Non possiamo dartela, re Grome» ribatté Elric. Il tono di Grome divenne ancor più petulante. «Voglio la mia nave» disse adagio. «La voglio. È mia.» «A cosa ti serve, re Grome?» «A cosa mi serve? È mia. È mia.» Grome batté il piede, e tutt'intorno il terreno s'increspò.
Elric disse, disperatamente: «È la nave di tuo fratello, re Grome. È la nave di re Straasha. Lui ti ha dato parte del suo dominio, e tu gli hai permesso di tenere la nave. Il patto era questo.» «Non so di nessun patto. La nave è mia.» «Tu sai che se riprendi la nave re Straasha dovrà riprendersi la terra che ti ha dato.» «Voglio la mia nave.» L'enorme figura cambiò posizione, facendo piovere frammenti di terra che caddero al suolo e sul ponte del vascello. «Allora dovrai ucciderci, per prenderla» disse Elric. «Uccidere? Grome non uccide i mortali. Non uccide nulla. Grome costruisce. Grome dà la vita.» «Hai già ucciso tre dei nostri» osservò Elric. «Tre sono morti, re Grome, perché hai provocato la tempesta di terra.» Le grandi sopracciglia di Grome si inarcarono; si grattò l'enorme testa, facendo risuonare un immenso fruscio. «Grome non uccide» ripeté. «Re Grome ha ucciso» disse Elric, insistendo. «Tre vite perdute.» Grome borbottò. «Ma voglio la mia nave.» «La nave ci è stata prestata da tuo fratello. Non possiamo darla a te. Inoltre la usiamo per un certo scopo: un nobile scopo, secondo me. Noi...» «Non so niente di "scopi" e non m'importa nulla di voi. Voglio la mia nave. Mio fratello non doveva prestarvela. L'avevo quasi dimenticata. Ma ora che la ricordo, la voglio.» «Non accetteresti qualcosa d'altro in cambio della nave, re Grome?» chiese all'improvviso Dyvim Tvar. «Qualche altro dono?» Grome scosse la mostruosa testa. «Come può un mortale donarmi qualcosa? I mortali mi derubano continuamente. Mi tolgono le ossa e il sangue e la carne. Potete ridarmi tutto ciò che mi hanno preso i vostri simili?» «Non c'è proprio nulla?» chiese Elric. Grome chiuse gli occhi. «Metalli preziosi? Gemme?» suggerì Dyvim Tvar. «A Melniboné ne abbiamo in abbondanza.» «Io ne ho ancora di più» disse re Grome. Elric scrollò le spalle, disperato. «Come possiamo mercanteggiare con un dio, Dyvim Tvar?» Sorrise, amaramente. «Cosa può desiderare il Signore del Suolo? Più sole? Più pioggia? Noi non siamo in grado di darglieli.» «Io sono un dio molto rozzo» disse Grome. «Se pure sono un dio. Ma non volevo uccidere i vostri compagni. Ho un'idea. Datemi i corpi dei ca-
duti. Seppelliteli nella mia terra.» Elric si sentì balzare il cuore in petto. «È tutto ciò che ci chiedi?» «A me sembra molto.» «E in cambio ci lascerai proseguire?» «Sull'acqua sì» borbottò Grome. «Ma non capisco perché dovrei permettervi di navigare sulla mia terra. Sarebbe pretendere troppo. Potete raggiungere quel lago: ma d'ora innanzi la nave avrà solo le proprietà donatele da mio fratello Straasha. Non attraverserà più il mio dominio.» «Ma, re Grome, abbiamo bisogno della nave. Siamo impegnati in una missione importante. Dobbiamo raggiungere quella città.» Elric tese il braccio in direzione di Dhoz-Kam. «Potete arrivare fino al lago: ma poi la nave navigherà soltanto sull'acqua. Ora datemi ciò che ho chiesto.» Elric chiamò il nostromo, che per la prima volta sembrava sbalordito da ciò che vedeva. «Porta in coperta i cadaveri dei tre uomini.» I corpi furono portati in coperta. Grome protese una delle grandi mani terrose e li afferrò. «Vi ringrazio» borbottò. «Addio.» E lentamente incominciò a sprofondare nel suolo: la sua figura immane, atomo per atomo, venne assorbita dalla terra fino a scomparire. Poi la nave riprese a muoversi lentamente verso il lago, nell'ultimo breve viaggio che doveva compiere sulla terra. «E così i nostri piani sono stati sventati» disse Elric. Dyvim Tvar guardò il lago scintillante, con aria infelice. «Sì. Quel piano è irrealizzabile. Quasi non oso dirtelo, Elric, ma temo che dovremo fare nuovamente ricorso alla magia, se vogliamo avere qualche possibilità di realizzare il nostro scopo.» Elric sospirò. «Lo temo anch'io» disse. CAPITOLO OTTAVO LA CITTÀ E LO SPECCHIO Il principe Yyrkoon era soddisfatto. I suoi piani procedevano bene. Guardò oltre l'alta staccionata che cingeva il tetto piatto della sua casa (alta tre piani, la più bella di Dhoz-Kam): laggiù c'era il porto, dove stava la sua splendida flotta catturata. Ogni nave giunta a Dhoz-Kam, se non portava lo stendardo di una nazione potente era stata conquistata senza difficoltà do-
po che l'equipaggio aveva guardato il grande specchio in cima ai pilastri. Erano stati i demoni a erigerli, e il principe Yyrkoon li aveva pagati con le anime di coloro che in Oin e in Yu gli avevano opposto resistenza. Ora c'era una sola ambizione da realizzare, e poi lui e i suoi nuovi seguaci sarebbero partiti per Melniboné... Si voltò per parlare alla sorella. Cymoril giaceva su una panca di legno, e fissava ciecamente il cielo. Indossava i sudici resti dell'abito che aveva quando Yyrkoon l'aveva rapita dalla sua torre. «Guarda la nostra flotta, Cymoril! Mentre le chiatte auree sono disperse un po' dovunque, noi potremo entrare a Imrryr senza intralci, e proclameremo nostra la città. Elric non può difendersi da noi, ormai. È caduto con tanta facilità nella mia trappola. È uno sciocco! E tu sei stata una sciocca a dargli il tuo affetto!» Cymoril non replicò. Durante tutti quei mesi Yyrkoon aveva mescolato droghe ai suoi cibi e alle sue bevande, causando in lei una debolezza non dissimile dalla condizione in cui si trovava Elric quando non ricorreva alle droghe. Gli esperimenti magici avevano reso Yyrkoon magro, stralunato e sciatto: non si preoccupava più del proprio aspetto. Ma Cymoril aveva l'aria sciupata e stravolta, sebbene avesse conservato la bellezza. Pareva che la miseria e la desolazione di Dhoz-Kam avessero influito su entrambi, in modi diversi. «Non temere comunque per il tuo futuro, sorella mia» continuò Yyrkoon, ridacchiando. «Sarai ugualmente imperatrice e starai assisa a fianco dell'imperatore sul Trono di Rubino. Ma io sarò l'imperatore, e Elric impiegherà molti giorni a morire, e la sua morte sarà più fantasiosa di quella che si proponeva di infliggere a me.» La voce di Cymoril era rauca e lontana. Non girò la testa, mentre parlava. «Sei pazzo, Yyrkoon.» «Pazzo? Suvvia, sorella, è una parola che un vero melniboneano non deve usare. Noi di Melniboné non giudichiamo nulla ragionevole o folle. Un uomo è ciò che è. E ciò che fa, fa. Forse sei rimasta troppo a lungo nei Regni Giovani, e hai assimilato i loro criteri di giudizio. Ma presto rimedieremo anche a questo. Ritorneremo trionfalmente all'Isola del Drago e tu dimenticherai tutto questo, come se anche tu avessi guardato lo Specchio della Memoria.» Yyrkoon lanciò un'occhiata nervosa verso il cielo, quasi temesse che lo specchio venisse rivolto verso di lui. Cymoril chiuse gli occhi. Il suo respiro era pesante, lentissimo: sopportava quell'incubo con forza d'animo, sicura che Elric l'avrebbe salvata. So-
lo questa speranza la tratteneva dall'uccidersi. Se la speranza l'avesse completamente abbandonata, si sarebbe data la morte e l'avrebbe fatta finita con Yyrkoon e tutti i suoi orrori. «Ti ho detto che stanotte ci sono riuscito? Ho evocato i demoni, Cymoril. Demoni potentissimi, tenebrosi. Ho appreso da loro tutto ciò che ancora mi restava da imparare. E ho aperto finalmente la Porta d'Ombra. Presto la varcherò, e troverò quello che cerco. Diventerò il più potente mortale della Terra. Ti ho già detto tutto questo, Cymoril?» In verità Yyrkoon l'aveva ripetuto molte volte quel mattino, ma Cymoril non gli aveva prestato attenzione, come non gliene prestava ora. Si sentiva così stanca. Avrebbe voluto dormire. Disse lentamente, come per rammentare qualcosa a se stessa: «Ti odio, Yyrkoon.» «Ah, ma presto mi amerai, Cymoril. Presto.» «Elric verrà...» «Elric! Ah! Se ne sta nella sua torre a far girare i pollici, in attesa di notizie che non arriveranno mai... tranne quando sarò io a portargliele!» «Elric verrà» disse lei. Yyrkoon ringhiò. Una ragazza di Oin, dal volto animalesco e stupido, gli portò il vino del mattino. Yyrkoon prese la coppa e sorseggiò il liquido. Poi lo sputò contro la ragazza, che si scostò tremando. Il principe prese la fiasca e la vuotò sulla bianca polvere del tetto. «Questo è il sangue annacquato di Elric. E scorrerà così!» Ma Cymoril non l'ascoltava. Cercava di rammentare il suo amante albino, e i pochi giorni di dolcezza che avevano trascorso insieme fin da quando erano bambini. Yyrkoon lanciò la fiasca vuota contro la testa della ragazza, ma lei era avvezza a schivarla. E mentre si scostava, mormorò la risposta abituale a tutte le sue aggressioni, a tutti i suoi insulti. «Grazie, sire demonio» disse. «Grazie, sire demonio.» Yyrkoon rise. «Sì. Sire demonio. La tua gente ha ragione di chiamarmi così, perché regno su un numero di demoni ancora più grande di quello degli uomini sotto la mia sovranità. La mia potenza aumenta ogni giorno!» La ragazza oinisca corse via a prendere altro vino, perché sapeva che entro pochi attimi il principe l'avrebbe chiesto. Yyrkoon andò a guardare, tra le fessure della staccionata, la prova del suo potere: ma mentre contemplava le navi udì un frastuono confuso dall'altra parte del tetto. Erano gli yuriti e gli oinisci che combattevano tra loro? Dov'erano i loro centurioni imrryriani? Dov'era il capitano Valharik?
Attraversò il tetto quasi di corsa, passando accanto a Cymoril che sembrava addormentata, e guardò giù per le strade. «Un incendio?» mormorò. «Un incendio?» Le strade, per la verità, sembravano in fiamme. Eppure non era un incendio normale. Sfere di fuoco aleggiavano facendo avvampare i tetti di canne, le porte, tutto ciò che poteva bruciare facilmente... come un esercito invasore che desse alle fiamme un villaggio. Yyrkoon fece una smorfia. In un primo istante pensò di essere stato imprudente: forse un suo incantesimo si era volto a suo danno. Ma poi guardò oltre le case incendiate e vide una strana nave, straordinariamente bella ed elegante, che sembrava creata più dalla natura che dall'uomo... e comprese che si trattava di un attacco. Ma chi poteva attaccare Dhoz-Kam? Non c'erano ricchezze che valessero lo sforzo. Non potevano essere imrryriani... Non poteva essere Elric. «Impossibile che sia Elric» ringhiò. «Lo Specchio. Bisogna girarlo sugli invasori.» «E anche su di te, fratello?» Cymoril s'era alzata, vacillando, e si appoggiava a un tavolo. Sorrideva. «Eri troppo sicuro di te, Yyrkoon. Elric è venuto.» «Elric! Assurdo! Solo pochi scorridori barbari provenienti dall'interno. Quando saranno nel centro della città, potremo usare contro di loro lo Specchio della Memoria.» Corse a una botola che conduceva all'interno della casa. «Capitano Valharik! Valharik, dove sei?» Valharik entrò nella stanza sottostante. Sudava. Stringeva una spada nella mano guantata, sebbene non avesse l'aria di aver ancora preso parte a un combattimento. «Prepara lo Specchio, Valharik. Puntalo sugli aggressori.» «Ma, mio signore, potremmo...» «Sbrigati! Fa' come dico. Presto quei barbari entreranno a far parte delle nostre forze... insieme alla loro nave.» «Barbari, mio signore? Credi che i barbari possano comandare gli spiriti elementari del fuoco? Quelli contro cui ci battiamo sono spiriti della fiamma. Non è possibile ucciderli, come non si può uccidere il fuoco.» «Il fuoco si può uccidere con l'acqua» ricordò il principe Yyrkoon al suo luogotenente. «Con l'acqua, capitano Valharik. L'hai dimenticato?» «Ma principe Yyrkoon, abbiamo tentato di spegnere gli spiriti con l'acqua... e l'acqua non lascia i nostri secchi. Qualche possente incantatore comanda gli invasori. Ha l'aiuto degli spiriti del fuoco e dell'acqua.»
