arrigo petacco. FaccettaNera.txt Nei primi decenni del secolo scorso la parola "Abissinia" occupava un posto di rilievo nell'immaginario collettivo degli italiani. Bastava nominarla per evocare non solo luoghi esotici divenuti mitici grazie alle imprese militari in terra d'Africa compiute dal nostro paese in epoca postrisorgimentale, ma anche un confuso groviglio di sentimenti e di desideri inespressi: la voglia d'avventura, il fascino dell'ignoto, la ricerca dell'isola felice, a cui si accompagnavano il senso di frustrazione e la volontà di rivalsa per le sconfitte subite in Etiopia negli ultimi anni dell'Ottocento, con le quali si era posto un freno al sogno di un impero coloniale. In questo clima si gettarono le basi del progetto imperiale mussoliniano che culminò nella guerra d'Abissinia del 1935. Gli stati d'animo e le aspettative di quegli anni rispetto alla questione africana offrono ad Arrigo Petacco lo spunto per ripercorrere l'intero arco dell'avventura coloniale italiana, segnata da un alternarsi di trionfi e disfatte: dalla creazione della colonia Eritrea nel 1890 alla "vergogna di Adua" del 1896; dalle complesse vicende diplomatiche che precedettero l'invasione dell'Etiopia nel 1935 alle "inique sanzioni" inflitte all'Italia per volere soprattutto della Gran Bretagna; dall'avanzata di Badoglio verso Addis Abeba alla proclamazione, nel 1936, dell'impero riapparso "sui colli fatali di Roma" e alla sua repentina fine, nel 1941, con la resa agli inglesi dei nostri ultimi presidi sull'Amba Alagi e a Cheren. Intessendo il racconto di gustose notazioni sui costumi e le mode degli italiani del periodo, l'autore si sofferma in particolar modo sulla campagna d'Abissinia, la più popolare delle guerre fasciste: allora il consenso al regime raggiunse l'apice, e persino molti esponenti dell'antifascismo militante espressero la loro approvazione per quell'impresa d'oltremare con cui l'Italia riscattava il proprio orgoglio nazionale. La sua ricostruzione mette soprattutto in luce la stretta relazione esistente tra le ambizioni espansionistiche del nostro paese in Africa e il modificarsi, con la minacciosa entrata in scena della Germania di Hitler, dei delicati equilibri europei che si erano creati all'indomani della prima guerra mondiale. Differenziandosi da tanta parte della nostra storiografia che ha riservato a questa pagina di storia soltanto giudizi di condanna o di scherno, Arrigo Petacco propone la vicenda della fondazione dell'effimero impero coloniale di Mussolini in tutta la sua complessità e in un'ottica scevra di pregiudizi. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de "La Nazione" e di "Storia illustrata", ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, II comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, II Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista! e Il Cristo dell'Amiata. In sovraccoperta: Soldati italiani impegnati nella battaglia dell'Endertà, febbraio 1936 Foto Centro Documentazione Mondadori GRAPHIC DESIGNER: € 17,00
ANDREA
FALSETTI
Arrigo Petacco
FACCETTA NERA Storia della conquista dell'impero Pagina 1
arrigo petacco. FaccettaNera.txt
Ebook realizzato da filuc (2004)
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MONDADOBI
Dello stesso autore in edizione Mondadori Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale Dear Benito, caro Winston I ragazzi del '44 La regina del Sud Il Prefetto di ferro La principessa del Nord La Signora della Vandea La nostra guerra. 1940-1945 II comunista in camicia nera L'archivio segreto di Mussolini Regina II Superfascista L'armata scomparsa L'esodo L'anarchico che venne dall'America L'amante dell'imperatore Joe Petrosino L'armata nel deserto Ammazzate quel fascista! Il Cristo dell'Amiata
http://www.librimondadori.it ISBN 88-04-51803-0 (c) 2003 Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione ottobre 2003 III edizione novembre 2003 INDICE I
L'Abissinia era solo un quiz Pagina 2
arrigo petacco. FaccettaNera.txt II La sconfitta del "Napoleone d'Africa" III "Ho venduto il negro" IV La stagione degli inganni V Una guerra all'americana VI Il ruggito del topo VII L'incubo di una "nuova Adua" VIII "Armiamoci e partiamo" IX La conquista della Montagna d'oro X Da Mai Ceu a Addis Abeba XI L'impero riappare sui colli fatali XII Una canzonetta contestata XIII L'impero più breve XIV Si ammaina a Gondar l'ultimo tricolore Bibliografia Referenze fotografiche Indice dei nomi
FACCETTA NERA
A Livia I L'ABISSINIA ERA SOLO UN QUIZ Nell'estate del 1935, quando gli italiani si accingevano a conquistare l'Abissinia al canto di Faccetta nera, l'opinione pubblica mondiale, benché in gran parte schierata in favore del paese minacciato, di questo conosceva poco o nulla. Le uniche informazioni diffuse a livello popolare erano quelle che gli appassionati dei giochi enigmistici avevano avuto modo di ricavare dalla soluzione dei cruciverba. Infatti, proprio per le sue curiose particolarità, l'Abissinia rappresentava una fonte inesauribile di quiz per i compilatori di parole incrociate. Innanzitutto, poteva essere chiamata indifferentemente Etiopia o Abissinia; era poi l'unico regno africano indipendente, l'unico scampato alla colonizzazione europea, l'unico che aveva sconfitto sul campo un esercito "bianco" (quello italiano) e l'unico rappresentato con pieno diritto nella Lega delle Nazioni (ossia l'ONU di allora), a dispetto delle discriminazioni razziali esistenti all'epoca. E non è tutto. L'Abissinia possedeva altre singolari peculiarità: seppure collocata in un'area totalmente islamizzata, si era mantenuta cristiana e devota alla propria chiesa, la Chiesa copta, sviluppatasi autonomamente dai tempi del concilio di Calcedonia nel V secolo d.C. Inoltre era un "impero" governato da un piccolo sovrano nero di nome Hailè Selassiè, che esercitava il potere assoluto dal suo trono, detto del Leone di Giuda. Più che imperatore questo sovrano preferiva essere chiamato negus neghesti, ossia "re dei re", e vantava un'ascendenza da fare invidia a ogni altra dinastia regnante: il suo regno esisteva fin dai tempi biblici ed egli era il 220° discendente di Menelik I, figlio di re Salomone e della regina di Saba. Ma a parte tale scarna nozionistica di stampo enigmistico, su tutto ciò che riguardava l'Abissinia del 1935 dominava il buio più completo. Se ne ignorava l'ordinamento interno, il tenore di vita, i commerci, gli usi, i costumi e persino il numero degli abitanti. Tanto è vero che con l'aumentare della tensione fra Italia ed Etiopia divenne ben presto palese come l'ignoranza a proposito di questo misterioso paese da favola affliggesse anche la stampa meglio informata. "Pochi direttori di giornali" confesserà in seguito Evelyn Waugh, inviato di guerra del "Daily Mail" "erano in grado di trovare l'Abissinia sulla carta geografica o avevano una sia pur pallida idea della natura del paese. I pochi che si erano affrettati a consultare qualche vecchio e inaffidabile resoconto di antichi esploratori credevano che l'Abissinia si trovasse sotto il livello del mare e fosse un vasto bassopiano di rocce e di sale, privo d'acqua, immerso nella calura e scarsamente abitato da pazzoidi nudi con tendenze omicide. Altri invece immaginavano una specie di Tibet africano dove antichi palazzi inviolati svettavano sulle rupi. Il direttore di un grande Pagina 3
arrigo petacco. FaccettaNera.txt giornale inglese credeva addirittura che gli abissini parlassero il greco antico." I giornalisti cominciarono ad arrivare a Addis Abeba nel maggio del 1935, quando Mussolini aveva fatto chiaramente capire che non intendeva rinunciare alla conquista di quello che lui chiamava "un posto al sole". La capitale etiopica che li accolse - il cui nome in amarico significa "nuovo fiore" - era una cittadina inospitale, caotica, sporca, polverosa, piena di lebbrosi, di eunuchi, di schiavi e di sciarmutte. Vantava un piccolo palazzo reale, il ghebì, con un viale d'accesso fiancheggiato da due file di leoni, alcune chiese, una stazione ferroviaria, un ufficio postale, due cinema all'aperto, molti tabarin, una stazione radio, alcune villette che ospitavano le varie rappresentanze diplomatiche e una serie di baracche intonacate che costituivano il quartiere commerciale. Il resto era una distesa di capanne di fango, graticci di canne e lamiera ondulata. Addis Abeba contava forse 150.000 abitanti, anche se nessuno si era mai preoccupato di contarli. Una popolazione indolente e curiosa che viveva alla giornata ed era sempre pronta ad accorrere in massa al richiamo di una qualsiasi novità: un'impiccagione, l'amputazione di una mano o di un piede a un malfattore, o l'arrivo di qualche ras caracollante sul suo muletto e circondato da una scorta di armati che andava a rendere omaggio al negus. Non esistevano leggi certe, ma solo balzelli arbitrari ed era consentita una straordinaria libertà di impresa: chiunque poteva aprire a piacimento un negozio senza permesso o licenza, né l'obbligo di una tassa. La colonia straniera nella capitale era costituita da un incredibile miscuglio di nazionalità. Turchi, greci, ebrei, armeni, egiziani, arabi e neri americani convivevano tranquilli senza problemi razziali o religiosi. I pochi europei presenti erano i classici ammalati di "mal d'Africa", la gran parte dei quali, scoperto il fascino delle scioane e delle harariane, come era capitato a Rimbaud quando faceva il trafficante d'armi, avevano finito per sposarsi con qualche bella uizerò, le ragazze bene di Addis Abeba, imparentate con la famiglia imperiale. Costoro, chiamati ligg, godevano di particolari privilegi e spesso venivano insigniti delle più strane decorazioni: cavaliere della Stella d'Etiopia, cavaliere della Santa Trinità, cavaliere dell'Ordine della Spada, ottenendo anche importanti incarichi. Fu il caso dell'esule russo Mischa Babitcheff che diventò comandante dell'aeronautica etiopica durante la guerra contro l'Italia. Ligg o non ligg, gli europei si divertivano quanto potevano intrecciando e sciogliendo legami sentimentali, e a sera riempivano i tabarin sempre aperti e pullulanti di disponibili bellezze locali, le famose sciarmutte. Per i privilegiati c'erano i ricevimenti a corte dove si trincava in libertà davanti a immense tavolate gementi sotto il peso di appetitosi maialini di latte, facoceri, tacchini e quant'altro, il tutto condito con il piccante berbere che incendiava le viscere. Allora poteva capitare di veder finire sotto il tavolo il compassato console britannico o qualcuno dei tanti ufficiali belgi o scandinavi che il negus aveva reclutato per istruire le sue truppe. Andava peggio quando gli ospiti sbronzi tornavano a casa sulle gambe malferrne: a Addis Abeba i pozzi neri erano en plain air ai lati delle strade e cascarci dentro non doveva essere una cosa piacevole. Per arrivare nella capitale etiopica, dove erano stati richiamati dall'annuncio di una prossima guerra, i giornalisti avevano dovuto raggiungere via mare Gibuti, nella Somalia francese, e da lì viaggiare sul solo treno disponibile, composto di carrozze di legno con persiane ai finestrini per attenuare la calura, attraverso l'unica linea ferroviaria lunga quasi mille chilometri che collegava Addis Abeba alla costa. La città non era attrezzata per accoglierli e i nuovi arrivati furono costretti a sistemarsi alla meglio nel solo albergo esistente, l'Hotel Imperial, che, a detta di un corrispondente americano, sembrava "essere stato trasportato di peso dallo Yukon al tempo della febbre dell'oro". Disponeva infatti di una trentina di camere per cui, nei momenti di punta, ogni stanza era occupata contemporaneamente da tre o quattro clienti. Per essere accreditati presso il governo abissino non esistevano particolari formalità: bastava che i giornalisti depositassero una somma pari al prezzo del viaggio di ritorno, nel caso fossero "espulsi per cattiva condotta". Quando all'alba del 3 ottobre ebbe inizio il conflitto italo-etiopico, i corrispondenti autorizzati erano circa centocinquanta e rappresentavano i più importanti quotidiani del mondo. A questi si aggiungevano alcuni redattori della Tass, l'agenzia di stampa sovietica, i quali però, secondo l'uso comunista, non frequentavano i colleghi e vivevano appartati presso la loro ambasciata. I sopraggiunti non tardarono a rendersi conto di quanto fosse arduo svolgere il proprio lavoro. Era difficile raccogliere le notizie, ma ancor più lo era la trasmissione delle stesse alle rispettive redazioni. Non esistevano uffici Pagina 4
arrigo petacco. FaccettaNera.txt stampa, i rari comunicati ufficiali risultavano quasi sempre deludenti o esageratamente fantasiosi, mentre i costi telegrafici erano addirittura proibitivi (mezza sterlina per parola, la tariffa più alta del mondo). Poi c'era il problema della lingua, poiché nessuno conosceva l'amarico, nonché la proibizione di uscire da Addis Abeba. Il governo aveva imposto tale divieto affermando - certo con ragione - che non poteva rispondere della sicurezza personale dei giornalisti in quanto gli uomini delle tribù consideravano frengi, stranieri e quindi nemici, tutti i bianchi in circolazione. In quei primi giorni di guerra non se la passavano bene neanche i giornalisti stranieri accreditati presso il comando italiano di Asmara in Eritrea. La censura militare imposta dai generale De Bono era rigorosissima e cancellava spietatamente tutto ciò che valeva la pena di essere pubblicato. La situazione peggiorò con l'arrivo di Badoglio. Il nuovo comandante in capo si rivelò infatti ancora più drastico del suo predecessore e bloccò tutti gli inviati nella capitale eritrea per più di dieci settimane, ossia finché non fu in grado di scatenare l'offensiva. Questo embargo sulle informazioni ebbe conseguenze negative sull'immagine del nostro esercito. Il silenzio dei giornalisti di Asmara coincise infatti, curiosamente, con un'improvvisa piena di notizie proveniente da Addis Abeba che dilagò rapidamente sulla stampa internazionale. Così, mentre i corrispondenti da Asmara trascorrevano il tempo impegnati in frustranti partite di bridge, i loro colleghi nella capitale etiopica si consumavano le dita sulle portatili. Ma cos'era accaduto? A togliere i corrispondenti di Addis Abeba dall'impasse in cui sì erano venuti a trovare avevano provveduto gli "interpreti volontari". Avventurieri di ogni risma, venuti al corrente della sete di notizie che attanagliava il giornalismo estero, monetizzarono la loro conoscenza dell'inglese o del francese trasformandosi in venditori di "esclusive" e di scoop eccezionali. Com'è facile immaginare, si trattava di notizie inventate di sana pianta o di esagerazioni dettate più dall'entusiasmo patriottico che dal rispetto della verità. Ma poiché un reportage romanzesco è sempre più affascinante di un resoconto veritiero prosciugato dalla censura, i giornali occidentali attinsero largamente da queste corrispondenze fasulle contribuendo in tal modo a diffondere l'opinione che le forze armate italiane si trovassero in gravi difficoltà. Il business delle false notizie prosperò a Addis Abeba per rutta la durata della guerra e risolse più di una situazione economica. Fra gli informatori inattendibili, il più ricercato e il meglio pagato era senza dubbio Wazie Ali Bey, un furbo abissino che si arricchì prestando, naturalmente in "gran segreto", i suoi servigi personalizzati ai più importanti corrispondenti stranieri della capitale etiopica. Le sue esclusive, tutte inventate, ma ben confezionate e politicamente corrette nei riguardi del governo locale, trovarono ampi e accoglienti spazi soprattutto nei giornali stranieri che antipatizzavano con l'Italia fascista. Ma, a questo punto, sarà opportuno precisare che non tutta la stampa occidentale democratica era schierata contro l'invasione italiana dell'Abissinia. Se, per esempio, il "Times" britannico la criticava senza mezzi termini, la rivista americana "Time" manifestava apertamente le sue simpatie verso Mussolini. D'altro canto, va ricordato, o meglio sottolineato, perché sono ancora in molti a volerlo occultare, che a quell'epoca il Duce e il fascismo non erano affatto demonizzati. Al contrario, in molti ambienti il fascismo era considerato una teoria politico-filosofica di tutto rispetto e giudicato da molti l'unico antidoto efficace contro il dilagare del bolscevismo, ritenuto allora la principale minaccia per gli equilibri internazionali. Da parte sua, Mussolini godeva di una vasta popolarità e aveva numerosi ammiratori in tutto il mondo, fra i quali spiccava l'autorevole Winston Churchill. Anche a proposito dell'aggressione italiana all'Etiopia, che mise in subbuglio la Lega delle Nazioni, vi erano posizioni discordanti. Gli osservatori più obiettivi o realistici non trovavano infatti scandaloso che l'Italia, come tutte le altre potenze europee, si cercasse un "posto al sole" nel continente africano. A questo proposito non bisogna dimenticare che nel 1935 esistevano ancora, intatti e imponenti, vastissimi imperi coloniali europei formatisi nei secoli precedenti. Esisteva un impero inglese sul quale "non tramontava mai il sole". Esistevano imperi africani, asiatici e oceanici della Francia, del Belgio, dell'Olanda e del Portogallo. L'impero coloniale della Germania, un tempo rigoglioso, era invece scomparso circa quindici anni prima, dopo la fine della Grande guerra, quando i suoi resti erano stati inghiottiti da Francia e Inghilterra, le quali avevano lasciato all'Italia soltanto "poche briciole", come si lamenterà Mussolini. Sopravviveva insomma, moderna e vigorosa, "l'idea Pagina 5
arrigo petacco. FaccettaNera.txt imperiale" nonché il postulato della "civilizzazione bianca", concetti tipici di un'Europa che ancora si riteneva la dominatrice del mondo. Sarà opportuno tener presente tutto ciò prima di giudicare, secondo i criteri etici di oggi, questi avvenimenti accaduti in anni ormai lontani. Frattanto, l'infuriare delle informazioni fasulle provenienti dal versante abissino, così contrastanti con la realtà dei fatti, aveva finito per disorientare l'opinione pubblica internazionale. Chi stava vincendo, gli italiani o gli abissini? Si registrarono anche molti episodi curiosi o divertenti. I corrispondenti al seguito delle forze italiane, per esempio, incontrarono spesso difficoltà a far pubblicare i propri reportage, esatti ma succinti, perché i direttori diffidavano di quei resoconti ritenendoli influenzati dai nostri servizi segreti. Si dava invece grande risalto alle notizie particolareggiate dell'agenzia Wazie Alì Bey che favoleggiava di scontri e di battaglie in cui gli italiani continuavano ad avere la peggio. Il "New York Times" giunse persino a cestinare una corrispondenza da Asmara, nella quale Herbert Matthews pronosticava la prossima vittoria italiana, e preferì dare spazio a quella da Addis Abeba che sosteneva il contrario. Neppure l'esito favorevole agli italiani della battaglia decisiva dell'Endertà modificò la situazione. Il "Times" di Londra e il "New York Times" la definirono un piccolo combattimento senza importanza. E pubblicarono l'autorevole commento del massimo storico militare britannico, Sir Basil Liddell Hart, il quale sosteneva che "nulla autorizza a credere che si tratti di una vittoria decisiva". Pochi giorni dopo, però, gli italiani entravano trionfalmente in Addis Abeba. Il non aver creduto che gli italiani stessero vincendo provocò, come ovvia conseguenza, una frenetica ricerca di giustificazioni allorché divenne chiaro che stavano effettivamente vincendo. La più facile e la più sfruttata fu quella di sostenere che il nostro esercito aveva sconfitto gli etiopi usando i gas e bombardando indiscriminatamente gli ospedali, i centri della Croce Rossa e altri obiettivi civili. Naturalmente non vi è più alcun dubbio che in qualche occasione si ricorse a simili mezzi, ma le segnalazioni da parte abissina furono così confuse e le smentite italiane così veementi che ancora di recente la questione è stata al centro di aspre polemiche fra storici autorevoli. Per la verità, allora molti giornalisti stranieri testimoniarono di avere visto uomini e donne piagati dalle ustioni provocate dall'iprite, ma tali affermazioni non furono mai convalidate dalle indispensabili documentazioni fotografiche. D'altra parte, i fotoreporter inviati a seguire la guerra sul versante abissino erano privi di libertà di movimento e per questa ragione costretti a riprendere scene e pose strumentalmente ricostruite a loro uso e consumo. La mancanza di adeguate prove fotografiche consentì agli italiani di respingere ogni accusa. Un altro elemento a loro favore fu la scoperta che alcune delle rare foto di ustionati esibite quale testimonianza dagli abissini in realtà risultarono eseguite nei lebbrosari. In ogni caso, se è accertato che i gas furono impiegati, ciò accadde solo in situazioni particolari. Altrimenti non si spiegherebbe perche i nostri soldati non avessero in dotazione la maschera antigas, strumento indispensabile per non rimanere vittime del gas "amico". Pochi anni fa, nel corso di una rinnovata polemica fra Indro Montanelli, che per esperienza diretta negava l'uso dell'iprite, e lo storico Angelo Del Boca, che invece lo documentava, intervenne come "paciere" Sergio Romano, il quale sul "Corriere della Sera" citò un interessante rapporto da lui rintracciato negli archivi del Pentagono. Si trattava della relazione del capitano dei marines Pedro A. Del Valle che aveva seguito da osservatore l'esercito italiano in Abissinia. In essa, dopo avere significativamente sottolineato che la maschera antigas non era in dotazione dell'esercito italiano, il capitano riferiva che, secondo quanto confidatogli dal generale Frusci, "l'iprite era stata usata soltanto come rappresaglia per le atrocità commesse contro l'aviatore italiano Minniti". Basandosi su queste e altre testimonianze, il capitano dei marines era infine giunto alla conclusione che i gas erano stati effettivamente impiegati, ma solo occasionalmente, e che non avevano rappresentato un fattore decisivo nel corso della campagna. Lui stesso pare non aver dato troppa importanza alla questione, considerato che nel suo lungo rapporto i riferimenti all'uso dell'iprite occupano appena una dozzina di righe. Per quanto riguarda invece i bombardamenti degli ospedali e dei centri della Croce Rossa, è chiaro che in guerra capita spesso di colpire tali obiettivi; si tratta dunque di stabilire se ciò sia stato fatto di proposito o per errore. In Abissinia tale distinzione era resa ancor più complicata, poiché l'emblema della croce rossa era da secoli usato per indicare i bordelli; inoltre, quando gli abissini scoprirono che quel simbolo garantiva l'immunità dai bombardamenti, presero l'abitudine di inalberarlo sugli alloggi degli ufficiali e su edifici Pagina 6
arrigo petacco. FaccettaNera.txt dedicati a tutt'altro uso. Persino il figlio dell'imperatore Hailè Selassiè aveva sistemato quel vessillo protettivo sul tetto della propria casa. Da parte loro, le fonti ufficiali italiane, nel momento in cui venivano poste di fronte a testimonianze fotografiche indiscutibili, si giustificavano sostenendo che i nostri aviatori si ritenevano autorizzati a bombardare anche gli obiettivi con l'emblema della croce rossa, in quanto erano spesso bersaglio di sparatorie provenienti da tende o edifici contrassegnati con quel simbolo. Mentre, riguardo all'accusa di impiegare il gas, contrattaccavano accusando gli abissini di decapitare o di castrare i prigionieri e di usare le dilanianti pallottole esplosive dum-dum proibite dalle convenzioni internazionali. Per concludere: benché certamente esagerate, sia le versioni degli uni sia quelle degli altri contenevano un fondo di verità. Se per il resto del mondo l'Abissinia (nessuno ancora la chiamava Etiopia) era soltanto una curiosità enigmistica, per gli italiani dei primi decenni del secolo scorso aveva una collocazione di rilievo nell'immaginario collettivo. Tutti sapevano come e dove trovarla sulla carta geografica, e bastava nominarla per evocare nomi familiari di località mai viste di cui, nelle sere d'inverno davanti al focolare, un nonno o un vecchio zio, veterani della campagna d'Africa, avevano descritto le suggestive particolarità: Dogali, Adua, Macallè, Asmara... Nomi di luoghi fiabeschi, che maestri volenterosi sfidavano gli scolari a rintracciare in quella piccola macchia verde con cui si indicava la nostra colonia più vecchia e più amata, l'Eritrea, e che erano diventati persino nomi di battesimo imposti a figli o nipoti di ex combattenti. Anche negli adulti ogni accenno all'Abissinia evocava un confuso groviglio di sentimenti intrisi di malinconia e di desideri inespressi: la voglia d'avventura, il senso di frustrazione, il fascino dell'ignoto, la ricerca dell'isola felice. "Io ti saluto e vado in Abissinia..." era un modo scherzoso di prendere commiato che si riallacciava a un antico ritornello popolare tramandato oralmente dai tempi delle prime spedizioni postrisorgimentali nel continente nero. Fu appunto dopo l'Unità nazionale, quando le grandi potenze europee dietro il velo della missione civilizzatrice si erano già da tempo impadronite di sterminati possedimenti coloniali, che le nostre classi dirigenti scoprirono che pure l'Italia aveva degli "interessi africani". A dire il vero, a scoprirlo per primo non fu il governo, ma la compagnia di navigazione genovese Rabattino, per fini esclusivamente commerciali. Dopo l'apertura del canale di Suez, la compagnia aveva infatti urgente bisogno di uno scalo di ancoraggio e di "carbonamento" nel mar Rosso, diventato nel frattempo la più importante via marittima per i traffici con l'Oriente. L'incarico di acquistare un "qualsivoglia terreno, spiaggia, rada, porto o seno di mare idoneo a impiantarvi una stazione" venne affidato dalla Rubattino a Giuseppe Sapeto, un missionario ed esploratore savonese noto per avere guidato alcune spedizioni nell'Africa orientale. Egli, inizialmente, puntò su Aden ritenendola più adatta alla bisogna. Ma quando vi giunse, nel 1869, scoprì con sua sorpresa che gli "esploratori" inglesi e francesi erano arrivati prima di lui impadronendosi di gran parte della costa arabica per conto dei rispettivi governi. Sapeto comunque non si arrese. Trasferitosi sull'altra sponda del mar Rosso, dopo avere girovagato in lungo e in largo per la costa africana, fra deserti e villaggi dimenticati da Dio, scelse la baia di Assab, sulle assolate coste della Dancalia. Assab era allora un villaggio di poche capanne, abitato da poveri pescatori che facevano i pirati a tempo perso. Era privo di ogni risorsa, persino dell'acqua potabile, ma non c'era altro di meglio a disposizione. Sapeto ne trattò quindi l'acquisto con i capi locali e, dopo le consuete cerimonie levantine che durarono più giorni, si accordò sul prezzo versando in contanti 8100 talleri di Maria Teresa. Il tallero era una pesante moneta d'argento, coniata in Austria ma molto ricercata e diffusa in tutto il Levante, dove è stata usata per ogni tipo di transazione fino al 1945. Da "tallero" pare derivi il termine "dollaro". Per almeno un decennio, il governo italiano si disinteressò della stazione marittima di Assab. Infatti allora si riteneva che per l'Italia la zona naturale di espansione fosse l'Africa mediterranea e, in particolare, la Tunisia, in cui già vivevano migliaia di coloni italiani. E in tal senso si muoveva la nostra diplomazia. Ma quando, nel 1881, la Francia si impadronì proditoriamente di questo paese, essendo l'Egitto un protettorato britannico e la Libia una provincia dell'ancora temibile impero ottomano, Roma dovette malinconicamente rinunciare alle ambizioni mediterranee e rassegnarsi a prendere in considerazione il territorio acquistato da Sapeto. La baia di Assab fu quindi ricomprata per 416.000 lire: un ottimo affare per la Rubattino che continuò così a servirsene a spese dello Stato. Pagina 7
arrigo petacco. FaccettaNera.txt In quegli anni, a indirizzare le ambizioni italiane verso l'Africa orientale contribuirono fattori politici ed economici. In primo luogo, a spingerci in direzione del Corno d'Africa fu l'Inghilterra, la quale, per contrastare l'espansionismo francese, si proponeva di riequilibrarlo con quello italiano. Ma contribuì anche, e soprattutto, il desiderio del governo italiano e della Corona di aumentare il proprio prestigio collocandosi fra le potenze europee che già possedevano vasti imperi coloniali. D'altra parte, all'epoca godeva di molto credito la teoria dello "spazio vitale" e della "missione civilizzatrice" cui l'Europa si riteneva votata. Si dava insomma per scontato che fosse un sacrosanto diritto del vecchio continente conquistarsi dei territori in quella parte del mondo non ancora bonificata dalla "civiltà bianca". D'altronde, il verbo "colonizzare" non aveva ancora il significato negativo che assumerà in seguito. Colonizzare significava portare la civiltà, l'ordine, il benessere, e naturalmente anche la "buona novella" del cristianesimo, in paesi barbari popolati da selvaggi idolatri. I missionari e gli esploratori, consapevoli o no, fecero infatti da battistrada al colonialismo ottocentesco e la società gliene rese grande merito. Anche le truppe d'occupazione quando partivano per le imprese d'oltremare venivano osannate dalle folle, cantate dai poeti e benedette dai vescovi. Pochi, insomma, in quegli anni, intravedevano le speculazioni, le sopraffazioni e le ingiustizie che si nascondevano sotto il comodo mantello della missione civilizzatrice. Persino Giuseppe Mazzini era stato un convinto fautore della "missione di Roma" nella confusa e incivile Africa. Di conseguenza, mentre nazioni grandi e piccine partecipavano al ricco banchetto coloniale, sui nostri giornali gli opinionisti più acuti si domandavano sconsolati perché, "vedendo che tutte le potenze europee, anche secondarie, si appropriano di qualche grosso boccone africano senza rendere conto a nessuno del loro operato, l'Italia se ne sta sola con le mani in mano". Fu un altro esploratore a fornire all'Italia il pretesto per allargare convenientemente i confini della stazione marittima di Assab senza sborsare altri talleri. Si chiamava Gustavo Bianchi ed era stato incaricato dal governo di spingersi, con la scusa dell'esplorazione, a curiosare nell'interno del mitico impero biblico dell'Abissinia di cui molto si favoleggiava e poco si sapeva. Al ritorno dalla sua missione la carovana di Bianchi fu assalita dai predoni dancali mentre attraversava la regione del Tigrè . I portatori vennero trucidati, l'esploratore si salvò per miracolo e la notizia del massacro destò in Italia dolore, scalpore e desiderio di vendetta. Incitato dalla stampa, il governo decise alfine di reagire all'affronto e il 5 febbraio del 1885 un corpo di spedizione composto di 800 bersaglieri al comando del colonnello Tancredi Saletta sbarcò nel porto eritreo di Massaua senza nascondere le proprie intenzioni. Massaua, che diventerà la culla del colonialismo italiano, sorgeva sopra un'isola corallina del mar Rosso, in seguito collegata con la terraferma da una diga, ed era il posto più caldo del mondo. Popolata da 5000 abitanti, questa cittadina apparteneva all'Egitto, ma poiché quest'ultimo era controllato dall'Inghilterra (la quale si dimostrava favorevole alla nostra impresa), il governatore egiziano di Massaua fece rapidamente le valigie senza protestare. I nostri bersaglieri, seppure temprati dalle guerre risorgimentali, e soprattutto dalla lunga guerriglia contro i briganti del Sud, non erano tuttavia in grado di controllare quella vasta zona infestata di predoni. Ma Saletta era un piemontese fantasioso e non si perse d'animo. Andandosene in gran fretta, il governatore egiziano aveva abbandonato il suo piccolo esercito personale costituito da un migliaio di mercenari, detti bashi-buzuk, "zucche vuote", pronti a vendersi per pochi talleri a qualsiasi padrone. Il colonnello li assunse in blocco e li inquadrò in reggimenti, comandati da ufficiali italiani e chiamati ortù, suddivisi a loro volta in compagnie e buluk, plotoni, affidati al comando di subalterni indigeni, gli scium-basci (sergenti) e i buluk-basci (che corrispondono più o meno ai nostri caporali). Una gerarchia che rimarrà immutata nel tempo. In seguito, Saletta costituì anche un corpo di cavalleria, le "penne di falco", e di carabinieri indigeni, gli zaptiè. Con l'aiuto di queste forze ausiliarie particolarmente combattive debellò rapidamente i predoni dancali e conquistò l'intero entroterra di Massaua meritandosi, a fine carriera, una citazione nelle nostre enciclopedie quale fondatore dell'esercito coloniale italiano. L'Abissinia è una terra vasta sei volte l'Italia, arida e povera nel bassopiano, ma ricca di foreste e di verdi pianure sugli immensi altipiani che, ergendosi dalla bassura desertica e afosa di Massaua, superano spesso i 3000 metri di quota. Anche allora l'agricoltura era limitata alle aree più fertili, mentre nel resto dominava la pastorizia nomade. Non esistevano industrie di alcun genere e Pagina 8
arrigo petacco. FaccettaNera.txt il principale commercio, oltre quello del bestiame, era rappresentato dalla tratta degli schiavi legalizzata dal governo e controllata esclusivamente dai mercanti arabi. Quando gli italiani si stabilirono nella cittadina eritrea, a Addis Abeba regnava ancora il negus Giovanni il quale esercitava, per modo di dire, la sua autorità su uno stato di tipo feudale dominato da un gran numero di ras infidi che avevano il diritto di riscuotere i balzelli e arruolare un proprio esercito personale. Un'altra classe dominante era costituita dagli abuna, i sacerdoti copti (il cui patriarca risiedeva nella città santa di Axum), che esercitavano un forte potere spirituale. I frengi, i bianchi, erano ancora rari in Abissinia e costituivano un oggetto di curiosità. Si trattava di coraggiosi missionari, di sospetti esploratori e di avventurieri dediti alla tratta degli schiavi o al traffico delle armi. Fra questi ultimi figurava, come si è già detto, anche il "poeta maledetto" Arthur Rimbaud. Ammonito dall'Inghilterra, che lo riforniva dei preziosi fucili necessari a tenere a freno i suoi ras più irrequieti, e a difendersi dai dervisci sudanesi, il negus Giovanni non aveva protestato per l'arrivo degli italiani. Anche i ras si erano giocoforza adeguati, tranne uno, ras Alula, signore dell'Hamasen, che darà grandi fastidi ai frengi indesiderati. "Ulula Alula, come bestia immane" declamerà inorridito dalle stragi compiute da questo ras, un nostro infervorato poeta. Alula non rimase a lungo con le mani in mano: il 25 gennaio 1887 i suoi armati attaccarono il presidio italiano di Saati, ma furono duramente respinti. Preoccupato per l'accaduto, Saletta spedì sul luogo una carovana cammellata con circa 500 bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk, comandati dal tenente colonnello Tommaso De Cristoforis. A mezza strada, presso una località che sarà poi chiamata Dogali, comparvero improvvisamente gli uomini di Alula. Erano circa 8000 e attaccarono la colonna dopo averla circondata. Quello che accadde dopo venne raccontato dal tenente Carlo Savoiroux, uno dei pochi sopravvissuti all'eccidio: Gli abissini erano tutti stesi bocconi ad attendere pazientemente che i colpi di moschetto fossero meno frequenti per correre all'assalto. Infatti dopo oltre due ore di fuoco continuato, i colpi diminuirono. Ras Alula diede allora il segnale dell'attacco facendo rullare i tamburi e tutta l'armata abissina volò all'assalto. Si sentì un clamore, un vociare, un urlo, un rumore spaventoso provocato dalle grida degli attaccanti, dallo sparare dei moschetti e dall'urrà dei nostri bravi soldati. Poi, a poco a poco il rumore si fece meno assordante e poi debole e poi cessò affatto. Cademmo tutti: 540 di noi ed alcuni bashi-buzuc. Gli altri credo se la svignassero. Il dispaccio in cifra che comunicava la notizia del massacro giunse a Roma ventiquattro ore più tardi e provocò grande turbamento. Il capo del governo in carica, Agostino Depretis, fu sopraffatto dall'emozione. Appena pochi giorni prima, in risposta all'interroga-zione di un deputato che temeva una possibile reazione abissina, aveva dichiarato che non era il caso di drammatizzare per "i quattro predoni che avessimo potuto [sic] trovarci fra i piedi". Affranto per la tragica notizia, dopo avere rintuzzato alla meglio le proteste della piccola pattuglia socialista guidata da Andrea Costa, che aveva addirittura paragonato l'episodio africano alle sconfitte di Lissa e di Custoza, Depretis, rientrato nel suo studio, ordinò che gli portassero una carta dell'Abissinia: "Vorrei" disse "almeno vedere dove si trova quel posto maledetto". Ferdinando Martini assistette alla scena, e nel suo diario racconta che i collaboratori del primo ministro "si affannarono invano nel tentativo di individuare la località maledetta: in Eritrea, infatti, non esisteva alcun luogo chiamato così prima che l'onorevole Cappelli gli imponesse quel nome.,.". Raffaele Cappelli era il segretario generale del ministero degli Esteri e a lui era spettato il compito di decifrare il dispaccio proveniente da Massaua. Scrive Martini: Tutto v'era chiaro tranne la indicazione del luogo dove lo sterminio avvenne. La gravità dell'evento non tollerava annunzi indugiati; d'altra parte, il nome del luogo non aveva essenziale importanza: se incorresse errore c'era tempo a correggere. Parve però a Cappelli che dalle lettere denotate dalle cifre un nome potesse comunque comporsi: Dogali, e Dogali scrisse; e con quel nome la infausta collina fu consegnata alla storia. Dopo l'episodio di Dogali seguirono due anni di relativa tranquillità. A Massaua si era stabilito con poteri militari e civili il generale Antonio Baldissera, padovano di nascita ed ex ufficiale dell'esercito austriaco con alle spalle una storia romanzesca. Trovatello, raccolto per strada dal vescovo di Udine, il piccolo Antonio fu da questi affidato all'imperatrice Marianna d'Austria, la quale lo avviò alla carriera militare nell'esercito austriaco, dove raggiunse il grado di generale. Integrato con il medesimo grado nel Regio esercito italiano Pagina 9
arrigo petacco. FaccettaNera.txt dopo l'Unità nazionale, Baldissera, fiero del suo passato militare, continuava a portare orgogliosamente appuntate sul petto le decorazioni che si era guadagnato combattendo nel '59 contro di noi e nel '66 contro i prussiani. Ufficiale intelligente, ottimo organizzatore e popolarissimo ("O Baldissera," canteranno in Italia, dopo la sua partenza per l'Africa "non ti fidar di quella gente nera..."), il nuovo arrivato perfezionò il lavoro iniziato da Saletta trasformando gli indisciplinati bashi-buzuk in soldati obbedienti e combattivi, che volle ribattezzare "ascari" (ascari in arabo significa "guerriero"). Le nuove reclute professavano le religioni più diverse: c'erano copti, musulmani, animisti e persino dei Niam Niam dediti all'antropofagia... Ma lui, infischiandosene della loro fede ("credano pure a ciò che vogliono" era solito dire "purché obbediscano e combattano"), scelse i migliori selezionandoli fra le razze più guerriere. L'arruolamento era volontario e i limiti di età variavano dai 16 ai 24 anni. Per essere dichiarati "abili" era sufficiente una sola prova: una marcia senza soste di 60 chilometri seguita da una visita medica. L'unico privilegio consentito agli ascari (che sarà rispettato anche negli anni futuri) era di portarsi appresso le loro donne, che, con figli e masserizie, seguivano le truppe su carri e carretti, persino in battaglia. L'"austriaco", come veniva chiamato Baldissera, trasformò quell'accozzaglia di mercenari in soldati straordinari il cui unico difetto, come osserva Domenico Quirico nel suo libro Squadrone bianco, "era costituito dall'eccessivo ardore nel lanciarsi avanti". Diede loro una bandiera, ne alimentò lo spirito di corpo e il senso dell'onore, scegliendo per loro anche una splendida uniforme di cui andranno molto fieri. Salvo i piedi nudi di prammatica, gli ascari indossavano una elegante divisa bianca stretta attorno alla vita da una fascia di lana il cui colore (rosso, nero, azzurro e cremisi), identico a quello del tarbusc, il fez, indicava l'appartenenza a ciascuno dei quattro reggimenti nel quale erano stati inquadrati. I graduati, contraddistinti da lucenti galloni dorati, avevano diritto al saluto militare da parte dei loro inferiori indigeni, ma non dei soldati nazionali che ne erano esentati. Approfittando della morte del negus Giovanni, caduto in battaglia contro i dervisci sudanesi (la sua testa fu gettata ai piedi del califfo di Ondurman), Baldissera allargò i confini della colonia impiegando esclusivamente truppe indigene e sfruttando la rivalità dei vari ras che si contendevano la successione al trono. Il 3 agosto 1889, sconfitto Alula, occupò Asmara e insediò il proprio governo militare nel palazzo abbandonato dal ras fuggiasco. Nel frattempo, non senza difficoltà e non senza l'aiuto italiano, il ras dello Scioa riuscì a salire sul trono del Leone di Giuda, rimasto vacante dopo la morte del negus Giovanni. Il nuovo sovrano, subito riconosciuto da Roma, assunse il nome di Menelik II e in seguito firmò a Uccialli un trattato d'amicizia con l'Italia, che si impegnava ad appoggiarlo contro gli altri ras e contro i dervisci. Il 1° gennaio 1890 il nuovo capo del governo italiano, Francesco Crispi, annunciò orgogliosamente in Parlamento la nascita della colonia Eritrea con capitale Asmara. Pochi giorni prima, i nostri soldati erano sbarcati anche nella Costa dei Somali, dove già erano presenti inglesi e francesi, e si erano impadroniti del sultanato della Migiurtinia. Ora l'Abissinia era stretta fra le ganasce delle nuove conquiste territoriali italiane: la colonia Eritrea a nord e la Migiurtinia a sud. II LA SCONFITTA DEL "NAPOLEONE D'AFRICA" Soddisfatto della situazione che si era venuta a creare, il generale Baldissera riteneva che fosse necessario un periodo di calma per procedere all'organizzazione della colonia. Ma così non la pensava Francesco Crispi. Il nuovo capo del governo, tramutatosi rapidamente da ex garibaldino repubblicano in un fervente monarchico nazionalista, era infatti desideroso di trasformare al più presto l'Italia in una grande potenza coloniale e premeva sul governatore dell'Eritrea perché ne dilatasse i confini ignorando gli accordi stabiliti a Uccialli. Fra i due uomini il rapporto non tardò a deteriorarsi e, naturalmente, fu Crispi a spuntarla: Baldissera, considerato troppo prudente, fu silurato, richiamato in patria e sostituito per breve tempo dal generale Orero e poi dal generale Oreste Baratieri. Il nuovo governatore della colonia, anche lui ex ufficiale garibaldino, nonché amico personale di Crispi, era un militare ambizioso e spregiudicato che subito si affrettò ad assecondare le ambizioni espansionistiche del presidente del Consiglio. Il primo screzio fra Roma e Addis Abeba si registrò con la controversia sull'interpretazione dell'articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l'articolo stabiliva che il negus "può farsi rappresentare in Pagina 10
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Europa dall'Italia", secondo Crispi che il negus "deve e consente di farsi rappresentare...", il che significava capovolgere il significato e trasformare l'Abissinia in un protettorato italiano. Ferito nel suo orgoglio, Menelik scrisse personalmente una lettera al "fratello cristiano Umberto I" affinché fosse riconosciuta l'indipendenza del suo regno, ma l'altro, offeso per essere stato chiamato "fratello" da un barbaro, neppure gli rispose. I venti di guerra ricominciarono così a soffiare sull'altopiano etiopico. La stampa italiana condannava "il voltafaccia del ras dello Scioa", retrocedendo in tal modo il negus neghesti a un qualsiasi irrequieto capotribù, mentre una diffusa canzonetta popolare lo minacciava apertamente: "O Menelicche, le palle son di piombo e non pasticche!". Baratieri non rimase a lungo con le mani in mano. Nel luglio del 1894, con un'operazione audace e brillante, raggiunse e conquistò Cassala, piazzaforte dei dervisci nel Sudan. Ma Menelik ebbe appena il tempo di gioire per la sconfitta subita dai secolari nemici dell'Abissinia, perché pochi mesi dopo il generale italiano mosse guerra anche contro Mangascià, il ras del Tigrè, colpevole di avere aiutato alcune tribù che si erano ribellate agli italiani. Sbaragliata l'armata tigrina, il 28 dicembre dello stesso anno Baratieri conquistò Adua e stabilì il suo comando proprio nella residenza abituale di Mangascià. Al ras sconfitto non rimase che chiedere aiuto a Menelik il quale, temendo la superiorità militare degli italiani, cercò di risolvere la vertenza senza ricorrere alle armi e inviò una garbata lettera a entrambi i contendenti. All'appello di Mangascià rispose: "Non si può dire che gli italiani abbiano torto, perché fosti tu ad attaccarli. Come mai hai fatto una cosa simile? Sono comunque contento che Dio ti abbia salvato". A Baratieri, che sosteneva di avere agito perché costretto da Mangascià, rispose: "Tu non ignori che io amo rimanere in pace con i miei vicini, eppure fosti tu il primo a invadere le terre altrui. Non fu questa una mancanza? Ora ho scritto ai miei capi del Tigrè che l'inconveniente non si ripeta. Ho scritto anche a re Umberto affinché lui faccia intendere ragione ai suoi capi di Roma e di Massaua. Spero di non incontrare difficoltà per sedare questa questione sorta per malintesi". Ma i "capi di Roma" non intendevano ragione. Crispi, esultante per i successi ottenuti, incitò Baratieri a conquistare l'intero Tigrè e poi, a operazione conclusa, invitò a Roma il generale vittorioso, che fu accolto come un trionfatore e salutato addirittura come il "Napoleone d'Africa". Giacché le sue proposte pacifiche erano rimaste inascoltate, Menelik aveva nel frattempo ordinato la mobilitazione generale. "Ascoltate! Ascoltate!" gridavano di villaggio in villaggio i banditori accompagnati dal cupo rullo dei negarit, i tamburi di guerra. "Che divenga sordo chi è nemico di Menelik e della Vergine Maria! È arrivato un nemico che rovina il paese, che muta la religione, che ha passato il mare datoci da Dio come frontiera. I guerrieri preparino i viveri, nessuno rimanga a casa, perché tutti devono prendere parte alla difesa della nostra terra." Mentre le forze abissine si andavano radunando attorno a ras Maconnen, comandante dell'armata imperiale, Baratieri ordinò al generale Giuseppe Arimondi di attestarsi a Macallè, piccolo centro tigrino situato a oltre 2000 metri di quota, dove ebbero subito inizio i lavori per la costruzione di un forte sulla cima dell'Enda Jesus. Sistemate le difese, una colonna di 1600 soldati, in gran parte ascari, comandata dal maggiore Pietro Toselli, fu inviata in perlustrazione fino al lago Ascianghi dove venne avvistata l'avanguardia nemica: circa 30.000 uomini guidati dallo stesso Maconnen, cui si erano prontamente aggregati i guerrieri di Mangascià e del redivivo Alula. Obbedendo agli ordini di Arimondi, Toselli, un piemontese coraggioso e idolatrato dai suoi ascari, si schierò sulle pendici dell'altopiano dell'Amba Alagi, a oltre 3000 metri di quota. Il rapporto di forze era insostenibile, ma Baratieri era ottimista in quanto riteneva che i ras fossero in disaccordo fra loro e che quindi si potesse ancora disgregarli distribuendo come al solito armi e talleri d'argento. Invece, questa volta, il fronte abissino si rivelò compatto e quando Baratieri se ne rese conto era ormai tardi: i suoi messaggeri inviati pancia a terra con l'ordine di ripiegare su Macallè furono intercettati e uccisi dalla cavalleria abissina e Toselli, ignaro del pericolo che incombeva sul suo presidio, rimase fermo sulla pericolante posizione, in attesa degli eventi. Il 5 dicembre 1895 era domenica e gli abissini, da buoni cristiani, erano soliti rispettarne la festività. Ma non ras Alula il quale, bramoso di vendetta, scatenò di sua iniziativa la battaglia, che rapidamente dilagò sull'intero fronte. Come al solito, gli assalitori non avevano un piano preordinato: attaccarono il presidio italiano comportandosi alla stregua di un'impetuosa fiumana che travolge ogni ostacolo. Circondati e fatti segno di ripetuti Pagina 11
arrigo petacco. FaccettaNera.txt attacchi all'arma bianca (gli abissini erano armati di lance e zagaglie, ma anche di moderni fucili Remington), Toselli e i suoi ascari resistettero coraggiosamente all'urto per qualche ora. Disponevano di alcuni pezzi d'artiglieria da montagna e anche delle micidiali mitragliatrici Gatling (sparavano 400 colpi al minuto, ma la rapidità dipendeva da chi azionava la manovella), che provocarono enormi vuoti fra gli attaccanti. Ma la potenza di fuoco non fu sufficiente a fermare l'orda urlante degli assalitori. All'una del pomeriggio, mentre la mischia ancora infuriava, l'eroico maggiore, disperato, ferito, reso afono dal troppo gridare, annunciò al suo aiutante: "Non ne posso più. Ora mi volto e lascio che facciano". Si voltò, infatti, e scomparve nel caos della battaglia. Quando ritrovarono il suo corpo denudato e castrato, com'erano soliti fare gli abissini, ras Maconnen ordinò cavallerescamente che fosse seppellito con gli onori militari nella vicina chiesa di Beil Mariam. Sull'Amba Alagi perdemmo 20 soldati nazionali e 1500 ascari, ma anche qualcosa di più importante: perdemmo il timore reverenziale che Menelik nutriva per le armi italiane. Dopo la vittoria dell'Amba Alagi il negus cominciò a pensare che i frengi non fossero invincibili e che si potesse ancora ributtarli in mare. Ordinò infatti alle sue truppe di proseguire in direzione di Macallè e di Adua. Giunto troppo tardi per soccorrere Toselli, il generale Arimondi, incalzato dalle truppe di Maconnen, sgomberò Macallè dopo avere lasciato una piccola guarnigione nel piccolo forte ancora incompiuto. Il presidio, composto di 170 italiani e di 1150 ascari, era comandato dal maggiore Giuseppe Galliano, un altro piemontese di Mondovì (a quell'epoca gli ufficiali superiori provenivano quasi tutti dall'esercito sardo), intelligente e coraggioso, che si era già guadagnato in Abissinia una medaglia d'oro e un'altra d'argento. Gli italiani erano bene armati, disponevano anche di quattro pezzi di artiglieria da montagna e di viveri per quattro mesi. Ma il forte, benché godesse di un'ottima posizione da cui si dominava la conca sottostante, era appena abbozzato. Consisteva infatti in un muraglione di cinta tirato su a secco che attorniava due settori rialzati e sovrapposti in cui erano sistemati i magazzini, le tende dei soldati e i tukul dove si ammassavano, coi loro bambini, le donne degli ascari. Il problema più grave era tuttavia rappresentato dalla mancanza dell'acqua. Non si era fatto in tempo a costruire dei pozzi e bisognava rifornirsi da due sorgenti situate all'esterno della cinta fortificata a una distanza di circa 400 metri. Il generale Baratieri criticò aspramente Arimondi perché non aveva abbandonato anche quel forte al nemico. Lui, infatti, sgomberò forse troppo in fretta persino Adua, la più fulgida delle sue conquiste, per concentrare tutte le proprie truppe a Adigrat, cento chilometri di pietraie, di burroni e di altipiani a nord di Macallè. L'assedio del forte di Macallè iniziò con un garbato scambio di lettere. "Come stai?" scrisse ras Maconnen al maggiore Giuseppe Galliano, comandante del forte. "Io sto bene grazie a Dio. I tuoi soldati stanno bene? I miei stanno bene. A nome del mio Imperatore ti prego di andartene, altrimenti mi costringi a fare la guerra. Sarei dolente di dovere spargere sangue cristiano. Ti prego quindi di andartene con i tuoi soldati. Tuo amico Maconnen." "Come stai?" rispose Galliano al ras. "Io sto bene grazie a Dio e i miei soldati stanno benissimo. Il mio Re ha ordinato che io stia qui e io non mi muoverò. Fa' pure quello che credi, ma ti avverto che qui con me ho degli ottimi fucili e dei buonissimi cannoni. Tuo amico Galliano." Maconnen comparve davanti al forte il 9 dicembre, ma dimostrò di non avere fretta. A fermarlo non era la paura dei buonissimi cannoni vantati da Galliano (lui ne disponeva di altrettanti con una gittata superiore a quelli italiani), bensì la necessità di colmare le perdite subite dalla sua armata nella battaglia dell'Amba Alagi. Trascorsero così alcune settimane di relativa tranquillità. Maconnen aveva interamente circondato il forte e ordinato ai suoi uomini di tagliare le linee del collegamento telegrafico con Adigrat, ma Galliano riuscì ugualmente a mantenersi in contatto con il comando, quando era possibile con il telegrafo ottico, ma soprattutto mediante l'impiego di spericolati messaggeri. Una volta schierate le truppe, ebbe inizio lo scambio di messaggi di cui si è detto. Gli inviti alla resa di Maconnen erano riguardosi, ma implacabili. Le risposte di Galliano cortesi, ma ferme. Con i messaggi viaggiavano anche gli uomini. Il tenente Umberto Partini, inviato al campo di Maconnen come parlamentare, rientrò ammirato dalle maniere aristocratiche del ras. Anche il capitano medico Alfonso Riguzzi, invitato nel campo abissino da Maconnen per curare il ras Mangascià, caduto da cavallo, fu accolto signorilmente. Grato per le cure ricevute, quest'ultimo gli confidò: "Odiavo gli italiani e mi sono arrabbiato quando hanno preso vivo il tenente Scala. Ma ora ho cambiato idea e ti sarò sempre riconoscente". Poi gli concesse di pranzare con il suddetto Pagina 12
arrigo petacco. FaccettaNera.txt tenente, uno dei pochi superstiti della battaglia dell'Amba Alagi. "Questi ras non sono barbari" riferirà Riguzzi a Galliano. "Sono cortesi, ospitali e scaltri. Fanno domande imbarazzanti e danno risposte finissime." Frattanto, la tattica del rinvio sembrava favorire gli assediati. In Italia i resoconti dell'assedio di Macallè, eroicizzato a dismisura dalla stampa, appassionavano i lettori come un romanzo d'appendice, mentre da Napoli erano cominciati a partire i rinforzi per dare "una lezione a quei musi neri". Ma occorrevano cinquanta giorni di navigazione per raggiungere la meta e, nel frattempo, il 6 gennaio 1896, l'armata di Maconnen fu raggiunta dalla guardia imperiale. Ora la tenda rossa di Menelik troneggiava al centro di una marea di tende, di uomini e di animali che si perdeva a vista d'occhio. Dentro al forte cominciavano a preoccuparsi. "Questa attesa," scriveva un ufficiale nel suo diario "questa sospensiva fra la vita e la morte comincia a diventare molesta. Nel campo nemico vediamo gente andare tranquilla, provvedersi, mangiare. Se i nemici avessero notizia dell'arrivo delle nostre truppe non mostrerebbero tanta quiete." Il primo vero attacco iniziò la notte del 7 gennaio e continuò per tutto il giorno seguente. Gli abissini giunsero fin sotto le mura, che cercarono di superare usando rozze scale di legno come per gli assalti ai castelli medievali. Furono respinti con gravi perdite, ma riuscirono purtroppo a impadronirsi dei due preziosi pozzi. Il 9, Menelik chiese una tregua per seppellire i suoi morti, Galliano pose come condizione la restituzione dei due pozzi, ma il negus respinse la proposta. Centinaia di cadaveri rimasero così a imputridire sotto il sole, mentre all'interno del forte l'acqua cominciava a diventare preziosa. Intanto, la notizia di questa prima vittoria degli assediati giunse a Roma e re Umberto, motu proprio, promosse Galliano tenente colonnello per meriti di guerra. Curiosamente, il neopromosso ne fu informato da Maconnen il quale, catturato il messaggero che recava il dispaccio, Io fece gentilmente pervenire a Galliano unito alle sue personali congratulazioni. Più che gli assalti degli abissini, era la mancanza di acqua a rendere difficile la situazione degli assediati. Galliano non disponeva di forze sufficienti per tentare la riconquista delle sorgenti e fu necessario razionare le riserve: un litro al giorno per ogni sette soldati. Gli ascari bevevano l'acqua putrida riservata al bestiame, mentre il tenente medico Mozzetti, dopo avere inutilmente tentato di raccogliere la brina notturna, ora cercava di rendere bevibili degli intrugli ricavati dalle urine e dal sangue dei muli. Scriveva Galliano nel suo diario: "Sono tredici giorni che avverto il comando che mi fu tolta l'acqua senza speranza di riprenderla. Non vedo comparire nessuno. Chissà quale fatalità impedisce al Baratieri di soccorrerci? È questione di ore, poi il sacrifizio". Quella stessa sera, Galliano inviò, su percorsi diversi, quattro messaggeri per annunciare a Baratieri che la resistenza era allo stremo e che il presidio avrebbe adempiuto al suo dovere con una fine gloriosa. Poi riunì i suoi ufficiali per annunciare che l'indomani avrebbe dato battaglia dopo avere fatto saltare il forte. Gli assediati ignoravano che a Roma la "questione africana" era al centro di un infuocato dibattito. Alla Camera le sinistre chiedevano addirittura l'abbandono dell'intera colonia, mentre il re e Crispi tremavano al solo pensiero che a Macallè si ripetesse l'"onta dell'Amba Alagi". Una nuova sconfitta avrebbe costretto il governo alle dimissioni e minato gravemente il prestigio sia della Corona sia dell'esercito. Alla stessa maniera la pensava il generale Baratieri che vedeva crollare miseramente tutti i suoi ambiziosi disegni di gloria. Fu a questo punto che entrò in scena un misterioso personaggio. Si trattava di un certo Pietro Felter, un commerciante bresciano che viveva da tempo in Abissinia e godeva la piena fiducia di Maconnen. Felter si mise in contatto con Baratieri e si offrì come intermediario, poi, dopo complesse trattative, gli fece sapere che il ras, d'accordo con il suo negus, era disposto a liberare la guarnigione di Macallè in cambio di un riscatto in denaro. Precisò anche la cifra: 4 milioni di franchi francesi. Informato da Baratieri di questa non molto eroica opportunità, Crispi si disse d'accordo. Ma la cifra richiesta era enorme, come trovarla? Il governo non disponeva di sufficienti fondi segreti e neppure si poteva ricorrere a uno stanziamento speciale poiché, rendendo pubblica l'umiliante trattativa, ciò avrebbe coperto di ridicolo proprio quell'esercito di cui si voleva salvare l'onore. Dopo varie tergiversazioni, il riscatto fu infine pagato personalmente da re Umberto, al quale la somma sarà in seguito restituita dal governo mediante versamenti mensili sul "conto Macallè". Il 19 gennaio gli assediati contavano ormai le ore che li separavano dalla fine. A uno a uno, tutti i trombettieri ascari che salivano sulla rocca per suonare l'adunata, venivano centrati e uccisi. Ora gli ordini venivano diramati di bocca Pagina 13
