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ROBIN COOK ESPERIMENTO (Abduction, 2000) A Cameron. Eccoti finalmente fra di noi! 1 Perry Bergman fu strappato a un sonno irrequieto da una vibrazione fuori dell'ordinario e all'istante si ritrovò assalito da una strana premonizione. Quel suono fastidioso gli faceva pensare allo stridio delle unghie contro la lavagna. Fu scosso da un brivido e si gettò di lato la coperta leggera. Mentre si alzava, la vibrazione continuò. Adesso gli ricordava il trapano da dentista. Appena sotto quel rumore sgradevolissimo, udiva il normale ronzio dei generatori di cui era dotata la nave, la Benthic Explorer, e il turbinio delle ventole dell'aria condizionata. «Che cosa diavolo succede?» domandò a voce alta, anche se non c'era nessuno a portata di orecchio per fornirgli una risposta. Era arrivato in elicottero la sera prima, dopo un lungo volo da Los Angeles a New York, a Ponta Delgada, sull'isola di San Miguel, nelle Azzorre. Tra il cambio di fuso orario e una lunga riunione informativa sui problemi tecnici con l'equipaggio, era comprensibilmente esausto. Non gli piaceva essere svegliato dopo sole quattro ore di sonno, in particolare da un rumore così fastidioso. Afferrando con uno strattone il ricevitore del telefono di bordo, compose con forza il numero del ponte di coperta. Mentre aspettava che gli rispondessero, si sollevò sulla punta dei piedi per guardar fuori dall'oblò della sua cabina VIP. Con il suo metro e settantatré non si riteneva basso, ma nemmeno alto. Fuori, il sole aveva appena rischiarato l'orizzonte e la nave proiettava una lunga ombra sull'Atlantico. A occidente, il mare era calmo e sormontato da una leggera foschia, l'acqua danzava in modo sinuoso, increspata da onde basse e ben distanziate. La serenità di quella scena celava l'attività che avveniva sotto la superficie. La Benthic Explorer era tenuta ferma sopra una porzione vulcanicamente e sismicamente attiva della Dorsale Medio-Atlantica, una catena frastagliata di montagne lunga quasi duemila chilometri che divide in due l'oceano. Con la costante espulsione di quantità enormi di lava, le esplosioni sottomarine di vapore e le frequenti, piccole scosse, la cordigliera sommersa era l'antitesi della tranquillità e-
stiva che regnava sulla superficie delle acque. «Coperta», gracidò nell'orecchio di Perry una voce annoiata. «Dov'è il capitano Jameson?» sbottò lui. «Nella sua cuccetta, per quanto ne so», rispose la voce, in tono disinvolto. «Che cosa diavolo è questa vibrazione?» «Non ne ho la minima idea. Ma non viene dai motori della nave, se è questo che vuole sapere. Altrimenti sarei stato avvertito dalla sala macchine. Vuole che li chiami?» Perry non rispose; si limitò a sbattere giù il ricevitore. Non riusciva a credere che chiunque si trovasse in coperta non si desse da fare per scoprire il motivo della vibrazione. Non gliene importava? Mandava Perry su tutte le furie sapere che la sua nave veniva gestita in modo così poco professionale, ma decise di affrontare quel problema in seguito. Preferì vestirsi rapidamente, infilando i jeans e un pesante maglione di lana a collo alto. Non aveva bisogno di sentirsi dire che la vibrazione poteva provenire dall'apparato di trivellazione. Quello era evidente. Dopotutto, erano state proprio le difficoltà nelle operazioni di trivellazione a farlo arrivare lì da Los Angeles. Sapeva di aver giocato d'azzardo con il futuro della Benthic Marine, avviando il progetto in corso: perforare una camera magmatica in una montagna sottomarina a ovest delle Azzorre. Non si trattava di un progetto sotto contratto, infatti la società stava spendendo anziché essere pagata, e l'emorragia di denaro era abominevole. Perry era convinto che una tale impresa avrebbe catturato l'immaginazione collettiva e attirato enormemente l'interesse sulle esplorazioni sottomarine, con il risultato di far salire la Benthic Marine ai primissimi posti nel campo della ricerca oceanografica. Purtroppo, il tentativo non stava procedendo secondo i piani. Dopo essersi vestito, si guardò nello specchio sopra il lavandino, nel cubicolo che fungeva da bagno. Qualche anno prima non gli sarebbe nemmeno venuto in mente, ma le cose erano cambiate. I capelli non erano più folti come un tempo e ora, per leggere, aveva bisogno di occhiali. Il suo sorriso, però, continuava a essere seducente. Perry andava orgoglioso dei denti diritti e bianchissimi, che mettevano in risalto l'abbronzatura per cui si dava tanto da fare. Soddisfatto della propria immagine riflessa, uscì dalla cabina e andò spedito lungo il corridoio. Nel passare davanti alla porta del capitano e a quella del secondo, fu tentato di colpirle con forza, per sfogare la propria irritazione. In quanto fondatore, presidente e massimo
azionista della Benthic Marine, si aspettava che la gente si comportasse con maggiore attenzione, quando c'era lui a bordo. Possibile che fosse l'unico a preoccuparsi di quella vibrazione e a cercare di capirne il motivo? Salito in coperta, cercò di localizzare la fonte dello strano brontolio che ora si mescolava al rumore dell'impianto di trivellazione in funzione. La Benthic Explorer era un'imbarcazione di centoquaranta metri; a metà dello scafo si ergeva una torre di perforazione alta come un palazzo di venti piani, a cavallo di un vano centrale. Oltre all'impianto di trivellazione, la nave vantava un apparato per l'immersione in saturazione, un sommergibile di profondità e numerose postazioni mobili di ripresa teleguidate, ognuna delle quali disponeva di un'impressionante serie di macchine fotografiche e di videocamere. A tali attrezzature si aggiungeva un vasto laboratorio, e tutto ciò metteva in grado la Benthic Explorer di compiere un'ampia gamma di operazioni e studi oceanografici. Perry vide che la porta che dava nell'unità di trivellazione era aperta. Comparve una specie di gigante che sbadigliò e si stiracchiò, prima di tirarsi sulle spalle le bretelle della tuta e di indossare l'elmetto giallo su cui spiccava la parola CAPOSQUADRA. Ancora intorpidito per il sonno, si diresse senza la minima fretta verso la tavola girevole. Accelerando il passo, Perry lo raggiunse, proprio mentre arrivavano altri due uomini dell'equipaggio. «Sono circa venti minuti che sta facendo così, capo», urlò uno dei due marinai, al di sopra del rumore della trivellazione. Tutti e tre ignorarono Perry. Il caposquadra grugnì, mentre si infilava un paio di spessi guanti da lavoro e si avviava spensieratamente sulla stretta grata di metallo che attraversava il pozzo centrale. Il suo sangue freddo fece colpo su Perry. La passerella non sembrava affatto solida e c'era soltanto un corrimano basso e sottile a bloccare il salto di una quindicina di metri nell'oceano sottostante. Raggiunta la tavola girevole, il gigante si sporse e pose tutte e due le mani guantate attorno all'asta rotante. Non cercò di afferrarla saldamente, ma piuttosto se la lasciò scivolare fra i palmi. Piegò la testa da un lato, mentre si provava a interpretare il tremore trasmesso dal tubo. Gli bastò un attimo. «Fermate la trivella!» sbraitò. Uno dei due marinai si precipitò verso il pannello di controllo esterno. Nel giro di un attimo la tavola girevole si fermò rumorosamente e la vibrazione cessò. Il caposquadra tornò indietro e rimise piede sul ponte. «Cristo! Si è rotta di nuovo la punta», disse, con un'espressione di disgu-
sto. «Sta diventando una barzelletta.» «La barzelletta è che negli ultimi quattro o cinque giorni abbiamo trivellato solo un'ottantina di centimetri», replicò il marinaio che era rimasto nelle vicinanze. «Chiudi il becco e va' a sollevare la stringa di perforazione fino alla testa del pozzo!» Il secondo marinaio si unì al primo. Quasi immediatamente si udì un nuovo clangore di macchinari mentre venivano messi in funzione i verricelli. La nave fu scossa da un tremito. «Come fa a essere sicuro che si è rotta la punta?» urlò Perry al di sopra di questo nuovo frastuono. Il caposquadra abbassò lo sguardo su di lui. «Esperienza», gridò per tutta risposta, si voltò e si diresse a lunghe falcate verso poppa. Perry doveva correre per stargli dietro. Per ogni passo del gigante ce ne volevano due dei suoi. Cercò di fargli un'altra domanda, ma quello o non lo sentì o decise di ignorarlo. Raggiunsero la scaletta di boccaporto e il caposquadra salì facendo i gradini a tre a tre. Due ponti più in alto entrò in un corridoio e si fermò davanti alla porta di una cabina, la cui targa diceva: MARK DAVIDSON, COMANDANTE DELLE OPERAZIONI. Bussò rumorosamente. Dapprima l'unica risposta fu un attacco di tosse, ma poi una voce invitò a entrare. Perry si infilò dietro di lui nella piccola cabina. «Cattive notizie, capo», annunciò il caposquadra. «Temo che si sia di nuovo rotta la punta della trivella.» «Che ore sono, per la miseria?» domandò Mark. Si fece passare le dita fra i capelli scompigliati. Era seduto sul bordo della cuccetta, con addosso soltanto mutande e maglietta. Senza aspettare una risposta, prese un pacchetto di sigarette. L'aria della stanzetta era impregnata di fumo stantio. «Più o meno le sei», rispose il caposquadra. «Gesù!» si lagnò Mark. Poi mise a fuoco Perry. Era evidente che rimase sorpreso. Sbatté le palpebre. «Perry? Che cosa ci fai alzato?» «Non c'era modo di dormire, con quella vibrazione», spiegò lui. «Lei è Perry Bergman?» domandò il caposquadra. «L'ultima volta che ho controllato», rispose. Intuendo il disagio del gigante, provò una certa soddisfazione. «Mi scusi.» «Non ci pensi.» Gli piaceva fare il magnanimo. «Era il treno del trapano che faceva quel rumore?» chiese Mark.
Il caposquadra annuì. «Proprio come le ultime quattro volte, forse ancora peggio.» «Ci è rimasta solo un'ultima punta diamantata al carburo di tungsteno», si lamentò Mark. «Non ha bisogno di dirmelo.» «Qual è la profondità?» «Non ci sono tanti cambiamenti, rispetto a ieri. Abbiamo fuori sei metri e quaranta centimetri di tubo. Dato che l'estremità è a circa trecento metri e non c'è sedimento, siamo andati giù nella roccia per circa dieci metri e mezzo, centimetro più centimetro meno.» «È quello che ti spiegavo ieri notte.» Mark si rivolse a Perry. «Stavamo procedendo bene, fino a quattro giorni fa. Da allora non stiamo andando da nessuna parte, avremo guadagnato sì e no sessanta-settanta centimetri e abbiamo fatto fuori quattro punte.» «Quindi pensi di aver colpito uno strato particolarmente duro?» chiese Perry, sentendosi in dovere di dire qualcosa. Mark rise con sarcasmo. «Duro non è la parola giusta. Stiamo usando punte diamantate a cannone, le migliori che esistono! Ma il peggio è che abbiamo ancora altri trenta metri della stessa roba, qualunque sia, prima di arrivare alla camera magmatica, per lo meno secondo il nostro radar che penetra il terreno. Di questo passo, fra dieci anni saremo ancora qui.» «Il laboratorio ha analizzato la roccia rimasta nell'ultima punta?» domandò il caposquadra. «Sì che lo ha fatto. È un tipo di roccia che non hanno mai visto. Per lo meno secondo Tad Messenger. È composta di un tipo di olivina cristallina che secondo lui potrebbe avere una microscopica matrice di diamante. Vorrei tanto che potessimo procurarcene un campione più grosso. Uno dei problemi maggiori nel trivellare in mare aperto è che non si ha un ritorno dei fluidi di perforazione. È come trivellare al buio.» «Potremmo mandar giù una carotiera?» domandò Perry. «Sai a che servirebbe, se non riusciamo ad andare avanti con una punta diamantata!» «E se l'accompagnassimo con la punta diamantata? Se riusciamo ad avere un vero campione di questa roba che stiamo cercando di perforare, forse possiamo escogitare qualcosa. Abbiamo investito troppo in questa operazione, per rinunciare senza dare battaglia.» Mark guardò il caposquadra, che si strinse nelle spalle. Poi riportò lo sguardo su Perry. «Ehi, il boss sei tu!»
«Almeno per il momento.» Non era una battuta. Si chiedeva per quanto tempo sarebbe rimasto il capo se il progetto fosse naufragato. «D'accordo», decise Mark. Depose la sigaretta sull'orlo di un portacenere stracolmo. «Tirate su la punta fino alla testa del pozzo.» «I ragazzi lo stanno già facendo», l'avvertì il caposquadra. «Prendete dalle scorte l'ultima punta diamantata.» Mentre impartiva questo ordine, Mark allungò la mano verso il telefono. «Avverto Larry Nelson di mettere in funzione il sistema di immersione e di calare in acqua il sommergibile. Sostituiremo la punta e vedremo se riusciamo a ottenere un campione migliore.» «Okay», rispose il gigante e se ne andò, mentre Mark si portava il ricevitore all'orecchio per parlare con il responsabile delle immersioni. Perry stava per andarsene a sua volta, quando Mark gli fece cenno di rimanere. Dopo aver terminato la telefonata con Larry Nelson, sollevò lo sguardo su di lui. «C'è una cosa di cui non ho parlato ieri notte, alla riunione», gli rivelò, «ma penso che tu dovresti saperla.» Perry deglutì. Aveva la bocca arida. Il tono del suo interlocutore non gli piaceva: aveva tutta l'aria di annunciare brutte notizie. «Potrebbe non essere niente», continuò Mark, «ma quando abbiamo usato il radar che penetra il terreno per studiare lo strato che stiamo cercando di perforare, abbiamo fatto una scoperta inaspettata. Ho i dati qui sulla scrivania. Li vuoi vedere?» «Basta che me li riferisci a voce. Posso prenderne visione in seguito.» «Il radar ci ha fatto pensare che il contenuto della camera magmatica possa non essere ciò che pensavamo in base agli studi originali. Potrebbe non essere liquido.» «Stai scherzando!» Questa nuova informazione rafforzava i brutti presentimenti di Perry. Era stato per caso che, l'estate precedente, la Benthic Explorer aveva scoperto la montagna sottomarina che stavano attualmente trivellando. Era sfuggita addirittura al radar del Geosat, il satellite della marina degli Stati Uniti. Anche se l'equipaggio della nave non vedeva l'ora di tornarsene a casa, si erano fermati abbastanza a lungo per compiere numerosi passaggi sopra la montagna misteriosa dalla cima piatta. Con il sofisticato sonar in dotazione, ne avevano eseguito uno studio sommario, giungendo a risultati inattesi, proprio come la sua presenza. Appariva un vulcano quiescente dalla crosta particolarmente sottile, il cui nucleo liquido era ad appena cento-
venti metri sotto il fondo dell'oceano. Ancora più stupefacente era il fatto che la sostanza all'interno della camera magmatica presentava caratteristiche di suono identiche a quelle della discontinuità di Mohorovičič, o Moho, la misteriosa area che separa la crosta e il manto superiore della terra. Poiché nessuno era mai riuscito a prelevare magma dal Moho, nonostante i ripetuti tentativi degli americani e dei russi durante la Guerra Fredda, Perry aveva deciso di tornare sul posto ed eseguire la trivellazione, nella speranza che la Benthic Marine fosse la prima organizzazione a raccogliere campioni del materiale fuso. La sua idea era che l'analisi di quel materiale avrebbe gettato una nuova luce sulla struttura e forse addirittura sull'origine del pianeta. Adesso, però, il comandante delle operazioni gli aveva appena annunciato che i dati sismici originali potevano essere sbagliati! «La camera magmatica potrebbe essere vuota», rincarò la dose Mark. «Vuota?» sbottò Perry. «Be', forse non proprio vuota. Piena di qualche gas compresso, o magari di vapore. Lo so che estrapolare dati a quella profondità è spingere la tecnologia del radar che penetra il terreno oltre i suoi limiti. Infatti molta gente direbbe che i risultati di cui sto parlando sono pure astrazioni, diagrammi fatti a tavolino, per così dire. Ma il fatto che i dati del radar non collimino con quelli sismici mi preoccupa. Voglio dire, mi spiacerebbe fare questo sforzo enorme solo per arrivare a un po' di vapore surriscaldato. Nessuno sarebbe felice di un risultato simile, men che mai i tuoi investitori.» Perry si mordicchiò l'interno della guancia, mentre rimuginava sulle asserzioni di Mark. Cominciò a desiderare di non aver mai sentito parlare del monte Olimpo sottomarino, come l'avevano chiamato. «Ne hai parlato alla dottoressa Newell?» chiese. Suzanne Newell era l'oceanografa di più alto grado che avevano a bordo. «Li ha visti questi dati del radar di cui mi stai parlando?» «Non li ha visti nessuno. Soltanto ieri, mentre mi stavo preparando per il tuo arrivo, ho notato l'ombra sullo schermo del computer. Pensavo di riferirne durante la riunione di ieri notte, ma poi ho deciso di aspettare e di parlartene in privato. Nel caso non te ne fossi accorto, qualcuno fra l'equipaggio ha il morale basso. Un po' di gente ha cominciato a pensare che perforare quella montagna è un po' come battersi contro i mulini a vento. Stanno cominciando a parlare di gettare la spugna e tornarsene dalle proprie famiglie, prima che finisca l'estate. Non volevo versare benzina sul fuoco.»
Perry sentì che gli si piegavano le ginocchia. Tirò a sé la poltroncina della scrivania e vi si lasciò cadere pesantemente. Si strofinò gli occhi. Era stanco, affamato e scoraggiato. Avrebbe voluto prendersi a calci per aver messo a repentaglio il futuro della sua società basandosi su dati poco affidabili, ma la scoperta gli era sembrata talmente fortuita. Si era sentito spinto ad agire. «Ehi, non mi piace essere messaggero di cattive notizie», disse Mark. «Faremo come hai suggerito tu. Cercheremo di capire meglio che tipo di roccia è quella che stiamo trivellando. Non scoraggiamoci troppo.» «Impresa piuttosto difficile, considerando quanto costa alla Benthic Marine mantenere la nave sul posto. Magari dovremmo semplicemente limitarci a contenere le perdite.» «Perché non mangi qualcosa? Non ha senso prendere una decisione improvvisa a stomaco vuoto. Anzi, mi unisco a te, se aspetti che mi faccio una doccia. Diamine! Prima che neanche te ne accorga avremo qualche ulteriore informazione su questa merda nella quale ci siamo imbattuti. Magari allora sarà più chiaro come dovremmo procedere.» «Quanto ci vorrà per cambiare la punta?» volle sapere Perry. «Il sommergibile può essere in acqua entro un'ora. Porteranno la punta e le attrezzature giù fino alla testa del pozzo. Far scendere i sommozzatori richiede più tempo, perché devono subire la compressione prima che caliamo la campana. Questo richiederà un paio d'ore, di più se la compressione provoca qualche dolore. Cambiare la punta non è difficile. L'intera operazione dovrebbe richiedere tre o quattro ore, forse anche meno.» Perry si alzò con un certo sforzo. «Dammi un colpo di telefono nella mia cabina, quando sei pronto per far colazione», mormorò, e si diresse alla porta. «Ehi, aspetta un attimo!» lo fermò Mark, mostrando un entusiasmo improvviso. «Mi è venuta un'idea che potrebbe ridarti un po' di verve: perché non scendi anche tu? Sembra che sia bellissimo stare laggiù sopra la montagna, almeno secondo Suzanne. Anche il pilota del sommergibile, Donald Fuller, l'ex ufficiale della marina, che di solito è un tipo tutto serio e abbottonato, dice che la vista è stupenda.» «Che cosa ci può essere di tanto meraviglioso in una montagna sottomarina dalla cima piatta?» «Io stesso non sono mai sceso laggiù, ma ha qualcosa a che fare con la geologia della zona. Sai, il far parte della Dorsale Medio-Atlantica e compagnia bella. Ma chiedi alla Newell, o a Fuller! Te lo dico io, andranno in
brodo di giuggiole nel sentirsi chiedere di portarti giù. Con le luci alogene sul sommergibile e la trasparenza dell'acqua in profondità, dicono che la visibilità varia tra i sessanta e i novanta metri.» Perry annuì. Scendere sott'acqua non era una cattiva idea, dato che lo avrebbe distratto dalla situazione attuale e gli avrebbe dato l'impressione di fare qualcosa. Inoltre, lo aveva fatto solo una volta, al largo dell'isola di Santa Catalina, dove la Benthic Marine aveva preso in consegna il sommergibile, ed era stata un'esperienza memorabile. Per lo meno, avrebbe avuto l'occasione di vedere la montagna che gli stava causando tanti guai. «A chi devo dire che farò parte dell'equipaggio?» domandò a Mark. «Me ne occupo io», gli rispose lui, poi si alzò e si tolse la maglietta. «Basta che lo dica a Larry Nelson.» 2 Richard Adams tirò fuori dall'armadietto una tuta intera con i mutandoni lunghi alquanto sformata e richiuse l'anta con un calcio. Una volta indossata la biancheria, si mise il berretto nero di maglia. Abbigliato in questo modo, lasciò la propria cabina e andò a bussare alla porta di Louis Mazzola e Michael Donaghue. Entrambi risposero biascicando improperi. Gli accidenti che mandavano avevano perso mordente, dato che costituivano una larghissima percentuale del vocabolario usato dall'equipaggio. Richard, Louis e Michael, sommozzatori professionisti, erano i classici tipi che ci davano dentro con la bottiglia e con la vita, che rischiavano regolarmente la pelle eseguendo saldature sott'acqua se questo era necessario, o facendo saltare per aria scogliere e simili, o cambiando le punte durante le operazioni di trivellazione sottomarina. Erano dei lavoratori che sgobbavano sodo, e ne andavano fieri. Tutti e tre si erano specializzati insieme nella marina degli Stati Uniti, diventando rapidamente buoni amici, come pure membri esperti del corpo dei sommozzatori. Tutti e tre aspiravano a diventare uomini rana, ma questo si era rivelato un desiderio che non doveva avverarsi. La loro propensione per la birra e le scazzottature eccedeva di gran lunga quella dei compagni. Che avessero in comune un'infanzia da classe operaia povera, dominata da padri alcolizzati, violenti, litigiosi, dalle vedute ristrette e che battevano le mogli era una spiegazione per il loro comportamento, ma non una scusa. Ben lungi dal sentirsi in imbarazzo per gli esempi paterni, il terzetto considerava quel genere di infanzia un passaggio naturale verso l'età
virile. Nessuno dei tre aveva mai dedicato la benché minima considerazione al vecchio adagio «tale padre tale figlio». Per loro, la virilità era una virtù importantissima. Erano spietati nel punire chiunque percepissero come meno virile di loro, se aveva il fegato di entrare nel bar in cui stavano bevendo. Giudicavano altrettanto pesantemente gli «azzeccagarbugli» disonesti, e i grassoni sedentari dell'esercito. Condannavano anche chiunque considerassero fesso, imbranato o finocchio. L'omosessualità era la cosa che li mandava in bestia più di ogni altra e, per quanto li riguardava, la politica militare del «nessuno dice, nessuno sa» era ridicola e la prendevano come un affronto personale. Sebbene la marina tendesse a mostrarsi indulgente con i sommozzatori e a tollerare comportamenti che non avrebbe accettato da altri, Richard Adams e i suoi amiconi avevano tirato un po' troppo la corda. Un torrido pomeriggio d'agosto si erano rintanati nel loro baretto preferito sulla Punta Loma di San Diego. Era stata una giornata estenuante, in cui avevano eseguito immersioni difficili. Dopo numerosi giri di whisky e birra e un'eguale quantità di discussioni sulla stagione di baseball in corso, erano rimasti scioccati e sbigottiti nel vedere entrare un paio di tizi dell'esercito, tutti allegri. Secondo quanto riferirono in seguito i tre sommozzatori alla corte marziale, quegli uomini si erano messi ad «amoreggiare» in uno dei séparé all'estremità del locale. Il fatto che quei soldati fossero ufficiali rendeva ancora più bruciante l'offesa che i tre sommozzatori credevano di subire. Non si erano chiesti come mai un paio di ufficiali dell'esercito si trovassero a San Diego, una rinomata città in cui avevano sede la marina e il corpo dei marines. Richard, il solito capobanda, era stato il primo ad avvicinarsi al séparé. Aveva chiesto con sarcasmo se poteva unirsi all'orgia. I due, fraintendendo il significato della frase avevano riso, negato che fosse in corso un'orgia di qualsiasi tipo e offerto a lui e ai suoi amici di partecipare a un brindisi. Il risultato era stato una rissa a senso unico che aveva spedito all'ospedale navale di Balboa entrambi gli ufficiali. Richard e soci erano finiti in cella e alla fine erano stati espulsi dalla marina. Gli uomini da loro malmenati erano membri dello JAG, il corpo di patrocinio legale dell'esercito. «Forza, rottinculo!» sbraitò Richard, vedendo che gli altri non comparivano. Diede un'occhiata al proprio orologio subacqueo. Sapeva che Nelson si sarebbe incazzato. Gli ordini che gli aveva impartito al telefono dicevano di recarsi al centro comando immersioni appena possibile. Il primo a farsi vedere fu Louis Mazzola. Arrivava al mento di Richard,
che superava di poco il metro e ottanta e lo considerava una palla da bowling. Aveva lineamenti paffuti, una perenne ombra sulle guance data dalla ricrescita della barba e corti capelli scuri pettinati piatti sulla testa tonda. Sembrava senza collo: era come se le spalle partissero direttamente dal cranio. «Che fretta c'è?» gemette Louis. «Abbiamo un'immersione!» gli spiegò Richard. «Che altro è successo, di nuovo?» Il tono era lamentoso. In quel momento si aprì la porta di Michael. Tra Richard che era pelle e ossa e il tracagnotto Louis, l'ultimo arrivato era una via di mezzo. Come i suoi amici, aveva dei bei muscoli, tenuti in ottima forma. Anche lui era piuttosto trasandato e indossava una tuta intera sformata come quelle degli altri due. L'unica differenza era che portava un berretto da baseball dei Red Sox, con la visiera da una parte. Proveniva da Chelsea, nel Massachusetts, ed era un fan sfegatato dei Sox e dei Bruins. Michael aprì la bocca per lamentarsi di essere stato svegliato, ma Richard lo ignorò e si diresse verso il ponte di coperta. Louis fece altrettanto. Michael si strinse nelle spalle e li seguì. Mentre scendevano la scala principale, Louis chiamò Richard: «Ehi, Adams, le hai prese le carte?» «Certo che le ho prese», ribatté lui voltando appena la testa. «E tu ce l'hai il libretto degli assegni?» «Fottiti. Nelle ultime quattro immersioni non mi hai battuto nemmeno una volta.» «È tutto un piano, amico. Per incastrarti.» «In culo le carte», commentò Michael. «Ce le hai le tue riviste porno, Mazzola?» «Pensi che mi faccio un'immersione senza portarle?» replicò Louis. «Porca miseria, piuttosto mi dimentico le pinne!» «Spero che ti sei assicurato di prendere le riviste con le pollastre e non con i maschietti», lo stuzzicò Michael. Louis si fermò di botto, e l'altro gli andò a finire addosso. «Che cazzo dici?» ringhiò il bassetto. «Controllo solo che hai portato quelle giuste. Potrei aver voglia di chiedertele in prestito e non vorrei ritrovarmi a guardare qualche cetriolo.» La mano di Louis scattò e afferrò un lembo della maglia di Michael, il quale reagì artigliandogli l'avambraccio con la sinistra e stringendo il pugno con la destra. Prima che la cosa degenerasse, intervenne Richard. «E dai, cazzoni!» berciò, mettendosi fra i due. Diede una botta verso l'al-
to al braccio di Louis, mandandolo di lato. Si udì il rumore di qualcosa che si lacerava: gli era rimasto in mano un pezzo della maglia di Michael. Come un toro che vede rosso, Louis cercò di oltrepassare Richard e, non riuscendoci, di allungare una mano al di sopra della sua spalla per afferrare di nuovo Michael. Questi rise sguaiatamente e schivò la presa abbassandosi. «Mazzola, zucca vuota!» sbraitò Richard. «Sta solo cercando di stuzzicarti. Calmati, Cristo!» «Bastardo!» sibilò Louis, e gettò verso il proprio tormentatore il brandello di maglia che gli aveva strappato. Michael rise di nuovo. «Forza, andiamo!» esclamò Richard, disgustato, mentre proseguiva per il corridoio. Michael si chinò a raccogliere il brandello di tessuto e fece finta di volerselo riappiccicare al petto. Louis rise suo malgrado. Poi si misero a correre per raggiungere l'amico. Quando arrivarono sul ponte videro che il verricello stava sollevando il tubo. «Devono aver rotto nuovamente la punta», osservò Michael. Richard e Louis annuirono. «Per lo meno sappiamo che cosa dovremo fare.» Entrarono nella sala immersioni e si accomodarono su tre sedie pieghevoli vicino alla porta. Lì era dove Larry Nelson, l'uomo responsabile di tutte le operazioni relative alle immersioni, aveva la propria scrivania. Dietro di lui, per tutta la lunghezza della paratia di destra, c'era la console: indicatori e misuratori di vario tipo, monitor, dispositivi di controllo necessari a gestire il sistema di immersione. All'estrema sinistra c'erano i comandi e i monitor per le riprese. Sempre a sinistra c'era una finestra che dava sul pozzo centrale della nave. Era lungo quel pozzo centrale che veniva abbassata la campana subacquea. Il sistema di immersione utilizzato sulla Benthic Explorer era di quelli detti «in saturazione»: i sommozzatori dovevano assorbire la massima quantità di gas inerte durante ogni immersione. Ciò significava che il tempo di decompressione richiesto per liberarsi del gas inerte sarebbe stato lo stesso, indipendentemente dal tempo in cui rimanevano in pressione. Il sistema era composto da tre camere di decompressione cilindriche, larghe ognuna più di tre metri e mezzo e lunghe sei. Chiamate anche camere iperbariche, erano unite assieme come enormi salsicce, separate da doppi boccaporti a pressione. In ognuna c'erano quattro cuccette, diversi tavolini pieghevoli, un wc, un lavandino e una doccia. Ognuna aveva anche un portello su un lato e un boccaporto a pressione sulla sommità, dove poteva accoppiarsi la campana subacquea, detta anche
cabina di trasferimento. La compressione e la decompressione dei sommozzatori avvenivano nelle camere iperbariche. Una volta raggiunta la pressione equivalente alla profondità a cui dovevano lavorare, i sub entravano nella campana, che poi veniva staccata e abbassata in acqua. Quando raggiungeva la profondità voluta, i sub aprivano il boccaporto dal quale erano entrati e nuotavano fino alla postazione a cui erano assegnati. Mentre rimanevano sott'acqua erano uniti alla nave da una specie di cordone ombelicale nel quale passavano i tubi con i gas per respirare, quelli con l'acqua calda per scaldare le mute stagne in neoprene, i cavi dei sensori e quelli per la comunicazione. Poiché i sommozzatori della Benthic Explorer usavano maschere granfacciali, la comunicazione era possibile anche se difficile, a causa della distorsione della voce provocata dalla mistura di elio e ossigeno che respiravano. I cavi dei sensori trasportavano informazioni sullo stato di salute di ogni singolo sommozzatore: battito cardiaco, ritmo respiratorio e pressione dei gas da respirare. Tutti e tre i livelli erano monitorati in continuazione, in tempo reale. Larry sollevò lo sguardo dalla scrivania e guardò con disprezzo la sua seconda squadra di sommozzatori. Non riusciva a credere quanto apparissero invariabilmente sciatti, strafottenti e poco professionali. Notò lo sfacciato berretto da baseball di Michael e la maglia strappata, ma non disse nulla. Come accadeva nella marina, tollerava da parte dei sommozzatori comportamenti che non avrebbe mai ammesso in altri membri della sua squadra. Tre altri sub, altrettanto indisponenti e turbolenti, si trovavano in quel momento in una delle camere di decompressione, dopo l'ultima immersione nella testa del pozzo. Quando ci si cala fino a trecento metri, il tempo della decompressione si misura in giorni, non in ore. «Mi spiace, miei prodi pagliacci, di avervi svegliati dal vostro sonno ristoratore.» Così li accolse Larry. «Ci avete messo abbastanza a scendere quaggiù.» «Ho dovuto passarmi il filo interdentale», ribatté Richard. «E io ho dovuto farmi le unghie», rincarò la dose Louis, mentre dondolava vezzosamente una mano tenendo il polso piegato. Michael roteò gli occhi, disgustato. «Ehi, non ricominciare!» ringhiò Louis, notando la sua espressione, e gli puntò un dito grassoccio contro il viso. Michael lo spinse via. «Va bene, ascoltate un po', animali!» sbraitò Larry. «Cercate di controllarvi. Sarà un'immersione di duecentonovantotto metri per ispezionare e cambiare la punta della trivella.»
«Oh, una novità, eh, capo?» commentò Richard, con la voce stridula. «È la quinta volta che succede. La terza, per noi. Va be', facciamolo.» «Chiudi il becco e ascolta», ordinò Larry. «Questa volta dovrete fare qualcosa di diverso. Dovrete appaiare alla punta una sonda per carotaggio, in modo da vedere se riusciamo a ricavare un campione decente della dannata cosa che stiamo cercando di trivellare, qualunque cosa sia.» «Per me va bene», disse Richard. «Abbiamo intenzione di accelerare il tempo di compressione», aggiunse Larry. «A bordo c'è un pezzo grosso che ha fretta di ottenere i risultati. Vedremo se riusciamo a farvi scendere in profondità fra un paio d'ore. Voglio sapere immediatamente se c'è qualche dolore alle articolazioni. E che nessuno giochi a fare il macho. Capito?» Tutti e tre annuirono. «Chiuderemo dentro il cibo appena arriva dalla cambusa», continuò Larry. «Ma voglio che rimaniate nelle cuccette, e questo significa non ciondolare in giro e non litigare.» «Giocheremo a carte», gli assicurò Louis. «Se giocate a carte, fatelo dalle cuccette. E ripeto: niente litigi. Altrimenti le carte spariscono. Sono stato chiaro?» Larry osservò uno per uno i tre uomini, che distolsero lo sguardo. Nessuno ebbe niente da ridire. «Considererò questo raro silenzio come un assenso. Ora, Adams, tu sarai il sommozzatore rosso. Tu, Donaghue, quello verde. Mazzola, tu resterai nella campana.» Richard e Michael lanciarono un urrah e si batterono reciprocamente il palmo di una mano. Louis sbuffò con espressione scontenta attraverso le labbra increspate. Il compito del sommozzatore che rimaneva nella campana era di rilasciare i cavi per i colleghi e tenere d'occhio gli indicatori; non entrava in acqua tranne in caso di emergenza. Sebbene fosse un ruolo più sicuro, era considerato con lieve disprezzo dal resto della squadra. I colori rosso e verde erano utilizzati per evitare qualsiasi confusione nelle comunicazioni, cosa che poteva accadere con i nomi o i soprannomi. Sulla Benthic Explorer il sommozzatore rosso era riconosciuto come leader della spedizione. Larry prese dalla scrivania un blocco portacarte che porse a Richard. «Eccoti la lista di controllo preimmersione, sommozzatore rosso. Adesso spostate il culo nella camera numero uno. Voglio iniziare la compressione entro un quarto d'ora.»
Richard prese il portacarte e guidò l'uscita del terzetto dalla sala immersioni. Una volta fuori, Louis diede il via a una lunga lamentazione sul fatto di dover stare nella campana, visto che gli era già toccato la volta precedente. «Credo che il capo ti ritenga il migliore in questo», lo consolò Richard, strizzando l'occhio a Donaghue. Sapeva che stava stuzzicando Louis, ma non poteva farne a meno. Si sentiva sollevato di non essere stato scelto al suo posto, dato che sarebbe toccato a lui. Mentre passavano attraverso la camera di decompressione numero tre, si concessero il tempo di guardare attraverso il minuscolo oblò per rivolgere un segno di pollice alzato ai tre colleghi che la occupavano e che avrebbero dovuto rimanerci ancora diversi giorni. I sommozzatori potevano anche litigare fra loro, di tanto in tanto, ma erano uniti da un forte cameratismo. Si rispettavano l'un l'altro a causa dei rischi che correvano. L'isolamento e il pericolo di chi compiva le immersioni in saturazione erano simili per certi aspetti a quelli degli astronauti che si trovavano in un satellite in orbita attorno al pianeta. Se si presentava un problema, poteva essere preoccupante, ed era difficile essere riportati a casa. Alla camera di decompressione numero uno Richard fu il primo a passare attraverso il portello d'ingresso, stretto e tondo. Dovette afferrarsi a una sbarra orizzontale, sollevare le gambe ed entrare prima con i piedi, contorcendosi attraverso l'apertura. L'interno era spartano, con le cuccette da un lato e l'apparato per la respirazione d'emergenza che pendeva dalle pareti. Tutte le attrezzature per l'immersione, compresi le mute in neoprene, le cinture di zavorra, i guanti e i cappucci, erano ammonticchiate fra le cuccette. Le maschere si trovavano nella campana, assieme ai tubi e ai cavi di comunicazione. All'altra estremità c'erano doccia, wc e lavandino, tutti in bella vista. Le immersioni in saturazione imponevano di condividere ogni momento. Non c'era alcun genere di privacy. Louis e Michael entrarono subito dopo Richard. Louis si arrampicò direttamente all'interno della campana, mentre Michael cominciava a mettere in ordine il materiale sul pavimento. A mano a mano che Richard declamava ad alta voce i nomi dei singoli oggetti, Louis o Michael gridavano se c'erano o no, e Richard li spuntava dal suo elenco. Tutto ciò che mancava veniva immediatamente passato attraverso il portello aperto da uno degli assistenti. Quando furono completate le quattro pagine della lista, Richard rivolse
il segnale di pollice alzato al supervisore delle immersioni, tramite la videocamera montata sul soffitto. «Okay, sommozzatore rosso», rispose quello, attraverso l'interfono, «chiudi e blocca il boccaporto di ingresso e preparati a iniziare la compressione.» Richard eseguì gli ordini. Quasi immediatamente si udì il sibilo del gas compresso, e l'ago sul manometro analogico iniziò a salire. I due compari si sistemarono allegramente sulle cuccette. Richard tirò fuori il logoro mazzo di carte dalla tasca dei mutandoni. 3 Perry emerse dall'interno della nave e si diresse verso la grata che costituiva il ponte della volta di poppa. Indossava un completo da jogging marrone, sopra una tuta felpata: un suggerimento di Mark. Gli aveva detto che l'ultima volta che era stato nel sommergibile si era vestito in quel modo. Gli spazi erano stretti, quindi era meglio avere addosso indumenti comodi, e gli strati andavano bene perché poteva fare freddo. La temperatura dell'acqua era attorno ai cinque gradi, ed era da stupidi consumare la batteria per il riscaldamento. Dapprima Perry si sentì sconcertato nel camminare a circa quindici metri dalla superficie del mare, che si stendeva sotto di lui, di un freddo colore grigioverde. Rabbrividì, nonostante la temperatura gradevole, e si chiese se dovesse proprio partecipare alla spedizione sottomarina. Lo assalì di nuovo lo strano presentimento con il quale si era svegliato, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Anche se non soffriva propriamente di claustrofobia, non si era mai sentito a proprio agio negli spazi ristretti, come l'interno di un sommergibile. Uno dei ricordi più tremendi dell'infanzia risaliva alla volta in cui fu sorpreso a nascondersi sotto le coperte da suo fratello. Invece di sollevarle, suo fratello si era messo a menar colpi su di lui e, per un lasso di tempo che gli era parso un'eternità, non lo aveva liberato. Di tanto in tanto, Perry aveva ancora degli incubi in cui si ritrovava in quella prigione di stoffa, con la sensazione disperata di essere sul punto di soffocare. Si fermò e osservò il piccolo sommergibile, poggiato sulle calastre all'estremità della poppa. Sopra, stava sospeso ad angolo un grosso verricello in grado di spostare l'imbarcazione all'esterno e di calarla in acqua. Tutt'attorno si davano da fare diversi uomini dell'equipaggio, simili ad api attorno a un alveare. Perry sapeva che stavano effettuando tutti i controlli necessa-
ri prima della messa in funzione. Fu sollevato nell'accorgersi che, visto da vicino, sembrava decisamente più grande di quando era in acqua, un fatto che placò i suoi timori claustrofobici recentemente risvegliati. Non era poi minuscolo, rispetto a tanti altri. Era lungo quindici metri e la larghezza massima raggiungeva i tre metri e mezzo; aveva una forma a bulbo, come una salsiccia d'acciaio un po' gonfia, con una sovrastruttura in fibra di vetro. C'erano quattro oblò spessi venti centimetri, composti da sezioni coniche di plexiglas, due sul davanti e uno su ogni lato. I bracci manipolatori idraulici, ripiegati sotto la prua, gli davano l'aspetto di un enorme crostaceo. Lo scafo era dipinto di un rosso scarlatto, e lungo la fiancata era scritto il suo nome in lettere bianche: Oceanus, come il dio primigenio del mare. «Un bel diavoletto, eh?» udì una voce dietro di sé. Si voltò e vide Mark. «Magari sarebbe meglio se non partecipassi anch'io, dopotutto», gli disse, cercando di avere un tono disinvolto. «E come mai?» «Non vorrei essere di peso. Non sono venuto qui per stare tra i piedi. Sono certo che il pilota preferirebbe non avere una specie di turista che gli ciondola attorno.» «Cazzate!» sbottò Mark, senza esitare. «Donald e Suzanne sono elettrizzati all'idea che ci vada anche tu. Ho parlato con loro nemmeno venti minuti fa e mi hanno proprio detto così. Quello lassù sull'impalcatura è Donald, sta supervisionando il collegamento con la gru. Da quanto ho capito, non vi conoscete.» Perry seguì il dito puntato di Mark. Donald Fuller era un afroamericano dalla testa rasata, i baffetti sottili come fossero disegnati e una struttura imponente. Indossava una tuta da lavoro blu con le spalline, impeccabilmente stirata, su cui scintillava il cartellino con il nome. Pur a quella distanza, Perry poté rendersi conto del suo comportamento marziale, soprattutto quando udì la voce profonda, baritonale, e colse il modo conciso e pratico con cui impartiva gli ordini. Durante l'operazione in corso non c'erano dubbi su chi avesse il comando. «Forza», lo spronò Mark, prima che lui potesse reagire. «Lascia che ti presenti.» Perry si lasciò condurre con riluttanza sul sommergibile. Era fin troppo evidente che non sarebbe riuscito a sottrarsi all'impresa senza perdere decisamente la faccia. Avrebbe dovuto confessare i propri timori, e non pensa-
va certo che fosse consigliabile. Inoltre, la prima esperienza sul sommergibile era stata piacevole, anche se si era trattato solo di un'immersione a una trentina di metri fuori del porto di Santa Catalina, una cosa ben diversa dal ritrovarsi nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico. Una volta che Donald si ritenne soddisfatto del collegamento dell'Oceanus con il cavo che avrebbe dovuto calarlo in acqua, scese con mosse elastiche dall'impalcatura e cominciò a girare attorno alla piccola imbarcazione. Anche se c'era una squadra apposita responsabile dei controlli esterni preimmersione, lui voleva verificare con i propri occhi. Mark e Perry lo raggiunsero davanti alla prua. Quando Perry gli fu presentato come il presidente della Benthic Marine, Donald batté i tacchi e gli rivolse un saluto militare. Prima di rendersene conto, Perry rispose con lo stesso di tipo di saluto. Solo che lui non sapeva come si faceva: non aveva mai eseguito quel gesto in vita sua. Si sentì patetico, come probabilmente appariva. «Onorato di conoscerla, signore!» Nel dir questo, Donald stava dritto come un fuso, con le labbra compresse, le narici dilatate. A Perry fece pensare a un guerriero pronto a dare battaglia. «Piacere di conoscerla», rispose, poi indicò l'Oceanus. «Non voglio interromperla.» «Nessun problema, signore», replicò Donald. «Non devo necessariamente partecipare all'immersione. Non vorrei essere d'intralcio. Infatti...» «Lei non sarà d'intralcio, signore!» «So che si tratta di un'immersione operativa», insisté Perry. «Non vorrei distrarre la sua attenzione...» «Quando piloto l'Oceanus, nessuno distrae la mia attenzione dal lavoro, signore!» «Questo lo apprezzo, ma non mi offenderei affatto se lei mi dicesse che è meglio se rimango a bordo della nave. Voglio dire, lo capirei.» «Sono ansioso di mostrarle le potenzialità di questa imbarcazione, signore.» «Ebbene, grazie.» Perry capì che era inutile cercare una scusa per tirarsi indietro. «È un piacere, signore!» «Non mi deve chiamare signore.» «Signorsì!» Appena si rese conto della propria risposta, Donald allargò la bocca in un sorriso. «Cioè, sì, signor Bergman.»
«Mi chiami Perry.» «Signorsì.» Donald si concesse un secondo sorriso, nell'accorgersi della ricaduta. «Mi risulta difficile cambiare le abitudini.» «Lo vedo. Immagino che non sia una scommessa avventata supporre che la sua formazione in questo tipo di lavoro se l'è fatta sotto le armi.» «Affermativo. Venticinque anni di servizio sui sommergibili.» «Era ufficiale?» «Sì. Sono andato in pensione come comandante.» Perry lasciò vagare lo sguardo verso l'imbarcazione. Ora che si era riconciliato con l'idea della prossima immersione, voleva qualche assicurazione. «Come si è comportato finora l'Oceanus?» «In modo ineccepibile.» «Allora è una brava barchetta?» Nel fare questa domanda, Perry diede qualche pacca al freddo acciaio dello scafo. «La migliore», gli assicurò Donald. «È meglio di qualsiasi altra abbia pilotato, e ne ho passate parecchie.» «È fazioso?» «Affatto. Prima di tutto, può andare più in profondità di qualsiasi altro natante con equipaggio umano che abbia pilotato. E sono certo lei sappia che ha una profondità di operazione certificata di seimila metri e una profondità di cedimento strutturale, cioè di schiacciamento, non inferiore ai diecimila. Ma anche questo non rende l'idea. Con il margine di sicurezza strutturale potremmo probabilmente scendere sul fondo della Fossa delle Marianne senza il minimo inconveniente.» Perry deglutì. Solo al sentire il termine schiacciamento tornò il brivido di pochi minuti prima. «Perché non fai a Perry un rapido resoconto delle altre statistiche dell'Oceanus?» propose Mark. «Tanto per rinfrescargli la memoria.» «Certo», approvò Donald. «Ma aspettate un secondo.» Portò le mani a coppa attorno alle labbra e gridò a un operaio che stava completando le verifiche preimmersione: «Le videocamere sono state controllate dall'interno?» «Affermativo!» rispose quello. Donald riportò l'attenzione su Perry. «Ha una stazza di sessantotto tonnellate e c'è spazio per due piloti, due osservatori, e altri sei passeggeri. Abbiamo un sistema di salvataggio per i sub direttamente accoppiabile alle camere di decompressione, se necessario. Abbiamo un sistema di sopravvivenza per un massimo di duecentosedici ore. L'energia proviene dalle
batterie allo zinco-argento. La propulsione è data da un'elica ad assetto variabile, ma la manovrabilità è aumentata da eliche supplementari verticali e orizzontali comandate da joystick accoppiati. C'è un sonar a scansione laterale con fascio ristretto e a corta portata, un radar che penetra il terreno, un magnetometro protonico e i termistori. Le registrazioni sono effettuate da videocamere a bersaglio amplificate al silicio. Le comunicazioni avvengono con la radio di superficie in FM e il telefono subacqueo UQC. La navigazione è inerziale.» Donald fece una pausa, mentre abbracciava con lo sguardo il sommergibile nel suo insieme. «Penso che queste siano le informazioni basilari. Qualche domanda?» «Per il momento no», si affrettò a rispondere Perry. Temeva che a Donald venisse in mente di chiedere qualcosa a lui. L'unica cosa che gli era rimasta impressa di tutto quel monologo erano i diecimila metri relativi alla profondità di cedimento strutturale. «Pronti a varare l'Oceanus!» gracchiò una voce dall'altoparlante. Donald condusse Perry e Mark in disparte. Il cavo di sollevamento si tese e, con uno scricchiolio, il sommergibile cominciò a sollevarsi dal ponte. L'oscillazione era impedita da una grande quantità di cavi fissati a punti chiave lungo lo scafo. Un forte stridio annunciò il movimento della gru che spostava la piccola imbarcazione in fuori e poi cominciava ad abbassarla verso la superficie dell'acqua. «Ah, ecco che arriva la brava dottoressa!» esclamò Mark. Perry si voltò qual tanto che bastava per dare una rapida occhiata dietro di sé. Dalla porta principale che collegava con l'interno della nave stava emergendo una figura che lo spinse a guardare meglio. Aveva incontrato solo una volta Suzanne Newell, quando l'aveva ascoltata presentare gli studi sismici originali sul monte Olimpo. Allora si trovavano a Los Angeles, dove non c'era scarsità di belle donne. Lì, nel bel mezzo dell'oceano, sulla spartana Benthic Explorer il cui equipaggio era composto quasi al cento per cento da rudi maschi, spiccava come un giglio tra le erbacce. Vicina alla trentina, aveva un aspetto atletico e pieno di vita. Indossava una salopette simile a quella di Donald, ma emanava un chiaro messaggio sulla propria identità sessuale in antitesi assoluta con quello dell'ex comandante della marina. Portava un berretto da baseball blu, con la scritta BENTHIC EXPLORER sul davanti e una trecciolina dorata sulla visiera. Dalla nuca, fra la stoffa del berretto e la banda regolabile, usciva una folta coda di cavallo di lucenti capelli castani.
Suzanne notò il gruppetto e agitò una mano in segno di saluto, poi si avviò in quella direzione. Perry restò letteralmente a bocca aperta, reazione che non sfuggì a Mark, il quale commentò: «Niente male, eh?» «È piuttosto attraente», ammise Perry. «Sì, già, aspetta ancora qualche giorno. Quanto più restiamo qua fuori, tanto lei migliora. Notevole, per una oceanografa geofisica, eh?» «Non ne ho conosciute tante, di oceanografe geofisiche», replicò Perry. Di botto, pensò che l'immersione non sarebbe stata poi tanto male. «Peccato che non sia dottoressa in medicina», aggiunse Mark, sottovoce. «Non mi spiacerebbe farmi controllare un'ernia inguinale.» «Se mi permettete, continuerei nei preparativi per l'immersione dell'Oceanus», disse Donald. «Ma certo», gli rispose Mark. «La nuova punta e la carotiera arriveranno subito e li farò caricare direttamente nel vassoio.» «Va bene, signorsì!» Donald si accomiatò con un altro saluto militare e si avvicinò all'estremità della volta di poppa per tenere d'occhio il sommergibile mentre veniva calato in acqua. «È un po' rigido», commentò Mark, «ma è un lavoratore affidabilissimo.» Perry non lo stava ascoltando. Non riusciva a staccare gli occhi da Suzanne. Quella donna aveva una falcata particolarmente molleggiata e un sorriso amichevole e accogliente. Teneva premuti contro il petto, con il braccio sinistro, due grossi volumi. «Signor Bergman!» esclamò, tendendogli la destra. «Sono stata felicissima di sapere che era a bordo e ora sono elettrizzata all'idea che scenderà sott'acqua con noi. Come sta? Probabilmente è ancora stanco per il volo.» «Sto bene, grazie», rispose lui, mentre le stringeva la mano. Poi, istintivamente, si toccò i capelli nel punto in cui stavano diradandosi, per assicurarsi che fossero sistemati per bene. Notò che Suzanne aveva i denti bianchissimi, come lui. «Dopo il nostro incontro a Los Angeles non ho mai avuto l'occasione di dirle quanto sia contenta che abbia deciso di riportare il Benthic Explorer sul monte Olimpo.» «Mi fa piacere», replicò Perry, costringendosi a sorridere. Era stregato dagli occhi di Suzanne. Non capiva se fossero azzurri o verdi. «Vorrei solo che la perforazione procedesse con maggiore successo.» «Questo spiace anche a me. Ma devo ammettere, dalla mia prospettiva personale e molto egoistica, che me la sto godendo. La montagna sottoma-
rina è un ambiente affascinante, come tra poco verificherà anche lei, e i problemi di trivellazione mi spingono a scendervi spesso. Quindi, da parte mia non udrà lamentele.» «Mi fa piacere che almeno qualcuno sia contento. Ma che cos'ha di tanto affascinante?» «È la geologia. Lo sa che cos'è un dicco basaltico?» «Non posso dire di saperlo», ammise Perry, «tranne immaginare che sia qualcosa fatto di basalto.» Rise imbarazzato, mentre decideva che gli occhi di Suzanne erano di un azzurro chiaro che si tingeva di verde per il mare circostante. Si accorse anche di apprezzare la parsimonia con cui si truccava: sembrava essersi messa appena un po' di rossetto. I cosmetici erano un tasto dolente per lui e sua moglie, che lavorava come truccatrice per uno studio cinematografico e non lesinava il make-up nemmeno a se stessa. A Perry questo dispiaceva, tanto più che le loro figlie, di undici e tredici anni, stavano seguendo l'esempio della madre. L'argomento era diventato una disputa in piena regola, e lui sapeva di avere poche possibilità di vittoria. Il sorriso di Suzanne si allargò ancora di più. «I dicchi basaltici sono proprio fatti di basalto», spiegò, «la pietra scurissima, quasi nera, formatasi con il raffreddamento dei minerali di silicio fusi che costituisce la maggior parte della crosta oceanica. Si formano quando il basalto fuso viene spinto verso l'alto attraverso delle fenditure nella crosta terrestre. A rendere alcuni di essi tanto intriganti è la forma talmente geometrica da far pensare che siano stati prodotti dagli esseri umani. Aspetti di vederli!» «Mi spiace interrompere», intervenne Donald. «L'Oceanus è pronto per l'immersione e dovremmo salire a bordo. Anche con il mare calmo, è pericoloso tenerlo ormeggiato troppo a lungo alla nave. «Signorsì!» esclamò Suzanne con vivacità ed eseguì un rapido saluto militare, mentre le indugiava sulle labbra un sorriso leggermente canzonatorio. Donald non ne fu divertito: sapeva che lo stava prendendo in giro. Suzanne fece cenno a Perry di precederla giù per la scaletta che portava alla piattaforma di immersione, utilizzata anche come banchina per il sommergibile. Perry stava per scendere i primi scalini ma esitò, colto da un altro brivido lungo la spina dorsale. Nonostante gli sforzi per convincersi della sicurezza del sommergibile e nonostante le aspettative che si era creato sulla gradevole compagnia di Suzanne, fu di nuovo assalito dal presentimento già provato prima. Gli giunse come uno spiffero freddo proveniente da una cripta sotterranea, che era la cosa più simile a cui gli avrebbe fatto pensare l'interno dell'Oceanus. Una voce in un angolo della mente gli
diceva che era folle a rinchiudersi dentro un'imbarcazione nel bel mezzo dell'Oceano Atlantico e calare nelle sue profondità. «Aspettate un momento!» esclamò. «Quanto tempo rimarremo sotto?» «Può richiedere un paio d'ore come minimo», rispose Donald, «e durare finché vuole lei. Di solito rimaniamo giù fino a che sono in acqua i sub.» «Come mai lo chiede?» volle sapere Suzanne. «Perché...» Perry cercò rapidamente una spiegazione da fornire. «Perché devo telefonare in ufficio.» «Di domenica? E chi sta in ufficio, la domenica?» Perry si accorse di arrossire di nuovo. Fra i voli notturni da New York alle Azzorre, aveva fatto confusione con i giorni. Si picchiettò una tempia. «Dimenticavo che è domenica. Dev'essere un inizio di Alzheimer.» «Muoviamoci!» esclamò Donald, e scese verso la piattaforma sottostante. Perry lo seguì, un gradino alla volta, sentendosi un ridicolo codardo. Poi, contro ogni buon senso, avanzò lentissimamente attraverso la passerella che ondeggiava in qua e in là. Era scioccante accorgersi di quanto movimento ci fosse, nonostante il mare apparisse calmissimo. La passerella portava direttamente sulla coperta del sommergibile, che era già semisommersa dall'acqua perché l'Oceanus era in fase di galleggiamento naturale. Con qualche difficoltà, Perry si infilò nel boccaporto e, per scendere all'interno dell'imbarcazione, dovette stringere forte i gelidi pioli di metallo. L'interno era uno spazio molto ristretto, proprio come lo aveva avvertito Mark. Cominciò a dubitare che potesse contenere dieci persone, a meno che non stessero pigiate come sardine. A dare ancor più l'impressione di uno spazio stipato, contribuiva la strumentazione che occupava le pareti: indicatori e misuratori di vario tipo, visualizzatori a cristalli liquidi, interruttori a leva. Non c'era un centimetro quadrato che non fosse occupato da un quadrante o da un tasto. L'unica cosa positiva era che aleggiava un odore di pulito. Perry distinse in sottofondo il ronzio di un ventilatore. Donald gli indicò una bassa poltroncina direttamente dietro la propria, a babordo. Di fronte al sedile del pilota c'erano parecchi ampi monitor CRT i cui computer potevano costruire immagini virtuali del fondo marino per aiutare la navigazione. Donald stava utilizzando la radio a modulazione di frequenza per parlare con Larry Nelson nella sala immersioni mentre continuava il controllo preimmersione delle attrezzature e dei sistemi elettrici. Perry udì il boccaporto chiudersi con un tonfo, seguito da un clic caratte-
ristico. Qualche momento dopo Suzanne si calò giù con molta più agilità di quanta ne avesse mostrata lui. Era riuscita perfino a farlo con una mano sola, dato che continuava a stringere al petto i due libri. Ora li porse a Perry. «Li ho portati per lei», gli disse. «Quello più spesso è sulla vita marina dell'oceano, l'altro sulla geologia marina. Ho pensato che potrebbe essere divertente, per lei, ritrovarci alcune delle cose che vedremo dal vivo. Non vogliamo che si annoi.» «Premuroso, da parte sua!» commentò Perry. Anche se Suzanne non se ne accorgeva, era troppo in ansia per annoiarsi. Provava la stessa sensazione di quando, in aereo, stava per decollare. C'era sempre la possibilità che i pochi minuti seguenti sarebbero stati gli ultimi. Suzanne prese posto nel sedile del pilota collocato a tribordo. Cominciò ad azionare una leva dopo l'altra e a declamare i risultati a Donald. Era evidente che i due costituivano una squadra bene affiatata. Dopo i controlli preimmersione eseguiti da Suzanne, cominciarono a echeggiare nello spazio ristretto i caratteristici suoni brevi e acuti che Perry trovava ossessionanti e associava ai vecchi film sulla seconda guerra mondiale. Rabbrividì ancora. Chiuse gli occhi per un momento che parve lunghissimo e cercò di non pensare al trauma infantile di quando il fratello lo aveva imprigionato sotto le coperte. Ma il trucco non funzionò. Lanciò un'occhiata fuori dell'oblò di babordo, alla sua sinistra, e cercò di capire come mai sentiva di aver preso la decisione peggiore della sua vita, partecipando a quella breve immersione di routine. Sapeva che non era una sensazione razionale, riconosceva di ritrovarsi tra professionisti che vivevano quell'operazione come una normale pratica. Sapeva che il sommergibile era affidabile e di recente era stato sottoposto a una revisione generale completa. All'improvviso trasalì. Davanti ai suoi occhi si era letteralmente materializzato un volto mascherato. Si lasciò sfuggire un penoso gemito involontario, prima di rendersi conto che stava guardando uno degli addetti al sommergibile, sceso in acqua con l'attrezzatura da sub. Un momento dopo ne vide altri. Con una specie di balletto subacqueo, staccarono rapidamente i cavi di ormeggio. Ci fu un colpetto sullo scafo. L'Oceanus era per conto suo. «Ricevuto il segnale di via libera», annunciò Donald nel microfono della radio. Stava parlando con il supervisore della squadra di varo, sulla volta di poppa. «Richiesta autorizzazione ad allontanarsi dalla nave.» «Accordata», rispose una voce incorporea.
Perry percepì un movimento lineare che andava ad aggiungersi al rollio, al beccheggio e alla rotazione passiva dell'imbarcazione. Premette il naso contro l'oblò e vide la Benthic Explorer sparire dalla sua visuale. Con il viso sempre premuto contro il plexiglas, abbassò lo sguardo sulle profondità oceaniche nelle quali stava per discendere. Il sole provocava strani scherzi di luce nel riflettersi sulla superficie ondulata e lo faceva sentire come se stesse fissando le fauci dell'infinito. Con un altro brivido, Perry riconobbe di essere vulnerabile come un neonato. Una combinazione di vanità e di stupidità lo aveva spinto in quell'ambiente estraneo, nel quale non aveva il controllo del proprio destino. Sebbene non fosse religioso, si ritrovò a pregare che la piccola crociera subacquea fosse breve, piacevole e sicura. 4 «Nessun contatto», rispose Suzanne alla domanda di Donald se l'ecoscandaglio del sonar mostrasse qualche ostacolo inatteso sotto l'Oceanus. Anche se si trovavano in mare aperto, parte dei controlli preimmersione serviva ad accertarsi che sotto di loro non si muovesse di soppiatto qualche altro sommergibile. Donald prese il microfono della radio ad altissima frequenza e stabilì il contatto con Larry Nelson in sala immersioni. «Ci siamo allontanati dalla nave. L'ossigeno è attivato, i depuratori sono in funzione, il boccaporto è chiuso, il telefono subacqueo è acceso, i fondali sono normali e l'ecoscandaglio non rileva ostacoli. Chiediamo l'autorizzazione all'immersione.» «Il faro di puntamento è attivato?» chiese la voce di Larry. «Affermativo», rispose Donald. «Avete l'autorizzazione all'immersione.» Il via libera di Larry arrivò assieme a un po' di scariche. «La profondità fino alla testa del pozzo è di trecento metri. Buona immersione.» «Roger!» rispose Donald e stava per riappendere il microfono, quando Larry aggiunse: «La camera di decompressione è quasi a livello, quindi la campana comincerà a scendere quanto prima. Calcolo che i sub saranno sul posto nel giro di mezz'ora». «Aspetteremo», replicò Donald. «Passo e chiudo.» Riappese il microfono, poi si rivolse al suo equipaggio con un: «Immersione! Immersione! Aprire le cisterne di zavorra!»
Suzanne si chinò in avanti e abbassò una leva. «Aperte le cisterne di zavorra!» ripeté, in modo che non ci fosse la possibilità di capirsi male. Donald fece un'annotazione sul suo taccuino. Da un vano adiacente provenne uno scroscio simile a quello della doccia, mentre la fredda acqua dell'Atlantico si riversava nelle cisterne di zavorra. Nel giro di qualche momento l'Oceanus perse la galleggiabilità e cominciò silenziosamente a inabissarsi. Per i minuti successivi Donald e Suzanne furono molto indaffarati, infatti si dovevano assicurare che tutti i sistemi funzionassero normalmente. La loro conversazione era limitata al gergo operativo. Ripassarono rapidamente, per la seconda volta, buona parte dei controlli già eseguiti, mentre il sommergibile aumentava la propria discesa fino a una velocità finale di trenta metri al minuto. Perry ingannava il tempo guardando fuori dall'oblò. Il colore dell'acqua passò rapidamente dal verdeazzurro iniziale all'indaco. Dopo cinque minuti tutto ciò che riusciva a vedere era un lucore azzurro se guardava in alto. Verso il basso c'era solo un viola scuro che cedeva il campo al nero. In forte contrasto, l'interno del sommergibile era immerso in una fredda luminosità elettronica data dalla miriade di monitor e di quadranti. «Credo che siamo un pochino pesanti sul davanti», osservò Suzanne, una volta che ebbe controllato tutta l'attrezzatura elettronica. «Concordo», confermò Donald. «Forza, compensa per il signor Bergman!» Suzanne manovrò un'altra leva e si udì subito un ronzio. Perry si chinò in avanti, fra i due piloti. «Che cosa intendete, con compensare per me?» domandò con una voce che suonò buffa perfino a lui. Deglutì, sentendosi la gola secca. «Abbiamo un sistema a zavorra variabile», spiegò Suzanne. «È pieno d'olio e ne sto pompando un po' a poppa per compensare il suo peso sul davanti.» «Oh!» fu tutto quanto disse Perry, prima di riadagiarsi sullo schienale. Essendo ingegnere, di fisica ne capiva. Era sollevato che non si stessero riferendo alla sua timidezza, come aveva irrazionalmente temuto. Quando fu soddisfatta dell'assetto dell'imbarcazione, Suzanne spense la pompa della zavorra, poi si voltò verso Perry. Era ansiosa di rendergli il viaggio più gradevole possibile. Una volta che fossero ritornati sulla nave, sperava di convincerlo ad autorizzare esplorazioni alla montagna sottomarina. Al momento, le uniche occasioni in cui era scesa laggiù erano
state legate alla sostituzione della punta della trivella. Non era riuscita a persuadere Mark Davidson di quanto sarebbe stato utile fare immersioni a scopo puramente di ricerca. L'ansia di Suzanne veniva aumentata dalle voci diffuse che la trivellazione sarebbe stata sospesa a causa di problemi tecnici. Il monte Olimpo sarebbe stato abbandonato prima che lei potesse dargli un'occhiata più approfondita. Questo non le avrebbe fatto fare i salti di gioia, e non solo per motivi professionali. Appena prima di partire per l'attuale progetto, era avvenuta quella che sperava fosse l'ultima rottura di una relazione malsana, instabile, con un aspirante attore. Al momento, tornare a Los Angeles era l'ultima cosa che voleva. L'improvvisa comparsa sul posto di Perry Bergman era un evento fortunato che le avrebbe permesso di presentare il suo caso direttamente ai massimi vertici. «Comodo?» gli chiese. «Non sono mai stato più comodo in vita mia», dichiarò lui. Suzanne sorrise, nonostante il sarcasmo evidente nella risposta di Perry. La situazione non appariva rosea. Il presidente della Benthic Marine continuava a essere teso, come dimostravano le sue mani che stringevano i braccioli, quasi fosse pronto a saltar via da un momento all'altro. I libri che lei si era data la pena di portare giacevano sulla grata del pavimento, senza essere stati aperti. Per un momento Suzanne lo osservò con attenzione, mentre i suoi occhi guardavano dappertutto tranne che in quelli di lei. Ciò che non riusciva a capire era se l'ansia di Perry derivava dall'apprensione di ritrovarsi nel sommergibile o faceva parte della sua personalità. Anche nel suo primo incontro con lui, sei mesi prima, lo aveva trovato una persona leggermente eccentrica, vanesia e nervosa. Non era evidentemente il suo tipo, a parte il fatto che era basso, rispetto a lei. Eppure, nonostante avessero poco in comune, dato che lui era un ingegnere-imprenditore e lei una scienziata, confidava nel fatto che sarebbe stato ricettivo ai suoi argomenti. Dopotutto, aveva già reagito positivamente, quando lei gli aveva chiesto di riportare la Benthic Explorer al monte Olimpo, anche se soltanto per perforare la presunta camera magmatica. Quella montagna sottomarina aveva costituito da quasi un anno la preoccupazione principale di Suzanne, da quando si era imbattuta nella sua esistenza accendendo per caso il sonar a scansione laterale della Benthic Explorer mentre la nave stava ritornando in porto. All'inizio, la sua curiosità era dipesa solo dall'incapacità di spiegarsi come mai un vulcano di
grosse dimensioni, apparentemente estinto, non fosse stato rilevato dal Geosat. Ma, dopo aver compiuto quattro immersioni con il sommergibile, era affascinata dalle formazioni geologiche sulla sua sommità piatta, dato che aveva avuto la possibilità di esplorare solo le immediate vicinanze della testa del pozzo. E poi era emerso il fatto più curioso, quando si era assunta il compito di datare il frammento di roccia portato in superficie assieme alla punta rotta della trivella. I risultati erano sconcertanti e, secondo lei, molto più intriganti dell'apparente durezza della roccia. Dalla posizione della montagna sottomarina presso la Dorsale Medio-Atlantica, si era aspettata che la sua età risalisse più o meno a settecentomila anni. E invece i test avevano dato un altro risultato: circa quattro miliardi di anni! Sapendo che le rocce più antiche mai trovate sulla superficie terrestre o sul fondo degli oceani hanno un'età decisamente inferiore, aveva pensato che o gli strumenti funzionavano male, o lei aveva commesso grossolani errori di procedura. Non volendo rischiare il ridicolo, aveva deciso di tenere per sé i risultati. Con un'accuratezza meticolosa aveva trascorso ore e ore a ricalibrare le attrezzature e a esaminare altri campioni. Incredibilmente, i risultati non si discostavano mai più di tre o quattrocento milioni di anni gli uni dagli altri. Ancora convinta che ci fosse qualcosa che non andava nello strumento per la datazione, lo aveva fatto ricalibrare a Tad Messenger, il tecnico a capo del laboratorio. Quando aveva esaminato di nuovo la roccia, aveva ottenuto una differenza minima rispetto ai risultati precedenti: solo qualche milione di anni. Ancora in preda ai dubbi, si era detta di aspettare fin quando fosse tornata a Los Angeles, dove avrebbe usato le attrezzature del laboratorio universitario. Nel frattempo, i risultati se ne stavano nascosti nel suo armadietto, a bordo della nave. Cercava di trattenersi dal formulare un giudizio, ma il suo interesse per il monte Olimpo continuava ad aumentare. «Abbiamo del caffè bollente in un thermos, a poppa», propose a Perry. «Se le va, sarei contenta di andarglielo a prendere.» «Io sarei più contento se rimanesse ai comandi», replicò lui. «Donald, che ne dici di accendere un momento le luci esterne?» suggerì Suzanne. «Stiamo solo passando i centocinquanta metri», ribatté il pilota. «Non c'è niente da vedere.» «Questa è la prima immersione del signor Bergman nell'oceano» gli fece notare lei. «Dovrebbe vedere il plancton.»
«Diamoci del tu», le propose lo svogliato viaggiatore. «Voglio dire, perché essere formali, quando stiamo pigiati qua dentro come sardine?» Suzanne accettò l'offerta di informalità con un sorriso. Solo, le spiaceva che Perry non si stesse godendo la gita. «Donald, fammi un piacere personale: accendi quelle luci», insisté. Senza altri commenti, Donald l'accontentò. Allungò una mano e accese le lampade alogene esterne di babordo. Perry voltò la testa e guardò fuori. «Sembra neve», commentò. «Sono trilioni di organismi individuali», gli spiegò Suzanne. «Dato che ci troviamo ancora in una zona epipelagica, probabilmente è soprattutto fitoplancton, o plancton vegetale, che può eseguire la fotosintesi. Assieme alle alghe azzurroverdi, questi sono i tizi che stanno alla base dell'intera catena alimentare dell'oceano.» «Mi fa piacere», fu il laconico commento di Perry. Donald spense le luci. «Non ha senso usare la preziosa energia della batteria per una reazione di questo tipo», sussurrò a Suzanne. Nell'oscurità, Perry notò piccoli sprazzi tremolanti di una tenue luce verde e gialla che faceva pensare al neon. Chiese alla sua guida che cosa fosse. «Quella è bioluminescenza», gli spiegò lei. «È il plancton?» «Potrebbe essere. In questo caso, sarebbero probabilmente i dinoflagellati. Naturalmente, potrebbe anche trattarsi di piccoli crostacei o addirittura di pesci. Ho messo un segnalibro giallo nel libro sulla vita marina, per segnare la sezione sulla bioluminescenza.» Perry annuì ma non accennò a voler raccogliere il volume. Bel risultato, pensò Suzanne, cupa. Il suo ottimismo sul riuscire a intrattenere Perry si stava notevolmente inabissando. «Oceanus, qui Benthic Explorer», risuonò la voce di Larry. «Suggerisco una rotta a duecentosettanta gradi a cinquanta ampere per due minuti.» «Roger», rispose Donald. Eseguì rapidamente l'aggiustamento di rotta con i joystick e variò la trasmissione di energia all'elica fino ai cinquanta ampere consigliati. Poi annotò i cambiamenti sul suo taccuino. «Larry ha rilevato la posizione dell'Oceanus grazie al nostro pinger, o trasmettitore di impulsi, e mettendolo in relazione agli idrofoni da fondo», spiegò Suzanne. «Spingendoci in avanti mentre scendiamo raggiungeremo il fondo direttamente alla testa del pozzo. È come se arrivassimo al bersaglio planando.»
«Che cosa faremo fin quando arrivano i sommozzatori?» domandò lui. «Resteremo seduti a girarci i pollici?» «No di certo.» Suzanne si sforzò di rivolgergli un altro sorriso con una fiacca risata. «Scaricheremo la punta della trivella dal vassoio, assieme agli attrezzi che stiamo portando giù. Poi ci tireremo indietro. A quel punto avremo dai venti ai trenta minuti per esplorare il sito. Penso che quella sarà la parte che apprezzerai veramente.» «Non vedo l'ora», commentò Perry, con il tipo di sarcasmo che Suzanne stava cominciando a temere. «Ma non voglio che facciate niente al di fuori dell'ordinario per causa mia. Voglio dire, non cercare di impressionarmi. Sono già impressionato abbastanza.» All'improvviso il monotono «din-din» del sonar cambiò. Il sommergibile si stava avvicinando al fondo e lo strumento aveva stabilito un contatto. Il minuscolo schermo mostrò la testa del pozzo e il tubo che serpeggiava dall'alto. Donald liberò parecchi pesi e la discesa obliqua rallentò. Poi iniziò un attento aggiustamento del sistema di zavorra variabile per raggiungere una spinta idrostatica neutra. Mentre Donald era indaffarato a pompare olio, Suzanne allungò una mano dietro di sé e accese un piccolo lettore CD. Faceva parte del suo piano d'azione. All'improvviso, le note della Sagra della primavera, di Igor Stravinskij, inondarono il piccolo spazio attorno a loro. Colto il segnale, Donald si chinò in avanti e accese le luci esterne. Perry spalancò gli occhi, nel guardare dall'oblò. La «neve» del plancton era sparita completamente e la trasparenza dell'acqua era maggiore di quanto si immaginasse. Era in grado di vedere per diverse decine di metri e ciò che vide lo lasciò sbalordito. Si era aspettato un fondo piatto e privo di caratteristiche degne di nota, come quello al largo dell'isola di Santa Catalina. Al massimo, pensava che avrebbe visto qualche cetriolo di mare. Invece aveva davanti agli occhi un quadro come non pensava nemmeno esistessero: disseminavano il paesaggio enormi colonne grigio scuro e dalle sommità piatte, che spuntavano gradatamente dal basso come pistoni immobili di un enorme motore e si stendevano fin dove Perry riusciva a vedere. Qualche occhiuto pesce dalla lunga coda vi sfrecciava pigramente attraverso. Sull'orlo di alcune delle colonne, gorgonie e antipati ondeggiavano sinuosi nella corrente. «Buon Dio!» esclamò Perry. Era ipnotizzato, grazie anche alla musica di sottofondo, che faceva il suo effetto. «Notevole, eh?» Suzanne fu incoraggiata da quella reazione: era il primo
segnale che la faceva ben sperare. «Sembra il sito di un tempio antico», commentò Perry. «Come Atlantide», suggerì lei, pronta a trarre profitto più che poteva dalla situazione. «Già!» approvò Perry. «come Atlantide! Gesù! Te lo immagini: portare quaggiù i turisti e dir loro che questa era Atlantide? Diventerebbe una miniera d'oro.» Suzanne si schiarì la gola. Portare i turisti alla sua preziosa montagna sottomarina era l'ultima cosa a cui avrebbe desiderato assistere, ma apprezzò l'entusiasmo di Perry. Per lo meno si era lasciato coinvolgere. «La corrente è meno di un ottavo di nodo», annunciò Donald. «Stiamo arrivando alla testa del pozzo. Ci prepariamo a scaricare la punta della trivella.» Suzanne si girò rapidamente per riprendere le sue mansioni di copilota. Alimentò i servomeccanismi per i bracci manipolatori. Nel frattempo, Donald fece poggiare con perizia l'Oceanus sul fondo pietroso. Mentre Suzanne si preparava a sollevare la punta e gli altri attrezzi dal vassoio del sommergibile, lui usò il telefono UQC. «Sul fondo. Scarichiamo il carico.» «Roger», rispose la voce di Larry. «Me lo ero immaginato, quando ho sentito la musica di Suzanne. È l'unico tremendo CD che ha?» «È il migliore, per lo scenario che c'è quaggiù», s'intromise lei. «Se faremo altre immersioni, ti noleggerò qualche CD New Age», le promise Larry. «Non sopporto la roba classica.» «Sto guardando i dicchi basaltici, là fuori?» domandò Perry. «Penso proprio di sì. Ha mai sentito parlare della Strada dei Giganti?» «Non direi.» «È una formazione rocciosa sulla costa settentrionale dell'Irlanda. Assomiglia a ciò che stiamo vedendo quaggiù.» «Quanto è vasta la sommità di questa montagna sottomarina?» «Calcolerei quanto quattro campi da baseball. Ma, purtroppo, è soltanto una supposizione. Il problema è che non abbiamo abbastanza tempo da passare sul fondo per esplorarla tutta.» «Ebbene, penso che dovremmo farlo», dichiarò Perry. Ci siamo! Si disse Suzanne. Dovette resistere alla tentazione di mettersi a urlare per chiedere se Larry e Mark avessero sentito il commento del capo in testa, attraverso il telefono subacqueo. «L'intera sommità della montagna ha lo stesso aspetto della parte che
stiamo vedendo?» domandò ancora Perry. «No, non tutta. Sulla parte limitata che abbiamo visto ci sono alcune zone che mostrano formazioni sottomarine di lava meno caratteristiche di questa. Durante l'ultima immersione, però, abbiamo visto di sfuggita ciò che potrebbe essere una faglia trasversale, ma siamo stati richiamati prima di poter controllare. La montagna resta per la massima parte inesplorata.» «Dove si trovava la faglia, in rapporto alla testa del pozzo?» «Direttamente a ovest da qui. Quasi nella direzione in cui stai guardando adesso. La vedi una fila di colonne particolarmente alta?» «Penso di sì.» Perry premette ancora di più il viso contro il plexiglas, per cercare di guardare leggermente sotto lo scafo. C'era una fila di colonne al limite del suo campo visivo. «Trovare una faglia trasversale sarebbe significativo?» «Sarebbe stupefacente», gli assicurò con entusiasmo la sua guida. «Compaiono qua e là lungo la Dorsale Medio-Atlantica, ma trovarne una a una tale distanza dalla dorsale, e nel bel mezzo di quello che riteniamo un antico vulcano, sarebbe una cosa unica.» «Andiamo a dare un'occhiata», propose Perry. «Questo luogo è affascinante.» Suzanne si concesse un ampio sorriso di trionfo. Scoccò un'occhiata a Donald. Anche lui non poté sopprimere un sorriso. Era stato solidale con il piano della sua seconda pilota, ma senza essere ottimista. Occorsero a Suzanne solo pochi minuti per scaricare tutto quello che Mark aveva stivato nel vassoio del sommergibile. Una volta che il materiale fu allineato accanto alla testa del pozzo, ripiegò i bracci del manipolatore nella loro posizione di riposo. «Con questo abbiamo finito», commentò, e interruppe l'afflusso di energia ai servomeccanismi. «Oceanus a controllo di superficie», chiamò Donald nel microfono. «Scarico eseguito. Qual è la condizione dei sommozzatori?» «Compressione prossima a quella di profondità», rispose la voce di Larry. «La campana dovrebbe cominciare tra breve la discesa. Tempo stimato di arrivo sul fondo, trenta minuti, cinque più o cinque meno.» «Roger! Teneteci informati. Noi ci spostiamo a ovest a investigare una scarpata che avevamo intravisto nell'ultima spedizione.» «Ricevuto! Vi faremo sapere quando la campana verrà staccata dalla camera di decompressione. Vi faremo anche sapere quando attraverserà i centocinquanta metri, in modo che possiate assumere una posizione appro-
priata.» «Roger!» ripeté Donald e riattaccò il microfono. Tenendo le mani poggiate delicatamente sui joystick, riportò la potenza del sistema di propulsione a cinquanta ampere e guidò con perizia il sommergibile lontano dalla testa del pozzo, stando attento a evitare il tubo verticale. Qualche momento dopo, l'Oceanus fluttuava lentamente sopra la strana topografia che caratterizzava la sommità della montagna sottomarina. «Ciò che stiamo vedendo qui, secondo me, è una sezione originaria della crosta del manto terrestre. «Ma come e perché la lava si sia raffreddata in modo da formare queste forme poligonali va al di là delle mie conoscenze. È quasi come se fossero cristalli giganteschi.» «Mi piace l'idea che sia Atlantide», commentò Perry, continuando a tenere il naso incollato all'oblò. «Stiamo arrivando al posto dove avevamo intravisto la faglia», avvisò Donald. «Dovrebbe trovarsi appena oltre quella serie di colonne a cui ci stiamo avvicinando», aggiunse Suzanne, a beneficio di Perry. Donald diminuì la potenza del motore. Il sommergibile rallentò, mentre le superavano. «Uau!» esclamò Perry. «Di certo è piuttosto ripida!» «Be', non è una faglia trasversale», lo informò Suzanne, quando ebbe modo di guardare l'intera formazione. «Infatti, se fosse una faglia, dovremmo parlare di fossa tettonica. L'altra parte è altrettanto ripida.» «Che cosa diavolo è una fossa tettonica?» volle sapere Perry. «È una depressione delimitata da almeno due lati da faglie. Ma una cosa simile non avviene sulla sommità di una montagna sottomarina.» «A me sembra un enorme buco rettangolare. Che cosa dici? Sarà lungo quarantacinque metri e largo quindici?» «Direi di sì.» «È incredibile! È come se qualche gigante abbia preso un coltello e tagliato via un pezzo di roccia, proprio come si fa con un cocomero.» Donald guidò l'Oceanus sopra il buco, e guardarono tutti giù. «Non riesco a vedere il fondo», commentò Perry. «Nemmeno io», disse Suzanne. «E nemmeno il nostro sonar», li informò Donald, indicando il monitor dello strumento. Non compariva alcun segnale di ritorno. Era come se l'Oceanus fosse sospeso sopra un pozzo senza fondo. «Accidenti!» esclamò Suzanne. Era senza parole.