«Tu sei pazzo, capitano Valharik» disse Yyrkoon, in tono fermo. «Pazzo. Prepara lo Specchio, e non dire più simili stupidaggini.» Valharik si umettò le labbra secche. «Sì, mio signore.» Piegò il capo e uscì per ubbidire al comando del suo padrone. Yyrkoon tornò alla staccionata e guardò fuori. Adesso c'erano uomini, per le strade: combattevano contro i suoi guerrieri, ma il fumo oscurava la visuale e lui non riusciva a riconoscere l'identità degli invasori. «Godetevi questa misera vittoria» disse, ridacchiando. «Perché presto lo Specchio vi ruberà la mente e voi diventerete miei schiavi.» «È Elric» mormorò Cymoril. Sorrise. «Elric è venuto a vendicarsi di te, fratello.» Yyrkoon sghignazzò. «Lo credi? Lo credi davvero? Bene: se così fosse non mi troverà, perché ho ancora un modo per sfuggirgli... e troverà te in una condizione che non gli piacerà, e che gli causerà una grande angoscia. Ma non è Elric. È un rozzo sciamano venuto dalle steppe orientali. Presto sarà in mio potere.» Anche Cymoril scrutava attraverso la staccionata. «Elric» disse. «Vedo il suo elmo.» «Cosa?» Yyrkoon la spinse da parte. Là, per le strade, imrryriani si battevano con imrryriani: non c'era più dubbio. Gli uomini di Yyrkoon, imrryriani e oinisci e yuriti, venivano respinti. E alla testa degli aggressori si vedeva un elmo con un drago nero, come lo portava un solo melniboneano. Era l'elmo di Elric. E la spada di Elric, appartenuta un tempo al conte Aubec di Matador, si avventava e colpiva, ed era tinta di sangue che scintillava nel sole mattutino. Per un momento, Yyrkoon fu sopraffatto dalla disperazione. Gemette. «Elric. Elric. Elric. Oh, come continuiamo a sottovalutarci a vicenda! Quale maledizione pesa su di noi?» Cymoril aveva rovesciato all'indietro la testa, e il suo volto si era rianimato. «Avevo detto che sarebbe venuto, fratello!» Yyrkoon si voltò di scatto verso di lei. «Sì, è venuto... e lo Specchio gli ruberà la mente, lo trasformerà in uno schiavo pronto a credere tutto ciò che io vorrò. Questo mi è ancora più dolce di ciò che avevo progettato, sorella. Ah!» Levò il capo e poi si affrettò a coprirsi gli occhi con un braccio, rendendosi conto di ciò che aveva fatto. «Presto, giù in casa! Lo Specchio comincia a girare.» Ci fu un potente scricchiolio di ingranaggi e di pulegge e di catene, mentre il terribile Specchio della Memoria cominciava a puntare sulle strade sottostanti. «Tra poco Elric si aggiungerà alle mie schiere,
insieme ai suoi uomini. Che splendida ironia!» Yyrkoon sospinse la sorella giù per i gradini che scendevano dal tetto e si chiuse la botola alle spalle. «Lo stesso Elric mi aiuterà ad attaccare Imrryr. Distruggerà i suoi fedeli. Scaccerà se stesso dal Trono di Rubino!» «Non credi che Elric abbia previsto la minaccia dello Specchio della Memoria, fratello?» disse Cymoril, gaiamente. «L'avrà prevista, sì... ma non può resistervi. Deve vederci, per combattere. Dovrà aprire gli occhi, per non essere abbattuto. Nessun uomo dotato di occhi può salvarsi dal potere dello Specchio.» Yyrkoon girò lo sguardo sulla stanza rozzamente ammobiliata. «Dov'è Valharik? Dov'è quel bastardo?» Valharik entrò di corsa. «Lo Specchio sta girando, mio signore, ma colpirà anche i nostri uomini. Temo...» «Non temere più. Cosa importa se i nostri uomini ne subiscono l'effetto? Potremo instillare nel loro cervello ciò che devono sapere... nello stesso tempo in cui l'instilleremo nella mente dei nemici sconfitti. Sei troppo nervoso, capitano Valharik.» «Ma li guida Elric...» «E gli occhi di Elric sono occhi, sebbene sembrino gemme cremisi. Non se la caverà meglio dei suoi uomini.» Per le strade intorno alla casa del principe Yyrkoon, Elric e Dyvim Tvar avanzavano con i loro imrryriani respingendo i demoralizzati avversari. Gli attaccanti avevano subito pochissime perdite, mentre molti oinisci e yuriti giacevano morti per le vie insieme ad alcuni dei loro comandanti, imrryriani rinnegati. Gli spiriti elementari del fuoco, che Elric aveva evocato con qualche difficoltà, incominciavano a disperdersi, poiché costava loro caro trascorrere tanto tempo sul livello terreno: ma il vantaggio indispensabile era ormai acquisito, e non c'erano dubbi sulla vittoria: cento e più case bruciavano in tutta la città, propagando l'incendio ad altre, e richiedevano l'intervento dei difensori perché lo squallido centro non andasse completamente distrutto. Anche nel porto molte navi erano in fiamme. Dyvim Tvar fu il primo a notare che lo Specchio cominciava a girarsi verso le strade. Tese l'indice in segno d'avvertimento, poi si voltò soffiando nel corno e ordinando l'avanzata delle truppe che non avevano ancora preso parte al combattimento. «Ora dovete guidarci voi!» gridò, e si calò l'elmo sul volto. I fori per gli occhi erano stati otturati, e non poteva vedere nulla.
Lentamente Elric abbassò a sua volta l'elmo, fino a trovarsi immerso nella tenebra. Tuttavia il frastuono della battaglia continuò, mentre i veterani condotti lì da Melniboné cominciavano a portarsi nelle prime file e gli altri restavano indietro. Gli imrryriani che procedevano all'avanguardia non avevano i fori degli elmi otturati. Elric pregò che il suo piano andasse a buon fine. Yyrkoon, sbirciando cautamente attraverso una fessura nel pesante tendaggio, disse in tono querulo: «Valharik? Continuano a combattere. Perché? Lo Specchio non è stato messo a fuoco?» «Dovrebbe esserlo, mio signore.» «E allora guarda tu stesso: gli imrryriani continuano ad aprirsi varchi tra i nostri difensori... e i nostri uomini cominciano a risentire dell'influenza dello Specchio. Cosa succede, Valharik? Cosa succede?» Valharik aspirò l'aria tra i denti: nella sua espressione c'era una certa ammirazione, mentre guardava gli imrryriani impegnati a combattere. «Sono ciechi» disse. «Si battono facendosi guidare dal suono, dal tatto e dall'odorato. Sono ciechi, mio imperatore... e guidano Elric e i suoi uomini, i cui elmi sono modificati in maniera da impedirgli di vedere.» «Ciechi?» Yyrkoon parlò in tono quasi patetico, rifiutando di capire. «Ciechi?» «Sì. Guerrieri ciechi: uomini feriti in altre guerre, e tuttavia buoni combattenti. È così che Elric sconfigge il nostro Specchio, mio signore.» «Ah! No! No!» Yyrkoon batté rabbiosamente il pugno sul dorso del capitano, che si affrettò a scostarsi. «Elric non è astuto. Non è astuto. Qualche demone potentissimo gli ispira queste idee.» «Può darsi, mio signore. Ma ci sono demoni più potenti di quelli che hanno aiutato te?» «No» disse Yyrkoon. «Non ce ne sono. Oh, se potessi evocarne qualcuno, adesso! Ma ho esaurito i miei poteri per aprire la Porta d'Ombra. Avrei dovuto prevedere... ma no, non potevo prevederlo... Oh, Elric! Riuscirò comunque ad annientarti, quando le spade incantate saranno mie!» Aggrottò la fronte. «Ma come ha potuto prepararsi? Quale demone...? A meno che abbia invocato lo stesso Arioch! Ma non ha il potere di invocare Arioch. Non ci sono riuscito neppure io...» E poi, quasi in risposta, Yyrkoon udì il canto di battaglia di Elric levarsi dalle strade vicine. E quel canto rispondeva alla domanda. «Arioch! Arioch! Sangue e anime per il mio signore Arioch!»
«Allora bisogna che io abbia le spade incantate. Devo varcare la Porta d'Ombra. Là ho ancora alleati... alleati soprannaturali che non faticheranno a liquidare Elric, se sarà necessario. Ma ho bisogno di tempo...» Così Yyrkoon mormorava tra sé, camminando avanti e indietro. Valharik continuò a osservare i combattimenti. «Si avvicinano» annunciò. Cymoril sorrise. «Si avvicinano, Yyrkoon? Chi è lo sciocco, ora? Elric? O tu?» «Taci. Devo pensare. Devo pensare...» Yyrkoon si tormentò le labbra. Poi una luce gli balenò negli occhi; guardò astutamente Cymoril per un attimo, prima di rivolgere l'attenzione al capitano Valharik. «Valharik, devi distruggere lo Specchio della Memoria.» «Distruggerlo? Ma è la nostra unica arma, mio signore.» «Esattamente: ma non è inutile, ormai?» «Sì.» «Distruggilo, e così tornerà a esserci utile.» Yyrkoon puntò il lungo indice in direzione della porta. «Va'. Distruggi lo Specchio.» «Ma principe Yyrkoon... imperatore, voglio dire... In questo modo non ci priveremo della nostra unica arma?» «Fa' come ti dico, Valharik! Altrimenti morirai!» «Ma come posso distruggerlo, mio signore?» «La tua spada. Devi arrampicarti sulla colonna, dietro lo specchio. Poi, senza guardarlo, devi colpirlo con la tua lama e frantumarlo. Si spezzerà facilmente. Tu sai quali precauzioni ho dovuto prendere perché non si infrangesse.» «È tutto ciò che devo fare?» «Sì. Poi sarai libero dal tuo impegno con me: potrai fuggire o fare ciò che preferisci.» «Non salperemo all'attacco di Melniboné?» «No, naturalmente. Ho ideato un altro metodo per prendere l'Isola del Drago.» Valharik scrollò le spalle. La sua espressione dimostrava che non aveva mai creduto alle assicurazioni di Yyrkoon. Ma cos'altro aveva potuto fare se non seguire Yyrkoon, dato che l'attendevano torture atroci se fosse caduto nelle mani di Elric? A capo chino, si allontanò per ubbidire all'ordine del suo principe. «E ora, Cymoril...» Yyrkoon sogghignò come un furetto, mentre tendeva
le mani per stringere le morbide spalle della sorella. «Ora devo prepararti per il tuo amante Elric.» Uno dei guerrieri ciechi gridò: «Non oppongono più resistenza, mio signore. Sono inerti, e si lasciano abbattere senza muoversi. Perché?» «Lo Specchio li ha privati della memoria» gridò Elric, voltando la testa cieca nella direzione da cui proveniva la voce del guerriero. «Ora puoi condurci in un edificio... dove, con un po' di fortuna, non vedremo lo Specchio.» Infine si trovarono all'interno di quello che doveva essere un magazzino, come notò Elric quando si tolse l'elmo. Per fortuna era abbastanza vasto da accoglierli tutti. Quando furono entrati, Elric fece sprangare le porte per poter decidere in pace ciò che occorreva fare. «Dobbiamo trovare Yyrkoon» disse Dyvim Tvar. «Interroghiamo uno dei suoi guerrieri...» «Sarebbe inutile, amico mio» gli rammentò Elric. «Le loro menti sono svuotate. Non ricorderanno nulla. In questo momento non sanno neppure chi o cosa sono. Vai a quell'imposta laggiù, dove non può arrivare l'influsso dello Specchio, e controlla se puoi vedere l'edificio che più probabilmente mio cugino ha scelto come residenza.» Dyvim Tvar si accostò prontamente all'imposta e guardò fuori, cautamente. «Sì... c'è un edificio più grande degli altri, e vedo un certo movimento all'interno, come se i guerrieri superstiti si stessero raggruppando. Molto probabilmente è la roccaforte di Yyrkoon. Dovrebbe essere facile espugnarla.» Elric lo raggiunse. «Sì. Sono d'accordo con te. Là troveremo Yyrkoon. Ma dobbiamo affrettarci, prima che decida di uccidere Cymoril. Dobbiamo trovare il modo migliore per raggiungere quella casa e spiegare ai nostri guerrieri ciechi quante strade e quanti edifici bisogna superare.» «Cos'è questo strano suono?» Uno dei guerrieri ciechi alzò la testa. «Sembra il lontano echeggiare di un gong.» «Anch'io lo sento» disse un altro cieco. Anche Elric lo udì. Un rumore sinistro. Proveniva dall'aria, sopra di loro, e faceva fremere l'atmosfera. «Lo Specchio!» Dyvim Tvar guardò in alto. «Lo Specchio ha forse qualche proprietà che non conosciamo?» «Può darsi...» Elric si sforzò di ricordare ciò che gli aveva detto Arioch. Ma Arioch s'era tenuto sul vago. Non aveva detto nulla di quel suono pos-