arrigo petacco. FaccettaNera.txt in bocca ai soldati sfiniti e ormai a corto persino di munizioni. Poco dopo il tramonto, la fucileria abissina si placa improvvisamente e, verso le 20, preceduto dal rullo dei negarit, un parlamentare abissino si presenta nella terra di nessuno chiedendo di entrare nel forte. Galliano lo riceve nel recinto interno e l'inviato del negus gli consegna una lettera. Sarà l'ultimatum di Menelik? Galliano legge la missiva al lume di una candela, impallidisce, al che i suoi ufficiali si radunano attorno a lui attenti e incuriositi. Quindi egli annuncia con voce commossa: Signori ufficiali, la lettera che mi è giunta è del generale Baratieri e ci porta un dolore. Leggo loro la parte che riguarda tutti noi: "D'ordine di S.M. il Re d'Italia, Vostra Signoria cederà il forte di Macallè al Negus d'Abissinia ... Il presidio uscirà con gli onori militari, con armi e bagagli e con quanto altro la Signoria Vostra crederà utile trasportare. L'effetto di quella lettura è quello di una condanna a morte, molti ufficiali, sfiniti dalle privazioni, scoppiano in pianto, altri bestemmiano. Galliano, scuro in viso, ripiega la lettera e la mette in tasca borbottando quasi fra sé: "Povera Italia!". Il mattino seguente, dopo avere ammainato il tricolore, la guarnigione italiana uscì in colonna dal forte, gli ufficiali con la sciabola sguainata. In testa vi era Giuseppe Galliano, a cavallo della sua mula bianca e con il chepì calato sugli occhi per non vedere nessuno. Gli assedianti vittoriosi presentarono le armi, poi un drappello entrò nel forte per alzare sulla rocca la bandiera di ras Maconnen, rossa, azzurra e gialla. Secondo voci mai confermate, prima di andare via, il tenente colonnello avrebbe promesso a ras Maconnen di non impugnare mai più le armi contro gli abissini. Ancora non sappiamo con esattezza cosa spinse il generale Baratieri a provocare la tragedia di Adua poco più di un mese dopo la resa di Macallè. Ma certamente deve avere avuto un peso questo significativo telegramma che il suo deluso protettore Francesco Crispi gli inviò da Roma il 20 febbraio 1896. "Codesta è una tisi militare, non una guerra" sottolineava l'amareggiato capo del governo. "Piccole scaramucce nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare, perché non sono sul posto, ma constato che la campagna è condotta senza alcun piano prestabilito, e io vorrei che ve ne fosse uno. Siamo pronti a ogni sacrificio per salvare l'onore dell'esercito". Per il non più baldanzoso "Napoleone d'Africa", quelle aspre parole dovettero risuonare alle sue orecchie come una frustata. E infatti gli rispose risentito: "Mandatemi diecimila uomini e vi porterò Menelik impagliato!". Una sbruffonata che Crispi forse finse di prendere sul serio dato che si affrettò effettivamente a spedire i rinforzi richiesti; ma nel contempo, in gran segreto, decise anche di esautorare Baratieri dal comando per riaffidare il governo della colonia al ricuperato generale Baldissera, che già era in viaggio per l'Eritrea sotto il falso nome di "commendator Baccalario". Che Crispi fosse pronto a "qualsiasi sacrificio" per lavare l'onta di Amba Alagi e di Macallè, Baratieri ne aveva avuto ampie prove. In poche settimane, questo generale avvilito, che per mesi aveva chiesto inutilmente rinforzi, fu raggiunto a Massaua da vari piroscafi carichi di truppe fresche e di imponenti quantitativi di materiali bellici, fra i quali un modernissimo fucile appena uscito dalle fabbriche: il mitico 91 ("che spara bene e non fa fumo" come si userà dire in seguito), un moschetto a sei colpi che doveva sostituire il vecchio Wetterli a colpo singolo. Purtroppo quest'arma non fu distribuita in tempo per la battaglia decisiva. Per tutto il mese di febbraio del 1896 i due eserciti manovrarono a una trentina di chilometri l'uno dall'altro senza affrontarsi. Baratieri però aveva fretta e pareva deciso a superare ogni indugio, sebbene avesse sul campo soltanto 15.000 uomini e la gran parte dei rifornimenti sbarcati a Massaua fosse ancora in viaggio, a dorso di mulo o di cammello, lungo le impervie piste abissine. D'altro canto, il tempo avrebbe dovuto giocare a suo favore perché l'armata di Menelik, oltre 100.000 uomini costretti a rifocillarsi a spese delle misere popolazioni locali, non poteva rimanere a lungo inoperosa: un esercito raccogliticcio, guidato da capi spesso in lotta fra loro, se non combatte subito prima o poi si disgrega. A spingere Baratieri ad affrettare le operazioni pare abbia contribuito, oltre al telegramma ultimativo di Crispi, un'indiscrezione pervenutagli da Roma relativa alla sua prossima sostituzione con il generale Baldissera. Comunque sia, il 28 febbraio, il comandante in capo convocò a rapporto i suoi ufficiali e, sia pure fra molte incertezze, ordinò una puntata offensiva in direzione del campo abissino che si trovava nei pressi di Adua. La sera del 29 febbraio (era un anno bisestile), sotto un cielo senza luna, il Pagina 14
arrigo petacco. FaccettaNera.txt corpo di spedizione italiano entrò quindi in azione in bell'ordine. Baratieri aveva disposto le sue truppe in una formazione a tridente. All'estrema sinistra, c'era il generale Matteo Albertone con la brigata indigena, circa 4000 uomini comandati da ufficiali italiani. All'estrema destra procedeva il generale Vittorio Emanuele Dabormida, con altri 4000 uomini suddivisi in tre reggimenti nazionali e un battaglione di ascari. Al centro, leggermente arretrate e distanziate fra loro, si muovevano due altre brigate nazionali con rincalzi indigeni: la prima, comandata dal generale Giuseppe Arimondi, composta di 3000 uomini, e l'altra, affidata al generale Giuseppe Ellena, che ne contava 4500. Baratieri, come comandante in capo, viaggiava con le due brigate centrali. Prima di affrontare la marcia su quel terreno sconosciuto, aveva ordinato di "sacrificare la velocità del movimento al vantaggio supremo di mantenere l'ordine e i collegamenti". Le colonne infatti procedettero molto lentamente, ancor più del previsto. Annoterà in seguito lo stesso Baratieri: Nella notte illune, non si udiva che un lungo ammortito scalpitio accompagnato dal rumore delle armi; nulla si vedeva essendo proibito il fumare, e le ombre delle colonne confondevansi con le ombre delle alture e del terreno ondulato. Ci volle circa un'ora e mezza prima che le due brigate bianche compissero lo sfilamento. Malgrado la lentezza, i collegamenti entrarono comunque in crisi fin dalle prime ore. Alle tre di notte, Arimondi comunicò che la sua avanguardia aveva dovuto interrompere la marcia per lasciar sfilare la brigata di Albertone, da lui incrociata, forse per qualche errore di lettura (le carte topografiche erano, a dir poco, rudimentali), sulla sua stessa pista. Successivamente, oltre a essere in ritardo, Arimondi perse anche i contatti con l'ala destra di Dabormida. Nel frattempo, gli ascari di Albertone, più rapidi e determinati, avevano raggiunto l'obiettivo prestabilito, il colle di Chidane Meret, ma non si erano fermati ed erano avanzati per altri 8 chilometri giungendo in prossimità del campo abissino. Questo errore, se di errore si tratta, avrà conseguenze determinanti sull'esito della prossima battaglia. Ma fu un errore? In seguito Albertone si giustificherà affermando di essere stato ingannato da una falsa indicazione topografica, ma non è da escludere che si sia invece trattato di un errore volontario. Il generale era un eroe coloniale che aveva sconfitto i dervisci, benché disponessero di forze soverchianti: abituato a disprezzare il nemico, forse intravide l'opportunità di conquistarsi un successo personale cogliendolo di sorpresa. Mancò poco infatti che la sorpresa riuscisse per davvero. Sfortunatamente, un ascari caduto prigioniero informò gli abissini del pericolo imminente e Menelik, senza perdere tempo, predispose le difese. Alle prime luci dell'alba, le forze abissine si gettarono a valanga contro la nostra brigata indigena e i combattimenti furono subito durissimi. Benché inferiori di numero, gli ascari si batterono da leoni aprendo vasti vuoti con le mitragliatrici e contrattaccando all'arma bianca, tanto che gli abissini si videro costretti a retrocedere lasciando sul terreno centinaia di caduti, compresi molti dei loro capi più prestigiosi. Informato dell'esito infausto dell'assalto, Menelik stava per ordinare la ritirata quando entrò in scena sua moglie che aveva voluto seguirlo sul campo di battaglia. La regina Taitù, destinata a entrare ben presto nell'immaginario collettivo degli italiani, era un personaggio molto influente a corte e amatissima dai suoi sudditi. Odiava gli italiani e aveva fatto voto di portare una pesante pietra al collo fino al giorno della loro sconfitta. Un cronista abissino racconterà che, in quel drammatico frangente, "l'imperatrice, seguita dallo schiavo che la proteggeva con un ombrello e dalla uizerò Zauditù, dopo avere aperto il velo che le copriva il viso, fermò i guerrieri esitanti e gridò loro con tutte le sue forze: "Coraggio! Cosa vi è preso? La vittoria è nostra!"". "I soldati," continua il cronista "udendo queste parole non ripiegarono più perché l'uomo non sa fuggire quando la donna lo incoraggia." L'intervento di Taitù convinse il negus a lanciare nella battaglia la sua guardia imperiale forte di 25.000 uomini, i quali si avventarono con rinnovato ardore contro le posizioni tenute dagli ascari. Resistere all'urto diventò sempre più difficile, anche perché cominciarono a mancare le munizioni e, soprattutto, i comandanti. Il regolamento imponeva infatti ai nostri ufficiali di dare l'esempio restando bene in vista davanti ai loro soldati, a cavallo e con la spada sguainata; in tal modo si offriva un comodo bersaglio ai fucilieri nemici... Fu un'ecatombe: nel giro di poche ore, quasi tutti i nostri ufficiali caddero in combattimento e gli ascari, privi di comandanti, si sbandarono dandosi alla fuga. Alle 11 del mattino la brigata indigena non esisteva più e il generale Albertone era caduto prigioniero. Così terminò la prima fase della battaglia di Adua. Pagina 15
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Frattanto, da almeno due ore, aveva avuto inizio anche la seconda fase dello scontro. La colonna di Dabormida, inviata in aiuto di Albertone, si incamminò verso il colle di Chidane Meret dove si credeva fosse attestata la brigata indigena. Ma, qui giunto, Dabormida non trovò nessuno. Allarmato e confuso, nonché privo di informazioni precise in quanto gli ordini venivano trasmessi mediante il malsicuro telegrafo ottico (un congegno di specchi di cui, peraltro, Albertone era sprovvisto), il sopraggiunto si mosse verso sud da dove provenivano gli echi di una battaglia. Poche ore di cammino, "poi", raccontò Dabormida, "come all'alzarsi di un sipario, gli abissini sorgono come demoni dalle alture, irrompono da ogni parte, occupano le altezze e fulminano noi, sdraiati in quel vallone. Essi parecchie decine di migliaia, noi forse tremila in colonna perché non potevamo, per mancanza di spazio, rimanere di fronte". Anche la brigata di Dabormida fu presto accerchiata e soverchiata. Alle 15, il generale ordinò la ritirata e da quel momento nessuno lo vide più. Il movimento della sua colonna si rivelò disastroso: gli armati di ras Maconnen, di ras Mangascià e di ras Mikael, oltre alla cavalleria dei Wollo Galla, in tutto forse più di 50.000 uomini, si rovesciarono sulle nostre truppe e le travolsero come un fiume in piena. Il corpo di Dabormida non fu neppure ritrovato, disperso fra le migliaia di cadaveri sparsi sul campo di battaglia. Ora restavano intatte soltanto la brigata di Arimondi e quella di riserva del generale Ellena. Ormai consapevole che la battaglia era perduta, Baratieri pensava di ordinare la ritirata, ma nel suo comando regnava la massima confusione. I reparti di bersaglieri e di cacciatori d'Africa resistevano eroicamente, mentre masse confuse di fuggiaschi si muovevano in disordine attorno alle loro posizioni falcidiate dall'artiglieria abissina e dagli attaccanti, che approfittavano dell'opportunità di confondersi con gli ascari per infiltrarsi oltre le linee. Il ritmo degli avvenimenti si era fatto frenetico e incontrollabile. A sostenere l'urto nemico rimase Arimondi, in aiuto del quale Baratieri aveva mandato all'ultimo momento anche il Terzo indigeni di Galliano, gli epici difensori di Macallè. Ma tutto era ormai inutile perché le sorti del combattimento erano decise: Galliano scomparve nella mischia, mentre Arimondi, ferito a un ginocchio, con la spada sguainata in mezzo a un mucchio di cadaveri, continuò a vibrare fendenti finché gli abissini non lo sommersero (non è mai stato chiarito se fu ucciso o se si uccise). Poco dopo l'intera brigata fu annientata, mentre ciò che restava della colonna di Ellena, alla quale si era unito Baratieri, dopo essersi miracolosamente sottratta all'annientamento totale, poté alfine porsi in salvo raggiungendo alle nove di sera la posizione fortificata di Adi Cajeh. Calò così la notte sul campo di battaglia dove giacevano 4000 italiani, altrettanti ascari e un numero infinitamente superiore di abissini. La morte di Galliano, come quella di Toselli, era destinata a entrare nella leggenda della nostra prima epopea coloniale. E il fatto che non si sappia nulla di preciso sul luogo e le circostanze in cui fu ucciso, ha contribuito a far sorgere attorno al valoroso ufficiale un romantico alone di mistero. Domenico Quirico, che ha raccolto con dovizia di particolari la storia delle nostre truppe coloniali, fornisce le due versioni più credibili. Secondo quanto raccontò il tenente Partìni, che fu l'ultimo a vederlo vivo, Galliano, gravemente ferito al volto da una fucilata, vedendo che il Terzo indigeni era ormai condannato, ordinò ai suoi ufficiali: "Signori, si dispongano con la loro gente e vediamo di finir bene". Poi, mentre cercava di tamponare la ferita alla mascella, fu sorpreso da una torma di nemici che lo riconobbero e lo trascinarono nelle loro linee dove lo uccisero al termine di una barbara "fantasia". Secondo un'altra versione, raccolta dal cavalier Arnaldo Piga, ufficiale postale ad Asmara, Galliano, dopo la cattura, essendo stato riconosciuto da alcuni capi che lo avevano visto sfilare sulla sua mula bianca dopo la resa di Macallè, venne processato e accusato di avere violato la promessa di non combattere più contro gli abissini. A tale accusa, Galliano avrebbe risposto: "In quel momento pensai che la mia persona non mi apparteneva, ma era proprietà del mio re a cui avevo giurato di dare il mio sangue". Condannato come spergiuro, l'eroico ufficiale, con un ferro da cavallo in bocca legato a un briglia, sarebbe stato portato in giro nel mercato di Adua fra i lazzi della folla, quindi arso vivo e gettato nella fossa degli schiavi. Comunque siano andate le cose, la versione più credibile è certamente quella che Galliano sia stato riconosciuto e ucciso per non avere mantenuto la promessa di non combattere più contro gli abissini. È anche la versione che chi scrive questo libro ha sempre ascoltato raccontare da suo nonno, il quale, al fianco di Galliano, aveva combattuto sia a Macallè che a Adua. Pagina 16
arrigo petacco. FaccettaNera.txt La notizia della disfatta di Adua giunse in Italia nella nottata del 2 marzo e la retorica ebbe addirittura il sopravvento sui clamori dell'opposizione. Persino il radicale Felice Cavallotti, noto per le sue intemperanze antimonarchiche, si unì al coro commosso del Parlamento mentre Benedetto Croce scrisse che "l'Italia patriotticamente dolorante chiamava vendetta". A far da parafulmine alla monarchia fu Francesco Crispi che dovette dimettersi da capo del governo per essere sostituito da un altro siciliano, il marchese Antonio Starabba di Rudinì. L'opposizione socialista e democratica, pur reclamando l'abbandono della folle avventura africana, alla fine, si accontentò della testa dell'ex garibaldino repubblicano che aveva invano sognato di emulare il "cancelliere di ferro" Otto von Bismarck. Da parte sua, la Chiesa di Roma, non ancora dimentica della breccia di Porta Pia, impedì l'ingresso del tricolore nelle basiliche dove si celebravano i riti in suffragio dei caduti. Anche a corte la débàcle di Adua suscitò delusione e sgomento. La regina Margherita, che era più "africanista" del marito, non nascose il suo disappunto nei confronti di Crispi e di Baratieri, da lei ritenuti responsabili della sfortunata campagna. Ma, a onor del vero, deve essere smentita la leggenda secondo la quale la sovrana avrebbe inveito contro i soldati italiani e si sarebbe opposta al pagamento del riscatto che Menelik pretendeva per liberare i circa 2000 prigionieri catturati dopo la battaglia. In realtà, Margherita si disse contraria perché riteneva "umiliante per l'Italia un simile scambio con il nemico", ma in privato affermò di essere pronta a vendere i propri gioielli "affinché i nostri poveri soldati lontani e prigionieri non abbiano a pensare che noi li abbandoniamo". Inviò infatti in Africa mezzo milione di lire prelevato dalla sua cassetta personale. Una parte di prigionieri poté così rientrare in patria nel giro di pochi mesi senza particolari clamori, mentre gli altri ci furono restituiti sotto una curiosa forma di regalia che forse nascondeva una segreta operazione diplomatica. Un primo gruppo di prigionieri italiani era stato infatti "donato" da Menelik a una figlia dello zar, la quale li aveva poi affidati all'amica Elena di Montenegro, fidanzata del principe ereditario Vittorio Emanuele, che a sua volta li aveva riconsegnati al loro legittimo "proprietario". Gli ultimi 200 vennero infine liberati dallo stesso Menelik che li offrì come dono di nozze per il matrimonio fra Vittorio Emanuele ed Elena, celebrato con il solo rito civile il 24 ottobre 1896. Andò invece molto peggio per i nostri poveri ascari finiti prigionieri. Prima di liberarli, la terribile regina Taitù ordinò di tagliare loro la mano destra e il piede sinistro in modo che non fossero più in grado di combattere. Chi sopravvisse alle orrende mutilazioni (molti furono anche castrati), rientrò nel proprio villaggio dove condusse una vita di stenti, un poco attenuata dal modesto sussidio fatto elargire dal nuovo governatore dell'Eritrea Antonio Baldissera. Per qualche tempo, a Roma si temette che anche i prigionieri italiani potessero essere sottoposti a quella terribile punizione, ma già il 9 aprile il governo fu tranquillizzato da questo telegramma di Baldissera: "Amputati finora tutti indigeni. Sonvi cristiani, musulmani, abissini e non abissini, ma non italiani. Reduci soltanto evirati oltre venti, pressoché tutti italiani". Dopo la clamorosa sconfitta di Adua, per il generale Baratieri giunsero giorni molto tristi. L'ex baldanzoso e avventato "Napoleone d'Africa" cercò dapprima di difendersi scaricando, come si usa quasi sempre in questi casi, ogni responsabilità sui sottoposti, ma il meschino espediente non valse a evitargli la corte marziale. Fu infatti processato dal tribunale militare di Asmara "per omissioni, negligenze e abbandono del comando in guerra". Il 14 giugno 1896, il pubblico ministero chiese per lui la degradazione e dieci anni di fortezza, ma alla fine una assoluzione pilotata "per inesistenza di reato" permise al generale sconfitto di scomparire dalla scena senza screditare del tutto il nostro esercito. Il quale esercito, tuttavia, ne uscì con le ossa rotte di fronte all'opinione pubblica mondiale. Anzi si può dire che proprio in quei giorni, oltre al tramonto del sogno crispino di collocare la giovane Italia fra le grandi potenze, nacque la leggenda diffusa ancora oggi degli italiani incapaci di combattere. La stampa straniera, d'altra parte, non perse l'occasione di denigrare l'esercito italiano e nello stesso modo si comportarono importanti personaggi. Il Kaiser Guglielmo II, per esempio, si dimostrò sgradevolmente sorpreso dal fatto che "per la prima volta i bianchi erano fuggiti davanti ai neri", ma ancor più velenosi furono i francesi. "Les italiens ne se battent pas" sentenziò il principe Enrico d'Orléans e la sua dichiarazione offensiva campeggiò su tutti i giornali di Francia. L'insulto, peraltro inatteso in quanto il principe era fratello di Elena d'Orléans, fresca sposa del duca d'Aosta Emanuele Filiberto, Pagina 17
arrigo petacco. FaccettaNera.txt fu anche causa di una vertenza cavalieresca. Il primo a risentirsi fu il generale Albertone, sopravvissuto di Adua, il quale inviò all'offensore un cartello di sfida che il principe respinse dichiarando che avrebbe incrociato la spada soltanto con un avversario di sangue reale. A questo punto accadde qualcosa di strano. I giornali francesi annunciarono che un nuovo cartello di sfida era stato lanciato dal principe ereditario Vittorio Emanuele, ma la notizia venne successivamente smentita, la qual cosa diede luogo a non pochi commenti ironici, poiché era noto che il nostro futuro sovrano era alto appena un metro e mezzo e non era dotato di particolari virtù militari. Cos'era dunque accaduto? È assai probabile che a lanciare la sfida sia stato effettivamente Vittorio Emanuele (benché di piccola statura, l'ardire e il senso dell'onore non gli mancavano), suscitando così la preoccupazione dei suoi reali genitori, i quali, temendo per la vita del loro unico erede, avrebbero improvvisato questo astuto escamotage per risolvere onorevolmente la spinosa querelle. Poiché il cartello era firmato semplicemente Vittorio Emanuele e così si chiamava anche il conte di Torino, fratello minore del duca d'Aosta, fu attribuita a questi e non al principe ereditario la paternità della sfida che il principe d'Orléans dovette giocoforza accettare. Il duello si svolse all'alba del 15 agosto 1897 nei pressi di Versailles e si concluse dopo ventisei minuti e cinque assalti. Il conte di Torino onorò la sua fama di abile spadaccino ed Enrico d'Orléans ebbe la peggio restando seriamente ferito all'addome e alla spalla destra. L'offesa all'esercito italiano era stata dunque lavata con il sangue e in Italia tutti se ne rallegrarono. La regina Margherita si felicitò con il nipote vendicatore, re Umberto lo esaltò "per il suo coraggio" e Giosue Carducci lo salutò "campione dell'esercito e vindice dell'onore italiano". Non si conoscono i commenti dell'altro Vittorio Emanuele. Frattanto, il 26 ottobre 1896 il nuovo governo italiano presieduto da Di Rudinì aveva firmato un trattato di pace con l'imperatore Menelik. Il primo articolo stabiliva: "Lo stato di guerra fra l'Italia e l'Etiopia è finito. In conseguenza vi sarà pace e amicizia eterne fra S.M. il Re d'Italia e S.M. l'Imperatore d'Etiopia, e fra i loro successori e sudditi". Il secondo articolo precisava: "L'Italia riconosce l'indipendenza assoluta dell'Impero di Etiopia come stato sovrano". Alla pace fece seguito una serie di accordi bilaterali che stabilivano la linea di confine fra l'impero etiopico e la colonia Eritrea ("che corre lungo una linea parallela alla costa del mar Rosso, sessanta miglia all'interno"), nonché la frontiera tra l'Etiopia e i territori somali affidati all'Italia che avrebbe dovuto coincidere con "una linea parallela alla costa dell'oceano Indiano, centottanta miglia all'interno". In realtà, questa seconda linea non si tracciò mai e, di conseguenza, non venne mai definita l'appartenenza di una vastissima zona dell'Ogaden, completamente desertica ma ricca di alcuni pozzi indispensabili per abbeverare le greggi delle tribù nomadi. Il più importante di questi pozzi, quello di Ual Ual, in futuro fornirà a Mussolini il casus belli che andava cercando. La sconfitta di Adua, comunque, non guarì i nazionalisti italiani affetti dal "mal d'Africa", ma segnò soltanto una battuta d'arresto di non lunga durata. D'altra parte, tutti i paesi che si affacciavano sulla sponda africana del Mediterraneo erano già stati occupati da altre potenze europee con grande frustrazione dell'Italia, giunta troppo tardi sul proscenio internazionale. Restava "libera" soltanto la Libia, una "scatola di sabbia" disprezzata da tutti (solo molto più tardi vi saranno scoperti i ricchi giacimenti di petrolio), ma sufficiente ad appagare gli appetiti coloniali italiani. Il movimento nazionalista, che aveva ripreso forza, non si accontentò dei pochi territori acquisiti nel Benadir lungo la costa dell'oceano Indiano i quali, uniti agli altri possedimenti, avevano consentito di creare nel 1908 la colonia Somalia con capitale Mogadiscio. Finalmente, sia pure con gravissimi contrasti interni fra socialisti e nazionalisti, il governo di Giovanni Giolitti ritentò nel 1911 una nuova avventura africana contro la Libia, che faceva parte dell'ormai decrepito impero ottomano. Per conquistarla, l'Italia sostenne una lunga guerra che richiese l'impiego di 100.000 uomini. I turchi vennero tuttavia sconfitti con relativa facilità e, salutata al canto di "Tripoli bel suol d'amore...", la cosiddetta "Quarta sponda" diventò un'altra colonia italiana. La prima guerra mondiale, con le sue distruzioni e immense perdite umane, affogherà per qualche anno le nostre ambizioni espansionistiche, che però riemergeranno subito dopo che il fascismo, giunto al potere, tornerà a rispolverare la vecchia e ormai sorpassata teoria dello spazio vitale e del diritto di conquistare un "posto al sole". Pagina 18
arrigo petacco. FaccettaNera.txt III "HO VENDUTO IL NEGRO" Dopo l'incredibile vittoria di Adua, Menelìk approfittò dell'ascendente conquistato sul campo per allargare e consolidare i confini del suo impero. Grazie a una serie di dure campagne militari, ridusse all'obbedienza anche i ras più riottosi e assoggettò al potere centrale di Addis Abeba i vasti territori dell'Ogaden, del Conso, del Burgi, del Gaffa, del Ghimirà, dello Jambo. All'inizio del 1900 rimanevano indipendenti soltanto i sultanati di Aussa, del Birù, del Terù e del Gimma. I primi tre perdettero la loro indipendenza nel 1909, l'ultimo soltanto nel 1936 dopo la conquista italiana dell'impero etiopico. All'inizio del XX secolo, il grande Menelik iniziò la sua parabola discendente almeno per quanto riguarda l'efficienza fisica. Era infatti torturato da insopportabili dolori reumatici che lo inchiodavano a letto rendendolo sempre più intollerante e intrattabile. Al tempo stesso, cominciò a crescere l'influenza esercitata su di lui dalla moglie Taitù, ormai avanti con gli anni (era nata, come il consorte, nel 1844), ma sempre più volitiva e tenace nei suoi propositi. Colei che, non a torto, veniva chiamata "l'avvelenatrice", poiché alcuni dei suoi precedenti sette mariti e della nutrita schiera di "amanti occasionali" erano morti misteriosamente, aveva una spina nel fianco: la sterilità. Se non riuscì a dare a Menelik neanche un figlio, in compenso diventò maestra di intrighi amorosi quasi esclusivamente volti a un fine politico. Quando, con il passare del tempo e l'aggravarsi dello stato di salute del negus, il problema della successione si fece impellente, l'ambiziosa regina maturò un suo progetto. Certa di sopravvivere al consorte, contava di farsi nominare reggente e quindi di favorire l'ascesa al trono di suo nipote Gugsà Oliè, quarto marito della figlia prediletta di Menelik, la principessa Zauditù. Ma Menelik non la pensava allo stesso modo e Taitù dovette rassegnarsi a condividere con lui la scelta del successore al trono. La quale cadde sul piccolo Ligg Jasù, figlio dodicenne di ras Mikael, il capo dei Wollo Galla che aveva combattuto contro gli italiani al fianco dell'imperatore. Ras Mikael era di famiglia musulmana, anche se si era successivamente convertito al cristianesimo copto; di conseguenza il futuro negus avrebbe potuto saldare meglio di ogni altro le genti musulmane del Sud, recentemente acquisite, con gli antichi sudditi copti abitanti il Centro e il Nord del paese. I rari storici che si sono occupati delle vicende interne all'impero etiopico si trovano in disaccordo riguardo a come si giunse a questa designazione. Del resto, le fonti scritte sono poche e molto dubbie. Si racconta che nella primavera del 1909, quando le condizioni del negus peggiorarono ulteriormente, Taitù decise di affrettare i tempi. Il 15 maggio fece sposare in gran fretta Ligg Jasù con una nipote del negus che di anni ne contava appena sette, poi, il 9 giugno, convocò tutti ras dell'impero nella sala del trono del ghebì imperiale. Qui, tra la commozione e l'inquietudine dei presenti, venne condotto su una poltrona a rotelle ciò che restava del vecchio sovrano. "Chi designi come tuo successore?" gli chiese Taitù piegandosi su di lui. E poiché il marito esitava; "Chi, chi, allora?" lo incalzò avvicinando l'orecchio alla sua bocca per meglio ascoltare la risposta. Dalle labbra del negus uscì alla fine un flebile balbettio del quale neppure i più vicini riuscirono ad afferrare il significato, ma Taitù levò le braccia al cielo e gridò esultante: "Ha detto Ligg Jasù!". Era fatta. L'indomani i banditori diramarono per tutto l'impero il grande annuncio che iniziava con le maledizioni di rito: "Ecco colui che mi succederà e sia maledetto chi gli sarà disobbediente: gli nasca come figlio un cane nero e tignoso...". Dopo la designazione di Ligg Jasù, Menelik non si riprese più, tuttavia morì solo quattro anni dopo, il 12 dicembre 1913. Così almeno fu dichiarato, anche se corse voce che in realtà il negus era morto verso la fine del 1909 e che per quattro anni ai visitatori fu mostrato il suo cadavere imbalsamato. Ligg Jasù divenne dunque negus neghesti a sedici anni quando l'Europa era alla vigilia della prima guerra mondiale. Di questo nuovo negus è stato detto tutto il male possibile, ma forse occorre fare la tara di tali giudizi, tenendo conto che, oltre i ras ambiziosi e delusi, furono soprattutto gli inglesi e i francesi a orchestrare contro di lui una campagna diffamatoria. Costoro infatti erano preoccupati per la manifesta simpatia del nuovo sovrano nei confronti dell'impero ottomano, allora alleato della Germania guglielmina, che da parte sua era interessata all'Etiopia perché godeva di un'importante posizione strategica. Dominare il mar Rosso significava infatti proteggere le colonie germaniche in Africa e controllare le vie marittime dell'Oriente attraverso cui, Pagina 19
arrigo petacco. FaccettaNera.txt appena scoppiata la guerra, Francia e Gran Bretagna avrebbero ricevuto dalle loro colonie gli indispensabili rifornimenti di uomini e di mezzi. Ligg Jasù comunque non era uno stinco di santo. Morta Taitù, che lo proteggeva e lo teneva a freno, il giovane negus si rivelò molto proclive ai divertimenti, alle gozzoviglie. Oltre che per lo champagne, aveva un debole per le ragazze bianche, che fece venire a decine dai café-chantant di Berlino e di Smirne, per cui era quasi sempre ubriaco e circondato di giovani bionde e compiacenti. Sotto il suo regno il paese era precipitato nel caos e nella corruzione. "Addis Abeba è infestata dai rapinatori:" riferiva il ministro d'Italia conte Colli "arrivano persino ad assaltare le sedi diplomatiche e i contadini hanno paura di venire in città cosicché i viveri scarseggiano." Quando non era ubriaco, il giovane negus passava il tempo a caccia di leoni e di schiavi in Dancalia. Si abbandonava a crudeltà inaudite persino per un paese come l'Abissinia dove i ras avevano diritto di vita e di morte sui loro sudditi. In un solo pomeriggio, per esempio, Ligg Jasù fece massacrare i 2000 abitanti di un intero villaggio per una banale questione di prestigio (una ragazza gli si era rifiutata). Ma il suo errore più grave fu quello di convertirsi ufficialmente alla religione islamica per sposare la giovane figlia di un ricco commerciante musulmano dell'Harar. Questa impopolare conversione segnò la sua fine. Il malcontento alimentato dalla potente Chiesa copta si trasformò rapidamente in insurrezione armata. Ligg Jasù fu scomunicato, battuto sul campo dai ribelli e scalzato dal trono. Al suo posto, il 27 settembre 1916, l'abuna Matteo proclamò negesta nagast, imperatrice, la principessa Zauditù, figlia prediletta di Menelik, mentre il governatore dell'Harar, il giovane ras Tafari, che era stato l'anima della rivolta, verme nominato enderassiè, ossia vicario imperiale ed erede al trono. Ras Tafari, il cui nome significa "colui che è temuto", aveva ventiquattro anni, era figlio di ras Maconnen, l'eroe di Adua, e cugino di sangue di Menelik. Dal padre aveva ereditato il coraggio, l'astuzia politica nonché la spietatezza, principale caratteristica dei notabilato abissino. Gratificato da una saggistica faziosa portata a glorificare tutti coloro che hanno combattuto il fascismo, ras Tafari è stato forse esageratamente nobilitato divenendo nell'immaginario collettivo degli italiani il campione dell'indipendenza e della libertà africana. In realtà egli era, come tutti i suoi predecessori, un ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista. Feroce verso i suoi sudditi quanto e più degli stessi colonialisti, infido con gli alleati, silenzioso e meditativo, si differenziava da Ligg Jasù solo perché non amava la crapula ed era molto più scaltro e istruito. Educato dai preti della Chiesa copta, con la quale manteneva rapporti eccellenti, parlava bene il francese ed era un attento cultore della Bibbia, dalla quale sapeva ricavare citazioni e ammonimenti adatti a ogni situazione. I diciotto anni che vanno dalla sua comparsa sulla scena politica al conflitto con l'Italia del 1935 vedono il giovane enderassiè impegnato a consolidare l'impero etiopico attraverso un'opera da spietato ragioniere del potere. Liquidò infatti pazientemente, a uno a uno, tutti i ras o gli alti personaggi che gli erano d'ostacolo nella sua marcia verso il trono. Più intelligente e interessato dei suoi predecessori agli avvenimenti esterni e in particolare europei, nel 1923, grazie all'appoggio italiano (gli inglesi non volevano capi di Stato di colore), riuscì a far accogliere l'Etiopia nella Società delle Nazioni, costituita a Ginevra nel 1919 dopo la fine della prima guerra mondiale, benché il suo paese, essendo ancora uno stato feudale e schiavista, avrebbe dovuto esserne escluso. Nel 1928 firmò con l'Italia un trattato ventennale di amicizia e di commercio e nel contempo, con l'aiuto di ufficiali europei rimasti disoccupati dopo la fine del conflitto mondiale, provvide a gettare le basi di un esercito regolare e moderno. La sua azione, limitata in un primo tempo dalla presenza dell'imperatrice Zauditù, non ebbe più ostacoli quando nel 1930, morta l'ingombrante negesta nagast e soffocata nel sangue l'ultima insurrezione tentata da ras Gugsà, uno dei tanti ex mariti di Zauditù, ras Tafari diventò il nuovo negus neghesti assumendo il nome di Hailè Selassiè che significa "la potenza della Trinità". Alla festa per la sua incoronazione parteciparono i rappresentanti di tutti i governi europei. Per l'Italia c'era il principe di Udine, i tedeschi mandarono il barone von Waldthausen con un dono di 800 bottiglie di vino del Reno e la fotografia autografata del maresciallo von Hindenburg. La delegazione più numerosa risultò essere quella inglese, composta dai governatori di tutte le colonie africane di Sua Maestà britannica. Gli ospiti, giunti in treno da Gibuti, erano accolti dalla guardia imperiale (scalza, ma bene addestrata) comandata da ufficiali belgi e svedesi. Per l'occasione, la strada che collegava la stazione al palazzo reale fu frettolosamente asfaltata e le 20.000 prostitute Pagina 20
arrigo petacco. FaccettaNera.txt della capitale ricevettero l'ordine di addobbarsi adeguatamente. I festeggiamenti si protrassero per dieci giorni e il gestore greco dell'unico locale notturno dovette fare la spola con Gibuti per rifornirsi di champagne. "Vi erano due scopi principali dietro l'ospitalità e la coreografia dell'incoronazione" scrisse in quell'occasione il corrispondente del "Times". "Primo, il negus desiderava impressionare i suoi compatrioti e in particolare i ras facendo vedere che era accettato dalle famiglie reali d'Europa: e in questo certamente riuscì. Secondo, desiderava impressionare gli ospiti europei dimostrando che l'Etiopia era un paese civile e moderno: ma in questo riuscì soltanto in parte." Deciso a modernizzare il suo impero già precedentemente all'ascesa al trono, nel 1924 Tafari aveva voluto compiere una visita in Europa, nella quale nessun ras abissino prima di allora aveva mai messo piede. Salpò da Gibuti con la moglie Menen e un seguito composto di 30 servitori, 6 leoni e 4 zebre. Per precauzione, portò con sé anche i ras più autorevoli e meno affidabili, onde non trovare sorprese al ritorno. Dopo avere compiuto brevi visite a Gerusalemme, Il Cairo, Marsiglia, Londra e Parigi, dove gli eterogenei ospiti erano stati ricevuti con una piuttosto scortese sufficienza, la folcloristica delegazione soggiornò a lungo a Roma, la città che gli abissini sentivano per ovvie ragioni più "vicina". Qui Tafari fu ricevuto in udienza privata dal papa e successivamente da re Vittorio Emanuele III. Mussolini, già capo del governo da due anni, ma non ancora dittatore, non trovò il tempo per riceverlo perché in tutt'altre faccende affaccendato. Proprio in quei giorni era misteriosamente scomparso il capo dell'opposizione Giacomo Matteotti, ma ancora non ne era stato trovato il cadavere. A Roma si vivevano quindi giorni convulsi e Mussolini veniva apertamente accusato di essere responsabile della scomparsa del leader socialista. L'arrivo degli ospiti abissini suggerì al settimanale satirico "Becco Giallo" una divertente vignetta in cui si vedeva ras Tafari, appollaiato come un merlo sulla spalla del ministro dell'Interno Emilio De Bono, che gli chiedeva con aria complice: "A me potete anche dire la verità: ve lo siete mangiato". Quel viaggio si rivelò utile e istruttivo per i visitatori abissini: i ras capirono finalmente cos'era questa Europa che premeva sui loro confini. Con infinito stupore ammirarono i treni veloci, le corazzate irte di cannoni, i grattacieli e le grandi fabbriche operose. Ma ciò che colpì maggiormente i vecchi capi furono alcune cose banali, come le gambe artificiali esposte nei negozi degli ortopedici (ne fecero, chissà perché, grande incetta), i forni moderni per la cottura del pane, i grandi porti e i piccoli rimorchiatori che trainavano enormi navi. Ras Hailù ne comprò addirittura uno per 600.000 franchi e poi se lo fece portare via mare a Gibuti; da lì organizzò una carovana con 800 cammelli e 2000 uomini per trascinarlo attraverso l'Abissinia fino al lago Tana, dove intendeva farlo navigare per suo sollazzo. Ma, per ragioni sconosciute, a mezza strada cambiò idea e il rimorchiatore rimase ad arrugginire fra le palme suscitando la meraviglia e la curiosità dei pastori che non avevano mai visto il mare. Mentre i dignitari del suo seguito si divertivano nei locali notturni concedendosi spese assurde, il giovane Tafari si dedicò a osservare in silenzio la civiltà moderna a lui sconosciuta. E probabilmente si rese conto che il suo paese poteva rimanere indipendente solo se riusciva a inserirsi in quel mondo sfruttando gli equilibri e le gelosie delle grandi potenze. Capì anche che la porta d'ingresso stava a Ginevra dove aveva sede la Lega (così era chiamata comunemente la Società delle Nazioni ) e dove era riuscito fortunosamente a ottenere un seggio. E infatti egli fu sempre un fervente e convinto "leghista". Questa Società, destinata a sciogliersi rovinosamente alla vigilia della seconda guerra mondiale per risorgere nel dopoguerra con un nome diverso (GNU) ma un identico destino, era a quell'epoca nel pieno del suo fulgore. Dominata da Francia e Inghilterra, che erano le vincitrici della prima guerra mondiale e, soprattutto, le due maggiori potenze del mondo, la Lega raccoglieva una cinquantina di nazioni "evolute" (salvo gli Stati Uniti che avevano preferito restarne fuori), accomunate, come sempre accade dopo i grandi conflitti, da tanti buoni propositi e dall'ipocrita convinzione che "mai più" l'umanità avrebbe fatto ricorso alla "follia della guerra". L'appartenenza alla Lega imponeva agli aderenti una serie di obblighi morali piuttosto vaghi, come il mantenimento della pace, il divieto peraltro non assoluto, del ricorso alla guerra, nonché l'impegno a cercare una risoluzione pacifica delle controversie internazionali. Se da un lato condannava lo schiavismo, dall'altro approvava il colonialismo, considero un utile mezzo per l'emancipazione dei popoli inferiori. lnfervorato da tali principi, il futuro negus al suo rientro in patria fece Pagina 21
arrigo petacco. FaccettaNera.txt costruire scuole, ospedali, strade, linee telegrafiche e favorì l'importazione di beni di consumo, in particolare delle scarpe. Pochi mesi dopo la sua ascesa al trono, promulga la prima costituzione scritta della storia etiopica. Era questo, dichiarò il negus in quell'occasione, "il primo segno della trasformazione dell'Etiopia in una monarchia non assoluta", anche se, in realtà, il potere restava interamente nelle due mani. Rimaneva la macchia dello schiavismo condannato dalla Lega, ma l'astuto sovrano la lavò con un bluff. Consapevole dell'impossibilità di abolire la schiavitù, sulla quale si basava il sistema economico del paese, fece pubblicare un editto che puniva con la morte il commercio degli schiavi, pur sapendo che nessuno dei suoi sudditi avrebbe obbedito. Così infatti accadde. Hailè Selassiè non sapeva naturalmente che il destino dell'Etiopia era da tempo segnato. Ignorava, come del resto ignorava l'intera opinione pubblica, che nelle trattative condotte a Londra nel 1914, per indurre l'Italia ad abbandonare la Triplice Alleanza che la legava ad Austria e Germania, per scendere in guerra contro queste due potenze, inglesi e francesi avevano promesso agli italiani "equi compensi coloniali". Ma ecco cosa stabiliva esattamente l'articolo più scottante di questo patto segreto che, nel 1935, fornirà a Mussolini la giustificazione per avventurarsi nell'impresa etiopica: Nel caso che la Francia e l'Inghilterra aumentino i loro domini coloniali in Africa a spese della Germania, queste due potenze riconoscono in linea di principio che l'Italia potrà reclamare compensi equivalenti, specialmente nel regolamento a suo favore delle questioni concernenti le frontiere delle colonie italiane dell'Eritrea, della Somalia e delle vicine colonie della Francia e dell'Inghilterra. Senonché, conclusa vittoriosamente la guerra, Inghilterra e Francia si divisero fra loro le colonie germaniche dell'Africa e inoltre, sotto forma di protettorato, si fecero assegnare da una Lega fin troppo generosa i resti del dissolto impero ottomano (la Siria andò alla Francia, la Palestina e l'Iraq alla Gran Bretagna, ecc.), ma non mantennero la loro promessa con l'Italia. La quale, anche per colpa dei suoi poco risoluti governanti, non raccolse che "poche briciole al banchetto della pace". Questo contenzioso insoluto, che favorirà la propaganda nazionalista del nostro primo dopoguerra, riassunta nello slogan dannunziano della "vittoria mutilata", non fu dimenticato da Mussolini il quale, certamente più determinato dei nostri timidi ministri liberali, appena conquistato il potere, reclamò con vigore gli "equi compensi" cui l'Italia aveva sacrosanto diritto. E, per la verità, venne in parte accontentato. Nel 1925, infatti, il dittatore italiano trattò segretamente la questione con Sir Ronald Graham, rappresentante del ministro degli Esteri britannico Austen Chamberlain e, come ricorda Franco Bandini nella sua storia delle guerre coloniali italiane, i due personaggi avevano raggiunto un accordo che stabiliva, tra l'altro, quanto segue: la Gran Bretagna avrebbe avuto l'appoggio dell'Italia per la richiesta all'Etiopia di poter costruire una diga di sbarramento nel lago Tana e una strada che dal Sudan doveva condurre al suddetto sbarramento. Per contro, l'Italia avrebbe avuto l'appoggio inglese per ottenere dall'Etiopia il permesso di costruire una ferrovia congiungente l'Eritrea con la Somalia. Con una nota aggiuntiva, la Gran Bretagna riconosceva l'esclusività dell'influenza italiana in tutto l'Ovest etiopico, nonché il diritto italiano di estendere e sviluppare in tutto il territorio la sua penetrazione economica. Naturalmente era impensabile che l'Etiopia accettasse questo trattato con tutte le sue prevedibili conseguenze politiche, ma poiché ci è nota la disinvoltura con cui le potenze europee si spartivano fra loro i territori coloniali, si può facilmente presumere che siglando questo accordo sia Mussolini sia il Foreign Office dessero per scontato che in un futuro più o meno lontano si sarebbero divisi i resti dell'ultimo stato indipendente africano. Probabilmente il trattato italo-abissino di "ventennale amicizia" firmato nel 1928 era nato proprio per ottenere dall'Etiopia alcune progressive concessioni, in modo da giungere all'esclusività dell'influenza, ossia al protettorato. Ma il negus, che evidentemente aveva mangiato la foglia, si guardò bene dal concedere all'Italia permessi esecutivi e, secondo un vecchio costume etiopico, dilazionò nel tempo, con i pretesti più vari, il rispetto dei suoi impegni. Il comportamento ambiguo del sovrano etiopico, la sua evidente voglia di irrobustire il proprio esercito con l'ausilio di isttuttori stranieri, nonché i suoi acquisti onerosi di materiale bellico in Francia e in Svizzera, non mancarono alla lunga di insospettire gli italiani. Le paure nutrite sin dopo Adua (peraltro non del tutto ingiustificate in quanto il negus, che non aveva capito niente dei mutamenti italiani, ancora si illudeva di poterci battere) tornarono quindi a riemergere. Di certo non sarebbero serviti gli appena 2000 soldati nazionali di Pagina 22
arrigo petacco. FaccettaNera.txt guarnigione in Eritrea e in Somalia per rintuzzare qualche eventuale colpo di testa abissino e, di conseguenza, ogni movimento di armati ai nostri confini coloniali veniva seguito con preoccupazione. Fu così che nella mente di Mussolini cominciò ben presto a insinuarsi l'idea, ventilata quarant'anni prima da Crispi, che forse era opportuno risolvere la questione etiopica una volta per tutte. Ma sarebbero passati ancora chissà quanti anni, se nel 1934 non fosse stato ucciso a Vienna il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, amico personale del Duce. Mussolini maturava da tempo l'idea di allargare i confini delle nostre modeste colonie. Non aveva infatti mai fatto mistero della "vocazione africana" dell'Italia fascista. Già nel 1926, durante una sua visita ufficiale in Libia, aveva colto lo spunto per evocare l'impero romano e il destino "che spinge l'Italia verso queste terre". Si trattava tuttavia delle solite rivendicazioni propagandistiche destinate più all'uso interno che esterno. In politica estera il Duce non aveva ancora programmi precisi, ma era sollecitato da una serie di motivazioni, la principale delle quali era il prestigio. Voleva soprattutto affermare il principio di un'Italia uguale alle altre potenze europee ma, per il momento, si limitava a calcare il tasto sul tema dell'"iniquo" trattato di Versailles, della "vittoria mutilata" e della volontà di rivendicare i "compensi coloniali" promessi dagli alleati all'Italia con il patto di Londra. Reclamare colonie, d'altronde, rientrava a quell'epoca nella piena normalità e Mussolini riteneva che una loro ridistribuzione più equa avrebbe consentito all'Italia di veicolare nei nuovi possedimenti africani le nostre correnti migratorie che ancora si indirizzavano verso altri paesi europei o nel continente americano. "Ci sono attorno all'Italia" dichiarò infatti in un suo celebre discorso "paesi che hanno una popolazione inferiore alla nostra ed un territorio doppio del nostro. Ed allora si comprende come il problema della espansione italiana nel mondo sia un problema di vita o di morte per la razza italiana. Dico espansione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico." Ma per il momento la situazione internazionale impediva qualsiasi iniziativa italiana. Nell'Africa mediterranea ogni espansionismo era impossibile. La Libia era infatti bloccata a est dai possedimenti francesi della Tunisia e a ovest dall'Egitto "protetto" dall'Inghilterra. Restava "disponibile" soltanto l'Abissinia, sulla quale l'Italia vantava "diritti" di vecchia data e che, stretta com'era fra le nostre colonie di Eritrea e di Somalia, poteva essere considerata la preda più facile da catturare. Ma ora, dopo che l'Etiopia era entrata a far parte della Società delle Nazioni, non era più a portata di mano. Un attacco contro di essa avrebbe infatti isolato il nostro paese e forse provocato un intervento di Francia e Inghilterra che, oltre a essere le potenze egemoni della Società delle Nazioni, in forza del trattato del 1906, erano anche le garanti dell'indipendenza dei paesi associati. Per Mussolini si trattava dunque di attendere l'occasione che gli avrebbe consentito di ottenere l'assenso francese e britannico per portare a compimento il suo progetto imperiale. Tale occasione, per una serie di eventi concatenati allora imprevedibili, si presentò alfine nel 1934. L'anno prima Adolf Hitler aveva conquistato il potere in Germania e la situazione europea era rapidamente mutata. Gli equilibri faticosamente raggiunti dopo la pace di Versailles furono subito rimessi in discussione perché il Führer, che aveva basato tutta la sua campagna elettorale sulla sottintesa promessa di una "rivincita" germanica per la guerra perduta, non tardò a mostrare la sua determinazione. Il 23 marzo si fece affidare i pieni poteri dal Reichstag e il 14 ottobre, con un gesto clamoroso, annunciò che la Germania si ritirava dalla Società delle Nazioni in segno di protesta per il fatto che le convenzioni internazionali le negavano la parità con le altre potenze europee in fatto di armamenti. Fu un gesto molto grave, ma il popolo tedesco, ormai galvanizzato dall'oratoria trascinante del neodittatore, lo approvò con un plebiscito, svoltosi il 12 novembre 1933, che raccolse il 95 per cento dei voti. Persino a Dachau, già in funzione come campo di concentramento, su 2242 prigionieri 2154 approvarono la sua decisione. Mentre l'Europa, e in particolare la Francia che negli ultimi sessant'anni era stata per due volte invasa dall'esercito tedesco, assisteva con ansia alla rinascita militare germanica, Hitler non perse tempo per avviare un programma di riarmo generale in aperta violazione di quanto stabiliva il trattato di Versailles. Anche Mussolini fu colto di sorpresa dall'irruzione delle "camicie brune" naziste sulla scena europea e, per la verità, non se ne rallegrò affatto. Benché avesse ufficialmente salutato l'evento con soddisfazione ("Un altro grande paese europeo si ribella con milioni di voti al crollante mito della democrazia!"), in privato non nascose i suoi dubbi e i suoi timori. Hitler non Pagina 23
arrigo petacco. FaccettaNera.txt gli piaceva, riteneva quell'uomo, sono parole sue, "un meccanico incerto nell'uso dei suoi strumenti" e un "tipo un po' risibile ed un po' invasato". Fra i due esisteva infatti un amore a senso unico: Hitler nutriva per il Duce un'ammirazione sconfinata, lo considerava il suo maestro e, appena eletto, aveva espresso la volontà di rendergli omaggio per proseguire "con tutte le mie forze quella politica di amicizia verso l'Italia che ho finora costantemente caldeggiata". Mussolini invece nicchiava e dilazionava per quanto possibile quell'incontro invocato dal Führer con affermazioni persino toccanti ("Quello sarà il più bel giorno della mia vita"). Oltre che per l'antipatia personale, Mussolini rinviava l'invito anche perché impegnato nelle trattative per stringere un "patto a quattro" di sua ideazione, con il quale sperava di razionalizzare la situazione europea costituendo una sorta di direttorio che doveva comprendere l'Italia, la Francia, l'Inghilterra e la Germania. Ma il principale motivo che lo induceva a mantenere una certa distanza da Hitler era la "questione austriaca". L'ex Austria asburgica, ridotta ai minimi termini dopo la fine della prima guerra mondiale, rientrava infatti nelle mire pangermanistiche del Führer, il quale considerava l'Anschluss, ossia l'annessione, l'esigenza primaria per la costituzione del Terzo Reich. Mussolini, che non ignorava il progetto hitleriano, era ovviamente di parere contrario. Preoccupato di ritrovarsi con i tedeschi al Brennero, il 17 febbraio 1934 si era fatto promotore di una dichiarazione tripartita, con Francia e Inghilterra, nella quale le tre potenze si facevano garanti delle "storiche e inalienabili funzioni di un'Austria indipendente". Poi, per consolidare ancor più l'amicizia italo-austriaca, il dittatore italiano invitò più volte a Roma il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, cui riconfermò la sua volontà di proteggere l'indipendenza dell'Austria dalle mire egemoniche germaniche. Anche Dollfuss, pur essendo di estrazione cattolica, era un ammiratore del Duce e, a differenza di Hitler, ne conquistò subito l'umana simpatia. "Malgrado la sua minuscola statura" dirà dì lui Mussolini (Dollfuss misurava meno di un metro e mezzo) "è un uomo di ingegno dotato di volontà". Capo di un partito cattolico conservatore, il cancelliere austriaco si stava incamminando verso un regime autoritario più per forza delle circostanze che per suo volere. Si trovava infatti in una posizione precaria: combattuto a sinistra da socialisti e comunisti, era inoltre insidiato a destra dal nascente partito nazista austriaco che, grazie agli appoggi sotterranei della vicina Germania, progettava di conquistare il potere anche con la violenza per realizzare il progetto hitleriano dell'Anschluss. Perciò, stretto fra due dittatori come il classico vaso di coccio, Dollfuss era stato alfine indotto a scegliere la protezione di quello italiano che, se non altro, era interessato a mantenere integra l'indipendenza austriaca. La spontanea corrente di simpatia sorta fra Mussolini e il piccolo cancelliere coinvolse in seguito anche le rispettive famiglie. Nell'estate del 1934, la graziosa Alwine Dollfuss fu ospite di Rachele Mussolini a Riccione e i figli dell'una giocarono sulla sabbia con quelli più giovani dell'altra. Nel frattempo, seguendo i consigli di Mussolini, Dollfuss aveva promulgato una nuova costituzione che, pur conservando qualche riverbero cattolico, istituiva uno Stato autoritario di tipo fascista con assemblee esclusivamente consultive. In pratica, una dittatura. Tale mossa non aveva mancato di esasperare Hitler il quale certamente non era contrario alla fascistizzazione dell'Austria, ma la voleva sotto il segno dell'unità tedesca, I rapporti italo-germanici erano dunque tutt'altro che idilliaci quando il 14 giugno 1934 ebbe luogo l'incontro con il Duce tanto agognato dal Führer. L'incontro si svolse a Venezia e fu apparentemente cordiale. In realtà non mancarono le frizioni. Nel momento in cui Adolf Hitler si affacciò dal portello dell'aereo. Mussolini sussurrò a Ciano: "Non mi piace" e quella frase, udita da un giornalista francese, fece subito il giro del mondo. Anche l'abbigliamento dei due uomini contribuì a sottolineare i contrasti esistenti tra loro. Mussolini accolse l'ospite in smagliante uniforme di caporale d'onore della Milizia, mentre l'altro indossava un impermeabile cachi stretto alla vita e un cappelluccio di feltro marrone che gli copriva il famoso ciuffo. Era pallido, intimidito, e il confronto con lo schieramento dei gerarchi fascisti lo innervosì ulteriormente. "Perché non mi avete detto che dovevo vestire l'uniforme?" sibilò stizzito ai suoi accompagnatori. Imbarazzante per Hitler fu anche l'atteggiamento del Duce, il quale, dopo i saluti di rito, lo accompagnò verso l'uscita dell'aeroporto mettendogli con protettiva familiarità una mano sulla spalla. Tale comportamento non sfuggì ai giornalisti stranieri, che non mancarono di sottolinearlo. "Adolf davanti a Cesare" titolò ironicamente un Pagina 24