Donald diede un colpetto al monitor, ma quello rimase vuoto. «È stranissimo», commentò Suzanne. «Pensi che funzioni male?» «Non saprei.» Donald cercò di cambiare la messa a punto. «Aspettate un secondo», intervenne Perry. «State cercando di prendermi in giro?» «Prova con il sonar a scansione laterale», suggerì Suzanne, ignorandolo. «È altrettanto strano», le rispose Donald. «Il segnale è anormale, a meno che non accettiamo che la buca sia profonda solo due metri o poco più. È ciò che suggerisce il monitor della scansione laterale.» «Chiaramente è molto più profonda.» «È evidente.» «Ehi, voi due!» si intromise di nuovo Perry. «Cominciate a spaventarmi.» Suzanne si voltò rapidamente verso di lui. «Non stiamo cercando di spaventarti», lo rassicurò. «Siamo sconcertati dagli strumenti.» «Secondo me, c'è un accidente di termoclino appena entro l'orlo di questa formazione», suggerì Donald. «Mi sa che il sonar rimbalza su qualcosa.» «Vi spiacerebbe tradurre tutto questo per me?» domandò Perry. «Il termoclino è un improvviso cambiamento di temperatura in un corpo d'acqua. Le onde sonore rimbalzano via dai forti gradienti termici», spiegò Suzanne. «Pensiamo che sia ciò che si sta verificando qui.» «Per ottenere una rilevazione più approfondita dovremmo scendere nella buca per tre-quattro metri», aggiunse Donald. «Lo farò diminuendo la nostra galleggiabilità, ma prima voglio cambiare l'orientamento.» Con brevi accelerazioni, usò l'elica supplementare di dritta, fino a che il sommergibile si mise in parallelo con il lungo asse della buca. Poi manipolò il sistema di zavorra variabile perché avesse una spinta di galleggiamento negativa. Gradatamente, l'imbarcazione cominciò a scendere. «Forse non è tanto una buona idea», commentò Perry. Continuava a spostare nervosamente lo sguardo dal monitor del sonar al proprio oblò. L'altoparlante del telefono subacqueo gracchiò: «Controllo di superficie a Oceanus. Mentre parlo, la campana si sta staccando dalla camera di decompressione. I sub passeranno i centocinquanta metri fra dieci minuti circa». «Roger, controllo di superficie», rispose Donald nel microfono. «Siamo a circa trenta metri a ovest della testa del pozzo. Abbiamo intenzione di controllare un apparente termoclino in una formazione rocciosa. Le comu-
nicazioni potrebbero interrompersi momentaneamente, ma saremo in posizione per i sub.» «Ricevuto», confermò la voce di Larry. «Guardate la lucentezza delle pareti», osservò Suzanne mentre il sommergibile calava sotto la punta dell'enorme buca. «Torniamo alla testa del pozzo», propose Perry. «Potrebbe trattarsi di un'apertura che porta a un vulcano estinto?» chiese Donald, mentre un sorriso gli attraversava il viso altrimenti serissimo. «È un'idea», gli diede corda Suzanne, con una risata. «Anche se devo ammettere di non aver mai visto una caldera perfettamente rettangolare.» «Caldera?» «La caldera è una depressione circolare prodotta dallo sprofondamento della cima di un vulcano», spiegò Suzanne, e rise di nuovo. «La nostra discesa quaggiù mi ricorda il Viaggio al centro della terra di Jules Verne.» «Come mai?» «Non lo hai letto?» «Io non leggo romanzi.» «Giusto, dimenticavo. Comunque, i protagonisti entrano in una specie di mondo sotterraneo primitivo attraverso un vulcano estinto.» Donald scosse la testa, mentre teneva lo sguardo incollato alla lettura del termistore. «Che spreco di tempo leggere tali idiozie. Ecco perché ignoro i romanzi, considerate tutte le riviste tecniche che non ce la faccio a leggere.» Suzanne fece per rispondere, ma poi cambiò idea. Non era mai riuscita a scalfire minimamente le rigide opinioni di Donald sulla fiction in particolare e sull'arte in generale. «Non vorrei fare lo scocciatore», provò di nuovo a intervenire Perry, «ma...» Non riuscì a terminare la frase. All'improvviso la discesa del sommergibile accelerò sensibilmente e Donald gridò: «Cristo Santo!» Perry si afferrò ai braccioli del sedile, facendosi venire le nocche bianche. Non era tanto il rapido aumento di velocità a spaventarlo, quanto la reazione di Donald, così lontana dal suo abituale aplomb. Se l'imperturbabile Donald Fuller era sconvolto, la situazione doveva essere critica. «Scaricare i pesi!» gridò. La discesa rallentò immediatamente, poi si fermò. Donald scaricò altri pesi e il sommergibile cominciò a risalire. Poi usò l'elica supplementare di babordo per mantenerlo parallelo al lungo asse della buca. L'ultima cosa che voleva era andare a sbattere contro le pareti.
«Che cosa diavolo è successo?» domandò Perry, quando ritrovò la voce. «Abbiamo perso galleggiabilità», rispose Suzanne. «All'improvviso siamo diventati più pesanti, oppure l'acqua è diventata più leggera», aggiunse Donald, mentre osservava attentamente la strumentazione. «Che cosa significa?» «Dato che evidentemente non siamo noi a essere diventati più pesanti, è l'acqua che è più leggera», spiegò Donald. Indicò il termometro. «Abbiamo attraversato il gradiente termico che sospettavamo, ed era molto più alto di quanto ci aspettassimo... e nella direzione opposta. La temperatura esterna è aumentata di quasi trentotto gradi!» «Andiamocene immediatamente!» gridò Perry. «Lo stiamo facendo», rispose concisamente Donald. Strappò il microfono dell'UQC e cercò di comunicare con la Benthic Explorer. Visto che non era possibile, lo rimise a posto. «Quaggiù le onde sonore non scendono, e non risalgono neppure.» «Che cos'è, una specie di buco nero del sonar?» domandò irritato Perry. «Adesso l'ecoscandaglio ci dà una rilevazione», li informò Suzanne. «Ma non può essere vero! Dice che questa buca è profonda più di novemila metri!» «Be', perché si è messo a funzionare male?» si chiese Donald, e diede allo strumento un colpo ancora più forte, con le nocche. Il display digitale continuava a mostrare 9271 metri.» «Dimentichiamo l'ecoscandaglio», propose Perry. «Non potremmo andarcene di qua più in fretta?» L'Oceanus stava salendo, ma lentissimamente. «Non ho mai avuto problemi con questo ecoscandaglio prima d'ora», borbottò Donald. «Forse questa buca potrebbe essere stata una specie di condotto del magma», ipotizzò Suzanne. «è evidente che è profondissima, anche se non sappiamo quanto, e che l'acqua è calda. Questo suggerisce un contatto con la lava.» Si chinò in avanti per guardare fuori dall'oblò. «Potremmo almeno spegnere la musica?» squittì ancora Perry. Stava raggiungendo un crescendo che serviva solo ad aumentare la sua ansia. «Be', che mi venga un accidente!» esclamò Suzanne. «Guardate le pareti a questo livello! Il basalto è orientato in senso trasversale. Non ho mai sentito parlare di un dicco trasversale. E guardate! Ha un che di verdastro. Magari è gabbro, non basalto. Potrebbe essere: la parte inferiore della cro-
sta oceanica è composta in buona parte da gabbro.» «Temo di dover imporre la mia autorità», sbottò Perry, senza nascondere la propria esasperazione. Era stufo di essere ignorato. «Voglio essere riportato in superficie, immediatamente!» Suzanne si girò nuovamente verso di lui per rispondergli, ma riuscì solo ad aprire la bocca. Prima che potesse formulare qualsiasi parola, l'imbarcazione fu scossa da una vibrazione a bassa frequenza e lei dovette afferrarsi ai braccioli del sedile per non cadere. La scossa improvvisa mandò a terra gli oggetti che non erano ancorati. Una tazza da caffè andò in mille pezzi; i frammenti si sparsero sul pavimento, assieme alle penne che erano cadute. Allo stesso tempo, si udì un basso brontolio, simile a quello di un tuono lontano. Tutto questo durò per quasi un minuto. Nessuno parlò, ma a Perry sfuggì un gemito involontario, mentre il suo viso perdeva colore. «Che cosa diavolo è stato?» domandò Donald, mentre controllava rapidamente gli strumenti. «Non ne sono sicura», rispose Suzanne, «ma, se dovessi fare una supposizione, direi che era un terremoto. Ce ne sono un sacco lungo la Dorsale Medio-Atlantica.» «Un terremoto!» balbettò Perry. «Forse questo antico vulcano si sta risvegliando», aggiunse Suzanne. «Sarebbe elettrizzante se noi ne fossimo testimoni!» «Oh! C'è qualcosa che non va!» esclamò Donald. «Che problema c'è?» domandò Suzanne, dando una rapida occhiata ai quadranti, misuratori e monitor che aveva direttamente davanti agli occhi e che costituivano la strumentazione indispensabile. Nessuno sembrava segnalare niente di strano. «L'ecoscandaglio!» La voce di Donald aveva un'urgenza che non le era abituale. Lo sguardo di Suzanne si spostò rapidissimamente al display digitale collocato vicino al pavimento, tra i due sedili dei piloti. Le cifre stavano diminuendo a una velocità allarmante. «Che cosa succede? Pensi che la lava stia salendo su per il condotto?» «No!» gridò Donald. «Siamo noi. Stiamo affondando, e ho scaricato tutti i pesi. Stiamo perdendo la galleggiabilità!» «Ma il manometro!» urlò a sua volta Suzanne. «Non sta salendo. Com'è possibile che stiamo affondando?» «Forse non funziona. Non c'è dubbio che stiamo affondando. Basta che
guardi dal dannato oblò.» Lo sguardo di Suzanne corse all'oblò. Era vero. Stavano affondando. La liscia superficie della roccia stava scivolando rapidamente verso l'alto. «Sto scaricando le casse di zavorra», sbraitò Donald. «A questa profondità non dovrebbe servire a molto, ma non c'è altra scelta.» Il suono dell'aria compressa che usciva coprì la Sagra della primavera, ma solo per venti secondi. A una tale pressione, l'aria compressa contenuta nelle casse di zavorra si esaurì rapidamente. La discesa non subì variazioni. «Faccia qualcosa!» urlò Perry, quando riuscì a ritrovare la voce. «Non posso», sbraitò Donald. «I comandi non rispondono. Non c'è niente altro da tentare.» 5 Mark Davidson moriva dalla voglia di fumarsi una sigaretta. La sua dipendenza era assoluta, anche se lui considerava facile rinunciarvi, dato che smetteva una volta alla settimana. La sua brama toccava il massimo quando era rilassato, quando lavorava o quando era in ansia, e al momento era davvero molto in ansia. Per lui, le operazioni di immersione profonda erano sempre un salto nel buio, infatti sapeva per esperienza come le cose potessero mettersi tremendamente male. Sollevò lo sguardo al grande orologio che campeggiava sulla parete della sala immersioni, con la lancetta dei secondi mostruosamente grande. La sua presenza intimidatoria rendeva difficile non accorgersi del tempo che passava. Adesso erano ormai dodici minuti dall'ultimo contatto con l'Oceanus. Anche se Donald lo aveva avvertito che avrebbe potuto verificarsi un'interruzione delle comunicazioni, gli sembrava un tempo eccessivo, considerato anche che il sommergibile non aveva risposto all'ultimo messaggio di Larry Nelson, quando aveva cercato di comunicare che i sommozzatori stavano toccando i centocinquanta metri. Mark lanciò un'occhiata al pacchetto di Marlboro che aveva distrattamente gettato sul bancone della sala immersioni. Era un'agonia non allungare la mano, tirarne fuori una e accenderla. Purtroppo, vigeva una recente proibizione che impediva di fumare negli spazi comuni della nave, e il capitano Jameson era rigidissimo in fatto di regole e regolamenti. Con qualche difficoltà, Mark distolse lo sguardo dalle sigarette e osservò l'interno della sala. Tutte le altre persone presenti erano calme, il che lo fe-
ce sentire ancora più teso. Larry Nelson era seduto perfettamente immobile alla postazione di monitoraggio delle operazioni di immersione, assieme all'operatore del sonar, Peter Rosenthal. Appena dietro di loro c'erano i due marinai di guardia, che stavano di fronte alla console. Anche se i loro occhi saettavano in continuazione fra i quadranti dei manometri delle due camere di decompressione e della campana, il resto del corpo rimaneva immobile. Dalla parte opposta stava l'addetto al verricello. Era appollaiato su un alto sgabello davanti all'apertura che dava sul pozzo centrale, la mano appoggiata sulla leva che comandava gli ingranaggi del verricello. Fuori, il cavo attaccato al maniglione sulla sommità della campana veniva rilasciato alla massima velocità permessa. Da un cilindro vicino scendeva un secondo cavo, passivo, che conteneva la conduttura dei gas compressi, quella dell'acqua calda e i cavi di comunicazione. All'estremità della sala si trovava il capitano Jameson, che succhiava distratto uno stuzzicadenti. Davanti a lui erano allineati i comandi che formavano un'estensione del ponte. Anche se le eliche principali e supplementari erano controllate dal computer, per mantenere la posizione sopra la testa del pozzo, il capitano poteva prevalere sul sistema automatico, se durante le operazioni di immersione ne sorgeva la necessità. «Porca miseria!» sbottò Mark. Sbatté sul banco una matita che stava torturando senza accorgersene e si alzò. «Qual è la profondità dei sommozzatori?» «Stanno superando i duecento metri, signore», riferì l'addetto al verricello. «Prova di nuovo con l'Oceanus», abbaiò allora a Larry, e si mise a camminare avanti e indietro, la bocca dello stomaco attanagliata da una brutta sensazione che peggiorava sempre di più. Cominciò a darsi del cretino per aver incoraggiato Perry Bergman a partecipare all'immersione. Conoscendo l'interesse della dottoressa Newell per la montagna sottomarina e il suo desiderio di compiere immersioni a scopo puramente esplorativo, si preoccupava che avesse cercato di far colpo sul presidente per averla vinta. Questo poteva significare che aveva spinto Donald a fare cose che normalmente non avrebbe fatto, e Mark la riteneva l'unica persona a bordo capace di influenzare l'ex ufficiale di marina, che normalmente si atteneva rigidamente alle disposizioni. Rabbrividì. Sarebbe stato un disastro di prim'ordine se il sommergibile si fosse incastrato in una fenditura o in un crepaccio dove magari era sceso
per esaminare da vicino una particolare caratteristica geologica. Era quasi accaduto al sommergibile Alvin, al largo di Woods Hole, e la tragedia sfiorata era avvenuta proprio sulla Dorsale Medio-Atlantica, non lontano da dove si trovavano ora. «Ancora nessuna risposta», riferì Larry, dopo diversi tentativi andati a vuoto di chiamare l'Oceanus con il telefono subacqueo. «Nessun segno del sommergibile sul sonar a scansione laterale?» domandò Mark all'operatore del sonar. «Negativo», rispose Peter. «E gli idrofoni da fondo non hanno contatto con i loro segnali traccianti. Il termoclino che hanno trovato dev'essere notevole. È come se fossero caduti sul fondo dell'oceano.» Mark interruppe il suo andirivieni e guardò di nuovo l'orologio. «Quanto tempo è passato da quel tremore?» «È stato più di un tremore», gli fece notare Larry. «Tad Messenger lo ha misurato, rilevando magnitudo 4,4 sulla scala Richter.» «Non mi sorprendo», commentò Mark, «ha buttato giù quella pila di tubi in coperta. E se noi, quassù, lo abbiamo sentito così forte, sul fondo dev'essere stato molto peggio. Quanto tempo è passato?» Larry controllò sul proprio registro. «Quasi quattro minuti. Non pensi che abbia qualcosa a che fare con la mancanza di comunicazioni da parte dell'Oceanus?» Mark era riluttante a rispondere. Non era superstizioso, eppure era restio a dar voce alle proprie preoccupazioni, come se esprimendole ne aumentasse la probabilità. Ma temeva che il terremoto di magnitudo 4,4 avesse fatto crollare delle rocce, intrappolando l'Oceanus. Una tale catastrofe non era di certo fuori questione, se Donald era davvero sceso in una stretta depressione, su insistenza di Suzanne. «Fammi parlare con i sub», decise Mark e, avvicinatosi a Larry, prese il microfono. Mentre pensava a ciò che voleva dire, sollevò lo sguardo sul monitor dove vide la sommità delle teste dei tre uomini e i loro corpi di scorcio. «Porca miseria!» gemette Michael. «Mi hai appena dato un calcio nelle palle!» La sua voce era trasformata in una serie di squittii e stridii che sarebbero stati per lo più inintelligibili a normali essere umani. La distorsione era provocata dall'elio che respirava al posto dell'azoto. Alla pressione equivalente a trecento metri sott'acqua, l'azoto agiva da anestetico. Sostituirlo con l'elio risolveva il problema, ma causava sostan-
ziali trasformazioni della voce. I sub vi erano abituati. Anche se sembravano personaggi di un cartone animato della Walt Disney, erano in grado di capirsi perfettamente gli uni con gli altri. «Va' fuori dai piedi con le tue palle», replicò Richard. «Sto facendo fatica a infilarmi queste pinne tremende.» Tutti e tre i sommozzatori erano stipati nella campana, il cui scafo sotto pressione aveva un diametro che non raggiungeva nemmeno i due metri e mezzo. Oltre a loro, c'erano l'attrezzatura completa per l'immersione, il tubo di gomma arrotolato, lungo diverse decine di metri, e tutta la strumentazione necessaria. «Va' fuori dai piedi, dice», gli fece il verso Michael. «Che cosa vuoi che faccia, che esca?» Si udì gracchiare un altoparlante. Era montato proprio all'apice della sfera, accanto a una minuscola videocamera dotata di obiettivo ultragrandangolare. Pur sapendo di essere costantemente osservati, i tre erano del tutto indifferenti alla sorveglianza. «Voglio la vostra attenzione!» ordinò Mark. A differenza di quella dei sub, la sua voce risuonava relativamente normale. «Qui è il comandante delle operazioni.» «Merda fottuta!» si lamentò Richard guardando la pinna che gli causava tanti problemi. «Non c'è da meravigliarsi che non riesco a mettermi 'sto cazzo di cosa. Non è mia. È tua, Donaghue.» Senza avvertimento, assestò un colpo con la pinna sulla testa di Michael. Questi se ne preoccupò solo perché gli aveva fatto cadere il prezioso berretto dei Red Sox che andò a finire sopra un boccaporto del cofano, la condotta stagna della campana. «Ehi, nessuno si muova!» avvertì Michael. «Mazzola, prendimi il berretto! Non voglio che si bagni.» Era già in tenuta da immersione, con la muta stagna in neoprene, il giubbetto equilibratore e i pesi. La possibilità di piegarsi, come sarebbe stato necessario per riprendersi il berretto, era fuori questione. «Signori!» la voce di Mark si udì più forte e più insistente. «'Fanculo», borbottò Louis. «Va be' essere di turno nella campana, ma non sono il tuo schiavo.» «Ehi, animali, ascoltate!» berciò la voce di Larry. Il suono echeggiò nella sfera stipata, appena sotto la soglia del dolore. «Il signor Davidson vuole dirvi due parole, quindi state zitti!» Richard gettò la pinna e la sua compagna fra le mani di Michael, poi guardò verso la videocamera. «Va bene, ascoltiamo.»
«Aspettate un momento», disse Larry. «Non ci eravamo accorti che il decodificatore non era attivato.» «Allora, ridammi le mie pinne», insisté Richard, rivolto a Michael. «Intendi che quelle che ho non sono le mie?» «Buh!» esclamò Richard in tono di scherno. «Se le hai in mano vuol dire che non le hai ai piedi, cervello di gallina!» Michael si accucciò goffamente, stringendo le pinne sotto il braccio, e si tolse quelle che aveva ai piedi. Richard gliele strappò via con fare sdegnoso. Poi i due amici andarono a sbattere uno contro l'altro mentre cercavano contemporaneamente di mettersi le rispettive pinne. «Okay», si udì nuovamente la voce di Larry. «Adesso siamo in linea con il decodificatore, quindi smettetela di fare casino e ascoltate! Eccovi il signor Davidson.» I sub non si diedero la pena di guardare in alto. Si stravaccarono contro la parete della campana e assunsero un'espressione annoiata. «Non siamo riusciti a contattare l'Oceanus con il telefono UQC né a rintracciarlo con il sonar», annunciò la voce di Mark. «Vorremmo che voi li avvistiate. Se non lì vedete quando arrivate alla testa del pozzo, fatecelo sapere e noi vi daremo ulteriori istruzioni. Capito?» «Affermativo», rispose Richard. «Adesso possiamo riprendere i preparativi per l'immersione?» «Affermativo», rispose Mark. Richard e Michael si mossero e, concedendosi l'un l'altro un minimo di spazio, riuscirono a infilarsi le pinne ai piedi. Michael cercò perfino di raggiungere il suo berretto, mentre Richard procedeva a indossare il giubbetto e la cintura di zavorra, ma era al di là della sua portata, come aveva temuto. Cinque minuti dopo la voce dell'addetto al verricello li avvertì che stavano passando i duecentosettanta metri. Con questo annuncio, la discesa rallentò in modo apprezzabile. Mentre Richard e Michael cercavano di non intralciare, Louis preparò i cavi. Essendo il sommozzatore di turno nella campana, era un compito che spettava a lui. «Accese le luci esterne», annunciò Larry. Richard e Michael si girarono quel tanto che permise loro di guardare fuori dai due minuscoli oblò, opposti uno all'altro. Louis aveva troppo da fare per guardare da uno o dall'altro dei rimanenti oblò. «Vedo il fondo», disse Richard. «Anch'io», gli fece eco Michael. Con un singolo cavo principale che la
reggeva, la campana roteava lentamente, anche se la rotazione era limitata dai cavi del sistema di sopravvivenza. La campana roteava prima in una direzione, compiendo diverse rivoluzioni, e poi nel senso opposto. Quando si fermò alla profondità convenuta di trecento metri, la rotazione diminuì fino a fermarsi, ma non prima che ogni sub avesse goduto di una vista a 360 gradi. Dato che la campana stava sospesa a più di quattro metri sopra la superficie rocciosa di una tra le più alte sezioni costituenti la sommità della montagna sottomarina, i sub avevano la possibilità di dominare un'area relativamente ampia, ancorché circoscritta dall'illuminazione delle luci alogene esterne. La vista era un po' limitata solo a ovest, dov'era bloccata da un crinale roccioso. A Richard e Michael tale crinale appariva come una serie di colonne unite fra loro, la cui cresta era leggermente più alta rispetto alla loro visuale. Ma quella formazione si trovava alla periferia della sfera di luce. «Lo vedi il sommergibile?» domandò Richard a Michael. «No», rispose il collega. «Però vedo le punte e gli attrezzi vicino alla testa del pozzo. Sono tutti accatastati bene in ordine.» Richard si staccò dall'oblò e sollevò il viso verso la videocamera. «Ricerca dell'Oceanus negativa. Ma è stato qui.» «Questo significa che ci sarà un cambiamento nel piano di immersione», si udì la voce di Larry. «Il signor Davidson vuole che i sommozzatori rosso e verde procedano verso ovest. Riuscite a vedere una scarpata in quella direzione?» «Che diavolo è una scarpata?» domandò Richard. «Una parete di rocce», intervenne la voce di Mark. «Sì, penso di sì», rispose Richard, voltandosi a guardare il crinale formato dalle colonne. «Il signor Davidson vuole che procediate oltre quel crinale», ordinò Larry. «Quanto è alto, in relazione alla campana?» «Più o meno allo stesso livello.» «Va bene, nuotate oltre il crinale e vedete se vi riesce di instaurare un contatto visivo con il sommergibile. Il signor Davidson pensa che possa esserci un crepaccio. E state attenti alla temperatura. A quanto pare, in quell'area c'è un forte gradiente termico.» «Ricevuto», rispose Richard. «Ricordate», aggiunse Larry, «che siete limitati a unocinquanta. Non sollevatevi a più di tre metri dalla campana. Non voglio che qualche pro-
blema medico incasini le cose. Capito?» «Ricevuto», ripeté Richard. Quelle di Larry erano raccomandazioni standard per le immersioni in saturazione. «Addetto alla campana», continuò Larry, «la mistura dei gas deve rimanere a uno e mezzo per cento di ossigeno e novantotto e mezzo per cento di elio. Inteso?» «Inteso», gli assicurò Louis. «Un'ultima cosa. Rosso e verde, non voglio che vi mettiate a cazzeggiare facendo i duri e correndo dei rischi, quindi state attenti!» «D'accordo», replicò Richard. Sollevò il pugno con il pollice alzato a beneficio della videocamera, mentre intanto rivolgeva una smorfia derisoria a Michael, commentando: «Dirci di stare attenti quaggiù è come dire a un bambino di stare attento prima di mandarlo a giocare nel bel mezzo della superstrada». Michael annuì, ma senza dargli troppo retta. Quella parte dell'immersione era seria. Era tutto impegnato ad attaccarsi il cordone ombelicale e le altre attrezzature. Quando fu pronto, Louis gli porse la maschera granfacciale incorporata in un casco in fibra di vetro di un arancione brillante. Michael lo tenne sotto il braccio in attesa di Richard. Nonostante la vasta esperienza, prima di entrare in acqua era sempre agitatissimo. Richard si preparò a sua volta, con grande rapidità, poi prese due torce subacquee, le provò e ne porse una a Michael. Quando fu pronto fece un cenno al collega ed entrambi si infilarono i caschi contemporaneamente. La prima cosa che controllarono dopo che Louis ebbe aperto il collettore, fu il flusso dei gas. Poi toccò a quello dell'acqua calda, che era indispensabile perché la temperatura esterna dell'acqua superava di poco i due gradi centigradi; era difficile lavorare, per un sub, se aveva freddo. Infine controllarono la comunicazione e i cavi dei sensori. Quando tutto fu a posto, Louis ne informò la sala immersioni e chiese l'autorizzazione affinché i sub entrassero i acqua. «Autorizzazione accordata», rispose la voce di Larry. «Aprite il boccaporto!» Con qualche difficoltà e parecchi grugniti, Louis schiacciò la sua voluminosa figura nel cofano della campana. «Il mio berretto!» gridò Michael, nonostante la voce fosse attutita dal suono dei gas in uscita. Louis afferrò il berretto da baseball e glielo passò. Michael lo appese con precauzione a una delle molte protuberanze della campana. Lo trattava
come la sua proprietà più preziosa, anche se non voleva ammettere di considerarlo il suo portafortuna. Louis sbloccò il boccaporto sotto pressione e, con qualche difficoltà, lo sollevò, quindi lo assicurò contro la parete. Sotto, la luminosa acqua azzurro chiaro salì minacciosamente attraverso il cofano. Tutti e tre tirarono un sospiro di sollievo quando videro che si fermava appena sotto il bordo del boccaporto. Sapevano che sarebbe andata in questo modo, ma sapevano anche che, se non fosse stato così, non avrebbero avuto un posto dove rifugiarsi. Richard sollevò il pollice e Michael gli rispose con lo stesso gesto. Poi Richard scese con precauzione attraverso il cofano e aprì il fondo della campana. Per lui, uscire dallo spazio ristretto in cui aveva dovuto restare per tutto quel tempo era un sollievo che paragonava alla nascita. L'improvvisa libertà era esilarante. L'unica parte di lui che sentiva il freddo dell'acqua erano le mani guantate. Si guardò attorno, mentre intanto regolava la propria galleggiabilità. Gli ci volle solo un attimo per notare l'ombra scura che si muoveva alla periferia del cerchio luminoso. Non era il sommergibile. Era uno squalo dagli occhi luminosi, lungo più di due volte il diametro della campana. «Abbiamo compagnia», annunciò con calma. «Buttami giù la mia sbarra, tanto per andare sul sicuro, e di' a Michael di prendere la sua.» Di tutti gli ammennicoli antisqualo che si trovavano sul mercato, Richard preferiva una semplice sbarra di metallo di un metro. In base alle proprie esperienze si era convinto che gli squali la evitavano come la peste, bastava che fosse puntata contro di loro. Non era sicuro che avrebbe funzionato se proprio fossero stati presi dalla furia omicida dettata dalla fame, ma in quella situazione niente funzionava al cento per cento. Qualche secondo dopo la sbarra di ferro calò giù e sbatté con un suono attutito contro la roccia. Immediatamente dopo dal cofano sbucarono le gambe di Michael. Quando anche lui fu sceso del tutto, i due amici si guardarono e Richard indicò lo squalo, che adesso era in piena luce. «È solo uno squalo della Groenlandia», annunciò Richard a Louis, il quale si assicurò che anche Michael avesse sentito. Adesso Richard era ancora meno preoccupato. Era un mostro bello grosso ma non pericoloso. Sapeva che veniva chiamato anche in un altro modo: squalo sonnolento, per le sue abitudini indolenti. Dopo che anche Michael ebbe regolato la galleggiabilità, Richard gli in-
dicò il crinale, ricevendo in risposta un cenno di assenso, dopo di che partirono. Entrambi tenevano le torce con la sinistra e la sbarra di ferro con la destra. Essendo nuotatori provetti, coprirono la distanza in breve tempo, senza affrettarsi. A una pressione di quasi trenta atmosfere, il solo lavoro di respirare i gas viscosi, compressi, richiedeva tantissima energia. All'interno della campana, Louis liberava freneticamente tutti e due i cavi. Non voleva che fossero troppo tesi, per non restringere la libertà di movimento dei colleghi, ma nemmeno troppo lenti, con il rischio che si aggrovigliassero. Finché i sommozzatori scendevano fino al punto stabilito, chi restava nella campana aveva parecchio da fare. Era un lavoro che richiedeva concentrazione e riflessi pronti. Mentre Louis continuava a liberare i cavi, teneva contemporaneamente d'occhio i manometri e il display digitale con la percentuale di ossigeno. Inoltre, era in comunicazione costante con entrambi i sub e con la sala controllo sulla nave. Gli permettevano di tenere le mani libere una cuffia con un minuscolo altoparlante all'orecchio e un microfono posizionato davanti alla bocca. I due sommozzatori nuotarono fino alla sommità del crinale e si fermarono. A quella distanza dalla campana l'illuminazione era decisamente più fioca. Richard indicò le torce e tutti e due le accesero. Dietro di loro, la campana subacquea riluceva in modo arcano, come un orbiter annidato in un paesaggio roccioso, alieno. Ne uscì un flusso di bolle che si innalzarono verso la superficie. Davanti a loro i sub avevano l'oscurità che si tingeva di un nero indelebile, tranne per un debolissimo accenno di luminosità se guardavano verso la superficie, quasi trecento metri sopra di loro. Sapevano che l'enorme squalo si trovava da qualche parte, appena oltre il loro campo visivo. Puntare le torce davanti a sé provocava solo scarsi coni di luce che penetravano la gelida oscurità per appena dodici-quindici metri. «Oltre il crinale c'è uno strapiombo», notò Richard. «Dovrebbe essere questa la scarpata.» Louis riferì l'osservazione alla sala controllo. Anche se da lassù potevano ascoltare i sub e parlare direttamente con loro, Larry preferiva l'intermediazione della campana. Tra la distorsione delle voci dovuta all'elio e il rumore provocato dal flusso dei gas, la comprensione lassù in alto era estremamente difficile, nonostante il decodificatore. Era molto più efficiente contare sull'addetto alla campana, che era parecchio più abituato dei colleghi alle distorsioni della voce. «Rosso», chiamò Louis, «il controllo vuole sapere se vedi qualche segno
dell'Oceanus.» «Negativo», rispose Richard. «Nemmeno un crepaccio o una buca?» chiese ancora Louis. «Non al momento, ma stiamo cominciando a scendere lungo questa parete rocciosa.» Richard e Michael superarono la cresta e cominciarono a calarsi giù. «La roccia è levigata come il vetro», commentò Richard. Michael annuì, facendovi scorrere sopra la mano per un attimo. «State iniziando a usare gli ultimi trenta metri di cavo», avvertì Louis. Ne svolse rapidamente gli ultimi giri, liberandoli dai ganci e imprecando fra sé e sé. Fra poco avrebbe dovuto riavvolgerli di nuovo. Era raro che i sub si allontanassero così tanto dalla campana, ed era stata la solita sfortuna a far sì che ne fosse lui responsabile proprio quando questo si verificava. Richard interruppe la propria discesa. Afferrò un braccio di Michael perché anche lui facesse altrettanto e puntò il dito contro il proprio termometro da polso. Michael diede un'occhiata al suo e restò allibito. «La temperatura dell'acqua è cambiata», annunciò Richard. «È salita di quasi trentotto gradi. Chiudi l'acqua calda!» «Rosso, mi stai prendendo per il culo?» chiese Louis. «Anche Michael rileva la stessa cosa. È come se fossimo entrati in una vasca di acqua calda.» Richard, mentre scendevano, aveva tenuto la torcia puntata verso il basso, alla ricerca della base della scarpata. Ora la usò per illuminare la zona attorno a loro. All'estremità del cerchio di luce riuscì a malapena a scorgere una parete dirimpetto a quella lungo la quale stavano scendendo. «Ehi!» esclamò. «Sembra che siamo in una specie di crepaccio enorme. Posso vedere sì e no l'altra parte. Dev'essere largo circa quindici metri.» Michael gli diede un colpetto sulla spalla e indicò alla loro sinistra. «Anche questo ha una fine», gli fece notare. «Michael ha ragione», confermò Richard, dopo aver guardato a sua volta. Poi si rigirò e puntò la luce nella direzione opposta. «Credo che sia una specie di canyon. Dato che non vedo la quarta parete, per lo meno non da dove ci troviamo.» «Ehi, stiamo andando a fondo!» gridò Michael. Richard guardò la parete rocciosa dietro di sé. Era vero, e più in fretta di quanto avrebbe creduto possibile. La sensazione di resistenza contro l'acqua era minima.
Diedero tutti e due qualche potente calcio verso l'alto, ma si stupirono nell'accorgersi che non sortivano quasi alcun effetto. Continuavano a inabissarsi. Con un misto di confusione e di allarme, reagirono entrambi automaticamente, gonfiando i giubbetti. Visto che anche questo non serviva un gran che, liberarono le cinture di zavorra, poi gettarono via le sbarre di ferro. Alla fine, con l'aiuto di altri calci, la loro discesa rallentò ed ebbe finalmente termine. Richard indicò verso l'alto e cominciarono a nuotare. Nonostante la fatica della respirazione, nuotavano a ritmo sostenuto. Lo strano episodio li aveva innervositi e, a rendere le cose peggiori, cominciavano a sentire il caldo attraverso le mute. Ce l'avevano fatta a ritornare alla sommità della cresta, quando dalle profondità marine si scatenò una vibrazione improvvisa e vigorosa, simile a un'onda d'urto. Per qualche secondo, i due restarono leggermente disorientati. Facevano fatica a respirare e a nuotare contemporaneamente. La scossa era simile a quella che avevano sperimentato quando si trovavano ancora nella campana, durante la discesa, però adesso era decisamente peggio. Si resero conto che si trattava di un terremoto sottomarino, e intuirono di trovarsi nell'epicentro, o molto vicino. Per Louis, la scossa fu ancora più violenta. Al momento dell'impatto stava freneticamente tirando i cavi, che si erano improvvisamente allentati, ma era stato costretto a lasciarli andare per non infilzarsi su una delle tante sporgenze che spuntavano dalla parete. Richard si riprese abbastanza da fare un bel respiro, anche se questo gli provocò dolore. L'onda di pressione gli aveva ammaccato il petto. Essendo un sommozzatore esperto, la sua prima reazione fu di controllare il proprio compagno. Roteò su se stesso e lo cercò freneticamente. Dapprima, per un secondo che gli fece balzare il cuore in gola, non lo trovò, poi abbassò lo sguardo e lo vide che si sforzava di salire verso l'alto. Allungò una mano verso di lui, per aiutarlo, e nel far questo si rese conto che entrambi stavano calando a picco, e molto in fretta. Senza altra possibilità di diminuire il proprio peso, Richard si unì a Michael in un tentativo di nuotare verso l'alto. Dalla disperazione gettarono via perfino le torce, per avere le mani libere, ma non fecero alcun progresso. Continuavano a scendere, poi addirittura precipitarono, capitombolando via dalla parete rocciosa mentre venivano inesorabilmente risucchiati dall'abisso. All'interno della campana, Louis aveva riacquistato l'equilibrio quel tan-
to che gli permetteva di afferrare di nuovo i cavi, che erano ancora lenti. Cominciò rapidamente a riavvolgerli, quando sentì un improvviso strattone. Dapprima cercò di contrastare la forza che tirava nella direzione opposta, ma era impossibile. Se si fosse tenuto attaccato ai cavi, sarebbe stato trascinato via dalla campana. Imprecò mentre si scansava dai cavi, che ora si dipanavano a un ritmo vertiginoso. Era come se Richard e Michael fossero due esche prese da un pesce gigantesco. «Addetto alla campana, stai bene?» chiese la voce di Larry. «Sì, io sto bene», urlò Louis, «ma sta succedendo una cosa pazzesca! I cavi stanno uscendo a una velocità di centocinquanta chilometri all'ora!» «Lo vediamo sul monitor. Non riesci a fermarli?» «E come?» gemette Louis fra le lacrime. Guardò i cavi. Non ne era rimasta una grande lunghezza. Si sentì raggelare. Non aveva idea di che cosa aspettarsi. Gli ultimi giri si svolsero a una velocità incredibile e per un attimo i cavi rimasero tesi, poi furono strappati dagli attacchi e scomparvero nel cofano e poi nel mare implacabile. Inorridito, Louis gridò: «Oh, mio Dio!» mentre cercava di chiudere il manicotto dei gas. «Che cosa succede laggiù?» domandò Larry. «Non lo so», gridò Louis. Poi il suo terrore aumentò ancora di più, quando ricominciarono la vibrazione e il brontolio. Tese le mani per afferrarsi a qualsiasi cosa gli capitasse, mentre la campana veniva scossa come uno shaker nelle mani di un gigante. Gridò e, come in risposta a una preghiera, le scosse si trasformarono in un semplice tremore. Allo stesso tempo si rese conto di un suono simile a uno sfrigolio, mentre un bagliore rosso penetrava attraverso gli oblò. Allentò la presa tremenda con cui stringeva le tubature ad alta pressione e si girò a guardare da un oblò. Ciò che vide lo raggelò di nuovo. Da oltre la cresta rocciosa, proprio quella che i suoi colleghi avevano da poco superato, arrivava una surreale cascata incandescente. Era una rossa lingua di lava che crepitava, scoppiettava e fumava mentre trasformava l'acqua gelida in vapore. Quando Louis si riprese abbastanza da ritrovare la voce, gettò indietro la testa per guardare nell'obiettivo della videocamera. «Tiratemi fuori di qua!» strillò. «Mi trovo nel bel mezzo di un fottuto vulcano in eruzione!»
L'interno della sala controllo era diventato silenziosissimo, gravato da un senso di choc. L'unico rumore proveniva dai motori montati in coperta che azionavano i verricelli: stavano tirando in superficie la campana e i cavi del sistema di sopravvivenza. Qualche momento prima c'era stato il pandemonio, quando era divenuto chiaro che avevano perso due sommozzatori in una catastrofe piroclastica di qualche tipo. L'unica consolazione era che il terzo stava bene e che stava ritornando a bordo. Mark aspirò una lunga boccata dalla Marlboro. Dimenticando le nuove regole, aveva allungato automaticamente la mano verso il pacchetto di sigarette alle prime avvisaglie di guai e adesso che la tragedia si era rapidamente svolta in tutta la sua estensione, ne stava fumando una dopo l'altra, in preda all'ansia. Non solo era riuscito a perdere un sommergibile da cento milioni di dollari con due operatori qualificati più due sommozzatori esperti, ma aveva perso anche il presidente della Benthic Marine. Se solo non avesse incoraggiato Perry Bergman a fare quell'immersione! Per quello era lui il solo responsabile. «Che cosa diavolo facciamo?» chiese Larry, stravolto. Anche lui stava fumando, sebbene avesse smesso da sei mesi. Come supervisore alle immersioni, anche lui si sentiva responsabile del disastroso esito di quell'ultima missione. Mark sospirò con forza. Si sentiva debole. In tutta la sua carriera, non aveva mai registrato la singola perdita di una vita umana, eppure alcune immersioni erano state molto arrischiate, in luoghi pericolosi, come nel Golfo Persico durante l'operazione Desert Storm. Adesso aveva perduto cinque persone. Non riusciva a sopportare nemmeno il pensiero. «La campana sta attraversando i centocinquanta metri», annunciò l'addetto al verricello. «E l'operazione di trivellazione?» si chiese Larry ad alta voce. Mark tirò di nuovo una lunga boccata dalla sigaretta e si bruciò quasi le dita. Schiacciò incollerito il mozzicone e se ne accese un'altra. «Prepariamoci a mandare giù la postazione mobile di ripresa», ordinò Mark. «Dobbiamo dare un'occhiata a ciò che sta succedendo laggiù.» «Mazzola è stato piuttosto chiaro», obiettò Larry con la voce che gli tremava. «Mentre lo tiravamo su ha detto che tutta la sommità della montagna sottomarina, fin dove lui riusciva a vedere, era lava fusa che si riversava ribollendo da oltre il crinale. E stiamo registrando continui tremori. Diavolo, siamo seduti su un vulcano in attività. Sei sicuro di voler mandare la postazione di ripresa laggiù, in quell'inferno?»
«Voglio vederlo», rispose Mark lentamente, «e voglio registrarlo. Sono sicuro che ci sarà un'inchiesta coi fiocchi su tutto 'sto casino. E voglio vedere la zona dov'era il canyon o la fossa in cui è scomparso l'Oceanus. Voglio essere sicuro che non ci sia la possibilità di...» Mark non finì la frase. Sapeva per istinto che non c'erano speranze. Donald Fuller aveva portato il sommergibile giù per il camino di un vulcano appena prima dell'eruzione. «Va bene», acconsentì Larry. «Farò preparare la postazione di ripresa. Ma la trivellazione? Spero che tu non abbia in mente di mandare giù un'altra squadra di sub se e quando questo vulcano si rimette tranquillo.» «Diavolo, no!» esclamò Mark con passione. «Ho perso l'interesse nel trivellare questa montagna allucinante, soprattutto adesso che Perry Bergman non è più con noi. Era la sua ossessione, non la mia. Se le registrazioni confermeranno che il camino vulcanico o qualsiasi cosa fosse è pieno di lava in eruzione e che non riusciamo a trovare traccia dell'Oceanus, ce ne andremo via di qua prima possibile.» «Questo mi sembra grandioso!» commentò Larry e si alzò. «Farò preparare le attrezzature al più presto.» «Grazie», mormorò Mark, poi si chinò in avanti e seppellì il viso tra le mani. Non si era mai sentito peggio in vita sua. 6 Suzanne fu la prima a riprendersi dal terrore della precipitosa discesa, quel tanto che le bastò per ritrovare la voce. Esclamò infatti esitante: «Penso che ci siamo fermati! Grazie a Dio!» Per un tempo che era parso un'eternità ai suoi tre occupanti terrorizzati, il sommergibile era caduto come un sasso lungo il misterioso pozzo. Era come se fossero stati risucchiati giù per uno scarico enorme, sul fondo dell'oceano. Mentre precipitava, l'Oceanus non aveva assolutamente risposto ai comandi, qualsiasi leva o tasto Donald Fuller avesse provato ad azionare. Anche se all'inizio la caduta era stata praticamente a piombo, a un certo punto l'imbarcazione aveva cominciato a girare vertiginosamente, descrivendo una spirale, e perfino a sbatacchiare contro le pareti. Una di queste collisioni aveva distrutto le luci alogene esterne, un'altra aveva strappato via il braccio manipolatore di dritta, con uno stridente scricchiolio. Perry era stato l'unico a gridare, durante la tremenda ordalia, ma anche lui era rimasto in silenzio una volta resosi conto che in quella situazione
non era possibile fare assolutamente nulla. Poteva solo guardare impotente l'indicatore digitale di profondità e vedere le cifre cambiare tanto rapidamente da non essere quasi leggibili. E quando si avvicinarono ai seimila metri, tutto ciò che gli venne in mente furono i dati raggelanti delle statistiche udite poco prima: la profondità di cedimento. «Sì, è così, non credo che ci stiamo muovendo», aggiunse Suzanne, in un sussurro. «Che cosa può essere accaduto? Potremmo essere sul fondo? Non ho sentito l'impatto.» Nessuno mosse un singolo muscolo, come se farlo potesse disturbare l'improvvisa ma gradita tranquillità, e anche i loro respiri erano brevi e poco profondi. Tutti e tre avevano la fronte imperlata di sudore e stringevano ancora con forza i braccioli dei sedili, temendo che la caduta potesse ricominciare. «Sembra che ci siamo fermati, ma guardate l'indicatore di profondità», borbottò Donald. La voce gli usciva a fatica a causa della gola secca. Le tre paia d'occhi ritornarono al display sul quale fino a pochi momenti prima erano rimasti incollati. Le cifre stavano cambiando di nuovo, dapprima lentamente, poi acquistando sempre più velocità. La differenza era che giravano nella direzione opposta. «Ma non percepisco alcun movimento», osservò Suzanne. Espirò con forza e cercò di rilassare i muscoli. Gli altri fecero lo stesso. «Nemmeno io», ammise Donald. «Ma guardate l'indicatore: sta impazzendo!» Il display digitale aveva ricominciato a mostrare un tale turbinio di cifre che era impossibile leggerle. Suzanne si chinò in avanti lentamente, come se pensasse che il sommergibile si trovasse in un equilibrio molto precario e che il suo movimento potesse farlo inclinare. Guardò dall'oblò, ma tutto ciò che vide fu la propria immagine. Con le luci esterne messe fuori uso dall'impatto contro la parete rocciosa, il plexiglas faceva da specchio, riflettendo la luce dell'interno. «Che cosa sta succedendo, adesso?» gracchiò Perry. «Le supposizioni che puoi fare tu valgono quanto le nostre», rispose Suzanne, poi respirò a fondo. Stava cominciando a riprendersi. «L'indicatore di profondità dice che stiamo salendo», spiegò Donald e guardò anche l'altra strumentazione, compresi i monitor del sonar. I loro segnali irregolari facevano pensare che ci fossero molte interferenze, che influenzavano particolarmente la breve portata del sonar. La scansione laterale andava un po' meglio, con meno rumore elettronico, ma era difficile
da interpretare. L'immagine nebulosa suggeriva che il sommergibile fosse immobile sopra un ampio tratto di fondo perfettamente piatto. Donald riportò lo sguardo all'indicatore di profondità. Non ci capiva più niente: in contrasto con l'immagine fornita dal sonar, stavano continuando a salire, e più rapidamente di prima. Riaprì rapidamente le casse di zavorra, ma senza sortire alcun effetto. Poi abbassò i timoni di immersione e aumentò la potenza del sistema di propulsione. Non ci fu alcuna risposta ai comandi. E continuavano a salire. «Stiamo accelerando», avvertì Suzanne. «Salendo di questo passo saremo alla superficie entro un paio di minuti!» «Non vedo l'ora!» esclamò Perry, con evidente sollievo. «Spero che non salteremo fuori proprio sotto la Benthic Explorer, sarebbe un bel problema.» Gli occhi di tutti e tre erano incollati all'indicatore di profondità. Oltrepassò i trecento metri e non diede segno di rallentare. Arrivò ai centocinquanta e continuò alla stessa velocità. Quando oltrepassò i trenta metri, Donald avvertì: «Tenetevi forte! Stiamo per guizzare violentemente». «'Guizzare' in che senso?» gridò Perry. La disperazione colta nella voce di Donald gli aveva provocato un nuovo brivido nella schiena. «Nel senso che stiamo per saltar fuori dall'acqua!» spiegò Suzanne, gridando a sua volta, poi ripeté l'avvertimento di Donald: «Teniamoci forte!» Mentre il girare vorticoso delle cifre sull'indicatore di profondità cresceva sempre più velocemente, Perry, Donald e Suzanne si strinsero ancora una volta con tutta la forza che avevano ai braccioli dei sedili, trattenendo il respiro in attesa dell'impatto. L'indicatore di profondità raggiunse lo zero e si fermò. Immediatamente dopo il clic finale dello strumento, da qualche parte fuori dell'imbarcazione giunse un forte rumore aspirante. Dopo di che, all'interno regnò un relativo silenzio. Ora si udivano soltanto il fruscio del ventilatore e il ronzio elettronico del sistema di propulsione, ancora attutito anche se un po' aumentato. Trascorse quasi un minuto senza la minima sensazione di movimento. Infine Perry espirò e si decise a chiedere: «Allora, che cosa è successo?» «Non possiamo essere ancora per aria, dopo tutto questo tempo», azzardò Suzanne. Tutti e tre allentarono la presa sui braccioli e guardarono dai rispettivi oblò. Fuori era ancora buio come la pece. «Che diavolo?...» borbottò Donald, guardando di nuovo tutta la strumen-
tazione. I monitor del sonar erano pieni di segnali elettronici insignificanti. Li spense. Spense anche il sistema di propulsione, e il ronzio cessò. Poi guardò Suzanne. «Non chiedermi niente», mormorò lei, quando il loro sguardo si incontrò. «Non ho la più pallida idea di ciò che sta accadendo.» «Come mai fuori è buio, se siamo risaliti in superficie?» volle sapere Perry. «Tutto questo non ha senso», osservò Donald e guardò di nuovo la strumentazione. Allungò una mano per rimettere in moto il sistema di propulsione. Se ne udì il ronzio, ma non ci fu alcun movimento. L'imbarcazione rimaneva perfettamente immobile. «Qualcuno mi dica che cosa sta accadendo!» ordinò Perry. L'euforia provata alcuni momenti prima era svanita. Era evidente che non erano risaliti alla superficie. «Non lo sappiamo neanche noi», ammise Suzanne. «L'elica non trova resistenza», riferì Donald, prima di spegnere nuovamente il sistema di propulsione. Il ronzio si acquietò per la seconda volta. Adesso l'unico rumore era dato dalla ventola del sistema di aerazione. «Penso che siamo per aria». «Come è possibile che siamo per aria?» gli chiese Suzanne. «È completamente buio e non c'è onda d'urto.» «Ma è l'unica spiegazione per il non funzionamento del sonar e la mancata resistenza all'elica. E guardate, la temperatura esterna è salita a ventun gradi. Dobbiamo essere per aria.» «Se questo è l'aldilà, io non sono pronto», commentò Perry. «Intendi dire che siamo completamente fuori dall'acqua?» insisté Suzanne, non riuscendo a crederci. «Lo so che sembra pazzesco», ammise Donald, «ma è l'unico modo in cui riesco a spiegare tutto, compreso il fatto che il telefono subacqueo non funziona.» Provò con la radio, ma anche quella era fuori uso. «Se fossimo posati a terra, come mai non ci siamo ribaltati?» domandò Suzanne. «Voglio dire, questo scafo è un cilindro. Se fossimo sulla terraferma, di certo saremmo rotolati su un lato.» «Hai ragione! Questo non me lo spiego.» Suzanne aprì un armadietto d'emergenza collocato fra i due sedili dei piloti e ne estrasse una torcia elettrica. L'accese e ne diresse la luce verso il proprio oblò. Premuta contro di esso, dalla parte esterna, c'era una massa granulare color crema.
«Per lo meno adesso sappiamo come mai non ci siamo ribaltati», affermò Suzanne. «Siamo adagiati in uno strato di fanghiglia a globigerine.» «Spiegati!» quasi urlò Perry, chinandosi in avanti per vedere anche lui. «La fanghiglia a globigerine è il sedimento più comune sul fondo dell'oceano. È composta prevalentemente dalle carcasse di foraminiferi, che sono un tipo di plancton.» «Come facciamo a stare dentro a un sedimento sul fondo dell'oceano e contemporaneamente per aria?» chiese Perry. «La questione è proprio questa», rispose Donald. «Non possiamo, almeno non nei modi che conosco io.» «Inoltre, è impossibile che la fanghiglia a globigerine si trovi così vicina alla Dorsale Medio-Atlantica», aggiunse Suzanne. «Quel tipo di sedimento si trova nelle pianure abissali. Niente ha senso.» «È assurdo!» sbottò Donald. «E non mi piace per niente. Ovunque ci troviamo, siamo bloccati!» «Potremmo essere completamente sepolti in mezzo a questa fanghiglia che dice Suzanne?» domandò Perry con una certa esitazione. Se la sua supposizione era giusta, non voleva sentire la risposta. «No! Assolutamente!» rispose Donald con prontezza. «Se fosse così, l'elica incontrerebbe una resistenza maggiore, non minore.» Per qualche minuto nessuno parlò. «C'è qualche possibilità che siamo dentro alla montagna sottomarina?» si decise a chiedere Perry, rompendo il silenzio. Donald e Suzanne si voltarono contemporaneamente a guardarlo. «Come può essere che ci troviamo dentro una montagna?» replicò Donald, in tono adirato. «Ehi, sto solo provando a immaginare qualcosa», cercò di calmarlo Perry. «Stamattina Mark mi ha detto che alcuni dati del radar in suo possesso fanno pensare che la montagna contenga gas e non lava fusa.» «Questo non me lo ha mai detto», gli fece notare Suzanne. «Non lo ha detto a nessuno. Non era sicuro di quei dati, poiché provenivano da uno studio superficiale dello strato particolarmente duro che stavamo cercando di trivellare. Era un'estrapolazione, e me ne ha accennato en passant.» «Che tipo di gas?» chiese Suzanne, mentre cercava di immaginare come fosse possibile per un vulcano sommerso non essere pieno d'acqua. Dal punto di vista geofisico era impossibile, anche se lei sapeva che sulla terraferma alcuni vulcani ricadevano su se stessi formando le caldere.
«Non ne aveva idea», rispose Perry. «Immagino pensasse che il candidato più probabile fosse il vapore contenuto in quello strato extraduro che ci stava dando tanti guai con la trivellazione.» «Be', non può essere vapore», decise Donald. «Non a una temperatura di ventun gradi.» «È gas naturale?» «Non credo», rispose Suzanne. «Una zona come questa, così vicino alla Dorsale Medio-Atlantica, è geologicamente giovane. Qua non ci può essere niente tipo petrolio o gas naturale.» «Allora forse è aria», azzardò Perry. «Come avrebbe fatto ad arrivare qui?», gli chiese Suzanne. «Dimmelo tu. L'oceanografa geofisica sei tu, non io.» «Se si tratta di aria, non c'è una spiegazione naturale di cui io sia a conoscenza. Ecco qua.» I tre si guardarono per un attimo l'un l'altro. «Penso che dobbiamo socchiudere il boccaporto e rendercene conto», propose Suzanne. «Aprire il boccaporto?» esclamò Donald. «e se il gas non è respirabile, o è addirittura tossico?» «A me pare che non abbiamo tanta scelta. Siamo tagliati fuori dalle comunicazioni. Siamo un pesce fuor d'acqua. Il sistema di sopravvivenza ci terrà in vita per dieci giorni, ma poi?» «Non poniamoci questa domanda», propose Perry, nervoso. «Io direi di socchiudere il boccaporto.» «D'accordo», si arrese Donald, rassegnato. «Essendo il capitano, lo farò io.» Abbandonò il sedile del pilota e si avvicinò con una lunga falcata alla console centrale. Perry si chinò da una parte per farlo passare. Donald si arrampicò su per la scaletta della torretta e si fermò un attimo, mentre gli altri due si posizionavano proprio sotto di lui. «Perché non ti limiti a sbloccarlo, senza aprirlo», suggerì Suzanne. «Poi verifichi se senti qualche odore.» «Ottima idea», approvò Donald. Afferrò la ruota centrale e la girò. Gli enormi bulloni che tenevano sigillato il boccaporto si ritrassero nel corpo del portello e questo gli permise di socchiuderlo appena e annusare. «Che cosa ne pensi?» domandò Suzanne. «Sembra okay.» Nella voce di Donald si coglieva un certo sollievo. Aprì il boccaporto di un dito e annusò l'aria umida che vi fluiva dentro. Soddisfatto dall'impressione che fosse sicura, almeno per quanto poteva deter-
minare lui, aprì completamente il boccaporto e mise fuori la testa. L'aria aveva il sentore umido e salato che si percepisce su una spiaggia quando c'è bassa marea. Roteò lentamente la testa tutt'intorno, sforzandosi di scorgere qualcosa nell'oscurità. Non vide assolutamente nulla, ma intuitivamente capì che si trovavano in uno spazio amplissimo. Fissare quel vuoto buio, vasto ed estraneo gli provocava una sensazione di paura. Chinò la testa all'interno e chiese che gli passassero la torcia. Andò a prendergliela Suzanne, che nel porgergliela gli chiese che cosa avesse visto. «Un bel niente», rispose lui. Riemergendo dal boccaporto, puntò il fascio di luce un po' in tutte le direzioni e ovunque vide sempre la stessa cosa: una distesa di fango che si allungava almeno fin dove penetrava la luce. Qualche isolata pozzanghera la rifletteva come fosse uno specchio. «Ehi!» provò a chiamare, tenendo le mani a coppa attorno alla bocca. Attese. Dalla parte della prua parve giungere una flebile eco. Urlò ancora, un po' più forte, e colse distintamente un'eco che calcolò avesse impiegato tre o quattro secondi a farsi sentire. Ridiscese all'interno del sommergibile, dopo aver richiuso il boccaporto, e fu accolto dagli sguardi speranzosi dei suoi compagni di viaggio. «È la cosa più dannata che abbia mai visto», esordì. «Ci troviamo in una specie di caverna che apparentemente era piena d'acqua fino a non tanto tempo fa.» «Ma adesso è piena d'aria», osservò Suzanne. «Sì, decisamente è aria. Ma, a parte questo, non so che cosa pensare. Forse il signor Bergman ha ragione. Forse siamo stati non si sa come risucchiati all'interno della montagna sottomarina.» «Chiamami Perry, perdio!» sbottò Perry. «E dammi questa pila! Vado a dare un'occhiata.» Gli strappò quasi la torcia di mano e si arrampicò goffamente su per la torretta. Per riuscire a sollevare il pesante portello del boccaporto dovette passare un braccio attorno all'ultimo piolo e ficcarsi la pila in tasca. «Mio Dio!» esclamò, dopo aver imitato tutto ciò che aveva fatto Donald, compresa la prova dell'eco. Ritornò giù ma lasciò il boccaporto socchiuso e porse la torcia a Suzanne, che salì a sua volta. Quando anche lei ridiscese, tutti e tre si guardarono fra loro e scossero la testa. Nessuno aveva una spiegazione, anche se sperava che uno degli altri
due l'avesse. «Suppongo che non ci sia nemmeno bisogno di dirlo», si decise a parlare Donald, rompendo un silenzio preoccupato, «ci troviamo in una situazione a dir poco difficile. Dalla Benthic Explorer non possiamo aspettarci alcun aiuto. Con la serie di terremoti che ci sono stati, presumeranno che siamo rimasti vittime di un disastro. Potrebbero mandare giù una postazione mobile di ripresa, ma non quaggiù; ovunque siamo, non ci troverà. In breve, siamo lasciati a noi stessi, senza comunicazioni, con poco cibo e acqua. Quindi...» Donald si interruppe, come per pensarci sopra. «Quindi, che cosa suggerisci?» gli domandò Suzanne. «Di uscire in ricognizione.» «E se questa caverna, o quel che cavolo è, si riempirà nuovamente d'acqua?» obiettò Perry. «Secondo me dovremmo correre il rischio», gli rispose Donald. «Io sono disposto ad andare anche da solo. Sta a voi decidere se venire con me oppure no.» «Io ci vengo», decise subito Suzanne. «È meglio che stare qui seduti a far niente.» «E io non ho intenzione di rimanere qua da solo», dichiarò Perry. «D'accordo. Abbiamo altre due torce elettriche. Prendiamole, però usiamone soltanto una, per risparmiare le pile», consigliò Donald. «Vado a prenderle», si offrì Suzanne. Donald fu il primo a uscire. Per scendere usò i pioli fissati sul lato esterno della torretta e sullo scafo. Normalmente servivano per permettere l'accesso all'imbarcazione quando questa era poggiata sulle calastre del ponte di poppa, sulla Benthic Explorer. In piedi sul piolo più basso, Donald illuminò il terreno. Considerando quanto era sprofondato l'Oceanus, calcolò che il fango fosse profondo tra i cinquanta e i sessanta centimetri. «C'è qualcosa che non va?» domandò Suzanne, che era uscita per seconda e aveva notato in lui una certa esitazione. «Sto cercando di calcolare quanto è profonda la melma.» Continuando a tenersi a un piolo, abbassò il piede destro, che scomparve completamente nella fanghiglia. Sentì il suolo sotto di sé solo quando il fango gli giunse fin sotto il ginocchio. «Non sarà gradevole», annunciò. «Arriva al ginocchio.» «Speriamo che questo sia il nostro unico problema», commentò Suzanne.
Qualche minuto dopo erano tutti e tre a mollo nel fango. Tranne per un leggero lucore che emanava dal boccaporto aperto del sommergibile, l'unica illuminazione era fornita dalla torcia di Donald che proiettava un cono di luce quasi patetico nell'immensa oscurità. Come aveva consigliato il previdente pilota, quelle di Suzanne e di Perry restarono spente. Nell'ampio spazio buio non si udiva alcun suono. Per conservare più a lungo le batterie del sommergibile, Donald aveva spento quasi tutto à bordo, anche l'impianto di aerazione. Aveva lasciato accesa una sola luce che fungesse da punto di riferimento per ritrovare più facilmente l'Oceanus se si fossero spinti troppo lontano. «Mette addosso un certo timore», commentò Suzanne con un brivido. «Io userei una parola più forte», ammise Perry. «Quale sarà la nostra tattica?» «Sta a noi decidere», rispose Donald. «Io suggerirei di dirigerci verso dove è puntata la prua. Sembra essere più vicina a una parete, per lo meno secondo l'eco.» Guardò la propria bussola. «È in direzione ovest.» «Mi sembra un piano ragionevole», concordò Suzanne. «Andiamo», disse Perry. Il terzetto partì con Donald in testa, seguito da Suzanne e poi da Perry. Era difficile camminare nella melma così profonda, e l'odore era leggermente sgradevole. Non parlavano. Ognuno era fin troppo consapevole della precarietà della situazione, e più si allontanavano dal sommergibile più questa consapevolezza cresceva. Dopo dieci minuti Perry insisté che si fermassero. Non erano arrivati a nessuna parete, e il suo coraggio era venuto meno. «Camminare in questa melma non è facile», dichiarò, evitando la vera questione. «E puzza anche.» «Quanto pensi che ci siamo allontanati?» domandò Suzanne a Donald. Come gli altri, era senza fiato per lo sforzo. Donald si voltò a guardare il sommergibile, che era solo una fievole macchia di luce nel buio più assoluto. «Non tanto lontani, forse un centinaio di metri.» «Io avrei detto un chilometro, da come si sentono le mie gambe», commentò Suzanne. «Quanto ancora bisognerebbe fare per arrivare alla parete, ammesso che ci sia?» chiese Perry. Donald gridò di nuovo, voltato nella direzione verso la quale stavano procedendo. L'eco tornò indietro in un paio di secondi. «Direi grosso modo
un po' meno di trecento metri.» Un movimento improvviso e una serie di sbatacchiamenti nell'oscurità alla loro immediata sinistra li fecero sobbalzare tutti e tre. Donald spostò rapidissimamente il fascio di luce in quella direzione e illuminò un pesce arenato che stava agonizzando, contorcendosi nel fango. «Oh, mio Dio, mi ha spaventata a morte», ammise Suzanne. Teneva una mano premuta sul petto, dove il cuore batteva all'impazzata. «Anche me», confessò Perry. «Abbiamo i nervi scoperti, è comprensibile», cercò di calmarli Donald. «Se voi due volete tornare indietro, continuerò la ricognizione da solo.» «No, io vado fino in fondo», dichiarò Suzanne. «Anch'io», si associò Perry. L'idea di ritornare da solo fino al sommergibile era peggio che continuare attraverso quel pantano. «Allora muoviamoci.» Donald ripartì e gli altri lo seguirono. Il gruppetto arrancò in silenzio. Ogni passo che li faceva penetrare sempre di più nell'ignota oscurità aumentava i loro timori e le loro ansie. Il sommergibile che si erano lasciati alle spalle veniva inghiottito sempre più dal buio. Dopo altri dieci minuti erano tutti e tre tesi come corde di violino pronte a spezzarsi e fu allora che risuonò l'allarme. La breve scarica di suoni rintronò nel silenzio come un colpo di cannone. Dapprima il gruppetto si immobilizzò, cercando freneticamente di determinare da quale direzione fosse arrivato l'allarme. Ma le numerose eco rendevano impossibile capirlo. L'istante successivo stavano tutti e tre arrancando sulla via del ritorno verso l'Oceanus. Si trattò di una fuga all'insegna del panico, una corsa pazzesca verso la presunta salvezza. Purtroppo, il fango non era d'aiuto. Tutti e tre inciamparono quasi immediatamente e finirono a capofitto nell'odiosa poltiglia. Si rimisero in piedi e cercarono nuovamente di correre, con lo stesso risultato. Senza mettersi d'accordo a parole, si rassegnarono a un'andatura più lenta. Dopo qualche minuto, la mancanza di un significativo avanzamento rese evidente l'inutilità della loro fuga. Poiché non c'era stato un riflusso d'acqua che riempisse l'ampia caverna, si fermarono a pochi passi l'uno dall'altro, ansimando pesantemente. Le molteplici eco del tremendo allarme si spensero, lasciando di nuovo il posto all'innaturale silenzio che si stese sull'oscurità come la soffocante coperta dell'incubo di Perry. Suzanne sollevò le mani e dalle dita le sgocciolò giù la fanghiglia che lei
sapeva essere composta da carcasse planctoniche e dalle feci di innumerevoli vermi. Avrebbe voluto disperatamente strofinarsi gli occhi, ma non osava. Donald, che stava leggermente avanti, si voltò per guardare i due compagni. Il fango aveva sporcato il vetro della sua torcia riducendone la luce, in modo che gli altri due non potevano scorgerlo bene. Individuavano soltanto il bianco degli occhi. «Che cos'era quell'allarme, in nome di Dio?» domandò Suzanne, sputacchiando qualche granello umido. Non voleva pensare a cosa potesse essere. «Temevo volesse dire che stava per ritornare l'acqua», ammise Perry. «Indipendentemente dal suo significato», intervenne Donald, «per noi adesso ha un'importanza elevatissima.» «Di che cosa stai parlando?» sbottò Perry. «So che cosa intende», gli spiegò Suzanne. «Che questa non è una formazione geologica naturale.» «Esatto!» confermò Donald. «Dev'essere un rimasuglio della Guerra Fredda. E dato che, quando ero in servizio sui sottomarini degli Stati Uniti, il mio grado di autorizzazione comprendeva le operazioni al massimo grado di segretezza, posso dirvi che non è una nostra installazione. Dev'essere dei russi!» «Intendi una specie di base segreta?» chiese Perry e si guardò attorno per lo spazio immenso, a questo punto più sbalordito che spaventato. «È l'unica cosa a cui riesco a pensare. Una specie di struttura per i sottomarini nucleari.» «Mi sa che è possibile», convenne Suzanne. «E, se è così, il nostro futuro diventa all'improvviso decisamente più luminoso.» «Forse sì, forse no. Intanto farebbe qualche differenza solo se questa installazione ha ancora del personale. In questo caso, bisogna vedere quanto ci tengono alla segretezza.» «A questo non avevo pensato.» «Ma la Guerra Fredda è finita», intervenne Perry. «Di certo non dovremo preoccuparci di quelle vecchie storie da cappa e spada.» «Nell'ambiente militare russo c'è gente che non la pensa in questo modo», lo avvertì Donald. «Lo so perché ne ho incontrata.» «Allora che cosa pensi che dovremmo fare, a questo punto?» gli chiese Suzanne. «Penso che questa domanda abbia già una risposta.» Donald sollevò la mano libera e la puntò dietro le spalle degli altri due. «Guardate là, nella
direzione verso la quale stavamo andando prima che suonasse l'allarme!» I suoi due compagni si voltarono rapidamente. A circa quattrocento metri da loro una porta a un solo battente stava lentamente aprendosi verso l'interno e dallo spazio dietro di essa si riversava una forte luce artificiale il cui riflesso formava una linea che arrivava fino ai loro piedi. Il terzetto era troppo distante per scorgere i dettagli oltre la porta, si poteva solo appurare che la luce era intensissima. «Ecco risolta la questione se l'installazione ha del personale oppure no», osservò Donald. «Evidentemente, non siamo soli. Adesso la questione è: quanto saranno contenti di vederci?» «Pensi che dovremmo arrivare fin là?» gli domandò Perry. «Non abbiamo tanta scelta. Dovremo andarci, prima o poi.» «Come mai non escono loro a incontrarci?» volle sapere Suzanne. «Buona domanda», osservò Donald. «Forse ha a che fare con il benvenuto che hanno in programma per noi.» «Mi sto spaventando di nuovo. È una cosa bizzarra.» «Io non ho mai smesso di avere paura», confessò Perry. «Andiamo a incontrare i nostri probabili carcerieri», li esortò Donald. «E speriamo che non ci considerino spie... e che conoscano la Convenzione di Ginevra.» Mettendosi bene eretto, si avviò, sembrando ignorare il fango che gli risucchiava i piedi, e oltrepassò i suoi due compagni, i quali dovettero ammirare il suo coraggio, unito alla capacità di comando. Loro esitarono un momento, prima di seguirlo. Nessuno dei due parlò, mentre si trascinavano rassegnati dietro di lui, verso la porta che sembrava chiamarli. Non avevano idea se quella porta avrebbe significato la liberazione da quell'incubo o altri guai, ma, come aveva detto l'ex ufficiale di marina, non avevano scelta. 7 Procedevano lentamente. A un certo punto, Perry scivolò e cadde di nuovo nella melma. Ne rimase tutto ricoperto. «La prima cosa che chiederò sarà di fare una doccia», commentò sputacchiando, per cercare di alleviare la tensione. Il suo tentativo non ebbe successo: nessuno rispose. Mentre si avvicinavano alla porta aperta, speravano che i loro dubbi venissero presto dissolti, ma sulla soglia non comparve alcuna figura ad ac-
coglierli e la luce che si riversava fuori era talmente forte da impedir loro di vedere l'interno. Era difficile perfino scorgere l'apertura, senza ripararsi gli occhi con la mano. Quando si avvicinarono abbastanza, videro che la porta, spessa quasi cinque centimetri, era corredata per tutto il contorno da una serie di robusti bulloni e aveva i bordi bombati. Sembrava la chiusura di un sotterraneo corazzato. Era evidente che era stata costruita per sopportare l'enorme pressione dell'acqua che inondava la caverna. A sette-otto metri dalla parete, Suzanne e Perry si fermarono. Erano riluttanti a procedere senza avere un'idea più chiara di che cosa li attendeva. Esaminarono l'apertura cercando di scoprire qualcosa. Da quel che si poteva dedurre a quella distanza, sembrava che all'interno pareti, pavimento e soffitto fossero di acciaio inossidabile, e risplendevano come specchi. Donald aveva continuato da solo e, pur non oltrepassando la soglia, si affacciò all'interno. Tenendo l'avambraccio sollevato per proteggere gli occhi dalla luce, diede un'occhiata alla stanza. «Allora?» chiamò Suzanne. «Che cosa vedi?» «È una stanza di metallo, larga e quadrata», rispose Donald, a voce sostenuta, girando la testa verso di lei. «C'è un paio di enormi sfere scintillanti e nient'altro. Non sembra che ci siano altre porte, tranne questa. E non riesco a capire da dove viene la luce.» «Nessun segno di vita?» domandò Perry. «Negativo. Ehi, credo che le sfere siano di vetro. E devono avere un diametro di quasi un metro e mezzo. Venite a vedere!» Perry scoccò un'occhiata a Suzanne e alzò le spalle. «Perché rinviare l'inevitabile?» Lei rabbrividì, stringendosi le braccia al petto. «Speravo che, ora che fossimo arrivati fin qua, avrei avuto una sensazione migliore di tutto ciò, ma non è così. Questa non può essere una base sottomarina. Stiamo parlando di un'impresa ingegneristica al cui confronto la costruzione della Grande Piramide sembra una passeggiata nel parco.» «Allora che cosa pensi che sia?» le chiese Perry. Suzanne si voltò a guardare il sommergibile. Nonostante la distanza, si scorgeva l'alone di luce che fuoriusciva dalla porta. Oltre di esso, regnava il buio. «Non ne ho proprio idea.» Quando Donald li vide voltarsi a guardare il sommergibile, oltrepassò la soglia. Dovette immediatamente alzare la braccia per non cadere, infatti la combinazione del fango bagnato sotto le scarpe e del metallo levigatissimo
rendeva il pavimento scivoloso come se fosse ricoperto da uno strato di ghiaccio. Una volta riacquistato l'equilibrio, esaminò di nuovo la stanza. Adesso che gli occhi si erano parzialmente abituati alla luce, ci vedeva meglio e colse centinaia di riflessi della propria immagine in ogni direzione. Pareti, pavimento e soffitto sembravano costruiti in un unico blocco, senza giunzioni. L'unica porta che si vedeva era quella dalla quale era entrato. Cercò la fonte della misteriosa luce accecante, senza trovarla. Quando posò lo sguardo sulle due enormi sfere di vetro, ebbe un sussulto e guardò meglio: il vetro non era completamente opaco e permetteva di distinguere ciò che conteneva. «Suzanne, Perry!» gridò. «Qui ci sono un paio di persone. Ma sono sigillate nelle sfere di vetro. Venite!» Un attimo dopo i due comparvero sulla soglia. «Attenti al pavimento!» li avvertì Donald. «È scivoloso come il ghiaccio.» Muovendosi a passetti, come pattinando senza pattini, Suzanne e Perry barcollarono fino ad arrivare accanto a lui, ansiosi di guardare meglio le sfere di vetro. «Mio Dio!» esclamò Suzanne. «Galleggiano come in una specie di liquido» «Li riconosci?» le chiese Donald. «Dovrei?» «Penso di sì. Penso che siano due dei nostri sub.» Suzanne fissò Donald sbalordita. Poi, per guardare meglio, portò le mani a coppa attorno agli occhi e si chinò verso una delle sfere. La superficie era opalescente e rispecchiava la forte luce della stanza. «Penso che tu abbia ragione. Riesco a leggere il logo Benthic Explorer sulla muta e sul casco.» Perry imitò i gesti di Suzanne e guardò anche lui dentro la stessa sfera. Anche Donald fece lo stesso, da un'altra angolazione. «Respira!» osservò Perry. «Dev'essere vivo.» «C'è una specie di cordone ombelicale che esce da qualche specie di aggeggio premuto contro l'addome», notò Suzanne. «Voi vedete dove va a finire?» «Sotto di lui», rispose Donald. «Alla base della sfera.» Suzanne si allontanò quel tanto che le permetteva di chinarsi. La sfera poggiava su una base quadrata, ma lei non vedeva alcun punto di ingresso
per eventuali cavi. Se c'erano, dovevano passare direttamente attraverso il pavimento. «Questa è una cosa stupefacente come la caverna», commentò, raddrizzandosi. Allungò una mano e toccò la sfera con la punta dell'indice. Il materiale sembrava vetro, ma non era sicura che lo fosse veramente. Anche gli altri due, che si erano chinati a loro volta, si raddrizzarono. «Come diavolo hanno fatto a finire qua?» domandò Perry. «Tante domande e pochissime risposte», commentò Donald. «Continui a pensare che questa sia una specie di installazione militare?» gli chiese Suzanne. «Che altro potrebbe essere?» il tono di Donald era un po' sulla difensiva. «Se questi due sommozzatori nelle sfere sono vivi, non riesco a immaginare neanche lontanamente di che tipo di tecnologia si tratti. Sembrano un paio di embrioni giganteschi. Non che sia in grado di spiegarmi nemmeno l'esistenza della caverna. Anche questa stanza va al di là della mia comprensione.» «In che senso?» chiese Donald. «La porta!» gridò Perry. Gli occhi di tutti fissarono l'apertura: la porta massiccia si stava silenziosamente richiudendo. I tre cercarono freneticamente di correre in quella direzione, per non rimanere bloccati lì dentro, ma il pavimento scivoloso rendeva difficili i movimenti. Quando arrivarono, restava solo una fessura di pochi centimetri. Si addossarono tutti insieme contro il solido uscio, cercando di spingere, ma il suo peso e il pavimento scivoloso rendevano l'impresa impossibile. Con un tonfo ben udibile, la porta si chiuse completamente, poi si udì il rumore attutito dei numerosi bulloni che venivano serrati. Con un rinnovato senso di orrore, i tre si allontanarono un poco. «Tutto questo dev'essere controllato da qualcuno», osservò Suzanne, in tono grave, e il suo sguardo preoccupato abbracciò tutta la stanza. «E adesso siamo in trappola.» «Devono essere i russi», dichiarò Donald. «Uffa, con 'sti russi!» sbottò lei. «Hai fatto il militare troppo a lungo. Tu vedi tutto in termini di ostilità di un'epoca ormai superata. Qui non si tratta dei russi.» «Come fai a saperlo?» gridò Donald a sua volta. «E non osare denigrare il servizio che ho prestato per la mia patria!» «Oh, ti prego! Non sto affatto disprezzando il tuo servizio nella marina.
Ma guardati attorno, Donald! Queste non sono cose terrene. Guarda la luce, per amor di Dio!» Nel dir questo, Suzanne sollevò una mano per aria. «Non ci sono fonti di luce, ma l'illuminazione è perfettamente uniforme. E non ci sono ombre.» Perry sollevò anche lui le mani, cercando di formare delle ombre, ma era impossibile. Donald li osservò, ma non fece l'esperimento. «È un flusso uniforme di fotoni che in qualche modo penetra attraverso queste pareti», spiegò Suzanne. «E se dovessi tirare a indovinare, direi che c'è una significativa componente ultravioletta.» «Come fai a dirlo?» le chiese Perry. «Non posso esserne sicura», ammise lei, «dato che l'occhio umano non è in grado di cogliere i raggi ultravioletti, però mi sembra che ci sia una decisa distorsione del blu delle tute mia e di Donald, e del tuo completo da jogging marrone.» Perry abbassò lo sguardo sugli indumenti che indossava, ma non notò differenze. «Le sfere!» urlò Donald, indicandole. La loro opalescenza era aumentata all'improvviso e in modo sorprendente e quasi risplendevano. Un attimo dopo si udì un crac e tutte e due iniziarono ad aprirsi a partire dall'apice, come enormi fiori che perdono i petali. Accompagnati da un fiotto di liquido, i due sub scivolarono a terra. Donald fu il primo a riprendersi dallo choc e, più in fretta che poté, si avvicinò a Richard. Si rese conto che era ancora privo di sensi ma cercava di respirare, allora gli strappò via il casco. Richard tossì con violenza. Perry corse dall'altro sub. Mentre gli toglieva il casco, udì la tosse di Richard. Vedendo che Michael non respirava, ripassò mentalmente le nozioni di pronto soccorso. Sapeva cosa doveva fare. Come prima cosa lo sollevò dai frammenti della sfera, tirando anche il cordone ombelicale che gli era ancora attaccato. Dopo un rapido controllo per verificare che non avesse niente in bocca, gli strinse le narici, respirò a fondo e gli passò una boccata d'aria. Voltò la testa da parte, respirò di nuovo e stava per ripetere l'operazione quando si accorse che Michael aveva aperto gli occhi. «Che cosa diavolo stai facendo, amico?» chiese il sub, contrariato, spingendogli via il viso. «Stavo facendo la respirazione bocca-a-bocca», spiegò Perry e si rimise in piedi. «Sembrava che non respirassi.» «Respiro, respiro!» gli assicurò Michael, e, con un'espressione di disgusto, si strofinò la bocca con il dorso di una mano. «Credimi, respiro.»
Richard, dopo un altro accesso di tosse, sbatté più volte le palpebre per liberare gli occhi dalle lacrime che si erano formate. La sua prima preoccupazione fu Michael. Quando vide che era sano e salvo, si guardò attorno per la stanza, poi rivolse agli altri uno sguardo interrogativo. «Che succede?» chiese. «Che cosa ci è capitato?» «Questa è una domanda da un milione di dollari», gli rispose Perry. «Dove diavolo siamo?» domandò ancora Richard mentre, un'espressione confusa sul viso, dava una seconda occhiata tutt'attorno. «Anche questa è una domanda altrettanto interessante.» «Avete fatto un'immersione alla nostra ricerca?» volle sapere Donald. Per un attimo Richard parve ancora più confuso, ma poi quest'ultima domanda lo aiutò a ritrovare la memoria. «Oh, mio Dio!» gridò. «Eravamo a quasi trecento metri di profondità! Non abbiamo fatto la decompressione!» Si alzò in piedi a fatica, sentendo cedere le gambe, e il pavimento scivoloso non era certo d'aiuto. «Michael, dobbiamo entrare nella camera di decompressione!» «Prendetevela calma!» lo esortò Donald, mentre lo afferrava per un braccio, impedendogli di cadere. «Qua non ci sono camere di decompressione. Inoltre state benissimo. È evidente che non avete la malattia dei cassoni.» Richard si sentì ancora più confuso. Distese le gambe e le braccia per controllare le articolazioni. Sbattendo ripetutamente le palpebre, si guardò di nuovo attorno per la stanza e gli cadde lo sguardo sul cordone ombelicale che lo collegava alla base della sfera ormai appiattita. «Che cosa diavolo è 'sta roba?» domandò, un po' a se stesso, un po' agli altri. Afferrò i numerosi cavi e tubi flessibili che correvano paralleli, ma li lasciò andare immediatamente, con un'espressione di disgusto. «Cristo, è morbida. È come tenere in mano gli intestini di qualcuno!» «Dev'essere una specie di sistema di sopravvivenza», gli spiegò Suzanne, parlando per la prima volta da quando i due sub erano emersi dalle rispettive sfere. «Considerando come state bene, pur non avendo fatto la decompressione, penso che abbia a che fare anche con questo.» Richard toccò con circospezione il congegno attaccato al proprio addome. Aveva la forma e le dimensioni della ventosa di uno sturalavandini. Appena lo toccò, il dispositivo si staccò. Lui lo prese in mano e lo rivoltò, per guardarlo dalla parte che un attimo prima aderiva al suo corpo. Si accorse inorridito che ne sporgevano diverse appendici vermiformi, le cui estremità erano intrise di sangue... il suo sangue.
«Ah!» gridò, e lo lasciò cadere. Immediatamente, il congegno si ritrasse alla base della sfera, sparendo come il cavo di un aspirapolvere. In preda al panico, Richard aprì la cerniera della sua muta fino al pube. Quando si guardò la pancia, gridò di nuovo, scorgendo sei forellini disposti a cerchio attorno all'ombelico. A questo punto Michael si tirò su a sua volta e controllò: anche lui aveva lo stesso tipo di congegno attaccato alla pancia. Quando, riluttante, lo toccò, lo vide staccarsi e rientrare nella base della sfera come quello dell'amico. Poi anche lui aprì la cerniera della muta e vide le piccole ferite puntiformi attorno all'ombelico, ancora sanguinanti. «Per la miseria!» esclamò. «E come se ci avessero bucherellati non so quante volte con un punteruolo da ghiaccio.» Rabbrividì. «Non sopporto la vista del sangue.» Richard richiuse la cerniera e cercò di compiere qualche passo, ma aveva le gambe che gli tremavano. Dovette reggersi con le mani contro la parete. «Accidenti, mi sento come se fossi drogato.» «E io come se mi fosse passato sopra un maledetto camion con rimorchio!» replicò l'amico. «Dov'è Mazzola?» domandò Richard. «Non ne abbiamo idea», rispose Donald. «Che cosa è accaduto durante la vostra immersione?» Richard si grattò dietro il collo. Inizialmente, tutto ciò che ricordava era di essere entrato nella camera di decompressione, ma poi, con l'aiuto di Michael, ricostruì un po' alla volta l'ingresso nella campana e l'entrata in acqua. «Tutto qua?» insisté Donald. «Niente, dopo che siete usciti dalla campana?» I due sub confermarono con un cenno della testa. «Come mai sembra che siate finiti tutti e tre in un porcile?» volle sapere Richard. Poi, senza aspettare una risposta, guardò con maggiore attenzione le pareti. «Che cos'è questo, una specie di ospedale, o qualcosa di simile?» «Non è un ospedale», spiegò Donald. «Non siamo in grado di dirvi gran che, tranne come abbiamo fatto ad arrivarci, e questo comprende il perché siamo così sudici.» «È già un inizio», disse Richard. «Forza, racconta!» Donald fece il resoconto, mentre i due sommozzatori si stravaccavano contro la parete. Era una storia difficile da mandar giù, e i loro occhi si restrinsero per l'incredulità.