sente e terribile, quel clangore di... «Stanno spezzando lo specchio!» esclamò. «Ma perché?» C'era qualcosa d'altro, ora: qualcosa che gli sfiorava il cervello. Come se quel suono fosse stato senziente. «Forse Yyrkoon è morto e la sua magia e morta con lui...» cominciò Dyvim Tvar. Poi s'interruppe con un gemito. Il suono era più forte, più intenso, e arrecava un dolore acuto ai timpani. Elric comprese. Si tappò gli orecchi con le mani guantate. I ricordi imprigionati nello Specchio! Ora inondavano la sua mente. Lo Specchio era stato infranto, e liberava tutte le memorie che aveva rubato nel corso dei secoli... forse degli eoni. Molti di quei ricordi non erano mortali. Molti erano ricordi di bestie e di creature intelligenti esistite prima ancora di Melniboné. E quelle memorie lottavano per disputarsi un posto nel cranio di Elric... nel cranio di tutti gli imrryriani... nei poveri crani tormentati degli uomini all'esterno, le cui urla salivano dalle strade... e nel cranio del capitano Valharik, il traditore, che perse l'equilibrio sull'alto pilastro e precipitò insieme ai frammenti dello Specchio, sfracellandosi al suolo. Ma Elric non udì l'urlo del capitano Valharik, non udì il tonfo del suo corpo prima su un tetto e poi sulla via, dove giacque spappolato sotto lo Specchio infranto. Elric era disteso sul pavimento di pietra del magazzino e si contorceva, come si contorcevano i suoi compagni, cercando di liberarsi il cervello da un milione di ricordi che non erano suoi... ricordi di odii, di amori, di strane esperienze e di esperienze banali, di guerre e di viaggi, dei volti di parenti che non erano i suoi parenti, di uomini e donne e bambini, immagini di animali, di navi e città, di battaglie, di amoreggiamenti, di paure e di desideri... e i ricordi combattevano tra loro per impadronirsi del suo cranio affollato, minacciando di scacciare i suoi veri ricordi e la sua personalità. E mentre si contorceva al suolo, tappandosi gli orecchi, ripeteva una parola, nel tentativo di tenersi aggrappato alla propria identità. «Elric. Elric. Elric.» E gradualmente, con uno sforzo che aveva conosciuto una volta soltanto, quando aveva evocato Arioch sul livello terreno, riuscì a estinguere tutte quelle memorie estranee e a imporre la propria, finché, indebolito e sconvolto, staccò le mani dagli orecchi e non gridò più il proprio nome. E poi si alzò e si guardò intorno. Più di due terzi dei suoi uomini, ciechi o vedenti, erano morti. Era morto il colossale nostromo, con gli occhi spalancati e vitrei, le labbra immobilizzate in un urlo, l'orbita destra sanguinante come se avesse cercato di
svellere l'occhio. Tutti i cadaveri giacevano in pose innaturali, tutti avevano gli occhi aperti (se li possedevano), e molti portavano i segni dell'automutilazione, mentre altri avevano vomitato e altri ancora si erano fracassati il cranio contro il muro. Dyvim Tvar era vivo, ma stava raggomitolato in un angolo e mormorava tra sé: Elric pensò che fosse impazzito. Alcuni degli altri superstiti avevano perso effettivamente il senno: ma stavano tranquilli e non costituivano un pericolo. Soltanto cinque, compreso lui stesso, avevano resistito ai ricordi estranei, conservando la ragione. Mentre andava da un cadavere all'altro, Elric ebbe l'impressione che quasi tutti gli uomini fossero morti per collasso cardiaco. «Dyvim Tvar?» Elric posò la mano sulla spalla dell'amico. «Dyvim Tvar?» Dyvim Tvar alzò la testa dalle braccia e guardò Elric negli occhi. Nello sguardo del signore delle Grotte dei Draghi c'era l'esperienza di una ventina di millenni... e c'era anche ironia. «Sono vivo, Elric.» «Siamo rimasti vivi in pochi, ormai.» Poco dopo uscirono dal magazzino, senza dover più temere lo Specchio della Memoria, e videro che tutte le vie erano ingombre dei cadaveri di coloro che avevano ricevuto i ricordi dello Specchio. Corpi irrigiditi tendevano le mani verso di loro. Labbra morte formulavano silenziose invocazioni d'aiuto. Elric si sforzava di non guardarli, mentre passava oltre: ma il desiderio di vendicarsi del cugino era diventato ancora più intenso. Giunsero alla casa. La porta era aperta, e il pianterreno era ingombro di cadaveri. Del principe Yyrkoon non c'era traccia. Elric e Dyvim Tvar guidarono su per le scale i pochi imrryriani che avevano conservato la ragione, passando tra altri cadaveri imploranti, finché giunsero all'ultimo piano. E là trovarono Cymoril. Giaceva su un divano ed era nuda. C'erano simboli magici dipinti sul suo corpo, e quei simboli magici erano osceni. Aveva le palpebre appesantite, e in un primo momento non li riconobbe. Elric si precipitò accanto a lei e la prese tra le braccia. Era stranamente fredda. «Lui... lui mi ha fatta... dormire...» disse Cymoril. «Un sonno incantato... da cui... lui solo può svegliarmi...» Sbadigliò. «Sono rimasta desta... finora... con uno sforzo di volontà... perché Elric... sta per giungere...» «Elric è qui» mormorò il suo innamorato. «Io sono Elric, Cymoril.» «Elric?» Lei gli si abbandonò tra le braccia. «Tu... tu devi trovare
Yyrkoon... solo lui può svegliarmi...» «Dov'è andato?» Il volto dell'imperatore s'era indurito. Gli occhi cremisi sfavillavano. «Dove?» «In cerca delle due spade nere... le spade incantate... dei nostri avi... Luttuosa...» «E Tempestosa» disse torvo Elric. «Sono spade maledette. Ma dov'è andato, Cymoril? Come ha fatto a sfuggirci?» «Attraverso... attraverso la... Porta d'Ombra... L'ha evocata... ha concluso i patti più spaventosi con i demoni, per passare... L'altra... stanza...» Cymoril si addormentò: ma sul suo volto sembrava aleggiare la pace. Elric guardò Dyvim Tvar che attraversava la stanza con la spada in pugno e spalancava la porta. Un fetore tremendo provenne dalla stanza accanto, che era immersa nell'oscurità. Qualcosa guizzava, sul fondo. «Sì... è stregoneria, sicuramente» disse Elric. «E Yyrkoon mi ha giocato. Ha evocato la Porta d'Ombra e l'ha varcata, passando in un aldilà. Quale, non lo saprò mai, perché ce ne sono infiniti. Oh, Arioch, cosa non darei per seguire mio cugino!» «E allora lo seguirai» disse una voce dolce e sardonica, nella mente di Elric. In un primo istante l'albino pensò che fosse il vestigio di una memoria che ancora lottava per impadronirsi del suo cervello: ma poi comprese che era la voce di Arioch. «Congeda i tuoi seguaci, in modo che io possa parlare con te.» Esitò. Desiderava stare solo... ma non con Arioch. Desiderava stare con Cymoril, perché Cymoril lo faceva piangere. Già le lacrime gli scorrevano dagli occhi cremisi. «Ciò che ho da dire potrebbe far ritornare Cymoril alla normalità» disse la voce. «E soprattutto ti aiuterà a sconfiggere Yyrkoon e a vendicarti di lui. Anzi, potrebbe fare di te il mortale più potente che sia mai esistito.» Elric levò lo sguardo verso Dyvim Tvar. «Vuoi lasciarmi solo per qualche istante? E porta con te i tuoi uomini.» «Ma certo.» Dyvim Tvar condusse via gli uomini e si chiuse la porta alle spalle. Arioch era là, appoggiato alla stessa porta. Aveva assunto di nuovo l'aspetto di un bellissimo adolescente. Il suo sorriso era amichevole e aperto, e solo gli occhi - vecchi, antichi - smentivano la sua apparenza. «È tempo che cerchi tu stesso le spade nere, Elric» disse. «In modo che Yyrkoon non le trovi per primo. Ti avverto: con le spade incantate, Yyrko-
on sarà così potente che riuscirà a distruggere mezzo mondo senza pensarci. Per questo, tuo cugino ha deciso di affrontare i pericoli del mondo oltre la Porta d'Ombra. Se Yyrkoon s'impadronirà di quelle spade prima che tu le trovi, sarà la fine per te, per Cymoril, per i Regni Giovani, e molto probabilmente anche per Melniboné. Ti aiuterò a entrare nell'aldilà, per cercare le spade gemelle.» Elric disse, pensieroso: «Spesso sono stato messo in guardia contro i pericoli della ricerca delle spade... e i pericoli ancor più tremendi che causa il possederle. Credo che dovrò escogitare un altro piano, mio signore Arioch.» «Non ci sono altri piani. Yyrkoon desidera le spade, se non le desideri tu. Con Luttuosa in una mano e Tempestosa nell'altra sarà invincibile, perché le spade donano potere a chi le usa. Un potere immenso.» Arioch indugiò. «Devi fare come ti dico. Tornerà a tuo vantaggio.» «E anche a vantaggio tuo, sovrano Arioch?» «Sì... anche a mio vantaggio. Non sono completamente altruista.» Elric scosse il capo. «Sono confuso. Questa vicenda ha avuto troppi fattori soprannaturali. Sospetto che gli dèi ci manovrino...» «Gli dèi servono soltanto coloro che sono disposti a servirli. E gli dèi servono anche il destino.» «Non mi piace. Fermare Yyrkoon è una cosa, addossarmi le sue ambizioni e prendere io stesso le spade è ben diverso.» «È il tuo destino.» «Non posso cambiare il mio destino?» Arioch scosse il capo. «Non più di quanto possa cambiarlo io.» Elric accarezzò i capelli di Cymoril. «Io l'amo. Lei è tutto ciò che desidero.» «Non la sveglierai, se Yyrkoon trova le spade prima di te.» «E come troverò le spade?» «Varca la Porta d'Ombra: l'ho tenuta aperta, sebbene Yyrkoon la creda chiusa. Poi cerca la Galleria Sotto la Palude, che conduce alla Caverna Pulsante. In quella camera stanno le spade incantate. Sono sempre state lì, da quando i tuoi antenati le hanno abbandonate...» «Perché le hanno abbandonate?» «I tuoi antenati non avevano coraggio.» «Coraggio di affrontare cosa?» «Se stessi.» «Sei enigmatico, mio signore Arioch.»
«È il costume dei signori dei Mondi Superiori. Affrettati. Neppure io posso tenere aperta a lungo la Porta d'Ombra.» «Sta bene. Andrò.» E Arioch svanì immediatamente. Elric chiamò Dyvim Tvar con voce rauca e stridente. Dyvim Tvar si affrettò a entrare. «Elric? Cos'è accaduto? Cymoril? Sembri...» «Seguirò Yyrkoon: da solo, Dyvim Tvar. Tu devi ritornare a Melniboné con gli uomini che ancora rimangono. Porta con te Cymoril. Se non ritornerò dopo un intervallo ragionevole, devi proclamarla imperatrice. Se continuerà a dormire, dovrai governare come reggente fino al suo risveglio.» Dyvim Tvar chiese con voce sommessa: «Sai quello che fai, Elric?» Elric scosse il capo. «No, Dyvim Tvar. Non lo so.» Si alzò in piedi e si avviò barcollando verso l'altra stanza, dove l'attendeva la Porta d'Ombra. PARTE TERZA E ora non c'è più possibilità di tornare indietro. Il destino di Elric è stato forgiato e fissato, così come eoni addietro erano state forgiate e fissate le spade infernali. C'è mai stato un punto in cui lui avrebbe potuto abbandonare questa strada di disperazione, di dannazione e di distruzione? Oppure è sempre stato predestinato al disastro, ancor prima di nascere? Predestinato a conoscere, attraverso mille incarnazioni, poco più della tristezza e della lotta, della solitudine e del rimorso... eternamente campione di una causa ignota? CAPITOLO PRIMO OLTRE LA PORTA D'OMBRA E Elric entrò in un'ombra e si trovò in un mondo di ombre. Si voltò, ma l'ombra attraverso la quale era entrato si dileguò e scomparve. La spada del vecchio Aubec era nella mano di Elric, l'elmo nero e l'armatura nera proteggevano il suo corpo: e solo quelle armi gli erano note, perché la terra era tenebrosa e tetra, come racchiusa in una caverna immensa le cui pareti, sebbene invisibili, fossero tangibili e opprimenti. E Elric si pentì dell'isterismo e della debolezza che l'avevano spinto a ubbidire al demone suo pro-
tettore, Arioch, e a precipitarsi attraverso la Porta d'Ombra. Ma il rimpianto era ormai inutile, e lui lo dimenticò. Yyrkoon non si vedeva. Forse il cugino di Elric aveva trovato un destriero ad attenderlo, oppure, più probabilmente, era entrato in quel mondo con un'angolazione un poco diversa (si diceva che tutti i livelli girassero l'uno intorno all'altro) e perciò era più vicino o più lontano dalla meta comune. L'aria era carica di salsedine, così carica che Elric si sentiva le narici sature di sale e quasi gli sembrava di camminare sott'acqua e di poter respirare l'acqua stessa. Forse questo spiegava perché era così difficile vedere lontano in qualunque direzione, perché c'erano tante ombre, perché il cielo era simile a un velo che celasse la volta di una caverna. Elric rinfoderò la spada, poiché in quel momento non c'erano pericoli evidenti, e si girò adagio, cercando qualcosa che gli servisse per orientarsi. Era possibile che ci fossero montagne scoscese, nella direzione che gli sembrava l'est, e forse una foresta a ovest. Senza sole né stelle né luna, era difficile valutare la distanza e la direzione. Si trovava su una pianura sassosa, dove sibilava un vento freddo e torpido che gli tirava il mantello come se volesse impossessarsene. C'era un gruppo di alberi stenti e spogli, a un centinaio di passi. Era l'unica cosa che rompeva la squallida monotonia della pianura, eccettuato un grande e informe lastrone roccioso oltre gli alberi. Era un mondo che sembrava completamente privo di vita, dove un tempo la Legge e il Caos avevano combattuto distruggendo ogni cosa nel loro conflitto. Elric si chiese se esistevano molti luoghi come quello, e per un attimo lo prese uno spaventoso presentimento circa il fato del suo ricco mondo. Subito si scrollò da dosso quel pensiero, e s'incamminò verso gli alberi e la roccia. Arrivò agli alberi e li superò, e al tocco della sua mano un ramo fragile si spezzò e quasi subito si trasformò in cenere che il vento disperse. Elric si strinse nel mantello. Mentre si avvicinava alla roccia, gli parve che ne provenisse un suono. Rallentò l'andatura e posò la mano sul pomo della spada. Il rumore continuò: era un rumore esile, ritmico. Nell'oscurità, Elric scrutò attentamente la roccia cercando di individuare la fonte del suono. Poi quel suono cessò e venne sostituito da un altro: un trepestio smorzato, un passo furtivo. Poi silenzio. Elric indietreggiò di un passo e sguainò la spada di Aubec. Il primo rumore era stato il respiro di un uomo addormentato. Il secondo, invece, era stato prodotto da un uomo che si svegliava e si preparava ad attaccare o a difendersi.