arrigo petacco. FaccettaNera.txt quotidiano francese. Con queste premesse si giunse all'incontro diretto fra i due che quasi si trasformò in uno scontro. I giornali italiani, imbavagliati dalla censura, neppure ne accennarono, ma la stampa straniera riferì di pugni battuti sul tavolo e di scoppi di voci alterate dove spiccava la parola Österreich, Austria. Non sappiamo con esattezza cosa si dissero i due dittatori nel loro colloquio privato svoltosi nella villa Pisani di Stra, in quanto Mussolini, che si piccava di conoscere il tedesco, non volle interpreti e di conseguenza il tète-à-tète non ebbe testimoni. Certamente parlò molto di più il Führer perché il Duce si lamenterà in seguito della sua logorrea torrentizia. "Praticamente mi ha recitato tutto il Mein Kampf, un mattone di libro che non sono mai riuscito a leggere" confiderà più tardi al genero Galeazzo Ciano. Ma è sicuro che discussero a lungo dell'Austria, senza tuttavia giungere a un accordo sul suo destino. Quale fosse il temperamento di quell'ometto un po' imbranato che aveva accolto con sufficienza a Venezia, Mussolini ebbe modo di scoprirlo appena due settimane dopo. Il 30 giugno, infatti, nella famosa Notte dei lunghi coltelli Hitler fece infatti sterminare dalle SS le SA del suo rivale Ernst Rohm insieme ad altri oppositori: in tutto un migliaio di persone. La notizia turbò profondamente il Duce: "Quell'uomo spiritato e feroce" scrisse alla sorella Edvige "ha fatto ammazzare come cani i camerati che lo avevano aiutato a conquistare il potere. Sarebbe come se io facessi uccidere Dino Grandi, Italo Balbo, Giuseppe Bottai...". E ancora non si era seccato quel sangue che altro ne corse in circostanze ben più drammatiche. Il 25 luglio, elementi nazisti austriaci, con false divise dell'esercito, assaltarono fa Cancelleria federale di Vienna per poi irrompere, dopo avere ucciso le guardie, nello studio di Dollfuss. Il cancelliere, colpito da molti proiettili, morirà dissanguato poche ore dopo mormorando: "Volevo soltanto la pace. Dio li perdoni" e raccomandando a coloro che l'avevano soccorso di pregare il suo amico Mussolini di prendersi cura di sua moglie e dei suoi figli. La notizia di questo brutale assassinio raggiunse il Duce nella sua villa di Riccione dove, da due settimane, ospitava i familiari del cancelliere assassinato. Toccherà a lui l'amaro compito di informare Alwine Dollfuss e i suoi due bambini del tragico evento. Mussolini era poco incline alla vera amicizia, ma per il piccolo cancelliere provava effettivamente una personale simpatia. La sua morte lo addolorò profondamente e, spinto da tale sentimento, ma certamente anche dalla convinzione che Francia e Inghilterra si sarebbero schierate al suo fianco, senza consultare nessuno e senza perdere un'ora di tempo ordinò alle quattro divisioni di stanza nel Veneto di marciare verso il Brennero per manifestare chiaramente la sua decisione a difendere anche con le armi la libertà e l'indipendenza dell'Austria. Questo gesto risoluto e inatteso intimorì Hitler e frustrò tutti i suoi progetti annessionistici. Egli, che forse si attendeva le solite proteste formali attraverso la via diplomatica, non osò infarti reagire a un simile atto di forza. I golpisti austriaci furono in parte arrestati e gli altri si rifugiarono in Germania, mentre i "volontari" nazisti, già pronti a superare il confine austro-bavarese vennero prudentemente smobilitati. L'opinione pubblica europea approvò entusiasticamente il gesto compiuto dal "protettore dell'Austria", come venne subito definito Mussolini, e anche i governi di Francia e Inghilterra espressero pieno appoggio all'iniziativa italiana. Ma non accadde nulla di irreparabile. Chi temeva che la situazione degenerasse fu smentito dai fatti. Berlino incassò l'amaro boccone rinviando l'attuazione dell'Anschluss a tempi migliori, Londra fece sapere che non prevedeva "impegni nuovi" e Parigi si guardò bene dall'intervenire direttamente nella questione. Da parte sua, Mussolini, che forse si era atteso un sostegno più concreto per moltiplicare la forza persuasiva della sua azione, si accontentò del successo ottenuto e ne approfittò per richiamare le divisioni dal Brennero. Poteva infatti ritenersi soddisfatto: aveva fatto fallire il putsch nazista, a Vienna era tornata la normalità e lui aveva acquistato un prestigio personale di cui, d'ora in poi, le altre potenze avrebbero dovuto tener conto. Era l'unico capo di Stato europeo a essere riuscito a bloccare e a intimidire la rinascente potenza tedesca. Dopo di lui, fino al 1939, nessun altro avrebbe più osato imitarlo. In Italia, l'iniziativa del Duce fu accompagnata da una vigorosa campagna antitedesca fino a quel momento impensabile. I giornali umoristici si sbizzarrirono in piena libertà contro i poco virili "bellinazi" raffigurati nelle vignette come sculettanti biondini e giunsero persino a ironizzare sulla presunta omosessualità del Führer. Dal canto suo, la stampa italiana più autorevole sottolineò soprattutto le differenze tra fascismo e nazismo, mettendo Pagina 25
arrigo petacco. FaccettaNera.txt in rilievo le più odiose caratteristiche di quest'ultimo quali il razzismo e l'antisemitismo. Lo stesso Mussolini, che contribuì all'offensiva giornalistica pubblicando corsivi anonimi sul "Popolo d'Italia", in un suo famoso discorso pronunciato a Taranto ricordò agli italiani che trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d'oltr'Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto. Fu quello il momento peggiore nei rapporti fra i due dittatori, che si sarebbero riconciliati più tardi, grazie alla tenacia e all'astuzia di Hitler, il quale riuscirà alfine a conquistarsi, se non proprio l'amicizia, almeno la disponibilità del suo "maestro". Ma grazie anche alla cecità delle potenze democratiche che spingeranno fra le braccia del Führer un Mussolini recalcitrante. Come si è detto, il Duce maturava da tempo l'idea di conquistare l'Etiopia, ma furono gli avvenimenti austriaci a dargli l'impulso risolutivo. Certamente influirono anche altri motivi, tuttavia non risponde al vero quanto è stato affermato da molti storici, secondo i quali egli avrebbe affrontato l'avventura etiopica per rilanciare propagandisticamente il regime, risolvere i problemi occupazionali e placare il crescente malcontento popolare aggravato dalle conseguenze della famosa crisi del 1929. In realtà, quando Mussolini cominciò a prendere in seria considerazione questa iniziativa bellica, la crisi economica mondiale era in fase avanzata di superamento, il regime appariva più saldo che mai e godeva del suo momento di maggiore consenso a livello di massa. Anzi si può aggiungere che, semmai, la prospettiva di una guerra avrebbe potuto incrinare tale vasto consenso. Da buon pragmatico, il Duce colse semplicemente il momento propizio che la situazione internazionale gli offriva. Egli non ignorava che per realizzare il suo disegno imperiale era indispensabile ottenere via libera dalla Francia e dall'Inghilterra, ma riteneva che tale assenso non gli sarebbe stato negato dopo che, con il suo gesto risoluto, aveva dimostrato a Londra e Parigi quanto fosse indispensabile l'Italia per arginare la crescente minaccia germanica. Mentre Mussolini cercava un pretesto per riportare sui tavoli della diplomazia la questione etiopica, il 5 dicembre 1934, il famoso "incidente di Ual Ual" che gli fornirà il casus belli, cadde così a proposito che molti si ostinano ancora oggi a sostenere che fu organizzato dai nostri servizi segreti. In realtà non esiste un solo documento in grado di confermarlo. Anzi pare accertato che si trattò di un colpo di mano tentato dagli abissini. Ma esponiamo i fatti. Ual Ual era una località ricca di pozzi situata nella desertica "terra di nessuno" al confine fra la Somalia e l'Abissinia. Centro prezioso come abbeveratoio per le mandrie delle tribù nomadi, era di appartenenza incerta, ma fin dal 1925 era stato occupato dagli italiani che vi avevano costruito a difesa un fortino presidiato da alcune decine di dubat (gli ascari somali, chiamati così per via del loro caratteristico turbante bianco), affidati al comando del capitano Roberto Cimmaruta. Verso la fine di novembre del 1934, un migliaio di armati abissini guidati dal fitaurari Sciferra, governatore dell'Ogaden, giunsero a Ual Ual in servizio di scorta a una commissione anglo-etiopica incaricata della delimitazione dei confini. Rivendicando la proprietà etiopica del territorio, Sciferra ingiunse ai dubat di sgomberare, ma l'ufficiale italiano respinse l'ingiunzione e la situazione si fece subito incandescente. Vista la malaparata, la commissione si ritirò prudentemente mentre gli armati abissini, numericamente superiori, si accamparono attorno al fortino manifestando apertamente le loro intenzioni bellicose. Seguirono alcuni giorni di tensione: i pochi dubat e i molti abissini si fronteggiarono con il dito sul grilletto (Cimmaruta aveva l'ordine di sparare solo se attaccato) fino a quando, il 5 dicembre, gli assedianti assalirono in massa il fortino. I combattimenti si protrassero fino all'alba del giorno seguente, ma alla fine gli etiopi furono sbaragliati dai dubat di Cimmaruta grazie anche all'impiego di due piccole autoblindo e a un paio di aerei da caccia decollati dall'aeroporto italiano di Mogadiscio. L'incidente di Ual Ual, opportunamente ingigantito da ambo le parti, esplose sulla stampa europea e naturalmente finì sui tavoli della Lega delle Nazioni, alla quale il negus si era rivolto invocando l'articolo 11 del patto societario, secondo cui "ogni guerra o minaccia di guerra interesserà la Lega, che prenderà ogni iniziativa che possa risultare opportuna ed efficace". L'iniziativa etiopica non ebbe tuttavia una buona accoglienza da parte di Francia e Inghilterra, che normalmente pilotavano le decisioni dell'organizzazione internazionale. D'altra parte, la Lega era da tempo allo sbando, come lo sarà, Pagina 26
arrigo petacco. FaccettaNera.txt molti anni dopo, l'ONU al tempo della guerra del Golfo. Parigi e Londra continuavano a farla da padroni, ma la Germania ne era uscita sbattendo l'uscio, così come aveva fatto poco prima il Giappone, ostacolato per le sue mire sulla Cina. Gli Stati Uniti non avevano neppure preso in considerazione l'idea di associarvisi, mentre l'URSS era ancora un membro poco influente e guardato con sospetto. Si aggiunga poi che l'Etiopia non aveva certamente le carte in regola per presentarsi quale antagonista democratica dell'Italia, la cui permanenza nella Lega era particolarmente ambita. Nel frattempo Mussolini, che in precedenza aveva già alzato la voce contro i "frequenti incidenti di confine" provocati dalle formazioni irregolari etiopiche, dopo quello di Ual Ual, che si fondava su prove incontestabili, chiese ufficialmente, come risarcimento del danno subito, scuse ufficiali da parte dell'Etiopia, l'onore alla bandiera (ovvero il riconoscimento della sovranità italiana sui pozzi) e la consegna del fitaurari Sciferra che aveva guidato l'attacco. Con manovre laboriose, Francia e Inghilterra riuscirono a evitare che la questione fosse sottoposta al Consiglio della Lega (qualcosa di simile - anche per l'inefficacia - all'attuale Consiglio di sicurezza dell'ONU) e, ben decise a non scontentare l'Italia, convinsero Mussolini ad accettare un arbitrato di conciliazione da affidare alla solita commissione internazionale sulla cui utilità c'era ben poco da sperare. Ma ormai i tamburi di guerra contro l'Abissinia avevano iniziato a rullare. La stampa enfatizzò l'episodio di Ual Ual e gli italiani si strinsero attorno a Mussolini come non mai, in una sorta di crescente entusiasmo collettivo. Il mito della conquista del "posto al sole" tornava a esaltare soprattutto i giovani. L'idea di riscattare l'onta di Adua, di fondare un impero e di far vedere al mondo cosa fosse veramente l'Italia fascista suscitava vasti consensi. Mussolini, del resto, non faceva più mistero delle sue ambizioni coloniali e ammoniva "coloro i quali ci vorrebbero pietrificare al Brennero per impedirci di muoverci in qualsiasi altra parte dell'orbe terracqueo". Era una chiara antifona per fare intendere a Londra e a Parigi che se volevano l'Italia impegnata ad arginare l'espansionismo germanico dovevano in cambio lasciarle le mani libere in qualche altra parte dell'"orbe terracqueo". Il Duce era infatti consapevole che la sua progettata avventura africana aveva bisogno del consenso franco-britannico, mentre dell'eventuale intervento della Società delle Nazioni non si preoccupava più di tanto: se le due potenze egemoni gli davano via libera, la Lega, magari sdegnata, sarebbe rimasta a guardare. Si trattava dunque di convincere Francia e Inghilterra. Mussolini cominciò con la Francia, certo che gli inglesi, più pragmatici, sì sarebbero in seguito accodati. Ministro degli Esteri francese era allora Pierre Laval, un ambizioso uomo politico che sarà fucilato nel 1945 quale capo del governo collaborazionista di Vichy. Lui e Mussolini erano fatti per intendersi: avevano la stessa età, la stessa umile estrazione sociale ed erano stati entrambi socialisti rivoluzionari prima di approdare su sponde politiche opposte. Infatti si intesero subito durante il loro primo incontro, avvenuto a Roma fra il 4 e l'8 gennaio del 1935. Per entrambi la questione austriaca era sullo sfondo e Laval sperava che l'Italia, grata di avere avuto libertà d'azione in Abissinia, liquidata questa faccenda, si sarebbe di nuovo concentrata sul Brennero per frenare il dinamismo di Hitler che, malgrado il fallimento del putsch di Vienna, continuava implacabilmente a conquistare posizioni di forza in Europa. È difficile stabilire cosa i due uomini si dissero durante l'incontro romano. Ufficialmente, Italia e Francia si ripromisero dì consultarsi qualora l'indipendenza austriaca fosse stata minacciata. Decisero che i due paesi cooperassero per il mantenimento della pace e la Francia, riconoscendo l'ingiustizia subita dall'Italia a Versailles nella suddivisione delle spoglie coloniali, accettò uno statuto speciale per gli italiani residenti in Tunisia e cedette all'Italia 114.000 chilometri quadrati di deserto a sud della Libia (anche se in futuro risulterà ricco di petrolio, tale territorio era per il momento, come sottolineò lo stesso Mussolini, soltanto uno scatolone di sabbia), I due uomini si accordarono inoltre sui destini dell'Etiopia, ma tali accordi non furono messi a verbale, mentre la dichiarazione ufficiale venne scritta con il solito tortuoso linguaggio diplomatico che non è mai troppo esplicito e lascia sempre aperta qualche scappatoia che permetta ai contraenti di smentire quanto è stato detto. E, infatti, in seguito Laval potrà asserire, in malafede, di non avere affatto voluto intendere ciò che Mussolini effettivamente intese. Ossia che la Francia gli dava via libera per la conquista dell'Etiopia. Lo stesso Laval, d'altronde, al suo rientro a Parigi, si lasciò scappare questa frase significativa: "Ho venduto il negro", sulla quale i giornali si sbizzarrirono. Pagina 27
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Ma non è tutto. Indro Montanelli racconta che, dopo l'incontro, Mussolini, onde evitare possibili malintesi, inviò una lettera a Laval nella quale aveva trascritto per intero la formula del loro patto segreto. In essa, fra l'altro, si leggeva che "il governo francese non avrebbe ricercato in Etiopia la soddisfazione di altri suoi interessi che non fossero quelli economici relativi al traffico della ferrovia Gibuti-Addis Abeba". Ma ancora più eloquente era un altro capoverso della lettera in cui si precisava che "il governo francese si impegna, per quanto riguarda l'Etiopia - anche nel caso di modificazione dello statu quo della regione in oggetto - a non ricercare alcun vantaggio". Di questa lettera, Laval accusò ricevuta senza commenti. IV LA STAGIONE DEGLI INGANNI Alle 7.30 del 6 febbraio 1935 le caserme di Arezzo, Pistoia e Firenze, dove erano acquartierati tre reggimenti della divisione Gavinana, risuonavano della rumorosa attività dei giovani militari che si accingevano a partire per il campo invernale sull'Abetone. Erano previsti otto giorni di manovre, e già le colonne delle salmerie stavano per varcare i cancelli, quando alcuni sergenti affannati corsero a bloccare gli ingressi per ordinare alle truppe di rientrare immediatamente nei loro alloggi. Poche ore dopo Radio fante diffondeva per le camerate una sorprendente notizia: "La Gavinana è mobilitata per l'esigenza A.O.". In parole più semplici, la divisione era stata scelta per essere inviata in Africa orientale e precisamente nella nostra colonia Eritrea. Non era per il momento la guerra, ma l'evento sollevò qualche apprensione e tanto entusiasmo. All'inizio del 1935, la fascistizzazione dell'Italia non era ancora del tutto compiuta: mancavano l'abolizione del "lei", della stretta di mano, dei francesismi e di tutte le altre grottesche amenità che saranno inventate dal segretario del partito Achille Starace. Tuttavia il paese era già inquadrato militaristicamente e soggiogato da una tambureggiante propaganda che aveva come motivo guida il destino imperiale della patria. Le masse idolatravano Mussolini e consideravano un sacrosanto diritto il suo progetto di trasformare l'Italia in una potenza coloniale al pari di Francia e di Inghilterra. Il Duce però, a differenza di Hitler, che con la sua corsa al riarmo suscitava apprensioni e timori, cercava di tranquillizzare le grandi potenze con affermazioni rassicuranti. "Quando l'Italia avrà ottenuto delle colonie equivalenti" affermò in un'intervista al "Morning Post", "diverrà anch'essa un paese conservatore come tutte le potenze coloniali. L'Inghilterra e la Francia non avranno nulla da temere, perché l'Italia si unirà ad esse per la natura delle cose, in vista di una collaborazione per la sicurezza europea. Ma fino a quando l'Italia sarà senza le colonie che le sono necessarie, essa deve rimanere una fonte di agitazione." Nessun popolo ha mai desiderato la guerra, ma Mussolini grazie al suo carisma e alla sua eccezionale capacità propagandistica, riuscì a convincere gli italiani che l'impresa coloniale era giusta e necessaria. Il consenso popolare di cui godeva dipendeva da molti fattori: dalla diffusa sensazione che l'Italia stesse attraversando un momento eroico e fortunato; dalla certezza che la guerra che si annunciava fosse poco rischiosa e di sicuro esito trionfale e, non ultimo, dal fascino che esercitava l'avventura oltremare verso una terra esotica e nel contempo familiare per i ricordi del passato. Certo, quell'impresa comportava anche il rischio di lasciarci la pelle, ma molti lo sottovalutavano: il rapporto tra le forze era rassicurante e la spinta ideale ebbe il sopravvento. Anche chi non si lasciava infiammare dalla mistica dell'impero, era sensibile alle argomentazioni mussoliniane di vendicare Adua, di rispondere alle provocazioni abissine, di portare la civiltà in uno stato barbaro e schiavista e soprattutto di conquistare un territorio ricco - come dicevano, mentendo, i giornali - di oro, di platino e di altre preziose possibilità, che nell'immaginario collettivo si era rapidamente trasformato in un nuovo Eldorado in cui si sarebbe parlato soltanto italiano. E tale era l'entusiasmo che, anticipando il richiamo alle armi, molti giovani e meno giovani facevano la coda davanti agli uffici di arruolamento. Cominciarono a rientrare in Italia anche i figli dei nostri emigranti per indossare il grigioverde o la camicia nera. Pur di essere reclutati, molti offrirono addirittura delle bustarelle; numerosi sottufficiali finirono infatti davanti al tribunale militare accusati di avere intascato quattrini per favorire l'accettazione delle domande di arruolamento degli aspiranti volontari. I quali raggiunsero in totale una cifra spropositata: 1.750.000! Nessun'altra guerra del passato ne aveva mai contati tanti. Frattanto i giornali continuavano ad attizzare odio e rancore verso i "selvaggi" Pagina 28
arrigo petacco. FaccettaNera.txt abissini. Dopo Ual Ual furono registrate novantuno provocazioni fra sconfinamenti, aggressioni e scorrerie di bande armate. Da parte sua, Mussolini provvedeva a mantenere alta la temperatura con discorsi minacciosi e infuocati. "Noi abbiamo piombo per i neri e anche per i biondi!" annunciò in un discorso ai reparti volontari accampati a Eboli che non fu riportato dalla stampa. Difficile stabilire se ce l'avesse con i tedeschi o con gli inglesi che avevano cominciato a mettergli i bastoni fra le ruote. Ma, come si diceva, non era ancora la guerra. Anzi è molto probabile che Mussolini allora non pensasse alla conquista dell'intera Abissinia, ma soltanto a un consistente allargamento dei nostri confini coloniali. D'altra parte, il contingente inviato nelle colonie consisteva di due divisioni (la Gavinana e la Peloritana) oltre a un "gruppo" di battaglioni di camicie nere, per un totale di circa 35.000 uomini. Pochi più della metà di quanti ne aveva mandati Crispi trentanove anni prima al generale Baratieri. Comunque sia, le promesse, poi ritrattate, di Laval convinsero Mussolini che il momento dell'azione si stava avvicinando. Pochi giorni dopo il suo incontro con il ministro francese, spedì in Eritrea il generale Emilio De Bono, sia pure sotto la veste poco appariscente di alto commissario per le Colonie. De Bono era un militare altamente politicizzato: fascista della prima ora e quadrunviro della marcia su Roma, aveva ricoperto importanti incarichi nel partito nonché quelli di ministro dell'Interno e di ministro delle Colonie. L'Eritrea la conosceva bene per aver partecipato come tenente di fanteria alla campagna del 1887, che portò al massacro di Dogali, del quale era stato uno dei pochi superstiti. In seguito, vi aveva compiuto altre visite in qualità di ministro. L'incarico affidato a De Bono consisteva in un sopralluogo politico-militare "in vista di una eventuale azione offensiva contro l'Etiopia". Ma il generale non ignorava che Mussolini, in caso di guerra, gli avrebbe affidato il comando delle operazioni per dare una concreta "impronta fascista" alla conquista dell'impero. Frattanto, ottenuto il placet francese, il Duce diede il via a un'abile azione diplomatica per ottenere anche dall'Inghilterra un consenso ufficiale o, quanto meno, sottinteso. Ai primi di febbraio, lo stesso Laval andò a Londra per riferire al governo britannico il risultato degli accordi italo-francesi stipulati a Roma in merito alla posizione da assumere sul riarmo tedesco e l'indipendenza dell'Austria, mentre nel contempo il nostro ambasciatore Dino Grandi esercitava la propria influenza negli ambienti politici londinesi favorevoli all'Italia. Ma a dare una mano a Mussolini nella sua azione intesa a sottolineare l'importanza dell'apporto italiano per il mantenimento dello statu quo in Europa, contribuì anche Adolf Hitler. Ignorando la minaccia dei patti franco-anglo-italiani, il dittatore nazista continuò infatti imperterrito la sua politica revanscista. Il 13 gennaio 1935, una settimana dopo gli accordi di Roma, la popolazione della Saar, piccola regione tedesca di confine ancora occupata dagli Alleati, venne chiamata a scegliere tra l'annessione alla Francia o alla Germania e la risposta fu plebiscitaria: 467.000 votarono per il rientro nel Terzo Reich contro appena 47.000 voti a sfavore. Ignorando le (imitazioni stabilite dal trattato di Versailles, poche settimane dopo, il 13 marzo, il maresciallo Hermann Göring annunciò la creazione della Luftwaffe, l'aeronautica militare, e il 16 marzo Hitler deliberò unilateralmente il ripristino del servizio militare obbligatorio, fissando in 36 divisioni gli effettivi della Wehrmacht, il nuovo esercito tedesco. La Germania nazista dava così inizio alla costruzione della potente macchina bellica che avrebbe fatto tremare il mondo. Ora i soldati e gli aviatori tedeschi che avevano compiuto clandestinamente il loro addestramento indossando false uniformi quali "ospiti" dell'esercito italiano o dell'Armata Rossa, una volta rientrati in patria provvidero liberamente a istruire a loro volta le reclute della Wehrmacht. Un ricorso allarmato della Francia alla Società delle Nazioni per le inaudite violazioni del trattato di Versailles rimase lettera morta sui tavoli di Ginevra. Da parte sua, Mussolini, in un estremo tentativo di fermare quella valanga, invitò in Italia i rappresentanti delle tre potenze europee sperando di poter dare una "direzione collegiale" all'Europa, ma la Germania respinse l'invito. Anche l'istanza etiopica contro l'atteggiamento aggressivo italiano giaceva sui tavoli della Lega quando i capi dei governi italiano, francese e inglese si riunirono a Stresa dall'11 al 14 aprile del 1935. L'argomento principale all'ordine del giorno era naturalmente il revanscismo tedesco, ma in realtà l'Italia, che aveva assunto il ruolo di "nazione pilota", cercava oltre a questo un assenso per la sua progettata impresa in Abissinia. Inutile dire che nel mondo intero e soprattutto in Europa vivissima era l'aspettativa per questa Pagina 29
arrigo petacco. FaccettaNera.txt conferenza dei tre "grandi" del momento. Dall'incontro del premier britannico James Ramsay MacDonald e del primo ministro francese Pierre Flandin con Benito Mussolini l'opinione pubblica si attendeva un rassicurante atto di volontà che valesse a fermare le iniziative di Hitler. L'Italia fascista, paese ospite (Mussolini presiederà tutte le sedute della conferenza), non rinunciò a rendere ancor più spettacolare quell'importante evento. Tanto per cominciare, il Duce arrivò a bordo di un idrovolante, che pilotava personalmente, ed eseguì un perfetto ammaraggio davanti alla folla plaudente, ai reparti schierati della Milizia e agli oltre quattrocento giornalisti stranieri giunti da ogni parte del mondo. Applausi e fanfare salutarono la delegazione inglese, guidata da MacDonald e dal capo del Foreign Office John Simon, che giunse l'indomani. Poi tutti insieme. Mussolini in testa, andarono ad accogliere alla stazione la delegazione francese guidata da Flandin e da Laval. A parte le manifestazioni esteriori improntate a grande cordialità, le tre potenze convenute nello splendido Grand Hotel des ìles Borromées si mossero in un'atmosfera piuttosto ambigua e reticente. Ufficialmente si impegnarono a costituire un fronte contro la Germania, ma in realtà ciascuno di essi mirava a trovare una soluzione ai propri problemi nazionali. La Gran Bretagna perseguiva il disegno di guadagnare tempo per "scaricare" Hitler contro l'Unione Sovietica, considerata dai conservatori britannici la "bestia nera". E infatti Londra, che dopo il nostro attacco all'Abissinia si indignerà per "la mancanza di lealtà italiana", già allora stava negoziando in segreto con Berlino quel patto navale che sarà firmato il 18 giugno e che per la Lega delle Nazioni costituirà un colpo assai più duro di quello infer-tole dall'Italia con l'aggressione all'Etiopia. Quel patto navale, che consentiva alla Germania di potenziare la sua flotta, dimostrava infatti che l'Inghilterra non era sfavorevole all'espansionismo tedesco in Europa purché Hitler trattasse con Londra. La Francia, invece, stava segretamente operando una politica di riavvicinamento con un "elemento nuovo", ossia con la Russia bolscevica, un paese che in passato, quando ancora regnavano gli zar, era stato un ottimo alleato dei francesi. Considerata la malafede complessiva dei partecipanti, non c'è quindi da stupirsi se a Stresa nacque un equivoco di ampie dimensioni. D'altra parte, in diplomazia non si usa mai esprimere esplicitamente ciò che si desidera, ma lo si fa con parole sfumate, mezze frasi, vaghi accenni che possono essere capiti solo da chi ha orecchie per intenderli, ma che possono anche essere facilmente smentiti. Infatti Mussolini non chiese ai suoi interlocutori il permesso di conquistare l'Etiopia, tuttavia quando gli venne sottoposto il testo della dichiarazione finale, in cui si affermava che le tre potenze si trovavano completamente d'accordo nell'opporsi a qualsiasi evento che potesse "mettere in pericolo la pace nel mondo", disse: "Mettiamo "la pace in Europa", così non assumiamo impegni troppo vasti." Davanti a questa proposta di correzione, Flandin, con uno sguardo d'intesa, commentò: "Ho capito, ho capito, voi non volete assumere impegni riguardanti l'Africa." MacDonald non disse nulla, ma guardò Simon, che non sollevò obiezioni, mentre Laval si limitò a fare un sorriso d'assenso. La variante suggerita dal Duce, in forza della quale l'impegno dei tre per la pace escludeva l'Africa, fu quindi accettata. Di Mussolini, ha osservato Indro Montanelli, si può dire tutto il male che si vuole a proposito della guerra d'Etiopia, "ma almeno un merito non può essergli contestato: quello di avere agito, verso inglesi e francesi, con sincerità assoluta". Dopo l'incontro di Stresa egli ritenne infatti che, sia pure protestando, anche l'Inghilterra si sarebbe rassegnata all'occupazione italiana dell'Etiopia, e a ragione: chi tace acconsente. In seguito spiegò inoltre ai suoi interlocutori cosa voleva fare e perché Io voleva fare. Non nascose neppure che l'incidente di Ual Ual gli aveva fornito la comoda scusa per una finzione diplomatica. Soltanto in seguito, quando Mussolini si era ormai tagliato i ponti alle spalle, gli inglesi mutarono indirizzo sostenendo che a Stresa non avevano capito le intenzioni aggressive del dittatore italiano, anche se questa giustificazione non è affatto convincente. D'altronde, mentre i tre "grandi" erano ancora riuniti nel Grand Hotel des Iles Borromees, già le navi cariche di truppe italiane navigavano verso l'Etiopia e gli inglesi non potevano ignorarlo, sia per il tambureggiare propagandistico che ne faceva la stampa italiana sia perché erano "padroni" del canale di Suez, attraverso cui procedevano i nostri convogli. In realtà, come vedremo, all'origine del ripensamento britannico vi erano motivi di politica interna. MacDonald e il suo successore Stanley Baldwin furono infatti violentemente attaccati dall'opposizione laburista che, oltre a Pagina 30
arrigo petacco. FaccettaNera.txt pretendere il pieno appoggio dell'Inghilterra alla Società delle Nazioni cui si era rivolta l'Abissinia, godeva anche del totale favore dell'opinione pubblica tradizionalmente pacifista. Di fronte all'opposizione laburista e all'allarmismo suscitato dalla stampa di destra, la quale paventava il rischio che l'Italia, dopo avere conquistato l'Etiopia, tentasse di realizzare un congiungimento con la Libia, a spese dei possedimenti britannici e con il sostegno dei movimenti indipendentisti arabi, i governanti inglesi si comporteranno in maniera così confusa e contraddittoria da ottenere il risultato di esasperare Mussolini e di sacrificare l'Etiopia senza farsi amica l'Italia. Intanto, mentre appena sei giorni dopo i colloqui di Stresa in Italia venivano mobilitate altre tre divisioni per l'"esigenza A.O.", una serie di avvenimenti straordinari sgretolava a uno a uno i patti e le intese che sorreggevano i delicati equilibri europei. L'Inghilterra, già ai ferri corti con l'Italia, giunse ai limiti di rottura anche con la Francia quando venne rese noto il patto navale - stipulato all'insaputa di Parigi e in dispregio alle convenzioni della Lega - che consentiva alla Germania di disporre di una forza navale uguale a quella dell'Italia e di poco inferiore a quella francese. Da parte sua, Laval corse a Mosca per intendersi con Stalin onde creare una minaccia alle spalle di Hitler, mentre nello stesso tempo i francesi intimoriti acceleravano la conclusione dei lavori per la costruzione della Linea Maginot. Per la fretta dimenticheranno di fortificare alla frontiera belga il varco di Montmédy, attraverso il quale nel 1940 i tedeschi passeranno a bandiere spiegate. L'accordo Stalin-Laval portò scompiglio anche nel mondo politico francese. Leon Blum, leader socialista del Fronte popolare che pochi mesi dopo avrebbe vinto le elezioni, non voleva credere alle proprie orecchie. "Ma come?" protestò sgomento. "Il compagno Stalin si allea con il governo che noi combattiamo!" A quell'epoca il brutale cinismo staliniano era ancora una novità. A consolazione del governo francese giunsero invece gli accordi militari fra il maresciallo Pietro Badoglio, capo dello stato maggiore italiano, e il generale Maurice Gamelin, comandante supremo dell'Armée, al termine dei quali Mussolini poté annunciare al mondo: "La Francia e l'Italia costituiscono un blocco di 85 milioni di uomini, per parlare solo dell'Europa ... Posseggono un'attrezzatura industriale e militare che non si può considerare di second'ordine: insomma una forza che non sarebbe facile eliminare". Era un messaggio diretto a Hitler, che, oltre a minacciare la Francia, aveva manifestato la sua benevolenza verso Hailè Selassiè. Nessuno immaginava ancora come si sarebbe risolta poi quella fase aggrovigliata della vita europea alla vigilia della guerra d'Abissinia. "Mai visto un cretino vestito così bene" sibilò Mussolini osservando con occhio sprezzante l'ospite che, bello, alto, biondo, in completo grigio dal taglio impeccabile, si allontanava fra i commessi gallonati, gli arazzi e i quadri d'autore che arricchivano le pareti della Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia. Era il 24 giugno 1935 e Anthony Eden, astro emergente all'orizzonte politico britannico, aveva reso visita al capo del governo italiano quale latore di una proposta di soluzione della vertenza con l'Etiopia messa a punto dal governo Baldwin, da poco succeduto al gabinetto di MacDonald. Ad affidargli l'incarico era stato il nuovo capo del Foreign Office Samuel Hoare, con una scelta a dir poco infelice. Se infatti si volesse individuare la causa prima delle incomprensioni fra Italia e Gran Bretagna, che poi sfoceranno in aperta inimicizia, è proprio nel rapporto personale tra questi due uomini che bisognerebbe andare a cercarla. Robert Anthony Eden, baronetto di antica nobiltà, uscito da Eton e dalla Scuola per gli alti studi orientali di Oxford, da otto anni in diplomazia, era convinto, come ammettono i suoi biografi, che l'umanità si dividesse in due categorie: i common people, la gente comune, e gli aristocratici inglesi delle classi alte di cui faceva parte. "In lui" scriverà a sua volta il diplomatico Raffaele Guariglia "non si poteva dire se predominasse l'ottusità, l'improntitudine o il disprezzo assoluto, non tanto verso la politica italiana, quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse." Considerando le umili origini di Mussolini, il suo temperamento, il suo passato, il suo misero diploma magistrale e il dettaglio non trascurabile che il trentottenne visitatore britannico era di quindici anni più giovane di lui e di altrettanti centimetri più alto, è naturale che i due statisti provassero sull'istante una reciproca repulsione. Il "figlio del fabbro" definirà il suo visitatore un "gelido figurino", mentre Sir Anthony sentenzierà a sua volta che "il signor Musso", così lo chiamava con sufficienza, "non è un gentleman". Come se ciò non bastasse, a rendere ancora più astioso quel loro primo incontro contribuì un singolare incidente di cui fu vittima il compassato rappresentante del governo di Sua Maestà britannica. Attraversando la Sala del Mappamondo di Pagina 31
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Palazzo Venezia, Eden inciampò in un tappeto e cadde bocconi ai piedi di Mussolini, il quale non riuscì a trattenere una sonora risata. L'inviato del governo britannico era allora titolare del neonato dicastero per i Rapporti con la Società delle Nazioni (diventerà ministro degli Esteri soltanto alcuni mesi dopo). Era quindi un "societario" convinto, anche se il governo britannico si era già reso conto che quell'organismo internazionale aveva ormai fatto il suo tempo; tanto è vero che siglò l'accordo navale con Hitler senza neppure consultarlo. E proprio per giustificare quell'intesa unilaterale, Eden, prima di giungere a Roma, si era incontrato a Parigi con il ministro Laval. Il colloquio fra Eden e Mussolini durò un paio d'ore e fu, Com'era facile prevedere, a dir poco tempestoso. Dai verbali e dalla ricostruzione dei testimoni e degli storici se ne ricava un quadro abbastanza chiaro. Mussolini si lamentò per la stipulazione dell'accordo navale anglo-tedesco e osservò risentito che era piuttosto curioso che Eden fosse venuto a Roma a difendere la santità dei trattati, visto che era stata la Gran Bretagna la prima a non tenerne conto. Superato lo scabroso argomento. Eden presentò il cosiddetto "progetto Zeila" studiato dagli inglesi (all'insaputa della Francia che ne sarebbe risultata danneggiata) per risolvere la crisi etiopica. Esso consisteva nell'assegnamento da parte dell'Inghilterra all'Etiopia di un corridoio verso il mare lungo la Somalia britannica, mediante una ferrovia che sarebbe sboccata a Zeila, piccolo porto sul mar Rosso. In cambio del suo consenso, l'Italia avrebbe ricevuto dall'Etiopia la provincia dell'Ogaden oltre ad alcune concessioni economiche da determinare. Dopo un rapido esame della carta geografica posata sul tavolo, Mussolini non ebbe esitazione a respingere la proposta con un secco no. Poi ne chiarì le ragioni. Il progetto era inaccettabile, in primo luogo perché con lo sbocco sul mare, sia pure a spese degli inglesi, l'Etiopia ne sarebbe uscita rafforzata, diventando una potenza marittima; in secondo luogo perché l'Inghilterra sarebbe apparsa come la protettrice dell'Abissinia; in terzo luogo perché l'Italia per ragioni di prestigio non poteva accettare "doni" da altre potenze. "Ci pesa ancora" disse "qualche caso del genere che abbiamo nella storia della Costituzione del Regno d'Italia" (si riferiva al Veneto "donato" da Napoleone III a Vittorio Emanuele II dopo la seconda guerra d'indipendenza). Mussolini osservò ancora che il "progetto Zeila" era inaccettabile anche perché avrebbe raccolto sotto la bandiera inglese tutto il commercio dell'Etiopia ai danni della linea ferroviaria Gibuti-Addis Abeba, della quale Laval aveva ceduto nel frattempo all'Italia un cospicuo numero di azioni. Respinta dunque in blocco la proposta britannica, Mussolini concluse affermando brutalmente che restavano solo due soluzioni per il "caso Etiopia": una pacifica, l'altra militare, La soluzione pacifica significava la "cessione in nostro diretto dominio di tutti i paesi non di razza etiopica conquistati per l'Abissinia da Menelik e dai suoi successori, più il controllo del nucleo centrale". La soluzione militare, invece, non avrebbe significato nient'altro che "la cancellazione dell'Etiopia dalla carta geografica". Più chiaro di così il Duce non poteva essere e quel primo colloquio si concluse in un'atmosfera di reciproca ostilità. Su richiesta di Eden i due statisti tornarono a incontrarsi il giorno seguente. L'atmosfera non era affatto mutata. Nel corso del colloquio, secondo indiscrezioni di fonte incerta, si registrarono vivaci battibecchi. Eden avrebbe ammonito Mussolini ricordandogli che la strapotente flotta britannica era pronta a entrare in forze nel Mediterraneo, ma questi, per niente impressionato, avrebbe commentato con un sorriso malizioso: "Dipenderà, poi, da noi se potrà uscirne". Eden avrebbe allora minacciato la chiusura del canale di Suez, e l'altro pronto: "Sappiamo già come riaprirlo". Ma forse si tratta di affermazioni a uso della propaganda. Di sicuro sappiamo che il Duce respinse con asprezza e pesante ironia i "compensi" offerti dall'Inghilterra, ossia la provincia dell'Ogaden, osservando che l'Italia non poteva accontentarsi "di una mezza dozzina di palmizi in una landa desolata dove non c'è neppure una pecora". E aggiunse subito dopo: "Non intendo passare alla storia come un collezionista di deserti". Successivamente Mussolini indicò a Eden sulla carta geografica le regioni del Tigrè , dello Scioa e del Goggiam, conquistate da Menelik e ora rivendicate dall'Italia, specificando che il territorio lasciato a Hailè Selassiè sarebbe stato sottoposto a una sorta di protettorato italiano. "Come avete fatto voi con l'Egitto" precisò con un'occhiata significativa. Eden respinse la proposta italiana e chiese di mettere a verbale che, "purtroppo, il punto di vista italiano non è condiviso dal governo di Sua Maestà", ma fece aggiungere, con uno sforzo di diplomazìa, che il tempo poteva ancora accomodare le cose. Da parte Pagina 32
arrigo petacco. FaccettaNera.txt sua, Mussolini fece mettere a verbale quanto segue: "Il capo del governo italiano se può dare un consìglio alla Gran Bretagna è quello di lasciarci fare. In poche anni trasformeremo il Paese e sarà un vantaggio per tutti. L'Abissinia nelle regioni più alte può dare lavoro a centinaia di migliaia di italiani. Noi non piglieremo l'iniziativa di uscire dalla Società delle Nazioni, ma bisogna che ci mettano nelle condizioni di non doverne uscire". Non era una rottura fra Italia e Inghilterra, ma poco ci mancava. La sera, tuttavia, durante un ricevimento in onore dell'ospite all'albergo Excelsior, l'ambasciatore britannico James Eric Drummond cercò di salvare almeno le apparenze. Mussolini, che aveva trascorso il pomeriggio a Castel Porziano, si presentò in tenuta casual (pantaloni bianchi, giacca con il rinforzo ai gomiti, camicia aperta senza cravatta) mentre Eden e gli altri erano in abbigliamento formale. Raggiunto da un diplomatico inviato dall'ambasciatore per pregarlo di avvicinarsi a Eden affinché il loro disaccordo non risultasse evidente, il Duce rispose risentito: "La distanza tra noi è esattamente uguale. Se vuole parlare con me, che venga qui lui". Eden non venne e Mussolini se ne andò poco dopo senza salutarlo. Intanto continuavano a partire verso l'Africa orientale navi cariche di operai e di soldati, mentre il Duce faceva fremere i cuori degli italiani attraverso la radio - uno strumento del quale si era perfettamente impadronito - toccando le corde patetiche dei sentimenti e suscitando impulsi emotivi e immagini suggestive. Per esempio, in un famoso discorso alla Camera, rivolse il suo pensiero "ai fanti della Peloritana scaglionati sull'oceano Indiano, lungo la linea dell'Equatore, a ottomila chilometri di distanza dalla Madre Patria". Ai suoi appelli, come si è detto, risposero migliaia di volontari delle estrazioni e delle provenienze più diverse, con i quali si diede vita a legioni che più anomale non potevano essere. Una di queste era formata dai veterani delle campagne d'Africa combattute prima del 1900. Un'altra dai feriti e dai mutilati della prima guerra mondiale. Un'altra ancora raccoglieva i figli degli italiani residenti all'estero, arrivati a centinaia da ogni parte del mondo. C'era infine la legione giovanile dei GUF, i Gruppi universitari fascisti. I nostri grandi transatlantici carichi di truppe che salpavano da Napoli e da Livorno erano salutati da folle immense radunate attorno alle banchine dei porti. Anche lungo le sponde del canale di Suez i nostri "legionari" (così li aveva ribattezzati Mussolini che non perdeva occasione di richiamarsi alla storia di Roma imperiale) venivano accolti da manifestazioni di simpatia da parte di folte rappresentanze della colonia italiana in Egitto. In quei giorni diventò famosa in Italia una bella ragazza barese, Maria Uva, che accompagnava le nostre navi da terra, in automobile, sulla strada parallela al canale, conversando con i soldati affacciati alle murate. Avvolta in un tricolore, la giovane cantava inni patriottici, in particolare Faccetta nera, la canzone più in voga del momento. Maria Uva fu, in un certo senso, la mascotte o la madrina della nostra impresa coloniale. Tutti i legionari si ricorderanno di lei perché tutte le navi italiane dirette a Port Tewfik all'altro capo del canale, sullo sbocco nel mar Rosso, ricevettero il suo entusiastico saluto. Al termine del conflitto etiopico Maria Uva, che aveva ricevuto innumerevoli proposte di matrimonio, sarà decorata con la medaglia della campagna d'Etiopia per il suo fervore patriottico. A Port Said, i piroscafi venivano accolti "amichevolmente" anche dalle salve di saluto della corazzata britannica Barham e dai due cacciatorpediniere Active e Antilope, che erano i cani da guardia del canale. La nostra stampa riferiva soddisfatta che i marinai inglesi assiepati sui bordi gridavano "Viva il Duce" e salutavano romanamente le truppe italiane in transito. Ma il governo britannico non si dimostrava altrettanto amichevole, anzi il suo atteggiamento si faceva di giorno in giorno più minaccioso e la situazione presentava gravi incognite. L'eventuale chiusura del canale di Suez, infatti, avrebbe totalmente isolato l'Italia e tagliato fuori il nostro corpo di spedizione. A Londra, intanto, regnava l'incertezza riguardo alla posizione da assumere in quel frangente. Alcuni ministri, come Eden, erano convinti che Mussolini, conquistata l'Etiopia, si sarebbe avventato sull'Egitto e sul Sudan, mentre parte dell'opinione pubblica conservatrice e in particolare Winston Churchill, che per Mussolini nutriva grande simpatia, erano propensi a dargli credito e a permettergli di "sfogarsi". Tuttavia gli orgogli nazionali, lo squilibrio tra le forze, il divario di ricchezze e di potere d'influenza nel mondo rendevano difficile trovare una soluzione. A peggiorare le cose intervenne a questo punto il Peace Ballot, il grande referendum popolare indetto in Inghilterra dall'Unione per la difesa della Società delle Nazioni. Come si è già detto, la Lega ginevrina viveva giorni difficili. Gli stati partecipanti Pagina 33
arrigo petacco. FaccettaNera.txt badavano soprattutto ai propri interessi e le convenzioni internazionali, approfittando della debolezza della Lega, venivano continuamente violate. Il referendum proposto dall'Unione mirava perciò a rinvigorirla così da garantire la pace nel mondo, la giustizia sociale, l'indipendenza dei popoli e tutte le altre belle utopie che entusiasmano l'opinione pubblica. Manco a dirlo, dal referendum scaturì una volontà "societaria" assoluta. Quasi all'unanimità gli inglesi chiesero il ripristino dell'autorità della Lega, la riduzione degli armamenti, nonché severe sanzioni verso i paesi aggressori. In Inghilterra mancavano pochi mesi alle elezioni e il governo Baldwin scoprì, da un giorno all'altro, che la causa di Hailè Selassiè, tradotta in termini elettorali, avrebbe garantito una sicura vittoria. Fu per questa ragione, anche se molti tardarono a capirlo, che l'Inghilterra si trasformò di punto in bianco nello strenuo difensore dell'indipendenza etiopica contro le minacce italiane. Eden, animato da uno spirito di crociato, sì precipitò a Ginevra per persuadere gli esitanti e creare le basi di quella presa di posizione societaria che sarebbe scattata al primo gesto di aggressione. Il ministro degli Esteri Samuel Hoare, che simpatizzava per Mussolini avendolo conosciuto sul fronte italiano quando lui era un giovane tenente e l'altro un semplice caporale dei bersaglieri, cambiò rapidamente registro e si fece minaccioso: "È giunta l'ora" dichiarò "di bloccare Mussolini affinché Hitler ne prenda nota". Il giorno seguente il mondo, già scosso dai forti accenti uditi a Ginevra, apprese che non si trattava solo di parole. La Home Fleet, la flotta britannica levava le ancore per dirigersi ancora una volta, come ai tempi di Napoleone, verso il Mediterraneo. Il 20 settembre, mentre il mondo tratteneva il fiato, le prue delle navi da battaglia fendevano il Mare nostrum. Era una flotta imponente: 6 corazzate, 17 incrociatori, 53 cacciatorpediniere, 11 sommergibili e altre unità minori e ausiliarie. Contemporaneamente, la Mediterranean Fleet, già presente, veniva concentrata ad Alessandria e si rafforzavano le guarnigioni di Malta e di Aden. Sull'invio di questa imponente forza navale nel Mediterraneo si è molto discusso. Inquadrato nel contesto delle altre iniziative, il gesto dimostrava chiaramente una precisa volontà di ostacolare l'impresa italiana. A Roma, negli ambienti più moderati si temette il peggio e corsero persino voci che pronosticavano le dimissioni del Duce e la sua sostituzione con il generale Badoglio, mentre le componenti più esaltate del regime fantasticavano su irrealistici colpi di mano. Italo Balbo, allora governatore della Libia, propose addirittura di attaccare con i suoi aerei la flotta britannica. Nessuno, insomma, se la sentiva di escludere l'eventualità di un conflitto italo-britannico e il mondo intero era in allarme. In tutto questo trambusto, soltanto Mussolini mantenne i nervi a posto, manifestando una calma serafica che non mancò di sorprendere gli osservatori. Ora ne conosciamo le ragioni. Renzo De Felice, che ha indagato meglio di chiunque altro nella psicologia e negli archivi del Duce, ha infatti rivelato il segreto della sua sorprendente imperturbabilità. Da qualche tempo, il SIM, il nostro efficientissimo servizio di informazioni, aveva introdotto un suo agente nell'ambasciata britannica di Roma, il quale era in grado di fotografare il contenuto dei documenti più segreti custoditi nella cassaforte dell'ambasciatore. Grazie a queste preziose informazioni, Mussolini ebbe la possibilità di scoprire che l'azione degli inglesi era soltanto dimostrativa, ossia un clamoroso bluff. Risultava infatti che la Home Fleet non solo non era in grado di tenere il mare in caso di guerra perché priva di una efficiente protezione antiaerea, ma anche che - e questo era l'elemento decisivo - il suo munizionamento le consentiva non più di una mezz'ora di fuoco. Puntando tutte le sue carte sul bluff britannico in un momento dì massima tensione internazionale, egli sfidò dunque apertamente la più lampante dimostrazione di potenza dell'Inghilterra, e prese la sua decisione finale. Il bluff fu scoperto e la Home Fleet umiliata. II 2 ottobre 1935, alle dieci del mattino, il Duce fu ricevuto dal re al Quirinale. Vittorio Emanuele era stato a lungo perplesso sull'opportunità dell'avventura africana. L'idea di riuscire dove suo padre Umberto I aveva fallito gli sorrideva e desiderava sinceramente lavare l'"onta di Adua", ma i suoi consiglieri, compreso Badoglio, lo trattenevano. Mussolini espose al sovrano i motivi - probabilmente anche quelli segreti - che lo avevano spinto ad assumere quella decisione e Vittorio Emanuele approvò. "Sapevo, eccellenza," gli disse "quasi tutto quello che lei mi ha schiettamente riferito. So pure dell'opposizione, cauta ma viva, che si è diffusa fra i suoi principali collaboratori. M'hanno informato e so i nomi di molti generali e ammiragli che paventano e discutono troppo. Ebbene, adesso il suo vecchio Re le dice: Duce, Pagina 34
arrigo petacco. FaccettaNera.txt vada avanti: ci sono io alle sue spalle... Avanti le dico!". Alle sei e mezzo del pomeriggio, il Duce si affacciò al balcone di Palazzo Venezia davanti alla consueta "folla oceanica" e pronunciò uno dei suoi più infuocati discorsi: "Camicie nere della rivoluzione. Uomini e donne di tutta Italia. Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti, oltre i mari. Ascoltate! Un'ora solenne sta per scoccare nella storia della Patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia". E continuò con parole suggestive e demagogicamente sapienti presentando l'Italia come vittima e la Lega delle Nazioni come sopraffattrice. Ricordò che dopo la vittoria comune, che ci era costata 670.000 morti, 400.000 mutilati, 1.000.000 di feriti, "attorno al tavolo dell'esosa pace non toccarono all'Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui ... Con l'Etiopia abbiamo pazientato quarant'anni. Ora basta!". E aggiunse dopo il lunghissimo applauso della folla: "Alle sanzioni economiche opporremo la nostra disciplina, la nostra sobrietà, il nostro spirito di sacrificio. Alle sanzioni militari risponderemo con misure militari. Agli atti di guerra risponderemo con atti di guerra ... Ma sia detto ancora una volta e nella maniera più categorica - io ne prendo impegno sacro davanti a voi - che noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma la portata di un conflitto europeo. Ciò può essere nei voti" sottolineò riferendosi evidentemente al revanscismo tedesco "di coloro che intravedono in una nuova guerra la vendetta di templi crollati, non nei nostri". V UNA GUERRA ALL'AMERICANA All'alba del 3 ottobre 1935, senza essere precedute da una dichiarazione di guerra ufficiale, le avanguardie del nostro corpo di spedizione varcarono quella che per quarant'anni era stata per gli italiani "la frontiera della vergogna". Il confine fra l'Eritrea e l'Etiopia correva lungo il Mareb, un fiumiciattolo che sfociava nel mar Rosso, mentre verso l'interno risaliva il corso del Setit fino al confine con il Sudan anglo-egiziano. Secondo gli accordi di massima, il generale Emilio De Bono, nominato comandante superiore delle truppe, avrebbe dovuto dare inizio alle operazioni il giorno 5, ma Mussolini affrettò i tempi con un telegramma di questo tenore: "Ti ordino di iniziare avanzata sulle prime ore del 3, dico 3 ottobre. Attendo immediata conferma". E De Bono dovette anticipare di quarantott'ore tutto il dispositivo d'attacco senza tuttavia incontrare particolari difficoltà, poiché il negus aveva ordinato al grosso delle sue truppe di ritirarsi di 30 chilometri dalla frontiera. La decisione di Hailè Selassiè, però, non era stata dettata dal timore o dalla prudenza. Gli abissini intendevano semplicemente consentire agli italiani di incunearsi nel territorio per poi sommergerli con le loro armate. Infatti, a differenza di quanto sostiene la vulgata antifascista che presenta l'Abissinia come un povero paese di innocui pastori vittima di una feroce aggressione, a Addis Abeba soffiava da tempo un vento bellicoso. Tutti, dal negus all'ultimo ras, erano sicuri di sconfiggere quegli odiosi italiani che per la seconda volta osavano sfidare il Leone di Giuda. "Li sgozzeremo tutti come montoni" garantivano i ras mentre radunavano le loro truppe desiderose di menare le mani. Hailè Selassiè era inoltre convinto che quando i suoi guerrieri fossero entrati nelle colonie italiane, tutti gli abitanti, compresi gli ascari, si sarebbero ribellati e avrebbero accolto l'esercito abissino come un esercito liberatore. Ma si sbagliava: fra gli ascari non si registreranno diserzioni degne di nota, anzi combatteranno con onore mantenendosi fedeli alla bandiera italiana fino all'estremo sacrificio, mentre fra le popolazioni dell'Eritrea non si verificheranno episodi insurrezionali. Questo accadde per la semplice ragione che gli eritrei, al di là degli storici rancori che nutrivano verso gli scioani, gli Amhara e i loro ras avidi e corrotti che li avevano sfruttati e venduti come schiavi, stavano meglio sotto gli italiani che sotto gli abissini. D'altronde, la differenza tra i due sistemi di vita era enorme: di qua strade, ospedali, acquedotti e giustizia, di là miseria, sopraffazione e quant'altro. A riprova di quanto fosse più confortevole vivere nelle colonie italiane, avvenne anche che molti di coloro che a suo tempo erano fuggiti in Etiopia tornarono poi delusi nei loro villaggi d'origine. Soltanto quindici giorni dopo il passaggio del Mareb gli abissini cominciarono a farsi vivi. Il loro esercito, affidato al comando del ministro della Guerra, ras Mulughietà, si era messo in marcia con intenzioni bellicose. Prima di lasciare Addis Abeba, il vecchio signore della guerra aveva fatto sfilare in parata i suoi reparti e poi, brandendo la spada e lo scudo di pelle di rinoceronte con i quali aveva combattuto quarant'anni prima a Adua, si era rivolto al negus con Pagina 35
arrigo petacco. FaccettaNera.txt queste parole: "Maestà imperiale, non lasciatevi prendere troppo dalla politica. La vostra debolezza sta nel fatto che vi fidate troppo degli stranieri: cacciateli via a calci. Cosa ci fanno qui tutti quegli sciocchi della stampa? Io sono pronto a morire per la patria e anche voi lo siete. Ora siamo in guerra e per dirigerla è meglio che restiate a Addis Abeba, ma cacciate via tutti gli stranieri". L'imperatore, però, non diede ascolto ai consigli del suo ministro. Ci teneva a passare per un sovrano moderno ed era consapevole che il mondo avrebbe guardato alle vicende abissine attraverso gli occhi di "quegli sciocchi della stampa". Per questa ragione, conoscendo le barbare abitudini dei suoi guerrieri, si raccomandò affinché rispettassero le proprietà e le riserve granarie dei villaggi che avrebbero attraversato e, soprattutto, affinché non si abbandonassero, com'erano soliti fare, alle violenze e agli stupri. Ma le sue raccomandazioni furono ignorate: Mulughietà era un ras all'antica, conosceva i suoi uomini e sapeva che se voleva farsi seguire doveva consentire alle truppe di comportarsi secondo i loro costumi, per quanto barbari fossero. Il piano operativo italiano fu messo a punto sotto la supervisione dello stesso Mussolini, che voleva essere, sia pure da Palazzo Venezia, il vero condottiero di quella guerra. Non a caso si era attribuito la guida, oltre che dei ministeri dell'Interno e degli Esteri, di cui era già titolare, anche dei dicasteri militari: Esercito, Marina e Aeronautica, oltre a quello delle Colonie. Il dispositivo da lui concepito prevedeva l'attraversamento del Mareb da parte di tre corpi d'armata. Il primo, comandato dal generale Ruggero Santini, aveva come obiettivo Adigrat, il secondo, schierato sulla destra e capeggiato dal generale Pietro Maravigna, doveva puntare su Adua, mentre il terzo, costituito dai reparti indigeni e guidato dal generale Alessandro Pirzio Biroli, doveva muovere verso la conca dell'Enticciò. Dall'Eritrea si mossero dunque le colonne del più potente esercito europeo che fosse mai stato visto in terra d'Africa prima di allora. Il Duce non voleva correre rischi. "Voglio peccare per eccesso e non per difetto" disse. "Perdemmo Adua per poche migliaia di uomini in meno. Questa volta non succederà." Complessivamente De Bono disponeva di oltre 150.000 uomini, 156 carri, 126 aerei, migliaia di mitragliatrici e centinaia di cannoni. Altri 60.000 soldati ben riforniti di mezzi erano schierati sul "fronte sud", ossia in Somalia, agli ordini del generale Rodolfo Graziani. Insieme alle truppe erano giunti in Africa anche migliaia di lavoratori volontari da impiegare per ingrandire il porto di Massaua, costruire edifici, impianti idrici e soprattutto strade. Con essi erano arrivati anche centinaia di camionisti destinati a diventare i veri eroi di questa guerra di movimento: ne moriranno molti per adempiere ai loro compiti, resi particolarmente difficili, oltre che dagli agguati, dai comprensibili problemi logistici che era necessario affrontare in un territorio selvaggio solcato da rare piste praticabili. Questi quantitativi di uomini e di mezzi, già allora notevoli, saranno largamente superati nel proseguo del conflitto, tanto che gli storici definiranno "americana" tale guerra, in quanto fu l'unica che l'Italia combattè con abbondanza di uomini, di mezzi e di rifornimenti. Emilio De Bono aveva allora settant'anni suonati, ma ancora sognava la gloria militare. Messo a riposo come generale di corpo d'armata alla fine della prima guerra mondiale, aveva alle spalle una camera senza infamia e senza lode, nel corso della quale non era mai emerso dalla mediocrità. Il suo grado e la sua appartenenza alla casta militare tuttavia favorirono il suo successo in politica. Fascista della prima ora e amico personale del Duce, era stato, come si è già detto, quadrunviro del fascismo (ossia membro, con Italo Balbo, Michele Bianchi e Cesare Maria De Vecchi del "quadrunvirato" che agli ordini di Mussolini aveva organizzato la marcia su Roma), poi ministro dell'Interno, ministro delle Colonie, governatore della Libia e commissario per le Colonie. A tardissima età, fra la costernazione degli ambienti militari, gli fu infine affidato il prestigioso incarico di comandante supremo delle operazioni in Africa orientale. Benché sconsigliato dal capo di stato maggiore Pietro Badoglio, che non stimava De Bono e ambiva a prenderne il posto. Mussolini lo scelse sia per "fascistizzare" la guerra, sia perché, volendosi attribuire tutti i meriti della vittoria, questo comandante, al contrario del maresciallo, avrebbe sicuramente evitato di fargli ombra. De Bono era consapevole della sua "sovranità limitata"; lo ammette con franchezza in un suo curioso diario, inedito e sgrammaticato, riesumato dal giornalista Franco Fucci. Così infatti scriveva il generale alla vigilia dell'attacco: Quel porco di Badoglio ha cercato di farmi un tiro. Gli tirava il roccolo di venire lui a fare l'operazione. Ma ora ha dovuto smettere l'idea. Mussolini che Pagina 36