«Oh, via!» sbottò Richard. «Che cos'è, una specie di burla?» osservò il terzetto con espressione sospettosa. Doveva essere uno scherzo. Michael annuì, d'accordo con lui. «Non è affatto una burla», assicurò Donald. «Basta che vi guardiate attorno», aggiunse Suzanne. «Ascoltate», insisté Donald, cercando di non perdere la pazienza. «Nessuno dei due ricorda qualcosa di come siete arrivati qua? Non avete visto nessuno?» Richard scosse la testa. Spinse con un piede i segmenti appiattiti della sua sfera. Il materiale adesso era flaccido, anziché rigido e fragile. «Dici sul serio, che eravamo dentro questo coso? Hai detto che sembrava vetro. Di certo adesso non lo sembra proprio per niente.» «Fino a poco fa sembrava vetro», confermò Suzanne. «Secondo noi, questa è una base sottomarina russa», annunciò Donald. «Correzione!» lo contraddisse Suzanne. «Questo è ciò che pensi tu.» «Russi?» ripeté Richard. «Cazzo!» Raddrizzò visibilmente la schiena e guardò la stanza con rinnovato interesse, come stava facendo anche Michael. Entrambi poggiarono le mani contro le pareti levigatissime e Richard vi batté contro con le nocche. «'Sta roba comunque che cos'è, titanio?» Suzanne fece per rispondergli, ma fu interrotta da una specie di sibilo. Tutti guardarono nei punti in cui prima si ergevano le sfere: dai due fori rimasti saliva un vapore accompagnato da un odore acre. Ben presto la stanza sigillata ne fu pervasa e tutti cominciarono a lacrimare. «Ci stanno gassando!» gridò Suzanne, prima di essere sopraffatta da violenti colpi di tosse. Il gruppo si schiacciò terrorizzato contro le pareti, nel tentativo di sottrarsi al gas. Nel giro di pochi istanti, però, tutti tossivano e stringevano gli occhi che bruciavano terribilmente. «Gettatevi a terra!» gridò Donald. Tutti tranne Perry seguirono il suo consiglio, cercando inutilmente di coprirsi naso e bocca con le mani. Perry barcollò fino alla porta e si mise a martellarla di pugni, mentre implorava che aprissero. La porta non si mosse di un millimetro, ma Perry ebbe la presenza di spirito di notare, nonostante il panico e il grave disagio fisico, che non perdeva i sensi e non era in preda alle vertigini: il gas sembrava non avere gli effetti letali che lui temeva. Con uno sforzo di volontà, tenne a freno i colpi di tosse e riuscì a soc-
chiudere gli occhi nonostante il bruciore. La stanza era invasa dal vapore, simile a una pesante nebbia, quindi non gli era dato di vedere lontano, ma notò una cosa stranissima: le sue braccia erano nude. Incuriosito da ciò che poteva essere accaduto alle maniche del suo completo da jogging, aprì ancora di più gli occhi e vide che erano sospese nell'aria a brandelli, come se avesse immerso le braccia nell'acido. Si accorse di provare una sensazione di freddo per tutto il corpo, allora si toccò il petto. Scoprì così che non solo il completo da jogging, ma tutti i suoi indumenti stavano subendo lo stesso destino delle maniche. Il tessuto perdeva progressivamente la struttura che lo teneva assieme. In passato, Perry aveva fatto dei sogni in cui provava l'imbarazzo di ritrovarsi nudo in pubblico. All'improvviso tutto questo stava diventando realtà. Cercò di afferrare i brandelli di stoffa che si staccavano dal suo corpo, ma li sentiva disintegrarsi fra le mani. «Sono i nostri vestiti!» gridò agli altri. «Il gas dissolve i vestiti!» Dapprima la paura impedì agli altri di reagire. Perry ripeté il messaggio e barcollò nella nebbia, rischiando di inciampare nel corpo disteso di Donald. «Il gas dissolve i nostri vestiti!» ripeté. «E non sento effetti mentali di nessun tipo.» Donald si tirò su a sedere. La sua tuta aveva subito lo stesso destino degli indumenti di Perry. Si diede rapidamente delle pacche per verificare se stava davvero rimanendo nudo, ma continuando a tenere gli occhi chiusi perché il gas bruciava troppo. Il tatto fu comunque sufficiente a dargli la conferma. «Perry ha ragione!» gridò agli altri. Anche Suzanne, come Perry, riusciva a socchiudere gli occhi a intermittenza. Questo le permise di verificare che la sua tuta era letteralmente andata in pezzi. Notò anche che il suo stato mentale era normale, e che gli effetti del gas si limitavano al bruciore nella gola e nel petto, oltre che agli occhi. Rinfrancata, si alzò in piedi. Richard e Michael si tirarono su a sedere. Sentendosi ancora come se fossero drogati, non erano in grado di stabilire se il gas avesse influito sul loro stato di coscienza, ma tossivano tantissimo. Per loro, gli effetti sull'apparato respiratorio erano più gravi che per gli altri. «La mia muta è a posto», riuscì a dire Richard, fra un accesso di tosse e l'altro, ma poi fece l'errore di toccarsi la spalla con la mano. Il neoprene si depolimerizzò completamente, suddividendosi in innumerevoli sfere minuscole. Michael, che riuscendo a socchiudere gli occhi di tanto in tanto si era
accorto di ciò che era accaduto alla muta dell'amico, cercò di non toccare la propria e di rimanere immobile, ma Richard allungò una mano e gli diede una botta sulle spalle. L'effetto fu immediato. Un attimo prima la muta appariva normale, quello successivo scorreva via da Michael come tante gocce d'acqua. All'improvviso risuonò un allarme e cominciò a lampeggiare una luce rossa sulla parete opposta a quella della porta: parete che, fino a pochi istanti prima, sembrava essere completamente nuda e liscia. Sotto la luce, il gruppetto cominciò a discernere attraverso il vapore caustico il contorno di un'apertura. L'allarme cessò dopo pochi minuti, ma la luce continuò a lampeggiare. Poi colsero il suono di un fischio acuto. Attraverso uno stretto condotto veniva immessa a forza dell'aria. Perry avanzò lentamente verso la luce lampeggiante. Quando raggiunse la parete, vide che il contorno dell'apertura era più distinto. Ne tastò le estremità e nel farlo percepì una forte corrente d'aria in movimento costante. Questo spiegava il fischio. Poi allungò un piede per assicurarsi che il pavimento fosse allo stesso livello, quindi varcò la soglia. Si sentì subito meglio. La cortina d'aria che si muoveva continuamente impediva al gas di penetrare nel passaggio in cui era entrato. Pareti, pavimento e soffitto erano costruiti nello stesso materiale della stanza da cui era uscito, ma il livello d'illuminazione era decisamente ridotto. Circa sei metri più avanti, il corridoio portava in un'altra stanza. Perry infilò la testa attraverso la cortina d'aria e gridò: «C'è un'altra stanza, e l'aria è pulita. Svelti!» Gli altri quattro si affrettarono ad alzarsi e a correre verso la luce lampeggiante. Suzanne dovette guidare Donald, che non riusciva più ad aprire gli occhi. Nel giro di un minuto, l'intero gruppetto si trovava fuori dalla stanza impestata di gas. Erano talmente sollevati da non preoccuparsi per la sparizione dei vestiti. Tutti e cinque erano completamente nudi, ma erano ben altre le preoccupazioni che li assillavano. Davanti a loro li attendeva la seconda stanza. «Muoviamoci», consigliò Donald, e fece cenno a Perry di precederli, dato che si trovava già avanti a loro. Perry, invece, si appiattì contro la parete per lasciarlo passare. «Penso che debba essere tu il primo. Sei ancora il comandante del sommergibile.» Donald annuì e si avviò, seguito a ruota da lui e da Suzanne, mentre i due sub chiudevano la fila.
«È evidente ciò che accadrà adesso», dichiarò. «Sono contento che per te è evidente», commentò Perry. «Che cosa intendi?» chiese Suzanne. «Ci stanno preparando a un interrogatorio», spiegò Donald. «È una tecnica nota, quella di strappare il senso di identità di una persona, come mezzo per rompere la sua resistenza. I vestiti sono certamente una parte della nostra identità.» «Io non ho nessuna resistenza da far rompere», obiettò Perry. «Dirò loro tutto quello che vogliono sapere.» «Donald, questo significa che tu sai che cos'era quel gas?» chiese Suzanne. «Negativo», rispose lui. Arrivato sulla soglia della seconda stanza, si fermò e guardò dentro. Era considerevolmente più piccola della prima, però il materiale di cui era composta era identico. Da dove si trovava, Donald scorse una porta di vetro oltre la quale iniziava un corridoio che aveva dei quadri incorniciati appesi al muro. Notò anche che il pavimento della stanza era in pendenza verso il centro, dove aveva una grata. In corrispondenza di questa ce n'era un'altra sulla sommità a punta del soffitto. «Allora?» chiese Suzanne. Da dove si trovava non vedeva molto. «Sembra incoraggiante», rispose Donald. «C'è un corridoio che ha un aspetto relativamente normale, dietro una porta a vetri.» «Allora muoviamoci», lo incitò Richard, impaziente. Tenendo entrambe le mani contro gli stipiti della porta, Donald mise prima un piede sul pavimento in pendenza e poi l'altro. Come aveva previsto, appena tolse le mani dallo stipite cominciò a scivolare. Fece quasi un metro, agitando le braccia per mantenere l'equilibrio. A quel punto il pavimento descriveva un angolo e diventava quasi piano. Si voltò e avvertì gli altri. Fecero tutti attenzione tranne Michael. Essendo cresciuto a Chelsea, nel Massachusetts, dove aveva giocato a hockey dall'età di cinque anni, non si preoccupava del pavimento scivoloso. Ma la pendenza lo colse di sorpresa. Stava compiendo il primo passo, quando il piede gli volò via, facendolo piroettare contro gli altri quattro come una palla da bowling. In un attimo l'intero gruppo era una montagna di membra nude aggrovigliate fra loro. «Cristo!», sbottò Donald. Si divincolò dal groviglio e aiutò Suzanne a rialzarsi. Gli altri se la cavarono da soli. Michael non era certo in preda al rimorso. Adesso che aveva gli occhi aperti, era tutto intento ad apprezzare
le forme dell'unica donna del gruppo. Richard imprecò e gli diede una manata sulla testa, al che lui reagì con una sventola e tutti e due finirono di nuovo a terra. «Piantatela!» tuonò Donald. Stando attento a non scivolare, li separò. I due obbedirono, ma continuarono a guardarsi in cagnesco. «Mio Dio, guardate!» gridò Suzanne, indicando la porta dalla quale erano appena passati: stava silenziosamente scomparendo, come se il metallo venisse fuso lì per lì. Dopo pochi istanti, non era rimasta alcuna traccia dell'apertura. La parete non aveva la minima scalfittura. «Se non lo avessi visto con i miei occhi, non ci crederei mai», commentò Perry. «È soprannaturale, come l'effetto speciale di un film.» «Non ho elementi per provare a capire la tecnologia», concordò Suzanne. «Questo esclude i russi.» Dalla grata centrale salì un profondo gorgoglio. Tutti gli sguardi puntarono in quella direzione. «Oh, no!» esclamò Suzanne. «Adesso che cos'altro succede?» Prima che qualcuno potesse rispondere, un liquido chiaro che sembrava acqua salì spumeggiando attraverso la grata nel pavimento. Il gruppo cercò di allontanarsi dal centro e di dirigersi verso la porta a vetri. La pendenza e la superficie scivolosa li costringevano a stare carponi. I primi ad arrivare alla porta cominciarono a tempestarla di pugni, cercando disperatamente un modo per aprirla. Intanto, l'acqua entrava con un getto potente, salendo con rapidità. Nel giro di pochi minuti vi erano immersi fino al petto, poco dopo non toccavano più, e vedevano il soffitto avvicinarsi pericolosamente. Anche se avessero potuto stare a galla indefinitamente, ben presto non ci sarebbe stato più spazio per respirare. Si raggrupparono tutti assieme nel poco spazio rimasto, verso il centro del soffitto che era a punta. Essendo i nuotatori più abili, Richard e Michael si misero al centro, direttamente sotto la grata e, in un disperato tentativo di trovare più aria, vi infilarono le dita attraverso, cercando di strapparla via. Ma i loro sforzi furono inutili. La grata non si spostava, e l'acqua continuava a salire, fino a che la stanza fu riempita del tutto. Appena tutti e cinque furono completamente sommersi, l'acqua cominciò a defluire a una velocità straordinaria. Nel giro di pochi secondi c'era di nuovo lo spazio per tenere la testa fuori e dopo qualche minuto Donald e Richard, i più alti dei cinque, già toccavano. Ben presto si udì un forte risucchio, mentre gli ultimi rimasugli di acqua
sparivano oltre la grata e il gruppo formava un mucchio bagnato e nudo nella parte centrale del pavimento concavo. Per un po' nessuno si mosse. Erano sfiniti, sia fisicamente sia emotivamente, un po' per il terrore provato, un po' per la spossatezza dovuta al panico, e in più avevano inavvertitamente bevuto qualche sorsata del liquido. Alla fine Donald si tirò su a sedere. Si sentiva frastornato. Aveva la strana sensazione che fosse passato più tempo di quanto avrebbe detto. Gli venne in mente che forse erano stati drogati dall'acqua che aveva invaso la stanza. Chiuse gli occhi per un momento e si strofinò le tempie. Quando li riaprì guardò gli altri. Sembrava che dormissero. Spostò lo sguardo verso la porta di vetro, poi lo riportò immediatamente verso Suzanne. «Buon Dio!» mormorò. Non riusciva a credere ai propri occhi: Suzanne era calva! Sollevò una mano a tastarsi la testa, ma erano anni che se la radeva a zero. Cercò i baffi: erano spariti! Sollevò un braccio e vide che non aveva più peli sotto le ascelle. Anche il petto era divenuto completamente glabro. Scosse Perry, poi diede qualche colpetto a Suzanne. Quando li ritenne abbastanza svegli da capire, li mise al corrente della sua scoperta. «Oh, no!» gemette Perry. Si tirò su a sedere di scatto e si toccò con circospezione il cuoio capelluto. I capelli non c'erano più, restava soltanto la pelle. Tirò via le mani come se si fosse scottato. Era inorridito. In Suzanne, la curiosità prevalse sullo sgomento. Qualcosa li aveva resi completamente calvi. Com'era accaduto, e perché? «Che cosa succede?» domandò Richard, con voce impastata. Anche lui si tirò su a sedere, ma faticò a stare in equilibrio. «Ohh... mi sento come se avessi preso una sbornia colossale.» «Anche a me gira un po' la testa», ammise Perry. «Forse nell'acqua c'era qualcosa. So di averne bevuta un po'.» «Credo che ci abbiano drogati», suppose Donald. «Abbiamo inghiottito tutti un po' d'acqua», borbottò Richard, gli occhi non completamente aperti. «Era difficile non farlo, nella situazione in cui eravamo. È stato peggio dell'addestramento per la fuga d'emergenza dal sommergibile.» «Io lo so che cosa sta succedendo», affermò Suzanne. «Sì, anch'io», disse Perry. «Ci torturano e ci umiliano.» «Tutte tecniche di interrogatorio», aggiunse Donald. «Non credo che sia niente che ha a che fare con un interrogatorio», obiettò Suzanne. «La strana luce intensa, il gas acre e adesso la depilazione
suggeriscono un'altra cosa.» «Che cos'è la depilazione?» domandò Richard. «È ciò che è accaduto alla tua testa», gli rispose Perry. Richard sbatté le palpebre e si decise a spalancare gli occhi. Fissò Perry, poi si toccò la testa. «Mio Dio, sono calvo!» guardò Michael, che stava ancora dormicchiando, e gli diede uno scossone. «Ehi, tu, fenomeno da baraccone senza peli! Sveglia!» Michael faceva fatica ad aprire gli occhi. «Penso che ci stiano decontaminando», continuò Suzanne. «Credo che si tratti proprio di questo: liberarci da microrganismi come batteri e virus. Siamo stati sterilizzati.» Nessuno parlò. Perry annuì, pensando alle parole di Suzanne. Pensò che fosse possibile. «Io continuo a pensare che tutto questo serve per prepararci all'interrogatorio», insisté Donald. «Sterilizzarci non ha senso, per me. Non so se dietro a tutto ciò ci sono i russi o chi altro, ma qualcuno vuole qualcosa da noi.» «Forse lo sapremo presto», gli fece notare Perry, accennando con la testa verso la porta a vetri, che adesso era socchiusa. «Credo che stia cominciando la fase successiva.» Donald si alzò faticosamente in piedi. «In quell'acqua c'era decisamente qualche tipo di droga», borbottò. Attese che gli passasse un nuovo attacco di vertigini, poi si diresse verso la porta a vetri. Dove il pavimento scivoloso era in pendenza, dovette procedere gattoni. Quando raggiunse la soglia, si mise di nuovo in piedi e osservò il bianco corridoio che gli stava davanti, lungo una quindicina di metri. «Io mi sento un po' drogata, ma anche stranamente affamata», osservò Suzanne. «Stavo pensando la stessa cosa», confermò Perry. «Ascoltate, gente!» chiamò Donald. «Le cose si stanno mettendo meglio. Alla fine di questo corridoio ci sono gli alloggiamenti. Raduniamoci!» Suzanne e Perry puntarono i piedi sotto di sé e si alzarono, in preda alla stessa sensazione di vertigini che aveva colpito Donald. «Immagino che alloggiamenti voglia dire letti», commentò Suzanne. «E questa è musica per le mie orecchie. Inoltre, voglio andarmene al più presto da questa stanza, nel caso venga allagata di nuovo.» «Proprio la mia stessa sensazione», l'appoggiò Perry.
Richard e Michael si erano riaddormentati. Suzanne li scosse, senza successo, e Perry le diede una mano. «Qualsiasi cosa ci fosse in quell'acqua, su di loro ha avuto un effetto maggiore», osservò lei, mentre continuava a scuotere Richard fino a fargli aprire gli occhi. «Si sentivano già drogati quando sono usciti dalle sfere, ancora prima dell'allagamento della stanza», le fece notare Perry. Riuscì a far mettere seduto Michael, il quale però si lamentava, chiedendo che lo lasciassero in pace. «Muoviamoci!» tuonò Donald. «Non voglio che questa porta si richiuda prima che siamo passati tutti.» Nonostante il rintontimento, i due sub colsero l'accenno alla porta e si impegnarono ad alzarsi. Il movimento portò un rapido miglioramento al loro stato mentale e, quando raggiunsero il gruppetto capeggiato da Donald, erano perfino in grado di parlare. «Qua non è tanto male», commentò Richard, osservando il corridoio con occhi gonfi. Anziché di metallo simile a uno specchio, le pareti e il soffitto erano di un lucente laminato bianco. Lungo le pareti erano appesi, con tanto di cornice, dei quadri a tre dimensioni. Il pavimento era ricoperto da una moquette bianca dalla trama fittissima. «Questi quadri sono una cosa particolare», notò Michael. «Sono talmente realistici! Mi sembra di poterci guardare dentro per una trentina di chilometri.» «Sono olografie», spiegò Suzanne. «Ma non ne ho mai viste con i colori così vividi, naturali. E colpiscono ancora di più, considerato l'ambiente in cui si trovano, che per il resto è tutto bianco.» «Sembrano rappresentare tutti delle scene dell'antica Grecia», commentò Perry. «Chiunque siano i nostri tormentatori, per lo meno sono civilizzati!» «Andiamo, gente!» chiamò Donald, impaziente, che si trovava già sulla soglia alla fine del corridoio. «Dobbiamo prendere alcune decisioni tattiche.» «Decisioni tattiche», lo scimmiottò sottovoce Perry, rivolto a Suzanne. «Non abbandona mai questo modo di fare militaresco?» «Non tanto spesso», ammise lei. Il gruppo percorse tutta la lunghezza del corridoio e si fermò, impreparato alla scena che si ritrovò davanti. Dopo la serie di stanze simili ad ambienti industriali, la sontuosità di quella successiva costituì una vera sorpresa. L'arredamento era futuristico, con tanti specchi e marmi bianchi,
eppure aveva un'atmosfera calma e invitante. Lungo le due pareti più lunghe erano disposti diversi letti a baldacchino dalle coperte di cashmere bianco. Cinque di essi avevano il risvolto del lenzuolo ripiegato in modo invitante, e sul guanciale erano appoggiati degli indumenti puliti. Una delicata musica strumentale che si udiva in sottofondo completava l'atmosfera. Al centro della stanza campeggiava un tavolo lungo e basso, attorno al quale erano disposte delle specie di larghe poltrone da giardino fornite di tanti cuscini. La tavola era apparecchiata con una tovaglia bianca, piatti bianchi e posate d'oro; c'erano anche vassoi scaldavivande con il coperchio bombato e brocche contenenti bevande ghiacciate. «Se questo è il paradiso, io non sono pronto», commentò Perry, quando si fu ripreso abbastanza da parlare. «Non credo che in paradiso la pappatoria abbia un odorino così buono», gli fece notare Richard. «E mi sono appena accorto di essere più affamato che stanco.» Detto questo, fece per precipitarsi verso il tavolo, seguito a ruota da Michael. «Fermi!» ordinò Donald. «Non sono sicuro che dovremmo mangiare. Probabilmente il cibo è drogato o peggio.» «Lo pensi davvero?» Richard mostrò un'evidente delusione. Esitò, spostando lo sguardo avanti e indietro fra la tavola apparecchiata e il capo della missione. «E quegli specchi», aggiunse Donald, indicando la parete di fondo, «ci scommetterei che dall'altra parte c'è qualcuno che ci sta osservando. «E chi se ne frega, se ci trattano in questo modo?» ribatté Michael. «Io voto per mangiare.» Lo sguardo di Suzanne cadde sugli indumenti ripiegati appoggiati su ogni letto. Prima non li aveva notati: essendo bianchi come tutto il resto, si confondevano con lenzuola e coperte. Si accostò al letto più vicino, sollevò gli indumenti e, tenendoli con entrambe le mani, li scosse per distenderli. Erano due semplici capi: una tunica dalle maniche lunghe, aperta sul davanti, e un paio di calzoncini corti. Erano entrambi di satin di seta bianco e, curiosamente, non avevano cuciture. «Accidenti, dei pigiami!» esclamò Suzanne. «Davvero premuroso da parte loro!» Senza un attimo di esitazione, infilò i calzoncini. Vennero coperti dalla tunica, che era di una taglia abbondante e arrivava alle ginocchia. Si chiudeva sul davanti con una cordicella dorata e ai lati aveva numerose tasche.
Vedendo Suzanne vestirsi, in tutti gli altri si risvegliò l'imbarazzo per la propria nudità. Si affrettarono quindi ad afferrare gli indumenti sui letti e a infilarseli. Michael si rimirò negli specchi sulla parete di fondo, commentando: «Non sono un gran che, ma sono comodi». Richard rise di lui. «Sembri una checca!» «Invece tu no, coglione!» sbottò Michael. «Basta!» abbaiò Donald. «Non dobbiamo litigare fra noi. Risparmiatevi per chiunque dovremo affrontare. A proposito, direi di istituire dei turni di guardia.» «Di che diavolo sta parlando?» chiese Richard. «Questa non è una specie di esercitazione militare. Io adesso mangio e poi vado a stendermi. Non farò proprio nessun turno di guardia.» «Siamo tutti stanchi», ammise Donald, «ma c'è una porta da prendere in considerazione, sulla quale non abbiamo il minimo controllo.» Gli sguardi di tutti si puntarono sulla porta che si trovava all'altra estremità della stanza, rispetto alla parete con gli specchi. Era bianca come tutto il resto e non aveva né maniglia né catenaccio né cardini. «Dobbiamo rimanere vigili», insisté Donald. «Non voglio che i russi o chiunque siano si introducano qui dentro di soppiatto e facciano di noi ciò che vogliono.» «A giudicare dal daffare che si sono dati, tra il cibo, i vestiti e i letti, non credo che la tua paranoia sia giustificata», lo contraddisse Suzanne. «E pensavo avessimo deciso che non si tratta dei russi.» «Be', voi state pure a discutere di questo», intervenne Richard, poi si avvicinò alla tavola e sollevò il coperchio di uno scaldavivande. L'appetitoso aroma riempì tutta la stanza. «Che cos'è?» domandò Michael e si chinò a curiosare. «Non ne ho la minima idea», rispose Richard e sollevò il cucchiaio. Il cibo fumante era color crema e aveva una consistenza pastosa, come una farinata. «Ehi, sembra una crema di cereali e ha un profumino dannatamente buono.» Portò il cucchiaio alle labbra e assaggiò. «Che mi venga un accidente! Come facevano a saperlo? Ha il sapore della cosa che preferisco: bistecca di manzo!» Anche Michael ne assaggiò un poco. «Bistecca? Ma sei impazzito? Sa di patata dolce.» «Va' a quel paese, tu e le tue patate dolci!» si lagnò Richard. Prese posto su una delle comode poltrone e si mise nel piatto un'abbondante porzione
del cibo misterioso. «Stai sempre a parlare di patate dolci.» Michael gli si sedette dirimpetto e si servì anche lui. «Ehi, scusami!» ribatté in tono sarcastico. «Si dà il caso che le patate dolci mi piacciano.» Anche Suzanne e Perry si avvicinarono alla tavola, incuriositi dal battibecco. Avevano entrambi una fame irresistibile. Suzanne fu la prima, fra i due, ad assaggiare il cibo. «È incredibile: sa di mango!» esclamò. «Difficile da credere», osservò Perry, «dato che per me ha il sapore del granoturco fresco mangiato direttamente dalla pannocchia.» Suzanne assaporò un'altra cucchiaiata. «Per me è mango, senz'ombra di dubbio. Forse è fatto in modo da ingannare il nostro cervello perché associ il sapore a quello dei nostri cibi preferiti.» Si era incuriosito perfino Donald. Si avvicinò al tavolo e fece un minuscolo assaggio, poi scosse la testa incredulo. «Per me, sa di biscotti: biscotti freschi al latticello.» Detto questo, si accomodò anche lui su una poltrona. «Immagino di aver fame come tutti voi.» Ognuno si servì di varie quantità di cibo e trovò difficile resistere alla tentazione di fare il bis. Anche la bevanda ghiacciata faceva lo stesso effetto: aveva un sapore diverso per ognuno, a seconda di quali fossero le sue preferenze. Appena la fame smodata si fu placata, furono tutti assaliti nuovamente dalla stanchezza e dal sonno, che si fecero sentire più di prima. Lottando per tenere gli occhi aperti, si alzarono da tavola e andarono ognuno a distendersi su un letto. Appena si infilarono sotto le coperte, tutti, tranne Donald, scivolarono immediatamente in un sonno profondo molto simile al letargo. Donald lottò invano nella speranza di mantenersi sveglio, ma fu impossibile. Nel giro di qualche minuto anche lui si era addormentato. Nel momento in cui chiuse gli occhi, sui baldacchini comparvero minuscole luci rosse e sotto ognuno di essi si allargò un alone violetto che avvolse chi stava sdraiato sul letto. 8 Le lucine rosse sopra i letti divennero momentaneamente verdi e l'alone violetto svanì. Un attimo dopo, anche le luci verdi si spensero. Perry fu il primo a risvegliarsi. Non si trattò di un passaggio graduale dal sonno alla veglia, ma di un cambiamento improvviso che lo riportò di botto alla piena consapevolezza. Per qualche secondo fissò il baldacchino che
lo sovrastava, cercando di porre la strana struttura in un contesto plausibile e di orientarsi. Non ci riuscì. Si aspettava di trovarsi nella cabina dei VIP a bordo della Benthic Explorer, ma quello non era il suo soffitto. Era confuso, ma appena voltò la testa gli tornò tutto in mente. Non era stato un sogno. L'orribile caduta dell'Oceanus nelle insondabili profondità marine si era verificata davvero. Accanto al suo letto, tanto vicino da potervi arrivare con la mano, si ergeva un semplice attaccapanni nero a stelo. Vi era appeso un completo di satin bianco composto da pantaloni e tunica, simile a quello che indossava... Ma lo indossava veramente? Si accorse di avere l'impressione di essere nudo, sotto la coperta. Ne sollevò l'orlo e verificò che non solo era nudo, ma aveva attorno all'ombelico gli stessi piccoli fori che aveva notato su Richard e Michael quando erano emersi dalle sfere. Si lasciò scappare un grido strozzato, poi balzò giù dal letto per esaminare le ferite con maggiore attenzione. Allargò con le dita la pelle della pancia e si accorse che non erano profonde e inoltre non facevano male, per fortuna. E, cosa più importante, sembravano rimarginate. Mentre digeriva questa scoperta, ebbe un altro choc: le gambe e l'inguine erano nuovamente ricoperti di peli. Si ispezionò l'avambraccio e vide che i peli erano tornati anche lì. Alla fine si portò una mano alla testa e sorrise. A quel punto afferrò i vestiti dall'attaccapanni e se li infilò, mentre intanto attraversava la stanza in tutta la sua lunghezza. La propria immagine riflessa nello specchio lo fece quasi svenire. I capelli, lunghi circa due dita, erano folti e scuri come all'epoca del liceo. Si sentì come se avesse scoperto la fonte dell'eterna giovinezza. Sentì che gli altri cominciavano a muoversi e si voltò: Donald e Suzanne si stavano infilando i vestiti, mentre Richard e Michael erano seduti sull'orlo del letto, si guardavano attorno inebetiti e tenevano in grembo gli indumenti ancora piegati. «Proprio come pensavo», commentò Donald, rivolto a nessuno in particolare. «Lo sapevo che quei bastardi sarebbero venuti qui a farci delle cose mentre dormivamo. Per questo volevo istituire i turni di guardia.» «Non è poi così male», obietto Perry, staccandosi dagli specchi e avvicinandosi. «Abbiamo di nuovo peli e capelli! La mia chioma è più folta di quando l'ho perduta.» «Anch'io ho notato i miei capelli», replicò Suzanne, meno entusiasta di lui. «Non sei eccitata?»
«Li preferivo della lunghezza che avevano ieri... o meglio, tre giorni fa.» «Che cosa intendi: tre giorni fa?» «Ieri era il ventun luglio, giusto?» «Credo di sì.» Perry non ne era tanto sicuro, a causa del volo per le Azzorre. «Ebbene, il mio orologio, che qualcuno mi ha tolto dal polso ma è stato gentile da lasciare qua, dice che adesso è il ventiquattro.» L'orologio di Suzanne era stato l'unico a resistere al gas: il cinturino d'oro non si era dissolto. «Forse chi te lo ha tolto ha messo avanti la data», provò a supporre Perry. L'idea di aver dormito per tre giorni aveva un che di inquietante, a dir poco. «È possibile, ma dubito che sia andata così. Voglio dire, perché ci siano cresciuti così tanto i capelli devono essere passati più di tre giorni. Forse abbiamo dormito per un mese e tre giorni.» Perry rabbrividì. «Un mese? Non riesco a immaginarlo. E poi, la ricrescita deve essere la conseguenza di qualche trattamento speciale. I miei capelli sono tornati agli splendori di quando avevo quattordici anni. Ti dirò una cosa: come uomo d'affari, darei non so che cosa per scoprire il segreto. Te lo immagini! Che prodotto!» «A me non hanno certo fatto un favore», commentò Donald, stizzito. «Non voglio capelli sulla testa.» «Avete notato le piccole ferite sulla pancia?» chiese Suzanne. Tutti e due annuirono. «Credo che ci abbiano collegati a un sistema di sopravvivenza di qualche tipo, forse come quello che hanno usato per i sub, quando erano dentro a quelle sfere.» «Sì, l'ho pensato anch'io», confermò Perry. «Suppongo che fosse necessario qualcosa, se siamo rimasti come in letargo così a lungo.» «Ehi, voi due state bene?» chiamò Suzanne verso Richard e Michael, che stavano finendo di vestirsi. «Io sto bene», rispose Richard, «tranne per il fatto che speravo che questo fosse tutto un sogno.» «Drogarci è in violazione della Convenzione di Ginevra!» brontolò Donald. «Siamo dei civili! Potrebbero averci iniettato qualsiasi cosa... l'AIDS, o il siero della verità.» «In realtà, io mi sento proprio bene», lo contraddisse Perry. Fletté le braccia e stirò le gambe. Era come se tutto il suo corpo fosse stato ringio-
vanito. «Anch'io», affermò Michael. Si fletté fino a toccarsi la punta dei piedi, poi saltellò in una specie di corsa da fermo. «Mi sento come se potessi nuotare per venti miglia.» «Io ho di nuovo i capelli, però la barba è sparita», si lagnò Richard. «Spiegatemelo un po'!» Gli altri uomini si sfregarono il mento e scoprirono che anche loro non avevano accenno di barba. «La cosa si sta facendo sempre più interessante», osservò Perry. «Io direi che si sta facendo sempre più surreale», replicò Suzanne, osservandogli attentamente le guance. Prima erano ricoperte dalla tipica ombra di chi ha una barba che ricresce in fretta, adesso sembravano quelle di un bambino. «Tenetevi forte, ragazzi!» avvertì Richard, indicando la porta sulla parete di fronte agli specchi. «Sembra che stanno per lasciarci uscire dalla gabbia.» Tutti fissarono la porta che si stava aprendo silenziosamente. Oltre di essa si scorgeva un altro lungo corridoio bianco con olografie incorniciate. La luce che giungeva dalla sua estremità era vivida e naturale. «Sembra la luce del giorno», commentò Suzanne. «Non può essere», la contraddisse Donald, «a meno che non ci abbiano spostati, in qualche modo.» Perry sentì un brivido lungo la spina dorsale. L'intuito gli diceva che tutte le esperienze strane vissute fino a quel momento erano solo un preambolo a ciò che sarebbe accaduto fra pochi minuti. Il problema era che non aveva idea di che cosa fosse. Richard si avvicinò alla porta che si era aperta per guardare meglio. Si riparò gli occhi dalla luce vivida che si rifletteva contro le lucide pareti bianche. «Vedi qualcosa?» gli domandò Suzanne. «Non molto. All'altra estremità dà su uno spazio e si vede un muro di fronte. Dev'essere a cielo aperto. Andiamo!» «Aspetta un minuto!» lo fermò Suzanne, poi si rivolse a Donald. «Che cosa ne dici? Dovremmo andare? È ovvio che i nostri anfitrioni si aspettano che lo facciamo.» «Penso di sì, ma in gruppo. Dovremmo restare uniti, per quanto ci è possibile, e forse anche scegliere una persona che parli per tutti noi, se incontriamo chi ci tiene prigionieri.»
«Giusto, io nomino Perry.» «Io?» squittì il prescelto. Si schiarì la gola e aggiunse: «Perché io? Il comandante è Donald». «Vero, ma tu sei il presidente della Benthic Marine. Chiunque sia a trattenerci qua, apprezzerà il fatto che tu parli con una certa autorità, soprattutto a proposito delle operazioni di trivellazione.» «Pensi che il motivo per cui siamo quaggiù sono le trivellazioni?» «Mi è passato per la testa, sì.» «Comunque, Donald è stato un militare», gemette Perry. «Io no. E se questa fosse davvero una base militare russa?» «Penso che andiamo sul sicuro a supporre che non lo sia», dichiarò convinta Suzanne. «Non è completamente fuori questione.» Donald insisteva nella sua idea. «Però ritengo comunque che Perry sia un'ottima scelta. Questo mi darà la possibilità di valutare meglio la situazione, specialmente se le cose dovessero prendere una piega ostile.» «Richard! Michael!» chiamò Suzanne. «Voi avete un'idea su chi dovrebbe parlare per noi?» «Sono convinto che dovrebbe essere il boss», confermò Michael. Richard si limitò ad annuire, impaziente com'era di proseguire. «Allora è deciso», concluse Suzanne e fece cenno a Perry di inoltrarsi lungo il corridoio. «Va bene!» esclamò lui, con maggiore baldanza di quanto sentisse di avere. Strinse la cordicella dorata attorno alla tunica, raddrizzò le spalle e si diresse verso il corridoio. Richard gli rivolse uno sguardo condiscendente, si tirò da parte per farlo passare e lo seguì a ruota. Gli altri li seguirono in fila indiana. Nell'avvicinarsi alla fine del corridoio, Perry rallentò. Era più che convinto che fosse la luce del sole a riversarvisi dentro, poiché ne sentiva anche il calore. Secondo lui, l'apertura dava su uno spazio a cielo aperto, simile a un minuscolo cortile largo non più di due metri quadrati, racchiuso da mura. Percorsi altri due metri, si fermò e Richard gli andò addosso. «Che cosa c'è?» domandò Suzanne, e oltrepassò Richard. Perry non rispose perché non lo sapeva nemmeno lui esattamente come mai si fosse fermato. Lentamente si sporse in avanti in modo da avere una visuale migliore del muro di fronte. Cercava di vedere quanto fosse alto, ma da dove si trovava non era possibile, quindi fece un altro passo avanti e questa volta ci riuscì. Calcolò che l'altezza del muro fosse di circa quattro
metri e mezzo. Sulla sommità scorse piedi, caviglie, polpacci nudi e gli orli di vestiti identici a quelli che portavano loro. Si raddrizzò e si voltò verso i compagni. «In cima al muro che abbiamo di fronte c'è della gente», sussurrò. «Sono vestiti come noi.» «Davvero?» esclamò Suzanne e cercò di guardare a sua volta, ma era troppo indietro. «Non posso esserne del tutto sicuro, però mi sembra che indossino gli stessi indumenti di satin leggero che portiamo noi.» Come tutti gli altri, aveva pensato che lo strano completo bianco fosse una specie di uniforme da prigionieri. «Forza!» lo spronò Richard, che adesso era ancora più impaziente. «Voglio vedere anch'io. Andiamo!» «Perché dovrebbero vestirsi come antichi greci?» chiese Suzanne a Donald. Lui si strinse nelle spalle. «Non so che dirti. Usciamo e guardiamo con i nostri occhi.» Perry guidò il gruppetto all'aperto e, riparandosi gli occhi con una mano contro il chiarore, sollevò lo sguardo. Ciò che vide lo stupì al punto da fermarsi di botto e rimanere a bocca aperta. Suzanne andò a sbattere contro di lui e gli altri le si assieparono contro, egualmente sbalorditi. Si ritrovavano in una specie di cortile compreso fra quattro mura. A circa quattro-cinque metri sopra di loro c'era una loggia riparata dai vetri, con una balaustra di marmo e colonne scanalate i cui capitelli erano decorati con bassorilievi dorati di creature marine. Dalla parte di fronte al cortile, la loggia era stipata di gente premuta contro il vetro che guardava verso il basso, immobile e senza parlare, ma con evidente curiosità. Come aveva notato Perry poco prima, indossavano tutti gli stessi ampi indumenti di satin che comprendevano tunica e pantaloni corti. Perry non si era formato un'immagine specifica delle persone che avrebbe incontrato, ma ciò che si trovava davanti andava al di là di ogni immaginazione. Credeva che indossassero austere uniformi e aveva visto morbidi completi di satin, si aspettava espressioni severe se non addirittura ostili, e invece si ritrovò a fissare il più bell'insieme di persone che avesse mai visto, i cui visi emanavano una serenità quasi divina. Anche se le età variavano ed erano presenti sia bambini in tenera età sia vigorosi vegliardi, la maggioranza era rappresentata da giovani fra i venti e i venticinque anni. Ognuno di loro sembrava il ritratto della salute, con il corpo snello, gli occhi vividi, i capelli lucenti e i denti talmente bianchi che Perry considerò i
propri gialli, al confronto. «Non ci credo!» farfugliò Richard, quando ebbe assimilato ciò che aveva davanti. «Chi è questa gente?» chiese Suzanne, tenendo la voce bassa come se avesse soggezione. «Non ho mai visto un gruppo di persone più meravigliose», riuscì a dire Perry. «Ognuno singolarmente. Non c'è nemmeno uno di loro che abbia un aspetto qualsiasi.» «Io mi sento come se noi facessimo la parte dei topi, in un enorme esperimento», commentò Donald, sottovoce. «Guardate come ci fissano! E ricordate: l'apparenza inganna! Tenete a mente che queste persone ci hanno usati come giocattoli per divertirsi. Tutta questa esibizione dev'essere una specie di trappola.» «Però sono di una bellezza stupefacente», obiettò Suzanne, mentre si voltava lentamente per vederne il più possibile. «In particolare i bambini, e perfino gli anziani. Come potrebbe essere una trappola? Comunque, una cosa te la posso dire di sicuro: vedere questa gente manda definitivamente in soffitta l'idea della base segreta russa.» «Be', però non sono nemmeno americani», osservò Perry. «Fra loro non ce n'è nemmeno uno sovrappeso.» «Questo dev'essere il paradiso», sussurrò Michael. «Io penso che assomigli di più a uno zoo», sbottò Donald. «La differenza è che qui gli animali siamo noi.» «Cerca di pensare a qualcosa di positivo», gli suggerì Suzanne. «Io, devo dire, mi sento sollevata.» «Be', una cosa di buono c'è», ammise Donald. «Non vedo armi.» «Hai ragione!» esclamò Perry. «Decisamente incoraggiante.» «Naturalmente, non hanno bisogno di armi, con noi imprigionati quaggiù e loro lassù in alto.» «Sì, anche questo è vero. Che cosa ne pensi, Suzanne?» «Io non riesco a pensare», rispose lei. «Tutta quest'esperienza continua a essere troppo surreale. Quello che si vede lassù è un pezzo di cielo?» «Sembra proprio di sì», le rispose Perry. «Secondo voi c'è la possibilità che siamo stati trasportati a est quando l'Oceanus è precipitato giù per il condotto? Voglio dire, potremmo trovarci su una qualsiasi delle Isole Azzorre?» «L'unico modo in cui lo scopriremo è se loro decideranno di dircelo», le fece notare Donald.
«Chi se ne frega dove siamo?» intervenne Michael. «Guardate le donne: che corpi! Sono vere o ce le immaginiamo soltanto?» «Questa è un'idea interessante», commentò Suzanne. «La notte scorsa... o comunque, quella in cui abbiamo mangiato, il cibo aveva il sapore di ciò che noi desideravamo. Potrebbe essere la stessa cosa per la vista? Voglio dire, è un altro senso. Forse stiamo vedendo ciò che desideriamo vedere.» «Per me, è troppo lontano anche solo da prendere in considerazione», dichiarò Perry. «Mai stato un grande credente nel soprannaturale.» «Ehi, ma a chi cavolo importa?» si fece sentire Richard. «Guardate quella pollastrella con i capelli lunghi, castani: che linea! Ehi, mi sta guardando!» Le rivolse un ampio sorriso e agitò una mano con entusiasmo. La donna gli restituì il sorriso e sollevò una mano, premendola contro il vetro. «Ehi!» Richard era al settimo cielo. «Le piaccio!» Le mandò dei baci, il che fece sorridere la donna ancora di più. Incoraggiato dal successo dell'amico, Michael incrociò il proprio sguardo con quello di una donna dai lucenti capelli corvini. Lei gli rispose ponendo una mano contro il vetro, come aveva fatto la "conquista" di Richard. Michael impazzì di gioia e si mise a saltellare e ad agitare freneticamente entrambe le mani. La donna reagì ridendo di cuore, anche se non si udiva il suono delle risate a causa del vetro. Suzanne distolse lo sguardo dalla loggia e si rivolse a Donald. «Non vedo alcun segno di ostilità. Sembrano tutti talmente pacifici!» «Probabilmente è solo un trucco», replicò lui. «Un modo di prenderci alla sprovvista.» Perry distolse riluttante lo sguardo da quella gente bellissima per consultarsi con Suzanne e Donald. I due sub, intanto, continuavano le loro buffonate a beneficio delle due donne. Stavano cercando di inventare lì per lì un linguaggio dei segni. «Che cosa facciamo?» domandò Perry. «A me personalmente non piace stare qui in mostra», rispose Donald. «Suggerirei di ritornare agli alloggiamenti e aspettare di vedere che cosa succede. È evidente che giocano in casa. Facciamoli venire nel nostro spogliatoio, tanto per mantenere la metafora sportiva.» «Ma chi è questa gente?» chiese Suzanne. «È stranissima, sembra un film di fantascienza.» Perry stava per rispondere, quando le parole gli morirono in gola. Puntò il dito oltre le spalle dei suoi due interlocutori: una delle alte mura del cor-
tile si stava aprendo misteriosamente, mostrando una rampa di scale che portava alla loggia. «Ebbene», esclamò Suzanne. «Come hai detto tu, Donald, hanno la palla nella loro metà campo, e penso che ci stiano invitando a un incontro faccia a faccia.» «Che cosa dobbiamo fare?» domandò Perry, nervoso. «Io credo che dovremmo salire», rispose Donald. «Però procediamo lentamente e rimaniamo uniti. E, Perry, sarai tu a parlare, come avevamo deciso.» Richard e Michael non si erano accorti dell'improvvisa apparizione della scala, impegnati com'erano a comunicare a gesti, gesti che ormai stavano rasentando la stupidità. Di sopra, la folla rispondeva con allegria alle loro pagliacciate e questo li incoraggiava a continuare. Quando però videro la rampa di scale, vi si precipitarono: entrambi non vedevano l'ora di intrattenere contatti più ravvicinati con le loro nuove amiche. «Fermi!» abbaiò Donald, spostandosi per bloccare la loro corsa. «Mettetevi in fila! Saliremo in gruppo, e il signor Bergman parlerà per tutti noi.» «Ma io devo incontrare quella brunetta», obiettò Richard, impaziente. «E io quella delizia dai capelli corvini», aggiunse Michael, ansante. Entrambi cercarono di superare Donald, il quale li afferrò per le braccia, uno per parte, come se avesse due morse al posto delle mani. I due fecero per protestare, ma cambiarono idea nel vedere la sua espressione. L'ex ufficiale di marina aveva le narici allargate e le labbra premute in una linea sottile, che trasmetteva una ferrea determinazione. «Suppongo di poter aspettare qualche minuto», borbottò Richard. «Già, certo, ci sarà tempo», si associò Michael. Donald li lasciò andare e fece cenno a Perry di mettersi alla testa del gruppo. Quando cominciò a salire le scale, Perry si accorse di sentirsi più sicuro di sé rispetto a quando si trovava nel corridoio. Ritrovarsi davanti a un gruppo misto di persone che indossavano quella specie di pigiami era molto meno intimidente rispetto alle vaghe idee che aveva poco prima. Però, la singolarità di quella situazione minò la sua sicurezza, a mano a mano che procedeva. Si ritrovò a chiedersi se Michael non avesse ragione sul fatto che l'intera scena a cui assistevano non fosse un'allucinazione collettiva e quindi un'elaborata trappola, come aveva suggerito Donald. Ma poi la sua natura normalmente ottimistica ebbe il sopravvento: non riusciva a pensare a un motivo razionale per architettare una trappola del genere, considerato
che quella gente, chiunque fosse, non aveva bisogno di trappole, dato che aveva già completamente in pugno la situazione. La piccola folla dei belli, come lui li chiamava durante le sue confuse elucubrazioni, si era inizialmente raggruppata in cima alle scale, come fosse composta di adolescenti che aspettano l'arrivo di una rockstar. Ma poi, quando i cinque accorciarono le distanze, si ritrasse. Anche questo fu motivo di confusione per Perry, infatti il modo in cui si erano tirati indietro sembrava dettato dal timore, o per lo meno dalla precauzione che si può mostrare davanti a un animale addomesticato, ma potenzialmente feroce. Perry salì l'ultimo gradino e si fermò. A circa tre metri da lui la folla dei belli era disposta a semicerchio. Nessuno si muoveva. Nessuno parlava. Nessuno sorrideva. Lui si era aspettato che sarebbero stati loro a parlare per primi e non si era preparato a dover avviare la comunicazione, ma alla fine si decise a rompere quel silenzio che stava diventando sempre più imbarazzante con un esitante «ciao». Il suo saluto scatenò qualche risatina, ma niente di più. Allora si voltò verso i compagni, in cerca di qualche suggerimento. Suzanne si strinse nelle spalle e Donald lo fissò senza proporre nulla, con un'espressione molto meno fiduciosa della sua. Perry si rivolse di nuovo alla folla. «Qualcuno di voi parla inglese?» domandò, preso dalla disperazione. «Magari un po' di spagnolo?» Lui lo parlava un pochino. Una coppia fece un passo avanti. Dimostravano entrambi sui venticinque anni ed erano, come gli altri, di una bellezza sconvolgente. Avevano lineamenti perfetti, quasi fossero l'archetipo della bellezza umana, che gli ricordarono alcuni ritratti visti su antichi cammei. L'uomo aveva i capelli biondi, mediamente lunghi, e gli occhi di un celeste intensissimo. La donna aveva una chioma di un rosso acceso, dalla marcata attaccatura a V. Gli occhi verdi sembravano due smeraldi. Entrambi avevano un incarnato roseo, luminoso, senza il minimo difetto. A Los Angeles non ci sarebbero stati dubbi: sarebbero diventati tutti e due stelle del cinema. «Salve, amici, come state?» domandò l'uomo, con un perfetto accento americano. «Non abbiate paura, nessuno vi farà del male. Io sono Arak e questa è Sufa.» Indicò la donna che gli stava accanto. «Anch'io ho piacere di salutarvi: ciao!» disse Sufa. «Come vi piace essere chiamati?» Perry era rimasto sorpreso nell'udire un inglese così perfetto uscire dalle
loro bocche. Era stranamente rassicurante udire qualcosa di tanto familiare, considerata la serie di cose bizzarre che erano successe dal momento in cui l'Oceanus aveva cominciato ad affondare. «Chi siete?» riuscì a chiedere. «Noi siamo gli abitanti di Interterra», rispose Arak. La sua stentorea voce baritonale non era dissimile da quella di Donald. «E dove diavolo è Interterra?» Senza che lui lo volesse, la voce di Perry era uscita con una vena di asprezza. Gli era venuto in mente all'improvviso che tutta quella messa in scena fosse una specie di scherzo elaborato, piuttosto della trappola temuta da Donald. «Vi prego!» esclamò Arak con sollecitudine. «Lo so che siete confusi ed esausti, e di certo avete il tutto il diritto di esserlo, dopo ciò che avete passato. Ci rendiamo conto di quanto possa risultare ardua la procedura di decontaminazione, quindi vi prego di rilassarvi. Vi aspettano tante cose eccitanti.» «Siete degli americani espatriati?» Arak e Sufa si portarono una mano alla bocca nel vano tentativo di contenere le risate e tutti quelli che erano abbastanza vicini a Perry per udirlo fecero la stessa cosa. «Ti prego di scusare le nostre risa», disse Arak. «Non vogliamo essere scortesi. Noi non siamo americani. Noi interterrani conosciamo piuttosto bene la vostra lingua. L'inglese in tutte le sue varianti è la specialità mia e di Sufa.» Suzanne si avvicinò a Perry e gli sussurrò all'orecchio: «Chiedigli di nuovo dov'è Interterra». Perry lo fece. «Interterra è al di sotto dell'oceano», rispose Arak. «Si trova in un vuoto fra ciò che voi chiamate la 'crosta' e il 'mantello' della terra. È una zona che i vostri sismologi hanno denominato 'discontinuità di Mohorovičič'.» «Questo è un mondo sotterraneo?» balbettò Suzanne e sollevò stupefatta lo sguardo verso quello che sembrava un lembo di cielo illuminato dal sole. «È più corretto sottomarino», intervenne Sufa. «Ma prego... sappiamo che avrete tante domande. Avranno una risposta a tempo debito. Per il momento vorremmo graziosamente implorare la vostra longanimità.» «Che cos'è la longanimità?» domandò Richard. «Significa pazienza», gli spiegò Sufa sorridendo con grazia. «Ma dobbiamo sapere come rivolgerci a voi», insisté Arak.
«Io sono Perry, presidente della Benthic Marine», rispose Perry, indicandosi il petto, poi identificò gli altri con nome e cognome. Arak fece un passo avanti e si presentò direttamente a Suzanne. La sovrastava di tutta la testa. Tese il braccio, tenendo la mano con il palmo rivolto verso di lei. «Forse mi farai l'onore del saluto interterrano?» le chiese. «Premi il tuo palmo contro il mio.» Lei esitò e lanciò qualche occhiata furtiva verso Donald e Perry, prima di decidersi. La sua mano era molto più piccola di quella di Arak. «Benvenuta, dottoressa Newell», la salutò formalmente Arak, quando le loro mani si furono unite. «Siamo particolarmente onorati che sia venuta a farci visita.» Eseguì un inchino e ritrasse la mano. «Be', grazie», replicò Suzanne. Era confusa ma allo stesso tempo lusingata per essere stata scelta per un benvenuto individuale. Arak fece un passo indietro. «Ora, miei onorati ospiti, verrete accompagnati ai vostri appartamenti», annunciò, «che spero troverete confortevoli.» «Aspetta un momento, Arak!» lo chiamò Richard, sollevandosi sulla punta dei piedi. «Da qualche parte, qua attorno, c'è una magnifica brunetta che muore dalla voglia di conoscermi.» «E c'è una bellezza dai capelli neri che vorrei incontra re», aggiunse Michael. I due sub avevano scrutato la folla alla ricerca delle due donne fin da quando erano arrivati alla sommità delle scale, ma non erano riusciti a scorgerle. «Ci sarà tantissimo tempo per socializzare», rispose Arak, «ma adesso è importante che andiate nelle vostre stanze, poiché dovete ancora mangiare e lavarvi appropriatamente. Più tardi ci sarà una festa di gala per il vostro arrivo alla quale speriamo che parteciperete tutti. Quindi, vi prego di seguirmi.» «Basteranno un paio di minuti», gli assicurò Richard, e compì un passo in avanti, con l'intenzione di oltrepassare lui e Sufa e mescolarsi alla folla. Donald però lo afferrò ancora una volta per il braccio, con la stessa forza mostrata quando erano ancora di sotto. «Datti una calmata, marinaio!» ringhiò sottovoce. «Rimaniamo insieme, capito?» Richard gli lanciò un'occhiataccia e avrebbe voluto dirgli di piantarla. Era così vicino a mettersi in contatto con quella donna stupenda, che era difficile negarsi un piacere. L'autocontrollo non era mai stato il suo forte.
Ma, anche questa volta, lo sguardo di Donald fu sufficiente a fargli cambiare idea. «Be', mandar giù qualcosa non è una cattiva idea», borbottò per salvare la faccia. «Farai meglio a restare in fila, fratello», lo avvertì Donald, «altrimenti tu e io finiremo con un corpo a corpo.» «Tanto per la cronaca», ribatté Richard, «non mi fa certo paura.» 9 Suzanne poneva un piede davanti all'altro nel seguire Arak e Sufa, ma li sentiva privi di una buona presa, come se non si posassero saldamente a terra. Non erano propriamente vertigini, ma qualcosa di simile. Aveva sentito il termine psichiatrico depersonalizzazione e si chiedeva se ciò che le accadeva in quel momento ne fosse una variante. Tutto ciò che stava sperimentando era talmente surreale! Le sembrava di essere in un sogno, anche se i suoi sensi erano coinvolti in modo tangibile: vedeva, percepiva gli odori e udiva i suoni come al solito. Nient'altro, però, aveva senso. Come potevano trovarsi sotto l'oceano? Essendo un'oceanografa geofisica, sapeva benissimo che la discontinuità di Mohorovičič era il nome dato a uno strato specifico in cui si verificava un cambiamento improvviso nella velocità del suono o delle onde sismiche. Era situata approssimativamente fra i cinque e i dieci chilometri sotto il fondo dell'oceano e a circa trentacinque chilometri sotto i continenti. Sapeva anche che aveva preso il nome dal sismologo serbo che l'aveva scoperto. Ma, nonostante avesse un nome, nessuno aveva un'idea di che cosa rappresentasse quello strato. Per quanto ne sapeva lei, nessun sismologo o oceanografo aveva mai preso in considerazione l'idea che fosse un'enorme caverna piena d'aria, idea troppo insensata per venire in mente agli scienziati. «Prego, comportatevi verso gli umani secondari con la cortesia che si meritano!» Così Arak esortò i propri compagni mentre guidava il gruppetto in mezzo a loro. «Indietreggiate e lasciateci spazio!» Gli interterrani obbedirono silenziosamente. «Prego!» invitò quindi Suzanne e gli altri, indicando lo spazio vuoto che si era creato. Li precedette e fece un cenno affinché lo seguissero. «Appena abbandoneremo la sala riservata agli arrivi degli stranieri, avremo solo un breve percorso per raggiungere i vostri appartamenti.»
Come se stesse guardando se stessa in un film, Suzanne avanzò tra le due ali di folla. Percepiva dietro di sé la presenza di Perry e sapeva che dietro venivano Donald e i due sub. La situazione non le faceva più paura. Gli interterrani dispensavano grandi sorrisi e accennavano a timidi, quasi furtivi, gesti di saluto. Non poté trattenersi dal sorridere a sua volta. Tutto questo sta davvero accadendo? continuava a chiedersi mentre seguiva Arak. È un sogno? Eppure non aveva dubbi che sotto i piedi nudi sentiva il freddo del marmo e sulle guance la carezza di un delicato venticello. In un sogno, per quanto realistico, non aveva mai percepito simili dettagli sensoriali in tutta la loro vividezza. Sufa si voltò verso di lei. «Avrai notato che siete delle vere celebrità. Gli umani di seconda generazione sono davvero popolarissimi. Siete tutti talmente stimolanti! Farò meglio ad avvisarvi che sarete molto richiesti.» «Che cosa intendi con 'umani di seconda generazione'?» volle sapere Suzanne. «Suvvia, Sufa, ricorda ciò che abbiamo deciso!» Così Arak rimproverò la sua compagna. «Questi ospiti saranno introdotti più lentamente alla conoscenza del nostro mondo di quanto è avvenuto con gli altri in passato.» «Va bene», obbedì Sufa. Poi, rivolta a Suzanne, aggiunse: «Discuteremo di tutto a tempo debito e risponderemo a tutte le vostre domande, ve lo prometto». Il gruppetto emerse ben presto in una spaziosa veranda che si apriva su una caverna sotterranea così meravigliosamente immensa da dare l'impressione di trovarsi all'aperto. Anche la luce era quella del giorno, anche se non c'era il sole. Il soffitto a cupola era celeste come il cielo in un'afosa giornata estiva. Qualche nube leggera si spostava pigramente, mossa dalla brezza. La veranda si trovava sul lato di un edificio situato al margine di una città. Dalla balaustra si godeva una vista bucolica che comprendeva dolci colline, una vegetazione lussureggiante e, non molto distanti, dei laghi con alcune città sulle loro sponde. Gli edifici erano di basalto nero levigatissimo, che assumeva la forma di curve, cupole, torri e portici con colonnati classici. In lontananza si scorgeva una serie di montagne coniche ergersi da ampie basi a formare gigantesche colonne di sostegno su cui poggiava la cupola. «Potete aspettare solo un attimo?» si scusò Arak, poi disse qualcosa a bassa voce nel minuscolo microfono di uno strumento che teneva al polso. I cinque «umani di seconda generazione» erano ammaliati dall'inattesa
bellezza e dalle incredibili dimensioni di quel paradiso sotterraneo. Andava tutto al di là di ciò che la loro immaginazione avrebbe potuto evocare. Perfino i due sommozzatori erano senza parole. «Stiamo aspettando un veicolo a cuscino d'aria», spiegò Sufa. «Questa è Atlantide?» domandò Perry, che era rimasto a bocca aperta. «No!» Sufa sembrava leggermente offesa. «Questa città è Saranta. Atlantide si trova più a est. Ma non potete vederla da qui. È dietro quelle colonne che sostengono le protuberanze che voi chiamate Azzorre.» «Allora Atlantide esiste?» «Sì, certo. Personalmente, però, non la trovo gradevole quanto Saranta, nemmeno lontanamente. È una città giovane, creata da poco, e la gente è sfacciata, se devo esprimere il mio parere. Ma giudicherete da voi.» «Ah, eccoci!» esclamò Arak, quando alla base delle scale si materializzò un veicolo tondo, a cupola. Era arrivato così silenziosamente che lo aveva notato solo chi stava guardando in quella direzione. «Mi spiace che ci sia voluto così tanto tempo, dev'esserci stata una grande richiesta per qualche motivo. Ma prego, dopo di voi!» e indicò un portello che si era aperto miracolosamente. Il gruppetto scese le scale e salì a bordo del veicolo, sospeso immobile a circa un metro di altezza dal suolo. Aveva un diametro di quasi dieci metri e una cupola trasparente: assomigliava in tutto e per tutto agli UFO, così come vengono solitamente rappresentati. All'interno c'era una panca circolare dall'imbottitura rivestita di bianco, che circondava un tavolo nero centrale. Non si vedevano comandi. Arak fu l'ultimo a salire a bordo, dopo di che il portello sparì misteriosamente e silenziosamente com'era apparso. «Ah, succede sempre così!» si lamentò, dopo essersi guardato attorno. «Proprio quando cerchiamo di far colpo su di voi, ci danno uno dei veicoli più vecchi. Questo è praticamente alla fine della carriera.» «Smettila di lamentarti», lo apostrofò Sufa. «Questo veicolo è perfettamente funzionale.» Suzanne scoccò un'occhiata a Donald, che sollevò quasi impercettibilmente le sopracciglia. Lei si guardò attorno. Aveva tante di quelle domande da porre che non sapeva da dove cominciare. Arak pose una mano a palmo in giù al centro del tavolo nero e si chinò in avanti. «Palazzo dei visitatori», ordinò, poi si appoggiò allo schienale della panca e sorrise. Un attimo dopo lo scenario esterno cominciò a muoversi.
Suzanne allungò automaticamente una mano ad afferrare il bordo del tavolo, per reggersi, ma non ce n'era bisogno. Non si provava la sensazione del movimento, e anche il rumore era assente. Era come se il veicolo rimanesse fermo e la città si muovesse, mentre si sollevavano di una trentina di metri, prima di accelerare orizzontalmente. «Apprenderete ben presto a chiamare e usare queste specie di taxi», annunciò Arak. «Avrete tantissimo tempo per fare le vostre esplorazioni.» Diverse teste annuirono. L'equipaggio della Benthic Explorer era sopraffatto da tutto ciò che vedeva. Sembrava che stessero attraversando il centro di una metropoli piena di vita, con innumerevoli persone che andavano di qua e di là e migliaia di altri taxi che sfrecciavano in tutte le direzioni. Agli occhi di Suzanne, quel mondo pareva colmo di strane contraddizioni. La città e la tecnologia avanzata sembravano futuristiche, eppure gli alberi e la vegetazione evocavano i tempi preistorici. La flora le rammentava quella che aveva lussureggiato nell'era carbonifera, trecento milioni di anni prima. Ben presto i neri edifici di basalto a più piani lasciarono il posto a quella che sembrava una zona residenziale, meno densamente abitata, con prati, alberi e laghetti. Le folle sparirono, come pure gli sciami di taxi. Ora si vedevano solo persone isolate o a piccoli gruppi che camminavano nei parchi. Molti erano accompagnati da animaletti dall'aspetto curioso che a Suzanne fecero pensare a una combinazione tra cani, gatti e scimmie. Lo scenario cominciò a rallentare mentre si avvicinavano alla recinzione che comprendeva un magnifico palazzo e i terreni circostanti. La zona era dominata da un'ampia struttura centrale a cupola, sostenuta da nere colonne doriche scanalate. Disseminati all'interno della recinzione c'erano numerosi altri edifici più piccoli dalla forma ovale, anch'essi in basalto. Diversi sentieri serpeggiavano fra i laghetti cristallini, le distese dei prati e le macchie di felci lussureggianti. L'aerotaxi interruppe il suo viaggio in orizzontale e cominciò a scendere. Un attimo dopo il portello si aprì nel consueto modo. «Dottoressa Newell», annunciò Sufa, «questo sarà il tuo villino. Se non ti spiace, scendi a terra. Ti accompagnerò per assicurarmi che ti trovi a tuo agio.» Suzanne, in agitazione, spostò lo sguardo da Sufa a Donald. Non si era aspettata di venir separata dal gruppo e sapeva bene che Donald preferiva che rimanessero insieme. «E gli altri?» domandò. Intanto cercava di interpretare l'espressione di
Donald, senza riuscirci. «Arak provvederà alla loro sistemazione. Ognuno avrà il proprio bungalow.» «Speravamo di rimanere insieme», azzardò Suzanne. «Ma sarà così», la rassicurò Arak. «Questo palazzo e tutto il terreno circostante sono adibiti per voi visitatori. Consumerete i pasti assieme e, se qualcuno ha voglia di stare assieme nello stesso bungalow, la scelta dipenderà solo da voi.» Suzanne incrociò lo sguardo di Donald, il quale si strinse nelle spalle. Presumendo che questo la lasciava libera di decidere, sbarcò e Sufa la seguì. Un attimo dopo, il taxi attraversava il prato e si fermava davanti al villino vicino. «Vieni!» la esortò Sufa, che aveva già iniziato a percorrere il vialetto ma si era voltata accorgendosi che l'ospite non la seguiva. Suzanne distolse lo sguardo dal veicolo tondo e si affrettò a raggiungerla. «Tra non molto incontrerai di nuovo i tuoi amici e mangerete assieme», le assicurò Sufa. «Voglio solo accertarmi che la tua sistemazione sia accettabile. Inoltre, pensavo che prima di mangiare potresti aver voglia di fare una breve nuotata, tanto per rinfrescarti. È stato il mio primo desiderio, quando sono emersa dalle procedure di decontaminazione.» «Hai sperimentato anche tu ciò che abbiamo dovuto affrontare noi?» «Sì. Ma è stato tanto, tantissimo tempo fa. Diverse vite fa, in realtà.» «Come?» Suzanne pensava di non aver udito bene. La frase «diverse vite fa» non aveva senso. «Forza! Adesso devi sistemarti per bene. Le domande aspetteranno», la esortò Sufa e la prese per il braccio. Salirono insieme i pochi gradini della veranda ed entrarono. Suzanne si fermò di botto appena varcata la soglia, sbalordita dalla stridente contraddizione dell'interno con il nero totale dell'esterno: marmo bianco, cachemire bianco, numerose superfici ricoperte di specchi. Le vennero in mente gli alloggi dove il suo gruppo aveva dormito di recente, ma qui era tutto più lussuoso. C'era perfino una piscina di un vivido azzurro che dal centro della stanza si estendeva all'aperto, alimentata da una cascatella. «La stanza non ti piace?» domando Sufa, preoccupata. Aveva osservato l'espressione sul volto di Suzanne e aveva interpretato la sua meraviglia per insoddisfazione.
«Non è questione che mi piaccia o no», le rispose l'ospite. «È incredibile.» «Ma noi vogliamo che stiate comodi.» «E gli altri? Anche i loro appartamenti sono così?» «Sono identici. Tutti i villini dei visitatori sono uguali. Ma, se c'è qualche altra cosa di cui hai bisogno, ti prego di dirmelo. Sono certa che potremo provvedere.» Suzanne spostò lo sguardo sull'enorme letto circolare, che troneggiava su una base di marmo bianco al centro della stanza. Dal largo baldacchino, anch'esso circolare, era drappeggiato del tessuto bianco che al momento stava raccolto da una parte. «Forse puoi dirmi che cosa ti sembra che manchi», insisté Sufa. «Non manca niente. La stanza è mozzafiato.» «Allora ti piace!» Nella voce di Sufa si coglieva il sollievo. «È stupefacente.» Suzanne allungò una mano a toccare il marmo di una parete. La superficie era levigata, simile a uno specchio, ed era tiepida come se fosse riscaldata dal suo interno. Sufa si avvicinò a un armadio a muro che occupava la parete di destra e fece un gesto a indicarne tutta la lunghezza. «Qua dentro hai le console per le comunicazioni, altro vestiario, materiale di lettura nella tua lingua, un grande frigorifero con una scelta di cibi per piccoli spuntini, articoli personali da toilette che riconoscerai, insomma tutto quello che ti può servire.» «Come faccio ad aprirlo?» «Basta che usi un comando vocale.» Sufa indicò poi una delle due porte che si aprivano nella parete opposta. «I servizi igienici sono da quella parte.» Suzanne le si avvicinò e si mise di fronte all'armadio a muro. «Che cosa devo dire di preciso?» domandò. «Devi nominare quello che vuoi, seguito da un'espressione esclamativa, come: Per favore! Oppure: Adesso!» «Del cibo, per favore!» ordinò Suzanne, un po' imbarazzata. Appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, si aprì un'anta dell'armadio, che rivelò un grande frigorifero ben rifornito di recipienti con bevande fresche e cibi solidi di varia consistenza e colore. Sufa si chinò a guardare dentro e frugò tra i recipienti, poi si raddrizzò. «Avrei dovuto saperlo», commentò. «Temo che ci sia soltanto la scelta standard, anche se avevo richiesto qualche articolo speciale. Ma non importa. Un clone ti porterà tutto ciò che desideri.»
«Che cosa intendi per 'clone'?» A Suzanne quel termine sembrava sinistro. «I cloni sono gli operai. Sono loro che svolgono tutto il lavoro manuale su Interterra.» «Ne ho già visto uno?» «Non ancora. Preferiscono non farsi vedere, fin quando non vengono chiamati. Preferiscono stare fra loro e usufruire delle strutture che hanno a disposizione.» Suzanne annuì come se capisse, ma non nel modo che pensava Sufa. Annuiva perché sapeva che in tantissime situazioni di fanatismo il gruppo dominante attribuiva agli oppressi attitudini che lo facevano sentire meglio rispetto all'oppressione. «Questi cloni sono dei veri cloni?» domandò «Assolutamente. Sono stati clonati un'era dopo l'altra. La loro origine risale agli ominidi primitivi, qualcosa di simile a ciò che voi chiamate Neanderthal.» «Che cosa intendi con 'voi'? Che cosa ci rende diversi da voi, tranne il fatto che voi siete bellissimi?» «Ti prego...» la implorò Sufa. «Lo so, lo so», si arrese Suzanne, frustrata. «Non devo fare domande. Ma le tue risposte anche alle domande più semplici richiedono sempre una spiegazione.» Sufa rise. «Tutto ciò ti confonde, me ne rendo conto. Ma ti chiediamo solo di avere pazienza. Come vi abbiamo spiegato, dall'esperienza abbiamo imparato che è meglio procedere lentamente nel presentarvi il nostro mondo.» «Il che significa che avete già avuto dei visitatori come noi, in passato.» «Certo. Nel corso degli ultimi diecimila anni circa ne abbiamo avuti parecchi.» Suzanne rimase a bocca aperta. «Hai detto diecimila anni?» «Sì», confermò Sufa. «Prima di allora non ci interessava la vostra civiltà.» «Vorresti dire che...» «Ti prego», la interruppe Sufa, quindi respirò a fondo. «Basta con le domande, a meno che non riguardino la tua sistemazione. Devo insistere.» «Va bene. Torniamo ai cloni. Come faccio a chiamarli?» «Con un comando vocale. Funziona così quasi per tutto, su Interterra.» «Devo semplicemente dire: 'Clone'?»
«Sì. Poi, naturalmente, deve seguire un'espressione esclamativa, quella che preferisci, basta che il tono sia quello di una vera esclamazione.» «Posso farlo subito?» «Certamente.» «Clone, prego!» ordinò Suzanne, tenendo lo sguardo fisso sulla sua guida. Non accadde nulla. «Non era un gran che come esclamazione», le fece notare Sufa. «Prova ancora.» «Clone, prego!» gridò Suzanne. «Andava meglio, ma non occorre urlare: non è il volume di voce che conta. È l'intenzione. Gli umanoidi devono sapere senza equivoci che li vuoi alla tua presenza. Il loro comportamento normale è di non venire, in modo da non dare noia.» «Avevi veramente intenzione di usare il termine 'umanoidi'?» «Sicuro. I cloni hanno un aspetto molto simile agli umani, anche se sono una fusione di elementi androidi, parti biomeccaniche e sezioni di ominidi. Sono per metà macchine, per metà organismi viventi in grado di badare a se stessi e perfino di riprodursi.» Suzanne fissò Sufa con un'espressione che era una via di mezzo fra lo sgomento e l'incredulità e che fu interpretata come paura. «Suvvia, non preoccuparti», la rincuorò Sufa. «È facilissimo avere a che fare con loro, e sono estremamente utili. Sono creature davvero meravigliose, come scoprirai tu stessa. L'unico piccolo neo è che, come i loro progenitori ominidi, non sono in grado di parlare... però ti capiranno perfettamente.» Suzanne continuava a fissarla e stava per fare qualche altra domanda, quando si aprì una porta dirimpetto all'armadio a muro e vide entrare una donna statuaria. A quel punto si rese conto di essersi aspettata una specie di automa grottesco, mentre la donna che le stava davanti era bellissima: aveva lineamenti classici, capelli biondi, pelle di alabastro, occhi scuri e penetranti. Indossava un grembiule di satin nero dalle maniche lunghe. «Ecco un bell'esempio di clone femminile», commentò Sufa. «Noterai che porta un orecchino ad anello. Tutti loro ne portano, per motivi che non abbiamo mai capito, anche se credo che abbia a che fare con l'orgoglio di casta, o il lignaggio. Noterai anche che è piuttosto avvenente, come pure le versioni maschili. Ma, cosa più importante, troverai che è servizievole. Qualsiasi cosa tu voglia, diglielo e lei cercherà di farlo, perfino a rischio di farsi male.»
Suzanne fissò gli occhi della donna: erano due pozze scure. I lineamenti del viso sembravano scolpiti ed erano attraenti come quelli di Sufa, però non avevano espressione. «Ha un nome?» «Cielo, no!» Sufa ridacchiò. «Complicherebbe le cose. Non vogliamo personalizzare i nostri rapporti con i lavoratori. Questo è parte del motivo per cui non sono mai stati programmati per parlare.» «Ma farà tutto ciò che le chiedo?» «Assolutamente. Proprio tutto. Può raccogliere i tuoi vestiti, lavarli, prepararti il bagno, riempirti il frigorifero, farti un massaggio, perfino cambiare la temperatura dell'acqua nella piscina. Farà tutto ciò che vuoi o di cui hai bisogno.» «Al momento, credo che sia meglio se va via», decise Suzanne, rabbrividendo impercettibilmente. L'idea di qualcuno per metà essere vivente e per metà macchina era inquietante. «Va', per favore!» ordinò Sufa. La donna si girò e uscì silenziosamente com'era arrivata. «Naturalmente, la prossima volta che chiamerai un clone arriverà probabilmente qualcun altro. Viene chi è disponibile al momento.» Suzanne annuì come se capisse, ma non era così. «Da dove arrivano?» «Dal sottosuolo.» «Come nelle caverne?» «Suppongo», rispose Sufa, restando nel vago. «Non sono mai stata là sotto, né conosco qualcuno che c'è stato. Ma adesso basta con i cloni! Devi prepararti per raggiungere la sala da pranzo, per il pasto. Preferisci nuotare e fare un bagno? La scelta sta a te, ma non c'è sovrabbondanza di tempo.» Suzanne deglutì. Si sentiva la gola secca. Con tutto quello che aveva davanti, trovava difficile anche prendere una decisione così semplice. Guardò la piscina. Il suo colore, che ora era più simile all'acquamarina che all'azzurro, era molto invitante e lo era anche il delicato luccichio della superficie. «Magari una nuotata sarebbe una buona idea», mormorò. «Ottimo!» esclamò Sufa. «Nell'armadio ci sono indumenti puliti. E anche scarpe.» Suzanne annuì. «Ti aspetterò fuori. Ho la sensazione che tu preferisca rimanere da sola per qualche minuto, per riprendere fiato.» «Credo proprio che tu abbia ragione!»
10 La sala da pranzo era situata in un edificio che per le dimensioni e la forma era simile alle villette individuali, però non aveva il letto. Era anch'esso aperto verso l'esterno, ma in direzione del mirabolante padiglione centrale anziché dei prati e dei gruppi di alberi. La sua lunga tavola centrale era identica a quella degli alloggi nell'area di decontaminazione e anche le ampie sedie da giardino dagli spessi cuscini. I cinque componenti del gruppo erano arrivati dai rispettivi bungalow più o meno contemporaneamente, ma in preda a un umore diverso. Richard e Michael si rifiutavano recisamente di lasciare spazio a dubbi o timori. Erano completamente euforici, come due bambini in libertà nel parco a tema dei loro sogni, intenti a trarre profitto da ogni divertimento disponibile. Anche Perry era eccitato dalle possibilità di questo mondo nuovo, però esteriormente si manteneva più freddo dei due sub. Suzanne, per il momento, era più confusa che esaltata e continuava a cullare l'idea che forse erano tutti e cinque in preda a una specie di allucinazione collettiva. A differenza degli altri, Donald era imbronciato, convinto com'era che l'accoglienza principesca fosse solo un trucco che avrebbe riservato ben tristi sorprese. La conversazione si concentrò sul viaggio nel taxi a forma di UFO e sulle meraviglie dei loro alloggi. Richard e Michael erano i più animati, soprattutto dopo aver saputo che il clone di Suzanne era di sesso femminile. Richard accennò ai desideri che potevano essere soddisfatti da una simile creatura. Suzanne ne fu inorridita e glielo fece sapere senza mezzi termini. «Cerca di comportarti come se appartenessi a una razza civilizzata!» esclamò. Il cibo era simile a quello a disposizione nella zona di decontaminazione, con la stessa curiosa diversità nella percezione del sapore, però aveva una forma più elaborata. Venne servito da due cloni maschi di bell'aspetto che indossavano una tuta di satin nero dalle maniche lunghe, chiusa da una cerniera sul davanti. Entrambi portavano un orecchino ad anello. All'improvviso, Donald gettò con forza la sua forchetta d'oro contro il piatto, dello stesso materiale, e il clangore venne amplificato dalle pareti di marmo. Richard rimase a metà della frase con cui stava descrivendo il suo tuffo in piscina, la bocca piena di ciò che per lui era un semifreddo alla nocciola e frutta varia. Suzanne fece un salto per lo spavento e lasciò anda-
re la forchetta: il forte tintinnio che provocò a sua volta le fece capire quanto fosse tesa. Michael quasi si strozzò con un boccone di quello che per lui era un pasticcio di patate dolci. «Come fate a mangiare, in queste circostanze?» tuonò Donald. «Quali circostanze?» chiese Richard, la bocca ancora stracolma di cibo. Intanto lanciò occhiate allarmate in giro per la stanza, temendo che il bungalow fosse stato invaso. Donald si chinò verso di lui. «Quali circostanze?» ripeté, ostentando un tono derisorio, mentre scuoteva la testa per mostrare una sdegnosa meraviglia. «Non sono mai riuscito a capire se i sommozzatori devono essere stupidi per far quel lavoro, oppure se sono la pressione e i gas inerti che gli distruggono quel po' di cellule cerebrali che avevano all'inizio.» «Di cosa diavolo stai parlando?» reagì Michael, offeso. «Adesso te lo spiego io di che cosa sto parlando. Guardati attorno! Dove cavolo siamo? Che cosa ci facciamo qui? Chi sono queste persone vestite come se andassero a un ballo mascherato?» Per qualche momento regnò il silenzio e tutti evitarono di incrociare lo sguardo dell'ex ufficiale. Per un motivo o per l'altro, gli altri quattro avevano fatto di tutto per evitare di porsi quelle domande. «Io lo so dove siamo», affermò infine Richard. «Siamo in Interterra.» «Cristo!» esclamò Donald, sollevando le mani in un gesto di frustrazione. «Siamo in Interterra», ripeté. «Questo spiega tutto. Be', lasciate che ve lo dica: non spiega un bel niente. Non ci spiega dove siamo né che cosa ci facciamo qui né chi è questa gente. E adesso ci hanno isolati in abitazioni separate le une dalle altre.» «Hanno detto che ci spiegheranno tutto quello che vorremo sapere», intervenne Suzanne. «Ci hanno chiesto di avere pazienza.» «Pazienza!» Il tono di Donald era canzonatorio. «Ve lo dico io che cosa ci facciamo qui... Siamo prigionieri!» «E allora?» commentò Richard. Regnò di nuovo il silenzio. Michael depose la forchetta, impacciato dopo lo sfogo di Donald. Richard riprese a godersi il dessert, mentre intanto fissava spavaldo il comandante. Suzanne e Perry si limitarono a guardare gli altri, come stavano facendo i due silenziosi cloni. Richard si servì di nuovo e con abbondanza del dessert. Poi, a bocca piena, disse: «Se noi siamo prigionieri, sarei curioso di vedere come questa gente tratta gli amici. Voglio dire, basta guardare questo posto: è fantastico! Se non vuoi mangiare, Fuller, non mangiare. A me 'sta roba piace,
quindi va' a quel paese!» Donald scattò in piedi con l'intenzione di gettarglisi addosso, attraverso la tavola, ma Perry intervenne prima che cominciassero a volare i pugni. «Va bene, voi due! Smettetela di darvi addosso! Non litighiamo tra noi. Inoltre, avete ragione tutti e due. Non sappiamo un accidente sul perché ci troviamo qui, né tantomeno dove siamo e che cos'è questo posto. Però ci trattano bene. Forse fin troppo bene.» Perry lasciò andare il braccio di Donald quando lo sentì rilassarsi e guardò i due cloni immobili, chiedendosi se quel litigio li avesse in qualche modo turbati. I loro volti non avevano fatto una piega ed erano privi di espressione come erano stati per tutta la durata del pasto. Donald seguì il suo sguardo e, mentre si dava una sistemata alla manica della tunica, borbottò: «Lo vedi anche tu che cosa intendo. Hanno perfino dei carcerieri che ci controllano mentre mangiamo». «Non credo che si tratti di questo», intervenne Suzanne, poi aggiunse a voce alta: «Cloni, andate via, per piacere!» Senza alcun cenno di aver riconosciuto l'ordine ricevuto, i due sparirono attraverso una porta che dava all'esterno. «Ecco sistemati i 'carcerieri'», commentò Suzanne. «Ah, questo non significa nulla», obiettò Donald, e scrutò la stanza. «Probabilmente qua dentro ci sono delle videocamere nascoste.» «Ehi!» richiamò l'attenzione Michael. «Guardando il piatto e la forchetta, mi stavo chiedendo se sono veramente d'oro.» Suzanne prese la propria forchetta e la soppesò. «Ci stavo pensando anch'io, prima», ammise. «Secondo me, lo sono.» «Cazzarola!» Michael sollevò piatto e posata. «Abbiamo una piccola fortuna, qua!» «Per il momento ci trattano con ogni riguardo», riprese il discorso Donald. «Pensi che le cose cambieranno?» gli domandò Perry. «Potrebbero cambiare in un attimo», rispose lui, facendo schioccare le dita. «Appena avranno ottenuto ciò che vogliono, qualunque cosa sia, chi lo sa che cosa accadrà. Siamo completamente nelle loro mani.» «Potrebbero cambiare, ma non credo che accadrà», lo contraddisse Suzanne. «Come fai a esserne tanto sicura?» «Non posso esserne sicura, ma la logica mi suggerisce così. Guardati attorno. Questa gente, chiunque sia, è talmente avanzata. Non hanno bisogno
di niente da noi. Anzi, credo che saremo noi a imparare tantissimo da loro.» «So che stiamo evitando l'argomento», intervenne Perry, «ma quando sostieni che sono molto avanzati, vorresti dire che queste persone sono degli alieni?» Questa domanda provocò un'altra lunga pausa di silenzio. Nessuno sapeva che cosa pensare, tanto meno che cosa dire. «Intendi come gente da un altro pianeta?» si decise a chiedere Michael. «Non lo so nemmeno io che cosa voglio dire», rispose Suzanne. «Ma tutti noi abbiamo compiuto quello stupefacente viaggio nel veicolo circolare. Deve rappresentare qualche tipo di tecnologia a levitazione magnetica di cui nessuno di noi ha mai sentito parlare. E, a quanto ci dicono, siamo sotto l'oceano, cosa che faccio fatica ad accettare. Però una cosa ve la devo dire: la discontinuità di Mohorovičič esiste davvero, ma nessuno è mai stato capace di spiegarla.» Richard fece un gesto con la mano per liquidare la questione. «Questi qua non sono alieni. Cristo, le avete lumate quelle ragazze? Ho visto un sacco di film sugli alieni, e di certo non avevano l'aspetto di questa gente.» «Potrebbero alterare il proprio aspetto in base ai nostri gusti», gli fece notare Suzanne. «Sì, proprio quello che avevo pensato io all'inizio», concordò Michael. «Sogniamo che sono tanto belle.» «Ecco perché non me ne frega un accidente», dichiarò Richard. «È quello che ho nella mente che conta. Se penso che sono bellissime, sono bellissime.» «La questione vera sono le loro motivazioni», insisté Donald. «Non è stato un incidente fortuito a portarci qui. È più che evidente che siamo stati risucchiati giù per quel condotto. Vogliono qualcosa da noi, o saremmo già bell'e morti.» «Penso che tu abbia ragione sul fatto che siamo stati portati qui di proposito», concordò Suzanne. «Sufa ha ammesso diverse cose, parlando con me. Intanto, ha confermato che i procedimenti attraverso cui siamo passati servivano come decontaminazione.» «Ma perché siamo stati decontaminati?» chiese Perry. «Non lo ha detto, però ha ammesso che in passato hanno già avuto visitatori come noi.» «Questo sì che è interessante!» esclamò Donald. «E ti ha detto che ne è stato di loro?»
«No.» «Be', voi preoccupatevi pure fino alla nausea!» commentò Richard, poi gettò la testa indietro e chiamò: «Cloni, venite!» Apparvero all'istante due umanoidi, un maschio e una femmina. Richard osservò bene la femmina poi scoccò un'occhiata complice a Michael e sussurrò senza mascherare l'eccitazione: «Che pacchia!» «Richard!» intervenne Suzanne. «Voglio che prometti di non fare niente che possa imbarazzarci o metterci a repentaglio come gruppo.» «Chi ti credi di essere, mia madre?» replicò lui, poi guardò la clone femmina e le chiese: «Che ne dici di darmi dell'altro dessert, tesoro?» «Anch'io», disse Michael e sbatté rumorosamente la forchetta contro il piatto. Donald fece per alzarsi, ma Perry glielo impedì di nuovo. «Niente litigi», sentenziò. «Non serve a niente.» Richard sorrise provocatoriamente all'ex ufficiale, assaporandone la frustrazione e la collera. Un sommesso scampanellio interruppe la musica di sottofondo e riecheggiò per la stanza. Un attimo dopo entrò Arak. Si muoveva con grande energia ed era vestito nel solito modo, con una piccola aggiunta: attorno al collo era legato, formando un piccolo fiocco, un semplice nastro azzurro che rispecchiava perfettamente la tonalità di azzurro dei suoi occhi. «Salve, amici miei», salutò con esuberanza. «Spero che il pasto sia stato di vostro gradimento.» «Era fantastico», lo rassicurò Richard. «Ma di che cosa è fatto? Voglio dire, non assomiglia per niente a ciò di cui ha il sapore.» «Si tratta prevalentemente di proteine planctoniche e di carboidrati vegetali», spiegò Arak, poi si strofinò le mani con entusiasmo. «Allora! Che ne dite dei festeggiamenti di cui vi ho parlato? Non avete idea di quante persone qui a Saranta siano estremamente felici del vostro arrivo. Abbiamo dovuto mandar via parecchia gente. Vedete, la nostra non è una città che riceve tante visite dal vostro mondo, di certo non quanto Atlantide a est o Barsama a ovest. Sono tutti ansiosi di conoscervi. Così, questo ci porta alla questione cardine: avete voglia di venire al padiglione o siete ancora troppo stanchi per la decontaminazione?» «Dov'è il padiglione?» volle sapere Michael. «Proprio lì.» Arak puntò il dito verso il lato aperto della sala da pranzo. «All'interno del parco in cui sorge il palazzo dei visitatori. Si tratta di fare un centinaio di metri a piedi. Che cosa ne dite?»