Elric disse: «Sono Elric di Melniboné. Sono forestiero.» Una freccia gli sfiorò l'elmo, quasi nello stesso istante in cui risuonava la vibrazione della corda di un arco. Elric si buttò da una parte e si guardò intorno per cercare un riparo: ma non ce n'erano, a eccezione della roccia dietro cui si nascondeva l'arciere. Poi, dietro la roccia si levò una voce. Era ferma, piuttosto cupa. «Non intendevo farti del male, ma solo dimostrarti la mia abilità nel caso che tu pensassi di far del male a me. Ne ho avuto abbastanza, dei demoni di questo mondo; e tu, Faccia Bianca, mi sembri il demone più pericoloso di tutti.» «Io sono mortale» disse Elric, raddrizzandosi e decidendo che se doveva morire era meglio morire con dignità. «Hai parlato di Melniboné. Ho sentito parlare, di quel posto. Un'isola di demoni.» «Allora non ne hai sentito parlare abbastanza. Io sono mortale, come tutti i miei compatrioti. Solo gli ignoranti ci credono demoni.» «Io non sono ignorante, amico mio. Sono un sacerdote-guerriero di Phum, appartenente a quella casta ed erede di tutta la sua sapienza; e fino a tempi recenti, gli stessi Signori del Caos erano i miei padroni. Poi ho rifiutato di continuare a servirli, e loro mi hanno esiliato su questo livello. Forse anche tu hai avuto la stessa sorte? Perché la gente di Melniboné serve il Caos, non è vero?» «Sì. E ho sentito parlare di Phum: si trova nell'oriente inesplorato, oltre il Deserto del Pianto, oltre il Deserto dei Sospiri, addirittura oltre Elwher. È uno dei più antichi tra i Regni Giovani.» «Esatto. Tuttavia contesto che l'oriente sia inesplorato: lo è soltanto per i selvaggi dell'occidente. Dunque, a quanto sembra dovrai condividere il mio esilio.» «Non sono esiliato. Sono qui per compiere una ricerca. Quando sarà compiuta, ritornerò al mio mondo.» «Hai parlato di ritornare? Questo m'interessa, mio pallido amico. Credevo che il ritorno fosse impossibile.» «Forse lo è, e io sono stato ingannato. E se i tuoi poteri non sono bastati a permetterti di trovare la via di un altro livello, forse neppure i miei basteranno a salvarmi.» «Poteri? Non ne possiedo più, da quando ho abbandonato il servizio del Caos. Ebbene, amico, hai intenzione di batterti con me?» «C'è uno solo, su questo livello, con cui voglio battermi: e non sei tu, sa-
cerdote-guerriero di Phum.» Elric rinfoderò la spada, e nello stesso istante il suo interlocutore si alzò da dietro la roccia riponendo una freccia dalle piume scarlatte in una faretra pure scarlatta. «Io sono Rackhir» disse l'uomo. «Chiamato Arciere Rosso perché, come vedi, vesto di scarlatto. E consuetudine dei sacerdoti-guerrieri di Phum scegliere un colore e portarlo sempre. È l'unica tradizione cui sono rimasto fedele.» Indossava un giustacuore scarlatto, brache scarlatte, scarpe scarlatte, e un berretto scarlatto con una piuma scarlatta. Scarlatto era il suo arco, e il pomo della spada brillava di un rosso-rubino. Il volto, aquilino e scarno, come scolpito nell'osso, era bruno e coriaceo. Era alto e magro, ma i muscoli gli guizzavano sulle braccia e sul torace. C'era ironia nei suoi occhi e un'ombra di sorriso sulle labbra sottili, sebbene il volto indicasse che aveva vissuto molte esperienze, quasi tutte spiacevoli. «È un posto strano, per una ricerca» disse l'Arciere Rosso, fermandosi con le mani sui fianchi e squadrando Elric dalla testa ai piedi. «Ma farò un patto con te, se t'interessa.» «Se il patto mi converrà accetterò, perché sembra che tu conosca questo mondo assai più di me.» «Bene. Tu devi trovare qualcosa, qui, e poi potrai andartene, mentre io qui non ho nulla da fare e desidero andarmene. Se ti aiuto nella tua ricerca, mi porterai con te quando farai ritorno al tuo livello?» «Mi sembra un patto equo, ma non posso promettere ciò che non ho il potere di dare. Ti dirò solo questo: se mi sarà possibile ricondurti con me nel nostro livello, prima o dopo che avrò concluso la mia ricerca, lo farò.» «È ragionevole» disse Rackhir, l'Arciere Rosso. «E ora... dimmi cosa cerchi.» «Cerco due spade, forgiate millenni orsono dagli immortali, usate dai miei antenati ma poi abbandonate e portate su questo livello. Sono spade grandi e pesanti e nere, e sulle lame sono incisi simboli misteriosi. Mi è stato detto che le avrei trovate nella Caverna Pulsante, alla quale si giunge passando per la Galleria Sotto la Palude. Hai mai sentito parlare di questi luoghi?» «No. E non ho mai sentito parlare delle due spade nere.» Rackhir si passò la mano sul mento ossuto. «Ricordo tuttavia di aver letto qualcosa in uno dei Libri di Phum, e ciò che ho letto mi turba...» «Sono spade leggendarie. Molti libri vi accennano... e sono quasi sempre allusioni misteriose. Si dice che esista un volume che contiene la storia delle spade e di tutti coloro che le hanno usate e di tutti coloro che le use-
ranno in futuro: un libro senza tempo che racchiude tutto il tempo. Alcuni lo chiamano Cronaca della Spada Nera, e si dice che gli uomini possano leggervi il loro destino.» «Non so nulla neppure di questo. Non è uno dei Libri di Phum. Temo, compagno Elric, che dovremo avventurarci nella città di Ameeron e interrogare i suoi abitanti.» «C'è una città, su questo livello?» «Sì, una città. Io vi sono rimasto poco tempo, preferendo questa desolazione. Ma in compagnia di un amico, forse è possibile sopportare più a lungo quel luogo.» «Perché Ameeron non ti piace?» «I suoi abitanti non sono felici. Anzi, sono depressi e deprimenti: capisci, tutti sono esiliati o profughi o viaggiatori intermondani che hanno perso la strada e non l'hanno mai più ritrovata. Nessuno vive in Ameeron di sua libera scelta.» «Una vera Città dei Dannati.» «Un poeta potrebbe chiamarla così.» Rackhir strizzò l'occhio, sardonicamente. «Ma qualche volta penso che lo siano tutte le città.» «Cos'è questo livello? A quanto posso vedere, non ci sono pianeti né luna né sole. Sembra piuttosto una grande caverna.» «Esiste infatti una teoria secondo la quale si tratta di una sfera sepolta in un'infinità di roccia. Altri dicono che si trova nel futuro nella nostra Terra, un futuro in cui l'universo è morto. Ho sentito mille teorie, durante il breve tempo che ho trascorso nella città di Ameeron. E mi è parso che tutte avessero lo stesso valore. Tutte, mi sembrava, potevano essere esatte. Perché no? Alcuni ritengono che tutto sia una menzogna. Per contro, tutto potrebbe essere la verità.» Toccò a Elric osservare ironicamente: «Allora sei filosofo oltre che arciere, amico Rackhir di Phum?» Rackhir rise. «Se così ti piace! Sono stati appunto questi pensieri a minare la mia fedeltà al Caos e a portarmi qui. Ho sentito che esiste una città di nome Tanelorn che talora si può incontrare sulle mutevoli rive del Deserto dei Sospiri. Se mai ritornerò al nostro mondo, compagno Elric, cercherò quella città, poiché ho sentito dire che là si può trovare la pace e che le discussioni sulla natura della verità vi sono considerate prive di senso. E che i suoi abitanti sono paghi del solo fatto di vivere a Tanelorn.» «Li invidio» disse Elric. Rackhir arricciò il naso. «Sì. Ma probabilmente, se la trovassi si rivele-
rebbe una delusione. È meglio che le leggende rimangano leggende, e i tentativi di renderle reali riescono raramente. Vieni: Ameeron si trova laggiù, ed è triste dire che questo è tipico di quasi tutte le città che s'incontrano. Su qualsiasi livello.» I due uomini, ognuno reietto a suo modo, si avviarono nell'oscurità di quel deserto desolato. CAPITOLO SECONDO NELLA CITTÀ DI AMEERON Giunsero in vista della città di Ameeron. Elric non aveva mai incontrato un luogo simile. Al confronto, Dhoz-Kam sarebbe apparsa come l'abitato più pulito e ordinato del mondo. La città si trovava più in basso della pianura sassosa, in una valle poco profonda su cui aleggiava perpetuamente il fumo, una cappa sudicia e sbrindellata che serviva a nascondere quel posto alla vista degli uomini e degli dèi. Gli edifici erano quasi tutti semidiroccati, o addirittura in rovina, e spesso al loro posto erano state erette baracche e tende. La varietà degli stili architettonici - alcuni noti, altri del tutto sconosciuti - era tale che Elric faticava a scorgere una costruzione che somigliasse a un'altra. C'erano capanne e castelli, casette, torri e fortilizi, semplici ville quadrate e baracche di legno appesantite da ornamenti scolpiti. Altre sembravano mucchi di pietra con un'apertura irregolare che fungeva da porta. Ma nessuna aveva un bell'aspetto: nulla poteva avere un bell'aspetto in quella penombra, sotto un cielo eternamente buio. Qua e là crepitavano rossi fuochi che accrescevano il fumo; e quando Elric e Rackhir raggiunsero la periferia, l'aria era carica di una quantità di fetori. «L'arroganza, più che l'orgoglio, è la qualità principale della maggior parte degli abitanti di Ameeron» disse Rackhir, arricciando il naso aquilino. «Quando rimane loro qualche qualità, intendo.» Elric avanzava tra i rifiuti. Ombre indistinte correvano tra gli affollati edifici. «Non c'è magari una locanda, dove possiamo informarci sulla Galleria Sotto la Palude?» «Non ci sono locande. In generale, gli abitanti si tengono isolati...» «Una piazza dove la gente s'incontra?» «Questa città non ha un centro. Ogni abitante o gruppo di abitanti ha costruito la sua residenza dove preferiva o dove c'era spazio: e poiché pro-
vengono da ogni livello e da ogni epoca, ecco che si spiegano la confusione e la putredine e la vecchiaia di molti luoghi, il sudiciume e la disperazione e la decadenza diffusi dappertutto.» «Come vivono?» «In generale vivono l'uno a spese dell'altro. Commerciano con i demoni che di tanto in tanto visitano Ameeron...» «Demoni?» «Sì. E i più coraggiosi danno la caccia ai ratti che infestano le caverne sotto la città.» «Che demoni sono?» «Quasi tutti infimi servitori del Caos, i quali vogliono qualcosa che gli ameeronesi possono dar loro: qualche anima rubata, magari un bambino, sebbene qui ne nascano pochissimi... e puoi immaginare cos'altro, se sai cosa chiedono normalmente i demoni agli stregoni.» «Sì. Posso immaginarlo. Quindi il Caos può andare e venire come vuole, su questo livello.» «Non sono certo che sia tanto facile. Ma sicuramente andare e venire su questo livello è più facile ai demoni di quanto lo sia sul nostro.» «Hai mai visto qualcuno di questi demoni?» «Sì. La solita varietà bestiale. Volgari, stupidi, potenti... molti erano umani, un tempo, prima di decidersi a concludere un patto con il Caos. Ora sono psichicamente e fisicamente trasformati in immonde figure di demoni.» Elric fu scosso dalle parole di Rackhir. «È sempre questo, il fato di coloro che concludono patti con il Caos?» chiese. «Tu dovresti saperlo bene, se vieni da Melniboné. Io so che a Phum avviene raramente. Ma a quanto pare, più alta è la posta e più sottili sono i mutamenti che un uomo subisce quando il Caos accetta di parteggiare con lui.» Elric sospirò. «Dove possiamo chiedere notizie della nostra Galleria Sotto la Palude?» «C'era un vecchio...» cominciò Rackhir. Poi un grugnito alle sue spalle l'interruppe. Un altro grugnito. Una faccia zannuta emerse da una buia chiazza formata da un varco in un muro. La faccia grugnì di nuovo. «Chi sei?» chiese Elric, portando la mano all'elsa della spada. «Porco» disse la faccia zannuta. Elric non comprese se era un insulto de-
stinato a lui o se la creatura intendeva semplicemente presentarsi. «Porco.» Altre due facce zannute uscirono dalla chiazza buia. «Porco» disse una. «Porco» disse l'altra. «Serpente» disse una voce dietro Elric e Rackhir. Elric si girò di scatto, mentre Rackhir continuava a sorvegliare i porci. Davanti a lui c'era un giovane di alta statura. Al posto della testa spuntavano i corpi di quindici grossi serpenti. Ogni testa di serpe scrutava minacciosamente Elric. Le lingue guizzarono, e tutte le bocche si aprirono esattamente nello stesso istante per ripetere: «Serpente.» «Cosa» disse un'altra voce. Elric guardò in quella direzione, represse un grido e sfoderò la spada, mentre si sentiva invadere dalla nausea. Poi Cosa, Serpente e Porci si avventarono. Rackhir centrò un Porco prima che quello potesse percorrere tre passi. Si sfilò l'arco dalle spalle, lo tese, incoccò e scagliò una freccia rossopiumata, tutto in un secondo. Ebbe il tempo di trafiggere ancora un Porco, e poi lasciò cadere l'arco per sguainare la spada. Schiena contro schiena, Rackhir e Elric si accinsero a difendersi dall'attacco dei demoni. Serpente era terribile, con le quindici teste che sfrecciavano e sibilavano e cercavano di mordere con le zanne gocciolanti di veleno; ma Cosa continuava a cambiare forma: prima emergeva un braccio, poi una faccia appariva nella carne informe che avanzava strisciando lenta e implacabile. «Cosa!» gridò. Due spade si avventarono contro Elric, che stava fronteggiando l'ultimo Porco; lui sbagliò il colpo e invece di trapassare il cuore dell'avversario gli trafisse un polmone. Porco arretrò barcollando e si accasciò al suolo in una pozzanghera di fanghiglia. Strisciò per un attimo, ma poi crollò. Cosa aveva estroflesso una lancia, e Elric riuscì a fatica a deviare il colpo con una piattonata. Rackhir era impegnato contro Serpente: i due demoni si fecero più vicini agli uomini, impazienti di finirli. Metà delle teste di Serpente giacevano frementi al suolo, e Elric era riuscito a mozzare una mano di Cosa, ma il demone ne aveva pronte altre tre. Sembrava formato non già da un solo essere ma da parecchi. Elric si chiese se, a causa del suo patto con Arioch, quello sarebbe stato il suo fato finale: essere trasformato in un demone, in un mostro informe. Ma non era già un mostro, in un certo senso? La gente non lo scambiava già per un demone? Quei pensieri gli ridiedero forza. Mentre combatteva, urlò: «Elric!» «Cosa!» rispose il suo avversario, altrettanto ansioso di affermare quello che considerava l'essenza del proprio essere.