arrigo petacco. FaccettaNera.txt qui gioca il tutto per tutto (me lo ha detto lui!) non permetterebbe certo che qualcuno gli si mettesse davanti. La gloria, se sarà gloria, deve essere tutta sua. È troppo persuaso che il regime ha bisogno della gloria militare. Non sfuggiva però a De Bono il gravoso impegno che lo attendeva. "Quando penso che corro verso i settantanni," confidava nel diario "mi domando se ho coscienza della responsabilità che mi assumo. Comunque sarà un bel canto del cigno." Il vecchio quadrunviro non difettava tuttavia di buon senso. Al contrario di tanti generali che in guerra si lamentano sempre di non avere mai uomini e mezzi a sufficienza, lui era preoccupato dal fatto che Mussolini quasi sempre raddoppiava quanto da lui richiesto senza rendersi conto dei problemi logistici che quella profusione di forze provocava. "Il Principale non lesina" annotava De Bono. "Lui manderebbe giù tutto l'esercito, tutta la marina e tutta l'aviazione, senza pensare a come qui si possono alloggiare e far vivere. Purtroppo, il Capo è un orecchiante di cose militari. Fosse stato almeno sottotenente di complemento! Farebbe meno fesserìe." All'inizio del conflitto, Mussolini ammassò in Africa cinque divisioni del Regio esercito (Gavinana, Gran Sasso, Sila, Sabauda, Cosseria) e cinque di camicie nere (23 Marzo, 28 Ottobre, 21 Aprile, 3 Gennaio e 1° Febbraio). Queste ultime facevano parte della MVSN, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che era l'esercito del regime, composto di volontari, ovviamente fascisti. I militi si distinguevano dai soldati del Regio esercito per le uniformi, i simboli, i gradi e il soldo (soprattutto il soldo!), nonché per la loro preparazione militare, notevolmente inferiore. Sotto il grigioverde i militi indossavano la camicia nera e al posto delle tradizionali stellette portavano due "fascetti" di allumino. Anche i copricapi erano diversi: fez o baschi neri invece della bustina, ma in Africa era di rigore per tutti il casco coloniale di sughero. Ossessionato dall'idea di collegare il suo regime con la Roma dei Cesari, Mussolini aveva fatto ricorso alla gerarchia in uso nelle legioni romane. La Milizia era suddivisa in manipoli, centurie, legioni. Anche i gradi, distribuiti peraltro con prodigalità per meriti politici e non militari, recavano l'impronta romana: il centurione equivaleva al capitano, il seniore al maggiore, il console al colonnello e il luogotenente al generale. Ma su questa forzata equivalenza gerarchica, lo stato maggiore dell'esercito aveva trovato da ridire. Si era alfine stabilito che, in caso di mobilitazione, l'ufficiale della Milìzia richiamato per qualsiasi ragione alle armi nel Regio esercito avrebbe riacquisito il grado ricoperto durante il normale servizio militare. Capiterà infatti a molti centurioni o consoli di ritrovarsi sergenti o tenenti. Considerata tale premessa, è facile arguire che fra esercito e Milizia non corresse buon sangue. I soldati non simpatizzavano con i militi, meglio pagati di loro e più privilegiati. Li consideravano "firmaioli", pelandroni e scansafatiche. Ironicamente traducevano la sigla MVSN che li distingueva in "Mai Visto Sudare Nessuno". L'eco di questo dissidio emerge anche dal diario dì De Bono il quale, benché fascista, aveva evidentemente più stima per l'esercito che per le CCNN, le camicie nere. Così infatti scriveva: Prevedo che le CCNN mi daranno dei fastidi grossi. Quelli di Roma me ne hanno mandato un mucchio. Armi in disordine, senza mutande né fasce di lana ... Hanno ufficiali non rispondenti ai gradi militari. Come si comporteranno ora che devono lavorare? Ho dei dubbi. La notte scorsa una sentinella spaventata si è messa a sparacchiare: colpi da tutte le parti, allarmi. E siamo a 130 chilometri dal nemico. Ma lì arrangio io! Che sporche carogne! Furti e pare anche violenza alle donne. Ma li faccio castrare tutti come è vero Dio! Anche oggi ho ricevuto un rapporto indiziario del lazzaronismo di quella gentaglia. Ogni 27 settembre, tradizionale ricorrenza della festa del Mascal, della Croce, gli abissini usavano accendere una pira al centro della quale era conficcato un palo. Se il palo cadeva dalla parte dove andava il fumo, era presagio di vittoria, se cadeva dalla parte opposta, di sconfitta. Anche in quel 27 settembre 1935, sei giorni prima dell'attacco, ras Sejum Mangascià, governatore del Tigrè , volle accendere personalmente il falò e il palo, opportunamente guidato da fili invisibili, cadde nella direzione giusta suscitando l'entusiasmo dei guerrieri, che improvvisarono una "fantasia" agitando scimitarre, fucili e zagaglie. Allo stesso trucco ricorse il generale Pirzio Biroli per galvanizzare i suoi ascari, che si esibirono pure loro in eccitanti fantasie guerresche. Gli ascari furono i primi ad aprire la nostra avanzata. Erano protetti dai quindici carri armati del capitano Ettore Grippa e seguiti a breve distanza dalle truppe nazionali con le loro colonne di bagalì, i caratteristici muletti eritrei, carichi di viveri e di cartucce. L'attacco da terra era stato preceduto da un massiccio bombardamento aereo prima su Adua e poi su Adigrat. L'incursione era stata condotta dalla squadriglia chiamata La Disperata, dal nome di una Pagina 37
arrigo petacco. FaccettaNera.txt squadra fascista toscana. La comandava il ministro Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, il quale continuerà a dirigere anche "dal campo" il dicastero della Stampa e della Propaganda di cui era rimasto titolare. Con Ciano, volavano anche altri gerarchi "volontari", fra i quali Alessandro Pavolini e Roberto Farinacci, nonché Bruno e Vittorio, i figli non ancora ventenni del Duce. Uno di questi, Vittorio, così descriverà la sua azione: Lo cerco, lo individuo, cronometro il tempo, mollo prima gli spezzoni e poi le bombe da 31 chilogrammi, poi ancora spezzoni. Ma non ottengo che magri effetti forse perché mi aspettavo esplosioni immani, tipo film americani, mentre qui le casette degli abissini, fatte di creta e di sterco, non danno nessuna soddisfazione... Questa prima fase della campagna ebbe un andamento rapido, da blitz. Il 5 ottobre venne presa Adigrat e il giorno seguente Adua fu finalmente "vendicata". Gli italiani si impadronirono quasi senza colpo ferire della mitica città, che poi non era altro che una miserabile borgata popolata di poveracci seminudi, i quali si strinsero attorno ai conquistatori chiedendo "mangeria" e ripetendo un verso che i nostri soldati ridendo scambiarono per il "coccodè" delle galline. In realtà dicevano "coat, coat", "vestiti" in inglese. La conquista di Adua, per tutti i ricordi e le frustrazioni che questo nome comportava, sollevò in Italia un'ondata di entusiasmo sicuramente spontanea. "Adua sei vendicata / sei ritornata a noi..." cantavano le soubrette degli avanspettacoli avvolgendosi nel tricolore. Ma non si mancò di piangere i primi caduti. Il tenente Mario Morgantini, comandante della Banda del Seraè, avanguardia indigena della Gavinana, fu il primo a morire alla testa dei suoi ascari. Poi seguirono il caporale Marino Gasparini di Meolo e il fante Fiorino Crucianelli di Castelromualdo, ai quali avevano somministrato l'estrema unzione i nostri numerosi cappellani (spesso più soldati che preti) che si spingevano arditamente nelle prime linee. Inoltre, la stampa nazionale diede molto rilievo alla defezione del degiac Gugsà, il primo dei tanti capi abissini che si lasceranno conquistare da quella che lo storico Giovanni Artieri, allora corrispondente di guerra, definiva scherzosamente "la cavalleria di san Giorgio", alludendo all'immagine raffigurata sulle sterline, grazie alle quali gli inglesi si erano impossessati di gran parte del loro impero. Gli italiani, comunque, non distribuirono sterline ma gli argentei talleri di Maria Teresa di cui i ras erano avidi. Il disertore Gugsà era genero di Hailè Selassiè, avendone sposato una figlia, morta avvelenata in un'oscura tragedia di corte, da cui aveva avuto origine il suo tradimento. Oltre all'odio per il negus e all'amore per i talleri, il degiac coltivava anche altri interessi. "La prima cosa che mi ha chiesto" racconta De Bono nel suo diario "è stata: "Quando mi sarà consentito di andare a Roma per conoscere finalmente delle donne bianche?". Non l'ho accontentato." In compenso, lo nominò solennemente governatore del Tigrè davanti alla popolazione di Adigrat. Il primo atto ufficiale compiuto da De Bono subito dopo l'inizio del conflitto fu (a liberazione degli schiavi. E non poteva non farlo: l'abolizione della schiavitù era il principale motivo con cui l'Italia giustificava l'aggressione all'Etiopia davanti alla Lega delle Nazioni. Questo provvedimento, che nella società etiopica ebbe una portata rivoluzionaria, non sortì tuttavia il risultato che De Bono sperava. "Devo ammettere" ricorda nel suo diario "che il bando non fece grande effetto sui proprietari di schiavi e forse meno ancora sugli stessi schiavi liberati. Molti di costoro, appena messi in libertà, si presentarono al comando per chiedere: "E ora chi ci darà da mangiare?"." Fece effetto invece sull'animo dei giovani intellettuali che si erano arruolati volontari, certi che fosse un loro dovere ("il fardello dell'uomo bianco") portare in Africa luce e civiltà. Ma anche gli altri soldati erano in genere animati da stimoli umanitari e comunque non razzisti. D'altronde lo dimostravano cantando convinti: "Faccetta nera, sarai romana... " oppure: "E se l'Africa si piglia / si fa tutta una famiglia". Il sottotenente Indro Montanelli, che comandava il 20° battaglione, una banda irregolare del Corpo eritreo di Pirzio Birolì, ebbe l'incarico di leggere e di far tradurre il bando antischiavista in un villaggio occupato ed ecco cosa scrìsse in proposito: Mi parve bellissimo cominciare ia mia carriera di conquistatore distribuendo ai conquistati la libertà. Ero contento di me, ero contento del mio Paese, ero contento della sorte che mi aveva affidato una parte sia pure minuscola, in quella grande impresa di redenzione. E se quella notte una pallottola mi avesse sorpreso nel sonno, sarei morto bene, in pace con la mia coscienza, cioè con Dio e con gli uomini. Pagina 38
arrigo petacco. FaccettaNera.txt La rapida avanzata di De Bono, spronato da Mussolini, a parere degli esperti fu piuttosto avventata. Il terreno attraversato era montuoso, selvaggio e favorevole alle imboscate. Per questa ragione, Badoglio aveva suggerito che inizialmente fossero impiegate soltanto le bande indigene. De Bono mandò invece avanti 30.000 soldati nazionali attraverso l'unico ponte costruito sul Mareb. Il rischio era stato grande e il maresciallo Badoglio, dopo un'ispezione al fronte abissino, sia per giustificare le sue precedenti apprensioni, sia per sottolineare l'avventatezza del comandante, così riferì a Mussolini: In questa azione siamo stati assistiti dalla fortuna. Abbiamo avuto di fronte un solenne minchione: ras Sejum ha dimostrato di avere le stesse caratteristiche, notevolmente peggiorate, di suo padre ras Mangascià. Se invece di Sejum avessimo avuto un ras Alula, certamente avremmo avuto alcune migliaia di perdite. Sia dunque lodato ras Sejum Mangascià. Per De Bono neanche una parola di elogio. Contemporaneamente all'attacco da nord, dalla Somalia, il generale Rodolfo Graziani, comandante del fronte sud, si mise in movimento con le sue truppe, composte per un terzo da battaglioni indigeni di dubat. Preceduto da intensi bombardamenti aerei, Graziani conquistò a uno a uno tutti i presidi abissini praticamente senza colpo ferire. Soltanto il presidio di Gorrahei, difeso dal coraggioso comandante del fronte sud abissino, il degiac Afeuork, resistè eroicamente per alcuni giorni finché egli, ferito a una gamba, non ordinò la ritirata. "Tutta la zona pare arata dalle bombe" riferirà Graziani dopo la conquista del presidio. "Non c'è tratto che non sia sconvolto, non c'è angolo che non sia squarciato da una buca. L'azione aerea è stata formidabile: le sue tracce lasciano facilmente immaginare cosa sia stato il tormento degli abissini che, pazzi di terrore, non hanno più resistito e sono fuggiti col loro capo morente." Dopo la conquista di Adua e Adigrat, De Bono decise di effettuare una sosta per riorganizzare le sue truppe. Ma Mussolini aveva fretta. Intendeva concludere le operazioni prima della fine di novembre e quindi continuava a spronarlo. Lui, di malavoglia, obbedì e proseguì l'avanzata fino ad Axum, dove giunse il 14 ottobre. Axum, piccola città dell'altopiano eritreo a 2150 metri sul mare, era per gli abissini molto più importante di Adua. Era, ed è tuttora, il "cuore sacro" dell'Abissinia. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Capitale di un regno e di una civiltà risalenti ai tempi biblici, è ancora oggi il più importante centro religioso abissino, nonché storica residenza dell'abuna, il papa della religione copta. Nella sua pittoresca cattedrale, dedicata a santa Maria di Sion, furono incoronati tutti gli imperatori d'Etiopia. Ricca di reperti archeologici, vanta un numero incredibile di superbe stele scolpite, alcune delle quali ancora erette, collocate sopra le tombe dei più importanti personaggi. Una di esse, alta 24 metri e nota come "l'obelisco di Axum", dopo la conquista dell'Etiopia fu recuperata dai nostri archeologi e il 28 ottobre 1937 sistemata, per volere di Mussolini, sul piazzale di Porta Capena, dove ancora si trova in attesa di essere restituita all'Etiopia che la reclama. Ma il mistero più suggestivo che ammanta questa antica città riguarda l'Arca dell'alleanza, ossia quell'"Arca perduta" alla cui spericolata ricerca andò l'attore Harrison Ford nelle vesti di Indiana Jones, protagonista di tre famosi film diretti da Steven Spielberg. Secondo le Sacre Scritture, l'Arca, la reliquia più sacra del culto israelitico, conteneva le due tavole che Dio consegnò a Mosè sul monte Sinai. Era, così si racconta, in legno di acacia, rivestita all'esterno e all'interno di lamine di oro puro, con quattro anelli d'oro per le stanghe di trasporto. Sopra si trovava il propiziatorio, un coperchio rettangolare, sempre in oro, alle cui estremità erano collocate due teste di cherubini. Nessun testimone attendibile l'ha mai vista di persona, ma è sempre stata al centro di tante leggende e molti in passato si sono avventurati alla sua ricerca, animati dalla stessa fede dei mìtici cavalieri di re Artù che inseguivano il sogno di trovare il Santo Graal. Secondo la leggenda abissina, la regina di Saba, che regnava ad Axum, dopo essere andata a far visita a re Salomone, figlio di David e re di Israele, ebbe da lui un figlio chiamato Menelik, il quale, recatosi più tardi a Gerusalemme per conoscere il genitore, avrebbe trafugato (o, in base a un'altra versione, ricevuto in dono dal padre) la preziosa Arca che testimoniava l'alleanza di Dio con gli uomini. Da allora essa sarebbe ancora gelosamente custodita dai sacerdoti di Axum nel makdas, il santuario della cattedrale nel quale venivano incoronati gli imperatori d'Abissinia. Oggetto sacro per il popolo, gli vengono attribuiti portentosi miracoli. Si narra, per esempio, che Menelik sconfisse gli italiani a Adua dopo avere pregato davanti all'Arca nascosta da una tenda Pagina 39
arrigo petacco. FaccettaNera.txt damascata, poiché, così si favoleggiava, chiunque avesse osato guardarla avrebbe perso immediatamente la vista. Tuttavia, in epoca più recente, malgrado la maledizione che la circonda, qualcuno ci avrebbe provato. Si racconta in particolare di due misteriosi turisti israeliani che, superati innumerevoli ostacoli, riuscirono a contemplarla. Secondo la loro descrizione (peraltro non dissimile da quella tramandata dalle Antiche Scritture), l'Arca consisterebbe in una cassa a forma dì parallelepipedo di materiale indecifrabile, ma apparentemente dorata. Misurerebbe un metro per 70 centimetri e sarebbe chiusa da un coperchio decorato da due teste di cherubini con le ali congiunte dietro la nuca, e poggiata su un piedistallo. Si narra inoltre che la misteriosa visita dei due presunti archeologi israeliani allarmò molto i sacerdoti di Axum, non dimentichi del famoso blitz con cui gli aerei cargo israeliani, diversi anni fa, prelevarono e trasportarono in Israele i 30.000 falascià etiopici, ossia gli ebrei neri discendenti di un'antica comunità trasferitasi nella zona al tempo della diaspora. Per ora, tuttavìa, nessuno si è fatto vivo e, probabilmente, anche in questo caso si tratta di leggenda. D'altra parte se l'Arca fosse effettivamente conservata ad Axum non si capirebbe perché i conquistatori italiani si sarebbero lasciati scappare questo prezioso reperto. Emilio De Bono sognava la gloria militare, ma era refrattario ai romanticismi. Dell'Arca dell'alleanza, forse, non aveva mai sentito neppure parlare e infatti il suo diario tace in proposito. Non lesina invece critiche né imprecazioni nei confronti di Mussolini, che con telegrammi perentori insisteva a spronarlo perché continuasse l'avanzata, mentre lui era ben deciso a non muoversi finché non avesse riorganizzato le sue truppe. Ecco, per esempio, un suo sgangherato commento dopo uno di questi incitamenti indesiderati: "Fianco destr', per fila sinistr'! Per me Mussolini si mette in un vicolo cieco. Andare avanti, e dopo? Come potrò essere rifornito? Non vorrà mica mandare l'Italia a remengo!". Tutto sommato, la prudenza di De Bono era più che giustificata. L'esercito abissino si stava muovendo e sul fronte nord continuavano ad affluire le armate dei ras Cassa e Immirù mandate in appoggio a quella di ras Sejum. Ognuno di loro comandava decine di migliaia di guerrieri che eccellevano per coraggio, mobilità e diretta conoscenza del terreno. Difettavano invece, per fortuna nostra, di coordinamento e ignoravano del tutto la tecnica della guerriglia che avrebbe sicuramente messo in crisi l'esercito italiano. Infatti, per tutta la durata del conflitto, i ras abissini, anziché optare per la tattica del "mordi e fuggi" che avrebbe giocato a loro favore, cercheranno solo il classico scontro frontale in cui gli italiani, meglio armati e protetti dall'aviazione, avranno sempre la meglio. Intanto, a Roma, Mussolini mordeva il freno. La tattica ritardatrice di De Bono lo indispettiva e cominciava a pensare di avere compiuto un errore affidando il comando delle truppe a un generale troppo "politico" e troppo vecchio. Da parte sua, Badoglio non perdeva occasione per criticare gli indugi ingiustificati del quadrunviro, e non solo. Nel suo rapporto al Duce sosteneva che tutto il comando in Africa era pervaso "dall'idea di attendere" e per dimostrarlo elencava esempi di questo tenore: "Il generale Santini ha in costruzione una casa a Adigrat, mentre il generale Maravigna ha richiesto il mobilio per l'arredamento di una casa di quattordici camere a Adua". Inoltre, per ricordare a Mussolini l'età avanzata del suo rivale, Badoglio aveva aggiunto con finta comprensione una maligna pennellata finale. Riferendosi a una sua visita al generale dopo che questi era caduto da cavallo, scriveva: "Secondo me lo sforzo fatto ha non poco esaurito le riserve di S.E. De Bono. A vederlo in molti, troppi momenti, dà l'impressione di un uomo stanco, quasi sfinito". Insomma, come osserva lo storico Franco Bandini, avanzare vittoriosamente era, secondo Badoglio, facilissimo e non esistevano ragioni per rifiutare di farlo. Se De Bono si ostinava nel suo atteggiamento prudente, pareva volesse dire, la spiegazione era una sola: rimbambimento senile. Il rapporto di Badoglio al Duce fu presentato il 3 novembre, lo stesso giorno in cui De Bono, bombardato dai telegrammi di Mussolini che gli ordinava "di riprendere l'azione con obiettivo Macallè-Tacazzè" aveva effettivamente ripreso l'avanzata. Sei giorni dopo, con il solo intoppo di uno scontro con gli abissini, si compì un'altra "gloriosa" riconquista, quella di Macallè, che vendicava il sacrificio di Galliano. Per l'Italia fu di nuovo gran festa, come per Adua. De Bono, però, la pensava diversamente. "Macallè" scrive nel diario "è un sitaccio della malora come tutti gli altri qui. Le truppe sono bene a posto, ma certo non in grado di proseguire l'avanzata." Ma Mussolini neppure gli lasciò il tempo di prendere fiato. "Ti ordino" gli telegrafò il giorno seguente "di muovere senza indugio con le truppe indigene verso l'Amba Alagì dove cadde Pagina 40
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Toselli". La risposta di De Bono, questa volta, fu piuttosto risentita. Il suo telegramma di replica diceva: "A parte doloroso ricordo storico, che secondo me non abbisogna di rivendicazione, posizione di Amba Alagi non ha alcuna importanza strategica et est tatticamente difettoso perché aggirevole ovunque". Nel diario De Bono risulta ancor più determinato: "Me l'aspettavo: incompetenza, orecchiantismo, malafede. Ho risposto a dovere". Povero De Bono, forse fu proprio quel dispaccio a segnare la fine della sua breve campagna africana e l'avvento di Badoglio. Scoccava, come scrive Indio Montanelli, l'ora del marchese del Sabotino (per gli ammiratori) e del responsabile di Caporetto (per i denigratori). A un comandante in capo fascista ne seguiva uno che non era né fascista né antifascista. Era semplicemente badogliano. Il maresciallo era l'ultimo della lista degli aspiranti alla successione di De Bono presentata a Mussolini (era preceduto da Balbo, De Vecchi, Baistrocchi e Graziani), ma la scelta del Duce cadde su di lui. Dovendo scegliere non un politico, ma un militare, Badoglio era certamente il migliore. De Bono ricevette la comunicazione del suo licenziamento attraverso un telegramma "segreto e personale" inviatogli da Mussolini che, dopo la secca comunicazione ufficiale, così proseguiva: Ritengo che questo mio messaggio non ti arrecherà soverchia sorpresa, perché tu sai per esperienza che ogni ciclo di attività ad un certo punto deve essere concluso; che un po' di riposo ci vuole e che non bisogna esigere troppo dalla fortuna quando sia stata per un certo tempo propizia. Ti comunico che quale tuo successore ho scelto il maresciallo Badoglio. Nell'attesa di rivederti, ti abbraccio con immutata cordialità. Da parte sua, De Bono confidava nel suo diario in data 16 novembre 1935: Tornato ieri alle 16 da Macallè al comando, ho trovato qui il telegramma del mio richiamo. Stamane un altro telegramma mi preannuncia il Maresciallato. Promoveatur ut amoueatur. Mi viene a sostituire... Badoglio! Bei gesuiti! Il bastone di maresciallo d'Italia attendeva dunque il settantenne generale. Lui ne andò fiero, anche se riconobbe che si trattava di un contentino. Ma la più grande soddisfazione gliela darà, senza volerlo, lo stesso Badoglio che, malgrado la promessa di far presto, sarà costretto, come De Bono, a segnare il passo, a sistemare le retrovie e a procedere con la massima prudenza infischiandosene però delle sollecitazioni imperiose di Mussolini. VI IL RUGGITO DEL TOPO La risposta della Lega delle Nazioni all'aggressione italiana dell'Etiopia fu immediata e altisonante, anche se si rivelerà minacciosa quanto "il ruggito del topo". La Lega era infatti in crisi da tempo e aveva dovuto subire pesanti umiliazioni. Questa era dunque l'occasione di dimostrare che ancora non era morta del tutto. Sotto la spinta britannica e in particolare del ministro Eden, che andava sempre più incarnando la figura retorica della "perfida Albione" già coniata da Mussolini, il 7 ottobre 1935 il Consiglio di sicurezza dell'organizzazione ginevrina votò una risoluzione contro l'Italia che, scatenando il conflitto, "aveva commesso un atto di guerra contro tutti gli altri membri della Lega". Circa la condanna da infliggere all'aggressore si discusse parecchio: sanzioni economiche o sanzioni militari? Queste ultime sarebbero state certamente più gravi, ma alla fine venne scelta la misura più blanda. Dopo quattro giorni di dibattito tra falchi e colombe, si decise infatti a maggioranza (52 contro 4) di infliggere all'Italia le sanzioni economiche fissando per il 18 novembre la data della loro applicazione. Votarono contro le sanzioni soltanto Austria, Ungheria, Albania e Paraguay. Quest'ultimo paese assunse una posizione contraria per particolari motivi interni che, in seguito, saranno condivisi anche da altri stati sudamericani riducendo così il valore del loro voto. Allo stesso modo si comportarono in seguito la Spagna, la Norvegia e la Svizzera, mentre Belgio e Jugoslavia comunicarono a Roma che non intendevano applicare le clausole più restrittive. L'Unione Sovietica continuò invece a commerciare liberamente con l'Italia assicurandole soprattutto il rifornimento di nafta. Tale comportamento - cui si adeguarono in maniera più o meno scoperta anche le altre nazioni - era dettato da egoistiche ragioni di interesse nazionale. Si temeva infatti che Stati Uniti, Germania e Giappone, non impegnati con le posizioni assunte dalla Lega, potessero monopolizzare il commercio estero italiano che faceva gola a tutti. Di conseguenza, la condanna dell'Italia si trasformò quasi in una finzione giuridica. Le sanzioni imposte dall'Inghilterra per una questione di principio e sulla base di quanto stabiliva lo statuto della Società delle Nazioni risultarono, alla prova dei fatti, di difficile se non impossibile applicazione. Come accadrà successivamente anche all'ONU, la Lega, Pagina 41
arrigo petacco. FaccettaNera.txt sorta con il nobile proposito di salvare la pace del mondo, rivelò la sua impotenza proprio nel momento in cui sarebbe stato necessario un suo deciso intervento. Le misure economiche applicate contro l'Italia erano peraltro non molto gravose. Si limitavano alla proibizione di qualsiasi credito e all'embargo sulle armi e su una serie di prodotti necessari alle industrie di guerra, salvo però il carbone e il petrolio. Soprattutto di quest'ultimo l'Italia aveva assoluto bisogno, visto che allora non ne produceva neppure un litro. Mussolini deve avere tirato un sospiro di sollievo nell'apprendere quella decisione. Anni dopo, infatti, divenuto amico di Hitler, gli confesserà con franchezza: "Se la Lega avesse seguito il consiglio di Eden ed esteso al petrolio le sanzioni contro l'Italia, nello spazio di otto giorni avrei dovuto battere in ritirata in Abissinia. Sarebbe stata per me un'indicibile catastrofe". Tuttavia, la Germania, paese non sanzionista, non approfittò della situazione favorevole per tentare un riavvicinamento all'Italia. Benché Mussolini, sia pure strumentalmente, al fine di allarmare Francia e Inghilterra, avesse ordinato alla sua diplomazia di mostrarsi più duttile verso i tedeschi, il Führer si rivelò ostile nei nostri confronti. Invece di offrire al suo futuro alleato aperture commerciali per colmare le perdite provocate nella nostra economia dalle sanzioni, preferì addirittura favorire il negus inviandogli segretamente e gratuitamente grandi quantitativi di armi attraverso compiacenti navi britanniche che si prestavano volentieri alla bisogna. E non solo: lasciò libera la stampa tedesca, non dimentica della campagna antinazista condotta dai giornali italiani dopo le note vicende austriache, di condannare l'aggressione e di eroicizzare la resistenza etiopica contro di noi. Alla base di tale sconcertante comportamento c'era naturalmente un disegno politico. Hitler aveva interesse che la campagna etiopica fosse lunga e difficile in quanto avrebbe scavato un solco sempre più profondo fra l'Italia e le potenze democratiche, avvicinandola per forza di cose alla Germania. Quest'ultima, inoltre, avrebbe potuto avvantaggiarsi delle ristrettezze economiche dell'Italia per scalzarla dalle sue posizioni in Austria. Più favorevole verso l'Italia fu invece l'atteggiamento degli Stati Uniti. A parte il fatto che si era alla vigilia delle elezioni e il presidente Roosevelt non voleva perdere il voto degli italoamericani, Mussolini godeva in America di una vasta popolarità ("In quegli anni" scriverà il segretario di Stato americano "Mussolini era un leader responsabile, meno aggressivo nel suo nazionalismo di molti uomini di Stato democratici"). A questo si aggiungeva una questione d'ordine morale. Secondo il governo di Washington, tradizionalmente anticolonialista, la guerra all'Abissinia era certamente ingiusta e l'Italia meritava la condanna, ma altrettanto era ingiusto che le sanzioni fossero state applicate per volontà dell'Inghilterra che, essendo un impero coloniale, non aveva maggiori giustificazioni dell'Italia. Meglio quindi restarne fuori e mantenere buoni rapporti con gli italiani. L'Inghilterra, d'altra parte, assunse nei confronti dell'Italia una posizione ambigua. Benché Anthony Eden, continuasse a propugnare insistentemente l'embargo sul petrolio e la chiusura del canale di Suez, il governo britannico non prese alcuna misura in tal senso. Il canale rimase aperto (e vale la pena dì sottolineare che quella sarebbe stata l'arma decisiva per fermare l'aggressione) e il petrolio inglese non cessò di affluire indirettamente in Italia e direttamente da Suez dove le nostre navi venivano regolarmente rifornite di nafta. Per non dire poi dei motori Rolls-Royce, destinati alla nostra aeronautica militare, che continuarono a giungere nel porto della Spezia in pieno periodo sanzionista. Il fatto è che negli ambienti più colti e realisti della società britannica era diffuso una sorta di complesso di colpa nei confronti dell'Italia. Nella Storia d'Etiopia di Arnold H.M. Jones ed Elizabeth Monroe, pubblicata proprio nel 1935, si legge infatti: Nessuno dovrebbe avere a ridire sull'espansione italiana, notevole e pressante. L'Italia è una nazione che abbisogna di materie prime per le sue industrie in via di sviluppo e di uno sbocco per la sua popolazione in eccesso. È arrivata ultima nella corsa alle colonie e a causa di un governo inefficiente è stata poco considerata alla Conferenza della Pace di Versailles. Le si deve una riparazione. I conservatori britannici e gli ambienti economici non erano mai stati entusiasti delle sanzioni, ma non osarono neppure avventurarsi in una politica di riavvicinamento all'Italia poiché, in quel momento, come osservano Indro Montanelli e Mario Cervi nell'Italia Littoria, incombevano le elezioni e l'opinione pubblica britannica era animata da un profondo risentimento contro il fascismo aggressore. Ma quando, il 13 novembre 1935, i risultati elettorali Pagina 42
arrigo petacco. FaccettaNera.txt riconfermarono trionfalmente la maggioranza dei conservatori, il ministro degli Esteri Hoare, che con il premier Stanley Baldwin rappresentava la corrente più morbida del gabinetto, preoccupato, com'era lo stesso primo ministro, che Mussolini potesse cadere fra le braccia di Hitler, convocò l'ambasciatore italiano Dino Grandi per chiedergli con e-strema franchezza: "E adesso cosa possiamo fare per disincagliarvi dalla situazione nella quale vi trovate?". Quello di Hoare non era un suggerimento brutale quanto quello che Dino Grandi aveva ricevuto mesi prima dall'ex premier MacDonald allorché la pentola etiopica aveva cominciato a bollire ("Non si fa così, caro Grandi" gli aveva detto il primo ministro inglese, che di colonialismo si intendeva più di noi. "Per conquistare una colonia prima si comincia a mandare qualche missionario, che poi verrà ucciso. Solo dopo di allora si ha la scusa per intervenire. Per giunta, voi avete a disposizione lo schiavismo, la lebbra e il tracoma che fa strage in Etiopia. Mandate quindi una missione di medici e aspettate che ne ammazzino uno. Poi la cosa verrà da sé..."), ma era comunque un segnale positivo. Quel giorno stesso Grandi riferì il messaggio di Hoare a Mussolini, e basta dare un'occhiata alle date per rilevare le conseguenze di quella preziosa informazione. Grandi telefonò a Mussolini il 14 novembre, il 15 Mussolini "silurò" telegraficamente De Bono; quello stesso pomeriggio, alle 14, convocò Badoglio nella Sala del Mappamondo alla presenza dì Alessandro Lessona, sottosegretario alle Colonie, e con poche frasi a effetto comunicò al maresciallo la decisione di affidargli il comando dell'impresa africana. "Occorre far presto!" si raccomandò Mussolini senza neppure attendere la risposta affermativa dell'interpellato. "C'è il piroscafo Sannio che parte da Napoli dopodomani, potrei approfittarne" suggerì Badoglio felicissimo di avere realizzato il suo progetto. "Dopodomani è il 17. Brutto numero" commentò Mussolini. "Porta jella. Fate spostare la partenza del Sannio di ventiquattr'ore." Così il maresciallo partì il 18 novembre con il Sannio, la nave più vecchia e più lenta della nostra marina mercantile. "Chi va piano, va Sannio e va lontano" commenteranno scherzando i giornalisti imbarcatisi al suo seguito. E Badoglio andò lontano per davvero. Verso il vertice della sua carriera. La guerra e le sanzioni non interruppero i rapporti diplomatici fra le potenze europee. Pur ostentando in pubblico la sua determinazione aggressiva, Mussolini attraverso i canali diplomatici sì dimostrava ancora disposto a un compromesso. Forse, per chiudere in fretta la partita, si sarebbe anche accontentato di qualche importante concessione territoriale senza pretendere di estendere il dominio italiano fino agli estremi confini dell'impero. L'incubo di Mussolini era rappresentato dall'eventualità che i falchi di Ginevra, capeggiati da Anthony Eden, convincessero i paesi sanzionisti a estendere l'embargo al petrolio. Da qui la sua fretta di trovare una soluzione rapida per il conflitto etiopico. In questa febbrile atmosfera, correvano fra Roma e Londra e fra Roma e Parigi assicurazioni, mezze intese, accordi segreti. Inoltre entrarono in scena alcuni misteriosi personaggi, come il palestinese Chukry Jacir Bey che i nostri servìzi segreti presero molto sul serio. Questo Jacir, giunto a Roma nella prima metà di dicembre del 1935, affermava di essere amico dell'abuna Cirillo V, capo spirituale della Chiesa etiopica, e del ministro della Guerra ras Mulughietà, nonché di conoscere bene anche l'imperatore medesimo. Le sue non sembravano vanterie: i riscontri eseguiti dai nostri servizi fornirono ampie conferme. In cambio di un compenso di 100 milioni di lire, o degli equivalenti 422.360 franchi svizzeri, da versare a operazione compiuta, Jacir si impegnava a convincere il negus a concludere la pace entro il 15 febbraio 1936 a condizioni molto favorevoli per l'Italia. Nel caso che tale accordo fosse fallito, assicurava di essere in grado di organizzare in territorio occupato dagli italiani un atterraggio forzato dell'aereo personale con il quale l'imperatore usava spostarsi. Il progetto, denominato "Piano C", prevedeva inoltre una variante, ossia l'organizzazione di una "battaglia addomesticata" che sarebbe stata vinta dagli italiani e avrebbe fornito al negus la giustificazione per chiedere la pace. Anche se non siamo in grado di escludere che Jacir fosse un abile imbroglione, è doveroso riconoscere che se dì truffa si trattò essa fu condotta con grande maestria. Tanto è vero che l'operazione venne approvata dallo stato maggiore, coinvolse molti autorevoli personaggi e fu seguita con molto interesse dallo stesso Mussolini. Purtroppo i dossier che contenevano i relativi documenti sono in gran parte scomparsi dagli archivi, ma ne restano alcuni degni di interesse. Come una lettera con l'intestazione del Banco di Napoli, che risulta così concepita: Napoli, li dicembre 1935 - XIV E.E - Signor Jacir Bey, Roma. - Con la presente Pagina 43
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Vi comunichiamo che il signor Emilio Faldella* (* Il colonnello dirigente del SIM.) ha aperto a Vostro nome presso questo Banco, un credito di 100.000.000 (cento milioni) di lire italiane, vincolato, irrevocabile e valido fino al 15 febbraio 1936, utilizzabile soltanto nei casi previsti da accordi particolari a Voi noti. Il direttore generale, Giuseppe Frignarli Il conto in questione non fu dunque aperto presso la Banca d'Italia come si suole in certi casi, ma presso il Banco dì Napoli, probabilmente perché Giuseppe Frignani, squadrista di Ravenna diventato da semplice bancario direttore di tale istituto e successivamente sottosegretario alle Finanze, offriva maggiori garanzie di segretezza. Purtroppo, non siamo in grado di conoscere come andò a finire questa misteriosa vicenda, ma poiché il negus non chiese la pace e neppure venne rapito, è facile capire che l'operazione deve essere fallita. Jacir Bey, comunque, qualcosa ci guadagnò. Forse per tema di uno scandalo, o per altre ragioni, il SIM non infierì su di lui, anzi lo tacitò con alcuni milioni di lire per poi spedirlo in aereo verso un'ignota destinazione. Risulta ancora che il SIM si raccomandò all'autorità giudiziaria affinché, nel caso che il levantino si fosse a essa rivolto, "la questione non abbia eco nella stampa, onde evitare inutile pubblicità". Nello stesso periodo, mentre le operazioni militari italiane segnavano il passo per l'avvicendamento dei comandanti, un altro piano inteso a risolvere il "caso" Abissinia andava nel frattempo maturando fra Londra e Parigi. Dopo la vittoria elettorale, i conservatori britannici, non tenendo conto di Eden e della sua corrente oltranzista e neppure delle loro promesse elettorali, stavano cercando il modo di sciogliere il nodo etiopico senza scontentare Mussolini. L'impresa non era semplice perché l'opinione pubblica, bombardata per tanti mesi dalla propaganda pacifista e antifascista, si sarebbe certamente ribellata se il governo avesse improvvisamente mutato il proprio indirizzo. Ma questo, tutto sommato, era il male minore in quanto, anche in Inghilterra, le promesse elettorali non sempre vengono mantenute. Il rischio maggiore era infatti rappresentato dai falchi capitanati da Eden i quali, all'interno del gabinetto Baldwin, si ostinavano a sostenere la linea dura chiedendo l'embargo sul petrolio per l'Italia, nonché la chiusura del canale di Suez. Il governo britannico si era così diviso in due blocchi distinti. I falchi erano certi che "Musso", come lo chiamava Eden, si sarebbe rassegnato e avrebbe rinunciato alla conquista dell'Etiopia. Le colombe temevano invece che l'inasprimento delle sanzioni avrebbe spinto Mussolini fra le braccia di Hitler con tutte le immaginabili conseguenze. Fu in questa atmosfera che nacque il progetto Hoare-Laval sulla cui gestazione clandestina forse non sapremo mai la verità. La storia ufficiale racconta che Sir Samuel Hoare partì da Londra il 6 dicembre 1935 diretto in Svizzera per un periodo di vacanze fra le nevi. Prima di giungere a destinazione, tuttavia, Hoare si fermò a Parigi nei giorni 7 e 8 per incontrare segretamente il ministro Laval. I due ministri degli Esteri concertarono insieme un compromesso di massima per la soluzione della crisi abissina che avrebbe ricevuto anche l'approvazione di Mussolini con il quale Laval era in continuo contatto telefonico. In questo piano si riconoscevano all'Italia non solo le conquiste già realizzate, ma anche una zona di influenza equivalente a circa la metà del territorio etiopico. Il progetto non prevedeva alcuna contropartita da parte italiana, trarrne la sospensione delle operazioni militari. In parole povere veniva legittimata l'aggressione. Il fatto che i due pianificatori decidessero il destino dell'Etiopia senza neppure consultare un suo rappresentante non deve sorprendere: era il sistema in uso all'epoca coloniale. Laval, d'altra parte, era sempre deciso "a vendere il negro" per risolvere i suoi problemi. Teneva infatti molto all'appoggio di Mussolini sia per frenare le rinascenti ambizioni tedesche sia per essere da lui aiutato contro le sinistre francesi che, sotto la guida del socialista Leon Blum, si erano fuse nel Fronte popolare in vista delle elezioni di primavera. Da parte sua Hoare, oltre l'interesse della sua parte politica per un accomodamento della questione, non aveva dimenticato la sua amicizia con Mussolini nata nelle trincee italiane durante la prima guerra mondiale. Tutto risolto dunque? Sembrava proprio di sì. Mussolini aveva ufficialmente "preso in considerazione" il progetto e certamente lo avrebbe accettato. Il negus invece, appena avuta visione del piano, lo respinse sdegnato sottolineando che "non si può concedere pacificamente agli italiani ciò che essi non riescono a conquistare con le armi". Non aveva tutti i torti. Ma il voto negativo dell'Etiopia sarebbe stato ininfluente in quanto era facilmente prevedibile che la Società delle Nazioni, dominata, come sappiamo, da Francia e Inghilterra, Pagina 44
arrigo petacco. FaccettaNera.txt avrebbe sicuramente approvato il progetto. Infatti, il suo segretario generale, il francese Joseph Avenol, aveva già dichiarato di ritenerlo "sostanzialmente equo". Ma non tutto procedette per il verso giusto. Pochi giorni dopo, mentre Hoare si dilettava a sciare sulle nevi svizzere, qualcuno a Londra sussurrò a qualcun altro che cosa stava bollendo in pentola e in breve ne fu informata l'ala "edeniana" del Foreign Office. Al sentore di un prossimo accordo favorevole all'Italia, i falchi conservatori, appoggiati dall'opposizione laburista, minacciarono di spaccare in due la Camera dei Comuni. Ciononostante, Baldwin riuscì ugualmente a superare la tempesta inducendo la maggioranza dei deputati a votare in favore del progetto Hoare-Laval. Ma l'ostinato Anthony Eden non si diede ancora per vinto. Il giorno seguente, un suo articolo, intitolato Un corridoio per i cammelli, nel quale il ministro sanzionista denunciava "l'inverecondo mercato", suscitò grande scalpore nell'opinione pubblica. Non solo: grazie a uno scoop giornalistico probabilmente pilotato, l'"Écho de Paris" rivelò i particolari più segreti del progetto Hoare-Laval informando il mondo che l'Italia si accingeva a "pasteggiare sul cadavere dell'Etiopia". Di fronte alla levata di scudi di gran parte dell'opinione pubblica, il governo britannico si trovò nuovamente in gravi difficoltà. Forse, se fosse tornato in tempo dalla Svizzera, Hoare sarebbe riuscito a convincere la Camera dei Comuni spiegando le ragioni che gli avevano suggerito di progettare quel piano. Ma, per colmo dì sfortuna, Sir Samuel si ruppe il naso mentre sciava nell'Oberland bernese e quando rientrò a Londra il 17 dicembre era ormai troppo tardi per placare la tempesta. A chi gli chiedeva notizie sulla sua salute, il ministro degli Esteri britannico rispose laconicamente: "Vorrei essere morto". Per la verità, Hoare politicamente era già morto. Baldwin pur avendo partecipato alla elaborazione del progetto, vista l'aria che tirava, aveva infatti deciso di scaricare il suo ingombrante ministro per affidare il Foreign Office ad Anthony Eden, il difensore della Società delle Nazioni. L'eco degli avvenimenti londinesi raggiunse Roma la sera del 18 dicembre, poco dopo che si erano concluse le celebrazioni della "Giornata della fede" di cui parleremo più avanti. Mussolini fu avvertito telefonicamente da Grandi della nomina di Eden quando era ancora in corso la riunione del Gran consiglio del fascismo convocato urgentemente per esaminare il progetto Hoare-Laval. Inutile aggiungere che non si arrivò a risoluzioni di sorta, né all'emanazione di un comunicato ufficiale (pare però che fosse già pronto quello per l'accettazione del progetto). Mussolini sì limitò a chiamare a raccolta gli italiani: "Contro di noi" dichiarò "si è schierato il fronte della conservazione, dell'egoismo e dell'ipocrisia". Poi pronunciò uno dei suoi slogan più efficaci che presto comparirà su tutti i muri d'Italia: "Noi tireremo diritto". Non gli restava altro da fare. Svanita ogni speranza di vincere la guerra senza combatterla, era ora indispensabile terminarla al più presto. L'incubo dell'estensione delle sanzioni al petrolio dominava i suoi pensieri. Mentre i legionari continuavano a partire per l'Africa cantando Faccetta nera, salutati da folle festanti e accompagnati dalla benedizione di innumerevoli vescovi e in particolare da quella del cardinale Schuster, di Milano ("all'esercito che a prezzo di sangue apre le porte d'Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana"), e pure dalla paterna esortazione del papa ("la guerra è necessaria per l'espansione del popolo"), il costume degli italiani andava rapidamente mutando. Le sanzioni economiche, infatti, produssero l'effetto opposto di quanto si ripromettevano i paesi sanzionisti. Favorirono l'industria nazionale e consentirono a Mussolini di mobilitare spiritualmente l'intero paese. L'Italia si sentiva accerchiata e il regime fece leva su questo sentimento per ottenere un consenso che non si può non definire totale. Mai come in quei giorni gli italiani sì strinsero attorno al Duce in una sorta di entusiasmo collettivo che cresceva via via che le vittorie militari e le difficoltà in cui si dibatteva la Lega delle Nazioni alimentavano l'esaltazione patriottica e l'orgoglio nazionale. Anche gli antifascisti ritenevano immorale che paesi impadronitisi con la forza delle armi di immensi imperi coloniali ora condannassero con falso moralismo il diritto dell'Italia a conquistarsi un "posto al sole". Molti fuoriusciti politici chiesero di poter rientrare in patria e alcuni si arruolarono volontari, mentre noti uomini politici del passato, discriminati dal regime, inviarono a Mussolini messaggi di consenso e di incoraggiamento a continuare la lotta. Animato dal "sentimento del Piave", Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria, offrì al Duce la sua collaborazione "perché in questo momento ogni italiano deve essere presente per servire la Patria". Il vecchio leader socialista Arturo Labriola espresse anch'egli la sua "piena solidarietà". Pagina 45
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Le sanzioni provocarono in tutta Italia anche un'ondata di generale xenofobia. Se negli avanspettacoli si sfidava la vecchia Inghilterra con una canzonetta a doppio senso il cui ritornello diceva: '"Sanzionami questo / se tu sei capace / lo so che ti piace / ma non te lo do", nel linguaggio corrente i termini "leghista" e "sanzionista" assunsero significati spregiativi e tutto ciò che riguardava gli inglesi {"il popolo dei cinque pasti al giorno") diventò oggetto di scherno. Sebbene non si osasse "espellere" Shakespeare, l'anglofobia bandì dai cinema e dai teatri i film e le commedie britanniche, salvo quelle di George Bernard Shaw, ma lui era irlandese e, per giunta, avverso alle sanzioni. Benvenuti erano invece i film americani. Gli Stati Uniti non aderivano alla Lega, non erano sanzionisti, quindi grandi successi di botteghino per Shirley Temple, Tom Mix, Bob Taylor, Joan Crawford e gli altri popolarissimi divi di Hollywood. Achille Starace, il segretario del partito fascista che aveva già avviato una campagna per l'abolizione del "lei" (uno spagnolismo da sostituire con l'italiano "voi") approfittò dell'occasione per rivendicare la purezza della lingua italiana e dichiarò guerra agli esotismi. Diventò impopolare chiedere pardon invece di scusa e benché i contravventori non incorressero in particolari punizioni, salvo il rischio di essere classificati "borghesi antipatriottici e panciafichisti", era comunque prudente cancellare dal proprio vocabolario tutte le parole straniere di uso comune. Starace giunse addirittura a far pubblicare un glossario, diffuso dai giornali e nelle scuole, che suggeriva il termine italiano con il quale sostituire il "francesismo" o l'"inglesismo" cui di solito si ricorreva nelle conversazioni. Sfidando il ridicolo si proponevano anche sostituzioni francamente singolari come cotiglioni al posto di cotillon, o casimiro al posto di cachemire. Cambiarono di conseguenza anche i nomi stranieri delle ditte e di alcuni centri abitati. I grandi magazzini Standard diventarono Standa, Saint-Vincent fu ribattezzato San Vincenzo e Courmayeur diventò Correlatore, mentre i sigari London e Trabucos assunsero il nome di Firenze e Macallè e le sigarette Giubek diventarono Giuba. Persino i nomi d'arte di alcuni personaggi dello spettacolo furono italianizzati: Wanda Osiris cambiò il suo in Vanda Osiride e Lucy d'Albert in Lucia d'Alberto. Ma Starace (che non era troppo colto) raggiunse il culmine del ridicolo quando prese di mira l'albergo Eden di Roma... A questo punto vale la pena di trascrivere integralmente la registrazione di una telefonata intercettata e trascritta dai servizi segreti, fra lo stesso Starace e il federale fascista di Roma: Starace: Malgrado le ripetute istruzioni in merito all'italianizzazione delle insegne, mi risulta che le cose stanno ancora al punto di prima. Federale: Eccellenza, purtroppo operazioni del genere non possono essere portate a compimento in quattro e quattr'otto. Non si tratta di cambiare soltanto la dicitura, ma anche di provvedere ai conseguenti lavori di restauro. Starace: Meglio, così si prendono due piccioni con una fava: aboliamo le parole straniere e rendiamo più accogliente il volto della capitale. Federale: Giusto. Starace: E dite un po'... con l'albergo Eden come la mettiamo? Federale: Mah... credo si tratti di un equivoco... Starace: Quale equivoco? Federale: Ehm... volevo dire che la parola Eden non è affatto anglosassone, ma latina... a meno che non si voglia considerare straniera anche la lingua parlata dai nostri progenitori... Starace: Per caso, mica volete scherzare? Federale: Per carità, Eccellenza! Il fatto è che Eden, in latino, significa paradiso... Starace: ... Sì, lo so, lo so... ma, sapete, la gente è così ignorante che può fin'anche pensare che si tratti del nostro nemico numero uno, o almeno di un antenato del fautore delle bieche sanzioni. Federale: Su questo sono perfettamente d'accordo. Slarace: Allora, per evitare ogni dubbio, meglio sostituire al più presto quel nome. Il 18 novembre 1935, quando le sanzioni economiche contro l'Italia diventarono operative, Mussolini stabilì che questa data venisse ricordata come il giorno dell'ignominia e dell'iniquità e volle che fosse affissa su tutti i comuni d'Italia una lapide "a ricordo dell'assedio, perché resti documentata nei secoli l'enorme ingiustizia consumata contro l'Italia, alla quale tanto deve la civiltà di tutti i continenti". Ma, a parte il folklore, a Roma, dove l'applicazione delle sanzioni era stata da tempo prevista, ci si era preparati ad affrontarla varando l'"autarchia", un neologismo grecizzante riesumato da Mussolini per definire il nuovo orientamento Pagina 46
arrigo petacco. FaccettaNera.txt economico inteso a produrre in casa propria i beni e i servizi di cui il paese aveva bisogno. Si può quindi rilevare che le "inique sanzioni", oltre a fornire al regime un formidabile strumento di propaganda senza arrecare gravi danni economici, favorirono anche l'industria nazionale liberandola dalla fastidiosa concorrenza straniera. D'altra parte, questa volontà "di fare da sé" forse poteva essere considerata velleitaria, eppure non si può negare che trovò una profonda corrispondenza negli italiani di allora. Un esule antifascista come Carlo Rosselli dichiarò che bisognava "riconoscere con franchezza virile che il fascismo, almeno sul piano interno, che è poi quello che più di ogni altro ci concerne, esce rafforzato e consolidato da questa crisi". Dal canto loro, i comunisti ammettevano sulla pubblicazione clandestina "Lo Stato operaio" che "il fascismo è riuscito per il momento a fanatizzare anche parte non indifferente della gioventù proletaria. Le sue parole d'ordine demagogiche hanno fatto presa su larghi strati della popolazione lavoratrice". In nome dell'autarchia furono penalizzati i consumi voluttuari, gli italiani vennero esortati a "non sprecare il pane quotidiano" mentre i manifesti avvertivano: "Se mangi troppo derubi la Patria". Tutti erano invitati a "mangiare italiano", a "vestire italiano", a "consumare italiano" e a boicottare i prodotti stranieri anche quando i surrogati nazionali risultavano scadenti. Perfino fa bevanda più diffusa in Italia - il caffè - venne sostituita da un prodotto "delle nostre colonie", il carcadè, un intruglio non proprio sgradevole che somigliava al tè. Dall'ordine di vestire italiano nacque la moda nazionale, il futuro Italian style, e per la prima volta le signore voltarono le spalle ai figurini di Coco Chanel, di Vionnet e di Balenciaga, mentre Ferragamo, privato delle lamelle d'acciaio indispensabili per sorreggere l'arco del piede femminile ("L'acciaio serve alla patria!") inventava le scarpe ortopediche con la suola di sughero. Nel campo tessile si diede sviluppo alle stoffe nazionali prodotte sinteticamente, come il rayon al posto della seta e il lanital derivato dal latte (che sarà presentato dalla Snia Viscosa come "il tessuto dell'indipendenza"), oppure utilizzando la canapa, il lino, nonché la leopardiana ginestra. Il ruvido orbace sardo, su ordine di Starace, venne impiegato per confezionare le uniformi dei gerarchi ("È un tessuto guerriero, sportivo, buono anche per lo sci"). Grande impulso venne dato alla coniglicoltura, ossia all'allevamento dei conigli, le cui carni dovevano compensare la scarsità di quella bovina di provenienza straniera e le cui pellicce erano utilizzate dall'industria tessile. Ma male incolse a una fabbrica di Perugia che per lanciare il suo prodotto coniò questo slogan antieroico e poco patriottico, subito censurato da Starace: "La lana di coniglio è la lana degli italiani". La più clamorosa manifestazione scaturita dalla fertile fantasia mussoliniana fu comunque quella della "Giornata della fede" celebrata il 18 dicembre, ossia esattamente un mese dopo la proclamazione delle sanzioni. Il termine "fede" aveva in quell'occasione il doppio significato di fede nel fascismo e di anello nuziale che tutte le italiane (i mariti, di solito, non potevano concedersi questo "lusso") furono invitate a donare alla patria. La cerimonia, che si svolse in ogni città d'Italia, consisteva infatti nell'offerta dell'oro alla patria per sopperire ai bisogni della guerra. Su appositi palchi dove erano collocati dei contenitori (preferibilmente elmetti militari), i donatori, disponendosi in file ordinate, depositarono la propria tradizionale fede d'oro ricevendone in cambio una di metallo più vile, solitamente stagno. La prima a dare l'esempio fu la regina Elena, che si recò personalmente al Vittoriano con grande solennità per testimoniare che la Casa Savoia era totalmente solidale con il regime fascista ("E guarda la regina / che dona la sua fede..." cantavano le soubrette degli avanspettacoli). Il gesto della sovrana venne imitato da milioni di italiane senza distinzione di classe e si trasformò in un trionfale plebiscito. Le fedi raccolte furono a Milano 180.000 e a Roma 250.000. Oltre la fede, furono "donati alla Patria" oggetti d'oro e d'argento di fattura e valore diversi: dall'umile catenina della prima comunione a gioielli molto pregiati. Il principe Umberto offrì il suo Collare della SS. Annunziata, Vittorio Emanuele III lingotti d'oro e d'argento, Pirandello donò la medaglia del premio Nobel e Gabriele d'Annunzio, insieme alla propria fede, spedì una cassa colma di ori e di argenti. Il cardinale di Bologna, Nasalli Rocca, volle offrire la sua catena episcopale e Guglielmo Marconi l'anello nuziale e la medaglietta da senatore. A proposito di questa aurea medaglietta, 414 senatori del regno su 419, accogliendo l'invito del presidente del Senato Luigi Federzoni, offrirono anch'essi la loro. Figurava tra i donatori anche il senatore Benedetto Croce, che tuttavia fece precedere la sua offerta da una Pagina 47
arrigo petacco. FaccettaNera.txt lettera significativa, che Jader Jacobelli ha voluto recentemente ricordare. Ecco il testo di quanto scrisse Croce a Federzoni: Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del governo ho accolto, in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V. e ho rimesso alla questura del Senato la mia medaglia, che ha la data del 1910. Con osservanza, Benedetto Croce Mussolini non poteva certo esimersi da quell'incombenza, sicché fece fondere tutti i busti in metallo pregiato che ornavano la sua residenza alla Rocca delle Caminate, aggiungendo il suo ricco medagliere in cui figurava, fra le altre, una grande medaglia aurea donatagli dal papa in occasione del Concordato fra lo Stato e la Chiesa, siglato l'11 febbraio 1929. Questa medaglia fu in seguito al centro di un curioso episodio che emerge da una delle numerose intercettazioni telefoniche allora regolarmente effettuate dai servizi segreti del regime. Si tratta di una conversazione fra il segretario amministrativo del partito fascista, Giovanni Mannelli, e un console della Milizia. Ecco il testo: Console: Come sapete, onorevole, le offerte di oro alla Patria dei gruppi e degli enti sono affluite in Federazione, da dove vengono poi avviate alla Banca d'Italia. Qui, a mezzo di un esperto, vengono divise per caratura e pesate. Tra gli altri oggetti figura il medagliere del Duce che è stato rimesso per primo. Mannelli: È stato un gesto magnifico da parte del Duce! Console: Certamente, però c'è una cosa abbastanza antipatica: tra le medaglie di oro purissimo ve n'è una, molto grande, che è di volgare metallo dorato. Mannelli: Mettetela da parte, il danno non è poi gravissimo. Console: Il male non è il danno in se stesso, ma è che si tratta della medaglia commemorativa degli storici trattati con il Vaticano e che gli fu consegnata dal Papa in quell'occasione... Insomma, quei simpatici pretini affibbiarono al Duce una patacca in piena regola! Mannelli: Disgraziati! Console: A noi la cosa è stata segnalata dalla Banca d'Italia, ma non sappiamo se è il caso di farlo sapere al Duce. Mannelli: La cosa non è semplice perché lui è molto ombroso. Ne parlerò al segretario del partito, vedremo cosa decide lui... La "Giornata della fede", o più esattamente la raccolta dell'oro, dell'argento e anche dei rottami di rame e di ferro, si protrasse a lungo estendendosi anche ad altri "valori" e raggiunse i seguenti totali: Oro kg 36.895 Argento kg 115.131 Contante L. 1.543.000 Valuta estera L. 296.000 Titoli di Stato L. 430.415 Titoli privati L. 43.544 Polizze combattenti, pensioni, soprassoldi e medaglie al V.M. L. 13.346.000. Il consenso al regime esplose, come scrive De Felice, "in forme e manifestazioni senza uguali". La scrittrice Milly Dandolo poteva dare ali alla sua penna: "Sappia il mondo che quest'oro è diverso da quello che si compra e si vende comunemente. Non c'è bilancia che possa misurare il suo peso. Potrebbe valutarlo solo la bilancia della Giustizia...". VII L'INCUBO DI UNA "NUOVA ADUA* Ai primi di dicembre, quando il maresciallo Badoglio giunse in Eritrea per prendere in pugno le sorti della guerra, il grosso dell'esercito abissino, che era avanzato di mille chilometri, si trovava ancora in marcia di avvicinamento verso il fronte. Secondo il generale Quirino Armellini, capo dell'ufficio operazioni di Badoglio, all'arrivo del maresciallo la situazione era la seguente: Le armate nemiche sono tre. Quella di ras Mulughietà (70.000 uomini) dirige dall'Amba Alagì verso nord avendo già i primi elementi sull'Amba Aradam (una ventina di chilometri a sud di Macallè). Quella di ras Cassa (30.000 uomini) marcia verso il Tembien. Quella dì ras Immirù (40 o 50.000 uomini) è a sud del Tacazzè. Le forze italiane sono così predisposte: I e III corpo d'armata saldamente sistemati a Macallè. Poche forze nel Tembien verso il quale altre stanno marciando. Il II corpo d'armata è schierato fra Adua, Axum e Selaciacà, con punti di osservazione spinti fino al Tacazzè. Più indietro un paio di divisioni giunte recentemente dall'Italia si stanno avvicinando al fronte. Badoglio, che aveva posto il proprio quartiere generale sull'Enda Jesus di Macallè, presso il fortino di Galliano, appena presa visione della situazione Pagina 48