«Conta su di me», lo assicurò Richard. «Non ho mai rinunciato a una festa.» «Anch'io», gli fece eco Michael. «Splendido!» esclamò Arak. «E il resto di voi?» Ci fu un silenzio imbarazzato. Alla fine Perry si schiarì la gola. «Arak, per essere sinceri, siamo un po' nervosi.» «Io userei un termine più forte», intervenne Donald. «Francamente, prima di fare qualsiasi cosa, ci piacerebbe avere un'idea su chi siete e come mai ci troviamo qui. Sappiamo che la nostra presenza qui non è un caso. Per dirla senza peli sulla lingua, sappiamo di essere stati rapiti.» «Comprendo le vostre preoccupazioni e la vostra curiosità», assicurò Arak e allargò le mani con i palmi rivolti verso l'alto, in un gesto conciliatorio. «Ma, vi prego, per questa sera lasciate che prevalga la mia esperienza. Ho già avuto a che fare con visitatori che sono giunti nel nostro mondo, non tantissimi, è vero, e non in un gruppo numeroso come il vostro, ma abbastanza da sapere come è meglio procedere. Domani risponderò a tutte le vostre domande.» «Perché aspettare?» insisté Donald. «Perché non spiegarci tutto adesso?» «Non vi rendete conto di quanto è stata stressante la procedura di decontaminazione.» «Puoi dirci almeno quanto tempo è durata?» chiese Suzanne. «Poco più di uno dei vostri mesi.» «Abbiamo dormito per più di un mese?» domandò incredulo Michael. «Di fatto sì. Ed è stressante per il cervello come per il corpo. Domani dovrete affrontare informazioni sensazionali e abbiamo imparato che è più facile assorbirle quando si è riposati. Anche una sola notte fa parecchia differenza. Quindi, vi prego, stasera rilassatevi o rimanendo qui fra voi, o da soli ognuno nel proprio alloggio, oppure, ancor meglio, assieme a noi alla festa per il vostro arrivo.» Perry scrutò il viso di Arak. Gli occhi azzurri dell'interterrano sostennero il suo sguardo emanando una sincerità di cui non era possibile dubitare. «Va bene», decise. «Tanto, a questo punto non credo che riuscirei a dormire. Verrò, però domani ti farò mantenere la parola data.» «Benissimo!» Arak si rivolse quindi a Suzanne. «Dottoressa Newell, qual è la tua scelta?» «Verrò», rispose Suzanne. «Meraviglioso. E tu, signor Fuller?»
«No», decise Donald. «Date le circostanze, troverei difficile festeggiare.» «Molto bene.» Arak si strofinò nuovamente le mani, deliziato. «Davvero meraviglioso. Sono contento che la maggior parte di voi abbia voglia di venire. Ci sarebbero stati tantissimi scontenti se fossi ritornato solo. Signor Fuller, capisco i tuoi sentimenti e li rispetto. Ti prego, goditi il tuo riposo. I cloni saranno ai tuoi ordini.» Donald annuì immusonito. «E ora, mettiamoci in marcia!» Così Arak esortò gli altri, indicando l'estremità aperta della sala da pranzo. «Ci sarà da mangiare alla festa?» domandò Richard. «Sì! Le cose migliori che Saranta è in grado di offrire.» «Allora farò a meno del bis di dessert.» Richard gettò il cucchiaino sul tavolo, si alzò, si stirò e ruttò rumorosamente. Suzanne gli rivolse un'occhiataccia. «Richard, abbi un po' di rispetto per il resto del gruppo, se anche non lo hai per te stesso.» «Ma ce l'ho! Mi sono trattenuto dallo scoreggiare, visto che ci sono delle signore.» Arak rise. «Richard, avrai tantissimo successo. Sei deliziosamente primitivo.» «Mi stai prendendo in giro?» «Affatto. Farai furore, te lo assicuro. Forza, andiamo!» Con un cenno di invito, Arak si diresse verso il lato aperto della stanza. «Va bene!» esclamò Richard, rivolgendo a Michael un entusiastico segno di pollice alzato. L'amico ripeté il gesto con pari esuberanza e gridò: «Andiamo a festeggiare!» Insieme, seguirono Arak con grande impazienza. Suzanne guardò Perry. Lui alzò le spalle e commentò: «È pazzesco andare a festeggiare in simili circostanze, ma faremmo bene a prendere le cose con calma». Poi Suzanne si rivolse a Donald, chiedendogli: «Sei sicuro di non voler venire?» «Sì, sono sicuro», rispose lui, cupo. «Ma se voi avete voglia di fraternizzare, fate pure.» «Io ci vado perché potrei apprendere dell'altro, non per fraternizzare, come dici tu.» «Andiamo!» chiamò Perry, dall'altro capo della stanza.
«Ci vediamo più tardi», salutò Suzanne e si affrettò dietro Perry e gli altri. I primi del gruppetto stavano già attraversando il prato. Donald rimuginò sulle cose dette da Arak. Ciò che sapeva per certo era che non si fidava di lui. Dal suo punto di vista, quell'uomo era troppo accattivante. Tutta la sua fantastica ospitalità doveva essere qualche tipo di trappola. Eppure Donald non aveva idea di quale ne fosse lo scopo, se non di prenderli alla sprovvista. Si voltò e guardò fuori: il gruppetto era a metà strada per il padiglione e si stagliava contro il suo esterno illuminato. Poi spostò lo sguardo sui due cloni che stavano in piedi immobili contro il muro. Apparivano talmente umani da rendergli difficile credere che fossero composti in parte di pezzi meccanici, come aveva detto Arak. Forse era solo un'altra bugia, pensò. «Clone, voglio ancora da bere», ordinò. La femmina prese immediatamente la brocca posata sulla credenza e si avvicinò alla tavola. Aveva fulvi capelli che le arrivavano alle spalle e una pelle lucida e pallida. Si chinò e cominciò a riempirgli la tazza. All'improvviso Donald le afferrò il polso. Sentì la pelle fredda sotto le dita. Lei non ebbe soprassalti né mostrò altri tipi di reazione e continuò a versare la bevanda. Donald strinse ancora di più, ma di nuovo non provocò alcuna reazione. La donna terminò di riempire la tazza, poi raddrizzò la brocca, nonostante la sua stretta. Lui rimase spiazzato. Quella donna era straordinariamente forte. Piegando la testa all'indietro, la fissò nel volto immobile. Lei non cercò di liberarsi ma restituì lo sguardo, anche se il suo era vacuo. A quel punto, Donald la lasciò andare. «Come ti chiami?» le chiese. Lei non rispose, né a parole né in altri modi. Oltre al lieve alzarsi e abbassarsi del petto nella respirazione, non ci furono altri movimenti. Non sbatté nemmeno le palpebre. «Clone, parla!» ordinò Donald. Il silenzio continuò. Donald guardò allora il maschio, ma non giunse risposta nemmeno da lui. «Come mai voi lavorate e gli altri no?» chiese ancora. Nessuno dei due cloni rispose. «Va bene. Cloni, andate via!» All'istante i due si diressero verso la porta dalla quale erano arrivati e scomparvero. Donald si alzò e aprì la porta. Oltre di essa, una scala scen-
deva nell'oscurità. Donald richiuse la porta e si avvicinò al lato aperto della stanza, da dove guardò fuori. La luce che prima era tanto vivida si era attenuata, come se il sole che non esisteva stesse tramontando. Poté distinguere a malapena Arak e gli altri che si stavano avvicinando al padiglione. Scosse la testa, chiedendosi di nuovo se stesse sognando. Tutto sembrava tanto bizzarro, eppure angosciantemente reale. Si toccò il viso e le braccia e li sentì normali al tatto. Respirò a fondo. Capiva intuitivamente che stava affrontando la missione più difficile di tutta la sua carriera. Sperava che l'addestramento di cui andava tanto fiero gli sarebbe tornato utile, in particolare la parte che riguardava l'essere un prigioniero di guerra. 11 Nel loro vernacolo scatologico, Richard e Michael «se la facevano sotto» dalla paura, ma la regola non scritta a cui si attenevano era di negarlo. Proprio come facevano di fronte ai pericoli delle immersioni in saturazione, celavano i loro veri sentimenti dietro un atteggiamento macho e spaccone. «Pensi che le ragazze che abbiamo visto prima saranno alla festa?» domandò Richard all'amico. Erano rimasti leggermente indietro rispetto agli altri, lungo il percorso per il padiglione. «Possiamo sempre sperarlo», rispose Michael. Fecero qualche altro passo in silenzio. Sentivano Arak parlare con Perry e Suzanne, ma a loro non importava stare ad ascoltare. «Pensi davvero che abbiamo dormito per più di un mese?» domandò Michael. Richard si fermò di botto. «Non ti metterai a fare il pappamolle, adesso?» «No! Stavo solo chiedendo.» Per Michael il sonno non era mai stato il sollievo che era per gli altri. Da bambino era perseguitato dagli incubi. Dopo che era andato a dormire, suo padre poteva tornare a casa ubriaco e picchiare sua madre. Quando si svegliava, cercava di intervenire, ma il risultato era sempre lo stesso: le buscava anche lui! Purtroppo, il processo del sonno era rimasto inestricabilmente legato a quegli episodi, quindi per lui l'idea di avere dormito per un mese era fonte di un'ansia enorme. «Ehi, ciao!» esclamò Richard, dandogli una serie di leggere sberle sul
viso. «C'è qualcuno in casa?» Michael deviò gli irritanti colpi dell'amico. «Piantala!» «Ricordati: non ci dobbiamo preoccupare per tutte 'ste stronzate. Qui sta succedendo qualcosa di stranissimo, sicuro come la merda, ma chi se ne frega. Noi ce la godremo, mica come quel fesso, Fuller. Dio! Solo a sentirlo parlare sono arcicontento che ci hanno sbattuti fuori dalla marina. Altrimenti dovremmo prendere ordini da tipi come lui.» «Certo che ce la godremo. Stavo solo pensando che, sai, è un periodo bello lungo per essere in catalessi.» «Be', non pensare! Ti incasini e basta!» «Va bene, va bene!» Suzanne li chiamò perché si affrettassero: lei e gli altri li stavano aspettando. «E, come ciliegina sulla torta, ci tocca sorbirci la vecchia mamma chioccia», aggiunse Richard. I due sub raggiunsero il resto del gruppetto, fermatosi alla base dei gradini che portavano all'ingresso del padiglione. «Va tutto bene?» chiese loro Suzanne. «Liscio come l'olio», rispose Richard, sforzandosi di sorridere. «Arak ci ha appena detto una cosa che troverete senz'altro interessante. Avrete notato che si sta facendo buio, come se il sole fosse tramontato.» «Sì che lo abbiamo notato.» Il tono di Richard era scontroso. «Quaggiù hanno il giorno e la notte», continuò Suzanne, imperturbabile. «E abbiamo appreso che la luce viene dalla bioluminescenza.» I due sub piegarono la testa all'indietro per guardare in alto. «Vedo le stelle», osservò Michael. «Quelli sono puntini relativamente piccoli di bioluminescenza bianca azzurrata», spiegò Arak. «Era nostro intento ricreare il mondo come lo conoscevamo, il che comprendeva il ciclo delle ventiquattro ore, detto anche circadiano. La differenza rispetto al vostro mondo è che i nostri giorni e le nostre notti sono più lunghi e mantengono la stessa durata per tutto l'anno. Naturalmente, anche i nostri anni sono più lunghi.» «Allora, vivevate nel mondo esterno prima di trasferirvi quaggiù?» domandò Suzanne. «Assolutamente.» «E quando è avvenuto il passaggio?» Arak sollevò le mani in un gesto difensivo e rise. «Stiamo correndo troppo. Stasera non dovrei incoraggiarvi a fare domande. Ricordate: la-
sciamole per domani.» «Soltanto un'altra», implorò Perry. «È una facile facile, ne sono certo. Da dove la prendete tutta l'energia che serve quaggiù?» Arak sospirò per l'esasperazione. «È l'ultima domanda, prometto», gli assicurò Perry. «Almeno per stasera.» «E sei uno che mantiene la parola?» «Di sicuro.» «La nostra energia proviene da due fonti principali. La prima è geotermica, prelevata direttamente dal nucleo della terra, però questa crea il problema di doversi disfare del calore eccessivo, cosa che facciamo in due modi diversi: uno, permettendo al magma di sgorgare lungo quello che voi chiamate la Dorsale Medio-Atlantica e, due, raffreddandolo con la circolazione dell'acqua marina. Questo secondo metodo richiede un grande volume d'acqua, e così abbiamo anche l'opportunità di filtrare il nostro plancton. Il rovescio della medaglia è che questo crea correnti oceaniche, ma comunque voi avete imparato a conviverci, in particolare con quella che chiamate Corrente del Golfo. «La seconda fonte d'energia è la fusione. Separiamo l'acqua in ossigeno, che respiriamo, e idrogeno, che fondiamo. Di questo comunque parleremo più in dettaglio domani. Stasera voglio che sperimentiate il nostro mondo e che vi divertiate, soprattutto vi divertiate.» «E noi abbiamo intenzione di fare proprio questo», gli assicurò Richard. «Ma dimmi: sarà una festa con la bumba o senza?» «Temo che questo termine non mi sia familiare.» «Si riferisce in generale all'alcool: qui ne avete?» «Ma certo: vino, birra e un superalcolico particolarmente puro che chiamiamo cristallo. Il vino e la birra sono simili a quelli che conoscete, mentre il cristallo è diverso, e vi consiglio di andarci cauti fino a che non vi abituerete.» «Non preoccuparti, amico, io e Michael siamo dei professionisti!» «Andiamo a festeggiare!» confermò Michael. Perry e Suzanne dovettero essere spinti leggermente in avanti. Entrambi erano rimasti sconcertati dalle dichiarazioni di Arak, in particolare Suzanne. All'improvviso aveva delle risposte per due misteri dell'oceanografia, e cioè perché il magma fuoriesce nelle dorsali oceaniche e perché ci sono le correnti oceaniche, in particolare la Corrente del Golfo. Risposte che erano del tutto sfuggite agli scienziati.
Il gruppo salì le scale con Arak in testa. Mentre passavano fra due imponenti colonne che sostenevano il tetto a cupola, Suzanne colse l'espressione smodatamente bramosa di Richard. Temendo che potesse combinare qualcosa di disdicevole sotto l'effetto dell'alcool, si protese verso di lui e gli sussurrò: «Ricordati di comportarti bene». Lui le scoccò un'occhiata carica di sdegnata incredulità. «Parlo sul serio, Richard», aggiunse Suzanne. «Non abbiamo idea di chi e che cosa abbiamo di fronte e non dobbiamo metterci in pericolo più di quanto già non siamo. Se devi proprio bere, fallo con moderazione.» «Va' al diavolo!» esclamò Richard e affrettò il passo. Raggiunse Arak proprio mentre si aprivano i due battenti di una smisurata porta di bronzo. La prima cosa ad accogliere i visitatori fu il mormorio di un migliaio di voci eccitate che echeggiavano per il vasto spazio interno di marmo bianco. Il livello in cui si trovavano era costituito da una balconata con balaustra che correva tutt'intorno al salone circolare e vi era collegata da numerose scalinate imponenti. Giunti alla sommità, guardarono giù. «Questa sì che è una festa!» esclamò Richard. «Mio Dio! Ci saranno mille persone qua dentro!» «Potevano essercene anche diecimila, se avessimo avuto lo spazio», gli confidò Arak. Al centro della gigantesca sala da ballo, in corrispondenza della sommità della cupola, si allargava una piscina illuminata in modo tale da sembrare un'enorme acquamarina; era circondata da un bordo alto una trentina di centimetri e largo più di dieci metri. La sala era stipata di gente che indossava il semplice completo di satin bianco. Qua e là si notava qualche clone con il distintivo grembiule nero, intento a portare larghi vassoi carichi di cibo e di calici d'oro. Ogni ospite aveva al collo un nastro di tessuto come quello di Arak, delle stesse dimensioni e legato esattamente allo stesso modo; variava soltanto il colore. Come al solito, tutti, uomini e donne, erano di una bellezza sconvolgente. La notizia che i visitatori erano arrivati si propagò tra la folla come un incendio in una giornata di vento. Le conversazioni si interruppero e i visi si volsero all'insù. Faceva effetto guardare in basso e vedere tante persone silenziose, in trepida attesa. Arak sollevò le mani sopra la testa, i palmi verso la folla. «Salute a tutti! Ho il piacere di annunciare che i nostri visitatori, tranne uno, hanno graziosamente acconsentito a partecipare ai festeggiamenti in onore del loro arrivo a Saranta.»
Dalla folla si levò un'unica, immane ovazione, mentre tutti sollevavano le mani sopra la testa, imitando il suo gesto. «Venite!» Arak fece cenno al gruppetto di seguirlo e cominciò a scendere l'ampia scalinata. Richard e Michael si gettarono avanti, impazienti, mentre Suzanne e Perry li seguirono con un po' di esitazione. «Questo è troppo!» sussurrò Richard all'amico. «Guarda le donne! Sembra una festa di modelle di Victoria's Secret.» «Ognuna di loro potrebbe comparire sul paginone centrale di Playboy!» commentò Michael. «È difficile riuscire ad avere una visione d'insieme», bisbigliò Suzanne a Perry. «Mi sento come se fossi in uno di quei colossal degli anni Cinquanta di Cecil B. DeMille.» «So che cosa intendi», le rispose lui. «Tutto questo mi dà l'idea di che cosa deve significare essere una rockstar. Questa gente è davvero felice di vederci. E guarda come sono tutti giovani. Per lo più, sembra che abbiano superato da poco i vent'anni.» «Vero, ma c'è anche un numero significativo di bambini. Ne vedo alcuni che non possono avere più di tre o quattro anni.» «E non tanti anziani.» Quando giunsero alla base delle scale, la folla si tirò indietro, ma appena loro misero piede sul pavimento si gettò di nuovo in avanti tendendo le mani. Suzanne e Perry indietreggiarono istintivamente di qualche passo, nonostante fosse ovvio che le intenzioni erano amichevoli. I due sub, invece, si lasciarono circondare completamente e capirono che i loro ammiratori desideravano il contatto fisico, quindi si diedero da fare a toccare i palmi tesi verso di loro. Era un saluto che ricordava quello usato da Arak con Suzanne. «Vi amo tutti», gridò Richard, con grande gioia degli interterrani che gli stavano vicini, ma nel farsi strada tra la folla scelse furbescamente i palmi delle donne. Nel suo entusiasmo ne afferrò perfino alcune e le baciò, il che causò un subitaneo arresto dei festeggiamenti. Richard guardò le donne che aveva baciato e si chiese per una frazione di secondo se dovesse scappare su per le scale. Le vide toccarsi le labbra, poi esaminarsi le dita come se si aspettassero di vedere del sangue. Era evidente che baciarsi non faceva parte del normale repertorio dei saluti, su Interterra. Lanciò un'occhiata colpevole a Michael, che era teso quanto lui
per l'improvviso cambiamento di umore nella folla. «Non ho potuto farne a meno», spiegò Richard. Tre delle donne che aveva baciato si guardarono l'un l'altra e scoppiarono a ridere. Poi tutte e tre si gettarono contemporaneamente su di lui per restituire il gesto. La folla applaudì deliziata e si strinse ancora di più attorno ai due sommozzatori. Dopo diversi goffi tentativi di bacio, le tre donne si spostarono con grazia per lasciare posto alle altre. Sul viso di Richard si allargò un sorriso malizioso. «A quanto pare, a queste pollastre abbiamo una cosetta o due da insegnare», commentò raggiante. Si sentì abbastanza incoraggiato da diventare ancora più espansivo. Michael, constatando il successo dell'amico, si affrettò a imitarlo. Ben presto, però le loro effusioni furono interrotte da un clone che, dietro suggerimento di Arak, offrì loro qualcosa da bere, dentro calici d'oro. Suzanne e Perry iniziarono ad allentare le proprie riserve, contagiati com'erano dall'entusiasmo collettivo. Furono circondati da persone ansiose di premere i palmi delle mani contro i loro. Alcuni erano quegli stessi bambini che Suzanne aveva notato al momento dell'arrivo. Chiese a una di loro quanti anni avesse, dopo essere rimasta colpita dal suo inglese impeccabile e dall'evidente intelligenza. «E tu quanti ne hai?» le chiese la bambina. Suzanne stava per dirglielo, quando un uomo che avrebbe potuto interpretare un dio greco in un film mitologico le chiese se avesse un compagno. Prima che lei potesse rispondere a quella strana domanda, un uomo più anziano, ma non meno attraente, le chiese se conosceva i propri genitori. «Aspettate un momento», intervenne Arak, interponendosi fra Suzanne e i suoi ammiratori. «Come sapete, abbiamo chiesto ai nostri ospiti che le loro domande aspettino fino a domani. Quindi sarebbe giusto applicare lo stesso criterio anche alle vostre. Questa serata la dedichiamo a festeggiare il meraviglioso evento che è toccato in sorte a Saranta e a divertirci.» «Ehi, Arak!» lo chiamò forte Richard, dal folto di un gruppo di ammiratrici. Reggeva un calice d'oro. «È questo il cristallo, il liquore di cui parlavi?» «Proprio così.» «È fantastico! Mi piace davvero!» «Ne sono felice.» «Un'altra cosa: non ce l'avete la musica? Voglio dire, che cos'è una festa, senza musica?»
«Giusto!» si associò Michael. «Cloni, musica!» gridò Arak, al di sopra del frastuono. Nel giro di pochi secondi, si udì miracolosamente una musica di sottofondo simile a quella degli alloggi destinati alla decontaminazione. Michael si lasciò sfuggire una risata sprezzante. «Non sto parlando di musica da sala d'aspetto», sbraitò Richard rivolto nuovamente ad Arak. «Intendo qualcosa con una base e un ritmo. Qualcosa che possiamo ballare.» Arak abbaiò un altro ordine ai cloni e immediatamente la musica cambiò. I due sub si scambiarono un'occhiata stupefatta. Adesso c'era la base e c'era il ritmo, ma stranamente sincopato: non assomigliava ad alcuna musica che avessero mai udito. «Che cazzo è?» chiese Michael, piegando la testa da un lato, come per ascoltare meglio. «Chi se ne frega», commentò Richard. Chiuse gli occhi e iniziò a muovere la testa con un movimento ondeggiante. Contemporaneamente fece qualche passo malfermo e dimenò i fianchi. I suoi movimenti provocarono qualche risatina fra le ragazze che gli si accalcavano attorno. «Vi piace, eh?» chiese, e loro annuirono. Portò il calice alle labbra e lo svuotò completamente, con grande sorpresa di chi gli stava attorno. Poi lo posò a terra, afferrò la mano della donna che gli stava più vicino e si diresse di gran carriera verso la piattaforma rialzata che circondava la grande piscina al centro della sala. Ridendo di cuore e lanciando grida di incitamento, la folla fece ala al passaggio della coppia. Raggiunta la piattaforma, Richard vi salì sopra, trascinando la donna con sé. Si voltò a guardarla e per un attimo rimase senza fiato per la sua bellezza. Avendo attorno tutta gente bellissima, ormai dava la cosa per scontata, ma rimase colpito in modo particolare dall'aspetto dell'esemplare che aveva davanti. «Sei meravigliosa!» le sussurrò, la voce leggermente impastata. «Grazie», rispose lei. «Anche tu sei attraente.» «Lo pensi davvero?» «Sì, sei molto divertente.» «Mi fa piacere.» Richard dovette mettere un piede di lato per restare in equilibrio. Per un istante l'immagine della donna gli arrivò sfocata. Gli girava la testa. «Stai bene?» gli domandò lei.
«Sì, benissimo», rispose Richard, mentre sentiva un formicolio ai polpastrelli. «Quella roba, quel cristallo, picchia giù duro.» «È il mio liquore preferito.» «Anche il mio. Ehi, vuoi imparare a ballare?» «Che cosa significa, esattamente?» «È come facevo prima. Solo che lo facciamo assieme.» Richard chiuse gli occhi e ripeté le giravolte di poco prima. Solo che dovette riaprirli dopo pochi secondi, perché stava di nuovo perdendo l'equilibrio. La folla reagì con acclamazioni e applausi e gli gridò di continuare. Richard si voltò verso il pubblico ed eseguì un inchino esagerato che suscitò altre ovazioni, quindi riprese la sua posizione di fronte alla donna e cominciò ad ancheggiare, dimenarsi e contorcersi al ritmo della musica. Lei guardò con notevole interesse, ma faceva fatica a imitarlo. L'unica cosa in cui mostrava un minimo di abilità era sollevare le mani per aria e muoverle seguendo il suo esempio. «Ti faccio vedere», si offrì Richard e, afferratala per i fianchi, cercò di farla ancheggiare ritmicamente. Lei non riusciva ad afferrare l'idea, anzi, trovava esilaranti i propri tentativi. Anche la folla. Suzanne e Perry stavano a osservare con comprensibile apprensione. Suzanne osservò che secondo lei il sub era ubriaco, e Perry era della stessa opinione. Ma non potevano fare altro che notare quanto la folla si divertisse alle sue pagliacciate. «Il tuo amico è molto divertente», commentò una voce femminile dietro Perry. Lui si voltò e si ritrovò di fronte un'adorabile giovane che dimostrava più o meno diciotto anni. Aveva vivaci occhi azzurri che gli ricordavano quelli di Suzanne e un sorriso contagioso. La vide allungare una mano verso di lui, con il palmo in avanti. Lui vi premette contro il proprio, un po' imbarazzato; si accorse di arrossire. La donna era attraente in un modo disarmante ed era parecchi centimetri più alta di lui. «Mi chiamo Luna», disse con una voce che gli fece tremare le ginocchia. «Io Perry.» «Lo so. Sei molto attraente. Vedo che hai i denti più bianchi di Richard.» Perry arrossì ancora di più. Annuì. «Grazie», riuscì a dire. Luna guardò verso il centro della sala. «Sei capace di ballare come Richard?» Perry guardò il suo compagno d'avventura, che ora si stava esibendo in un'interpretazione della break dance. Al momento era disteso sulla schiena
e girava vorticosamente in tondo, con le gambe che si agitavano per aria. «Penso di sì», rispose, mantenendosi sulle generali. «Magari non bene come Richard. Lui è un po' più estroverso di me. E poi, a dirti la verità, sono diversi anni che non provo a ballare.» «Penso che Richard sia bravo come un valletto da intrattenimento», osservò la ragazza. Sembrava ipnotizzata dal sub, che adesso imitava Michael Jackson, facendo impazzire la folla. «Questo è un complimento che credo Richard non abbia mai ricevuto prima», le disse Perry. Abituato com'era a seguire l'amico in tutto, Michael prese per mano una delle donne che gli si accalcavano attorno e si unì a lui sul bordo rialzato della piscina. Appena ebbe cominciato a ballare, altre dieci-dodici donne vi salirono a loro volta. Adesso i due allegri sommozzatori erano circondati da una frotta di belle donne che cercavano di muovere le braccia e dimenare i fianchi come loro. Ma non era facile. Perfino loro due avevano qualche difficoltà a coordinare i propri movimenti al ritmo di quella musica bizzarra. Parecchi maschi interterrani particolarmente avventurosi salirono anche loro sulla piattaforma ad anello per cimentarsi nella strana danza. Richard, però, non ne fu contento. Senza interrompere la sua esibizione, si avvicinò a ognuno di loro, uno dopo l'altro, e, aumentando esageratamente i movimenti dei fianchi, li buttò tutti giù dal bordo della piscina. Questo piacque molto alla folla e perfino agli stessi ballerini che erano stati sloggiati, infatti tutti pensavano che facesse parte del numero. Dopo una mezz'oretta di ballo ininterrotto, vennero raggiunti i limiti della resistenza. Primo come al solito, Richard allargò le braccia e strinse in un unico abbraccio quante più donne poté, prima di crollare a terra ridacchiando. Michael lo imitò e andò, con le sue seguaci, a ingrossare il groviglio di gambe, braccia, torsi sudati e coperti da stoffe leggere che si agitavano sul pavimento. I due non si peritarono di continuare a poggiare i palmi dove capitava, e le donne contraccambiavano il favore con i baci. Su suggerimento di Arak, accorsero dei valletti con altre bevande. «Questo posto è un sogno diventato realtà», commentò Michael, dopo aver bevuto un sorso dal suo calice appena riempito. «Povero Mazzola!» esclamò Richard. «Il povero addetto alla campana si perde tutto questo ben di Dio.» «Di cosa pensi che è fatto questo liquore chiamato cristallo?» Michael scrutò dentro il calice: il liquido sembrava trasparentissimo.
«E chi se ne frega?» Richard allungò un braccio e strinse in un esuberante abbraccio una delle donne premute contro il suo petto. Nel far questo si versò addosso un po' di liquore, suscitando il divertimento di tutti quelli che se ne accorsero. «Michael, ho una cosa per te», annunciò una brunetta dagli occhi azzurri. «Che cosa, bellona?» chiese lui. Era supino e guardò l'immagine capovolta della donna che era in piedi vicino alla piattaforma. Lei sorrise e sollevò un piccolo vasetto di vetro. «Voglio che provi la caldorfina», rispose lei. Svitato il coperchio, gli avvicinò il vasetto e lui ne estrasse con il dito una certa quantità della sostanza cremosa che conteneva. «È un po' più di quanto ne occorra», lo avvertì, «ma va bene lo stesso.» «Scusa. Che cosa ci faccio?» Nel dir così, Michael accostò il dito al naso: la crema era assolutamente inodore. «Strofinala sulla mano. Io farò lo stesso, poi mettiamo i palmi uno contro l'altro.» «Ehi, Richie», chiamò Michael mentre rotolava su un fianco e si tirava su a sedere. «C'è una novità!» Ma Richard non gli rispose, intento com'era a farsi riempire di nuovo il calice con il liquore. Michael si strofinò la crema sulla mano, poi guardò la ragazza che gliel'aveva offerta: aveva un'espressione sognante e teneva gli occhi semichiusi. Quando la vide sollevare la mano, vi premette contro la propria. La reazione fu immediata e travolgente: Michael spalancò gli occhi, poi li chiuse in preda al piacere. Per qualche minuto provò un'estasi irrefrenabile che gli impedì di muoversi. Quando finalmente ci riuscì, strappò di mano il vasetto alla donna e afferrò Richard per un braccio. «Richie!» gridò. «Devi provare 'sta roba!» L'amico cercò di sottrarsi alla sua presa, lui però non mollava. «Ehi, non vedi che sono occupato?» si lagnò Richard. Stava cercando di baciare due donne contemporaneamente. «Richie, devi provare 'sta roba!» ripeté Michael, e gli tese il vasetto. «Che cazzo è?» chiese Richard, e si tirò su puntandosi su un gomito. «Crema per le mani.» «E tu mi interrompi per farmi provare una crema per le mani?» Richard era sbalordito. «Non posso crederci.» «Provala! È diversa da tutte le creme che hai provato finora. È meglio della coca. Te lo dico io: è dinamite!»
Sospirando, Richard allungò un braccio, prese una piccola quantità di crema e se la spalmò sulle mani. Poi sollevò lo guardò su Michael. «Allora, adesso che cosa dovrebbe succedere?» «Premi il palmo contro quello di una ragazza.» Richard fece un cenno a una delle due che stava baciando, ma lei gli fece cenno di aspettare e si spalmò a sua volta un po' di crema sulle mani. Quando alla fine premettero i palmi fra loro, il risultato fu identico a quello che aveva sperimentato Michael. Ci volle un intero minuto prima che Richard si riavesse dall'estatico delirio che lo aveva avvolto. «Oh, mio Dio!» gridò. «Era come un orgasmo! Dammene ancora!» Michael però sottrasse il vasetto alla sua affannosa ricerca. «Trovatela per conto tuo!» Richard si gettò di nuovo verso il vasetto, solo per farsi picchiare sulla mano dall'amico. Perry stava spiegando a Luna che cosa significava essere presidente della Benthic Marine, quando sentì qualcuno battergli sulla spalla. Era Suzanne, e aveva un'espressione crucciata. «Richard e Michael stanno cominciando a litigare», lo avvertì. «Sono un po' preoccupata. Arak fa in modo che i loro bicchieri non siano mai vuoti, e loro sono già ubriachi fradici.» «Oh-oh! Potrebbero nascerne dei guai!» esclamò Perry, guardando verso i due sommozzatori che si stavano spingendo e spintonando l'un l'altro. «Penso sia meglio avvicinarci e tentare di controllarli», suggerì Suzanne. «Hai ragione», convenne Perry, anche se non aveva voglia di staccarsi da Luna. «Lasciateli divertire», disse una voce dietro Suzanne. «Tutti li apprezzano. Sono piuttosto esuberanti.» Lei si voltò e vide lo stesso uomo che poco prima le aveva chiesto se viveva con un compagno. «Temiamo che il loro comportamento rechi disturbo», gli spiegò. «Non vorremmo approfittare della vostra ospitalità.» «Lascia che sia Arak a preoccuparsi del loro comportamento. Come vedi, è lui che li incoraggia a bere.» «Sì, l'ho notato. Non è una buona idea.» «Lascia la cosa nelle mani di Arak. È compito suo, non tuo, prendersi cura di loro. Inoltre, mi piacerebbe parlare con te in privato per un momento.» «Davvero?» Suzanne era sconcertata da quella richiesta. Si voltò ancora a guardare i due sub e fu sollevata nel vedere che avevano posto fine al lo-
ro battibecco e si erano tuffati di nuovo nel groviglio di membra femminili. A quel punto guardò Perry, chiedendosi se avesse sentito le parole dell'uomo. Dall'espressione che gli lesse in viso arguì di sì e ricevette anche un sorriso malizioso e una leggera gomitata nel fianco a mo' di incoraggiamento. «Perché no?» le sussurrò infatti Perry, chinandosi verso di lei. «Siamo venuti qui per divertirci, e inoltre l'emergenza è passata, per il momento.» «Che cosa intendi per 'in privato'?» chiese comunque Suzanne. Nel guardare i lineamenti ben cesellati dell'uomo che aveva davanti e i suoi occhi luminosi sentì il cuore saltare un battito. Non aveva mai visto un uomo dalla bellezza classica come quello, né tantomeno aveva avuto modo di parlarci insieme. «Be', non proprio in privato», rispose lui, con un sorriso disarmante. «Pensavo che potremmo solo tirarci indietro di qualche passo o magari salire sulla balconata. Vorrei solo parlare con te in privato per un momento.» «Va bene, suppongo...» Suzanne guardò Perry. «Io rimarrò qui, con Luna», la tranquillizzò lui. Suzanne si lasciò condurre su per una delle scalinate. «Mi chiamo Garona», la informò l'uomo, mentre salivano. «Io Suzanne Newell.» «Questo lo so. Dottoressa Suzanne Newell, per essere precisi.» Raggiunsero la sommità delle scale e si appoggiarono alla balaustra. Guardando di sotto, era evidente che la festa di gala era un vero successo: dalla folla si levavano risate e conversazioni animate. Erano in molti a gravitare attorno alla zona della piscina, dove i sub e il loro harem erano il centro dell'attenzione. La folla era ordinata, aggraziata e rispettosa. Quelli più a ridosso dell'inedito spettacolo lasciavano costantemente il posto agli altri, in modo che tutti potessero dare uno sguardo da vicino. «Grazie per avermi accordato questo momento», esordì Garona. «Non è giusto da parte mia monopolizzare il tuo tempo.» «Oh, va benissimo», gli assicurò Suzanne. «È quasi un sollievo starmene un po' in disparte e guardare tutto dall'alto.» «Dovevo parlare con te per dirti che sei irresistibile», sbottò Garona. Suzanne scrutò il suo bel viso. Si aspettava di scorgervi anche soltanto l'accenno di un sorriso malizioso. Invece tutto ciò che vi trovò fu un'intensità calorosa e sorridente che suggeriva la più completa sincerità. «Ripeti un po'.» «Ti trovo assolutamente irresistibile.»
«Davvero?» Le sfuggì qualche risatina nervosa. «Davvero.» Suzanne riportò lo sguardo sulla folla, per darsi il tempo di assimilare quell'incontro inatteso. Esitò, prima di voltarsi di nuovo verso il suo ammiratore. «Tu mi lusinghi, Garona. Per lo meno, ho questa impressione. Mi spiace se ti sembro scettica, ma con tutte queste donne assolutamente meravigliose e senza difetti, trovo un po' difficile credere che ti interessi a me. Voglio dire, conosco i miei limiti e non sono in grado di competere con nessuna di queste donne.» Il sorriso di Garona non venne meno. «Forse ti è difficile crederlo, ma è la pura verità.» «Be', ne sono sinceramente lusingata. Magari potresti spiegarmi come mai mi trovi così irresistibile.» «È difficile dirlo a parole.» «Fa' almeno un tentativo.» «Suppongo che abbia a che fare con la tua freschezza o la tua innocenza. O forse è la tua seducente primitività.» «Primitività? È così che Arak ha definito Richard!» «Oh, sì, anche lui ha tale dote.» «E questo dovrebbe essere un complimento?» «Qui in Interterra lo è.» «Che cos'è esattamente Interterra? E da quanto tempo esiste?» Garona le rivolse un sorriso paternalistico e scosse la testa. «Mi hanno avvertito di non rispondere a domande che non siano puramente personali.» Suzanne sollevò gli occhi al cielo. «Scusa», disse con una vena di sarcasmo. «Mi è sfuggito.» «Non c'è di che, va tutto bene.» «Allora, devo pensare a domande personali?» «Se ti va.» «Dunque...» Suzanne cercò di farsene venire in mente una. «Hai sempre vissuto qui?» Garona si sganasciò dalle risate, tanto da attirare l'attenzione di due uomini al piano di sotto. Sollevarono la testa, nel riconoscerlo agitarono le mani in segno di saluto e cominciarono a salire. «Scusa se ho riso, ma la tua domanda mette ancora più in evidenza quanto sei meravigliosamente innocente. È così gradevole. Mi piacerebbe tanto che ci conoscessimo meglio. Quando ne avrai abbastanza dei festeg-
giamenti e ti verrà voglia di andar via, fammelo sapere. Vorrei accompagnarti al tuo alloggio. Potremmo trascorrere del tempo in intimità, a premere i palmi, solo tu e io, che ne dici?» Susanne rimase a bocca aperta, nel comprendere il vero significato della proposta di Garona. Rise beffarda. «Garona, non posso crederci. Solo poche ore fa pensavo di essere sul punto di morire. Adesso mi trovo in una specie di fantasilandia, assieme a un uomo stupendo che mi corteggia e vuole venire in camera mia. Come dovrei rispondere?» «Di' semplicemente di sì.» «Temo di essere un po' troppo sbalordita per rispondere in modo così tranquillo.» «Sì, capisco. Però io posso darti conforto e farti rilassare.» Suzanne scosse la testa. «No, non credo che tu capisca davvero. Faccio fatica anche solo a pensare in modo coerente.» «Tu mi ecciti», insisté Garona, «mi affascini. Desidero stare con te.» «Devo prendere atto della tua perseveranza», riconobbe Suzanne. «Ne parleremo ancora in seguito. Ecco che arrivano due miei amici.» Suzanne si voltò e vide i due uomini che, richiamati dallo scoppio di risa di Garona, erano saliti su per le scale e ora si stavano avvicinando. Non poté fare a meno di notare che entrambi erano attraenti quanto lui. Camminavano tenendosi per mano, come due innamorati. «Salute a voi, Tarla e Reesta», li accolse Garona. «Avete già conosciuto la nostra onorevole ospite, la dottoressa Suzanne Newell?» «Non ancora», risposero i due all'unisono. «Speravamo di avere questo onore.» Si inchinarono con eleganza. Suzanne si sforzò di sorridere. Era tutto così strano, ma anche incantevole. Le sembrava di essere in un sogno. Richard sapeva bene di essere ubriaco, ma non era certo la prima volta. La sua ebbrezza non sembrava tenere lontane le donne, anzi continuavano a gettarglisi addosso. Si rendeva conto che i loro visi cambiavano, mentre continuava a ballare, e questo significava che c'era una specie di rotazione, ma non gli importava, dato che erano tutte bellissime. Senza averne l'intenzione, andò a sbattere contro Michael e tutti e due persero l'equilibrio. Si afflosciarono a terra senza farsi male. Quando si accorsero di ciò che era accaduto, si misero a ridere talmente forte da avere la lacrime agli occhi. «Che festa!» gridò Michael, quando si riprese abbastanza da riuscire a
parlare, e si strofinò gli occhi con il dorso di una mano. «Non ci crederà nessuno, quando torneremo a casa», concordò Richard. «Soprattutto quando gli diremo che ogni singola pollastra ci stava. Voglio dire, è come fare il tiro al piccione. È irreale!» «E agli uomini quaggiù non gliene frega niente. Ehi, guarda quella ragazza!» «Quale?» Richard rotolò su se stesso e cercò di seguire lo sguardo di Michael attraverso la folla. Alla fine scorse una rossa statuaria che camminava a braccetto di un ragazzino. «Uau!» esclamò. «L'ho vista prima io», si affrettò ad affermare Michael. «Ma io arriverò primo.» «Nossignore.» «Va' in culo!» Lanciato questo improperio, Richard si mise ginocchioni e poi in piedi. Michael allungò una mano e lo afferrò per una gamba, facendolo cadere a testa in avanti fuori dalla piattaforma, con la fronte che andava a sbattere sul pavimento. Richard non si fece male, ma andò in collera, soprattutto vedendo che Michael cercava di sorpassarlo per avvicinarsi alla ragazza. Così mise fuori un piede, facendogli lo sgambetto, e gli fu addosso prima che l'altro riuscisse a rialzarsi. Afferratolo per il davanti della tunica, gli mollò un pugno sul naso. L'improvvisa violenza fece indietreggiare i partecipanti alla festa e, quando il naso di Michael cominciò a sanguinare, si levò un ansito collettivo. Michael riuscì a scrollarsi di dosso Richard e fece per alzarsi poi, vedendo che anche l'altro tentava la stessa mossa, gli assestò un colpo sul lato della testa, spedendolo di nuovo a terra. «Forza, bastardo», gli gridò, mantenendosi in piedi a malapena. «Alzati e combatti!» Il sangue gli gocciolava giù per il mento e andava a finire sul pavimento. Richard si mise carponi e, sollevando lo sguardo verso di lui, sibilò: «Sei un uomo morto!» «Forza, deficiente!» lo apostrofò Michael. Richard riuscì a mettersi in piedi, ma anche lui non era ben saldo sulle gambe. Arak, che all'inizio della rissa si trovava a qualche distanza dai due sub, si fece largo tra la folla sgomenta e si pose fra loro.
«Vi prego», li esortò, «quale che sia il problema, possiamo risolverlo.» «Fuori dai piedi!» sbottò Richard, lo spinse da parte e sferrò una sventola destinata a colpire sulla testa Michael, che la evitò chinandosi di botto e perse l'equilibrio. Anche Richard, trascinato dalla forza del colpo andato a vuoto, finì nuovamente a terra. «Cloni, fermate gli ospiti!» ordinò Arak. I due sommozzatori riuscirono nuovamente ad alzarsi e a scambiarsi qualche pugno senza conseguenze, prima che intervenissero due robusti cloni maschi che li strinsero ognuno in una presa poderosa. Richard e Michael cercarono di continuare a colpirsi, ma i due cloni li allontanarono sempre di più, fino a rendere impossibile qualsiasi contatto fra loro. A quel punto arrivò Perry, che si era fatto largo tra la folla. «Idioti, avete dimenticato dove vi trovate?» sbraitò. «Cristo! Smettetela di litigare! Che cos'avete, voi due?» «Ha cominciato lui», dichiarò Richard. «Ha cominciato lui», lo contraddisse Michael. «No, lui.» «No, lui.» Prima che Perry potesse reagire a questo battibecco infantile, i due scoppiarono a ridere. Ogni volta che cercavano di guardarsi ridevano più forte. Ben presto nella sala stavano ridendo tutti, tranne Perry e i due cloni. A un comando di Arak, questi lasciarono liberi i due litiganti, che si diedero il cinque. «Per cosa litigavano?» domandò Arak a Perry. «Troppo cristallo», rispose lui. «Forse dovremo dar loro del liquore meno forte.» «Oppure non dargliene per niente.» «Ma non voglio rovinare la festa. Tutti si divertono con loro.» «La festa è tua.» Intanto, i due contendenti si stavano dirigendo di nuovo verso la piattaforma. «Sai cosa ti dico?» sussurrò Richard. «Facciamo una cosa corretta. La rossa ce la giochiamo a pari o dispari.» «Va bene.» «Scegli tu.» «Pari.» Contarono fino a tre, poi entrambi misero fuori un dito. Michael sorrise soddisfatto. «Giustizia!» esclamò.
«Merda!» imprecò Richard. «E adesso dove cazzo è?» Tutti e due scrutarono tra la folla. «Eccola!» Richard la indicò col dito. «È ancora con quella mezzacartuccia.» «Sarò di ritorno in un lampo», gli assicurò Michael e attraversò la folla in linea retta verso la ragazza la quale, si accorse, lo osservava avvicinarsi con grande interesse. «Ciao, pupa», la salutò, evitando di incrociare lo sguardo con il preadolescente che l'accompagnava. «Mi chiamo Michael.» «Io mi chiamo Mura. Ti sei fatto male?» «No, che diavolo! Una bottarella sul naso non fa male al vecchio Michael. Assolutamente.» «Noi non siamo abituati a vedere il sangue.» «Ascolta, che cosa ne diresti di venire a strofinare i palmi con me? Abbiamo una festicciola tutta speciale che si sta svolgendo sulla piattaforma attorno alla vasca.» «Mi piacerebbe tanto strofinare i palmi con te, ma prima ti posso presentare Sart?» «Oh, sì, ciao, Sart!» salutò Michael in modo disinvolto. «Hai una mamma che è uno schianto, ma perché non vai a giocare con gli amici?» Mira e Sart ridacchiarono, e Michael non ne fu divertito. «Divertente, eh?» chiese irritato. «Inatteso rende meglio l'idea», replicò Mura. Michael la prese per un braccio. «Vieni, tesoro», la esortò, e liquidò il ragazzino con uno sbrigativo: «Ci vediamo più tardi». Tirandosi dietro Mura e barcollando un po', ritornò quindi verso Richard e il resto del gruppo. L'amico si stava dedicando a due donne che si erano dimostrate particolarmente espansive nei suoi confronti e le presentò come Meeta e Palenque. Una era bionda, l'altra bruna ed entrambe avevano forme particolarmente voluttuose. «Richie, ti presento Mura», annunciò Michael tutto orgoglioso. Richard finse di non rimanere colpito dalla rossa mozzafiato e indicò il ragazzino, chiedendo chi fosse. Michael si voltò e, irritato, notò che Sart li aveva seguiti. «Fila, moccioso», gli sibilò. Mura però lo ignorò e incoraggiò Sart a fare un passo avanti, quindi lo presentò a Richard. «Ehi, piacere di conoscerti, Sart», lo accolse Richard. «Anche te, Mura.
Perché non vi sedete qui con noi?» «Sarebbe una buona idea», rispose Mura. «Davvero», aggiunse Sart. Michael roteò gli occhi per la frustrazione e l'irritazione, di fronte alla capacità del collega di vanificare il suo trionfo. Per un attimo pensò di stenderlo con un cazzotto. «Ehi, anche tu, Mikey», aggiunse Richard, gongolante. «Vieni, amico, prendi una sedia e rilassati! Ti farà bene. In fondo, siamo tutti un'unica, grande famiglia!» Quel commento provocò varie risatine negli interterrani che lo avevano udito, con il risultato di aumentare ancora di più l'imbarazzo di Michael. «Ascolta, Mickey», continuò Richard. «La mia bomba bionda, Meeta, mi ha appena detto una cosa interessante. In Interterra tutti adorano nuotare.» «Accipicchia!» Michael si illuminò. «Glielo hai detto che noi siamo dei professionisti?» «Naturalmente, ma non sono sicuro che abbiano capito bene di cosa si tratta. Sembra che l'idea di lavoro non gli entra tanto in testa.» «Se nuotate per lavoro, questo significa che vi piace nuotare?» domandò Meeta. «Certo che ci piace nuotare», rispose Michael. «Allora perché non facciamo tutti un bel tuffetto?» propose lei. «Perché no?» si associò Mura. «Avete bisogno di raffreddarvi un po'.» «Penso che sia un'ottima idea», aggiunse Sart. Richard guardò l'invitante piscina color acquamarina. «Intendete proprio adesso?» «Quale sarebbe un momento migliore di questo?» intervenne Palenque. «Siamo tutti accaldati e sudati.» «Ma i vestiti», osservò Richard. «S'infradiceranno». «Noi non ci teniamo addosso i vestiti, quando nuotiamo», lo informò Meeta. Richard scoccò all'amico un'occhiata significativa. «Questo posto diventa sempre meglio.» «Allora?» li esortò Meeta. «Che cosa dicono i nuotatori professionisti?» Richard deglutì. Temeva che, se avesse parlato, si sarebbe svegliato. «Io dico di farlo!» rispose Michael. «Meraviglioso!» approvò Meeta. Saltò in piedi e aiutò Palenque a fare altrettanto. Anche Sart si alzò e diede una mano a Mura. In un batter d'oc-
chio si tolsero senza la minima vergogna le tuniche e fecero scivolare a terra i pantaloncini, poi, nelle loro splendide nudità, si gettarono in acqua e nuotarono verso il centro della piscina, con energiche, abili bracciate. I due terrestri al momento erano troppo sbalorditi per imitarli. Si guardarono attorno, per verificare la reazione delle persone nelle immediate vicinanze. La loro sorpresa aumentò ulteriormente nel notare che, tranne Perry, nessuno ci aveva fatto caso. Poi si scambiarono un'occhiata eloquente. «Porca miseria, che cosa aspettiamo?» chiese Richard, con uno smisurato sorriso da ubriaco. In un attimo, tutti e due cominciarono a togliersi goffamente i panni di dosso. Nello stesso tempo, si diressero verso la piscina. Michael ebbe qualche difficoltà con i pantaloncini e finì con l'inciampare. Richard se la cavò meglio e ben presto corse verso la zona poco profonda al centro della piscina. Al suo arrivo, fu letteralmente assalito da Meeta e Palenque che lo gettarono ripetutamente sott'acqua. Questo giocoso maltrattamento da parte delle due nude bellezze gli piaceva, ma si ritrovò presto a corto di fiato. Quando Michael arrivò, si impegnò in simili attività assieme a Mura, mentre Palenque si ritirava verso l'estremità della piscina con Sart. A quel punto Richard, stremato, fu contento di fermarsi a galleggiare languidamente assieme a Meeta. «Richard, Richard, Richard!» esclamò con gioia la bionda bellezza, mentre premeva ripetutamente i palmi contro i suoi e lo carezzava sulla testa. «Sei il visitatore più primitivamente attraente che abbiamo mai avuto a Saranta. Forse nell'intera Interterra, per lo meno nelle ultime migliaia di anni.» «Pensavo che mia madre fosse l'unica ad apprezzarmi», commentò lui.» «Hai conosciuto tua madre? Che strano.» «Certo che ho conosciuto mia madre. Perché, tu non conosci la tua?» «No», rispose Meeta con una risata. «Nessuno in Interterra conosce la propria madre. Ma è meglio non addentrarci in questo argomento. Perché invece non mi porti in camera tua?» «Questa sì che è un'idea! Ma la tua amica Palenque? Che cosa dobbiamo dirle?» «Qualsiasi cosa tu voglia. Ma è più facile chiederglielo. Sono sicura che anche lei avrà voglia di venire. E Karena. Anche lei ne avrà voglia.» Richard cercò di agire con disinvoltura, ma temeva che la sua sorpresa di
fronte a quella fortuna inattesa fosse fin troppo apparente. Allo stesso tempo, considerata la piega che stavano prendendo le cose, desiderava non aver bevuto così tanto. Fu un gruppo chiassoso quello che uscì dal padiglione diretto verso il villino della sala da pranzo. Suzanne, Perry e i sommozzatori cantavano a squarciagola i successi dei Beatles, deliziando i loro compagni i quali, sorprendentemente, ne conoscevano le parole. Suzanne camminava accanto a Garona, Perry era con Luna, Richard con Meeta, Palenque e Karena e Michael con Mura e Sart. Anche se Suzanne e Perry erano stati attenti a non bere tanto, quel poco che avevano buttato giù gli era andato alla testa. Non erano neanche lontanamente ubriachi come Richard e Michael, ma si rendevano conto di essere un po' alticci. E si stavano divertendo immensamente. Mentre la festa andava scemando, Arak li aveva salutati, promettendo di incontrarli la mattina seguente. Aveva augurato loro un gradevole riposo e li aveva ringraziati per aver partecipato ai festeggiamenti. Quando ebbero finito la loro interpretazione di Come Together, Richard propose: «Ehi, ma voi non avete delle canzoni da cantare?» «Ma certo», rispose Meeta e immediatamente gli interterrani si lanciarono nei canti: le parole erano in inglese, ma il ritmo era irregolare come la musica che avevano ballato poco prima. «Basta!» gridò Richard. «Troppo strampalate! Torniamo ai Beatles!» «Richard, rispettiamo anche i gusti degli altri!» lo rimproverò Suzanne. «Va bene così», la rassicurò Meeta. «Preferiamo cantare le vostre canzoni.» «Michael, che diavolo ci fai con i bicchieri?» chiese Richard nel vedere che il suo compagno portava parecchi bicchieri. «L'ho chiesto ad Arak», rispose lui. «Mi ha detto che potevo prenderli. Sono d'oro. Scommetto che con questi ho abbastanza per dare un anticipo per un nuovo pickup.» Richard protese una mano e ne afferrò uno. «Ehi, ridammelo!» esclamò Michael. Richard rise. «Preparati a un passaggio. Ti servo un tiro lungo.» Michael affidò il resto dei calici a Mura, poi barcollò avanti per prepararsi al tiro. Richard gli lanciò il calice che aveva preso come se fosse una palla ovale, facendolo volare a spirale fin nelle sue mani. Tutti applaudirono. Michael fece un inchino, perse l'equilibrio e cadde. Gli altri ridac-
chiarono e applaudirono più forte. «Noi abbiamo degli animali domestici che fanno quel gioco», osservò Mura. «Ne ho visti alcuni mentre volavamo qui», le disse Suzanne. «Sembravano creature composite.» «Lo sono.» «Avete degli sport, quaggiù?» domandò Richard. Michael intanto raccoglieva il resto dei suoi calici. «No, non pratichiamo sport», rispose Meeta, «a meno che non intendi i giochi mentali, cose del genere.» «No, per la miseria! Io intendo l'hockey o il football.» «No. Non ci dedichiamo a competizioni fisiche.» «E perché?» «Non è necessario. E nuoce alla salute.» Richard scoccò un'occhiata a Michael. «Non c'è da stupirsi che gli uomini siano dei tali imbranati», commentò. L'altro annuì. «Che ne dite di Lucy in the Sky with Diamonds?» propose Suzanne. «Mi sembra appropriata.» Qualche momento dopo, continuando a cantare il ritornello, il gruppetto entrò barcollando nella sala da pranzo. Era buio, ma gli interterrani, non si sa come, fecero accendere le luci. Perry stava per chiedere come avessero fatto, quando notò Donald. Era rimasto seduto in silenzio al buio. L'espressione era cupa come quando gli altri si erano allontanati per partecipare alla festa. «Mio Dio!» esclamò Richard, «Mister Incorruttibile è esattamente dove lo avevamo lasciato.» Michael depose con ostentazione il suo mucchio di calici sul tavolo. Richard andò a sedersi dirimpetto a Donald, tirandosi dietro le donne come trofei. «Allora, ammiraglio Fuller», lo apostrofò in tono derisorio, mentre eseguiva un comico saluto militare, «immagino che, vedendo il nostro bottino e chi ci fa compagnia, ti rendi conto di cosa ti sei perso.» «Di certo», rispose lui con sarcasmo. «Non ti puoi immaginare che divertimento è stato, spiritosone.» «Sei ubriaco, marinaio!» Il tono di Donald era sprezzante. «Per fortuna, alcuni di noi hanno abbastanza autocontrollo da non perdere l'intelletto.» «Sì, be', adesso ti dico che cos'hai che non va», sbottò Richard, puntandogli contro il viso un dito ondeggiante. «Tu pensi ancora di essere nella dannata marina. Be', lascia che ti dica una cosa: non ci sei più.»
«Non sei solo stupido, sei disgustoso.» Nella mente di Richard scattò qualcosa. Spinse via le donne e si gettò attraverso il tavolo di marmo, cogliendo Donald di sorpresa. Nonostante l'ebbrezza, riuscì a bloccarlo mettendoglisi a cavalcioni e gli menò qualche colpo sui lati della testa, senza sortire effetti. Donald reagì avvolgendolo in una stretta poderosa. Così avvinti, i due caddero dalla sedia. Nessuno riusciva a fare grandi danni all'altro, ma continuavano a menarsi colpi. Andarono a sbattere contro la tavola e questo fece cadere a terra la collezione di calici, con un gran fracasso. Gli interterrani si tirarono indietro sgomenti, mentre Suzanne e Perry intervennero. Non fu facile, ma alla fine riuscirono a separare i due. Questa volta era Richard ad avere il naso sanguinante. «Bastardo!» bofonchiò mentre se lo tastava e guardava il sangue. «Sei fortunato che c'erano qui i tuoi amici», ribatté Donald. «Avrei potuto ucciderti.» «Basta così!» esclamò Perry. «Smettetela di punzecchiarvi e di menarvi. È ridicolo: vi state comportando come bambini dell'asilo» «Idiota!» gridò ancora Donald. Si divincolò dalla stretta di Perry e si diede una sistemata alla tunica. «Coglione!» rispose Richard. Si allontanò da Suzanne e si rivolse alle sue tre amiche. «Venite ragazze! Andiamo nella mia stanza, dove non mi toccherà avere davanti questo brutto muso.» Nel dir così, barcollò verso di loro. Le tre donne però indietreggiarono e poi, senza dire una parola, fuggirono via dalla stanza, sparendo nel buio della notte. Richard le rincorse, ma si fermò al margine del prato, vedendo che erano già a metà strada verso il padiglione. «Ehi!» le chiamò, portandosi le mani a coppa attorno alla bocca. «Tornate qui! Meeta...» «Penso sia ora che te ne vada a letto», gli consigliò Suzanne. «Hai già creato abbastanza scompiglio.» Richard rientrò nella sala da pranzo, deluso e in collera. Sbatté la mano aperta sul tavolo, talmente forte da far sobbalzare tutti quelli che erano nella stanza. «Merda!» gridò a nessuno in particolare. Nello spingere con mano tremante la porta del suo villino, Perry fece del suo meglio per nascondere Luna e farla passare prima di lui. Era tanto tempo che non si trovava da solo a quel modo con una donna. Non aveva idea se l'ansia gli proveniva dal senso di colpa nei confronti della moglie o
dal riconoscere che la ragazza era troppo giovane per lui. Per di più, si sentiva leggermente ubriaco; comunque l'ebbrezza gli derivava, più che dal liquore, dal fatto che una giovane bellezza lo trovasse attraente. Nonostante il nervosismo, comunque, fu abbastanza sensibile da rendersi conto che anche Luna era agitata. «Posso offrirti qualcosa?» le chiese. «Dovrei avere a disposizione cibo e bevande.» Osservò la ragazza avvicinarsi alla piscina e chinarsi per saggiarne la temperatura. «No, grazie», disse lei e si mise a girellare per la stanza. «Mi sembri turbata», osservò Perry. Non sapendo che altro fare, si avvicinò al letto e vi si sedette. «Lo sono. Non ho mai visto una persona agire come Richard.» «Non è il nostro miglior ambasciatore.» «Ci sono tante persone come lui, nel posto da dove venite?» «Purtroppo, il suo tipo non è poco comune. Di solito, dietro un simile comportamento, c'è una storia di maltrattamenti che si trasmette di generazione in generazione.» Luna scosse la testa. «Da dove viene lo stimolo ai maltrattamenti?» Perry si grattò in testa. Non aveva intenzione di imbarcarsi in una discussione sociologica, né al momento se ne riteneva capace. Però sentiva di dover dire qualcosa. Luna lo stava guardando intensamente. «Be', vediamo... Non è una cosa alla quale abbia dedicato tante considerazioni, ma nella nostra società c'è molto scontento, dato da aspettative di alto livello e dal ritenersi in diritto di ottenere certe cose. In realtà sono poche le persone davvero soddisfatte.» «Non capisco.» «Ti faccio un esempio. Uno si compera una Ford Explorer e poi vede la pubblicità di una Lincoln Navigator, il che fa sembrare l'Explorer insignificante.» «Non so che cosa sono.» «Solamente degli oggetti. E noi siamo condizionati, dalla continua pubblicità, a pensare di non avere mai le cose giuste.» «Non comprendo questo tipo di cupidigia», osservò Luna. «Qui in Interterra non abbiamo niente di simile.» «Be', allora è difficile da spiegare. Comunque c'è un sacco di scontento che raggiunge il massimo soprattutto nelle famiglie povere che hanno ancora meno cose degli altri, e all'interno delle famiglie si tende a sfogarsi gli uni con gli altri.»
«È triste. E fa paura.» «Sì, ma è come se fossimo condizionati a non pensarci, perché è ciò che traina la nostra economia.» «Sembra strano che una società incoraggi la violenza. La violenza per noi è scioccante, dato che non ce n'è in Interterra.» «No?» chiese Perry. «No, mai. Non ho mai visto una persona colpirne un'altra. Mi fa sentire debole.» «Allora perché non ti siedi?» Perry diede qualche pacca sul letto, accanto a sé, sentendosi in imbarazzo. Ma Luna si avvicinò senza problemi e gli sedette accanto. «Non ti gira la testa, eh?» le chiese, cercando di fare conversazione, adesso che lei era tanto vicina. «No, no, sto bene.» Lui la guardò negli occhi, di un celeste trasparente. Per un attimo non riuscì a parlare. Poi disse: «Sai, sei molto giovane». «Giovane? Che cosa c'entra?» «Be'...» Perry cercò le parole. Non era sicuro nemmeno lui se si riferiva alla sua reazione al comportamento di Richard o al rapporto tra loro due. «Quando sei giovane non hai tanta esperienza come quando hai vissuto più a lungo. Forse non hai avuto modo di assistere a episodi di violenza.» «Senti, qua non c'è violenza», ribatté Luna con decisione. «È stata esclusa fin dall'inizio. Inoltre, non sono giovane come probabilmente credi. Quanti anni pensi che abbia?» «Non lo so», balbettò Perry. «Una ventina.» «Adesso sei tu a sembrare turbato.» «Immagino di esserlo, un po'. Potresti essere mia figlia.» Luna sorrise. «Ti posso assicurare di avere più di vent'anni. Questo ti fa sentire meglio?» «Un po'. In realtà non so perché mi sento così nervoso. Qui è tutto bello, ma allo stesso tempo sconcertante.» «Capisco.» Luna sorrise di nuovo e sollevò le mani, i palmi verso di lui. Perry vi poggiò contro i propri, timidamente. «Che cos'è questa cosa con le mani?» domandò. «È solo il modo in cui mostriamo amore e rispetto. Non ti piace?» «Quanto all'amore, preferisco il bacio.» «Come faceva Richard stasera?» «In modo un po' più intimo di come faceva lui.»
«Fammi vedere.» Perry trasse un respiro, si chinò e baciò leggermente Luna sulle labbra, poi si tirò indietro. Lei si toccò delicatamente le labbra con la punta delle dita, come se fosse stupita della sensazione provata. «Non ti è piaciuto?» le domandò Perry. «Sì, ma le dita e i palmi delle mani sono più sensibili delle labbra. Fammi vedere di più.» Perry deglutì, nervoso. «Sei sicura?» «Sì, sono sicura.» Luna gli si avvicinò ancora di più e lo fissò con quei suoi occhi sognanti. «Ti trovo molto attraente, signor presidente della Benthic Marine.» Perry la strinse fra le braccia e si stese con lei sul copriletto di cashmere bianco. Michael era al settimo cielo. Mura era la donna dei suoi sogni. Non avrebbe potuto trovarne una migliore. Non gli importava nemmeno della continua presenza di Sart. Il ragazzo stava in piscina, lasciandolo solo con lei. Proprio quando stava per perdere i sensi dal piacere, la sua estasi fu interrotta da alcuni colpi alla porta. Cercò di ignorarli, ma alla fine barcollò fino all'ingresso, mezzo nudo. In piedi si sentiva ancora più ubriaco. «Chi diavolo è?» chiese. «Sono io, il tuo amico del cuore.» Michael aprì la porta. «Che problema c'è?» «Nessun problema», rispose Richard, cercando di guardare all'interno della stanza. «Pensavo solo che magari potresti avere bisogno di un po' di aiuto, se sai cosa intendo.» Il cervello confuso di Michael impiegò qualche secondo a cogliere l'allusione. Guardò Mura sul letto e poi di nuovo Richard. «Stai scherzando?» gli chiese. «No», rispose lui, rivolgendogli un sorriso sghembo. «Mura», chiamò Michael. «Ti spiace se Richard si unisce a noi?» «Soltanto se promette di comportarsi bene.» Michael guardò l'amico ostentando sorpresa. «Hai sentito che cosa ha detto la signora», gli disse con un sorriso d'intesa. Spalancò la porta e lo fece entrare. Mentre i due uomini si avvicinavano al letto, Mura sollevò entrambe le mani. «Forza, primitivi!» li chiamò. «Non vedo l'ora di premere i palmi con
tutti e due.» I due compagni si scambiarono uno sguardo di entusiastico stupore, poi Michael tornò sul letto, mentre Richard si toglieva gli indumenti di satin; quindi, sdraiatosi anche lui vicino a Mura, commentò: «Voi interterrani siete davvero liberi riguardo all'amore». «È vero», confermò Mura. «Abbiamo tanto amore. È la nostra ricchezza.» Poco dopo i due sommozzatori ubriachi si sdilinquivano di piacere fra le sue braccia. Non era precisamente sesso, dato che nel loro stato non sarebbero stati in grado di consumare, ma non avrebbero potuto sentirsi più soddisfatti di così. Sart aveva osservato l'arrivo di Richard dall'estremità della piscina. Per quell'uomo provava contemporaneamente attrazione e repulsione. Soprattutto, era curioso. Stanco di nuotare, uscì dall'acqua, si asciugò e si avvicinò al gaudente terzetto. Mura gli sorrise. Teneva le braccia attorno ai due sub, che si erano addormentati. Mura fece cenno a Sart di sedersi sul letto. Stava massaggiando delicatamente la schiena di entrambi gli ospiti e le andava bene se il ragazzino la sostituiva con Richard, così lei avrebbe potuto concentrarsi meglio su Michael. All'inizio Sart si limitò a massaggiare la schiena di Richard, come stava facendo lei, ma poi decise di improvvisare, passando al braccio e alla spalla scoperti. La pelle del terrestre gli sembrava strana al tatto. Non era soda come quella degli interterrani e aveva tante piccole, curiose imperfezioni. Poi concentrò la sua attenzione sulla testa, dove aveva notato, sul cuoio capelluto sopra un'orecchia, una chiazza violacea. Si chinò a osservarla più attentamente, toccandola delicatamente con un polpastrello, quando gli occhi di Richard si aprirono di scatto. Sart gli sorrise con languore e continuò a carezzarlo. «Che diavolo fai?» gridò il terrestre, spingendo via con malagrazia la mano di Sart, poi balzò giù dal letto, con la goffaggine tipica degli ubriachi. Anche Sart si alzò. Si chiese se il segno sopra l'orecchio di Richard fosse esageratamente sensibile. Forse non avrebbe dovuto toccarlo. L'improvviso movimento destò Michael. Assonnato e sbalordito, si tirò su a sedere, nonostante Mura lo cingesse con il braccio. Vide Richard barcollare di fianco al letto e guardare torvo Sart, il quale aveva un'aria leggeremente colpevole.
«Che cosa c'è, Richie?» gli domandò con la voce impastata e particolarmente roca. L'amico non rispose, si sfregò la testa con una mano, mentre continuava a guardare malissimo il ragazzino. «Che cosa è successo, Sart?» volle sapere Mura. «Ho toccato la macchia di Richard», spiegò lui, «quella sopra l'orecchio. Mi spiace.» «Michael, vieni!» chiamò Richard perentorio e fece un ampio gesto del braccio per invitare l'amico a scendere dal letto, mentre lui intanto si dirigeva verso la piscina. Michael si mise in piedi, sentendosi girare la testa per il sonnellino troppo breve, e lo seguì fino a un punto della stanza in cui gli altri non potevano udirli. Capiva che l'amico era particolarmente turbato. «Che cosa succede?» gli domandò con un sussurro. Richard si strofinò la bocca con il dorso di un mano. Continuava a tenere fisso su Sart uno sguardo decisamente poco amichevole. «Penso di aver capito come mai a tutti questi tizi non importa se lo facciamo con le loro donne», sussurrò a sua volta. «Come mai?» «Penso che siano tutti un branco di finocchi.» «Davvero?» Michael si voltò a scrutare Sart. Quella possibilità lo aveva sfiorato alla festa, nel vedere così tanti uomini andare in giro a braccetto, ma poi non ci aveva più pensato, nell'eccitazione generale. «Già. E ti dirò anche un'altra cosa. Quella mezzacalzetta mi ha strofinato la schiena e la testa, e io credevo che fosse la ragazza.» Michael rise, nonostante l'evidente collera di Richard che infatti sbottò: «Non è divertente!» «Scommetto che Mazzola invece lo troverebbe divertentissimo!» «Se lo dici a Mazzola, ti ammazzo!» «Sì, fammi un po' vedere! Ma, nel frattempo, che cosa ne facciamo?» «Penso che dovremmo mostrare a questo deficiente che cosa ne pensiamo di quelli come lui. Mi ha messo le mani addosso dappertutto, Cristo! Non ho intenzione di fargliela passare liscia. Secondo me, non dovremmo lasciare che questa gente si faccia un'idea sbagliata delle nostre convinzioni.» «Va bene. Sono d'accordo. Che cos'hai in mente?» «Come prima cosa, liberarci della ragazza!» «Oh no! Dobbiamo proprio?» gemette Michael.
«Assolutamente», insisté Richard, con impazienza. «E non fare quel muso lungo. Puoi dirle di tornare domani. È importante dare una lezione a questo tipetto, e non vogliamo che ci sia il pubblico. Lei si metterebbe a gridare all'assassinio e di punto in bianco ci troveremmo ad affrontare un paio di quei cloni.» «D'accordo.» Michael trasse un respiro per rinvigorirsi e tornò verso il letto. «Richard sta bene?» s'informò Mura. «Sì, ma è stanco. In realtà siamo stanchi tutti e due. Forse 'esausti' rende meglio l'idea. Per di più siamo ubriachi, come penso che avrai notato.» «Questo non mi ha dato fastidio. Mi sono divertita.» «Mi fa piacere. Ma adesso ci chiedevamo se per premere i palmi potessimo rimandare a domani. Insomma, dovresti andare via.» «Ma certo», acconsentì Mura senza esitare. Scivolò immediatamente fuori dal letto e cominciò a rivestirsi. Sart fece lo stesso. «Non vorrei che ti facessi un'idea sbagliata», aggiunse Michael. «Mi farebbe molto piacere rivederti domani.» «Capisco che siete stanchi», replicò Mura garbatamente. «Non ti preoccupare. Siete nostri ospiti e io tornerò domani, se questo sarà il vostro desiderio.» Sart si legò in vita la cintura intrecciata e guardò di nuovo Richard, che non si era mosso dal punto in cui si era fermato, a metà strada tra il letto e la piscina. «Sart», lo interpellò Michael, seguendo il suo sguardo. «Perché non rimani? Richard vorrebbe scusarsi per averti spaventato quando è saltato fuori dal letto.» Il ragazzo guardò Mura, che alzò le spalle e gli disse: «Decidi tu, amico mio». Sart guardò nuovamente Richard, che gli sorrise e gli fece l'occhiolino. «Se gli ospiti desiderano che io rimanga, rimarrò», decise. Tornò verso il letto con un portamento leggermente sussiegoso e vi si sedette. «Benissimo!» commentò Michael. Mura finì di vestirsi, quindi andò da Michael e poi da Richard a premere un'ultima volta i palmi delle mani. Disse che con loro aveva provato molto piacere e che non vedeva l'ora di incontrarli di nuovo il giorno dopo. Prima di chiudersi la porta alle spalle, augurò la buona notte. Dopo che si fu spento il suono della porta che si chiudeva, ci fu un silenzio imbarazzato. Richard e Michael guardarono Sart, mentre lui spostava
lo sguardo avanti e indietro fra loro due. Poi cominciò a muoversi nervosamente, quindi si alzò. «Forse dovrei far portare qualche altra cosa da bere», propose, per fare conversazione. Richard gli rivolse un sorriso forzato e scosse la testa. Poi gli si avvicinò compiendo i passi come se i piedi andassero per conto loro. «Del cibo?» tentò ancora Sart. Richard scosse di nuovo la testa. Ormai si trovava talmente vicino al ragazzo che, allungando un braccio, avrebbe potuto toccarlo. Sart fece un passo indietro. «Io e il mio amico, qui, abbiamo una cosa importante da dirti», si decise Richard. «Vero», convenne Michael. Con la stessa andatura barcollante, girò attorno al letto per raggiungere l'amico, bloccando Sart nell'angolo fra il letto e la parete. «Per dirla senza peli sulla lingua, in modo che non ci siano fraintendimenti», continuò Richard, «le checche come te non ci piacciono.» «Anzi, ci fanno un po' incazzare», aggiunse Michael. Sart spostò rapidamente lo sguardo avanti e indietro fra i due visi ghignanti e abbrutiti dall'alcool. «Forse è meglio se me ne vado», disse nervoso. «Non prima che siamo assolutamente sicuri che hai capito ciò di cui siamo parlando», lo fermò Richard. «Io non lo so che cosa intendete con 'checche'», ammise Sart. «Omosessuali, gay, finocchi, invertiti...» snocciolò Richard con tono derisorio. «Il termine non importa. Il punto è che non possiamo sopportare quelli a cui piacciono gli uomini. E abbiamo il fondato sospetto che tu appartieni a questa categoria.» «Certo che mi piacciono gli uomini», dichiarò Sart. «Mi piace tutta la gente.» Richard guardò Michael, poi di nuovo Sart. «A noi non piacciono nemmeno i bisex.» Sart si gettò verso la porta, ma non vi arrivò. Richard lo strinse per un braccio e Michael afferrò una ciocca di capelli. Poi Richard prese anche l'altro braccio e, con una risata trionfante, glieli bloccò entrambi dietro la schiena. Sart cercò di divincolarsi, ma invano, anche perché Michael continuava a tenere stretta la ciocca di capelli. Una volta che il ragazzo fu immobilizzato, Michael gli sferrò un pugno nello
stomaco, facendolo piegare in due. Soddisfatti, i due lo lasciarono andare e risero mentre lo guardavano compiere qualche passo barcollante: cercava disperatamente di respirare e aveva il viso paonazzo. «Okay, signorinella», bofonchiò Richard, la voce impastata, «eccotene un altro per avermi messo addosso le tue zampacce luride.» Gli sollevò la faccia con la sinistra e lo colpì con la destra. Non fu una sberla, ma un violento uppercut in cui impresse tutta la forza del suo peso. Questo secondo pugno colpì l'interterrano in pieno viso, fratturandogli il naso e spedendolo all'indietro: perse completamente l'equilibrio e andò a sbattere la testa contro l'angolo del tavolino di marmo che fungeva da comodino. Purtroppo la fredda pietra penetrò per parecchi centimetri nel cranio del giovane. Richard inizialmente non si rese conto delle fatali conseguenze del suo potente pugno. Era troppo preoccupato a massaggiarsi le nocche ammaccate e doloranti e a imprecare ad alta voce. Michael osservò inorridito il corpo inerte di Sart che scivolava a terra e rimaneva immobile, mentre dall'orrenda ferita fuoriuscivano brandelli di materia cerebrale. Improvvisamente sobrio, si chinò su di lui e udì dei suoni gorgoglianti uscirgli dalla gola. «Richard!» chiamò, cercando di tenere la voce bassa. «Abbiamo un problema!» Richard non gli diede retta. Aveva ancora male e andava su e giù per la stanza scuotendo la mano per aria, con le dita tutte aperte. Michael allora si alzò. «Richard! Cristo! Il ragazzo è morto!» «Morto?» gli fece eco lui. La definitività di quella parola lo strappò dal suo egocentrismo. «Be', quasi. Ha la testa sfondata. Ha colpito quel dannato tavolino.» Richard si avvicinò barcollando al punto in cui si trovava l'amico e abbassò lo sguardo sulla sagoma immobile di Sart. «Porca merda!» esclamò. «Che cazzo facciamo, adesso? Perché lo hai colpito così forte?» «Non avevo intenzione, va bene?» gridò Richard. «Be', che cosa facciamo, adesso?» ripeté Michael. «Non lo so.» In quel momento il corpo martoriato di Sart esalò un ultimo ansito e i gorgoglii cessarono. «Ecco, è morto», annunciò Michael, sentendosi percorrere da un brivido. «Dobbiamo fare qualcosa, e in fretta!»