Un'altra mano volò via, tranciata dalla spada di Aubec. Un altro giavellotto saettò e venne deviato; apparve un'altra spada e si abbatté sull'elmo di Elric con una forza che lo stordì e lo mandò barcolloni a urtare Rackhir, che fallì l'affondo contro Serpente e per poco non venne addentato da quattro teste. Elric sferrò un fendente al braccio e al tentacolo che stringevano la spada e li vide staccarsi dal corpo e poi venire riassorbiti. La nausea ritornò. Elric affondò la spada, e la massa urlò: «Cosa! Cosa! Cosa!» Elric sferrò un altro affondo, e quattro spade e due lance ondeggiarono e si scontrarono cercando di deflettere la lama di Aubec. «Cosa!» «Questa è opera di Yyrkoon» disse Elric. «Non c'è dubbio. Ha saputo che io l'ho seguito e cerca di fermarci ricorrendo ai demoni suoi alleati.» Digrignò i denti e continuò: «A meno che uno di loro sia lo stesso Yyrkoon! Sei mio cugino Yyrkoon, Cosa?» «Cosa...» La voce era quasi patetica. Le armi ondeggiavano e si scontravano, ma non si avventavano più così rabbiosamente contro l'albino. «O forse sei un altro vecchio amico?» «Cosa...» Elric affondò ancora la spada in quella massa, più e più volte. Ne scaturirono fiotti di sangue fetido che schizzarono sulla sua armatura. Elric non comprendeva perché fosse divenuto tanto facile attaccare il demone. «Adesso!» gridò una voce sopra la testa di Elric. «Presto!» Elric alzò fulmineamente lo sguardo e scorse un volto rosso, una barba bianca, un braccio che si agitava. «Non guardare me, sciocco! Su, colpisci!» E Elric strinse le mani sull'elsa della spada e piantò in profondità la lama nella creatura informe, che gemette e pianse e prima di morire disse in un bisbiglio: «Frank...» Rackhir sferrò un affondo nello stesso istante, e la sua lama passò sotto le teste serpentine che ancora rimanevano e s'immerse nel petto e nel cuore del suo demone, che morì anche lui. Il vecchio canuto scese dall'arco semidistrutto su cui si era appollaiato. Rideva. «La magia di Niun ha ancora un discreto effetto perfino qui, eh? Ho sentito quel tipo alto evocare i suoi amici demoni e ordinare loro di attaccarvi. Non mi è sembrato giusto che cinque attaccassero due, perciò mi sono messo su quel muro e ho sottratto la forza al demone dalle molte braccia. Ci riesco ancora. Ci riesco ancora! E adesso ho la sua forza, almeno in buona parte, e mi sento assai meglio di quanto mi sentivo da molte
lune... ammesso che la luna esista.» «Ha detto "Frank"» mormorò Elric, aggrottando la fronte. «Sarà stato un nome, secondo te? Il suo nome di un tempo?» «Può darsi» rispose il vecchio Niun. «Può darsi. Povero essere. Comunque, ora è morto. Voi due non siete di Ameeron... anche se te ti ho già visto, rosso.» «E io ho già visto te» disse Rackhir, con un sorriso. Asciugò il sangue di Serpente dalla spada, usando una delle teste di serpe. «Tu sei Niun Che Sapeva Tutto.» «Già. Che sapeva tutto ma che ora sa ben poco. Presto sarà finita, quando avrò dimenticato ogni cosa. Allora potrò tornare da questo terribile esilio. È il patto che ho concluso con Orland dello Scettro. Ero uno sciocco che aspirava a sapere tutto, e la curiosità mi ha trascinato in una tremenda avventura con questo Orland. Orland mi ha mostrato il mio errore, e mi ha mandato qui a dimenticare. Purtroppo, come avete visto, ricordo ancora alcuni miei poteri e un po' della mia scienza, di tanto in tanto. So che tu cerchi le Spade Nere. So che sei Elric di Melniboné. So cosa sarà di te.» «Conosci il mio destino?» chiese Elric, di slancio. «Dimmelo, Niun Che Sapeva Tutto!» Niun aprì la bocca per parlare, poi la richiuse fermamente. «No» disse. «Ho dimenticato.» «No!» Elric tese le mani come per afferrare il vecchio. «No! Tu ricordi! Vedo bene che ricordi!» «Ho dimenticato.» Niun chinò la testa. Rackhir strinse il braccio dell'imperatore albino. «Ha dimenticato, Elric.» Elric annui. «Sta bene.» Poi chiese: «Ma ricordi dove si trova la Galleria Sotto la Palude?» «Sì. È a poca distanza da Ameeron, la Palude. Andate da quella parte. Poi cercate un monumento a forma d'aquila, scolpito nel marmo nero. Alla base del monumento c'è l'entrata della galleria.» Niun ripeté pappagallescamente l'informazione, e quando rialzò la testa il suo volto era più limpido. «Cosa vi ho detto?» Elric rispose: «Ci hai dato le indicazioni per raggiungere l'ingresso della Galleria Sotto la Palude.» «Davvero?» Niun batté le mani grinzose. «Splendido. Ho dimenticato anche questo. Chi siete?» «È meglio che dimentichi anche noi» disse Rackhir, con un sorriso gen-
tile. «Addio, Niun, e grazie.» «Grazie di cosa?» «Di aver ricordato e di aver dimenticato.» Lasciato il vecchio stregone felice proseguirono il cammino attraverso la miserabile città di Ameeron, guardando i volti che li scrutavano dalle porte e dalle finestre e cercando di respirare il meno possibile quell'aria contaminata. «Credo di invidiare soltanto Niun, tra tutti gli abitanti di questo luogo desolato» disse Rackhir. «Io lo compiango» replicò Elric. «Perché?» «Penso che quando avrà dimenticato tutto potrebbe dimenticare anche che gli è permesso lasciare Ameeron.» Rackhir rise e batté la mano sulle spalle dell'albino. «Sei un compagno piuttosto tetro, amico Elric. I tuoi pensieri sono sempre così disperati?» «Tendono in quella direzione, temo» rispose Elric, con l'ombra di un sorriso. CAPITOLO TERZO LA GALLERIA SOTTO LA PALUDE E proseguirono in quel mondo triste e tenebroso, finché giunsero alla palude. La palude era nera. Qua e là crescevano ciuffi di vegetazione nera e spinosa. Era freddo e umido; una nebbia scura turbinava alla superficie, e talora in quei vapori sfrecciavano sagome piatte. Dalla nebbia si levava un solido oggetto nero che poteva essere solo il monumento descritto da Niun. «Il monumento» disse Rackhir, fermandosi e appoggiandosi all'arco. «È all'interno della palude, e non ci sono sentieri che vi conducano. Pensi che sia un problema, compagno Elric?» Elric avanzò cautamente a guado nelle acque stagnanti. Sentì la fanghiglia fredda che gli intralciava i piedi. Indietreggiò con una certa difficoltà. «Dev'esserci un sentiero» disse Rackhir, accarezzandosi il naso ossuto. «Altrimenti come avrebbe potuto attraversarla, tuo cugino?» Elric girò la testa verso l'Arciere Rosso e scrollò le spalle. «Chissà? Potrebbe avere compagni incantati che non hanno difficoltà ad attraversare le paludi.» All'improvviso si trovò seduto su una roccia umida. Sembrava che il fe-
tore salmastro dell'acquitrino l'avesse sopraffatto per un momento. Si sentiva debole. L'efficacia delle droghe che aveva ingerito per l'ultima volta nel varcare la Porta d'Ombra cominciava a svanire. Rackhir gli si avvicinò e sorrise con una certa simpatia vanagloriosa. «Ebbene, messer incantatore, non puoi evocare anche tu qualcuno che ti aiuti?» Elric scosse il capo. «So ben poco di utile, per quanto riguarda l'evocazione dei demoni minori. Yyrkoon ha tutti i suoi libri di magia, i suoi incantesimi preferiti, le sue amicizie nei mondi dei demoni. Se vogliamo raggiungere quel monumento dovremo trovare un sentiero normale, mio sacerdote-guerriero di Phum.» Il sacerdote-guerriero di Phum estrasse dalla tunica un fazzoletto rosso e si soffiò a lungo il naso. Quando ebbe finito tese una mano, aiutò Elric ad alzarsi, e si avviò lungo il bordo della palude, tenendo sempre in vista il nero monumento. Dopo qualche tempo trovarono finalmente un sentiero: non era d'origine naturale. Era una lastra di marmo nero che si protendeva nell'oscurità dell'acquitrino: era sdrucciolevole e coperta da uno strato di fanghiglia. «Sospetterei che si tratta di un sentiero falso, di un'esca per condurci alla morte» osservò Rackhir, fermandosi a fianco di Elric e osservando la lunga lastra. «Ma cos'abbiamo da perdere, ormai?» «Vieni» disse Elric, posando i piedi sulla lastra e cominciando a procedere cautamente. Ora teneva in mano una specie di torcia, un fascio di canne crepitanti che irradiava una sgradevole luce gialla e una quantità di fumo verdognolo... ma era meglio che niente. Rackhir lo seguì, toccando la lastra con l'arco prima di muovere ogni passo e fischiettando una melodia complicata. Un altro della sua razza avrebbe riconosciuto quel motivo: era il Canto del figlio dell'eroe dell'Inferno Superiore che sta per sacrificare la vita, una melodia molto popolare a Phum soprattutto fra i sacerdoti-guerrieri. Per Elric era fastidioso, e lo distraeva: ma non disse nulla. Concentrava tutta l'attenzione nello sforzo di conservare l'equilibrio sulla viscida superficie della lastra, che ora sembrava ondeggiare leggermente come se galleggiasse sulla superficie della palude. Erano giunti a metà strada dal monumento, di cui ora poterono distinguere chiaramente la forma: una grande aquila con le ali spiegate, il becco feroce, gli artigli protesi per uccidere. Era dello stesso marmo nero della lastra su cui si sforzavano di mantenersi in equilibrio. A Elric ricordava
una tomba. Forse vi era stato sepolto un antico eroe? Oppure era stata eretta per custodire le Spade Nere, per imprigionarle in modo che non potessero più tornare nel mondo degli uomini a rubare le anime degli uomini? La lastra ondeggiò con maggiore violenza. Elric si sforzò di restare ritto ma barcollò prima su un piede e poi sull'altro, mentre la fiaccola oscillava pazzamente. Scivolò e piombò nella palude, e si trovò immerso fino alle ginocchia. Cominciò a sprofondare. Chissà come, era riuscito a non abbandonare la torcia, e a quella luce fioca vide l'arciere rossovestito che scrutava davanti a sé. «Elric?» «Sono qui, Rackhir.» «Stai sprofondando?» «La palude sembra decisa a inghiottirmi, sì.» «Puoi metterti disteso?» «Posso stendermi in avanti, ma ho i piedi imprigionati.» Elric tentò di muoversi nella fanghiglia che lo stringeva come una morsa. Qualcosa gli passò guizzando davanti al volto, con una voce che era un balbettio smorzato. Elric cercò di dominare la paura che sentiva crescere dentro di sé. «Temo che dovrai abbandonarmi, amico Rackhir.» «Cosa? E perdere la mia unica possibilità di andarmene da questo mondo? Devi giudicarmi più altruista di quanto sono in realtà, compagno Elric. Ecco...» Cautamente, Rackhir si abbassò e tese le braccia verso l'albino. Entrambi erano coperti di fanghiglia, entrambi rabbrividivano di freddo. Rackhir si tendeva e Elric si piegava in avanti più che poteva cercando di raggiungere quella mano, ma era impossibile. E a ogni istante la fetida sozzura della palude lo trascinava più a fondo. Poi Rackhir impugnò l'arco e lo tese. «Aggrappati, Elric. Ci riesci?» Tendendosi in avanti e sforzando ogni osso e ogni muscolo, Elric riuscì a malapena ad afferrarsi all'arco. «E adesso devo... Ah!» Rackhir, mentre tirava a sé l'arco, scivolò, e la lastra cominciò a oscillare all'impazzata. Tese di scatto un braccio per afferrarsi all'orlo, continuando a stringere l'arco con l'altra. «Presto, Elric! Presto!» Faticosamente, Elric cominciò a issarsi fuori dalla fanghiglia. La lastra continuava a ondeggiare, e il volto di Rackhir era pallido quasi come quello dell'albino, mentre si sforzava disperatamente di mantenere la presa sul-