arrigo petacco. FaccettaNera.txt innervosì subito Mussolini, cui aveva precedentemente prospettato una immediata ripresa delle operazioni, annunciandogli che avrebbe dovuto osservare una pausa piuttosto lunga per organizzare le sue forze. Naturalmente il maresciallo addossò ogni colpa al suo predecessore anche se, per la verità, De Bono aveva lamentato senza ottenere soddisfazione le stesse esigenze e le stesse difficoltà. Ma, a differenza di De Bono, Badoglio non si lasciò intimidire da Mussolini e accolse con virtuali alzate di spalle le sollecitazioni che questi gli inviava quasi quotidianamente. Si limitò infatti a tranquillizzarlo, per quanto possibile, con un secco telegramma dal tono piuttosto risentito: "È sempre stata mia norma essere meticoloso nella preparazione per poter essere irruente nell'azione. Vostra Eccellenza e tutto il Paese non devono avere sorprese". Le sorprese invece non mancheranno e non saranno liete. La prima, che Badoglio proprio non si aspettava, fu l'inattesa controffensiva etiopica scatenatasi subito dopo il suo arrivo. A dare il via furono le avanguardie di ras Immirù che la notte del 15 dicembre superarono il fiume Tacazzè da due guadi diversi, circondando un nostro contingente indigeno di circa un migliaio di ascari spintosi in perlustrazione e scortato da uno squadrone di carri leggeri. Gli uomini di Immirù, guidati da monaci copti particolarmente battaglieri, attaccarono di sorpresa e con estrema violenza impiegando armi moderne e bombe a mano. Tutti i carri italiani furono messi fuori combattimento e gli equipaggi uccisi a sciabolate. Al comandante del contingente, maggiore Luigi Criniti, ferito a una gamba, non restò che ordinare "baionetta in canna" e lanciare i suoi ascari all'attacco riuscendo così a rompere l'accerchiamento. Ma rimasero sul terreno 9 ufficiali, 22 carristi italiani e 370 ascari. Nei giorni che seguirono gli abissini incoraggiati dallo scacco inferto al nemico, proseguirono nell'offensiva: Immirù riconquistò la regione dello Scirè giungendo alle porte di Axum, mentre le armate di ras Cassa e di ras Sejum dilagarono nel Ternbien. Il giorno di Natale del 1935 gli italiani furono costretti ad abbandonare anche il villaggio di Abbi Addi e a lasciare agli etiopi tutto il Tembien meridionale. Si ritirarono infatti sul passo Uarieu che sbarrava l'ingresso alla conca di Macallè, dove si riorganizzarono in un campo trincerato. Dal 22 dicembre al 18 gennaio l'offensiva etiopica non concesse requie e per Badoglio furono giornate durissime. Era giunto in Eritrea per dare maggior impulso all'avanzata e invece era stato costretto a ritirarsi e ad abbandonare al nemico gran parte del territorio che De Bono aveva conquistato. Mentre gli abissini, galvanizzati dal successo, esultavano e da Addis Abeba il governo del negus lanciava, naturalmente esagerando, proclami di vittoria, i giornali europei annunciavano a grandi titoli la crisi italiana e alcuni già pronosticavano il ripetersi di "una nuova Adua". Badoglio non perdette comunque la calma. Decise di accorciare alcuni settori del fronte abbandonando posizioni importanti, come quella di Selaclacà, poi chiese a Roma due altre divisioni di camicie nere di rinforzo. Mussolini, di sua iniziativa, gliene aggiunse una terza che Badoglio accettò senza esitare, continuando tuttavia a segnare il passo pur sapendo che la generosità del Duce nel profondere uomini e mezzi palesava il desiderio di una pronta offensiva. Il maresciallo, invece, pensava a difendersi: dispose infatti le opportune misure affinché le fortificazioni del passo Uarìeu fossero irrobustite ma, nello stesso tempo, mise anche "allo studio le modalità da seguire per una eventuale ritirata da Macallè" perché, come riferì pacatamente all'impaziente Mussolini, "pensare al peggio e prepararsi a fronteggiarlo e a dominarlo è da forti". Assumendo il comando delle operazioni in Africa, Badoglio aveva imposto al quartier generale il proprio "stile", assai diverso da quello di De Bono. Come racconta Indro Montanelli, che di quegli avvenimenti fu testimone oculare, il vecchio quadrunviro era di pasta diversa da quella del suo più giovane successore (era nato nel 1866, Badoglio nel 1871) e aveva dato alla sua azione di comando un'impronta politica e paternalistica, da "governatore". L'altro era invece militare dalla testa ai piedi, con i difetti e le virtù che questa formazione comporta. Mentre il primo si era sforzato dì sottolineare il carattere fascista e civilizzatore della sua guerra e, per scrupoli umanitari, aveva ordinato all'aviazione di colpire soltanto gli obiettivi militari e le truppe in movimento, ma non i villaggi e le torme di fuggiaschi, Badoglio si rivelò subito per quello che era: un soldato professionista che operava da tecnico senza crudeltà inutili, eppure pronto senza alcuna esitazione a la guerre comme a la guerre, ossia a ricorrere a tutto pur di vincere, compreso il gas... Frattanto, mentre da Roma si chiedevano a Badoglio "fatti" militari per Pagina 49
arrigo petacco. FaccettaNera.txt alimentare la contropropaganda, a sollevare gli entusiasmi provvide il comandante del fronte sud Rodolfo Graziani. Un forte dualismo divideva già allora i due comandanti, sia per temperamento che per provenienza. Badoglio infatti, di undici anni più vecchio del rivale, proveniva dalla tradizionale casta militare piemontese; l'altro, invece, era un self-made man, per giunta ciociaro, che non aveva neppure frequentato l'accademia militare. Si era infatti guadagnato i galloni da generale sul campo, guidando - con spietata energia e crudeltà - la riconquista della Libia fra il 1921 e il 1929. Per questi suoi precedenti era considerato un esperto di guerre coloniali. Badoglio, suo superiore, gli aveva lasciato "libertà di azione" in Somalia, ma affinché non gli facesse troppo ombra gli aveva anche ordinato, contrariandolo non poco, di mantenere "una difensiva molto attiva per attrarre e mantenere nello scacchiere somalo il maggior numero di forze nemiche". Mentre a nord era in corso l'offensiva abissina, anche il fronte sud fu mobilitato da una improvvisa puntata di ras Desta che, a capo di un'armata di circa 70.000 uomini, muovendosi da Neghelli si era spinto verso il territorio somalo di Dolo affrontando una marcia di 400 chilometri attraverso un territorio desertico e inospitale. L'ambizione di ras Desta, che era il giovane genero del negus, consisteva nel poter cogliere il nemico di sorpresa, ma la sua ardita manovra si rivelò disastrosa. Graziani infatti lo attendeva a piè fermo e organizzò una reazione demolitrice. Pur disponendo di una sola divisione nazionale, la Peloritana, oltre alle bande di dubat, in tutto non più di 14.000 uomini, poteva contare su armamenti migliori e, soprattutto, su una considerevole forza aerea. Nei giorni seguenti, sulle colonne in marcia verso Neghelli, che fungeva da retrovia dell'esercito etiopico, Graziani scatenò gli attacchi aerei, mentre la fame, la sete e il deserto decimavano l'armata di ras Desta, che giunse infine esausta e dissanguata in vista di Dolo. La lotta continuò tuttavia ancora per alcuni giorni: gli abissini si batterono furiosamente non per vincere, ma per il cibo e soprattutto per l'acqua. Un giornalista italiano, Sandro Volta, che era presente, riferirà di una "massa imbestialita di abissini che si buttavano contro la morte certa per un sorso d'acqua ed erano falciati dalle mitragliatrici". Fu durante questa battaglia che sarebbero stati usati per la prima volta gas vescicanti. Il verbo condizionale è pleonastico in quanto, benché l'accusa sia stata a lungo smentita in forma ufficiale e dagli stessi combattenti (molti di loro, fra cui lo stesso Montanelli, in un certo senso il Senofonte dell'impresa, lo negarono a lungo e in buona fede), è ormai documentato che in Etiopia gli italiani ricorsero anche ai gas. Il primo a farlo fu dunque Graziani per "diritto di rappresaglia", si disse poi, dopo che il pilota Tito Minniti, caduto in territorio nemico, era stato torturato, castrato e quindi decapitato. L'iprite fu comunque utilizzata sia sul fronte sud che sul fronte nord, ma non su larga scala (Mussolini ne aveva autorizzato l'impiego solo in casi eccezionali "per supreme ragioni di difesa") e non con tale frequenza da poter sensibilmente mutare il corso della guerra. Secondo lo storico britannico James Strachey Barnes, "lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l'evirazione dei prigionieri, l'impiego delle pallottole esplosive e l'abuso del simbolo della Croce Rossa". Sugli effetti della guerra chimica, il negus inviò alla Lega delle Nazioni un'ampia relazione in cui, pur dando per scontata una strumentale esagerazione, non mancavano testimonianze di particolare drammaticità. Da parte loro, i rappresentanti italiani respinsero le accuse del negus e controbatterono accusando gli abissini di impiegare le pallottole esplosive dum-dum, anch'esse vietate dalla convenzione di Ginevra. Tuttavia la Lega, sempre più paralizzata dai contrasti interni, non prese posizione sull'argomento e lasciò che la polemica sull'uso dei gas e delle dum-dum si esaurisse in una lunga e infuocata campagna di stampa. Frattanto la controffensiva di Graziani aveva disperso l'armata di ras Desta e il 20 gennaio il generale poté fare il suo ingresso a Neghelli. La città era praticamente deserta. Terrorizzati dai bombardamenti, gli abitanti si erano rifugiati nei boschi. Passarono alcune settimane prima che si decidessero a rientrare in città. Si trattava, a ben vedere, del primo vero successo militare: ras Desta in fuga, un'armata dispersa e sgomento tra le file abissine. Mussolini era soddisfatto, ma Badoglio non dovette affatto rallegrarsene. Ai primi di gennaio, dopo alcune settimane di stasi, il maresciallo, sempre più pungolato da Mussolini, si trovò costretto a scegliere fra due alternative: aspettare il nemico sulle posizioni fortificate o prevenirlo con un contrattacco. Optò per l'attacco e mise a punto il piano di quella che sarà poi Pagina 50
arrigo petacco. FaccettaNera.txt definita "la prima battaglia del Tembien". Il piano era relativamente semplice. Badoglio progettava di prendere in contropiede le forze di ras Cassa e di ras Sejum attraverso il passo Uarieu, mentre due finte offensive, sferrate contro le ali estreme dello schieramento abissino, avrebbero impegnato le armate di ras Immirù e di ras Mulughietà, impedendo loro di accorrere in aiuto a quelle impegnate nel settore centrale. I combattimenti iniziarono il 19 gennaio e il villaggio di Mehenò, al centro delle linee abissine, passò più volte di mano. Verso sera gli uomini di ras Cassa cominciarono a indietreggiare dando agli italiani l'impressione di avere via libera. In realtà il ras, che pur essendo sprovvisto di mezzi moderni (in particolare dei servizi di comunicazione) non era digiuno di tattica militare, facilitò l'avanzata degli italiani per poi poterli cogliere di sorpresa. Era infatti consapevole che la chiave della battaglia era situata a passo Uarieu e su questo obiettivo si apprestava a concentrare tutti i suoi sforzi. Le sorti dello scontro si decisero infatti attorno a quel varco roccioso che era tenuto dalla divisione di camicie nere 28 Ottobre guidata dal generale Umberto Somma e composta in gran parte di volontari anziani reduci della prima guerra mondiale o addirittura di quella di Libia. La mattina del 21 gennaio una colonna di camicie nere, forte di circa 2000 uomini al comando del console Filippo Diamanti, usciva dal passo Uarieu per compiere una puntata dimostrativa. A questo punto, contravvenendo all'ordine di Badoglio, che gli imponeva di fermarsi sulle rive del fiume Belès "per non correre il rischio di essere staccati dal passo", Somma, ingannato dalla facilità con la quale la colonna è penetrata nel territorio nemico, cambia idea e ordina a Diamanti di superare anche il corso d'acqua e di spingersi fino a ridosso dei roccioni di Daràn. Il giovane console obbedisce a malincuore, e le camicie nere cadono nella trappola abilmente preparata dagli abissini. Chiusa nel fondovalle e stretta in una morsa fra le truppe di ras Cassa e quelle di ras Sejum appostate sulle alture, la colonna si trova improvvisamente in mezzo a due fuochi. Gli etiopi attaccano in massa a ondate concentriche, secondo la loro tattica di annientamento, e i legionari si difendono con furore. Ma in pochi minuti la partita diventa disperata e non rimane che morir bene. Cade, finito a sciabolate, il seniore Luigi Giuseppe Valcaren-ghi, cremonese, cinquantenne, reduce di due guerre; cade Fausto Berretta, maturo ferrarese, dopo avere consumato i nastri di due mitragliatrici e le pallottole del suo moschetto; cadono molti altri ufficiali: Marco Molaroni, Amerigo Passio, Luigi Chiavellati, in tutto 19 per l'esattezza e oltre 350 fra legionari e ascari. Cade infine padre Reginaldo Giuliani, cappellano militare reduce della Grande guerra. È uno dei tanti preti-soldato affascinati dal mestiere delle armi che hanno seguito le nostre truppe spinti da un desiderio di martirio, ma che, insieme alla croce, spesso impugnano il moschetto. Padre Giuliani viene ucciso a sciabolate mentre impartisce l'estrema unzione a un morente. Il massacro sarebbe completo se non intervenisse un reparto di ascari inviati da Somma in loro aiuto. Al tramonto i superstiti riescono a ripiegare verso passo Uarìeu con i compagni feriti e in condizioni terribili: la piana formicola di armati che danno la caccia ai gruppi isolati e si accaniscono contro i cadaveri. Quando gli italiani giungono finalmente al sicuro nei fortini, gli inseguitori sono fermati dal fuoco incrociato delle mitragliatrici, ma non se ne vanno. Inizia infatti l'assedio: le fonti d'acqua vengono tagliate e così i collegamenti telefonici, mentre il forte è battuto dal tiro dei cecchini e da alcune batterie che gli abissini hanno posizionato sulle alture. Nel campo nessun luogo è al sicuro, neppure l'ospedaletto. E quel che è peggio, le munizioni cominciano a esaurirsi e la sete a tormentare gli assediati, mentre gli etiopi si avvicinano sempre più. Il giorno dopo un aereo sorvola il forte e lascia cadere un messaggio di Badoglio, scritto frettolosamente a mano: "Coraggio, mio Somma, Vaccarisi è vicino. Le tue camicie nere stanno scrivendo una pagina magnifica. Resisti ed avrai la vittoria". Tutto infatti dipende dalla resistenza del passo. Se quel presidio cade, la valanga dei nemici travolgerà anche i soccorritori. L'assedio del passo Uarieu durò tre giorni e furono giorni durissimi. In quel momento Badoglio si rese conto di poter anche perdere la guerra e il negus si illuse di poterla vincere. A Addis Abeba, infatti, già cantavano vittoria e venne diramato un bollettino ufficiale, esagerato e fantasioso come erano tutti i comunicati provenienti dalla capitale abissina, nel quale si annunciava l'annientamento della colonna Diamanti e dell'intera divisione 28 Ottobre. I legionari, invece, resistettero tenacemente ("Ma la mitragliatrice non la lascio / gridò ferito il legionario al passo..."diceva una canzone che s'ispirò a quell'eroico episodio e che tutti i balilla italiani dovettero imparare a memoria), anche se l'intero sistema dei fortini era accerchiato. Ai difensori Pagina 51
arrigo petacco. FaccettaNera.txt scarseggiavano le munizioni, alla batteria del capitano Borgatti erano rimasti 24 proiettili, i soldati avevano le giberne vuote, mentre i rinforzi tardavano a giungere e quel poco che veniva lanciato dagli aerei con i paracadute spesso veniva spinto dal vento in territorio nemico. Imbaldanziti dal successo e guidati dai due figli di ras Cassa, gli attaccanti, assaporando la prossima vittoria, non diedero requie agli assediati e li impegnarono in tremendi corpo a corpo che aprivano varchi sanguinosi nei ranghi. In seguito la stampa italiana esalterà gli eroici episodi singoli e collettivi che vi si verificarono e che furono effettivamente numerosi. Come Toselli, come De Cristoforis, come Galliano, i "vecchi" legionari della 28 Ottobre, reduci delle carneficine della Grande guerra e che finora avevano guardato con sprezzo a questo facile conflitto coloniale, scoprirono quanto fosse duro e difficile combattere contro un'orda urlante che avanzava frontalmente incurante del fuoco incrociato delle mitragliatrici. Dal suo comando sull'Enda Jesus, Badoglio seguiva con apprensione, se non con angoscia, le sorti della battaglia. Se ras Cassa fosse riuscito a superare il passo avrebbe avuto via lìbera per penetrare nel profondo delle retrovie dello schieramento italiano e aggirando Macallè sfondare verso Adua e l'Eritrea. Con il volto impietrito, ma senza manifestare apertamente le sue emozioni, il maresciallo impartì ordini concitati, affinché tutte le forze disponibili fossero inviate al passo Uarieu. Prudentemente, però, prese anche le opportune misure per un eventuale sgombero dello stato maggiore da Enda Jesus, ipotesi che non era affatto da escludere. La notte fra il 23 e il 24 gennaio Badoglio la trascorse seduto su uno sgabello con la mantellina sulle ginocchia e il telefono a portata di mano, ma solo all'alba gli giunse la notizia che attendeva con ansia: la colonna del generale Vaccarisi inviata in soccorso si era congiunta con la guarnigione assediata. Ora il passo era definitivamente sbarrato. Per tutta la giornata del 24 gli abissini furono attaccati da terra e dal cielo. Oltre alle bombe, gli aerei italiani lanciarono sull'armata nemica dei cilindri che all'impatto con il terreno si rompevano e liberavano un liquido incolore che si espandeva nell'aria emanando un odore di mostarda: era l'iprite, il gas che aveva seminato la morte nelle trincee della prima guerra mondiale. L'effetto sulle truppe abissine fu devastante: ras Cassa vide i suoi uomini "lasciare cadere le armi, portare urlando le mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata". La sera del 24 gennaio si concluse la prima battaglia del Tembien. Gli italiani erano riusciti a respingere gli abissini sulle posizioni di partenza occupando Debra Amba e sventando la minaccia che gravava su Macallè. Badoglio aveva avuto così modo di studiare dal vivo la tattica abissina. Il vantaggio principale su cui poteva contare il comandante italiano era rappresentato, oltre che dall'inefficienza del servizio di informazione etiopico (molti comandi erano addirittura sprovvisti di carte topografiche e si affidavano alle indicazioni di chi conosceva il territorio} anche dalla consuetudine del nemico di attaccare frontalmente in masse concentrate, sulle quali era possibile far pesare, come riferisce lo stesso Badoglio nel suo diario di guerra, "la stragrande superiorità del campo tecnico e l'impiego della nostra aviazione". Il negus non aveva voluto dare ascolto a quei "consiglieri" europei che lo esortavano a non cadere nella trappola delle grandi battaglie in cui gli italiani avrebbero sicuramente avuto la meglio. Ossia di non adottare gli insegnamenti del conte von Clausewitz, ma di fare tesoro delle esperienze di Lawrence d'Arabia. Occorreva insomma costringere gli italiani a una lunga indeterminata guerriglia. Occorreva farla durare almeno due o tre anni durante i quali le ambizioni, il prestigio e l'economia dell'Italia sì sarebbero ridotti al lumicino. Lawrence d'Arabia, infatti, non aveva perduto tempo e uomini per combattere frontalmente l'esercito turco, ma avvelenava i pozzi, demoliva i ponti, assaltava i convogli e distruggeva le carovane. Così avrebbe dovuto agire Hailè Selassiè: limitarsi alle azioni di guerriglia da cui i suoi uomini, più resistenti e più pratici del terreno, avrebbero ricavato enormi vantaggi lasciando che gli italiani venissero ingoiati nell'immensità del territorio. Erano, bisogna riconoscerlo, ottimi consigli, ma il negus era prigioniero della sua volontà di condurre una guerra "moderna". E anche del sogno di poter ripetere l'impresa di Menelik, di ras Mangascià e di ras Alula i quali, facendo massa contro il nemico, avevano sgominato gli avversari nella battaglia di Adua. C'era inoltre una questione di orgoglio perché gli aristocratici ras abissini consideravano la tattica guerrigliera quasi un'umiliazione. "Un discendente del negus Giovanni" rispose con fierezza ras Sejum a un consigliere europeo "fa la guerra, ma non può fare la guerriglia come un qualsiasi capo brigante." Pagina 52
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Un altro vantaggio, per Badoglio, era rappresentato dalla scarsa obbedienza dimostrata al negus dai suoi più importanti ras. I quali, peraltro, erano divisi fra loro da rivalità, ambizioni, faide e vendette storiche. Ognuno di essi, per uno spirito esasperato di indipendenza, era portato più a discutere che a eseguire gli ordini dell'imperatore, e nel contempo temeva l'amico che aveva alle spalle quasi quanto il nemico che aveva di fronte. Tanto è vero che, durante quella battaglia, ras Cassa invano chiese aiuto a ras Mulughietà, che preferì restare fermo nelle sue posizioni sull'Amba Aradam. Ogni ras, insomma, conduceva la propria guerra nel proprio territorio: Cassa nel Tembien, Immirù nello Scirè, Sejum nel Tigrè e Mulughietà sull'altopiano dell'Amba Aradam, nella regione dell'Endertà. Vinta la sua prima battaglia, Badoglio poteva finalmente prepararsi a sferrare l'offensiva liberandosi in primo luogo dell'incubo dell'Amba Aradam, il massiccio montuoso posto dalla natura a sbarramento della strada verso il lago Ascianghi e Dessiè. L'Amba Aradam, situata a 2750 metri di altitudine, più che a una montagna fa pensare a un altopiano realizzato dalle mani dell'uomo, con la cima livellata e i fianchi tagliati a tronco. La sommità consiste infatti in una vasta distesa pianeggiante, lunga 8 chilometri e larga 5, coperta di fitte boscaglie. Sul retro della montagna, nelle sue innumerevoli caverne naturali, ora si celavano soldati, animali, cannoni e depositi, ossia l'intero esercito di ras Mufughietà, forte di circa 80.000 uomini. VIII "ARMIAMOCI E PARTIAMO" Alla campagna d'Abissinia prese parte volontariamente la "crema" del fascismo militante. Smentendo il luogo comune dell'"armiamoci e partite", con il quale si ironizzava sul falso entusiasmo manifestato dai gerarchi del regime in occasione di qualche impresa bellica, questa volta molti partirono per davvero. Alcuni con la camicia nera e i gradi guadagnati facilmente nella Milizia, altri con le "stellette" dell'esercito regolare, rassegnandosi addirittura a riprendere, Com'era prescritto dal regolamento, i gradi ricoperti durante il servizio militare. Alessandro Pavolini, Roberto Farinacci ed Ettore Muti che, grazie alle benemerenze politiche, ricoprivano il grado di console, equivalente più o meno a quello di colonnello, pur di entrare nella Regia aeronautica si accontentarono di quello di tenente. Un'eccezione fu fatta per Galeazzo Ciano che neppure aveva adempiuto al servizio militare di leva: al genero di Mussolini venne infatti assegnato il grado di capitano e il comando di una squadriglia aerea da lui ribattezzata La Disperata. Erano volontari anche i figli del Duce, Vittorio e Bruno, e il nipote Vito, figlio di suo fratello Arnaldo. Delle "gesta eroiche" dei due figli di Mussolini, nonché del genero Galeazzo, inutile dire che i giornali, esagerando come di consueto, parlarono sovente e con insopportabile piaggeria. Ma fra i numerosi "riconoscimenti" da essi raccolti in patria ve n'è uno che spicca per la sua sconcertante singolarità. Si tratta di un brano in latino scritto dal professore Francesco Stanco per un volumetto di versioni a uso scolastico: "Digni qui laudentur sunt Bruno et Victorius Ducis filii, qui cum ad-ministro G. Ciano audacter hostium propugnacula demoliti sunt, dum plurnbeis glandibus ferreisque globis ex-cipiuntur" (Sono degni di lode i figli del Duce Bruno e Vittorio che con il ministro G. Ciano audacemente distrussero le fortificazioni nemiche mentre venivano bersagliati con pallottole di fucile e proiettili di cannone). Ciano si era portato al seguito, come suo aedo personale, anche il futuro ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini che provvedeva a illustrare sul "Corriere della Sera" le "storiche" imprese del suo capo con brani di questo genere: Ciano non amava le ricognizioni: ogni decollo senza bombe lo metteva di cattivo umore. Ogni volta che invece gli era dato di lasciare i comandi a Casero e di stendersi sul fondo dell'aereo a regolare la grandine degli spezzoni tirandomi per una gamba, o a sbizzarrirsi di mitragliatrice o di carabina, in lui brillavano polso, occhio e brio. Fra gli altri gerarchi che parteciparono all'impresa africana, figuravano il segretario del partito Achille Starace, che organizzerà una sua personale "marcia su Gondar" dedicando addirittura un libro a questa impresa; il governatore di Roma e futuro ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai, che era di diritto colonnello e fu aggregato alla divisione Sila; il generale Attilio Teruzzi, che comandava la divisione camicie nere 1° Febbraio; Carlo Scorza, il luogotenente generale della Milizia Augusto Agostini, e i consoli Renzo Montagna, Filippo Diamanti, Vittorio Vemè, Piero Parini, nonché Asvero Gravelli, Gino Palletta, Auro D'Alba, Aldo Resega, Gherardo Casini, Nino Dolfin, Pagina 53
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Carlo Emanuele Basile, Biagio Pace, Enzo Gal-biati, Niccolo Giani. Si erano arruolati volontari anche il medico, insignito di medaglia d'oro, Raffaele Paoluccì, affondatore della Viribus Unitis durante la prima guerra mondiale, che assunse l'incarico di direttore di una unità chirurgica, e il poeta futurista Filippo Tommaso Marinerti che traccerà questo singolare profilo di Pietro Badoglio: Forte, un po' curvo come un antico arco di guerra o meglio come una delle sue balestre d'autocarro il maresciallo Badoglio agguanta nella lente del suo cannocchiale tutta la sua battaglia. Partecipò all'impresa anche una folta rappresentanza della Casa reale: il duca Amedeo d'Aosta, nonché i duchi di Bergamo, di Pistoia, di Spoleto e di Ancona, oltre alla principessa ereditaria Maria José in veste di crocerossina. Inutile dire che tutti si guadagnarono almeno una medaglia e la "riconoscenza della Patria" come stava scritto nell'attestato che accompagnava il nastrino della campagna. Numerosissimi furono anche gli episodi curiosi e un po' folli che la stampa fascista non mancò di pubblicizzare. Come quello del settantenne Giovanni Piancastelli di Forlì che si offrì volontario con i suoi due figli. "Se la sua domanda sarà accettata," scrissero i giornali "il camerata potrà fare da nonno al balilla avellinese Evaristo Stanziale di 10 anni che è stato arruolato come mascotte dalla 144a legione in partenza per l'Asmara." O quello di una ventina di volontari, scartati per la dentatura guasta, che furono curati gratuitamente da volenterosi odontoiatri e rimessi in condizione di masticare e di imbarcarsi. Nel frattempo erano giunte circa 12.000 domande di arruolamento da parte di italiani residenti all'estero. Dopo le opportune selezioni, furono organizzate due legioni, la 221a di 2052 uomini e la 222a di 2080. Gli ufficiali erano 220 e l'età dei volontari variava dai 15 ai 58 anni. I giovanissimi non erano mai stati in Italia. Le due legioni, dopo un periodo di addestramento a Mogadiscio, furono aggregate alla divisione camicie nere Tevere, della quale facevano parte la legione "ex combattenti", la legione "ex Arditi", la legione "studenti universitari" e la legione "mutilati di guerra". Quest'ultima era comandata dal console Gorini, anche lui mutilato, e l'abbondanza dì mani e di gambe di legno, di occhi di vetro e di protesi varie che veniva esibita da questa singolare compagine non mancherà di suscitare l'allarmata attenzione degli abissini che per gli arti artificiali manifestavano una irrefrenabile curiosità ritenendoli oggetti diabolici. Ma la domanda di arruolamento volontario che fece più clamore fu quella di Guglielmo Marconi che chiese al Duce di essere mandato in Abissinia, "là dove la sua opera potesse apparire più utile". Mussolini, riservandosi di accoglierne la domanda, fece pervenire all'illustre scienziato "il suo vivo compiacimento per il gesto così nobile e significativo". Ma da Marconi gli italiani si aspettavano ben altro. Volevano "il raggio della morte" l'arma segreta che in quei giorni faceva sognare gli spiriti più bellicosi. I fascisti avevano un debole per le medaglie, tanto che molti fecero addirittura carte false per essere decorati. Significativo fu quanto accadde a Roberto Farinacci. Il "ras di Cremona", come veniva chiamato, aveva perduto la mano destra mentre, così spiegava la motivazione, "istruiva volontariamente i legionari nell'uso delle bombe a mano". Per questo suo "gesto eroico" Farinacci si era rivolto direttamente al Duce per chiedergli la massima decorazione: l'Ordine militare di Savoia. Mussolini, che non nutriva grande simpatia per questo ingombrante gerarca, volle però vederci più chiaro nella faccenda, ed ecco il rapporto che ricevette da un onesto maresciallo dei carabinieri incaricato dell'inchiesta: S.E. Farinacci non si è sfracellato la mano durante una esercitazione volontaria, ma si è ferito mentre si dilettava a pescare di frodo con le bombe a mano in un laghetto. Per questa ragione, S.E. Ettore Muti ha soprannominato S.E. Farinacci il "Martin pescatore". Farinacci non ottenne il desiderato Ordine di Savoia, ma Mussolini, magnanimo, gli assegnò ugualmente una medaglia d'argento. La corsa alle decorazioni al valore dei nostri gerarchi non mancò di sollevare sarcasmi e battute ironiche fra coloro che la guerra la facevano sul serio. Gli alpini della Pusteria, per esempio, improvvisarono persino questa parodia che, in seguito, il giornalista Paolo Monelli trascrisse in buon italiano: Si scopron le tombe, si levano i morti, i nostri gerarchi son tutti risorti. Finché noi pugnammo fiorivan negli orti, ma or che la pugna diventa pugnetta i nostri gerarchi accorrono in fretta. Se spira il più lieve sussurro di vento chiedono e ottengono medaglia d'argento. Persino Starace, di tutti il più stronzo, rimedia anche lui medaglia di bronzo. Vien fuori medaglia, vien fuori Pagina 54
arrigo petacco. FaccettaNera.txt ch'è l'ora, vien fuori medaglia, medaglia al valor. Questa divertente presa in giro dovette piacere molto a Mussolini, perché annotò con la matita rossa in calce alla velina in cui era stato trascritto il testo: "Perfetta! M.". Ma non tutti i volontari erano andati in Abissinia per conquistarsi una medaglia, moltissimi, quasi la totalità, si arruolarono per fede patriottica, come il capitano Manlio Savarè che volle prendere il posto del figlio Gioacchino, sottotenente delle truppe indigene, morto in combattimento. In seguito, nel 1940, anche il capitano morirà in combattimento meritandosi una medaglia d'oro. O come Fernando Feliciani, che racconterà: Io sono partito il 9 aprile del 1935. Dovevamo lasciare la banchina del porto di Catania alle 17, ma alle 19 le truppe stavano ancora sfilando per la via Etnea, travolte dall'entusiasmo della folla. Quando mi arruolarono feci salti e capriole nella piazza della mia Assisi. Chi ci può credere, oggi? Chi può capire? Eravamo drogati di patria. Oltre la fede, che certamente non mancava, c'erano naturalmente altri motivi: il desiderio di acquisire una benemerenza da far valere dopo il rientro in patria, la disoccupazione e, non ultimo, il richiamo sessuale suscitato dalle belle morette dai seni turgidi che affollavano le pagine dei giornali illustrati. Ma la molla principale che spingeva soprattutto i giovani intellettuali era il gusto dell'avventura, come confessò Indro Montanelli a Guido Vergani. Nell'aprile del '35 ero già là, in Eritrea. Avevo 24 anni. Comandavo, unico bianco, cento neri delle truppe indigene. Era stupendo. Mi sentivo Kipling. Non si poteva chiedere ai giovani cresciuti nel fascismo di capire che l'impresa era antistorica, che arrivavamo sul mercato coloniale quando questo già cominciava a perdere i pezzi. Sì, c'era un clima di fervore. Il molo di Napoli, la navigazione, il mistero del Mar Rosso, la sensazione di andare verso qualcosa di nuovo, di poterci esprimere in uno spazio libero dai capi fabbricato, dalla burocratizzazione che il regime aveva provocato, di poter dar vita a un fascismo nuovo. C'era nei giovani una smania di pionierismo. Poi maturò laggiù la nostra crisi. Ci accorgemmo che era tutta una buffonata. Anche nell'esercito abissino si trovavano volontari europei, ma si trattava soprattutto di mercenari, alcuni dei quali erano effettivamente esperti militari, sebbene non mancassero i ciarlatani e gli avventurieri. Essi fungevano da consiglieri, da istruttori o da comandanti dì reparti combattenti, come il colonnello greco Karavasils, che comandò una colonna di ras Desta sul fronte della Somalia. Fra gli altri, c'erano il russo Mischa Babitcheff, al comando della modestissima aeronautica abissina, e l'abile generale turco Wehib Pascià che aveva già combattuto contro gli italiani in Libia. C'erano poi un gruppo di ufficiali belgi, il cui esponente più alto in grado era il colonnello Léopold Ruel, e un gruppo di ufficiali svedesi comandati dal capitano Tamm, ai quali era stata affidata l'istruzione dei cadetti della scuola di guerra di Olettà (ne uscirono ottimi ufficiali che costituiranno il nucleo centrale della futura resistenza etiopica). Tra i mercenari figuravano ancora il maggiore svizzero Wittlin, il capitano texano Cuban Della Valle e il russo Konovaloff che fungeva da consigliere militare di ras Sejum. A costoro si uniranno più tardi un gruppo di comunisti inviati dal Comintern in Etiopia a organizzare la guerriglia nei territori occupati, fra i quali, oltre al francese Robert Monnier e al tedesco Anton Ukmar, figuravano due italiani: il livornese Ilio Barontini e lo spezzino Bruno Rolla. Tutti furono protagonisti di avventurose vicende. Numerosissimi, dalla nostra parte, furono inoltre i volontari civili. Oltre gli operatori sanitari, i medici, gli infermieri e le crocerossine, della cui assistenza medica si giovarono anche le popolazioni indigene, c'erano gli operai, gli scaricatori portuali che superavano di numero gli stessi combattenti. A costoro era affidata la preparazione logistica della campagna. Man mano che si avanzava, i dipendenti delle varie imprese appaltatrici, come la Costa, la Gondrand, la Saiba, la Cafulli, aprivano grandi cantieri di lavoro per costruire aeroporti, ospedali, campi trincerati, ponti e soprattutto strade, lungo le quali si avventuravano con i loro carichi i camionisti, i veri protagonisti di questa guerra. Ne morirono a centinaia, precipitati nei burroni o caduti negli agguati. D'altro canto, in questa campagna, preparata con dovizia di mezzi degna di una guerra europea, si dovettero affrontare anche gli aspetti tradizionali delle guerre coloniali, con le difficoltà connesse al rifornimento dei distaccamenti e delle colonne in marcia che implicava il superamento di immense distanze in territorio selvaggio e privo di strade. Tutto doveva essere predisposto o previsto o conquistato: la bevanda, il giaciglio, la strada, il riparo dal sole a picco o dal gelo notturno. Migliaia di camion impiegati per rifornire le Pagina 55
arrigo petacco. FaccettaNera.txt truppe si trovarono coinvolti in vere e proprie azioni di guerra e avanzate offensive su terreni quasi impraticabili. Ogni autocarro era un fortino ambulante e i conducenti guidavano con il moschetto sul sedile. La scarsità dei quadrupedi, salvo i caratteristici muletti eritrei, e l'assoluta mancanza di piste transitabili, obbligò talvolta i soldati a far "da mulo al mulo", ossia a trasportare a spalla, per chilometri e chilometri, oltre alle munizioni e ai pezzi dell'artiglieria, anche i sacchi di biada per le bestie da soma delle batterie. All'inizio del conflitto erano già presenti in Eritrea oltre 150.000 operai civili addetti alla costruzione delle strade. Allorché cominciò l'avanzata, i soldati scoprirono che la cosiddetta negus megheddè, la "strada dell'imperatore", come indicavano pomposamente le carte, era in realtà una mulattiera sulla quale faticavano anche i muli. Nell'Abis-sinia d'anteguerra, quando il negus si recava da quelle parti, i ras locali emanavano bandi rigidissimi avvertendo la popolazione che se solo una spina avesse offeso la tunica dell'imperatore a cavallo del suo muletto sarebbero seguite punizioni e impiccagioni; allora gli indigeni ripulivano la strada che però, ripartito il negus, tornava a essere una traccia incerta fra le macchie o una vaga pista sulla sabbia. Due mesi dopo la nostra conquista di Macallè, i 172 chilometri di negus megheddè che lo separavano dal confine erano già diventati una strada a regola d'arte, con il fondo asfaltato, la massicciata e i paracarri. Volontari civili erano anche gli 85 italiani che perirono nell'unico episodio di guerriglia che si verificò il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà, nelle retrovie del fronte del Tem-bien, dove era stato aperto un cantiere della Gondrand. Un migliaio di armati al comando del fitaurari Tesfai, un sottocapo di ras Imrnirù, colsero nel sonno gli occupanti del cantiere. Non c'erano sentinelle: svegliati dai colpi e dalle terribili urla che gli abissini erano soliti lanciare durante i loro attacchi, gli operai cercarono di difendersi con le poche armi a disposizione. Ma la sproporzione era troppo grande e, tranne qualcuno che riuscì a salvarsi fuggendo, gli altri furono sterminati e orrendamente seviziati. Perirono con gli operai anche il direttore del cantiere, Cesare Rocca, milanese, la sua giovane moglie Lidia Maffiolì, l'ingegnere Roberto Colloredo Mels, nonché una ventina di lavoratori eritrei. Lo scoppio accidentale del deposito delle polveri da mina fece numerose altre vittime fra assaliti e assalitori. Quando la mattina dopo i primi reparti di spahis musulmani {i cavalieri libici che al nostro fianco parteciparono con entusiasmo a quella che era per loro una jihad, una guerra santa contro i cristiani copti) giunsero sul luogo del massacro, non restava altro da fare che seppellire i morti. Le polemiche si accesero subito vivissirne, anche perché l'episodio suscitò molta apprensione nelle centinaia di altri cantieri, rutti privi, fino a quel momento, di sorveglianza costante contro queste improvvise incursioni. Furono infatti distribuite armi agli operai e si provvide a organizzare gli indispensabili servizi di difesa, mentre a Mai Lahlà ebbero inìzio le operazioni di rappresaglia. Molte forche entrarono in funzione nel cantiere assaltato e la banda di Tesfai venne successivamente raggiunta dagli spahis. Non si fecero prigionieri. L'eccidio della Gondrand destò orrore in Italia e in Europa, ma fu ben presto superato dall'ansiosa attenzione che attirò la battaglia strategica, detta "dell'Endertà", dal nome della vasta regione che ne fu teatro. L'annuncio di tale battaglia era stato dato un paio di giorni prima da Badoglio, il quale, contrariamente alle sue abitudini, aveva convocato i giornalisti sotto una grande tenda dove era stata predisposta una minuziosa carta topografica del paese. Così racconta Giovanni Artieri: Il Maresciallo era impolverato anche nella faccia. L'uniforme tropicale gualcita, l'immancabile scacciamosche di crine bianco nella sinistra, il casco nella destra, entrò subito nel concreto. "Domani" disse "verrà iniziata l'avanzata. Impiegheremo 70.000 uomini." Poi, dopo aver citato cifre di reggimenti, di battaglioni e nomi di comandanti, concluse: "Abbiamo di fronte 150.000 uomini. La battaglia sarà grossa". E questo fu il solo aggettivo di tutto il discorso. A differenza di De Bono, Badoglio instaurò con i giornalisti italiani e stranieri un rapporto cordiale. Il vecchio soldato aveva capito da tempo l'importanza della stampa e furbescamente amava tenersela amica. È vero che in Italia c'era la censura e nessun direttore di giornale avrebbe osato pubblicare una corrispondenza non "politicamente corretta", tuttavia anche nei servizi "addomesticati" l'inviato poteva inserire un aggettivo o un'osservazione in grado di mettere in luce o di oscurare le gesta di questo o di quel personaggio. La campagna d'Etiopia fu la prima guerra seguita, si può dire, passo passo dai Pagina 56
arrigo petacco. FaccettaNera.txt giornalisti. Per questa ragione il ministero della Stampa e della Propaganda (sempre diretto da Ciano) aveva provveduto a organizzare presso i comandi degli uffici stampa con il compito di agevolare (ma anche di controllare) il lavoro degli inviati. I quali, peraltro, non esistendo ancora le telecamere, né i comodi telefoni cellulari, erano costretti a rivolgersi a questi uffici per poter comunicare in redazione i loro servizi o usare i ponti radio indispensabili per trasmettere dalle zone più disagiate. Come racconta Rosario Mascia, i giornali italiani scelsero con oculatezza i loro corrispondenti di guerra, quasi tutti molto giovani e destinati a diventare grandi firme: da Max David a Giangaspare Napolitano, da Enrico Emanuelli a Sandro Sandri e tanti altri, come Luigi Barzini jr, Guelfo Civinìni, Vittorio Beonio Brocchieri, Aldo Valori, Alessandro Pavolini, Cesco Tomaselli, Virgilio Lilli, Paolo Monelli, Guido Palletta, Èrcole Patti, Giovanni Artieri, Alfio Russo, Ciro Poggiali, Bruno Roghi. Questi giornalisti venivano, come si usa dire oggi, embedded nei reparti militari, indossavano l'uniforme con i necessari contrassegni e spesso erano armati. Numerosissimi erano anche i giornalisti stranieri che i nostri uffici stampa privilegiavano per quanto possibile allo scopo di esercitare su di loro una certa influenza. La pittoresca guerra africana vide inoltre gli esordi delle prime corrispondenti di guerra, come l'americana Eleanor Packard dell'United Press, l'inglese Murici Currey e la francese Marie-Edith de Bonneuil del "Paris Soir". La Packard ebbe il privilegio, unica donna, di partecipare a una missione aerea di rifornimento alle truppe in marcia. "Da bordo di un Caproni da bombardamento" racconterà estasiata la giovane giornalista "dopo una fortissima picchiata ho gettato ai soldati spaghetti, tè, zucchero, cognac e sigarette, tutti preparati in pacchi accuratamente confezionati e imballati nella paglia e nel fieno che servirà ai muli." Negli Stati Uniti il suo scoop suscitò molta curiosità e venne ripreso anche dai giornali italiani. L'inglese Muriel Currey, invece, era una femminista convinta: aveva ìf piglio di un soldataccio, indossava abitualmente abiti maschili così che spesso veniva scambiata per un uomo. Anche la francese Marìe-Edith de Bonneuil portava shorts, stivali e pistola alla cintura, ma al contrario della collega britannica aveva grazia ed eccezionale femminilità. Sul suo conto, Paolo Caccia Dominioni ha raccontato un aneddoto stuzzicante. Un giorno la giornalista volle raggiungere da sola un fortino avanzato dove risiedevano una trentina di dubat e un solo italiano, un tenente romano di venticinque anni. I due simpatizzarono immediatamente. "La francese" scrive Caccia Dominioni "non aveva tardato a capire che soltanto poche sciarmuttine negre in quegli ultimi dieci mesi avevano frequentato il forte. Non vi furono esitazioni. Sembra che la giornalista, incontrando poi a Mogadiscio o a Chisimaio una sua compatriota, le abbia confidato: "Ah, ma chérie! Un romain de vingt-cinq ans, après dix mois de solitude: si vous saviez ce que ca donne!"". IX LA CONQUISTA DELLA MONTAGNA D'ORO All'alba del 10 febbraio 1936 le truppe italiane iniziarono la marcia dì avvicinamento verso l'Amba Aradam, l'enorme massiccio montagnoso coperto da una fìtta vegetazione tropicale che bloccava la via a sud, ossia la strada per Addis Abeba. Mentre le sette divisioni dei tre corpi d'armata impegnati nell'operazione, superato il fiume Gabat, procedevano all'accerchiamento dell'intera montagna, Badoglio mise in azione l'artiglieria, secondo una tecnica nella quale era considerato maestro. Per due giorni furono sparati sull'amba 23.000 colpi e gli aerei vi scaricarono 4000 quintali di bombe e qualche bidone di gas. Ma la sera dell'11, quando gli alpini della divisione Pusteria si trovavano a pochi chilometri dalla vetta, gli abissini non si erano ancora fatti vivi, fedeli alla tattica imposta loro dal comandante Mulu-ghietà, che era anche ministro della Guerra e uno dei più autorevoli ras dell'impero etiopico. Personaggio leggendario, il vecchio guerriero, che non abbandonava mai il suo caratteristico scudo di pelle di rinoceronte, non cessava di mostrarsi ottimista. All'inizio delle operazioni aveva inviato al negus un messaggio radio (che i nostri marconisti intercettavano regolarmente) per annunciargli di avere "avvolto e circondato gli italiani" mentre, in effetti, era lui a essere avvolto e circondato. D'altro canto, però, la sua armata era ancora intatta, giacché egli aveva risparmiato i propri uomini rifiutando di correre in aiuto a ras Cassa durante la battaglia del Tembien. Gli abissini si fecero finalmente vivi la mattina del 12 abbattendosi come al solito a ondate successive contro gli italiani, che li respinsero facilmente con il fuoco delle mitragliatrici e degli attacchi aerei. Quello stesso giorno, Hailè Selassiè, che seguiva la battaglia a 400 chilometri di distanza dal suo quartier generale di Dessiè, inviò un Pagina 57
arrigo petacco. FaccettaNera.txt messaggio telegrafico a ras Cassa con l'ordine di mandare le sue truppe migliori verso l'Amba Aradam in modo da piombare alle spalle dei nostri. Era un'idea eccellente, che certamente avrebbe messo Badoglio in difficoltà, ma quell'ordine non giunse mai. O meglio, ras Cassa dirà in seguito di non averlo mai ricevuto, anche se è più probabile che abbia voluto ricambiare il "favore" di ras Mulughietà. Quanto a ras Immirù, ancora schierato nello Scirè e sprovvisto di radio, continuò a restare fermo sulle sue posizioni ignorando quanto accadeva sul resto del fronte. Frattanto la resistenza etiopica sull'Amba Aradam diventava sempre più debole. L'artiglieria e gli attacchi aerei provocarono lo sbandamento dell'armata di Mulughietà. Questi, dopo alcuni sporadici tentativi di fermare gli italiani, la mattina del 15 febbraio, ritenendo impossibile la difesa dell'Amba Aradam, impartì l'ordine della ritirata generale che, come vedremo, si rivelerà molto più sanguinosa della stessa battaglia. Prima del tramonto del sole la battaglia dell'Amba Aradam poteva quindi dirsi conclusa. Era stata una vittoria facile per Badoglio, ma la propaganda provvide oltremodo a ingigantirla. Gli alpini della Pusteria in avanzata verso la vetta non incontrarono ostacoli di sorta, ma solo qualche gruppo urlante di uomini che si affacciavano dalle caverne levando disperati i loro moncherini al cielo. La consegna fu di stare alla larga trattandosi di lebbrosi, ma non è da escludere che quella lebbra meritasse di essere chiamata iprite. Di cadaveri invece ne incontrarono pochi, anche se furono sufficienti per far scrivere al ministro Giuseppe Bottai, che in quella battaglia si meritò una facile medaglia d'argento: "Cadaveri di gente nera. Non commuovono. Questa morte di colore sembra una mascherata". La mascherata, per la verità, la organizzarono successivamente i nostri comandi. Agli alpini che avevano raggiunto per primi la cima dell'amba, si ordinò, per ragioni politico-propagandistiche e malgrado le loro risentite proteste, di lasciare alle camicie nere della 23 Marzo l'onore di issarvi il tricolore. E inoltre, racconta Italo Pietra, allora comandante del battaglione alpino Exilles, ai suoi uomini fu impartito l'ordine di costruire sulla nuda vetta fortificazioni, trincee, muraglie a secco e nidi di mitragliatrici, come se dovessero affrontare un combattimento. Ma non si trattava della minaccia di un contrattacco nemico. Scrive ancora Pietra: Dopo tre giorni di lavoro finalmente scoprimmo l'arcano: un bel mattino arrivò dal fondovalle una lunga fila di muletti col duca di Spoleto in testa e con un codazzo di pezzi grossi e di inviati speciali a caccia di cose viste, con gli attendenti muniti di thermos e dì impermeabili Vatro, che pregustando la gioia di dire io c'ero, o forse anche per prendersi una medaglia, si rivelarono instancabili nel farsi fotografare qua e là sulla terra rossa accanto alle mitragliatrici per le foto-documento. Nel ripiegamento, Mulughietà andò incontro a un amaro destino. Decimata dalle incursioni della nostra aviazione cui era stato affidato lo sfruttamento del successo, la sua armata si spinse nei territori della Dancalia abitati dagli Azebu Galla, guerrieri crudeli e combattivi che, essendo nemici tradizionali degli antichi dominatori scioani e amhara, il nerbo dell'esercito abissino, si erano volontariamente schierati con gli italiani per consumare le loro vendette. I fuggiaschi sopravvissuti alle incursioni aeree furono inseguiti e massacrati da questi guerrieri che li attendevano al varco. In una di tali imboscate fu ucciso e mutilato (la castrazione rientrava nel loro stile di guerra) fra gli altri il giovane Tadessa, figlio di Mulughietà. Il vecchio ras tornò allora sui suoi passi per vendicare la sua morte, ma venne anche lui ucciso non sì sa se dalla raffica di un aereo italiano o dai colpi degli Azebu Galla. Usciva così di scena l'ultimo dei ras che, agli ordini di Menelik, avevano sconfitto gli italiani a Adua. Questa volta il suo famoso scudo non era servito a salvargli la vita. La sua armata aveva perduto oltre 20.000 uomini, contro i 657 perduti dagli italiani e, almeno come unità organica, non esisteva più. Ora Badoglio doveva regolare i conti anche con i ras Cassa, Sejum e Immirù che nella prima battaglia del Tembien gli avevano procurato non poche preoccupazioni. Le forze di Cassa e di Sejum erano ancora accampate nel Tembien, quelle di Immirù molto più a destra, a sudovest di Axum. Questa volta Badoglio cambiò tattica passando dal logoramento all'annientamento rapido dell'avversario. Il 3° corpo d'armata del generale Ettore Bastico compì a marce forzate una manovra avvolgente "a fronte rovesciato", ossia alle spalle delle forze di Cassa e di Sejum, mentre il Corpo eritreo di Pirzio Biroli le attaccava di fronte. La seconda battaglia del Tembien ebbe inizio il 27 febbraio in una regione aspra e selvaggia. Dopo avere perduto Abbi Addì, capoluogo della regione, ras Cassa, pur essendo privo di rifornimenti, accettò coraggiosamente la sua sorte e si Pagina 58
arrigo petacco. FaccettaNera.txt ingolfò nei territori misteriosi e impervi del Tembien centrale e nel selvaggio bacino del Tacazzè. Gli italiani lo inseguirono: conoscevano i luoghi meglio di lui, grazie ai rilevamenti cartografici aggiornatissimi di cui il ras era privo, e potevano quindi incalzarlo, stringerlo e pensare persino di catturarlo. Per poco non andò così: ras Cassa aveva situato il proprio quartier generale sull'inaccessibile Amba Uork (montagna d'oro), nel cuore roccioso e lunare del Tembien e il suo rifugio pareva imprendibile. Ma nelle prime ore del 27 febbraio si svolse lo spettacolare episodio della "conquista della Montagna d'oro", che accenderà la fantasia degli stessi abissini. Centotrenta uomini, fra alpini, camicie nere e ascari, armati di moschetto, pugnale e bombe a mano, dopo un'arditissima scalata notturna della montagna, raggiunsero la cima alle sei del mattino cogliendo di sorpresa le sentinelle. Ras Cassa fece appena in tempo a fuggire: i primi cinque alpini che irruppero nella caverna dov'era il suo comando, trovarono ancora acceso il fornellino sul quale stavano preparandogli il carcadè. Ma furono loro a berlo. L'inseguimento delle bande ormai disfatte di ras Cassa e di ras Sejum venne poi affidato all'aviazione. Così scrisse un giornalista che seguì la ritirata a bordo di un aereo: Le necessità della fuga non consentivano al nemico di nascondersi a lungo. I gruppi marciavano in pieno disordine lungo l'unica pista e la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni contribuivano a tenerli inevitabilmente uniti e addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava. Il velivolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne seguiva lo zig zag. Seminava intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale. In pratica, la sera del 29 anche la seconda battaglia del Tembien era conclusa. E l'entità della vittoria italiana si riflette nel numero delle vittime: 34 ufficiali, 359 soldati nazionali e 138 ascari contro 8000 abissini. L'armata di ras Cassa era dunque in frantumi, mentre quella di ras Sejum in fuga verso il Semien e l'Avergallè continuava a essere decimata dall'aviazione. Anche per queste due armate, come era accaduto a quella di Mulughietà, le perdite maggiori furono registrate durante le ritirate, perché le unità abissine, una volta battute, si disgregavano: i soldati pensavano solo a tornare a casa e si sbandavano in gruppi tribali facilmente individuabili. Mentre era in corso la seconda battaglia del Tembien, il 29 febbraio altre truppe raggiunsero senza incontrare ostacoli la vetta dell'Amba Alagi, luogo sacro per la memoria storica italiana che ricordava il sacrificio di Pietro Toselli consumatosi il 7 dicembre 1895. In quell'occasione fu celebrata una commovente cerimonia, officiata da don Giovanni Garaventa, cappellano e centurione della brigata Montagna, con l'alzabandiera di un tricolore offerto dal podestà di Vittorio Veneto. A questo punto, liquidati ras Cassa e ras Sejum, rimaneva ancora l'ultima armata del Nord comandata da ras Immirù, forse l'unico fra i capi etiopici a possedere notevoli capacità militari e una visione moderna della guerra. In dicembre, nel corso della controffensiva etiopica, Immirù aveva riconquistato quasi tutto lo Scirè giungendo a pochi chilometri da Axum, dove si era fortificato con il grosso delle sue truppe. Poi aveva continuato a logorare gli italiani con rapidi attacchi e colpi di mano. La battaglia dello Scirè, come sarà poi chiamata, ebbe inizio alla fine di febbraio e fu, ovviamente, coronata dal successo, anche se si verificarono seri contrattempi che Badoglio non aveva lamentato nelle due battaglie precedenti. Assestata su imprendibili posizioni di montagna, l'armata di Immirù, forte di 30.000 uomini, costituiva una seria minaccia per Axum e per la conca di Adua. Per stanarla, il maresciallo dovette impiegare due corpi d'armata, il 2° comandato dal generale Pietro Maravigna, che avanzava da Axum, e il 4° del generale Babbini proveniente dal Mareb, oltre a folti reparti di ascari e di spahis libici: circa 40.000 uomini che sì mossero a tenaglia fra Selaclacà e l'Enda Selassiè. Ma Immirù era pronto a riceverli; godeva infatti di un discreto servizio di informazione, grazie soprattutto all'at-tivissimo clero copto di Axum. Una colonna della Gavinana fu presa tra due fuochi e subì gravi perdite: lo scontro durò dodici ore, e gli etiopi tentarono invano di impadronirsi dei cannoni. Vennero respinti, e tuttavia il generale Maravigna si vide costretto a chiedere a Badoglio di poter rimandare di un giorno l'avanzata. La quale, invece, riprese dopo due giorni e proseguì con grandi difficoltà, tanto che le nostre perdite superarono la media abituale di quelle battaglie: oltre mille nazionali tra morti e feriti. In seguito Immirù, su ordini del negus, peraltro condivisi dallo stesso ras, cercò di sfuggire alla morsa degli italiani ripiegando sul Tacazzè e muovendosi di notte per evitare gli attacchi aerei. Il 3 marzo, giorno in cui avrebbe Pagina 59