«Forse dovremmo uscire di qua.» «Non possiamo uscire di qua. Dove andremmo? Non sappiamo nemmeno dove siamo.» «Va bene, lasciami pensare. Merda, non avevo intenzione di colpirlo!» si lamentò Richard. «Oh, certo!» lo canzonò Michael, con sarcasmo. «Be', non così forte.» «E se arriva qualcuno?» «Hai ragione. Dobbiamo nasconderlo.» «Sì, ma dove?» il tono di Michael era ansioso. «Non lo so!» gridò Richard. Si guardò attorno per la stanza, affannato, poi guardò di nuovo il compagno. «Mi è appena venuta un'idea che potrebbe funzionare.» «Bene. Dove, allora?» «Prima aiutami a sollevarlo.» Richard si chinò sul cadavere di Sart e lo spostò in modo da potergli mettere le mani sotto le braccia. Michael lo prese per i piedi e insieme lo sollevarono da terra. 12 Il nuovo giorno arrivò gradualmente, proprio come sarebbe accaduto sulla superficie della Terra. La luce aumentò di intensità, facendo affievolire e scomparire le stelle, mentre il colore del soffitto a volta si trasformò dall'intenso indaco al rosa e infine a un terso azzurro. Saranta cominciò a muoversi. Suzanne fu la prima dei visitatori terrestri a svegliarsi con l'arrivo dell'alba artificiale. Mentre scrutava la propria stanza, registrando la presenza del marmo bianco, degli specchi e della piscina, si rese conto con un soprassalto che la surreale esperienza interterrana non era stata un sogno. Voltò lentamente la testa da una parte e fissò la sagoma addormentata di Garona. Era disteso su un fianco, voltato verso di lei. Suzanne si sorprese di se stessa, per avergli permesso di passare lì la notte. Non era da lei. L'unico modo in cui aveva mostrato un po' di ritegno era stato nel rifiutarsi di togliersi la tunica e i pantaloncini. Aveva passato la notte vestita. Non capiva se la colpa del suo comportamento poco convenzionale fosse da attribuirsi all'esigua quantità di cristallo bevuto o semplicemente all'avvenenza di Garona e al suo comportamento adulatore. Per quanto le seccasse ammetterlo, quando si trattava di uomini, l'attrazione fisica era im-
portante per lei. Era stata una delle ragioni per cui era rimasta impelagata in una relazione passeggera con un attore, quando stava a Los Angeles, molto dopo che aveva smesso di essere proficua. Come se percepisse il suo sguardo, Garona aprì gli occhi scuri e luminosi e le sorrise con espressione sognante. Era difficile per lei provare tanto rimorso. «Mi spiace di averti svegliato», riuscì a dire. Alla prima luce dell'alba era altrettanto bello della sera prima. «Ti prego, non dispiacerti», la rassicurò lui. «Apprezzo di essere stato svegliato e vedere che sono ancora accanto a te.» «Come mai dici sempre la cosa giusta?» La domanda di Suzanne era sincera, non sarcastica. «Dico ciò che mi piacerebbe mi fosse detto.» Suzanne annuì. Era una sensibile variazione alla Regola D'Oro. Garona rotolò verso di lei e cercò di avvolgerla in un abbraccio, ma Suzanne sgusciò via e sgattaiolò giù dal letto. «Ti prego, Garona, non ripetiamo la notte scorsa. Non ora.» Lui ricascò sul letto e la fissò. «Non capisco la tua riluttanza», commentò. «Potrebbe essere che non ti piaccio?» Suzanne gemette ostentatamente. «Oh, Garona, con tutta la tua sofisticazione e raffinatezza, non riesco a capire come mai è tanto difficile da capire, per te. Come ti ho detto la scorsa notte, mi ci vuole un po' di tempo per conoscere qualcuno.» «Che cosa hai bisogno di conoscere? Puoi farmi tutte le domande personali che desideri.» «Ascolta, tu mi piaci, questo è certo. Solo il fatto che ti ho lasciato rimanere qui ne è una testimonianza. Non è una cosa che faccio di solito, quando conosco qualcuno da poco tempo. Però ti ho lasciato rimanere, e ne sono felice. Ma adesso non puoi aspettarti troppo da me. Pensa a tutto quello che sto cercando di assimilare.» «Ma è innaturale», protestò Garona. «Le tue emozioni non dovrebbero essere così condizionate.» «Non sono d'accordo! Si chiama autoprotezione. Non posso andarmene in giro permettendo che desideri nati da un momento all'altro dettino il mio comportamento. E dovrebbe essere lo stesso per te. Dopotutto, non sai niente di me. Magari ho un amante, o un marito.» «Presumo di sì. Anzi, mi sorprenderei se tu non ne avessi. Comunque,
non importa.» «Questa è bella!» Suzanne mise le mani sui fianchi, in una posa di sfida. «Non importa a te, ma io non conto?» Interruppe la sua filippica e si strofinò gli occhi ancora assonnati. Era tutta agitata, ed era sveglia da pochi minuti. «Non discutiamone adesso», propose. «Questa giornata sarà già abbastanza faticosa. Arak ha promesso di rispondere alle nostre domande e, credimi, io ne ho un sacco.» Si avvicinò a uno degli specchi e guardò cautamente la propria immagine riflessa. La sua mente poteva anche essere in subbuglio, ma di una cosa era certa: non aveva il suo aspetto migliore, con i capelli lunghi un dito. Garona mise giù le gambe dal letto, si sedette e si stirò. «Voi umani di seconda generazione siete così seri.» «Non lo so che cosa intendi per 'seconda generazione'», ribatté lei, «ma secondo me abbiamo ragione di essere seri. Dopotutto, io non sono venuta qui di mia spontanea volontà. Come ha detto Donald, è stato un rapimento. E non occorre ti ricordi che questo significa essere portati via con la forza.» Come promesso, Arak si fece vivo subito dopo che il gruppetto aveva fatto colazione e chiese se tutti fossero pronti per la sessione didattica. Perry e Suzanne si mostrarono molto interessati, Donald un po' meno, Richard e Michael per niente. Sembravano tesi e piuttosto mogi, tutto l'opposto della loro solita sfrontatezza. Perry pensò che fossero i postumi della sbornia e lo disse a Suzanne. «Non ne dubito», commentò lei. «Da quanto erano ciucchi, sarebbe una spiegazione. Tu come ti senti?» «Alla grande. Tutto considerato, è stata una serata interessante. E il tuo amico Garona? Si è fermato a lungo?» «Un po'», rispose Suzanne, evasiva. «E Luna?» «Anche lei.» Nessuno dei due guardò l'altro negli occhi. Appena il gruppo fu pronto, Arak li condusse attraverso il prato verso una struttura emisferica simile al padiglione, ma molto più piccola. Perry e Suzanne gli restarono vicini, Donald rimase indietro di qualche passo e Richard e Michael ancora di più. «Io continuo a pensare che dovresti dirlo a Donald», sussurrò Michael. «Potrebbe avere un'idea sul da farsi.» «Che cosa cazzo farebbe quel bastardo?» ribatté Richard. «Il ragazzo è
morto. Fuller non lo riporterà in vita.» «Magari avrebbe un'idea migliore su dove mettere il cadavere. Io mi preoccupo che possano ritrovarlo. Voglio dire, non vorrei che tu scoprissi sulla tua pelle che cosa fanno quaggiù agli omicidi.» Richard si fermò di botto. «Che cosa intendi, io?» «Ehi, sei tu che lo hai ammazzato.» «Lo hai colpito anche tu.» «Ma io non l'ho ucciso. E tutta la faccenda è stata un'idea tua.» Richard guardò torvo l'amico. «Ci siamo dentro insieme, stronzo! È la tua stanza. Tutto quello che succederà a me succederà anche a te. Chiaro come il sole.» «Forza, voi due!» li esortò Arak. Stava tenendo aperta una porta che portava all'interno della piccola struttura emisferica, priva di finestre. Gli altri membri del gruppo gli stavano accanto e si erano voltati a guardare verso di loro. «Comunque», bisbigliò Michael, nervoso, «il punto è che il cadavere è nascosto a malapena. Dovresti chiedere a Donald se gli viene in mente un posto migliore. Può essere un ex ufficiale rompicoglioni, ma è in gamba.» «Va bene», si arrese Richard, riluttante. I due affrettarono il passo e raggiunsero gli altri. Arak sorrise amabilmente ed entrò nell'edificio, seguito da Suzanne e da Perry. Mentre Donald varcava la soglia, Richard lo tirò per una manica. Lui tirò via il braccio con forza e lo guardò male, ma non si fermò. «Ehi, comandante Fuller!» sussurrò Richard. «Fermati un secondo.» Donald voltò un attimo la testa, gli rivolse un'occhiata sdegnosa e continuò a camminare. Arak li stava guidando per un corridoio lungo e senza finestre. «Volevo scusarmi per ieri sera», insisté Richard, seguendo a ruota Donald. «Per cosa?» gli chiese lui sprezzante. «Per essere stupido, per essere ubriaco o per esserti lasciato turlupinare da questa gente?» Prima di rispondere, Richard si morse il labbro inferiore. «Forse tutte e tre le cose. Questa situazione ci ha fatto uscire un po' di testa. Ma non era di questo che volevo parlarti.» Donald interruppe all'improvviso la sua andatura marziale e Richard andò a sbattergli addosso, investito a sua volta da Michael. «E allora di cosa, marinaio?» domandò Donald con un tono di voce che non ammetteva divagazioni. «Fallo in fretta. Non voglio perdermi la
chiacchierata interessante che ci aspetta.» «Be', è solo che...» esordì Richard, ma si ritrovò a balbettare, non sapendo bene da dove cominciare. In contrasto con la spavalderia mostrata fino ad allora, si sentiva intimidito dall'ex ufficiale. «Forza, marinaio! Sputa il rospo!» «Michael e io pensiamo che sarebbe meglio andarcene da Interterra», fu tutto quello che Richard riuscì a dire. «Oh, molto intelligente da parte di due zucconi come voi! Suppongo che questa improvvisa rivelazione vi sia giunta stamane. Be', forse devo rammentarvi che non sappiamo dove diavolo ci troviamo, finché Arak non si deciderà a dircelo. Quindi, una volta che verremo a saperlo, forse potremo riparlarne.» Donald fece per muoversi, ma Richard, spinto dalla disperazione, lo afferrò per un braccio. L'altro abbassò uno sguardo furente sulla sua mano e gli ordinò: «Lasciami andare, prima che perda il controllo». «Ma...» «Dacci un taglio, marinaio!» sbottò Donald e strappò via il braccio dalla stretta di Richard e si affrettò a raggiungere la porta in fondo al corridoio oltre la quale erano scomparsi gli altri e, chinando la testa, ne varcò la soglia. «Perché diavolo non glielo hai detto?» chiese Michael sottovoce, irritato. «Non glielo hai detto nemmeno tu», gli fece notare l'amico. «Già, perché avevi detto che avresti parlato tu.» Michael sollevò le braccia, in un gesto di frustrazione. «Che loquacità! Mia nonna avrebbe saputo fare di meglio. E adesso siamo di nuovo al punto di partenza. E, devi ammetterlo, il corpo del ragazzo non si trova nel miglior nascondiglio possibile. E se lo trovano?» Richard rabbrividì. «Non voglio nemmeno pensarci. Ma era il posto migliore, date le circostanze.» «Forse dovremmo rimanere là.» «Non risolverebbe niente. Dai. Cerchiamo almeno di capire dove ci troviamo, così possiamo trovare un modo per andarcene in fretta.» I due seguirono Donald e si ritrovarono in una stanza circolare, futuristica, dal soffitto a cupola e con un diametro di poco meno di dieci metri. Non c'erano finestre. Un'unica fila di dodici poltroncine sagomate circondava una zona centrale buia, leggermente convessa. Arak e Sufa stavano seduti dirimpetto all'entrata, in ampi sedili che avevano delle console incorporate nei braccioli. Alla loro destra c'erano due
persone che i sub non avevano mai visto prima. Indossavano anch'esse abiti bianchi, ma non erano avvenenti come gli altri interterrani. Suzanne e Perry erano seduti alla sinistra di Arak e Sufa e Donald aveva preso posto all'estrema destra, lasciando diversi posti vuoti tra lui e gli altri. «Vi prego, Richard, Michael», li chiamò Arak. «Accomodatevi. Dove volete. Così poi cominciamo.» Richard pensò bene di superare diversi posti vuoti e scegliere quello proprio accanto a Donald, a cui rivolse un cenno con la testa. Quello però reagì spostando il peso del corpo dalla parte opposta. Michael si sedette accanto al compagno. «Benvenuti in Interterra, di nuovo», iniziò Arak. «Oggi stimoleremo il vostro intelletto in una maniera molto positiva. E vi renderete conto ben presto di quanto siete fortunati.» «Che ne diresti di cominciare dicendoci quando torneremo a casa?» sbottò Richard. «Chiudi il becco!» ringhiò Donald. Arak rise. «Richard, apprezzo la tua spontaneità e impulsività, ma abbi pazienza!» «Come prima cosa, vi presenteremo due dei nostri cittadini più illustri», intervenne Sufa. «Sono certa che troverete estremamente utile parlare con loro dato che, come voi, provengono dal mondo sulla superficie. Ho il piacere di presentarvi Ismael e Mary Black.» La coppia si alzò per un momento ed eseguì un inchino. Michael batté le mani, per abitudine, ma smise immediatamente quando si accorse che era l'unico a farlo. Suzanne e Perry osservarono la coppia spalancando gli occhi dalla curiosità. «Anche Mary e io vorremmo darvi il benvenuto», esordì Ismael. Era piuttosto alto e aveva i lineamenti scarni e affilati e gli occhi infossati. «Noi ci troviamo qui perché abbiamo sperimentato ciò che anche voi state per vivere quaggiù, e per questo potremmo esservi d'aiuto. Come suggerimento generale, vi consiglierei a questo punto di non cercare di assorbire troppe cose troppo in fretta.» Michael si chinò verso Richard e bisbigliò: «Pensi che si stia riferendo a quella meravigliosa crema per le mani della notte scorsa?» «Zitti!» sbottò Donald, poi aggiunse, scandendo bene ogni singola parola: «Se continuate a interrompere, voglio che vi allontaniate da me». «Va bene, va bene!» esclamò Michael. «Grazie, Ismael.» Arak guardò uno per uno i visitatori e aggiunse: «Spe-
ro che approfitterete tutti dell'offerta dei Black. Sappiamo che una divisione del lavoro sarà utile. Sufa e io saremo a disposizione per ciò che riguarda le informazioni, mentre le questioni che concernono l'adattamento saranno gestite meglio da Ismael e Mary». Suzanne si chinò verso Perry, sul volto un'espressione crucciata. «Che cosa intenderà per 'questioni che concernono l'adattamento'? Quanto a lungo hanno intenzione di tenerci qua?» «Non lo so», bisbigliò Perry. Anche lui si era posto le stesse domande. «Prima di cominciare vorrei fornire a ognuno di voi un telecomunicatore e un oculare», annunciò Sufa e aprì una scatola che aveva portato alla riunione. Ne estrasse cinque pacchettini, ognuno con un nome scritto sopra a lettere maiuscole, e passò a distribuirli ai visitatori. Richard e Michael lacerarono i loro due come bambini che si gettano sui regali di Natale. Suzanne e Perry aprirono i propri con cura, mentre Donald preferì tenere il suo in grembo, intatto. «Sono come un paio di occhiali e un orologio da polso senza quadrante», commentò Michael, deluso. Provò gli occhiali. Avevano una forma aerodinamica e lenti trasparenti. «Si tratta di un sistema di comunicazione a distanza», spiegò Sufa. «È attivato dalla voce e ogni dispositivo è programmato in base alle vostre voci individuali, quindi non ve li potete scambiare. In seguito vi insegneremo a usarli.» «Che cosa fanno?» domandò Richard, provandosi anche lui gli occhiali. «Più o meno tutto», rispose Sufa. «Mettono in collegamento con le fonti centrali le cui informazioni vengono mostrate virtualmente sulle lenti. Servono anche a comunicare con chiunque altro in Interterra attraverso la vista e il suono. Svolgono anche compiti mondani, come chiamare i taxi, ma ne parleremo più diffusamente dopo.» «Cominciamo», propose Arak e toccò la superficie della console. Immediatamente, il buio della la zona centrale convessa si trasformò in un azzurro fosforescente. «La prima cosa di cui dobbiamo parlare è il concetto di tempo», continuò. «Questo è forse l'argomento più difficile da afferrare per la gente come voi, perché qui in Interterra il tempo non è la struttura immutabile che sembra essere sulla superficie della Terra. Quel vostro scienziato, Einstein, ha riconosciuto la relatività del tempo, nel senso che dipende dal proprio punto di osservazione. Qui in Interterra vi troverete davanti molti esempi di tale relatività. Il più semplice, tanto per entrare nel concreto, è l'età della
nostra civiltà. Dalla prospettiva dei riferimenti su cui vi basate sulla superficie, essa è incredibilmente antica, mentre dalla nostra prospettiva, e anche da quella del resto del sistema solare, non lo è. La vostra civiltà viene misurata in termini di millenni, la nostra di milioni, e il sistema solare in miliardi.» «Oh, per Dio!» si lamentò Richard. «Dobbiamo starci a sorbire tutte 'ste cose? Io pensavo che ci diceste dove cavolo ci troviamo.» «Fino a che non comprenderete le cose fondamentali», ribatté Arak, «ciò che vi diremo sarà per voi incredibile, perfino incomprensibile.» «Perché invece non procedere nel senso inverso», insisté il sommozzatore. «Dirci prima dove siamo e poi l'altra roba.» «Richard!» sbottò Suzanne. «Sta' zitto!» Richard roteò gli occhi a beneficio di Michael, che mostrò la propria impazienza accavallando una gamba sull'altra, poi rimettendola giù, per poi accavallare quell'altra. «Il tempo non è una costante», continuò Arak. «Come ho detto, il vostro brillante scienziato Einstein lo aveva riconosciuto, ma ha commesso un errore pensando che la velocità della luce fosse il limite più elevato del movimento. Non è così, anche se occorre un'enorme quantità di energia focalizzata per infrangere quel limite. Una buona analogia dalla vita di tutti i giorni è la quantità extra di energia necessaria per il cambiamento di stadio che trasforma un solido in liquido o un liquido in gas. Spingere un oggetto oltre la velocità della luce è come un cambiamento di stadio in una dimensione dove il tempo è plastico ed è in relazione solo allo spazio.» «Per la miseria!» sbottò di nuovo Richard. «È uno scherzo?» Donald si alzò e andò a sedersi lontano da lui. «Cercate di avere pazienza», consigliò Arak, «e concentratevi sul fatto che il tempo non è costante. Pensateci! Se il tempo è veramente relativo, allora può essere controllato, manipolato e cambiato. Il che ci porta al concetto di morte. Ascoltate attentamente! Sulla superficie della Terra, la morte è stata un'aggiunta necessaria dell'evoluzione, e l'evoluzione l'unica giustificazione della morte. Ma una volta che l'evoluzione è giunta a creare un essere cognitivo e dotato di consapevolezza, la morte non solo non è necessaria, ma è uno spreco.» Alla menzione della morte, i due sommozzatori sprofondarono nelle loro poltrone. Perry alzò una mano e Arak gli fece cenno di parlare. «Ci è permesso fare domande?» chiese il presidente della Benthic Marine.
«Assolutamente. Questo sarà più un seminario che una lezione. Vi chiedo soltanto di porre domande su ciò che ho già detto, non su ciò che pensate vi dirò.» «Hai parlato di misurare il tempo. Intendevi suggerire che la vostra civiltà precede la nostra, che si trova sulla superficie della Terra?» «Sì», confermò Arak. «E per una quantità di tempo quasi incomprensibile alla vostra esperienza. La storia documentata di Interterra risale indietro nel tempo per quasi seicento milioni di anni.» «Ma va' là!» lo schernì Richard. «Impossibile. Sono tutte balle. Sarebbe più antica dei dinosauri.» «Molto più antica dei vostri dinosauri», convenne Arak. «E la tua incredulità è del tutto comprensibile. Ecco perché ci andiamo piano con questa introduzione a Interterra. Non intendo essere noioso insistendo su questo punto, ma è molto più facile che vi adattiate alla vostra realtà presente per gradi.» «Tutto bello e giusto», obiettò Richard, «ma che ne dici di fornirci qualche prova di tutta queste frottole? Sto cominciando a pensare che questa messinscena sia solo un'elaborata montatura e, francamente, non mi interessa starmene qua seduto a perder tempo.» Questa volta, né Donald né Suzanne si lamentarono per l'interruzione. Entrambi avevano pensieri simili, anche se Suzanne non avrebbe certamente espresso a parole il suo scetticismo con una simile rudezza. Arak, comunque, rimase imperturbato. «Va bene», disse in tono paziente. «Vi forniremo delle prove che potete mettere in riferimento con la storia della vostra civiltà. La nostra ha continuato a osservare e documentare il progresso della vostra civiltà di umani di seconda generazione dal tempo in cui avete cominciato a evolvervi.» «Che cosa intendi esattamente con umani di seconda generazione?» gli domandò Suzanne. «Questo richiederà poco tempo», rispose Arak. «Come prima cosa, lasciate che vi mostri alcune immagini interessanti. Come ho detto, noi abbiamo sempre osservato il progresso della vostra civiltà, e fino a circa cinquant'anni fa potevamo farlo come ci pareva. Da allora, i grandi passi avanti della vostra tecnologia hanno limitato la nostra sorveglianza, per evitare di essere scoperti. Di fatto, abbiamo smesso di usare la maggior parte dei portali di accesso di vecchio tipo, come quello usato per farvi entrare in Interterra o quello di Barsama, la nostra città sorella che si trova più a occidente. Avevamo dato ordine che entrambi fossero sigillati con il magma,
ma l'inettitudine burocratica dei cloni ha ritardato l'esecuzione del decreto.» «Mio Dio, come sei logorroico!» interruppe Richard. «Dove sono le prove?» «La caverna dove è finito il nostro sommergibile?» chiese Suzanne. «È ciò che voi chiamate un portale d'ingresso?» «Esatto», rispose Arak. «Normalmente è pieno di acqua marina?» «Infatti.» Suzanne si rivolse a Perry. «Non c'è da stupirsi che la montagna sottomarina Olympus non sia mai stata individuata dal Geosat. Non ha la massa che la farebbe rilevare da un gravimetro.» «Allora!» si lagnò Richard. «Basta tirare per le lunghe. Vediamo la prova!» «Va bene, Richard», acconsentì Arak. «Perché non suggerisci un periodo della vostra storia che vi piacerebbe osservare dai nostri archivi? Più è antico, meglio è, per farvi capire la nostra ottica.» Richard si rivolse a Michael in cerca di aiuto. «Che ne dici dei gladiatori?» suggerì lui. «Vediamo dei gladiatori di Roma.» «I combattimenti dei gladiatori si possono vedere», spiegò Arak, riluttante, «ma tali documentazioni di avvenimenti violenti sono sotto rigida censura. Visionarle richiederebbe una dispensa speciale da parte del consiglio degli Anziani. Forse sarebbe più adatta un'altra epoca.» «Questo è maledettamente ridicolo!» esclamò Richard. «Cerca di controllarti, marinaio», lo redarguì Donald. «Fammi capire che cosa intendi», intervenne Suzanne. «Mi stai dicendo che avete la documentazione di tutta la storia umana e volete che noi vi suggeriamo un'epoca storica in modo che possiamo vederne alcune immagini, è così?» «Precisamente», le confermò Arak. «Che ne dite del Medio Evo?» propose allora Suzanne. «È un'epoca piuttosto ampia. Puoi essere più specifica?» «Va bene. La Francia del quattordicesimo secolo.» «È durante la guerra dei cent'anni», disse Arak, senza entusiasmo. «È curioso che perfino tu, dottoressa Newell, richiedi immagini di un periodo così violento. Ma voi umani di seconda generazione avete un passato violento.»
«Mostrateci la gente che gioca, non la guerra», suggerì Suzanne. Arak toccò il tastierino della sua console e si chinò in avanti per parlare in un piccolo microfono posizionato al centro. Quasi immediatamente l'illuminazione della stanza si attenuò e lo schermo sul pavimento si animò con immagini sfocate che passavano a una velocità incredibile. Tutti si sporsero, incuriositi, oltre il basso muretto e si misero a guardare. Le immagini rallentarono, poi si fermarono. La scena proiettata era nitidissima, aveva una colorazione naturale e si presentava in tre dimensioni. Mostrava un piccolo campo di grano d'estate da un'altezza di circa centocinquanta metri. Un gruppo di persone aveva interrotto la mietitura. Le loro falci erano sparse a caso tutt'attorno a diverse coperte sulle quali era disposto un modesto pasto. L'audio trasmetteva il frinire continuo delle cicale. «Questo non è interessante», decretò Arak, dopo una rapida occhiata. «Non è la prova di niente. Tranne per gli abiti rozzi della gente, non c'è indicazione del periodo storico. Facciamo cominciare la ricerca.» Prima che gli altri potessero replicare qualcosa, lo schermo tornò di nuovo sfocato, mentre le immagini si susseguivano a migliaia. Guardarle faceva girare la testa, ma ben presto rallentarono di nuovo e poi si fermarono. «Ah, così è molto meglio!» esclamò Arak. Adesso si vedeva un castello eretto su un rilievo roccioso, dove si stava svolgendo un torneo di qualche tipo. Il punto di osservazione era decisamente più alto di quello della scena precedente. I colori della vegetazione che circondava il castello facevano pensare all'autunno inoltrato. Il cortile formicolava di gente chiassosa le cui voci formavano un mormorio attutito. Indossavano tutti abiti medievali e nella brezza sventolavano vari vessilli araldici. Alle due estremità di una lunga e bassa palizzata di tronchi che correva al centro del cortile, due cavalieri erano intenti agli ultimi preparativi per un torneo. I loro cavalli dalle gualdrappe coloratissime si fronteggiavano l'un l'altro, battendo gli zoccoli per l'eccitazione. «Come sono state prese queste immagini?» domandò Perry, che non riusciva a distoglierne gli occhi. «È un dispositivo di registrazione standard», rispose Arak. «Voglio dire, da quale punto di ripresa? Una specie di elicottero?» Arak e Sufa risero. «Scusateci», disse Arak. «Un elicottero fa parte della vostra tecnologia, non della nostra. Inoltre, un tale velivolo sarebbe troppo intrusivo. Queste immagini sono state prese da una piccola navicella anti-
gravitazionale, silenziosa e senza equipaggio, che stava sospesa a circa seicento metri di altezza.» «Ehi, Hollywood 'sta roba la fa come niente», ebbe da ridire Richard. «Sai che trovata! Questa non è una prova.» «Se questo è un set cinematografico, è il più realistico che abbia mai visto», commentò Suzanne e si sporse ancora di più. Secondo lei, i dettagli andavano ben al di là delle capacità di Hollywood. Mentre loro guardavano, gli scudieri dei cavalieri in lizza si tirarono indietro e i due, ricoperti dall'armatura, abbassarono le lance. Squillò la fanfara e i due cavalli caricarono, sui due lati opposti della palizzata. A mano a mano che diminuiva la distanza fra loro, la folla aumentava le grida di incitamento. Poi, un attimo prima che i due cavalieri si scontrassero, lo schermo diventò bianco. Quasi subito riprese l'azzurrino iniziale, sul quale si stagliò un messaggio che diceva: «Scena censurata. Fare richiesta al consiglio degli Anziani». «Accidenti!» si lagnò Michael. «Ora che mi ci stavo appassionando. Chi cavolo ha vinto: il tizio in verde o quello in rosso?» «Richard ha ragione», intervenne Donald all'improvviso, ignorando Michael. «Queste scene possono essere ricostruite troppo facilmente.» «Forse», convenne Arak, senza mostrarsi minimamente offeso. «Ma posso mostrarvi tutto ciò che volete. Non saremmo in grado di sceneggiare l'intero repertorio della storia umana di prima generazione, in base alle richieste casuali che ci potete fare al momento.» «Che ne direste di qualcosa di più antico?» propose Perry. «L'era neolitica nello stesso luogo di quel castello.» «Brillante idea!» approvò Arak. «Digiterò le coordinate senza indicare un periodo specifico tranne che sia, diciamo, precedente ai diecimila anni fa, e lasciamo che il motore di ricerca veda se ci sono immagini archiviate.» Sullo schermo ricominciarono a passare immagini superveloci, ma questa volta continuarono a scorrere molto più a lungo. Suzanne toccò il braccio a Perry e avvicinò la testa alla sua. «Secondo me, stiamo guardando immagini reali.» «Anche secondo me. Ma ci pensi al tipo di tecnologia necessaria!» «Io sto pensando meno alla tecnologia e più al fatto che questo posto è reale. Non lo stiamo sognando.» «Ah!» commentò Arak. «Direi che la ricerca ha dato qualche risultato. E il periodo sarà attorno ai venticinquemila anni fa.» Intanto, le immagini
rallentarono e si fermarono. La scena mostrava la stessa altura rocciosa, anche se non c'era il castello. La cima della collina era dominata da una breve scarpata scavata nella parte inferiore, al centro, a formare una caverna poco profonda. Raggruppati attorno all'ingresso della caverna c'erano diversi uomini di Neanderthal vestiti con pelli di animali, intenti a lavorare con rozzi utensili. «Sembra lo stesso posto», commentò Perry. Mentre guardavano, ci fu una zoomata che avvicinò la visione della scena domestica. «E le immagini sono più chiare», osservò ancora Perry. «A quell'epoca non ci preoccupavamo che le nostre navicelle venissero avvistate», spiegò Arak, «quindi scendevamo anche a una distanza di trenta metri, per studiare il comportamento.» Uno degli ominidi si tirò su dalla posizione accucciata in cui era intento a raschiare una pelle e gli capitò di guardare verso l'altro. Il suo viso animalesco perse ogni espressione e la bocca si aprì in un misto di sorpresa e terrore. L'immagine sullo schermo era abbastanza ravvicinata e nitida da rivelare perfino i denti larghi e squadrati. «Bene, ecco un esempio di avvistamento della nostra navicella antigravitazionale», commentò Arak. «Quel poveraccio probabilmente pensa che gli dei gli stanno facendo visita.» «Mio Dio!» esclamò Suzanne. «Sta cercando di far alzare lo sguardo anche agli altri!» «Il loro linguaggio era limitatissimo, ma so che nello stesso periodo e grosso modo nella stessa area geografica c'era un'altra sottospecie che voi chiamate Cro-Magnon. La loro capacità di linguaggio era decisamente migliore.» L'ominide grugniva e saltellava, indicando la videocamera. Ben presto tutti i suoi compagni guardarono verso il cielo. Parecchie donne che avevano dei piccoli li presero immediatamente fra le braccia e sparirono nella caverna, mentre ne uscivano di corsa altri membri del gruppo. Uno dei più intraprendenti si chinò, raccolse una pietra grossa quanto un uovo e la gettò in alto. Si vide il rudimentale proiettile avvicinarsi, per poi uscire dal campo visivo. «Mica male, come lanciatore», osservò Michael. «I Red Sox potrebbero usarlo in centrocampo.» Arak toccò la console inserita nella sua poltroncina e l'immagine svanì. Contemporaneamente, nella sala rotonda si riaccesero le luci. Tutti si riac-
comodarono all'indietro sui loro sedili. Arak e Sufa si guardarono attorno. Per il momento i visitatori rimasero tutti zitti, perfino Richard. «Qual è la data presunta di quella registrazione?» domandò infine Perry. Arak consultò la console. «Nel vostro calendario sarebbe stata il 14 luglio 23.342 a.C.» «Non vi importava che la vostra postazione di ripresa venisse scoperta?» volle sapere Suzanne, impressionata dal viso dell'uomo di Neanderthal. «Stavamo cominciando a preoccuparcene», ammise Arak. «All'epoca ci fu perfino chi, nell'ala conservatrice, parlò di eliminare gli esseri cognitivi dalla superficie della Terra.» «Come mai della gente così primitiva vi preoccupava?» chiese Perry. «Puramente per evitare di venire scoperti. Evidentemente, venticinquemila anni fa, considerando quanto era primitiva la vostra civiltà, non importava. Ma sapevamo che poi le cose sarebbero cambiate. Sappiamo che le nostre navicelle sono state avvistate di tanto in tanto anche durante la vostra epoca moderna, e questo sì ci causava qualche preoccupazione. Per nostra fortuna, gli avvistamenti sono sempre stati accolti con scetticismo, oppure credendo che i nostri velivoli provenissero da altri posti nell'universo, non dall'interno della Terra.» «Aspetta un secondo», intervenne Donald. «Non mi piace fare il guastafeste, ma non credo che questo piccolo show che state mettendo in scena per noi provi niente. Sarebbe troppo facile creare delle immagini al computer. Perché non la piantate con tutte queste sciocchezze e non ci dite chi rappresentate e che cosa volete da noi?» Per un momento nessuno parlò. Arak e Sufa si consultarono brevemente sottovoce, poi si appartarono con Mary e Ismael. Dopo una brevissima riunione di cui si udiva solo qualche bisbiglio, i quattro ripresero posto nelle loro poltroncine. Arak guardò direttamente Donald. «Comandante Fuller, il tuo scetticismo è pienamente comprensibile», ammise. «Non sappiamo nemmeno se tutti gli altri lo condividono. Forse in seguito potranno influenzare le tue opinioni. Naturalmente, ci saranno altre prove, a mano a mano che proseguirà la nostra presentazione, e ho fiducia che ti lascerai convincere. Nel frattempo, vorremmo pregarti di avere pazienza ancora per un po'.» Donald non reagì, se non guardandolo con atteggiamento di sfida. «Allora continuiamo. E permettetemi di mettervi concisamente a conoscenza della storia di Interterra. Per farlo, dobbiamo iniziare dal vostro ambito, la superficie della Terra. La vita vi iniziò circa cinquecento milioni
di anni dopo che si era formato il pianeta e le occorsero diversi miliardi di anni per evolversi. I vostri scienziati lo sanno bene, ciò che non sanno è che noi, la prima generazione di umani, ci siamo evoluti circa cinquecentocinquanta milioni di anni fa, durante la prima fase di evoluzione. Il motivo per cui i vostri scienziati sono all'oscuro di questa prima fase è che i fossili che la documentavano sono spariti quasi completamente durante quello che noi chiamiamo il Periodo Oscuro. Ma di questo parleremo più avanti. Prima abbiamo da mostrarvi alcune immagini sui primissimi tempi della nostra civiltà, però vi avverto che la qualità non è buona.» La luce diminuì progressivamente. Nell'oscurità che stava invadendo la stanza, Suzanne e Perry si scambiarono delle occhiate, ma non parlarono. La loro attenzione fu attratta ben presto dallo schermo sul pavimento. Dopo un altro balenio di immagini fugacissime, comparve una scena presa ad altezza d'uomo che raffigurava un ambiente simile a quello che essi avevano visto in Interterra. La differenza principale era che gli edifici erano bianchi anziché neri, ma la forma era simile. E le persone apparivano come normali esseri umani, non erano tutti bellissimi ed erano impegnati in una varietà di comuni attività quotidiane. «Guardare queste scene ci fa sorridere per quanto eravamo primitivi», commentò Sufa. «Davvero», fu d'accordo Arak. «A quei tempi non avevamo i cloni che lavoravano per noi.» Suzanne si schiarì la gola. Stava cercando di classificare in qualche modo tutto ciò che diceva Arak. La sua lezione faceva a pugni con tutto ciò che lei sapeva, in quanto scienziata, sull'evoluzione in generale e sull'evoluzione umana in particolare. «State suggerendo che le immagini che abbiamo davanti risalgono a cinquecentocinquanta milioni di anni fa?» «Giusto», rispose Arak, sopprimendo una risata. Era evidente che lui e Sufa si divertivano davanti agli sforzi di un uomo che cercava di sollevare un masso enorme. «Scusate se troviamo la cosa divertente», aggiunse. «Era tantissimo che non vedevamo queste scene. Si riferiscono a un tempo in cui avevamo qualcosa di simile alle vostre nazionalità, anche se sono scomparse dopo i primi cinquantamila anni della nostra storia. Contemporaneamente sono scomparse anche le guerre, come potete immaginare. Vedete che la superficie terrestre era molto diversa da come è adesso, ed è quel tipo di ambiente che abbiamo ricreato in Interterra. Allora c'era solo un supercontinente e un superoceano.» «Che cosa è accaduto?» chiese Suzanne. «Perché la vostra civiltà ha
scelto di scendere sottoterra?» «A causa del Periodo Oscuro. Avevamo alle spalle quasi un milione di anni di progresso pacifico, quando ci accorgemmo che in una galassia vicina alla nostra si annunciavano avvenimenti infausti. Entro breve tempo si verificò una serie di catastrofiche esplosioni di supernove che irrorarono la Terra di radiazioni sufficienti a dissolvere lo strato di ozono. Avremmo potuto correre ai ripari, ma i nostri scienziati si accorsero che questi eventi galattici scombussolavano anche il delicato equilibrio della popolazione asteroide del sistema solare. Divenne evidente che la Terra sarebbe stata colpita da una pioggia di asteroidi, proprio com'era accaduto nel suo stadio primordiale.» «Per la miseria!» gemette Richard. «Non ce la faccio più!» «Zitto, Richard!» sbottò Suzanne, senza distogliere lo sguardo da Arak. «Quindi Interterra si spostò sotto la superficie.» «Esatto», confermò Arak. «Sapevamo che la superficie terrestre sarebbe divenuta inabitabile. Era un momento disperato. Scandagliammo il sistema solare alla ricerca di una nuova patria, ma senza successo, e non avevamo ancora sviluppato la tecnologia necessaria a cercare nelle altre galassie. Poi pensammo che la nostra unica possibilità di sopravvivenza era di spostarci sottoterra, o meglio sotto l'oceano. La nostra tecnologia ce lo permetteva, quindi ci riuscimmo in un lasso di tempo miracolosamente breve. E, poco dopo il nostro trasferimento, il mondo così come lo avevamo conosciuto fu consumato da radiazioni mortali, bombardamenti di asteroidi e sconvolgimenti geologici. Ci mancò poco che tutto questo avesse delle influenze anche sotto lo strato protettivo dell'oceano, infatti a un certo punto l'acqua marina fu prossima a evaporare per l'intenso calore. Ogni forma di vita sulla Terra fu distrutta, tranne alcuni batteri primitivi, alcuni virus e un po' di alghe verdazzurre.» All'improvviso lo schermo tornò bianco e si riaccese l'illuminazione della sala. Nessuno parlò. «Ecco qua», riprese la parola Arak. «Un riassunto della storia di Interterra e dei fatti scientifici. Ora, sono sicuro che avrete delle domande.» «Quanto è durato il Periodo Oscuro?» chiese infatti Suzanne. «Un po' più di venticinquemila anni.» Lei scosse la testa per lo stupore e l'incredulità, eppure tutto ciò poteva avere un senso, dal punto di vista scientifico. E, cosa più importante, forniva una spiegazione alla realtà in cui si trovava immersa al momento.
«Ma siete rimasti sotto l'oceano», osservò Perry. «Come mai non siete ritornati sulla superficie?» «Per due motivi principali. Primo, avevamo tutto ciò che ci serviva e ci eravamo abituati all'ambiente. Secondo, quando la vita sulla superficie si evolse di nuovo, i batteri e i virus che si erano sviluppati erano organismi ai quali noi non eravamo mai stati esposti. In altre parole, quando il clima ci avrebbe permesso di riemergere, la biosfera era diventata pericolosamente antigienica per noi. Forse mortale sarebbe una parola più esatta, a meno che non fossimo disposti a passare attraverso un difficoltoso adattamento. E quindi rimaniamo qui, molto felici e soddisfatti, soprattutto perché qua sotto non siamo alla mercé della natura. Di tutto l'universo che abbiamo visitato finora, questo piccolo pianeta è quello più adatto all'organismo umano.» «Adesso capisco perché abbiamo dovuto subire quella energica decontaminazione. Dovevamo essere completamente privi di microrganismi.» «Esatto. E, allo stesso tempo, dovevate adattarvi ai nostri.» «In altre parole, sulla Terra l'evoluzione è avvenuta due volte, essenzialmente con lo stesso risultato», aggiunse Suzanne. «Quasi lo stesso», la corresse Arak. «Ci sono state alcune differenze, in certi aspetti. Dapprima ne siamo rimasti sorpresi, ma poi abbiamo capito che aveva un senso il fatto che il DNA originale fosse lo stesso. La vita multicellulare si è evoluta dalle stesse alghe verdazzurre in entrambi i casi e con approssimativamente le stesse condizioni climatiche.» «Il che spiega come mai vi riferite a voi stessi come agli umani di prima generazione e a noi come agli umani di seconda generazione.» Arak sorrise soddisfatto. «Contavamo sul fatto che avresti capito tutto ciò con la rapidità che hai mostrato, dottoressa Newell.» Suzanne si rivolse a Perry e a Donald. «Gli studi scientifici confermano parte di ciò che ci ha detto. Prove geologiche e oceanografiche suggeriscono che sulla Terra ci fosse un unico continente primordiale, chiamato Pangea, che poi cominciò a spezzarsi durante il Mesozoico, a causa dell'azione delle placche tettoniche.» «Scusami, non intendo interromperti, ma non è la stessa cosa che è accaduta al nostro continente originale. Pangea si è formata ex novo con i sommovimenti geologici durante l'ultima parte del Periodo Oscuro. Il nostro continente, invece, prima ancora ha sofferto di una completa subduzione nell'astenosfera, lo strato sottostante la crosta terrestre su cui si muovono orizzontalmente le zolle della litosfera, cioè dell'involucro più ester-
no della Terra, che comprende le terre emerse e il fondo degli oceani.» Suzanne annuì. «Davvero interessante», commentò. «E questa dev'essere la ragione per cui non sono disponibili le testimonianze fossili della prima evoluzione.» Arak sorrise di nuovo con soddisfazione. «Il modo con cui afferri le nozioni fondamentali è davvero incoraggiante. Ma ce lo eravamo aspettato ancor prima del tuo arrivo.» «Prima che arrivassi? Che cosa vuoi dire?» «No, niente», si affrettò a rispondere Arak. «Forse dovremmo ricordare ai tuoi colleghi che è stata la frattura di Pangea a formare l'attuale configurazione dei continenti.» «Questo è vero», convenne Suzanne, mentre lo scrutava intensamente. Aveva la sgradevole sensazione che le nascondesse qualcosa. Guardò Donald e Perry, e si chiese quanto avessero assorbito di tutta quella spiegazione. Su Richard e Michael non aveva dubbi che non capissero niente: avevano l'espressione di scolari annoiati. «Bene, allora», continuò Arak, sfregandosi le mani per mostrare entusiasmo. «Posso immaginare quanto tutto ciò abbia fatto effetto su di voi. Vedere infrante le proprie nozioni preconcette e da lungo tempo accettate è un'esperienza demoralizzante. Ecco perché abbiamo insistito nell'andarci piano nell'introdurvi al nostro mondo. Mi azzardo a immaginare che a questo punto ne abbiate abbastanza delle parole, forse più che abbastanza. Sarebbe forse meglio mostrarvi di prima mano alcuni aspetti del nostro modo di vita.» «Intendi che potremmo uscire e andare in città?» chiese Richard. «Se questo risulterà gradevole a tutti.» «Io ci sto», si affrettò a dire Richard. «Anch'io» gli fece eco Michael. «E il resto di voi?» chiese Arak. «Io vengo», rispose Suzanne. «Anch'io, naturalmente», aggiunse Perry. Quando toccò a Donald, si limitò ad annuire. «Benissimo!» Arak si alzò. «Adesso, se potete rimanere ai vostri posti e concedere a Sufa e a me qualche minuto, organizzeremo la cosa.» Tese una mano verso Sufa, che si alzò, e insieme uscirono dalla piccola sala conferenze. Perry scosse la testa. «Mi sento sotto choc, come dopo un bombardamento. Questa situazione sta diventando sempre più incredibile.»
«Io non sono sicuro di credere a niente», osservò Donald. «A me invece, ironicamente, sembra che sia tutto troppo fantastico per non essere vero», fu il commento di Suzanne. «E ha una dose di verità scientifica.» Guardò Ismael e Mary Black, che erano rimasti pazientemente a sedere. «Per favore, raccontateci la vostra storia. È vero che provenite dal mondo di superficie?» «Sì», rispose Ismael. «Da dove, precisamente?» chiese Perry. «Gloucester, Massachusetts», disse Mary. «Accidenti!» esclamò Michael, e si drizzò sulla sedia. «Ehi, anch'io sono del Massachussets: Chelsea. Siete mai stati lì?» «Ne ho sentito parlare», rispose Ismael, «ma non ci sono mai stato.» «Tutti quelli della North Shore ci sono stati», obiettò Michael con un ghigno. «Perché ci poggia un'estremità del Ponte Tobin.» «Non ho mai sentito parlare del Ponte Tobin», ammise Ismael, e gli occhi di Michael si serrarono per l'incredulità. «Come avete fatto a finire qui in Interterra?» domandò Richard. «Siamo stati molto fortunati», spiegò Mary. «Davvero tanto fortunati. Proprio come voi.» «Stavate facendo un'immersione?» chiese Perry. «No, ci siamo imbattuti in una terribile tempesta, sulla rotta fra le Azzorre e l'America», raccontò Ismael. «Saremmo annegati come tutti gli altri della nave. Ma, come ha detto Mary, abbiamo avuto fortuna e siamo stati salvati inavvertitamente da un veicolo interplanetario di Interterra. Siamo stati letteralmente risucchiati nello stesso portale d'ingresso da cui siete passati voi e poi siamo stati riportati in vita dagli interterrani.» «Come si chiamava la vostra nave?» domandò Donald. «Tempesta, il che è alquanto appropriato, considerato il destino che l'aspettava. Era una goletta di Gloucester.» «Una goletta?» Il tono di Donald era sospettoso. «In che anno è successo?» «Dunque, vediamo...» Mary ci pensò. «Io avevo sedici anni... nel 1801.» «Oh, Cristo!» borbottò Donald. Chiuse gli occhi e si passò una mano sulla testa completamente liscia. Se l'era rasata quella mattina. «E voi vi meravigliate del mio scetticismo?» «Mary, sono duecento anni fa», le fece notare Suzanne. «Lo so. È difficile crederci, ma non è meraviglioso? Guardate come sembriamo giovani!»
«Vi aspettate che crediamo che voi avete più di duecento anni?» intervenne Perry. «Ci vorrà del tempo perché comprendiate il mondo in cui adesso ci troviamo», gli assicurò Mary. «Tutto ciò che posso dire è che dovreste cercare di non farvi delle opinioni radicate fin quando non avrete visto e ascoltato di più. Noi stessi ci ricordiamo come ci siamo sentiti, quando abbiamo ricevuto le stesse informazioni. E rammentate: per noi è stato ancora più stupefacente, dato che la vostra tecnologia ha fatto passi da gigante negli ultimi duecento anni.» «Sono dello stesso avviso di Mary», confermò Ismael. «Cercate di tenere a mente ciò che ha detto Arak all'inizio della seduta. Il tempo ha un significato diverso qui in Interterra. Infatti, gli interterrani non muoiono, come succede in superficie.» «Col cazzo che non muoiono», bisbigliò Michael. «Chiudi il becco», gli sibilò Richard, a denti stretti. 13 A Perry e agli altri l'aerotaxi sembrava come quello che avevano usato il giorno prima, ma Arak assicurò loro che si trattava di un modello più recente e di gran lunga superiore. Comunque, li trasportò egualmente senza sforzo né rumori fastidiosi dal complesso riservato al palazzo dei visitatori fin nella città formicolante di vita. «Gli immigrati in genere trascorrono un'intera settimana nella sala conferenze, prima di avventurarsi fuori in questo modo», spiegò Sufa. «Può essere arduo, dal punto di vista intellettuale ed emotivo. Speriamo di non accelerare troppo i tempi, con voi.» «Avete qualche idea al proposito?» volle sapere Arak. «Siamo aperti ai suggerimenti.» I membri del gruppetto si guardarono fra loro, ognuno sperando che rispondesse qualcun altro. Come aveva accennato Sufa, la situazione era stupefacente, soprattutto con il nugolo di altri taxi che sfrecciavano in ogni possibile direzione. Il fatto che non ci fossero collisioni era già sbalorditivo di per sé. «Nessuno di voi ha un'opinione?» chiese Arak. «È tutto così sconvolgente», ammise Perry. «Quindi è difficile avere un'opinione. Ma io, dal mio punto di vista, penso che più cose vediamo, meglio è. Anche solo sperimentare la vostra tecnologia in questo modo,
usando il taxi, rende più credibile tutto ciò che avete detto.» «Che cosa avete intenzione di mostrarci?» si informò Suzanne. «È stata una decisione difficile. Ecco perché Sufa e io ci abbiamo messo tanto a organizzare le cose. Era difficile decidere da dove cominciare.» Prima che Arak potesse finire di rispondere, il velivolo si fermò all'improvviso e scese rapidamente. Un attimo dopo comparve un portellone dove prima non c'era stato nemmeno il minimo segno di un'apertura. «Come fa ad aprirsi in questo modo?» chiese Perry. «È una trasformazione molecolare nel materiale composito», spiegò Arak, e li invitò con un cenno a scendere. Perry, nell'alzarsi, si chinò verso Suzanne e si lamentò: «Come se questa fosse una spiegazione!» L'aerotaxi li depositò davanti a una struttura relativamente bassa, priva di finestre, rivestita di basalto nero come tutti gli altri edifici. I suoi lati misuravano una trentina di metri in lunghezza e circa sei in altezza ed erano inclinati di sessanta gradi, formando un tronco di piramide piuttosto tozzo. C'erano in giro pochi pedoni ma, nonostante questo, appena comparvero gli umani di seconda generazione, si formò una piccola folla. «Spero che non vi dia fastidio essere delle celebrità», osservò Arak. «Come certamente vi siete resi conto la notte scorse, tutta Saranta è elettrizzata per il vostro arrivo.» La folla era rumorosa ma rispettosa. Quelli più vicini ai visitatori tendevano impazienti le mani, nella speranza di premere i palmi contro i loro. Richard e Michael furono contenti di rispondere a quel tipo di saluto, soprattutto con le donne. Arak dovette fungere da cane pastore per spingere il gruppetto attraverso la porta, in particolare i due sub. Il pubblico rimase rispettosamente all'esterno. «Questo posto mi piace sempre di più», commentò Richard. «Ne sono contento», replicò Arak. «Tutti sono cordiali, amichevoli», osservò Suzanne. «Certo, fa parte della nostra natura», le spiegò Sufa. «Inoltre voi siete particolarmente divertenti.» Suzanne lanciò un'occhiata a Donald per cogliere la sua reazione. Per tutta risposta, lui le rivolse un impercettibile cenno di assenso con la testa, come a dire che i suoi sospetti erano confermati. All'interno, il gruppo si ritrovò in un'ampia sala quadrata in cui dominava il nero anziché il bianco. Era piuttosto semplice, senza arredi, decorazioni e nemmeno porte, tranne quella per cui erano passati. Un certo nume-
ro di interterrani stava in piedi di fronte alle pareti vuote. Quando videro chi era arrivato, cominciarono ad animarsi. Arak sospinse il gruppetto attraverso gli entusiasti che rivolgevano loro formule di benvenuto, fino a un punto vuoto della parete, quindi mormorò qualcosa nel comunicatore che aveva al polso. Con loro grande sorpresa, la parete si aprì nello stesso modo in cui era accaduto sull'aerotaxi. Arak li fece entrare in un cubicolo al di là della misteriosa apertura. «Prima o poi mi dovrai spiegare come funziona questo aprirsi e chiudersi», gli disse Perry, e toccò con il palmo aperto la parete della stanza in cui erano entrati, molto più piccola ma egualmente vuota. La consistenza al tatto e il calore del materiale gli facevano pensare a qualcosa di simile alla fibra di vetro. «Certo», gli assicurò Arak un po' distrattamente, essendo impegnato a parlare nell'aggeggio che aveva al polso. Un attimo dopo la parete si richiuse e la stanza precipitò. Tutti si afferrarono al compagno che avevano più vicino, mentre intanto si sentivano praticamente senza peso. «Mio Dio!» balbettò Michael, «La stanza sta cedendo!» «È solo un ascensore», spiegò Arak. Tutti gli umani di seconda generazione risero imbarazzati. «Ehi, come facevo a saperlo?» si lagnò Michael, pensando che gli altri ridessero di lui. «Tornando alla decisione di cosa mostrarvi per prima», riprese il discorso Arak, «Sufa e io abbiamo pensato di fare l'opposto di quello che fareste sulla superficie. Invece di mostrarvi la vita dalla culla alla tomba, seguiremo il percorso contrario, dalla tomba alla culla.» Nel comunicare questa inversione apparentemente illogica sorrise con una specie di ghigno, e Sufa fece altrettanto. «Mi sa che stiamo scendendo piuttosto in profondità», osservò Suzanne. Era troppo preoccupata da ciò che la circondava per rispondere al commento di Arak. Anche se non c'erano rumori né si percepiva alcun movimento, la relativa mancanza di peso dava un'idea della velocità a cui stavano scendendo. «Sì, stiamo andando molto in profondità», confermò Arak. «Come conseguenza, farà un po' caldo laggiù.» Alla fine la discesa rallentò e tutti si sostennero in qualche modo. Perry mise una mano contro la parete e sentì un impulso di calore appena prima della sua apertura. Arak e Sufa li precedettero.
Dei corridoi molto illuminati si stendevano in tre direzioni: diritto davanti a loro, a destra e a sinistra. Ognuno era uno studio di prospettiva. Si scorgevano molteplici altri corridoi orientati perpendicolarmente. In attesa davanti all'ascensore c'era un piccolo veicolo aperto che pareva sfruttare la stessa tecnologia dell'aerotaxi, infatti se ne stava sospeso silenziosamente a qualche decina di centimetri da terra. Arak fece cenno ai suoi ospiti di salire a bordo. Perry e Suzanne salirono assieme a Sufa ma Donald esitò, bloccando di fatto l'accesso ai due sub. Guardò su e giù per i corridoi apparentemente senza fine. Come aveva avvertito Arak, faceva caldo. La testa rasata di Donald era imperlata di sudore. «Prego», lo invitò Arak, indicando un sedile del piccolo pulmino antigravitazionale. «Questa sembra una specie di prigione.» Il tono di voce di Donald era alquanto sospettoso. «Non è una prigione», gli assicurò Arak. «Non ci sono prigioni in Interterra.» Michael guardò Richard e gli rivolse un segno di pollice alzato. «Se non è una prigione, che cos'è?» insisté Donald. «Una catacomba», rispose Arak. «Non c'è da preoccuparsi. È sicura, e ci rimarremo solo per una visita breve e istruttiva.» Donald salì con riluttanza sul piccolo veicolo. Era evidente che non faceva i salti di gioia all'idea di essere in un sotterraneo dov'erano sepolti i cadaveri, non più che all'idea di trovarsi in una prigione. Dietro di lui salirono i due sommozzatori. Arak, dopo essersi seduto anche lui, parlò nel microfono della console e nel giro di qualche secondo stavano sfrecciando lungo il corridoio come su un treno espresso silenzioso, tranne per il suono del vento. Il motivo per cui era necessario usare il veicolo divenne evidente dopo che erano in movimento da qualche minuto. Viaggiando rapidamente come stavano facendo, e a una velocità che sembrava amplificata dalla vicinanza delle pareti, coprirono una grande distanza in quello che si rivelò un enorme labirinto sotterraneo. Dopo un quarto d'ora e sei o sette svolte a novanta gradi da far girare la testa, il veicolo rallentò e si fermò. Da ogni corridoio spuntavano delle stanzette, e fu in una di quelle che li condusse Arak. Donald fece capire benissimo che non gli piaceva rimanere così isolato e rimase vicino all'ingresso. Le pareti della stanzetta erano occupate completamente da nicchie. Arak si avvicinò a una di esse, posizionata all'altezza del suo petto, e ne tirò fuo-
ri una cassetta e un libro. «Era tanto tempo che non ci venivo», disse, sfregando via la polvere da entrambi gli oggetti. «Questa cassetta è la mia tomba.» La sollevò. Era nera e grande più o meno come una scatola da scarpe. «E questo libro contiene la lista delle date di tutte le mie morti precedenti.» «Scemate!» sbottò Richard. «Adesso vuoi farci credere che sei resuscitato! E non una volta sola ma addirittura un sacco di volte. Ma dai!» Suzanne si ritrovò ad annuire mentre Richard dava voce a ciò che lei stessa pensava. Proprio quando cominciava a credere a tutto ciò che le veniva detto, Arak se n'era uscito con un'affermazione che sfidava il buon senso. Guardò Perry, per vedere se aveva anche lui la stessa reazione, ma era concentrato sul libro che Arak gli aveva messo tra le mani. Arak sollevò cautamente il coperchio della cassetta, vi guardò dentro, poi la passò agli altri perché potessero esaminarla. Suzanne vi gettò un'occhiata riluttante, non ben sicura di ciò che avrebbe visto. Risultò trattarsi solo di un groviglio di capelli. Arak e Sufa sorrisero. Sembrava che si divertissero davanti alla confusione degli ospiti. «Lasciate che vi spieghi», si offrì Arak. «Nella cassetta c'è una ciocca di capelli da ognuno dei miei corpi precedenti. I corpi sono ritornati nella astenosfera fusa, che non è lontana da dove ci troviamo adesso. Come potete aspettarvi, in Interterra tutto viene riciclato.» «Questo libro non lo capisco», si lamentò Perry. Ne stava scorrendo le pagine, gettando occhiate alle colonne di numeri vergati a mano, che non avevano senso come date del calendario gregoriano. A complicare le cose, ce n'erano a centinaia. «Non ci aspettiamo che li capisca», lo tranquillizzò Arak, con un sorriso divertito. «Non ancora. Per lo meno, non fino a quando non saliremo nella sala di elaborazione principale.» Riprese il libro dalle sue mani e lo rimise nella nicchia assieme alla cassetta. Confuso, il gruppo lo seguì fuori dalla piccola stanza e a bordo del veicolo in attesa. Il viaggio di ritorno parve richiedere meno tempo di quello di andata e ben presto furono di nuovo davanti all'ascensore. «Se dovevamo imparare qualcosa da questa visita, non ha funzionato», confessò Suzanne mentre rientravano nell'ascensore. «Funzionerà, vedrai», le assicurò Arak. «Abbi un po' di pazienza.» L'ascensore si fermò a un piano che brulicava di umani di prima generazione, fra i quali si mescolavano alcuni cloni. Era talmente affollato che al
gruppetto fu impossibile restare unito, soprattutto quando parecchi dei presenti riconobbero gli ospiti, dalla festa della sera precedente, e gli si accalcarono attorno nella speranza di premere i palmi con loro. I più gettonati erano i due baldi sommozzatori. Nonostante l'ingorgo, Arak e Sufa riuscirono a portare i loro ospiti davanti a un ampio schermo sul quale erano riportate centinaia di nomi, seguiti da numeri di stanza e ore. Arak lo scorse per qualche momento, finché trovò un nome che conosceva. «Bene, bene», borbottò rivolto a Sufa, e indicò il nome. «Reesta ha deciso di trapassare. Torna meravigliosamente a proposito. E ha prenotato la stanza trentasette. Non poteva andar meglio. È delle più recenti, con l'apparato di trapasso in bella vista.» «Era ora che trapassasse», commentò Sufa. «Erano anni che si lamentava in continuazione di quel corpo.» «Un'occasione perfetta per i nostri scopi.» «Forse allora, visto che abbiamo preso questa decisione, è meglio che faccia una corsa al centro incubazione. Mi darà l'occasione di preparare le cose e di far sapere ai cloni che il gruppo sta per arrivare.» «Meravigliosa idea. Dovremmo essere lì entro un'ora. Vedi se per allora riesci ad avere un'emergenza.» «Ci proverò. E che ne dici di portare il gruppo ai nostri alloggi, dopo?» «L'idea era proprio questa. Spero solo che avremo abbastanza tempo.» «Ci vediamo tra poco», salutò Sufa e toccò leggermente il palmo di Arak con il proprio. Dopo di che se ne andò. «Va bene, allora!» Arak si rivolse agli ospiti. «Cerchiamo di rimanere uniti. Se qualcuno resta isolato, chieda della stanza trentasette.» Poi si fece largo tra l'assembramento di persone davanti allo schermo. Suzanne si impegnò a stargli affiancata meglio che poteva. «'Trapassare' è lo stesso eufemismo che usiamo nel nostro mondo?» gli domandò. «Diciamo che è simile.» L'attenzione di Arak era distratta dai due sommozzatori, impegnati a premere ogni palmo femminile che incontravano sulla loro strada. «Richard e Michael», li chiamò, «per favore, seguiteci! Ci sarà tantissimo tempo per premere i palmi, stasera, quanto ne vorrete.» «Stiamo forse per assistere a qualche tipo di eutanasia?» chiese Suzanne, colta da un dubbio. «Cielo, no!» «Ismael e Mary hanno detto che voi non morite nel modo in cui moriamo noi.»
«Questo è certo.» Ciò detto, Arak dovette fermarsi e tornare indietro fino al punto in cui Richard e Michael erano stati circondati. Mentre lui era impegnato a liberare i due dalle ammiratrici, Suzanne si chinò verso Perry e gli sussurrò: «Io non sono pronta ad assistere a qualche scena macabra». «Nemmeno io», si associò lui. «Forse avremmo dovuto scegliere di continuare con gli incontri seminariali, prima di questo studio sul campo.» Suzanne cercò di fare dello spirito. Perry rise poco convinto. Arak riuscì a smuovere i due sub e rimase accanto a loro, per scoraggiare le fan troppo entusiaste. Suzanne e Perry li seguirono a ruota, mentre Donald stava alla retroguardia. Mantenendo questa formazione, arrivarono davanti alla stanza numero trentasette. Perry osservò il bassorilievo che ne decorava la porta e riconobbe il cane a tre teste, Cerbero, che nella mitologia greca stava a guardia del mondo dell'oltretomba. Sorpreso, lo fece notare ad Arak. «Non siamo stati noi a prenderlo dai greci», gli spiegò lui con un sorriso. «Semmai il contrario.» «Intendi dire che sono i greci ad averlo copiato da Interterra?» «Esattamente.» «E come?» «Da un esperimento fallito. Qualche migliaio di anni fa, una rappresentanza di Atlantide formata da persone dalla mentalità liberale si sottopose all'adattamento per vivere in superficie, facendo progetti grandiosi di modificare lo sviluppo sociale sulla superficie della Terra. Purtroppo fu un fiasco. Dopo diverse centinaia di anni in cui si sottoposero a sforzi inutili, divenne penosamente chiaro che non c'era modo di modificare la tendenza alla violenza insita negli umani di seconda generazione. Quindi l'intero esperimento fu abbandonato. Però rimase qualche traccia dell'eredità interterrana, dopo che l'isola da loro innalzata affondò. Per esempio le nostre forme architettoniche, il concetto di democrazia e un'infarinatura della nostra mitologia primitiva, compreso Cerbero.» «Allora c'è una base concreta della leggenda di Atlantide!» intervenne Suzanne. «Assolutamente», confermò Arak. «Atlantide spinse verso l'alto uno dei portali di ingresso per formare un'isola appena davanti all'imboccatura del Mediterraneo.» «Ehi! Piantiamola con questa barba!» si lagnò Richard. «O entriamo qua
dentro, oppure io e Mike ce ne torniamo nell'atrio, dove c'è un po' di vita.» «Va bene, scusate», acconsentì Arak. Poi, rivolto a Suzanne, aggiunse: «Parleremo più diffusamente dell'esperimento di Atlantide in un altro momento, se vorrete». «A me piacerebbe molto farlo», rispose lei, quindi mormorò a Perry: «Nei suoi Dialoghi, Platone aveva posto l'isola di Atlantide fuori dello Stretto di Gibilterra». «Davvero?» chiese lui, ma fu distratto da ciò che intravide oltre la porta di bronzo. Non era niente di macabro, come aveva temuto la sua compagna di avventura. Si trattava di una festa che faceva pensare a quella della sera prima, solo in scala ridotta. La stanza era grande quanto un ampio soggiorno ed era stipata da un centinaio di persone abbigliate nel solito modo, tranne un uomo che spiccava fra loro. Vestiva di rosso anziché di bianco. Sul fondo della stanza campeggiava un grosso macchinario a forma di ciambella che a Perry ricordò quelli per la risonanza magnetica. Accanto c'era un tavolino su cui erano posti una cassetta e un libro simili a quelli che Arak aveva mostrato al gruppo quando si trovavano nel sotterraneo. «Arak!» chiamò l'uomo vestito di rosso, appena si accorse dei nuovi visitatori. «Che gradevole sorpresa!» Si scusò immediatamente con le persone con cui stava chiacchierando e si diresse verso la porta. «E hai portato compagnia! Benvenuti!» «Mio Dio!» bisbigliò Suzanne a Perry, mentre l'uomo in rosso si avvicinava. «L'ho incontrato ieri sera.» Era certa di aver riconosciuto in lui uno dei due uomini che si erano uniti a lei e Garona. «Non ha per niente l'aria di uno che sta per morire.» Le sembrava il ritratto della salute e l'archetipo del fascino maschile, con quei folti capelli neri, la pelle perfetta e gli occhi lucenti. Sembrava avere un po' meno di quarant'anni. «Questa non è certo una veglia funebre», commentò Perry. «Grazie, Reesta», rispose Arak. «Ho pensato che non ti sarebbe spiaciuto se i nostri visitatori avessero fatto un salto al tuo party. Li hai incontrati al gala di ieri sera?» «Ho avuto l'onore di conoscere la dottoressa Newell», rispose il festeggiato, quindi eseguì un inchino e tese il palmo verso Suzanne. Imbarazzata, lei vi premette contro il proprio. Reesta sorrise raggiante. «Ti presento Perry, Donald, Richard e Michael», aggiunse Arak, indicandoli uno per uno mentre parlava. Reesta ogni volta eseguì un inchino. Richard e Michael non prestavano tanta attenzione, concentrati com'erano sulle invitate donne, molte delle quali avevano già incontrato la sera prima.
«Sufa e io abbiamo deciso di mostrare ai nostri visitatori qualcosa della nostra civiltà», continuò Arak. «Lo facciamo prima di spiegare tante cose. Abbiamo pensato che può ridurre l'incredulità in genere manifestata durante l'orientamento.» «Un piano meraviglioso», commentò Reesta, «Entrate, prego!» Si scostò per lasciarli passare e con un cenno aggraziato rinnovò l'invito a entrare. «Allora non hanno idea di cosa stiamo festeggiando adesso?» domandò ad Arak, mentre loro, uno alla volta, oltrepassavano la soglia. «In realtà no.» «Ah, che meravigliosa innocenza! È così tonificante!» «Però siamo reduci da una visita alla mia nicchia. Ma di proposito non ho dato loro una spiegazione completa.» «Un approccio magistrale», approvò Reesta, mentre strizzava un occhio e dava di gomito ad Arak. Poi guardò il gruppo e si soffermò con lo sguardo su Suzanne. «Questo è un giorno importante per me. Oggi il mio corpo muore.» Suzanne non poté fare a meno di provare un moto di ripulsa. Non solo quell'uomo sembrava perfettamente sano, ma si comportava di conseguenza. L'annuncio attirò l'attenzione anche dei due gaudenti sommozzatori. «Ah, ma non disperate», aggiunse Reesta, sorridendo nell'accorgersi del disagio di Suzanne. «Qui in Interterra è un momento ragionevolmente felice, più simile a un inconveniente o a una seccatura. E per me non è certo troppo presto. Questo mio corpo è sempre stato una carretta, fin dall'inizio. Ho dovuto eseguire spesso sostituzioni di organi, e le ginocchia le ho cambiate due volte. Ogni giorno salta fuori un nuovo problema. È stata una lotta senza fine. E ho appena saputo, stamattina, che il periodo di inattività è sceso a soli quattro anni, grazie all'attuale mancanza di domanda. Per qualche motivo, nessuno sta morendo, di questi tempi.» «Solo quattro anni!» esclamò Arak. «Meraviglioso! Mi chiedevo come mai ti sia deciso così all'improvviso. Soltanto la settimana scorsa pensavi di non fare niente prima di due anni.» «È una di quelle cose che non sembrano mai opportune. Continuavo a rimandare, devo ammetterlo. Ma adesso non posso lasciarmi scappare questa offerta di un così breve tempo di inattività.» «Scusatemi», si intromise Perry. «Sono confuso, ma in genere, quanto vivete voi interterrani?» «Dipende da quello che intendi», gli rispose Reesta, con uno sfavillio negli occhi. «C'è una grossa differenza tra il corpo e l'essenza, quando si
parla di lunghezza della vita.» «Ogni corpo dura in genere due o trecento anni», spiegò Arak, «Ma possono esserci delle eccezioni.» «Come ho dovuto imparare a mie spese», aggiunse Reesta. «Questo qua è durato solo centottant'anni. È il peggiore che abbia mai avuto.» «State dicendo che il dualismo mente-corpo è un fatto, su Interterra?» domandò Suzanne. «Proprio così!» Arak sorrise come un genitore orgoglioso del figlioletto. Poi aggiunse, rivolto a Reesta: «La dottoressa Newell è una che capisce le cose al volo». «È evidente», confermò l'altro. «Di cosa diavolo state parlando?» chiese Richard. «Se avessi ascoltato, invece di star lì come un allocco, qualche idea l'avresti», sbottò Suzanne. «Oh, mi perdoooni!» esclamò Richard, affettando un accento snob. «Che cosa intendete per essenza?» volle sapere Perry. «Intendo la mente, la personalità, la completezza dell'essere spirituale e mentale», rispose Arak. «Tutto quello che rende qualcuno ciò che è. E qui in Interterra l'essenza di una persona vive per sempre. Viene trasferita intatta da un corpo vecchio a uno nuovo.» Sia Suzanne sia Perry fecero un fuoco di fila di domande, poi quest'ultimo provò a lasciare spazio alla compagna, ma Arak sollevò le mani per zittirli entrambi. «Ricordate che qui dentro siamo degli intrusi. Sono certo che avete molte domande, ed è proprio lo scopo di questa visita, ma è maleducato interrompere dei festeggiamenti privati, quindi lasciamo i dettagli per dopo.» Detto questo, Arak si rivolse a Reesta. «Grazie, amico mio, non ti disturberemo oltre. Congratulazioni, e goditi il riposo.» «Non occorre ringraziarmi», replicò lui. «È un onore per me che tu abbia condotto qui i tuoi ospiti. La loro presenza rende questa occorrenza ancora più speciale.» «Ci terremo in contatto», gli assicurò Arak. «Quando morirai?» Cominciò a sospingere il gruppetto verso la porta. «Un po' più tardi», rispose Resta con disinvoltura. «Rimangono ancora parecchie ore. Ma aspettate!» Arak si fermò e guardò nuovamente l'amico. «Mi è appena venuta un'idea.» La voce di Reesta era colma di eccitazione. «Forse i nostri ospiti di seconda generazione gradirebbero vedermi mo-
rire.» «È un'offerta generosa. Di certo non vorrei importelo, ma sarebbe molto istruttivo per loro.» «Nessuna imposizione!» A Reesta quell'idea piaceva sempre di più. «Ne ho abbastanza di questo party, e gli invitati possono certo andare avanti senza la mia presenza fisica.» «Allora accettiamo», decise Arak. Richiamò con un cenno del braccio i due sommozzatori che, annoiati, si erano già incamminati nell'atrio. «Spero che non sia qualcosa di raccapricciante», sussurrò Suzanne ad Arak. «Non lo è nemmeno lontanamente, soprattutto se confrontato con le cose che guardate come passatempo nel vostro mondo di superficie.» Reesta usò il telecomunicatore che aveva al polso, prima di fare il giro della stanza per premere i palmi con gli invitati. Questo provocò un senso di eccitazione crescente. Poi si accostò al tavolino su cui erano posati il libro e la cassetta, e la folla cominciò ad acclamare. Si tagliò una ciocca di capelli e la mise nella cassetta, quindi annotò una data nel libro. A questo punto le ovazioni raggiunsero un crescendo. Vicino al macchinario a forma di ciambella si aprì una porta e nella stanza entrarono due cloni. Entrambi reggevano dei calici d'oro che porsero a Reesta. Quando li sollevò, nella stanza scese il silenzio; ne bevve il contenuto fino in fondo, prima da uno poi dall'altro, e questo scatenò gli appalusi. Reesta si inchinò agli invitati, anche agli umani di seconda generazione, poi i due cloni lo aiutarono a issarsi dentro l'apertura del macchinario in modo da far entrare prima i piedi e da porre la testa bene all'interno dell'orlo. A quel punto calò uno specchio che gli permetteva di continuare a vedere le persone che aveva attorno, mentre loro potevano vedere il suo viso. Dopo un ultimo cenno di saluto, Reesta chiuse gli occhi e parve addormentarsi. Uno dei cloni si avvicinò a un lato del macchinario e pose una mano a palmo in giù sopra un riquadro bianco. Quasi immediatamente si udì un ronzio, poi un bagliore rossastro riempì l'apertura. Un attimo dopo il corpo di Reesta si irrigidì e gli occhi si aprirono. Questo irrigidimento dei muscoli durò diversi minuti, poi il corpo si afflosciò, gli occhi si affossarono nelle orbite e la bocca si incurvò nella morte. La folla smise di mormorare e rimase in silenzio. Il bagliore e il ronzio diminuirono, ma si udì un potente suono simile a un risucchio, seguito dal
tonfo di una grande valvola che si chiudeva, e il corpo di Reesta sparì alla loro vista. Un attimo prima lo si poteva vedere benissimo, un attimo dopo era scomparso. La folla rimase immobile e silenziosa. I secondi passavano. Suzanne era confusa, dal punto di vista emotivo e intellettuale. La morte, in tutte le sue forme, la disturbava. Azzardò un'occhiata a Perry, ma lui si strinse nelle spalle, egualmente sconcertato. «Be', tutto qua?» domandò Richard. Arak gli fece cenno di rimanere zitto e di aspettare. Michael si dondolò da un piede all'altro e sbadigliò. All'improvviso vi fu una simultanea attivazione dei telecomunicatori da polso, compresi quelli degli umani di seconda generazione. Anche se Ismael e Mary Black avevano impartito loro le semplici istruzioni per usarli (bastava parlarci dentro con un tono esclamatorio) fino a quel momento nessuno dei cinque li aveva usati. Così, quando si udì la voce di Reesta, furono presi alla sprovvista. «Salve, amici miei», disse la voce. «Va tutto bene. La mia morte si è svolta benissimo e senza complicazioni. Ci vediamo tra quattro anni, ma non dimenticate di comunicare.» Tra gli umani di prima generazione si levò un'acclamazione generale e tutti premettero i palmi delle mani l'uno con l'altro. «La morte non è una cosa di grande importanza, quaggiù», sussurrò Michael all'amico. «Già, ma penso che dev'essere fatta in questo modo speciale», gli rispose Richard. «Questo è il momento adatto per andarcene», decise Arak. Nel modo più discreto possibile guidò i cinque nel corridoio e poi fino all'ascensore. Suzanne e Perry erano pieni di domande, ma lui dovette ignorarli, impegnato com'era a far muovere Richard e Michael. Donald, come al solito, stava sulle sue. La conversazione fu possibile solo quando si trovarono di nuovo nell'aerotaxi. Ancor prima che il portello si richiudesse, sparendo nel nulla, Perry confessò: «Temo che questa visita abbia posto più domande di quante ne abbia soddisfatte». Arak annuì. «Allora ha avuto successo», commentò. Pose il palmo di una mano sul tavolino rotondo al centro del veicolo e ordinò: «Centro Incubazione, per favore!» Quasi immediatamente il taxi si sollevò, poi schizzò via in orizzontale. «A che cosa abbiamo assistito, in realtà?» domandò Suzanne.
«Alla morte del corpo attuale di Reesta.» Nel rispondere, Arak si accomodò allo schienale e cominciò a rilassarsi. Non era abituato allo stress di stare sempre in pubblico con un gruppo così numeroso di umani di seconda generazione non iniziati. «Dove è andato il corpo?» chiese Richard. «È tornato nell'astenosfera fusa.» «E la sua essenza?» Questa domanda l'aveva posta Perry. Arak non rispose subito, come se stesse cercando le parole. «È difficile spiegare queste cose, ma suppongo che coglierete il concetto se vi dico che la sua memoria e l'impronta personale sono state scaricate nel nostro centro informatico integrato.» «Porca miseria!» esclamò Michael. «Guardate laggiù, davanti a quell'edificio! È una fottuta Corvette!» Nonostante il grande interesse di tutti per la spiegazione di Arak, fu impossibile non reagire seguendo il dito puntato di Michael. Videro una Chevrolet Corvette d'epoca incrostata di balani, poggiata su un piedistallo di basalto, davanti a un edificio che sembrava fatto a caso con i dadi da costruzione dei bambini. «Che cosa ci fa una Corvette laggiù?» volle sapere Michael mentre vi sfrecciavano sopra. «È del sessantadue. Io ne avevo una proprio così, ma verde.» «Quell'edificio è il museo della Superficie Terrestre», spiegò Arak. «L'automobile è l'oggetto che secondo noi al momento attuale simboleggia meglio la vostra civiltà.» «È in condizioni orribili», osservò Michael, rimettendosi a sedere. «È evidente», confermò Arak. «Ha passato un bel po' di tempo sott'acqua, prima che noi la recuperassimo. Ma torniamo alla domanda di Perry. Quando il clone ha dato il via alla sequenza della morte, l'intera mente di Reesta, in termini di memoria, personalità, emozioni, consapevolezza di sé e perfino il suo modo particolare di pensare, è stata estratta e immagazzinata in massa, in modo da renderla disponibile a venir richiamata completamente.» I cinque fissarono Arak in silenzio, sbalorditi. «Non soltanto l'essenza di Reesta può essere richiamata», continuò Arak, «ma prima che questo avvenga possiamo consultarci con lui e anche chiacchierare, attraverso i telecomunicatori da polso. Meglio ancora, non solo possiamo comunicare con lui, ma possiamo vederlo nella forma dell'ultimo corpo che aveva grazie al centro mediatico che esiste in ogni quar-
tiere. L'Informazione Centrale crea un'immagine virtuale in congiunzione con qualsiasi conversazione si stia avendo.» «E se qualcuno muore prima che sia utilizzata quella macchina per scaricare?» chiese Richard. «Non succede. In Interterra la morte è un processo programmato.» «Questo è troppo!» esclamò Perry. «Ciò che ci stai dicendo è talmente lontano dalla credibilità che per il momento non so nemmeno che cosa domandare.» «Non ne sono sorpreso. Ecco perché Sufa e io abbiamo deciso di cominciare a mostrarvi le cose, piuttosto di limitarci a raccontarvele.» «Faccio fatica a credere che la mente può essere scaricata», intervenne Suzanne. «L'intelligenza, la memoria e la personalità sono associate alle connessioni dendritiche nel cervello umano. Il loro numero è sconcertante. Stiamo parlando di miliardi di neuroni che hanno ognuno fino a mille connessioni.» «È una bella quantità di informazioni», convenne Arak, «ma non supera certo gli standard cosmici. E hai ragione nel dire che gli insiemi dendritici sono importanti. Ciò che fa la nostra informazione centrale è riprodurre gli insiemi dendritici a livello molecolare usando atomi di carbonio isomeri, a doppio legame. È come un'impronta digitale, noi la chiamiamo un'impronta mentale.» «Mi sono perso», confessò Perry. «Non disperare», lo incoraggiò Arak. «Ricorda, questo è soltanto l'inizio. Avrete il tempo di contestualizzare tutto ciò. Inoltre, la vostra imminente visita al centro sviluppo vi mostrerà che cosa facciamo con le impronte mentali.» «Che cosa c'è in quel museo della Superficie Terrestre su cui siamo appena passati?» chiese Donald. Arak esitò. Quella domanda aveva interrotto il filo dei suoi pensieri. «Voglio dire, che cosa è esposto, oltre alla Corvette marinata nell'acqua?» «Molti oggetti diversi», rispose Arak tenendosi sul vago. «Uno spaccato di cose che rappresentano la storia e la cultura degli umani di seconda generazione.» «Da dove provengono?» «Soprattutto dal fondo dell'oceano. Non solo ci sono state le tragedie marittime e le guerre, ma voi avete stupidamente usato l'oceano come la vostra pattumiera. Sareste molto sorpresi di vedere che cosa rivelano i ri-
fiuti su una civiltà.» «Mi piacerebbe scoprirlo», disse Donald. Arak alzò le spalle. «Come vuoi. Sei il primo visitatore che esprime una simile richiesta. Considerando le meraviglie di Interterra che ora sono disponibili al vostro sguardo, mi sorprende che ti interessi quel museo. Di certo lì dentro non c'è nulla che non conosciate già.» «Ognuno è diverso», replicò Donald, laconico. Qualche minuto dopo, l'aerotaxi depositava il gruppo davanti ai gradini del Centro Incubazione. Questo era ospitato in un edificio che assomigliava al Partenone, solo che era nero. Quando Perry fece notare la somiglianza, Arak gli spiegò che anche in questo caso erano stati i greci a prendere l'idea dagli interterrani, dato che il centro esisteva da molti milioni di anni. Come per il Centro Trapassi, la struttura era situata in una zona poco congestionata della città. Però, anche stavolta, appena comparvero gli umani di seconda generazione, si creò immediatamente una piccola folla e questo costrinse Arak a riprendere il suo ruolo di cane pastore, spingendo Richard e Michael all'interno della porta, lontani dalle mani protese. L'interno era l'antitesi del Centro Trapassi. Era luminoso e bianco come gli edifici che costituivano il palazzo dei visitatori. L'altra differenza era che qui si vedevano molti più cloni che correvano frettolosi da una parte all'altra. Arak condusse il gruppo in una stanza laterale in cui erano allineati tantissimi piccoli serbatoi in acciaio inossidabile che a Suzanne fecero pensare a bioreattori in miniatura. Erano attaccati gli uni agli altri grazie a un complicato groviglio di tubi e tutti assieme sembravano formare una linea di montaggio high-tech. L'aria era tiepida e umida. Un certo numero di cloni teneva sotto controllo i quadranti e gli strumenti di misurazione. «Questa non è la parte più importante», avvertì Arak. «Ma tanto vale cominciare dall'inizio. Questi serbatoi contengono i nostri tessuti di coltura delle ovaie e dei testicoli. Gli ovuli e lo sperma vengono scelti a caso e i loro cromosomi sono vagliati alla ricerca di imperfezioni molecolari e mescolati a livello del ribosoma. Le cellule germinali così trasformate vengono poi controllate prima che sia permesso loro di essere fecondate. Se qualcuno vuole dare un'occhiata, è possibile.» Arak indicò un microscopio binoculare applicato in un certo punto della linea di montaggio. Suzanne fu l'unica ad approfittare dell'offerta. Si chinò e guardò. All'interno di un minuscolo spazio chiuso, sotto l'obiettivo del microscopio, vide un ovocita che veniva penetrato da uno spermatozoo attivo. Il processo av-
venne rapidamente. Un attimo dopo lo zigote, cioè la nuova cellula che si era così formata, era sparito e nel minuscolo vano furono iniettati due nuovi gameti: una cellula germinale maschile e una femminile. «Nessun altro?» chiese Arak. Nessuno si mosse. «Va bene, allora spostiamoci nella sala gestazione, dove avviene qualcosa di più interessante», propose e fece strada per tutta la lunghezza della sala gameti fino a un'altra, grande quanto diversi campi da football disposti per la lunghezza. Lì c'erano numerose file di scaffali su cui erano allineate innumerevoli sfere trasparenti. Tra gli scaffali camminavano centinaia di cloni che controllavano una dopo l'altra tutte le sfere. «Mio Dio!» mormorò Suzanne, quando capì a cosa stava assistendo. «Gli zigoti provenienti dal processo di fecondazione vengono controllati nuovamente, alla ricerca di anormalità cromosomiche e molecolari», spiegò Arak. «Quando hanno raggiunto il numero di cellule necessario e siamo sicuri che non hanno imperfezioni di alcun tipo, vengono impiantati in una sfera, dove possono svilupparsi.» «Possiamo camminare lungo gli scaffali con le sfere?» domandò Suzanne. «Naturalmente! Ecco perché siamo qui: perché possiate vedere con i vostri occhi.» Lentamente, il gruppo percorse una corsia fra due scaffali lunga diverse centinaia di metri, e per tutta la lunghezza sui vari ripiani erano allineate le sfere. Suzanne era affascinata e inorridita al tempo stesso. Ogni sfera conteneva un embrione di età e dimensioni diverse che vi galleggiava dentro. Attaccata alla base di ogni sfera c'era un'amorfa placenta violacea. «È tutto così artificiale», commentò Suzanne. «Infatti», confermò Arak. «In Interterra la riproduzione avviene tutta per ectogenesi?» «Certo, lo sviluppo embrionale ha luogo al di fuori dell'utero. Una cosa importante come la riproduzione non abbiamo intenzione di lasciarla al caso.» Suzanne si fermò e osservò un embrione non più lungo di quindici centimetri, i cui arti si muovevano come se nuotasse, e scosse la testa. «Sei turbata?» le domandò Arak. Lei annuì. «È rendere meccanico un processo che dovrebbe essere lasciato alla natura.» «La natura è noncurante. Noi possiamo fare tanto meglio, e noi ci pren-
diamo cura degli embrioni.» Suzanne scrollò le spalle. Non aveva intenzione di imbarcarsi in una discussione. Riprese a camminare. «Queste sono come le sfere in cui eravate voi», fece notare Perry ai due sub. «Cazzo, davvero?» chiese Richard. «Per favore!» sbottò Suzanne. «Sono stufa del linguaggio che continuate a usare!» «Mi scuso se ho offeso Sua Maestà!» replicò Richard. «Questi contenitori sono simili ma non uguali», si affrettò a spiegare Arak. L'ultima cosa che voleva era una lite di qualche tipo nel Centro Incubazione. Suzanne si fermò di botto e guardò in una sfera. Rimase esterrefatta nel vedere che conteneva un bambino che doveva avere almeno due anni. «Come mai questo bambino è ancora nella sfera?» chiese. «È perfettamente normale», le assicurò Arak. «Normale? A quale età...» cercò la parola giusta, «vengono travasati?» «Noi diciamo comunque 'nascono'. O, con un termine più tecnico, 'emergono'.» «Quale che sia, quando?» Vedere quel bambino imprigionato nella sfera colma di liquido le dava i brividi e la nausea. Sembrava una cosa talmente fredda, cinica e crudele. «A che età i bambini vengono liberati?» «Preferibilmente non fino ai quattro anni», rispose Arak. «Aspettiamo fino a che il cervello sia abbastanza maturo da ricevere l'impronta mentale. Inoltre non vogliamo che si ingombri più del necessario di dati naturali disorganizzati.» «Venite!» chiamò Sufa, facendo un cenno con la mano per invitarli ad avvicinarsi. «C'è un'emergenza imminente. Ho cercato di rimandarla il più possibile, ma dovete affrettarvi.» Si voltò e si affrettò verso la direzione da cui era venuta. Arak spronò il gruppo a seguirla, con l'intenzione di passare rapidamente attraverso un locale che chiamava sala imprinting, per arrivare alla sala emergenze. Suzanne però esitò sulla soglia della sala imprinting, colta alla sprovvista da ciò che vide. La stanza era un quarto della sala gestazione ed era piena di recipienti trasparenti che contenevano bambini di quattro anni che sembravano angeli. Ogni bambino stava sospeso nel liquido, ma in una posizione fissa. Anche qui erano presenti i cordoni ombelicali e le placente, nonostante l'età
relativamente avanzata dei piccini. «Non sono sicura di voler vedere», mormorò Suzanne mentre Arak la spingeva delicatamente avanti. Gli altri si raggrupparono in silenzio e a bocca aperta attorno al primo recipiente. La testa del bambino era immobilizzata come se lo avessero preparato per un'operazione di neurochirurgia. Le palpebre erano tenute aperte con divaricatori e gli occhi erano bloccati da suture limbali. Da un macchinario simile a un cannoncino partivano raggi di luce diretti, attraverso la parete trasparente del recipiente, nelle due pupille del bambino. I raggi tremolavano con una frequenza rapida, alternata. «Che cosa gli stanno facendo?» si informò Perry. Gli sembrava una tortura. «È perfettamente al sicuro e non prova dolore», gli assicurò Arak che raggiunse il gruppetto e fece cenno a Suzanne di fare altrettanto. «Il moccioso sembra colpito da un fucile laser», osservò Michael. «Sapendo quanto è violenta la vostra civiltà, capisco perché potete farvi un'idea simile», replicò Arak. «Ma non potrebbe essere più lontana dalla verità. Per estendere l'analogia dello scaricare i dati a cui sono ricorso quando ci trovavamo nel Centro Trapassi, questo bambino sta semplicemente ricevendo i dati contenuti nell'impronta mentale di un individuo la cui essenza era stata immagazzinata all'Informazione Centrale. Ciò che state vedendo è la procedura di richiamo.» Suzanne avanzò lentamente, tenendosi una mano sulla bocca. Le sembrava di essere una bimbetta spaventata davanti a un film dell'orrore: aveva paura di guardare ma non riusciva a staccare gli occhi dalla scena. Fissando il bambino immobilizzato, rabbrividì. Per lei, ciò che aveva davanti era la personificazione della biotecnologia priva di ogni controllo. «Come avete visto al Centro Trapassi», continuò Arak, «occorrono solo pochi secondi per estrarre l'impronta mentale. Ma impiantarla è tutta un'altra faccenda. Dobbiamo affidarci a una tecnica primitiva che usa un laser a bassa energia, dato che nessuno ha ancora trovato una via d'accesso migliore della retina. Naturalmente, l'uso della retina ha senso perché essa è embrionalmente un rivestimento esterno del cervello. Il processo funziona, ma non è rapido. Infatti occorrono fino a trenta giorni.» «Gesù!» esclamò Richard. «Il poverino deve stare legato lì per un mese?» «Credetemi, non c'è sofferenza.» «E l'essenza del bambino?» volle sapere Suzanne.