la lastra e sull'arco. E poi Elric, tutto intriso di fango, riuscì a raggiungere la lastra e a inerpicarvisi, stringendo ancora la fiaccola crepitante: e restò lì disteso, ansimando, ansimando. Anche Rackhir era senza fiato, ma rise. «Che razza di pesce ho preso!» esclamò. «Il più grosso, scommetterei!» «Ti sono grato, Rackhir, Arciere Rosso. Ti sono grato, sacerdoteguerriero di Phum. Ti devo la vita» disse Elric, dopo lunghi istanti. «E ti giuro che, riesca o no la mia impresa, userò tutti i miei poteri per permetterti di varcare la Porta d'Ombra e di tornare nel mondo dal quale tutt'e due veniamo.» Rackhir replicò pacatamente: «Tu sei un uomo, Elric di Melniboné. Per questo ti ho salvato. Ci sono pochi veri uomini, in tutti i mondi.» Scrollò le spalle e sogghignò. «Ora propongo di procedere verso il monumento strisciando sulle ginocchia. Sarà poco dignitoso, ma è anche più sicuro. E non c'è molta strada da percorrere.» Elric annuì. Non era trascorso molto tempo in quella tenebra eterna quando raggiunsero l'isoletta muscosa su cui sorgeva il Monumento dell'Aquila, enorme e massiccio e torreggiante nell'immensa oscurità che era il cielo o la volta della caverna. E alla base del plinto videro una porta bassa. Era aperta. «Una trappola?» borbottò Rackhir. «Oppure Yyrkoon è convinto che siamo periti ad Ameeron?» disse Elric, ripulendosi come poteva dalla fanghiglia. Poi sospirò: «Entriamo e facciamola finita.» Entrarono. Si trovarono in una piccola stanza. Elric girò la fiaccola per illuminarla, e vide un'altra porta. Il resto della stanza era privo di caratteristiche: ogni parete era fatta dello stesso marmo nero, vagamente luccicante. Il piccolo vano era pieno di silenzio. Nessuno dei due parlò. Si avviarono senza esitare verso l'altra porta: trovarono una scala e cominciarono a scenderla. Si snodava sempre più giù, in una tenebra totale. Continuarono a scendere per molto tempo, senza parlare, fino a quando giunsero in fondo e scorsero davanti a loro l'ingresso di una stretta galleria, così irregolare da apparire opera della natura più che di esseri senzienti. Dalla volta sgocciolava acqua che cadeva sul pavimento con la regolarità del battito di un cuore e sembrava di udire un suono più grave che emanasse da un punto lontano lontano in fondo alla galleria stessa.
Elric sentì che Rackhir si schiariva la gola. «Senza dubbio questa è una galleria» disse l'Arciere Rosso. «E indiscutibilmente passa sotto la palude.» Elric intuì che Rackhir provava la sua stessa riluttanza alla prospettiva di avventurarsi nella galleria. Si fermò, tenendo alta la fiaccola, ascoltando il suono delle gocce che cadevano sul pavimento e tentando di riconoscere l'altro suono che giungeva debolmente dall'oscurità. Poi si fece forza e avanzò quasi di corsa nella galleria, con gli orecchi colmi di un rombo improvviso che poteva provenire tanto dalla sua mente quanto da un lontano punto esterno. Udì dietro di sé i passi di Rackhir. Sguainò la spada, la spada del morto eroe Aubec, e udì il sibilo del proprio respiro echeggiare tra le pareti della galleria, adesso animata da suoni di ogni genere. Rabbrividì, ma non si fermò. La galleria era calda. Il pavimento era spugnoso, e l'odore salmastro persisteva. Adesso Elric poteva vedere che le pareti erano più lisce e sembravano fremere, scosse da un movimento rapido e regolare. Udì dietro di sé un grido soffocato, quando anche l'arciere si accorse della strana caratteristica della galleria. «Sembra carne» mormorò il sacerdote-guerriero di Phum. «Sembra carne.» Elric non trovò la forza di replicare. Aveva bisogno di tutta l'attenzione per procedere. Era divorato dal terrore, e tremava. Sudava, e le gambe minacciavano di piegarsi. Aveva le mani così deboli che a fatica riusciva a reggere la spada. E nella memoria aveva riflessi, accenni a qualcosa che il suo cervello rifiutava di esaminare. Era già stato lì? Il tremito che lo scuoteva divenne più intenso. Gli si rivoltava lo stomaco. Ma continuava a camminare barcollando, tendendo la fiaccola davanti a sé. Poi quel sommesso suono pulsante e regolare divenne più forte: Elric scorse in fondo alla galleria una piccola apertura, quasi circolare. Si arrestò, vacillando. «La galleria finisce lì» mormorò Rackhir. «È impossibile passare.» La piccola apertura pulsava con un ritmo rapido e forte. «La Caverna Pulsante» sussurrò Elric. «È ciò che dovremmo trovare al termine della Galleria Sotto la Palude. Quella dev'essere l'entrata, Rackhir.» «È troppo piccola perché un uomo possa passare, Elric» disse Rackhir. «No...»
Elric avanzò barcollando e si accostò all'apertura. Rinfoderò la spada. Consegnò la fiaccola al sacerdote-guerriero di Phum, e poi, prima che quello potesse trattenerlo, si lanciò a capofitto nel varco, divincolandosi... e le pareti si schiusero per lasciarlo passare, e poi si chiusero dietro di lui bloccando Rackhir dall'altra parte. Elric si alzò lentamente. Ora dalle pareti s'irradiava una fioca luce rosea e davanti a lui c'era un'altra entrata, un poco più grande di quella che aveva appena varcato. L'aria era calda, salmastra, densa, e quasi lo soffocava. Si sentiva pulsare la testa e dolere il corpo; riusciva a malapena ad agire e a pensare, se non per spingersi avanti. Vacillando si lanciò verso l'altra entrata, mentre l'immane pulsare sommesso risuonava sempre più forte al suo orecchio. «Elric!» Rackhir stava dietro di lui, pallido e sudato. Aveva abbandonato la fiaccola e l'aveva seguito. Elric s'inumidì le labbra secche e cercò di parlare. Rackhir si avvicinò. Elric disse, con voce impastata: «Rackhir. Non dovresti essere qui.» «Te l'avevo detto, che ti avrei aiutato.» «Sì, ma...» «E allora ti aiuterò.» Elric non aveva la forza di discutere; annui, e con entrambe le mani spinse e forzò le pareti cedevoli della seconda apertura. Vide che dava in una caverna, fremente di una pulsazione regolare. E al centro della caverna, librate nell'aria senza nessun sostegno, stavano due spade. Due spade identiche, enormi, splendide e nere. E ritto sotto le spade, con un'espressione avida e trionfante, c'era il principe Yyrkoon di Melniboné, che tendeva le mani per prenderle e muoveva le labbra senza che uscisse nessun suono. E Elric riuscì a pronunciare una sola parola, mentre passava e si fermava su quel pavimento tremulo. «No» disse. Yyrkoon lo udì. Si voltò, col terrore dipinto sul volto. Ringhiò vedendo Elric, e poi pronunciò a sua volta una parola che era un urlo d'indignazione. «No!» Con uno sforzo, Elric sguainò la spada di Aubec. Ma sembrava troppo pesante perché lui potesse tenerla ritta: gli trascinava giù il braccio, e sfiorava il pavimento. Elric aspirò profonde boccate di aria pesante, saturando-
si i polmoni. La vista gli si offuscava. Yyrkoon era divenuto un'ombra. Solo le due spade nere, immobili al centro della camera circolare, erano perfettamente nitide. Elric sentì Rackhir che entrava e si fermava al suo fianco. «Yyrkoon» disse infine, «quelle spade sono mie.» Yyrkoon sorrise e tese le mani verso le spade, da cui sembrava che sgorgassero un bizzarro suono lamentoso e una fioca luminosità nera. Elric vide i simboli magici incisi sulle lame, ed ebbe paura. Rackhir incoccò una freccia all'arco. Tese la corda fino alla spalla, mirando al principe Yyrkoon. «Se deve morire, Elric, dimmelo.» «Uccidilo» disse Elric. E Rackhir lasciò andare la corda. Ma la freccia si mosse nell'aria con estrema lentezza e si arrestò, librata a mezza strada fra l'arciere e la sua mancata vittima. Yyrkoon si girò, con un sogghigno atroce sulle labbra. «Qui le armi dei mortali sono inutili» disse. Elric parlò a Rackhir. «Deve aver ragione. E la tua vita è in pericolo. Vattene...» Rackhir lo guardò, sconcertato. «No. Devo rimanere qui e aiutarti...» Elric scosse il capo. «Non puoi aiutarmi: se rimarrai, potrai solo morire. Vattene.» Con riluttanza, l'Arciere Rosso staccò la corda dell'arco, lanciò un'occhiata sospettosa alle due spade nere, poi si insinuò nel varco e scomparve. «E adesso, Yyrkoon» disse Elric, lasciando cadere sul pavimento la spada di Aubec, «dobbiamo regolare il nostro conto, tu e io.» CAPITOLO QUARTO DUE SPADE NERE E poi le spade incantate, Tempestosa e Luttuosa, non furono più dov'erano rimaste librate per tanto tempo. Tempestosa si era posta nella mano destra di Elric, e Luttuosa stava nella mano destra del principe Yyrkoon. E i due uomini stavano sui lati opposti della Caverna Pulsante; e prima si scambiarono un'occhiata, e poi guardarono le spade che impugnavano. Le spade cantavano. Le voci erano fioche, ma si udivano chiaramente. Elric sollevò l'enorme lama, senza difficoltà, e la girò da una parte e dall'altra ammirandone la bellezza aliena.
«Tempestosa» disse. E provò un senso di paura. Gli parve all'improvviso di essere rinato, e gli parve che la spada incantata fosse nata con lui. Era come se non fossero mai stati separati. «Tempestosa.» E la spada gemette dolcemente e si assestò ancora meglio nella sua stretta. «Tempestosa!» gridò Elric, e si avventò contro il cugino. «Tempestosa!» Era pieno di paura... colmo, stracolmo di paura. E la paura portava con sé una specie di gioia folle: il bisogno demoniaco di combattere e di uccidere il cugino, di affondare la lama nel cuore di Yyrkoon. Di vendicarsi. Di spargere sangue. Di inviare un'anima all'inferno. E poi si udì il grido del principe Yyrkoon al disopra delle voci delle spade, al disopra del tambureggiare delle pulsazioni della caverna. «Luttuosa!» E Luttuosa si levò per parare il colpo di Tempestosa, per deviarlo e affondare verso Elric. Elric si spostò di lato e ruotò Tempestosa, abbassandola con violenza in un fendente laterale che per un istante costrinse Yyrkoon e Luttuosa ad arretrare. Se i duellanti si equivalevano, si equivalevano anche le lame, che sembravano dotate di volontà propria sebbene compissero la volontà di coloro che le impugnavano. E il clangore del metallo contro il metallo si trasformò in un selvaggio canto metallico intonato dalle spade. Un canto gioioso, come se le spade fossero state felici di tornare finalmente a combattere sebbene lottassero l'una contro l'altra. E Elric scorgeva a malapena il cugino, il principe Yyrkoon: solo di tanto in tanto ne intravedeva la faccia cupa e stravolta. La sua attenzione era presa interamente dalle due spade nere, perché sembrava che si battessero mettendo in palio la vita di uno dei duellanti (o forse di entrambi, pensò Elric) e che la rivalità tra lui e Yyrkoon fosse ben poca cosa in confronto alla rivalità fraterna tra le spade, che sembravano ebbre di piacere per la possibilità d'impegnarsi ancora dopo tanti millenni. E quella constatazione, mentre combatteva (e combatteva per la propria anima, oltre che per la propria vita), indusse Elric a riflettere sull'odio che provava per Yyrkoon. Avrebbe ucciso Yyrkoon, ma non per la volontà di un'altra potenza. Non per compiacere quelle spade a lui estranee.