arrigo petacco. FaccettaNera.txt dovuto chiudersi attorno alte forze etiopiche la tenaglia ideata da Badoglio, il grosso della sua armata sfuggì alla trappola. Ma la loro sorte era ormai segnata. Aggredite dalle bande di sciftà, i briganti che, spesso con l'incoraggiamento italiano, attaccavano gli abissini in ritirata, le truppe di Immirù vennero sorprese dall'aeronautica mentre cercavano di attraversare in massa i guadi del Tacazzè. Fu una strage. Si contarono più di 7000 morti. Il ras, sconfitto ma non domo, si rifugiò nelle montagne con un migliaio di uomini rimasti a lui fedeli. Crollava così l'intero fronte settentrionale e davanti a Badoglio si aprivano le porte dell'Etiopia. Incalzato come al solito da Mussolini che lo tempestava di telegrammi ultimativi, come il seguente: "Fate presto. La situazione internazionale ci impone di chiudere la partita", il maresciallo diede a questo punto il via alla grande corsa verso sud. Con una marcia che rimarrà leggendaria, le colonne celeri italiane fecero avanzare in pochi giorni di 600 chilometri l'intero arco del fronte. Una colonna attraversò il deserto della Dancalia e occupò Sardò, il capoluogo dell'Aussa. Un'altra, guidata da Achille Starace, che diede prova di quel coraggio che non gli è mai stato negato, conquistò Gondar, ricca di castelli costruiti dai portoghesi e antica capitale degli imperatori abissini. Altre colonne si mossero a raggiera occupando Debarec, Socotà, Bogara, Abd el Rafi, quasi sempre senza incontrare ostacoli, ma dando prova di una incredibile resistenza contro le terribili difficoltà naturali che ostacolavano il percorso. I più veloci erano i reparti eritrei. Questi ascari coraggiosi e fedeli si erano rivelati fin dall'inizio della campagna degli ottimi combattenti. Degli abissini avevano la velocità nelle marce e l'irruenza nell'azione offensiva, a cui si aggiungeva la tenacia e la saldezza nell'azione difensiva. Se l'ufficiale bianco non li abbandonava, mantenevano la compattezza anche nei momenti più difficili. Erano orgogliosi della loro uniforme e della loro disciplina. Agili e scattanti, lucidavano con amore le loro armi e si facevano belli in ogni occasione; nessuno appariva mai scamiciato né a capo scoperto e, nella loro giubba cachi sotto il fez di panno e l'alta fascia colorata stretta alla vita, erano sempre ordinati ed eleganti come per una rivista. II battaglione più famoso e combattivo era il battaglione Toselli che portava la fascia nera in segno di lutto per l'eroe caduto. Camminavano di solito "in cresta" alle alture fiancheggiando per sicurezza il grosso delle colonne e tenendo il fucile sulla spalla, la canna in avanti e attaccato al calcio il fagottino con il carcadè, il sale, lo zucchero e una manciata di farina per la borgutta, una specie di focaccia. Quando sostavano nei poveri villaggi incontrati lungo la marcia, le donne li accoglievano con grida festose e invitanti elleltà, consapevoli delle brame che quei soldati, marito o no presente, avrebbero sfogato entro poche ore su di loro. Lungo le piste dell'immenso altopiano etiopico, i legionari incontravano le bande degli "alleati" Azebu Galla, pittoreschi e crudeli guerrieri armati dì lancia e di scimitarre (ma anche dell'inseparabile coltellaccio a lama curva che Paolo Monelli, amatore di parole nuove, aveva significativamente battezzato "castrino"). Essi mostravano orgogliosi i trofei di guerra strappati ai loro odiati nemici scioani: armi, scudi, ornamenti, selle di cuoio, sacchi di viveri preziosi, come orzo, sale, zucchero e carne secca. Ma anche orecchie e testicoli inanellati che esercitavano un forte richiamo sulle loro donne. Dagli Azebu Galla gli italiani furono informati che un'altra armata abissina stava marciando verso nord: un loro villaggio era stato incendiato dai soldati del negus che avevano marchiato a fuoco tutti gli abitanti con la lettera "M" per vendicare la morte di ras Mulughietà, a loro attribuita. In effetti il negus stava marciando verso il fronte. Aveva raccolto attorno a sé ciò che restava del suo esercito, il cui nucleo principale era rappresentato dalla guardia imperiale, ottimi soldati ben addestrati dagli istruttori europei, con belle uniformi gialle e dotati di armi moderne. La sera, davanti alla sua tenda, i guerrieri cantavano attorno ai fuochi le loro canzoni di guerra, poi andavano ginocchioni a baciare i suoi piedi e le sue mani. Al seguito dell'imperatore viaggiavano numerosi giornalisti europei e americani con i quali egli si comportava come un educatissimo gentleman anche se forse, in cuor suo, avrebbe desiderato di mostrare il suo disprezzo contro tutti i frengi che lo stavano cinicamente abbandonando al suo destino. In una sola occasione, racconta Leonard Mosley, dimenticò di conformarsi alla falsa immagine del monarca costituzionale che offriva agli europei. In quei giorni un tribunale di guerra condannò alla fucilazione alcuni soldati e tre alti ufficiali colpevoli di codardia davanti al nemico, ma il negus, giunto sul posto, commutò le sentenze di morte. "Vuol farci vedere" pensarono i giornalisti "che è civile e umano." Essi dovettero tuttavia ricredersi quando scoprirono che la sentenza era stata Pagina 60
arrigo petacco. FaccettaNera.txt commutata in una condanna alla fustigazione: cinquanta colpi di curbasc alla schiena per i soldati e cinquanta colpi sul ventre per gli ufficiali. La terribile punizione venne eseguita davanti al sovrano e si può immaginare con quale risultato, se già gli stessi abissini consideravano mortali venticinque colpi di quello staffile di pelle di ippopotamo. Il negus assistette alla punizione esemplare senza fare una piega: restituì sorridendo il saluto dell'ufficiale fustigatore e si allontanò senza degnare di uno sguardo i sanguinolenti fustigati. Gli alpini della divisione Pusteria furono i primi a superare il passo Dubar sull'altopiano etiopico e a scendere nella conca di Mai Ceu. Trovarono il villaggio semideserto e disseminato di cadaveri nereggianti di corvi. La valle, tuttavia, era bellissima: aveva l'aspetto di un paesaggio svizzero, per via del verde intenso e dei fiori sbocciati grazie alla stagione delle "piccole piogge" appena cominciata. Nei giorni seguenti arrivarono i reparti del generale Ruggero Santini e i battaglioni eritrei di Pirzio Biroli. Tutti andarono a prendere posizione sulla collina, fra il passo Mecan orientale e il passo Mecan occidentale, che dominava la rigogliosa pianura e si misero al lavoro. Bisognava disboscare tutto intorno alle postazioni per allargare il campo di tiro, scavare trincee, sistemare le batterie, innalzare muri a secco e allestire piccole ridotte per ripararsi dalle pallottole. Verso la fine di marzo, ai limiti dell'immenso piano si accesero molti fuochi: erano i bivacchi delle avanguardie abissine che furono ben presto presi di mira dalla nostra aeronautica. Ma i fuochi continuarono ugualmente ad aumentare di numero: principiavano al calare della notte, dopo che gli aerei si erano allontanati e si spegnevano all'alba prima che questi tornassero. Italo Pietra, destinato a diventare un grande giornalista, ma che allora era soltanto un giovane tenente degli alpini, ricorda che una sera, mentre osservavano le mille luci dei bivacchi abissini, il suo colonnello, Emilio Battisti, commentò pensieroso: "Siamo pressappoco nelle condizioni di Toselli quando dall'Amba Alagi scriveva alla madre: "Vedo tanti lumi. I lumi aumentano...". Speriamo che a noi vada meglio". Anche il maresciallo Badoglio, che aveva seguito le sue truppe sulle alture attorno a Mai Ceu, era pensieroso e tormentato dai dubbi. Che cosa farà il negus? Poi confidò a uno dei suoi più stretti collaboratori: "Se quello, anziché accettare battaglia, mi fa un balzo indietro di cento chilometri, io sono fritto". Ma, a ogni buon conto, era soddisfatto. Aveva accontentato Mussolini lanciandosi in una lunga e rapida avanzata. Per giunta, aveva issato il tricolore sull'Amba Alagi proprio nei giorni in cui ricorreva il 40° anniversario della battaglia di Adua. Ora non gli restava che vibrare il colpo finale. Sul fronte della Somalia, Rodolfo Graziani si era dovuto adattare, come già sappiamo, a un ruolo secondario. Oltre che della Peloritana, ora disponeva anche di una agguerrita divisione libica comandata dal generale Guglielmo Nasi, i cui componenti, tutti di osservanza islamica, erano stati cinicamente incoraggiati a sfruttare l'opportunità di sfogare il loro odio religioso contro gli "infedeli". Dopo la conquista di Neghelli e la disfatta dell'armata di ras Desta, altri 30.000 abissini erano comparsi sulla scena al comando del generale turco Wehib Pascià, nemico storico degli italiani. Questi, oltre ad avere ricevuto dal negus "carta bianca", ossia l'autorizzazione di dirigere le operazioni anche senza, o contro, il parere del ras, era un buon stratega e un ottimo psicologo. Contando sulla nota irruenza di Graziani e, soprattutto, sulla sua risaputa rivalità con Badoglio, Wehib sperava di attirare il comandante italiano il più possibile nell'interno (le operazioni si svolgevano su distanze enormi e in pieno deserto) offrendogli di tanto in tanto delle piccole "vittorie di Pirro" onde allontanarlo dalle basi di partenza per poi infliggergli un colpo mortale. Graziani che, malgrado gli ordini ricevuti, sognava in cuor suo di arrivare a Addis Abeba prima del suo rivale, cadde, o forse finse di cadere, nella trappola: si allontanò infatti per oltre 1300 chilometri dalla base italiana di Belet Uen, ma nel contempo le truppe libiche di Nasi, la colonna mobile del generale Vernè e i dubat del generale Navarra inflissero agli abissini tali e tante perdite da impedire al generale turco di portare a compimento il suo progetto. Anzi, la stessa sopravvivenza della sua armata fu messa a repentaglio e salvata solo dal sopraggiungere della stagione delle piogge. Le tempeste e gli uadi in piena, i fiumi di fango, costrinsero infatti Graziani a rallentare l'avanzata verso l'obiettivo sognato: la capitale etiopica. Anche il negus, nel suo quartiere generale di Dessiè, sembrava accarezzare un piano simile a quello di Wehib Pascià o, quanto meno, questo era ciò che Badoglio più fortemente temeva. Hailè Selassiè avrebbe infatti potuto tentare una Waterloo abissina attirando le forze vittoriose italiane verso sud, a Dessiè Pagina 61
arrigo petacco. FaccettaNera.txt e oltre, costringendole poi ad affrontare la battaglia lontano dalle basi di partenza. Angosciato da questo incubo, Badoglio dispose servizi speciali di sorveglianza sulla "strada dell'imperatore" per controllare i movimenti delle nuove truppe regolari abissine che da Dessiè stavano affluendo verso Mai Ceu. Si stava rapidamente avvicinando l'ora decisiva. Il 7 marzo 1936, mentre Badoglio si preparava ad affrontare l'ultima battaglia, nel panorama internazionale la crisi etiopica passò in secondo piano per un nuovo colpo di mano della Germania. Cogliendo tutti di sorpresa, Hitler ordinò alla Wehrmacht di superare il confine "proibito" della Renania, la regione tedesca confinante con la Francia, alla quale per motivi di sicurezza i vincitori della Grande guerra avevano imposto la "smilitarizzazione". Fu l'ennesima violazione delle dure condizioni imposte a quel paese dal trattato di Versailles, e per l'Europa un nuovo segnale d'allarme. Le proteste naturalmente non mancarono, soprattutto da parte della Francia che era la più interessata a mantenere lo staru quo ai propri confini, ma la Società delle Nazioni, ormai in stato confusionale, si limitò a emettere la solita condanna formale e senza conseguenze. Vi furono tuttavia preoccupati scambi d'opinione tra i governi aderenti al patto di Stresa, e Mussolini ne approfittò per ammonire ancora una volta Francia e Inghilterra: se avessero continuato nella loro politica punitiva, l'Italia, "paese sanzionato", non si sarebbe più sentita legata agli accordi di Stresa che miravano a contenere la rinascita del militarismo germanico. In Francia, nel frattempo, il governo Laval era caduto e gli era succeduto il governo di Albert Sarraut (con Pierre Flandin al ministero degli Esteri) che però mantenne nei confronti dell'Italia una politica amichevole. Dura e intransigente restò invece l'Inghilterra a causa della politica contraddittoria (e persino criticata all'interno del Foreign Office) del sempre più influente Anthony Eden il quale, se da un lato reclamava il ritomo al "fronte di Stresa", dall'altro faceva di tutto per irritare Mussolini. Proprio in quei giorni, il capo del Foreign Office - che non mosse un dito contro l'atto di forza compiuto da Hitler in Renania aveva infatti ribadito a Ginevra la sua volontà di estendere anche al petrolio le sanzioni contro l'Italia. Il "doppiopesismo" britannico non poteva non allarmare il Duce che, dopo l'annuncio a sorpresa del patto navale anglo-tedesco, temeva quanto la Francia l'eventualità di un'alleanza fra Londra e Berlino, peraltro già ipotizzata da Hitler nel suo Mein Kampf. A questo punto è forse necessario ristabilire una verità storica, spesso nascosta, che sarà utile per chiarire le future decisioni mussoliniane. Secondo molti storici, a quell'epoca Mussolini era già d'accordo con Hitler e deciso ad allearsi con la Germania nazista per costituire l'Asse Roma-Berlino, ma si tratta di un'ipotesi totalmente infondata. In realtà. Mussolini era ancora un convinto sostenitore del patto di Stresa, considerava una jattura l'eventualità di essere "costretto" a gettarsi nelle braccia del Führer e ignorava i progetti espansionistici cui mirava il dittatore nazista. Anche lui, infatti, venne colto di sorpresa dal colpo di mano in Renania e se protestò blandamente fu solo perché, in quel momento, pensava innanzitutto a risolvere i suoi problemi immediati che non alle lontane prospettive dell'iniziativa tedesca. Il "diversivo" della Renania giocava infatti a suo vantaggio in quanto gli consentiva di stornare l'attenzione internazionale dalla sua guerra nella lontana Abissinia e di ricordare a tutti quale fra le due dittature - quella fascista e quella nazista - fosse la più pericolosa. D'altra parte, benché avesse ordinato alla sua diplomazia di mostrarsi più duttile nei confronti della Germania per intimorire Francia e Inghilterra, le effettive relazioni italo-germaniche erano ancora improntate da reciproca e profonda sfiducia. Mussolini sapeva che Hitler mirava a mettere l'Italia in difficoltà per avere mano libera in Austria. In seguito, come risulta da documenti riemersi recentemente, fu anche informato che il Fuhrer, con il proposito di indebolire l'Italia, già nel gennaio del 1935 aveva inviato in missione segreta a Addis Abeba il console Hans Steffen con l'incarico di convincere il negus ad attaccare di sorpresa l'Eritrea e la Somalia prima che gli italiani si muovessero. Successivamente, lo abbiamo già ricordato, Hitler concesse all'imperatore di Etiopia anche un credito a fondo perduto di 3 milioni di marchi per l'acquisto di materiale bellico germanico, trasportato in Abissinia dalle navi inglesi dopo che le acciaierie Borsig di Berlino ebbero provveduto a cancellare i marchi di fabbrica "per evitare indiscrezioni". Risulta ancora che, in quel frangente, il Duce, intimorito, fece sapere all'ambasciatore tedesco von Hassel che se la Germania avesse interrotto l'invio di armi al negus, l'Italia avrebbe tollerato una nuova iniziativa in Austria. Ma poi cambiò idea dopo le clamorose vittorie di Badoglio nel Tembien e Pagina 62
arrigo petacco. FaccettaNera.txt nell'Endertà così che i rapporti Roma-Berlino tornarono a essere molto tesi. Mentre pendeva ancora sull'Italia la minaccia dell'inasprimento delle sanzioni, reclamato ostinatamente da Eden, Mussolini mise le carte in tavola con l'ambasciatore francese de Chambrun e con altri esponenti politici del governo di Parigi. A de Chambrun dichiarò: "Io sono sempre, e voi potete ben farlo sapere al signor Flandin, nella linea di Stresa. Posso assicurarvi che non vi è a tutt'oggi nella sfera politica assolutamente niente fra Hitler e me. Il mio modo di vedere sulla Germania rimane esattamente quello che era l'anno passato in aprile". Soggiunse poi passandosi significativamente la mano sulla caratteristica calvizie: "Non intendo diventare alleato di Hitler neppure se mi ci tirano per i capelli. Ma dovete convenire che qualsiasi aggravamento delle sanzioni rigetterà necessariamente l'Italia in un isolamento dal quale il suo governo avrà il dovere imperioso di farla uscire. Spetta dunque alla Francia e all'Inghilterra di non respingerci". Ancora più franco, ricorda Renzo De Felice, il Duce lo fu con Louis-Jean Malvy, un ministro radicalsocialista francese che andò a fargli visita e che poi trascrisse la loro conversazione. Mussolini disse a Malvy: La situazione attuale mi obbliga a cercare altrove le sicurezze che ho perduto dal lato della Francia e dal lato dell'Inghilterra, al fine di ristabilire a mio vantaggio l'equilibrio infranto. E a chi indirizzarmi se non a Hitler? Io vi devo anche dire che ho già avuto da lui delle ouvertures... Fin qui mi sono riservato. Perché io valuto perfettamente ciò che succederà se io mi intendo con Hitler. Innanzi tutto sarà l'Anschluss a breve scadenza. Poi, dopo l'Anschluss, sarà la Cecoslovacchia, la Polonia, le colonie tedesche eccetera... Per dir tutto, sarà la guerra, inevitabilmente. È per questo che io ho esitato ed esito ancora a impegnarmi su questa via. Vi ho fatto pregare di venirmi a trovare perché voi possiate informare il vostro governo della situazione che vi ho esposto. Io attenderò qualche tempo ancora. Ma se prossimamente l'atteggiamento del governo francese e di quello inglese a mio riguardo, a riguardo del regime fascista e dell'Italia non si modifica e non mi darà le assicurazioni di cui ho bisogno, allora accetterò le proposte di Hitler. L'Italia diventerà alleata della Germania. Una drammatica profezia che purtroppo si avvererà. La Francia, angosciata dall'eventualità di un riavvicinamento italo-tedesco, non restò sorda alle argomentazioni del dittatore italiano. E furono appunto le pressioni del governo francese esercitate a Ginevra contro la proposta britannica di aggravamento delle sanzioni a far rinviare ogni decisione con il proposito dì compiere un ulteriore sforzo di conciliazione fra le due parti in conflitto. Mussolini, d'altra parte, pur facendo la voce grossa, era ancora disposto ad accettare una soluzione negoziata per "salvare la faccia" della Società delle Nazioni e per rientrare onorevolmente nell'organizzazione ginevrina. Infatti, ai primi di aprile elaborò un nuovo piano, secondo il quale quattro quinti del territorio abissino sarebbero passati in forma diretta o di protettorato sotto il dominio italiano lasciando il nucleo centrale, schiettamente scioano, al governo di Addis Abeba. Questo progetto fu fatto conoscere segretamente a Parigi e a Londra, ma naufragò per la netta opposizione di Eden, il quale aveva ormai assunto una posizione egemone nel governo britannico. Di fronte a questa aperta manifestazione di testarda ostilità, al Duce non restava che "tirare diritto". E così fece. Lasciamo perciò ai lettori fantasiosi, che amano trastullarsi con i "se" e con i "ma", la libertà di immaginare come sarebbero andate le cose in Italia e nel mondo "se" il ministro Hoare non si fosse rotto il naso sciando e "se" quel "cretino vestito così bene" non fosse inciampato in quel maledetto tappeto della Sala del Mappamondo. X DA MAI CEU A ADDIS ABEBA Sotto la sua tenda da campo allestita sulle alture del Mecan sovrastanti la grande pianura di Mai Ceu, Pietro Badoglio fumava pensieroso l'ennesima sigaretta Serraglio allontanando i fastidiosi insetti con il suo inseparabile scacciamosche di crine bianco. Di fronte a lui, al limite della valle, si stavano ammassando gli abissini: una decina di migliaia di soldati raccogliticci ai quali si sommavano i sei battaglioni della kebur-zabagnà, la guardia imperiale, che con i suoi 20.000 uomini bene armati e bene addestrati costituiva l'unica unità ancora intatta a disposizione del negus. Si trattava di un contingente inquadrato e attrezzato modernamente con mitragliatrici e cannoni a tiro rapido capaci di sviluppare una notevole potenza di fuoco. Per contrastarlo Badoglio disponeva del 1° corpo d'armata del generale Santini e del corpo d'armata indigeno di Pirzio Biroli, vale a dire circa 40.000 uomini avvantaggiati dall'appoggio dall'arma aerea e dalla solita schiacciante Pagina 63
arrigo petacco. FaccettaNera.txt superiorità tecnica. Ma il maresciallo era ugualmente tormentato dai dubbi. Se il negus avesse adottato la tattica suggerita da Wehib Pascià in Somalia e costretto gli italiani a inseguirlo nell'interno, oltre Dessiè, la sua armata si sarebbe trovata in gravi difficoltà. Le linee di comunicazione erano già enormemente dilatate; allungandole di altri 400 o 500 chilometri in territori inospitali, la situazione sarebbe vieppiù peggiorata. Ma poteva anche accadere di peggio: se il negus avesse rinunciato allo scontro frontale per trasformare la sua armata in un esercito di bande guerrigliere, gli si sarebbe aperta subito la strada per Addis Abeba; il percorrerla, però, avrebbe comportato il rischio di cadere in una trappola mortale. Nel campo abissino, gli inascoltati consiglieri europei ormai non nascondevano più il loro pessimismo, ma il negus non intendeva darsi per vinto. Fedele alla tradizione, aveva voluto assumere personalmente il comando dell'esercito e, benché fosse rimasto praticamente solo (dei suoi "grandi" ras, Mulughietà, Sejum, Cassa e Immirù, soltanto Cassa si era potuto riunire a lui), decise di affrontare il nemico sul campo dando prova di una forza d'animo e di una sicurezza che non mancarono di rinfrancare le sue truppe più fedeli, le quali ora anelavano a combattere contro l'odiato invasore. D'altro canto, il negus contava ancora ingenuamente sull'intervento della Società delle Nazioni e forse sperava che una piccola, anche se limitata, vittoria avrebbe potuto giocare a suo favore sui tavoli di Ginevra. Dal suo quartier generale, Hailè Selassiè era in continuo contatto telegrafico con la moglie Menen, che da Addis Abeba seguiva con ansia gli sviluppi della situazione e che lui aggiornava spesso con dovizia di particolari che sarebbe forse stato meglio mantenere segreti. Evidentemente sottovalutava l'efficienza dei nostri servizi di intercettazione i quali "leggevano" tutto ciò che l'imperatore le mandava a dire. Il 27 marzo fu captato questo suo telegramma inviato all'imperatrice: Ci troviamo schierati davanti al nemico osservandoci l'un l'altro col binocolo. Ci dicono che le truppe del nemico che si trovano riunite davanti a noi sino ad ora non superano approssimativamente i diecimila uomini. Le nostre truppe ammontano esattamente a trentunomila unità. Poiché la nostra fede è riposta nel nostro Creatore e nella speranza che Egli ci aiuti, avendo noi deciso di avanzare e di entrare nelle loro fortificazioni e dato che l'unico nostro aiuto è Dio, confida nel massimo segreto questa nostra decisione all'abuna, ai ministri, ai dignitari e rivolgete a Dio le vostre decise preghiere. Il tono di questo messaggio non era quello di un condottiero che si preparava a vincere una battaglia, bensì quello di un uomo disperato che, con l'aiuto di Dio, si accingeva ad andare incontro al suo destino... La preziosissima informazione, confidata "in segreto" dal negus alla sua consorte, deve aver fatto tirare un sospiro di sollievo al maresciallo Badoglio. Stava infatti a significare che il negus non aveva alcuna intenzione di compiere quel tanto temuto salto indietro dì 200 o 300 chilometri, ma che si apprestava a fargli la "cortesia" di andargli incontro... Cosa avrà spinto il negus a compiere questo suo beau geste non lo sapremo mai. La risposta si cela nella complessa personalità di questo sovrano feudale impastato di orgoglio e deciso a difendere il suo onore e a restare fedele al motto che ne contraddistingueva l'antichissimo lignaggio: "Il Leone della tribù di Giuda vince". Hailè Selassiè era certamente un uomo moderno, colto e intelligente, ma in lui le tradizioni ancestrali erano profondamente radicate. Anche i grandi negus del passato - Teodoro, Giovanni, Menelik - avevano comandato personalmente le grandi battaglie campali e avevano sempre vinto, grazie alla superiorità numerica, al coraggio dei combattenti e forse all'aiuto di Dio o dell'Arca misteriosa ormai irraggiungibile. Lui, comunque, non poteva essere da meno dei suoi predecessori: avrebbe perciò attaccato il nemico in massa e frontalmente, come volevano le consuetudini del passato e così come aveva fatto Menelik sul campo di Adua. Non intendeva restare ad attendere l'iniziativa dell'avversario: o sfondare o morire. Badoglio lo attendeva a piè fermo. Malgrado le difficoltà ambientali, aveva schierato opportunamente sulle alture, fra i monti Bohorà e Corbetà e il passo del Mecan la divisione alpina Pusteria insieme alla la e 2a divisione eritrea. La mancanza di strade, l'ecatombe dei bagalì, i muletti sfiancati dalle fatiche, e mille altri imprevisti avevano rallentato il posizionamento delle truppe e il munizionamento delle batterie. Era infatti toccato agli artiglieri da montagna sostituirsi alle bestie da soma caricando sullo zaino, già pesante, un proiettile da 75/13 ciascuno: sei chili e mezzo in più da portare a spalla per quattordici ore di marcia. Ma ora tutto era pronto e non bastava che attendere. Lontano poco più di cinque Pagina 64
arrigo petacco. FaccettaNera.txt o sei chilometri, nell'immensa pianura di Mai Ceu, biancheggiavano le tende degli accampamenti abissini e la sera si udivano sempre più vicini i canti dei guerrieri che al rullo dei negarli "facevano fantasia" attorno a centinaia di falò. Dalla parte italiana invece era buio fitto. A turno, gli alpini dormivano in tenda o stavano all'erta presso le feritoie. Di giorno si affaccendavano per migliorare l'assetto delle ridotte e provvedevano a spargere sul terreno antistante le scatolette vuote il cui rumore, nel silenzio della notte, avrebbe segnalato l'approssimarsi del nemico. Gli ascari, invece, erano occupati a lucidare le baionette, i fucili, le mitragliatrici e a rassettare le proprie uniformi, come se si preparassero per una festa. Alle prime luci dell'alba del 31 marzo 1936, nelle ridotte italiane avevano cominciato a distribuire il caffè, quando si udì il lungo e lamentoso urlo della iena ripetuto tre volte. Era il segnale convenuto con la giovane sciarmutta amica degli alpini il cui significato era noto a tutti: "stanno arrivando!". Ci fu appena il tempo per correre alle armi che subito una massa urlante sbucò fuori dai boschi circostanti e dalle macchie di euforbie del colle chiamato "ditale rovesciato" per la sua forma curiosa. Erano migliaia: i guerrieri in sciammo bianco avevano le scimitarre sguainate e le guardie dell'imperatore entravano per la prima volta in scena in gruppi compatti nella loro uniforme gialla, con le fasce gambiere, i piedi nudi e il fucile con baionetta innestata in pugno. Gridavano tutti come ossessi e quando furono vicini, il loro grido di guerra si fece più distinto: "Adua, Adua, Macallè!", i nomi che ricordavano le due prestigiose vittorie del passato. Allorché gli assalitori giunsero a tiro, gli alpini ricevettero l'ordine di aprire il fuoco e subito i fucili 91, i mortai da 45, le mitragliatrici leggere Breda e le mitragliatrici pesanti Fiat 1914 cominciarono a cantare. Ampi squarci si aprirono nella massa avanzante, ma l'ondata proseguì verso le trincee giungendo a portata delle bombe a mano. Alcune ridotte vennero evacuate e poi riconquistate, ci furono scontri corpo a corpo, ma gli alpini tennero duro. Le prove più difficili toccarono al battaglione Pieve di Teco e al battaglione Intra, che lasciarono una decina dì morti sul terreno, ma dopo un'ora di combattimento gli abissini dovettero ritirarsi. A questo punto l'attacco cambiò direzione e l'ondata degli assalitori si diresse verso il settore centrale tenuto dai reparti eritrei. Cominciarono così a entrare in azione le mitragliatrici Schwarzlose, in dotazione agli ascari, mentre le batterie da 75 lavoravano ormai a colpo sicuro. Contro queste posizioni fu prodotto lo sforzo maggiore. Le trincee erano basse e fatte un po' alla carlona, perché agli ascari non piaceva realizzare muretti a secco e neppure la guerra prudente dietro le feritoie. Non avevano neanche ripulito bene il campo di tiro, così che i folti cespugli di euforbie a una decina di metri dalle posizioni offrivano comodi nascondigli. La difesa diventava perciò difficile e sanguinosa come l'attacco, e per qualche tempo gli abissini pensarono che il successo fosse ormai a portata di mano: le truppe indigene indietreggiavano dopo mischie feroci e alcune trincee venivano abbandonate. Ma alle otto, come comunicò lo stesso negus nel consueto telegramma alla moglie Menen, "un potente rombo si udì venire dal nord. Gli aerei! Aerei da caccia e da bombardamento! Essi non poterono lanciare i gas perché le nostre truppe erano intimamente mescolate con quelle italiane, ma gettarono bombe e spararono raffiche di mitragliatrici sui nostri uomini che non erano impegnati nel corpo a corpo". Impossibilitati ad aiutare le nostre forze impegnate nella battaglia, gli aviatori si erano infatti scatenati sulle retrovie, ostruendo la strada ai reparti che avrebbero dovuto sostituire le truppe di prima linea e, soprattutto, paralizzando l'invio dei rifornimenti. "Se a questo punto" riferì ancora il negus alla consorte "qualche nostra carovana di viveri fosse giunta dalle retrovie, i nostri soldati avrebbero potuto riprender le forze e ricominciare un combattimento che non era ancora disperato. Sfortunatamente le carovane arrivarono troppo tardi perché appena si fermavano venivano irrorate di iprite." Hailè Selassiè non rinunciò tuttavia a sfruttare il successo iniziale e mandò all'assalto gli ultimi battaglioni della guardia imperiale non ancora provati dal fuoco. "Questa volta" racconterà Pietro Badoglio "tutta la Guardia Imperiale, sostenuta da un fuoco vivace, muoveva verso le nostre posizioni, avanzando a sbalzi, sfruttando il terreno, dando prova di saldezza e di un notevole grado di addestramento, unito a un superbo sprezzo del pericolo." Pur tenendo conto che, come sono soliti fare tutti i comandanti nei resoconti delle loro imprese, sia Badoglio che il negus esageravano a loro vantaggio, la situazione doveva essere alquanto confusa. Così riferisce infatti Italo Pietra che partecipò anche a quella battaglia: Pagina 65
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Dalle feritoie dello ridotte il colpo d'occhio sulla battaglia è perfetto come su una partita di calcio dall'alto delle gradinate. Vediamo chepì, fregi, galloni e luccicare di armi portate a braccia: la Guardia Imperiale! Arrivano, salgono, si tengono aggruppati. Migliaia e migliaia. Batticuore, rabbia di essere lontani. Non puoi resistere a guardare lo spettacolo, idee nere ti passano per la testa. Gli aeroplani volano alti ... C'è confusione, non possono bombardare, non possono mitragliare. L'attacco delle guardie imperiali fu intensissimo e durò tre ore. Conquistarono il passo Mecan, si impadronirono del "ditale rovesciato" e del cosiddetto "boschetto delle euforbie". I difensori in difficoltà non avevano sufficienti munizioni, che venivano affannosamente recuperate frugando nelle giberne dei caduti. Anche all'artiglieria scarseggiavano i proiettili e i rifornimenti tardavano ad arrivare. Mancando gli aerei e i cannoni, gli italiani erano praticamente costretti a combattere "ad armi pari" e la situazione sì faceva sempre più difficile. Così, alle 11.30, ai battaglioni eritrei fu impartito l'ordine di contrattaccare alla baionetta. Primo davanti a tutti per antico privilegio si mosse dalle ridotte il battaglione Toselli. "Armi, Toselli!, armi" gridava l'ufficiale italiano a dorso di cavallo. Poi molti altri battaglioni avanzarono tutti insieme con un solo impeto; avevano fasce alla vita di colori diversi, le armi in pugno, e alla loro testa cavalcavano i comandanti: il generale Dalmazzo, i colonnelli Corsi, Tracchia, Scotti e tutti gli altri ufficiali. Tra le raffiche e le esplosioni si udiva la chiamata dei reparti a uno a uno: "Arrai, Terzo eritreo", "Arrai, Decimo eritreo... Arrai! Arrai!". Dalle loro postazioni, gli alpini seguivano lo scontro. Questa volta toccava alle mitragliatrici abissine che sparando nel mucchio da meno di 200 metri aprivano varchi paurosi fra gli attaccanti. I corpo a corpo si fecero furiosi: i colori vivaci delle fasce di lana degli ascari e il rosso dei loro tarbusc si confondevano con il bianco degli sdamma, il giallo delle uniformi, i lampi delle baionette e delle scimitarre. Decine di ufficiali furono visti cadere dalle cavalcature e centinaia di indigeni morirono con loro. Successivamente, anche gli alpini andarono al contrassalto in aiuto degli ascari, e gli abissini cominciarono a rinculare disordinatamente. I cespugli dì euforbie davanti alle ridotte eritree furono ripuliti a uno a uno dei nemici ancora vivi, poi alpini e ascari raggiunsero le alture del "ditale rovesciato" e della collina detta "del candelabro". Alle quattro del pomeriggio, riconquistato il passo Mecan, si era ancora nel pieno della battaglia e il negus con la forza della disperazione ordinò l'offensiva generale sull'intero arco del fronte, mentre, come noterà lui stesso, il cielo si ricopriva "di nuvole basse e nere apportatici di sciagura". Per due ore infuriarono i combattimenti ma, alle sei, il negus, avendo visto cadere il meglio della sua armata, fu costretto a ordinare il ripiegamento. La battaglia di Mai Ceu si concluse con gravi perdite da parte italiana e gravissime da parte abissina. Così infatti Hailè Selassiè comunicò alla moglie Menen: Dalle 5 del mattino alle 7 di sera le nostre truppe hanno attaccato le forti posizioni nemiche combattendo senza tregua. Anche noi abbiamo partecipato all'azione e per grazia di Dio siamo rimasti incolumi. I nostri principali e fidati soldati scioani sono morti o feriti. Sebbene le nostre perdite siano gravi, anche il nemico è stato danneggiato. La Guardia ha combattuto magnificamente meritando ogni elogio. Anche le truppe amhara hanno fatto del loro meglio. Le nostre truppe, per quanto non siano in grado di svolgere un combattimento di tipo europeo, hanno sostenuto per l'intera giornata il confronto con quelle italiane. Nella notte il tempo si mise a pioggia con lampi frequenti che illuminavano la pianura coperta di morti. Nelle ridotte italiane, ora che le armi tacevano, giungevano i lamenti dei feriti: abìet... abìet..., pietà... pietà..., confusi con il rombo funebre dei tamburi e le grida degli abissini intenti nella ricerca dei compagni caduti. L'indomani si registrarono ancora alcuni attacchi contro le posizioni italiane, che furono facilmente respinti, e il giorno seguente il negus, ormai senza speranza, ordinò la ritirata nell'intento di salvare il salvabile delle sue truppe. Divisi in branchi disordinati, i circa 20.000 superstiti della battaglia si mossero verso il lago Ascianghi. Il negus contava di raggiungere Dessiè, dove sì trovava il figlio primogenito Asfa Uossen con le sue truppe. Ma Dessiè era lontanissima, mentre dietro di lui incalzava il Corpo eritreo mandato da Badoglio al suo inseguimento. Oltre che dall'aviazione, l'esercito abissino era tormentato dai soliti predatori Azebu Galla, galvanizzati dalla leggenda, subito diffusasi, del tesoro imperiale che il negus avrebbe trasportato con sé. Anche le popolazioni locali, che odiavano assai più degli italiani i loro antichi Pagina 66
arrigo petacco. FaccettaNera.txt dominatori scioani, si sfogarono contro i fuggiaschi. Molti reparti furono costretti a pagare un pedaggio per essere autorizzati a transitare, altri vennero decimati dai bombardamenti e dai mitragliamenti in picchiata. La mattina del 4 aprile, dopo avere marciato per tutta la notte nella fiumana disordinata dei suoi soldati, il negus trovò un giaciglio di fortuna in una caverna presso Quoram, ma dovette ben presto rimettersi in cammino e abbandonare i suoi oggetti personali per l'incalzare degli inseguitori. L'aviazione non diede pace ai fuggiaschi: i gruppi compatti in lento movimento offrivano bersagli facili e impietosi. "Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell'altopiano" scriverà senza un'ombra di commozione Alessandro Pavolini che, al fianco di Galeazzo Ciano, inseguiva dal cielo l'orda in fuga con l'entusiasmo sconcertante di un cronista sportivo. Sul greto dei torrenti i morti - uomini e bestie - stampavano i loro gesti immobili in mezzo al tumulto. Ma quanto c'era ancora da fare! Alle spezzoniere, alle mitragliatrici, alle carabine! Ogni apertura fu buona per sparare, anche il portellone socchiuso. Anche la torretta, la cui mitragliatrice serve contro gli attacchi dei caccia da su, ma quel giorno poteva benissimo utilizzarsi contro i nuclei delle pendici, che ci grandinavano addosso dall'alto in basso mentre andavamo per il fondovalle. La volontà di Ciano ci teneva immersi ben in fondo a quella cavità fitta di traiettorie. La pattuglia dei Disperati intendeva suggellare degnamente il combattimento. Esaltazione sfacciata del capo, ma non una parola di pietà per quei disgraziati indifesi, non un accenno ai bidoni di gas che certamente furono lanciati insieme alle bombe. Da parte sua, il negus racconterà alia moglie Menen: Fu un carnaio come ce ne sono stati pochi durante questa guerra che peraltro fu senza misericordia. Uomini, donne, bestie da soma si abbattevano a terra colpiti dagli scoppi delle bombe o ustionati mortalmente. I feriti urlavano per il dolore. Quelli che avrebbero potuto sottrarsi a questo macello venivano presto o tardi raggiunti dalla sottile pioggia diffusa dagli aerei. Ciò che uno scoppio di bomba aveva cominciato, il veleno lo concludeva. Per qualche giorno i resti dell'armata del negus e il Corpo eritreo di Pirzio Biroli procedettero paralleli a non molta distanza fra loro, in una sorta di gara di velocità in direzione di Dessiè. Lungo la strada, per ragioni che non si conoscono, Hailè Selassiè impose alla sua scorta una deviazione per compiere un pellegrinaggio nella città santa di Lalibelà, con i suoi antichi templi scavati nelle montagne. Vi rimase due giorni attorniato da laceri preti copti, che pregarono con lui, stupiti da quella visita inattesa. Quando riprese il viaggio, il corteo imperiale fu nuovamente intercettato dagli Azebu Galla, contro i quali fu costretto a battersi per sette ore. Superato anche quell'ostacolo, il negus venne informato che suo figlio Asfa Uossen aveva evacuato Dessiè senza combattere. Con i brandelli della sua armata non gli restava che invertire la rotta verso Addis Abeba, lasciando lungo la strada una scia di morti. Dissolta ai suoi fianchi ogni possibile minaccia, dopo l'occupazione di Gondar, della regione del lago Tana e di quella di Sardò, Badoglio aveva infatti ordinato al Corpo eritreo di raggiungere al più presto Dessiè. Si era trattato di una marcia di 250 chilometri che i veloci ascari avevano superato a piedi mantenendo una media di 50 chilometri al giorno. Le colonne erano rifornite dall'aviazione. Il 14 aprile le avanguardie della cavalleria giunsero in vista della città, nel momento in cui il principe ereditario abissino l'abbandonava protetto da pochi fedeli. Il 15, il generale Pirzio Biroli innalzò il tricolore sul ghebì di ras Mikael. Nelle strade, striscioni in lingua amarica annunciavano la fine dell'impero etiopico con una frase tradizionale: "Il falco è volato". Sul fronte della Somalia, frattanto, il generale Graziani era pungolato e amareggiato dalle vittorie del suo superiore e rivale. Si lamentava senza tregua con Badoglio e Mussolini perché non gli erano stati concessi tutti i rifornimenti richiesti, che, a suo dire, gli avrebbero consentito di liquidare più rapidamente le forze nemiche. L'obiettivo assegnatogli era la città di Harar, capitale dell'omonima regione, ma tra il generale e questa città si frapponevano oltre 500 chilometri di deserto. Nonché l'ultima armata abissina, con circa 30.000 uomini, 500 mitragliatrici e 500 cannoni di piccolo calibro, che il generale Wehib Pascià aveva fatto trincerare con criteri razionali. Anche Graziani disponeva di circa 30.000 soldati, la metà dei quali nazionali, bene equipaggiati, autotrasportati e protetti dal cielo. Il 15 aprile, dopo la conquista di Dessiè, Mussolini gli inviò questo breve e significativo telegramma: "Attendo annuncio marcia su Harar", e Gra-ziani mise in movimento tre colonne affidate ai tre generali Nasi, Frusci e Agostini, con destinazione il centro di Dagahbùr, a circa 200 chilometri da Harar. Ma l'avanzata si svolse Pagina 67
arrigo petacco. FaccettaNera.txt più lentamente del previsto a causa della tenace resistenza etiopica e l'obiettivo fu raggiunto soltanto il 25 aprile al prezzo di 2000 vittime fra morti e feriti. Benché spronato e lusingato da Mussolini ("Conquistata Harar V.E. vi troverà il bastone di Maresciallo d'Italia"), Graziani non riprese subito l'offensiva e venne raggiunto da un altro telegramma ancor più ultimativo. "Visto che gli abissini continuano ad usare pallottole dum dum stop" gli telegrafò Mussolini "autorizzo V.E. stop se lo ritiene necessario stop all'impiego del gas a titolo di rappresaglia stop." E dopo quest'ultimo stop, forse perché ne aveva visto gli effetti durante la Grande guerra. Mussolini aggiunse: "Esclusa l'iprite". Non sappiamo se Graziani rispettò l'ordine e neppure sappiamo se usò davvero i gas. In proposito, com'è comprensibile, i documenti ufficiali tacciono. Il generale comunque indugerà a lungo, per la pioggia e il fango, prima di raggiungere Harar e il piccolo centro di Dire Daua, dove era fissato l'"appuntamento" con le avanguardie di Badoglio provenienti dal Nord. Tant'è che i soliti spiritosi, giocando sul nome della cittadina etiopica, commentavano scherzosamente che Graziani non aveva ancora imparato a parlare perché "neppure riesce a Dire Daua". In effetti, fin dall'inizio delle operazioni, le enormi distanze e la precarietà delle piste avevano creato sul fronte somalo dei seri contrattempi, aggravatisi poi con l'arrivo delle piogge. Il problema logistico era stato risolto autorizzando l'acquisto di autocarri negli Stati Uniti, non essendo sufficiente la produzione italiana, sìa dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. In un primo tempo si erano importati 500 autocarri leggeri Ford, ma ben presto si constatò che il problema si poteva risolvere soltanto con l'impiego dei caterpillar (trattori cingolati che potevano trainare un paio di rimorchi, anch'essi cingolati). Un convoglio siffatto sostituiva da 15 a 20 autocarri con possibilità di movimento anche nel fango. Di questi mezzi, prodotti soltanto negli Stati Uniti, ne vennero impiegati complessivamente 185 (100 dei quali donati dagli italiani d'America) con 400 rimorchi. A guidarli furono in parte autisti italoamericani volontari, e grazie a essi Graziani riuscì infine condurre a buon termine l'offensiva su Harar. E Mussolini manterrà la promessa di consegnargli solennemente il bastone di maresciallo d'Italia. La guerra stava ormai per finire e i gerarchi che vi avevano partecipato erano già tutti decorati almeno con una medaglia. Soltanto Galeazzo Ciano, ministro in carica per la Stampa e la Propaganda, nonché comandante della Disperata, ancora attendeva l'occasione "per ricoprirsi di gloria". Genero di Mussolini e figlio dell'"eroe del mare" Costanzo Ciano, protagonista con d'Annunzio della "beffa di Buccari", il trentatreenne Galeazzo si tormentava per non avere ancora compiuto un'azione eroica degna di tanto padre. Fu il suo mentore Alessandro Pavolini a suggerirgli l'idea di quella che sarà poi definita dai giornalisti servizievoli "la beffa di Addis Abeba". Si trattava della solita sfida aerea di modello dannunziano. Ciano si proponeva di scendere su Addis Abeba con il proprio apparecchio e di catturare con un rapido colpo di mano il comandante dell'aeroporto. L'operazione ebbe luogo il 30 aprile, pochi giorni prima che Badoglio entrasse nella capitale abissina. Ciano decollò da Dessiè a bordo del suo trimotore Caproni. Aveva lasciato a terra il deluso Pavolini (che sognava di essere il cantore dell'impresa) per far posto al tenente Ettore Muti. Questa sostituzione si spiega con il fatto che Muti, oltre a essere un ottimo pilota e un eroe collaudato, alcuni mesi prima aveva già compiuto con rischi maggiori un'impresa analoga a quella che ora il ministro si proponeva. In ogni modo, la "beffa" si risolse in un mezzo fallimento. La reazione efficace e non prevista dei mitraglieri abissini impedì all'aereo di prendere terra e a Ciano non restò che la consolazione di lanciare il gagliardetto della Disperata nella piazza centrale di Addis Abeba. Più tardi, al quartier generale di Badoglio, l'episodio sarà definito "una vana bravata", ma Pavolini riuscì ugualmente a eroicizzarlo. Così scrisse, come se fosse stato presente all'azione: L'apparecchio arrivò basso sopra il campo. La difesa non dava segni di vita. Già i pneumatici rimbalzavano sulla terra, quando s'udì nel coro leggero dei tre motori a regime ridotto una tempesta di mitragliatrici. Annidati tutti intorno, i mitraglieri scioani disponevano da cento metri di un obiettivo lento e facile. Venticinque proiettili perforarono la fusoliera, le ali, la carlinga: e nella carlinga sino il sottile cuscino di cuoio dove Ciano posava la schiena. Non c'era che da ridare gas e balzare in aria. Così fu fatto. Per questa impresa, il golden boy del regime riceverà in premio, personalmente da Mussolini, una seconda medaglia d'argento, il gran cordone dell'Ordine delle Colonie, la promozione a console della Milizia e la prestigiosa nomina a ministro degli Esteri. Forse un po' troppo per così poco eroismo. Le solite Pagina 68
arrigo petacco. FaccettaNera.txt malelingue invidiose di tale fortuna si consolarono improvvisando un gustoso epigramma che cominciava pressappoco così: "Ciano Galeazzo / buona la rima in ...ano / meglio la rima in ...azzo". Rientrato stanco e avvilito a Addis Abeba, Hailè Selassiè non aveva ancora deciso se continuare a resistere o abbandonare il paese. Inizialmente si mostrò propenso alla resistenza e infatti la mattina del 1° maggio fece rullare i tamburi e ordinò ai superstiti della guardia imperiale e ai cadetti della scuola militare di Olettà di accamparsi alle porte della città in attesa di ordini. Progettava di muovere verso occidente fino nel Goggiam e lì, con l'aiuto dei fedeli ras Sejum e Immirù, organizzare la guerriglia nelle gole del Nilo Azzurro. L'imperatrice avrebbe invece dovuto raggiungere con i figli Gibuti, dove una nave britannica era in attesa. Il progetto tuttavia andò in fumo perché Menen si rifiutò di abbandonare il consorte. Inoltre, l'autorevole ras Cassa riteneva indispensabile che partisse anche il negus in quanto, essendo dotato di facilità di parola e di prestigio, avrebbe servito meglio il paese andando a Ginevra per lanciare un appello al mondo cosiddetto civile. Incerto sul da farsi, l'imperatore affidò la decisione al consiglio dei ras riunito nel ghebì imperiale. Venti votarono per la sua partenza, tre per la soluzione del Goggiam. Conosciuto l'esito del voto, Hailè Selassiè organizzò la partenza: la sua famiglia sarebbe partita con un treno speciale per Gibuti dalla stazione di Addis Abeba, e lui l'avrebbe raggiunta più tardi alla stazione di Akaki, a 20 chilometri dalla capitale. Prima di lasciare il ghebì, il negus ordinò che il gran negarit di Menelik fosse portato nel cortile e rullasse per due ore. Poi salutò i suoi ras e l'abuna Cirillo. Secondo alcuni, chiese a questi ultimi di non opporre resistenza agli invasori e di impedire disordini in città, mentre, secondo quanto ha scritto il colonnello russo Konovaloff, ordinò il saccheggio, raccomandando che fosse risparmiato soltanto il ghebì imperiale in quanto distruggerlo "avrebbe portato sfortuna". E siccome le cose andarono proprio così, è probabile che l'ex ufficiale zarista dicesse il vero. Alle 4.20 del 2 maggio 1936, il negus neghesti salì ad Akaki sul treno speciale e iniziò il viaggio verso l'esilio. Viaggiavano con lui l'imperatrice Menen con il fedele cagnolino Papillon, i tre figli (il principe ereditario, il duca di Harar e Sanie Selassiè) e le due figlie Tsahai e Tenagne Uorch, quest'ultima moglie di ras Desta, che ancora combatteva sul fronte sud. Del seguito facevano parte alcuni importanti dignitari, fra i quali ras Cassa, ras Sejum (che si fermeranno a Gibuti) e il colonnello Wehib Pascià che aveva abbandonato al suo destino l'armata dell'Ogaden. Sul treno, incatenato, viaggiava anche il vecchio ras Hailù, un avversario che il negus aveva tenuto in prigione per tutti quegli anni e non voleva lasciare in Etiopia per tema che diventasse un fantoccio di Mussolini. Viaggiando lentamente sull'altopiano fradicio di pioggia (Graziani aveva chiesto al Duce il permesso di farlo bombardare, ma gli era stato negato), il convoglio giunse a Dire Daua dove il negus, nonostante le notizie allarmistiche circa la vicinanza degli italiani, volle fermarsi per salutare il suo vecchio amico Edwin Chapman Andrews, console britannico a Harar. Per molte ore il sovrano e il console parlarono a quattrocchi e l'imperatore si sfogò. Fra l'altro, si disse pentito di avere lasciato Addis Abeba ed espresse il proposito di raggiungere ras Desta sul fronte sud, dove forse era ancora possibile far sventolare la bandiera del Leone di Giuda. "Dovetti faticare" scriverà Sir Edwin "per convincere l'imperatore a partire. Sapevo che era senza speranza e che, se fosse rimasto, avrebbe incontrato la morte o conosciuto l'umiliazione della prigionia." Poi il treno riprese la sua corsa nel deserto e, meno di due ore dopo, a Dire Daua giunsero le avanguardie italiane che trovarono sul posto ras Hailù, fuggito rocambolescamente dal treno imperiale e pronto a prestare i suoi servigi ai vincitori. A Gibuti la famiglia imperiale salì a bordo dell'incrociatore Enterprise che il governo britannico aveva messo a disposizione di Hailè Selassiè. La nave salpò subito e fece rotta verso Haifa, dove osservò una sosta di due settimane. Fin dal suo arrivo nel porto palestinese, il negus aveva potuto rendersi conto di quanto fosse cinica la diplomazia con i sovrani sconfitti: l'alto commissario britannico che governava il paese fu chiamato altrove per "precedenti improrogabili impegni" e neppure uno dei tanti consoli presenti in Palestina trovò il tempo per andare a ricevere l'ormai ex "re dei re". Nelle due settimane successive, il malinconico imperatore si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme e ascoltò la messa sul lato della chiesa del Santo Sepolcro appartenente alla Chiesa copta. Poi soggiornò all'hotel Re David e si consultò più volte con i suoi consiglieri circa il da farsi per ricordare al mondo che egli era ancora tra i viventi. Non lo attenderanno che amare delusioni, almeno fino al 1941. Pagina 69
arrigo petacco. FaccettaNera.txt A Addis Abeba, intanto, la notizia della partenza del negus si era rapidamente diffusa, provocando il caos. Le truppe, prive di comandanti, reagirono come hanno sempre reagito gli abissini quando rimangono senza capi: con le violenze, i saccheggi, gli stupri e il panico. Etiopi ed europei furono ugualmente esposti alla furia selvaggia della soldataglia, ebbero le case saccheggiate, le donne violentate, la vita stroncata a colpi di fucile o di zagaglia. I negozi, quasi tutti gestiti da stranieri, vennero depredati e incendiati. Soltanto il ghebì imperiale fu risparmiato. La maggior parte dei seimila bianchi che vivevano nella capitale era rifugiata nelle legazioni diplomatiche presidiate da uomini armati e dagli stessi funzionari. Malgrado la promessa di non bombardare la città, che Mussolini fece peraltro rispettare, si temevano le incursioni aeree, e dunque grandi bandiere con la croce rossa furono collocate sui tetti. L'interregno durò tre giorni, e per tre giorni Addis Abeba visse nel terrore: gli incendi divampavano ovunque e le strade, cosparse di rottami, di carogne, di macerie e di cadaveri, erano percorse soltanto da bande di sciftà e di predatori ubriachi e carichi di bottino. L'arrivo dei conquistatori era da tutti auspicato come una liberazione. Nel primo pomeriggio del 5 maggio Badoglio giunse in vista di Addis Abeba. Negli ultimi giorni, preceduto dalle avanguardie eritree, aveva percorso centinaia di chilometri alla massima velocità consentita. Lo seguiva un'autocolonna composta da 1725 automezzi con a bordo tutti gli effettivi della divisione Sabauda e un gruppo di battaglioni in cui erano rappresentate tutte le specialità delle nostre forze armate partecipanti al conflitto: camicie nere, alpini, genieri, carabinieri, marinai del San Marco, guardie di finanza. L'aeronautica si era fatta viva con un colpo di teatro: dopo avere sorvolato il corteo con la sua squadriglia, Galeazzo Ciano aveva lanciato sull'auto di Badoglio un messaggio personale di Mussolini contenuto in un sacchetto avvolto nel tricolore. Percorrendo la "strada dell'imperatore", frettolosamente rassettata dai volenterosi reparti del genio, gli italiani avevano attraversato villaggi saccheggiati e campagne devastate dagli abissini in ritirata. E questo spiega perché i conquistatori furono accolti come salvatori dalle folle festanti allineate lungo la pista. I preti copti, protetti dal sole con i loro ombrelli colorati, levavano in alto le croci come per benedire, gli uomini offrivano uova e frutta, le donne salutavano con il loro curioso trillo gargarizzato. Durante le soste, gli indigeni ricoperti di stracci si affollavano attorno ai militari, toccavano con avidità le loro uniformi e offrivano doni in cambio di un qualsiasi indumento, ripetendo "coat, coat" come tante galline. L'ultimo giorno dell'avanzata la colonna non fece soste. Badoglio aveva fretta, non solo per far contento Mussolini ma anche per rispondere ai pressanti appelli delle delegazioni europee di Addis Abeba che invocavano il suo arrivo per porre fine al caos. Alle quattro del pomeriggio, ormai alle porte della città, il maresciallo impartì ai colonnelli Broglia e Tracchia i primi ordini per l'occupazione dei punti nevralgici della capitale. Poi, su un quaderno di carta quadrettata, scrisse il testo del telegramma da inviare al Duce: "Oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba". Quasi contemporaneamente il corrispondente da Asmara dell'agenzia di stampa Stefani, battendo in velocità tutti gli inviati di guerra, provvide a diffondere nel mondo la grande notizia annunciando, con molta enfasi e poco rispetto delta verità, che il maresciallo Badoglio, in sella a un bianco destriere, era entrato a capo delle sue truppe vittoriose nella capitale abissina fra un trionfo di popolo e di bandiere. Di questa scena immaginaria ne farà una bellissima tavola il pittore Achille Beltrame per la "Domenica del Corriere". In realtà, quel giorno cadeva ima pioggia torrenziale e Badoglio non entrò in città a cavallo, ma chiuso dentro la sua Lancia Ardita, preceduto da una pattuglia di motociclisti armati di fucile mitragliatore. Guidato dal colonnello Calderini, già addetto militare presso la corte del negus, il corteo raggiunse il quartiere diplomatico dove era la nostra legazione che era stata affidata durante la guerra alla custodia del ministro francese Bodard. Giunto a destinazione, Badoglio scese dall'auto e, accompagnato dal generale Vincenzo Magliocco e dal suddetto ministro, si incamminò a piedi verso l'edificio di granito grigio dell'ambasciata d'Italia, passando davanti alle altre legazioni. Gli americani e i tedeschi applaudirono, più freddi e riservati si mostrarono gli svedesi e i belgi, mentre gli inglesi schierarono la guardia d'onore della fanteria indiana. Più tardi, riaperta la nostra sede diplomatica, una compagnia del 71° fanteria della divisione Sabauda rendeva gli onori alla bandiera inalberando il nostro tricolore, anche questo offerto dalle donne di Vittorio Veneto. La pioggia, Pagina 70
arrigo petacco. FaccettaNera.txt racconta Giovanni Artieri presente alla storica scena, continuava a cadere a dirotto e il drappo, bagnato, faticava a dispiegarsi. Poi per la forza del vento schioccò e si tese. La cerimonia si svolse nel silenzio rotto soltanto dagli squilli di tromba. Niente cavalli bianchi, niente discorsi, niente applausi. Solo poche parole mormorate da Badoglio a Magliocco: "Ce l'abbiamo fatta". Rodolfo Graziani contava di entrare ad Harar contemporaneamente all'ingresso di Badoglio nella capitale etiopica, ma non fece in tempo perché le piogge avevano rallentato la sua marcia. Appena il cielo si fu rasserenato riprese la sua avanzata completando con la conquista di Harar, Giggiga e Dire Daua l'occupazione della regione più fertile dell'Abis-sinia. Soltanto il 9 maggio, quattro giorni dopo la presa dì Addis Abeba, ebbe luogo a Dire Daua, al cospetto della solita folla e dei numerosi giornalisti, l'atteso incontro fra le truppe di Badoglio e quelle di Graziani. Le prime erano giunte in treno sfruttando la linea ferroviaria Addis Abeba Gibuti, le seconde a piedi e combattendo. Schierati davanti alla stazione ferroviaria, i reduci dei due fronti si scambiarono gli onori militari. Mentre le fanfare suonavano la Marcia reale e Giovinezza, il maggiore Pittau, comandante del 46° reggimento della Sabauda stringeva la mano del seniore Di Gennaro, comandante di una legione di camicie nere. Si concludeva così il conflitto etiopico, con un'ultima "vittima": il neomaresciallo Graziani che non aveva potuto partecipare alla cerimonia perché, il giorno prima, entrato in una chiesa copta dì Giggiga, era caduto in un pozzo profondo sei metri riportando una serie dì dolorose contusioni. Così commenterà il ferito in una lettera di scuse per la sua assenza: "Strana coincidenza della sorte per me: successo e amarezza". XI L'IMPERO RIAPPARE SUI COLLI FATALI In Italia, la gente aveva cominciato a capire che la guerra d'Abissinia era giunta alla sua vittoriosa conclusione quando, il 4 maggio, i giornali annunciarono che il negus era fuggito a Gibuti. Il mattino del giorno seguente tutto il paese fu percorso da un fremito. Negli uffici, nelle fabbriche, nelle scuole e nelle strade non si parlava d'altro. L'attesa della grande notizia era vivissima e il vicesegretario del partito, Adelchi Serena (il segretario Starace era a "compiere il suo dovere" in Africa), si rivelò un abile regista della manifestazione. Prima diede via libera alle voci per far salire la tensione, poi ordinò che alle 17.45 le sirene delle fabbriche e le campane delle chiese cominciassero a suonare a distesa. Era il segnale della grande "adunata" e nel giro di pochi minuti gli italiani si riversarono nelle piazze delle città e dei borghi, dove già erano stati approntati gli altoparlanti. Si calcolò che fossero almeno venti milioni, ma forse il calcolo peccava per difetto. Dopo un'ora, quando la temperatura della folla era salita al punto giusto, il "regista" Serena fece sapere - e la notizia come per miracolo si diffuse in pochi istanti - che il Duce avrebbe parlato alle 18.30- Era una bella serata di maggio, il sole doveva ancora tramontare, la temperatura era mite e le piazze stracolme. Quella di fronte a Palazzo Venezia era affollata in maniera incredibile e così piazza del Duomo, a Milano, dove una colossale insegna luminosa con la scritta "Viva il Duce" si era accesa improvvisamente sulla facciata del Carminati, di fronte alla cattedrale. Nelle altre città e in tutti i paesi d'Italia l'atmosfera non era diversa, mentre nei borghi sperduti, sprovvisti di impianti radiofonici, erano prontamente affluiti veicoli speciali muniti dì altoparlanti. L'attesa delle folle era dovunque spasmodica e l'aggettivo non è retorico. Mussolini si fece attendere a lungo, ma finalmente comparve sul famoso balcone. Era in divisa di comandante generale della Milizia e l'applauso che lo accolse fu più scrosciante del solito. Seguì un lungo silenzio che il Duce seppe abilmente sfruttare. Poi cominciò a parlare: Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani e amici dell'Italia al di là dei monti e al di là dei mari! Ascoltate! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa... Dopo avere scandito parola per parola il telegramma inviatogli da Badoglio, e dopo l'interminabile ovazione che ne seguì. Mussolini riprese osservando quelle pause studiate in cui era maestro: Durante i trenta secoli della sua storia, l'Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio agli italiani e al mondo che la pace è ristabilita. Da quel momento in poi ogni sua frase fu accolta con grida di giubilo che divennero deliranti quando alta fine proclamò: "L'Etiopia è italiana!". Quello che accadde poi è indescrivibile. La gente non si limitava più ad Pagina 71