«La sta ricevendo anche in questo momento, mentre noi parliamo, assieme a una quantità straordinaria di conoscenza e di esperienza.» Arak sorrise orgoglioso. Suzanne annuì, ma non perché approvava. Considerava quel procedimento come uno sfruttamento. Per lei era una specie di parassitismo applicare l'anima di un vecchio a un neonato innocente. L'impronta mentale stava impossessandosi del corpo di quel bambino. «Arak, sbrigati!» chiamò Sufa con insistenza da una porta che si trovava all'estremità opposta della sala. «O perderete l'evento!» «Venite, è importante che vi assistiate. Vedrete il prodotto finito.» Nel dir così, Arak sospinse il gruppetto nella direzione da cui chiamava Sufa. Suzanne fu contenta di allontanarsi dall'immagine inquietante del bambino immobilizzato. Si affrettò a seguire Arak, evitando di proposito di guardare in qualche altro recipiente. Donald, Richard e Michael si soffermarono ancora un po', ipnotizzati da quella vista. Michael sollevò un dito, con l'intenzione di interrompere il raggio laser, ma Donald gli spinse via la mano. «Non incasinare le cose, marinaio, capito?» ringhiò. «Già, al bambino potrebbero mancare le lezioni di piano», ghignò Richard. «È una cosa da far paura», commentò Michael, e girò attorno al recipiente per tentare di vedere dentro la canna di ciò che continuava a considerare un fucile laser. «Be', guarda il lato positivo», gli consigliò Richard. «È un sacco più facile che andare a scuola. Se non fa danno, come dice Arak, io avrei scelto questo. Cazzo, la scuola la odiavo!» Donald lo guardò sprezzante. «Come se non lo avessi immaginato!» «Venite!» li chiamò Arak dalla porta in fondo alla sala. «Non potete perdervelo!» I tre si affrettarono e nella sala successiva trovarono Arak, Sufa, Suzanne e Perry in piedi attorno a una specie di larga trapunta imbottita e rivestita di satin che si trovava alla fine di uno scivolo di acciaio inossidabile. Lo scivolo spuntava fuori dalla parete e la sommità era chiusa da una porta a vento a doppio battente. Seduta al centro della trapunta stava un'adorabile bambina di quattro anni già vestita nella tipica foggia interterrana. Era evidente che era appena arrivata dallo scivolo. Le stavano attorno parecchi cloni, a sua disposizione. «Benvenuti, signori», disse Arak a Donald e ai due sub. Poi indicando la
bambina: «Vi presento Barlot». «Ehi, zuccherino!» la salutò Richard con una voce stridula, che voleva essere simile a quella di un bambino, e protese una mano per darle un pizzicotto sulla guancia. «Ti prego», lo avvertì Barlot, chinando la testa per evitare la sua mano. «È meglio se nessuno mi tocca per quindici o venti minuti, dato che sono appena uscita dall'asciugatrice. I nervi del mio tegumento devono adattarsi all'ambiente gassoso.» Richard indietreggiò. «Questi tre uomini sono anche loro dei visitatori arrivati di recente dalla superficie della Terra», spiegò Arak a Barlot mentre li indicava. «Accidenti!» esclamò lei. «Che occasione! Cinque visitatori terrestri contemporaneamente. Sono contenta di un simile onore, nel giorno della mia emergenza.» «Stavamo appunto dando il benvenuto a Barlot che è di ritorno nel mondo fisico», spiegò Arak. Barlot annuì. «Ed è meraviglioso essere tornata.» Si esaminò le mani, girandole in su e in giù e tendendole in fuori. Poi guardò le gambe e i piedi, di cui smosse le dita. «Sembra un corpo in ottimo stato», aggiunse. «Per lo meno finora.» Ridacchiò. «Io penso che sia un corpo superbo», confermò Sufa. «E che begli occhi azzurri! Li avevi azzurri anche nell'ultimo corpo?» «No, ma in quello prima sì. Mi piacciono i cambiamenti. A volte lascio che il colore degli occhi sia selezionato casualmente.» «Come ti senti?» le chiese Suzanne. Sapeva che era una domanda stupida, ma date le circostanze non le veniva in mente nient'altro da dire. Era distratta dal forte contrasto fra la voce infantile e la sintassi adulta. «Più che altro, ho fame. E non vedo l'ora di andare a casa.» «Per quanto tempo sei rimasta immagazzinata, se questa è la parola giusta?» domandò Perry. «Noi diciamo 'rimanere in memoria'. E presumo che siano stati sei anni. Era quello il periodo annunciato, quando sono stata estratta. Ma per me è come se fosse passata solo una notte. Quando siamo in memoria le nostre essenze non sono programmate per registrare il tempo.» «Gli occhi ti fanno male?» si informò Suzanne. «Per niente. Immagino che ti riferisca alle emorragie sclerali rosso fiamma che sono senza dubbio presenti.» «Infatti.» In entrambi gli occhi di Barlot, il bianco era praticamente ros-
so. «Sono una traccia delle suture limbali. Probabilmente sono appena state tolte.» «Ti ricordi di essere stata in quell'acquario?» le domandò Michael. La bimba rise. «Non avevo mai sentito chiamare il recipiente per l'impianto un acquario. Ma, per rispondere alla tua domanda: no! Il primo ricordo conscio da quando sto in questo corpo, e per la verità anche negli altri corpi, è di essermi svegliata sul nastro trasportatore dell'asciugatrice.» «L'esperienza dell'estrazione, del restare in memoria e del richiamo può essere stressante?» chiese Suzanne. Barlot ci pensò un momento, prima di rispondere: «No. L'unica parte stressante in tutto ciò è che adesso mi tocca aspettare fino alla pubertà per spassarmela davvero». Poi rise, come fecero Arak, Sufa, Richard e Michael. «Questa è casa nostra.» Dall'aerotaxi sospeso per aria, mentre si materializzava il portello d'uscita, Sufa indicò una struttura simile ai villini del palazzo dei visitatori; mancavano solo i vasti prati. Ce n'erano centinaia d'altri, tutti raggruppati nello stile dei sobborghi residenziali. «Arak e io abbiamo pensato che sarebbe stato istruttivo per voi sperimentare come viviamo, e magari mangiare qualcosa. Siete tutti troppo stanchi o vi piacerebbe entrare per una visita?» «Mangiare qualcosa non mi farebbe schifo», accettò Richard. «Mi piacerebbe molto vedere casa vostra», disse Suzanne. «È molto ospitale da parte vostra.» «Io ne sono onorato», fu la risposta di Perry. Donald si limitò ad annuire. «Io muoio di fame», annunciò Michael. «Allora è deciso», stabilì Sufa. Sbarcò dal velivolo assieme ad Arak e fece cenno agli altri di seguirli. Come negli alloggi al centro visitatori, l'interno era dominato dal bianco del marmo e dei tessuti, riflesso negli innumerevoli specchi. Anche qui la stanza principale aveva una piscina che si prolungava verso l'esterno. Il mobilio era scarso e l'unica decorazione era costituita da parecchie grandi olografie come quelle appese nella zona riservata alla decontaminazione. «Prego, entrate», li invitò Sufa. Il gruppo entrò in fila indiana, guardandosi attorno. «Assomiglia al mio appartamento in Ocean Beach», scherzò Michael.
«Sì, proprio!» Richard gli mollò una sberla scherzosa sulla testa. «Tutte le case interterrane sono aperte verso l'esterno?» chiese Perry. «Sì», rispose Arak. «Per quanto vi possa sembrare ironico, noi che abitiamo sotto la terra preferiamo vivere all'aperto.» «Rende difficile chiudere a chiave», osservò Richard. «In Interterra non chiudiamo niente a chiave», gli rivelò Sufa. «E nessuno ruba niente?» Michael era stupito. Arak e Sufa ridacchiarono, poi si scusarono un po' imbarazzati. «Non intendevamo ridere», affermò Arak, «ma siete così divertenti. Non riusciamo mai a prevedere quello che state per dire. Fate tenerezza.» «Suppongo che sia la nostra affascinante primitività», osservò Donald. «Esatto», convenne Arak. «In Interterra non ci sono furti», spiegò Sufa. «Non ce n'è bisogno perché c'è abbondanza per tutti. Inoltre, nessuno possiede niente. La proprietà privata è scomparsa prestissimo, nella nostra storia. Noi interterrani ci limitiamo a usare ciò che ci serve.» Il gruppo si sedette e Sufa chiamò i cloni, che comparvero immediatamente. Assieme a loro arrivò uno degli animaletti di compagnia che gli umani di seconda generazione avevano visto dall'aerotaxi. Da vicino era ancora più bizzarro a vedersi, con la sua curiosa mescolanza di caratteristiche che appartenevano a cane, gatto e scimmia. La bestiola corse nella stanza, puntando dritto verso i visitatori. «Sark!» tuonò Arak. «Comportati bene!» L'animale si fermò subito, obbediente, e puntò sugli ospiti i suoi occhi da gatto, molto incuriosito. Quando si eresse sulle due zampe posteriori che erano come quelle delle scimmie, con cinque dita, raggiunse un po' meno di un metro di altezza. Il naso da cane fremeva nell'annusare attorno. «È un animale dall'aspetto davvero strano», osservò Richard. «È un omide», spiegò Sufa. «Un omide particolarmente bello, in realtà. Non è adorabile?» «Vieni, Sark», lo chiamò Arak. «Non voglio che disturbi gli ospiti!» Sark schizzò prontamente verso di lui e, mettendosi in piedi sulle zampe posteriori, cominciò a grattargli la testa. «Bravo ragazzo!» lo coccolò lui. «Cibo per gli ospiti!», ordinò Sufa ai cloni che sparirono immediatamente. «Sark assomiglia a un mucchio di animali arrotolati assieme a formarne uno solo», commentò Michael.
«È un modo di vedere la cosa», replicò Arak. «Sark è una chimera che si è sviluppata milioni di anni fa e da allora è stata clonata. È un animale da compagnia notevole. Vi interessa vedere uno dei suoi trucchi migliori?» «Certo», accettò Richard. Quella bestiola gli sembrava un esperimento biologico andato a male. «Sì, sì», gli fece eco Michael. Arak si alzò e fece cenno a Sark di uscire. Lo seguì, chiedendo ai due sub di andare in cortile con lui. Loro acconsentirono e rimasero a guardare Arak che cercava qualcosa in mezzo a un folto gruppo di felci. «Okay, eccone uno.» Si rialzò stringendo in mano un corto bastone rivestito di gomma e ritornò sull'erba. «Adesso non ci crederete. È davvero divertente.» «Vediamo!» lo sfidò Richard, dubbioso. Arak si chinò e porse il bastone a Sark, il quale lo prese tutto eccitato, stridendo come una scimmia. Poi si raccolse tutto per tirare e lo lanciò nell'angolo più lontano del cortile. Arak lo guardò fino a che si fermò completamente, poi si rivolse ai due ospiti. «Un bel lancio, no?» «Niente male», convenne Michael. «almeno per un omide.» «Aspettate di vedere il resto. Solo un secondo.» Arak andò a raccoglierlo e lo riportò a Sark, che lo lanciò più o meno nello stesso posto. Arak andò doverosamente a raccoglierlo per la seconda volta. Quando tornò era leggermente ansante. «Ci credereste? Questo diavoletto continuerebbe così per tutto il giorno. Ogni volta che glielo riporto, lui lo lancia.» I due sommozzatori si guardarono. Michael sollevò gli occhi al cielo, mentre Richard soffocò una risata. «Il cibo è pronto!» chiamò Sufa dall'interno della casa. Arak porse il bastone a Richard. «Ti piacerebbe provare?» «Penso che rinuncerò. Inoltre ho fame.» «Allora andiamo a mangiare.» Arak gettò il bastone tra le felci ed entrò in casa, seguito da Sark. «Questo posto diventa sempre più strano, un minuto dopo l'altro», borbottò Richard mentre lui e Michael giravano attorno alla piscina, «Puoi ben dirlo», approvò l'amico. «Non c'è da meravigliarsi che non abbiano reagito, ieri sera, quando ho preso i calici. Niente appartiene a nessuno. Te lo dico io: quaggiù potremmo fare una fortuna, e nessuno avrebbe niente da ridire.» Assieme al cibo, i cloni avevano portato un tavolino pieghevole che a-
vevano sistemato al centro di un anello di sette sedie. Arak si sedette con gli altri, imitato da Richard e Michael, e Sark si arrampicò sulla spalliera della sedia e cominciò a grattarlo dietro le orecchie. Ognuno si servì e iniziò a mangiare. «Ebbene, qui è dove trascorriamo la maggior parte del nostro tempo.» Così Arak ruppe il silenzio imbarazzante che si era creato. Intuiva che gli umani di seconda generazione erano un po' confusi dagli avvenimenti di quella giornata. «Qualcuno di voi ha delle domande da porci?» «Che cosa fate qui?» Suzanne voleva fare conversazione parlando del più e del meno, piuttosto che affrontare gli argomenti più impegnativi che le scoppiavano nella testa. «Godiamo il nostro corpo e la nostra mente», rispose Arak. «Leggiamo tantissimo e assistiamo a spettacoli olografici.» «In Interterra la gente non lavora?» si informò Perry. «Alcuni sì. Ma non è necessario e quelli che lo fanno si limitano a cose che hanno voglia di fare. Tutti i lavori umili sono svolti dai cloni. Alle attività di monitoraggio e regolazione pensa l'Informazione Centrale. In questo modo, la gente è libera di perseguire i propri interessi.» «Ai cloni non importa?» domandò Donald. «Non fanno mai scioperi o rivolte?» «Cielo, no!» rispose Arak con un sorriso. «I cloni sono come... be' come i vostri animali domestici. Sono stati fatti in modo da assomigliare agli umani solo per ragioni estetiche, ma hanno il cervello molto più piccolo. Hanno limitate funzioni del prosencefalo, quindi i loro interessi e necessità sono differenti. A loro piace lavorare e servire. «Mi sa tanto di sfruttamento», osservò Perry. «Forse, ma è ciò a cui servono le macchine, come le automobili nella vostra civiltà: non penso che abbiate l'impressione di sfruttarle. L'analogia sarebbe migliore se le vostre automobili avessero delle parti viventi oltre a quelle meccaniche. Sono certo che dovete continuare a usarle, altrimenti si deteriorano. Con i cloni succede la stessa cosa, solo che nel loro caso è il tempo libero che non sopportano. Se stanno senza lavorare e senza ricevere ordini, si demoralizzano e regrediscono.» «A noi crea disagio», spiegò Suzanne, «perché sembrano umani.» «Dovete ricordare a voi stessi che non lo sono», consigliò Sufa. «Esistono tipi diversi di cloni?» chiese Perry. «All'aspetto sono tutti uguali», rispose Arak, «ma ci sono cloni valletti, operai e da intrattenimento, maschi e femmine. È nella programmazione.»
«Con la vostra tecnologia, perché non usare i robot?» chiese Donald. «Bella domanda. Li avevamo, nelle epoche passate, un'intera linea di prodotti. Ma le macchine pure tendono a rompersi e devono essere aggiustate. Dovevamo avere androidi che aggiustassero androidi, all'infinito. Era poco conveniente, perfino ridicolo. È stato solo quando abbiamo imparato a congiungere il biologico con il meccanico che abbiamo risolto il problema. Il risultato più recente di questa ricerca e produzione sono stati i cloni, ed essi sono di gran lunga superiori a qualsiasi androide. Si prendono cura completamente di se stessi, fino al punto di ripararsi da soli e riprodursi, per mantenere la loro popolazione a un livello numerico stabile.» «Sorprendente», commentò Perry. Suzanne annuì. Il gruppo finì di consumare il pasto in silenzio. Quando ebbero finito, Sufa propose: «Credo che sia ora di riportarvi ai vostri alloggi, al palazzo dei visitatori. Avete bisogno di un po' di tempo per assimilare ed elaborare ciò che avete visto e udito. Inoltre, non vogliamo sovraccaricarvi di informazioni in questo che è il vostro primo giorno. C'è sempre domani». Sorrise con cordialità e si alzò. «Hai ragione nel dire che abbiamo bisogno di un po' di tempo», concordò Suzanne, alzandosi anche lei. «Io mi sento già adesso un po' sovraccarica. Senza il minimo dubbio, questa è stata la giornata più sorprendente, sbalorditiva, sconcertante della mia vita.» Arrivato alla porta del proprio bungalow, Michael esitò. Richard gli stava proprio dietro. Erano appena stati lasciati lì da Arak e Sufa. «Che cosa pensi che troveremo?» domandò. «Cristo!» sbottò Richard. «Come faccio a saperlo, se non apri quella cazzo di porta?» Michael afferrò la maniglia e tirò. Insieme, varcarono la soglia e si guardarono attorno per la stanza. «Pensi che sia stato qui qualcuno?» chiese nervosamente Michael. Richard roteò gli occhi. «Tu che cosa ne dici, cervello di gallina? Il letto è rifatto e il posto è stato messo in ordine. Guarda, qualcuno ha perfino accatastato per bene i piatti e i calici che hai portato via dalla festa e dalla sala da pranzo.» «Forse sono stati solo i cloni.» «Possibile.» «Pensi che il cadavere sia ancora dove lo abbiamo messo?» «Be', di certo non lo sapremo finché non andremo a vedere.»
«Va bene, vado a vedere», si decise Michael. «Aspetta!» Richard lo afferrò per un braccio. «Prima mi assicuro che non ci sia nessuno.» Fece un giro attorno alla piscina, guardandosi attorno, e poi, soddisfatto, ritornò dall'amico. «Okay, controlliamo il cadavere.» Michael si posizionò davanti alla fila di armadi che stavano di fronte al letto e ordinò: «Bevande, prego!» Si spalancò subito la porta del frigorifero, mostrando numerosi contenitori colmi di cibo e di bevande.» «Sembra come l'abbiamo lasciato», osservò Michael. «È incoraggiante», approvò Richard. Michael si chinò e tolse parecchi contenitori, fino a scoprire il volto pallido di Sart e vide gli occhi senza vita che lo fissavano con uno sguardo accusatore. Rimise subito a posto i contenitori, per nascondere l'immagine orrenda. Quello di Sart era il primo cadavere che vedeva, da quando era morto il nonno. Ma il nonno lo aveva visto tutto preparato nella bara, con lo smoking addosso. Inoltre, aveva novantaquattro anni. «Be', è un sollievo», commentò Richard. «Per ora. Ma questo non significa che non lo troveranno, stasera o domani. Forse dovremmo portarlo fuori e seppellirlo in uno di quei cespugli di felci.» «Con che cosa scaviamo, con i cucchiaini da tè?» «Allora magari dovremmo portarlo fino alla tua villetta e metterlo nel tuo frigorifero. Averlo qua in casa mi fa venire la pelle d'oca.» «Non possiamo correre il rischio di farci beccare mentre lo trasportiamo da una casa all'altra. Rimane dov'è.» «Allora facciamo uno scambio di stanze», propose Michael. «Ricorda, lo hai ucciso tu, non io.» Gli occhi di Richard divennero due fessure. «Abbiamo già avuto questo tipo di conversazione», gli ricordò parlando lentamente. «Ed è deciso: ci siamo dentro insieme. Adesso piantala di parlare del cadavere.» «E dirlo a Fuller?» «No. Ho cambiato idea.» «Come mai?» «Perché quel tronfio testa di cazzo non avrà nessuna idea migliore su cosa farne del cadavere. E poi non penso che ci dovremmo preoccupare tanto. Diavolo, per tutto il giorno, nessuno ha mai chiesto di quel piscialetto. E poi, Arak ha detto che non hanno prigioni.»
«È perché non ci sono furti, ma non ha detto niente degli omicidi, e con tutta quella roba che ci hanno fatto vedere sull'estrarre le cose dalla mente, ho la brutta sensazione che rimarranno sconvolti. Potremmo venire riciclati, come Reesta!» «Ehi, calmati!» «Come faccio a calmarmi, con un cadavere nel mio frigorifero?» urlò Michael. «Chiudi quella bocca del cazzo!» Anche Richard gridò, poi abbassò la voce e aggiunse: «Cristo, ti sentiranno in tutto il vicinato. Controllati. La cosa principale è portare le nostre chiappe via di qua al più presto. Intanto, Sart è nel frigorifero, così non puzzerà. Penseremo a spostarlo se qualcuno comincia a fare domande su di lui o a ficcare il naso qua attorno. Okay?» «Suppongo», rispose Michael, ma senza tanto entusiasmo. 14 Il soffitto della caverna sotterranea si oscurò gradatamente, riproducendo il calare della sera, proprio com'era accaduto il giorno prima. Suzanne e Perry, meravigliati di come il soffitto a volta assomigliasse al cielo, rimasero a guardare ammirati mentre le finte stelle cominciavano a tremolare nel crepuscolo violaceo. Il perennemente cupo Donald, invece, fissava le ombre che si infittivano tra il folto delle felci. Tutti e tre si trovavano sul prato, a circa sei metri dal lato aperto della sala da pranzo. All'interno, i cloni erano indaffarati ad apparecchiare la tavola. Richard e Michael si erano già seduti, impazienti di cenare. «È assolutamente sbalorditivo», mormorò Suzanne. Stava con la testa piegata all'indietro e guardava il cielo. «Le stelle bioluminescenti?» le chiese Perry. «Tutto. Comprese le stelle.» Suzanne aveva appena raggiunto gli altri dopo essere rimasta qualche tempo nella propria villetta: aveva fatto una nuotata in piscina, poi il bagno, e aveva perfino cercato di schiacciare un pisolino, ma dormire si era rivelato impossibile. Aveva la mente troppo ingombra. «Ci sono alcuni aspetti stupefacenti», ammise Donald. «A me non viene in mente niente che non lo sia», replicò lei e guardò attraverso il prato l'atrio buio del padiglione dove la sera prima si era tenuta la festa. «A cominciare dal fatto che questo spazioso paradiso si trova seppellito sottoterra, addirittura sotto l'oceano. Strano che io abbia accennato
al romanzo di Jules Verne, Viaggio al centro della terra, quando stavamo per iniziare l'immersione, dato che adesso ci siamo veramente.» Perry ridacchiò. «Una citazione centrata in pieno.» «E una scoperta sorprendente, soprattutto ora che appare evidente come tutto ciò che ci hanno detto Arak e Sufa sia vero, per quanto fantastico possa sembrare.» «È difficile negare la tecnologia di cui siamo stati testimoni.» Perry parlava con animazione. «Non vedo l'ora di saperne di più sui dettagli, come la biomeccanica dei cloni o i segreti degli aerotaxi. Dei brevetti su queste cose potrebbero renderci tutti miliardari. E che ne dite del turismo? Ve lo immaginate che richiesta ci sarebbe, di venire quaggiù? Andrebbe alle stelle.» Ridacchiò ancora. «In un modo o nell'altro, la Benthic Marine diventerà la Microsoft del nuovo secolo.» «Le rivelazioni di Arak sono straordinarie», ammise Donald controvoglia. «Ma ci sono un paio di importanti lacune che voi sembrate dimenticare, abbagliati come siete.» «Di cosa stai parlando?» chiese Perry. «Toglietevi quegli occhiali colorati di rosa! Per quanto mi riguarda, la questione fondamentale non è ancora saltata fuori: che cosa ci facciamo qua? Non ci hanno salvati dal naufragio di una goletta, come è successo ai Black. Noi siamo stati deliberatamente risucchiati in quel cosiddetto portale di entrata, e mi piacerebbe sapere perché.» «Donald ha ragione», intervenne Suzanne, diventando all'improvviso pensosa. «Nella mia eccitazione continuo a dimenticare che, dopotutto, noi siamo vittime di un rapimento. Questo di certo pone la domanda del che cosa ci facciamo qui.» «Non si può dire che non ci trattino bene», fece notare Perry ai suoi compagni. «Per il momento», osservò Donald. «Ma, come ho già detto, le cose potrebbero cambiare in un batter d'occhio. Secondo me, voi non vi rendete conto di quanto siamo vulnerabili.» «Io so lo che siamo vulnerabili», ribatté Perry con un pizzico d'irritazione. «Che diavolo! Per quanto sono avanzati, potrebbero spazzarci via in un istante. Arak ha parlato di viaggi interplanetari e di tecnologia del tempo. Ma noi gli piacciamo, per me è evidente, anche se non lo è per te. Secondo me dovremmo apprezzare di più come ci trattano ed essere meno paranoici.» «Gli piacciamo un corno», sbottò Donald. «Li divertiamo. Quante volte
ce lo hanno detto? Trovano la nostra primitività buffa o carina, come se fossimo una specie di animaletti da compagnia, Be', io sono stufo di far ridere.» «Non ci tratterebbero così bene se noi non gli piacessimo», insisté Perry. «Sei proprio ingenuo! Ti rifiuti di ricordare che siamo dei prigionieri a tutti gli effetti, rapiti con la forza e manipolati in quel centro di decontaminazione. Ci hanno portati qui per un motivo che non ci è stato ancora rivelato.» Suzanne annuì. Le osservazioni di Donald le avevano rammentato un commento casuale di Arak da cui aveva avuto l'impressione che sapesse in anticipo del loro arrivo. Allora era rimasta turbata, ma poi non ci aveva più pensato, sommersa da tutte le cose straordinarie a cui aveva assistito. «Forse ci vogliono reclutare», ipotizzò Perry. «Per cosa?» il tono di Donald era dubbioso. «Forse fanno questi grandi sforzi per mostrarci tutto quanto, in modo da prepararci a fungere da loro rappresentanti.» A mano a mano che ne parlava, questa idea sembrava a Perry sempre più plausibile. «Forse hanno finalmente deciso che è arrivato il momento di mettersi in relazione con il nostro mondo, e vogliono che noi siamo i loro ambasciatori. Francamente, penso che potremmo svolgere un ottimo lavoro, soprattutto se operiamo tramite la Benthic Marine.» «Ambasciatori!» ripeté Suzanne. «È un'idea interessante! Loro non muoiono dalla voglia di affrontare gli adattamenti alla nostra atmosfera, non essendo immuni ai nostri agenti patogeni, e non gli piace nemmeno il procedimento di decontaminazione necessario a rientrare in Interterra.» «Esattamente. Se noi fossimo i loro rappresentanti, non dovrebbero sottoporsi né agli uni né all'altro.» «Ambasciatori? Buon Dio!» bofonchiò Donald. Sollevò le braccia e scosse la testa, per esprime la sua frustrazione. «Che cosa c'è adesso?» chiese Perry, sentendosi invadere di nuovo dall'irritazione. Donald cominciava a dargli sui nervi. «Lo sapevo che voi due siete degli ottimisti, ma questa idea degli ambasciatori le batte tutte.» «Secondo me, è una possibilità del tutto ragionevole.» «Ascolta, signor presidente della Benthic Marine!» sbottò Donald, come se l'appellativo fosse spregiativo. «Questi interterrani non hanno intenzione di lasciarci andare. Se voi non foste degli incorreggibili ottimisti, lo avreste capito da soli.»
Suzanne e Perry ci rimuginarono sopra. Era un argomento del quale nessuno dei due aveva voluto pensare, né tantomeno parlare. «Tu hai la sensazione che ci vogliano tenere quaggiù per sempre?» chiese infine Suzanne. Doveva ammettere che niente di tutto ciò che avevano detto Arak e Sufa indicava che avessero intenzione di riportarli alla loro nave, sulla superficie dell'oceano. «Io credo che voglia dire questo, se non ci fanno mai andare via.» Il tono di Donald era sarcastico. «Ma perché?» chiese Perry. Dalla sua voce era sparita la collera. «Avrebbe una sua logica. Questa gente ha evitato per migliaia di anni di essere scoperta. Come si sentirebbero, lasciandoci tornare alla superficie con tutto ciò che ormai sappiamo di loro?» «Mio Dio!» mormorò Suzanne. «Pensi che Donald abbia ragione?» le chiese Perry. «Temo che qualcosa di vero ci sia, nel suo ragionamento. Non c'è motivo per cui dovrebbero preoccuparsi meno che in passato, per quanto riguarda la contaminazione. E, con la nostra tecnologia che avanza, semmai dovrebbero preoccuparsi di più. Si divertiranno anche davanti al nostro essere primitivi, ma secondo me sono terrorizzati dalla violenza insita nella nostra civiltà.» «Però continuano a riferirsi a noi come 'visitatori'», obiettò Perry. «Questo posto dove ci troviamo è chiamato 'palazzo dei visitatori'. I visitatori non rimangono per sempre.» Irrazionalmente, aggiunse: «E poi, io non posso rimanere qua. Ho una famiglia. Voglio dire, già mi angoscio per non aver potuto comunicare con loro per fargli sapere che sto bene». «Ecco un altro punto che convalida la mia ipotesi», gli fece notare Donald. «Sanno tantissime cose su di noi. Sanno delle nostre famiglie. Con tutta la loro tecnologia, avrebbero potuto offrirci una possibilità di far sapere ai nostri cari che non siamo morti. Ma non lo hanno fatto e questa è un'altra prova che intendono tenerci qua.» «Ottima osservazione», commentò Suzanne e sospirò. «Solo mezz'ora fa, nella mia stanza, desideravo avere un semplice, vecchio telefono, per chiamare mio fratello. È l'unico parente che ho a sentire la mia mancanza.» «Niente famiglia?» le chiese Donald. «Purtroppo no. Quella parte della mia vita non ha ancora trovato un punto fermo, e i miei genitori sono morti tanto tempo fa.» «Io ho moglie e tre figli. Certo, questo non significa molto per gli interterrani. Per loro l'intero concetto di parentela sembra pittorescamente data-
to.» «Mio Dio!» Perry si scoraggiò. «Che cosa faremo? Dobbiamo andarcene di qua. Dev'esserci un modo!» «Ehi, voi!» li chiamò Michael dalla sala da pranzo. «La cena è pronta, venite!» «Purtroppo, il coltello dalla parte del manico ce l'hanno loro», dichiarò Donald, ignorando il richiamo di Michael che scomparve di nuovo all'interno dell'edificio. «Non c'è niente che possiamo fare, tranne tenere gli occhi aperti.» «Il che significa approfittare della loro ospitalità», osservò Suzanne. «Fino a un certo punto. Io non sono uno che accetta di fraternizzare con il nemico.» «Questa è una questione che mi confonde. Non si comportano da nemici. Sono talmente affabili e pacifici! È difficile immaginare che facciano qualcosa di sgradevole a qualcuno.» «Tenermi lontano dalla mia famiglia è già abbastanza crudele, per me», osservò Perry. «Non dal loro punto di vista», gli fece notare Donald. «Con la riproduzione effettuata in quel modo meccanico e i bambini di quattro anni imbevuti con la mente e la personalità degli adulti, in Interterra non ci sono famiglie. È possibile che loro non siano in grado di capire il legame.» «Che cosa cacchio ci fate là fuori al buio?» gridò Michael, che si era portato di nuovo sul margine del prato. «I cloni aspettano voi. Non avete intenzione di mangiare?» «Penso che dovremmo», suggerì Suzanne. «Io ho fame.» «Io non sono sicuro di averne, dopo questa discussione», borbottò Perry e si avviò con gli altri due verso la luce che usciva dall'interno, riversandosi sul prato. «Eppure, ci dovrebbe essere qualcosa che possiamo fare», aggiunse. «Possiamo evitare di offenderli», replicò Donald. «Questo sarebbe pericoloso.» «Che cosa potremmo fare, per offenderli?» chiese Perry. «Non è di noi tre che mi preoccupo. Sono quelle zucche vuote dei sommozzatori.» «Perché non affrontare direttamente la cosa?» propose Perry. «Perché non chiedere ad Arak, quando lo incontreremo domattina, se hanno intenzione di lasciarci andare? Allora lo sapremmo per certo.» «Potrebbe essere rischioso», gli fece notare Donald. «Non penso che do-
vremmo mettere in evidenza il nostro interesse ad andarcene di qua. Se lo facessimo, loro potrebbero limitare la nostra libertà di movimento. Per come stanno le cose adesso, in teoria noi possiamo chiamare gli aerotaxi con i nostri telecomunicatori da polso e andare e venire a piacimento. Non voglio perdere questo privilegio. Potrebbe farci comodo, se saltasse fuori qualche possibilità di andarcene di qua.» «Questo è un altro argomento sensato», affermò Suzanne. «Però non vedo motivi per non chiedergli come mai siamo qui. Forse la risposta a questa domanda ci svelerà se si aspettano che rimaniamo per sempre.» «Non è una cattiva idea», approvò Donald. «Potrei saggiare il terreno, basta che non diamo l'impressione di attribuire alla cosa un'importanza eccessiva. Che ne dite se glielo chiedo domattina durante la seduta che Arak ci ha preannunciato?» «Direi che va bene. Che ne pensi, Perry?» «A questo punto, non so che cosa pensare.» «Su, sbrigatevi!» li sollecitò Michael mentre entravano nella sala da pranzo. «Questo coglione di clone non ci lascia toccare i piatti di portata finché non ci siamo tutti, ed è più forte di un bue.» Vicino alla tavola centrale stava un clone con le mani poggiate sui coperchi dei vassoi scaldavivande. «Come fai a sapere che aspettava noi?» domandò Suzanne, mentre prendeva posto. «Be', non lo sappiamo con sicurezza, dato che l'imbecille non parla, ma speriamo che sia così. Stiamo morendo di fame.» Si sedettero anche Perry e Donald e quasi immediatamente il clone sollevò i coperchi. «Tombola!» esclamò Richard. Il cibo fu servito nel giro di pochi minuti. Per un po' non ci fu conversazione. I due sub erano troppo indaffarati a mangiare, gli altri ripensavano alla conversazione avuta poco prima sul prato. «Che cosa ci facevate là fuori al buio?» domandò Richard, poi ruttò rumorosamente. «Parlavate di funerali? Avete tutti e tre un'aria talmente cupa!» Nessuno rispose. «Un gruppo vivace», commentò lui. «Noi almeno ci comportiamo bene a tavola», sbottò Donald. «'Fanculo!» «Sapete, all'improvviso trovo tutto ciò stranamente ironico», disse Su-
zanne, calma. «Che cosa, come si comporta Richard a tavola?» le chiese Michael con una fragorosa sghignazzata. «No, la nostra reazione a Interterra.» «Che cosa intendi?» chiese Perry. «Pensate a ciò che abbiamo qui. È come il paradiso, anche se non si trova in cielo, secondo la nostra immagine tradizionale. Comunque, ha tutto ciò che noi, consciamente o inconsciamente, desideriamo: la gioventù, la bellezza, l'immortalità e l'abbondanza. È un vero paradiso.» «Sulla bellezza possiamo testimoniare abbondantemente, eh, Mikey?» ghignò Richard. «Perché lo trovi ironico?» domandò Perry, ignorando la battuta. «Perché ci preoccupiamo di essere costretti a rimanere. Tutti gli altri sognano di andare in paradiso e noi ci crucciamo perché non riusciamo ad abbandonarlo.» «Che cosa intendi, quando dici che siamo costretti a restare?» volle sapere Richard. «Io non lo trovo ironico», dichiarò Donald. «Se avessi qui con me la mia famiglia, magari sì. Ma adesso no. Inoltre, non mi piace essere costretto a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Può suonare retorico, ma per me la libertà è importante.» «Usciremo di qua, vero?» insisté Richard. «Secondo Donald no», gli rispose Perry. «Ma dobbiamo!» «E come mai, marinaio?» gli chiese Donald. «Che cosa ti rende tanto ansioso di abbandonare il paradiso di Suzanne?» «Io parlavo in termini generali, non personali», intervenne Suzanne. «Francamente, scoprire il modo in cui rimangono immortali mi ha fatto stare male, oggi.» «Io non lo so di che cosa state parlando, ma voglio andarmene di qua quanto prima», dichiarò Richard. «Anch'io», gli fece eco Michael. Risuonò un delicato scampanellio che nessuno di loro aveva mai udito prima. Tutti si guardarono tra loro con espressione interrogativa, ma prima che qualcuno potesse parlare, apparvero sulla soglia Mura, Meeta, Palenque e Karena. La frotta di belle donne era su di giri. Mura andò direttamente da Michael e tese un palmo verso di lui, nel caratteristico saluto interterrano. Dopo averlo premuto contro il suo, si sedette sull'orlo della sua
sedia. Intanto Meeta, Palenque e Karena si erano avvicinate a Richard, che balzò in piedi. «Oh, bambine, siete ritornate!» gridò. Premette i palmi con tutte e tre e poi le abbracciò con entusiasmo. Loro rivolsero un breve cenno di saluto agli altri ospiti, ma erano concentrate su Richard, che andò in brodo di giuggiole. Cercò di riadagiarsi sulla sua poltrona, ma le tre donne lo fermarono e gli proposero di tornare in camera sua per una bella nuotata. «Già, certo, sicuro...» bofonchiò lui e rivolse un saluto militare a Donald, prima di scomparire con il suo miniharem. «Vieni!» Mura chiamò Michael. «Andiamo anche noi. Ti ho portato un regalo.» «Che cos'è?» Michael si lasciò trascinare verso la porta. «Un vasetto di caldorfina! Ho saputo che ti piace.» «Che l'adoro sarebbe più preciso.» Detto questo, tutti e due sfrecciarono via. Prima che i restanti commensali potessero fare commenti, si udì nuovamente lo scampanellio di prima. Questa volta annunciava l'arrivo di Luna e di Garona. Gli interterrani sembravano voler recuperare i partner della notte precedente. «Oh, Suzanne!» tubò Garona mentre premeva i palmi con lei. «Quanto ho atteso che scendesse la notte per poterla passare di nuovo con te!» «Perry, amor mio», si illanguidì Luna, «è stata una giornata troppo lunga. Spero che tu non sia troppo stressato.» Né Suzanne né Perry sapevano decidersi se fossero mortificati o deliziati, considerando le espressioni amorevoli con cui erano stati salutati. Entrambi balbettarono risposte incomprensibili, mentre si lasciavano alzare in piedi. «Penso che ce ne andremo», annunciò Suzanne a Donald, mentre Garona la tirava giocosamente verso il lato aperto della stanza. «E noi dobbiamo andare nello stesso posto», aggiunse Perry, lasciandosi trascinare da Luna. Donald li salutò con un tiepido cenno della mano, ma non disse nulla. L'istante dopo, si ritrovò solo con i due taciti cloni. Michael non ricordava di essere mai stato tanto eccitato. Non era mai capitato che una donna così stupenda e desiderabile si interessasse così tanto a lui. Dietro sua insistenza, attraversarono il prato tenendosi con le due mani e girando vorticosamente, diretti verso la sua stanza. L'immagine
di Mura con i lunghi capelli che fluttuavano al vento era talmente inebriante che Michael avrebbe continuato per ore, se il suo labirinto non avesse protestato. In preda alle vertigini, smise di girare, ma tutto ciò che gli stava attorno non smise affatto. Barcollò verso destra, cercò inutilmente di riguadagnare l'equilibrio e finì a terra. Mura gli crollò addosso e finirono con il ridere a crepapelle. Poi si rialzarono aiutandosi a vicenda e, barcollando, corsero verso il suo bungalow. Una volta entrati, erano entrambi senza fiato. «Bene», riuscì a dire Michael. Fece due respiri profondi, ma continuava a sentirsi frastornato. Soltanto guardare Mura nel suo completo aderente lo faceva fremere di desiderio. «Che cosa preferisci fare prima? Una nuotata?» Mura lo fissò in modo provocante e scosse la testa. «No, adesso non ho voglia di nuotare. La notte scorsa eri troppo stanco per un po' di intimità. Mi hai mandata via prima che potessi farti felice.» «Ma non è vero. Ero felice.» «Intendi dire che Sart ti ha reso felice?» «No, per la miseria!» abbaiò Michael, offendendosi immediatamente. «Che cavolo di domanda è?» «Non inalberarti.» Mura era rimasta sconcertata dalla sua reazione. «Non sto insinuando niente. Inoltre, va benissimo provare piacere con entrambi i sessi.» «Ehi, per me non va bene un bel niente! Manco per sogno!» «Michael, ti prego, calmati! Che cosa ti rende così agitato?» «Non sono agitato!» «Sart ha fatto qualcosa che ti ha mandato in collera?» «No, si è comportato bene», rispose Michael, nervoso. «C'è qualcosa che ti ha mandato in collera», insisté Mura. «Sart è rimasto tutta la notte? Non lo vedo da ieri sera.» «No, no!», balbettò Michael. «Se n'è andato poco dopo di te. Richard si è solo scusato per essersi infuriato con lui e basta. E lui se n'è andato. Ragazzo simpatico, eh?» «Come mai Richard si è infuriato con lui?» «Non lo so...» Michael aveva un tono irritato. «Dobbiamo parlare tutta la sera di Sart? Pensavo che fossi venuta per vedere me.» «Infatti è così.» Mura gli si accostò con mosse quasi furtive e gli carezzò il petto. Sentiva sotto le dita il suo cuore battere forte. «Devi aver avuto una giornata difficile. Come prima cosa ti devi calmare; e so io come fa-
re.» «Come?» «Sdraiati sul letto. Ti strofinerò il corpo e ti massaggerò i muscoli.» «Adesso sì che parli bene!» «E, una volta che sarai sereno, premeremo i palmi con la caldorfina.» «Mi suona meraviglioso, pupa!» esclamò Michael, riguadagnando la padronanza di sé. «Facciamolo.» «Va bene, arrivo tra un attimo.» Mura gli diede una delicata spinta verso il letto e lui vi salì obbediente e si stese sul morbido copriletto. Mura si avvicinò al frigorifero per prendere qualcosa di freddo da bere. Diede l'ordine direttamente al recettore, in modo da fare il meno rumore possibile ed evitare di disturbare Michael. Dopo aver assistito al suo piccolo sfogo, capiva che era teso e aveva bisogno di tutte le premure. Sapeva per esperienza quanto si agitassero facilmente gli umani di seconda generazione, per le cose più strane. Si stupì nel vedere quanto fosse pieno il frigorifero. «Accidenti!» esclamò. «Quanta roba c'è qua dentro?» In reazione alle domande di Mura su Sart, Michael aveva sentito decrescere in modo significativo il proprio ardore. Mentre se ne stava disteso sul letto, anziché fantasticare sugli imminenti piaceri, si era ritrovato a rimuginare sulla discussione che si era svolta durante il pasto, a proposito dell'essere inchiodati lì, in Interterra. Di conseguenza, il commento su quanto era pieno il frigorifero non era penetrato attraverso la sua consapevolezza, finché non aveva udito lo schianto di alcuni contenitori caduti a terra e un singulto di Mura. Soltanto allora si era ricordato del cadavere di Sart, ma era troppo tardi... «Merda!» imprecò sottovoce, balzando giù dal letto. Come temeva, Mura era di fronte allo sportello spalancato del frigo, con una mano premuta sulla bocca, il viso distorto da un'espressione di puro orrore. Nel frigorifero, il volto semicongelato e pallidissimo di Sart era incorniciato da varie confezioni di cibi e bevande. Michael corse da Mura e l'abbracciò stretta. Lei gli si abbandonò contro e sarebbe caduta a terra se lui non l'avesse sostenuta. «Ascolta, ascolta!» sussurrò Michael. «Ti posso spiegare tutto.» Mura riacquistò l'equilibrio e si sottrasse al suo abbraccio. Protese una mano tremante dentro al frigorifero e tastò la guancia di Sart. Era solida come il legno e fredda come il ghiaccio. «Oh, no!» gemette. Stringendosi
le proprie guance fra le mani, rabbrividì come se un vento gelido fosse penetrato nella stanza. Quando Michael cercò nuovamente di abbracciarla, lei lo spinse da parte per continuare ad avere sott'occhio il viso di Sart. Per quanto fosse una vista tremenda, non poteva distogliersene. Michael si chinò freneticamente, raccattò le cose che erano cadute e le infilò di nuovo nel frigorifero, per coprire la vista del cadavere. «Devi calmarti», disse con nervosismo. «Che cosa è accaduto alla sua essenza?» domandò Mura. Il sangue le affluì di nuovo al viso, facendo diventare le guance vermiglie. Lo choc e lo sgomento si stavano trasformando in collera. «È stato un incidente», speigò Michael. «È caduto e ha battuto la testa.» Fece per tendere di nuovo le braccia verso di lei, che però indietreggiò. «Ma la sua essenza?» chiese di nuovo Mura, pur sapendo, nel profondo di se stessa, quale fosse l'orribile verità. «Ascolta, è morto, Cristo!» sbottò Michael. «La sua essenza è andata perduta!» mormorò Mura. La collera stava già trasformandosi in dolore. Dagli occhi color smeraldo sgorgarono le lacrime. «Senti, bambina!» Il tono di Michael era a metà tra la sollecitudine e l'irritazione. «Purtroppo, il ragazzo è morto. È stato un incidente. Devi fartene una ragione.» Le lacrime si trasformarono in singhiozzi, mentre la realtà della tragedia colpì nell'intimo l'essenza stessa della ragazza. «Devo andare a dirlo agli anziani», annunciò. Si voltò e si diresse verso la porta. «No, aspetta!» Michael era sconvolto. Si gettò verso di lei e l'afferrò per le braccia... «Ascoltami!» «Lasciami andare!» gridò Mura e cercò di sottrarsi alla sua presa. «Devo annunciare la calamità!» «No, dobbiamo parlare», insisté Michael e si avvinghiò a lei. «Lasciami andare!» urlò Mura attraverso i singhiozzi, e riuscì a liberare una mano. «Zitta!» Sperando di farle passare ciò che riteneva una crisi isterica, Michael le assestò una sberla in pieno viso, con il risultato che Mura emise un urlo da spaccare i timpani. Timoroso delle conseguenze, lui le chiuse la bocca con una mano. Ma non fu abbastanza. Mura era una donna alta e forte e si divincolò, gridando di nuovo con la stessa intensità. Con qualche difficoltà, Michael le chiuse di nuovo la bocca, ma non riuscì a zittirla. Impulsivamente la trascinò verso la parte più profonda della
piscina e si gettò con lei in acqua. Anche così, però, lei continuava a urlare, allora le tenne la testa sott'acqua. Mura continuava a divincolarsi e, quando Michael le fece tirar su la testa per respirare, emise di nuovo un urlo forte come i precedenti. A quel punto lui la spinse di nuovo sott'acqua, ma questa volta ve la tenne fin quando i movimenti del suo corpo rallentarono e infine cessarono. Lentamente, Michael allentò la presa, temendo che all'improvviso si mettesse a gridare ancora. Invece il suo corpo abbandonato galleggiò in superficie, mentre la testa restava sott'acqua. La trascinò fino all'orlo della piscina e la sollevò sulla superficie di marmo. Dal naso e dalla bocca semiaperta uscirono un misto di muco e di saliva. Mentre la guardava e si rendeva conto che era morta, sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale. Si accorse di tremare talmente forte da sbattere i denti. Aveva ucciso qualcuno. Qualcuno a cui teneva. Per un attimo rimase perfettamente immobile. Si chiedeva se qualcuno potesse aver udito le urla di Mura e rimase in ascolto: la notte era silenziosa. Preso dal panico, la trascinò fino al letto, dove la coricò, poi le stese sopra il copriletto. Quindi corse fuori nella notte. Il villino di Richard si trovava a non più di cinquanta metri, distanza che Michael coprì in pochi secondi. Bussò alla porta. «Chiunque sia, se ne vada!» ordinò la voce di Richard dall'interno. «Richard, sono io!» «Non mi importa chi è. Qui dentro abbiamo da fare.» «Non posso aspettare, Richie, devo vederti!» Una serie di improperi precedette un breve silenzio. Alla fine, la porta si aprì. «Ti auguro che sia per un buon motivo», ringhiò Richard. Era completamente nudo. «Abbiamo un problema», annunciò Michael. «Tu sì, stai per averne uno», lo avvertì l'amico, poi notò che era fradicio. «Come mai hai fatto il bagno con i vestiti?» gli chiese. «Devi venire nel mio bungalow», balbettò Michael. Richard notò quanto fosse in ansia e, dopo essersi voltato per assicurarsi che nessuna delle donne fosse abbastanza vicina da udire, gli chiese con un sussurro: «Ha a che fare con il corpo di Sart?» «Purtroppo sì.» «Dov'è Mura?» «È lei il problema. Ha visto il cadavere.» «Oh, Cristo! È sconvolta?»
«È andata su tutte le furie. Devi venire!» «Va bene. Calmati! Allora, è proprio schizzata?» «Te lo sto dicendo, è andata completamente fuori di testa. Sposta le chiappe e vieni a vedere.» «Va bene, non gridare! Sarò lì tra pochi minuti. Devo sbarazzarmi delle mie amiche.» Michael annuì, mentre Richard gli chiudeva la porta in faccia. Si girò e tornò rapidamente al suo villino. Come prima cosa controllò che il corpo di Mura fosse dove l'aveva lasciato, poi si cambiò indossando degli indumenti asciutti. Attese l'arrivo di Richard andando avanti e indietro per la stanza. L'amico mantenne la parola e arrivò dopo nemmeno cinque minuti. Controllò la stanza nel momento stesso in cui ne varcava la soglia. Tutto sembrava tranquillo. Si era quasi aspettato di trovare Mura che singhiozzava in modo incontrollabile sul letto, invece non la si vedeva attorno. «Allora dov'è?» domandò. «Nel bagno?» Michael non rispose. Gli fece cenno di seguirlo e girò attorno al letto. Tese una mano tremante, afferrò l'angolo del copriletto e diede uno strattone, mettendo allo scoperto il cadavere. La pelle di alabastro di Mura si era già macchiettata di azzurrognolo e la schiuma che le usciva dalla bocca e dal naso si era tinta di rosso. «Che diavolo?» Richard rimase senza fiato. Si inginocchiò e le tastò la gola per sentire le pulsazioni, poi si rialzò. Aveva il viso stravolto dallo choc. «È morta!» «Ha aperto il frigorifero», spiegò Michael. «E ha visto il cadavere di Sart.» «Va bene, questo lo capisco, ma perché l'hai uccisa?» «Te l'ho detto, ha dato fuori di matto, gridava all'assassino. Avevo paura che svegliasse tutto 'sto cazzo di città!» «Perché le hai lasciato aprire il frigo?» domandò ancora Richard, con ira. «L'ho persa di vista per due secondi...» «Be', avresti dovuto stare più attento.» «Facile dirlo, per te. Te lo avevo detto che non volevo il cadavere qua dentro. Avrebbe dovuto stare nel tuo frigo, non nel mio.» «Va bene, calmati. Dobbiamo pensare al da farsi.» «Nel mio frigo non c'è più spazio. Deve andare nel tuo.» Richard non faceva i salti di gioia all'idea di trascinare il cadavere fino a
casa sua, ma non gli veniva in mente nessuna idea alternativa, e sapeva che dovevano fare qualcosa in fretta. Se fosse stata scoperta Mura, allora sarebbe venuta a galla anche la faccenda di Sart. In un modo o nell'altro, lui sarebbe stato coinvolto. «Va bene», approvò con riluttanza. «Togliamoci il pensiero.» Avvolsero rapidamente il cadavere di Mura nel copriletto, poi lo preso uno per le spalle e l'altro per i piedi e attraversarono il prato che separava le due abitazioni. Fecero un po' fatica a farlo passare dalla porta, che era relativamente stretta. «Accidenti!» si lamentò Michael. «Trasportare un cadavere è come trasportare un materasso. È più difficile di quanto si creda.» «È perché è tutto peso morto», ribatté Richard, ghignando al doppio senso. Gettarono il cadavere sul pavimento. Mentre Michael pensava a liberarlo dalla coperta, Richard svuotava il frigorifero. Dato che era la seconda volta che doveva fare una cosa simile, sapeva esattamente come procedere. «Va bene, dammi una mano», disse quando ebbe sgombrato tutto lo spazio interno. Assieme sollevarono Mura e la ficcarono dentro. Dato che era più alta e più pesante di Sart, occupava più spazio, quindi dovettero lasciare fuori alcuni contenitori. Richard si raddrizzò, dopo essere finalmente riuscito a chiudere la porta. «Tutto questo deve finire», sentenziò. «Che cosa?» «Far fuori gli interterrani. Siamo a corto di frigoriferi.» «Molto divertente», commentò Michael. «Come mai non mi viene da ridere?» «Non farmi rispondere, cervello di gallina.» «Te lo dico io che cosa significa: che dobbiamo portare via le chiappe da Interterra! Con due cadaveri, raddoppiano le probabilità che ne scoprano uno.» «Avresti dovuto pensarci, prima di farla secca.» «Ti sto dicendo che non avevo scelta!» gridò Michael. «Non volevo farla fuori, ma lei non aveva intenzione di stare zitta.» «Non urlare! Hai ragione. Dobbiamo andarcene il più lontano possibile da qua. L'unica notizia buona è che, a quanto pare, l'intransigente ammiraglio la pensa come noi.»
Suzanne non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva nuotato nuda, e si godette la gradevole sensazione, mentre attraversava a bracciate la piscina. E, anche se era leggermente imbarazzata, considerando la forma perfetta di Garona, non era tesa come avrebbe pensato. Probabilmente questo era dovuto al fatto che lui la faceva sentire accettata, nonostante le imperfezioni fisiche. Raggiunse l'estremità della piscina, si voltò e, dandosi una bella spinta, nuotò verso il punto in cui Garona se ne stava seduto sul bordo di marmo, tenendo semplicemente i piedi a mollo. Gli afferrò una caviglia e riuscì a trascinarlo giù. Si immersero sott'acqua e si abbracciarono. Alla fine, stanchi di quei giochi acquatici, si issarono fuori dalla piscina. Con la leggera brezza che entrava dal lato aperto della stanza, Suzanne aveva la pelle d'oca sulle braccia e sulle cosce. «Sono contenta che tu sia tornato, stasera», disse. Lo era davvero. «Anch'io», replicò Garona. «Era tutto il giorno che aspettavo questo momento.» «Non ero sicura che saresti ritornato. Per essere onesta, avevo paura che non lo facessi. Temo di essermi comportata in modo immaturo, la notte scorsa.» «Che cosa intendi?» «Avrei dovuto compiere una scelta più chiara. O non permetterti di rimanere, oppure, visto che te lo avevo permesso, comportarmi di conseguenza. Il mio comportamento è rimasto a metà strada.» «Io ho apprezzato ogni singolo minuto», la rassicurò Garona. «La nostra interazione non era orientata a uno scopo. L'idea era semplicemente di trascorrere del tempo assieme, cosa che abbiamo fatto.» Suzanne gli rivolse una lunga occhiata di apprezzamento, lamentandosi dentro di sé che occorreva un viaggio in un mondo mitico, surreale, per trovare un uomo così sensibile, disponibile e avvenente. Si ritrovò a pensare che sarebbe stato bello condurlo via con sé, ma questo la riportò alla cruda realtà: non sapeva nemmeno se lei stessa sarebbe riuscita ad andarsene di lì. E la riportò anche all'altra grossa domanda ancora senza risposta. «Garona, puoi dirmi perché siamo stati portati in Interterra?» chiese all'improvviso. Lui sospirò. «Mi spiace, non posso interferire con Arak. Tu e il tuo gruppo siete sotto la sua giurisdizione.» «Anche solo dirmi perché siamo qui sarebbe interferire con lui?» «Sì.» Garona non mostrò esitazioni. «Ti prego, non mettermi in questa
posizione. Desidero così tanto essere onesto e franco con te, ma in questa sfera non posso e mi addolora doverti negare qualcosa.» Suzanne lo fissò in viso e ne appurò la sincerità. «Mi spiace di averlo chiesto», mormorò, poi sollevò una mano. Lui sollevò la propria e lentamente premettero i palmi. Suzanne sorrise contenta; si stava gradevolmente abituando all'abbraccio interterrano. «Forse dovrei chiedere come sta andando Arak con le sedute di orientamento?» si informò Garona. «Direi benissimo. Lui e Sufa sono degli anfitrioni talmente cortesi.» «Ma certo. Sono stati fortunati ad avere assegnato un gruppo così interessante. Ho sentito che vi hanno già portati in città. Vi è piaciuta la visita?» «È stata affascinante. Siamo stati al Centro Trapassi e anche al Centro Incubazione, e a casa di Arak e Sufa.» «Che progressi rapidi! Ne sono davvero impressionato. Non avevo mai sentito di umani di seconda generazione così rapidi nell'apprendere. Qual è la tua reazione a ciò che hai visto e sentito? Posso immaginare solo lontanamente quanto sia stato straordinario per te.» «L'espressione 'incredibile' non è mai stata così appropriata.» «C'è qualcosa che hai trovato inquietante?» Suzanne cercò di capire se Garona voleva la verità o delle frasi fatte. «Una cosa c'è stata che mi ha turbato», rispose, decidendo di essere onesta con lui, e gli spiegò la reazione negativa avuta davanti al processo di impianto. Garona annuì. «Comprendo il tuo punto di vista», le assicurò. «È una conseguenza naturale delle tue radici cristiano-giudaiche, che pongono un valore tanto elevato nell'individuo. Ma ti assicuro che lo facciamo anche noi. L'essenza del bambino non viene ignorata, ma piuttosto aggiunta all'essenza impiantata. È un processo mutualmente benefico, una vera simbiosi.» «Ma come può l'essenza di una creatura non ancora nata competere con quella di un adulto che sa già tante cose?» «Non è una competizione. Ne beneficiano entrambi, anche se, ovviamente, il bambino ne beneficia di più. Ti posso assicurare, essendo passato attraverso questo processo innumerevoli volte, che sono stato fortemente influenzato dall'essenza di ognuno dei corpi che ho avuto. È decisamente un processo sommativo.» «Mi sembra una razionalizzazione», osservò Suzanne, «ma cercherò di
mantenere una mente aperta.» «Spero che tu lo faccia. Sono certo che Arak ha intenzione di ritornare sull'argomento, nelle sedute didattiche. Ricorda, la gita di oggi non serviva a spiegare le cose a fondo, ma solo a farvi superare la solita incredulità con la quale inizialmente si scontrano i nostri visitatori.» «Me ne rendo conto, ma è vero che tendo a dimenticarmene. Quindi, grazie per avermelo ricordato.» «Prego.» «Sei un uomo sensibile e bello», dichiarò Suzanne in tutta sincerità. «È una vera delizia stare con te.» Si ritrovò a chiedersi come sarebbe stato passeggiare con lui sulla spiaggia di Malibu o fare un viaggio in macchina attorno a Big Sur. Una cosa che mancava in Interterra era il mare e, in quanto oceanografi il mare era fondamentale per l'universo di Suzanne. «E tu sei una donna bella. Sei straordinariamente divertente.» «Grazie alla mia seducente primitività», aggiunse Suzanne. Sapeva che Garona intendeva farle un complimento, ma lei avrebbe preferito una parola diversa da divertente, in particolare dopo le critiche di Donald. «La tua primitività fa tenerezza», confermò Garona. Suzanne pensò per un attimo di fargli sapere che cosa ne pensava sull'essere chiamata primitiva, ma cambiò idea. In quella fase del loro rapporto voleva essere positiva. Gli annunciò invece: «Garona, c'è una cosa che voglio tu sappia su di me». Lui drizzò le orecchie. «Voglio tu sappia che non ho un altro amante. Lo avevo, ma è tutto finito.» «Non importa. L'unica cosa che importa è che sei qui in questo momento.» «Importa a me», replicò Suzanne, leggermente urtata. «Mi importa un sacco.» 15 La mattina seguente, Suzanne e Perry evitarono di scambiarsi commenti sull'esperienza della notte precedente e si mostrarono ansiosi di scoprire che cosa avrebbe portato loro quella giornata. Donald era meno entusiasta di loro e un po' imbronciato. Richard e Michael erano tesi e silenziosi e quando si decisero a parlare fu solo per dire che volevano andarsene. Donald dovette zittirli quando fece il suo ingresso Arak.
Dopo aver portato nuovamente il gruppo nella stessa sala conferenze usata il giorno prima, Arak e Sufa si lanciarono in una lezione che si trascinò per ore. Si trattò più che altro di una discussione scientifica su come Interterra sfruttava l'energia geotermica terrestre, su come manteneva il clima, compreso il meccanismo usato per generare la pioggia notturna, sul modo in cui veniva usata la tecnologia della bioluminescenza per fornire l'illuminazione esterna e interna, su come venivano gestiti l'acqua, l'ossigeno e l'anidride carbonica e sulle colture idroponiche delle piante alimentari soggette alla fotosintesi e alla chemiosintesi. Mentre sullo schermo svanivano le ultime immagini e nella sala si riaccendevano le luci, fu chiaro che gli unici due umani di seconda generazione che prestavano attenzione erano Suzanne e Perry. Donald teneva lo sguardo fisso nel vuoto, evidentemente assorbito nei propri pensieri, e i sue sommozzatori dormivano. Quando le luci raggiunsero la massima intensità si risvegliarono e fecero finta, come pure Donald, di aver ascoltato per tutta la durata della seduta. «La lezione di questa mattina», dichiarò Arak, senza dimostrarsi offeso per la mancanza di attenzione di una parte del pubblico, «sono certo che vi avrà chiarito meglio le idee sul perché siamo rimasti qui, nel mondo sotterraneo, questo in aggiunta alla questione microbica. In contrasto con ciò che accade sulla superficie terrestre, siamo stati in grado di costruire un ambiente perfettamente stabile, senza fluttuazioni climatiche, come le ere glaciali o altri disastri collegati al clima, di ottenere energia essenzialmente illimitata e senza inquinamento e una fonte di cibo del tutto adeguata e rinnovabile.» «Il plancton è la vostra fonte esclusiva di proteine?» domandò Suzanne. Lei e Perry erano rimasti affascinati da tutte le rivelazioni scientifiche. «Quella principale», rispose Arak. «L'altra fonte sono le proteine vegetali. Un tempo usavamo anche alcune specie di pesci, ma poi abbiamo smesso perché abbiamo cominciato a preoccuparci della capacità di rinnovamento degli animali marini più grossi. Purtroppo questa è una lezione che gli umani di seconda generazione non sembrano disposti ad accettare.» «In particolare con le balene e i merluzzi», commentò Suzanne. «Infatti.» Arak si guardò attorno per la stanza. «Altre domande, prima che torniamo sul campo?» «Arak, io ne ho una», si decise Donald. «Ma prego!» Arak era contento. Fino a quel momento, Donald aveva mostrato una scarsa partecipazione.
«Mi piacerebbe sapere perché ci avete portati qui.» «Speravo che la domanda riguardasse le cose di cui stavamo discutendo.» «Mi è difficile concentrarmi sulle questioni tecniche, quando non so perché mi trovo qua.» «Capisco.» Arak si chinò in avanti per consultarsi rapidamente con Sufa e con i Black. «Purtroppo, non posso rispondere completamente alla tua domanda, perché ci è stato proibito specificamente di dirvi il motivo principale per cui siete qui. Ma posso dire questo: uno dei motivi è di fermare il tentativo di perforazione nel portale di accesso a Saranta, e posso dire con piacere che ci siamo riusciti. Posso anche assicurarvi che nel corso della giornata apprenderete la ragione principale. Questo può bastare, per il momento?» «Suppongo», rispose Donald. «Ma, se tanto lo apprenderemo, non vedo perché non potete dircelo subito.» «Per il protocollo.» Donald annuì riluttante. «Come ufficiale di carriera, suppongo che posso accettarlo.» «Altre domande sulla presentazione di oggi?» chiese ancora Arak. «Per il momento sono un po' frastornato», ammise Perry. «Ma sono certo che ne avrò, con il procedere della giornata.» «Bene, allora. Cominciamo la nostra escursione. Dopo ciò che avete ascoltato stamattina, dove vi piacerebbe andare?» «Che ne dite del museo della Superficie Terrestre?» propose Donald, prima che qualcun altro potesse rispondere. «Sì!» approvò Michael con entusiasmo. «Il posto con la Corvette lì davanti!» «Volete proprio vedere il museo della Superficie Terrestre?» Arak era sconcertato, lo si vedeva chiaramente. Diede un'occhiata a Sufa, che aveva reagito allo stesso modo. «Penso che sarebbe interessante», dichiarò Donald. «Anch'io», si associò Michael. «Ma perché?» chiese ancora Arak. «Perdonate la nostra sorpresa, ma con tutte le cose che vi abbiamo rivelato, siamo sbalorditi che preferiate guardare indietro invece che avanti.» Donald si strinse nelle spalle. «Forse è solo una vena di nostalgia.» «Vedere che cosa avete scelto di esporre può darci un'idea della vostra reazione al nostro mondo», si sforzò di mediare Suzanne. Non le interes-
sava vedere quel museo al posto dei luoghi descritti di Arak, ma era felice di sostenere la richiesta di Donald. «Benissimo, allora. Il museo sarà la nostra prima tappa della giornata.» Si alzarono tutti in piedi e per la prima volta Donald parve impaziente di andare da qualche parte. Quando furono fuori, chiese ad Arak di mostrargli come si chiamava un aerotaxi e lui fu felice di accontentarlo. Quando il taxi arrivò, gli fece mettere un palmo della mano sul tavolo nero che si trovava al centro, per impartire l'ordine della destinazione. «È stato facile», commentò Donald mentre il velivolo si sollevava silenziosamente e poi partiva a razzo nella direzione richiesta. «Certo», replicò Arak. «È stato concepito per esserlo.» Tutti i visitatori trovavano affascinanti i tragitti in taxi e non si stancavano mai di vedere dall'alto la città e i suoi dintorni. Torcendo il collo, cercavano di vedere tutto, ma era difficile: le cose erano tantissime e la velocità piuttosto elevata. Entro pochi minuti si trovarono sospesi sopra l'ingresso del museo, a sei-sette metri di distanza dalla Corvette incrostata di balani. «Dio, come mi piaceva quella macchina!» sospirò Michael mentre scendeva dal velivolo. Si fermò e fissò il monumento con espressione rapita. «All'epoca uscivo con Dorothy Drexler. Non saprei quale delle due aveva la migliore carrozzeria.» «Avevano bisogno tutte e due del motorino di avviamento per partire?» domandò Richard con un ghigno. Michael gli tirò una sberla a mano aperta, che l'altro evitò facilmente, per mettersi poi a saltellare sui piedi come un pugile professionista e tirare un colpo anche lui. «Niente litigi», sbottò Donald, interponendosi fra i due. «La tua Corvette può essere stata l'ideale per te e per Dorothy», commentò Suzanne, «però io mi sento piuttosto imbarazzata a sapere che gli interterrani la considerano un simbolo della nostra civiltà.» «Suggerisce che siamo alquanto superficiali», confermò Perry. «Oltre a essere arrugginita e in pessimo stato.» «Superficiale e materialistica», aggiunse Suzanne. «Il che, a pensarci bene, è proprio vero.» «Forse volete vederci troppi simboli», dichiarò Arak. «Il motivo per cui l'abbiamo messa davanti all'entrata del museo è molto più semplice. Dato che adesso siamo costretti a osservarvi da lontano, per non essere scoperti dalla vostra tecnologia avanzante, l'automobile è ciò che notiamo di più. Da una grande distanza sembra quasi che le auto siano la forma di vita
dominante sulla superficie della Terra, con gli umani di seconda generazione che agiscono come robot per prendersene cura.» Nel sentire quelle parole, Suzanne si sforzò di trattenere una risata, ma ripensandoci capì che da una certa distanza poteva sembrare così. «Ciò che è più simbolico è il design del museo», fece loro notare Arak. Gli sguardi di tutti si posarono sull'edificio. Da vicino, la struttura aveva una soverchiante aura sepolcrale. Si ergeva per quattro o cinque piani ed era composta da segmenti rettilinei sovrapposti o perpendicolari fra loro che creavano una complicata forma geometrica. La maggior parte dei segmenti era ricoperta da serie di finestre quadrate. «L'edificio simboleggia l'architettura urbana degli umani di seconda generazione», spiegò Arak. «È alquanto brutto, con quella forma a scatola», osservò Suzanne. «Non è gradevole alla vista», ammise Arak. «Non lo sono nemmeno la maggioranza delle vostre città, che sono essenzialmente insiemi di grattacieli simili a scatole, ammassati in spazi ristretti.» «Ci sono alcune eccezioni», gli fece notare Suzanne. «Qualcuna, sì. Ma purtroppo le lezioni di architettura impartite dagli atlantidi sono per lo più andate perdute o sono state ignorate.» «È un edificio enorme», commentò Perry. Copriva l'equivalente di un isolato in una città moderna. «Deve esserlo. Abbiamo una collezione imponente. Ricordate che stiamo parlando di un periodo di milioni e milioni di anni.» «Allora il museo non documenta solo la civiltà degli umani di seconda generazione?» domandò Suzanne. «Niente affatto. Descrive le varie tappe dell'evoluzione avvenuta sulla superficie della Terra. Naturalmente, ci interessavano di più gli ultimi diecimila anni, per ovvi motivi. Anche se quel segmento di tempo rappresenta un semplice battito di ciglia in confronto alla totalità del periodo, abbiamo concentrato su di esso le nostre collezioni.» «E i dinosauri?» domandò Perry. «Abbiamo un'esposizione piccola ma rappresentativa di alcuni esemplari conservati», rispose Arak, poi aggiunse: «Che creature tremendamente violente!» e scosse la testa come per scacciare un'ondata di nausea. «Vorrei vederla», chiese Perry con entusiasmo. «Ho sempre avuto una voglia matta di sapere di che colore fossero i dinosauri.» «Per la maggior parte erano di un ordinario grigioverde. Piuttosto brutti, devo dire.»
«Entriamo», propose Sufa. Il gruppo si infilò nell'atrio. Era enorme, rivestito come all'esterno dello stesso basalto nero. Lame di luce scendevano dalle aperture nell'alto soffitto e si incrociavano come fari in miniatura a illuminare gli oggetti esposti, con un effetto molto teatrale. Da lì si dipartivano numerosi corridoi. «Come mai non c'è gente?» volle sapere Suzanne. In qualsiasi direzione guardasse, i corridoi erano vuoti. La sua voce echeggiò ripetutamente nel silenzio sepolcrale. «È sempre così», spiegò Arak. «Per quanto questo museo sia importante, non è particolarmente popolare. La gente in genere non ama rammentare la minaccia che costituisce per noi il vostro mondo.» «Intendi la minaccia di essere scoperti?» «Sì», rispose Sufa. «Sembra un posto dov'è facile perdersi», commentò Perry, sbirciando i vari corridoi lunghi, silenziosi e in penombra. «In realtà non è così», lo rincuorò Arak e puntò un dito verso sinistra. «A cominciare da qui, con le alghe verdazzurre, il percorso segue un criterio cronologico.» Poi indicò a destra. «E da questa parte abbiamo la civiltà degli umani di seconda generazione che inizia con i primi ominidi africani e arriva fino ai giorni nostri. In qualsiasi punto del museo si può determinare come trovare la strada per tornare qui, nell'atrio, seguendo a ritroso l'evoluzione.» «Mi piacerebbe vedere l'esposizione che mostra i nostri tempi moderni», disse Donald. «Certo. Seguitemi. Prenderemo una scorciatoia attraverso i primi cinque o sei milioni di anni.» Il gruppo seguì le due guide come fosse una scolaresca in gita. Suzanne e Perry trovavano difficile non fermarsi a vedere ogni vetrina, soprattutto quando raggiunsero le sale dedicate ai manufatti egizi, greci e romani. Nessuno dei due aveva mai visto niente di simile. Era come se qualcuno fosse tornato indietro nel tempo, potendo scegliere a piacere gli oggetti migliori. Suzanne fu particolarmente affascinata dagli indumenti d'epoca fatti indossare a manichini a grandezza naturale. «Noterete che nelle nostre collezioni c'è una notevole differenza nella quantità», osservò Arak. Era rimasto con Suzanne e Perry, mentre gli altri proseguivano. «Sul periodo moderno abbiamo relativamente poco materiale. Più si va indietro nella vostra storia, più numerosi sono i reperti. Moltissimo tempo fa eravamo soliti intraprendere dei veri viaggi con tute di
protezione per raccogliere materiale per il museo. Naturalmente, a un certo punto abbiamo dovuto smettere, temendo di essere scoperti, una volta che i vostri progenitori hanno sviluppato la scrittura.» «Arak!» chiamò Sufa che era avanti di diverse gallerie. «Donald, Richard e Michael procedono in fretta, quindi io andrò avanti con loro.» «Va bene!» rispose Arak. «Ci incontriamo tutti all'ingresso fra un'ora circa.» Sufa annuì e agitò un braccio. «Come mai vi preoccupavate di essere scoperti dalle popolazioni antiche?» chiese Suzanne. «Di certo non avevano la tecnologia per causarvi dei guai.» «Vero. Però sapevamo che, prima o poi, gli umani di seconda generazione l'avrebbero avuta e non volevamo che rimanessero documentazioni delle nostre visite. Era già abbastanza preoccuparci per il fallito esperimento di Atlantide, anche se era una preoccupazione minore, dato che gli umani di prima generazione avevano finto di essere di seconda generazione.» Suzanne annuì, ma la sua attenzione fu distratta da un elaborato abito femminile dell'epoca minoica che lasciava il seno completamente esposto. «Questo è un periodo della vostra storia moderna di cui abbiamo molti manufatti», annunciò Arak. «Vi piacerebbe soffermarvi?» Suzanne guardò Perry, che alzò le spalle, quindi rispose: «Sì, certo». Arak voltò a destra e si incamminò a grandi falcate lungo una sala laterale piena di squisite terrecotte. Con i due visitatori alle calcagna, svoltò un altro angolo e salì una rampa di scale. Sul piano superiore emersero in un'enorme sala colma di materiale relativo alla seconda guerra mondiale. I reperti andavano da cose piccole come le targhette dei cani a quelle grandi come un carrarmato Sherman, un aereo B-24 Liberator e un U-boat intatto, con tutta una serie di articoli intermedi nel mezzo. Era evidente che ogni oggetto era rimasto sommerso più o meno a lungo nell'oceano. «Accidenti!» commentò Perry mentre passava tra le cose esposte. «Questo assomiglia più a una discarica che a un museo!» «Sembra che la nostra ultima guerra mondiale abbia contribuito in modo sostanziale alla vostra collezione», osservò Suzanne, che era rimasta vicino alle scale assieme ad Arak, dato che quel genere di esposizione non la interessava. «Un grosso contributo», confermò lui. «Tantissimi oggetti come quelli che sono esposti qua sono piovuti giù nell'oceano per cinque anni di fila. Negli ultimi cento anni della vostra storia, frugare sul fondo dell'oceano è
stata la nostra unica fonte di cose insolite.» Suzanne guardò l'U-boat. «La crescita esplosiva della tecnologia sottomarina, con le conseguenti operazioni, vi preoccupa?» «Solo in rapporto alla capacità del sonar. Soprattutto quando la tecnologia del sonar ha cominciato a contribuire alla preparazione di carte batipelagiche a curve di livello. Tale tecnologia è stata uno dei motivi per cui abbiamo deciso di chiudere i portali di accesso come quello dal quale siete passati voi.» Mentre Suzanne e Arak continuavano a parlare dei sonar e della loro minaccia alla sicurezza interterrana, Perry girò in lungo e in largo per la sezione della seconda guerra mondiale. Alcuni oggetti sembravano in ottime condizioni, altri erano incrostati di balani come la Corvette davanti all'ingresso del museo. Alla fine della galleria si affacciò a una finestra e vide di sfuggita le immense guglie che sostenevano le Azzorre. Poi abbassò distrattamente lo sguardo al cortile sottostante e spalancò tanto d'occhi: l'Oceanus, il piccolo sommergibile della Benthic Marine, stava appoggiato su quello che sembrava un rimorchio attaccato a un grosso aerotaxi. «Ehi, Suzanne!» gridò. «Vieni a vedere!» Lei lo raggiunse di corsa, seguita da Arak. Entrambi si affacciarono alla finestra e guardarono dove indicava il dito puntato di Perry. «Accidenti! È il nostro sommergibile!» esclamò. «Che cosa ci fa lì?» «Ah sì, ho dimenticato di dirvi quanto interesse ha suscitato la vostra nave nei curatori del museo», spiegò Arak. «Credo che, con il vostro permesso, intendano esporlo.» «Era danneggiato?» si informò Perry. «Solo minimamente. Degli esperti cloni operai hanno riparato le luci esterne e il braccio manipolatore. Inoltre è stato decontaminato, ma per il resto è intatto. Sai com'è fatto?» «Un po'», rispose Perry, «ma non tanto come funziona. Suzanne lo conosce molto meglio di me. Io ci sono stato solo due volte.» «Il vero esperto è Donald», si schermì lei. «Lui lo conosce come il palmo della propria mano.» «Ottimo», commentò Arak. «Abbiamo qualche domanda sul sonar, che abbiamo trovato ancora più sofisticato di quanto ci aspettassimo.» «Sì, è a lui che bisogna chiedere», confermò Suzanne. «Su cosa è appoggiato?» domandò Perry. «Su un rimorchio da aerotaxi.»
Michael si impegnò nello stare al passo con Donald, che attraversava il museo come se stesse facendo jogging invece che guardare i reperti. Ogni qualche passo, Michael doveva fare una piccola corsetta. Donald aveva lasciato indietro già da parecchio Richard e Sufa. «Perché diavolo vai così in fretta?» ansimò Michael. «Che cos'è, una corsa?» «Non sei obbligato a stare con me», replicò seccato Donald. Voltò un altro angolo e continuò. Stavano attraversando una sezione che conteneva sculture e dipinti rinascimentali. «Richard e io pensiamo che dovremmo andarcene da Interterra il più rapidamente possibile», riuscì a dire Michael, quasi senza fiato. «Lo avete già detto chiaro e tondo a colazione», gli fece osservare Donald, in tono beffardo. Svoltò un altro angolo ed entrò in una sala dov'erano appesi dei tappeti. «Siamo un po' preoccupati», continuò Michael, cercando di stare al passo con lui. «Per cosa, marinaio?» gli chiese Donald. «Perché... ecco... abbiamo un problema», rispose esitante Michael. «Riguarda un paio di questi interterrani.» «A me non interessano i vostri problemi personali», replicò seccamente Donald. «Ma è stato un incidente. O meglio, due incidenti.» Donald si fermò di botto e, mentre Michael faceva altrettanto, gli puntò contro un dito, all'altezza del viso. Le labbra erano atteggiate a un ghigno sprezzante. «Ascolta, testa di rapa! Voi due avete deciso di fraternizzare con questi interterrani. Io non voglio sapere niente delle vostre difficoltà nei rapporti con loro. Capito?» «Ma...» «Niente ma, marinaio! Sto cercando di portare tutti noi fuori di qua e non voglio essere distratto da te o dal tuo amico mezzo idiota.» «Va bene, va bene!» Michael sollevò le mani in un atteggiamento difensivo. «Sono contento che ci stai lavorando. Uscire al più presto di qua è tutto ciò di cui mi preoccupo. Voglio dire, aiuterò in tutti i modi che potrò.» «Lo terrò a mente», replicò Donald, senza abbandonare il tono sdegnoso. «Hai qualche idea su come potremo farlo?»
«Sarà difficile. Dobbiamo trovare qualcuno, a parte Arak, per ottenere delle risposte reali. L'informazione è la chiave di tutto. La cosa migliore, naturalmente, sarebbe trovare qualcuno che qui non è contento, ma che c'è rimasto abbastanza a lungo da sapere come si può andarsene.» «Nessuno sembra scontento. È come se vivessero in una grande festa.» «Io non sto parlando degli interterrani. Arak ha fatto capire che c'è un certo numero di persone che sono finite qua. Alcune di loro devono pur avere nostalgia di casa e non essere pappa e ciccia con gli interterrani come sembrano esserlo i Black. È nella natura umana, o per lo meno degli umani di seconda generazione, resistere alle coercizioni.» «Come proponi di fare?» «Non lo so», ammise Donald. «Dobbiamo tenere gli occhi aperti, nel caso si presenti l'occasione giusta. Posso dirti che mi piace stare qui fuori, in città. Di certo non troveremo una persona simile standocene seduti in quella dannata sala conferenze.» «Ma questo posto è deserto», si lamentò Michael, dando un'occhiata in entrambe le direzioni del corridoio in cui si trovavano. «Non sono venuto qui per incontrare nessuno. Ho voluto venire in questo accidenti di museo nella speranza di imbattermi in qualche arma. Pensavo che ce ne fossero, ma non ne ho vista nemmeno una. Avere un museo sulla storia umana senza armi è ridicolo. Il pacifismo di questi interterrani mi sta mandando fuori dai gangheri.» «Armi!» Michael annuì. Lui non ci aveva nemmeno pensato, ma ne fu immediatamente attratto. «Buona idea! A dirti la verità, mi chiedevo come mai ci tenevi tanto a venire qui.» «Be', adesso lo sai, marinaio», replicò seccamente Donald. «E magari puoi anche essere utile, dato che questo posto è così enorme. Se ci separiamo possiamo coprire più terreno.» Aveva appena finito di pronunciare queste parole, quando il suo sguardo si posò su una cosa che non aveva mai visto in nessun'altra zona espositiva: una porta con la scritta INGRESSO CHIUSO AL PUBBLICO. Curioso di ciò che poteva nascondere, vi si avvicinò, seguito da Michael. Arrivato proprio davanti, vide che sotto c'erano altre parole, scritte a caratteri più piccoli: PER ENTRARE, CHIEDERE L'AUTORIZZAZIONE AL CONSIGLIO DEGLI ANZIANI. «Che cacchio è il consiglio degli Anziani?» domandò Michael, alle sue spalle. «Qualche specie di organo di governo, immagino.» Donald appoggiò la
mano sulla porta e spinse: non era chiusa a chiave, al pari di tutte le altre porte su Interterra. «Eureka!» Esclamò, dopo una rapida occhiata ad alcuni degli oggetti esposti in quella sala. Spalancò del tutto la porta e varcò la soglia. Michael gli si infilò dietro ed emise un fischio. «Non c'è da meravigliarsi che non abbiamo visto armi», commentò Donald. «A quanto pare, hanno una sezione nascosta, tutta per loro.» La sala era relativamente stretta, ma parecchio lunga. Su entrambi i lati correvano scaffali stracolmi di armi.» I due visitatori erano entrati grosso modo a metà della sua lunghezza e videro, sullo scaffale dirimpetto alla porta d'ingresso, una balestra medievale con una faretra di frecce dalla punta acuminatissima. Michael tolse la balestra dal sostegno e fischiò un'altra volta. Non aveva mai maneggiato un'arma simile. «Cristo!», commentò. «Questo marchingegno ha l'aria di essere tosto.» Batté con le nocche contro il calcio, provocando un suono sordo. Pizzicò la corda: era in perfette condizioni. Alla fine sollevò la balestra e la osservò per tutta la lunghezza. «Scommetto che questo aggeggio è ancora funzionante.» Donald si era avviato verso destra, ma ben presto si accorse di aver preso la direzione sbagliata: le armi esposte erano sempre più antiche. In lontananza scorse una collezione di daghe, archi e lance risalenti al mondo greco-romano. Girò su se stesso e oltrepassò Michael, che nel frattempo si stava dando da fare per piegare la balestra e infilare la corda nella tacca di bloccaggio. «C'è ancora un sacco di forza nell'arco», osservò quando alla fine ci fu riuscito. Pose un dardo nella guida e protese l'arma carica verso Donald, affinché la guardasse bene. «Che ne dici?» «Potrebbe avere qualche possibilità», rispose lui tenendosi sul vago, mentre intanto si dirigeva dalla parte opposta della lunga sala. Lo incoraggiò vedere i primi esempi di archibugi. «Ma io speravo in qualcosa di più risolutivo di una balestra.» Michael pose l'indice sulla leva di sbloccaggio e, senza averne l'intenzione, scaricò l'arma. Il dardo sibilò nello scorrere lungo la guida, rimbalzò sul pavimento di basalto con un acuto stridio, passò oltre l'orecchio destro di Donald e andò a conficcarsi in uno degli scaffali di legno. Donald aveva sentito lo spostamento d'aria. «Gesù Cristo!» tuonò. «A momenti mi inchiodavi con quel maledetto aggeggio!»
«Scusa», balbettò Michael. «Ho appena sfiorato la leva di scatto.» «Mettilo via, prima che qualcuno di noi si faccia male.» Donald scosse la testa incredulo, toccandosi l'orecchio. Per fortuna non usciva sangue. La freccia era passata vicinissima. Borbottando improperi contro i pagliacci con cui gli toccava condividere quella sorta di prigionia, proseguì. Ben presto si ritrovò a guardare una collezione di fucili e pistole della seconda guerra mondiale. Purtroppo erano tutti malandati, a causa del contatto con l'acqua di mare. Si scoraggiò sempre di più, finché arrivò davanti a una Luger tedesca, verso l'estremità della stanza. A prima vista pareva in ottime condizioni. Senza accorgersi che stava trattenendo il respiro, allungo la mano verso la pistola e la sollevò. Esultò nel vedere che appariva intatta, anche a un esame ravvicinato, poi, ansioso di ciò che avrebbe trovato, ne estrasse il caricatore. Sul viso gli si allargò un sorriso: era pieno! «Hai trovato qualcosa di buono?» gli chiese Michael, che nel frattempo lo aveva raggiunto. Donald spinse di nuovo a posto il caricatore dentro l'impugnatura e ne udì il rassicurante scatto. Sollevò la pistola e rispose soddisfatto: «È questo che stavo cercando». «Bene!» commentò Michael. Donald rimise amorevolmente l'arma al suo posto. «Che cosa fai? Non la prendi?» gli chiese Michael. «Non ora. Non finché non saprò che cosa ne farò.» Richard si fermò di botto. Non riusciva a credere a ciò che vedeva: era in una sala piena di tesori, per lo più risalenti ai tempi antichi. C'erano innumerevoli coppe, ciotole e anche intere statue fatte tutte d'oro, illuminate in modo teatrale dai raggi di luce. In un angolo erano ammassati numerosi forzieri colmi di monete d'oro. Vedere tutta quella roba faceva girare la testa. A rendere ancora più sorprendente tutto ciò era, per lui, il fatto che l'intera collezione di valore inestimabile si trovasse alla mercé di chiunque, passando di lì, poteva allungare una mano e afferrare qualcosa. Non c'erano vetrine o barriere protettive, com'era abituato a vedere in tutti i musei che aveva visitato. E, oltretutto, all'ingresso dell'edificio non c'era nemmeno una guardia. «È incredibile!» quasi balbettò. «Dio, è fantastico. Che cosa non farei per una carrettata di questa roba!»