La punta di Luttuosa sfrecciò verso i suoi occhi, e Tempestosa si levò di scatto per deviare di nuovo l'affondo. Elric non combatteva più suo cugino: combatteva la volontà delle due spade nere. Tempestosa si avventò verso la gola di Yyrkoon, momentaneamente indifesa. Elric si aggrappò alla spada e la trascinò indietro, risparmiando la vita al cugino. Tempestosa gemette, petulante, come un cane cui viene impedito di mordere un intruso. E Elric parlò, stringendo i denti. «Non sarò la tua marionetta, spada incantata. Se dobbiamo essere uniti, dobbiamo esserlo in un'intesa chiara.» La spada sembrò esitare e abbassare la guardia, e Elric si trovò impegnato a difendersi dall'attacco vorticante di Luttuosa, che a sua volta pareva rendersi conto del proprio vantaggio. Elric si sentì scorrere una nuova energia nel braccio destro e in tutto il corpo. Era il prodigio della spada. Grazie a Tempestosa non aveva più bisogno di droghe e mai più sarebbe stato debole. In battaglia, avrebbe trionfato. In pace, avrebbe potuto regnare con fierezza. In viaggio, avrebbe potuto star solo senza nulla da temere. Sembrava che la spada gli ricordasse tutto questo, mentre rintuzzava l'attacco di Luttuosa. E cosa voleva, in cambio? Elric lo seppe. La spada glielo disse senza bisogno di parole. Tempestosa aveva bisogno di combattere, perché quella era la ragione della sua esistenza. Tempestosa aveva bisogno di uccidere, perché quella era la fonte della sua energia: le vite e le anime di uomini, demoni... e perfino di dèi. Elric esitò, mentre suo cugino lanciava un grande urlo starnazzante e si avventava su di lui: Luttuosa colpì di sfuggita l'elmo e Elric fu scagliato indietro, a terra, e vide Yyrkoon che stringeva a due mani la gemente spada nera per trafiggerlo. E seppe che avrebbe fatto qualunque cosa per opporsi a quella sorte, cioè che la sua anima venisse assorbita da Luttuosa e la sua forza andasse ad alimentare la forza del principe Yyrkoon. E rotolò a lato, prontamente: si sollevò su un ginocchio e girò e alzò Tempestosa, con una mano guantata sulla lama e l'altra sull'elsa, per reggere l'immane colpo sferrato dal principe Yyrkoon. E le due nere spade stridettero come se soffrissero, e fremettero, e ne sgorgò una nera radiosità come sgorga il sangue dal corpo di un uomo trapassato da molte frecce. E Elric, ancora in ginocchio, fu spinto lontano da quella radiosità, ansimando e sospirando e sbirciando qua e là alla ricerca di Yyrkoon che era scomparso. E comprese che Tempestosa gli parlava di nuovo. Se non voleva morire
trafitto da Luttuosa, doveva accettare il patto offerto dalla Spada Nera. «Non deve morire!» disse Elric. «Non lo ucciderò per compiacerti!» E attraverso la nera radiosità si avventò Yyrkoon, ringhiando e azzannando l'aria e roteando la sua spada incantata. Tempestosa sfrecciò di nuovo attraverso un varco, e ancora una volta Elric trascinò indietro la lama, e Yyrkoon venne soltanto scalfito. Tempestosa fremeva nelle mani di Elric. Elric disse: «Non sarai la mia padrona.» E Tempestosa parve comprendere, e si acquietò, come rassegnata. E Elric rise, pensando che ormai dominava la spada incantata e che da quel momento l'arma avrebbe fatto ciò che voleva lui. «Disarmeremo Yyrkoon» disse. «Non l'uccideremo.» Si alzò in piedi. Tempestosa si mosse con la fulminea rapidità di un esile fioretto. Fintò, parò, lanciò un affondo. Yyrkoon, che stava sogghignando trionfante, ringhiò e arretrò barcollando, e il ghigno abbandonò il suo cupo volto. Ora Tempestosa lavorava per Elric, eseguendo i movimenti che lui voleva. Yyrkoon e Luttuosa sembravano entrambi sconcertati dall'inaspettata piega degli eventi. Luttuosa urlava, come sbalordita dal comportamento della gemella. Elric sferrò un colpo al braccio destro di Yyrkoon, trapassò la stoffa... trapassò la carne... trapassò i tendini... trapassò l'osso. Il sangue zampillò, intridendo il braccio di Yyrkoon e scorrendo sull'elsa della spada. Il sangue era viscido. Indebolì la stretta di Yyrkoon, che afferrò l'arma con entrambe le mani ma non riuscì a reggerla saldamente. Anche Elric strinse Tempestosa con entrambe le mani. Una forza ultraterrena lo indondò. Con un colpo colossale avventò Tempestosa contro Luttuosa, nel punto in cui la lama si saldava all'elsa. La spada incantata schizzò via dalla stretta di Yyrkoon e volò attraverso la Caverna Pulsante. Elric sorrise. Aveva sconfitto la volontà della propria spada, e poi aveva sconfitto la spada sorella. Luttuosa cadde contro la parete della Caverna Pulsante e per un momento restò immobile e silenziosa. Poi un gemito parve sfuggire alla spada sconfitta. Uno strido acutissimo riempì la Caverna Pulsante. La tenebra dilagò nella bizzarra luce rosata e l'estinse. Quando la luce riapparve, Elric vide che ai suoi piedi giaceva un fodero. Era nero, lavorato con la stessa arte sconosciuta della spada. Elric vide Yyrkoon. Il principe era in ginocchio e singhiozzava, mentre il suo sguar-
do sfrecciava intorno in cerca di Luttuosa e si fissava impaurito su Elric come se lui sapesse che stava per essere ucciso. «Luttuosa?» mormorò disperatamente. Sapeva che stava per morire. Luttuosa era scomparsa dalla Caverna Pulsante. «La tua spada è sparita» disse pacatamente Elric. Piagnucolando, Yyrkoon tentò di trascinarsi verso l'entrata della caverna: ma il varco era rimpicciolito fino alle dimensioni di una moneta. Yyrkoon pianse. Tempestosa tremava, come se avesse sete dell'anima di Yyrkoon. Elric si chinò. Yyrkoon prese a parlare, rapidamente. «Non uccidermi, Elric. Non con quella spada incantata. Farò tutto ciò che vorrai. Morirò in qualunque altro modo.» Elric disse: «Cugino, siamo entrambi vittime di una congiura... di un gioco giocato dagli dèi, dai demoni e dalle spade senzienti. Loro vogliono morto uno di noi due. Sospetto che vogliano la tua morte più che la mia, ed è per questa ragione che non ti ucciderò qui.» Raccolse il fodero. Vi infilò Tempestosa, e subito la spada tacque. Elric sganciò il vecchio fodero e si guardò intorno, cercando la spada di Aubec: ma anche quella era scomparsa. Lasciò cadere il vecchio fodero e agganciò il nuovo alla cintura. Posò la mano sinistra sul pomo di Tempestosa e guardò non senza pietà l'essere che era suo cugino. «Sei un verme, Yyrkoon. Ma è colpa tua?» Yyrkoon lo guardò sconcertato. «Mi domando questo: se avessi tutto ciò che desideri, smetteresti di essere un verme?» Yyrkoon si risollevò sulle ginocchia. Un po' di speranza cominciò a balenargli negli occhi. Elric sorrise e tirò un profondo respiro. «Vedremo» disse. «Devi impegnarti a ridestare Cymoril dal sonno incantato.» «Tu mi hai umiliato, Elric» disse Yyrkoon con un filo di voce. «La sveglierò. O meglio, lo farei...» «Non puoi annullare il tuo incantesimo?» «Non possiamo fuggire dalla Caverna Pulsante. Il tempo è passato...» «Cosa?» «Non credevo che mi avresti seguito. E poi ho pensato che ti avrei finito facilmente. E ormai il tempo è passato. Si può tenere aperta l'entrata solo per poco tempo. Lascerà entrare chiunque cerchi di penetrare nella Caver-
na Pulsante, ma non lascerà uscire nessuno dopo che la potenza dell'incantesimo si è esaurita. Ho dato molto, per conoscere quell'incantesimo.» «Hai dato troppo per tutto» disse Elric. Si accostò all'entrata e scrutò. Rackhir attendeva dall'altra parte: aveva un'espressione ansiosa. Elric disse: «Sacerdote-guerriero di Phum, a quanto pare io e mio cugino siamo imprigionati qui. L'entrata non si schiuderà più, per noi.» Toccò la sostanza calda e umida della parete. Non si apriva per più di una minuscola frazione. «Sembra che tu possa raggiungerci oppure tornare indietro. Se ci raggiungerai, dividerai il nostro fato.» «Non mi attende un grande fato, se tornerò indietro» disse Rackhir. «Quali possibilità hai?» «Una sola» disse Elric. «Posso invocare il mio patrono.» «Un Signore del Caos?» Il volto di Rackhir si contrasse in una smorfia. «Appunto» disse Elric. «Arioch.» «Arioch, eh? Be', lui non ama i rinnegati di Phum.» «Cosa decidi di fare?» Rackhir avanzò, Elric arretrò. Dall'apertura passò la testa dell'Arciere Rosso, poi le spalle, poi il resto del corpo. Il varco si chiuse quasi immediatamente. Rackhir si alzò e svolse la corda dall'arco, allisciandola. «Ho promesso di dividere il tuo fato... di puntare tutto sulla fuga da questo livello» disse. Parve sorpreso nel vedere Yyrkoon. «Il tuo nemico è ancora vivo?» «Sì.» «Sei davvero misericordioso!» «Forse. O ostinato. Non voglio ucciderlo soltanto perché un'entità soprannaturale si è servita di lui come di una pedina da sacrificare se io avessi vìnto. I signori dei Mondi Superiori non mi dominano ancora completamente... e non vi riusciranno, se avrò il potere di resistere.» Rackhir sogghignò. «Condivido il tuo punto di vista... anche se non sono molto ottimista circa il suo realismo. Vedo che hai alla cintura una delle spade nere. Non servirà ad aprirci un varco per uscire dalla caverna?» «No» disse Yyrkoon, che stava appoggiato alla parete. «Nulla può danneggiare la sostanza della Caverna Pulsante.» «Ti credo» replicò Elric, «perché non intendo sguainare spesso questa mia nuova spada. Prima devo imparare a dominarla.» «Quindi è necessario invocare Arioch» concluse Rackhir con un sospiro. «Se è possibile» disse Elric. «Senza dubbio mi annienterà» aggiunse Rackhir, guardando l'albino nel-
la speranza di ricevere una smentita. Elric aveva l'aria grave. «Forse potrei concludere un accordo con lui. Servirà anche ad accertare una cosa.» Voltò le spalle a Rackhir e a Yyrkoon. Concentrò la mente, la lanciò attraverso immensi spazi e complessi labirinti. E gridò: «Arioch! Arioch! Aiutami, Arioch!» Ebbe la sensazione che qualcosa l'ascoltasse. «Arioch!» Qualcosa si mosse nei luoghi dove si lanciava la sua mente. «Arioch...» E Arioch lo udì. Lui seppe che era Arioch. Rackhir lanciò un grido di orrore. Yyrkoon urlò. Elric si voltò e vide che qualcosa di disgustoso era apparso accanto alla parete più lontana. Era nero e immondo, e sbavava, e la sua forma era insopportabilmente aliena. Era Arioch, quello? Com'era possibile? Arioch era bellissimo. Ma forse, pensò Elric, quello era il vero aspetto di Arioch. Su quel livello, in quella caverna, Arioch non poteva ingannare coloro che lo guardavano. Ma poi la forma scomparve, e un adolescente bellissimo dagli occhi antichi guardò i tre mortali. «Hai vinto la spada, Elric» disse Arioch, senza badare agli altri. «Mi congratulo con te. E hai risparmiato la vita di tuo cugino. Perché?» «Per più di una ragione» rispose Elric. «Ma diciamo che deve restare vivo per risvegliare Cymoril.» Per un attimo apparve sul volto di Arioch un piccolo sorriso segreto, e Elric si rese conto di essere sfuggito a una trappola. Se avesse ucciso Yyrkoon, Cymoril non si sarebbe svegliata mai più. «E cosa fa, qui con te, questo piccolo traditore?» Arioch rivolse freddamente lo sguardo a Rackhir, che si sforzò di ricambiare l'occhiata del Signore del Caos. «È amico mio» disse Elric. «Ho fatto un patto con lui. Se mi avesse aiutato a trovare la Spada Nera, l'avrei ricondotto con me nel nostro livello.» «È impossibile. Rackhir è in esilio qui. È la sua punizione.» «Tornerà con me» disse Elric. Sganciò il fodero che conteneva Tempestosa, e lo tese. «Altrimenti non porterò con me la spada. Oppure resteremo qui tutti e tre per l'eternità.» «Non è ragionevole, Elric. Pensa alle tue responsabilità.» «Ci ho pensato. Questa è la mia decisione.» Sul volto levigato di Arioch c'era un riflesso di collera. «Devi prendere