arrigo petacco. FaccettaNera.txt applaudire, molti piangevano senza ritegno; c'era chi saltava, chi ballava, e tutti si abbracciavano l'un l'altro senza neppure conoscersi. Intanto le campane e le sirene avevano ripreso a suonare, mentre gli altoparlanti diffondevano gli inni del regime. Un entusiasmo simile, bisogna riconoscerlo, non si era mai visto. Neppure il 4 novembre 1918 per la fine della guerra mondiale. Il "Corriere della Sera" uscì in edizione straordinaria. Il titolone, che diceva: "Il Duce annuncia al mondo: l'Etiopia è italiana", era alto 15 centimetri, un fatto inaudito per il misurato e compassato giornale milanese. Il giorno seguente un solenne Te Deum venne celebrato in tutte le chiese d'Italia. A Milano, il cardinale Ildefonso Schuster non risparmiò entusiasmo e retorica esaltando la redenzione dei miseri e il trionfo sulla schiavitù millenaria. Un decreto del governo stabilì che per tre giorni il paese doveva rimanere imbandierato, ma poi i giorni furono portati a cinque, essendo stata annunciata per sabato 9 maggio una nuova grande adunata. "Il popolo italiano riunito nelle piazze" spiegavano i giornali "potrà così ascoltare le importantissime decisioni che saranno comunicate dopo la riunione del Gran Consiglio del fascismo e prima della riunione del Consiglio dei ministri". Il Gran consiglio era convocato per le 20 e quello dei ministri per le 22.30. Fra le due riunioni avrebbe parlato lui, Mussolini. Anche questa volta la regia di Adelchi Serena fu perfetta e ancora più suggestiva. Il 5 maggio Mussolini aveva parlato in pieno giorno, questa volta lo fece nell'oscurità della notte, rotta dalle luci rutilanti dei fari e dei riflettori. In piazza Venezia, a Roma, c'era un'atmosfera quasi nibelungica, come in certe adunate hitleriane che già andavano di moda in Germania. I giornalisti per descriverla dovettero forzare la propria fantasia. Ugo Ojetti scrisse che la folla straripante dalla piazza nelle vie adiacenti "era tanto immobile e compatta che solo le teste appaiono, senza spalle, accostate come i ciottoli di un acciottolato". Orio Vergani paragonò la folla a "una scatola di pallini da caccia". Accolto con un entusiasmo da mundial, il Duce parlò alle 22 in punto e la sua frase clou, che fece spellare le mani agli ascoltatori, fu questa: "Dopo quindici secoli, l'Impero è riapparso sui colli fatali di Roma". Spentasi l'interminabile ovazione, il Duce soggiunse con una dì quelle teatrali interrogazioni con cui intesseva sovente il suo dialogo con gli ascoltatori: "Ne sarete voi degni?". "Sì" urlò la folla. E lui, dopo la solita pausa a effetto, concluse: "Questo grido è come un giuramento sacro che vi impegna davanti a Dio e dinanzi agli uomini, per la vita e per la morte". Qualcuno ebbe anche la costanza di contare gli applausi tributati a Mussolini in quella magica notte: furono quarantadue. Per la verità, il Duce ci aveva pensato un po' sopra prima di "fondare l'Impero". Apprendiamo dalle memorie di Dino Grandi, allora ambasciatore a Londra, che il 6 maggio il Duce gli aveva così telegrafato: "Desidero conoscere quali, a tuo parere, sarebbero le reazioni inglesi se io proclamassi l'Impero". Grandi aveva risposto: "Nessuna reazione, solo un po' di malumore". L'impero dunque poteva essere "fondato" senza preoccupazione, e Vittorio Emanuele III accettò assai di buon grado di diventare, oltre che re d'Italia, anche imperatore d'Etiopia. Tanto di buon grado che cercò di contraccambiare il dono offrendo al Duce il titolo di principe, ma questi lo rifiutò e, bisogna riconoscerlo, con un certo stile. "Maestà," gli rispose infatti declinando l'offerta "io sono e voglio essere solo Mussolini. Le generazioni dei Mussolini sono state sempre generazioni di contadini e ne vado un po' orgoglioso." Si accontentò della gran croce dell'Ordine di Savoia che gli fu assegnata con la seguente motivazione: "Ministro delle forze armate preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi. Guerra che, egli, Capo del governo del Re, intuì e volle per il prestigio, la vita, la grandezza della patria fascista". In seguito, per volontà della Camera, e con disappunto di Vittorio Emanuele (che non gradì di diventare un "parigrado" del Duce), Mussolini fu insignito, insieme allo stesso sovrano, del grado di "Primo Maresciallo dell'Impero". Da parte sua Starace, da buon coreografo del regime, modificò il "Saluto al Duce" con il quale era obbligatorio aprire ogni manifestazione politica con la formula più arzigogolata di "Salutate nel Duce il fondatore dell'Impero!" al quale, tutti in coro, si doveva rispondere: "A noi!". Questa novità non piacque troppo a Mussolini: "Invece di rispondere "noi", vien voglia di dire "amen"" borbottò quando gliela comunicarono. Tuttavia l'accettò ugualmente e il nuovo saluto diventò rituale. Ormai era entrato nella spirale dell'apologià e neppure le piaggerie più smaccate lo turbavano più. Per quanto si sia cercato di svilirla, la guerra d'Abissinia fu effettivamente Pagina 72
arrigo petacco. FaccettaNera.txt la più grande guerra coloniale combattuta, e l'averla vinta rappresentava un vanto per l'Italia. Tanto più apprezzabile per il fatto che era costata la vita di soli 3357 italiani: 1304 morti in combattimento, 1600 per cause di guerra, più 453 caduti fra operai e camionisti. Cifre, come si vede, paragonabili a quelle delle "guerre intelligenti" dei nostri giorni e non a quelle cui sì era abituati allora. Gli esperti militari inglesi avevano pronosticato una campagna di almeno cinque anni e il fatto che fosse durata appena sette mesi appariva un miracolo dell'arte militare. Per il maresciallo dì Francia Philippe Pétain l'impresa "andava considerata un capolavoro", mentre veniva clamorosamente smentita la pessimistica previsione (in cui si era cullato anche Hitler) del capo dello stato maggiore tedesco, generale Werner von Blomberg, secondo il quale "era impossibile che una piccola e povera nazione, peraltro sottoposta a embargo e ostacolata dalla potenza superiore britannica, potesse portare a compimento quella conquista a 6 o 7000 chilometri di distanza dalle sue basi di rifornimento". In Italia e all'estero, i riconoscimenti furono innumerevoli e il Duce venne subissato di congratulazioni. Sembrava che il mondo avesse dimenticato il negus, il gas e le sanzioni. Agli italiani all'estero capitava di sentirsi dire: "Beati voi che avete un uomo come Mussolini". Dino Grandi racconta nelle sue memorie: "Lo stesso 5 maggio, Re Edoardo VIII, da pochi giorni succeduto a Giorgio V, mi convocò a palazzo Reale per congratularsi, presente il ministro Eden, per la vittoria italiana". Boccone amarissimo deve essere stato quel riconoscimento per Anthony Eden che aveva fatto tutto il possibile per opporsi alla nostra avventura africana. In Italia, l'unico scontento fu forse il maresciallo De Bono che, in quei giorni, scrisse amareggiato nel suo rudimentale diario riesumato dall'attento Franco Fucci: Ce ne vorrà del tempo perché io ci faccia il callo! È stata un'ingiustizia! Mussolini? Mussolini è un egoista e non pensa certo a me. Ieri le truppe sono entrate in Addis Abeba. Epilogo vittorioso! Sarà bene che io non ci ragioni troppo sopra. Io spero che Mussolini si ricordi che, tre anni fa, solo lui e io pensavamo alla possibilità di quello che è successo. Ma adesso io non devo essere messo in un cantone! E più avanti, quando venne a sapere che a Badoglio era stata riconosciuta la favolosa indennità di un milione di lire all'anno, lui che aveva sempre avuto un religioso rispetto per il denaro annotò: "A Badoglio l'assegno di un milione annuo! Alla salute: che ganasce!". Tutti contenti dunque, meno De Bono. E meno, forse, donna Rachele, la moglie del Duce la quale, impressionata da quei fasti imperiali che le parevano troppo belli per essere veri, una sera, con saggezza contadina, disse al marito: "Abbiamo avuto tanta fortuna. Non può durare. Ritiriamoci in tempo. Andiamocene alla Rocca delle Caminate... ". Mussolini non ascoltò quel suggerimento e neppure il consiglio che gli diede Italo Balbo. "Indici subito le libere elezioni" gli mandò a dire da Tripoli il famoso trasvolatore atlantico. "Sarà un plebiscito e metteremo cosi tutte le cose a posto." Mussolini invece preferì "tirare diritto" e, ancora una volta, lasciamo ai lettori libertà di immaginare cosa sarebbe accaduto se... Pietro Badoglio era ancora in Abissinia, ma vi rimase per poco: appena il tempo per ricoprire il titolo prestigioso di viceré d'Etiopia. Il 22 di maggio salpò alla volta dell'Italia dopo aver ceduto il suo alto incarico a Rodolfo Graziani, che nel frattempo aveva ottenuto, oltre il grado di maresciallo d'Italia, anche il titolo nobiliare di marchese di Neghelli. Il conquistatore di Addis Abeba sbarcò a Napoli da una nave scortata da quattro sommergibili, salutato dal suono delle campane delle chiese e delle sirene dei piroscafi. Era andato a riceverlo il principe ereditario Umberto, che lo accompagnò in macchina attraverso la città in festa. A Roma fece una breve sosta e quindi raggiunse per un periodo di riposo la natìa Grazzano, nel Monferrato, che sarà presto ribattezzata Grazzano Badoglio. La sua popolarità era seconda soltanto a quella di Mussolini. Da tutto il mondo gli piovvero addosso congratulazioni, lauree e cittadinanze onorarie. Gli giunse persino, come racconta il suo biografo Silvio Bertoldi, un papiro cinese che gli dava il diritto di avere sette mogli. Il suo libro La guerra d'Etiopia venne tradotto in molte lingue e fu il bestseller di quell'anno. Papa Pio XI ricevette il maresciallo in pompa magna e nel pomeriggio il legato pontificio gli restituì la visita nella sua residenza romana come si usa con i capi di Stato. Da astuto contadino piemontese, Badoglio non mancò di capitalizzare tanta gloria e il "conto" da lui presentato risultò piuttosto salato. A parte un titolo nobiliare di competenza sovrana, presentò a Mussolini queste richieste: il Pagina 73
arrigo petacco. FaccettaNera.txt trattamento economico a vita di viceré, che gli venne accordato con un'apposita legge; il dono di una villa (gli furono versati in contanti 5 milioni che utilizzò per costruirsi a Roma una lussuosa residenza) e la promozione del figlio Mario da diplomatico a ministro plenipotenziario di seconda classe. Soltanto quest'ultima pretesa gli fu negata. Circa il titolo nobiliare, egli riteneva di avere il diritto di chiedere al re quello di duca di Addis Abeba ("Dopo tutto gli ho dato Vittorio Veneto e l'Impero") e infatti fu accontentato. Quando il sovrano gli chiese quale motto preferisse per il suo stemma, Badoglio rispose senza esitazione Veni vidi vici, ma Vittorio Emanuele lo bocciò osservando che non gli sembrava opportuno "risuscitare i morti". La campagna africana svuotò i forzieri della Banca d'Italia, i prezzi aumentarono del 30 per cento, e tuttavia Mussolini raggiunse l'acme della sua popolarità in Italia e nel mondo. Persino l'antifascismo militante lo riconobbe a chiare lettere. "Il vecchio antifascismo è morto" ammise malinconicamente dall'esilio Carlo Rosselli, mentre il centro socialista di Parigi convenne che il regime godeva ormai del consenso "delle masse operaie, specialmente giovanili, perché conquistate dall'idea della giusta guerra proletaria delle nazioni povere contro le nazioni ricche". E giustificò l'ondata antibritannica levatasi nel paese in quanto "il motivo dell'egoismo inglese che si mette di traverso alle giuste aspirazioni dell'Italia proletaria è innegabilmente sentito". Da parte loro, i comunisti tendevano addirittura "la mano ai fascisti, nostri fratelli di lavoro e di sofferenza, perché vogliamo combattere assieme a essi la buona e santa battaglia del pane, del lavoro e della pace". Insomma, il Duce era al centro di tutto e il primo di tutti. Il successo militare e politico ottenuto gli aveva dato alla testa e aveva finito per convincerlo definitivamente che lo slogan coniato da Leo Longanesi: "Mussolini ha sempre ragione" fosse una constatazione indiscutibile. Secondo molti storici, fu a questo punto che il "fondatore dell'impero" subì quella trasformazione radicale, impastata di cesarismo e di bonapartismo, che con il contributo dei suoi innumerevoli apologeti lo condurrà a credere di poter padroneggiare in ambito mondiale quegli avvenimenti bellici che aveva certamente dominato e indirizzato in ambito etiopico. Risalgono infatti a quei giorni le prime avvisaglie del suo progressivo avvicinamento all'idea di essere un esperto stratega. "Un giorno si saprà" confidò a Bottai poco dopo la conclusione del conflitto etiopico "come io abbia anche tecnicamente diretta questa guerra. Bisogna far presto e picchiare sodo: la prossima non durerà più di sette settimane. Noi possiamo farlo. Non abbiamo bisogno di nessuno". Poi aggiunse: "Pensa alla sorpresa degli italiani il giorno che si svegliassero e leggessero sul giornale questa notizia: una squadra aerea italiana ha bombardato la squadra navale inglese a Malta. Si ritiene che numero tot di navi sia colato a picco...". Per un curioso gioco del destino, l'ex caporale dei bersaglieri cominciava inconsapevolmente a rassomigliare sempre di più all'ex caporale austriaco suo antico estimatore e imitatore. Comunque l'avvenire era ancora lontano, anche se andava annunciandosi piuttosto difficile e sinistro se si considerano i torbidi che andavano crescendo in Spagna dove, tra breve, anche l'Italia, insieme alla Germania, sarebbe stata coinvolta in una sanguinosa guerra civile. Continuava invece l'idillio dell'impero, idillio fra il re e il Duce, fra il regime e il popolo, fra lo Stato e l'iniziativa privata che aveva trovato nel primo il suo più generoso cliente. Il pensiero di Mussolini era ancora concentrato sull'impero che voleva consolidare al più presto. "Nel 1938" confidò sempre a Bottai "gli italiani dovranno avere caffè, pelli, lane, cotone dall'Impero. Dovranno provare il senso tattile, direi quasi olfattivo dell'Impero." In realtà, come racconta quell'attento cronista del suo tempo che fu Giovanni Artieri, il "profumo" dell'impero gli italiani lo assaporarono soltanto nel primo anniversario della conquista dell'Abissinìa che fu celebrata a Roma con grande spettacolarità. Inizialmente si discusse su chi dovesse capeggiare la parata: Badoglio da solo, o Badoglio insieme a De Bono? (Graziani, trattenuto in Etiopia dalla carica di viceré, otterrà di potersi far rappresentare dal suo cavallo). Alla fine venne concesso anche a De Bono di figurare nel corteo, ma gli applausi andarono ovviamente tutti all'altro. Fu, quella, una manifestazione faraonica: in Italia non se n'erano più viste dai tempi dei "trionfi" tributati ai condottieri romani, ai quali Achille Starace evidentemente si ispirò. Per la sfilata convennero a Roma più di 10.000 abissini nei loro costumi tradizionali. Ascari, dubat, guerrieri Azebu Galla, ras impennacchiati, nonché i decorativi meharisti, che ricevettero l'onore di montare la guardia a Palazzo Venezia in groppa ai loro cammelli. Tutti costoro marciarono schierati con le truppe nazionali in uniforme coloniale, tra folle osannanti, al cospetto del re e del Pagina 74
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Duce. Furono i dubat somali, splendidi uomini seminudi, neri e lucidi, a riscuotere, dopo Badoglio, il maggior plauso e si dovette, ironizza maliziosamente Giovanni Artieri, badare a difenderli dalle intraprendenze di certe audaci belle signore. Dopo il suo arrivo in Inghilterra, ospite del governo britannico, il negus non si era ancora rassegnato alla sconfitta e il 30 giugno 1936 si presentò, avvolto in un mantello nero in segno di lutto, all'assemblea straordinaria della Società delle Nazioni convocata a Ginevra. La sua apparizione alla tribuna fu all'origine di un episodio vergognoso. Un gruppo di giornalisti italiani, imbeccati a quanto pare da Galeazzo Ciano, gli lanciò contro una salva di fischi e di insulti volgari, tanto che il delegato rumeno Tìtulescu rivolse al presidente Van Zeeland una scandalizzata richiesta: "Faites taire ces sauvages!". I "selvaggi" italiani furono effettivamente fatti tacere dalla polizia elvetica e rispediti in Italia. Il negus comunque non ne ricavò vantaggi: denunciò le "atrocità" italiane, lamentò l'inefficacia delle sanzioni chiedendone la riconferma, sottolineò che il problema era più vasto e che non riguardava soltanto il suo paese ma anche la sicurezza collettiva, la stessa esistenza della Società delle Nazioni e la moralità internazionale ("Quello che è accaduto a noi" disse "domani accadrà a voi!"). Ma ormai i giochi erano fatti, la Lega non aveva la voglia e neppure l'autorità di modificare il fatto compiuto, sicché il malinconico erede di Salomone e della regina di Saba dovette piegarsi per una seconda volta all'amara sconfitta. Anche in Inghilterra il fronte sanzionista aveva cominciato a franare. Anthony Eden fu duramente attaccato da deputati del suo stesso partito capeggiati da Winston Churchill, mentre il suo rivale Samuel Hoare venne richiamato a fare parte del governo come Lord dell'ammiragliato. Il capo del Foreign Office riuscì comunque a conservare il suo incarico e a manovrare per il mantenimento delle sanzioni che furono tuttavia abrogate dalla Lega il 4 luglio con grande soddisfazione di Mussolini ("Oggi sugli spalti del sanzionismo mondiale è stata innalzata la bandiera bianca!" annuncerà dal solito balcone). Quattro giorni prima l'ammiragliato britannico aveva ordinato alla Home Fleet, presente ancora nel Mediterraneo, di fare ritorno alle proprie basi. Con queste due decisioni la guerra d'Abissinia si poteva dire definitivamente conclusa, e infatti non tarderanno a giungere, a cominciare dall'Austria e poi dalla Germania, i riconoscimenti ufficiali dell'impero italiano da parte di tutte le nazioni del mondo. Ma la partita con l'Inghilterra Mussolini l'aveva vinta soltanto a metà. La permanenza di Eden al Foreign Office, ora che dopo la vittoria del Fronte popolare vennero a mancare anche i buoni uffici della Francia, gli renderà impossibile ristabilire con gli antichi alleati l'atmosfera di Stresa. Tuttavia, malgrado certe sue affermazioni contraddittorie e la propaganda antibritannica alimentata dalla stampa di regime, Mussolini era ancora favorevole alla creazione di un fronte antitedesco in Europa. Come se un sesto senso lo spingesse a rimanere lontano da Hitler - per il quale, come sappiamo, non nutrì mai particolare simpatia -, cercò di riallacciare i contatti con gli ambienti londinesi favorevoli a un riavvicinamento con l'Italia. Verso la fine di maggio, informato dall'ambasciatore Dino Grandi delle parole riferitegli da Winston Churchill ("Il Duce ha ragione: bisogna pensare a ricostituire il fronte antitedesco di Stresa, altrimenti saremo noi stessi gli artefici dell'egemonia tedesca in Europa"), Mussolini gli telegrafò questo messaggio personale da trasmettere all'uomo politico britannico: "Dal suo atteggiamento dipende il domani delle relazioni anglo-italiane, che io desidero più forti e feconde. Da parte mia farò quanto è in mio potere per realizzare questo riavvicinamento che non è soltanto opportuno, bensì anche necessario". Nei giorni seguenti, dietro istruzioni del Duce, Grandi mise in atto un ulteriore risoluto tentativo di gettare nuovamente un ponte fra Italia e Gran Bretagna, sottolineando la preoccupazione di Mussolini di "vedersi costretto ad allacciare con Hitler sempre più stretti legami". In un colloquio con Eden, l'ambasciatore italiano gli riferì che Mussolini non desiderava altro che "dimenticare il passato" e ricominciare da capo con un rapprochement tra Gran Bretagna, Francia e Italia. Insistette inoltre nel dire che l'Italia si considerava ormai una "potenza soddisfatta" e che in Etiopia avrebbe avuto abbastanza da fare per altri cinquant'anni. Ma Eden replicò freddamente che i suoi atti (le sanzioni) erano conseguenti agli obblighi assunti a Ginevra, atti di cui, peraltro, "noi non ci rammarichiamo". Nonostante i mutamenti di umori che si erano verificati all'interno del suo governo, l'ostinato capo del Foreign Office non aveva cambiato di una virgola il suo atteggiamento ostile nei confronti dell'Italia. "Se il signor Mussolini" dichiarerà in seguito "pensa che gli basti strizzare l'occhio per indurcì ad aprirgli le braccia, si sbaglia di Pagina 75
arrigo petacco. FaccettaNera.txt grosso." Mussolini continuò comunque a "strizzare l'occhio" alla Gran Bretagna. Lo storico inglese Richard Lamb ha documentato con dovizia i tentativi da lui compiuti per ristabilire buoni rapporti con l'Inghilterra. Ancora il 10 giugno, dopo che Grandi lo aveva informato di un suo colloquio con Arthur Neville Chamberlain, il Duce inviò al suo ambasciatore il seguente telegramma: Leggo resoconto tuo colloquio con Chamberlain. Ti autorizzo a confermargli la smentita che gli hai dato circa relazioni italo-tedesche. Non c'è nulla. C'è soltanto un'atmosfera migliorata il che è comprensibile per ovvie ragioni, e ci potrebbe essere qualcosa di più se i pazzi di Ginevra e di Londra continueranno la loro politica ostile all'Italia. Nel momento in cui sarebbe stato più utile agli interessi britannici ricondurre Mussolini in seno al fronte di Stresa, l'atteggiamento negativo di Eden fu quanto meno fuori luogo. Come riconosce Lamb, questi voltò le spalle a tutte le aperture che Grandi a Londra e Ciano a Roma avanzarono a nome di Mussolini. Senonché, il 18 luglio scoppiò in Spagna la guerra civile e il Duce, spronato da Hitler, "prese a imbarcarsi in una serie di sconsiderate avventure" che lo avrebbero trascinato un po' alla volta verso la ferrea alleanza con la Germania nazista. "Eppure" conclude Lamb "Mussolini avrebbe continuato, sia pure con intervalli sempre più lunghi, a far balenare aperture alla Gran Bretagna". In Etiopia, dove gran parte del paese non era stata ancora "pacificata", la scelta di Graziani quale nuovo viceré si rivelò disastrosa. Vanitoso, arrogante e brutale, il maresciallo applicò gli stessi metodi da lui praticati pochi anni prima per la "pacificazione" della Libia, che avevano poco da invidiare a quelli che saranno in seguito adottati dai nazisti. Migliaia di soldati e di bande di irregolari furono impiegati in operazioni su vasta scala nelle province abissine più remote, per sottomettere le tribù e i ras che si mostravano ancora riottosi ad accettare la dominazione italiana. Repressioni feroci ed esecuzioni sommarie rimasero a lungo all'ordine del giorno. Rarissimi i casi di clemenza, fra cui quello di ras Immirù, che per ordine di Mussolini fu risparmiato ed esiliato in Italia, nell'isola di Ponza (per ironia della sorte, nella stessa isola e nella stessa casa dove sarebbe stato confinato l'ex Duce, dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943). Ras Desta venne invece fucilato e così i due figli di ras Cassa che si erano arresi in cambio della promessa di aver salva la vita. Altri ras, come Sejum Mangascià, promisero "fedeltà e devozione" all'Italia e il loro esempio fu seguito anche dal capo della Chiesa copta, l'abuna Cirillo. Il 16 febbraio 1937 Graziani organizzò una cerimonia per festeggiare la nascita del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, primogenito maschio dì Umberto e di Maria José. Nel pomeriggio le autorità e i notabili locali si riunirono davanti al Piccolo ghebì, fatto costruire da Hailè Selassiè sul modello di una casa di campagna del Norfolk, che aveva visitato nel 1924. Graziani, che faceva gli onori di casa, era sull'ingresso, circondato dalla scorta di zaptiè, i carabinieri eritrei e intento a gettare talleri a una massa di mendicanti, quando esplose la prima bomba; poi ne esplosero altre otto nel giro di pochi minuti. Pare che a lanciarle fossero stati due ex allievi della scuola militare dì Olettà ancora fedeli al negus. Ma non ci fu il tempo di individuare gli attentatori perché scoppiò il finimondo. I feriti urlanti erano centinaia, fra cui Graziani, l'abuna Cirillo e altri dignitari. Mentre venivano prestati i primi soccorsi, la rappresaglia si scatenò spontanea. Così racconta in un suo interessante diario il giornalista Ciro Poggiali, rimasto anche lui ferito nell'attentato: Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di un'organizzazione poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta con sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati e accoppano quanti indigeni si trovano ancora in strada. Episodi orripilanti di violenze inutili. Mi dicono che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato da una squadra di randellatori. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente. A notte inizia il bruciamento dei tucul... Poi spiegheranno che senza questa pronta reazione i centomila indigeni di Addis Abeba (i bianchi non arrivano a tremila) avrebbero potuto insorgere e fare di noi un macello. Il caos durò tre giorni e si concluse con un massacro che, secondo le stime, fu di 3000 morti. Quando Graziani uscì dall'ospedale, fermò quell'anarchico spargimento di sangue per organizzare la rappresaglia in maniera più sistematica. Ordinò a tutti i governatori di eseguire punizioni esemplari e quasi tutti obbedirono in modo più o meno severo. Tranne il generale Guglielmo Nasi, governatore dell'Harar, un ufficiale severo e rispettato. Il viceré gli telegrafò: "Spari a tutti, dico a tutti, ribelli, notabili, capi, seguaci, sia Pagina 76
arrigo petacco. FaccettaNera.txt se catturati in azione, sia che si siano arresi, e chiunque sia sospettato di malafede o di avere aiutato i ribelli o che avesse avuto anche solo l'intenzione di farlo. Bisogna fare piazza pulita anche di indovini e di sciamani". Nasi ignorò quegli ordini. Successivamente Graziani prese la sciagurata decisione di rivolgere la propria collera anche contro il clero copto, e fece fucilare quattrocento monaci o diaconi del monastero di Debrè Libanos, nel Goggiam, che fu poi dato alle fiamme. Tale inutile atrocità gli si ritorse contro, perché in quella regione, arresasi agli italiani senza un solo sparo, si accese un fuoco di guerriglia che si estese in altre province, dando luogo a un ulteriore spargimento di sangue. A Roma, intanto, Mussolini era bersagliato dai dispacci allarmati dei funzionari coloniali che si lamentavano dei metodi di Graziani. Il ministro Lessona lo esortò ripetutamente a congedare il viceré sanguinario, decisione che prenderà nel novembre del 1937. Sulle prime, però, cercò di difenderlo considerandolo un uomo di sicura lealtà, di cui lui stesso aveva incoraggiato gli eccessi. A spiegare la furiosa reazione di Graziani circolò a lungo negli ambienti militari una curiosa giustificazione. Nell'attentato, il viceré aveva riportato centoquarantatre piccole ferite prodotte dalle minuscole schegge di alluminio dell'ordigno che gli era scoppiato quasi sui piedi (si trattava probabilmente di bombe a mano "balilla", molto rumorose, ma poco efficaci, in dotazione all'esercito italiano); una di queste, però, operando come i famosi "castrini" usati dagli Azebu Galla, lo aveva mutilato nella sua virilità. La storiella, perché di una storiella si trattava, raggiunse anche i quartieri alti romani e il viceré deve essersi vivamente preoccupato di questa umiliante diceria. All'autore di questo libro è infatti capitato di rintracciare fra le carte del Duce conservate nell'archivio di Stato una relazione sull'attentato, scritta dallo stesso Graziani, nella quale nessun riferimento viene fatto alla sua presunta evirazione, ma in allegato vi è una foto di lui completamente nudo. In essa, moltissime freccerte indicano le ferite subite, ma gli attributi maschili appaiono indenni. A scanso di equivoci, il viceré aveva evidentemente voluto rassicurare il Duce della sua immutata virilità. Come si è già detto, fra il ministro delle Colonie Alessandro Lessona e il viceré d'Etiopia Rodolfo Graziani non correva buon sangue. Oltre alla diversità di opinioni sui metodi da applicare per giungere alla pacificazione del paese, i due uomini erano divisi anche da questioni di prestigio. Secondo la carta costituzionale dell'impero, il viceré era gerarchicamente subordinato al ministro delle Colonie e Graziani, che già aveva dovuto ingollare bocconi amari per la sua subordinazione a Badoglio, mal si adattava a tale condizione da lui ritenuta umiliante. I motivi di frizione erano frequenti: bastava una banale questione di precedenza per scatenare conflitti protocollari senza fine. Questo stato di cose durò diciannove mesi poi, finalmente, Mussolini prese la salomonica decisione di licenziarli entrambi. Al posto di Lessona fu chiamato Attilio Teruzzi, vecchio squadrista e generale dell'esercito, mentre la carica di viceré venne assegnata al duca Amedeo d'Aosta. Non sono chiari i motivi che indussero Mussolini a scegliere un membro della casa regnante. Forse lo fece perché Amedeo era figlio di Emanuele Filiberto, duca d'Aosta, l'unico comandante italiano a uscire dal disastro di Caporetto con la reputazione accresciuta, ma anche di Elena d'Orléans, l'unica dama della Casa regnante che salutava romanamente, "braccio teso e sguardo fiero", come prescriveva l'etichetta del fascista perfetto. A questo punto, però, è necessaria un'annotazione particolare che ci consentirà di meglio comprendere gli avvenimenti successivi. Come è noto, la rivalità tra i due rami di Casa Savoia è sempre esistita e continua tuttora. Ma divenne particolarmente intensa dopo che Vittorio Emanuele sposò la sconosciuta Elena di Montenegro, e suo cugino Emanuele Filiberto la brillante Hélène, orgogliosa e ambiziosa principessa d'Orléans. Già a prima vista il contrasto fra le due coppie risultava evidente: sproporzionata e goffa quella regale (Vittorio Emanuele misurava un metro e mezzo, tanto che il suo altissimo cugino lo chiamava "Re sciaboletta"), elegante e altera quella ducale (Hélène definiva "bergère", pastora, la regale cugina). Più volte il minuscolo sovrano avvertì il peso di questa rivalità con un senso di angoscia. Per esempio durante la lunga attesa dell'erede al trono Umberto (che venne poi finalmente alla luce nel 1904, otto anni dopo le nozze) Hélène già chiamava "mon petit roi", mio piccolo re, il suo primogenito Amedeo, che essendo nato nel 1898 per sei anni era stato l'erede al trono. Oppure all'indomani di Caporetto, quando Vittorio Emanuele III, affranto dalla disfatta, si era quasi rassegnato ad abdicare in favore del cugino. E ancora più tardi, con il fascismo trionfante, allorché circolarono insistentemente voci secondo cui Mussolini avrebbe Pagina 77
arrigo petacco. FaccettaNera.txt preferito collocare sul trono il giovane e aitante Amedeo invece del timido e introverso Umberto. Ma non era accaduto nulla: la dinastia rimase in sella e tuttavia Elena di Orléans, definita maliziosamente nei salotti "regina madre in aspettativa", non si rassegnò del tutto... La nomina di Amedeo a viceré d'Etiopia si rivelò comunque una buona scelta. Il duca conosceva bene l'Africa. Giovanissimo, aveva lavorato in incognito per un paio d'anni nel Congo Belga (facendo anche l'operaio in una fabbrica di sapone di Stanleyville). Era poi rientrato in Italia con le braccia ricoperte di tatuaggi e contagiato da quello che allora veniva definito romanticamente il "mal d'Africa". In seguito vi aveva fatto ritorno frequentemente vivendo a lungo con lo zio, duca degli Abruzzi e famoso esploratore polare, stabilitosi in Somalia dove aveva realizzato una enorme tenuta modello. Al momento della sua nomina, Amedeo aveva trentanove anni. Arruolatosi volontario a diciassette anni durante la prima guerra mondiale, aveva partecipato a quella d'Abissinia con il grado di generale dell'aeronautica. Uomo di buon carattere, estroverso e gioviale, a differenza degli altri austeri esponenti di Casa Savoia sapeva rendersi simpatico e cameratesco. Di altissima statura (superava di 35 centimetri la media nazionale), quand'era di buon umore, a chi gli si rivolgeva chiamandolo "Altezza", lui rispondeva sorridendo: "Un metro e novantotto". Appena giunto a Addis Abeba, il nuovo viceré rivelò subito le sue intenzioni: accelerò il rimpatrio di Graziani, che avrebbe voluto rimanere a capo dell'esercito finché non fosse stata repressa la ribellione, e quando questi, al momento del congedo, gli disse: "Altezza, posso darle un ultimo consiglio?", lui rispose freddo: "Grazie Eccellenza, ma preferisco sbagliare da solo". Poi congedò quattro dei cinque governatori delle province, con la sola eccezione del generale Nasi, ed emanò due proclami. Agli italiani rivolse l'invito di "affermare con dignità di vita e con le opere del lavoro il prestigio della Patria". Ai nativi promise "giustizia secondo i costumi, le tradizioni e la religione di ognuno". Forse erano soltanto parole di circostanza, ma rivelavano comunque un cambiamento di stile. E qualcosa effettivamente cambiò. Certo, al duca non fu possibile eliminare le ruberie, gli intrallazzi e le speculazioni sugli appalti che proliferavano dopo la conquista dell'impero, ma riuscì a porvi un freno, introdusse una serie di riforme sulla proprietà terriera e soprattutto mise fine alle fucilazioni indiscriminate sulla base di semplici prove indiziarie. Ciò non gli impedì di reagire con estrema durezza quando si rendeva necessario, anche se, ai metodi repressivi imposti da Graziani preferiva il modello della politica coloniale inglese. Negli ambienti coloniali britannici contava infatti molti amici e a coloro che spesso incontrava nei circoli di Nairobi o del Cairo era solito dire: "Supponete di avere cacciato in Etiopia tutta la feccia dell'East End di Londra e di aver lasciato che si scatenasse: immaginate cosa sarebbe accaduto. Ecco, è quello che noi abbiamo fatto in Etiopia e, in qualche modo, io ora devo ripulire". A questo punto è forse opportuno ricordare che, nella breve vita dell'impero italiano, ciò che fu fatto, di bene e di male, accadeva o era già accaduto anche negli altri imperi coloniali. Di conseguenza, prima di esprimere frettolosi giudizi radicali sulle nostre responsabilità, non si deve dimenticare qual era la morale del tempo. Gli storici britannici, che di imperi e di colonie si intendono senz'altro più di noi, si sono infatti rivelati nei confronti della politica coloniale fascista molto più obiettivi di tanti loro colleghi italiani. Vale fa pena di leggere ciò che riporta in proposito l'autorevole Enciclopedia britannica: Forse nessuna potenza europea spese mai, in uomini e in denaro, tante risorse in un possedimento coloniale come l'Italia durante iì suo breve possesso dell'Abissinìa. Il solo programma stradale fu preventivato per assorbire cento milioni dì sterline. Fu creato un sistema amministrativo interamente nuovo. L'Africa orientale italiana (Abissinia, Eritrea, Somalia, in tutto circa 600.000 miglia quadrate) venne divisa in cinque province, ognuna sotto un governatore responsabile verso il viceré. Addis Abeba e altre città importanti furono dotate di scuole elementari e tecniche, separatamente per cristiani e musulmani. Inoltre vennero istituite scuole agrarie di vario genere e si sviluppò una capillare organizzazione sanitaria. Furono fondate imprese colonizzatrici, organizzazioni industriali di vario genere, si costruirono officine, mulini, stazioni generatrici di energia elettrica. Fu iniziato e sviluppato un programma di costruzioni edilizie nella capitale e altrove si intrapresero lavori di ricerca mineraria e di altro genere. Queste opere di pace, che nelle intenzioni di Mussolini dovevano abbracciare un Pagina 78
arrigo petacco. FaccettaNera.txt decennio di attività costruttiva, vennero effettivamente portate avanti, per quanto fu consentito, con un dinamismo eccezionale. XII UNA CANZONETTA CONTESTATA Ancora oggi, a tanti anni dalla fine del nostro effimero impero, c'è una canzone che lo ricorda e che, avendo perduto nel frattempo ogni connotazione politica, è diventata un classico. Il suo motivetto facilmente orecchiabile, tramandato di bocca in bocca e di generazione in generazione, è tuttora vivo fra noi, essendo entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo. Può infatti capitare di sentirlo fischiettare anche da chi delle imprese coloniali italiane non ha neppure memoria. Si tratta di Faccetta nera, versi di Renato Micheli e musica di Mario Ruccione, composta nel 1935 prima in romanesco e poi tradotta in italiano per il suo strepitoso successo. Essa rivela, meglio di ogni altra testimonianza, con quale spirito gli italiani di allora andarono alla conquista dell'Abissinia. Rileggiamo dunque insieme il testo di questa canzone che fece da sottofondo alla campagna d'Africa come la colonna musicale di un film. Se tu dall'altopiano guardi il mare, moretta che sei schiava fra gli schiavi, vedrai come in sogno tante navi e un tricolor che sventola per te. Faccetta nera, bell'abissina, aspetta e spera che già l'ora s'avvicina. Quando staremo vicino a te, noi ti daremo un'altra legge e un altro re. La legge nostra è schiavitù d'amore, il nostro motto è libertà e dovere, vendicheremo noi camicie nere gli eroi caduti liberando te. Faccetta nera, bell'abissina, aspetta e spera che già l'ora s'avvicina. Quando staremo vicino a te, noi ti daremo un'altra legge e un altro re. Faccetta nera, piccola abissina, ti porteremo a Roma liberata, dal nostro sole tu sarai baciata, sarai camicia nera pure tu. Faccetta nera, sarai romana, la tua bandiera sarà quella italiana, noi marceremo insieme a te e marceremo avanti al Duce e avanti al Re. Questa bella canzonetta, piena di buoni propositi umanitari quanto quell'altra, assai meno orecchiabile, improvvisata dai soldati ("E se l'Africa si piglia, si fa tutta una famiglia"), veniva cantata dai legionari in partenza e dalle folle che li salutavano dai moli. Anche i microfoni dell'EIAR la proponevano a ogni occasione, senza che nessuno trovasse da ridire sul palese messaggio antirazzista in essa contenuto. D'altra parte, il razzismo era lontano mille miglia dalla mentalità degli italiani. Anzi, erano ancora gli anni in cui Mussolini lo definiva sarcasticamente "robaccia per biondi" e autorizzava i giornali umoristici a sbeffeggiare gli effeminati "bellinazi" che si vantavano della loro ariana purezza razziale. Da noi Faccetta nera, cantata dalla calda voce di Carlo Buti, scatenò semmai la fantasia erotica degli italiani, tanto che, lo possiamo affermare con certezza, il richiamo sessuale della "bella abissina" spinse molti più giovani ad arruolarsi volontari di quanti ne attrasse il richiamo della "missione civilizzatri-ce" o della conquista del "posto al sole" sbandierate dalla propaganda di regime. Per alimentare questi entusiasmi, i giornali, il cinema, la pubblicità e persino i pacchetti di sigarette furono autorizzati a esporre invoglianti negrette a petto nudo in un'epoca così bacchettona e morigerata in cui il seno delle ragazze bianche si poteva soltanto immaginare (quello della bella Clara Calamai, protagonista della Cena delle beffe, lo si vedrà per la prima volta nel 1941 e per pochi secondi). "Mai come allora" ha scritto Leo Longanesi "si sono ammirate immagini di seni così turgidi e puntuti. Gli italiani non vedevano l'ora di partire; l'Abissinia ai loro occhi appariva come una sterminata selva di bellissime mammelle a portata di mano." La musica cambiò dopo la conquista dell'impero. Ma a lanciare il primo attacco razzista contro la "sdolcinata Faccetta nera" non furono né Mussolini né gli ideologi del fascismo, bensì un giornalista di fama francamente insospettabile. Pagina 79
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Si trattava di Paolo Monelli, ex ufficiale degli alpini, autore di libri di successo e grande firma, prima della "Gazzetta del Popolo" e poi della "Stampa". Spirito libero, colto, raffinato (anche in uniforme portava il monocolo), Monelli aveva seguito la campagna d'Abissinia sin dal primo giorno e aveva scritto molte avvincenti corrispondenze di guerra ingentilite da gustose pennellate di colore che le rendevano ancor più gradevoli. Cosa lo spinse a prendersela con la canzonetta più popolare del momento non si spiega. Certamente non fu "ispirato dall'alto" come pensa Sandro Cerbi, storico attento e curioso che, avendo avuto l'opportunità di frugare nell'inesplorato archivio privato del famoso giornalista, ha riesumato questa singolare vicenda. Monelli non era il tipo da farsi imbeccare "dall'alto", semmai era lui a dare le imbeccate. Poco tempo prima, per esempio, un suo articolo contro l'uso della terza persona singolare nel linguaggio comune aveva suggerito ad Achille Starace la ridicola campagna per l'abolizione del "lei" e per l'adozione del "voi". È molto più probabile che Monelli abbia agito di sua iniziativa per ambizione snobistica, per andare controcorrente o perché avvertì prima degli altri che la "razza" cominciava a diventare di moda anche in Italia. Ma vediamo che cosa sosteneva Monelli nel suo articolo, inaspettatamente truculento, intitolato significativamente Moglie e buoi dei paesi tuoi, che apparve sulla "Gazzetta del Popolo" di Torino il 13 giugno 1936. Già l'esordio è un affondo micidiale: Se io fossi imperator, sai ch'io farei? Prenderei l'autore delle parole della canzone Faccetta nera e l'obbligherei a vivere due o tre settimane, che dico?, due o tre giorni, e giuraddio che basterebbero due o tre ore, in una capanna abissina con una faccetta nera. Con una di queste abissine tutte sudice di un sudiciume antico, sempre fetide del burro rancido che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent'anni; per secolare servaggio amoroso fatte fredde ed inerti fra le braccia dell'uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cisposi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. E gli direi: Eccoti la tua faccetta nera; dalle la tua patria e il tuo re, e tientela vicino a te tutta la vita; questo è il fiore dell'equatore che ti aspetta e spera che già l'ora si avvicini. Vestila per la rivista, mettila in camicia nera (così almeno avrà una camicia). E il giornalista così proseguiva: Le parole di Faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata, di uno stato d'animo rugiadoso e romantico corrotto di sdolcinatura e di vizio che dobbiamo seppellire sotto dieci metri di terra se vogliamo andare per il mondo a fare l'impero. Sono indegne della nostra gioventù sportiva e casta. Sono il ftutto dell'ignoranza provinciale di chi è venuto alla conquista dell'impero cantando la conquista di una donnetta puzzolente. Il mondano Monelli, galante e trasgressivo, concludeva la sua filippica razzista e perbenista con queste parole: Né va dimenticato che l'amore è soprattutto fabbrica di prole. Ora che cosa vuole far fare alla faccetta nera il nostro cantastorie? Un figlio? Un meticcio? Qui l'ignoranza del cantore diventa delitto contro la razza (razza bianca dico; non corro dietro a certe deformazioni teutoniche). Ma noi dobbiamo popolare l'impero d'intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi. Non è ammissibile per un popolo sano, forte, antico, la promiscuità con i barbari vinti. Un popolo che costruisce per uno splendido futuro non augura a sé eredi corrotti. L'articolo di Monelli raccolse autorevoli consensi in certi ambienti del regime, ma, per la verità, Faccetta nera non fu mai messa all'indice. Ci si limitò a non farla più cantare durante le adunate e le parate ufficiali, fu limitata anche la sua diffusione radiofonica e tuttavia, ancora nel 1938, l'orchestra sinfonica dell'EIAR, diretta dal maestro Ugo Tannini la registrò in un disco che fu largamente venduto. La violenta invettiva del giornalista, che malgrado la forzata presa di distanza dalle "deformazioni teutoniche", dava dei punti anche al teorico del razzismo Alfred Rosenberg, non venne accolta con favore neppure negli ambienti dell'impero. D'altronde in Africa, tutti, ufficiali, sottufficiali, funzionari e coloni, disponevano di una "madama" (cosi venivano chiamate le "quasi mogli" con cui convivevano more uxorio) le quali peraltro non erano affatto "cispose", come le descrive Monelli, ma, specialmente le somale, spesso affascinanti e di rara bellezza. Molti veterani dell'Africa se le sposarono e gli altri le ricordarono sempre con nostalgia; come Indro Montanelli che ancora conservava nel suo studio il ritratto della graziosa Desta, la sedicenne tigrina che lo aveva seguito docilmente, di tappa in tappa, come usavano fare le donne degli ascari, durante la sua marcia verso Addis Abeba. Pagina 80
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Oltre alla diffusione del "madamismo" fra gli uomini, pare che nel neonato impero neppure le mogli degli ufficiali e dei funzionari coloniali disprezzassero la "promiscuità con i barbari vinti". Circolavano infatti a Addis Abeba aneddoti esilaranti e storielle piccanti di cui si ritrova traccia nell'interessante diario segreto di Ciro Poggiali, in cui il giornalista annotava cose che la censura gli impediva di pubblicare sul suo giornale. Scrive per esempio Poggiali: Si apprende che a Mogadiscio il servo somalo di un funzionano della Banca d'Italia sì presenta al padrone per annunciargli che intende licenziarsi. "Perché" chiede il padrone "se ti ho sempre trattato bene e sono contento di te? Vuoi forse un aumento di salario?" E l'altro: "No, guitana, io devo andare via. Tua moglie sempre volere, sempre volere da me... e io non resistere. Troppa fatica...". A Addis Abeba invece, prosegue Poggiali, "la moglie di un colonnello che ha appena finito di sgravarsi domanda ansiosa a chi l'assiste: "Di che colore è?". "Purtroppo è nero"". Non mancavano neppure le promiscuità del terzo sesso. Montanelli raccontò di quanto gli accadde quando gli fu assegnato un "francolino" (venivano chiamati così i boy attendenti) che prima era stato al servizio di un noto generale di divisione. Stupito che il ragazzo avesse lasciato un generale per servire un semplice tenente, Montanelli gliene chiese con insistenza il motivo. E l'altro, in lacrime, alla fine confessò: "Perché signor generale sempre culo, culo, culo...". L'eccessivo sviluppo del "madamismo", peraltro comprensibile in un ambiente popolato di soli uomini, cominciò a preoccupare Mussolini soltanto un anno dopo la conquista dell'impero, quando anche in Italia presero a serpeggiare le teorie teutoniche sulla difesa della razza. Il 19 aprile 1937 veniva infatti emanato il seguente decreto reale: Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione di indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi, concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell'Africa Orientale Italiana, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Da notare che la pena si applicava soltanto agli italiani, non alle loro partner di colore, perché a essi veniva addossata l'offesa al "prestigio della stirpe". Tuttavia non era ancora vietato il matrimonio regolare, che infatti verrà proibito soltanto a partire dal novembre del 1938 con l'entrata in vigore delle famigerate leggi razziali, con cui si condannava ogni unione "del cittadino italiano ariano con persona appartenente ad altra razza". Nessun provvedimento, invece, fu preso dal regime contro le semplici relazioni sessuali di carattere mercenario. Anzi, si importarono dall'Italia numerose prostitute, evidentemente più ricercate delle disponibili sciarmutte che abbondavano dovunque. Quando i mezzi logistici lo permettevano i reparti militari erano seguiti da case di tolleranza mobili "per Ufficiali" e per "Graduati e truppa", regolarmente rifornite di meretrici bianche e nere. Soltanto più tardi, quando i postriboli per bianchi furono aperti anche ai neri facoltosi, qualcuno protestò e si pose un freno all'importazione dall'Italia di donne bianche. Questa misura, peraltro vagamente rispettata, fu inoltre causa di un piccolo incidente diplomatico. "Le autorità di Gibuti" racconta Ciro Poggiali nel suo inesauribile diario "hanno impedito che sei etère francesi, provenienti da Marsiglia e reclutate da una lussuosa casa di tolleranza di Addis Abeba, proseguissero il viaggio per la capitale". Il giornalista continua così: La ragione è questa: abbiamo tanto vociferato di non volere prostitute italiane in colonia affinché il primo contatto del mondo etiopico con l'Italia non avvenisse con donne da conio, sì insomma per ragioni di prestigio di razza. Allora il governatore francese di Gibuti ha ragionato così: se temete che la prostituzione bianca possa offendere il prestigio della razza italiana, io non posso permettere che sia offesa la razza francese. E le sei, assoldate da una simpaticissima signora marsigliese, famosa organizzatrice di case di tolleranza in tutto l'Oriente, hanno malinconicamente ripreso la strada per Marsiglia. La legge contro il "madamismo" tuttavia non fece vittime. Venne infatti applicata, come si usa dire, "all'italiana" ossia con larga tolleranza, tant'è che non si hanno notizie di condanne, mentre risulta che molti italiani regolarizzarono la loro posizione riconoscendo persino i figli nati dall'unione con le indigene. Neppure le leggi razziali fasciste furono applicate in Abissinia, anzi suggerirono a Mussolini un ignorato progetto umanitario che merita di essere ricordato. Come già accennato, nel novembre del 1938, mentre in Germania, Austria e Pagina 81
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Cecoslovacchia (queste ultime nel frattempo inglobate nel Terzo Reich) avevano avuto inizio le persecuzioni antisemite, anche l'Italia fascista sposò le folli teorie ariane. Di giorno in giorno, per gli ebrei l'aria si faceva sempre più irrespirabile e l'avvenire si prospettava sempre più oscuro. Non restava loro che una soluzione: fuggire. Ma dove? Nessun paese in Europa era disposto ad accoglierli: Svizzera e Francia avevano cominciato a respingere dai posti di frontiera i fuggiaschi, mentre gli americani si stringevano nelle spalle davanti alla mostruosa proposta di Hitler che offriva ebrei liberi in cambio di dollari in contanti. Restava il "sogno" della Palestina, allora sotto il dominio britannico, ma gli inglesi ne avevano sbarrato l'accesso temendo che l'afflusso in massa degli ebrei nella loro "Terra promessa", ormai islamizzata, avrebbe provocato incidenti con la popolazione musulmana. Fu a questo punto che il viceré d'Etiopia suggerì a Mussolini di aprire alla popolazione semita le porte dell'impero. Ottenuto l'assenso del Duce, e l'approvazione del governo di Londra, felice di passare ad altri quella patata bollente, il progetto entrò subito in fase di realizzazione. A metà novembre, proprio nei giorni in cui in Italia venivano promulgate le leggi razziali, Amedeo d'Aosta convocò nella sua residenza di Addis Abeba il colonnello degli alpini Giuseppe Adami, allora capo dell'Ufficio topocartografico dell'impero. Come riferisce lo stesso Adami in un memoriale ancora conservato nell'Acropoli alpina di Trento, il duca gli chiese di individuare "una zona idonea ad ospitare in un primo tempo una colonia di 1400 famiglie ed in un secondo tempo di ospitarne un numero doppio". Amedeo gli raccomandò "di scegliere un luogo immune da malaria e mosche tze-tze, ricco di acqua, favorito da un buon clima e abitato possibilmente da tribù pagane, perché aprire una sinagoga dove già vi fosse una moschea, sarebbe stato pericoloso". "Mi aspetto da lei" concluse il viceré "un piccolo paradiso terrestre." Adami partì per la sua missione in compagnia del maggiore Gallina e del tenente Silvestri, con la scorta di alcuni ascari. Dopo varie ricerche, l'attenzione della commissione di studio si soffermò sulla zona Neghelli-Ascebo-Iavello, ai confini con il Kenia. Un paesaggio dolcemente montuose che ricordava al colonnello piemontese le Langhe e il Monferrato: "Quota media 1200 metri sul mare, temperatura massima 33 gradi, minima 14. La zona è abitata da tremila Borana, tribù di gente pacifica, che non ruba, non uccide ed è pagana di tipo animista: credono in ottantotto diavoli e nella metempsicosi". Il 5 dicembre 1938 Adami consegnò al viceré la sua par-ticolareggiata relazione e questi ne fu molto soddisfatto. Era infatti sicuro che una colonia ebraica in Etiopia non avrebbe creato inconvenienti razziali o religiosi, essendo ben noto lo spirito di tolleranza degli etiopi verso gente di razze, colori e religioni diverse. Contava inoltre sul fatto che l'intelligenza e l'intraprendenza degli ebrei avrebbero certamente avvantaggiato l'economia generale dell'impero. Passarono tre mesi. Nel marzo del 1939, Amedeo, di ritorno da Roma, comunicò a Adami che Mussolini aveva molto apprezzato il suo progetto e che un giorno o l'altro sarebbero giunte le opportune istruzioni per realizzarlo. Purtroppo le cose andarono diversamente. Il 22 maggio l'Italia firmò il patto d'Acciaio con la Germania nazista e del progetto africano non si parlò più. Invece di fondare fra i ridenti pascoli dei Galla Sidamo la loro piccola Israele, anche gli ebrei italiani finiranno nei campi di sterminio nazisti. Il 1938 e il 1939 furono comunque gli anni più felici dell'impero. Si spesero fiumi di denaro con la convinzione che la nostra presenza in Etiopia sarebbe durata molto a lungo. Si aprirono nuovi aeroporti, si costruirono case, ospedali, scuole e venne potenziata la rete stradale. Nella sola Eritrea si realizzarono complessivamente 1450 edifici pubblici; la strada Massaua-Addis Abeba, di 1600 chilometri, fu portata a termine in diciotto mesi. Prima dell'arrivo degli italiani, per coprire lo stesso percorso si impiegavano tre mesi a dorso di cammello. La rotabile Kombolcia-Assab, di 480 chilometri, fu approntata in sei mesi. I numerosi coloni stabilitisi nell'impero potevano guardare al futuro con una certa sicurezza. Il ribellismo era stato in gran parte eliminato; restavano soltanto piccoli fuochi di guerriglia e brigantaggio come in qualsiasi altra colonia. Le "buone maniere" del nuovo viceré avevano indotto a capitolare anche i ras più combattivi. Mussolini, da parte sua, pensava alla grande. Progettava, per esempio, di creare un esercito coloniale di un milione di uomini, con cinquanta aeroporti e un'industria metallurgica atta ad assicurare all'impero una completa autosufficienza. Ora, essendosi definitivamente immedesimato nella parte di stratega e di condottiero vittorioso, non era alieno dall'immaginare imprese napoleoniche. Una delle sue idee fisse, sostenuta peraltro dal duca d'Aosta e da altri personaggi, era quella di liberare l'Africa orientale dalla "servitù del canale di Suez" realizzando il congiungimento con la Libia e il Mediterraneo Pagina 82