«Ti piacciono questi oggetti?» gli domandò Sufa. «Se mi piacciono? Li adoro. Non ho mai visto niente di simile. Dubito che a Fort Knox ci sia così tanto oro.» «Abbiamo i magazzini pieni di queste cose. Per anni le navi hanno continuato ad andare a fondo, cariche d'oro. Posso fare in modo che ti vengano spediti un po' di oggetti simili nella tua abitazione, se questo ti fa piacere.» «Vuoi dire, roba come quella che stiamo vedendo qui?» «Certo. Preferisci le statue grandi o gli oggetti più piccoli?» «Non sono esigente, ma che ne diresti dei gioielli? Il museo ha anche i gioielli?» «Certo, provengono per la maggior parte dai vostri tempi antichi. Ti piacerebbe vederli?» «Perché no?» Mentre si dirigevano verso la sezione dei gioielli antichi, Richard notò un reperto, in una parte dedicata alle curiosità del ventesimo secolo, che lo fece sorridere. Su un piedistallo che arrivava all'altezza del petto era esposto un frisbee, sapientemente illuminato da una sottile lama di luce, come se anche quello fosse prezioso quanto l'oro. «Be', che mi venga un accidente!» borbottò fra sé, mentre si fermava davanti al disco di un verde giallastro. Notò qualche segno di denti canini lungo il bordo. «Che cosa diavolo ci fa qui?» Sufa, che era un po' più avanti, tornò accanto a lui per vedere a cosa si riferiva. «Non sappiamo esattamente che cosa sia», ammise. «Ma qualcuno ha suggerito che potrebbe essere il modello di qualche vostro veicolo antigravitazionale, come i nostri aerotaxi o le nostre navicelle interplanetarie. Per un certo periodo abbiamo avuto paura che ci avessero avvistato direttamente.» Richard gettò indietro la testa e rise. «Stai scherzando!» «No che non scherzo. La sua forma è molto suggestiva, e può girare su stesso in modo da catturare un cuscino d'aria, come in un veicolo antigravitazionale.» «Non è il modello di niente», speigò Richard. «Non è altro che un frisbee.» «Per cosa veniva usato?» «Serve a giocarci. Lo fai ruotare su se stesso, proprio come hai detto tu, e qualcun altro lo acchiappa. Ti faccio vedere.» Richard lo prese dal piedistallo e lo lanciò delicatamente in aria, dandogli l'angolazione voluta. Il giocattolo raggiunse un punto culminante, poi ritornò e lui lo riprese,
stringendolo tra il pollice e le altre dita. «Tutto qua. È facile, non trovi?» «Penso di sì.» «Adesso te lo lancio, e tu lo prendi, proprio come ho fatto io.» Detto questo, Richard si allontanò di una cinquantina di metri, si voltò e lanciò il frisbee verso Sufa. Lei si mosse per prenderlo, e lo sfiorò con la mano, ma era troppo goffa e lo lasciò cadere a terra. Richard sollevò gli occhi al cielo davanti alla sua inettitudine, poi corse a raccattare il frisbee da terra e le mostrò di nuovo come fare. Al lancio successivo, però, Sufa si mostrò ancora più imbranata. «Voi non fate attività fisiche, vero?» chiese Richard con tono canzonatorio. «Non ho mai conosciuto nessuno che non sapesse acchiappare un frisbee.» «Qual è lo scopo?» domandò Sufa. «Non c'è nessuno scopo. Si fa solo per divertimento. È uno sport. Lanciare questa cosa avanti e indietro dà l'opportunità di fare un po' di moto.» «A me sembra una cosa inutile.» «Ma voi non fate attività fisica, qui in Interterra?» «Certamente. Ci piace soprattutto nuotare, ma camminiamo e giochiamo con i nostri omidi. Naturalmente, c'è sempre il sesso, come sono certa che Meeta, Palenque e Karena ti hanno mostrato.» «Ma io sto parlando di sport! Il sesso non è uno sport!» «Invece per noi lo è. E di certo si fa un sacco di esercizio fisico.» «Ma, uno sport nel quale si cerca di vincere?» insisté Richard. «Vincere?» «Sì, una gara.» Il tono di Richard era seccato. «Non avete giochi competitivi?» «Cielo, no!» rispose Sufa. «Abbiamo smesso con queste sciocchezze ere ed ere fa, quando abbiamo eliminato le guerre e la violenza.» «Oh, per la miseria! Niente sport! Questo vuol dire niente hockey su ghiaccio, niente football, nemmeno il golf! Gesù! E pensare che secondo Suzanne questo posto è il paradiso!» «Ti prego, calmati. Perché sei così agitato?» «Ti sembro agitato?» chiese Richard in tono innocente. «Sì, di sicuro.» «Immagino di aver bisogno di un po' di esercizio fisico.» Il frisbee sotto il braccio, Richard fece crocchiare nervosamente le nocche. Sapeva di essere tesissimo, e sapeva anche il perché: con gli occhi della mente continuava a immaginarsi un clone che incappava nel cadavere di Mura, ficcato
nel suo frigorifero. «Perché non prendi il frisbee?» gli propose Sufa. «Forse Michael o uno degli altri avrà voglia di giocare con te.» «Perché no?» approvò Richard, ma senza tanto entusiasmo. «Bene, allora!» chiamò Arak. Il gruppo si era riunito sulla terrazza di fronte al museo, dopo aver trascorso più di un'ora al suo interno. Stavano tutti parlando di ciò che avevano visto durante la visita, tranne Richard, che se ne stava al margine e continuava a lanciare il frisbee in aria, per poi riprenderlo. Alla base della scalinata erano in attesa tre aerotaxi. «Parliamo di come abbiamo pensato di organizzare il resto della mattinata. Sufa accompagnerà Perry alla fabbrica dove vengono costruiti e riparati gli aerotaxi. Credo fosse questo che volevi vedere.» «Infatti, sì», convenne Perry. «Ismael e Mary accompagneranno Donald e Michael all'Informazione Centrale.» Donald annuì. «E tu, Richard?» aggiunse Arak. «Quale di queste due destinazioni ti attira di più?» «In realtà non mi importa», rispose Richard, continuando a lanciare il frisbee. «Devi scegliere una cosa o l'altra.» «Va bene, allora, la fabbrica di aerotaxi.» «E Suzanne?» volle sapere Perry. «Verrà con me a un incontro con il consiglio degli Anziani.» «Da sola?» Perry lanciò un'occhiata a Suzanne, con fare protettivo. «Va bene», gli assicurò lei. «Mentre tu salivi nell'U-boat della seconda guerra mondiale, Arak mi ha spiegato che gli anziani desiderano parlare con me dal punto di vista professionale, come oceanografa.» «Ma perché da sola? E perché non io? Dopotutto, gestisco una società oceanografica.» «Non credo che sia il lato degli affari quello che interessa loro. Non ti preoccupare.» «Sei sicura?» insisté Perry. «Sicurissima», rispose Suzanne, e gli diede una pacca sulla spalla. «Allora andiamo», chiamò Arak. «Ci rincontreremo tutti al palazzo dei visitatori, alla fine della giornata.» Fece un cenno perché gli altri lo seguissero, girò attorno alla base su cui stava la Corvette e scese gli ampi scalini
verso gli aerotaxi sospesi a qualche decina di centimetri da terra. A Suzanne parve strano ritrovarsi da sola con Arak, mentre il taxi sfrecciava nell'aria, portandoli a destinazione. Era la prima volta che era lontana dagli altri, se non si consideravano le ore del sonno. Guardò Arak e lui le sorrise. Stargli così vicino le ricordò quanto quell'uomo fosse bello. «Ti piace l'orientamento?» le chiese lui. «Oppure lo trovi frustrante per la sua lentezza o per la sua velocità?» «Sconvolgente sarebbe un termine che lo descrive meglio. La questione non è la velocità, e di certo non mi sento minimamente frustrata.» «Il vostro gruppo costituisce una vera sfida nel progettare il miglior protocollo d'orientamento che gli sia adatto. Siete tutti così diversi, un fatto che noi interterrani troviamo affascinante ma anche scoraggiante. Vedi, a causa della selezione e dell'adattamento, siamo tutti piuttosto simili fra noi, e credo che te ne sarai accorta.» «Siete tutti molto carini», rispose Suzanne, trasalendo nel dire una tale banalità. Si rese conto che, prima del commento di Arak, non aveva prestato molta attenzione alla questione. Ora ci rifletté e si accorse che era vero. Non solo erano tutti egualmente attraenti in un senso classico, ma anche affabili, intelligenti e amichevoli. Nei loro temperamenti le differenze erano minime. «Carini è una parola un po' asettica. Spero che tu non ti annoi con noi.» Suzanne se ne uscì in una risata. «È difficile annoiarsi, quando si è sconvolti. Ti posso assicurare che non mi annoio affatto.» Il suo sguardo andò all'incredibile vista della città, con i nugoli di aerotaxi che sfrecciavano nell'aria. Annoiarsi era la cosa più lontana da ciò che le stava accadendo, però all'improvviso capì a cosa alludeva Arak. Dopo un po' Interterra poteva diventare noiosa a causa della sua omogeneità. Ed erano proprio alcuni degli aspetti che facevano di essa un paradiso a renderla priva di attrattiva. La distrasse da queste elucubrazioni la vista di una struttura imponente che spiccava nel tessuto della città, a cui il taxi si stava rapidamente avvicinando. Era un'enorme piramide nera dalla sommità dorata. Mentre il taxi si fermava e discendeva per una strada sopraelevata che conduceva all'ingresso, si rese conto della straordinaria rassomiglianza con la piramide egizia di Giza. Essendoci stata, poteva accorgersi che anche le dimensioni erano approssimativamente le stesse. Quando ne parlò ad Arak, lui sorrise con espressione paternalistica.
«Il progetto è stato uno dei nostri doni a quegli umani di seconda generazione», le spiegò. «Avevamo grandi speranze per loro, dato che inizialmente erano una popolazione alquanto pacifica. Agli albori di quella civiltà abbiamo mandato una delegazione a vivere in mezzo a loro, con l'idea di elevarli al di sopra degli altri popoli estremamente bellicosi che si erano evoluti. L'esperimento non è stato vasto come quello di Atlantide, ma comunque non ha funzionato.» «Avete mostrato loro come costruirla e avete anche fornito il progetto?» chiese Suzanne. Per lei l'enigma della Grande Piramide era uno dei più affascinanti del mondo antico. «Naturalmente. Abbiamo dovuto. Gli abbiamo anche mostrato il concetto dell'arco, ma si sono cocciutamente rifiutati di credere che avrebbe funzionato e non l'hanno mai sperimentato nemmeno in una sola costruzione.» L'aerotaxi si fermò e il fianco si aprì. «Prego, dopo di te», le disse con garbo Arak. Una volta entrati, Suzanne si rese conto che la somiglianza fra le due strutture svaniva: l'interno della piramide luccicava di marmo bianco e gli spazi erano grandiosi, anziché claustrofobici. Mentre lei e la sua guida percorrevano un corridoio che portava al centro dell'edificio, le toccò un'altra sorpresa. Da un passaggio laterale saltò fuori Garona e l'avvolse in un caldo abbraccio. «Garona!» mormorò lei con evidente contentezza, e ricambiò l'abbraccio. «Che bella sorpresa! Non mi aspettavo di vederti fino a stasera. O per lo meno speravo che ti avrei visto stasera.» «Certo che mi avresti visto stasera. Ma non potevo aspettare.» La fissò negli occhi. «Sapevo che oggi avresti incontrato il consiglio degli Anziani, così sono venuto qua ad aspettarti.» «Mi fa piacere.» «È meglio che ci muoviamo», si fece sentire Arak. «Il consiglio sta aspettando.» «Certo.» Garona si sciolse dall'abbraccio con Suzanne e la prese per mano, in modo che tutti e tre potessero riprendere a camminare. «Com'è andata finora la mattinata?» le chiese. «Illuminante», rispose lei. La vostra tecnologia è stupefacente. «Abbiamo avuto una sessione scientifica», spiegò Arak. «Avete visitato qualche posto?» «Siamo andati al museo della Superficie Terrestre», rispose Suzanne. «Davvero?» Garona parve sorpreso.
«È stata una richiesta specifica di Donald Fuller», lo informò Arak. «Lo avete trovato istruttivo?» «Interessante», rispose Suzanne, «ma io non lo avrei scelto, considerando tutto quello che abbiamo appreso durante la sessione didattica.» Si avvicinarono a una impressionante porta di bronzo. Su ognuno dei due battenti si notava un bassorilievo in cui Suzanne riconobbe la croce ansata, l'antico simbolo egizio della vita. Anche questo le rammentò lo scambio di informazioni che sembrava esserci stato fra gli interterrani e l'antica civiltà umana di seconda generazione. Le venne da chiedersi che cos'altro fosse stato tramandato da Interterra. Nel momento in cui vi arrivarono davanti, i due battenti si spalancarono verso l'interno, su cardini silenziosi, rivelando una sala circolare dal soffitto a cupola sostenuto da un colonnato. Come il resto della parte interiore della piramide, era tutto di marmo, tranne i capitelli delle colonne, che erano d'oro. Seguendo l'invito di Arak, Suzanne oltrepassò la soglia di marmo e compì qualche passo esitante, poi si fermò e abbracciò con lo sguardo la maestosa sala. Lungo il perimetro erano disposti dodici sedili che avevano l'aspetto di troni imperiali, ognuno fiancheggiato da un paio di colonne. Erano tutti occupati, presumibilmente dai membri del consiglio, che mostravano un'età apparente dai cinque ai venticinque anni. Suzanne non si aspettava una simile mescolanza di età e rimase un po' confusa. Alcuni di loro erano talmente giovani che i loro piedi non arrivavano a toccare terra. «Vieni, dottoressa Suzanne Newell», la invitò uno degli anziani con una limpida voce da preadolescente. Sembrava una bambina di dieci anni. «Mi chiamo Ala ed è il mio turno svolgere il compito di portavoce del consiglio. Ti prego, non avere alcun timore! So che questi ambienti sono imponenti e possono intimidire, ma noi desideriamo soltanto parlare con te, e se ti porterai al centro della sala potremo udirti meglio. «Sono più sorpresa che timorosa», replicò Suzanne, mentre avanzava fino a porsi direttamente sotto la sommità della cupola. «Mi avevano detto che avrei incontrato il consiglio degli Anziani.» «E infatti è così», le assicurò Ala. «Il fattore determinante per sedere nel consiglio è il numero di vite corporee che abbiamo vissuto, non l'età del corpo attuale.» «Capisco.» Suzanne era comunque turbata nel trovarsi davanti un organo di governo composto parzialmente da bambini. «Il consiglio degli Anziani ti dà formalmente il benvenuto», aggiunse
Ala. «Grazie.» Suzanne non sapeva che altro dire. «Sei stata portata su Interterra nella speranza di ricevere da te alcune informazioni che non siamo stati in grado di racimolare monitorando la superficie terrestre.» «Che tipo di informazioni?» domandò Suzanne. Si accorse di essere sulle difensive. Le sembrava di udire la voce di Donald, quando diceva che gli interterrani volevano qualcosa da loro e che, una volta ottenuta, avrebbero potuto trattarli diversamente. «Non allarmarti», cercò di calmarla Ala. «È difficile non farlo. Soprattutto ora che mi confermate di aver rapito di proposito me e i miei colleghi, portandoci nel vostro mondo. Devo aggiungere che è stata un'esperienza terrificante.» «Per questo ti porgiamo le nostre scuse. E sappi che intendiamo ricompensare il vostro sacrificio. Ma siamo noi a essere allarmati. Vedi, l'integrità e la salvezza di Interterra sono responsabilità nostra. Noi sappiamo che nel tuo mondo sei un'oceanografa molto preparata.» «Questo è eccessivamente generoso», si schermì Suzanne. «In realtà, sono relativamente una nuova arrivata in quel settore.» «Scusa», intervenne un adolescente che sembrava proprio nel momento dello sviluppo. «Mi chiamo Ponu e attualmente sono il vice portavoce. Noi sappiamo quanto sei stimata dagli scienziati tuoi colleghi. Siamo convinti che un tale rispetto sia una prova delle tue capacità individuali.» «Come credete.» Non era un argomento sul quale Suzanne aveva intenzione di soffermarsi, date le circostanze. «Che cosa volevate chiedermi?» «Come prima cosa», riprese la parola Ala, «vorrei assicurarmi che sei stata informata sul fatto che nel nostro ambiente non ci sono i virus e i batteri comuni da voi.» «Arak ce lo ha spiegato chiaramente.» «E presumo tu capisca anche che la scoperta della nostra civiltà da parte della vostra sarebbe disastrosa.» «Capisco che vi preoccupiate per la contaminazione, ma non sono convinta che la scoperta a cui alludete, in sé, sia necessariamente disastrosa, soprattutto se si pongono in atto le tutele necessarie.» «Dottoressa Newell, questo non era inteso come un dibattito, ma di certo riconoscerai che la vostra civiltà si trova in una fase molto primitiva dello sviluppo umano. Il puro tornaconto personale è la forza primaria che spinge ad agire, e la violenza è un fatto quotidiano. Infatti il tuo paese è tal-
mente primitivo da permettere a chiunque di possedere un'arma da fuoco.» «Lascia che spieghi le cose in modo diverso», intervenne nuovamente Ponu. «Ciò che sta dicendo la mia collega consigliera è che la bramosia del vostro mondo per la nostra tecnologia sarebbe talmente grande che verrebbero dimenticate le nostre speciali necessità.» «Proprio così», confermò Ala. «E noi non possiamo accettare un rischio simile. Non per almeno altri mille anni circa, per dare agli umani di seconda generazione la possibilità di diventare più civilizzati. Ammesso, naturalmente, che nel frattempo non si distruggano da soli.» «Va bene. Come hai detto prima, questo non è un dibattito e mi avete convinta che la nostra civiltà costituisce un rischio per la vostra. Dando questo per scontato, che cosa volete da me?» Ci fu una pausa. Suzanne spostò lo sguardo da Ala a Ponu. Vedendo che nessuno dei due rispondeva, passò in rassegna i volti degli altri. Nessuno parlò. Nessuno si mosse. Suzanne si voltò a guardare Arak e Garona, il quale le rivolse un sorriso rassicurante. A quel punto, guardò di nuovo Ala. «Allora?...» chiese Ala sospirò. «Vorrei porti una domanda diretta. Una domanda di cui temiamo di udire la risposta. Vedi, il vostro mondo ha iniziato diverse operazioni di perforazione del fondo marino negli ultimi anni, portate avanti apparentemente in modo casuale. Abbiamo osservato tali episodi con crescente preoccupazione, dato che non sappiamo bene quale ne sia lo scopo. Sappiamo che non è la ricerca del petrolio o di gas naturale, infatti non ce ne sono nelle zone in cui sono state intraprese le trivellazioni. Abbiamo tenuto sotto controllo le comunicazioni, come abbiamo sempre fatto, ma senza riuscire a scoprire il perché di queste operazioni.» «Vi interessa sapere perché la Benthic Explorer sta trivellando la montagna sottomarina?» «Sì, ci interessa molto. Stavate trivellando direttamente sopra uno dei nostri antichi portali di ingresso. La probabilità che questo sia avvenuto fortuitamente è minima.» «Infatti non è stato per un caso fortuito», ammise Suzanne. Appena ebbe pronunciato tali parole, tra gli anziani dilagò un mormorio. «Lasciatemi finire. Stavamo trivellando la montagna sottomarina per vedere se si poteva arrivare direttamente nell'astenosfera. Il nostro ecoscandaglio ci diceva che quella montagna sottomarina era un vulcano quiescente con una camera magmatica piena di lava a bassa densità.» «La decisione di trivellare è stata motivata anche solo in parte dal so-
spetto che esistesse Interterra?» chiese Ala. «No! Assolutamente no!» «Non avevate l'idea di una civiltà sottomarina, mentre prendevate la decisione?» «Come ho spiegato, le trivellazioni avevano uno scopo puramente di studio geologico.» Gli anziani si rimisero a parlare tra loro ad alta voce. Suzanne si voltò di nuovo a guardare Arak e Garona. Entrambi le rivolsero sorrisi incoraggianti. «Dottoressa Newell», la chiamò Ala, per attirare di nuovo la sua attenzione, «ti è mai capitato, nello svolgere la tua professione, di aver udito qualcosa, da qualsiasi fonte, da cui potessi arguire che qualcuno sospetti l'esistenza di Interterra?» «No, mai, in nessun circolo scientifico. Ma ci sono stati dei romanzi che parlavano di un mondo sotto la terra.» «Conosciamo l'opera del signor Verne e del signor Doyle. Ma si tratta semplicemente di narrativa.» «Infatti», confermò Suzanne. «Pura fantasia. Nessuno ha mai pensato che le loro trame si basassero in qualche modo su fatti veri, anche se quegli scrittori hanno probabilmente attinto all'ipotesi sostenuta da un uomo che si chiamava John Cleves Symmes, il quale credeva veramente che il centro della terra fosse cavo.» Dagli anziani si levò un altro mormorio allarmato. «Le convinzioni del signor Symmes hanno influenzato le opinioni scientifiche?» chiese Ala. «Fino a un certo punto», rispose Suzanne. «Ma io non mi preoccuperei, dato che tutto ciò risale all'inizio del diciannovesimo secolo. Nel 1838 la sua teoria fu alla base di una delle prime spedizioni scientifiche degli Stati Uniti. Era comandata dal tenente di vascello Charles Winkles e il suo scopo iniziale era di trovare l'ingresso all'interno cavo della terra, che secondo Symmes si trovava sotto il Polo Sud.» Ancora, per la sala serpeggiò un mormorio allarmato. «E il risultato di tale spedizione?» volle sapere Ala. «Niente che possa preoccupare Interterra. Infatti lo scopo della spedizione cambiò ancor prima che essa cominciasse. Invece di cercare l'entrata all'interno della terra, ora che furono pronti ricevettero l'incombenza di trovare nuovi territori di caccia alle foche e alle balene.» «Allora la teoria del signor Symmes è stata ignorata?»
«Del tutto. E quell'idea non è più tornata a galla.» «Ne siamo davvero contenti, soprattutto considerando che alcune idee di Symmes erano corrette. Il Polo Sud era ed è ancora il nostro maggior portale interplanetario e intergalattico.» «Non è curioso?» osservò Suzanne. «Purtroppo è un po' tardi per dare ragione a Symmes, ma ciò che arguisco dalle vostre domande è questo: mi state chiedendo se il vostro segreto è salvo, ed io devo dire di sì, per quanto ne so. Però, dato che siamo sull'argomento, forse dovrei dirvi che, anche se al momento attuale nessuno crede che la Terra sia cava, ci sono sempre stati gruppetti di persone convinte che alieni provenienti da civiltà avanzate ci abbiano visitato o siano addirittura fra noi. C'è anche stata una serie televisiva che ha avuto un sacco di successo, la cui trama si basava proprio su questo. Ma tali idee si riferiscono esclusivamente ad alieni provenienti dallo spazio, non dall'interno della Terra.» «Sappiamo ciò a cui stai accennando. È una cosa che ci è tornata particolarmente comoda nelle rare occasioni in cui uno dei nostri veicoli spaziali è stato avvistato dagli umani di seconda generazione.» «L'unica altra cosa a cui dovrei accennare», aggiunse Suzanne, «è che nella nostra civiltà si sono perpetuati i miti su Atlantide, che risalgono ai tempi della Grecia antica. Ma vi assicuro che la comunità scientifica li considera semplicemente tali, cioè dei miti, o al massimo il ricordo di un'antichissima civiltà distrutta da una violenta eruzione vulcanica. Non è mai esistita una teoria su una civiltà di prima generazione che vive sotto l'oceano.» Gli anziani si consultarono di nuovo, rumorosamente. Suzanne intanto si dondolava a disagio da un piede all'altro. Alla fine della consultazione privata, Ala annuì ai colleghi e riportò l'attenzione sull'ospite. «Vorremmo indagare sugli episodi di trivellazione del fondo marino che sono avvenuti nel corso degli ultimi anni nella zona attorno a Saranta. Nessuno di essi aveva come oggetto una montagna sottomarina.» «Immagino che vi riferiate alle trivellazioni effettuate per confermare le più recenti teorie sulla distribuzione dei fondali sottomarini. Il loro scopo era semplicemente estrarre dei campioni di roccia per effettuarne la datazione.» Tra gli anziani scoppiò nuovamente un vocio eccitato. Alla sua conclusione Ala domandò: «Si è mai presentata l'ipotesi che quella da voi ritenuta una camera magmatica, e che avete sottoposto a trivellazione, fosse piena
di aria invece che di lava a bassa densità?» «Non che io sappia», rispose Suzanne. «E io ero la scienziata di grado superiore di tutto il progetto.» «Quei portali di ingresso dovevano essere sigillati ere fa», si lamentò con veemenza uno degli altri anziani. «Questo non è il momento delle recriminazioni», replicò Ala con diplomazia. «Stiamo affrontando il presente.» Poi, rivolgendosi di nuovo a Suzanne, aggiunse: «Per sintetizzare, nella tua vita professionale non hai mai sentito alcuna ipotesi sull'esistenza di una civiltà sotto l'oceano, o altre teorie simili?» «Solo in quanto miti, come vi ho già accennato», rispose lei. «E ora, ecco l'ultima domanda che vorremmo rivolgerti. Ci stiamo preoccupando sempre di più per la crescente mancanza di rispetto mostrata dalla civiltà a cui appartieni verso l'ambiente marino. Anche se abbiamo sentito parlare di tale problema nei vostri mezzi di informazione, il tasso di inquinamento e il supersfruttamento dei banchi di pesca sono aumentati. Dato che noi dipendiamo in parte dall'integrità dell'oceano, ci chiediamo se il parlarne è puramente un fatto formale o se riflette una reale preoccupazione.» Suzanne sospirò. La questione le stava molto a cuore. Sapeva fin troppo bene che la verità era a dir poco scoraggiante. «Alcuni cercano sinceramente di cambiare la situazione», fu tutto ciò che si sentì di dire. «Questa risposta fa pensare che dalla maggioranza non è considerato un problema importante.» «Forse no, ma quelli che se ne fanno carico agiscono con passione e dedizione.» «Ma forse l'opinione pubblica in generale non si rende conto del ruolo cruciale che svolge l'oceano nel sistema più ampio dell'ambiente terrestre: per esempio, del fatto che il plancton influisce sull'ossigeno e sull'anidride carbonica presenti sulla superficie della Terra.» Suzanne si accorse di arrossire, come se fosse lei, in qualche modo, la persona da rimproverare per il modo in cui gli umani di seconda generazione trattavano gli oceani. «Temo che la maggioranza dei paesi e delle persone considerino l'oceano come una fonte di cibo inesauribile e come un pozzo senza fondo in cui gettare i rifiuti.» «Ciò è davvero molto triste», commentò Ala. «E preoccupante.» «È una egoistica mancanza di lungimiranza», aggiunse Ponu.
«Sono d'accordo con voi» ammise Suzanne. «È una cosa sulla quale io e miei colleghi ci stiamo dando da fare. È una lotta.» «Bene, allora.» Ala scese dallo scranno e si diresse verso Suzanne tenendo una mano tesa davanti a sé, il palmo in avanti. Suzanne sollevò la propria e gliela premette contro. Ala le arrivava appena al mento. «Grazie per le utilissime informazioni che ci hai fornito.» L'espressione di Ala esprimeva sincerità. «Per lo meno in rapporto alla sicurezza di Interterra, hai placato i nostri timori. Come ricompensa ti offriamo i frutti della nostra civiltà. Hai molto da vedere e da sperimentare. Con la tua preparazione, sei singolarmente qualificata, molto più di qualsiasi altro visitatore giunto finora dalla superficie terrestre. Va' e godi la visita!» Un applauso improvviso che scaturì dal consiglio degli Anziani provocò in Suzanne una momentanea confusione. Vi rispose con un imbarazzato cenno del capo, prima di iniziare a parlare, mentre ancora si prolungava l'applauso. «Ringrazio tutti per l'offerta di questa opportunità di visitare Interterra. Ne sono onorata.» «Siamo noi a essere onorati», replicò Ala, poi la invitò con un cenno a raggiungere di nuovo Arak e Garona. Quando i tre uscirono dalla grande piramide, Suzanne si fermò e si voltò a guardare l'imponente struttura. Si chiese se avesse dovuto porre al consiglio la domanda sulla condizione in cui si trovavano lei e il suo gruppo: erano visitatori temporanei di Interterra o prigionieri che vi dovevano rimanere per sempre? In parte, non l'aveva posta perché temeva la risposta, ma ora rimpianse di non averlo fatto. «Va tutto bene?» le chiese Garona, interrompendo quelle considerazioni. «Sì, sì», rispose lei e riprese a camminare, sempre immersa nei propri pensieri. L'unica cosa che quell'incontro aveva chiarito era il motivo per cui lei e gli altri erano stati portati laggiù. Gli anziani volevano fare delle domande a una oceanografa professionista sui sospetti riguardo l'esistenza di Interterra. Suzanne non pensava che, avendo ormai ottenuto il loro scopo, avrebbero trattato lei e i suoi compagni in modo diverso. D'altra parte, ora sentiva di essere l'unica responsabile della situazione in cui si trovavano: se non fosse stato per lei, non sarebbero stati rapiti. «Sei sicura di star bene?» insisté Garona. «Mi sembri così pensosa.» Suzanne si costrinse a sorridere. «È difficile non esserlo. Ci sono talmente tante cose da assimilare.» «Hai reso un grande servizio a Interterra», dichiarò Arak. «Come ha det-
to Ala, te ne siamo grati.» «Ne sono felice», replicò lei, cercando di mantenere il sorriso. Ma era difficile. Intuiva che Donald aveva ragione e che si trovavano in Interterra per rimanerci, e l'intuito le diceva che uno scontro sarebbe stato inevitabile. Considerata la personalità di alcuni dei suoi compagni d'avventura, la situazione poteva ben presto diventare violenta e sgradevole. 16 «Questo posto mi fa venire la pelle d'oca», commentò Michael. «Strano che sia così deserto», osservò Donald. «Ed è anche strano che ci lascino andare a zonzo qua dentro per conto nostro.» «Si fidano. Devi rendergliene atto.» «Io direi che è da stupidi.» I due umani di seconda generazione stavano vagando all'interno dell'Informazione Centrale. Ismael e Mary Black li avevano accompagnati fino all'ingresso del vasto edificio ma avevano preferito rimanere fuori mentre loro due effettuavano la visita. Dentro, i due si erano trovati in un enorme labirinto di corridoi e passaggi che si intersecavano tra loro. Quel posto era un alveare di stanze piene dal pavimento al soffitto di ciò che sembravano gli hard disk di una colossale serie di computer. Tranne i due cloni nei quali si erano imbattuti in una stanza vicino all'ingresso, non avevano visto altri esseri viventi. «Non pensi che ci perderemo qua dentro, eh?» domandò Michael a disagio mentre si voltava verso la direzione da cui erano arrivati. Ogni corridoio sembrava uguale agli altri. «Ho memorizzato i nostri movimenti», rispose Donald. «Sei sicuro? Abbiamo svoltato un sacco di volte.» Donald si fermò. «Senti, zuccone. Se ti preoccupi, perché non te ne torni nell'ingresso e mi aspetti là?» «Ehi, va tutto bene. Sono a posto così.» «A posto col cazzo!» esclamò Donald e ricominciò a camminare. «Perché sei voluto venire qui, comunque?» gli domandò Michael. «Diciamo che ero curioso.» «È come un incubo. O come un film dell'orrore sulla tecnologia che impazzisce.» «Per una volta tanto, sono d'accordo con te, marinaio. È come se la tecnologia avesse preso il potere.»
«Che cosa pensi che faccia tutta questa attrezzatura?» «Arak ha detto che gestisce le cose. A quanto pare, controlla tutto. E immagazzina l'essenza delle persone. Dio solo sa quante persone sono rinchiuse dentro questa cosa, proprio adesso.» Michael rabbrividì nuovamente. «Pensi che sappiano che siamo qui?» «Su questo mi cogli impreparato.» Camminarono in silenzio per qualche minuto. «Non hai visto abbastanza?» chiese Michael. «Suppongo, ma ho intenzione di continuare ancora un po'.» «Mi chiedo se questa cosa si ripara da sola.» «Se è così, allora dovremmo chiedere chi è più vivo, se questa macchina o 'ste persone che sembrano avere tanto poco da fare.» All'improvviso, Donald alzò una mano, facendo fermare di botto il suo compagno. «Che cosa c'è?» gridò Michael. Donald si premette un dito sulle labbra per farlo tacere. «Non senti?» sussurrò. Michael piegò la testa da una parte e si mise in ascolto. Effettivamente, nel silenzio udì alcuni deboli suoni in lontananza. «Hai sentito?» gli chiese Donald. Michael annuì. «Sembrano come delle risate.» Donald annuì anche lui. «Un curioso tipo di risate, con quegli intervalli regolari.» «Se non sapessi che non può essere, direi che sono come le risate registrate che usano alla tele nelle sitcom.» Donald schioccò le dita. «Hai ragione! Sapevo che avevano un suono familiare!» «Ma è pazzesco!» «Andiamo a controllare», propose Donald. «Lasciamoci guidare dalle nostre orecchie!» Spinti da una curiosità sempre crescente, i due procedettero, sperando di trovare la fonte di quello strano suono. A ogni incrocio di corridoi dovevano fermarsi e rimanere in ascolto, per trovare la direzione giusta. Gradatamente il suono si udiva sempre più forte e scegliere da che parte proseguire diventava più facile. Infine, dopo aver svoltato per l'ennesima volta, furono certi che quelle specie di risate provenivano da una stanza sulla sinistra. A quel punto si convinsero che si trattava davvero di una sitcom alla TV; ne udivano anche i dialoghi.
«Sembra una puntata di Friends», sussurrò Michael. Donald lo guardò torvo, formulando «zitto!» con le labbra, poi si appiattì contro la parete di fianco alla porta spalancata della stanza e gli fece cenno di mettersi dietro di lui. Poi, lentamente, si spinse avanti. Fu sorpreso nel vedere che sembrava la sala di programmazione di una stazione televisiva. La parete più distante era ricoperta da più di cento monitor. Erano tutti accesi e per la maggior parte sintonizzati su vari programmi, anche se qualcuno aveva solo i segnali di prova. Sporgendosi un po' di più, Donald notò un uomo seduto in una bianca sedia sagomata al centro della stanza, di fronte ai monitor. Era ben diverso dall'interterrano tipico: i pochi capelli che gli restavano erano grigi e arruffati. Sullo schermo proprio di fronte a lui si vedevano proprio Rachel, Monica, Ross e gli altri. Donald si appiattì di nuovo contro la parete del corridoio, allontanandosi dalla porta. Guardò Michael e bisbigliò: «Avevi ragione: è un vecchio episodio di Friends». «Riconoscerei quelle voci ovunque», dichiarò Michael. Donald si portò nuovamente il dito alle labbra. «C'è un tizio, lì dentro, che la sta guardando», sussurrò. «E di certo non sembra uno di Interterra.» «Ma va'!» «Non me l'aspettavo.» Donald si succhiò il labbro inferiore, mentre pensava al da farsi. «Questo è certo. Che cosa dovremmo fare?» «Andiamo lì dentro e parliamo con il tizio. Potremmo avere fortuna. Ma ascolta! Lascia parlare me, okay?» «Accomodati!» «Bene, andiamo!» Detto questo, Donald si staccò dalla parete ed entrò nella stanza, seguito da Michael. Si muovevano in silenzio, anche se il volume del televisore era così alto che l'uomo non li avrebbe uditi di certo. Non sapendo bene come evitare di spaventare l'uomo, riuscendo però ad attirare la sua attenzione, Donald si portò dove pensava fosse il suo campo visivo, tenendosi però da una parte. Non funzionò: quello era ipnotizzato dallo spettacolo, il viso immobile in un'espressione comatosa, gli occhi fissi sullo schermo, senza nemmeno battere le palpebre. «Mi scusi», provò Donald, ma la sua voce si perse nell'ennesimo scoppio di risate registrate. Allora si decise a toccargli delicatamente il braccio. L'uomo saltò via dalla sedia. Nel vedere i due intrusi indietreggiò, ma si riprese in fretta.
«Aspettate un momento! Vi riconosco!» esclamò. «Siete due di quelli arrivati dalla superficie che si sono appena uniti a noi.» «Uniti non è il termine esatto», gli fece notare Donald. «Non è stata una nostra scelta. Siamo stati rapiti.» Guardò l'ometto, non più alto di un metro e sessanta, ossuto e curvo. Aveva gli occhi infossati e catarrosi, lineamenti grossolani e moltissime rughe. Era l'uomo più vecchio che Donald avesse visto in Interterra. «Non avete fatto naufragio?» domandò. «No di certo», rispose Donald, poi presentò se stesso e il compagno. «Piacere di conoscervi», replicò l'ometto in tono allegro. «Speravo proprio che succedesse.» Fece un passo avanti per stringere loro la mano. «E questo è il modo in cui la gente dovrebbe salutarsi», aggiunse. «Ne ho abbastanza di quello stupido premere i palmi.» «Come ti chiami?» gli domandò Donald. «Harvey Goldfarb. Ma potete chiamarmi Harv.» «Stai qui da solo?» «Sicuro! Sto sempre qui da solo.» «Che cosa fai?» «Non tanto.» Harv gettò un'occhiata alla parete con i monitor. «Guardo gli spettacoli alla TV, in particolare quelli di New York.» «È un lavoro?» «Una specie, suppongo, ma è più una cosa tipo volontariato. È che mi piace vedere dei pezzetti di New York. Mi piace tanto Arcibaldo, ma è difficile al giorno d'oggi trovare le repliche. Peccato. Va bene anche Friends.» «Questa stanza a cosa serve? Solo come passatempo?» Harvey rise con espressione derisoria, mentre intanto scuoteva la testa. «Agli interterrani non interessa la TV, e non la guardano tanto. All'Informazione Centrale invece interessa. Quella di Saranta è una delle principali postazioni di ricezione dei media che si trovano sulla superficie. Tiene sotto controllo tutti quelli più importanti, per avere la certezza che non ci siano riferimenti all'esistenza di Interterra.» Harvey fece un gesto della mano che indicava l'insieme dei monitor. «Questa roba è in funzione ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana.» «Ehi, questo mi fa ricordare che voi tizi avete avuto un sacco di copertura sulla CNN e su altre reti. Avete fatto notizia per essere finiti in un vulcano sottomarino attivo.» «Allora nessuno sospetta che ci sia qualcosa di anormale?» domandò
Donald. «Manco per niente. Solo un sacco di chiacchiere nel gergo dei geologi. Comunque, per tornare a me, mi sono offerto volontario di venire quaggiù a controllare gli spettacoli TV per gli archivi e di censurare la violenza.» «Questo non ne lascia tanti, di spettacoli TV», disse Donald con una risata cinica. «Perché preoccuparsi?» «Lo so, non ha molto senso», fu d'accordo Harvey. «Ma se loro la guardano, non ci può essere violenza. Non lo so se voi lo sapete, ma 'sta gente, i veri interterrani, non possono sopportare la violenza. Gli dà la nausea, alla lettera!» «Allora tu non sei un vero interterrano.» Harvey fece un'altra breve risata. «Chi, io? Harvey Goldfarb un interterrano? Vi sembro un interterrano? Con questa faccia?» «Tu sembri un po' più vecchio degli altri.» «Più vecchio e più brutto, ma sono io. Hanno cercato di convincermi a lasciargli fare tutta una serie di cose su di me, perfino farmi crescere i capelli, ma io ho rifiutato. Però devo dire che mi hanno mantenuto in buona salute. Su questo non ci piove. I loro ospedali sono come portare un'auto in un garage. Ti mettono una parte nuova e sei a posto. Comunque, io non sono un interterrano, sono un newyorkese. Ho una casa meravigliosa nella parte migliore di Harlem.» «Harlem ha subito un po' di cambiamenti», lo avvertì Donald. «Da quanto tempo non ci sei stato?» «Era il 1912 quando sono venuto in Interterra.» «Come ci sei arrivato?» «Con un po' di fortuna e l'intervento degli interterrani. Mi hanno salvato dall'annegamento assieme a qualche centinaio di altri, dopo che la nostra nave era andata a sbattere contro un iceberg.» «Il Titanic?» chiese Donald. «Proprio quella. Stavo tornando a New York.» «Allora ci sono un bel po' di passeggeri del Titanic in Interterra?» «Diverse centinaia. Però non sono tutti a Saranta. Parecchi si sono trasferiti ad Atlantide e in altre città. Erano molto richiesti. Vedete, gli interterrani ci trovano divertenti.» «Sì, me ne sono accorto.» «Approfittatene, finché potete», consigliò Harvey. «Quando vi sarete abituati alla vita quaggiù, non sarete più considerati tanto divertenti. Date retta a me.»
«Devi aver avuto un'esperienza orribile», osservò Donald. «No, qui sono felice. Ci sono gli alti e i bassi.» «Intendevo la notte dell'affondamento del Titanic.» «Oh, sì, quella notte è stata tremenda. Tremenda!» «Senti la mancanza di New York?» «In un certo senso.» Lo sguardo di Harvey si perse lontano. «In realtà è buffo quello che mi manca, e cioè la Borsa. So che può suonare strano, ma io ero uno che si era fatto da solo... un broker, e adoravo il mio mestiere. Lavoravo sodo, ma l'eccitazione mi teneva su di giri.» Harvey inspirò a fondo, poi buttò fuori l'aria tutta insieme, in un sospiro. Riportò lo sguardo su Donald. «Be', la mia storia è questa. E voi? Siete stati davvero rapiti dagli interterrani? Se è così, siete i primi che io sappia. Credevo che fosse stati salvati dal vulcano sottomarino di cui ha parlato la CNN.» «In effetti c'è stata una specie di eruzione», confermò Donald. «Ma io credo che sia servita da copertura per risucchiarci dentro da un portale d'ingresso. In un modo o nell'altro, il nostro arrivo in Interterra non è stato naturale. Siamo stati portati qui per uno scopo che ancora non ci è stato rivelato.» Harvey spostò lo sguardo su Michael, poi di nuovo su Donald. «Parli come se Interterra non ti sconfinferasse molto.» «Ne sono impressionato. Sarebbe difficile non esserlo, ma non ne sono incantato.» «Hummm. Questo ti colloca in una categoria unica. Tutti gli altri che sono stati portati qui diventano dei sostenitori di Interterra da un giorno all'altro. E il tuo amico, qui?» «Michael la pensa come me.» Il sommozzatore annuì. «Vedi», aggiunse Donald, «a noi non piace essere costretti a fare qualcosa, non importa quanto bello e buono possa sembrare. E tu, Harv?» Harvey scrutò Donald in viso, poi gettò un'altra rapida occhiata a Michael, che in quel momento stava ridendo alle battute della sitcom, in sincronia con le risate registrate. «Dite sul serio, non andate in brodo di giuggiole per questo posto e per tutta la bella gente e le loro feste?» «Ti sto dicendo che non apprezziamo la coercizione.» «E vi interessa davvero la mia opinione?» Donald annuì. «Va bene.» Harvey si chinò verso di lui e abbassò la voce. «Mettiamola in questo modo. Se potessi partire stasera per New York, non sarebbe troppo presto. Quaggiù è tutto dannatamente tranquillo e perfetto, tanto da
far diventare pazza una persona normale.» Donald non poté fare a meno di sorridere. Il vecchio era uno che la pensava con la propria testa. «Te lo dico io, qua non succede mai niente», continuò Harvey. «Tutto si ripete uguale un giorno dopo l'altro. Non c'è niente che vada storto. Non so cosa darei per una giornata alla Borsa di New York. Voglio dire, ho bisogno di un po' di stress per sentirmi vivo, o per lo meno qualche cattiva notizia o qualche guaio una volta tanto, per apprezzare di più quanto è bella la vita.» Michael rivolse a Donald il segno di pollice alzato, ma lui lo ignorò e chiese ad Harvey se qualcuno avesse mai lasciato Interterra. «Stai scherzando? Siamo sotto il fottuto oceano! Intendo che ci siamo per davvero. Che cosa credi, che si può semplicemente fare quattro passi e uscire? Se fosse così, adesso non vedresti Harvey Goldfarb seduto qua a cercare di vedere alla TV qualche fugace scorcio della Grande Mela. Sarei lì, a fare salti di gioia.» «Però gli interterrani escono.» «Sì, ma le uscite e le entrate sono tutte controllate dall'Informazione Centrale. E quando escono, sono sigillati nelle loro navi spaziali. Inoltre, di solito mandano i cloni. Vedi, ci stanno molto attenti ai rapporti tra il loro mondo e il nostro. Ricorda che basterebbe uno streptococco a fare una strage, qua sotto.» «Da come parli, si direbbe che è una cosa a cui tu hai pensato.» «Certo, ma solo nei miei sogni.» Donald diresse l'attenzione alla serie di monitor. «Almeno tu, in questa stanza, puoi sentirti collegato al mondo che c'è in superficie.» «Per questo sto qua. È una sistemazione fantastica. Me ne sto qui tutto il tempo e posso guardare praticamente ogni rete televisiva un po' importante del mondo che c'è in superficie.» «Puoi anche trasmettere?» si informò Donald. «No, è un sistema passivo. Voglio dire, c'è una potenza illimitata e le antenne sono in ogni catena montuosa sulla superficie del pianeta, ma non ci sono telecamere. La telecomunicazione su Interterra è del tutto diversa e molto più sofisticata, come immagino che abbiate già visto.» «Se ti diamo una videocamera analogica, pensi che potresti collegarla all'attrezzatura che c'è qui, senza che nessuno lo sappia, ed essere in grado di trasmettere?» Harvey si sfregò il mento, mentre pensava alla domanda di Donald.
«Magari, se mi facessi aiutare da un clone specialista in elettronica, si potrebbe fare. Ma dove la vai a prendere una videocamera?» «Lo so a cosa stai pensando», intervenne Michael, mentre gli si allargava sul viso un sorriso da cospiratore. «Stai pensando alle videocamere del nostro sommergibile.» Quando il gruppo si era raccolto davanti al museo, dopo la visita, Perry e Suzanne avevano riferito agli altri di aver visto l'Oceanus nel cortile interno. Donald gli lanciò un'occhiataccia e Michael si zittì. «Ma non capisco», obiettò Harvey. «Perché lo vorreste fare?» «Senti, Harv», gli rispose Donald. «I miei colleghi e io non siamo entusiasti di essere obbligati a stare qui e servire da divertimento a questi interterrani. Ci piacerebbe andare a casa.» «Aspetta un momento. Devo essermi perso qualcosa. Tu pensi che installare una videocamera può farci uscire da Interterra?» «È possibile. A questo stadio è solo un'idea: la tessera di un puzzle che non ho ancora tutto ben chiaro. Ma, qualunque cosa sia, non saremo in grado di farlo da soli. Ci serve il tuo aiuto perché tu sei qui da abbastanza tempo da sapere come funzionano le cose. La domanda è: saresti disponibile?» «Mi spiace», rispose Harvey scuotendo la testa. «Dovete capire che gli interterrani non la prenderebbero bene. Se io vi aiutassi, diventerei la persona meno popolare della città. Mi passerebbero ai cloni. Agli interterrani non piace fare cose cattive, ma ai cloni non importa. Loro fanno ciò che gli viene ordinato.» «Ma perché dovrebbe importarti di ciò che pensano gli interterrani? Tu staresti con noi. In cambio del tuo aiuto, noi ti daremmo New York.» «Davvero?» Ad Harvey si illuminarono gli occhi. «Dici sul serio? Mi portereste a New York?» «Sarebbe il minimo che potremmo fare», gli assicurò Donald. Il frisbee fluorescente volò attraverso il prato e, grazie al lancio eccellente di Richard, rallentò e planò proprio davanti al clone a cui lui aveva ordinato di giocare. Ma il clone, anziché afferrarlo, lo lasciò proseguire oltre la propria mano tesa e il frisbee lo colpì in pieno sulla fronte, con un tonfo ben udibile. Richard si portò una mano alla propria, di fronte, in un gesto di totale frustrazione, e imprecò da quel marinaio che era. «Bel lancio, Richard!» gridò Perry, sopprimendo una risata. Era seduto presso la piscina della sala da pranzo assieme a Luna, Meeta, Palenque e
Karena. Sufa aveva riportato al palazzo dei visitatori lui e Richard, dopo la visita alla fabbrica di aerotaxi. Erano stati i primi del gruppo a tornare dalle diverse escursioni della giornata. All'inizio Richard era stato contento nel vedere che erano arrivate quasi simultaneamente le sue tre amiche e Luna, ma la sua euforia venne meno quando scoprì che nessuna di loro era capace di giocare con il frisbee. «È più che ridicolo!» si lamentò Richard, mentre andava a raccogliere il frisbee ai piedi del clone. «Quaggiù nessuno è capace di acchiappare un fottuto frisbee, figurarsi lanciarlo!» «Anche oggi Richard sembra tesissimo», osservò Luna. Perry era d'accordo. «È stato così per tutto il giorno, per quanto ne sappia.» «Anche la notte scorsa era strano», intervenne Meeta. «Ci ha mandate via presto.» «Questo sì che non è da lui!» Perry era sorpreso. «Non potresti fare qualcosa?» gli chiese Luna. «Ne dubito. A meno che non torni là a tirare ancora quello stupido coso di plastica.» «Vorrei che si calmasse.» Perry si portò le mani attorno alla bocca e chiamò: «Richard! Perché non vieni qui e ti rilassi? Ti stai mettendo in agitazione per niente». Richard gli mostrò il medio. Perry si strinse nelle spalle. «Evidentemente non è di buon umore.» «Perché non provi ad andare là e a parlare con lui?» insisté Luna. Con un gemito, Perry si tirò su a sedere. «Abbiamo una sorpresa per lui quando tornerà alla sua abitazione», annunciò Meeta. «Cerca di convincerlo ad andarci.» «Voi glielo avete chiesto?» «Sì, ma lui ha detto che voleva giocare a frisbee.» «Caspita!» Perry scosse la testa, davvero stupito. «Be', vado a fare qualche tiro.» «Non dirgli niente della sorpresa», aggiunse Meeta. «Altrimenti sarà meno divertente. Non vogliamo che immagini che cosa può essere.» «Sì, certo.» Irritato di doversi staccare da Luna, Perry si incamminò verso Richard, che stava tentando di addestrare il clone. «Sprechi il tuo tempo», gli disse quando gli arrivò vicino. «Qua non si cimentano nei nostri giochi. Non hanno la mentalità per farli. La valenza fisica non fa parte dei valori a cui sono interessati.»
Richard si raddrizzò. «Questo è più che evidente, per la miseria», ribatté. «È frustrante, perché hanno dei corpi stupendi. Il problema è che il loro gusto per la competizione è a quota zero, e invece ci vuole. Cacchio, anche le ragazze ci stanno troppo facilmente. Non c'è caccia o inseguimento. Tutto questo posto strampalato mi sembra morto. Che cosa darei per una bella partita di basket di quelle toste, oppure di hockey su pattini!» «Te lo dico io che cosa facciamo», propose Perry. «Una gara di nuoto nella piscina grande del padiglione, che ne dici?» Richard gli scoccò un'occhiata, prima di lanciare il frisbee lontano. Poi disse al clone di andare a riprenderlo. Quello obbedì e parti di corsa. Richard lo guardò allontanarsi, poi si rivolse a Perry. «Grazie, no. Batterti a nuoto non mi divertirebbe. Quello che mi piacerebbe, invece, è andarmene il più lontano possibile di qua. Sono un fascio di nervi.» «Penso che siamo tutti preoccupati riguardo la questione andarsene», gli assicurò Perry, abbassando la voce. «Quindi siamo tutti un pochettino nervosi.» «Be' io sono più che un pochettino nervoso. Che cosa pensi che facciano quaggiù a quelli che commettono un crimine grave?» «Non ne ho la minima idea. Non penso che abbiano crimini gravi. Arak ha detto che non hanno prigioni. Come mai lo chiedi?» Richard spostò in qua e in là nell'erba la punta di un piede, poi guardò in lontananza. Stava per parlare, ma poi si fermò. «Ti preoccupi che ci facciano qualcosa se tentiamo di andarcene e loro ci prendono?» «Ecco, sì.» Richard approfittò di quel suggerimento. «Be', è una cosa che dobbiamo prendere in considerazione. Ma, fino ad allora, preoccuparcene non ci porterà a combinare niente.» «Penso che tu abbia ragione.» «Perché non ti diverti con quelle tre stupende signore?» Perry indicò Meeta, Palenque e Karena con un cenno della testa. «Perché non incanalare un po' di quell'energia sfrenata che ti ritrovi portandole nel tuo villino? Io non lo capisco, ma sembrano pazze di te.» «Non sono sicuro che dovrei portarle in camera mia.» «E perché? Non è un sogno divenuto realtà? Voglio dire, guardale: sono come le modelle dei capi di biancheria intima.» «È troppo complicato da spiegare.» «Qualsiasi cosa sia, non riesco a immaginare che sia più importante che
soddisfare tre sirene bramose.» «Be', sì, forse hai ragione», disse Richard, senza molto entusiasmo. Strappò di mano il frisbee al clone che glielo aveva riportato poi tornò in sala da pranzo assieme a Perry. Meeta, Palenque e Karena si alzarono in piedi e lo salutarono tendendo verso di lui i palmi delle mani. Lui li premette frettolosamente. «Sei pronto per ritirarti nel tuo alloggio?» gli domandò Meeta. «Andiamo», accettò Richard. «Ma a una condizione: non si mangia e non si beve niente che sia nel mio frigorifero, d'accordo?» «Certo, ma non ne saremo nemmeno tentate. Abbiamo in mente ben altro che il cibo.» Meeta e le altre si scambiarono qualche risatina da cospiratrici, mentre gli si abbarbicavano addosso. Il gruppo si avviò sul prato. «Dico sul serio», le avvertì Richard. «Anche noi», rispose Meeta. Perry li guardò per qualche istante, prima di dedicare di nuovo la propria attenzione a Luna. «Richard è così aggressivo a causa della giovane età?» chiese lei. Perry le si sedette accanto. «No. È il suo modo di essere. Sarà lo stesso fra dieci anni, anche fra vent'anni.» «E questo per la famiglia disfunzionale che presumi abbia avuto?» «Suppongo.» Perry si tenne sul vago. Non voleva incoraggiare un'altra discussione sociologica. Sapeva di non essere preparato su quel tipo di argomenti, com'era già risultato la volta precedente. «È difficile per me capire, dato che noi non abbiamo famiglie. Ma i suoi amici, i conoscenti, le scuole che frequentano gli umani di seconda generazione? Non possono superare l'influenza negativa della famiglia?» Perry guardò lontano, mentre cercava di organizzare i propri pensieri. «La scuola e gli amici possono aiutare», rispose, «ma anche gli amici possono costituire un'influenza negativa. In alcune comunità la pressione sociale impedisce ai ragazzi di approfittare a dovere dell'educazione che viene loro offerta, e spesso è proprio la mancanza di educazione che genera ristrettezza mentale e fanatismo.» «Allora, per uno giovane come Richard c'è la possibilità che migliori?» «Te l'ho già detto: Richard non cambierà!» sbottò Perry, con un tono che rasentava l'irritazione. «Guarda, io non sono un sociologo, quindi forse è meglio se parliamo di qualche altra cosa. Inoltre, non è poi tanto giovane. Ha quasi trent'anni.» «Be', allora è giovane.»
«Allora tu cosa sei?» Luna rise e sbatté gli occhi celesti. «Perry. Mio caro, quanti anni pensi che abbia?» «Avevi detto che ne hai più di venti», rispose lui nervoso. «Quanti sono? Ventuno?» Luna sorrise e scosse la testa. «No, ho novantaquattro anni, e solo con questo corpo.» Perry aprì lentamente la bocca, mentre emetteva uno dei suoi caratteristici squittii. Dopo averle ammonite ancora diverse volte di non usare il suo frigorifero, Richard lasciò che le tre donne lo facessero stendere sul letto con le braccia allargate. Poi cominciarono a massaggiarlo con un olio che gli faceva formicolare la pelle e rilassava i muscoli tesi. «Uau!» Richard chiuse gli occhi e mugolò di piacere. «Voi ragazze siete proprio brave! Mi sento di pastafrolla.» «E questo è soltanto l'inizio», tubò Meeta. Le tre donne si guardarono al di sopra del corpo disteso sul letto e cercarono di sopprimere le loro risa. Se Richard ci avesse fatto caso, avrebbe capito che avevano in mente qualcosa. Dopo un quarto d'ora di massaggi intensi, Palenque si staccò dal gruppo, senza che Richard se ne accorgesse, e costeggiò in silenzio la piscina fino all'inizio del prato. Lì chiamò altre persone con un cenno del braccio. Nel giro di pochi minuti comparvero due uomini che, sforzandosi anch'essi di non ridere, si avvicinarono in punta di piedi al letto e si misero a massaggiare Richard, scostando Karena. A questo punto a occuparsi del corpo di Richard erano Meeta e i due uomini. Questi, a loro volta, venivano massaggiati da Palenque e Karena. L'idea era quella di un'orgia secondo l'antico modello di Roma. «Sapete», bofonchiò Richard, la voce attutita dal copriletto, «se non fosse per voi ragazze, questo posto mi farebbe impazzire. E pensare che non mi ero mai fatto fare un massaggio, prima d'ora! Non sapevo che cosa mi perdevo!» Gli uomini e le donne si scambiarono fervide occhiate. Quella era tutta una preparazione per un massimo di piacere che doveva ancora arrivare. «È che io non posso fare a meno di essere una persona attiva», continuò Richard, senza rendersi conto di ciò che gli avveniva attorno. «Ho bisogno della competizione, è semplice.»
Uno degli uomini gli fece scorrere le proprie mani massicce e virili lungo gli avambracci, per massaggiargli i palmi. Sentendo una discrepanza rispetto a ciò che si sarebbe aspettato, Richard spalancò gli occhi. Con sua grande costernazione, si ritrovò a guardare due manone grandi quanto le sue. «Che diavolo?...» ringhiò e, con una rapidità che colse tutti di sorpresa, si rigirò su se stesso e si ritrovò a guardare cinque facce arrossate invece di tre e, ciò che era peggio, due erano di uomini. «Che cazzo è 'sta roba?» tuonò. Balzò giù dal letto con una tale foga che, senza volerlo, mandò Palenque a terra. Gli altri si rialzarono frettolosamente dalla loro posizione ginocchioni. «Va tutto bene, Richard», cercò di placarlo Meeta, che gli aveva letto in volto l'improvvisa rabbia. «È un'orgia a sorpresa per farti piacere.» «Piacere?» Era un urlo, più che una domanda. «E chi sono questi qua? E come hanno fatto a entrare?» «Sono nostri amici. Cuseh e Uruh. Li abbiamo invitati.» «Che cosa diavolo vi credete che sia, io?» «Siamo venuti per renderti felice», rispose l'uomo più vicino a Richard, poi fece un passo avanti e gli tese il palmo della mano. Lui reagì con un pugno brutale alla mandibola, che lo mandò a sbattere contro la parete. Tutti gli altri rimasero senza fiato di fronte a quell'atto di violenza completamente inaspettato. «Uscite di qua!» gridò Richard e, al colmo della rabbia, spazzò via con una manata tutti i calici d'oro da lui raccolti, che aveva ammonticchiato sul comodino. Sbatterono a terra con un frastuono tremendo. Mentre i suoi ospiti fuggivano via dal lato aperto della stanza, si guardò attorno alla ricerca di qualcosa da ridurre a pezzettini. Suzanne emise un grido di gioia mentre lei e Garona correvano mano nella mano lungo un sentiero sormontato dalle fronde, attraverso una foresta di felci. Arrivati alla sponda di un lago trasparente come il cristallo, si fermarono. Suzanne era ipnotizzata dalla vista sublime e ansava per la corsa, ma riuscì a mormorare: «È meraviglioso!» Garona, che era senza fiato ancora più di lei, dovette riposarsi un poco, prima di parlare. «È il mio posto preferito», le rivelò. «Ci vengo spesso. Ho sempre pensato che sia molto romantico.» «Direi di sì.» Non lontanissimi, si scorgevano numerosi altri laghi, circondati dalla vegetazione lussureggiante. Più in lontananza si ergevano
montagne dalle cime frastagliate, che si confondevano con il soffitto a volta. «Verso quale direzione siamo rivolti?» «A ovest. Quelle montagne sono le basi di ciò che voi chiamate la Dorsale Medio-Atlantica.» Suzanne scosse la testa sbalordita. «È così bello! Grazie di condividerlo con me.» «È un piacere. È bello vederti più rilassata.» «Suppongo di esserlo. Per lo meno adesso so perché ci hanno portati in Interterra.» «Ci sei stata di grande aiuto.» «In realtà non ho fatto poi molto.» «Ma sì! Hai alleviato la nostra ansia rispetto alle trivellazioni!» «Ma erano anni che venivano fatte. Come mai proprio adesso tutta questa ansia?» «Le altre servivano per il petrolio», spiegò Garona. «Non ci davano fastidio, anzi, ci erano d'aiuto, perché per noi il petrolio è una seccatura. Può filtrare nei nostri edifici più profondi e creare dei disastri. Erano le trivellazioni apparentemente senza motivo che ci preoccupavano.» «Be', sono contenta di essere stata di qualche aiuto.» «Bisogna festeggiare. Che ne dici di venire a casa mia per qualche ora? È abbastanza vicina. Useremo la caldorfina per il nostro mutuo piacere e poi ceneremo.» «Così, in pieno giorno?» Essendo una lavoratrice indefessa, che da studente si era concessa pochissimo tempo per il piacere, l'idea di un incontro galante pomeridiano le sembrava insolita e decadente. Però anche parecchio allettante. «Perché no?» Il tono di Garona era seducente. «La tua essenza tintinnerà d'estasi.» «Lo fai sembrare così deliziosamente sensuale...» «E lo sarà. Vieni!» Garona afferrò la mano di Suzanne e la condusse lungo il sentiero dal quale erano arrivati. La sua casa si trovava ad appena cinque minuti di aerotaxi. Quando scesero dal velivolo, Suzanne osservò che assomigliava a quella di Arak e Sufa, anche se la zona sembrava un po' meno congestionata. «La struttura è esattamente la stessa», le confermò Garona. «Ma noi abbiamo più spazio perché siamo più lontani dal centro cittadino.» La prese di nuovo per mano e tutti e due corsero fino all'ingresso del villino. Una volta dentro, si comportarono tutti e due come adolescenti impa-
zienti, nella fretta di togliersi gli indumenti di satin e infilarsi nella piscina. Suzanne si gettò con esuberanza, diretta all'estremità opposta, e nuotò con bracciate vigorose, eccitata nell'avere Garona proprio dietro di lei. Quando toccò l'estremità, si voltò e se lo ritrovò di fronte. Si abbracciarono nell'acqua. Garona le toccò il palmo della mano con il proprio e fu raggiante di piacere. Suzanne rise di gioia. «Questo è il paradiso», proclamò, poi mandò la testa sott'acqua, per lisciare i corti capelli. «Va al di là della mia più sfrenata immaginazione.» «Ho così tante cose da mostrarti», le promise Garona. «Milioni di anni di progresso. Ti porterò sulle stelle... su altre galassie.» «Lo hai già fatto.» Il tono di Suzanne era giocoso. «Vieni, usiamo la caldorfina.» Tornarono a nuoto verso la parte bassa della piscina e Garona l'aiutò a uscire dall'acqua. Suzanne non finiva di stupirsi di quanto si sentisse a proprio agio, nonostante fosse nuda. «Prego!» Garona le indicò un divano rivestito di satin. «Ma sono zuppa!» «Non importa.» Intanto si era chinato a prendere un vasetto e ne aveva tolto il tappo. «Sei sicuro?» chiese Suzanne. Il divano era immacolato. «Certo.» Garona le porse il vasetto affinché lei prendesse un po' di crema da spalmare sulla mano e anche lui fece altrettanto. Poi si coricarono e premettero i palmi fra loro. Suzanne andò in deliquio per il piacere nell'intimo del proprio essere. Per la mezz'ora seguente lei e Garona fecero l'amore in un modo sensibile, generoso, che raggiunse un crescendo di passione prima di dare luogo a una distensione sublime, intima. Suzanne non si era mai sentita così vicina a un'altra persona. Mai nella sua vita si era comportata con un tale abbandono, eppure non si sentiva in colpa. In quell'utopico mondo sotterraneo le solite inibizioni semplicemente non c'erano. Il tempo parve fermarsi mentre Suzanne si crogiolava nella sensazione gradevole lasciatale dai momenti di intimità provati con Garona, di cui non aveva mai sperimentato l'eguale. Ma poi, all'improvviso, tutto cambiò. Una sommessa voce femminile molto vicina mandò in frantumi la sua pace mentale e fisica, dicendo: «Se avete finito di fare l'amore in quel modo meravigliosamente tenero, di cui devo dire ho goduto anch'io di riflesso, vi ho preparato un pranzo squisito».
Suzanne aprì gli occhi e rimase scioccata nel trovarsi davanti il volto sorridente di una donna attraente come poche, dai lineamenti perfetti, gli occhi azzurro ghiaccio e i capelli di un biondo chiaro. La sua espressione faceva pensare a quella di un genitore che osserva orgoglioso i suoi adorabili bambini. Suzanne si tirò su a sedere con uno scatto, nascondendosi alla meglio con il copriletto. Il suo movimento improvviso disturbò Garona, che si girò e aprì gli occhi. «Che cosa hai detto, Alita?» domandò. «È ora di mangiare», rispose la donna, indicando una tavola vicino alla piscina, che un clone stava apparecchiando. «Grazie, mia cara.» Garona si tirò su a sedere anche lui. «Credo che tutti e due abbiamo una certa fame.» «Il cibo sarà pronto in un attimo», gli assicurò Alita, poi si allontanò e raggiunse il clone, aiutandolo nei preparativi. Insieme disposero attorno alla tavola tre sedie da giardino. Garona si stiracchiò, poi allungò una mano e prese i vestiti. Suzanne afferrò frettolosamente i propri. Anche se fino a poco prima non era imbarazzata per la propria nudità, adesso lo era. Si infilò la tunica, poi i calzoncini, e domandò in un sussurro: «Chi è quella donna?» «Alita», rispose Garona. «Vieni, andiamo a mangiare.» Confusa, Suzanne si lasciò condurre fino alla tavola, si sedette sulla sedia indicatale da Garona e fissò il piatto che il clone le riempiva. Garona e Alita si gettarono sul cibo con voracità, invece lei giocherellò con il suo. Essendo stata colta in flagrante, si sentiva enormemente imbarazzata e anche fragile dal punto di vista emotivo. «Suzanne ha incontrato il consiglio degli Anziani, oggi», riferì Garona ad Alita, tra un boccone e l'altro. «È stata di grande aiuto e ci ha riferito delle ottime notizie.» «Splendido», commentò Alita. Garona si protese verso Suzanne e le strinse affettuosamente una spalla. «Ci ha assicurato che il segreto di Interterra è ancora al sicuro.» «Che sollievo!» Il tono e l'espressione di Alita esprimevano sincerità. «Avevamo tremendamente bisogno di esserne rassicurati.» Suzanne non riuscì a fare altro che annuire. I due interterrani si lanciarono in una discussione che aveva come argomento la sicurezza del loro mondo nei confronti di quello sulla superficie. Suzanne non ascoltò, concentrata com'era a osservare Alita, che dedicava la sua completa attenzione a Garona e la sorprendeva per la calma che mo-
strava. Suzanne si sentiva ancora troppo imbarazzata per mangiare o parlare. Gradatamente le sue emozioni si placarono e iniziò a riordinare i propri pensieri. Ciò che la seccava più di tutto il resto era l'evidente familiarità con la quale si trattavano Garona e Alita. Alla fine, spinta dalla curiosità, attese una pausa nella loro conversazione e si decise a chiedere: «Scusa, Alita, tu e Garona vi conoscete da tanto tempo?» Entrambi gli interterrani risero di cuore. «Scusa», riuscì a dire Alita, cercando di trattenersi. «È una domanda perfettamente ragionevole, ma così inaspettata, qui in Interterra. Vedi, Garona e io ci conosciamo da tanto, tantissimo tempo.» «Anni, allora», suggerì seccamente Suzanne. Nonostante le scuse, trovava scortese quella risata. Garona scoppiò a ridere di nuovo. Dovette coprirsi il volto con le mani. «Anni, certo», rispose Alita. «Anni e anni.» «Alita e io abbiamo trascorso molte vite insieme», spiegò Garona, mentre si strofinava via le lacrime dovute all'ilarità. «Ah, capisco.» Suzanne si sforzò di rimanere calma. «Splendido.» «Lo è davvero. Alita è... be', immagino che si dovrebbe dire la mia donna permanente.» «Oppure possiamo dire che Garona è il mio uomo permanente», aggiunse Alita. «Giusto», confermò Garona. «Bello che sia reciproco», commentò con sarcasmo Suzanne. «Ora, forse, potreste spiegarmi che cosa significa 'permanente' nella società interterrana?» «È qualcosa che assomiglia alla vostra istituzione del matrimonio», spiegò Alita. «Solo che trascende la vita di un corpo e continua in quella successiva.» Suzanne si morse il labbro inferiore per impedirsi di dare sfogo alle proprie emozioni e scoppiare a piangere. Dopo la sua resa incondizionata ai sentimenti che provava verso Garona, stimolati dalla sua corte insistente e lusinghiera, adesso si sentiva non rispettata, sapendo che lui era già impegnato in una specie di relazione a lungo termine la cui esistenza lei non aveva immaginato neppure lontanamente. Si sentiva anche stupida e sgomenta, rendendosi conto di come il suo intuito l'avesse platealmente abbandonata; non le era nemmeno venuto in mente di domandargli se era sposato.
«Be', è tutto molto interessante», riuscì a dire. Depose la forchetta e il tovagliolo e si alzò. «Grazie per il pasto e per il pomeriggio molto illuminante. Penso che sia ora per me di ritornare al palazzo dei visitatori.» Anche Garona si alzò. «Sei sicura di volertene andare così presto?» «Sicurissima», rispose Suzanne. Poi, rivolta ad Alita, aggiunse: «È stato un piacere». «Anche per me», replicò lei. «Garona mi ha parlato talmente bene di te.» «Davvero? Molto carino da parte sua.» «Spero che ci rivedremo molto spesso.» «Forse», rispose Suzanne, tenendosi sul vago. Salutò Garona con un cenno della testa e si diresse verso la porta. Lui le fu immediatamente al fianco. «Ti chiamo un aerotaxi», le propose. «A meno che non preferisci che ti accompagni io.» «No, no, va bene così.» Intanto Suzanne aveva varcato la soglia. «Sono certa che tu e Alita avrete tante cose di cui discutere.» «Suzanne, ti stai comportando in modo strano!» Garona dovette quasi correre, per mantenersi al passo con lei, mentre usava il telecomunicatore da polso. «Pensi? Che sensibilità averlo notato!» «Che cosa c'è, Suzanne?» Garona la prese per un braccio, ma lei si sottrasse alla sua stretta e continuò a camminare. «È solo una quisquilia, una piccola diversità culturale», rispose lei, girando la testa, senza fermarsi. «Suvvia!» Garona le si mise di fronte e l'afferrò di nuovo per un braccio, riuscendo finalmente a farla fermare. «Sii franca con me. Non farmi tirare a indovinare.» «Sarebbe interessante farti indovinare. Ma, dal mio punto vista, non sarebbe una grande sfida.» «Suppongo che abbia a che fare con Alita.» «Molto sveglio. E ora, se mi lasci, tornerò al palazzo dei visitatori.» «Suzanne, sei in Interterra. Noi abbiamo abitudini diverse. Ti devi adeguare.» Lo fissò nei profondi occhi scuri. Una parte di lei voleva che la lasciasse in pace, l'altra parte desiderava offrirgli il beneficio del dubbio. Dopotutto, quella era Interterra, non Los Angeles. «Il mio passato è così differente...» mormorò. «Lo so. E infatti ti chiedo di non giudicare in base agli standard del
mondo sulla superficie. Cerca di non essere egoista. Non devi sentire di possedere le cose, per godertele. Noi dividiamo il nostro amore con le persone che amiamo, e l'amore è infinito.» «Sono contenta per voi. Sono felice di sapere che avete tutto questo amore. Purtroppo, io sono abituata a dividere l'amore con una persona soltanto.» «Non puoi considerare la cosa dalla prospettiva interterrana?» «A questo punto, ne dubito.» «Ricorda, buona parte della moralità imperante sulla superficie terrestre tende a essere autoindulgente, egoistica e in definitiva distruttiva.» «Dalla vostra prospettiva. Dalla nostra, va bene per allevare i figli.» «Forse. Ma qui questo non è importante.» «Garona, ascolta.» Suzanne gli pose una mano sulla spalla. «Tu probabilmente sei un meraviglioso uomo interterrano. Da quando siamo in Interterra, ammetto che questo è un problema mio, non tuo. Cercherò di affrontarlo.» All'improvviso, dal nulla spuntò l'aerotaxi, che si aprì per farla salire. «Hai bisogno che gli dia io i comandi?» chiese Garona. «Preferisco fare da sola.» «Allora verrò da te stasera. Va bene?» «Come diciamo noi umani di seconda generazione, credo di avere bisogno di una pausa di riflessione», rispose Suzanne, e salì sul velivolo. «Lasciamo decantare le cose per un giorno o due.» «Io verrò comunque.» «Come ti pare.» Suzanne era troppo sconvolta per imbarcarsi in una discussione. Poggiò il palmo sul tavolo centrale e disse forte: «Palazzo dei visitatori», quindi agitò la mano per salutare Garona, mentre la fiancata del velivolo si richiudeva. 17 «Sono sicuro che siete tutti un po' sconvolti», esordì Arak. «Ve lo leggo in viso.» Nel tardo pomeriggio lui e Sufa avevano riportato il gruppo nella sala conferenze circolare, per il fare il punto su ciò che avevano visto quella giornata. Gli interterrani stavano in piedi nella zona centrale e guardavano gli ospiti affidati alle loro cure, il cui umore differiva platealmente, e non a causa di ciò che presumeva Arak.
Perry era irritato con Richard. Proprio quando era entrato in intimità con Luna, erano comparse Meeta e le altre, colte dal panico, dicendo che Richard era furibondo. Preoccupato che il comportamento violento potesse provocare guai a tutti quanti, Perry era corso da lui e aveva trascorso un'ora a cercare di calmarlo... con risultati scarsissimi. Richard se ne stava seduto in silenzio, imbronciato, lanciando occhiate torve ad Arak e Sufa, come se i suoi problemi fossero direttamente colpa loro. Suzanne aveva preso posto accanto a Perry e stava rimuginando sulle sue ferite emozionali. Si sentiva anche responsabile per la situazione in cui si trovavano lei e i compagni. Appena tornata indietro, aveva spiegato che era lei il motivo per cui li avevano rapiti. Si era scusata, e tutti le avevano assicurato che non la ritenevano responsabile, comunque lei continuava a sentirsi a pezzi. Soltanto Donald e Michael sembravano su di giri. Arak credette che il merito fosse della loro visita all'Informazione Centrale. Guardò Donald e si rivolse direttamente a lui. «Prima che concludiamo, per oggi, ci sono domande o commenti a proposito di ciò che avete visto durante le vostre escursioni? Forse sarebbe utile se ognuno di voi condividesse con gli altri la propria esperienza.» «Io ho una domanda alla quale sono certo che sono interessati anche gli altri», colse l'occasione Donald. «Allora falla pure», lo esortò Arak. «Noi qui siamo prigionieri a vita?» Tutti furono colti alla sprovvista, soprattutto Suzanne e Perry, che vennero strappati alle loro preoccupazioni personali. Quella domanda li aveva sorpresi perché soltanto la sera prima Donald li aveva consigliati di non sollevare quell'argomento, nel timore che la loro libertà di movimento sarebbe stata limitata. Arak fu più deluso che scioccato. Si concesse un momento per raccogliere le idee. «Prigionieri non è la parola giusta», rispose infine. «Noi abbiamo piuttosto posto l'accento sul fatto che non sarete costretti a lasciare Interterra, anzi vi accogliamo nel nostro mondo con tutti i pieni diritti di godere la completa gamma di progressi di cui per ora avete solo visto una parte.» «Ma non ci è stato chiesto...» cominciò Perry. «Aspetta!» lo interruppe Donald, con piglio militaresco. «Lasciami finire! Arak, tanto per essere chiari fino in fondo: ci stai dicendo che non po-
tremo lasciare Interterra, nemmeno se volessimo farlo.» Arak si agitò a disagio. Intervenne Sufa: «In genere, nelle prime fasi dell'introduzione a Interterra evitiamo di affrontare un tale argomento che ha risvolti altamente emotivi. In base alla nostra esperienza, abbiamo visto che i visitatori sono più pronti ad affrontarlo quando si sono abituati ai benefici della vita quaggiù». «Per favore, limitatevi a rispondere alla domanda», insisté Donald. «Un semplice sì o un no basteranno», aggiunse Michael. Arak e Sufa si consultarono sussurrando. Donald si appoggiò allo schienale della poltroncina a braccia conserte, con espressione sprezzante, mentre gli altri mostrarono lo sbalordimento e il nervosismo di cui erano preda. Era in gioco il loro destino. Infine Arak annuì, dopo che lui e Sufa avevano trovato un accordo. Guardò tutti e cinque uno per uno, poi fissò il suo sguardo su Donald. «Va bene», si decise. «Saremo onesti. La risposta alla vostra domanda è no. Non potrete lasciare Interterra.» «Mai?» gemette Perry. «E la possibilità di comunicare con i nostri famigliali?» chiese Suzanne. «Abbiamo bisogno di far loro sapere che siamo vivi.» «A che pro?» replicò Arak. «Un simile messaggio sarebbe crudele per persone destinate a non rivedervi più e che si sono già adattate alla perdita.» «Ma abbiamo dei figli!» gridò Perry. «Come potete pensare che non vogliamo contattarli?» «È fuori questione. Mi spiace, ma la sicurezza di Interterra va oltre gli interessi personali.» «Ma noi non abbiamo chiesto di venire qui!» esclamò Perry, prossimo alle lacrime. «Ci avete portato qui per aiutarvi e Suzanne lo ha fatto. Io ho famiglia!» «Non possiamo rimanere qui», farfugliò Richard. «Assolutamente», gli diede man forte Michael. «Tutti noi abbiamo dei legami affettivi con il nostro mondo», spiegò Suzanne. «In quanto esseri umani sensibili non è da voi pensare che li possiamo semplicemente dimenticare.» «Capiamo che è difficile», asserì Arak. «Vi comprendiamo fino in fondo, ma ricordate che le ricompense sono infinite. Francamente, non mi sorprende che per ora nessuno di voi sia tentato. Ma cambierà. Succede
sempre. Ricordate che abbiamo alle spalle migliaia d'anni di esperienza con i visitatori provenienti dalla superficie.» «Il punto non è la tentazione», intervenne Donald, in tono altezzoso. «Nel nostro sistema etico di valori, i fini non giustificano i mezzi. Il problema è che noi siamo sotto coercizione, e in particolare a causa della nostra eredità in quanto americani, troviamo che è una croce particolarmente difficile da portare.» «Oh per favore!» si spazientì Perry. «Lascia da parte le scemate patriottiche. Qui non si tratta di essere americani, ma di essere umani.» «Calmatevi!» si impose Arak. Trasse un respiro, poi aggiunse: «È vero che in un certo senso subite una coercizione, dovuta alla necessità di sicurezza di Interterra, ma un termine migliore potrebbe essere che siete indirizzati, infatti in questo caso l'analogia genitori/figli cade a proposito. A causa della vostra primitiva innocenza, voi confondete gli interessi a breve termine con quelli a lungo termine. Noi, che abbiamo vissuto una vita dopo l'altra, abbiamo una conoscenza più approfondita e siamo in grado di prendere decisioni più razionali. Cercate di tenere a mente che noi vi stiamo indirizzando, che è poi lo scopo di tutte le religioni. Voi siete stati portati in un vero paradiso». «Paradiso o non paradiso», sbottò Richard. «Non abbiamo intenzione di rimanerci.» «Mi spiace», lo contraddisse Arak, in tono sincero. «Qui siete e qui rimarrete.» Suzanne, Perry, Richard e Michael si guardarono l'un l'altro, in preda a varie misture di agitazione, costernazione e risentimento. Donald, d'altra parte, teneva ancora le braccia conserte in un atteggiamento di moralistico autocompiacimento. «Be'», continuò Arak, con un sospiro. «Non è andata come previsto. Mi spiace che voi abbiate insistito nel parlare di questo argomento così presto, nel corso dell'orientamento. Ma, vi prego, fidatevi: cambierete tutti idea con il passare del tempo.» «Che progetti avete per noi?» domandò Suzanne. «In genere il periodo di orientamento dura un mese, variando in base alle necessità specifiche di ogni singolo visitatore. Durante questo tempo avrete l'opportunità di viaggiare in altre città. Quando l'orientamento sarà completato, verrete sistemati in una città di vostra scelta.» «Potete dirci dove sono situate queste città?» domandò Donald. «Certamente!» Arak era contento di spostare la conversazione da argo-
menti troppo densi di emotività. Prendendo posto nella sua poltroncina con la console, abbassò le luce e accese lo schermo sul pavimento. Un attimo dopo comparve un'enorme mappa della porzione atlantica di Interterra, comprendente gli oceani soprastanti e i contorni dei continenti. Le città erano segnate in arancione, blu o verde. Sufa si fece da parte, per non ostacolare la vista. «Sono certo che tutti voi riconoscete Saranta», disse Arak. Toccò la console e il nome della città, in arancione, lampeggiò. Poi l'intera immagine si spostò sulla parte del Pacifico. «Qui vedete le città più antiche sotto l'Oceano Pacifico. Ne visiterete molte. Tutte hanno i propri caratteri particolari e voi potrete vivere in una o nell'altra di esse, come preferite.» «Il colore arancio significa qualcosa?» chiese Donald. «Sono le città con i portali interplanetari. Come quello dal quale siete entrati voi. Ma per la maggior parte sono diventati obsoleti e non sono più in uso. Qui vedete Calistral, nell'Oceano Indiano meridionale. Quello è probabilmente l'unico ancora attivo, anche se viene usato di rado. Al giorno d'oggi utilizziamo quasi esclusivamente i portali intergalattici sotto il Polo Sud.» «Possiamo vedere di nuovo l'altra mappa?» chiese Donald, chinandosi in avanti. «Certo.» Arak lo accontentò e comparve di nuovo la porzione atlantica di Interterra. «Allora la città di Barsama, a est di Boston, ha un portale interplanetario?» chiese Donald. «Sì, ma sono centinaia di anni che non viene usato. La città di Barsama comunque è molto gradevole, anche se è piuttosto piccola.» «Quando dici non usato», volle approfondire Donald, «intendi che è stato sigillato, come quello di Saranta?» «Non ancora. Ma lo sarà ben presto. I condotti di quei portali sorpassati dovevano essere stati sigillati ere fa, come ho detto ieri. Proprio oggi il consiglio degli Anziani ha emesso un nuovo decreto per accelerare il procedimento.» Donald annuì. Si appoggiò allo schienale e incrociò nuovamente le braccia. «Altre domande?» Nessuno si mosse. «Penso che siamo troppo strabiliati per altre domande», commentò Perry.
«Avete bisogno di trascorrere del tempo insieme per aiutarvi vicendevolmente ad adattarvi», consigliò Sufa. «E vi incoraggiamo a parlare con Mary e Ismael. Sono sicura che la loro saggezza ed esperienza vi saranno preziose.» Nessuno rispose. «Allora», propose Arak. «Riprenderemo l'orientamento domattina, dopo che vi sarete goduti un meritato riposo. Ricordate che, oltre a tutto il resto, vi state ancora ristabilendo dopo il processo di decontaminazione. Sappiamo che lo stress da esso provocato aumenta l'instabilità emotiva.» Un quarto d'ora dopo, Arak e Sufa accompagnarono il gruppo fin sul prato davanti alla sala da pranzo e si accomiatarono. Stava scendendo la sera. Tutti e cinque gli umani di seconda generazione camminarono sull'erba senza dire una parola, ognuno assorbito dai propri pensieri. «Dobbiamo parlare», ruppe subito il silenzio Donald. «Certo», approvò Perry. «Dove?» «Credo che sia meglio all'aperto, ma aspettiamo di arrivare nella sala da pranzo, così possiamo lasciare lì i nostri telecomunicatori da polso. Non mi sorprenderebbe che servissero anche come strumenti di sorveglianza.» «Buona idea.» Perry si era ripreso abbastanza da essere in collera. «Voglio scusarmi di nuovo con tutti voi», disse Suzanne. «Mi sento terribilmente, all'idea di essere responsabile per il fatto che siamo trattenuti qui.» «Non sei tu la responsabile», ribatté Perry, irritato. «Noi non ce l'abbiamo con te, ma con questi maledetti interterrani», aggiunse Michael. «Parliamo il meno possibile, fin quando non ci saremo tolti i comunicatori», avvertì Donald. Il gruppo percorse gli ultimi metri in silenzio. All'interno della sala da pranzo si tolsero i piccoli apparecchi da polso, poi uscirono di nuovo. «Quanto pensi che dobbiamo allontanarci?» domandò Perry, girandosi a guardare dietro di sé. Si trovavano già a una trentina di metri dalla piscina della sala da pranzo. Dall'interno la luce si riversava sul prato, formando una chiazza più chiara. «Qui va bene», decise Donald. Si fermò e gli altri gli si raccolsero attorno. «Quindi, adesso sappiamo. Non vorrei dire: ve l'avevo detto!» «Allora non dirlo», grugnì Perry. «Per lo meno, sappiamo dove siamo», aggiunse Donald. «Questo sì, ci è di grande conforto!» commentò con sarcasmo Perry.