la spada. È il tuo destino.» «Così dici tu. Ma ora so che la spada può essere portata soltanto da me. Tu non la puoi portare, altrimenti lo faresti. Io solo, o un altro mortale come me, può portarla fuori dalla Caverna Pulsante. Non è così?» «Sei astuto, Elric di Melniboné.» Arioch parlò in tono di ammirazione sardonica. «E sei un degno servitore del Caos. Benissimo: il traditore può venire con te. Ma sarà bene che si muova con prudenza. È noto che i Signori del Caos serbano rancore...» Rackhir disse, con voce rauca: «L'ho sentito dire anch'io, mio signore Arioch.» Arioch non badò all'arciere. «Dopotutto, l'uomo di Phum non è importante. E se tu vuoi risparmiare la vita di tuo cugino, così sia. Poco importa. Il destino può racchiudere qualche altro filo nella propria trama e realizzare comunque il disegno originario.» «Benissimo, allora» disse Elric. «Portaci via da questo luogo.» «Dove?» «A Melniboné, se non ti dispiace.» Con un sorriso quasi tenero, Arioch guardò Elric e gli sfiorò una guancia con la serica mano. Era divenuto due volte più alto e imponente. «Oh, senza dubbio sei il più dolce di tutti i miei schiavi» disse. E ci fu un turbine. Ci fu un suono simile al rombo del mare. Ci fu uno spaventoso senso di nausea. E i tre uomini esausti si trovarono al centro della sala del trono di Imrryr. La sala era deserta: ma in un angolo una forma nera si attorse come fumo per un istante, e poi si dissolse. Rackhir andò a sedersi sul primo gradino del Trono di Rubino. Yyrkoon e Elric restarono dov'erano, fissandosi negli occhi. Poi Elric rise e batté la mano sulla spada. «Ora dovrai mantenere le tue promesse, cugino. Poi avrò una proposta da farti.» «Sembra la piazza del mercato» disse Rackhir, appoggiandosi su un gomito ed esaminando la piuma del berretto scarlatto. «Quanti patti!» CAPITOLO QUINTO LA MISERICORDIA DEL RE ALBINO Yyrkoon si scostò dal letto della sorella. Era sfinito: il suo volto era teso, e non c'era più energia in lui quando disse: «È fatto.» Si voltò e guardò oltre la finestra le torri di Imrryr e il porto dove le auree chiatte da battaglia tornavano all'ancora insieme alla nave che era stata donata a Elric da re
Straasha. «Si sveglierà tra un istante» aggiunse distrattamente. Dyvim Tvar e Rackhir, l'Arciere Rosso, guardarono con aria interrogativa Elric che s'inginocchiava accanto al letto scrutando il volto di Cymoril. Il volto di lei divenne più sereno, e per un momento terribile Elric temette che il principe Yyrkoon l'avesse giocato uccidendo Cymoril. Ma poi le palpebre fremettero, si schiusero... e lei lo vide, e sorrise. «Elric? I sogni... Sei salvo?» «Sono salvo, Cymoril. E anche tu.» «Yyrkoon...?» «Ti ha ridestata.» «Ma avevi giurato di ucciderlo...» «Ero soggetto al sortilegio, come te. La mia mente era confusa. È ancora confusa, per quanto riguarda certe cose. Ma ora Yyrkoon è cambiato. L'ho sconfitto. Non dubita del mio potere. Non aspira più a usurparmi il trono.» «Sei misericordioso, Elric.» Cymoril si scostò dal volto i capelli corvini. Elric scambiò un'occhiata con Rackhir. «Potrebbe non essere la misericordia, a spingermi» disse. «Potrebbe essere soltanto un senso di cameratismo con Yyrkoon.» «Cameratismo? Ma non puoi provare...» «Siamo entrambi mortali. Eravamo entrambi vittime di un gioco tra i signori dei Mondi Superiori. In ultima analisi, devo essere fedele ai miei simili... ed è per questo che ho smesso di odiare Yyrkoon.» «E questa è misericordia» disse Cymoril. Yyrkoon si avviò verso la porta. «Posso andarmene, mio imperatore?» Elric credette di scorgere una luce strana negli occhi del cugino sconfitto. Ma forse era soltanto umiltà, o disperazione. Annuì. Yyrkoon uscì dalla stanza, e chiuse la porta senza far rumore. Dyvim Tvar disse: «Non fidarti di Yyrkoon, Elric. Ti tradirà di nuovo.» Il signore delle Grotte dei Draghi era turbato. «No» replicò Elric. «Se non ha paura di me, ha paura della spada che porto.» «E anche tu dovresti temere quella spada» aggiunse Dyvim Tvar. «No» ribatté Elric. «Io ne sono il padrone.» Dyvim Tvar fece per parlare di nuovo e poi scosse il capo; s'inchinò, e insieme a Rackhir lasciò soli Elric e Cymoril. Cymoril prese Elric tra le braccia. Si baciarono. Piansero. A Melniboné i festeggiamenti durarono una settimana. Ormai quasi tutti
gli uomini e le navi e i draghi erano tornati in patria. E anche Elric era tornato, dopo aver dimostrato talmente bene il suo diritto di regnare che tutti i suoi strani capricci (quella sua «misericordia» era forse la cosa più strana) venivano accettati dalla popolazione. Ci fu un ballo, nella sala del trono, e fu il più sontuoso che i cortigiani avessero mai visto. Elric danzò con Cymoril, e partecipò attivamente agli svaghi. Soltanto Yyrkoon non ballava, preferendo restare in un angolo tranquillo, sotto la galleria dei musici, ignorato dagli ospiti. Rackhir, l'Arciere Rosso, danzò con molte dame melniboneane e prese appuntamenti con tutte, perché adesso a Melniboné era un eroe. Anche Dyvim Tvar danzò, sebbene il suo sguardo divenisse spesso pensoso quando si posava sul principe Yyrkoon. E più tardi, mentre gli invitati banchettavano, Elric parlò a Cymoril. Erano seduti vicini sul podio del Trono di Rubino. «Vuoi essere imperatrice, Cymoril?» «Sai che voglio sposarti, Elric. Lo sappiamo entrambi da molti anni, no?» «Quindi vorresti essere mia moglie?» «Sì.» Lei rise, perché pensava che Elric scherzasse. «E non imperatrice? Almeno per un anno?» «Cosa intendi, mio signore?» «Devo lasciare Melniboné, per un anno. Ciò che ho imparato in questi ultimi mesi mi ha fatto nascere il desiderio di viaggiare nei Regni Giovani, di vedere come si comportano le altre nazioni. Credo che Melniboné debba cambiare, se vuole sopravvivere. Potrebbe diventare una grande forza del bene, nel mondo, poiché ha ancora molta potenza.» «Del bene?» Cymoril era stupita, e nella sua voce c'era una sfumatura di allarme. «Melniboné non ha mai rappresentato il bene o il male, ma soltanto se stessa e la soddisfazione dei propri desideri.» «Vorrei che questo cambiasse.» «Intendi modificare tutto?» «Intendo viaggiare per il mondo, e poi stabilire se una decisione del genere ha senso. I signori dei Mondi Superiori hanno mire sul nostro mondo. Sebbene mi abbiano dato aiuto, recentemente, io li temo. Mi piacerebbe vedere se agli uomini è possibile governare la propria sorte.» «E te ne andrai?» C'erano lacrime, negli occhi di Cymoril. «Quando?» «Domani... quando partirà Rackhir. Prenderemo la nave di re Straasha e ci dirigeremo verso l'Isola delle Città Purpuree, dove Rackhir ha alcuni
amici. Verrai anche tu?» «Non riesco a immaginare... non posso. Oh, Elric, perché guastare questa nostra felicità?» «Perché sento che la felicità non può durare, se non sappiamo completamente cosa siamo.» Lei aggrottò la fronte. «Allora devi scoprirlo, se è questo ciò che desideri» disse adagio. «Ma dovrai scoprirlo da solo, perché io non ho questo desiderio. Dovrai andare da solo in quelle terre barbare.» «Non mi accompagnerai?» «Non è possibile. Io... Io sono melniboneana...» Cymoril sospirò. «Ti amo, Elric.» «E io amo te.» «Allora ci sposeremo al tuo ritorno. Tra un anno.» Elric era addolorato, ma sapeva che la propria decisione era giusta. Se non fosse partito, presto sarebbe divenuto irrequieto; e allora forse avrebbe considerato Cymoril una nemica, perché l'aveva preso in trappola. «Perciò devi regnare come imperatrice fino al mio ritorno» disse. «No, Elric. Non posso assumere una simile responsabilità.» «E allora chi? Dyvim Tvar?» «Lo conosco bene. Non accetterà il potere. Magum Colim, forse...» «No.» «Allora devi rimanere, Elric.» Ma lo sguardo di Elric vagava tra la folla nella sala del trono. Si fermò quando giunse a una figura solitaria, seduta in disparte sotto la galleria dei musici. E Elric sorrise ironicamente e disse: «Allora dovrà essere Yyrkoon.» Cymoril inorridì. «No, Elric. Abuserà del potere...» «Adesso no. Ed è giusto. È l'unico che voleva essere imperatore. Ora potrà governare come imperatore per un anno, al mio posto. Se governerà bene, forse deciderò di abdicare in suo favore. Se governerà male, dimostrerà una volta per tutte che le sue ambizioni erano sbagliate.» «Elric» disse Cymoril. «Io ti amo. Ma sei uno sciocco... un criminale, se ti fidi ancora di Yyrkoon.» «No» replicò lui, tranquillamente. «Non sono uno sciocco. Sono soltanto Elric. Non è colpa mia, Cymoril.» «È Elric, che io amo!» esclamò lei. «Ma Elric è spacciato. Siamo tutti spacciati, se tu non rimani.» «Non posso. Poiché ti amo, Cymoril, non posso.»
Cymoril si alzò. Piangeva. Era smarrita. «E io sono Cymoril» disse. «Tu ci annienterai entrambi.» La sua voce si addolcì; gli accarezzò i capelli. «Tu ci annienterai, Elric.» «No. Costruirò qualcosa di migliore. Scoprirò molte cose. Quando ritornerò ci sposeremo, e vivremo a lungo e saremo felici.» Ma Elric aveva detto tre menzogne. La prima riguardava suo cugino Yyrkoon. La seconda riguardava la Spada Nera. La terza riguardava Cymoril. E su quelle tre menzogne sarebbe stato costruito il suo destino, perché è soltanto per le cose che ci riguardano più profondamente che noi mentiamo con chiarezza e assoluta convinzione. EPILOGO C'era un porto, chiamato Menii, che era uno dei più umili e amichevoli delle Città Purpuree. Come gli altri centri dell'isola, era costruito prevalentemente con la pietra purpurea che dava il nome alla città. E le case avevano tetti rossi, e nel porto c'erano imbarcazioni di ogni genere, dalle vele vivaci, quando Elric e Rackhir, l'Arciere Rosso, scesero a terra di prima mattina, mentre qualche marinaio cominciava a tornare verso le navi. L'incantevole nave di re Straasha era un po' lontano, oltre il muro del porto. Avevano preso una barchetta per attraversare lo specchio d'acqua e raggiungere la città. Si voltarono a guardare la nave. L'avevano guidata loro stessi, senza equipaggio, e la nave aveva veleggiato bene. «Dunque devo cercare la pace e la mitica Tanelom» disse Rackhir, con un certo tono di autoironia. Si stirò e sbadigliò, e l'arco e la faretra gli danzarono sulle spalle. Elric indossava un abito semplice che lo faceva sembrare un soldato di ventura dei Regni Giovani. Aveva un aspetto energico e sereno. Sorrideva nel sole. L'unico particolare straordinario del suo abbigliamento era la grande e nera spada incantata al suo fianco. Da quando aveva cinto quella spada, non aveva più avuto bisogno di sostenersi con le droghe. «E io devo cercare la sapienza nelle terre che vedo segnate sulla mia mappa» disse. «Devo imparare e devo portare a Melniboné ciò che avrò appreso, al termine di un anno. Vorrei che Cymoril mi avesse accompagnato: ma comprendo la sua riluttanza.» «Tornerai?» chiese Rackhir. «Quando sarà trascorso un anno?» «Lei mi attirerà a sé!» Elric rise. «La mia sola paura è d'indebolirmi e di ritornare prima che la ricerca sia compiuta.»
«Mi piacerebbe venire con te» disse Rackhir, «perché ho viaggiato in molte terre e sarei una buona guida, come lo sono stato nell'aldilà. Ma ho giurato di trovare Tanelom, anche se a quanto ne so non esiste realmente.» «Ti auguro di trovarla, sacerdote-guerriero di Phum» disse Elric. «Non sarò mai più un sacerdote-guerriero» replicò Rackhir. Poi spalancò gli occhi. «Guarda... la tua nave!» E Elric guardò e vide quella che era stata chiamata «la nave che veleggia su terra e mare», e vide che stava affondando lentamente. Re Straasha se la riprendeva. «Gli spiriti elementari, almeno, sono amici» disse. «Ma temo che il loro potere declini, come declina quello di Melniboné. Sebbene noi dell'Isola del Drago siamo considerati malvagi dalle genti dei Regni Giovani, abbiamo molto in comune con gli spiriti dell'aria, della terra, del fuoco e dell'acqua.» Mentre gli alberi della nave scomparivano tra le onde, Rackhir disse: «Ti invidio quegli amici, Elric. Puoi fidarti di loro.» «Sì.» Rackhir guardò la spada incantata che pendeva al fianco di Elric. «Ma sarai saggio se non ti fiderai di null'altro» aggiunse. Elric rise. «Non temere per me, Rackhir, perché sono padrone di me stesso... almeno per un anno. E ora sono padrone di questa spada!» La spada parve fremere, al suo fianco, e lui strinse l'elsa con fermezza, e batté la mano sulle spalle di Rackhir, e rise, e scosse i bianchi capelli che fluttuarono nel vento, e alzò gli strani occhi rossi verso il cielo e disse: «Sarò un uomo nuovo, quando ritornerò a Melniboné!» FINE