arrigo petacco. FaccettaNera.txt attraverso il deserto del Sudan anglo-egiziano. Si provvide anche allo sviluppo turistico dell'impero. In questa prospettiva il CTI (Consociazione turistica italiana) assegnò ad alcune decine di esperti la realizzazione di una Guida dell'Africa Orientale Italiana che costò mesi di lavoro collettivo. Ne sortì poi un volume di 640 fittissime pagine che oggi farebbe la gioia di un appassionato bibliofilo. Rilegato in tela e corredato di carte geografiche, piante dei centri abitati, delle strade, delle piste, nonché di dettagliati cenni storici, geografici e di informazioni sui costumi e le religioni, questo Baedeker italiano risponde con sconcertante dovizia di particolari a tutte le domande che si poteva porre l'eventuale turista. Dall'equipaggiamento necessario ("tenda con zanzariera, toeletta da campo, lanterna con candela o meglio lume a petrolio Petromax, scarpe alte per le signore, stivali per gli uomini, casco di sughero, maglie pesanti per la notte", ecc.) ai mezzi di trasporto: aerei dell'Ala littoria, camion, cammelli e muletti ("I cammelli possono fare tappe di 30 km e portare fino a 200 kg. I muletti tappe fino a 40 km e portare 70-100 kg"); dalle precauzioni igieniche ("limitare i contatti con gli indigeni, i serpenti velenosi sono rari, eliminare al più presto le pulci penetranti e abbondanti") al contegno con i nativi ("l'abissino è molto orgoglioso, volubile, dissimulatore e accorto parlatore. Gli eritrei e i somali sono orgogliosi di appartenere da gran tempo all'Italia. Di fronte agli abissini si considerano quasi pari agli italiani. Trattarli come etiopi sarebbe ingiusto e offensivo"); dall'alimentazione ("per l'acqua si consiglia di depurarla con ipoclorito di sodio, oppure versando poche gocce di tintura di iodio per ogni litro") alle escursioni e alla caccia ("è proibito uccidere: elefanti con zanne di peso inferiore a 15 kg, rinoceronte, asino selvatico, stambecco nubiano, mufloné, pangolino, dugongo, marabù e avvoltoi di tutte le specie. Libertà per le altre specie"). Di questa interessante e forse unica guida dell'Etiopia ne furono stampati 490.000 esemplari che vennero messi in vendita nell'ottobre del 1938 al prezzo di 18 lire. Non sappiamo quanti volenterosi turisti fecero in tempo a utilizzarla. XIII L'IMPERO PIÙ BREVE Nessun impero della storia è durato così poco quanto quello d'Etiopia. Sei anni appena: dal 1936 al 1941. In quei pochi anni gli italiani spesero fiumi di denaro per migliorarlo, ma assai poco per conservarlo. Questa è la malinconica conclusione cui sono giunti i nostri storici di fronte alla rapidità con la quale gli inglesi, quando scatenarono l'offensiva, riuscirono a farlo crollare. Non sono neppure mancate le solite giustificazioni consolatorie per spiegare e rendere più onorevole la nostra disfatta, ossia l'isolamento dell'impero dalla madrepatria, il rapporto di forze squilibrato, la scarsità delle scorte, l'impossibilità di ricevere rifornimenti e tutte le altre drammatiche manchevolezze che si possono immaginare. Ma nessuno sembra avere mai preso in considerazione le cause principali di quella fulminea nonché sconcertante sconfitta: l'assenza di una strategia e, soprattutto, di un condottiero. Oggi infatti, sia pure con l'ausilio del senno del poi, si può tranquillamente affermare che se le forze italiane fossero state guidate da un comandante più risoluto e più audace, appena appena vagamente rassomigliante a un Erwin Rommel, la storia dell'impero italiano d'Etiopia sarebbe stata diversa e la sua fine certamente più eroica. Perché non è vero che all'inizio del conflitto le sorti dell'impero fossero già scontate. Al contrario, in Etiopia, come d'altronde in Libia, eravamo molto più forti degli inglesi e in grado di batterli con facilità. Quel che mancò fu un progetto, offensivo e difensivo, e soprattutto la voglia di fare la guerra sul serio. Tutti, a Roma come a Addis Abeba, si cullarono nell'illusione che il secondo conflitto mondiale sarebbe stato rapidamente vinto dai tedeschi e che a noi sarebbero bastati pochi morti per sederci trionfanti al tavolo della pace. Fu appunto a causa di questa errata convinzione che Mussolini e gli alti comandi militari affrontarono la prova bellica senza preparazione alcuna. Confortata dall'idea che tutto sarebbe finito presto e bene grazie al potente alleato, l'Italia trascurò irresponsabilmente persino gli obiettivi più facilmente raggiungibili. Come l'isola di Malta, che gli inglesi si erano affrettati a evacuare, o il canale di Suez, difeso da una sparuta guarnigione di riservisti britannici, certamente non in grado di resistere alle nostre preponderanti forze dislocate in Libia. Considerato lo stato delle cose, non deve quindi sorprendere se a Roma nessuno si preoccupò delle sorti dell'impero. D'altra parte, già nel 1937, in una lettera a Graziani datata 22 febbraio, Mussolini aveva detto Pagina 83
arrigo petacco. FaccettaNera.txt chiaramente che in caso di guerra, se l'Italia non doveva aspettarsi nulla dall'impero, l'impero non doveva attendersi alcun aiuto dall'Italia. Evidentemente influenzati dal pensiero strategico tedesco e dal ricordo della prima guerra mondiale, il Duce e i suoi capi militari erano convinti che la guerra si sarebbe ancora una volta combattuta e risolta sui fronti europei e che il problema delle colonie sarebbe stato affrontato dopo l'"immancabile vittoria", come era accaduto a Versailles. Tuttavia, il 10 giugno 1940, quando l'Italia entrò in guerra al fianco della Germania (che nel frattempo, con una serie di spettacolari blitz, aveva costretto la Francia alla resa e ricacciato in mare, a Dunkerque, il corpo di spedizione britannico), nell'impero etiopico la situazione non era affatto precaria. Il duca d'Aosta disponeva di circa 100.000 soldati nazionali, raggruppati nella divisione Granatieri di Savoia, schierata attorno a Addis Abeba, e negli 80 battaglioni di camicie nere distribuiti lungo i confini. A questi si sommavano gli oltre 250.000 soldati indigeni, fra ascari, dubat e zaptiè, tutti coraggiosi e leali, anche se tradizionalmente più adatti agli attacchi di scorreria che alla guerra difensiva. Infatti le loro prestazioni si riveleranno mediocri. La forza aerea consisteva di circa 240 aerei da caccia e da bombardamento, non tutti in perfetta efficienza, e la forza navale di 8 cacciatorpediniere e 8 sommergibili che, secondo gli osservatori britannici, costituivano un "pericolo letale" per le navi che dovevano attraversare il canale di Suez. Anche il parco automezzi era relativamente ricco: circa 200 fra carri e autoblinde e circa 6500 fra veicoli, autocarri e cingolati. Se gli uomini e i mezzi erano molti, bisognava però tenere conto della lunghezza dei confini da presidiare: 8700 chilometri, senza contare i fronti interni contro i superstiti focolai di ribellismo indigeno, che in seguito gli inglesi provvederanno ad alimentare. Ma il problema principale del momento erano piuttosto i rifornimenti di carburante, di pezzi di ricambio e di pneumatici di cui la prevedibile chiusura del canale di Suez non avrebbe consentito di rimpinguare le scorte. Le forze italiane erano distribuite su quattro scacchieri: a nord (Eritrea e Amhara) comandava il generale Luigi Frusci; a est (Harar, Scioa e Dancalia) il generale Guglielmo Nasi; a ovest (Galla e Sidama e parte della Somalia) il generale Pietro Gazzera e a sud (Giuba e resto della Somalia) il generale Gustavo Pesenti. Il duca d'Aosta, che assunse il comando superiore di tutte le forze armate in Etiopia, aveva come capo di stato maggiore il generale Claudio Trezzani. Nei mesi precedenti all'inizio del conflitto e persino durante la "non belligeranza" italiana, su tutta la lunghezza della frontiera comune le relazioni fra inglesi e italiani erano state cordiali e persino conviviali. Gli ufficiali italiani si recavano spesso a Cassala dove i loro colleghi inglesi si annoiavano a morte fra tribù nomadi e capanne di fango, mentre ad Asmara e a Addis Abeba la vita sociale era assai più brillante. Tanto che gli ufficiali e i funzionari britannici cercavano con impazienza di farsi invitare in queste più accoglienti città. Naturalmente fra i graditi ospiti non mancavano gli agenti dell'Intelligence Service che provvedevano a guardarsi intorno e a riferire. E ciò che riferirono lo si può desumere dal fatto che, quando l'Italia entrò in guerra, a Londra abbandonarono ogni speranza di poter evitare la conquista dei loro possedimenti coloniali confinanti con l'impero etiopico. Rispetto alle forze italiane, di cui conoscevano la minacciosa consistenza, inglesi e francesi (questi con 5000 soldati a Gibuti) disponevano infatti, oltre che di un centinaio di velivoli e di mezzi corazzati, di appena 40.000 uomini, tutte reclute locali, in gran parte indigene e disseminate negli immensi spazi del Sudan, del Kenia e della Somalia britannica. Tra Khartum e le frontiere dell'Africa orientale italiana non c'era neanche un migliaio di soldati sudanesi. Tanto è vero che il governatore britannico del Sudan informò Londra che qualsiasi eventuale azione contro gli italiani sarebbe dovuta partire da Gibuti in quanto la Sudan Defence Force in quel momento non era all'altezza della situazione. Poi le cose peggiorarono ancora dopo la resa della Francia, perché le forze francesi di Gibuti furono "congelate" e gli inglesi rimasero soli e abbandonati al loro destino. L'Inghilterra, infatti, costretta a difendere se stessa dagli attacchi aerei tedeschi e dalla minaccia di una possibile invasione, non era assolutamente in grado di rimpinguare le sue esigue forze dislocate nelle colonie, peraltro già in gran parte impegnate sul confine libico-egiziano per ostacolare la prevedibile (per gli inglesi) avanzata italiana verso Suez. Molto diversa era invece l'atmosfera che regnava a Addis Abeba. Alla vigilia della nostra entrata in guerra, il duca d'Aosta aveva rispolverato il suo Pagina 84
arrigo petacco. FaccettaNera.txt ambizioso piano: attraversare il Sudan e l'Egitto per operare un congiungimento con la Libia onde aprire una indispensabile "direttissima" che avrebbe collegato l'impero con il Mediterraneo. Quello di Amedeo era un sogno megalomane e forse irrealizzabile, ma a Roma la pensavano diversamente. Se inizialmente il viceré aveva ricevuto, come una doccia fredda, un dispaccio di Badoglio, capo dello stato maggiore generale, che gli ordinava dì "mantenere un contegno strettamente difensivo" e di limitarsi a "studiare" la possibilità di azioni offensive, subito dopo l'ingresso in guerra dell'Italia ecco giungere un contrordine. Lo stato maggiore chiedeva al duca d'Aosta di assumere immediatamente un "contegno offensivo". Cos'era accaduto? A Roma tutti ormai credevano nel Blitzkrieg, la guerra-lampo. E Mussolini, che alla vigilia dell'attacco alla Francia aveva chiesto a Badoglio "qualche morto" da far valere nei confronti dell'alleato tedesco che, altrimenti, con le sue sfolgoranti vittorie sarebbe rimasto il solo padrone dell'Europa, si ricordò dell'Etiopia. Il generale Nasi, colui che a Gondar avrebbe ammainato l'ultima bandiera italiana in Africa orientale, annota nel suo diario che al viceré arrivò un telegramma firmato da Badoglio che diceva press'a poco così: "Su da bravi! Bisogna portare al tavolo della pace anche un pegno coloniale". La guerra ebbe così inizio anche in Etiopia e le nostre prime vittorie furono abbastanza facili, ma purtroppo rimasero uniche. "Fu la sola nostra sconfitta ad opera degli italiani" ricorderà Churchill nelle sue memorie. Si cominciò dal Kenia dove il 10 luglio le truppe italiane occuparono Moyale e costrinsero gli inglesi a ritirarsi per un centinaio di chilometri. Successivamente l'attacco investì il Sudan anglo-egiziano muovendo dal confine eritreo. Spronato da una incomprensibìle esortazione radiofonica di Mussolini ("L'ombra di Carchidio Malvolti vi attende a Cassala!"), il generale Frusci occupò la città sudanese, che era un importante centro ferroviario, dopo avere avuto facilmente ragione dei suoi pochi difensori. Scoprirà solo più tardi che l'"ombra" evocata da Mussolini apparteneva a un eroe coloniale italiano ucciso dai mahdisti a Cassala sessant'anni prima e di cui lui non aveva mai sentito parlare. Frattanto, quasi simultaneamente, il generale Cazzerà aggredì il Sudan dal confine etiopico conquistando rapidamente il forte di Gallabat e il centro abitato di Kurmuk. Ora le truppe italiane minacciavano la capitale sudanese e il premier britannico Winston Churchill, con amara ironia telegrafò a Anthony Eden, divenuto ministro della Guerra: "Se perdi anche Khartum passerai alla storia". Ma Eden non passerà alla storia per questo. Ora non restava che la Somalia britannica. Il generale Nasi superò il confine il 5 agosto occupando Hargheisa e isolando così la Somalia britannica da quella francese. Per gli inglesi l'attacco italiano non costituì una sorpresa: sia pure a malincuore avevano previsto la perdita di questa colonia. Tuttavia, malgrado la posizione sfavorevole, organizzarono la difesa disperata di Berbera, la capitale, facendo affluire da Aden due battaglioni indiani punjab e un reparto di cammellieri arabi. Il 9 agosto, preceduti da un nutrito fuoco di artiglieria, i fanti italiani mossero all'assalto di tre alture tenute dai punjab, una delle quali fu rapidamente conquistata, ma le altre due resistettero grazie al fuoco di sbarramento dell'artiglieria nemica. Il giorno 11, gli indiani tentarono un contrattacco per riconquistare l'altura perduta, ma furono respinti. Sia pure a fatica e con numerose perdite, gli italiani continuarono ad avanzare minacciando l'accerchiamento della città. Il comandante britannico, generale Godwin Austen, indugiò a lungo prima di prendere una decisione definitiva. Le direttive che aveva ricevuto gli concedevano un ampio potere discrezionale: "È vostro compito" gli aveva telegrafato il generale Wavell, comandante supremo del Medio Oriente, "impedire l'avanzata italiana. Farete i passi necessari per ritirarvi solo se necessario". Ed egli se ne avvalse, appena si profilò la minaccia dell'accerchiamento, per ordinare la ritirata. "È l'unico passo necessario per evitare la catastrofe" spiegò ai suoi superiori per ottenere l'autorizzazione di evacuare le truppe. Curiosamente agli inglesi furono concessi due giorni di tregua per imbarcarsi sulle navi che li avrebbero trasferiti in Kenia, e non un solo colpo di fucile fu sparato contro di loro. Qualcosa di simile era accaduto poche settimane prima a Dunkerque, quando i tedeschi avevano permesso al corpo di spedizione britannico di rimpatriare. Il comportamento tenuto dai nostri a Berbera si spiega con il fatto che il duca d'Aosta riteneva, come Hitler a Dunkerque, che la pace fosse ormai dietro l'angolo. Il 19 agosto sì concludeva così, vittoriosamente, la breve campagna delle truppe italiane nell'Africa orientale italiana, sia pure con perdite piuttosto significative: 2052 caduti (poco meno di quanto c'era costata l'intera campagna d'Abissinia) contro 250 della parte avversaria. Pagina 85
arrigo petacco. FaccettaNera.txt A Roma, naturalmente, questa modesta vittoria fu ingigantita dalla propaganda e Mussolini inviò al duca d'Aosta un messaggio di congratulazioni invitandolo a nuove azioni militari. Ora che con l'occupazione di Berbera la conquista della Somalia è un fatto compiuto, vi giunga, Altezza, insieme al mio, il plauso del popolo italiano che ha seguito con assoluta certezza le fasi della dura battaglia. Dopo la necessaria sosta, Voi dirigerete verso altre mete la volontà perseverante e l'ardimento delle truppe che presidiano l'Impero e lo estendono nei confini e nella potenza. Questi "confini", già immensi all'inizio del conflitto, si erano frattanto paurosamente allungati. Churchill reagì molto male alla perdita del Somaliland e cominciò a pensare di sostituire il generale Wavell. Questi aveva infatti appena finito di rassicurare Londra che dal Sud non sussisteva una minaccia immediata contro l'Egitto, quando un nuovo pericolo cominciò a profilarsi al Nord. Dopo la tragica morte del governatore della Libia Italo Balbo, abbattuto il 28 giugno 1940 dal "fuoco amico" della nostra contraerea mentre con il suo apparecchio rientrava a Tobruch da una perlustrazione, il comando delle nostre forze era stato affidato al maresciallo Graziani. Non fu una buona scelta. Il "leone di Neghelli", come amava farsi chiamare, era considerato un esperto di guerre coloniali, ma ormai questo conflitto non si poteva più definire "coloniale". Non si trattava più di affrontare sprovveduti ribelli indigeni, bensì di combattere una guerra europea, moderna e meccanizzata, trasferita per esigenze strategiche nel territorio africano. Graziani non si rivelò all'altezza della situazione. Rintanato nel suo comando, collocato prudentemente a 120 chilometri dalle prime linee, il "leone di Neghelli" rinviò di giorno in giorno l'inizio dell'offensiva, malgrado le esortazioni di Mussolini e pur disponendo di forze superiori (250.000 uomini contro non più di 40.000). Si mosse soltanto verso la metà di settembre e a Londra si visse un altro momento di panico. Si riteneva che il canale di Suez fosse ormai a portata di mano degli italiani. Graziani, invece, si fermò inspiegabilmente a Sidi el Barrani, uno sperduto villaggio a 100 chilometri di deserto dal punto in cui era partito. Malgrado le invettive del Duce ("Non valeva la pena di avere tutto quello che avete richiesto e di disporre di 15 divisioni per portare a casa soltanto Sidi el Barrami") sostò lì per mesi. Anzi perdette tempo ad allungare (e asfaltare) la via "Balbia" che percorreva l'intera costa libica e si preoccupò di fortificarsi nella zona come se fosse al comando non di un esercito in marcia, ma di una forza di occupazione. A questa "stranezza" di Graziani fece seguito una "stranezza" di Mussolini. Il 28 ottobre 1940, senza alcuna motivazione strategica, gli italiani attaccarono la Grecia convinti, come annotava Galeazzo Ciano nel suo diario, di "giungere a Salonicco in ventiquattr'ore". Invece resteranno impantanati sul confine greco-albanese fino all'aprile del 1941. La fortuna stava dunque per girare dalla parte degli inglesi. Tuttavia, nel settembre del '40, a Londra regnava ancora un'atmosfera molto pesante. Martellata dai bombardieri tedeschi e minacciata da un'invasione, l'Inghilterra non era assolutamente in grado di rinforzare le sue posizioni coloniali. Inoltre dovette affrontare un singolare problema diplomatico. All'inizio del conflitto, Hailè Selassiè, in esilio nella capitale britannica, si era precipitato a Khartum per essere pronto a rientrare nella sua Addis Abeba, nella convinzione che sarebbe stata quanto prima liberata. Ma ora che le sue previsioni ottimistiche erano naufragate, la sua presenza divenne ingombrante. Si temeva che potesse aizzare il malcontento fra gli indigeni e provocare ancora di più gli italiani. Ci mancò poco che non lo rimettessero su un aereo per rispedirlo a Londra. Le cose mutarono nell'autunno quando la "battaglia d'Inghilterra" si concluse con la vittoria britannica. 1 tedeschi rinunciarono all'operazione "Leone marino", lo sbarco nelle isole britanniche, i bombardamenti aerei diventarono per gli inglesi più sopportabili e la minaccia italiana contro Suez si rivelò inconsistente. A questo punto gli inglesi reagirono con determinazione passando al contrattacco sull'unico fronte ancora "acceso" tenuto dai soli italiani. Il 9 dicembre, il generale Wavell, ormai rifornito di mezzi corazzati in misura adeguata, attaccò le fortificazioni di Sidi el Barrani, che Graziani aveva predisposto come per le guerre coloniali del XIX secolo. Le nostre postazioni vennero spazzate via come da un uragano e la nostra disfatta fu colossale. Perdendo appena 624 soldati, gli inglesi catturarono 40.000 prigionieri (la metà dell'armata italiana), e si impadronirono di 237 pezzi d'artiglieria e di 73 carri armati. Poi partirono alla conquista della Libia lungo la strada asfaltata che pareva essere stata preparata per favorirli. Pagina 86
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Per il nostro paese fu un terribile risveglio. Le ambizioni fasciste di fare dell'Italia una grande potenza si rivelarono delle vane ostentazioni. Mussolini, avvilito e deluso dei suoi generali, così commentò il disastro: "È la materia prima che è scarsa. Persino Michelangelo aveva bisogno del marmo. Se avesse avuto solo argilla sarebbe stato semplicemente un vasaio". Mentre il "vasaio" si lamentava e invocava l'aiuto tedesco in Libia, a Londra si festeggiava. Dopo lunghi mesi di insuccessi e disfatte, gli inglesi avevano ottenuto la loro prima grande vittoria. Ma invece dì vibrare il colpo di grazia agli italiani in Libia - una decisione di cui, dopo l'arrivo di Rommel, si sarebbero amaramente pentiti -Wavell ricevette l'ordine di inviare le sue migliori divisioni indiane nel Sudan. Era giunta l'ora di affondare una volta per tutte il fragile impero italiano. Nell'impero le luttuose notizie giunte dagli altri fronti raffreddarono gli entusiasmi dell'estate e aprirono ampi spazi allo scoramento e all'angoscia. In Europa il "blitz" era fallito e la guerra prometteva di durare più a lungo del previsto. Il tempo lavorava per gli inglesi che si erano subito riaffacciati sui confini sudanesi. Il loro primo tentativo, l'attacco al forte di Gallabat nel novembre del 1940, si risolse in un disastro, perché gli italiani avevano predisposto un eccellente sistema difensivo. Il futuro appariva tuttavia molto oscuro. L'isolamento dalla madrepatria diventava di giorno in giorno più pesante. Le scorte diminuivano a vista d'occhio e non esistevano possibilità di rifornimento. Scarseggiavano le munizioni, i medicinali, i pezzi di ricambio e soprattutto gii pneumatici indispensabili per l'impiego dei veicoli sulle grandi distanze. Per nascondere alla ricognizione aerea l'effettivo stato delle cose, si ricorse anche al trucco di camuffare innocui veicoli da carri armati. Gli inglesi, comunque, spadroneggiavano sui cieli abissini. "Oggi" comunicò sconsolato il duca d'Aosta al comando supremo di Roma "in tutto l'Impero che è vasto sei volte l'Italia, abbiamo sei batterie contraeree (di cui quattro antiquate) e quattro batterie da 20 mm. Di caccia efficienti ce ne restano sì e no una trentina". Ma a Roma avevano ben altro da pensare che aiutare l'impero e, d'altra parte, era impossibile fare giungere rifornimenti attraverso Suez. Tuttavia, poiché il viceré riteneva indispensabili almeno 10.000 tonnellate di benzina e almeno 20.000 pneumatici, qualcuno a Roma brigò in maniera da ottenere che l'alleato, benché ancora neutrale, Giappone, spedisse da Tokyo i rifornimenti essenziali richiesti. Qualche tempo dopo, la nave nipponica Yamayuri maru entrava nel porto ormai deserto di Mogadiscio accolta con comprensibile soddisfazione: trasportava 2500 tonnellate di benzina avio, 200 di oli lubrificanti, oltre alle preziosissime gomme per autocarro che erano state richieste. Ma la soddisfazione si tramutò in disperazione quando si scoprì che gli pneumatici non si adattavano ai cerchioni dei nostri autocarri. Qualcuno, a Roma, aveva sbagliato le misure. In un paese serio e per giunta in guerra, commenta Franco Bandini rievocando questo singolare episodio, quel qualcuno avrebbe dovuto essere fucilato. Invece non accadde nulla e c'è anche da aggiungere che quando, alcuni mesi dopo, gli inglesi occuperanno Mogadiscio, troveranno nei nostri depositi ancora intatti più di seimila tonnellate di carburante. Mentre a Addis Abeba gli italiani, sopravvalutando immensamente la forza avversaria, già consideravano perduta la partita prima ancora di cominciarla, gli inglesi si erano rapidamente riorganizzati. Ai primi reparti messi frettolosamente insieme richiamando alle armi i coloni, si aggiunsero due divisioni indiane comandate dal generale Neath e provenienti dal fronte libico. Nel Sudan fu anche approntato un reparto speciale destinato a svolgere un ruolo da protagonista nella campagna d'Etiopia. Si trattava della Gazelle Force, un corpo autonomo motorizzato, dotato di artiglieria da campagna e guidato dal colonnello Messervy. Del contìngente faceva anche parte uno di quei personaggi avventurosi e romantici che la Gran Bretagna spesso produce. Era il maggiore scozzese Orde Wingate, un esperto di guerre coloniali che era stato prudentemente rifornito di un milione di sterline d'oro (la famosa "cavalleria di san Giorgio") per fomentare e organizzare in Etiopia la guerriglia contro gli italiani. Orde Wingate svolgerà un ruolo importantissimo nella riconquista dell'Abissinia. Comandante di una formazione mista, chiamata Gideon Force, raccolse attorno a sé i terribili sciftà, metà partigiani e metà predoni, che vivevano alta macchia dal tempo dell'occupazione italiana e che, per voto, da quell'epoca non si erano più tagliati capelli e barba. Il loro aspetto doveva essere terrificante se si considera che usavano portare appese al collo e alla cintura le collane composte di orecchie e di testicoli tagliati ai nostri soldati. Per contrastare l'eventualità di un contrattacco britannico, il comando italiano Pagina 87
arrigo petacco. FaccettaNera.txt non prese i provvedimenti che sarebbero stati necessari per meglio utilizzare le forze disponibili. "Invece di procedere ad un graduale e dignitoso abbandono di spazio" osserverà in seguito il generale Ugo Pini, allora comandante di una grande unità, "per concentrarsi in un sicuro ridotto offensivo centrale, sull'altopiano etiopico, che consentisse la possibilità di una lunga resistenza autonoma, vennero invece date disposizioni per battaglie e scaramucce di retroguardia: queste troppe volte eluse, quelle perdute in partenza". Con il risultato che le forze italiane rimasero distribuite su enormi scacchieri offrendo così al nemico l'opportunità di concentrare le proprie masse d'attacco laddove !e nostre difese risultavano più deboli. Di conseguenza, mentre gli italiani attendevano fatalisticamente uno scontro che non lasciava prevedere risultati positivi, gli inglesi erano ormai pronti all'attacco. Due piccoli eserciti furono frettolosamente organizzati lungo la frontiera settentrionale del Sudan e lungo quella meridionale del Kenia. L'armata del Nord era composta di inglesi, indiani e indigeni al comando del generale William Platt, detto "il Kaid". Quella del Sud, formata da coloni e sudafricani bianchi rinforzati da folti contingenti indigeni di Kikuyu e Bantu, era comandata dal generale Alan Cunningham, un ex compagno di scuola del duca d'Aosta, all'epoca in cui quest'ultimo studiava in Inghilterra. Per la verità, di ex compagni di scuola il viceré d'Etiopia ne aveva più d'uno tra le file nemiche. C'era Sir John Mariott, comandante di una brigata indiana, nonché capo del Servizio informazioni per l'Eritrea, e Sir Francis Rennell Rodd, che nella primavera del 1940 era stato spedito al Cairo e poi a Khartum con incarichi imprecisati, ma facilmente intuibili se consideriamo il suo passato. Sir Francis, figlio di Sir James, ambasciatore britannico a Roma dal 1908 al 1921, era amico personale di Amedeo. Avevano studiato insieme sia al Saint Andrew College sia a Oxford. Durante la prima guerra mondiale, quale ufficiale dell'Intelligence Service, era stato addetto alla III Armata italiana comandata dal duca d'Aosta Emanuele Filiberto, della quale faceva parte anche suo figlio Amedeo con il grado di sottotenente. Terminato il conflitto europeo, Francis Rennell Rodd, visse a lungo in Italia e frequentò la famiglia Aosta, alla quale certamente doveva il Collare dei santi Maurizio e Lazzaro che gli era stato conferito da Vittorio Emanuele III e che lui portava con grande compiacimento. Lo storico Franco Bandini, attento indagatore di misteri, aggiunge uno sconcertante particolare. I Rennell Rodd, padre e figlio, avevano un altro amico in Italia, quell'Andrea Finocchiaro Aprile, noto esponente della massoneria che, proprio su consiglio inglese, si fece banditore dell'indipendenza siciliana fra il 1943 e il 1944, sotto la protezione del primo governatore militare dell'isola, che era lo stesso Sir Francis. Come si vede, ce n'è d'avanzo per imbastirci sopra un intrigante castello di sconcertanti ipotesi. D'altra parte, poiché le coincidenze non sono sempre fortuite, questa curiosa "guerra fra compagni di scuola" non mancherà in seguito di suscitare commenti e sospettose interpretazioni. Ma a questo punto vale la pena di lasciare i fronti etiopici congelati nell'attesa degli eventi, e di ritornare per un momento in Italia, a Roma, fra gli intrighi di corte e di salotto che, con il precipitare degli avvenimenti bellici, si erano ancor più aggrovigliati e non saranno mai chiariti del tutto. Diamo perciò la parola a un importante testimone: Giovanni Ansaldo, il più bravo, il più attento e anche il più onesto giornalista dell'epoca. Quelle che seguono sono alcune pagine del suo libro L'Italia Com'era, pubblicato nel 1992, dopo la sua morte: Alla vigilia di questa guerra, noi ricordiamo di avere udito un discorso strano. Chi lo faceva era un uomo legato al fascismo ma, più ancora, devoto alla dinastia; e dotato di quella seconda vista che qualche volta, in politica, suggerisce espedienti e vie d'uscita dalle situazioni più disperate. "Questo" diceva questo personaggio "è il grande momento degli Aosta. La duchessa, quarant'anni fa, ha sognato il trono d'Italia per il suo primogenito; e poi è tutto finito in niente, perché nacque il principe Umberto. Ma, ora, il trono d'Italia è li, dinnanzi ad Amedeo. Il duca d'Aosta figlio, non ha che da allungare la mano per prenderlo. Egli, laggiù ad Addis Abeba, e sua madre a Capodimonte, sanno benissimo che questa guerra sarà un baratro in cui sprofonderemo tutti. Amedeo d'Aosta non si fa illusioni di difendere l'Impero. L'ha detto chiaramente ancora in aprile a Ciano. E sua madre non se ne fa neanche lei sulla possibilità di difendere l'Italia. Si tratta, perciò, per il duca d'Aosta, di essere audace. Appena Mussolini dichiara la guerra, lui, da Addis Abeba, dichiari la pace; si rifiuti cioè di attaccare l'Inghilterra, tratti un armistizio per conto proprio. A lui sarà facilissimo mettere a posto quattro esaltati e la gran massa dei militari lo seguirà. Gli inglesi, da parte loro, lo lasceranno risiedere e governare l'Impero. A catastrofe avvenuta in Pagina 88
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Europa, egli sarà acclamato Re, o almeno luogotenente del regno, e la dinastia sarà salva e potrà trattare con i vincitori..." Abbiamo qualche ragione dì ritenere che il discorso strano - ma poi non tanto strano - sia stato sussurrato a Capodimonte alla madre e in Addis Abeba al figlio. Ma fu come se l'aria non avesse sentito, e come se quei suggerimenti spregiudicati non avessero mai sfiorato il timpano dei due principi. Egli, il figlio, Amedeo d'Aosta, laggiù in Africa, avuto l'ordine di iniziare le operazioni di guerra, le iniziò senza neppure una semplice mormorazione; e la madre, a Capodimonte, "si chiuse" più che mai in attesa di un ritorno impossibile di lui dall'Africa. Entrambi capivano, entrambi sapevano; ma neppure per un attimo si fermarono a meditare sul "pronunciamento" che, anticipando l'armistizio di tre anni e mezzo, avrebbe forse potuto portare lui al Quirinale, anziché morire prigioniero in Kenya. In questa fedeltà della duchessa al capo della dinastia, ch'essa non amava e da cui non era amata, in questa lealtà nell'ora della prova, sta la grandezza morale della duchessa d'Aosta; tanto più alta, se la si raccosta alle antipatie ormai antiche tra i due rami della casa Savoia, al contrasto latente sempre esistito tra il Quirinale e il palazzo della Cisterna* (* I duchi d'Aosta erano anche conti della Cisterna.) e alle speranze accarezzate in segreto dalla donna orgogliosa quando il principe Amedeo era piccolo e al Quirinale non v'erano bambini. Forse, allora, nel tempo felice della sua prima maternità, vagheggiò di vedere suo figlio sui trono d'Italia; tanto più onore, dunque, a lei, che, mortole il figlio, caduta la dinastia, dispersi per il mondo tutti i Savoia, restò ultima, tenacemente, sulla terra italiana,* (*Elena d'Orléans fu l'unica Savoia a non fuggire dopo l'8 settembre 1943, Rimase a Napoli e i tedeschi la rispettarono.) cacciata da Capodimonte si stabilì al Quisisana di Castellammare in vista del golfo di Napoli; dove nel 1951 morì lasciando l'ordine che il suo corpo fosse ravvolto nella bandiera in cui a Nairobi fu ravvolto suo figlio. Ora, a parte le considerazioni che si possono fare a proposito dì questa singolare rivelazione di Giovanni Ansaldo, il quale era amico intimo di Ciano e bene introdotto negli ambienti politici del tempo, è effettivamente molto probabile che qualcuno abbia "sussurrato" qualcosa nell'orecchio dello sfiduciato viceré nei mesi che precedettero l'offensiva britannica contro l'impero etiopico. Qualcuno che, conoscendo le sue tendenze filobritanniche e il suo aristocratico antifascismo, nonché le antiche ambizioni degli Aosta, poteva prospettargli l'eventualità che, a guerra finita e perduta, sarebbe stata necessaria un'"alternativa" alla Casa Savoia per conservare il trono. E chi meglio dei suoi antichi "compagni di scuola" (per giunta tutti membri attivi dell'Intelligence Service) avrebbe potuto farlo? La loro sospetta presenza attorno ai confini dell'impero minacciato potrebbe infatti non essere stata casuale. Siamo, naturalmente, nel campo delle ipotesi e tuttavia resta il fatto che, se questi "sussurri" ci furono, Amedeo d'Aosta non gli diede ascolto. Ciò è confermato da un episodio, questo sì ampiamente documentato, che si presta a essere considerato la punta emergente di un misterioso iceberg "tropicale". Il 15 dicembre 1940 una colonna autocarrata del generale Alan Cunningham penetrò nella Somalia italiana e attaccò il presidio di El Uach travolgendolo con incredibile facilità, La brigata indigena che lo difendeva si dissolse senza combattere lasciando al nemico armi, munizioni e persino la cucina ancora funzionante. Fatto ancora più grave è che il generale Gustavo Pesenti, comandante di quello scacchiere e governatore della Somalia, neppure avvertì il viceré dell'offensiva. Amedeo, infatti, apprese la notizia ascoltando Radio Londra. Esterrefatto, saltò su un aereo e si precipitò a Mogadiscio. Ma qui lo attendeva un'altra sorpresa. Il generale Pesenti, invece di difendersi per lo smacco subito, contrattaccò affermando senza ambagi che era inutile continuare a combattere perché la guerra era ormai perduta. Poi propose senza mezzi termini al viceré di firmare la pace separata. "Noi affretteremo così" gli disse il generale "la fine del conflitto che gli italiani non sentono e salveremo l'Impero che ci è costato tanti sacrifici." Amedeo ammutolì, come narra un testimone. Poi reagì con fermezza. "Basta!" gridò. "Meriteremmo di essere fucilati entrambi, lei per le parole che ha pronunciato, io per averle ascoltate." La discussione si chiuse e non ebbe seguito. Rientrato a Addis Abeba, Amedeo ci pensò sopra qualche giorno poi, il 27 dicembre, sollevò il generale dal comando delle truppe, ma non dall'incarico di governatore, che gli venne tolto soltanto più di un mese dopo, il 31 gennaio 1941. Il 4 febbraio, senza un rimprovero ufficiale, Gustavo Pesenti rientrò a Roma e non ebbe problemi. È comunque utile ricordare che, verso la fine del 1942, lo stesso Pesenti realizzò, d'intesa con gruppi antifascisti italiani e francesi, un accordo con i marescialli Badoglio e Caviglia, per trasferirsi nel Pagina 89
arrigo petacco. FaccettaNera.txt Nordafrica francese con il compito di organizzare un "esercito italiano di liberazione" reclutando volontari fra i nostri prigionieri di guerra. Il progetto fallì perché Pesenti venne arrestato dal nostro controspionaggio. XIV SI AMMAINA A GONDAR L'ULTIMO TRICOLORE All'inizio del 1941, in Europa, la bandiera rossa con la croce uncinata sventolava dalle rive dell'Atlantico alle sponde del fiume Bug, il nuovo confine russo-tedesco. Il potente motore della macchina bellica germanica era in "folle". Dovunque erano giunte, le armi della Wehrmacht tacevano in attesa degli eventi futuri. Soltanto i fronti italiani erano "accesi". In Grecia, le nostre divisioni si trovavano in gravi difficoltà rispetto all'imprevista ed eroica resistenza dell'esercito ellenico; in Africa settentrionale battevano addirittura in ritirata di fronte alle forze britanniche che avevano invaso la Cirenaica, mentre nell'impero, totalmente isolato dalla madrepatria, attendevano rassegnate il colpo finale. Svanito il sogno della guerra lampo, ora si dovevano fare i conti con l'assoluta impreparazione ad affrontare un conflitto in cui l'Italia si era gettata con irresponsabile avventatezza. Mussolini, che aveva orgogliosamente annunciato di voler condurre una "guerra parallela", ovvero autonoma, fu costretto a umiliarsi di fronte a Hitler e a chiedergli aiuto. Anche l'Inghilterra, rimasta sola (con la Grecia) a combattere contro le forze dell'Asse, aveva molti problemi, soprattutto nel rifornimento dello scacchiere del Mediterraneo dove si era trasferito il cuore del conflitto. Il generale Wavell, comandante supremo britannico per il Medio Oriente, era al centro di una situazione molto delicata. Doveva contemporaneamente provvedere a rafforzare l'esercito greco che aveva un estremo bisogno di uomini e di mezzi, incalzare gli italiani sul fronte libico e inoltre proteggersi le spalle mettendo le nostre forze in Etiopia nell'impossibilità di nuocere. D'altra parte, l'occupazione dell'impero italiano non era per gli inglesi soltanto una semplice questione di prestigio, perché in tal caso avrebbero potuto attendere tranquillamente che questo cadesse da solo come un ftutto maturo. Impadronirsi subito di Mogadiscio, Berbera e Massaua, significava conquistare il completo controllo del mar Rosso, indispensabile per far affluire rinforzi all'Egitto senza incorrere nelle insidie che continuava a presentare la navigazione nel Mediterraneo. L'esigenza si era resa ancor più impellente dopo la promulgazione della legge "Affitti e Prestiti" da parte del governo americano. Una clausola infatti stabiliva che i convogli americani di rifornimento navigassero in mari sicuri. E il mar Rosso ancora non lo era. La grande offensiva britannica si scatenò ai primi di gennaio su due scacchieri, a nord sul confine eritreo e a sud sul confine somalo. Fu invece trascurato il settore centrale, essendo strategicamente il meno importante. Vediamo prima ciò che accadde a nord. Nel bassopiano sudanese, le truppe italiane non ressero a lungo all'urto dell'agile Gazelle Force rinforzata dalle due divisioni indiane. Due giorni dopo Cassala venne riconquistata e gli italiani si ritirarono ordinatamente opponendo una tenace resistenza. Fu in quei giorni che si verificò l'episodio eroico del tenente Amedeo Guillet, comandante di un reparto di cavalleria indigena. Per scompaginare le linee inglesi, egli si produsse in una delle due ultime cariche della storia (l'altra fu quella compiuta nell'agosto del 1942 dal reggimento Savoia cavalleria a Isbuscenskij, in Russia). A briglia sciolta e sciabola sguainata, il tenente riuscì infatti a sfondare lo schieramento nemico, sorpreso e ammirato per tanta audacia. Ecco come l'assalto fu descritto dall'ufficiale inglese che lo subì: Quando la nostra batteria prese posizione, un gruppo di cavalleria indigena, guidata da un ufficiale su un cavallo bianco, la caricò dal Nord, piombando giù dalle colline. Con coraggio eccezionale questi soldati galopparono fino a trenta metri dai cannoni, sparando di sella e lanciando bombe a mano, mentre i nostri cannoni, voltati a 180 gradi sparavano a zero. Le granate scivolavano sul terreno senza esplodere, mentre alcune squarciavano addirittura il petto dei cavalli. Ma prima che quella carica dì pazzi potesse essere fermata, i nostri dovettero ricorrere alle mitragliatrici. Naturalmente, dopo la carica Guillet non poté tornare indietro e rimase isolato, ma continuerà, unico bianco tra i suoi fedeli ascari, che lo soprannominarono communtar al sciaitan, "comandante Diavolo", a condurre una sua guerra privata, travestito da guerriero arabo come il leggendario Lawrence d'Arabia, finché non riuscirà a rientrare avventurosamente in Italia, dopo l'8 settembre 1943, per combattere ancora contro i tedeschi. Quella di Amedeo Guillet fu una delle tante gloriose e poco conosciute epopee di cui si resero protagonisti altri eroici comandanti italiani di bande indigene. Come il capitano Castone Gianni e il Pagina 90
arrigo petacco. FaccettaNera.txt sergente (poi generale, decorato con medaglia d'oro) Angelo Bastiani. Incalzato dalle superiori forze nemiche, lo schieramento italiano fu infine spezzato in due tronconi. Da una parte la colonna indigena del generale Lorenzini che, dopo avere combattuto eroicamente ad Agordat e subito perdite ingenti, si vide costretta a ripiegare in direzione di Cheren. Dall'altra le truppe nazionali di Nasi che dovettero evacuare il forte di Gallabat e quindi ripiegare in direzione di Gondar. Tuttavia, alcuni reparti resistettero ancora sulle alture di Laquatat e di Cochen, finché gli Highlanders scozzesi non sfondarono definitivamente le nostre linee. Ora per gli inglesi la strada verso l'Eritrea era aperta e gli italiani si concentrarono a Cheren, una piazzaforte naturale a 3500 metri d'altezza, il cui antemurale roccioso si prestava per una battaglia di retroguardia. E qui, infatti, il comandante della piazza, generale Nicola Carnimeo, decise di operare il massimo sforzo per fermare l'avanzata nemica. Uomo di grandi capacità militari e di notevole forza d'animo, anche Carnimeo si lamenterà, a posteriori, degli errori compiuti dai comandi che, invece di raggruppare tutte le forze disponibili, le lasciarono distribuite "a chiazze" nei vari settori rendendole dovunque vulnerabili. Il generale riuscì comunque a raccogliere altri 5000 uomini che si unirono ai difensori del baluardo. Trascorsero cinque giorni di relativa calma, poi, il 5 febbraio, il generale Platt fu pronto per il nuovo attacco. Al momento dello scontro decisivo, Carnimeo disponeva di 13.000 soldati, più della metà indigeni, mentre le forze del generale britannico consistevano in due divisioni indiane con 28.000 uomini e in 6000 militari della Gideon Force. Più forti per numero e per mezzi, gli inglesi fecero anche ricorso alla guerra psicologica. Per demoralizzare i nostri soldati assediati, tutte le sere trasmettevano con gli altoparlanti romantiche canzoni italiane, brani di opere liriche e notizie delle nostre sconfitte in Grecia, in Libia e nel Mediterraneo. Non mancava neppure la pioggia di volantini propagandistici e di salvacondotti per gli ascari che volevano disertare. E infatti aumentarono le defezioni. La durissima battaglia, cominciata il 5 febbraio, si protrasse senza soste fino al 27 marzo. Alpini, bersaglieri, camicie nere e ascari combatterono eroicamente, pronti a farsi ammazzare piuttosto che cedere. In cielo andarono perduti ben 220 aeroplani, ossia quasi tutta la nostra forza aerea. Alla fine rimase solo il vecchio CR 42 dell'intrepido capitano Visintini che continuò, di tanto in tanto, ad affacciarsi per ostacolare le squadriglie nemiche da caccia e da bombardamento. In soli tre giorni, fra il 23 e il 26 marzo, gli italiani registrarono 1000 morti e 2300 feriti. Mancavano viveri, munizioni, medicinali e i difensori erano allo stremo quando, la sera del 26, giunse ai superstiti l'ordine di ripiegare su Ad Teclesan. La battaglia di Cheren era finita. Il generale Carnimeo tentò un ultimo scontro di arresto proprio a Ad Teclesan, ma gli inglesi superarono anche le ultime resistenze e il 31 raggiunsero Asmara dove si svolse la mesta cerimonia della resa. Massaua cadde il 7 aprile e quattro giorni dopo il presidente americano Roosevelt dichiarò navigabile il mar Rosso. La via dei rifornimenti americani alle truppe britanniche dell'Africa settentrionale era così assicurata proprio quando la controffensiva scatenata da Rommel in Libia la rendeva indispensabile. Sul fronte sud le cose andarono ancora peggio. Prima dell'offensiva, il generale Carlo De Simone, chiamato a sostituire Gustavo Pesenti, ordinò l'evacuazione dell'Oltre-giuba e della città di Chisimaio, e schierò le sue forze lungo i 200 chilometri del fiume Giuba. Dall'altra parte del fiume, verso il confine con il Kenia, fu lasciata soltanto una banda di irregolari somali, detta Harti, comandata da un bravissimo ufficiale italiano, il capitano Castone Gianni, di cui si è già detto. La banda, che si manteneva da sola razziando i villaggi kikuyu o cibandosi con la carne degli elefanti uccisi, aveva compiti di perlustrazione e informazione. E le informazioni non tardarono a diventare drammatiche. Il 6 febbraio il comandante Gianni annunciò di essere stato attaccato da forze immensamente superiori: l'offensiva nemica sul fronte meridionale era cominciata. La prima battaglia, se così vogliamo chiamarla, fu semplicemente ridicola. Il generale Cunningham, con le sue fanterie appoggiate da carri armati, autoblinde e semoventi, si trovò di fronte la sola banda Hard composta da 160 "straccioni", come li chiamava il capitano Gianni. E tuttavia, volteggiando tra le file nemiche, essa riuscì a fermarne l'avanzata fino al 18 febbraio, quando si "sganciò" per ripiegare verso nord. Ora anche la strada verso Mogadiscio era aperta. Dopo un ultimo tentativo di resistenza a Buio Burti, le nostre forze indigene (su 35.000 soldati soltanto 4000 erano nazionali) disertarono in massa. Non restava dunque più nulla da fare. Non un solo aereo italiano si fece vivo Pagina 91
arrigo petacco. FaccettaNera.txt per attaccare la lunga colonna che si snodava nella piana aperta e senza riparo, mentre alle truppe keniote e sudafricane si aggiungevano man mano le formazioni etiopiche degli sciftà. Occupata Mogadiscio, Cunningham proseguì la sua marcia facile e vittoriosa: il 26 marzo cadde Harar e il 29 fu la volta di Dire Daua. Al comandante britannico non restava che compiere il grande balzo verso Addis Abeba. Verso lo stesso obiettivo procedeva da nord, a dorso di cammello, anche la Gideon Force, alla quale si era aggregato con il suo seguito lo speranzoso Hailè Selassiè. L'operazione a tenaglia stava funzionando con perfetta sincronia. All'alba del 3 aprile 1941, nel ghebì di Addis Abeba, Amedeo d'Aosta tenne il suo ultimo consiglio di guerra. Erano presenti i capi civili e militari. Il viceré era indeciso fra tre soluzioni: ritirarsi nel Galla e Sidama, dove il generale Cazzerà disponeva di 50.000 uomini bene armati e relativamente freschi; ripiegare a Gondar dove si era concentrato il generale Nasi; oppure raccogliere gli ultimi soldati a sua disposizione per costituire un'estrema ridotta sull'Amba Alagi nell'altopiano abissino. Fu il capo di stato maggiore Trezzani a battersi per quest'ultima soluzione e il viceré l'accettò, probabilmente per il richiamo romantico esercitato da questo luogo così strettamente legato alla nostra storia. Considerando la situazione, neppure le altre scelte davano adito a grandi speranze, ma quella dell'Amba Alagi fu certamente la peggiore. Così facendo, Amedeo si chiudeva in una trappola senza vie d'uscita isolandosi del tutto dalle truppe di Cazzerà e di Nasi. In seguito, infatti, le critiche non mancheranno. Quella più dura venne dal maresciallo Caviglia che scrisse nel suo diario: "Dal punto di vista militare la scelta dell'Amba Alagi fu una ragazzata. Mantenendo le sue forze divise, il duca doveva necessariamente perdere tutto". Frattanto, il 6 aprile, la Gideon Force era giunta a Debra Marcos. Orde Wingate intendeva concedere un periodo di riposo alla sua "orda" selvaggia, ma quando lo informarono che Cunningham stava per raggiungere Addis Abeba, cercò di forzare la marcia in modo da arrivarci per primo. A fermare la sua corsa fu il generale Platt, spinto da motivi umanitari. Temeva che la conquista di Addis Abeba da parte dei sanguinari sciftà avrebbe scatenato una feroce carneficina fra i 40.000 italiani ancora residenti nella capitale. La solidarietà di razza ebbe insomma il sopravvento sull'alleanza. Anche ad Asmara, gli inglesi si erano comportati nella stessa maniera disponendo che la PAI, la polizia italiana, continuasse a mantenere l'ordine anche dopo l'occupazione. Hailè Selassiè entrò trionfalmente nella capitale riconquistata il 5 maggio 1941, esattamente cinque anni dopo quel maggio del 1936, in cui era stato costretto ad abbandonarla. Per prima cosa, volle sostare in preghiera nella chiesa di Santa Maria. Preceduto da Orde Wingate, in sella a un bellissimo cavallo bianco, il negus, che viaggiava a bordo di una vecchia berlina Alfa Romeo già appartenuta a ras Hailù, fu accolto da un caldo tripudio popolare. Davanti al ghebì imperiale, il generale Cunningham aveva schierato come picchetto d'onore il reggimento sudafricano dei King's African Rifles. Comprensibilmente commosso, il sovrano restituito al suo trono pronunciò in quell'occasione un discorso saggio, pacato e molto nobile. Invitò i suoi sudditi ritrovati a "non commettere nessun atto di crudeltà, come quelli che il nemico ha commesso contro di noi fino ad oggi". Sarà ascoltato. Rinchiuso nella sua ridotta dell'Amba Alagi, Amedeo d'Aosta attendeva rassegnato la sua sorte. Pur di restare fra i suoi soldati aveva rifiutato di imbarcarsi sull'ultimo trimotore S 79 ancora in grado di portarlo in salvo. Quello che gli interessava salvare era l'onore militare suo e della patria. La resistenza dell'Amba Alagi durò poco più di un mese. A metà maggio, il duca confidò al giornalista Alfio Beretta che l'aveva seguito sull'amba: "Non importa quanto potremo resistere: conta solo fare il proprio dovere. E, se si deve cadere, cadere in piedi". Alla vigilia della resa definitiva, quando ormai tutto era andato perduto, disse ancora al generale Rossi: "Non credevo che si potesse soffrire tanto. Domani lasceremo questi luoghi con i nostri morti e per noi comincerà la prigionia... Chissà se in Italia capiranno!". I comandanti inglesi, invece, compresero il dramma dell'uomo e gli concessero l'onore delle armi. Era il 17 maggio 1941. Il picchetto d'onore che salutò gli italiani, vinti, ma non umiliati, era anch'esso composto da soldati del King's African Rifles, e sul desolato paesaggio africano si svolse una scena di cavalleria militare d'altri tempi. La mattina era nebbiosa. Il viceré decaduto, che indossava l'uniforme di ordinanza, assistette sull'attenti alla cerimonia dell'ammainabandiera mentre le cornamuse suonavano Drum and bagpipes gave my heart a turn. I reparti italiani, armati, sfilarono al passo, seguiti da Amedeo che scese dall'amba avendo alla sinistra il generale inglese Mayne e dietro un sottufficiale sudafricano con il cappello largo alla boera e uno scudiscio sotto Pagina 92
arrigo petacco. FaccettaNera.txt l'ascella. Nel suo diario, in data 19 maggio, il duca d'Aosta così descrive la malinconica cerimonia: Tutta la mattina i reparti si riordinano: i soldati si sono ripuliti; perfino divise fresche sono uscite non si sa da dove. Barbieri al lavoro hanno ridato alle facce un aspetto decente. Poi è cominciata la sfilata. Tre reparti inglesi, uno bianco, uno nero, uno rosso (indiano) schierati in ordine perfetto. L'atto finale è stato eroico e l'epilogo perfetto. Più brutale, ma forse più vera, la versione del giornalista Quirino Maffi presente alla scena: "Gli inglesi sembravano usciti da una lavanderia, mentre gli italiani apparivano come un manipolo sporco ed eterogeneo, i relitti di un naufragio". Il viceré venne poi trasferito in Kenia con cinque ufficiali d'ordinanza, il medico dì fiducia Gustavo Borra e due attendenti, i soldati Gallini e Campi. A ricevere il "prigioniero" nell'aeroporto di Nairobi fu il suo ex compagno di scuola Sir Francis Rennell Rodd. Dopo l'occupazione di Addis Abeba e la capitolazione dell'Amba Alagi, l'Amhara, dove si era ritirato con le sue truppe il generale Guglielmo Nasi, rimaneva l'ultima regione etiopica ancora in mano agli italiani. Gondar, il capoluogo, sorge in una valle circondata da montagne tagliate tanto regolarmente da sembrare delle muraglie. Questo sbarramento naturale non servì comunque a fermare gli inglesi che provenivano dal Sudan. Il generale Nasi aveva organizzato la resistenza predisponendo una serie di capisaldi in un raggio di 50-80 chilometri attorno alla città: Debra Tabor, Uolchefit, Ulag, Chercher e Sella Culquaìber. Malgrado l'isolamento, Nasi era deciso a resistere, sia pure, come racconterà lui stesso, "con truppe malnutrite, male equipaggiate e quasi scalze; con poche armi automatiche in gran parte guaste, con pseudocarri armati di brevetto locale, con artiglierie vetuste e logore, con pochi mezzi di trasporto, senza aerei, con pane nero, grumoso, senza tabacco e senza notizie dei familiari". Per i primi mesi il generale riuscì ad amministrare con mano ferma l'isola superstite del nostro impero. Organizzando il mercato indigeno e formando squadre di cacciatori e di pescatori (nel lago Tana), trovò di che alimentare le sue truppe, garantendo una razione giornaliera individuale di 300 gr di pane, 400 di carne, 200 di pesce e verdura. La frutta era abbondante. Isolati com'erano dalle grandi direttrici logistiche, gli italiani, salvo qualche sporadico attacco sempre respinto degli sciftà, furono per qualche tempo trascurati dagli inglesi. Ma in seguito costoro decisero di liberarsi definitivamente di quel bubbone pericoloso. Il presidio di Debra Tabor, attaccato da terra e dal cielo, cadde il 6 luglio, al termine di aspri combattimenti. Anche quello di Uolchefit, dopo avere sostenuto accaniti attacchi e sbaragliato reparti nemici, dovette arrendersi il 27 settembre, stremato da 93 incursioni aeree. Ai superstiti, i britannici concessero gli onori militari. L'obiettivo più importante per gli inglesi era rappresentato da Sella Culquaìber, tenuto da un battaglione di camicie nere, un battaglione coloniale e da elementi del genio e della sussistenza: 2800 uomini in tutto, ai quali si era unito successivamente un gruppo di carabinieri con militi nazionali e zaptiè libici, cui era affidato il controllo della rotabile per Gondar. Contro questo presidio la lotta fu lunga e durissima. Soltanto il 21 novembre, dopo un'incursione aerea, cui presero parte una sessantina fra caccia e bombardieri, e dopo innumerevoli e sanguinosi assalti all'arma bianca, gli italiani furono travolti e costretti alla resa. Dopo la fine dei combattimenti, gli inglesi dovettero intervenire con le armi per impedire che i guerrieri sciftà sottoponessero i prigionieri alle loro barbare consuetudini. La caduta di Culqualber aprì al nemico la strada per Gondar. La mattina del 26 novembre 1941 la città fu investita dal fuoco delle artiglierie e dagli attacchi dal cielo. Il giorno dopo, alle 18, caduti anche gli altri capisaldi, i carri armati del generale James penetrarono in città dove venne ammainato l'ultimo tricolore che ancora sventolava in terra abissina. La campagna dell'Africa orientale italiana era veramente terminata. Ci era costata 15.000 soldati caduti, 5000 italiani e 10.000 indigeni, e 100.000 prigionieri che finirono nei campì di concentramento del Kenia e dell'India. Dopo la fine del conflitto, i civili italiani potranno continuare a vivere in Etiopia grazie alla magnanimità del negus. Amedeo d'Aosta morì a Nairobi di tubercolosi miliare all'alba del 3 marzo 1942. Nel maggio dell'anno precedente, quando era già prigioniero di guerra, gli era stata conferita la medaglia d'oro al valore militare. La notizia, intercettata dagli inglesi, fu riferita al duca dal generale Pìatt. Il "Kaid" riuscì anche a recuperare il nastrino azzurro dell'onorificenza (pare lo abbia avuto "in prestito" da un alpino prigioniero ) e volle appuntarglielo personalmente sul Pagina 93
arrigo petacco. FaccettaNera.txt petto. "Per farlo dovetti salire su due gradini!" riferirà l'ufficiale inglese che era dì bassa statura. Alla cerimonia funebre, oltre a Platt e al governatore Moore, poterono assistere anche i generali italiani Nasi, Scala-Martini, Sabatini, Daodiace e Torre, compagni di prigionia di Amedeo. Ancora oggi, la salma del duca riposa nella chiesa ossario di Neyeri dove sono sepolti altri settecento italiani morti in prigionia. Molti dei civili italiani rimasti in Etiopia anche dopo la caduta dell'impero non subirono persecuzioni e poterono continuare a vivere e a dedicarsi alle loro attività senza incontrare difficoltà alcuna. Almeno fino al 1974, quando un colpo di Stato militare detronizzò il negus e portò al potere il colonnello Menghistu, sedicente "marxista-leninista". Il vecchio sovrano venne a lungo torturato (secondo una leggenda, per fargli rivelare "il segreto dell'Arca", secondo un'altra, assai più realistica, per fargli rivelare il numero del suo conto in Svizzera), poi fu fatto uccidere da Menghistu che, a quanto si disse, ordinò di seppellirlo sotto il pavimento del suo studio. Dopo di allora fame e miseria tornarono a regnare dovunque, tanto che oggi l'Etiopia è considerata la nazione più povera del mondo. Anche l'Eritrea fu a lungo sconvolta da una sanguinosa guerra civile e ora gode di una malcerta autonomia sotto una dittatura militare. La Somalia, invece, dopo essere stata per qualche anno amministrata dall'Italia e quindi governata dalla sopportabile dittatura di Siad Barre, è precipitata nel caos. Fallito il tentativo militare compiuto dall'ONU con l'operazione "Restore Hope" per ristabilirvi l'ordine, il paese è in balia di vari "signori della guerra". La Somalia è attualmente considerato un "paese canaglia", rifugio di terroristi e di avventurieri. Nell'ex impero, il ricordo della dominazione italiana, da molti rimpianto, è ormai affidato ai pochi veterani ascari che ancora sopravvivono. Con loro la sorte non è stata benigna. A differenza degli italiani, dopo il ritorno del negus, essi furono vittime di persecuzioni, e molti di loro vennero puniti con l'applicazione della "legge della regina Taitù", ossia l'amputazione della mano o del piede destri. Per evitarla, molti fuggirono nel Sudan, in Kenia o nello Yemen. Ex "madre" non del tutto ingrata, l'Italia si ricordò di loro nel 1950, li sottopose a un censimento comprensibilmente difficile e assegnò ai combattenti superstiti una pensione calcolata sulla base degli anni di servizio prestato e a risarcimento delle mutilazioni subite per cause di guerra (e di pace). Si trattava di somme modeste (da 5000 a 23.000 lire per i militari, da 13.000 a 46.000 per gli invalidi); tuttavia, considerate le loro condizioni di vita, per i beneficiati furono una manna dal cielo. Nel 1985, quando gli ex soldati ascari ancora in vita erano circa 10.000, il nostro ministero degli Esteri, nell'intento di liberarsi da quella pendenza che comportava indescrivibili complicazioni burocratiche, offrì loro una sostanziosa liquidazione per chiudere la partita. Ma la risposta fu un generale rifiuto. Preferirono continuare a recarsi ogni mese presso la più vicina sede diplomatica italiana per ritirare il loro sussidio, ma soprattutto per "salutare la bandiera". La nostra, naturalmente. BIBLIOGRAFIA Ansaldo, Giovanni, L'Italia Com'era, Napoli, F. Fiorentino, 1992. Artieri, Giovanni, Cronaca de! Regno d'Italia, Milano, Mondadori, 1977-78. -, Prima, durante e dopo Mussolini, Milano, Mondadori, 1990. Badoglio, Pietro, La guerra d'Etiopia, Milano, Mondadori, 1937. Baer, George Webster, La guerra (fato-etiopico, Bari, Laterza, 1970. Bandini, Franco, Gli italiani in Africa, Milano, Mondadori, 1980. Bertoldi, Silvio, Badoglio, Milano, Rizzoli, 1982. Biondi, Dino, La fabbrica del Duce, Firenze, Vallecchi, 1973. Bracalini, Romano, La regina Margherita, Milano, Rizzoli, 1982. Caccia Dominioni, Paolo, Ascari K7, Milano, Longanesi, 1966. Caviglia, Enrico, Diario (aprile 1925-marzo 1945), Roma, Casini, 1952. Collier, Richard, Duce! Duce!, Milano, Mursia, 1971. De Bono, Emilio, La preparazione e le prime operazioni, Roma, Istituto nazionale di cultura fascista, 1937. De Felice, Renzo, Mussolini il duce, Torino, Einaudi, 1968. Del Boca, Angelo, La guerra di Abissinia 1935-3941, Milano, Feltri* nelli, 1965. Fazi, Leonida, I guerriglieri del ma! d'Africa, Roma, Trevi, 1971. Flaiano, Ennio, Tempo di uccidere, Milano, Rizzoli, 1973. Funke, Manfred, Sanzioni e cannoni, Milano, Garzanti, 1972. Gambetti, Fidia, Gli anni che scottano, Milano, Mursia, 1995. Graziani, Rodolfo, 11 fronte sud, Milano, Mondadori, 1938. Pagina 94
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