«Mi sono sorpresa che tu abbia posto la domanda», intervenne Suzanne. «Come mai hai cambiato idea sul fatto di non essere troppo diretti?» «Perché avevamo bisogno di saperlo prima piuttosto che poi. Se dobbiamo fuggire di qua, come adesso sappiamo che sarà il caso di fare, allora dobbiamo farlo presto.» «Pensi che c'è un modo?» «Penso che è possibile. La notizia più promettente è che avete visto l'Oceanus e che è intatto. Se riuscissimo a farlo arrivare fino a quel portale di Barsama e trovare il modo di inondare la camera e aprire il condotto, avremmo abbastanza energia e riserve del sistema di sussistenza per arrivare fino a Boston.» «Non funzionerà», dissentì Suzanne. «Considerato quanto sono paranoici questi interterrani, i portali devono essere tenuti sotto controllo costante. Anche se sapessimo come farli funzionare, non riusciremmo ad andare via.» «Hanno di sicuro un gruppo di quei cloni che gironzolano lì attorno.» «Sono d'accordo», replicò Donald. «Non possiamo sgusciare via inosservati e nemmeno scappare. Dobbiamo essere portati fuori.» «Dici niente!» esclamò Perry. «Non ci lasceranno andar via. Arak è stato chiarissimo.» «Non certo di loro spontanea volontà. Dobbiamo costringerli.» «E come proponi di farlo?» volle sapere Suzanne. «Stiamo parlando di una civiltà estremamente avanzata, con una tecnologia che non ci possiamo nemmeno immaginare.» «Con il ricatto», spiegò Donald. «Dobbiamo convincerli che per loro sarebbe più sicuro lasciarci andar via piuttosto che trattenerci.» «Continua», lo esortò Perry, dubbioso. «Loro sono terrorizzati di venire scoperti. La mia idea è: li minacciamo di trasmettere notizie su di loro alla TV del nostro mondo.» «Pensi che la gente sulla superficie ci crederebbe?» chiese Suzanne. «Quello che importa è ciò che credono gli interterrani.» «Hanno attrezzature per trasmettere segnali TV?» domandò Perry. «No, però ricevono. Micheal e io abbiamo trovato un uomo disposto ad aiutarci.» «È vero», confermò Michael. «È un vecchio di New York che si chiama Harvey Goldfarb. È qui da anni ma passa le giornate nascosto nell'Informazione Centrale a guardare le repliche alla TV. Anche lui vorrebbe andarsene.»
«La cosa importante è che conosce le attrezzature TV», aggiunse Donald. «Noi abbiamo due videocamere sull'Oceanus che, con qualche modifica apportata con mezzi di fortuna, potrebbero trasmettere. Goldfarb dice che c'è tantissima energia.» «Uhm!» Perry ci pensò sopra. «Lo sai che mi suona promettente?» «A me no», intervenne Suzanne, scuotendo la testa. «Non vedo come potrebbe funzionare. L'idea della minaccia l'ho colta, ma come facciamo a usarla per spingere gli interterrani a fare una cosa che evidentemente non vogliono fare?» «Non lo so esattamente», ammise Donald. «Dobbiamo mettere assieme le nostre menti ed escogitare qualcosa. Io mi immaginavo di mettere Goldfarb con il dito sull'interruttore, pronto a trasmettere.» «Tutto qua?» chiese Perry, deluso. «Se è tutto quello che hai in mente, allora ha ragione Suzanne. Non funzionerà. Voglio dire, basterebbe che mandassero un clone a fermare il vecchio, o semplicemente, potrebbero togliere l'energia. Se vogliamo ricorrere al ricatto, dev'essere più complesso perché la minaccia sia più credibile.» «È un punto di partenza», si difese Donald. «Come ho detto, dobbiamo lavorarci sopra.» Suzanne guardò Perry. «Che cosa intendi, con 'più complesso'?» «Qualcosa tipo avere due minacce coesistenti», rispose lui. «In questo modo, se ne bloccano una, l'altra va avanti. Capisci che cosa intendo? Per neutralizzare la minaccia dovrebbero impegnarsi su entrambi i fronti.» «Non è una cattiva idea», approvò Donald. «A qualcuno viene in mente un'altra minaccia?» Nessuno rispose. «Non riesco a pensare a niente, così su due piedi», ammise Perry. «Nemmeno io», gli fece eco Suzanne. «Partiremo con l'idea della videocamera», propose Donald. «Mentre predisponiamo quella, ci verrà in mente qualche altra cosa.» «E le armi nel museo?» propose Michael. «Avete trovato delle armi?» chiese Perry. «Un'intera stanza tutta piena», rispose Donald. «Ma purtroppo sono per la maggior parte dei catorci antichi, superati, danneggiati, che hanno recuperato sul fondo dell'oceano a partire dai tempi dei greci fino alla seconda guerra mondiale. Il pezzo più promettente che ho visto è una Luger tedesca.» «Pensi che spari?» chiese Perry.
«Potrebbe. Il caricatore è pieno. La meccanica sembra a posto.» «Be', è già qualcosa. Specialmente se funziona.» «Una cosa sappiamo per certo», aggiunse Donald. «Non riusciremo a mettere in atto il nostro piano, una volta che saremo sparpagliati in città diverse. «Giusto», confermò Perry. «Quindi abbiamo meno di un mese.» «Potremmo avere molto meno di un mese», intervenne Richard. «Perché dici così?» volle sapere Suzanne. «Michael e io abbiamo un piccolo problema. E immagino che uno di questi giorni, quando sarà scoperto, attorno a noi scoppierà l'inferno.» «Richard, no, non dire niente!» gridò Michael. «Che cosa c'è?» sbuffò Perry. «Che cosa avete combinato, adesso?» «C'è stato un incidente», rispose Richard. «Che tipo di incidente?» chiese Donald. «Forse sarebbe meglio se ve lo mostrassi. Potreste avere un'idea di che cosa fare nel frattempo.» «Dove?» abbaiò Donald. «In camera mia o in camera di Michael, fa lo stesso.» «Facci strada, marinaio!» Nessuno parlò mentre il gruppo attraversava il prato in direzione del villino di Richard. Girarono attorno alla piscina ed entrarono, poi Richard si mise davanti all'armadio che conteneva il frigorifero e gli ordinò di aprirsi. Quindi si chinò, tirò via parecchi contenitori incastrati gli uni contro gli altri e li fece capitombolare a terra. Incorniciato da quelli rimasti c'era il volto congelato e pallido di Mura. I capelli erano schiacciati contro la fronte e la bava sanguinolenta le si era rappresa sulla guancia, formando una chiazza marrone. Suzanne si coprì immediatamente gli occhi. «Dovete capire, è stato un incidente», spiegò Richard. «Michael non intendeva ucciderla. Stava solo cercando di non farla gridare, tenendole la testa sott'acqua.» «Dava fuori di matto», aggiunse Michael. «Aveva visto il corpo del tizio che Richard aveva ucciso.» «Quale tizio?» chiese Perry. «Era quel piccolino che c'era alla festa. Quello che ciondolava attorno a Mura.» «Dov'è il cadavere?» chiese Donald. «Nel mio frigorifero.»
«Che idioti!» sbottò Perry. «Com'è morto il ragazzo?» «Non importa», borbottò Donald. «Quel che è fatto è fatto e Richard ha ragione: nel momento in quei questi cadaveri verranno scoperti si scatenerà l'inferno.» «Certo che importa!» esclamò Suzanne, mentre tirava via le mani dal viso e fissava con ira i due sommozzatori. «Non riesco a crederci! Avete ammazzato due di queste persone gentili e amanti della pace, e perché, poi?» «Mi ha fatto delle avances», spiegò Richard. «Gli ho dato un pugno e lui è caduto e ha sbattuto la testa. Sono rimasto di sasso. Non avevo intenzione di ucciderlo.» «Bastardi meschini e fanatici!» sibilò Suzanne. «Okay, okay», si intromise Perry. «Manteniamoci calmi. Dobbiamo collaborare, se vogliamo che ci sia qualche speranza di uscire di qua.» «Perry ha ragione», disse Donald. «Se vogliamo fuggire dovrà essere subito. Infatti, faremo meglio a cominciare stanotte.» «Sono d'accordo», approvò Richard, mentre si accucciava per rimettere a posto i contenitori. «Che cosa possiamo fare stanotte?» chiese Perry. «Tantissime cose, direi», rispose Donald. «Be', il militare sei tu. Perché non assumi il comando?» «Gli altri che ne pensano?» Richard si tirò su e riuscì a chiudere il frigorifero spingendo con un fianco. «A me va bene. Prima ce ne andiamo, meglio è.» «Anche per me», si associò Michael. «E tu, Suzanne?» le chiese Donald. «Non riesco a credere che sia accaduto», mormorò lei, tenendo lo sguardo fisso nel vuoto. «Hanno impiegato un mese a decontaminarci, eppure siamo riusciti comunque a essere nocivi.» «Cosa diavolo stai bofonchiando?» si irritò Perry. Suzanne sospirò con tristezza. «È come se fossimo i servi di Satana che hanno invaso il paradiso.» «Suzanne, stai bene?» Perry l'afferrò per le spalle e la guardò negli occhi. Erano colmi di lacrime. «Ho semplicemente la morte nel cuore.» «Tre su quattro mi sembra una percentuale ragionevole», decise Donald, ignorando Suzanne. «Ecco che cosa propongo: prenderemo i nostri telecomunicatori da polso, chiameremo un aerotaxi e ci faremo portare al mu-
seo della Superficie Terrestre. Richard e io saliremo sul sommergibile per controllare che tutto sia a posto e prenderemo una videocamera. Perry, tu e Michael entrerete nel museo e prenderete le armi. Michael ti può mostrare dove sono. Arraffate tutto quello che vi sembra adatto, ma non dimenticate la Luger.» «Mi suona buono, come piano», approvò Perry. «E tu, Suzanne? Vuoi venire?» Lei non rispose. Si portò le mani al viso e strofinò gli occhi colmi di lacrime. Non riusciva a superare il fatto che erano responsabili della morte di due interterrani. Si chiedeva che tipo di dolore un tale crimine avrebbe provocato a Saranta. Due essenze sopravvissute per milioni di anni erano perdute per sempre. «Va bene.» Perry usò un tono conciliante. «Tu rimani qui. Non ci metteremo tanto.» Suzanne annuì, ma non guardò nemmeno mentre il gruppo usciva dalla stanza. Fissò invece l'armadio che nascondeva il frigorifero e si abbandonò al pianto. Il confronto violento e minaccioso che temeva si stava già verificando. 18 Donald si comportava come se fosse in corso un'esercitazione militare; la stessa cosa facevano Richard e Michael, che avevano ancora più esperienza di lui in fatto di operazioni segrete. Entrando in quello spirito, i due si annerirono con la terra i volti e i vestiti. Perry non era così fanatico, ma si sentiva sollevato dal poter riprendere in mano il proprio destino. «È proprio necessario?» chiese nel vedere l'uso che facevano del fango. «Quando eravamo in marina facevamo così per le operazioni notturne», spiegò Richard. Il viaggio con l'aerotaxi fu ancora più eccitante che di giorno, infatti c'era meno traffico, ma quei pochi altri veicoli in circolazione sbucavano fuori dall'ombra all'improvviso. «È come un fottuto autoscontro al luna park», commentò Richard, dopo che vennero praticamente sfiorati da un altro velivolo.» «Mi piacerebbe scoprire come funzionano», disse Perry. «Alla fabbrica che abbiamo visitato stamattina io e Richard c'erano solo cloni.» «Quella è stata una perdita di tempo colossale», commentò Richard. «Perry, che cosa ne pensi di Suzanne?» chiese Donald.
«Che cosa intendi?» «Pensi che dobbiamo preoccuparci? Potrebbe incasinare tutta questa operazione.» «Intendi, mettere in allarme gli interterrani?» «Qualcosa del genere. Sembrava davvero sconvolta dalle due vittime.» «Era sconvolta, ma non solo per quelle due morti. Mi ha confidato che Garona l'ha delusa, in qualche modo. E poi si sente responsabile per il nostro rapimento, come ci ha detto lei stessa. Comunque, non credo che dovremo preoccuparci per lei. Starà bene.» «Lo spero.» Il velivolo decelerò, restò sospeso nell'aria per un momento poi scese rapidamente. «Truppe, all'erta!» ordinò Donald. L'aerotaxi, secondo le istruzioni ricevute, si era posato nel cortile del museo, dove si scorgeva nell'ombra la sagoma dell'Oceanus, stagliato contro il basalto dell'edificio. «Il bersaglio è quello. Una volta che si apre il fianco del taxi, vi voglio tutti appiattiti contro il muro del museo. Capito?» «Affermativo», rispose Richard. Nel momento in cui comparve dal nulla l'apertura del taxi, tutti fecero come aveva ordinato Donald e si guardarono attorno. Era buio, in particolare negli anfratti più in ombra, c'era silenzio e non si notava alcun segno di vita. Dietro di loro, la forma spigolosa del museo si ergeva nell'oscurità. L'unica fonte di luce erano le migliaia di false stelle bioluminescenti e il tenue chiarore che emanava dalle finestre del museo. La mole scura del sommergibile si trovava a una quindicina di metri, poggiata sul cassone di un rimorchio antigravitazionale. La porta dell'aerotaxi si richiuse silenziosamente e il velivolo si sollevò, scomparendo nell'oscurità. «Non vedo anima viva», sussurrò Richard. «Immagino che il museo non sia un ritrovo notturno», scherzò Michael. «Riducete la conversazione al minimo», ordinò Donald. «Il posto è deserto», osservò Perry e si rilassò. «Questo renderà tutto più facile.» «Speriamo che rimanga così», commentò Donald, poi indicò una finestra alla sua destra. «Perry, tu e Michael scavalcatela, poi usate la stessa strada per uscire. Noi staremo lavorando sull'Oceanus oppure saremo ad aspettarvi qui nell'ombra.»
«Pensi che ci sia un allarme nel museo?» chiese Perry. «Naa!» esclamò Richard. «Qui non ci sono serrature né allarmi, niente di quel genere. A quanto pare, nessuno ruba niente, quaggiù.» «Va bene, andiamo.» «Buona caccia», augurò Donald e fece un cenno di saluto con la mano mentre Perry e Michael si accucciavano sotto la finestra. Grugnendo e ansando, Perry aiutò Michael ad aggrapparsi al davanzale. Una volta dentro, il sub si sporse e lo aiutò a issarsi a sua volta. Un attimo dopo i due sparirono alla vista. Donald riportò l'attenzione sul sommergibile. «Be', allora, ci andiamo o no?» chiese Richard. «Forza!» Avanzarono tenendosi chini e, arrivati al sommergibile, Donald diede una pacca affettuosa sullo scafo di acciaio. Nell'oscurità il suo colore scarlatto era ridotto a uno scialbo grigio, ma le lettere bianche sulla torretta spiccavano bene. Donald eseguì una lenta ispezione del natante, con Richard alle calcagna. Era impressionato dalle riparazioni eseguite dagli interterrani; le luci esterne e il braccio manipolatore che erano andati distrutti durante la caduta verticale nel condotto apparivano del tutto normali. «Sembra perfetto», commentò Donald. «Tutto ciò che dobbiamo fare è metterlo in mare e siamo a posto.» «Mai troppo presto per me», sentenziò Richard. Donald si avvicinò a una cassetta degli attrezzi esterna, l'aprì e ne estrasse diverse chiavi fisse che porse a Richard. «Comincia con la videocamera di dritta. Staccala da dove è fissata. Io vado di sotto a controllare il livello della batteria. Se non c'è energia, non andiamo da nessuna parte.» «Roger», rispose Richard. Donald si arrampicò sui pioli che gli erano tanto familiari, arrivando rapidamente al boccaporto. Si sorprese nel vedere che non era inchiavardato, anzi era addirittura socchiuso. Lo afferrò con entrambe le mani e lo sollevò del tutto. Dopo essersi guardato attorno ancora una volta, passò dall'apertura e si calò nell'assoluta oscurità che regnava all'interno. Quando raggiunse il ponte si mosse tastoni. Conosceva talmente bene l'imbarcazione che poteva muoversi letteralmente a occhi chiusi. Per lo meno, così pensava, finché inciampò nei due libri portati da Suzanne per far colpo su Perry. Imprecò, infatti per mantenersi in equilibrio aveva battuto la mano contro il retro di un sedile. Almeno non era caduto, il che po-
teva essere letale in uno spazio così ristretto. Dopo essersi sfregato la mano per sentir meno il dolore, proseguì muovendosi più lentamente. Nell'avvicinarsi al posto del pilota fu aiutato da un minimo di luce che filtrava attraverso i quattro oblò. Stando attento a non battere la testa contro qualcuno degli strumenti che sporgevano dalle pareti, si abbassò e si sedette in quello che era stato il suo sedile. Da fuori gli giungevano i rumori provocati dell'armeggiare di Richard con le chiavi inglesi. La prima cosa che Donald fece fu di accendere le luci del quadro. Poi, con trepidazione, controllò il livello della batteria. Sospirò di sollievo. C'era tantissima energia di riserva. Poi, mentre stava per controllare la pressione del gas, si immobilizzò. Un rumore proveniente da dietro gli disse che non era solo. C'era qualcun altro nel sommergibile, dietro di lui. Come prima cosa, trattenne il respiro e rimase in ascolto. Sentiva formarsi sulla fronte le gocce di sudore. Passarono i secondi, anche se gli sembrarono ore, ma il rumore non si ripeté. Proprio quando cominciava a chiedersi se non fosse stata la sua immaginazione, che gli aveva fatto interpretare male i colpi dati da Richard, dall'oscurità gli giunse una voce. «È lei, signor Fuller?» Donald si voltò di scatto, cercando invano di scrutare nell'oscurità. «Sì», rispose, con la voce rauca. «Chi è?» «Harv Goldfarb. Ti ricordi di me, all'Informazione Centrale?» Donald si rilassò e tirò un sospiro. «Certo», rispose in tono irritato. «Che cosa diavolo ci fai qua dentro?» Harvey avanzò un po' e le luci del quadro gli illuminarono il viso rugoso. «Oggi mi avete fatto pensare», spiegò. «Siete la prima speranza che ho mai avuto di tornare indietro. Temevo che mi dimenticaste, così ho pensato di dormire qua.» «Non possiamo dimenticarti. Abbiamo bisogno di te. Hai controllato le telecamere all'esterno?» «Sì. Non penso che saranno un problema. Che cosa avete intenzione di trasmettere?» «Non ne siamo sicuri, in questa fase. Forse te o noi, o magari tutti noi.» «Me?» «In realtà, vogliamo solo la possibilità di trasmettere», spiegò Donald. «È la minaccia che è importante.» «Ho capito. Vi lasciano andare perché temono che io rivelerò al mondo la presenza di Interterra con le trasmissioni TV.»
«Una cosa del genere.» «Non funzionerà», decretò Harvey senza mezzi termini. «Perché?» «Per due motivi. Primo, mi toglieranno l'energia prima che possa mandarvi in onda. E secondo, non lo voglio fare.» «Ma avevi detto che ci avresti aiutati.» «Sì, e voi avete detto che mi avreste portato a New York.» «È vero. In realtà non abbiamo ancora elaborato i dettagli.» «Dettagli, ah!» Harvey aveva un tono di scherno. «Ascoltami, io vivo qui. Posso dirvi come andarvene. Ho sognato tante di quelle notti come sottrarmi alla monotonia di questi interminabili giorni piacevoli!» «Siamo aperti ai suggerimenti», lo incoraggiò Donald. «Devo essere sicuro che mi porterete con voi.» «Saremo felici di includerti. Qual è la tua idea?» «Questo sommergibile funzionerà?» «È quello che sto controllando. Abbiamo tanta energia, quindi se riusciamo ad arrivare all'acqua, funzionerà.» «Okay, adesso ascolta. Nel vostro orientamento vi hanno già detto che gli interterrani vivono per sempre? Non nello stesso corpo ma in un corpo dopo l'altro?» «Sì. Abbiamo già visitato il Centro Trapassi e abbiamo assistito a un'estrazione.» «Sono impressionato. Vi fanno avanzare in fretta. Allora capisci che il procedimento funziona se vengono estratti prima della morte. In altre parole, tutto dev'essere programmato. Capisci quello che sto dicendo?» «Non ne sono sicuro», ammise Donald. «Devono essere vivi quando la memoria viene estratta. O, più propriamente, il loro cervello deve funzionare normalmente. Se muoiono in modo violento, la storia finisce. Ecco perché temono così tanto la violenza, ed ecco perché non c'è stata violenza in Interterra per milioni e milioni di anni. Ne sono incapaci, tranne per delega.» «Allora noi minacciamo la violenza. Ci avevamo già pensato.» «Io parlo di qualcosa di più specifico della semplice violenza. Minacciate specificamente la morte. La morte senza nessuna delle loro stupide estrazioni, a meno che facciano ciò che volete.» «Ah! Adesso ho capito! Stai parlando di prendere degli ostaggi.» «Esatto!» esclamò Harvey. «Due, quattro, quanti ne potete prendere, e non cloni, quelli non contano. E una parola di avvertimento: ai cloni non
importa la violenza. Loro fanno qualsiasi cosa gli venga ordinato.» «Furbo! È una minaccia multipla racchiusa in una sola.» «Infatti.» Harvey era compiaciuto. «E non dovete aggeggiare con queste stupidaggini delle videocamere.» «Mi piace. Perché non vai fuori a dire a Richard di non staccare più la videocamera? Io intanto controllo la pressione del gas e arrivo subito.» «Prometti che mi porterete con voi?» «Ci sarai, smettila di preoccuparti.» «Va bene, fermati!» ordinò Perry. «O sai dove stiamo andando, o non lo sai. Sono venti minuti che vaghiamo qua dentro come due idioti. Dove sono le dannate armi?» Michael scosse la testa. «Mi spiace, ma nei musei mi perdo anche di giorno.» «Cerca di ricordare qualcosa della sala», gli suggerì Perry. «Mi ricordo che era lunga e stretta.» «A che cosa era vicina? Non ti viene in mente niente?» «Aspetta un secondo! Adesso mi ricordo: era dietro una porta dove c'era scritto che per entrare avevamo bisogno dell'autorizzazione da parte del consiglio degli Anziani.» «Di porte non ne ho viste tante», borbottò Perry, mentre si guardava attorno. «E qui non ce ne sono, quindi è evidente che non siamo nel posto giusto.» «Mi ricordo anche che ci siamo fermati in una sala piena di tappeti persiani. Un po' alla volta le cose mi ritornano in mente. E i tappeti erano oltre la sala con tutta la roba del Rinascimento.» «È già un inìzio. Quella sala so dov'è. Andiamo! Adesso sto io alla guida!» Qualche minuto dopo, si ritrovarono davanti alla porta con il cartello di divieto di ingresso. Era vicina alla finestra dalla quale erano entrati. «È questa?» chiese Perry. «Se è questa, abbiamo fatto il giro completo.» «Penso di sì.» Michael gli passò davanti, spinse la porta e guardò dentro. «Ci siamo!» esclamò. «Era ora», grugnì Perry, entrando. «Gli altri cominceranno a pensare che ci siamo persi, quindi è meglio che ci sbrighiamo.» «Che cosa prendiamo?» Si fermarono appena oltre la soglia, mentre Perry faceva scorrere lo sguardo nelle due direzioni della sala scarsamente illuminata. Era colpito
dalla sua lunghezza e quindi dalla quantità di spazio offerto dagli scaffali. «È più di quanto mi aspettassi!» commentò. «Abbiamo l'imbarazzo della scelta.» «La roba più antica è sulla destra, quella più recente sulla sinistra», lo avvertì Michael. «Penso che non importi che cosa prendiamo, purché funzioni, e purché troviamo la Luger.» «Io lo so che cosa voglio!» Nel dir così, Michael allungò un braccio e afferrò la balestra, assieme alla faretra. Nel fare quel movimento affrettato si punse un dito. «Cristo, queste punte di freccia sono acuminate come lame di rasoio!» «Quelle non sono frecce, ma dardi, o bolzoni.» «Quel che è! Sono appuntiti come un accidente!» «Ti ricordi da che parte è la Luger?» «A sinistra, tonto.» «Non chiamarmi tonto.» «Be', avevo appena finito di dirti che la roba moderna è a sinistra.» Perry cominciò a percorrere la sala senza rispondere all'ultimo commento del suo compagno. Lo irritava il fatto di dover sopportare i due sub. In tutta la sua vita non era mai stato costretto a trascorrere del tempo con degli idioti più puerili di loro. Michael si voltò e andò dalla parte opposta. Dato che tutto era arrugginito e incrostato da gusci di crostacei, pensava che le armi antiche sarebbero state più affidabili perché, nella loro semplicità, avevano meno parti che il sale marino poteva mettere fuori uso. Si ritrovò ben presto in un punto dove era esposta una superba collezione di armi risalenti all'antica Grecia. Raccolse una bracciata di daghe, pugnali e scudi, assieme a diversi elmi, gambiere e un paio di pettorali. Ciò che lo colpiva erano l'oro cesellato e le pietre preziose incastonate che riusciva a scorgere nonostante l'oscurità. Carico come un somaro, tornò fino alla porta da cui erano entrati. «Trovato niente?» chiamò, verso la parte opposta. «Non ancora», gli rispose Perry. «Solo un mucchio di fucili arrugginiti.» «Io porto la roba che ho preso fino alla finestra.» «Va bene. Arrivo appena trovo la pistola.» Michael aggiunse la balestra al suo carico e armeggiò goffamente per aprire la porta. Aveva appena messo piede nel corridoio, quando si scontrò con Richard. Emise una specie di guaito e lasciò cadere tutto quello che stava traspor-
tando. I pesanti oggetti d'oro e di bronzo colpirono il pavimento di marmo con un tremendo clangore. «Fa' piano, cretino!» sibilò Richard. Il fragore che si era propagato per il museo deserto e silenzioso lo aveva spaventato quanto lo scontro con lui aveva spaventato Michael. «Che cosa ti è venuto in mente di intrufolarti qui e spaventarmi a morte?» ringhiò Michael. «Che cazzo ci facevate qua dentro? Dormivate?» «Non riuscivamo a trovare la sala, okay?» In quel momento, nel vano della porta comparve Perry. «Buon Dio, che cosa fate? State cercando di svegliare l'intera città?» «Non è stata colpa mia», rispose Michael, mentre si chinava a raccattare il suo bottino. «L'avete trovata la Luger?» domandò Richard. «Non ancora», rispose Perry. «Dov'è Donald?» «Sta tornando al palazzo dei visitatori. C'è stato un cambiamento nei piani. Nel sommergibile c'era nascosto il vecchio Goldfarb, che è saltato fuori con un piano di fuga migliore del nostro.» «Davvero?» chiese Perry. «E cioè?» «Prenderemo degli ostaggi. Dice che gli interterrani hanno una tale paura della morte violenta che farebbero qualsiasi cosa, compreso lasciarci andare via con il sommergibile, se prendiamo un paio dei loro e minacciamo di farli fuori.» «Mi piace», approvò Perry. «Ma perché Donald è rientrato prima di noi?» «Era preoccupato per Suzanne, specialmente adesso che le cose sembrano tanto promettenti. Però mi ha incaricato di dirvi che dovete darvi una mossa; appena siete pronti, chiamerò un aerotaxi per farci riportare indietro.» «Va bene. Venite dentro tutti e due. Se la cerchiamo in tre, quella dannata pistola la troveremo prima.» L'aerotaxi si fermò e si aprì. Stava sospeso proprio di fronte alla sala da pranzo del palazzo dei visitatori. Richard e Michael sbarcarono con qualche difficoltà, carichi com'erano di armi antiche. Perry invece portava soltanto la Luger, che alla fine era riuscito a trovare. I due sub avevano indossato i pettorali, gli elmi e le ginocchiere, per avere le braccia meno ingombre. Era già abbastanza dover portare scudi,
spade, pugnali e balestra. Perry aveva cercato di dissuaderli dal prendere l'armatura, ma si erano intestarditi e lui aveva rinunciato a farli ragionare: i due erano convinti che nel mondo sulla superficie quella roba valeva una fortuna. Si stupirono nel trovare la sala da pranzo deserta. «Strano», commentò Richard. «Mi aveva detto che ci saremmo incontrati qui.» «Non è che starà cercando di farcela, andandosene via senza di noi?» chiese Michael. «Non lo so, quest'idea non mi ha mai sfiorato.» «No che non se ne andrà senza di noi», li assicurò Perry. «Abbiamo appena visto l'Oceanus parcheggiato dove è sempre stato, e senza di quello non può andare da nessuna parte.» «E se lo cercassimo nella stanza di Suzanne?» propose Michael. «Direi che è una buona possibilità», convenne Perry. La lunga attraversata del prato fu piuttosto rumorosa, a causa del tintinnio delle armature. «Siete ridicoli», commentò Perry. «Non abbiamo chiesto il tuo parere», replicò Richard. Quando svoltarono oltre il lato aperto del villino di Suzanne, videro lei, Donald e Harvey seduti vicino alla piscina. Era evidente che gravava un'atmosfera tesa. «Che cosa c'è che non va?» domandò Perry. «Abbiamo un problema», rispose Donald. «Suzanne non è convinta che stiamo facendo la cosa giusta.» «Perché?» Perry si rivolse direttamente a lei. «Perché uccidere è sbagliato. Se portiamo degli ostaggi nel mondo di superficie senza un preventivo adattamento, è chiaro che morranno. Abbiamo portato quaggiù la violenza e la morte e adesso vogliamo andarcene grazie a esse. Io dico che è eticamente spregevole.» «Già, ma non mi è stato chiesto di venire qui», obiettò Perry, accalorandosi. «Non voglio sembrare un disco rotto, ma siamo tenuti qui contro la nostra volontà. Io penso che questo giustifichi la violenza.» «Ma così si confondono i fini con i mezzi! È esattamente il contrario di ciò che dovremmo fare.» «Tutto quello che so è che ho una famiglia di cui sento la mancanza. Cascasse il cielo, ho intenzione di rivederli.» «Concordo con te, davvero! E mi sento responsabile per tutta la situa-
zione. Ed è vero che siamo stati rapiti. Ma non voglio vedere altre morti, né voglio vedere Interterra inconsapevolmente distrutta. Siamo eticamente obbligati a negoziare. Questa gente è così pacifica!» «Pacifica? Io direi noiosa!» commentò Richard. «Su questo posso garantire», intervenne Harvey. «Perry, questo è Harvey Goldfarb», lo presentò Donald e i due si strinsero la mano. «Io non lo so che cosa dovremmo negoziare», dichiarò Donald. «Arak ha detto chiaro e tondo che siamo qui per sempre, senza ma, senza se e senza forse. Un'affermazione di questo tipo preclude le negoziazioni.» «Io penso che dovremmo lasciar passare un po' più di tempo», replicò Suzanne. «Che cosa ci sarebbe di male? Forse cambieremo idea, oppure riusciremo a convincerli a cambiare la loro. Dobbiamo ricordarci che tutti noi abbiamo portato quaggiù le nostre personalità e il nostro bagaglio psicologico, sintonizzati sul mondo alla superficie, inoltre siamo talmente abituati a ritenerci i 'bravi ragazzi' che è difficile renderci conto quando siamo i mostri.» «Io non mi sento un mostro», le fece notare Perry. «Non ci sto.» «Nemmeno io», si associò Michael. «Lasciatemi tirar fuori un'altra questione», continuò Suzanne. «Ipotizziamo pure che riusciamo ad andarcene. Che cosa succederà poi? Riveliamo l'esistenza di Interterra?» «Sarà difficile non farlo», le fece notare Donald. «Dove diciamo che siamo stati nell'ultimo mese, o quant'è che siamo rimasti qui?» «E io?» intervenne Harvey. «Io sono rimasto quaggiù per novant'anni.» «Questo è ancora più difficile da spiegare», concordò Donald. «Dovremmo anche dare spiegazioni su dove abbiamo trovato tutto l'oro e le armature», osservò Richard. «Perché 'sta roba verrà con me.» «E le possibilità economiche di un nostro ruolo come intermediari?» propose Perry. «Potremmo aiutare ambo le parti e finire multimiliardari. Anche solo i telecomunicatori da polso provocheranno sensazione.» «Io rimango della mia idea», dichiarò Suzanne. «In un modo o nell'altro, metteremmo a repentaglio Interterra. Fermatevi a pensare alla nostra civiltà e alla sua brama speculativa. Non ci piace vederci in quella luce, ma è così. Siamo egoisti, sia individualmente sia come nazioni. Ci sarebbe senza dubbio un conflitto e, per quanto è avanzata la civiltà interterrana, con una potenza e delle armi che non possiamo nemmeno immaginare, sarà un disastro, forse addirittura la fine del mondo, per gli umani di seconda ge-
nerazione.» Per diversi minuti nessuno parlò. «A me non importano tutte 'ste merdate», ruppe il silenzio Richard, all'improvviso. «Io voglio andarmene di qua.» «Non c'è dubbio», concordò Michael. «Anch'io», si associò Perry. «Idem», disse Donald. «Una volta fuori, possiamo negoziare con questi interterrani. Per lo meno, a quel punto sarà un negoziato vero, senza che loro dettino legge.» «E tu, Harvey?» domandò Perry. «Sono anni che sogno di andarmene», rispose il vecchio. «Allora è deciso», concluse Donald. «Andiamo!» «Io no.» Suzanne era risoluta. «Non voglio altre morti sulla mia coscienza. Forse è perché non ho una famiglia mia, ma sono disposta a dare a Interterra un'altra possibilità. So che ho da sottopormi a molti cambiamenti, ma mi piace il paradiso. Vale la pena fare un po' di esame di coscienza.» «Mi spiace, Suzanne.» Donald la fissò negli occhi. «Se andiamo, vieni anche tu. I tuoi alti standard morali non manderanno alla malora il nostro piano.» «Che cosa hai intenzione di fare, costringermi?» C'era irritazione, nella voce di Suzanne. «Certo. Lascia che ti rammenti come sia risaputo che i comandanti sparano ai loro uomini, se il comportamento di questi minaccia di compromettere un'operazione.» Suzanne non replicò. Il volto privo di espressione, spostò lentamente lo sguardo da uno all'altro dei suoi compagni. Nessuno di loro prese le sue difese. «Torniamo agli affari», decise infine Donald. «L'avete presa la Luger?» «Sì», rispose Perry. «È stata difficile da trovare, ma ci siamo riusciti.» «Fammela vedere.» Appena Perry estrasse la pistola dalla tasca della tunica, Suzanne schizzò via dalla stanza. Richard fu il primo a reagire. Lasciò cadere ciò che aveva in mano e, incurante dell'armatura che indossava, la rincorse nella notte. Grazie alla sua superba forma fisica riuscì a raggiungerla ben presto e ad afferrarla per il polso. La costrinse a fermarsi. «Stai facendo il gioco di Donald», l'avvertì, ansimando. «Come se mi importasse!» Anche Suzanne aveva il fiatone. «Lasciami andare!»
«Ti sparerà. Gli piace giocare a queste merdate militari. Ti sto dando un avvertimento.» Suzanne cercò di liberarsi dalla stretta, ma era chiaro che Richard non aveva alcuna intenzione di mollarla. Arrivarono gli altri e si raggrupparono attorno a loro. Donald impugnava la Luger. «Mi costringi ad agire», le disse in tono minaccioso. «Spero che te ne renda conto.» «Chi costringe chi?» replicò lei, sprezzante. «Riportatela dentro!» ordinò Donald. «Dobbiamo risolvere questa cosa una volta per tutte.» Tornò verso il villino e gli altri lo seguirono, con Richard che continuava a stringere saldamente il polso di Suzanne. Lei provò di nuovo a divincolarsi, ma poi si rassegnò a lasciarsi trascinare in camera sua. «Portatela dentro e fatela sedere.» Donald impartì questo nuovo ordine senza nemmeno voltarsi, mentre gli altri passavano di fianco alla piscina. Quando entrò nel cerchio di luce della casa, Richard si accorse che la mano della sua prigioniera era diventata blu. Preoccupato per la circolazione, allentò la stretta e in quello stesso istante Suzanne si liberò e gli assestò un colpo a braccio teso in pieno petto. Preso alla sprovvista, Richard perse l'equilibrio e cadde nella piscina, che in quel punto era molto fonda. Suzanne, intanto, spariva nel buio della notte. Con la pesante armatura che lo trascinava verso il basso, Richard andò a fondo nonostante fosse un abilissimo nuotatore. Donald gettò la pistola su una sedia e si tuffò. Perry e Michael fecero quel che potevano rimanendo sul bordo di marmo, ma poi si resero conto che Suzanne era scappata un'altra volta. «Prendila!» gridò Perry a Michael. «Qua ci penso io a dare una mano.» Michael si mise a correre e lo sforzo che ciò gli richiedeva suscitò in lui un sommo rispetto per i soldati dell'antichità, e si chiese come facevano a sopportare il peso dell'armatura. La cosa che gli dava più fastidio era il pettorale, ma anche l'elmo e le ginocchiere non erano certo d'aiuto. Una volta fuori del cono di luce che emanava dall'interno, si fermò tintinnando. I suoi occhi non si erano ancora abituati all'oscurità e non riusciva a vedere Suzanne da nessuna parte, anche se aveva solo un minuto circa di vantaggio. A mano a mano che gli occhi si abituarono, dal buio emersero vari dettagli, ma di Suzanne non c'era traccia. Poi, un movimento improvviso e una macchia di luce sulla destra attirarono la sua attenzione. Quando si voltò per guardare meglio sentì il cuore balzargli in petto. Era un aerotaxi:
era appena arrivato e si stava aprendo, a una cinquantina di metri, nei pressi della sala da pranzo. Michael riprese a correre, affidandosi alle gambe particolarmente forti e allenate. Mentre si avvicinava rapidamente al veicolo, sapeva che sarebbe stato richiuso subito. Vide Suzanne salirvi carponi e gettarsi sulla panca, premendo contemporaneamente il palmo destro sul tavolino centrale. «No!» gridò lui, mentre si lanciava contro l'apertura. Ma era troppo tardi: si era già richiusa e di essa non c'era più traccia. Michael andò a sbattere contro la fiancata del velivolo, con un clangore di metallo contro metallo. La collisione lo buttò a terra e gli fece cascare l'elmo. L'istante successivo l'aerotaxi si sollevava con un gran sibilo, lasciando Michael momentaneamente senza peso nella sua scia: fluttuò come un palloncino a circa trenta centimetri da terra, prima di ricadere a peso morto. Questo secondo colpo lo lasciò senza fiato. Si contorse sull'erba, finché non riuscì a respirare di nuovo, allora si mise carponi e poi in piedi e ritornò all'alloggio di Suzanne. Nel frattempo, gli altri avevano ripescato Richard e lo avevano adagiato su una delle sedie attorno alla piscina, dove continuava a tossire. Donald gli era accovacciato accanto e, sentendo il passo affrettato di Michael sollevò lo sguardo. «Dove diavolo è?» «Se n'è andata con un aerotaxi!» Michael aveva ancora difficoltà a respirare. «E l'hai lasciata andare via?» gridò Donald, rialzandosi. Era furibondo. «Non sono riuscito a fermarla. Deve aver chiamato il dannato aerotaxi nell'istante in cui usciva di qua.» «Cristo!» Donald si portò una mano alla fronte e scosse la testa. «Che incompetenza! Non riesco a crederci!» «Ehi, ho fatto quello che ho potuto!» si lamentò Michael. «Non litighiamo», si raccomandò Perry. «Merda!» gridò Donald, mettendosi a camminare in cerchio. «Avrei dovuto stenderla», borbottò Richard tra un singulto e l'altro. Donald si fermò. «Abbiamo appena iniziato questa operazione e c'è già una crisi. Non si può prevedere quello che farà. Dobbiamo muoverci, e muoverci in fretta! Michael, tu porta il culo all'Oceanus e non lasciare che gli si avvicini nessuno.» «Roger!» Michael afferrò la balestra e la faretra e sfrecciò di nuovo nell'oscurità. «Abbiamo bisogno di ostaggi, e ne abbiamo bisogno subito», dichiarò
Donald. «Che ne dici di Arak e Sufa?» propose Perry. «Sarebbero perfetti. Chiamiamoli qui, sperando che Suzanne non li abbia già avvertiti. Gli daremo appuntamento nella sala da pranzo.» «E Ismael e Mary Black?» suggerì ancora Perry. «Più sono meglio è», approvò Harvey. «Bene. Chiameremo anche loro», decise Donald. «Ma sull'Oceanus saremo al completo.» Suzanne aveva il cuore in gola. Non aveva mai provato un'ansia simile. Sapeva di essere stata fortunata a sfuggire al gruppo e non poteva fare a meno di chiedersi che cosa le sarebbe accaduto se non ci fosse riuscita. Rabbrividì. Le sembravano essere divenuti degli estranei, perfino dei nemici, nella loro idea fissa di fuggire, con la conseguente disponibilità a uccidere. Nonostante ciò che aveva detto lì per lì, quando si trovava nel proprio alloggio, non era sicura di come si sentisse, se non che aborriva l'idea di far parte di un'impresa che avrebbe provocato altre morti. Nonostante la confusione, però, per fuggire con l'aerotaxi aveva avuto la presenza di spirito di ordinare in fretta una destinazione, per far richiudere l'apertura. Il posto che le era venuto in mente era stato la piramide nera, sede del consiglio degli Anziani. Quando il taxi la depositò davanti alla piramide, Suzanne si sentiva già molto più calma. Il tempo necessario al trasferimento le aveva dato l'opportunità di pensare in modo più razionale. Secondo lei, il consiglio degli Anziani più di chiunque altro avrebbe dovuto sapere come affrontare la crisi rapidamente e senza che nessuno si facesse alcun male. Nel percorrere il vialetto sopraelevato, notò che tutta l'area attorno era deserta. Essendo la sede del governo di Interterra, pensava che ci sarebbe stato qualcuno disponibile ventiquattr'ore su ventiquattro, ma non sembrava proprio così. Suzanne entrò e percorse il luccicante corridoio di marmo senza incontrare anima viva. Avvicinandosi alla enorme porta di bronzo, si chiese che cosa dovesse fare. Bussare le sembrava ridicolo, considerate le dimensioni della sala a cui dava accesso. Ma non occorreva preoccuparsi: appena si avvicinò, i due battenti si aprirono da soli, come quella mattina. Suzanne entrò, si diresse verso il centro e si arrestò nel punto in cui si era fermata durante la sua prima visita in quel luogo. Si guardò attorno per
la grande sala vuota, chiedendosi che cosa dovesse fare. Il silenzio era completo. «Salve!» chiamò. Non udendo risposta, chiamò ancora, un po' più forte. Poi ripeté il saluto una terza volta, a squarciagola. Grazie alla cupola, udì chiaramente l'eco della propria voce. «Posso esserti utile?» le chiese la voce di una bambina. Suzanne si voltò. Dietro di lei, incorniciata dall'enorme portale, c'era Ala. I bei capelli biondi erano scompigliati, come se si fosse alzata di corsa dal letto. «Mi spiace disturbarti», si scusò Suzanne. «Sono venuta a causa di un'emergenza. Devi fermare i miei compagni. Stanno tentando una fuga e, se ci riescono, il segreto di Interterra sarà svelato.» «Fuggire è difficile da Interterra», replicò Ala. Si strofinò gli occhi con il dorso delle manine strette a pugno. Era un gesto così infantile che Suzanne dovette rammentare a se stessa che le stava davanti un essere dall'intelligenza e dall'esperienza straordinarie. «Hanno intenzione di usare il sommergibile con il quale siamo arrivati», le rivelò. «Si trova al museo della Superficie Terrestre.» «Capisco. Sarebbe comunque difficile, ma forse è meglio se mando alcuni cloni a manomettere l'imbarcazione. Indirò anche una seduta d'emergenza del consiglio. Spero che tu sia disponibile a rimanere a conferire con noi.» «Naturalmente. Desidero essere d'aiuto.» Suzanne si chiese se era il caso di rivelare anche le tragiche morti che già erano avvenute, ma decise che ci sarebbe stato tempo più tardi. «Questo è un avvenimento inatteso e preoccupante», dichiarò Ala. «Perché i tuoi amici hanno deciso di tentare la fuga?» «Loro dicono per le famiglie e perché non ci è stata data la possibilità di scegliere. Ma sono un gruppo composito e ci sono anche altre questioni in ballo.» «Sembra che non si rendano conto di quanto siano fortunati.» «Penso proprio che tu abbia detto una cosa giusta», convenne Suzanne. Nel cortile del museo immerso nell'ombra planò un aerotaxi e dalla sua apertura scesero due muscolosi cloni. Entrambi portavano delle mazze, ma soltanto uno si diresse verso il sommergibile. L'altro rimase accanto all'aerotaxi, tenendo una mano sul bordo dell'apertura, per impedirle di richiudersi.
Il primo non perse tempo. Raggiunto il sommergibile, andò direttamente dove era custodita la batteria. Con mani esperte aprì il pannello in fibra di vetro che dava accesso al connettore principale. Poi fece un passo indietro e sollevò la mazza sopra la testa, preparandosi a renderlo inutilizzabile. Il pesante attrezzo, però, non descrisse l'arco che ci si sarebbe aspettati: gli scivolò di mano e cadde a terra con un tonfo nel momento in cui il dardo di una balestra trapassava la gola del clone. Emettendo un rantolo, il clone barcollò all'indietro e si strappò via la freccia. Sgorgò un miscuglio di sangue e di un fluido trasparente che gli inzuppò la tuta nera. Dopo qualche goffo passo, il clone finì a terra, steso sulla schiena, fu scosso da qualche convulsione e rimase immobile. Michael ricaricò la balestra e, staccatosi dal riparo contro il muro del museo, si avvicinò alla sua vittima. Non aveva né visto né udito l'aerotaxi, che era atterrato al di fuori del suo campo visivo. Pensò di essere stato fortunato a guardare verso il sommergibile nel momento in cui lo aveva fatto, perché si era assopito diverse volte, nonostante gli sforzi per rimanere sveglio. Tenendo la balestra puntata verso il clone, gli si avvicinò e gli diede un calcio. Quello non reagì, ma dalla ferita nel collo sgorgò altro sangue misto al liquido trasparente. Michael tolse una mano dalla balestra per stare meglio in equilibrio e diede un altro calcio al corpo steso a terra, per essere sicuro di non avere sorprese. In quel momento, la balestra gli fu strappata via di mano. Michael girò su se stesso e si ritrovò davanti un altro clone: stava gettando via la balestra e contemporaneamente gli sollevava una mazza sopra la testa. Istintivamente, Michael se la riparò con le mani, anche se sapeva che non sarebbero servite a proteggerlo dal colpo in arrivo. Indietreggiando, inciampò sul corpo del clone ucciso e gli cadde addosso, mentre l'elmetto gli rotolava via. Michael rotolò disperatamente da un lato, mentre il grosso martello calava con una forza tremenda, andando a colpire il clone già fuori combattimento. Mentre il secondo clone riacquistava l'equilibrio e sollevava la propria arma per sferrare un altro colpo, Michael si tirò su, appoggiò un ginocchio a terra ed estrasse la daga. Il clone sollevò di nuovo la mazza sopra di lui, esponendo l'addome. In quel momento Michael si gettò in avanti e, con tutto il peso del proprio corpo, vi spinse dentro la corta spada fino all'elsa. Sentì sul petto gli schizzi di sangue e di liquido trasparente. Il clone lasciò cadere la mazza e afferrò la testa di Michael con entrambe
le mani, sollevandolo da terra. Ma ormai la sua forza straordinaria era agli sgoccioli: cadde a terra, trascinando l'umano con sé. Ci vollero quasi cinque minuti perché la straordinaria stretta del clone attorno alla testa di Michael si allentasse abbastanza da permettergli di liberarsi. Si rialzò, rabbrividendo e provando una forte nausea all'odore del liquido che fuoriusciva dai corpi dei due cloni. Era come essere contemporaneamente in un macello e nell'officina di un meccanico. Michael recuperò la balestra. Ora aveva una nuova considerazione del pericolo rappresentato dai cloni. Si era stupito che il secondo lo avesse attaccato e pensò che probabilmente gli era stato un ordine che comprendeva tutte le possibilità. Quell'episodio, inoltre, metteva in evidenza ciò di cui Harv li aveva avvertiti: i cloni non avevano problemi con la violenza. 19 «Magari avremmo dovuto rimandare a dopocena», propose Richard. «Sto morendo di fame.» «Non è il momento di fare dell'umorismo», lo rimproverò Perry. «E chi scherza?» ribatté il sub. «Devono essere loro!» chiamò Harvey dalla porta, dove Donald gli aveva ordinato di stare di guardia. «È appena atterrato un aerotaxi.» Il gruppo era nella sala da pranzo, in attesa di Arak, di Sufa e dei Black. «Va bene, soldati, ci siamo. Prepariamoci!» ordinò Donald. Richard scelse una spada greca. Dopo il tuffo nella piscina si era liberato dell'armatura. Donald estrasse per la ventesima volta il caricatore dalla Luger, lo controllò, lo rimise a posto e si assicurò che nella camera di scoppio ci fosse una pallottola. Nella stanza entrarono di corsa Arak, Sufa, i Black e quattro robusti cloni. «Va bene», disse Arak, leggermente ansante. «Andrà tutto bene, quindi rilassatevi.» Secondo il piano, Harvey spinse la porta e, quando questa si chiuse con un sonoro tonfo che Arak ignorò, rasentando le pareti raggiunse i compagni e si mise dietro Donald. «Come prima cosa», aggiunse Arak, «dovete capire che non potete fuggire. Non possiamo permetterlo.» «Le notizie viaggiano in fretta», commentò Donald. «Allora Suzanne vi ha già contattati.»
«Siamo stati informati dal consiglio degli Anziani, subito dopo che voi avevate richiesto la nostra presenza. Adesso che siamo qui, vi chiediamo di tornare ognuno al suo alloggio. Ripeto: non potete fuggire.» «Questo lo vedremo. Intanto, saremo noi a dare gli ordini.» «Questo è fuori questione.» Rivolgendosi ai cloni, Arak aggiunse: «Immobilizzateli senza far loro del male, per favore!» Obbedienti, i cloni avanzarono. Donald brandì la pistola e indietreggiò di qualche passo, imitato dagli altri cospiratori. «Non avvicinatevi di più!» ordinò. «Non credo sappiano che cos'è una pistola», gli fece notare Perry, nervoso. «Lo impareranno in fretta.» Mentre continuava a indietreggiare, Donald sollevò la Luger e la puntò al viso del clone che aveva di fronte. «Arak!» gridò Ismael. «Ha una pistola. Arak...» «Fermatevi, prego!» ordinò Donald. I cloni lo ignorarono, avendo già ricevuto un ordine da un interterrano, e continuarono ad avanzare verso gli umani di seconda generazione. Donald premette il grilletto della Luger, dalla quale scaturirono una vampata e un boato. La pallottola colpì il clone in fronte. Questi vacillò e cadde all'indietro, finendo lungo disteso sul pavimento. Dalla ferita, un liquido trasparente e viscoso si sparse sul marmo. Curiosamente, le gambe continuarono a muoversi, come se camminasse. Arak e Sufa furono scossi da un singulto. Gli altri cloni continuarono imperterriti ad avanzare. Donald mirò quello più vicino a Perry e fece di nuovo fuoco, colpendolo alla tempia. Quando il clone cadde, anche le sue gambe continuarono a muoversi. «Fermatevi, prego», ordinò Arak agli altri due cloni, pallido e con voce tremante, e loro obbedirono immediatamente. Intanto, i movimenti delle gambe dei due cloni colpiti rallentarono, poi cessarono. Adesso Donald reggeva la pistola con entrambe le mani. La puntò contro Arak. «Così va meglio», disse agli interterrani terrorizzati. «Tanto per capirci, voi siete i prossimi.» «Per favore, basta con la violenza!» gridò Sufa. «Saremo contenti di accontentarvi», rispose Donald senza abbassare la pistola. «Basta che facciate quello che diciamo noi, e tutto andrà bene. Arak, voglio che tu dia qualche ordine con il tuo telecomunicatore da polso, poi ce ne andremo di qua.»
Suzanne era impressionata dalla calma mostrata dagli anziani, nonostante la grave crisi. Lei, invece, diventava sempre più ansiosa; le notizie che arrivavano al consiglio informavano che i suoi compagni stavano riuscendo nell'impresa. Mentre il consiglio si era riunito, le era stato offerto del cibo, quindi era ritornata nella sala con le colonne. Come quella mattina, le avevano chiesto di mettersi al centro, ma questa volta le procurarono un sedile simile nello stile a quelli degli anziani, ma più piccolo. Dava la schiena alla porta di bronzo e davanti a sé aveva Ala. «Il problema sembra che stia peggiorando», esordì Ala, dopo essersi portata per un momento all'orecchio il telecomunicatore. La sua voce cristallina, acuta, non trasmetteva fretta né ansia. «Il gruppo dei fuggitivi, assieme a quattro ostaggi umani, si sta avvicinando a Barsama con il sommergibile. Arak aspetta i nostri ordini.» «Io non ho mai dovuto affrontare una situazione simile, in tutte le mie vite», osservò Ponu. «Quattro cloni sono stati prematuramente annullati. Questo è davvero inquietante.» «Potete fermarli, vero?» sbottò Suzanne. Cominciava a trovare snervante la flemma del consiglio. «E potete farlo senza far loro del male, vero?» Ala si protese verso di lei, ignorando le sue domande. «Questa è una cosa di cui dobbiamo essere assolutamente sicuri», le disse con calma. «Abbiamo visto che i tuoi colleghi non si fanno scrupoli nel danneggiare i nostri cloni. E gli umani? Sarebbero davvero capaci di far del male a un umano?» «Temo di sì. Sono disperati.» «È difficile credere che farebbero una cosa simile, dopo aver avuto l'opportunità di sperimentare la nostra civiltà», osservò Ponu. «Tutti gli altri visitatori si sono adattati al nostro stile di vita pacifico.» «Forse lo avrebbero fatto anche loro, se fosse trascorso più tempo. Ma a questo punto sono pericolosi per chiunque li voglia fermare.» «Non sono sicuro di crederlo», intervenne un altro anziano. «È una cosa contraria alla nostra esperienza, come ha già detto Ponu.» Suzanne provò una frustrazione che rasentava la rabbia. «Sono in grado di provare l'iniquità di cui sono capaci», sbottò. «Ne hanno lasciata ampia evidenza in due alloggi.» «E che cosa sarebbe?» domandò Ala, serena come se stessero parlando di giardinaggio.
«Hanno già causato la morte di due umani di prima generazione.» Queste parole sbalordirono il consiglio. Gli anziani rimasero a bocca aperta. «Ne sei sicura?» le domandò Ala. Per la prima volta la sua voce rivelava sofferenza. «Ne ho visti i corpi poche ore fa. Uno è stato percosso e l'altra è stata annegata.» «Temo che queste tragiche notizie pongano l'attuale situazione su un piano diverso.» Lo spero proprio, pensò Suzanne. «Dobbiamo sigillare immediatamente il condotto di Barsama», propose Ponu. Per la sala si diffuse un mormorio di approvazione. Ala parlò brevemente nel proprio comunicatore da polso. «Sarà fatto», annunciò. «Quanto tempo occorrerà per collegare il condotto al centro della terra?» domandò Ponu. «Qualche ora», rispose Ala. I due battenti della porta erano enormi, alti come due piani di un edificio e spessi tre metri. Cominciarono ad aprirsi verso l'interno su cardini silenziosi, seguendo le disposizioni impartite da Arak con il suo telecomunicatore. Era in contatto diretto con l'Informazione Centrale. Donald gli stava alle spalle, la pistola premuta nella schiena. Perry, Richard e Michael stavano da una parte e tenevano sotto controllo Sufa, Ismael e Mary. Michael indossava ancora l'armatura greca, che si rifiutava caparbiamente di abbandonare. Harvey si trovava nella parte destinata ai passeggeri del velivolo antigravitazionale, sul cui rimorchio era caricato l'Oceanus, e si teneva pronto a dirigersi nella stanza di decontaminazione oltre la gigantesca porta. «Ha un aspetto familiare», osservò Donald nello scorgere l'interno in acciaio inossidabile. «Mi ricorda la stanza dove ci hanno fatto fare il bagno, quando siamo arrivati in Interterra.» Ci fu un improvviso tremore, accompagnato da un boato, che durò quattro o cinque secondi e costrinse tutti a impegnarsi per non perdere l'equilibrio. «Che cosa diavolo è?» domandò Perry. Harvey cacciò fuori la testa dalla cabina e gridò: «Faremo meglio ad affrettarci. Credo che stiano aprendo un pozzo geotermico».
«E questo che conseguenza avrebbe?» domandò Donald. «Sigillerebbe il condotto di uscita.» «Forza, Arak!» ringhiò Donald. «Accelera questo processo.» «Non posso fare più di quanto sto già facendo», si lamentò Arak. «Inoltre, Harvey ha ragione, non ci sarà abbastanza tempo. Il portale sta per essere disattivato.» «Non rinunceremo, dopo essere arrivati fin qua», lo avvertì Donald. «Tra quindici minuti spareremo a Sufa, se non saremo fuori di qua.» Il terreno fu scosso da un'altra breve vibrazione, e questo significava che la mostruosa porta era del tutto spalancata. «Adesso sta a te», annunciò Arak e fece cenno a Harvey di portare dentro il rimorchio. «Quando si apre la porta interna, infilati nella camera di lancio e recupero. Quando questa viene inondata e si apre la porta di lancio, sarete liberi di salire su per il condotto.» «Non è così che succederà», lo avvertì Donald. «Verrete con noi. Tu e Sufa.» «No!» gridò Arak. «No, per favore! Non possiamo. Abbiamo fatto ciò che ci avete chiesto e non possiamo esporci all'atmosfera senza adattamento. Moriremo.» «Non ve lo chiedo. Ve lo ordino.» Arak fece per protestare, ma Donald lo colpì in pieno viso con il calcio della pistola. Urlando, Arak si portò le mani al viso. Attraverso le dita gli colò giù il sangue. Poi Donald lo spinse nella stanza in acciaio inossidabile. Nel frattempo, il velivolo antigravitazionale rispose ai comandi di Harvey e si infilò facilmente con il rimorchio nella camera di decontaminazione. «Venite!» Donald chiamò Perry e Richard. «Portate Sufa ma lasciate gli altri due.» Appena tutti furono all'interno, Donald allontanò Arak da Sufa, che cercava di confortarlo. L'interterrano aveva un occhio gonfio e violaceo. «Adesso fa' chiudere la porta esterna e aprire quella interna», gli ordinò Donald. Arak bofonchiò qualcosa nel telecomunicatore e gli enormi battenti cominciarono a chiudersi. Un altro rombo, che segnalava un secondo terremoto, riecheggiò per la stanza; durò leggermente più del primo. «Forza, Arak, più in fretta!» sbraitò Donald. «Ti ho detto che non posso», gridò Arak.
A quel punto, Donald si rivolse a Richard. «Vieni qui con uno dei tuoi coltelli e taglia un dito a Sufa.» «No, aspetta, farò quello che vuoi!» singhiozzò Arak. Parlò di nuovo nel telecomunicatore e la porta aumentò la velocità con cui si chiudeva. «Così va meglio», commentò Donald. «Molto meglio.» La stanza tremò per un attimo, quando i due battenti si incastrarono saldamente fra loro, sigillando il passaggio. Quasi simultaneamente, cominciarono ad aprirsi quelli della porta interna, che avevano le stesse dimensioni. A di là si intravide un'enorme caverna buia, simile a quella da cui erano passati gli umani di seconda generazione per arrivare in Interterra. Aveva lo stesso odore di salmastro, indubbiamente per essere stata riempita con l'acqua di mare, tanto tempo prima. Appena la porta interna fu completamente aperta, Harvey guidò il rimorchio oltre di essa. Gli altri gli corsero dietro, ma erano ostacolati dal fango. «Maledizione!» esclamò Perry. «Questo me l'ero scordato!» «Fa' chiudere la porta interna!» gridò Donald ad Arak, mentre raggiungevano il rimorchio, e la sua voce echeggiò per l'ampio spazio buio. Poi porse la pistola a Perry. «Abbiamo bisogno di luce. Entro nel sommergibile.» «Okay.» Perry fece scivolare il dito sul grilletto. Gli dava una strana sensazione. Non aveva mai impugnato un'arma da fuoco, figurarsi usarla! Mentre Donald si arrampicava su per i pioli esterni del sommergibile, ci fu un'altra scossa che lo costrinse a reggersi forte, per non essere sbalzato via. In lontananza, una specie di sfrigolio annunciò un getto di lava. «Cazzo!» esclamò Richard. «Siamo dentro a un fottuto vulcano!» Appena il tremore cessò, Donald finì di arrampicarsi e poi scomparve all'interno dell'Oceanus. Un attimo dopo si accesero le luci esterne. Appena in tempo: la porta interna stava per richiudersi completamente e a quel punto le uniche fonti di luce sarebbero state il sommergibile e, in lontananza, il getto di lava che aumentava a ogni secondo. Dal sommergibile spuntò la testa di Donald. «Forza, andiamo: il motore è acceso e il sistema di sopravvivenza è in funzione. Siamo pronti a concludere l'impresa.» Arak e Sufa ricevettero l'ordine di salire nel sommergibile; li seguirono Harvey, Perry e Michael, che dovette togliersi il pettorale per passare attraverso il boccaporto. Richard fu l'ultimo a salire a bordo e fece in tempo a vedere l'acqua che cominciava a riempire la caverna. Udì anche gli scoppiettii causati dal contatto fra l'acqua e la lava, che faceva scaturire il vapo-
re. Quando scese all'interno, Donald gli ordinò di mettersi a sedere: non aveva idea di quanto avrebbero ballato, a mano a mano che la caverna si riempiva d'acqua. Qualche minuto dopo, l'Oceanus veniva sballottato in qua e in là come un turacciolo in un rigagnolo e tutti dovettero tenersi forte. «Che cosa dovremmo fare a questo punto?» domandò Donald ad Arak. «Niente. L'acqua porterà l'imbarcazione fino in cima al condotto.» «Allora questo vuol dire che ce l'abbiamo fatta?» «Immagino di sì», rispose Arak, cupo, e tese la mano per prendere quella di Sufa. Ala abbassò il braccio, dopo aver tenuto l'orecchio premuto contro il telecomunicatore. Anche se era rimasta sconvolta all'annuncio dell'assassinio di Sart e di Mura, la sua espressione era ancora tranquilla. Con voce calma annunciò: «Il portale di Barsama non è stato sigillato in tempo. Il sommergibile ha lasciato la chiusa e ora è in mare aperto, diretto a ovest». «E gli ostaggi?» volle sapere Ponu. «Solo due sono a bordo. Arak e Sufa si trovano ancora con gli umani di seconda generazione. Ismael e Mary sono stati lasciati liberi e sono salvi.» «Scusate!» Suzanne cercò di attirare la sua attenzione. Ciò che aveva appena udito le sembrava impossibile. Con tutta la tecnologia che Interterra aveva a disposizione, i suoi ex colleghi a quanto pare ce l'avevano fatta ad andarsene! «Credo che adesso dovremo trattare direttamente con quella gente», aggiunse Ala. «Il rischio è troppo grande.» «Io penso che dovremmo mandarli indietro e farla finita con questo problema», propose una degli anziani che sedeva alla sinistra di Suzanne. Lei si voltò e guardò la donna: dimostrava venticinque anni. «Che cosa intendi per mandarli indietro?» le chiese, incredula. Se era possibile una tale soluzione, non c'era da meravigliarsi che nessuno degli anziani apparisse particolarmente sconvolto dagli avvenimenti. «Sono d'accordo: bisogna mandarli indietro», approvò un anziano che si trovava dall'altra parte della stanza, ignorando la domanda di Suzanne. Era un bambino di cinque o sei anni. «Il consenso è generale?» chiese Ala. Un mormorio di approvazione si sparse per la sala. «Allora faremo così: manderemo un clone con una piccola nave interga-
lattica.» «Digli di usare la minore potenza possibile sulla griglia», suggerì Ponu, mentre Ala parlava nel telecomunicatore. «Che episodio deprecabile!» commentò uno degli anziani. «È una tragedia, davvero.» «Non gli verrà fatto del male, vero?» chiese Suzanne. Si rifiutava di arrendersi e, finalmente, Ala le rispose. «Ti riferisci ai tuoi amici?» le domandò. «Sì!» Suzanne era irritata. «No, rimarranno solo molto sorpresi.» «Io penso che il sacrificio di Arak e Sufa debba essere pubblicamente riconosciuto». Aggiunse Ponu. «Con tutti gli onori», concordò il bambino che aveva parlato poco prima, e ci fu un generale brusio di assenso. «Non saranno mandati indietro anche Arak e Sufa?» chiese Suzanne. «Certo, saranno rimandati indietro tutti», disse Ala. Suzanne spostò lo sguardo da un anziano all'altro, completamente confusa. «Vedo la luce fuori dell'oblò», annunciò Perry, eccitatissimo. Erano diverse ore che navigavano, senza parlare e con il solo flebile chiarore della strumentazione. Erano tutti esausti. «Anch'io!» confermò Richard, che stava seduto dalla parte opposta. «Meno male che c'è la luce», borbottò Donald. «Secondo gli strumenti siamo a una profondità di trenta metri, ed è l'alba lassù in superficie.» «Mi sembra rassicurante», commentò Perry. «Quanto ci manca ancora, secondo te?» Donald guardò il display del sonar. «Stavo guardando le linee del fondo. Direi che fra un paio d'ore al massimo dovremmo arrivare in vista delle isole al largo di Boston.» «Benissimo!» gridarono simultaneamente Richard e Michael e si batterono reciprocamente i palmi delle mani nello stretto corridoio. «La batteria quanto durerà ancora?» domandò Perry. «Questo è l'unico problema», rispose Donald. «Sta per finire. Potremmo dover nuotare per gli ultimi cento metri.» «Per me va bene», dichiarò Harvey, «pur di arrivare a New York me la farei anche tutta a nuoto.» «E la mia armatura?» domandò Michael, preoccupandosi per il suo bot-
tino. «È un problema tuo, marinaio», rispose seccamente Donald. «Sei stato tu a insistere nel portartela dietro.» «Ti darò una mano io, se la dividerai con me», propose Richard. «'Fanculo!» fu la reazione di Michael. «Niente litigi!» si affrettò a intervenire Perry. Proseguirono per diversi minuti in silenzio, poi Arak domandò: «Avete ottenuto la libertà da Interterra. Perché ci avete portati con voi, sapendo ciò che ci succederà?» «Siete la nostra assicurazione», spiegò Donald. «Volevo essere sicuro che non ci sarebbero state interferenze da parte del vostro consiglio degli Anziani, una volta lasciata Barsama.» «E poi ci potreste essere utili se qualcuno sarà abbastanza stupido da dubitare della nostra storia», aggiunse Richard. Michael sbuffò. «Ma moriremo», osservò Arak. «Vi porteremo al Massachusetts General Hospital», lo informò Donald, poi gli rivolse un sorriso sardonico. «So che lì amano le sfide.» «Non servirà a niente», lo avvertì Arak, cupo. «La vostra medicina è troppo primitiva per essere d'aiuto.» «Be', è il massimo che possiamo fare.» Donald stava per aggiungere qualcosa, ma si fermò, impallidendo. «Che cosa c'è?» chiese subito Perry, che si era accorto della sua espressione. «C'è qualcosa di strano.» Donald tese la mano verso il display del sonar. «Che cosa?» «Guarda il sonar. È come se qualcosa ci stesse seguendo, e arriva molto rapidamente.» «Quanto rapidamente?» «Non può essere!» esclamò Donald, preoccupatissimo. «Gli strumenti mi dicono che sta andando a più di cento nodi sott'acqua!» Si girò di scatto a guardare Arak. «Se questa cosa è reale, che cos'è?» «Probabilmente una nave interplanetaria interterrana», rispose Arak, chinandosi in avanti per guardare il display. «Lo sanno che siete ancora a bordo, vero?» «Certo.» Donald si girò nuovamente verso la strumentazione. «La cosa non mi piace. Salgo in superficie.»
«Non penso che possiamo», gli fece notare Perry. «Fuori è ridiventato buio. Forse sta proprio sopra di noi.» Il sommergibile fu scosso da una vibrazione a bassa frequenza. «Arak, che diavolo stanno facendo?» «Non lo so. Forse ci stanno risucchiando nella loro camera di equilibrio.» «Harvey, hai qualche idea di ciò che sta succedendo?» «No, non ne ho la minima idea.» Come gli altri, il vecchio si reggeva forte ai braccioli del sedile, per non esserne sbalzato via. La vibrazione stava aumentando. Donald afferrò la Luger e la puntò contro Arak. «Contatta quei bastardi e fagli smettere qualsiasi cosa stanno facendo! Altrimenti, voi due apparterrete al passato.» «Guarda!» gridò Perry, indicando il display del sonar a scansione laterale. «Si vede la forma dell'imbarcazione. Sembra un piattino a due strati.» «Oh, no!» esclamò Arak nel guardare l'immagine. «Non è una nave interplanetaria! È un incrociatore intergalattico!» «Che differenza fa?» sbraitò Donald. La vibrazione era aumentata al punto da rendere veramente difficile rimanere ai propri posti. Il pesante scafo di acciaio del sommergibile scricchiolò e gemette, sottoposto a quello sforzo. «Ci stanno riportando indietro!» gridò Arak. «Sufa, ci stanno riportando indietro!» «È tutto quello che possono fare», singhiozzò lei. «È tutto quello che possono fare.» La vibrazione cessò talmente all'improvviso da provocare uno scossone e, prima che qualcuno potesse fare qualsiasi cosa, ci fu una tremenda accelerazione verso l'alto. Tutti gli occupanti dell'Oceanus si ritrovarono schiacciati contro i sedili con una tale forza che, per il momento, non riuscivano a muoversi e nemmeno a respirare, tanto da arrivare rapidamente a perdere quasi conoscenza. La forza inerziale era accompagnata da una strana luce che permeava l'interno del sommergibile. L'attimo dopo, tutto tornò alla normalità, tranne per una straorzata che faceva pensare alla presenza di un'onda improvvisa presa di prua. «Mio Dio!» gemette Donald. «Che cosa diavolo è successo?» Si mosse, ma sentì le membra pesanti e fiacche, come se l'aria fosse divenuta vischiosa. L'effetto durò solo fino a che fletté le articolazioni diverse volte, poi si sentì normale. Istintivamente, controllò gli strumenti e fu sorpreso
nel leggere dei valori normali. Ma poi, guardando il livello della batteria, vide costernato che il poco di carica rimasto era stato esaurito e stavano per rimanere completamente privi di energia. Poi notò un'altra cosa ancora più sorprendente: si trovavano solo in quindici metri d'acqua! Non c'era da stupirsi che erano stati sbatacchiati dalle onde. Controllò il display del sonar: l'imbarcazione interterrana, o qualunque cosa fosse, era scomparsa. Donald vide che il fondo dell'oceano saliva verso l'alto e sembrava che a circa settanta metri di distanza ci fosse la terraferma. Gli altri occupanti del sommergibile si stavano riprendendo, dopo le strane vicissitudini. «Mi chiedo se è questo che provano gli astronauti quando vengono sparati nello spazio», borbottò Perry. «Se è questo, a me non interessa andarci», ribatté Richard. «È una cosa simile, ma non proprio uguale», spiegò Arak. «Naturalmente, voi siete troppo primitivi per distinguere la differenza.» «Chiudi il becco, Arak, ne ho abbastanza di te!» berciò Donald. «Sì, davvero, ne hai avuto davvero abbastanza, e ti meriti il destino che ti aspetta», replicò l'interterrano. «Preparatevi all'emersione. Stiamo rimanendo senza energia!» annunciò Donald. «Oh, no!» gemette Perry. «Andrà tutto bene», assicurò Donald, mentre si preparava a usare i gas compressi per gonfiare la zavorra. «Abbiamo la terraferma proprio davanti a noi.» La spinta del sommergibile aumentò tantissimo mentre salivano e traversavano. Poiché c'era ancora un po' di energia, Donald cercò di ottenere il punto nave LORAN, ma non ci riuscì. Allora provò con il Geosat, ma anche quello non funzionava. «Non capisco», borbottò, grattandosi la testa. Non aveva senso. «Qualcuno salga in torretta, apra il boccaporto e guardi se riconosce dove ci troviamo. Dovremmo essere da qualche parte davanti a Boston Harbor.» «Vado io», si offrì Michael. «Questa zona è il mio vecchio territorio.» «Sta' attento all'azione delle onde.» «Come se non fossi stato abbastanza sulle navi», sbuffò Michael, e salì la scaletta a pioli. Intanto, Donald spense tutto quello che non era strettamente necessario, per conservare il minimo di carica rimasta nelle batterie. Ma fu inutile: e-
rano completamente scariche, e infatti un attimo dopo le luci si spensero e la forza propulsiva cessò. Udirono Michael sollevare il portello del boccaporto e la pallida luce mattutina penetrò nel sommergibile. Si sentirono addosso l'umidità dell'aria di mare, udirono le grida stridule ma gradite dei gabbiani. «Questa è musica per le mie orecchie», commentò Richard. «Siamo proprio davanti a una delle isole di Boston Harbor», annunciò Michael. «Non so quale.» In quel momento il sommergibile batté con uno scossone contro il fondo sabbioso e cominciò a voltarsi di lato. «Dobbiamo uscire di qua!» gridò Donald. «Sta per affondare!» Mentre gli umani di seconda generazione si allontanavano carponi dai sedili, Arak e Sufa sollevarono le mani e premettero amorevolmente i palmi fra loro. «Per Interterra!» esclamò Arak. «Per Interterra!» ripeté Sufa. «Venite, voi due!» li chiamò Donald. «Il sommergibile sta per capovolgersi, e colerà subito a picco.» I due umani di prima generazione lo ignorarono e continuarono a premere i palmi con espressione sognante. «Fate come vi pare!» borbottò lui. «Qualcuno mi porti su l'armatura!» gridò Michael dal boccaporto. Ci fu un frenetico arrampicarsi su per la scaletta, soprattutto dopo che un primo fiotto d'acqua si era riversato dentro. Tutti tranne Michael saltarono nelle onde e si diressero verso la riva poco distante. Michael cercò di ridiscendere la scaletta, ma cambiò idea quando l'imbarcazione si capovolse completamente e fu con qualche difficoltà che riuscì a non essere travolto e ad allontanarsi a nuoto. Harvey dovette essere aiutato, a causa delle onde un po' forti, ma tutti tranne Arak e Sufa riuscirono a raggiungere la spiaggia fortemente in pendenza, dove si lasciarono cadere sulla sabbia tiepida. Michael fu l'ultimo a uscire dalla risacca e Richard lo canzonò per l'armatura che era andata a fondo. Il tempo era splendido. Era una mite mattinata estiva con un po' di foschia. La tiepida luce del sole luccicava sulla superficie dell'acqua, dando un'idea della forza che avrebbe avuto a metà giornata. Dopo la fatica fatta per arrivare a terra, il gruppo era contento di riposarsi, inspirare l'aria fresca, osservare i voli dei gabbiani e lasciare che il sole asciugasse i sottili indumenti di satin che aderivano al corpo.
«Adesso mi spiace per Arak e Sufa», osservò Perry, con tristezza. L'Oceanus era riverso su un fianco ed era pieno d'acqua. Quando lo avevano abbandonato era già lontano dalla riva e ora l'azione delle onde lo stava spingendo al largo. «A me no», replicò Richard. «Sono contento di essermene sbarazzato.» «Peccato per il sommergibile, però», commentò Donald. «Non durerà a lungo così. Probabilmente finirà sul fondo della piattaforma continentale. Accidenti! Speravo di farlo arrivare fin dentro il porto di Boston.» Appena Donald ebbe finito di pronunciare queste parole, si sollevò una serie di ondate particolarmente alte. Quando si furono placate e la schiuma scomparve, il sommergibile era sparito. «Bello e andato», commentò Perry. «Quando si diffonderà la nostra storia, sono sicuro che ci saranno molte pressioni per recuperarlo», ipotizzò Michael. «Probabilmente finirà allo Smithsonian.» «Dove siamo?» domandò Harvey. Si drizzò su un gomito e si volse a guardare l'isola bassa e battuta dal vento. Sembrava avere soltanto sabbia, conchiglie ed erba. «Te lo abbiamo detto, è una delle tante isolette di Boston Harbor», gli rispose Donald. «Come facciamo ad arrivare in città?» si informò Perry. «Tra un paio d'ore, qua attorno sarà pieno di imbarcazioni da diporto», immaginò Michael. «Quando sentirà la nostra storia, la gente farà a pugni per avere l'onore di darci un passaggio.» «Non vedo l'ora di una bella cenetta in cui saprò che cosa sto mangiando. E un telefono! Voglio chiamare mia moglie e le mie figlie, e poi dormire per almeno quarantott'ore.» «Su questo concordo», approvò Donald. «Forza! Giriamo attorno al lato di sopravvento. Anche da lontano un'occhiata alla vecchia cara Boston mi farà bene.» «Sono d'accordo», disse Perry. Il gruppo si alzò in piedi, si stiracchiò e si avviò lungo la riva del mare, dove la sabbia era più compatta. Nonostante la stanchezza, si misero a cantare e perfino Donald si lasciò coinvolgere dall'allegria generale. Quando svoltarono oltre una punta che delimitava una piccola insenatura, si fermarono di botto e rimasero in silenzio. A non più di una sessantina di metri da loro c'era un vecchio dai capelli grigi che raccoglieva molluschi. Aveva tirato in secca una piccola imbarcazione la cui vela latina on-
deggiava alla brezza costante. «Non è una coincidenza fortunata?» osservò Perry. «Sento già il sapore del caffè e la freschezza delle lenzuola pulite», aggiunse Michael. «Forza, facciamo diventare questo vecchio un eroe. Probabilmente lo manderanno in onda sulla CNN.» Con un grido di gioia, il gruppo si mise a correre. Alla vista di quegli uomini urlanti che si dirigevano verso di lui attraverso le dune, il pescatore fu preso dal panico. Schizzò verso la barchetta, vi gettò dentro il secchio e cercò di fuggire. Richard fu il primo ad arrivare e corse nell'acqua che gli arrivava alla vita per afferrare l'arcaccia e rallentare la barca. «Ehi, vecchio, che fretta hai?» gli chiese. Il pescatore reagì allentando la vela. Con un remo cercò di allontanarlo, ma Richard afferrò il remo e lo gettò da parte. Gli altri corsero anche loro in acqua e circondarono la barca. «Non è un tipo molto amichevole», osservò Richard. Il pescatore se ne stava a metà della barchetta e li guardava torvo. Harvey ripescò il remo e glielo riportò. «Non c'è da stupirsi», commentò Perry. Rimirò se stesso e poi gli altri. «Guardatevi! Che cosa pensereste se quattro tizi in pigiama comparissero all'improvviso correndo nella nebbia del mattino?» Il gruppetto si lasciò andare a una serie di risate alimentate dalla stanchezza e dallo stress. Ci vollero diversi minuti prima che tutti riacquistassero il controllo. «Scusaci, vecchio», disse Perry, tra una risata e l'altra. «Perdona il nostro aspetto e il nostro comportamento, ma abbiamo passato una nottataccia.» «Troppo grog, immagino», commentò il pescatore. Questa risposta scatenò un'altra serie di risate, ma alla fine i cinque riuscirono a riprendersi e a convincere il vecchio che non erano pericolosi e che sarebbe stato generosamente ricompensato se li avesse condotti a Boston. A questo punto, salirono in barca con lui. Fu un viaggio piacevole, soprattutto se confrontato con le ore di tensione passate nello spazio claustrofobico del sommergibile. Tra il tepore del sole, il morbido sussurro del vento nella vela e il delicato rollio, tutti tranne il pescatore si erano addormentati prima che la piccola imbarcazione doppiasse l'isola. Grazie alla propria abilità, il pescatore sfruttò la brezza costante e im-
piegò poco tempo a condurre la barca in porto. Non sapendo dove i suoi passeggeri volessero sbarcare esattamente, diede uno scossone a chi gli stava più vicino. Era Perry, che reagì con un mugolio e faticò ad aprire gli occhi. Il vecchio gli pose la sua domanda. «Penso che non importi dove di preciso», rispose Perry. Con grande sforzo si tirò su a sedere. Aveva la bocca secca e stopposa. Sbattendo le palpebre sotto la luce del sole, si guardò attorno, poi si strofinò gli occhi e guardò ancora. «Dove diavolo siamo?» domandò. Era confuso. «Pensavo che fossimo a Boston.» «Questa è Boston», gli assicurò il pescatore. Puntando il dito a destra aggiunse: «Quella è la banchina principale». Perry si strofinò nuovamente gli occhi. Per un attimo si chiese se aveva un'allucinazione. La scena che aveva davanti a sé consisteva di navi a vele quadre, golette e barrocci trainati da cavalli che percorrevano una banchina di granito. Gli edifici più alti non superavano i quattro o cinque piani e avevano l'intelaiatura di legno. Cercando di scacciare un'ondata di incredulità che sconfinava nel terrore, Perry scosse Donald fino a svegliarlo, gridando che c'era qualcosa che non andava, qualcosa di terribile. La confusione svegliò anche gli altri che, quando si guardarono attorno, rimasero altrettanto sconvolti. Perry si voltò verso il pescatore, che stava ammainando la vela. «In che anno siamo?» gli domandò esitante. «Nell'anno del Signore 1791», rispose quello. Perry rimase a bocca aperta. Si voltò nuovamente a guardare i velieri. «Buon Dio! Ci hanno messi indietro nel tempo!» «E dai!» si lamentò Richard. «Dev'essere qualche specie di scherzo.» «Forse stanno girando un film», suggerì Michael. «Non credo», replicò Donald lentamente. «Ecco che cosa intendeva Arak dicendo che ci stavano portando indietro. Intendeva indietro nel tempo, non indietro in Interterra.» «Le navi intergalattiche devono basarsi su una tecnologia del tempo», provò a ipotizzare Perry. «Immagino che sia l'unico modo in cui è possibile il viaggio verso altre galassie.» «Mio Dio», mormorò Donald. «Siamo abbandonati completamente a noi stessi. Nessuno crederà alla nostra storia su Interterra, e non esiste la tecnologia per provarlo o per riportarci là.» Perry annuì, mentre guardava davanti a sé senza vedere. «La gente pen-
serà che siamo matti.» «E il sommergibile?» gridò Richard. «Torniamo indietro!» «A fare cosa? Non lo troveremo mai, figurarsi riuscire a recuperarlo!» gli fece notare Donald. «Allora non riuscirò a rivedere la mia famiglia», gemette Perry. «Abbiamo rinunciato al paradiso per l'America coloniale? Non posso crederci!» «Lo sapete? Finalmente ho capito da dove venite voi buontemponi», annunciò il pescatore mentre preparava i remi. «Davvero?» disse Perry, senza interesse. «Non ho dubbi. Dovete venire da quel college sul Fiume Charles. Voi di Harvard riuscite sempre a rendervi ridicoli.» Bibliografia BALLARD, ROBERT, Explorations: A Life of Underwater Adventure, New York, Hyperion 1995 ELLIS, RICHARD, Deep Atlantic: Life, Death and Exploration in the Abyss, New York, Knopf 1996. ELLIS, RICHARD, Imaging Atlantis, New York, Knopf 1998 (trad. it: Atlantide: l'ultima e più accurata sintesi sul mistero dell'isola scomparsa, Milano, Corbaccio 1999). KUNZIG, ROBERT, The Restless Sea, New York, Norton 1999 (trad. it.: Frontiera profonda, l'esplorazione del mondo sotto la superficie marina, Milano, Longanesi 2000). Un libro godibile che sottolinea l'importanza dell'oceanografia. VERNE, JULES, Voyage au Centre de la Terre, Parigi 1864 (trad. it.: Viaggio al centro della terra, Torino, Einaudi 1989). VERNE, JULES, Vingt Mille Lieues Sous les Mers, Parigi 1870 (trad. it.: Ventimila leghe sotto i mari, Milano, Mondadori 1993). FINE